Il luogo delle regole. Riflessioni sul processo civile romano 9788892106635

La regola come parametro di soluzione della controversia trova il suo luogo nel processo. Quindi, controversialità e pro

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Italian Pages VIII,141 [153] Year 2016

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Indice
Introduzione
Capitolo I Lo ius controversum espressione dell’artificialità del diritto
Capitolo II Regulae iuris e categorie processuali
Capitolo III Note sulla autonomia e discrezionalità del giudicante: non liquet e denegatio actionis
Indice degli Autori
Indice delle Fonti
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Il luogo delle regole. Riflessioni sul processo civile romano
 9788892106635

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Il Luogo delle regole Riflessioni sul processo civile romano

In copertina:

Nicola Poussin, La sentenza di Salomone (1649).

Antonio Palma

Il Luogo delle regole Riflessioni sul processo civile romano

G. Giappichelli Editore

© Copyright 2016 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100

http://www.giappichelli.it ISBN/EAN 978-88-921-0663-5

Stampa: Stampatre s.r.l. - Torino

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/ fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

a Simona, dolce compagna della mia vita

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Indice

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Indice

pag.

Introduzione

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Capitolo I

Lo ius controversum espressione dell’artificialità del diritto 1. Il confronto tra legge e giudice 2. Complessità dello ius controversum 3. La controversialità ed il ragionamento confutatorio quali fondamenti dell’argomentazione giuridica 4. La nozione dello ius controversum nelle fonti e nell’elaborazione dottrinale 5. Lo ius controversum come elemento costitutivo del diritto 6. L’officium del giudicante nel processo privato romano 7. Res iudicatae e tradizione giurisprudenziale 8. Il rapporto tra giudice e giurista 9. Conclusioni

9 14 17 23 29 36 49 61 72

Capitolo II

Regulae iuris e categorie processuali 1. Premessa metodologica 2. Origini e natura delle regulae iuris 3. Ontogenesi di una categoria

75 80 84

VIII

Il luogo delle regole

pag. 4. L’efficacia delle regulae iuris e delle definitiones 5. Conclusioni

88 92

Capitolo III

Note sulla autonomia e discrezionalità del giudicante: non liquet e denegatio actionis 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Introduzione Il non liquet a Roma Il non liquet nel processo formulare … … e nella cognitio extra ordinem Denegare actionem Conclusioni

95 100 107 112 116 129

Indice degli Autori

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Indice delle Fonti

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Introduzione

Le riflessioni che seguono costituiscono lo sviluppo di ricerche da tempo in corso 1 sulla centralità del ruolo nomopoietico del processo civile romano, in particolare del processo per formulas 2 come andò a delinearsi nel sistema delle fonti compreso tra il III secolo a.C. e il III secolo d.C. 3. 1 In particolare, il primo capitolo è apparso, con alcune modifiche, su SDHI, LVXXXI/ 2015, Lo ius controversum espressione dell’artificialità del diritto, pp. 45-96; il secondo capitolo è inedito e rappresenta la rielaborazione del testo della relazione tenuta il 29 aprile 2016 in occasione delle Giornate di studio in ricordo di Alberto Burdese, organizzate dai Professori Luigi Garofalo e Paola Lambrini, sotto l’egida dell’Università degli Studi di Padova e dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti; il terzo capitolo è apparso, con alcune modifiche, su KOINΩNIA, 39/2015, Note sulla autonomia e discrezionalità del giudicante: non liquet e denegatio actionis, pp. 557-589. 2 È dato pacifico acquisito in dottrina, che quivi si riporta per maggior chiarezza didattica, che l’espressione “processo formulare” ricalca il linguaggio di Gaio, che parlava di agere, petere, litigare per formulam (o per formulas) e contrapponeva questi atti all’agere per sponsionem (cfr. Gai 4.91; 4.141) o per legis actionem (Gai 4.95). La formula era composta da verba, che venivano convenientemente combinati gli uni con gli altri, Gaio appunto considerava equivalente a litigare per formulas l’espressione litigare per concepta verba (cfr. Gai 4.30). Il lege agere era un agere certis verbis (Gai 4.29), poiché le regole del formulario erano fisse e non potevano essere adattate alle caratteristiche delle singole controversie; al contrario, intentare un’azione formulare era un agere per concepta verba (Gai 4.30), perché le parole della formula, sebbene spesso proposte schematicamente nell’editto, dovevano essere redatte caso per caso con riguardo alla concreta controversia e includere, oltre le clausole dello schema, anche le varie altre clausole, che potevano occorrere per sottoporre al giudice certe allegazioni delle parti e per conferirgli particolari poteri, o viceversa, limitare quelli previsti dallo schema. La formula, in sostanza, era idonea a rispecchiare le caratteristiche del caso reale, come si era verificato tra le parti. Affronta alcuni aspetti specifici del processo formulare G. PAPA, Studi in tema di processo formulare, Torino, 2012, pp. 1 ss.; L. PELLECCHI, La praescriptio. Processo, diritto sostanziale, modelli espositivi, Padova, 2003, pp. 1 ss. 3 Solo per citare alcuni recenti contributi su eterogenei aspetti del processo romano, sia civile che penale, v. C. CASCIONE-C. MASI DORIA (a cura di), Diritto e giustizia nel processo. Prospettive storiche, costituzionali e comparatistiche, Napoli, 2002, pp. 3 ss.; C. CASCIONE-E.

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Si tratta di indagini che investono ampi settori della dottrina 4 e che possono essere sintetizzate come concernenti i seguenti snodi problematici: a) il rapporto tra il processo civile romano e il complessivo sistema della fonti, con particolare attenzione alle leges; b) l’aspetto costitutivo pluriformante delle fonti del diritto ed il ruolo dell’interpretatio iuris in correlazione con la iurisdictio pretoria e la iudicatio del giudice della fase decidente o apud iudicem; c) la relazione tra la regula iuris intesa come snodo decisionale del caso concreto e un sistema di regole generali a fattispecie astratta elaborato dai giuristi, anche in funzione di controllo della prassi giurisdizionale; d) la connessione tra un sistema di regole di derivazione casistica ma di struttura generale con l’alternarsi di un pensiero giurisprudenziale che ritrova nella controversialità la sua più feconda manifestazione. Nel titolo del presente lavoro è già resa evidente l’opzione ideologica dell’autore per una prevalente efficacia del giudizio e, dunque, della regola che dal giudizio germina sull’astratta e generica previsione legislativo-normativa. Ovviamente, non si ignora che il movimento per le codificazioni già vitale nella Atene del V secolo a.C. 5 abbia poi, con l’avvento degli Stati nazionali in età moderna, tentato di realizzare quegli ideali di certezza del diGERMINO-C. MASI DORIA (a cura di), Parti e giudici nel processo. Dai diritti antichi all’attualità, Napoli, 2006, pp. 1 ss. 4 Aggiornata bibliografia sugli studi di diritto processuale privato a Roma, con particolare attenzione al tema della inattività del convenuto, si trova in L. D’AMATI, L’inattività del convenuto nel processo formulare: ‘indefensio’, ‘absentia’ e ‘latitatio’, Padova, 2016, pp. 9 ss. Sul processo formulare, in particolare, la bibliografia che si è sedimentata negli anni è alluvionale e magmatica, quivi si rinvia agli studi di Giovanni Pugliese, in particolare Il processo civile romano. II. Il processo formulare, I, Milano, 1963, 3 ss.; si veda poi L. WENGER, Istituzioni di Procedura Civile Romana, tradotte da RICCARDO ORESTANO, sull’edizione tedesca interamente riveduta e ampliata dall’autore, Milano, 1938-XVI, spec. pp. 89-244. 5 Sul processo codificatorio del diritto dall’antico al moderno v. AA.VV., La codificazione del diritto dall’antico al moderno. Incontro di studio. Napoli, gennaio-novembre 1996. Atti, Napoli, 1998, passim, spec., sulla codificazione dell’editto del pretore, D. MANTOVANI, L’editto come codice e da altri punti di vista, pp. 130-178; L. SOLIDORO MARUOTTI, I percorsi del diritto. Esempi di evoluzione storica e mutamenti del fenomeno giuridico, Torino, 2011, pp. 1-28; U. PETRONIO, La lotta per la codificazione, Torino, 2002, passim. Per uno sguardo sul diritto ateniese si rinvia al classico lavoro di A.R.W. HARRISON, Il diritto ad Atene. La procedura, II, traduzione italiana, premessa e aggiornamento bibliografico a cura di P. COBETTO GHIGGIA, Torino, 2001, pp. 1 ss. Per una prospettiva sulle codificazioni moderne v. S. PATTI, Codificazioni ed evoluzione del diritto privato, Roma-Bari, 1999, pp. 3 ss.; M. CARAVALE, Storia del diritto nell’Europa moderna e contemporanea, Roma-Bari, 2012, passim.

Introduzione

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ritto e parità di trattamento dinnanzi alla legge già rigorosamente attivi all’interno della rivoluzione inglese e portati poi in un alto processo di astrazione dall’Illuminismo francese. Tuttavia, la crisi del legismo ha comportato un processo sempre più accentuato di emersione della centralità del giudice come arbitro forte in un sistema delle fonti plurimo, non coordinato ma concorrente nella definizione della disciplina del caso. Inoltre, vanno registrate le aspettative crescenti per una decisione non solo certa, ma soprattutto giusta in rapporto al comune sentire della collettività destinataria delle decisioni medesime. Si accentua così un processo di autonomizzazione del giudice del quale appare opportuno registrare qualche significativa testimonianza 6. Dalla lettura della importante sentenza n. 27341 emessa dalla Corte di Cassazione italiana, a Sezioni Unite civili in data 17 giugno-23 dicembre 2014, estraiamo il seguente asserto che – ai fini della tesi che si sta esponendo – appare di particolare rilevanza: «occorre premettere che queste Sezioni Unite hanno affermato essere chiara la implausibilità del tentativo di configurare un eccesso di potere a danni del legislatore rinvenendolo in una attività di individuazione interpretativa. È stata anche di recente affermata da queste Sezioni Unite (Cass., S.U., n. 20698/2013; Cass., S.U., n. 24411/2011; Cass., S.U., n. 2068/2011) la non configurabilità del preteso eccesso di potere le volte in cui il Giudice speciale od ordinario individui una regula iuris facendo uso dei suoi poteri di rinvenimento della norma applicabile attraverso la consueta attività di interpretazione anche analogica del quadro delle norme. Si è in particolare ricordato che, con riguardo ai limiti al sindacato delle Sezioni Unite sulle decisioni del Consiglio di Stato, l’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore è figura di rilievo affatto teorico, in quanto dovendosi ipotizzare che il giudice applichi, non già la norma esistente, ma una norma all’uopo creata detto eccesso potrebbe ravvisarsi solo a condizione di poter distinguere un’attività di produzione normativa inammissibilmente esercitata dal giudice, da un’at6

Per quanto riguarda il potere del giudice nella ricostruzione dei fatti addotti dalle parti in causa si vd. M. TARUFFO, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, RomaBari, 2009, pp. 122 ss.; ID., Verità negoziata?, in L. CADIET (a cura di), Accordi di parte e processo, Milano, 2008, pp. 69 ss. Taruffo riflette in questi studi sulla cosiddetta “concezione negoziale” della verità, la quale implica che – ove si raggiunga il consenso su una determinata rappresentazione dei fatti – questi si diano per veri. Contra B. CAVALLONE, In difesa della ‘veriphobia’ (considerazioni amichevolmente polemiche su un libro recente di Michele Taruffo), in Riv. dir. proc., 2010, pp. 1 ss.

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tività interpretativa; attività quest’ultima certamente non contenibile in una funzione meramente euristica, ma risolventesi in un’opera creativa della volontà della legge nel caso concreto (Cass., S.U., n. 20698/2013). Il ricorrente principale chiede ora alla Corte di superare questo orientamento e di escludere la natura meramente teorica della figura dell’eccesso di potere legislativo; ciò ovviamente sul presupposto che la decisione del Consiglio di Stato qui impugnata, lungi dall’essersi limitata ad esercitare una consentita e doverosa attività di interpretazione della norma applicabile, abbia in realtà dato luogo alla creazione di una norma per l’innanzi inesistente. La valutazione richiesta postula, quindi, che si definisca quale sia il limite della interpretazione, ovvero che si possa individuare il limite oltre il quale l’attività interpretativa trasmodi in attività creativa, e quindi in una invasione della sfera riservata al legislatore. In questa ottica occorre ricordare che queste sezioni Unite hanno avuto modo di affermare (Cass., S.U., n. 15144/2011) che l’attività interpretativa è segnata dal limite di tolleranza ed elasticità dei significante testuale, nell’ambito del quale «la norma di volta in volta adegua il suo contenuto, in guisa da conformare il predisposto meccanismo di protezione alle nuove connotazioni, valenze e dimensioni che l’interesse tutelato nel tempo assume nella coscienza sociale, anche nel bilanciamento con contigui valori di rango superiore, a livello costituzionale o sovranazionale». Analogamente in tema di valutazione della offensività in concreto e sia pure ex ante della condotta integrante il reato contravvenzionale di violazione della normativa paesaggistica, va rilevato come la Corte di Cassazione – nell’affermare il principio secondo il quale: il positivo accertamento di compatibilità paesaggistica dell’abuso edilizio eseguito in zona vincolata non esclude la punibilità del reato paesaggistico previsto dal D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, art. 181, comma 1 bis – abbia anche statuito come la mancata estensione alla fattispecie delittuosa della causa di non punibilità, prevista dal D.Lgs. n. 42/2004, art. 181, comma 1 ter, per la sola fattispecie contravvenzionale di cui al comma primo, non viola il principio di offensività e tanto sul rilievo che, quanto alla incidenza del principio di offensività nel delitto de quo, la Corte Costituzionale, investita della questione di legittimità costituzionale dell’originaria fattispecie di cui alla L. 8 agosto 1985, n. 431, art. 1 sexies, sotto il profili dell’asserito contrasto di detta norma con i principi costituzionali di cui agli artt. 13, 25 e 27 Cost., nella parte in cui sottopone a sanzione penale tutte le modifiche ed alterazioni, con opere non autorizzate, di beni specificamente tutelati dal vincolo paesaggistico, senza valutare la concreta incidenza dannosa per i beni tutelati, pur rigettando la questio-

Introduzione

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ne, ha tuttavia affermato che, con riferimento all’offensività in concreto delle condotte incriminate, l’accertamento in concreto dell’offensività specifica della singola condotta, anche per i reati ascritti alla categoria di quelli formali e di pericolo presunto, è devoluto in ogni caso al sindacato del giudice penale, mentre la mancanza di offensività in concreto, lungi dall’integrare un potenziale vizio di costituzionalità, implica una valutazione di merito rimessa al giudice (sentenza Corte Cost. n. 247/1997). Dunque, anche nell’ipotesi più direttamente condizionata dalla previsione normativa, quale è quella della delineazione degli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice, viene affermato un rilevante margine di apprezzamento discrezionale dell’offensività in concreto sia pure ex ante, di cui il giudice è essenziale protagonista, come nel reato contravvenzionale per il quale è irrilevante l’aspetto psicologico e sarebbe esclusivamente determinante l’offensività in astratto della condotta rispetto al bene tutelato. Si pensi, inoltre, alle conseguenze discendenti dalla costituzionalizzazione del principio della parità di bilancio, che ha determinato l’espansione del potere del giudice contabile non solo come giudice del danno erariale, bensì come giudice della chance attribuendo, dunque, allo stesso un potere sull’efficacia del risultato rispetto alle scelte della pubblica amministrazione e, pertanto, nella sostanza una verifica degli indirizza della amministrazione attiva. Emerge, pertanto, dalla lettura delle sentenze sopra riportate il fenomeno di graduale superamento all’interno del diritto vivente 7 delle differenze tra modalità, in sostanziale concorrenza, dell’interpretazione giurispruden7 Sull’espressione “diritto vivente” all’interno del nostro sistema si rinvia a M. PLANIOL, Traité élémentaire de droit civil 8, I, Paris, 1920, nt. 14, il quale per primo parlò della giurisprudenza come la “forma vivente del diritto”, in quanto spetta ai tribunali applicare il diritto ai rapporti della vita. Così, come afferma il Colesanti, «conoscere la giurisprudenza significa allora conoscere il diritto nella sua realtà quotidiana, e perciò apprendere come i singoli casi vengano concretamente disciplinati dalle norme giuridiche mediante la loro coordinazione ed integrazione, e, dove occorra, con il loro adattamento alle nuove esigenze: in una parola, mediante l’interpretazione»: V. COLESANTI, voce Giurisprudenza, in Nov. Dig. It., VII, Torino, 1961, p. 1102. In Italia, più specificamente, la formula “diritto vivente” è tornata in auge in una nozione elaborata progressivamente dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale (sent. n. 161/1967 e n. 26/1984) che intende l’espressione alla stregua di una “interpretazione giurisprudenziale consolidata” di una disposizione di legge. Interessanti considerazione in merito al valore del diritto vivente e alla sua incidenza nel nostro sistema di fonti si trova in A. MARIANI MARINI-D. CERRI (a cura di), Diritto vivente. Il ruolo innovativo della giurisprudenza, Pisa, 2007, pp. 7 ss., con particolare riguardo alla iurisprudentia romana il contributo di F. PROCCHI, Brevi considerazioni semantiche: il “diritto vivente” ed il “diritto giurisprudenziale”. Dalla iurisprudentia romana alla moderna “giurisprudenza”, pp. 117-125.

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ziale nei sistemi di diritto anglosassone e quelli continentali, che rappresenta il vero nodo problematico dell’attuale fase storica. In questa prospettiva, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha prestato l’avvallo alla prassi riduttiva della motivazione sulle questioni di fatto, ritenendo che il giudice abbia il dovere di motivare solo con riferimento alle prove su cui ha fondato la propria decisione, ma non in ordine a quelle contrarie, in tal modo esonerando, di fatto, il giudice dall’obbligo di esporre le ragioni della propria scelta: principio, questo, appena temperato dal dovere del giudice di appello di giustificare la decisione in ordine ai fatti principali della controversia, a pena di incorrere nel vizio di omessa o insufficiente motivazione. Condivisibile fino in fondo è, in questa prospettiva, il punto di vista secondo cui «in un ordinamento in cui la legittimazione del giudice a dire il diritto è legittimazione democratica, la interpretazione creativa pone con maggiore urgenza la questione dei limiti alla discrezionalità del giudice» 8, per cogliere questo limite, appunto, nella motivazione della sentenza. L’esperienza giuridica romana è sempre stata considerata uno strumento ermeneutico in grado di cogliere le implicazioni di un sistema di fonti orientato in chiave processuale 9. Tuttavia, non possono non registrarsi esitazioni nella dottrina in ordine alle conseguenze che vanno concretamente tratte dalla consapevolezza che il iudicium è la sede della emersione della controversia e che la controversia stessa è l’unica occasione attraverso la quale è percepibile la regula iuris cioè la norma. Naturalmente non mancano rilevanti acquisizioni di cui verrà in seguito dato debito conto. L’impressione è che l’approccio scientifico alle questioni processuali romane sia stato fortemente condizionato dalla struttura della principale fonte di conoscenza che possediamo sul processo formulare romano: le Istitutiones di Gaio, che rappresenta la più eccellente fonte per la conoscenza del diritto procedurale civile romano dell’età classica. Infatti, è noto che prima della loro scoperta si doveva tentare di ricostruire il processo civile romano anzitutto dai frammenti dei giuristi classici, rielaborati dalla codificazione giustinianea. Così Gaio ci permette, come ha scritto il Wenger, di «misura8 G. MUSCOLO, Il «volto non comune» della verità processuale, in A. MARIANI MARINI (a cura di), Processo e verità, Pisa, 2005, pp. 69-79. 9 Cfr. P. GIUNTI, Iudex e iurisperitus. Alcune considerazioni sul diritto giurisprudenziale romano e la sua narrazione, in Iura, LXI/2013, pp. 47-85, con amplia e aggiornata bibliografia.

Introduzione

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re tutto il valore di una fonte relativamente non adulterata della letteratura classica dei Romani» 10. Non è qui il caso di riprendere gli ampi studi, anche recentissimi, sulla natura e sulla struttura delle istituzioni gaiane, ma appare indubbio che la sequenza istituzionale dettata dal giurista abbia rafforzato l’impressione dell’esistenza di un rito e di una prassi consolidati. Rito e prassi consolidati al punto da trasformare riflessioni manualistiche – come quelle gaiane – in canone processuale. Le istituzioni di Gaio come codice della procedura formulare hanno in parte alterato la costitutiva natura caotica del processo formulare medesimo, indiscutibilmente confermata dal disordine dell’editto del pretore nelle sue ricostruzioni postume 11. Di qui indagini anche recenti che applicano alla prassi processuale formulare categorie proprie della moderna tecnicalità processuale, in parte tentando di colmare con la individuazione di forme pur presenti nella descrizione gaiana, ma non costituenti luoghi regolativi, quell’insuperabile aspetto deformalizzato del processo privato romano, nel quale il punto cruciale è costituito dalla individuazione di una regula soggetta alla verifica successiva della sua compatibilità con gli elementi costitutivi del fatto. Questo accertamento è condotto prevalentemente sulla scorta, certo di una tradizione interpretativa, purché considerata compatibile con la volontà del magistrato o giudice accertatore e naturalmente nel concorso con gli altri soggetti rilevanti nella dialettica processuale. Gli studi che seguono, dunque, attraverso una ridefinizione dello ius controversum come diritto della controversialità tentano di spostare il focus dell’attenzione sul iudicium e lo iudex e sugli altri soggetti, il giurista in udienza e l’avvocato che concorrono alla definizione della regula iuris, in seno ad un sistema nel quale il linguaggio giurisprudenziale era un dipanarsi di locuzioni ed espressioni allora forse omologhe e sinonimiche, ma che agli occhi dei moderni giuristi diventano misura degli squilibri e della, almeno apparente, instabilità di un apparato normativo fallorientiert. 10

L. WENGER, op. cit., p. 1. Per quanto concerne la struttura, la tradizione e l’utilizzo delle Institutiones gaiane, anche come codice, v. gli studi di F. BRIGUGLIO, Il Codice Veronese in trasparenza. Genesi e formazione del testo delle Istituzioni di Gaio, Bologna 2012, passim; M. VARVARO, La revisione del palinsesto veronese delle Istituzioni di Gaio e le schede di Bluhme, in AUPA, LVII/ 2014, pp. 389-438; sull’incidenza delle Istituzioni gaiane nello studio del diritto v. C. VANO, Il nostro autentico Gaio: strategie della scuola storica alle origini della romanistica moderna, Napoli, 2000, spec. pp. 223-312. 11

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Viene altresì indagata la natura della regula che è principio, norma e regola del caso insieme a seconda dalla strategia interpretativa di chi è chiamato a giudicare, siano essi giuristi o giudici. Infine, la denegatio actionis sembra una conferma ulteriore di un potere giurisdizionale in grado di rompere il sistema delle regole, operando un adeguamento ex imperio della norma al caso ed alle esigenze sociali di giustizia. Sullo sfondo un contesto di pratiche processuali deformalizzate disponibili dalle parti dominate da una prevalente inafferrabilità documentale, l’oralità, con tutto ciò che consegue per istituti propri del diritto processuale come la definizione della res iudicata.

Capitolo I

Lo ius controversum espressione dell’artificialità del diritto

SOMMARIO: 1. Il confronto tra legge e giudice. – 2. Complessità dello ius controversum. – 3. La controversialità ed il ragionamento confutatorio quali fondamenti dell’argomentazione giuridica. – 4. La nozione dello ius controversum nelle fonti e nell’elaborazione dottrinale. – 5. Lo ius controversum come elemento costitutivo del diritto. – 6. L’officium del giudicante nel processo privato romano. – 7. Res iudicatae e tradizione giurisprudenziale. – 8. Il rapporto tra giudice e giurista. – 9. Conclusioni.

1. Il confronto tra legge e giudice. Il drammatico confronto tra Creonte ed Antigone, i personaggi archetipici che in Sofocle rappresentano lo scontro tra il νόμος 1 della πόλις e quello della tradizione 2 (ἄγραπτα νόμιμα) 3 trova puntuale riscontro nelle parole 1

Emblematico, come ha osservato il Vernant, l’utilizzo da parte di entrambi i personaggi della tragedia dello stesso vocabolo (νόμος) per riferirsi a diritti eterogenei del tutto antitetici: J.P. VERNANT-P. VIDAL NAQUET, Mito e tragedia nell’antica Grecia. La tragedia come fenomeno sociale estetico e psicologico, trad. it. M. RETTORI, Torino, 1976, p. 89. 2 Il testo raccoglie suggestioni e sollecitazioni suggerite all’Autore da una acuta relazione di Luciano Canfora, tenuta presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza, in data 26 Marzo 2015, nell’ambito delle attività della Scuola di Alta Formazione in Diritto Romano dello stesso Ateneo. Sulla natura del diritto invocato da Antigone, molteplici ed eterogenee sono state le interpretazioni affastellatesi in dottrina, recentemente F. CAVALLA, All’origine del diritto, al tramonto della legge, Napoli, 2011, p. 126, vede nelle leggi richiamate «non le ragioni della coscienza né […] di un supposto diritto naturale sovraordinato al diritto positivo», ma piuttosto «un diritto panellenico (approssimativamente accostabile al nostro diritto internazionale)». Ma prima ancora del problema circa la natura della legge cui Antigone si appella, è opportuno rilevare come nella tragedia di Sofocle sia rappresentato lo scontro tra sistemi di valori e principi di giustizia alternativi: l’uno facente capo al ghenos, l’altro alla polis; il primo

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di Pericle contenute nell’epitaffio tratto dal secondo libro delle Storie di Tucidide 4, per le quali i νόμοι ἄγραφοι costituiscono il limite alla libertà individuale, la cui violazione arreca vergogna ai trasgressori, ai quali commina una sanzione metagiuridica, se vogliamo ancor più afflittiva essendo applicabile al mondo greco – secondo gli studi del Dodds 5 – la categoria sociologica della shame culture, coniata dalla Benedict per la cultura giapponese 6, con la “giusnaturalizzato”, per così dire, da Antigone, il secondo propugnato da Creonte sulla base di considerazioni anch’esse, per certi versi, di carattere giusnaturalistico. Sarà con l’Orestea che la collisione di due principi di giustizia in contrasto tra loro – l’uno ereditato dalla cultura del passato, l’altro frutto della crisi attraversata da quella stessa – costituisce il plot di una rappresentazione teatrale. Nella magmaticità degli studi dedicati al capolavoro sofocleo ci si limita a rinviare alle fondamentali riflessioni hegeliane contenute in G.W.F. HEGEL, Estetica, N. MERKER-N. VACCARO (a cura di e traduzione), I, Torino, 1976, p. 522. Interessante è constatare come le tesi avanzate da Hegel non convinsero il più grande dei suoi contemporanei, e cioè Goethe, il quale nel contestare, alla radice, le tesi enunciate da Hinrichs a proposito dell’Antigone, contrastava in realtà una lettura dell’Antigone che a Hinrichs derivava, per l’appunto, dalla lettura di Hegel, cfr. J.P. ECKERMANN, Gesprache mit Goethe in den letzten Jahren seines Lebens, tr. it., G.V. AMORETTI (a cura di), Colloqui con il Goethe, Torino, 1957, I, pp. 383 ss. Da ultimo, per un’attenta ricognizione sul tema, con aggiornata bibliografia, v. E. STOLFI, Nómoi e dualità tragiche. Un seminario su Antigone, in SDHI, LXXX/2014, pp. 467 ss. 3 Soph., Ant. 455, su questa espressione si veda M. TALAMANCA, Ἔθη e νόμος ἄγραφος nel ‘Corpus Oratorum Atticorum’, in L. BOVE (a cura di), Prassi e diritto. Valore e ruolo della consuetudine, Napoli, 2008, pp. 70 s. con il quale lo Stolfi condivide il rilievo secondo cui ai kerýgmata di Creonte «il poeta non concede mai l’onore d’essere chiamati direttamente νόμος», quindi a detta dello studioso «il ricorrere di quest’ultimo termine ai decreti del týrannos tebano mi sembra chiaro ai versi 213, 382, 449, 452, 481 e forse anche 663 e 847»: E. STOLFI, Quando la legge non è solo legge, Napoli, 2012, p. 74 nt. 47 s. 4 Tuc. 2.37. Il Canfora sottolinea come di fatto Tucidide abbia non solo parafrasato ma, almeno in parte, anche «ricreato» l’epitaffio pericleo, cfr. L. CANFORA, Il mondo di Atene, Roma-Bari, 2011, pp. 4 ss. Lo stesso Studioso evidenzia la circostanza che Tucidide fosse «ben consapevole di star imitando un discorso d’occasione – con tutte le falsità patriottiche inerenti a quel genere di oratoria» e che lo storico avesse intenzionalmente posto a raffronto, a breve distanza, l’Atene immaginaria dell’oratoria periclea ‘d’apparato’, con la vera Atene periclea, è presupposto altrettanto necessario per leggere senza stordimento il celebre epitaffio»: op. cit., p. 6. Sul messaggio contenuto nell’epitaffio di Pericle si veda, da ultimo, l’interpretazione datane da F. COSTABILE Alle “radici” pagane dell’Europa: dall’Epitaphios di Pericle alla concezione pagana della civitas tardo-antica, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana, XVIII Convegno Internazionale in onore di Remo Martini, Persona e persone nella società e nel diritto della Tarda Antichità, Spello, 18-20 giugno 2007, I, Roma, 2012, pp. 459 ss. 5 E.R. DODDS, I Greci e l’irrazionale, Milano, 2008, pp. 10 ss. 6 R. BENEDICT, Il crisantemo e la spada. Modelli di cultura giapponese, Roma-Bari, 2009, passim. Il meccanismo del divieto, infatti, è tipico di culture profondamente diverse da

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quale vengono indicate le società nelle quali il rispetto delle regole non viene ottenuto attraverso l’imposizione di divieti scritti. Nell’orazione contro Andocide, attribuita comunemente a Lisia 7, dove l’imputato è accusato di empietà, ancora Pericle 8 esorta a tenere conto, per quanto riguarda coloro che commettono sacrilegio, non solo delle leggi scritte, ma anche di quelle non scritte, la cui interpretazione compete all’oscuro collegio degli Eumolpidi 9. Lo stesso Creonte riconoscerà lo statuto di ‘vigenti’ 10, a queste leggi le quali, per la loro stessa natura, nessun potere costituito ha mai avuto la forza di abrogare o modificare e la cui istituzione affonda le radici in un passato tanto remoto quanto oscuro. La legge, dunque, come riferisce anche Euripide nelle Supplici, il suo «dramma patriottico» più noto (per riprendere una autorevole definizione 11), narrando del duro confronto tra l’araldo di Tebe e il re di Atene, Teseo, è fondante di quel sistema politico che garantisce i più deboli assicurando la certezza del νόμος: la democrazia 12. Interessante appare notare che questo concetto sarà del tutto inconcepibile per i teorici quelle “di vergogna”, che in opposizione a queste vengono definite “culture di colpa” (guilt cultures), nelle quali chi tiene un comportamento vietato da norme espresse si sente oppresso da un senso misto di colpa, di rimorso e di angoscia, approssimativamente espresso dal termine guilt. Cfr. E. CANTARELLA, “Sopporta, cuore …”. La scelta di Ulisse, Roma-Bari, 2008, pp. 17 ss.; interessanti osservazioni sul concetto di vergogna con riferimento alla società attuale in F. CORDERO, Gli osservanti. Fenomenologia della norma, Milano, 1967, pp. 33 s. 7 Contro l’attribuzione a Lisia si schiera, con ferma convinzione, L. CANFORA, Una società premoderna. Lavoro, morale, scrittura in Grecia, Bari, 1989, p. 225, il quale ritiene che si tratti di uno oscuro oratore che visse non molto dopo il processo di Andocide (399 a.C.); della stessa opinione F. COSTABILE, La triplice defixio del Kerameikòs di Atene, il processo polemarchico ed un logografo attico del IV sec. a.C. Relazione preliminare, in Minima epigraphica et papyrologica, I/1998, p. 51. 8 Il fatto che Pericle utilizzi argomentazioni simili tanto nell’epitaffio quanto nell’accusa contro Andocide ha fatto pensare che il rinvio alle leggi non scritte fosse un luogo comune dell’oratoria periclea e che proprio per questo motivo Tucidide lo inserì nell’epitaffio, così L. CANFORA, Una società premoderna, cit., p. 226. 9 Lys., And. 10: […] καὶ τοῖς ἀγράφοις, καθ᾽ οὓς Εὐμολπίδαι ἐξηγοῦνται […]. 10 Soph., Ant. 1113. 11 W. SCHMID, Geschichte der griechischen Literatur, III, München, 1940, 417. 12 Il racconto di Teseo è diventato, dalla fine del VI secolo a.C., in Atene, un mito politico: una figura necessaria alla retorica da epitaffio, in quanto primus inventor della democrazia, o, più cautamente, della patrios politeia, cioè del cosiddetto «ordinamento avito», presentato come caratteristico degli ateniesi: L. CANFORA, Il mondo, cit., 106; V. DI BENEDETTO, Euripide, Torino, 1971, passim.

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della res publica romana, ontologicamente aristocratica, in primis per Cicerone, che nel tentativo di definirlo utilizzerà la perifrasi nimia libertas 13; il modello politico dell’Atene classica rappresenta per l’Arpinate, un modello del tutto negativo, infatti per lui il vero mito è quello di Athenae omnium doctrinarum inventrices delineato nel De oratore (1.13) 14. Dunque se i mores sono di incerta origine ed affidati all’elitaria interpretazione sacerdotale, tuttavia, costituiscono un corpus normativo sottratto alla libera disponibilità del legislatore, una sorta di patrimonio sapienziale collettivo, che esprime i valori propri della deontologia sociale. Le testimonianze appena riferite sono evidenze che possono unitariamente essere considerate come denotative di un “movimento per la legislazione”, che, di origine greca, condurrà a Roma nel V secolo a.C. alla redazione delle Dodici Tavole, per Pomponio 15 rappresentanti il momento costitutivo della civitas, fon13

Cic., Rep. 1.68: Tum Laelius: ‘prorsus’ inquit ‘expressa sunt a te quae dicta sunt ab illo.’ (Scipio) ‘atque ut iam ad sermonis mei auctorem revertar, ex hac nimia licentia, quam illi solam libertatem putant, ait ille ut ex stirpe quadam existere et quasi nasci tyrannum. nam ut ex nimia potentia principum oritur interitus principum, sic hunc nimis liberum populum libertas ipsa servitute adficit. Sic omnia nimia, cumsvel in tempestate vel in agris vel in corporibus laetiora fuerunt, in contraria fere convertuntur, maximeque ‘id’ in rebus publicis evenit, nimiaque illa libertas et populis et privatis in nimiam servitutem cadit. itaque ex hac maxima libertate tyrannus gignitur et illa iniustissima et durissima servitus. ex hoc enim populo indomito vel potius immani deligitur aliqui plerumque dux contra illos principes adflictos iam et depulsos loco, audax, inpurus, consectans proterve bene saepe de re publica meritos, populo gratificans et aliena et sua; cui quia privato so sunt oppositi timores, dantur imperia, et ea continuantur, praesidiis etiam, ut Athenis Pisistratus, saepiuntur, postremo, a quibus producti sunt, existunt eorum ipsorum tyranni; quos si boni oppresserunt, ut saepe fit, recreatur civitas; sin audaces, fit illa factio, genus aliud tyrannorum, eademque oritur etiam ex illo saepe optimatium praeclaro statu, cum ipsos principes aliqua pravitas de via deflexit. sic tanquam pilam rapiunt inter se rei publicae statum tyranni ab regibus, ab iis autem principes aut populi, a quibus aut factiones aut tyranni, nec diutius unquam tenetur idem rei publicae modus. 14 Cic., De or. 1.13: Ac ne illud quidem vere dici potest aut pluris ceteris inservire aut maiore delectatione aut spe uberiore aut praemiis ad perdiscendum amplioribus commoveri. Atque ut omittam Graeciam, quae semper eloquentiae princeps esse voluit, atque illas omnium doctrinarum inventrices Athenas, in quibus summa dicendi vis et inventa est et perfecta, in hac ipsa civitate profecto nulla umquam vehementius quam eloquentiae studia viguerunt; sul passo v. CH. WIRSZUBSKI, Il concetto di libertà a Roma tra Repubblica e Impero, Bari, 1957, p. 70. 15 D. 1.2.2.4 (Pomp., lib. sing. ench.): Postea ne diutius hoc fieret, placuit publica auctoritate decem constitui viros, per quos peterentur leges a graecis civitatibus et civitas fundaretur legibus: quas in tabulas eboreas perscriptas pro rostris composuerunt, ut possint leges apertius percipi: datumque est eis ius eo anno in civitate summum, uti leges et corrigerent, si opus esset, et interpretarentur neque provocatio ab eis sicut a reliquis magistratibus fieret. qui ipsi animadverterunt aliquid deesse istis primis legibus ideoque sequenti anno alias duas ad easdem tabulas adie-

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data dalle leggi e sulle leggi ([…] civitas fundaretur legibus […]), dalle quali fluere coepit ius civile 16 per il tramite dell’interpretatio prudentium. Trattasi, pertanto, di veri e propri ‘formanti’ di un ordine legale avente a Roma sue specificità, un ordine legale che non si fa sistema, ma corpo complessivo di materiali di carattere normativo, costituito da testi legislativamente prodotti, ma anche da testi-norme, testi-principi, testi giustificativi di decisioni. Ed ancora, testi creati dalla iuris scientia come componente di una dinamica interazione tra legislazione, giurisdizione e comportamenti sociali, all’interno di un circuito nomopoietico recettivo delle istanze della comunità. Non è un caso che l’erudito Dionigi di Alicarnasso trattando delle leges regiae articoli la sua narrazione sui parametri del νόμος, dell’ἔϑος e del πολίιειμα 17 cerunt: et ita ex accedenti appellatae sunt leges duodecim tabularum. quarum ferendarum auctorem fuisse decemviris hermod rum quendam ephesium exulantem in italia quidam rettulerunt. 16 D. 1.2.2.6 (Pomp., lib. sing. ench.): Deinde ex his legibus eodem tempore fere actiones compositae sunt, quibus inter se homines disceptarent: quas actiones ne populus prout vellet institueret certas solemnesque esse voluerunt: et appellatur haec pars iuris legis actiones, id est legitimae actiones. et ita eodem paene tempore tria haec iura nata sunt: lege duodecim tabularum ex his fluere coepit ius civile, ex isdem legis actiones compositae sunt. omnium tamen harum et interpretandi scie tia et actiones apud collegium pontificum erant, ex quibus constitueb tur, quis quoquo anno praeesset privatis. et fere populus annis prope centum hac consuetudine usus est. 17 Sullo studio delle leges regiae da parte di Dionigi di Alicarnasso, v. E. GABBA, Roma arcaica. Storia e storiografia, Roma, 2001 (ried. del testo del 1960, Studi su Dionigi di Alicarnasso, I, La costituzione di Romolo), p. 91, più in generale sulle leges regiae, da ultimo, D. MANTOVANI, Le due serie di leges regiae, in J.-L. FERRARY (a cura di), Leges publicae. La legge nell’esperienza giuridica romana. Collegio di diritto romano 2010 Cedant, Pavia, 2012, 478 ss. e R. LAURENDI, Leges regiae. «Ioui sacer esto» nelle leges Numae: nuova esegesi di Festo s.v. Aliuta, in G. PURPURA (a cura di), Revisione ed integrazione dei Fontes Iuris Romani Anteiustiniani (FIRA). Studi preparatori. I. Leges, Torino, 2012, pp. 13 ss. Circa il dibattito sull’attendibilità delle leges regiae v. R. ORESTANO, I fatti di normazione nell’esperienza romana arcaica, Torino, 1967, pp. 71 s., che ha ritenuto assolutamente inattendibile la tradizione sull’attività legislativa dei re per l’evidente fenomeno della «concentrazione» [intorno ad un unico personaggio, reale o fittizio, di tutti gli istituti e le azioni che si reputano conformi al suo carattere; sul tema, part., V. ARANGIO-RUIZ, Storia del diritto romano7, Napoli, 1989, p. 3] e per le chiare «anticipazioni» (anche relativamente alla forma in cui le relative norme sarebbero state poste, arrivandosi a parlare di leges votate dai comizi, facendo quindi risalire ai primordi dell’epoca regia un tipo di produzione normativa che non ha avuto inizio prima della seconda metà del V sec. a.C.) ed ha dunque visto nelle leges regiae «la formulazione verbale, anche se talvolta assai risalente nel tempo, di precetti consuetudinari, soprattutto di carattere religioso»; in senso contrario alla storicità delle leges regiae si era già orientato J. CARCOPINO, Les prétendues «lois royales», in «Mélanges d’archéologie et d’histoire», 54, 1937, pp. 344 ss.; di diverso avviso S. TONDO, Introduzione alle leges regiae, in SDHI, 37/1971, pp. 25 ss., 44, che si è espresso

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nella consapevolezza di un Rechtsordnung 18 meno schematico e meno appiattito sull’orizzonte della lex di quello greco. Molte ed importanti sono allora le inferenze tematiche discendenti dal sintagma ius controversum e tra esse appare necessario procedere ad una dispositio che renda chiari oggetti, metodi, finalità e forse risultati della presente indagine.

2. Complessità dello ius controversum. Quando si affronta un tema complesso e da tempo indagato come quello dello ius controversum è opportuno, per non dire necessario, dar conto, in primo luogo, delle coordinate teoriche che lo rendono ancora epistemologicamente fecondo sul piano della pregnanza delle prospettive di ricerca. Sulla controversialità come caratteristica del diritto giurisprudenziale romano non può non registrarsi una communis opinio: il Talamanca 19, se da una parte riteneva che la controversialità dello ius si svolgesse sul piano di coloro che sono comunemente considerati i ‘tecnici’ dell’esperienza giuridica, cioè i prudentes, dall’altra non negava, però, la rilevanza delle decisioni emergenti dalle concrete controversie giudiziarie che si svolgevano nel Foro ai fini della definizione della regula iuris come enunciata poi dai giuristi. Cosicché, ai giudici sarebbe spettato scegliere tra responsa contrapposti, con il conseguente accertamento del diritto in rapporto alla causa decisa nel contesto dello ius controversum 20. per la sostanziale genuinità di alcune leges regiae pervenuteci in forma di «citazione testuale»; A. WATSON, Roman private law and the leges regiae, in JRS, 62/1972, pp. 100 ss., il quale ha sostenuto che «the rules for private law recorded by the tradiction actually give us, in general, the substance of Roman law as it was in the regal period»; F. SERRAO, voce Legge (Diritto romano), in Enc. dir., vol. XXIII, Milano, 1973, p. 800 [= Classi partiti e legge nella repubblica romana, I, Pisa, 1975, pp. 20 s., ora in Diritto privato economia e società nella storia di Roma, I, Napoli, 1984, p. 101]. Sollecitazioni nel senso del testo sono pervenute da una acuta ricerca in corso di Gaia Di Trolio, ricerca di cui una prima ampia sintesi si può leggere nella tesi di dottorato dal titolo: Leges regiae: le testimonianze di Dionigi di Alicarnasso, Università degli Studi di Roma La Sapienza, Roma 2015. 18 H. KELSEN, Der soziologische und der juristische Staatsbegriff, Tübingen, 1922, pp. 156 ss. 19 M. TALAMANCA, rec. Iura, 36/1985, in BIDR, 92-93/1989-1990, pp. 740 ss. 20 Cfr. M. TALAMANCA, Il «Corpus iuris» giustinianeo fra il diritto romano e il diritto vigente, in A. CORBINO-A. MILAZZO (a cura di), Diritto e Storia. L’esperienza giuridica di Roma attraverso le riflessioni di antichisti e giusromanisti contemporanei, Padova, 1995, 209 ss.

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Una prima chiave argomentativa appare, allora, concernere la definizione dello statuto dello ius controversum tra tradizione interpretativa di natura sapienziale e prassi decisorie conflittuali, tra diritto fondato sulle opinioni discordanti dei giuristi e ius che appoggia il suo proprium sulla concretezza delle res dedotte in giudizio e, questione non meno importante, sulla latitudine decisionale dello iudex privatus. Si tratta di un dilemma dalle articolate prospettive d’indagine che presuppone una modalità interpretativa dell’insieme delle testimonianze giurisprudenziali che tenga conto non solo del loro carattere ideologico ma anche della probabile sopravvalutazione tralatizia del ruolo giocato dai prudentes nell’edificazione di una identità di ceto fondata sull’esclusività di ruolo quali conditores iuris 21. Altra rilevante questione concerne il ruolo delle res iudicatae e dei responsa prudentium assunti come ‘formanti’ dello ius civile, questione ovviamente collegata a quella della natura costitutiva dello ius controversum e sulla quale non può non segnalarsi la riflessione, coerente negli anni, di Filippo Gallo 22, nella cui visione la creazione del diritto mediante la receptio moribus ridimensiona l’interpretatio del giurista escludendone il primato nella formazione dello ius civile. Simile interpretazione, infatti, può costituire lo stimolo per il processo di formazione consuetudinaria del diritto realizzantesi ogni qual volta il consensus populi ne consentiva la recezione tra i mores; infatti, in caso contrario, dall’opinio prudentium che non fosse stata unanimemente accettata sarebbe scaturito lo ius controversum. Significativa appare l’analisi offerta dal Gallo del noto brano gaiano in tema di fur manifestus:

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A. SCHIAVONE, Giuristi e nobili nella Roma repubblicana, Napoli, 1987, passim; ID., Linee di storia del pensiero giuridico romano, Torino, 1994, passim; V. MAROTTA, Ulpiano e l’impero, I, Napoli, 2000, passim; ID., Studi sui libri de officio proconsulis e la loro fortuna tardoantica, Napoli, 2004, passim; E. STOLFI, Studi sui libri ad edictum di Pomponio, I, Trasmissione e fonti, Napoli, 2002, passim; D. MANTOVANI, Iuris scientia e honores. Contributo allo studio dei fattori sociali nella formazione giurisprudenziale del diritto romano (III ‐ I sec. a.C.), in Nozione, formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo, I, Napoli, 1997, passim e da ultimo, con particolare attenzione all’attività ciceroniana, F. TAMBURI, Il ruolo del giurista nelle testimonianze della letteratura romana, I, Cicerone, Napoli, 2013, p. 47. 22 Si veda F. GALLO, Interpretazione e formazione consuetudinaria del diritto. Lezioni di diritto romano, Torino, 1993; ID., La consuetudine nel diritto romano, in Atti del Colloquio romanistico-canonistico (febbr. 1978), Roma, 1979, pp. 98 ss.; ID., Produzione del diritto e sovranità popolare nel pensiero di Giuliano (a proposito di D. 1.3.22), in Iura, 36/1985, p. 70.

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Gai 3.184: Manifestum furtum quidam id esse dixerunt, quod dum fit deprehenditur. Alii vero ulterius, quod eo loco deprehenditur, ubi fit, veluti si in oliveto olivarum, in vineto uvarum furtum factum est, quamdiu in eo oliveto aut vineto fur sit; aut si in domo furtum factum sit, quamdiu in ea domo fur sit. Alii adhuc ulterius eo usque manifestum furtum esse dixerunt, donec perferret eo, quo perferre fur destinasset. Alii adhuc ulterius, quandoque eam rem fur tenens visus fuerit; quae sententia non optinuit. Sed et illorum sententia, qui existimaverunt, donec perferret eo quo fur destinasset, deprehensum furtum manifestum esse, ideo non videtur probari, quia magnam recipit dubitationem, utrum unius diei an etiam plurium dierum spatio id terminandum sit. Quod eo pertinet, quia saepe in aliis civitatibus subreptas res in alias civitates vel in alias provincias destinant fures perferre. Ex duabus itaque superioribus opinionibus alterutra adprobatur; magis tamen plerique posteriorem probant 23. Dall’originaria molteplicità di sententiae si passa all’emersione di quella maggioritaria attraverso l’emarginazione di quelle non condivise. Va immediatamente aggiunto, al riguardo, che appare del tutto valida la tesi di quanti, come il Vincenti 24, ritengono che dal brano trapeli una evidente interazione tra interpretatio giurisprudenziale e prassi giudiziale e, di conseguenza, la condivisione all’uniformarsi da parte dei giudicanti alla tesi dottrinale assunta come maggioritaria. Proprio attraverso i giudicati conformi si esprimeva, nella lettura offerta dal Gallo, il consenso di una componente qualificata dell’ambiente sociale, il ceto dei giudici, in tal modo componendosi la dialettica tra il giurista ed il giudice. Dunque lo ius controversum generava disputatio fori – essenza stessa dello ius civile, a memoria del già richiamato passo ulpianeo accolto in D. 1.2.2.5 25 – risolta con la sententia iudicis. Poi dal ripetersi di sententiae similari si segnalava il trend decisionale dei giudici che rendeva recepta la regola disputata. Dal nucleo centrale della tesi avanzata da Filippo Gallo sono poi germinati gli ulteriori suoi approfondimenti sui temi della consue23 Per una recente ed attenta analisi del passo gaiano si veda C. PELLOSO, Studi sul furto nell’antichità mediterranea, Padova, 2008, p. 272. 24 U. VINCENTI, L’universo dei giuristi, legislatori, giudici. Contro la mitologia giuridica, Padova, 2003, p. 17. 25 D. 1.2.2.5 (Pomp., lib. sing. enchir.): […] His legibus latis coepit, ut naturaliter evenire solet, ut interpretatio desideraret prudentium auctoritatem, necessariam esse disputationem fori […].

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tudine, del ruolo del pretore, del giudice e del rapporto tra norma e decisione 26. Evidente appare la dimensione antinormativa della ricostruzione elaborata dal Gallo, resa poi costitutiva nella sua concezione dell’artificialità del diritto come prodotto umano e storico, orientato dai principi e valori etici (l’ars boni et aequi) 27. Umanità ed eticità del diritto come argini all’arbitrio del giudice, che ha il ruolo di interprete ed esecutore di regole giuridiche socialmente preposte e avallate dal consenso sociale 28.

3. La controversialità ed il ragionamento confutatorio quali fondamenti dell’argomentazione giuridica. Non appare un fuor d’opera – stante la cornice entro la quale si svilupperà il nostro ragionamento – dar conto delle ragioni teoriche messe in luce dalle dottrine ermeneutiche per le quali fondamento dell’argomentazione giuridica è il ragionamento confutatorio. Infatti, la complessità delle questioni oggetto di attenzione da parte del diritto rende permanentemente flessibile la sua intima razionalità, in modo da adattarlo al pluralismo degli interessi e dei valori. Il ragionamento del giurista deve di conseguenza avvalersi di procedure logiche collegate ad un’etica coerente con la storia ed i valori. Una logica, pertanto, non formale, che si sostanzia in una teoria dell’argomentazione – basti richiamare le fondamentali ricerche compiute dal Giuliani 29 e dal Pe26 F. GALLO, L’officium del pretore nella produzione e applicazione del diritto, Torino, 1997, passim. 27 Sulla definizione celsina interessanti osservazioni si possono leggere in W. WALDSTEIN, Saggi sul diritto non scritto, U. VINCENTI (a cura di), Padova, 2002, pp. 9 ss. 28 Sui concetti di humanitas e benignitas nel diritto romano mi permetto di rinviare ai miei studi: A. PALMA, Humanior Interpretatio. ‘Humanitas’nell’interpretazione e nella formazione da Adriano ai Severi, Torino, 1992, pp. 1 ss., nel quale già ebbi modo di osservare come lo stretto collegamento tra l’humanitas come cultura e l’humanitas nella scienza giuridica, se dilatò nell’ambiente sociale la figura umana esaltandone il grado più alto, quello dell’intellettuale, determinò anche le forme dell’organizzazione collettiva, e dunque il diritto, che tendeva a divenire coerente alla “civiltà dell’intelligenza” (op. cit., p. 2). ID., Benignior Interpretatio. Benignitas nella giurisprudenza e nella formazione da Adriano ai Severi, Torino, 1997, pp. 1 ss. 29 Per quanto riguarda il pensiero del Giuliani, v. l’accurato volume S. ANDRINI, Informazione e comunicazione in Alessandro Giuliani, in F. CERRONE-G. REPETTO (a cura di.), Alessandro Giuliani: l’esperienza giuridica tra logica ed etica, Milano, 2012, p. 32. Proprio il

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relman 30 – assata sulla modalità della confutazione: il confronto tra le opinioni, dunque, la caratterizza con l’obiettivo di ottenere una soluzione proprio attraverso la struttura controversiale del confronto medesimo. Naturalmente le opinioni possono essere collocate su un piano gerarchicamente differenziato in virtù del loro diverso consolidamento rispetto ad una tradizione risalente, con la necessità che in questo caso si imponga una confutazione argomentata in modo forte, come già rilevava Aristotele nelle Confutazioni sofistiche (165a.25-30) 31. Fondamentale è rilevare lo stretto collegamento tra la procedura controversiale e il concreto oggetto del competere, per cui dunque aspetto decisivo della controversialità risulta la ricostruzione della quaestio facti. La tradizione giuridica è così la risultante di un’opera collettiva diacronicamente strutturantesi secondo la logica controversiale: attraverso l’eliminazione di tutti gli elementi accidentali non strettamente pertinenti alla ricostruzione della quaestio facti, ricorrendo ad argomenti topici – sensibili alle circostanze di fatto ma anche ai principi costitutivi della dimensione giuridiGiuliani affermava che contro la superbia del sapere definitorio, per utilizzare in tal modo le parole di Paolo Grossi nell’introduzione a F. CERRONE-G. REPETTO, Alessandro Giuliani, cit., p. 5, «egli rivalutava il controverso perché indòcile a immobilizzazioni e cristallizzazioni, perché generatore di problemi, perché necessariamente incarnantesi in ricerca», infatti a detta del Giuliani «il filosofo – come il giudice – deve ricercare la verità tra opinioni in conflitto»: A. GIULIANI, La controversia. Contributo alla logica giuridica, Pavia, 1966, p. 146. 30 Di Perelman assume particolare interesse, per quello che si dirà in séguito, ricordare l’acceso antilogicismo che si motivava con la scelta in favore sostanzialmente di una giurisprudenza liberata dal pregiudizio che voleva il giudice passivo interprete del diritto stabilito. Per questo motivo sia gli approcci deduttivistici classici che la logica deontica venivano accomunati dal Perelman nella stessa critica: di essi il Perelman stigmatizzava infatti l’attitudine «matematizzante» e una coloritura essenzialmente anti-realista, più ancora che le particolari opzioni metodologiche. Questi approcci si rivelavano anzitutto inutili, perché i giudici, evidenziava, scelgono le premesse dopo aver già deciso sulla conclusione: tutt’al più, quindi, non possono far altro che analizzare la struttura del ragionamento compiuto. Il che è del tutto superfluo nelle controversie giudiziarie, laddove il problema è non tanto dedurre la conclusione a partire da premesse incontestate, quanto stabilire le premesse a partire dalle quali si deduce. Cfr. C. PERELMAN, Logica giuridica e nuova retorica, Milano, 1976, passim. 31 Arist., Soph. El. 165 a 25-30: «chi conosce un qualsiasi oggetto deve evitare la menzogna rispetto a quanto egli sa, e d’altro lato deve essere in grado di smascherare chi dice il falso. Questo duplice compito consiste così nell’esser capace di dare giustificazione e nel saper farsela dare. Sarà dunque necessario, che chi vuol essere un sofista cerchi di impadronirsi del suddetto modo di discutere. Esso gli sarà invero utile, poiché una siffatta capacità lo farà apparire saggio, ed è questo appunto che egli si prefigge». Sulla classificazione aristotelica dei paralogismi e sulle questioni interpretative sollevate dalle Confutazioni sofistiche rinvio a ARISTOTELE, Le confutazioni sofistiche, introduzione, traduzione e commento di PAOLO FAIT, Roma-Bari, 2007.

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ca – si elaborano nuovi orizzonti valoriali. Il comune patrimonio di regole si costituisce superando l’antinomicità del conflitto tra i valori in gioco per il tramite di accordi topici che rendano possibile l’accettazione e la condivisione di procedimenti di giustificazione della regula iuris, legati in modo inscindibile ad un luogo e ad un tempo. La scientia iuris è condizionata dalla sua variabile prevedibilità, collegata all’evento singolo, al caso controverso ed alla sua decisione. Le decisioni che sciolgono i conflitti hanno la qualità della unicità, potendo essere svincolate dal sistema complessivo e rapportandosi unicamente a quello dei valori sociali. Principi, regole e valori, dunque, come ‘formanti’ della decisione del caso concreto e proprio del concetto. In particolare, sul concetto di ‘formanti” è quindi opportuno spendere qualche considerazione: esso è stato, com’è noto, precipuamente elaborato da Rodolfo Sacco 32 in riferimento alle basi giuridiche sulle quali si sviluppa l’ordinamento di una società. Il più rilevante valore euristico della nozione di ‘formante’ è nell’avere indicato alcuni di essi come crittotipi, non enunciati e non verbalizzati, i testi-norme di cui si è accennato in precedenza 33. ‘Formante’ e non fonte appare, pertanto, essere il concetto più appropriato per descrivere le sorgenti dei materiali di carattere regolativo confluenti nel complessivo corpus costituente l’ordine legale a Roma, tra il III secolo a.C. ed il III secolo d.C., prima della progressiva legum permutatio portata a compimento da Giustiniano 34. Quella di ‘formante’ è nozione ermeneuticamente più consona rispetto all’altra di fonte e ciò perché la fonte è tautologicamente basata all’interno del sistema ordinamentale, mentre il ‘formante’ è ad esso esterno come posizione ed interno come funzione. Principi e regole sono alcuni dei problemi topici più studiati nella moderna scienza giuridica anche romanistica: è appena il caso di fare riferimento tra i molti a Viehweg 35, Esser 36, Stein 37, Carcaterra 38, Martini 39, 32

R. SACCO, Introduzione al diritto comparato, Torino, 1992, passim. Cfr. R. SACCO, Introduzione, cit., pp. 43 ss., definisce i formanti crittotipi come modelli impliciti nei diversi sistemi giuridici che agiscono in modo assai penetrante della dimostrazione e decisione di questioni giuridiche. 34 F. GALLO, Consuetudine e nuovi contratti. Contributo al recupero dell’artificialità del diritto, Torino, 2012, spec. pp. 27 ss. 35 T. VIEHWEG, Topic und Jurisprudenz, München, 1965, pp. 30 ss. 36 J. ESSER, Principio e norma, Tübingen, 19904, pp. 44 ss. 37 P. STEIN, Regulae Iuris. From Juristic Rules to Legal Maxims, Edimburg, 1966, pp. 10 ss. 38 G. CARCATERRA, Le norme costitutive, Milano, 1974, pp. 21 ss. 39 R. MARTINI, Le definizioni dei giuristi romani, Milano, 1966, pp. 45 ss. 33

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Schmidlin 40, Winkel 41. Appare ancora fecondo per il diritto romano il rapporto-distinzione tra principi e regole come elaborato da Ronald Dworkin 42, per il quale, in estrema sintesi, i principi esprimono i valori supremi dell’ordinamento di una comunità 43; si fondano sul loro carattere morale; la loro applicazione richiede ponderazione e bilanciamento; specificano diritti fondamentali; prevalgono su considerazioni di utilità pubblica o perlomeno la interpretano in senso eticamente orientato; possono condurre alla disapplicazione di regole incompatibili. I principi emergono dunque come criteri di oggettività delle scelte etiche implicate nell’interpretatio iuris, nel compimento della quale gli stessi sono entità normative che hanno alcune volte un testo che le incorpora, altre volte, invece, si rivelano come meramente concettuali e funzionali prescindenti del tutto da un testo, per divenire all’interno della decisione sia criterio di comprensione che regola del caso. Alla luce delle teorie analitiche e decostruzionistiche, che com’è noto, sostituiscono alla concezione del rapporto enunciato-verità-cosa una teoria della comprensione che pone l’accento sulla pratica, sul facere, sull’asseribilità motivata 44, il diritto si configura come una prassi linguistica che fornisce uno fra i molti linguaggi descrittivi. La ricerca della verità nel diritto si traduce quindi in uno sforzo teso a descrivere ciò che i suoi operatori fanno con il linguaggio, inteso come procedimento di determinazione della deci40 B. SCHMIDLIN, Die römischen Rechtsregeln. Versuch einer Typologie, Köln, 1970, pp. 20 ss. 41

L.C. WINKEL, Error iuris nocet. Rechtsirrtum als Problem der Rechtsordnung, I, Rechtsirrtum in der griechischen Philosophie und im römischen Recht bis Justinian, Zutphen, 1985, pp. 33 ss. 42

R. DWORKIN, I diritti presi sul serio, trad. it. di F. ORIANA, Bologna, 1982, pp. 319-322.

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Secondo R. DWORKIN, L’impero del diritto, trad. it. di L. CARACCIOLO DI SAN VITO, Milano, 1989, pp. 176 ss. la “comunità di principio” è caratterizzata dal fatto di essere governati da principi comuni e non soltanto da regole: ciò implica sia che i partecipanti accettano il fatto che i loro diritti e doveri politici non si esauriscano nelle particolari decisioni che le loro istituzioni politiche hanno preso, ma dipendano dallo schema di principi che quelle decisioni presuppongono, sia che ogni membro accetta il fatto che gli altri posseggano determinati diritti che derivano da questo schema anche se non sono stati formalmente identificati o dichiarati. Ciò implica un fondamento della comunità basato sulla “reciprocità” o, per il Dworkin, sulla “fraternità”: alla base della comunità vi è la responsabilità della cittadinanza, cioè il rispetto da parte di ogni cittadino dei principi di equità e di giustizia propri del vigente ordinamento politico della propria comunità. 44

Cfr. J.-L. NANCY, L’imperativo categorico, trad. it. di F. PALESE, Nardò, 2011, pp. 43 ss.

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sione 45. Di qui, discende la necessità di evitare di configurare il sistema delle regole come insieme ordinato di natura precettistica, restando la regola un mero criterio di orientamento del giudizio. La regula iuris in tale contesto comunicativo assume, altresì, i lineamenti di una formula connotante valori etici nel senso oggettivo sopra descritto, valori che si pongono come baluardo all’arbitrarietà del giudizio in un “non-sistema normativo” gerarchicamente destrutturato come quello romano. Se i principi sono, come già affermava Emilio Betti, l’area di elezione del confronto tra giuristi 46, le regole devono essere intese come elementi costitutivi del giudizio, della decisione. La iurisdictio per se stessa costituisce il giudizio: il dicere latino opera giudicando, consiste nel mostrare, nello stabilire ciò che si determina. L’ordine del giudizio è così opus incertum, si sostanzia in primo luogo in un apprezzamento, in un atto intellettuale di valore gnoseologico, che produce un risultato sempre ineguale, che varia secondo le circostanze di tempo e di luogo 47. Il bonum et aequum sono così principi che concretizzano le fondamentali strategie del giudizio, cui corrispondono visioni etiche fondate su una concezione della giustizia come reciprocità, come giusto contraccambio. La struttura controversiale del diritto è finalizzata a determinare, in tal modo, soluzioni giuste e per questo corrispondenti ad un parametro di bonum et aequum che si invera nell’equilibrio determinato dal principio del giusto bilanciamento 48. Ed il luogo elettivo del dispiegamento di questa forma di giustizia così rilevante per la pace sociale, per la φιλία, è la controversia, 45

Sull’incidenza del linguaggio nella formazione del convincimento del giudice si consiglia la lettura della ricerca compiuta nel campo delle scienze cognitive da P. CATELANI, Il giudice esperto. Psicologia cognitiva e ragionamento giudiziario, Bologna, 1992, pp. 10 ss. 46 I principi dell’ordine giuridico sono, per il Betti, «connessi alle dinamiche proprie di ciascun ordinamento e la loro capacità espansiva è affidata all’attività degli interpreti, che si svolge secondo canoni e principi, anch’essi inseriti in un processo vitale»: E. BETTI, I principi della Scienza nuova di G.B. Vico e la teoria dell’interpretazione storica, in Nuova Riv. Dir. Comm., I/1957, pp. 48 ss. 47 Cfr. J.-L. NANCY, L’imperativo categorico, cit., 43 ss. 48 Arist., Eth. Nic. 1130b 31-32. La giustizia come reciprocità è stata chiamata anche “giustizia del contraccambio”, “giustizia del contrappasso”, “giustizia dello scambio” e “giustizia antipepontotica” (quest’ultima definizione è stata coniata da P.R. TROJANO, Dottrine morali di Pitagora e di Aristotele, Roma, 1897, ma non trova fondamento nei testi). Forse il termine più felice è quello proposto da D.G. RITCHIE, Aristotle’s Subdivisions of Particular Justice, in Classical Review, 7/1984, p. 191, che ha parlato di “catallactic justice” ossia di “giustizia catallatica”, sul punto v. G. AZZONI, La reciprocità delle Grazie: oltre l’antinomia di universale e particolare nell’idea di giustizia, in F. BOTTURI-F. TOTARO (a cura di), Universalismo ed etica pubblica, Milano, 2006, pp. 35 ss.

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caratterizzata dalla logica confutatoria, che presuppone la reciprocità tra le posizioni avverse e l’accettazione della loro composizione. La reciprocità come forma della giustizia, del bonum e dell’aequum, non struttura un sistema di verità precostituite, assolute, evidenti, ma si invera in una continua ricerca di consensi ragionevoli pur nella contestazione e nel dissenso. La giustizia quale regolatrice delle relazioni sociali consiste nel ristabilire l’equità in proporzione aritmetica all’iniquità, presupponendo la misurabilità del valore e del disvalore in base allo scambio, alla reciprocità sociale. Il giusto, allora, nella contemplazione aristotelica è il conveniente, l’ἑπιεκᾑς» 49, criterio correttivo denotativo di ciò che è giusto, e migliore secondo l’apprezzamento del giudicante. La metafora aristotelica del regolo di Lesbo, che essendo di piombo si adattava alla forma della pietra a differenza del canone di Policleto che si basava su proporzioni fisse 50, recava con sé accanto al carattere della flessibilità dell’interpretatio anche quello della indeterminatezza, perché la misura in cui l’aequitas si manifesta è un’operazione che si concreta quando il caso pratico viene sottoposto al giudizio. Il ragionamento, come la logica confutatoria, conduce, dunque, a criteri di giudizio ad essa interni e con essa compatibili come il parametro della giustizia fondata sulla reciprocità, che non equivale alla solidarietà. Molte e strutturali sono, pertanto, le ragioni del profilare come controversiale il diritto anche nel periodo storico considerato, con alcune conseguenze di ordine metodologico ed espositivo: di séguito articoleremo alcune idee in parte tributarie degli studi preziosi esistenti sull’argomento, proprio intorno allo ius controversum 51 come tradizione interpretativa di natura sapienziale, un prodotto eminentemente culturalista, tuttavia diretto anche, e forse soprattutto, alla prassi controversiale, allo iudex. Segnaleremo poi il crescente interesse nella letteratura anche recente per il giudice ed il iudicium, in particolare, ma non solo, per la fase apud 49

Su tale concetto nel pensiero aristotelico, confrontato con l’aequitas romana, si veda L. SOLIDORO MARUOTTI, Tra morale e diritto. Gli itinerari dell’aequitas. Lezioni, Torino, 2013, 34 ss., da ultimo F. PIAZZA, La virtù di Emone: Riflessioni sull’epieikeia greca, in Aevum Antiquum, 9/2009, pp. 3 ss.; EAD., Dire e Fare la cosa giusta. L’epieikeia in Aristotele, in C. ROSSITTO (a cura di), Studies on Aristotle and the Aristotelian Tradition, Lecce, 2011, pp. 156 ss. 50 Arist., Eth. Nic. V.14, 1137 b.29-32. 51 Ad esempio v. M. BRETONE, Ius controversum nella giurisprudenza classica, in Atti della Accademia Nazionale dei Lincei, CDV/2008, serie IX, vol. XXIII, fasc. 3 (classe di scienze morali, storiche e filologiche), pp. 755 ss.; V. MAROTTA-E. STOLFI (a cura di), Atti del Convegno, Ius controversum e processo fra tarda repubblica ed età dei Severi, Firenze, 21-23 ottobre 2010, Roma, 2012, pp. 1 ss.

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iudicem della procedura formulare 52, troppo appiattita nell’opinione tradizionale ad un ruolo ancillare e meramente attuativo del programma processuale incorporato nella formula, ma in realtà importantissima perché luogo del pieno sviluppo della logica confutatoria che è – secondo la nostra prospettazione – l’essenza dello ius controversum, fase confutatoria che richiede una precisa valutazione delle circostanze e del tempo della fattispecie oggetto di giudizio, cioè della quaestio facti. Registreremo la presenza dei giuristi in iudicio, lo scontro tra le loro auctoritates, la permanente discrezionalità e libertà del giudicante di aderire o meno alle loro ricostruzioni. Si tenterà attraverso l’analisi delle fonti disponibili, o di alcune di esse, di apprezzare la tecnica argomentativa della decisione, la dialettica tra tendenze al cambiamento e quelle alla stabilizzazione dei principi giuridici in funzione della determinazione del ruolo del giurista come coautore e non attore unico dei processi di formazione dello ius.

4. La nozione dello ius controversum nelle fonti e nell’elaborazione dottrinale. Procediamo ora rapidamente ad una ricognizione di ciò che sul tema dello ius controversum è ormai ius certum, per il contributo di una letteratura ampia e raffinata. L’espressione ius controversum non appartiene come è noto al lessico tecnico della giurisprudenza romana – di questa è, infatti, frequente l’utilizzo dei verbi quaerere, dubitare, disputare –, ma, piuttosto, a quello della prassi retorica 53. È altrettanto vero, però, che il fenomeno designato da questa espressione è ben presente nella tradizione giuridica romana. Ricordiamo sul punto come adeguata e rilevante alla nostra argomentazione la tesi di coloro che escludono la possibilità di impiegare l’espressione ius controversum solo per individuare le divergenti opinioni giurisprudenziali e il carat52

L. GAROFALO (a cura di), Il giudice privato nel processo civile romano. Omaggio ad Alberto Burdese, I, II, Padova, 2012. 53

Sul punto Cfr. M. BRETONE, Ius controversum, cit., p. 763: «ius controversum ricorre esclusivamente nella pratica oratoria e nella letteratura retorica ed erudita, o nella storiografia, insieme con locuzioni affini come ius varium o dubium o ambiguum». Il Mommsen lo faceva risalire al collegio dei pontefici, ma limitandone fortemente la portata, v. TH. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht, 2.1, Lipzig, 1874, 18873, p. 45 s.

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tere dello ‘Juristenrecht’ romano 54. Lo ius controversum rappresentava, invero, il punto di diritto la cui oscurità sollevava una controversia, in evidente riferimento alla centralità del metodo confutatorio, e in questa prospettiva si identificava con il caput equivoco della legge, dell’editto, del senatoconsulto o della disposizione giuridicamente rilevante assunta da un privato, che crea discussione. Sul problema della definizione del diritto controverso Andreas Bertalan Schwarz ha scritto un saggio esemplare 55 nel quale afferma che noi denominiamo ‘controverso’ il diritto, quando all’interno di un ordinamento in vigore si contrappongono punti di vista differenti, in rapporto a un unico interrogativo; aggiungendo poi che «die breite Raum, den das strittige Recht in der römischen Rechtsentwicklung einnimt, ist eine Folge der überragden Rolle, die darin das Juristenrecht spielt» 56. In senso stretto o proprio la nozione di ius controversum o ius varium designa singole questioni sulle quali vi sia dissenso tra interpreti: si legga Cicerone che, in Mur. 28, fa esplicito riferimento ai casi controversi: Cic., Mur. 28: […] sin aliter, etiam controversum ius nosse et tractare videare. L’Arpinate conduce una serie di critiche verso i giuristi, sottolinea la povertà della loro scienza, che vive di pareri difformi, sulla scorta della consuetudine che essi hanno di contraddirsi, ma così facendo ne esalta e contrario le caratteristiche costitutive: i giuristi non partecipavano alla contesa giudiziaria e proprio per questa loro lontananza dall’agone forense coltivavano una tenuis scientia (Cic., Mur. 25) 57, occupandosi dello studio sofistico di minuzie e 54 Sulla portata di questo concetto tra le molte opere si veda l’ormai classico contributo di A. SCHIAVONE, Giuristi e nobili nella Roma Repubblicana. Il secolo della rivoluzione scientifica nel pensiero giuridico antico, Bari, 1987, pp. 3 ss. Certo appare evidente, nella impostazione consuetudinaria della dottrina, il collegamento della categoria della controversialità con il ruolo dei giuristi, come soggetti nomopoietici, messo già in evidenza da A.B. SCHWARZ, Rechtsgeschichte und Gegenwart. Gesammelte Schriften zur neueren Privatrechtsgeschichte und Rechtsvergleichung, Karlsrue, 1960. 55 A.B. SCHWARZ, Das strittige Recht der römischen Juristen, in Atti del Congresso internazionale di diritto romano e di storia del diritto, Verona, 27-29 Settembre 1948, 2, Milano, 1951, pp. 121 ss. (= Festschrift Fritz Schulz, 2, Weimar, 1951, pp. 201 ss.). 56 A.B. SCHWARZ, Das strittige Recht, cit., p. 123 (= p. 201). 57 Come mette in guardia giustamente il Guarino, l’orazione Pro Murena deve essere contestualizzata ancora più di altre. Infatti, Cicerone, coprendo nell’anno 63 a.C. la carica con-

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complicando, in tal modo, proprio con la loro continua discordanza i principi lineari delle leggi. L’aggettivo controverso ha in se stesso il significato di volto nell’altro senso e – cioè – in un orientamento divergente, più precisamente contrario. Il termine denota un’incertezza insita nel fatto che il controverso è tale in quanto discusso da qualcuno. Una sola volta troviamo nel Digesto il termine controversia nel senso di disputa teorica, più precisamente in D. 29.7.14 pr. (Scaev. 8 quaest.): Quidam referunt, quantum repeto apud Vivianum, Sabini et Cassii et Proculi expositam esse in quaestione huiusmodi controversiam […]. Ius dubium opposto a ius certum e con funzione sinonimica a ius controversum appare in Quint., Inst. 12.3.6: […] Namque omne ius, quod est certum, aut scripto aut moribus constat; dubium aequitatis regula examinandum est. La testimonianza è molto interessante: il retore sembra porre il problema in maniera schematica 58, in quanto lo ius certum corrisponde agli appasolare, aveva deciso di scendere in campo per difendere quel L. Licinio Murena che, assieme a Decimo Giulio Silano, aveva vinto le elezioni consolari per l’anno 62 a.C. a scapito di Catilina e di Servio Sulpicio Rufo, elezioni che si erano svolte in modi tanto irregolari (anche per una forte influenza dello stesso Cicerone) che Servio Sulpicio, giurista e uomo d’ordine di alta levatura, se ne era più che comprensibilmente adontato assieme al severo M. Porcio Catone, «detto fatto, Servio promosse un giudizio contro Murena, sostenendo che costui si fosse largamente macchiato del crimen ambitus […] così preoccupatissimo per l’eventualità che, in caso di vittoria di Servio Sulpicio, l’odiato Catilina rientrasse in giuoco per le nuove elezioni, Cicerone non esitò, lui console in carica e promotore inoltre, proprio della legge de ambitu invocata da Servio, a passar sopra le più elementari esigenze del buon gusto (nonché della stessa amicizia per il grande giurista) e ad assumere personalmente la difesa di Lucio Murena: difesa che manco a dirlo, sfociò nella reiezione dell’istanza avanzata da Servio Sulpicio. Nel corso della sua orazione, Cicerone si occupa anche dei meriti comparativi di Murena, essenzialmente uomo d’armi, e di Servio, uomo interamente dedicato al Foro. Non potendo e non volendo svalutare troppo quest’ultimo, egli si sforza di volgerla in burletta e di sostenere che poco valgono agli occhi del popolo elettore, di fronte alle imprese di un generale vittorioso, le minuzie pensose di un giureconsulto, le sue formule e formulette, i suoi distinguo e, insomma, le manifestazioni della sua tenuis scientia. Del che egli passa a dare alcuni esempi chiaramente caricaturali, ma tutti ricalcati su qualcosa di vero della dottrina e della prassi giuridica romana»: A. GUARINO, Giusromanistica elementare, Napoli, 20022, p. 217. 58 Circa la riflessione teorica di Quintiliano sull’oratoria è necessario sempre tenere presente l’attività forense dallo stesso esercitata. Stando all’apprezzamento riservato da Mar-

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rati generali considerati in se stessi, ossia i testi delle leggi e le regole della consuetudine, che rappresentano puri dati da conoscere. Il ius dubium, invece, è quello dei giuristi, come si legge in Quint., Inst. 12.3.7: […] quae consultorum responsis explicantur aut in verborum interpretatione sunt posita aut in recti pravique discrimine […], il suo contenuto dipende dalla interpretazione delle parole, magari della legge, o può venire determinato da un giudizio di equità. Il discorso di Quintiliano sembra orientato a dire che i giuristi servono a ben poco, perché la comprensione precisa delle parole è compito dei retori, mentre il giudizio di equità appartiene a qualunque persona onesta ed ziale a Quintiliano, secondo cui: Quintiliane, vagae moderator summe iuventae, Gloria Romanae, Quintiliane, togae (Mart., epigr. 2.90.1), è possibile ritenere che l’esercizio dell’avvocatura costituì una parte di non poco conto nella vita professionale che assicurò al retore non solo le insegne consolari, che furono propiziate dall’intervento di Flavio Clemente (Auson., Grat. act. 7), ma anche fama imperitura. Nell’Institutio lo stesso Quintiliano, con una punta di civetteria da consumato principe del foro, ricorda alcuni processi che conobbero diffusa attenzione di pubblico e che lo videro protagonista, tra i quali: la difesa di una donna quae subiecisse dicebatur mariti testamentum (Quint., Inst. 9.2.73) e il patrocinio assunto in difesa della regina Berenice di Giudea (Quint., Inst. 4.1.19); cfr. G.A. KENNEDY, Quintilian, New York, 1969, pp. 20 ss.; M.R. YOUNG-WIDMAIER, Quintilian’s Legal Representation of Julia Berenice, in Historia, 51/2002, pp. 124 ss. Il retore tiene, inoltre, a sottolineare che anche quando si trovava in giudizio come parte di un collegio difensivo fere ponendae a me causae officium exigebatur (Quint., Inst. 4.2.86). La sua attività di togatus fu, inoltre, così nota che circolavano a Roma alcuni libelli di orazioni che portavano il suo nome, ma dei quali Quintiliano disconosceva la paternità, fatta eccezione per una fatica giovanile in difesa di Nevio di Arpino (Quint., Inst. 7.2.24). Sul punto, cfr. G.A. KENNEDY, The Art of Rhetoric in the Roman World 300 B.C. – A.D. 300, New Jersey, 1972, p. 492. Sull’impegno di Quintiliano nella professione legale ponevano l’accento già TH. FROMENT, Quintilien avocat, in Annales de la Faculté des Lettres de Bordeaux, 2, 1880, pp. 224 ss.; J. COUSIN, Études sur Quintilien, I, Contribution à la recherche des sources de l’lnstitution Oratoire, II, Vocabulaire grec de la terminologie rhétorique dans l’institution oratoire, Paris, 1935-1936 (rist. Amsterdam 1967), in particolare, II, pp. 658 ss. Tuttavia entrambi questi Studiosi sono inclini a privilegiare soprattutto i riflessi delle cognizioni giuridiche del retore ricavabili dall’opera. Di recente, la necessità di valorizzare il carettere pratico dell’Institutio, e in particolare il suo stretto rapporto con la prassi delle corti, è stata avvertita da J.A. CROOK, Legal Advocacy in the Roman World, London, 1995, pp. 120 ss.; in quest’ottica cfr. pure I. MASTROROSA, Appunti per un lessico giudiziario in Quintiliano, in Atti del II Seminario Internazionale di Studi sui Lessici Tecnici Greci e Latini, Messina, 14-16 dicembre 1995, Napoli, 1997, 233 ss.; nonché i contributi raccolti in O.E. TELLEGEN-COUPERUS (edited by), Quintilian and the Law. The art of Persuasion in Law and Politics, Leuven, 2003.

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a maggior ragione al retore, che rappresenta il vir bonus per antonomasia 59. Una eco di questo orientamento potremmo, forse già, trovarlo in Cicerone, nel passo citato (Cic., Mur. 28) 60, dove il retore deve contrastare i tribunicios furores ed il concitatum populum, ovvero resistere largitioni (Cic., Mur. 24) 61. 59 Quintiliano, proprio perché richiede a chi voglia essere retore la qualifica di bonus, si sofferma nelle Institutiones oratoriae sulla sua educazione, intento pedagogico che invece è interessante notare manca del tutto in Cicerone, in quanto, osserva il Winterbottom, «at the leading orator of his day, he may have thought it indelicate or superfluous to stress that the perfect orator must be a good man. Moreover, it was not clear that the troubles of Cicero’s day were the result of morally bad orators: one had to look back to Saturninus and Glaucia for examples of the evils caused by unscrupulous use of the words»: M. WINTERBOTTOM, Quintilian and the Vir Bonus, in JRS, 54/1964, p. 90. 60 Cic., Mur. 28: Itaque, ut dixi, dignitas in ista scientia consularis numquam fuit, quae tota ex rebus fictis commenticiisque constaret, gratiae vero multo etiam minus. Quod enim omnibus patet et aeque promptum est mihi et adversario meo, id esse gratum nullo pacto potest. Itaque non modo benefici conlocandi spem sed etiam illud quod aliquamdiu fuit ‘Licet consvlere?’ iam perdidistis. Sapiens existimari nemo potest in ea prudentia quae neque extra Romam usquam neque Romae rebus prolatis quicquam valet. Peritus ideo haberi nemo potest quod in eo quod sciunt omnes nullo modo possunt inter se discrepare. Difficilis autem res ideo non putatur quod et perpaucis et minime obscuris litteris continetur. Itaque si mihi, homini vehementer occupato, stomachum moveritis, triduo me iuris consultum esse profitebor. Etenim quae de scripto aguntur, scripta sunt omnia, neque tamen quicquam tam anguste scriptum est quo ego non possim ‘Qva de re agitvr’ addere; quae consuluntur autem, minimo periculo respondentur. Si id quod oportet responderis, idem videare respondisse quod Servius; sin aliter, etiam controversum ius nosse et tractare videare. 61 Cic., Mur. 24: Summa dignitas est in eis qui militari laude antecellunt; omnia enim quae sunt in imperio et in statu civitatis ab his defendi et firmari putantur; summa etiam utilitas, si quidem eorum consilio et periculo cum re publica tum etiam nostris rebus perfrui possumus. Gravis etiam illa est et plena dignitatis dicendi facultas quae saepe valuit in consule deligendo, posse consilio atque oratione et senatus et populi et eorum qui res iudicant mentis permovere. Quaeritur consul qui dicendo non numquam comprimat tribunicios furores, qui concitatum populum flectat, qui largitioni resistat. Non mirum, si ob hanc facultatem homines saepe etiam non nobiles consulatum consecuti sunt, praesertim cum haec eadem res plurimas gratias, firmissimas amicitias, maxima studia pariat. Quorum in isto vestro artificio, Sulpici, nihil est. In ossequio a questa prospettiva, l’oratoria stessa viene affiancata, sia pure in subordine, alla capacità militare: “Duae sint artes ‘igitur’ quae possint locare homines in amplissimo gradu dignitatis, una imperatoris, altera oratoris boni. Ab hoc enima pacis ornamenta retinentur, ab illo belli pericula repelluntur” (Cic., Mur. 30). Infatti, i pacis ornamenta retinentur dall’abile generale, mentre il buon oratore era idoneo a respingere i belli pericula; viene, in tal modo, proposta una comunanza tra l’opera svolta dall’orator e quella del comandante militare, dirette entrambe alla salvaguardia della res publica sebbene con mezzi diversi, adeguati alla sua difesa dalla sedizione interna e dai nemici esterni, in conformità ad un concetto largamente sviluppato anche in altri luoghi ciceroniani. La dottrina civilistica risultava viceversa, secondo l’Arpinate,

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Ius controversum è altresì sinonimo di ius varium nel caso in cui si prospettino più soluzioni e poi si indichi la soluzione giuridica condivisa, l’esito concreto raggiunto nel giudizio, come appare confermato in Cic., Caec. 69: Primum utrum recte, an perperam? Si recte, id fuit ius quod iudicatum est; sin aliter, non dubium est utrum iudices an iuris consulti vituperandi sint. Deinde, si de iure vario quippiam iudicatum est, potius contra iuris consultos statu(t)um(s)t, si aliter pronuntiatum est ac Mucio placuit quam ex eorum auctoritate, si, ut Manilius statuebat, sic est iudicatum? Etenim ipse Crassus non ita causam apud C. viros egit ut contra iuris consultos diceret, sed ut hoc doceret, illud quod Scaevola defendebat, non esse iuris, et in eam rem non solum rationes adferret, sed etiam Q. Mucio, socero suo, multisque peritissimis hominibus auctoribus uteretur 62. Potrebbe ventilarsi in particolare nel brano ciceroniano una ipotesi d’indipendenza del collegio giudicante, per il quale i giudici interpretano gli enunciati della giurisprudenza e scelgono la qualificazione del fatto che secondo loro più si avvicina allo ius. La nozione antitetica, come abbiamo visto, è quella di ius certum 63. Allora, la definizione moderna del diritto romano come ius controversum appare invero eccedente rispetto all’uso linguistico antico ed eleva la presencarente di uno specifico ruolo politico, circostanza che induce a identificare la scelta di coltivarla come espressione di forzata rinunzia al conseguimento dell’obiettivo più elevato, proprio in quanto più funzionale ai fini dell’esercizio delle magistrature, costituito dalla dicendi consuetudo (Cic., Mur. 29). Una interpretazione del passo è stata recentemente offerta da F. GIUMETTI, Due strani fratelli (Hor., Ep. 2,2,87-89). La rappresentazione letteraria della figura del retore e del giurista tra I secolo a.C. ed il I secolo d.C., in A. PALMA (a cura di), Riflessioni sulla negozialità. Profili storico-comparativi, Napoli, 2013, pp. 103 ss. 62 Nel brano, a detta della Tamburi, l’Arpinate intende dimostrare che da qualsiasi punto di vista si guardi la relazione tra iudicatum e responsum non è possibile mettere in discussione l’assioma secondo cui una decisione de iure deve corrispondere a un’opinio iurisconsultorum: F. TAMBURI, Il ruolo del giurista nelle testimonianze della letteratura romana, I, cit., p. 31. Questo avviene in una visione che, secondo il Talamanca, sintetizza la «concezione tradizionale del ruolo del giurista, in definitiva sottoposto solo al controllo, ancorché indiretto, della comunità»: M. TALAMANCA, L’oratore, il giurista, il diritto nel de oratore di Cicerone, in Ciceroniana, XIII/2009, p. 34. Tondo parla invece di «ruolo normativo del ius prudentium»: S. TONDO, Profilo di storia costituzionale romana, I, Milano, 1981, pp. 408 ss. 63 Cfr. Quint., Inst. 12.3.6; Vat. Frag. 125: […] Olim varie observabatur circa numerum tutelarum, sed hodie certo iure utimur tam ex rescriptis divorum quam ex constitutionibus imperatorum nostrorum […].

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za di iura controversa a tratto distintivo dell’esperienza giuridica romana nel suo complesso come risvolto del ruolo che vi svolgevano i giuristi.

5. Lo ius controversum come elemento costitutivo del diritto. Lo ius controversum inteso come presenza di regole discordanti negli scritti dei giuristi, non è affatto un’evenienza occasionale – dovuta alla pura e semplice presenza di opinioni divergenti – ma sottintende, invece, un impianto di lavoro di cui il giurista deve farsi carico in modo preciso, per dare un assetto razionale alle questioni portate in giudizio. Ius controversum poi è segnalato anche come diritto scaturente dal dibattito interno al collegio giudicante. Il pretore prima e il principe poi godevano infatti di un collegio consultivo piuttosto attrezzato, e, dunque, spesso la risposta giurisdizionale teneva conto sia del dibattito sviluppatosi, sia delle conseguenza derivanti dalle diverse soluzioni attuabili, sia infine dei profili politici ad esse connessi. Dalla fine del secolo scorso ed ancora nel primo decennio di questo secolo, la circostanza che la moderna riflessione abbia avuto coscienza del ruolo essenziale rivestito dalla giurisprudenza nell’esperienza giuridica romana ha, in effetti, spinto la dottrina a privilegiare un ulteriore ripensamento sugli stili di lavoro, sulle interazioni tra interpretatio, previsioni legislative e magistratuali, sui percorsi, anche logici, attraverso i quali nacquero e si confrontarono per secoli le soluzioni che la giurisprudenza elaborò affrontando una lunghissima serie di casi. Valorizzato è dunque il “momento casistico” 64, nel senso topico, all’interno dell’elaborazione di un diritto giurisprudenziale con carattere di ‘scientificità’ (dove la pluralità di opinioni si attua all’interno di un “sistema aperto” controllato nella sua razionalità interna dalla coerenza delle soluzioni 64 Fondamentali i contributi in meteria di L. VACCA, Casistica giurisprudenziale e concettualizzazione romanistica, in Atti del Convegno, Legge, Giudici e Giuristi, Cagliari, 18-21 Maggio 1981, Milano, 1982, pp. 78 ss.; EAD., Analogia e Diritto Casistico, in Studi in onore di C.A. Cannata, Neuchatel, 1999, pp. 23 ss.; EAD., Contributo allo studio del metodo casistico nel diritto romano, Milano, 1976 (rist. con appendice 1982, da cui citerò), sino ai saggi riediti in Metodo casistico e sistema prudenziale. Ricerche, Padova, 2006 e ora a La giurisprudenza nel sistema delle fonti del diritto romano. Corso di lezioni2, Torino, 2012, spec. pp. 57 ss., 113 ss. e Controversialità del diritto e impianto casistico, in V. MAROTTA-E. STOLFI (a cura di) Ius controversum e processo fra tarda repubblica ed età dei Severi. Atti del Convegno (Firenze, 21-23 ottobre 2010, Roma, 2012, pp. 61 ss.

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pratiche 65): momento casistico consistente nell’analisi degli elementi fattuali, dove le soluzioni di casi precedenti vengono utilizzate per la ‘diagnosi’ del nuovo caso sottoposto all’attenzione del giurista. In un diritto casistico, secondo la Vacca, la creatività dei giuristi si manifesta in due momenti differenti, che occorre tenere distinti: l’individuazione della soluzione giusta del caso singolo su cui il giurista è chiamato a dare il responso, e la riflessione scientifica sulle soluzioni di volta in volta evidenziate, che devono essere coordinate in un sistema razionale e inserite nell’insieme complesso dell’ordinamento giuridico. Paraltro, la mancata comprensione del procedimento decisorio, che guida la soluzione del singolo caso concreto, implica, nella visione della studiosa, anche la difficoltà della comprensione del meccanismo di utilizzazione successiva della stessa decisione 66. Non è mancato chi, come Mario Bretone 67, ha avvertito di assumere la consapevolezza della difficoltà dell’analisi delle fonti giurisprudenziali, dato l’impianto della compilazione giustinianea, che rende difficile una ricostruzione attendibile del procedimento euristico ed interpretativo di volta in volta utilizzato da ciascun giurista. Complesso appare poi il dialogo tra giuristi e principi, dialogo che si manifesta nel binomio constitutio – interpretatio, negli interventi correttivi dei giurisperiti nei riguardi di decisioni imperiali 68, nella recezione di orienta65

Sulla distinzione tra sistemi giuridici aperti e chiusi si rinvia a U. VINCENTI, Intorno alla distinzione tra sistemi giuridici «aperti» e «chiusi», in Giurisprudenza Italiana, 2000, p. 1775 (= ID., L’universo dei giuristi, giudici, legislatori. Contro la mitologia giuridica, Padova, 2003, 73 ss.); L. SOLIDORO MARUOTTI, Tra morale e diritto, cit., pp. 23 ss. Circa i sistemi c.d. aperti, l’esperienza di Common Law «ci insegna che, a differenza di quanto avviene prevalentemente in un ordinamento normativo, l’evoluzione del diritto casistico-giurisprudenziale, se è veramente tale, presuppone che la ratio della singola decisione precedente debba essere individuata da colui che vuole successivamente ‘utilizzarla’, ed esclusivamente ponendo in rapporto la struttura degli elementi di fatto del ‘caso’ già deciso con la soluzione che ne è stata data. L’operazione tecnica fondamentale non è cioè rappresentata dalla ricerca della ‘regola del caso’ da applicare, ma dalla ‘diagnosi’ del caso concreto, dalla selezione degli elementi di fatto individuati come giuridicamente rilevanti per distinguerli da quelli invece non significativi, e dalla valutazione di questi elementi al fine di raggiungere la soluzione ‘più giusta’. Questa operazione evidentemente può essere più o meno manifesta ed esplicita, e più o meno facilmente percepibile»: L. VACCA, Interpretatio e caso concreto, in EAD (a cura di), Scienza giuridica e interpretazione e sviluppo del diritto europeo. Convegno Aristec Roma 9-11 giugno 2011, Napoli, 2013, pp. 38 ss. 66 L. VACCA, Interpretatio e caso, cit., p. 38 s. 67 M. BRETONE, Ius controversum, cit., pp. 759 ss. 68 Quale quello descritto in Gai 2.280: Item fideicommissorum usurae et fructus debentur, si modo moram solutionis fecerit, qui fideicommissum debebit; legatorum vero usurae

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menti giurisprudenziali in decisioni imperiali 69, a riprova della rilevanza di un dialogo costante tra prudentes e principes, veicolato principalmente – ma non solo – dalla presenza dei giuristi nei consilia principum 70. Il configurare l’elaborazione dottrinale dei prudentes come la base di tutto l’edificio giuridico romanistico enfatizza così le possibilità interpretative fondate sulla scientia iuris e la cognizione che, nei meccanismi che rendono quei processi ermeneutici produttivi di nuovo diritto, si ritrovi la natura stessa del diritto controverso come diritto scientifico e dottrinale. In questi termini, tuttavia è forte la consapevolezza che lo ius controversum presupponga un nesso stretto tra il dato normativo e la tutela giurisdizionale. I giuristi prestavano, dunque, attenzione alle sentenze dei giudici e questo meccanismo conduceva sia al formarsi di una communis opinio che, in provincia, all’assicurare rilievo alle consuetudini locali 71. Ma questa linea interpretativa prospetta una breccia sistematica: se il diritto giurisprudenziale è per sua stessa natura attento al profilo dell’efficacia, della tutela assicurata in concreto, al piano giurisdizionale, alle posizioni eventualmente concorrenti, allora il dissenso tra giudicati pone un elemento di instabilità, che non rappresenta invero un momento di rottura del sistema, ma riconosce la necessità di un suo adeguamento alle nuove e non debentur; idque rescripto divi Hadriani significatur. Scio tamen Iuliano placuisse, in eo legato, quod sinendi modo relinquitur idem iuris esse quod in fideicommissis; quam sententiam et his temporibus magis optinere video. 69 Gai 2.195: In eo solo dissentiunt prudentes, quod Sabinus quidem et Cassius ceterique nostri praeceptores, quod ita legatum sit statim post aditam hereditatem putant fieri legatarii, etiamsi ignoret sibi legatum esse, sed posteaquam scierit et omiserit legatum, proinde esse atque si legatum non esset; Nerva vero et Proculus ceterique illius scholae auctores non aliter putant rem legatarii fieri, quam si voluerit eam ad se pertinere. Sed hodie ex divi Pii Antonini constitutione hoc magis iure uti videmur, quod Proculo placuit; nam cum legatus fuisset Latinus per vindicationem coloniae, ‘Deliberent’, inquit, ‘decuriones, an ad se uelint pertinere, proinde ac si uni legatus esset e D. 35.1.7.pr. (Ulp. 18 ad Sab.): Mucianae cautionis utilitas consistit in condicionibus, quae in non faciendo sunt conceptae, ut puta “si in Capitolium non ascenderit” “si Stichum non manumiserit” et in similibus: et ita Aristoni et Neratio et Iuliano visum est: quae sententia et constitutione divi Pii comprobata est. nec solum in legatis placuit, verum in hereditatibus quoque idem remedium admissum est. 70 Sulla struttura e funzione del consilium principis, per tutti, F. AMARELLI, Consilia Principum, Napoli, 1983, pp. 26 ss. 71 L. MITTEIS, Reichsrecht und Volksrecht in den östlichen Provinzen des römischen Kaiserreichs. Mit Beitr. zur Kenntnis des griechischen Rechts und der spät-römischen Rechtsentwicklung, Leipzig, 1891, pp. 10 ss.; R. TAUBENSCHLAG, Le droit local dans les constitutions prédiocletianiens, in Mélanges de droit Romain dédiées a Georges Cornil, II, Paris, 1926, pp. 499 ss.

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mutevoli istanze sociali. Il diritto alla luce di una simile impostazione non resta, pertanto, controverso su un mero piano retorico, ma lo è anche in senso oggettivo, anzi il suo essere controverso ne è carattere costitutivo: e qui la retorica viene in aiuto alla tecnica, ponendo le condizioni di fondo perché la controvertibilità del diritto assuma rilievo sistematico. Si legga in proposito la celebre disputatio di Servio Sulpicio Galba di cui ci offre testimonianza Cic., De or. 1.239-240 72: […] quaero igitur, quid adiuverit oratorem in his causis iuris scientia, cum hic iuris consultus superior fuerit discessurus, qui esset non suo artificio, sed alieno, hoc est, non iuris scientia, sed eloquentia, sustentatus. Equidem hoc saepe audivi cum aedilitatem P. Crassus peteret eumque maior natu et iam consularis Ser. Galba adsectaretur, quod Crassi filiam Gaio filio suo despondisset, accessisse ad Crassum consulendi causa quendam rusticanum, qui cum Crassum seduxisset atque ad eum rettulisset responsumque ab eo verum magis quam ad suam rem accommodatum abstulisset, ut eum tristem Galba vidit, nomine appellavit quaesivitque, qua de re ad Crassum rettulisset; ex quo ut audivit commotumque ut vidit hominem, [240] “Suspenso” inquit “animo et occupato Crassum tibi respondisse video,” deinde ipsum Crassum manu prehendit et “Heus tu,” inquit “quid tibi in mentem venit ita respondere?” Tum ille fidenter homo peritissimus confirmare ita se rem habere, ut respondisset, nec dubium esse posse; Galba autem adludens varie et copiose multas similitudines adferre multaque pro aequitate contra ius dicere; atque illum, cum disserendo par esse non posset – quamquam fuit Crassus in numero disertorum, sed par Galbae nullo modo – ad auctores confugisse et id, quod ipse diceret, et in P. Muci fratris 72

Come è stato notato dallo Schiavone la vicenda cui si riferisce il passo ha, in seno al racconto ciceroniano, due funzioni. Oltre a quella più scoperta di esemplificare l’idea secondo la quale la peritia iuris non fosse necessaria per prevalere in un dibattito su un tema giuridico, Cicerone poneva l’episodio come premessa – seppure forzata – alla causa Curiana. Essa testimonia, come osserva lo Schiavone, «dell’esistenza e della piena legittimità culturale, già negli ultimi decenni del II secolo, all’interno dei gruppi aristocratici, di due modelli di responso, entrambi identificabili e giustificabili, sia pure su piani diversi: l’uno “vero” (rispetto alle tradizioni del sapere giuridico della città), l’altro costruito sugli interessi da proteggere (ad suam rem accomodatum)». Una contrapposizione che, come spiega lo Schiavone, non può essere apiattita in un contrasto tra vecchio e nuovo, perché entrambi giustificabili all’intreno di quella chelo Studioso chiama «razionalità aristocratica» ove si avverte l’esistenza di «un legame nuovo fra logica ed etica del responso, fra rigore del sapere giuridico e prestigio morale e civile che ne derivava»: A. SCHIAVONE, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino, 2005, p. 150.

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sui libris et in Sex. Aeli commentariis scriptum protulisse ac tamen concessisse Galbae disputationem sibi probabilem et prope veram videri. In questo caso tanto l’aspetto retorico quanto quello tecnico sembrano essere due modi complementari di riferirsi allo stesso fenomeno, ed i piani sui quali si snoda la natura controversa del diritto sono tanto quello scientifico del giurista e quanto quello pragmatico del magistrato, il quale doveva muoversi fra diverse opinioni, seguirne una e rifiutare le altre senza evitare, com’è ovvio, che nuove controversie potessero nascere attorno all’interpretazione e applicazione delle decisioni. Dunque, lo ius controversum si configura identificandosi anche con la prassi controversiale e giudiziale. Com’è noto il sistema processuale romano affidava ad un non giurista la definizione delle controversie, tale sistema potrebbe apparire – per dirla con il Talamanca – «sconvolgente agli occhi moderni» 73, con ciò confermando l’idea graniticamente consolidatasi in dottrina del diritto romano come un “diritto di giuristi” all’interno del quale il momento processuale viene inteso a guisa di strumento che tramuta una riflessione culturale in attività nomopoietica. Il giurista sarebbe in questa visione il vero demiurgo del diritto, infatti lo avrebbe creato operando in una continua tensione dialettica tra scholae contrapposte, da cui germinava, per l’appunto, lo ius controversum nella sua dimensione sapienziale. Un simile diritto si inseriva nel dialogo del tutto scientifico di carattere autoreferenziale tra giuristi e l’ultimo destinatario sarebbe stato rappresentato dallo iudex privatus investito della cognizione della controversia, già enucleata e risolta dal iurisperitus, che nel frattempo avrebbe provveduto a tramutare il fatto in fattispecie, sfrondandone gli aspetti radicati nella realtà fattuale ed elevandolo a caso emblematico. Invero, da una analisi non ideologica delle fonti, la creazione del diritto non appare ricollegabile esclusivamente al responsum del singolo giurista – per quanto autorevole – ma deve essere collegata agli esiti finali elaborati nella fase apud iudicem delle controversie giudiziarie, instaurate in molti casi sulla base di un dato parere giurisprudenziale, ma risolte sempre con una sententia che, esprimendo una carica valoriale condivisa, veniva accettata e recepita dalla comunità. 73

M. TALAMANCA, Diritto e prassi nel mondo antico, in Atti della 51a Sessione della SIHDA, Règle et pratique du droit dans les réalités juridiques de l’antiquité, Soveria Mannelli, 1999, p. 170.

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Il giurista è ben consapevole, in realtà, che il suo responsum non è una elaborazione concettuale destinata, per sua natura, al dibattito dell’accademia, al circuito delle idee, ma piuttosto uno schema teorico inteso a risolvere una specifica controversia e che proprio in vista di questo scopo richiede l’accoglimento da parte del iudex privatus 74. La conflittualità in sede di teoresi non poteva non ripercuotersi sul piano della prassi, originando contrapposte pretese generative di diverse controversie giudiziarie nelle quali le opiniones, le auctoritates dei diversi iurisconsulti in concorrenza dovevano fornire i contenuti delle argomentazione degli oratori, impegnati nell’opera di convincimento del giudice 75. Sul punto basti vedere quanto Cicerone afferma in Cic., De or. 1.241-242: Ac tamen, quae causae sunt eius modi, ut de earum iure dubium esse non possit, omnino in iudicium vocari non solent. Num quis eo testamento, quod paterfamilias ante fecit quam ei filius natus esset, hereditatem petit? Nemo; quia constat agnascendo rumpi testamentum; ergo in hoc genere iuris iudicia nulla sunt. licet igitur impune oratori omnem hanc partem iuris non controversi ignorare, quae pars sine dubio multo maxima est; [242] in eo autem iure, quod ambigitur inter peritissimos, non 74

Cfr. P. GIUNTI, Iudex e iurisperitus. Alcune considerazioni sul diritto giurisprudenziale romano e la sua narrazione, in Iura, LXI/2013, pp. 53 ss. 75 Ricordando che «the composition of juries changed during the Late Republic, these juries were always composed of wealthy and relatively well-educated adult male Roman citizens – not legal experts»: M.C. ALEXANDER, The Repudiated Technicality in Roman Forensic Oratory, in M. HOEFLICH (ed.), Lex et Romanitas. Essays for Alan Watson, California, 2009, p. 60, il compito dell’orator, come ha osservato A. CROOK, Legal Advocacy in the Roman World, London, 1995, 18, non era quello di «überzeugen» sull’esatta applicabilità della norma alla fattispecie concreta quanto, piuttosto, quello di «überreden» gli animi dei giurati sulla probità dell’accusato, anche se è necessario precisare che l’uditorio cui era volta l’attenzione dell’oratore era composto da «men possessing the level of familiarity with Roman Law that the typical Roman rhetorical education supplied». Dire che l’oratore destinasse le sue argomentazioni alla giuria può sembrare un’affermazione ovvia sulla quale, comunque, mi sembra opportuno soffermarmi brevemente. Due passi del Brutus ciceroniano (200; 290) indurrebbero a pensare che l’orator non si rivolgesse propriamente alla giuria quanto piuttosto alla corona di curiosi che assisteva al dibattimento; ma a ben vedere mi sembra possa condividersi pienamente la tesi dell’Alexander quando sostiene che il punto di vista di Cicerone: «is not that the orator should play to the gallery. Rather, in order for oratory to be judged effective, it must engage and mantain the interest of those who are not experts in rhetoric, and this interest is registered in, or fails to be registered in, the reaction of laypeople»: M.C. ALEXANDER, The Repudiated Technicality, cit., 62. Secondo D.H. BERRY, Cicero. Pro P. Sulla Oratio, Cambridge, 1996, p. 198, la preoccupazione principale degli oratori era di persuadere non solo i giurati, ma altresì il pubblico comune che assisteva alla causa.

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est difficile oratori eius partis, quamcumque defendet, auctorem aliquem invenire; a quo cum amentatas hastas acceperit, ipse eas oratoris lacertis viribusque torquebit. Nisi vero – bona venia huius optimi viri dixerim – Scaevolae tu libellis aut praeceptis soceri tui causam M’. Curi defendisti, non adripuisti patrocinium aequitatis et defensionem testamentorum ac voluntatis mortuorum 76, ed in Cic., De or. 1.250: Ac si iam sit causa aliqua ad nos delata obscurior, difficile, credo, sit, cum hoc Scaevola communicare; quamquam ipsi omnia, quorum negotium est, consulta ad nos et exquisita deferunt […] 77. Se i giuristi professavano diversas inter se opiniones, la loro assidua frequentazione del Foro era funzionale all’affermazione in sede giudiziaria della rispettiva opinio, che altrimenti sarebbe rimasta relegata alla mera disputa scientifica. Non sarebbe stata possibile una disputatio fori che non fosse finalizzata al far prevalere una tra le molteplici interpretationes di matrice giurisprudenziale vertenti sulla lis 78 e, di conseguenza, volta a suffragare una domanda giudiziale sulle altre. Nella prospettiva di Letizia Vacca nella formazione del diritto giurisprudenziale il momento più rilevante dell’attività del giurista può individuarsi nella «diagnosi giuridica del caso concreto» che costituisce una operazione preliminare rispetto alla decisione. Nelle parole 76

Antonio accetta la presenza del ius controversum senza proporsi di ricondurlo a un ordine, ma dichiarando che l’oratore può padroneggiarlo semplicemente con le armi dell’argomentazione, sul punto, v. M. TALAMANCA, Problemi del ‘de oratore’, in Roma e America. Diritto romano comune, XVII/2004, pp. 13 ss. 77 Nel passo la riflessione di Antonio si concentra sull’inutilità per l’oratore dell’apprendimento del diritto civile, contortas res et saepe difficiles. Egli rifiuta l’idea che, pur senza averli studiati, l’oratore possa ben riuscire a comprendere le leges e gli hominum peritorum responsa. Dunque, nota, sarà sufficiente conoscere quel tanto di diritto ne in nostra patria peregrini atque advenae esse videamur: un rimando implicito all’idea che il ius fosse un elemento identititario della romanità, almeno per quanti si riconoscevano nei valori del ceto dirigente romano, non conoscerlo, non sapersi almeno orientare tra i suoi rudimenti, equivaleva ad essere peregrini nella propria città, cfr. da F. TAMBURI, Il ruolo del giurista, cit., p. 142. 78 M. ZABLOCKA, La costituzione del «cognitor» nel processo romano classico, in Index, 12/1984, p. 140: «con il termine lis, nel suo significato non tecnico, si indicava ogni controversia, ogni vertenza: “itaque quibus res erat in controversia ea vocabatur lis” (Varr., L. l. 7.93). Ma, oltre che “lite”, “controversia”, “processo”, “vertenza legale”, “lis” indicava anche l’“oggetto” della vertenza».

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della studiosa «il diritto romano, che non è solo un diritto giurisprudenziale, ma è un diritto casistico-giurisprudenziale, è il risultato di un’interpretazione che possiamo definire ‘decisoria’, in quanto si rivolge non ad una elaborazione ‘teorica’ ma ‘pratica’, diretta ad individuare le ‘migliori’ soluzioni per la regolamentazioni di situazioni concrete» 79. Il responsum, dunque, ha come interlocutore diretto e non ultimo proprio il iudex 80, mirando a persuaderlo anziché a far valere il proprio carattere autoritativo: in altri termini, come è stato rilevato dallo Stolfi e dal Lantella, il parere giurisprudenziale ha nei confronti del iudex una valenza suasoria e non iussiva 81, non vincolando all’osservanza di una decisione, ma piuttosto mirando a convincere sulla sua intrinseca correttezza alla luce delle rationes che vi erano sottese.

6. L’officium del giudicante nel processo privato romano. Il tema centrale della nostra riflessione, circa la natura controversiale del diritto romano come ius affidato anche alle decisioni dei giudici e non solo ai giuristi, richiede certo una ricognizione, sia pure sommaria, alla luce delle ricerche più recenti, intorno a coloro che occasionalmente erano chiamati a rivestire l’officium del giudicante nei processi privati romani 82. Significativo, al riguardo, il seguente passo ciceroniano dove il giudice viene tratteggiato come “strumento vocale del diritto”: Cic., Caec. 70-73 83: Nam qui ius civile contemnendum putat, is vincula 79

L. VACCA, Interpretatio e caso concreto, cit., p. 41. Si veda Gai 1.7: Responsa prudentium sunt sententiae et opiniones eorum, quibus permissum est iura condere. Quorum omnium si in unum sententiae concurrunt, id, quod ita sentiunt, legis vicem optinet; si vero dissentiunt, iudici licet quam velit sententiam sequi; idque rescripto divi Hadriani significatur. 81 L. LANTELLA-E. STOLFI, Profili diacronici di diritto romano, Torino, 2005, pp. 171 ss. 82 Per una attenta analisi dell’officium iudicandi, in particolare sotto l’aspetto delle cause di esenzione, si veda il rececente contributo offerto da N. RAMPAZZO, Osservazioni sulle cause di esenzione dall’“officium iudicandi”, in L. GAROFALO (a cura di), Il giudice privato nel processo civile romano. Omaggio ad Alberto Burdese, III, Padova, 2015, pp. 491 ss. 83 Il passo rappresenta secondo lo Schiavone «il luogo di fondazione del discorso occidentale sulla neutralità del diritto»: A. SCHIAVONE, Ius. L’invenzione del diritto, cit., p. 250; una attenta analisi del brano ciceroniano è offerto da F. TAMBURI, Il ruolo del giurista, cit., pp. 27 nt. 68, 31 ss., 44. 80

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revellit non modo iudiciorum sed etiam utilitatis vitaeque communis; qui autem interpretes iuris vituperat, si imperitos iuris esse dicit., de hominibus, non de iure civili detrahit; sin peritis non putat esse obtemperandum, non homines laedit, sed leges ac iura labefactat. Quod vobis venire in mentem profecto necesse est, nihil esse in civitate tam diligenter quam ius civile retinendum. Etenim hoc sublato nihil est qua re exploratum cuiquam possit esse quid suum aut quid alienum sit, nihil est quod aequabile inter omnis atque unum omnibus esse possit. [71] Itaque in ceteris controversiis atque iudiciis cum quaeritur aliquid factum necne sit, verum an falsum proferatur, et fictus testis subornari solet et interponi falsae tabulae, non numquam honesto ac probabili nomine bono viro iudici error obici, improbo facultas dari ut, cum sciens perperam iudicarit, testem tamen aut tabulas secutus esse videatur. In iure nihil est eius modi, recuperatores, non tabulae falsae, non testis improbus, denique nimia ista quae dominatur in civitate potentia in hoc solo genere quiescit; quid agat, quo modo adgrediatur iudicem, qua denique digitum proferat, non habet. [72] Illud enim potest dici iudici ab aliquo non tam verecundo homine quam gratioso: “Iudica hoc factum esse aut numquam esse factum; crede huic testi, has comproba tabulas”; – hoc non potest: “Statue cui filius agnatus sit, eius testamentum non esse ruptum; iudica quod mulier sine tutore auctore promiserit, deberi.” Non est aditus ad huiusce modi res neque potentiae cuiusquam neque gratiae; denique, quo maius hoc sanctiusque videatur, ne pretio quidem corrumpi iudex in eius modi causa potest. [73] Iste vester testis qui ausus est dicere fecisse videri eum de quo ne cuius rei argueretur quidem scire potuit, is ipse numquam auderet iudicare deberi viro dotem quam mulier nullo auctore dixisset […]. La quotidiana giustizia del fatto rappresenta il compito fondamentale, e più prezioso, affidato all’opera dei giuristi, massima deve essere la cura da rivolgere al diritto civile che rappresenta la garanzia più tenace della collettività. In questa attività di tutela della civitas svolgono un ruolo primario i giudici la fisionomia dei quali, sebbene nella pratica dei tribunali non ne potessero mancare di disonesti, normalmente rispondeva a quella di privati cittadini, con peculiari qualità personali, estratti dall’album iudiciorum selectorum preparato dal pretore con nomi di persone rispettabili, di fama irreprensibile, con adeguata posizione sociale, di condotta improntata a senso del bene, ragionevolezza e giustizia, nonché indipendenti e ricchi in una misura tale da non essere esposti alle intimidazioni o alle lusinghe della corruzione 84. 84

Cfr. C. VENTURINI, La responsabilità del giudice in età classica tra negligenza e corru-

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La testimonianza oraziana, al riguardo, è molto eloquente nel rappresentare la figura del iudex 85 tra gli esempi di vir bonus 86, che in quanto tale doveva essere, tra l’altro, necessariamente terzo rispetto alle parti 87: Hor., epist. 1.16.40: “Vir bonus est quis? ‘Qui consulta patrum, qui leges iuraque seruat, quo multae magnaeque secantur iudice lites, quo res sponsore et quo causae teste tenentur” 88. zione, in Index, XLI/2013, pp. 455 ss.; R. SCEVOLA, La responsabilità del ‘iudex privatus’, Milano, 2004, p. 540; L. DE GIOVANNI, Istituzioni scienza giuridica codici nel mondo tardo antico. Alle radici di una nuova storia, Roma, 2007, pp. 281 e nt. 334; R. LAMBERTINI, Cons. 8: il ‘vetus iurisconsultus’e il giudice in causa propria (Aspetti della responsabilità del giudice nel tardoantico), in Atti del Convegno, Princìpi generali e tecniche operative del processo civile romano nei secoli IV-VI d.C., Parma 18-19 giugno 2009, Parma, 2010, spec. pp. 91 ss. 85 Circa la preparazione dei giudici F. SCHULZ, Storia della giurisprudenza romana, trad. it. G. NOCERA, Firenze, 1968, p. 9: «il iudex classico non era un giurista, o lo era soltanto per accidens: ad occhi romani la conoscenza professionale del diritto non era parte delle sue qualificazioni; egli era il rappresentante del senso comune». 86 Delinea una fisionomia di vir bonus con un’attenzione rivolta a taluni profili particolari B. ALBANESE, La sponsio processuale sulla qualifica di vir bonus, in SDHI, 60/1994, pp. 135 ss.; si riallaccia a questo studio G. FALCONE, L’attribuzione della qualifica di ‘vir bonus’ nella prassi giudiziaria di età repubblicana (a proposito di Cato, or. Frg. 186 Sblend. = 206 (Malc.), in AUPA, LIV/2010-2011, pp. 60 ss.; interessanti sul punto i contributi raccolti in A. LOVATO (a cura di), Vir bonus. Un modello ermeneutico della riflessione giuridica antica. Incontro di studio, Trani, 28-29 ottobre 2011, Bari, 2013, pp. 19 ss., di particolare interesse ai nostri fini il saggio ivi contenuto di G. FALCONE, L’attribuzione della qualifica di ‘vir bonus’nella prassi giudiziaria d’età repubblicana. Con un’appendice su optimum, probus, fortis, pp. 39 ss., in cui l’Autore amplia l’articolo già citato in questa nota. 87 La terzietà dell’organo giudicante nel pensiero, ad esempio, di Cicerone è funzionalmente connessa e complementare alla parità d’armi ed alla identità di status tra accusatore ed accusato, sul punto cfr. P. CERAMI, «Aequum iudicium» e «giusto processo». Prospettive romane e moderne, in P. CERAMI-G. DI CHIARA-M. MICELI (a cura di), Profili processualistici dell’esperienza giuridica europea. Dall’esperienza romana all’esperienza moderna, Torino, 2003, p. 10. Lo studioso sottolinea che «per Cicerone non sussiste effettiva terzietà qualora il collegio giudicante risulti composto in modo diverso da quello previsto dalla legge istitutiva (arg. da pro Cluent. 34.92), ovvero nel caso in cui risulti attribuito all’accusatore un ruolo preminente e determinante nella costituzione dello stesso collegio (arg. da pro Planc. 15.36; 16.38-40), contrariamente ad un capitale principio dei maiores, in base al quale può essere giudice soltanto colui sul quale i contendenti si siano accordati: ‘ne pecuniam quidem de re minima esse iudicem, nisi qui inter adversarios convenisset’ (pro Cluent. 43.120)»: ibidem. 88 Il più recente richiamo giuridico a questo passo della satira oraziana si trova in G. FALCONE, La formula “ut inter bonos bene agier oportet et sine fraudatione” e la nozione di “vir bonus”, in Fundamina. A journal of legal History, 20/2014, p. 272. Per una attenta analisi giuridica del corpus oraziano v. R. HASSAN, La poesia e il diritto in Orazio, Tra autore e pubblico, Napoli, 2014, pp. 1 ss.

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Ciò detto, alla domanda se esistesse una “categoria sociale generale” cui appartenevano gli individui che ricoprivano l’incarico di giudici, la risposta in dottrina è stata sempre piuttosto univoca: per tutti, il Burdese 89, partendo dagli studi compiuti dal De Martino 90, parla di «normale appartenenza del giudice ad elevati ceti sociali». Sulla stessa linea si dipana la lista di iudices redatta dal Collinet 91, il quale, utilizzando fonti giuridiche e letterarie della tradizione manoscritta, ha, di fatto, ampliato una lista di giudici più circoscritta predisposta nel 1886 dal Ubbelohde 92, nella quale compaiono personaggi di altissimo ordine e di primo profilo: Publio Mucio Scevola, Caio Mario, Marco Porcio Catone (padre dell’Uticense), Caio Aquilio Gallo, Marco Tullio Cicerone, Publio Ovidio Nasone, Plinio il Giovane, Aulo Gellio. Se un simile elenco parebbe confermare in pieno l’ipotesi di giudici civili contraddistinti sempre da un alto status sociale e da competenza giuridica, in realtà, in una recente indagine, il Gagliardi 93 ha evidenziato come vi siano molte fonti letterarie che consentono di ricavare ulteriori preziose informa89 A. BURDESE, Sulla responsabilità del ‘iudex privatus’nel processo formulare, in Diritto e processo nell’esperienza giuridica romana, Napoli, 1994, pp. 153-186, in part. 185 (= ID., Miscellanea romanistica, Madrid, 1994, pp. 77 ss.). 90 F. DE MARTINO, ‘Litem suam facere’, in BIDR, 91/1988, pp. 1 ss., part. 35 (= ID., Diritto, economia e società nel mondo romano, I, Napoli, 1995, pp. 687 ss.). 91 P. COLLINET, Le rôle des judges dans la formation du droit romain classique, in Recueil Gény, I, Paris, 1934, pp. 23 ss., spec. p. 25, per il quale «mais, qu’il soit choisi au gré des parties ou qu’il soit pris sur l’album iudicum, le iudex unus normalement ne sera pas à un home sans conassaince juridique ou au moins sans l’expèrience des affaires ou sans culture, pas plus que les plaideurs d’aujourd’hui ne prendraient pour arbiter le premiere venu. Au second cas, les jurès de l’album sont par leurs titres meme, des personages qualifies et ayant, comme les Romains bion nés, étudié le droit ou au moins la rhétorique». Con la affermazione del Collinet si confronti B. FRIER, The Rise of the Roman Jurists. Studies in Cicero’s Pro Caecina, Princeton, 1985, p. 199: «During the late Republic, private lawsuits were usually decided by members of Rome’s upper classes, who were chosen for this role because of their status»; da ultimo cfr. L. GAGLIARDI, La figura del giudice privato del processo civile romano. Per un’analisi storico-sociologica sulla base delle fonti letterarie (da Plauto a Macrobio), in E. CANTARELLA-L. GAGLIARDI (a cura di), Diritto e teatro in Grecia e a Roma, Milano, 2007, p. 199, dal quale si ricava buona parte della bibliografia quivi citata. 92 Come osserva il Gagliardi (La figura del giudice privato, cit., 200 nt. 6), il Collinet aveva ampliato una lista di iudices predisposta da A. Ubbelohde in O.E. HARTMANN, Der ordo judiciorum und die iudicia extraordinaria der Römer, hrsg. von A. UBBELOHDE, Göttingen, 1886, 557-569 (cfr. P. COLLINET, Le rôle des juges, cit., p. 30 nt. 7). Un altro nome di giudice (Caius Blossius Celadus) è stato possibile conoscere in età successiva a quella in cui investiga il Collinet, grazie alla testimonianza epigrafica di TPSulp. 31. 93 L. GAGLIARDI, La figura del giudice privato, cit., 199 ss.

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zioni sulla persona del iudex privatus, permettendo di aggiungere qualche altro nome di giudicante in calce agli elenchi redatti dal Ubbelohde e dal Collinet. Queste fonti presentano indizi circa l’esistenza di un “mondo sommerso” di giudici, parallelo a quello che emerge dalla tradizione letteraria colta e che si palesa, particolarmente, nelle commedie di Plauto 94 e di Terenzio 95. A ciò va aggiunto quanto ci riporta Giovenale nella sua settima satira: Iuv., sat. vv. 7.115-117: […] Consedere duces, surgis tu pallidus Aiax / dicturus dubia pro libertate bubulco / iudice […], dove si ricorda al difensore in giudizio come dopo essersi faticosamente formato nelle scuole retoriche 96 si ritroverà immancabilmente a discutere al cospetto di un giudice del tutto ignorante di diritto (bubulco iudice). Anche nelle Verrine di Cicerone si ha l’opportunità di incontrare nuove figure di giudici che vengono indicati nominativamente e sebbene – evidenzia il Gagliardi 97 – non si tratti propriamente di figure di iudex unus, come tutti quelli fatti rientrare dal Collinet nel proprio elenco, bensì di recuperatores, possono comunque essere forieri di utili informazioni circa lo status sociale dei giudici in generale, almeno nella provincia di Sicilia. Quali persone dunque venivano nominate da quello che l’Arpinate non mancherà di indicare nella sua accusa come labem atque perniciem provincia Siciliae 98? Si trattava di giudici scelti da Verre tra i membri della sua 94

Plaut., Merc. 272-273; 277-278; Rud. 1378-1384. Ter., Heaut. 498-502. Il Gagliardi precisa come sia nelle commedie plautine che in quelle terenziane «nulla è reale e tutto è immaginario, ma è comunque evidente che ogni rappresentazione teatrale deve, entro certi limiti, rispecchiare la realtà e perciò, fintantoché sia presumibile l’appiglio con il reale, può essere compiuto un uso accorto e critico delle rappresentazioni di fantasia»: L. GAGLIARDI, La figura del giudice privato, cit., p. 202. 96 Agli strali scagliati da Giovenale contro i giudici ignoranti si aggiungano quelli che il poeta riserva alle scuole provinciali di retorica, che erano di pessimo livello, in quanto rette da 95

maestri impreparati, tali da spingere gli allievi non solo a schernirli, ma, addirittura, a percuoterli, v. J.R.C. MARTYN, Juvenal on Latin Oratory, in Hermes, 92/1964, p. 122 nt. 4. 97

L. GAGLIARDI, La figura del giudice privato, cit., p. 203. Cic., Verr. 1.1. Sulla scelta dei vocaboli utilizzati per descrivere l’imputato o meglio la condotta moralmente deprecabile di quest’ultimo è interessante quanto nota la Citroni Marchetti: «la partecipazione civile che già nella Pro Roscio l’oratore porta alla causa diviene intenso coinvolgimento personale nelle Verrinae. Ciò determina anche un cambiamento nel modo di descrizione dell’accusato, del malvagio. Poiché l’oratore stesso si modifica e la sua psicologia si determina attraverso il rapporto con l’altro, la rappresentazione 98

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corte: l’aruspice Volusio e il medico Cornelio Artemidoro di Perga 99; il banditore Valerio 100; il pittore Tlepolemo Cornelio ed altri 101. Si trattava certo di cives romani, molti dei quali schiavi liberati, e comunque tutti di origine modestissima 102, tanto che Cicerone ricorda ironicamente che solo ai casi più complessi era riservata l’autorevolezza di Papirio Potamone, Cassianus iudex, homo severus, ex vetere illa equestri disciplina 103. Simili osservazioni circa l’estrazione dei giudici e la loro inesistente preparazione tecnica, dolosamente predisposta dal potente del momento, vengono fatte da Cicerone nelle Filippiche, nei passi in cui l’oratore contesta la riforma di Antonio, che aveva introdotto una terza decuria oltre alle due dei senatori e dei cavalieri, da cui nominare i giudici. Precisa Cicerone che, in modo simile a quanto aveva fatto Verre, anche Antonio aveva inserito nella lista ballerini (saltatores) e suonatori di cetra (citharistas), insomma tutti i suoi compagni di baldorie, come si legge in Cic., Phil. 5.6: Atque ego de notis iudicibus dixi: quos minus nostis nolui nominare: saltatores, citharistas, totum denique comissationis Antonianae chorum in tertiam decuriam iudicum scitote esse coniectum […] 104. di entrambi ne risentirà: emergeranno, in particolare, gli elementi di emotività. Ciò è visibile già nella Divinatio in Caecilium, nell’impostazione del rapporto con Verre. I tratti negativi di Verre sono quelli usuali: luxuries, crudelitas, avaritia, cupiditas, audacia, scelus. Nuovo, e pertinente alla sua potenza pubblica, ufficiale, è il tratto della superbia. La parola che Cicerone sceglie come definitoria è improbitas: Verre rappresenta l’improbitas stessa, la disonestà malvagia che l’oratore si assume il compito di cancellare dallo stato romano»: S. CITRONI MARCHETTI, L’avvocato, il giudice, il «reus» (la psicologia della colpa e del vizio nelle opere retoriche e nelle prime orazioni di Cicerone), in Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici, 17/1986, p. 114. 99 Cic., Verr. 2.3.11.28. 100 Cic., Verr. 2.3.21.54. 101 Cic., Verr. 2.2.38.69. 102 Cfr. L. GAGLIARDI, La figura del giudice privato, cit., p. 204; M. GENOVESE, Gli interventi interdittali di Verre in materia di decime sicule, Milano, 1999, pp. 99 ss. per cui l’impressione che si trae dal contensto complessivo è che l’oratore intendesse sottolineare a fini spregiativi l’origine straniera di tali soggetti, piuttosto che affermare che erano stranieri. 103 Cic., Verr. 2.3.60.137. 104 Cfr. L. GAGLIARDI, La figura del giudice privato, cit., p. 204. «La parola decuria, che propriamente significa ‘decuria’, o “gruppo di dieci”, è qui usata in senso tecnico, come ‘collegio’, ‘gruppo’, ‘categoria’, non sempre costituita da dieci componenti, e formata da coloro che sarebbero potuti essere membri di corti giudicanti. Si tratta quindi, in questo caso, a differenza che negli esempi considerati nelle Verrine, non di giudici effettivi, ma di poten-

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In molti casi, poi, i giudici provenivano dai piccoli centri e Quintiliano (Inst. 4.2.45) 105 si lamenta del fatto che […] iudicem rura plerumque in decurias mittant […] 106, ma la nomina a questo officium rappresentava in età imperiale, come ricorda il Venturini, «una specie di medaglietta, riservata a chi non poteva ottenere cariche pubbliche significative. Egli era, dunque, saepius ineruditu[s] (Quint., Inst. 10.1.32) e la sua attenzione doveva essere catturata al momento giusto, perche facilmente si distraeva» 107. Anche Plinio il Giovane, in alcuni luoghi del suo ricco epistolario 108, ziali giudici: soggetti iscritti nelle liste, pronti a diventare giudici in caso di nomina ex albo. Si osserva che costoro, pur essendo solo ballerini oppure suonatori di cetra, erano stati ritenuti portatori di requisiti che ne avevano giustificato l’iscrizione nelle liste»: op. cit., p. 205 nt. 29. 105 Quint., Inst. 4.2.45: Quare vitanda est etiam illa Sallustiana (quamquam in ipso virtutis optinet locum) brevitas et abruptum sermonis genus: quod otiosum fortasse lectorem minus fallat, audientem transvolat, nec dum repetatur exspectat, cum praesertim lector non fere sit nisi eruditus, iudicem rura plerumque in decurias mittant de eo pronuntiaturum quod intellexerit, ut fortasse ubique, in narratione tamen praecipue media haec tenenda sit via dicendi: “quantum opus est et quantum satis est”. 106 Per quanto riguarda, specificamente, la figura del giudice nell’opera quintilianea di particolare interesse è I. MASTROROSA, Quintilian and the Judges. Rhetorical Rules and Psychological Strategies in the 4th Book of the Institutio oratoria, in O. TELLEGEN-COUPERUS (ed.), Quintilian and the Law. The Art of Persuasion in Law and Politics, Leuven, 2003, pp. 67 ss. dove si precisa come Quintiliano consigli ai propri lettori di utilizzare nei confronti dei giudici che non sono tecnici del diritto sia tecniche squisitamente psicologiche basate sulle passioni umane, sia strumenti appartenenti alla logica retorica, ed infatti «In addition to the suggestions useful for under standing the value attribuited by Quintilian to the use of psycological strategies most suited to win the indulgence and good-will of the judge, as we have seen, especially in the exordium phase of an orator’s speech, Boox IV of the Institutio oratoria also contains advice for making the judge well-disposed through the use of rhetorical tecniques»: op. cit., p. 76. 107 C. VENTURINI, L’argomentazione giuridica: dalla retorica classica alla moderna argomentazione, in A. MARIANI MARINI-F. PROCCHI (a cura di), L’argomentazione e il metodo della difesa, Pisa, 2004, p. 30. Circa l’evoluzione della figura dello iudex in epoca posteriore, cfr. S. BARBATI, I iudices ordinarii nell’ordinamento giudiziario tardoromano, in Jus, LIV.1/2007, pp. 67 ss.; ID., Sugli elenchi degli organi giudiziari in età giustinianea, in Jus, LVII.1-2/2010, pp. 37 ss.; ID., Giudici delegati e giudici locali nel diritto giustinianeo, in J.H.A. LOKIN-B.H. STOLTE (a cura di), Introduzione al diritto bizantino. Da Giustiniano ai Basilici, Pavia, 2011, pp. 467 ss. 108 La natura dell’epistolario pliniano è stata al centro di un lungo dibattito tra quanti sostengono che sono lettere reali, successivamente riviste e pubblicate, e coloro che invece credono che si tratti di brevi composizioni letterarie, destinate alla pubblicazione sin dalla prima redazione. Simile questione sollevata dal H. PETER, Der Brief in der römischen Litteratur. Litterargeschichtliche Untersuchungen und Zusammenfassungen, Leipzig, 1901, pp.

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denunzia il carattere sovente impenetrabile, incerto ed ingannevole, delle disposizioni d’animo dei giudici (Plin., epist. 1.20.17) 109, la fragilità del loro senso di giustizia e di severità, talvolta sensibile perfino ad un eccessivo prolungarsi del procedimento, come in: Plin., epist. 3.9.19: “[…] Actione tertia commodissimum putavimus plures congregare, ne, si longius esset extracta cognitio, satietate et taedio quodam iustitia cognoscentium severitasque languesceret […]”. L’epistolografo consiglia di evitare di opprimere il giudice con una mole eccessiva di argomentazioni che potrebbero annoiarlo trattandosi sostanzialmente di un ignorante del diritto, dinnanzi al quale le finezze giuridiche vanno sprecate 110. Da queste testimonianze veniamo a conoscenza di un mondo sommerso di giudici che la storiografia tradizionale, apparentemente, non ci tramanda, ma che, invece, si rivela ad un esame approfondito ed attento delle fonti, nelle quali sembrano contrapporsi due distinte visioni della figura del 101 ss., ha visto, tra gli altri, gli interventi di R. MEISTER, Zur Frage des Kompositionsprinzip in den Brief des Plinius, in Χάρισμα. Festgabe zur 25 jährigen Stiftungsfeier des Vereines klassicher Philologen, Wien, 1924, pp. 28 ss.; E. NORDEN, Die antike Kunstprosa, I, Berlin, 1923, pp. 318 ss.; A.M. GUILLEMIN, Pline et la vie littérarie de son temps, Paris, 1929, pp. 134 e 146 ss.; H.W. TRAUB, Pliny’s Treatment of History in Epistolary Form, in TAPhA, LXXXVI/1955, pp. 213 ss.; A.N. SHERWIN-WHITE, The Letters of Pliny. A Historical and Social Commentary, Oxford, 1966, pp. 1 ss.; ID., Pliny the Man and his Letters, in Greece and Rome, XVI/1969, pp. 77, 83; ID., Fifty Letters of Pliny, Oxford, 19692, pp. XV ss., 73; E. PARATORE, La letteratura latina in età imperiale, Firenze, 1969, pp. 202 ss.; F. TRISOGLIO, La personalità di Plinio il Giovane nei suoi rapporti con la politica, la società e la letteratura, Torino, 1972, pp. 175 ss., sembra oggi definitivamente risolta «con il carattere non fittizio del carteggio pliniano il quale, anche se venne rivisto prima della pubblicazione, non per questo ha perso l’originale sincerità»: G. PICONE, L’eloquenza di Plinio, Palermo, 1978, p. 11 nt. 1. Circa l’utilizzo dell’epistolario per l’analisi delle istituzioni giuridiche del tempo, esso rivela, osserva la Starace, «ad uno sguardo generale, la peculiare duplicità di piani su cui si svolge la riflessione del suo autore quando deve affrontare e risolvere una questione controversa. Da un lato emerge il piano normativo e formalistico, e, dall’altro, si sposta di frequente il discorso sul piano etico, fuori da rigorosi schemi interpretativi»: P. STARACE, Plinio il Giovane e l’interpretazione di un testamento, in Index, 25/1997, p. 537. 109 Plin., epist. 1.20.17: Neque enim minus imperspicua incerta fallacia sunt iudicum ingenia quam tempestatum terrarumque. Nec me praeterit summum oratorem Periclen sic a comico Eupolide laudari: “πρὸς δέ γ᾽ αὐτοῦ τῷ τάχει πειθώ τις ἐπεκάθητο τοῖσι χείλεσιν. οὕτως ἐκήλει, καὶ μόνος τῶν ῥητόρων τὸ κέντρον ἐγκατέλειπε τοῖς ἀκροωμένοις. 110 Testimonianze di giudici crapuloni e rozzi sono rinvenibili, per completezza, anche in Macr., Sat. 3.16.14-16.

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giudicante: da un lato, attestazioni di profonda stima, fiducia, integrità morale, dall’altro immagini descrittive e concrete di giudici, che perdono quell’aura di perfezione morale e si rivelano di bassi costumi e capaci di comportamenti censurabili. Occorre domandarsi quale dei due fosse il giudice più comune: probabilmente i giudici romani dovevano essere eterogenei, potevano appartenere a ciascuna delle classi sociali descritte, potevano essere ricchi o poveri, colti o incolti, urbani o rustici. Esistevano, quindi, categorie di giudici romani profondamente diverse tra loro, sebbene a noi siano giunte maggiormente le attestazioni di iudices appartenenti all’upper-class della società di allora, ai quali venivano rimesse le cause importanti e celebri: celebri o per la fama delle parti o per l’importanza di coloro che vi recitavano le arringhe; oppure celebri per il loro contenuto e per la materia che vi era discussa. Quando non si stratta di cause celebri ne veniamo a conoscenza per ragioni eminentemente autobiografiche, perché chi fu chiamato ad esservi giudice decise di raccontare in prosa o in versi o in forma epistolare di quella sua esperienza e così la notizia è stata tramandata ai posteri: si veda l’esempio di Aulo Gellio 111. Pare di poter argomentare con qualche tranquillità che si possano individuare articolate condizioni di status all’interno della categoria ipotetica del giudice romano: modelli eterogenei che convivevano e sedevano sui medesimi subsellia, ma che trattavano cause di materie, di valore e su argomenti diversi, che venivano aditi da coppie di litiganti appartenenti a classi sociali differenti, che ascoltavano avvocati di condizione e cultura eterogenee. Per questi giudici di condizione humiliores è ipotizzabile una latitudine di discrezionalità difficilmente limitabile dalle opiniones dei giuristi dotati di autorevolezza. Proprio in ragione della sua estrazione, non necessariamente colta né tanto meno tecnica, è frequentemente attestata nelle fonti letterarie quella che possiamo chiamare l’imperitia iuris del giudice, di cui il caso più significativo a noi tramandato è quello descritto nelle Notti Attiche gelliane (12.13), innanzi alla cognitio extra ordinem 112. Questa connotazione del sistema pro111

Sia nella sua funzione di iudex nel processo per formulas che in quello per cognitionem, rispettivamente Gell. 14.2; 12.13. 112 Nello specifico i consoli avevano delegato Gellio a pronunziarsi sulla lite intra Kalendas, ma Gellio non «è in grado di gestire questo termine perché non sa computarlo: ignora, cioè se il dies ad quem debba o meno rientrare nel computo. Convinto che la questione investa il piano delle competenze lessicali, chiede consiglio ad un grammatico, Sulpicio Apolli-

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cessuale va ad incidere sul significato ultimo del ruolo del giurista e sul valore di formante del ius civile riconosciuto alla auctoritas prudentium, secondo la scelta terminologica documentata nel papinianeo: D. 1.1.7 pr. (Pap. 2 def.): Ius autem civile est, quod ex legibus, plebis scitis, senatus consultis, decretis principum, auctoritate prudentium venit. Perché se il iudex privatus deriva la propria legalizzazione formale dallo iussum iudicandi 113, e complessivamente dalla datio iudicii, dunque, sotto questo profilo, non soffre di una legittimazione carente, egli viceversa non ha, secondo il giurista, una regolarizzazione sostanziale al fondamento tecnicogiuridico della sentenza, a meno che esso non sia determinante nella sua decisione. È su questo piano certo che a volte interviene il responso del giurista sulla cui auctoritas il giudice può fondare la legittimazione della propria sentenza ed è da questa dinamica che la logica del sistema fa scaturire l’apparente vincolatività del responso: dal combinato disposto tra l’auctoritas del giurista e l’incompetenza tecnica del iudex. Anche se abbiamo casi nei quali, invece, colui che era chiamato a decidere della lite era munito di una salda preparazione giuridica. In proposito possono essere portati due esempi: da un lato quanto accadde ad Aulo Gellio e dall’altro l’espletamento del munus di giudice da parte di Aquilio Gallo. Aulo Gellio in 14.2, nominato iudex in un processo per formulas si trova nella difficile situazione di dover valutare la pretesa di un attore il quale asseriva di essere creditore, nei confronti del convenuto, di una somma di denaro, ma non aveva i mezzi di prova e forniva argomenti molto esili 114. Tuttavia l’attore era riconosciuto comunemente come un vir bonus nare, che era stato suo maestro, il quale si diffonde in attente analisi etimologiche per arrivare a concludere che la richiesta dei consoli era di pronunziarsi esattamente nel giorno delle calende»: P. GIUNTI, Iudex e iurisperitus, cit., p. 57. Per quanto riguarda l’utilizzo dell’opera di Gellio come fonte giuridica v. O. DILIBERTO, Materiali per la palingenesi delle XII Tavole, I, Cagliari, 1992, p. 244; D. NÖRR, L’esperienza giuridica di Gellio (‘Noctes Atticae’ XIV 2), in Atti dei Convegni Lincei, Filellenismo e tradizionalismo a Roma nei primi due secoli dell’Impero, Convegno internazionale, Roma 27-28 aprile 1995, 1996, pp. 33 ss. 113 Sullo iussum iudicandi cfr. M. WLASSAK, Der Judicationsbefehl der römischen Prozesse, Wien, 1921, pp. 26 ss. 114 Sull’episodio, v. R. FIORI, La gerarchia come criterio di verità: ‘boni’ e ‘mali’ nel processo romano arcaico, in C. CASCIONE-C. MASI DORIA (a cura di), Quid est veritas? Un seminario su verità e forme giuridiche, Napoli, 2013, pp. 169 ss. Il lungo passo gelliano fu già oggetto di specifica analisi da parte prima di P. DE FRANCISCI, La prova giudiziale (a propo-

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che godeva di una nota e verificata affidabilità, la cui vita era costellata di comportamenti corretti e sinceri; mentre il convenuto era uno spiantato che conduceva una vita turpe e sordida, speso accusato di dire il falso e aduso a violazioni della fides. Volendo assolvere con scrupolo il proprio compito, nella carenza di insegnanti di diritto, si rivolge a libri sull’officium iudicis, ma non trovando nulla di utile consulta il filosofo Favorino, il quale consiglia di attenersi a quanto suggeriva Catone, che ricorda una regola processuale seguita dai maiores nei giudizi in cui le pretese dell’attore fossero sfornite di prova 115. In questo caso, afferma Catone, in assenza di mezzi probatori occorreva chiedersi se le parti fossero boni o mali: solo quando questa verifica andasse a favore del convenuto o le parti fossero pares si sarebbe potuto procedere all’assoluzione 116. Tuttavia Gellio rinuncia ad impiegare il criterio suggerito in quanto a suo dire sarebbe come tenere una condotta analoga a quella dei censori e pronuncia il giuramento sibi non liquere 117, infatti se si sito di Gellio N.A. 14,2), in Helikon, 1(4)/1961, p. 594 e in séguito di J. ZABLOCKI, Appunti sull’’officium iudicis’nelle ‘Noctes Atticae’, in Au-Delà des frontières. Mélanges de droit romain offerts à Witold Wolodkiewicz, II, Varsavia, 2000, pp. 1115 ss.; V. GIUFFRÈ, «Necessitas probandi». Tecniche processuali e orientamenti teorici, Napoli, 1984, pp. 135 ss., 156 nt. 27; J. PARICIO, Iurare sibi non liquere, in Atti III seminario romanistico gardesano, 22-25 Ottobre 1985, Milano, 1988, pp. 415 ss.; D. NÖRR, Ethik von Jurisprudenz in Sachen Schatzfund, in BIDR, 75/1972, p. 36 nt. 34. 115 Sul punto F.P. CASAVOLA, Giuristi adrianei, Napoli, 1980, 18 ss. e R. MARTINI, La legislazione giudiziaria di Augusto e la durata dei processi, in Seminario Complutense de Derecho Romano, I, Cuestiones de Jurisprudencia y Proceso, Madrid, 1990, 93 ss.; sullo specifico punto della competenza, circa le questioni concernenti i fatti procedurali del contenzioso riferito da Gellio, non si concorda con quanto detto dal Martini in merito al ruolo svolto da Favorino di Arles che non appare in veste di iudex bensì in quella di filosofo, come già ritiene G. POLARA, Autonomia ed indipendenza del giudice nell’evoluzione storica delle forme processuali: “iuravi mihi non liquere”, in E. CANTARELLA (a cura di), Scritti in ricordo di Barbara Bonfiglio, Milano, 2004, pp. 341 nt. 15. 116 Ciò testimonia la vigenza in età tardo repubblicana della regola, risalente ai maiores del processo inteso, seguendo quanto ha scritto il Fiori, come uno «scontro di dignitates»: R. FIORI, Bonus vir. Politica filosofia retorica e diritto nel de officiis di Cicerone, Napoli, 2011, pp. 115 ss. Lo studioso ricorda come la valutazione della dignitas delle parti di un processo imponesse di porre a confronto la dignitas dei testimoni; in assenza di questi, si vagliava direttamente quella delle parti, e a comprovarne la credibilità erano fondamentali, in questo caso, innanzitutto, le figure degli advocati e dei laudatores, la cui stessa dignitas costituiva ulteriore garanzia per quella dei loro assistiti. Entravano, quindi, in campo i mores delle parti in lite e al riguardo, v. E. VOLTERRA, s.v. Iudicium de moribus, in Nuov. Dig. It., IX, Milano, 1963, p. 344. 117 Per uno studio comparatistico tra una pronuncia di non liquet del giudice romano e i sistemi moderni, cfr. G. POLARA, Autonomia ed indipendenza del giudice, cit., 333. Sabino Cassese ha recentemente avvicinato – sebbene in forma dubitativa – il non liquet dello iu-

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fosse sottratto al compito di decidere sarebbe stato colpito o da una nota censoria o da una multa del pretore; se, poi, lo avesse fatto per negligenza dei doveri connessi all’officium, sarebbe incorso nella fattispecie del iudex qui litem suam fecit. Del tutta diversa l’esperienza di Aquilio Gallo narrata da Valerio Massimo (8.2.2), infatti Aquilio Gallo, scientia iuris civilis excellens, risolse mirabilmente una situazione relativa ad un intricato caso di legati, fondando la propria decisione piuttosto che su una rigorosa valutazione tecnica delle circostanze del caso particolare, sulla base di un giudizio fortemente influenzato da premesse valoriali. Val. Max. 8.2.2 118: Notum suis temporibus iudicium commemoravi, sed ne quod relatus quidem sum obliteratum silentio. C. Visellius Varro graui morbo correptus trecenta milia nummum ab Otacilia Laterensis, cum qua commercium libidinis habuerat, expensa ferri sibi passus est eo consilio, ut, si decessisset, ab heredibus eam summam peteret, quam legati genus esse voluit, libidinosam liberalitatem debiti nomine colorando. Evasit deinde ex illa tempestate aduersus uota Otaciliae. Quae offensa, quod spem praedae suae morte non maturasset, ex amica obsequenti subito destrictam feneratricem agere coepit, nummos petendo, quos ut fronte inverecunda, ita inani stipulatione captaverat. De qua re C. Aquilius vir magnae auctoritatis et scientia iuris civilis excellens iudex adductus adhibitis in consilium principibus civitatis prudentia et religione sua mulierem reppulit. Quod si eadem formula Varro et damnari et aduersaria absolui potuisset, eius quoque non dubito quin turpem et inconcessum errorem libenter castigaturus fuerit: nunc privatae actionis calumniam ipse conpescuit, adulterii crimen publicae quaestioni vindicandum reliquit. Dinanzi alla constatazione di motivi di riprovevolezza dei comportamenti di entrambe le parti, la scelta che apparve ad Aquilio Gallo giuridicamente ammissibile fu perciò quella di decidere a favore del convenuto in ragione della natura turpis della stipulatio alla base della vicenda. Dunque, dex romanus al filtro di giudicabilità dei sistemi di common law in S. CASSESE, Dentro la Corte. Diario di un giudice costituzionale, Bologna, 2015, 13. Una analisi del passo gelliano utile ai nostri fini si trova in V. GIUFFRÈ, ‘Necessitas probandi’, cit., pp. 135 ss. 118 Il brano è stato approfonditamente analizzato da A. CORBINO, Il caso di Vitellio Varrone e Otacilia Laterense (Val. Max. 8.2.2), in ‘Iuris Vincula’. Studi in onore di Mario Talamanca, II, Napoli, 2001, pp. 249 ss.

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il giudice si agganciava al carattere turpe della stipulatio come causa di nullità della stessa, tesi che, al tempo della lite, doveva ricondursi a risalenti convinzioni, forse affermatesi in termini di ius controversum. È stato argomentato dalle testimonianze appena riportate che il giudice non era mai libero di decidere in maniera totalmente autonoma e soggettiva, cioè al di fuori di ogni giustificazione di diritto 119. Secondo questa tesi da un punto di vista sostanziale il giudice non poteva non tenere conto del ius receptum; così come non poteva trascurare i vincoli che derivano dal complesso intreccio di relazioni fra giudici e giurisprudenza nelle materie di ius controversum, dove si ricorreva spesso a ‘Leerformeln’ 120 cioè a contenitori vuoti, formule aperte, espressioni come oportere ex fide bona, che non definivano ma individuavano ambiti più o meno larghi di uniformità tali da costringere i giudici ad attenersi a parametri e valori correnti, onde consentire una qualche prevedibilità e certezza delle decisioni. In sostanza, secondo questa tesi, il giudice di per sé non poteva mai fare diritto e doveva invece giudicare sulla base di una valutazione in precedenza già formulata dai giuristi. La sua discrezionalità consisteva semplicemente nell’esercizio del libero convincimento, per un verso entro lo spazio consentito dalle opinioni giurisprudenziali, e per l’altro entro i doveri dell’officium assunto per volontà delle parti, con atto pubblico magistratuale. In realtà non vi sono testimonianze che possano suffragare questa posizione, proprio la natura pattizia della scelta del giudicante chiarisce la facoltà di quest’ultimo a decidere discrezionalmente, utilizzando come ricorda Favorino a Gellio anche strumenti metagiuridici. Anche il caso narrato da Valerio Massimo fa comprendere come si pos119 Così P. STARACE, Giudici e giuristi nel processo civile romano. Nelle pieghe di un circuito normativo, in L. GAROFALO (a cura di), Il giudice privato nel processo civile romano. Omaggio ad Alberto Burdese, II, Padova, 2012, p. 68. 120 M. TALAMANCA, La bona fides nei giuristi romani. Leerformeln e valori dell’ordinamento, in L. GAROFALO (a cura di), Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporaneai, Atti del convegno internazionale di studi in onore di A. Burdese, Padova, Venezia, Treviso, 14-15-16 giugno 2001, IV, Padova, 2003, pp. 1 s.: «tutti i pareri dei giuristi erano diritto, in quanto astrattamente applicabili senza che nessuno potesse imputare al giudice, che avesse scelto l’uno o l’altro, di avere deciso contra ius». Secondo F. GALLO, La recezione moribus nell’esperienza romana: una prospettiva perduta da recuperare, in Iura, LV/2004-2005, pp. 14 s.: «nella prospettiva della recezione moribus il suggerimento proposto dal giureconsulto restava senza effetto, non traducendosi nel ius ravvisato nelle soluzioni concrete. Non esisteva ancora il dovere dei consociati di uniformarsi (il loro assoggettamento) al parere del giureconsulto, per quanto autorevole, dovere sorto più tardi con l’attribuzione del legis vicem optinere alle sententiae et opiniones dei prudentes muniti di ius respondendi».

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sa desumere dalla decisione del giudice di respingere la pretesa attorea, nonostante l’assenza dell’apposita exceptio doli, forse all’epoca non ancora prevista edittalmente, la propensione di chi svolgeva la funzione di giudice, sebbene uomo esperto in diritto, a far valere ragioni equitative che trovavano le loro fondamenta sia nella sensibilità dello iudex che nella recezione di un orientamento giurisprudenziale, intendendo tale espressione in senso moderno, ossia come trend decisionale confermato dagli organi giudicanti.

7. Res iudicatae e tradizione giurisprudenziale. Questa considerazione non può non farci soffermare sulla motivazione delle sentenze emesse dai iudices privati nel periodo del processo formulare, motivazioni che sovente coprivano decisioni assunte sulla scorta di una asserita deontologia sociale. Le fonti riportano con riferimento alla procedura formulare esempi dell’uso di motivare le decisioni e ciò assume particolare significato proprio al fine di investigare sui processi decisionali adottati dai giudici 121. 121

Né dalla formula né da una clausola edittale, né da altra fonte autoritaria può desumersi un obbligo del giudice a pronunziarsi sulla pretesa dell’attore, approvandola o disconoscendola, cioè dotandola di una motivazione. Secondo M. KASER, Das Urteil als Rechtsquelle im römischen Recht, in Festschrift Fritz Schwind zum 65. Geburtstag, Wien, 1978, p. 127: «Die Argument der Juristen dagegen sind den Laien entweder unbekannt oder geistig nur begrenzt zugänglich». Al riguardo M. MARRONE, Sulla struttura della sentenza, motivazione e ‘precedenti’ nel processo privato romano, in L. VACCA (a cura di), Lo stile delle sentenze e l’utilizzazione dei precedenti. Profili storico-comparatistici. Seminario Aristec, Perugia 25-26 giugno 1999, Torino 2000, pp. 21 ss., rileva che l’essenza di un vero e proprio obbligo non implicava che il giudice non potesse motivare la decisione, per quanto sommariamente. Anzi, addirittura sembra possibile riscontrare un mutamente nello stile delle sentenze, da quelle interpretative di età repubblicana a quelle più sinteticamente motivate di età classica. La ragione si suppone sia legata alla circostanza che «non avendo i giuristi mai adottato il punto di vista retorico circa il valore delle sentenze, nel corso dell’età classica l’idea delle res iudicatae quali fonti o exempla si sia andata a poco a poco estinguendo anche nella prassi; e al contempo sia stato sempre meno frequente il caso di sentenze interpretative», ibidem, 34. In M. MARRONE, Contributo allo studio della motivazione della sentenza nel diritto romano, in Mélanges en l’honeeur de C.A. Cannata, Genéve, 1999, 53 ss., lo stesso studioso sulla base delle numerose testimonianze classiche con riferimenti a sentenze corredate di motivazioni espresse afferma: «tutto lascia pensare che quella di motivare la sentenza fosse una prassi costante; per quanto riguarda il processo formulare addirittura sin dai tempi della sua applicazione. Una prassi […] che dovette stimolare i giuristi a prospettare questioni e problematiche nuove»; tali riferimenti bibliografici trovano integrazioni e approfondimento in

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Sul punto appare significativo citare le posizioni di coloro 122 che hanno assunto una posizione di sostanziale svalutazione dei testi nei quali sembra potersi fare riferimento a momenti motivazionali. In ogni caso, queste tesi ammettono comunque l’esistenza di un flusso di argomentazione continua che scaturiva lungo l’itinerario del processo, rappresentando esso stesso un «work in progress» dell’argomentazione 123 stessa, in cui, non a caso le parti venivano rappresentate in causa dalla rispettiva «Vicarious Voice» – per utilizzare una felice definizione coniata dal Crook 124 – rappresentata non dal iurisconsultus bensì, per l’appunto, dall’orator, ossia colui che più di ogni altro era in grado di far emergere dai fatti stessi le ragioni della soluzione desiderata. In realtà, nell’ambito del processo formulare, considerata la sua struttura accusatoria 125, non è possibile rinvenire elementi di motivazione esplicita sia che la si intenda sotto il profilo argomentativo retorico sia sotto il profilo giustificativo logico 126. Nel paradigma confutatorio, infatti, è la decisione, con il suo contesto ricco di giustificazioni implicite di natura valoriale, fattuale, giuridico formale, a rappresentare il momento finale di esercizio della giustizia di reciprocità. Si può, con qualche tranquillità, rivisitare i noti testi in cui la decisione del giudice scaturisce da una evidente semantica di giudizio sulla questione di fatto in rapporto all’etica di valori di riferimento del giudice medesimo. Un esempio è offerto anzitutto dal passo tratto dal de officiis di CiceroP. STARACE, Giudici e giuristi nel processo civile romano, cit., 36 nt. 14 ss. Sul tema della res iudicata oltre alla fondamentale voce di G. PUGLIESE, voce Giudicato (I. Giudicato civile), in Enc. dir., XVIII, Milano, 1969, pp. 727 ss. (= ID., Scritti giuridici scelti, II, Napoli, 1985, pp. 137 ss.) e al contributo dello stesso autore ‘Res iudicata proveritate accipitur’, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2/1967, pp. 503 ss. si rinvia ai contributi contenuti in L. GAROFALO (a cura di), ‘Res iudicata’, I e II, Napoli, 2015, che analizzano il problema del giudicato sotto eterogeni aspetti. 122 B. BISCOTTI, Dispositivo e parte motiva nella sentenza: idee vecchie e nuove, in L. GAROFALO (a cura di), Il giudice privato nel processo civile romano. Omaggio ad Alberto Burdese, I, Padova, 2012, pp. 303 ss. 123 B. BISCOTTI, Dispositivo e parte motiva nella sentenza, cit., p. 329. 124 J.A. CROOK, Legal Advocacy in the Roman World, London, 1995, p. 1. 125 A. GUARINO, Spigolature romanistiche, II, Gli argomenti del giudice, in Trucioli di bottega, IV, Napoli, 2000, pp. 28 ss. (= Trucioli di bottega. Dodici coacervoli, Napoli, 2005, 113 ss.), nonché ID., Diritto Privato Romano12, Napoli, 2001, pp. 11.7 e 13.5. 126 Nel diritto romano la motivazione della sentenza compare, a detta della Biscotti, quando con la procedura della cognitio extra ordinem lo ius non viene più concepito in continuo divenire, ma piuttosto in una prospettiva di staticità e cristallizzazione: B. BISCOTTI, Dispositivo e parte motiva nella sentenza, cit., p. 329.

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ne (3.66) 127, che riporta il noto caso della vendita di una domus sul monte Celio 128, alienata senza informare l’acquirente dell’esistenza di un ordine di demolizione impartito dagli Auguri relativamente ad alcune parti dell’edificio. Dopo aver abbattuto la casa il compratore (P. Calpurnio Lanario) cita in giudizio il venditore (T. Caio Centumalo) – arbitrium illum adegit – ottenendone la condanna perché, come aveva motivato Catone – giudice della controversia – in occasione della vendita non aveva informato l’acquirente dell’ordine di demolizione: Cic., Off. 3.66: Ut, cum in arce augurium augures acturi essent iussissentque T. Claudium Centumalum, qui aedes in Caelio monte habebat, demoliri ea, quorum altitudo officeret auspiciis, Claudius proscripsit insulam [vendidit], emit P. Calpurnius Lanarius. Huic ab Auguribus illud idem denuntiatum est. Itaque Calpurnius, cum demolitus esset cognossetque 127 Per una attenta disamina dell’opera ciceroniana si rinvia all’approfondito studio di R. FIORI, Bonus vir, cit., pp. 12 ss. 128 La vicenda viene ricordata da Cicerone, nel terzo libro del De officiis, all’interno di un approfondimento del rapporto tra utile e onesto, questione fondamentale per la scuola stoica. All’Oratore interessa far emergere la regola giuridica in base alla quale tollendum est igitur ex rebus contrahendis omne mendacium (Cic., Off. 3.15.62). Come scrive il Cardilli: «in questo contesto gli esempi del raggiro di Pythius banchiere siculo ai danni di Canio dell’ordo equester (3.14.58-60), o dello scaltro Claudio Centomalo ai danni di Calpurnio Lanario (3.16.66), o la causa tra Gratidiano ed Orata (3.16.67), evidenziano una coerente rappresentazione del ‘modello’ etico-giuridico, che Cicerone contrappone a quello strettamente connesso alla discussione filosofica, ma da quest’ultima sostanzialmente ricondotto entro l’àmbito del dolo»: R. CARDILLI, Vir bonus e bona fides, in A. LOVATO (a cura di), Vir bonus. Un modello ermeneutico della riflessione giuridica antica, Bari, 2013, pp. 180 s. Sull’episodio si leggano anche i rilievi di F. PROCCHI, ‘Dolus’e ‘culpa in contrahendo’ nella compravendita, in L. GAROFALO (a cura di), La compravendita e l’interdipendenza delle obbligazioni nel diritto romano, I, Padova, 2007, 188, il quale, ponendo a confronto Cic., de off. 3.14.58 con Cic., de off. 3.16.66 (caratterizzato da un contegno omissivo del venditore, il quale aveva taciuto circostanze a lui note, in grado di condizionare il processo formativo della volontà dell’acquirente), osserva, a proposito della diversità dei rimedi ricordati da Cicerone, che «se ripugna alla bona fides il contegno meramente negativo del venditore reticente, ancor piú lesivo della bona fides stessa pare il contegno positivo di chi compia dichiarazioni esplicitamente volte a trarre in inganno il compratore». Sulla problematica accennata v. L. SOLIDORO MARUOTTI, Gli obblighi di informazione a carico del venditore. Origini storiche e prospettive attuali, Napoli, 2007, passim; EAD., Sulle origini storiche della responsabilità precontrattuale, in TSDP, I/2008, cui adde R. ORTU, Garanzia per evizione: ‘stipulatio habere licere’ e ‘stipulatio duplae’, in L. GAROFALO (a cura di), La compravendita e l’interdipendenza delle obbligazioni nel diritto romano, II, Padova, 2007, 279 ss.; da ultimo A. TRIGGIANO, «Conlega et familiaris meus»: note minime su Cicerone e Aquilio Gallo, in Index, 38/2010, pp. 373 ss.

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Claudium aedes postea proscripsisse, quam esset ab auguribus demoliri iussus, arbitrum illum adegit QUIDQUID SIBI DARE FACERE OPORTERET EX FIDE BONA. M. Cato sententiam dixit, huius nostri Catonis pater […]. Is igitur iudex ita pronuntiavit, cum in vendundo rem eam scisset et non pronuntiasset, emptori damnum praestari oportere 129. La pronuncia, sebbene non consenta di ripercorrere l’iter che aveva condotto il giudice alla decisione, contiene tuttavia, l’esplicitazione dei fatti determinanti ai fini della decisione: Catone dunque come giudice pronunciò questa sentenza: cum in vendundo rem eam [Claudius] scisset et non pronuntiasset, emptori damnum praestari oportere. Stabilì, dunque, che la buona fede impone al venditore l’obbligo di render noti al compratore tutti quei difetti che egli conosce. La vicenda del monte Celio è oltre tutto invocata a supporto dell’esistenza di una prassi di motivare la sentenza 130, ma va avvertito che altra è la rilevanza del contesto della decisione, altra quella del contesto di motivazione, come ben argomenta la Biscotti in un recente contributo denso di spunti di riflessioni 131. Un altro esempio ci viene da Valerio Massimo Val. Max. 8.2.3: Multo animosius et ut militari spiritu dignum erat se in consimili genere iudicii C. Marius gessit: nam cum C. Titinius Minturnensis Fanniam uxorem, quam inpudicam de industria duxerat, eo crimine repudiatam dote spoliare conaretur, sumptus inter eos iudex in conspectu habita quaestione seductum Titinium monuit ut incepto desisteret ac mulieri dotem redderet. Quod cum saepius frustra fecisset, coactus ab eo sententiam pronuntiare mulierem inpudicitiae sestertio nummo, Titinium summa totius dotis damnauit, praefatus idcirco se hunc iudicandi modum secutum, cum liqueret sibi Titinium patrimonio Fanniae insidias 129

Sul passo, per tutti, M. TALAMANCA, La bona fides nei giuristi romani, cit., pp. 143 ss.; B. BISCOTTI, Dispositivo e parte motiva nella sentenza, cit., 303; EAD., Dal ‘pacere’ ai ‘pacta conventa’. Aspetti sostanziali e tutela del fenomeno pattizio dall’epoca arcaica all’editto giulianeo, Milano, 2002, pp. 317 ss., dove la studiosa sostiene la convinzione che nel passo ciceroniano vi sia traccia di una matrice anche arbitrale in senso stretto dei giudizi di buona fede. 130 M. MARRONE, Dal divieto di agere acta all’auctoritas rei iudicatae. Alle origini delle moderne teorie sul giudicato, in Nozione, formazione ed interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professore Filippo Gallo, II, Napoli, 1997, pp. 3-28. 131 B. BISCOTTI, Dispositivo e parte motiva nella sentenza, cit., pp. 304 ss.

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struentem inpudicae coniugium expetisse. Fannia autem haec est, quae postea Marium hostem a senatu iudicatum caenoque paludis, qua extractus erat, oblitum et iam in domum suam custodiendum Minturnis deductum ope quantacumque potuit adiuuit, memor, quod inpudica iudicata esset, suis moribus, quod dotem seruasset, illius religioni acceptum ferri debere 132. Titinio avendo preso in moglie una donna di nome Fannia, l’aveva ripudiata per immoralità e rifiutava di restituirle la dote. La soluzione della controversia, di cui Valerio Massimo tramanda un resoconto, è affidata al giudizio del celebre Mario che condannò Fannia per offesa al pudore e Titinio alla restituzione della dote perché gli era parso che quest’ultimo avesse sposato Fannia pur conoscendone l’impudicizia, proprio per appropriarsi della dote. Nella testimonianza sarebbe contenuto un esplicito riferimento da parte del iudex privatus alle ragioni che lo avevano indotto ad assumere la sua statuizione. Si tratta di capire se le motivazioni siano state esplicitate nella sentenza o se ci si trovi di fronte ad una deduzione del narratore. Il raffronto con Plutarco, che, nella Vita di Mario (38.3), riporta incidentalmente lo stesso avvenimento, non chiarisce la questione, ma il fatto che entrambe le testimonianze convergano sul punto della decisione potrebbe essere un argomento per sostenere che quelle ragioni avevano trovato posto nella sentenza e non erano frutto di una deduzione del narratore. Anche la testimonianza già richiamata di Gellio (14.2) può essere portata a prova della prassi di motivazione della sentenza. I dubbi e le perplessità di Gellio si possono spiegare proprio alla luce dell’esistenza di una prassi per il giudice di enunciare anche solo succintamente i motivi della sua decisione. Ma questa interpretazione proprio attraverso una lettura della testimonianza gelliana non convince del tutto. Infatti, Gellio decide di non decidere e dunque di non motivare, facendo prevalere la discrezionalità del suo giudizio sull’apparato di tradizioni interpretative cui pure aveva fatto ricorso. È lo stesso Gellio ad indicare i fattori che lo hanno spinto verso questa deter132

La bibliografia sul passo riportato è vasta, si veda T.A.J. MCGINN, Prostitution, Sexuality and the Law in Ancient Rome, Oxford-New York, 1998, pp. 151 ss.; J.F. GARDNER, Women in Roman Law and Society, London, 1987, p. 51; N.W. BERNSTEIN, Ethics, Identity and Community in Later Roman Declamation, Oxford-New York, 2013, p. 23 nt. 20.

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minazione: la questione gli appare troppo grande ed elevata, e per la sua giovane età non sembrava conveniente decidere di condannare in base ai costumi degli antichi – come suggeriva Favorino di Arles – e non alle prove. Tra gli argomenti testuali addotti a sostegno della prospettiva possibilista della esistenza di sentenze motivate, meritano di essere segnalati alcuni frammenti dei Digesta relativi ad azioni di buona fede: D. 3.5.7.2 (Ulp. 10 ad ed.): Si quocumque modo ratio compensationis habita non est a iudice, potest contrario iudicio agi: quod si post examinationem reprobatae fuerint pensationes, verius est quasi re iudicata amplius agi contrario iudicio non posse, quia exceptio rei iudicatae opponenda est 133; D. 16.2.7.1 (Ulp. 28 ad ed.): Si rationem compensationis iudex non habuerit, salva manet petitio: nec enim rei iudicatae exceptio obici potest. aliud dicam, si reprobavit pensationem quasi non existente debito: tunc enim rei iudicatae mihi nocebit exceptio; D. 27.4.1.4 (Ulp. 36 ad ed.): Praeterea si tutelae iudicio quis convenietur, reputare potest id quod in rem pupilli impendit: sic erit arbitrii eius, utrum compensare an petere velit sumptus. quid ergo, si iudex compensationis eius rationem non habuit, an contrario iudicio experiri possit? et utique potest: sed si reprobata est haec reputatio et adquievit, non debet iudex contrario iudicio id sarcire 134. I tre escerti considerano tutti delle fattispecie in cui il convenuto in giudizio oppone in compensazione un controcredito: secondo la dottrina maggioritaria il primo caso riguarderebbe un’actio negotiorum gestorum, il secondo un’actio comodati e l’ultimo un’actio tutelae. Più precisamente nel primo si contempla l’ipotesi che l’istanza di compensazione, formulata dal convenuto, sia completamente ignorata dal giudice: resta salva in questo caso la possibilità di esperire un contrarium iudicium. I tre frammenti confermano appieno quanto riportato in Gai. 4.62: Sunt autem bonae fidei iudicia haec: ex empto vendito, locato conducto, negotiorum gestorum, mandati, depositi, fiduciae, pro socio, tu133 134

M. MARRONE, Dal divieto di agere acta all’auctoritas rei iudicatae, cit., p. 18 nt. 36. M. MARRONE, Dal divieto di agere acta all’auctoritas rei iudicatae, cit., p. 5.

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telae, rei uxoriae, commodati, pigneraticium, familiae erciscundae, communi dividundo, il giurista dopo aver proceduto all’enumerazione dei iudicia bonae fidei 135 illustra l’operatività in essi della compensazione, specificando che il giudice è libero di prenderla in considerazione. Ma rilevante ai nostri fini appare l’ipotesi che il iudex, ritenutele fondate, reprobavit pensationes, con conseguente preclusione per una eventuale riproposizione della domanda da parte del soccombente. Trattandosi di giudizi con formula incerta ed essendo la condanna determinata sulla base dell’id quod actoris interest 136, l’indicazione del solo importo pecuniario nella sentenza sarebbe stato insufficiente a far desumere la presenza di una valutazione negativa del giudice circa la compensazione. Partendo da questa considerazione il Marrone evidenzia che se Ulpiano riferisce che il giudice “reprobavit pensationes” è evidente che alluda a sentenze dalle quali doveva emergere anche il giudizio ma non sicuramente la motivazione, relativo al controcredito 137. 135 Sui giudizi di buona fede, tra la sterminata bibliografia a disposizione, si vedano i contributi raccolti in L. GAROFALO (a cura di), Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea, cit., passim. 136 F. PROCCHI, Dall’id quod interest alla costruzione della cd. Differenzhypothese ad opera di Friedrich Mommsen, in Actio in rem e actio in personam. In ricordo di Mario Talamanca, II, Padova, 2011, pp. 481 ss. 137 M. MARRONE, Contributo allo studio della motivazione, cit., pp. 62 ss. A sostegno della tesi motivazionale in relazione ai giudizi centumvirali l’insigne Maestro ritiene decisivi alcuni passi in materia di querela inofficiosi testamenti, in particolare la testimonianza paolina contenuta in D. 5.2.17 pr. (Paul. 2 quaest.): Qui repudiantis animo non venit ad accusationem inofficiosi testamenti, partem non facit his qui eandem querellam movere volunt. unde si de inofficioso testamento patris alter ex liberis exheredatis ageret, quia rescisso testamento alter quoque ad successionem ab intestato vocatur, et ideo universam hereditatem non recte vindicasset: hic si optinuerit, uteretur rei iudicatae auctoritate, quasi centumviri hunc solum filium in rebus humanis esse nunc, cum facerent intestatum, crediderint. Il passaggio sarebbe quello finale dove il giurista severiano giustifica la soluzione per cui il figlio che abbia esperito vittoriosamente la querela possa far valere la res iudicata contro il fratello che abbia rinunciato. Il Marrone intepreta l’inciso “quasi centumviri […] crediderint” come una fictio che «doveva potersi rilevare dalla pronunzia dei centumviri»: M. MARRONE, Contributo allo studio della motivazione, cit., pp. 60 ss., in quanto doveva essere desumibile dalla presenza di una spiegazione, da parte dei centumviri, della motivazione della loro decisione. Una simile ricostruzione è stata analiticamente criticata dalla Biscotti, alla quale, in conclusione ad una ricostruzione filologicamente attenta del passo, «pare chiaro che il voler ravvisare qui traccia di motivazione della sentenza è una forzatura, rispetto alla natura meramente interpretativa del discor-

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Significativa appare la circostanza che il giurista abbia qui utilizzato la parola reprobavit in luogo di dicit, pronuntiat 138, iudicat. Nel caso di specie ci si so di Paolo: significa attribuire un valore semiotico a parole che, al contrario, ne hanno uno ermeneutico»: B. BISCOTTI, Dispositivo e parte motiva nella sentenza, cit., pp. 304 ss. Per completezza v’è da aggiungere che il Marrone porta a sostegno della propria tesi altri testi concernenti la materia successoria: D. 5.2.26 (Ulp. 8 disput.): Si sub hac condicione fuerit heres institutus “si stichum manumiserit” et manumisisset, et posteaquam manumisit inofficiosum vel iniustum testamentum pronuntietur: aequum est huic quoque succurri, ut servi pretium a manumisso accipiat, ne frustra servum perdat; D. 11.1.11.8 (Ulp. 22 ad ed.): Ex causa succurri ei, qui interrogatus respondit, non dubitamus: nam et si quis interrogatus, an patri heres esset, responderit, mox prolato testamento inventus sit exheredatus, aequissimum est succurri ei: et ita celsus scribit, hic quidem et alia ratione, quod ea quae postea emergunt auxilio indigent: quid enim si occultae tabulae et remotae postea prolatae sunt? cur noceat ei, qui id responderit, quod in praesentiarum videbatur? idem dico et si qui heredem se responderit, mox falsum vel inofficiosum vel irritum testamentum fuerit pronuntiatum: non enim i probe respondit, sed scriptura ductus; D. 12.6.2.1 (Ulp. 16 ad Sab.): Si quid ex testamento solutum sit, quod postea falsum vel inofficiosum vel irritum vel ruptum apparuerit, repetetur, vel si post multum temporis emerserit aes alienum, vel codicilli diu celati prolati, qui ademptionem continent legatorum solutorum vel deminutionem per hoc, quia aliis quoque legata relicta sunt. nam divus hadrianus circa inofficiosum et falsum testamentum rescripsit actionem dandam ei, secundum quem de hereditate iudicatum est; D. 44.2.1 ((Ulp. 2 ad ed.): Cum res inter alios iudicatae nullum aliis praeiudicium faciant, ex eo testamento, ubi libertas data est vel legato agi potest, licet ruptum, vel irritum aut non iustum dicatur testamentum: nec si superatus fuerit legatarius, praeiudicium libertati fit; cfr. M. MARRONE, Contributo allo studio della motivazione, cit., pp. 60 s.; ID., Dal divieto di agere acta all’auctoritas rei iudicatae, cit., pp. 4 ss.; ID., L’efficacia pregiudiziale della sentenza nel processo civile romano, in AUPA, XXIV/1955, pp. 144 ss. 138 M. MARRONE, Contributo allo studio della motivazione, cit., pp. 57 ss. e ID., Sulla cd. ‘pronuntiatio’ del giudice delle azioni reali nel diritto romano, in Audelà des frontières. Mélanges de droit romain offertes à W. Wolodkiewicz, Warsawa, 2000, pp. 497 ss., propone interessanti considerazioni circa l’utilizzo del verbo pronuntiare in relazioni alle azioni reali, traendo da esso la condivisibile convinzione che fosse prassi l’indicazione di un’attività, non tecnica del giudice, (individuata tramite tale verbo) che si concretasse in una pronuncia più articolata, che, riconoscendo la fondatezza della pretesa attorea, aprisse la strada all’arbitrium de restituendo. Alla conclusione inferita da ciò dallo studioso palermitano, circa l’esistenza di una motivazione delle sentenze da parte dei giudici formulari, avanza forti dubbi B. BISCOTTI, Dispositivo e parte motiva nella sentenza, cit., p. 308 nt. 99. La studiosa però ammette che in D. 44.2.11pr. (Ulp. 75 ad ed.): Si mater filii impuberis defuncti ex senatus consulto bona vindicaverit idcirco, quia putabat rupto patris eius testamento neminem esse substitutum, victaque fuerit, quia testamentum patris ruptum non erat, postea autem apertis pupillaribus tabulis apparuit non esse ei substitutum: si peteret rursus hereditatem, obstaturam exceptionem rei iudicatae neratius ait. ego exceptionem obesse ei rei iudicatae non dubito: sed ex causa succurrendum erit ei, quae unam tantum causam egit rupti testamenti, possa ravvisarsi una testimonianza capace di introdurre il dubbio dell’esistenza tra il I e il II secolo d.C. di una prassi motivazionale affermata (cfr. B. BISCOTTI, Dispositivo e parte motiva nella sentenza, cit., p. 336) e che suggerisce l’opportunità di ulteriori studi in materia. Utile alla nostra riflessione appare un testo analizzato, per altri fini, da R. FERCIA, ‘Actiones’ ed

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trova di fronte a iudicia bonae fidei nei quali l’ambito di discrezionalità del giudicante si ampliava 139. ‘actio utilis ex causa interdicti’: vicende storiche, anomalie, opacità, in Diritto@Storia, VIII/2009 (= S. PULIATTI-U. AGNATI [a cura], Atti del Convegno, Principi e tecniche operative del processo civile romano nei secoli IV-VI d.C., Parma 18-19 giugno 2009, Parma, 2010, pp. 129 ss.): si tratta della Tavola di Esterzili, che riferisce di un provvedimento adottato nel 69 d.C. dal governatore della Sardegna a definizione di una disputa insorta tra popolazioni limitrofe circa il possesso di alcuni praedia, nella quale vengono riportati i presupposti che hanno portato alla motivazione finale, come ben si legge nel documento, che per l’interesse rivestito, viene di seguito trascritto: Imp. Othone Caesare Avg Cos XV k apriles descriptvm et recognitivm ex codice ansato L Helvi Agrippae procons qvfm propvlit Gn Egnativs Fvscvs scriba qvaestorivs in qvo scriptvm fvit it qvod infra scriptvm est tabvla V ɔ. VIII et VIIII et X III idvs mart L Helvivs Acrippa procos cavssa cognita pronvntiavit cvm pro vtilitate pvblica rebvs ivdicatis stare conveniat et de cavssa Patvlcensi vm M Ivventivs Rixa vir ornatissimvs procvrator avg saepivs pronvntaverit fines Patvlcensivm ita servandos esse vt in tabvla ahenea a M Metello ordinati essent vltimoqve pronvntiaverit Galillenses freqventer retractantes controversiai nec parentes decreto svo se castigare volvisse sed respectv clementiae Optvmi Maximiqve principis contentvm esse edicto admonere vt qviescerent et rebvs ivdicatis starent et intra k octobr primas de praedis Patvlcensivm decederent vacvam qve possessionem traderent qvodsi in contvmacia perseverassent se in auctores seditionis severe anima adversvrvm et postea Caecilivs Simplex vir clarissi mvs ex eadem cavssa aditvs a Galillensibvs dicentibvs tabvlam se ad eam rem pertinentem ex tabvlario principis adlatvros pronvntiaverit hvmanvm esse dilationem probationi dari et in k decembres trivm mensvm spativm dederit in tra qvam diem nisi forma allata esset se eam qvae in provincia esset secvtvrvm ego qvoqve aditvs a Galillensibvs excvsantibvs qvod nondvm forma allata esset in k febrvarias qvae p f spativm dederim et moramllis possessoribvs intellegam esse ivcvn dam Galilenses ex finibvs Patvlcensivm Campanorvm qvos per vim occvpaverant intra k apriles primas decedant qvod si hvic pronvntiationi non optemperaverint sciant se longae contvmaclae et iam saepe denvntiata animadversioni obnoxios fvtvros in consilio fvervnt M Ivlivs Romvlvs leg pro pr t Atilivs Sabinvs q pro pr M Stertinivs Rvfvs f sex Aelivs Modestvs P Lvcretivs Clemens M Domitivs Vitalis M Lvsivs Fidvs M Stertinivs Rvfvs signatores Cn Pompei Ferocis Lavreli Galli M Blossi Nepotis C Cordi Felicis L Vigelli Crispini C Valeri Favsti M Lvta Ti Sabini L Coccei Genialis L Ploti Veri D Vetvri Felicis L Valeri Pepli”: cfr. A. MASTINO (a cura di), La Tavola di Esterzili. Il conflitto tra pastori e contadini nella ‘Barbaria’ sarda, Convegno di studi, Esterzili, 13 giugno 1992, Sassari, 1992, 78 ss. In merito alla motivazione contenuta a giustificazione del provvedimento governativo, nonché alla sua ricostruzione v. R. FERCIA, ‘Actiones’ ed ‘actio utilis ex causa interdicti’, cit., p. § 3, e S. SCHIPANI, La repressione della ‘vis’ nella sentenza di L. Helvius Agrippa del 69 d.C. (Tavola di Esterzili), in A. MASTINO (a cura di), La Tavola di Esterzili, cit., p. 134 nt. 2 ritengono – pur non entrando propriamente in sedes materiae – che il provvedimento in questione sia da inquadrarsi nella procedura interdittale, dove l’esposizione dei fatti sembra dettata dalla volontà di constestualizzare la vicenda che ha condotto ad un simile provvedimento. Contaria ad una lettura ‘motivazionale’ della statuizione si mostra B. BISCOTTI, Dispositivo e parte motiva nella sentenza, cit., p. 327 nt. 128.   139 Sulla ricostruzione che dei testi giustinianei opera M. MARRONE, Contributo allo studio della motivazione, cit., pp. 62 ss. a supporto di una tesi motivazionale delle sentenze avanza forti obiezioni B. BISCOTTI, Dispositivo e parte motiva nella sentenza, cit., p. 313. A detta della studiosa milanese, infatti, sui brani esaminati gravano fortissimi sospetti inter-

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Condivisibile, dunque, appare la tesi del Voci che individuava come ambito di manifestazione significativa del diritto “giudiziale” negli ultimi due secoli della Repubblica quello dei iudicia bonae fidei 140, in cui al giudice veniva affidato un ampio spazio di manovra nello stabilire in concreto i diritti e gli obblighi delle parti appunto secondo il criterio della buona fede. E ravvisa nel ripetersi di sentenze conformi la capacità nel tempo di originare delle norme di tipo generale. L’introduzione del criterio di compensazione delle reciproche pretese delle parti rivelatosi valido ed efficace al punto da ricevere ripetute applicazioni in decisioni successive. Al riguardo rilevante la testimonianza gaiana di Gai. 4.63: Liberum est tamen iudici nullam omnino invicem conpensationis rationem habere; nec enim aperte formulae verbis praecipitur, sed quia id bonae fidei iudicio conveniens videtur, ideo officio eius contineri creditur 141, testimonianza che costituisce esempio del meccanismo grazie al quale la compensatio viene riconosciuta come modo di estinzione delle obbligazioni proprio attraverso la prassi giudiziaria. Lo stesso accade in materia di usurae, come già rilevato. Logico è, dunque, il constatare che in alcuni testi retorici la res iudicata sia annoverata espressamente fra le altre fonti di produzione del diritto 142, come in: polazionistici, già palesati da A. CENDERELLI, La ‘negotiorum gestio’. Corso esegetico di diritto romano, I, Struttura, origini, azioni, Torino, 1997, pp. 208 ss. Tali perplessità sarebbero dettate dai fatti che nei testi si riconduce alla res iudicata il divieto di riproposizione dell’azione, meccanismo che caratterizza certamente la cognitio extra ordinem di età giustinianea, ma che è alieno al pensiero dei giuristi classici, per i quali gli effetti di irripetibilità si riconducevano alla definizione dei termini della lite nella litis contestatio. Per la Biscotti, dunque, «l’idea che solo da un’espressa manifestazione da parte del giudice, nella sentenza, si potesse comprendere se egli avesse o meno dato luogo alla compensazione, non sembra più tanto evidente, alla luce di questa considerazione. La litis contenstatio, infatti, doveva fotografare le pretese in iudicium deductae dalle parti, e precisamente tanto quelle dell’attore quanto quelle del convenuto»: B. BISCOTTI, Dispositivo e parte motiva nella sentenza, cit., p. 313. 140 P. VOCI, Manuale di Diritto Romano, I, Parte generale2, Milano, 1998, pp. 111 s. 141 Sul passo gaiano a livello manualistico, si veda il recente A. LOVATO-S. PULIATTI-L. SOLIDORO MARUOTTI, Diritto Privato Romano, Torino, 2014, pp. 603 s. 142 F. SERRAO, Le fonti del diritto nella storia della costituzione romana, in Tradizione romanistica, cit., pp. 435-479; interessanti osservazioni sulle fonti di produzione del diritto vd. G. VALDITARA, Riflessioni su principi fondamentali e legge nella repubblica romana, in Tradizione romanistica, cit., pp. 547-554.

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Cic., Top. 5.28: Atque etiam definitiones aliae sunt partitionum aliae divisionum; partitionum, cum res ea quae proposita est quasi in membra discerpitur, ut si quis ius civile dicat id esse quod in legibus, senatus consultis, rebus iudicatis, iuris peritorum auctoritate, edictis magistratuum, more, aequitate consistat 143. Stando a questa testimonianza, sembrerebbe che le res iudicatae costituissero una parte del ius civile, al pari delle leggi, dei senatoconsulti, dell’auctoritas dei giureconsulti, degli editti dei magistrati, della consuetudine e dell’aequitas. In diverse testimonianze contenute nella Rhetorica ad Herennium (2.18.2; 2.13.19-20; 2.29.46) 144, a res iudicata risulta, ancora una volta, elencata fra le parti di cui consta lo ius accanto alla legge, alla consuetudine ed ai criteri del buono e dell’equo 145. Il iudicatum, richiamato in una controversia, si identifica con la sentenza del giudice o con il decreto del magistrato. La sua autorevolezza è legata alla circostanza che il richiamo venga fatto in maniera appropriata, potendo capitare che in cause simili vengano pronunziate due sentenze opposte, sicché occorre tenere conto del giudice che l’ha emanata, del tempo in cui è stata emessa, del numero di sentenze che ricalchino il medesimo orientamento e di quelle di segno contrario. In particolare l’autore si riferisce a un dissidio tra pretori in materia di actio man143 Sul testo, v. L. VACCA, L’aequitas nell’interpretatio prudentium. Dai giuristi «qui fundaverunt ius civile» a Labeone, in Atti del Convegno, «Aequitas», Giornate in memoria di Paolo Silli, Trento, 11-12 aprile 2002, Padova, 2006, pp. 30 ss.; M. BRETONE, Storia del Diritto Romano, Bari-Roma, 1991, p. 162; E. STOLFI, Dissentiones prudentium, dispute di scuola ed interventi imperiali, in V. MAROTTA-E. STOLFI (a cura di), Ius controversum, cit., pp. 331 ss. 144 Auct., rhet. ad Her. 2.18.2: In causa ratiocinali primum quaeretur, ecquid in rebus maioribus aut minoribus aut dissimilibus similiter scriptum aut iudicatum sit; deinde, utrum ea res similis sit ei rei, qua de agitur, an dissimilis […]; 2.13.19-20: […] De eo causa posita dicere poterimus, si, ex quibus partibus ius constet, cognoverimus. Constat igitur ex his partibus: natura, lege, consuetudine, iudicato, aequo et bono, pacto […] Consuetudine ius est id, quod sine lege aeque, ac si legitimum sit, usitatum est […] Iudicatum est id, de quo sententia lata est aut decretum interpositum. Ea saepe diversa sunt, ut aliud alio iudici aut praetori aut consuli aut tribuno plebis placitum sit et fit, ut de eadem re saepe alius aliud decreverit aut iudicarit, quod genus: M. Drusus praetor urbanus, quod cum herede mandati ageretur, iudicium reddidit, Sex. Iulius non reddidit. Item: Caelius iudex absolvit iniuriarum eum, qui Lucilium poetam in scaena nominatim laeserat, P. Mucius eum, qui L. Accium poetam nominaverat, condemnavit. Ergo, quia possunt res simili de causa dissimiliter iudicatae proferri, cum id usu venerit, iudicem cum iudice tempus cum tempore, numerum cum numero iudiciorum conferemus […]. 145 Cfr. P. STARACE, Giudici e giuristi nel processo civile romano, cit., p. 75.

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dati e di sentenze contrastanti in merito ad ingiurie pronunziate durante delle rappresentazioni teatrali. Non sarebbe corretto addurre come argomento probatorio una pronunzia non pertinente all’oggetto, o non relativa ad un punto controverso, o ingiusta, oppure rispetto alla quale l’avversario sia in grado di avvalersi di un numero maggiore di sentenze o maggiormente rispondenti ai criteri enunciati. Dunque, per citare Letizia Vacca: «ciò che nel giudicato si ricerca non è la ratio decidendi, non è la concretizzazione del diritto ma semplicemente un exemplum che può essere usato per convincere il giudice a dare una soluzione analoga. In questo caso non si può dire che il giudice non può non seguire il precedente: nella logica dell’ordinamento non vi è alcun principio che lo obblighi a farlo» 146. Quindi le res iudicatae nel loro ripetersi conforme, con il supporto delle argomentazioni giurisprudenziali e l’avallo degli organi giudicanti, spesso conducevano al formarsi di un principio giuridico dotato di una forza normativa analoga a quella della consuetudine, proprio come suggerisce Cicerone in de inv. 2.67-68 147. Con il Vincenti appare giusto ribadire che «è proprio attraverso il con146

L. VACCA, Contributo, cit., p. 59. Circa l’inquadramento della portata del giudicato nel sistema giuridico romano si veda D. DALLA, Fra ius controverum, discrezionalità del giudicante e assetti costituzionali, in M.P. BACCARI-C. CASCIONE-L. LABRUNA (a cura di), Tradizione romanistica e Costituzione, II, Napoli, 2006, p. 1023 e da ultimo l’attenta analisi, densa di spunti per un dialogo interdisciplinare tra diritto antico e moderno, offerta da G. LUCHETTI, Il valore del precedente giurisprudenziale sul confine mobile tra potere legislativo e potere giudiziario, in AG, CCXXXIV (Fasc. 4)/2014, pp. 507 ss. 147 Cic., de inv. 2.67-68: Ac naturae quidem iura minus ipsa quaeruntur ad hanc controversiam, quod neque in hoc civili iure versantur et a vulgari intellegentia remotiora sunt; ad similitudinem vero aliquam aut ad rem amplificandam saepe sunt inferenda. Consuetudine autem ius esse putatur id, quod voluntate omnium sine lege vetustas comprobarit. In ea autem quaedam sunt iura ipsa iam certa propter vetustatem. Quo in genere et alia sunt multa et eorum multo maxima pars, quae praetores edicere consuerunt. Quaedam autem genera iuris iam certa consuetudine facta sunt; quod genus pactum, par, iudicatum. [68] P a c t u m est, quod inter quos convenit ita iustum putatur, ut iure praestare dicatur; par, quod in omnes aequabile est; iudicatum, de quo iam ante sententia alicuius aut aliquorum constitutum est. Iam iura legitima ex legibus cognosci oportebit. His ergo ex partibus iuris, quod cuique aut ex ipsa re aut ex simili aut maiore minoreve nasci videbitur, attendere atque elicere pertemptando unam quamque iuris partem oportebit. Locorum autem communium quoniam, ut ante dictum est, duo genera sunt, quorum alterum dubiae rei, alterum certae continet amplificationem, quid ipsa causa det et quid augeri per communem locum possit et oporteat, considerabitur. Nam certi, qui in omnes incidant, loci praescribi non possunt; in plerisque fortasse ab auctoritate iuris consultorum et contra auctoritatem dici oportebit. Adtendendum est autem et in hac et in omnibus, num quos locos communes praeter eos, quos nos exponimus, ipsa res ostendat. Nunc iudiciale genus et partes consideremus.

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sensus dei giudici che si manifestava in definitiva il consensus dei consociati in genere […] lo ius controversum era causa di disputatio fori e questa era risolta con la sentenza, conseguente all’opzione di concorrenza: il ripetersi di sentenze simili era il segno in equivoco dell’adesione dell’ambiente sociale e i giudicati erano perciò pars del consuetudine ius, rendendo una certa regola disputata» 148. Si può parlare con il Bretone di «un diritto controverso giudiziale» 149, impiegato principalmente dagli oratori come repertorio di precedenti cui attingere nelle arringhe difensive per persuadere il giudice, ma anche dai giuristi che rivolgevano la loro attenzione alle sentenze dei giudici laici del processo civile, le quali, se univoche, contribuivano al formarsi di un’opinione comune. Se il giurista diventa così la voce ricognitiva e la spinta creatrice, in ogni caso, l’individuazione del diritto vigente applicabile alla singola fattispecie resta ancorato alla pronuncia dello iudex: considerazione questa che in parte differenzia la mia posizione da quella, peraltro, per molti aspetti condivisibile della Giunti 150. Potremmo affermare, sulla base di tutto quanto sino ad ora argomentato, che il giudice era colui che governava l’aspetto nomopoietico del processo romano in rapporto al quale i prudentes rappresentavano autorevoli coprotagonisti. Il brano che di séguito si viene a commentare costituisce, ad avviso dello scrivente, significativa conferma della dialettica complessa che collega la decisione del giudice all’elaborazione giurisprudenziale.

8. Il rapporto tra giudice e giurista. Di particolare importanza ai fini della piena comprensione delle dinamiche proprie del giudizio in rapporto alla tradizione dottrinale dei prudentes appare:

148 U. VINCENTI, Res iudicatae, cit., p. 24 nt. 51. G. PROVERA, Il valore normativo della sentenza e il ruolo del giudice nel diritto romano, in Est. Hist.-Jurìd., 7/1982, pp. 55 s. il quale fa notare come si approdi alla formulazione della regula iuris: sui erede aut instituendi sunt aut exheredandi da parte dei giuristi sulla base di sentenze conformi, a partire dal caso del filius suus miles considerato morto, poi ritornato a casa, casa destinata in eredità erroneamente dal padre ad altri (cfr. Cic., De or. 1.175 e Val. Max. 7.7.1). 149 M. BRETONE, Ius controversum nella giurisprudenza, cit., 765. 150 P. GIUNTI, Iudex e iurisperitus, cit., passim.

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D. 44.2.11 pr. (Ulp. 75 ad ed.): Si mater filii impuberis defuncti ex senatus consulto bona vindicaverit idcirco, quia putabat rupto patris eius testamento neminem esse substitutum, victaque fuerit, quia testamentum patris ruptum non erat, postea autem apertis pupillaribus tabulis apparuit non esse ei substitutum: si peteret rursus hereditatem, obstaturam exceptionem rei iudicatae Neratius ait. ego exceptionem obesse ei rei iudicatae non dubito: sed ex causa succurrendum erit ei, quae unam tantum causam egit rupti testamenti 151. Il complesso caso 152 tratta di una rivendica di beni ereditari esperita ex Senatusconsulto Tertulliano 153 da una madre di un impubere defunto. Con la petitio hereditatis l’attrice sosteneva che il testamento del pater familias fosse ruptum e che dunque non vi fossero tabulae valide a realizzare una sostituzione pupillare 154. La petitio hereditatis fu ritenuta non fondata poiché il testamento del padre non risultava ruptum. Successivamente 151

Ha avanzato forti sospetti sulla genuinità del testo G. VON BESELER, Romanistische Studien. ‘Agere adiecta causa’, in ZSS, L/1930, p. 71 s.; A. GUARNIERI CITATI, Di un criterio postclassico per la determinazione della ‘res iudicata’, in BIDR, XXXIII/1923, p. 207 nt. 6. La Biscotti rileva in relazione all’ultima frase del brano una scarsa linearità sotto il profilo sintattico, in particolare all’uso eterogeneo del termine causa sia in una accezione atecnica, come sinonimo di circostanza, sia in un significato tecnico, come causa giudiziale. Ed ancora la studiosa evidenzia la apparente discontinuità nella costruzione dell’ultima proposizione, dove il genitivo di specificazione del sintagma unam causam, ‘rupti testamenti’, è separato dal suo sostentivo ad opera del verbo. Ma, in conclusione, si potrebbe trattare «di un artificio stilistico deliberatamente utilizzato da Ulpiano per sottolineare e chiarire il suo pensiero»: B. BISCOTTI, Dispositivo e parte motiva nella sentenza, cit., p. 319 nt. 115. 152 Preso in esame, ad altro proposito, da M. MARRONE, La formula della rivendica: astratta o causale?, in ‘Cunabula iuris’. Studi storico-giuridici per G. Broggini, Milano, 2002, p. 244 nt. 50; nonché in AUPA, XLVI/2000, p. 1599 nt. 50; ora in Scritti giuridici, II, Palermo, 2003, p. 796 nt. 59, contra G. FINAZZI, La sostituzione pupillare, Napoli, 1997, pp. 196 s. il quale propende per la genuinità del passo in conformità agli studi di P. VOCI, L’errore nel diritto romano, Milano, 1937, p. 239. 153 Sul quale si veda M. MEINHART, Die ‘senatus consulta Tertullianum’ und ‘Orphitianum’ in ihrer Bedeutung für das klassische römische Erbrecht, Graz-Wien-Köln, 1967, passim. La menzione del Sc. Orfiziano parrebbe avallare la genuinità del passo, infatti una eventuale mano dei compilatori sul testo avrebbe probabilmente “tagliato” questa menzione oramai inutile, alla luce della legislazione di Giustiniano stesso sul tema del ius liberorum (cfr. C. 8.58 [59].2, a. 528): v. B. BISCOTTI, Dispositivo e parte motiva nella sentenza, cit., p. 320 nt. 119. 154 Cfr. G. FINAZZI, La sostituzione pupillare, cit., 196; F. LAMBERTI, Studi sui ‘postumi’ nell’esperienza giuridica romana, Milano, 2001, spec. p. 209.

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all’apertura delle tavole testamentarie, apparve chiaro che non vi era indicazione di sostituto testamentario per cui la madre avrebbe comunque avuto diritto all’eredità. Il problema giuridico affrontato da Nerazio e poi da Ulpiano, a commento probabile della decisone del giudice, concerne la rilevanza da attribuire al fatto sopravvenuto rispetto alla formale consumazione dell’azione di petizione dell’eredità, in conseguenza del suo rigetto. Per Nerazio alla donna che avesse richiesto l’eredità nuovamente in giudizio era eccepibile l’exceptio rei iudicatae 155. Per Ulpiano ex causa succurrendum erit ei, quae unam tantum causam egit rupti testamenti; per il giurista severiano, che sul punto appare seguire la decisione dello iudex, ex causa, cioè sulla base del fatto, e per motivi di giustizia sostanziale la domanda era da accogliere. La decisione del giudice e il commento ulpianeo possono apparire, a detta della Biscotti 156, ‘scandalose’ per chi si muove nell’orizzonte del processo formalizzato tipicamente moderno. Ma, in realtà, la decisione è assolutamente coerente con il paradigma della logica controversiale propria del giudizio in cui la giustizia di reciprocità, con l’equilibrato bilanciamento degli interessi, esige apprezzamento sostanzialistico da parte del giudicante 157. Altro testo rilevante, tratto dal trentesimo libro del commentario gaiano all’editto provinciale, concerne un’ipotesi di giuramento deferita nella fase apud iudicem ed è accolto dai Compilatori in: D. 12.2.31 (Gai. 30 ad ed. prov.): Admonendi sumus interdum etiam post iusiurandum exactum permitti constitutionibus principum ex integro causam agere, si quis nova instrumenta se invenisse dicat, quibus nunc solis usurus sit. sed hae constitutiones tunc videntur locum habere, cum a iudice aliquis absolutus fuerit (solent enim saepe iudices in dubiis causis exac155 Sull’exceptio rei iudicate vel in iudicium deductae vd. G. SACCONI, L’“exceptio rei in iudicium deductae”, in Sodalitas. Scritti Guarino, Napoli, 1984, pp. 1909 ss., che prende in considerazione anche l’età preclassica; C. BUZZACCHI, Alle radici della politica giuridicogiudiziaria di un ordinamento attraverso l’’exceptio rei iudicatae vel in iudicium deductae’, in GAROFALO, ‘Res iudicata’, cit., I, pp. 161 ss. 156 B. BISCOTTI, Dispositivo e parte motiva nella sentenza, cit., p. 321. 157 T. HONORÉ, Ulpian. Pioneer of Human Rights, Oxford, 2002, p. 100 e nt. 36, pone l’accento sull’aspetto equitativo della sententia di Nerazio che si proponeva di soccorrere la povera donna, trovando una soluzione più umana. Secondo F.C. VON SAVIGNY, System des heutingen römischen Rechts, VI, Berlin, 1847, 462, la propensione di Ulpiano per la concessione della restituito in integrum sarebbe stata motivata anche dalla natura debole della parte attrice, in quanto donna.

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to iureiurando secundum eum iudicare qui iuraverit): quod si alias inter ipsos iureiurando transactum sit negotium, non conceditur eandem causam retractare 158. La frase chiave del brano è costituita dalle parole gaiane: “solent enim saepe iudices in dubiis causiis exacto iure iurando secundum meum iudicare qui iurarent”; si fa riferimento ad una prassi, evidentemente, non isolata come dimostrato dal saepe, in cui il giudice nei casi dubbi invece di esercitare il non liquet attestato dal brano di Aulo Gellio sopra richiamato, ritiene di affidarsi al giuramento, giudicando secondo le risultanze di esso e forzando discrezionalmente il sistema ordinario delle prove. I due testi dimostrano l’esercizio di una ampia latitudine discrezionale del giudicante enfatizzata dalla radicale deformalizzazione del processo. Ciò detto dobbiamo addentrarci proprio nel complesso problema relativo al rapporto tra giudice e giurista. I dati che emergono dalle fonti retoriche circa i rapporti tra giurisprudenza e ambiente forense sembrano confermati da Pomponio in: D. 1.2.2.5 (Pomp. l. sing. ench.): His legibus latis coepit (ut naturaliter evenire solet, ut interpretatio desideraret prudentium auctoritatem) necessarium esse disputationem fori. haec disputatio et hoc ius, quod sine scripto venit compositum a prudentibus, propria parte aliqua non appellatur, ut ceterae partes iuris suis nominibus designantur, datis propriis nominibus ceteris partibus, sed communi nomine appellatur ius civile 159. 158

Per un’analisi del testo in merito al giuramento deferito dal giudice, cfr. M.A. VON BEDer römische Civilprozess, II, Bonn, 1865, p. 585 nt. 81; C. BERTOLINI, Il giuramento nel diritto privato romano, Torino, 1886, pp. 164 nt. 283, 172 nt. 310, 174 nt. 315; G. DEMELIUS, Schiedseid und Beweiseid im römischen Civilprozesse, Leipzig, 1887, pp. 94 ss.; B. BIONDI, Il giuramento decisorio nel processo civile romano, Palermo, 1913, pp. 90 ss.; M.E. PETERLONGO, La transazione nel diritto romano, Milano, 1936, pp. 268, 335 s.; L. AMIRANTE, Il giuramento prestato prima della litis contestatio nelle legis actiones e nelle formulae, Napoli, 1954, p. 37 nt. 128; ID., Dubbi e riflessioni in tema di «iusiurandum in iudicio», in Studi in onore di Emilio Betti, III, Milano, 1962, 22 s.; G. MELILLO, Contrahere, pacisci, transigere. Contributi allo studio del negozio bilaterale romano2, Napoli, 1994, 273 nt. 635; A. IZZO, Il giuramento deferito dal giudice nel processo formulare, in C. CASCIONE-E. GERMINO-C. MASI DORIA (a cura di), Parti e Giudici nel Processo. Dai diritti antichi all’attualità, Napoli, 2006, pp. 97 ss. 159 L. VACCA, Contributo allo studio del metodo casistico nel diritto romano, Milano, 1976, 63: «proprio dalla testimonianza di Pomponio risulta l’idea di un diritto in cui scarsa rilevanza è attribuita alle fonti normative in senso tecnico, le quali, com’è noto, regolarono una parTHMANN-HOLLWEG,

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In merito al passo il Kaser evidenzia la diretta relazione tra la prudentium auctoritas e la disputatio fori 160: la prima doveva alimentare, nelle sue interpretationes contrastanti, la seconda, di cui protagonisti immediati erano gli oratori, che dibattevano in tribunale ai fini dell’ottenimento di un iudicatum conforme ad una certa interpretatio 161. Lo stesso Pomponio, nel brano richiamato, quando afferma che est proprium ius civile, quod sine scripto in sola prudentium interpretatione consistit, rileva come la disputatio fori corrisponda a un fattore che concorre alla formazione dello ius civile. L’interpretatio prudentium rifluisce nella disputatio fori costituendo così il ius civile ed alimentandolo nella loro costante interazione 162; qui ius civile deve essere inteso nella sua accezione riferibile all’insieme di opinioni, di dottrine e di massime che si sono venute formando proprio attraverso una tradizione giuridica controllata da esperti, sottoposta al continuo vaglio dei giudici. Pomponio registra inoltre un rapporto diretto tra giureconsulti e iudices in te minima dei rapporti fra privati, benché costituissero in un certo senso un limite formale all’esplicazione degli altri fattori: la formazione e stratificazione del ius civile fu invece affidata alla prassi giudiziaria concreta, guidata dalla interpretazione dei prudentes». M. BRUTTI, L’indipendenza dei giuristi (dallo ‘ius controversum’ all’autorità del Principe), in V. MAROTTA-E. STOLFI (a cura di), Ius controversum, cit., p. 422 nt. 33, ravvisa nell’endiadi haec disputatio et hoc ius la sintesi dei caratteri (legame con il processo e attività intellettuale che crea diritto) propri di una giurisprudenza più matura. 160 M. KASER, Das Urteil, cit., p. 57 nt. 51 il quale ha perfettamente ragione nell’affermare che in riferimento al passo del Digesto «disputatio fori ist als technische Einricthung sicher anachronistich». Comunque, ciò non implica che si debba ritenere insiticio il riferimento alla disputatio fori richiamata dal brano, sul punto, cfr. B. ALBANESE, D. 1,2,2,12 ed il problema della sua attribuzione, in Studi in onore di S. Pugliatti, 4, Milano, 1978, p. 22 nt. 15, ora in Scritti Giuridici, 2, Palermo, 1991, p. 1974 nt. 15; M. BRETONE, Linee dell’Enchiridion di Pomponio, Bari, 1965, p. 67 nt. 116; M. CAMPOLUNGHI, Potere imperiale e giurisprudenza in Pomponio e in Giustiniano, I, Roma, 1983, p. 141 nt. 98 ss. 161 Il nesso tra responsum e iudicatum è evidenziato in M. BRETONE-M. TALAMANCA, Il diritto in Grecia e a Roma, Roma-Bari, 1981, p. 123; S. TONDO, Aspetti del principato e dell’ordinamento in Roma. Lezioni, Milano, 1991, p. 213 ss.; S. SCHIPANI, Osservazioni sulle categorie sistematiche di «actio» e «processo» delle Istituzioni di Giustiniano (rileggendo alcuni contributi di Giuseppe Provera), in AA.VV., Diritto e processo nell’esperienza romana, Atti del seminario torinese in memoria di G. Provera, Napoli, 1994, p. 150 nt. 36. 162 Cfr. S. TONDO, Aspetti del principato, cit., pp. 212 s. osserva come l’autorevolezza del giurista derivi essenzialmente non da qualunque attività da lui svolta nell’ambito delle sue competenze professionali; quanto dall’ottenimento del successo nella sede processuale, il che gli consente di porsi realmente come guida dell’evoluzione giuridica all’interno di una comunità.

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D. 1.2.2.49 (Pomp. l. sing. ench.) 163: Et, ut obiter sciamus, ante tempora Augusti publice respondendi ius non a principibus dabatur, sed qui fiduciam studiorum suorum habebant, consulentibus respondebant: neque responsa utique signata dabant, sed plerumque iudicibus ipsi scribebant, aut testabantur qui illos consulebant. primus divus Augustus, ut maior iuris auctoritas haberetur, constituit, ut ex auctoritate eius responderent: et ex illo tempore peti hoc pro beneficio coepit. et ideo optimus princeps Hadrianus, cum ab eo viri praetorii peterent, ut sibi liceret respondere, rescripsit eis hoc non peti, sed praestari solere et ideo, si quis fiduciam sui haberet, delectari se populo ad respondendum se praepararet. Prima dello ius respondendi 164 il responsum poteva condizionare il iu163 Non sembra condivisibile, quanto all’espunzione della disputatio fori nella definizione dello ius civile contenuta in D. 1.2.2.12, la deduzione della Campolunghi a detta della quale «con trascorrere del tempo [la disputatio fori] finisca collo scomparire o con l’essere assorbita rispetto all’attività creatrice dei giuristi»: M. CAMPOLUNGHI, Potere imperiale e giurisprudenza, cit., p. 141. 164 Non intendo prendere posizione sulla vexata quaestio della natura dello ius respondendi ex auctoritate principis, e pertanto, mi limito a richiamare solo alcuni tra i più importanti contributi in materia: F. DE VISSCHER, Le ius publice respondendi, in RHD, 15/1936, pp. 615 ss.; H. SIBER, Der Ausgangspunkt des ius respondendi, in ZSS, 61/1941, pp. 397 ss.; W. KUNKEL, Das Wesen des ius respondendi, in ZSS, 66/1948, pp. 423 ss. (= Herkunft und soziale Stellung der römischen Juristen, Weimar, 1952 [Wien, 19672], pp. 295 s. e 318 ss.); A. GUARINO, Il ius publice respondendi, in RIDA, 2/1949, pp. 401 ss. (= Le ragioni del giurista, Napoli, 1983, pp. 95 ss.; Pagine di Diritto Romano, IV, Napoli, 1994, pp. 384 ss.); ID., Il ius publice respondendi, in Annali dell’Università di Catania, 3/1949, pp. 208 ss. (= Postilla prima: Sulla tesi di W. Kunkel, in Le ragioni, cit., pp. 111 ss.; [= Pagine, cit., pp. 401 ss.]; ID., Ancora sul ius publice respondendi, in Annali dell’Università di Catania, 4/1950, p. 209 (= Postilla seconda: sulla tesi di A. Magdelain, in Le ragioni, cit., pp. 114 ss.; Pagine, cit., pp. 405 ss.); ID., Postilla terza: Sulla letteratura successiva, in Le ragioni, cit., pp. 117 ss. (= Pagine, cit., 409 ss.); D. DAUBE, Hadrian’s rescript to some ex-praetors, in ZSS, 67/1950, pp. 511 ss. (= Collected Studies in Roman Law, I, Frankfurt am Maine, 1991, pp. 345 ss.); A. MAGDELAIN, Ius respondendi, in RHD, 28/1950, pp. 1 ss. e 157 ss. (= Ius imperium auctoritas. Études de droit romain, Roma, 1990, pp. 103 ss.); G. PROVERA, Ancora sul ius respondendi, in SDHI, 28/1962, pp. 342 ss.; M. HORVAT, Note intorno allo ius respondendi, in Synteleia Arangio-Ruiz, II, Napoli, 1964, pp. 710 ss.; M. BRETONE, Motivi ideologici dell’Enchiridion di Pomponio, in Labeo, 11/1965, pp. 23 ss. [= Giurisprudenza e potere imperiale, in Linee dell’Enchiridion di Pomponio, Bari, 1965 (rist. Torino, 1974), pp. 78 ss. e in Tecniche e ideologie dei giuristi romani, Napoli, 19822, pp. 241 ss.; S. TONDO, Note esegetiche, III, Ius respondendi, in Iura, 30/1979, pubbl. 1982), pp. 65 ss. (= Profilo di storia costituzionale romana, II, Milano, 1993, pp. 413 ss.); F. WIEACKER, Respondere ex auctoritate principis, in Satura Feenstra, Fribourg, 1985, pp. 71 ss., che si configura come lo sbocco finale di un lungo travaglio di pensiero dell’insegne Studioso. Basti, infatti, richiamare dello stesso i contributi Studien zur

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dex, ed il iudicatum da questi reso, unicamente grazie alla iuris auctoritas del prudens: «questi doveva sapere che […] il condizionamento non conseguiva tanto […] in virtù della retta argomentazione sub specie iuris, quanto del prestigio personale, del «nome» di lui» 165. L’auctoritas si acquisiva sia attraverso il contegno virtuoso del giurista in tutti gli ambiti della vita cittadina – politico, militare, culturale – che mediante l’elevata preparazione specialistica tanto più credibile quanto più le sue opinioni fossero adottate nella decisione del giudice 166. Tuttavia, appare non del tutto realistico ritenere che l’auctoritas del singolo giurista si basasse esclusivamente sulla preparazione tecnica acquisita, collegando il prestigio sociale all’accesso alla professione. Contribuiva, infatti, di certo in modo determinante il patrimonio relazionale, come la discendenza da famiglie prestigiose, l’aver rivestito cariche pubbliche, ma un’altra essenziale componente concorreva a formare l’auctoritas del giurista: il riscontro apud iudicem della bontà e dell’efficacia del responsum formulato, cioè il successo nel giudizio. Il loro accoglimento da parte dei giudici costituiva la vera prova della competenza tecnica del giureconsulto da cui proveniva il parere ed è senz’altro un elemento di notevole rilevanza nel riconoscimento di una maxima auctoritas agli occhi della comunità cittadina. Il valore e la fortuna del responso potevano eventualmente accrescersi qualora questo non restasse isolato ma vi convergessero altri pareri concordi, consolidando una communis opinio che avrebbe facilitato la pronunzia del giudice. Tuttavia, come abbiamo visto, persistevano due tradizioni parallele, la scientia iuris e la prassi forense comunicanti attraverso il canale della disputatio fori e della scientia iuris. Tutto cambierà, chiaramente con l’introduzione dello ius publice respondendi: hadrianischen Justizpolitik, in Freiburger rechtsgeschichtliche Abhandlungen, V, Berlin, 1935, pp. 45 ss. e quello, di più ampia portata, sulla giurisprudenza augustea Augustus und die Juristen seiner Zeit, in TR, 37/1969, pp. 65 ss. Una prospettiva a tratti innovatrice è esposta in F. CANCELLI, Il presunto ius respondendi, in BIDR, 29/1987 (pubbl. 1991), pp. 71 ss. Da ultimo vd. R. ASTOLFI, Sabino e il «ius responendi», in Tradizione romanistica, cit., pp. 007-1022. 165 U. VINCENTI, Res iudicatae e diritto giurisprudenziale romano, in Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al Professor Filippo Gallo, Napoli, 1997, p. 574. 166 Cfr. S. TONDO, Aspetti del principato, cit., 212 il quale ritiene che Pomponio voglia sottolineare che «i giuristi (prudentes), in quanto portatori di un alto sapere tecnico (oltre che espressione dei ceti socialmente e culturalmente qualificati), risultavano dotati, anche di fronte ai giudici, d’un prestigio incomparabilmente superiore (auctoritas)».

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Gai. 1.7: Responsa prudentium sunt sententiae et opiniones eorum, quibus permissum est iura condere. Quorum omnium si in unum sententiae concurrunt, id quod ita sentiunt, legis vicem optinet; si vero dissentiunt, iudici licet quam velit sententiam sequi; idque rescripto divi Hadriani significatur. Secondo alcuni autori 167 nel passo non si farebbe riferimento allo ius respondendi. Infatti questa lettura, basandosi sul dato testuale che non vi è esplicita menzione del ius respondendi ma un indeterminato cenno ai giuristi cui permissum est iura condere, ritiene che l’intenzione del Maestro fosse, prima di tutto, quella di alludere, in generale, alla attività creativa propria dei giuristi di dar vita al diritto attraverso la loro interpretatio, riferendosi al fenomeno descritto in D. 1.2.2.5 (Pomp. l. sing. enchir.) e D. 1.2.2.12 (Pomp. l. sing. enchir.) 168: l’interpretatio prudentium e la disputatio fori fecero e fanno nascere un ius civile sine scripto, almeno a partire dalle XII Tavole. Dello stesso parere è Filippo Gallo 169 il quale, premesso che nel testo di Gaio non si menziona lo ius respondendi, ritiene che l’opinione secondo cui Gaio si sia riferito ad esso dipende dall’influenza esercitata sui primi interpreti dal testo stesso del luogo corrispondente (1.2.8) delle Institutiones di Giustiniano, che lo richiama espressamente quando ricorda gli antichi giuristi quibus a Caesare ius respondendi datum est 170. Lo ius respondendi, secondo la tesi esposta, non integrava ancora un effetto creativo del diritto, al quale peraltro tendeva, che venne più tardi riconosciuto, o ufficializzato, dall’imperatore Adriano, nel rescritto citato da 167 G. NICOSIA, Iura condere, in AUPA, 50/2005, pp. 131 ss.; F. CANCELLI, Il presunto ius respondendi, cit., pp. 543 ss.; N. PALAZZOLO, Il princeps, i giuristi, l’editto, in Atti del Convegno internazionale di diritto romano, Res publica e Princeps, Napoli, 1996, pp. 289 ss. 168 D. 1.2.2.12 (Pomp. l. sing. enchir.): Ita in civitate nostra aut iure, id est lege, constituitur, aut est proprium ius civile, quod sine scripto in sola prudentium interpretatione consistit, aut sunt legis actiones, quae formam agendi continent, aut plebi scitum, quod sine auctoritate patrum est constitutum, aut est magistratuum edictum, unde ius honorarium nascitur, aut senatus consultum, quod solum senatu constituente inducitur sine lege, aut est principalis constitutio, id est ut quod ipse princeps constituit pro lege servetur. 169 F. GALLO, La recezione moribus nell’esperienza romana, cit., pp. 1 ss. 170 Iust., Inst. 1.2.8: […] Responsa prudentium sunt sententiae et opiniones eorum quibus permissum erat iura condere. nam antiquitus institutum erat ut essent qui iura publice interpretarentur, quibus a Caesare ius respondendi datum est, qui iurisconsulti appellabantur. quorum omnium sententiae et opiniones eam auctoritatem tenebant ut iudici recedere a responso eorum non liceret, ut est constitutum.

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Gaio 171 a proposito dei responsa prudentium, secondo il quale se i pareri dei giuristi a cui era stato concesso di iura condere erano concordi, essi tenevano le veci di una legge. Notevole appare peraltro l’intuizione del Nicosia 172 che in più occasioni ha rappresentato il permissum est come una allusione al riconoscimento sociale diffuso del valore normativo dell’interpretatio prudentium. Diversa l’opinione di chi riconosce in questo preambolo gaiano una netta allusione al meccanismo dello ius respondendi, anche in riferimento alla necessità di ridurre l’incertezza del diritto 173. Dunque, secondo questa tesi, nella ipotesi della condivisione da parte dei giuristi di una soluzione, questa avrebbe rivestito valore analogo alla legge e il giudice sarebbe stato vincolato ad attenersene; nel caso opposto di dissonanza delle opinioni giurisprudenziali, non essendovi alcun presupposto di vincolatività, il giudicante sarebbe stato libero di orientarsi quam velit sententiam sequi. La mancanza di soluzioni prudenziali vincolanti garantiva quello stato fluido e quel particolare carattere «unstabil und überstabil zu gleichen Zeit» che nell’esperienza romana ha posto in evidenza Dieter Nörr 174. La scelta del iudex poteva esercitarsi solo sui pareri discordi, ed entrambi accreditati, prodotti in giudizio, senza dunque la possibilità di allargarsi ad uno sguardo complessivo sull’insieme della letteratura giuridica in argomento, eventualmente comprensiva anche di responsi di giuristi non patentati. Pertanto lo ius, nel senso pomponiano di iuris scientia come parte costitutiva del diritto civile, accrebbe la propria auctoritas uniformandola a quella del Principe, che partecipava alla sua produzione, senza menomare le prerogative dei giuristi, intervenendo con accortezza a concederne 171

Da ricordare il Wieacker che spiegava il passo di Gaio e il rescritto ivi citato con riferimento a «die normative Kraft unstrittigen juristenrechts»: F. WIEACKER, Respondere ex auctoritate, cit., p. 77. 172 G. NICOSIA, Iura condere, cit., p. 131. 173 P. GIUNTI, Iudex e iurisperitus, cit., p. 48; M. TALAMANCA, Pubblicazioni pervenute alla Direzione, in BIDR, 89/1986, p. 543: «[…] per non essere illusorio (in quanto privo di qualsiasi rilevanza pratica e d’impossibile attuazione), il rescriptum Hadriani poteva riferirsi soltanto ai «Guachen» dati per il caso concreto». 174 D. NÖRR, Rechtskritik in der römischen Antike, München, 1974, p. 16, sulla osservazione del Nörr, v. E. STOLFI, Argumentum auctoritatis, citazioni e forme di approvazione nella scrittura dei giuristi romani, in A. LOVATO (a cura di), Atti del Convegno, Tra retorica e diritto. Linguaggi e forme argomentative nella tradizione giuridica, Trani 22-23 maggio 2009, Bari, 2011, p. 110 nt. 50.

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una in più, quella cioè che avrebbe assegnato al parere prescelto una diretta incidenza pratica. Si può dire seguendo il Cannata che il Principe creava una sua propria autorità di giureconsulto, la quale, essendo una sorta di autorità istituzionale, gli spettava indipendentemente dalla sua personale preparazione o capacità 175. Se il Principe stesso risultava conditor iuris quanto i giuristi, sia avrebbe potuto lui stesso condere iura, ogni qual volta ricoprisse la funzione di giudice, sia avrebbe potuto concedere pareri vincolanti per gli altri iudices, quando questi ne avessero fatto richiesta. Il brano gaiano va però a mio avviso letto a contrario: è possibile, infatti, che il rescritto imperiale fosse stato provocato dalla richiesta di uno iudex che, circondato, da responsa di tenore opposto, come ovvio in un giudizio, avesse richiesto al Principe se fosse consentito appellarsi ad indirizzi consolidati che consentissero di superare le contrastanti tesi prodotte in lite, senza, con ciò, coinvolgere esclusivamente la sua responsabilità di decidente. L’imperatore replica che potrà e dovrà decidere come ritiene più opportuno, ovviamente a sua esclusiva responsabilità, potendosi appellare solo ad un orientamento giurisprudenziale che risultasse univoco. In una simile visione il brano deve essere immerso nelle dinamiche proprie del giudizio, senza tentazioni generalizzanti, pur rappresentando una prova di come la tradizione scientifica e dottrinale stesse diventando un riferimento normativo attraverso il quale attuare il controllo della e sulla giurisdizione. Sebbene con il proprio rescritto Adriano obblighi, ma solo in via ipotetica e tendenziale, lo iudex ad uniformarsi all’idem sentire dei giuristi, in ogni caso l’idem sentire degli iudices rappresentato dalle res iudicatae non appariva deprivato di valenza giuridica. Una conferma della rilevanza normativa dei giudicati uniformi si rinviene alla fine del Principato in un passo di Callistrato ulteriormente denso di articolate pregnanze: D. 1.3.38 (Call. 1 quaest.): Nam imperator noster Severus rescripsit in ambiguitatibus quae ex legibus proficiscuntur consuetudinem aut rerum perpetuo similiter iudicatarum auctoritatem vim legis optinere debere.

175

C.A. CANNATA, Iura condere. Il problema della certezza del diritto fra tradizione giurisprudenziale e auctoritas principis, in Ius controversum e auctoritas principis – giuristi, principe e diritto nel primo impero, Milano, 2003, = L. VACCA (a cura di), Scritti Scelti di Diritto Romano, II, Torino 2012, pp. 507 ss.

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In questo caso l’imperatore attribuisce addirittura la vis legis alla rerum perpetuo similiter iudicatarum auctoritas, dunque prima del rescritto severiano i giudicati uniformi non avrebbero potuto impedire l’affermarsi di una nuova consuetudo, in conseguenza dell’emergere, e del prevalere, di una nuova interpretatio giurisprudenziale – caratteristica dei cd. "sistemi aperti” – poi, successivamente a tale rescritto, i giudicati uniformi avrebbero rappresentato, in conseguenza della vis legis loro conferita, un assetto normativo non più superabile a livello spontaneo, a prescindere cioè da un intervento autoritativo imperiale. Solo dopo il progressivo esaurimento della tradizione giurisprudenziale a forte base controversiale risulterà del tutto inevitabile affidare alle res iudicatae, il ruolo di decisioni formanti del diritto: di ciò sembra potersi trovare diretta attestazione nel noto principio ulpianeo per cui: D. 1.5.25 (Ulp. 1 ad legem Iul. et Pap.): […] quia res iudicata pro veritate accipitur […] 176. Il caso accolto dai Compilatori è quanto mai emblematico: vertendo sullo status della persona si afferma la regola per la quale la condizione del soggetto accertata attraverso una decisione giudiziale assurge a verità ontologica che si sostituisce alla realtà fattuale, come nella situazione appunto che una sentenza dichiari ingenuus chi invero sia liberto 177. 176

Per una esaustiva disamina della lex Iulia et Papia v., per tutti, T. SPAGNUOLO VIGOCasta domus2, Napoli, 2002, pp. 1 ss. 177 Circa la funzione della res iudicata nella formazione della regula iuris, v. A. WACKE, ‘Res iudicata pro veritate accipitur’? Le finalità della procedura civile romana fra principio dispostivo e principio inquisitorio, in C. CASCIONE-C. MASI DORIA (a cura di), Quid est veritas?, cit., p. 381; M. MIGLIETTA, «Determinare infine la regola attraverso la quale stabilire ciò che è vero e ciò che è falso». I giuristi romani e la formazione della regula iuris, in Il diritto come processo. Principi, regole e brocardi per la formazione critica del giurista, Milano, 2012, pp. 42 s. e ID., Giurisprudenza romana tardorepubblicana e formazione della «regula iuris», in SC., 25/2012, pp. 204 ss. Un problema che si pone nell’accogliere una simile massima è il suo rapporto con l’efficacia erga omnes delle sentenze civili, o meglio la loro limitatezza alle parti del processo, ai loro eredi o aventi causa, come stabilita da D. 42.1.63 (Macer. 2 de appell.): Saepe constitutum est res inter alios iudicatas aliis non praeiudicare. quod tamen quandam distinctionem habet: nam sententia inter alios dicta aliis quibusdam etiam scientibus obest, quibusdam vero, etiamsi contra ipsos iudicatum sit, nihil nocet. nam scientibus nihil praeiudicat, veluti si ex duobus heredibus debitoris alter condemnatur: nam alteri integra defensio est, etiamsi cum coherede suo agi scierit. item si ex duobus petitoribus alter victus adquieverit, alterius petitioni non praeiudicatur: idque ita rescriptum est. scienti-

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9. Conclusioni. Possiamo concludere, pertanto, affermando che in età classica tramite l’‘Hörensagen’ 178 le decisioni giudiziali venivano diffuse nel tessuto sociale con ciò trasformando i giudicati in ius receptum 179, procedura che sorbus sententia, quae inter alios data est, obest, cum quis de ea re, cuius actio vel defensio primum sibi competit, sequentem agere patiatur, veluti si creditor experiri passus sit debitorem de proprietate pignoris, aut maritus socerum vel uxorem de proprietate rei in dote acceptae, aut possessor venditorem de proprietate rei emptae: et haec ita ex multis constitutionibus intellegenda sunt. cur autem his quidem scientia nocet, superioribus vero non nocet, illa ratio est, quod qui scit coheredem suum agere, prohibere eum, quo minus uti velit propria actione vel defensione utatur, non potest: is vero, qui priorem dominum defendere causam patitur, ideo propter scientiam praescriptione rei quamvis inter alios iudicatae summovetur, quia ex voluntate eius de iure, quod ex persona agentis habuit, iudicatum est. nam et si libertus meus me interveniente servus vel libertus alterius iudicetur, mihi praeiudicatur. diversa causa est, si fundum a te titius petierit, quem ego quoque, sed non ex persona titii ad me pertinere dico: nam quamvis contra titium me sciente iudicatum sit, nullum tamen praeiudicium patior, quia neque ex eo iure, quo titius victus est, vindico, neque potui titio intercedere, quo minus iure suo utatur, sicuti et de coherede supra diximus; D. 48.2.7.2 (Ulp. 7 de off. proc.): Isdem criminibus, quibus quis liberatus est, non debet praeses pati eundem accusari, et ita divus pius salvio valenti rescripsit: sed hoc, utrum ab eodem an nec ab alio accusari possit, videndum est. et putem, quoniam res inter alios iudicatae alii non praeiudicant, si is, qui nunc accusator exstitit, suum dolorem persequatur doceatque ignorasse se accusationem ab alio institutam, magna ex causa admitti eum ad accusationem debere. Circa il rapporto tra processo e verità si rinvia, da ultimo, a N. IRTI, Diritto senza verità, Roma-Bari, 2011, che con questo lavoro conclude un percorso iniziato con Nichilismo giuridico, Roma-Bari, 2004 e continuato con Il salvagente della forma, Roma-Bari, 2007. Ampia e aggiornata bibliografia sul tema si trova in L. MANNA, ‘Res iudicata pro veritate accipitur’. Origini e significato di una ‘regula iuris’, in L. GAROFALO (a cura di), ‘Res iudicata’, I, cit., pp. 21 ss. 178 Sottolinea la «impossibilità in cui si trovavano i giuristi di venire a conoscenza – al di fuori dell’’Hörensagen’ – di una sufficientemente diffusa prassi giudiziaria» M. TALAMANCA, Recensione a M. SARGENTI-G. LURASCHI (a cura di), Atti del Convegno, La certezza del diritto nell’esperienza giuridica romana, Pavia 26-27 aprile 1985, Padova, 1987, in BIDR, XCI/1988, p. 856. Sul punto L. VACCA, Contributo allo studio del metodo, cit., p. 63: «[…] nelle fonti retoriche risulta indubbiamente che non solo le sentenze venivano usate nella pratica, ma che vi erano precise regole per commisurare la loro autorevolezza. Può a prima vista apparire strano che di questi exempla non ci siano pervenute raccolte, ma bisogna pensare che nella pratica si faceva uso in genere solo delle sentenze più recenti, il che da un lato comportava che non ci si preoccupasse della facile deperibilità del materiale su cui venivano stilate, e si usasse quindi il papiro, dall’altro che queste raccolte non venissero riedite, come avvenne invece per le opere letterarie e giurisprudenziali, ma, piuttosto, rinnovate continuamente». 179 Sullo ius receptum fondamentale il contributo di F. GALLO, Interpretazione e formazione consuetudinaria del diritto, Torino, 1993, p. 51, il quale osserva che «prima dello ius respondendi, l’operare dei giuristi si saldava con la recezione moribus, costituendone la molla

Lo ius controversum espressione dell’artificialità del diritto

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tiva talvolta la formazione di vere e proprie regulae iuris 180. Tuttavia, una suggestione di metodo appare, infine, opportuna: possiamo affermare, rinviando agli studi compiuti dal Kelsen 181, che il diritto è una complessa tecnicalità sociale – imperniata sulla specificità dello Sollen giuridico 182 – per intendere la quale è necessario penetrare in profondità nella intrecciata prassi collettiva che determina la regola dei rapporti esposti al suo esercizio. Per ciò il diritto romano, come ogni ordine giuridico, non può essere contemplato da un solo punto di osservazione, nel caso di specie quello dei prudentes, il pensiero dei quali, enfatizzato nella affascinante macchina metatestuale che sono i Digesta di Giustiniano, ha in effetti conformato l’identità della tradizione romanistica, garantendone la fortuna nei secoli. Le fonti giurisprudenziali, come ogni testo, possono tuttavia essere rilette – ed in effetti lo sono – dalle generazioni che si susseguono, le quali proprio attraverso la loro lettura ricostituiscono lo status della disciplina in termini di sempre nuovo senso conforme alle esigenze dei tempi, in un’opera di permanente edificazione del contenuto epistemologico fondante 183. normale e formando con essa un tutt’uno; i giuristi formulavano le loro proposte, le quali diventavano diritto se e nella misura in cui venivano ricevute nella vita concreta del diritto». Cfr. F. BONA, La certezza del diritto nella giurisprudenza tardo-repubblicana, in La certezza del diritto nell’esperienza giuridica romana, Padova, 1987, p. 146 «il ripetersi di giudicati conformi, espressioni di consenso, era esso stesso veicolo di consenso per l’una o l’altra delle opinioni giurisprudenziali concorrenti, non all’interno di un generico ambiente sociale, ma all’interno di quegli ambienti – di oratori e giudici – che contribuivano a fare l’opinione pubblica». 180 Significative al riguardo le parole di M. TALAMANCA, Il corpus iuris giustinianeo fra il diritto romano e il diritto vigente, in Studi in onore di Manlio Mazzotti di Celso, Padova, 1995, pp. 779 ss.: «caratteristico strumento della giurisprudenza casistica romana è la regula che fissa un principio di carattere più o meno generale, sulla base dei precedenti, e che va in linea di massima applicato ove ricorrano situazioni di fatto che in essa rientrino: la regula stessa, che si fonda, come dice D. 50.17.1 Sabino per il tramite di Paolo, sulle singole decisioni concrete, va sempre reimmersa nella concretezza dei nuovi casi che essa è chiamata a disciplinare». 181

SEN,

H. KELSEN, Il diritto come specifica tecnica sociale, trad. it. di R. GUASTINI, in H. KELLa teoria politica del bolscevismo ed altri saggi, Milano, 1981, pp. 94 ss.

182 H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano, 2000, su questi aspetti hanno riflettuto in un vivace dibattito, denso di spunti di riflessione, N. IRTI-E. SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, Bari, 2001, passim. 183

Cfr. le riflessioni contenute in R. ORESTANO, Edificazione del giuridico, Bologna, 1989, part. 179 ss. dove l’insigne studioso riflette in merito alle plurime letture – anche post-moderne – che sono state fatte del sistema giuridico romano.

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L’attualità registra il tramonto della statualità e della legge 184, della norma come generale ed astratta, dell’illusione della certezza 185 del diritto e l’emersione di regole legate ai giudizi concreti di centri di regolazione poliarchici, dello sviluppo senza freni di quelle che Sabino Cassese ha definito la «Babele delle Corti» 186. Dunque centrale, nella riflessione romanistica, diviene il giudice ed il suo ruolo come epifenomeno delle nuove e diverse sensibilità dell’interprete contemporaneo e della centralità che egli ha sempre avuto e che oggi più che mai possiede. Così si realizza una sorta di attualizzazione interna ai contenuti tradizionali della ricerca romanistica, una attualizzazione non corriva e non deformante, ma che al contrario disvela la straordinaria potenzialità euristica di una sapienza antica.

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Sulla fine dello “Stato Nazione” ed in particolare sulla consequenziale decadenza del concetto di cittadinanza, rinvio al mio “Le identità e le cittadinanze” nell’esperienza giuridica contemporanea: profili problematici, in Studi Giuridici Europei, 2014, pp. 26 ss. 185 V. sul punto M. MARRONE, Riflessioni in tema di giudicato: l’autorità del giudicato e Cicerone sulla cd. funzione positiva dell’exceptio rei iudicatae, in L. VACCA (a cura di), Diritto Romano, tradizione romanistica e formazione del diritto europeo: giornate di studio in ricordo di G. Pugliese, Padova, 2008, pp. 61 ss. Il problema del giudicato era ben avvertito anche in Grecia come dimostra quanto affermò Demostene nella orazione contro Timocrate: «togliere al giudicato il suo carattere irrevocabile, attentare ad esso, sia pure per mezzo di una legge o di un decreto del popolo è delitto spaventevole, è un atto empio, è un attentato ai principi fondamentali del governo democratico»: Demosth, contra Thimoc. 152. Sull’orazione v. P.M. PINTO, Demostene, Contro Timocrate, in L. CANFORA (a cura di), Discorsi e lettere di Demostene, 2, Discorsi in tribunale, II, Torino, 2000, pp. 323 ss. 186 S. CASSESE, I tribunali di Babele. I giudici alla ricerca di un nuovo ordine globale, Roma, 2009, pp. 19 ss. Interessanti sul punto le considerazioni raccolte in A. FISCHER-LESCANO-G. TEUBNER, Regime-Kollisionen. Zur Fragmentierung des globalen Rechts, Frankfurt am Maine, 2006, p. 36: «la frammentazione del diritto globale è un epifenomeno della profonda frammentazione pluridimensionale della società mondiale. Essa è irrimediabile: si può aspirare solo a una debole compatibilità, attraverso un Kollisionrecht di nuovo tipo, sviluppato in una logica di rete, che punti ad un legame tenue di unità collidenti ed a provvisorie soluzioni di conflitti».

Capitolo II

Regulae iuris e categorie processuali

SOMMARIO: 1. Premessa metodologica. – 2. Origini e natura delle regulae iuris. – 3. Ontogenesi di una categoria. – 4. L’efficacia delle regulae iuris e delle definitiones. – 5. Conclusioni.

1. Premessa metodologica. Il tema della nascita, struttura e funzione delle regulae iuris si colloca all’interno di un ricco dibattito dottrinale 1, il quale, per essere compreso, esige di essere contestualizzato in una riflessione più ampia che dia conto della rilevanza dell’attività dello iudex privatus e del giurista nel procedimento di formazione della regula iuris nell’ordinamento giuridico di Roma antica e in particolare in seno alla disputatio fori dalla quale, non di rado, poteva germinare 2, infatti, come ha osservato Letizia Vacca, «la formulazione di ‘regole casistiche’ è […] uno degli strumenti metodologici più significativi nel procedimento seguito dai giuristi romani nel rappresentare la sintesi delle soluzioni individuate attraverso la l’interpretatio» 3. Una consapevole indagine su un tema tanto complesso necessita non so1

Da ultimo i contributi raccolti in RIDA, 61/2014, spec. pp. 29-46; 47-82; 149-195; 369-371 e quelli contenuti in AA.VV., Regulae Iuris. Ipotesi di lavoro tra storia e teoria del diritto, Napoli, 2016, pp. 1-201. 2 Sulla rilevanza della disputatio fori nella evoluzione del diritto romano la bibliografia è sterminata, qui si rinvia, per la ricchezza di informazioni, soprattutto nelle fonti di età imperiale, al lavoro di T. WYCISK, Quidquid in foro fieri potest. Studien zum römischen Recht bei Quintilian, Berlin, 2008, passim. 3 L. VACCA, Interpretatio e caso concreto, in EAD. (a cura di), Scienza giuridica e interpretazione e sviluppo del diritto europeo. Convegno Aristec Roma 9-11 giugno 2011, Napoli, 2013, p. 41.

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lo di una preliminare chiarificazione circa il portato semantico dei termini che verranno più volti richiamati ma, altresì, di una succinta premessa metodologica, in ragione delle teorie logico-interpretative adottate come parametri argomentativi. Ciò facendo, si tenterà di «rileggere sia singole regole, sia il problema generale delle regulae iuris attraverso un percorso di forte storicizzazione […] e di reinterpretazione teorica e pratica» 4. È opportuno, in primis, chiarire come l’opposizione tra legge e giudice, che evoca quella più profonda tra norma e regola, presupponga l’adesione alla c.d. “teoria formalistica classica” 5, secondo la quale la norma giuridica è caratterizzata dagli aspetti della generalità e della astrattezza. In una simile visione la regola, intesa come direttiva dei comportamenti a rilevanza giuridica, è dettata prevalentemente dal giudice attraverso l’emanazione di una sentenza per la soluzione del caso specifico. Si tratta di una distinzione da tempo in via di consumazione per cui il presente contributo si articolerà sulla tesi per cui sulla premessa che la norma più che generale è generica e vaga detta norma debba essere articolata su plurimi livelli, tra i quali deve essere distinta la norma-principio dalla norma-regola, ma ciò non sulla scorta di una costitutiva eterogeneità di fondo, bensì sulla base dell’interpretazione di carattere esclusivo od inclusivo che giuristi, attuando le loro strategie ermeneutiche, intendono operare sulla norma stessa. È, con ciò, necessario distinguere tra il concetto di disposizione e quello di norma, distinzione proposta con successo dall’analitica giuridica, per la quale la disposizione come mero vettore – sia esso scritto o non scritto – non incide sulla natura della norma, soprattutto in un sistema giuridico “a formanti plurimi” 6 come quello romano, 4

C. CASCIONE, Profondità e margini di una ricerca, in Regulae iuris, cit., p. 203. Si veda C. PERELMAN, Logica giuridica. Nuova retorica, ed. it., Milano, 1979, passim; ID., G. FURNARI LUVARÀ (a cura di), Teoria e pratica dell’argomentazione. Antologia degli scritti, Soveria Mannelli, 2005, passim. 6 Sul concetto di ‘formanti’ è quindi opportuno spendere qualche considerazione: esso è stato, com’è noto, precipuamente elaborato da Rodolfo Sacco in riferimento alle basi giuridiche sulle quali si sviluppa l’ordinamento di una società, vedi R. SACCO, Introduzione al diritto comparato, Torino, 1992, passim. Il più rilevante valore euristico della nozione di ‘formante’ è nell’avere indicato alcuni di essi come crittotipi, non enunciati e non verbalizzati, i testi-norme di cui si è accennato in precedenza. ‘Formante’ e non fonte appare, pertanto, essere il concetto più appropriato per descrivere le sorgenti dei materiali di carattere regolativo confluenti nel complessivo corpus costituente l’ordine legale a Roma, tra il III secolo a.C. ed il III secolo d.C., prima della progressiva legum permutatio portata a compimento da Giustiniano, sul punto F. GALLO, Consuetudine e nuovi contratti. Contributo al recupero dell’artificialità del diritto, Torino, 2012, passim. Quella di ‘formante’ è nozione ermeneuti5

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almeno come si delinea tra il III secolo a.C. e il III d.C. 7. L’affermazione che precede è di particolare utilità per intendere le fonti che a proposito della regula iuris ne sottolineano la natura di enunciato breve, per evitare di considerare una norma veicolata da una disposizione sintetica, come mera massima. Al fine di non ingenerare confusione concettuale, ci si accinge a specificare termini quali vaghezza, genericità e generalità, nel senso adoperato nel presente contributo, facendo propri i risultati raggiunti in dottrina dalla logica giuridica, in particolare dal pensiero di Claudio Luzzati, che ha dedicato a simili argomenti dense e profonde riflessioni 8. La vaghezza, che consiste in un’incertezza riguardo ai confini di un concetto, si ha ogni qual volta si presentano casi limite non riconducibili ad una data classe né al suo complemento; in questa prospettiva una asserzione vaga costituisce una asserzione indecidibile, proprio in quanto non si può sapere se riferibile a fatti veri o falsi 9. Differentemente una asserzione che si presenta come generica è di per sé decidibile e molto spesso affonda le sue radici nella veridicità dei fatti descritti, che però vengono esposti in modo ovvio e con scarsa puntualità. La genericità è, in effetti, la controparte linguistica del senso comune: offre certezze effimere, sufficienti solo sul piano di un’impressione superficiale proprio in quanto coglie verità banali 10. camente più consona rispetto all’altra di fonte e ciò perché la fonte è tautologicamente basata all’interno del sistema ordinamentale, mentre il “formante” è ad esso esterno come posizione ed interno come funzione. Vd. sulle riforme ‘costituzionali’ giustinianee S. PULIATTI, «Antiquitas reverentia» e funzionalità degli istituti nelle riforme costituzionali di Giustiniano, in M.P. BACCARI-C. CASCIONE-L. LABRUNA (a cura di), Tradizione romanistica e Costituzione, II, Napoli, 2006, p. 1377 ss. 7 Cfr. Cic., Top. 28: Atque etiam definitiones aliae sunt partitionum aliae divisionum; partitionum, cum res ea quae proposita est quasi in membra discerpitur, ut si quis ius civile dicat id esse quod in legibus, senatus consultis, rebus iudicatis, iuris peritorum auctoritate, edictis magistratuum, more, aequitate consistat. Divisionum autem definitio formas omnis complectitur quae sub eo genere sunt quod definitur hoc modo: Abalienatio est eius rei quae mancipi est aut traditio alteri nexu aut in iure cessio inter quos ea iure civili fieri possunt. 8 C. LUZZATI, Prìncipi e princìpi. La genericità nel diritto, Torino, 2012, spec. pp. 3-115. 9 C. NITSCH, La regola e l’eccezione. Su defettibilità, ambiguità e vaghezza delle norme giuridiche, in Regulae Iuris. Ipotesi di lavoro tra storia e teoria del diritto, Napoli, 2016, pp. 171-188, spec. p. 183, che prende in esame un caso concreto riportato nel Digesto: D. 33.2.32.2. 10 Sul concetto di genericità delle norme si veda G. PINO, Diritti e interpretazione. Il ragionamento giuridico nello Stato costituzionale, Bologna, 2010, p. 54: «i principi sono, dunque, norme generiche. Una norma generica è una norma suscettibile di essere applicata in

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La categoria linguistica della genericità non deve essere sovrapposta a quella della generalità, quest’ultima, infatti, accomuna tutti quei casi presi congiuntamente e riconducibili ad un insieme molto esteso. Per questo motivo la generalità è molto informativa e non tollera eccezioni che ne minerebbero la validità: l’enunciato inquadrabile in simile cornice deve essere, infatti, universalmente valido, valere cioè per tutti i casi di una data classe, senza che un solo caso contrario possa falsificarlo 11. Solo ciò premettendo potrà ben emergere come la distinzione tra norma e regola si dimostrerà debole, anche in ragione della circostanza che la regula iuris romana è di per sé confutabile e spesso confutata. L’ulteriore riferimento della presente riflessione è costituito dalla presa d’atto dell’essenziale controversialità 12 dello ius Romanorum nella doppia valenza sia di diritto scientificamente controverso, sulla scorta di tradizioni interpretative singolarmente discontinue ma unitariamente continue nella sincronia del tempo, che di diritto ontologicamente controverso, in quanto fondato su prassi contenziose (iudicia) generanti logiche confutazionali destinate a realizzare forme di giustizia di reciprocità, improntate al principio metagiuridico del bonum et aequum 13. modi diversi»; G. ZAGREBELSKY, La legge e la sua giustizia. Tre capitoli di giustizia costituzionale, Bologna, 2008, p. 213; R. GUASTINI, Ponderazione. Un’analisi dei conflitti tra principi costituzionali, in Ragion pratica, 26/2006, pp. 151-159. 11 Cfr. C. LUZZATI, Prìncipi e princìpi, cit., p. 6; ID., Elogio dell’indifferenza. La genericità scarnificata, in Diritto e questioni pubbliche, Palermo, 2012, pp. 345 ss. 12 Il termine è di M. TALAMANCA, recensione a Iura, 36/1985, in BIDR, 1989-1990, pp. 740 ss. 13 Arist., Eth. Nic. 1130b 31-32. La giustizia come reciprocità è stata chiamata anche “giustizia del contraccambio”, “giustizia del contrappasso”, “giustizia dello scambio” e “giustizia antipepontotica” (quest’ultima definizione è stata coniata da P. R. TROJANO, Dottrine morali di Pitagora e di Aristotele, Roma, 1897, passim ma non trova fondamento nei testi). Forse il termine più felice è quello proposto da D.G. RITCHIE, Aristotle’s Subdivisions of Particular Justice, in Classical Review, 7/1894, p. 191, che ha parlato di “catallactic justice” ossia di “giustizia catallatica”, sul punto v. G. AZZONI, La reciprocità delle Grazie: oltre l’antinomia di universale e particolare nell’idea di giustizia, in F. BOTTURI-F. TOTARO (a cura di), Universalismo ed etica pubblica, Milano, 2006, pp. 35 ss. Sul bonum et aequum come parametro di giustizia nella receptio moribus cfr. F. GALLO, Interpretazione e formazione consuetudinaria del diritto. Lezioni di diritto romano, Torino, 1993, passim; ID., La consuetudine nel diritto romano, in Atti del Colloquio romanistico-canonistico (febbr. 1978), Roma, 1979, pp. 98 ss.; ID., Produzione del diritto e sovranità popolare nel pensiero di Giuliano (a proposito di D. 1.3.22), in Iura, 36/1985, p. 70; ID., Celso e Kelsen. Per la rifondazione della scienza giuridica, Torino, 2010, spec. pp. 21 ss.; ID., Consuetudine cit., spec. pp. 27

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Può, certo, sorgere il dubbio sull’applicabilità di schemi teorici siffatti al tema delle regulae iuris. Deve essere, però, in primo luogo, chiarito che in tutti i processi interpretativi l’oggetto interpretato si configura nella modalità adottata dal soggetto interpretante; inoltre, l’analitica dell’argomentazione giuridica mostra, più di altri temi, forti elementi di continuità tra l’antico e il moderno; infine, la specificità dei singoli oggetti storici non può spingersi fino a frantumare la linea di continuità antropologica dell’esperienza umana. Il tema delle regulae iuris così delineato è oggettivamente di grande bellezza scientifica e sprigiona la propria forza euristica soprattutto nell’attuale periodo storico, dominato dal principio dell’incertezza, di cui Arnold Gehlen, il padre dell’antropologia filosofica, ne ha disvelato la potenzialità 14, prima ancora dei grandi teorizzatori (come: Beck 15, Touraine 16, Bauman 17). Infatti, il Gehlen, partendo dal presupposto della fragilità della natura umana, costruisce le istituzioni sociali, incluse quelle giuridiche, come strumenti difensivi volti a limitare il diffondersi del principio di incertezza, che, oltre a mettere in discussione il nostro “essere al mondo”, per dirla con Martin Heidegger 18, rischia di dissolvere le stesse istituzioni e tra esse il ius come prodotto umano, deprivandolo di razionalità e di senso. Di qui, la necessità di trasformare l’incertezza in una forza positiva e dinamica di ricostruzione, anche mediante tecniche decostruttive, del sistema giuridico. Le norme-regole sono insieme alle norme-principio lo strumento forte e mirabile che ha consentito, con la sua efficacia dialettica, al sistema giuridico romano di sopravvivere all’incertezza e all’instabilità: la potente modernità del tema emerge, allora, con forza.

ss.; ID., Carattere ideologico della soggezione del giudice alla legge, Torino, 2014, spec. pp. 49 ss. Per maggiore bibliografia rinvio al mio Lo ius controversum quale espressione di artificialità del diritto, in SDHI, LXXXI/2015, pp. 45 ss. 14 A. GEHLEN, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, ed. it., Milano, 2010, passim. 15 U. BECK, La società del rischio. Verso una seconda modernità, ed. it., Roma, 2000, passim. 16 A. TOURAINE, La globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere il mondo contemporaneo, ed. it., Milano, 2008, passim. 17 Z. BAUMAN, La società dell’incertezza, ed. it., Bologna, 1999, passim. 18 M. HEIDEGGER, Essere e tempo, trad. it., A. MARINI (a cura di), Milano, 2006, passim.

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2. Origini e natura delle regulae iuris. Molteplici sono gli aspetti strutturali e funzionali afferenti alle regulae iuris che attendono una soluzione. Si tratta di risvolti concernenti non solo la loro natura descrittiva o precettiva ma anche il loro effettivo apporto nel processo di trasformazione di una esperienza giuridica 19 da essenzialmente conflittuale ad una che ambisce ad essere ordinata, razionale e coerente, sebbene non scevra da profili dialettici. Simili riflessioni dischiudono a loro volta itinerari di ricerca volti a delineare il perimetro linguistico delle regulae iuris rispetto ad altri segni linguistici, in particolare ai principi come incorporati nelle definitiones 20 e nelle regole di natura prevalentemente casistica. Il tutto calato in un flusso cognitivo, nello stesso tempo, sapienziale e tecnico a dimensione dialogica tra iudex e giurista, dove il prudens deve confrontarsi con il pratico e viceversa 21. Dialettica che se da un lato tende a garantire una stabilità nel fissare regole valide per più casi, dall’altro, proprio per la natura topica dell’ordinamento in cui si innesta, assicura una continua apertura a nuove soluzioni, alla luce del fatto, mutuando le parole del Burdese, che se «le regulae appaiono ricavate dalla casistica sono aperte a loro volta a eccezioni» 22. 19

R. ORESTANO, Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna, 1987, p. 352. A detta dello studioso una simile nozione è «[…] l’unica […] di quante disponiamo, che sia idonea […] a ricomprendere ogni altra» (op. cit., p. 353), in quanto permetterebbe di pensare il diritto nella molteplicità delle sue concrete manifestazioni, senza aprioristiche esclusioni (cfr. op. cit., p. 352), nelle quali incorrerebbe, ad esempio, la concettualizzazione di “ordinamento giuridico”. 20 M. MIGLIETTA, Giurisprudenza romana tardo repubblicana e formazione della «regula iuris», in Seminarios Complutenses de Derecho Romano, XXV/2012, p. 190; ID., Servius respondit. Studi su metodo e interpretazione nella scuola giuridica serviana, I. Prolegomena, Trento, 2010, praecipue sulle regulae iuris pp. 73 nt. 66; 74 nt. 6; nt. 68; nt. 69. Come osserva Carla Masi Doria «in età repubblicana, grazie all’opera dei giuristi, si sviluppano definitiones che servono a fornire una descrizione sommaria dello stato esistente del diritto. Dalla definizione, che prevalentemente offre una rappresentazione anomalista del diritto, si passa alla costruzione di regulae […]»: in Variazioni in tema di regulae iuris (a mò di introduzione), in Regulae iuris, cit., p. 1). 21 Cfr. P. GIUNTI, Iudex e iurisperitus. Alcune considerazioni sul diritto giurisprudenziale romano e la sua narrazione, in Iura, LXI/2013, pp. 53 ss. Sulla differenza tra definitiones e regulae si veda anche R. MARTINI, Le definizioni dei giuristi romani, Milano, 1966, passim; A. CARCATERRA, Le definizioni dei giuristi romani. Metodi, mezzi, fini, Milano, 1966, passim. 22 A. BURDESE, Recensione a M. KASER, Römische Rechtsquellen und angewandte Juristenmethode. Ausgewählte, zum Teil grundlegend erneute Abhandlungen, Wien-Köln-Graz

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Nel lessico giuridico romano l’utilizzo del segno regula è, come noto, alquanto tardo e dimostra, secondo il Miglietta, «in àmbito giuridico, la natura marcatamente eclettica degli antichi romani» 23; appare, infatti, mutuato, all’incirca nel I secolo d.C., dal linguaggio dei grammatici, alle cui opere i prudentes di quel periodo prestavano interesse 24. Nella letteratura non giuridica, la regula – che nel linguaggio delle costruzioni indicava propriamente il regolo 25 – denotava per traslato il metro di valutazione del comportamento umano, ossia, in senso metaforico, lo strumento idoneo a mostrare una conformità della condotta ad una tavola assiologica ideale e condivisa 26. Su questo piano semantico il termine regula fu inizialmente adoperato, soprattutto negli scritti filosofici e retorici, come traduzione del termine greco κανών, nel senso figurato di criterio direttivo volto a distinguere il vero dal falso, utilizzando le parole di Cicerone in una delle sue opere retoriche maggiori come il Brutus (152) 27: habere regulam qua vera et falsa iudi1986, in SDHI, LIII/1987, pp. 403 ss. (= ID., Recensioni e commenti: sessant’anni di letture romanistiche, I, Padova, 2009, p. 617). Oltre le regulae create dall’attività giurisprudenziale vi sono anche quelle nate dalle singole controversie sottoposte, in epoca più tarda, alla cognizione dell’imperatore, su quest’ultime, non potendo trattarne qui diffusamente, si rinvia a M.G. ZOZ, L’evoluzione e la cosiddetta “consolidazione” del diritto imperiale romano da parte della giurisprudenza: brevi osservazioni, in D@S, 8/2009, pp. 4 s. 23 M. MIGLIETTA, Giurisprudenza, cit., p. 226. 24 P. STEIN, Regulae iuris. From Juristic Rules to Legal Maxims, Edinburgh, 1966, p. 58. 25 Vitr., de arch. 1.2.2: “[…] longitudines ad regulam et ad lineam, altitudines ad perpendiculum, anculi ad normam respondentes”; cfr. M. MIGLIETTA, Giurisprudenza romana, cit., p. 226. Sulla etimologia del lemma regula si veda E. CHEVREAU, Étymologie juridique et regula iuris, in RIDA, 61/2014, pp. 29-46; B. SCHMIDLIN, Horoi, pithana und regula. Zum Einfluss der Rhetorik und Dialektik auf die juristische Regelbildung, in ANRW, 15/1976, pp. 101-129. 26 Cfr. L. LANTELLA-E. STOLFI-M. DEGANELLI, Operazioni elementari di discorso e sapere giuridico, Torino, 2003, p. 183; M. MIGLIETTA, Giurisprudenza, cit., p. 227. 27 Cic., Brut. 152: Hic Brutus: Ain tu? inquit: etiamne Q. Scaevolae Servium nostrum anteponis? Sic enim, inquam, Brute, existumo, iuris civilis magnum usum et apud Scaevolam et apud multos fuisse, artem in hoc uno; quod numquam effecisset ipsius iuris scientia, nisi eam praeterea didicisset artem, quae doceret rem universam tribuere in partes, latentem explicare definiendo, obscuram explanare interpretando, ambigua primum videre, deinde distinguere, postremo habere regulam, qua vera et falsa iudicarentur et quae quibus propositis essent quaeque non essent consequentia. Nel passo l’Arpinate rimarca questo utilizzo del termine regula, evidenziandone l’importanza all’interno della giurisprudenza sistematizzatrice serviana, «in altre parole, Cicerone esalta in concreto le sistemazioni in genus e species, le definitiones, le interpretationes in ordine ad oscurità, l’individuazione ed il superamento delle

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carentur 28. Il lemma viene discusso dal giurista augusteo Masurio Sabino, in sostanziale consonanza cronologica con la mutazione semantica sopra accennata, in rapporto sinonimico tra regula e Richtmass 29, ameno così ci riporta il giurista dell’età dei Severi Paolo accolto dai compilatori bizantini in un testo famoso che contiene una delle rare enunciazioni metodologiche dei giuristi romani, e costituisce un luogo fondamentale per la comprensione del procedimento che guida la formazione delle regole casistiche e la loro successiva utilizzazione 30, ci si riferisce a: D. 50.17.1 (Paul. 16 ad Plaut.): Regula est, quae rem quae est breviter enarrat. non ex regula ius sumatur, sed ex iure quod est regula fiat. per regulam igitur brevis rerum narratio traditur, et, ut ait Sabinus, quasi causae coniectio est, quae simul cum in aliquo vitiata est, perdit officium suum, dove la parola in esame pare venga assimilata, osserva il Corbino 31, a quella di una causae coniectio 32, della quale Gaio nelle sue manuale istituzionale parla come di rem exponere breviter et quasi per indicem (Gai. 4.15) 33. ambiguità, l’elaborazione di regulae iuris, di cui era ricca tutta l’attività giurisprudenziale di Servio Sulpicio, a differenza da ciò che, secondo lui, doveva dirsi per l’attività di Q. Mucio e di altri giuristi anteriori a Servio»: B. ALBANESE, L’ars iuris civilis nel pensiero di Cicerone, in AUPA, 47/2002, pp. 23 ss. 28 Sulla ricerca del vero e del falso nel pensiero giuridico di età ciceroniana vedi C. MASI DORIA, Linee per una storia della ʽ veritasʼ nell’esperienza giuridica romana. I. Dalle basi culturali al diritto classico, in C. CASCIONE-C. MASI DORIA (a cura di), Quid est Veritas? Un seminario su verità e forme giuridiche, Napoli, 2013, pp. 1-64. 29 Cfr. B. SCHMIDLIN, Die römischen Rechtsregeln. Versuch einer Typologie, Köln-Wien 1970, p. 20; B. SANTALUCIA, «Regulae iuris», in Labeo, 20/1974, pp. 259 ss., spec. p. 261. 30 L. VACCA, Interpretatio e caso, cit., pp. 41 s. Sull’importanza di questo passo sulla cultura giuridica orientale vd. R. YARON, ‘Regulae iuris’in oriental sources, in Iuris Vincula. Studi in onore di Mario Talamanca, VIII, Napoli, 2001, pp. 481-511. Interessanti osservazioni sulla nascita delle regulae iuris in diritto ebraico si trovano in F. LUCREZI, Sulle regulae iuris in diritto ebraico, in Regulae iuris, cit., pp. 22-34. 31 A. CORBINO, Caso, diritto e regula. Limiti della funzione normativa del caso deciso nella visione romana, in Quaderni Lupiensi di Storia del Diritto, 5/2015, pp. 1 ss. (= in Regulae iuris, cit., p. 35 ss.). 32 «Della quale Gaio (4.5) parla come di rem exponere breviter et quasi per indicem. Così, anche, per altro, Ps. Asc., in Verr. 2.1.26: … quasi causae suae in breve coactio …»: A. CORBINO, Caso, diritto, cit., p. 2 (= in Regulae iuris, cit., p. 36). 33 Gai 4.15: [. . .] istae omnes actiones [. . . . . vv. 5 . . . . . . . ] captus [. . . . . vv. 5 . . . . . . . ] ad iudicem accipiundum uenirent. postea uero reuersis dabatur. ut autem die XXX. iudex

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Ma il fatto che Sabino discutesse della natura della regula prova come una simile nozione fosse pienamente conosciuta dai giuristi probabilmente tra la fine del I secolo d.C. e l’inizio del II, epoca in cui per primo, Nerazio Prisco, intitolò una sua opera libri regularum, così dando impulso a un genere letterario che troverà in seguito un’ampia diffusione nella letteratura giuridica 34. Si deve registrare come la giurisprudenza romana non sviluppò mai una definizione precisa della regula iuris, al riguardo si rinvia al già richiamato D. 50.17.1 (Paul. 16 ad Plaut.), dove Paolo si limita a definire la regula come una brevis rerum narratio, che germina dallo ius quale prodotto di una pluralità di formanti concorrenti (ex iure quod est regula fiat). In merito al passo citato Carlo Augusto Cannata ha rilevato che «dicendosi ‘non ex regula ius – sed ex iure regula’, si afferma che il principio dell’operazione decisionale giuridica non dev’essere in un dettame astratto, come potrebbe essere una regola legislativa o interpretativa, ma nella realizzazione pratica del diritto, cioè nelle soluzioni giuste già raggiunte. In altre parole: il criterio per la soluzione di un caso non deve essere cercato come criterio; quel che si deve avere presente non è un repertorio di criteri dettati come tali; la soluzione giusta di un caso si trae dal caso stesso, e quando la si è trattata le si deve dare forma di regola, sicché quando si applicherà ancora questa regola si applicherà ancora la soluzione giusta del caso» 35. Al di là dell’espressione lessicale, qualificata o meno dall’aggiunta di iuris o iuris civilis, l’essenza della regula sembra essere data dalla sua attitudine ad offrire, in sintesi, la disciplina normativa di una determinata fattispecie; per dirla con il Bretone «le regole […] si presentano come massime consolidate […] che funzionano […] come strumenti topici e diagnostici di una detur, per legem Pinariam factum est; ante eam autem legem statim dabatur iudex. illud ex superioribus intellegimus, si de re minoris quam M aeris agebatur, quinquagenario sacramento, non quingenario eos contendere solitos fuisse. postea tamen quam iudex datus esset, comperendinum diem, ut ad iudicem uenirent, denuntiabant; deinde cum ad iudicem uenerant, antequam apud eum causam perorarent, solebant breuiter ei et quasi per indicem rem exponere; quae dicebatur causae coniectio quasi causae suae in breue coactio; sul passo v. A. CORBINO, Caso, diritto, cit., p. 2 nt. 11 (= in Regulae iuris, cit., pp. 36 ss.). 34 Vedi P. STEIN, Regulae iuris, Edinburgh, 1966, p. 79. Del volume dello Stein si veda la recensione fattane da R. MARTINI in Labeo,14/1968, pp. 301-309. 35 C.A. CANNATA, Per una storia della scienza giuridica europea. I. Dalle origini all’opera di Labeone, Torino, 1997, pp. 328 ss.; a questo proposito cfr. L. VACCA, I precedenti e i responsi dei giuristi, in EAD., Metodo casistico e sistema prudenziale. Ricerche, Padova, 2006, pp. 148 ss.; EAD., Interpretatio e caso, cit., pp. 42 ss.

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strategia argomentativa, sono entità in qualche misura stabili o provvisori punti di approdo» 36. Come osserva il Corbino in merito un primo dato è la radicale diversità di funzione che la regula iuris ha rispetto a quella cui assolvono gli altri canoni che concorrono a rendere possibile una decisione giuridica, «mentre, infatti, la regula esplica la sua funzione a valle del diritto (ex iure quod est regula fiat), gli altri canoni la esplicano a monte di esso» 37. Così pur non rivestendo normativamente carattere assoluto e inderogabile, la regula iuris in senso proprio assumerebbe nella percezione del sistema giuridico romano valore imperativo, in quanto frutto di una elaborazione giuridica consolidata e universalmente accettata. In tale prospettiva, la nota affermazione gaiana, tràdita in D. 2.14.28 pr. (Gai. 1 ad ed. prov.): Contra iuris civilis regulas pacta conventa rata non habentur, veluti si pupillus sine tutoris auctoritate pactus sit, ne a debitore suo peteret, aut ne intra certum tempus veluti quinquennium peteret, dimostrerebbe che la libera esplicazione dell’autonomia privata incontra nelle regulae iuris un limite non immediatamente superabile, il che vale a confermare il valore almeno sul piano della percezione normativa, espresso dalle regulae iuris. La forza delle regulae iuris non è dunque quella di semplici principi di esperienza derivanti dalla pratica del diritto poi consolidatisi in forma di massime, ma di norme ormai stabilite, portatrici di propria forma regolatrice, ma non per questo definitive e immutabili.

3. Ontogenesi di una categoria. Il fondamento storico delle regulae iuris appare strettamente connesso con una delle caratteristiche principali del diritto romano, efficacemente declinata dallo Schiavone come “sindrome prescrittiva” 38, e individuata tradizionalmente nella tensione che spinge a ridurre i rischi ed a cercare punti stabili 39. Una simile ‘sindrome’ imponeva la creazione di un sistema di re36

M. BRETONE, Storia del diritto romano6, Bari, 1999, p. 305. 37 A. CORBINO, Caso, diritto, cit., p. 3 (= in Regulae iuris, cit., p. 37). 38 A. SCHIAVONE, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino, 2005, pp. 48 ss. 39 D. NÖRR, Aspekte des römischen Völkerrechts. Die Bronzetafel von Alcantara, München, 1989, p. 121.

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gole giustificatrici 40, la cui nascita si situa nello stesso contesto nel quale si sviluppano fenomeni come: la fondazione scientifica del ius civile, a sua volta innescata dalla nascita della letteratura giuridica, e la tensione verso visioni sistematiche e codificatorie 41. La creazione delle regulae muove di conseguenza dalla preoccupazione di richiamare il giurista ad un’analisi raffinata dei casi e, infatti, siamo in un intervallo di tempo, quello compreso tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., nel quale il servirsi di una grammatica e di una sintassi condivise diviene l’indicatore che rivela il possesso dei fondamenti della scientia iuris. Attraverso la regula iuris la iurisprudentia reagisce dall’interno alle tendenze dissolutive che il sistema aperto porta con sé, dandosi criteri condivisi d’orientamento dell’interpretazione e difendendo, così, il prestigio del proprio ruolo. Detto ciò, è di non poca rilevanza il problema relativo all’ontogenesi della regula, meglio ancora la ricostruzione della elaborazione giurisprudenziale dalla quale la regula ha preso corpo. Infatti, le soluzioni delle problematiche che sfociarono e trovarono la loro sintesi nell’enunciazione della 40 Sul fondamento storico delle regulae cfr. J.M. BLANCH NOUGUES, La “certissima iuris regula” de Gayo, in RIDA, 44/1997, pp. 45-70 e G. NOCERA, Jus publicum (D. 2.14.38) contributo alla ricostruzione storico-esegetica delle regulae iuris, Roma, 1946, passim. 41 Sulle tendenze codificatorie cfr., per tutti, AA.VV., La codificazione del diritto dall’antico al moderno. Incontri di studio – Napoli, gennaio-novembre 1996. Atti, Napoli, 1998; sull’idea di “codex” vedi L. SOLIDORO MARUOTTI, Codici antichi e codici moderni, in EAD., I percorsi del diritto. Esempi di evoluzione storica e mutamenti del fenomeno giuridico, Torino, 2011, pp. 1-28. Circa il contenuto delle XII Tavole si vedano A. GUARINO, Il dubbio contenuto pubblicistico delle XII Tavole, in Labeo, 34/1988, pp. 323 ss.; ID., Cicerone come e quando, in Labeo, 36/1990, pp. 267 ss.; ID., Una palingenesi delle XII Tavole?, in Index, 19/1991, p. 228; A. WATSON, Le XII Tavole: caratteri di un’antica codificazione, in Conferenze storico-giuridiche dell’istituto di storia del diritto e filosofia del diritto (Perugia), Perugia, 1980, p. 158; F. SERRAO, Dalle XII Tavole all’editto del pretore, in La certezza del diritto nell’esperienza giuridica romana, Padova, 1987, p. 67; B. ALBANESE, “Privilegia”, “maximus comitiatus”, “iussum populi” (XII Tab. 9.1-2, 12.5), in Labeo, 36/1990, pp. 19 ss. Sulla portata storica della pubblicazione delle XII Tavole ed in particolare sulla loro palingenesi d’obbligo è la lettura delle molteplici ed attente ricerche condotte in materia da Oliviero Diliberto, per la cui bibliografia si rinvia a O. DILIBERTO, La responsabilità nelle XII Tavole: profili palingenetici, in L. CAPOGROSSI COLOGNESI-M.F. CURSI (a cura di), Forme di responsabilità in età decemvirale, Napoli, 2008, p. 1 nt. 2. Da ultimo, una interessante raccolta di contributi sulle tendenze codificatorie nel panorama europeo è costituita da L. VACCA (a cura di), Dai giuristi ai codici, dai codici ai giuristi. Convegno Aristec Roma 20 febbraio 2012, Napoli, 2016, spec. W. DAJCZAK, Usus modernus pandectarum e diritto europeo, pp. 77-86; S. PATTI, Diritto europeo e codificazioni moderne, pp. 87-91. I predetti contributi partono dalle preziose riflessioni che su tali temi ha offerto Carlo Augusto Cannata.

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regula iuris avevano seguito – come evidenzia il Giuffrè 42 – molto spesso, percorsi intricati di non facile ricostruzione, ciò alla luce del dato che non sono state, nella maggior parte dei casi, conservate le soluzioni che il singolo giurista aveva ritenuto inesatte o almeno non pienamente soddisfacenti per il singolo caso e che quindi aveva deciso di eliminare. Questo fa apparire la regula più che un sofferto approdo dopo una sofferta temperie intellettuale, una felice enunciazione concettuale qualificata dalla sintesi 43. Nella tradizione giuridica romana la regula iuris si appalesa come risultante di un’opera collettiva, diacronicamente strutturantesi secondo la logica controversiale: attraverso l’eliminazione di tutti gli elementi accidentali non strettamente pertinenti alla ricostruzione della quaestio facti, con il ricorso ad argomenti topici, sensibili alle circostanze di fatto, ma anche ai principi costitutivi della dimensione giuridica. Viene, dunque, fortemente valorizzato il momento c.d. ‘casistico’ 44 calato nell’elaborazione di un diritto considerato tradizionalmente giurisprudenziale con carattere di ‘scientificità’, nel quale la pluralità di opinioni si attua all’interno di un “sistema aperto” controllato nella sua razionalità interna dalla coerenza delle soluzioni pratiche 45. Si elaborano in tal modo nuovi orizzonti valoriali. 42 V. GIUFFRÈ, “Regulae” e metodi della “scientia iuris”, in Divagazioni intorno al diritto romano, Napoli, 2014, p. 388, dal quale si citerà, con ampliamenti, in particolare per quanto riguarda il periodo giustinianeo, in ‘Regulae iuris’e metodi della ‘scientia iuris’. Prospettive di approfondimenti, in Quaderni Lupiensi, 5/2015, pp. 11-26. Una edizione più ridotta del contributo si trova in Regulae iuris, cit., p. 5 ss.). 43 In questa prospettiva il Miglietta configura la regula quale «estratto di una fattispecie concreta», nell’ottica che «compito dello studioso non era […] quello di «risolvere» il «caso concreto», ossia di sancire quale tra le parti contendenti avesse ragione […] ma […] il giurista era investito di una vera e propria «vocazione sociale» che gli attribuiva il poteredovere di giungere a fissare una «regola» […] che potesse applicarsi in «quella» specifica circostanza, così come in tutti i casi futuri che risultassero essere caratterizzati dagli stessi contorni sostanziali»43: M. MIGLIETTA, Giurisprudenza, cit., pp. 227 s. 44 L. VACCA, Casistica giurisprudenziale e concettualizzazione romanistica, in Legge, Giudici e Giuristi, Atti del Convegno di Cagliari del 18-21 maggio 1981, Milano, 1982, pp. 78 ss.; EAD., Analogia e Diritto Casistico, in Studi in onore di C.A. Cannata, Neuchatel, 1999, pp. 23 ss. 45 Sulla distinzione tra sistemi giuridici aperti e chiusi si rinvia a U. VINCENTI, Intorno alla distinzione tra sistemi giuridici «aperti» e «chiusi», in Giurisprudenza Italiana, 2000, pp. 1775 (= ID., L’universo dei giuristi, giudici, legislatori. Contro la mitologia giuridica, Padova, 2003, pp. 73 ss.); L. SOLIDORO MARUOTTI, Tra morale e diritto. Gli itinerari dell’aequitas. Lezioni, Torino, 2013, pp. 23 ss.

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La scientia iuris resta in ogni caso condizionata dalla sua variabile prevedibilità, collegata all’evento singolo, al caso controverso ed alla sua decisione. Condivisibile, allora, appare la tesi di chi ricostruisce le regulae iuris come punti connettivi dell’esperienza giuridica, nei quali la considerazione del particolare è idonea ad essere generalizzata 46. In conformità a questa ricostruzione, a detta del Finkenauer, tutto lascia supporre che le regulae iuris si formino secondo un metodo cripto-deduttivo noto nell’ordinamento casistico americano, attraverso il quale il giudice desume una regola da precedenti giudiziari, disapplicandola qualora appaia inopportuna (il fenomeno della judicial opinion); pertanto, decisivo per l’applicazione della regola è, alla fine, il giudizio 47. In un sistema normativo di natura controversiale ai fini della definizione della regula iuris come enunciata poi dai giuristi era decisivo il ruolo di una tradizione giudiziale condivisa, espressione di un trend giurisprudenziale che già aveva endoprocessualmente espunto le soluzioni ritenute non congrue al caso concreto esposto allo iudex. Quest’ultimo aveva operato nel panorama responsoriale introdotto dalle parti apud iudicem la scelta del criterio decisorio che fosse conforme a principi metagiuridici condivisi dalla collettività. La regula iuris in tale contesto assume i lineamenti di una formula connotante valori etico-giuridici che si pongono come baluardo all’arbitrarietà del giudizio in un “non-sistema normativo” gerarchicamente destrutturato come quello romano. Se i principi sono, come già affermava Emilio Betti, l’area di elezione del confronto tra giuristi, le regole devono essere intese come elementi costitutivi del giudizio, della decisione 48. Ma quali parametri adottava la giurisprudenza nell’elaborazione delle regulae? 46

A detta di Vincenzo Giuffrè «dalla constatazione della preponderante prassi in un determinato senso […] o dal proprio tormentato convincimento esegetico-sistematico eventualmente non del tutto coincidente si perveniva alla enucleazione e formulazione della regola; la regola costituiva il punto di partenza di altre analisi a riguardo di fattispecie analoghe o più complesse; l’esito di tali analisi esigeva che la regola fosse integrata e/o riformulata; e così quel ius che sembrava essersi cristallizzato nella regula iuris continuava ad evolversi»: V. GIUFFRÈ, “Regulae” e metodi, cit., pp. 387 s. 47 Cfr. TH. FINKENAUER, Le «regulae iuris» come strumenti mnemotecnica, in Index, 43/ 2015, p. 15 (= in Regulae iuris, cit., p. 77). 48 I principi dell’ordine giuridico sono, per il Betti, «connessi alle dinamiche proprie di ciascun ordinamento e la loro capacità espansiva è affidata all’attività degli interpreti, che si svolge secondo canoni e principi, anch’essi inseriti in un processo vitale»: E. BETTI, I principi della Scienza nuova di G.B. Vico e la teoria dell’interpretazione storica, in Nuova Riv. dir. comm., I/1957, pp. 48 ss.

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Di certo anche il bonum et aequum, assicurando in tal modo la percezione sociale condivisa di decisioni giuste sia in ambito teorico che pratico ogni qual volta si calavano nelle sententiae 49; ma affinché una decisione possa essere considerata espressione del bonum et aequum, essa dovrà apparire “oggettiva” o meglio conforme ai canoni ai quali il decidente è tenuto a conformarsi, dunque conforme a regole.

4. L’efficacia delle regulae iuris e delle definitiones. Lo Schmidlin individua due species di regulae riconducibili all’unico genus: la prima comprende un notevole gruppo di enunciati che sono connotati da una formulazione rigorosa e sintetica, utilizzabili in ogni circostanza ed ammantate di un valore precettivo 50; la seconda costituita da quelle soluzioni casistiche esposte in forma regolativa che sono caratteristiche dei libri regularum 51: queste non pretendevano di avere però valore universale, ma erano proposte dal giurista come conclusioni da tenere presenti in attesa di eventuale consenso generalizzato 52. In questo secondo gruppo si inserisce, ad esempio, la regula Catoniana di cui D. 34.7.1 pr. (Cels. 35 dig.) 53, la quale confermerebbe una tendenza costante delle regulae iuris: la connessione con il formalismo degli atti del ius civile. In questa prospettiva appaiono significative anche le regulae relative al “principio di simmetria”, che sancisce l’omogeneità formale tra l’atto costitutivo e l’atto estintivo di un rapporto giuridico 49

Il bonum e l’aequum al quale il giurista deve guardare non è espresso tanto dal contenuto delle sue decisioni, quanto dal loro corrispondere ad un risultato, al quale possa andare il consenso della collettività. La circostanza con riferimento alla realtà di Roma antica è così scontata che non merita di essere evidenziata, ma tuttavia si è venuta formando una tale distanza tra il nostro modo di vedere e quello romano che è sembrato opportuno agli autori del c.d. modello di Harvard, farne addirittura un obiettivo da enunciare ed enfatizzare. 50 B. SCHMIDLIN, Die römischen Rechtsregeln, cit., pp. 1-22; cfr. B. SANTALUCIA, «Regulae iuris», cit., p. 261. 51 Vedi sul genere letterario dei libri regularum M. AVENARIUS, Der pseudoulpianische liber singularis regularum. Entstehung, Eigenart und Überlieferung einer hochklassischen Juristenschrift, Göttingen, 2005, in specie pp. 42-60. 52 Cfr. V. GIUFFRÈ, “Regulae” e metodi, cit., p. 390; B. SANTALUCIA, «Regulae iuris», cit., pp. 259 ss., spec. 268. 53 D. 34.7.1 pr. (Cels. 35 dig.): Catoniana regula sic definit, quod, si testamenti facti tempore decessisset testator, inutile foret, id legatum quandocumque decesserit, non valere. quae definitio in quibusdam falsa est.

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(nexum – nexi liberatio, stipulatio – acceptilatio etc.) 54. Regole di altra natura, ma pur sempre regole, sono rappresentate in quella nutrita serie di precetti, usuali e casistici, tipo: utilis / inutilis; oportet, debet, potest / non potest; valet / non valet, che era tipica della giurisprudenza cautelare, la quale si preoccupava essenzialmente della corretta attuazione dei negozi dello ius civile. Sebbene la formula espressiva delle regole casistiche sia molto varia, tuttavia quella più comune resta quella ipotattica, per cui il casus è prospettato in una breve e semplice frase concepita in termini condizionali (si …), o introdotta da una locuzione generalizzante (ubi, cum, dum) o da un soggetto genericamente individuato (aliquis, quis, nemo), da cui sono fatte discendere determinate conseguenze giuridiche. Infine, un’ulteriore modalità espressiva, che segna una sorta di transizione al tipo di regola istituzionale, è quella in cui il richiamo casistico manca completamente e la conseguenza giuridica enunciata nella regola discende direttamente dalla struttura stessa dell’istituto preso in esame (esempio caratteristico in tal senso è la regola mandatum solvitur morte 55). La finalità delle regole non era quella di comporre un sistema coerente di principi generali o di massime di scienza o di proverbi, meno che mai di costituire una piramide concettuale. Infatti, le regulae costituivano (provvisori) punti di approdo, ovvero proposizioni che enunciavano in modo sinottico una disciplina giuridica a mo’ dei nostri brocardi. Funzionavano soprattutto come strumenti diagnostici e come elementi di strategia argomentativa. Da ciò consegue che nelle regulae l’andamento topico caratte54

Le fonti, ad esempio, ci hanno in realtà tramandato derivazioni alquanto tarde del principio di simmetria, che nel suo significato originario doveva essere più rigoroso: D. 46.3.80.4 (Pomp. 4 ad Q. Muc.): Prout quidque contractum est, ita et solvi debet: ut, cum re contraxerimus, re solvi debet: veluti cum mutuum dedimus, ut retro pecuniae tantundem solvi debeat. et cum verbis aliquid contraximus, vel re vel verbis obligatio solvi debet, verbis, veluti cum acceptum promissori fit, re, veluti cum solvit quod promisit. aeque cum emptio vel venditio vel locatio contracta est, quoniam consensu nudo contrahi potest, etiam dissensu contrario dissolvi potest e D. 50.17.35 (Ulp. 48 ad Sab.): Nihil tam naturale est quam eo genere quidque dissolvere, quo colligatum est. ideo verbo rum obligatio verbis tollitur: nudi consensus obligatio contrario consensu dissolvitur. 55 D. 17.1.26 pr. (Paul. 32 ad ed.): Inter causas omittendi mandati etiam mors mandatoris est: nam mandatum solvitur morte. Si tamen per ignorantiam impletum est, competere actionem utilitatis causa dicitur. iulianus quoque scripsit mandatoris morte solvi mandatum, sed obligationem aliquando durare; su tale regula cfr. fr. V. ARANGIO-RUIZ, Il mandato in diritto romano. Corso di lezioni svolto nell’Università di Roma, 1948-1949, Napoli, (rist. Napoli, 1965), pp. 139 ss.; A. WATSON, Contract of Mandate in Roman Law, Oxford, 1961, pp. 125 ss.

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rizzante la procedura argomentativa dei giuristi romani si riduce al minimo e ciò in quanto viene disvelata solo la risoluzione concreta utile per una applicazione analogica. Pertanto, il percorso problematico sulla casistica che aveva condotto alla loro enucleazione va discoperto aliunde. In un ordinamento giuridico che si caratterizza come diritto giurisprudenziale, l’uso della regola rileva, come ha notato il Nörr, quale categoria decisionale a priori 56. Ne scaturisce un interrogativo: qual’era il grado di condizionamento della regula come a priori dell’ulteriore analisi giuridica? Era possibile individuare una funzione propriamente normativa della regula oppure la si doveva calare esclusivamente in una funzione descrittiva? Molteplici sono al riguardo le posizioni assunte dalla dottrina: l’opinione predominante attesta un’efficacia vincolante tout court della regula 57; altri, invece, credono che le regole formulate dai veteres, avrebbero avuto una forza vincolante, mentre le successive regole casistiche avrebbero posseduto solo un carattere descrittivo 58. Queste tipizzazioni, come già il Finkenauer ha rilevato, sarebbero non del tutto fondate 59. I giuristi romani, infatti, avrebbero deciso caso per caso, e questo sarebbe stato vero anche per la forza vincolante di una regula, da valutarsi secondo un principio di utilità topica, di ciò ne sarebbero esempi palesi i seguenti enunciati: alteri stipulari nemo potest 60 (su cui si veda D. 45.1.38.17 [Ulp. 49 ad sab.]) 61; nemo factum alienum promittere potest 62 (su 56

D. NÖRR, Sprüchregel und Generalisierung, in ZSS, 89/1972, pp. 18-93. H. HAUSMANINGER, Nemo sibi ipse causam possessionis mutare potest – eine Regel der veteres in der Diskussion der Klassiker, in E. SEIDL (a cura di), Gedächtnisschrift Rudolf Schmidt, Berlin, 1966, p. 411. 58 B. SCHMIDLIN, Die römischen Rechtsregeln, cit., pp. 113 ss. 59 TH. FINKENAUER, Le «regulae iuris», cit., p. 16 (= in Regulae iuris, cit., p. 78). 60 TH. FINKENAUER, Direkte, Stellvertretung bei Stipulationen ?, in ZSS, 125/2008, pp. 443 s. 61 D. 45.1.38.17 (Ulp. 49 ad sab.): Alteri stipulari nemo potest, praeterquam si servus domino, filius patri stipuletur: inventae sunt enim huiusmodi obligationes ad hoc, ut unusquisque sibi adquirat quod sua interest: ceterum ut alii detur, nihil interest mea. plane si velim hoc facere, poenam stipulari conveniet, ut, si ita factum non sit, ut comprehensum est, committetur stipulatio etiam ei, cuius nihil interest: poenam enim cum stipulatur quis, non illud inspicitur, quid intersit, sed quae sit quantitas quaeque condicio stipulationis. 62 TH. FINKENAUER, Vererblichkeit und Drittwirkungen der Stipulation im klassischen römischen Recht, Tübingen, 2010, pp. 111 s. 57

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cui si veda D. 45.1.38 pr. [Ulp. 49 ad sab. 63] e Cic., ad fam. 13.28 64); falsa demonstratio non nocet 65 (su cui si veda D. 35.1.40.4 [Iav. 2 ex post. lab. 66]). Nella sua recente ricostruzione il Finkenauer crede che la normatività non si manifesti in loro in misura maggiore di ogni altro commento sulla casistica 67. Ciò sarebbe fatto palese dal passo paolino contenuto in D. 50.17.1 che rivelerebbe lo scetticismo del giurista e la ritrosia a riconoscere alla regula un carattere normativo universalmente valido. Nel contrasto tra l’attuazione rigida di una regola e il riconoscimento delle esigenze della circolazione giuridica, i giuristi decidevano sempre e comunque di attuare le ultime. Tanto che l’eccezione alla regula poteva divenire a sua volta una regula stessa. Tratto caratteristico dell’eccezione è la capacità di 63

D. 45.1.38 pr. (Ulp. 49 ad sab.): Stipulatio ista: „habere licere spondes?“ hoc continet, ut liceat habere, nec per quemquam omnino fieri, quo minus nobis habere liceat. quae res facit., ut videatur reus promisisse per omnes futurum, ut tibi habere liceat: videtur igitur alienum factum promisisse, nemo autem alienum factum promittendo obligatur, et ita utimur. sed se obligat, ne ipse faciat, quo minus habere liceat: obligatur etiam, ne heres suus faciat vel quis ceterorum successorum efficiat, ne habere liceat. 64 Cic., ad fam. 13.28: Etsi libenter petere a te soleo, si quid opus est meorum cuipiam, tamen multo libentius gratias tibi ago, quum fecisti aliquid commendatione mea, quod semper facis; incredibile est enim, quas mihi gratias omnes agant, etiam mediocriter a me tibi commendati; quae mihi omnia grata sunt, de L. Mescinio gratissimum; sic enim est mecum locutus, te, ut meas litteras legeris, statim procuratoribus suis pollicitum esse omnia, multo vero plura et maiora fecisse: id igitur–puto enim etiam atque etiam mihi dicendum esse–velim existimes mihi te fecisse gratissimum. Quod quidem hoc vehementius laetor, quod ex ipso Mescinio te video magnam capturum voluptatem; est enim in eo quum virtus et probitas et summum officium summaque observantia, tum studia illa nostra, quibus antea delectabamur, nunc etiam vivimus. Quod reliquum est, velim augeas tua in eum beneficia omnibus rebus, quae te erunt dignae; sunt duo, quae te nominatim rogo: primum, ut, si quid satisdandum erit, AMPLIUS EO NOMINE NON PETI, cures, ut satisdetur fide mea; deinde, quum fere consistat hereditas in iis rebus, quas avertit Oppia, quae uxor Mindii fuit, adiuves ineasque rationem, quemadmodum ea mulier Romam perducatur: quod si putarit illa fore, ut opinio nostra est, negotium conficiemus. Hoc ut assequamur, te vehementer etiam atque etiam rogo: illud, quod supra scripsi, id * * * in meque recipio, te ea, quae fecisti Mescinii causa quaeque feceris, ita bene collocaturum, ut ipse iudices homini te gratissimo, iucundissimo benigne fecisse; volo enim ad id, quod mea causa fecisti, hoc etiam accedere. 65 H. WIELING, Falsa demonstratio, condicio pro non scripta, condicio pro impleta im römischen Testament, in ZSS, 87/1970, pp. 200 s. 66 D. 35.1.40.4 (Iav. 2 ex post. lab.): Qui dotalem fundum nullum habebat, ita legaverat: “fundum cornelianum, quem illa mihi doti dedit, ei heres dato”. labeo ofilius trebatius responderunt fundum nihilo minus legatum esse, quia, cum fundus cornelianus in rerum natura sit, demonstratio falsa legatum non peremit. 67 TH. FINKENAUER, Le «regulae iuris», cit., p. 16 (= in Regulae iuris, cit., p. 78).

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«includere qualcosa unicamente attraverso la sua esclusione», nell’efficace sintesi fattane dell’Agamben 68, così ciò che è escluso diviene al contempo oggetto incluso in una nuova regula dettata dall’esclusione stessa. Infatti, la consistenza di una regula è una informazione ricavata in via interpretativa, attraverso un procedimento interferenziale induttivo, che si articola nella generalizzazione di un carattere specifico dei casi eccepiti, nei confronti di tutti i casi che si presumono compresi entro la regola. Ne consegue che l’esclusione dalla comprensione della specifica regula di quei casi che non condividono tale carattere, reso manifesto dall’eccezione, è anch’essa un’informazione che il giurista ricava in via di interpretazione, ora in via deduttiva, rielaborando quale premessa fondamentale il risultato della precedente induzione. Così, dunque, nel pensare la regola con riferimento alla definizione dei suoi confini, in rapporto a ciò che è ex-ceptus, è tratto fuori di essa, si elabora e contrario una nuova regola nata appunto nella dialettica inclusione/esclusione. In una simile ricostruzione si comprende come la regula sia volta a formulare solo il principio empirico utilizzabile nel singolo caso.

5. Conclusioni. In conclusione, ma va avvertito che le conclusioni sono provvisorie e sommarie, i giuristi romani non elaborarono un concetto metodologicamente unitario di regula iuris, corrispondendo a tale espressione una pluralità di significati tra loro non sempre omogenei e comunque variabili nella dimensione storica. Dall’analisi svolta emerge con sufficiente chiarezza che la regola ha semanticamente un contenuto complesso, poiché nel segno regula è distinguibile sia l’accezione di norma-principio di natura descrittiva, sia quella di norma-regola in senso stretto di natura precettiva. La regula sembra essere un enunciato che pragmaticamente può assolvere sia alla funzione di principio generale sia a quella di regola del caso, a seconda degli indirizzi interpretativi assunti dal giurista che la utilizza. 68 G. AGAMBEN, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, I, Torino, 1995, p. 28. Per una compiuta disamina sul pensiero di Agamben vedi C. NITSCH, «Exceptio firmat». Un contributo sul ragionamento giuridico, in C. CASCIONE-C. MASI DORIA (a cura di), Fides Humanitas Ius. Studi in onore di Luigi Labruna, VI, Napoli, 2007, p. 3787 ss.; ID., C. NITSCH, La regola e l’eccezione. Su defettibilità, ambiguità e vaghezza delle norme giuridiche, in Regulae iuris, cit., pp. 171-188).

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L’affermazione che precede impone, di conseguenza, di ridefinire all’esito dell’analisi compiuta i significati di principio e di regola. Per norma-principio si intendono le norme che vengono abitualmente utilizzate per giustificare altre norme, in adesione alle teorie semiotiche e prendendo le distanze dalle teorie storico-assiologiche, per le quali i principi, lungi dall’essere il prodotto di un processo interno al sistema enucleati per induzione ed autointegrazione, secondo la logica positivista, appaiono valori etici che gradatamente maturano e si affermano in base a situazioni storiche e contingenti. Le norme-regole sono norme invece che non fungono da metanorme giustificative di altre norme, bensì servono a qualificare le concrete situazioni di fatto, svolgendo una funzione di guida diretta dei comportamenti umani. Le stesse norme possono essere usate tanto come ragioni metanormative quanto al modo delle regole. Si faccia l’esempio del bonum et aequum che sicuramente è metanorma che fonda la regola della buona fede negoziale e di quella oggettiva, ma allo stesso tempo ha un ruolo decostruttivo dello strictum ius, in particolare in riferimento al ruolo dinamico dell’exceptio doli generalis. Pertanto, dipende dalle scelte dei giuristi di risolvere il rapporto tra le norme e la loro giustificazione mediante due stili di ragionamento: uno inclusivo e l’altro esclusivo. Il primo si fonda sul principio del tutto va bene, il secondo sull’aut … aut. Se la regola assume la qualità di criterio rigido viene applicata o non applicata nella formula del tutto o niente 69. In questo senso, la regula è precetto vincolante. Se invece la norma come principio viene applicata in modo inclusivo assume la potenzialità di integrare la vaghezza e genericità della norma stessa, nelle accezioni sopra enucleate, con una pluralità di soluzioni che possono avere una funzione ricostruttiva della logica del sistema, ma anche – e ciò va sottolineato – per palesare la forza euristica della regola come fattore di decostruzione e di rinnovamento del sistema 70. Non appare, pertanto, fondata la tesi per la quale le regulae sarebbero sempre di stretta applicazione, conoscendo esse solo un numero ristretto di eccezioni esplicite e tassative che con la loro stessa esistenza confermerebbero la regola di volta in volta rilevante. Tesi che enfatizza le affermazioni di Cicerone nella pro Balbo (12.32), affermazioni che appaiono, invece, avere un prevalente significato argomen69

Cfr. C. LUZZATI, Prìncipi e princìpi, cit., p. 7. Sui processi decostruttivi in ambito giuridico vedi G. TARELLO, L’interpretazione della legge, Milano, 1980, pp. 385 ss.; P. GRICE, Logica e conversazione, Bologna, 1993, pp. 80 ss. e passim. 70

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tativo/retorico, peraltro smentito dalla prassi interpretativa dei giuristi 71. In realtà, la dialettica regola/eccezione va compresa in riferimento alla distinta azione dei meccanismi propri della logica giuridica, della sussunzione e della ponderazione. La sussunzione consiste, come è noto, nel qualificare normativamente una fattispecie concreta. La ponderazione rileva sul piano della giustificazione metanormativa delle norme, consistendo nella “pesatura” della rilevanza dei principi. Non sussistono, dunque, due logiche distinte, una propria dei principi di tipi inclusivo e l’altra sul piano delle regole di tipo esclusivo. Esistono, al contrario, due tecniche argomentative corrispondenti a due diversi atteggiamenti riguardo al rapporto fra le norme, siano esse regole o principi, e la loro ratio. La scienza del diritto ha, dunque, due velocità, soprattutto nell’ambito di un sistema a prevalente base controversiale: a volte, si palesa come una scienza del diritto per la quale i principi sono stati specificati per mezzo di regole e di decisioni autorevoli; altre volte, assume la natura di scienza del diritto rivoluzionaria in cui i principi esercitano una funzione eversiva. Nella prima ipotesi si è formato un quadro di riferimento stabile poiché i principi sono stati specificati da decisioni che valgono per il futuro e alle quali i giuristi si ritengono vincolati. In un contesto simile la certezza del diritto deriva dalla specificazione dei principi attraverso regole e precedenti autorevoli. In altre ipotesi, invece, i principi danno voce disorganica alle istanze riformatrici, introducendo momenti di netta discontinuità nel sistema. La costitutiva ambivalenza della regola si rispecchia così nelle fonti romane nella dialettica complessa tra regole consolidate che poi sistematicamente vengono disattese di fronte a casi limite, gli hard cases di cui ci parla Dworkin, ma non per l’intrusione di valori opposti a principi, ma per la costitutiva natura delle regole stesse. Si conferma che gli “oracoli del diritto” per riprendere una splendida definizione del Blackstone nel XVIII secolo ed il titolo di un fortunato libro di Dawson 72, appena pubblicato in italiano, sono il giudice e il giurista, con le loro urgenze e necessità interpretative.

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Sul passo vedi C. LUZZATI, Prìncipi e princìpi, cit., p. 44. J.P. DAWSON, Gli Oracoli del Diritto, trad. it., R. GIURATO (a cura di), Napoli, 2014, pp. XIII-LXIV, 9-179, spec. pp. 128-179. 72

Capitolo III

Note sulla autonomia e discrezionalità del giudicante: non liquet e denegatio actionis

SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Il non liquet a Roma. – 3. Il non liquet nel processo formulare … – 4. … e nella cognitio extra ordinem. – 5. Denegare actionem. – 6. Conclusioni.

1. Introduzione. La connessione tra l’esercizio della iurisdictio e principio di legalità 1, inteso come soggezione del giudice esclusivamente alla legge 2, non è mai stata netta né precisa sia nella vigenza dei codici moderni che nei sistemi a dichiarata strutturazione positivistica 3; il fenomeno ha assunto, in1 Il quale nella forma originaria, assoggettata, in seguito, a rimodellamenti orientati a semplificare il tenore, suonava nulla poena sine lege, nulla poena sine crimine, nullum crimen sine poena legali e fu elaborato da A. Feurbach (von) (v. A.J. SANZ MORÁN, in R. DOMINGO [a cura di], Juristas Universales, Madrid, 2004, pp. 2, 886 ss.), cui si deve la redazione del Codex Juris Bavarici Criminalis del 1813 «che ben può definirsi un monumento del giusnaturalismo critico postkantiano»: F. WIACKER, Storia del diritto privato moderno, trad. it. U. SANTARELLI e S.A. FUSCO, Milano, 1980, I, p. 500. Si è interrogata sulla portata del principio, con particolare attenzione sull’interpretazione analogica, M. SCOGNAMIGLIO, Nullum crimen sine lege. Origini storiche del divieto di analogia in materia penale, Salerno, 2009, spec. pp. 99 ss.; EAD., Principio di legalità e divieto di analogia: note sull’origine del principio nullum crimen sine lege, in L. SOLIDORO (a cura di), Regole e garanzie nel processo criminale romano, Torino, 2016, pp. 137 ss. Da ultimo sulla discrezionalità decisionale del giudice nell’assetto costituzionale italiano D. DALLA, Fra ius controverum, discrezionalità del giudicante e assetti costituzionali, in M.P. BACCARI-C. CASCIONE-L. LABRUNA (a cura di), Tradizione romanistica e Costituzione, II, Napoli, 2006, pp. 1023 ss. 2 Su tale complessa tematica, da ultimo, F. GALLO, Carattere ideologico della soggezione del giudice alla legge, Torino, 2014, pp. 13 ss. 3 Nella cornice del sistema di stampo positivistico la valutazione storico-giuridica di Gustavo Zagrebelsky circa il principio di legalità è durissima: «il principio di legalità non

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fatti, tratti più nitidi soltanto in epoca relativamente recente. Nella storia del diritto il ius dicere ha racchiuso in sé numerose modalità performative 4, tutte certamente ricollegabili alla decisione di una controversia ma attraverso percorsi argomentativi connotati da una pregnante polarità da epoca ad epoca 5. Soltanto con la teorizzazione ed affermazione del principio della separazione dei poteri, se vogliamo di “divisione del potere” 6 e con la nascita dello Stato costituzionale di diritto sono state gettate, com’è noto, le basi del principio di legalità nella giurisdizione dei paesi di civil law 7. Nello Stato di diritto la persona 8, elemento focale dell’ordinamento, deve essere garantita e protetta da leggi obiettive che disciplinano e regolano i era che il compimento della tradizione assolutistica dello Stato»: G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, 1992, p. 25. Una simile visione è in sintonia con una concezione dello Stato di diritto nel quale il protagonista è costantemente il potere politico, restando al diritto come caratterizzante una dimensione potestativa, risultando, con ciò, la sbandierata conquista del principio di legalità come una autolimitazione dello Stato stesso. 4 Sul significato di performatività vd. J.L. AUSTIN, How to Do Things with Words, Oxford, 1962, pp. 1 ss.; brevi cenni bibliografici in S. CASTIGNONE, “Le parole del fare”: Austin, Olivecrona, Ross e la “fallacia performativa”, in Materiali, 11/1981, pp. 439 ss. e di recente J. MARTSCHUKAT-S. PATZOLD (hrsg), Geschichtswissenschaft und “performative turn”. Ritual, Inszenierung und Performanz vom Mittelalter bis Neuzeit, Köln-Weimar-Wien, 2003, pp. 1 ss. 5 Sul processo decisionale in campo giuridico vd. A. PALMA, La decisione giuridica (II); L. IANNOTTA, La decisione giuridica (I); F. GUIZZI, La decisione giudiziaria, in E. MARIANI (a cura di), Il processo decisionale. Risultati del convegno. Napoli, 27 novembre 1999, Napoli, 2000, rispettivamente pp. 107-130; 97-106; 69-81. 6 A. PASSERIN D’ENTRÈVES, La dottrina dello Stato. Elementi di analisi e di interpretazione, Torino, 2009, p. 3. Vd. M. MICELI, ‘Governo misto’, «quartum genus rei publicae» e separazione dei poteri, in M.P. BACCARI-C. CASCIONE-L. LABRUNA (a cura di), Tradizione romanistica e costituzione, I, Napoli 2006, p. 659; A. PETRUCCI, Osservazioni sui rapporti tra organi della «res publica» tra IV e II secolo a.C., in Tradizione romanistica, cit., p. 699. 7 Su tale complessa tematica, da ultimo, F. GALLO, Carattere ideologico, cit., p. 20. Sul mutamento di struttura del diritto nei paesi di civil law vd. U. VINCENTI, Giustizia e metodo. Contro la mitologia giuridica. Volume I, Nuova edizione, Torino, 2005, p. 139. 8 Impossibile soffermarsi in questa sede sul concetto di persona all’interno del nostro ordinamento giuridico, per questo motivo ci si limita al denso studio di R. ESPOSITO, Il dispositivo della persona, in A. CORBINO-M. HUMBERT-G. NEGRI (a cura di), Homo, caput, persona. La costruzione giuridica dell’identità nell’esperienza romana, Pavia, 2010, pp. 49 ss. Vd. per l’evoluzione dei diritti della persona, la loro tutela e la relativa proteiforme manifestazione, nel diritto positivo, G. PALMIERI, I diritti emergenti della persona e A. BARBA, Personalità giuridica e soggettività di diritto, entrambi in L. VACCA, Il codice civile ha 70 anni ma non li dimostra. Roma 7-9 marzo 2013, Napoli, 2016, rispettivamente pp. 25-38 e 39-64.

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comportamenti stessi del potere statale: la legge diventa, in tal modo, il tramite indispensabile della libertà, l’individuo è libero in quanto agisce nei binari tracciati da questa, che assurge, in tal modo, a guarentigia contro l’arbitrio dei potenti 9. Si avvera così l’ideale, enunciato da Aristotele nella Politica, del governo delle leggi, ritenuto migliore di quello degli uomini in quanto capace di imporre regole al potere stesso, infatti secondo le parole dello Stagirita: «dove le leggi non dominano non c’è costituzione» (Arist., Pol. 1292a) 10. Corollario logico ed indispensabile di questo modo di intendere i rapporti tra Stato e persona è la nozione di giurisdizione come esercizio doveroso della funzione da parte del giudice, il quale non può esimersi dal dare una risposta alla domanda di giustizia che gli viene posta. La concettualizzazione dell’azione processuale come vero e proprio diritto soggettivo del cittadinoattore ad ottenere un provvedimento formale da parte del giudicante 11 è il risultato teorico di un lungo percorso evolutivo all’esito del quale la domanda di giustizia rivolta all’organo giudicante diventa “diritto al processo” e, 9

Il concetto di “governo della legge” corrisponde a un ideale politico largamente diffuso, il cui contenuto a tutta prima pare dotato di evidenza e univocità: la supremazia della legge come garanzia di libertà contro un possibile esercizio arbitrario del potere. In questo senso la legge, come norma stabile e universale, si oppone alla volontà mutevole e particolare degli uomini. Tuttavia, non appena si voglia tradurre in termini più concreti e specifici l’ideale della non arbitrarietà del potere, l’evidenza e l’univocità tendono a dileguare, soprattutto se si tenta una sintesi delle diverse teorie politiche e giuridiche liberali che a partire dall’Ottocento hanno assunto il governo della legge come uno degli ingredienti fondamentali di una società libera: A.V. DICEY, Introduction to the Study of the Law of the Constitution, London, 1885, passim; F.A. HAYEK, The Constitution of Liberty, Chicago, 1960, trad. it., La società libera, Firenze, 1969, passim; R. DWORKIN, Law’s Empire, Cambridge (Mass.), 1986, trad. it., L’impero del diritto, Milano, 1990, passim. 10 Lo stesso ideale è ribadito dallo Stagirita nell’Etica Nicomachea (1130b): «la legge, infatti, ordina di vivere in conformità con ciascun tipo di virtù e proibisce di vivere secondo ciascun tipo di vizio». Una simile ideologia venne duramente attaccata da T. HOBBES, Leviatano, a cura di R. SANTI, Milano, 2001, passim secondo il quale pensare ad un governo delle leggi è palesemente assurdo. Le leggi, nella visione del grande pensatore inglese, come vincoli della libertà naturale sono paragonabili a catene artificiali che corrono dalle labbra del sovrano alle orecchie dei sudditi. Per la loro natura, però, queste catene sono deboli, poiché gli uomini non sono certo trattenuti dal timore di una parola o di uno scritto. È perciò necessaria la spada che il sovrano ha nella mano e che, potendo uccidere o danneggiare i sudditi, induce in essi il timore che li rende rispettosi delle leggi. 11 Una idea di azione che proviene direttamente dal mondo romano, basti pensare a quanto rinvenibile nella compilazione giustinianea: Actio nihil aliud est quam ius persequendi iudicio quod sibi debetur (Inst. 4.6 pr.; D. 44.7.51 [Celsus 3 dig.]).

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in particolare, al provvedimento conclusivo di questo, rappresentato dalla sentenza. Ovviamente, ciò non vuol dire che l’individuo abbia diritto a che la sua pretesa venga in ogni caso accolta dal giudice, bensì che egli sia abilitato a pretendere che il giudicante, vagliata la questione, sia dal punto di vista formale che sostanziale, si pronunci espressamente sulla meritevolezza della tutela invocata, nonché, quindi, sulla fondatezza della richiesta. Dunque, negli ordinamenti giuridici moderni, a differenza di quanto, come vedremo più avanti, accadeva nell’ordinamento romano, al giudice non è consentito di non decidere le controversie che gli vengono sottoposte invocando il c.d. non liquet 12: giammai, infatti, egli può sottrarsi alla sua funzione di giudicare affermando, ad esempio, che i fatti di causa non gli risultano sufficientemente chiari, ovvero che non è sufficientemente chiara la norma da applicare al caso concreto, o, ancora, che non esiste una norma specifica per la fattispecie in esame. Il giudice, in altri termini, non può evitare di pronunciarsi sulla questione a lui sottoposta né, tanto meno, può sospendere o rinviare il giudizio adducendo una delle motivazioni suddette 13. Tale principio è stato sancito espressamente per la prima volta nel Code Napoleon, il cui art. 4 afferma che: Le juge qui refusera de juger sous prétexte du silence, de l’obscurité ou de l’insuffisance de la loi, pourra étre poursuivi comme coupable de déni de justice. La rivoluzione francese, con l’affermazione della rigida separazione dei poteri, doveva ben presto far abbandonare l’antico sistema del rèféré au législatif 14, mediante il quale, i casi nei quali vi erano gravi dubbi, potevano essere sottoposti dal giudice al Re che, nella qualità di detentore del potere legislativo, avrebbe dichiarato quale fosse la interpretazione normativa corretta o, per meglio dire, quella in linea con la (propria) volontà sovrana. 12

Cfr. sul tema i classici J. PARICIO, Iurare sibi non liquere, in ASG, III/1988, pp. 411 ss.; T. MAYER-MALY, Iurare sibi non liquere und Rechtsverweigerungsverbot, in Verfahrensgarantien im nationalen und internationalen Prozessrecht, Festschrift F. Matscher, Wien, 1993, pp. 349-354. 13 Per una introduzione alla problematica del non liquet negli ordinamenti giuridici contemporanei e in quello romano, cfr. A.M. RABELLO, Non Liquet-From Modern Law to Roman Law, in Israel. Law Review, 9/1974, pp. 63 ss. 14 Per amplia bibliografia su tale istituto cfr. P. ALVAZZI DEL FRATE, Giurisprudenza e référé législatif in Francia nel periodo rivoluzionario e napoleonico, Torino, 2005, pp. 18 ss.

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Tale sistema, tuttavia, non solo sbilanciava l’equilibrio in favore del potere legislativo ma consentiva anche una violazione del principio di non retroattività. Fu così che il Codice francese del 1804 scelse di costringere il giudice a pronunciare in ogni caso la sua sentenza anche in mancanza di una norma inequivoca utilizzabile per la decisione della controversia. In altri termini, la necessità di garantire sempre e comunque l’effettività dell’ordinamento che, in quanto tale non può non essere costantemente attuato, ha fatto sì che il non liquet non fosse più ritenuto ammissibile. Da allora in avanti, si è assistito, di fatto, ad un evidente ampliamento della potestà dei giudici che, in tal genere di casi, operano come se fossero, in qualche modo, anche legislatori. Emblematici di tale tendenza sono, fra gli altri, l’art. 1 del Codice Civile svizzero (ZGB), per il quale: A défaut d’une disposition légale applicable, le juge prononce selon le droit coutumier et, a défaut d’une costume, selon les régles qu’il etablirait s’il avait à faire acte de législateur; ed ancora, l’art. 12, comma 2, delle preleggi del Codice Civile italiano, secondo cui: Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato. Analogamente, nel sistema di Common law 15, la decisione è considerata un dovere preminente ed essenziale, strettamente connotante la funzione del giudice, di tal che un’eventuale astensione dal giudicare verrebbe considerata equivalente ad un diniego di giustizia. Lo stesso dicasi per il diritto canonico: il canone 1608 del Codice di Diritto Canonico afferma, parimenti, che il giudice non può rifiutarsi di emettere un giudizio invocando il silenzio, l’oscurità o l’insufficienza della norma. Allo stesso modo, per quanto concerne poi le ipotesi di dubbio del giudicante sul fatto oggetto della causa, si è stabilita la regola per la quale la 15

Dove la posizione del giudice delle Corti superiori appare più vicino allo iudex privatus del processo formulare, con particolare attenzione al ruolo del giudice nell’ordinamento inglese, soprattutto delle High Courts, cfr. V. VARANO, Organizzazione e garanzie della giustizia civile nell’Inghilterra moderna, Milano, 1977, pp. 363 ss.

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controversia deve comunque essere decisa in applicazione dei principi generali in tema di onere della prova: la decisione, pertanto, dipenderà essenzialmente dall’assolvimento o meno di tale onere in capo alla parte che ne è gravata. Il giudice, dunque, non è libero, seguendo i dettami della propria coscienza, di rifiutarsi di giudicare adducendo il fatto che egli non è, nel caso concreto, in grado di maturare una decisione chiara in ordine alla effettiva sussistenza e portata dei diritti delle parti contendenti. In ogni caso, infatti, l’ordinamento fa prevalere l’esigenza di individuare una soluzione, quale che essa sia, dovendo determinarsi in concreto i diritti di ciascuna delle parti. Dinanzi ad una controversia, l’ordinamento non può non fornire una risposta alla domanda di giustizia che viene sottoposta ai suoi giudici, a costo, per l’appunto, di ricorrere alla presupposizione/finzione della completezza dell’ordinamento che, come si è accennato, si risolve, in buona sostanza, in un significativo ampliamento del ruolo del giudicante che, in qualche modo, diviene così una sorta di legislatore per il caso concreto.

2. Il non liquet a Roma. Totalmente diversa, invece, era la situazione nell’ordinamento giuridico romano, nel quale il ricorso al non liquet, quanto meno per ciò che concerne il processo formulare, era sicuramente ammesso, come ci attestano diverse fonti, non soltanto giuridiche 16. Fra le più significative, in tal senso, vi è sicuramente la testimonianza di Ulpiano il quale distinguendo l’ipotesi di dubbio sul fatto da quello sul diritto, ci attesta che, mentre in quest’ultimo caso i giudici potevano rivolgersi ai presidi delle provincie (una sorta di rèféré au législatif ante litteram), nell’altro caso essi dovevano decidere secondo coscienza e senza influenze esterne: D. 5.1.79.1 (Ulp. 5 de off. procons.) 17: Iudicibus de iure dubitantibus praesides respondere solent: de facto consulentibus non debent praesides 16

Per una prima informazione sulla problematica del non liquet nell’esperienza giuridica romana, cfr. J. PARICIO, Iurare sibi non liquere, cit., pp. 411 ss. e ID., Sobre la administracion de la justicia en Roma. Los juramentos de los jueces privados, Madrid, 1987, passim. 17 Sull’opera ulpianea v. D. MANTOVANI, Il «bonus praeses» secondo Ulpiano. Studi su contenuto e forma del «de officio proconsulis» di Ulpiano, in BIDR, 96-97/1993-1994), spec. pp. 203 ss.

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consilium impertire, verum iubere eos prout religio suggerit sententiam proferre: haec enim res nonnumquam infamat et materiam gratiae vel ambitionis tribuit. La possibilità per il giudicante, nell’ambito dell’ordo iudiciorum privatorum 18, di dichiarare solennemente sibi rem non liquere è, del resto, attestata anche in un noto passo delle Noctes Atticae di Aulo Gellio 19, nel quale l’erudito narra, con dovizia di dettagli, un episodio personalmente capitatogli. Trovandosi a svolgere le funzioni di iudex privatus in una controversia 20, messo di fronte all’alternativa tra respingere l’istanza dell’attore, una persona notoriamente retta e dabbene ma sfornita di prove ed accogliere la tesi difensiva del convenuto, conosciuto quale persona spregevole e truffaldina, decise di iurare sibi rem non liquere, non volendo prestarsi ad una decisione che, se pure formalmente corretta, egli sentiva come profondamente iniqua dal punto di vista sostanziale. Ma vediamo il racconto che, per la sua importanza ai nostri fini, si crede opportuno trascrivere integralmente: Gell. 14.2 21: Quem in modum disseruerit Favorinus consultus a me super officio iudicis. 1.Quo primum tempore a praetoribus lectus in iudices sum,ut iudicia quae appellantur privata susciperem, libros utriusque lin18

Su cui v. A. UBBELOHDE in O.E. HARTMANN, Der ordo judiciorum und die iudicia extraordinaria der Römer, hrsg. A. UBBELOHDE (VON), Göttingen, 1886, pp. 557-569. 19 Per quanto riguarda l’utilizzo dell’opera di Gellio come fonte giuridica v. O. DILIBERTO, Materiali per la palingenesi delle XII Tavole. Vol. I, Cagliari, 1992, p. 244; D. NÖRR, L’esperienza giuridica di Gellio (‘Noctes Atticae’ XIV 2), in Filellenismo e tradizionalismo a Roma nei primi due secoli dell’Impero. Convegno internazionale Roma 27-28 aprile 1995. Atti dei Convegni Lincei, 125/1996, pp. 33 ss. 20 È bene ricordare che il giudice era un privato cittadino iscritto nell’album iudicium e autorizzato a decidere sul caso concreto dallo iussum iudicandi che concretizzava la facoltà di attribuire al privato il potere di giudicare che questo mi sembra opportuno dire; è uno dei cavalli di battagli di chi attacca la tesi della formula come elemento meramente contrattualistico del processo, proposta da M. WLASSAK, Das Litiskontestation in Formularprozess, in Breslauer Festschr. Zum Doktor Iubiläum des Prof. Windscheid, Lipsia 1889, pp. 81 ss.; contra M. LAURIA, Iurisdictio, in Studi Bonfante, II, Milano, 1930, pp. 503 ss. 21 Sull’episodio v. R. FIORI, La gerarchia come criterio di verità: ‘boni’ e ‘mali’ nel processo romano arcaico, in C. CASCIONE-C. MASI DORIA, Quid est veritas? Un seminario su verità e forme giuridiche, Napoli, 2013, pp. 169 ss. Il lungo passo gelliano fu già oggetto di specifica analisi da parte prima di P. DE FRANCISCI, La prova giudiziale (a proposito di Gellio N.A. 14,2), in Helikon, 1-4/1961, p. 594 e in seguito di J. ZABLOCKI, Appunti sull’’officium iudicis’nelle ‘Noctes Atticae’, in Au-Delà des frontières. Mélanges Wolodkiewicz, II, Varsovie, 2000, pp. 1115 ss.

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guae de officio iudicis scriptos conquisivi ut homo adulescens a poetarum fabulis et a rhetorum epilogis ad iudicandas lites vocatus rem iudiciariam quoniam vocis, ut dicitur, vivae penuria erat ex mutis, quod aiunt, magistris cognoscerem. Atque in dierum quidem diffissionibus comperendinationibusque et aliis quibusdam legitimis ritibus ex ipsa lege Iulia et ex Sabini Masurii et quorundam aliorum iurisperitorum commentariis commoniti et adminiculati sumus. 2. In his autem quae existere solent, negotiorum ambagibus et in ancipiti rationum diversarum circumstantia nihil quicquam nos huiscemodi libri iuverunt. 3. Nam et si consilia iudicibus ex praesentium causarum statu capienda sunt, generalia tamen quaedam praemonita et praecepta sunt, quibus ante causam praemuniri iudex praepararique ad incertos casus futurarum difficultatum debeat, sicut illa mihi tunc accidit inexplicabilis reperiendae sententiae ambiguitas. 4. Petebatur apud me pecunia, quae dicebatur data numerataque; sed qui petebat, neque tabulis neque testis idfactum docebat et argumentis admodum exilibus nitebatur. 5.Sed eum constabat virum esse firme bonum nota eque et expertae fidei et vitae inculpatissimae, multaque et inlustria exempla probitatis sinceritatisque eius expromebantur; 6. illum autem, unde petebatur, hominem esse non bonae rei vitaque turpi et sordita convictumque volgo in mendaciis plenumque esse perfidiarum et fraudum ostendebatur. 7. Is tamen cum suis multis patronis clamitabat probari apud me debere pecuniam datam consuetis modis: expensi latione, mensae rationibus, chirographi exhibitione, tabularum obsignatione, testium intercessione; 8. ex quibus omnibus si nulla re probaretur, dimitti iam se oportere et adversarium de calumnia damnari; quod de utriusque autem vitaatque factis diceretur frustra id fieri atque dici; rem enim de petenda pecunia apud iudicem privatum agi, non apud censores de moribus. 9. Tunc ibi amici miei, quos rogaveram in consilium, viri exercitati atque in patrociniis et in operis fori celebres semperque se circumundique distrahentibus causis festinantes, non sedendum diutius ac nihil esse dubium dicebant quin absolvendus foret quem accepisse pecuniam nulla probatione solemni docebantur. 10. Sed enim ego homines cum considerabam,alterum fidei, alterum probi plenum spurcissimaeque vitae ac defamatissimae, nequaquam adduci potui ad absolvendum. 11. Iussi igitur diem diffindi atque inde a subselliis pergo ire ad Favorinum philosophum, quem in eo tempore Romae plurimum sectabar, atque ei de causa ac de hominibus quae apud me dicta fuerant, uti res erat,narro omnia et peto ut et ipsum illud in quo haerebam, et cetera etiam quae observanda mihi forent in officio iudicis, faceret

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me, ut earum rerum essem prudentior. 12. Tum Favorinus religione ìlla cunctationis et sollicitudinis nostrae conprobata:’ Id quidem, inquit, super quo nunc deliberas, videri potest specie tenui parvaque esse. Sed si de omni quoque officio iudicis praeire tibi me vis, nequaquam est vel loci huius vel temporis; 13. est enim disceptatio ista multiiugae et sinuosae quaestionis multaque et anxia cura et circumspicientia indigens. 14. Namque ut pauca tibi nunc quaestionum capita adtingam, iam omnium primum hoc de iudicis officio quaeritur: si iudex forte id sciat super qua re apud eum litigatur, eaque res uni ei priusquam agi coepta aut in iudicio deducta sit, ex alio quodam negotio casuve aliquo cognita liquido et comperta sit neque id tamen agenda causa probetur, oporteatne eum secundum ea quae sciens venit iudicare an secundum ea quae aguntur? 15. Id etiam, inquit, quaeri solent, an deceat atque conveniat iudici causa iam cognita, si facultas esse videatur componendi negotii, officio paulisper iudicis dilato communis amicitiae et quasi pacificatoris partes recipere? 16. Atque illud amplius ambigi ac dubitari scio, debeatne iudex inter cognoscendum ea quae dicto quaesito que opus est dicere et quaerere, etiamsi, cuius ea dici quaerique interest, neque dicat neque postulet? Patrocinari enim prorsus hoc esse aiunt, non iudicare. 17. Praeter haec super ea quoque re dissentitur, an ex usu exque officio sit iudicis rem causamque de qua cognoscit., interlocutionibus suis ita esprimere consignareque, ut ante sententiae tempus ex his quae apud eum in praesens confuse varieque dicuntur, proinde ut quoquo in loco ac tempore movetur, signa et iudicia faciat motus atque sensus sui. 18. Nam qui iudices, inquit, acres atque celeres videntur, non aliter existimant rem, qua de agitur, indagari conprehendique posse, nisi is, qui iudicat, crebris interrogationibus necessariisque interlocutionibus et suos sensus aperiat et litigantium deprehendat. 19. Contra autem, qui sedatiores et graviores putantur, negant iudicem debere ante sententiam dum causa utrimque agitatur quotiens aliqua re proposita motus est totiens significare quid sentiat. Eventurum enim aiunt, ut, quia pro varietate propositioum argomentorumque alius atque alius motus animi patiendus est, aliter atque aliter eadem in causa eodemque in tempore sentire et interloquì videantur. 20.Sed de his, inquit, et ceteris huiscemodi iudicialis officii tractatibus et nos post hac, cum erit otium, dicere, quid sentiamus, conabimur et praecepta Aelii Tuberonis super officio iudicis,quae nuperrime legi, recensebimus. 21. Quod autem ad pecuniam pertinet quam apud iudicem peti dixisti, suadeo hercle tibi, utare M. Catonis, prudentissimi viri, consilio qui in oratione quam pro L. Turio contra Cn. Gellium dixit, ita

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esse a maioribus traditum observandumque ait, ut is, quod inter duos actum est neque tabulis neque testibus planum fieri possit, tum apud iudicem qui de ea re cognosceret, uter ex his vir melior esset quaereretur et, si pares essent seu boni pariter seu mali, tum illi unde petitur crederetur ac secundum eum iudicaretur. 22. In hac autem causa, de qua tu ambigis, optimus est qui petit, unde petitur deterrimus, et res est inter duos acta sine testibus. 23. Eas igitur et credas ei qui petit, condemnesque eum de quo petitur, quoniam, sicut dicis, duo pares non sunt et qui petit, melior est.» 24. Hoc quidem mihi tum Favorinus, ut virum philosophum decuit, suasit. 25. Sed maius ego altiusque id esse existimavi, quam quod meae aetati et mediocritate conveniret, ut cognovisse et condemnasse de moribus, non de probationibus rei gestae viderer; ut absolverem tamen, inducere in animum non quivi et propterea iuravi mihi non liquere atque ita iudicatu illo solutus sum. 26. Verba ex oratione M.Catonis, cuius commeminit Favorinus, haec sunt: Atque ego a maioribus memoria sic accepi: si quis quid alter ab altero peterent, si ambo pares essent, sive boni sive mali essent, quod duo res gessissent uti testes non interessent, illi, unde petitur, ei potius credendum esse. Nunc si sponsionem fecissent Gellius cum Turio, ni vir melior esset Gellius quam Turius, nemo, opinor, tam insanus esset, qui iudicaret meliorem esse Gellium quam Turium: si non melior Gellius est Turio, potius oportet credi, unde petitur. Nel caso trattato da Gellio, l’attore aveva intentato un’actio certae creditae pecuniae asserendo di avere corrisposto una determinata somma di danaro; tuttavia, egli non era in grado di dimostrare la sua pretesa attraverso i normali mezzi probatori ([…] expensi latione, mensae rationibus, chirographi exhibitione, tabularum obsignatione, testium intercessione […]); il convenuto, da parte sua, col supporto dei suoi avvocati, pretendeva che fosse data la prova del petitum mediante documenti scritti o testimonianze, affermando che in caso contrario egli doveva essere liberato da ogni accusa ([…] si nulla re probaretur, dimitti iam se oportere […]). La conseguenza logica del mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte dell’attore avrebbe dovuto essere, per l’appunto, l’assoluzione del convenuto e la condanna dell’attore de calumnia 22. Gellio, tuttavia, era assai perplesso sulla 22

Sul tema, per approfondimenti, M. BRUTTI, La problematica del dolo processuale nell’esperienza romana, I, Milano, 1983, pp. 4 ss.; A.M. GIOMARO, La scelta del mezzo giudiziale in ipotesi di temerarietà della lite “ex parte actoris”, in Atti del Convegno Processo civile e proces-

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decisione da adottare in quanto mentre l’attore, pur non riuscendo a provare il fondamento della sua pretesa, era un uomo integerrimo e di condotta specchiata ([…] firme bonum notaeque et experctae fidei et vitae inculpatissimae […]), il convenuto, al contrario, era un poco di buono ([…] non bonae rei vitaque turpi et sordita convictumque volgo in mendaciis plerumque esse perfidia rum et fraudum ostendebatur […]). Gellio, insomma, si trova a dover affrontare un “caso di coscienza”, avendo percepito che la mera applicazione delle regole processuali avrebbe portato ad una decisione solo formalmente ed apparentemente equa. A questo punto, egli racconta di aver chiesto consiglio ad alcuni amici rinomati (celebres) nel campo dell’attività forense ([…] viri exercitati atque in patrociniis et in operis fori […]) 23, i quali sostenevano la necessità che si procedesse all’assoluzione del convenuto secondo il principio generale seguito nella prassi ([…] nihil esse dubium dicebant, quin absolvendus foret […]) 24. Egli, tuttaso penale nell’esperienza giuridica del mondo antico. In memoria di A. Biscardi, pp. 131 ss.; EAD., Per lo studio della calumnia. Aspetti di deontologia processuale in Roma antica, Torino, 2003, passim; C. BUZZACCHI, L’abuso del processo nel diritto romano, Milano, 2002, pp. 103 ss. 23 Sulla funzione degli amici come esperti di diritto v. P. GIUNTI, Iudex e iurisperitus. Alcune considerazioni sul diritto giurisprudenziale romano e la sua narrazione, in Iura, LXI/2013, pp. 55 ss.; R. FIORI, La gerarchia come criterio di verità, cit., pp. 169 ss. 24 Come ha osservato L. MANNA, La facoltà del giudice di iurare rem sibi non liquere, cit., p. 497 nt. 4, era per i giudici una prassi invalsa quella di chiedere la collaborazione di giureconsulti ovvero di soggetti che già avevano maturato una esperienza in campo processuale, Si vedano altresì sul punto: A. CHECCHINI, Studi sull’ordinamento processuale romano, in Scritti giuridici e storico-giuridici, II, Storia del processo – Storia del diritto privato, Padova, 1958, pp. 7 s., nonché L. GAGLIARDI, La figura del giudice privato nel processo civile romano. Per un’analisi storico-sociologica sulla base delle fonti letterarie (da Plauto a Macrobio), in E. CANTARELLA-L. GAGLIARDI (a cura di), Diritto e teatro in Grecia e a Roma, Milano, 2007, pp. 199 ss. Sulla preparazione giuridica del iudex privatus v. M. FINO, Recte agere potes. Contributo allo studio e al recupero di una prospettiva dei giuristi romani in tema di processo, in L. GAROFALO (a cura di), Actio in rem e actio in personam. In ricordo di M. Talamanca, I, Padova, 2011, pp. 333 ss.; nonché R. SCEVOLA, La responsabilità del iudex privatus, Milano, 2004, pp. 12 ss.; P. COLLINET, Le rôle des juges dans la formation du droit romain classique, in Recueil Gény, I, Paris, 1934, pp. 23-31, spec. p. 25, per il quale «mais, qu’il soit choisi au gré des parties ou qu’il soit pris sur l’album iudicum, le Iudex unus normalement ne sera pas à un home sans conassaince juridique ou au moins sans l’expèrience des affaires ou sans culture, pas plus que les plaideurs d’aujourd’hui ne prendraient pour arbiter le premiere venu. Au second cas, les jurès de l’album sont par leurs titres meme, des personages qualifies et ayant, comme les Romains bion nés, étudié le droit ou au moins la rhétorique». Con la affermazione del Collinet si confronti B. FRIER, The Rise of the Roman Jurists. Studies in Cicero’s Pro Caecina, Princeton, 1985, p. 199: «during the late Republic, private lawsuits were usually decided by members of Rome’s upper classes, who were chosen for this role because of their status».

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via, pur consapevole delle conseguenze che, secondo la prassi, alla mancata prova dei fatti addotti dall’attore avrebbero dovuto seguire 25, non si rassegna all’idea che venga assolto, sulla base di pure regole processuali, un uomo di cattiva fama e che l’attore, uomo probo, debba perdere la lis per non esser riuscito, con le prove assai labili da lui addotte, a dimostrare il fondamento della sua pretesa. Gellio decide, allora, di rinviare la decisione e di recarsi da Favorino di Arles, filosofo famoso dell’epoca, per chiedergli lumi sulla decisione da adottare. Il consiglio di Favorino, suffragato dall’autorità di Catone e dalla tradizione degli avi, è quello di valutare la personalità delle parti e, in caso di disparità e in assenza della prova del petitum da parte dell’attore, condannare o assolvere il convenuto a seconda se quest’ultimo risulti moralmente migliore o meno dell’attore 26. Gellio, tuttavia, non ritenne di doversi assumere la responsabilità di giudicare né in modo difforme dalla prassi (condannando il convenuto in assenza di prove da parte dell’attore, così come gli aveva consigliato Favorino, basandosi esclusivamente sulla dignitas delle parti contrapposte 27), ma nemmeno, aderendo contro il suo sentire alla prassi, di assolvere il convenuto. 25 Sulla regola actore non probante reus absolvitur, cfr. V. GIUFFRÈ, Necessitas probandi. Tecniche processuali e orientamenti teorici, Napoli 1984, passim nonché la recente messa a punto di L. SOLIDORO MARUOTTI, Onere probatorio e giudizi di rivendica, in Diritto @Storia, VII/2008, passim. 26 Sul punto F.P. CASAVOLA, Giuristi adrianei, Napoli, 1980, pp. 18 ss. e R. MARTINI, La legislazione giudiziaria di Augusto e la durata dei processi, in Seminario Complutense de Derecho Romano, I, Cuestiones de Jurisprudencia y Proceso, Madrid, 1990, pp. 93 ss.; sullo specifico punto della competenza, circa le questioni concernenti i fatti procedurali del contenzioso riferito da Gellio, non si concorda con quanto detto dal Martini in merito al ruolo svolto da Favorino di Arles che non appare in veste di iudex bensì in quella di filosofo, come già ritiene G. POLARA, Autonomia ed indipendenza del giudice nell’evoluzione storica delle forme processuali: “iuravi mihi non liquere”, in E. CANTARELLA (a cura di), Scritti in ricordo di Barbara Bonfiglio, Milano, 2004, p. 341 nt. 15. Al saggio del Polara si farà più volte riferimento per le acute osservazioni sui temi trattati. 27

Ciò testimonia la vigenza in età tardo repubblicana della regola, risalente ai maiores del processo inteso, seguendo quanto ha scritto il Fiori, come uno «scontro di dignitates»: R. FIORI, Bonus vir. Politica filosofia retorica e diritto nel de officiis di Cicerone, Napoli, 2011, pp. 115 ss. Lo studioso ricorda come la valutazione della dignitas delle parti di un processo imponesse di imporre a confronto la dignitas dei testimoni; in assenza di questi, si vagliava direttamente quella delle parti, e a comprovarne la credibilità erano fondamentali, in questo caso, innanzitutto, le figure degli advocati e dei laudatores, la cui stessa dignitas costituiva ulteriore garanzia per quella dei loro assistiti. Entravano, quindi, in campo i mores delle parti in lite e al riguardo v. E. VOLTERRA, voce Iudicium de moribus, in Nuoviss. Digest. It., Torino, IX, 1963, p. 344.

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Pertanto, pronunciato il giuramento sibi non lìquere, egli si liberò dal dovere di emettere la sentenza (iudicatu illo solutus sum) e da ogni conseguente responsabilità 28. Ovviamente, il processo sarebbe poi potuto essere riassunto dinanzi ad un altro giudice da nominarsi, dinanzi al quale si sarebbe nuovamente presentata la questione relativa alla valutazione istruttoria del fondamento della pretesa attorea 29.

3. Il non liquet nel processo formulare … Dal lungo e dettagliato racconto di Gellio si evince che l’ipotesi del giudice incerto, il quale non convinto dalle prove addotte si pronuncia per un non liquet, non doveva costituire una violazione dell’imperativo derivante dalla formula, e ciò contrariamente a quanto sostenuto da una parte della dottrina, per la quale il iurare rem sibi non non liquere avrebbe contraddetto il contenuto del iussum iudicandi del pretore (consacrato nella formula si paret … condemnato, … si non paret … absolvito), in base al quale il giudice sarebbe stato in ogni caso costretto ad emanare la sentenza e, dunque a pronunciarsi in un senso o nell’altro. Come è stato affermato a tale riguardo 30, va tenuto presente che la dinamica processuale, ed in particolare la natura convenzionale della litis contestatio formulare 31, non permetteva al pretore di inserire nella formula prov28

Sulla responsabilità del iudex v. R. FERCIA, Litem suam facere da Adriano ai Severi, in Diritto@Storia, X/2011-12, passim; Sulla responsabilità del giudice cfr. C. VENTURINI, La responsabilità del giudice in età classica tra negligenza e corruzione, in Index, XLI/2013, pp. 455 ss.; R. SCEVOLA, La responsabilità del ‘iudex privatus’, Milano, 2004, p. 540; L. DE GIOVANNI, Istituzioni scienza giuridica codici nel mondo tardo antico. Alle radici di una nuova storia, Roma, 2007, p. 281 e nt. 334; R. LAMBERTINI, Cons. 8: il ‘vetus iurisconsultus’ e il giudice in causa propria (Aspetti della responsabilità del giudice nel tardoantico), in Princìpi generali e tecniche operative del processo civile romano nei secoli IV-VI d.C. (Atti del Convegno Parma 18-19 giugno 2009), Parma, 2010, spec. pp. 91 ss. Per uno studio comparatistico tra una pronuncia di non liquet del giudice romano e i sistemi moderni cfr. S. CASSESE, Dentro la Corte. Diario di un giudice costituzionale, Bologna, 2015, p. 13. Una analisi del passo gelliano utile ai nostri fini si trova in V. GIUFFRÈ, ‘Necessitas probandi’, cit., pp. 135 ss. 29 Cfr., sul punto, G. PUGLIESE, L’onere della prova nel processo romano per formulas, in RIDA, III/1956, p. 415. 30 Cfr. G. POLARA, Autonomia ed indipendenza del giudice, cit., pp. 344 ss. 31 Le uniche testimonianze dirette su che cosa significhi litem contestari sono costituite da due glosse di Festo: “Contestari est cum uterque reus dicit «testes estote»; Contestari litem dicuntur duo aut plures adversarii, quod ordinato iudicio utraque pars dicere solet «testes

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vedimenti o ordini che non fossero immediata conseguenza di richieste delle parti o, quanto meno, concordati fra esse ed il pretore: in relazione all’articolazione processuale delle contrapposte pretese, a quella dell’attore e al dovere, per lui, di fornire le prove del suo assunto, corrispondeva l’indicazione al giudice di condannare il convenuto ovvero di assolvere quest’ultimo. «Di fronte a questa alternativa tertium non datur: sicuramente nessun altro interesse hanno le parti né alcun potere avrebbe potuto esercitare il pretore al di là delle richieste delle stesse. Quindi, l’espressione si paret condemnato si non paret absolvito è indicativa del limite del pretore, non della competenza del giudice in quanto il primo è vincolato dal gioco processuale degli interessi delle parti, il secondo, pur essendo destinatario della duplice direttiva, non lo è in termini di imperativo categorico» 32. Il condannare o assolvere non rappresenta, dunque, la disposizione essenziale e primaria data dal pretore al giudice ma piuttosto la conseguenza necessitata del raggiungimento del parere, inteso come formazione del convincimento del giudicante, il quale, attraverso l’esame delle prove addotte dalle parti, si determina, appunto, se e quando possibile, per la colpevolezza o innocenza del convenuto. Il senso, quindi, da assegnare all’ordine del pretore è in “termini gnoseologici”: il giudice, cioè, doveva assumere le prove e fare tutto il possibile per raggiungere un convincimento definitivo, una certezza sulla situazione di fatto, collegata a quella di diritto già fissata nella formula. Come il paret non configura una situazione di conoscenza oggettiva del fatto, ma una situazione soggettiva del giudice, così l’espressione si non paret non è indicativa di una situazione oggettiva conseguente alla mancata prova dei fatti addotti da parte dell’attore, ma va intesa come la condizione soggettiva del giudice il quale, nonostante le prove addotte dalla parte a ciò onerata, non sia riuscito a formarsi un convincimento definitivo. L’emanazione della sentenza, pertanto, non è un dovere che deriva al giudice dall’ordine del pretore, ma essa discende soltanto dal soggettivo convincimento, se e quando, raggiunto dal giudice privato, il quale resta vincolato estote»”. Sulla natura giuridica della litis contestatio si vedano oltre la fondamentale opera del Wlassak che ne propugnò per primo la natura di “accordo trilaterale” (M. WLASSAK, Praescriptio und bedingter Prozess, in ZSS, 33/1912, pp. 81-87) anche G. PUGLIESE, La litis contestatio nel processo formulare, in Riv. dir. proc. civ., VI/1951, pp. 37-64; G. SACCONI, Studi sulla litis contestatio nel processo formulare, Napoli, 2002. È da escludersi comunque qualsiasi configurazione della litis contestatio come “quasi contratto” proposta dal F.L. KELLER, Über litiscontestation und Urtheil nach klass. Römischen Recht, Zurigo, 1827, capitolo I. 32 Così G. POLARA, Autonomia ed indipendenza del giudice, cit., p. 345.

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esclusivamente al dovere di svolgere l’attività di accertamento, vale a dire di assumere le prove e cercare di formarsi un proprio convincimento. Dunque il giudice non ha il dovere di pronunciarsi (in senso positivo o negativo): egli assolve il suo compito in qualunque modo manifesti le conclusioni cui è giunto; nulla però impedisce che egli possa solennemente dichiarare di non essere riuscito a formarsi un convincimento sul caso e, quindi, pronunciare il giuramento sibi non liquere. Attraverso tale giuramento, in altri termini, il giudice privato si libera dell’obbligo di decidere, nel senso di emanare la sentenza, ma non rifiuta di giudicare; egli, in tal modo, si sottrae non soltanto alla grave responsabilità che gli sarebbe potuta derivare da un eventuale litem suam facere, ma anche e soprattutto si scioglie dall’obbligo assunto mediante l’originario giuramento, prestato dinanzi alla divinità, di giudicare in aderenza alla fides 33. Con tale giuramento, il giudice, infatti, si era impegnato a praticare la giustizia, cioè a salvam fidem facere: l’obbligo derivante dal iussum iudicis veniva, pertanto, a cadere di fronte alle implicazioni sociali, morali e religiose di un’eventuale violazione del giuramento di giudicare secondo il bonum e l’aequum, giustificandosi così la scelta di liberarsi dal dovere di rendere la sentenza, perché altrimenti sarebbe stata una sentenza formalmente corretta, ma in realtà sostanzialmente iniqua. Come è stato affermato, «l’oggetto del giuramento, infatti, non è il rendere una sentenza quale che sia, ma il dare una sentenza che sia la concretizzazione del ius siccome descritto da Celso. In questa linea di continuità tra fides, iustitia e ius inteso come ars boni et aequi si inserisce, col suo giuramento, il giudice del processo formulare che, nell’ottemperare al iussum iudicandi del pretore, deve avere di mira una cosa sola: il perseguimento della giustizia in senso sostanziale» 34. In altri termini il giuramento rem sibi non liquere si caratterizza non come contrarius actus rispetto a quello di giudicare secondo il bonum e l’aequum 35, ma come suo naturale corollario. 33 Così, sul punto, L. MANNA, La facoltà del giudice di iurare rem sibi non liquere, cit., pp. 564 ss., che ipotizza che il giuramento in questione fosse pronunciato per Iovem Lapidem: cfr. in part. pp. 577 s. su cui v. A. CALORE, Per Iovem lapidem. Alle origini del giuramento: sulla presenza del “sacro” nell’esperienza giuridica romana, Milano, 2000, pp. 12 ss.; L. AMIRANTE, Il giuramento prestato prima della litis contestatio nelle legis actiones e nelle formule, Napoli, 1954, passim. 34 Così L. MANNA, La facoltà del giudice di iurare, cit., p. 600. 35 In tal senso, F. LAMBERTI, Riflessioni in tema di litem suam facere, in Labeo, 36/1990, p. 256 nt. 160; F. DE MARTINO, ‘Litem suam facere’, in BIDR, 91/1988, pp. 1-36, part. p. 35 (= ID., Diritto, economia e società nel mondo romano, I, Napoli, 1995, pp. 687 ss.).

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È in questa prospettiva, allora, che il non liquet del giudice privato romano non si trasforma in denegata giustizia, nel senso in cui tale espressione è oggi correntemente intesa; anzi, rappresenta l’extrema ratio cui il giudice impronta il suo agire al fine di non violare i canoni dell’equità sostanziale in relazione alla vicenda sottoposta alla sua decisione. Orbene, da quanto fin qui sostenuto emerge una figura di giudice la cui autonomia non sì limita solo all’assunzione e valutazione delle prove, vincolato sempre dall’ordine pretorile scaturente dall’imperativo si paret ... si non paret, ma quella di un privato cittadino che, chiamato a fungere da giudice sulla base della concorde volontà delle parti ed investito di tale funzione dal pretore, conserva la sua più ampia autonomia decisionale fino al limite della non pronuncia, sulla base dell’individuale bisogno di certezza e della necessità imprescindibile di fidem salvam facere. Ne consegue che il rapporto tra pretore e iudex deve essere inquadrato in termini dialettici: esso non è improntato ad una sequenza gerarchica di ordine-subordinazione, in quanto il giudice privato è obbligato a svolgere un’attività di accertamento e non ad emanare sempre e comunque una sentenza 36. La possibilità per il giudicante di giurare rem sibi non liquere in caso di incertezza sulla fattispecie oggetto del giudizio, è attestata, come si è accennato, anche in altre fonti. Tra esse, si segnala un testo paolino, D. 42.1.36 (Paul. 17 ad ed.): Pomponius libro trigensimo septimo ad edictum scribit, si uni ex pluribus iudicibus de liberali causa cognoscenti de re non liqueat, ceteri autem consentiant, si is iuraverit sibi non liquere, eo quiescente ceteros, qui consentiant, sententiam proferre, quia, etsi dissentiret, plurium sententia optineret. Il testo, confermando la possibilità del non liquet, ci informa che, con riferimento alle causae liberales, caratterizzate come è noto dalla collegialità dell’organo giudicante, il giuramento di rem sibi non liquere reso da uno solo dei giudici non inficia la sentenza pronunciata dalla maggioranza degli altri membri del collegio giudicante. Ancora una volta, dal tenore della fonte in esame, si ricava che la decisione di non pronunciare una sentenza non va ad impattare sull’esercizio del dovere di giudicare in capo al singolo iudex. Ancora, altre fonti di natura non giuridica ci confermano la possibilità 36 Così, sulla scia di G. POLARA, Autonomia ed indipendenza del giudice, cit., p. 347 e L. MANNA, La facoltà del giudice di iurare, cit., pp. 546 ss.

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del non liquet, benché in un’accezione leggermente diversa da quella appena vista: Ps. Ascon., Verr. 230-231: […] ante legem Glauciae de comperendinatione aut statim sententia dicebatur, si absolvendus esset reus, aut amplius pronuntiabatur, si videtur esse damnandus, cum dixisset iudices non liquet, hoc est obscura causa est […], e Don., Ter. Eun. 2.3.40: […] et est liquet verbum iuris, quo utebatur iudices, cum amplius pronuntiabant, obscuritate commoti causae magis quam negotii simplicitate. Lo Pseudo Asconio, riferendosi ai procedimenti anteriori alla lex Glaucia de comperendinatione, parla, senza mezzi termini, di una dilatazione dei tempi processuali in relazione a quei casi in cui, profilandosi all’orizzonte del processo la condanna del convenuto, il giudice, sentendo il bisogno di effettuare maggiori approfondimenti, pronunciava il non liquet, facendo luogo ad un supplemento di istruttoria (ampliatio). Nello stesso senso anche nel commento di Donato a Terenzio si riconduce l’esercizio della facoltà del non liquet all’ampliatio che si rendeva necessaria per l’oscurità della questione controversa. In tali ipotesi, dunque, il giuramento rem sibi non liquere non produceva la liberazione definitiva del giudice dal dovere di emanare la sentenza, come abbiamo visto a proposito del racconto di Aulo Gellio ma, più semplicemente, una proroga dei termini per la decisione finalizzata a consentire al giudice di avere un maggior tempo a disposizione per compiere ulteriori atti istruttori o, comunque, per ponderare meglio la soluzione da dare alla controversia. Pratica questa che viene attestata da Ulpiano in D. 4.8.13.4 (Ulp. 13 ad ed.): Proinde si forte urgueatur a praetore ad sententiam, aequissimum erit, si iuret sibi de causa nondum liquere, spatium ad pronuntiandum dari 37.

37 Sulla stigmatizzazione da parte di Cicerone dell’uso del giuramento nondum de causa liquere usato come escamotage per provocare un differimento strumentale della decisione

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Il non liquet, sia nell’ipotesi di definitiva rinunzia al giudizio, sia in quella di strumento finalizzato ad avere a disposizione un maggiore spatium deliberandi, rappresentava, come è stato condivisibilmente sostenuto, «una valvola di sicurezza per garantire la giustizia sostanziale della pronuncia giudiziale» 38. Certamente, lo spazio per il non liquet tra la sentenza di condanna e quella di assoluzione esiste solo e nella misura in cui si ritiene che la regola dell’onere della prova, nelle fonti classiche, non abbia dato luogo ad una regola avente implicazioni di carattere decisorio. Suole, infatti, affermarsi 39 che nel processo privato romano non trovasse spazio la prova razionale, diretta alla dimostrazione di una singola circostanza come momento isolato dell’intera vicenda dedotta in giudizio, suscettibile di autonoma considerazione, bensì la prova retorica da intendersi come prova globale diretta alla persuasione ed al convincimento del giudicante attraverso una visione complessiva anziché alla dimostrazione di un singolo fatto.

4. … e nella cognitio extra ordinem. Quanto si è appena detto non vale anche con riferimento alla cognitio extra ordinem, nella quale il giudicante, in caso di gravi dubbi, non poteva esimersi dal giudicare ma solo poteva scegliere se chiedere all’imperatore un chiarimento normativo, per poi emettere la sentenza (che comunque restava appellabile), oppure deferire l’intera questione al tribunale dell’imperatore. Questa procedura, denominata “per relationem”, si giustificava col fatto che l’imperatore interveniva nel processo non quale istanza gerarchica superiore bensì quale fonte originaria del diritto e della giustizia. Ben presto, tuttavia, l’esigenza di evitare un intasamento dei tribunali imperiali pore quindi un ingiusto vantaggio ad una delle parti in causa, in relazione a quanto affermato da Cicerone in pro Quinct. 13.42, cfr. G. POLARA, Autonomia ed indipendenza del giudice, cit., p. 355. Cfr. P. CERAMI, Diritto al processo e diritto a un giusto processo. Radici romane di una problematica attuale, in AUPA, L/2005, pp. 19 ss. e ID., La ragionevole durata dei tempi processuali come elemento costitutivo dell’aequum iudicium, in Roma e America: diritto romano comune, XVII/2004, pp. 229 ss. Per un maggiore approfondimento sul tema cfr. G. POLARA, Autonomia ed indipendenza del giudice, cit., p. 449 e L. MANNA, La facoltà del giudice di iurare, cit., pp. 531 ss. 38 Così testualmente, G. POLARA, Autonomia ed indipendenza del giudice, cit., pp. 350 s. 39 Cfr. G. POLARA, Autonomia ed indipendenza del giudice, cit., p. 365.

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tò ad una serie di restrizioni in ordine alla facoltà di dare corso alla procedura per relationem: notevoli limiti furono posti già con Costantino in una disposizione del 318, poi raccolta in C.Th. 11.29.2, finché, con Giustiniano fu espressamente ordinato ai giudici di giudicare secondo scienza e coscienza: Nov. 125 [a. 543]: […] perfecte examinare causam et quod sibi iustum atque legitimum visum sit decernere […] rimarcando che le parti della lite avrebbero comunque potuto fare appello contro la decisone da essi ritenuta errata o ingiusta. Con Giustiniano, come è noto si assiste all’appropriazione da parte dell’autorità statale del potere di emanare il principio giuridico da applicare, cosi come anche di interpretare il principio controverso (Cost. Tanta 21) e la legge, cui è sottoposto il giudice, emana dalla volontà del potere imperiale. Pertanto, resa ancora più forte la subordinazione del giudice, ne consegue il divieto posto con la Nov. 125 a quest’ultimo di operare il rinvio così come emerge, per la prima volta, l’ordine espresso diretto ai giudici di emanare la sentenza. La nuova struttura dello Stato, con l’organizzazione verticistica del potere che fa capo all’imperatore, pone quindi la figura del giudice in posizione subordinata al potere politico e, come è evidente, del tutto diversa rispetto al giudice privato del processo formulare. Da questo momento il potere del giudice di pronunciare il giuramento sibi rem non liquere viene meno in quanto è mutata la ragione stessa del giudicare. Nell’ottica, infatti, del giudice privato abbiamo visto come il contenuto della funzione giudicante non fosse l’adempimento di un ordine del pretore, quanto piuttosto l’esercizio di un diritto-dovere coerente con la natura privata dell’organo; il iudex non era un subordinato gerarchico tenuto ad emanare, sempre e comunque, una sentenza ma era costretto dallo iussum iudicandi solo ad attivare il iudicium e porre in essere gli atti conseguenti, al fine di compiere tutto quanto necessario per formarsi un completo convincimento sui fatti di causa; lo iussum del pretore riguardava, infatti, il parere non lo iudicare e la risposta del giudice privato era, quando possibile, il sibi liquere non il sententiam dicere 40. 40

Così G. POLARA, Autonomia ed indipendenza del giudice, cit., p. 360. Sul punto da ultimo l’attenta disamina di N. RAMPAZZO, Sententiam dicere cogendum esse. Consenso e imperatività nelle funzioni giudicanti in diritto romano classico, Napoli, 2012, pp. 165 ss.

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Al contrario, il giudice della cognitio extra ordinem non trae la sua legittimazione dalla designazione delle parti né dallo iussus del pretore; le sue competenze discendono dall’ufficio ricoperto all’interno di una funzione statuale e, nell’ambito della sua attività, egli è sottoposto alla legge emanata dal potere sovrano; il suo dovere di giudicare, pertanto, non è nei confronti delle parti, ma verso l’autorità statale che lo ha investito di una funzione il cui contenuto è, appunto, quello di emanare sentenze. Quest’ultimo atto, poi, rappresenta soltanto l’adempimento di un dovere burocratico, a fronte dell’assolvimento del quale non può frapporsi alcun ostacolo derivante dall’eventuale travaglio interiore del giudice. Del resto, la facoltà di iurare sibi rem non liquere viene meno nell’ambito della cognitio extra ordinem anche in correlazione al fatto che le esigenze di giustizia sostanziale, sottese alla prima, vengono ora rese perseguibili mediante l’introduzione dell’appello, sconosciuto invece al processo formulare 41. Ancora più intensa diviene la subordinazione del giudice in seguito alla tipizzazione delle prove e alle regole poste in ordine al relativo onere. Nel tardo processo postclassico e in quello giustinianeo, di fronte alla regola tecnica probatoria il giudice svolge una funzione ‘amministrativa’, in quanto accerta solo l’esistenza dei fatti e la loro qualificazione in diritto e, comunque, deve emanare una sentenza, sia che le risultanze processuali lo abbiano convinto sia che lo abbiano lasciato perplesso e dubbioso 42. È naturale che in un siffatto contesto l’attenzione del legislatore dovesse incentrarsi anche sulla prova precisandone la natura, la graduazione e gli effetti; «al sorgere del giudice burocrate si accompagnò il sorgere dell’onus probandi in termini di prova legale, così come lo stabilizzarsi del processo civile, in termini di precisazione strutturale di ciò che era stata la dinamica dell’actio e dell’exceptio formulare e del conseguente sistema dell’onere probatorio, determinò la relativa cristallizzazione di posizioni processuali precedenti (onere della prova dei fatti costitutivi, modificativi ed estintivi, l’onere della prova del fatto negativo e loro incombere all’attore o al convenuto) che, nel nuovo contesto giudiziario, apparivano prive della originaria legittimazione sostanziale» 43. 41

L. MANNA, La facoltà del giudice di iurare, cit., pp. 602 ss. Sulla struttura del processo postclassico, per tutti, cfr. gli attenti studi di F. PERGAMI, Amministrazione della giustizia e interventi imperiali nel sistema processuale della tarda antichità, Milano, 2007; ID., Aequum iudicium e processo romano nella tarda antichità: principi generali e tecniche argomentative, in SDHI, 78/2012, pp. 98 ss. (= Nuovi studi di diritto romano tardo antico, Torino, 2014, pp. 1 ss.). 43 Così G. POLARA, Autonomia ed indipendenza del giudice, cit., p. 361. 42

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In definitiva, in relazione al processo formulare, lo iudex, nominato dalle parti ed investito dello iussum iudicandi dal pretore, non perdeva la sua natura di soggetto privato e le conseguenti caratteristiche di libertà; pertanto, non essendo tenuto ad emanare sempre e comunque una sentenza e dovendo rispondere alle parti che lo avevano nominato, senza violare il giuramento che lo vincolava al bonum et aequum, allorquando non riusciva a formarsi un pieno convincimento sui fatti di causa, poteva determinarsi per il non liquet, liberandosi in tal modo dallo iussus del pretore e sciogliendosi dal primo giuramento. Al contrario, nell’ipotesi di un giudice burocrate, subordinato gerarchico e, quindi, non autonomo, è evidente l’impossibilità di pronunciare il non liquet in quanto la funzione dell’organo giudicante è determinata dallo Stato e a quest’ultimo il giudice risponde dei suoi atti, non in relazione al loro contenuto ma per il compimento degli stessi; quindi, egli è costretto ad emanare sempre e comunque la sentenza, decidendo la controversia a lui sottoposta. Il divieto di non liquet, allora, con riferimento alla cognitio è il risultato scaturente dalla perdita di autonomia del giudice e non, invece, come pure si è ritenuto, una conseguenza della introduzione delle regole relative all’onere della prova: infatti, è la determinazione del valore legale della prova che nasce in una all’obbligo di giudicare, quale corollario correttivo del sistema, proprio perché viene meno la possibilità di pronunciare il non liquet 44. La Novella 125 di Giustiniano, del 543, sancisce, dunque, l’introduzione ufficiale del divieto di non liquet, modernamente inteso come diniego di giustizia. Per la prima volta, Giustiniano esclude la possibilità per il giudice di far ricorso all’autorità imperiale per trarne lumi, ordinando al giudice di esaminare celermente ed accuratamente le controversie a lui sottoposte e di emanare la sentenza secondo quanto gli parrà giusto e conforme alle leggi vigenti (nullum iudicatum quolibet modo vel tempore pro causis apud se propositis nuntiare ad nostram tranquillitatem, sed examinare perfecte causam et quod est iustum legitimumque videtur decernere) 45.

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Cfr. G. POLARA, Autonomia ed indipendenza del giudice, cit., p. 362. F. SITZIA, Giudici e legislatori: il divieto stabilito da Nov. 125 nella storia del diritto bizantino, in M.P. BACCARI-C. CASCIONE-L. LABRUNA (a cura di), Tradizione romanistica e costituzione, II, Napoli 2006, p. 1403. 45

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5. Denegare actionem 46. L’autonomia e la discrezionalità riconosciute in riferimento al giudizio processuale nell’ambito dell’ordinamento romano toccano punte inimmaginabili per gli ordinamenti giuridici moderni: questi, infatti, differiscono veramente in maniera radicale da quello romano laddove non contemplano in alcun modo la facoltà, riconosciuta solo in quest’ultimo, di ritenere la domanda dell’attore non meritevole di essere presa in considerazione: con la denegatio actionis, infatti, il magistrato, nella fase in iure del processo, decideva di non accogliere la postulatio dell’attore, chiudendo così la prima fase del processo e precludendo, sebbene in maniera non definitiva, la seconda, quella apud iudicem 47. Si trattava, secondo l’opinione tuttora prevalente, di una decisione caratterizzata da provvisorietà, vale a dire priva di effetti preclusivi o consuntivi dell’azione 48: nulla impediva all’attore, infatti, di proporre nuovamente l’azione innanzi allo stesso magistrato che l’aveva denegata, ovvero al suo successore. Dunque, nell’ipotesi di denegatio actionis il magistrato giusdicente compiva un atto meramente processuale, decidendo di non dare ulteriore corso al processo iniziato su istanza dell’attore cui veniva così negata la tutela giurisdizionale richiesta. Tale facoltà del magistrato giusdicente può essere compresa soltanto laddove si ponga mente alla amplissima discrezionalità che caratterizzava l’eser46 Si impiega l’espressione denegare actionem in luogo di denegatio actionis perché conforme a quanto è dato riscontrare nelle fonti. Infatti, «l’espressione denegatio actionis non ricorre se non dopo il IV secolo d.C. nelle fonti le quali, piuttosto, attestano le locuzioni ‘denegare actionem’ [ad es. D. 37.5.3.6 (Ulp. 40 ad ed.)] e ‘actionem denegare’ [ad es. D. 50.17.102.1 (Ulp. 1 ad ed.)], oltre ad innumerevoli altri costrutti utilizzati per esprimere il concetto di rifiuto da parte del magistrato in iure di concedere l’azione»: S. SCIORTINO, Denegare actionem, decretum e intercessio, in AUPA, LV/2012, p. 201 nt. 8: Vd. sul punto R. MEWALDT, Denegare actionem im romischen Formularprozess (Zur Lehre vom Verfahern in iure und der Iterzession), Greifswald, 1912, p. 3 s.; F. LUCREZI, Senatusconsultum Macedonianum, Napoli, 1922, p. 217 nt. 15. 47 Per un essenziale ragguaglio sul tema, si rinvia al classico studio di A. METRO, La denegatio actionis, Milano, 1972, passim; R. MEWALDT, Denegare actionem, cit., passim; H. LEVY BRUHL, La denegatio actionis sous la procedure formulaire, Lille, 1924, passim; G. PUGLIESE, Actio e diritto subiettivo, Milano, 1939, passim; H. ANKUM, Denegatio actionis, in ZSS, 102/1985, pp. 453 ss.; V. COLACINO, voce Denegatio actionis, in Nuoviss. Digest. It., Torino, V, p. 670; R. DÜLL, Denegationsrecht und praetorische Jurisdiction, München, 1915, passim; F. DE MARTINO, La giurisdizione nel diritto romano, Padova, 1937, passim; M. LAURIA, Ius civile – Ius honorarium, in Scritti in On. di C. Ferrini, Milano, 1946, passim. 48 Così A. METRO, La denegatio actionis, cit., pp. 160 ss.

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cizio della funzione giurisdizionale, discrezionalità grazie alla quale, il magistrato si ergeva a garante della conformità della norma al comune sentire sociale, ovvero, in altri termini, della attualità della norma sottoposta, in relazione al caso concreto, ad un vaglio di equità. Quella stessa discrezionalità che consentiva al magistrato, tramite il suo editto, di supplere, adiuvare e corrigere il vetus ius civile, adeguandolo costantemente al fluire della vita ed evitando che un’applicazione rigorosa del diritto astratto desse luogo, in concreto, ad una ingiustizia (summum ius, summa iniuria). Con l’emanazione dell’editto, egli, infatti, esponeva le regole in base alle quali avrebbe amministrato la giustizia; pur non potendo modificare il ius civile, egli poteva tuttavia apportarvi delle deroghe per ragioni di equità e altresì introdurre nuove regole giuridiche per quei casi che non trovavano disciplina nel ius civile. La iurisdictio, che trovava il suo fondamento nell’imperium, e che consisteva all’epoca delle legis actiones in un determinato complesso di potestates del magistrato giusdicente, preordinate essenzialmente ad indicare alle parti contendenti, sulla base del rigido formalismo delle legis actiones, la norma applicabile nel caso concreto e il rito processuale da seguire, con il processo formulare venne ad ampliarsi significativamente nel suo contenuto con l’introduzione di specifici elementi, come la datio o la denegatio actionis, l’exceptio, le actiones ficticiae 49, utiles, in factum 50, i iudicia bonae fidei 51, attraverso i quali l’attività giurisdizionale venne ad implicare anche una attività sostanzialmente normativa 52. Cruciale importanza rivestiva il momento in cui il magistrato doveva verificare l’ammissibilità dell’istanza di tutela. Se, infatti, era l’attore che doveva preliminarmente formalizzare la sua pretesa, indicando la formula dell’editto che riteneva utile idonea per la sua richiesta di tutela (postulatio actionis), competeva però al praetor verificare se quella pretesa fosse effettivamente contemplata dall’editto e quali erano i presupposti, sostanziali e processuali, ai quali era subordinata la sua tutela in concreto. 49

F. MERCOGLIANO, Actiones ficticiae. Tipologia e datazione, Napoli, 2001, passim. W. SELB, Formulare Analogien in ‘actiones utiles’ und ‘actiones in factum’ am Beispiel Julians, in Studi in onore di A. Biscardi, III, Milano, 1982, pp. 315 ss. 51 Da ultimo, nella corposa bibliografia sull’argomento, vd. L. FRANCHINI, La recezione nel ‘ius civile’ di ‘iudicia bonae fidei’, Napoli, 2015, passim. 52 G.B. IMPALLOMENI, La denegatio actionis e l’exceptio in diritto romano in relazione con l’eccezione rilevabile e non rilevabile d’ufficio in diritto moderno, in Studi in memoria del Prof. Augusto Cerino Canova, I, Bologna, 1992, pp. 149-160. 50

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Se, infatti, l’azione invocata non era contemplata ovvero mancava nella fattispecie concreta qualcuno dei presupposti richiesti per il suo esperimento, il pretore, nell’esercizio discrezionale delle sue potestà, avrebbe denegato l’actio. Si trattava, insomma, di un vero e proprio vaglio di ammissibilità, incentrato sulla meritevolezza dell’istanza di tutela, al superamento del quale era subordinato l’effettivo svolgimento del processo. Dunque, la iurisdictio del magistrato romano tendeva ad inglobare una serie eterogenea di potestà e di funzioni, di certo non riconducibile alla mera applicazione della legge. La denegatio actionis, così come la concessione di un rimedio non previsto nell’editto, o di una exceptio, costituivano alcune fra le più significative ed incisive espressioni di tale potere, politicamente fondato su una diretta investitura popolare. L’esorbitanza della denegatio actionis e delle altre misure sopra ricordate dalla funzione giurisdizionale, per come è attualmente intesa, è indubitabile secondo le nostre concezioni di stampo positivistico; come è stato acutamente detto, bisogna prendere atto che le concezioni, a cui si ispirava il processo per formulas nell’esperienza romana, erano diverse da quelle elaborate in argomento dai giustinianei e riprese poi dal positivismo giuridico 53. Tra gli aspetti maggiormente indagati, anche di recente 54, della denegatio actionis, particolare attenzione ha ricevuto quello relativo alla forma di tale provvedimento, dubitandosi se esso consistesse in un vero e proprio decretum magistratuale, come è peraltro opinione prevalente, oppure se si concretasse in un mero atteggiamento omissivo di renitenza 55 o di mancato accoglimento della postulatio dell’attore 56. Evidenti, nell’un caso come nell’altro, sono le conseguenze in tema di modalità di svolgimento del controllo dell’esercizio di tale potere, sotto il profilo della sua eventuale illegittimità o iniquità. 53 F. GALLO, L’officium del pretore nella produzione e applicazione del diritto, Corso di diritto romano, Torino, 1997, p. 82. 54 Da ultimo sul tema S. SCIORTINO, Denegare actionem, cit., pp. 1 ss. al quale si rinvia per la ricca bibliografia. 55 Secondo la definizione datane da A. GUARINO, Diritto privato romano12, Napoli, 2001, p. 217 nt. 11.3.3 il quale, peraltro, si premurava di specificare che la denegatio, pur se iniqua, non era mai giuridicamente perseguibile. 56 Per una accurata rassegna delle opinioni pro e contro si rinvia a S. SCIORTINO, Denegare actionem, cit., p. 3 nt. 2. Tra le opinioni a favore v. F. GALLO, L’officium del pretore, cit., pp. 125 ss.; per l’opinione contraria, C.A. CANNATA, Profilo istituzionale del processo privato romano, II. Il processo formulare, Torino, 1982, p. 162.

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L’analisi di questi aspetti risulterà proficua per comprendere più esattamente la natura della denegatio actionis, ed in particolare se esso sia espressione di un potere giurisdizionale in senso stretto ovvero di un potere di altro tipo, e quale, del magistrato giusdicente. Più in generale, tale riflessione servirà a mettere in luce la posizione che, nell’ordinamento giuridico romano, aveva il soggetto bisognoso di tutela giudiziaria di fronte agli organi dello Stato deputati all’amministrazione della giustizia. Orbene, le fonti attestano, anche successivamente alla lex Cornelia 57 cui si attribuisce d’aver «tassativamente prescritto ai pretori di ius dicere in conformità alle promesse edittali» 58 ed anche in età posteriore ad Adriano, la facoltà per i pretori di emettere decreta non conformi all’albo, nel senso sia di concedere giudizi in esso non previsti, sia di denegare giudizi che invece erano promessi nell’editto 59. Come si è detto, mentre generalmente non si dubita che la datio actionis consistesse in un decretum, è dibattuto se lo stesso possa ritenersi per la denegatio ovvero se quest’ultima si estrinsecasse in un mero atteggiamento renitente od omissivo del pretore. L’eventuale prova circa la forma del decretum per la decisione magistratuale di denegare l’azione invocata dall’attore consentirebbe, tra l’altro, di ritenere sussistente, con ampio margine di probabilità, la possibilità di invocare contro la denegatio la intercessio dei magi57

Si tratta la lex Cornelia de iurisdictione approvata nel 67 a.C. su proposta del tribuno della plebe C. Cornelio, che è notoriamente conosciuta come quella legge che, intendendo porre rimedio ai gravi abusi, cui si erano abbandonati alcuni pretori durante il torbido periodo di crisi dell’ultimo secolo della Repubblica, avrebbe imposto ai pretori di ius dicere ex edictis suis perpetuis. Su tale legge cfr. A. METRO, La lex Cornelia de iurisdictione alla luce di Dio. Cass. 36.40.1-2, in Iura, 1/1969, pp. 520 ss. e con particolare attenzione circa il collegamento di questa con la denegatio actionis C. BUZZACCHI, L’abuso del processo, cit., cap. I, § 2. 58 Cfr. G. PUGLIESE, Actio e diritto subiettivo, cit., p. 138. Contro il pretore che si fosse discostato dall’editto si sarebbe potuto richiedere l’applicazione del c.d. “editto di ritorsione”: Quod quisque iuris in alterum statuerit, ut ipse eodem iure utatur, quando poi non si versasse in un’ipotesi di reato passibile di iudicium publicum. Sul tema del c.d. “editto di ritorsione” A. RODGER, The Praetor Hoist with his Own Petard: the Palingenesia of Digest 2.1.10, in J. CAIRNS-O. ROBINSON (a cura di), Critical Studies in Ancient Law, Comparative Law and Legal History, Oxford, 2001, pp. 128 ss. 59 D. MANTOVANI, Praetoris partes. La iurisdictio e i suoi vincoli nel processo formulare: un percorso negli studi, in Il diritto fra scoperta e creazione. Giudici e giuristi nella storia della giustizia civile (Atti del Convegno Internazionale della Società Italiana di Storia del Diritto – Napoli, 18-20 ottobre 2001), Napoli, 2003, p. 88 e nt. 119. Per una bibliografia aggiornata sui decreta praetoris si rinvia a F. TAMBURI, I decreta frontiana di Aristone, in Studi Martini, III, Milano, 2009, pp. 717 ss. nt. 12-15 e pp. 722 ss.

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strati aventi pari o maggiore potestas ovvero quella dei tribuni della plebe 60. L’opinione tradizionale, invero, ritiene la denegatio actionis identificabile con un atto di iurisdictio che comporta una pronuncia magistratuale. In tal senso, si fa leva, generalmente su D. 4.6.26.4 (Ulp. 12 ad ed.): Ait praetor: “sive cui per magistratus sine dolo malo ipsius actio exempta esse dicetur”. hoc quo? ut, si per dilationes iudicis effectum sit, ut actio eximatur, fiat restituito. sed et si magistratus copia non fuit, Labeo ait restitutionem facienda. per magistratus autem factam ita accipendum est, si ius non dixit: alioquin si causa cognita denegavit actionem, restitutio cessat […]. Il frammento, tratto dal commento ulpianeo all’editto “Ex quibus causis maiores viginti quinque annis in integrum restituuntur, è esplicito nel rivelare che uno dei casi in cui può concedersi la in integrum restitutio 61 all’attore è appunto quello in cui l’azione viene ad estinguersi per fatto ascrivibile al magistrato il quale ius non dixit 62; caso che il giurista di Tiro ha, tuttavia, cura di differenziare da quello in cui il magistrato abbia eventualmente denegato l’azione causa cognita: in tal ipotesi, infatti, la restitutio non compete (restitutio cessat). Dunque, nel passo in esame si distingue tra il ius non dicere, ossia la denegatio iurisdictionis, da un lato, e la denegatio actionis causa cognita, dall’altro. La prima, invero, si avrebbe quando l’attore non ha effettuato la c.d. postulatio actionis e si tradurrebbe nel non audire l’attore ed il convenuto 60 Per una accurata rassegna degli autori pro e contro l’ammissibilità dell’intercessio nei confronti della denegatio actionis, si rinvia a S. SCIORTINO, Denegare actionem, cit., pp. 6 ss. nt. 8 e 9. 61 Sul tema della in integrum restitutio è d’obbligo la lettura di: L. RAGGI, La restitutio in integrum nella cognitio extra ordinem: contributo allo studio dei rapporti tra diritto pretorio e diritto imperiale in età classica, Milano, 1965, passim; G. CERVENCA, Studi vari sulla «restitutio in integrum», Milano, 1965, passim; M. KASER, Studi sulla «in integrum restitutio», in Labeo, XII/1966, pp. 238 ss.; F. FABBRINI, Per la storia della «restitutio in integrum», in Labeo, XII/1967, pp. 214 ss.; resta poi fondamentale B. KUPISCH, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, BerlinNew York, 1974. 62 Sulla perdita dell’azione per decorso del tempo v. M. AMELOTTI, La prescrizione delle azioni in diritto romano, Milano, 1958, con ampia bibliografia; L. SOLIDORO MARUOTTI, La perdita dell’azione civile per decorso del tempo nel diritto romano. Profili generali, in TSDP, III/2010, pp. 2 ss.

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da parte del magistrato. La seconda, invece, non avrebbe il significato di un atto di ricusazione o di opposizione, quanto piuttosto esprimerebbe la necessità di una pronuncia da parte del magistrato: essa sarebbe, quindi, un atto di giurisdizione e comporterebbe una pronuncia del tipo dicere non esse actionem ovvero non dari actionem. In quanto atto di iurisdictio, è plausibile dunque che essa sfociasse normalmente in un decretum, a differenza della denegatio iurisdictionis, la quale, invece, sarebbe consistita in un mero comportamento omissivo che avrebbe impedito alla parte di agire in giudizio, vale a dire in un ius non dicere, per l’appunto. La dottrina tradizionale 63 ha dunque ritenuto che la denegatio actionis si estrinsecasse pur sempre in una decisione espressa del magistrato, per quanto avente un contenuto negativo, e che tale decisione fosse formalizzata in un decretum. Autorevoli studiosi 64, invece, pur riconoscendo alla denegatio actionis la natura giuridica di un atto di iurisdictio, non hanno ritenuto ciò sufficiente ad escludere che essa potesse identificarsi con un mero rifiuto opposto dal magistrato in iure all’attore, senza necessità di utilizzare a tal fine alcun decreto. La denegatio actionis, in altri termini, secondo questa opinione, parrebbe essersi concretizzata, per lo più, in un semplice atteggiamento omissivo di renitenza: ciò sembrerebbe potersi dedurre da D. 3.1.1.1 (Ulp. 6 ad ed.) in cui Ulpiano, nel discorrere dell’attività pretoria di permittere postulare in contrapposizione al prohibere postulare, non fa alcun riferimento a decreta di denegatio actionis 65. 63

Ancora una volta il rinvio è a R. MEWALDT, Denegare actionem, cit., pp. 95 ss. Cfr. C.A. CANNATA, Profilo istituzionale, cit., pp. 42 s. 65 V. CARRO, Et ius et aequom postulas. Studi sull’evoluzione del significato di postulare, Napoli 2006, pp. 76 ss., spec. p. 78., nt. 76 e p. 79 nt. 78; contra S. SCIORTINO, Denegare actionem, cit., p. 13 nt. 30, che ritiene non sufficiente a tal proposito l’argomento ex silentio. Per quanto riguarda il verbo postulare ricorre nelle fonti nel senso comune di domandare, chiedere con insistenza, pretendere qualcosa cui si ritiene avere diritto, ma assume anche il significato più specifico – e variamente articolato nei diversi sistemi processuali del diritto romano – di esporre richieste in tribunale, fino a giungere all’ampia valenza attuale nel linguaggio comune, in materia processuale ed ai risvolti specifici in campo matematico, filosofico ed in diritto canonico. Sul significato di postulare, con aggiornata bibliografia sul punto, cfr. V. CARRO, … Et ius, cit., pp. 5 ss., la quale in merito all’accezione del verbo postulare nel significato di “richiedere un provvedimento dinanzi al tribunale” precisa che «assume grande rilievo in quanto presupposto della relazione tra postulatio e domanda giudiziale. Ciò in quanto va registrato che la stessa domanda giudiziale trovò il suo 64

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Peraltro, a voler essere rigorosi, nemmeno è sufficiente ritenere che la denegatio fosse un atto di iurisdictio per poter affermare che essa venisse formalizzata in un decreto magistratuale: è noto, infatti, che non tutti gli atti ed i provvedimenti del magistrato, infatti, benché comportanti una pronuncia espressa, venivano formalizzati in decreta. Un argomento di carattere generale a favore della tesi che la decisione di denegare actionem fosse contenuta in un decretum può essere rinvenuto, tuttavia, nel fatto che – come è noto – la denegatio actionis, secondo l’opinione oggi prevalente 66, non aveva effetti consuntivi dell’azione, lasciando intatta la possibilità per l’attore di proporre nuovamente l’azione denegata dinanzi allo stesso magistrato ovvero al suo successore. Mentre con il non liquet si aveva la non conclusione della fase apud iudicem, con la denegatio actionis il processo si interrompeva nella fase in iure che appunto terminava, in tal caso, con la decisione del magistrato di non concedere all’istante l’actio; ciò non impediva, tuttavia, a quest’ultimo di reiterare la sua petitio in seguito, in quanto, come si è accennato, la denegatio actionis aveva effetti preclusivi ma non consuntivi. Diversamente con riguardo all’absolutio: in tal caso, infatti, il iudex (e non il magistrato) rigettava la domanda dell’attore: conseguentemente, nell’ipotesi di una sua eventuale rinnovazione, sarebbe stata opposta una exceptio rei iudicatae da parte del convenuto 67. mento testuale proprio nella definizione di postulare contenuta in D. 3.1.1.2 (6 ad ed.). […] A riprova del rilievo giuridico di postulare va aggiunto che il verbo, indicando una richiesta esposta in giudizio, assunse, anche il significato di accusa o meglio di richiesta di autorizzazione ad accusare rivolta al magistrato dall’accusatore»: op. cit., pp. 16, 18; sulle considerazioni espresse dalla Carro cfr. la recensione di A. DIMOPOULOU-PILIOUMI apparsa in ZSS, 126/2009, pp. 600 ss. Secondo il De Goytisolo «postulare, es la misión del abogado, defensor de uno de los criterios o intereses contrapuestos en un juicio. Es, cada uno, pieza esencial en la organización de justicia, en la cual se contraponen posiciones antagónicas, ante las cuáles, un juez o tribunal imparcial debe resolver; pero, únicamente después de ser ilustrados por los abogados, o por éstos y el ministerio fiscal, desde sus respectivos puntos de vista. Ese juego complejo de postulaciones parziale y de resolución imparcial, tan sólo puede valorarse en su visión de conjunto, observando cual es el encaje que tienen en el proceso todos los elementos que intervienen en él»: J. VALLET DE GOYTISOLO, Dal Rhetor al Advocatus, in Anales de Real Academia de Jurisprudencia y Legislación, 35/2005, pp. 17 s. 66 Per tutti, A. METRO, La denegatio, cit., pp. 160 ss. 67 Spunti interessanti su tale tipo di exceptio sono in G. PUGLIESE, Due testi in materia di res iudicata, in Studi Zanobini, V, Milano, 1965, pp. 489-511 e in G. SACCONI, L’exceptio rei in iudicium deductae, in Sodalitas. Studi in onore di Antonio Guarino, IV, pp. 1909-1917, dove la studiosa partendo dalla lettura di Gai. Fr. August. 4.110, precisa che la exceptio rei

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Pur non comportando la perenzione dell’actio rifiutata, ciò nonostante, il provvedimento di denegatio actionis aveva sicuramente una efficacia deterrente e in qualche modo orientava la successiva decisione del magistrato circa una eventuale riproposizione della postulatio actionis. In tal caso il magistrato avrebbe dovuto poter avere la possibilità di valutare se erano venuti meno i motivi che avevano indotto lui o il suo predecessore a denegare actionem: proprio al fine di consentire una eventuale revisione della precedente decisione magistratuale, secondo un’opinione di recente ribadita in dottrina, era sicuramente opportuno che essa venisse formalizzata in un decreto scritto 68. Se i decreta sono dunque gli atti attraverso i quali si esplica normalmente l’attività magistratuale nell’esercizio della iurisdictio 69, occorre chiedersi se anche la denegatio actionis, una volta stabilita dal magistrato in iure, potesse essere oggetto dell’editto c.d. “di ritorsione” o, più precisamente, dell’editto quod quisque iuris in alterum statuerit ut ipse eodem iure utatur, risalente probabilmente al 79 a.C., in base al quale, come è noto, eventuali decisioni inique del magistrato potevano essere invocate successivamente contro di lui, ovvero contro la stessa parte che se ne era avvantaggiata, qualora costoro si fossero trovati ad essere parte di un processo vertente su un caso simile a quello già (iniquamente) giudicato 70. È evidente, infatti, che la decisione del magistrato di rifiutare un’azione promessa nel suo editto emanato all’inizio dell’anno di carica, in quanto ampiamente discrezionale, poteva essere occasione di applicazione di ius iniquum 71. Utile, a tal fine, l’analisi del seguente passo: D. 2.2.3.5 (Ulp. 3 ad ed.): Quod autem ait praetor, ut is eodem iure utatur, an etiam ad heredem haec poena transmittatur? et scribit Iulianus non solum ipsi denegari actionem, sed etiam heredi eius. iudicatae vel in iudicium deductae consta in realtà di due eccezioni, di cui una è opponibile si adhuc pendet il precedente iudicium, mentre l’altra lo è si res iudicata est. 68 Magari anche motivato, come suppone S. SCIORTINO, Denegare actionem, cit., p. 14. 69 Così G. SCHERILLO, Lezioni sul processo. Introduzione alla cognitio extra ordinem. Corso di diritto romano, Milano, 1960, p. 310. 70 Amplius, da ultima, C. MASI DORIA, A proposito di limiti e responsabilità nell’attività del magistrato giusdicente nella tarda repubblica tra il cd. editto di ritorsione e l’abrogatio iurisdictionis, in AA.VV., Romische Jurisprudenz Dogmatik Uberlieferung Reception. Festschrift für D. Liebs zum 75 Geburstag, Berlin, 2011, p. 419, con rilevanti indicazioni bibliografiche. 71 Cfr. D. MANTOVANI, Praetoris partes, cit., pp. 89 ss. e 98 ss.

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Nel responsum ulpianeo si legge che se un magistrato avesse denegato iniuamente un’azione, egli stesso ed i suoi eredi, trovandosi nella medesima situazione, non avrebbero potuto pretendere di avvalersi quella medesima azione. Orbene, considerato che i provvedimenti oggetto dell’editto quod quisque iuris in alterum statuerit potevano essere solo i decreta dotati di efficacia lesiva, il fatto che Ulpiano menzioni espressamente l’ipotesi dell’iniquo diniego dell’azione, secondo qualche autore, potrebbe far supporre che anche la denegatio actionis avvenisse tramite decreti, che venivano conservati in un documento scritto al fine di renderli reperibili ed applicabili nei confronti del magistrato 72. In altri termini, la stessa possibilità di applicare l’editto di ritorsione propenderebbe per far ritenere che in concreto la decisione di denegare actionem fosse contenuta in un decreto scritto: ciò al fine di renderlo reperibile e applicabile in seguito contro il magistrato medesimo che lo aveva pronunciato ovvero contro la parte che ne aveva beneficiato. Dubbio è invece se contro la denegatio actionis potesse essere invocata l’intercessio 73 dei magistrati di pari o maggiori potestà o dei tribuni della plebe. A tale riguardo appare debole l’argomentazione di chi ha sostenuto questa tesi 74, in quanto, se pure è vero che, essendo la decisione pretoria di denegare actionem particolarmente lesiva degli interessi dell’attore, è lecito immaginare che questi avesse cercato di ricorrere ai tribuni, tuttavia non vi è alcuna prova in tal senso. Peraltro il problema dell’ammissibilità dell’intercessio non può essere affrontato se non attraverso la individuazione degli effetti concreti dell’intercessio nei confronti di un provvedimento di contenuto negativo, quale era appunto la denegatio actionis. Se, invero, il veto fosse provenuto da un magistrato dotato di par potestas, allora egli avrebbe potuto adottare il provvedimento positivo contrario a quello oggetto dell’intercessio: nel caso della de72

Così S. SCIORTINO, Denegare actionem, cit., pp. 22 ss. Sulla intercessio dei tribuni della plebe si vd.: F. STELLA MARANCA, Il tribunato della plebe dalla “lex Hortensia” alla “lex Cornelia”, Lanciano, 1901, pp. 72 ss.; E. LEFÈVRE, Du Rôle des Tribuns de la Plèbe en procédure civile, Paris, 1910, pp. 46 ss. e 106 ss., con specifico riferimento alla intercessio esercitata nel processo privato; E. COCCHIA DI ENRICO, Il tribunato della plebe e la sua autorità giudiziaria studiata in rapporto colla procedura civile, Napoli, 1917, pp. 387 ss.; G. NICCOLINI, Il tribunato della plebe, Milano, 1932, pp. 119 ss.; U. COU, voce Intercessio, in Nuoviss. Digest. It., VIII, Torino, 1962, pp. 787 ss.; J. BLEIC2 KEN, Das Volkstribunat der klassischen Republik , München, 1968, pp. 5 ss. e 78 ss.; G. LOBRANO, Il potere dei tribuni della plebe, Milano, 1982, pp. 56 ss. 74 S. SCIORTINO, Denegare actionem, cit., pp. 24 ss. 73

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negatio actionis, la datio actionis. Ma nel caso che il magistrato intercedente non avesse la medesima iurisdictio che gli avrebbe permesso di adottare il provvedimento invocato dall’attore, come appunto avveniva nel caso di intercessio dei tribuni della plebe avverso una denegatio actionis disposta dal pretore, in dottrina si è posto seriamente in dubbio che il magistrato che aveva subito l’intercessio potesse essere costretto a rilasciare il provvedimento di contenuto positivo corrispondente al punto di vista del magistrato intercedente: l’intercessio, infatti, aveva un carattere meramente proibitorio e non poteva spingersi fino a costringere un altro magistrato ad adottare un provvedimento contro la sua volontà. In altri termini, poiché l’intercessio aveva esclusivamente una efficacia rescissoria, sembra doversi negare che un altro magistrato ovvero i tribuni della plebe potessero sostituirsi al pretore per adottare un provvedimento di datio actionis in sua vece, come conseguenza di un annullamento della precedente denegatio actionis 75. Nessun magistrato, infatti, aveva una iurisdictio uguale a quella del pretore e dunque sarebbe stata inutile da un punto di vista pratico una intercessio nei confronti della denegatio actionis, salvo che, per una sua libera decisione, il pretore che aveva denegato l’azione eventualmente si convincesse a modificare la decisione precedente 76. È stato di recente osservato 77, tuttavia, che i magistrati maggiori dotati di maior potestas avrebbero comunque potuto imporre, in virtù del loro imperium, ordini positivi ai quali corrispondeva il dovere di obbedire da parte del magistrato inferiore. Dunque, quantomeno in linea teorica, si ritiene ipotizzabile che, eliminata per mezzo dell’intercessio, una denegatio actionis ritenuta illegittima o iniqua, al pretore recalcitrante potesse essere ordinato da parte del magistrato dotato di maior potestas, in questo caso il console, di dare actionem. 75

Cfr. R. MEWALDT, Denegare actionem, cit., pp. 138 ss. Anche R. ORESTANO, L’appello civile in diritto romano, Torino, 1952, pp. 88 s., nega che i tribuni avessero il potere di costringere il magistrato ad adottare il provvedimento eliminato. Nello stesso senso E. LEFEVRE, Du Role des Tribuns de la Plebe en procédure civile, Paris 1910, pp. 129 ss., argomentando sul presupposto del contenuto puramente negativo dell’intercessio tribunizia, nega che un tribuno della plebe avrebbe potuto costringere un pretore alla datio actionis. Contra v. P. BONFANTE, Il ius prohibendi nel diritto pubblico e nel diritto privato, in Riv. dir. comm., 1912, pp. 1040 ss., il quale ritiene che nel caso di intercessio dei tribuni rispetto ad una denegatio actionis pretoria, il magistrato poteva essere costretto a rilasciare un provvedimento a contenuto positivo. 77 S. SCIORTINO, Denegare actionem, cit., p. 40. 76

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Parimenti, in caso di intercessio tribunizia, pur non potendosi essa spingere fino a costringere il magistrato giusdicente alla datio actionis, atteso il contenuto unicamente proibitorio dell’intercessio medesima, pure si potrebbe ipotizzare che il magistrato che avesse ciò nonostante denegato una seconda volta l’azione avrebbe potuto essere considerato recalcitrante all’esecuzione di un ordine dei tribuni e dunque esposto alle relative conseguenze, vale a dire la ductio in vincula e la prensio 78. Tali conseguenze avrebbero giocato un effetto deterrente molto forte nell’orientare il magistrate che aveva illegittimamente o ingiustamente denegato l’azione ed al quale era stata opposta l’intercessio. In tal senso deporrebbe quanto attestato dalle fonti per la c.d. denegatio exceptionis, infatti concesso l’annullamento, in virtù dell’intercessio, della decisione magistratuale il convenuto non avrebbe potuto essere considerato indefensus qualora non avesse accettato una formula priva dell’exceptio precedentemente non ammessa in suo favore. Il magistrato giusdicente quindi, qualora non avesse voluto determinare la paralisi del processo, sarebbe stato costretto di fatto ad inserire nel programma di giudizio l’exceptio richiesta dal convenuto: diversamente, infatti, il convenuto non sarebbe stato costretto ad accipere un iudicium privo della integrazione richiesta e, viceversa, l’attore avrebbe dovuto scegliere se rinunciare alla tutela processuale ovvero dictare un iudicium conforme alla volontà espressa dal magistrato intercedente; senza contare poi che persistere nel non voler concedere l’exceptio da parte del magistrato giusdicente avrebbe comportato una inadempienza sanzionabile all’ordine vincolante impartito dal magistrato intercedente. In definitiva, sembra potersi concludere nel senso che pur se la denegatio veniva posta nel nulla dall’intercessio e il privato era così nuovamente in grado di postulare actionem dallo stesso magistrato, l’intercessio, tuttavia, non comportava automaticamente la concessione dell’actio dapprima denegata ma aveva piuttosto un’efficacia positiva riflessa, in quanto il magistrato, per evitare una seconda intercessio, in linea di massima si sarebbe adeguato ed avrebbe concesso l’actio 79. Dunque, l’intercessio avrebbe avuto semplicemente degli effetti, per così dire, persuasivi, anche in considerazione del fatto che difficilmente sarebbe stata concessa l’intercessio se non fossero state ritenute sussistenti gravi ragioni. 78

Cfr. C. CASCIONE, Appunti su prensio e vocatio nei rapporti tra potestates romane, in Mélanges de droit romain offerts à W. Wolodkiewicz, cit., pp. 167 ss. 79 Cfr. G. PUGLIESE, Actio e diritto subiettivo, cit., p. 115 nt. 2.

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Solo in questi limitati termini può quindi ammettersi un controllo esterno, mediante lo strumento dell’intercessio, sull’attività del pretore: in realtà, la potestà del magistrato era amplissima, la denegazione discrezionale dell’actio riguardando anche i mezzi di tutela previsti nell’editto senza la riserva di causae cognitio 80. Una discrezionalità che rasenta l’arbitrio ma che rappresenta l’elemento che consente al magistrato di svolgere quel ruolo formante, di cui si è detto, nell’ambito dell’ordinamento giuridico romano. Solo in questa ottica e sulla base di questi presupposti può comprendersi, allora, la affermazione, del Levy Bruhl 81, secondo cui le denegationes vere e proprie sarebbero soltanto quelle arbitrarie, mentre non sarebbero tali (l’Autore le classifica come fausses denegations) quelle sancite dal magistrato in applicazione di una disposizione di legge, così come pure quelle fondate su un principio generale della procedura formulare del tipo di quello che pretende l’accordo delle parti sui termini della formula, ovvero ancora le denegationes decise nei casi in cui l’editto riserva espressamente al pretore la facoltà di accogliere o meno la domanda dell’attore. Il ius denegationis si avrebbe, secondo quest’autore, solo quando il pretore può, del tutto arbitrariamente, accogliere o rifiutare la domanda di giustizia a lui sottoposta, arbitrio a controllare il quale non sarebbe stata utile la ricordata lex Cornelia del 68 a.C., considerato che tale plebiscitum riguardava solo l’attività giurisdizionale del pretore, nella quale secondo il Levy Bruhl non rientrerebbe la denegatio adottata attraverso decreta. Con la lex Cornelia de iurisdictione, che, come si è detto, stabilì l’obbligo per i pretori di pubblicare l’album all’inizio dell’anno di carica, ad ogni modo, è innegabile che si cercò di limitare la discrezionalità dei magistrati repubblicani, cercando di evitare che essa si trasformasse in puro arbitrio. Il clima di fine repubblica era fatto di abusi, favoritismi, discriminazioni: evidentemente dovettero accadere situazioni di tale gravità da far ritenere insufficiente l’introduzione nell’editto della clausola quid iuris ad impedire la parzialità nell’ambito della giurisdizione. Secondo la testimonianza di Cassio Dione 36.40.1-2 i pretori, infatti, usavano trasformare in concreto i principi dell’editto per favorire ovvero pregiudicare determinati portatori di interessi; fu stabilito così con il plebiscito Cornelio che non soltanto essi dovessero pubblicare il proprio editto all’inizio dell’anno di carica ma anche che non 80

Così D. MANTOVANI, Praetoris partes, cit. pp. 35 ss., v. anche R. MARTINI, Il problema della causae cognitio pretoria, Milano, 1961, p. 44. 81 A. METRO, La denegatio actionis, cit., pp. 123 ss.

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potessero discostarsene. Secondo il Metro 82, tuttavia, avendosi già testimonianze della prassi di pubblicare gli editti all’inizio dell’anno, la disposizione della lex Cornelia andrebbe intesa nel senso di vietare i c.d. edicta repentina. Dunque essa non solo avrebbe imposto ai magistrati di attenersi alle loro promesse edittali, ma anche di emanare il programma de iurisdictione in una sola volta, all’inizio dell’anno di carica, non potendo nell’ambito della funzione giurisdizionale fare più ricorso ai c.d. edicta repentina che però rimasero nell’ambito delle altre funzioni magistratuali. Diversamente, il Palazzolo 83 non ritenendo sussistente alcuna differenza di natura formale tra editti emanati all’inizio dell’anno e quelli emanati in corso d’anno, è dell’opinione che la lex Cornelia non stabilì alcun divieto di emanare edicta repentina ma impose solo al pretore di portare preliminarmente a conoscenza dei cittadini le norme a cui avrebbe fatto ricorso nell’esercizio della giurisdizione, dalle quali ovviamente essi avrebbero potuto discostarsi successivamente. Preferibile appare la interpretazione proposta da Brutti 84, secondo cui la lex Cornelia avrebbe prescritto che i magistrati non si discostassero immotivatamente dal loro editto e soprattutto in modo mutevole e contraddittorio (varie), ma senza vietare che essi durante l’anno potessero intervenire per far fronte a situazioni nuove o per correggere previsioni edittali rivelatesi errate o inopportune, o comunque inadeguate. Con il plebiscito, in ogni caso, si giunse ad imporre dei limiti legali, obbligando i pretori a rispettare il contenuto dell’editto emanato all’inizio del proprio anno di carica, anche se tale legge non sembra aver avuto grande efficacia nella pratica, considerato che i pretori continuarono a godere di un’ampia sfera di discrezionalità; la dottrina largamente maggioritaria, tuttavia, ritiene che la lex Cornelia non ebbe gli effetti sperati 85. Fino all’ultimo secolo della repubblica il controllo era stato, invece, essenzialmente di carattere politico, senza necessità di ricorrere a delle vere e proprie limitazioni giuridiche: la fides era ritenuta sufficiente a garantire che il pretore non si discostasse dal suo editto. Se la discrezionalità del magistrato era necessaria a far in modo che at82

A. METRO, La lex Cornelia de iurisdictione, cit., pp. 511 ss. N. PALAZZOLO, L’edictum de albo corrupto e il problema della pubblicità delle norme edittali in età postadrianea, in Studi in onore di C. Sanfilippo, VII, Milano, 1987, p. 601 nt. 28. 84 M. BRUTTI, Il praetor, cit., p. 184. 85 Diverse sono però le spiegazioni date al riguardo (abrogazione, desuetudine, lex imperfecta): amplius F. GALLO, L’officium del pretore, cit., p. 72 nt. 38. 83

Note sulla autonomia e discrezionalità del giudicante: non liquet e denegatio actionis 129

traverso l’aequitas si potessero superare le insufficienze del ius civile, l’esercizio di questa discrezionalità era ampiamente orientato dalla giurisprudenza: furono proprio i giuristi, invero, a garantire che l’esercizio concreto della discrezionalità di magistrati e giudici non rischiasse di essere asservito al potere politico o ad interessi di parte. L’intervento del magistrato dotato di par o maior potestas ovvero dei tribuni della plebe, mediante l’intercessio, era diretto a prevenire, paralizzandola, una applicazione non corretta del potere magistratuale; tuttavia, deve ritenersi che esso fu un fatto sporadico ed eccezionale, rimesso come era alla discrezionalità del magistrato intercedente, utilizzato in particolari circostanze politiche anche sotto la pressione dell’opinione pubblica. Cicerone, ad esempio, ci narra che lo scandalo creato da Verre nell’anno della sua pretura (78 a.C.), costrinse il collega Lucio Pisone ad intervenire numerose volte ponendo l’intercessio sugli atti di Verre, con i quali egli si era arbitrariamente discostato dal suo editto (Cic., In Verrem, 2.1.40-51).

6. Conclusioni. In conclusione, si può ritenere che la impossibilità del c.d. non liquet negli ordinamenti giuridici moderni, come si è accennato, deriva dalla considerazione dell’actio come di un vero e proprio diritto del cittadino ad ottenere una pronuncia, quale che sia, del magistrato in ordine alla sua richiesta di tutela: il non liquet non è ammesso perché l’ordinamento è effettivo e, in quanto tale, non può non essere attuato. Inoltre, esso non è ammesso poiché almeno nella forma assunta dalla struttura dell’ordinamento positivistico la norma del giudizio preesiste alla manifestazione del giudizio, che si conforma dunque come mero fenomeno applicativo. Nell’ordinamento giuridico romano, invece, non vi è evidentemente un tale diritto in capo al cittadino; di più: questi non ha diritto nemmeno ad ottenere la tutela promessa nell’editto dal pretore che, in virtù della sua amplissima discrezionalità, può ritenere, in relazione alle circostanze concrete del caso, come non meritevole di essere presa in considerazione la domanda di giustizia a lui avanzata. Tuttavia, appare necessario distinguere tra il fenomeno della denegatio actionis in iure ed il non liquet in iudicio, poiché ad avviso di chi scrive denotativi di diverse modalità di manifestazione del potere di cognizione della controversia, collocandosi la prima all’esterno della iurisdic-

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tio, il secondo al suo interno come manifestazione dell’autonomia dello iudex e dei suoi processi cognitivi di libera determinazione dei confini del giudizio. In sostanza, sembra non del tutto infondato il sostenere che la relazione tra magistrato giusdicente e cittadino, allorché viene denegata la procedibilità dell’actio, non possa essere inquadrata nell’ambito della iurisdictio in senso stretto ma appaia più probabilmente una manifestazione di soggezione-affidamento del civis rispetto la magistrato al fine di ottenere una tutela meramente eventuale e non obbligatoria. La denegatio actionis è pertanto una manifestazione di potestas e non di iurisdictio. Se ne inferisce che, nell’ambito del giudizio, il rapporto non viene ad intercorrere tra cittadino e Respublica, bensì tra magistrato e cittadino, quest’ultimo nella qualità di soggetto bisognoso di tutela e non di soggetto portatore di diritti (in particolare, di un diritto all’actio in senso stretto). In definitiva, si può ritenere che, nel mondo romano, l’actio sia una mera richiesta di tutela avanzata dal cittadino al magistrato, che quest’ultimo può o meno prendere in considerazione. Ovviamente, se la denegatio non è atto di giurisdizione in senso stretto, allora viene meno anche l’argomento principale relativo al fatto che esso normalmente sfociasse in un decretum, piuttosto che in un semplice rifiuto opposto dal magistrato in iure. Trattandosi di mero esercizio di potestà magistratuale, si comprende anche la possibilità di invocare da parte dell’attore che si era visto denegare l’azione, l’intercessio dei magistrati dotati di par maiorve potestas e dei tribuni della plebe: la denegatio, se avvertita come iniqua o inopportuna da parte dei cittadini veniva sottoposta, attraverso l’intercessio, ad un controllo ab externo in ordine all’esercizio in concreto della discrezionalità da parte del pretore. Altra appare invece essere la dimensione del non liquet in iudicio, che lungi dal rappresentare una manifestazione potestativa dello iudex, che tale potestas non possedeva se non nei limiti dello iussum del magistrato, costitutiva la forma esterna della sua piena autonomia nel conoscere i fatti di causa al fine di sciogliere il dilemma del paret /non paret sulla scorta della fides e del bonum et aequum, a riprova dell’importanza del suo ruolo ed a testimonianza del carattere popolar-privatistico del processo formulare romano, carattere che lo rende lontano dalle impostazioni processual-codicistiche del processo privato dei sistemi di Civil Law, ma straordinariamente attuale nell’epoca della crisi della giurisdizione.

Indice degli Autori

AGAMBEN, G.: 92; nt. 68 AGNATI, U.: 57 nt. 138 ALBANESE, B.: 38 nt. 86; 65 nt. 160: 82 nt. 27; 85 nt. 41 ALEXANDER, M.C.: 34 nt. 75 ALVAZZI DEL FRATE, P.: 98 nt. 14 AMARELLI, F.: 31 nt. 70 AMELOTTI, M.: 120 nt. 62 AMIRANTE, L.: 64 nt. 158; 109 nt. 33 AMORETTI, G.V.: 10 nt. 2 ANDRINI, S.: 17 nt. 29 ANKUM, H.: 116 nt. 47 ARANGIO-RUIZ, V.: 13 nt. 17; 89 nt. 55 ASTOLFI, R.: 67 nt. 164 AUSTIN, J.L.: 96 nt. 4 AVENARIUS, M.: 88 nt. 51 AZZONI, G.: 21 nt. 48; 78 nt. 13 BACCARI, M.P.: 60 nt. 146; 77 nt. 6; 95 nt. 1; 96 nt. 6; 115 nt. 45 BARBA, A.: 96 nt. 8 BARBATI, S.: 42 nt. 107 BAUMAN, Z.: 79; nt. 17 BECK, U.: 79; nt. 15 BENEDICT, R.: 10; nt. 6 BERNSTEIN, N.W.: 53 nt. 132 BERRY, D.H.: 34 nt. 75 BERTOLINI, C.: 64 nt. 158 BESELER (VON), G.: 62 nt. 151 BETHMANN-HOLLWEG (VON), M.A.: 64 nt. 158 BETTI, E.: 21; nt. 46; 87; nt. 48 BIONDI, B.: 64 nt. 158 BISCOTTI, B.: 50 nt. 122; nt. 123; nt. 126;

52 nt. 129; nt. 131; 56 nt. 137; nt. 138; 57 nt. 138; nt. 139; 58 nt. 139; 62 nt. 151; nt. 153; 63; nt. 156 BLACKSTONE, W.: 94 BLANCH NOUGUES, J.M.: 85 nt. 40 BLEICKEN, J.: 124 nt. 73 BONA, F.: 73 nt. 179 BONFANTE, P.: 125 nt. 76 BOTTURI, F.: 21 nt. 48; 78 nt. 13 BOVE, L.: 10 nt. 3 BRETONE, M.: 22 nt. 51; 23 nt. 53; 30; nt. 67; 59 nt. 143; 61 nt. 149; 65 nt. 160; nt. 161; 66 nt. 164; 83; 84 nt. 36 BRIGUGLIO, F.: 7 nt. 11 BRUTTI, M.: 65 nt. 159; 104 nt. 22; 128 nt. 84 BURDESE, A.: 39; nt. 89; 80 nt. 22 BUZZACCHI, C.: 63 nt. 155; 105 nt. 22; 119 nt. 57 CADIET, L.: 3 nt. 6 CAIRNS, J.: 119 nt. 58 CALORE, A.: 109 nt. 33 CAMPOLUNGHI, M.: 65 nt. 160; 66 nt. 163 CANCELLI, F.: 67 nt. 164; 68 nt. 167 CANFORA, L.: 9 nt. 2; 10 nt. 4; 11 nt. 7; nt. 8; nt. 12; 74 nt. 185 CANNATA, C.A.: 70; nt. 175; 83; nt. 35; 118 nt. 56; 121 nt. 64 CANTARELLA, E.: 11 nt. 6; 39 nt. 91; 46 nt. 115; 105 nt. 24; 106 nt. 26 CAPOGROSSI COLOGNESI, L.: 85 nt. 41 CARACCIOLO DI SAN VITO, L.: 20 nt. 43

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Il luogo delle regole

CARAVALE, M.: 2 nt. 5 CARCATERRA, G.: 19; nt. 38; 80 nt. 21 CARCOPINO, J.: 13 nt. 17 CARDILLI, R.: 51 nt. 128 CARRO, V.: 121 nt. 65 CASAVOLA, F.P.: 46 nt. 115; 106 nt. 26 CASCIONE, C.: 1 nt. 3; 45 nt. 114; 60 nt. 146; 64 nt. 158; 71 nt. 177; 76 nt. 4; 77 nt. 6; 82 nt. 28; 92 nt. 68; 95 nt. 1; 96 nt. 6; 101 nt. 21; 115 nt. 45; 126 nt. 78 CASSESE, S.: 47 nt. 117; 74; nt. 186; 107 nt. 28 CASTIGNONE, S.: 96 nt. 4 CATELANI, P.: 21 nt. 45 CAVALLA, F.: 9 nt. 2 CAVALLONE, B.: 3 nt. 6 CENDERELLI, A.: 58 nt. 139 CERAMI, P.: 38 nt. 87; 112 nt. 37 CERRI, D.: 5 nt. 7 CERRONE, F.: 17 nt. 29; 18 nt. 29 CERVENGA, G.: 120 nt. 61 CHECCHINI, A.: 105 nt. 24 CHEVREAU, E.: 81 nt. 25 CITRONI MARCHETTI, S.: 41 nt. 98 COBETTO GHIGGIA, P.: 2 nt. 5 COCCHIA DI ENRICO, E.: 124 nt. 73 COLACINO, V.: 116 nt. 47 COLESANTI, V.: 5 nt. 7 COLLINET, P.: 39; nt. 91; nt. 92; 40; 105 nt. 24 CORBINO, A.: 14 nt. 20; 47 nt. 118; 82; nt. 31; nt. 32; 83 nt. 33; 84; nt. 37; 96 nt. 8 CORDERO, F.: 11 nt. 6 COSTABILE, F.: 10 nt. 4; 11 nt. 7 COU, U.: 124 nt. 73 COUSIN, J.: 26 nt. 58 CROOK, J.A.: 26 nt. 58; 34 nt. 75; 50; nt. 124 CURSI, M.F.: 85 nt. 41 DAJCZAK, W.: 85 nt. 41 DALLA, D.: 60 nt. 146; 95 nt. 1 D’AMATI, L.: 2 nt. 4 DAUBE, D.: 66 nt. 164 DAWSON, J.P.: 94; nt. 72

DE FRANCISCI, P.: 45 nt. 114; 101 nt. 21 DEGANELLI, M.: 81 nt. 26 DE GIOVANNI, L.: 38 nt. 84; 107 nt. 28 DE MARTINO, F.: 39; nt. 90; 109 nt. 35;

116 nt. 47 DEMELIUS, G.: 64 nt. 158 DE VISSCHER, F.: 66 nt. 164 DI BENEDETTO, V.: 11 nt. 12 DICEY, A.V.: 97 nt. 9 DI CHIARA, G.: 38 nt. 87 DILIBERTO, O.: 45 nt. 112; 85 nt. 41; 101 nt. 19 DIMOPOULOU-PILIOUMI, A.: 122 nt. 65 DODDS, E.R.: 10; nt. 5 DOMINGO, R.: 95 nt. 1 DÜLL, R.: 116 nt. 47 DWORKIN, R.: 20; nt. 42; nt. 43; 97 nt. 9 ECKERMANN, J.P.: 10 nt. 2 ESPOSITO, R.: 96 nt. 8 ESSER, J.: 19; nt. 36 FABBRINI, F.: 120 nt. 61 FAIT, P.: 18 nt. 31 FALCONE, G.: 38 nt. 86; nt. 88 FERCIA, R.: 56 nt. 138; 57 nt. 138; 107 nt. 28 FERRARY, J.-L.: 13 nt. 17 FEURBACH (VON), A.: 95 nt. 1 FINAZZI, G.: 62 nt. 152; nt. 154 FINKENAUER, T.: 87; nt. 47; 90; nt. 59; nt. 60; nt. 62; 91; nt. 67 FINO, M.: 105 nt. 24 FIORI, R.: 45 nt. 114; 45 nt. 116; 51 nt. 127; 101 nt. 21; 105 nt. 23; 106 nt. 27 FISCHER-LESCANO, A.: 74 nt. 185 FRANCHINI, L.: 117 nt. 51 FRIER, B.: 39 nt. 91; 105 nt. 24 FROMENT, TH.: 26 nt. 58 FURNARI LUVARÀ, G.: 76 nt. 5 FUSCO, S.A.: 95 nt. 1 GABBA, E.: 13 nt. 17 GAGLIARDI, L.: 39; nt. 91; nt. 92 nt. 93; 40; nt. 95; nt. 97; 41 nt. 102; nt. 104; 105 nt. 24

Indice degli Autori GALLO, F.: 15; nt. 22; 16; 17; 26; 19 nt. 34; 48 nt. 120; 68; nt. 169; 72 nt. 179; 76 nt. 6; 78 nt. 13; 95 nt. 1; 96 nt. 7; 118 nt. 53; nt. 56; 128 nt. 85 GARDNER, J.F.: 53 nt. 132 GAROFALO, L.: 23 nt. 52; 36 nt. 82; 48 nt. 119; nt. 120; 50 nt. 121; nt. 122; 51 nt. 128; 55 nt. 135; 63 nt. 155; 72 nt. 177; 105 nt. 24 GEHLEN, A.: 79; nt. 14 GENOVESE, M.: 41 nt. 102 GERMINO, E.: 1 nt. 3; 64 nt. 158 GIOMARO, A.M.: 104 nt. 22 GIUFFRÈ, V.: 46 nt. 114; 47 nt. 117; 86; nt. 42; 87 nt. 46; 88 nt. 52; 106 nt. 25; 107 nt. 28 GIULIANI, A.: 17; nt. 29; 18 nt. 29 GIUMETTI, F.: 28 nt. 61 GIUNTI, P.: 6 nt. 9; 34 nt. 74; 45 nt. 112; 61; nt. 150; 69 nt. 173; 80 nt. 21; 105 nt. 23 GIURATO, R.: 94 nt. 72 GRICE, P.: 93 nt. 70 GROSSI, P.: 18 nt. 29 GUARINO, A.: 25 nt. 57; 50 nt. 125; 66 nt. 164; 85 nt. 41; 118 nt. 55 GUARNIERI CITATI, A.: 62 nt. 151 GUASTINI, R.: 73 nt. 181; 78 nt. 10 GUILLEMIN, A.M.: 43 nt. 108 GUIZZI, F.: 96 nt. 5 HARRISON, A.R.W.: 2 nt. 5 HARTMANN, O.E.: 39 nt. 92; 101 nt. 18 HASSAN, R.: 38 nt. 88 HAUSMANINGER, H.: 90 nt. 57 HAYEK, F.A.: 97 nt. 9 HEGEL, G.W.F.: 10 nt. 2 HEIDEGGER, M.: 79; nt. 18 HOBBES, T.: 97 nt. 10 HOEFLICH, M.: 34 nt. 75 HONORÉ, T.: 63 nt. 157 HORVAT, M.: 66 nt. 164 HUMBERT, M.: 96 nt. 8 IANNOTTA, L.: 96 nt. 5 IMPALLOMENI, G.B.: 117 nt. 52

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IRTI, N.: 72 nt. 177; 73 nt. 182 IZZO, F.: 64 nt. 158 KASER, M.: 49 nt. 121; 65; nt. 160; 80 nt. 22; 120 nt. 61 KELLER, FL.: 108 nt. 31 KELSEN, H.: 14 nt. 18; 73; nt. 181; nt. 182 KENNEDY, G.A.: 26 nt. 58 KUNKEL, W.: 66 nt. 164 KUPISCH, B.: 120 nt. 61 LABRUNA, L.: 60 nt. 146; 77 nt. 6; 95 nt. 1; 96 nt. 6; 115 nt. 45 LAMBERTI, F.: 62 nt. 154; 109 nt. 35 LAMBERTINI, R.: 38 nt. 84; 107 nt. 28 LANTELLA, L.: 36; nt. 81; 81 nt. 26 LAURENDI, R.: 13 nt. 17 LAURIA, M.: 101 nt. 20; 116 nt. 47 LEFÈVRE, E.: 124 nt. 73; 125 nt. 76 LEVY BRUHL, H.: 116 nt. 47; 127 LOBRANO, G.: 124 nt. 73 LOKIN, J.H.A.: 42 nt. 107 LOVATO, A.: 38 nt. 86; 51 nt. 128; 58 nt. 141; 69 nt. 174 LUCHETTI, G.: 60 nt. 146 LUCREZI, F.: 82 nt. 30; 116 nt. 46 LURASCHI, G.: 72 nt. 178 LUZZATI, C.: 77; nt. 8; 78 nt. 11; 93 nt. 69 MAGDELAIN, A.: 66 nt. 164 MANNA, L.: 72 nt. 177; 105 nt. 24; 109 nt. 33; nt. 34; 110 nt. 36; 112 nt. 37; 114 nt. 41 MANTOVANI D.: 2 nt. 5; 13 nt. 17; 15 nt. 21; 100 nt. 17; 119 nt. 59; 123 nt. 71; 127 nt. 80 MARIANI, E.: 96 nt. 5 MARIANI MARINI, A.: 5 nt. 7; 6 nt. 8; 42 nt. 107 MARINI, A.: 79 nt. 18 MAROTTA, V.: 15 nt. 21; 22 nt. 51; 29 nt. 64; 59 nt. 143; 65 nt. 159 MARRONE, M.: 49 nt. 121; 52 nt. 130; 54 nt. 133; nt. 134; 55; nt. 137; 56 nt. 137; nt. 138; 57 nt. 139; 62 nt. 152; 74 nt. 185

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Il luogo delle regole

MARTINI, R.: 19; nt. 39; 46 nt. 115; 80 nt. 21; 83 nt. 34; 106 nt. 26; 127 nt. 80 MARTSCHUKAT, J.: 96 nt. 4 MARTYN, J.R.C.: 40 nt. 96 MASI DORIA, C.: 1 nt. 3; 2 nt. 3; 45 nt. 114; 64 nt. 158; 71 nt. 177; 80 nt. 20; 82 nt. 28; 92 nt. 68; 101 nt. 21; 123 nt. 70 MASTINO, A.: 57 nt. 138 MASTROROSA, I.G.: 26 nt. 58; 42 nt. 106 MAYER-MALY, T.: 98 nt. 12 MCGINN, T.A.J.: 53 nt. 132 MEINHART, M.: 62 nt. 153 MEISTER, R.: 43 nt. 108 MELILLO, G.: 64 nt. 158 MERCOGLIANO, F.: 117 nt. 49 MERKER, N.: 10 nt. 2 METRO, A.: 116 nt. 47; nt. 48; 119 nt. 57; 122 nt. 66; 127 nt. 81; 128; nt. 82 MEWALDT, R.: 116 nt. 46; nt. 47; 121 nt. 63; 125 nt. 75 MICELI, M.: 38 nt. 87; 96 nt. 6 MIGLIETTA, M.: 71 nt. 177; 80 nt. 20; 81; nt. 23; nt. 25; nt. 26; 86 nt. 43 MILAZZO, A.: 14 nt. 20 MITTEIS, L.: 31 nt. 71 MOMMSEN, TH.: 23 nt. 53 MUSCOLO, G.: 6 nt. 8 NANCY, J.-L.: 20 nt. 44; 21 nt. 47 NEGRI, G.: 96 nt. 8 NICCOLINI, G.: 124 nt. 73 NICOSIA, G.: 68 nt. 167; 69; nt. 172 NITSCH, C.: 77 nt. 9; 92 nt. 68 NOCERA, G.: 38 nt. 85; 85 nt. 40 NORDEN, E.: 43 nt. 108 NÖRR, D.: 45 nt. 112; 46 nt. 114; 69; nt. 174; 84 nt. 39; 90; nt. 56; 101 nt. 19 ORESTANO, R.: 2 nt. 4; 13 nt. 17; 73 nt. 183; 80 nt. 19; 125 nt. 76 ORIANA, F.: 20 nt. 42 ORTU, R.: 51 nt. 128 PALAZZOLO, N.: 68 nt. 167; 128; nt. 83 PALESE, P.: 20 nt. 44

PALMA, A.: 17 nt. 28; 28 nt. 61; 74 nt. 184; 96 nt. 5 PALMIERI, G.: 96 nt. 8 PAPA, G.: 1 nt. 2 PARATORE, E.: 43 nt. 108 PARICIO, J.: 46 nt. 114; 98 nt. 12: 100 nt. 16 PASSERIN D’ENTREVES, A.: 96 nt. 6 PATTI, S.: 2 nt. 5; 85 nt. 41 PATZOLD, S.: 96 nt. 4 PELLECCHI, L.: 1 nt. 2 PELLOSO, C.: 16 nt. 23 PERELMAN, C.: 17; 18 nt. 30; 76 nt. 5 PERGAMI, F.: 114 nt. 42 PETER, H.: 42 nt. 108 PETERLONGO, M.E.: 64 nt. 158 PETRONIO, U.: 2 nt. 5 PETRUCCI, A.: 96 nt. 6 PIAZZA, P.: 22 nt. 49 PICONE, G.: 43 nt. 108 PINO, G.: 77 nt. 10 PINTO, P.M.: 75 nt. 185 PLANIOL, M.: 5 nt. 7 POLARA, G.: 46 nt. 115; nt. 117; 106 nt. 26; 107 nt. 30; 108 nt. 32; 110 nt. 36; 112 nt. 37; nt. 38; nt. 39; 113 nt. 40; 114 nt. 43; 115 nt. 44 PROCCHI, F.: 5 nt. 7; 42 nt. 107; 51 nt. 128; 55 nt. 136 PROVERA, G.: 61 nt. 148; 66 nt. 164 PUGLIESE, G.: 2 nt. 4; 50 nt. 121; 107 nt. 29; 108 nt. 31; 116 nt. 47; 119 nt. 58; 122 nt. 67; 126 nt. 79 PULIATTI, S.: 57 nt. 138; 58 nt. 141; 77 nt. 6 PURPURA, G.: 13 nt. 17 RABELLO, A.M.: 98 nt. 13 RAGGI, L.: 120 nt. 61 RAMPAZZO, N.: 36 nt. 82; 113 nt. 40 REPETTO, G.: 17 nt. 29; 18 nt. 29 RETTORI, M.: 9 nt. 1 RITCHIE, D.G.: 21 nt. 48; 78 nt. 13 ROBINSON, O.: 119 nt. 58 RODGER, A.: 119 nt. 58 ROSSITTO, C.: 22 nt. 49

Indice degli Autori SACCO, R.: 19; nt. 32; nt. 33; 76 nt. 6 SACCONI, G.: 63 nt. 155; 107 nt. 31; 122 nt. 67 SANTALUCIA, B.: 82 nt. 29; 88 nt. 50; nt. 52 SANTARELLI, U.: 95 nt. 1 SANTI, R.: 97 nt. 10 SANZ MORÁN, A.J.: 95 nt. 1 SARGENTI, M.: 72 nt. 178 SAVIGNY (VON), F.C.: 63 nt. 157 SCEVOLA, R.: 38 nt. 84; 105 nt. 24; 107 nt. 28 SCHERILLO, G.: 123 nt. 69 SCHIAVONE, A.: 15 nt. 21; 24 nt. 54; 32 nt. 72; 36 nt. 83; 84; nt. 38 SCHIPANI, S.: 57 nt. 138; 65 nt. 161 SCHMID, W.: 11 nt. 11 SCHMIDLIN, B.: 20; nt. 40; 81 nt. 25; 82 nt. 29; 88 nt. 50; 90 nt. 58 SCHULZ, F.: 38 nt. 85 SCHWARZ, A.B.: 24; nt. 54; nt. 55; nt. 56 SCIORTINO, S.: 116 nt. 46; 118 nt. 54; nt. 56; 120 nt. 60; 121 nt. 65; 123 nt. 68; 124 nt. 72; nt. 74; 125 nt. 77 SCOGNAMIGLIO, M.: 95 nt. 1 SEIDL, E.: 90 nt. 57 SELB, W.: 117 nt. 50 SERRAO, F.: 14 nt. 17; 58 nt. 142; 85 nt. 41 SEVERINO, E.: 73 nt. 182 SHERWIN-WHITE, A.N.: 43 nt. 108 SIBER, H.: 66 nt. 164 SITZIA, F.: 115 nt. 45 SOLIDORO MARUOTTI, L.: 2 nt. 5; 22 nt. 49; 30 nt. 65; 51 nt. 128; 58 nt. 141; 85 nt. 41; 86 nt. 45; 95 nt. 1; 106 nt. 25; 120 nt. 62 SPAGNUOLO VIGORITA, T.: 71 nt. 176 STARACE, P.: 43 nt. 108; 48 nt. 119; 50 nt. 121; 59 nt. 145 STEIN, P.: 19; nt. 37; 81 nt. 24; 83 nt. 34 STELLA MARANCA, F.: 124 nt. 73 STOLFI, E.: 10 nt. 2; nt. 3; 15 nt. 21; 22 nt. 51; 29 nt. 64; 36; nt. 81; 59 nt. 143; 65 nt. 159; 69 nt. 174; 81 nt. 26 STOLTE, B.H.: 42 nt. 107

135

TALAMANCA, M.: 10 nt. 3; 14 nt. 19; nt. 20; 28 nt. 62; 33; nt. 73; 35 nt. 76; 48 nt. 120; 52 nt. 129; 65 nt. 161; 69 nt. 173; 72 nt. 178; 73 nt. 180; 78 nt. 12 TAMBURI, F.: 15 nt. 21; 28 nt. 62; 35 nt. 77; 36 nt. 83; 119 nt. 59 TARELLO, G.: 3 nt. 6; 93 nt. 70 TARUFFO, M.: 3 nt. 6 TAUBENSCHLAG, R.: 31 nt. 71 TELLEGEN-COUPERUS, O.: 26 nt. 58; 42 nt. 106 TEUBNER, G.: 74 nt. 185 TONDO, S.: 13 nt. 17; 28 nt. 62; 65 nt. 161; nt. 162; 66 nt. 164; 67 nt. 166 TOTARO, F.: 21 nt. 48; 78 nt. 13 TOURAINE, A.: 79; nt. 16 TRAUB, H.W.: 43 nt. 108 TRIGGIANO, A.: 51 nt. 128 TRISOGLIO, F.: 43 nt. 108 TROJANO, P.R.: 21 nt. 48; 78 nt. 13 TROLIO G.: 14 nt. 17 UBBELOHDE, A.: 39; nt. 92; 40; 101 nt. 18 VACCA, L.: 29 nt. 64; 30; nt. 65; nt. 66; 35; 36 nt. 79; 49 nt. 121; 59 nt. 143; 60; nt. 146; 64 nt. 159; 70 nt. 175; 72 nt. 178; 74 nt. 185; 75; nt. 3; 82 nt. 30; 83 nt. 35; 85 nt. 41; 86 nt. 44; 96 nt. 8 VACCARO, N.: 10 nt. 2 VALDITARA, G.: 58 nt. 142 VALLET DE GOYTISOLO, J.: 122 nt. 65 VANO, C.: 7 nt. 11 VARANO, V.: 99 nt. 15 VARVARO, M.: 7 nt. 11 VENTURINI, C.: 37 nt. 84; 42; nt. 107; 107 nt. 28 VERNANT, J.P.: 9 nt. 1 VIDAL NAQUET, P.: 9 nt. 1 VIEHWEG, T.: 19; nt. 35 VINCENTI, U.: 16; nt. 24; 17 nt. 27; 30 nt. 65; 60; 61 nt. 148; 67 nt. 165; 86 nt. 45; 96 nt. 7 VOCI, P.: 58; nt. 140; 62 nt. 152 VOLTERRA, E.: 45 nt. 116; 106 nt. 27

136

Il luogo delle regole

WACKE, A.: 71 nt. 177 WALDESTEIN, W.: 17 nt. 27 WATSON, A.: 14 nt. 17; 85 nt. 41; 89 nt. 55 WENGER, L.: 2 nt. 4; 6; 7 nt. 10 WIEACKER, F.: 66 nt. 164; 69 nt. 171; 95 nt. 1 WIELING, H.: 91 nt. 65 WINKEL, L.C.: 20; nt. 41 WINTERBOTTOM, M.: 27 nt. 59 WIRSZUBSKI, CH.: 12 nt. 14

WLASSAK, M.: 45 nt. 113; 101 nt. 20; 108 nt. 31 WYCISK, T.: 75 nt. 2 YARON, R.: 82 nt. 30 YOUNG-WIDMAIER, M.R.: 26 nt. 58 ZABLOCKA, M.: 35 nt. 78 ZABLOCKI, J.: 46 nt. 114; 101 nt. 21 ZAGREBELSKY, G.: 78 nt. 10; 96 nt. 3 ZOZ, M.G.: 81 nt. 22

Indice delle Fonti *

1. FONTI GRECHE A) FONTI LETTERARIE ARISTOTELES Ethica Nicomachea 1130b 31: 21 nt. 48; 78 nt. 13 1130b 32: 21 nt. 48; 78 nt. 13 1137b: 29: 22 nt. 50 1137b 30: 22 nt. 50 1137b 31: 22 nt. 50 1137b 32: 22 nt. 50 Politicha 1292a: 97 Sophistici Elenchi 165ª 25-30: 18; nt. 31 (CASSIUS DIO) COCCEIANUS Historiae Romanae (ed. Boissevain) 36.40.1: 127 36.40.2: 127 LYSIAS Contra Andocydes 10: 11 nt. 9 SOPHOCLES Antigone 213: 10 nt. 3

382: 10 nt. 3 449: 10 nt. 3 452: 10 nt. 3 455: 10 nt. 3 481: 10 nt. 3 663: 10 nt. 3 847: 10 nt. 3 455: 10 nt. 3 1113: 11 nt. 10 PLUTARCHUS Vitae parallelae (Marius) 38.3: 53 THUCYDIDES 2.37: 10

2. FONTI LATINE A) FONTI LETTERARIE {AUCTOR} (CORNIFICIUS?) Rhetorica ad Herennium 2.13.19: 59; nt. 144 2.13.20: 59; nt. 144 2.18.2: 59; nt. 144 2.29.46: 59; nt. 144

* L’indice delle fonti è stato redatto dal Dott. Fausto Giumetti, mio allievo, che sentitamente ringrazio.

138 (D. MAXIMUS) AUSONIUS Gratiarum actio 7: 26 nt. 58 (M. TULLIUS) CICERO Epistulae Ad familiares 13.28: 91; nt. 64 ORATIONES Pro L. Cornelio Balbo 32: 93 Pro Caecina 69: 28 70: 36 71: 37 72: 37 73: 37 Pro A. Cluentio 92: 38 nt. 87 120: 38 nt. 87 Pro L. Murena 24: 27; nt. 61 25: 24 28: 24; 27; nt. 60 29: 28 nt. 61 30: 27 nt. 61 In M. Antonium Philippicae 5.6: 41 Pro Cn. Plancio 36: 38 nt. 87 38: 38 nt. 87 40: 38 nt. 87 Pro P. Quinctio 13.42: 112 nt. 37 In C. Verrem actio prima 1.1: 40 nt. 98

Il luogo delle regole

In C. Verrem actio secunda liber primus: de praetura urbana 40: 129 41: 129 42: 129 43: 129 44: 129 45: 129 46: 129 47: 129 48: 129 49: 129 50: 129 51: 129 liber secundus: de praetura Siciliensi 38.69: 41 nt. 101 liber tertius: de frumento 11.28: 41 nt. 99 21.54: 41 nt. 100 60.137: 41 nt. 103 PHILOSOPHICA De officiis 3.14.58: 51 nt. 128 3.14.59: 51 nt. 128 3.15.60: 51 nt. 128 3.15.62: 51 nt. 128 3.16.66: 51; 128 3.16.67: 51 nt. 128 POLITICA De re publica 1.68: 12 nt. 13 RHETORICA Brutus 152: 81; nt. 27 De inventione 2.67: 60 nt. 147 2.68: 60 nt. 147

Indice delle Fonti

De oratore 1.13: 12; nt. 14 1.175: 61 nt. 148 1.239: 32 1.240: 32 1.241: 34 1.242: 34 1.250: 35 Topica ad Trebatium 5.28: 59; 77 nt. 7 (AELIUS) DONATUS In Terentii Eunuchus 2.3.40: 111 PSEUDUS ASCONIUS In Verrem 2.1.26: 82 nt. 32 230: 111 231: 111 GELLIUS Noctes Atticae 12.13: 44; nt. 111 14.2: 44 nt. 111; 45; 53; 101 14.3: 102 14.4: 102 14.5: 102 14.6: 102 14.7: 102 14.8: 102 14.9: 102 14.10: 102 14.11: 102 14.12: 103 14.13: 103 14.14: 103 14.15: 103 14.16: 103 14.17: 103 14.18: 103 14.19: 103 14.20: 103 14.21: 103

14.22: 104 14.23: 104 14.24: 104 14.25: 104 14.26: 104 HORATIUS Epistulae 1.16.40: 38 JUVENALIS Saturarum libri 7.115: 40 7.116: 40 7.117: 40 MACROBIUS Saturnalia 3.16.14: 43 nt. 110 3.16.15: 43 nt. 110 3.16.16: 43 nt. 110 MARTIALIS Epigrammata 2.90.1: 26 nt. 58 PLAUTUS Mercator 272: 40 nt. 94 273: 40 nt. 94 277: 40 nt. 94 278: 40 nt. 94 Rudens 1378: 40 nt. 94 1379: 40 nt. 94 1380: 40 nt. 94 1381: 40 nt. 94 1382: 40 nt. 94 1383: 40 nt. 94 1384: 40 nt. 94 PLINIUS MINOR Epistulae 1.20.17: 43; nt. 109 3.9.19: 43

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Il luogo delle regole

QUINTILIANUS Institutio Oratoria 4.1.19: 26 nt. 58 4.2.86: 26 nt. 58 4.2.45: 42; nt. 105 7.2.24: 26 nt. 58 9.2.73: 26 nt. 58 10.1.32: 42 12.3.6: 25; 28 nt. 63 12.3.7: 26

4.29: 1 nt. 2 4.30: 1 nt. 2 4.62: 54 4.63: 58 4.91: 1 nt. 2 4.95: 1 nt. 2 4.141: 1 nt. 2

TERENTIUS HEAUTONTIMORUMENOS 498: 40 nt. 95 499:40 nt. 95 500:40 nt. 95 501:40 nt. 95 502:40 nt. 95

D) FONTI GIURIDICHE GIUSTINIANEE

VALERIUS MAXIMUS Facta et dicta memorabilia 7.7.1: 61 nt. 148 8.2.2: 47 8.2.3: 52 VARRO De lingua latina 7.93: 35 nt. 78 VITRUVIUS De architectura 1.2.2: 81 nt. 25 B) FONTI GIURIDICHE PREGIUSTINIANEE CODEX THEODOSIANUS 11.29.2: 113 GAI INSTITUTIONES 1.7: 36 nt. 80; 68 2.195: 31 nt. 69 2.280: 30 nt. 68 3.184: 16 4.5: 82 nt. 32 4.15: 82; nt. 33

VATICANA FRAGMENTA 125: 28 nt. 63

CODEX 8.58(59).2: 62 nt. 154 DIGESTA 1.1.7pr.: 45 1.2.2.4: 12 nt. 15 1.2.2.5: 16 ; nt. 25 ; 64 ; 68 1.2.2.6: 13 nt. 16 1.2.2.12: 66 ; 68 ; nt. 168 1.2.2.49: 66 1.3.38: 70 1.5.25: 71 2.2.3.5: 123 2.14.28pr.: 84 3.1.1.1: 121 3.1.1.2: 122 nt. 65 3.5.7.2: 54 4.6.26.4: 120 4.8.13.4: 111 5.1.79.1: 100 5.2.17pr.: 55 nt. 137 5.2.26: 56 nt. 137 11.1.11.8: 56 nt. 137 12.2.31: 63 12.6.2.1: 56 nt. 137 16.2.7.1: 54 17.1.26: 89 nt. 55 27.4.1.4: 54 29.7.14pr.: 25 33.2.32.2: 77 nt. 9 34.7.1pr.: 88; nt. 53 35.1.7pr.: 31 nt. 69

Indice delle Fonti

35.1.40.4: 91; nt. 66 37.5.3.6: 116 nt. 46 42.1.36: 110 42.1.63: 71 nt. 177 44.2.1: 56 nt. 137 44.2.11pr.: 56 nt. 137 ; 62 44.7.51: 97 nt. 11 45.1.38pr.: 91; nt. 63 45.1.38.17: 90; nt. 61 46.3.80.4: 89 nt. 54 48.2.7.2: 72 nt. 177 50.17.1: 73 nt. 180 ; 82; 83 ; 91 50.17.35: 89 nt. 54 50.17.102.1: 116 nt. 46 INSTITUTIONES 1.2.8: 68 nt. 170 4.6pr.: 97 nt. 11 NOVELLAE 125: 113; 115 D) FONTI EPIGRAFICHE Tabulae Sulpiciorum (FIRA, I².94) E) FONTI GIURIDICHE MODERNE Code Napoleon (1804) art. 4: 98

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Codice Civile Italiano (1942) art. 12, comma 2, preleggi: 99 Codice Civile Svizzero art. 1: 99 Codice Diritto Canonico Canone 1608: 99 Corte di Cassazione Italiana SS.UU. 15144/11: 4 SS.UU. 2068/11: 3 SS.UU. 24411/11: 3 SS.UU. 20698/13: 3; 4 SS.UU. 27341/14: 3 Corte Costituzionale sent. 247/97: 5 Costituzione della Repubblica Italiana art.13: 4 art. 25: 4 art. 27: 4 Decreti legislativi della Repubblica Italiana 42/04 art. 181, comma 1 bis: 4 42/04 art. 181, comma 1 ter: 4 Leggi della Repubblica Italiana 431/85, art. 1: 4

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Il luogo delle regole

Indice delle Fonti

Finito di stampare nel mese di dicembre 2016 nella Stampatre s.r.l. di Torino via Bologna, 220

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