Il caso di G. L. La medicina narrativa e le dinamiche nascoste della mente 8843067842, 9788843067848

Questo libro è la storia di un disagio. Il disagio del ventenne G. L., la cui vicenda dagli esiti purtroppo tragici vien

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Italian Pages 117/125 [125] Year 2013

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Il caso di G. L. La medicina narrativa e le dinamiche nascoste della mente
 8843067842, 9788843067848

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Sfere· 81

Fabrizio Benedetti

Il

caso

di G. L.

La medicina narrativa e le dinamiche nascoste della mente

Carocci editore

@ Sfere

1' edizione, marzo 2.013 ©copyright 2.013 by Carocci editore S.p.A., Roma Finito di stampare nel marzo 2.013 per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino

Riproduzione vietata ai sensi di legge

( art. 171 della legge 2.2. aprile 1941, n. 633 ) Siamo su Internet: http://www.carocci.it

Indice

Prefazione

9

Introduzione

II

Note sull'enigma del suicidio

I9

La prima lettera (Il mulo)

25

Note sulle emozioni

3I

La seconda lettera (Rico)

37

Note sull'altruismo e la depressione

45

La terza lettera (Il male)

SI

Note sull'ansia

La quarta lettera (Dialogo con un credente) Note sull' interazione mente-cervello l

I

La quinta lettera (Dialogo con un non credente)

73 79

Note sulla psicofarmacologia e psicoterapia

La sesta lettera (Il dubbio)

Note sull' interazione mente-cervello l 2

La settima lettera (Il sogno)

103 108

Breve nota

I l3

L'ottava lettera (La curiosita}

I 4

Conclusione

I l9

Bibliografia

121

1

Prefazione

Questo libro è organizzato in capitoli intitolati Note e in capitoli intitolati Lettere. Le Note utilizzano un approccio scientifico, seppur semplice e divul­ gativo, con un'analisi delle emozioni, della depressione, dell'ansia, che per­ mette di scoprire passo dopo passo i misteri che avvolgono la sfera emotiva dell'animo umano e che sono racchiusi in quella meravigliosa macchina che è il nostro cervello. Al contrario, nelle Lettere sono contenute le narrazioni di un paziente, G. L., secondo l'approccio introspettivo e della medicina narra­ tiva, in cui il paziente si descrive dal di dentro. Perciò, a descrizioni di esperi­ menti scientifici si alternano pagine di narrazioni che nulla sembrano avere a che fare con la scienza. In tal modo, voglio abbattere le barriere esistenti fra saggistica e narrativa, fra scienze naturali e scienze umane, e più in generale fra scienza e umanesimo. Questo è certamente un obiettivo non facile, che cerca di unire l'approccio scientifico e quello umanistico da sempre separati da muri ideologici. Perciò questo libro parla sì di scienza, ma di una scienza fatta oltre che di misure anche di sentimenti, stati d'animo ed emozioni. È una scienza che cerca di capire quello che si nasconde nell'animo umano. E lo fa tramite il rigore scientifico, l' introspezione e la medicina narrativa. Coloro che tuttavia credono ancora in una netta distinzione fra la de­ scrizione distaccata della scienza e la carica emotiva dell' umanesimo e della medicina narrativa possono comprendere il volume solo in parte. Infatti, l'approccio a questo libro può avvenire in tre modi differenti. n primo è il modo classico, cioè dalla prima all'ultima pagina. n secondo consiste nel leggere le Note: in questo caso, discipline quali la psicologia, la psichiatria e le neuroscienze cercano di capire il cervello e gli stati emotivi. n terzo modo è quello di leggere le Lettere. Se si sceglie quest'ultimo, ci si trova di fronte a un crudo ed enigmatico diario. Ma se si vuole scrutare a fondo questo enigmatico paziente e lo si vuole osservare da fuori e da dentro, io vi consiglio l ' iter classico, cioè dalla prima all'ultima pagina.

Introduzione

I tentativi di avvicinamento fra "scienza", intesa come procedimento meto­ dico e rigoroso che si basa sull'osservazione sperimentale, e "umanesimo", inteso come lo studio dell 'uomo e delle sue opere, hanno da sempre incon­ trato ogni sorta di ostacoli ideologici. Le scienze naturali e le arti umane rappresentano spesso due arroccamenti intellettuali con pochi punti di contatto. Tale contrapposizione deriva principalmente, anche se non solo, dalla prospettiva attraverso cui si guarda alla scienza e all'umanesimo. Per esempio, alla descrizione fredda, al rigore, ai numeri delle teorie scientifi­ che si contrappongono i sentimenti, i toni emotivi, gli stati d'animo delle opere umanistiche. La scienza non fa altro che misurare. Misura l ' Universo, le stelle, i pia­ neti, le montagne, gli oceani, gli animali, l'uomo, le cellule, le molecole, gli atomi. E per far ciò usa la matematica, da quella più complessa, come la teoria della relatività, a quella più semplice, come il numero delle cellule in un tumore. Tutte le misure devono passare test statistici per verificare se ciò che si è osservato non sia frutto del caso. In base a una o più misure si cerca di costruire una teoria che spieghi il perché delle cose. Perché la Terra gira su sé stessa, perché l'uomo prova emozioni, perché le cellule si mol­ tiplicano, perché gli atomi si aggregano in molecole. Più le misure sono precise e dettagliate, più precise e dettagliate sono le teorie. Più le misure sono oggettive e riproducibili, più è probabile che le teorie siano vere. Se una misura si rivela successivamente sbagliata, la teoria crolla o deve essere modificata. Questa è la scienza spiegata in dieci righe. L' umanesimo, come la scienza, cerca di capire l'uomo e l' Un iverso ma, a differenza della scienza, non usa misure. Si basa invece sulle attività, le creazioni, la storia e il pensiero dell 'uomo. L'umanesimo dunque si in­ centra sull'uomo, sulle sue opere letterarie, artistiche, sociali, scaturite da sentimenti interiori e profondi, come l'amore, l 'odio, il dolore, l'angoscia,

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l'entusiasmo, l'euforia, la tristezza, la paura, il terrore, la gioia. Il suo cri­ terio di ricerca si basa su ciò che viene dall ' interno dell'uomo, dalle sue emozioni, dalla sua parte razionale e da quella irrazionale. Descrive eventi passati, presenti e futuri usando l'arte nelle sue varie forme, la scrittura, le parole. E così nascono le opere artistiche, nascono le poesie, nasce la critica letteraria. Nascono da uomini e vanno a colpire lo stato d'animo di altri uomini. Questo avviene senza il problema della riproducibilità. Questo è l'umanesimo spiegato in dieci righe. Sebbene scienza e umanesimo siano spesso considerati ai poli opposti, entrambi hanno come unico fine quello della comprensione dell'esistenza dell'uomo. L'arroccamento intellettuale su una posizione o sull'altra non fa di certo progredire le nostre conoscenze. Lo scienziato non deve esse­ re solo un freddo tecnico che misura, né l ' umanista deve ignorare l ' im­ patto delle scoperte scientifiche sul mondo in cui viviamo. Uno scien­ ziato umanista e un umanista scienziato dunque. Nel momento in cui lo scienziato effettua una misura non solo come tecnico ma come uomo che vuole conoscere, vuole sapere, vuole placare l 'angoscia interiore della sua solitudine nell' Universo, egli stesso assume le sembianze dell' uma­ nista. Analogamente, l 'umanista deve e può considerare la scienza come qualcosa che ci ha in parte rivelato la verità del mondo che ci circonda. La scienza ha sfatato miti e abbattuto castelli incantati, ha trasformato la luna da poesia in sabbia calpestata dall 'uomo. Scienza fredda e cruda dunque, ma veritiera. Perché questo libro inizia con alcune righe su scienza e umanesimo ? Perché la luna è stata sì calpestata dall'uomo, ma tutt 'oggi continua a evo­ care poesia. E allora questo libro vuole raccontare le vicende di un pazien­ te da una prospettiva scientifica, che vuoi parlare sia di misure sia di senti­ menti, stati d'animo ed emozioni. È una scienza che cerca di capire quello che si nasconde nell'animo umano. E lo fa in un contesto e in un'epoca in cui la medicina ha fatto sì passi da gigante, ma ascoltare il paziente è diventato un evento sempre più raro. I grandi successi della medicina in ambito molecolare ci permettono oggi di capire e curare una gran varietà di malattie e, quando purtroppo ciò non è possibile, di alleviare la sofferenza, anche se la malattia continua a progredire. Per esempio, nel primo caso è innegabile che esistano terapie che hanno risolto i problemi in maniera inequivocabile. L' identificazione dell' insulina e la sua conseguente somministrazione per abbassare il glu­ cosio nel sangue hanno drasticamente cambiato la vita dei pazienti che

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soffrono di diabete. Nel secondo caso, è altrettanto innegabile che i nuovi farmaci che combattono il dolore abbiano cambiato in maniera sostan­ ziale la qualità della vita di coloro che hanno un cancro in fase terminale. Anche se il cancro non può essere arrestato, la sofferenza può invece essere evitata. Di esempi di questo tipo ce ne sarebbero a decine e a centinaia. Questa medicina viene chiamata da molti molecolare o meccanicisti­ ca, al fine di sottolineare che si basa sulla comprensione dei meccanismi cellulari e molecolari di una malattia. Proprio a causa dei progressi nella comprensione di tali meccanismi, l' interazione fra medico e paziente si è a mano a mano affievolita, e oggi molti medici tendono a focalizzare l' atten­ zione più sulla malattia che sull' individuo. Se ciò è giustificato sotto molti aspetti, soprattutto considerando la disponibilità dei nuovi mezzi diagno­ stici e terapeutici, da un altro punto di vista questo allontana il medico dal­ la comprensione dell ' individuo. In altre parole, alla malattia c'è attaccata una persona, con le sue paure, le sue angosce, le sue speranze. Questa sfera psicologica è spesso cruciale nell'affrontare la malattia, nel combatterla e nel rispondere alla terapia che viene somministrata. L'effetto placebo ne è un chiaro esempio. Consiste nel miglioramento di un sintomo o di una malattia al solo credere che si starà meglio. Men­ tre l 'effetto placebo apparteneva fino a poco tempo fa a una sfera astratta che inglobava concetti come "suggestione" e "potere della mente", oggi si è visto che esso mette in moto delle molecole nel cervello del paziente che possono avere gli stessi effetti dei farmaci. Ne è un chiaro esempio la riduzione del dolore al solo credere di ricevere un potente antidolorifico (quando in effetti si riceve solo dell'acqua fresca) . In tal caso, il nostro cer­ vello libera delle sostanze del tutto simili alla morfina, le quali producono una diminuzione del dolore. Tale concetto rappresenta un passaggio epo­ cale nell 'ambito della medicina moderna, poiché dimostra che fattori psi­ cologici complessi, quali la fiducia nel medico, il credere in una terapia, la speranza di guarigione, hanno tutti effetti concreti sul cervello del pazien­ te, inducendo gli stessi cambiamenti cellulari e molecolari che la medicina molecolare e meccanicistica studia, analizza e utilizza. In tal senso, il rapporto medico-paziente dovrebbe assumere nella me­ dicina moderna un ruolo centrale, anche se purtroppo ciò non è sempre vero. È probabile che una ragione del grande successo della medicina alter­ nativa sia rappresentata proprio da questo aspetto di relazione e comunica­ zione interpersonale. Per esempio, una delle grosse differenze fra medicina convenzionale e medicina alternativa è rappresentata dal tempo trascorso

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dal medico ad ascoltare il paziente. Mentre il medico convenzionale tra­ scorre in media pochi minuti con il paziente in una visita tipica, il medico alternativo ascolta e interagisce con il paziente fino a quasi un'ora. Inoltre, mentre il primo focalizza la sua attenzione sulla patologia, senza curarsi di indagare le ansie e le speranze del suo paziente, il secondo vuole inserire la patologia in un più ampio contesto psicologico e sociale. In altre paro­ le, il rituale dell'atto terapeutico, così determinante nell'effetto placebo, è meglio eseguito e quindi più potente nella medicina alternativa rispetto a quella convenzionale. Ascoltare e interagire con il paziente diventa dun­ que fondamentale, poiché ciò può indurre la liberazione di sostanze nel cervello del paziente, per esempio le endorfine, che hanno effetti del tutto analoghi ai farmaci come la morfina. La relazione fra medico e paziente assume così un ruolo importante nell'ambito della stessa medicina meccanicistica, poiché può essere stu­ diata con lo stesso metodo e lo stesso approccio molecolare e cellulare. In effetti, la relazione medico-paziente, e più in generale terapeuta-paziente, è stata affrontata e studiata sotto questa prospettiva, suddividendola in quattro stadi fondamentali: il paziente sta male, cerca sollievo, interagisce con il medico, riceve la terapia. Sebbene questa sequenza nella relazione del paziente con il suo terapeuta possa sembrare ovvia, vediamo perché è così importante per inserirla a tutti gli effetti in una medicina meccani­ cistica, facendole quindi assumere un ruolo determinante nella medicina moderna. Il paziente che sta male rientra a tutti gli effetti in quella branca della neurofisiologia che studia i sistemi sensoriali, come il tatto, la vista e l ' udi­ to. Un sintomo non è nient 'altro che l'attivazione di un sistema sensoriale. Basti pensare al dolore, alla nausea, alla difficoltà a respirare. In ognuno di questi casi esiste una regione del nostro cervello, la cosiddetta insula, responsabile della coscienza di tali sintomi. È una regione che si è evoluta in modo particolare nell'uomo e che riceve informazioni da tutto il corpo. La coscienza del nostro corpo e la percezione di un sintomo come il dolore sono in gran parte dovute all ' insula. Un sintomo è quindi l'attivazione di un sistema sensoriale che arriva allo stato di coscienza, e che quindi comu­ nica al cervello che nel corpo c 'è qualcosa che non va. A questo punto si passa al secondo stadio. Il paziente cerca sollievo dal sintomo, per esempio il dolore o la nausea, mettendo in atto un repertorio comportamentale più o meno complesso. Il più semplice comportamento messo in atto per combattere il dolore può essere quello di assumere una

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determinata posizione del corpo. Al contrario, un comportamento com­ plesso può essere quello di rivolgersi a qualcuno (in genere un medico) per chiedere aiuto. In questo senso, cercare sollievo dal sintomo fastidioso è del tutto simile a cercare acqua quando si ha sete o cercare cibo quando si ha fame, oppure ancora a cercare calore quando si ha freddo. I meccanismi sono gli stessi e coinvolgono una struttura del cervello che prende il nome di nucleo accumbens. Nel momento in cui cerchiamo sollievo dalla sete, dalla fame o da un sintomo, il nostro nucleo accumbens viene attivato, e con esso una sostanza al suo interno che si chiama dopamina. La ricer­ ca del sollievo dal dolore assume allora lo stesso significato della ricerca dell'acqua e del cibo: come l'acqua e il cibo rappresentano ricompense che attivano il nucleo accumbens, così il medico rappresenta una ricompensa che attiva lo stesso nucleo accumbens. Una volta che il medico, cioè la ricompensa che si suppone produrrà benessere, è stato trovato, inizia il terzo stadio. È bene precisare che tale ricompensa nella nostra società occidentale è rappresentata dalla figura del medico, ma in altre culture è lo sciamano che raffigura la ricompensa che produrrà benessere fisico. Persino nel nostro mondo occidentale, credenze e convinzioni spesso inducono a identificare tale ricompensa in guaritori e ciarlatani. Qualsiasi sia la ricompensa (medico, sciamano o ciarlatano), il primo meccanismo che viene attivato quando il paziente interagisce con tale figura è quello della fiducia. Qui l'ormone ossitocina gioca un ruolo di primo piano, così come l 'amigdala, una regione che si trova nel nostro cervello. Infatti, maggiore è la produzione di ossitocina, maggiore è la fi­ ducia che abbiamo negli altri. Inoltre, l' interazione con il medico attiva i lobi prefrontali, nei quali ci sono quelle aree responsabili delle aspettative che il futuro sarà migliore del presente, ossia la speranza. Il compito del medico (o dello sciamano o del guaritore ciarlatano) è quello di somministrare qualcosa al fine di alleviare le sofferenze del pa­ ziente. Si passa allora al quarto stadio, in cui il paziente riceve appunto una terapia. Qui i meccanismi che entrano in gioco sono quelli dell'effetto placebo, in cui il solo credere in una terapia e l'aspettarsi un miglioramen­ to inducono l 'attivazione di una varietà di sostanze, simili per esempio alla morfina (endorfine) e alla cannabis (endocannabinoidi) . Come s i può vedere, s e vogliamo inserire l a relazione medico-paziente nel contesto della medicina meccanicistica, e vogliamo dunque descriverla in termini molecolari, cellulari e fisiologici, possiamo procedere come se­ gue. Nel paziente si attiva l' insula che produce la sensazione cosciente del

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sintomo. Quindi, si attivano il nucleo accumbens e la dopamina, con cui il paziente cerca sollievo. Poi intervengono l' ossitocina e i lobi p re frontali, attraverso i quali nascono fiducia e speranza. Infine, vengono liberate en­ dorfine ed endocannabinoidi che producono sollievo. Mentre i sostenitori della medicina meccanicistica e molecolare accet­ tano questa prospettiva della relazione medico-paziente, e infatti l'effetto placebo ha acquistato credibilità proprio in seguito a un tale approccio meccanicistico, è inutile dire che altri rifiutano questa visione riduzionista del rapporto fra il medico e il paziente. n vantaggio di adottare questa prospettiva risiede tuttavia nel fatto che si riesce ad arrivare, almeno in parte, a un punto di contatto fra concezioni opposte. In altre parole, una concezione più psicologica e olistica acquista maggiore credibilità agli oc­ chi dei riduzionisti proprio perché si dimostra che le parole, le aspettative, le suggestioni, le speranze muovono diverse molecole nel cervello del pa­ ziente e producono cambiamenti che a volte sono simili a quelli dei far­ maci. Sebbene questo dibattito riguardi tutte le branche della medicina, è facile immaginare come esso raggiunga l'apice laddove gli eventi mentali costituiscono essi stessi la patologia, vale a dire la psichiatria e la psicolo­ gia. Patologie come la depressione e la schizofrenia, che stanno sempre più diventando materia biologica con l' identificazione del coinvolgimento di aree cerebrali e neurotrasmettitori, ne sono un chiaro esempio. E ciò non riguarda solo l'aspetto conoscitivo, cioè i meccanismi alla base, ma anche quello pratico terapeutico, con l 'ormai classica contrapposizione fra psico­ farmacologia e psicoterapia. In questo libro viene presentato il caso di G. L., un paziente di cui, per ovvie ragioni, vengono dette solo le iniziali. G. L. racconta la sua storia, e dimostra come l 'ascolto del paziente da parte del medico sia cruciale per capire il suo disagio. L'approccio utilizzato per G. L. è quello della medici­ na narrativa, che si basa sulle narrazioni del paziente della propria malattia e del proprio disagio. La medicina narrativa, che vede in Rita Charon la principale fondatrice, considera i racconti dei pazienti come punto centra­ le della relazione medico-paziente, in cui il terapeuta cerca di comprende­ re la malattia e il paziente attraverso l'analisi e l' interpretazione di ciò che egli riferisce. La narrazione può essere orale o scritta. Spesso al paziente viene chiesto di scrivere lettere in cui narra i propri stati emotivi, le sto­ rie passate e le speranze future. Sebbene questo approccio sia utilizzato in tutta la medicina, esso riveste particolare importanza quando gli stati emotivi sono essi stessi patologia. Nei disturbi mentali quali la depressio-

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ne, la narrazione del paziente può essere fondamentale per capire le origini del disagio. G. L. è un caso affascinante, che si legge quasi come un romanzo, anche se spesso è frammentato. Purtroppo è un caso tragico poiché finisce con il suicidio. Il fascino è tutto nel perché G. L. si uccide, un perché decisamen­ te inusuale, o almeno noi lo crediamo tale. Se non ci fossero state le narra­ zioni che G. L. ci ha lasciato, il vero motivo del suo gesto ci sarebbe rimasto oscuro per sempre. Il suo è un movente che, pur essendo governato da una logica ben precisa, è difficile da comprendere per la maggior parte di noi. Il caso di G. L. è particolare ed estremo, ma ci fa capire che il pazien­ te e il suo disagio devono essere al centro dell 'attenzione del terapeuta. Per esempio, vista la particolare logica seguita da G. L., qualsiasi terapia farmacologica o psicologica si è rivelata, in questo caso, del tutto inutile. Il messaggio che scaturisce dal caso di G. L., anche se il finale è tragico, è chiaro : solo tramite l ' introspezione e l 'ascolto del paziente possiamo capi­ re a fondo il significato e le origini del suo disagio.

Note sull'enigma del suicidio

Sebbene il caso di G. L. possa apparire a prima vista come una storia di depressione e melanconia che purtroppo finisce tragicamente, a mano a mano che si procederà nella lettura ci si renderà conto che la verità è ben diversa. G. L. narra l 'evoluzione dei suoi stati emotivi nelle lettere scrit­ te a ogni incontro con il suo medico, e racconta le vicende drammatiche che lo hanno portato a compiere il gesto finale di autodistruzione. Que­ sto caso è abbastanza anomalo, poiché le ragioni che lo hanno indotto ad autodistruggersi sono del tutto inusuali, o almeno così appaiono a noi. Le lettere scritte da G. L. ci aiutano a capire la complessa dinamica del pensiero umano e ci fanno vivere esperienze emotive decisamente forti. La sua storia è importante perché sottolinea come il parlare, l'ascoltare, il capire il paziente siano fondamentali per comprendere i motivi di una malattia e le ragioni di un gesto drammatico. In effetti, spesso i moven­ ti di un suicidio sembrano essere chiari: può essere l ' amore, il dolore, la vergogna, il disadattamento sociale. Ma spesso il vero movente ci sfugge, anche se ci illudiamo di averlo in qualche modo afferrato. Perché ciò che angoscia e tormenta il suicida è racchiuso e imprigionato nel profondo del suo animo e si rivela a noi solo in maniera parziale e frammentaria. Se G. L. non ci avesse narrato la sua depressione, così razionale e drammatica, il vero motivo del suo gesto ci sarebbe rimasto oscuro per sempre. Il suo è un movente particolare, addirittura incredibile, abnorme, paradossale. Di certo è un movente governato da una logica ben precisa, che è però difficile da comprendere per la maggior parte di noi. G. L. fa parte di una lunga lista che sta spaventosamente aumentando. In alcuni paesi il suicidio rappresenta l'ottava causa di morte dopo le ma­ lattie cardiovascolari, i tumori, l' ictus cerebrale, gli incidenti, la polmo­ nite, il diabete e la cirrosi epatica. Basti pensare che in Europa, da meno di I O suicidi ogni wo.ooo persone in Spagna, Italia, Irlanda e Olanda, si

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arriva a più di 25 suicidi ogni wo.ooo persone in Germania, Scandina­ via, Austria, Svizzera e Paesi dell 'Est. L' Organizzazione mondiale della sanità ha stimato che circa 1.ooo persone al giorno in tutto il mondo si tolgono la vita. Una cifra davvero impressionante, considerando che una buona parte di queste ha fra i 15 e i 24 anni e che negli adolescenti il suicidio è la seconda causa di morte dopo gli incidenti o il cancro, a seconda dei paesi. G. L. si poteva ormai considerare al di fuori del periodo adolescen­ ziale, ma i suoi 25 anni ci feriscono come se fosse stato un bambino. Non aveva problemi familiari, né disturbi mentali, né malattie fisiche. E non faceva uso di droghe, alcol o altre sostanze. Il suo comportamento era mite e meditativo, con un' intelligenza certamente superiore alla norma. Nessun comportamento antisociale dunque. Nessuna depressione mani­ festa. Nessuna perdita recente di familiari cari. E per di più aveva un la­ voro e una carriera promettente a pochi mesi dalla laurea in matematica. Nessuno dunque di quei fattori così spesso associati al suicidio, come i problemi familiari conflittuali, i genitori che presentano disturbi psichia­ trici, la presenza di malattie fisiche o mentali, la disoccupazione, la morte di una persona cara. Tutto ciò in G. L. non c 'era. E questo in un certo senso ci conforta. Perché era impossibile prevedere, e quindi prevenire, l'esito negativo. Nella prima lettera che ha scritto appare subito come un giovane pro­ fondo. A 25 anni non è frequente. I problemi della vita se li poneva in pro­ fondità. Pensando alla sua età e al suo comportamento, è ovvio chiedersi se mai si sarebbe potuto intravedere qualcosa che facesse pensare a quel tragico finale. Ma dove scrutare? Nella sua personalità apparentemente ma­ tura e formata oppure in quello strascico di adolescenza che ancora si por­ tava dietro? I fattori associati al suicidio sono differenti, almeno per certi aspetti, nell'adolescente e nell'adulto. Negli adolescenti, per esempio, sono rappresentati dalla cosiddetta broken home, cioè dalla separazione o dalla morte dei genitori, o persino dal tentativo di suicidio da parte di uno dei due. Sono altrettanto importanti nell'adolescente i problemi connessi con l'uso di alcol e di droghe, oppure la presenza di un comportamento antiso­ ciale e di disturbi dell'umore e del pensiero, come la depressione e la schi­ zofrenia. Certamente la causa non è unica. Il comportamento suicidario è multifattoriale e molti fattori scatenanti possono far precipitare una situa­ zione già di per sé instabile. L'adolescente risulta essere particolarmente fragile a fenomeni della vita che gli producono un forte senso di delusione,

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di frustrazione, di impossibilità di reagire. Una bocciatura a scuola oppure una forte delusione amorosa possono scatenare il desiderio di togliersi la vita. Questi pensieri suicidi sono molto comuni nell'adolescente, ma per fortuna non sempre sfociano nell 'atto vero e proprio. Grande importanza ha anche l' identificazione del soggetto in certi personaggi, ad esempio del cinema o della televisione. Spesso si è avuto un incremento dei suicidi fra gli adolescenti in seguito a trasmissioni televisive in cui i protagonisti si toglie­ vano la vita. L' imitazione del comportamento suicidario di un personaggio famoso si chiama sindrome di Werther, e prende il nome dal protagonista del romanzo di Goethe intitolato I dolori del giovane Werther che si toglie la vita. Nel passato il romanzo fu proibito in alcuni paesi europei poiché causò il suicidio di molti adolescenti, i quali furono trovati con gli stessi abiti di Werther indosso, e con il libro aperto al capitolo sulla sua morte. Nell'adulto, molti di questi fattori sono sicuramente presenti, come i disturbi psichiatrici e l'uso di alcol e droghe. Circa il 1 5 % dei pazienti con grave depressione e circa il 1 5 % degli alcolisti si toglie la vita. Analogamen­ te, il 1 0 % degli schizofrenici si suicida. La frequenza dei suicidi aumenta con l'età, raggiungendo il massimo dopo i 4 5 anni per gli uomini e i 55 anni per le donne. Gli uomini si uccidono più delle donne, ma questo sembra sia dovuto all'uso di metodi più violenti ed efficaci da parte degli uomini rispetto ai metodi più dolci usati dalle donne, come l 'assunzione di alte dosi di farmaci. Il fatto di essere sposati con prole costituisce un fattore che diminuisce il rischio di suicidio, forse per la presenza di un senso di re­ sponsabilità verso i figli. Persone sole, vedovi, separati e divorziati presen­ tano invece un alto rischio. Il lavoro è anch'esso un aspetto importante. La disoccupazione aumenta il rischio di suicidio. Tuttavia alcune professioni, tipicamente quella di medico e di psichiatra, presentano una frequenza molto alta di suicidi. Ciò, fra l ' altro, sembra sia dovuto alla disponibilità e alla conoscenza di farmaci e droghe da parte dei medici. Se invece dei sui­ cidi si considerano i tentati suicidi, le cifre salgono spaventosamente fino a 10 volte. Anche la presenza di una malattia fisica è correlata con il rischio di suicidio. Basti pensare che il 32% dei suicidi aveva avuto problemi di salute nei sei mesi precedenti, e che studi autoptici hanno rivelato che una malattia fisica è presente fino al 7 5 % delle vittime di suicidio. I dati sono davvero impressionanti per chi li affronta per la prima volta. Molte teorie sono state avanzate sulla natura e sulla logica del suicidio, teorie che affrontano il problema dal punto di vista sociologico, psico­ logico e fisiologico. Alla fine dell' Ottocento, il sociologo francese Émile

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Durkheim ha suddiviso i suicidi in tre tipi. n primo è il suicidio egoistico, che deriva da una scarsa integrazione dell' individuo in un gruppo sociale, per esempio la famiglia. Questo spiega il perché i single sono più vulnera­ bili dei coniugati e il perché le coppie con figli sono a basso rischio. Analo­ gamente, essendo il Protestantesimo una religione meno coesiva e comu­ nitaria del Cattolicesimo, i protestanti hanno una frequenza di suicidi più alta rispetto ai cattolici. n secondo tipo di suicidio è quello altruistico che deriva, al contrario, da un'esagerata integrazione in un gruppo sociale a scapito della propria individualità. L'esempio tipico è il suicidio in guerra dei kamikaze in nome della patria. n terzo è il suicidio anomico, che è in­ vece dovuto a una mancata integrazione nella società in momenti di crisi economica e politica in cui avviene un cambiamento dello stato sociale ed economico dell' individuo. La psicoanalisi postula la possibilità che l 'aggressività che non può essere espletata verso l 'esterno si rivolge al proprio lo. Secondo Sigmund Freud non c 'è suicidio se non c 'è il desiderio di uccidere un'altra persona. Seguendo le orme di Freud, Karl Menninger descrive tre componenti del suicidio : il desiderio di uccidere, il desiderio di essere ucciso, il desiderio di morire. Secondo le più recenti teorie psicologiche non sembra esserci né una psicodinamica specifica né una personalità particolare associate al suicidio. Questo dato rivela tutta la nostra ignoranza sulla logica nascosta nell'animo del suicida. È il suicidio un modo di disfarsi di un nemico che abita nel proprio corpo? Questo è tipico degli stati psicotici. Oppure è la speranza di un sonno eterno ristoratore? O ancora, la ricerca di una vita migliore? In questo senso G. L. ci rivela qualcosa. È certamente solo una piccolissima parte di tutto il problema, ma ci aiuta a comprendere quel turbinio di emozioni da cui deriva il tormento interiore. Che cosa ci possono invece dire la biologia e la fisiologia sul suicidio? Le nostre emozioni e stati mentali sono anche governati dalla chimica dei nostri cervelli. In effetti, è stata avanzata l' ipotesi che il suicidio sia eredi­ tario, e quindi trasmesso attraverso il patrimonio genetico. Tale ipotesi si basa su studi effettuati su gemelli monozigoti, cioè derivanti dallo stesso uovo, i quali presentavano una concordanza per suicidio o tentato suici­ dio. Ma che cosa viene trasmesso attraverso i geni? Sicuramente i disturbi psichiatrici, come la depressione. Tuttavia, studi recenti sembrano dimo­ strare che ciò che viene trasmesso è un tratto caratteriale impulsivo. Studi effettuati sugli animali e sull'uomo hanno dimostrato che si ha uno scarso controllo dei propri impulsi quando la serotonina, una sostanza presente

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nel nostro cervello, è carente. E in effetti sono state trovate basse quantità di serotonina in soggetti che avevano tentato il suicidio in modo violento, per mezzo di armi da fuoco, rispetto a soggetti depressi che non avevano mai provato a togliersi la vita. Queste teorie, siano esse sociologiche, psicologiche o fisiologiche, ci aiutano certamente a capire qualcosa. Tuttavia, senza il bisogno di affidarsi alla sociologia, alla psicologia e alla fisiologia, il buon senso spesso sembra non lasciar dubbi. Che pensare per esempio di due giovani fidanzati che si tolgono la vita dopo essere stati ostacolati nel loro matrimonio? Oppu­ re di un adolescente che lascia una lettera d'amore alla fidanzata che l ' ha abbandonato? Oppure ancora, di un paziente a cui viene diagnosticato un tumore inguaribile? E ancora, di una persona indebitata per milioni con un'organizzazione criminosa? E di uno schizofrenico che improvvisamen­ te si toglie la vita? Ci sono forse dubbi su queste morti? Apparentemente no, ma non ne siamo poi così tanto sicuri. Il fattore scatenante c 'è. Qual è il significato profondo nascosto nell'animo del suicida? Certamente va fatta un' im­ portante distinzione fra l'adolescente deluso in amore e lo schizofrenico. Infatti ci chiediamo : "È veramente suicidio quello di uno schizofrenico in preda alle allucinazioni?". Di sicuro lo è dal punto di vista formale. Ma se noi definiamo il suicidio come l'atto deliberato di togliersi la vita con la consapevolezza del risultato, lo schizofrenico in fase allucinatoria esce pro­ babilmente da tale definizione. Infatti, in questo caso la consapevolezza di produrre la propria morte può non esserci. Al contrario, l'adolescente che proviene da una forte delusione amorosa sa perfettamente che il gettarsi da un ponte significa morire. E allora in questo caso ci chiediamo : "Ma è proprio l'amore il movente?". In alcuni casi certamente sì. Ma in altri casi? Il caso di G. L. ci permette di scavare più a fondo. Ci permette di cono­ scere la logica, almeno in alcuni casi, che porta all 'attuazione di un gesto così drammatico. Che cosa dire, per esempio, di un giovane apparente­ mente normale che una mattina qualsiasi si alza e si getta sotto un treno? In questo caso il movente sembra proprio non esserci, e noi spesso lo at­ tribuiamo all' instabilità mentale, ai problemi familiari nascosti o alle crisi adolescenziali insostenibili, concetti generali che in realtà non ci danno alcuna spiegazione. Nella nostra ricerca di capire, il caso di G. L. ci svela innumerevoli se­ greti. E tutti quei segreti ci riportano a casi passati di suicidio. Per esempio, pochi anni fa un adolescente di 17 anni, senza alcun motivo evidente, si

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tolse la vita gettandosi da un ponte. Sia i genitori sia i parenti e gli amici lo ricordano come un ragazzo normale sotto tutti i punti di vista, ma con una sensibilità non comune. Il suo sviscerato amore per gli animali lo portava a compiere atti apparentemente ridicoli, che in realtà però nascondevano un rapporto profondo e conflittuale con la Natura e l' Universo. Quando, per esempio, dopo una giornata di pioggia trovava una lumaca al centro della strada, faceva di tutto per raccoglierla e metterla al sicuro in mezzo all'erba. "Le macchine potrebbero schiacciarlà', diceva con tristezza. E ag­ giungeva: " Povera lumaca, è sola solà'. G. L., con le sue narrazioni, ci apre la mente. In questa prima lettera, in cui G. L. scrive l' inizio della sua storia, c'è un' impressionante analogia con la "povera lumaca sola sola".

La prima lettera Il mulo

È in Africa che inizio tutto. Non so se maledire o benedire quel giorno che

decisi di partire, invitato da dei conoscenti che vivevano li, vicino a Dakar, e che aiutavano persone del luogo e missionari a costruire asili e scuole. Inizio tutto da una gita che avevo accettato difare con padre A., un simpatico frate barbuto che viveva in quei luoghi da anni, che doveva raggiungere una chie­ setta posta sulla cima di una ripida salita. A mano a mano che procedevamo verso la cima, cominciava a delinearsi proprio difronte a noi il crestone roccioso di cui mi aveva parlato padre A. Era ripido e sassoso, ma soprattutto era circondato ai due lati da due ripidepareti, quasi verticali. Dopo poco tempo ci trovammo proprio ai piedi di quella lunga striscia di roccia. Vista da li appariva decisamente molto ripida e pericolosa. Molto lentamente cominciammo a salire. Ormai il sole era di molto sopra l'orizzonte e il caldo cominciava a farsi sentire. Spesso cifermavamo a bere dell'acqua perché l'aria era cosi secca che la bocca si asciugava in pochi minu­ ti. Il povero mulo, che camminava davanti a me, faceva vistosamentefatica, sia per il carico sia per le sue condizionifisiche. Infatti era magro a tal punto che era possibile vedere le costole sollevare la pellefina e asciutta. Le gambe erano poi cosifini che sembrava impossibile potessero reggere ilpeso del corpo e del carico. Eppure tutti gli asini e i muli che avevo visto li erano nelle stesse condizioni e portavano carichiforse ancor piu pesanti. Padre A. camminava davanti al mulo tenendo/o per la corda, e spesso era costretto a dare violenti strattoni perfarlo andare avanti. Il crestone era ora decisamente ripido e mi sembrava di salire per quelle vecchie scalinate in pietra con alti gradini. Il mulo aveva rallentato notevolmente l'andatura e sembrava che ora per lui lo ifòrzofosse immenso. Accelerai ilpasso e mi trovai afianco dell'a nimale, qua­ si vicino a padre A. Gli occhi di quella povera bestia erano dolci e sojferenti. Sembrava rassegnato alla sua condizione eforse sapeva che se sifossefermato sarebbe stato bastonato. La gente li non si faceva certo problemi in questo

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senso! Dentro di me scatto qualcosa, ma non so dire esattamente in che modo, anche perché in una situazione delgenere non mi ero mai trovato. Ebbi una pieta enorme per quel! 'animale. Perché solo lui doveva portare il carico f Non sarebbe stato piu giusto distribuirlofta tutti noi? Persino padre A. sembrava non curarsi della sua soffirenza. - Fermiamoci un attimo! - esclamai improvvisamente. - Sei stanco ? - mi domando padre A. girandosi verso di me. - Si, un poco... - gli risposi. - E poi mi sembra che il mulofoccia una gran fàtica. Guarda come stenta ad andar su! Sembra che crolli da un momento all'altro. - Oh, sono bestie resistenti queste! - esclamo padre A. sorridendo. - Anche se sono cosi magri, sono abituati a portare carichi ben piu pesanti! - Mah, forse piu che abituati hanno paura di essere bastonati! - gli risposi con tono un po' sconcertato. - E poi mi fo veramente una gran pena. Per­ ché deve portare tutto il carico lui? Forse sarebbe piu giusto se lo aiutassimo. Prendiamo le nostre sacche e due taniche d'acqua a testa. Sicuramente gli diminuiamo il carico di diversi chili. - Non penso sia il caso - mi disse padre A. con un 'intonazione di voce legger­ mente ironica. - Forse stai sottovalutando le possibilita del mulo. Non ti pre­ occupare, questi animali sono abituati aforne di stradafta queste montagne. Non ne ero convinto. Quel povero animale era davvero barcollante! Forse sarebbe stato sufficiente levargli qualche chilo. Le parole di padre A. mifoce­ vano sembrare esagerate le mie preoccupazioni. Ma era scattato in me qualco­ sa di non ben definito. L'idea poi dell'impotenza di quella bestia mi turbava parecchio. Non poteva decidere, non poteva fore scelte, non poteva scappare dalla sua condizione. - Beh, io prendo la mia roba! - esclamai ad un tratto. - In fin dei conti quandofoccio passeggiate in montagna ho uno zaino ben pesante. Padre A. mi guardo sorridendo, ma io non cifoci caso. La mia attenzione era centrata sugli occhi tristi del mulo, sulla sua testa bassa, le sue gambe tremolanti, il suo ansimare affannoso. Era una sensazione di solitudine di quell'animalepiccolo piccolo in mezzo a quella Natura grande grande. Slegai la mia borsa ed una grossa sacca e le caricai sulle spalle. Poi presi due taniche d'acqua, accarezzai il muso dell'animale e ripresi a camminare. Padre A. mi guardo in silenzio, senza alcuna espressione. - Non mi chiedereperché lofoccio, - gli dissi, - sento solo il bisogno diforio. Perché quest 'animale mifo pena. Dapprima ripresi a camminare davanti, poi rallentai ilpasso e mi ritro-

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vai dietro il mulo. Volevo vedere meglio come procedeva con il carico piu legge­ ro. Le cose non mi sembravano molto cambiate. La sua andatura era sempre barcollante e sembrava chefocesse un grande sjòrzo. Forse il carico era ancora troppo pesante, o forse aveva ragione padre A. Forse mi ero lasciato impres­ sionare dagli occhi umidi e dall'atteggiamento ricurvo. Forse quell'andatura era normale per quei muli. Eravamo ormai arrivati all'ultimo tratto del crestone. Facevamo jàtica tutti e tre. Ogni nostro passo era seguito dal rumore provocato dal roto/io dei sassi che si staccavano al di sotto delle nostre scarpe. Erafoci/e scivolare su quel terreno instabile, e bisognava stare davvero molto attenti. Tutto avvenne nel giro di pochi secondi, senza che né padre A. né io potessimo for niente. Le zampe di destra del mulo slittarono su di un mucchio dipietre e la bestia cad­ de dapprima su/fianco, poi rotolo giu per la scarpata. Padre A. fece appena in tempo a mollare la presa della corda, altrimenti sarebbe precipitato anche lui. Fu un rotolare lento ma continuo, per un centinaio di metri. Il carico si disperse da tutte le parti e rotolo giu, saltellando e sobbalzandofino in fondo alla scarpata. Il mulo, invece, sifermo su una sporgenza della roccia, divinco­ landosi e scalciando con le zampe anteriori. Mi girai verso lo strapiombo e vidi che il mulo era ancora vivo. Conti­ nuava a scalciare con le zampe anteriori e sollevava ripetutamente la testa emettendo versi di dolore. Le zampe posteriori erano immobili e penzolavano di qua e di la ad ogni movimento chefoceva. Probabilmente erano rotte. Il cuore mi si raggelo. La mia testa era squarciata da quei ragli di dolore. Non avevamo molta scelta. O abbandonare quell'animale li senza rischiare di scendere nella scarpata, o cercare di raggiunger/o per potergli dare un colpo di grazia. Mi resi conto che non avevo mai visto qualcuno soffrire, e la vista di quell'animale impotente ebbe su di me un impatto emotivo inaspettato. Non avevo dubbi, non potevo abbandonare quell 'animale. Dopo una lunga agonia, sarebbe morto di sete o difome, oppure dissanguato. Quella Natura immensa e selvaggia sarebbe stata indiflèrente al suo dolore e avrebbe permes­ so che quella bestia combattesse disperatamente con la propria soffirenza. Mi levai velocemente la sacca dalle spalle e mi accinsi a scendere. Lofeci cosi, qua­ si senza pensarci. Non sapevo nemmeno come gli avrei dato il colpo digrazia. - Non possiamo stare qui a guardarlo aspettando che smetta di scalciare. E poi, anche se lo vediamo immobile, chi ci dice che e morto ? - dissi a padre A. Cominciai a calarmi. In quel punto la parete era meno ripida ma molto .friabile. Le pietre rotolavano giu e arrivavano fino all'animale, colpendolo violentemente. Scesi giu senza niente, usando solo le mani come appoggio.

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Con le punte dei piedi cercavo di colpire violentemente quella terra .friabile performare dei gradini. Come quando si cammina su di un ripido nevaio, che si a.ffòn da la punta dello scarpone nella neve. Il mulo si trovava a non piu di cento metri. Piu voltefui sul punto di perdere l'equilibrio e di cadere. Padre A. si era alzato in piedi e dall'orlo della cresta rocciosa cercava di gui­ darmi in ogni mio passo. Finalmente arrivai vicino all'animale, ma come fui a pochi metri di distanza, inizio a scalciare violentemente e a contorcersi. Era evidente che aveva paura della mia presenza. Forse il dolore che sentiva gli aveva provocato quella reazione di paura nei miei con.fronti. Fatto sta che era impossibile avvicinarsi. Dovetti aspettare diversi minuti, accovacciato su una piccola sporgenza della roccia. Alla fine, esausto per lafotica e il dolore, si calmo. Era immobile, e mi guardava fisso con quei suoi occhi umidi rasse­ gnati. In quei momenti non provai nessuna emozione. L 'unico mio obiettivo era quello di uccidere quell'animale. Non pensavo ad altro. Ilprimo passo era stato quello di scendere nella scarpata, il secondo era quello di trovare il modo per ucciderlo. Mi resi subito conto che quell'atto era piu difficile di quanto avessi potu­ to immaginare. Ci pensai un attimo. In effetti, li appollaiato su una roccia, senza niente intorno, come avrei potuto porrefine alle sojforenze di quell'ani­ male? Farlo rotolare giu per la scarpata con uno spintone? Era da escludersi! Sarebbe magari arrivato alfondo del precipizio ancora vivo e certamente piu malconcio. Cosa potevofore? Non avevo niente. Le uniche armi che mi si pre­ sentavano davanti erano le pietre li intorno, dalleforme piu disparate. Avrei dovuto prenderne una, magari a punta, e colpire! Colpire violentemente la testa del mulo, fino a stordir/o e poi a ucciderlo. Non persi tempo. Mi guar­ dai intorno per cercare una pietra grossa e appuntita. Non fu certo difficile trovarne una. Era incastrata nel terriccio. La tiraifuori e mi avvicinai con cautela al mulo. L'animale non aveva piu reazioni. Mi guardava spaventa­ to, ansimando rumorosamente. Guardai meglio. Le zampe posteriori erano davvero spezzate e sanguinavano vistosamente. Dovevo colpire subito! Piu presto colpivo, piu presto sarebbero finite le sojforenze di quella bestia. Alzai la pietra, ma non ebbi il coraggio di andare oltre. Mi accorsi che stavo pian­ gendo. Non me ne ero accorto durante quellefosi concitate. Non era poi cosi facile uccidere quell'animale! Sentivo che il coraggio mi veniva meno. Avrei voluto tornare su da padre A., e aspettare che gli eventi avessero avuto il loro decorso naturale. Dopo tutto, quante volte succedono incidenti di questo tipo, e uomini e animali muoiono dopo una lunga agonia. Mi sentii un vigliacco. Un terribile vigliacco. Avevo parlato bene, ma ora prendere una decisione era

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maledettamente difficile. Ero solo! Cosa dovevofore? Nessuno che mi incorag­ giasse o mi deplorasse. Ma non potevo piu aspettare. Il mulo ansimava sempre piu forte ed emetteva versi di dolore. I suoi occhi si aprivano e si chiudevano. Mi sembro che implorassero la mia pieta. Mi guardavano profondamente e da loro traspariva tutta la sofferenza che quell'animale provava. Avrei voluto parlargli, come ad un essere umano. Mi resi conto che ora stavo piangendo a dirotto e che le mani mi tremavano. Ancora una volta il mio sguardo incro­ cio quello del mulo. Ancora una volta provai uno strazio interiore profondo. Alzai la pietra. Chiusi gli occhi e li strinsi forte. E colpii. Colpii il piu vio­ lentemente possibile. Una, due, tre, quattro e altre volte ancora. Sentii un forte verso, lungo e acuto. Sentii un liquido caldo sul mio volto, e sentii che la pietra mi ifuggi dalle mani tremolanti e doloranti. Aprii gli occhi. Il cranio del mulo era fracassato e sangue e cervello erano schizzati tutt 'intorno, sulla terra e su di me. Mi passai le mani sul volto. Piangevo disperatamente. Poi, senza nemmeno rendermene conto, urlai a squarciagola giu nella vallata. - L'ho ucciso, - urlai singhiozzando, - l'ho ucciso... È qui davanti a me. È morto adesso! - Vieni su, per carita, vieni su! - urlo padre A. Aspettai qualche minuto prima di alzarmi e di risalire. L 'avevo fotto. Proprio cosi, l'avevo fotto. Avevo posto fine alle sojfèrenze di quell'animale. Ad un senso di conforto si opponeva un senso di angoscia. Ma ora il mulo non soffriva piu. Non avrebbe piu passato lunghe ore in agonia e solitudine in attesa della morte. Mi sentivo orgoglioso di quell'atto che avevo compiuto, ma il mio cuore era pieno di sconforto e amarezza. Avevo smesso di piangere, ma allo stato emotivo della mia disperazione interiore si era sostituito un senso di depressione e di astenia. Non avrei avuto voglia di alzarmi e di risalire la scarpata. Sarei rimasto li, vuoto di pensieri e di idee razionali. Mi sembrava tutto cosi inutile, ogni azione che compivo, sia buona che cattiva. Mi sembra­ va di aver rotto il silenzio e l'indiflèrenza della Natura. Avevo risparmiato qualche ora di agonia ad un povero animale. Ma che piccolezza in confronto ai milioni di animali e uomini che soffrono. Nel giro di pochi minuti era nato in me uno stato d'animo nuovo. Vedevo che l'agonia, la sofferenza, la solitudine sono del tutto naturali nel grande disegno della vita. La Natura non si accorge che succedono. Con la testa e le gambe pesanti mi alzaifoticosamente e, quasi senza voglia, mi arrampicai fino alla cima del crestone. Padre A. mi sifoce incontro, miprese la mano e mi abbraccio stretto. Mi guardofisso in foccia. Avevo gli occhi rossi e gonfi per il pianto. Non dissi niente. Non sapevo proprio che dire. Sentivo solo una stretta

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al cuore che mi prendeva violentemente e non mollava la presa. Mi girai verso ilfondo della scarpata a guardare il corpo senza vita dell'animale. Mi ven­ ne un senso di disgusto profondo, una mossa violenta di stomaco, e vomitai. Vomitai a piu non posso coprendomi con ambedue le mani, voltando le spalle a padre A. Alla fine mi asciugai la bocca con un panno e miformai a fissare padre A., quasi volessi da lui una spiegazione di tutto quello. - Dio ti ha visto e si ricordera di questo tuo gesto di pieta. - Non ha visto niente! - risposi con tono pacato e dimesso, quasi sottovoce. Solo tu, io e il mulo abbiamo visto quello che e successo qui. Nessun altro! Ricominciammo a camminare silenziosamente in fila indiana, padre A. davanti, io dietro.

Note sulle emozioni

In G. L. traspare una spiccata sensibilità nei confronti di qualsiasi essere vivente e delle leggi crudeli della Natura, ma ciò non è evidentemente suf­ ficiente a far prevedere alcunché, come nel caso della "lumaca sola solà' del diciassettenne suicida. La presenza di una grave forma di depressione o ansia è sicuramente un campanello d'allarme per il rischio di suicidio. A ciò si può aggiungere una manifesta volontà di togliersi la vita e la preoc­ cupazione per le conseguenze di tale gesto sulle persone care. Inoltre, se dopo un periodo di agitazione, profonda depressione e pianificazione del suicidio, subentra uno stato di quiete e rassegnazione, questo può indicare l ' imminente attuazione del gesto. Se sono poi presenti alcuni fattori di rischio, come l'età, l'abuso di alcol, la perdita di persone care, la perdita del lavoro, lo stato civile, la probabilità aumenta. Sebbene non ci sia sempre la dichiarazione aperta delle proprie intenzioni, ben l' 8o% dei suicidi aveva dato nel passato avvertimenti espliciti o impliciti. Come risulterà anche dalle narrazioni successive, G. L. ci aiuta a com­ prendere cosa vuol dire sentirsi impotenti nei confronti degli eventi della vita. Il sentirsi impotenti e depressi è una sensazione particolare, che forse tutti hanno provato almeno una volta nella vita, caratterizzata da uno stato interiore spesso difficile da descrivere. Questo stato interiore è rappresen­ tato da una sensazione spiacevole di tristezza, melanconia e sconforto che è l 'espressione di un nostro stato emotivo. Per dare una definizione esau­ riente ed esplicativa di emozione, un esempio della vita di tutti i giorni può aiutare. Prendiamo una situazione molto semplice, come la vista di un paesaggio. Le luci, i colori e le forme che vediamo sono sempre associati a due sensazioni opposte, "mi piace" o "non mi piace': che costituiscono la componente emotiva di ciò che percepiamo. Questa sensazione piacevole o spiacevole è inscindibile da ogni nostra esperienza della vita quotidiana. Ciò è valido non solo per la vista, ma anche per l'udito, il tatto, l 'olfatto, il

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gusto, e situazioni ben più complesse facenti parti della sfera intellettuale, come lo studio di discipline quali la storia antica o l'astronomia: questo complesso aspetto intellettuale può essere associato a uno stato emotivo positivo (mi piace) o negativo (non mi piace ) . Durante l a vita quotidiana siamo dunque pervasi, spesso senza render­ cene conto, da stati emotivi piacevoli e spiacevoli. Chi non ha mai provato sensazioni piacevoli e gratificanti o emozioni spiacevoli e angoscianti? A volte nell'arco della giornata possono affiorare alla nostra coscienza una miriade di emozioni positive, come l 'entusiasmo, l'amore, l'esaltazione, la gioia, l 'estasi, la soddisfazione del mangiare e del bere, il piacere di un odo­ re o di un sapore, il piacere dell'atto sessuale, la gratificazione della lettura di un libro o della visione di un film. Analogamente, stati emotivi negativi da cui vorremmo fuggire spesso tormentano il nostro animo : l 'odio, l 'o ­ stilità, l a paura, l'ansia e l 'angoscia, l a disperazione, l a tristezza, l a collera, il senso di colpevolezza, la privazione dell 'atto sessuale, il disgusto per un odore o un sapore, la sgradevolezza di un suono, l'avversità verso una teo­ ria scientifica o un'opera letteraria. Anche se può apparire semplicistico, il comportamento degli animali e dell'uomo è fondamentalmente guidato da queste due sensazioni opposte. Una chiave di lettura per spiegare i comportamenti della nostra vita quo­ tidiana è rappresentata da una continua battaglia fra piacere e dispiacere. Il comportamento umano ha dunque un duplice scopo : quello di ricercare il piacere e quello di evitare il dispiacere. Tutto ciò che facciamo è rivolto alla ricerca di sensazioni piacevoli e alla fuga da sensazioni spiacevoli. Questo vale per tutti gli animali, o almeno per quelli che hanno la capacità di provare piacere e dispiacere. Paul MacLean ha proposto che nel corso dell'evoluzione il cervello delle diverse specie animali è diventato sempre più complesso, e ciò è dovuto alla comparsa di nuovi strati su cervelli relativamente sempli­ ci. Questo modello è conosciuto come cervello stratificato di MacLean. Da un piccolo cervello protorettile capace solo di comportamenti stereotipati e innati si passa nel lungo cammino evolutivo a un nuovo strato, quello pa­ leomammifero, che rappresenta il primo passo per lo sviluppo della natura cosciente. È qui che compaiono le emozioni e le sensazioni piacevoli e spia­ cevoli. L'ulteriore stratificazione porta infine al cervello neomammifero, in grado di elaborare strategie e concetti e di modificare le attitudini di conser­ vazione. Il cervello dell'uomo è all'apice dell 'evoluzione ed è formato dai tre strati, protorettile, pale o mammifero e neo mammifero. Animali più sempli­ ci, quali appunto i rettili, sono costituiti dal solo strato protorettile.

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Mentre è possibile distinguere le sensazioni soggettive in piacevoli e spiacevoli, non è altrettanto possibile distinguere ciò che produce piacere e dispiacere. Infatti, le cose che producono piacere sono diverse da indivi­ duo a individuo. L'odore della vernice può rivelarsi buono per alcuni ma cattivo per altri. La vista delle montagne può essere splendida per alcuni ma orribile per altri. La Divina Commedia dantesca può risultare gradevo ­ le per alcuni ma sgradevole per altri. Lo studio dell'astronomia può essere piacevole per alcuni ma spiacevole per altri. E allora ecco che i comporta­ menti degli uomini si differenziano. C 'è chi cerca la vernice, le montagne, la Divina Commedia, l'astronomia. E c 'è chi le evita. Non esiste perciò una scala di cose ed eventi piacevoli ben identifica­ bile. Esistono solo la sensazione e lo stato emotivo dell' individuo. Questi stati emotivi sono i padroni incontrastati dell'animo umano e determi­ nano le scelte che noi facciamo durante tutto l'arco della vita. Il concetto rappresenta uno degli aspetti più importanti per cercare di capire le per­ sone che abbiamo di fronte. Spesso, invece, ci basiamo sul nostro punto di vista e classifichiamo ciò che ci procura piacere come un evento o una cosa piacevole. Non possiamo partire dal presupposto che l 'odore della vernice è buono, le montagne sono belle, la Divina Commedia è splendida, l ' astro­ nomia è interessante. Gli stati emotivi indotti da questi eventi possono essere diametralmente opposti per le persone vicino a noi. Purtroppo, a volte il concetto di piacere soggettivo sfocia nella psicopa­ tologia. E allora un'emozione piacevole può essere provocata da circostanze abnormi. Il pedofilo cerca il rapporto sessuale con i bambini perché prova un immenso piacere nel farlo. Il piromane dà fuoco ai boschi perché ciò gli pro­ cura uno stato di gioia ed eccitazione. Il cleptomane ruba perché l'appropriar­ si delle cose altrui gli procura un' intensa gratificazione. In questo caso siamo certamente autorizzati a creare una scala di valori oggettivi, perché il pedofilo, il piromane e il cleptomane interferiscono con la libertà degli altri e fanno del male alla società. Tuttavia, anche in questi casi, è fondamentale capire che tali gesti orribili derivano da una sfrenata e abnorme ricerca del piacere. Perché il piacere, o il dispiacere, sono provocati da situazioni così di­ verse in individui differenti ? La risposta a una simile domanda non è facile poiché solo con difficoltà riusciamo a comprendere la dinamica che por­ ta a stati emotivi opposti. Fattori genetici, ambientali e culturali giocano tutti un ruolo primario. E così l ' individuo si trova di fronte alle proprie emozioni senza nemmeno accorgersene, senza aver avuto la possibilità di esercitare un controllo sul suo patrimonio genetico e sull'ambiente in cui

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è vissuto. Noi viviamo, pensiamo, amiamo e odiamo in un certo modo. Ci troviamo a un certo punto della nostra vita in cui proviamo piacere per certe cose e dispiacere per altre, dalle più semplici alle più complesse, come accorgersi a un tratto che il gelato non ci piace, mentre ci piace molto lo studio dell'astronomia. I geni e l'ambiente ci hanno plasmato in questo modo, ma non sappiamo esattamente come e perché. Per esempio, un in­ dividuo che da bambino ha mangiato un gelato ed è stato male più volte può mostrare da adulto una riluttanza per i gelati poiché li associa a uno stato di malessere. Oppure sono le cellule gustative della lingua a essere state costruite dai geni in modo tale da rifiutare il gusto del gelato. Analo­ gamente, un individuo che da bambino guardava le stelle in pace e serenità vicino ai genitori può crescere con una passione per il cielo e le stelle che deriva inconsciamente da quelle belle esperienze dell ' infanzia. Ma è anche il cervello dell' individuo che è stato predisposto geneticamente per il ra­ gionamento matematico, e allora l'astronomia piace. Le emozioni compaiono quindi improvvisamente o gradualmente in noi, ed è spesso difficile contrastarle. Governano la nostra esistenza e ce ne accorgiamo quando cresciamo. Scopriamo così, improvvisamente, di pro­ vare gioia, invidia, vergogna e tristezza. Tuttavia, questi stati emotivi non compaiono contemporaneamente. Lo sviluppo delle differenti emozioni è graduale, prima una e poi l'altra, secondo uno schema che si ripete costan­ temente in tutti gli esseri umani. Per esempio, a un anno e mezzo il bambi­ no è già in grado di provare vergogna, a 2 anni di sentirsi orgoglioso e verso gli II anni possono già comparire la tristezza e la melanconia esistenziale. La volontà, la forza d'animo, l'autocontrollo dell'adolescente e dell 'adulto possono sì bloccare l ' insorgenza di un intenso stato emotivo ma non è così semplice, perché anche la volontà, la forza d'animo e l 'autocontrollo sono soggetti alle stesse leggi genetiche e ambientali delle emozioni. G. L. era così. Aveva scoperto, quasi senza rendersene conto, la sua for­ te sensibilità e la sua sensazione di impotenza nei confronti della Natura. Provava quegli intensi stati emotivi, a volte con la capacità di controllarli, a volte no. Lo stato depressivo è un complicato insieme di sensazioni spiace­ voli, spesso frammiste e indefinibili. La tristezza sfocia nella disperazione, la paura genera ed è generata dali' ansia, l'assenza di ogni speranza nel futu­ ro produce rabbia, collera e violenza. Tutto ciò si trova e combatte all' in­ terno dell ' individuo portandolo a una globale sensazione di dispiacere e sconforto. Per tale motivo, la depressione viene definita come disturbo dell'umore, cioè dello stato emotivo.

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La depressione come malattia ha una lunga storia, essendo stata ricono­ sciuta e descritta fin dall'antichità. È possibile trovare la descrizione di una sindrome depressiva sia nell'Antico Testamento a proposito del re Saul, sia nell'Iliade di Omero a proposito del suicidio di Aiace. Circa nel 4 o o a.C., lppocrate indicò alcuni disturbi mentali con i termini mania e melanconia, e nel 3 0 d.C. Aulo Cornelio Celso riprese il termine melanconia nella sua opera De medicina. Dal I secolo d.C. questi termini furono comunemente usati da medici quali Areteo e Galeno, fino al r 6 8 6, quando Bonet descrisse un disturbo mentale che chiamò stato maniaco-melancholicus. Alla metà dell' Ottocento due psichiatri francesi, Jean-Pierre Falret e Jules Baillarger, identificarono con i terminifollia circolare efollia a doppiafo rma un distur­ bo mentale caratterizzato da periodi al terni di profonda depressione e stati maniacali. lnfine, Emil Kraepelin nel r 8 99 descrisse alcuni criteri diagnostici, simili a quelli usati ai giorni nostri. In effetti, partendo dalle osservazioni di Kraepelin si possono oggi di­ stinguere due tipi fondamentali di depressione. La depressione unipolare è caratterizzata dalla presenza del solo stato depressivo. In questo caso, si succedono sensazioni di colpa, disinteresse totale per la vita, pensie­ ri ricorrenti di morte e suicidio, mancata capacità di concentrazione su qualsiasi tipo di attività, tristezza, disperazione, pianto frequente, inson­ nia o eccessiva sonnolenza, desiderio di rinchiudersi in sé stessi evitando il contatto con l'ambiente esterno. A questi stati di sconforto profondo si possono alternare stati emotivi diametralmente opposti. Si parla allora di depressione bipolare, in cui compaiono stati maniacali veri e propri con sensazioni di benessere esagerato, di potenza e grandiosità, loquacità smo­ derata, agitazione motoria ed eccessivi comportamenti sociali o sessuali. In tal caso, gli episodi maniacali si alternano agli episodi depressivi, come si noterà parzialmente nella prossima lettera di G. L. Questo agitarsi e succedersi di emozioni è un'esagerazione di quel­ lo che avviene nelle persone sane. La nostra vita emotiva interiore spes­ so cambia così velocemente senza che noi stessi riusciamo a rendercene conto. E allora ci troviamo frequentemente in situazioni di disperazione e angoscia che prendono prepotentemente il posto di stati di gioia ed entu­ siasmo. L'alternarsi vorticoso di stati d'animo non influisce tuttavia sulla normalità della nostra vita quotidiana. La nostra vita e il nostro lavoro continuano proprio perché siamo in grado di controllare questo avvicen­ darsi di stati emotivi. Nel depresso invece tale controllo manca, e lo stato emotivo prende il sopravvento sulle attività quotidiane.

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Come succede spesso in psichiatria, è spesso difficile stabilire qual è il limite fra lo stato di normalità e di malattia. Un episodio depressivo in seguito a situazioni particolarmente stressanti della vita costituisce una normale reazione emotiva. Per esempio, la perdita di una persona cara rap­ presenta una causa chiara e ben identificabile di depressione. Ma, mentre la maggior parte degli individui è in grado di reagire a questa situazione di disperazione e sconforto, alcuni sono risucchiati nel vortice delle emo­ zioni e con difficoltà riescono a uscirne. In tal caso, quando cioè la causa è individuabile, si parla di depressione esogena. Tuttavia, molto spesso lo sta­ to di profonda depressione insorge senza alcuna causa. Questa depressione endogena non è cioè riconducibile ad alcun evento stressante della vita. Il soggetto cade in uno stato di sconforto, disperazione e tormento interiore, sebbene la sua vita sociale e individuale non giustifichi una tale situazione. Vale la pena ricordare di un paziente che era stato portato al pronto soccorso da alcuni amici durante una partita di calcio. Improvvisamente, senza alcun segno premonitore, si era chinato sul campo da gioco e aveva cominciato a pregare. Alla richiesta dei compagni di cosa stesse facendo, aveva risposto che era entrato in contatto con Dio. In un primo momento i compagni di gioco pensarono fosse uno scherzo, ma poi si resero conto che c'era sotto qualcosa di serio. Il ragazzo divenne infatti catatonico, cioè smise di parlare e si irrigidì tutto. La sua storia passata apparve chiara quando gli amici e l'ex fidanzata dissero che da un po' di tempo alternava periodi di iperattività, grandiosità sportiva e religiosa, insonnia e intenso desiderio sessuale a periodi di ipoattività, facile stancabilità, sonno per più di 15 ore al giorno, asocialità e assenza completa di desiderio sessuale. Il suo comporta­ mento bizzarro, le sue idee religiose esasperate e quell'altalena di eccitazione e depressione erano stati ignorati dai suoi amici fino all'episodio catatonico. Lo stato interiore di G. L. era un mare in tempesta. G. L. si chiedeva i mille perché della vita e nella sua ricerca spesso inciampava in ostaco­ li grossi. Evidentemente, a un certo punto ha perso il controllo delle sue emozioni. Come apparirà nella narrazione della seconda lettera, le emo­ zioni negative hanno ancora una volta preso il sopravvento e hanno raffor­ zato quello stato di angoscia e disperazione che era emerso nell' uccisione del mulo. G. L. ci fa perciò capire ancora una volta che cosa vuol dire pro­ vare uno stato depressivo e sentirsi impotenti, e ci comunica nuovamente la sua sensibilità nei confronti di una Natura ostile.

La seconda lettera Rico

Forsefu il caso, forse no, ma nello stesso viaggio in Africa ebbi una seconda esperienza che turbo per la seconda volta la mia coscienza, Jàcendo insorgere in me ansia, angoscia, depressione, e uno stato di malessere generale che mi poneva in una situazione di conflitto nei conftonti della vita. L'occasionefu unajèsta a cui padre A. mi aveva portato, in mezzo a gente povera e analfà­ beta, che affrontava giorno dopo giorno la dura vita quotidiana. Quella pero doveva essere una bellajèsta di matrimonio, ed io l'avevo affrontata con uno spirito sereno, sebbene turbato dall'o rribile ricordo del mulo. Ad un tratto il mio sguardofu attirato da qualcosa che si muoveva su un giaciglio di paglia e stracci. Era dalla parte opposta rispetto a dove ero seduto io, proprio dietro padre A. La sua immagine non mi era ben definita, sia per­ ché il corpo di padre A. gli era proprio davanti, sia perché nella semioscurita della capanna si confondeva con ilgioco di luci e ombre delle candele. Cercai di sporgermi, di alzarmi, di allungare la schiena per avvicinarmi. Eraforse qualcuno che stava male e non poteva partecipare alla gioia di quell'anziana coppia ? Ero curioso, cosi mi decisi a chiedere a padre A. Padre A., preso di sorpresa, si giro di scatto e rimase qualche secondo a guardare. Poi si rivolse verso lo sposo e borbottarono qualcosa. - Quel bambino e Rico - mi disse, - uno dei tanti loro nipoti. Dice che da qualche settimana non parla e non cammina piu. Dice anche che spesso scot­ ta. Deve avere lajèbbre molto alta. - Ma quanti anni ha ? - gli chiesi. - Lui dice dieci, - rispose con sorriso ironico, - ma non c 'e dafidarsi. Sai, hanno talmente tantifigli e nipoti che non si ricordano mica bene la loro eta. Magari ne ha otto, oppure dodici, o quattordici. - Ma che cos 'ha esattamente? - gli domandai. - Oh, non si sa! - mi rispose con aria sconsolata. - Del resto come sijà a saper!o! Non ci sono mica medici qui che possonoJàre una diagnosi. La gente

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sta male e muore, e tu non sai mica il perché. Puo essere un 'infèzione, una polmonite, o anche una leucemia. Se non parla e non cammina, puo anche essere una meningite, o un 'encejàlite... Non lo so, proprio non lo so! Poi, improvvisamente, si alzo e si diresse verso Rico. Io foci un sorriso quasi di commiato ai due Jèsteggiati, mi alzai e seguii padre A. Ci sedem­ mo tutti e due a fianco di quel misero giaciglio. Eravamo nella penombra, anche se ogni tanto la tenue luce delle candele e delfuoco esterno illuminava quell'angolo della capanna. Dovevo avvicinarmi per cogliere distintamente il volto e l'espressione di Rico. La sua pelle nera nascondeva ancor di piu i li­ neamenti del volto, e dovevo aspettare un riflesso di lucejàvorevole per vede­ re la direzione del suo sguardo. Stava guardando padre A. Forse si ricordava di lui. Lo guardava con i suoi occhioni grandi, scuri, umidi e pensierosi. Non era lo sguardo di un bambino di dieci anni, ma di un adulto che ha percorso strade di.fficili e in salita, di chi ha sofferto e ora è piu saggio degli altri. Era completamente nudo, coperto qua e la da uno straccio sporco e puzzolente che lasciava intravvedere una magrezza insana, frutto di giorni o settima­ ne di digiuno. Padre A. gli prese la mano. Gliela strinse forte. Rico rispose con un sorriso molto velato, appena percettibile. Poi padre A. gli mise una mano sulla fronte e gli parlo. Non cifu nessuna risposta. Rico continuava a guardarlo, e ogni tanto volgeva lo sguardo verso me. Capii che padre A. gli diceva di rispondere o almeno dijàre un cenno con la testa. Non riuscivo a capire se non intendesse il signifìcato delle parole o se non avesse laforza di rispondere. - Non si puo portar/o da qualche parte? -gli chiesi. - Non so, dal medico o dall'infèrmiere piu vicino... - Spesso lojàcciamo, - mi rispose padre A., - ma a volte sono loro che non vogliono. E poi le cose non cambierebbero molto. Ho portato molti bambini all'injèrmeria. Sai, non c 'è un ospedale, e non ci sono medici. Solo injèrmieri, o almeno cosi si definiscono. Ebbene, se hanno medicine, a volte scadute, le danno, e se non hanno niente, rimandano a casa. - Ma qual è l'ospedale attrezzatopiu vicino? -gli chiesi con tono contrariato. - Penso a Dakar, - rispose riflettendoci su un attimo, - si, sicuramente a Dakar! Ma non puoi mica portar/i li. Ci vogliono soldi, mezzi di trasporto e, soprattutto, un 'o rganizzazione... - Noifrati non abbiamo i mezzi perjàre tutto cio - esclamo, come se volesse prevenire una mia osservazione. - Dobbiamo !imitarci a compiere la nostra opera pastorale e di conforto spirituale. Purtroppo non possiamofore di piU! Non dissi altro. Era chiaro che l 'o rganizzazione igienica e sanitaria era

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al di fuori delle loro competenze e al di la della loro portata. Ad un cer­ to punto alcuni degli invitati si avvicinarono a noi e presero padre A. per mano. Lui aveva certamente degli obblighi morali difonte a quella gente, e soprattutto di fonte ai due sposi. Padre A. guardo Rico e lo saluto dol­ cemente, foce per alzarsi, ma la stretta di mano del bambino sifoce piu for­ te. Padre A. gli disse qualcosa, ma Rico gli stringeva la mano sempre piu forte. Io mi avvicinai di piu, gli presi l'altra mano e gliela strinsi con forza. Solo allora Rico lascio la mano di padre A. Ora stringeva forte la mia, e sicuramente non mi avrebbe lasciato andare. Padre A. si alzo quasi contro­ voglia, mi guardo sorridendo e si diresse verso il gruppo di invitati. Ormai la fosta mi era diventata indijfèrente. L 'interesse e la curiositd che avevo all'inizio erano scomparsi, e ora ero concentrato su Rico. Aveva bisogno di qualcuno che gli stesse vicino, che lofocesse sentire importante, e che lofoces­ se partecipare alla gioia degli altri. Almeno a me sembrava cosi. Ma non ero sicuro chefosse perfettamente cosciente di cio che stava succedendo intorno. Di una sola cosa ero sicuro: che aveva bisogno di un contatto umano, del calore di una mano che lo stringesseforte e lofocesse sentire al centro del! 'at­ tenzione. Forse nessuno si era mai comportato cosi con lui. Certamente non per cattiveria, ma per ignoranza, per la mentalita particolare di quella gen­ te che sfornavafigli senza sapere poi come sfamarli. Gli strinsi ancor piufor­ te la mano, e lui rispose con un tenue sorriso. Poi gli misi l'altra mano sulla testa e lo accarezzai. Mi guardava con occhi profondi e seri. Era difficile per me reggere quello sguardo. Mi veniva da evitarlo, guardando da un 'altra parte. Poi mi formai a guardare nei suoi occhi. Sembrava mi chiedessero qualcosa. C 'era una lacrima che scendeva giu per la guancia. Gliela asciu­ gai con un dito. Mi accorsi che anch 'io stavo piangendo, in silenzio, senza formene accorgere da nessuno. Tenevo gli occhi spalancati, per evitare che abbassando le palpebre le lacrime mi scendessero sul viso. Mi vergognavo. Forse perché ero l'unico che piangeva, in mezzo a persone che sembravano gioiose efostanti. Padre A. mi guardava. Spalancai ancor di piu gli occhi. Ma Rico alzo molto lentamente e con gran jàtica il braccio e mi asciugo con un dito una lacrima sullo zigomo sinistro. Guardai padre A. con aria imba­ razzata. Lui mi guardava molto seriamente, senza sorridere. Se ne era ac­ corto, ma non si mosse perché stava parlando con ilfuturo sposo. Rico adesso jàceva un grande sorriso. Sembrava quasi divertito che io stessi piangendo. Ma il suo braccio ricadde pesantemente a terra e l 'espressione del volto gli ritorno seria e pensierosa. Passaiforse due ore vicino a Rico, stringendogli la mano. Partecipai alla

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fèsta da quell'angolo oscuro. Nessuno cerco difonni muovere di li, forse perché volevano rispettare il desiderio di Rico e mio di stare vicini. Cifurono molti canti e molte danze, difronte al grandefuoco. Padre A. passo quelle due ore in mezzo alla gente. Anche lui mi lascio solo, in disparte, e lofece perché sa­ peva che stavo pensando, che stavo meditando su quella mia prima piccola esperienza in Africa. Era onnai tardi, e per padre A. e me lo era ancor di piu, visto che la mat­ tina ci saremmo dovuti alzare presto. Padre A. mi si avvicino e si sedette di fianco a me. Accarezzo Rico e gli parlo. Rimase seduto non piu di cinque mi­ nuti, poi si alzo e mi invito ad andare. In quelle due ore si era instaurata una confidenza talefra il mio sguardo e quello di Rico che l'andarmene mi sembrava quasi un tradimento. E anche per Rico era cosi. Feci per !asciargli la mano, ma lui la strinse ancora piu forte. Cercai di dirgli qualche parola in italiano ma lui mosse lentamente l'altro braccio e mi strinse la mano con ambedue le mani. Padre A. si chino. Gli disse nuovamente qualcosa, accarez­ zandolo. Ma Ricofece segno di no con la testa e mi guardo. Era chiaro da quel suo comportamento che capiva perjèttamente quello che gli veniva detto. Forse era pienamente cosciente ma non riusciva ad esprimersi. - Devi !asciarlo - mi disse padre A. - So che ti dispiace... dispiace anche a me... ma troppi ne vedrai di questi casi e purtroppo ti accorgerai che non c 'e niente daJàre. - Non me la sento di !asciarlo - gli risposi. - Mi sembra di tradir/o. Ha bisogno di un contatto umano, di qualcosa che lofoccia sentire importante. Stavo per staccare la mia mano bruscamente, ma non me la sentii. Lo sguardo di Rico era troppo dolce e triste perpotersene distaccare. - lo rimango qui! - esclamai. - Almeno per ora. Aspetto che Rico si addor­ menti e poi ti raggiungo. Per me questa e la prima esperienza a contatto con un bambino che soffre. Sento che non devo sprecar/a invano. Padre A. si chino nuovamente su Rico e lo saluto accarezzandolo, poi mi diede una pacca sulla spalla e usd dalla capanna. Dopo qualche minuto i duefuturi sposi mi si avvicinarono. Si chinarono su di me silenziosamente e mi abbracciarono. Poi si diressero verso i loro giacigli. Altre settepersone, che dovevano essere ifigli o i nipoti dell'anziana coppia, si avvicinarono a me e mi abbracciarono a turno, poi si coricarono anche loro. Il silenzio era sceso nella capanna e lafiamma di una candela lasciava appena intravvedere om­ bre indefinite. Non riuscivo piu a vedere Rico. Era troppo buio. Sentivo solo il suo respiro pnfondo e la sua mano calda che stringeva la mia. Ero deciso

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ad aspettare che si addonnentasse. Poi sarei andato anch'io a donnire nella chiesetta lafuori, a poche decine di metri. Che sensazione strana che provavo! Li, in una capanna africana. Avevo voglia dipensare e di ricordare ilpassato, quello piu recente e quello piu remo­ to. Ero stanco, ma non avevo sonno. E pensare che due settimane prima ero in un ambiente completamente diverso, in Italia, in mezzo agli amici e alle persone care. Adesso ero in Africa a contatto con la povera gente, la miseria e la sojfèrenza. Ero molto orgoglioso di questo. Sentivo che la visione diretta di quella sojfèrenza avrebbe aperto qualcosa dentro di me, e avrebbe certamente cambiato il mio modo di pensare e di vedere la realta. Rico, per esempio, mi sembrava che simboleggiasse la sojfèrenza di tutta quella gente. Io lo sentivo cosi, perché quel contatto umano era stata la mia prima esperienza africana. E stringere quella mano aveva per me il significato di stipulare un patto con quella gente. D 'altronde sentivo profondamente che il mio scopo doveva essere quello di cercare di rompere quel terribile silenzio e indijfèrenza della Natu­ ra. E mi sembrava di averlofotto con Rico. Se non cifossi stato io quella sera, Rico sarebbe rimasto solo, e non avrebbe avuto nessuno vicino a cui sorridere e stringere la mano. La Natura non avrebbe certo avuto pieta in questo senso, e sarebbe rimasta cieca e sorda come avevafotto con il mulo. Ecco, si! Quelle due immagini erano per me molto simili. Il mulo e Rico. Tutti e due soli e abbandonati da un Universo che li aveva lui stesso creati. Queste erano le due immagini che suscitavano in me un terribile stato di angoscia. E quella sera, vicino a Rico, tutte le mie paure e le mie ansie che erano scaturite dall'ucci­ sione del mulo tornarono violentemente. Rico era giovanissimo, aveva tutta la vita davanti a sé. Perché solo padre A. ed io, esseri miseri e impotenti, ci eravamo impietositi difronte al sorriso di Rico ? Non c 'era nessun altro a pro­ vare questo senso di pieta ? Rico era malato, gravemente malato, eforse quelli sarebbero stati i suoi ultimi giorni. La sua preghiera, la mia, quella di padre A. e dei suoi genitori e nonni si perdeva nel vento di quelle lande desolate. Era cosi, semplicemente cosi. Non c 'era da pregare nessuno. Della materia vivente si stava scomponendo per una situazione che noi uomini chiamiamo malattia, e questo dissolvimento di atomi e molecole, microscopico nell'infi­ nita dell'Universo, era un 'inezia, un piccolissimo, insignificante particolare. Eravamo noi uomini a dargli cosi tanta importanza, ma importante non lo era affatto per la Natura che procedeva di giorno in giorno con le sue catastro­ fi, colossali come l'esplosione di una stella e microscopiche come il dissolvimen­ to di un corpicino. Onnai era davvero tardi. Tutti dormivano, forse anche Rico. Ero da v-

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vero stanco di pensare. E poi ero cosi avvilito, con la testa pesante, carica di pensieri. Dalla sensazione di orgoglio in cui mi trovavo prima ero passato ad uno stato di depressione profonda. Mi sembrava tutto cosi inutile, privo di un significato, che le argomentazioni razionali avevano lasciato il posto a stati d'animo irrazionali, o almeno a me sembravano tali. Mi sentivo cioe del tutto estraneo all'Africa, alla sua gente, alla sua soffirenza. Che differenzajàceva se io ero li, vicino a Rico, o in Italia a svolgere il mio lavo­ ro di insegnante? Sarebbeforse cambiato qualcosa ? No, sicuramente no! La malattia di Rico sarebbe andata avanti in ogni caso e, come a lui, sarebbe successo a migliaia di altri bambini. E poi il nostro aiuto era qualcosa di temporaneo che non risolveva nessun problema, o perlomeno ne risolveva ben pochi. Rimanevano sempre la cecita e il silenzio dell'Universo che noi avremmo potuto spezzare solo per una porzione microscopica, alquanto insignificante. Cos 'erano per Rico quelle tre o quattro ore passate con me, a stringermi la mano? Niente, assolutamente niente rispetto alle settima­ ne di solitudine che aveva passato e ai giorni futuri che doveva affronta­ re. Anzi, forse avrebbe soffirto ancora di piu quando sarei partito. Ora si era abituato a quel calore umano vicino a lui, ejàceva il confronto con la sua solitudine passata. Era certamente un confronto che non reggeva! Ma il confronto sarebbe stato ancor piu drammatico quando avrebbe dovuto confrontare la sua solitudine con il calore umano passato. Cosa avevo otte­ nuto allora ? Forse niente. Forse era solo un 'illusione dijàr qualcosa. Preso da tutti questi pensieri non mi accorsi di essermi sdraiato proprio difianco a Rico, con la testa appoggiata vicino alla sua. E il sonno stava prendendo il sopravvento. Non riuscivo a tenere gli occhi aperti. Senza accorgermene mi addormentai. Il mulo e Rico mijècero scoprire la debolezza del mio animo e la modestia delle mie risorse fisiche e spirituali. I giorni successivi che passai con padre A. furono giorni che rivelarono tutta l'inadeguatezza della mia persona nel controllo degli stati emotivi. Scoprii la mia in capacita di dare confortofisico e spirituale a chi ne aveva bisogno. Non perché il desiderio di aiutare quella gentefosse svanito improvvisamente, anzi, era rimasto vivo eforte dentro di me. Ma i miei stati emotivi, le mie paure, le mie angosce prendevano il so­ pravvento sulle idee razionali, e confondevano la mia mente. La mia volonta di dare aiuto si traifòrmava in un susseguirsi di azioni disorganizzate, senza significato, o meglio, con un significato non appropriato. Ecco, si! Il mio com­ portamento non era adeguato alla situazione. E questo perché era guidato dall'irrazionalita emotiva piuttosto che da un intento ben preciso. O forse

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non sapevo proprio cosafore! Non avevo un intento preciso perché non sapevo chefore, e la paura, l'ansia, ilpianto rappresentavano le uniche manifèstazio­ ni del mio stato interiore. Durante queigiorni nella verde vallata il mio stato d'animo non mi aveva permesso di compiere azioni utili. Ero continuamente pervaso da un senso di depressione e di impotenza che annullavano tutto cio che avrei potutofore di positivo. Mi mori una bambina di cinque annifra le braccia. Eravamo anda­ ti a trovar/a, chiamati dai genitori. Non si poteva certofor molto, nemmeno portar/a all'infèrmeria. Come avremmo potuto trasportar/a per ore e ore su quei sentieri ? E una volta giunti all'injèrmeria che sarebbe successo? Magari non avrebbero fotto niente, come padre A. aveva detto che era successo piu volte. E poi quando eravamo arrivati alla capanna la bimba ansimava ru­ morosamente e scottava. Chimi cosa aveva! Fu padre A. ilprimo a prender/a in braccio, poi la diede a me perché dovette uscire. La tenni in braccio per un po: Poi comincio a respirare sempre piu a.ffà n nosamente e profondamente. Ad un certo punto, con una smorfia orribile, smise di respirare. Improvvisamen­ te. Quasi non me ne accorsi. La sua testolina ciondolo giu dalle mie braccia, con la lingua che pendeva giu sulla guancia sinistra. Quell'immaginefu per me cosi brutale che l'unica cosa che seppiforefu quella di posare il corpicino senza vita su un giaciglio e uscire dalla capanna. Mi appartai e piansi. Ma me ne pentii subito, perché quando tornai alla capanna vidi padre A. che abbracciava i genitori e diceva loro parole di conforto. Possibile che io non l'avessi saputofore? Possibile che il disgusto e la disperazione avessero preso il sopravvento? In quei giorni scoprii tutta la mia ftagilita. Scoprii che non erofotto per stare li e provai un forte desiderio di andarmene. L'unica cosa a cui sapevo pensare era l'inutilita di ogni azione, di ogni atto. Eppure razionalmente mi dicevo che non era vero, che padre A. aveva laforza e il coraggio di guardare da vicino la miseria, la so.flèrenza, la malattia e la morte. Io invece no. Non ne avevo né la forza né il coraggio. Ne parlammo a lungo sulla strada del ritorno. Nonostante le parole di conforto di padre A., quel viaggio di ritorno ebbe per me il significato della sconfitta, della ritirata, dellafuga da una con­ dizione che non avevo saputo a.ffro ntare. Perché sapevo dentro di me che me ne sarei andato e che li non ci sarei maipiu tornato. Non mi sentivo nemmeno di rivedere Rico. Avevo paura di provare quelleforti emozioni. Magari mi sarei messo a piangere di nuovo e sarei caduto sempre piu nella disperazione e nella sensazione di disgusto nei conftonti della Natura. Ero indeciso se affrontare o no quella situazione.

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Ma qualsiasi decisione avessi preso non avrebbe fotto alcuna differenza. Rico era morto due giorni prima, quando eravamo partiti. Il mio senso di impotenza aumento vertiginosamente, il mio stato d'a nimo cadde in una profonda depressione. Non ebbi piu dubbi. E poi non resistevo piu. Dissi a padre A. che volevo partire, che quelle emozioni non le sopportavo piu. Ero distrutto e profondamente cambiato. Dopo una nottata insonne preparai le mie cose e mi accinsi a partire. Il commiato da padre A. fu molto dimesso. Non so cosa lui pensasse veramente di me. Ma che mi importava ? Il solo sentimento che provaifu d'invidia. Invidia per la sua fide, invidia per la suaforza e il suo coraggio.

Note sull'altruismo e la depressione

Cercare un fattore scatenante, un tratto della personalità, un evento della vita che possa ricondurre in qualche modo allo stato attuale del paziente, può aiutare a comprendere la dinamica dell' insorgenza di un disagio psi­ cologico, e certamente le narrazioni del paziente sono di fondamentale utilità in questo senso. In G. L. emerge chiaramente la sua profonda sen­ sibilità per la sofferenza. Le prime due narrazioni, con la sofferenza per il mulo agonizzante e per Rico malato, anticipano la sua idea ossessiva della cecità della Natura e dell ' Universo nei confronti dei mali dell'umanità. G. L. soffre per gli altri, per i loro mali e per i loro tormenti. Il suo altruismo e la sua sensibilità sociale lo hanno portato a questi stati esa­ sperati. L'altruismo e la compassione sottostanno in parte alle stesse leggi delle altre emozioni. Possono provocare sconforto, depressione, ansia e indurre comportamenti finalizzati a placare tali stati emotivi spiacevoli. L'altruista cerca il piacere aiutando il prossimo. L'altruismo è una delle più interessanti ed enigmatiche proprietà della specie umana, che distingue l'uomo dagli animali. Sebbene esistano certe forme di altruismo anche negli animali, alcuni autori preferiscono parlare in questi casi di pseudoaltruismo. Con questo termine si vuole sottolinea­ re la natura istintiva dell 'atto altruistico negli animali, per esempio per quanto riguarda la formica soldato che sacrifica la propria vita a favore del formicaio e alcuni animali che si immolano ai predatori per salvare la pro­ le. L'altruismo umano è sicuramente diverso e si può esplicare in varie for­ me, come la distribuzione del cibo fra individui differenti, che è un evento rarissimo nel mondo animale. Poche specie, per esempio i cani selvatici e gli scimpanzé, si spartiscono la preda. Ma, anche in questo caso, il cibo non è mai offerto da un animale all'altro, bensì esiste semplicemente una maggiore tolleranza nei confronti dei compagni che banchettano. La gran parte degli animali mostra un comportamento alimentare prettamente

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egoistico. Nulla è dovuto, nulla è concesso, nulla è offerto al più debole. Chi non può mangiare perché ferito o malato soccombe nella noncuranza totale di tutto il gruppo. Se i leoni giovani catturano una preda, la batta­ glia per accaparrarsi il pezzo più grosso è a volte mortale. I giovani leoni mangiano voracemente senza curarsi dei compagni più vecchi e malanda­ ti. Sicuramente la Natura non è democratica, ma semplicemente dà ragio­ ne al più forte. Nella specie umana questo tipo di comportamento egoistico nella maggior parte dei casi non si manifesta, e ciò è alla base della sensibilità nei confronti di una Natura spietata e cieca alle sofferenze. Questo vale non solo per l'uomo moderno, ma anche per i nostri antenati. Per esem­ pio, sono stati trovati gli scheletri di due uomini di Neanderthal di circa 6 o. o o o anni con gravi lesioni che sicuramente non avrebbero permesso loro di vivere e alimentarsi da soli. L'analisi delle loro ossa ha rivelato che tali individui malconci e debilitati sono riusciti a vivere in quelle condi­ zioni per ben due anni. Questo può essere avvenuto solo mediante le cure apportate da individui della stessa tribù. Stati emotivi suscitati dalla com­ passione per gli altri sono evidenti anche nelle reliquie di funerali effettua­ ti 6 o.o o o anni fa, in cui sono stati trovati omaggi floreali per i defunti. Ma possiamo andare anche più in là nel tempo, fino a due milioni di anni fa. Ritrovamenti archeologici hanno infatti dimostrato che i nostri antenati australopitechi non consumavano la preda nel luogo della cattura ma la portavano nei luoghi dove vivevano, probabilmente per dividerla con gli altri appartenenti alla stessa tribù. L'altruismo è dunque una proprietà splendida ed enigmatica della spe­ cie umana. Splendida perché riguarda la sopravvivenza di altri individui al di fuori di sé stessi; enigmatica perché esce da quel concetto evoluzionisti­ co di salvaguardia del patrimonio genetico. Infatti, il salvare la vita altrui oppure l'occuparsi degli altri non hanno alcun vantaggio sulla conserva­ zione della propria discendenza, principio fondamentale in tutta l'evolu­ zione animale. L' individuo viene salvato e aiutato perché sappiamo che soffre, che prova stati d'animo sgradevoli e angoscianti, e quindi vogliamo allontanarlo da quella situazione disperata. In un certo senso ci immedesi­ miamo in lui e per analogia capiamo che anche noi proveremmo le stesse emozioni spiacevoli: ciò viene definito empatia. G. L. ha saputo cogliere tutto questo con profonda sensibilità. Con le sue esperienze del mulo, di Rico e della bambina morta fra le braccia ha colto tutta la tragicità dell'assenza di risposta a una richiesta d'aiuto. Ha

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saputo individuare con i suoi sentimenti e i suoi stati d'animo la dramma­ ticità dell'egoismo della Natura. Queste esperienze le ha vissute in Africa, il posto più adatto per vivere i drammi di una Natura selvaggia e spietata nei confronti di persone e animali, per comprendere cosa vuol dire soprav­ vivere e lottare giorno dopo giorno contro una Natura ostile. È possibile invocare altruismo, compassione e sensibilità come fatto­ ri scatenanti di un disagio interiore ? In una gran parte dei casi il fattore predominante per l' insorgenza di una depressione è certamente costituito dagli eventi della vita. In altre parole, un evento particolarmente stressan­ te può scatenare lo stato depressivo dal quale alcuni individui solo diffi­ cilmente riescono a tirarsi fuori. Per esempio, la depressione che insorge nell'adulto sembra essere strettamente associata alla perdita di un genitore prima degli I I anni. Analogamente, uno dei fattori stressanti più spesso as­ sociato all' insorgenza della depressione è la perdita dello sposo o della spo­ sa. È interessante notare che le donne sono colpite dalla depressione con una frequenza doppia rispetto agli uomini. Probabilmente ciò è dovuto a differenze ormonali e all 'esperienza, a volte stressante, della gravidanza e della maternità. Sebbene non esista un tratto tipico della personalità che possa indicare la predisposizione alla depressione, soggetti con personalità isterica e ossessiva sono a più alto rischio. Secondo il punto di vista psico­ analitico, un disturbo della personalità, il narcisismo, può essere associa­ to alla depressione. Infatti, il narcisista spesso alterna periodi di euforia e grandiosità con periodi di disistima verso sé stesso, proprio come succede nella depressione bipolare. Le prime due narrazioni di G. L. (ma anche le successive), con la loro insistenza ossessiva sulla sofferenza e sull' impotenza nei confronti della Natura, ci riportano a una teoria sviluppata in base a osservazioni effet­ tuate sugli animali e sull 'uomo. Tale teoria prende il nome di learned helplessness, o impotenza appresa, che vuol dire essere indifeso, essere sen­ za aiuto. Impotenza significa in questo caso la totale incapacità dell ' in­ dividuo di reagire all'ambiente circostante, o la spiacevole sensazione di sentirsi indifeso nei confronti degli eventi della vita. Dal punto di vista sperimentale è possibile indurre un comportamento di tipo depressivo in animali che non possono evitare una scossa elettrica. Infatti, un topo che viene posto in una gabbia e sottoposto di tanto in tanto a una scossa elet­ trica non dolorosa ma che lo induce a scappare, dopo aver "capito" che non c 'è alcuna possibilità di fuga, diventa quieto e mite, non si muove e, come "rassegnato", rinuncia a scappare alle scosse successive. L'analogia di que-

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sti esperimenti sugli animali con certi pazienti è davvero impressionante, anche se bisogna essere molto cauti con le corrispondenze fra animali e uomo. Per esempio, molti soggetti che sono stati esposti in passato a ripe­ tuti eventi stressanti della vita dai quali non avevano alcuna possibilità di fuga, sviluppano una condizione di learned helplessness, cioè di rassegna­ zione, di rinuncia, di impotenza nei confronti dell'ambiente e della vita. Tutto ciò si può manifestare con un profondo stato depressivo caratteriz­ zato da chiusura in sé stessi e rinuncia verso il mondo esterno. il senso di impotenza di G. L. verso la Natura e l ' Universo è forse sca­ turito da esperienze di un passato lontano, anche se non ne accenna mai nelle sue narrazioni. È probabile che la sua spiccata sensibilità per qualsiasi essere vivente abbia rappresentato il substrato sul quale piccoli eventi della vita, per noi insignificanti, hanno lavorato anno dopo anno. Il fatto che il s o % dei pazienti depressi abbia almeno un genitore con depressione, fa pensare che questa patologia sia ereditaria. Per esempio, se un genitore presenta sintomi depressivi, c 'è una probabilità del 27% che un figlio sviluppi la malattia. Se ambedue i genitori sono depressi, la probabilità sale drammaticamente fino al 7 5 %. Che la depressione sia tra­ smessa geneticamente è anche documentato dalla concordanza fra gemelli monozigoti (derivanti dallo stesso uovo) per l' insorgenza del fenomeno depressivo. La trasmissione genetica della depressione ci permette di identificare un substrato biologico nel fenomeno depressivo. In effetti, i fattori bio­ logici implicati nella depressione sono stati oggetto di studio molto ap­ profondito. Al fine di postulare l 'esistenza di un meccanismo biologico e fisiologico, ha rivestito un ruolo importantissimo l'uso dei farmaci anti­ depressivi, che talvolta sono in grado di risolvere lo stato depressivo. Suc­ cede spesso di porsi la seguente domanda: se un farmaco, che null'altro è che una molecola, è in grado di far scomparire un disturbo mentale, qual è il suo meccanismo d'azione ? Se noi capiamo il meccanismo d'azione, comprendiamo, almeno in parte, anche il meccanismo d' insorgenza del disturbo mentale. Il nostro cervello è costituito da miliardi di cellule, ognuna con la propria individualità, che hanno la capacità di comunicare fra loro me­ diante sostanze chimiche (cioè molecole) . Queste sostanze sono costruite all ' interno della cellula e poi liberate all'esterno. Una volta che si trovano a contatto con le altre cellule, queste molecole possono quindi influenzare l'attività di altre parti del cervello. In altre parole, esiste un mosaico di

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sostanze chimiche che nella loro globalità permettono il perfetto e preciso attuarsi di movimenti, comportamenti, idee, emozioni, e così via. Queste molecole, dette anche neurotrasmettitori, hanno i nomi più svariati e ognuna di esse svolge una sua specifica funzione. Esistono cen­ tinaia di tipi di neurotrasmettitori. La giusta quantità di queste molecole nel nostro cervello è condizione necessaria e indispensabile per il suo fun­ zionamento. Può infatti succedere che una di queste sostanze chimiche au­ menti o diminuisca, generando così una malattia, per esempio un disturbo mentale. Su questo concetto semplice si basa la neuropsicofarmacologia, cioè quella scienza che studia e sviluppa nuovi farmaci per sopperire alle carenze o agli eccessi dei neurotrasmettitori. Intorno alla metà degli anni cinquanta, periodo particolarmente fervido per la ricerca neuropsicofar­ macologica, fu notato che alcuni farmaci antidepressivi agivano proprio su certi neurotrasmettitori. L' imipramina, per esempio, è un tipico farmaco antidepressivo che determina la scomparsa dello stato depressivo e ristabilisce il tono dell'u­ more. L' imipramina agisce bloccando l'entrata del neurotrasmettitore no­ radrenalina nelle cellule nervose, così che al di fuori di esse è disponibile più noradrenalina. Un risultato diametralmente opposto può essere otte­ nuto con la reserpina, un farmaco normalmente usato nell' ipertensione arteriosa. In passato, si era notato che un certo numero di pazienti con ipertensione arteriosa in terapia con reserpina mostrava l' insorgenza di uno stato depressivo vero e proprio. Se si analizza il meccanismo d'azione della reserpina, appare subito evidente come gli effetti della reserpina sulla noradrenalina siano opposti a quelli dell'antidepressivo imipramina. La reserpina, infatti, facilita l' ingresso della noradrenalina nelle cellule nervo­ se, così che al di fuori di esse sono disponibili meno molecole di noradre­ nalina. La conclusione è che un farmaco che fa aumentare la noradrenalina al di fuori delle cellule ha effetti antidepressivi, mentre un farmaco che fa diminuire la noradrenalina al di fuori delle cellule produce depressione. Dunque, la depressione è dovuta a una diminuzione della noradrenalina al di fuori delle cellule nervose. Attraverso lo studio dei meccanismi di al­ cuni farmaci abbiamo compreso, almeno in parte, che lo stato depressivo è dovuto a una carenza di noradrenalina nel cervello. È stato successivamen­ te confermato che i cervelli dei pazienti depressi presentano basse quantità di noradrenalina. Tuttavia, come sempre succede, le cose sono più compli­ cate di quanto si possa pensare. Studi ulteriori hanno infatti dimostrato che sono coinvolti anche altri neurotrasmettitori.

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Altri complessi meccanismi sono stati identificati come causa del di­ sturbo depressivo. Chi avrebbe mai pensato, per esempio, che la luce po­ tesse avere effetti sul tono dell 'umore ? Esiste un tipo di depressione che prende il nome di disturbo depressivo stagionale e che è appunto carat­ terizzato dalla presenza di depressione, sonnolenza, facile affaticabilità e sovrappeso in inverno, ed euforia, iperattività, insonnia e dimagrimento in estate. È stato recentemente dimostrato che questo ciclo depressione­ mania associato al ciclo inverno-estate dipende dalla durata della luce durante il giorno. Se i pazienti depressi vengono esposti d ' inverno a un ciclo di luce di tipo estivo, per esempio a una luce intensa dalle s alle 8 del mattino e dalle 1 7.30 alle 20.30 la sera, i sintomi depressivi diminuiscono o addirittura scompaiono. L'azione antidepressiva della fototerapia sem­ bra sia dovuta alla stimolazione di sostanze chimiche del cervello da parte della luce. Persino un virus è stato messo in causa come possibile fattore respon­ sabile della depressione. Tale virus è responsabile del morbo di Boma che colpisce prevalentemente gli animali. In uno studio effettuato su centinaia di persone, il virus è stato identificato solo in r2 soggetti, sorprendente­ mente tutti con disturbo depressivo unipolare o bipolare. In un altro stu­ dio effettuato su una vasta popolazione, ben il 30% dei depressi è risultato positivo al virus del morbo di Boma. Sebbene molti fattori siano stati vagliati, studiati e analizzati, è impro­ babile che la depressione sia dovuta a una singola causa. Molti fattori bio­ logici, psicologici e sociali giocano un ruolo fondamentale e ciascuno di essi può apportare il suo nefasto contributo quando è associato agli altri. Per esempio, più recentemente, un altro neurotrasmettitore, la serotonina, è stato identificato come fattore importante nella depressione. G. L. era stato in terapia con antidepressivi, ma purtroppo quella sua logica diabolica che l ' ha portato all'autodistruzione è andata avanti in­ cessantemente, accompagnata da situazioni raccapriccianti di fronte alle quali si è trovato, cioè eventi stressanti e crudeli della vita che hanno pla­ smato quella sua forma di learned helplessness. Accanto a questo insieme di emozioni violente che stavano esplodendo nel suo animo, una strana, e direi inusuale, forma di razionalizzazione si stava facendo strada nella sua mente, come si percepisce dalla sua breve narrazione nella lettera seguente.

La terza lettera Il male

Prima di partire per l'Italia ebbi una breve discussione con padre A. Fu una conversazione breve e superficiale dopo tutto, ma era solo un 'a nticipazione di quello che avreifotto successivamente. - E dov 'e Dio in tutta questa desolazione? Lo sai tu dov'e? - Per me ilpro­ blema era proprio quello. Dov 'e Dio? Perché l'Universo tace? - Io credo ciecamente, - mi disse padre A.; e poi aggiunse sorridendo: - al­ trimenti non indosserei il saio! Ma quello che non capisco e perché Dio non interviene! Perché se ne sta li a guardare questa miseria senza muovere un dito ? Con parole semplici aveva detto tutto. Aveva ribadito dei concetti che ri­ flettevano la mia angoscia interiore. - E perché non lofo ? - gli domandai. Alzo le braccia e gli occhi al cielo. - Non lo so perché non lo fo! Non lo so proprio! La mia idea fissa da quando sono entrato in seminario e sempre stata quella di capire questa logica. La logica del male. Perché esiste il male? E, soprattutto, perché Dio lo permette? È una logica che non capiamo, ma che deve avere un significato. Per noi il male e sempre qualcosa di negativo che bisogna sconfiggere ed eliminare. Evidentemente non e sempre cosi! La logica di Dio lo permette questo male, quindi non lo dobbiamo vedere come qualcosa di negativo. Lo so, e difficile ma ... Lo interruppi bruscamente: - Ma se non lo vedi come qualcosa di negati­ vo e lo consideri come ilfrutto di una logica a noi sconosciuta, perché non lasci che questa logica segua il suo corso naturale? - Ma perché ho pieta di questi disgraziati, e cerco di alleviare la loro soffirenza! - Beh, il tuo aiuto nei confronti dei soffirenti significa che consideri la soffirenza come qualcosa di negativo. Puoi conciliare questo tuo concetto negativo di soffirenza con i propositi positivi di un Dio nascosto? - Che discorsi difficili! - esclamo. - Forse hofotto male ad iniziare questo discorso. Non lo capiremo mai! Almenofino a che saremo uomini, abitanti di

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questo pianeta... Vedi, molto tempofo ho avuto una splendida conversazione con un non credente. I suoi argomenti riflettevano in maniera molto semplice la logica umana. Mi disse: '1l male esiste, e Dio o non puo o non vuolefer­ marlo. Se non puo non e onnipotente, se non vuole non e buono': Logico, no? Ma e questa la vera logica dell'Universo ? - Sono d'accordo, - gli risposi - ma tu consideri il male e la sofferenza che vedi qui negativi o positivi? - Negativi! Certamente negativi! Ho pieta per quelli che soffro no e mi chie­ do perché avvenga tutto cio, ma non so andare oltre. Mi limito molto umil­ mente ad aiutarli, ma so che tuttofo parte di un grande progetto divino che non possiamo capire e a cui non ci possiamo opporre. Gli argomenti di padre A. erano molto chiari e molto ben definiti. La sua logica partiva da duepresupposti certi. Dio esiste e anche il male esiste. Ilpunto era di capire perché Dio permettesse il male. O, in altre parole, il problema consisteva nel cercare di capire la differenzafra la logica umana e quella divina. Perché l'uomo vede il male come una cosa negativa mentre Dio lo permette? Il mio stato d'animo interiore, invece, era completamente diverso. Io partivo da un solo presupposto certo. Il male esiste. E l'Universo e cieco e sordo perché lo per­ mette, senza intervenire. Percio ilproblema era quello di capire se esiste qualcosa o qualcuno nell'Universo che vede e che sente. O, in altre parole, se Dio esiste oppure no. Il mio concetto di male e di sofferenza era ovviamente molto negativo. I ricordi del mulo e di Rico evocavano in me una sensazione angosciante e di pieta. Perché io avevo avuto pieta per quelpovero animale mentre l'Universo era rimasto indifferente? Le possibilita erano due: o l'Universo aveva seguito una logica diversa dalla mia, oppure non si era nemmeno posto il problema perché non aveva né visto né sentito. Percio, ilfotto che il male esistesse era per me ilpunto di partenza che mifoceva mettere in dubbio l'esistenza di Dio. - Sai, non sta a noi giudicare - dissepadre A. - Dobbiamo !imitarci afore del bene e ad amare Dio. Quando saremo lassu in cielo,forse capiremo qual­ cosa. Ma per ora no. È troppo presto. Avrei voluto rispondergli che c 'e anche la possibilita che Dio non esista affitto, ma forse non ero ancora maturo per aprirmi completamente e rive­ lare tutte le mie emozioni. Pero sentivo che piano piano le idee dentro di me prendevanoforma e si delineavano semprepiu chiaramente. Ma avrei dovuto aspettare ancora un po' di tempo affinché le idee mi si presentassero in modo nitido e affinché avvenisse dentro di me un 'esplosione di emozioni tale da non essere piu in grado di controllarle. Un fotto e certo: la soffirenza che vedevo intorno a me mi allontanava sempre piu da un 'esistenza divina.

No te sull'ansia

G. L. appare come una persona molto introspettiva. Eventi drammatici come quelli del mulo e di Rico hanno scatenato in lui qualcosa di molto forte. La sua learned helplessness e il suo sentirsi indifeso di fronte a una Natura crudele e spietata sono esplosi quasi improvvisamente, ma proba­ bilmente covavano in lui da tempo a livello subconscio. G. L. è un sogget­ to ansioso, come traspare dalle sue narrazioni. D'altronde spesso gli stati di depressione e di ansia sono frammisti, sommandosi e amplificandosi a vicenda. L'ansia è di per sé una reazione naturale all'ambiente che ci circonda. L'ansia ha la funzione di segnale d'allerta quando un pericolo minaccia la nostra incolumità e la nostra sopravvivenza. La paura è una risposta an­ siogena tipica, non solo per l ' uomo ma anche per gli animali. Prendiamo il caso di una persona che cammina la sera in un vicolo buio. La vista di un losco individuo che si avvicina con fare sospetto genera una reazione ansiosa e stressante che ha lo scopo di preparare alla fuga o alla lotta. L'an­ sia e la paura rappresentano uno stato d'allerta che permette alla persona di difendersi. Infatti, l ' ansia non è caratterizzata solamente da una sen­ sazione soggettiva di paura ma produce una complessa risposta di tutto l 'organismo. Queste risposte dell'organismo sono note a tutti. Chi non ha mai provato la sensazione di pelle d'oca ? Oppure di vuoto allo stomaco ? O ancora, di tremarella ? Questi modi di dire, che fanno parte del nostro bagaglio linguistico di tutti i giorni, nascondono una profonda verità, cioè che una forte emozione come la paura influenza tutto il nostro corpo. In condizioni normali non ci rendiamo conto della presenza dei no­ stri organi interni. A parte la sensazione di fame, chi si accorge durante la giornata della presenza del proprio stomaco ? E chi si rende conto del proprio cuore che batte ? Al contrario, durante una forte emozione, di­ ventiamo improvvisamente consapevoli dell'esistenza del nostro stomaco

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e del nostro cuore. Se dobbiamo affrontare un esame, sentiamo un peso allo stomaco e avvertiamo il nostro cuore che batte forte e velocemente. Ciò è dovuto al fatto che il cervello è collegato a tutto il nostro corpo. Ogni attività mentale, ogni stato emotivo influenzano direttamente o indirettamente tutto l'organismo. Le funzioni dei nostri organi interni sono inscindibili dalle funzioni del cervello. Tale controllo da parte del cervello si esplica fondamentalmente attraverso due meccanismi: il primo è di tipo nervoso, il secondo di tipo ormonale. I meccanismi nervosi sono semplicemente dovuti ai nervi, cioè a quelle strutture simili a fili elettrici che collegano il cervello a tutto il corpo. I meccanismi ormonali sono in­ vece dovuti a sostanze chimiche che una ghiandola del cervello, l' ipofisi, rilascia nel sangue. Tali sostanze chimiche sono appunto gli ormoni che raggiungono tutto l'organismo. È quindi facilmente comprensibile come ogni attività cerebrale sia in grado di influenzare praticamente qualsiasi parte del corpo. Perché uno stato di ansia e di stress dovrebbe provocare questi cambia­ menti in tutto il corpo ? C 'è un significato ? Torniamo di nuovo all 'esempio della persona nel vicolo buio. Quando il losco individuo è ormai vicino, ci sono due possibilità: o si scappa o lo si affronta; tale reazione in inglese prende il nome di jlight-orjìght (fuga o lotta). In ambedue i casi l 'orga­ nismo deve trovarsi nelle condizioni migliori, o per correre velocemente o per lottare energicamente. Tutte le sensazioni che proviamo all' interno del nostro corpo durante la paura rispecchiano proprio il cambiamento dei nostri organi. Il cuore batte più forte e più velocemente perché deve portare più sangue e ossigeno ai muscoli. Lo stomaco e l' intestino si fer­ mano per risparmiare energie (durante la lotta o la fuga i processi digestivi non sono di certo importanti) . I bronchi e i polmoni si dilatano per assu­ mere più ossigeno. Durante un'emozione intensa noi sentiamo tutti questi cambiamenti. E il risultato è duplice. Proviamo paura e siamo pronti ad affrontare la situazione. L'ansia serve quindi per la sopravvivenza dell' individuo, sia esso un uomo o un animale. Se non ci fossero l'ansia e la paura molti di noi pro­ babilmente non sarebbero vivi, poiché non potrebbero raggiungere quello stato d'allerta necessario per affrontare situazioni di pericolo. Le reazioni dei nostri organi durante un'emozione hanno una certa uti­ lità in psichiatria e psicologia. Per esempio, i muscoli mimici della faccia possono rivelare stati d'animo attraverso il cosiddetto linguaggio non ver­ bale. Infatti, una delle caratteristiche più interessanti della specie umana

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è quella di manifestare le proprie emozioni attraverso le espressioni del volto. I muscoli della faccia sono decine e decine e ci permettono di cor­ rugare la fronte, inarcare le sopracciglia, fare smorfie di dolore, digrignare i denti, ridere e piangere. Secondo Paul Ekman, vi sono sei espressioni emotive fondamentali del volto ; tutte le altre derivano da una combinazione delle sei principali, cioè felicità, sorpresa, paura, rabbia, disgusto, tristezza. Sembra che tali espressioni siano innate, cioè ereditate con il patrimonio genetico. Que­ sta conclusione deriva da una serie di interessanti osservazioni. Primo, le espressioni facciali sono riconosciute in culture differenti. Popolazioni che vivono isolate dal mondo occidentale sono in grado di riprodurre e riconoscere le emozioni del volto degli uomini del mondo industriale. Se­ condo, tali espressioni sono presenti nei neonati, cioè molto prima della possibilità di apprendimento per imitazione. Terzo, sono presenti nei non vedenti dalla nascita, segno che non possono essere state apprese durante la crescita. Quarto, le principali espressioni emotive del volto sono presen­ ti nei primati non umani, per esempio nel gorilla. L'esistenza di un linguaggio non verbale aiuta lo psichiatra e lo psicolo­ go a individuare atteggiamenti e comportamenti che il paziente può cerca­ re di nascondere. Prendiamo il caso di un soggetto che voglia nascondere il proprio stato emotivo ansioso durante una determinata situazione. Egli può riuscire a simulare uno stato di calma, ma solo entro certi limiti. Per esempio, il suo autocontrollo gli può permettere di sedersi invece di cam­ minare avanti e indietro nervosamente. Oppure può riuscire a mantenere ferme le mani invece di giocare freneticamente con le dita o di mangiarsi le unghie. Può persino evitare di esprimere il proprio stato d'animo attra­ verso espressioni del volto, mantenendo uno sguardo distaccato e indiffe­ rente. Tutto ciò può esser fatto con relativa facilità. Ma gli organi interni non sono sotto il controllo della nostra volontà. Perciò non possiamo ral­ lentare il battito del cuore, né abbassare la pressione arteriosa, né fermare la sudo razione. Su questo semplice ed elementare principio si basa la mac­ china della verità, che a volte è in grado di rivelare la presenza di un intenso stato emotivo misurando la frequenza del cuore, la pressione arteriosa, la sudorazione, e così via. Anche la voce tremolante e affannosa è difficile da controllare, fatto questo che costituisce un indice molto attendibile di forte emotività. L'ansia, la paura e qualsiasi altra emozione sono esperienze private e in­ dividuali, spesso indescrivibili, che appartengono solamente all' individuo

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che le prova. Costituiscono quindi qualcosa di soggettivo che può essere ben identificato all' interno del proprio animo. La sensazione di gioia è sicuramente ben differenziabile dalla sensazione di ansia. Tuttavia, molti stati emotivi si succedono e si sovrappongono senza poter essere identifi­ cati con esattezza. A volte la rabbia, la collera, l'odio, l'ostilità si confon­ dono con l'ansia e la paura o con una profonda sensazione di tristezza e disperazione. Secondo una teoria, formulata dallo psicologo americano William Ja­ mes e dal medico danese Carl Lange alla fine del XIX secolo, sono proprio le modificazioni degli organi interni a dare origine all 'esperienza soggetti­ va dell'emozione. Per esempio, se il cuore batte forte, lo stomaco si chiude, il torace è pesante e i muscoli tesi e dolenti, noi proviamo una sensazione di paura. Se al contrario il cuore batte piano, lo stomaco è rilassato, la re­ spirazione è piacevole e i muscoli distesi, noi proviamo una sensazione di calma e tranquillità. Secondo questa teoria le emozioni sono dunque gli stati corporei stessi. È stato tuttavia osservato che pazienti con il cervello isolato dal resto del corpo in seguito a una lesione continuano ad avere esperienze emotive ben differenziabili l'una dall 'altra, anche se il loro vis­ suto emotivo è molto più povero di quello delle persone normali. Le mo­ dificazioni degli organi interni sono dunque sì importanti, ma da sole non risultano sufficienti a determinare l 'esperienza soggettiva emotiva. Lo psicologo Stanley Schachter suggerisce invece che un'emozione dipende dall' interpretazione che l ' individuo dà dell'ambiente. Strano a dirsi, ma un semplice e banale bicchiere d'acqua può avere per noi signifi­ cati differenti, a seconda di che cosa ci viene detto. Infatti, se a dei sogget­ ti viene data dell'acqua fresca facendo loro credere che in essa è disciolta una sostanza che provocherà uno stato di agitazione e ansia, molti di loro proveranno realmente una sensazione di angoscia e agitazione. Al contra­ rio, se viene fatto credere che l'acqua contiene una sostanza calmante e sedativa, molti di loro si sentiranno effettivamente calmi, tranquilli e in­ torpiditi. Questo fenomeno, che generalmente è conosciuto come effetto placebo, dipende dunque dall' interpretazione degli stimoli ambientali ( in questo caso le spiegazioni false sugli effetti del bicchiere d'acqua) . Perciò, una sostanza (l'acqua) che di per sé non ha alcun effetto, può provocare reazioni emotive particolarmente intense in circostanze appropriate. La stimolazione sociale rappresenta quindi un elemento fondamentale per l' insorgenza dei nostri stati emotivi. Un individuo che cresce in mezzo a

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persone che piangono sviluppa più facilmente emozioni negative rispetto a un individuo che cresce in mezzo a persone che ridono. Tutto ciò ci riporta a G. L. e a un concetto fondamentale in medicina, quello cioè di somatizzazione. La psicosomatica è infatti quella disciplina che studia le interazioni fra psiche (cervello) e soma (corpo) . Molto fre­ quentemente uno stato emotivo intenso si ripercuote sul corpo. Si dice cioè che si somatizza. D ' altronde, questa stretta relazione fra psiche e cor­ po è facilmente intuibile. Basti pensare alle modificazioni degli organi in­ terni durante una situazione di paura. Se la paura e l'ansia durano per un breve periodo di tempo, l'aumento del battito del cuore, l'aumento della pressione arteriosa e gli effetti sullo stomaco e l ' intestino non sono di per sé dannosi. Ma se lo stato d'ansia e di paura dura per settimane, mesi o anni, il cuore, le arterie, lo stomaco possono risentirne gravemente. È suf­ ficiente pensare a un cuore che batte forte per mesi per rendersi conto dei danni che ne possono risultare. Alcune malattie del cuore hanno un'ori­ gine tipicamente psicosomatica, sviluppandosi in seguito a lunghi periodi di stress. Intorno al 1 9 5 0, i due cardiologi Meyer Friedman e Ray Rosenman impostarono un importante studio sulla relazione esistente fra malat­ tie cardiovascolari e comportamento umano, e individuarono un tipo di comportamento strettamente associato alle malattie di cuore come l' infarto . Questo comportamento è stato definito di tipo-A ed è carat­ terizzato fondamentalmente da una personalità ostile e competitiva. I soggetti tipo-A hanno sempre fretta, parlano molto velocemente, si muovono rapidamente, sbattono le palpebre molto frequentemente. In aggiunta, sono molto competitivi e ostili, mirano a obiettivi ben precisi e definiti, come la carriera, il denaro, il successo. Al contrario, il com­ portamento di tipo-B è caratterizzato dalla calma, dalla tranquillità e dalla pazienza. Gli individui tipo-B sono rilassati, si muovono più len­ tamente, non sono aggressivi e competitivi, sono meno inclini a battersi per raggiungere un obiettivo. Il comportamento di tipo-A rappresenta un fattore di rischio così come il colesterolo, l' ipertensione e il fumo. Inoltre, sebbene ci si potrebbe aspettare che i soggetti tipo-A abbiano più successo di quelli tipo-B, ciò non avviene. Gli individui tipo-A, no­ nostante il loro ardente desiderio di riuscire nella vita, hanno meno suc­ cesso degli individui tipo-B. Il cuore non è il solo organo ad essere colpito dall'ansia e dallo stress prolungato. Alcune patologie intestinali sono un altro esempio di malattia

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psicosomatica. Anche il sistema immunitario, quello cioè che ci difende dalle infezioni, dai virus e dai batteri, è influenzato dagli stati emotivi. Si può avere una diminuzione delle difese immunitarie in seguito a fenome­ ni stressanti quali la morte di una persona cara o persino l'affrontare un periodo di esami universitari. Le modificazioni del sistema immunitario possono a loro volta aumentare la velocità di crescita di un tumore. G. L. sicuramente somatizzava la sua ansia, e tale somatizzazione gli procurava uno stato di malessere generale. Come lui stesso affermava, lo sconvolgimento del suo animo non era solo mentale ma anche fisico. Sen­ tiva il suo cuore battere in modo anomalo, anche se non sapeva definire con precisione tale sensazione. Gli sembrava anche che il corpo fosse per­ corso da un fremito, a volte una rigidità dei muscoli, che spesso gli impe­ divano di alzarsi e camminare. E tutto ciò non faceva altro che aumentare la sua ansia, depressione e senso d' impotenza, in un circolo vizioso senza fine. Sebbene i termini ansia e paura siano spesso sovrapponibili, l'ansia è generalmente intesa come reazione a un pericolo sconosciuto, indefinito e interiore, mentre la paura è la reazione a un pericolo conosciuto, ben definito ed esterno. L' ansia e la paura sono dunque risposte dell'organi­ smo importanti per affrontare i pericoli che ci circondano e perciò fon­ damentali per la sopravvivenza. Quando però la reazione a un pericolo è esagerata, sia come intensità sia come durata, si parla di ansia patologica. Analogamente, si parla di ansia patologica quando nessun pericolo sembra esistere realmente per l' individuo, quando cioè non c 'è una causa identi­ ficabile. Quindi, sebbene la causa non esista o sia di per sé insignificante, il soggetto ha quell'esperienza sgradevole di apprensione vaga, diffusa e indefinita, accompagnata da sensazioni spiacevoli del corpo, come mal di testa, pesantezza al torace e ali' addome, sudorazione, cuore che batte forte e incapacità di restare fermo. Tutte queste sensazioni sono vissute dram­ maticamente e l' individuo cerca di fare qualsiasi cosa pur di allontanarle. Nel nostro mondo occidentale l'ansia rappresenta uno dei mali più diffusi della società, dovuto principalmente alla vita stressante quotidiana e alla perdita dei valori familiari. La competizione agguerrita per il lavoro e il successo e il tentativo di imitazione di certi modelli consumistici mettono l' individuo continuamente di fronte a condizioni stressanti per il raggiun­ gimento dell 'obiettivo prefissato. Basti pensare che i farmaci ansiolitici (cioè che riducono l'ansia), per esempio le benzodiazepine, sono ai primi posti come consumo nel mondo industriale. I disturbi d'ansia non sono

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tuttavia omogenei. Esistono diverse varianti, ognuna con le proprie carat­ teristiche. Lo studio di queste caratteristiche ci dimostra come lo stato an­ sioso si possa manifestare in mille modi. Il disturbo d'ansia generalizzata è caratterizzato da ansia e preoccupa­ zione per qualsiasi circostanza della vita. La preoccupazione esagerata può riguardare i propri figli oppure le proprie finanze, senza tuttavia che vi sia alcun valido motivo. Il soggetto può quindi entrare in uno stato ansioso esagerato al pensiero di ciò che potrebbe succedere ai propri figli, oppure assume comportamenti e atteggiamenti esasperati finalizzati a salvaguar­ dare i propri risparmi con la convinzione che questi presto finiranno o andranno sperperati. Questo senso di preoccupazione e apprensione può essere accompagnato da tensione muscolare, dolori diffusi, difficoltà a re­ spirare, vertigini, sudo razione, difficoltà nella concentrazione, irritabilità, disturbi del sonno. Tutto ciò ovviamente interferisce con la routine quo­ tidiana. Il paziente non riesce a concentrarsi sul lavoro poiché le sue ansie e preoccupazioni lo torturano istante dopo istante. Ogni attività risulta compromessa in quanto l'ansia è la padrona incontrastata della sua mente. Un quadro differente caratterizza invece gli attacchi di panico. L' attac­ co di panico avviene improvvisamente ed è caratterizzato da un aumento repentino dell 'ansia e della paura per qualcosa di indefinibile. Il soggetto comincia a sentire palpitazioni, difficoltà nel respiro e intensa sudorazione che gli provocano angoscia profonda e paura di morire improvvisamente, o per un attacco di cuore o per l ' incapacità di respirare. L'attacco di panico è vissuto drammaticamente poiché è un'esperienza improvvisa che si può ri­ petere più volte. Per tale motivo, il paziente affetto da questo disturbo vive nell'angoscia che l'attacco si possa manifestare da un momento all 'altro. Esistono certe situazioni che possono scatenare l'attacco di panico. Per esempio, alcuni decenni fa fu notato che l 'esercizio fisico intenso provoca attacchi di panico. In seguito fu dimostrato che l 'acido lattico, che deriva dai muscoli in seguito a sforzi vigorosi, agisce sul cervello come sostanza che scatena l'attacco. Studi successivi hanno evidenziato che altre sostanze chimiche possono avere gli stessi effetti dell 'acido lattico, come l'anidride carbonica. Recentemente è stato anche osservato che una sostanza che si trova nel nostro intestino e che è responsabile della secrezione della bile, la cosiddetta colecistochinina, provoca attacchi di panico. La chimica dell'attacco di panico è dunque complessa, ma certamente dimostra come uno stato emotivo angosciante possa essere evocato da sostanze chimiche. L'agorafobia è in un certo qual senso simile all'attacco di panico. Tutta-

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via tale disturbo è caratterizzato dall' insorgenza di paura e ansia in posti e situazioni da cui è difficile fuggire. Tipici esempi sono la paura di trovarsi soli fuori di casa, in mezzo alla folla, in automobile. Il soggetto evita queste situazioni, cosa che ovviamente gli impedisce di condurre una vita norma­ le. Molto spesso l'agorafobia è associata agli attacchi di panico. Ciò avvie­ ne perché se un soggetto ha la sfortuna di avere un improvviso attacco di panico in un luogo affollato, svilupperà anche una forma di agorafobia per la paura che lo stesso evento si ripeta nuovamente. Lefobie sono le ansie e le paure che derivano da specifici oggetti, attività e situazioni che il soggetto cerca in tutti i modi di evitare. Lafobia sociale, per esempio, è una forma di paura esagerata di fronte a situazioni della vita sociale come il parlare in pubblico e il trovarsi in mezzo ad altre persone. Il soggetto, pur rendendosi conto della sua reazione esagerata, non riesce a controllarsi e perciò suda, trema e non riesce ad articolare le parole. Spesso il suo imbarazzo cresce a dismisura per la paura di essere osservato e criti­ cato dagli altri, e deriso per le sue mani e la sua voce tremolanti. Altre fobie specifiche sono le paure verso un oggetto o una situazione specifica, per esempio verso alcuni animali, il sangue, le iniezioni, l'acqua, gli ascensori, i posti chiusi. Il soggetto in questo caso cerca di evitare di trovarsi di fronte agli oggetti o alle situazioni di cui ha paura, ma spesso il solo pensiero è sufficiente a evocare uno stato ansioso esasperato. Di carattere diverso è invece il disturbo ossessivo-compulsivo. La caratte­ ristica fondamentale di questo disturbo è la presenza delle ossessioni e del­ le compulsioni. L'ossessione è un ' idea ricorrente che proviene dall' interno dell' individuo e che procura un' intensa ansia, la compulsione è invece un atto motorio che viene effettuato ripetutamente in seguito all'ossessione al fine di eliminare lo stato ansioso. Nel suo libro Il ragazzo che si lavava in continuazione, la psichiatra americana Judith Rapoport sintetizza il sin­ tomo più comune del disturbo ossessivo-compulsivo, cioè l 'ossessione di essere sporco e contaminato e la compulsione a lavarsi continuamente. Un altro esempio di ossessione e compulsione è la tricotillomania, cioè l ' im­ pulso incontrollabile di strapparsi peli, ciglia, sopracciglia e capelli fino ad arrivare alla calvizie. La caratteristica di questo disturbo è quindi la ripeti­ tività di un comportamento, che si può manifestare nei modi più svaria­ ti quali il toccare, contare, ordinare, collezionare, controllare, muoversi. I farmaci che aumentano un neurotrasmettitore specifico, la serotonina, hanno un'azione terapeutica molto efficace, fatto questo che ha indotto ad

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avanzare l ' ipotesi che il disturbo ossessivo-compulsivo sia dovuto, almeno in parte, a una carenza di serotonina nel cervello. Di significato particolare per coloro che hanno vissuto eventi dram­ matici e situazioni raccapriccianti è lo stress post-traumatico. In un primo tempo, questo disturbo era stato denominato "neurosi da guerra'' poiché era presente in soldati che avevano avuto esperienze di torture, violenze sessuali, o avevano assistito alla morte di compagni. Si è osservato successi­ vamente che lo stress pose-traumatico può essere generalizzato a qualsiasi situazione vissuta drammaticamente. L' individuo, a distanza di anni dalla drammatica esperienza, entra in stato di angoscia e di agitazione per la comparsa di ricordi che non riesce a cacciare dalla mente. Per esempio, è noto il caso di una paziente che aveva avuto un incidente in moto con la figlia di 1 2 anni. Lei si era salvata ma aveva assistito all 'orribile decapita­ zione della ragazzina. Il rotolare della testa della piccola sull 'asfalto era la sua ossessione che compariva di giorno e di notte. Questo atroce ricordo la rendeva ansiosa, irritabile, in continuo stato d'allerta, e le procurava in­ sonnia e incapacità di concentrarsi su qualsiasi tipo di attività. Lo stress pose-traumatico è presente anche negli animali e questo ha permesso di studiare alcuni dei meccanismi alla base della sua insorgenza. Per esempio, è stato osservato che una molecola, l' N-metil-D- aspartato, è essenziale per l ' instaurarsi dello stress pose-traumatico nell'animale. L'ansia può dunque manifestarsi sotto diverse forme. Tuttavia, una delle caratteristiche più costantemente presenti è la somatizzazione. Le palpitazioni, la difficoltà nel respiro, il tremore, il peso allo stomaco, la sudorazione e altri sintomi sono quasi sempre presenti. Un' analisi detta­ gliata della dinamica d' insorgenza dell 'ansia ci può portare nel profondo dell'animo di una persona. Le sue paure dell' infanzia e dell'adolescenza, i suoi desideri soddisfatti e insoddisfatti, gli eventi traumatici della sua vita passata, le sue aspettative e i suoi obiettivi, sono tutti fattori che si sovrappongono, spesso generando un' ingarbugliata matassa di pensieri ed emozioni. Poniamoci allora questa domanda. Qual è la dinamica che porta un individuo ad aver paura di certe situazioni, come per esempio i luoghi aperti, la folla, il parlare in pubblico, gli ascensori ? Una delle teorie più interessanti si basa sul fenomeno del condizionamento. Il fisiologo russo lvan Pavlov pose le basi di questa teoria a cavallo fra il XIX e il xx secolo. Egli dimostrò che il suono di un campanello (di per sé senza alcun signi­ ficato per un cane), se associato ripeturamente a un pezzo di carne, può

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evocare la stessa risposta di quest 'ultimo. Infatti, se si mostra della carne a un cane, questo comincia a salivare e sbavare (gli verrà cioè l'acquolina in bocca) . S e il suono del campanello viene presentato insieme con la carne per diverse volte, il cane impara ad associare il campanello al cibo. Dopo un certo periodo di tempo, il cane saliverà e sbaverà al solo suono del cam­ panello, senza che gli venga mostrata la carne. Questo fenomeno prende il nome di condizionamento classico. Chi ha un cane sa bene cosa vuoi dire condizionamento. Gesti e movimenti del padrone vengono associati a si­ tuazioni ben precise. Per esempio, quando il padrone prende il guinzaglio nelle mani, il cane sa che quel gesto significa andare a passeggiare. Su queste semplici osservazioni, studiate e analizzate in dettaglio nel corso degli anni, si fonda una parte del comportamento umano e animale. E ciò vale anche per l'ansia. L'esempio di una fobia specifica può aiutare a comprendere meglio. Esistono soggetti che hanno una fobia per alcuni animali. Per esempio, la sola vista di un gatto può procurare un intenso stato ansioso con palpitazioni, tremore, sudorazione, desiderio di scappare e incapacità di parlare. Scavando a fondo nella vita di questi soggetti si può scoprire che da bambini la vista del loro gatto era sempre associata a un evento violento, per esempio un forte temporale, che procurava loro un forte stato di ansia. Il gatto si rifugiava in casa allo scoppio del temporale. Dopo ripetute volte, il bambino aveva associato il gatto alla paura del tem­ porale. Perciò, il gatto (all ' inizio senza alcun significato per il bambino) era diventato il simbolo del temporale e della paura a esso associata. Come abbiamo già visto a proposito dei farmaci antidepressivi, l' ana­ lisi del meccanismo d'azione dei farmaci ansiolitici ci permette di com­ prendere a che cosa sia dovuta l'ansia. Gli ansiolitici più usati al giorno d'oggi sono le benzodiazepine. Alla fine degli anni settanta fu scoperto che questi farmaci si vanno a legare nel cervello in zone ben precise, cioè ai cosiddetti recettori del GABA, i quali si trovano sulla superficie delle cellule nervose. Il GABA null'altro è che un neurotrasmettitore inibitorio, che produce cioè un' inibizione dell'attività delle cellule nervose. Quan­ do il GABA si lega al suo recettore produce una notevole diminuzione dell'ansia. Le benzodiazepine non fanno altro che facilitare e stabilizzare il legame fra GABA e recettore, determinando così una potente e duratura riduzione dell'ansia. G. L. non era inquadrabile in nessuno di questi disturbi d'ansia. È vero, era un ansioso, ma ciò non gli impediva di svolgere la sua attività quotidia­ na nella totale normalità, a parte qualche periodo di forte somatizzazione.

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Tuttavia, dalle sue narrazioni emergono due aspetti importanti, ambedue legati alle esperienze passate. Il primo riguarda la sua learned helplessness, la sua impotenza cioè di fronte all'ambiente, alla Natura, all' Universo. Il secondo aspetto riguarda invece lo stress post-traumatico in seguito a esperienze drammatiche del passato. La vista di un animale agonizzante e di un bambino sofferente e indifeso non avrebbe di certo avuto sulla mag­ gior parte delle persone l ' impatto emotivo che ha avuto su G. L. Ma la sua particolare sensibilità ha evidentemente creato una situazione di angoscia interiore simile a quella della madre che ha visto la decapitazione della propria figlia. Tutte le situazioni che G. L. ha vissuto non vanno perciò viste come eventi oggettivi appartenenti al mondo esterno, bensì come eventi soggettivi di G. L. stesso. È un po' come il concetto di piacere. Non possiamo giudicare in termini assoluti il piacere e il dispiacere. Dobbiamo semplicemente constatare che certi oggetti e certi eventi producono que­ sti stati emotivi nell'animo di un individuo. Eppure, nonostante queste emozioni incontrollate e incontrollabili, G. L. ha iniziato a un certo punto a razionalizzare i suoi tormenti. Dalla prossima lettera comincia proprio la razionalizzazione di quell 'ansia, di quella depressione, di quella logica maledetta che lo porterà all'autodistruzione. Una folle logica inizia a farsi strada nella sua mente. Idee, pensieri e concetti ben definiti vengono usati per dare una spiegazione e, chissà, magari una soluzione a quel senso di impotenza nei confronti della Natura. G. L. era un razionale, forse troppo.

La quarta lettera Dialogo con un credente

Frate M conosceva il mio stato d'animo e le mie idee religiose. Conosceva i miei dubbi e le mie insicurezze. Sapeva che cercavo e che non avevo ancora trovato. Ne avevamo parlato piu volte, ma di sfuggita, senza approfondire le nostre idee e i nostri pensieri. Ora sembrava che cifosse l'atmosjèra ideale per aprirsi di piu, sia per me che per lui. Rimanemmo in silenzio per diversi mi­ nuti. Frate M lanciava pietre in acqua, io lo guardavo quasi svogliatamente, imitandolo di tanto in tanto. Ad un certo punto sigiro verso di me e con un sorriso appena accennato mi domando: - Allora, sei appena tornato dall'Aftica. Cosa ne pensi? Mi aspettavo una domanda di questo tipo. - È stato terribile, - esclamai - veramente terribile! Sono in uno stato di sconforto e di confusione totale. - È naturale! La tua confusione nasce dalleforti emozioni che hai provato. Se tu nonfossi confuso vorrebbe dire che quello che hai visto non ti ha toccato. - Quello che ho visto mi ha si confuso, ma in un certo senso mi hafotto vede­ re le cose piu chiare. È difficile da dire, e difficile da spiegare... ma i dubbi che avevo prima hanno preso ora laforma di certezza, di convinzione. - Che cosa intendi dire? - mi domando con ariafolsamente stupifàtta. Sapeva benissimo cosa volevo dire. Ne avevamo parlato piu volte. Ma evi­ dentemente voleva provocarmi, per scavare piu a fondo nel mio animo tor­ mentato. - Come puo esistere un Dio, - esclamai - un essere pensante che ha creato questo Universo, gli uomini, gli animali, e poi li distrugge con crudelta.fred­ da e determinata ? Non ha senso... semplicemente non ha senso! Vtz contro i principi del bene e del male che noi abbiamo. Perché a lui sarebbe concesso di torturare un bambino fino alla morte, mentre se noifocessimo la stessa cosa saremmo additati comegli autori del piu orrido delitto ? - Non sta a noi giudicare l'operato di Dio. Perché se lofo, vuol dire che puo fàrlo. Vuol dire chefo parte del suo grande disegno universale.

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- Ma perché ostinarsi a partire da questo presupposto? - gli risposi con tono angosciato. - Perché dici che Dio esiste e puofore quello che vuole, anche se a noi sembra malvagio ? Perché non consideri anche l'altra possibilita ? Dio non esiste, e noi e tutto cio che ci circonda siamofutto del caso. - Del caso ? Tutto quello che vedi intorno efutto del caso ? La complessita delleforme viventi? I colori di questo tramonto? Le tue idee e le tue parole in questo momento ? Prese un insetto fa le pietre e lo pose sulla mano. Lo foce camminare a lungo, su egiu per il braccio. Poi esclamo: - Guarda che meraviglia! Un essere cosi semplice ma allo stesso tempo cosi complesso. Cammina, mangia, si ac­ coppia, scappa quando ha paura ... Guarda le sue zampine come si muovono. Una coordinazione peifetta. Guarda le antenne, le ali, gli occhi, l'addome... Sonoforme geometriche meravigliose, che sono li, tutte insieme, per dar vita a questa piccola creatura. E tutte le molecole che si agitano dentro di lui in peifetta sincronia ? Tutte le particelle, gli atomi, le molecole hanno un ordine incredibile. Ognuna e collocata nella giusta posizione, e permette la vita di questo piccolo essere. Poi stacco unafoglia da un 'o rribile erbaccia che spuntavafa le pietre. La guardo, la sfioro, la analizzo nei minimi particolari. Ed esclamo: - Vedi que­ sta creatura vivente? Ci appare insignificante, ma anch 'essa ha una comples­ sita immensa. Tanti atomi e molecole si agitano dentro di lei, e le permettono di vivere. C 'e un ordine in questafoglia che ha dell'incredibile, e noi non lo vediamo. Chi ha messo le molecole al posto giusto? Èforsefutto del caso? - E tu dici che Dio esiste solo in base alla complessita delle forme viventi, dell'ordine di tutte le cose, dei colori del tramonto ? Non e sufficiente! Certa­ mente non e sufficiente! Siamo noi che difonte all'impiegabile invochiamo l'esistenza di un essere pensante superiore. Superiore nel senso che puo tutto. Puo creare dal niente, puo distruggere nel niente, insomma puo e basta. E il gioco e fotto! Ecco che tutto diventa spiegabile, diventa possibile, diventa persino chiaro. Ma non e chiaro affatto! È semplicemente una situazione di comodo, uno stato di rilassamento intellettuale, in cui le nostre doman­ de, le nostre risposte, le nostre argomentazioni non hanno piu significato e hanno perso ogni logica. E allora ecco che non sappiamo andare piu avanti e ciformiamo. E tiriamo fuori l'irrazionale, qualcosa di superiore che puo. Semplicemente puo tutto. Cosi demandiamo a questo qualcosa di superiore la responsabilitd di tutto cio che non capiamo. Semplice no? Ma e solo la nostra logica che si eformata. Èforse la pigrizia, o l'impossibilita, di proseguire con le argomentazioni razionali.

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- I dubbi sono piu che legittimi - mi dissefrate M - Persino un religioso li ha. Ma l'Universo deve pur essere nato da qualcosa! E la complessita degli esseri viventi, del nostro pensiero e delle nostre idee? Frutto del caso? Atomo dopo atomo in un ordineperjèttofrutto di una cieca casualita ? - E perché no? La nascita della vita puo certamente essere attribuita al caso. Anche se la probabilitd di questo perjètto ordine atomico e molecolare e bas­ sissima, cio non esclude una casualita di tutte le cose. Prova a pensare se la probabilita di nascita di un organismo viventefosse una su miliardi di mi­ liardi di miliardi... Ebbene? Che cos'e? È una probabilita altissima difronte all'eternita universale! Sarebbe piccolissima in un arco limitato di tempo. Ma nell'eternita! Prima o poi succedera. - Ma l'Universo - esclamo - come lo spieghi? Come puo esistere? Come puo essere nato? Oppure è sempre esistito ? Non puoi spiegare questo! - E tu ? Come lo spieghi Dio ? Come puo esistere? Come puo essere nato? Oppure è sempre esistito ? Neanche tu puoi spiegare questo! - No certamente, - rispose - non lo posso spiegare. Ma l 'entita di Dio e una cosa, l'entita dell'Universo è un 'altra! Dio, essere divino per definizione, non ha né spazio né tempo. È li, esiste, e basta. L'Universo, invece, è delimitato nel tempo e nello spazio ed e stato creato da Dio. - Hai semplicemente spostato il problema. Non sai spiegare l'esistenza dell'Universo e allora lo attribuisci ad un essere superiore. Ma ilproblema è sempre li! È solo spostato di un gradino. Ragionando in questi termini, pos­ siamo andare avanti all'infinito. Cioè... ora il problema è di spiegare l'esi­ stenza di Dio. Potremmo attribuirla ad un altro Dio, superiore al primo, e cosi via... - Forse tu fraintendi il concetto di Dio - mi interruppe. - Dio e un essere pensante, sicuramente al difuori della nostra logica umana. Ed è anche onni­ potente. E ha deciso di creare questo Universo, e l'uomo, e gli animali, e tutte le cose. Dio non ha bisogno di essere spiegato, perché èfotto di qualcosa di im­ materiale che noi non riusciremo mai a capire. L'Universo, invece, è materia. È un gioco complesso di particelle, atomi e molecole che non hanno uno scopo, non pensano. Insomma, l'Universo di per sé è inanimato, senza un disegno e senza un progetto. È la volonta e ilpotere di Dio, di questo essere superiore, che da vita alla materia. - Ma è proprio questo il punto! - esclamai. - Tu continui a spostare il pro­ blema ad un 'ipotetica creatura pensante. Con questo ti sembra di risolvere il problema dell'esistenza della materia. Scusa il paragone... ma è un po' come nelpassato, quando ijènomeni naturali impiegabili venivano attribuiti alla

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volonta divina. Prova a pensare ai tuoni e ai fulmini che gli antichi Greci attribuivano alpassaggio di Giove. - Non e la stessa cosa! - ribatté molto fermamente. - Questi esempi sono spesso citati per dimostrare che cio che ci circonda eftutto di eventi puramente materiali e non divini. È chiaro che sono d'accordo anch 'io su questo. Ma la nascita e l'esistenza stessa dell'Universo, di noi e della materia intorno e un altro paio di maniche! - Mica poi tanto! Èforse solo piu difficile da spiegare dei tuoni e deifulmini. - Come puoi tu spiegare, o meglio, come puo la scienza spiegare l'esistenza dell'Universo f - disse ad alta voce, quasi adirato. - Qual e la causa della sua nascita f Come puo essere successo cio f Èforse nato dal niente? Ero talmente convinto di quello che dicevo che quasi mi sembrava di im­ partire una lezione. Forse dovevo sembrare un po' presuntuoso. Ma non era presunzione. Era una convinzione talmente profonda e radicata in me che le mie risposte erano pronte e decise. Quelle convinzioni non erano nate in me in Aftica. Erano certamente presenti anche prima. La drammatica esperienza afticana non aveva fotto altro che esacerbare i miei dubbi religiosi e le mie convinzionifilosofiche. - Ecco! - esclamai. - Hai usato una parola molto significativa. Causa... Il concetto di causa-ejfètto e talmente insito in noi uomini che quando non sap­ piamo trovare la causa ad un determinato ejfètto, tiriamofuori l'irrazionale. Per definizione e per esperienza quotidiana, la nostra logica dice che ogni evento deve avere una causa. E tu credi di spiegare l'esistenza dell'Universo, cioe la sua causa, con l'esistenza di Dio... - Ma allora quale sarebbeper te la causa f - mi domando con aria di grande curiosita. - Un principiofisico a noi sconosciuto, e cheforse restera sconosciuto per sem­ pre. Ma null'altro che un principio fisico. Forse questa leggefisica ha creato qualcosa dal niente. Oforse l'Universo e sempre esistito, per un inspiegabile e misterioso principio dellafisica che governa lo spazio e il tempo. A questo pun­ to sono anche disposto a credere che non ci sia una causa. L'Universo esiste, e sempre esistito ed esistera sempre, e basta. - Con questo neghi il principio di causa-ejfètto! - esclamo. - L'Universo deve pur avere avuto una causa! - Perché? - dissi. - Tu non lo neghi? Siamo disposti tutti e due a negarlo. Nel momento in cui accetti l'esistenza di un Dio al difuori dello spazio e del tempo, che e sempre esistito e che non e stato creato, ammetti l'esistenza di qualcosa che non ha causa. E allora f Perché andare tanto in la, fino ad un

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Dio? Non e possibile che quel qualcosa al difuori dello spazio e del tempo, che e sempre esistito e che non ha causa sia un mero principio dellafisica ? Abbassai gli occhi. Divenni ancor piu triste e malinconico, nell'espressione e nella voce. Erano cosegrosse quelle che stavo dicendo. E tragiche. - Diciamo tutti e due la stessa cosa - proseguii. - Solo che tu arrivi a Dio. Beato te! lo, invece, mifermo prima. - Perché quel tono dimesso e quell'espressione triste? - mi domando. - Vorrei che avessi ragione tu! - risposi quasi singhiozzando. - Vorrei che l'esistenza dell'Universo avesse una causa, un Dio, qualcosa di pensante. Mi sentirei protetto e in pace. Invece mi sento solo. Terribilmente solo. Quel ter­ ribile principiofisico senza causa mi divora giorno dopo giorno e mi leva ogni speranza. Perché e sordo e cieco, perché agisce secondo la legge del caso, perché colpisce uomini, animali e cose senza distinzione. Sarebbe bello, invece, che il principio senza causafosse un Dio pensante e giusto. Ma non ci posso credere! Assolutamente no! - Tu stai cercando qualcosa, ma non sei ancora riuscito a trovarla. Ma sento che sei sulla giusta strada. Solo che questa strada e per te un po' difficile... ecco, e in salita. - Non so, - dissi - non so cosa pensare. Ormai sono convinto, e ci scommet­ terei, che non esiste un 'entita divina. Ecco, si, sono un materialista, un con­ vinto materialista, ma con un grosso desiderio. Quello di scoprire un giorno di aver torto. Mi trovavo li, piccolo piccolo, e non sapevo ilperché. E la cosa terribile era che non potevo farci niente. Potevo solo !imitarmi ad usare la mia capacita di pensare perfare ipotesi. Ma le ipotesi mi lasciavano insoddisfatto perché erano solo operazioni mentali tentennanti. La verita era che mi muovevo nel buio piu completo, senza sapere da che parte girarmi e che direzione prendere. Beatofrate M con la suafede! Lui era convinto che il sole con i suoi tramonti e i suoi colorifosse opera di un Essere che ci guarda e ci ascolta. Era convinto che le cose li intorno, l'insetto, lafoglia, i nostri pensieri, dimostrassero l'esi­ stenza di un Essere divino. Ma io vedevo solo materia intorno a me. Nient 'al­ tro! Nei giochi di luci del tramonto vedevo solo la diffusione e la diffrazione deifotoni emanati da una stella. E nei nostri pensieri vedevo una proprieta splendida si, ma materiale, emergente dall'agitarsi delle molecole nei nostri cervelli. Niente di piU! Solo leggifisiche,fredde e impassibili al mio stato d'a­ nimo. Leggifisiche splendide e strabilianti, ma insensibili alla mia angoscia e al mio tormento interiore. - Ilfatto e che l'uomo e solo, - proseguii - drammaticamente solo, quando

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deve prendere una decisione, quando deve discernere fra bene e male. Non sa a chi rivolgersi, se non che ad un altro uomo. Ma se cerca aiuto spirituale per intraprendere la strada piu giusta, ecco che cala il silenzio piu completo. Certo! Perché se un Dio esiste, forse guarda, forse ascolta, ma certamente non parla! E allora ? Allora ci ritroviamo soli, confusi, incerti, tentennanti, senza nessuno a cui poterei rivolgere. - Beh, in questo sbagli! Sei tu che non sai riconoscere le parole di Dio. Lui si puo manifestare in tanti modi... sta a noi riconoscerlo. Per esempio, a me Dio ha dato molti segni della sua presenza, ed io sono statofortunato ad averli riconosciuti e capiti. - Ma quali sono questi segni? - lo interruppi bruscamente. - Sono segnali soggettivi, con interpretazioni altrettanto soggettive. Forse Dio vuole parlare con alcuni, mentre con altri no? Io non ho mai avuto il dono delle "orecchie" per percepire le parole di Dio. Perché non parla con me che lo sto cercando ? Perché i segnali che ricevo e le parole che percepisco m i allontanano sempre piu dall'esistenza di Dio ? Quello che purtroppo ho percepito e stato solo soffe­ renza, solitudine, freddezza e cecita della Natura, insensibilita nei confronti dei nostri mali. - Anche questi sono segni, - mi rispose molto pacata mente, quasi sottovoce ­ segnali che hanno un loro significato. Perché tu ti sei accorto della sojfèrenza intorno a te e ci hai riflettuto sopra. Forse ne dovranno arrivare altri di segna­ li divini. Forse Dio ti parlera piu esplicitamente. E allora capirai che questi segni, che oggi ti sembrano negativi, avevano il loro significato. - Mah, sarai - esclamai con tono sconfortato e con un 'espressione quasi sem­ pliciona. - Per ora la realta che mi si prospetta e questa. - Prova a pensare che splendido segnale ha mandato Dio all'umanita per manifestare la sua presenza! - prosegui con tono entusiasta. - Ha mandato suo figlio qui tra gli uomini. Gesu Cristo ci ha parlato e ci ha rivelato un mondo ultraterreno al quale tutti possiamo accedere. - Ma quello non e un segnale chiaro e inconfutabile! È stato chiaro per mol­ ti, i Cristiani, ma non per tutti. Gesu Cristo puo essere anche una leggenda. Non ci sono prove inconfutabili sulla sua esistenza. Ma ammettiamo pure che sia esistito! A che titolo dobbiamo definirlofiglio di Dio? Puo essere stato un uomo come tutti gli altri, un predicatore, un eccezionale predicatore, che nel periodo storico giusto, nelposto giusto e con gli uomini giusti ha rivoluzio­ nato il mondo religioso... e non solo. Su che base diciamo che la sua essenza e sovrannaturale? Sulla base del Vtmgelo? Scritto e redatto dai suoi seguaci? Niente di piu naturale che Gesu Cristo dovesse apparire come un Dio ai suoi

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seguaci. Dopo tutto le condizioni di poverta, miseria e malattia lo lasciavano prevedere. Prova a pensare che cos 'era per quegli uomini la promessa di un Paradiso! Prova a pensare che cos'era ilpoter pensare che il povero, il misero, l 'ammalato, il reietto della societa si sarebbe un giorno schieratofa gli eletti, a fianco di Dio! Miseria, malattia, fome e morte diventavano allora accet­ tabili, anzi, erano forse quasi desiderati. E poi pensa all'ignoranza di quei tempi, in cui regnavano incontrastati magia, stregoneria e miracoli! E poi per circostanze propizie ilfenomeno si e amplificato nella storia, giorno dopo giorno, anno dopo anno, secolo dopo secolo. Ci pensai su un attimo, poi continuai: - Forse erano proprio i tempi giu­ sti e i luoghi giusti! Prova a pensare alle stesse cose che succedono nel mondo d'oggi, ai tanti predicatori, alle persone che dicono di avere contatti con il sovrannaturale, ai piu svariati miracoli. Ebbene, l'uomo oggi e meno inge­ nuo, piu smaliziato, certamente con maggiori conoscenze rispetto al passato. La conseguenza di ciO ? Una minore credulita e una minor presa di queste sette religiose sul pubblico. Persino la Chiesa! Quando si parla di miracoli, chiede, analizza, indaga, processa, sconfessa. Duemila annifo tutto cio non avveniva. Era sufficiente dire che un paralitico aveva ripreso a camminare o che un morto era risorto affinché la gente ci credesse. Ci si crederebbe adesso f Nel mondo occidentale certamente no! Forse in Aftica... perché li domina l'i­ gnoranza, la miseria, la sofferenza, la malattia. Quelloforse sarebbe il luogo giusto per un predicatore ambizioso. Perché li la gente ha bisogno di credere in qualcosa ... e soprattutto di sperare. Sperare che in un futuro, o terreno o ultraterreno, le cose cambieranno. - Non e necessario dirti che dissento su tutto cio che hai detto - mi disse. Ma provo, non tanto come religioso, quanto comefilosofo improvvisato, afor­ ti alcune domande. È possibile che unfenomeno cosi circoscritto abbia potuto diffondersi in tutto il mondo e durare per due millenni f Dal punto di vista storico il tuo discorso non fo una grinza. Ma come e possibile che personaggi dotati di un grande intelletto siano caduti in questa trappola ? È possibile che un individuo cosi eccezionale come Sant'Agostino, per citarne uno solo, sia anch'egli caduto nel tranello senza usare gli argomenti storici razionali che tu stai usando f - Quello che tu dici e senz 'altro sconcertante! - risposi. - Ma il punto e fòrse che questi personaggi partivano da un puntofermo, e cioe quello difede. Prova a pensare al "devo prima amarti o prima cercarti?" di Sant'Agostino. Percio non mi stupisce ilfotto che molte menti eccelse siano cadute nella trap­ pola del Cristianesimo, proprio perché quello che era veramente radicato in

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loro era lafede. E per l'ipse dixit di Aristotele, allora ? Anche li molte menti eccelse sono cadute nella trappola per secoli. È possibile che anche in questo caso menti geniali non si siano sapute sottrarre all'ipse dixit? Evidentemente e possibile, perché e successo! - Evidentemente molte menti eccelse, seppur geniali, partono da un punto fermo, da un dogma - proseguii. - E questo puntofermo non si contesta. Per nessuna ragione! Il lavoro della mente eccelsa viene sviluppato in modo ge­ niale, ma sempre partendo da questo dogma. Ecco cosa penso sia successo per il Cristianesimo e per l'ipse dixit! - D 'altronde, - aggiunsi - che lafede sia un dogma non lo dico certo io! Si crede e basta, senza una logica. Se la logica esistesse e se cifossero prove dell'e­ sistenza di Dio, non staremmo di certo qui a discutere. - La fede e certamente un dogma! - esclamo. - Usare argomentazioni ra­ zionali quando si parla difede epressoché impossibile. Tu sei troppo raziona­ le, troppo logico. Forse per questo non haifede. - Certo! Forse e cosi! Ma questo e terribile! Perché significa che basta usare la ragione per scoprire che il credere all'esistenza di Dio non sifonda su nien­ te! E questo non avviene certamente solo per il Cristianesimo, ma anche per le altre religioni. Non eforse vero che ogni religione ha le sue credenze e i suoi dogmi ? E poi questi dogmi derivano dalla cultura e dalle usanze delle diverse popolazioni. Ed ecco che il Dio di ogni popolazione ha la propria identita, le proprie caratteristiche, i propri principi. Questofa pensare che l'entitd divina e creata dal popolo a sua immagine e somiglianza, e non viceversa. Perché mai Dio avrebbe dovuto manifestarsi in modi cosi diversi a dijfèrenti popoli? E, soprattutto, perché avrebbe dovuto inculcare principi diversi in dijfèrenti popoli ? Se e vero che Dio ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza, non dovrebbeforse esistere un 'unica religione? Frate M non parlava. Era rimasto seduto e guardava verso il basso, con la schiena ricurva, come se un immenso carico di pensieri si trovasse sopra di lui. - Il tuo silenzio mifa paura! - gli dissi. - Mifa paura perché capisco che non esistono risposte a queste domande. O meglio, capisco che le risposte sono tra­ gicamente terrene. Insomma, che Dio non ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza, ma viceversa. Sono gli uomini, con le loro diverse origini, cul­ ture e tradizioni, che hanno creato i loro Dei a loro immagine e somiglianza! Questa e la mia tragica e angosciante conclusione. Un convincimento che mi ha distrutto e continua a distruggermi dentro. E che mifa sentire un essere solo, irrimediabilmente solo, in questo immenso Universo. - Caro G., - mi dissefrate M - il tuo animo e turbato... molto turbato. Ma

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questo rientra nel grande disegno del mistero dellafede. La nostra esistenza e il giocofra il bene e il male sono misteri pnifòndi che un giorno, quando non saremo piu esseri terreni, capiremo. Con te certamente non servono le idee irrazionali. Tu sei troppo portato a razionalizzare cio che ti circonda. Ma anche tu seifiglio di Dio. Ed evidentemente lui ha voluto che la tua strada fòsse difficile, piena di tormenti e angosce. Non avevo piu voglia di parlare. Mi sentivo spossato da quella discussione. Perché mi sembrava che le idee dentro di mefossero ormai chiare. - Questo dialogo con te e stato splendido! - esclamai. - Mi e servito per ren­ dermi conto esattamente delle mie idee. Ce le avevo tutte dentro, ma tiran­ do/efuori ho capito l'esatto significato che hanno per me... Hofreddo adesso. Andiamo. - Si, andiamo! - mi rispose mettendomi una mano sopra la spalla e co­ minciando a camminare. - Andiamo a riposarci. Diamo un po' di tregua a questo tuo tormento.

Note sull' interazione mente-cervello l

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La concezione materialista di G. L., la sua razionalizzazione di ogni evento nell' Universo, compresa la nostra coscienza, sono problemi a cui la scienza solo parzialmente può rispondere. G. L. era sicuro che quello che avviene nel nostro cervello quando pensiamo, quando amiamo, quando odiamo è solo una questione di molecole. In effetti, l'approccio scientifico ci dice che molti eventi mentali complessi possono essere alterati da sostanze ma­ teriali, come i farmaci e la stimolazione elettrica del cervello, facendo così supporre che la mente non è nient 'altro che un'entità fìsica. Una breve descrizione di alcuni esperimenti può aiutare a capire questo punto. Partiamo dal topo per arrivare prima alla scimmia e poi all'uomo. Nel 19 5 4 , gli psicologi James Olds e Peter Milner hanno fatto un' importante scoperta: hanno preso un ratto e gli hanno impiantato, mediante un' ap­ propriata tecnica chirurgica, un elettrodo in una zona del cervello chiama­ ta sistema limbico. Facendo passare della corrente elettrica nell'elettrodo è possibile stimolare il sistema limbico. Il ratto viene quindi posto in una gabbia al cui interno c 'è acqua, cibo in abbondanza e, in un angolo, un pulsante. Questo è collegato all 'elettrodo, di modo che se l'animale preme il pulsante stimola il proprio sistema limbico. Ovviamente questo il ratto non lo sa. Perciò, appena posto nella gabbia, l'animale ha un comporta­ mento del tutto normale: mangia, beve, si gratta, si lava, e gira esplorando l'ambiente intorno. Camminando e girando, il ratto a un certo punto spinge casualmente il pulsante. Da quel momento il suo comportamento cambia radicalmente. Infatti, comincia a tralasciare ogni tipo di attività al fìne di concentrarsi sul pulsante, premendolo ripetutamente fìno a 7.0 0 0 volte all'ora, che vuol dire circa due volte al secondo. Il fatto sorprendente consiste nel fatto che i ratti che hanno la possibilità di stimolare il proprio sistema limbico in questo modo, non mangiano, non bevono e non dormono, fìno a raggi un-

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gere spesso condizioni precarie per la loro vita. Questo fenomeno di auto­ stimolazione ha dato vita a un nuovo concetto, cioè a quello della presenza nel cervello dei centri del piacere. Esistono quindi nel cervello delle zone che, se stimolate, provocano un' immensa sensazione di piacere. I ratti si autostimolano, rinunciando a qualsiasi altro tipo di comportamento, per­ ché provano un intenso piacere nel farlo. I risultati ottenuti nella scimmia sono anch'essi particolarmente espli­ cativi. Infatti, mediante la stimolazione elettrica del sistema limbico, è pos­ sibile evocare nell'animale la risposta emotiva che si desidera. In questo caso, a una scimmia vengono impiantati tre elettrodi in tre zone differenti del sistema limbico. La scimmia, il predatore, viene quindi messa in una gabbia insieme con un topo, la preda. Il fatto sorprendente è che lo stato emotivo e l 'atteggiamento della scimmia nei confronti del topo dipendo ­ no da quale elettrodo viene stimolato e non dal confronto predatore-preda in sé. Infatti, se viene attivato il primo elettrodo la scimmia attacca e uccide il topo, se viene attivato il secondo elettrodo la scimmia scappa impaurita, se viene attivato il terzo elettrodo la scimmia si ripara il volto terrorizzata in un atteggiamento di difesa. Non esistono perciò solo centri del piacere, ma anche zone del cervello che, se stimolate, producono paura. Ma il ri­ sultato fondamentale ottenuto da questo tipo di esperimenti consiste nel fatto che l 'attivazione di diverse zone del cervello produce diverse reazioni emotive : il topo può essere considerato dalla scimmia come preda da at­ taccare, predatore da cui fuggire o nemico da cui difendersi, a seconda di quale parte del cervello è stimolata. Quello che noi possiamo fare negli animali è solo l 'osservazione del loro comportamento, senza sapere cosa effettivamente l'animale prova. Il grande vantaggio di poter effettuare queste prove nell 'uomo consiste nel fatto che un soggetto ci può riferire ciò che sente durante la stimolazione del sistema limbico. È possibile fare questo nel corso di interventi chirur­ gici sul cervello durante la localizzazione di una lesione. Infatti, certi inter­ venti neurochirurgici vengono effettuati con la sola anestesia locale perché è necessario che il paziente rimanga sveglio, cosciente e cooperante. Ciò è reso possibile dal fatto che nel cervello non esistono recettori dolorifici. Scandagliando e stimolando tutto il sistema limbico è possibile ottenere una vasta gamma di stati emotivi. Prendiamo l'esempio di un paziente a cui sono stati introdotti due elet­ trodi nel sistema limbico al fine di localizzare una lesione. Inizia la prima stimolazione. "Cosa senti ?" gli viene chiesto. "Una sensazione piacevole !

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M i sento rilassato, tranquillo, i n pace con me stesso e con gli altri, creativo, mi sembra di volare ... una sensazione splendida ...". Si interrompe la stimo­ lazione. L'elettrodo viene spostato un po' più indietro. Si ristimola. " Cosa senti adesso ?". "Una sensazione spiacevole ! " risponde angosciato. Chiede di smettere. La stimolazione termina. L'elettrodo viene spostato ancora un po' indietro. Si stimola di nuovo. "E adesso cosa senti ?". "Ho come la sensazione di essere osservato ... mi imbarazza molto ..." risponde perples­ so. La sensazione è molto indefinita. Si passa perciò alla stimolazione con l'altro elettrodo. "Cosa senti ?". "Mi sento spossato, triste ... non ho voglia di lottare ...". Chiede di interrompere. Si sposta l'elettrodo più indietro e si ristimola. "E adesso ?". "Sono entusiasta ... non so di che cosa ... ma sono entusiastà'. La stimolazione viene interrotta e si sposta l'elettrodo ancora più indietro. Si stimola nuovamente. "Cosa senti ?". "Che angoscia mi fate venire ... mi sembra di odiare tutto e tutti. Mi viene persino da piangere ...". Chiede di interrompere. In questo paziente, in pochi minuti sono stati evocati quasi tutti gli stati emotivi: da sensazioni di benessere e tranquillità a sensazioni sgra­ devoli indefinite, dall 'entusiasmo all 'angoscia, dall ' imbarazzo all 'odio, dalla tristezza al pianto. Alcuni pazienti si comportano come il ratto che si autostimola. Infatti, se l'elettrodo viene posizionato in un centro del pia­ cere, il paziente riferisce sensazioni di estasi, pace, tranquillità e a volte di orgasmo sessuale ripetuto. Perciò si autostimola, proprio come il ratto, alla ricerca spasmodica del piacere. Ha la possibilità di farlo e lo fa. Ha a dispo­ sizione un pulsante e lo preme, ripetutamente, per provare quelle sensa­ zioni splendide. Alcuni pazienti vorrebbero rimanere così, con l'elettrodo impiantato nel proprio cervello e un pulsante nelle mani da premere ripe­ tutamente. La stimolazione del sistema limbico di una donna di 3 6 anni produsse in lei delle sensazioni particolarmente piacevoli fino ad arrivare "a fare la corte" al neurochirurgo. Un ragazzo di I I anni stimolato nello stesso modo esclamò : "Mi piace immensamente ! Tenetemi qui quanto vo­ lete". Un altro paziente provò un orgasmo intenso alla prima stimolazione, prese il pulsante in mano e cercò disperatamente di provare di nuovo quel­ la sensazione. Ma evidentemente l 'elettrodo si era leggermente spostato e il paziente provò ripetutamente invano, raggiungendo un profondo senso di frustrazione. L'analogia della stimolazione del sistema limbico con l'uso delle dro­ ghe è immediata. La stimolazione dei centri del piacere può essere otte­ nuta anche con i farmaci. Colui che fa uso di droghe è generalmente alla

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ricerca spasmodica del piacere. E allora si inietta la droga ripetutamente per avere quelle splendide emozioni e sensazioni. Premere ripetutamente il pulsante o iniettarsi ripetutamente una droga non fa dunque una grande differenza. Ciò che cambia è solo il metodo di attivare i centri del piacere, o con i farmaci o con la stimolazione elettrica. L'esistenza di zone del cervello che producono sensazioni piacevoli o spiacevoli e comportamenti miti o aggressivi ha fatto pensare che in alcuni casi fosse possibile asportare chirurgicamente queste zone. In altre paro ­ le, se una zona del cervello è responsabile di uno stato emotivo violento, per esempio di un comportamento antisociale e aggressivo, è sufficiente rimuoverla per eliminare l 'aggressività. È nata così la psicochirurgia, cioè quella branca della neurochirurgia che ha lo scopo di modificare il com­ portamento dell' individuo. Ma purtroppo le cose non sono così semplici. Infatti, sebbene la psicochirurgia sia utile in alcune situazioni, la sua ap­ plicazione indiscriminata ha fatto molti danni. Prendiamo due esempi, il primo negativo, il secondo positivo. La lobotomia rappresenta certamente un esempio negativo. Si tratta della distruzione dei lobi prefrontali, cioè della parte più anteriore del cer­ vello al fine di inibire l 'aggressività. Uno strumento tagliente viene inserito nella parte più anteriore del cervello e viene fatto ruotare in modo da di­ struggere il lobo prefrontale. Fu praticata fra gli anni quaranta e cinquan­ ta: basti pensare che in questo decennio negli Stati Uniti furono effettuate 40.o o o lobotomie. Uno dei neurochirurghi più in voga a quei tempi era Walter Freeman, un medico eccentrico non specializzato in chirurgia. Eseguiva lobotomie nel proprio ambulatorio e al di fuori dell'ospedale. Portava con sé il suo armamentario chirurgico chiuso in una valigetta, e girava con un'automobile che amava chiamare "lobotomobile". Freeman eseguiva i suoi interventi su schizofrenici e su individui che oggi sarebbero considerati normali, rendendoli apatici, privi di iniziativa, di emozioni e di memoria. Per fortuna, dopo il 1 9 5 0, con l'avvento degli psicofarmaci, la lobotomia e lo stesso Freeman caddero in disgrazia. Un altro esempio è costituito invece da un risultato positivo della psico­ chirurgia e deriva da osservazioni condotte dal professar José Delgado nel 1 9 6 9 . Il caso più interessante è rappresentato da una ragazza di 20 anni con improvvisi attacchi di aggressività. Durante le sue drammatiche crisi pren­ deva il primo corpo contundente che le capitava per le mani, oppure un coltello o delle forbici, e colpiva il malcapitato che si trovava vicino. Dopo aver chiesto il consenso ai genitori, si decise di internarla e di impiantarle

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degli elettrodi nel sistema limbico per vedere se vi fossero alterazioni. In effetti, durante una crisi fu trovato un aumento dell 'attività elettrica del cervello in una zona chiamata amigdala. Si pensò allora di provare a ve­ dere che cosa sarebbe successo in seguito alla stimolazione di quella zona mentre la ragazza era calma e rilassata. Così fu fatto. La ragazza era seduta tranquilla, cantando e suonando la chitarra, quando improvvisamente fu attivato l'elettrodo impiantato nell'amigdala. La ragazza si alzò di scatto, gettò la chitarra per terra sfasciandola e si scaraventò contro il muro in preda a un forte attacco di aggressività. La stimolazione fu interrotta e la ragazza tornò a sedersi tranquilla come se niente fosse successo. Con il consenso dei genitori si decise perciò di distruggere l'amigdala, responsa­ bile delle crisi. La ragazza non ebbe più attacchi di violenza. Altri pazienti sono stati trattati nello stesso modo con successo. In precedenza si è parlato ampiamente dell 'altruismo, cioè di quella splendida proprietà della specie umana che permette di salvaguardare la salute e la vita degli altri. Purtroppo, tuttavia, all 'altruismo si oppongono aggressività e violenza, cioè quelle proprietà caratterizzate dall' infliggere del male agli altri. Il fatto che l ' asportazione dell'amigdala elimini gli at­ tacchi di violenza in numerosi pazienti sta a indicare che questa struttura del cervello è importante nel produrre il comportamento aggressivo. In ef­ fetti, si è osservato più volte che un attacco epilettico che insorge da questa regione cerebrale può manifestarsi con accessi d' ira e violenza immotivati. Inoltre, è noto il caso di Charles Whitman che nel 1 9 6 6 salì su una torre dell' Università del Texas dopo aver ucciso tutta la sua famiglia, e sparò ai passanti uccidendone diversi. L' autopsia dimostrò un tumore a livello dell'amigdala. Esiste anche una stretta correlazione fra ormoni sessuali maschili e ag­ gressività. Gli animali e gli uomini con grandi quantità di ormoni maschili mostrano un comportamento aggressivo molto pronunciato. Per esempio, quando si effettua una terapia ormonale con ormoni maschili è necessario valutare molto attentamente il comportamento del paziente perché può insorgere una forma esagerata di aggressività. Il significato degli effetti de­ gli ormoni maschili sul comportamento aggressivo appare chiaro dal pun­ to di vista evoluzionistico. L'animale maschio ha il compito di difendere il territorio e le femmine per l 'accoppiamento e deve quindi possedere un'aggressività maggiore rispetto alla femmina. Gli ormoni maschili sono spesso associati a un'aggressività di tipo sessuale in cui l' individuo compie violenza sia etero che omosessuale. Per tale motivo, molti hanno proposto

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una castrazione chimica, cioè effettuata con farmaci, per coloro che ripe­ tutamente hanno compiuto atti di violenza sessuale. Un'altra sostanza, la serotonina, è legata all'aggressività e all' impulsi­ vità, sia verso gli altri che verso sé stessi. All' inizio di questo volume ab­ biamo visto che i cervelli di chi si è ucciso violentemente mostrano una bassa quantità di serotonina, segno questo di una diminuita capacità di controllare i propri impulsi violenti. In uno studio condotto su soggetti che avevano commesso un omicidio o un incendio doloso è stato osserva­ to che coloro che presentavano basse quantità di serotonina avevano una probabilità maggiore di commettere crimini nei tre anni successivi. Alcuni affermano che la serotonina presente in un individuo può rappresentare quindi un indice attendibile per valutare le tendenze criminali, con una precisione di previsione pari all' 84% . L'uso della misurazione della sero­ tonina per l ' identificazione dei potenziali criminali pone comunque seri problemi etici e legali che per ora non sono stati superati. Il motivo princi­ pale è che tali previsioni non sono certamente perfette. Ansia, odio, aggressività, gioia, estasi possono dunque essere evocati con elettrodi e sostanze chimiche. Sono forse questi eventi mentali che emergono dalla materia ? G. L. avrebbe annuito, avrebbe invocato il mate­ rialismo e il determinismo e avrebbe ribadito la cecità e la sordità dell' Uni­ verso nei confronti di quelle emozioni evocate da banali elettrodi e sempli­ ci molecole. Sicuramente questo materialismo è stato determinante nelle vicende di G. L. e lo ha condotto a quella razionalizzazione esasperata che appare ancora più chiaramente nelle prossime narrazioni.

La quinta lettera Dialogo con un n on credente

Il mio mondo era ormai quello dei miei pensieri, delle mie angosce, della mia solitudine. Questo stato d'animo, seppur presente da sempre, era esplo­ so in poche settimane ed aveva preso il possesso completo della mia vita. Le immagini di Rico, della bambina morta fra le mie braccia, del mulo scorre­ vano nella mia mente incessantemente. E la mia dijèsa razionale del mate­ rialismo e del determinismo emersa dal dialogo con frate M non cessava di rimbalzarmi nella testa. Ilfotto era che nelle mie meditazioni ero giunto ad una conclusione logica. La conclusione che io, come tutti gli uomini e tutte le cose, ero frutto del caso. E questo provocava in me un senso di solitudine angosciante che nonJàceva altro che mostrarmi l' inutilita di tutte le cose. La mia vita passata e quella futura mi apparivano allora come un sogno, come un 'esperienza cosciente di breve durata. E poi sarebbefinito tutto, per l'eter­ nita. Che importanza dovevano avere per me il lavoro, gli amici, la vita di tutti i giorni, dopo che ero giunto ad una tale conclusione? Ogni progetto, ogni programma, ogni scopo perdevano il loro significato ed acquistavano un senso di temporarieta, di precarieta. Tutto prima o poi si sarebbe conclu­ so, volente o nolente. E questa conclusione sarebbe stata definitiva. Strano a dirsi, ma l'unica cosa che riusciva a darmi conforto era il gioco delle pro­ babilita nei confronti dell'eternita. Certo che la probabilita che si riformas­ se un Universo identico a quello in cui mi trovavo sarebbe stata bassissima, fino a sfiorare l'impossibile. Maforse prima o poi nell'eternita sarebbe suc­ cesso. Ed allora ecco che sarei rinato, con la mia coscienza, le mie emozioni, la mia capacita di pensare. Perché era proprio quello che mi terrorizzava! Lo scomparire nel nulla, il non poter piu pensare, il non poter piu prova­ re emozioni, insomma, il non esistere piu. E allora questo gioco intellettuale di logica e di speranza mi dava la possibilita di non scomparire per sempre, ma mi apriva all'ipotesi che il mio Io cosciente sarebbe ancora potuto esiste­ re. Certamente mi arrampicavo sugli specchi con questa mia misera logica,

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ma in questo modo la cieca casualita m i appariva piu accettabile. Davo cosi al caso la possibilita di riscattarsi della sua cecita e sordita, della sua insen­ sibilita e del suo mutismo. Una cosa pero non perdonavo al caso. Ilfotto che, anche sefossi esistito per altre mille volte, non avreiforse mai capito il perché di tutto quello. I miei dubbi sarebbero rimasti, le mie domande non avreb­ bero mai avuto una risposta, e la vera essenza dell'Universo, della materia e dell'esistenza stessa sarebbe continuata a sfuggirmi. Cosa dovevo jàre allora ? Tornare alla mia vita di sempre? Avevo venti­ cinque anni, e secondo la logica umana avevo tutta la vita davanti a me. Ma io mi sentivo gia al traguardo. Che cos'erano in fin dei conti i cinquan­ ta sessant 'anni di vita che mi rimanevano ? Un lampo, un microsecondo di fronte all'eternita. E tutti i miei progetti, i miei stati emotivi, i miei pensie­ ri, le mie idee, le mie azioni erano contenute in quel microsecondo. E allora non riuscivo a dijforenziare i venticinque anni dagli ottantacinque anni, cosi com 'e difficile discriminare l'inizio dalla fine del microsecondo. Forse quando si hanno venticinque anni sembra che il tempo che rimane da vi­ vere sia lunghissimo, cosi si programma, sijà, si diifà. Ma quando si hanno ottantacinque anni, ecco che quegli ottantacinque anni trascorsi diventano davvero un microsecondo, e sembrano quasi non essere mai esistiti. Io mi sentivo come uno di ottantacinque anni, che ripercorre la sua vita in un mi­ crosecondo. Ma mentre un uomo di ottantacinque anni lojà per il passato, io lo jàcevo per ilfuturo. Ed il risultato era lo stesso. La sensazione di essere arrivati allafine e l'attesa che il sipario cali definitivamente. Potevo allora tornare alle mie normali attivita quando la mia vita sarebbe durata solo un microsecondo ? No, era proprio inutile, non ne valeva la pena. Cosi decisi di allontanarmi ancor di piu da quel mio mondo. Quell'estraneita dal mondo era per me la cosa piu importante, era uno stato emotivo che miJàceva sentire vivo. Mi sembrava di aver colto il giusto scopo nella vita di un uomo. Quello di porsi il problema della sua esistenza, incessantemente, senza sosta, trascurando tutti gli aspetti della misera quo­ tidianita. Il lavoro giornaliero, lo stipendio a fine mese, le discussioni con i colleghi, le cene e le foste con gli amici, le ore passate con la mia ragazza, erano per me ricordi talmente lontani che mi sembrava di non averli mai vissuti. E mi sembrava di aver sempre sprecato tempofino ad allora, come se considerassi quelle ansie e quei dubbi l'unico scopo vero della mia vita. Forse alla mia partenza dall'Africa mi sarei aspettato che quel distacco dal mondo avesse potuto placare quell'angoscia che avevo dentro. Invecefu il contrario. Perché quellifurono giorni in cui la mia depressione esplose ancor piu violen-

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temente, in cui il mio desiderio di estraniarmi dal mondo aumento, in cui la mia impotenza di piccolo uomo mi si rivelo in modo drammatico. Telifonai solo un paio di volte ai miei genitori. Erano preoccupati di quella situazione cosi improvvisa. Cercai di tranquillizzarli, riuscendo sempre ad evitare di dire dove mi trovavo. La mia solitudine e i miei pensieri mi avevano portato a questa forma incosciente di egoismo. Ma non me ne curavo piu di tanto. Era per me piu importante continuare, seppur senza speranza, a cercare delle risposte alle mie domande. Ebbe per me fondamentale importanza una discussione che ebbi con il signor R., un anziano ospite di un albergo in cui avevo alloggiato per qualche giorno. Anche lui era solo, e diventammo amici, fino ad entrare in confidenza. - Eh, caro ragazzo, - mi disse - queste sono domande che tutti si pongono prima o poi. Chi di sfuggita, chi in maniera piu profonda, chi in modo deci­ samente drammatico. Porsi queste domande e la conseguenza logica dell'esi­ stenza della ragione, della consapevolezza di esistere, della consapevolezza di dover prima o poi morire. Ognuno se le pone a modo proprio, secondo le pro­ prie basi culturali, secondo ilproprio carattere, secondo il modo di affrontare la vita. Ma la conclusione a queste riflessioni e la stessa per tutti, o almeno per chi non ha unafede cieca. E cioe che una risposta non esiste. - Quante volte me lo sono chiesto anch 'io! - continuo. - Ma sono sempre al punto di partenza. Nessuna conclusione, nessuna risposta, nessuna soddi­ sfozione intellettuale. Ho cercato... eh si... ho cercato piu volte di avvicinar­ mi a Dio, a una religione, a qualcosa di sovrannaturale. E mi creda, a volte ho cercato con disperazione! Ma cio che ho trovato e solo materia, null'altro che materia. Si chino per prendere una pietra e la scaglio contro una roccia, strappo un ramo da un cespuglio, si prese la guanciafra ilpollice e l'indice. - Ecco, questo e quello che vedo e quello che sento! - esclamo. - Questa e la risposta alle nostre mille domande. Materia, solo materia! Nessun segno, nessun indizio di una sana e rasserenante sovrannaturalita. Siamo solo un ammasso di materia, di carne pronta alla decomposizione da un momento all'altro. Siamo proprio carne da macello. E dopo? E dopo niente! Mia ma­ dre, mia moglie, sono solo mucchietti di ossa sepolti sotto terra. - Mi scusi se sono cosi duro e brutale, - mi disse - ma mi piace sempre dire quello che penso. Forse quello che le ho detto l'ha depressa ancor di piu ... capi­ sco... ma vede, quello che le voglio dire e che e inutile angosciarsi per la nostra condizione di esseri umani. Purtroppo nessuno si puo sottrarre a tale condi-

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zione. Quello che dobbiamo Jàre e sftuttare giorno per giorno, ora per ora, secondo per secondo queste gocce di vita che ci rimangono. La vita va vissuta in tutta la sua bellezza! La bellezza della natura, la bellezza delle donne e del sesso, la bellezza della musica, la bellezza dei colori, la bellezza della co­ noscenza... Bisogna succhiare istante per istante questa splendida mafugace avventura terrena. Mi ha detto che ha venticinque anni, non e vero? La sua eta e splendida,forse la piit bella... i vent 'anni della maturita ma anche della giovinezza, i vent 'anni dei ricordi passati e dei progettifuturi, i vent 'anni in cui la vita sembra non finire mai. La vecchiaia e triste! Quella si... ma va vissuta anch'essa con felicita e gioia, per inebriarsi ancora una volta di quegli splendidi doni che ci regala la vita. - Io cerco la vita, - prosegui prendendomi sotto braccio - anche se a vol­ te mi sembra sfuggirmi di mano... sa, con i miei settantacinque anni. Vede, alla mia eta apprezzo tutto, persino la Jàtica e il dolore. Quando ho l'af fànno o quando provo dolore, mi sentofelice! Perché mi sento vivo! E so che quando non avro piit ilfiatone e le mie ossa cesseranno di formi male sara perché anch'io avro cessato di esistere. E allora apprezzo anche i miei dolori reumatici! È buffo no? Q!Jello che il signor R. mi stava dicendo era molto bello. Traspariva dai suoi discorsi tutta la sua voglia di vivere e tutta la sua tristezza per la vici­ nanza dell'inevitabile traguardofinale. Ma il suo inno alla vita non basta­ va di certo a confortarmi. Anzi, era per me motivo di ulteriore sconforto e di profonda malinconia, per la nostra misera e disperata condizione di esseri umani. - lo non conosco il suo rapporto con la religione - continuo. - Suppongo pero che il dubbio giochi il ruolo diprotagonista nel suo animo. Vede, io invece non ho nemmeno quello! Io ho la convinzione che non esista niente al di fuori della materia. Sono convinto che Dio non esiste. Il signor R. non sapeva che aveva raggiunto la mia stessa conclusione. - E allora ? - prosegui sempre piit infervorato. - Che bisogna jàre? Spa­ rarsi? Penso proprio di no. Bisogna vivere e assaporare la vita nei suoi mille sapori. A che vale pensare cosa succederd domani, o dopodomani, o .fa dieci anni. Pensi a vivere adesso! Carpe diem! Quando saremo morti non vedre­ mo piit, non sentiremo piit, non penseremo piit, e quindi non potremo piit essere angosciati dal problema dell'esistenza e della non esistenza. L'impor­ tante e quello che siamo adesso, esseri pensanti e capaci diJàre cento, mille, un milione di cose. Fino a quel momento ero rimasto zitto ad ascoltare.

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- Ma perché e cosi sicuro che Dio non esiste? - ribattei. - In fin dei conti non abbiamo prove né in un senso né nell'altro. Cosi come si puo criticare l'assenza di logica nel dogma della fide, cosi puo anche essere contestata la convinzione che un Dio non esiste. - Beh, vede, io sono un materialista - mi rispose. - La mia convinzione nasce da molte cose... che sono poi le solite cose, come l'esistenza del male e della soifèrenza, la mancanza di una guida nei conftonti dell'umanita ecce­ tera, eccetera, eccetera... E poi la mia e anche una convinzione intellettuale e culturale, cioL. mi spiego. Per me l'Universo e peifèttamente spiegabile cosi com 'e. Mi sembra che non ci sia nulla di strano. La nascita dell'Universo, la nascita delle galassie, la nascita dei pianeti, la nascita della vita, la nasci­ ta dell'uomo... Beh ? Che c 'e di tanto strano? La meccanica newtoniana mi soddisfo. E lei che e un matematico mi puo capire. Come determinista, non mi meraviglia affatto che tutto cio sia nato dallo scontro prima di particelle elementari, poi di atomi e di molecole. - Beh, non e sufficiente! - lo interruppi. - Ilfatto che la meccanica newto­ niana e quindi il determinismo spieghi moltiftnomeni non vuoi dire che Dio non esiste. Lo scontro degli atomi e quello che noi possiamo osservare, ma non e detto che esista solo quello. - Certo che no! - mi rispose. - Ma come le ho detto, il mio e solo un appa­ gamento intellettuale e culturale, cioe, a me l'Universo sta bene come sta. E il determinismo mi basta. È ovvio che non ho prove! Ma prove non ne esi­ stono affatto. E poi c 'e l'aspetto meno razionale... piu a livello emozionale: ma perché Dio permette certe cose? E perché non ci parla e non ci guida nelle nostre scelte, affinché tutta l'umanita possa vivere lontano dal male e dalla soifèrenza ? - Lo so, lo so - esclamai. - È veramente difficile spiegare certe cose. Pero ilfatto che Dio non ci parli non mi sembra poi cosi impiegabile. Perché mai dovrebbefarlo? Se l'uomo avesse mai un giorno la sicurezza che Dio esiste, e con esso ftlicitd, pace, serenita, conoscenza e piacere, forse avverrebbe un suicidio di massa. Non pensa ? Che valore avrebbe la vita terrena qualora dall'altra parte si prospettasse l'eterna ftlicita ? Ilfatto quindi che Dio non si manifèsta non mi stupisce affatto, poiché questo suo operato rientra certa­ mente nella logica umana. - Certamente! - esclamo. - Èpossibile. Ma perché lei dice che c 'e un Dio che non parla ? Se io non sento o non vedo niente dentro una casa, sono piu porta­ to a credere che dentro la casa non ci sia nessuno piuttosto che ci sia qualcuno che non parla o che non sifa vedere. Non le sembra ?

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- In un certo senso si, ma quello che dice non e completamente vero. Perché se la casa prima non c 'era e compare all'improvviso, lei si chiedera chi l'ha costruita. E considerera la possibilita che qualcuno vi si sia nascosto dentro, e non parla e non sifo vedere. Sebbene anch 'io sia propenso per un Universo basato sui principi della meccanica newtoniana, mi chiedo quale sia la sua vera essenza. Perché mai dovrebbe esistere la materia ? Eperché mai dovrebbe esistere lo spazio tridimensionale? Se non esistesse nessun Dio, non sarebbe piu logico che non esistesse nulla ? - Queste domande senza risposta non fonno altro che distrarci dalla sem­ plicita della vita intorno a noi. La vita e qui, intorno a lei, dentro di lei. Il piacere consiste nel provare splendide emozioni. E queste emozioni le devono nascere dentro da tutto quello che la circonda. Siamo esseri pensanti impri­ gionati in un guscio di pelle e di peli. Cerchiamo di for entrare attraverso questo guscio le sensazioni piacevoli e respingiamo cio che ci provoca tormen­ to e angoscia! - Ma vede, - ribattei - e quello che stofocendo io. Cio che mi da piacere e mifo sentire vivo e la continua riflessione e il continuo rimuginare su questi problemi. Il dubbio si mi angoscia, ma mi stimola istante per istante alla ricerca di una verita ... - Che non verra mai! - mi interruppe. - E chi lo sa ? - risposi. - Beh, e proprio un illuso! - esclamo. - Comefo a pensare di arrivare ad una conclusione definitiva ? - Non lo so nemmeno io! - ribattei. - Si,forse sono un presuntuoso... solo un presuntuoso. - Non un presuntuoso, - mi corresse - ma un illuso. Dia retta a me! Viva i suoi vent 'anni, e poi i trenta, e poi i quaranta ... Non cerchi qualcosa che non esiste! - Che non esiste? - ripetei con aria quasi scandalizzata. - Eppure qualcosa ci deve essere! Forse ce l'abbiamo qui, a portata di mano, e non sappiamo individuar/a. Ma cosa stavo dicendo? Nel succedersi delle nostre domande e risposte, non mi ero accorto che all'improvviso stavo ammettendo la possibilita dell'esi­ stenza di un Dio. Da una convinzione materialista che ormai mi sembrava ben radicata in me, avevo ribattuto al signor R. mettendo in dubbio il suo materialismo. E dire che nel dialogo con frate M avevo difèso la mia posi­ zione di non credente! E inoltre, durante quei giorni passati nei boschi e sul-

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le montagnefra meditazioni e riflessioni, alla ricerca di un difètto nella mia logica deterministica, non avevo fotto altro che accentuare la mia convin­ zione di un Universofrutto del caso. E adesso, cosi, improvvisamente, senza rendermene conto, mi trovavo nella posizione opposta a quella che occupavo nel dialogo confrate M Come era potuto succedere ciO? Sicuramente non era dovuto ad un processo logico che aveva modificato le mie idee. Mi ero forse reso conto all'improvviso che cosi come lafide non sifonda su nessuna logica, cosi anche il punto di vista opposto finisce ad un certo punto per uscire dal sentiero del ragionamento logico. Il principio fisico sconosciuto, l 'esistenza da sempre della materia, che avevo invocato nel dialogo con frate M, erano semplici supposizioni, alla stessa stregua della supposizione dell'esistenza di un Dio e della creazione dell'Universo. E mi trovavo quindi a dialogare con un non credente convinto, focendogli intravvedere la possibilita alternativa, cioe che Dio puo esistere. Cosi come quando dialogavo con un credente con­ vinto, prospettandogli un 'alternativa al suo punto di vista, cioe che Dio puo non esistere a.Jiàtto. - Vede, signor R., - continuai - io sono piu propenso ad essere un mate­ rialista, come lei. Ma c 'e qualcosa che non torna! Il materialismo, con i suoi scontri casuali fra particelle, atomi e molecole, mi spiega l'evoluzione della materia, il suo modificarsi, la sua traifòrmazione da struttura inanimata a struttura vitale. Ma non mi spiega il perché tutto cio esiste. La vera essenza dell'Universo rimane per me un grosso mistero. - Certo che rimane un mistero! - esclamo. - Ma vede, e una questione di appagamento intellettuale. Cioe, quello che voglio dire e che il concetto dello scontro casuale fra atomi e molecole mi appaga intellettualmente. In altre parole, soddisfo la mia curiosita e mi spiega come la vita e noi stessi siamo potuti nascere. Per quanto riguarda ilperché la materia esiste... mah, ifugge sicuramente alla nostra logica. Ma per il mio appagamento intellettuale non e un problema. Sara certamente qualcosa riconducibile a principi fisici che ancora non abbiamo affirrato. - È una supposizione! - esclamai. - Certo che lo e! - rispose. - Come e una supposizione che esista un Dio! Vede che siamo alpunto di partenza ? Non abbiamofotto nemmeno un picco­ lissimo passo in avanti. Ilfotto e che questo passo non si puo fore, perché una risposta non esiste. - Ma allora perché lei dice che Dio non esiste? -gli chiesi. - Non sarebbe piu giusto se la sua posizionefosse quella di uno che rimane nel dubbio? - Ma l'ho gitl detto! Io sono appagato dal determinismo. Non e necessario

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per me invocare l'esistenza di un Dio per spiegare l'Universo e l'uomo. Ecco, mettiamola cosl. Se io dovessi scommettere se Dio esiste o no, io pun­ terei sul no. - Se io dovessi scommettere ora, - dissi con un senso di profonda tristezza non saprei proprio su cosa puntare. - Non pensi alle scommesse! Mi dia retta. Viva la sua vita nel migliore dei modi e sfrutti tutti gli anni che ha davanti a sé per provare mille esperienze, mille emozioni e mille piaceri. La scommessa lafora alla mia eta. Anzi, piu in la ancora! Perché io a settantacinque anni scommesse non nefoccio, e non ne voglio di certofore! - Vede, - gli risposi -forse la dijfèrenza fra lei e me e che, pur essendo am­ bedue tendenzialmente materialisti, questa situazione la viviamo in modo decisamente diverso. Lei e appagato intellettualmente e si e messo il cuore in pace. Io, invece, vorrei scoprire di essere nel torto, e quindi voglio cercare... - Ma cercare cosa ? - Non so! Forse quello che sto cercando e qualcosa che mi convinca di una presenza divina. - Caro ragazzo, intanto una conclusione con una soluzione c 'e. C 'e per fòrza! E questo avverra quando morira. Provi a pensare... se qualcosa esiste dopo la morte, potra assaporare lo splendido dono della sovrannaturalita e dell'eternita, eforse, chissa, le si spalancheranno le porte della conoscenza. E allora viva la sua vita terrena adesso, perché le sue domande saranno soddi­ sjàtte dopo la morte. Ma se non esiste niente dopo la morte, la sua coscienza svanira nel nulla e lei non sapra mai la verita, e non si porra piu quesiti e domande inquietanti. E allora perché porseli adesso quando non serve asso­ lutamente a niente? Anche in questo caso percio deve vivere la sua vita ter­ rena senza essere prigioniero di queste inutili angosce. Come vede, ci possono essere due conclusioni: o sapra tutto o non sapra niente. Ma c 'e una soluzio­ ne sola per ambedue i casi. Se sapra tutto, perché porsi domande adesso ? E se non sapra niente, perchéporsi domande adesso? In un certo senso era vero quello che mi diceva il signor R. Con la morte ci sarebbe stata o una risposta definitiva o il silenzio completo. È chiaro che per lui ci sarebbe stato solo il nulla, lafine dell'esistenza e la scomparsa della coscienza del proprio Io. A che valeva angosciarsi allora ? Tanto valeva vivere la vita quotidiana nel migliore dei modi. Ma anche partendo dal punto di vista opposto, la conclusione non cambiava certamente. Se mai cifosse stata una vita ultraterrena, a che valeva angosciarsi? Ogni risposta, ogni curiosi­ ta sarebbero state soddisjàtte. C 'era solo da aspettare qualche decina d'a n-

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ni, fino alla morte, e intanto godersi il dono della vita. Mi sembrava che il discorso non focesse una grinza dal punto di vista logico, ma non mi sod­ disfoceva. Per il semplicefotto che il signor R., una volta concluso che tutto sarebbe finito nel nulla, accantonava il problema divino e si attaccava di­ speratamente alla vita, per succhiarne tutte le meraviglie. La mia reazione al problema era invece diversa. Mentre la mia angoscia si placava quando consideravo la possibilita di un 'esistenza divina, il mio tormento aumenta­ va smisuratamente quando mi soffirmavo sulla possibilita che tutto sarebbe finito nel nulla. Al contrario del signor R., questa conclusione non mi por­ tava ad apprezzare maggiormente la vita intorno a me, ma mi provocava un senso di paura e di terrore di.fronte alla scomparsa dtfinitiva della mia autocoscienza, di.fronte alla fine irreversibile di me stesso, essere cosciente e pensante.

Note sulla psicofarmacologia e psicoterapia

G. L. manifestava una profondità introspettiva che lo portava a rimugina­ re sulle grandi domande dell'esistenza umana. Per il suo stato depressivo e ansioso, G. L. aveva provato senza successo sia psicofarmaci che sedute di psicoterapia. Psicofarmacologia e psicoterapia devono essere bilanciate con saggezza e ponderatezza, valutando le diverse possibilità. Purtroppo la ricerca di questo equilibrio è spesso difficile a causa di un arroccamento intellettuale sui due fronti. Psicoterapeuti da una parte e psicofarmaco­ logi dall'altra sono frequentemente convinti che la propria posizione sia quella giusta e guardano perciò criticamente ciò che è alternativo al loro approccio. Dov'è la verità ? È la psicoterapia la più adatta a correggere gli stati emotivi e i comportamenti abnormi ? Oppure lo psicofarmaco è il solo che garantisce una terapia impostata su rigorose basi scientifiche ? La verità sta probabilmente nel mezzo poiché, anche se a prima vista può sembrare strano, vi sono molte analogie fra le due discipline. Per capire questa ana­ logia, proviamo a chiederci: come agisce uno psicofarmaco ? E come agisce una psicoterapia ? La risposta alla prima domanda si accentra sulla complessa chimica del cervello, argomento affrontato precedentemente quando si è parlato degli antidepressivi e degli ansiolitici. Un numero inimmaginabile di mo­ lecole viene sintetizzato e distrutto istante per istante nel nostro cervello. Quando qualcosa non funziona in questo processo continuo e incessante può insorgere un disturbo mentale. Per esempio, può succedere che alcune molecole o sono sintetizzate poco o sono distrutte molto, e perciò dimi­ nuiscono. Oppure, al contrario, alcune molecole o sono sintetizzate molto o sono distrutte poco, e perciò aumentano. Il disturbo mentale può essere quindi caratterizzato da un aumento o da una diminuzione di alcune so­ stanze chimiche. Ed ecco allora che lo psicofarmaco serve per aumentare

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o diminuire queste sostanze nel cervello. Prendiamo di nuovo il caso della depressione. Tale disturbo mentale è caratterizzato dalla diminuzione di alcune sostanze chimiche quali la noradrenalina. I farmaci antidepressivi possono agire in modo diverso ma il risultato è lo stesso, cioè quello di far aumentare la quantità di noradrenalina nel cervello. Per esempio, i cosid­ detti farmaci antidepressivi triciclici inibiscono l'entrata della noradrena­ lina nelle cellule nervose, così che più noradrenalina è a disposizione al di fuori delle cellule. Il caso opposto è rappresentato dalla schizofrenia. In tale malattia si ha un'aumentata attività di una sostanza chimica chiamata dopamina. I farmaci contro la schizofrenia, per esempio gli antipsicotici, sono in grado di ridurre l'attività della dopamina, eliminando perciò i sin­ tomi di questo disturbo mentale. Mentre la psicofarmacologia fa uso dell ' iniezione di un farmaco, la psicoterapia fa uso dell ' "iniezione" di parole. Le parole, usate in modo corretto e appropriato, possono produrre, ovviamente entro certi limiti, effetti simili a un farmaco. Il paziente che ascolta le parole dello psicotera­ peuta viene indotto a ricordare eventi passati e a provare emozioni inten­ se. Queste attività mentali non fanno altro che determinare modificazioni chimiche che possono essere opposte a quelle responsabili del disturbo mentale stesso. Un esempio molto semplice e chiarificatore sugli effetti di un farmaco e delle parole è rappresentato dall'effetto placebo. Prendiamo il caso di un paziente con un mal di denti. La terapia da usare in questo caso può essere di tipo farmacologico o di tipo psicologico. Il farmaco che può essere som­ ministrato è per esempio la morfina, un potente antidolorifico che agisce sul cervello bloccando gli impulsi dolorifici. Ma può anche essere usata una semplicissima ed elementare forma di psicoterapia: l 'effetto placebo, appunto. Infatti, se si dà al paziente un bicchiere d'acqua e, con parole ap­ propriate e convincenti, gli si fa credere che nell'acqua c 'è un potente anti­ dolorifico, il dolore può realmente diminuire. Ciò non avviene in tutti gli individui ma solo in quelli più facilmente suggestionabili o che hanno una fiducia indistruttibile nel medico. Il nostro cervello, sotto l' influenza della suggestione, sintetizza delle molecole simili alla morfina, le endorfine, che bloccano gli impulsi dolorifici. Ecco allora che le parole hanno avuto un effetto analogo a quello del farmaco. La differenza fondamentale tra la morfina e l 'effetto placebo consiste nel fatto che la prima produce quasi sempre un effetto antidolorifico men­ tre gli effetti antidolorifici del placebo sono molto incostanti. È necessario

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per esempio che il paziente si trovi in condizioni psicologiche adeguate, che abbia fiducia nel medico, che creda ciecamente nei farmaci, ed è anche necessario che il medico usi parole giuste e atteggiamenti adeguati infon­ dendo fiducia e speranza nel paziente. La psicoterapia molto spesso agisce proprio così, cioè sul rapporto che si instaura fra medico e paziente. È noto da lungo tempo che una persona non disponibile a sottoporsi a una psi­ coterapia, difficilmente ne trae giovamento. Al contrario, chi ci crede e si mette con fiducia nelle mani dello psicoterapeuta, è più probabile che ne tragga grandi benefici. Le parole possono dunque essere molto potenti. Possono indurre aspet­ tative e convinzioni, fiducia e speranza. E ciò si ripercuote sullo stato emo­ tivo, sull'ansia, sulla paura, sulla rinuncia e sull' impotenza nei confronti della vita. Le parole tuttavia possono anche avere effetti negativi. Possono suscitare paura e ansia, e distruggere la speranza del futuro. Se questo è vero nel nostro mondo occidentale, lo è a maggior ragione in società pri­ mitive dell 'Australia, dell'Africa e dell 'America Latina. La "magia nera" e la "morte voodoo" rappresentano casi estremi di emozioni esasperate che producono malattia e morte. Nel caso del voodoo l ' individuo può esse­ re indotto a uno stress psicologico talmente intenso da provocare arresto cardiaco e morte. In alcune tribù dell'Australia, per esempio, il puntare un osso verso una persona che crede avere effetti malvagi può produrre ana­ logamente malattia e morte. Ma, senza arrivare a questi casi estremi, noi stessi possiamo rimanere suggestionati negativamente dalle parole. Se cre­ diamo che un bicchiere d'acqua ci possa provocare gastrite e cefalea, alcu­ ni di noi avranno la reale esperienza di bruciori di stomaco e mal di testa. Le parole possono dunque guarire, possono far ammalare, possono uccidere. Possono anche interferire con i farmaci aumentandone o dimi­ nuendone gli effetti. Uno psichiatra e antropologo attento come Robert Hahn diceva: «È molto improbabile che la convinzione che l 'arsenico ab­ bia proprietà benefiche trasformi questo veleno in una sostanza benefica. Tuttavia, è molto probabile che una tale convinzione ritardi i suoi effetti letali » . Le aspettative e le speranze del paziente hanno perciò un' importan­ za fondamentale in qualsiasi processo di guarigione. Pazienti terminali con tumori incurabili possono reagire emotivamente in maniera diversa. C 'è chi si abbatte, chi entra in uno stato di profonda depressione, chi si fa schiacciare dalle proprie ansie e le proprie paure di sofferenza e di morte. Questa condizione di stress è deleteria per il paziente e può certamente

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produrre u n aggravamento della malattia, per esempio aumentando l a ve­ locità di crescita del tumore. Al contrario, chi spera, chi lotta, chi cerca la vita, chi si riunisce in gruppi per aumentare la solidarietà e il calore umano, aiuta la propria malattia, non certamente fermandola, ma magari rallen­ tandone il processo di crescita. Purtroppo però non siamo padroni delle nostre emozioni. La depressione, l'ansia e lo sconforto possono impadro­ nirsi di noi senza la possibilità di esercitare su loro alcun tipo di controllo. G. L. si è trovato gradualmente imprigionato in una logica infernale che pian piano prende forma. Il caso di G. L. è un po' particolare, perché in un certo qual modo lui ha reagito al suo male di vivere, ma la sua reazio­ ne non è stata di certo normale, almeno nel senso in cui noi la intendiamo. Perciò non c'è da stupirsi che né la psicofarmacologia né la psicoterapia si siano rivelate utili per il trattamento del suo stato. G. L. ha semplicemen­ te seguito una logica diabolica che sia i farmaci sia le parole non sono in grado di contrastare. E questa logica si rivela in tutta la sua essenza tramite queste sue lettere, che l'approccio della medicina narrativa ci ha permesso di svelare. In questa sua prossima narrazione nasce così un interrogativo semplice e antico quanto le origini dell 'uomo, ma maledettamente razio­ nale.

La sesta lettera Il dubbio

Dopo la discussione con il signor R., la mia situazione interiore mi appari­ va piu chiara e definita. In effetti, la convinzione che un Dio non esiste era per me sifonte di angoscia, ma nel mio animo era presente, forse da sempre, uno spiraglio alla possibilita contraria. E dopo quella sera passata con il si­ gnor R., il piccolo spiraglio era diventato una grossa apertura che bilanciava quasi perjèttamente la mia angoscia. E dentro di me dondolava una continua altalena che mi portava da uno stato diprofonda disperazione ad un gioco di emozioni piacevoli in cui la protagonista incontrastata era la speranza. Era nato dentro di me il dubbio. Me ne ero accorto perjèttamente durante la mia conversazione con il signor R., quando dissi che non sapevo su cosa scommet­ tere. Dell'importanza che aveva per me quella frase me ne resi conto subito. Segnava il passaggio da uno stato di profonda convinzione che niente esiste ad uno stato di possibilismo. È strano come cio sia nato dalla discussione con un materialista convinto. Evidentemente le sue argomentazioni mi erano ap­ parse insufficienti per sostenere la posizione materialista. Ed il confronto fra il materialista e l'uomo difide era stato per me determinante. In ambedue i casi, le argomentazioni erano solo supposizioni, senza diflèrenza alcuna. La verita che avevo raggiunto, allora, era una sorta di negazione. Le possibilita che Dio esista sono cinquanta, le possibilita che Dio non esista sono le restanti cinquanta. Sebbenefossi convinto di cio, per una questione di appagamento in­ tellettuale, come l'aveva definito ilsignor R., lapossibilita dell'esistenza di Dio era per me quarantanove, quella della non esistenza cinquantuno. Ma cio era dovuto appunto ad una semplice questione di appagamento. Anche a me, come al signor R., l'Universo stava bene cosi, spiegabile con le sole leggi dellafisica. Ma se l'Universo in definitiva mi stava bene cosi, a che cos 'erano allora dovute quelle quarantanove possibilita che Dio esiste? Sicuramente una parte era dovuta alla mia convinzione che anche la difèsa del materialismo esce ad un certo punto dal sentiero della logica. Ma una buona parte era dovuta

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ad un processo del tutto irrazionale che si era sviluppato dentro di me: la speranza. Che cos 'era allora il dubbio per me? Non certo fonte di maggiore tranquillitaJ Anzi, mi aveva messo in uno stato di maggiore agitazione, sia per quell'alternarsi di emozioni positive e negative, sia perché ormai il mio stato d'a nimo aveva raggiunto unaforma quasi ossessiva. Cosi, come quando si sfogliano i petali di una margherita per sapere se "m 'ama o non m 'ama ?'; io vagliavo ossessivamente le possibilita del 'c 'e o non c 'e ?': Dopo quelle ore passate con il signor R., trascorsi la nottata insonne, sfo­ gliando la margherita del 'c 'e o non c 'e?': Il mio desiderio di solitudine era im­ mutato. Ma mentreprima cercavo una smagliatura nella logica materialista, ora ripercorrevo con ilpensiero i due punti di vista opposti. E mi accorgevo di volta in volta che in ambedue i casi era inevitabile uscire dal tracciato logico. Non c 'era via d'uscita! E mi stavo sempre piu rendendo conto che quel mio ossessivo 'c 'e o non c 'e?'' sarebbe andato avanti all'infinito. La mia era quindi una posizione indefinita, di ricerca, di chi non sa da che parte schierarsi. Al contrario di chi crede e chi non crede, non avevo né dogmi né convinzioni. Tutto sommato mi sarebbe piaciuto schierarmi dall'una o dall'altra parte. Frate M demandava ogni cosa ad un volere divino, ilsignor R. gustava ogni istante della sua esistenza, convinto che tutto prima o poi sarebbefinito. E i miei pensieri si concentravano ora sulperchédi questa differenza. Perché l'uno si era schierato da una parte e l'altro dalla parte opposta ? Quale logica o quale stato emotivo aveva determinato quelle due convinzioni diametralmente opposte? Siafrate M che il signor R. avevano certamente una base culturale piu o meno solida. Frate M aveva parlato di ordine atomico e molecolare e aveva tirato in ballo Sant'Agostino, il signor R. aveva parlato di meccanica newtoniana. Tuttavia, dalle discussioni che avevo avuto con loro mi era apparso chiaro chefrate M era a conoscenza del significato della meccanica newtoniana comefondamento del determinismo, e la cultura del signor R. spaziava anche nellafilosofia e teologia. Come era allora possibile che le stesse conoscenze scientifiche efilosofiche avessero plasmato quei due uomini in modo cosi diverso ? Probabilmente la scienza, la filosofia e la teologia non erano diper sé sufficienti a definire uno schieramento o dal!'una o dal! 'altra parte. Alla base di tutto c 'era quel qualcosa di indefinibile e di impiegabile che noi chiamiamofide. In frate M c 'era, nel signor R. no. Su questi due substrati si erano poi inserite le conoscenze scientifiche,filosofiche e teologiche. E queste conoscenze erano state usate in maniera differente, per spiegare l'esistenza di Dio o per negarla. Era quindi quel! 'attitudine interiore del credere o non credere l'elementofondamentale di ogni successivo tentativo di spiegazione scientifica efilosofica.

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Sia nel dialogo con frate M che in quello con il signor R., avevo potuto cogliere argomentazioni razionali e irrazionali. Gli argomenti razionali di frate M e del signor R. andavano pero in direzioni opposte. Mentre per il primo l 'ordine atomico e molecolare degli organismi viventi rappresentava l'evidenza di un intervento sovrannaturale, per il secondo tale ordine era l'espressione di uno scontro casuale fra particelle sulla base della meccanica newtoniana. Analogamente, gli argomenti irrazionali, scaturiti dagli stati emozionali interni, erano basati sullo splendore dell'Universo che ci circonda in un caso, e sull'angosciante presenza del male nell'altro. Avevo pero potu­ to notare chefrate M basava le sue convinzioni piu su stati emozionali, al contrario del signor R. che insisteva sulle leggi della fisica e della meccanica. Injàtti,frate M era ajfoscinato dalle cose intorno a lui, dai colori del tramon­ to, dalla bellezza delle creature viventi, dalla complessita delle nostre idee, mentre il signor R. affirmava che l'Universo e noi stessi gli stavano bene cosi, spiegabili unicamente con l'evoluzione e la trasjòrmazione della materia. Eraforse il non saper cogliere l'aspetto piu intimamente irrazionale delle cose da parte del signor R. che gli impediva di accettare un 'esistenza divina ? O era forse il non saper razionalizzare troppo da parte difrate M che gli impediva di accettare anche l'alternativa del materialismo ? I dialoghi che avevo avuto con quei due personaggi non erano certamente sufficienti per rispondere a queste mie inquietanti domande. Dopo tutto, sia l'uno che l'altro possedevano una certa conoscenza. Mi chiedevo cosi quali argomentazioni avrebbe tirato fuori l'ignorante, cioe colui completamente al difuori dalle conoscenze riguardanti particelle, atomi, molecole, meccani­ ca newtoniana, ordine, caos, Sant'Agostino, Vecchio e Nuovo Testamento. E d'altra parte mi chiedevo se colui che analizza l'Universo con metodo empi­ rico e portato ad allontanarsi sempre piu dalle argomentazioni irrazionali e dal dogma dellafide. Avrei potuto capire piu a fondo la logica del credere e non credere attraverso il contatto con chi e vissuto nella conoscenza e con chi e cresciuto nell'ignoranza ? Il desiderio di rispondere a questa domanda mifece prendere la decisione di andare a cercare i miei interlocutori, per provocar/i, per sentire i loro punti di vista, per capire dove sta il razionale e l'irrazionale nel rapporto dell'uomo con l'Universo. In quel tempo, alla fine di maggio, una parte degli alpeggi al di sopra dei mille metri aveva ripreso ad ospitare pastori e vacche, che popolavano i pascoli ormai sgombri di neve e coperti di unfolto mantello di invitante erbafresca. Quelle giornate erano davvero splendide. Calde, limpide, profumate. Dopo

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una camminata di quasi due ore, arrivai ad un alpeggio a piu di I.50 0 me­ tri. Le vacche pascolavano e due canifocevano la guardia correndo avanti e indietro incessantemente. Un vecchio pastore era seduto davanti all'alpeggio in pietra, e con un grosso coltello stava staccando unafotta da un 'enormefor­ ma diformaggio. Accanto a lui c 'era una bottiglia di vino rosso quasi vuota. Attirato dall'abbaiare dei cani che mi avevano visto, alzo lo sguardo verso di me. Mi avvicinai. - Buon appetito! - esclamai. - Una passeggiatafin quassu si efotto? - mi disse con un accento stretto. - Si, e una cosi bella giornata! - Ne vuole unafotta ? - mi domando alzando con una mano la grossaforma diformaggio. Mi avvicinai e mi sedetti vicino a lui. Era molto cordiale. Dopo tutto, non tutti i pastori abituati alla solitudine dei pascoli si comportavano cosi. - È bello quassu, in silenzio in mezzo ai monti - gli dissi. - Oh, e bello, e bello! - rispose allegramente. - Vive qua da solo ? - Per la maggior parte del tempo si. Ho da guardare le vacche... e poi le capre... Ce n 'e dafore quassU! - Lo credo! Ma non lepesa stare da solo per tanto tempo? - No, mi piace. E poi ci sono abituato. - Eh si, lei e qui da solo, a contatto con la Natura, eforse piu vicino a Dio. Beato lei! - Si, si... vivo in mezzo a queste montagne, .fra le cose che Dio ha creato. I pascoli, le vacche, le capre... - Allora lei ci crede in Dio, non e vero ? - gli chiesi. Mi guardo con aria perplessa e interrogativa, come se gli avessi chiesto qualcosa di sciocco. - Certo che ci credo! - esclamo. - Sono cattolico io! Quando posso vado in chiesa... quando non ho le vacche e le capre da guardare. - Scusi se glielo chiedo, ma perché crede in Dio? - Perché? Ma ... non so. . . mi fo domande strane lei! Èforse un predicatore? - No, certamente no! Sa, lei e una persona simpatica, e poi e stato cosi gentile con me. Volevo solo sapere il suo parere. - Il mio parere? Io non so... sono ignorante... non ho studiato. Mi hanno insegnato cosi. Mio padre andava in chiesa, mia madre pure, e poi anche i miei nonni, i miei zii e tutti i miei parenti.

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- Quindi lei va in chiesa perché ci andavano i suoi genitori! E crede in Dio perché ci credevano i suoi genitori! - Si, si, puo darsi... - balbetto imbarazzato. - Ma mica erano loro a dirlo. Lo dice ilprete in chiesa. Dice che c 'e Dio, Gesu, la Madonna ... c 'e il Paradiso e l'Inferno. Mica lo dico io! E poi lo dice anche il Papa, no? - Lo so, lo so, lo dicono! - esclamai. - Lei e strano! - mi disse con espressione diffidente. - Questi sono discorsi difficili. . . da professore, da avvocato... io non ho mica studiato. . . non li capisco. Rimise ilformaggio e ilpane in una sacca. Si alzo eprese la bottiglia vuota. - Devo andare a lavorare! - esclamo. - Ho le mie vacche da guardare e la stalla da pulire. Spero solo che le mie vacche crescano sane! E prego ogni sera il Signore e la Madonna perché le proteggano, e mifocciano avere tanto latte eformaggio. Ora la saluto... Buona passeggiata! Il giorno dopo salii per un altro sentiero fino ad un gruppo di case diroccate che servivano come deposito per la legna. I tetti erano ifòndati,forse per ilpeso eccessivo della neve invernale. Oltrepassai quelle case, e vidi un uomo che con l 'accetta staccava grossi rami da un albero abbattuto. - Salve! - gli urlai. - Prepara gia la legna per ilprossimo inverno? - Per il prossimo inverno e per le giornatefredde d'estate. - Salefin quassu perfore la legna ? -gli chiesi avvicinandomi. - Si, ma io sono salito di qua dietro. Ci vogliono solo dieci minuti. Lei invece e salito dall'altro versante, e ci vuole piu di un 'ora. - Lo so! - ribattei. - Ma volevofore una passeggiata. Sa, con queste giorna­ te calde e profumate... Volevo godermi un po' la Natura. Non e una meravi­ glia questa primavera ? - È bella, si, almeno rispetto agli anni scorsi. - Il sole, ifiori, le montagne, i prati - gli dissi per cercare di distrarlo dal suo lavoro. - Sono tutti doni di Dio che dobbiamo goderci. Non le pare? - Non mi pare cosa ? - ringhio seccato. - Che tutti questi sono doni di Dio - gli ripetei. - Che vuole che ne sappia io! - esclamo. - Ma lei non sara mica uno di quelli che va in giro a predicare... - So n tuttefondonie! - continuo. - La vita va come deve andare. Cin­ que anni fo mi so n morte I50 pecore. Tutte congelate da un 'improvvisa gelata difine estate. Ho perso un patrimonio. . . e ho dovuto ricominciare quasi dall 'inizio. Se Dio esistesse non permetterebbe queste cose! Povero

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me... E povere bestie! Quanto hanno sofferto! Creda a me, Dio ve l'in­ ventate voi! Quelpomeriggio, in un paesino dove mi erofermato per qualche ora, conobbi Piera e Maria, due povere nane deformi che avevano sviluppato una profon­ da amiciziafra loro. La loro deformita le emarginava dalla societa. E questo aveva ulteriormente ra.lforzato il rapporto di amiciziafra le due sventurate. Mifermai con loro ad un bar del paese per scambiare due chiacchiere e per cercare diprovocar/e, come avevofotto con ilpastore e il taglia/egna. Parlam­ mo di diverse cose, ma il mio scopo era sempre lo stesso. - Andate in chiesa ? - domandai ad ambedue. - No! - rispose Maria ridendo. - Si! - rispose Piera seriamente. - È strano! - esclamai. - State sempre insieme e avete una visione della religione completamente diversa. - Lei crede! - disse Maria gesticolando vistosamente. - Non so in che cosa crede! Dice che andra in Paradiso... - Ci andrai anche tu! - la interruppe Piera. - Anche se non ci credi, ci an­ drai lo stesso. - Ma io non ci voglio nemmeno venire !assiti - ribatté Maria scoppiando in una grossa risata. - Non dire sciocchezze! - le rispose Piera infuriata. - Ce lo meritiamo, no? Guarda che vitafocciamo qua! Siamo deformi qua in Terra, ma lassu non lo saremo piu. Vedrai, Maria, sara diverso. Sara bello... - Che balle! - esclamo Maria. - Tu va ' pure in chiesa ... A pregare chi? Chi ci ha regalato questa gobba ? Maria battéla mano sulla gobba pronunciata che incurvava orribilmente Piera. - Vi prego, - intervenni - non litigate per causa mia. Vi hofotto solamente una domanda innocente. - Il Paradiso ci aspetta! - esclamo Piera convinta, rivolgendosi a me. - Ma­ ria non crede, ma il Signore capisce anche questo. - Ma che Signore! - ribatté Maria con tono dimesso. - Siamo due povere disgraziate. La gente ci guarda e si allontana. Dovreiforse ringraziare il Si­ gnore che m 'hafotta cosi ? In quel girofra i pascoli e gli alpeggi avevo imparato molto. Quelle con cui avevo parlato erano persone semplici, prive di conoscenze scientifiche, fi-

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losofiche e teologiche. Con loro non era stato possibile instaurare una vera discussione, perché la loro era sostanzialmente una esteriorizzazione degli stati emotivi che avevano dentro. Ma da loro avevo imparato la semplicita delle risposte. Avevo imparato a capire i mille stati emotivi che conducono o no alla fede. Avevo imparato a vedere i mille colori dell'a nimo umano. Avevo imparato che non esiste né una logica né un fottore specifico che por­ tano a credere o non credere. Proprio cosi! Perché esperienze simili avevano condotto a punti di vista opposti, ed esperienze diverse avevano portato alla stessa conclusione. E le convinzioni di quella gente erano prevalentemente su base emozionale. Piera e Maria, per esempio, partivano dalla loro orri­ bile deformita per raggiungere conclusioni diverse. Mentre una basava la sua vita sulla speranza, l'altra malediva la sua misera condizione. Piera era convinta che la sua infelicita sarebbe stata solo temporanea, aggrappandosi disperatamente all'esistenza del Paradiso, dove un giorno anche lei avreb­ be potuto raggiungere la felicita che non aveva trovato nella vita terrena. Maria, invece, non riusciva a credere che un Dio avesse potuto crearla con quell'o rribile dijètto e allora aveva espresso con parole molto semplici quel complesso concetto di casualita cieca. E il non credere del taglialegna ? Anche lui aveva avuto un 'esperienza ne­ gativa. Perchégli erano morte le pecore e aveva dovuto ricominciare tutto da capo. Forse aveva so.flèrto molto, anche per i suoi animali. Da come l'aveva detto, doveva amare molto quelle bestie, eforse aveva pregato perché non fo­ cessero una fine cosi misera in mezzo al gelo. Ma la sua preghiera non era stata ascoltata, e allora si era convinto che la vita va avanti cosi, per caso. E il primo pastore che mi aveva offirto ilformaggio? Luiforse non si era mai posto ilproblema, ma credeva. Credeva, e basta. E non sapeva nemmeno lui ilperché. Credeva perchégliel'avevano detto gli altri. Lo diceva ilprete in chiesa e lo diceva anche il Papa. Credeva nell'esistenza di Dio come un bam­ bino crede nell'esistenza di Babbo Natale e della Befona, perchégliel'hanno detto i genitori. Nessuna logica percio. Nessun indizio, nessun presupposto che potessero for avanzare ipotesi sulla tendenza religiosa di una persona. C 'era chi aveva avuto esperienze negative, chi positive, chi non si era mai posto il problema, chi apprezzava la vita e la Natura, e chi se ne disinteressava. Era solo un 'at­ titudine interiore, una tendenza dell'animo, un indifìnibile approccio alla vita, che determinava quell'impredicibile convinzione del credere o non cre­ dere. Ma la conoscenza dell'Universo, sia di quello macroscopico che di quello microscopico, avrebbe potuto dare una logica a quell'attitudine interiore? O,

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in altre parole, colui che conosce la materia dell'Universo nei suoi piu intimi segreti avrebbe seguito una logica ben precisa lungo la strada che conduce al credere o al non credere? Ebbi l 'occasione diparlare con un chimico, un tipo molto estroverso e cordiale, giovane, sulla quarantina, che non aveva certamente l'aspetto di un profes­ sore universitario. - Sono profondamente cattolico! - mi disse. - Io studio l 'interazione fta atomi e molecole, e descrivo la materia cosi com 'e. Ma questo non vuol certa­ mente dire che esiste solo la materia. Io sono convinto che i movimenti degli atomi e la composizione molecolarefon no parte di un grande disegno divino... - Ma non potrebbero essereftutto del caso? - lo interruppi. - Del caso? Dipende cosa intende per caso. - Beh, - cercai di spiegare - intendo che le molecole che lei studia sono il risultato di un Universo deterministico. - Se lei parla di determinismo - prosegui convinto - penso che tutti possia­ mo essere d'accordo. In fin dei conti, il sistema solare, la Terra, la vita sono certamente nati da una sequenza deterministica di scontri fta atomi, mo­ lecole, proteine, e cosi via. Ma il problema e di vedere cosa c 'e a monte del determinismo. Dopo tutto, il determinismo e un progetto... un disegno. Non le pare? E per me questo disegno e divino! Quindi, prima c 'e Dio, e poi la se­ quenza di scontri atomici e molecolari che non e nient 'altro che il suo disegno. - Quindi, secondo lei, - gli domandai - non c 'e contrastofta scienza efide. - Certo che no! - esclamo con estrema naturalezza. - La scienza si occupa di quello che l'uomo puo misurare. La fide riguarda qualcosa che non si puo misurare. Io sono uno scienziato, e sono curioso. Ma mi interessa solo conoscere le strutture molecolari, non chi le ha create... perché a quest 'ultima domanda ho gia una risposta: e stato Dio. Incontrai poi unfisico, anch'egli giovane e molto cordiale. In una trattoria,fta un piatto e l 'altro, avemmo modo di parlare per piu di un 'ora. - Senza dubbio, - mi disse - a mano a mano che la scienza va avanti con le sue scoperte e le sue teorie, appare semprepiu evidente l'incompatibilitafta scienza e religione. Le cose che nel passato sembravano essere di pertinenza esclusivamente religiosa, oggi possono aspirare ad una teoria scientifica. - Che cosa intende dire? - gli domandai. - Beh, - inizio con grande entusiasmo - provi a pensare alla creazione dell'Universo da parte di un Dio. Oggi, persino la creazione ha una teoria

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scientifica: il Big Bang. È possibileforne modelli matematici e simulazioni al calcolatore. E c 'e persino un indizio tangibile, che e rappresentato dalla ra­ diazione difondo. E la materia ? Anche la materia, oggi e divisa, analizzata, scandagliata nei minimi particolari. E stiamo arrivando alla Grande Teoria Unificata, che spieghera la vera essenza della materia ... - Ma sono solo teorie! - esclamai. - E lepare poco ? Ilfotto che sia possibilefore queste teorie e gia di per sé una cosa sconvolgente. Prima la creazione era solofrutto di un 'inspiegabile bac­ chetta magica, oggi la si puo trattare in termini matematici. - E se la teoria e sbagliata ? - gli domandai. - Non ha importanza! Quello che risulta importante e poter creare una teoria sulla base della logica umana. Ilfotto stesso dipoter trattare con una logi­ ca il problema della creazione e importante. Anche se la teoria del Big Bang andra incontro a revisioni e aggiornamenti, il problema non cambia. Perché anche se la teoria non e completamente esatta, appare evidente come sia pos­ sibile affrontare in termini logici e matematici ciO che prima apparteneva al mondo immateriale e spirituale. E vedra, attraverso tentativi e revisioni, si arrivera a capire anche questi limiti conoscitivi estremi. - Quindi, non c 'e posto per un Dio ? - gli chiesi. - Penso proprio di no! - Ma questa conclusione e terribile! - ribattei con angoscia. - Lo so, e terribile. Ma e cosi. La scienzafo paura proprio per questo. Perché anno dopo anno, decennio dopo decennio, secolo dopo secolo, materializza inesorabilmente tutto cio che prima apparteneva al mondo dell'immateriale. Le cose mi apparivano chiare! Neanche la conoscenza dell'Universo era in grado di unificare le strade che conducono allajède. Il chimico e ilfisico ave­ vano punti di vista opposti. Il chimico compiva persino uno sforzo di razio­ nalizzazione estrema, cercando di dare una logica all'esistenza di Dio con l'affirmazione che il determinismo non e nient 'altro che un disegno divino. Per ilfisico, al contrario, la scienza aveva un potere distruttivo totale sulla jède, evidenziando scoperta dopo scoperta la causa materiale di ogni evento. Nessuna logica dunque. Nessuna dijfèrenzafra conoscenza e ignoranza nella strada che porta al credere o al non credere. L 'avevo capito finalmente! Non sono le conoscenze e le esperienze passate che portano allajède o alla negazio­ ne di Dio. Ma e quell'attitudine interiore dijède o di negazione che, indipen­ dentemente dalla conoscenza e dall'ignoranza, agisce sulle conoscenze e sulle esperienze passate, plasmando/e e modellando/e.

Note sull' interazione mente-cervello l

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Il "c 'è o non c 'è ? " di G. L. è il dubbio dell'uomo. È la domanda che l'uomo si porta dietro come un fardello pesante da quando è nata la sua coscienza. È la consapevolezza della morte e dell' impossibilità di capire che cosa c 'è dopo. È la paura di scomparire per sempre nel nulla. Il ritrovamento ar­ cheologico negli scavi di Shanidar, in Iraq, dei resti di cerimonie funerarie degli uomini di Neanderthal dimostra già a quei tempi, circa 6 o . o o o anni fa, la consapevolezza e la coscienza della morte. Inoltre, negli stessi scavi archeologici, l'analisi di certi tipi di polline ha permesso di stabilire che le cerimonie funerarie erano accompagnate da tributi Aoreali. La data di circa 6 o.o o o anni fa rappresenta dunque una tappa importante dal punto di vista storico e scientifico. Quegli uomini erano coscienti della morte. Erano coscienti della perdita dei propri cari. Erano consapevoli che quelle persone non sarebbero mai più tornate in vita. E consideravano tutto ciò come qualcosa di misterioso da riverire con cerimonie e riti Aoreali. I teologi ben conoscono la storia successiva. La nascita delle religioni deriva da quel barlume di coscienza della morte scaturito 6 o.o o o o forse più anni fa. L' invocazione di un Dio, di un essere sovrannaturale che tut­ to può, ha caratterizzato tutta la storia dell'umanità. G. L. aveva ragione quando diceva che i popoli "hanno creato i loro Dei a loro immagine e somiglianza", e non viceversa. Le religioni dunque per placare il dubbio angosciante del "c'è o non c 'è" ? Molti contesterebbero questa domanda. Anche la scienza ha cercato di rispondere a questa domanda. Ma da dove iniziare ? Ricordiamoci che la scienza si basa su misure. Che cosa mi­ surare allora, ammesso che ci sia qualcosa da misurare ? Si può misurare un Dio ? Oppure, si può verificare in qualche modo la sua esistenza ? La risposta è ovviamente negativa. E allora la scienza ha cambiato la domanda o, per meglio dire, ha impostato il problema in modo diverso. Invece di chiedersi se c 'è un Dio, si è chiesto dov 'è e cos'è la coscienza dell 'uomo.

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Questo problema, antico come la storia e la cultura dell'uomo, va sotto il nome di problema mente-corpo. In altre parole, noi abbiamo sì un corpo materiale ma possediamo anche degli eventi mentali che ci fanno essere coscienti, ci fanno sentire il dolore, ci fanno amare e odiare, ci fanno po­ stulare teorie, ci fanno comporre poesie e melodie. In alcuni millenni almeno un grosso passo è stato fatto. Sebbene ai giorni nostri possa sembrare ovvio, questo grosso passo è consistito nell' i­ dentificare il problema mente-corpo con il problema mente-cervello. Infat­ ti, gli antichi egizi, i Mesopotamici, lo stesso Omero credevano che intel­ ligenza ed emozioni si trovassero nel cuore. Lo stesso Lucrezio scrive : «È nel cuore che sussultano il terrore e la paura, è lì che la gioia palpita dolce­ mente » (De Rerum Natura, I I I , 1 4 1 - 1 4 2 ) . Allontanandosi da questa visio­ ne cardiocentrica, Democrito concepisce invece degli « atomi psichici » sparsi in tutto il corpo, e scrive anche « il cervello, guardiano del pensiero e dell' intelligenza » . Con Ippocrate, che consolida la tesi di Democrito mediante osservazioni cliniche, e Platone che pone l' intelletto nella testa, si passa esplicitamente dalla visione cardiocentrica a quella cerebrocentri­ ca. Tuttavia, l' ipse dixit che Aristotele seminò nella storia ebbe i suoi effetti anche su questo problema. Infatti Aristotele, basandosi sulla confluenza dei vasi sanguigni al cuore e sul fatto che il cuore si contrae e il cervello no, pone la sede dell'anima nel cuore. Tale influenza aristotelica rimane fino al XVI I I secolo, tanto che lo stesso Shakespeare nel Mercante di Venezia dice : « Dimmi dove ha sede l 'amore, nel cuore o nella testa ? » (atto I I I , scena 2). Nonostante ciò, nel corso dei secoli, ricercatori e filosofi quali Galeno e Sant 'Agostino difendono la visione cerebrocentrica. Oggi non vi sono dubbi che il problema mente-corpo si identifica con il problema mente-cervello. Il cervello è la sede del pensiero, della coscien­ za, delle emozioni, dell' intelligenza. È lì che avvengono gli eventi mentali. A questa visione ci si è giunti mediante osservazioni cliniche e sperimen­ tali. Le prime sono particolarmente interessanti poiché nella loro sempli­ cità ci dicono che una lesione di una parte del cervello fa scomparire un determinato evento mentale. Alcuni esempi: la lesione del lo bo frontale fa scomparire la parola, quella del lobo temporale la comprensione del lin­ guaggio, quella del lo bo parietale il tatto, quella del lobo occipitale la vista, quella del sistema limbi co le emozioni, e così via. Non basterebbe un libro per elencarle tutte. È interessante ricordare che può persino succedere che se un arto è amputato ma il cervello è intatto, il soggetto amputato può avere ancora

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sensazioni dall'arto che in realtà non esiste più. Per esempio può sentire dolore e movimenti dell 'arto, proprio come se l'arto fosse ancora attacca­ to al corpo. Questo fenomeno si chiama arto fantasma e dimostra molto chiaramente che tutte le sensazioni dell'arto non sono localizzate nell'ar­ to stesso bensì nel cervello, dove giungono i segnali nervosi provenienti dall' arto. D ' altronde, la stimolazione elettrica del cervello di cui si è parla­ to in precedenza dimostra che gli stati emotivi emergono da zone cerebrali specifiche. Studi molto più recenti dimostrano che l 'attività mentale è sempre cor­ relata all'attivazione di una zona cerebrale. Esistono nuove tecnologie che sono state in un certo qual senso rivoluzionarie, perché hanno permesso di visualizzare quello che succede nel cervello mentre un soggetto compie determinati compiti mentali. Tali tecniche prendono il nome complicato di tomografia a emissione di positroni e risonanza magnetica funzionale e consentono di vedere quale o quali zone cerebrali sono attive in un de­ terminato momento. La visualizzazione su un piccolo televisore è davvero spettacolare. Infatti, sul televisore compare l' immagine del cervello con le aree attive che si "illuminano". È sufficiente che il soggetto pensi a qualco­ sa, per esempio a un movimento da effettuare con la mano, perché si illu­ mini una zona specifica del cervello. Il pensiero è dunque legato all'attività nervosa emergente dal cervello. E qui la scienza si ferma ! Qui sorge un ostacolo per ora, e forse per sempre, insormontabile. Qui la scienza non può più effettuare le sue mi­ sure. Qui si balza repentinamente alla filosofia, alla speculazione pura, alle ipotesi. Perché ora la domanda è la seguente. È il pensiero che determina l'attivazione di quell'area cerebrale ? Oppure, è quell'area cerebrale che determina il pensiero ? In queste due domande è racchiusa tutta la proble­ matica che affiigge l'uomo da millenni. E su queste due domande si basano tutte le teorie per spiegare il problema mente-cervello. Poniamoci le stesse due domande, ma in termini leggermente diversi. È il pensiero, o la mente che dir si voglia, qualcosa di immateriale che va ad attivare il cervello ? Oppure, il pensiero, o la mente, deriva dall'attività del cervello ? La differenza è sostanziale perché nel primo caso la mente sa­ rebbe un'entità metafisica che nulla ha a che vedere con la materia, mentre nel secondo caso la mente sarebbe la materia stessa. In diversi millenni di speculazioni, ipotesi ed esperimenti non si è arrivati ad alcuna soluzione. Tuttavia le teorie abbondano. Ma, con le dovute variazioni sul tema, le teorie sono sostanzialmente due : dualismo e materialismo.

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Cartesio pone le basi del dualismo con la definizione di res cogitans e res extensa. La prima è rappresentata dall' intelletto e dallo spirito, la se­ conda dalla materia, ovviamente incluso il cervello. In tal modo, Cartesio immagina un Universo meccanicistico in cui i corpi (la materia) si urtano a vicenda in un processo continuo di causa-effetto. La res extensa è quindi dominio della scienza pura, è misurabile, analizzabile e teorizzabile. La res cogitans, invece, nulla ha a che fare con la materia, essendo entità spirituale e quindi dominio della religione. La mente, o l'anima se si preferisce, è secondo la visione dualistica un'entità a sé stante che si manifesta attra­ verso la materia, cioè il cervello, interagendo con essa. Da qui il termine di dualismo interazionista. John C. Eccles, nel suo libro L 'Io e il suo Cervello, scritto con Karl R. Popper, sostiene questa dottrina e postula persino mo­ dalità e siri di interazione fra la mente metafisica, che sarebbe formata da elementi immateriali chiamati "psiconi", e il cervello, costituito da elemen­ ti materiali chiamati "dendroni". Secondo Eccles, quando il soggetto pensa a un movimento e il cervello si attiva, gli "psiconi" sarebbero i responsabili dell'attivazione dei "dendroni". Pochi filosofi e scienziati sono oggi dalla parte del dualismo interazio­ nista. Allora ha vinto il materialismo ? Non è detto. O almeno il dibattito rimane aperto. Molte teorie si oppongono al dualismo cartesiano, ma tut­ te si basano sul fatto che l' integrità e l 'esistenza stessa del cervello sono la condizione necessaria e indispensabile per gli eventi mentali. Il materiali­ smo radicale, per esempio, nega l 'esistenza di eventi mentali, considerando questi come fenomeni illusori. L' epif'enomenalismo asserisce invece che gli eventi mentali esistono e scaturiscono da eventi materiali; comunque, l'evento mentale non ha di per sé nessuna influenza sulla materia. Più re­ centemente, Roger W. Sperry ha proposto l' emergentismo, cioè l'evento mentale che emerge dalla materia ma che ha anche effetti sulla materia stessa. La differenza fondamentale fra epifenomenalismo ed emergenti­ smo consiste proprio in questo. Secondo Sperry la materia è la condizione necessaria e indispensabile per l 'evento mentale, ma questo rappresenta una proprietà globale emergente dal cervello che può influenzare il cervel­ lo stesso. Il suo esempio della ruota è classico. Una ruota è fatta di atomi e molecole assemblati in un certo modo. Questo assemblaggio fa emergere una proprietà globale dalla materia, cioè la rotondità. Tale rotondità è re­ sponsabile del rotolamento della ruota lungo una discesa, così che tutti gli atomi e le molecole che in essa sono contenuti verranno trasportati giù per la discesa. In altre parole, la rotondità emersa dall'organizzazione del-

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la materia è la causa dello spostamento di atomi e molecole. Ecco perciò che una proprietà globale emersa dalla materia può influenzare la materia stessa. L'esempio dell'acqua è anch'esso particolarmente chiarificatore. Le molecole H2 O di acqua si assemblano in modo tale da dare origine all' ac­ qua e alle sue caratteristiche globali. Per esempio, la liquidità dell 'acqua non è specificata nella molecola H2 O, cioè non esistono molecole H2 O liquide e molecole H20 solide. È semplicemente il loro assemblaggio che fa emergere la caratteristica globale di liquidità. Lo stesso discorso vale per la solidità del ferro o per la trasparenza del vetro. La coscienza e gli eventi mentali non sarebbero altro che caratteristiche globali emergenti dall'as­ semblaggio di atomi e molecole nel cervello. E gli eventi mentali possono influenzare il comportamento di atomi e molecole così come avviene per la rotondità della ruota e la liquidità dell'acqua. Come si può vedere, non abbiamo fatto grandi passi in avanti. Con­ tinuiamo a non capire che cos'è la nostra coscienza e, a maggior ragione, continuiamo a non capire se esiste qualcosa di metafisica. La verità è che per ora una soluzione non c 'è. Può apparire estremamente semplicistico e comodo dire "non so", ma è la pura verità. Sulla base di questo concetto semplice, e allo stesso tempo drammatico, del "non so", G. L., nella sua prossima narrazione, fa un sogno che lo porterà all'autodistruzione.

La settima lettera Il sogno

Viaggiai in macchina per diverse ore, senza mai formarmi. Ero assorto nei miei pensieri e in preda ad un profondo sconforto. Piansi per tutto il tempo, a volte disperatamente, a volte in silenzio. Piansi perché non sapevo piu cosa fare. Nella mia irrefrenabile ricerca di qualcosa avevo raggiunto un 'altra del­ le mie angoscianti conclusioni. Era inutile cercare se non avevo quell'attitudi­ ne interiore del credere. E a quelpunto avevo anche la risposta al "devo prima amarti o prima cercarti ?" di Sant'Agostino. La risposta era per me chiara e limpida, perché la mia conclusione a quelle tormentate meditazioni era che Dio deve essere prima amato e poi cercato. A che vale cercarlo se non si ha la fòrtuna di possedere quell'attitudine interiore di fide? Se si cerca qualcosa che non si ha dentro, l'impresa diventa titanica, eforse impossibile. Cosa do­ vevo cercare allora ? E dove? Se invece si possiede quella strana e indefinibile sensazione che un Dio esiste, e quindi l'amore per un Dio, allora si che lo si può cercare! E cosi lo si può trovare nella bellezza della Natura, nei colori del tramonto, neifigli che crescono sani, neifiori che sbocciano, nella nascita dell'Universo, nel ringraziamento della giornata passata, nell'ordine perjèt­ to degli atomi e delle molecole, eforse anche nel male. Ma tutto ciò aveva per me un valore relativo. Perché io non amavo nessun Dio! Sarei allora mai riuscito a trovar/o nella bellezza dell'Universo e della vita, e soprattutto nella morte dei bambini africani, nella soffirenza degli animali agonizzanti, nelle lotte ftroci per la sopravvivenza, nella Jàme che uccide milioni di uomini, nella crudeltà e nel!'insensibilita della Natura ? No, non ce l 'avrei maifotta! Il dubbio sarebbe rimasto. Forse colui che hafide e come il bambino che crede in Babbo Natale. Ci crede perché crede nei genitori, perché scrive le letterine a Natale, perché ri­ ceve splendidi regali. E lo ama profondamente per quello che gli da. Perciò lo cerca. E lo trova quasi sempre, anche se non esiste. Lo trova nei regali che riceve, nelle ombre della notte che si muovono nella stanza, nei sussurri che

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interrompono il silenzio della notte di Natale. Allora il suo credere in Babbo Natale si rajforza sempre piu. Ma se il bambino non amasse quel magico personaggio natalizio, riuscirebbe mai a trovarlo nei regali, nelle ombre e nei rumori della notte? Forse e cosi colui che crede. Lo trova sempre Dio, in ogni cosa, anche se non esiste. Ma il gioco non dura solo qualche anno, come per il bambino. Il gioco dura tutta la vita. E la dijferenza sta nella conclusione. Perché il bambino, ormai diventato grande, scoprira che quello era solo un gioco. Mentre se l'esistenza di Dio e veramente solo un gioco, colui che crede non lo sapra mai. Il mio dubbio e il mio "c 'e o non c 'e?" mi sembravano la posizione piu logica, piu giusta, piu saggia. Colui che non sa e che cerca e piu vicino a Dio, o perlomeno ai suoi valori, di colui che crede ciecamente e ha smesso di cercare. Ovviamente cio non vale per tutti, ma colui che ha smesso di cercare e in genereforse piu attaccato alle cose materiali di qualsiasi altro. La maggior parte della gente si definisce cattolica, seguace di Gesu Cristo, ma non segue certo i suoi insegnamenti, e non pensa e non cerca nemmeno. Chi non sa e cerca, invece, pensa e si pone domande. E ha certamente piu bisogno di spiritualita di un credente. Perché la ricerca della verita e spesso disperata, con dubbi, angosce e tormenti che allontanano sempre piu dalle cose materiali ed avvicinano giorno dopo giorno a qualcosa di spirituale indefinito. Chi cerca percorre logiche diverse e considera varie possibilita. E durante questo cammino tortuoso le varie alternative vengono vagliate, criticate, con.frontate. E allora il concetto di spirituale diventa qualcosa di critico, forse quasi qualcosa di logico. E viene contrapposto al concetto di materiale, ricriticato e ricon.frontato. È raro che colui che non sa e che cerca raggiunga una convinzione. Spesso questa altalena va avanti all'infinito. A me il personaggio che interessa e colui che non sa, colui che cerca conti­ nuamente, colui oppresso dai dubbi, colui desideroso di conoscenza, colui che va avanti in questa condizione all'infinito. Quella notte feci un sogno. C 'era un giovane di nome Davide. Era uno come tanti altri, con un lavoro comune, una vita normale, e le aspirazioni e i progetti di tanti giovani. Ma improvvisamente la sua vita era cambiata. Perché, spinto dalla curiosita, aveva risposto ad un annuncio che era stato diffuso attraverso i giornali, la radio e la televisione. L'a nnuncio, affasci­ nante e drammatico allo stesso tempo, era di una compagnia aerospaziale che cercava un volontario disposto aforsi lanciare nello spazio. Ilfoscino e la drammaticita di quell'annuncio consistevano nelfotto che il viaggio aveva una durata imprecisata. L 'astronave avrebbe dovuto viaggiare per anni,forse

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I L C A S O DI G . L .

per secoli, o anche per millenni, al difuori del sistema solare, per raggiunge­ re altre galassie, distanti centinaia e centinaia di anni luce, alla ricerca di una vita intelligente. Forse avrebbe raggiunto i limiti estremi dell'Universo e non avrebbe mai piufotto ritorno sulla Terra. Il volontario si sarebbe trova­ to all'interno di quell'astronave, ibernato mediante sofisticate tecniche. Tale stato di ibernazione sarebbe terminato solo quando uno speciale dispositivo, posto all'esterno del contenitore in cui si trovava il viaggiatore ibernato, fosse stato attivato dal contatto con qualcosa. Questo qualcosa non poteva che essere la manipolazione del contenitore da parte di intelligenze extraterrestri che avevano identificato e catturato l'astronave. Il rischio di compiere un 'impresa delgenere e si grande, ma se ci si sveglia dall'ibernazione le porte della conoscenza si spalancano di colpo. Ed ecco che appaiono nuovi mondi, forse situati in zone dell'Universo a noi inimmagi­ nabili. E appaiono nuoveforme di vita intelligente con cui ci si puo confron­ tare e scambiare le proprie conoscenze. Eforse si avrebbero le risposte a una parte delle mille domande che qui appaiono senza soluzione. Eforse si po­ trebbe anche vedere l'Universo come sanifra mille, centomila, un milione di anni. Non sarebbeJàntastico ? Ma e un 'incognita. Ci si puo svegliare... ma si puo anche rimanere ibernati per sempre. Ed e proprio questo ilJàscino e la drammaticita dell'annuncio. Eppure, nonostante questa grande incognita, Davide non era stato certo il solo ad aver risposto. Si era injàtti trovato a competere con centinaia di concorrenti. Ma alla fine avevano scelto lui, per­ ché era risultato il migliore, sia nei test psicologici e culturali che nelle prove fisiche. E discutendo e confrontandosi con gli altri durante le lunghe setti­ mane delle selezioni, aveva scoperto dentro di sé un nuovo Davide e aveva scavato nel suo animo in maniera puntigliosa e approfondita. Aveva scoper­ to dentro di sé qualcosa di molto profondo, che del resto lo accomunava a tutti gli altri concorrenti. Certamente non e da tutti accettare di compiere un viaggio di quel tipo! È vero, si era trovato di fronte anche dei disperati che volevano fuggire da una vita sfortunata, ma una gran parte degli aspi­ ranti astronauti aveva in comune qualcosa di strano. Era la curiosita. Una curiosita morbosa, ossessiva, portata all'esasperazione. Una curiosita e un desiderio di conoscere e di capire che erano diventati i protagonisti della loro vita interiore. E Davide si era scoperto cosi, quasi senza accorgersene. Aveva scoperto tutto il suo tormento e la sua solitudine interiore. Ed era deciso ad abbandonare tutto pur di ejfèttuare quel viaggio: lavoro, amici, e il suo soli­ to mondo. Davide si ritrovava li nella sua stanza, in attesa del lancio dell'astronave

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III

sulla quale si sarebbe dovuto imbarcare. Era perjèttamente conscio che quel lancio avrebbe rappresentato l'inizio di un viaggio verso l'ignoto. Ed era angosciato per questo. Era angosciato per il dubbio che lo tormentava ormai da tempo. Si sarebbe mai risvegliato dall'ibernazione? Il suo sonno sarebbe durato per l'eternita ? Piu volte fu sul punto di ripensarci e lasciar perdere tutto, ma qualcosa di piu forte lofoceva continuare a percorrere quella strada angosciosa. La sua era diventata una curiosita ossessiva. E quando pensava che qualcuno o qualcosa lo avrebbefotto risvegliare, subito la sua angoscia scompariva, e l'eccitazione della conoscenza che avrebbe raggiunto prendeva il sopravvento. Avrebbeforse visto mondi che l 'uomo non riesce neppure ad immaginare, e avrebbe capito cose che la mente umana non riesce nemmeno a pensare. Forse i segreti dell'Universo erano li, alla sua portata, e bastava aspettare qualche secolo o qualche millennio di ibernazione per svelarli. Dopo tutto, che cos 'erano mille anni di sonno ? Sarebbero passati velocemente, e la sua coscienza sarebbe tornata ad esistere con tutto il suo vigore e la voglia di conoscere... Ma c 'era sempre l'incognita. L'astronave avrebbe potuto attra­ versare l'intero Universo indisturbatamente, senza che nessuno se ne accor­ gesse. E allora il suo sonno sarebbe durato per l'eternita. Davide era in attesa del lancio. La sua astronave sarebbe partita.fra qual­ che ora, e lui stava per essere condotto alla camera di ibernazione per essere addormentato. Ripercorse tutta la sua vita in quei momenti. Ma non si penti di quella decisione. La scelta che aveva fotto lo gratificava. Quello che cer­ cava difore era il concentrarsi sulle possibilita del risveglio. In fin dei conti, le probabilita che un 'intelligenza extraterrestre l'avrebbe fotto destare dal suo lungo sonno erano cinquanta, contro le altre drammatiche e angoscianti cinquanta di un sonno eterno. E lui cercava di non pensare a queste ultime. Cercava solamente di assaporare ilgusto della conoscenza. Ma ora doveva proprio andare. Lo erano venuti a prendereper ibernarlo. Percorse un lungo corridoio, circondato da tecnici e medici. Si senti improv­ visamente come un condannato a morte che va alla sedia elettrica, inesora­ bilmente. Ebbe questa intensa sensazionefino a che lo sdraiarono sul lettino per iniziare le procedure di ibernazione. E tutto d'un tratto la sua situazione gli apparve chiara e definita. Era come se stesse per morire! Che diflèrenza c 'era .fra il lancio dell'astronave e la morte? Ambedue rappresentavano un lancio verso l 'ignoto. Davide penso che anche la morte racchiude il terribi­ le dubbio del risveglio o del sonno eterno. Proprio come il viaggio che stava per affrontare. Morire senza che un Dio esista sarebbe equivalso all'eterno viaggio dell'astronave per gli spazi infiniti. Morire con un Dio che ti aspetta

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IL CASO D I G . L .

sarebbe equivalso alla cattura dell'astronave da parte di u n 'intelligenza ex­ traterrestre. Era chiaro! Era la stessa cosa! E cio che Davide stava provando in quei momenti non era dovuto all'attesa del lancio, bensi all'attesa della morte. Si senti perduto per un attimo. Quegli uomini intorno a lui lo stavano uccidendo. Anzi, no! Era Davide che si stava suicidando. Perché tutto quello lo aveva voluto lui. Poteva tornare indietro sulla sua decisione, perché era ancora sveglio. Ma non volle. Voleva andarefino in fondo, spinto sempre da quel desiderio di conoscenza estrema e da quella curiosita ossessiva. Glijècero un 'iniezione. La sua coscienza comincio a svanire. Stava per essere ibernato, ma lui visse quegli ultimi attimi come se stesse per morire.

Breve

nota

Il personaggio di Davide nel sogno di G. L. è l' immagine dell'uomo tor­ mentato e roso dalla curiosità e dal desiderio di conoscenza. È pronto a farsi lanciare nell' ignoto o, per meglio dire, è pronto a morire, pur di sod­ disfare la sua curiosità. Davide è un avventuriero estremo. Un avventurie­ ro che affronta l ' ignoto nel suo significato più drammatico. Il suo è un desiderio di conoscenza portato all'esasperazione, di cui lui stesso diventa schiavo, e che lo conduce a una decisione certamente non comune. E si accorge all'ultimo che ciò che sta facendo equivale a morire, ma non per questo cambia idea. La sua curiosità è così radicata, così calcolata, che af­ fronterebbe persino la morte, come avventuriero dell 'aldilà. Lucrezio nel suo De Rerum Natura (ni, 9 1- 9 3) scriveva : « Per dissipare queste tenebre dello spirito non c 'è bisogno né dei raggi del sole né dei tratti luminosi del giorno, ma dello studio razionale della natura » . E G. L. ha fatto proprio così. Ha compiuto un' incredibile, paradossale, abnorme razionalizzazione.

L 'ottava lettera La curiosita

Quel sogno era stato per me sconvolgente. Il mio turbamento e il mio tormen­ to interiore erano aumentati di colpo a dismisura. Perché quel sogno mi aveva fatto identificare esattamente quello che c 'era dentro di me. Davide era lo specchio della mia angoscia interiore. Era la riproduzione esatta dei pensieri e dei tormenti che si agitavano in me. E tutte le ansie, le paure, i dubbi, gli stati di eccitazione, le speranze chefinora si erano alternati dentro me, prendevano fòrma in maniera definitiva e conclusiva. Perchéfinalmente avevo scoperto quello che avevo dentro, e lo potevo descrivere con una parola sola: curiosita. Era la stessa curiosita ossessiva e morbosa di Davide. Quella curiosita esaspe­ rata e quel desiderio abnorme di capire e di conoscere che avevano condotto Davide ad ajfrontare un lancio nell'ignoto. Lui aveva rinunciato alla vita facendosi ibernare, perché era curioso, perché dentro di sé aveva la speranza e il desiderio impellente di capire qualcosa di piu. E quando si era reso conto che !attesa di quel lancio equivaleva all'attesa della morte, la sua curiosita non era diminuita. Forse, per curiosita, avrebbe ajfrontato anche la morte. Ad un tratto capii che una soluzione c 'era a quell'altalena penosa e tor­ mentosa di emozioni che dondolava in me. Ero passato dalla certezza che niente esiste alla possibilita di qualcosa di sovrannaturale. Avevo passato le ultime settimane a chiedermi se un Dio esiste o no, sjògliando una margheri­ ta esasperante e arrivando ad uno stato ossessivo. Potevo risolvere i miei dubbi in un istante. Era sufficiente che andassi io, di persona, a vedere quello che ci riserva la morte. Sarebbe stato un viaggio senza alcuna possibilita di ri­ torno, proprio come Davide. Anche lui sapeva che non sarebbe mai tornato sulla Terra: le uniche alternative per lui erano o il sonno eterno o la cattura da parte di intelligenze extraterrestri, e allora sarebbe rinato. Cosi io potevo andare incontro alla morte con due possibilita: o scomparire per sempre nel niente, o assaporare il dolce sapore del conoscere che Dio esiste. Non ci voleva

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niente! Avrei potutoforlo subito, in mille modi. Ed entro pochi secondi ecco che la mia curiosita sarebbe stata soddiifàtta. Anch'io volevo affrontare quel lancio, e mi sentivo pronto per forlo. Ci pensai per ore e ore quella sera. Ero pienamente cosciente che quella era una decisionefolle, ma la vita che avevo sempre vissuto ormai non aveva piu alcun senso per me. Mi ricordai molto chiaramente le parole del signor R., che di­ ceva che tanto prima o poi questa curiosita sarebbe stata soddiifàtta: prima o poi il lancio lo avrebberofotto tutti, o da giovani o da vecchi. Ma questo non placava la mia voglia di dissipare i miei dubbi. Io volevo sapere subito! E se fossi scomparso per sempre? Che importava! Per me la vita che mi restava da vivere era lunga solo un microsecondo. E allora tanto valeva lanciarsi subito! Solo cosi avrei postofine alla mia curiosita morbosa. Cosi, come Davide, ero un avventuriero estremo, che rinunciava alla vita per sapere, per soddiifàre unaforma esasperata di conoscenza. Pensai ai miei cari, ai genitori, agli amici. Poveri papa e mamma! Non se lo meritavano questo mio egoismo nei loro confronti. Ma questo egoismo an­ dava al di sopra di qualsiasi cosa. Era l'essenza e il simbolo del mio desiderio di conoscere, era la conseguenza della mia curiosita, era il prodotto della mia logica abnorme. Ne ero peifèttamente conscio. E ad un sentimento di pro­ fondo amore verso i miei genitori, verso i miei amici, verso il mondo, verso la vita, si accavallava quel profondo desiderio di solitudine e quella mostruosa curiosita. Sicuramente ero sempre stato cosi, fin dalla nascita. E nella mia adolescenza e nella mia maturita tutti questi sentimenti erano rimasti in parte nascosti. Ma erano li. Certamente erano li. Ed esplosero all'improvviso, in seguito ad alcuni episodi che per me sono stati determinanti e che mi hanno condotto ad affrontare un lancio nell'ignoto. Si, proprio cosi. Perché avevo deciso di compiere quel lancio. Dopo tutto la cosa mi appariva persino buffa. Perché sarei stato un suicida particolare. Un suicida per curiosita. In una stanza di un hotel ero rapito dai ricordi, come Davide, in attesa del lancio. Ma mentre quello sconvolgente personaggio del sogno affrontava il lancio nello spazio come se stesse per morire, io affrontavo la morte come se stessi per essere ibernato e poi lanciato. Cio mi aiutava psicologicamente e mi dava unaforte sensazione di speranza di risveglio. Ch issa cosa sarebbe succes­ so dopo il mio addormentamento! In ejfètti, poteva succedere di tutto. Avrei potuto non risvegliarmi piu, oppure mi sarei ridestato subito, o magari il mio risveglio sarebbe avvenuto dopo secoli o millenni. Era davvero un 'avventura, e la sentivo come tale in tutta la sua drammaticita. Tuttavia, ilparagonarmi a Davide mi aveva fotto trovare il modo di vincere la paura di quel gesto

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estremo che stavo per compiere. E allora tutta la mia situazione mi appariva piu tranquilla e piu accettabile. Dopo tutto, stavo semplicemente per compie­ re un viaggio. Con destinazione ed esito ignoti, ma pur sempre un viaggio. E poi, volente o nolente, quel viaggio avrei dovuto forio perforza, forse fa qualche decina di anni. Percio si trattava solo di un 'anticipazione. Niente di piU! E cosi ecco che ajfrontavo quel sonno incerto e angosciante con serenita. Non che non avessi paura di morire, anzi, avevo una paurafolle. Avrei voluto che tuttofossegia avvenuto. Magari che qualcuno mi avesse aiutato a morire. Perché sentivo che compiere quel gesto sarebbe stato per me molto difficile. Avevo paura del momento culminante, della sensazione che avrei provato, del modo in cui sarei morto. Una cosa era certa! Non volevo soffrire. Cipensai per molto tempo, alle diverse possibilita che avevo e soprattutto al coraggio che avrei avuto nell'affrontare quella situazione estrema. Pensai ad una morte violenta e istantanea, come il buttarsi da un ponte o sotto un treno, o l'impic­ cagione, o persino un colpo di pistola. Ma non avrei avuto la determinazione diJàre tutto cio. Pensai allora alla via piu dolce, senza sojfèrenza. Il dolce addormentarsi e ilgraduale svanire della coscienza, proprio come l'iniezione ibernante ejfèttuata a Davide. Cosi scelsi il gas, li, nell'angolo cottura della stanza dell'hotel dove mi trovavo. In che situazione sconcertante mi trovavo! Io mi stavo per suicidare, e il rubinetto del gas era li, a pochi metri, pronto ad assumere il ruolo del mio boia. Lo guardavo fisso, con paura, rispetto e desiderio. Le uniche volte che ero venuto a contatto con il suicidio erano leftedde notizie date dai giornali o dalla televisione. E quando apprendevo che qualcuno si era suicidato, non capivo mai afondo la ragione di quel gesto. Del resto, come e difficile per tutti gli uomini capire cosa c 'e esattamente dietro un suicidio. A volteforse e l'amo­ re, a volte il dolore, a volte la vergogna, altre volte un disadattamento sociale. Ma in certi casi c 'e qualcosa che ifugge, qualcosa che non puo essere compreso in termini razionali. E allora si parla di stato depressivo e crisi esistenziale, senza tuttavia capire cosa questi termini significhino veramente. E cosi il mio gesto! Sarebbeforse apparso come ilftutto di una generica depressione, o di una non ben precisata crisi esistenziale, se non ci fossero le mie narrazioni. Invece la mia era semplicemente curiosita. Sicuramente esagerata, morbosa, abnorme, patologica, esasperata, ma sempre curiosita. Curiosita del!' Univer­ so, curiosita del mondo che ci circonda, curiosita di noi uomini, curiosita di me stesso. Curiosita se Dio esiste o no. E allo stesso tempo c 'era un non senso per la vita, per i suoi mali, i suoi tormenti, le sue crudelta. Cosi adesso ero io il protagonista di quell'estremo gesto che appare cosi oscuro e misterioso agli uo-

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mini. E mi sembrava strano, innaturale, come un sogno. Ma il sogno non era rappresentato solo da quei momenti. Era tutta la mia vita, passata, presente efutura. Un sogno che sarebbe svanito ben presto. E mi ritrovai a piangere disperatamente. L'Universo continuava a tacere, senza dare alcun segno di una presenza divina. Quel senso di solitudine e di sconforto si impossesso di me nuovamente, per l'ultima volta. Non resistevo piU! Dovevo porrefine a quell'attesa. Mi avvicinai al rubi­ netto del gas e sfilai il tubo. Mi sedetti a terra, aprii ilgas e aspettai con carta e penna nelle mani, continuando a scrivere queste ultime righe. Fra pochi mi­ nuti la mia curiosita o sarebbe cessata per sempre o sarebbe stata soddiifàtta. In quegli ultimi momenti mi ricomparvero nella mente tutte le immagini che mi avevanofotto piangere. Lo sguardo di Rico. L'uccisione del mulo. La bim­ ba che mi era mortafra le braccia. E in pochi secondi ripercorsi le discussioni con padre A., e i dialoghi confrate M e il signor R. La mia coscienza svaniva dolcemente. Mi ricomparvero nei ricordi un 'immagine e una sensazione appartenenti ad un passato lontano. Forse era il ricordo piu remoto che avevo nella mia mente, quando avevo due, forse tre anni. Era una sensazione di serenita, di pace, di estraneita dalle angosce e dai tormenti dell'animo. E quella sensazione era dovuta al ricordo di tre cose. La prima era la luce. Una lucefioca, sfumata, velata, che mi accarezzava da ogni direzione. La seconda era la musica. Forse una dolce e triste ninna nanna. La terza era l'immagine di mia madre. Mi guardava e mi dava sicurezza. Che sensazione soave! Che desiderio di riviver/a! Invece provai ad un tratto una sensazione spiacevole. Un senso di sopore e difreddo. Mi raggomitolai su me stesso, ma continuai a scrivere. Avevo pau­ ra. Si, avevo paura di non risvegliarmi piu. Poi di nuovo uno stato di eccita­ zione. Perchéfra poco avrei saputo. Mi comparve nuovamente l'immagine di Davide, di quell 'avventuriero estremo del sogno. E mi sentivo come lui, con la paura del sonno eterno e con la speranza che qualcuno mi avrebbefotto ri­ svegliare. Leforze mi mancavano, la sensibilita svaniva. Ebbi ancora laforza di dire qualcosa ad alta voce. E per la prima volta nella mia vita mi rivolsi a Dio. - Ti prego! Esisti! - pregai con un esilefilo di voce. Poi non sentii piu la penna fra le mie dita... Ecco, era arrivato il momento. L'attesa erafinita. Stavo per essere lanciato.

Conclusione

Il cadavere di G. L. fu trovato raggomitolato a terra la mattina successiva da un inserviente dell' hotel. L'ultima sua lettera e la penna con cui aveva scritto fino all'ultimo erano vicino a lui. Se non ci fossero state queste sue narrazioni, l'esatto motivo di quel gesto estremo sarebbe rimasto oscuro per sempre. Ma chi era realmente G. L.? Un vigliacco che non ha saputo affrontare la vita ? O un filosofo coraggioso che ha voluto andare a vedere di persona ciò che angoscia da sempre l'umanità ? Il fascino di questo caso è tutto nel perché G. L. si suicida, poiché ci porta innanzitutto a capire a fondo le origini di un disagio psicologico che noi spesso chiamiamo depressione, ma che forse in tal caso esce da tale definizione. G. L. ci fa capire il disagio esistenziale, o come spesso viene definito "il male di vivere", nei minimi dettagli e nel suo significato più na­ scosto. È quella di G. L. una reale depressione ? O è piuttosto un percorso di logica estrema che lo porta a esplorare cosa c 'è dopo la morte ? La ricerca ossessiva che traspare dalle sue lettere ci fa affrontare con inusuale realismo il mistero divino, la fragilità dell 'esistenza dell'uomo, la tragicità del male e della sofferenza. Accanto a tutto ciò, il caso di G. L. ci insegna che la descrizione scien­ tifica di ciò che avviene nel cervello e nel corpo del paziente solo parzial­ mente può dare risposte. In questo caso, l' inefficacia dei trattamenti farma­ cologici e psicologici non può sorprendere, vista la logica seguita da G. L. Solo interagendo, parlando e ascoltando il paziente è possibile compren­ dere a fondo il suo disagio. Dov'è ora G. L. non si sa. Di sicuro il suo tormento e la sua curiosità sono finiti per sempre. O perché ha trovato una risposta alle sue domande, o perché G. L. semplicemente non esiste più.

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Quando si vuole testare una nuova terapia, si p aragona un grupp o d i pazi enti che riceve il trattamento vero a un altro s ottoposto inve ­ ce a un trattamento fint o (il placeb o ) : procedura necess aria p erché spesso i p azienti che s e guono la terapia finta mo strano un miglio ­ rament o . Fino a p o chi anni fa , l 'interesse dei ricercatori era diretto esclusivamente a ve dere s e la terapia vera funzionas s e meglio della fittizia. Oggi . inve c e , ci si è cominciati a chi e dere p erché chi assume un placebo spesso migli ora: è emersa così un' affascinante interazio ­ ne fra mente e corpo in cui eventi mentali complessi sono in grado di influenzare tutto il nostro o rganismo .

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