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Italian Pages 356 Year 2000
Libri del Tempo
a cura di
D. della Porta, M. Greco, A. Szakolezai
Identità, riconoscimento,
scambio Con una risposta e un saggio autobiografico di
Alessandro Pizzorno
GIE Editori Laterza -
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prata
Libri del Tempo Laterza 304.
© 2000, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2000 I saggi di Michael Donnelly, Harvey Goldman, Margaret Somers sono stati tradotti da Massimiliano Andretta
Quest'opera è stata realizzata grazie al contributo dell’Istituto Universitario Europeo
a cura di
Donatella della Porta, Monica Greco e Arpad Szakolczai
Identità, riconoscimento, scambio Saggi in onore di Alessandro Pizzorno Con una risposta e un saggio autobiografico di Alessandro Pizzorno
zii Laterza
Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari
Finito di stampare nell’aprile 2000 Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa
CL 20-6064-7 ISBN 88-420-6064-X
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è * lecita solo per uso personale purché
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Identità, riconoscimento, scambio: una introduzione” di Donatella della Porta, Monica Greco e Arpad Szakolezai .
Questa raccolta di saggi vuole essere un omaggio alla persona e al lavoro di Alessandro Pizzorno, che nel 1999 ha compiuto settantacinque anni. Pizzorno è una figura ben nota in Italia, non solo a chi si occupa in prima persona di scienze sociali, ma anche, per usare un suo concetto, alla «sfera pubblica» più ampia. Fin dalle origini della sua carriera, Pizzorno ha combinato l’attenzione alla teoria politica, testimoniata dalla sua laurea in filosofia e dai suoi primi studi alla École des Hautes Études di Parigi, con la ricerca del dato empirico, coltivata soprattutto a partire dalla sua esperienza alla Olivetti all’inizio degli anni Cinquanta. Negli anni seguenti, i contributi di Pizzorno alla riflessione teorica e all’indagine empirica sono stati fondamentali, sia per la collettività di studiosi che si sono formati attorno a lui a Urbino, dove vinse nel
1961 una delle prime tre cattedre di sociologia, a Milano, e quindi al Nuffield College di Oxford, a Harvard e all'Istituto Universitario Europeo di Fiesole. Nutrita negli anni cinquanta dalla partecipazione a riviste come «Ragionamenti» e «Passato e Presen-
te», la passione civile di Pizzorno si è manifestata di recente nel lavoro con il Comitato dei tre saggi, incaricato dal presidente della Camera dei deputati di elaborare proposte di lotta alla corruzione e al malgoverno. Sintetizzando al massimo, si può dire che il contributo di Pizzorno miri a specificare, a una varietà di livelli, le condizioni che * I tre curatori hanno collaborato insieme alla impostazione del volume. Donatella della Porta e Monica Greco si sono occupate dell’editing dei vari contributi.
VII
rendono possibile la politica democratica, e, a partire da ciò, a riflettere sulla natura della realtà sociale. Questa ampissima definizione copre un gran numero di interessi più specifici, che variano dallo studio teorico ed empirico sul conflitto sociale (specialmente riguardo al conflitto industriale), all’analisi dei partiti politici e della corruzione, dei movimenti sociali e del formarsi delle iden-
tità collettive, fino — a un livello più astratto — alla riflessione su varie concezioni del soggetto individuale, della razionalità, della relazione tra il comprendere e lo spiegare. Dalla inchiesta sociologica sull’azione sindacale nell’autunno caldo all’analisi storicocomparata sull'evoluzione dei partiti e della classe politica, i temi dell’identità, del riconoscimento e dello scambio hanno assunto
un ruolo fondamentale e aperto nuovi filoni di studio nel campo della partecipazione e della rappresentanza, delle relazioni industriali e del controllo sociale, della corruzione e della criminalità organizzata. Più di recente, identità e riconoscimento sono stati al
centro anche della riflessione di Pizzorno sul lavoro stesso di teorizzazione della realtà esterna, così come degli interventi più politici, sia di interpretazione della crisi italiana che di elaborazione di proposte concrete per riformare il sistema. Nel preparare questo volume, abbiamo quindi chiesto ai diversi autori — che sono stati alunni, colleghi e amici di Pizzorno — di orientare il loro contributo sui concetti di identità, riconoscimento e scambio mostrandone la pertinenza, l’attualità, la rilevan-
za in relazione alle proprie ricerche e alla sociologia contemporanea. Dell’uso e della definizione di questi concetti nella produzione teorica di Pizzorno tratteremo sinteticamente in questa in-
troduzione, guardando prima ai concetti di identità e riconoscimento e poi alla loro interazione con quello di scambio.
1. Identità e riconoscimento Pizzorno si è occupato dei concetti di sé e di identità personale sin dai primi suoi scritti — si pensi, ad esempio, al saggio del 1960, intitolato Le Masque, che prendeva le mosse dal famoso articolo di Mauss sulla categoria di «persona» (Mauss 1985). Tuttavia, è soprattutto a partire dagli anni Ottanta che i termini «identità» e «riconoscimento» sono diventati elementi centrali del suo approccio VII
teorico. Prima d’allora, infatti, la sua notorietà in ambito accade-
mico era stata legata ai molti contributi in sociologia politica e ad argomenti quali l’analisi dei partiti e dei sindacati, dell’azione industriale, della partecipazione politica e così via. È dunque solo in una serie di pubblicazioni e di scritti inediti relativamente recenti ch'e Pizzorno ha cominciato a trattare direttamente la que-
stione del sé e a fornire i tratti generali di una teoria della formazione dell’identità!. La teoria si basa non solo sul concetto fondamentale di riconoscimento (sul quale ci soffermeremo più avanti), ma anche sull’elaborazione di altri concetti come quelli di partecipazione, presenza, condivisione, disciplina, valore, conversione e l’attività di dar nomi. Nata nella tradizione sociologica, soprattutto dal tentativo di superare la forma di teorizzazione dell’ordine sociale contenuta negli scritti di Hobbes (Levine 1991), essa si è nutrita di una profonda conoscenza dei lavori di Michel Foucault, sviluppandosi attraverso un dialogo critico con la teoria della scelta razionale. Proprio nella combinazione di questi tre elementi, e nel modo in cui Pizzorno ha saputo coniugare attività critica con
attività di costruzione teorica, stanno l’originalità e la rilevanza del suo contributo. 1.1. La critica del neoutilitarismo. Una premessa La critica delle teorie della scelta razionale, e delle teorie sociali di
stampo economico in genere, sebbene non sia un fenomeno nuovo, sta attraversando un periodo di rinnovato impeto?. Ciò non deve sorprendere, data l’esplosione di interesse che attualmente circonda tali teorie — specialmente, ma non solo, nell’ambito del-
le scienze politiche. Rispetto alle possibilità critiche, tuttavia, es1 Si veda Pizzorno 1986, 1987, 1989a, 1989b, 1989c, 1990, 1991, 1994a,
1996a. 2 Si veda, ad esempio, il dibattito tra Somers, Kiser e Hechter, Boudon,
Goldstone e Calhoun, nel numero di novembre 1998 dell’«American Journal of Sociology». Per riferirsi alle teorie che si basano su una serie di premesse che chiameremo «neoutilitarie», Pizzorno usa indifferentemente, e/o secondo il contesto, le espressioni «teorie della scelta razionale», «teorie economiche del-
la democrazia», «teorie neoutilitarie» e anche, più genericamente, «teoria delle decisioni» (1983, p. 146 e 1996). Anche noi useremo questi termini indifferentemente.
se pongono un problema particolare; per contrastarle, si può infatti cominciare con il metterne in dubbio i presupposti, 0, alternativamente, con l’accettarli, per sviluppare poi una critica dall’interno. La prima strategia è quella privilegiata dalla maggior parte dei critici, e consiste nel denunciare lo scarso realismo delle premesse della rational choice theory, sottolineando come gli esseri umani siano esseri sociali prima che individui; in tal modo, si nega la validità della teoria dall’inizio. Questo è un tipo di critica che non ha molte speranze di venire accolto dai sostenitori della teoria; come infatti ricorda Pizzorno, citando Leonard Savage,
questi risponderanno che «una teoria molto sommaria può svolgere un ruolo utile all’interno di certi contesti, anche se ‘è indubbiamente vero che il comportamento della gente spesso si discosta vistosamente dalla teoria’» (Pizzorno 1996a, p. 111). Nel secondo caso, però, chi volesse sviluppare una critica, per così dire, dall’interno, viene scoraggiato dalla vastità di una letteratura altamente specialistica, e dalla necessità di conoscerla a fondo prima di poterne intravedere i limiti o i difetti teorici. Dato che i critici per lo più sanno già dove vogliono arrivare, cioè non sono in cerca di soluzioni inedite, è naturale che l’investimento di risorse che
una tale operazione richiede appaia loro proibitivo e forse inutile. Pizzorno, a differenza di molti, ha accolto la sfida di affrontare le teorie neoutilitarie sul loro terreno, ed è senz’altro riuscito nell’intento di indicarne i «componenti difettosi» (Pizzorno 1991,
p. 228). Per far questo, il suo punto di partenza è stato quello d’accettare provvisoriamente — anziché rifiutare 4 priori — l'assunto «che la realtà sociale si compone di azioni individuali aggregate, che ogni singola azione individuale viene causata da decisioni del soggetto d’azione, e [...] che le decisioni costituisc[o]no l’unità di analisi da selezionare per spiegare la realtà sociale stessa» (1996a, p. 109). La forza e l’originalità dei suoi argomenti sta nell’aver dimostrato, seguendo la logica di quelle stesse teorie, ma evidenziandone i «salti» e i silenzi, come i ragionamenti che esse impiegano non possano rimanere coerenti senza dover rinunciare alle proprie premesse. Questo è un tipo di critica alla quale gli stessi
autori delle teorie neoutilitarie non possono rimanere indifferenti; d’ora in poi si dovrà riconoscere che questo orientamento teo-
rico può sì servire a scopi specifici e limitati, ma non venire adot-
tato incondizionatamente come modello privilegiato di spiegazione della realtà sociale. Pizzorno deve questo successo teorico alla vastità delle sue letture e competenze intellettuali. In un mondo sempre più caratterizzato dalla frammentazione accademica, sembra ormai inconce-
pibile poter sviluppare una tale familiarità con le letterature di discipline tanto diverse quali la sociologia, le scienze politiche, l'economia, la filosofia, e persino la psicologia e l'antropologia. Ma si può dire che Pizzorno appartenga ancora a un universo in-
tellettuale, le cui manifestazioni sono sempre più rare, in cui la varietà delle forme della conoscenza e della cultura non sembra precludere l'ambizione a una visione d’insieme. Più in particolare, egli appartiene a una generazione di studiosi uniti da un fattore singolare, ovvero quello di aver raggiunto e attraversato un importante rito di passaggio — quello che segna la «maggiore età» e quindi la transizione alla vita adulta —, durante o intorno agli anni della seconda guerra mondiale. Più d’un autore di quella generazione ha segnalato l’importanza di questo fattore nello sviluppo
non solo delle proprie posizioni teoriche, ma anche dei propri atteggiamenti pratici nei confronti della politica?. Come spesso accade, tuttavia, questa ampiezza d’interessi ha anch'essa il suo rovescio della medaglia, e può comportare indirettamente qualche svantaggio. La riflessione teorica di Pizzorno sui concetti di sé e di identità non ha infatti, per ora, ottenuto il riconoscimento che
merita, probabilmente perché non è stata ancora formulata in modo esauriente e conclusivo. Alcuni dei suoi scritti più importanti in merito o sono rimasti incompleti e inediti, o sono apparsi solamente in raccolte di saggi che, per quanto prestigiose, non sono
sempre facilmente reperibili. È appunto in uno scritto inedito del 1994, preparato per un seminario, che troviamo uno dei contributi più recenti ed esaurienti sull’uso della nozione di sé nell’indagine sociale. 3 Si veda, ad esempio, la prima conversazione di Michel Serres con Bruno Latour, in Eclaircissements (1990). Alla stessa generazione di Pizzorno appartengono studiosi come Victor Turner (nato nel 1920), Pierre Hadot (1921),
Shmuel Eisenstadt (1923), Reinhart Koselleck (1923), Michel Foucault (1926),
Niklas Luhmann (1927).
XI
1.2. Il neoutilitarismo e l'indagine socio-psicologica sul sé Come già accennato, uno dei modi di procedere della critica alle teorie della scelta razionale è stato quello di dubitare del realismo degli assunti su cui tali teorie si basano (cfr. Pizzorno 1983; p. 146). Questo modo di procedere trova un primo ostacolo nel fatto che l’assunto centrale delle teorie della scelta razionale, secon-
do cui ogni individuo prende decisioni singole calcolando in base ai propri interessi i meriti relativi delle alternative a lui disponibili, in effetti sembra corrispondere da vicino a molte situazioni della vita ordinaria. Pizzorno, anziché ignorare quest’aspetto, capovolge il ragionamento, proponendo che proprio questa fami-
liarità rispetto agli assunti della vita ordinaria, lungi dal rappresentare un vantaggio, costituisce il difetto dell’assunto teorico. Il problema delle teorie della scelta razionale non sarebbe, quindi, quello di non essere realistiche, bensì piuttosto quello di riprodurre semplicemente gli assunti del senso comune. Per dirla con le sue parole: «Quest’immagine del soggetto individuale dell’azione è straordinariamente simile a quella prevalente nel pensiero ordinario; il che non la rende più vera o più capace di spiegare la realtà, bensì solo più facile da comunicare» (Pizzorno 1989a, p. 10). Il fatto che questa immagine del soggetto dell’azione sia «più facile da comunicare», oltre a indicare un ovvio motivo per cui è probabile che molti continuino a preferirla, ci porta a considerare un altro aspetto forse meno ovvio, ma fondamentale, delle teorie della scelta razionale. Queste, infatti, nascono come teorie r0rmative, tese cioè «a determinare quale sia, in un insieme di alter-
native possibili, l’azione più vantaggiosa da scegliere» (Pizzorno 1996a, p. 109), e quindi orientate a intervenire direttamente nella realtà sociale che, allo stesso tempo, si propongono di spiegare. Come vedremo, questo «orientamento all'efficienza» (19942, p.
17) è un'importante caratteristica, che condiziona significativamente le capacità riflessive della teoria. Per ora basti indicare che il carattere delle teorie della scelta razionale, in quanto ai loro propositi, è duplice: da una parte questi propositi sono, come abbiamo detto, normativi; dall’altra, le stesse teorie vengono poi usate come teorie positive, cioè volte «a spiegare perché le cose avven-
gono nel modo in cui avvengono» (1996a, p. 109). È la forza dell'aspetto normativo delle teorie della scelta razionale, cui PizXII
zorno attribuisce una «funzione egemonica» di legittimazione della democrazia (1983, p. 146), che impone di valutarne attentamente l’aspetto positivo, ovvero le capacità esplicative. Lasciando ad altri il compito di misurare il successo empirico di queste teorie, egli segue la via inedita di analizzarne la coerenza logica: e così diméstra come, per rispondere a certi problemi fondamentali, esse si trovino a contraddire le proprie premesse e a dover «cercare altrove» le soluzioni. Quali sono, dunque, questi problemi fondamentali? E dove occorre cercare per risolverli? Come ora vedremo, Pizzorno propone che «identità» e «riconoscimento» siano i concetti che permettono di descrivere «come sia possibile concepire un soggetto che sceglie» (1994a, p. 7). Il che significa che la spiegazione della realtà sociale, anche se intesa come aggregato di scelte individuali, è possibile solo attraverso un’indagine socio-psicologica sul sé, cioè facendo ricorso a teorie che contraddicono in modo fondamentale gli assunti teorici del neoutilitarismo.
In sintesi, i problemi che sovvertono le premesse di tipo neoutilitaristico sono di tre ordini. Il primo riguarda l’origine delle preferenze, che nelle teorie della scelta razionale vengono date per scontate, ma che non sono spiegabili «a loro volta come effetto di una scelta razionale» (1994a, p. 1; cfr. anche 1996a, pp. 109-10). E rispetto a questa problematica che Pizzorno fa notare come l'orientamento normativo delle teorie neoutilitarie interferisca con la possibilità, da parte delle stesse teorie, di interrogare riflessivamente i propri concetti. Infatti, se il senso della teoria è quello di «dare ordine e comprensibilità, e quindi efficienza, alle operazioni che conseguono a una scelta d’azione vòlta a soddisfare preferenze date», la riflessione sull’origine delle preferenze «avrebbe effetto sulla formazione delle preferenze stesse e invaliderebbe l’orientamento all'efficienza» (1994a, p. 17). In altre parole, anziché servire allo scopo originario di soddisfare date preferenze nel modo più efficiente possibile, una tale riflessione, agendo sulle preferenze e rendendole instabili, procederebbe in senso diametralmente contrario all’efficienza, in tal modo vanifi-
cando il senso della teoria. Viste in questa prospettiva vi è un’inaspettata somiglianza, nonostante le importanti differenze che persistono, tra le teorie della scelta razionale e altre teorie individua-
listico-metodologiche che obbediscono a un'esigenza terapeutica XII
(e quindi normativa) prima che esplicativa, come ad esempio la psicoanalisi (1994a, p. 18). Come fa notare Pizzorno, nella misura in cui i teorici della scelta razionale hanno tentato di affrontare il problema dell’origine delle preferenze essi lo hanno fatto proprio ricorrendo al concetto di sé, invocandolo però «come una sorta di meta-preferenza» la cui origine rimane a sua volta inspiegata (1996a, p. 113; cfr. anche 1994a, pp. 15-17). È ad esempio il caso di Nozick 1993 e di Coleman 1990, che introducono rispettivamente i concetti di «utilità simbolica» e di «identificazione». Grazie al primo, Nozick suggerisce che è possibile valutare la razionalità di singole azioni come facenti parte di una serie che conferma una certa concezione del proprio sé; il «formare un’immagine di sé» costituirebbe quindi un processo generatore di preferenze. Usando una distinzione che ricorda quella meadiana tra Me e I, Coleman invece ricorre al concetto di identificazione per spiegare le preferenze di un sé oggetto (nell’interesse del quale agirebbe un sé att1v0), quando tali preferenze «non possono spiegarsi in termini egoistici»
(Pizzorno 199%4a, p. 16). Pizzorno dimostra la circolarità dei ragionamenti di entrambi gli autori, i quali, per spiegare cosa governi il processo di formazione di un'immagine di sé (nel caso di Nozick), o quello dell’identificazione con certe persone piuttosto che con altre (nel caso di Coleman), si trovano costretti a far di
nuovo ricorso all’opera di preferenze. Se, quindi, una concezione del sé appare logicamente necessaria anche dal punto di vista della teoria della scelta razionale, «per poter capire come la gente costruisca determinate concezioni del sé e derivi preferenze da queste, occorrerà cercare altrove» (Pizzorno 1996a, p. 113). Il secondo problema, strettamente collegato al primo, è quello dell’«incertezza di valore», cioè dell’incertezza rispetto alla stabilità dei criteri di valutazione del risultato di una scelta, soprattutto quando questa comporta conseguenze a lungo termine (cfr. Pizzorno 1986). La teoria delle decisioni trascura questo problema, dando per scontata la persistenza delle preferenze. Anche secondo la logica propria a questo tipo di teorie, tuttavia, questo è un assunto poco realistico, dato che le unità d’analisi sono una moltitudine di decisioni considerate singolarmente, rispetto alle quali non viene presupposta alcuna entità durevole preesistente. Infatti, la categoria del soggetto d’azione, che potrebbe rappreXIV
sentare il principio di una continuità tra decisioni diverse, non è una categoria esplicitata positivamente nelle teorie della scelta razionale; al contrario, secondo queste, il soggetto «è da ritrovare totalmente nei prodotti delle sue scelte. Nella versione estrema [che è l’unica ad essere rigorosamente sostenibile sul piano formale]; neanche le ‘preferenze’ sono da attribuire al soggetto. Di esse si può parlare solo in quanto si rivelino nella scelta» (Pizzorno 1994a, p. 3). Detto questo, proprio nella misura in cui invece
le preferenze perdurano attraverso una moltitudine di atti e di scelte singole — com'è, del resto, empiricamente osservabile — sarà necessario chiedersi a cosa sia attribuibile la loro durevolezza. In un contesto diverso, questo problema diventa quello della possibilità di attribuire a una qualche entità duratura «la capacità di giudizio morale e il senso di responsabilità per le azioni che compie» (1994a, p. 12), senza i quali l’efficacia delle norme sociali diventa inconcepibile. Infatti «non soltanto le scelte si fanno, [...] ma l’organizzazione sociale stessa poggia sul presupposto della connessione e, si vorrebbe dire, connivenza fra i successivi sé di
un individuo» (ivi, p. 14). Il terzo problema, infine, riguarda la possibilità di concepire l’azione collettiva o la cooperazione in genere: fenomeni questi che l’analisi condotta in termini di scelta razionale, attraverso i no-
ti argomenti del free rider e del Prisoner's Dilemma, «dimostra impossibili altro che in condizioni di non libertà» (199Aa, p. 2). Anche in questo caso, Pizzorno dimostra che, partendo dal concetto di identità anziché da quello di preferenza o di proprio interesse (quali si rivelano nella scelta), è possibile trovare una soluzione a questo problema, soluzione che però fa ricorso a un terreno teorico estraneo a quello della teoria delle decisioni. È infatti partecipando all’azione collettiva che il soggetto si costituisce come un sé, come quell’entità durevole cui si riferisce il termine di «identità», attraverso il riconoscimento degli altri (su questo meccanismo ritorneremo più avanti). Ed è, a sua volta, grazie a
questa identità che il soggetto sarà in grado di operare le sue scelte individuali, ovvero di giudicare le proprie preferenze in base a una continuità del sé nel cui interesse la scelta avviene. Per dirla con Pizzorno: «ci sono situazioni in cui non sono preferenze, va-
lori, che ci permettono di discriminare fra gli oggetti di fronte a cui ci muoviamo, bensì riferimenti a noi stessi, a una definizione
di noi stessi che siamo andati costruendo. Il nostro fine è realizzare quella definizione» (1994a, p. 13). Quindi, se la partecipazione all’azione collettiva è fonte dei riconoscimenti che, come ve-
dremo, sostengono un'identità, allora tale partecipazione non rappresenta più un mezzo, bensì un fine dell’azione stessa; il problema della sua razionalità non si pone poiché in quanto fine, o preferenza, la partecipazione è semplicemente «data». 1.3. Il riconoscimento alla base dell'identità
Le tre problematiche appena delineate sottolineano la necessità teorica della categoria di soggetto e del concetto di identità — necessità che, come abbiamo visto, viene ammessa implicita-
mente anche all’interno della teoria della scelta razionale. Il concetto di riconoscimento è strettamente legato a quello di identità; quest’ultima, infatti, è concepita come una «storia di riconosci-
menti» (1994a, p. 6) ricevuti da un dato individuo nei diversi contesti dell’interazione sociale a cui partecipa. La nozione di identità si riferisce dunque a una molteplicità di attributi di tipo diverso — si pensi alle identità di ruolo (il padre, il capo-ufficio, il malato), a quelle di gruppo (il francese, il democristiano, il meridionale), o a quelle biografiche (la persona che si conosce da molto tempo, quella appena conosciuta) — la cui rilevanza varia, appunto, a seconda dei contesti. Quindi, nell’analisi di Pizzorno, il concetto di riconoscimento sostiene, per così dire, quello di identità; ma esso non vie-
ne a sua volta proposto a priori, come alternativa alle premesse delle teorie neoutilitarie, bensì in risposta a problemi specifici che queste sollevano. Senza entrare nel dettaglio dei suoi ragionamenti (per questo si vedano i contributi di Sparti e di Gbikpi in questo volume), tracciamo ancora una volta a grandi linee le domande che trovano nel concetto di riconoscimento una risposta. Come abbiamo visto, il ricorso ai concetti di sé e di identità (0
identificazione) da parte dei teorici della scelta razionale, quando avviene per spiegare l'origine delle preferenze, è contraddittorio. Infatti, il sé viene trattato come una sorta di metapreferenza che spiega le scelte che altrimenti appaiono non analizzabili secondo gli assunti dell’utilitarismo; l’origine del sé in quanto metapreferenza rimane però a sua volta inspiegata. Pizzorno ne conclude
che l’errore fondamentale stia proprio nell’assumere le decisioni, o le scelte, come unità di osservazione da spiegare; occorrerà in-
vece mirare alle domande che «vengono prima» di quelle che si pone la metodologia individualista. Questa, infatti, interrogandosi sulla razionalità delle scelte di singoli individui, presuppone tacitamente l’esistenza di una realtà di rapporti sociali senza mai problematizzarla da un punto di vista teorico. Guardando invece alla relazione tra individui, si accede a un livello ove operano le condizioni che rendono possibile la stessa attività di scegliere, condizioni che sono logicamente antecedenti a tale attività e alle quali si dovrà quindi dare priorità in quanto oggetto di spiegazione. Una di queste condizioni riguarda il fatto che, per poter orientare la propria azione, è innanzitutto necessario comprendere
l’azione dell’altro (cfr. Pizzorno 1989b, 1989c, 1996a). Il saper comprendere l’azione dell’altro, a sua volta, presuppone il costituirsi di una comunanza, o cultura, «che rende possibile la comu-
nicazione e quindi la coordinazione» (1996a, p. 115). Non le decisioni dell'individuo, quindi, ma il fondamento, o «fulcro» di
questa comunanza tra individui, dovrà costituire l'oggetto di spiegazione. Pizzorno se ne occupa in una sofisticata trattazione del
problema dell’ordine sociale attraverso una rilettura di Hobbes (1991), dove anche esplicita il contesto originario che giustifica — in termini che non si discostano da quelli dell’individualismo metodologico, ma che ne sovvertono le premesse — il ricorso al concetto di riconoscimento. Il concetto di riconoscimento risponde all’esigenza teorica di immaginare una risorsa necessaria non solo alla soddisfazione, ma alla stessa costituzione, del bisogno e interesse fondamentale di ogni essere umano: l’auto-conservazione. Il valore del sé nell’in-
teresse del quale l’auto-conservazione diventa uno scopo dell’azione, infatti, non può semplicemente venire dato per scontato. Al
contrario, tale valore presuppone la relazione con altri individui che abbiano ragioni per considerare la presenza del primo individuo come, appunto, un valore (l’attività di misurare o calcolare un
valore, infatti, non è concepibile come attività «privata» o solipsistica). Le ragioni di questi altri individui saranno date dal bisogno che essi avranno, a loro volta, che il primo valuti la loro presenza come degna d’essere conservata, in un movimento circolare che descrive una relazione di reciprocità: «La risorsa originaria che un
essere umano può offrire ad un altro essere umano è la capacità di riconoscere il valore dell’esistenza dell’altro — si tratta di una risorsa che non può venire prodotta senza essere condivisa» (1991, p. 218). Il processo di riconoscimento reciproco, quindi, è alla base della formazione del sé, e consente l’attribuzione a ogni pefsona di un’identità duratura grazie alla quale gli altri potranno «avere a che fare» con essa, ovvero potranno «contare sulle sue promesse, farle credito, concordare progetti comuni, considerarla responsabile, punirla o premiarla per le azioni compiute» (1994a, p. 14). Ne consegue che «la capacità, da parte di un sé, di calcolare i mezzi necessari a raggiungere un qualche fine, dipende dal conseguire una relazione di riconoscimento reciproco» (1991, p. 219). La relazione di riconoscimento reciproco, insomma, è al-
la base dei «giochi di coordinazione» — di cui l’uso del linguaggio costituisce un esempio —, grazie ai quali diventano possibili tutti i processi di interpretazione reciproca che avvengono nell’interazione quotidiana*. In questo modo Pizzorno, usando gli strumenti delle stesse teorie della decisione, ne trascende i limiti, propo-
nendo una teoria sociale che non assume né interessi prestabiliti né un inspiegabile «accordo originario», ma procede a partire dall’idea che «la presenza di altre persone è necessaria all’azione.
Prima di diventare un possibile mezzo per conseguire fini individuali, l'interazione con gli altri appare come un fine in se stesso»
(1991, p.221).
Il concetto di riconoscimento, esteso a quello di «cerchie di riconoscimento», spiega anche le identità collettive. Queste risultano dalla formazione di reti di relazioni di riconoscimento, soste-
nute e rese stabili nel lungo periodo da istituzioni che ne definiscono i confini (1991, pp. 221-23). La stessa identità personale, altrimenti estremamente fragile, dipende dalla stabilità di queste cerchie di riconoscimento: «Una persona è una successione di sé che scelgono, e che possono avere qualcosa in comune solo se so* Per Pizzorno, vi è poi un'importante continuità tra i processi di interpre-
tazione orientati all'interazione (e quindi al «comprendere»), e quelli orientati invece alla comunicazione a un uditorio specializzato (e quindi allo «spiegare»). Per ragioni di spazio non ci addentriamo in questo argomento, rimandando il lettore a tre articoli in cui Pizzorno si esprime molto chiaramente in merito: Pizzorno 1989b, 1989c e 1996a.
XVII
no situati nella stessa cerchia di riconoscimento. L’identità personale consiste in una sorta di connessione verticale intertemporale tra i sé successivi di un essere umano, connessione resa possibile
solo da una connessione interpersonale e orizzontale tra diversi sé individuali» (1986, p. 368). E in base a questi ragionamenti che Pizzornio propone una reinterpretazione dello stato di guerra, che nella tradizione hobbesiana rappresenta la situazione archetipica in cui gli individui sono soli e agiscono «ognuno per sé». Secondo l’interpretazione di Pizzorno, lungi dall'essere una forza che isola e individualizza i singoli, la guerra rappresenta piuttosto un’impresa collettiva — idea già nota grazie alla tradizione repubblicana della cittadinanza, esemplificata dall’Arte della guerra di Machiavelli. In questa prospettiva, la guerra è un mezzo per rafforzare l’altrimenti debole senso d’identità che proviene appunto dalla cittadinanza: «Partecipando alla protezione di confini comuni, una sorta di riconoscimento reciproco emerge tra lo
Stato e il cittadino» (1991, p. 224). Il contesto della guerra intesa in questo senso sottolinea, ancora una volta, come il concetto di auto-conservazione si riferisca «non alla sopravvivenza fisica, bensì al riconoscimento — e quindi conservazione della propria identità» (ivi, p. 226). Le considerazioni teoriche di Pizzorno portano quindi, in ultima analisi, a conclusioni inquietanti e confortanti al tempo stesso: «Un affidamento su di sé troppo fiero può far paura, o esser pretenzioso. Il principio dell'autonomia del sé, se non inteso ad operare temporaneamente, non può star in piedi da solo senza essere una finzione. Dietro all'‘autonomia’ è necessario un altro sé che mi riconosca» (Pizzorno 1986, p. 372).
I concetti di identità e di riconoscimento trovano applicazione, nel lavoro di Pizzorno, in una varietà di contesti in apparenza molto distanti tra loro: dall’analisi del conflitto, a quella del cambiamento sociale, a quella, come vedremo ora, delle relazioni di
scambio.
2. Lo scambio Nell’analisi di Pizzorno, identità e riconoscimento sono alla base di una teoria dello scambio che combina elementi della concezione economica dello scambio come ricerca di utilità individuale
con elementi di un approccio antropologico, che sottolinea la reciprocità nelle interazioni tra individui?. Lo scambio caratterizza infatti interazioni tra diversi attori mossi da fini definibili come utilitaristici: vengono cedute risorse in cambio di altre risorse, di cui si vuole entrare in possesso. Molti scambi richiedono comunque il precedente affermarsi di relazioni di reciprocità, con forti valenze simboliche: la costruzione di identità collettive è, in particolare, indispensabile agli scambi che riguardano beni ottenibili nel lungo periodo. I tipi di scambio di cui si occupa Pizzorno sono, infatti, molteplici. In primo luogo, vi è una distinzione, per quanto mai esplicitata, tra scambio interpersonale, scambio tra attori individuali e attori collettivi e scambio tra attori collettivi. In secondo luogo, a seconda della natura delle risorse di cui si vuole entrare in possesso, si può individuare uno «scambio di primo grado», orientato alla costruzione di quelle identità collettive, che sono alla base di uno «scambio di secondo grado», orientato cioè all’ottenimento di beni materiali e altre utilità. Lo scambio di primo grado serve cioè a creare — attraverso la reciprocità, la solidarietà, il rico-
noscimento reciproco come uguali — identità collettive indispensabili per poter valutare nel medio-lungo periodo i vantaggi e gli svantaggi dello scambio di secondo grado. Se l’individuo può essere capace di conoscere il suo interesse di breve termine, la rappresentanza moderna, come rappresentanza indipendente (Pizzorno 1996b), è invece interpretazione degli interessi di lungo termine. L’azione del politico non è infatti orientata tanto ad accontentare singoli interessi preesistenti: «in realtà l’azione politica, in quanto fonda identità collettive, è volta a definire e ridefinire continuamente gli interessi» (Pizzorno 1983, p. 174). Lo scambio di primo grado riguarda così l’attività idenzificante, attraverso la quale i politici svolgono il compito di costituire, preservare, rafforzare le identità politiche [...] Tale attività consiste nel produrre simboli che ? Gian Primo Cella (1994, p. 172) ha individuato una combinazione tra il
linguaggio economico degli interessi e quello religioso della conversione. Sulla sensibilità alla filosofia nell’analisi di Pizzorno, in particolare in relazione alla ricerca di certezza, si sofferma Sichirollo (1995).
servono ai membri di una collettività data per riconoscersi come tali, comunicarsi la loro solidarietà, concordare l’azione collettiva. Così si
producono, in maniera più o meno esplicita, le ideologie e le interpretazioni varie di essa, da cui derivano le definizioni degli orientamenti di lungo andare da assegnare all’azione collettiva. (Pizzorno 1983,
po li3da
Lo scambio di secondo grado riguarda invece l’attività e/f:ciente attraverso la quale i politici prendono decisioni direttamente intese a migliorare, o non lasciar peggiorare, la posizione relativa dell’entità collettiva che essi rappresentano nel sistema entro cui questa agisce. Ciò può effettuarsi sia usando i comandi dell’autorità politica, per chi se ne sia impadronito, sia svolgendo quell’attività di negoziato, alleanza, coalizione, confronto, che permette a un soggetto politico di misurarsi direttamente con
gli altri in un sistema. (Pizzorno 1983, p. 175)
L'attività politica viene quindi distinta in discorso politico, orientato alla costruzione delle identità collettive, e decisioni au-
toritative dell’autorità politica. Il primato dell’azione identificante sta nel suo venire prima rispetto all’azione efficiente, nell’esserne il presupposto — sia per l’attore che per lo studioso che, per poter parlare di scambio tra soggetti, deve prima individuare questi soggetti. 2.1. Lo scambio corrotto
Lo scambio interpersonale di beni godibili direttamente si ha, ad esempio, nel caso della corruzione politica. Riprendendo la teoria dell’agente (Banfield 1975), Pizzorno (1992) considera la corruzione politica come effetto di una distorsione del rapporto tra mandante (lo Stato e, in definitiva, i cittadini) e agente (l’ammini-
stratore pubblico), distorsione che si determina quando l’intervento di una terza parte (l'imprenditore che offre la tangente) porta l’agente ad anteporre i suoi interessi personali agli interessi del suo principale. La corruzione è così, in primo luogo, uno scambio
occulto tra accesso privilegiato alle decisioni pubbliche per denaro o altre utilità (cfr. anche della Porta 1992). Perché la corruzio-
ne si diffonda è necessario tuttavia un allargamento degli scambi, volto a coinvolgere in primo luogo coloro che potrebbero denunciare gli illeciti: Anzitutto quegli allargamenti che permettono di stringere pattuizioni protettive per il silenzio. Si immagini un gruppo B, al potere in una giunta comunale, capace di decisioni relative ad un piano urbanistico che hanno grande incidenza per il gruppo industriale A, disposto a pagare una somma se le decisioni di B gli sono favorevoli. Si aggiunga la presenza nel consiglio comunale di un gruppo politico C, restio ad entrare nello scambio di provvedimenti contro denaro, ma bisognoso di voti per far passare una sua determinata politica. Per la sua posizione nella politica locale, il gruppo C non può essere tenuto all'oscuro della transazione tra A e B. Avrà però interesse a mantenere il silenzio se il gruppo B gli promette i voti necessari nelle votazioni del consiglio. (Pizzorno 1992, p. 31)
A questi scambi «consociativi», volti a garantire la conniven-
za, si sommano poi quelli orientati a ottenere una sorta di certificazione di fiducia ai vari partecipanti allo scambio occulto (dai politici locali ai politici nazionali, da chi occupa cariche elettive al burocrate pubblico, dalla piccola alla grande impresa), attraverso risorse che vanno dalle comuni appartenenze (massoniche o di partito) alla minaccia della violenza (da parte della criminalità organizzata).
Sebbene lo scambio corrotto, in quanto scambio di beni usufruibili nel breve periodo, non comporti la necessità di fare affidamento su identità collettive (di lungo periodo), l’attenzione prestata da Pizzorno al tema del costo morale della partecipazione ad azioni illegali fa emergere anche qui il tema del riconoscimento. Scrive infatti Pizzorno che una teoria della corruzione dovrà [...] affrontare le origini di diverse fonti di moralità, o, più esattamente, delle fonti di riconoscimento mo-
rale dell'individuo, e di ciò che ne accresce o diminuisce gli effetti. Si deve pensare, infatti, che la corruzione perde di attrattiva quando il praticarla costringe un individuo a estraniarsi dalle cerchie sociali da cui ambisce essere apprezzato [...] Alla condizione, naturalmente, che le norme che le reggono siano omologhe a quelle che generalmente guidano all'osservanza della legge. (1992, pp. 15-16) XXI
E infatti i partiti politici vengono individuati, in situazione di corruzione diffusa, come agenti di socializzazione all’illecito. Rinunciando al loro compito di identificazione degli interessi, i partiti si concentreranno sulla individuazione di domande specifiche ad alto potere d’acquisto: «Diventerà infatti interesse dei partiti soddisfare immediatamente tali domande, incassandone l’intero
prezzo [...] invece di sospenderne la soddisfazione singola per aggregare organicamente le domande disperse» (ivi, pp. 26-27). 2.2. Scambio e rappresentanza L’analisi dello scambio interpersonale porta dunque al rapporto tra rappresentati e rappresentanti — che può essere infatti anch’esso basato su uno scambio interpersonale. I partiti sono stati, per molti, «occasioni di mutuo appoggio, di accesso ai benefici provenienti dall’attività dello Stato, hanno operato come canali di carriera politica, e di sostegno a carriere politiche, come luoghi di scambio fra consenso politico, da una parte, e accesso alla distribuzione di benefici economici, dall’altra. Hanno cioè proseguito, in forma più ampia, e con giustificazioni a volte più nobili l’opera che svolgevano le clientele nei sistemi politici prepartitici»
(1996b, p.984).
In particolare, nella sua analisi del ruolo dei ceti medi nella politica italiana, Pizzorno ha definito un modello di «consenso fondato sull’attrazione individualistica» (1974, p. 75)6, cioè sull’ac-
centuazione delle diseguaglianze attraverso una distribuzione discrezionale e individualistica dei benefici derivanti da decisioni pubbliche. Gli strumenti utilizzati per la gestione di questo modello di consenso individualistico sono «il controllo dell’erogazione della spesa pubblica; il controllo del credito speciale e, in certe zone, anche di quello ordinario; e infine il potere che chiameremo di interdizione e di licenza, cioè quello che le dà in mano la facoltà di permettere o meno l'esercizio di certe attività economiche» (1974, p. 86). Più tipico della politica moderna è comunque un tipo di rap6 Ad esso si contrappone il «consenso attraverso l’istituzionalizzazione delle rivendicazioni collettive» (Pizzorno 1974, p. 75).
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porto tra rappresentanti e rappresentati che comporta uno «scambio di primo grado», orientato cioè alla costruzione della identità collettiva. Il concetto di scambio è stato collegato alla rappresentanza da quegli studiosi che — sulla scia di Joseph Schumpeter (1942) — hanno applicato allo studio della politica concetti e ipotesi teoriche provenienti dall'economia. La concezione della rappresentanza di Pizzorno (in particolare 1983) si sviluppa a partire da una critica sistematica dell’utilitarismo di Anthony Downs che aveva proposto un’analisi del mercato elettorale come governato dalle diverse razionalità che, in una democrazia, guiderebbero il comportamento degli eletti e degli elettori: i politici (e i partiti) avrebbero come unico fine la propria elezione (o rielezione) alle cariche pubbliche, mentre gli elettori avrebbero delle preferenze su singole policies (Downs 1957, p. 11). Come nel mercato vi è sovranità del consumatore, così nel sistema politico ci sarebbe sovranità dell’elettore, e il personale politico sarebbe semplicemente il mandatario dei voleri dell’elettore-mandante. Riprendendo, tra l’altro, proprio Schumpeter, Pizzorno sottolinea come a screditare l'approccio neoutilitarista basterebbero l’irrealismo del presupposto della presenza di informazioni ed expertise da parte degli elettori, oltre alla pretesa di estendere il concetto di mercato in un ambito nel quale manca un medium generalizzato (come il denaro) che permetta di valutare costi e benefici di scambi multipli e multidimensionali di risorse materiali, informazioni, simboli, affetti. Vi è inoltre, aggiunge Pizzorno, l’er-
rore fondamentale di considerare una serie di attività — ad esempio, l’informarsi, l’andare a votare — come costi, mentre esse sono
attività portatrici di benefici intrinseci”. Pizzorno critica comunque anche le teorie simboliche della politica, basate sull’assunto che i politici distribuiscano ai cittadini simboli che favoriscono l’identificazione con varie comunità. Secondo quell’approccio, come in un teatro, sul palcoscenico della politica vengono distribuiti simboli, mentre i beni tangibili ven? A proposito della pretesa normativa dell'approccio neoutilitarista, Pizzorno argomenta che se i politici davvero seguissero le richieste (egoistiche) dei loro elettori ne risulterebbe «una politica frammentata e collettivamente suici-
da» (1983, p. 157).
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gono assegnati dietro le quinte. I gruppi che si mobilitano, infatti, appaiono già costituiti come attori collettivi: gli individui che ne fanno parte sarebbero quindi portati a valutare non solo, e non tanto, vantaggi e perdite individuali, ma anche vantaggi e perdite collettive. Nel calcolo individuale di costi e benefici occorrerebbe dunque tener conto dei sentimenti di solidarietà preesistenti, derivanti da situazioni di parentela e amicizia, ma anche di quelli emergenti dalla stessa partecipazione alle organizzazioni dei movimenti. In questa prospettiva, lo scambio tra attore collettivo e individui — tra organizzazione politica e attivisti - comprenderebbe non solo risorse materiali, ma anche risorse simboliche. Ora, afferma Pizzorno (1983, p. 163), «chi usa il concetto di
bene simbolico tende a incorrere nello stesso errore di chi usa il concetto di utilità. Si ferma al momento in cui l'individuo appare fruire del bene e non si chiede quali condizioni siano strutturalmente necessarie perché quella fruizione abbia luogo». In particolare, non si tiene conto del fatto che perché un simbolo sia tale occorre che esso venga riconosciuto da altri: «Il valore di un bene, infatti, non può unicamente riposare sull’utilità che l’individuo crede di percepirne, bensì deve essere riconoscibile intersoggettivamente» (1983, p. 165). E l’essenza della politica è proprio l’orientarsi «alla modificazione dei bisogni assai più che alla semplice soddisfazione di quelli esistenti» (1983, p. 165), la capacità di definire le identità collettive. La costruzione di una identità collettiva costituirebbe un presupposto del calcolo delle utilità individuali. Se la strategia della rappresentanza si basa su una sottoutilizzazione delle opportunità di ottenere vantaggi immediati in cambio di vantaggi futuri, per poter concepire vantaggi futuri occorre «un’identità duratura cui attribuire costi e benefici a venire» (Pizzorno 1993b, p. 228). Infatti, «affinché possa avvenire la valutazione di un interesse, cioè
il calcolo dei costi e benefici, occorre che al soggetto calcolante 8 Una posizione simile è stata elaborata dall’approccio neoistituzionalista, che ha acquisito, di recente, notevole influenza nella scienza politica. Secondo
questo approccio, la governance riguarda, infatti, proprio la «capacità di fornire interpretazioni della politica, della storia e dell'individuo che non siano soltanto strumentali all’agire umano ma anche cariche di significato intrinseco» (March, Olsen 1997, p. 43).
venga assicurato il riconoscimento di una collettività identificante. Da essa riceverà i criteri che rendono possibile la definizione degli interessi; o, in altre parole, che permettono di dar significato all’azione» (1983, p. 167). Ne deriva anche che molte azioni non sono valutabili come costi pagati per l’ottenimento di un beneficio: «Se una certa azione non ha come fine di procurare i benefici contenuti in certi provvedimenti, bensì di realizzare l’identificazione collettiva, l’azione sarà fine a sé stessa e quindi non costo» (ibid.: cfr. anche supra, paragrafo 1.3). Se, in apparenza, questo tipo di rapporto di rappresentanza prescinde dallo scambio, in realtà anche in questo caso c’è una sorta di scambio, testimoniata dall’uso che Pizzorno fa dei con-
cetti di risorse e incentivi (in particolare, in Pizzorno 1988). Con la costruzione dell’organizzazione (di partito o sindacale), gli interessi di rappresentati e rappresentanti si differenziano. I rappresentanti, motivati da ragioni di potere, hanno bisogno della lealtà della loro base di riferimento per raggiungere o mantenere quel potere. Essi possono utilizzare l’organizzazione per ottenere quella lealtà, offrendo in cambio diversi incentivi alla base che esprime domande di identità e/o domande di mediazione.
I partiti, in particolare i partiti di massa, hanno risposto innanzitutto a una domanda di identità, con connesso carico di so-
lidarietà e norme. Le fitte reti associative che sono state alla base delle subculture rosse hanno risposto a questi bisogni: «Appartenere a questo mondo significava anche vivere gran parte del tempo lavorativo entro un’‘area di uguaglianza’, dove ci si dava tutti del tu [...] dove quindi erano innumerevoli le occasioni di nuovi rapporti personali» (1996b, p. 1018). I partiti socialisti offrivano così risorse di identità agli esclusi, «proponevano, infatti, a chi entrava in quel ‘mondo rosso’, non*soltanto speranze politiche, né soltanto solidarietà e mutuo appoggio, ma anche un’identità che i ‘compagni’ si riconoscevano l’un l’altro, ma che anche il resto della società riconosceva e, in qualche modo, era portata a rispettare» (1996b, p. 1019). In cambio, i partiti socialisti ottennero la
lealtà della classe operaia. Essi poterono così contribuire alla nazionalizzazione della società: «anzitutto integrando la classe operaia nelle procedure del regime rappresentativo, ‘dandole voce’ e quindi facendola entrare in dialogo con le altre componenti del siXXVI
stema politico. Poi, contribuendo con successo ad allargare le attribuzioni dello Stato» (1996b, p. 1023).
Il vincolo tra rappresentati e rappresentanti sembra dipendere quindi da uno scambio — «di primo grado» — dove i rappresentati offrono lealtà e obbedienza in cambio di risorse simboliche, utili alla costruzione di una identità collettiva. Nel partito, il criterio di razionalità dei dirigenti è la massimizzazione di utilità individuali: «La politica è una professione, una carriera; ed è remunerata, in quanto tale, in termini di potere. E poiché il potere si può godere soltanto se altri, il ‘sistema’, lo riconosce, qui il far politica comporta riconoscimenti reciproci, negoziazioni, com-
promessi» (Pizzorno 1981, p. 240). Ma la razionalità che muove l’azione politica dei militanti «è quella del rafforzamento dell’appartenenza, della solidarietà collettiva. L’azione politica collettiva, cioè, non è un mezzo per massimizzare le utilità individuali secondo criteri d’interesse preesistenti, bensì è fine a se stessa, in
quanto massimizza l'appartenenza e la solidarietà» (Pizzorno 1981, p. 239). I dirigenti controllano la base dei militanti attraverso la distribuzione di incentivi simbolici, ottenendo in cambio
la lealtà necessaria all’esercizio del potere. In maniera simile, nelle organizzazioni dei movimenti collettivi, la base ha bisogni solidaristici o normativi, cui i leader rispondono tramite la distribuzione di incentivi di solidarietà e di incentivi normativi”, che for-
mano l’identità come continuità individuale, prevedibilità di valori (Pizzorno 1988, p. 141). Importante risorsa della politica è infatti l’ideologia: strumento per produrre solidarietà, trasformando fini parziali in fini generali (Pizzorno 1993a). 2.3. Lo scambio politico Come ha osservato Pizzorno a proposito delle organizzazioni degli interessi, l’azione identificante è più forte in alcune situazioni. ? Incentivi di tipo solidaristico infatti «agiscono sul bisogno dell’individuo di entrare in relazioni di solidarietà con altri, tali che permettano il riconoscimento specifico e reciproco della propria identità». Gli incentivi normativi corrispondono al «bisogno di soddisfare aspettative che un individuo percepisce come riguardanti la propria azione. Sono aspettative che l’azione si conformi a certe norme morali» (Pizzorno 1988, pp. 139-40).
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In particolare, quando mutano i rapporti di forza — quando alcuni settori economici si sviluppano rapidamente, premendo per aumenti salariali, o quando emergono nuovi gruppi sociali — la mobilitazione non sarà orientata a creare risorse da spendere sul tavolo del negoziato, ma piuttosto a produrre quelle solidarietà interne necessarie alla costruzione di un’identità collettiva, mentre
legami di fiducia che sono indispensabili perché si abbia una delega di rappresentanza sono ancora assenti. Solo una volta costituite le identità collettive, si può poi passare alla realizzazione di scambi «di secondo grado». In generale, questo tipo di scambi sembra riguardare la rappresentanza efficiente, come attività attraverso la quale «i politici prendono decisioni direttamente intese a migliorare, o non lasciar peggiorare, la posizione relativa dell’entità collettiva che essi rappresentano nel sistema entro cui questa agisce» (cfr. supra). Una volta costruite le identità collettive, i rappresentati possono chiedere ai rappresentanti il soddisfacimento delle loro utilità (che l’identità collettiva permette appunto di calcolare) offrendo in cambio la lealtà che serve loro per il raggiungimento dei loro obiettivi di potere. I rappresentanti possono far avanzare gli interessi collettivi
della loro base di riferimento o utilizzando direttamente il loro potere di produrre decisioni pubbliche nelle istituzioni rappresentative o scambiando il consenso dei loro aderenti con attori dotati di quel potere decisionale. Nella concezione di Pizzorno, la democrazia funziona attraverso un sistema di mediazione degli interessi (e identità) attuata pacificamente attraverso scambi che fanno «di nemici giocatori» (cfr. Vassallo 1995, pp. 163-64). Di questo tipo di scambio, Pizzorno si è occupato in particolare a proposito delle rivendicazioni salariali, coniando il concetto di scambio politico!°. Nella forma più classica dello scambio politico il governo fornisce beni in cambio di consenso: «Un soggetto (generalmente il governo) il quale ha beni da distribuire è pronto !° Lo scambio tra soggetti collettivi può riguardare anche diversi tipi di attori. C'è, ad esempio, scambio tra sindacato e partito quando i dirigenti sindacali agiscono non con l’intenzione di ottenere «miglioramenti salariali per la base operaia, bensì di aiutare il partito d’opposizione, al quale appartengono, a ostacolare il governo» (Pizzorno 1993a, p. 1). Nell’evoluzione degli Stati nazionali, lo scambio tra centro e periferia è stato a lungo scambio di servizi per tasse (Pizzorno 1996b).
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a scambiarli con consenso sociale che un altro soggetto è in facoltà di dare o di ritirare (in quanto è capace di minacciare l'ordine) a meno che non riceva i beni di cui ha bisogno» (Pizzorno 1977, p. 208). Lo scambio politico emerge infatti nell’analisi dei differenti tipi di interazione che hanno luogo nel mercato del lavoro: dallo scambio. interpersonale nel mercato del lavoro atomistico, alla contrattazione collettiva dove agiscono soggetti organizzati, fino allo scambio politico, legato a «merci» quali autorità e consenso. Se il lavoratore del mercato atomistico può cercare di migliorare la sua posizione attraverso un aumento del suo sforzo, ovvero della sua produttività, e nella contrattazione collettiva l’aumento salariale si ottiene attraverso la minaccia dello sciopero, nello scambio politico, invece, la risorsa dei lavoratori è la minaccia di ritirare il loro consenso all’ordine sociale. Il consenso non è qui individuale, come nelle teorie economiche della democrazia, ma
scambiato tra attori collettivi, per ottenere sostegno collettivo in cambio di politiche pubbliche. Lo scambio politico è dunque uno scambio a tre: alle due parti sociali (lavoratori e datori di lavoro) si affianca lo Stato, offren-
do risorse pubbliche (investimenti, cassa integrazione) in cambio di consenso politico. Caratteristica dello scambio politico è infatti la presenza di attori capaci di gioco strategico — come concatenazione di mezzi, risorse e fini. La politicità dello scambio deriva dalla presenza di risorse di autorità, e dal ruolo dello Stato come garante degli accordi!!. 2.4. Verso che tipo di scambio? Nella concezione di Pizzorno, lo scambio interpersonale di risotse pubbliche per voti o denaro è pericoloso per le democrazie. Nella sua analisi della corruzione politica, Pizzorno (1992) ha sot11 «La qualifica di ‘politico’ riferita allo scambio si giustifica con il fatto che esso riguarda ‘beni d’autorità’, che hanno forma di comando (leggi, norme amministrative); ma questi diventano efficaci, cioè ottengono obbedienza e consenso, solo perché sono contrattati, riconosciuti tramite la forma di mercato»
(Rusconi 1981, p. 72). Nello scambio politico, risorse politiche ed economiche interagiscono, nella misura in cui gli attori si trovano in una situazione di doppia complementarità, sia economica che politica (Ceri 1990, p. 70).
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tolineato, ad esempio, che, sebbene ci possa essere più corruzione nei regimi autoritari che in quelli democratici, tuttavia la corruzione è particolarmente pericolosa proprio in questi ultimi, intaccando quei principi di trasparenza ed eguaglianza su cui essi fondano la loro legittimazione. L’azione identificante ha avuto invece un ruolo positivo di integrazione dei gruppi esclusi: la politicizzazione del conflitto sociale ha imposto ad esso procedure, orientando l’azione verso la costruzione di identità collettive. Attraverso tale costruzione, i partiti hanno «selezionato, ridotto, riformulato, trasformato, omesso, le informi domande che urge-
vano ‘dal basso’» (1996b, p. 984). La partecipazione attraverso i partiti ha avuto una funzione socializzante, permettendo di introiettare le procedure democratiche e incanalare il conflitto. Ì partiti hanno costituito «risposta a disorientamenti e incertezze,
che si appianavano nello stesso partecipare e nell’accorgersi di condividere con altri una speranza politica, e di essere quindi riconosciuti da quelli come simili e compagni per un cammino» (1996b, p. 1000). Essi hanno spesso «convertito» gli individui (Pizzorno 1993a, p. 13), trasformando le loro identità individuali
e portandoli a identificarsi con una collettività. In modo simile, guardando alle conseguenze dello scambio politico, Pizzorno sottolinea che esso non deve essere considerato come un fattore esogeno di disturbo del normale funzionamento del mercato del lavoro. Lo scambio politico comporta, infatti, meccanismi di riequilibrio legati all'interesse intrinseco di un’organizzazione ad accrescere il proprio potere attraverso il po-
sponimento del godimento dei benefici. Anche in quelle situazioni in cui il sindacato non voglia o non possa esercitare moderazione nell'immediato, la stessa logica dello scambio politico metterà in moto meccanismi di riequilibrio nel medio periodo. Ad esempio, dopo la costituzione di nuove identità collettive, e il loro riconoscimento da parte del sistema, le condizioni per un rap-
porto di rappresentanza gradualmente si ricostituiranno. La costruzione di organizzazioni stabili della rappresentanza contribuirà a trasformare rivendicazioni universalistiche non negoziabili in rivendicazioni categoriali negoziabili, e la partecipazione da espressiva diverrà strumentale. L'inserimento dei nuovi interessi nel sistema della rappresentanza porterà a una ristabilizzazione del sistema, con un’accettazione delle regole del gioco. XXX
Il rischio della situazione attuale è proprio la riduzione della rilevanza degli scambi «virtuosi», con parallelo aumento degli scambi «perniciosi». Sembra essere, in primo luogo, tramontato il periodo in cui i partiti agivano contemporaneamente come principali attori «identificanti» e principali attori «efficienti». Se aperta è la questione sul peso dei partiti nella formazione delle politiche pubbliche, è certo che i partiti hanno (quasi?) esaurito la loro funzione di integrazione sociale. Ancora di più, secondo Pizzorno, è lo Stato stesso che, pur avendo aumentato il suo raggio di intervento, ha visto comunque ridursi la sua capacità di «azione collettiva intenzionale, con fini e programmi propri» (Pizzorno 1996b, p. 1025). Infatti, «lo Stato come soggetto d’azione determinata da una volontà collettiva, quindi come portatore di obiettivi e di programmi, ha visto il suo potere e la sua libertà d’azione indebolirsi rapidamente. Fsso è diventato un soggetto che praticamente può agire con in vista una sola alternativa: quella tra efficienza o inefficienza dell’organizzazione sociale» (1b7d4.). Esauritasi la funzione di «nazionalizzazione della società», attra-
verso «l'inclusione di gruppi di popolazione non ancora toccati dalla regolazione dello Stato e non ancora rappresentati nel sistema politico» (1996b, p. 1026), l’obiettivo dato sarebbe la massimizzazione della competitività nazionale sul mercato economico internazionale. I partiti mantengono la loro funzione di selezione del personale politico, ma «la partecipazione politica come contributo alle proposte di (ri)organizzazione nella società non passa più attraverso i partiti, che vedono ridursi assai la loro attività associativa e di socializzazione alla vita politica» (1996b, p. 1028). Anche lo scambio politico potrebbe declinare. Il ruolo dello scambio politico aumenta insieme alla rilevanza delle istituzioni politiche nazionali nell’allocazione delle risorse. La crisi fiscale dello Stato e la deregulation tendono però a ridurre le risorse che i governi possono investire in scambi politici; il decentramento politico e la globalizzazione indeboliscono il governo nazionale. Si è anche osservato che i sindacati sarebbero più propensi a una concertazione, basata sullo scambio politico, quando la loro posizione è migliore sul mercato politico che nel negoziato collettivo; vi sono sufficienti risorse organizzative da poter perseguire obiettivi di lungo termine, senza perdere il consenso della base; e vi è la possibilità di mediare una pluralità di interessi in modo da imXXXI
porre una posizione oligopolistica nel negoziato con il governo (Regini 1983). In Italia, il concetto di scambio politico ha avuto infatti il suo momento di massima fortuna all’inizio degli anni Ottanta, quando è stato utilizzato per analizzare i primi tentativi di concertazione delle politiche industriali!2. Come argomenta Marino Regini nel suo contributo a questo volume, una serie di condizioni sono mutate negli anni Ottanta — i sindacati si sono indeboliti organizzativamente, mentre i partiti neoconservatori al governo preferivano il conflitto alla concertazione — e ciò ha ridotto lo spazio per gli scambi politici. Alle istituzioni rappresentative sarebbe restata la gestione dello scambio interpersonale, basato sulla cessione di benefici godibili nel breve periodo. I rappresentanti avrebbero mantenuto solo il potere di «scegliere fra quali amici del partito al potere distribuire posizioni ambite, o favori, o con quali nemici negoziare trasgressioni alle regole» (Pizzorno 1996b, p. 1025). Su questo potere essi baserebbero sempre di più le loro carriere. L’interrogativo principale è dunque: cosa succede se attività
identificante e attività efficiente si separano? Nei suoi scritti più recenti Pizzorno ha delineato lo sviluppo di una sfera ?//usoria della politica, una sfera in cui gli elettori, sapendo di non essere capaci di formulare giudizi su competenza o affidabilità di un uomo politico, e trovandosi di fronte a programmi indistinti, giudicano sulla base di informazioni più facili da analizzare — ad esempio, l’onestà del rappresentante (1996b, pp. 1028-31; anche 1998). Al contempo, molte decisioni sfuggono agli organi della rappresentanza verso altre istituzioni pubbliche — la magistratura, le autorità indipendenti ecc. Ciò sembrerebbe suggerire un indebolimento complessivo delle identità collettive, e con esso il rischio di un indebolimento della capacità del governo di staccarsi dall’interesse immediato dei rappresentati in modo da ga12 Da questo punto di vista, il concetto è stato usato in modo spesso intercambiabile con quello di neocorporatismo, inteso come crescita di una concer-
tazione a tre o di rappresentanza monopolistica degli interessi (rispettivamente, Lehmbruch 1974 e Schmitter 1981). In altre analisi, lo scambio politico è stato invece considerato come il genere più ampio a cui afferisce il neocorporatismo, caratterizzato quest’ultimo da una concertazione istituzionalizzata in strutture stabili, monopolio della rappresentanza degli interessi e la possibilità di fare affidamento su un forte partito socialdemocratico (Rusconi 1984, pp. 53-58)
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rantire il perseguimento degli obiettivi di lungo periodo (Pizzorno 1994b). Si potrebbe però anche ipotizzare che le identità collettive sopravvivano, seppure non formate dai partiti, e che i partiti possano comunque instaurare canali privilegiati con l’uno o l’altro di questi interessi — con conseguente sopravvivenza della competizione politica sui programmi. La formazione dei fini collettivi ritorna esterna ai partiti (che infatti perdono — come sottolinea anche Colin Crouch nel suo contributo a questo volume - i loro militanti) e alle istituzioni parlamentari, così come era del resto prima dell’incorporamento da parte dei partiti delle attività extraparlamentari. Quella funzione va, in parte, ai movimenti sociali che, come osserva lo stesso Pizzorno, avevano già dimostra-
to nel secolo scorso, prima dell’imporsi dei partiti di massa, di saper suscitare militanza ed entusiasmi (1996b, p. 1028). In questo caso, lo scambio politico fra «unità di interessi», che possono rivolgersi allo Stato direttamente o attraverso la mediazione dei partiti (1996b, p. 1028), potrebbe rafforzarsi, estendendosi dalle aree degli interessi economici «forti» ad altre aree (e tipi di identità). Contingentemente, sembra infatti che lo scambio politico (o, almeno, la concertazione) abbia riacquisito peso nell’Italia del centro-sinistra — confermando l’ipotesi di Pizzorno che lo sviluppo dello scambio politico sia funzione del bisogno di consenso da parte dello Stato (1977, p. 209), oltre che della mag-
giore forza relativa delle organizzazioni sindacali nel mercato politico rispetto al mercato economico. Se fosse così, si potrebbe anche capire meglio la motivazione dei rappresentanti, che potrebbero anch'essi essere partecipi di identità collettive e che invece, in un contesto di rappresentanza illusoria, sarebbero mossi solo da bramosia di potere — un’ipotesi «neoutilitarista» che lo stesso Pizzorno ha criticato. Seconda domanda aperta: a chi andrà la funzione di integrazione dei gruppi esclusi? Abbiamo visto che, fino a ieri, i partiti — in particolare i partiti ration-builders — sono stati i principali artefici di questa integrazione imponendo, attraverso la nazionalizzazione della società, «una camicia di forza territoriale alla so-
cietà» (1996b, p. 1027). L'elemento tipico dello Stato nell’Occidente, della moderna autorità politica, è stata la capacità di «conformare l'identità collettiva delle popolazioni entro i confini XXXII
che controlla. Il che vuol dire: a determinare i fini di lungo periodo (detti a volte spirituali, cioè opposti a temporali, che poi vuol dire temporanei), a proporre per essa progetti da attuare collettivamente» (Pizzorno 1993a, p. 15). Questo bisogno sarebbe venuto meno, secondo Pizzorno, con il completamento della nazionalizzazione della società. Ma cosa succede nelle società che qualcuno ha definito come post-nazionali? Certamente non è venuta meno la dinamica di esclusione di alcuni gruppi dalla cittadinanza — nel caso degli immigrati, ad esempio, la esclusione è giustificata proprio dalle leggi più tipiche dello Stato-nazione, della identificazione cioè tra dominio e territorio. Come si realizzerà l’integrazione dei gruppi esclusi in una situazione di partiti a debole capacità identificante? Secondo Pizzorno, ciò può avvenire grazie al processo attraverso il quale, «con una regolarità incalzantemente minuziosa, si va attuando il disciplinamento della società» (1996b, p. 1026). Resta però aperto il problema: perché i cittadini dovrebbero accettare un disciplinamento senza integrazione, che assomiglia tanto a quella repressione pura che gli stessi Stati dei secoli scorsi trovavano troppo costosa?
3. La struttura del volume Di questi temi si tratta, con taglio diverso, nei contributi a questo volume. Il corpo principale del volume è infatti diviso in tre parti, ognuna delle quali utilizza i concetti di identità, riconoscimen-
to e scambio in relazione a una problematica diversa, sottolineandone quindi la versatilità. In tal modo, speriamo che il lettore possa apprezzare come il pensiero di Pizzorno, pur essendosi applicato in dettaglio a campi d’interesse in apparenza tanto diversi, riesca a stabilire tra questi una fondamentale continuità. La prima parte, intitolata Dirarmziche dell'identità e del riconoscimento, si concentra sul concetto di riconoscimento quale chiave dei processi di formazione o costruzione dell’identità del soggetto. Il primo contributo, di Loredana Sciolla, introduce il contesto teorico generale attraverso una rassegna critica dei modelli sociologici dell'identità, soffermandosi poi su nuovi problemi teorici che emergono alla luce di sviluppi sociali tipici della tarda modernità. Dedicandosi interamente a questi sviluppi nel contribuXXXIV
to successivo, Alberto Melucci si chiede cosa renda possibili le identità individuali e collettive, in un orizzonte dell'esperienza sempre più caratterizzato dalla complessità e dall’incertezza che l’accompagna. In questo quadro, Melucci propone una discussione del concetto di narrazione quale elemento strutturale alla costruzione dell’identità, sostenendo che diverse pratiche del narrare mediano diverse modalità di relazione con l’altro e, quindi, di-
verse possibilità di riconoscimento. Il contributo di Davide Sparti, ultimo in questa sezione, sposta infine l’analisi dell'identità e del riconoscimento sul piano dell’etica e della moralità, distinguendo tra il riconoscimento inteso come impresa cognitiva e il riconoscimento quale ackrowledgment, in cui non la mera presenza bensì il valore positivo dell’altro viene riconosciuto. La seconda parte, dal titolo Identità, riconoscimento, governo,
si incentra sulla problematica più specifica della relazione tra identità e politica. È un tema che comprende la questione dei limiti istituzionali alla costruzione delle identità, ma che si estende
a trattare di questi stessi processi di costruzione dell’identità quali a loro volta forma di azione politica. Nel contributo che apre questa parte, Harvey Goldman riesamina i noti argomenti di Weber e di Foucault sull’emergere dell'individuo moderno «disciplinato». Da lì procede poi a discutere le strategie che, secondo quegli autori, permettono di ripensare il sé come capace di esercitare un «potere controbilanciante» rispetto ai processi di routinizzazione e di normalizzazione. Il saggio successivo, di Michael Donnelly, tratta uno degli argomenti più cari a Pizzorno: quello della natura del controllo sociale. Donnelly offre una tipologia delle modalità del controllo sociale, elaborata in relazione ai possibili «oggetti» cui esso si rivolge. L’identità — in questo caso appunto
dell’oggetto del controllo sociale — viene ancora una volta problematizzata: il controllo, infatti, non si esercita su di noi semplicemente in quanto «individui corporei», bensì su una varietà di livelli più complessi e, benché sempre reali, spesso più astratti. Per concludere questa parte, infine, Bernard Gbikpi offre una dettagliata discussione critica di uno degli scritti di Pizzorno più noti: quello sul problema dell’ordine sociale in Hobbes, secondo la lettura che ne fanno i teorici della scelta razionale. La terza parte, che si intitola Identità e scambio nell'azione collettiva, porta il fulcro dell’analisi sul terreno applicato della poliXXXV
tica organizzata e dell’economia. Qui i concetti di identità, riconoscimento e scambio vengono utilizzati per spiegare l'emergere di movimenti sociali, le dinamiche delle relazioni internazionali e
delle economie europee. Il saggio di Colin Crouch esamina le relazioni tra imovimenti sociali orientati a una «causa» (come i par-
titi o le associazioni di beneficenza) e i loro sostenitori. Riprendendo l’analisi di Pizzorno dei rapporti interni alle varie cerchie di partecipanti, Crouch analizza — prendendo spunto dal New Labour in Gran Bretagna — il declino nel ruolo degli attivisti di base, sostituiti in misura sempre maggiore da imprese commerciali e di marketing in quanto «generatori di identità». Nel secondo contributo a questa parte, Marino Regini discute variazioni nell’applicabilità del concetto di scambio politico, alla luce dei cambiamenti socio-politici avvenuti tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. In forte declino nello scorso decennio, esperienze di concertazione appaiono riemergere negli anni Novanta — nella veste
in particolare dei «patti sociali». Riprendendo i contributi di Pizzorno al tema, Regini riflette, sulla base degli esempi italiani e tedeschi, sulla utilità del concetto di scambio politico per analizzare le nuove esperienze. Nell’ultimo contributo, Margaret Somers parte dalla critica di Pizzorno al concetto di razionalità per stigmatizzare la metodologia del raztonal choice approach per il suo determinismo che allontana da ogni possibile indagine empirica sulle basi reali delle interazioni, e degli scambi, tra individui. In una sezione conclusiva, Alessandro Pizzorno interviene di-
rettamente nel dibattito aperto dai vari contributi con un saggio lungo e denso che approfondisce l’analisi dei concetti di identità, riconoscimento e scambio e delle loro interazioni. Chiude la raccolta un lungo brano autobiografico, nel quale Pizzorno stesso ripercorre la sua esperienza alla Olivetti — definita come una «seconda università» — offrendo allo stesso tempo uno squarcio interessantissimo sulla storia del nostro paese in un momento di importanti cambiamenti e un contributo unico per comprendere l'emergere, già in quegli anni lontani, della sua attenzione ai temi della identità, del riconoscimento e dello scambio.
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