Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee 8888738274


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Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee
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FuoriFuoco 5

© 2001 Dipartimento di Sociologia e di Scienza politica dell’Università della Calabria © 2002 DeriveApprodi I edizione: marzo 2002 II edizione: novembre 2003 III ristampa: settembre 2008 DeriveApprodi srl P.zza Regina Margherita 27, 00198 Roma tel 06-85358977 fax 06-8554602 e-mail: [email protected] www.deriveapprodi.org Progetto grafico: Andrea Wöhr Immagine di copertina di Sergio Bianchi ISBN 88-88738-27-4

DeriveApprodi

Paolo Virno

Grammatica della moltitudine Per una analisi delle forme di vita contemporanee

Grammatica della moltitudine

Avvertenza

Le pagine che seguono sono la trascrizione di un seminario tenuto nel gennaio 2001, presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università della Calabria. Il testo è ricavato da un’esposizione orale. Un testo anfibio, dunque. Pur redatto con cura, in modo da essere del tutto accessibile anche a coloro che al seminario non hanno partecipato, esso conserva, tuttavia, i tratti caratteristici dell’oralità: ellissi, ripetizioni, qualche disdicevole lacunosità nell’argomentazione. A farla breve: l’autore parla peggio di quanto risulta da questo resoconto, ma, di solito, scrive meglio. Ringrazio Laura Fiocco, Giordano Sivini, Annamaria Vitale e tutti i partecipanti al seminario.

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Premessa

1. Popolo vs Moltitudine: Hobbes e Spinoza Ritengo che il concetto di «moltitudine», da contrapporre a quello più familiare di «popolo», sia un attrezzo decisivo per ogni riflessione sulla sfera pubblica contemporanea. Occorre tener presente che l’alternativa tra «popolo» e «moltitudine» fu al centro delle controversie pratiche (fondazione degli Stati centrali moderni, guerre di religione ecc.) e teorico-filosofiche del XVII secolo. Questi due concetti in lizza tra loro, forgiatisi nel fuoco di contrasti acutissimi, giocarono un ruolo di prima grandezza nella definizione delle categorie politico-sociali della modernità. Fu la nozione di «popolo» a prevalere. «Moltitudine» è il termine perdente, il concetto che ebbe la peggio. Nel descrivere le forme della vita associata e lo spirito pubblico dei grandi Stati appena costituiti, non si parlò più di moltitudine, ma di popolo. Resta da chiedersi se oggi, alla fine di un lungo ciclo, non si riapra quella antica disputa; se oggi, allorché la teoria politica della modernità patisce una crisi radicale, la nozione allora sconfitta non mostri una straordinaria vitalità, prendendosi così una clamorosa rivincita. Le due polarità, popolo e moltitudine, hanno come padri putativi Hobbes e Spinoza. Per Spinoza, la multitudo

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sta a indicare una pluralità che persiste come tale sulla scena pubblica, nell’azione collettiva, nella cura degli affari comuni, senza convergere in un Uno, senza svaporare in un moto centripeto. Moltitudine è la forma di esistenza sociale e politica dei molti in quanto molti: forma permanente, non episodica o interstiziale. Per Spinoza, la multitudo è l’architrave delle libertà civili (cfr. Spinoza 1677). Hobbes detesta – uso a ragion veduta un vocabolo passionale, ben poco scientifico – la moltitudine, si scaglia contro di essa. Nell’esistenza sociale e politica dei molti in quanto molti, nella pluralità che non converge in una unità sintetica, egli scorge il massimo pericolo per il «supremo imperio», cioè per quel monopolio della decisione politica che è lo Stato. Il modo migliore per comprendere la portata di un concetto – moltitudine, nel nostro caso – è di esaminarlo con gli occhi di chi lo ha combattuto con tenacia. A coglierne tutte le implicazioni e le sfumature è proprio colui che desidera espungerlo dall’orizzonte teorico e pratico. Prima di esporre concisamente il modo in cui Hobbes raffigura la detestata moltitudine, è bene precisare lo scopo che qui si persegue. Vorrei mostrare che la categoria della moltitudine (proprio qual è tratteggiata dal suo nemico giurato, Hobbes) aiuta a spiegare un certo numero di comportamenti sociali contemporanei. Dopo i secoli del «popolo» e quindi dello Stato (Stato-nazione, Stato centralizzato ecc.), torna infine a manifestarsi la polarità contrapposta, abrogata agli albori della modernità. La moltitudine come ultimo grido della teoria sociale, politica e filosofica? Forse. Un’intera gamma di fenomeni ragguardevoli – giochi linguistici, forme di vita, propensioni etiche, caratteri salienti dell’odierna produzione materiale – risulta poco o punto comprensibile, se non a partire dal modo di essere dei molti. Per indagare questo modo di essere, bisogna ricorrere a una strumentazione concettuale assai varia: antropologia, filosofia del linguaggio, critica dell’economia politica, riflessione etica. Occorre

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circumnavigare il continente-moltitudine, mutando più volte l’angolo prospettico. Ciò detto, vediamo brevemente come Hobbes delinea, da avversario perspicace, il modo di essere dei «molti». Per Hobbes, il contrasto politico decisivo è quello tra moltitudine e popolo. La sfera pubblica moderna può avere come baricentro o l’una o l’altro. La guerra civile, sempre incombente, ha la sua forma logica in questa alternativa. Il concetto di popolo, a detta di Hobbes, è strettamente correlato all’esistenza dello Stato; di più, ne è un riverbero, un riflesso: se Stato, allora popolo. In mancanza dello Stato, niente popolo. Nel De Cive, in cui è esposto in lungo e in largo l’orrore per la moltitudine, si legge: «Il popolo è un che di uno, che ha una volontà unica e cui si può attribuire una volontà unica» (Hobbes 1642, XII, 8; ma cfr. anche VI, 1, Nota). La moltitudine, per Hobbes, inerisce allo «stato di natura»; dunque, a ciò che precede l’istituzione del «corpo politico». Ma il lontano antefatto può riemergere, come un «rimosso» che torna a farsi valere, nelle crisi che scuotono talvolta la sovranità statale. Prima dello Stato vi erano i molti, dopo l’instaurazione dello Stato vi è il popolo-Uno, dotato di una volontà unica. La moltitudine, secondo Hobbes, rifugge dall’unità politica, recalcitra all’obbedienza, non stringe patti durevoli, non consegue mai lo status di persona giuridica perché mai trasferisce i propri diritti naturali al sovrano. Questo «trasferimento» la moltitudine lo inibisce già solo per il suo modo di essere (per il suo carattere plurale) e di agire. Hobbes, che era un grande scrittore, sottolinea con mirabile lapidarietà come la moltitudine sia antistatale, ma, proprio per questo, antipopolare: «I cittadini, allorché si ribellano allo Stato, sono la moltitudine contro il popolo» (ibidem). La contrapposizione tra i due concetti è qui portata al diapason: se popolo, niente moltitudine; se moltitudine, niente popolo. Per Hobbes e per gli apologeti seicenteschi della sovranità statale, moltitudine

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è un concetto-limite, puramente negativo: coincide cioè con i rischi che gravano sulla statualità, è il detrito che può talvolta inceppare la «grande macchina». Un concetto negativo, la moltitudine: ciò che non si è acconciato a divenire popolo, quanto contraddice virtualmente il monopolio statale della decisione politica, insomma un rigurgito dello «stato di natura» nella società civile. 2. La pluralità esorcizzata: il «privato» e l’«individuale» Com’è sopravvissuta la moltitudine alla creazione degli Stati centrali? In quali forme dissimulate e rachitiche ha dato segni di sé dopo la piena affermazione del moderno concetto di sovranità? Dove se ne avverte l’eco? Stilizzando all’estremo la questione, proviamo a identificare i modi in cui sono stati concepiti i molti in quanto molti nel pensiero liberale e nel pensiero democratico-socialista (dunque, in tradizioni politiche che hanno avuto nell’unità del popolo il proprio indiscutibile punto di riferimento). Nel pensiero liberale l’inquietudine provocata dai «molti» è addomesticata mediante il ricorso alla coppia pubblico-privato. La moltitudine, che del popolo è l’antipode, prende le sembianze un po’ fantasmatiche e mortificanti del cosiddetto privato. Per inciso: anche la diade pubblico-privato, prima di diventare ovvia, si è forgiata tra lacrime e sangue in mille contese teoriche e pratiche; va tenuta, dunque, per un risultato complesso. Cosa c’è di più normale per noi che parlare di esperienza pubblica e di esperienza privata? Ma non è stata sempre scontata, questa biforcazione. La mancata ovvietà è interessante perché, oggi, siamo forse in un nuovo Seicento, ovvero in un’epoca in cui le vecchie categorie esplodono e altre bisogna coniare. Molti concetti che ci sembrano ancora stravaganti e inusuali – la nozione di democrazia non rappresentativa, per esempio – già tendono, forse, a ordire un nuovo senso comune, aspirando a loro volta a divenire «ovvie». Ma tor-

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niamo al punto. «Privato» non significa soltanto qualcosa di personale, che attiene all’interiorità di tizio o di caio; privato significa anzitutto privo: privo di voce, privo di presenza pubblica. Nel pensiero liberale la moltitudine sopravvive come dimensione privata. I molti sono afasici e lontani dalla sfera degli affari comuni. Nel pensiero democratico-socialista, dov’è che troviamo un’eco dell’arcaica moltitudine? Forse nella coppia collettivo-individuale. O meglio, nel secondo termine, nella dimensione individuale. Il popolo è il collettivo, la moltitudine è adombrata dalla presunta impotenza, nonché dalla sregolata irrequietezza, dei singoli individui. L’individuo è il resto ininfluente di divisioni e moltiplicazioni che si compiono lontano da lui. In quel che ha di propriamente singolare, il singolo sembra ineffabile. Come ineffabile è la moltitudine nella tradizione democratico-socialista. È bene anticipare una convinzione, che in seguito affiorerà a più riprese nel mio discorso. Credo che nelle odierne forme di vita, come pure nella produzione contemporanea (purché non si abbandoni la produzione – carica com’è di ethos, cultura, interazione linguistica – all’analisi econometrica, ma la si intenda come esperienza larga del mondo), si abbia percezione diretta del fatto che tanto la coppia pubblico-privato, quanto la coppia collettivo-individuale non reggono più, mordono l’aria, conflagrano. Ciò che era rigidamente suddiviso, si confonde e si sovrappone. È difficile dire dove finisce l’esperienza collettiva e dove comincia l’esperienza individuale. È difficile separare l’esperienza pubblica da quella cosiddetta privata. In questo appannamento delle linee di confine vengono meno, o comunque diventano ben poco affidabili, anche le due categorie del cittadino e del produttore, così importanti in Rousseau, Smith, Hegel e poi, sia pure come bersaglio polemico, nello stesso Marx. La moltitudine contemporanea non è composta né da

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«cittadini» né da «produttori»; occupa una regione mediana tra «individuale» e «collettivo»; per essa non vale in alcun modo la distinzione tra «pubblico» e «privato». Ed è proprio a causa della dissoluzione di queste coppie così a lungo tenute per ovvie che non si può parlare più di un popolo convergente nell’unità statale. Per non intonare canzoncine stonate di stampo postmoderno («il molteplice è il bene, l’unità la sciagura da cui guardarsi»), occorre però riconoscere che la moltitudine non si contrappone all’Uno, ma lo ridetermina. Anche i molti abbisognano di una forma di unità, di un Uno: ma, ecco il punto, questa unità non è più lo Stato, bensì il linguaggio, l’intelletto, le comuni facoltà del genere umano. L’Uno non è più una promessa, ma una premessa. L’unità non è più qualcosa (lo Stato, il sovrano) verso cui convergere, come nel caso del popolo, ma qualcosa che ci si lascia alle spalle, come uno sfondo o un presupposto. I molti devono essere pensati come individuazione dell’universale, del generico, del condiviso. Così, simmetricamente, occorre concepire un Uno che, lungi dall’essere un che di conclusivo, sia la base che autorizza la differenziazione, ovvero che consente l’esistenza politico-sociale dei molti in quanto molti. Dico questo solo per sottolineare che una riflessione odierna sulla categoria di moltitudine non sopporta semplificazioni ebbre, abbreviazioni disinvolte, ma ha da affrontare problemi aspri: anzitutto il problema logico (da riformulare, non da rimuovere) della relazione Uno/Molti. 3. Tre approcci ai Molti Le determinazioni concrete della moltitudine contemporanea possono essere messe a fuoco sviluppando tre blocchi tematici. Il primo è molto hobbesiano: la dialettica fra paura e ricerca di sicurezza. È chiaro che anche il concetto di «popolo» (nelle sue articolazioni seicentesche, o liberali, o democratico-socialiste) fa tutt’uno con

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certe strategie volte a sventare il pericolo e a ottenere protezione. Sosterrò però (nella esposizione di oggi) che sono venute meno, tanto sul piano empirico che su quello concettuale, le forme di paura e i corrispondenti tipi di riparo cui è stata connessa la nozione di «popolo». Prevale invece una dialettica timore-riparo affatto diversa: essa definisce alcuni tratti caratteristici della moltitudine odierna. Paura-sicurezza: ecco una griglia o cartina di tornasole filosoficamente e sociologicamente rilevante per mostrare come la figura della moltitudine non è tutta «rose e fiori»; per individuare quali specifici veleni si annidino in essa. La moltitudine è un modo di essere, il modo di essere oggi prevalente: ma, come tutti i modi di essere, esso è ambivalente, ossia contiene in sé perdita e salvezza, acquiescenza e conflitto, servilismo e libertà. Il punto cruciale, però, è che queste possibilità alternative hanno una fisionomia peculiare, diversa da quella con cui comparivano nella costellazione popolo/volontà generale/Stato. Il secondo tema, che tratterò nella successiva giornata seminariale, è la relazione tra il concetto di moltitudine e la crisi dell’antichissima tripartizione dell’esperienza umana in Lavoro, Politica, Pensiero. Si tratta di una suddivisione proposta da Aristotele, ripresa nel Novecento soprattutto da Hannah Arendt, incistata fino a ieri nel senso comune. Una suddivisione che ora, però, è andata in pezzi. Il terzo blocco tematico consiste nel vagliare alcune categorie in grado di dirci qualcosa sulla soggettività della moltitudine. Ne esaminerò soprattutto tre: principio di individuazione, chiacchiera, curiosità. La prima è una austera e, a torto, trascurata questione metafisica: che cosa rende singolare una singolarità? Le altre due riguardano invece la vita quotidiana. È stato Heidegger a conferire alla chiacchiera e alla curiosità la dignità di concetti filosofici. Il modo in cui ne parlerò, pur giovandosi di certe pagine di Essere e tempo, è però sostanzialmente non-heideggeriano o anti-heideggeriano.

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Timori e ripari Prima giornata

1. Oltre la coppia paura/angoscia La dialettica di timore e riparo sta al centro della «Analitica del sublime», una sezione della Critica del giudizio (Kant 1790, Parte I, Libro II). Secondo Kant, quando osservo una terrificante slavina trovandomi al sicuro, sono colmato da un piacevole senso di sicurezza cui si mescola, però, la percezione acuita della mia inermità. Sublime è, per l’appunto, questo sentimento duplice, parzialmente contraddittorio. Prendendo spunto dalla protezione empirica di cui ho casualmente usufruito, sono portato a chiedermi che cosa potrebbe garantire alla mia esistenza una protezione assoluta e sistematica. Mi chiedo cioè che cosa salvaguardi non dall’uno o dall’altro pericolo determinato, ma dalla rischiosità insita nello stesso stare al mondo. Dove trovare un riparo incondizionato? Kant risponde: nell’Io morale, giacché proprio in esso vi è qualcosa di non-contingente, o addirittura di sovramondano. La legge morale trascendente protegge in modo assoluto la mia persona, giacché colloca il valore che a essa compete al di sopra dell’esistenza finita e dei suoi molteplici pericoli. Il sentimento del sublime (o almeno una delle sue specie) consiste nel trasformare il sollievo per aver goduto di un rifugio occasionale nella ricerca della sicu-

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rezza incondizionata che solo l’Io morale può garantire. Ho menzionato Kant per un unico motivo: perché egli offre un modello molto nitido del modo in cui è stata concepita la dialettica timore/riparo negli ultimi due secoli. Si ha una secca biforcazione: da una parte, un pericolo particolare (la slavina, le attenzioni malevole del Ministero dell’Interno, la perdita del posto di lavoro ecc.); dall’altra, invece, il pericolo assoluto, connesso al nostro stesso stare al mondo. A queste due forme di rischio (e di timore) corrispondono due forme di protezione (e di sicurezza). Di fronte a una sciagura fattuale, vi sono rimedi concreti (per esempio, il rifugio di montagna quando viene giù la slavina). Il pericolo assoluto richiede invece una protezione dal… mondo come tale. Si badi: il «mondo» dell’animale umano non può essere equiparato all’ambiente dell’animale non umano, ossia all’habitat circoscritto in cui quest’ultimo si orienta perfettamente in base a istinti specializzati. Il mondo ha sempre qualcosa di indeterminato, è carico di imprevisti e di sorprese, è un contesto vitale mai padroneggiato una volta per tutte: per questo è fonte di una permanente insicurezza. Mentre i pericoli relativi hanno «nome e cognome», la pericolosità assoluta non ha un volto preciso né un contenuto univoco. La distinzione kantiana tra i due tipi di rischio e di sicurezza si prolunga nel discrimine, tracciato da Heidegger, tra paura e angoscia. La paura è riferita a un fatto ben preciso, alla solita slavina o alla disoccupazione; l’angoscia non ha, invece, una precisa causa scatenante. Nelle pagine di Essere e tempo di Heidegger (Heidegger 1927, § 40), l’angoscia è provocata dalla pura e semplice esposizione al mondo, dall’incertezza e dall’indecisione con cui si manifesta la nostra relazione con esso. La paura è sempre circoscritta e nominabile; l’angoscia è onnilaterale, non è connessa a qualche occasione privilegiata, può sopravvenire in qualsiasi momento o frangente. Queste due forme di timore (paura e angoscia, per l’appunto) e i corrispon-

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denti antidoti si prestano a una analisi storico-sociale. La distinzione fra timore circoscritto e timore indeterminato vige là dove vi sono comunità sostanziali, che costituiscono un alveo capace di incanalare la prassi e l’esperienza collettiva. Un alveo fatto di usi e costumi ripetitivi e perciò confortevoli, di un ethos consolidato. La paura si situa all’interno della comunità, delle sue forme di vita e di comunicazione. L’angoscia fa invece la sua comparsa allorché ci si allontana dalla comunità di appartenenza, dalle abitudini condivise, dai «giochi linguistici» risaputi, inoltrandosi nel vasto mondo. Al di fuori della comunità, il pericolo è ubiquo, imprevedibile, costante: insomma, angoscioso. Controparte della paura è una sicurezza che la comunità può, in linea di principio, garantire; controparte dell’angoscia (ossia dell’esposizione al mondo come tale) è il riparo procacciato dall’esperienza religiosa. Ebbene, la linea divisoria tra paura e angoscia, timore relativo e timore assoluto, è precisamente ciò che è venuto meno. Il concetto di «popolo», sia pure con molte variazioni storiche, è legato a filo doppio alla netta separazione tra un «dentro» abituale e un «fuori» ignoto e ostile. Il concetto di «moltitudine» è incardinato, invece, alla fine di tale separazione. La distinzione tra paura e angoscia, come pure quella tra riparo relativo e riparo assoluto, è destituita di fondamento per almeno tre motivi. Il primo è che non si può più parlare ragionevolmente di comunità sostanziali. Oggi, ogni impetuosa innovazione non sconvolge forme di vita tradizionali e ripetitive, ma interviene su individui ormai abituati a non avere più solide abitudini, adusi al mutamento repentino, esposti all’inconsueto e all’imprevisto. Si ha a che fare, sempre e comunque, con una realtà già innovata a più riprese. Non è dunque possibile una effettiva distinzione tra un «dentro» stabile e un «fuori» incerto e tellurico. La permanente mutevolezza delle forme di vita, nonché l’addestramento a fronteggiare un’aleatorietà senza argini, comportano una

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relazione diretta e continua con il mondo in quanto tale, con il contesto indeterminato della nostra esistenza. Si ha dunque una completa sovrapposizione di paura e angoscia. Quando perdo il lavoro, devo affrontare, sì, un pericolo ben definito, che suscita uno specifico timore; sennonché, questo pericolo fattuale si colora immediatamente di una angoscia indeterminata, si confonde con un più generale disorientamento al cospetto del mondo, fa tutt’uno con l’insicurezza assoluta in cui versa l’animale umano in quanto carente di istinti specializzati. Si potrebbe dire: la paura è sempre angosciosa, il pericolo circoscritto esibisce sempre la generale rischiosità dello stare al mondo. Se le comunità sostanziali velavano o attutivano la relazione con il mondo, la loro dissoluzione mette quest’ultima in piena luce: la perdita del posto di lavoro, l’innovazione che cambia i connotati alle mansioni lavorative, la solitudine metropolitana prendono su di sé molti tratti che, in precedenza, appartenevano ai terrori provati fuori dalle mura della comunità. Bisognerebbe trovare un termine, diverso tanto da «paura» quanto da «angoscia», un termine che dia conto della loro fusione. A me viene in mente perturbante. Ma sarebbe troppo lungo giustificare, qui, questa scelta (cfr. Virno 1994, 65-67). Passiamo al secondo approccio critico. In base alla rappresentazione tradizionale, la paura è un sentimento pubblico, mentre l’angoscia riguarda il singolo isolato dal prossimo suo. A differenza della paura, provocata da un pericolo che riguarda virtualmente molti membri della comunità e può essere contrastato con l’altrui soccorso, lo spaesamento angoscioso elude la sfera pubblica e concerne unicamente la cosiddetta interiorità dell’individuo. Questa rappresentazione è diventata del tutto inattendibile. Per certi versi, deve addirittura essere rovesciata. Oggi, tutte le forme di vita sperimentano quel «non sentirsi a casa propria», che, secondo Heidegger, sarebbe all’origine dell’angoscia. Sicché, non c’è nulla di più condiviso e di più co-

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mune, in un certo senso di più pubblico, del sentimento di «non sentirsi a casa propria». Nessuno è meno isolato di colui che avverte la spaventosa pressione del mondo indeterminato. Detto in altro modo, il sentimento in cui convergono paura e angoscia è immediatamente affare di molti. Si potrebbe dire, forse, che il «non sentirsi a casa propria» è addirittura un tratto distintivo del concetto di moltitudine, mentre la separazione tra il «dentro» e il «fuori», fra la paura e l’angoscia, contrassegnava l’idea hobbesiana (e non solo hobbesiana) di popolo. Il popolo è uno, perché la comunità sostanziale coopera per sedare le paure che scaturiscono da pericoli circoscritti. La moltitudine, invece, è accomunata dal repentaglio derivante dal «non sentirsi a casa propria», dall’esposizione onnilaterale al mondo. Terzo e ultimo rilievo critico, forse il più radicale. Esso concerne la stessa coppia timore-riparo. È sbagliata, in essa, l’idea secondo cui prima proveremmo un timore e, solo poi, ci daremmo da fare per procurarci un riparo. È del tutto fuori luogo uno schema stimolo-risposta, o causa-effetto. C’è da credere piuttosto che l’esperienza originaria sia quella di procacciarsi dei ripari. Anzitutto, ci proteggiamo; poi, mentre siamo intenti a proteggerci, mettiamo a fuoco quali siano i pericoli con cui abbiamo a che fare. Arnold Gehlen diceva che campare, per l’animale umano, è un compito gravoso, per far fronte al quale occorre anzitutto mitigare il disorientamento dovuto al fatto che non disponiamo di un «ambiente» prefissato (Gehlen 1940, 60 sgg.). Basilare è questo destreggiarsi a tentoni nel proprio contesto vitale. Mentre cerchiamo di orientarci, e con ciò di salvaguardarci, ci avvediamo anche, spesso retrospettivamente, delle diverse forme di pericolo. C’è di più. Non solo il pericolo si definisce a partire dall’originaria ricerca di un riparo, ma, ecco il punto veramente cruciale, esso si manifesta per lo più come specifica forma di riparo. Il pericolo consiste, a ben vedere, in una orripilante strategia di salvezza (si pensi al culto di

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una «piccola patria» etnica). La dialettica tra pericolo e riparo si risolve, in ultimo, nella dialettica tra forme alternative di protezione. Ai temibili ripari si oppongono ripari di secondo grado, capaci cioè di far da antidoto ai veleni dei primi. Dal punto di vista storico e sociologico, non è difficile rendersi conto che il male si esprime proprio e soltanto come replica orribile alla rischiosità del mondo, come pericolosa ricerca di protezione: basti pensare alla tendenza ad affidarsi a un sovrano (robusto o da operetta, poco importa), allo sgomitare convulso per la carriera, alla xenofobia. Si potrebbe anche dire: veramente angoscioso è solo un certo modo di fronteggiare l’angoscia. Ripeto: decisiva è l’alternativa tra diverse strategie di rassicurazione, la contrapposizione tra forme antipodiche di riparo. Per questo, sia detto di passaggio, è stolto sia trascurare il tema della sicurezza, sia (e ancor di più) brandirlo senza ulteriori qualificazioni (non ravvisando proprio in esso, in certe sue declinazioni, l’autentico pericolo). È in questa modificazione della dialettica timore-riparo che si radica, in primissimo luogo, l’esperienza della moltitudine contemporanea (o, se preferite, postfordista). I molti in quanto molti sono coloro che condividono il «non sentirsi a casa propria» e, anzi, pongono questa esperienza al centro della propria prassi sociale e politica. Inoltre, nel modo di essere della moltitudine, si può osservare a occhio nudo una continua oscillazione fra diverse, talvolta diametralmente opposte, strategie di rassicurazione (oscillazione che il «popolo», facendo corpo con gli Stati sovrani , invece non conosce). 2. Luoghi comuni e «General Intellect» Per comprendere meglio la nozione contemporanea di moltitudine, è opportuno riflettere più a fondo su quali siano le risorse essenziali su cui si può contare per proteggersi dalla pericolosità del mondo. Propongo di identi-

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ficare queste risorse mediante un concetto aristotelico, un concetto linguistico (o meglio, attinente all’arte della retorica): i «luoghi comuni», i topoi koinoi. Quando oggi parliamo di «luoghi comuni», intendiamo per lo più locuzioni stereotipate, ormai prive di qualsiasi significato, banalità, metafore spente («il mattino ha l’oro in bocca»), trite convenzioni linguistiche. Ebbene, non era certo questo il significato originario dell’espressione «luoghi comuni». Per Aristotele (Retorica, I, 2, 1358a), i topoi koinoi sono le forme logiche e linguistiche di valore generalissimo, diciamo pure la struttura ossea di ogni nostro discorso, ciò che consente e ordina qualsiasi locuzione particolare. Sono comuni, tali «luoghi», perché nessuno (l’oratore raffinato come l’ubriaco che smozzica parole stente, il commerciante come il politico) può farne a meno. Aristotele ne indica tre: il rapporto tra più e meno, l’opposizione dei contrari, la categoria della reciprocità («se io sono suo fratello, lei è mia sorella»). Queste categorie, come ogni effettiva struttura ossea, non compaiono mai in quanto tali. Sono la trama della «vita della mente», ma una trama inappariscente. Che cos’è che si dà a vedere, invece, nei nostri discorsi? I «luoghi speciali», così li chiama Aristotele (topoi idioi). Essi sono i modi di dire – metafore, battute di spirito, allocuzioni ecc. – che si confanno soltanto all’uno o all’altro ambito della vita associata. «Luoghi speciali» sono i modi di dire/pensare che risultano appropriati in una sede di partito, o in chiesa, o in un’aula universitaria, o tra i fan dell’Inter. E via dicendo. Sia la vita della città, che l’ethos (abitudini condivise), si articolano per «luoghi speciali», diversi e spesso inconciliabili. Una certa espressione funziona qui ma non lì, un tipo di argomentazione serve a convincere questi interlocutori, ma non quelli ecc. La trasformazione con cui facciamo i conti può essere riassunta così: oggi i «luoghi speciali» del discorso e dell’argomentazione deperiscono e si dissolvono, mentre ac-

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quistano una immediata visibilità i «luoghi comuni», ossia le generiche forme logico-linguistiche che imbastiscono tutti i discorsi. Ciò significa: per orientarsi nel mondo e proteggersi dai suoi pericoli, non possiamo far conto su forme di pensiero, di ragionamento, di discorso che hanno la loro nicchia nell’uno o nell’altro contesto particolare. Il clan dei tifosi, la comunità religiosa, la sezione di partito, il posto di lavoro: tutti questi «luoghi» continuano ovviamente a sussistere, ma nessuno di essi è così caratterizzato e caratterizzante da offrire una «rosa dei venti», ossia un criterio di orientamento, una bussola affidabile, un insieme di specifiche abitudini, di specifici modi di dire/pensare. Dovunque, e in ogni occasione, parliamo/pensiamo nello stesso modo, in base a costrutti logico-linguistici tanto fondamentali quanto generalissimi. Scompare una topografia etico-retorica. Vengono in primo piano i «luoghi comuni», questi scarni principi della «vita della mente»: il rapporto tra più e meno, l’opposizione dei contrari, la relazione di reciprocità ecc. Sono essi, ed essi soltanto, a offrire un criterio di orientamento e, quindi, un qualche riparo dal corso del mondo. Non più inappariscenti, ma, anzi, sbalzati in primo piano, i «luoghi comuni» sono la risorsa apotropaica della moltitudine contemporanea. Essi affiorano in superficie, come una cassetta degli attrezzi di immediata utilità. I «luoghi comuni», che altro sono, però, se non il nucleo fondamentale della «vita della mente», l’epicentro di quell’animale propriamente linguistico che è l’essere umano? Sicché, si potrebbe dire che la «vita della mente» diviene in se stessa pubblica. Si fa ricorso a categorie generalissime per destreggiarsi nelle più varie situazioni determinate, non disponendo più di codici etico-comunicativi «speciali», settoriali. Non-sentirsi-a-casa-propria e preminenza dei «luoghi comuni» vanno di pari passo. L’intelletto come tale, l’intelletto puro, diventa la bussola concreta là dove vengono meno le comunità sostanziali e si è sempre

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esposti al mondo nel suo insieme. L’intelletto, anche nelle sue funzioni più rarefatte, si presenta come un che di comune e di appariscente. I «luoghi comuni» non sono più uno sfondo inavvertito, non sono più celati dal pullulare di «luoghi speciali». Sono una risorsa condivisa cui i «molti» attingono in qualsiasi situazione. La «vita della mente» è l’Uno che sottostà al modo di essere della moltitudine. Ripeto e insisto: il venire in primo piano dell’intelletto come tale, il fatto che le strutture linguistiche più generali e astratte diventino strumenti per orientare la propria condotta, è, a mio parere, una delle condizioni che definiscono la moltitudine contemporanea. Ho parlato poco fa di «intelletto pubblico». Ma l’espressione «intelletto pubblico» contraddice una lunga tradizione secondo la quale il pensiero sarebbe un’attività appartata e solitaria, che separa dai propri simili, un’attività interiore, priva di manifestazioni visibili, estranea alla cura degli affari comuni. A questa lunga tradizione, secondo cui la «vita della mente» è refrattaria alla pubblicità, fanno eccezione solo, mi pare, alcune pagine di Marx, che pongono l’intelletto come qualcosa di esteriore e di collettivo, come un bene pubblico. Nel «Frammento sulle macchine» dei Grundrisse (Marx 1939-1941, II, pp. 389-411), Marx parla di un intelletto generale, di un General Intellect: usa l’inglese per dar forza all’espressione, quasi volesse corsivarla. La nozione di «intelletto generale» può avere diverse derivazioni: forse è una replica polemica alla «volontà generale» di Rousseau (non la volontà, ma l’intelletto, è ciò che accomuna i produttori secondo Marx); o forse l’«intelletto generale» è la ripresa materialistica del concetto aristotelico di nous poietikos (l’intelletto produttivo, poietico). Ma, qui, non importa la filologia. Importa, qui, il carattere esteriore, sociale, collettivo che compete all’attività intellettuale allorché essa diventa, secondo Marx, la vera molla della produzione di ricchezza. A eccezione di queste pagine di Marx, all’intelletto, ri-

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peto, sono state sempre attribuite le caratteristiche della riservatezza e della refrattarietà alla sfera pubblica. In uno scritto giovanile di Aristotele (Protreptico, b43), la vita del pensatore è paragonata alla vita dello straniero. Il pensatore deve estraniarsi dalla sua comunità, allontanarsi dal brusio della moltitudine, mettere la sordina ai rumori dell’agorà. Rispetto alla vita pubblica, alla comunità politico-sociale, tanto il pensatore che lo straniero in senso stretto non si sentono a casa propria. Questo è un buon punto di partenza per mettere a fuoco la condizione della moltitudine contemporanea. Un buon punto di partenza a patto di trarre altre conclusioni dall’analogia tra lo straniero e il pensatore. L’essere stranieri, cioè il non-sentirsi-a-casa-propria, è oggi condizione comune ai molti, condizione ineludibile e condivisa. Ebbene, coloro che non si sentono a casa propria, per orientarsi e proteggersi, devono ricorrere ai «luoghi comuni», ossia alle categorie generalissime dell’intelletto linguistico; in tal senso, gli stranieri sono sempre pensatori. Come vedete, inverto la direzione del paragone: non il pensatore che diventa straniero nei confronti della sua comunità di appartenenza, ma gli stranieri, la moltitudine dei «senza casa», che pervengono giocoforza allo status di pensatori. I «senza casa» non possono che comportarsi come pensatori: non perché sappiano di biologia o di matematica superiore, ma perché fanno ricorso alle più essenziali categorie dell’intelletto astratto per parare i colpi del caso, per ripararsi dalla contingenza e dall’imprevisto. In Aristotele, il pensatore è straniero, sì, ma provvisoriamente: quando ha finito di scrivere la Metafisica, può tornare a occuparsi degli affari comuni. Allo stesso modo, anche lo straniero strettamente inteso, lo spartano venuto ad Atene, è straniero a tempo determinato: prima o poi, potrà far ritorno in patria. Invece, per la moltitudine contemporanea, la condizione di «non sentirsi a casa propria» è permanente e irreversibile. L’assenza di una co-

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munità sostanziale, e dei connessi «luoghi speciali», fa sì che la vita dello straniero, il non-sentirsi-a-casa-propria, il bios xenikòs siano esperienze ineludibili e durature. La moltitudine dei «senza casa» si affida all’intelletto, ai «luoghi comuni»: è, a suo modo, una moltitudine di pensatori (anche laddove abbiano solo la licenza elementare e non leggano un libro neanche sotto tortura). Un’osservazione al margine. Si parla talvolta della puerilità dei comportamenti metropolitani. Se ne parla con tono deprecatorio. Fermo restando che tale deprecazione è stolta, varrebbe la pena di chiedersi se vi è qualcosa di consistente, insomma un nocciolo di verità, nella connessione tra vita metropolitana e infanzia. Forse l’infanzia è la matrice ontogenetica di ogni successiva ricerca di protezione dagli urti del mondo circostante; esemplifica la necessità di vincere una costitutiva indecisione, un’incertezza originaria (indecisione e incertezza che a volte danno luogo alla vergogna, sentimento sconosciuto al cucciolo non umano, che sa fin da subito come comportarsi). Il bambino si protegge attraverso la ripetizione (ancora una volta la stessa favola, o lo stesso gioco, o lo stesso gesto). La ripetizione va intesa come una strategia protettiva nei confronti degli choc causati dal nuovo e dall’imprevisto. Ora, il problema suona così: non è che l’esperienza del bambino si è trasferita nell’esperienza adulta, nei comportamenti prevalenti all’interno dei grandi aggregati urbani (comportamenti descritti da Simmel, Benjamin e tanti altri)? L’esperienza infantile della ripetizione si prolunga anche in età adulta, poiché costituisce la principale forma di riparo là dove manchino solide abitudini, comunità sostanziali, un ethos a tutto tondo. Nelle società tradizionali (se si vuole: nell’esperienza del «popolo»), la ripetizione cara al bambino lasciava il posto a forme di protezione più complesse e articolate: l’ethos, cioè gli usi e costumi, le abitudini che costituiscono l’ordito delle comunità sostanziali. Ora, nel tempo della moltitudine,

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questa sostituzione non avviene più. La ripetizione, lungi dall’essere rimpiazzata, perdura. È stato Walter Benjamin a cogliere il punto. Egli ha dedicato una grande attenzione all’infanzia, al gioco infantile, all’amore che il bambino nutre per la ripetizione; e, insieme, ha colto nella riproducibilità tecnica dell’opera d’arte l’ambito in cui si forgiano nuove forme di percezione (Benjamin 1936). Ebbene, c’è da credere che vi sia un nesso tra i due aspetti. Nella riproducibilità tecnica, rivive potenziata l’istanza infantile dell’«ancora una volta», ovvero riaffiora l’esigenza della ripetizione come riparo. La pubblicità della mente, l’appariscenza dei «luoghi comuni», il General Intellect si manifestano anche come ripetizione rassicurante. È vero: la moltitudine odierna ha qualcosa di infantile: ma questo qualcosa è quanto mai serio. 3. Pubblicità senza sfera pubblica Si è detto che la moltitudine è definita dal non-sentirsi-a-casa-propria, come pure dalla conseguente familiarità con i «luoghi comuni», con l’intelletto astratto. Bisogna aggiungere, ora, che la dialettica paura-riparo si radica proprio in questa familiarità con l’intelletto astratto. Il carattere pubblico e condiviso della «vita della mente» si colora di ambivalenza: ospita in sé anche possibilità negative, figure temibili. L’intelletto pubblico è il ceppo unitario da cui possono scaturire tanto forme di protezione orrende, quanto forme di protezione capaci di procurare un agio reale (nella misura in cui, si è detto, salvaguardano dalle prime). L’intelletto pubblico, cui la moltitudine attinge, è il punto di partenza per svolgimenti contrapposti. Il venire in primo piano delle attitudini fondamentali dell’essere umano (pensiero, linguaggio, autoriflessione, capacità di apprendimento) può prendere un aspetto inquietante e oppressivo, oppure può dar luogo a una inedita sfera pubblica, a una sfera pubblica non statale, lonta-

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na dai miti e dai riti della sovranità. La mia tesi, in estrema sintesi, è questa: se la pubblicità dell’intelletto non si curva in una sfera pubblica, in uno spazio politico in cui i molti possano curarsi degli affari comuni, essa produce effetti terrificanti. Una pubblicità senza sfera pubblica: ecco il versante negativo – il male, se si vuole – nell’esperienza della moltitudine. Freud, nel saggio Il Perturbante (Freud 1919, pp. 292-293), mostra come la potenza estrinseca del pensiero possa prendere fattezze angosciose. Egli dice che i malati per i quali i pensieri hanno un potere esteriore, pratico, immediatamente operativo, temono di essere condizionati e sopraffatti dagli altri. È la stessa situazione, peraltro, che si determina in una seduta spiritica, nella quale i partecipanti sono stretti assieme in un rapporto fusivo che sembra annullare ogni tratto individuale. Ebbene, la credenza nella «onnipotenza dei pensieri», studiata da Freud, o la situazione-limite della seduta spiritica, esemplificano bene che cosa possa essere una pubblicità senza sfera pubblica; che cosa possa essere un «intelletto generale», un General Intellect, che non si articoli in uno spazio politico. Il General Intellect, o intelletto pubblico, se non diventa repubblica, sfera pubblica, comunità politica, moltiplica all’impazzata le forme di sottomissione. Per chiarire il punto, pensiamo alla produzione contemporanea. La condivisione di attitudini linguistiche e cognitive è l’elemento costitutivo del processo lavorativo postfordista. Tutti i lavoratori entrano in produzione in quanto parlanti-pensanti. Niente a che vedere, si badi, con la «professionalità», o con l’antico «mestiere»: parlare/pensare sono generiche attitudini dell’animale umano, il contrario di qualsivoglia specializzazione. Questa preliminare condivisione, per un verso caratterizza i «molti» in quanto «molti», la moltitudine; per l’altro, è la base stessa della produzione odierna. La condivisione, in quanto requisito tecnico, si oppone alla divisione del lavoro, la sgretola, la contraddice. Ciò non si-

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gnifica, naturalmente, che i lavori non siano più suddivisi, parcellizzati ecc.; significa, piuttosto, che la segmentazione delle mansioni non risponde più a criteri oggettivi, «tecnici», ma è esplicitamente arbitraria, reversibile, cangiante. Per il capitale, quel che veramente conta è l’originaria condivisione di doti linguistico-cognitive, giacché proprio essa garantisce la prontezza nel reagire all’innovazione, l’adattabilità ecc. Ora, è evidente che questa condivisione di generiche doti cognitive e linguistiche all’interno del processo di produzione reale non diventa sfera pubblica, non diventa comunità politica, principio costituzionale. Che cosa accade, dunque? La pubblicità dell’intelletto, cioè la sua condivisione, se per un verso manda a gambe all’aria ogni rigida divisione del lavoro, per l’altro fomenta la dipendenza personale. General Intellect, fine della divisione del lavoro, dipendenza personale: i tre aspetti sono correlati. La pubblicità dell’intelletto, là dove non si articoli in una sfera pubblica, si traduce in una proliferazione incontrollata di gerarchie, tanto infondate quanto robuste. La dipendenza è personale in duplice senso: nel lavoro, si dipende dalla persona di questo o di quello, non da regole dotate di anonimo potere coercitivo; inoltre, a venir sottomessa è l’intera persona, la sua basilare attitudine comunicativa e cognitiva. Gerarchie proliferanti, minuziose, personalizzate: ecco il risvolto negativo della pubblicità/condivisione dell’intelletto. La moltitudine, ripetiamolo, è un modo di essere ambivalente. 4. Quale Uno per i Molti? Punto di partenza della presente analisi è stata la contrapposizione tra «popolo» e «moltitudine». Da quanto finora argomentato risulta chiaro che la moltitudine non si sbarazza dell’Uno, cioè dell’universale, del comune/condiviso, ma lo ridetermina. L’Uno della moltitudine non ha

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più nulla a che vedere con l’Uno costituito dallo Stato, con l’Uno verso cui converge il popolo. Il popolo è il risultato di un movimento centripeto: dagli individui atomizzati all’unità del «corpo politico», alla sovranità. L’Uno è l’esito estremo di questo movimento centripeto. La moltitudine, invece, è l’esito di un movimento centrifugo: dall’Uno ai Molti. Ma qual è l’Uno a partire dal quale i molti si differenziano e persistono come tali? Non può certo essere lo Stato, deve trattarsi di tutt’altra forma di unità/universalità. Possiamo riprendere, ora, un punto cui si accennava all’inizio. L’unità che la moltitudine ha alle proprie spalle è costituita dai «luoghi comuni» della mente, dalle facoltà linguistico-cognitive comuni alla specie, dal General Intellect. Si tratta di un’unità/universalità visibilmente eterogenea a quella statuale. Sia chiaro: le attitudini cognitivo-linguistiche della specie non vengono in primo piano perché qualcuno decide di farle venire in primo piano, ma per necessità, ovvero perché costituiscono una forma di protezione in una società priva di comunità sostanziali (ossia di «luoghi speciali»). L’Uno della moltitudine non è, dunque, l’Uno del popolo. La moltitudine non converge in una volonté générale per un semplice motivo: perché già dispone di un General Intellect. L’intelletto pubblico, che nel postfordismo compare come mera risorsa produttiva, può costituire però un diverso «principio costituzionale», può adombrare una sfera pubblica non statale. I molti in quanto molti hanno come sfondo, o piedistallo, la pubblicità dell’intelletto: nel bene e nel male. Vi è certo una differenza consistente tra la moltitudine contemporanea e la moltitudine studiata dai filosofi della politica seicenteschi. Agli albori della modernità, i «molti» coincidono con i cittadini delle repubbliche comunali anteriori alla nascita dei grandi Stati nazionali. Quei «molti» si avvalsero del «diritto di resistenza», dello

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jus resistentiae. Tale diritto non significa, banalmente, legittima difesa: è qualcosa di più fine e complicato. Il «diritto di resistenza» consiste nel far valere le prerogative di un singolo, o di una comunità locale, o di una corporazione, contro il potere centrale, salvaguardando forme di vita già affermatesi a tutto tondo, proteggendo consuetudini già radicate. Si tratta dunque di difendere un che di positivo: è una violenza conservatrice (nel senso buono, nobile del termine). Forse lo jus resistentiae, ossia il diritto di proteggere qualcosa che già c’è ed è degno di durare, è ciò che più accomuna la multitudo seicentesca alla moltitudine postfordista. Anche per essa, non si tratta certo di «prendere il potere», di costruire un nuovo Stato, un nuovo monopolio della decisione politica, ma di difendere esperienze plurali, forme di democrazia non rappresentativa, usi e costumi non-statali. Quanto al resto, è difficile non vedere le differenze: la moltitudine odierna ha come proprio presupposto un Uno non meno, ma assai più universale dello Stato: l’intelletto pubblico, il linguaggio, i «luoghi comuni» (chi vuole, pensi al Web…). Inoltre, la moltitudine contemporanea porta in sé la storia del capitalismo, è legata a filo doppio alle vicissitudini della classe operaia. Bisogna tenere a bada il demone dell’analogia, del cortocircuito tra antico e modernissimo; occorre quindi delineare in altorilievo i tratti storicamente originali della moltitudine contemporanea, evitando di considerarla una semplice riedizione di qualcosa che già fu. Un esempio. Tipico della moltitudine postfordista è di fomentare il collasso della rappresentanza politica: non come gesto anarchico, ma come ricerca pacata e realistica di nuove forme politiche. Certo, già Hobbes metteva in guardia contro la tendenza della moltitudine a dotarsi di organismi politici irregolari: «nient’altro che leghe o talvolta mere adunanze di gente prive di un’unione finalizzata a qualche disegno particolare o determinata da obbligazione degli uni verso gli altri» (Hobbes 1651, p. 197). Ma è ov-

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vio che la democrazia non rappresentativa basata sul General Intellect ha tutt’altra portata: niente di interstiziale, marginale, residuale; piuttosto, la concreta appropriazione e riarticolazione del sapere/potere oggi congelato negli apparati amministrativi degli Stati. Parlando di «moltitudine», ci si scontra con un problema complesso: si ha da fare con un concetto senza storia, senza lessico, là dove, invece, il concetto di «popolo» è un concetto completamente codificato, per il quale abbiamo parole congrue e sfumature d’ogni sorta. È ovvio che sia così. Ho già detto che nella riflessione politico-filosofica del Seicento prevalse il «popolo» sulla «moltitudine»: dunque, il «popolo» ha usufruito di un lessico adeguato. A proposito della moltitudine, scontiamo invece l’assoluta mancanza di codificazione, l’assenza di un vocabolario concettuale perspicuo. Ma questa è una bella sfida per filosofi e sociologi, soprattutto per la ricerca sul campo. Si tratta di lavorare su materiali concreti, esaminandoli in dettaglio, ma, al tempo stesso, traendo da essi categorie teoriche. Un doppio movimento, dalle cose alle parole, dalle parole alle cose: questo richiede la moltitudine postfordista. Ed è, ripeto, una faccenda attraente. È ben vero che «popolo» e «moltitudine» sono due categorie che attengono più al pensiero politico (indicano infatti forme tra loro alternative di esistenza politica) che alla sociologia. Ma è mia opinione che la nozione di moltitudine sia straordinariamente fertile per comprendere, e censire, i modi di essere del lavoro dipendente postfordista, certi suoi comportamenti che a prima vista risultano enigmatici. Come spiegherò meglio nella seconda giornata, è proprio una categoria del pensiero politico, sconfitta a suo tempo nel dibattito teorico, a ripresentarsi oggi come un prezioso strumento di analisi del lavoro vivo nel postfordismo. Diciamo che la moltitudine è categoria anfibia: da un lato ci parla della produzione sociale basata sul sapere e il linguaggio, dall’altra della crisi della

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forma-Stato. E forse tra le due cose vi è un nesso robusto. Carl Schmitt, uno che dello Stato ha colto l’essenziale ed è il maggiore teorico della politica del secolo trascorso, negli anni Sessanta, ormai vecchio, ha scritto, una frase amarissima (per lui) il cui senso è “ricompare la moltitudine, tramonta il popolo”: «L’epoca della statualità sta ormai giungendo alla fine […]. Lo Stato come modello dell’unità politica, lo Stato come titolare del più straordinario di tutti i monopoli, cioè del monopolio della decisione politica, sta per essere detronizzato» (Schmitt 1963, p. 90). Con un’aggiunta importante: questo monopolio della decisione è davvero sottratto allo Stato, solo se cessa una volta per tutte di essere un monopolio, solo se la moltitudine farà valere il suo carattere centrifugo. Vorrei concludere dissipando, per quanto posso, un equivoco in cui è facile cadere. Può sembrare che la moltitudine segni la fine della classe operaia. Nell’universo dei «molti», non c’è più posto per le tute blu, tutte uguali, che fanno corpo tra loro, poco sensibili al caleidoscopio delle «differenze». Questa è una sciocchezza, cara a chi ha bisogno di semplificare le questioni e di inebriarsi di frasi a effetto (di produrre elettrochoc per babuini, diceva un amico). La classe operaia non coincide, né in Marx né nell’opinione di qualsiasi persona seria, con certi abiti, certi usi e costumi ecc. Classe operaia è un concetto teorico, non una foto-ricordo: indica il soggetto che produce plusvalore assoluto e relativo. Ebbene, la classe operaia contemporanea, il lavoro vivo subordinato, la sua cooperazione cognitivo-linguistica, hanno i tratti della moltitudine, anziché del popolo. Non ha più, invece, la vocazione «popolare» alla statualità. La nozione di «moltitudine» non dissesta il concetto di classe operaia, giacché quest’ultimo non era legato per definizione a quello di «popolo». Essere moltitudine non impedisce affatto di produrre plusvalore. Certo, allorché la classe operaia non ha più il modo di essere del popolo, ma quello della moltitu-

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dine, cambiano moltissime cose: mentalità, forme dell’organizzazione e del conflitto. Tutto si complica. Quanto sarebbe più semplice raccontarci che ora c’è la moltitudine, non più la classe operaia… Ma se si vuole semplicità a tutti costi, basta scolarsi una bottiglia di rosso. Del resto, vi sono passi anche in Marx in cui la classe operaia perde le sembianze del «popolo» e acquista quelle della «moltitudine». Un esempio solo: si pensi alle pagine dell’ultimo capitolo del primo libro de Il Capitale, dove Marx analizza la condizione della classe operaia negli Stati Uniti (Marx 1867, cap. XXV, «La moderna teoria della colonizzazione»). Ci sono, lì, grandi pagine sul West americano, sull’esodo, sull’iniziativa individuale dei «molti». Gli operai europei, scacciati dai loro paesi da epidemie, carestie, crisi economiche, vanno a lavorare sulla costa Est degli Usa. Ma attenzione: ci restano alcuni anni, soltanto alcuni anni. Poi disertano la fabbrica, inoltrandosi a Ovest, verso le terre libere. Il lavoro salariato, anziché ergastolo, si presenta come un episodio transitorio. Sia pure per un solo ventennio, i salariati ebbero la possibilità di seminare il disordine nelle ferree leggi del mercato del lavoro: abbandonando la propria condizione di partenza, determinarono la relativa scarsità di manodopera e, quindi, la lievitazione delle paghe. Marx, descrivendo questa situazione, offre un ritratto assai vivido di una classe operaia che è anche moltitudine.

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Lavoro, Azione, Intelletto Seconda giornata

La volta scorsa ho cercato di illustrare il modo di essere della moltitudine a partire dalla dialettica timore-riparo. Oggi, vorrei discutere la classica ripartizione dell’esperienza umana in tre ambiti fondamentali: Lavoro (o poiesi), Azione politica (o prassi), Intelletto (o vita della mente). Lo scopo è sempre lo stesso: articolare e approfondire la nozione di moltitudine. Come ricorderete, «moltitudine» è una categoria centrale del pensiero politico: la si chiama in causa, qui, per spiegare alcuni tratti salienti del modo di produzione postfordista. A patto di intendere per «modo di produzione» non solo una particolare configurazione economica, ma anche un insieme composito di forme di vita, una costellazione sociale, antropologica, etica («etica», si badi, non «morale»: in questione sono le abitudini, gli usi e i costumi, non il dover-essere). Ebbene, vorrei sostenere che la moltitudine contemporanea ha per sfondo la crisi della suddivisione dell’esperienza umana in Lavoro, Azione (politica), Intelletto. La moltitudine si afferma come modo di essere in alto rilievo là dove vi è giustapposizione, o almeno ibridazione, tra ambiti che, fino a non molto tempo fa, ancora durante l’epoca fordista, sembravano nettamente distinti e separati. Lavoro, Azione, Intelletto: sulla falsariga di una tradi-

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zione che risale ad Aristotele e che è stata riproposta con particolare efficacia e passione da Hannah Arendt (Arendt 1958), questa tripartizione è sembrata perspicua, realistica, pressoché inquestionabile. Essa ha messo solide radici nel senso comune: non si tratta, quindi, di una faccenda solo filosofica, ma di uno schema largamente condiviso. Esempio autobiografico. Quando cominciai a occuparmi di politica, negli anni Sessanta, ritenevo ovvia questa suddivisione; essa mi pareva inconfutabile quanto una immediata percezione tattile o visiva. Non era necessario aver letto l’Etica Nicomachea di Aristotele per sapere che lavoro, azione politica e riflessione intellettuale costituivano tre sfere rette da principi e criteri radicalmente eterogenei. Ovviamente, l’eterogeneità non escludeva l’intersezione: la riflessione intellettuale poteva applicarsi alla politica; a sua volta, l’azione politica si nutriva spesso e volentieri di temi attinenti all’ambito della produzione ecc. Ma, per quanto numerose fossero le intersezioni, Lavoro, Intelletto, Politica restavano essenzialmente distinte. Per motivi strutturali. Il Lavoro è ricambio organico con la natura, produzione di nuovi oggetti, processo ripetitivo e prevedibile. L’Intelletto puro ha un’indole solitaria e inappariscente: la meditazione del pensatore sfugge allo sguardo altrui; la riflessione teoretica mette la sordina al mondo delle apparenze. Diversamente dal lavoro, l’Azione politica interviene sulle relazioni sociali, non su materiali naturali; ha a che vedere con il possibile e con l’imprevisto; non ingombra il contesto in cui opera di ulteriori oggetti, ma modifica questo stesso contesto. Diversamente dall’Intelletto, l’Azione politica è pubblica, consegnata all’esteriorità, alla contingenza, al brusio dei «molti»; comporta, per usare parole di Hannah Arendt, l’«esposizione agli occhi degli altri» (ivi, cap. V, «L’azione»). Il concetto di Azione politica può essere ricavato per opposizione rispetto agli altri due ambiti.

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Ebbene, questa antica tripartizione, ancora incistata nel senso comune della generazione che esordì sulla scena pubblica negli anni Sessanta, è esattamente ciò che oggi è venuto meno. Si sono dissolti, cioè, i confini tra pura attività intellettuale, azione politica, lavoro. Sosterrò, in particolare, che il lavoro cosiddetto postfordista ha assorbito in sé molte delle caratteristiche tipiche dell’azione politica. E che questa fusione tra Politica e Lavoro costituisce un decisivo tratto fisiognomico della moltitudine contemporanea. 1. Giustapposizione di poiesi e prassi Il lavoro contemporaneo ha introiettato molti caratteri che prima contraddistinguevano l’esperienza della politica. La poiesi ha incluso in sé numerosi aspetti della prassi. Questo è il primo aspetto della più generale ibridazione di cui vorrei occuparmi. Si badi: anche Hannah Arendt denuncia con insistenza la caduta del confine tra lavoro e politica (là dove per «politica» non si intenda la vita in una sezione di partito, ma l’esperienza genericamente umana di cominciare qualcosa di nuovo, una relazione intima con la contingenza e l’imprevisto, l’esposizione agli occhi degli altri). La politica, secondo Arendt, ha preso a imitare il lavoro. La politica del Novecento, a suo giudizio, è diventata una sorta di fabbricazione di nuovi oggetti: lo Stato, il partito, la storia ecc. Ebbene, ritengo che le cose siano andate all’inverso di quanto sembra credere Arendt: non è la politica a essersi conformata al lavoro, ma è il lavoro ad aver acquisito i connotati tradizionali dell’azione politica. Un’argomentazione opposta e simmetrica rispetto a quella di Arendt, la mia. Sostengo che nel lavoro contemporaneo si ritrovano l’«esposizione agli occhi degli altri», la relazione con la presenza altrui, l’inizio di processi inediti, la costitutiva familiarità con la contingenza, l’imprevisto e

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il possibile. Sostengo che il lavoro postfordista, il lavoro produttivo di plusvalore, il lavoro subordinato, mette in campo doti e requisiti che, secondo una tradizione secolare, attenevano piuttosto all’azione politica. Per inciso. Ciò spiega, a mio parere, la crisi della politica, il disprezzo che circonda oggi la prassi politica, il discredito in cui è tenuta l’azione. Infatti, l’azione politica appare fatalmente come una duplicazione superflua dell’esperienza lavorativa, giacché quest’ultima, sia pure in maniera deformata e dispotica, ha sussunto in sé certi caratteri strutturali della prima. L’ambito della politica strettamente intesa ricalca procedure e stilemi che già contraddistinguono il tempo di lavoro, ma, si badi, li ricalca offrendone una versione più povera, rozza, semplicistica. La politica offre una rete comunicativa e un contenuto conoscitivo più grami di quelli esperiti nell’attuale processo produttivo. Meno complessa del lavoro, e però troppo simile a esso, l’azione politica appare comunque qualcosa di poco desiderabile. L’inclusione nella produzione contemporanea di certi tratti strutturali della prassi politica aiuta a capire perché la moltitudine postfordista sia, oggi, una moltitudine spoliticizzata. Vi è già troppa politica nel lavoro salariato (in quanto lavoro salariato) perché la politica come tale possa godere ancora di una autonoma dignità. 2. Del virtuosismo. Da Aristotele a Glenn Gould La sussunzione nel processo lavorativo di quanto in precedenza garantiva all’Azione pubblica la sua inconfondibile fisionomia può essere chiarita mediante una categoria vetusta, ma non poco efficace: il virtuosismo. Seguendo per ora l’accezione ordinaria, per «virtuosismo» intendo le capacità peculiari di un artista esecutore. Virtuoso è, per esempio, il pianista che ci offre una esecuzione memorabile di Schubert; o il ballerino provetto,

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o l’oratore persuasivo, o l’insegnante mai noioso, o il prete dal sermone suggestivo. Consideriamo con attenzione ciò che contraddistingue l’attività dei virtuosi, cioè degli artisti esecutori. In primo luogo, la loro è un’attività che trova il proprio compimento (ovvero il proprio fine) in se stessa, senza oggettivarsi in un’opera durevole, senza depositarsi in un «prodotto finito», ossia in un oggetto che sopravviva all’esecuzione. In secondo luogo, è un’attività che esige la presenza altrui, che esiste solo al cospetto di un pubblico. Attività senza opera: l’esecuzione di un pianista o di un ballerino non lascia dietro di sé un oggetto determinato, separabile dall’esecuzione stessa, in grado di persistere quando essa è terminata. Attività che esige la presenza altrui: la performance ha senso solo se vista o ascoltata. È intuitivo che queste due caratteristiche sono correlate: il virtuoso ha bisogno della presenza di un pubblico, proprio perché non produce un’opera, un oggetto che se ne vada in giro per il mondo allorché l’attività è ormai cessata. In mancanza di uno specifico prodotto estrinseco, il virtuoso deve far conto su testimoni. La categoria del virtuosismo è discussa nell’Etica Nicomachea; affiora qui e là nel pensiero politico moderno, anche novecentesco; ha un piccolo posto nella critica dell’economia politica di Marx. Nell’Etica Nicomachea, Aristotele distingue il lavoro, o poiesi, dall’azione politica, o prassi, utilizzando per l’appunto la nozione di virtuosismo: si ha lavoro quando si produce un oggetto, un’opera separabile dall’agire; si ha prassi quando l’agire ha il proprio fine in se stesso. Aristotele scrive: «Il fine della produzione è diverso dalla produzione stessa, mentre non potrebbe esserlo quello dell’azione: perché l’azione [intesa tanto come condotta etica, quanto come azione politica] è fine a se stessa» (Eth. Nic., VI, 1139 b). Riprendendo implicitamente Aristotele, Hannah Arendt paragona gli artisti esecutori, i virtuosi, a coloro che sono impegnati nell’azione

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politica. Scrive: «Le arti che non realizzano alcuna “opera” hanno grande affinità con la politica. Gli artisti che le praticano – danzatori, attori, musicisti e simili – hanno bisogno di un pubblico al quale mostrare il loro virtuosismo, come gli uomini che agiscono [politicamente] hanno bisogno di altri alla cui presenza comparire: gli uni e gli altri, per “lavorare”, hanno bisogno di uno spazio a struttura pubblica, e in entrambi i casi la loro “esecuzione” dipende dalla presenza altrui» (Arendt 1961, p. 206). Si potrebbe dire che ogni azione politica è virtuosistica. Del virtuosismo essa condivide, infatti, la contingenza, l’assenza di un «prodotto finito», l’immediata e inaggirabile relazione con la presenza altrui. Per converso, ogni virtuosismo è intrinsecamente politico. Si pensi al caso di Glenn Gould (Gould 1984, pp. 15-24; Schneider 1989). Questo grandissimo pianista aveva in odio, paradossalmente, i caratteri distintivi della sua attività di artista esecutore; detto altrimenti, detestava l’esibizione in pubblico. Per tutta la vita combatté contro la «politicità» insita nella sua attività. A un certo punto, Gould dichiarò di voler «abbandonare la vita activa», cioè l’esposizione agli occhi degli altri (si badi: «vita activa» è la tradizionale denominazione della politica). Per rendere impolitico il proprio virtuosismo, cercò di avvicinare quanto più possibile l’attività dell’artista esecutore al lavoro propriamente detto, che lascia dietro di sé prodotti estrinseci. Ciò ha significato chiudersi in uno studio di registrazione, contrabbandando la produzione di dischi (peraltro eccellenti), per un’«opera». Per evadere dalla dimensione pubblicopolitica, connaturata al virtuosismo, egli dovette fingere che le sue esecuzioni magistrali producessero un oggetto definito (indipendente dall’esecuzione stessa). Laddove c’è un’opera, un prodotto autonomo, lì c’è lavoro, non più virtuosismo né, quindi, politica. Anche Marx parla di pianisti, oratori, ballerini ecc. Ne parla in alcuni dei suoi testi più significativi: nel Capitolo

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VI inedito (Marx 1933, p. 83) e poi, in termini quasi identici, nelle Teorie sul plusvalore (Marx 1905, I, pp. 357-358). Marx analizza il lavoro intellettuale distinguendo in esso due specie principali. Da un lato, l’attività immateriale, o mentale, che «ha per risultato merci che hanno un’esistenza indipendente dal produttore […] libri, quadri, oggetti d’arte in generale in quanto distinti dalla prestazione artistica di chi li scrive, dipinge o crea» (Marx 1933, p. 83). Questa è la prima specie di lavoro intellettuale. Dall’altro lato – scrive Marx – vanno considerate tutte quelle attività in cui «il prodotto è inseparabile dall’atto del produrre» (ibidem), quelle attività cioè che trovano in se stesse il proprio compimento, senza oggettivarsi in un’opera che le sopravanzi. È lo stesso discrimine tra produzione materiale e azione politica già illustrato da Aristotele. Solo che Marx, qui, non si cura dell’azione politica, ma analizza due diverse figure lavorative. Egli applica la distinzione tra attività-con-opera e attività-senza-opera a determinati tipi di poiesi. La seconda specie di lavoro intellettuale (le attività in cui «il prodotto è inseparabile dall’atto di produrre») comprende, secondo Marx, tutti coloro il cui lavoro si risolve in una esecuzione virtuosistica: pianisti, maggiordomi, ballerini, insegnanti, oratori, medici, preti ecc. Ora, se il lavoro intellettuale che produce un’opera non pone particolari problemi, il lavoro senza opera (virtuosistico, per l’appunto) mette in imbarazzo Marx. Il primo tipo lavoro intellettuale si acconcia senz’altro alla definizione di «lavoro produttivo». Ma il secondo tipo? Ricordo di passaggio che, per Marx, lavoro produttivo non è lavoro subordinato, faticoso o umile, ma proprio e soltanto lavoro che produce plusvalore. Certo, anche le prestazioni virtuosistiche possono, in linea di principio, produrre plusvalore: l’attività del ballerino, del pianista ecc., se organizzata capitalisticamente, può essere fonte di profitto. Sennonché, Marx è turbato dalla forte rassomiglianza tra l’attività dell’artista esecutore e le mansioni servili, le

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quali, benché ingrate e frustranti, non producono plusvalore e, quindi, rientrano nell’ambito del lavoro improduttivo. Lavoro servile è quello per cui non si investe capitale, ma si spende un reddito (esempio: i servizi personali di un maggiordomo). I lavoratori «virtuosisti», secondo Marx, se per un verso rappresentano un’eccezione poco significativa dal punto di vista quantitativo, dall’altro, ed è ciò che più conta, convergono quasi sempre nel lavoro servile/improduttivo. Tale convergenza è sancita proprio dal fatto che la loro attività non dà luogo a un’opera indipendente: dove manca un autonomo prodotto finito, per lo più non si ha a che fare con un lavoro produttivo (di plusvalore). Marx accetta di fatto l’equazione lavoro-senzaopera = servizi personali. In conclusione, quello virtuosistico è, per Marx, «lavoro salariato che non è nello stesso tempo lavoro produttivo» (Marx 1905, I, p. 358). Tiriamo le somme. Il virtuosismo è aperto a due alternative: o adombra i caratteri strutturali dell’attività politica (mancanza di un’opera, esposizione alla presenza altrui, contingenza ecc.), come suggeriscono Aristotele e Hannah Arendt; oppure, in Marx, prende le sembianze del «lavoro salariato che non è tuttavia lavoro produttivo». Questa biforcazione decade e va in frantumi, allorché il lavoro produttivo, nella sua totalità, fa sue le caratteristiche peculiari dell’artista esecutore. Nel postfordismo, chi produce plusvalore si comporta – dal punto di vista strutturale, beninteso – come un pianista, un ballerino ecc. e, quindi, come un uomo politico. In riferimento alla produzione contemporanea, suona perspicua l’osservazione di Arendt sull’attività degli artisti esecutori e degli uomini politici: per lavorare si ha bisogno di uno «spazio a struttura pubblica». Nel postfordismo, il Lavoro richiede uno «spazio a struttura pubblica» e somiglia a una esecuzione virtuosistica (senza opera). Questo spazio a struttura pubblica, Marx lo chiama «cooperazione». Si potrebbe dire: a un certo grado di sviluppo delle forze produttive sociali, la co-

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operazione lavorativa introietta in sé la comunicazione verbale, somigliando quindi a una esecuzione virtuosistica o, appunto, a un complesso di azioni politiche. Ricordate il celeberrimo testo di Max Weber sulla politica come professione (Weber 1919, pp. 133-135)? Weber enuclea una serie di doti che contraddistinguono l’uomo politico: saper mettere in pericolo la salute della propria anima, un giusto equilibrio fra etica della convinzione e etica della responsabilità, dedizione allo scopo ecc. Bisognerebbe rileggere questo testo in riferimento al toyotismo, al lavoro basato sul linguaggio, alla mobilitazione produttiva delle facoltà cognitive. Il saggio di Weber ci parla delle doti richieste, oggi, dalla produzione materiale. 3. Il parlante come artista esecutore Ognuno di noi è, già da sempre, un virtuoso, un artista esecutore. Talvolta mediocre o impacciato, ma, a tutti gli effetti, virtuoso. Infatti, il modello basilare del virtuosismo, l’esperienza che ne fonda il concetto, è l’attività del parlante. Non l’attività di un locutore sapiente e forbito, ma di qualsiasi locutore. Il linguaggio verbale umano, non essendo un puro utensile o un complesso di segnali strumentali (caratteristiche, queste, che ineriscono semmai ai linguaggi degli animali non umani: si pensi alle api, ai segnali mediante cui coordinano l’approvvigionamento del cibo), ha il suo compimento in se stesso, non produce (almeno: non di regola, non necessariamente) un «oggetto» indipendente dalla stessa esecuzione enunciativa. Il linguaggio è «senza opera». Ogni enunciazione è una prestazione virtuosistica. Ed è tale anche perché, ovviamente, è connessa (direttamente o indirettamente) alla presenza altrui. Il linguaggio presuppone e, insieme, istituisce sempre di nuovo lo «spazio a struttura pubblica» di cui parla Arendt. Bisognerebbe rileggere i passi dell’Etica Nicomachea sulla differenza di principio tra poiesi (produ-

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zione) e prassi (politica) in stretto riferimento alla nozione di parole in Saussure (Saussure 1922, pp. 28-30) e, soprattutto, alle analisi di Emile Benveniste (Benveniste 1970) sull’enunciazione (dove per «enunciazione» si intende non già il contenuto dell’enunciato, il «che cosa si dice», ma la presa di parola come tale, il fatto stesso di parlare). In tal modo, si constaterebbe che i tratti differenziali della prassi rispetto alla poiesi coincidono in tutto e per tutto con i tratti differenziali del linguaggio verbale rispetto alla motilità o anche alla comunicazione non-verbale. C’è di più. Solo il parlante – a differenza del pianista, del ballerino, dell’attore – può fare a meno di un copione o di uno spartito. Il suo, è un virtuosismo duplice: non solo non produce un’opera che sia distinguibile dall’esecuzione, ma non ha neanche un’opera alle proprie spalle, da attualizzare mediante l’esecuzione. Infatti, l’atto di parole si giova solamente della potenzialità della lingua, o meglio, della generica facoltà di linguaggio: non di un testo prefissato nei dettagli. Il virtuosismo del parlante è prototipo e apice di ogni altro virtuosismo, esattamente perché include in sé la relazione potenza/atto, là dove invece il virtuosismo ordinario, o derivato, presuppone un atto determinato (le Variazioni Goldberg di Bach, mettiamo), da far rivivere sempre di nuovo. Ma su questo punto tornerò ancora. Basti dire, per ora, che la produzione contemporanea diventa «virtuosistica» (e quindi politica) proprio perché include in sé l’esperienza linguistica in quanto tale. Se così è, la matrice del postfordismo va reperita nei settori industriali in cui si ha «produzione di comunicazione a mezzo di comunicazione». Dunque nell’industria culturale. 4. Industria culturale: anticipazione e paradigma Il virtuosismo diventa lavoro massificato con la nascita dell’industria culturale. È lì che il virtuoso ha cominciato a timbrare il cartellino. Nell’industria culturale, in-

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fatti, l’attività senza opera, ossia l’attività comunicativa che ha in se stessa il proprio compimento, è un elemento caratterizzante, centrale, necessario. Ma proprio per questo motivo, è anzitutto nell’industria culturale che la struttura del lavoro salariato ha coinciso con quella dell’azione politica. Nei settori in cui si produce comunicazione a mezzo di comunicazione, le mansioni e i ruoli sono, insieme, «virtuosistici» e «politici». Un grande scrittore italiano, Luciano Bianciardi, nel suo romanzo più importante, La vita agra, racconta splendori e miserie dell’industria culturale, a Milano, negli anni Cinquanta. Una pagina ammirevole di questo libro illustra efficacemente ciò che distingue l’industria culturale dall’industria tradizionale e dall’agricoltura. Il protagonista della Vita agra, giunto a Milano da Grosseto con l’intenzione di vendicare le recenti morti sul lavoro avvenute nella sua regione, finisce con l’impiegarsi nella nascente industria culturale. Ma, dopo un breve periodo, viene licenziato. Ecco il brano che, oggi, ha un indubbio valore teorico: «…E mi licenziarono, soltanto per via di questo fatto che strascico i piedi, mi muovo piano, mi guardo attorno anche quando non è indispensabile. Nel nostro mestiere invece occorre staccarli bene da terra, i piedi, e ribatterli sull’impiantito sonoramente, bisogna muoversi, scarpinare, scattare, fare polvere, una nube di polvere possibilmente e poi nascondercisi dentro. Non è come fare il contadino o l’operaio. Il contadino si muove lento, perché tanto il suo lavoro va con le stagioni, lui non può seminare a luglio e vendemmiare a febbraio. L’operaio si muove svelto, ma se è alla catena, perché lì gli hanno contato i tempi di produzione, e se non cammina a quel ritmo sono guai […]. Ma il fatto è che il contadino appartiene alle attività primarie, e l’operaio alle secondarie. L’uno produce dal nulla, l’altro trasforma una cosa in un’altra. Il metro di valutazione per l’operaio e per il contadino è facile, quantitativo: se la fab-

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brica sforna tanti pezzi all’ora, se il podere rende. Nei nostri mestieri è diverso, non ci sono metri di valutazione quantitativa. Come si misura la bravura di un prete, di un pubblicitario, di un Prm? Costoro né producono dal nulla, né trasformano. Non sono né primari, né secondari. Terziari sono e anzi oserei dire […] addirittura quartari. Non sono strumenti di produzione, e nemmeno cinghie di trasmissione. Sono lubrificante, al massimo, sono vaselina pura. Come si può valutare un prete, un pubblicitario, un Prm? Come si fa a calcolare la quantità di fede, di desiderio di acquisto, di simpatia che costoro saranno riusciti a far sorgere? No, non abbiamo altro metro se non la capacità di ciascuno di restare a galla, e di salire più su, insomma di diventare vescovo. In altre parole, a chi scelga una professione terziaria o quartaria occorrono doti e attitudini di tipo politico. La politica, come tutti sanno, ha cessato da molto tempo di essere scienza del buon governo ed è diventata invece arte della conquista e della conservazione del potere. Così la bontà di un uomo politico non si misura sul bene che egli riesce a fare agli altri, ma sulla rapidità con cui arriva al vertice e sul tempo per cui vi si mantiene. […] Allo stesso modo, nelle professioni terziarie e quartarie, non esistendo alcuna visibile produzione di beni che funga da metro, il criterio sarà quello» (Bianciardi 1962, pp. 129-132; corsivi miei). Per molti versi, l’analisi di Bianciardi è visibilmente datata, giacché, in essa, le mansioni dell’industria culturale figurano come un’eccezione marginale e stravagante. E poi, è quanto meno superficiale la riduzione della politica a pura e semplice sopraffazione. Nonostante ciò, nel brano che ho appena letto balza agli occhi una formidabile intuizione, che riprende a modo suo, e rimescola, la tesi di Arendt sulla rassomiglianza tra virtuosi e politici, nonché le notazioni di Marx sui lavori che non hanno per esito un’«opera» indipendente. Bianciardi sottolinea la crescente «politicità» del lavoro nell’industria culturale. Ma, ecco

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l’importante, lega questa politicità al fatto che in tale industria non si producono opere separate dall’agire stesso. Là dove difetta un’«opera» estrinseca, vi è azione politica. Sia chiaro: nell’industria culturale (come poi oggi, in epoca postfordista, nell’industria in genere) non mancano certo prodotti finiti da smerciare alla fine del processo produttivo. Il punto cruciale è, però, che, mentre la produzione materiale di oggetti è demandata al sistema di macchine automatizzato, le prestazioni del lavoro vivo assomigliano sempre più, invece, a prestazioni linguistico-virtuosistiche. C’è da domandarsi quale ruolo abbia svolto l’industria culturale in relazione al superamento del fordismo/taylorismo. Ritengo che essa abbia messo a punto il paradigma della produzione post-fordista nel suo complesso. Ritengo quindi che le procedure dell’industria culturale siano divenute, da un certo punto in poi, esemplari e pervasive. Nell’industria culturale, anche in quella arcaica esaminata da Benjamin e Adorno, si può cogliere il preannuncio di un modo di produrre che poi, con il postfordismo, si generalizza e assurge al rango di canone. Per capirci meglio, riandiamo per un momento alla critica dell’industria della comunicazione da parte dei pensatori della Scuola di Francoforte. In Dialettica dell’Illuminismo (Adorno, Horckheimer 1947, pp. 130-180), gli autori sostengono, grosso modo, che anche le «fabbriche dell’anima» (editoria, cinema, radio, televisione ecc.) si conformano ai criteri fordisti della serialità e della parcellizzazione. Anche in esse sembra affermarsi la catena di montaggio, simbolo preclaro delle fabbriche di automobili. Il capitalismo – è questa la tesi – mostra di poter meccanizzare e parcellizzare perfino la produzione spirituale, proprio come ha fatto con l’agricoltura e la lavorazione dei metalli. Serialità, insignificanza della singola mansione, econometria delle emozioni e dei sentimenti: ecco i refrains ricorrenti. Questo approccio critico ammetteva, beninteso, che, nel caso peculiare dell’industria culturale, permangono al-

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cuni aspetti refrattari a una completa assimilazione all’organizzazione fordista del processo lavorativo. Nell’industria culturale, cioè, era pur necessario mantenere aperto un certo spazio all’informale, al non programmato, al guizzo di imprevisto, all’improvvisazione comunicativa e ideativa: non per favorire la creatività umana, beninteso, ma per ottenere una soddisfacente produttività aziendale. Sennonché, per la Scuola di Francoforte, questi aspetti erano nient’altro che residui ininfluenti, scorie del passato, detriti. A contare era solo la generale fordizzazione dell’industria culturale. Ora, a me pare che, guardando le cose dall’angolo prospettico del nostro presente, non è difficile riconoscere che questi pretesi residui (un certo spazio concesso all’informale, all’imprevisto, al «fuori programma») erano invece carichi di futuro. Non si trattava di residui, ma di presagi anticipatori. L’informalità dell’agire comunicativo, l’interazione competitiva tipica di una riunione di redazione, la brusca variazione che può animare un programma televisivo, in genere tutto ciò che sarebbe stato disfunzionale irrigidire e regolamentare oltre una certa soglia, è diventato oggi, nell’epoca postfordista, un tratto tipico dell’intera produzione sociale. Non solo dell’odierna industria culturale, ma anche della Fiat di Melfi. Se Bianciardi parlava del lavoro in cui vige un nesso tra attività-senza-opera (virtuosistica) e attitudini politiche come di una stravaganza marginale, ora si tratta della regola. L’intreccio tra virtuosismo, politica, lavoro è dilagato per ogni dove. Resta da chiedersi, semmai, quale ruolo specifico assolva oggi l’industria della comunicazione, allorché tutti i settori industriali si ispirano al suo modello. Ciò che un tempo anticipò la svolta postfordista, che funzione adempie allorché il postfordismo si è pienamente dispiegato? Per rispondere, conviene soffermarsi un momento sul concetto di «spettacolo» e di «società dello spettacolo». 5. Il linguaggio sul palcoscenico

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Credo che la nozione di «spettacolo», di per sé non poco equivoca, costituisca tuttavia uno strumento utile per decifrare alcuni aspetti della moltitudine postfordista (che è, si badi, una moltitudine di virtuosi, di lavoratori che, per lavorare, ricorrono a doti genericamente «politiche»). Il concetto di «spettacolo», coniato negli anni Sessanta dai situazionisti, è un concetto propriamente teorico, non estraneo alla trama dell’argomentazione marxiana. Per Guy Debord (Debord 1967), lo «spettacolo» è la comunicazione umana divenuta merce. Ciò che si dà a vedere in forma di spettacolo, è precisamente la facoltà umana di comunicare, il linguaggio verbale in quanto tale. Dunque, non è in questione una geremiade rancorosa contro la società dei consumi (sempre un po’ sospetta, perché si rischia, come accadde a Pasolini, di rimpiangere la beata convivenza tra bassi consumi e pellagra). La comunicazione umana, in quanto spettacolo, è una merce tra le altre, sprovvista di speciali qualità o prerogative. Ma, per altro verso, è una merce che concerne, da un certo punto in poi, tutti i settori industriali. Qui sta il problema. Da un lato, lo spettacolo è il prodotto particolare di un’industria particolare, l’industria detta culturale per l’appunto. Dall’altro, nel postfordismo, la comunicazione umana è anche un ingrediente essenziale della cooperazione produttiva in genere; dunque, è la regina delle forze produttive, qualcosa che oltrepassa il proprio ambito settoriale, riguardando piuttosto l’industria nel suo insieme, la poiesi nella sua totalità. Nello spettacolo sono esibite, in una forma separata e feticizzata, le più rilevanti forze produttive della società, quelle forze produttive cui deve necessariamente attingere qualsiasi processo lavorativo contemporaneo: competenze linguistiche, sapere, immaginazione ecc. Lo spettacolo ha, dunque, una doppia natura: prodotto specifico di un’industria particolare, ma anche, al tempo stesso, quintessenza del modo di produ-

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zione nel suo complesso. Debord scrive che lo spettacolo è «l’esposizione generale della razionalità del sistema» (ivi, p. 28). A dar spettacolo, per così dire, sono le stesse forze produttive della società in quanto esse coincidono, in misura sempre maggiore, con le competenze linguistico-comunicative e con il General Intellect. La doppia natura dello spettacolo richiama alla mente, per certi versi, la doppia natura del denaro. Come sapete, il denaro è una merce fra le altre, fabbricata dalla zecca di Stato a Roma, dotata di un corpiciattolo metallico o cartaceo. Ma ha anche una seconda natura: è l’equivalente, l’unità di misura, di tutte le altre merci. Particolare e universale a un tempo, il denaro; particolare e universale a un tempo, lo spettacolo. Il paragone, senza dubbio attraente, è però sbagliato. A differenza del denaro, che misura l’esito di un processo produttivo ormai concluso, lo spettacolo concerne piuttosto il processo produttivo in fieri, nel suo farsi, nella sua potenzialità. Lo spettacolo, secondo Debord, mostra ciò che donne e uomini possono fare. Mentre il denaro rispecchia in sé il valore delle merci, dunque ciò che la società ha già fatto, lo spettacolo esibisce in una forma separata ciò che l’insieme della società può essere e fare. Se il denaro è l’«astrazione reale» (per usare una classica espressione marxiana) che si riferisce alle opere concluse, al passato del lavoro, lo spettacolo invece, secondo Debord, è l’«astrazione reale» che ritrae l’operare stesso, il presente del lavoro. Se il denaro mette capo allo scambio, lo spettacolo, comunicazione umana divenuta merce, mette capo semmai alla cooperazione produttiva. Bisogna concludere, dunque, che lo spettacolo, ovvero la capacità comunicativa umana divenuta merce, ha, sì, una doppia natura, ma una doppia natura diversa da quella del denaro. Quale? La mia ipotesi è che l’industria della comunicazione (o meglio, dello spettacolo; o ancora, l’industria culturale), è un’industria fra le altre, con le sue specifiche tecniche, le

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sue particolari procedure, i suoi peculiari profitti ecc., ma che, per altro verso, essa assolve anche il ruolo di industria dei mezzi di produzione. Tradizionalmente, l’industria dei mezzi di produzione è l’industria che produce macchine e altri strumenti, da impiegare poi nei più diversi settori produttivi. Tuttavia, in una situazione in cui gli strumenti di produzione non si riducono a macchine, ma consistono in competenze linguistico-cognitive inscindibili dal lavoro vivo, è lecito ritenere che una parte cospicua dei cosiddetti «mezzi di produzione» consista in tecniche e procedure comunicative. Ebbene, dove sono forgiate queste tecniche e queste procedure, se non nell’industria culturale? L’industria culturale produce (innova, sperimenta) le procedure comunicative, che sono destinate poi a fungere da mezzi di produzione anche nei settori più tradizionali dell’economia contemporanea. Ecco il ruolo dell’industria della comunicazione, una volta che il postfordismo si è affermato pienamente: industria dei mezzi di comunicazione. 6. Virtuosismo al lavoro Il virtuosismo, con la sua intrinseca politicità, caratterizza non solo l’industria culturale, ma l’insieme della produzione sociale contemporanea. Si potrebbe dire che, nell’organizzazione lavorativa postfordista, l’attività senza opera, da caso speciale e problematico (si ricordino le incertezze di Marx al suo proposito), diventa il prototipo del lavoro salariato in generale. Ripeto un punto già detto: ciò non significa, naturalmente, che non si producano più cruscotti di macchine, ma che, per una parte crescente delle mansioni lavorative, il compimento dell’azione è interno all’azione stessa (ovvero non consiste nel dar luogo a un semilavorato indipendente). Una situazione di questo genere è adombrata dallo stesso Marx nei Grundrisse, allorché scrive che, con la grande industria automatizzata e l’applicazione intensiva

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e sistematica delle scienze della natura al processo produttivo, l’attività lavorativa «si colloca accanto al processo di produzione immediato anziché esserne l’agente principale» (Marx 1939-1941, II, p. 401). Questo collocarsi «accanto» al processo di produzione immediato significa, dice ancora Marx, che il lavoro coincide sempre più con una «attività di sorveglianza e di coordinamento». Detto altrimenti: le mansioni dell’operaio o dell’impiegato non consistono più nel conseguimento di un singolo scopo particolare, ma nel variare e intensificare la cooperazione sociale. Consentitemi un inciso. Il concetto di cooperazione sociale, che in Marx è assai complesso e delicato, può essere pensato in due modi diversi. Vi è, anzitutto, un’accezione «oggettiva»: ciascun individuo fa cose diverse, specifiche, che vengono messe in relazione dall’ingegnere o dal capo fabbrica: la cooperazione, in tal caso, trascende l’attività degli individui, non ha rilievo nel loro concreto operare. In secondo luogo, però, bisogna considerare anche una nozione «soggettiva» di cooperazione: essa prende corpo quando una parte consistente del lavoro individuale consiste nello sviluppare, affinare, intensificare la cooperazione stessa. Nel postfordismo prevale la seconda accezione di cooperazione. Cerco di spiegarmi meglio con un paragone. Da sempre, una risorsa dell’impresa capitalistica è stato il cosiddetto «furto dell’informazione operaia». Vale a dire: quando gli operai trovavano il modo di eseguire il lavoro con meno fatica, facendo una pausa in più ecc., la gerarchia aziendale sfruttava questa minima conquista, anche conoscitiva, per modificare l’organizzazione del lavoro. Secondo me, si ha però un cambiamento rilevante allorché la mansione dell’operaio o dell’impiegato consiste proprio, in certa misura, nel trovare espedienti, «trucchi», soluzioni che migliorino l’organizzazione del lavoro. In quest’ultimo caso, l’informazione operaia non è utilizzata di soppiatto, ma è richiesta esplicitamente, ovvero diventa uno dei compiti la-

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vorativi. Lo stesso cambiamento si ha, per l’appunto, a proposito della cooperazione: non è la stessa cosa se i lavoratori sono coordinati di fatto dall’ingegnere o se si chiede loro di inventare e produrre nuove procedure cooperative. Anziché restare sullo sfondo, l’agire di concerto, l’interazione linguistica viene in primissimo piano. Allorché la cooperazione «soggettiva» diventa la principale forza produttiva, le azioni lavorative mostrano una spiccata indole linguistico-comunicativa, implicano l’esposizione agli occhi degli altri. Viene meno il carattere monologico del lavoro: la relazione con gli altri è un elemento originario, basico, non qualcosa di accessorio. Laddove il lavoro compare accanto al processo produttivo immediato, anziché esserne una componente, la cooperazione produttiva è uno «spazio a struttura pubblica». Questo «spazio a struttura pubblica» – conficcato nel processo lavorativo – mobilita attitudini tradizionalmente politiche. La politica (in senso ampio) diventa forza produttiva, mansione, «cassetta degli attrezzi». Si potrebbe dire che il motto araldico del postfordismo sia, sarcasticamente, «politica innanzitutto». Del resto, che cos’altro significa il discorso sulla «qualità totale», se non la richiesta di mettere a disposizione della produzione il gusto per l’azione, l’attitudine ad affrontare il possibile e l’imprevisto, la capacità di cominciare qualcosa di nuovo? Quando il lavoro sotto padrone chiama in causa il gusto per l’azione, la capacità relazionale, l’esposizione agli occhi degli altri – tutte cose che la generazione precedente sperimentava nella sezione di partito –, possiamo dire che alcuni tratti distintivi dell’animale umano, anzitutto il suo aver-linguaggio, sono sussunti dentro la produzione capitalistica. L’inclusione della stessa antropogenesi nel modo di produzione vigente è un evento estremo. Altro che le chiacchiere heideggeriane sull’«epoca della tecnica»… Questo evento non attenua, ma radicalizza le antinomie della formazione economico-sociale capitalistica. Nessuno

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è così povero come colui che vede la propria relazione con la presenza altrui, ossia la propria facoltà comunicativa, il proprio aver-linguaggio, ridotti a lavoro salariato. 7. L’Intelletto in quanto spartito Se l’insieme del lavoro postfordista è lavoro produttivo (di plusvalore) proprio perché agisce in modo politico-virtuosistico, la domanda da porsi è: qual è lo spartito che i lavoratori-virtuosi eseguono? Qual è il copione delle performance linguistico-comunicative? Il pianista esegue un valzer di Chopin, l’attore resta più o meno fedele a una sceneggiatura preliminare, l’oratore ha almeno qualche appunto cui far riferimento: tutti gli artisti esecutori possono far conto su uno spartito. Ma quando il virtuosismo inerisce alla totalità del lavoro sociale, qual è lo spartito? Per parte mia, sostengo senza troppe incertezze che lo spartito eseguito dalla moltitudine postfordista è l’Intelletto, l’intelletto in quanto generica facoltà umana. Nei termini di Marx, lo spartito dei moderni virtuosi è il General Intellect, l’intelletto generale della società, il pensiero astratto divenuto pilastro della produzione sociale. Torniamo così a un tema (General Intellect, intelletto pubblico, «luoghi comuni» ecc.) trattato nella prima giornata. Per General Intellect, Marx intende la scienza, la conoscenza in genere, il sapere da cui dipende ormai la produttività sociale. Il virtuosismo consiste nel modulare, articolare, variare il General Intellect. La politicizzazione del lavoro (ossia la sussunzione nell’ambito del lavoro di quanto prima atteneva all’azione politica) avviene precisamente quando il pensiero diventa la molla principale della produzione di ricchezza. Il pensiero cessa di essere un’attività inappariscente, e diviene qualcosa di esteriore o di «pubblico», allorché irrompe nel processo produttivo. Si potrebbe dire: solo allora, solo quando ha per pro-

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prio baricentro l’intelletto linguistico, l’attività lavorativa può assorbire in sé molte delle caratteristiche che prima appartenevano alla azione politica. Finora si è discusso della giustapposizione tra Lavoro e Politica. Ora, però, entra in campo anche il terzo ambito dell’esperienza umana, l’Intelletto. Esso è lo «spartito» sempre di nuovo eseguito dai lavoratori-virtuosisti. Penso che l’ibridazione tra le diverse sfere (pensiero puro, vita politica e lavoro) cominci precisamente allorché l’Intelletto, in quanto principale forza produttiva, diviene pubblico. Solo allora il lavoro prende sembianze virtuosistiche (o comunicative) e, quindi, si colora di tonalità «politiche». Marx attribuisce al pensiero un carattere esteriore, un’indole pubblica, in due occasioni diverse. Anzitutto, quando utilizza l’espressione, molto bella anche dal punto di vista filosofico, di «astrazione reale»; poi, quando parla di «General Intellect». Un’astrazione reale è, per esempio, il denaro. Nel denaro, infatti, si incarna, diviene reale, uno dei principi-guida del pensiero umano: l’idea di equivalenza. Questa idea, di per sé quanto mai astratta, acquisisce un’esistenza concreta, addirittura tintinna nel portafoglio. Il divenire cosa di un pensiero: ecco che cos’è una astrazione reale. A ben vedere, il concetto di General Intellect non fa che sviluppare a dismisura la nozione di astrazione reale. Con General Intellect, Marx indica lo stadio in cui non sono più certi fatti (mettiamo la moneta) ad avere il valore e lo statuto di un pensiero, ma sono i nostri pensieri, come tali, ad avere immediatamente il valore di fatti materiali. Se nel caso dell’astrazione reale è un fatto empirico (per esempio lo scambio di equivalenti) a esibire la sofisticata struttura di un pensiero puro, nel caso del General Intellect il rapporto si rovescia: ora sono i nostri pensieri a presentarsi con il peso e l’incidenza tipica dei fatti. Il General Intellect è lo stadio in cui le astrazioni mentali sono immediatamente, di per sé, astrazioni reali. Qui, però, sorgono i problemi. O, se preferite, affiora

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una certa insoddisfazione rispetto alle formulazioni di Marx. La difficoltà nasce dal fatto che Marx concepisce l’«intelletto generale» come capacità scientifica oggettivata, come sistema di macchine. Ovviamente, questo aspetto conta, ma non è tutto. Bisognerebbe considerare il lato per cui l’intelletto generale, anziché incarnarsi (o meglio, inferrarsi) nel sistema di macchine, esiste come attributo del lavoro vivo. Il General Intellect si presenta innanzitutto, oggi, come comunicazione, astrazione, autoriflessione di soggetti viventi. Sembra lecito affermare che, per la logica stessa dello sviluppo economico, è necessario che una parte del General Intellect non si rapprenda in capitale fisso, ma si esplichi nella interazione comunicativa, in forma di paradigmi epistemici, performance dialogiche, giochi linguistici. Detto in altri termini, l’intelletto pubblico fa tutt’uno con la cooperazione, con l’agire di concerto del lavoro vivo, con la competenza comunicativa degli individui. Nel capitolo quinto del primo libro de Il capitale, Marx scrive: «Il processo lavorativo, così come l’abbiamo esposto nei suoi movimenti semplici e astratti, è attività finalistica per la produzione di valori d’uso […]. Perciò non abbiamo avuto bisogno di presentare il lavoratore in rapporto con altri lavoratori. Sono stati sufficienti da una parte l’uomo e il suo lavoro, dall’altra la natura e i suoi materiali» (Marx 1867, I, p. 218). In questo capitolo Marx descrive il processo di lavoro come processo naturale di ricambio organico tra l’uomo e la natura, dunque in termini generali e astratti, senza badare ai rapporti storico-sociali. E tuttavia c’è da chiedersi se, pur restando su questo piano molto generale (quasi antropologico), sia lecito espungere dal concetto di lavoro l’aspetto interattivo, ossia la relazione con gli altri lavoratori. Certamente non è lecito allorché l’attività lavorativa ha il suo nocciolo duro in prestazioni comunicative. È impossibile, allora, tratteggiare il processo lavorativo senza presentare fin dall’inizio il lavoratore in rapporto con altri lavoratori; o, a vo-

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ler utilizzare ancora la categoria del virtuosismo, in rapporto con il suo «pubblico». Il concetto di cooperazione comprende in sé, per intero, l’attitudine comunicativa degli esseri umani. Ciò vale soprattutto laddove la cooperazione è addirittura uno specifico «prodotto» dell’attività lavorativa, ovvero qualcosa che viene promosso, elaborato, affinato dagli stessi cooperanti. Il General Intellect esige un agire virtuosistico (ossia, in senso lato, un agire politico), proprio perché una sua parte consistente non si riversa nel sistema di macchine, ma si manifesta nella immediata attività del lavoro vivo, nella sua cooperazione linguistica. L’intelletto, la pura facoltà di pensiero, il semplice aver-linguaggio: ecco dunque, ripetiamolo ancora, lo «spartito» eseguito sempre di nuovo dai virtuosi postfordisti. (Si noti la differenza di approccio tra l’esposizione odierna e quella della precedente giornata seminariale: ciò che oggi è «spartito» del virtuoso, l’intelletto, l’altra volta compariva come fondamentale risorsa apotropaica, come riparo dall’indeterminata rischiosità del contesto mondano. È bene considerare insieme i due aspetti: la moltitudine contemporanea, con le sue forme di vita e i suoi giochi linguistici, si colloca al crocevia tra queste due accezioni di «intelletto pubblico»). Vorrei riprendere e sottolineare, qui, un punto importante, già accennato prima. Mentre il virtuoso propriamente detto (il pianista o il ballerino, per esempio) usufruisce di uno spartito ben definito, cioè di un’opera in senso proprio e stretto, il virtuoso postfordista, «eseguendo» la propria facoltà linguistica, non ha per presupposto un’opera determinata. Per General Intellect, non deve intendersi l’insieme delle conoscenze acquisite dalla specie, ma la facoltà di pensare; la potenza come tale, non le sue innumerevoli realizzazioni particolari. L’«intelletto generale» è nient’altro che l’intelletto in generale. Torna a proposito, qui, l’esempio già esaminato del parlante. Avendo come unico «spartito» l’infi-

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nita potenzialità della propria facoltà di linguaggio, un locutore (ogni locutore) articola degli atti di parola determinati: ebbene, la facoltà di linguaggio è il contrario di un copione ben definito, di un’opera con queste o quelle caratteristiche inconfondibili. Il virtuosismo della moltitudine postfordista fa tutt’uno con il virtuosismo del parlante: virtuosismo senza copione, o meglio, dotato di un copione coincidente con la pura e semplice dynamis, con la pura e semplice potenza. È opportuno aggiungere che il rapporto tra «spartito» ed esecuzione virtuosistica è regolato dalle norme dell’impresa capitalistica. La messa a lavoro (e a profitto) delle più generiche facoltà comunicative e cognitive dell’animale umano ha un indice storico, una forma storicamente determinata. Il General Intellect si manifesta, oggi, come perpetuazione del lavoro salariato, sistema di gerarchie, asse portante della produzione di plusvalore. 8. Ragion di Stato e Esodo Si possono delineare a questo punto alcune conseguenze dell’ibridazione tra Lavoro, Azione (politica) e Intelletto. Conseguenze tanto sul piano della produzione che su quello della sfera pubblica (Stato, apparati amministrativi). L’intelletto diventa pubblico allorché si congiunge al lavoro; tuttavia, bisogna osservare che, una volta congiunto al lavoro salariato, la sua tipica pubblicità è anche inibita e distorta. Sempre di nuovo evocata in quanto forza produttiva, essa è sempre di nuovo soppressa in quanto sfera pubblica propriamente detta, eventuale radice dell’Azione politica, diverso principio costituzionale. Il General Intellect è il fondamento di una cooperazione sociale più ampia di quella specificamente lavorativa. Più ampia e, insieme, del tutto eterogenea. Si riaffaccia qui un tema già trattato nella prima giornata seminariale.

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Mentre le connessioni del processo produttivo si basano sulla divisione tecnica e gerarchica delle mansioni, l’agire di concerto imperniato sul General Intellect muove dalla comune partecipazione alla «vita della mente», ossia dalla preliminare condivisione di attitudini comunicative e cognitive. Tuttavia, la cooperazione eccedente dell’Intelletto, anziché elidere le coazioni della produzione capitalistica, figura come la più eminente risorsa di quest’ultima. La sua eterogeneità non ha voce né visibilità. Anzi, poiché l’appariscenza dell’Intelletto diventa il prerequisito tecnico del Lavoro, l’agire di concerto extralavorativo che essa provoca è a sua volta sottomesso ai criteri e alle gerarchie che caratterizzano il regime di fabbrica. Due sono le principali conseguenze di questa situazione paradossale. La prima riguarda la natura e la forma del potere politico. La peculiare pubblicità dell’Intelletto, privata di un’espressione sua propria da quel Lavoro che pure la reclama come forza produttiva, si manifesta indirettamente nell’ambito dello Stato mediante la crescita ipertrofica degli apparati amministrativi. L’amministrazione, non più il sistema politico-parlamentare, è il cuore della statualità: ma lo è, appunto perché rappresenta una concrezione autoritaria del General Intellect, il punto di fusione tra sapere e comando, l’immagine capovolta della cooperazione eccedente. È ben vero che da decenni viene segnalato il peso crescente e determinante della burocrazia nel «corpo politico», la preminenza del decreto rispetto alla legge: qui, però, vorrei indicare una soglia inedita. In breve, non siamo più di fronte ai risaputi processi di razionalizzazione dello Stato, ma, all’inverso, occorre ormai constatare l’avvenuta statizzazione dell’Intelletto. L’antica espressione «ragion di Stato» acquista per la prima volta un significato non metaforico. Se Hobbes scorgeva il principio di legittimazione del potere assoluto nel trasferimento del diritto naturale di ogni singolo individuo alla persona del sovrano, ora, invece, bisognerebbe parlare di un tra-

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sferimento dell’Intelletto, o meglio, della sua immediata e irriducibile pubblicità, all’amministrazione statale. La seconda conseguenza riguarda l’effettiva natura del regime postfordista. Poiché lo «spazio a struttura pubblica» aperto dall’Intelletto è ridotto ogni volta da capo a cooperazione lavorativa, cioè a una fitta rete di relazioni gerarchiche, la funzione dirimente che ha la «presenza altrui» in tutte le concrete operazioni produttive prende la forma della dipendenza personale. Detto altrimenti, l’attività virtuosistica si dà a vedere come universale lavoro servile. L’affinità tra il pianista e il cameriere, che Marx aveva notato, trova una inopinata conferma nell’epoca in cui tutto il lavoro salariato ha qualcosa dell’«artista esecutore». Solo che, a prendere le sembianze del lavoro servile, è lo stesso lavoro produttivo di plusvalore. Quando «il prodotto è inseparabile dall’atto del produrre», questo atto chiama in causa la persona di chi lo compie e, soprattutto, il rapporto tra essa e quella di colui che lo ha ordinato o a cui è rivolto. La messa al lavoro di ciò che è comune, vale a dire dell’intelletto e del linguaggio, se per un verso rende fittizia l’impersonale divisione tecnica delle mansioni, per l’altro, non traducendosi tale comunanza in una sfera pubblica (ovvero in una comunità politica), induce una vischiosa personalizzazione dell’assoggettamento. La domanda cruciale suona così: è possibile scindere ciò che oggi è unito, vale a dire l’Intelletto (il General Intellect) e il Lavoro (salariato), e unire ciò che oggi è scisso, cioè l’Intelletto e l’Azione politica? È possibile passare dall’«antica alleanza» Intelletto/Lavoro a una «nuova alleanza» Intelletto/Azione politica? Sottrarre l’agire politico alla paralisi attuale non è cosa diversa dallo sviluppare la pubblicità dell’Intelletto al di fuori del Lavoro salariato, in opposizione a esso. La faccenda mostra due profili distinti, tra i quali però sussiste la più stretta complementarietà. Da una parte, il General Intellect si afferma come autonoma sfera pubblica soltan-

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to se viene recisa la giuntura che lo avvince alla produzione di merci e al lavoro salariato. D’altra parte, la sovversione dei rapporti capitalistici di produzione può manifestarsi, ormai, soltanto con l’istituzione di una sfera pubblica non statale, di una comunità politica che abbia a proprio cardine il General Intellect. I tratti salienti dell’esperienza postfordista (servile virtuosismo, valorizzazione della stessa facoltà di linguaggio, immancabile relazione con la «presenza altrui» ecc.) postulano, come contrappasso conflittuale, niente di meno che una forma radicalmente nuova di democrazia. La sfera pubblica non statale è la sfera pubblica che si conforma al modo di essere della moltitudine. Essa si giova della «pubblicità» del linguaggio/pensiero, del carattere estrinseco, appariscente, condiviso dell’Intelletto in quanto spartito dei virtuosi. Si tratta di una «pubblicità» – come già si è osservato nella prima giornata seminariale – del tutto eterogenea rispetto a quella istituita dalla sovranità statale o, per dirla con Hobbes, dall’«unità del corpo politico». Questa «pubblicità», che oggi si manifesta come un’eminente risorsa produttiva, può diventare un principio costituzionale, una sfera pubblica appunto. Com’è possibile un virtuosismo non servile? Come si passa, ipoteticamente, dal virtuosismo servile a un virtuosismo «repubblicano» (intendendo per «repubblica della moltitudine» un ambito degli affari comuni non più statale)? Come concepire, in linea di principio, l’azione politica basata sul General Intellect? Su questo terreno, bisogna andare cauti. Tutto quel che si può fare, è indicare la forma logica di qualcosa di cui manca ancora una solida esperienza empirica. Propongo due parole-chiave: disobbedienza civile ed esodo. La «disobbedienza civile» rappresenta, forse, la forma basilare di azione politica della moltitudine. A patto però di emanciparla dalla tradizione liberale in cui è incapsulata. Non si tratta di disattendere una specifica legge per-

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ché incoerente o contraddittoria con altre norme fondamentali, per esempio con la carta costituzionale: in tal caso, infatti, la renitenza testimonierebbe soltanto una più profonda lealtà al comando statale. Viceversa, la disobbedienza radicale che qui interessa rimette in questione la stessa facoltà di comandare dello Stato. Una piccola digressione per capirci meglio. Secondo Hobbes, con l’istituzione del «corpo politico», ci obblighiamo a obbedire prima ancora di sapere che cosa ci sarà ordinato: «L’obbligo di obbedienza, in forza del quale le leggi civili sono valide, precede ogni legge civile» (Hobbes 1642, XIV, p. 21). Per questo, non si troverà una legge particolare che intimi esplicitamente di non ribellarsi. Se l’accettazione incondizionata del comando non fosse già presupposta, le concrete disposizioni legislative (compresa ovviamente quella che recita «non ti ribellerai») non avrebbero validità alcuna. Hobbes sostiene che l’originario vincolo di obbedienza deriva dalla «legge naturale», cioè dal comune interesse all’autoconservazione e alla sicurezza. Sennonché, si affretta ad aggiungere, quella «naturale», ossia la Superlegge che impone di osservare tutti gli ordini del sovrano, diventa effettivamente una legge «solo quando si è usciti dallo stato di natura, dunque quando lo Stato è ormai istituito». Si delinea così un autentico paradosso: l’obbligo di obbedienza è insieme causa e effetto dell’esistenza dello Stato, è sorretto da ciò di cui pure costituisce il fondamento, precede e segue a un tempo la formazione del «supremo imperio». Ebbene, la moltitudine prende di mira proprio l’obbedienza preliminare e senza contenuto sulla cui base soltanto può svilupparsi poi la malinconica dialettica tra acquiescenza e «trasgressione». Contravvenendo una particolare prescrizione sullo smantellamento dell’assistenza sanitaria o sul blocco dell’immigrazione, la moltitudine risale però al presupposto celato di ogni prescrivere imperativo e ne intacca la vigenza. Anche la disobbedienza radicale «precede

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le leggi civili», giacché non si limita a violarle, ma chiama in causa lo stesso fondamento della loro validità. E veniamo alla seconda parola-chiave: esodo. Terreno di coltura della disobbedienza sono i conflitti sociali che si manifestano non solo e non tanto come protesta, bensì soprattutto come defezione (per dirla con Albert O. Hirschman [Hirschman 1970], non come voice, ma come exit). Nulla è meno passivo di una fuga, di un esodo. La defezione modifica le condizioni entro cui la contesa ha luogo, anziché presupporle come un orizzonte inamovibile; cambia il contesto in cui è insorto un problema, invece di affrontare quest’ultimo scegliendo l’una o l’altra delle alternative previste. In breve, l’exit consiste in una invenzione spregiudicata, che altera le regole del gioco e fa impazzire la bussola dell’avversario. Basti pensare – si ricordi quanto già detto a tal proposito nella prima giornata seminariale – alla fuga di massa dal regime di fabbrica, messa in atto dagli operai americani a metà dell’Ottocento: inoltrandosi nella «frontiera» per colonizzare terre a basso costo, essi colsero l’occasione di rendere reversibile la propria condizione di partenza. Qualcosa di simile è accaduto nei tardi anni Settanta, in Italia, quando la forzalavoro giovanile, contraddicendo ogni aspettativa, preferì il precariato e il part-time al posto fisso nella grande impresa. Sia pure per un breve periodo, la mobilità occupazionale funzionò da risorsa politica, provocando l’eclisse della disciplina industriale e consentendo un certo grado di autodeterminazione. L’esodo, ossia la defezione, sta agli antipodi del disperato «non si ha da perdere che le proprie catene»: fa perno, anzi, su una ricchezza latente, su una esuberanza di possibilità, insomma sul principio del tertium datur. Ma qual è, per la moltitudine contemporanea, l’abbondanza virtuale che sollecita l’opzione-fuga a discapito dell’opzione-resistenza? In gioco non è, ovviamente, una «frontiera» spaziale, ma il sovrappiù di saperi, comunicazione,

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virtuosistico agire di concerto implicati dalla pubblicità del General Intellect. La defezione dà un’espressione autonoma, affermativa, in alto rilievo a questo sovrappiù, impedendo così il suo «trasferimento» nel potere dell’amministrazione statale, o la sua configurazione come risorsa produttiva dell’impresa capitalistica. Disobbedienza, esodo. È chiaro però che si tratta solo di allusioni a quello che potrebbe essere il virtuosismo politico, cioè non servile, della moltitudine.

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La moltitudine come soggettività Terza giornata

Il concetto di moltitudine merita forse lo stesso trattamento che il grande epistemologo francese Gaston Bachelard proponeva di riservare ai problemi e ai paradossi suscitati dalla meccanica quantistica. Bachelard sosteneva (Bachelard 1940, pp. 19-20) che la meccanica quantistica va intesa come un soggetto grammaticale che, per essere pensato adeguatamente, deve poter usufruire di molti «predicati» filosofici tra loro eterogenei: talvolta serve un concetto kantiano, talaltra risulta perspicua una nozione tratta dalla psicologia della Gestalt o, perché no, una sottigliezza della logica scolastica. Ciò vale anche nel nostro caso. Anche la moltitudine deve essere indagata mediante concetti ricavati da ambiti e autori diversi. È quel che si è cominciato a fare nelle prime due giornate seminariali. Nella prima giornata, ci si è accostati al modo di essere dei «molti» attraverso la dialettica timoreriparo. Come ricorderete, si sono adoperate parole-chiave tratte da Hobbes, Kant, Heidegger, Aristotele (i topoi koinoi, cioè i «luoghi comuni»), Marx, Freud. Nella seconda giornata, invece, la ricognizione della moltitudine contemporanea è proseguita discutendo la giustapposizione di poiesi e prassi, Lavoro e Azione politica. I «predicati» utilizzati a questo riguardo sono stati reperiti presso Hannah Arendt, Glenn Gould, il romanziere Luciano Bian-

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ciardi, Saussure, Guy Debord, ancora Marx, Hirschman e altri. Oggi prenderemo in esame un altro gruppo di concetti in grado, spero, di gettare luce, da un diverso angolo prospettico, sulla moltitudine. Il diverso angolo prospettico è costituito dalle forme della soggettività. I predicati da attribuire al soggetto grammaticale «moltitudine» sono: a) il principio di individuazione, ossia l’antica questione filosofica che verte su che cosa rende singolare una singolarità, individuale un individuo; b) la nozione foucaultiana di «biopolitica»; c) le tonalità emotive, o Stimmungen, che qualificano, oggi, le forme di vita dei «molti»: opportunismo e cinismo (si badi: per tonalità emotiva non intendo una passeggera increspatura psicologica, ma una caratteristica relazione con il proprio stare al mondo); d) infine, due fenomeni che, analizzati anche da Agostino e da Pascal, assurgono però al rango di temi filosofici in Essere e tempo di Heidegger: la chiacchiera e la curiosità. 1. Il principio di individuazione Moltitudine significa: la pluralità – letteralmente: l’esser-molti – come duratura forma di esistenza sociale e politica, contrapposta all’unità coesa del popolo. Ebbene, la moltitudine consiste in una rete di individui; i molti sono singolarità. Il punto decisivo è considerare queste singolarità come un punto di arrivo, non come un dato da cui partire; come l’esito ultimo di un processo di individuazione, non come atomi solipsistici. Proprio perché sono il risultato complesso di una progressiva differenziazione, i «molti» non postulano una sintesi ulteriore. L’individuo della moltitudine è il termine finale di un processo dopo il quale non c’è altro, perché tutto il resto (il passaggio dall’Uno ai Molti) c’è già stato. Quando si parla di un processo, o di un principio, di

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individuazione, bisogna tenere in massimo conto ciò che precede l’individuazione stessa. Si ha a che fare, innanzitutto, con una realtà preindividuale, ovvero con qualcosa di comune, universale, indifferenziato. Il processo che produce le singolarità ha un incipit non individuale, preindividuale. La singolarità mette radici nel suo opposto, proviene da ciò che le sta agli antipodi. La nozione di moltitudine sembra avere qualche familiarità con il pensiero liberale perché valorizza l’individualità, ma, a un tempo, se ne distacca radicalmente perché tale individualità è il frutto finale di una individuazione che muove dall’universale, dal generico, dal preindividuale. L’apparente vicinanza si rovescia nella massima lontananza. Chiediamoci: in che cosa consiste la realtà preindividuale che sta alla base dell’individuazione? Molte, e tutte legittime, sono le risposte possibili. In primo luogo, preindividuale è il fondo biologico della specie, cioè gli organi sensoriali, l’apparato motorio, le prestazioni percettive. È molto interessante quanto afferma a tal proposito Merleau-Ponty (Merleau-Ponty 1945, p. 293): «io non ho coscienza di essere il vero soggetto della mia sensazione più di quanto abbia coscienza di essere il vero soggetto della mia nascita e della mia morte». E poi: «la vista, l’udito, il tatto, con i loro campi, sono anteriori e rimangono estranei alla mia vita personale» (ivi, p. 451). La percezione non si fa descrivere con la prima persona singolare. Non è mai un «io» individuale che sente, vede, tocca, ma la specie come tale. Alla sensazione si addice piuttosto l’anonimo pronome «si»: si vede, si tocca, si sente. Il preindividuale insito nella sensazione è generica dotazione biologica, non suscettibile di singolarizzazione. In secondo luogo, preindividuale è la lingua, la lingua storico-naturale condivisa da tutti i locutori di una certa comunità. La lingua è di tutti e di nessuno. Anche nel suo caso, non vi è un «io» individuato, ma un «si»: si parla.

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L’uso della parola è, dapprima, interpsichico, sociale, pubblico. Non esiste – in nessun caso, tanto meno nel caso del neonato – un «linguaggio privato». È a tal proposito che si comprende tutta la portata del concetto di «intelletto pubblico» o General Intellect. Tuttavia la lingua, a differenza della percezione sensoriale, è un ambito preindividuale al cui interno si radica il processo di individuazione. L’ontogenesi, cioè le fasi di sviluppo del singolo essere vivente, consiste per l’appunto nel passaggio dal linguaggio come esperienza pubblica o interpsichica al linguaggio come esperienza singolarizzante e intrapsichica. Questo processo, a mio avviso, si compie allorché il bambino si avvede che il suo atto di parole non dipende solo dalla langue determinata (che per tanti aspetti assomiglia a un liquido amniotico o a un anonimo ambiente zoologico), ma è in relazione anche con una generica facoltà di parlare, con una indeterminata potenza di dire (che non si risolve mai nell’una o nell’altra lingua storico-naturale). La progressiva esplicitazione del rapporto tra la facoltà (o potenza) di parlare e il particolare atto di parole: ecco ciò che consente di superare il carattere preindividuale della lingua storico-naturale, provocando l’individuazione del locutore. Infatti, mentre la lingua è di tutti e di nessuno, il passaggio dal puro e semplice poter-dire a una enunciazione particolare e contingente determina lo spazio del «proprio mio». Ma questa è una faccenda complicata, cui qui posso riservare solo un’allusione. Per concludere: si tenga presente che, mentre il preindividuale percettivo resta tale, senza dar luogo a una individuazione, il preindividuale linguistico è, invece, la base o l’ambito in cui prende forma la singolarità individuata. In terzo luogo, preindividuale è il rapporto di produzione dominante. Si ha dunque a che vedere anche con una realtà preindividuale squisitamente storica. Nel capitalismo sviluppato, il processo lavorativo mobilita i requisiti più universali della specie: percezione, linguaggio,

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memoria, affetti. Ruoli e mansioni, in epoca postfordista, coincidono largamente con il Gattungswesen, o «esistenza generica», di cui parlava Marx nei Manoscritti economicofilosofici del 1844 (Marx 1932, pp. 227-228). Preindividuale è l’insieme delle forze produttive. È la cooperazione sociale come agire di concerto, insieme di relazioni poietiche, «politiche», cognitive, emotive. È il General Intellect, l’intelletto generale, oggettivo, estrinseco. La moltitudine contemporanea è composta da individui individuati, che hanno alle proprie spalle anche questa realtà preindividuale (oltre che, naturalmente, l’anonima percezione sensoriale e la lingua di tutti e di nessuno). Un Soggetto anfibio. È stato recentemente pubblicato anche in Italia un testo importante di Gilbert Simondon, filosofo francese molto caro a Gilles Deleuze, finora piuttosto trascurato (anche in Francia, si badi). Il libro si intitola L’individuazione psichica e collettiva (Simondon 1989). La riflessione di Simondon sul principio di individuazione offre altri «predicati» concettuali da applicare al soggetto grammaticale che ci sta a cuore, la moltitudine. Due tesi di Simondon sono particolarmente rilevanti per qualsivoglia discorso sulla soggettività nell’epoca della moltitudine. La prima tesi afferma che l’individuazione non è mai completa, che il preindividuale non si traduce mai del tutto in singolarità. Di conseguenza, secondo Simondon, il soggetto consiste nell’intreccio permanente tra elementi preindividuali e aspetti individuati; anzi, è questo intreccio. Sarebbe un grave errore, secondo Simondon, identificare il soggetto con una sua parte, quella singolarizzata. Esso è, invece, un composto: «io» ma anche «si», unicità irripetibile ma anche universalità anonima. Se l’«io» individuato convive con il fondo biologico della specie (la percezione sensoriale ecc.), con i caratteri pubblici o interpsichici della lingua materna, con la cooperazione produttiva e il General Intellect, bisogna ag-

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giungere, però, che questa convivenza non è sempre pacifica. Anzi, dà luogo a crisi di vario genere. Il soggetto è un campo di battaglia. Non di rado gli aspetti preindividuali sembrano mettere in questione l’individuazione: quest’ultima mostra di essere un risultato precario, sempre reversibile. Altre volte, viceversa, è l’«io» puntuale che sembra voler ridurre a sé, con parossistica voracità, tutti gli aspetti preindividuali della nostra esperienza. In ambedue i casi, non mancano certo fenomeni di timor panico, angoscia, patologie di vario genere. O un Io senza più mondo, o un mondo senza più Io: ecco i due bordi estremi di una oscillazione che però, in forme più contenute, non è mai del tutto assente. Di questa oscillazione sono testimoni perspicui, secondo Simondon, gli affetti e le passioni. La relazione tra preindividuale e individuato è, infatti, mediata dagli affetti. Per inciso. L’intreccio non sempre armonico tra gli aspetti preindividuali e quelli singolarizzati del soggetto concerne da vicino il rapporto tra ciascuno dei «molti» e il General Intellect. Nella prima giornata seminariale si è insistito quanto basta sulla fisionomia terrorizzante che può assumere l’«intelletto generale» laddove esso non si traduca in una sfera pubblica, ma prema come un potere impersonale e dispotico. In tal caso, il preindividuale diventa minaccioso e risucchiante. Il pensiero critico del Novecento – in particolare la Scuola di Francoforte – ha sostenuto che l’infelicità deriva dalla separazione del singolo dalle forze produttive universali. Ci si raffigura un individuo confinato in una nicchia fredda e buia, mentre, lontano da lui, splende l’anonima potenza della società (e della specie). È un’idea del tutto sbagliata. L’infelicità e l’insicurezza derivano non già dalla separazione tra esistenza individuale e potenze preindividuali, ma dal loro ferreo intreccio, quando quest’ultimo si manifesta come disarmonia, oscillazione patologica, crisi. Veniamo ora alla seconda tesi di Simondon. Essa af-

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ferma che il collettivo, l’esperienza collettiva, la vita di gruppo non è, come di solito si crede, l’ambito in cui si stemperano o vengono meno i tratti salienti dell’individuo singolare, ma, al contrario, è il terreno di una nuova, più radicale individuazione. Nella partecipazione a un collettivo, il soggetto, lungi dal rinunciare ai suoi tratti più peculiari, ha l’occasione di individuare, almeno in parte, la quota di realtà preindividuale che reca sempre in sé. Secondo Simondon, nel collettivo si cerca di affinare la propria singolarità, di portarla al diapason. Solo nel collettivo, non certo nel soggetto isolato, la percezione, la lingua, le forze produttive possono configurarsi come un’esperienza individuata. Questa tesi permette di capire meglio l’opposizione tra «popolo» e «moltitudine». Per la moltitudine, il collettivo non è centripeto, fusivo. Non è il luogo in cui si forma la «volontà generale» e si prefigura l’unità statale. Poiché l’esperienza collettiva della moltitudine non ottunde, ma radicalizza il processo di individuazione, è escluso per principio che da tale esperienza si possa estrapolare un tratto omogeneo; è escluso che si possa «delegare» o «trasferire» qualcosa al sovrano. Il collettivo della moltitudine, in quanto individuazione ulteriore o di secondo grado, fonda la possibilità di una democrazia non rappresentativa. Reciprocamente, si può definire la «democrazia non rappresentativa» come una individuazione del preindividuale storico-sociale: scienza, sapere, cooperazione produttiva, General Intellect. I «molti» persistono come «molti», senza aspirare all’unità statale, perché: 1) in quanto singolarità individuate, hanno già alle proprie spalle l’unità/universalità insita nelle diverse specie di preindividuale; 2) nella loro azione collettiva accentuano e proseguono il processo di individuazione. L’individuo sociale. Nel «Frammento sulle macchine» dei Grundrisse (Marx 1939-1941, II, p. 401), Marx conia un con-

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cetto che, secondo me, è centrale per comprendere la soggettività della moltitudine contemporanea. Un concetto, lo dico subito, obiettivamente correlato alla tesi di Simondon sull’intreccio tra realtà preindividuale e singolarità. È il concetto di «individuo sociale». Non è un caso, mi sembra, se Marx utilizza questa espressione nelle stesse pagine in cui discute del General Intellect, dell’intelletto pubblico. L’individuo è sociale perché, in esso, è presente il General Intellect. O anche, ricorrendo di nuovo al Marx dei Manoscritti, perché in esso si manifesta apertamente, accanto all’Io singolare, il Gattungswesen, l’«esistenza generica», l’insieme di requisiti e facoltà della specie Homo sapiens sapiens. «Individuo sociale» è un ossimoro, un’unità dei contrari: potrebbe sembrare una civetteria hegeliana, suggestiva e inconsistente, se non potessimo giovarci di Simondon per decifrarne il senso. «Sociale» va tradotto con preindividuale, «individuo» con risultato ultimo del processo di individuazione. Poiché per «preindividuale» bisogna intendere la percezione sensoriale, la lingua, le forze produttive, si potrebbe anche dire che l’«individuo sociale» è l’individuo che esibisce apertamente la propria ontogenesi, la propria formazione (con i suoi diversi strati o elementi costituenti). Vi è una sorta di catena lessicale che lega insieme l’esser-molti, l’antica questione del principio di individuazione, la nozione marxiana di «individuo sociale», la tesi di Simondon sulla convivenza in ogni soggetto di elementi preindividuali (lingua, cooperazione sociale ecc.) ed elementi individuati. Propongo di chiamare moltitudine l’insieme di «individui sociali». Si potrebbe dire – con Marx, ma contro larga parte del marxismo – che la trasformazione radicale dello stato di cose presente consiste nel conferire il massimo risalto e il massimo valore all’esistenza di ogni singolo membro della specie. Forse sembrerà paradossale, ma io credo che la teoria di Marx potrebbe (anzi, dovrebbe) venire intesa, oggi, come una teoria realistica e

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complessa dell’individuo. Come un individualismo rigoroso: dunque, come una teoria dell’individuazione. 2. Un concetto equivoco: la biopolitica Il termine «biopolitica» è stato introdotto da Foucault, in alcuni corsi tenuti negli anni Settanta al Collège de France (Foucault 1989, pp. 71-83), dedicati ai mutamenti del concetto di «popolazione» tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo. Per Foucault, è in quell’epoca che la vita, la vita come tale, la vita come mero processo biologico, comincia a essere governata, amministrata politicamente. Negli ultimi anni, il concetto di «biopolitica» è diventato di moda: vi si ricorre spesso e volentieri a ogni proposito. Bisognerebbe evitare questo impiego automatico e irriflesso. Chiediamoci dunque come e perché la vita irrompe al centro della scena pubblica, come e perché lo Stato la regola e la governa. A mio parere, per comprendere il nocciolo razionale del termine «biopolitica», occorre partire da un concetto diverso, assai più complicato sotto il profilo filosofico: quello di forza-lavoro. Di questa nozione si parla dovunque nelle scienze sociali, trascurando però con disinvoltura il suo carattere aspro e paradossale. Se i filosofi di professione si occupassero di qualcosa di serio, dovrebbero dedicarle molta fatica e molta attenzione. Che cosa significa «forza-lavoro»? Significa potenza di produrre. Potenza, cioè facoltà, capacità, dynamis. Potenza generica, indeterminata: in essa non è prescritta l’una o l’altra specie particolare di atti lavorativi, ma qualsiasi specie, tanto la fabbricazione di una portiera quanto la raccolta di pere, tanto il chiacchiericcio di un telefonista delle chat-lines quanto la correzione di bozze. Forza-lavoro è «la somma di tutte le attitudini fisiche e intellettuali esistenti nella corporeità» (Marx 1867, I, p. 195). Tutte, si badi. Parlando della forza-lavoro ci si riferisce implicitamente a ogni sor-

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ta di facoltà: competenza linguistica, memoria, motilità ecc. Solo oggi, in epoca postfordista, la realtà della forzalavoro è pienamente all’altezza del suo concetto. Solo oggi, cioè, la nozione di forza-lavoro non è riducibile (come invece al tempo di Gramsci) a un insieme di doti fisiche, meccaniche, ma comprende in sé, a pieno titolo, la «vita della mente». Veniamo al punto. Il rapporto capitalistico di produzione si basa sulla differenza tra forza-lavoro e lavoro effettivo. La forza-lavoro, ripeto, è pura potenza, ben distinta dagli atti corrispondenti. Scrive Marx: «Chi dice capacità di lavoro non dice lavoro, come chi dice capacità di digerire non dice digestione» (ivi, p. 203). Si tratta però di una potenza che vanta le prerogative concretissime della merce. La potenza è qualcosa di non-presente, di non-reale; ma, nel caso della forza-lavoro, questo qualcosa di nonpresente è però soggetto a domanda e offerta (cfr. Virno 1999, pp. 121-123). Il capitalista acquista la facoltà di produrre in quanto tale («la somma di tutte le attitudini fisiche e intellettuali esistenti nella corporeità»), non già una o più prestazioni determinate. Dopo che la compravendita è ormai avvenuta, egli impiega a suo piacimento la merce di cui è entrato in possesso: «L’acquirente della forza-lavoro la consuma facendo lavorare il suo venditore. È così che quest’ultimo diviene actu quello che prima era potentia» (Marx 1867, I, p. 209). Il lavoro realmente erogato non si limita a risarcire il capitalista del denaro sborsato in precedenza allo scopo di assicurarsi l’altrui potenza di lavorare, ma prosegue per un lasso di tempo supplementare: qui sta la genesi del plusvalore, qui l’arcano dell’accumulazione capitalistica. La forza lavoro incarna (letteralmente) una categoria fondamentale del pensiero filosofico: per l’appunto la potenza, la dynamis. E «potenza», come ho appena detto, significa ciò che non è attuale, ciò che non è presente. Ebbene, qualcosa che non è presente (o reale) diventa, nel

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capitalismo, una merce di eccezionale importanza. La potenza, la dynamis, la non-presenza, anziché restare un concetto astratto, prende sembianze pragmatiche, empiriche, socioeconomiche. La facoltà come tale, ancora disapplicata, sta al centro dello scambio tra il capitalista e l’operaio. Oggetto della compravendita non è un’entità reale (prestazioni lavorative effettivamente eseguite), ma qualcosa che, di per sé, non ha un’autonoma esistenza spaziotemporale (la generica capacità di lavorare). Le caratteristiche paradossali della forza-lavoro (qualcosa di irreale, che però è venduto e comprato come una merce qualsiasi) sono la premessa della biopolitica. Per rendersene conto, occorre ancora, però, un tassello argomentativo. Nei Grundrisse Marx scrive che «il valore d’uso che l’operaio ha da offrire [nello scambio con il capitalista] non è materializzato in un prodotto, non esiste al di fuori di lui, non esiste dunque realmente ma soltanto in via possibile, ossia come sua capacità» (Marx 1939-1941, I, pp. 244-245; c.vi miei). Si noti il punto decisivo: là dove si vende qualcosa che esiste solo come possibilità, questo qualcosa non è separabile dalla persona vivente del venditore. Il corpo vivo dell’operaio è il sostrato di quella forza-lavoro che, di per sé, non ha un’esistenza indipendente. La «vita», il puro e semplice bios, acquista una specifica importanza in quanto tabernacolo della dynamis, della mera potenza. Al capitalista interessa la vita dell’operaio, il suo corpo, solo per un motivo indiretto: questo corpo, questa vita sono ciò che contiene la facoltà, la potenza, la dynamis. Il corpo vivente diventa oggetto da governare non per il suo intrinseco valore, ma perché è il sostrato della sola cosa che veramente importi: la forza-lavoro come somma delle più diverse facoltà umane (potenza di parlare, di pensare, di ricordare, di agire ecc.). La vita si colloca al centro della politica allorché la posta in palio è l’immateriale (e di per sé non presente) forza-lavoro. Per questo, solo per questo, è lecito parlare di «biopolitica». Il corpo vivente,

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di cui si occupano gli apparati amministrativi dello Stato, è il segno tangibile di una potenza ancora irrealizzata, il simulacro del lavoro non ancora oggettivato o, come dice Marx con un’espressione molto bella, del «lavoro come soggettività». La potenza di lavorare, comprata e venduta al pari di ogni altra merce, è lavoro non ancora oggettivato, «lavoro come soggettività». Si potrebbe dire che, mentre il denaro è il rappresentante universale dei valori di scambio, anzi della stessa scambiabilità dei prodotti, la vita fa piuttosto le veci della potenza di produrre, dell’invisibile dynamis. L’origine non mitologica di quel dispositivo di saperi e poteri che Foucault chiama biopolitica va rintracciata senza esitazioni nel modo di essere della forza-lavoro. L’importanza pratica assunta dalla potenza in quanto potenza (il fatto che essa è venduta e comprata in quanto tale), nonché la sua inseparabilità dalla immediata esistenza corporea dell’operaio: ecco il fondamento effettivo della biopolitica. Foucault sbeffeggia i teorici libertari come Wilhelm Reich (lo psicoanalista eterodosso), secondo il quale una spasmodica attenzione alla vita sarebbe il frutto di un proposito repressivo: disciplinare i corpi per innalzare la produttività del lavoro. Ha ragione da vendere, Foucault, ma contro un bersaglio facile. È vero: il governo della vita è assai vario e articolato, spaziando dal contenimento degli impulsi alla licenza più sfrenata, dall’interdizione puntigliosa allo sfoggio di tolleranza, dal ghetto per i poveri agli alti salari keynesiani, dal carcere di massima sicurezza al Welfare State. Ciò detto, resta l’interrogativo cruciale: perché la vita come tale è presa in cura e governata? La risposta è univoca: perché essa funge da sostrato di una mera facoltà, la forza-lavoro, che però ha guadagnato la consistenza di una merce. Non è in questione, qui, la produttività del lavoro in atto, ma la scambiabilità della potenza di lavorare. Per il solo fatto di venire comprata e venduta, questa potenza chiama in causa anche il ricettacolo da cui

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essa è indisgiungibile, ossia il corpo vivente; di più, lo mette in vista quale oggetto a tutto tondo di innumerevoli e differenziate strategie governative. Non bisogna credere, dunque, che la biopolitica comprenda in sé, come sua articolazione particolare, la gestione della forza-lavoro. Le cose stanno all’incontrario: la biopolitica è solo un effetto, un riverbero, o appunto un’articolazione, di quel fatto primario – storico e filosofico insieme – consistente nella compravendita della potenza in quanto potenza. Vi è biopolitica là dove viene in primissimo piano, nell’esperienza immediata, ciò che attiene alla dimensione potenziale dell’esistenza umana: non la parola detta, ma la facoltà di parlare come tale; non il lavoro realmente compiuto, ma la generica capacità di produrre. La dimensione potenziale dell’esistenza diventa prominente proprio e soltanto con le vesti della forzalavoro. In quest’ultima, lo dicevo poc’anzi, si compendiano tutte le diverse facoltà o potenze dell’animale umano. A ben vedere, «forza-lavoro» non designa una specifica facoltà, ma l’insieme delle facoltà umane in quanto esse siano coinvolte nella prassi produttiva. «Forza-lavoro» non è un nome proprio, ma un nome comune. 3. Le tonalità emotive della moltitudine Vorrei parlare brevemente, ora, della situazione emotiva in cui versa la moltitudine contemporanea. Con l’espressione «situazione emotiva» non mi riferisco, sia chiaro, a un fascio di propensioni psicologiche, ma a modi di essere e di sentire così pervasivi da risultare comuni ai più diversi contesti di esperienza (lavoro, ozio, affetti, politica ecc.). La situazione emotiva, oltre che ubiqua, è sempre ambivalente. Essa può manifestarsi, cioè, tanto come acquiescenza che come conflitto, sia con le sembianze della rassegnazione che dell’inquietudine critica. Detto altrimenti: la situazione emotiva ha un noccio-

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lo neutro soggetto a declinazioni diverse e perfino opposte. Questo nocciolo neutro indica un modo di essere fondamentale. Ora, è indubbio che la situazione emotiva della moltitudine si manifesti, oggi, con «cattivi sentimenti»: opportunismo, cinismo, integrazione sociale, abiura inesausta, ilare rassegnazione. Tuttavia, occorre risalire da questi «cattivi sentimenti» al nocciolo neutro, ossia al modo di essere fondamentale, che, in linea di principio, potrebbe dar luogo anche a svolgimenti assai diversi da quelli oggi prevalenti. La cosa difficile da capire è che l’antidoto, per così dire, può essere rintracciato soltanto in ciò che per il momento si dà a vedere come veleno. La situazione emotiva della moltitudine postfordista è caratterizzata dall’immediata coincidenza tra produzione ed eticità, «struttura» e «sovrastruttura», rivoluzionamento del processo lavorativo e sentimenti, tecnologie e tonalità emotive, sviluppo materiale e cultura. Soffermiamoci un momento su tale coincidenza. Quali sono i principali requisiti richiesti ai lavoratori dipendenti, oggi? Abitudine alla mobilità, capacità di restare al passo con le più brusche riconversioni, adattività sposata a qualche intraprendenza, duttilità nel trascorrere dall’uno all’altro gruppo di regole, attitudine a una interazione linguistica tanto banalizzata quanto onnilaterale, consuetudine a destreggiarsi tra limitate possibilità alternative. Ebbene, questi requisiti non sono il frutto del disciplinamento industriale, quanto piuttosto il risultato di una socializzazione che ha il suo baricentro fuori del lavoro. La «professionalità» effettivamente richiesta e offerta consiste nelle doti che si acquisiscono durante una prolungata permanenza in uno stadio pre-lavorativo, o precario. Come dire: nell’attesa di un impiego, vengono sviluppati quei talenti genericamente sociali e quell’abitudine a non contrarre durevoli abitudini, che fungeranno poi, una volta trovato lavoro, da veri e propri «ferri del mestiere». L’impresa postfordista mette a frutto questa abitudine

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a non avere abitudini, questo addestramento alla precarietà e alla variabilità. Ma il fatto decisivo è una socializzazione (con questo termine intendo il rapporto con il mondo, con gli altri e con sé) che avviene essenzialmente al di fuori del lavoro, una socializzazione essenzialmente extralavorativa. Sono gli choc metropolitani di cui parlava Benjamin, la proliferazione di giochi linguistici, la variazione ininterrotta delle regole e delle tecniche, a costituire la palestra in cui si forgiano doti e requisiti che, solo in seguito, diventeranno doti e requisiti «professionali». A guardar bene, la socializzazione extralavorativa (che poi, però, confluisce nel «mansionario» postfordista) consiste in esperienze e sentimenti in cui la grande filosofia e la grande sociologia dell’ultimo secolo, da Heidegger e Simmel in poi, ha riconosciuto i tratti distintivi del nichilismo. Nichilistica è una prassi che non gode più di un solido fondamento, di strutture ricorsive su cui far conto, di abitudini protettive. Durante il Novecento, il nichilismo è sembrato un contrappunto collaterale ai processi di razionalizzazione della produzione e dello Stato. Come dire: da una parte il lavoro, dall’altra la precarietà e la mutevolezza della vita metropolitana. Ora, invece, il nichilismo (abitudine a non avere abitudini ecc.) entra in produzione, diventa requisito professionale, è messo al lavoro. Solo colui che è pratico dell’aleatoria mutevolezza delle forme di vita metropolitane sa come comportarsi nelle fabbriche del just in time. È quasi inutile aggiungere che, in tal modo, va in pezzi lo schemino mediante il quale tanta parte della tradizione sociologica e filosofica si è raffigurata i processi di «modernizzazione». Secondo tale schemino, l’innovazione (tecnologica, emotiva, etica) sconvolge società tradizionali, in cui prevalevano consuetudini ripetitive. Filemone e Bauci, i pacifici contadini che Goethe descrive nel Faust, sono sradicati dall’imprenditore moderno. Niente di tutto questo, oggi. Non si può più parlare di «modernizzazio-

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ne» laddove l’innovazione interviene, peraltro con periodicità sempre più contratta, su una scena già completamente caratterizzata dallo sradicamento, dall’aleatorietà, dall’anonimia ecc. Il punto cruciale è che l’attuale sommovimento produttivo si giova, come della sua più pregevole risorsa, di tutto ciò che lo schemino della modernizzazione annovera invece fra i suoi effetti: incertezza di aspettative, contingenza delle collocazioni, fragili identità, valori sempre mutevoli. Le tecnologie avanzate non provocano uno «spaesamento», tale da dissipare una pregressa «familiarità», ma riducono a profilo professionale la stessa esperienza dello spaesamento più radicale. Il nichilismo, dapprima lato in ombra della potenza tecnico-produttiva, ne diviene poi un ingrediente fondamentale, dote tenuta in gran conto nel mercato del lavoro. Questo è lo sfondo contro cui si stagliano soprattutto due tonalità emotive non proprio edificanti: l’opportunismo e il cinismo. Cerchiamo di passare al vaglio questi «cattivi sentimenti», individuando in essi un modo di essere, che, di per sé, non necessariamente deve esprimersi in forme disdicevoli. Opportunismo. L’opportunismo affonda radici in una socializzazione extralavorativa segnata da svolte repentine, choc percettivi, innovazione permanente, cronica instabilità. Opportunista è colui che fronteggia un flusso di possibilità sempre intercambiabili, tenendosi disponibile per il maggior numero di esse, piegandosi alla più prossima e poi deviando con prontezza dall’una all’altra. È, questa, una definizione strutturale, sobria, non moralista dell’opportunismo. In questione è una sensibilità acuminata per le mutevoli chance, una dimestichezza con il caleidoscopio delle opportunità, una intima relazione con il possibile in quanto tale. Nel modo di produzione postfordista, l’opportunismo acquisisce un indubbio rilievo tecnico. È la reazione cognitiva e comportamentale della moltitudine

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contemporanea al fatto che la prassi non è più ordinata secondo direttrici uniformi, ma presenta un alto grado di indeterminismo. Ora, proprio la capacità di destreggiarsi tra opportunità astratte e intercambiabili costituisce una qualità professionale in taluni settori della produzione postfordista, laddove il processo lavorativo non è regolato da un singolo scopo particolare, ma da una classe di possibilità equivalenti, da specificare volta per volta. La macchina informatica, anziché mezzo per un fine univoco, è premessa per successive e «opportunistiche» elaborazioni. L’opportunismo si fa valere come indispensabile risorsa ogni qual volta il concreto processo di lavoro è pervaso da un diffuso «agire comunicativo», senza più identificarsi, dunque, con il solo «agire strumentale» muto. O anche, riprendendo un tema trattato nella seconda giornata seminariale, ogni qual volta il Lavoro include in sé i tratti salienti dell’Azione politica. In fondo, che altro è l’opportunismo se non una dote dell’uomo politico? Cinismo. Anche il cinismo è connesso alla cronica instabilità delle forme di vita e dei giochi linguistici. Questa cronica instabilità pone in piena vista, nel lavoro come nel tempo libero, le nude regole che strutturano artificialmente gli ambiti di azione. La situazione emotiva della moltitudine è caratterizzata, per l’appunto, dall’estrema vicinanza dei «molti» alle regole che innervano i singoli contesti. Alla base del cinismo contemporaneo c’è che gli uomini e le donne fanno anzitutto esperienza di regole, ben più che non di «fatti», ben prima che di eventi concreti. Ma far diretta esperienza di regole significa anche riconoscere la loro convenzionalità e infondatezza. Sicché, non si è più immersi in un «gioco» predefinito, partecipandovi con vera adesione, ma si intravede nei singoli «giochi», destituiti di ogni ovvietà e serietà, ormai solo il luogo dell’immediata affermazione di sé. Affermazione di sé tanto più brutale e arrogante, o insomma cinica, quan-

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to più si serve, senza illusioni ma con perfetta aderenza momentanea, di quelle stesse regole di cui è stata percepita la convenzionalità e la mutabilità. Penso che vi sia un rapporto assai forte tra il General Intellect e il cinismo contemporaneo. O meglio: penso che il cinismo sia uno dei possibili modi di reagire al General Intellect (non l’unico, certo: torna qui il tema dell’ambivalenza della situazione emotiva). Vediamo meglio questo nesso. Il General Intellect è il sapere sociale divenuto principale forza produttiva; è l’insieme di paradigmi epistemici, linguaggi artificiali, costellazioni concettuali che innervano la comunicazione sociale e le forme di vita. Il General Intellect si distingue dalle «astrazioni reali» tipiche della modernità, tutte ancorate al principio di equivalenza. «Astrazione reale» è innanzitutto il denaro, che rappresenta la commensurabilità dei lavori, dei prodotti, dei soggetti. Ebbene, il General Intellect non ha nulla a che vedere con il principio di equivalenza. I modelli del sapere sociale non sono unità di misura, ma costituiscono il presupposto per eterogenee possibilità operative. I codici e i paradigmi tecnico-scientifici si presentano come «forza produttiva immediata», ovvero come principi costruttivi. Non equiparano alcunché, ma fungono da premessa a ogni genere di azioni. Il fatto che a dar ordine alle relazioni sociali provveda il sapere astratto, anziché lo scambio di equivalenti, si riflette nella figura contemporanea del cinico. Perché? Perché il principio di equivalenza costituiva la base, sia pure contraddittoria, per ideologie egualitarie che propugnavano l’ideale di un reciproco riconoscimento senza costrizioni, nonché quello di una comunicazione linguistica universale e trasparente. Viceversa, il General Intellect, in quanto premessa apodittica della prassi sociale, non offre alcuna unità di misura per un’equiparazione. Il cinico riconosce, nel particolare contesto in cui opera, il ruolo preminente svolto da certe premesse epistemiche e la simultanea assen-

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za di reali equivalenze. Comprime preventivamente l’aspirazione a una comunicazione dialogica paritaria. Rinuncia fin dal principio alla ricerca di un fondamento intersoggettivo per la sua prassi, come pure alla rivendicazione di un criterio condiviso di valutazione morale. La caduta del principio di equivalenza, così intimamente correlato allo scambio delle merci, si dà a vedere, nel comportamento del cinico, come insofferente abbandono dell’istanza di uguaglianza. Al punto che egli affida l’affermazione di sé proprio alla moltiplicazione (e fluidificazione) di gerarchie e sperequazioni, che la sopravvenuta centralità del sapere nella produzione sembra comportare. Opportunismo e cinismo: «cattivi sentimenti», senza dubbio. Tuttavia, è lecito ipotizzare che ogni conflitto o protesta della moltitudine si radicherà nel medesimo modo di essere (il «nocciolo neutro» di cui si diceva prima) che, per il momento, si manifesta con queste modalità alquanto ripugnanti. Il nocciolo neutro della situazione emotiva contemporanea, suscettibile di opposte manifestazioni, consiste nella dimestichezza con il possibile in quanto possibile e in una estrema prossimità alle regole convenzionali che strutturano i diversi contesti di azione. Quella dimestichezza e questa prossimità, da cui ora derivano l’opportunismo e il cinismo, costituiscono comunque un indelebile segno distintivo della moltitudine. 4. La chiacchiera e la curiosità Per ultimo, vorrei soffermarmi su due fenomeni notissimi, e malfamati, della vita quotidiana cui Martin Heidegger ha conferito il rango di temi filosofici. Anzitutto, la chiacchiera, ossia un discorso senza struttura ossea, indifferente ai contenuti che di volta in volta sfiora, contagioso e proliferante. Poi la curiosità, cioè l’insaziabile voracità del nuovo in quanto nuovo. A me sembra che questi siano altri due predicati inerenti al soggetto gramma-

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ticale «moltitudine». A patto, come si vedrà, di utilizzare talvolta le parole di Heidegger contro Heidegger medesimo. Discutendo della «chiacchiera», vorrei mettere a fuoco un’ulteriore sfaccettatura del rapporto moltitudine/linguaggio verbale; la «curiosità» ha a che fare, invece, con certe virtù epistemologiche della moltitudine (va da sé che qui è in questione soltanto una epistemologia spontanea e irriflessa). La chiacchiera e la curiosità sono state analizzate da Heidegger in Essere e tempo (Heidegger 1927, §§ 35 e 36). Esse sono chiamate in causa come tipiche manifestazioni della «vita inautentica». Quest’ultima è caratterizzata dal livellamento conformistico di ogni sentire e di ogni comprendere. A dominare incontrastato, in essa, è il pronome impersonale «si»: si dice, si fa, si crede l’una o l’altra cosa. Nei termini di Simondon, è il preindividuale a dominare la scena, inibendo qualsivoglia individuazione. Il «si» è anonimo e pervasivo. Nutre certezze rassicuranti, diffonde opinioni sempre già condivise. È il soggetto senza volto della comunicazione mediatica. Il «si» alimenta la chiacchiera e scatena una curiosità senza ritegno. Questo «si» ciarliero e ficcanaso occulta il tratto saliente dell’esistenza umana: l’essere nel mondo. Si badi: appartenere al mondo non significa contemplarlo in modo disinteressato. Questa appartenenza implica piuttosto un coinvolgimento pragmatico. La relazione con il mio contesto vitale non consiste anzitutto in cognizioni e rappresentazioni, ma in una prassi adattativa, nella ricerca di riparo, in un orientamento pratico, nell’intervento manipolativo sugli oggetti circostanti. La vita autentica, per Heidegger, sembra trovare una espressione adeguata nel lavoro. Il mondo è, in primo luogo, un mondo-cantiere, un insieme di mezzi e di scopi produttivi, il teatro di una generale alacrità. Secondo Heidegger, questa relazione fondamentale con il mondo è travisata dalla chiacchiera e dalla curiosità. Chi chiacchiera e chi si abbandona alla

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curiosità, non lavora, è distolto dall’esecuzione di un compito determinato, ha sospeso ogni serio «prendersi cura». Il «si», oltre che anonimo, è anche ozioso. Il mondo-cantiere è trasformato in un mondo-spettacolo. Chiediamoci: è poi vero che la chiacchiera e la curiosità restano confinate al di fuori del lavoro, nel tempo dello svago e dell’ozio? Sulla base di quanto si è argomentato in questo seminario, non bisogna supporre piuttosto che queste attitudini siano diventate il perno della produzione contemporanea, nella quale domina l’agire comunicativo ed è valorizzata in massimo grado la capacità di destreggiarsi tra continue innovazioni? Cominciamo dalla chiacchiera. Essa attesta il ruolo preminente della comunicazione sociale, la sua indipendenza da ogni vincolo o presupposto, la sua piena autonomia. Autonomia da scopi predefiniti, da impieghi circoscritti, dall’obbligo di riprodurre fedelmente la realtà. Nella chiacchiera viene platealmente meno la corrispondenza denotativa tra parole e cose. Il discorso non richiede più una legittimazione esterna, procuratagli dagli eventi su cui verte. Esso stesso costituisce ormai un evento in sé consistente, che si giustifica per il solo fatto di accadere. Heidegger scrive: «In virtù della comprensione media che il linguaggio espresso porta con sé, il discorso comunicante […] può essere compreso anche senza che colui che ascolta si collochi nella comprensione originaria di ciò sopra cui il discorso discorre» (Heidegger 1927, p. 212). E poi: «la chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza alcuna appropriazione della cosa da comprendere» (ivi, p. 213). La chiacchiera incrina il paradigma referenzialista. La crisi di questo paradigma sta all’origine del mass media. Una volta emancipati dall’onere di corrispondere punto per punto al mondo non linguistico, gli enunciati possono moltiplicarsi indefinitamente, generandosi l’uno dall’altro. La chiacchiera è infondata. Questa infondatezza

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spiega il carattere labile, e talvolta vacuo, dell’interazione quotidiana. Tuttavia, la medesima infondatezza autorizza in ogni momento l’invenzione e la sperimentazione di nuovi discorsi. La comunicazione, anziché rispecchiare e trasmettere ciò che è, produce essa stessa stati di cose, esperienze inedite, nuovi fatti. Sono tentato di dire che la chiacchiera somiglia a un rumore di fondo: insignificante di per sé (a differenza dei rumori legati a fenomeni particolari, per esempio una moto in corsa o un trapano), offre però il canovaccio da cui trarre varianti significative, modulazioni inconsuete, articolazioni impreviste. A me pare che la chiacchiera costituisca la materia prima del virtuosismo postfordista di cui si è parlato nella seconda giornata seminariale. Il virtuoso, come ricorderete, è colui che produce qualcosa che non è distinguibile, né tanto meno separabile, dallo stesso atto del produrre. Virtuosistico per eccellenza è il semplice locutore. Ma, aggiungo ora, il locutore non-referenzialista; ovvero il locutore che, parlando, non rispecchia l’uno o l’altro stato di cose, ma ne determina di nuovi mediante le sue stesse parole. Colui che, secondo Heidegger, chiacchiera. La chiacchiera è performativa: in essa, le parole determinano fatti, eventi, stati di cose (cfr. Austin 1962). O, se si vuole, è nella chiacchiera che si può riconoscere il performativo basilare: non «Io scommetto» o «Io giuro» o «Io prendo questa donna come sposa», ma, innanzitutto, «Io parlo». Nell’asserzione «Io parlo», faccio qualcosa dicendolo, e, per di più, dichiaro ciò che faccio mentre lo faccio. Contrariamente a quanto suppone Heidegger, la chiacchiera non solo non è un’esperienza povera e deprecabile, ma concerne direttamente il lavoro, la produzione sociale. Trenta anni fa, in molte fabbriche c’erano cartelli che intimavano: «Silenzio, si lavora». Chi lavorava, taceva. Si cominciava a «chiacchierare» soltanto all’uscita della fabbrica o dell’ufficio. La principale novità del postfordismo consiste nell’aver messo il linguaggio al lavoro. Oggi, in certe

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officine, potrebbero figurare degnamente cartelli speculari a quelli di un tempo: «Qui si lavora. Parlate!». Al lavoratore non è richiesto un certo numero di frasi standard, ma un agire comunicativo informale, duttile, in grado di far fronte alle più diverse eventualità (con una buona dose di opportunismo, si badi). In termini di filosofia del linguaggio, direi che a venire mobilitata non è la parole ma la langue; la stessa facoltà di linguaggio, non una sua specifica applicazione. Questa facoltà, ossia la generica potenza di articolare ogni sorta di enunciazioni, acquista un rilievo empirico proprio nella chiacchiera informatica. Lì, infatti, non conta tanto «che cosa si dice», quanto il puro e semplice «poter-dire». E passiamo alla curiosità. Anch’essa ha per soggetto l’anonimo «si», il protagonista incontrastato della «vita inautentica». E anch’essa si colloca, per Heidegger, al di fuori del processo lavorativo. Il «vedere», che nel lavoro è finalizzato al compimento di una mansione particolare, nel tempo libero diventa irrequieto, mobile, volubile. Scrive Heidegger: «Il prendersi cura si acquieta in due casi: o per riprendere forza o perché l’opera è compiuta. Questo acquietamento non sopprime il prendersi cura, ma rende libera la visione affrancandola dal mondo delle opere» (ivi, p. 217). L’affrancamento dal mondo delle opere fa sì che la «visione» si nutra di qualsiasi cosa, fatto, evento, ridotti però ad altrettanti spettacoli. Heidegger cita Agostino, che della curiosità aveva tracciato una mirabile analisi nel libro decimo delle Confessioni. Il curioso, per Agostino, è colui che indulge alla concupiscentia oculorum, alla concupiscenza della vista, bramando di assistere a spettacoli insoliti e perfino orribili: «il piacere corre dietro a ciò che è bello, gustoso, armonioso, soave, morbido; la curiosità vuol fare esperienza anche dei loro contrari […] per smania di provare, di conoscere. E invero che piacere si potrebbe provare alla orribile vista di un cadavere fatto a pezzi? Eppure, se ve n’è

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uno da qualche parte, tutti vi accorrono» (Confessioni, X, p. 35). Sia Agostino che Heidegger considerano la curiosità una forma degradata e perversa di amore per il sapere. Una passione epistemica, insomma. Essa è la parodia plebea del bios theoretikos, della vita contemplativa dedita alla conoscenza pura. Né il filosofo né il curioso hanno interessi pratici, entrambi mirano a un apprendimento fine a se stesso, a una visione senza scopi estrinseci. Ma nella curiosità i sensi usurpano le prerogative del pensiero: sono gli occhi del corpo, non quelli metaforici della mente, a osservare, frugare, valutare tutti i fenomeni. L’ascetica theoria si trasforma nella «smania di provare, di conoscere» del voyeur. Il giudizio di Heidegger è senza appello: nella curiosità si annida un radicale estraniamento; il curioso «è interessato solo all’aspetto del mondo; in questo modo egli intende liberarsi da se stesso quale essere-nel-mondo» (Heidegger 1927, p. 217). Vorrei confrontare questo giudizio di Heidegger con la posizione di Walter Benjamin. In L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Benjamin ha proposto a sua volta una diagnosi del «si», dei modi di essere della società di massa, insomma della «vita inautentica». Con altra terminologia, beninteso. E giungendo a conclusioni assai diverse rispetto a quelle di Heidegger. Benjamin intende come una promessa, o almeno un’occasione importante, ciò che invece Heidegger considera una minaccia. La riproducibilità tecnica dell’arte e di ogni sorta di esperienza, realizzata dai mass media, non è altro che lo strumento più adeguato per soddisfare una universale e onnivora curiosità. Ma Benjamin elogia quella «smania di conoscere» attraverso i sensi, quella «concupiscenza della vista», che Heidegger invece denigra. Vediamo più in dettaglio. Tanto la curiosità (per Heidegger) che la riproducibilità tecnica (per Benjamin) si sforzano di abolire le distanze, di mettere ogni cosa a portata di mano (o meglio, di sguar-

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do). Questa vocazione alla prossimità assume però un significato opposto nei due autori. Per Heidegger, in assenza di un laborioso «prendersi cura», l’avvicinamento di ciò che è lontano ed estraneo ha per solo risultato di annullare rovinosamente la prospettiva: lo sguardo non distingue più tra «primo piano» e «sfondo». Quando tutte le cose convergono in una prossimità indifferenziata (come accade, secondo Heidegger, al curioso), viene meno un centro stabile da cui osservarle. La curiosità somiglia a un tappeto volante che, eludendo la forza di gravità, si aggiri a bassa quota sui fenomeni (senza radicarsi in essi). Invece Benjamin, a proposito della curiosità mass-mediatica, scrive: «rendere le cose spazialmente, umanamente più vicine è per le masse attuali un’esigenza vivissima quanto la tendenza al superamento dell’unicità di qualunque dato mediante la ricezione della sua riproduzione» (Benjamin 1936, p. 25). Per Benjamin la curiosità, in quanto avvicinamento del mondo, dilata e arricchisce le capacità percettive umane. La mobile visione del curioso, realizzata mediante i mass media, non si limita a recepire passivamente uno spettacolo dato, ma, al contrario, decide ogni volta da capo che cosa vedere, che cosa meriti di venire in primo piano e che cosa debba restare sullo sfondo. I media addestrano i sensi a considerare il noto come se fosse ignoto, ossia a scorgere «un margine di libertà enorme e imprevisto» perfino negli aspetti più triti e ripetitivi dell’esperienza quotidiana. Ma, a un tempo, addestrano i sensi anche al compito inverso: considerare l’ignoto come se fosse noto, acquisire dimestichezza con l’inatteso e il sorprendente, abituarsi alla mancanza di solide abitudini. Un’altra analogia significativa. Tanto per Heidegger che per Benjamin, il curioso è perennemente distratto. Egli guarda, apprende, sperimenta ogni cosa, ma senza prestarvi attenzione. Anche in tal caso il giudizio dei due autori diverge. Per Heidegger la distrazione, che della curiosità è il correlato, è la prova evidente di un totale sradi-

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camento e di una totale inautenticità. Distratto è chi insegue possibilità sempre diverse ma equivalenti e intercambiabili (se volete, l’opportunista nell’accezione prima proposta). Al contrario, Benjamin loda a chiare lettere proprio la distrazione, scorgendo in essa il modo più efficace di recepire una esperienza artificiale, tecnicamente costruita. Egli scrive: «Attraverso la distrazione […] si può controllare di sottomano in che misura la percezione è in grado di assolvere compiti nuovi […]. Il cinema svaluta il valore cultuale [cioè il culto per l’opera d’arte considerata un che di unico] non solo inducendo il pubblico a un atteggiamento valutativo [quel decidere che cos’è sfondo e che cos’è invece primo piano, di cui si parlava prima], ma anche per il fatto che al cinema l’atteggiamento valutativo non implica attenzione: il pubblico [se preferite: la moltitudine in quanto pubblico] è un esaminatore, ma un esaminatore distratto» (ivi, p. 46). Va da sé che la distrazione è un ostacolo per l’apprendimento intellettuale. Le cose cambiano radicalmente, però, se è in gioco un apprendimento sensoriale: quest’ultimo è addirittura favorito e potenziato dalla distrazione; cioè reclama un certo grado di dispersione e di incostanza. Ebbene, la curiosità mediatica è apprendimento sensoriale di artifici tecnicamente riproducibili, percezione immediata di prodotti intellettuali, visione corporea di paradigmi scientifici. I sensi – o meglio, la «concupiscenza della vista» – si appropriano di una realtà astratta, ossia di concetti materializzati in tecniche, non protendendosi con attenzione, ma facendo sfoggio di distrazione. La curiosità (distratta), così come la chiacchiera (non referenzialista), sono attributi della moltitudine contemporanea. Attributi carichi di ambivalenza, naturalmente. Ma ineludibili.

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Dieci tesi sulla moltitudine e il capitalismo postfordista Quarta giornata

Ho provato a descrivere il modo di produzione contemporaneo, il cosiddetto postfordismo, in base a categorie tratte dalla filosofia politica, dall’etica, dall’epistemologia, dalla filosofia del linguaggio. Non per vezzo professionale, ma perché sono realmente convinto che il modo di produzione contemporaneo esiga, per essere descritto in modo perspicuo, questa strumentazione, questa larghezza di vedute. Non si comprende il postfordismo, se non si ricorre a una costellazione concettuale etico-linguistica. Com’è ovvio, del resto, là dove il matter of fact consiste nella progressiva identificazione tra poiesi e linguaggio, produzione e comunicazione. Per nominare con un termine unitario le forme di vita e i giochi linguistici che caratterizzano l’epoca nostra, ho utilizzato la nozione di «moltitudine». Questa nozione, antipodica a quella di «popolo», è definita dall’insieme di rotture, smottamenti, innovazioni che ho cercato di segnalare. Citando alla rinfusa: la vita da stranieri (bios xenikos) come condizione ordinaria; la prevalenza dei «luoghi comuni» del discorso su quelli «speciali»; la pubblicità dell’intelletto, tanto come risorsa apotropaica che come pilastro della produzione sociale; l’attività senza opera (cioè il virtuosismo); la centralità del principio di individuazione; la relazione con il possibile in quanto possibile

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(opportunismo); lo sviluppo ipertrofico degli aspetti non referenziali del linguaggio (chiacchiera). Nella moltitudine si ha la piena esibizione storica, fenomenica, empirica della condizione ontologica dell’animale umano: sprovvedutezza biologica, carattere indefinito o potenziale della sua esistenza, mancanza di un ambiente determinato, intelletto linguistico come «risarcimento» per la penuria di istinti specializzati. È come se la radice fosse venuta in superficie, mostrandosi infine a occhio nudo. Ciò che è sempre stato vero, si dà a vedere solo ora senza veli. La moltitudine è questo: configurazione biologica fondamentale che diventa modo di essere storicamente determinato, ontologia che si rivela fenomenicamente. Si potrebbe anche dire che la moltitudine postfordista mette in rilievo sul piano storico-empirico l’antropogenesi come tale, ossia la genesi stessa dell’animale umano, i suoi caratteri differenziali. La ripercorre in compendio, la ricapitola. Se ci pensate queste considerazioni piuttosto astratte sono solo un altro modo per dire che il capitalismo contemporaneo ha la sua principale risorsa produttiva nelle attitudini linguistico-relazionali dell’essere umano, nell’insieme di facoltà (dynameis, potenze) comunicative e cognitive che lo contraddistinguono. Il seminario è ormai concluso. Ciò che poteva dirsi, è stato (bene o male) detto. Ora, al termine della nostra circumnavigazione del continente «moltitudine», non resta che insistere su alcuni aspetti dirimenti. A tal scopo, vi propongo dieci asserzioni sulla moltitudine e il capitalismo postfordista. Asserzioni che solo per comodità chiamo tesi. Esse non pretendono di risultare esaustive, né vogliono contrapporsi ad altre possibili analisi o definizioni del postfordismo. Di autentiche tesi hanno solo l’aspetto apodittico e (spero) la concisione. Alcune di queste asserzioni avrebbero potuto, forse, convergere tra loro, fondendosi in un’unica «tesi». Inoltre, la sequenza è alquanto arbitraria: ciò che figura come «tesi x» non perderebbe

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granché a figurare come «tesi y» (e viceversa). Deve essere chiaro, infine, che spesso affermo o nego con più nettezza, o meno sfumature, di quanto sarebbe giusto (e prudente) fare. In alcuni casi dirò più di quel che penso. Tesi 1 Il postfordismo (e con esso la moltitudine) ha fatto la sua comparsa, in Italia, con le lotte sociali che per convenzione sono ricordate come il «movimento del 1977». Il postfordismo, in Italia, è stato inaugurato dai tumulti di una forza-lavoro scolarizzata, precaria, mobile, che ebbe in odio l’etica del lavoro e si contrappose, talvolta frontalmente, alla tradizione e alla cultura della sinistra storica, segnando una netta discontinuità rispetto all’operaio della linea di montaggio, ai suoi usi e costumi, alle sue forme di vita. Fu inaugurato, il postfordismo, da conflitti incentrati su figure sociali che, a dispetto dell’apparente loro marginalità, stavano per diventare l’autentico fulcro del nuovo ciclo di sviluppo capitalistico. Del resto, è accaduto altre volte che un radicale rivoluzionamento del modo di produzione sia stato accompagnato dalla precoce conflittualità degli strati di forza-lavoro che di lì a poco avrebbero costituito l’asse portante della produzione di plusvalore. Basti pensare alla pericolosità attribuita, durante il Settecento, ai vagabondi inglesi, già espulsi dai campi e sul punto di essere immessi nelle prime manifatture. O alle lotte degli operai dequalificati statunitensi negli anni Dieci del nostro secolo, lotte che precedettero la svolta fordista e taylorista, basata per l’appunto sulla dequalificazione sistematica del lavoro. Ogni drastica metamorfosi dell’organizzazione produttiva è destinata in principio a rievocare gli affanni dell’«accumulazione originaria», dovendo tramutare daccapo un rapporto tra cose (nuove tecnologie, diversa allocazione degli investimenti ecc.) in un rapporto sociale. Proprio in questo intermezzo

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delicato si manifesta talvolta il risvolto soggettivo di ciò che, più tardi, diviene inoppugnabile decorso fattuale. Il capolavoro del capitalismo italiano sta nell’aver trasformato in risorsa produttiva precisamente i comportamenti che, in un primo momento, si erano manifestati con le sembianze del conflitto radicale. La conversione delle propensioni collettive del movimento del ’77 – esodo dalla fabbrica, disamore per il posto fisso, familiarità con saperi e reti comunicative – in un concetto innovato di professionalità (opportunismo, chiacchiera, virtuosismo ecc.): ecco il risultato più prezioso della controrivoluzione italiana (intendendo per «controrivoluzione» non la semplice restaurazione dello stato di cose precedente, ma, letteralmente, una rivoluzione al contrario, ossia una drastica innovazione dell’economia e delle istituzioni al fine di rilanciare produttività e dominio politico). Il movimento del ’77 ebbe la sventura di essere trattato come un movimento di marginali e di parassiti. Sennonché, marginale e parassitario era il punto di vista adottato da chi muoveva tali accuse. Infatti, costoro si identificavano in tutto e per tutto con il paradigma fordista, reputando «centrale» e «produttivo» solo il posto fisso nelle fabbriche dei beni di consumo durevoli. Si identificavano dunque con il ciclo di sviluppo ormai in declino. A ben vedere, il movimento del ’77 anticipò alcuni tratti della moltitudine postfordista. Livido e rozzo quanto si vuole, il suo fu nondimeno un virtuosismo non servile. Tesi 2 Il postfordismo è la realizzazione empirica del «Frammento sulle macchine» di Marx. Scrive Marx: «Il furto del tempo di lavoro altrui su cui poggia la ricchezza odierna si presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova base [il sistema automatizzato di macchine] che si è sviluppata nel frattempo

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e che è stata creata dalla grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso» (Marx 1939-1941, II, p. 401). Nel «Frammento sulle macchine» dei Grundrisse, da cui ho tratto la citazione, Marx sostiene una tesi ben poco marxista: il sapere astratto – quello scientifico in primo luogo, ma non solo esso – si avvia a diventare niente di meno che la principale forza produttiva, relegando il lavoro parcellizzato e ripetitivo in una posizione residuale. Sappiamo che Marx ricorre a un’immagine assai suggestiva per indicare l’insieme di conoscenze che costituiscono l’epicentro della produzione sociale e, insieme, preordinano tutti gli ambiti vitali: General Intellect, intelletto generale. La tendenziale preminenza del sapere fa del tempo di lavoro una «base miserabile». La cosiddetta «legge del valore» (secondo la quale il valore di una merce è determinato dal tempo di lavoro in essa incorporato), che Marx considera l’architrave degli odierni rapporti sociali, è però sgretolata e confutata dallo stesso sviluppo capitalistico. È a questo punto che Marx prospetta una ipotesi di superamento del rapporto di produzione dominante molto diversa da quelle, più note, da lui esposte in altri testi. Nel «Frammento» la crisi del capitalismo non è più imputata alle sproporzioni insite in un modo di produzione realmente basato sul tempo di lavoro erogato dai singoli (non è più imputata, dunque, agli squilibri connessi alla piena vigenza della legge del valore, per esempio alla caduta del saggio del profitto). Viene in primo piano, piuttosto, la contraddizione lacerante tra un processo produttivo, che ormai fa leva direttamente ed esclusivamente sulla scienza, e un’unità di misura della ricchezza ancora coincidente con la quantità di lavoro incorporata nei prodotti. Il progressivo allargarsi di questa forbice conduce, secondo

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Marx, al «crollo della produzione basata sul valore di scambio» e, quindi, al comunismo. Ciò che balza agli occhi, in epoca postfordista, è la piena realizzazione fattuale della tendenza descritta da Marx, senza però alcun risvolto emancipativo. Anziché focolaio di crisi, la sproporzione tra il ruolo assolto dal sapere e la decrescente importanza del tempo di lavoro ha dato luogo a nuove e stabili forme di dominio. La radicale metamorfosi dello stesso concetto di produzione si è inscritta pur sempre nell’ambito del lavoro sotto padrone. Più che alludere a un superamento dell’esistente, il «Frammento» è una cassetta degli attrezzi per il sociologo. Descrive una realtà empirica sotto gli occhi di tutti: la realtà empirica dell’assetto postfordista. Tesi 3 La moltitudine riflette in sé la crisi della società del lavoro. La crisi della società del lavoro non coincide certo con un lineare contrarsi del tempo lavorativo. Quest’ultimo, anzi, mostra oggi una inaudita pervasività. Le posizioni di Gorz e Rifkin sulla «fine del lavoro» (Gorz 1997; Rifkin 1995) sono sbagliate; seminano equivoci di ogni sorta; quel che è peggio, impediscono di mettere a fuoco la questione che pure evocano. La crisi della società del lavoro consiste piuttosto nel fatto (di cui alla tesi 2) che la ricchezza sociale è prodotta dalla scienza, dal General Intellect, anziché dal lavoro erogato dai singoli. Il lavoro comandato sembra riducibile a porzione virtualmente trascurabile di una vita. La scienza, l’informazione, il sapere in genere, la cooperazione si presentano come il pilastro della produzione. Essi, non più il tempo di lavoro. Tuttavia questo tempo continua a valere quale parametro dello sviluppo e della ricchezza sociali. La fuoriuscita dalla società del lavoro costituisce quindi un processo contraddittorio, teatro di furiose anti-

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nomie e di paradossi sconcertanti. Il tempo di lavoro è l’unità di misura vigente, ma non più vera. Ignorare uno dei due lati – sottolineare cioè soltanto la vigenza o soltanto la non-verità – non porta lontano: nel primo caso, neanche ci si avvede della crisi della società del lavoro, nel secondo si finisce con l’avallare rappresentazioni ireniche à la Gorz o à la Rifkin. Il superamento della società del lavoro avviene nelle forme prescritte dal sistema sociale basato sul lavoro salariato. Il tempo in eccesso, cioè una potenziale ricchezza, si manifesta come miseria: cassa integrazione, disoccupazione strutturale (provocata dagli investimenti, non dalla loro mancanza), illimitata flessibilità nell’impiego della forzalavoro, proliferazione di gerarchie, ripristino di arcaismi disciplinari per controllare individui non più sottoposti ai precetti del sistema di fabbrica. Questa è la tempesta magnetica con cui si dispiega, sul piano fenomenico, un «superamento» tanto paradossale da compiersi sulla base stessa di ciò che sarebbe da superare. Ripeto la frase-chiave: il superamento della società del lavoro si compie in ottemperanza alle regole del lavoro salariato. Questa frase non fa che applicare alla situazione postfordista quanto Marx osservò a proposito delle prime società per azioni. Secondo Marx, con le società per azioni si ha «l’oltrepassamento della proprietà privata sulla base stessa della proprietà privata». Vale a dire: le società per azioni attestano la possibilità di fuoriuscire dal regime della proprietà privata, ma questa attestazione ha luogo pur sempre all’interno della proprietà privata e, anzi, potenzia a dismisura quest’ultima. Tutta la difficoltà, nel caso del postfordismo come già in quello delle società per azioni, è di considerare simultaneamente i due profili contraddittori, cioè la sussistenza e la fine, la vigenza e la superabilità. La crisi della società del lavoro (se correttamente intesa) implica che tutta la forza-lavoro postfordista può essere descritta mediante le categorie con cui Marx ha analiz-

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zato l’«esercito industriale di riserva», ossia la disoccupazione. Marx riteneva che l’«esercito industriale di riserva» sia suddivisibile in tre specie o figure: fluido (oggi parleremmo di turn-over, pensionamenti anticipati ecc.), latente (là dove a ogni momento può intervenire un’innovazione tecnologica a falcidiare l’occupazione), stagnante (in termini attuali: il lavoro nero, precario, atipico). Fluida, latente o stagnante è, secondo Marx, la massa dei disoccupati, non certo la classe operaia occupata; un settore marginale della forza-lavoro, non la sua sezione centrale. Ebbene, la crisi della società del lavoro (con i caratteri complessi che provavo a tratteggiare poc’anzi) fa sì che queste tre determinazioni si applichino, in effetti, alla totalità della forza-lavoro. Fluida o latente o stagnante è la classe operaia occupata in quanto tale. Ogni erogazione di lavoro salariato lascia trapelare la sua non-necessità, il suo carattere di costo sociale eccessivo. Ma questa non-necessità si manifesta pur sempre come perpetuazione del lavoro salariato in forme precarie o «flessibili». Tesi 4 Per la moltitudine postfordista viene meno ogni differenza qualitativa tra tempo di lavoro e tempo di non-lavoro. Il tempo sociale, oggi, sembra uscito dai cardini perché non c’è più nulla che distingua il lavoro dal resto dell’attività umana. Dunque, perché il lavoro cessa di costituire una prassi speciale e separata, all’interno della quale vigono criteri e procedure peculiari, tutt’affatto diversi dai criteri e dalle procedure che regolano il tempo di nonlavoro. Non vi è più una soglia netta, ben definita, a separare tempo di lavoro e tempo di non-lavoro. Nel fordismo, secondo Gramsci, l’intelletto resta fuori dalla produzione; solo a lavoro ultimato, l’operaio fordista legge il giornale, va nella sezione di partito, pensa, dialoga. Invece nel postfordismo, poiché la «vita della mente» è inclusa a pieno ti-

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tolo nel tempo-spazio della produzione, prevale una essenziale omogeneità. Lavoro e non-lavoro sviluppano una identica produttività, basata sull’esercizio di generiche facoltà umane: linguaggio, memoria, socialità, inclinazioni etiche ed estetiche, capacità di astrazione e di apprendimento. Dal punto di vista del «che cosa» si fa e del «come» lo si fa, non v’è alcuna differenza sostanziale tra occupazione e disoccupazione. Viene da dire: la disoccupazione è lavoro non remunerato; il lavoro, a sua volta, è disoccupazione remunerata. Si può sostenere con buone ragioni tanto che non si smette mai di lavorare, quanto che si lavora sempre di meno. Queste formulazioni paradossali, e tra loro contraddittorie, attestano, nel loro insieme, l’uscita dai cardini del tempo sociale. L’antica distinzione tra «lavoro» e «non lavoro» si risolve in quella tra vita retribuita e vita non retribuita. Il confine tra l’una e l’altra è arbitrario, mutevole, soggetto a decisione politica. La cooperazione produttiva cui la forza-lavoro partecipa è sempre più ampia e più ricca di quella messa in campo dal processo lavorativo. Comprende anche il non-lavoro, le esperienze e le conoscenze maturate al di fuori della fabbrica e dell’ufficio. La forza-lavoro valorizza il capitale soltanto perché non perde mai le sue qualità di nonlavoro (ossia la sua inerenza a una cooperazione produttiva più ricca di quella insita nel processo lavorativo strettamente inteso). Poiché la cooperazione sociale precede ed eccede il processo lavorativo, il lavoro postfordista è sempre, anche, lavoro sommerso. Con questa espressione non si intende, qui, un impiego non contrattualizzato, «in nero». Lavoro sommerso è, in primo luogo, la vita non retribuita, ossia la parte di attività umana che, omogenea in tutto a quella lavorativa, non è però computata come forza produttiva. Il punto decisivo è riconoscere che nel lavoro hanno

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un peso preponderante esperienze maturate al di fuori di esso, ben sapendo però che questa più generale sfera d’esperienza, una volta inclusa nel processo produttivo, sottostà alle regole del modo di produzione capitalistico. Anche qui vi è un duplice rischio: o negare la larghezza di quanto viene incluso nel modo di produzione, oppure, in nome di questa larghezza, negare l’esistenza di uno specifico modo di produzione. Tesi 5 Nel postfordismo sussiste uno scarto permanente tra «tempo di lavoro» e un più ampio «tempo di produzione». Marx distingue tra «tempo di lavoro» e «tempo di produzione» nei capitoli XII e XIII del secondo libro del Capitale. Si pensi al ciclo semina-raccolto. Il bracciante fatica per un mese (tempo di lavoro); poi vi è il lungo intervallo di maturazione del grano (ancora tempo di produzione, ma non più di lavoro); infine, viene l’epoca del raccolto (di nuovo tempo di lavoro). In agricoltura e in altri settori, la produzione è più estesa dell’attività lavorativa propriamente detta; quest’ultima costituisce appena una frazione del ciclo complessivo. Ebbene, la coppia «tempo di lavoro»/«tempo di produzione» è un arnese concettuale straordinariamente pertinente per comprendere la realtà postfordista, cioè l’articolazione odierna della giornata lavorativa sociale. Al di là degli esempi bucolici addotti da Marx, lo scarto tra «produzione» e «lavoro» si attaglia assai bene alla situazione descritta nel «Frammento sulle macchine», ovvero a una situazione in cui il tempo di lavoro si presenta come un «miserabile residuo». La sproporzione prende due forme diverse. In primo luogo, essa si dà a vedere all’interno di ogni singola giornata lavorativa di ogni singolo dipendente. L’operaio sorveglia e coordina (tempo di lavoro) il sistema automatico di macchine (il cui funzionamento definisce il tempo di

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produzione); l’attività dell’operaio si risolve spesso in una sorta di manutenzione. Si potrebbe dire che, in ambito postfordista, il tempo di produzione è interrotto solo a tratti dal tempo di lavoro. Mentre la semina è condizione necessaria per la posteriore fase di crescita del grano, l’odierna attività di sorveglianza e coordinamento è posta, dal principio alla fine, a fianco del processo automatizzato. Vi è poi un secondo, e più radicale, modo di concepire la sproporzione. Nel postfordismo, il «tempo di produzione» comprende il tempo di non-lavoro, la cooperazione sociale che in esso si radica (cfr. tesi 4). Chiamo quindi «tempo di produzione» l’unità indissolubile di vita retribuita e vita non retribuita, lavoro e non-lavoro, cooperazione sociale emersa e cooperazione sociale sommersa. Il «tempo di lavoro» è solo una componente, e non necessariamente la più rilevante, del «tempo di produzione» così inteso. Questa constatazione spinge a riformulare, in parte o in tutto, la teoria del plusvalore. Secondo Marx, il plusvalore scaturisce dal pluslavoro, ossia dalla differenza tra lavoro necessario (che reintegra il capitalista della spesa sostenuta per acquistare la forza-lavoro) e l’insieme della giornata lavorativa. Ebbene, bisognerebbe dire che il plusvalore, in epoca postfordista, è determinato soprattutto dallo iato tra un tempo di produzione non computato come tempo di lavoro e il tempo di lavoro propriamente detto. Non conta solo lo scarto, interno al tempo di lavoro, fra lavoro necessario e pluslavoro, ma anche (e forse più) lo scarto tra tempo di produzione (che include in sé il non-lavoro, la sua peculiare produttività) e tempo di lavoro. Tesi 6 Il postfordismo è caratterizzato dalla convivenza dei più diversi modelli produttivi e, per altro verso, da una socializzazione extralavorativa essenzialmente omogenea. Diversamente da quella fordista, l’attuale organizza-

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zione del lavoro è sempre e comunque a macchie di leopardo. L’innovazione tecnologica non è universalistica: più che determinare un univoco e trainante modello produttivo, essa mantiene in vita una miriade di modelli differenziati, risuscitandone anzi di sorpassati e di anacronistici. Il postfordismo riedita tutto il passato della storia del lavoro, da isole di operaio-massa a enclaves di operaio professionale, da un rigonfiato lavoro autonomo a ripristinate forme di dominio personale. I modelli di produzione succedutisi nel lungo periodo si ripresentano sincronicamente, quasi alla stregua di una Esposizione Universale. Lo sfondo e il presupposto di questa proliferazione di differenze, di questa frantumazione di forme organizzative, è costituito però dal General Intellect, dalla tecnologia informatico-telematica, da una cooperazione produttiva che include in sé il tempo di non-lavoro. Paradossalmente, proprio quando il sapere e il linguaggio diventano la principale forza produttiva, si ha una sfrenata moltiplicazione dei modelli di organizzazione del lavoro, nonché la loro eclettica convivenza. C’è da chiedersi che cosa accomuni il tecnico del software all’operaio della Fiat, o al lavoratore precario. Bisogna avere il coraggio di rispondere: ben poco, quanto al mansionario, alle competenze professionali, alle caratteristiche del processo lavorativo. Ma anche: tutto, quanto ai modi e ai contenuti della socializzazione extralavorativa dei singoli individui. Comuni sono, cioè, le tonalità emotive, le inclinazioni, le mentalità, le aspettative. Solo che questo ethos omogeneo (opportunismo, chiacchiera ecc.), mentre nei settori avanzati è incluso in produzione e delinea profili professionali, per coloro che sono adibiti a settori tradizionali, come pure per i frontalieri che pendolano tra lavoro e inoccupazione, innerva piuttosto il «mondo della vita». Per dirla con una battuta: il punto di sutura va ricercato tra l’opportunismo messo al lavoro e l’opportunismo universalmente sollecitato dall’esperienza metropolitana.

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Alla frammentazione dei modelli produttivi, alla loro convivenza in forma di Esposizione Universale, fa da contrappunto il carattere sostanzialmente unitario della socializzazione sganciata dal processo lavorativo. Tesi 7 Nel postfordismo, il General Intellect non coincide con il capitale fisso, ma si manifesta principalmente come interazione linguistica del lavoro vivo. Come già si è detto nella seconda giornata seminariale, Marx ha identificato senza residui il General Intellect (ossia il sapere in quanto principale forza produttiva) con il capitale fisso, con la «capacità scientifica oggettivata» nel sistema di macchine. In tal modo egli ha trascurato il lato, oggi assolutamente preminente, per cui il General Intellect si presenta come lavoro vivo. A muovere questa critica obbliga l’analisi della produzione postfordista. Nel cosiddetto «lavoro autonomo di seconda generazione», ma anche nelle procedure operative di una fabbrica radicalmente innovata qual è la Fiat di Melfi, non è difficile riconoscere che la connessione tra sapere e produzione non si esaurisce affatto nel sistema di macchine, ma si articola nella cooperazione linguistica di uomini e donne, nel loro concreto agire di concerto. In ambito postfordista giocano un ruolo decisivo costellazioni concettuali e schemi logici che non possono mai rapprendersi in capitale fisso, essendo inscindibili dall’interazione di una pluralità di soggetti viventi. L’«intelletto generale» comprende, dunque, conoscenze formali e informali, immaginazione, inclinazioni etiche, mentalità, «giochi linguistici». Nei processi lavorativi contemporanei, vi sono pensieri e discorsi che funzionano di per sé come «macchine» produttive, senza dover adottare un corpo meccanico e neppure una animella elettronica. Il General Intellect diventa un attributo del lavoro vivo, allorché l’attività di quest’ultimo consiste, in misura cre-

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scente, in prestazioni linguistiche. Si tocca con mano, qui, l’infondatezza della posizione di Jürgen Habermas. Questi, sulla scorta delle lezioni di Hegel a Jena (cfr. Habermas 1968), oppone il lavoro alla interazione, l’«agire strumentale» (o «strategico») all’«agire comunicativo». A suo giudizio, i due ambiti rispondono a criteri tra loro incommensurabili: il lavoro è retto dalla logica mezzi/fini, l’interazione linguistica poggia sullo scambio, sul reciproco riconoscimento, sulla condivisione di un identico ethos. Oggi, però, il lavoro (dipendente, salariato, produttivo di plusvalore) è interazione. Il processo lavorativo non è più taciturno, ma loquace. L’«agire comunicativo» non ha più il suo terreno privilegiato, o addirittura esclusivo, nelle relazioni etico-culturali e nella politica, esulando invece dall’ambito della riproduzione materiale della vita. Al contrario, la parola dialogica si insedia nel cuore stesso della produzione capitalistica. Con una battuta: per comprendere davvero la prassi lavorativa postfordista, occorre rivolgersi in misura crescente a Saussure e a Wittgenstein. È vero, questi autori si sono disinteressati dei rapporti sociali di produzione: tuttavia, poiché hanno riflettuto a fondo sull’esperienza linguistica, essi hanno da insegnare più cose sulla «fabbrica loquace» di quanto non possano gli economisti di professione. Si è già detto che una parte del tempo di lavoro del singolo è destinata ad arricchire e potenziare la stessa cooperazione produttiva, ossia il mosaico di cui è un tassello. Più chiaramente: compito del lavoratore è migliorare e variare la connessione tra il proprio lavoro e le prestazioni altrui. È questo carattere riflessivo dell’attività lavorativa a far sì che assumano un’importanza crescente, in essa, gli aspetti linguistico-relazionali; a far sì che l’opportunismo e la chiacchiera diventino utensili di grande rilievo. Hegel aveva parlato di una «astuzia del lavorare», intendendo con ciò la capacità di assecondare la causalità naturale al fine di utilizzarne la potenza in vista di uno scopo deter-

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minato. Ebbene, nel postfordismo l’«astuzia» hegeliana è stata soppiantata dalla «chiacchiera» heideggeriana. Tesi 8 L’insieme della forza-lavoro postfordista, anche la più dequalificata, è forza-lavoro intellettuale, «intellettualità di massa». Chiamo «intellettualità di massa» l’insieme del lavoro vivo postfordista (non già, si badi, qualche settore particolarmente qualificato del terziario) in quanto esso è depositario di competenze cognitive e comunicative non oggettivabili nel sistema di macchine. L’intellettualità di massa è la forma preminente con cui si dà a vedere, oggi, il General Intellect (cfr. tesi 7). Inutile dire che non mi riferisco in alcun modo a una fantomatica erudizione del lavoro dipendente; non penso certo che gli operai odierni siano esperti in fatto di biologia molecolare o di filologia classica. Come già detto nelle giornate precedenti, ciò che viene in risalto è piuttosto l’intelletto in generale, ossia le più generiche attitudini della mente: facoltà di linguaggio, disposizione all’apprendimento, memoria, capacità di astrarre e correlare, inclinazione all’autoriflessione. L’intellettualità di massa non ha a che fare con le opere del pensiero (libri, formule algebriche ecc.), ma con la semplice facoltà di pensare e di parlare. La lingua (come l’intelletto o la memoria) è quanto di più diffuso e di meno «specializzato» sia dato concepire. Non lo scienziato, ma il semplice parlante è un buon esempio di intellettualità di massa. Quest’ultima non ha nulla a che spartire con una nuova «aristocrazia operaia»; se ne colloca, anzi, agli antipodi. A ben vedere, l’intellettualità di massa non fa che rendere pienamente vera, per la prima volta, la già citata definizione marxiana di forza-lavoro: «la somma di tutte le attitudini fisiche e intellettuali esistenti nella corporeità». Riguardo all’intellettualità di massa, occorre evitare

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quelle micidiali semplificazioni in cui cadono coloro che cercano sempre confortevoli ripetizioni di esperienze trascorse. Un modo di essere che ha il suo fulcro nel sapere e nel linguaggio non può essere definito secondo categorie economico-produttive. Non si tratta, insomma, dell’ulteriore anello di quella catena i cui precedenti sono, che so, l’operaio di mestiere e l’operaio della linea di montaggio. Gli aspetti caratteristici dell’intellettualità di massa, diciamo la sua identità, non possono essere reperiti in relazione al lavoro, ma prima di tutto sul piano delle forme di vita, del consumo culturale, degli usi linguistici. Tuttavia, e questa è l’altra faccia della medaglia, proprio quando la produzione non è più in alcun modo lo specifico luogo di formazione dell’identità, proprio allora essa si proietta su ogni aspetto dell’esperienza, sussumendo sotto di sé le competenze linguistiche, le inclinazioni etiche, le sfumature della soggettività. L’intellettualità di massa sta nel cuore di questa dialettica. Difficilmente descrivibile in termini economico-produttivi, appunto per ciò (non: malgrado ciò) è una componente fondamentale dell’odierna accumulazione capitalistica. L’intellettualità di massa (altro nome della moltitudine) è al centro dell’economia postfordista esattamente perché il suo modo di essere sfugge del tutto ai concetti dell’economia politica. Tesi 9 La moltitudine mette fuori gioco la «teoria della proletarizzazione». Nella discussione teorica marxista, il confronto tra lavoro «complesso» (cioè intellettuale) e lavoro «semplice» (senza qualità) ha provocato non pochi grattacapi. Qual è l’unità di misura che consente questo confronto? Risposta prevalente: l’unità di misura coincide con il lavoro «semplice», con il puro dispendio di energia psicofisica; il lavo-

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ro «complesso» è soltanto un multiplo del «semplice». La proporzione tra l’uno e l’altro può essere determinata considerando i diversi costi di formazione (scuola, specializzazioni varie ecc.) della forza-lavoro intellettuale rispetto a quella dequalificata. Di questa antica e controversa questione mi importa poco, qui; vorrei però profittare strumentalmente della terminologia impiegata al suo proposito. Sostengo che l’intellettualità di massa (cfr. tesi 8), nella sua totalità, è lavoro «complesso», ma, si badi, lavoro «complesso» irriducibile a lavoro «semplice». La complessità, ma anche l’irriducibilità, derivano dal fatto che questa forza-lavoro mobilita, nell’adempimento delle proprie mansioni, competenze linguistico-cognitive genericamente umane. Queste competenze, o facoltà, fanno sì che le prestazioni del singolo siano sempre segnate da un alto tasso di socialità e intelligenza, pur non essendo affatto specialistiche (non di ingegneri o filologi si parla, qui, ma di lavoratori ordinari). Ciò che non è riducibile a lavoro «semplice» è, se si vuole, la qualità cooperativa delle concrete operazioni eseguite dall’intellettualità di massa. Dire che tutto il lavoro postfordista è lavoro complesso, non riducibile a lavoro semplice, significa anche affermare che la «teoria della proletarizzazione» risulta oggi del tutto fuori gioco. Questa teoria aveva il suo punto d’onore nel segnalare la tendenziale equiparazione del lavoro intellettuale a quello manuale. Proprio per questo, essa risulta inetta a dar conto dell’intellettualità di massa o, ma è lo stesso, del lavoro vivo in quanto General Intellect. La teoria della proletarizzazione fallisce allorché il lavoro intellettuale (o complesso) non è identificabile con una rete di saperi specializzati, ma fa tutt’uno con l’uso di generiche facoltà linguistico-cognitive dell’animale umano. È questo il passaggio concettuale (e pratico) che modifica tutti i termini della questione. La mancata proletarizzazione non significa certo che i lavoratori qualificati conservino nicchie privilegiate. Si-

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gnifica piuttosto che tutta la forza-lavoro postfordista, in quanto complessa o intellettuale, non è caratterizzata da quella sorta di omogeneità per sottrazione che il concetto di «proletariato» di solito implica. Detto in altro modo: la mancata proletarizzazione significa che il lavoro postfordista è moltitudine, non popolo. Tesi 10 Il postfordismo è il «comunismo del capitale». La metamorfosi dei sistemi sociali in Occidente, durante gli anni Trenta, è stata talvolta designata con un’espressione tanto perspicua, quanto apparentemente paradossale: socialismo del capitale. Con essa si allude al ruolo determinante assunto dallo Stato nel ciclo economico, alla fine del laissez-faire liberista, ai processi di centralizzazione e di pianificazione guidati dall’industria pubblica, alle politiche del pieno impiego, all’esordio del Welfare. La replica capitalistica alla Rivoluzione d’Ottobre e alla crisi del ’29 fu una gigantesca socializzazione (o meglio, statalizzazione) dei rapporti di produzione. Per dirla con la frase di Marx che citavo poco fa, si ebbe «un superamento della proprietà privata sul terreno stesso della proprietà privata». La metamorfosi dei sistemi sociali in Occidente, durante gli anni Ottanta e Novanta, può essere sintetizzata nel modo più pertinente con l’espressione: comunismo del capitale. Ciò significa che l’iniziativa capitalistica orchestra a proprio beneficio precisamente quelle condizioni materiali e culturali che assicurerebbero un pacato realismo alla prospettiva comunista. Si pensi agli obiettivi che costituiscono il fulcro di tale prospettiva: abolizione di quello scandalo intollerabile che è la persistenza del lavoro salariato; estinzione dello Stato in quanto industria della coercizione e «monopolio della decisione politica»; valorizzazione di tutto ciò che rende irripetibile la vita del

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singolo. Ebbene, nel corso dell’ultimo ventennio, è stata messa in scena un’interpretazione capziosa e terribile di questi stessi obiettivi. Anzitutto: l’irreversibile contrazione del tempo di lavoro socialmente necessario è andata di pari passo con l’aumento di orario per chi sta «dentro» e l’emarginazione per chi sta «fuori». Anche quando è tartassato dagli straordinari, l’insieme dei lavoratori dipendenti si presenta come «sovrappopolazione» o «esercito industriale di riserva». In secondo luogo, la crisi radicale, o addirittura la disgregazione, degli Stati nazionali si esplica come riproduzione miniaturizzata, a mo’ di scatola cinese, della forma-Stato. In terzo luogo, in seguito alla caduta di un «equivalente universale» capace di effettiva vigenza, si assiste a un culto feticistico delle differenze: solo che queste ultime, rivendicando un surrettizio fondamento sostanziale, danno luogo a ogni sorta di gerarchie sopraffattorie e discriminanti. Se il fordismo aveva inglobato, e ritrascritto a suo modo, alcuni aspetti dell’esperienza socialista, il postfordismo ha destituito di fondamento sia il keynesismo che il socialismo. Il postfordismo, incardinato com’è al General Intellect e alla moltitudine, declina a suo modo istanze tipiche del comunismo (abolizione del lavoro, dissoluzione dello Stato ecc.). Il postfordismo è il comunismo del capitale. Alle spalle del fordismo, vi fu la rivoluzione socialista in Russia (e, seppure sconfitto, un tentativo di rivoluzione in Europa occidentale). È lecito chiedersi quale sommovimento sociale ha fatto da preludio al postfordismo. Ebbene, credo che negli anni Sessanta e Settanta vi sia stata, in Occidente, una rivoluzione sconfitta. La prima rivoluzione che non si è scagliata contro la povertà e l’arretratezza, ma specificamente contro il modo di produzione capitalistico, dunque contro il lavoro salariato. Se parlo di rivoluzione sconfitta, non è perché molti blateravano di rivoluzione. Non mi riferisco al carnevale delle sogget-

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tività, ma a un sobrio dato di fatto: per un lungo periodo di tempo, nelle fabbriche come nei quartieri popolari, nelle scuole come in certe delicate istituzioni statali, si sono fronteggiati due poteri contrapposti, con conseguente paralisi della decisione politica. Da questo punto di vista – oggettivo, sobrio – si potrebbe sostenere che in Italia e in altri paesi occidentali, vi è stata una rivoluzione sconfitta. Il postfordismo, ossia il «comunismo del capitale», è la risposta a questa rivoluzione sconfitta, così diversa da quelle degli anni Venti. La qualità della «risposta» è uguale e contraria alla qualità della «domanda». Credo che le lotte sociali degli anni Sessanta e Settanta abbiano espresso istanze non socialiste, anzi antisocialiste: critica radicale del lavoro; un accentuato gusto delle differenze o, se si preferisce, un affinamento del «principio di individuazione»; non più l’aspirazione a impadronirsi dello Stato, ma l’attitudine (talvolta assai violenta, certo) a difendersi dallo Stato, a dissolvere il vincolo statale come tale. Non è difficile ravvisare spunti e orientamenti comunistici nella rivoluzione fallita degli anni Sessanta e Settanta. Per questo il postfordismo, che costituisce una risposta a tale rivoluzione, ha dato vita a una sorta di paradossale «comunismo del capitale».

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Bibliografia

Sono elencate qui di seguito solo le opere menzionate nel corso del seminario. Le indicazioni bibliografiche presenti nel corpo del testo si riferiscono sempre alle traduzioni italiane. AGOSTINO D’IPPONA, Confessioni, ed. it. con testo latino a fronte, Rizzoli (Bur), Milano 1997. ADORNO TH. W. – HORCKHEIMER M. (1947), Dialektik der Aufklaerung; trad. it. Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, ed. it. con testo greco a fronte, Rizzoli (Bur), Milano 1986. Retorica, ed. it. con testo greco a fronte, Mondadori (Oscar), Milano 1996. Protreptico, trad. it. in ID., Opere complete, vol. XI, Laterza, Bari 1984. ARENDT H. (1958), The Human Condition; trad. it. Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1988. (1961), Between Past and Future: Six Exercises in Political Thought; trad. it. Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1991. AUSTIN J. (1962), How to Do Things with Words; trad. it. Come fare cose con le parole, Marietti, Genova 1987. BACHELARD G. (1940), La philosophie du non; trad. it. parz. La filosofia del no, in ID., Epistemologia, Laterza, Bari 1975. BENJAMIN W. (1936), Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit; trad. it. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966. BENVENISTE E. (1970), L’appareil formel de l’énonciation; trad. it. L’apparato formale dell’enunciazione, in ID., Problemi di linguistica generale II, Il Saggiatore, Milano 1985.

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Indice

Premessa 1. Popolo vs moltitudine: Hobbes e Spinoza 2. La pluralità esorcizzata: il «privato» e l’«individuale» 3. Tre approcci ai Molti

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Timori e ripari 1. Oltre la coppia paura/angoscia 2. Luoghi comuni e General Intellect 3. Pubblicità senza sfera pubblica 4. Quale Uno per i Molti?

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Lavoro, Azione, Intelletto 1. Giustapposizione di poiesi e prassi 2. Del virtuosismo. Da Aristotele a Glenn Gould 3. Il parlante come artista esecutore 4. Industria culturale: anticipazione e paradigma 5. Il linguaggio sul palcoscenico 6. Virtuosismo al lavoro

38 39 44 45 50 52

7. L’intelletto in quanto spartito 8. Ragion di Stato ed Esodo

55 59

La moltitudine come soggettività 1. Il principio di individuazione 2. Un concetto equivoco: la biopolitica 3. Le tonalità emotive della moltitudine 4. La chiacchiera e la curiosità

68 75 79 85

Dieci tesi sulla moltitudine postfordista

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Bibliografia

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Finito di stampare nel mese di settembre 2008 presso la tipografia Stampa Editoriale Manocalzati (Avellino) per conto delle edizioni DeriveApprodi