Il libro dei sogni


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Il libro dei sogni

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COPYRIGHT

BY

PROPRIETA

BF.LARDETTI LETTERARIA

P1.nu

KDUlOH'&"

S�COPiDA.

UIIIZlOHJ::

WITORF.

ROMA,

196!

RISERVATA

,.mrwPo 196J utlembrf! J 96J

Le copie non munite della firma

dell'Aurore

�·intendono contraffatte

Tipogra.fi.a

Giunti

196!

A LUIGI RUSSO

ARO

C

Russo, ti ho accompagnato ieri

dalla

tua

nuova

casa,

" nido

co­

struito in vano ", alla casa dei morti, sul poggio boscoso di ulivi. E oggi, tornato

fra questi altri ulivi del mio poggio fio­ rentino, mi è venuto voglia di scriverti, come si faceva ogni due o tre giorni, ogni settimana al più lungo. Ti scrivo perchè per me non sei morto: è una cosa che ancora non mi rie­ sce pensarla. L'idea della morte si adatta bene a un crepuscolare, a un decadente come me. sempre incerto fra l'essere e il non essere,

sempre combattuto fra un

prepotente bisogno di scrivere, e una im­ potente certezza della inutilità di tutto questo mio scrivere; non a te che avevo da poco lasciato cosi pieno di vita, di pas-

7

sioni, di una straordinaria potenza di la­ voro, di smisurati disegni, " avendo stabi­ li to di morire a novantatre anni, non uno di meno ", come mi ripetevi scherzosa­ mente parlando di quei disegni, tanto va­ sti che i venticinque anni futuri, lungo i quali li distendevi , parevano pochi a con­ tenerli. Tu non sei morto per me, e non sa­ prei parlare di te come di un morto : se volessi scriverne per la mia " Bibliofilia " o per il tuo " Belfagor " non ne sarei cer­ tamente capace. Una necrologia di Luigi Russo è per me inconcepibile : se mai tutta una serie di monografie che trattassero volta a volta della tua opera di maestro, di critico, di storico della letteratura, di com­ battente della penna, dell'uomo più rap­ presentativo della nostra cultura che l'Ita­ lia abbia avuto dopo il tuo Croce. Sì , una serie di monografie, o meglio una biografi a; nella quale però, come ho 8

sempre fatto per i miei personaggi storici, anche nelle opere avrei cercato soprat­ tutto l'uomo. Nè, parlando di te, la ma­ teria mi sarebbe mancata; e neppure, a dispetto delle apparenze, sarebbe mancata quella congeneità fra biografo e biogra­ fato onde uscirono certe pagine mie che ti piacquero di più, come quelle del Ma­ ch iavelli. Più ancora ti piacevano forse, non senza un mio lieto stupore, le pallide nugae che intitolai Memorie di uno stu­ dioso; e ora troppo mi duole di non averti mandato, per farti finalmente contento, le altre pagine che in qualche modo le com­ pletavano. Ma un giorno o l'altro mi de­ ciderò a metterle fuori, a te indirizzate, s'intende ; e così la nostra amicizia conti­ nuerà ad essere qualcosa di vivente, di pal­ pabile, fatta anche, come è sempre stata, di carta e d'inchiostro. Questa nostra amicizia! Essa sarà a molti sembrata una singolare dissimilium 9

societas: ma se tante idee, se tanti aspetti

particolari delle nostre fortune e delle no­ stre nature ci dividevano, non ci manca­ vano neppure affinità e somiglianze. Le ricercammo noi stessi in uno dei nostri convegni convi viali, con un parallelo fa­ ceto fra la mia civiltà e la tua " bar­ barie " Poco fa, scrivendo le prime pa­ role di questa lettera, m'è venuto fatto di pensare come si sarebbe potuto allargare il confronto a codesti tuoi ramoruti ulivi della Versilia e questi miei decadenti ulivi fiorentini, che rispettivamente un poco ci somigliavano. Eravamo in ottima forma quel gior­ no a Marina di Massa, dalla Toti " del mare " Le affinità che trovammo e che ci riconoscemmo nella nostra semiseria ri­ cerca furono, fra le altre, una natura ti­ mida e appassionata, emotiva e impulsiva, buona fede e buona volontà, amore del vero, coraggio di difenderlo ad ogni co10

sto. Nè importava che il tuo vero ed il mio coincidessero, se c 'erano appunto, come sempre c'erano, quella buona fede e quella buona volontà. Anche tu puoi esserti ingannato, an­ che tu puoi avere errato, come tutti gli altri ; sarei per dire più degli altri, per­ chè più hai amato, operato, sofferto. Ma quanta ansia di verità e di giustizia, quan­ ta generosità nei tuoi errori l Ecco Luigi Russo: e se il mondo sapesse il cor ch'egli e b be, se lo sapessero e lo potessero inten­ dere tanti uomini invertebrati l Tu eri , a scorno e vergogna di chi credeva o fingeva di credere il contrario, la dimostrazione vivente che si può essere appassionati, passionati magari, senza es­ sere faziosi. Mai ti ho visto così addolo­ rato e accorato come quando ti dissi un giorno che anch' io, prima di conoscerti veramente, ti avevo giudicato un fazioso. La prima radice della nostra amici11

zia fu la bella recensione che scrivesti, ap­ punto, della mia biografia del Machia­ velli, giudicandola, tu, critico di palato difficile e autore di un lodato li bro sul grande politico fiorentino, " la migliore fra tutte quelle che sono state scritte A tutti piace laudari a laudato viro, natural­ mente ; ma non furono le lodi sole a in­ cantarmi; furono soprattutto certe pacate parole a cui esse si accompagnavano, una compagnia che allora mi parve così straor­ dinaria in una pagina tua : " Egli ce l'ha in particolare . . . . col De Sanctis, col Croce, col Russo. . . E chi fosse Russo io comin­ ciai a capirlo allora, su quella pagina ; an­ che se allora, scorbutico come sono, non ti scrissi neppure per ringraziarti . Ti scris­ si però per il mio Guicciardini, e fummo subito amici . Ma, capi to Russo, restava a me da capire cosa tu vedessi in me di buono per onorarmi, fra tanti a te più apparente".

12

mente conformi e di me probabilmente più

meritevoli;

parendomi

impossibile

che i miei scribacchiamenti valessero tan­ te e tali dimostrazioni di straordinaria stima quante e quali me ne venivi prodi­ gando, dal polemico lauro pisano alla pro­ posta di farmi chiamare a succederti nella tua cattedra (ma quanto festosamente rei­ terasti alla mia faceta ripulsa la

contami­ natio dantesca e carducciana: March ese gentil, quanto m i piacque / q uando te vidi non esser de' rei!). Ultimamente, per­ fino nel tuo Compendio scolastico volesti indicarmi ai giovani come storico e come scrittore. Perchè tanta stima, perchè tanto affetto? A parte quel che poteva esservi di polemico contro certi cattedratici, contro certe massonerie accademiche e d'ogni al­ tra sorta, la spiegazione mi parve final­ mente chiara. Ciò che di me ti andava a genio non era proprio tutto nelle mie pagine: oltre a quelle affinità, erano in 13

noi una umanità e un umanesimo con sì gran braccia da comprendere ed annul­ lare le differenze che ci dividevano; anzi, a pensarci meglio, queste, così civilmente intese e rispettate, ancor più di quelle ci univano. Tu. dicevo, per me non sei morto. Ma intanto per la prima volta, scrivendoti di noi, ho usato i verbi al passato. Tu non sei morto per me, nè per nessuno di quelli che ti capirono, anche soltanto con l'in­ tuizione o con l 'istinto dei semplici e de­ gli umili . Ma a questo punto mi accorgo di essere daccapo solo. Tu, così vivo per me, non puoi più essere per me quella forza vivente, operante, che riuscì a trasci­ narmi ancora per un pezzo di strada. Fu una breve illusione. Soltanto un D io può dire al paralitico : " Sorgi e cammina " Del resto, caro il mio Russo, mi pare molto meglio mettere a suggello della mia vita di uomo e di studioso, anzichè un li14

bro di più, questa amicizia che proprio le nostre dissomiglianze, più ancora delle affinità, rendono singolare ed esemplare. La B aronta 17 agosto 1961 ,

Post scriptum.

(•).

Ed ecco finalmente" le

altre pagine " promesse qui sopra, tarde e scarse, simili in questo ai grappoli rima­ sti dopo la vendemmia tra i pampani radi:

è

la stagione che mi suggerisce un'imma­

gine così

malinconica.

Ma,

purtroppo,

neppure il lungo indugio sarà bastato a maturarle come quelle ultime uve. La Baronta, 11 ottobre 1962. (0)

Qu�sta LetUra a Luigi Ruuo, che qui si pone come

dedicatoria,

fu

pubblicata

prima

p.

in

"Bellagor

"

, XVI

(1961),

914 sgg. Cinque brani del libro furono pubblicati nel Corriere della Sera, 19 febbraio, 7 giugno, 30 luglio, 12 ottobre, 26 no­ vembre 1962. rispettivamente coi titoli l>"onno Luigi (pp. 200213), Il candido Gir1o (pp. 214-225), Fame di po.sia (pp. 170182), Scampoli d'anima (pp. 65-75). Raggio di sole (pp. 259-267). In questa seconda edizione si ripubblicano poi altri due brani pubblicati nel Corriere della Sera: uno del 3 gennaio 1963. col titolo di Studioso allo specchio (pp. 248-253); l'altro del l R febbraio 1963, col titolo La gattina (pp. 183-191).

15

PREAMBOLETTO

'AUTORE di q uesto li bercolo ha scritto

L

in vita sua q uanto Sant'Agostino, senza curarsi nè punto nè poco se i suoi lettori avre b bero mai raggiun to q uel fa­ voloso numero di venticinque che il Man­ zoni a se stesso pronosticava: in effetto sem bra che il suo romanzo ne ab bia avuto q ualcuno di più e può darsi che l'autore di cui si parla ne ab bia avuto invece q ual­ cuno di meno. Ma la cosa gli era del tutto indiffe­ rente: per tanti anni, prima ch e certe sue biografie più randage si mettessero a gi­ rare il mondo, non ha avuto neppure la curiosità di sapere se dei li bri che veniva pubblicando, aureolati da una magica in­ segna editoriale, si stampassero trecento o cinq uecento esemplari, non più. Anche 19

la qualità dei periodici ai quali collabo­ rava avrebbe lasciato incerto chiunque se egli li scegliesse perchè erano i più autore­ voli, o perchè erano i meno diffusi. Scri­ ver e sopra un foglio quotidia no gli sa­ rebbe sembrato addirittura una specie di prostituzione (e oggi scrive " elzeviri sul­ la teTZa pagina del Corriere della Sera, il jJiù diffuso giornale italiano). Quelli erano i temjJi della sua inno­ cenza-· inseguiva certi piccoli veri, come da ragazzo correva dietro alle farfalle_: quando gli pareva di averne acchiappato uno col retina dell'erudizione, se n e te­ neva beato, nè d'altro si dava pensiero. Ma l'innocenza se l'è perduta con gli anni. Altre cose ha perdute, e tra esse quella noncuranza sjJavalda: come una volta non si curava di comjJagnie nè di amicizie, ed oggi invece le cerca, così cerca l'ami­ cizia e la compagn ia dei lettori; paren­ dogli di jJoter trovare nel caldo dello im 20

maginare e del comporre q uella commo­ zione che rende più facili gli incontri umani, quando ad un tratto s'apre la su­ perbiosa armatura della timidezza, si alza la visiera dell'indifferenza, cade la ma­ sch era del riso, si scoprono pensieri e de­ sideri conformi, affetti e difetti comuni, restano ignude tenerezza e malinconia. Perciò, essendo divenuto molto sol­ lecito di tutti q uelli che vorre bbe farsi amici a forza di carta e d'inch iostro, rac­ comanda a quanti apriranno questo li­ bretto di saltare pari pari, se non pro­ prio tutte le pagine ch e seguono (rimedio certamen te più sbrigativo), almeno q uelle del primo capitolo, occupate da cose trop­ po particolari per importare ad altri che a lui. Se poi q ualcuno osservasse che sa­ ,·e b be stato più semplice escludere quelle pagine dal libm, o addirittura non scri­ verle, io credo che l'autore gli dare b be 21

mille volte ragione; ma, per a ccomodarsi alla battuta, risponderebbe ch e esse sono precisamente come il gambo col quale un frutto sta attaccato alla pian ta, e che i gambi però non sono buoni a mangiarsi.

Su questa soglia, in questa seconda edi­ zione che segue così da presso la prima, voglio

quei lettori che mi hanno nejJpure conoscermi. A ciascuno

dire una cosa a tutti scritto, senza

di loro fu dedicata in anticipo l'ultima prosa del libro: un sogno fra tanti,· ma essi, con la loro umanità, lo hanno avverato.

22

SOGNI DI STAGIONE

l

ONO p�ssati

S

sette anni, mi pare, da quando scrissi le ultime pagine delle Memorie di uno studioso ; nè vale dav­ vero la pena di alzarsi da questa poltrona che m i fa anche da scrivania, per vedere se il conto è giusto o sbagliato. E poi mi piace pensare che siano sette, i sette anni della favola carducciana: il lungo cam· mino, l 'inutile ricerca ci sono ; e c'è l'ama­ rezza, senza tutti quei fiaschi di lacrime. Mi pare anche che fossero proprio que­ sti ultimi giorni del giugno ; certamente era una sera come questa, afosa, affocata . Da quella sera ho scritto ancora, e molto, perchè non ho altro mestiere nè altro piacere che questo, n è altro modo di tormentarmi, nè altro di fabbricarmi 25

con le mie stesse mani tutti i travagli, gli intrichi , le difficoltà che sono il sale della vi ta. Ma almeno non ho più scritto un rigo di me, se non, senza accorger­ mene, scrivendo di altri. Ed ecco che mi ricàpita ora, dopo sette anni. o quanti siano, in una sera così uguale a quella che ne sembra la copia conforme, e pro­ prio in sulla stessa ora : sarà colpa dell'afa, che, opprimendo anima e corpo, ne fa strabuzzar certi umori; o forse dipenderà dal trovarmi, come allora, con la navi· cella scarica dopo una lunga navigazione che m 'ha stremato, e con poca o nessuna voglia di riprendere il largo: meglio bor­ deggiare un poco, così, nel chiuso lago del cuore. Ma se tutto è come allora, l'afa, l'op­ pressione, lo strabuzzar degli umori , se perfino le cose che scrivo sono la conti­ nuazione delle pagine che scrissi quella sera, se dopo sette anni riprendo il di26

scorso dove l 'ho allora lasciato, non ho però punta voglia di seguitarlo allo stesso modo : per nessuna cosa al mondo, nep­ pure a balzelloni e per via di svagamenti come in quel libricciolo, vorrei rifarmi a narrare di me e delle mie piccole cose. Se ogni bel gioco dura poco, secondo un vecchio proverbio, il gioco, a gusto mio, è durato anche troppo. È vero che il libretto lì per lì non dispiacque, anzi la cri tica gli fece buon viso fino dal suo primo apparire ; e molto più è piaciuto in segui to, se io non mi inganno, specie dacchè Luigi Russo, aven­ dolo letto qualche anno dopo, ne disse e ne scrisse cose molto belle che a mia volta è bello tacere. Non tacerei però a nessun patto una piacevolezza. Prima, quando erano ancora fresche di stampa, le Me­ morie avevano avuto una fortuna così sfac­ ciata da arrivare fino alla penultima vo­ tazione del Premio Strega ; e neppure si 27

erano trovate a farvi l'ufficio dei cauda­ tari, avendo raccolto nientemeno che sette voti. Facetamente. potrebbe dirsi una vo­ tazione plebiscitaria, perchè un amico, tanto solerte quanto sagace e pratico di tali maneggi, riuscì ad accertare che tra gli altri " Amici della domenica nessu­ no, fuorchè quei sette, aveva letto il mio libro ; e forse (c'è da pensarlo) neppure quei sette. Ma io, avendo preso la cosa in bur­ la, secondo il mio soli t o, come del resto l'avevo presa fino dal principio, scrissi e mandai al buon Goffredo questa quar­ tina: Bellonci, ho l e t to in fiabe ed in novelle che l e s treghe cavalcano granate: non può scrivere pagine ' strega te ' ch i cavalca puledri e donne belle.

Purtroppo, a dirla chiara e tonda, non mi fido delle cri ti che troppo bene28

vole, in generale. Un critico, povero lui, non può sempre bistrattare chi gli pro­ fessa stima, reverenza, amicizia , e gli ha magari mandato il libro con una dedica affettuosa. I n particolare, poi, a me e a quel libercolo i critici letterari hanno forse usato dei riguardi in considerazione della mia opera di studioso, di " scopri tor fa­ moso ", di storico ; come, viceversa, c'è da sospettare che qualche illustre studioso me ne abbia usati più di una volta in considerazione delle mie qualità di scrit­ tore, per averne sentito dir bene dai cri­ tici letterari . Meno ancora, però, mi fido della fortuna, che raramente mi è stata amica, e mai per due volte di seguito; giacchè m'è andata bene la prima, prudenza e discrezione mi suggeriscono di non insi­ stere troppo. E poi , se proprio io non posso pensare senza un certo senso di sa­ zietà a guella materia, che in fin dei 29

conti sono io stesso, figuriamoci gli altri . Nè so quanto agli altri importi sa­ pere perchè e come dopo le Memorie, che dovevano essere il mio addio alle fa­ tiche della penna , voglio dire ai servizi pesanti, abbia scritto poi in otto mesi di furibondo lavoro la vita del mio grande amico Giovanni P a pini : gli è che ancora una volta mi feci menare dal sentimento, e scrissi in condizioni che a me, storia­ grafo cresciuto nella dura milizia delle scienze ausiliarie, fanno venire la pelle d'oca ancora oggi a pensarle. D 'altra parte, non ho da giustificar­ mi per le mie ubbie e per le mie schic­ cherature incunabulistiche (onde usciro­ no, subito dopo, un volumetto e un vo­ lume) , perchè già ne ho scritto, lodando­ mene e beffandomene, nelle Memorie. Dovrei invece cospargermi il capo di cene­ re (il laccio al collo dell'abi to penitenziale sono proprio le pagine che sto scrivendo) 30

per essermi fatto spergiuro col pubbli­ care quella Vita di Francesco Guicciardi­ ni, che i critici hanno giudicata migliore di tutte le altre mie biografie ; e il bello è che io, a sentirlo ripetere con così rara concordia, ci provo un gusto matto, s'in­ tende, ma anche un certo dispetto, per la sfacciata predilezione che porto al mio Machiavelli. Mi accade come a chi, tro­ vandosi due figlioli, uno un po' discolo e uno esemplare, ha un debole per il primo e sente sempre lodare il secondo. Ma, a parte la congeniale simpatia per il caro uomo di Sant'Andrea , il concepi­ mento, la gestazione e il nascimento dei due libri furono troppo diversi : quello, scritto in dieci mesi o poco più di felice furore, questo in diciotto di penosa fa­ tica, stanco, stremato com'ero, afflitto per la perdita del mio fratello Luigi, anche più caro dell'altro toltomi prima, avendo più dell'altro accompagnato, almeno dal 31

di fuori del mio serico e setoso bozzolo di poesia, la mia fanciullezza rinchiusa. E intanto le forze ogni giorno più mi mancavano, quelle dell'animo e quelle del corpo. E non soltanto la ragione dei miei studi come l'altra volta, di che ho parlato nelle Memorie, ma tutta la mia vita era in crisi ; anche una cara amicizia, che per trent'anni l'aveva accompagnata, si spegneva ogni giorno in una incompresa mcomprens1one. Io non so quanti fossero negli anni migliori i pilastri che reggevano la mia costruzione spirituale ; ma dovevano es­ sere più che i pilastri della saggezza. Cer­ to è che, uno dopo l'altro, ne ho visti cadere assai più di quei sette : persone care, amori, amicizie, inveterate illusioni ; forse erano tanti perchè dovevano soste· nere, oltre la saggezza, un bel po' di paz­ zia. Ora che me ne restano in piedi due soli, a tenere su la vecchia bicocca non .

.

32

possono bastar più le spranghe, le catene, i puntelli messi in opera per le screpo­ lature di un tempo ed i crepacci di poi . I l lavoro è anch'esso uno di quei pilastri caduti, e forse il maggiore. Mi so­ no perduto d 'animo, perchè la vista degli occhi mi s'è affiochita e annebbiata pro­ prio quando quella dello spirito mi s'è snebbiata e fatta più acuta , che è forse una disgrazia peggiore dell'altra. Lavorare con gli occhi miei non posso, e con quelli altrui non è davvero la stessa cosa ; senza contare che non avrei da pagarli . Ci sono in giro tanti maestri di scuo­ la, sempre pronti ad ammonirti che gli impedimenti materiali, la infermità del corpo, l'ambascia dello spirito, tutto SI vince con l'animo che vince ogni battaglia.

Secondo me, per vincere le battaglie, CI vuole anche qualche altra cosa, e a me 33

manca tutto: comprese l 'ambizione, la presunzione, la sicumera di quegli intre­ pidi educatori. In queste condizioni, si ca pisce che io non mi senta affatto di scendere in campo, per esempio, con una Vita del Magnifico Lorenzo, vagheggiata (non già per onorare il mio ascendente più illustre, ma per sfru ttare un favoloso giacimento di carte trovate ai bei tempi) dopo aver messo da parte per sempre quella di Lorenzino. Benedetto Croce giudicava " che ogni seria e schietta storia sia e debba essere ' autobiografia cioè entrare nell'anima dello scrittore come il dramma suo stes­ so " ; e quella sentenza io l'ho trovata in me ed applicata molto prima di averla letta (tanto grande è la mia ignoranza, specie delle pagine crociane) in un re­ centissimo scritto dell'amico Fubini. Ma forse è proprio per questo che io non scriverò più biografie : perchè non posso 34

più scrivere di così fatte au tobiografie ; nè so come potrei, avendo dentro " una rui­ na mesta ", un deserto. E non mi si dica che, dopo averle finalmente voltato le spalle " per correr miglior acqua potrei (sempre con gli occhi d'altri) tornare all'erudizione : quel­ la di cui ho detto nelle Memorie tutto il bene e tutto il male che potevo. Certo, al punto che sono, qualche volta ne sento la nostalgia e la tentazione; almeno è cosa pratica, positiva : è come formare e cuocere mattoni . Fare mattoni è una bella cosa, e molto più il pensare, facendoli, che con essi si fanno le case. Ma di questi eruditi mattoni (absit in iuria verbis) ai nostri tempi c'è sempre meno bisogno, perchè, come ora le case si fanno di cemento, così anche le storie non si fanno quasi più coi mattoni di quella sorta. Del resto, riattaccandosi alla medesima sentenza del Croce, se ne po35

trebbe cavare un malèdico corollario: le storie che si scrivono oggi sono le auto­ biografie degli uomini d 'oggi . E lo si vede fin troppo. Questi parranno, e sono, i noiosi bron tolamenti di un vecchio, secondo quello che è il costume dei vecchi , sem­ pre stati grandissimi laudatori temporis acti, cioè del l or o tempo, quale essi lo hanno fatto, goduto, sofferto; ma il pas· saggio a questo nostro tempo che s'infu­ tura è stato più aspro : lo strappo mi sem­ bra più violento che non sia stato dal­ l' età detta di mezzo al Rinascimento, dal Rinascimento alla Controriforma, e così via. In tutte le rivoluzioni, involuzioni, transizioni passate c'era soltanto l'uomo: oggi c'è la macchina che prende il posto dell'uomo. Non dico, si badi, che i tempi e questa civiltà novissima che m'è toccato di vedere in parte, e in parte d'intrave­ dere, con le loro macchine maravigliose, 36

manchino di una loro ardita babelica grandezza; ma è pur sempre una gran­ dezza meccanica. N on dico che manchino di luce, ma è la luce fredda del neon. E a me piacciono più le candele.

Cadu to insomma anche quel pila­ stro che era il lavoro, non so proprio cosa possa tener su la mia povera bicocca, ri­ masta in bilico sui due soli pilastri che ho detti e non detti ; ma dirne di più non importa, perchè, come ho fatto nelle M e morie, voglio discorrere soltanto del mio lavoro, delle mie opere, tutt'al più del mio travaglio intellettuale ; non del­ la mia povera vita : parlando facetamente, come a me piace, dirò che se non ho mai voluto aderire ad un altro famoso concetto crociano nelle mie pagine biografiche, mi ci conformerò almeno in queste autobio­ grafiche. 37

Dovrei dunque pensare che questa fabbrica si potesse reggere soltanto con le lusinghe di una crescente nomea, delle lodi, dei riconoscimenti, degli onori. Ci vorrebbe altro . Tutte queste cose sono un solletico certamente piacevole, ma nulla più che un solletico, e il piacere che se ne ha diminuisce o passa quando è passato il prurito. Una volta passato, ti resta quella pergamena sbavata di porporina, o un pez­ zo di carta stampata, o una bella patacca: prova un po' a mettere di questi impiastri sulle tue piaghe. E poi tu potessi almeno esser certo che la tua opera veramente le valga, per poco che valgano, quelle lodi stampate, quella pergamena, quella medaglia! A pensarci, questo del " successo letterario è uno strano meccanismo davvero, e la for­ tuna ci gioca ancor più che il Leopardi, con tutto il suo pessimismo, non asseve­ rasse nelle pagine del Parini. Cominci ad 38

azzeccarne una : un famoso critico ti fa una bella recensione, perchè ha letto il tuo li­ bro i n un giorno di buon umore, o perchè non l'ha letto affatto, o perchè gli vai a genio, o perchè gli hai offerto un buon pranzo condito di piacevoli facezie male­ diche su qualche collega, o perchè sei gio­ vane ed egli è vecchio, e vede in te sè gwvane. Una benevola recensione di un critico grande si Lira dietro immancabilmente, per convenienza o per reverenza, le lodi sper­ ticate dei critici piccoli . Se poi saprai ven­ dere bene la tua merce, cosa molto più im­ portante in questo nostro commercio let­ terario che scrivere bene, puoi avere la for­ tuna che il tuo libro sia tradotto in qual­ che altra lingua. Allora il gioco sarà bello e fatto, perchè le traduzioni sogliono uscire a una, a due, a tre, come le pecorelle dan­ tesche, e perchè può molto più un tepido applauso venuto di fuori che tutti gli 39

osanna e gli incensi di casa tua. Dopodi ­ chè, potrai beatamente adagiarti: quei tali solletichi non ti mancheranno di certo. A me, di fatto, in questi anni non sono mancati. Anzi direi che ne ho avuti fin troppi : e troppi, ad ogni modo, saranno sembrati a tanti dotti e cattedratici amici che intendo io. Ma se poi su questi solle­ tichi dovessi alquanto filosofare (cioè, con la paterna benedizione del nostro filosofo, soltanto ragionar saviamente), a cose fatte, direi che ci ho trovato meno gusto di quel­ lo che avevo prima pensato : aveva proprio ragione il mio Guicciardini. Certo, ti piacerebbe pensare fra te, sdanteggiando, " fannomi onore e di ciò fanno bene e magari lo pensi davvero; poi, dopo averlo pensato, te ne senti molto meno sicuro e, oltre a quella sensazione che ho detto di aver mangiato il fumo del­ l'arrosto per companatico, ti resta sempre il dubbio che l'onore te lo abbiano fatto 40

per consolarti, per giubilarti, non per i me­ riti tuoi ma per quelli molto maggiori de­ gli amici che ne hanno avuto l'idea e che l'hanno promossa. Non altrimenti, ad esempio, devono essere andate le cose per le due lauree di cui m'hanno volu to ulti­ mamente onorare a Pisa e ad Oxford: una toga davvero troppo grande per le mie spalle, quest'ultima, se si pensa che due italiani soltanto l'hanno avu ta, alla memo­ ria nostra, e che uno si chiamava Benedetto Croce_ Ma a Pisa, Luigi Russo volle pole­ mizzare così , secondo il suo stile, con certi cattedratici fiorentini che s'erano scordati di me o se n'erano ricordati fin troppo ; ad Oxford, come motteggiai in una diceriuzza letta nel venerabile A ll Suuls College, ri­ cordando il mal gioco fatto dal mio omo­ nimo del secolo decimosesto al primo mi­ nistro Cecil col " Ridolfi plot ", anche que­ st'altro Roberto Ridolfi del ventesimo se­ colo si è avvantaggiato della immeritata "

41

fiducia di un Cecil, anzi addirittura di due Cecil Grayson e Cecil Roth. Così , la sola cosa che me n'è vera­ mente rimasta è questo confortante e con­ solante pensiero de1l'amicizi a ; nè voglio dire che sia poca cosa. Di Pisa serbo anche impresso nell 'animo quel sùbito commosso rammemorarmi , nel momento solenne, di mio Padre e delle mie scapestrataggini go­ liardiche pisane " quand'ero in parte al­ tr'uom da quel ch' i' sono" ; di Oxford, più che gl i applausi ospitali, croscianti nel maestoso Sheldonian Theatre, m'è rimasta la nostalgia dei cari amici , dei refettori ge­ niali, dei perfetti prati , dei nobili cortili dei Co lleges sotto la luna. E poi, anche se queste vanità degli onori, delle lodi, et caetera, mi appagassero pienamente, se mi ci crogiolassi dentro e le credessi tutte di oro zecchino come, spe­ riamolo, quello delle medaglie che pur m ' hanno date, (meno che a un atleta di 42

primo canto, però) , dovrei dunque io di­ venire l'avaro amministratore di questa gloriuzza effimera, vivere finchè io viva di questa piccola rendita ? Senza contare che anche la rendita si assottiglierebbe ogni anno, a meno di non continuare a sfornar volumi come pagnotte ; perchè nella re­ pubblica letteraria le cose vanno oggi in modo per i miei pari da rischiare, altri­ menti, di far la fine del Bettinelli, che tanto visse da vedere obliato ciò che scrisse.

Ma sfornar volumi nuovi non posso, per le ragioni che ho dette. E così, rieccomi daccapo al punto di prima. Sarebbe in verità molto strano ed an­ che piuttosto sciocco se tutte queste cose le avessi sciorinate per imbrogliare, prima di tutti, me stesso. Perchè poco fa, quando ho cominciato, ero persuaso di scriverle 43

soltanto per me, a sfogo dell'anima che non ha più nessuno con chi sfogarsi ma soltanto qualche pezzo di carta. Fino a questo momento, fino a questo rigo, avrei potuto ancora giurarlo : strabuzzamenti, scherzi dell'afa. Se mi ci mettessi a pensare ora, forse , non ne sarei più altrettanto si­ curo. Come vadano queste faccende si sa, cosa accada delle nostre pagine segrete lo sappiamo ormai tutti, e tutti lo sappiamo dalle pagine che gli scrittori hanno scritte soltanto per sè. Sarà quel che Dio vorrà. Ora come ora, siamo soli, io e questi foglietti che si anneriscono a poco a poco. Per scriverli, non mi sono vestito dei panni curiali, nep­ pure della mia bella cappa di Oxford, gri­ gia e purpurea. Guardo questa ultima pa­ gina e mi pare che sia quasi un simbolo della mia vi ta di studioso e di scrittore. Non l'ho empita tutta ancora, e penso che non ne valga la pena. Meglio !asciarla co44

m'è, e andare a distendersi sull'erba riarsa, sulla terra ancor calda del prato : godere ancora di quei buoni odori terrestri e guar­ dare il cielo, dove le rondini cedono ai pipistrelli ubriachi e dove tra poco si ac­ cenderanno le stelle.

45

II

EDUTO sulla terrazza di un grande al­

S

bergo, il poeta sorseggia una forte be­ vanda. La notte estiva è calda, afosa, senza vento; ma, più che quel beveraggio, l'al­ legro tintinnare del ghiaccio nel bicchiere e perfino l'ombra che lo avvolge sull'orlo di un laghetto di luce acquea, fluente dal­ le vetrate, gli danno un senso di frescura, un refrigerio piacevole. Lo spazio illuminato, dinanzi a lui, pare un palcoscenico : uomini e donne en­ trano, escono, parlano, ridono, buffoneg­ giano con gesti affettati, come se recitas­ sero. Le donne, seminude, eleganti, sottili come a lui piacciono, sembrano tutte gio­ vani o quasi, belle o quasi belle, tutte de­ siderabili o almeno desiderabili a tempo 46

perso. Dalla sua sponda d'ombra, egli le guarda. Poco fa le contemplava, in quel laghetto di luce, come favolose sirene nuo­ tanti in un acquario; ora, con quelle loro parole, con quelle loro maniere, gli sem­ brano addirittura esseri strani, bellissimi, venuti a secondare i pruriti cosmici e le attuali pazzie dei terrestri da un lontanis­ simo mondo. Eppure proprio quello fu un tempo il suo mondo, quello dov'egli nacque e dove per non poco tempo visse, dove si trovò anch'egli ad amare e a soffrire. Al poeta, che sorseggia quietamente nell'ombra il suo beveraggio barbarico, piace ora riguar­ darlo, così, forse anche un poco deside­ rarlo: separato come n'è dalla siderale di­ stanza segnata da quasi quarant'anni di vita, da qualche solitario ripensamento, da qualche pagina scritta, dall'invalicabile confine che divide quel laghetto di luce e questa sponda d 'ombra. 47

OLTI anni or sono, una trentina mi M pare, feci un bel fuoco dei miei versi giovanili, ma direi meglio infantili. Più ci penso, più mi confermo nell'idea che quel rogo è stato il mio capolavoro poe­ tico ; però è umano amare i propri figlioli, anche se sono brutti, inetti, disutili : così, dopo tanto tempo, un po' di rammarico me lo ritrovo ancora talvolta in qualche ruga di questo cuore invecchiato e allora mi vien fatto di pensare che il mio, forse, fu anche un atto di orgoglio. N è posso più bruciar carte nel caminetto senza rivedere q uel fascio di fogli ingialliti, che si accar­ tocciano e s'inceneriscono. Eppure non tutti quei versi sono bru­ ciati con quelle carte : qualcuno, chi sa come, mi rigalleggia ogni tanto nella me­ moria. Vi galleggiano, proprio come rot­ tami di un naufragio, frammenti di stro­ fe, raramente una strofa intiera o addirit­ tura due, tre strofe di seguito. Forse qual· 48

cuno di quegli scarsi e sparsi vestigt mi seguirà finchè i o viva. forse. come credo che accada di certi ricordi , tanto più pa­ tetici quanto più scoloriti dal tempo, mi accompagnerà nell'ul tima ora. E non mica perchè questi scampati siano migliori di tanti altri : forse fu l'ora del concepimento, più delle altre felice o infelice, o un parti­ colare stato dell'animo che me ne lasciò un'impressione più durevole nella capric­ ciosa creta della memoria. Come questi, ad esempio , che mi si riaffacciano alla mente in una notte estiva non lontana dal gran " pianto di stelle " di San Lorenzo, e che ben si convengono ad un libro di sogm : Cade

m

cielo una stella,

e

ancora una,

e un'altra ancora: fulgide fiammelle ardono, cadon. Dunque senza stell e , nel cielo ignudo rimarrà la luna? Ed ella,

sola nell'immensa landa

buia, ammiccante con ambigui

49

e

strani

ghign i , ella sola, alla sua luce blanda, vedrà salire i dolci sogni uma n i?

Il seguito non lo ricordo. N è varr e b­ be davvero la pena che cercassi di rifab­ bricannelo. Se su quelle gambette infan­ tili appiccicassi un torso senile, non so pro­ prio qual nuovo mostro ne nascerebbe ; ma certo gli si addirebbe bene il capoverso di quel sonettaccio attaccato da uno dei soliti criticoni di che Firenze non patì mai ca­ restia, quando Benvenuto scoprì la sua sta· tua del Perseo : Torso di vecc h io e gambe d i fanciulla.

Però ogni volta che quegli otto versi tornano a galla, se non ho altro da pen­ sare come stanotte, mi accade di strizzare la memoria come una spugna, per la cu­ riosità di ricordarmi cosa mai venisse dopo di essi. N ulla e poi nulla. Altro che spu­ gna : una pietra pomice m'è divenuta. An­ dando per congetture, mi sembra tuttavia 50

che non ci sia da sbagliare di molto : an­ che in un componimentino poetico di un poeta in erba, le cose dovevano andare come sono sempre andate fin qui : le stelle sarebbero rimaste tu tte nel cielo, al loro solito posto, e i sogni del poeta sarebbero finiti come, da che mondo è mondo, sono finiti i sogni degli uomini e quelli dei poeti in ispecie. Difatti in altri due versi, che dovevano essere gli ultimi del piagni­ steo e sono coi primi tutto ciò che io ne ricordo, se ne raccoglievano malinconica­ mente i cocci, dopo averli veduti cadere infranti come cadon lassù le stelle, erranti bricie di mondi perse nel sereno.

La teoria pascoliana del " fanciulli­ no ci fa intendere meglio certe fanciul­ laggini poetiche; capovolta, può farci com­ patire queste poetaggini fanciullesche. Al­ lora, i miei fratelli mi chiamavano " il poe· 51

ta con amorevole canzonatura. Avevano ragione a cuculiarmi così , eppure saranno passati quarantacinque anni da che le scrissi, forse cinquanta; e finchè io viva non potrò guardare il cielo stellato, vedere una stella cadente, senza che le due vec­ chie quartine mi rigalleggino ancora nel lago del cuore ; proprio come, la notte del rogo, qualche lembo annerito di quelle carte galleggiava leggero. svolazzava nel caminetto, levato in alto dalle fiamme sul­ le ceneri brune.

l\ ;fERIGGIO canicolare. Sulla spiaggia in­ lV� focata, come un ramarro sulla pe­

traia, il poeta si gode beatamente il gran sole di agosto che la brezza marina tempra e stempra sulla sua pelle nuda in una pal­ pitante carezza ; nè mai mano amorosa sep­ pe fargliene una così lieve e così ardente, così uguale e così varia, così sensuale e così 52

casta. Nessun pensiero sembra occupargli la mente, anzi neppure sfiorargliela, se non quello, pigro, trionfante, felice, di non pensare a nulla. Ta . . pum, ta . p um, ta . . pum. Il suono alterno ritmico e monotono di due tam­ burelli, che battono e ribattono la palla, rompe a un tratto lo stupefatto incanto di quel silenzio, prima scandito soltanto dal placido respiro del mare. Ta . . pum, ta . . pum, ta . pum. Ed è come se, insieme al silenzio, si fosse squar­ ciato un velame che nascondeva al poeta i rei fantasmi dormienti o latenti nel fondo del cuore. Due pensieri opposti ed alterni, che da tempo l 'ossessionano, hanno ripreso a martellarlo dentro, accompagnandosi stranamente, nel torpore del sole, dell'ora, dell'ozio, a quel ritmo ossessivo dei tam­ burelli che li ha ridestati . Gli sembra ora che quei due pensieri siano in lui fissi ed immobili , ossi ficati , incarniti, e che il suo .

.

. .

.

.

. .

53

spmto rimbalzi dall' uno all 'altro come quella palla. Ta . . pum, ta . pum, ta . . pum. .

. .

.

alla Baronta. In queste pigre serate estive, l'attesa del tramonto e la contemplazione dell'ora sono divenute per me, più che un'abi tudine, un rito. Se­ duto sugl i scalini della cappella, guardo ed ascolto : guardo i colori del giardino e dei campi che trascolorano, i voli serali dei passeri , così diversi da quelli mattutini ; ascolto le voci della sera, il suono delle campane, i canti , i richiami degli uccelli, canti anch 'essi serali ; cerco d'intendere quest'anima vespertina della natura e delle creature. Anche l'età m'aiuta a comprenderla : i giovani possono godere e soffrire que­ st'ora, ma in modo più vago, più inconsa­ pevole, più indifferente. C'è la malinconia del giorno che fi nisce, della luce che si spegne, e l'allegrezza della fatica che si

R

!ECCOMI

posa, d i qualcosa che si conclude, e in­ sieme l 'annunzio segreto delle nuove il­ lusioni mattutine. Malinconie, allegrezze, speranze : una mescolanza ineffabile. " Pie­ cio! verso è perfino la canzone del Leo­ pardi : il poema eterno è nel canto som­ messo di una capinera, qui nella siepe, sullo sfondo di uno scampanare lontano lontano, "

che pare il giorno pianger che si more.

onne duodecim sun t home diei? De­ lusione, insoddisfazione, compassio­ ne di sè, composte in una pacata rassegna­ zione, al crepuscolo della vita. Tutti gli uomini ci sono passati, anche i prediletti della natura e della fortuna ; tutti ne ab­ biamo udito le amare tristezze e le dolci malinconie dalla voce degli amici più vec­ chi òi noi , le abbiamo lette e rilette, in

N

55

prosa ed in verso, nelle pagine degli scrit­ tori ; magari qualcuna di quelle pagine le amiamo singolarmente per la loro bellezza, forse anche le sappiamo a memoria. Ma poi bisogna che ci ascuno di noi ci arrivi a sua volta , provi quel sentimento dolce e amaro dell'undecima ora, bisogna che quella inconcludente conclusione la rileg­ ga in se stesso : allora, e soltanto allora, finalmente la intende.

T

RA le malinconie che accompagnano la

contemplazione del tramonto in que­ sti ultimi languori dell'estate, ce n'è una più sottile e struggente. Da un giorno al­ l'altro, o anche settimana per settimana, a meno di non tener sempre gli occhi sul­ l'orologio, sarebbe di fficile accorgersi di questo continuo accorciarsi delle giornate, dei minuti di luce che ci vengono rosic56

chiati ogn i sera. Ma il tramonto e questi poggi mi fanno pur troppo da orologio e da calendario: un quadrante diviso e sud­ diviso dagli alberi, dalle case, da tutti i pic­ coli segni messi dalla natura e dagli uo­ mini. Il sole, riducendo progressivamente l'arco del suo celeste cammino, si corica ogni sera un poco più là: mentre in luglio spariva quasi al sommo del poggio di Ma­ rignolle e alla fine di agosto calava sulle case di San Quirichino, ora, a mezzo set­ tembre, s'è ri tirato sulle ultime falde del col le. Per ogni tratto di orizzonte perduto, s'è perduto un poco di luce. Quando si ri­ durrà sulla Poggiona sarà il tardo ottobre ; quando sad arrivato sul colle di Giogoli, quasi alla villa che fu dei Capponi e che i fiorentini chiamano " la sfacciata " perchè in ogni parte si affaccia, per noi sarà di fatto l'inverno, se non ancora per gli astro­ nomi : da ragazzo, sul finire dell'autunno, sentivo sempre ripetere la stessa cantilena : 57

Santa Lucia, è il giorno più corto che ci sia.

È vero che per tanta parte della mia

vi ta ho fatto di notte giorno, ahimè quasi sempre sui libri, e fino a pochi anni or sono il maggior lavoro mi cominciava col cominciar della notte ; eppure da qualche tempo questo accorciarsi delle giornate, questo diminuire delle ore di luce mi dà ogni sera una inesprimi bile angoscia. Sarà forse il pensiero d 'altra luce che mi si fa progressivamente più scarsa , d 'altra oscu­ rità che s'appressa ; o forse dipenderà da un inqu ieto contrasto tra la sman ia ch:è in noi di cammi nare, di operare, di vivere e gli istinti primord iali , direi meglio i sensi na­ tural i dell 'uomo, per il quale, come per ogni altro animale diurno, il moto e ogni altra operaLione dovrebbero finire con la luce . Anche fisicamen te, nelle nostre orec­ chie mortali risuona tu ttavia il biblico Ambu/ate dum /uccm habetis. Ed ecco che 58

di questi tempi la luce ci viene meno ogni giorno un poco più presto ; ecco che la luce m1 manca, m ogm senso, sempre un poco di più. .

.

.

59

III

LLA mia Baronta potrei dire come il A Pindemonte alla malinconia (e del resto, per me, malinconia vuoi dire Ba­ ronta e Baronta malinconia) : i tuoi p iaceri chi t iene a vile a p iacer veri nato

n on

è.

Come tra i piaceri dell'estate, o del primo autunno, c'è la contemplazione del tra­ monto, tra quelli dell'autunno più inol­ trato c'è il cami netto. D'inverno la mag­ gior parte di questo pi acere se ne sarà già andata, sci upatami dalla moderna dia­ voleria del termosifone e anche dall'in­ differenza che dà l'abitudine ; ma, in que­ sto tardo ottobre, le prime sere che si comincia acl accendere i l fuoco, è festa 60

grossa per me accanto ai ciocchi fiam­ meggianti , crepitanti , odorosi di resina : tre sono i sensi che se ne deliziano insie­ me, e quattro quando l'alito ardente mi accarezza le palme delle mani protese verso le fiamme. Il tempo passa "sans me blesser ", come accadeva al mio Mon­ taigne, e proprio il suo libro m'è sempre vicino, sopra una seggiolina bassa, anche se non l'apro neppure ; lo guardo e bea­ tamente penso, con le sue parole mede­ sime : " ce sera tantost ou demain, quand il me plaira Nè ho altra compagnia che il fuoco, altra fatica che quella di go­ vernarlo sapientemente, con i nfinita prov­ videnza ed arte ; compartendo l'ora tra questa faccenda, che non è da poco, come crede la gente da poco, e l'ozio dei ghi­ ribizzi, delle rimembranze, dei sogni.

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ERÒ

il mto Montaigne è un ingrato. Dice male dell'ozio , lui che all'ozio deve ogni cosa : non soltanto quella poca di gloria che potè assaggiare da vivo, ma anche e soprattutto le lunghe ore felici passate nella sua torre a sfogliare svaga­ tamente, conforme al suo genio, à pièces déscosues ", le pagine dei libri e dell'ani­ ma. Quando citava l'emistichio di Lucano Variam sempa dant otia mentem, o si doleva che l'ozio gli fosse causa di una faticosa occupazione, come direbbero a Roma, si lagnava del brodo grasso. All' Università di Pisa, dove (l'ho già scri tto nelle Memm"ie) mi pareva di essere il Cellini alla scuola del piffero, avevo decorato il bancone del laboratorio di chimica con alcuni detti memorabili : tanto memorabi l i che il mio vecchio pro­ fessore Camillo Porlezza, da me rincon­ trato ieri dopo tanto tempo, alla inaugu­ razione dell 'anno accademico, ancora se ne

P

"

62

ricorda. Una di quelle auree sentenze di­ ceva, appunto: L oz io nobilita l'uomo. Ebbene, quello che allora era per me un assioma piacevole, oggi, dopo trenta­ cinque anni di forsennato lavoro, non sol­ tanto mi sentirei di scolpirlo sugli scaffali della mia biblioteca, con un'autori tà al­ quanto maggiore, ma anche mi basterebbe l'animo di provarlo per via di ragioni e di argomenti dimostrativi . Non già, come malignamente potrebbe inferire qualche maligno, perchè nell'ozio vediamo crescere questi nostri nobilissimi rampolli, d 'ozio cibarsi e fortificarsi tanta parte della nostra nobiltà quasi fosse midollo di leone, ma proprio pensando alla nobiltà dell'ozio : l'ozio dei santi, dei filosofi , dei poeti . Mot­ teggio, s'intende, secondo il mio solito ; ma, secondo il mio solito, soltanto a metà. E badate che l'assunto mi parrebbe perfino troppo facile, magari chiamando in rinforzo Sant'Agostino e compagnia bel'

63

la, se io volessi spezzare una lancia per quello che gli spiri tuali chiamano " l'ozio santo . . . , l 'ozio ch'è il vero negozio "; o an­ che per il classico ozio letterario, cicero­ niano, per l' otium contrapposto a nego­ tium. Io invece intendo lodare un ozio più svagato, e lodarmene : quello propizio ap­ punto ai miei sogni, più conforme semmai agli ozi oraziani. Anche Francesco Guicciardini, guar­ dando alle perdute faccende come la volpe a quella bella uva matura, recitava nella Consolatoria le lodi dell'ozio e sfidava in certo modo se stesso ad acquistarsi tanto onore con questo quanto se n'era acqui­ stato con quelle. Tutti sanno che poi vinse la sfida; ma siamo alle solite : io non chia­ merei mai ozio il furibondo lavoro che lo condusse a distendere, e in parte anche a rifare più volte, senza badare a cibo nè a sonno (teste il buon fra Remigio, ma della sua testimonianza c'era in verità poco bi64

sogno, perchè l'opera parla da sè) , i venti libri della Storia d'Italia in tre anni. Que­ sta ipocrita accezione del vocabolo, eredi­ tata dai classici, io non l'ho mai potuta patire. Per restare al Guicciardini, i suoi veri ozi furono, semm ai, quando compo­ neva i frammenti che noi, adoperando pa­ role sue, abbiamo intitolati R icordi. Egli li chiama anche ghiribizzi ", però; e in fronte alla prima redazione, messa insieme nel 1 52 8 , pose a modo di epigrafe un detto che sembra fatto apposta per me e che a me vien troppo bene per concludere que­ sto ghiribizzo mio : " Benchè lo ozio non faccia ghiribizzi, pure e' ghiribizzi non si fanno senza ozio "

"VAMMENTO, croce e delizia dei miei r anni verdi. Sugli scudi ai bei tempi,

anzi addirittura sugli altari ; poi nella pol­ vere, o quasi ; esaltato fino a farne poco 65

meno che un genere letterario e fino ad essere proclamato da un nostro scri ttore " lo sforzo nobilissimo dell'arte i taliana di ri trovare finalmen te se stessa, consentendo la libera, disinteressata creazione " (oh le belle parole infilate allo spiedo ! ) ; vilipeso infine con epiteti come " coccio di botti­ glia o anche peggiori . In quanto a me, verg i n d i servo encom i o c

d i codardo ol tra gg io,

ora potrei sciogliere un cantico all'urna illacrimata ; ma i più maligni non man­ cherebbero d'insinuare chi sa che cosa ; i più benigni mi accuserebbero di parlare pro domo

m ea .

Il genere è oggi scomunicato. Ossia, voglio dire, è scomunicata quella tale scuo­ la, o setta, che lo dei ficò, che adorò la fan­ tasima della " poesia pura che professò il credo del " brivido lirico ", praticò l'ere­ sia degli ossici ni poetici scarni ficati di tut66

to il loro tessuto connettivo, vale a d ire Fu delle cosiddette " parti strutturali addirittura il candido Gino (le " intarsia­ ture del Galilei sono cosa analoga ma diversa) a voler separare per primo dalla poesia queste parti connettive, che lui chiamava aritmetica. A me, suo trisnipote e mancato biografo, vengono ora troppo bene certe sue parole anticipatrici , che sembrano scritte al giorno d 'oggi e pro­ prio apposta per questa m ia paginetta : " Gli affetti sentiti poeticamente, fram­ menti . Ma i letterati e i signori , volendo comporl i in forma mostrabile, li gonfiano. Gonfiati, crepano o marciscono " Come enunciazione teorica, questa proposizione non fece male a nessuno ; tanto più che nessuno la conobbe, se non gli erudi ti ma fu la pratica delle stram­ berie, delle vacuità, delle scipi tezze, fu­ rono le proposizioni ereticali enunciate da qualche apologista che provocarono le sco 67

muniche. Basterebbe quella fulminata dal Croce contro i cosiddetti frammen tisti, che scrivono di proposito frammenti per mettersi al sicuro di produrre unicamente poesia senza legami e aggiunte estranee ; e si può immaginare quali scipitezze da simile proposi to vengano fuori " Non so però quanto, scrivendo questo, don Bene­ detto si sentisse la coscienza tranquilla, an­ che se la colpa fu molto più degli inter­ preti che sua : egli che nella memoria di Heidelberg disse la parola " che fu il mal seme quella del poema condensato in un punto esclamativo l Ma se i brividi lirici sono frammenti , anzi i " frammenti " per eccellenza, non tutti i frammenti però sono brividi lirici o punti esclamativi . I Ricordi guicciardi­ niani, poco fa, li ho chiamati frammenti con moderna malizia, senza far conto di quelli che i n effetto risultano tali rispetto al testo della St oria d 'Italia, dove l 'Au tore "

68

finì per incorporarli con accomodamenti maggiori o minori. Per nostra fortuna non sono una raccolta di aforismi : alcuni, lun· ghi quanto i più corti capitoli del Montai­ gne, li direi veri e propri saggi, anche se brevi ; molti hanno un contenuto autobio­ grafico; tutti sono intimi più o meno in quello " autobiografismo " che fu sempre considerato con buona ragione una carat­ teristica immutabile e congeniale del ge­ nere frammentistico. E, come una mo­ derna raccolta di frammenti, l 'Autore ebbe cura di ordinarli, coordinandoli ora, ora variandoli, non senza gentilezza d'arte nè senza qualche civetteria. Insomma, è bene uscire dall'equi­ voco. Se si ha a dir peste del frammenti­ smo come una maniera o una manìa di quel tempo e di quei tali scrittori, fino a un certo punto posso anche starei ; ma da qui a dir male di quello che, per como­ dità, chiamerò " genere frammentario cr 69

corre d i molto. E su questo genere , nel quale io metto riflessioni , osservazioni in­ terne od esterne, moralità, brevi saggi che considerino soltanto una faccia o qualche sfaccettatura della materia trattata, mi pare che nessuna persona di senno e d i gusto possa trovar d a ridire. Un solo specchio può riflettere una sola parte di un volto o di un oggetto ; fa­ tene tanti pezzi, e di quel volto o di quel­ l'oggetto ogni parte vi sarà rispecchiata. N elle goccioline lasciate tra l'erba dalla pioggia o dalla rugiada, non in un gran bacino d'acqua, vediamo splendere i colori dell'iride. N on voglio continuare a discor­ rere per sofìsmi o per paradossi, nè asseve­ rare che la parte è maggiore del tutto, il frammento migliore dell'intiero , un pu­ gno di briciole preferibile a un bel pezzo di pane ; non dico neppure che una raccol­ ta di fram m e nti può esprimere e rappre­ sen tare più a s pe tti, soprattutto più " mo70

menti " ,

dell'anima

di

uno

scri ttore

e

stendersi sopra una maggior varietà di ma­ terie che u n ' opera tu tta compatta.

Ma

q u el tanto di veri tà che ogni paradosso necessariamente contiene, che è a fonda­ mento di ogni sofisma, ha pur d a essere considera to. Ed è quello che sto facendo.

A mor mi mosse, che mi fa parlare. P erchè sarà magari un difetto di gu­ sto : saranno le impressioni rimaste nella m ia povera creta qu ando non era così ri­ secchita come ora è, e i l frammentismo trionfava, o, se vi piace d i più, imperver­ sava : ma di averci u n d ebole m i par di averlo già fatto capire, ed ora lo dico qui chiaro e tondo, per i n tendersi meglio. Mi piacciono q u elle brevi moralità, quegli scorci , quegli svagamenti , q u elle fugge­ voli notazioni : ol tre alla " divina imme­ diatezza

(non datemi la croce addosso

per l 'agge ttivo , perchè non è mio) , ol tre a tu tti i loro meri ti e ai pregi già notati

71

da Ardengo Soffici in una famosa pagina del suo primo Giornale di bordo, che fu come la magna charta del frammentismo, mi piacciono quelle sfaccettature iride­ scenti, quella varietà multiforme che ge­ nera vaghezza, o almeno non certo stan­ chezza, anzi riposa dalla stanchezza di let­ ture troppo uniformi e compatte ; mi piace quella loro medesima brevi tà, che ad altri fa storcere la bocca, quasi che le opere d 'inchiostro si misurino come pezze di panno. E sta bene : saranno anche scam­ poli, ma scampoli d 'anima, che mi fanno conoscere meglio di una pezza intiera la merce che si spaccia in quel fondaco : un · campionario ' insomma, una raccolta di campioni, o, come prima li chiamavano (ed ecco che ci risiamo) , di saggi . Ad altri tal brevi tà pare, non ho mai capito per­ chè, un segno d ' impotenza : se mi piacesse e m p i re l e pag i n e di ci tazioni e di virgo72

lati, ci vorrebbe poco a mostrare che razza d'impotenza è codesta. Come non tutti i cibi sono buoni per tutte le ore, come le medicine devono es­ sere appropriate alle condizioni e alle di­ sposizioni di chi le prende, così è dei li­ bri, che sono anch'essi cibo e medicina : intendo per chi li legge e anche per chi li scrive. Io so per esperienza, dopo avere sfornato e digerito tanti eruditi mattoni, che a un certo punto viene la voglia di ri­ crearsi, direi quasi di rinfrescarsi, con qualche proprio svagamento o con gli al­ trui ghiribizzi . Proprio ora dicevo dei R icordi guic­ ciardiniani, di quel loro carattere fram­ mentario e autobiografico, dal quale di­ pende tanta parte del loro fascino. V n trattato politico, dove messer Francesco avesse fusa la potenza dell'ingegno e la pratica degli affari , come uno scultore nella sua forma, non ne avrebbe di certo 73

altrettanto, o almeno non se ne riceve­ rebbe in ogni momento altrettanto pia­ cere. Neppure l 'Etica aristotelica può es­ sere affrontata da tutti e in tutti i mo­ menti ; ma gli Essais sono il libro che ognu­ no può tenere " sous son manteau et sur le manteau de sa cheminée ", il libro da aprirsi ad ogni ora e ad ogni pagina. An­ che per questo, e non soltanto perchè cia­ scuno ci si ritrova e ci si piace, tutti ne siamo innamorati poco meno di M .Ile de Gournay. Nè mi si dica che gli Essais non sono frammenti : lo sono, eccome, e tutti in­ trisi anch 'essi di autobiografismo ; d 'altra parte lo stesso Autore tiene a farci sapere, si può dire a ogni parola cominciando dal ti tolo, che nessuno d i quei deliziosi palin­ fraschi si sogna di essere una trattazione men che svagata delle materie prese a di­ scorrere ; a lui piacendo scrivere, così come gli piaceva leggere, " à pièces descosues 74

E molLo meno se lo sogna questo mio ghiribizzo. Altrimenti , avrei dovuto fare tanti bei discorsetti quante sono le diver­ se specie di frammenti che già si sono dette, e forse qualcuna di più : le mora­ lità, i bozzetti e gli schizzi pittorici, i fo­ glietti di diario, i " brividi lirici ", gli aforismi, le piacevolezze, le graziose inezie o addirittura le sciocchezzuole da intra­ mezzare a prose più sostanziose, come ri­ posanti e divertenti cesure, direi quasi come segni d'interpunzione : a patto che di codesta punteggiatura poi non si abusi e che il libro non riesca un seguito di punti sospensivi o di quegli esclamativi favoleggiati da don Benedetto. Su cia­ scuna di queste specie di frammenti ci sarebbe molto da dire ; ma nessuno si aspetti che lo dica ora qui . Mi darei la zappa sui piedi se questo elogio del ' fram­ mentismo ' mi riuscisse qualcosa più di un frammento. 75

I

o

sono un letterato torraiolo, come certa

specie di piccion i , ed ho un grande

amico che

è

nemicissimo delle torri, siano

esse d ' avorio o di materiale più vile, e d i tutti g l i scri ttori c h e le abi tano. Quanto a me danno noia questi professori ni ' im­ pegnati ' a riformare i l mondo, che ci hanno empito le saccocce d i ' istanze ' , di problemi ',

d i vocaboli barbarici e di

sgrammaticature, altrettanto lo debbono i n fastid ire i vizi dei letterati , i poetucoli ermetici, simili a q u e i talacimanni sara­ ci neschi del

Ciriffo,

che gridavan da certi torracchioni come fa n n o gl i allocchi e i barba g iann i .

I l nome di q uesto am ico non importa scriverlo q u i , perchè le m i e parole hanno fatto già capire di chi si t rat ti . I n tendia­ moci, col suo rispetto per la poesia, con l 'ingegno e la sensi b i l i tà che si ri trova,

76

messo alle strette, non è che egli non ri­ conosca l 'eccellenza della condizione con­ templativa a paragone dell'attiva e della mista ; ma egli è davvero ' impegnato ' (uso per lui senza malizia questa abusata parola) in ogni battaglia dove lo trasporti il suo cuor generoso. Ed è necessità che combatta sotto una bandiera, per tempe· ramento e per vocazione. Anche per vocazione e per tempera­ mento, io mi trovo invece tutto dall'altra parte, dove non è che contemplazione e solitudine. Eppur mi pare che il mio grande amico mi voglia bene soprattutto per questo. E come si trattiene volentieri , qualche volta, a villeggiare su questa mia torre, fra le tenui ra gn atele dei sogni l

77

SOGNI DI DI

U N A N OTTE

M EZZO AUTU N N O

I

H

o spento le

lampade. Nella stanza non è rimasta altra luce che quella del caminetto, dove un grosso ciocco arde. Se la fiamma si abbassa, radi bagliori guiz­ zano sugli scaffali facendo risplendere, quando più quando meno, gli ori delle legature ; se la fiamma arde e sfavilla , sono invece le vinte ombre che animano stra­ namente le pareti in una trepida fuga. Sdraiato davanti al fuoco, più che se­ duto, coi piedi che quasi toccano il ciocco, scrivo appoggiando i foglietti a un brac­ ciolo della poltrona. Quando la fiamma languisce e la pagina diventa buia, smetto di scrivere e ancor più pigramente mi ada­ gio. Dianzi , questo continuo interrom81

penni m'era un fastidio e un tormento ; ora, a forza d i regolare il mio lavoro con quello del fuoco, che arde là dentro ad assalire ed annerire il legno com'io la pa­ gina bianca, anche il mio pensiero è dive­ nuto tutto guizzi e pause : sembra rego­ lato a misura di quelle fiamme, fatto una cosa sola con esse. Ma i guizzi del fuoco si fanno sem­ pre più radi, più brevi, sul ciocco anne­ rito e consunto. Poi più nulla, fuori che una fiammella azzurrina intorno al legno arso ; e basta appena ad illuminare due sottili nastri di fumo. Infine anche quella si spegne. Tra la cenere, sotto a ciò che resta del ciocco, come i pensieri inespressi nel mio spirito sopito, pochi tizzi ardono senza fiamma. Io credo, come credeva il mio Ma­ chiavelli , che questo aere è pieno di spi­ riti anche se poi intendo la cosa in tut82

t'altro modo che lui . E credo che il miO spiri to qui sosterà sovente, dopo la vita: poserà ancora in questa stanza tra i miei cari libri. finchè una mano crudele non li disperda, finchè in questo caminetto un ciocco odoroso dei miei cipressi crepiti ed arda.

G

UARDO

la pagina che ho dinanzi , vergi ne e pregna ; con cupido aspet­ tante amore la fisso, quasi cercassi di scor­ gervi i segni ch'io v'abbia a tracciare. Non ricordo se nessuno abbia già detto per filo e per segno ciò che ora vor­ rei notare su quella misteriosa comunione che unisce lo scrittore alla pagina bianca, come lo scultore al marmo informe ed in­ tatto in cui il divino Michelangelo vedeva già tu tta intiera la concepita figura : N on ha l 'ottimo artista alcu n concetto che u n marmo solo in sè non circoscriva col suo soverch io.

83

Certo è che, se dalla pagina bianca lo scrittore non può ' levare il troppo ' , come l o scultore dal marmo, spesso, fis­ sando il foglio, gli accade di leggervi le parole da scrivere : certo è che q ualcosa sale a lui da quello intatto candore. I l marmo e la pagina : la pagina, come la parete dinanzi all'artista, anch'essa vergine e pregna ; ma i vaghi colori non potranno quanto l'inchiostro buio. Leo­ nardo vanta la preminenza della pittura sopra la poesia, adducendo in prova ra­ gioni fisiche e fisiologiche. Egli si cre­ dette di poter graduare l 'eccellenza di un'arte secondo una gerarchia dei sensi che la percepiscono. Veramente non so chi, pur su tali fondamenti e premesse, si accorderebbe di anteporre la pi ttura alla poesia perchè quella " serve a miglior senso e più nobile " ; quasi che la poesia debba servire ad un senso e non allo spi­ rito, cui servono i sensi . 84

Ma per restare alle cose esteriori, contro alla nobiltà del marmo e alla va­ rietà dei colori, a me pare denotare eccel­ lenza fìn la stessa umiltà della materia bruta che racchiude le opere d'inchiostro, come le chiama messer Lodovico ; se è pur con questi poverissimi mezzi ch'esse hanno facoltà di levare così in alto l'anima umana, di esaltarla e di quietarla come a nessuno intaglio, come a nessuna pittura fu dato. Poco importano l'umiltà e la !abilità delle materie scrittorie, se i canti di Ome­ ro, dapprima scritti soltanto nei cuori de­ gli aedi, vissero più dei colori di Apelle e dei marmi di Fidia. Sì , Ettore avrà onore di pianto più che qualsiasi eroe celebrato da pennello o scalpello nessuno, che i n nulla parte al saldo s ' i n tagl ia per far d i marmo una persona viva.

Così . almeno, cantava il Petrarca. Ma tu, maestro Leonardo, che Omero cono85

scesti poco più che di nome e Dante, al contrario del tuo superatore Michelan­ gelo, forse non leggesti neppure per in­ tiero, tu , olimpico ed impassibile, non potevi troppo impacciarti col sospiroso amante di Laura. Lo scrivesti, o men pro­ babilmente lo trascrivesti , tu stesso nel codice Trivulziano : Se 'l Petrarca amò si forte il lauro fu perchè gl i è bon fra la salciccia e ' l tordo ; i' non posso di lor giance far tesauro.

Versi che ben sanno la penna di chi, con reverenza, mostrò di poco amare e manco in tendere la poesia, " scienza da orbi ", e che contro di essa lasciò scritto cose di cui mai si udirono nè le più goffe nè le men vere. " Le cose de' poeti spesso sono le volte che non sono intese. e bisogna fargli sopra diversi commenti, dei quali raris­ sime volte tal i commentatori intendono 86

qual fusse la mente del poeta . . . . ; ma l'o· pera del pittore immediate è compresa dagli risguardatori " Questo sì, maestro Leonardo ; questo sì, anche se resta da sta­ bilire se ciò ch'è più facile più è eccel­ lente. Un maggiore e più vero argomento che si potrebbe portare contro l'eccellenza delle opere d'inchiostro è, se mai, la diffi­ coltà estrema per i più di percepirne le men palesi bellezze, massime se si tratti di un libro scritto in una età e in una lin­ gua che non siano quelle del leggitore . Nè è meraviglia che, pur col suo acuto in­ telletto, tale difficoltà fosse pressochè in­ superabile a Leonardo, " orno sanza lit­ tere ", se in essa inciamparono ed inciam­ pano tuttavia uomini letteratissimi .

N

ON ho mai avuto dei livres de chevet,

propriamente parlando , perchè il letto mi sembra adatto ad altro che a leg87

gere ; in compenso, però, ho i miei cari " libri del caminetto " Più caro di tutti , m'è un prezioso Petrarca stampato su per­ gamena, sfoggiante le novissime eleganze inaugurate da Aldo sulle prime soglie del Cinquecento. E forse proprio il Petrarca è lo scrit­ tore cui chiedo più spesso il mio tozzo cotidiano di poesia; eppure, se m'imbatto in qualcuno dei luoghi dove più petrar­ cheggia, non è raro che mi accada d i dover chiudere il libro : tanto mi sono venuti i n u ggia quei modi dopo esserm i biascicati non so quanti canzonieri, tra sacri e pro­ fani, del secolo decimosesto. Così come suole, il petrarchismo dei petrarchisti ha cresciuto la mia insofferenza per il petrar­ chismo del Petrarca . D i tutti quei miei vagabondaggi poe ­ tici devo d ire che non li ho intrapresi sol­ tanto per i miei isti n ti girovaghi ed erra­ bondi o per la fregola dell erudito È in ,

,

'

88

.

me una credenza inveterata (e credo ve­ rissima) che non v'abbia poeta, per quan­ to mediocre, cui non sia uscito dal cuore almeno un bel verso. Ed è questo che la mia ladra avidità mi fa cercare nelle più sotterrate e dimenticate pagine di ogni secolo. Poco male, poi, se non manche­ ranno i disinganni, ed osterie in luogo di castelli e contadine i nvece di principesse, a chi faccia questa disperata professione di ca ballero andan te della Poesia. Poco fa, per esempio, ho finito di leg­ gere le R ime del Cazza, stampate a No­ vara nel 1 5 5 2 . È stata un'impresa memo­ rabile, condotta a piccole ma faticose gior­ nate ; le quali, se io avessi l'ingegno e l'arte d i Senofonte, mi piacerebbe narrare in un capitolo sul genere di certi dell'A na­ basi, sostituendo come misura itineraria i sonetti alle parasanghe. Con animo i n­ vi tto, pur sganasciandomi dagli sbadigli e rigirandomi e scontorcendomi, ho perse89

verato fino all'ultimo verso. Ora ho chiuso il volume e ne guardo, tra adirato e avvi­ lito, il frontespizio adorno di un ritratto dell'au tore, scrittovi sotto in tutte maiu­ scole : IL CAZZ A . Se il mio rispetto per i libri non fosse anche più grande del mio rancore per questo libro, cederei forse ad un rinato istinto fanciullesco di correggere a penna l ' ultima lettera del nome dell'autore. Libri , libri . I l mio stesso cuore altro non è che il mio libro più segreto, le cui pagine, innumeri e pur non varie, vo sfo­ gliando curiosamente e trascrivendo su queste carte . Eccole : pagine già lavorate, carte in­ tatte e nitenti sotto la lampada ; tra una frase e l'altra io le guardo affascinato. Le assomiglio a una clessidra, o piuttosto ad u n orologio a polvere . Ho innanzi a me due mucchi : quello dei fogl i scri tti, che 90

sono la sabbia già passata; quello dei fogli bianchi, la sabbia che ancora rimane per compiere questa notte di lavoro, o, a pren­ derla un poco più lunga e aggiungendovi idealmente qualche foglietto, addirittura la vi ta. Ogni pagina scritta , che si ammuc­ chia alla mia destra sopra le altre, è un granello di più ch'è passato, un granello di meno da scorrere.

91

II

I

h o per l e mani un'arte e un mestiere : l'erudizione, q u ella la poesia. Che io mi curvi sulle pagine per l 'una o per l 'altra, amo il mio lavoro q ualun que esso sia. M a più amo questi lunghi ozi nott u rni, quan d o il pensi e ro beata­ mente mi svaga. lontano dalle quotidiane miserie, dimentico delle ridicole difficili cose che, a poco a poco, sono divenute il mezzo necessario, e q u indi addirittura il fi n e della vi ta degli u o mini . Sono q u e s t i i miei sogni : queste li­ bere scorribande della fantasia, scio l ta in un f e l i ce ozio come puledro in un prato. Altri li chiamerebbe piu ttosto ghiribizzi o o

q u es to è

,

92

­

che so io ; e in effetto sono fantasticherie, castellucci, ricordi, speculazioni sopra un segreto dell'arte o dell'anima, riassapora­ menti di una pagina letta, di una bella donna goduta. Talvolta queste fantasie procedono a sbalzi e senza una connes­ sione apparente , tal'altra si snodano come gli anelli di una catena ; nell'un caso e nel­ l 'altro, mi beo perfino della varietà e del­ l'armon ia onde i miei ghiribizzi si alter­ nano e si succedono, come ne godrei leg­ gendo un libro di frammenti o di saggi sapientemente graduati ed assortiti dal­ l'arte dello scrittore.

T

RA i libri del caminetto, insieme agli

ai R i cordi del Guicciardini, alle Operette morali, ai petrarcheschi Re­ rum vulgarium fragmen ta, mi stanno sem­ pre vicini quei più veri frammenti che sono lo Zi baldone. Nei margini del quale Essais,

93

ho trovato una mia vecchia postilla a ma­ t i ta , e precisamente dove il testo dice che " non possa mai esser poeta per lo stile chi non

è

poeta per tutto i l resto "

In

quella noticina rinfacciavo a l Leopard i , con giovanile baldanza, di contradire stra­ namente a un suo precedente pensiero, nel quale aveva osservato, facendo l 'esem­ pio di Orazio, " come lo stile, anche se­ parato dalle cose, possa pur essere una cosa, e grande ; tanto che uno può esser poeta non avendo altro di poetico che lo stile In

quest ' u ltima

contraria

sentenza

concorro più volentieri . Ma se lo stile

è

esso stesso una cosa , e grande, ed io m i con tento di esserne a ffascinato, n o n soffro però di esserne i ngannato. Così , da molto tempo, ho preso questa abitudine : ogni volta che u n brano d i poesia o d i prosa m i p i ace p i ù d e l comune, u s o prima parafra­ sarlo. poi tradurlo in u n ' a l tra lingua, ap-

9-1

punto per separare lo stile dalle cose, per conoscere finalmente quanto sia fragile la bellezza delle opere letterarie e quanto mal percepibile dalla maggior parte, anzi quasi direi dalla universalità delle persone.

miei primi maestri , specie il mio buon precettore, non facevano che intronar­ mi la testa col la b o r li mae ; poi una certa impressione me la lasciarono i favoleggiati quaranta cassettini del Bembo, tanto che alla fine questa idea mi s'incarnì nel cer­ vello. Ma altro è esercitar la lima per di­ sciplina, per ubbidienza a una buona re­ gola imparata sui banchi di scuola, direi per dovere, altro è esercitarla per piace­ re ; n è io conosco un piacere maggiore di questo. Non parlo del la bo1· limae come oggi s'intende e si pratica, consistente insomma nel rileggere e nel correggere il primo ab-

I

95

bozzo due o tre volte : quello io lo chiamo sgrossare, non limare una scrittura. Il pia­ cere sta nel rilavorare una pagina infinite volte, tornarvi a piccoli e a grandi inter­ valli di tempo, godendo nel vederla fio­ rire, soffrendo (e succede pur troppo) nel vederla sfi orire ; ora potando e sfrondando, ch 'è sempre il lavoro più bello, ora mu­ tando una parola con altra pm propria, più efficace, più confacente per suono o per misura all'armonia del periodo, ora mutandone il luogo e non più : tutto un lavorìo da farsi non soltanto a tavolino, ma ruminando continuamente dentro di te la tua pagina. Il famoso precetto ora­ ziano viene troppo s p es s o amputato : limae la bor et mora ; la lima senza quell'indugio, s e n za que ll a l u n gh e z za fa poco. Questo credo che fosse davvero il gran segreto d egl i antich i , coi loro l ibriccini mandati fu ori dopo chissà quanti anni, o addirit­ tura d o po tu tta una vita . Ma non credo ,

96

che nessuno dei moderni vorrebbe o sa­ prebbe o potrebbe fare altrettanto. A pensarci bene, però, mi dispiace per chi trovò prima l'immagine della lima e quella dell'arida pomice : per polire le opere d ' inchiostro, codesti sono strumenti troppo meccanici e rudi. Il lene continuo lavorìo dell'acqua che leviga lungamente nel suo liquido grembo i ciottoli scabri, mi sembra un' immagine più appropriata. E questo grembo operoso, che poche cose chiuda e rivolga in sè di continuo, ha da essere, come ora ho notato, l'anima dello scrittore.

u detto che lo stile delle Operette

F rali sa di lucerna,

mo­

e sarà forse anche vero. Ma è una questione di gusti : la lu­ cerna a me non dispiace, purchè non sap­ pia di moccolaia; nella sua il conte Gia­ como doveva bruci are olio sopra ffino, non mica morch ie o fondacci. Provate a leg97

gere una pagina delle Operette dopo una di questi scrittori che hanno consumato meno olio che vino, come si diceva una volta, o magari , come si direbbe meglio oggi , più benzina che luce elettrica ; op­ pure dopo altre pagine che puzzano di ace­ tilene peggio che un baraccone da fiera, come certe del peggior Papini ; o anche dopo tante scritte in tempi più progrediti, che non sanno proprio di nulla.

sta bene, caro il mio Orazio : Ne c ver b u m v er bo c urrz b is reddere fidus. Siamo d 'accordo, se si tratta d'imitazioni e perfino di traduzioni , ma fino a un certo punto però. Da molto tempo mi sono messo in testa di scrivere un saggio, tra il serio e il faceto, sopra le ribalderie dei traduttori ; avrei diviso le loro fatiche se­ guendo la piacevole partizione delle " belle infedeli alle quali molto va perdonato,

E

98

delle " brutte fedeli che abbiamo sem­ pre tra i piedi ma che pur fanno comodo, e infine delle " bru tte infedeli che l'in­ gegno del Croce ci ha finalmente rivelate non sopportabili . Quanto poi a belle fe­ deli, io non ne ho mai conosciute di nes­ suna specie, e in fatto di traduzioni meno che mai . L'idea di questo saggio mi si riaffac­ cia ogni tanto, ogni tanto metto qualche scheda o qualche appuntino in un bello inserto che mi son preparato. L'altro gior­ no m 'era venuto in fantasia di stenderne subito un capitolo, nel quale avrei trattato delle volontarie deformazioni che certi in­ terpreti dalla faccia di pallottola non si sono peritati di introdurre nelle opere del­ l'ingegno altrui. E questo perchè avevo proprio allora finito di raffrontare col te­ sto originale le metamorfosiche traduzioni che l'Anguillara e il Dolce, incoraggiati, io credo, dalla materia e dal ti tolo del 99

poema, ardirono fare delle Metamorp h o ­ s e s . Di fronte a così fatte trasformazioni delle Trasformaz ioni, Dante avrebbe avuto d i che r i petere : Taccia di Cadmo e d ' A re tusa Ovid io !

E già avevo dato di piglio alle mie schede e messo in ordine alcuni esempi singolari ; come sarebbe uno di quel Lo­ renzo Franciosini. primo traduttore ita­ liano del D o n Quixote, nel 1 6 2 2 , che non si vergognò d'intrufolare il non certo fa­ mosissimo nome della sua famiglia in mezzo a quelli di alcune tra le più grandi casate d'ogni tempo, ricordate dal Cava­ liere de la trista figura ; onde, tra gli Sci­ piani romani e i Colonnesi e gli Orsini, e i Mendoza di Castiglia, al lettore sbigot­ tito accade di trovare, dopo alcune illustr i casate toscane, come i G u i cciardini e gli Strozzi , interpolate anche esse dal tradi­ tore (credo più per pudore che per adula1 00

zione), proprio i Franciosini di Castel Fio­ rentino : O poca nostra nobiltà di sangue !

Ma come allora lasciai andare il mio capitolo, così ora tralasceremo queste mi­ nute bricconerie. Prendiamo, invece, uno scrittore dotto, galantuomo e di buon giu­ dizio. Se a costui, ancorchè possegga un'ec­ cellentissima conoscenza della lingua da cui si arrischia a tradurre , molte grazie e proprietà del suo autore rimarranno pre­ cluse, quante di quelle ch'egli sa percepire potrà trasferire in un altra lingua ancor­ chè da lui altrettanto eccellentemente co­ nosciuta? Nè voglio dire soltanto della im­ possibilità di tradurre la poesia, così come il Croce la mette, ma pur certa prosa che, senza essere poetica per la fonna, è altret­ tanto intraducibile quanto la poesia, e, la si prenda come si voglia, anch'essa è poesia. 101

In quanto a me, arno meglio branco­ lare in una lingua che non conosco e da me brancicarmi le parole di un capo­ lavoro, piuttosto che abbandonarmi, cieco rassegnato, alle mani di un traduttore. Sia pur esso non soltanto un saputo filologo, ma un artista vero, non sarà mai riuscito a far rifiorire col suo faticoso trapianto le più squisite bellezze che sono solo di un testo partorito nella lingua in cui fu con­ cetto, chiuse talvolta non dico nella scelta e nella collocazione delle parole, ma pur nel loro suono medesimo; mai rendere ad una pagina quella inimitabile impronta che l'autore potè darle quando era fluida materia nel travaglio divino della crea­ ZIOne. [Queste pagine sui traduttori sono state scri tte parecchi anni prima che le mie povere biografie andassero a proces­ sione per le strade del mondo, vestite o trav esti t e in diverse lingue. Diverse lin"

1 02

gue, orribili favelle ", dovrei dire dopo es­ senni assaporata la recensione di Luigi Russo al mio Mach iavelli così malamente infranciosato (basterebbe l'amenità di quel " buon poeta alla burchia tradotto con " spécialiste de la navigation " l ) : io però tenendomi a un buon consiglio datomi un tempo dall'amico Papini, preferisco non leggere più i miei li bri tradotti . E ora, perchè nessuno potesse pensare che qui io abbia voluto rendere ai traditori pan per focaccia, ho fatto ricorso a questa po­ stilla cronologica . ]

N

fatto di minuzie, ninguna e s mala como sea ve1·dadera, nota sapientemen­ te il Cervantes. Chi disprezza le piccole cose, le briciole della conoscenza umana è senza fallo più piccino di esse; e la pro­ va migliore n'è che tale disprezzo si fa tanto maggiore e più generalmente diffuso

I

1 03

quanto più si discende verso gli infimi gradi della civiltà e del sapere. Chi non sa che la scienza è fatta di tante piccole cose, come le case sono fatte di mattoni ? Per quanto mi riguarda , non mi ver­ gogno di confessare che la filologia e l'eru­ dizione mi hanno lasciato il gusto delle quisquilie ; nè credo però di avere una mente meschina o ristretta. Dirò di più. Nessuna disciplina, nessuna dottrina, nes­ sun memento h omo ch'io possa rivolgermi, mi sono più salutari di queste bricciche più o meno s qu i site ; nessuna cosa, se bene le riconsidero in me, ha altrettanta virtù di su sci tarmi pensieri di universale gran­ dezza, nessuna sa darmi una più piena con­ sapevolezza della piccolezza mia. Proprio al modo stesso che una goccia d'acqua guardata nel micr os cop i o, e ripensata den­ tro di noi , non senza fingersi nel pensiero tu tto quello che l'occh io umano, pur ar­ mato di maravigl iosi aggegg i, non nesce 1 04

ancora di discernervi, ci manifesta l'infi­ nità del creato meglio che l a contempla­ zione di una fi umana impetuosa o della maestosa immensità del mare ; alle quali quella gocciolina vorrebbe sempre essere rapportata, con le sue mille vite.

N

oN v'ha chi non abbia letto di quel­

l 'atleta dell'antica Grecia, del quale si narra che, essendosi avvezzato a portare sulle spalle un suo vitellino, potè soste­ nerlo anche quando questo fu divenuto un bue. Nel modo stesso, essendomi io assue­ fatto fino da piccolo fanciullo a recarmi addosso la soma dell'infelicità mia, e non avendo mai smesso questo esercizio, ben­ chè la crescesse ogni giorno di peso, ecco che sono atto a portarla pur oggi , se bene sia ormai divenuta pressochè insopporta­ bile. 1 05

S

E ad alcuno verrà mai i n fantasia di

misurare la mia infelicità col mio do­ lore e il mio dolore con queste pagine, parrà forse che io. qui e altrove, ne abbia troppo parlato, troppo abbia drammatiz­ zato il mio piccolo dramma. Chi così giudichi avrà probabilmente ragione, che ben iud ica e' colpi a cui non duole ,

secondo afferma il buon conte Matteo Ma­ ria ; il quale di colpi doveva pure inten­ dersene, tanti ne ha fatti dare e prendere a quei suoi cavalieri . Si rimpicciolisca dunque quanto si voglia il mio male. Ma poco fa ho scritto che in ogni goccia d'acqua sta l'Infinito; e ora soggiungo che in ogni dolore, ben­ chè piccolo, sta l'infinita infelicità umana.

106

III

S

E l ' albero della mia stirpe, tutto ru­

bricato dalle berrette dei gonfalonieri e dei priori della Repubblica fiorentina, mi venisse il ghiribizzo di tirarmelo su al modo dei genealogisti francesi, con tutti quei talli e quei nesti , vi si vedrebbero posate sui seccaioni mitrie di papi e co­ rone reali di Francia e tante altre spoglie da fare invidia alla guardaroba di un tea­ tro. Più là, il bastone di un maresciallo di Francia riconoscerebbe nei nocchiuti rami della gran pianta il suo li gn aggio silvestre e si addottrinerebbe nei ricorsi storici del sugo di bosco. Rade volte risut-ge per li ram i l ' u mana probitate ;

107

ond'io, dispettoso discendente ex fi lia, in dirittissima linea, di Lorenzo il Magnifico, sono qui a meditare sui tre grossi in-folio di Gaetano Pieraccini, La stirpe de' M e­ dici di Cafaggiolo, e sulle pagine di quello che dianzi ho detto essere il mio libro più segreto, la mia eredità . Su, dunque, ma­ donna N obiltà, ch ' è 'l vostro resto ? Recate i libri, e facciam conto presto.

Povero me, il conto è presto fatto dav­ vero. Da tanta nobiltà di sangue io non ho ricevuto che degli impacci e dei pre­ giudizi, per liberarmi dai quali mi basterà, forse, la vita. E, probabilmente, dell'acido un co. I sei monti che campeggiano nel­ l'arme della mia famiglia , specie nei miei princìpi, mi hanno chiuso, non allargato l 'orizzonte. Più che vette per surgere, essi furono per me un sanguinato calvario. 108

Ed è per questo, proprio per questo, so­ lamente per questo, che sotto l'arme ho messo, al luogo dell'antico motto dei miei, l'impresa allusiva : Hos superabo mon tes. Ma non mi basta. Quando penso alla na­ scita, alla vita che ho fi no a questo giorno vissuta e alle condizioni mie, vorrei poter mutare la mia arme con quella degli Al­ berti : due catene i ncrociate, ed il motto His adstringor catenis. Gran peste, però, è q uesta " nobiltà di stirpe l Anch'io, che ne dico tutto quel male che n 'ho avuto, se mi guardo bene addentro, finisco per accorgermi che il mio rancore malèdico è incrinato da una venatura di compiacenza. "

EGGo:

" Forse Galileo non riusciva, come fece, il primo riformatore della filosofia e dello spirito umano, o almeno non così libero, se la fortuna non lo facea

L

1 09

nascere di famiglia nobile E poco piit sopra, nello stesso pensiero dello Zi bal­ done di cui questa è la clausola, sta scritto : " Io credo che questa tale magnanimità di pensare e di scrivere, dico questa tale, e che non sia nè feroce nè satirica, o mista dell' uno o dell'altro, non si troverà facil­ mente in scrittori o uomini non nati no­ bili o di buon grado " Altri attribuirà forse a pregiudizio, ad orgoglio di casta, questo pensiero del contino Leopardi ; ma pure è verissimo, e sembra ragionevole che la nobiltà del san­ gue, specie se fortificata da una lunga tra­ dizione educatrice e da una rigida educa­ zione tradizionale, possa dare allo stile di uno scrittore quella tale magnanimità o almeno una signorile sprezzatura. In simil modo, raramente mi è acca­ duto di trovare mancanza di sensibilità o di gusto negli scrittori discesi di famiglie nobili , ancorchè fiacchi o mediocri, men110

tre ne ho trovata pur troppa in altri di buonissimo ingegno ma di piccola estra­ zione. Senza andar tanto lontano, c'è il sin­ golare esempio del Carducci, nel quale il professore ed il critico potettero pur tanto da sopraffare talvolta il poeta ; non tanto però da fargli conoscere quanto disdices­ sero, nel bel mezzo di un canto, certi rutti plebei .

N

oN ricordo più

in quali pagine di­ menticate (e forse non soltanto da me, ormai immemore lettore di troppe pa­ gine) , ho letto che un uomo senza titolo, o accademico, o nobiliare o cavalleresco, rassomiglia ad un uomo senza camicia. A me, piuttosto, nella pratica della vita co­ tidiana, fa l'effetto di un arnese senza ma­ nico : non sai da che parte pigliarlo per servirtene in ciò che ti accada.

111

L

vecc h io Esopo si è in ga nnat o se ha creduto di poter misurare gli uomini, che sono una specie superiore, col metro delle sue sciocche bestie. Una rana non può, gonfiandosi a dismisura, uguagliarsi ad un bue ; ma bene può un risoluto im­ becille gonfiare tanto le gote e le azioni sue fino ad agguaglia rsi ad un uomo da bene e d'ingegno, massime in politica che è m a teria più ventosa ed enfiata. E di ciò si son visti e anche oggi si vedono bellis . . s1m1 esempi .

I

.

-

.

posso fare che q ualche volta io non invidi l'avventurata sorte di Lin­ neo e di altr i grandi naturalisti dei tempi eroici. Maravigliosa fatica ! Tenere a bat­ tesimo pressochè tutte le specie dei tre re­ g n i allora conos c i u te classificarle e descri­ verle quando ancora gli uomini, che le avevano sotto gli occhi a b o rigi n e m u n d i

N

ON

.

1 12

senza averle guardate, non sapevano quasi distinguere l'una dall'altra. Fatica di scien­ ziato, che si avvicina a quella di un poeta nella invenzione dei nomi ; nella quale il buon Linneo, se pur talvolta dormicchia, spesso fa opera vera di artista. Ma, come si conveniva, l'ingegno del professore di Upsal alquanto surse quando si trattò di dare un nome al capolavoro della creazione. Homo sapiens, nome su­ perbo e in tutto degno di questa specie cui appartennero Dante, Michelangelo e lo Shakespeare , Camillo Querno arcipoeta e il Carafulla l Chi avrebbe potuto dubi­ tare allora, quando la scienza moderna non aveva raggiunto gli odierni fastigi, della sapienza umana ?

U

NA volta è stata questione se la donna

abbia un 'anima; e in ogni tempo, poi , la si è considerata quasi come una specie a �è. Si è dimenticato cioè che essa 113

è la femmina dell'uomo e che le sue qua­ lità e condizioni sono perciò quelle stesse dell'uomo, sia pur conformate alle fun­ zioni e alle attitudini del sesso. È volgare opinione che in essa siano, più che nel maschio della sua specie, svi­ luppate la slealtà, la finzione, l 'attitudine al tradimento. La sola differenza, in ve­ ri tà , è che le donne tradiscono e fingono generalmente in cose di minore impor­ tanza (e quindi, forse, con maggiore faci­ li tà) , anche se agli uomini, per i pregiudizi e la vil tà loro, importano molto di più. Questo che ora ho detto io l ' ho bene per fermo, ma pure, quando dovessi cer­ carmi un amico, mi sceglierei sempre una donna : e stimo che ciò sia non soltanto per l 'attrazione del sesso, in me più forte che non si converrebbe , ma forse, non astan te ogni ragione ed ogni ragionamen­ to, anzi in manifesta contradizione con quello che ho appena scri tto qui sopra, J J .I

proprio perchè, avendo avuto fin troppo a praticare con gli uomini, sono portato a sperare fino all'ultimo, e quasi senza ren­ dermene conto, che le donne apparten­ gano a una specie del tutto diversa.

N quest'altro ghiribizzo voglio ora ghi­

I ribizzare

e spassionarmi un poco su certe amicizie che sembrano destinate a rimaner sempre i n boccio. C'è una mutua (e muta) stima ; ci sono, accanto alle di­ versità, qualità, condizioni, inclinazioni comuni ; c'è perfino della simpatia : ma gli anni passano e il boccio non s'apre. Una disparità d ' ingegno e di dottrina non do­ vrebbe essere d ' impedimento : sarà piutto­ sto timidezza, o troppo amore di sè da una parte o dall'altra, oppure mancanza di occasioni. M i vien fatto d i pensare a quelle uova, dove c'è dentro il pulcino che pi­ gola e becchetta il guscio, ma il guscio è 115

troppo duro per lui, se la chioccia o la massaia non lo aiutano. Così accade di queste amicizie diflì. cili a nascere : senza qualcuno che ci metta le mani . finiranno col morire nel guscio. E forse a romperlo basterebbe un non­ nulla : un incontro conviviale, una felicità o una infelicità, un'ansia comune, una commozione improvvisa, un incantesimo operato dalla natura. una pagina, una fa. cez1a magan . Il mio grande amico Giovanni Pa­ pini , che dì amicizie era ingordo, ricor­ reva spesso e volentieri alle punzecchia­ ture, le quali avrebbero dovuto operare appunto come lo spillo o la forcina della massa ia. Da vecchio, essendosi fatto più ritenuto. codeste operazion i arrisicate, a punta di spillo , gli riuscivano meno : di un giovane divenuto oggi uomo dotto e fa­ moso (che. neppure a farlo apposta, è u no di quelli cui questo ghiri bizzo è dedicato) .

1/6

so leva dirmi malinconicamente : Quando parlo con lui ho sempre paura di prendermi un raifreddore " Per tanti e tanti anni m ' è piaciuto andare per la mia strada senz'altra compa­ gnia che la mia solitudine ; ma, dacchè mi sono scoperto la vocazione dell 'amicizia, questi gusci che non si aprono mi riem­ piono di un gozzaniano desiderio delle " cose che potevano essere e non sono state ". Se ogni età ha i suoi piaceri, è però giusto che abbia anche i suoi dispiaceri : bisogna rassegnarsi a queste crepuscolari malinconie.

N

EL ri tratto del Magnifico Lorenzo de'

Medici dipinto dal Machiavelli c'è quella pennellata che tu tti conoscono : " nelle cose veneree maravigliosamente in­ volto Come vi sono delle virtù aborrite o spregiate agli occhi del mondo, e per 117

contrario vizi ammirati ed ambiti, dico che se questo notato nel Magnifico è un difetto, è almeno un difetto che non suole suscitare ripugnanza, ma piu ttosto una be­ nevolenza indulgente. Gli storici ne hanno appuntato questo o quel personaggio, gli affumicati moralisti han fatto mostra di scandalizzarsene, ma in fondo nessuno è stato appresso ai posteri odioso ed infame per colpe siflatte, purchè non l 'abbia ag­ gravate con violenze o soperchierie. Fra tante nudeltà e scelleraggini di Caio Caligola, non ner:lo che Svetonio sia mai riusci to a suscitare raccapriccio nei suoi le ttori con quel capi toletto che ce lo ri trae al vivo, nel triclinio, in atto di sce­ gliere con minuziosa cura fra le donne di buona condizione, insieme ai mariti loro convitate, esaminandole di ligenter ac len te, m ercantium more Nè questo è tutto, chè, dopo la scelta e il concubito, tornato nella sala del triclinio, non si pe"

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ritava punto di lodarsi o di lagnarsi ad alta voce della donna che s'era goduta, enumerandone pedantescamente i pregi e i difetti , così del corpo come della giaci­ tura. Che quel bel tomo in così fatte occa­ sioni passasse un po' la misura, sebbene as­ sai menu che in tante altre, sono prontis­ simo a consentirlo; e pur mi conosco largo di maniche meglio che un cappuccino. Ma voglio dire che se costui avesse avuto poi i meriti e i modi di Augusto, tanto per dirne uno poco simpatico, la Storia non lo avrebbe bollato, come ha fatto, con un notabile marchio d'infamia. E lo scrittore che, ri traendolo, avesse temperato le sue lodi con una frase come quella del Machia­ velli, riportata qui sopra, non avrebbe fatto insomma che rendere più attraente la sua figura con un tratto di vitalità gagliarda, di virilità e quasi direi di umanità. Cosi , per non uscire dall' ultima persona nomi119

nata, lo stesso Segretario fiorentino, i n fama di femminacciolo e di scapestrato, riesce più simpatico e umano del suo emulo Guicciardini, frigido o rigido, cau­ to o esemplare . Io voglio soltanto notare, come sem­ pre ho fatto fin qui su queste carte, un mio ghiribizzo, non già scrivere un saggio su codesta materia; n è quindi mi attar­ derò ad esaminare le cause di tanta indul­ genza per i trascorsi sessuali conformi a natura, le quali del resto sono abbastanza ovvie e assai note. Mi piace però di confes­ sare che, per quanto ' maravigliosamente ' inclinato agli amori , a me è sempre man­ cato quel minimo di crudeltà o di indif­ ferenza che si richiede a chi piaccia andar superbo di vittorie e di prede amorose. E come, anche in queste piacevoli gio­ stre, sempre mi sono ripugnati le violenze e gli inganni, così il dolore, la dispera­ zione di u na donna mi hanno infinite volte 1 20

impedito o, quando ho avuto la crudeltà di passare oltre, contristato e dispiaciuto in modo che la ferita ch 'io ne ricevevo non era punto minore di quella che avevo mio malgrado inferta; e qualche volta, forse, molto maggiore. Sempre più mi certifico, anche senza badare a certi filosofi antichi e moderni, che la bontà, la mansuetudine, la compas­ sione altro non sono che espressioni di un animo fiacco, manifestissimi segni di de­ bolezza e di inferiorità. Ma pur conside­ rando e tenendo per fermo tutto questo, tanti esempi di magnanima spietata for­ tezza di fronte agli affetti e alle miserie umane, esaltati dagli epici e dagli storici, a me hanno sempre ispirato una notabile ripugnanza; sì che anch'io posso dire col Montaigne che j 'ay une merveilleuse lascheté vers la misericorde et mansue­ tude E di fronte a tante azioni e parole "

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memorabili di animi fortissimi, amo piut­ tosto riconoscermi affetto da questa tale debolezza, e chiamisi p ure apertamente viltà o dappocaggine, ch'è, secondo me, uno dei pochissimi segni per i quali l'uomo possa distinguersi dalle bestie, sia pure a tutto suo svantaggio e sfigurando nel pa­ ragone.

A gravità dei

costumi e delle parole, spe c ie di quelle che si stampano, è una qualità che a molti piace, almeno in pubbli co , ed è sempre buona regola lo­ darla. Esserne ornato giovò tanto al Guic­ ciardini, quanto nocque al Machiavelli es­ serne privo ; in v i ta, vogli o dire : in morte, come si è v i sto le cose sono molto mutate, per non dir capovolte. Non so già se si capovolgeranno anche per me, che in cene qualità (non, putroppo, in tutte le altre) , rassom iglio al se condo dei due ; e, proprio

L

,

1 22

come lui, me n'è venuto palesemente del danno. Ma non è qui che volevo arrivare. Molte pagine di questo capitolo autunnale le ho piluccate, non senza un gran lavorìo di rifacimenti e di aggiunte, da un libric­ ciolo che fu davvero sbozzato in una lunga notte dell'estate di San Martino e che ben posso dire inedito, avendo comprata e di­ strutta l'edizione intiera prima che fosse messa in commercio. Le ragioni di quel costoso capriccio poco importano ormai e oltrepassano anche i confini che ho più volte segnati ai miei svagamenti autobio­ grafici . Qui volevo soltanto scansare il so­ spetto che le pagi ne escluse, senza contare quelle scartate per criteri artistici (che sono di gran lunga le più) io le avessi escluse per tpocnsta. Perchè se mi fossi persuaso a soppri­ merle in conformità di ciò che ho notato nel principio di questo mio ghiribizzo, 123

avrei dovuto levarne qualche altra, forse poco confacente alla gravi tà che si vor­ rebbe non disgiunta da me ; ma in verità sarebbe un congiungimento contro natura. E a me pare che levar quelle pagine, non }asciarvele, mi avrebbe fatto vergogna . Le stesse parole che allora scrissi di quel libro i n quel libro voglio ora ripe­ terle in questo : se esso piacerà, cosi come è, nel male e nel bene, ad un solo lettore o (che sarebbe meglio) ad una sola lettrice, io potrò almeno usar seco, con pochissimo adattamento, la risposta che il Montaigne fece a re Enrico I I I , lorsque il luy dist que son livre luy plaisoit beaucoup ", se­ condo si legge in quel lutolento ma pe­ scoso libro ch 'è la Biuliothèq ue del La Croix d u M aine, stampata a Parigi nel 1 584 : Sire, il fault donq nécessairement que ie plaise à vostre maiesté " "

"

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ELLE Cento cen to e cento e cento N pagine (ecc. ecc. ecc. ecc. : duecento e

pagine in meno, e il libro ne avrebbe gua­ dagnato assai, a cominciare dal titolo !) il D 'Annunzio sembra farsi beffe coperta­ mente della filologia del " gobbo Leopar­ di Io dico che questi non sarebbe dive­ nuto, come divenne, il più grande lirico i taliano dopo il Petrarca, se non fosse stata la sua filologia. E ciò non soltanto per avergli, col privarlo della sani tà del corpo, donato quella infelicità grande del­ l'anima, che nel cuore del poeta suoi ge­ nerare il canto come non so quale infer­ mità genera la perla nella conchiglia ; ma per avergli affinato e maturato il gusto, lo stile, la lingua. Un precoce ed eccessivo esercizio atletico può rovinare una com­ plessione debole, e irrobustirne una ga­ gliarda : i precoci e faticosi studi filologici , che avre bbero potuto fare di ogni altro uomo un inutile pedante di più , fecero 125

del figliuolo di Monaldo un poeta gran­ dissimo. Ma il Leopardi ebbe anche quest'al­ tra ventura; che la maledizione della na­ sci ta nobilesca gli fu temperata da una re­ lativa povertà, divenuta poi per suo me­ rito povertà vera e grande, Chi volesse, di contro, avere un esempio memorabile di un forte ingegno che non produsse quanto avrebbe potuto, impacciato da altri natali che quelli di un nobiluccio di Recanati e da ben altre ricchezze, fermi il pensiero su Gino Capponi. Io non ero nato per essere marchese ", egli era solito dire. Den­ tro alle quali parole, e agli amichevoli motteggi del Tommaseo, è il chiuso dram­ ma di quest'uomo, certamente nato a cose maggwn . E proprio il candido Gino rinfac­ ciava a Giacomo di non aver saputo vi­ vere gobbo l Se avesse saputo, ci sarebbero mancati , forse, i suoi cant i più belli. Di 1 26

contro, si potrebbe rimproverare a Gino di aver saputo, fino a un certo punto, " es­ sere marchese " Ma non sarò già io a fargli un tale raffaccio, io che purtroppo, in tanti anni di vita e dopo tanti ribella­ menti, non ho del tutto disimparato ad esserlo. Anche questo mi pare che sia appunto come il male della gobba. O grande, candido Gino l Là, sul colle dilettoso , dove dormi all'ombra dei cipressi secolari, non crucciarti se l'umana miseria ammira ed ama, come a sè più conforme, meglio la sciagurata dispera­ zione di Giacomo che non la tua robusta saggezza. E tu, che non potesti patire il miserando errore del Leopardi, compati­ sci ora, ti prego, questo tuo tralignato ni­ pote, il q uale più di quello errore che di codesta saggezza è partecipe : compatiscilo, se egli ne deliri e ne pianga proprio qui sulla tua scrivania, dove, finchè avesti 1 27

luce, vestisti della nobile prosa che tanto piacque a un gran poeta plebeo le tue ricerche del Vero e la tua cristiana rasse­ gn a Z i o n e .

S

CORRENDO

i foglietti scritti fin qui, m'avvedo che troppo e troppo spesso mi sono per lo addietro doluto della mia infelicità : ora io mi ridico. Non è già di essere immune dall'infelici tà che l 'uomo dovrebbe desiderare, ma che la vita s'ab­ bia un sapore ; nè io posso negare che la mia vita un suo forte sapore ce l'abbia, e sia pure aspro ed amaro. A me, per quanto io n ' esclam i e recalci tri , è in fondo un gu­ sto che non dispiace. Chi di questi cibi forti non si co m pi a cc i a chi non sappia o non possa comportarli, si tenga (io non lo i nv i d i o) la sua v i t a sc i p i ta e dolciastra. .

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l 'appariscenza, la lucentezza del nuovo maschera spesso nelle cose la mediocre qualità loro, così la giovinezza suole coprire sotto quella sua splendente vernice le tare, i difetti, la dozzinale qua­ lità di un uomo. Perfino se si guarda sol­ tanto alla sanità e alla forza del corpo, ognuno è sano e forte da giovine. Ma quando la gioventù lascia l 'uomo (come le cose) , appaiono ad una ad una le magagne, si discoprono le buone qua­ lità e i difetti1 la fragilità e la robustezza. E vengono poi i tarli dei vizi o l 'ossido della viltà a rendere l 'uomo (come il le­ gno od il ferro) un avanzo roso o corroso. Così è accaduto anche a me. La mia vecchia barca conquassata, apparentemen­ te ben salda nella sua ossatura ferrigna, me la scopro ora tutta fracida dentro : nè si troverebbe un calafatare capace di rad­ dobbarla in modo che potesse scostarsi da q uella squallida riva che va bordeggiando.

C

OME

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Vero è che io ho almeno il tristo me­ rito di accorgermene e di dirlo. E .J.ccor­ gersene è già un disperato privilegio; e dirlo, come ogni confessione sincera, al­ meno in parte riscatta ed affranca. Tal volta - mi sento uno straccio, c anche piu ttosto sporco per giunta, tal al­ tra ho l'orgoglio di quello che sono e di quel poco che ho fatto. Basta una cattiva ri uscita, un contrattempo da nulla, a ri­ durmi in quel primo stato che ho detto, basta forse ancor meno per esaltarmi fino alle annacquate ebbrezze del secondo. A ripensarla ora, posatamente, credo di essere nel giusto quando mi giudico uno straccio, chè tal sono, nè più nè meno degli altri uom i n i (ma forse più che me­ no) , questa essendo la nostra vera condi­ zione ; e credo di essere altrettanto nel giusto quando mi inorgoglisco di quel po­ co che ho fatto, sempre che lo misuri con c i ò che tan ti al tri fanno, o non fanno. 1 30

N ley, mi pare) abbia detto che la de­ ON

ricordo più quale scrittore (l' H ux­

gradazione sessuale dà un piacere tanto maggiore quanto più alto è lo stato da cui si discende. Questa sentenza è veris­ sima ; ed è forse per ciò che tale degrada­ zione, in tu tte le specie del pervertimento e del vizio, è assai più diffusa negli alti strati della società umana che non negli infimi. Una volta si leggeva, se non per imi­ tare gli altri scrittori , perchè divenissero parte di noi, così come il cibo diventa sangue. Oggi , sperduti nel gorgo vasto dei vecchi libri, sotto il crescente diluvio dei nuovi , siamo ridotti a leggere soprattutto per non ripetere ciò che gli altri hanno scritto.

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IV

H

avuto l'invito a compilare la mia scheda biografica per il magno Wh o's who. Vedo, e ne gonfio di boria come un otre, che mi faranno compagnia in quel librone appena dieci o dodici ita­ liani, non più : tra gli altri, il presidente Giovanni Granchi, l'inglesista Mario Praz, un grande diplomatico, un grande pitto­ re, un grandissimo medico, uh, il ' premio Nobel ' Salvatore Quasimodo e (troppo onore per me) Alberto Moravia. C'è an­ che, ma purtroppo non sarà più nell'edi­ zione del prossimo anno, Luigi Einaudi, che mi ha preceduto negli onori oxoniensi e che non è soltanto un buon volgariz· zatore delle scienze economiche. Assapo· o

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rando certe cose sue, non so perchè mi si riaffacci sempre alla mente ciò che lessi in una memoria scientifica a proposito del cervello di Anatole France : che era molto piccolo, ma pareva un cronometro di alta precisione ridotto alle misure di un mi­ nuscolo orologino da donna. La stessa co­ sa, per bislacca che sia, e tanto più bislac­ ca a pensarla di cervelli tanto diversi , mi suggerivano, ricordando l 'uomo e la sua conversazione, le pagine del nostro Mi­ chele Barbi. Ma ecco che sto andando di palo in frasca, secondo il mio solito. Io, insomma, sarei uno di coloro che, fiore o feccia, emergono sul vasto gurgite umano. Sarebbe bello se potessi scrivere su quel pezzo di carta ciò che vorrei e dovrei . Quando penso che gli uomini mi credono dotto, non posso tenere un ghi­ gno o un sospiro ; nè, per conoscere quel che so e quel che sono, ho bisogno di contemplare un lembo d ' infinito nel gran 133

cielo stellato. Ho letto, è vero, una quan­ ti tà sterminata di libri e non pochi anche ne ho scri tti : il che è molto peggio, per­ chè chi legge giudica, ma chi scrive è giu­ dicato. Ho scoperto e dato in luce testi insignì, senza i quali gli uomini non sa­ rebbero stati nè peggiori nè meno in­ felici . Altri testi ho emendati, ho risolto intricati problemi filologici ; e a paragone delle fatiche che vi ho durate credo che quelle di Sisifo avessero un costrutto molto maggiore. Ho corretto nelle conoscenze accumulate da generazioni di studiosi qualche piccolo errore, che non valeva la pena di correggere se non per soddisfare a quella pietosa e patetica brama di vero che è in fondo a ogni anima umana. Sì, ho divorato più libri che pane ; ma i soli che stimi veramente utili a me e agli altri sono quelli oggi reputati dai più inutilis­ simi, dove aliti almeno un fiato di poesia ; . . S i a un respiro o un sospiro. -

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Pur, s'io non sono un sapiente, so certo moltissime cose. Quante me ne han­ no apprese i libri, quante la vita ! Non ho ancora imparato ad ingannare i miei si­ mili, ma bene ho appreso ad ingannare me stesso e ne ho fatto una scienza dif­ ficile e macchinosa. M i hanno educato alla scuola del vizio, ho conosciuto l'avi­ dità e la vigliaccheria, mi hanno inse­ gnato la necessità della menzogna e della frode. Se io scrivessi qui tutto ciò che ho imparato dagli uomini e degli uomini, molte persone timorate ne prenderebbero scandalo ; perchè ciò che esse fanno a ogni momento, in occulto o in palese, diventa ad un tratto orribile e disgustoso negli oc­ chi loro quando se lo vedono scritto su un pezzo di carta. Ma, o è mera presunzione la mia, o due cose almeno ho apprese, veramente difficili e singolari . Prima, a non sentire in me alcuna grandezza, come un tempo 135

facevo, per la infelicità mia, avendo final­ mente imparato che l'infelicità mia è pure una misera cosa ; seconda, a respingere ogni tentazione di credermi dotto per es­ sere arrivato, come sono, ad attingere l'ul­ tima delle conoscenze umane : e cioè la nullità, l'assoluta inutilità di quello che so. Mi basterebbe almeno di sapere, e mi parrebbe di sapere assai, che differenza c'è fra la mia presunta sapienza e la pre­ sunta ignoranza del villano che, ghignan­ do scioccamente, è persuaso di conoscere e di capire più di chi è meno ignorante e men grosso di lui .

ghiribizzo notato qui sopra, essen­ do tornato a digrumarlo molto tem­ po dopo averlo scri tto, secondo il mio so­ lito, trovo un concetto che mi pare ras­ somigli per una esatta metà alla metà

N

EL

136

di una sentenza dell' Ibsen, della quale ho un ricordo piuttosto sbiadito perchè da quarant'anni non ho letto un rigo di quello scrittore. Sono quattro parole in tutto, non più ; ma oggi a questi critici ruspanti basta di trovarne conformi due sole (cosa invero da ridersene) perchè sem­ bri loro di avere scoperto un'imi tazione o una citazione implicita. Così , resto tra la curiosità e la pigri · zia. Mi piacerebbe di ritrovare quella sen­ tenza, mi spaventa l ' idea di rileggermi cen­ tinaia e centinaia di pagine certamente il­ lustri , ma troppo lontane d al mio tem· peramento latino e toscano. E poi , come il Foscolo nell 'epistoletta metrica al Mon­ ti, ormai , " cultor di pochi libri io vivo Credo che accada a parecchi , passata una certa età : non mi riesce più di leggere. I n me sarà sazietà, sarà pessimismo o dif­ fidenza ; perchè non voglio dar tutta la colpa a q uesti benedetti occhi . E anche 137

quei pochi li bri , invece di lcggerli, per lo più mi contento di volerli sempre vici n i , di tenermeli s ulle ginocchia, d i s tringerli fra le man i . amorosam ente, ripensandone qualche pagina o ripetendone qualche verso, magan a voce alta quando nes­ suno mi sente .

F

RA molte cattive abitudini che ho con­ tratte negli ultimi anni , pessima �

q u ella di pensare a due cose d iverse nello stesso tempo ; i n modo che, probabilmen­ te, finisco per guastare tutte e due. M i spiego : non s i tratta già della comune di­ strazione, d i uno svagamento, per cui, senza volerlo e senza accorgersene , o qua­ s i , si fa meccan icamente una cosa e si pensa ad u n 'altra, ma proprio d i due di­ verse applicazion i della mente, simulta­ nee e volontarie . Se m i accade d i b urlarmene c o n chic-

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chessia, affermo essermi riuscito, a forza di pazienza e di complicati esercizi, di di­ videre il mio cervello in due scomparti­ menti distinti : uno tuttavia di maggior condizione ed autorità, che dà la legge all 'altro e distribu i sce il lavoro. Quando parlo con un seccatore, o quando colla­ ziono tediosamente un antico testo, op­ pure ho qualche briga coi numeri, miei antichi capitali nemici, la parte che co­ manda ordina all'altra : - Tu bada a sbrigarmi quest'uomo, o i l tale lavoro, e io attenderò ai fatti miei . . E così suc­ cede. La parte subordinata ascolta il sec­ catore con sfoggiata pazienza, gli risponde. discute, accudisce a questa o quella fac­ cenda , insomma fa del suo meglio, men­ tre. come accade anche nella società, la parte privilegiata per lo più ozia e va dietro ai suoi piaceri e alle sue fantasie. Tra l 'altro. talvolta anche si sforza di speculare più addentro che può questo -

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sdoppiamento ; sul quale ho notato varie cose, in veri tà curiose e singolari . Mi p i a­ cerebbe di scriverne q u i alcuna, ma me ne trattengo ; chè non vorrei avere a leg­ gere per q u esto non so quanti volumi dal Freu d i n qua, col risch io d i scoprire m edesimamente cose bell ' e scoperte da al tri e magari già divulgate : proprio come intervenne al dotto collega Sylvestre Bon­ nard , fi lologo e b ibliofilo amicissimo mio, per le sue ri cerche sopra le relazioni tra i fiori e gli insetti,

nelle ultime pagine

di q u e l l ' amabile li bro del France. Sono acciden t i , a quel che pare , (lo scrivo senza mal izia) che accadono agl i eru d i t i .

A

dirlo c'è da averne le beffe, ma come scri t tore non amo quegl i stati di gra­

zia, q u ando la vena è abbondante e la copia delle immagi n i sgorga felicemente. i ncanalandosi d ' impeto nelle parole pro-

J./ 0

prie ed esatte. Mi accade allora che il piacere, l'ebbrezza, l'orgoglio, dapprima prepotenti, presto in sofferenza si mutano ; come se i troppo deboli argini non po­ tessero reggere a quella piena impetuosa. Finalmente, quasi impaziente di tanta fa­ cilità, sono forzato a interrompere il la­ voro e prendere un libro per quietarmi, o a trovare uno sfogo passeggiando su e giù per la stanza : quello che i miei fioren­ tini vecch i dicevano " fare el lione " Amo piuttosto, e credo per me più feconda, una temperata vena ; quando con lieta fatica mieto il campicello del mio spiri to e, in fine, raccolgo sulla carta la scarsa messe di parole, come un conta­ dino della nostra terra ammucchia sul­ l'aia i buoni chicchi sceverati dalla pula e dalla mondiglia. Una pagina almeno, una sola pagina eterna ch 'io scriva : questo è stato ed è 141

ancora, dopo tanto tempo, dopo tanto rovinì o d'illusioni, nel mancar d'ogni m e­ ta, l'estremo mio desiderio. Irrorato dal dolore, scaldato dall 'amore, fecondato dal­ l'ozio, non potrebbe il seme divino ch'è in ciascuno di noi, pur caduto in questo pugno di arida e sterile terra ch'io sonn, dare un giorno quell' unico frutto im­ mortale?

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v

M

ENTRE la continua consuetudine di

un 'opera letteraria e l'assuefarsi lungamente ad essa danno un diletto sem­ pre maggiore, effetti tutti contrari mi sembra produrre l'assuefazione ad altre bellezze, che, per dirla con Leonardo, ser­ vono al senso eccellentissimo della vista ; così è, per esempio, d i una mirabile pit­ tura che continuamente ci sia messa sotto gli occhi , o del paesaggio, per quanto ame­ no, in mezzo al quale viviamo : bellezze che bisogna sforzarsi di riguardare con al­ tri occhi , spogliati di quella assuefazione, per poterle gustare e comprendere com­ piutamente. Di sogno in sogno, di ghiribizzo in 143

ghiribizzo, queste cose rimuginavo sta­ sera dentro di me, guardando nella sere­ nità del vespro autunnale la dolcezza inef­ fabile delle colline che fanno corona alla mia casa, e l'asprezza della roccia su cui essa siede, fuse senza contrasto in una pura armonia; e godevo nello scoprire, fin­ gendomi di guardarle per la prima volta, le bellezze di questo luogo benedetto dove pur sono sempre vissuto, dove ogni an­ fratto mi fu di rifugio, dove ogni arbusto, ogni s a s s o , furono i compagni della mia fanci ullezza deserta, mi sono ora in luogo di familiari e di amici . Questa mia vecchia bicocca, descritta nei catasti della Repubblica fiorentina fino dal secolo decimoquinto, fu poi tormen­ tata da giunte e ri facimenti come certe m ie pagine più cincischiate. In tal modo ha perd uto, specialm ente di fuori, la sua forma prim itiva e la sua antica propor144

zione ; tanto che un giorno, a chi mi do­ mandava ragione del suo nome de La Baronta ', risposi burlando, con buona licenza di ser Catasto e di monna Fono­ logia, che gli era una corruzione di ' Ba­ roncia ' e che la casa dovette però essere murata e posseduta ab anti q uo da quei Baronci di cui novelleggia il Boccaccio. Costoro si furono, come tutti hanno potuto leggere nella sesta giornata, i più brutti uomini del mondo, dacchè messere Iddio, a corto di esperienza e di esercizio, li sbozzò quando non aveva ancora impa­ rato a formare perfetti esemplari della specie umana. Nè, in verità, si potrebbe desiderare un argomento più concludente in prova della loro origine remotissima. E come quella fu, secondo il nostro no­ vellatore, la più antica famiglia di che si abbia notizia, nella quale gli uomini si vedevano ancora nel primitivo stato di abbozzi, la villa che fu sua dovette essere '

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necessariamente la più sgraziata che mai si vedesse, essendo stata costruita quando ancora non avevano imparato a murare le case. Scherzi, non scherni; beffe, ma pie­ ne, dentro, di un commosso affetto per questa dimora de' miei padri e di mio padre, per queste care vecchie mura che chiusero, come in u n pietoso abbraccio materno, tanti miei stanchi ritorni dalla viltà cotidiana. Con animo non diverso, il Berni ber­ teggiava affettuosamente in un sonetto per anticagl ie naturali e vere

i suoi vecchi di casa.

N

EI primi anni della mia fanciullezza,

standomi in villa, vidi un giorno, fra certi dirupi dove passavo la maggior parte del tempo, una piantina di cipresso alta forse due spanne, miracolosamente nata 1 46

nel vivo di un gran lastrone di pietra forte. Qualche coccola, caduta a caso in un'an­ gusta fenditura del sasso che appena po­ teva capirla, vi aveva germogliato e bar­ bicato. Quel cipressetto mi divenne subito caro, nè quasi passava giorno ch'io non andassi a visitarlo; talvolta per dargli un po' d'alimento, mi industriavo di pigiare nella stretta fessura un pugno di terra buona. Pur nella incoscienza dell'età, io sentivo in quell'alberello un'affinità di nascita e di destino : anch'io avrei potuto dire com'esso : cecidi in petrosa. Passarono gli anni. Il fanciullo cre­ sceva e pativa ; perchè patisse non so, ma doveva sentirsi appunto come quel ci­ pressino. L'alberello veniva su stento sten­ to, dapprima, e più volte temetti che non si seccasse del tutto ; pure, anch'esso, pa­ tiva e cresceva. Ma intanto le sue barbe affondavano 14 7

sempre più nelle dure viscere della roccia e ci s'ingrossavano. Sotto la continua azio­ ne di quei viventi cunei la fenditura a poco a poco si allargava ; più si allargava, più il terriccio e le foglie cadute e gli umori vi penetravano, dando alle radici nuovo alimento e nuova forza per ingros­ sarsi e fendere il sasso. Ora l'albero ha vinto la sua guerra, la fessura è divenuta un largo crepaccio, dal quale un tronco vigoroso erompe. L'uomo è stato da meno : se bene un tempo neppure a lui sia mancata la mano pietosa che lo nutrisse, non è riusci to a vincere il suo petroso destino. Così è che oggi, pur amandolo an­ cora di uno strano affetto, l 'uomo schiva il cipresso, il compagno caro della sua fan­ ciullezza. Non lo rattiene l'invidia, ma una sorta di vergogna, e più la infinita tristezza dei pensieri che sembrano scia­ mare da quella roccia fenduta. 148

Raramente accade che un fiorentino come me, di ceppo vecchio e schietto, senza neppure un nesto che non sia di pianta nostrana, si lasci prendere dalla nostalgia, dalla tenerezza, dalla commo­ zione, e subito non s'ingegni di affogarle in un pensiero beffardo. Questa volta, già mentre scrivevo le ultime righe del capo­ verso qui sopra, io ghignavo pensando che ognuno che mi conosca, conosciuta la pianta, troverebbe naturalissimo questo mio strano amore vegetalesco : quel cipres­ so è infatti della varietà che i botanici han nominata horizon talis, ma che, forse per l'idea di orizzontalità sempre connessa al sesso femminile, volgarmente è detta cipressa o anche cipresso femmina.

ingenia magis acria q uam matura.' , scrisse il Petrarca degli ingegni fio­ rentini ; e questo detto fu dal fiorentino ingegno di Francesco Guicciardini ap-

O

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provato e lodato, " perchè è loro naturale proprietà avere più el vivo e lo acuto che el maturo et el grave A me, oltre il si­ gnificato d i acuti , piace attribuire al vo­ cabolo acria l 'altro significato di acerbi , o piuttosto d i asprigni. O i o m'inganno di grosso, o questa tale acerbità è una qualità peculiarissima di tutto ciò che nasce in questa mia terra, in u n clima dolce e aspro ad un tempo, in un paesag­ gio dove asprezza e grazia si fondono i n­ cantevolmente, dove il suolo stesso, fatto per lo più d'aspro macigno, addolcito e domesticato dal calore del sole e dall'in­ dustre sudore degli uomini, produce frutti ed erbe più saporosi che altrove, così che alcuni per la dolcezza, altri per l'amarezza vi eccellono. Non sine la bore. Questo motto, rin­ verdi to qui dall'antico ceppo come im­ presa di una delle più illustri famiglie cit· tadine, si attaglia mirabilmente a tutto "

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ciò che natura ed arte produssero e pro­ ducono in questa infaticata patria di arte­ fici , fra le pietre conce delle sue mura, entro le petrose colline che la ricingono, quarto cerchio alla sua chiusa bellezza. Il Petrarca, fiorentino di stirpe, ma non schietta nè antica, non lo direi però fiorentino d'inge gno. Il Guicciardini fu fiorentino di ceppo e d'ingegno, sebbene tal volta non paia, appunto per aver trop­ po del grave. Mi si neghi l 'autorità di giudicare la grandezza, non quella di co­ noscere la fiorentinità. Fra i maggiori, in maggior grado io la riconosco a Dante, a Michelangelo, al Machiavelli . Ma se do­ vessi nominare un solo che riassumesse ed esaltasse in sè tutti i pregi e i difetti della razza fiorentina, questo sarebbe, senza dubbi e senza confronti, Niccolò Ma­ chiavelli Ora questa piccola terra, che fu pa­ tria in tanto breve volger di tempo di .

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tante grandezze, sì che nè Atene nè Roma, nè alcuna altra ci ttà può esserle in nessun tempo, civiltà o nazione paragonata, sem­ bra finalmente esausta ; invecchiato e iste­ rilito, il suo grembo generoso. N onchè le altezze dell ' ingegno, anche le qualità e le condizioni della razza si vanno per­ dendo ; solo negli u l timi artisti, (secondo, com 'è ovvio, l ' accezione dantesca) , solo in certi ciompi i ngegnosi e bizzarri , solo nel popolo minuto insomma, preservato in maggior misura da intrusioni barbariche di sangue, di gusti e di costumi , se ne vede ancor qualche segno.

H

o

ri trovato i n un vecchio scartafaccio una bella pagina i nedita che il caro

e valentissimo Giorgio Pasquali, venuto u n giorno q u i alla Baronta, buttò giù al­ l 'improvviso per contrapporre ed ante­ porre la mia Firenze alla sua Roma.

1 52

Ma in quella pagina scrisse, tra l'al­ tro : " Roma è un deserto di marmo "; e questo, che in certo modo è vero inten­ dendolo come lui lo intendeva, non è purtroppo più vero inteso alla lettera. Tale apparve al Leopardi , tale fu in ef­ fetto per secoli la città dei Papi murata coi marmi dei Consoli e dei Cesari ; e magari anch'oggi lo fosse . Io non l'arno certamente più del Pasquali e, in fondo, non credo che nep­ pure l'amino, se non carnalmente, molti di quelli che vi sguazzano dentro, pio­ vuti da ogni parte d'Italia. Qualche volta sono preso dal fasci no delle sue antiche pietre e di certe sue strade vecchie, o vecchiotte, intonacate di biondo , dalla sua solennità sbracata, dalla mollezza pa­ stosa che l'amico Antonio Baldini seppe trasfondere così bene nelle ultime pagine del Mich elaccio. Ma dopo aver passeggiato quelle vie e quelle piazze per lungo e 153

per largo, non trovo di meglio che andare a respirare in casa di Emilio Cecchi, sopra una proda di Villa Borghese, una boc­ cata di asciutta concretezza toscana.

qualche tempo ho imparato a ser­

D barmi l'ore della mattana e della stan­ A

chezza per l'assaggio, per l'ultimo para· gone delle scritture mie e dell'altrui. Sol­ tanto allora, una pagi n a che nel caldo del concepimento m'era sembrata pur bella, e bella ancora, ma meno, l'avevo giudicata dopo qualche spazio di tempo rileggendola con animo ben disposto, fì. nalmente mi si discopre o in s ipida o inet· ta o mediocre. Nè alcuna ha superato fi­ nora, fra le mie, questa prova crudele. " Una pagina almeno, una sola pa­ gina eterna ch'io scriva Questo poco fa ho confessato essere il solo, l'ultimo mio 1 54

desiderio. Questo (ora lo so) è il miracolo che aspetto, qui curvo su questa scriva­ nia, là davanti al caminetto acceso, pro­ prio come una lontana notte attesi l'altro miracolo, di un passo leggero sulla ghiaia del giardino. Nè quest'attesa, forse, riu­ scirà meno vana di quella ; e sarà la mia estrema illusione. E pure qualche volta mi par di sen­ tire, dentro, il lievito di quella pagina, il seme che si schiude. E pure conosco le più riposte bellezze delle pagine eterne e il segreto, impenetrabile ai più, di quelle bellezze. E so, infine, cosa siano il dolore e la disperazione, che talvolta hanno la virtù di fondere le parole rapprese nell'anima, meglio che non fece col bronzo, nella for­ ma del Perseo, i l terribil fuoco di Ben­ venuto.

1 55

VI

N

mio forsennato amore per i libri e per tutto ciò che coi libri ha qualche affinità o somiglianza, non trovo di meglio che raffigurarmi ad un grosso scartafaccio stazzonato e gualcito dall'uso, pieno di giunte, di cancellature, di cor­ rezioni. A quel quadernuccio ch'io ero al tempo della mia infanzia si sono ag­ giunti con gli anni fogli su fogli, e le pagine si sono empite di dotte note, dove in principio non erano che còmpiti e im­ paraticci. E che sono mai le poche cose che qui vo notando, se non postille messe nei margini della mia vita, ora che quasi tutte le pagine furono scritte? Poi, quando i fogli dello scartafaccio s a ra n n o finiti, nè più se ne potranno agEL

156

giungere, mi ci metteranno sopra un bel marmo polito, scrittovi qualche parola a modo di explicit. Proprio come quando, finita la veglia, metto sulle pagine lavo· rate, un mio storiato frammento di pietra serena. Ma intanto è venuta anche per me l'età amara dei rammarichi, dei rimorsi. dei pentimenti. Continuando la similitu­ dine qui sopra incominciata, o piuttosto abbozzata, se mi si domandasse a qual punto sia ora il libro della mia vita, direi ch'egli è all'errata-corrige. E questa pagina rimarrà per me, come nei libri, inoperosa ed inutile.

D

A trentacinque anni, o più, vo dispen­ sando gli ozi che mi lasciar gli avi remoti

in ricerche e in istudi che la società umana non m1 npaga con compenso alcuno, nè 157

materiale nè morale. Non mi par quindi di vivere a scrocco e, all'alba, posso andar­ mene a letto con la coscienza tranquilla. Rimarrebbero, se mai, dei dubbi circa la utilità del mio lavoro. A quel che mi pare di intendere , secondo il giudizio (invero alquanto sospetto) del Leopardi, fatiche di tal sorta sarebbero meno oziose di quelle che i miei contadini durano ad arare o a mietere. Ma a me non basterebbe l'animo, oggi, di persuaderne qualcuno. Mi dovrò dunque scusare ? Andrò ac­ cattando indulgenza per questi studi in cui ho consumato tanta parte di me e che in altri tempi mi avrebbero procacciato fama, onori , o almeno rispetto? Io tengo per fermo che anche illustrare un docu-­ mento o un cod ice o un incunabulo sco­ nosciu to, o esercitarsi in qualunque altra ricerca del vero attraverso la speculazione erudita, sia servire la civiltà umana. Ardi­ sco dire di più : che questa civiltà si serve 158

e si difende, ora che come mai

è

incalzata

dalla squallida barbarie delle " magnifi­ che sorti e progressive ", indipendente­ mente dal l 'apporto recato alle conoscenze, col solo attendere a questi stud i . E sia come si voglia, per una disciplina

o

per un sim­

bolo, per un'elevazione o per un ribella­ mento.

IÀ dissi in altre pagine di qual casto G amore, e dunque necessariamente in­ fecondo, io ami la Poesia . M a posso sem­ pre verseggiare con gli amici, fami liar­ mente, senza offesa di questo verginale pudore . Così , avendomi il mio edi tore e fra­ terno amico Aldo Olschki indirizzato un suo bel sonetto, contrapponente l ' armi e gli amori dei miei giovani anni ai miei studi presenti

( . . . . . i l genio, la parola l e la penna ne segnano il pensiero. l Hai 1 59

fatto un rogo e dal Savonarola / traesti il segno ch e ti porta al vero), mi sarebbe sem­ brato di mancare delle debite fonne se io non gli avessi risposto, non dico per le nme, ma tn nma : o

o

o

Aldo, poichè il tuo verso mi radduce a' va ghi errori di un tempo lontano, quand'io segu iva quel fantasma vano che ogn i giovane cuore ognor seduce, penso che similmente mi conduce

d ietro altre larve il mio destino umano in q uest a n n i viril i , ora che i nvano '

cerco del vero la nascosta luce. Ogni notte la cerco, e cerco ancora e trovo sol quella di un nuovo giorno,

fi nchè notte più l u nga avrò trovato. Ma sonata che sia l ' u l tima

ora,

( i l t e m p o con le for bici va attorno) nn

val g a almeno questo aver cercato.

1 60

buon Giulio Bertoni, che cominciò I L bene come filologo, o almeno come eru­ dito, e finì male come multiloquente Ac­ cademico d'Italia, anche senza mettergli nel conto quel suo sciagurato Vocabolario, ripeteva spesso, e un giorno finì per starn­ parlo, sgramrnaticando secondo il suo so­ lito : " Ridolfi è filologo nato " Se disse il vero io non so ; ma fra i miei p iù vani amori segreti è, oltre la filologia, la lin­ guistica, in quanto studia le varie lingue umane nelle loro vicende e nelle loro re­ lazioni reciproche. Un'altra disciplina che mi ha sempre vanamente tentato è lo stu­ dio comparato delle religioni e delle sto­ rie loro. C'è un'affinità , forse, tra queste mie due antiche brame d i conoscenza. Le re­ ligioni non sono altro, in fondo, che le diverse favelle con le quali i popoli di età e di razze diverse, hanno parlato e parlano a Dio. 1 61

forse una cosa balorda, ma ogni volta che in me fede e ragione fanno baruffa mi sovviene quel primo verso del Burchiello:

P

ARRÀ

La poesia con tende col rasoio.

Il rasoio, bene o male affilato che sia, mi aiuta ogni giorno a fare il mio dispet­ toso mestiere di h o mo sapiens ; fìnchè, ve­ nuto in superbia. vorrebbe sfuggirmi di mano e tirare gran colpi a dritta ed a manca. Ma infine vince sempre la poesia, i d es t la fede che è anche poesia, la sola che canti ancora nel mio cuore deserto.

NALMENTE, dall'antica Certosa il suono

F delle campane dilaga nel silenzio, on­ deggia sotto la brezza antelucana. Assorto sulle carte sparse del mio la­ voro, ascolto i lontani echi della valle e gli 1 62

interni echi del cuore, cercando, come un tempo solevo, d'intenderli in me e di trame diurni presagi . Per tanti e tanti anni, quando la vita era una bella guerra non ancora perduta, questo suono di campane m'ha portato ogni notte, al termnie del mio laborioso ozio, divenuto sulle pagine travagliate un ozioso lavoro, ora trionfali squilli di vit­ toria, ora lugubri rintocchi, ora gioiosi canti di giovinezza. Stamani, in questo primo annunzio dell'alba c'è soltanto una voce che chiama, che prega.

1 6 '3

SOGN I PER T UTTO L'AN NO

I

GGI è il primo giorno di febbraio, O anniversario della morte di mio pa­ dre : una giornata fredda, pulita, spazzata dal tramontano. E il sole fa proprio tutto quello che può. Sul mezzo del giorno, salivo per la solita scorciatoia che dalla strada maestra porta alla mia vecchia bicocca : in casa la chiamano, per burlarsi di me, " la famosa viottola " ; io, la viottola, senz'altro, per antonomasia. Camminavo adagio, sopra­ pensiero, ed ero quasi arrivato a quel punto dell'erta di cui ho parlato due volte nelle Memorie : dove da ragazzo, glorioso e trionfante per il primo trionfo scienti­ fico, baciai una farfallina gialla ; e dove, 1 67

tanti anni dopo, venne a salutarmi una vanessa nera : avevo allora saputo che mio fratello era morto. Ma oggi non pensavo a quelle cose : i miei pensieri, quelli almeno che stavano a galla, erano pensieri cotidiani, di studi , di lavoro, di lunario, di vita : quelli che stavano nel fondo, non so. Camminavo e i miei occhi distratti, annebbiati secondo il loro solito, non vedevano sull'erta che ciottoli ed erba. All'improvviso ho visto mio padre. Camminava davanti a me, con un passo uguale al mio: andavamo, lui davanti e io dietro, come tante volte ai bei giorni in quel medesimo punto dell'erta. Una quiete grande, un tranquillo riposo erano in me, oggi come allora, perchè c'era lui ed era lui a farmi la strada. Siamo andati per qualche passo, così ; ed era bello camminare insieme per la no­ stra vecchia viottola, con quell'antica fe1 68

licità ri trovata. Poi mi sono scosso, come quando ci si sveglia ad un tratto : chi cam­ minava avanti a me non era mio padre, non era neppure la sua ombra, era invece la mia, fortemente ombrata sulla ripida ascesa : la posizione del sole e la pendenza dell'erta avevano reso possibile, in una mente trasognata, quell'inganno consola­ tore. Ma l'illusione non avrebbe potuto essere così perfetta da divenire allucina­ zione , se l'ombra non avesse riprodotto, tale e quale come nella mente m'è fitta, la cara immagine paterna. Tanto che anche dopo, riguardandola con occhi disincan­ tati, stentavo a riconoscere in essa la mia figura, quale per tanto tempo l'ho vista e quale fino ad oggi continuavo per forza d'abitudine a immaginarla ; più la guar­ davo e più mi pareva in tutto e per tutto quella di mio padre, un poco appesantita dagli anni : era la sua stessa corporatura, 1 69

la stessa curvatura delle spalle, la stessa in­ clinazione del capo; e quella sua andatura un poco stanca, con una impercettibile pausa ad ogni secondo passo. È stata una somiglianza così straordi­ naria ad illudermi, meglio che non avreb­ be potuto fare uno dei soliti sogni not­ turni . E quando mi sono riavuto, ho guar­ dato ancora, con lunga tenerezza, quel­ l'ombra che mi precedeva su per l'ascesa. quasi sperando che l'illusione continuasse, simile a chi sognando des idera sognare

(nel distorto significato che Guido Goz­ zano si compiacque di dare a un bel verso di Dante) .

UANDO, anzi tempo, cavaliere erran­

te dell'amicizia , ripercorrevo a Q spron battuto la vita di Giovanni Papini, nel raccontare quelle sue precoci eroico1 70

miche avventure di lettore onnivoro e vo­ racissimo, certi ricordi delle mie letture fanciullesche mi si dipanavano nella me­ moria : ed ecco che ancora una volta la biografia mi diveniva in quelle pagine autobiografia. Non che io, benchè in­ gordo, fossi stato onnivoro come lui : in lui quella disperata fame di libri, della quale narrò nell' Uomo fi nito e nel Pas­ sato remoto, era più tumultuosa e più grande, in proporzione dell'ingegno; vo­ glio dire che, pur essendo in effetto spro­ porzionatissima a forze puerili, era però proporzionata alla disuguaglianza fra il suo ingegno ed il mio. Quella del Papini era ingigantita dal superbo sogno dell'onniscienza, la mia era soltanto un'umile fame di poesia; la sua aveva anche questo di più patetico, che q uasi sempre gli mancava di che saziarla : la mia poteva sfogarsi a suo piacimento nella libreria paterna. senz'altri freni che 171

quelli della discrezione, che però si rup­ pero presto. Forse un che di patetico qual­ cuno potrebbe trovarlo anche nelle erra­ bonde letture di quel ragazzuccio che io era, e che a quindici

o

sedici anni sapeva

a mente (le parole gli rimanevano appicci­ cate nella memoria come uccellini alla pa­ nia) certi sotterratissimi testi , forse oggi noti poco più che di nome a qualche gran cattedratico ; però, se del patetico c'era, io non ne scrivo qui per i ntenerirmici sopra, ma sol tanto per prenderm i in giro. " Versi d 'amore e prose di romanzi " : quanti n e lessi tra i nove e i sedici anni, anni d i ansie malinconiche e soli tari e ? Non mancherebbe al tro, ora, che li pas­ sassi tutti in rassegna. Ma insomma, per d are un'idea della quanti tà dei volumi e della qual i tà delle letture, mi divorai tutte le vecchie edizioni Le Monnier, a com i n­ ci are dalla " B i b lioteca N azionale ", che ves tivano m al iosamente di rosa una in-

1 72

tiera parete della libreria : saranno stati un mille e quattrocento volumi. Veramente il mio pane cotidiano lo trovavo nella " Biblioteca economica Le Monnier (formata del resto da tanti vo­ lumi della stessa " Biblioteca Nazionale " travestiti in tela verde) e nella salesiana " Biblioteca della gioventù Quest'altra collezione, oltrechè meno illustre, era troppo men ricca ; ma era poi tra le edi­ zioni Le Monnier che andavo a cercarmi i testi in essa mancanti o ecclesiasticamente castrati . Eppure qualche volta mi accade di rimpiangerla quella ignobilissima col­ lezioncina, con le sue rustiche copertine giallognole, finita ignominiosamente sui muriccioli quando, fattomi più esigente in fatto di libri, cacciai di casa tanta parte di quelli che c'erano entrati prima di me. Ai miei primi colloqui col Leopardi ho già accennato di scorcio nelle M emo­ rie, ma era quello degli Idilli : quello delle 1 73

Operette m ora l i mi prese tutto un po' dopo; e quasi mi adirai col " candido Gino " per avermele bistrattate in quel modo, anticipando in parte l'aspro giudi­ zio crociano. Forse, quei due grandi inge­ gni non vi sentirono la impalpabile poe­ sia che v'è chiusa : senza punto d'ingegno, ve l'aveva fiutata, per via di quella gran fame che ne aveva, uno sprovveduto ra­ gazzo. Ma, per quanto voglia metterrni ora alla gogna, mi vergogn e rei a raccontare le sfacciatissime conversazioni che ebbi a quella età coi classici maggiori, e coi mag­ giori dei minori, prima di ritrovarrneli. come vecchie conoscenze, sui banchi di scuola. Cosa m 'abbia fruttato il mio amore per il Furioso non so; quello furiosissimo per l'Innamorato, mi meritò tanti anni dopo, in premio, la scoperta dell'unico esemplare conosciuto, ma fino ad allora sconosciutissimo, d ell'edizione stampata 1 74

nel 1 49 1 , volente o nolente il caro conte Matteo Maria. Invece, se i meriti si dovessero misu­ rar davvero con questo metro delle anti­ patie o delle simpatie fanciullesche, do­ vrei confessare di non essermi meritate af­ fatto le mie famose scoperte guicciardi­ niane : io che non fui mai capace, allora, di arrivare in fondo a uno di quei bene architettati periodi della Storia d'Italia, da me tanto lodati in età più matura ; allora godevo anzi un mondo a leggerne nei Rag­ guagli gli amenissimi scherni : fanatico co­ m'ero del Machiavelli, col Guicciardini mi rappaciavo soltanto sopra i Ricordi. Del Galilei mi venivo succhiellando, per amor dell'Ariosto, le cattivelle Considera­ zioni sul Tasso e non è a dire che ero tutto con lui : se lui l'avesse intesa altrimenti, a mia volta sarei stato col fratacchione che ad ogni ragion matematica gli replicava quella sola ragione : Terra autem in aeter1 75

num stabit, q uia Terra autem in aeter­ num stat " Di palo in frasca, eccomi finalmente dove volevo arrivare : a cuculiarmi per due grandi passioni che, venute a scoprirsi nella innocenza di quella età acerba, la di­ cono lunga su certe mie debolezze degli anni maturi . La prima fu la passione dei poemetti didascalici, specialmente geor­ gici : oltre che con le Georgiche stesse e coi loro volgarizzamenti, avevo allora un gran traffico con l 'Alamanni, col Rucellai, soprattutto (udite, udite) con l'Arici . Ci ho pensato poi molto, quando la mattana fu soppiantata da altre, e ancora ogni tanto ci penso, ma codesta infatuazione mi sembra uno dei più profondi misteri della mia vita. Non poteva essere la materia ad i ncantarmi, perchè io ho sempre amato moltissimo i campi , gli alberi, gli animali che non scrivono ; pochissimo, le cure per governarli : ogni sera, quando vo a letto, 1 76

ho paura che i miei vecchi, terragni co­ m'erano, mi vengano a tirar le lenzuola. Nè parliamo delle api , perchè la prima ed ultima volta che ebbi a fare con loro e m 'avventurai nelle loro case munito sol­ tanto di esametri virgiliani e di endecasil­ labi oricellari, mi gonfiarono il viso in modo che pareva una mongolfiera. Proprio la mongolfiera mi conduce di volo al suo famoso cantore, che fu l'altra mia grande passione. Le smanie per il Monti mi durarono più che le altre, aven­ domi accompagnato da fanciullo, da gio­ vanetto, da giovanotto. N o n soltanto nella Bassvilliana e nella Mascheroniana, che sapevo a memoria, non soltanto nella tra­ duzione dell'Iliade, ma anche nella Bel­ lezza dell' Universo trovavo le mie delizie, e soprattutto nella Feroniade. Che volete ? ormai ho deciso di rovinanni : in me c'è sempre un diavoletto biografico, che a un certo punto salta fuori e mi sforza a sco1 77

perchiare tutti i coperchi . I l Manzoni, che allora non figurava nei santi del mio ca­ lendario perchè le sue erano altre e più profonde bellezze, mi farebbe dire ora da Don Abbondio : " Anche sopra di sè, pur­ chè frughi, rimesti, critichi, inquisisca : an­ che sopra di sè " Certamente quella sviscerata ammi­ razione deporrebbe a mio carico, se fossi citato in giudizio non dico davanti ad Apollo, ma a qualche critico da lui dele­ gato o che comunque ne facesse le veci. Le inclinazioni, i fanciulleschi trascorsi di cui sono confesso gli parrebbero indizio di un intelletto precocemente pervertito. Mi par già di sentirmi incalzare con le parole dell'A cc usa toria guicciardiniana : " Chi adunque in sì tenera età dimostra e scuopre questa natura, che si può cre­ dere che abbia a essere nel resto della vita ? Non dice quello proverbio vulgato che il buon dì si conosce da mattina ? " 1 78

Difatti la medesima depravazione mi fa ancora oggi cercare e stimare più del conveniente la bellezza della forma in sè, ri tenere che lo stile sia esso stesso poesia " anche separato dalle cose ", giusta quella sentenza dello Zibaldone, amare insomma la " poesia sulla poesia ", o come questi benedetti critici vogliano chiamarla, a co­ minciare da quello che è Benedetto di fatto e di nome. D 'altra parte, io non fo nemmeno professione di educatore e gli scrittori, ar­ tisti o artigiani che siano, li giudico per la loro prosa e per i loro versi soltanto, non per il contenuto educativo o morale dei loro scritti, non per la fortezza o debolezza del loro carattere, non per i loro meriti o demeri ti di cittadini ; nè guardo se siano " impegnati o beatamente distaccati dal mondo in cui vivono: ma se dovessi farlo, il mio cuore sarebbe con questi, non certo con quelli. Come il Cellini a quei fuoru1 79

sciti che spiritavano, direi : O isciocconi, io sono un povero orefice E non sono difatti pur io, specie con quelle inclina­ zioni e disposizioni che ho confessate, un povero artigiano delle parole ? Anche quella facile, disarmata, ti­ mida natura del Monti, che suole suscitare sdegno e disgusto nei petti fortissimi di tanti critici, a me ispira piuttosto compas­ sione e tenerezza; in questo, il Monti mi ricorda un altro scrittore a me carissimo : Bernardo Segni . Gli uomini della tempra di un conte Alfieri, aspro e forte come i suoi versi, io li ammiro di più ma li amò di meno : un po' di morbidezza, nel ca­ rattere e nello stile, si addice meglio ai miei gusti. Sarà un mio difetto, certa­ mente, una mia debolezza : ebbene, queste paginette sono una confessione. Che posso fare di più ? E proprio i n questa confessione, forse, i critici sarebbero un giorno venuti a raz"

"

1 80

zolare, se " l'aspettata virtù ", che in me poi non fiorì nè punto nè poco, avesse pro­ dotto frutti conformi non dico a quei fiori che non fi orirono, ma almeno ai germogli. L'avrebbero frugata ben bene coi loro fu­ scellini e chissà quante cose vi avrebbero trovate, e che belle ragio� i sciorinerebbe­ ro, lardellate di parole difficili, di quelle che a me fanno l'effetto delle bestemmie con le quali i contadini delle miei parti credono di dar forza al discorso. Una cosa ce l 'ho trovata anch'io, figu­ riamoci : gli scrittori che vi sono nomi­ nati, con la sola eccezione del Monti, tutti quanti appartennero (caso davvero curio­ so) a famiglie nobili : il Boiardo e l'Ario­ sto, il Machiavelli e il Guicciardini, il Rucellai e l'Alamanni , il Segni, il Galilei, il Leopardi , tra i primissimi eletti ; e per­ fino quelli che di tale privilegio godettero un poco più tardi : il Tasso, l'Alfieri, il Manzoni, il Capponi. Nè con questo vo1 81

glio portare acqua al mulino di quella tale osservazioncella dello Zi baldone che ho postillata qui d i e tro. Ma cc hè , voglio soltanto divertirmi ancora alle mie spalle, tirarmi addosso altri vituperi e sberleffi per questa condizione stranamente co­ mune a tutti gli scrittori da me prediletti negl i anni più giova ni : indizio d i chi sa quali altre interne magagne . A mia di­ scolpa posso dire soltanto di non averci mai fatto caso, anzi di essermene accorto troppo tard i , addiri ttura q uando rileggevo questo ghiri b i zzo sulle bozze di stampa ; così ho dovuto appiccarvi all ' ultimo mo­ mento q uesto poco di coda. Pazienza,

ora,

se q ualcuno si m e tterà a strillare come compar P i e tro, nella boccaccesca novella di donno Gianni , che la coda voleva .

1 82

non

la

oPo la neve dei D st'acqua eterna,

gwm1 passati, quemaledetta, implaca­ bile, queste mattinate buie come crepu­ scoli . Attraverso i vetri appannati, spruz­ zati, rigati di pioggia, la campagna appare come un paesaggio del terzo cerchio dan­ tesco : ora un vapore livido, lurido, sem­ bra salire dalla terra acquitrinosa, ora scendere dal cielo basso e cupo. Fra la caligine, gli allori bruciacchiati dal gelo a tutt'altro somigliano che all'arbor vit­ toriosa e trionfale di petrarchesca memo­ ria ; le chiome degli ulivi, intristite e spaurite, piangono : beate loro. Gli occhi si rifugiano allora dentro la stanza, corrono lungo gli scaffali, pal­ chetto per palchetto, volume per volume : s'indugiano a cercare un libro, di quelli che soltanto a guardarli, così da lontano, mi danno di soli to qualche conforto. Ma stamani non riesco a trovarne uno che abbia una parola da dirm i . Dopo aver 1 83

torto lo sguardo dalla desolazione della campagna, poi anche da questa stanza del mio lavoro e del mio riposo, figuriamoci se mi conviene guardare ancora più den­ tro, nell'uggia e nella tristezza che mi riempiono. Non mi resta, dunque, che darmi per vinto, !asciarmi andare, affogare nella tetraggine. Eppure da tanto tempo mi sono addottorato nella scienza d'ingan­ nare me stesso, o chiamiamola almeno una tecnica macchinosa. Posso stare final­ mente nelle contrarietà fino al collo, nei dispiaceri, nei guai, senza curarmene o addirittura senza avvedermene ; solo che abbia qualcosa da baloccarmi, un cantuc­ CIO dove voltare il viso " Siano le tribo­ lazioni grandi quanto si vogliano, tormen­ tose, importune ; sia pure angusto e misere­ vale quel rifugio, a forza di volontà, di sug­ gestioni arti ficiose, d'ingegnosi inganni , saprò sempre trasformarlo o almeno tra1 84

sfigurarlo in una plaga sconfinata e felice. Ecco : un altro giorno, qualunque al­ tro giorno, mi sarebbe bastato sfogliare questa fi ammante edizione del mio Ma­ chiavelli che un editore londinese m'ha appena mandata. Ho detto fiammante e potrei dir fiammeggiante : lo spaccio dei libri vuoi essere aiutato oggigiorno, a quel che ne pare, anche da certe violenze cro­ matiche. Fra tutta la mia figliolanza car­ tacea, questa biografia è davvero il mio cucco, e ogni volta che n 'esce una tradu­ zione nuova ho da festeggiarla e da va­ gheggiarla, da rigirarmela tra le mani, an­ dando alla cerca dei passi prediletti per vedere che figura facciano in quei panni forestieri . Oggi poi a stuzzicarmi di più ci sarebbero il gran nome del tradutto­ re, la nobiltà dell'edizione, le aggiunte e i ritocchi che per la prima volta vi ho fatti : ne avanzerebbe per fare di una mattinata lugubre, una mattinata festosa. 1 85

E invece proprio questo fiammeg­ giante volume mi affosca ancora di più coi ricordi che sciamano dalle sue pa­ gine chiuse. Sono passati pochi anni da quando io le scrivevo. pochissimi ; ep­ pure allora ero giovane, o mi pareva di esserlo, che era quasi la stessa cosa ; oggi sono, o mi sento, già vecchio. Lo co­ minciai che era di primavera ; poi ven­ nero un'estate gagliarda e un autunno incantevole : tre stagioni beate. Scrivevo la maggior parte del tempo su questa poltrona; scalpellavo con una specie di allegro furore la materia che m'ero preparata nelle ore notturne e poi avevo ripensata inconsciamente nel sonno. Par farne mcire il capitolo che stava lì dentro e che già vedevo tu tto intiero, ri­ finito in ogni sua parte, c'era soltanto da levarne il troppo, come da un masso in­ forme, e io l'assalivo con quella gaia im­ pazienza. 1 86

Lavoravo per ore e ore, e non avevo altra compagnia che quella della mia gat­ tina siamese, appollaiata fedelmente sopra una spalla. A una cert'ora, con un piccolo balzo, andava a sgranchirsi le gambe sul davanzale della finestra ; poi, dopo essersi lisciata e fatta bella, scendeva in giardino per la sua soli ta passeggiata, cercava qual­ che svago per sè e qualche regaluccio per me. Tornava con un topo o con un uccel­ lino, che mi posava graziosamente, intatti e lindi, sulle ginocchia ingombre di carte. A mangiarli, o a farne strazio secondo l' uso gattesco, non ci pensava neppure. Una mattina saltò sul davanzale e aveva in bocca un piccione più grosso di lei . Allora mi parve necessario adirarmi : provai a sgridarla, a far la faccia feroce, ma non dovetti apparirle troppo terri­ bile, perchè continu ava a guardarmi con certi occhi di falsa innocenza, di furba e divertita malizia : una guardatura che ho 1 87

nv1sta poi, tale e quale. negli occhi del­ l'onorevole Fanfani ; ma devo dire che in quelli della gattina mi piaceva molto di più. La mattina dopo tornò dal giardino avendo in bocca soltanto una margherita e due fili d'erba. Fatta la sua scorribanda , quasi mai si muoveva. Sonnecchiava qualche volta, raramente dormiva : seguiva per lo più con molta attenzione i movimenti dei fo­ glietti bianchi e dei foglietti scritti, ac­ compagnandoli col muovere del musino. Se si divertisse non so; certamente si di­ vertiva un mondo quando andavo a cer­ care qualche libro negli scaffali . Anche allora accompagnava col muso e talvolta con una zampina le mie dita che scor­ revano sulle costole dei volumi ; trovato che avevo e tirato fuori il libro, se era di dimensioni confacenti alle sue, s'infi­ lava prestamente nel posto rimasto vuoto; poi se ne stava a guardarmi, affacciata a 1 88

quel fi nestrino, col suo musetto bianco e la sua mascherina nera. Non c'era gioco che le piacesse quan­ to questo degli scaffali, non c'era cosa che l'affascinasse più dei libri : bisognava ve­ dere con quanta serietà li considerasse e li annusasse in ogni loro parte. Una gatta letterata, certamente una � tta bibliofila ; e quanti grandi bibliofili ho conosciuti, che trattavano e praticavano i libri allo stesso modo di lei. Quando avevo finito di sbozzare il mio capitolo, prendevo il fascio dei fo­ glietti lavorati per andare a rilavorarli e a ripulirli sopra un gran tavolo da re­ fettorio, in un'altra stanza della libreria. Subito, ecco lì la gattina, stesa quanto era lunga sul tavolo coperto di carte, e il suo musetto attentissimo rifaceva i mo­ vimenti della penna che correva sul fo­ glio. Ogni tanto allungava uno zampmo 1 89

per acchiapparla, facendomi fare ora un fregaccio, ora uno scarabocchio. Quei suoi interventi erano quasi sem­ pre provvidenziali : dal manzoniano scar­ tafaccio in poi, sarebbe interessante ri­ cercare la benefica influenza che gli scara­ bocchi hanno avuto in letteratura. Una volta, interrotto così , potei accorgermi che stavo scrivendo una grandissima corbel­ leria ; altre volte le interruzioni mi sugge­ rivano parole più efficaci e più proprie, che ora vorrei ritrovare ad una ad una e segnare con l' unghia. Insomma, se quella collaborazione fosse stata più assidua, io credo che il libro ci avrebbe guadagnato di molto. Così scrissi in pochi mesi la biografia che si pavoneggia lì sul tavolo in quella veste forestiera e nuovissima. Oggi , ahimè, non ho per le mani che una manatella grama di bozze e (guarda il caso) c'è an­ cora di mezzo il Machiavelli : però q uan190

tum mutatus ab illo. Un saggettino ma­ gro, per illustrare certe altre cose nuove che ho trovate a questi giorni nella Man­ dragola, delle quali, dopo tanti secoli e dopo tanto studio, non s'era accorto pro­ prio nessuno. Nè mi aspetto che qualcuno se ne compiaccia ; potessi almeno comp1acermene 10. Rileggo le poche paginette del sag­ gio, provo a boriarmene un poco, pieto­ samente. Penso e poi lo ripeto anche a mezza voce, come per persuadermene me­ glio : " l'unghia del vecchio leone " Ma non attacca : stamani non me ne va bene una. Raspo un altro poco su queste bozze grame, guardo daccapo quell 'implacabile cielo, le gronde degli ulivi che piangono, beate loro ; guardo ancora lungo gli scaf­ fali, palchetto per palchetto, volume per volume. Ora non è un libro che cerco : cerco la mia gattina morta. .

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191

GRO il risveglio nel gran letto antico: Pper le imposte dischiuse entra la luce del mattino invernale, ancor velata dalla nebbia del sonno e dalla brina che appanna i vetri. Quando il sole alfine l'una e l'altra discioglie, la campagna velata anch'essa da una lieve lieve nebbia m'appare. I suoi ricami d'oro il sole ghirigora sui cipressi, sui lecci cupi, sulle notomie membrute e attorte della quercia ignuda. Quei ricami imparai punto per punto sin da fanciullo, mentre fra le coltri tepide beatamente m'indugiavo, mille sogni a mia volta ricamando. Ma stamani una patina addolcisce i biondi girigogoli del sole e li assomiglia al vecchio oro che luce negli intagli del letto e degli arredi. Anche il garrir dei passeri è più fioco e più scarso di allor, quando pareva petulante inci tarmi ed annunziare 192

l'imminente garrir , più assai più assai importuno, del precettore irsuto. Allora mi aspettavano da basso i quaderni di scuola, entrovi ascosi i miei gracili versi di fanciullo trasognato ed i miei sogni di gloria ; or altre carte, che s i dicon dotte, m'aspettan giù nella stanza di allora, piena di libri, e ancora in mezzo ad esse qualche verso furtivo si nasconde. Ma una nebbia leggera e dolce, come quella che appanna il sol, vela stamani anche i sogni del vecchio sognatore. N è m'arridono ormai che questi campi soffusi dei vapori mattutini e questo colle agevole. Ove sono, dunque, gli erti sentieri inerpicati verso i sublimi culmini ? Ove sono gli impossibili amori che sognai inseguendo le rime e le farfalle ? Tal questo mio risveglio : più la bruma invernale e la patina del tempo 1 93

ed un trapunta di malinconia tutto velan, per uno arcano incanto, più la giovane età fuor ne traspare.

S

TAMANI camminavo di buon'ora per le

stradicciole che rampicano su questi poggi, e scendono e salgono. N ella fredda aria marzolina c'era l'annunzio della pri­ mavera ; c'era, o così mi pareva, qualche cosa di nuovo nella luce, nei colori dei campi . negli odori della terra . Sulle prode i primi anemoni rossi e violacei ravvi­ vavano sparsamente il verde dell'erba, il bianco e l'oro delle solite margheritine. E sull'erba, sui fiori, sul biondo della pie­ tra forte, il sole distendeva la sua splen­ dente vernice. C'era davvero q ualcosa di nuovo nel­ l 'aria. A un tratto, da un casolare lontano, è venu to il festoso saluto di una gallina 1 94

all'uovo mattutino. E, come per opera di magìa, la patina che appannava i miei sensi invecch iati e offuscati s'è sciolta. Ecco, i colori dei campi, delle erbe, dei fiori, i canti degli uccelli, le voci dei contadini, i muggiti dei bovi, io non li vedevo e non li udivo più come li vedo e li odo ogni giorno, ma come quando ero fanciullo, e andavo per queste medesime stradicciole, coi miei vergini sensi. Con la stessa felice curiosi tà di allora, ho cercato e guardato a lungo gli insettucci che venivo scoprendo tra le siepi irte e scheletrite o sui muri muscosi ; il magro ruscello, che consola col suo liquido incanto le piagge petrose, è tornato a consolare. come allora, il mio petroso destino. Poi l'incanto si è rotto : è bastato il saluto di un contadino incontrato per via. Nè, per quanto io abbia tentato poi anche con pensieri e con ricordi suscitati artifi­ ciosamente, m'è riuscito di rialzare il ve195

lario, caduto forse per sempre sul cuore della mia fanciullezza.

siano state e siano ancora per me queste care viuzze, chiuse fra due muri o due siepi, ho già cercato di dirlo nella Vita di Giovanni Papini, che a sua volta ne scrisse e ne riscrisse nei suoi li­ bri, fino a quelle ultime Schegge della " felice agonia Per lui erano la libera­ zione dalle mura cittadine ; per me, la con­ tinuazione delle mura che chiudevano il mio giardino. E dietro ad ognuno di quei muri, ad ognuna di quelle siepi, c'era per me l'Infinito; che ogni spiraglio, ogni varco riducevano inesorabilmente a mi­ sura : una misura angusta e adorabile. Questa, che è chiamata con bel nome latino via delle Campora ed è la più mia perchè c'è la mia casa, corre per buona parte sulla cresta di certe cave di pietra ;

C

osA

196

per me è sempre stata di fatto una cava di sogni. Me ne faccio un buon tratto quasi ogni giorno, andando in cerca di certe mie fantasie che l'età suol velare, anche se l'ora è mattutina, d'ombre crepu­ scolari. Ciò che vado cercando più spesso sono i pensieri e i sentimenti della mia fanciullezza e qualche volta mi capita di ritrovarne uno proprio là dove lo avevo lasciato mezzo secolo prima, ora dietro a una svolta, ora davanti a un cancello. Poi, il passato mi riconduce invariabil­ mente al presente ; l'alterno salire e scen­ dere della strada accompagna molto bene l'andare del mio pensiero, tra quelle bal­ danze dell'alba e queste declinanti malin­ conie del tramonto. Di che specie fossero i miei sogni in­ fantili è meglio non dire : tanto più che non ci tengo punto a dar materia ai cu­ riosi della psicanalisi, croce e delizia del nostro tempo, almeno quanto lo era una 197

volta l 'astrologia. Basti dire che uno dei più insistenti, e più strambi, era quello di avere un giorno al mio beneplaci to quante donne belle o piacevoli fossero, di­ ciamo, i n Firenze (ma su questa limi ta­ zione territoriale non mi sentirei di giu­ rare),

e

d i godermele tutte, governandole

in modo che tra loro si sopportassero o addiri ttura si amassero per amor mio.

Po­

vero me, che per tutta la vita, con le fa­ tiche che ci ho durate, non m ' è riusci to di farne andare d 'accordo due sole . Quanto ai " sogni di gloria ", più con­ facenti e condecenti all'età, anzi comuni ad ogni uomo, in ispecie ad ogni letterato in erba, prima che quell 'erba spighisca in un professorello, in uno scribacchino o appena in uno scrivano, sembra che avessi maggior discrezione : che io mi ricordi, non ho mai sognato di essere un palmo più su che oggi non sia, nè desiderato onori che poi non abbia avu ti di fatto ; semmai

198

(lo ripeto) posso averci trovato dentro un gusto molto minore che allora non avessi immaginato. Da ciò mi pare che si possa trarre una morale piu ttosto malinconica, eppure consolatrice : se questo m'è occorso per i desideri più moderati, c'è da pen­ sare che anche per quelli smoderatissimi e sconvenientissimi mi sarebbe accaduto, nè più nè meno, altrettanto.

S

dice comunemente che nella vita di ogni uomo i più grandi amori siano il primo e l'ultimo : ebbene, questi poggi sono il mio primo ed il mio ultimo amo­ re. Per non discostarmi troppo dalla im­ magine che ho scelta, l'uomo quasi non si avvede del continuo sfiorire della bellezza nella persona amata ; nè di solito i miei occhi vedono, velati dall'affetto e dall'abi­ tudine, quanto m'abbiano sciupato que­ ste campagne. 1

1 99

C'era una volta una collaborazione operosa degli uomini con la natura. E ba­ date che non è mica una fiaba: questi din­ torni fiorentini ingentiliti da una secolare fatica, con le loro convalli " popolate di case e di oliveti ", prima che si popolas­ sero anche troppo nel modo che sappiamo, erano appunto un capolavoro di quei tempi. Allora si guardava più al decoro che all'utile e perfino la tanto proverbiata parsimonia toscana era capace di chiudere un occhio. Giusto un secolo fa, su questo pog­ gio della Baronta fu sperperato un te­ soro, qualcosa forse come duecento milioni delle odierne lirette, per ridurre a ter­ razze olivate poche spanne di roccia. Dove prima non erano che desolate cave di pie­ tra, si costruirono muraglioni, muri, mu­ retti: poi i vuoti furono riempiti con car­ rate di terra a migliaia, tirate a forza di bovi su dalla Greve. Autore di questa po· 200

po' d'impresa, che verrebbe fatto di attri­ buire a un poeta in vena di magnificenze spenderecce, fu un parsimonioso economi­ sta, apparentemente arido e freddo come le sue formule, come le cifre che amava: mio nonno Luigi. Oggi guardo quelle belle terrazze e mi tocca a chiudere gli occhi per rivederle come io le vedevo ai miei verdi anni, quando, dinanzi ad esse, il colle della Certosa, chiuso tra l'acque della Greve e dell'Ema, sorgeva ancor so­ litario dalla campagna non violata.

ELLA biblioteca vecchia di casa ho sco­

N vato la dottissima memoria di un paleontologo, scritta appunto un secolo fa, per illustrare l'illustrissima zanna di un Elephas primigenius} trovata nello scavare una cisterna proprio qui sotto, ai piedi del poggio. Sono certo che quel mio nonno Luigi doveva guardare con compiacenza 201

le sue care terrazze, tirate su con spesa infinita e con infinita disperazione degli eredi, mentre pensava a quel fossile e agli elefanti che pascolavano dove ora, in bel­ l'ordine e ben pettinati, crescon gli ulivi. Senza avere la scienza di quel paleon­ tologo, tutti sappiamo all'incirca (di pre­ ciso neppur lui lo sapeva) quante volte la Terra abbia mutato faccia. Le piante che la coprivano, le fiere che l'abitavano, sono tutte insieme più volte scomparse ed al­ tre sono apparse in loro vece, anche af­ fatto diverse da quelle di prima; colline e montagne sono spuntate come funghi dove prima era il mare; il mare ha ingoiato colline e montagne; vigne e oliveti affon­ dano le radici tra ossi di pesci e gusci di ostriche; grappoli viventi di ostriche si ab­ barbicano sui ruderi di civiltà sommerse; perenni ghiacci si stendevano dove oggi crescono piante dei tropici; fiere e piante tropicali vivevano in piaghe oggi coperte 202

dai ghiacci per qualche parte dell'anno. La superficie del nostro pianeta mi fa l'effetto di una lavagna, dove un colpo di cimosa scancella ogni tanto ciò che il maestro e gli scolari vi hanno tracciato. In questi tempi, noi scolaretti l'abbiamo in­ sudiciata talmente che se tra poco un al­ tro colpo di cimosa facesse pulito, ci sa­ rebbe da dispiacersene meno; e, a dire il vero, c'è da pensare che qualche volta al Maestro gliene dovrebbe venire la voglia. A me ne rincrescerebbe soltanto per tutto ciò che era stato fatto sulla lavagna prima di questi ultimi nostri fregacci. Ma, almeno in un libro di sogni, mi si lasci sognare che, anche quando di questa an­ tica civiltà non sopravviva sul nostro pia­ neta più di quanto oggi vi resti dell'era paleozoica, i versi di Omero, di Dante, di Shakespeare, si accompagneranno, fra cielo e terra, alla divina armonia del creato. Oggi come oggi, sappiamo che tanta bel203

lezza non potrà morire

finchè tra i lauri

non sap­ piamo che ne sarà dopo, quando non ci saranno più lauri, ma forse felci arboree, daccapo, o mostruosi cactus. Chi sa? Forse, se la grande ghiaccia del Quatemario si stenderà ancora sulla Terra, tra le betulle nane e i salici polari, sulla tundra gelata, ululeranno i versi di Salvatore Quasimodo. j la canzon del Petrarca sospiri:

IACCHÈ ho ricordato quel mio nonno G Luigi, voglio finalmente mettere in pace la coscienza. Sarà stato a causa di tutti i denari sperperati per bonificare e ingentilire quelle poche spanne di terra, che non valgono oggi la decima parte di quanto vi spese, sarà stato per avere in­ grandito e imbruttito, secondo il gusto del tempo, questa soprastante villa della Baronta, o sarà stato piuttosto per vendi­ carsi dei suoi modi burberi e dei ciocco204

latini stantii: sta di fatto che noi nipoti gli s'era affibbiato di nascosto un nomi­ gnolo tutt'altro che rispettoso. Eppure rispetto ne meritava, e anche qualcosa di più. Fu, ai suoi tempi, una persona importante; ad essere un gran per­ sonaggio gli mancò, oltre alla voglia di es­ serlo, soltanto un po' di vernice. Matema­ tico, agronomo, economista di vaglia, con le sue due lauree (mica scroccate honoris causa come le mie, ma sudate sui banchi di scuola), fra tante altre cariche accade­ miche e pubbliche, fu direttore generale di un istituto bancario di emissione e pre­ sidente dei Georgofili. Da quella gloriosa accademia, che era stata detta il parla­ mento della Toscana, avendo rifiutato la deputazione al Parlamento italiano, passò naturalmente al Senato. In casa il laticla­ vio era come ereditario: le quattro gene­ razioni succedutesi dopo l'Unità lo hanno avuto tutte, eccettuata la mia; nè saprei 205

dire se fu per nostro demerito o per me­ rito della nuova costituzione. Le sue opere d'inchiostro furono un classico trattato sulle colmate di poggio e un centinaio di altre pubblicazioni di ma­ tematica, agraria, economia eccetera. Scon­ finò anche nella biografia con un ponde­ roso volume su Cosimo Ridolfi e gli isti­ tuti del suo tempo. Il libro fu general­ mente lodato, e certo lo meritava per la sua nobiltà. A me sembra un poco impac­ ciato tra l'amore filiale e la preoccupazione di non !asciarsene prendere la mano, ma­ gari a scapito d'altri: una preoccupazione così scrupolosa, che l'autore finisce troppo spesso per mettere in ombra l'opera di chi voleva mettere in luce. Scritto in uno stile grave e forse un po' greve, sostenuto ma scolorito, gli mancano l'effìcacia e la gen­ tilezza dell'arte: è una costruzione dove si vede la mano di un ingegnere, non quella di un architetto. Insomma questa biogra206

fìa è somigliantissima a chi la scrisse; il nipote biografo ce lo rivede in ogni pa­ gina, tale e quale lo vide nella sua fan­ ciullezza. Alto, sottile, diritto, con tutti i suoi ottantacinque anni sonati ; il volto ossuto, austero, senza sorriso; la barba corta e rada, bianchissima come i radi capelli; tutto vestito di nero, con una mantellina corta che gli arrivava a mezza vita; il col­ letto alto, duro, senza risvolti come quello dei preti; parlava parcamente, con voce pacata, senza gestire, senza alzare la voce: quando doveva mettere a posto un arro­ gante o qualcuno che aveva sgarrato, non si scaldava, non usava parole roventi: lo diacciava con la freddezza. Se non pro­ prio paura, tutti ne avevano una gran soggezione e perfino sua moglie, per essere ammessa nelle sue stanze, si faceva annun­ ziare; nè egli, del resto, si regolava altri­ menti con lei: non so già se in altri tempi 207

e in altre circostanze facessero lo stesso, ma non me ne maraviglierei certamente. Negli ultimi anni s'era ritirato nella sua bella villa di Marignolle, architettata dal Buontalenti, dove aveva sistemato a studio e a biblioteca la galleria del primo piano. Là mio padre mi conduceva qual­ che domenica, stando tutto il tempo sulle spine, tra la soggezione che il gran vecchio incuteva anche a lui e la paura che io fa­ cessi qualche cosa di sconveniente, come frugare nei cestini delle cartacce in cerca delle bozze di stampa, che fino da allora mi affascinavano con le loro correzioni e i loro segni bizzarri. C'era tanto freddo in quella immensa stanza, lunga una trentina di metri: io mi ci sentivo gelare, e non soltanto d'inverno, col calorifero che sof­ fiava aria infocata dalle sue bocche di ot­ tone, ma anche d'estate, quando il sole arroventava i vetri delle cinque enormi finestre. Ed è là che ancora lo vedo, come 208

fosse ieri, severo, diritto, tutto bianco e nero, con la sua mezza mantella e i suoi mezzi guanti di lana. Lo rivedo anche, in un pomeriggio estivo rimasto memorabile tra gli altri miei ricordi infantili, presso la grande va­ sca di Marignolle, nobilitata e immalin­ conita da qualche resto delle statue che l'ornarono quando doveva essere unita alla villa da un giardino grandissimo; e n'è ora divisa dalle vigne e dagli oliveti che hanno soppiantato i lecci, i lauri, i nobili bossi di un tempo. Un inventar pazzericcio, che si vantava capace di ritirare a galla le navi affondate, aveva chiesto e ottenuto di presentare la sua scoperta a tanto lu­ minare di scienza. Nonno Luigi era lì e, dopo aver visto affondare nella profondi­ tà del vascone un grosso barile zavorrato a dovere, ascoltava, con palese disappro­ vazione ma senza impazienza e senza sog­ ghigni, le astruse spiegazioni dell'inven209

tore; mentre quello parlava, parlava, e sal­ tellava e smanettava scotendosi tutto come se avesse il parletico, si contentava di ri­ petere freddamente: "Non vedo, non vedo... Infatti non vide più neppure il barile che potè essere rimesso a galla sol­ tanto parecchi giorni dopo, e non con la nuova invenzione, ma in modo più pra­ tico e più consueto, con le funi e coi raffi Non vorrei che questo mio dire sva­ gato e leggero ingannasse qualcuno, come la burbera sostenutezza del vecchio scien­ ziato ingannò me ed altri. Ogni uomo ha una sua maschera: lui aveva quella, io ho questa. Ma egli chiudeva in sè tesori di bontà sconosciuta e perfino di tene­ rezza: stavano dentro a quella corteccia scabra, proprio allo stesso modo che den­ tro all'occhiuto economista stava il poeta capace di spendere un tesoro per ingen­ tilire que1le poche spanne di roccia. An210

che questo l'ho capito troppo tardi, come tante altre cose. Aveva soprattutto uno spirito reli­ gioso. Religione e Patria, scrisse a modo di epigrafe sull'opera che ho ricordata. Quelle due parole, messe lì, oggi sem­ breranno forse rettoriche; non lo erano per quell'uomo senza rettorica. Le scri­ veva con la maiuscola, ma era una maiu­ scola che aveva poco da fare con la gram­ matica: era una maiuscola spirituale. Re­ ligione di Dio, della Patria, della Fami­ glia, dell'Onore, del Dovere: pur graduan­ done i culti secondo una rigida gerarchia, in questo, lui così rigorosamente cattoli­ co, era politeista. Scrisse anche: " Iddio amato sopra ogni cosa ; la Patria amata più di noi stessi ; la Libertà, soprattutto negli altri Quelle erano le sue bandie­ re : senza aver mai vestito uniforme, le servì come un vecchio soldato. Il suo scru­ polo dell'onestà si manifestava di conti211

nuo anche nelle infime cose; quando an­ dava nella sua famosa fattoria di Meleto, gloria toscana e italiana, si pagava il bi­ glietto ferroviar�o. rinunziando ai pri­ vilegi parlamentari. Per l'unità d'Italia l'età ancor giova­ nile non gli concesse di operare, se non all'ombra degli incarichi diplomatici e dei ministeri patemi. Poi, dopo il rifiuto del mandato parlamentare, non fu nep­ pure assiduo ai lavori del Senato e sempre poco partecipò alla -vita politica. Gliene fece rimprovero un illustre francese, Jules Simon, ma egli rispose che in Italia la vita pubblica richiedeva una duttilità di carat­ tere di cui egli si sentiva sprovvisto. Era un uomo giusto, nel significato biblico della parola. Amministrò il pub­ blico denaro con quel suo scrupolo fana­ tico, e il proprio tempo in modo esem­ plare perfino sul letto di morte. Quando gli restarono poche ore soltanto, le distri212

buì rigorosamente fra le ultime raccoman­ dazioni e le ultime dipartenze da ciascuno dei suoi; finchè, sentendo imminente la fine, disse: " Lasciate che io passi questi ultimi momenti con Dio" Caro nonno Luigi l Chi allora ti chia­ mava con quel poco riguardoso nomi­ gnolo, ti chiama ora così: come forse mai ti sentisti chiamare e come forse a nes­ suno avresti permesso di chiamarti, pur desiderandolo disperatamente in fondo al tuo cuore. Questo oggi io lo so: ma per saperlo bisognava prima essere malato de1lo stesso tuo male, e soffrirne. Ed è per averne sofferto che l'ultimo dei tuoi ni­ poti, quello che cercava le bozze di stampa nel cestino dei fogliacei, divenuto bio­ grafo, ti ha dedicato questo ritrattino espiatorio.

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UI, accanto al

itrattino del nonno, potrei attaccarne uno del bisnonno, voglio dire di Cosimo; ma mi basta di aver pubblicato quel dittico Montanelli e Ridolfi, dove, disotto a un malizioso pa­ rallelo fra il mio bisavolo e il Montanelli vecchio, ne traspariva uno tra il Monta­ nelli vecchio ed il giovane, il nostro In­ dro " nazionale ": se poi si può chiamare parallelo mettere una goccia d'acqua ac­ canto ad un'altra per far vedere che si somigliano. Nonno e bisnonno, poi, chiamereb­ bero un trisnonno, che sarebbe Gino Cap­ poni; e subito la materia mi si comince­ rebbe ad animar tra le mani. Qualcuno ha scritto che io sono un " biografo di per­ sonaggi variamente enigmatici". Se sia vero non so: so che ogni anima umana ha i suoi sentieri torti e intricati; e più intri­ cati sono, più mi ci piaccio Tra le altre, quella del " candido Gino " m'è sembrata

Q

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sempre un bel labirinto, nè ·può dunque far maraviglia che il pensiero di una sua biografia m'abbia più volte tentato; anzi l'avrei bella e scritta, se non mi fossi tro­ vato prima a far la parte di Arianna in troppe altre pagine, poi col filo spezzato e con nessuna voglia di riannodarlo. Dei biografi che mi avevano prece­ duto mi davo poco pensiero: al contrario, i due volumi del Reumont, tedescamente corpulenti e adiposi, mi avrebbero piut­ tosto incoraggiato che scoraggiato. L'ope­ ra del Tabarrini, buono storico e buono scrittore, è tutt'altra cosa: bene informata, ben pensata, bene scritta ; ma l'uomo vivo non c'è: è una bella maschera mortuaria. Questa, che ogni biografia dovrebbe essere un ritratto, un ritratto parlante, è sempre stata una mia fissazione. Quando scrivevo il Machiavelli, venendomi alla mente Do­ natello col suo Zuccone, mi accadeva di battere la mano sul mucchio dei fogli e 215

di dire anch'io, motteggiando: " Parla, che ti venga la malora". Avrei ritratto Gino nel suo palazzone di via San Sebastiano e davanti al gran ca­ mino di Varramista o a giro per le capitali di Europa col suo fido Tonino, che volle onorato in morte da un'epigrafe del Gior­ dani. Lo vedevo e l'udivo proprio come se lo avessi davanti, ne intendevo le gran­ dezze, le sue miserie erano le mie: ebbene, mi sarebbe bastato l'animo di trasferire nelle mie pagine quella immagine vivente che ne avevo in me, di rappresentare il dramma da lui vissuto e sofferto. La pa­ rola non parrà troppo grossa se si pensi che egli, con una mente come la sua, ca­ pace di grandi pensieri, di rischiaranti ba­ leni, di giudizi acutissimi, con una me­ moria spettacolosa ed un proporzionato corredo di conoscenze, con tali qualità di scrittore da mandare in visibilio un Car216

ducci, non riuscì a compicciare e a met­ tere in carta che poco. Di quel poco, poi, pubblicò in vita soltanto una parte; eppure, viventi un Fo­ scolo, un Leopardi, un Manzoni, fu sti­ mato più che altro ingegno italiano, al punto che il Thiers lo diceva " le plus grand homme que vous avez en Italie " e soggiungeva, a chi gli ricordava appunto il Manzoni, che " le talent de M. Cap­ poni " aveva, secondo lui, " une plus gran­ de portée " Ma quel talento, noi posteri, dobbiamo misurarlo col metro di tali te­ stimonianze, avendone egli disperso tanta parte nella conversazione, come il buon seme della parabola caduto lungo la via : et venerunt volucres et comederunt illud; ossia lo beccarono tutto gli ascoltatori. Quanto a questo, egli fu il Socrate del se­ colo decimonono nelle vesti di un mar­ chese fiorentino. Altro ne sparse nell'epistolario, e 217

quello almeno possiamo becchicchiarlo anche noi. I carteggi campeggiano più o meno, in ogni biografia ; ma quando pen­ savo alla biografia del Capponi avevo in mente un certo nuovo modo per farvi cam­ peggiare, appunto, anche la conversazione. Quei lunghi ragionamenti, avendo avuto tanta parte nella vita dell'uomo, dovevano averne altrettanta nel libro: quelli dei bei tempi londinesi col Foscolo e quelli col Leopardi, dove gli interlocutori stavano un po' sulle sue, mal potendo intendersi " per la contradizion che noi consente ", specie quando uscivano dalle rotaie della lingua o della letteratura, sì che alla fine doveva venirne fuori l'amara Palinodia; quelli geniali e congeniali, anche se pas­ sionati, col Tommaseo; quelli col Thiers, col Giordani , col Reumont, col Niccolini, col Lamartine, col Colletta, con tutto il fior fiore degli ingegni d'Italia e di Eu­ ropa. Nella conversaziOne egli dominava 218

con la potenza dell'ingegno e della memo­ ria, allo stesso modo che vi dominava con la voce, burlevolmente chiamata " il cam­ panone di Palazzo Vecchio"; pronta a in­ terloquire, grave o faceta, mentre il vane­ sio Rosini, cattedratico di chiara fama e mediocrissimo ingegno (due cose anche allora tutt'altro che difficili a vedersi ac­ coppiate in una sola persona) esponeva serio serio le sue emendazioni al Cinque Maggio: Oh quante volte al tacito morir di un giorno imbelle, chinati i rai fulminei, le man sotto le ascelle... ;

o mentre il Giusti recitava i suoi versi appena sfornati, ed era Gino a emendarli col suo vocione, come quel giorno che ve­ nuto a un punto che diceva è settentrional spada di ladri

fusa in corona,

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tuonò : " Noe, noe l N ori fusa, Beppe, torta in corona E il poeta, battendosi una mano sulla fronte accettò di buon grado la correzione. Ma poi le conversazioni geniali e i geniali carteggi lasciavano al Capponi la bocca amara quando restava solo, in quel suo perpetuo buio, con la sua solita " ug­ gia " e con quella ingiusta idea, che vo­ leva scolpita sulla sua tomba, di essere " vissuto inutilmente infelice A un tanto e tale ingegno non poteva bastare la parte di spiritus regens della cultura toscana, nè potevano appagarlo i rari scritti che ve­ niva pubblicando. come le bellissime Let­ tere sulla dominazione dei Longobardi in Italia, che, a considerarle bene, sono però lettere veramente e quindi anch'esse con­ versazione: sicchè la finzione letteraria del titolo riesce in fondo una verità. A toglierlo da quel supplizio, a coraz­ zare ]a sua coscienza contro le amorevoli ".

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punzecchiature del Tommaseo, venne in ultimo la faticata della Sto1·ia; sebbene neppur quella intrapresa con una delibe­ razione risoluta, ma come per caso, finchè. senza volerlo e quasi senza accorgersene, si trovò in alto mare (come egli stesso rac­ contava) e finalmente in porto " fuori di ogni sua speranza Quest'opera gli fu per molti anni un rifugio e poi una grande soddisfazione, forse la maggiore della sua vita, quando, ancora una volta quasi con­ tro la sua volontà e a dispetto delle sue incertezze, se la trovò bella e stampata. Ad altri sarebbe stata gloria bastante, ma era ancor poco per lui. Poichè perse la vista a cinquant'anni, non fu quella, come molti credono, la causa della sua sterilità; anzi, in certo modo, è vero quello che gli scappò detto una volta: la cecità gli fu piuttosto uno scampo, uno schermo alla scontentezza e ai rimorsi. Per lui, che fino a quell'età 221

aveva scritto così poco, fu certo un impe­ dimento di più, e grande; ma non gli im­ pedì di scrivere, proprio da cieco, la sue opere maggiori: gli impedimenti primi, e i più veri, furono la mancanza di una volontà risoluta, le indecisioni che lo tor­ mentavano ogni volta che bisognava de­ cidersi ; e il candido Gino si perdeva in una perpetua incertezza fra l'essere e il non essere, il far questo o quello, il fare e il non fare; anche se egli soleva dire fa­ cetamente di aver trovato il modo di scio­ gliere l'antico dubbio scolastico in tra due cibi} distanti e moventi j d'un modo} mangiandoli entrambi. Magari lo avesse fatto davvero: appetito e complessione non gli facevano certamente difetto l Invece, il più delle volte, rimaneva a digiuno. E, quasi questi impedimenti fossero poco, il suo pensiero, naturalmente porta­ to alle più alte speculazioni, era di conti­ nuo tirato in basso e impacciato dagli affet222

ti troppo sensibili, dalle pene e dalle cure familiari, tra esse mettendo pur quelle di un gran patrimonio, alle quali attendeva non certo per avarizia, ma ancora per quel suo religioso amore della famiglia, intesa anche in un senso che potrei dire dina­ stico. Lo immeschiniva la meschinità di certe persone che gli stavano intorno, fos­ sero marchesi, o clienti, o fattori; lo rim­ piccioliva l'angustia della sua stessa città, beatamente chiusa nelle mediocri felicità leopoldine. Di questo dramma critici e storici ci hanno messo sotto gli occhi appena l'argo­ mento: si trattava di farne rivivere il per­ sonaggio, ed io, nel mio piccolo, per aver sofferto qualcosa di simile, mi sarei sen­ tito d'impersonarlo. Mi avrebbero aiutato certe conformità, ereditate forse col san­ gue, e un'eredità di ditteri, di fatterelli, !asciatami da mio padre; non poche let­ tere inedite, troppo intime per essere pub223

blicate nei sei volumi raccolti dal Car­ raresi; lo aver vissuto nei primi anni in quel suo " palazzone", dove egli si sentiva stringere il cuore ogni volta che v'entrava, ed io sentivo il medesimo. Nè bastandogli di avermi per tanti anni ospitato tra quelle mura ancor piene di lui, il gran Gino ha continuato e continua a ospitarmi sulla scrivania che fu sua, fornita degli arredi con i quali scrisse fìnchè potè. E io ho sempre creduto che le cose parlino a chi sa farle parlare. Insomma, se è vera la sentenza del Croce, che una storia, e quindi a maggior ragione una biografia, ha da essere auto­ biografia, " entrare nell'anima dello scrit­ tore come il dramma suo stesso", quella sarebbe stata più che altra mai la mia autobiografia. I vestiti del grande Gino mi sarebbero andati larghi, s'intende, ma la parte mi si conveniva in modo bizzarro e ancora oggi, soltanto a pensarla, 224

l'idea mi diverte: voglio dire la parte di un " marchese suo malgrado ", come Gino amava chiamarsi. Perchè poi è vero che la potenza del suo ingegno non riuscì a liberarlo del tutto dall'impotenza cui lo dannava quel peccato originale e a far sì che egli non rimanesse, con tanta suppel­ lettile d'intelletto, di studi, di cuore, no­ nostante certa vigoria e semplicità popo­ lane discese per li rami. un " decadente " marchese in una città decaduta. Eppure non scriverò mai quella vita. Aggiungendo una conformità di più alle molte che esistono fra trisavolo e trisni­ pote, purtroppo conformità di difetti e di debolezze soltanto, io accampo ora per non scriverla la stessa scusa nella quale egli si rifugiò per non compire l'opera che più lo tentava. Sono le sue formali parole: " Dio me ne ha segnato in fronte il di­ vieto " 225

ERSO un placido mar d'erbe e di messi V rosso declina, nè m'apparve mai così grande e così glorioso il sole. S'incendiano i vapori della sera e l'orizzonte occiduo s'invermiglia: in breve è tutto un fiammeggiante rogo. Intanto, contro a quel vigor sanguigno, scolorata nel ciel che si scolara, più esangue appare una pallida luna. E pur tra poco, spenta la fiammata. nel cielo buio, sulla terra buia, noi la vedremo splendere; soltanto godremo, andremo alla sua dolce luce. Così quando l'ardor si sarà spento dei sensi, e il desiderio ultimo, e questo poco lume degli occhi che m'avanza, mi resterai tu sola, o Poesia; e non chiedo altra luce alla mia notte.

226

II

N editore lombardo, col quale trat­ U tavo di ristampare le Memorie di uno studioso, per prima cosa voleva ch'io mutassi il titolo del libro, perchè quello originale non gli sembrava fatto per aiu­ tarne lo smercio. Era un grande editore, o almeno assai grosso, e come mercante aveva ragione. Il lettore, da noi, gente di antichissima civiltà, vuoi essere arruf­ fianato con titoli stuzzicanti; e tanto me­ glio se saranno accompagnati sulla co­ perta da figure di donne discinte, pruri­ ginosa promessa (sia o no mantenuta) di corrispondenti delizie sotto coperta. Ma aveva ragione anche il mio caro Luigi Russo, che sdegnosamente mi dissuase. A parte, infatti, il dispiacere di accomo227

dare anche questa nostra arte dello scri­ vere a calcoli di bottega, il libro è nato con quel titolo, e basta. Ora si starà a vedere se l'esperienza m'avesse insegnato qualcosa. Il titolo di questo Libro dei sogni a me sembra una etichetta onesta, perchè dichiara nel mo­ do più semplice la merce che c'è. Eppure ad altri parrà un titolo malizioso, messo lì per far concorrenza o almeno per far pensare con l'acquolina in bocca a uno dei libri tenuti in maggior pregio tra noi, diffuso quanto il Segretario galante e il Talismano della felicità, quanto La noia del Moravia: quello che a tanti dà la spe­ ranza o addirittura l'occasione di vincere al gioco del Lotto; mentre i sogni di questo libriccino sono, ahimè, tra i più infruttuosi e quindi tra i più dispregiati ai tempi che corrono: sono i sogni di un poeta, di un poeta smesso, è vero, ma pur sempre maculato da quel peccato 228

originale della poesia. Gli uomm1 so­ gnano e sogneranno sempre, perchè è co­ sa conforme alla naturale infelicità loro; ma ogg1 sognano m prosa. Anche se è vero, dunque, che nel titolo serpeggia un tacito riso, a me pur sarà lecito ridendo dicere verum. A parte tutto, se mi fossi illuso di servirmene per accivettare i lettori, sarebbe stato un so­ gno di più, e sarei stato davvero troppo indiscreto a cominciare addirittura dal frontespizio. Insomma quel titolo, benchè un poco ammiccante, non l'ho messo per allettare chi vuoi essere adescato in ben altra maniera, ma soltanto per il piacere, giacchè altri divertimenti non ho, di di­ vertirmi con le parole. .

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o scritto in una di queste pagine, e poi in tante altre l'ho mostrato senza stare a ripeterlo, che i miei sogni sono msomma un libero ghiribizzar del pen-

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siero. Più raramente mi perdo, fingendo­ mele o desiderandole, dietro a cose belle e impossibili, od almeno irreali, cioè die­ tro a quelli che più comunemente e più propriamente gli uomini chiamano sogni ; come faceva Dante nel famoso sonetto: Guido, vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento e messi in un vasel che ad ogni vento per mare andasse a piacer vostro e mio ...

Costì l'incantamento è avvenuto davvero, anche se non è quello sognato dal poeta; e tutti ne siamo presi con lui. È l'incanto, la magìa, di cose tanto semplici dette con tanta semplicità, senza (esem­ pio predicatissimo da tutti i pedagoghi) alcuno adescamento di figure rettoriche. Ma per fare di questi miracoli bisogna essere "il buono incantatore ", cioè Dante; o anche qualcosa di meno, non troppo meno però. Guarda come vanno le cose del mon230

do e come i sogni degli uomini. Oggi che quella fantasticheria del poeta, allora im­ possibile, è divenuta non soltanto possi­ bilissima, ma aJla portata di qualunque pizzicagnolo o straccivendolo, i poeti so­ gnerebbero, se mai, un mare non più stra­ ziato da " vaselli " urlanti e impazziti, ma placidamente solcato, come ai tempi di Dante, da tacite vele. E veramente non so cosa possano so­ gnare i poeti oggi se non un mondo dove la macchina non sopraffaccia dovunque l'uomo e la natura. Giorni addietro ho letto, in non so più qual gazzetta, di una nuovissima macchina per fare i versi, in­ ventata nella ingegnosa terra di Francia; e può anche darsi che i versi fabbricati da quella macchina siano molto migliori di tanti altri fatti a mano in questi ultimi anni. Non so, dicevo, cosa si abbia a so­ gnare se non un mondo dove il vino sia vino, il pane sia pane, i versi siano versi; 231

dove un premio di poesia non possa esser dato alle prosastiche e prosaiche filastroc­ che di un Pasolini. A proposito, m'è piaciuta la bella strigliata che un critico di valore ha dato a costui per il libro di poesie La reli­ gione del mio tempo; a un certo punto si faceva beffe di quei versi ' nei quali il poeta ' (e almeno potessi chiamarlo ver­ seggiatore) parla del " disperato dono del sesso ", come di un bene o di un male a lui negato: il che, con tutto quello che se n'è inteso, non fa poi una gran mara­ viglia. Certo, a leggere codesta roba viene da ridere; ma poi, a ripensarci, è una disgrazia anche quella. Una volta si sarebbe detto che quel critico è una persona di buon gusto e di buon senso. Ma tra poco riconoscere a qualcuno del buon senso, del senso co­ mune, non sarà più un complimento. In­ tanto, agli occhi del giovin signore da lui 1

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cnttcato e del suo spirituale maestro Al­ berto Moravia, il senso comune è una qua­ lità troppo comune (ma già il buon Anton Maria Salvini notava nessuna cosa esser meno comune di questa) per chi voglia ad ogni costo essere fuor del comune, an­ che a patto di dire delle sciocchezze. Per loro e per tanti altri quello che essi chia­ mano, con una leggiadra parola, "anti­ conformismo" è la suprema virtù, come il "conformismo è l'estrema abbiezione: poco importa da che parte siano il buon senso, il buon gusto, la verità, la giustizia; poco importa se un "anticonformismo" così forsennato finisca per divenire un "conformismo " esso pure, e il più disgra­ ziato e il più ridicolo. Il bello è che proprio la religione creduta e professata da codesti eccellentis­ simi scrittori, "la religione del loro tempo , è quella che tutto e tutti rende conformi: mai fu visto un così universale "

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e sbardellato conformismo come nei fe­ lici paesi dove codesta fede è stata soave­ mente introdotta nel modo che sappiamo. Se prendesse piede anche da noi, con una conversione generale e altrettanto sponta­ nea (che Dio non lo permetta), vorrei pro­ prio godermelo l'anticonformismo dei Mo­ ravia e dei Pasolini.

CRIVO in capo al foglietto: Il problema S del sesso nella letteratura contempo­ ranea. M'è sempre piaciuto contraffare per gioco lo stile di uno scrittore o di un'epo­ ca; se ora volessi provarmi a rifare quello corrente, prosa da gazzette o, come dice il mio amico Luigi Russo, "da codice della strada ", mi parrebbe di non avere comin­ ciato male: oggi non si sente parlare che di "problemi ", e uno dei maggiori sem­ bra essere, appunto, quello del "sesso " 234

La materia non è nuova: pare che il primo nostro progenitore cominciasse ad occuparsene un poco addirittura nel Para­ diso terrestre; allora però non era un pro­ blema, o forse lo era nè più nè meno che al giorno d'oggi, ma veniva risolto empi­ ricamente. Per secoli, anzi per millenni, ha avuto corso il vocabolo ' amore ', con tutti i suoi equivalenti nelle varie lingue; ai tempi nostri, si fa un grandissimo uso di questo 'sesso ', e il vocabolo, anche se la vecchia Crusca non lo registra in questa accezione, sembra esprimere con maggiore efficacia il fine ultimo dell'amore, che (me ne rimetto all'autorità del Manzoni) è quello di servire alla "conservazione della nostra riverita specie " Oggi serve principalmente ad aiutare lo spaccio dei libri, ma non dei libri scritti " quando amore spira... ed in quel modo che ditta dentro ": o magari, in mancanza di meglio , li avesse dettati una fregola 215

vera, una disperata foia, oppure un grasso umor ridanciano come certi dei nostri vec­ chi, o almeno un pervertimento autentico: questi d'oggi sono libri sc.Titti a freddo, senz'altra fregola che quella di far gente e quattrini; libri dove la droga dell'eroti­ smo viene dosata come l'ingrediente di una ricetta. Più la dose è forte, più la ri­ cetta è efficace: efficace, voglio dire, a far vendere il libro. La cosa è lampante: le prove, le ri­ prove, le controprove passano sotto gli oc­ chi di ognuno, ogni giorno. Ma c'è un caso addirittura palpabile; cosicchè anche i cie­ chi possono farsi un'idea dei gusti e degli umori che governano oggi chi legge e per conseguenza chi scrive. Il caso, nuovissimo e tale da sbigottire perfino una vecchia volpe come me, che ha lasciato pezzetti di coda in tutte le tagliole del vicinato, è quello della Monaca di Monza. Il libro del Mazzucchelli, pur essendo condotto su 236

un materiale raro ed inedito, è da catalo­ gare tra le pubblicazioni di divulgazione erudita, e tra i lavori del genere non mi sembra dei più ben fatti nè dei più pia­ cevoli. Delle sue quattrocento pagine una grossa metà sono di "virgolati ", che ci squadernano documenti di archivio ripro­ dotti nel loro testo seicentesco, o volgariz­ zati dall'autore in uno stile forse ancor meno appetitoso. Purtroppo, io sono vec­ chio ormai del mestiere, anche come " con­ sigliere spirituale " di una famosa casa edi­ trice: di un libro come questo, e meglio di questo, quando se ne stampano mille­ cinquecento copie è grasso che cola (per fanni bello anch'io del parlar romanesco divenuto volgare illustre ad opera dei " ci­ neasti " e dei romamieri): ebbene, con questo siamo già a centocinquantamila e la festa non è finita. Dobbiamo concludere che il mondo s'è riempito in un tratto di manzomam, 2?7

non più ansiosi delle " quattro paghe per il lesso ", ma di risalire in frotta alle fonti più recondite del nostro grande romanzo? C'è dunque da esultare e da trionfare, poi­ chè in una Italia che non sa o non vuole leggere si sono trovati in poco tempo tanti lettori impazienti di conoscere la realtà storica di quegli importantissimi amori monacali e di apprendere in qual modo don Lisander l'avesse addomesticata, dopo che i suoi scrupoli sul fomentare l'amore coi libri li ebbe risolti come scrisse nel Fermo e Lucia. Chè se poi tanto zelo fosse mosso in­ vece dalla bramosìa di sapere per filo e per segno come l'infelice monaca, caduta sotto il falco, perse, diciamo, le penne, e dall'onesta voglia di apprendere perfino le precise parole che gridò in quel punto e tutte le ricreazioni conventuali del manzo­ niano Egidio e delle altre suore, con tanti particolari da fare invidia ai Ragionamenti 238

dell'Aretino, allora dovrebbero esultare e trionfare certi scrittori odiernissimi, pen­ sosi dell'altrui sollazzo e del proprio gua­ dagno. V na cuccagna, vi dico. Ora sì che è venuta l'età dell'oro per tante penne fe­ conde, se in Italia centinaia di migliaia di eroici lettori possono, non dico leggere a scrocco, come si è sempre usato da noi, ma pagare a pronti contanti quattrocento pa­ gine di indigesti costituti giudiziari, e go­ dersene qualche brano anche due volte, una nella narrazione dei fatti e una nella relazione dei processi, solo per potervi tro­ vare poche decine di righe : quelle conte­ nenti la quotidiana o periodica dose di " sesso", della quale hanno bisogno. Però che compassione mi fanno quei baldi e gagliardi giovani, quelle virtuose dame, quelle incontaminate pulzelle, co­ strette a trangugiarsi, se non proprio ad assaporarsi, tante pagine così poco comme239

stibili, prima di arrivare al punto buono, fino a scovare quelle poche righe che im­ portano l A meno, s'intende, che qualche persona amica non abbia alleviato tanto travaglio, indicando soccorrevolmente le pagine più pruriginose e scabrose. Ma per­ chè, io mi domando, questi nostri editori non provvedono a renderle facilmente e rapidamente reperibili con un apposito Indice delle materie più piccanti? Pensate quanta noia risparmiata ai lettori della Noia moraviana! È un'idea.

EL principio di questo libretto ho os­

N servato che storiografìa e arte edifi­

catoria vanno di pari passo, rassomigliando il metodo di certi storici moderni al modo in oggi praticato per costruire queste case che spuntano come funghi mostruosi a deturpare città e campagne: case non più fatte, come quelle dei nostri padri e dei 240

nostri avi, di pietra forte o di onesti mat­ toni. Allora l'ho accennato di sfuggita, per non divagare troppo coi miei soliti palin­ fraschi dal discorso che stavo facendo; ma le analogie davvero non mancano, nè si fermano agli aspetti generali ed esteriori, alla somiglianza che si può ravvisare tra la vii prosa di oggi e la comunale unifor­ mità delle squallide architetture. V'ha di più. Oggi, anche il metodo degli storia­ grafi rassomiglia alla moderna tecnica dei muratori: questi costruiscono non più pie­ tra su pietra, mattone su mattone, ma co­ lando nelle armature la bigia brodaglia di cemento; quelli, colando dentro le ossa­ ture di predisposti schemi ideologici il ma­ teriale raccapezzato di seconda mano su altre compilazioni. In quella broda i sofi­ smi hanno appunto l'ufficio che ha la ghiaia mescolata nel cemento dai mura­ tori. Lo stesso sistema è usato, com'è ov2-11

vio, nei saggi di critica e di storia lettera­ ria. Lupus in fabula: ne ho sotto gli occhi uno del nostro Moravia, e precisamente la sua introduzione ai Promessi Sposi; ve­ nuto a quelle mani, era fatale che anche il Manzoni ne uscisse con la sua brava pa­ tente di " conformismo". È una fissazione, vi dico. E non so come abbia potuto qual­ che critico serio mettersi a confutare se­ riamente questa carnevalesca girandola di sofismi, di paradossi, di scempiaggini: sa­ rebbe stato lo stesso che io, nel Machia­ velli, mi fossi curato di correggere le stor­ ture di uno strampalatissimo Ritratto mo­ raviano del gran Segretario: parlo degli spropositi palpabili, di fatto, non dei giu­ dizi, opinabili o non, come quello che la Mandragola è appena la " estenuata ed esangue" conclusione di un teatro italiano " che non c'è mai stato" I vocaboli del lessico moraviano sono come le idee di donna Prassede e, specie a non contarne 242

i bastardi, formano una famigliola poco numerosa. È umano che a quei pochi lo scrittore debba essercisi affezionato; ma per quella coppia di epiteti, deve avere un sentimento addirittura morboso: po­ che righe più sotto, si legge daccapo che anche il " fondo etico " della commedia è " estenuato ed esangue " Viene fatto di domandarsi come mai si voglia impacciare di cose che non ha gusto nè dottrina nè sensibilità per capire. Vorremmo dirgli Sutor non supra crepidam, se costui, "an­ ticonformista " com'è, potesse conformarsi a una massima dell'antica saggezza e con­ tentarsi di essere il narratore di uno squal­ lido mondo. Detto questo, devo precipitosamente ridirmi. In una rassegna di opere italiane tradotte in francese. pubblicata dal Me r­ cure de France, della quale l'Eco della stampa mi ha mandato un ritaglio (perchè 243

vi sono anch'io, licet indignus), veggo che il nostro narratore v'è equiparato per la " audience internationale " niente meno che alla Sagan: Or ti fa' lieto,

chè tu hai ben onde.

ON è molto che m'è capitato di legge­ N re in un elzeviro " di Giuseppe Prezzolini che Alberto Moravia sarebbe il nostro maggior narratore dopo il Boccac­ cio. È vero che in quella pagina prezzoli­ niana si sente correre un riso interiore, ma a tutt'altro riguardo e precisamente al riguardo delle ideologie moraviane; mentre quel giudizio letterario è dato e poi ribadito maledettamente sul serio. Dice proprio: " il nostro maggior narra­ tore dopo il Boccaccio " Dopodichè, vor­ rei sapere quale sia la stortura critica più badiale dopo il Bettinelli e il Baretti.

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A primavera

mena tedeschi j sì come è d'uso. A me invece sembra che meni più o meno dotte storture; che sono anch'esse un flagello, sebbene al­ quanto minore. La posta m'ha portato ( respettuoso ' omaggio dell'autore) un sag­ gio inghilese con dentro mille pazzie sopra l'allegoria politica che sarebbe nascosta nella .Mandragola, quasi non bastassero le cose che ci sono: quelle, voglio dire, che vi si leggono in tutte lettere e quelle che ogni uomo d'intelletto sano può leggervi tra le righe. Ma questo saggista inglese vorrebbe addirittura guardare le pagine contro luce, come facevo io con le filigrane degli incunabuli, prima che il gioco non . mi vemsse a nma. Non è certamente la prima volta che il Machiavelli deve sopportare il fastidio di queste lambiccature esegetiche. Era da poco riposto nella sepoltura di Santa Croce quando, a detta di un suo celebre contem-

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in fior

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poraneo, il reverendissimo cardinale in­ glese Reginaldo Pale, già si diceva che il Principe era stato scritto perchè Lorenzo de' Medici, venutogliene il pizzicorino su quelle pagine, si facesse tiranno, suscitando così i Fiorentini a resuscitare la libertà. Nella qual balordaggine, a prescindere dal contorto, dallo sforzato, dal "troppo diffi­ cile ", ci sono parecchie cose che non tor­ nano; nè mi pare che il buon Rousseau avesse sott'occhio la poliana Apologia su­ per libro de Uni ta t e quando scrisse nel suo Contraci sociale che il Machiavelli " en feignant de donner cles leçons aux Rois, il en a donné cles grandes aux peu­ ples. Le Prince de Machiavel est le livre cles républicaines " Rigirata in quest'altro modo, la cosa diventa un poco più accet­ tabile, e più accettabile ancora nei Sepol­ cri) secondo i quali il gran Segretario temprando gli scettri ai regnatori gli allor ne sfronda:

vero è che lì a renderla accetta del tutto ci si mette di mezzo la Poesia. Ma, tornando a bomba, io mi sono più volte domandato che gusto si possa trovare a storcere siffattamente concetti diritti come una spada, ad annebbiare coi suffumigi le pagine più limpide e più cri­ stalline. Un motivo per praticare questo genere di esercizi, potrebbe essere la fre­ gola di parere acuti o saputi; un altro, quella benedetta smania di voler dire a qualunque costo qualcosa di nuovo, di di­ verso; forse, più semplicemente, la verità vera è che certi disgraziati nascono col cer­ vello contorto, o storto del tutto, e per ne­ cessità devono pensar stortamente. Poichè costoro ronzano principalmen­ te intorno ai capolavori, a volere essere be­ nevoli, si potrebbero paragonare a quei farfalloni paffuti che vengono, di notte, alla luce di una candela o di una lampada. Nel primo caso, finiscono col bruciarsi le 247

ali, nel secondo, col battere e ribattere la testa nel vetro fino a non capire più nulla

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u primo il

Machiavelli, mi pare, nel­ la più maravigliosa lettera che mai uomo abbia scritta, ad insegnarci come debba fare chi voglia intendere uomini e cose del passato per paterne ragionar de­ gnamente: Io non mi vergogno di par­ lare con loro e domandarli delle rag ion i delle loro azioni e quelli per loro umanità mi rispondono... Tutto mi transferisco in loro E si capisce che, così facendo, egli fosse anche il primo a trarre dalle storie nuovi sensi e nuovi succhi, gustare di loro quel sapore ch'elle hanno in sè " Nè importa notare, in un ghiribizzo di questa specie, ciò che Benedetto Croce e altri hanno detto poi di codesta immede­ simazione. Gli effetti della quale in una biografia sono mirabili, non tanto per tut­

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to il calor vitale che ne viene alle pagine,

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e neppure soltanto per la maggior vera­ cità ch'esse acquistano dalla maggior comprensione degli scritti e delle azioni di un personaggio. Quel continuo divider­ ne speranze e delusioni, gioie e dolori, for­ tune e miserie; quel farsi partecipe dei suoi amori e dei suoi odi; quello assiduo sforzo di pensare e di sentire in tutte le sue vicissitudini non più con la tua mente o con la tua anima, ma con la mente e l'anima di lui; quel vivere non più nel tuo tempo ma nel suo, amicandosi i suoi amici, cercando di conoscere ad uno ad uno i suoi conoscenti; quella intima asso­ ciazione, insomma, finisce con lo stabilire una corrispondenza strettissima col tuo personaggio. Ora egli ti dichiarerà il senso occulto di un suo scritto o di un suo det­ to, ora ti metterà sotto gli occhi una sua opera sconosciuta; una lettera mancante ad un carteggio, che maledettamente ne zoppicava, te la farà sbucare all'improv249

viso davanti, come se l'avesse portata al­ lora il postino. Altri attribuirà questi provvidenziali invii ", che vengono fatti allo storico o al biografo, a cause naturali; come sareb­ be, appunto, a una conoscenza profondis­ sima di infiniti particolari anche minimi e apparentemente inutili, dalla quale pro­ cedono però la scoperta e la intelligenza di sempre nuovi particolari; o magari li farà dipendere dagli effetti benefici di quel continuo lavorìo della mente sopra un campo più o meno ristretto, e via discorrendo. Saranno probabilmente que­ ste cause naturali a fare il tutto, non dico di no; ma di questi interventi se ne ve­ dono certi, direi quasi medianici, da far seriamente pensare. E poichè ci sono più cose tra cielo e terra di quello che non so­ gni la nostra filosofia, lasciate che io creda appunto, a una occulta corrispondenza, a una collaborazione soprannaturale. 250

Io, personalmente, di codesti regali confesso di averne ricevuti parecchi dai miei personaggi; e il bello è che poi me ne sono pavoneggiato come se fosse tutto merito mio. I più li ho avuti, s'intende, da quelli che ho più amati; sebbene il buono storico debba incarnarsi anche in quelli che gli sono antipatici, vestirsi per­ fino dei loro vizi e dei loro difetti. Non so se le mie fortune di biografo, immeritate e usurpate per le ragioni che ho dette qui sopra, mi diano il diritto e l'autorità di discorrerne. Ricambiare i doni così graziosamente ricevuti è certa­ mente da galantuomini; ma non mi sem­ bra che ci si possa sdebitare alla maniera del Villari, col farsi difensore di ufficio dei propri personaggi. I loro errori, i loro torti, i loro difetti sono tratti caratteristici delle loro fisionomie, umanamente e arti­ sticamente, nè mi paiono i meno espres­ sivi: questi storici, questi biografi che si 251

affaticano per abbellirli e per nobilitarli mi fanno l'effetto di tanti bravi maestri di scuola; ma un personaggio storico non è mica un compito da correggere. Basterà correggere gli errori che deformano le pa­ gine degli scrittori, le opinioni di un'età , di una scuola, di una nazione. Per esempio (e l'esempio mi fa tor­ nare a colui da cui mi sono mosso), tutti sanno le storture e i pregiudizi che hanno lungamente incrostato la fama del Ma­ chiavelli in Inghilterra, dove un tempo al Diavolo era dato pari pari il suo nome : Old Nick . E sebbene, dal Macaulay in poi, molto sia stato fatto per rinfamare anche là il grande appassionato in quella mentalità insulare qualche cosa dell 'antica infamia gli rimaneva attaccata tenacemente. Così che quando fui invi­ tato a riscrivere l'articolo dedicatogli nel­ la magna En cy clojJaedia Britann ica, mi parve che mi fosse capitato, pressappoco ",

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come al gran cancelliere Ferrer nel ro­ manzo del Manzoni , d i spender bene una fama male acq uistata .

S

I è fatto notte, ma n o n s o decidermi ad accendere le lampade. Crepuscolare

come sono, e non sol tanto in letteratura, mi godo quietamente quest'ombra dopo essermi god u to a lungo il trascolorare del cielo e del giard ino attraverso la grande porta vetrata. La stanza

è

buia, ma la luna

piena, infilandosi obli quamente per l 'altra finestra, di fianco a me, l 'attraversa con una larga fascia di luce. A questa luce scri­ vo, e basta appena a farm i vedere i movi­ menti della mano, non i segni che traccia. Tanto, ormai, quanto a vederli, tra i l lu­ me di luna e la luce del sole o quella delle lampade, per me non fa più una così gran di fferenza . Forse, neppure gli scarabocchi che sto facendo sembreranno molto peg-

25 3

giori di quelli che potrò scombiccherarc domani nella propizia chiarità mattutina. Scrivo. E non ho pensieri che mi ur­ gano dentro, che m'importi di fermar sulla carta: voglio soltanto provare come farò quando, a nessuna ora e con nessuna luce, i miei occhi non potranno vedere più di quanto vedono ora i n quest'ombra; voglio che l'anima senta fino da ora quello che dovrà allora sentire. E in questo espe­ rimento curiosamente m'indugio, timoro­ so e speranzoso, infelice e felice.

25 4

III

N qualche paginetta scritta ai mesi pas­ I sati mi sono provato a raccontare l'av­ ventura che m'è capitata durante uno dei soliti vagabondaggi per le stradicciole cam­ pestri e per quelle, anche più torte, del­ l'anima mia: le chiamo avventure, tra il serio e il faceto, perchè altre avventure non ho. Fu quando, salendo una mattina di marzo l'erta di San Quirichino, mi ven­ ne fatto di ritrovare all'improvviso, niti­ dissime tra le solite rimembranze sbiadite, certe sensazioni provate da fanciullo; così, finchè durò l'incantesimo, mi fu possibile conoscere, proprio come confrontando due immagini formate in tempi diversi, quan­ to diverse fossero quelle, nella loro vivace freschezza, da queste di oggi. 255

Stasera m'è accaduto il contrario. An­ dando per le viottole erbose del mio pog­ gio di Marignolle, sono venuto a un punto dove, tra una costa del colle e le chiome degli ulivi, si apre una veduta incante­ vole di cupole, di campanili, di torri. Men­ tre andavo e guardavo, sempre frugando e rifrugando nell'anima, mi son venuti fuori ad un tratto, ancora come vecchie immagini da un cassetto, i sentimenti e le sensazioni che ebbi un lontanissimo giorno, da bambino, proprio in quel me­ desimo punto. E grande è stata la mia maraviglia nel riconoscerli in quella im­ magine ritrovata, perfettamente uguali al­ le sensazioni e ai sentimenti che la stessa veduta suscita in me ancora oggi, dopo forse mezzo secolo. Nè è mica, si badi, che non siano mai variati da allora; io sono anzi certissimo che in tutta la mia fan­ c i ullezza soltanto quella volta ho sentito, in anticipo. ciò che oggi sento da vecchio. 256

Da vecchio, insomma, quella mattina dell'inverno passato, ho potuto ritrovare sensazioni e sentimenti mattutini di quan­ do ero fanciullo; da fanciullo, ebbi in un lontano crepuscolo, i pensieri e l'animo che poi avrei riavuti in questo crepuscolo della vita: quella mattina erano nell'aria, come ho narrato, gli annunzi della pri­ mavera; quella sera della mia fanciullezza doveva essere piena, come questa, di pre­ sagi autunnali.

Q

UANDO dico o scrivo che sono vec­

chio, c'è sempre qualcuno che mi dà sulla voce, sia che lo faccia perchè mi vuol bene, oppure per adularmi; meno fa­ cilmente, perchè pensa che non sia vero. Dice che la mia non è vecchiezza, ma piena e virile maturità. Sarà magari così: illusione più illusione meno, si può far finta di crederlo finchè si può. Ma la ma257

turità non è altro che il primo stato della vecchiezza, come la estrema maturazione di un frutto è già un principio di putre­ fazione: a un certo punto non sai più se sia molto maturo, o già passato e quindi un po' marcio; se ne domandi ad altri, chi ti dirà questa cosa e chi quella. È con la maturità che l'uomo " in­ comincia a morire come scrissi di me nell'ultima pagina del G uicciardini; e quando dettavo quelle parole non avevo punto in mente quella espressione del basso latino, ma pensavo proprio al pro­ cesso fisiologico, considerandolo soprat­ tutto nei suoi effetti spirituali.

258

IV

E

' stata una giornata gng1a e chiusa.

Da mattina a sera, una coltre bian­ castra, greve, tutta uguale, ha coperto il cielo. E dal cielo, sempre uguale, è pio­ vuto un albore scialbo, annacquato. Sul piazzale, sulle aiole, sui viali del giardino, nè un'ombra, nè una chiazza di luce. L'aria, tiepida e ferma, senza un alito e senza un volo; non un rumore, non un canto; una gran quiete d'intorno. Sotto quella coltre, gli animali, gli alberi, i fiori, tutto pareva pigramente dormire. Ho lavorato per ore e ore a cose che non mi piacevano nè mi dispiacevano, co­ me ormai quasi sempre mi accade, senza svogliatezza e senza alacrità, senza gw1a e 259

senza tristezza. O forse triste ero, in fondo, e lo sono; ma da qualche tempo la mia tristezza si è fatta così dolce e quieta, che non è facile riconoscerla: se questa non è piuttosto malinconia, la " ninfa gentile di un gentil poeta romantico, potrebbe essere una sua sorellina appassita. Perfino il pensiero della morte, quan· do si affaccia, non ha nulla di angoscioso, nulla che mi sgomenti; anzi è come una vernice che vela di dolcezza tutto quello che guardo. Non ho da prepararmi a di­ stacchi insopportabili; passo in rassegna le cose che amo di più senza trovarne una che m i disponga a lasciare con qualche acerbi tà di rimpianto: neppure i miei li­ bri più cari, neppure questi poggi, tanto belli che gli uomini non sono ancora riu­ sciti del tutto a sciuparmeli. Quando pen­ so ai commiati, ora che ho finalmente il conforto di vedere raccolti intorno a me tanti arnesi del mio lavoro, ora che co2 60

minciavo a imparare qualcosa di questa nostra arte lunga, me ne compatisco un poco soltanto, benevolmente, tra un sog­ ghigno e un sospiro. Così l'animo, i pensieri, il lavoro si sono oggi accomodati anch'essi al cielo e alla natura, anch'essi si sono quietamente distesi sotto il grande sudario. Di tratto in tratto, levavo gli occhi dalle pagine a scrutare il nuvolame. Se lo vedevo intatto e compatto. uguale e impenetrabile, su­ bito li riabbassavo, deluso, sui fogli; se vedevo trasparire, dove la coltre era più rada, più lisa, un disco di luce fioca, che stendeva sulla campagna una vernice ap­ pena più chiara e disegnava qua e là tenui veli di ombra, racconsolato tornavo a spe­ rare. Ma ogni volta quei barlumi di luce sparivano dopo poco, per riapparire nel­ l'intonaco bigio del cielo più tardi, più ol­ tre, sempre più verso l'occaso, e poi dac­ capo spanre. 261

Mi accade spesso, e credo sia tutt'al­ tro che insolito alla nostra debolezza e alla nostra miseria, di perdermi lunga­ mente nell'aspettativa ansiosa di un fatto esterno che venga a togliermi, tra tante difficoltà quotidiane, da qualche impac­ cio o fastidio maggiore degli altri, oppure a sollevarmi da uno stato d'infelicità, di tristezza, di tetraggine, o solamente d'ug­ gia. Spesso neanche io so, nè anche saprei immaginare, quale potrebbe essere e da che parte dovrebbe venirmi questo be­ nefico intervento umano o naturale, o soprannaturale addirittura: una provvi­ denziale manna piovuta con la posta mat­ tutina, una visita improvvisa, un incontro fortunato, un tepore o un sorriso della natura, che mi consolino dopo una gior­ nata come questa, plumbea e tetra. È forse, chissà, un remoto retaggio. L'uomo primitivo, quasi disarmato e pres­ sochè ignudo, in balìa delle immani forze 262

della natura, tra fiere a lui troppo supe­ riori per forza e prestezza, ancor ferino e già umano, insidiato e insidiante, aspetta­ va forse con animo poco diverso u n aiuto naturale o soprannaturale : u n improvviso volger di vento che lo favorisse o, proprio come me oggi , un raggio di sole. Finalmente, verso i l tramonto, guai· ci ta dalla brezza che fa i nchinare gentil­ mente le vette dei cipressi quaggiù, lassù la gran coltre s'è lacerata e attraverso gli strappi è apparso un limpido azzurro . M a neppure allora i l s o l e è comparso. Gros­ si brandelli di nuvole lo nascondevano e me lo nascondono ancora, osti lmente, ac­ compagnandolo nel suo lento cammino verso l ' orizzonte. Guardo, con un'aspettativa che s'è fatta ansiosa, i l disco di fuoco tralucente sotto il nuvolato ; lo vedo lentamente ap­ pressarsi a uno di quegli strappi azzurri e vedo gli orli già aureolarsi di luce, le sfi-

263

lacciature tingersi d'oro; ma, quando mi aspetto di vederlo sfolgorare a un tratto, subito il vento riassetta la coltre, gliela distende ancora addosso dove è più in­ tatta e più spessa. Sembra che il sole ed il vento giostrino in cielo. Ho lasciato il lavoro. Tutto preso or­ mai da quel gioco, mi sono seduto davanti alla porta vetrata per godermi meglio la giostra. Il vento, toreando nell'arena del cielo, agita contro all'astro la gran cappa di nuvole. Un'angoscia sproporzionata e irragionevole mi prende, come una in­ quietudine superstiziosa, man mano che il tramonto si avvicina e il sole sta per per­ dere la sfida. Attraverso il nuvolame, vedo la sua luce già rasentare il tetto di un fabbricato vicino, che mi copre l'ultimo lembo del lontano orizzonte. Quella stra­ na ansia si fa più tesa, con un che di di­ spetto e di rancore, come se avessi ricevuto un torto, una ingiustizia inutile, una so264

perchieria. Chiedevo, in fondo, così poco: meno di un sorso d'acqua, di un tozzo di pane: soltanto un raggio di sole. Invece, ormai l'hanno vinta le nuvole e il vento : la giostra è finita. Ma ecco, ecco il miracolo. Laggiù la nuvolaglia si arriccia, si rialza un poco, lasciando fra sè ed il tetto una strettissi­ ma fenditura azzurra; ecco che subito, in quello spiraglio, stoccheggia, s'immerge fulminea una sfolgorante lama di sole l La lama scintilla sul fogliame degli alberi e dei cespugli, che subito si fan più verdi, più lucidi; vernicia i colori delle aiole fiorite; rimbalza sull'acqua scu­ ra della vasca; s'infila obliqua per la porta vetrata, facendo splendere negli scaffali gli ori delle legature; fende l'ombra della stanza, bella e corrusca come la spada di un arcangelo. È fatta di una polvere di gemme; l'arabescano miriadi di corpuscoli splen265

denti, aerei smeraldi, zaffiri, rubini, che vi folleggiano dentro, e ora brillano, ora si offuscano, ora salgono salgono, ora spro­ fondano a un tratto, proprio come fanno i miei pensieri, mentre, incantato, estatico, guardo. Puerilmente, vi tuffo una mano per ghermire, fra tante, una gemma che mi appare più grande e più fulgida; ma quando disserro il pugno chiuso, non vi trovo più di quanto suole restare d'ogni mia fantasia. Dal dono del mattino a questo dono del tramonto: la prima pagina che m'in· cantò nelle prime letture non parlava for­ se di un raggio di sole? Altri ne ho cono­ sciuti poi in altre pagine, innanzi di rin­ contrarli ad uno ad uno e di riconoscerli nelle avventurose migrazioni da un mondo di carta e d'inchiostro all'altro, ancora più angusto, delle mie quattro spanne di ter­ ra : raggi crudeli e spietati, nei meriggi canicolari su per l'erta che mena alla mia 266

casa, alta sul poggw, fra uno strillar di cical e ; raggi impazienti e festosi, che, tra­ pelando al mattino dalle imposte, mi invi­ tavano al lavoro ; raggi lascivi , che accen­ devano amorose luci fra i capelli di una donna bella ; raggi benefici, che m i ri­ scaldavano, nelle frigide mattinate i nver­ nali, l 'animo e il corpo i ntirizziti sulle carte del mio cartaceo destino. M a nes­ suno mai ne conobbi così gentile, così pietoso, come questo, che viene a visi tare a sera, nella sua stanza, un vecchio poeta rimasto solo coi suoi libri e coi suoi sogni .

È stata u n 'opera buon a , e io te ne rin­ grazi o : addio, raggio d i sol e .

267

Io guardo, supino sul prato che gli ultimi sogni raccoglie, un piccolo cielo di foglie sotto il gran cielo stellato. Tremar vedo tante fiammelle nel folto, od in quel che v'è aperto di cielo, e son sempre più incerto se siano lucciole o stelle; se siano mondi, lontani così che il pensier si confonde, o insetti quaggiù tra le fronde che quasi arrivan le mani. Nè

pur se si an fiaccole i veri so più, che mi parvero eterni nei tanto studiati quaderni, o lumi di cimiteri.

2 68

I N D I C I

I N D I CE D E I NOMI E DI ALCU N E MATERIE

Agostino (Sant'), 6!1.

Bettinelli Saverio, 4!1, 244.

Alamanni Luigi, 1 76.

Biografia , vedi St oriografi a .

Alberti, famiglia, 1 09.

Boccaccio Giovanni, 1 4 5 , 1 82,

A lfieri V i ttorio, 1 80, 1 8 1 .

2� 5 .

A m icizie, 20-2 1 , 1 1 5- 1 1 7 .

Boccalini Traiano, 1 75 .

Angu i llara ( Dall') Giovanni

Boiardo Ma tteo M a r i a , 1 06,

Andrea,

99.

1 74 sg., 1 8 1 .

sg.

Aretino Pietro, 2!18

Ruontalenti Bernardo, 208. Burchi ello,

A rici Cesare, 1 76. Ariosto Lodovico,

85,

181.

Capponi Gi no, 67, 1 26 sgg . ,

B a l d i n i Antonio, 1 5 !1 .

1 74 . 1 8 1 , 2 1 4-225 .

Carducci

B a r b i M i chele, 1 3 !1. Baretti Giuseppe. 244. Baronci, famiglia, 1 4 5 204.

Belfagor

(

di

sg.

Caligola Caio, 1 1 8

Augusto, 1 1 9.

Baronta, 54,

( Domenico

Giovanni), 1 62.

1 74 ,

60,

216

sg.

sg.

Caua

Giosuè,

Giovanni

25,

I I I,

Agostino,

89 sg.

1 44 sgg., 200,

Cecchi Emi lio, 1 54. •

Rassegna di va·

ria uma nità

L. Russo),



fondata da

Cec i ! W i l l i a m , 4 1 . Ccllini

Bellonci Goffredo, 28.

Benvenuto,

50,

1 5 5 , 1 79 sg.

1 5,

Cervantes M iguel, 1 00,

Bem bo Pietro, 95.

C i riff o Ca lva n w , 76.

Berni Francesco, 1 4 6.

Colonna, fa m i g l i a , 1 00 .

Bertoni G i u lio, 1 6 1 .

C o l l e t t a Pie tro,

271

2 1 8.

62,

IO�.

Corriere della sera, 1 5 , 20. 1 2, !H, 3 5 , 3 7 , 40, 4 1 , 68, 75, 99, I O l, 1 79, 224, 248.

Croce Benedetto, 8,

D'Ann unzio Gabriele,

1 25 .

D a n t e A l ighieri, 8 6, 1 00, 1 70 ,

Gozzano G u ido, 1 1 7 ,

1 70. Gravità, 1 22· 1 24. G rayson Ceci), 42, ( 1 8 5 ] .

G ronch i Giovan n i , 1 32 . G u i cciard i n i , fam iglia, 1 00. Guicciard i n i

1 78, 1 8 1 , 258.

Dolce Ludovico, 99. D on a t e l lo, 2 1 5 .

En cyclop aedia

H uxley Aldous, 1 3 1 .

sg.

B ri t a n n ica,

252. Enrico I I I , 1 24. Erudizione, 3 5 , 1 0 3- 1 05 , 1 5 71 59.

I bsen E n ri co, 1 37. La Croix d u l..a m artine

F a n fa n i A m i n tore, 1 88 . Foscolo Ugo, 1 3 7 , 2 1 7, 2 1 0,

24 6 . Fra m m e n t is m o, 65-75. France A n a to l e , 1 3 3 , 1 40 . Fra nciosi , fam i gl i a , 1 0 1 .

( de)

A lphonse,

sg.

84,

85

38,

93

sgg., 1 43 . Leo pardi

2 1 7 , 2 1 8. I .i n n eo Carlo,

sg.,

( A cca demia dci),

Giord a n i P i e t ro, 2 1 6 , 2 1 8 . G i u s t i Gi useppe, 2 1 0 .

G o u rn a y ( d c ) Marie, 74.

112

sg.

Lucano, 62. Macaulay

Thomas

gton, 252.

1 75 sg. , 1 8 1 . 1 96.

G i a como,

Limae la b or, 95-97.

S i gm u n d , 1 40. Mario, 34.

G a l i lei G a l i l eo, 67, 1 09

Le M o n n i er, edizioni, 1 72 Leonardo da Vinci,

sg., 97, sg., 1 1 0, 1 25 sgg., 1 5 3 , 1 5 8, 1 7 3 sg., 1 79, 1 8 1 ,

Franciosi n i Lore nzo, 1 00.

Gco rgofi l i

Fra n·

2 1 8.

Fioren t i n ità, 1 49- 1 52.

Fubini

Maine

çois, 1 24 .

Esopo, 1 1 2.

F reud

31,

.•

D e Sanctis Francesco, 1 2.

Einaudi Luigi, 1 3 2

Francesco,

64 sg., 6 8 sg., 7 3 sg., 93, 1 20, 1 22, 1 4 9 sg 1 5 1 , 1 75,

40,

203, 230 sg.

Babi

Macch ina e uomo, 36-3 7 , 222. Macch ina p er fare versi, 222. 1\fa chiavel l i N i ccolò, 1 2, 3 1 , 82, 1 0 3, l l 7, I I 9· 1 20 , 1 22· 1 2 3, 1 5 1 , 1 75 , 1 8 1 , 1 8 :">,

272

191, 248,

2 1 5,

242.

2 5 2 sg.

245.

246,

Papini Giovanni, 5 0 , 98, 1 0 3 ,

I 1 6, 1 70· 1 7 1 . 1 96.

Pascoli Giovan ni, 5 I .

Manuzio Aldo, 88. Manzoni A l essandro, 1 9 , 1 78,

Pasolini Pier Paolo, 232-234.

1 8 1 , 2 1 7, 235, 237 sg. , 242,

Pasquali Giorgio, 1 52- 1 5 5 .

253.

Petrarca

Maturità

e vecch iezza,

257·

Pieracci ni Gaetano, l 08. Pindernonte Ippoli to, 60, 260.

258. Mauucchelli Mario, 236

sgg.

Medici Lorenzo di Pierfran·

Medici Lorenzo, i l Magn ifi. co, 34, 1 08, 1 1 7 .

Q uemo

Mendoza, famiglia, 1 00. Mercurc de Fra n ce, 243.

Salvatore,

Mon taigne ( de) Miche!, 6 1 , 121.

1 24.

1 7 7,

1 80. A l berto,

Rem i gio Fioren tino,

64.

Reumon t Al fredo, 2 1 5, 2 1 8 .

l iO.

M o n t a n e l l i I n d ro, 2 1 4. 1 37,

Camillo, 1 1 5.

Ridolfi Giovan Bat tista, 1 67-

M o n t a n e l l i Gi useppe, 2 1 4.

1 3 2, 228,

2 3 3 sgg. . 240, 242 sg. • 244.

Rido l fi Cosimo, 206, 2 1 4. Ridolli Luigi di Cosimo, 20 1 , 204-2 1 3. Ridol fi Luigi di Giovan Bat· lista, 3 1 -32.

!liannini Remigio, vedi Re­

Rid o l li Roberto ( sec.

Nicco l i n i

R idolfi plot, 4 1 .

m i g i o Fiore n tino. Giovan

2 1 8. Nobiltà, 1 07- 1 1 1 , 1 8 1 - 1 82.

1 32,

R e ligion i e lingui