Urban Forms of Life. Per una critica delle forme di vita urbana


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Urban Forms of Life. Per una critica delle forme di vita urbana

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Urban Forrns of Life Per una critica delle forme di vita urbane

A cura di Andrea D'Ammando Tommaso Morawski Stefano Velotti

Quodlibet Studio

Indice

7

Stefano Velotti

Introduzione/ Introduction I. Pratiche di reincanto critico 29

Andrea D'Ammando

Introduzione 33

Natalia Agati, Francesco Careri

Per una città incantata. Una conversazione sull'arte e la produzione di spazio comunitario a partire dall'esperienza di Termini TV 53

Giovanni Atti li

Cosmogonie del possibile 75

Silvia Bottiroli

Un paesaggio senza fine 87

Andrea D' Ammando

Il diritto alla spontaneità. Pratiche artistiche e critica della vita urbana Il. Re-immaginare lo spazio urbano 105

Andrea D'Ammando

Introduzione I 09

Antonio lanniello, David Habets

Enacting Monsters

6

INDICE

139

Francesca Natale

Aprire la scatola nera. Spettatorialità e dispositivi attenzionali partecipativi nell'utilizzo degli spazi pubblici 159

Nanna Verhoeff

Hodos: The Streets and Methods of (Post-)Pandemic Cities III. La città e i suoi ordini di realtà 179

Tommaso Morawski

Introduzione 183

Mario Neve

Cities' Mind: Some Lcssons Learnt from the Mediterranean 207

Giacomo-Maria Salerno

Venezia è una nave da crociera. La città-piattaforma tra operazioni estrattive e tecnologie di controllo 229

Fabrizia Bandi, Andrea Pinotti

Emersioni nello scenario urbano. Pratiche e poetiche di realtà aumentata 2

53

Manuel Maximilian Riolo

Emigrazioni e immigrazioni ludico-digitali. Videogioco, ludicità e città 269

Tommaso Morawski

Carto-City. Osservazioni archeologico-mediali su immaginazione, spazio e città N. Dentro la vita urbana: morale, politica, società 297

Tommaso Morawski

Introduzione 301

Piergiorgio Donatclli

L'esperienza morale della città 3 21

Matteo Vcgctti

La marginalità sociale nella città post-fordista. Intorno all'idea di neo-plebe

Introduzione Stefano Velotti

Our world looks quitc diffcrcnt if wc surround it with diffcrcnt ~bilitics. Wingcnstcin 1993, 379

Che forme assume la vita nei contesti urbani? Da che deriva la loro presunta, attuale «illeggibilità»? Che cosa impedisce il fiorire di forme di vita appaganti, degne, vitali? È possibile rendere visibile e articolabile I' «elemento» urbano in cui siamo immersi? Quali esperimenti tentare per risvegliare un nuovo senso (comune) di vita urbana? Che ruolo possono assumere le forme di vita urbana nei confronti del contesto più ampio, umano e non-umano, da cui dipendono sotto molteplici aspetti? Quali opportunità e quali insidie si prospettano con l'inarrestabile penetrazione delle nuove tecnologie digitali e di intelligenza artificiale nel tessuto urbano? A partire da queste e altre domande è nato nel 2017 un progetto di ricerca in filosofia, presentato ali'Ateneo della Sapienza Università di Roma, che lo ha finanziato e di cui questo libro è uno dei risultati, insieme a una serie di incontri e seminari, a partire da quello tenutosi presso il Centre Mare Bloch di Berlino nel settembre del 2018 1 • Di fronte alle sconcertanti trasformazioni dei modi di vivere le città italiane verificatesi sotto i nostri occhi nel corso degli ultimi decenni 1 Progetto di Ateneo «Urban Fonns of Lifc: Affcctivc, Acsthctic, and Moral», Sapienza - Università di Roma, prot. RGn715C7Du.2E1B, responsabile della ricerca Stefano Vclotti. 11 saninario berlinese, Urban Forms, Urban Uves si è tenuto presso il Ccntrc Mare Bloch - Gcorg Simmcl Room, il 20 e 21 settembre 2018, con la partecipazione di Manhieu Amat (Univcrsité dc Lausannc), Piergiorgio Donatclli (La Sapicma - Università di Roma), Estcllc Ferrarese (Univcrsité dc Picardic Julcs-Vcmc), Clara Han Uohns Hopkins Univcrsity), Sandra Laugier (Université Paris I - Panthéon-Sorbonnc), Anthony Pccqueux (CNRS, CRESSON, Grenoblc), Alcxandra Richtcr (Univcrsité dc Roucn), Pierrc Sauvctrc (Université dc Paris Oucst-Nantcrrc), Bhrigupati Singh (Brown Univcrsity), Antonio Valcntini (La Sapienza - Università di Roma), Stefano Vclotti (La Sapienza - Università di Roma).

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STEFANO VELOln

(Roma, innanzitutto - città di residenza e di lavoro del nostro gruppo di ricerca - ma anche le città d'arte o quelle più anonime, e i centri abitati più piccoli, oggi ambiguamente «valorizzati» col nome di «borghi»), sentivamo l'esigenza di interrogarci su quali prospettive potesse fornire una riflessione filosofica per rendere meno opache le forme di vita urbana. Qualche sondaggio preliminare, infatti - non solo tra amici e colleghi architetti, urbanisti, sociologi, scrittori, ma nella vasta ed eterogenea galassia dei cultori dei cosiddetti «urban studies» - aveva fatto emergere l'impressione di una diffusa resa del pensiero di fronte alla complessità della vita urbana, spesso dichiarata ora «illeggibile», nonostante il considerevole patrimonio di letteratura filosofica sulle città del secolo scorso. Una resa che, salvo eccezioni, si traduce nel subire il divide et impera che caratterizza i nostri tempi, sopravvivendo giorno per giorno, ciascun per sé, come si può e conviene, ciecamente, rabbiosamente, tristemente. Ci rendevamo anche conto della difficoltà quasi disperata dell'impresa, a cominciare da un primo dilemma: per conoscere le forme di vita urbana anche di una sola città come Roma non sarebbe bastata una vita e, ciononostante, focalizzarsi su una sola città o su un suo aspetto particolare, senza termini di confronto, italiani e internazionali, ci avrebbe impedito di guadagnare quella distanza necessaria a ogni riflessione filosofica. Da un lato sentivamo la necessità di osservare da vicino la rete di relazioni pragmatiche (sociali, economiche, infrastrutturali, comunicative, tecnologiche etc.) in cui già siamo coinvolti - ciascuno a suo modo- come abitanti, dall'altro sapevamo che una ricerca empirica volta ad articolare tali rapporti in maniera non impressionistica era o poteva essere svolta molto meglio da studiosi di altre discipline (sociologia, economia, urbanistica, antropologia, geografia etc.). «Riflessione filosofica» può significare molte cose: in relazione al complesso di fenomeni che abbiamo deciso di chiamare «forme di vita urbana», per noi si tratta, ancora una volta, di interrogarci sul senso dell'esperienza che tali forme promuovono o inibiscono. A ciascuna delle domande che ci ponevamo si può tuttavia cercare di rispondere con indagini sul campo, indispensabili per conoscere la vita urbana, presupposto di ogni ulteriore indagine. Un solo esempio: mentre cercavamo di mettere a fuoco la nostra prospettiva, è uscito un libro importante, che ha incrementato la conoscenza della nostra città: Le mappe della disuguaglianz,a. Una geografia sociale metropolitana (Lelo, Monni, Tornassi 2019 ), seguito poi da Le sette Rome (Lelo, Monni, Tomas-

INTRODUZIONE

9

si 2021) 2 • La filosofia non aggiunge nessun nuovo dato, nessuna nuova conoscenza, in senso stretto, a queste indagini. Ma mentre queste e altre ricerche sollecitano una riflessione filosofica, le impediscono al tempo stesso di apprestare categorie inadeguate, di formulare generalizzazioni affrettate, di vedere omogeneità tra fenomeni eterogenei o solo imparentati. Con le parole di Wittgenstein - da cui abbiamo preso in prestito l'espressione «forme di vita» - tali conoscenze empiriche sono indispensabili alla riflessione filosofica proprio per insegnarle a vedere «le differenze» (Boncompagni 2015, 15). Questa introduzione affida alle più brevi introduzioni alle singole sezioni del volume la presentazione dei contributi che lo compongono, in cui il nome di Wittgenstein non occupa mai un posto di rilievo. Ma ha il compito di gettare un po' di luce sull'espressione «forma/e di vita» che appare nel titolo del nostro volume e di chiarire in che senso la filosofia può contribuire a problematizzare le indagini che le «danno da pensare». In primo luogo, aggiunge domande che è necessario porsi per comprendere la natura di tali «differenze». Per esempio: se differenti forme di vita urbana, intese come insiemi non ben definiti di atteggiamenti, abitudini, comportamenti, percezioni, aspirazioni, possibilità o impossibilità di azione che si intrecciano anche in una stessa città (le sette diverse città sono pur sempre sette Rome), come considerarle? Incommensurabili e sigillate in se stesse o accessibili e comunicanti? Come sottili patine «culturali» stese su una omogenea natura di fondo o come intrecci inestricabili di natura-cultura, unità dinamiche di «seconda natura»? E come indagarle senza presumere di non appartenere ad alcuna di essa? Illudendosi di possedere uno sguardo di sorvolo disincarnato? Sarebbe allora inevitabile elevare il proprio punto di vista - incistato in una particolare forma di vita - al rango dell'unico vertice praticabile, «corretto» o «superiore»? Crediamo che questa sia una falsa alternativa: non si tratta né di presumere uno sguardo da nessun luogo, privo di presupposti, vincoli, prospettive 2 L'autrice e gli autori del volume - e poi Walter Tocci, autore della postfazione allo stesso volume e di un notevole libro su Roma (focci 202.0) - hanno accettato di partecipare a uno dei nostri seminari, svolti tra il 2.018 e il 2022., segnati, ovviamente, dall'evento della pandemia. Vorrei ringraziare tutti e tutte coloro che, tra gli altri, hanno animato questi incontri, in diverse forme. In particolare: Natalia Agati, Giovanni Attili, Stefano Catucci, Stefania Consigliere, Giovanni Garroni, Kcti Lclo, Salvatore Monni, Mario Neve, Massimo Palma, Andrea Pinotti, Francesco Pccoraro, Matteo Vcgctti, Nanna Verhocff.

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limitanti o abilitanti, né di dissolversi nel proprio contesto, lasciandolo diventare invisibile e inamovibile, come se fosse l'ineluttabile destino di ciascuno, magari rivendicando il proprio etnocentrismo. «Forma/e di vita» è un'espressione che ha una lunga storia, ma che è entrata nel dibattito filosofico con l'uso, parsimonioso ma cruciale, che ne ha fatto Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche e in altri testi. Il significato che viene dato a quest'espressione varia tra due estremi, entrambi riduttivi e semplicistici: da un lato un relativismo empirico (dove si privilegia il plurale «forme di vita», caratterizzate da una diversità di modi di vivere, costumi, «giochi linguistici», comportamenti, credenze etc. non ulteriormente legittimabili o interrogabili); dall'altro un monismo biologico o trascendentale, che distinguerebbe, in linea di diritto, un'universale forma di vita umana (al singolare) da tutte le altre forme non umane. Impossibile qui riassumere l'ampio dibattito che si dispiega tra questi due estremi 3• Possiamo dire, però, che siamo orientati a condividere quelle interpretazioni che incrociano e connettono intimamente le due prospettive, modificandole entrambe: la «grammatica» antropologico-trascendentale della forma di vita universalmente umana (caratterizzata da certe capacità e pratiche linguistiche e non linguistiche, tecnologiche, culturali, da «certezze» di fondo rispetto a noi stessi, agli altri e al mondo in cui viviamo etc.) e le forme di vita locali, contingenti e particolari, rivedibili, discutibili, trasformabili nonostante la loro inerzia. Le due prospettive non possono essere comprese separatamente, ma solo l'una attraverso l'altra. Sul primo versante si collocano quei comportamenti (agire, pensare, sperare, dubitare, fingere etc., e non solo gli universali bisogni biologici, come mangiare e bere) e quelle certezze o presupposizioni non epistemiche proprie del mondo che condividiamo, che costituiscono le tacite premesse di ogni forma di vita particolare (che gli esseri umani muoiono, che il mondo non scompare quando chiudo gli occhi, esimili). Tali «certezze» - come le chiama Wittgenstein, distinguendole dalle conoscenze - costituiscono la base «data» di ogni eventuale, successivo agire, interrogare o dubitare. Sull'altro versante si collocano tutti i diversi modi in cui tali comportamenti e assunti vengono modulati in un insieme di pratiche e orientamenti di gruppo più o meno istituzionalizzati, come articolazioni di una «seconda natura» profonda3 Per un quadro di tale dibattito, da prospettive sostanzialmente condivisibili e tra loro compatibili, cfr. Boncompagni (2.015 e 2.016) e Moyal-Sharrock (2.015, 2.02.1).

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II

mente innervata in forme di vita diverse. Solo questa duplicità di assi «verticali» e «orizzontali» (Cavell 1988) delle forme di vita permette di comprendere l'idea wittgensteiniana secondo cui uno dei principali compiti della ricerca filosofica è quello di rendere perspicuo ciò che è opaco, invisibile o nascosto perché troppo familiare e apparentemente semplice (Wittgenstein 2009, 89, 129 ). Taie esigenza può anche essere espressa con un'altra espressione di Wittgenstein, quella del guardareattraverso (durchschauen)4 - per così dire «verticalmente» - i fenomeni in cui siamo immersi e che sono parte di una pluralità di forme di vita -disposte su un piano «orizzontale», nelle loro «differenze»-, per indagarne «le possibilità»5. Ciascuno di noi è certamente immerso in una forma di vita, ma non ne è necessariamente sommerso, il che renderebbe impossibile non solo sollevare dal suo interno una critica volta a modificarla6 , ma innanzitutto lo stesso parlarne. Il linguaggio, d'altra parte, i «giochi linguistici» che giochiamo sono resi possibili dalle forme di vita in cui siamo e agiamo e, a loro volta, le condizionano. Da questo punto di vista, lo sforzo di articolare un linguaggio adeguato ad analizzare le forme di vita urbana è una delle sfide da raccogliere. Articolare usi del linguaggio adeguati, fuori dei limitati tecnicismi degli esperti, significa anche allargare a un maggior numero di persone le opportunità di partecipazione alle forme che la vita assume nelle città, in vista di forme di vita possibili e alternative a quelle esistenti e sentite "' «90. Es ist uns, als mii8ten wir die Erscheinungen durchschauen: unscre Untersuchung aber richtet sich nicht auf die Erscheinungen, sondern, wie man sagen konnte, auf die 'Moglichkeiten' der Erscheinungen», Wittgenstein (2.009, 47). S Su questa interpretazione del durchschauen ha insistito E. Garroni (2.02.0). 'A partire da una prospettiva di teoria critica di marca francofortcsc, Jaeggi (2.013) ha dedicato un importante volume all'elaborazione di una critica immanente delle forme di vita, approdando alla proposta di un «pluralismo sperimentale delle forme di vita». Lo scopo primario del volume è la m~ a punto di una prospettiva critica che sia inscindibile dal contesto in cui le forme di vita (al plurale) prendono corpo, ma che sia al tempo stesso in grado di trascenderlo grazie a legittime esigenze di tipo normativo. La prospettiva di Jacggi è interessante, benché, sorprendentemente, consideri la dimensione estetica - cruciale per cogliere la sostanza delle forme di vita esistenti e per immaginarne altre - come qualcosa di meramente idiosincratico, ambito di preferenze superficiali, non negoziabili normativamente, semplice glassa sulla torta. È evidente, invece, che almeno a partire dalla nozione di senso o sentimento comune (Getneinsinn) elaborata da Kant nel testo fondativo dell'estetica moderna, la Critica della facoltà di giudizio, la dimensione estetica è parte fondamentale del tessuto delle forme di vita, e il relegarla a questioni di mere preferenze cstctistiche ne amputa la comprensione.

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STEFANO VELOlTI

come insoddisfacenti, ottuse, estranee o opprimenti. E qui si sarebbe tentati di rielaborare il celebre paragone di Wittgenstein tra il nostro linguaggio, sempre incompleto, aperto ed eterogeneo, e una vecchia città, il cui centro è costituito da un dedalo di stradine e di piazze, di aggiunte risalenti a tempi diversi, mentre solo nei sobborghi si troverebbero strade dritte e regolari e case uniformi, linguaggi specialistici, controllati e formalizzati (Wittgenstein 2009, 11 ). Il tema della «partecipazione dal basso» all'istituzione di forme di vita urbana è uno dei fili rossi che percorrono questo volume, nella consapevolezza, però, che il termine «partecipazione» rischia di essere un passepartout alla moda che in realtà non apre nessuna porta. A meno che non venga ripensato e calato in pratiche concrete accuratamente ponderate. Qualcosa di analogo si potrebbe dire per altri termini-chiave dei contributi che seguono, a cominciare da quello di «reincantamento», opportunamente qualificato qui come «critico». Innumerevoli, negli ultimi anni, sono stati gli studi che hanno cercato di limitare, modificare o respingere la diagnosi weberiana di un «disincantamento del mondo», dovuto non solo al potere corrosivo delle religioni nei confronti della magia, ma al trionfo di una ragione strumentale e di un apparato burocratico soffocante. E molteplici sono i tentativi di prospettare un «reincantamento del mondo» a partire da un diverso rapporto con la realtà naturale e con il tessuto sociale, considerati non più come risorse da sfruttare ma piuttosto come dotati di una propria vita, se non di una propria «agency», resa muta da un capitalismo sempre più rapace, pervasivo e votato alla produzione di disastri locali e globali che abbiamo imparato a conoscere. Naturalmente, le forme di vita non si «reincantano» per decreto, dato che anche le denunce più esplicite e ragionevoli di modalità di convivenza e di produzione assurde e distruttive risultano impotenti a provocare qualsiasi cambiamento, mentre le migliori intenzioni dei «riformatori del mondo» si scontrano spesso con l'impossibilità di dar vita a condizioni che, per loro natura, non possono essere intenzionate e pianificate direttamente. Un esempio, tra i tanti possibili, è quello dell'intenzione di «disegnare il disordine» (cfr. Sendra, Sennett 2020) per lasciar emergere forme di vita non già previste e controllate dall'alto, ma neppure abbandonate al caso. Tale lodevole intenzione sembra però contenere una sorta di contraddizione performativa, dato che si tratterebbe di pianificare il non pianificabile. Eppure, è possibile elaborare strategie indirette, «certamente incerte» nei loro esiti, ma

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proprio per questo vitali. Le pratiche artistiche, come si vedrà, contribuiscono alla costruzione di alcune di queste possibili strategie. Il problema può anche essere riformulato esplorando diverse accezioni di «controllo», inteso non solo come sorveglianza, benché questa sia sempre più pervasiva e penetrante (cfr. per es. Zuboff 2019), ma anche come proliferazione di diversi tipi di «contrarotulus», il libro o secondo «rotulus» che registra, duplica e monitora ogni pratica e azione del «libro» in gran parte irriflesso o spontaneo della vita. Ma tale «registro» rischia sempre di arrivare a imporre i propri parametri di valutazione alla vita stessa, fino a renderla conforme a sé, impoverendola. Ciò può accadere, per esempio, nella creazione di uno o più «doppi digitali» di noi stessi, che incanalano la ricchezza semi-incontrollabile della vita in parametri stabiliti in base a interessi estranei. O nelle forme di controllo dello spazio, che possono però prevedere cartografie alternative, mediante l'esercizio cartografico dell'immaginazione. Ma di qui anche l'interesse per varie forme di spontaneità, intesa non come stucchevole spontaneismo, ma come contatto con quella dimensione dell'incontrollabile che è condizione di senso di ogni esperienza e azione (cfr. Velotti 2017, Rosa 2020). Questo richiamo alla spontaneità può ricondurci ancora a Wittgenstein. Non solo gran parte degli enunciati non descrittivi, ma espressivi, possono essere visti come caratterizzati precisamente dalla loro spontaneità7, ma è indubbio che Wittgenstein sia interessato alla «certezza» che si manifesta nelle nostre esperienze non riflesse, il che non significa che le nostre risposte più spontanee e «naturali» alle affordances (espressione traducibile forse con «inviti all'uso») fornite dal nostro ambiente - fisico, sociale, culturale - siano «irrazionali», automatiche, o del tutto incontrollate (cfr. Rietveld 2013 ). Mettere l'accento su questi tratti del pensiero di Wittgenstein significa anche accostarlo a una prospettiva enattivista, vale a dire, grosso modo, a una concezione che lega la percezione e la conoscenza del mondo a 7 « What is tbc sctting, thc contcxt, thc origin of uttcrancc? In cxprcssivc uttcranccs, no rcflcction Jeads up to thc words. Thcy are uttcrcd, as it wcrc, without a thought. Wc can gather from Wittgenstcin ..s numerous comparative analyses that the distinguishing fcaturc bctween dcscriptive and nondcscriptivc uscs of first-pcrson present-tense psychological uttcranccs is: spotrtatieity, a spontaneous deliverm,ce bcing one that no reflcction or sclfobscrvation has "led up to". Spontaneous cxprcssions of pain do not dcscribc our internal statcs, or at lcast thcy ncvcr intend to» Moyal-Sharrock (2.02.1, 52.).

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STEFANO VELOTI1

un'esplorazione attiva dell'ambiente, naturale e sociale, inscindibile dalle nostre capacità sensomotorie, ma non limitata a queste ultime, e dalle risorse, o affordances, che tale ambiente può rivelare ad agenti «resi capaci» di coglierle. Mentre il dibattito sulle varie forme di enattivismo e sulla natura delle affordances è molto vasto nella filosofia contemporanea, qui vorremmo aggiungere, in conclusione, un'ulteriore suggestione che varrebbe la pena esplorare: la rilevazione e l'uso di affordances del nostro ambiente naturale, sociale e culturale (a cominciare da quello costruito nelle nostre città, o anche evidenziato con l'aiuto delle tecnologie di realtà aumentata, su cui si concentra una sezione di questo volume) da «convertire» in capacità di azione e di valutazione. In accordo con la teoria delle capabilities proposta originariamente da Amartya Sen fin dagli anni Ottanta del secolo scorso, sempre più spesso rivisitata oggi in vista di uno sviluppo post-produttivista alternativo a quello della crescita, a ogni costo, in termini di PIL8 • Una visione, quest'ultima, non solo carente e ormai screditata da un punto di vista teorico, ma diventata evidentemente insostenibile. Crediamo che una visione ampia e normativamente caratterizzata delle affordances (cfr. Rietveld, Kieverstein 2014) possa essere coniugata precisamente con una visione altrettanto ampia delle capabilities - non limitata da un pregiudizio produttivista calato dall'alto ed estraneo a ciò che rende la propria vita degna di essere vissuta - che ciascuno di noi, in quanto vulnerabile e dunque dipendente, ma anche capace di agire e di giudicare, deve essere messo in condizione di acquisire ed esercitare. Bibliografia Boncompagni, Anna 2015

Elucidatit,g Forms of Life. The Evolutio11 of a Philosophical Tool, «Nordic Wittgenstein Review Special Issue», Wittgenstein and Forms of Life, guest editors D. Moyal-Sharrock and P. Donatclli.

8 Si veda per es. Bonvin e Laruffa 2.02.1 interessati «in cxploring thc potcntial and pitfalls of tbc capability approaeh as a normative framcwork for an ecosocial policy. Thc capability approaeh suggcsts that what should be grown or maximizcd is not economie wcalth or GDP, but pcoplc's frccdom to livc a lifc thcy havc rcason to valuc. Our contcntion is that maximizing pcoplc's capabilitics is compatiblc with a eonccption of thc wclfarc state that is dccouplcd from economie growth• (Bonvin e Laruffa 2.02.1, 2.).

INTRODUZIONE

2016

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Wittgenstein a,ul Pragmatism. On Certainty in the Light of Peirce and ]ames, Palgrave Macmillan, London.

Bonvin, Jean-Michel, Laruffa, Francesco 202.1 Towards a Capability-Oriented Eco-Socia/ Policy: Elements of a Normative Framework, «Social Policy & Society». Cavell, Stanley 1988 Declining Decline: Wittgenstein as a Philosopher of Culture, «Inquiry», 31, pp. 253-264. Garroni, Emilio 2020 &tetica. Uno sguardo-attraverso ( 1992.}, Castelvccchi, Roma. Jaeggi, Rahcl 2013 Kritik von Lebensforme,z, Suhrkamp, Frankfurt a. M. Lclo, Keti, Monni, Salvatore, Tornassi, Federico 2019 Le mappe della disuguaglianza. Una geografia sociale metropolitana, Donzelli, Roma. 202.1 Le sette Rome. La capitale delle diseguaglianze raccontata in 29 mappe, Donzelli, Roma. Moyal-Sharrock, Danièle 2015 Wittgenstein on Forms of Life, Pattenzs of Life, a,ul Ways o{ Living, «Nordic Wittgenstein Revicw Special Issue», Wittge,zstein a,ul Forms of Life, gucst editors D. Moyal-Sharrock and P. Donatelli, pp. 21-42. 202.1 urtainty in Action. Wittgenstein on Language, Mind and Epistemology, Bloomsbury, London-New Yorlc. Rietveld, Erik 2013 Afforda,u:es and Unre{lective Freedom, in Moran, D., Thybo Jensen, R. (eds.}, The Phenomenology of Embodied Subjectivity, Springer, New York. Rictvcld, Erik, Kiverstein, J ulian 2014 A Rich La11dscape of A{forda,zces, «Ecological Psychology», 2.6,

4,

pp.

325-352..

Rosa, Hartmut 2020 The Uncontrollability of the World (2018}, Polity, Cambridge. Sendra, Pablo, Sennett, Richard 2020 Desig,zing Disorder. Experiments and Disruptions in the City, Verso, London-New York. T occi, Walter 2020 Roma come se. Alla ricerca del futuro per la capitale, Donzelli, Roma. Velotti, Stefano 2017 Dialettica del controllo. Limiti della sorveglianza e pratiche artistiche, Castel vecchi, Roma.

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STEFANO VELOlTI

Wittgenstein, Ludwig 1993 Philosophical Occasiotzs I9I2-I9JI, Hackett, Indianapolis. 2.009 Philosophical lnvestigations (1953), Wiley-Blackwell, Oxford. Zuboff, Shoshana 2.019 The Age of Surveillance Capitalism, Profile Books, London.

Introduction Stefano Vclotti

Our world looks quitc diffcrcnt if wc surround it with different possibilitics. Wittgenstcin 1993, 379

What forms does life take in urban contexts? Where does their supposed, current "unreadability" come from? What prevents the flourishing of fulfilling, worthy, vital forms of life? Is it possible to make visible and articulable the urban "element" in which wc are immersed? What experiments should be attempted to awaken a new (common) sense of urban life? What role can urban forms of life assume vis-àvis the larger human and non-human context on which they depend in multiple respects? What opportunities and pitfalls lie ahead with the unstoppable penetration of new digitai and artificial intelligence technologies into the urban fabric? Starting from these and other questions, a research project in philosophy was presented to the Sapienza University of Rome in 2017, of which this book is one of the results, along with a series of meetings and seminars, starting with the one held at the Mare Bloch Centre in Berlin in September 2018 1 • Faced with the disconcerting transformations in the ways of living in Italian cities that have occurred before our eyes over the past 1 "Urban Forms of Lifc: Affcctive, Acsthctic, and Moral", Sapienza - University of Rome, prot.RG11715C7Du.2E1B, PI Stefano Vclotti. Thc Bcrlin seminar, "Urban Forms, Urban Llvcs", was hcld at the Ccntrc Mare Bloch - Gcorg Simmcl Room, September 20 and 2.1, 2018, with the participation of Matthieu Amat (Université dc Lausannc), Piergiorgio Donatclli (La Sapienza - Univcrsity of Rome), Estcllc Ferrarese (Univcrsité dc Picardic Julcs-Vemc), Clara Han Uohns Hopkins University), Sandra Laugier (Univcrsité Paris I Panthéon-Sorbonnc), Anthony Pecqueux (CNRS, CRESSON, Grcnoblc), Alcxandra Richter (Univcrsité dc Rouen), Pierrc Sauvetrc (Université dc Paris Oucst-Nanterrc), Bhrigupati Singh (Brown University), Antonio Valcntini (La Sapienza - University of Rome), Stefano Vclotti (La Sapienza - University of Rome).

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STEFANO VELOTn

decades (Rome, first of ali - the city of residence and work of our research group - but also the "art citics" or the more anonymous oncs, and thc smaller towns, today ambiguously "valorized" undcr the name of "borghi"), we feltthe need to question what perspectives a philosophical reflcction could providc to make urban forms of life less opaque. A fcw preliminary surveys, in fact - not only among fricnds and collcagucs who are architects, urban planners, sociologists, writcrs, but in the vast and hcterogencous galaxy of scholars of the so-called "urban studies" - had brought out the imprcssion of a widespread surrender of thought in the face of the complexity of urban lifc, oftcn now declared "unrcadable," despite the considerablc hcritagc of philosophical literature on cities in thc last century. A surrendcr that, with some cxceptions, translates into suffcring the divide et impera that characterizes our times, surviving day by day, each for oneself, blindly, angrily, sadly. Wc also rcalizcd the almost dcsperatc difficulty of thc undcrtaking, beginning with a first dilemma: to know thc forms of urban life of evcn a single city likc Romc a lifetime would not be cnough, and, neverthelcss, focusing on a single city or a particular aspcct of it, without terms of comparison, Italian and international, would prevent us from gaining that distance necessary for any philosophical reflection. On the one hand, we felt the need to take a closer look at thc network of pragmatic relationships (social, economie, infrastructural, communicativc, tcchnological etc.) in which we are already immersed - each in our own way - as inhabitants; on the other hand, we knew that empirical research aimed at articulating these relationships in a non-impressionistic way was or could be done much bcttcr by scholars from other disciplincs (sociology, economics, urban planning, anthropology, geography etc.). "Philosophical rcflcction" can mcan many things: in relation to the complex of phenomena we have decidcd to cali "urban forms of life," for us it is a matter, once again, of questioning the sense of the experiencc that such forms promote or inhibit. Each of the questions we posed can, however, get an answer by field investigations, which are indispcnsablc for knowing urban life, a prcrcquisite for any further inquiry. Just one example: while we were trying to elaborate our perspective, an important book carne out that increased our knowledge of Rome and other cities: Le mappe della disuguaglianz,a: Una geografia sociale metropoliuzna (Lelo, Monni, Tornassi 2019),

INTROOUcnON

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followed later by Le sette Rome (Lelo, Monni, Tornassi 2021) 2 • Philosophy adds no new data, no new knowledge, strictly speaking, to these investigations. But while these and other inquiries prompt philosophical reflection, they prevent it at the same time from lending inadeguate categories, from making hasty gencralizations, from sceing homogcncities among hctcrogcneous or only related phenomena. In thc words of Wittgenstcin - from whom wc borrowed thc cxpression "forms of life" - such empirica) knowlcdgc is indispcnsable to philosophical reflcction prccisely in ordcr to tcach it to scc "diffcrcnccs" (Boncompagni 2015, 15). This introduction entrusts the shorter introductions to thc individuai scctions of thc volume with the prcsentation of thcir contributions, in which Wittgenstein's name never occupics a prominent piace. But it docs have thc task of shcdding some light on thc expression "form(s) of lifc" that appears in the titlc of our volume and to clarify in what sense philosophy can contributc to problematizing thc inquirics that "givc it food for thought". First, it adds questions that need to be asked in ordcr to understand the nature of such "differenccs". For examplc: if different forms of urban lifc, understood as ill-defined sets of attitudcs, habits, behaviors, perceptions, aspirations, possibilities or impossibilities of action that are intertwined even in the same city (the seven different cities are stili seven Romes), how should wc consider them? Incommensurable and scalcd within thcmselves or acccssible and communicating? As thin "cultura)" patinas strctchcd over a homogeneous undcrlying nature or as incxtricable nature-culture intcrweavings, dynamic units of "second nature"? And how to investigate them without assuming that onc docs not belong to any of it? By deluding oncself into bclicving that onc posscsses a disembodicd "view from nowhcrc"? Would it then be incvitablc to elevate one's own vicwpoint - incorporated in a particular form of lifc- to the rank of thc only viable, "correct" or "superior" point of vicw? We believe that this is a false alternative: it is neither a mattcr of assuming a gaze from nowhere, devoid of 2 The authors of the volume - and later Walter Tocci as well, author of the afterword to the same volume and of a remarkable book on Rome (Tocci 202.0) - agrccd to participate in one of our seminars, hcld bctwccn 2.018 and 2.02.2., markcd, of coursc, by thc pandemie cvent. I would like to thank cvcryonc who animatcd thcsc mcctings, in differcnt forms. In particular: Natalia Agati, Giovanni Attili, Stefano Catucci, Stefania Consigliere, Giovanni Garroni, Keti Lclo, Salvatore Monni, Mario Neve, Massimo Palma, Andrea Pinotti, Francesco Pecoraro, Matteo Vcgctti, Nanna Verhocff.

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prcsuppositions, constraints, limiting or cnabling pcrspcctivcs, nor of dissolving into onc's own contcxt, lctting it bccomc invisiblc and immovablc, as if it wcrc onc's incvitablc dcstiny, pcrhaps claiming onc's own cthnoccntrism as incscapablc and lcgitimatc. "Form(s) of lifc" is an cxprcssion with a long history, but it cntcrcd philosophical dcbatc with Wittgcnstcin's sparing butcrucial use of it in his Philosophical Investigations and othcr tcxts. Thc mcaning ascribed to this cxprcssion varics bctwccn two cxtrcmcs, both rcductivc and simplistic: on thc onc hand, an cmpirical rclativism (focuscd on plural "forms of lifc", charactcrizcd by a divcrsity of customs, "languagc gamcs", behaviors, belicfs etc. that could not be furthcr lcgitimizcd or qucstioncd); on thc othcr hand, a biological or transccndcntal monism, which would distinguish, in principlc, a univcrsal human form of lifc (in thc singular) from ali othcr non-human forms. Impossiblc hcrc to summarizc the broad debate that unfolds bctwecn thcsc two extrcmcs3. We can say, howevcr, that wc are oricntcd to sharc thosc intcrprctations that intimatcly cross and conncct thc two pcrspcctivcs, modifying thcm both: thc anthropological-transccndcntal "grammar" of thc univcrsally human form of lifc (characterizcd by certa in linguistic and non-linguistic, technological, cultural capacities and practiccs, by basic "certainties" with respcct to oursclves, others and thc world in which we live etc.) and the locai, contingcnt and particular fomzs of lifc, rcvisable, debatablc, transformablc dcspitc thcir incrtia. Thc two pcrspcctivcs cannot be understood scparatcly, but only through each other. On the first side are those behaviors (acting, thinking, hoping, doubting, pretending etc., and not only thc universal biological nccds, such as cating and drinking) and those non-epistemic certainties or prcsuppositions pcculiar to thc world wc sharc, which constitutc thc tacit prcmiscs of any particular form of lifc (that human beings dic, that thc world does not disappcar when I dose my eyes, and the like). Such "certainties" - as Wittgcnstein calls thcm, distinguishing them from knowledge - constitute thc "given" basis of any eventual, subsequent acting, questioning, or doubting. On the other side are ali the different ways in which such behaviors and assumptions are modulatcd in a set of more or less institutionalized group practiccs and orientations, 3 For an ovcrvicw of this dcbatc, from csscntially agrccablc and mutually compatiblc pcrspcctivcs, scc Boncompagni (2015 and 2016) and Moyal-Sharrock (2015, 2021).

INTRODUCTION

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as articulations of a "second nature" deeply innervated in different forms of life. It is only this duplicity of "vertical" and "horizontal" axes (Cavell 1988) of forms of life that allows us to understand the Wittgensteinian idea that one of the main tasks of philosophical research is to make perspicuous what is opaque, invisible, or hidden because it is too familiar and apparently simple (Wittgenstein 2009, 89, 129 ). This need can also be expressed by another expression of Wittgenstein's, that of seeing-through (durchschauen)4 - "vertically", so to speak - the phenomena in which wc are immersed, and which are part of a plurality of forms of life - arranged on a "horizontal" piane, in their "differences" - in arder to investigate their "possibilities" .s Each of us is certainly immersed in a form of life, but wc are not necessarily submerged in it, which would make it impossible not only to raise from within a critique aimed at modifying it5, but first and foremost to talk about it. Language, on the other hand, the "language games" wc play are made possible by the forms of life in which wc are and act and, in turn, condition them. From this point of view, the effort to articulate adeguate language to analyze urban forms of life is one of the challenges to be met. Articulating appropriate uses of language, outside the limited technicalities of experts, also means offering to more people the opportunities for participation in the forms that life takes in cities, with a view to possible forms of life and alternatives to those that exist andare felt to be unsatisfactory, obtuse, ◄ "90. Es ist uns, als mii8tcn wir dic Erschcinungcn durchschaucn: unscrc Untcrsuchung abcr richtct sich nicht auf die Erschcinungcn, sondem, wie man sagen konntc, auf die 'Moglichkcitcn' der Erschcinungen", Wittgcnstcin (2.009, 47). s Staning from a criticai thcory pcrspcctive of the Frankfurt brand, Jacggi (2.013) has dcvotcd an important volume to the claboration of an immancnt critique of forms of lifc, calling hcr proposal an "experimental plura/isn, of forms of lifc". The primary purposc of the volume is the devclopment of a criticai perspective that is inscparable from the contcxt in which forms of lifc (in the plural) take shapc, while at the same time being able to transccnd it through lcgitimate normative demands. Jacggi's perspcctive is intercsting and vcry instructive, although, surprisingly, she trcats the acsthetic dimension - crociai for grasping the substance of existing forms of lifc and for imagining others - as something mercly idiosyncratic, a rcalm of superficial, normativcly non-ncgotiable prcfcrcnccs, mere frosting on the cake. lnstcad, it is clcar that at lcast from the notion of common sensc or feeling (Gemeinsin11) claboratcd by Kant in the founding text of modem acsthetics, thc Critique of the Power of ]udgment, thc acsthetic dimension is a fundamental pan of thc fabric of forms of lifc and rclcgating it to mattcrs of mere "acsthcticistic" prcfcrcnces undermincs its understanding.

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alienating, or oppressive. And here one would be tempted to rework Wittgenstein's famous comparison between our language, which is always incomplete, open, and heterogeneous, and an old city, the center of which consists of a maze of narrow streets and squares, of additions dating from different times, while only in the suburbs would one find straight, regular streets and uniform houses, namely, specialized, controlled, and formalized languages (Wittgenstein 2009, 11 ). The theme of "bottom-up participation" in the establishment of urban forms of life is one of the red threads running through this volume, with the awareness, however, thatthe term "participation" runs the risk of being a fashionable passepartout that in fact opens no doors. Unless it is rethought and situated into carefully considered concrete practices. Something similar could be said for other key terms in the contributions of this volume, beginning with that of "re-enchantment", appropriately qualified here as "criticai". Innumerable, in recent years, have been the studies that have sought to limit, modify, or reject the Weberian diagnosis of a "disenchantment of the world", due not only to the corrosive power of religions vis-à-vis magie, but to the triumph of instrumental reason and a stifling bureaucratic apparatus. And manifold are the attempts to envisage a "re-enchantment of the world" starting from a different relationship with natural reality and the sodai fabric, considered no longer as resources to be exploited but rather as endowed with their own life, if not their own "agency", rendered mute by an increasingly rapacious, pervasive capitalism devoted to producing the locai and global disasters we have come to know. Of course, forms of lifc do not become "re-enchanted" by decree, since even the most explicit and reasonable denunciations of our absurd and destructive modes of coexistence and production prove powerless to cause any change, while the best intentions of "world reformers" often come up against the impossibility of bringing about conditions that, by their very nature, cannot be brought about at will or through planning. One example, among many possible, is that of the intenti on to "design disorder" (cf. Sendra and Sennett 2020) to allow forms of lifc to emerge that are not already planned and controlled from above, but neither are they left to chance. However, such laudable intention seems to contain a kind of performative contradiction, since it would involve planning the unplannable. Yet, it is possible to devise indirect strategies, "certainly uncertain"

INTROOUcnON

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in their outcomes, but vital for that. Art practices may contribute to the construction of some of these possible strategies. The problem can also be reframed by exploring different meanings of "contrai", understood not only as surveillance, albeit it is increasingly pervasive and pcnetrating (see, e.g., Zuboff 2019 ), but also as the proliferati on of different kinds of "contra-rotulus", the book or second "rotulus" that records, duplicates and monitors every practice and action of the largcly unreflective or spontaneous "book" of lifc. But such a "register" is always in danger of coming to impose its own parameters of evaluation on life itsclf, to the point of making lifc conform to the ways it is recorded and evaluated, impoverishing it. This can happcn, for example, in the creation of one or more "digitai doubles" of us, who channcl the semi-uncontrollable richness of lifc into parameters set accorcling to extraneous interests. Or in the forms of control of space, which may, however, involve alternative cartographies through the cartographic exercise of imagination. But hence also the interest in various forms of spontaneity, understood not as cloying spontaneity, but as contact with that dimension of the uncontrollable that is a condition of sense in ali experience and action (cf. Velotti 2017, Rosa 2020). This appeal to spontaneity can lcad us back to Wittgenstein again. Not only can the expressive (as opposed to descriptive) utterances be scen as characterized preciscly by their spontaneity6 , but there is no doubt that Wittgenstein is interested in the "ccrtainty" that manifcsts itsclf in our unreflective expcriences, which does not mean that our most spontaneous and "natural" responses to the affordances provided by our environment- physical, sodai, cultural-are "irrational", automatic, or entircly uncontrolled (cf. Rietveld 201 3 ). Emphasizing thesc fcatures of Wittgenstcin's thought also means approaching it from an enactivist perspcctive. Roughly spcaking, the view that links pcrception and knowledge of the world to an active exploration of the environment, natural and sodai, inscparable from, but not limited to, our '"What is thc sctting, thc contcxt, the origin of uttcrance? In cxprcssivc utteranccs, no reflection leads up to the words. Thcy are uttercd, as it wcrc, without a thought. Wc can gather from Wittgenstcin"s numcrous comparative analyses that thc distinguishing fcaturc bctwccn dcscriptivc and nondcscriptivc uscs of first-pcrson present-tense psychological utteranccs is: spo11tmieity; a spontaneous deliverm,ce bcing one that no reflection or sclfobscrvation has 'led up to". Spontaneous cxprcssions of pain do not describc our internal states, or at lcast thcy never intend to", Moyal-Sharrock (202.1, 52.).

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sensorimotor capacities and the resources, or affordances, that such an environment can reveal to agents "enabled" or skilled to use them. While the debate on the various forms of enactivism and the nature of affordances is extensive in contemporary philosophy, here we would like to add, in conclusion, a further suggestion that would be worth exploring: the detection and use of affordances of our natural, sodai and cultural environment (starting with the built environment in our cities, or even highlighted with the help of augmented reality technologies) to be "converted" into capabilities for action and evaluation. In accordance with the capabilities approach originally proposed by Amartya Sen since the 1980s, increasingly revisited today in view of a post-productivist devclopment alternative to that of growth, at any cost, in terms of GDP7. A vision, the latter, which is not only deficient and now discredited from a theoretical point of view but has become patently unsustainable. We believe that a broad and normatively characterized view of affordances (cf. Rietveld, Kieverstein 2014) can be conjugated preciscly with an equally broad view of capabilities - not limited by a top-down productivist bias, foreign to what makes one's life worth living - that each of us, as vulnerable and therefore dependent, but also capable of action and judgment, must be enabled to acquire and exercise. Bibliography Boncompagni, Anna 2015 "Elucidating Forms of Lifc. The Evolution of a Philosophical Tool," in

2016

"Nordic WittgerIStein Review Special lssu ", Wittgenstei11 and Forms of Li/e, gucst editors D. Moyal-Sharrock and P. Donatelli. Wittgenstei11 a11d Pragmatism. On Certainty in the Light of Peirce and ]ames (London: Palgrave Macmillan).

Bonvin, Jean-Michel, Laruffa, Francis 2021 "Towards a Capability-Oriented Eco-Social Policy: Elements of a Normative Framework," in Socia/ Policy & Society. 7 See e.g., Bonvin and Laruffa 2.02.1 concerned "in exploring the potential and pitfalls of the capability approach as a normative framework for an ccosocial policy. The capability approach suggcsts that what should be grown or maximizcd is not economie wcalth or GDP, but pcoplc's frecdom to live a lifc thcy have rcason to value. Our contention is that maximizing pcople's capabilities is compatible with a conccption of the wclfare state that is dccouplcd from economie growth" (Bonvin and Laruffa 2.02.1, 2.).

INTRODUcnON

25

Cavell, Stanley 1988 "Declining Decline: Wittgenstein as a Philosopher of Culture," in lnquiry 31: 2 53-64. Garroni, Emilio 2020 Estetica. Uno sguardo-attraverso

(1992}

(Roma: Castelvecchi}.

Jaeggi, Rahel 2013 Kritik von Lebensforme,1 (Frankfurt a. M.: Suhrkamp). Lclo, Keti, Monni, Salvatore, Tornassi, Federico 2019 Le mappe della disuguaglianvi: Una geografia sociale metropolitana (Roma: Donzelli). 2021 Le sette Rome. La capitale delle diseguaglianze raccontata in 29 mappe (Roma: Donzelli). Moyal--Sharrock, Danièle 2015 "Wittgenstein on Forms of Life, Pattems of Life, and Ways of Living", in Nordic Wittgenstein Review Special lssue", Wittgenstein and Fonns o{ Life, gucst editors D. Moyal--Sharrock and P. Donatelli, 21-42. 2021 urtainty in Action. Wittgenstein on Language, Mind and Epistemology (London-New York: Bloomsbury). Rietveld, Erik 2013 "Affordances and Unreflective Freedom", in Moran, D., Thybo Jensen, R. (eds.}, The Phenomenology o{Embodied Subjectivity (New Yorlc: Springer}. Rietveld, Erik, Kiverstein, J ulian 2014 "A Rich Landscape of Affordanccs," in "Ecological Psychology,,, 4, pp. 325-3 52.

26,

Rosa, Hartmut 2020 The Uncontrollability of the World (2018} (Cambridge: Polity). Sendra, Pablo, Sennett, Richard 2020 Designing Disorder. Experiments and Disruptions in tbe City (London and New York: Verso). T occi, Walter 2020 Roma come se. Alla ricerca del futuro per la capitale (Roma: Donzelli}. Velotti, Stefano 2017 Dialettica del controllo. Limiti della sorvegliatlVl e pratiche artistiche (Roma: Castelvecchi). Wittgenstein, Ludwig 1993 Philosopbical Occasions z912-19JI (lndianapolis: Hackett). 2009 Philosophical lnvestigations (19 5 3} ( Oxford: Wiley-Blackwell}. Zuboff, Shoshana 2019 The Age of Surveillance Capitalism (London: Profile Books).

I Pratiche di reincanto critico

Introduzione Andrea D'Ammando

«È poco più che una constatazione: l'impresa moderna, con la sua narrazione di progresso e felicità per il maggior numero di individui, è fallita. Il mondo intorno a noi è un disastro» (Consigliere 2020, 13). L'impresa moderna a cui fa riferimento Stefania Consigliere in apertura del suo Favole del reincanto è il sistema di dominio della modernità egemone, e cioè quel sistema fondato sul dispositivo del disincanto - sul disincanto come «fondamentale tonalità emotivo-percettiva», «orizzonte valoriale assoluto» (ivi, 3 5-36) - che, a partire almeno dal Settecento, si è imposto come il modello di riferimento per tutte le forme di vita esistenti e possibili. Alla base di questo dispositivo agisce un principio solidissimo e inattaccabile, che prevede l'assoluta predominanza della scienza moderna e della conoscenza quantificabile e misurabile, della tecnica e della razionalità logico-deduttiva, del progresso e della produttività (tutto il resto è «mito», «delirio», «etnicismo»; ivi, 23); un principio che ha progressivamente eliminato ogni intenzionalità non umana dal cosmo, ogni riferimento a credenze, "illusioni" e "superstizioni" pre-moderne e pre-razionali e, più in generale, tutti o quasi gli elementi ingovernabili e incontrollabili. In questo senso, la sua logica un'"epistemologia della cecità" - è funzionale al trionfo della dinamica produttiva del capitalismo ( «solo in un cosmo inerte il plusvalore può macinare senza ostacoli»; ivi, 37-38). E il progetto della modernità non solo è legato al disincanto, ma, in un certo senso, coincide con il processo di disincantamento del mondo e con gli esiti nefasti di tale processo. Pubblicato nel pieno dell'emergenza della pandemia da Covid-19, il testo di Consigliere ha contribuito ad alimentare un dibattito - quello, appunto, sul "disincantamento" e "reincantamento del mondo" -che, in ambito italiano e internazionale, sta occupando da alcuni anni le scienze umane e sociali (cfr. almeno Stiegler 2006, trad. it. 2012; Taylor 2014; Federici 2018; Latour 2015, trad. it. 2020). A partire dalle tesi

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ANDREA O'AMMANDO

elaborate da Max Weber a inizio Novecento, in realtà, il problema del disincantamento del mondo - come fenomeno legato direttamente al processo moderno di razionalizzazione che ha investito la vita sociale e l'organizzazione dell'esperienza comune a tutti i livelli - non ha mai smesso di interessare la riflessione sociologica, antropologica e filosofica. Negli ultimi anni, tuttavia, complice una percezione sempre più diffusa della crisi del modello di sviluppo capitalista, il tema del disincanto ha assunto un nuovo rilievo nel dibattito accademico e culturale. La questione del disincantamento - e, soprattutto, di un auspicato reincantamento- del mondo è legata all'esigenza di riconfigurare un rapporto differente con l'ambiente naturale e sociale, in grado di far emergere forme di vita alternative e "sensate" (non alienate), che sfuggano al controllo (all'organizzazione e all'ottimizzazione totale di tempi, spazi e rapporti) senza tuttavia cedere alla sciatteria e alla pura casualità (all'insensatezza). Si tratta, insomma, di un problema che ha a che fare con le promesse (mancate) e le minacce (sempre più concrete) dell'esperienza moderna, e cioè di quell'esperienza che trova nella dimensione urbana un riscontro e una rappresentazione particolarmente significativi. Da questo punto di vista, i tentativi di prospettare un "reincantamento del mondo" non possono che rimandare a un possibile (e necessario) "reincantamento della città" e delle forme di vita urbane contemporanee. "Reincantare la città", tuttavia, è un'operazione complessa, che richiede tempi e spazi adeguati, e che non è ottenibile deliberatamente e intenzionalmente, a colpi di pianificazioni e progetti calati dall'alto. Non è possibile, in altri termini, mirare direttamente a un "reincantamento" (della città, delle forme di vita, di una comunità). L'unica possibilità è tentare di elaborare strategie che permettano il ricrearsi delle condizioni per far emergere luoghi e tempi "liberati". Ma quali sono queste strategie? Qual è la strada da percorrere per favorire un possibile "reincantamento della città"? I saggi di questa sezione provano a rispondere a queste domande, ripensando criticamente il rapporto tra estetica e politica a partire dal modello esemplare fornito dalle pratiche artistiche. Nella loro eterogeneità, le arti contemporanee sono presentate infatti come una forma di alchimia capace di riscattare la miseria simbolica contemporanea e di riattivare spazi comunitari attraverso la potenza del desiderio e di immaginari alternativi (nella conversazione tra Agati e Careri); come un dispositivo estatico e pre-politico - ma strettamente connesso alla dimensione politica - in grado di decostruire i presupposti del siste-

INTRODUZIONE

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ma di realtà dominante, prefigurando nuove cosmogonie e un nuovo sguardo sul molteplice (nel saggio di Vanni Attili ); o ancora, come una costellazione di pratiche ed esperienze volte a produrre paesaggi aperti e indeterminati, all'interno dei quali ospitare nuovi processi di soggettivazione ed emancipazione (nel testo di Silvia Bottiroli). Le questioni e i temi affrontati - o solo accennati - sono molti, e riguardano, per citarne solo alcuni, il rapporto tra luoghi istituzionali e luoghi informali, la natura e il ruolo delle pratiche performative, il valore delle esperienze artistiche partecipative, la relazione tra corpi e spazi pubblici. Tutti questi temi, tuttavia, sono indagati e ricompresi all'interno di una prospettiva comune, che vede nelle pratiche artistiche un laboratorio esemplare per coltivare un qualche tipo di legame con ciò che non è pienamente controllabile e "maneggiabile", in grado di favorire l'apertura di spazi e tempi che siano, insieme, spontanei e "sensati".

Bibliografia Consigliere, Stefania 2020

Favole del reincanto. Molteplic~ immagi11ario, rivoluzione, DcriveApprodi, Roma.

Federici, Silvia 2018

Reitu:antare il mondo. Femminismo e politica dei commons, ombre corte, Verona.

Latour, Bruno 2015

Face à Gaia. Huit conférences sur le nouveau régime climatique, La Découvcrtc, Paris; trad. it. La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico, Meltemi, Milano

2020.

Sticglcr, Bemard 2006 Réenchanter le monde. La valeur esprit contre le populisme i11dustriel, Flammarion, Paris; trad. it. Reùu:mztare il mondo. Il valore spirito contro il populismo industriale, Orthotes, Napoli 2012. Taylor, Charles 2014

Incanto e disùu:anto. Secolarità e laicità ili Occidente, EDB, Bologna.

Arriva ultimo amo. Il 9 oaolxe 2021 si torna adaman: e a suonan: a Tc:rmini, pmhé lastmone è un traao. O Y«liamo alle 18:30 aDa pensilina abbandonaca al centro di pim.a dei Onquecenco. La ria>nosca= pmhé ~ uamcnnata dopo che d ~ caduto un albero. Solo pochi dcui pouanno cnmuc nella mna vip, nell'ordine ~ chi porta un fiocco una pianta per abbdlire la pemilina. a m un'Olthesaa asuonaic e un duo di tango. Dlm oodcdcgami, a:me se fuae un C\alto chic. a ricooosmano run fakro pmhé ogmmo aVli un fiore o una piama in mano per abbellire la nosaa location. Un'cndi li>crtà~ di unprowisanoneedi rulnua per chi vive e bamca in scmonc. Saià malizzno un video a cura di Termini TY, un canale online aniYo da anni, che ogni oaolxe cdcba W1a rea papna per farriYo ddl'aumnno, del fu:ddo e delle gio~ che si aa:oo:iano.

Per una città incantata Una conversazione sull'arte e la produzione di spazio comunitario a partire dall'esperic111.a di Termini TV Natalia Agati, Francesco Careri

Ci incontriamo fuori dalla recinzione, entrambi incuriositi da questa chiamata diffusa pochi giorni prima da Francesco Conte, fondatore del progetto Termini TV. Da subito appare chiaro che il dress code non è stato rispettato: poche persone hanno un fiore, quasi nessuna è elegante. Non appena il numero di ospiti ha raggiunto una certa consistenza, scavalchiamo la transenna ed entriamo nella zona di insicurezza. A questo punto ci saremmo aspettati l'intervento delle forze dell'ordine, se non fosse che sono impegnate nel reprimere la grande manifestazione NoVax culminata con la devastazione della sede della CGIL. Siamo circa una cinquantina, vari generi e generazioni di classi sociali e nazionalità molto diverse. Su questo palcoscenico improvvisato all'aperto in una zona proibita, ma esposta agli occhi di tutti, si alternano poesie, danze, musiche, cori e improvvisazioni più o meno partecipati. Ogni tanto qualcuno dal pubblico abbatte la soglia spettacolare e prende la scena trasformandosi in attore. Oltre a noi c'è un pubblico occasionale che sale e scende dagli autobus e che, se ha tempo, si ferma a curiosare ma pochi entrano nel recinto. Intorno a noi tre persone con la videocamera non cessano mai di riprendere la scena. Francesco Conte ha fondato Termini TV nel 2015 come progetto totalmente indipendente con il desiderio di costruire un canale online, archivio multimediale di visi e voci, memorie e racconti di viaggio raccolti nella terra di transito per eccellenza, la stazione. La poetica è quella di sottrarre questo luogo alla fretta, per contribuire davvero alla realtà che ci circonda. Attraverso la collaborazione tra video operatori, fotografi, giornalisti e altre figure artistiche, il progetto cerca da anni di scovare il grande mistero di Termini e quello che si cela dietro alla sua struttura monumentale, in un'operazione dal profondo valore artistico e sociale. Come dice Francesco: «ho bisogno di far parlare

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NATALIA AGATI, FRANCESCO CARERI

questo posto, come se fosse un essere vivente e noi soltanto degli ospiti dentro questa nostra gigante balena chiamata Termini» 1 • Oggi, nonostante il progetto non abbia ancora ottenuto l'appoggio di alcuna istituzione, è cresciuto moltissimo e la sua pagina Facebook conta quasi 13.000 likes 2 • Dopo un paio d'ore il sipario di quella serata si chiude. Qualche giorno dopo ci troviamo a discuterne e ci accorgiamo di condividere entrambi una sensazione particolare, piuttosto rara, che si è depositata in noi dopo quella notte. Forse attratti da un'aura di mistero che sembrava avvolgere quel momento decidiamo, dopo diversi anni in cui frequentiamo e conosciamo Francesco e il suo progetto, di ragionare proprio a partire da quell'esperienza sul senso dell'arte nello spazio pubblico e di riportare alcuni contenuti della nostra conversazione come contributo ai temi trattati da questo volume. Devo dire che una serata così mi fa pensare che ci sia ancora spazio per l'arte in questa città, malgrado tutto. Ho avuto la sensazione di trovarmi perfettamente a mio agio. C'è qualcosa di quanto abbiamo vissuto che mi piacerebbe sviscerare, molti elementi di come dovrebbe essere concepita l'arte per entrare in relazione con lo spazio pubblico e in generale con la vita urbana, che poi è il tema che volevamo affrontare questa sera. Le singole performance erano piacevoli e divertenti e le persone invitate a suonare e a ballare erano anche talentuose in alcuni casi, ma il succo della serata non sta lì. Non eravamo stati chiamati ad assistere ad uno spettacolo ma piuttosto a partecipare a una sorta di '{lashmob, un'azione fugace e improvvisa. Una prima questione che mi viene in mente è proprio se abbiamo assistito ad uno spettacolo e quindi chi era l'autore, chi erano gli attori FRANCESCO CARERI

1

Quanto riportato su Tennilu TV è la rielaborazione di una conversazione che gli autori hanno avuto con Francesco Conte durante la stesura di questo articolo. Alcune frasi del suo racconto sono citate tra virgolette nel testo. 2. Cfr. Haynes William, 3 agosto 2021, Counter-na"atives of tnigrat1ts on Tennini TV, «the Sociological Review», University of Birmingan, disponibile online (https://thesociologicalrevicw.org/magazinc/august-202.1/film-and-television/countcr-narratives-of-migrantson-tcrmini-tv/). È inoltre possibile esplorare il progetto Temuni TV sul sito https://tcrmini. tv, sulla sua pagina Faccbook https://www.faccbook.com/terminitv/ e sul suo canale Youtubc https://www.youtubc.com/channel/UCs2DpKQFBmso_UGpN2.UG6ug.

PER UNA

crrrÀ

INCANTATA

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e chi gli spettatori, e quante sfumature c'erano tra questi ruoli. Che si sia trattato di un atto artistico infatti ne sono certo, perché il mio godimento è stato proprio di tipo estetico, ma non saprei se chiamarlo performance perché forse avrebbe più senso parlare di azione comunitaria o cli produzione cli uno spazio comunitario. NATALIA AGATI Intanto vorrei confessarti che io ho provato un misto di agio e disagio, e sto ancora cercando di comprendere perché. Da una parte la sensazione di abbattimento di quella soglia spettacolare, di un pubblico occasionale di potenziali artisti che rompono, parlano e interagiscono con la scena, mi sembra incarni molto meglio cli tanti altri progetti quella che viene genericamente definita arte relazionale e partecipativa. Trovo che la dimensione ludica che si è generata abbia, come per magia, risacralizzato un fazzoletto di terra transennata e abbandonata, senza però generare a sua volta un contesto sacro in quanto escludente, bensì profondamente permeabile e inclusivo. Quello spazio di risulta a poco a poco si è abitato di una particolare dimensione performativa, contemporaneamente espressione artistica e liberazione personale. Ho avuto l'impressione di partecipare ad un momento altamente significativo per chi c'era. Sembrava quasi di assistere a un gospel, lasciami passare il parallelo estremo. Dall'altra però è innegabile che la situazione non conteneva sperimentazione cli linguaggi artistici nel senso stretto del termine. Non so, mi fa riflettere questo. Spesso mi chiedo in che forma sia più giusto giudicare questi momenti. Per esempio credi che l'atto di appropriazione illegale con cui ci siamo impossessati temporaneamente cli quel luogo circoscritto in piazza dei Cinquecento sarebbe mai stato possibile se il progetto fosse stato istituzionale?

Assolutamente no, quello scavalco è un'azione che le nostre istituzioni artistiche oggi non farebbero mai senza prima essersi munite cli un permesso, imprigionate come sono nel sistema securitario che ci circonda. Infatti credo che, come Dada nel ten-ain vague della chiesa di Saint-Julien-le-Pauvre esattamente cento anni fa, l'importante, oltre alle singole performance, era proprio l'essere lì (Careri 2021). Ma è chiaro che se l'invito fosse stato «venite che entriamo nel recinto chiuso della fermata dell'autobus» senza che succedesse nulla, sarebbe stata una delusione. Qualcosa doveva succedere infatti, ed è successo: ha preso forma un interessante spazio comunitario. Non a caso hai FC

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detto arte relazionale e partecipativa, entrambe parole abusate e consumate dai discorsi accademici e istituzionali, ma che invece in questo caso sono decisamente appropriate. Francesco Conte infatti è un artista molto abile nel saper trovare ingredienti eterogenei attraverso la relazione, e poi è capace di cucinarli insieme per far succedere ogni volta qualcosa di diverso, di partecipativo e coinvolgente. NA Mentre parli mi viene in mente che il punto sta proprio nella qualità dell'esperienza vissuta e mi sembra che qui sia racchiuso il senso originario dell'arte. Vedi, mentre parlo e nomino l'arte mi accorgo che mi piacerebbe inventare un nuovo termine per parlare di queste opere perché credo che l'invenzione lessicale sia una pratica da coltivare. Che ne dici di alchimie? Inizio ad usare il termine: vediamo se ci torna. Per esempio credo ci siano due aspetti importanti da dibattere che fanno sì che questa alchimia non potesse svolgersi che a Termini come parte di un'azione che dura ormai da diversi anni: la scelta del contesto e la durata.

FC Sì certo il suo progetto a differenza di molti lavori di arte relazionale supportata dalle istituzioni, si misura su una durata di tempo di anni e in uno spazio molto circoscritto, la Stazione Termini, dove Francesco ha un'intima relazione con il luogo e con le persone che lo attraversano, e allo stesso tempo è stato capace di costruire alchimie come dici tu, o situazioni (lasciami usare ancora questo termine) ludico-partecipative che non sono presentate come performance o opere d'arte. Credo infatti che la mia sensazione di benessere e di agio venisse proprio dal fatto di non essere di fronte a uno di quei progetti realizzati in occasione di un bando culturale, dove un rinomato artista relazionale è invitato a costruire azioni in uno spazio individuato da un museo, in accordo con gli stakeholders locali, per produrre un'opera di arte pubblica in forma partecipativa. Quel tipo di progetti è molto raro che funzioni, e io provo sempre una sensazione di artificiosità, di non corrispondenza e di non appartenenza con lo spazio sociale in cui interviene. In questo caso l'opera è nata perché se ne sentiva un bisogno esistenziale: non è l'arte che esce nello spazio pubblico, ma è lo spazio pubblico che produce una forma di arte che, peraltro, se entrasse nei musei ne sarebbe completamente snaturata. Quella di Francesco è simile all'attività di Fausto Delle Chiaie nel suo museo di fronte ali' Ara Pacis dove lavora da più di trent'anni. Solo che qui gli

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scarti con cui gioca l'artista non sono quelli lasciati dai turisti o dai passanti, ma sono gli scarti della società mescolati insieme ai turisti e ai passanti stessi. Qui l'artista è nudo, con le sue forze e senza alcuna protezione. O meglio la sua protezione è la relazione diretta che è stato capace di costruire con il suo pubblico di attori. NA Lo spazio pubblico produce un'alchimia. Prova a giocare al mio gioco, senti come suona meglio? Tra l'altro citavi Fausto Delle Chiaie, il paragone mi sembra giusto anche per un altro motivo. Sia il suo museo sia Termini TV sembrano lavorare sull'appropriazione ludico-percettiva di un ambiente urbano storico e monumentale a partire dal bisogno di desacralizzare, addomesticare e collettivizzare dei luoghi oramai respingenti per l'uso che se ne fa: in un caso l'area intorno al nuovo complesso museale dcli' Ara Pacis, nell'altro la stazione centrale della città. Nel caso di Termini sicuramente la scelta nasce dalla sua natura di Iuogo di persone in transito ma anche dei migranti, dei senza fissa dimora e dei senza quartiere. Mi ha incuriosito quando Francesco ci ha raccontato che il suo progetto è nato da un'esigenza personale di accasamento in città quando era da poco arrivato a Roma: un po' alla volta ha trasformato il non-luogo della stazione nel suo quartiere. In questo movimento, a spirale, ha coinvolto gli altri abitanti di Termini, portando in stazione dei musicisti che a poco a poco si sono uniti ai "matti di Termini", come dice lui, tutte persone che un quartiere proprio non lo hanno. In un certo senso il suo progetto ha trasformato Termini in un "convertitore che riproduce la fabbrica della realtà": anche se è nato come luogo di transito per lui e per le persone che la attraversano insieme a lui, la stazione è diventata un paese in cui ci si incontra e, poi, ci si rincontra, fino a diventare come compaesani. Questo lo dico per ribadire che la sua natura fortemente ancorata al luogo e ai suoi abitanti rende l'esperienza di Termini TV particolarmente significativa. Tra l'altro nei primi anni Francesco era riuscito ad ottenere come quartier generale del progetto il dopolavoro ferroviario nei sotterranei della stazione, che già ai tempi era stato trasformato in una scuola di danza. Ricorda quasi l'immagine di un sottobosco, un mondo di sotto, in antitesi alla distopia (qualcuno direbbe utopia) di una stazione patinata. I danzatori, quasi tutti di origine straniera, hanno dato da subito "un imprinting artistico" a Termini TV. Una delle prime idee

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era di fare un "musical falsamente multiculturale". Non so perché ma questo racconto mi ha fatto molto ridere, forse per l'uso dell'avverbio falsamente. Se sei d'accordo a questo punto dovremmo parlare di chi c'era lì in quel teatro improvvisato e di come sono arrivate quelle persone, che tipo di regia le ha condotte lì e dunque chiederci se Francesco sia un artista o un curatore o qualcos'altro ancora. Sì, il casting di Tennini TV ha un ruolo fondamentale sul tema del chi c'era quella sera e quale era il loro ruolo. E forse con quel falsamente multiculturale voleva intendere che si tratta di un sottile artificio condiviso da tutti i partecipanti: è una fabbrica di realtà che è così reale che si situa da sola fuori dai cliché, sia del multiculturalismo che del politicamente corretto. Sono quasi tutte persone che Francesco ha conosciuto tramite Termini TV e a cui non chiede mai da dove vengono, ma casomai dove stanno andando. È dato per scontato che sono in Europa ormai da diversi anni e non è fondamentale sapere se sono del Camerun o della Bolivia o sono invece nati in Italia. Nei video si vede quasi sempre il momento dell'aggancio, ed è innegabile che nella cattura dell'attenzione c'è una forte componente seduttiva e di complicità esplicita che fa sì che gli intervistati entrino subito in gioco, a volte nel ruolo di quelli che finalmente sono finiti in uno schermo televisivo, altre volte invece dimentichi o noncuranti di essere ripresi. Molto del lavoro che abbiamo visto quella sera nasce nella qualità di quel primo incontro capace di innescare una relazione più duratura e nella capacità reciproca, dell'intervistatore e dell'intervistato, di lasciar scattare qualcosa di intenso con empatia e autoironia, di gestire la distanza con l'altro senza ricadere nei ruoli della vittima e del salvatore. Il suo pubblico è formato da singoli che mano a mano entrano in intimità attraverso questi strani appuntamenti. Sono persone molto diverse tra loro: alcuni sono artisti romani che diffidano dell'arte contemporanea, altre sono persone completamente fuori dal mondo dell'arte che non andrebbero mai ad una mostra o a uno spettacolo, ma che qui sanno a cosa vanno incontro, si fidano e confidano nel fatto che si troveranno in un'atmosfera ludica che li metterà a proprio agio, anche perché il tutto succede a casa loro. Il senso di paese di cui parlavi li trasforma in ospiti. In italiano questa parola si riferisce sia a chi accoglie sia a chi viene accolto. Ma in questo senso intendo dire che queste persone, grazie al lavoro di Francesco, hanno FC

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trasformato la loro condizione di ospiti nel senso di ospitati, a persone che hanno potuto ospitare grazie a questa sorta di spettacolo. Il loro protagonismo inaspettato, quel senso di liberazione personale di cui mi parlavi all'inizio, deriva proprio dal fatto che si sentivano a casa loro. Penso che il fatto di essere, seppur temporaneamente, responsabili di quel fazzoletto di terra li abbia resi sia attori sia autori di quanto accadeva. Queste azioni alchemiche (va bene, mi piace il tuo gioco), che si situano fuori dal contesto propriamente agonistico-spettacolare mi sembrano profondamente terapeutiche e socialmente utili perché fanno vivere a tutti un'esperienza cmancipativa, non solo per chi ha problemi nel mettere in campo la propria creatività, ma anche per chi trova finalmente uno spazio, un'occasione non pietista o caritatevole, di evolvere la sua condizione da comparsa a protagonista dello spazio pubblico, passando dallo sfondo al primo piano, senza per questo creare aspettative. Insomma un tentativo di emancipare lo straniero o I'homeless da una condizione di chi ha qualcosa da chiedere in una persona che ha qualcosa da offrire, e questo senza nessun pietismo. Ecco insomma rispetto alle forme di vita urbana, un tipo di intervento così profondo e utile le istituzioni non lo sanno fare, lo può fare solo un artista che vi dedica anni cd energie in modo del tutto gratuito e indipendente. NA Poi torniamo sul resto ma quest'ultima frase, in quanto profondamente vera, apre un campo davvero problematico su cui non posso sorvolare. Da artista trovo insopportabile osannare l'indipendenza di molti lavori dipingendo la gratuità quasi poeticamente, perché dietro quell'assenza di fondi si occulta una grande difficoltà e un duro sacrificio nel portare avanti la propria ricerca che spesso, per assenza di appoggi istituzionali, diventa appunto insostenibile. Non metto in discussione il fatto che i migliori progetti siano quelli portati avanti con passione, ma vorrei evitare di sostenere l'immagine del lavoro artistico per passione. Mi piacerebbe piuttosto dare forza all'idea di riformare, se non rivoluzionare, queerizzare le istituzioni artistiche (Ahmcd 2019), e non solo quelle. Se ne parla tanto ormai anche se per le istituzioni romane sembra un tema che viene dal futuro. Dovremmo erodere e perforare l'istituzione, non abdicare, appiattirci sullo status quo trovando un comodo ricovero in esse o imparando a farne a meno. Per mc questo è l'unico motivo per rinunciare alla propria indi-

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pendenza e compromettersi a livello istituzionale. Ma qui entriamo in un altro campo e forse ci allontaniamo troppo da ciò di cui stavamo parlando. Sì scusami hai ragione, lo so che tocco un tasto dolente ed è giustissimo quello che dici; intendevo gratuito in un senso più lato, non solo di fondi, ma anche di non pensare di portare a casa un qualsivoglia vantaggio personale, tipo una linea in più nel curriculum. Tra l'altro il tema di come e quanto forzare le istituzioni mi tocca particolarmente; sai bene che sono anni che concepisco il mio ruolo istituzionale dentro l'università come continua erosione e, tra l'altro, abbiamo recentemente sperimentato insieme i limiti delle istituzioni artistiche in occasione della costruzione del percorso formativo del master PACS - Arti Performative e Spazi Comunitari, tentando una collaborazione tra il Dipartimento di Architettura di Roma Tre e l'Azienda Speciale PalaExpo, che purtroppo si è conclusa lo scorso anno. E il problema che è emerso secondo me è stato proprio l'incapacità delle istituzioni artistiche di sentirsi libere di agire nello spazio pubblico su temi sociali caldi che inevitabilmente emergono negli spazi comunitari. Devo dire che mi ha sorpreso molto come da questo punto di vista invece le istituzioni accademiche, con tutti i loro limiti, siano comunque più indipendenti dalle pressioni politiche e mediatiche. Ma, hai ragione, torniamo al nostro discorso altrimenti perdiamo il punto. FC

Si, tornando a noi, mentre parlavi mi veniva in mente un altro elemento su cui riflettere che, come sai, mi è molto caro, ovvero la dimensione di controllo e di perdita di controllo che è fortemente legata sia al ruolo di alcune pratiche artistiche sia alla natura del luogo in questione. Provo a spiegarmi. Termini è uno spazio urbano particolarmente contraddittorio, il suo sviluppo negli ultimi anni ha seguito due traiettorie di uguale intensità ma segno opposto: da un lato nuovo centro commerciale - centralissimo - sfavillante di negozi d'alta moda, dall'altro polo attrattore di marginalità. Se Roma è da molti anni un nodo importante nelle vie migratorie mediterranee verso l'Europa, Termini infatti rappresenta un punto centrale di questa migrazione. Tra i portici e le arcate del complesso monumentale molte forme di marginalità - dai migranti ai senzatetto - si incontrano, si fermano, sopravvivono, improvvisando soluzioni abitative precarie che NA

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sopperiscono alla cronica assenza di misure strutturali da parte delle istituzioni. A Termini, quell'operazione di rimozione del notturno cara a molte amministrazioni non ha funzionato. È anche per combattere questo perturbante sempre in vista che la stazione è diventata uno degli spazi pubblici più sottoposti a misure securitarie della città: razionalizzazione e commercializzazione dello spazio, scomparsa delle panchine e delle sale d'aspetto, dissuasori, DASPO, gate, controlli sono tutti ingredienti che fanno della stazione un luogo profondamente disincantato. Nonostante ciò i passanti di diverse classi, nazionalità e genere - tutti coloro che devono obbligatoriamente passare per muoversi e viaggiare - non hanno mai quella sicurezza, identificando la stazione come insicura, forse proprio per la natura eterogenea e perturbante dei suoi abitanti. A Termini dunque le diseguaglianze non possono non incontrarsi ma, nonostante tutto, possono continuare a non vedersi. Ecco trovo quindi che l'idea di inscenare alcune alchimie all'interno di questa contraddizione vivente, porti al pettine dei nodi particolarmente intriganti. Come dicevo prima, Francesco coinvolge nelle sue proposte artistiche nel palcoscenico-Termini i matti della stazione. Ma essendo la stazione un luogo non codificato dal mondo dell'arte, il pubblico di passanti spesso ne ha paura: non siamo in grado di goderci la follia, il perturbante, il diverso in una dimensione apparentemente fuori controllo, la città, mentre abbiamo assorbito lo spettacolo del perturbante nei luoghi deputati all'arte. Proviamo piacere nell'accedere al mistero, senza che questo comporti un eccessivo rischio o ci metta troppo in difficoltà: vogliamo vedere quello show solo se è inserito all'interno del mondo dello spettacolo. Termini TV come laboratorio artistico offre invece la possibilità di uscire dal «processo di livellamento, contrazione e canalizzazione della sensibilità e del senso comune» (Montani 2007, 8 5) che oramai si fa di quel luogo, come di altri in città, offrendoci «non una via d'uscita dalla "dialettica del controllo", ma solo un temine di paragone utile a diagnosticare meglio il presente, o a creare "zone liberate" che inneschino processi in cui quel tessuto lacerato [... ] possa cominciare a rigenerarsi» (Velotti 2017, 59). In città siamo costantemente addestrati e indotti alla "dis-visione" (Consigliere, Zavaroni 2021 ): la modernità ha costruito infatti accurate macchine mitologiche che incentivano «epistemologie della cecità» (Consigliere 2020). Abbiamo perso la capacità di vedere alcuni fenomeni che sono in realtà quotidianamente sotto i nostri occhi.

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dicembre 2020 (credits Filippo Cuffaro).

Cerco dunque di arrivare ad un primo punto nella complessa geografia di definizioni che stiamo costruendo con questa nostra conversazione. Credo che il senso di un'operazione artistica agita nello spazio pubblico sia da rintracciare nella capacità quasi magica o alchemica che essa ha di straniarci con meraviglia, provocare, cambiare la percezione, scardinare i meccanismi di cecità, squarciare la tela dell'intrattenimento per accedere ad un ambiente di relazione reale e iniziare a ri-vedere, ovvero "dis-disvedere" la realtà (Consigliere, Zavaroni 2021 ), sottraendola allo spettacolo. Ho l'impressione che le ambientazioni proposte da Tennini TV, offrendo questa continua confusione tra realtà e finzione, tra migranti e viaggiatori, tra abitanti e attori riescano a raggiungere questo scopo. Le parole spettacolo, spettacolare, anti-spettacolare sono già ricorse più volte e a questo punto non vorrei rimettere in campo tutto il pensiero situazionista, ma visto che siamo partiti proprio dal tipo di agio o disagio che avevamo provato a Termini, mi viene in mente che era sulla base di queste sensazioni che Debord e i situazionisti, anzi prima di lui Bretone i surrealisti, individuavano le zone urbane ed era a partire da quelle sensazioni che poi disegnavano le loro cartografie influenzali con la divisione in zone psicogeografiche. Debord chiama queste zone unités d,ambiance, dove ambiance non vuol dire "ambiente", ma nella lingua francese significa invece "atmosfera", parola che infatti è già uscita più volte. E non è un caso che i due priFC

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mi plastici della New Baby/on di Constant si chiamino ambiance de jeu e ambiance du départ, ossia "atmosfera del gioco" e "atmosfera della partenza", quindi lo spazio ludico della costruzione delle regole del gioco urbano, e lo spazio adrenalinico della partenza, del viaggio e dell'avventura nomade (Careri 2001). Per i situazionisti infatti «gli urbanisti del XX secolo dovranno costruire delle avventure» (Anonimo 1959) e l'Urbanismo Unitario, ossia l'insieme delle arti e delle attività creative, avrebbe dovuto produrre nuove atmosfere urbane, una nuova città. Mi sembra molto attuale questa richiesta agli architetti e agli artisti di non disegnare solo i contenitori ma anche di produrre il contenuto di quanto costruiscono. E intendo il contenuto non soltanto in termini di funzione o di programma, ma proprio di atmosfere, di relazioni tra le persone e delle loro interazioni con lo spazio. Gli architetti come maghi - come dicevi tu - che sappiano creare alchimie, inserire i giusti elementi per far succedere delle cose, come esperti della costruzione di situazioni ludiche e politiche. Poche istituzioni oggi si pongono il problema di formare gli architetti o gli artisti su come costruire delle atmosfere comunitarie. E in particolare nelle scuole di architettura nessuno riflette su quanto sia importante l'atmosfera comunitaria per un progetto legato all'abitare. Invece questa è proprio ciò che dà qualità a un'esperienza ed è sicuramente l'alchimia più difficile da costruire artificiosamente. È per questo che secondo me quello a cui abbiamo assistito ha tanto valore, perché è veramente raro oggi essere portati su un tappeto volante, in una caverna di Alì Babà, in uno spazio altro. Saper produrre questo tipo di spazio comunitario come ha fatto Francesco, per mc è una capacità indubbiamente artistica, ed è di fondamentale importanza in un'epoca in cui le relazioni e le atmosfere sono disegnate dagli smartphone e dove è quasi impossibile trovarsi a vivere situazioni non-funzionali. NA Mi viene in mente un'altra immagine, sempre parigina, un paio di secoli prima. Un'altra atmosfera, questa volta "contagiosa" e "perturbante" è quella prodotta da Franz Anton Mesmer3 nei salotti 3 Andrea Cavalletti nel suo libro Suggestione per analiz:zare la biopolitica come «macchina psicotecnica di suggestione di massa» (Cavalletti 2011, 2.7), parte dall'analisi di cosa abbiano rappresentato le teorie di Mcsmer. L'atmosfera perturbante prodotta dai suoi trattamenti venne in quegli anni condannata come frutto di immaginazione nociva, un vero e proprio insidioso «apparato di controeducazione» (Cavalletti 20n, 29), che minava il potere dcli' Ancien Régime. Da trattamento il mesmerismo si farà teoria politica

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del suo appartamento a Piace Vendome e nel lussuoso Hotel de Coi2011, 23-29). Questa sarebbe prodotta dalla semplice vicinan7.a dei corpi, dall'effetto di un flusso e riflusso che influenzerebbe chi si trova a contatto in una dimensione straniante, generando un passaggio di volontà, di emozioni ed energia. Vorrei fare un'associazione azzardata tra atmosfere che mi consente un primo passo verso un'altra parola che intendevo mettere in campo: l'incanto. C'è chi vede nella figura di Mesmer un «vaso di pandora» (Tomatis 2020) e anche a me affascina molto la sua storia che sembra fuori dal discorso delle arti. Credo che il mesmerismo, per la sua natura a cavallo tra cura, politica e pratica spettacolare d'incanto, sia molto attuale e adatto a stimolare la nostra conversazione. Stiamo a poco a poco disegnando il senso di quell'esperienza artistica nello spazio pubblico cercando di capire perché oggi il suo ruolo potrebbe essere proprio interpretato come lotta al disincanto e al suo austero apparato atmosferico. Dunque se prima dicevo arte come pratica della dis-disvisione, aggiungiamo anche pratica di creazione di un'atmosfera di gioco, della partenza, contagiosa, perturbante, magica, d'incanto. Forse i situazionisti inconsapevolmente portarono nello spazio pubblico quella stessa atmosfera magica che Mesmer mise in gioco quasi due secoli prima nei salotti aristocratici di Parigi. In che modo possiamo oggi raccogliere questa eredità? Quali sono gli spazi in cui attivare questa atmosfera? Dove sono le caverne di Alì Babà per noi moderni disincantati? gny (Cavalletti

FC Mi diverte questa for~tura storica. Credo anch'io che la forma di arte di cui stavamo parlando sia parente stretta di tutto ciò. Si tratta di costruire ad arte un'atmosfera che si svolge nella vita reale, che poi è proprio la situazione come unità di spazio-tempo sottratto alla società spettacolare capitalista. Un'alchimia capace di farci vedere e di metterci in relazione. Però ponevi la questione del dove. Vedi, prima le città avevano spazi ibridi in cui tutto questo poteva succedere e questi luoghi erano i circhi. Ogni città aveva ai suoi margini dei terrains vagues, dei piaz7.ali polverosi, dove si insediavano temporaneamente quelle comunie poi intrattenimento, rivestendosi di un 'aura spettacolare che si nutre, per eccellenza, di stupore e meraviglia, dunque di una dimensione di incanto.

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tà itineranti che portavano in giro la magia, la meraviglia, il diverso, ed erano capaci di produrre quell'atmosfera di incanto di cui parlavi. Il circo è un'architettura strana che si veste in modo diverso, fuori tempo, è come la gonna di una vecchia zingara che mentre fruga nel cassonetto ti lancia quello sguardo di sfida, di fierezza di essere diversa, di una cultura che non si vuole fare ammansire né domare né assimilare. Mi piace il tendone perché si presenta fiero di essere diverso, uno spazio-tempo perturbante che mette in mostra la propria diversità. E la città ha oggi un enorme necessità di posti come questi, di spazi capaci di produrre atmosfere come quella che abbiamo vissuto l'altra sera in piazza a Termini. Secondo me Francesco sarebbe un perfetto direttore di circo. Recentemente gli ho chiesto se il tipo di spazio comunitario che andava costruendo nella piazza si sarebbe potuto trasferire in un edificio, se avrebbe tenuto e non si sarebbe snaturato in un passaggio dallo spazio aperto ad uno chiuso. Mi ha risposto che sarebbe stato sicuramente diverso, ma che poter contare su uno spazio dove poter accogliere degnamente quelle persone e implementare il progetto sarebbe stata un'evoluzione grandiosa, certo tutta da sperimentare. Allora gli ho raccontato dell'idea di CIRCO (Casa Irrinunciabile per la Ricreazione Civica e rospita/i-tà) su cui stiamo lavorando da anni con un gruppo di ricerca e azione dell'Università di Roma Tre4. L'idea in sintesi è quella di recuperare il patrimonio dismesso per costruire dei centri civici con funzione socioculturale e abitativa, dove ospitare insieme le diverse persone che oggi hanno bisogno di spazio, come le famiglie in emergenza abitativa, i migranti che vengono inscatolati in diversi spazi-contenitori a seconda delle categorie a cui appartengono, le decine di migliaia di studenti fuori sede, gli artisti giovani o anziani che siano, gli artigiani, e perfino i turisti sostenibili. Insomma una sorta di spazio pubblico a metà tra una piazza e un condominio interculturale in cui chiunque trova il proprio ruolo e può essere di supporto alle necessità degli altri, ospitando ed essendo ospitati. Il modello è preso direttamente dalle occupazioni abitative prodotte dai movimenti di lotta per ◄ Laboratorio CIRCO è un gruppo di ricerca dell'Università di Roma Tre composto da: Fabrizio Finucci, Chiara Luchetti, Alberto Marzo, Sara Monaco, Serena Olcuire, Enrico Perini, Maria Rocco. e&. Laboratorio CIRCO 2.021, CIRCO. Un immaginario di città ospitale, Bordeaux Edizioni, Roma (https://laboratoriocirco. wordprcss.com).

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l'abitare, spazi comunitari come Spin Time, Metropoliz e Porto Fluviale. Edifici in abbandono che vengono riabitati e reinventati da tante persone molto diverse tra loro e che producono luoghi incredibilmente innovativi dal punto di vista sociale, politico e culturale, ma anche le atmosfere e le alchimie di cui stavamo parlando. Le città hanno oggi un enorme bisogno di luoghi come questi, posti in cui il diverso diventi protagonista in quanto ospite e ospitato, luoghi che ci ricordino che l'ospitalità dello straniero e dell'altro è un dovere, che chi non apre la porta della sua casa o della sua città compie un'azione per la quale potrebbe essere colpito da una punizione divina, perché l'ospitalità è sempre stata sacra in tutte le culture (Derrida, Dufourmantelle 2014; Agier 2018). Su tutto questo come sai con Stalker ci lavoriamo da molti anni, dalla creazione di Ararat al Campo Boario negli anni Novanta, poi con i Rom del campo Casilino 900, fino alla costruzione dello spazio NoWorking nel 2016 e alla recente apertura del Mad>O, Museo deWAtto di Ospitalità a Spin Time5. E ultimamente sono riuscito a sviluppare l'idea di CIRCO dentro le istituzioni coinvolgendo le università e le amministrazioni nel progetto di recupero edilizio e sociale di Porto Fluviale, che è stato finanziato dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza). Anche qui sarebbe troppo lungo raccontare i dettagli, anche se è esattamente il tema degli spazi del rcincanto di cui volevi parlare. NA Mentre raccontavi di Stalker e di CIRCO a me venivano in mente le riflessioni nate in seno al mio collettivo artistico ATisuffix6 • Sai che negli ultimi anni ci siamo interrogati molto sulla valorizzazione dell'arte magica e sull'uso politico della meraviglia. Siamo con-

s Su Ararat e sull'esperienza di Stalker al Campo Boario di Tcstaccio esiste un libro inedito di Stalker Osservatorio Nomade, Cirdes. Campo Boario 1999-2.009, interamente scaricabile su https://www.dropbox.com/s/uoe777ovcg9fmdg/librostalkcr%2.ocampo%2.o boario.pdf?dl=o. L'cspcricma con i Rom è raccontata in forma di autodialogo in: Careri Francesco e Romito Lorenzo 2017, Stalker/On. Campus Rom, Altrimedia, Matera. Sulla realizzazione della casa vedi il film C'era una volta Savorengo Ker, di Fabrizio Boni e Giorgio dc Finis (https://vimco.com/album/15402.38). Xeneide -il dono dell'Altro. Miti, Pratiche, poetiche dell'ospitalità è un progetto cura di Stalker e NoWorking del 2017 (https:// xcncideblog.wordprcss.com/). 'ATI suffix è un collettivo artistico interdisciplinare nato a Roma nel 2013 e costituito da architetti, artisti, ricercatori, ricercatrici e filosofi. Il collettivo intende l'anc come metodo di ricerca nella città e con la città, mettendo alla base di ogni processo artistico l'interazione e la relazione (www.atisuffix.net).

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vinti che l'illusionismo7 sia un perfetto caso studio all'interno del mondo dell'arte, il più efficace pharmakon 8 per una società dalla grammatica magica: affrontare la magia al potere attraverso tattiche illusionistiche senza pretendere di uscire dall'universo magico che ci circonda. Oggi, spinti sempre di più dall'urgenza di ritornare allo spazio pubblico, ci stiamo aprendo alla possibilità di comprendere in che modo, attraverso l'uso tattico e critico dell'incanto, possiamo ragionare sui luoghi comuni della città. Sentiamo l'urgenza di risvegliare la «macchina desiderante» concependo il reincanto come un «ri-armamento del desiderio» attraverso pratiche e politiche che strutturino i suoi strumenti e li socializzino (Stiegler 2012). Immersa in tutto ciò, la tesi che sto cercando di sviluppare è che la ricerca artistica offra la possibilità unica di uscire, anche solo per un momento, dal disincanto in cui siamo immersi per re-incantare criticamente lo spazio urbano. Consapevole della duplicità insidiosa dell'uso politico della meraviglia e del volto pericoloso della forza incantatoria di alcune esperienze, da una parte cerco di osservare in forma critica alcuni momenti storici in cui il potere usa l'incanto costruendo raffinate macchine estetico-politiche per ottenere il consenso delle masse9, dall'altra mi chiedo se quello stesso incanto, messo nelle mani dei contropoteri, possa riattivare un senso politico del nostro vivere insieme 7 ESCI - Società Essoterica di Illusionismo Critico è una scuola politica di prcstigiazionc che affronta cause cd effetti della società digitale contemporanea indagando la relazione tra magia e pensiero critico promuovendo l'illusionismo come l'arte marziale del dubbio e la forma di conoscenza più adatta per navigare nella post-verità. ESCI è un progetto di ATisuffix a cura di Natalia Agati, Emanuele Caporrclla, Edoardo Fabbri, Aura Ghezzi, Matteo Locci, Marta Montcvccchi, Marta Olivieri, Maria Pone, Francesco Restuccia, Maria Rocco. Progetti consultabili sui siti: https://www.illusionismocritico.it, https://www.atisuffix.net. Sul tema e sul progetto è stato scritto un libro ancora inedito, prodotto di una tesi di dottorato presso la ÉESI (École curopécnne supéricurc dc 19imagc) Locci Matteo 2.02.0, Criticai Conjur. The magica/ guide to distractions, misdirections mul politica/ mmupulatio11. 8 Nella Grecia antica si impiegava un solo termine, pharmakon, per il veleno e per l'antidoto. La cura per il morso di un serpente, infatti, si ricavava dallo stesso veleno preso nella giusta misura. 9 Possiamo per esempio interpretare il tentativo di restaurare artificialmente un'esperienza auratica agita dal fascismo attraverso l'estctizzazionc della vita politica orientata alle masse (Bcnjamin 1936), come una forma di rcincanto che si attua grazie all'uso perverso dell'immaginario e del mito. E sappiamo bene quanto il fascismo abbia puntato sulla forma della città, restaurando l'immagine della Roma augustea e poi barocca: in quegli anni Roma e il suo spazio pubblico diventano il punto di partenza e di riferimento (Kallis, 2.014) del regime, «il nostro simbolo o, se si vuole, il nostro mito• (Mussolini, 192.2.).

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lo spazio urbano, recuperandone il senso pubblico e comunitario. Lo spazio pubblico, in quanto metaforico e materiale, è il luogo per eccellenza in cui si inscena storicamente la dinamica biopolitica di attivazione e disattivazione dell'incanto, rappresentando dunque il campo di battaglia per eccellenza da cui ripartire. All'inizio parlavi di spazio per l'arte in questa città, ma per me il tema è oramai da invertire. Mi chiedo se sia possibile ancora trovare uno spazio di esperienza reale per e nella città, emergendo dal disincanto che con la sua «magia nera cattura nel circuito del plusvalore tutta la capacità di mutamento» (Consigliere 2020, 60) e se le esperienze artistiche possano avere un ruolo in questo. Credo che dovremmo riscoprire il valore d'uso delle città, impossessarci di esse facendone di nuovo il nostro teatro, riportare le esperienze in una pia12a materiale e non solo virtuale, sguinzagliare di nuovo il desiderio tra le strade, le piazze e i vicoli. Uscire dalla miseria simbolica in cui l'umanità sembra essere immersa discostandosi sempre più dal mondo del desiderio (Stiegler 2004). Nella società di controllo degli affetti - come sostiene Stiegler assistiamo ad una privazione al livello dei simboli10 , che sarebbero alla base sia della vita intellettuale sia di quella sensibile dell'essere umano: quasi in tutti i luoghi ad alta frequentazione sociale, dalle stazioni ferroviarie agli aeroporti o alle metropolitane, dai grandi centri commerciali agli stadi siamo sorvegliati attraverso macchine dello stupore, fabbricate per captare la nostra attenzione e livellare la nostra sensibilità, prendendo il posto di ciò che un tempo rappresentava un'esperienza reale di incanto in città. Se oggi più che mai la meraviglia e la creatività sono il vero petrolio su cui l'industria culturale neoliberista sa di dover investire, è imprescindibile che, dall'altra parte, chiunque desideri rianimare immaginari rivoluzionari sopiti, lavori criticamente su di esse. Certo il circo per me è proprio questo, un luogo dove fare esperienza del diverso circondati da un'aura di meraviglia. Vai avanti, ti seguo. FC

NA È proprio questo il punto. Sappiamo che la modernità è quella forma egemone che ha preso forma in Europa tra Cinquecento e Set-

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Sticgler parla di «sini-bolo, in greco sy,n-bolon, come condivisione sensibile, cognitiva e spirituale (spirituale nel senso di ciò che, come gli spiriti, riviene e differisce, perdura "ripetendosi")• (Sticgler 2.004, 36).

PER UNA CnTÀ INCANTATA

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tecento, nell'aggrovigliarsi di tre grandi processi storici: colonialismo, capitalismo e scienza. Se il mondo reale, materiale e moderno coabita da sempre con la magia, la favola, il mito, l'onirico, il surreale, il sogno, il simbolo, il mostruoso, il meraviglioso, la crociata della modernità ha tentato ciclicamente di rimuovere tutto ciò etichettandolo - in una troppo semplicistica opposizione alle evoluzioni della scienza e del progresso tecnologico - come qualcosa di irrazionale, religioso, immorale, indecoroso, sentimentale, retrogrado, superstizioso. La storia della città non ha fatto altro che ricalcare questo modello di rimozione, opponendo la razionalità scientifica dei linguaggi tecnici all'irrazionalità di ciò che sembrava ingovernabile. Nonostante ciò moltissime opere e situazioni da secoli inseguono laicamente quell'intangibile non so che che, sfuggendo al razionale, ci permette cli alterare la realtà e cli costruire un pensiero critico, un'alternativa al disincanto generato dal modello capitalista. Allora riflettendo sulle condizioni di un possibile cambiamento, riecheggia nella mia testa una domanda letta in uno dei libri-guida degli ultimi mesi: nell'estrema urgenza cli ripensare nuovi modelli «è proprio vero che basterebbe una rivoluzione socio-politica per cambiare il corso degli eventi? O non sarebbe forse necessario che cambiasse qualcos'altro a un livello differente?» (Campagna 2021, 18). Credo che lo spirito dell'Urbanismo Unitario dei situazionisti cli cui parlavi prima debba tornare ad accompagnare le riflessioni e le azioni sulla città, forse con qualcosa di meno ma anche con qualcosa cli più: bisogna riflettere su quel qualcos'altro, ovvero sull'uso dell'arte intesa come magia bianca in lotta con la magia nera imposta dall'inesorabile incedere della scienza e della tecnica urbana disincantata. È una guerra tra atmosfere quella a cui mi riferisco ed il campo cli questa battaglia non può che essere, come dicevo prima, lo spazio pubblico. Se le esperienze cli cui stiamo parlando sono portatrici di atmosfere perturbanti, contagiose, ludiche e magiche credo che siano il giusto antidoto per rigenerarci e ricostituirci, a partire da quanto cli più prezioso abbiamo e che stiamo perdendo: la qualità dell'esperienza dello spazio pubblico e comunitario oramai avvolto sempre più in un'atmosfera tetra e disincantata. Per capire in che modo oggi abbia senso parlare cli città incantata, si tratta dunque di riavvolgere una pellicola e ritornare ai «tumulti cli gioco e di festa» (Bataille 1955, trad. it. 2014, 51) delle prime grotte dipinte grazie ai quali la città e l'arte sono nate: trasgredendo alla legge del lavoro, l'arte e la festa sono nate contemporaneamente in un rito

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generando - oserei dire - per la prima volta la vita urbana nella forma di uno spazio pubblico comunitario, una prima esperienza collettiva della meraviglia (Bataille 1976, trad. it. 2000). Non parlo di un'operazione nostalgica o posticcia, ma di un recupero di quella «penombra dell'immaginario» (Consigliere 2020, 131), quell'atmosfera festosa e perturbante che la modernità ha rimosso, insieme ai suoi abitanti.

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PER UNA CITfÀ INCANTATA

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NATALIA AGATI, FRANCESCO CARERI

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Cosmogonie del possibile* Giovanni Attili

Un luna park abbandonato Civita di Bagnoregio è un piccolo borgo dell'alto Lazio caratterizzato da una strutturale fragilità geomorfologica. La storia di questa terra è sempre stata scandita da morti e rinascite: crolli e ricostruzioni, abbandoni e ripopolamenti, legami vitali che si strappano e nuove relazioni che si annodano. Si tratta di una capacità di adattamento, costantemente rinnovata, che oggi vacilla di fronte all'irrompere di un fenomeno che sta mettendo in pericolo l'esistenza di questa terra. Parliamo di un turismo di massa che sta ferocemente travolgendo questo fragile paese. La lacerazione è violenta: la mercificazione ha fagocitato ogni ambito del vivere. In questa nuova tragica frontiera dell'irrimediabile, Civita ha espulso la vita e la sua capacità di rigenerazione. Quell'abitare, un tempo cucito saldamente alla terra, si sta sfaldando nell'assenza di azioni capaci di gettare avanti, nel futuro, l'esistente. L'epilogo doloroso di Civita ci consegna un paesaggio impoverito, trafitto dalla cupidigia del profitto, ridotto a cadavere da un turismo predatorio. Le membra del borgo giacciono imbellettate, indifese, senza vita. La morte, a lungo rimandata, si offre come spettacolo da consumare voracemente. Tutto diventa simulacro. Il patrimonio perde le sue funzioni sociali. Il valore civico dei monumenti viene negato in favore del loro potenziale economico. Quella cultura trasformata in merce evoca la storia, ma ne tradisce l'essenza perché finisce col congelarne il divenire e la capacità riproduttiva. «Si tratta di un vulnus mortale perché pregiudica in maniera irre., Questo testo è la rielaborazione di uno scritto, a mia firma, contenuto nel libro Civitonia. Riscrivere la fine o dell'arte del capovolgimento, a cura di Giovanni Attili e Silvia Calderoni, Nero, Roma 2.02.2..

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versibile la stessa idea di città che diventa mera terra di conquista e colonizzazione capitalistica. Una colonizzazione che si afferma, come ci ricorda Harvey, «attraverso dinamiche di cristallizzazione spaziale del capitale accumulato che viene reinserito all'interno di nuovi cicli di valorizzazione. Ma per quanto tempo ancora?» (Attili 2020, 307). Questa domanda non riguarda solo la specificità di questo territorio: Civita è l'esempio paradigmatico ed estremo di rivoluzioni che investono, radicalmente, un'intera epoca storica. Da questo punto di vista Civita è un microcosmo dove particolare e universale cortocircuitano. Un luogo dove le trasformazioni indotte da un processo irrefrenabile di turisticizzazione diventano occasioni per riflettere sui più ampi sconvolgimenti territoriali prodotti da una monocoltura turistica che desertifica in pochi anni il tessuto sociale delle città che la sperimentano. Parliamo di «un modello di tassidermia socio-culturale che, oltre ad uccidere l'organismo civico, lascia sul campo molti dubbi in merito alla sua sostenibilità nel lungo periodo. Fra cent'anni, in un'epoca nuova, sarà ancora possibile utilizzare le carcasse imbalsamate delle nostre città per attrarre i turisti del futuro, o resteranno soltanto i rottami arrugginiti di un luna park abbandonato?» (Fiorucci 2017).

Una religione cultuale e permanente

Civita rappresenta un punto di osservazione privilegiato che ci permette di capire come oggi il mondo venga furiosamente sopraffatto da una religione ipnotica e suggestiva. Una religione cultuale e permanente in cui il lavoro corrisponde alla celebrazione del culto. Una religione in cui non vi è «nessun giorno che non sia giorno di festa nel senso terribile del dispiegamento di tutte le pompe sacrali, dell'estremo impegno dell'adorante» (Benjamin 1997, 284). Una religione che è forse «la più feroce e implacabile che sia mai esistita, perché non conosce redenzione né tregua» (Agamben 2012). È la religione capitalistica: non una semplice conformazione condizionata religiosamente, come aveva ipotizzato Weber, ma una vera e propria religione capace di appagare quell'insieme di preoccupazioni ed inquietudini a cui davano risposta un tempo le cosiddette religioni. Il mondo cambia ed anche le divinità si adeguano. Tale religione trasforma Civita in un oggetto sacrificabile sull'altare del dio-mercato. In questa cornice la città si configura sempre

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più come un supermercato di apparenze carezzevoli e seducenti dove una bramosia di breve respiro si traduce in una spinta spasmodica al consumo. Un luogo dove le scelte di vita sembrano ridursi a scelte di acquisto e, conseguentemente, la libertà di scegliere sembra coincidere con la libertà di comprare. «Metaforicamente, l'immagine che meglio esprime questa visione è quella per cui la condizione ideale di benessere per un soggetto è quella di essere e di fare ciò che si può essere e fare in uno shopping mail: essere un cliente munito di denaro (o meglio di una inestinguibile carta di credito) di fronte alla più ampia scelta di merci e di servizi, e poter scegliere cosa comprare nella massima libertà» (Manzini 2011, 4). Se la nuova religione afferma che tutto si consuma, allora la città non solo espone le sue merci bensì finisce col diventare merce essa stessa, posizionandosi sulla scena degli appetiti globali. Il cerchio si chiude. La sottomissione cultuale alla religione capitalista finisce con lo snaturare l'essenza stessa delle città che diventano musei a cielo aperto pronti a competere per ottimizzare i profitti dell'industria turistica. «Dove un tempo ferveva la vita, e umani scorbutici e frettolosi si facevano largo nel mondo e si calpestavano e spintonavano, ora fioriscono paninoteche, bancarelle ovunque uguali di prodotti tipici, di mussoline, batik, cotonine, parei e braccialetti. Quella che era una vicenda piena di grida, strepiti e furori, ora è tutta racchiusa in un prospetto di agenzia di viaggio» (D'Eramo 2017, 298). È il destino di Civita, cioè un minuscolo paesino italiano e, allo stesso tempo, il destino più ampio di ogni città: civita, per l'appunto. Città condannate ad assumere la forma scintillante di mortifere cattedrali del consumo.

Il dissolvimento delle ombre A differenza di quanto facevano un tempo le religioni tradizionali, tuttavia, il culto della merce e l'idolatria del plusvalore non aprono squarci di ulteriorità. Il loro portato egemonico finisce col produrre una violenta colonizzazione delle nostre vite. Parliamo di un «sistema di dominio il cui tratto specifico è la propensione alla totalizzazione dell'esistente» (Consigliere 2020, 25). Tutto, noi stessi e il mondo, viene ridotto a datità manipolabile per la ricerca del profitto. Ogni cosa è leggibile all'interno di un'ottica strumentale scandita da prestazioni, funzionamento e guadagno. È la supremazia della tee-

GIOVANNI AlTILI

nica calcolante, la cui essenza consiste «in un determinato modo di disporre iUdel mondo, che lo svela in quanto fondo di riserva permanente, ovvero come accumulazione del valore strumentale di ogni cosa. Una foresta non è più una foresta, ma una riserva di legname pronta per essere mandata in produzione; una cascata non è più una cascata, ma una riserva di energia idroelettrica pronta per essere estratta; una persona non è più una persona, ma una riserva di lavoro pronta per essere impiegata» (Campagna 2021, 47). L'obiettivo è, dunque, l'espansione senza limiti di un gigantesco apparato di accumulazione mercantile che tritura tutto: un monolite ingombrante che prova a schiacciare ogni altra logica vitale. «Niente deve interrompere il ciclo della produzione e del consumo, il nesso fra le esigenze della struttura e le pulsioni individuali. Del mercato, infatti, sentiamo ogni sussulto, i suoi fremiti riverberano in noi: desideriamo ciò che desidera, temiamo ciò che teme. Per contro, alberi, lupi, fonti, fantasmi, mulini a vento, stelle, dèi e demoni hanno smesso di parlare» (Consigliere 2020, 33). È il disincanto: un processo aggressivo che ha finito col disseccare la terra rendendola una landa liscia e positiva. Le ombre si sono dissolte insieme alle trame nascoste. Il perturbante è stato bandito dal regno progressivo e lineare della tecnica. Il sogno e la magia sono stati tumulati sotto il peso dell'unica ragione ammissibile, quella strumentale finalizzata al profitto. Le qualità sottili e immateriali vengono triturate sotto il peso del quantificabile. I linguaggi della misura, dell'ordine e della classificazione finiscono, infatti, con il sovrastare ogni altra forma di conoscenza. Tutto diventa omogeneo, leggibile e quindi governabile con un obiettivo molto preciso: l'affermazione incontrastata di un'unica cosmogonia fondata su valorizzazione economica e sfruttabilità tecnica. In questo spazio inaridito la reductio ad unum è completa: nessun altro mondo è conoscibile o immaginabile. Nessuna altra esistenza concepibile.

Stasi abbagliante

L'affermazione incontrastata di questa unica cosmogonia è foriera di disastri. «Somiglia a un sortilegio: molti animali muoiono così, fissando paralizzati i fari del treno che li travolgerà. Ci diciamo che forse, a forza di incidenti, i loro discendenti impareranno a disto-

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gliere lo sguardo e a fare un salto a lato. Contiamo sui tempi lunghi dell'evoluzione. Noi però già siamo figli e nipoti di generazioni travolte e dobbiamo strapparci adesso dal maleficio della fine del mondo. Un po' perché morire così, in mezzo ai binari, è indecoroso; un po' perché ogni cosa fatta dagli umani - e il capitalismo è una di queste - può altrettanto bene essere sfatta. La via di fuga da un tempo stregato è qualsiasi cosa non sia il disastro incombente. La paralisi si scioglie a contatto con l'altrimenti. Non un altrimenti astratto, fumoso o esotico, ma quello assai prossimo di un mondo che continua ad esistere fuori dal fascio abbacinante dei fari: l'erba, il terrapieno, la tana, il sentiero, gli alberi, l'ombra del bosco, gli animali sul prato. La foresta è ancora viva. Quello che cerchiamo è già qui frammentario, imperfetto, ruvido come le cose reali. Si tratta solo di avvertirne l'esistenza. Cosa ci impedisce il contatto?» (Consigliere 2020, 141 5 ). La domanda posta da Stefania Consigliere è centrale. Cosa ci impedisce di contattare l'altrimenti? Cosa ci trattiene dal distogliere lo sguardo da quei fari così accecanti che rischiano di travolgerci? Il problema nasce dalla volontà di potenza di un sistemamondo che si è insidiosamente naturalizzato. Non sappiamo più riconoscere il suo carattere contingente, storico. Non sappiamo più nominarlo come una delle tante possibili articolazioni dell'esistente. Il suo carattere assoluto ha inibito la nostra capacità di pensare altri eventuali sistemi di realtà. È come se la portata del «possibile si fosse drasticamente ridotta e la nostra capacità di agire diversamente, o persino di usare l'immaginazione in modo diverso da quello già inscritto nel presente, fosse stata soffocata una volta per tutte» (Campagna 2021, 18). La paralisi immaginativa è indotta. Per estendere il proprio portato egemonico il regno del capitalismo tecno-nichilista (Magatti 2012) deve presentarsi come il più potente e desiderabile degli orizzonti in campo. Nel raggiungere questo obiettivo, deve giocare con astuzia, puntando su una dinamica paradossale. Deve cioè riuscire a incantare il disincanto che produce. In questa perversione, la teologia del mercato agisce con presa incantatoria sul reale, catturando anime e corpi. Polverizzando tutto ciò che non è sé stessa, né utile alla sua riproduzione. Produce deserto, ma quel deserto deve risplendere e somigliare al migliore dei mondi possibili. Non solo. Ogni sussulto dissenziente deve essere attentamente vagliato al fine di «catturare nel circuito del plusvalore tutta la capacità di mutamento. Astuzia,

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sogno, inventiva, reverie, coraggio, esplorazione sono praticabili solo in forma economica, come apertura di nuove piste di sfruttamento» (Consigliere 2020, 60). La sussunzione è totale. Così abbagliante da rendere ciechi. La nostra è, in fondo, un'epistemologia della cecità (Consigliere 2020): il nostro sguardo è diventato incapace di leggere la prigione all'interno della quale è confinato.

Fallimenti

In questa cornice, Civita continua ad essere un esempio magniloquente. Il suo governo è affidato all'esercizio di una volontà di sfruttamento irrefrenabile. Le politiche predisposte dall'amministrazione comunale si risolvono esclusivamente in ossessive strategie di marketing e visibilizzazione volte a incrementare la portata dell'ipersfruttamento turistico del territorio. Si tratta, evidentemente, di un approccio miope che garantisce visibilità e consenso immediati ma che porta ad un depauperamento irreversibile di risorse e potenzialità produttive, fenomeni di erosione dello spazio pubblico, un'irrefrenabile mercificazione del borgo, distorsioni del mercato immobiliare e una banalizzazione del paesaggio. Nella totale inconsapevolezza, il Comune continua a porsi l'obiettivo di favorire in tutti i modi un'esplosione incontrollata del fenomeno. Nel 2019 Civita ha visto la presenza di un milione di visitatori a fronte di soli 10 residenti stabili. Si tratta di numeri che imporrebbero una seria riflessione sulla sostenibilità di questo fenomeno. Il condizionale è d'obbligo perché, nei fatti, l'amministrazione comunale decide di non fermarsi. Raddoppia l'importo del biglietto di ingresso al borgo per fare cassa, sancendo di fatto la morte dell'idea stessa di città. Stringe un accordo con Costa Crociere per dirottare nel borgo nuove flotte di turisti appena sbarcati al porto di Civitavecchia. Trasforma l'unico immobile pubblico ancora disponibile nell'ennesima casa-vacanza da inserire all'interno della piattaforma di Airbnb, con il sindaco che diventa, prima volta al mondo, host dell'immobile 1 • Non solo. Attraverso un'ordinanza comunale, i cor1

Uno spazio che poteva svolgere funzioni collettive diventa quindi una casa per affitti brevi in linea con le tendenze di commerciali.u.azione dei luoghi messe in campo dal capitalismo delle piattaforme.

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tei funebri pedonali per il trasporto delle salme dalle chiese ai cimiteri vengono vietati perché entrerebbero in conflitto con il flusso turistico che attraversa Bagnoregio e Civita. Solo la morte pornografica e spettacolarizzata del borgo, ad uso e consumo di visitatori-voyeur, avrebbe diritto di cittadinanza in questo territorio. Tutto il resto può essere violentemente sacrificato in nome del profitto. In questo contesto, per anni, ho provato faticosamente a incidere nella speranza di un cambiamento che non è mai sopraggiunto. Le mie azioni si sono sempre mosse su un piano prettamente sociopolitico. Si sono nutrite del confronto-scontro con le strutture istituzionali e i discorsi pubblici, nutrendosi della partecipazione attiva delle comunità locali2 • Nella maggior parte dei casi ho assaporato la frustrazione dell'insuccesso. Le cose non mutavano. Continuano a non mutare. Ad oggi la devastazione sembra incontenibile e ogni tentativo di introdurre un'anomalia in questa macchina divoratrice risulta fallimentare. L'immaginario dello sfruttamento è stato dolorosamente introiettato. Nessuna interrogazione sul futuro di questa terra sembra riuscire ad affrancarsi dall'ossessione estrattivista che, ad oggi, ne ha decretato il doloroso martirio. Nessun guizzo, nessuno slancio capace di sfidare quel modello neoliberista di sfruttamento territoriale. Nessuna tensione immaginativa in grado di trasformare il domani in un'aurora gentile e inattesa. L'appiattimento delle co2 Per anni ho coinvolto i miei studenti in attività residenziali di analisi e progettazione. Ho riportato in vita un archivio documentale di inestimabile valore per la comprensione della storia di questa terra. Ho collaborato con i geologi del Musco delle Frane per coordinare attività formative legate alla comprensione delle fragilità del borgo. Ho coinvolto la comunità locale, l'amministrazione e gli attori economici in numerosi workshop e focus group, riportando al centro del dibattito il tema della cura e delle alternative produttive alla monocoltura turistica. Ho promosso dibattiti pubblici e convegni su questi temi provando a interrogare il futuro di Civita. Senza alcun successo. Sono anche riuscito faticosamente ad ottenere un consistente finanziamento universitario per installare e gestire una stazione di monitoraggio capace di leggere da remoto i cedimenti del bancone di tufo e del substrato argilloso che sostengono Civita. Si trattava di un progetto ambizioso e necessario, mai attuato in questa terra. Un progetto di cura che vedeva il coinvolgimento dei più importanti geotccnici, geofisici e specialisti nel campo della geomatica che l'Università La Sapienza poteva offrire e che si poneva l'obiettivo di salvaguardare la fragilità del borgo. Evidentemente questo progetto non rientrava tra gli obiettivi dell'amministrazione comunale che, nei fatti, l'ha rifiutato rinunciando concretamente anche all'offerta generosa di circa 110.000 curo a fondo perduto. Parliamo di un'amministrazione che evidentemente non considera la fragilità di questa terra una priorità da gestire. O forse ha avuto semplicemente timore che un'azione di monitoraggio potesse evidenziare clementi di criticità capaci di compromettere l'attrattività turistica del borgo.

6o

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scienze all'interno di un monologo egemone è il baratro in cui stiamo rischiosamente scivolando. Regna la stasi: ciò che ristagna. Non esistono guizzi, digressioni, trasalimenti. Nessun tremore. Tutto è semplicemente ciò che è. Un sistema-mondo che può solo accrescersi quantitativamente all'interno di una traiettoria tracciata. Non c'è spazio per annodare nuove relazioni coevolutive o sperimentare inediti modi di abitare la terra. Non ci sono altre coordinate ontologiche disponibili per disegnare un diverso sistema di realtà.

Cambiare qualcos'altro Quali strade possiamo dunque percorrere per innescare un cambiamento in questo penitenziario del possibile? Un libro mi viene incontro: Magia e tecnica di Federico Campagna si apre con alcune considerazioni estremamente nutrienti intorno alle condizioni che renderebbero possibile il cambiamento. Un cambiamento molto difficile da perseguire «proprio perché esso è in effetti tecnicamente impossibile». Questa considerazione è la premessa per un'epifania: «non è forse il caso che l'immaginazione, l'azione o anche soltanto la vita o la felicità ci sembrano impossibili, poiché esse sono davvero impossibili, almeno all'interno dell'attuale configurazione della realtà?» (Campagna 2021, 18). La suggestione offerta da Campagna interroga l'incapacità di incidere profondamente sul reale che caratterizza le rivoluzioni socio-politiche. Agendo all'interno del sistema di realtà che vorrebbero cambiare, queste rivoluzioni non si offrirebbero, infatti, come dispositivi capaci di scardinare il già dato. Non aprirebbero fessure, limitando in maniera severa la portata del possibile. Secondo Campana, non sarebbe dunque sufficiente intervenire politicamente all'interno del mondo che vorremmo cambiare, operando semplicemente sulle sue strutture economiche e sociali. Queste strutture altro non sarebbero se non la manifestazione superficiale di un insieme di assiomi metafisici, di un sistema di realtà che plasma il destino del mondo in cui viviamo e la nostra capacità di pensarlo. Un intervento di questo tipo non ci permetterebbe, dunque, di agire e immaginare in maniera diversa da quella inscritta nel presente. «Non sarebbe forse necessario che cambiasse qualcos'altro, a un livello differente?» (Campagna 2021, 18). La risposta che sembra prendere forma propone un ribaltamento prezioso: per dilatare lo

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spettro del possibile sarebbe auspicabile lavorare innanzitutto sui parametri fondativi del nostro sistema di realtà, decostruendo e ricostruendo quei presupposti che legittimano esperienze ed esistenze.

Ierofanie e deflagrazioni simboliche

Sappiamo che ogni cosmogonia, ogni particolare processo di formazione di universi o sistemi di realtà, è una forza capace di mettere ordine nel caos. Anche il capitalismo 'tecno-nichilista opera in questa direzione. La sua portata va però circoscritta. Non è l'unica cosmogonia pensabile o praticabile. È contingente al pari di altre forme di realtà possibili. A partire da queste considerazioni sarebbe dunque auspicabile provare a cambiare il mondo, agendo sui suoi presupposti metafisici e legittimando altre cosmogonie. Il che non vorrebbe dire adottare un posizionamento manicheo e oppositivo, rinunciando ad operare fattivamente e politicamente nel nostro presente: «l'accettazione di un certo sistema di realtà invece che un altro va a definire quali politiche sociali si ritiene che rientrino nell'ambito del possibile. Cambiare il sistema di realtà è un requisito prepolitico cruciale per ogni ripensamento radicale della nostra vita politica e sociale» (Campagna 2021, 26). È attraverso questa operazione che si potrebbe immaginare una fuoriuscita dalla stasi. Il termine ekstasis indica questo strappo necessario. Un movimento che ci affranca dalla palude dell'immobilismo. Un'apertura verso il molteplice, al di là della monocrazia tecno-capitalista. Ekstasis come «esplorazione dei coni di luce e di ciò che fanno esistere, senza cadere nella qualificazione e nel furore dell'unico» (Consigliere 2020, I 55). Da questo punto di vista, la mia tesi è che l'arte possa funzionare come dispositivo pre-politico di rifondazione delle coordinate metafisiche di un diverso sistema di realtà. Il suo portato è effettivamente estatico. Non che l'arte si ponga questo come obiettivo. La sua natura è quella di essere non strumentale e indeterminata negli esiti. Ma nel suo farsi e nel suo darsi, l'arte custodisce un cuore di brace pronto ad avvampare e a reincantare il mondo attraverso l'annuncio di nuove cosmogonie. Già in questo suo sfuggire alla strumentalità, l'arte si pone in maniera antitetica rispetto al regno della tecnica. Agisce come un incantesimo che spezza l'illusione naturalistica di un mondo

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interamente coincidente con la portata del linguaggio e del visibile. Lancia grida preziose, disegnando un pertugio verso il molteplice. L'arte non chiude. Non etichetta. Non produce tassonomie semplificatorie in cui ogni cosa occupa un'unica posizione all'interno della sintassi produttiva della tecnologia, dell'economia o delle norme sociali. Non atrofizza la portata allegorica delle parole e dei gesti. Piuttosto spalanca vertigini di rimandi e allusioni. Parafrasando e invertendo il ragionamento di Alexandre Koyré si potrebbe dire che il linguaggio artistico ci invita ad un l'assaggio: dall'universo della precisione al mondo del pressappoco. E in questo pressappoco che l'arte costruisce un percorso di avvicinamento, impreciso ma denso, verso l'ineffabile. Verso quel mistero impalpabile dell'esistente che non può essere completamente posseduto né catturato dal linguaggio. Verso quel qualcosa che in via del tutto approssimativa chiamiamo vita. L'architettura fondativa di questo mondo è affidata alla deflagrazione del simbolo. Un segno semiotico che non esaurisce mai gli oggetti cui fa riferimento, piuttosto li moltiplica e li amplifica. Un simbolo è, infatti, sempre una «fonte di una vita ulteriore, e altra rispetto alla prima nascita fisica» (Giorgi 2021, 9) delle cose. È una sorgente gravida di seconde nascite: un dio battesimale che rimette al mondo il mondo, iniziandolo «al prodigio di un'altra vita» (Cornelio 2020). Attraverso questo gesto partoriente il simbolo diventa il mezzo attraverso cui l'ineffabile fa irruzione nell'ordinario, e il sovrasensibile si incastona al sensibile. È del simbolo, infatti, la capacità di comportarsi come una ierofania, «un ricettacolo del sacro» (Eliade 1981) che ospita l'ulteriorità pur continuando a partecipare dell'ambiente cosmico circostante. La tendenza essenzialmente umana di pensare attraverso i simboli (cfr. Cassirer 2015) può essere magnificata dall'arte che diventa dunque una protesi mitopoietica di costruzione di un altro sistema di realtà: un mundus imaginalis, «una dimensione ontologicamente legittima a metà strada tra il linguaggio e l'ineffabilità» (Campagna 2021, 220). Tale dimensione è «la parte in penombra di un mondo umano, la fascia che media fra il reale nella sua vastità inafferrabile, e il mondo locale, specifico, che viene portato in esistenza. È la regione del possibile, del potenziale e dell'inattuale» (Consigliere 2020, 33).

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Epifanie che squilibrano

Di fronte a un disincanto che ha finito con il mortificare la nostra natura immaginifica, l'arte può dunque svolgere una funzione riparatrice, attraverso l'incubazione preziosa di biforcazioni, alternative e scarti. La sua potenza simbolica e magica può creare le condizioni affinché futuri non realizzati possano vivere una vita postuma (Consigliere 2020) e mondi non cartografati possano diventare roveti ardenti. In fondo l'arte si comporta come una macchia di Rorschach «dove puoi vedere la farfalla o la testa mozzata» (Zironi 2021, 158) e dove l'ordinaria percezione delle cose può finalmente vacillare, aprendo sottili fessure al possibile. Non è un'operazione semplice. Sappiamo bene quanto il mantra dell'accumulazione capitalistica, insidioso e colonizzante, spazzi via ogni parola dissenziente, riducendo in cattività i semi di dissenso. Sappiamo bene di avere una lingua logora e stanca, incapace di sussulti e prefigurazione. Ma se le ferite del dolore rappresentano l'innesco di una poesia germinativa, la consapevolezza della devastazione in atto dovrebbe obbligarci a ricaricare parole ormai atrofizzate con l'obiettivo di far tracimare lo stagno paludoso che ci immobilizza. Per navigare attraverso questo buio ontologico, epistemologico ed etico «bisogna innanzitutto ammettere che buio vi sia; che i propri strumenti hanno validità limitata» (Consigliere 2020, 13 5 ). Ho deciso di affrancarmi, quindi, dal pragmatismo degli strumenti dell'urbanista, del policy maker o del ricercatore sociale per abbracciare le possibilità cosmogoniche dell'arte. Si tratta di un cambio di prospettiva radicale, sicuramente fragile ma anche strutturalmente indeterminato negli esiti. Nel tentativo di lavorare su "un altro livello" ho quindi immaginato, insieme alla performer e attivista Silvia Calderoni, di convocare un collettivo di artisti3, affidando loro il compito di interrogare il futuro di Civita. Li abbiamo invitati ad abitare temporaneamente a Civita. E loro hanno scelto di abitarla come terra ignota, provando a muoversi in «quel sottilissimo limite che non è cielo e non è 3 Alice Rohnvacher, Damiano e Fabio D'Innocenzo, Daria Deflorian, Chiara Bersani e Mana Montanini, Francesca Pennini e Vasco Brondi, Anagoor, Cheap, Alessandro Sciarroni, Simona Pampallona, Michele Di Stefano, Francesca Marciano e Valia Santella, Eva Geani.

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terra, ma piuttosto il loro reciproco, luminoso scartarsi» (Cornelio 2021 ). Hanno sostato, con mani aperte. In ascolto. E, nel tentativo di mettere in tensione il presente con il futuro, hanno provato ad immaginare. Attraverso una pratica immersiva di tipo relazionale e residenziale, questi artisti hanno, infine, dato forma a gesti creativi, scritture, provocazioni teatrali, riti, installazioni, paesaggi sonori e proiezioni filmiche. Il loro stare pericolante ha messo al lavoro delle vere e proprie invenzioni magiche: «epifanie che portano una meraviglia prossima allo squilibrio» (Consigliere 2020, 104) perché agiscono come apparecchi di visione capaci di fertilizzare immaginari ormai atrofizzati. Il tentativo è stato quello, infatti, di frantumare la cappa del disincanto che avvolge Civita, distogliendo lo sguardo dai fari del treno che rischia di travolgerla. A ben vedere, al di fuori di questi fari abbaglianti «non c'è subito la tenebra più profonda, ma una fascia di penombra che progressivamente si infittisce. Questa penombra è l'immaginario. Qui sta la parte sepolta, inconsapevole e rimosso delle fondamenta di un mondo, le piegature prime che lo preparano e lo rendono possibile. È la zona dove si sviluppano i futuri, all'interfaccia fra ciò che già è e ciò che vorremmo far essere» (Consigliere 2020, 131).

Una trama di meta(ore vive

In questo lavoro che attraversa la dimensione dell'immaginario, gli artisti hanno contattato fantasmi, miracoli e tensioni che la forza cosmogonica del capitalismo tecno-nichilista aveva ridotto al silenzio. Si tratta di parole e gesti anacronistici che disegnano una partitura di suggestioni potenzialmente capaci di rianimare una terra trafitta. I diversi contributi offrono una prospettiva inattuale e intempestiva su Civita, portando «incompiutezza in ogni ordine già fissato, ovvero in ogni disegno di salvezza e in ogni previsione di catastrofe» (Cornelio 2020). È il compito dell'artista, in fondo, quello di piantare erosioni, aprire feritoie, lavorando ad una diversa partizione del sensibile. Il suo compito è soprattutto quello di «di attendere senza nulla attendere e - ciononostante - di edificare con largo anticipo, attraverso gli smottamenti lasciatici in consegna; dunque: di creare circostanze, nodi del possibile; di agire controtempo - con pensiero vicariante» (Cornelio 2020).

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Tale postura è necessaria per promuovere un'evasione luminosa da quel pragmatismo che ha sempre finito con l'imporre all'ordine dell'esistente di sovrastare quello del possibile. Se la fine ingloriosa di Civita sembra essere già scritta, queste pratiche artistiche tentano di allontanare l'ineludibile. Non a caso abbiamo chiamato il Festival che le ospita Civitonia. Riscrivere la fine a sottolineare la possibilità di una diversa presa in carico di ciò che ci (a)spetta. Il Festival si offre, del resto, come un operatore di molteplicità attraverso cui il monoteismo capitalista può sciogliersi a contatto con l'altrimenti. Tale contatto è favorito dalla vitalità del linguaggio simbolico: potenza eccedente che non cerca traduzioni o didascalie. In questa cornice gli artisti hanno lavorato a costruire un'archeologia del possibile. Nel festival si possono incontrare geografie sonore che smembrano l'ipocrisia e corpi che duellano con l'instabilità. C'è il gioco che diventa trappola amabile e la visione che dichiara l'illusione; c'è la presenza di gesti funebri che aprono al futuro e la dimensione del sonno come pratica resistente, ci sono cartoline che si squarciano e altre che si scrivono. Ci sono soprattutto gesti che abbattono il naturalismo dell'esistenza, introducendo turbamenti e interrogazioni contro-intuitive. Si tratta in definitiva di consegne preziose: Giorgiomaria Cornelio le chiamerebbe pietre focaie, promesse con un nucleo di brace. Il risultato potenziale è la trasfigurazione della terra civitonica in una trama di metafore vive (cfr. Ricoeur 1981, Rorty 1989, Davidson 1994) che sprigionano significati non parafrasabili nel linguaggio di codice. La «metafora viva prima ancora di essere un significato riconoscibile è un gesto intransitivo, che agisce di testa propria e che sospende la verbalizzazione ordinaria. Qualcosa di paragonabile alle strida di un uccello sconosciuto, al dare uno schiaffo o un bacio all'interlocutore, all'interrompere una discussione mostrando una fotografia o facendo una smorfia» (Gargani 1996, 18). La "metafora viva" svolge dunque una funzione trasgressiva nei confronti dei codici acquisiti e una funzione generativa di nuove grammatiche. È l'inceppo che invita ad attribuire un senso inedito alle cose.

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Bagliori intermittenti e improbabili In fondo l'obiettivo era quello di smuovere il pensiero, in una maniera diversa. Sappiamo che l'arte «non pensa meno della filosofia» (Deleuze, Guattari 1991, trad. it 1996, 56) ma a differenza di quest'ultima pone al centro la materia sensibile e non i concetti. «L'arte è un piano di composizione del sensibile, capace di rendere visibili le forze invisibili, sensibili le forze insensibili». Attraverso il divenire espressivo della materia e dei corpi produce quindi sensazioni: «composti di percezioni senza referente e di affetti come forze senza soggetto» (Calco 2021, 25). In questo, manifesta anche la sua intraducibilità rispetto ad altre cosmogonie. Come afferma Caleo, c'è sempre uno scarto, un resto, un'eccedenza, un'irriducibilità che le spetta. È proprio a partire da questa alterità che l'arte può svolgere una funzione di rottura, riconfigurando le coordinate immaginative che ci governano. L'idea del Festival non era tanto quella di trovare «miracolose soluzioni, quanto piuttosto balenanti, bizzarre, imprevedibili, inaspettate aperture di senso» (Anagoor, in Attili, Calderoni, 2022, 219). Parliamo di suggestioni. Esercizi minuti e indiziari. Frammenti isolati, incompleti, ma in sé perfetti (Coccetti 2018) che non mirano alla ricostruzione di una totalità. Schegge allusive che, a differenza della forma chiusa della rappresentazione descrittiva, invitano i fruitori ad una partecipazione attiva, ri-crcativa, riflessiva. La patente imperfezione dei frammenti, infatti, li rende naturalmente capaci di protendersi fuori da sé stessi, creando lo spazio per una futura attività di significazione ricostruttiva (Coccetti 2018). Si tratta di dispositivi che si comportano, in fondo, come pollini agitatori, come semi che racchiudono una vocazione germinativa e maieutica. Il Festival vuole dunque incendiare questo potenziale energetico, sprigionando scintille: piccoli barlumi di luce che cuciono di speranza il nero in cui siamo sprofondati. Questi guizzi luminosi somigliano alle lucciole cui Didi-Huberman affida il miracolo della salvezza. Si tratta di balbettii lucenti, carichi di desiderio e immaginazione. Bagliori intermittenti, temporanei ed improbabili. La danza di queste lucciole disegna uno spazio di possibilità: un addensamento di sopravvivenze e di indizi di futuro da convocare e accudire. Un luogo di «malgrado tutto» (Didi-Huberman 2010), di splendori intravisti, di luci che ci spettano. Le pratiche artistiche che abbiamo sollecitato, somigliano proprio a piccolissime luccicanzc potenzialmente capaci di rischiarare un'e-

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poca che ha spento anche la luna. Queste lucciole sono naturalmente «solo fugaci bagliori nelle tenebre, in nessun caso l'avvento di una grande luce di tutte le luci. E, visto che ci insegnano che la distruzione non è mai assoluta - anche quando è ininterrotta -, le sopravvivenze ci dispensano dal credere che un'ultima rivelazione o una salvezza finale siano necessarie alla nostra libertà» (Didi-Huberman 2010, 52). In altri termini abbiamo cercato di costruire un percorso che non si ponesse l'obiettivo di «trasformare la disfatta in un futuro trionfo, ma piuttosto una leggenda su un passaggio nascosto all'interno del campo di battaglia, che si dice conduca a una foresta al di là di esso» (Campagna 2021, 17).

Canarini e grisou È un tentativo timido, probabilmente destinato al fallimento. Le lucciole hanno, infatti, vita breve. Sono tracce evanescenti che in molte occasioni sono tristemente destinate ad essere inglobate nella notte più buia o a morire travolte dalla luce artificiale di qualche potente riflettore. Faccio riferimento al rischio di sussunzione all'interno dei paradigmi dominanti. L'arte è spesso, infatti, vittima di tentativi di cattura da parte della religione tecno-nichilista. In questi casi il gesto artistico si autonomizza nello stesso istante in cui viene prodotto, perde la sua carica profanatrice e si trasforma anch'esso in terra di conquista capitalistica. A Civita, l'industria turistica potrebbe, infatti, trasformare queste epifanie in merce da esporre all'interno dell'ennesima vetrina spettacolare. È un fatto disturbante per chi si occupa di territorio: un rischio forse ineliminabile che bisogna tuttavia responsabilmente correre. In questa fase di lavoro di preparazione al Festival, i riverberi che esso sarà in grado di produrre non sono ancora presagibili. Quello che sto cercando di raccontare sono i moventi, le intuizioni e le coordinate che stanno dando forma a questo progetto. Ma anche alcune riflessioni che abbiamo costruito per evitare di cadere in alcune trappole. Di sicuro abbiamo cercato di contenere una possibile eterogenesi dei fini, convocando artiste e artisti capaci di pratiche non consolatorie attraverso cui nutrire funzioni critiche e genuinamente polemiche. Abbiamo accolto pratiche che sono, in fondo, denunce esplosive. Denunce che evocano la funzione di quei canarini trasportati nel-

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le miniere per avvertire della possibile fuoriuscita del gas grisou. A questi piccoli animali divinatori, capaci di gonfiarsi e di indicare il sopraggiungere della catastrofe, Didi-Hubcrman dedica una riflessione approfondita. «Le immagini non si comportano forse come le piume di questi uccelli premonitori? Quando un'immagine si mette a fremere o si gonfia, non siamo forse sul punto di veder venire qualche momento decisivo e, nel peggiore dei casi, qualche evento catastrofico?» (Didi-Huberman 2021, 49). Le immagini in fondo servono a questo, a vedere il tempo che viene. L'arte dunque dovrebbe essere capace di consegnarci immagini capaci di sorprenderci come il fremito d'ali del canarino che preannuncia l'arrivo del gas grisou. Nel suo rompere l'apparente normalità e il funzionamento ordinario, si offre come sintomo che brucia, come segno segreto, come crisi irrisolta e come apertura radicale. Le pratiche artistiche in fondo si comportano come quei giochi che tentano «di distruggere per un attimo la stabilità della percezione e di far subire alla coscienza, lucida, una sorta di voluttuoso panico» (Caillois 1981, 40) anche e, soprattutto, di fronte ad un pericolo in agguato. Come afferma il coreografo Michele Di Stefano (Di Stefano, in Attili, Calderoni, 2022, 7 5 ): «insomma cosa succederebbe se provassimo a mangiare per una volta in piedi sul tavolo, per capire quanto sia veramente instabile il piatto colmo di minestra?». Già: cosa succederebbe se. Il Festival si appropria di questo movimento ipotetico di realtà, traslando la possibilità del cambiamento in una dimensione sottile, invisibile, immateriale. In fondo «l'immaginazione cambia le cose, non è solo la materia ad incidere sul mondo: il magico, l'invisibile è altrettanto potente, curativo, necessario» (Deflorian, in Attili, Calderoni, 2022, 71). Lavorare sulla dimensione degli immaginari può, dunque, rappresentare la pre-condizione necessaria per costruire un nuovo sistema di realtà. In fondo l'arte «fora e dilata quel bordo fra ciò che è, semplicemente com'è, e ciò che potrebbe essere» (Pennini, in Attili, Calderoni, 2022, 168), scuotendo i sedimenti e dissotterrando il fuoco. Questa è la scommessa del Festival: accompagnare lo screpolarsi delle cose; attraversare una soglia, uscire da un ambito per accedere ad un altro, abbandonare gli ancoraggi di un presente ostile per abbracciare un'avventura magica e immaginifica. In un tempo segnato da tentativi di colonizzare il futuro per annetterlo come nuova area di investimento capitalistico (Giorgi 2018), le pratiche artistiche possono sfidare l'ineludibilità della storia, apren-

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do brecce di possibile nel nostro domani. Il loro potenziale profetico rappresenta un'occasione per superare l'ideologia dell'economia calcolante e lavorare affinché la vita possa tornare ad abitare il corpo della terra. Il sentiero è ardito, ma ci sono ben poche altre opzioni praticabili per rifondare i parametri fondativi del nostro sistema di realtà: lavorare sulla materia viva degli immaginari per cercare di superare quel fanatismo del profitto che fa della sfruttabilità del mondo un unico e ingombrante mantra religioso.

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Un paesaggio senza fine Silvia Bottiroli

Se ci tenete a voler scoprire le cose piuttosto che a programmarle, è inevitabile che sorgano problemi [... ]. È il modo di scrivere più dispendioso al mondo. Le Guin, 2.018

Pratica curatoriale e ricerca artistica condividono talvolta un simile incedere, un tenere «a voler scoprire le cose piuttosto che a programmarle», con le parole di Ursula Le Guin. Tale incedere illumina un pezzetto di mondo alla volta, procede mettendo in relazione pezzetti diversi e tesse legami che sono spesso affettivi se non impulsivi. La pratica relazionale che questo approccio alla curatela e alla ricerca mette in atto conduce così a creare costellazioni, insiemi vulnerabili che possono essere risignificati dalla scoperta di una nuova singolarità. I corpi che compongono queste costellazioni sono sempre riuniti da un altro corpo, quello di chi li scopre, osserva e connette, di chi li avvicina per attrazione, di chi li interroga con le proprie domande. Questo testo prova a onorare tale logica, tale incedere, per esplorare una serie di pratiche artistiche e opere d'arte che si collocano all'interno della dimensione urbana. Il punto di inizio è stata un'immagine una foto di Olminhando di Lygia Clark - che ne ha poi attirate a sé altre: a un certo punto queste immagini hanno iniziato a parlarsi tra di loro, indifferenti alle distanze di luogo, tempo, poetica o contesto, collegate l'una all'altra solo dall'incedere erratico di una ricerca che andava raccogliendole e interrogandole. Dai loro dialoghi ha pian piano preso forma un insieme in costante espansione, in cui ogni nuovo corpo - ogni immagine, e con essa la pratica artistica che l'immagine ferma nel tempo, documenta, tradisce o racconta - cambia il senso del tutto. Comporre un testo è un modo di fermare questa costellazione per come appare adesso, nella sua precarietà, nella sua apertura

SILVIA B01TIROLI

a incontri imprevisti, e condividerla con la speranza che generi nuove connessioni, inviti ad aggiungere corpi e oggetti che possano ampliarne o spostarne il senso. Ho riflettuto a lungo se partire, anche nel testo, dalle immagini, e mostrarle a chi legge come l'origine che sono state nel processo di ricerca. Alla fine ho invece deciso di non includerle, ma di descriverle e raccontarle in modo che possano essere ritrovate da chi volesse guardarle, ma che operino all'interno del testo come fantasmi o scie, sensazioni più che apparizioni. È una costellazione di pratiche artistiche che si inscrivono nel tessuto della città intendendolo non solo come spazio urbano ma soprattutto come rete visibile e invisibile delle sue relazioni, del gioco sottile tra memoria e immaginazione, del rapporto tra pubblico e privato, tra individuale e collettivo. La questione della visibilità e dei suoi regimi è particolarmente vitale in tutti questi lavori: la rete fitta di rappresentazioni e autorappresentazioni che abitano lo spazio pubblico e le presenze invisibilizzate o rimosse che lo attraversano sono di volta in volta interrogate come luoghi in cui le relazioni tra i corpi, umani e non umani, producono nuovi processi di soggettivazione ed emancipazione. Non è un caso, naturalmente, che tutti questi lavori, tutte le pratiche che li sostengono, siano portati avanti da artiste che hanno operato e operano, ciascuna in modo diverso, in un orizzonte femminista, talvolta non esplicito o non rivendicato come tale ma importante, mi pare, per leggere queste pratiche performative, che attengono a un fare concreto - quello del legare, tessere, ascoltare, annotare... - che è anche immagine di un rapporto possibile tra azione e produzione di oggetti. Una questione che riporta immediatamente al crinale tra arti visive e performative, alla tensione intrinseca alle arti effimere, ma ancor più puntualmente, credo, al senso stesso della conduzione di una pratica artistica connotata da materialità e continuità, e alla visione dei corpi come connessi con altri corpi, viventi e non viventi. Nel 1963 Lygia Clark inizia un lavoro dal titolo Caminhando, che l'artista porterà avanti per anni. L'opera consiste sostanzialmente in un nastro di Moebius che viene costantemente ritagliato su carta dall'artista, e quindi da visitatori e visitatrici invitati a farsi partecipanti. Man mano che il nastro viene ritagliato esso diventa sempre più sottile, fino al punto in cui non può essere tagliato oltre senza perdere la sua caratteristica fondamentale: quella di essere, grazie a una particolare torsione, una superficie unica. Una foto bellissima raffigura Clark intenta a ritagliare il nastro di Moebius, seduta in quello che si intuisce essere

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uno spazio aperto. L'artista indossa un semplice grembiule di un colore chiaro (la foto è in bianco e nero), siede con le gambe incrociate su di uno sgabello o una sedia, e l'inquadratura si ferma alla linea delle spalle in alto e a quella delle ginocchia in basso. Dietro di lei, una pavimentazione a piccole mattonelle quadrate, che sull'angolo in alto a sinistra dell'immagine sembra lasciare spazio a un'altra pavimentazione, o forse a un muro, scuro. Potremmo essere su di una terrazza, o forse nell'angolo pavimentato di un cortile. Qualcosa in questa immagine mi ha sempre fatto pensare agli spazi aperti e comuni di fronte alla porta di casa, gli spazi dove spesso le donne che abitano su di una stessa corte o via si incontrano per compiere, l'una accanto all'altra e non necessariamente insieme, piccole e monotone attività manuali del quotidiano. Più precisamente, guardo questa immagine e vedo mia nonna seduta sul balcone del suo appartamento di città o nel cortile della casa di montagna da cui proveniva la sua famiglia, intenta a sgranare fagioli. Mentre scrivo, non so se questa immagine viene dalla mia memoria o se la sto creando io adesso, mettendo insieme frammenti di altre immagini - il grembiule, le mani al lavoro, il colore screziato dei baccelli ... - o se è la foto di Lygia Clark a fabbricarla. Quale che sia il rapporto tra l'immagine fotografica di Caminhando e le immagini a cui essa mi riporta o che forse mi hanno portata da lei, è un fatto che Clark stia compiendo una azione piccola, monotona ma non quotidiana in questa foto: in mano tiene un foglio di carta ripiegato ad anello e con la mano destra impugna un paio di forbici di metallo con le quali lo sta tagliando. La forma del foglio ricorda quella di un otto, e come sappiamo è un nastro di Moebius, figura geometrica che ha affascinato matematici e scienziati per il paradosso che incarna. Di Caminhando sappiamo anche, sebbene questa immagine non lo lasci intendere, che l'opera è relazionale e partecipativa, traducendosi nell'invito aperto a chiunque altra o altro a compiere lo stesso gesto: il fare elementare di Clark si presta a essere condiviso e ripetuto da altre mani, altri corpi. Un gesto individuale diventa una forma di calma meditazione condivisa, non necessariamente collettiva ma capace di accomunare le tante e i tanti che lo riproducono e di generare e condividere conoscenza: un apprendere che avviene attraverso il rapporto con una materia, il provare a darle forma, l'incontrare il limite del possibile, e pure il provare piacere nel ripetere questo gesto. L'immagine, nel suo modo meditativo, mantiene il sapore del piacere, e più precisamente del piacere che si prova a imparare o scoprire qualcosa.

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L'erouv de ]érusalem di Sophie Calle, realizzato nel 1996, si articola in una serie di incontri finalizzati a raccogliere storie individuali e va al cuore della tensione tra spazi pubblici e privati, ispirandosi a una tattica molto concreta. L'erouv è infatti, nella cultura ebraica, una serie di fili o corde che formano una parete immaginaria, tesa a circoscrivere un perimetro per definirne l'interno come spazio privato. La dimensione tattica di questa pratica riguarda il fatto che durante lo Shabbat, la giornata che dura dal tramonto del venerdì al tramonto del sabato, è vietata per la legge ebraica non solo ogni forma di attività, ma anche l'azione di portare qualsiasi oggetto fuori dalla propria casa. Secondo la Torah, tuttavia, un villaggio o una città circondati da mura di cinta dotate di porte possono essere considerati come spazi privati e al loro interno è permesso agli abitanti trasportare oggetti. La pratica di tendere i fili dell' erouv nasce quindi come escamotage finalizzato a segnare come privati, e quindi percorribili, spazi più ampi di quelli della propria abitazione. Regole precise definiscono la costituzione di tali recinti, che devono sempre presentare una porta e che possono pertanto essere visti come pareti ma anche come vie di accesso. Se qualsiasi tipo di materiale può essere utilizzato per la creazione dei piloni, i fili devono invece necessariamente essere fissati a un anello di metallo. Proprio di un erouv è l'immagine che porto nella memoria, la stessa che compare sulla copertina del libro di Calle (uno dei molti squisiti libretti che documentano le sue opere). È l'immagine di una pratica di vita funzionale e concreta, senza pretesa di essere altro da sé, che l'artista nel suo lavoro intende come metafora ma che in quella foto non è altro che un segno tra i tanti di un paesaggio urbano, un oggetto mimetico rispetto al suo contesto. Frontiera mobile e precaria, l'erouv ridefinisce confini e crea possibilità di attraversamento e condivisione che rendono possibile il vivere, ed è altresì immagine concreta di un costante risignificare gli spazi come pubblici o privati, o meglio di una privatizzazione dello spazio che non ha nulla a che fare con la proprietà e molto a che vedere con la possibilità di una continuità di relazione. Nella sua opera, Sophie Calle prende ispirazione dall'erouv per chiedere a diversi abitanti di Gerusalemme, israeliani e palestinesi, di condurla in un luogo pubblico che abbia ai loro occhi carattere privato, e documenta poi i luoghi e le storie che le vengono raccontate, creando così, come in altre sue opere, una sorta di catalogo di memorie e vissuti, saldamente legati a luoghi specifici di una città che i protagonisti vivono come propria - e nello specifico, di una città che è a tutti

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gli effetti divisa e vive di molti confini visibili e invisibili, valicabili e invalicabili. La materialità della pratica, l'erouv, scompare quindi nel lavoro dell'artista, mentre la labilità del confine tra ciò che è privato e ciò che è pubblico prende una nuova forma nel gesto della consegna di memorie personali all'artista, che si assume il compito di comporre in un'unica tessitura vissuti e prospettive inconciliabili, narrazioni incomunicabili. Non porto in me alcuna immagine di questo lavoro di Calle, ma conservo vivida la foto dell'alto palo stagliato su uno sfondo di palazzi, qualcosa di strano nella prospettiva e nel rapporto tra le dimensioni dei diversi corpi urbani, e su tutto la semplicità di due linee, quella verticale e quella orizzontale che nella prospettiva della fotografia appare diagonale. Come tanti altri oggetti generati da funzioni concrete, da pratiche di vita e da tattiche di sopravvivenza, l'erouv è estremamente semplice e privo di pretese formali o estetiche. Ciò che, rispetto ad altri oggetti urbani che svolgono funzioni simili, qui sfugge è il senso del valore d'uso dell'oggetto in sé: altro non è l' erouv, in verità, che lo spostamento di un confine, una frase detta a mezza voce e pure comprensibile a tutti, e soprattutto alle autorità deputate al controllo del rispetto delle regole religiose. È un autoinganno, si potrebbe dire, da parte di una comunità che senza clamori sembra riconoscere la invivibilità delle sue stesse regole, e trovare di comune accordo il modo di schivarle, allentarne la presa, creare spazi per una condivisione altrimenti negata. Come nel nastro di Moebius, vi sono due superfici, due lati di un confine in questo caso, che qui si fondono si dissolvono aprendo possibilità di inclusione e quindi ridefinendo i termini di una relazione tra il privato e il pubblico, e perciò tra il sé e l'altro, tra il sé e la pluralità degli altri. Vi è anche qui una reciprocità, un mutuo definirsi nel sovvertimento di una geometria rigida, uno spostare il rapporto tra dentro e fuori: a differenza che nel nastro di Moebius però, le due superfici restano separate, ma i due lati del confine vengono spinti un po' più in là, ridisegnati con un segno nello spazio in un luogo differente da quello assegnato loro dalla struttura urbanistica della città. Forse l'opera più nota di Maria Lai, Legarsi alla montagna è un evento unico ideato per il paese di Ulassai nel 1981 e realizzato con la partecipazione della sua comunità. Nato da un invito dell'amministrazione comunale a realizzare un monumento ai caduti in guerra del suo paese natale, l'opera costa a Maria Lai un lungo processo di negozia-

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zione e dialogo con gli abitanti per poi realizzarsi in un evento della durata di tre giorni al quale partecipa l'intera comunità e che risulta nel gesto di legare Ulassai al Monte Gentili. Un'opera relazionale e comunitaria dunque, costruita con la materialità di corpi e nastri uniti dal gesto elementare del tagliare e dell'annodare, e capace di portare quel gesto su una scala più ampia di quella umana, agendo al contempo sul rapporto tra mito, storia e futuro della comunità. Vi sono molteplici foto delle giornate di Legarsi alla montagna, e in questo caso come in quello delle opere di Lygia Clark le immagini costituiscono infine anche l'opera stessa, che sfugge a ogni altra cattura ed è performativa prima che questo aggettivo diventasse dirompente nel discorso sul rapporto tra arte e realtà. Sono moltissime le immagini che di questo lavoro si vedono in cataloghi e in rete, e in tutte il bianco e nero restituisce forza e vitalità ai volti e agli sguardi, qualcosa che la fotografia riesce a cogliere pur mancandone il movimento, la durata e le trasformazioni all'interno di un'opera-mondo che certamente trasformativa è stata. Sono molti i bambini ritratti nelle fotografie dell'evento: la dimensione del gioco, del "facciamo che", spostata su di una scala così grande deve aver acceso molto l'entusiasmo. L'immagine del legare il paese alla montagna come se questa fosse un animale addormentato, insieme mostro e figura protettrice della famiglia grande che è il paese, sembra però, dalle foto, avere una presa concreta anche su altre generazioni, e così ci sono molte immagini di anziani: tra tutte, una ritrae i volti di due donne che, i visi scavati e le bocche aperte, tentano insieme di comporre un nodo tra i nastri sospesi sopra alle loro teste. Vi sono anche immagini di adulti - la generazione dei genitori, ancora figli - uomini e donne, e tra queste una foto in cui due giovani uomini, in una pietraia sul lato della montagna, tengono in tensione un nastro che vediamo uscire dall'inquadratura verso l'alto: probabilmente altri uomini, più su, lo stanno facendo passare attorno alla cima o fissando a qualche sporgenza rocciosa. In tutte queste foto, i nastri sono stati colorati di azzurro, e quest'unico segno cromatico in un mondo in bianco e nero emerge con la vivacità del colore in un disegno infantile. Hanno una dimensione di gioco, queste immagini, e insieme una epicità quasi tragica, il senso di una grandezza che trascende di molte misure l'umano, il sapore di un tempo vertiginosamente esteso verso il passato e spalancato sul futuro, di una dipendenza e una vulnerabilità del paese rispetto al monte che l'azione collettiva sembra rivelare. Tra

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le foto che documentano Legarsi alla montagna ve ne sono però anche alcune che riportano alla scala del piccolo, là dove l'immaginazione di questa azione collettiva prende inizio. Una di queste foto ritrae, sempre in bianco e nero, il Monte Gentili: sull'immagine qualcuno, probabilmente Maria Lai, ha applicato un pe:zzetto di filo di lana a:zzurro, e tracciato a pennarello sempre azzurro piccoli segni sulle case del paese che si vedono alle pendici del monte. Uno schizzo preparatorio, elementare ma impressionante se lo si pensa in rapporto alla dimensione reale dell'intervento. Il fare è qui pienamente collettivo, l'opera abbraccia comunità, dimensione urbana e paesaggio, portando le materialità del nastro, del filo, e del gesto di tagliare e legare, su di una scala che trascende la dimensione individuale e anzi dice proprio dell'impossibilità di pensarla, una dimensione individuale, al di fuori della rete di relazioni e interdipendenze che resta talvolta invisibile ma rimane la legge segreta del mondo. La portata rituale di Legarsi alla montagna ha il potere di materializzare alcuni di questi legami, di agirli per riconoscerli e riconoscerli per onorarli: non solo il rapporto tra Ulassai e il monte, ma anche i rapporti tra gli abitanti, e tra cittadini, case e paesaggio. Una azione che per mesi di preparazione, e diversi giorni di esecuzione, chiama tutte e tutti a lavorare insieme, ad agire i legami sociali, misurarne la fatica anche, e la bellezza, tenendo insieme l'aspetto di statutaria e fondamentale inutilità del fare artistico con quello di un fare dalla portata simbolica e affettiva, un fare che modifica la realtà ma non risponde a una funzione e la cui portata non è quindi misurabile. L'immagine che custodisco di Falling Asleep in the Afternoon Sunlight della coreografa Mette Edvardsen ritrae una giovane donna e un giovane uomo seduti su due sgabelli di plastica in mezzo agli scaffali di una biblioteca. Gli arredi sono ordinari, fatti in serie, grigi, bianchi e neri. Che siamo in una biblioteca lo capiamo dall'organizzazione dello spazio, dalla tipologia delle sedute, e dai dettagli che si ripetono identici sulle coste dei libri. La foto è presa di sbieco: non vediamo i corpi per intero ma vediamo le posture, i visi vicini, gli sguardi che non si incrociano, le espressioni concentrate. L'uomo tiene una giacca appoggiata sulle gambe, la donna ha la bocca socchiusa: è lei che sta parlando, che sta consegnando il suo libro a un ascoltatore. Falling Asleep in the Afternoon Sunlight invita diversi pcrformer a imparare a memoria un libro di loro scelta. Una pratica anacronistica

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che, dall'inizio del progetto nel 2010, ha portato alla costituzione di una biblioteca vivente di oltre ottanta titoli in dodici lingue differenti, e poi alla pubblicazione di una serie di libri che trascrivono quelle memorie riscrivendo quindi i testi originali. L'idea del progetto nasce nel 2008, ispirata a Fahrenheit 4 5 I di Ray Bradbury e in particolare al suo finale, con il protagonista che si unisce a un movimento clandestino di persone che imparano libri a memoria per preservarli per il futuro: l'idea è quella di creare, a partire da un racconto di finzione, una pratica condivisa, e di esplorarne i possibili significati. L'atto di imparare testi a memoria si ritrova non solo in storie di finzione come quella di Bradbury, ma anche in momenti storici in cui ha costituito una forma di resistenza, legata a una inalienabile necessità di preservare e preservarsi: pensiamo ad Anna Achmatova, a Osip Mandel'stam e agli altri autori che nella Russia stalinista imparavano a memoria le proprie poesie, che circolavano quindi in forma orale, per salvarle da una violenta forma di censura; o a Primo Levi che racconta di essere sopravvissuto all'esperienza devastante del campo di concentramento nazista anche ripetendo a memoria i canti della Divina Commedia. Il luogo in cui il progetto avviene non è casuale: la dimensione pubblica dello spazio della biblioteca è anche la dimensione pubblica di ogni istituzione artistica e culturale, rimanda al principio della lettura come diritto di tutte e di tutti, invita a creare momenti di intimità in un luogo deputato ai "molti", a personalizzare la relazione con la lettura e il sapere e a creare spazi intimi e in certo modo privati all'interno di luoghi pubblici e costantemente attraversati da tanti individui differenti. La dimensione performativa dona a Falling Asleep in the Afternoon Sunlight un carattere ulteriore: nella sua fattualità, il lavoro consiste in una serie di incontri tra un "libro" e una visitatrice o un visitatore, in angoli di biblioteche pubbliche che si prestano a creare una forma di intimità tra sconosciuti, mediata da un libro e dal desiderio di incorporarlo nella propria memoria, o di ascoltarlo dal vivo da una voce che lo trasmette a noi e a noi soltanto. Diviene centrale quindi l'incontro, la tessitura di relazioni temporanee e precarie, tese sul filo del dire e dell'ascoltare, appese a una sequenza di parole che resta incompleta: nessun performer arriva a imparare a memoria un intero libro, la parzialità è abbracciata nel momento di scambio come una condizione inevitabile, e in un certo modo fa sì che qualcosa resti per sempre sospeso. La memoria incontra il desiderio ma non lo colma, anzi apre ad altre forme di desiderio, ad altre intensità.

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Lo spazio intimo dell'incontro è creato qui senza alcun intervento materiale: nessun filo, nastro o porta, neanche simbolici, sono necessari perché si ritagli uno spazio più piccolo, si crei un particolare silenzio, ci si ponga in ascolto. Tutto ciò che serve, come sempre nella dimensione performativa o teatrale, sono due individui e il loro sguardo reciproco, all'interno di una collettività più ampia che sebbene resti sullo sfondo non viene rimossa. Siamo qui. Io e te. Siamo due di tante, di tanti. Siamo in uno spazio che appartiene a tutti e a ciascuno. Sta iniziando e tra un po' finirà, questo nostro incontro. Non lascerà tracce materiali, cammineremo per le solite strade e torneremo alle nostre case incrociando molti altri sguardi oggi, portandoci dentro un piccolo tesoro invisibile, un pugno di parole, una scrittura che crea ordine, il ritmo di una voce.

Notes di Ivana Miiller è un progetto di lunga durata, inaugurato nel 2016 e tuttora in corso. L'idea è ispirata alla pratica ottocentesca dei "marginalia", un gesto che personalizza un libro prima di donarlo, attraverso la scrittura di appunti nei margini delle sue pagine. Questa pratica è aperta ogni volta a un gruppo di persone, invitate a scegliere insieme un libro da leggere, l'uno dopo l'altra, annotandolo e man mano annotando anche le note a margine scritte dagli altri lettori o lettrici. Una stessa copia di un libro viaggia quindi di mano in mano per qualche mese, riempiendosi gradualmente di segni e facendosi terreno per conversazioni che crescono a lato del testo originale come rampicanti, sino a trovare una propria autonomia e, infine, a ribaltare delicatamente i rapporti tra centro e margine, tra ciò che è considerato importante e ciò che no. L'oggetto-libro diviene così un territorio di scambio e riflessione, un luogo comune che a partire dal suo pieno, il testo, apre dei vuoti, invita a nuove prese di parole, commenti, digressioni, inserti iconografici, conversazioni che man mano diventano sempre più autonome dal punto di partenza. Il testo si fa pretesto, e il margine diventa centrale nel suo essere spazio di azione significante, di costruzione di senso, di riappropriazione e scambio. Infine il libro diventa un archivio di un processo collaborativo, un oggetto ibrido non più solo libro, non opera d'arte -che viene quindi trasmesso a un nuovo lettore o a una nuova lettrice, affinché prosegua il suo viaggio nel mondo, di mano in mano, di lettura in lettura. Uno degli aspetti più affascinanti di questo processo è la possibilità che il libro vada perso durante i passaggi tra una persona e l'altra o

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nel momento in cui il gruppo originario conclude il proprio processo e lo consegna ad altri, a persone sconosciute, affinché continui il suo viaggio e non arrivi a posarsi in una materializzazione che lo definisca come opera. Vi sono nel mondo, proprio ora, alcuni di questi libri, che nei loro margini e tra le loro pagine ospitano conversazioni visive e scritte, che hanno generato nuovi testi e nuovi libri attorno a quelli originali, libri colorati, ricamati, arricchiti da inserti e collage e messi in rapporto ad altri libri, a cose e fatti del mondo, a pensieri intimi e pubblici. Non è possibile prendere appuntamento con loro, incontrarli in un dato luogo: la conversazione annotata che ospitano resta fluttuante, non è pensata per essere condivisa eppure rivendica una dimensione pubblica, non è un affare solo privato ma rende politica l'intimità di scambio su cui si fonda. Tutte queste immagini, tutti questi lavori, mettono in tensione pratica artistica e opera d'arte, corpo e gesto, dimensione individuale e comunitaria, e plasmano nuove soggettività nello spazio del vivere in comune. La pratica artistica è intesa qui come un fare che crea legami tra il personale e il politico, che fa e disfa relazioni sempre reversibili, crea spazio anziché prendere spazio, utilizza materiali quotidiani e li impasta di senso. È una pratica che scaturisce da una autorialità ma si apre ad altre e altri per dare voce, autorevolezza e potenza; che assume una dimensione spaziale per intensificare le relazioni sociali con un intervento sospeso tra offerta simbolica e funzionalità. Queste opere interrogano tutte la dimensione performativa di pratiche quotidiane e di vita, pratiche utili di cui esplorano una dimensione ulteriore o portano in evidenza valori altri rispetto al puro valore d'uso: il ritagliare, il tendere fili, il legare, il leggere, il memorizzare e il raccontare, e ancora lo scrivere, il dire e l'ascoltare. Portando queste pratiche sul piano dell'arte, e talvolta su di una scala differente rispetto a quella che pertiene loro nel quotidiano, le artiste esplorano il rapporto tra dimensione pubblica e privata, agiscono forme di relazioni soggettivanti, creano opere singolari che mettono in tensione l'agire con la produzione di oggetti materiali e immateriali. Nel loro insieme, questi lavori costituiscono una costellazione, nella misura in cui sono sistemi relazionali e discorsivi attraversabili con traiettorie non necessariamente lineari. Formano un sistema aperto e indeterminato, che prevede l'inclusione di nuovi corpi che possano risignificarlo completamente: un paesaggio senza fine in cui ci si inoltra e che

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si può descrivere solo un pazetto alla volta, sapendo che molto resta di ancora inesplorato o semplicemente non visto, se il nostro sguardo assume la parzialità di una osservazione che tenta di lasciar vivere e vibrare ciò che incontra, di narrare anziché analizzare, di non esaurire gli oggetti su cui si posa ma di estrarli per un attimo dal loro contesto per poi posarli nuovamente lì dove stanno: in luoghi, sistemi di pensiero e pratiche artistiche differenti e talvolta assai distanti tra di loro. Come afferma Ursula Le Guin a proposito della sua scrittura, «non sono un'ingegnera, ma un'esploratrice. [... ]. I progetti, se fatti per bene, normalmente nascono in modo organico; le scoperte avvengono un pezzetto alla volta. Progettare nega il tempo. Scoprire è un processo temporale» (Le Guin 2018; trad. it. 2022, 23). Operare in un regime di scoperta anziché di progetto significa inevitabilmente disvelare un paesaggio poco alla volta, al ritmo dei propri passi e del proprio sguardo; rinunciare a previsioni e anticipazioni e stare nel presente; accettare che questo presente non è stabile ma continua a trasformarsi, a confermarsi o tradirsi, a ripetersi o diventare altro, secondo dinamiche e ritmi che non dipendono dalla nostra volontà ma ubbidiscono a regole interne che possiamo, al massimo, tentare di comprendere. Il paesaggio di queste pratiche è un paesaggio circolare, femminile, che non riserva scatti sorprendenti ma si cura di mettere in relazione le sue parti, crea discorso e così facendo disfa altri discorsi, ripara il mondo, rimette i pezzi al loro posto, conserva, tramanda, innesca conversazioni. Dall'attraversamento di questi paesaggi possiamo uscire con diverse considerazioni, differenti per ciascuna e ciascuno di noi, differenti anche a seconda del momento in cui interroghiamo o torniamo a interrogare questi stessi oggetti. Una considerazione che mi pare centrale riguarda il contributo di queste pratiche alla comprensione della nozione di performance. Scrive Diana Taylor: «La parola "performance" [... ] ha un ampio spettro di significati. [... ]. Nel senso più vasto: un fare, qualcosa di fatto. [... ] FARE cattura I'adesso della performance, sempre e solo pratica vivente nel momento della sua attivazione. [Ma] è ANCHE una cosa FATTA, un oggetto o prodotto o risultato. In questo senso, la performance si può esperire o valutare in un momento differente» (Taylor 2016, 7-9, trad. it. mia). In diversi modi questi lavori espandono la tensione tra "fare" e "fatto" che è propria della performance, anche in relazione ai differenti contesti rappresentativi a cui appartengono. Agiscono la tensione tra processo e oggetto proprio perché un oggetto è, in tutte

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queste pratiche, presente e in qualche modo sempre materializzato, anche se talvolta in forme distanti dalla sua materialità abituale. Mettono inoltre in tensione il momento performativo e la sua documentazione, che in alcuni di questi casi, quelli afferenti alle arti visive, costituisce la materialità dell'opera, ciò che sarà esposto in mostre e musei ed eventualmente venduto e comprato. In altri lavori, tra questi, è centrale invece la dimensione effimera del performativo, la sua natura di incontro intimo e potente proprio per la sua evanescenza, il suo collocarsi là dove le parole non possono dire, le immagini non sanno catturare. In ultimo, tutte queste opere parlano, o quantomeno mi parlano, della possibilità di fare e condividere esperienze non riducibili a una immagine o a una narrazione, esperienze che un'artista facilita senza poterle controllare e che nessuno dei o delle partecipanti può possedere. Vi è sempre, in queste pratiche artistiche, qualcosa che sfugge, un limite che si incontra e che infine sembra suggerire che è il tempo passato con quel fare, quell'oggetto, quella persona, ad avere valore. Un valore relazionale naturalmente, e però inscindibile dalla specifica natura del fare, dalla sua impalcatura di pensiero, dalla sua radicalità che è sempre formale. Dentro a questo paesaggio senza fine, è cruciale infatti la questione della forma, che ridefinisce questo sistema di opere come una costellazione di forme performative, che offrono esperienze estetiche singolari e inafferrabili e intendono la relazionalità non come fine dcli' arte ma come sua materia incandescente, modificandola, intensificandola o rarefacendola per continuare ad aprire nuove forme, e dunque nuove possibilità, ai modi in cui possiamo fare mondo. Bibliografia Le Guin, Ursula 2018 Dreams Must &plain Themselves. The Selected Non-Fiction of Ursula K. Le Guin, Gollancz, London; trad. it. I sogni si spiega110 da soli. Immaginazione, utopia, femminismo, Edizioni SUR, Roma 2022.

Taylor, Diana 2016 Performance, Duke University Press, Durham and London.

Il diritto alla spontaneità Pratiche artistiche e critica della vita urbana Andrea D'Ammando

1.

Per una critica della vi'ta urbana

«Questo scritto avrà una forma aggressiva, o che qualcuno potrà forse giudicare tale». Pubblicato nel centenario del Capi'taledi Marx, Il diritto alla città di Henri Lefebvre si apre con un'avvertenza al lettore che ne rivela subito le ambizioni teoriche e il carattere apertamente militante. Quella forma aggressiva, prosegue Lefebvre, vuole «rompere con i sistemi», di moda «tanto nel pensiero quanto nelle terminologie e nel linguaggio», non per opporre un altro sistema, «ma per aprire il pensiero e l'azione alla possibilità»; e soprattutto, vuole «passare al vaglio della critica» i pensieri e le attività che alimentano l'ideologia urbanistica - che pretende di imporsi come organizzazione razionale e rigorosa dello spazio e delle aree urbane - con l'intento esplicito «di fare entrare questi problemi nel dibattito e nei programmi politici» (Lefebvre 1967, trad. it. 2014, 15). Nella proposta di Lcfebvre, l'analisi della realtà sociale - e, in modo più specifico, della realtà urbana - è, al tempo stesso, comprensione, critica e progetto di trasformazione di quella realtà. In questo senso, Il diritto alla città si richiama a una prospettiva di chiara ispirazione marxista. E tuttavia, benché esplicita fin dalla premessa, questa adesione non è certo priva di riserve. Già nei lavori precedenti, d'altronde, e in particolare nella Critica della vi'ta quotidiana, Lefebvre aveva proposto un'interpretazione del marxismo distante dalla versione ortodossa del Partito Comunista Francese e da ogni lettura di stampo cconomicista del pensiero di Marx, restituendo centralità al concetto filosofico di alienazione nell'ambito di un'indagine sociologica volta a riformulare il progetto marxista nei termini, appunto, di un esame critico della vita quotidiana («Marx voleva prima di tutto cambiare la vita quotidiana. Cambiare il mondo, era innanzitutto cambiare la vita di tutti i giorni, la vita reale»; Lefebvre 1961, trad. it. 1977b, 44).

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Da questo punto di vista, Il diritto alla città prosegue nel solco tracciato dalla Critica della vita quotidiana. Nel rivendicare la rilevanza politica delle questioni relative alla città, Lefebvre denuncia infatti i limiti del marxismo dogmatico, incapace di cogliere il nesso tra industrialillazione e urbanizzazione e di riconoscerne l'importanza in ottica rivoluzionaria. la città è la «proiezione della società sul territorio» (Lefebvre 1967, trad. it. 2014, 63), il luogo in cui si mostrano esemplarmente gli esiti del processo capitalistico di industrializzazione e, al tempo stesso, il centro decisionale che interviene attivamente nell'organizzazione di quel processo. Ed è dunque alla dimensione urbana - e non più solo alla realtà della fabbrica - che bisogna guardare per cogliere "nel vivo" i meccanismi di produzione e sfruttamento legati allo sviluppo capitalistico e l'esistenza stessa di una classe operaia investita del compito rivoluzionario. Le questioni poste da Lefebvre sono molte e complesse, ma le lince principali del suo discorso sono chiare. Il processo di industrializzazione produce l'urbanizzazione, e con essa la crisi della città, che «aveva e ha senso solo come opera, come fine» (ivi, 80),come luogo di incontro e di simultaneità, e che, sotto la spinta di tale processo, si trasforma invece nello strumento per organizzare la produzione e il consumo delle merci - nonché, di conseguenza, la vita quotidiana dei produttori e dei consumatori. Guidata da una pianificazione che giustappone spazi e funzioni all'interno di un territorio omogeneo, privato di ogni differenza qualitativa («uno spazio che tende all'isotopia geometrica»; ivi, 81 ), la dissoluzione della vecchia forma urbana porta a una frammentazione e a un impoverimento della vita quotidiana. La razionalità produttivista di Stato e impresa sopprime infatti ogni forma di integrazione e partecipazione - e cioè la città in quanto tale - favorendo segregazione e isolamento in ghetti predisposti (il ghetto dei neri e degli operai, ma anche degli studenti e degli intellettuali, dei quartieri residenziali e del tempo libero). In un quadro così delineato, il proletariato urbano è l'agente di una trasformazione rivoluzionaria tesa alla realizzazione della società urbana, che non mira a ricostruire la vecchia città ormai dissolta, ma alla produzione di un nuovo umanesimo, «l'umanesimo dell'uomo urbano per il quale e per mezzo del quale la città e la sua vita quotidiana nella città diventano opera, appropriazione, valore d'uso (e non valore di scambio)» (ivi, 13 7). Nel saggio di Lefebvre la critica della vita quotidiana e l'indagine sullo spazio urbano si saldano all'interno di un'analisi che risente fortemente del contesto sociale e politico dell'epoca. Scritto a Parigi

IL DIRITI'O ALLA SPONTANEITÀ

pochi mesi prima dell'irruzione del Maggio '68, Il diritto alla città come evidenziato anche da David Harvey - descrive infatti la «crisi esistenziale» di una città attraversata da uno sviluppo urbano tanto rapido quanto traumatico, «una situazione nella quale tale irruzione era non solo possibile, ma quasi inevitabile» (Harvey 2011, trad. it. 2016, 44). Ciononostante, nel corso degli ultimi dieci o quindici anni il testo di Lefebvre è stato oggetto di un rinnovato interesse, e il concetto di "diritto alla città" è stato ampiamente ripreso e discusso nel campo degli studi urbani. Diversi autori, in particolare, hanno riproposto il pensiero di Lefebvre per cercare di comprendere le rivendicazioni dei movimenti sociali urbani contemporanei e, più in generale, per indagare criticamente il processo di urbanizzazione della società - e cioè di implosione ed esplosione dello spazio urbano - su scala locale e globale (cfr. Harvey 2ou, trad. it. 2016; N. Brenner, P. Marcuse, M. Mayer 2012; N. Brenner 2016). Non mi interessa, tuttavia, analizzare le ragioni e i termini specifici di questo ritorno al pensiero di Lefebvre nell'ambito degli studi urbani. Vorrei invece soffermarmi su un altro aspetto de Il diritto alla città- che è poi un aspetto centrale del testo, benché spesso trascurato - legato al ruolo delle pratiche artistiche nello spazio urbano. Nel rivendicare il diritto a una vita urbana trasformata, alla città come luogo di incontro e d'imprevisto, «in cui lo scambio non passa attraverso il valore di scambio, il commercio e il profitto» (Lefebvre 1967, trad. it. 2014, 102) e il tempo libero è sottratto alla sua organizzazione industriale, Lefebvre si richiama infatti apertamente alla centralità del momento ludico e artistico. Sotto questo profilo, l'appello per un diritto alla città si configura come la richiesta (paradossale) di un "diritto alla spontaneità": una richiesta che rimanda direttamente ai progetti di alcune tra le principali avanguardie novecentesche, e che forse ancora oggi, a distanza di quasi sessant'anni, aiuta a far luce sui problemi che interessano molte pratiche artistiche contemporanee impegnate nel confronto con la vita e gli spazi urbani.

2.

Arte, vita e spontaneità tra Surrealismo e Situazionismo

Il diritto alla città viene concepito da Lefebvre come il diritto a sperimentare una vita urbana rinnovata e alternativa, secondo un progetto (rivoluzionario) che passa per la riappropriazione degli spazi e

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dei tempi del vivere urbano, per «un uso pieno e completo» (ivi, 13 6) di momenti e luoghi "liberati". Ed è proprio in questo senso che l'arte e il momento ludico assumono una funzione decisiva. Nella nuova società urbana prospettata da Lefebvre, in cui l'urbano trova la propria realizzazione pratico-sensibile in quanto «luogo d'incontro, priorità del valore d'uso, iscrizione nello spazio di un tempo promosso al rango di bene supremo tra i beni» (ivi, 113), la separazione "quotidianitàtempo libero" e "vita quotidiana-festa" deve essere superata e ricomposta, restituendo importanza alle opere e alla festa (che per Lefebvre ha una valenza eminentemente politica, rappresentata esemplarmente dalla Comune di Parigi1). Alla centralità della città neocapitalista va sostituita così non la centralità della cultura - subordinata all'organizzazione dell'industria culturale e del tempo libero - ma, appunto, la centralità ludica, in grado di riunire l'educativo, il formativo e l'informativo e di recuperare il carattere autentico degli elementi culturali. La centralità ludica infatti «restituisce il senso dell'opera fornito dall'arte e dalla filosofia; conferisce al tempo priorità sullo spazio, senza dimenticare, tuttavia, che il tempo si iscrive e scrive in uno spazio; pone l'appropriazione al di sopra del dominio». Nella città ideale - la "città effimera", dice Lefebvre, opera costante degli abitanti - l'esperienza ludica degli spazi urbani corrisponde così a una riaffermazione del tempo, che «riconquista il proprio ruolo, al centro della scena», e del senso dell'opera. In questa prospettiva, mettere l'arte al centro del rinnovamento della vita urbana non significa adornare la città e «ingentilire lo spazio urbano con oggetti d'arte», ma, al contrario, far diventare «i tempo-spazi» opera d'arte e l'arte del passato «fonte e modo di appropriazione dello spazio e del tempo». L'arte, insomma, come modello di qualità temporali inserite nello spazio, deve diventare «praxis e poiesis a livello sociale: l'arte di vivere nella città come opera d'arte» (ivi, 129), ritornando al modello dello spazio fruito nella festa attraverso l'allestimento di "strutture affascinanti". Nella proposta di Lefebvre arte e vita (urbana) si incontrano fino a fondersi, agendo l'una sull'altra, secondo un progetto di trasformazio1 Si veda in proposito Lcfcbvrc 1965, dedicato proprio alla Comune di Parigi, interpretata come una "festa" in grado di irrompere nel tempo storico lineare e prefigurare un nuovo ordine politico e sociale. A questo proposito, le riflessioni di Lcfcbvre sono molto vicine agli studi sulla festa che Furio Jesi pona avanti negli stessi anni, dr. Jesi 2.013. Si veda inoltre Lcfcbvre 1968, che traccia un'analogia tra la Comune di Parigi e le rivolte del Maggio '68. Su questi temi, per rimanere all'interno del dibattito italiano, si veda Biagi 2.019.

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ne della vita quotidiana - e, di conseguenza, anche dell'arte -che attraversa la storia delle avanguardie artistiche novecentesche, e che dalle esperienze dadaiste e surrealiste giunge fino all'Internazionale Lettrista e Situazionista. Proprio Lefebvre, d'altronde, legato da rapporti stretti (e spesso polemici) con i principali animatori del Surrealismo nel corso degli anni Venti, contribuisce in maniera determinante a trasmettere al gruppo di Debord l'idea surrealista di una "metamorfosi della vita quotidiana", riportata alla sua matrice marcatamente politica (offuscata dal ricorso al "meraviglioso" e all'espressività poetica di Breton e compagni). L'influenza di Lefebvre su Debord è nota 2 , così come la convergenza di interessi e visioni che, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, si manifesta - non senza divergenze di natura teorica o personale - nelle proposte di entrambi, volte a riscattare l'alienazione della società urbana attraverso l'integrazione dell'arte e del momento ludico nella vita quotidiana. È in questa prospettiva che si inquadrano le principali strategie dei situazionisti -dalla dérive al progetto dell'Urbanismo Unitario3, fino all'idea della costruzione delle situazioni (elaborata richiamandosi esplicitamente alla "teoria dei momenti" di Lefebvre4) e alla progettazione di strutture mobili sospese (la New Baby/on di Constant) - nonché, ovviamente, la proposta di un uso ludico degli spazi urbani avanzata da Lefebvre. Integrare l'arte nella vita significa al tempo stesso sopprimerla e realizzarla, superando la separazione tra sfera artistica e vita quotidiana. In questo senso, la dichiarazione programmatica di Lefebvre sulla funzione dell'arte nella nuova società urbana («il futuro dell'arte non è artistico ma urbano»; Lefebvre 2014, 129) trova riscontro nella celebre tesi di Debord («Il dadaismo voleva sopprimere l'arte senz,a realizzarla; e il surrealismo voleva realizzare l'arte senz,a sopprimerla. La posizione critica elaborata in seguito dai situazionisti ha mostrato che la soppressione e la realizzazione dell'arte sono gli aspetti inseparabili di un unico superamento dell'arte»; Debord 1967, trad. it. 2013, 166). 2

Sui rapporti tra Lcfcbvre e il gruppo di Debord- assiduo frequentatore dei seminari di Lcfcbvrc a Strasburgo e Nantcrrc - e sull'influcma (in parte reciproca) di Lcfcbvrc su Dcbord si vedano almeno Gombin 1971, trad. it. 1973; Lcfcbvrc 1975, trad. it. 1980; Bandini 1999. 3 Si veda La Plate-forme d'Alba, «Potlatch», 27, 1956, raccolto in Bandini 1999, 259-261. -4 Si veda Théorie des tnotnents et construclioti des situations, «lntcrnationalc Situationnistc», 4, giugno 1960, raccolto in Bandini 1999, 335-337.

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La realizzazione dell'arte teorizzata da Debord passa per una negazione (hegeliana) dell'arte stessa che coincide con il rifiuto della produzione di opere e il dissolvimento delle arti tradizionali all'interno di un'attività superiore e più complessa. Sopprimere l'arte per trasferirne i caratteri fondamentali nella vita quotidiana: è questo il nodo centrale del progetto situazionista, che si propone di trasformare la vita attraverso l'arte e, al tempo stesso, di sottrarre l'arte ai condizionamenti della vita (culturale) imposti dalla società dei consumi e dello spettacolo. L'arte, insomma, non solo non è rifiutata, ma rappresenta il modello di riferimento per una vita quotidiana riscattata e liberata, in grado di favorire un rapporto ludico e spontaneo con l'ambiente urbano. Ed è, appunto, proprio alla spontaneità che fa appello il progetto rivoluzionario dei situazionisti. Nella dimensione estetica dell'arte e dell'esercizio ludico, Debord- al pari di Lcfcbvre - rintraccia infatti il modello di una spontaneità capace di opporsi all'organizzazione modernista dell'urbanistica e di scardinare i meccanismi che governano l'urbanizzazione della società capitalista. Il gioco e l'arte, insomma, sono pensati come gli strumenti privilegiati per affermare una spontaneità rivoluzionaria. E tuttavia, il paradosso di un simile progetto politico non può essere aggirato né soppresso. Com'è possibile, infatti, mirare deliberatamente alla produzione della spontaneità? È possibile, cioè, ottenere qualcosa che, per definizione, sfugge se cercato e progettato? Qual è il ruolo del caso, e quale quello del controllo? È possibile, in altri termini - per riprendere il titolo di un libro recente di Pablo Sendra e Richard Sennet sulla città - "progettare il disordine"?

3. Spon'ttmeità, caso e libertà La storia delle avanguardie artistiche del Novecento è, almeno in parte, la storia del confronto con i concetti di spontaneità, caso e controllo. Da questo punto di vista, la dérive situazionista è forse uno degli esempi che aiutano meglio a cogliere la ricchezza (e la paradossalità) di questo confronto. Legata allo studio psicogeografico - e cioè allo studio situazionista del rapporto tra ambiente geografico e comportamento affettivo degli individui - la deriva è una ricognizione del paesaggio urbano priva di meta, «una tecnica di passaggio affrettato attraverso ambienti vari» basata sul «riconoscimento degli effetti del-

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la natura psicogeografica» e sull'affermazione «di un comportamento ludico-costruttivo, che si oppone in tutti i sensi alle nozioni classiche di viaggio e passeggiata». Le persone coinvolte si allontanano e si abbandonano («se livrant») alla deriva, lasciandosi andare «alle sollecitazioni dell'ambiente e degli incontri che vi corrispondono». Rispetto alla deambulazione surrealista, tuttavia, il ruolo del caso è attenuato dalla progettualità e dal rigore del rilievo psicogeografico, che insieme all'analisi ecologica del tessuto urbano orienta e definisce le direzioni di penetrazione delle varie zone. In questo senso, la deriva «comprende al tempo stesso il lasciarsi andare e la sua contraddizione necessaria: la dominazione delle variazioni psicogeografiche attraverso la conoscenza e il calcolo delle loro possibilità»5. La passeggiata urbana dei situazionisti è dunque, al tempo stesso, un'osservazione analitica dell'ambiente urbano (con relativa raccolta dati per la mappatura psicogeografica), una verifica degli effetti psicologici disorientanti scatenati dall'interazione con il tessuto urbano e uno spreco controllato del tempo. Nell'intreccio tra esercizio ludico e azione politica - mirato a una sorta di "reincantamento" della città - la "costruzione" della spontaneità è affidata a una pianificazione di percorsi e azioni che favoriscano il disorientamento e una serie di incontri e "accadimenti" non controllati (e non controllabili, benché, almeno in parte, programmati). "Spontaneità" è un termine chiave per la riflessione estetica. Solo ricorrendo al concetto di spontaneità (e al suo rapporto con la sfera di ciò che è controllabile), infatti, è possibile cogliere il carattere peculiare dell'esperienza estetica e il suo legame con le pratiche artistiche. La sua centralità, d'altronde, emerge già a partire dalla Critica della facoltà di giudizio, il testo da cui prende avvio e che, in un certo senso, "fonda" la riflessione estetica moderna (pur senza ritagliare o definire alcun ambito disciplinare specifico per essa). Nell'Analitica del Bello, come è noto, Kant identifica il primo requisito formale di un giudizio di gusto - che riguarda la sua condizione di possibilità, il suo "principio di determinazione", e non certo i giudizi effettivi - nel legame con un particolare tipo di piacere, diverso dal soddisfacimento del piacevole e da quello del buono. A differenza di questi, determinati entrambi dal soddisfacimento di un interesse per l'oggetto (sia esso di natura fisiologica, utilitaristica o morale, legato ai sensi o alla volontà) il piacere S G. Dcbord, Théorie de la dérive, cl..cs Lèvrcs nucs», 9, 19 56, raccolto in Bandini 1999, 2.16-2.17, trad. it. mia.

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del bello non è fondato su un coinvolgimento pratico e su un concetto determinato (e cioè su uno scopo): è un piacere che non implica alcun interesse per l'oggetto, un piacere libero e disinteressato (Kant, Kritik der Urteilskraft, 1790, d'ora in poi KdU; trad. it. Critica della facoltà di giudizio, 1999, § 5 ). Questa libertà, tuttavia, non coincide con la libertà dell'arbitrio individuale o con la libertà morale - una libertà di scegliere qualcosa - ma è piuttosto una libertà da scopi determinati, bisogni, intenzioni o inclinazioni, una libertà che accade. È, insomma, una libertà che non è a nostra disposizione, una libertà intesa, appunto, come spontaneità. Ed è proprio all'interno di questa dimensione che si apre la possibilità di un'esperienza estetica, intesa non come qualcosa di aggiuntivo rispetto alle altre esperienze possibili, ma come un'anticipazione della possibilità stessa di ogni nostra esperienza -dell'"espericnza in genere" nella sua totalità indeterminata. Quel piacere libero e disinteressato è legato infatti a un favore, e cioè all'incontro con qualcosa di contingente - una rappresentazione, un oggetto, uno scenario o un evento - che si presenta come favorevole all'uso delle nostre facoltà (come conforme o "finale" nei confronti del "libero gioco" di immaginazione e intelletto), pur essendo irriducibile a regole e concetti determinati. In questo favore - che noi interpretiamo come tale, come se un oggetto o un fenomeno naturale cc lo accordasse effettivamente - è contenuta un'anticipazione di senso, e cioè una "promessa" che è, al tempo stesso, un'esigenza: la promessa (e l'esigenza) di poter agire all'interno di un mondo che non si presenta ostile, insensato e incontrollabile, e che viene incontro alle nostre facoltà e capacità. In questa prospettiva, il piacere del giudizio di gusto rimanda direttamente a una conformità a scopi soggettiva, sempre presupposta nella conoscenza empirica come principio euristico (un principio di finalità della natura solo soggettivo, pensato in analogia con la conformità pratica a scopi: come se la natura fosse stata ordinata da una volontà per venirci incontro); una conformità a scopi che, nel caso dell'esperienza estetica, si fa sentire e, per così dire, si mostra in primo piano. Ncll'esperienza estetica, in altri termini, noi sentiamo una disposizione all'accordo spontaneo tra le nostre facoltà che non è finalizzato alla conoscenza, e in cui tuttavia si radica la possibilità di ogni accordo determinato e finalizzato alla conoscenza. Questa proporzione ottimale tra le facoltà, senti'ta e riconosciuta in certi oggetti o esperienze esemplari -gli oggetti o le esperienze che giudichiamo "belli" - è il principio di determinazione del giudizio estetico: una conformità a scopi formale

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identificata in un sentimento o senso comune quale condizione a priori della nostra possibilità di orientarci nell'esperienza - del nostro doverci poter orientare nell'esperienza, in vista di una conoscenza, di un progetto o di un'azione determinati - che si mostra esemplarmente nei singoli giudizi di gusto. In questa prospettiva, il senso comune è dunque sì, una condizione non intellettuale, un sentimento, ma in quanto questo costituisce la condizione estetica a priori della conoscenza in genere, vale a dire della sensatezza di concetti e giudizi determinati 6 • E la bellezza coincide così con l'apertura di uno spazio di senso in grado di favorire una riconfigurazione della nostra esperienza - dei significati e dei concetti determinati -e del nostro rapporto con il mondo, e cioè lo spazio di una «spontaneità sensata» (per riprendere la bella espressione di Stefano Velotti, 2017, 51). Di qui deriva, in primo luogo, il carattere esemplare dell'arte, riconosciuta (a partire più o meno dal Settecento, in concomitanza con la nascita della riflessione estetica moderna) come l'esibizione o l'"incarnazione", in un oggetto determinato, di quella condizione di senso inesprimibile direttamente; e, in secondo luogo, il legame delle pratiche artistiche con il concetto di spontaneità. Alla peculiare libertà del giudizio e dell'esperienza estetica, infatti, corrisponde quella cooperazione tra pianificazione e spontaneità che è propria della produzione artistica (se e in quanto funziona come tale). Come dire: non è possibile controllare e ottenere intenzionalmente un'esperienza estetica - non si può scegliere volontariamente di attingere a una libertà che accade, di essere disinteressati e spontanei - così come non è possibile mirare in maniera diretta alla produzione di qualcosa che sfugge, e che deve sfuggire (pena la sua riduzione a concetti e scopi determinati), alla pianificazione di obiettivi ed effetti perseguibili deliberatamente. È ancora Kant a fornire il quadro teorico di riferimento. Se il piacere legato alla bellezza è senza concetto, allora la produzione di opere d'arte ' Per questa lettura della terza Critica kantiana si rimanda a Garroni :z.o:z.o. «Nell'esperienza estetica dunque si anticipa a priori respcrienza in genere: non semplicemente facciamo esperienze, ma lì sentiamo di csscrc-nell"esperienza, che ha senso fare esperienze e che da queste può sorgere una conoscenza effettiva. In realtà la sensatezza dell'esperienza sarebbe semplicemente una speranza ingiustificata, se semplicemente la presupponessimo; ma rcspericnza estetica la mette concretamente, per così dire, "sotto gli occhi di tutti"', cd è quindi, sì, un sentimento, un piacere, ma in quanto esibisce nel sentimento il senso dell'esperienza e ci garantisce non, certo, la sua verità, ma la sua imprescindibile esigenza» (Garroni :z.o:z.o, 197).

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non può risposare su regole o concetti determinati. Certo, il produttore muove in prima istani.a da un'intenzione (l'intenzione di dipingere o scolpire qualcosa, di organizzare un'azione o una performance, e così via) e da un concetto come scopo del prodotto da realizzare. E tuttavia, è solo mediante quell'intenzione, e non grazie ad essa, che è possibile (se e quando accade) produrre un'opera d'arte "bella". L'arte bella è tale, sostiene Kant, solo se appare come natura (KdU, § 4 5 ): è tale, cioè, solo se viene giudicata come spontaneità, e non sulla base di uno scopo come metro del giudizio. Non basta, in altri termini, l'intenzione di produrre un'opera d'arte (magari riformulabile linguisticamente, come "messaggio" dell'artista) per realizzarla effettivamente. È necessario qualcosa in più, qualcosa che Kant identifica nella nozione di "genio", inteso come un particolare rapporto tra le facoltà (immaginazione e intelletto) non intenzionabile. Genio, infatti, nelle parole di Kant, è quel «talento», «quell'attitudine innata dell'animo» (KdU, § 46, 143) attraverso cui la natura dà la regola all'arte. La natura di cui sta parlando Kant, tuttavia, non è la natura intesa come il regno della necessità e dei rapporti causali, ma la natura del soggetto (il sostrato soprasensibile delle sue facoltà), qualcosa di cui il soggetto stesso non è padrone: qualcosa che ha che fare con ciò che il soggetto è, e non con ciò che il soggetto fa e può fare intenzionalmente. Il genio «si rivela non tanto nel perseguimento dello scopo fissato, nell'esibizione di un concetto determinato, quanto piuttosto nell'esposizione o espressione di idee estetiche, che contengono per quell'intento una ricca materia»; e «la non ricercata, non intenzionale conformità soggettiva a scopi, nel libero accordarsi dell'immaginazione con la legalità dell'intelletto, presuppone una proporzione e disposizione di queste facoltà, tale che nessuna osservani.a di regole, sia della scieni.a, sia dell'imitazione meccanica, può provocare, ma che solo la natura del soggetto può produrre» (KdU, § 49, 153-154). "Spontaneità", insomma, è un concetto centrale per comprendere la natura dell'esperienza estetica e il suo legame con I'esperieni.a ordinaria. Ed è, appunto, a questa particolare libertà che fa appello il progetto di trasformazione della vita quotidiana (e urbana) di Lefebvre e Debord. Alla base di quel progetto sta infatti l'obiettivo esplicito di integrare l'arte e il momento ludico (ed estetico) nella vita: un'integrazione che non coincide affatto con una generica (e sempre ambigua) "estetizzazione della vita quotidiana", e che mira piuttosto a generare spazi e tempi "liberati" - e cioè sottratti alle funzioni e al controllo

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dell'urbanizzazione capitalista - all'interno dei quali ricomprendere e riconfigurare l'esperienza quotidiana. In questa prospettiva, l'attacco situazionista (e, più in generale, avanguardista) all'autonomia del campo artistico corrisponde al tentativo di forzare l'apertura di uno spazio della spontaneità in direzione espressamente politica.

4. Le pratiche artistiche contemporanee e la critica della vita urbana Negli ultimi quindici o vent'anni il progetto di una critica della vita urbana è stato ripreso più o meno esplicitamente da molte pratiche artistiche contemporanee. Tale ripresa si inserisce all'interno di una più ampia "svolta sociale" delle arti contemporanee: una svolta che, in realtà, come notato da Claire Bishop (Bishop 2012, trad. it. 2015), rappresenta un "ritorno" al sociale, e cioè un ritorno a quel coinvolgimento diretto nella sfera sociale e politica che, nel corso del Novecento, ha caratterizzato prima le avanguardie storiche, e poi le neo-avanguardie degli anni Sessanta. In entrambe queste fasi, d'altronde, l'emergere di un'arte partecipativa e socialmente impegnata è stato accompagnato da un confronto diretto con la dimensione urbana. Da questo punto di vista, la continuità è evidente, e il ritorno al sociale non può che coincidere con un ritorno di interesse per la città e le forme di vita urbana. Non si tratta, tuttavia, di un interesse generico per la città. È vero, infatti, come suggerito da Nicolas Bourriaud, che a partire dagli anni Cinquanta si è assistito a una «crescente urbanizzazione dell'esperienza artistica». Solo che questa urbanizzazione non riguarda tanto (o almeno, non soltanto) i rapporti di prossimità favoriti dalla città, quel «regime d'incontro intensivo» che, «una volta elevato alla potenza d'una regola assoluta di civilizzazione, ha finito per produrre pratiche artistiche corrispondenti» (Bourriaud 1998, trad. it 2010, 15) fondate sull'intersoggettività, l'incontro e l'elaborazione collettiva del senso (vale a dire: l'estetica relazionale lanciata dallo stesso Bourriaud alla fine degli anni Novanta). L'urbanizzazione delle arti contemporanee ha a che fare piuttosto con una crisi che, in determinati momenti storici, ha investito la città e, al tempo stesso, la società (e dunque la cultura) nel suo complesso: una crisi che, in altri termini, ha interessato la città come «proiezione della società sul territorio» (questa la definizione di Lefebvre ), e che ha visto le arti entrare in crisi - forzando i propri confini e il rapporto con la vita quotidiana - insieme alla città e alla cultura

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stessa. In questi momenti di crisi, le pratiche artistiche hanno messo in questione il proprio statuto nel tentativo di ridefinire i modi di produzione e consumo dell'arte; e la dimensione urbana è diventata il teatro di questa messa in questione, nonché, in molti casi, l'oggetto principale di una critica radicale della società e della cultura sotto il dominio del capitalismo. È stato così negli anni della Prima guerra mondiale (soprattutto con Dada e Surrealismo), e poi ancora tra gli anni Cinquanta e Sessanta (con l'Internazionale Lettrista e Situazionista, e con molte pratiche processuali e performative). Ed è così a partire dalla fine degli anni Novanta, con l'affermazione di tutte quelle pratiche ed esperienze che si richiamano più o meno apertamente alla natura partecipativa, collettiva, pubblica e socialmente impegnata dell'arte. La crisi della città contemporanea coincide con il momento di massima espansione del modello neoliberale di pianificazione del paesaggio urbano, che ha accentuato e portato alle estreme conseguenze i processi denunciati da Lefebvre quasi sessant'anni fa. Complici il progressivo ritiro dello Stato dalla gestione della vita sociale e la spinta dell'industria del turismo e degli investimenti privati, lo spazio urbano contemporaneo è attraversato da fenomeni che in larga parte ne modellano forma e funzioni secondo le esigenze dettate dai processi di mercato - dalla gentrificazione alla rigenerazione urbana, fino alla patrimonializzazione dei centri storici - e che contribuiscono in maniera determinante a eliminare (o almeno a depotenziare) due tra le principali categorie a cui si lega tradizionalmente l'idea di città: lo spazio pubblico e la partecipazione. In questo senso, la svolta "creativa" e "festosa" della città contemporanea non solo non smentisce, ma anzi concorre a delineare i tratti peculiari di questa trasformazione. La città dei distretti culturali e del divertimento, degli spazi "rigenerati" e delle piazze "occupate" (dai tavolini all'aperto e dall'assalto turistico), dei festival e dei grandi eventi -che mimano, in un certo senso, i caratteri della festa, rendendola permanente (e innocua) - è infatti la città del tempo libero amministrato e colonizzato, in cui lo spazio pubblico è, sì, centrale, ma solo come luogo del consumo partecipato (e del decoro, legato direttamente ai criteri di selezione e accesso dei consumatori allo spazio pubblico). Ecco così che a questa "svolta culturale" delle città contemporanee, in costante competizione per guadagnare spazio nel mercato dei brand e dei parchi a tema urbani, fa da contraltare la "svolta sociale" e "urbana" delle arti.

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Non è un caso, insomma, che le pratiche artistiche contemporanee siano, in larga parte, "pubbliche" e "partecipative", e che molte tra le esperienze e le correnti più significative dell'arte degli ultimi anni siano caratterizzate dall'esigenza di un confronto con gli spazi urbani. Il diritto alla spontaneità rivendicato da queste pratiche sempre più orientate, d'altronde, verso la dimensione performativa, legata per sua natura ai concetti di "improvvisazione" e "accadimento" -è infatti, in prima istanza, il diritto a uno spazio pubblico "liberato" e a nuove forme di relazioni sociali che passino attraverso una maggiore partecipazione ai processi creativi (e decisionali). Solo che, appunto, l'accesso a una dimensione spontanea - alla dimensione di una spontaneità sensata, e cioè di tempi e luoghi adatti ad accogliere una messa in discussione e una rielaborazione dell'esperienza quotidiana e dei suoi significati - non è ottenibile intenzionalmente e consapevolmente. Non è possibile mirare alla spontaneità, così come non è possibile puntare direttamente alla creazione di uno spazio pubblico (urbano) "riscattato" o a una partecipazione "sensata". Non basta, in altre parole, tematizzare esplicitamente ciò contro cui ci si oppone, o che si vorrebbe ottenere, soprattutto se quello a cui si mira è proprio qualcosa che sfugge se ricercato deliberatamente. Ciò che è possibile, invece, è lavorare al ricrearsi - lento, o magari repentino, ma certamente mai del tutto controllabile e preventivabile -delle condizioni che permettano la crescita e il consolidamento di spazi e tempi "liberati". Da questo punto di vista, le pratiche artistiche (performance, situazioni, "opere" e interventi più o meno istituzionali o eversivi) possono rappresentare un laboratorio esemplare in cui sperimentare rotture simboliche e modelli sociali alternativi, ma solo a patto di non schiacciarsi (e risolversi) nella mera illustrazione di contenuti militanti o nella semplice adesione a posizioni critiche. È questo il rischio legato a ogni forLatura dell'intreccio tra estetica, arte e politica -come nel caso del progetto situazionista, d'altra parte, e di molta arte partecipativa e socialmente impegnata; ed è questo il rischio, e insieme il paradosso, di ogni rivendicazione di un diritto alla spontaneità. In apertura del suo libro sull'arte partecipativa, Bishop ricorda come il titolo, lnferni artificiali, si richiami direttamente al racconto della Grande Saison Dada in cui Breton, ragionando sul «potenziale del disordine sociale nella sfera pubblica», suggerisce anche «che il lavoro percepito in quel momento dai suoi stessi creatori come un

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esperimento fallito (come la Stagione Dada nel 1921) può, cionondimeno, avere risonanza in futuro, in presenza di nuove condizioni» (Bishop 2012, trad. it. 2015, 19). L'orizzonte e il compito delle pratiche artistiche - l'unico compito possibile, benché difficilmente eseguibile - è proprio questo: provare a creare tempi, spazi e modelli alternativi, con il rischio di fallire, testimoniando l'esigenza (paradossale, ma inaggirabile) di una spontaneità sensata. Bibliografia Bandini, Mirella 1999

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II Re-immaginare lo spazio urbano

Introduzione Andrea D'Ammando

Mai, forse, come in questi ultimi anni si è assistito, su scala nazionale e internazionale, a una diffusione così ampia di pratiche e progetti volti a ridisegnare gli spazi della città. Il tema del rinnovamento urbano è divenuto centrale nell'agenda di amministrazioni e governi locali, sempre più impegnati nella riqualificazione e nella promozione di quartieri, territori e aree metropolitane. Dietro questi processi, tuttavia, si cela spesso la mano (non tanto invisibile) del mercato e di interessi privati, che contribuiscono in maniera determinante a orientare la forma e gli scopi degli interventi urbani. La città contemporanea smart, sostenibile e creativa, modellata dalle politiche ambigue della "valorizzazione" e della "rigenerazione" degli spazi urbani - dei centri storici, dei borghi turistici, dei quartieri universitari o residenziali, delle piazze e delle aree dismesse - è infatti, al tempo stesso, la città della gentrificazione e del decoro, delle rendite immobiliari e dei grandi investimenti finanziari: una città che accoglie turisti e capitali, ma espelle cittadini (e migranti), e in cui gli spazi pubblici sono pensati (e progettati) come spazi del consumo controllato e pacificato. Ecco così che da più parti, nell'ambito degli studi urbani e della riflessione sociologica e filosofica degli ultimi anni - e con sempre maggiore convinzione, dopo la crisi dettata dalla pandemia da Covid-19 e gli appelli per un ritorno alla "normalità" - è stata rivendicata l'esigenza di sottrarre la città alla pianificazione del capitalismo neoliberale, per favorire nuove forme di vita urbana più ricche, spontanee, partecipate e sensate. Davanti agli «ambienti non flessibili» e alle «forme rigide e sovradeterminate» della città capitalista, hanno suggerito ad esempio Pablo Sendra e Richard Sennett, si impone la necessità di «sciogliere la città», di «immaginare una città aperta in cui la sperimentazione sia possibile, una città amica dell'informalità»

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(Senclra, Sennett 2020, trad. it. 2022., 9, 3 8). Come dire: al paradosso del capitalismo avanzato («il capitalismo flessibile si sviluppa oggi in una città rigida»; ivi, 32) si deve opporre un'altra prospettiva paradossale, e cioè un modello di pianificazione urbana «alternativo e sottodeterminato, un city-making che per mezzo di "perturbazioni" (disruptions) sovverta le forme rigide»: un modello in grado di progettare il disordine. Una città «vitale e aperta» - sostengono infatti Sendra e Sennett - «non è frutto del caso. Vi sono luoghi in cui le attività improvvisate e l'interazione sociale non si concretizzano perché la rigidità dell'ambiente urbano non permette che questa improvvisazione abbia luogo, ed è necessario che il disordine venga progettato» (ivi, 9, 12). I testi di questa sezione provano a indagare alcune delle questioni e delle possibilità connesse all'esigenza di re-immaginare gli spazi urbani contemporanei. Il saggio-storyboard di Antonio Ianniello e David Habets prende le mosse da un concetto di immaginazione di chiara matrice enattivista - un'immaginazione "situata", legata al coordinamento con le affordances (gli inviti, o le occasioni) dell'ambiente socio-materiale - per esplorare il potenziale trasformativo della distopia, inteso come dispositivo immaginativo (real-life thinking model) in grado di prefigurare nuove possibilità e nuove pratiche alternative. Il testo di Francesca Natale si concentra sul rapporto tra l'ambiente urbano e le traiettorie attenzionali (le percezioni e gli utilizzi di elementi, infrastrutture e spazi) che quello stesso ambiente condiziona e determina, focalizzandosi, in particolare, sugli aspetti sociali e collettivi della spettatorialità e sul ruolo dei progetti partecipativi nel rinnovamento dell'utilizzo degli spazi pubblici. Entrambi questi contributi si richiamano a questioni e nozioni divenute centrali nel dibattito filosofico ed estetico contemporaneo (dal tema delle affordances ai problemi dell'attenzione e della partecipazione, fino al concetto di gray zone elaborato da Claire Bishop; cfr. Bishop 2018), nel tentativo di prospettare configurazioni, usi e percezioni differenti dello spazio urbano. Nel suo saggio sul concetto di Hodos - "via", "strada", "cammino", ma anche "modo di arrivare", nell'etimologia greca (oooç), da cui "metodo" (µé8oooç) -, Nanna Verhoeff riflette invece sulla riprogettazione temporanea degli spazi urbani nell'epoca della pandemia globale (segni e scenografie che strutturano mobilità e rapporti sociali) in relazione agli interventi artistici (sperimentali e altrettanto temporanei). In questo senso, l'analisi di Verhoeff eviden-

INTRODUZIONE

zia la natura fondamentalmente incompiuta della città e della dimensione urbana, indicando, appunto, la via e il metodo per ridisegnare una vita urbana ricca, aperta e proiettata verso un "futuro implicito" da coltivare e re-immaginare. Bibliografia Bishop, Claire 2018 Black Box, White Cube, Gray Zone: Dance F.xhibitions and Audience Attention, «The Drama Review», 62, 2 (Summer), pp. 22-42. Sendra, Pablo, Sennctt, Richard 2020 Desig,zing Disorder. Experiments and Disruptions in the City, Verso, London-Ncw York; trad. it. Progettare il disordine. Idee per la città del XXI secolo, Treccani, Roma 2022.

Enacting Monsters Antonio Iannicllo, David Habets

Readers, guide to the images Our collaborative imaginative effort s-uzrted with a sketch for an archi'tectural intervention flooding the Colosseum in times of drought, NAUMACHIA NOVA. In a graphic storyboard, we developed the situatedness of this absurd display of neoliberal neo-imperial power. Transgressing the reality of climate change on the J-talian peninsula into a science fiction of life persisting in the face of hyper-controlled drought. By sharing ideas and references with each other in a process of conversing and sketching, we bave been connecting notions on drought and disease in past, present and future. We were not looking for remedies, fixes orto save ourselves {rom the future threats we speak of. We are exploring the significance of indeterminate and affective solicitations that the imaginative space of dystopia has to offer f or reflection and transfomzation of our habitual ways in everyday /ife. Para/lei to our imaginary, in the text we extend the notion of the gray zone taken {rom the field of performance art, exploring the transition {rom dystopian black zones towards dystopian gray zones. We feed monsters to become monstrous to confront the Monsters that haunt us. Intro What we present here is a graphic essay defined by multiple ontology. NAUMACHIA NOVA, a proposal for an architectural intervention in the Colosseum, DESERT BLOOM, a proposed live work to be developed on the streets of Italian capitai city, both revolvc around a real-life thinking model, NASONAZI, a storyboard

IIO

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Naumachia Nova qucstions the failing acccssibility to clcan drinking water across thc globe in timcs of climate change. Hcat stress and lack of sustainable water sourccs are among the fastcst devcloping thrcats to large parts of the global population. Naumachia Nova is a proposal for an architcctural installation rc-cnacting thc Roman mcgalomaniac at-tcmpt to flood the Colosscum. lt is a real-life thinking model to addrcss ncolibcral water claims.

E.NACllNG MONSTERS

III

for an impending climate dystopia. Resting on a situated notion of imagination 1 , we wrote a future exploration of a Rome devo id of the necessary precipitation to fill the aquifcrs that quench the thirst of a metropolis. Our exploration takes piace in Rome in a decade where water shortages ha ve become a yearly reality every summer and at the same time, it is situated in the practice of writing and drawing a storyboard. We try to imagine, with our model, the city of Rome as an epicenter of a climatic and democratic crisis. With our effort, we try to contribute to the philosophical practice not only intended as writing and reading and to start imagining imagination differently (van Dijk, Rietveld, 2020). This twofold intention will feed into our graphic essay. In line with Alva Noc's dream of writing an essay as a DVD commentary (Noc 2015, 77), we aim to explore other sociomaterial aspects of our environment than only written words: Normally philosophers write texts without images. [...] Can wc further dcvclop this 'philosophy without tcxt', an intcresting 'show, don't teli' philosophy? Can acadcmic philosophy be done in a non-discursive way, by visual means? Can philosophers join forces with visual artists to investigate non-verbally how wc might livc diffcrcntly and pcrhaps bettcr? (Rictveld 2019).

Our real-li{e thinking model is a storyboard entangled with a commentary. lmagining imagination differently is a way of removing imagination from a decontextualized dimension and placing it in the practical engagement of coordination with sociomaterial affordances2. In this sense re-imagining imagination is at one with our 1

lmagination is oftcn considcrcd thc pinnacle of reprcscntational cognition. In Situated Jmagination van Dijk and Rictvcld, by looking at the cthnographic dctails of imagining in contcxt, contribute to challcnging the rcprcscntational vicw by offcring a rclational and radically situatcd alternative. Thcy suggcst that the indctcrminacy of multiple affordanccs unfolding in action simultancously can be cxpcricnccd as imaginativc. Thc indeterminate charactcr of this coordinative proccss allows activitics to widcn and open up, lctting ncw possibilitics for action enter into thcm. Thc imaginativc proccss dcscribcd is onc of architects in the making of an art installation. Thc proccss of making is ccntralizcd in thc approach. By introducing thcory from thc ficld of performance arts, wc suggcst scvcral ways of cxtcnding thc radically situatcd notion of imagination of Situated Jmagination to the perccption of dystopian narrativcs (van Dijk, Rictvcld 2.02.0). 2 Thc notion of affordances was first introduccd by thc Amcrican psychologist Jamcs Gibson as possibilitics for action offcrcd by the cnvironmcnt to an animai. For our purposcs wc will draw on an cxtend notion of affordanccs as dcvcloped by Julian Kivcrstein

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storyboard. We want to attune and open ourselves to unconventional possibilities that are not something that emerges in the head of an isolated agent but "it is a relational phenomenon, and so something that we can also materially scaffold" (Rietveld 2019, 22). We suggest that dystopia represents an exemplary group of solicitations that invite such openness. Our real-li{e thinking modeP is a means to change practices and to be able to think "what the world would be like if we were free {rom conventional limits and show what could happen if we lived by a different set of rules" (architect Lebbeus Woods as quoted by RAAAF). Often these are explorations of a 'better' world, free of conventions. In our storyboard and text, we are interested in the consideration of its opposite, in using the dystopian as a thinking model of the real world. Dystopian imagination enacts emotions of fear, despair, anxiety, anger a.o. for the participants entertained in the project. Far from and Erik Rictvcld (2.014) dcfincd as follows, "affordanccs are rclations bctwccn aspccts of thc materiai environment and abilitics available in a form of lifc". Defining affordanccs as bclonging to a form of lifc, to "rclativcly stable and rcgular ways of doing things", is mcant to cmphasizc that affordanccs are rclatcd to the practiccs in which pcople engage, rathcr than to an individual's ability. In thc human form of lifc, the social and the materiai are intertwincd and bcst understood as sociomateriality. This is a "scalable" notion that can account for activitics that are normally rcgardcd as part of the domain of 'highcr cognition' such as rcflcction and imagination. Imagining is thus conceivcd as a coordination with aspccts of the sociomaterial cnvironment that extcnd over multiple time scalcs. (Rietvcld, Kiverstcin 2.014). 3 The term real-life thinki11g model is uscd by the multidisciplinary Amsterdam-bascd collcctive RAAAF [Rietvcld Architccturc-Art-Affordance] that operatcs at the crossroads of visual art, architccture, and philosophy. The expcrimental studio makcs location and context spccific work, real-li{e thinking models that question habits and open up new affordanccs for new abilitics. Thcir practicc dcvclops through scicntific rcscarch, spatial expcriments, and strategie interventions. Among the exemplary works in this rcspcct is Bunker 599, typical hardcore heritage intervcntion in which, cutting a sccmingly indcstructiblc World War II bunker in half, qucstions the Dutch and UNESCO policics on cultural hcritagc; Trusted Strangers, a projcct of a tcmporary floating park in thc water city of Amsterdam, that "underlics the possibility of employing spccific interventions in public space to solicit spontancous intcractions bctwccn pcople bclonging to diffcrcnt sociocultural groups or subculturcs" (Rictvcld, Rictvcld, Martens 2.019); The End of Sitting, a sculptural invcstigation, a "metastablc zone", that dcsigning a chair-frcc working cnvironmcnt, points to our addiction to sitting. A real-life thn,king model is a tangible way to qucstion habits and rc-organizc our practiccs, to evokc and promotc new landscapcs for our form of lifc. Wc think that their notion of real-thi,,ki,ig models can be extended towards other media, for example, SUPERSTUDIO's 12 ideai cities.

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only being tricks of the trait, it is an artistic practice to skillfully sustain and suspend an audiences' attention. This affective set-up of imaginative futures explores and enacts desirable and undesirable future practices. The writing of a screenplay affords usto think of what we normally take for granted, a means to reflect on unfoldings that lay ahead in a myriad of possible futures. Practices as such help us scaffold emotional spaces in which we can cope with stresses future calamities, threats and obstacles evoke, like the climate crisis or possible new mutations of the COVID-19 virus. Our storyboard is a resource for imagining together - with others and materials -, its sociomateriality constrains the possible engagement and helps to form a temporary "social synergy" (Marsh 2015 ). We are thinking and drawing to experiment, with different materials, in our way of engaging imaginatively with our environment and to Icaro how transformative practices can come into play. Thinking with our storyboard we try to define what we mean by collective enactment in the gray zone.

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NASONAZI A storyboard (or climate dystopia in Rome

#1 Thc nasone ran dry in thc first dccadcs of the 21 st ccntury. Onc by onc thc nasone wcrc shut down. Lake Bracciano, Romc's ancicnt water rcscrvc, was slowly bcing draincd. Whcn the nasone stoppccl working it was criticizcd by many. Romc's homclcss, thc birds and othcr strays ali rclicd on this frcsh sttcam from thcsc public fountains. An ancicnt strcam of thought running dry.

#2 Dcscn Romc was an impcnding disastcr waiting to happcn. For dccadcs, across thc globc water bccame scarcc, claimcd by authority and rcdividcd among private contractors.

Evcrything bcgan in Cochabamba. Back in 2000.

That was a real water warl

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#3 An ancicnt flow of collcctivc consciousncss stoppcd. Thc ncvcr-cnding tricklc silcnccd. Thc dry noscs of the fountains left a desolate feeling. It did not take long before thc uprisings startcd.

#4 Thc Tibcr ran dry for the first time in history. It was not for long bcfore thcy rc-appcarcd, the nasonazi. Thcir curved masks caught cvcry last drop of moisture from thcir brcath.

First, almost ali the grazing mammals pcrishcd. Thcn the prcdators. As if 'frozcn' - micc, li7.ards, wild boars, cats, do~, scagulls, pigcons, rabbits - pcaccfully, during the night, gathcr around the dry "nasoni,,. At night citizcns join thcm in somcthing that may sccm like a praycr. Thc animals and men frozcn in front of a practicc of drinking from a sourcc of water, that is no more.

The UAD (unità armata decoro / anncd unit urban rcncwal) guards the nasoni. Whcn thc frcczing dance is cnactcd - ordcrcd by nasonazi - sanitizc thc zone. In the 20th ccntury, thcy would havc callcd it exccution, but thcir absurd use of rcsourccs made thcm blind to sclf-dcstruction. Sanitization now mcans using corpscs as a rcsourcc for manufacturing, rcfining past lifc as pure raw materiai.

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Faster than any predeterminate model was able to predict, strong winds from the Mediterrancan killcd ali trecs. The sun scorched the soil. Within a decade hills turncd into dune. Bcyond the G.R.A. the countryside had to be leh totally irrevocable.

NAUMACHIA NOVA, was U.A.D."s ultimate daim on water. The Colosscum was floodcd for the sccond time in history. A blinding symbol of power. A thcater tumed into a dam, a spcctade of engineering, to control the cssential common.

While thirsty bodies lay dying across the

As with ali totalitarian displays of power, this mobili7.ation of rcsources caused spillovers. Unexpccted lcaks scepcd into thc caverns underneath the city. Thc dark and cool crypts, placcs of death, of mere infrastructurc, now gave way to boasts of unforcseen living asscmblages.

city, bathing was considercd an ultimate rc-

plenishment for eternai lifc. It was the stage to recali that for a fair distribution centrai governancc remained prevalent by a fraction of the population.

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Dwellings of monstrous beings. Every brcath they take, graphene balccns catch even the most minuscule droplets of water from the airflow. Like whalcs above water it allowed unprcccdcntcd submcrsion into underground culture.

Thc human body is made up of over sixty pcrccnt of fluids. Thc only good way of dying lcft, in timcs of drought, is to be the spring of lifc for thc oncs that follow. In thc cool crypts dccp undcmcath thc ccntcr of Romc, bags of lifc slowly drip into thc aftcrworld.

When Naumachia inevitably fcll dry the crypts stoppcd dripping. Covcr was found in thc dust storms that ragcd through thc modem extcnsions of thc old city. Alrcady thc most pcrsistcnt of animals took shclter in its dry architcctural boncs.

Thc flying rats that flocked in tourist swampcd citics at the beginning of the 21st ccntury carne from a long cvolutionary linc of survivors. The rock pigcons, columba livia, can withstand high tempcraturcs and extrcme pcriods of drought. Making a lifc in what for others bccamc dcscrt.

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A flog of manyrs arose from the outskirts. Coolcd by the flapping colwnba wings, dcstined to spread the sccds that arrivcd from the Sahara. Their cloth was made, not of mcrcilcss labor, but of thc sccds that germinate in the sand and dry mud. Their bodics as sccdlings to gcncrations to follow.

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We feed n,onsters to becotne mo,,strous to confront the Monsters it, our lives.

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Gray zones

The notion of the gray zone as used here comes from the field of the performing arts. The British art historian Claire Bishop in her essay of 2018 "Black Box, White Cube Gray Zone" analyzcs thc movement of performing arts from black box to white cube over thc past 1 5 ycars 4 • Bishop focuscs on the typc of hybrid performance that shc calls dance exhibition, a paradigmatic gray zone, in ordcr to try to comprehend how performance in the museum tells us a lot about the changing nature of spectatorship5. Following Bishop, the gray zone is "an apparatus in which behavioral conventions are not yet established and up for ncgotiation" (Bishop 2018, 38). Kceping in mind the centrai rolc of mobile deviccs and networked technology within this hybrid zone, we will expand this notion not only to a different kind of real-li(e thinking model but will try to consider the gray zone as present, to a small cxtent, in any given experiencc. Refcrcnccs to the performing arts will be used as prods to analyze thc way wc collectively enact the objccts of our imagination. Our attcntion will

◄ Thc white cube is thc archctypal modem cxhibition space, a global standard for an fairs, muscums and alternative spaccs alike charactcrizcd by ncutrality, objcctivity, "a paradoxical combination that makcs claims to rationality and dctachmcnt" (Bishop 2018, 29). The black box is thc typical space of expcrimcntal theatcr, which dcfincs a dimcnsion of immcdiacy, proximity, and communion. Following Bishop, this collision crcatcs a new space: "Whcn dance is inscrtcd into an cxhibition thc vicwing convcntions of both the black box and thc white cubc are rupturcd: a singlc-point pcrspcctive (scating in thc thcatcr, standing in front of a work) is rcplaccd by multi-pcrspcctivalism and thc abscncc of an ideai vicwing position. [... ] Bccausc of the spcctator~s undcfincd posi ti on, thc protocols surrounding audience bchavior are lcss stablc and more open to improvisation" (Bishop 2018, 31). Centrai to hcr dcfinition is the rolc of ncw tcchnology, and it is no coincidcnce that shc idcntifics 2.007 as the date of thc cmcrgcncc of thc gray zone, which coincidcs with thc first dance performance at Kunsthallc St. Gallcn, and thc market launch of the iPhonc and iCloud. Rathcr than lamcnting thc all-pcrvasivcncss of tcchnology, Bishop trics to undcrstand what thcsc kinds of dcviccs can teli us about thc way wc dcvclop our cxpericncc and dcvclop our cducational pattems. s "In thesc works, audience attcntion is oricntcd towards thc performance, but not cxclusivcly; wc panicipatc in a collcctivc cxpcricnce and its documcntation, but sclcctivcly tum away from thc pcrformcrs to converse with our fricnds, virtually or in real lifc. [ •.• ] thcsc works only cxtcmalizc and makc litcral the mcntal drift that occurs whcncvcr wc watch any performance. Attcntion exists on a continuum of othcr statcs not ncccssarily attachcd to thc optical, including trance, reveric, daydrcam, hypnosis, mcditation, and dissociation. Thcsc internal statcs wcrc once thought csscntial to crcativity, but today tcnd to be devalucd as nonproductive time" (Bishop 2018, 38).

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be directed in particular to tbose devices / public spaces tbat typically, by undermining bebavioral frames of reference, allow unexpected, bybrid, and not planned styles of enacting our surroundings to emerge. In sbort, altbougb Bisbop's analysis refers to a bistorical convergence, we tend to speak of tbe gray zone in a broader way, to tbc point of understanding it as tbat space, wben conventional ways of acting seem to be inappropriate. In accordance witb our extension of tbe notion, a gray zone emerges wben severa( individuals, on different tempora( scales, meet and collectively enact tbeir lives witbout being able to rely on bebavioral frames of reference tbat must be compulsorily renegotiated. Sudden changes in the environment (like disasters) can set up a situation where trusted habitual ways are no longer relevant. Like the disappearance of the seemingly endless stream of water fiowing {rom the nasone in our thinking model. In tbc gray zone bebavioral patterns are suspended. Wben someone engages in a practice, be or sbe structures tbc environment so inviting furtber activities. The otber participants - on different time scales - may or may not grasp bis longitudinal patb (Ingold 2017). Eacb indeterminate gesture tbat follows, eacb crossing of tbc gray zone, constitutes a furtber attempt at educating attention and tbus tbc very possibility of educating eacb otber. In otber words, eacb crossing is a way of distracting eacb otber and tbus pusbing us out of our attentional fields. Tbc possibility of attunement, bowever, is not a guarantee, but being dissonant is a way of allowing new affordances to emerge, to distract otbers from a predetermined focal point. A gray zone is a playground to practice openness to tbe world tbanks to tbc otbers tbat distract us: in tbc gray zone it is not I wbo passes tbrougb tbe sociomaterial environment but tbe sociomaterial environment tbat passes tbrougb me, distracting me. Wbere can wc stili find places to distract eacb otber? We don't mean tbc kind of distractions typical of notifications on our digitai devices tbat simply redirect us to tbc establisbed interests in predeter-

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mined algorithmic bubbles. By distraction, we mean being confronted by something we did not expect, something unanticipated, that can potentially radically transform us. The gray zone is a piace where one can become infected. The term infection, as it appears here, refers to the way in which the theatrical experience has bcen described over the centuries. Particularly in the context of the debates conducted by the Church Fathers and the Querelle de la moralité du théatre in the 17th century regarding bodily presence. By extension, we mean infection not only in the sense of the bodily presence of others but as the possibility of transforming each other through shared practices, which involves the availability of skills in a form of lifc that could be performed on different timescales. In this sense, we will talk about what we cali skillful co-presence6. Speaking of the actual presence of the body, the Church Fathers and the participants in the Querelle argued that the proximity and exchange of moods typical of the theatrical experience were to be considered highly contagious, the exchange would lead to uncontrolled transformation, change, loss of identity. We believe that infection occurs not only on the basis of physical contact but on the basis of skills7 and relevant sodai affordances. The intersection of concerns, of styles, of how one brings forth his life, establishes one's relationship with the available possibilities his or her environment has to offer. The gray zone in this sense is the piace where we can experience how to transform ourselves (cfr. Noc 2015) in the presence (current and remote) of the others, where the outcome is indeterminate. In the context of theatrical performances it is the indeterminacy of the play that emerges through an autopoietic feedback loop (Fischer-Lichte 2008) that was to be minimized with various strategies between the late 18th and 19th centuries. It was the invention of the gaslight that was used to avoid the exchange of glances between spectators, by

'Thc staning point hcrc is providcd by Gcrman thcatcr scholar Erika Fishcr-Lichtc's rcflcction on thc bodily co-presence of actors and spcctators in thc cmcrgcncc of thc spcctacular cvcnt (Fishcr-Lichtc 2.008). 7 "If thc skills nccdcd to pick up a fcaturc are abscnt, than thc fcaturc is not present in our cxpcricncc" (Noe 2.012., 132.).

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lighting the stage. From the 1840s onwards, the English actor and director Charles Kean started to immerse the audience in darkness, until the German composcr Richard Wagner completely darkened the stalls at the Bayreuth Festival in 1876, eliminating the side views, thus creating a single frontal perspective. We suggest that contagion implies an intimacy that is not only given by the co-presence of bodies but by their possible movements, gestures and suggestions. Wc lose intimacy if we don't have the skills and environments that let us attune to each other. I can be infected by reading an author who lived centuries ago but remain indifferent to a caress if it does not fit into my trajectory in life. Sketching our dystopian interventions parallel to this tcxt is an attempt to practice a form of intimacy. In the gray zone, we are transformed by becoming infected, in the gray zone we enact monsters.

Dystopia and changing socio-materiai practices In our future exploration, the drained nasone is an exemplary site of negotiation8 between different f omzs of /ife in times of disaster. Since "maintaining the identity of objects requires a continuing effort" (Mol 2002, 4 3 ), we could imaginatively enact bere what Charis Cussins calls "ontologica/ choreography" (Cussins 1996). The nasone enacts fear, disgust, anger (or the privatization and the imperial claim on one of the most essential commons, on water. The nasone affords disconsent for giving up democratic and publicly available resources, the dry nasone enacts a space of execution, death by thirst, in a future Rome. The cxploratory directionality of these emotions, based on participation in our model, is thus projected to illuminate the present 8 Evcn though thc tcnn "ncgotiatc" would sccm to appeal cxclusivcly to thc vcrbal propcrtics of an individuai wc use it in a broadcr scnsc that might also involve othcr non-human lifc fonns (scc Mol 2021, 128).

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sociomaterial aspects that contain the traces of a horrific future, consequently entailing our disassociation with the prodromes of empire; we are affectively moved to withdraw in the now from practices that we take for granted and in which we are uncritically immersed. Dystopia elicits aspects of this horrendous future that are already here and are emerging in the gray zones we often unconsciously inhabit, in that intersection between pre-established practices, pointing, focusing, engaging us with materials and activities, offering each other with reflective affordances. The Fiorentine radical architecture (Celant 1976) group SUPERSTUDIO, active from 1966 to 1978, developed a series of paradoxical mechanisms during the course of its activity that were intended to highlight the contradictions of the urban forms of life in Italy during the "economie boom". Many of their early projects (1969-1971 like The Continuous Monument, Histograms, and Twelve Ideai Cities) can be read as an architectural dystopia. They were means of SUPERSTUDIO to elicit habitual trades in which the practice of architects got stuck. By using typical tools of the architect, like the photo collage and the hand drawing, they depicted architectural horrific future explorations. Often, until today, these have been misunderstood as megalomaniac architectural expressions of modernism. It is exactly this confusion, the ambiguity of creating a dystopian imaginary, that moves us to cali these future explorations, gray zones. With SUPERSTUDIO's interventions (posters, performances, stories, installations, design objects, storyboards in the key architectural magazines of that era), they defined "a space for criticai activity (or philosophical activity), through which to explore the many ways of doing" (Natalini 1971, 164). They invited debate among architects to rethink their practice collectively by making provocative architectural dystopia. For example, with the Twelve Ideai Cities (Twelve Cautionary Tales for Christmas 1971), a collection of contes philosophiques in which 12 cities are described they tried to reveal, through imaginative urban devices, the horror that we constantly enact. Through a test based on considering how many of the 12 cities governed by aberrant values and structures one wanted to exist or imagined existed,

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they show that there is no way out between being a zombie, a golem or a mutant; those who believe they are excluded from the game are simply idiots, as they have not realised that the descriptions do not represent fictional cities but every city. The only hope for salvation may lie in understanding the game: Only if you understood the game from the beginning, can you hopc to be savcd. From thc horror of us and our surroundings, "revelation" could spring. Ascend, then, up to the Old Man of the Mountain and be of his childrcn. Observe time through the whitc hairs of his beard, and whcn you bave becn reborn, descend with a pili of hashish bcncath your tongue, and a knife under your shirt, to extcrminatc the spirits, monsters and dcmons that infcst thc Earth, and finally, purificd with water and incense, you can prepare thc foundations for the ncw City of thc White Walls (SUPERSTUDIO 1971, 743).

Their negative explorations of the future, more generally, were developed through "feeding the monsters" (SUPERSTUDIO 2016, 362). According to SUPERSTUDIO, only in horror resides the hope of transforming reality, only in this way is it possible to provokc awakening; cven if in a cry and a cold swcat, cvcryonc will be reborn in thcir own anguishcd rcality to decide at least whcthcr they want to fight or prefer to let thcmselves die. In anti utopia we nurture thc monstcrs that crawl and coil in thc dark rccesses of our homes, in the dirty corncrs of our strcets, in thc folds of our clothcs and to the mystcry of our brains. In thc cradlc of anti utopia wc try to makc thcm grow and bccomc cnormous, and the dust and the darkness can no longer hidc them, so that everyone, evcn the most short-sightcd, can sec them, cnormous Kafkacsque cockroaches, in ali thcir simplest and most mysterious forms (SUPERSTUDIO 2016, 362-364).

To be 'shepherds of monsters' (SUPERSTUDIO 2016, 364) is the process that defines a dystopian real-life thinking model that aims to bring about a radical change in human behavior. Future cities are defined by cells inhabited by a single individuai whose brain impulses are constantly being picked up, presses that, descending from above, crush citizens intent on "absurd thoughts of rebellion" (SUPERSTUDIO 1971, 737) or Spiral-cities that twist in the earth, cube cities covered with quartz tiles, spaceship cities whose crew members "sleep uninterruptedly from birth to death enclosed in their cabins and enveloped in the cables and pipelines which regolate their existence" (SUPERSTUDIO 1971, 738), cities as crystal tops, ribbon city

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of continuous production or city of splendid houses where the only purpose of the inhabitants is to own the most beautiful house, or book city where the citizen in every situation is required to observe the rules written in the book that hangs around bis neck; those horrific thinking models through reactions of disgust and anger force us to look at the present horror we are enacting. This is not a future understood as what will happen on some forward-looking timeline, but an image of the present distorted by a process of infection, a process of 'dystopian attention of education' This is the only future we can deal with, the one that inhabits the present and springs from it according to concentric circles and not linear paths of development. A dystopian tale is therefore not a prediction of a future reality according to a model that defines a probability- on the basis of lines of development and standardized behavior -, but rather an elicitation of a horrific present that calls us to action, to change our habits in order to contradict the probable future. A future, in short, that has more to do with looking around carefully than pointing forward.

Black zone dystopia We seem to live in times of perpetuai crisis, being the climate, the cconomy, humanitarian, and or professional. We suggest that in coping with this volatile cycle, we bave a tendency to be attracted to dystopian narratives. We consume dystopia almost daily, sitting behind our screens through movies, tv-series and documentaries. It conveys a paradox to consume an invitation for collective enactment of the future, in almost solitude. This is not a paradox that should be resolved, it is potentially a potent paradoxal gray zone. Why do we continue to visit dystopia? Why do we surround ourselves with films, TV series, comics that teli of horrific futures? In facing planetary destruction, we seem to get a feeling to not be alone facing these threats. Despite the fear and despair, they offer us pleasure and relief. A similar conflicted pleasure one could feel, during the confined in the recent COVID-19 lockdowns. The pandemie could not be acted upon individually, a collective response was urgent and

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necessary, renouncing for a moment the drain on freedom of movement and interaction. Although during the pandemie wc became physically isolated from one another, this isolation did not uphold collective changes of behavior. The crisis would remind us of our interdependencies, for better or for worse. We rapidly depended on abilities to work remotely, to transform our homes into workspaces and to susta in work relations and friendships despite limited interaction. The pandemie called for the reinvention of individuai practices to allow for massive changes in collective behavior. It called for openness to unconventional affordances our homes had to offer us, this took effort and energy for many of us. In our thinking model drought leads the protagonists to develop individuai technologies to capture water straight (rom every breath, like the graphene baleen masks. If everyone would reduce their water dependency, disaster could perhaps be diverted. The 'imperial, forces would try to prevent these individuai practices at ali costs. Their power is based on maintaining 'thirsty bodies,. By eliminating possibilities of chance and unexpected encounters with the freely moving protagonists, they create a black zone. We suggest an analogy between the strategies used in the nineteenth century to isolate the viewer by placing him in the dark and streaming websites like Netflix, it holds, even if a thorough analysis of such similarities deserves much more space than wc have here. It seems to us that dystopia is waiting to emerge from the isolated, dark space in which it is confined. From a philosophical black zone. With Netflix, non-calculated (pre-determined) invitations to action are reduced to a minimum: the more one isolates oneself in a black zone, the more the possibility of contagion, collective action, is minimized. Although always present (in abilities that use sociomaterial invitations on different typcs of time scales) the risk of encountering what was not forcseen is minimized. The encounter with the future is then determined similar to the assigned seats from which wc do not dare to get up. In addition to the problem of isolating oneself from unwanted and distracting contact, there is the problem of being isolated in a bubble that shapcs our desires based on what we have already wanted.

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Chance, or the encounter with what was not previously acquired, thc unanticipated, is largely eliminated. That is perhaps the real future from which we have escaped, and so thc future that awaits us is an inevitable future of dcspair. Can we create dystopian spaces that allow us to become monstrous ourselves, that do not contain us in self-revolved black zones, that do not stop at transfiguration but that invite for transformative practices?

Becoming monstrous In dystopia, as writers and audiences, we feed monsters and become the 'shepherds of monsters'. In order to cope with real-life threats, we cali upon our protagonists to become monstrous. In this sense, the narrative solicits visiting those places where we are called to become monstrous, where we can freely transform ourselves, mash and sharc: dwell in the gray zones. Thc narrative developmcnt that wc are trying to definc, Monster monster - monstrous, is an attempt to analytically grasp the transformative process on which wc are focusing with our notion of the dystopian gray zone. It is a transfiguration of rcal-life thrcats so as to clicit presumed everyday practices. Monsters = catastrophes, future treats monsters = imaginative creatures, imaginative threats monstrous = enacting mo11sters, transformative practices, the process of mixing abilities, "infecting" each othcr, hybridizing with materials

Wc suggcst opcning thosc suspcnded spaces - present and remote - that we cali gray zones is a crociai imaginative practice in times of crisis. If we do not change our practices and radically transform ourselves by mashing skills and postures, if we do not become in this sense monstrous, then the future we are enacting will be inhabited by thc Monsters that hunt us, ready to threaten our form of life in the form of environmental disasters, viruses or wars over resourccs.

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We feed monsters to become monstrous to confront the Monsters in our lives. We are inspired to trace the narrative chain of Monster - monster - monstrous on to the appearance of monsters in folklore rituals and traditions. The presence of the extraordinary and more-than-natural within the public domain through the figure of monsters (Ingold 2013) arises in tales, dances, songs, rituals across Europe. Death and rebirth are cross-cultura) recurrent themes (cfr. Frazer 193 5) and in practice embodied by a monster's radical transformation. The monster resembles an irrevocable change that threatens to destroy the entire community and wreak havoc. Figures of walking plants, deer men, multi-headed beings, among many more, have been enacted in communities to celebrate fertility and abundance rites or to avert calamities, propitiate rains, accompany novices or the dead. In many places across Europe these practices are stili kept alive as folklore traditions and contemporary adaptations (cfr. Fréger 2011 ). The monster can embody abilities that lie outside the norms of everyday life, is enacted by unknown forces, uses his body in opposition to the laws on which our beliefs rest, can carve its own or other people's flesh, propitiate unheard-of encounters, have sex with living creatures of different species, or mix with natural elements. A monster is the "form of fear" (Ingold 2013, 737) and nota mere invention that, coming from the ineffable domain of imagination, provokes mere reactions. In considering the public entry of monsters we do not join sides with monsters, nor do we mock them (cfr. Wittgenstein 1967) we try to piace the enactment of contemporary dystopia in a historic perspective of public monstrosities to understand better what happens if someone develops a monstrous practice within the public domain. By monstrous practices, we do not mean to speak of supposed occult forces but of unconventional practices. Tue distinction from ordinary life does not lead to a "beyond" but, as we suggest, allows for openness to further solicitations that are potentially available to each individuai. The dystopia, as used here, is an affective set-up for a gray zone, it invokes a space of contagion, the entry point for monstrous practices. From our point of view, we find the catastrophe in the form of the unexpected (the presence of others) that distracts and transforms us, so-

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licits out-of-the-ordinary tasks and habits, and affords the possibility to change abilities and meet new styles and ways of behaving. The gray zone is the space where to be transformed and infected, join skills and postures, mash styles of contact, hybridizing with materials, devices, and technology, to become monstrous: here I can clearly see how "my boundary are crossed"9 (Mol 2021, 39) and how l'm "impure" 10 • A classic example of transformation and of "impurity" that agglutinates in it is the Creature of Frankenstein, a monster made by pieces of corpses, against whom stones and rifle bullets are thrown in order to remove the unpredictable horror of the transformation itself, the contamination, the hybridizations and the various abortions it produces. In a scene of Mary Shelley's novel where its only possible link with the society of men is broken, the grotesque, horrific but intelligent and sensible "creature", dancing furiously with the woods, producing destruction, sets up a dystopian gray zone. In his dance the Creature warns and invite us: My protectors had departed, and had broken the only link that held me to the world. For the first time the feclings of revenge and hatrcd filled my bosom, and I did not strive to controul them; but, allowing myself to be borne away by the stream, I bent my mind towards injury and death. [...] As night advanced, I placcd a varicty of combustibles around the cottage; and, after having dcstroyed every vestige of cultivation in the garden, I waited with forced impatience until the moon had sunk to commence my operations. "As thc night advanced, a ficrcc wind arosc from the woods, and quickly disperscd thc clouds that had loitcrcd in the hcavcns: thc blast tore along likc a mighty avelanchc, and produced a kind of insanity in my spirits, that burst ali bounds of reason and reflection. I lighted the dry branch of a trce, and danccd with fury around the devoted cottage, my eyes stili fixed on the western horizon, the cdgc of which the moon nearly touchcd.A part of its orb was at length hid, and I waved my brand; it sunk, and, with a loud scrcam, I fircd the straw, and hcath, and bushes, which I had collccted. The wind fanncd the fire, and 9 Thc

model of thc pcrson who inhabits thc gray zo11e must not be that of thc onc who walks, as uscd by Mcrlcau-Ponty, but of thc onc who cats: «as a walkcr I movc through thc world, whcn I cat, it is thc world that movcs through mc» (Mol 2021, 49). Thc point is that in thc gray zone wc do not always know what wc are cating and wc might cvcn poison oursclvcs. 10 «Nay, thcsc are virtuous and immaculatc bcingsl I, thc miscrablc and thc abandoncd, am an abortion, to be spumcd at, and kickcd, and tramplcd on. Evcn now my blood boils at thc rccollcction of this injusticc» (Shcllcy 2017, 115).

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the cottage was quickly enveloped by the flames, which clung to it, and licked it with their forked and destroying tongucs (Shelley 2017, I 1 5 ).

Thc gray zone is a piace whcre peripheral distractions, primarily of a social nature, are not distractions but thc vcry object of attcntion. Or rather, what inhabits thc periphcry of our attcntion is what drives it, not by kecping it at thc edge of the focus but by occupying its centcr. Wc distract each other in ordcr to lead us out of our rcspective metastable habitual zones 11 , our habits, and find new ones, provisional and always rcvisable. Thesc are collcctive metastablc attunemcnts that rest on thc possibility of distracting each other. The real Monster herc is the initial distraction. In this rcspcct, the gray zone is always dystopian, not because within it are narrated catastrophic cvents but bccausc it diverts us towards the uncertain, precarious and uncxpectcd. Away from established absolutes and ideals, like Shelley's novel diverting concerns about racc and slavcry in early nincteenth-century Britain 12 • To be monstrous in this scnsc is to enjoy thc monstrous solicitation, to be distracted by what is usually at the pcriphcry of our attcntion. Thc Creature occupies that space and with its bcing made up of pieccs of men it cmbodics a possible trajectory. A gray zone opens to what has not bccn anticipated, that is to say, to futures that can not be anticipatcd according to those trend lines that unfold from thc black zone of solipsistic development. Breaking thosc lines is thc imaginative monster's means to open up unconvcntional developments that threaten bcyond our reach. To be mon11 Bruineberg et al. (2021) argue that both the sensitivity to novcl situations and the sensitivity to a multiplicity of action possibilitics are enabled by the property of skilled agency that they cali metastable attunement. In metastability the rcali1.ation of two compcting tendencies is exprcsscd : the tendency of the agent to cxprcss thcir intrinsic dynamics and the tcndcncy to scarch for new possibilitics. Metastably attuncd agents are ready to cngage with a multiplicity of affordanccs, allowing for a balancc bctwccn stability and Rcxibility. u. Therc is a largc body of analytic litcraturc on how works likc Shcllcys's Frat1ke,1stein, Maturin's Melmoth or Lcwis's The Monk, rcflcct thc centrai tcnsions in timcs of sodal libcration and political rcvolution of the 19th ccntury. Rcsponscs to socictal notions of racial incquality, howcvcr sometimcs unconsciously, are clcar lincs of devclopment in the narrative structures of thcsc novcls. Espccially in the case of Frankcnstcin wc recommend Malchow (1993) and Young (2008).

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strous therefore means to enact a future that cannot be predicted on the basis of the current relational resources and the extractive relationship that we have established with our environment. With our proposal for the live work DESERT BLOOM, halfman-halfpest figures as exemplary multi-species assemblages persist during the climate crisis. Three performers will wear a tight-fitting jumpsuit made of seeds, move around a nasone wetting their garment and then begin to cross the city. The suits will attract pigeons that will compose the halfman-halfpest figures. Through a coalition with the "sky rats,,, it will be possible to capitalize on the excrement of birds useful {or the cultivation of delimited areas, and, at the same time, protect themselves {rom high temperatures thanks to feathers. lmaginative future inhabitants of Rome will thus be able to Jet the desert that has at that time conquered the whole of Southern Europe to bloom. This out-of-the-ordinary practice, in the now, attempts to open a gray zone where it will bave to renegotiate the distinction between man/animai, waste/ resource, weedlplant and pest/ally.

What can happen to our performers of DESERT BLOOM when they are being bitten by birds and covered in guano? What happens to who is walking in the streets accidentally participating in this public enactment? The performers are asked to stage their own vulnerability while the participants define the object of their own experience: curse, be disgusted, film and share with their celi phones, walk with the halfmenlhalfpest, feed in turo the pigeons, cali it senseless, look where others look, watch the dance of the flock of birds, consider their piace in urban space, get attacked by the pigeons, run away, chase away pigeons to try to save the performers, play with pigeons. We are primarily interested in evoking peripheral action of the 'others': the pigeons (and naturally other birds) and people on the streets. Writing what will unfold, feels counterintuitive to the unpredictable character we set out to define and value in dystopian gray zones. Spontaneity and predictability can not be defined, yet openness can be inscribed and designed into the constitutive aspects of the live work. Any activity that tries to break conventions is an attempt of opening gray zones, and in this sense, our graphic essay, the storyboard NASONAZI and proposals for interventions NAUMACHIA

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#I DF.SERT BLOOM

To To To To To To

be among the free. revivc thc sourcc that has fallcn dry. invite thc pcsts into our strccts. have a thousand wings. be monstrous. lct thc dcscrt bloom.

Performance for thrcc pcoplc. Transfiguration into multi-wingcd bcings among thc tourist swampcd Roman city cmtcr.

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NOVA, and DESERT BLOOM, rcprcscnt a multi-lcvcl attcmpt at

inviting monstrous practiccs. Thcsc are modcst rcal-lifc thinking modcls to imaginc transformativc dystopian spaccs. Only whcn wc participatc with a dystopian real-life thinking model wc are invitcd to imaginc how tbc activities in which wc are habitually absorbcd, if collcctivcly pcrpctuatcd at tbc currcnt rate, could tragically rcdcfinc our living cnvironmcnt. Tue process of cducation of attcntion dcvclopcd through this kind of model is not dircctcd at tbc scope of tbc action of tbc individuai but, on a largc scale, at practicc in generai, yct tbc mcans are affcctivc cxpcricnccs that movc tbc individuai to action, or rathcr solicits action rcadiness. The transformative chain of Monster - monster - monstrous moves tbc attention from a rcsponsc to a distant thrcat to problcmatic existing practices. In this scnsc, tbc dystopian narrative pours, in a paroxysmal way, into the funncl of tbc individuai the fcar generatcd by collcctivc practice. Tue individuai grasps an indeterminate invitation on which he is callcd to act collectivcly. Through the collcctivc cnactmcnt of dystopia, any kind of crisis can potcntially be explored. This is because tbc dystopian narrative, on the basis of an irremcdiablc catastrophc, summons, on differcnt temporal scales, 'unconvcntional' communitics that do not yet exist to prcparc to act in ways not yet forcsecn. In tbc dystopia is inscribcd tbc invocation of coopcration, yct oftcn wc continue to cncountcr dystopia mostly in solitude.

Collective enactment in the gray zone

Visiting dystopia may push us to imaginativcly run away from our monstcrs: 1) into a black zone wherc tbc contagi on is minimized. A black zone is a piace of comfort, where sociomaterial affordances are predctcrmincd and we rcly on familiar and establishcd behavioral frameworks. Following tbc thcatrical analogy, bere the seats bave bccn alrcady assigncd and tbc lights show us prccisely whcrc to look. An cxemplary piace of the black zone is the consumption of dystopia on strcaming platforms plungcd into the comfortablc darkness of our homcs. Unprcdictability is limitcd in its algorithmic bubblc.

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Wc do not mean to argue that in the black zone there is absolutely zero space for contagion. The bubble can burst, like the empathy and understanding we feel for the monsters in books, movies and tv-series, that offer us the possibilities to reflect on our own ways of living in their terms. Yet the way that a black zone is structured minimizes possibilities for infection and interaction. In the black zone the chain from Monster ends in the imaginative threat of the monster. In a transfiguration of real life threats and concerns. The despair, fear and anxiety they can provoke are dealt within the familiar and emotionally regolative space of our homes (Krueger, Colombetti 2018). 2) into a gray zone where we infect ourselves and become monstrous

in the face of our monsters. By monstrous we mean at the same time both actual transformative practices and the way dystopian inhabitants infect each other, transforming by joining forces to face the threat. It is precisely the latter that serve as models of possible transformative practices through imagination. Our point is that the transformative proce~ is unpredictable and boundaries between relevant and irrelevant solicitations, between threat and coping are permeable. The imaginative situation affords openness to solicitations in the rich landscape of affordances that therefore were irrelevant, inappropriate, even monstrous. Through this gained openne~ to multiple affordances transformation of existing 'real-life' skills and practices can be set in motion. Wc don't speak of practices in the sense of solutions, fixes, or remedies to the threats faced. Embodying imaginative monsters, gaining monstrous skills enables us to radically break with practices wc normally take for granted. There is no absolute distinction between black andgray, they fade into each other and a clear line need not be drawn: there are degrees of contagion on basis of the varieties of presence and skills (cfr. Noc 2012). The distinction is made in how freely the space is designed for infection and interaction to take piace. We explore the transition of moving from dystopian black zones towards gray zones in our real-life thinking models. In the gray zone the skillful co-presence of others solicits our f orm of /ife to potentially open up to monstrous affordances. Transforma-

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tion follows when one's own practices are seen as non-normative, for example as 'threatening', 'killing' or 'disgusting'. We are not resting our reflection on a kind of perspectivalism but we are emphasizing some limits as they are defined in everyday experience in order to consider them rather as sociomaterial invitations (cfr. Mol 2002, 7-27 ). Bcyond changes in perspective, a gray zone offers a transformative practice. The imaginative effort of our storyboard is indebted to a possible future in which it is a necessity to drink our waste, drink blood, kill to survive, mutating our tissues and entire biologica/ conformation. The monster of dystopia is the one that straddles the ill-defined boundary between us and the monsters. The human protagonists of a zombie movie, (or example, almost always brings the external threat - that of being eaten - to an internal dynamic - that of eating, more or less metaphorically, each other. It is precisely this constant crossing of borders, of ourselves becoming monstrous, that is the object of our attention in the dystopian gray zone. Dystopia, through thc crcation of monstcrs and catastrophes, tcnds to mark this boundary in order to open us to transformative practices. It should be emphasized that this crossing is nota way to mark a distinction: the dystopian boundaries are transformative trajectorics. To short, visiting a dystopia we are not simply called to identify to our own form of life, but as gray zones, as monstrous: imaginatively mixing skills of humans and/or non-humans, and form unexpccted and sccmingly impossible allianccs imaginatively open up our anticipatcd ficld of affordanccs by enacting elusive real-life threats as monsters be monstrous, enacting openness toward future Monsters, an cmotional space that helps us gaio opcnness to multiple affordances and thus enabling the transformation of our habitual practiccs.

In thc dystopian gray zone we are callcd upon to transform ourselves in the now we are situated in relation to wherc we could be if we don't transform ourselves now. It is a game between two sides in which thc transformative vector is thc figure of the monster that must be constantly enacted in order not to hand us ovcr to thc Monstcrs.

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What is truly monstrous are the transformative practices that we seek to see and that so crystallized in a monstrous image - a conduct - are themselves invitations to transformation. That zone is precisely where the monstrous-monsters-Monsters meet and feed each other - the transformative power of what we cali the transformative chain - and the possibility to allow monstrous skills emerge.

12 DF.SERT BLOOM - cnacting monstcrs in tbc public domain.

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Aprire la scatola nera Spcttatorialità e dispositivi attcnzionali partecipativi nclPutilixw degli spa7j pubblici

Francesca Natale

È un'operazione complicata quella di tematizzare le traiettorie attenzionali che si svolgono e si intrecciano nello spazio della città. Basti pensare a due grandi temi, da sempre cari alle trattazioni di urbanistica più filosoficamente e artisticamente avvertite, entrambi contraddistinti da specifiche dinamiche attenzionali: la psicogeografia e la figura del flaneur. La prima prevedeva, secondo i situazionisti, un impegno con lo spazio secondo termini non prestabiliti e non anticipabili, seguendo percorsi articolati tramite una deriva giocosa tra luoghi e oggetti comunemente intrappolati al di sotto della soglia della consapevolezza; inserendo questi elementi in tutta una serie di giustapposizioni spostate rispetto ad uno sguardo domato dall'abitudine, l'obiettivo era quello di svelare le distrazioni architettate politicamente (in altri termini, lo spettacolo). D'altro canto, il détournement stesso è una deviazione dello sguardo e dunque anche una distrazione, non assoggettata però alla politica e al potere: una sorta di mindfulness conflittuale, che continuamente ristabilisce e allarga i suoi confini, definita da Guy Debord un' «ambiance du jeu [... ] par nature instable» 1 • La flanerie, al contrario, è una pratica disimpegnata e al tempo stesso emancipatoria nei confronti di ciò a cui si "dovrebbe" prestare attenzione, tramite la pigrizia borghese che in un certo senso contraddistingue il flaneur, che gli permette di compiere una selezione originale degli elementi che incontra sul suo cammino, ri-localizzando lo sguardo (uno sguardo privilegiato, in quanto può permettersi una vigilanza intermittente, fluttuante, tipica di chi non teme di incontrare luoghi che lo respingeranno o lo metteranno in pericolo) 2 • Ma, come scrive il giurista americano Tim Wu, 1

Guy Debord, Sur le passages de quelques personnes à travers une assez courte unité de tetnps, 19 59, film. 1 L'urbanismo femminista si divide sulla possibilità dell'csistcn7.a di una figura definibile nei termini di flaneuse: per un verso, quello del fla,zeursarebbc un topos intrinsecamente non

FRANCESCA NATALE

se «The attentional ha bit of gazing at the world with nothing better to do has doubtless been a human practice since the species emerged», «its exploitation for commerciai purposes is relatively new»: prendendo in analisi la Parigi dei tardi anni Sessanta dell'Ottocento, invasa dai manifesti pubblicitari di Jules Chéret, sovradimensionati, coloratissimi, impossibili da ignorare, l'autore sottolinea come questi poster, oltre a modificare radicalmente il paesaggio urbano, interrompessero e in qualche modo ostacolassero il percorso dei passanti, catturando la loro attenzione in «the "in between" moments of the day that are in the interstices of our more purposeful mental engagements» (Wu 2016, 39). La città è concettualmente preparata ad accogliere questo dualismo, essendo mappata per il raggiungimento più o meno rapido, più o meno funzionale, del punto d'arrivo da un punto di inizio, includendo al tempo stesso non solo spazi quasi- o semi-pubblici (dal centro commerciale gestito da privati fino ai terrazzi, cortili, giardini. .. ), ma anche territori interstiziali, di natura radicalmente incerta: tangenziali, discariche, residui di campagna, aree di incontro informale e commercio abusivo. Spazi esclusi da una mappatura ufficiale che, se attraversati, spesso impediscono l'agganciamento dello sguardo e quindi la consapevolezza di ciò che lì sta accadendo, o potrebbe accadere. In questo senso, l'attenzione non ci viene soltanto sottratta in quanto spettatori quando ci imbattiamo, ad esempio, in un cartellone pubblicitario, ma è anche ostacolata e frammentata in certi luoghi dove sembra scontrarsi con una sorta di densità estraniante e sconosciuta3. La dinamica di partecipazione dell'abitante della città ai luoghi che la compongono (una composizione, certo, mai definitiva) può inclusivo, da rigettare; per l'altro, l'intenzione vorrebbe essere quella di rivendicarlo, rovesciandolo. In quanto donna, muoversi attraverso la città come figura anonima o invisibile, che può in qualche modo mimetizzarsi e confondersi tra la folla, è una possibilità inesistente; tanto più se si pensa che il flaneur si è sempre identificato con l'uomo bianco e abile. Per approfondire questi temi, si rimanda almeno a L Elkin, Flaneuse. Wonum Walk the City in Paris, New York, Tokyo, Venia a,,d Londmi, Farrar, Straus and Giroux, New York 2.017, trad. it. Flaneuse. Donne che camminano per la città a Parigi, New York, Tokyo, Venezia e Londra, Einaudi, Torino 2.02.2. e L Kern, Feminist City. Claiming Space in a Man-made World, Verso, London 2.02.0, trad. it. La città femminista. La lotta per lo spazio in un mo,ulo diseg11ato da uomini, Trcccani, Roma 2.02.1. 3 Si pensi, ad esempio, alle «transurbanzc• condotte dal collettivo Stalker a partire dal 199 5 (vicine naturalmente alle pratiche situazioniste) ma soprattutto ai loro lavori successivi, di stampo laboratoriale e relazionale, alla scoperta di "luoghi inattesi", marginali, imprevedibili, non classificati e poco chiari, che faticosamente trovano spazio nella cornice ufficiale, istituzionale della città.

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articolarsi soltanto, dunque, tramite diversi livelli di consapevolezza, intesa nei termini di un margine possibile all'interno del quale prestare attenzione e indirizzare lo sguardo. Si pensi, ad esempio, all'efficacia di piani e progetti partecipativi che, almeno a livello teorico, sarebbero in grado di alzare la soglia dell'attenzione, consapevole e volontaria, del cittadino: un esempio grafico è la "Ladder of Citizen Participation" di Sherry R. Arnstein, nella quale si illustra una serie di stadi, dal meno partecipativo al più partecipativo (almeno nelle intenzioni), all'interno dei quali a svilupparsi sembra essere non tanto la possibilità di una partecipazione effettiva, bensì la presunta attenzione prestata dal "governo" ai "governati": intesi, questi ultimi, nei termini di una sorta di comunità vaga e indifferenziata di have-nots4 (Arnstein 1969, 216). Un tentativo recente è quello di «flipping the ladder sideways», trasformando dunque la figura della scala a pioli in una sorta di «traliccio» («ladder-truss» ): in questo modo, rimuovendo la gerarchizzazione operata da Arnstein, l'approccio al design urbano diventerebbe più sostenibile, tramite l'avvicinamento e il rimescolamento di diversi gruppi di cittadini. Ad esempio, la manipolazione, per Arnstein gradino radicalmente non-partecipativo della scala, potrebbe essere ripensata nei termini di empatia (anche tramite la realizzazione di ambienti virtuali immersivi), capacità di mettersi nei panni dell'altro e di maneggiare autonomamente dati e materiali (Langenheim, Nano 2021, 166); nonostante ciò, il risultato sembra essere meramente lo spostamento dell'operazione manipolatoria sulla diraione del focus esercitato dal cittadino stesso, che non sembra poter scegliere dove situarsi e a cosa prestare attenzione, e con quali modalità. È proprio in questo senso, dunque, che i tempi della città difficilmente possono essere definiti contemplativi, ma piuttosto intermezzi, parentesi, interruzioni di un percorso in linea retta da un punto A a un punto B. Boris Groys, in Comrades ofTime, è radicale: il concetto -4 Amstcin stessa, del resto, fa emergere i limiti di questo modello: «In actuality, neither the have-nots nor the powerholders are homogencous blocs. F..ach group encompasscs a host of divergcnt points of vicw, significant clcavagcs, compcting vcstcd intcrcsts, and splintcrcd subgroups. The justification for usingsuch simplistic abstractions is that in most cascs the havc-nots rcally do perceive the powerful as a monolithic system, and powerholders actually do view the havc-nots as a sca of "thosc pcople", with little comprehension of the class and caste differcnccs among thcm» (Amstcin 1969, 2.17); una giustificazione non del tutto risolutiva, dunque, in quanto fonda di fatto il suo modello su una replica di quella dinamica che genera precisamente il nodo problematico preso in considerazione.

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di spettatorialità cambia, oggi, in concomitanza con la quantità di tempo a disposizione del soggetto della contemplazione, sempre più frammentata; lo spettatore è sempre in movimento, un viaggiatore (spesso, più precisamente, un turista5 ) abituato a circolare attivamente, e in questo senso la contemplazione stessa si tramuta in una sorta di gesto ripetitivo, un loop improduttivo e senza risultati, quasi fosse radicalmente impossibile portare a termine un atto di focalizzazione, inteso soltanto nei termini di un percorso migliorativo da un punto d'inizio (la distrazione non controllabile) fino al punto d'arrivo (una presunta focalizzazione totale e senza residui). Traditionally, in our culture wc had two fundamentally different modes of contemplation at our disposal to give us control over the time wc spent looking at images: the immobilization of the image in the exhibition space, and the immobilization of the viewer in the movie theater. Yet both modes collapse when moving images are transforred to museums or exhibition spaces. The images will continue to move - but so too will the viewer. As a rule, under the conditions of a regular exhibition visit, it is impossible to watch a video or film from beginning to end if the film or video is relatively long - especially if there are many such time-based works in the same exhibition space. And in fact such an endeavor would be misplaced. [... ] The whole point of visiting an exhibition of time-based art is to take a look at it and then another look and another look but not to see it in its entirety. Here, one can say that the act of contemplation itself is put in a loop (Groys 2009, 10).

Fatto salvo l'ovvio (chi non ha calcolato la durata dei video esposti durante una mostra di video arte, arrivando alla conclusione che per vederli tutti, nella loro interezza, servirebbe una permanenza di una giornata o più all'interno della galleria?), Groys accenna a due diverse modalità attenzionali dello spettatore, articolate tramite la celebre e problematica distinzione di Marshall McLuhan tra media «caldi» e «freddi»: la fruizione dei primi è caratterizzata da un focus individuale (che condurrebbe all'atomizzazione dal punto di vista sociale) e ininterrotto, mentre l'attenzione prestata ai secondi è frammentata, ma proprio per questo partecipativa, in quanto attiva il fruitore, pretendendo una reazione, includendolo nel completamento dell'opera stessa. Nelle esposizioni contemporanee, secondo S Per una trattazione dettagliata sulla performance e sullo sguardo tipicamente turistici, e sulle conseguenze specifiche che comportano a livello di disposizione e struttura dei luoghi pubblici, si veda J. Urry, J. Larscn, The Tourist Gaze 3.0, Sagc, Los Angeles 2.011.

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Groys, la contemplazione è «fredda», partecipativa strettamente nel suo fare emergere una quantità di tempo eccessiva e superflua, che per lo spettatore è impossibile da assorbire, e che di conseguenza si trasforma in una reazione consapevole e collettiva a questo lasso di tempo insufficiente per l'elaborazione, ad esempio, del giudizio e della critica (Groys 2009, 10). Qui si tematizza un passaggio classico, quello tra uno spettatore che è meramente fruitore e uno che è principalmente partecipante-attante: se un'immagine può funzionare come una sorta di «attention trigger» (Wu 2016, 40), quindi può attirare la nostra attenzione, in ogni parentesi temporale (anche la più breve), alla parcellizzazione del tempo a nostra disposizione, quindi all'impossibilità, il più delle volte, di dedicarci senza interruzioni ad una sola esperienza (all'opposto del «botanico da marciapiede» che passeggia oziosamente, con grandi quantità di tempo a disposizione), consegue necessariamente la parcellizzazione dell'attenzione. Se per McLuhan la fruizione televisiva, ad esempio, sarebbe stata in grado di superare il focus indiviso di un singolo spettatore isolato, moltiplicandolo e rendendolo partecipativo, ad esempio Jonathan Crary, al contrario, individua con chiarezza nella televisione stessa un medium che definisce «antinomadico» proprio perché favorirebbe la sedenterizzazione, l'isolamento, la compartimentazione dell'attenzione e della consapevolezza (Crary 1999, 75) 6• Nicolas Bourriaud, nella sua trattazione sull'estetica relazionale, riserva all'arte (non alla televisione, al cinema o alla letteratura) la specifica capacità di «rinserrare lo spazio delle relazioni»: c'è da domandarsi, però, se davvero l'opera d'arte cosiddetta relazionale possa mantenere questa peculiarità, se riesca a differenziarsi in quanto «interstizio sociale» e ritagliarsi uno spazio peculiare «nell'insieme degli stati d'incontro proposti dalla Città» (Bourriaud 1998, trad. it. 2010, 16). Città che rischia di tramutarsi in una sorta di «acceleratore di intimità» (secondo una bella definizione che Nicola Lagioia ha dato di Roma nel podcast del 2021 che segue e amplia il suo romanzo pubblicato l'anno precedente, La città dei vivi), che tende a restringere gli spazi davvero pubblici, gli unici all'interno dei quali ha senso un'arte genuinamente partecipativa. Uno spazio pubblico e non commerciale non richiede nulla da chi lo attraversa per accedervi e restare; la differenza principale tra uno spazio pubblico e ' Groys conduce la stessa rifl~ionc sull'utilizzo di Internet.

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uno che non lo è, è che nel primo non si ha la necessità di comprare qualcosa (o di fingere di voler comprare qualcosa) per avere diritto di essere lì, e di rimanerci per un lasso di tempo non predefinito. Spazi non pubblici per eccellenza sono quelli che Norman Klein ha definito «scripted spaces», nei quali gli usi che ne facciamo e gli elementi che vengono selezionati e fatti emergere (ai quali, dunque, prestiamo attenzione) sono interamente direzionati, orchestrati, favoriti o esclusi arbitrariamente; una sorta di spazio-trailer, che intenderebbe "dare un assaggio" della città, in questo senso determinandola per intero come dovrebbe essere, in una direzione che ne predefinisce rigidamente tutti gli usi possibili: così, di fatto, non è, perché quegli spazi di cui è difficile, se non impossibile, determinare un utilizzo produttivo ed efficace nell'immediato rimangono, seppure ai margini. Sara Ahmed parla in questo senso di «queer use», un utilizzo "spostato" rispetto a quello prestabilito, che può rendere gli spazi stessi flessibili e imprevedibili: si tratterebbe di "disturbare" il naturale corso dell'uso anche solo per attirare l'attenzione su, ad esempio, una questione problematica e irrisolta. A questo proposito, l'autrice fa l'esempio delle pratiche di squatting, che se per un verso nascono da una reale necessità, dall'altro rifiutano, più o meno esplicitamente, il comando di non accedere ad un luogo a meno che non se ne sia il legittimo proprietario, rovesciando e svuotando di senso il presunto diritto a mantenere vuoti quegli spazi (Ahmed 2019, 210-211). L'utilizzo (come il non utilizzo) sono principi inevitabilmente organizzativi della nostra esperienza, ed è propriamente l'aspetto organizzativo dell'attenzione che rende rilevante o irrilevante ciò che ci circonda: Ahmed, in un altro testo, sostiene che «Organizations can be considered as modes of attention: what is attended can be thought of as what is valued; attention is how some things come into view (and other things do not)» (Ahmed 2021, 30). L'aspetto organizzativo dell'attenzione consiste anche nella sua capacità di istituzionalizzarsi, di costituirsi in abitudine, oscillando dunque tra questa funzione organizzativa, semplificatoria, tendente all'omogeneizzazione, e la necessità di individuare e fare emergere la novità e la diversità; più che di semplici esperienze routinarie, automatizzate, si tratta di esplorazioni compiute spesso senza sforLo in quanto sono inserite in una rete insieme ad altrettante operazioni, che si supportano a vicenda nel loro svolgersi. In generale, l'esperienza si compone in gran parte di traiettorie organizzative, che sono senz'altro modalità attenzionali: ciò a cui si presta attenzio-

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ne è ciò che viene tenuto in considerazione, il punto di riferimento per mappare la città e l'esperienza che se ne fa. Al fine di dirottare gli usi possibili di uno spazio, è necessario che questi utilizzi siano innanzitutto non interamente predeterminati; devono poter essere colti e in qualche misura compresi, elaborati collettivamente. In questo senso, le infrastrutture urbane (intese nella loro accezione più ampia come tutti gli elementi che creano condizioni e possibilità di sviluppo, movimento, relazione e in generale utilizzo degli spazi pubblici della città: dall'arredo urbano al sistema fognario, fino agli spazi di gioco e alla vegetazione) recedono sullo sfondo della nostra attenzione in quanto le percepiamo sotto una luce familiare, le utilizziamo in maniera abituale e automatizzata, dando per scontato che continueranno a funzionare senza il nostro contributo e a supportare il nostro abitare la città. Andreas Malm, nelle sue riflessioni sui movimenti per la giustizia climatica e la natura della disobbedienza civile legata ad essi, sostiene: «Il movimento deve imparare a sconvolgere il solito mercato», portando come esempio, tra gli altri, la realtà di Ende Gelande, con i suoi «dimate camps» descritti nei termini di «tendopoli-festival che prefiguravano forme di vita e di apprendimento, centri di azione collettiva contro un vicino punto di emissioni»; emerge, dunque, anche la necessità di una riflessione sull'operazione di danneggiare, o meno, le infrastrutture, tramite quelli che Malm definisce «sabotaggi», aggiungendo che «Il "patto d'azione" affermava che "agiremo con calma e cautela"; e poi che "Il nostro scopo non è distruggere né danneggiare infrastrutture"»; «I certificati di pacifismo abbassano la soglia dell'adesione a ogni tentativo di sconvolgere il solito mercato» (Malm, trad. it. 2022, 19-26-29 )7. Del resto, ragionando in termini di economia di rete e all'interno di un paradigma irrimediabilmente connettivista, difficilmente si può immaginare un fenomeno di disturbo e rottura che non "contagi", in maniera imprevedibile e in gran parte incontrollabile, tutti gli elementi della rete; proprio in questo senso, sembra, Giinther Anders parlava di «megamacchina»:

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Nella traduzione italiana del testo di Malm si è scelto di utilizzare i termini di «sconvolgere» e «solito mercato• per tradurre l'originale «The movement must lcam to disrupt busincss-as-usual», molto più radicale nel rendere l'interruzione di un funzionamento altrimenti dato per assunto, normalizzato, invisibilizzato.

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allorché la rete elettrica collassò, si dimostrò che il processo di espansione, dato che nasconde il pericolo, continuamente crescente, di un arresto o incidente, non deve semplicemente progredire in grado e misura sempre uguali, in un certo qual modo come in cerchi concentrici che si allargano sempre di più. Proporzionalmente al crescere della macchina in megamacchina, della megamacchina nel complesso di megamacchine e dal complesso di mcgamacchine in un'intera rete di complessi; proporzionalmente a tutto ciò, cresce anche il pericolo del fallimento, addirittura della catastrofe. Finché una macchina lavora in relativo isolamento, la probabilità ch'essa venga contagiata dai difetti di altre macchine (o ch'essa contagi le altre macchine con i suoi difetti) è assai minore che quando essa è interdipendente con altre macchine. Il fallimento di un singolo apparecchio resta relativamente privo di conseguen7..e. Ma se dal funzionamento di un pezzo di apparecchio I dipende il funzionamento di un pezzo maggiore di apparecchio II e da questo il funzionamento del pezzo ancora maggiore di apparecchio III ccc., allora cresce anche il pericolo che ogni singolo pezzo, con la sua possibilità di fallire, racchiude in sé (Anders 1980, trad. it. 1992, 111 ).

Inte"ompere la funzionalità dell'infrastruttura può significare, tuttavia, anche farla emergere in quanto tale: l'interruzione può essere portata avanti consapevolmente, intenzionalmente, in maniera partecipata, ma si può trattare anche di un "errore di sistema". Stephen Graham e Nigel Thrift, in Out of Order. Understanding Repair and Maintenance, sostengono che «Things only come into visible focus as things when they become inoperable - they break or stutter and they then become the object of attention. The background is thereby foregrounded» (Graham e Thrift 2007, 2): il processo secondo il quale la momentanea assenza di una infrastruttura la rende visibile (quando fino al momento dell'interruzione del suo funzionamento era normale darne per scontato il funzionamento stesso) viene definito «unblackboxing infrastructure». Bruno Latour, nel glossario conclusivo di Pandora,s Hope. Essays on the Reality of Science Studies, definisce in questi termini il concetto di «blackboxing»: «An expression from the sociology of science that refers to the way scientific and technical work is made invisible by its own success. When a machine runs efficiently, when a matter of fact is settled, one need focus only on its inputs and outputs and not on its internal complexity» (Latour 1999, 304). Anders utilizzava a questo proposito il concetto di «scarsa appariscenza»: gli apparecchi, non rivelando più le loro reali potenzialità, sono «percettibili» ma non «riconoscibili», fingendo «un'apparenza che non ha nulla a che fare con la loro

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vera natura»; in questo senso il procedimento della scoperta dello scopo di quel prodotto è quasi sempre totalmente nascosto, sia per quanto riguarda l'origine, sia per quanto riguarda la funzione (Anders 1980, trad. it. 1992, 27-28). La dinamica del «blackboxing», dunque, rappresenterebbe un dispositivo attenzionale radicalmente non-partecipativo, all'interno del quale l'attenzione può e deve concentrarsi esclusivamente sui risultati del processo, in cui si arriva, in un certo senso, già a cose fatte; non c'è elaborazione possibile della complessità e della stratificazione. Graham e Thrift sostengono la necessità di un rovesciamento di questa prospettiva, normalizzando le interruzioni del flusso di funzionalità delle infrastrutture (apparentemente stabili e inamovibili) e facendo emergere l'importanza di lavori di manutenzione, pulizia, riparazione e cura che di fatto rimangono sullo sfondo della consapevolezza: o meglio, ai suoi margini, in quanto di tanto in tanto inevitabilmente ci raggiunge il suono di un'ambulanza o di un trapano pneumatico. Non si può non pensare, in questo senso, alle famose opere dell'artista Mierle Laderman Ukeles, incentrate sull'importanza della manutenzione nello spazio urbano: in W ashingrI'racks/Maintenance: Outside (197 3) Ukeles puliva i gradini del Wadsworth Atheneum, mentre in Touch Sanitation Performance (1978-1980) nel corso di undici mesi strinse la mano e ringraziò di persona circa 8 500 addetti alle pulizie della città di New York. Al di là della pregnanza di simili operazioni (la riflessione di Ukeles si lega soprattutto alla ciclicità di alcuni specifici gesti di cura e all'esperienza della maternità), secondo Graham e Thrift l'interruzione del funzionamento dell'infrastruttura porterebbe in primo piano l'importanza dei processi di apprendimento, raccolta di dati e informazioni e la capacità di improvvisazione (Graham e Thrift 2007, 5 ): il sociologo Erving Goffman, parlando di incornicia mento e organizzazione dell'esperienza, scriveva che «This capacity to cope with a range of disruptions- anticipated and unanticipated- while giving them the minimal apparent attention is, of course, a basic feature of interaction competency, one seen to develop with experience» (Goffman 1974, 219). In questo senso, è necessario essere in grado di includere nel flusso attenzionale quelle che lo stesso Goffman definisce attività «fuori dalla cornice» («out of frame»); se il design urbano funge da cornice, non può mai definirsi una cornice del tutto neutra, come sostiene Kim Dovey in Framing Places. Mediating Power in Built Form, in quanto inquadra i luoghi di incontro, alle

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volte riproducendo relazioni di potere e dinamiche di esclusione: si pensi, per fare soltanto un esempio, al concetto di unpleasant design, esemplificato in fenomeni urbani che hanno l'obiettivo specifico di controllare (tramite i cosiddetti «agenti silenziosi») e interferire con l'utilizzo libero dello spazio pubblico. Gordan Savicié e Selena Savié, in Unpleasant Design. Designing Out Unwanted Behaviour, sostengono che la concretizzazione di questo concetto si verifichi non solo in oggetti specifici (un esempio fra tutti, la celebre «Camden bench», progettata per evitare che ci si possa dormire o sostare troppo a lungo), ma anche in manifestazioni più ampie e storicamente connotate quali, ad esempio, la ricostruzione di Parigi ad opera di Haussmann (Savicié, Savié 2014, 3-4). È opportuno citare a questo proposito anche la proposta di Fernando Dominguez Rubio e Urici Fogué. Prendendo le mosse proprio dallo sgretolamento del modello haussmanniano di città (modello regolarizzato, sanificato e normato, nel quale le infrastrutture potevano e dovevano rimanere sullo sfondo, in quanto non ancora di grandi dimensioni, centralizzate e imprescindibili per gestire città che oggi hanno invece una natura profondamente connessionista), gli autori partono dal presupposto che, se le infrastrutture hanno ormai modificato radicalmente il profilo urbano della città, non sarebbe fattibile addomesticarne («black-boxing») ogni componente, ma è anzi necessario farlo emergere e renderlo partecipato tramite l'integrazione attiva nella vita pubblica della città di alcuni di questi stessi elementi, quali, ad esempio, la raccolta e il consumo dell'acqua, la produzione di energia, gli investimenti sulle stesse infrastrutture. In un passaggio da quelli che gli autori definiscono spazi «container» a spazi «interfaccia», l'infrastruttura da «matter of fact» si trasformerebbe in «matter of concern» (riecheggiando la terminologia di Latour), tramite, ad esempio, l'operazione di «unblackboxing» il consumo di energia domestica, spostando, in questo senso, la dimensione dell'abitazione privata nello spazio pubblico (Rubio e Fogué 2013, 1040)8 • Tramite la proposta, non realizzata, di un intervento architettonico in Plaza del Generai Vara del Rey, a Madrid, nelle intenzioni degli autori la piazza stessa diventerebbe luogo polemico, di incontro e 8

Gli autori segnalano la po~ibile problematicità di tale approccio, che potrebbe comportare tendenze di banalizzazione e privatiu.azione della politica, senza di fatto condividere questa preoccupazione.

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partecipazione non semplicemente forzati e/o pubblicizzati, ma offerti come possibilità da cogliere; luogo modificato e trasformato dall'emersione e visualizzazione di operazioni il più delle volte nascoste e allontanate dalla consapevolezza dei cittadini, quali, come già detto, il consumo energetico e i fondi investiti nell'arredo urbano (Rubio e Fogué 2013, 1046). Introdurre una "crepa" nell'infrastruttura, dunque, significherebbe aggiungere un ulteriore livello di complessità visibile; Pablo Sendra, nel suo recente testo in collaborazione con Richard Sennett, propone l'aggiunta di nuove componenti al fine di compiere l'operazione di «unblackboxing», processi di riassemblaggio che possano condurre a una consapevolezza collettiva sul funzionamento della città. L'introduzione di questi elementi, secondo Senclra, può creare luoghi di accesso all'infrastruttura inseriti all'interno di spazi pubblici, permettendo l'accesso all'acqua corrente, potabile o non potabile, o a generatori elettrici per la formazione, ad esempio, di cucine comuni e altre attività (dando inizio, dunque, al processo di rendere trasparenti i protocolli di gestione, che vengono presi in carico collettivamente); si tratta, in questo senso, di problematizzare i concetti di comunità, collettività e partecipazione, nel tentativo di generare degli spazi realmente pubblici, che siano in grado di registrare dinamiche già esistenti nell'area urbana prescelta e di creare nuove relazioni. Un problema, questo, noto a tutta l'arte cosiddetta partecipativa e pubblica, anche la più avvertita, soprattutto nelle sue tendenze sitespecifìc: si pensi soltanto alla segnalazione di alcuni aspetti critici del celebre progetto di arte pubblica, Culture in Action (curato da Mary Jane Jacob nella città di Chicago nel 199 3) da parte di Claire Bishop e Hai Foster. Se la prima evidenzia il rischio di trasformare lo spettatore in un turista inconsapevole, incorporandolo in un tessuto sociale e comunitario decontestualizzato all'interno del quale la dimensione della città inevitabilmente si dissolve (Bishop 2012, trad. it. 2015, 210), il secondo, oltre a menzionare la deriva del site-specifìc verso il «turismo artistico», problematizza anche una modalità di lavoro cosiddetta «orizzontale», secondo la quale «si seleziona un sito, si studia la cultura e si impara il linguaggio, si concepisce e presenta un progetto, per muoversi successivamente nel sito successivo dove il ciclo si ripete» (Foster 1996, trad. it. 2006, 202). In questo senso, dunque, lo spettatore sempre in movimento di Groys sembra essere ulteriormente problematizzato attraverso il concetto di contempla-

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zione troncata e modalità estrattive che contraddistinguono le dinamiche attenzionali in atto. A proposito di questi progetti di stampo laboratoriale, uno degli esempi favoriti di Bourriaud nell'articolare la base teorica dell'estetica relazionale sono le opere dell'artista Rirkrit Tiravanija: Condividere il cibo con gli altri, come fa Rirkrit Tiravanija, può entrare nella sfera estetica solo se si sposta l'attenzione dall'oggetto finito al processo e al meccanismo di socialità che ne scaturisce [... ]. Certamente questo cambiamento di ori1..zonte risponde, in modo critico, alle mutate condizioni della nostra società - in cui si è chiamati, nella maggior parte dei casi, ad assistere passivamente a eventi in cui non abbiamo facoltà di controllare alcun parametro - e all'alienazione che questo sistema produce. Inoltre, tale propensione alla ricerca di un luogo per la comunità può essere anche letta come il segnale della necessità di trovare, al di là delle divisioni politiche o sociali, una controparte alla dilagante privatizzazione che conduce l'individuo a confrontarsi in modo solitario con i grandi temi della vita (Bourriaud 1998, trad. it. 2010, 125).

Tiravanija, celebre per le sue cucine, i pranzi estemporanei, i makeover di gallerie che da luoghi istituzionali si trasformano in ambienti occupati e luoghi di ritrovo, richiede allo spettatore non di "contemplare", ma di mangiare, discutere, ritrovarsi. Si tratta di autentici luoghi di aggregazione, in grado di creare «spazi liberi e durate il cui ritmo si oppone a quelle che ordinano la vita quotidiana» (Bourriaud 1998, trad. it. 2010, 16), o l'esperienza che si genera è solo apparentemente comunitaria, ma in realtà affrettata, singolare? Pure nel caso dovesse generarsi una vera e propria aggregazione, sembrerebbe replicare e amplificare eventi sociali e mondani di cui siamo già sommersi. Gli «interstizi» di Tiravanija, dunque, in qualche modo sembrano proporre soltanto un simulacro di socialità, ridotta entro confini precisi, una partecipazione forzata e monitorata e non, al contrario, facilitata, offerta come una tra le tante possibilità che lo spazio urbano presenta. Quelli dell'arte relazionale sono dunque, secondo Bourriaud, processi "aperti" (sempre a rischio, certo, di schiacciarsi meramente su ruoli di intermediazione e facilitazione dell'espressione della creatività e dell'iniziativa del pubblico) proprio in quanto non si può prestare attenzione soltanto a quelli che Latour ha definito «inputs and outputs»; procedimenti che non sono identificabili con questioni di fatto perché, almeno in teoria, sono fondati e costruiti collettivamente. È proprio su questo livello, sempre fluttuante, revo-

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cabile e continuamente da riconquistare, che lavora l'arte pubblica e partecipativa: da questo punto di vista, dunque, è interessante soffermarsi sull'analisi di alcuni dispositivi che inquadrano le traiettorie attenzionali dello spettatore, quelli che Claire Bishop definisce white cube, black box e grey zone. Il primo dispositivo viene definito da Bishop in relazione alla «temporalità museale [... ] regolata da una visione auto-diretta non sincronizzata con la folla, e dalla mobilità fisica anziché dalla stasi: una persona può camminare avanti e indietro e in qualsiasi momento all'interno di una mostra» (Bishop 2018, trad. it. 2021, 147); è in questione, dunque, precisamente il collasso di cui parlava Groys, secondo il quale il visitatore della galleria è necessariamente in movimento continuo (sia nel caso di una immobilizzazione dell'immagine all'interno dello spazio dell'esibizione, sia per quanto riguarda le opere «time-based», come le definisce l'autore). Il secondo, invece, viene caratterizzato tramite modalità attenzionali appartenenti alle cosiddette «convenzioni teatrali»: interessante notare come la scatola nera, anche in questo caso, venga ricondotta a specifiche dinamiche di visibilità e controllo. Bishop stessa, a questo proposito, cita (contestandolo) il drammaturgo Howard Barker, che tratteggia i contorni del teatro nei termini di scatola nera in senso fisico e morale: «In light you are only half-conscious of the stage and half-conscious of your neighbour. In ali collective culture your neighbour controls you by his gaze. [... ] In the black box you are trusted to be free, to be solely responsible. [... ] the onus is placed on the audience not as a collectivity, but as individuals. [... ]. Because the box is hidden from the world, it owes as little as it wishes to the world, the rules in the box are different from the rules outside it» (Barker 1989, 131 ). Senza dubbio è implicata una dinamica non partecipativa, uno spazio rigorosamente non-pubblico, isolato, ritagliato rispetto a dinamiche esterne; come evidenzia Bishop, però, non è del tutto vero che le dinamiche attenzionali di monitoraggio all'interno della scatola nera siano sospese. Si tratta, comunque, di «apparati presuntamente neutri che guidano e gerarchizzano l'attenzione. Costruiscono soggetti di visione, fondati su convenzioni comportamentali non dette e consolidate nel tempo. [... ] Entrambe le discipline informano un modello borghese del soggetto, fondato sul monitoraggio dei propri vicini alle prese con azioni di comportamento non adeguate» (Bishop 2018, trad. it. 2021, 147). "Aprire" la scatola nera, dunque, significherebbe scoprire le dinamiche attenzionali del pubblico, ren-

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derle visibili, scombinarne la gerarchia, moltiplicarle, oltre che far emergere la necessaria non-neutralità di tale dispositivo. In questo senso entra in gioco quella che Bishop definisce «zona grigia», in grado di riportare in primo piano la «spettatorialità come socialità»: tramite l'innesto della «dance exhibition» nelle sale dei musei, «una visuale mono-prospettica viene rimpiazzata da una prospettiva multipla e dall'assenza di un posto ideale dove sostare [... ] A causa della posizione non definita dello spettatore, i protocolli che riguardano il pubblico sono meno stabili e più aperti alla trasformazione» (Bishop 2018, trad. it. 2021, 147-148). Più in generale, dunque, si tratta di una ri-localizzazione dello spettatore, che non solo è in continuo movimento, ma acquisisce libertà maggiore per quanto riguarda la direzione dello sguardo (e non solo): gli utilizzi dello spazio e le traiettorie attenzionali sottese a quegli stessi usi non sono predefinite e prevedibili e, di conseguenza, sono sempre più difficili da gestire e monitorare. Se lo sguardo dello spettatore/cittadino è dunque decentralizzato, spostato su prospettive inusuali (magari su oggetti marginali, in opposizione al focus su luoghi monumentali e iconici), l'immaginario urbano sembra dipendere in questo senso da una reciprocità tra l'osservatore e l'ambiente: quest'ultimo suggerisce rapporti e assemblaggi che l'osservatore da parte sua seleziona e organizza in prospettiva (anche) adattiva. Viene da pensare, in questo senso, alla definizione di architettura come descritta da Henri Lefebvre: Si usa creare puntualmente (punto per punto) delle corrispondenze fra i bisogni, le funzioni, i luoghi, gli oggetti sociali in uno spazio presupposto come neutro, indifferente, oggettivo (e innocente); dopo di che si costruiscono i legami. È questa una procedura che ha un rapporto evidente con la frammentazione dello spazio sociale, mai però resa esplicita come tale. La teoria della corrispondenza puntuale tra i termini (funzioni, bisogni, oggetti, luoghi) porta così alla formulazione di progetti che sembrano chiari e corretti per la sola ragione che sono delle proiezioni visuali sulla carta e sul piano di uno spazio falsificato in partenza. [... ] non si tratta di localizzare nello spazio preesistente un bisogno o una funzione, ma al contrario di spazia/izzare un'attività sociale, legata ad una pratica sociale nel suo complesso, producendo uno spazio appropriato (Lefebvre 1975, trad. it. 2018, 25).

L'architettura risponderebbe, dunque, a un mero processo di codificazione-decodificazione, «un modo di rappresentare, di saper

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fare formalizzato e codificato. [... ] un filtro, in grado di selezionare i contenuti, capace di eliminare questa o quella parte del reale, capace di integrare e colmare a suo modo le lacune del testo» (Lefebvre 1975, trad. it. 2018, 28). Si prospetta, dunque, la possibilità di una riflessione sulla natura "antistrumentale" dell'arte, ragionando sugli inevitabili residui che un meccanismo filtrante lascia dietro di sé; soprattutto, se questa stessa natura sia davvero in conflitto con la questione della pianificazione urbana, che ha in gran parte carattere inevitabilmente progettuale. L'arte, infatti, viene da sempre relegata in qualche modo al residuale, al rimosso, all'indistinto (alle «zone grigie»); di fatto, però, il progetto può anche non essere inteso soltanto come imposizione dall'alto di una chiarificazione, ma, al contrario, può fare emergere gli aspetti meno sistematizzabili della natura urbana e una molteplicità di punti di vista diversi: non si tratta, dunque, necessariamente di una pianificazione già interamente predefinita. Un progetto, di fatto, può essere lasciato cadere dall'alto e solo dopo collocato in una comunità; o, al contrario, può essere realizzato all'interno di una situazione sociale definita e specifica e, successivamente, definito nei termini di progetto artistico nei termini di una conseguenza. Oltretutto, è ipotizzabile lo spostamento sullo spettatore di quell'operazione di filtraggio di cui parla Lefebvre, il prestare un certo tipo di attenzione non già determinata, in qualche modo "liberata". Sebbene Bishop collochi il dispositivo attenzionale della zona grigia in un luogo teorico preciso (quello della riflessione sulla dance performance) si tratta di una suggestione interessante per ripensare uno spazio al di fuori delle dinamiche di controllo e monitoraggio che spesso intersecano i luoghi pubblici. L'autrice, in Inferni artificiali. La politica della spettatorialità nelf'arte partecipativa, problematizza, tramite i testi di Jacques Rancière, il binomio tra uno spettatore attivo e uno passivo, che finirebbe in un vicolo cieco in quanto inevitabilmente ipostatizza uno spettatore e una partecipazione "puri" e ininterrotti; successivamente, Bishop sostiene che lo spettatore è sempre, in un certo qual modo, distratto, e che quella della concentrazione assoluta, dell'unità percettiva totale, è un'utopia: la condizione spettatoriale si forma ed esiste tramite un continuo sovrapporsi di attenzione focalizzata, "interna", e comunicazione tramite pratiche attenzionali chiaramente esternalizzate (Bishop 2018, trad. it. 2021, 159-160). In generale, quella di un'attenzione contemplativa e ininterrotta è un'istanza rivendicabile? O

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si tratta di un richiamo anacronistico, quando si possono e si devono considerare modi alternativi e diversi tra loro di prestare attenzione ai cosiddetti "prodotti culturali" (se poi è possibile farne una categoria)?9 Un modello che prevede uno spettatore completamente assorto e concentrato è quantomeno localizzato storicamente, e non necessariamente replica bile. Nella sezione conclusiva di Suspensions of Perception. Attention, spectacle and modern culture, Jonathan Crary riporta integralmente la lettera spedita da Sigmund Freud alla famiglia mentre si trovava a Roma, nel 1907. Si tratta di un testo esemplare nell'illustrare le dinamiche attenzionali partecipative che si intrecciano nello spazio urbano; Freud descrive dettagliatamente un evento specifico (una sera di tarda estate in cui gruppi di romani si recano a Piazza Colonna) e l'incrociarsi repentino e stratificato degli oggetti dell'attenzione di quello stesso gruppo variegato e fluido di persone: la musica suonata dalla banda, pubblicità, fotografie, immagini, corti cinematografici proiettati sugli schermi tra i palazzi, le urla dei distributori di giornali, le chiacchiere dei clienti di un ristorante, gli applausi, le corse dei bambini. Si tratta, secondo la lettura di Crary, innanzitutto di uno spostamento rispetto ai rimandi classici, precedentemente citati, del flaneur e delle pratiche situazioniste, in quanto nel testo viene descritto un vero e proprio sgretolamento della concezione puramente individuale dell'esercizio dell'attenzione 10, un'attenzione necessariamente "nomadica ", che deve essere in grado di fluttuare, spostandosi sulle transizioni, i margini di un'esperienza che è (anche) immersione nella realtà densa e intrecciata di un mondo condiviso e necessaria9 E non solo per quanto riguarda i prodotti culturali: si pensi anche, ad esempio, alla questione dell'attenzione e dell'impossibilità di un focus ininterrotto in materia di interesse pubblico; Anthony Downs, in un articolo intitolato Up and down with ecology - the "issue-attentim, cyde•, «Public lnterest», 28, 1972, Summer, p. 38, ha analizzato come l'attenzione degli americani riesca raramente a rimanere focalizzata efficacemente su un'unica questione di ordine pubblico. Downs parlava di un "'ciclo", secondo il quale un problema occupa lo "'spotlight", rimane in primo piano per un certo lasso di tempo, insufficiente perché si possa creare un margine di effettivo cambiamento politico, e poi, ancora irrisolto, ritorna sullo sfondo dell'attenzione, sostituito immediatamente da un'altra questione; il ciclo si ripete all'infinito. 10 «The autonomy, the privacy that Freud sccms to be arrogating for himsclf herc (figured at the end of his letter by the insularity and sensory remove of his hotel room) is a futile evasion of the deindividuation which he cxperienced in the piazza and which impellcd his retrcat to a more controllablc form of lonclincss» (Craryrary 1999, 370).

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mente delocalizzato, un campo multidirezionale di stimoli all'interno del quale quei riferimenti monumentali e iconici cui si accennava in precedenza perdono importanza. Lo stesso Freud, curiosamente, non riesce a ricordare se nella piazza ci fosse una fontana oppure no, in quanto evidentemente non aveva costituito il focus principale del suo sguardo; più avanti, si correggerà e scriverà alla famiglia che la fontana, di fatto, c'è (Crary 1999, 367). Più che la connessione, tracciata da Crary, con la nozione freudiana di attenzione fluttuante (che pure è teoricamente fondamentale), è interessante ripensare queste modalità attenzionali in connessione con quella che Yves Citton definisce «attenzione collettiva»: l'autore sostiene che, nonostante sia di fatto impossibile monitorare l'attenzione in ogni singolo momento, si può, nella maggior parte dei casi, modificare l'ambiente che condizionerà quelle stesse traiettorie attenzionali. Questa «agency attenzionale indiretta» può operare su quattro livelli diversi, uno dei quali è proprio quello dell'attenzione collettiva, che si articola precisamente nel pubblico, esemplarmente negli spazi urbani. Citton sottolinea come sia difficile, ma comunque possibile, promuovere misure che modificheranno il «media environment» che condizionerà la nostra attenzione futura, intraprendendo ad esempio rinegoziazioni e rinnovamenti contrattuali a livello locale per quanto riguarda i legami con le agenzie pubblicitarie che si occupano di tappezzare le città di manifesti. Altri livelli, sempre incorporati nel tessuto dell'attenzione collettiva, sono quelli della «joint attention», dell'attenzione individuale e di quella computazionale: quest'ultima in particolare intesa come la capacità di usare, controllare e riprogrammare infrastrutture tecnologiche che esternalizzano le nostre traiettorie attenzionali, legata alla concezione latouriana di black box (Citton 2019, 3-4). Di fatto, lo spettatore sempre più spesso pretende di ricoprire il ruolo di agente (ad esempio nel corso di una performance artistica), per poi, allo stesso modo, ritornare alla sua condizione originale di fruitore, dandosi la possibilità di ripercorrere, archiviare, mostrare le operazioni effettuate durante la parentesi partecipativa. Contro una prospettiva come quella di Groys, secondo la quale «The act of contemplation itself functions today as a repetitive gesture that can not and does not lead to any result - to any conclusive and well-founded aesthetic judgment, for example» (Groys 2009, 10), Bishop sostiene invece che «è perfettamente possibile che un'attenzione incorporata coesista con l'elaborazione di pensieri profondi e un processo parai-

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lelo di archiviazione continua» (Bishop 2018, trad. it. 2021, 162). Proprio in questo senso, i progetti partecipativi possono fare emergere focus inaspettati, senza limitarsi alla mera riqualificazione che concepisce lo spazio urbano semplicemente come incorniciamento e decoro; si tratta di uno spostamento che, se riuscito, è verificabile a livello di impatto locale, nella misura in cui si attua un cambiamento nella percezione del luogo, che scombina e rinnova le dinamiche di socialità e di convivenza nello spazio pubblico. In questo senso, la modificazione dello spazio urbano non può «restituirci uno spettatore pienamente concentrato», pena la perdita di «fruizione dell'interfaccia con il pubblico in tutta la sua molteplicità incontrollabile e distratta» (Bishop 2018, trad. it. 2021, 162). Se, dunque, l'invisibilizzazione delle infrastrutture non è inevitabile, si può di fatto pensare, fuori da ogni retorica, a quella che Johann Hari nel suo ultimo libro ha definito «attention rebellion» (Hari 2022, 277), o alla "resistenza" tematizzata dal teorico dei nuovi media James Williams (tramite il ripensamento della natura e degli obiettivi della pubblicità e delle coordinate, decise a priori, del design attraverso l'elaborazione di meccanismi avanzati che assicurino trasparenza e responsabilizzazione), non tanto però con l'obiettivo di riconquistare collettivamente un focus monoprospettico e ininterrotto, quanto nei termini di una riappropriazione delle traiettorie attenzionali, nel tentativo di scombinarle, moltiplicarle, diffonderle orizzontalmente: renderle partecipate. Bibliografia Ahmcd,Sara 2019 Wbat's tbe Use? 011 the Uses of Use, Duke University Press, DurhamLondon. 2021 On Being lncluded. Racism and Diversity i11 lstitutio11al Life, Dukc Univcrsity Prcss, Durham-London. Anders, Giinther 1980 Die Antiquertheit des Me11scben. Il. 0ber die Zerstorung des Lebe,is im Zeitalter der dritten itldustrielle11 Revolutio11; trad. it. L'uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita 11ell'epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992. Arnstein, R. Sherry 1969 A Ladder of Citizen Participatio11, «Journal of the American Institute of Planners», 35, 4, pp. 216-224.

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Hodos: The Streets and Methods of (Post-)Pandemic Cities Nanna Verhoeff

Entering: Urban Life Today

As a contribution to a book that seeks to explore experiences of life and its forms in the contemporary city, I will attempt to map out some of thc aspccts and clcmcnts, movcmcnts, and stratcgics, that wc dcploy to livc, act and intcr-act in our urban cnvironments, spccifically now that our social fabric has bccn so thoroughly uprootcd by thc COVID pandemie and its demands for our immediate response. In order to sketch some insights into this constantly changing disorderly order, taking into account the instability confronting thc structural rccurrences or permanents, in this chaptcr, I want to addrcss thc tcmporary redcsign of thc public spaccs of thc (post-)pandcmic city. My analysis cxplorcs how this outlincs thc conditions for distancc and presence, mobility, and connection. Specifically, I will propose a set of conceptual coordinatcs to think about, or think with, thcse current urban intcrvcntions from a crcative-humanities perspcctivc. This proposal brings togethcr a reflection on what wc sce happening on the strcets of our cities with a methodological rcflcction on the intcrsections of urban, creative, and thcoretical practices. 1 To situate my aim, let me first acknowledge the contemporary momcnt of writing this chaptcr as thc global pandemie has impacted, stili is impacting, or will soon again impact our locai conditions for urban living - at home, in shops, schools, and in our workplaces, but pcrhaps mostly on the (acccssibility of} our streets: en route, on the commutc 1 Although my examplcs are European, takcn from my own dircct cnvironment in The Ncthcrlands, the issucs broachcd hcrc have much widcr rclcvancc. For a more global pcrspcctive and examplcs from also the Global South, scc the rcport of the UNESCO Creative Cities Network (UCCN): uncsdoc.uncsco.org/ark:/482.2. 3/pfoooo3 742.64.

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between these places. Streets have been emptier than usual, or our passages in public spaces have stopped, halted, or been rerouted. The past two years have been challenging, frightening, frustrating, and also insightful and productive in different ways for ali of us, glocally. Wc have been dealing with illness and perhaps even death, with anxiety and grief, stress and boredom - going in and out of lockdowns, working and schooling from home, in our layercd, shrinking, and expanding bubbles. But this is only one side of the undcniably problematic situation. For, in addition, thc possibilities for movcment and circulation, connection and exchangc havc not only bcen diminished but also been differentiated and, in some ways, also multiplied. For, online communication has exponentially increased our connectivity from and between the different domains we inhabit. In our efforts to stay mobile, conncctcd, and productive, we respond to the current situation from thesc various domains, whcthcr or not they are ali located in the same piace: at homc, school, work, health center, or in other places and venucs, while we negotiate our own or other people's absence and presence. In order to achicvc that negotiation, we have been navigating changing circumstances and thc shifting rhythms, pace, or stopmotion of our activities. For thosc of us working in academia, our workload secms to havc doublcd, with our productivity both skyrocketing in some areas and grinding to a halt in othcrs. Of coursc, this increase or decrcase depends very much on the momcnt or the task at hand. Some new working formats, questions, and dcbatcs may inspirc us. Focus and ovcrall physical as wcll as intcllcctual cncrgy, howcver, have also been escaping us at sometimes crucial moments. In the face of these challenges - on individuai and global scales, and pertaining to our bodies, minds and hearts - questions about possibilities and impossibilities for adaptation and resiliencc have becn loud and pcrsistcnt. Thesc questions and challengcs pertain to our daily life, our work lifc, and our public life. They interfere in our scholarly and didactic practiccs. In that practical framcwork, they ask how our embodicd cxperienccs impact on our thinking. The ovcrall question that emerges, then, is this: How can we best (re)design our rescarch and teaching? This entails thc following more spccific questions, which ali havc a practical sidc to them, as well as intcllcctual conscquences. How could - or pcrhaps evcn should - wc rcspond to societal issues, and contribute to public debates? What are ncw,

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renewable, or remaining possibilities for scholarly exchange? How can we foster insight and inspiration from the current moment that is productive for our short-term and longer-running research agenda's? And what are the methodological implications of the research questions now presentifying themsclves? These questions are sometimes urgent and demanding, and sometimes inspiring, as they bring together the conundrum of the present and the possible of the futurity that this present also harbors. 2 But equally important, bccause simultaneously and intimately connectcd to our persona! experiences and scholarly practiccs, the creative ficld is also responding. What insights are artists, activists, designers, performers and curators providing us, with their reflections and proposals? What is their role in the temporary or perhaps longer-term reconfigurations of our homes, schools, offices, and public spaccs and the connections between them? How can creative design suggest new contours for our public presence and mobility? It may be able to do this by shaping productive distance, (re)routing our passages, and reconfiguring the "ins and outs" within and between these spaces. But then, we must wonder, and examine, what design principles work for and with these challenges and questions in shaping responsive and situated proposals. To further situate the writing of this cssay, its aim is also inspired by the coincidence of, and connections between, two projects I was involved in and that took shape during the first phase of the global pandemie. The first was the co-curation of the Media Architecture Biennale of 2020 (postponed until the Summer of 2021) and the cowriting for a book project Criticai Concepts for the Creative Humanities (Van der Tuin, Verhoeff, 2022). This book was written during the first year of the pandemie. It is a book that proposes a glossary of theoretical concepts for a creative-humanities approach for contemporary (mostly or primarily urban) culture. Both projects explicitly, albeit differently, deal with the intersection of daily (urban) life, artistic and creative work, and cui turai inquiry. This makes them rclevant for the goal of the present essay and the context of the book in which it appears. 2

Some rcccnt publications that addrcss, prcciscly, COVID~s impact on both our (media) culture and on our scholarship about it are Ong and Negra (2.02.0); Keidl, et al. (2.02.0); Kopccka-Picch and todzki (2.02.2.).

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First, the Biennale. The timing of this edition of the Biennale was poignant. With the curatorial theme of "Futures Implied", its focus was on the role of (media) architecture and design practices in and for public space, and the futures that are implied in this design. The perspective the Biennale proposed is one that productively brings together the future-orientation of creative practice with the criticai engagement with the past and present of cultural analysis. As such, the Biennale reflccts on how design proposals for our citics can offcr productivc forms of engagement with already-prcsent, yet to be fostered, made resilient and also transformative potentials of urban life. In other words, it fosters thc possibility to affirmatively work with and through various pressing and intcrsecting urban challenges and frictions, in order to make things bettcr whilst "staying with the troublc", to put it in Harawayan terms (Haraway, 2016). Or, in other words, to avoid escapist, denying, or too-dismissively solutionist attitudes in response to, any trouble that thc historical momcnt prcsents us with.3 Then, thc book. In its different medium and format, this publication also addresscs thc dual role of creativity and criticality in engagemcnts with contemporary (urban) life. It sketchcs the conceptual terrain of a creative humanities that takes shape at the productive meeting point of theory and philosophy of the humanities. This approach is inspired by new materialism and media and performance theory. It cncounters creative practiccs, in the broadcst scnsc of thc word. This implics an engagemcnt with contemporary culture that cmbraccs the uncertainty of the position and moment of being "in-betwcen". As wc have articulated this in the introduction: Thc creative aspcct in creative humanities takes shapc in thc (litcrally) productivc conncction betwccn making practiccs and thinking practiccs: making asi through thinking and thinking as/through making. These generative practices are emphatically expcrimental and comfortable with knowledge production in unccrtainty, multiplicity, and friction (Van der Tuin, Verhocff 2022, 2).

In the following, I want to bring into connection the current temporary redesign of urban public spaces on a strect levcl with artistic work that responds to such ncw framcworks, guidclincs, and challenges, and with possibilities for and being present, mobile, and conncctcd in our 3 For more about the Biennale and thc curatorial statcment about the topic of "Futures Implicd", scc www.mab2o.mcdiaarchitccture.org.

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citics. Avoiding any attcmpt at fixating what is by dcfinition in movcmcnt, in-bctwccn and across thcsc cvcry-day and artistic cncountcrs I will propose a set of conccptual coordinatcs that togcthcr sketch a pcrspcctivc on thc not only current, but perhaps fundamentally unfìnished nature of cities and urban living. This implics that pcdestrian intcrvcntions - both in the sensc of "everyday" and "on strcet-level" as per its Latin etymological root of "pcdestcr", meaning "going by foot" - and artistic intcrvcntions, including reflections by artists on such intcrvcntions. Both are inspiring examples of the "futures implied", in a phenomcnological as well as a methodological sense. Tue cncounter this spcctrum of interventions yields offers a productivc ground for distilling a mcthod that brings together cngagcd criticality and productivc crcativity - a creative humanities engagcment with what wc may cali thc hodos of urban living.

Hodos: Concepting (with) Interventions

Ancicnt Grcek tcrminology was, and stili is frcquently deployed as providing concepts for specific domains within urban societics and ccologics. Well-known cxamplcs are dcmos (thc public), oikos (home), agora (market), polis (city), or gaia (carth). In linc with thcsc othcr invocations, I propose to adopt hodos to denotc thc strect or "strcet level" of urban living. Etymologically, hodos (òooç) means threshold, road, or street, but importantly also "journey" or "way"- in the combination of a "way to get somewhere" and a "way of thinking". This doublc mcaning also bccomcs clear in thc compound-word methodos (µé8o6oç) which connccts "meta" (pursuit) with "hodos" (way) as the "way towards". Hodos as a concept, thcrefore, not only refcrs to the strcct as a location, or a lcvel on which we locate "public space", but also, and more spccifically, to thc situatedness of urban experiences, relations, and practices that emerge from and in this location, as we traverse public space, along the way. Hodos as bctween locus and trajectory, bctween "street" and "way", then, articulatcs a performative pcrspcctive on the city as a sccnographic grid on (or against) which we move, act, and connect, or navigate (Verhoeff 2012). As more than a word, bccause also harboring such a performative perspective, this approach to creative humanities takcs on (or takes off from) the concept of hodos to conncct thc strect with mcthod.

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At this point, a fcw words about this shift from word to conccpt to mcthod are in ordcr. In practicc, mcthods are pcrhaps applied in thc creative acts that rcspond to a qucstion or nccd. Howcvcr, bcforc such applications, mcthods are alrcady implied, hiddcn in thc conccpts with which wc makc scnsc of thc world, our dircct surroundings, or thc tasks at hand, rcalizing thcm in our thoughts and acts. In thc act of mobilizing conccpts in rcsponsc to qucstions, whcthcr concrete or abstract, thcir mcthodological and criticai potcntial bccomcs actualizcd. This, I and my co-author of thc glossary mcntioncd abovc havc callcd thc "mcthodologicity" of conccpts: As proposals to tbink witb, tbcorctical conccpts are mini-tbcorics that articulate - tbat is, givc cxprcssion to and (bcncc) actuali1..e - and activate "structurcs of feeling" [..• ] and constructions of tbought. As our partncrs in tbinking and making, tbcy can be tbc tools or instrumcnts tbat providc pcrspectivcs on objects (for examplc, tbings, events, pbcnomcna) and our rclating witb tbcm by bringing in and out of focus aspccts, proccsscs, and implications. [...] The precise unfolding of this proccss in analysis or crcation mobilizes (or articulatcs and activatcs) a conccpt toward an argument. Orto flip tbis dcfinition, conccptual argumcnts build on tbc situatcd activation of a conccpt in rclation witb an object (tbing, cvcnt, pbcnomcnon) and a subject wbo activcly draws (out) tbis rclating. This is bow tbc mctbodologicity of conccpts - wbat tbcy do and bow wc work witb conccpts - harbors thcir criticality (Van dcr Tuins, Vcrhoeff 2022, 6-7; cmphasis in tcxt).

What, thcn, is thc mcthodological hcart of hodos as a conccpt, and its potcntial for criticality? Whcn wc takc thc strcct as thc situation whcrc things happcn, whcre wc not just happcn to be but more importantly, whcrc wc movc, act, and conncct, thc strcct is vcry much thc domain whcrc urban, public life takcs shapc. This wc can cali in ontological tcrms thc flow of its site-specifìcity. Tue phcnomcnological and cpistcmological undcrpinning of thc conccpt suggcsts how this is both situational (of cxpcricnccs) and situated (of knowlcdgc ). I propose, thcn, that a pcrspcctivc on thc hodos, or urban living at a "strcct-lcvcl", thcrcforc, brings togcthcr thesc thrcc aspccts in rcflcction on how sitc-spccific phcnomcna bring forth situations in which thc subjcct, in rclation to hcr surroundings, can pcrccivc and rcflcct on hcr surroundings, and on hcr ambulant, mobile position within in. Position and mobility go hand in hand. Such a situatcd and performative pcrspcctivc on hodos is particularly rclcvant whcn wc think of how intcrvcntions work - whcthcr

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they are practical and pedestrian, such as, for example, the current signage on the pavement for sodai distancing, or artistic and activist projects. It helps us think how these interventions work with, and in response to, this tripartite perspective on the street-level of urban living, and whether or not the latter address larger societal, ecological, or health-related challenges and questions. As interventions, working from an inherently temporary, that is, a time-based, impermanent, and inherently mobile and dynamic situatedness within the mediatized infrastructures of our public space, wc can recognize experimental - and hence, also inherently provisional - strategies deployed in experimental artistic projects. Such projects work to make visible and thereby debatable, or by exploring alternatives, for example, by repurposing, rescaling, repositioning, or reterritorializing the technological assemblages that shape our habitats and habits. However, in other interventions that are more practical and mundane, we may recognize similar strategies, albeit for a different purpose. This view of interventions of ali kinds connects hodos to methodos: the situated, street-level of the "method" of urban intervention. Urban interventions, as temporary and experimental - in the widest sense of the word - in various ways offer specific perspectives on the city from such a situated perspective that harbors a transformative potential from both a creative and criticai stance. As the mundane and sometimes regulatory practices - e.g., currently the use of chalk, tape, paint - point to a future implied, artistic work points back to, and reflects on, such practices. With such a firmly situated, "hodological", experimental engagement with (and in) the contours - as figurative demarcations and performative incentives - of public space for our experiences and actions in it, criticai artistic and/or activist work is radically different from any sort of external, dismissive form of critique. With, inquisitive, that is, searching and analytical responses to the challenges and questions of urban publicness in our time, wc can notice urban interventions on the street level. Wc can consider these not only descriptively, as positions or locations, but also fundamentally, as strategies for a perhaps more productive form of relating and reflecting on the city's "futures implied". This relating through situating ideally yields not only a reflection on the situation, as if one were not fundamentally part of it. More importantly, it offers reflection on its (and our) own position

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in the thick of our piace, space, and time, which is, simply put, our street-level presence in contemporary cities. The intervention as cultura) "object" - think of examples such as performance, text, image, installation, or screen - reflects on the conditions within which it is cmbeddcd, as wcll as on thc matcrials it works with. But it al so reflccts on its own potcntial as part of, and beyond, this condition. Moreovcr, through its situatcdncss in public space, thc object positions its public as collaborators, or participants invited to be part of a (self-)reflexive process. This change of status performed by the object of course also affects the researcher and her methods.

Figuration: Plotting with Chalk, Paint, and Tape

Let us return to what we encounter on the street. In various states of lockdown, re-opening, and with changing rulcs for distancing, the strcets and surfaces of our cities are tcmporarily marked with points, circlcs, arrows, and lincs. Thcsc figurcs structurc our possiblc presence and itincrarics of our passagcs on thc strects, in the parks, and within the walls of public spaces. The pavements, grass, monuments, and walls function as canvasses for signage, imagery, and writing. This is done with ephemeral materials such as chalk, paint, and tape. In a short essay I co-authorcd with my colleague, performance studies scholar Sigrid Merx (2021) wc havc called thcse signs "figurations of inter-mediacy": visual forms that plot, or insert, outline, and thereby structure temporary scenographies for performing presence, mobility, and connectivity in public space. With "plotting" I allude to thc inventive creation of a plot, a narrative of cvcnts happening in a predictable sequcntial order. The conccpt of figuration, here, rcfers to the way in which spatiotemporal re-design - c.g., by mcans of such ephemeral, surface materials - pre-structures the possible movements, directions, or actions that it affords and invites. Inter-mediacy refers to the in-betweenness - agentially, temporally, and spatially, hence, plot-wise - of the responsive, performative, and inherently unfinished charactcr of such acts of figuration. 4

.f For thc gl~ry cntry on thc conccpt of figuration, scc Van dcr Tuin, Vcrhocff, 98-100.

2.022.,

HODOS: TIIE STREET ANO METIIODS OF (POST-)PANDEMIC CITIES

1. Imagc: Sannc Lcufkcns for Platform Sccnography. www.thcatcrkrant.nUnicuws/andcrhalvcmctcrthcatcr-platform-sccnography.

A temporary plotting of space that marks where to stand or sit, or to go from "hcrc" to "thcrc" is a plotting of presence as wcll as of (staggcrcd) mobility. Wc can scc thc use of dots, or closcd circlcs, and thc lincs betwccn thcm, to indicate intcrmittcnt standing positions and the proccdural order to follow to gct to the end point (fig. 1 ). But wc can also recognize a plotting of presence in the use of open circles paintcd in, for example, the grass in parks as the outlining of spatial containcrs, or "tcrrains" - a plotting of dwclling (fig. 2). Such markings of container spaccs can also be sccn in thc plotting of spaccs for collcctivc presence; for cxamplc, thc brackcting of standing positions by paintcd dots and circlcs or taped-off squares plotting public spaces for collcctive protcsts (fig. 3). Plotting (in) thc strcct as an urban sccnographic act in currcnt (post-)lockdown cities thus involvcs thc use of figurcs and shapes that both indcxically indicate and symbolizc "cndorscd" positions. For cxamplc, a dot or a closcd circlc marks where wc are to stand. Or the figures may symbolize the border of a tcrrain, as "safe spaces" with open circlcs or squarcs. Thcsc figurcs can be sccn as scripting space, marking

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2.. Kccs Joostcn. www.stadslcvcn.nuho2.olo5/3o/ccrlijk-dclcn-van-dc-adcmruimtc-inpandcmictijd.

3. ANP. www .omrocpbrabant.nVnicuws/3 2.13 863/tilburg-vcrwacht-:r.atcrdag-hondcrdcn-dcmonstrantcn-tcgcn-racismc.

HODOS: TIIE STRE.ET ANO METIIODS OF (POST-)PANDEMIC CITIES

both an inside and an outside of where one can be present amongst otbers. Or, as media scbolar Marek Jancovic puts it poetically: Evcn adhcsivc tape, in its sticky ordinarincss, can tum into a complcx tcchniquc of inscri ption. Arrows and lincs and various tcxtual instructions can be writtcn on thc ground in tape. Suddcnly, cntcring a supermarket rcquircs chorcography and dircction. Thc ground becomcs a lcgiblc medium, dictating how wc must oricnt our bodics and what directions wc havc permission to takc Uancovic 2020, 223).

Tbese allusions to scenograpby, or here, choreography, suggest not only a system of regulation and contro), dictating or prescribing possible movements, but can also be understood as a form of experimental design tbat is responsive, performative, and inberently unfinisbed. 5 I have used the qualifier "unfinisbed" a few times above already. This notion is not as casual as it might bave seemed so far. It can transform from a word to a concept. In bis work on, wbat be calls unfinished media, media tbeorist and pbilosopber of tecbnology Roy Bendor cbaracterizes unfinishedness as a strategy of tbose media or texts tbat "provide scaffolding for imaginative engagement [... ] in order to engage, evoke, provoke, or stir tbeir users' imagination" (Bendor 2018, 146). While bis perspective is on unfinishedness as a strategy to entice tbe imagination, in tbe cases I am bringing in bere, I see unfinisbedness as a starting point and outcome, yet also as tbe process of performative acts of, and because of, figuration. The ambiguity of tbe concept of "contour", for example, binds tbese two aspects - figuration and performativity - together. Tbe unfinisbedness of more functional acts of figuration in public space have inspired responsive and interactive media installations for public space tbat demonstrate also aestbetic and reflexive ambitions. Examples of design proposals for public space are Persona/ Space in Cities by experience designer Lim Si Ping and ber interactive art studio bandson (www.hellohandson.com/work) and the Smart s Thc ncccssity of such interventions in pandemie cities has inspired various ludic and anistic creative design proposal. Scc for cxamples thc collcction asscmbled in thc online magazine Dezeen (www.dczccn.com/tag/social-distancing) or collcctcd by Sam Beli in thc aniclc "14 Clcvcr Design Solutions from Around thc World" forthc LA Time.s (Dcccmbcr 2.9, 2.02.0; www.latimes.com/cntcnainment-artslstoryho2.o-12.-2.9/14-clevcr-covid-19-design-solutions-from-around-thc-world).

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Distancing System by artists/designers J61an van der Wiel and Nick Verstand (jolanvanderwiel.com/projects). Both are prototypes of media systems that use motion tracking technology, data visualization, and light projections to track and trace the spaces around bodies in movement. Projecting dynamic and shape-shifting drawings on the pavement of our streets or floors of the indoor public spaces of transit, such as airports, railway stations, shopping malls, and more, they demonstrate how figurati on, here qui te literally, also reflects back on us. Indeed, intervening in the already-present, and therefore less-obtrusive structuring principles of signage that usually directs and regulates our movements and behaviors within public space, the temporary use of chalk, paint, and tape - or light - not only offers contours as performative maps for presence, mobility, and connection, but also, by means of indexicality, make us aware of our own dynamic positioning within these unfinished performative spaces. Crossing: Experimenting with Installation, Performance, and Mediation

A concept that inherently appeals to an awareness of unfinishedness and performativity is crossing: the crossing of lines, possibilities, spatial demarcations, to name but a few. From theend ofMarch until the beginning ofMay (2021), De Pont Museum in The Netherlands presented National Chain 2020/Social Practices (fig. 4), a project by the American artist Rita McBride, and a collaboration with the German-Cypriot choreographer Alexandra Waierstall and students from Fontys Dance Academy located in the city of Tilburg in The Netherlands. Planned to be able to be shown live, if possible, for the duration of the exhibition, De Pont Museum, like ali museums in the country, had to keep its doors closed during the lockdown. The installation-with-performance could, however, also be followed via livestreams and on sodai media, specifically via the project's Instagram account (nationalchain_socialpractices). The work as we got to see it consisted of a re-installation of Rita McBride's work National Chain (1997 ): a monumental grid that is suspended on shoulder height throughout the centrai museum space, located in a former textile mili, and divides the space into segments of egual size - not coincidentally in squares of 1,5 x 1,5 meters, the

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4. Rcné van dcr Hulst.

Dutch standard for sodai distancing rules at the moment of its installation. For the duration of the museum's closure, the installation was activated and demonstrated by the dancers. As stated in the project's press release, the work invites reflections on the reconfigurations of public space as a result of COVID-related distancing rules by offering a site of experimentation and pia y: National Chain 2.02.o/Social Practiccs is in rcsponsc to a rcqucst from Dc Pont to addrcss thc rcmarkablc impact COVID-19 has had on socicty. [... ] Visitors are cncouragcd to cngagc with thc floating structure and navigate togcthcr, cxploring thc pcrspcctivc shift that allows for funny, playful and informative intcraction in the ncwly dcfincd public space cstablishcd in 2.02.0.

As we now know, on-site and filmed dancers had to be our proxies as their performative explorations of the installation enabled and demonstrated the activation of its affordances for movement and interactions. The artist Rita McBride states: 2.02.0 has brought us many opportunities to become more conscious of the basic assumptions we have for accepted socia( interaction. National Chain

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has always provided a shift of perspective for people who have engaged with the installation over the years. It always offered experiential surprise and humor; providing new positions for looking, relating, moving and standing still6 •

There are many points of connection between this work and todays' question around redesigning contours for presence, mobility, and connection in public spaces. Not only because of its symbolic use of a suspended grid materializing in, and taking over, the museum space, but also because of its shaping of, and in, intergenerational, inter-disciplinary and inter-medial collaborations. Its experimental characteristics, as well as its multi-platform, and spatiotemporally and materially distributed format connected to the questions with which I began this essay. As we wrote in our glossary, The conccpt of "crossing" both activates its meaning as a noun - a crossing - and as a verb - to cross. As such, it harbors a specific spatiotemporal logie. A crossing as a meeting point is both an endpoint and starting point - a where and when crossings can happen and take off. A crossing is a nexus in motion - a movement of convergencc (of a past), intersection (in the present), and divergencc {toward a future) with the performative potential of interferencc or diffraction {Van derTuin, Verhoeff 2022, 64).

In McBride's installation, we see crossing at work in a great number of ways. For example, as a location to cross on the street, we see the intersection of moving bodies, structures and obstructions that shape the grid on which these bodies interact, separate, and pass one another. The act of crossing is here challenged. The grid-shape of the installation is not only horizontally cut up in squares, but also vertically it divides the space: bodies must duck, jump, climb, in order to cross. As a media space, the installation crosses domains of online and offline, and digitai and physical mediation. In a locked-down museum space it becomes an experimental lab version of the street, attempting to intersect and interconnect between the inside and outside. The undefined status of the space as it is figured is characteristic, not only of an emergency solution to the lockdown problem but also,

' Prcss release for tbc cxhibition, availablc at https://dcpont.nl/uscr_upload/uscr_upload/ Prcss_Rclcasc_McBridc_Waicrstall_and_Fontys_Dancc_Acadcmy_at_Dc_Pont_muscum.pdf.

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more generally, it functions as a statement on the fundamentally unfinished state of ali public space.

Unfinishedness: Staying with the Draft

Way, pathway, trajectory: these nouns ali suggest both development and endpoint or destination. Paradoxically, any destination also suggests following directions and destinations that its "future implies". This leaves every design also a draft. About design for cities, architect and theorist Gretchen Wilkins and researcher in computational design Andrew Burrow recommend we should embrace its inherent unfinishedness as they ask if the endpoint of design perhaps best considered a final draft: lsn't kecping things unfinished the most open and the best way of getting things done? [...] If final drafts indicate that a picee of work is effectively done, but not finally, they also indicate future potential within that work (more than a tennination of it) [...] If endings are then designed with this agenda, to anticipate or encourage future work, then incompletion and completion might coexist as two sidcs of thc samc coin, stratcgically as well as incidcntally (Wilkins, Burrow, 98).

With their positioning of unfinishedness as also at the heart of finishing, they conceptualize both unfinishedness and the draft. Drafts are materiai (sketchy, moveable, temporary), representational (need interpretation), functional and proposing as well as creative and criticai (as they cali it, "creatively incomplete", 100). This calls for an embracing of the paradox between states, of any state being ambiguous and conversational, as well as meaningful and ambitious (future-oriented). In hodological terms, Wilkins and Burrow state that "a key to acting in the new networks and navigating their shifting connections is [... ] to adroitly manoeuvre in the territory of finishing" (101). This is the method of hodos. In this essay, it was my intention to suggest some conceptual coordinates to think about and with design interventions that respond to the need to rethink the shaping of our public spaces by offering possibilities for presence, mobility, and connection within the paradoxical parameters of spatial distance. From a creative-humanities perspective and zooming out on contemporary city life, I was enticed

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to reflect on the hodos as the site-specific, situational, situatedness of the street. From a methodological reflection on the intersections of urban, creative, and theoretical practices it seems not only permissible but even logical to exit this reflection with an endorscmcnt of unfinishedness, or in a more common word, the status of any brief, provisional urban situation as always a draft. Staying with that is a way of keeping the pursuit of redesigning new possibility constantly alive, mobile, and positionally specific. Only with that endorsement is it possible to continue drafting, and thereby bettering thc sodai fabric of thc urban environmcnt. Bibliography Haraway, Donna

2.016 Stayi11g with tbe Trouble: Making Km in the Cbthulucene (Durham: Duke University Prcss). Jancovic, Marek 2.02.0 "Glass, Adhcsive Tape, Boom Mie: A City in Crisis in Three Acts,,, in Philipp Dominik Keidl, Laliv Melamcd, Vinzcnz Hcdiger, Antonio Somaini (cds.), Pandemie Media: Prelimitzary Notes Toward an lnventory (Liineburg: meson prcss), 22.1-2.26. Keidl, Philipp Dominik et al. (cds.) 2.02.0 Pandemie Media: Prelimitzary Notes Toward att lnventory (Liineburg: mcson pre~). Kopccka-Piech, Katarzyna, Bartlomiej t6dzki (eds.) 2.022 The Covid-I 9 Pandemie as a Challenge {or Media and Communicatio11 Studies (London: Routledge). Ong, Jonathan Corpus, Negra, Diane 2.02.0 "The Media (Studics) of the Pandemie Moment: Introduction to the 2.oth Anniversary Issue," in Televisio11 & New Media 21, 6 (Scptembcr): 555561. Van der Tuin, Iris, Verhoeff, Nanna 2.022 Criticai Omcepts {or tbe Creative Humanities (Lanham: Rowman and Littlefield). Verhoeff, Nanna 2.012 Mobile Screens: The Visual Regime o{ Navigatio11 (Amsterdam: Amsterdam University Prcss).

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175

Verhocff, Nanna, Mcrx, Sigrid 2020 "Mobilizing lntcr-Mcdiacics: Reflcctions on Urban Sccnographics in (Post-)Lockdown Citics," in Mediapolis: A]ournal of Citiesa11d Culture, 5, 3 (August 17 ), www.mcdiapolisjournal.comho20/08/mobilizing-intcrmcdiacics. Wilkins, Grctchen, Burrow, Andrew 2013 "Final Draft: Dcsigning Architcchturc's Endgamc," in Architechtural Design 83, 1 Uanuary/Fcbruary): 98-105.

III La città e i suoi ordini di realtà

Introduzione Tommaso Morawski

La città non è fatta solo di pietre, edifici, strade, ponti o porte. La città è anche un luogo mentale che ospita modi di vita, pratiche, percezioni, rituali, movimenti, umori e sentimenti. Come spiega Richard Sennett: Fu la lingua francese per prima a risolvere questa distinzione implicita, utilizzando due diverse parole: ville e cité. In un primo tempo si riferivano alle dimensioni: ville indicava la città nel suo complesso, cité designava un luogo specifico. A un certo punto del XVI secolo, la cité giunse a connotare lo stile di vita di un quartiere, i sentimenti della gente nei confronti dei vicini e degli stranieri e il suo attaccamento al luogo in cui viveva. Questa antica distinzione oggi è caduta in disuso, per lo meno in francese[ ... ]. Sarebbe tuttavia opportuno mantenere l'antica accezione, perché esprime una differenza fondamentale: da una parte il territorio edificato, dall'altra il modo in cui la gente abita e vive. Oggi a New York gli ingorghi all'imbocco di tunnel mal progettati appartengono alla ville, mentre la vita frenetica che spinge i newyorkesi a intasare i tunnel al calar della sera appartiene alla cité (Scnnett 2018, trad. it. 2018, 11-12).

Questa distinzione, che Sennett giudica fondamentale, tra il territorio costruito da una parte, e il modo in cui la gente abita e vive in una città dall'altra, non sembra essere più sostenibile 1 , soprattutto alla luce delle trasformazioni tecnologiche che nel corso degli ultimi decenni hanno contribuito a riconfigurare lo spazio urbano come uno spazio ibrido. Un fenomeno, quest'ultimo, che interessa la me-

1

Così come, ad un livello più generale, non sembrano più accettabili i vecchi schemi binari che caratterizzavano lo studio della città e della sua storia (per esempio localcglobale, urbano-rurale, centro-periferia, ma anche città di Dio e città dell'uomo, cultura e natura). Per una critica all'approccio binario negli studi urbani si veda Brenner (2.I3, trad. it. 2016).

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TOMMASO MORAWSICI

dialità2 dell'esperienza cittadina nel suo complesso e i cui effetti - in parte esasperati dall'esperienza della pandemia - non possono essere limitati a una sola delle due facce della medaglia. Come ha osservato anche Scott McQuire, la proliferazione di piattaforme mediali, di dispositivi mobili e di schermi ha messo bene in evidenza una modalità distintiva dell'esperienza urbana che si fonda sulla «Co-evoluzione tra ambiente costruito, tecnologia mediale e pratiche sociali» (2010, 13). Assumendo implicitamente tali premesse, l'obiettivo generale di questa sezione è proprio quello di indagare tali processi di co-evoluzione per cercare di ricostruire come particolari piattaforme mediali si siano progressivamente innestate nel tessuto cittadino, ibridandolo, e contribuendo a riconfigurare schemi e ritmi della socialità urbana. Se il saggio di Mario Neve, attraverso un confronto con i concetti della filosofia di Gilbert Simondon (individuazione collettiva, metastabilità), offre un quadro generale sui processi di evoluzione della città, che l'autore considera il primo e più antico esempio di "intelligenza artificiale", gli altri contributi trattano della medialità della città contemporanea da una prospettiva ogni volta diversa. Il saggio di Giacomo-Maria Salerno prende in considerazione "la città delle piattaforme" (principalmente le piattaforme turistiche) e riflettendo sul caso di Venezia ci mostra come queste ultime abbiano contribuito a trasformare tanto la sua organizzazione interna quanto i modi della sua esperibilità. Il saggio di Fabrizia Bandi e Andrea Pinotti si concentra invece su quei fenomeni di mixed reality che ibridano lo spazio fisico con oggettualità digitali, trasformandolo in uno spazio urbano aumentato. Di pratiche simili, ma con un focus specifico sul gaming, si occupa invece il saggio di Manuel Maximilian Riolo. Il contributo di Tommaso Morawski, infine, si occupa dei processi di rimediazione che hanno caratterizzato la produzione cartografica della città negli ultimi centocinquant'anni.

2. Per Régis Dcbray, in mcdiologia «il termine "medio" - non significa né "media" né "mezzo", ma mediazio,li», cioè «l'assemblaggio dinamico di procedure e corpi intermedi che si inseriscono tra la produzione di segni e la produzione di eventi. Questi intermedi appartengono agli ibridi (Bruno Latour)», sono «mediazioni allo stesso tempo tecnologiche, culturali e sociali» (Debray 1994, 2.9, traduzione mia). Per l'idea della città come medium cfr. il saggio di Friedrich Kittler (2.013, 181-197) Die Stadtals Medium.

INTRODUZIONE

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Bibliografia Brenner, Neil 2013 Theses on Urba11katio11, «Public Culture 25», pp. 85-14; trad. it. Tesi sull'urba11izzavone, in Id., Stato, spazio, urba11izzazione, Guerini e Associati, Milano 2016, pp. 105-138. Dcbray, Régis 1996 Mani{estes medialogiques, Gallimard, Paris. Kittler, Friedrich 2013 Die Wahrheit der technischen Welt. Essays zur Genealogie der Gegenwart, Suhkamp, Bcrlin. Scnnett, Richard 2018 Building and Dwelling. Ethics {or the City, New York, Farrar, Straus and Giroux; trad. it. Costruire e abitare. Etica per la città, Feltrinelli, Milano.

Cities' Mind: Some Lessons Learnt from the Mediterranean Mario Neve

'Ali kids should be cntitlcd to a good cducation at a school within cycling distancc.' "'That•s out-datcd idcalism, Mr. Connors. Pcoplc are cntitlcd to what thc data says thcy dcscrvc.' Rob Kitchin (Graham, Kitchin, Mattero, Shaw 2.019) 1.

Back to the future

Italo Calvino wrote in 197 5 a brief article (197 5, 199 5) in which his longtime reflection on cities is condensed into an evolutionary sketch of how cities evolve. Of the two renowned metaphors employed for cities - an organism, a machine - Calvino definitely leans towards the first one. He reads cities' evolution as if they were living organisms, whose survival depends not only on their most recogni7.ably successful fcatures, but also (and even primarily) on some neglected, contrasting traits 1 • More often than not, in fact, it is precisely such latent, virtual characters that allow cities to face unexpected changes, not provided for by their originai framework. Besides, each city, to him, lives thanks to an implicit program (one could say, a genetic code), designated in the antiquity as the spirit of the city, whose protection was ascribed to the gods who presided over its foundation. From Calvino's considerations I will retain two main points being valuable to the theme of the present essay. First of ali, the evolutionary image of the city as an evolving organism (while the machine metaphor must not be dismissed this fast, 1

Scc Gould, Vrba (1982.).

MARIO NE.VE.

as it will become clearer later on); second, the double-edged idea of city's spirit-program, which may quite well be developed to elucidate what it is meant here by "city's mind". To begin with, in his famous book Invisible Cities, Calvino tells us that the city of Octavia, the "spider-web city", the city that lives above the void, offers residents a life that is "less uncertain than in other cities". How can it be? Because the net, which is the foundations of the city itself, its vita I structure, is fragile, but its very fragility constitutes the measure of the limit of which the inhabitants must always be aware in order to live safely. It is interesting that the image of the netto designate a city, in a book from the 1970s, can easily evoke today the Web, the network of networks which is considered to be the true heart of cities' smartness. But is that it? What is at stake here is the planning's failure to take into account the materiai and intangible sides of cities' nature at once: the "two cities" which premodern thought was well aware of. Richard Sennett, in his Building and Dwelling, underlines two meanings historically attached to the idea of what a city is: The French language first carne to sort out this distinction by using two different words: ville and cité. Inirially these named big and small: ville referred to the overall city, whereas cité designated a parricular piace. Some time in the sixteenth century the cité carne to mean the character of life in a neighbourhood, the feelings pcople harboured about neighbours and strangers and attachments to piace. This old distincrion has faded today, at least in France; a cité now most often refers to those grim locales which warehousc the poor on the outskirts of towns. The older usage is worth reviving, though, becausc it describes a basic disrincrion: the built environment is one thing, how people dwell in it another. Today, in New York, traffic jams at the poorly designed tunnels belong to the ville, whereas the rat race driving many New Yorkers to the tunnels at dawn belongs to the cité (Sennett 2018, 1).

Today this distinction is no more in use, but, as Sennett acknowledges, is a very old one. Even older than Sennett openly admits (Farinelli 2010). The distinguished scholar Émile Benvenistc has long since demonstrated that such opposition is a basic one in Indo-European languages, and, especially, in Latin and Greek (Benveniste 1969, 367). It points out a fundamental difference in the ways the two cultures meant citizenship: while both kept the distinction betwcen the built

cmEs' MINO: SOME LESSONS LE.ARNT FROM rnE MEDITERRANl!AN

city (asty in Greek, urbs in Latin) and the inhabited city (polis in Greek, civftas in Latin), for the Greeks it was the bclonging to the polis which made the inhabitants citizens, while for the Latins it was the community of citizens (cum-cives) the ground on which the entire city relied. This cultura) distinction is rclevant to our topic for the emphasis on thinking about cities considering the two sides of the urban coin, the two cities, at once, as a whole. And this approach is ali the more important today, since mainstream urban planning is stili too focused on the city of stones, the built environment, while, at the same time, the city of pcople is undergoing a radical change. Bcsides, the same idea of "built environment" is misleading in itsclf. The English phrase 'built environment' doesn't do justice to the idea of the ville, if that word 'environment' is taken to be the snail's shell covering the living urban body within. Buildin~ are scldom isolatcd facts. Urban forms have thcir own inncr dynamics, as in how buildin~ relate to onc anothcr, or to open spaces, orto infrastructure bclow ground, orto nature (Sennett 2.018, 2.).

Moreover, what if planning solutions, apart from overlooking the complexity of cities, what if they were applied to a vanishing socia) fabric? Fact is that, notwithstanding this situation was foreshadowed already in the 6os by some urban planning scholars, like Melvin Webbcr, the practice of public urban planning is stili anchored to an old fallacy pointing at the missing link in which resides the gap between the two cities. Planning stili seems disinclined or unwilling to give up the old "therapeutic illusion of space": that is, the idea of improving the whole city's lifc by operating on built environment, assuming, in doing so, that there is a natural overlapping between physical space and socia) space, while it is not the casc2. Such fallacy is ali the more detrimental today when, on the one hand, one belongs to different and dclocalized communities of interests and the quantity and intensity of individuai interactions are no longer a direct function of proximity and population density; on the other hand, the constant attempt to characterize one's own expcriences relative to places is not abandoned. 2

Scc Maciocco, Tagliagambc 2009,

1-2.

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In addition, the sodai tensions fueled by the crisis3 come from a dissolving sodai terrain, which, as Alain Touraine has long demonstrated, is composed of individuals who increasingly do not consider themselves in sodai terms but rather in cultural ones: for short, political (and even sodai) rights are losing ground when compared with cultura/ rights. The crociai question at the core of the crisis can be summed up as follows: The crisis and the end of the socia( lead in very diverse directions, from the return of the idea of seculari1..ation, which eliminates ali recourse to principles external to social exchanges, till to the most extreme forms, that is to say the most desocialized, of individualism, which define a minimalist morality [...] knowing that, in industriai society and in previous societies, the socia( actor was orientcd by a meta-social principle- God, the human nature, progrcss or the future - is it possible for us, in a post-sodai situation, to find an equivalent - necessarily non-socia/ - of these principles? (Tourainc 2013, 79 italics added)

However, the end of society comes during a phase of convergence of demographic and family structures, of literacy rates, drastically reducing the differences between the spaces of experience and the horizons of expectations of what once were considered mutually exclusive closed civilizations4. What we thought as compact and coherent civilizations, based on different and specific cultural models, are in fact locai or regional answers or solutions to global issues, in a generai framework in which new forms of physical and informational mobility (no longer limited to the obsolete notion of migration5 are increasingly loosening the long-standing ties between territories and cultures6 • The spatial multiplicities that we persist in calling them societies (Sloterdijk 2004) cannot be understood by insisting on their presumed overlapping with not only national spaces but also with a sodal space that would accommodate them ali, ordering them, based on now-obsolete conceptual pairs - work/non-work, individual/social, innovation/backwardness - nor it is more helpful the obsessive search 3 Triggcrcd by 2.008 subprimc mortgagc crunch and brought up to an unprcccdcntcd low by thc pandemie. -t 5cc Courbagc, Todd (2.008). s Scc Hocrdcr (2.002.). ' Scc Roy (2.008).

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for neologisms, which characterizes much of current research in the sodai sciences to account for such slippery situations. In such a complex scenario, the issuc of citics' smartness has becn seen mostly through the lcnses of management engineering, economie, and computing approaches, as the dominant rcpresentatives of the idea of rationality. One of the most rcnowned definitions sounds: "smart cities are those that are able to shift from being just reactive to being proactive, based on the use of bettcr information" (Eric Woods in Granelli 2012, 39) and is conccrned with the improving of cities' life by exploiting informati on technologies: basically, a city is smart when has better information availablc and makes good use of it. Tue problem is that the idea of smart city comes from the world of corporations, specifically IBM and Cisco, and thc basic tcnets of the model and thc language cmployed carne accordingly. It is not a chance that in the case of the project by IBM for Italy it was used the expression smart towns, so misunderstanding the nature of Italian cities, equating cities' size with their development's degree. This is a crociai mistake in misintcrpreting the concept of scale. Given that the most relevant theories about human mind have cstablished that our minds are not just computing machincs processing information, but indced they are producers and processors of meanings7, and that the relation betwecn people and urban places is complex (not just a mutuai relation but a coevolving one), I contend that not only esscntially any city is smart (just like wc say that living organisms, like plants, exercisc intelligcnce) (Mancuso 2020), but also that the issue at stake is which options planning and decision-making select among the many evolutionary paths a city can follow; and, as a basic tenet on which the previous statements ground, that the city, seen as an originai human environment, is possibly the oldest known f omz of artifìcial intelligence.

2.

Infomzation revisited

In ordcr to make scnsc of such claims, we necd to bridge thc gap betwecn thc two cities, and to do that it is necessary to resort to thco7 Scc for instancc: Rowlands (2.010), Longo (2.02.0), Tagliagambc (2.02.0).

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ries and models overcoming tbe divide between hard and soft sciences, and particularly to tbe work of Gilbert Simondon. Tbe missing link between tbe two cities can be identified in tbe process of "taking root" in tbe placcs, tbc "rooting" so vividly dcscribcd by Simone Weil. So, let's pause for a moment and tbink bow can a slippery notion like rooting-wbicb looks like it was made for frustrating any quantification's attempt - be a bridging concept. Our working bypotbesis is tbat in informational terms, rooting relics on tbe rolc tbat codes and scales play in placcs. Oversimplifying, wc can dcfine a code as a cboicc witbin a repertoirc of possibilities, of representations and adaptive reactions (eitber produced by experience or passed on) tbat processes sensory data into information, and tbe memory as a coding structure made of expectations and coding skills. 8 Now, stili in informational terms, in tbe face of tbc unexpcctcd, tbe uncoded, tbe creation of a new code is necessary, and tbe new code, to be efficient, must be infonnation preserving: information sbould be preservcd no matter on what scale. As I bave stated earlier, tbere is a misunderstanding made by mainstream interpretations of smart city's topic, and it concerns tbe conccpt of scale. Evcn in tbc insigbtful remarks by David Harvey on scale tbere is stili a patent difficulty in finding in-bctwcen lcvel of analysis (besidcs tbe overused couplc locaUglobal) wbicb could account for tbe complexity of issues involved (Harvey 2012, 69-70). Most of tbc time, tbc notion of scale implicitly or cxplicitly employed is tbc cartographic one9, based only on tbe quanti'tative side of reality. But tbings are more complex tban tbat. Fact is tbat wben we tbink in terms of large or sma/1 scales, we are not simply 'moving' along a quantitative range only 10, but we are 8

Scc Boisot (1995). Bcing maps objccts dcccptivcly familiar, thcy oftcn work thc oppositc onc would cxpcct: whilc in informai cvcryday spccch wc are uscd to say 'at a largc scale' thinking about somcthing which covcrs a grcat cxtcnsion, in cartographic tcrms onc rcfcrs to thc rclation bctwccn numcrator and dcnominator of scalc's ratio. Sincc 1:500 mcans that onc unit on tbc map (c.g., 1 cm) is cquivalcnt to 500 units (5 m) on the ground, if I want to rcprcscnt largcr arcas, I bave to makc, so to spcak, thc dcnominator 'grow' - 1:1000, 1:2.5000, 1 :100000, etc. -, but in this way thc numera tor 'shrinks'. This is thc rcason why a world map is drawn on a vcry small scale: 1:40-50 millions, whilc on a scale of 1:500 wc can rcprcscnt a city block at most. 10 Scc: Racine, Raffcstin, Ruffy (1980), Péguy (2.001), Sayrc (2.009). 9

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also implying qualitative and tempora/ issues, whose interactions are non-linear (Raffestin 1983). Complexity cannot be investigated in terms of a single object or level of observation, since meaning is never context-free, and information is differential (Bateson 1972), so it grows insofar as differences grow, which means, fora complex entity like a city, to the extent interconnections grow. Then reasoning in terms of scale implies being aware that scale is a code linking contexts of meaning. On a large (locai) scale the codes are more linked to socia/ practices, while on a small scale the codes work on a more abstraa level, linked to representations and models. On the other hand, each code always depends in part on its own context, so there can be no absolute efficiency in coding, nor creation ex nihilo. The same is also true in the other sense: contexts escape an exhaustive description. Besides, the fact that, with regard to human cognition, the computing notion of information has been "identified with 'knowledge construction' and more generally 'intelligence'", puts aside the undeniable fact that "meaning results from an active friction with the world" (Longo 2020, 70, 89 ): a fact ali the more important when it comes to complex assemblages of living organisms, tcchnical infrastructures, and natural milieu like cities, and calls for some caveats. First and foremost, the distinction between knowledge and information: Information is not the same thing as knowledge, though the two concepts overlap. Knowledge refers to ideas and facts that a human mind has internalized and understood: how to fix a flat tire, the name of a really good dentist, speaking French. Acquiring knowledge means absorbing a lot of infonnation for examplc, how to use French irregular verbs correctly. Often, the mind acquires and organizes such information in a spontaneous and even subconscious fashion, the way a child lcarns to speak or a taxi driver knows her way around town. At other times, the acquisition of knowledge requires studying, a slow and difficult process (Hcadrick 2.000, 4).

Taking into consideration the fact that knowledge in itself depends on "being in a world that is inseparable from our bodies, our language, and our sodai history - in short, from our embodiment" (Varela, Thomposon, Rosch 1993, 49), there is an historical tipping point, which is responsible for having implemented the dichotomy between the formai elaboration of information and the production (even imaginative) of sense, while enhancing the former to the detriment of the latter (Longo 2020 ).

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"According to [premodern] traditi on, the 'practice' is actualized, while 'knowledge' ensuring its consistency is virtualized" (Raffestin, Bresso 1982, 188), and this correlation mediated by work, therefore by sodai practices, preserved an effìcient ratio between individuals, the environment and community. On the other hand, in the face of sudden, profound, unexpected changes, this relationship was abruptly cracked: an environmental catastrophe could deeply upset everyday life and unravel the territorial system, showing the impotence of tradition. The modem sol ution to this deadlock was, in fact, the separation between knowledge and practices. The predictability is the great power gained by humans in enhancing explicit, formai knowledge. A power by which they could afford to overcome many of the uncertainties which locai lore's logics were unable to face. Such predictive character of explicit knowledge is granted by the use of models, "powerful instrument of an explicit and formulated information being, for thinking, like the tool that everyone carries with oneself and uses by its own forces" (Simondon 2008, 177), just like mapping. The massive development of knowledge since the Scientific Revolution mainly owes to such dichotomy, along with its awesome technological supplement - technological above ali in the sense of the subsequent (and stili in good health) hookup of technology research with industriai production. In fact, such development should have to favor mutually compatible standards and information infrastructures in order to allow different inventions to take piace in constituting "techno-geographical milieus", i.e., territorialities. As a matter of fact, locai knowledge was not eliminated, as it is the very ground on which knowledge is generated, even in the case of scientific inquiry: Scicntific knowlcdgc glcancd in laboratorics is thus lcss about thc local instantiation of univcrsally valid facts than about what onc writcr calls 'thc adaptation of one local knowlcdge to create anothcr' [...]. To put it anothcr way, the reason a person gives for bchaving in a certain way is setting dcpendent. This mcans that standards of practical rationality - what passes as a good reason for bclicving somcthing-arc spatially rcfcrcnced [.•• ]. Rationality is always situatcd rationality. And it is always cmbodicd rationality (Livingstone 2003, 142; 184).

On the other hand, as already said, the production of knowledge remains localized, and could not be otherwise.

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The differences between the building of Chartres cathedral, for example, and modem tcchnoscientific practice lie not in the posscssion of some secret or mysterious skill nor in some cssential difference between science and tcchnology on the one band or between theory and practice on the other. Both science and tcchnology, now and in the past, are the product of locai and tacit knowledge. The differences between them lie in the social and technical means by which locai and mcssy knowledge and practices are made robust, coherent, and mobile, that is, in the ways in which the site-spccific or even problem-spccific products are added to the work of previous individuals or groups of workers or transmitted to another site (Turnbull 1993, 317).

So, if cities for a long time were built relying on an inseparable blend of knowledge and practices - in which the body stili played a major role- modernity, in "combining abstract mathematics and practical measurement" (Crosby, 1997, 17), created a gap that would have revealed itself more and more hard to bridge.

3. Milieu, piace, rooting To go further and show on what grounds such changes modified the way cities evolve - developing more and more machine-like features - it is necessary to ask ourselves how urban places are related to the modalities of formation of collective individuation. Tue only theory being able to provide a substantive contribution to any effective attempt to answer to such qucstions is Gilbcrt Simondon's. In his view, almost like a harbinger of the bio-cultural evolutionary model to come (Stone, Lurquin, Cavalli-Sfoaa 2006), are encompassed both the biological domain and the cultural one. Tue individuai is not seen as a given, as an outcome, but as a process, and a process that needs its collective dimension to be effective. It should be remembered that, to Simondon, what marks the difference of living's individuation against the other beings is the tempora/ factor and living's everlasting state of individuation, its metastability, because living's process of individuation concerns, at the same time, the outer and the inner, for the individuation also implics the communication of living being with itself. Then, the living being communicates with itself and its milieu. Milieu it must be here understood in a twofold sense: the milieu as the environment that any living being

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structures, composes, but also as what mediates -in a technical sense, it is a means - so creating a real in-between world11 • The concept of milieu emphasizes the dynamic character of places, not static containers of things and beings, but nodes of forces, actions, desires, values. A group of human beings, to live in a certain environment, processes its own world, in which territory is the techno-symbolical medium, being it, at the same time, the technical response to the needs of the group with respect to environmental factors, and the materialization of the idea allowing to elaborate that response (and to develop it or reject it later). Every human generation is born within a given technological horizon which constitutes its technical milieu of reference - the way of the water to fish as in the Aristotelian example: living environment unperceived. This accounts also for the group, the collectivity, as the transindividual individuation of which each member is the amplifying condition. In this perspective, information is nota thing, it doesn't concern a unique homogeneous reality, but it is a relation. It concerns two disparate realities in tension, the sense emerging from their individuation as a system. If any communication is individuation and that is why forms take piace, individuating communication informs, it is information. A being is ncvcr complctely individualizcd; to exist, it must havc the power to continue individualizing by resolving the problems of the milieu that surrounds it and that is its milieu (Simondon 2005, eng. trans. 2020, 292) 11

These aspects are of great value to our argument: the collective character of the individuating process, the correlative coevolutionary relationship with the milieu (in a broader sense), the always partial resolution of individualizing's dynamics resulting in a constant mismatch, a phase shift, between individuai and collectivity. Simondon calls the non-individuated surfcit, as it is known, preindividual. It is the pre-individual rcality prior to any individuation, an individuation whose each stage is never fully accomplishcd. The prcindividual presents itself both as "a kind of unresolved past" and as "the environment of the individuai identified. The environmental context 11 11

Scc Iacono (2.016), Tagliagamcbc (2.008). Scc also Combcs (2.013).

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(perceptual or linguistic, or historical), which is part of the experience of the individuai, is, in effect, an intrinsic component (if you prefer: inner) of the subject. Tue subject does not have an environment, but it is, in a certain part of itself (the one not individuated) environment" (Virno 2001, 2 3 6). So there is a double distance in piace, as it were, from the milieu and from the group: not due to a presumed inability to reach a suffident degree of togetherness, but, on the contrary, because of the human's natural artifìciality. Here lies the disjunction between space and society, a constitutive and genetic trait of the sodai phenomenon, 1 3 being exposed in the Mediterranean in forms which encourage an interpretation at the height of its complexity, therefore capable of recondling the novelty of the results and the archaic nature of its logie. From an evolutionary point of view, the human animai, since it does not live in an ecological niche, is constantly pressed by a surplus of informational stimuli always exceeding the amount of information strictly necessary for self-preservation, the reason why human milieu is characterized by uncertainty and potentiality of meaning. One must interpret and, therefore, choose a path, because "the glut of impressions and solicitations doesn't result in a detailed catalog of vital requirements." Ali this implies a necessary distance of the human animai to the environment informing human doubleness: that is to be "a naturally artifidal animai, namely an organism whose biologically distinctive trait is culture" (Virno 2010, 30, 33). However, the fact that the human animai - due to its own natural artifidality - lives in an excess of information cannot be solved in a simplistic opposition between the human world and the environment. In reality, the human animai is constantly trying to reduce the informational indeterminacy by its historical-social acts, produdng "historical sodai niches" (Virno 2010, 39). This situation can be defined, in Simondon's terms, as metastability. Rooting, then, acts as a homeostatic device, contriving habits and practices, codes, in other words, reducing the potentiality of meaning, so ensuring a proper ratio between information and actions. But this ratio, in turo, it is not stable, because it is the product of historical and sodai choices, and a crisis of information's reliability is stili possible. •3 Scc: Simmcl (1908), Tarde (1895), Slotcrdijk (2.004).

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Niches coevolve through the mutuai interaction between organisms and milieu (Odling-Smee, Laland, Feldman 2003) so, since for historical sodai niches such interplay is driven by cognition (culture) and the wiring must be occasionally refitted to face change, rooting triggers niche's vital metabolism, keeping active tbe dynamics of individuation, in wbicb aestbetics (in its originai sense) also plays a decisive role 1 4. It is rooting tbat concretizes tbe relati on among individuals so building a social memory. It reifìes relations turning places into transindividual milieus (wbile a tbin line marks tbe boundary between transindividual reification and fetishism: between a relati on through tbings and among tbings) 1 5. A forcrunncr of nicbc construction tbcory, Hcrbcrt Simon (1996; Callcbaut 2007) 16 took cuc just from mcdicval towns, as dcscribcd by Lewis Mumford in bis renowned The Culture of Cities, to point out tbe mutuai relation between tbe urban community and its milieu, and bow towns bad to resolve tbe problems of tbe milieu tbat surrounded tbem to kcep living, as Simondon would bave put it. This means tbat tbe genetic asymmetry individuaVgroup can sustain coevolution as long as sucb interplay works. Tbe mismatcb bctwecn individuai and group is positive providcd tbat it unfolds tbrougb tbe mediation of places acting in a metabolic relation fed by rooting, wbicb balances experiences and expectations. If sucb bio-cultural mctabolism is divertcd, deflected, or cvcn blockcd, tbere is no transindividuation but atomization. Besides, rooting is not meant to be bere as an exclusive feature of sedentism. Nomadic people are rooted as well, inasmucb as tbe metabolism of group's twofold relation witb tbe milieu keeps working 17• Tbc outdated Italian exprcssion "comune sentire" wbicb was once a synonym for public opinion, can tbercforc be undcrstood, in tbis sense, as "common scnsing" as a perccptual spbere in common. Urban space is synestbetic insofar builds a milieu of common sensitivity, a milieu of feeling together. And it is tbe materiality, tbe reified ideas, cultural traits, to be tbe conditions of possibility of sucb sbaring. •-t Scc:

Mcnary (2.014), Bartalcsi ( 2.017).

•s Scc: Jacono (2.011), Vimo (2.015). 1 ' 17

I would likc to thank Giorgio Mangani for having drawn my attcntion to this arride. Scc: Wilson (1988), Scott (2.017).

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In Middle Ages' towns, places and tbeir contexts of mcaning were not partitioncd, as in modero citics, but fittcd onc insidc tbc otber, so setting for work and everyday life activities real nested networks. Residents, on tbe otber band, if tbeir sodai conditions and mentality could be diffcrcnt, couldn't avoid encountering cacb otbcr and sbarc tbe samc public placcs, so being obligcd to integrate in a small world witb forms of sociability wbicb wcre unknown in villagcs. Practices brougbt to life tbe cmotional fabric of sociality and got tbcm flow tbrougb 'scripts', wbicb creativcly metabolized tbe collective evolutionary dynamics routinizing it. It is surcly mcaningless trying to rcconstruct wbat a citizen of a medicval town pcrceived exactly. Nonctbclcss, wbat botb citizens sbared was a kind of consistency (I could not find a better term) between tbe urban culture tbey sbared and tbe materiality of tbe built environment. Wbcn Françoisc Cboay sbows tbe complex role played by tbc "spacing out" (espacement) in wcaving tbc fabric of Frencb medicval towns in wbicb "tbc bouse is inseparablc from tbc strcet onto it opcns" (Cboay 2003, 26), or Francesco Rodolico notes tbat, at least until tbe carly ninctecntb ccntury, eacb Italian town sbowed a distinct aestbetic quality of tbe built environment, tbey are giving clues pointing to tbe same setting. Cities like Venice or Milan bad fora long time taken tbeir stone from arcas far away. Howcver, and bere lies tbc diffcrcncc, tbesc arcas depcndcd on tbe cities from many economie, political, and cuiturai points of view. Even if, in tbcsc extreme cases, tbe stones were detacbed from tbc surrounding natural landscape, tbey were always 'Venice's stoncs' or 'Milan's stones', bccausc tbcy wcre bound to tbc particular contcxt of tbc buman values gcncrated by cacb city (Rodolico 1965, 32). Diffcrcnccs in pcrceiving Florcnce or Bologna, cvcn apart tbeir topograpby and streets' orientation, lic in tbe mimetic rclationsbip of Bologna witb tbe countryside, tbe very fact of building materials. Wbicb remain tbe same not only between town and country, but even in its bigbest urban manifestations: like in tbe prevailing arcbitectural motifs, of rural origin, of towcrs and porcbes; tbat of common colors red and ocbre - precisely tbe color of tbe eartb - of bouses and palaces, definitcly different from tbe sbrill wbite of tbe facades of bouses in Florence, markedly urban, exported in tbe countryside to mark city's mastery over it. In Bologna, on tbc contrary, tbc move-

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mcnt in thc past ccnturics has bccn thc rcvcrsc. It is thc city that has importcd rural shapcs and colors, bccausc it has actcd in thc scrvicc of its hinterland (Farinelli 2010). Just by thcsc bricf rcmarks it should be plain why thc complcxity of thc urban rcality cannot be rcduccd to some formula. Evcn more plain it should be why I contcnd that any city, as a complcx asscmblagc of pcoplc, things, and media, is smart: becausc "thc way wc think is thc propcrty of a hybrid asscmblagc of brains, bodics, and things" and "thc undcrstanding of human cognition is csscntially intcrlockcd with thc study of thc tcchnical mcdiations that constitutc thc centrai nodcs of a materially extended and distributed human mind" (Malafouris 2013, 15, 19 italics addcd). Whcn it comcs to urban milicus likc thcsc, thc complcx intcrmingling of built placcs (from thc single room to thc squarc) and customs (from thc social bchavior in familics to sodai conducts towards othcr pcoplc in shops, workshops, public officcs, workplaccs) is rcally cnablcd and rcgulatcd by in-between places made of sharcd (whilc always varying) intcractions brains-bodics-things, sincc "cognition is not a 'within' propcrty; it is a 'bctwccn' propcrty" (Malafouris 2013, 8 5 ). Such intcractions are thc stuff that thc fccling-at-homc scntimcnts of inhabitants are made of. An illuminating Mcditcrrancan historical cxamplc in this rcgard is rcprcscntcd by Genoa, which for about four ccnturics, from thc twclfth to thc sixtccnth ccntury, rcprcscntcd a classic case of a multi-sitcd tcrritory: "in rcality, Genoa constitutcd [... ] a single city, a single mind, both civic and urban, spanning three seas, from Cadiz to Sevillc across thc occan to the Crimcan coast" (Farinelli 2017, 14). Its charactcr of extended city couplcd a quitc small cxpansc of its originai site and tcrritory with an cnormous cxtcnsion of its cultural milieu, its 'mind' stretching ovcr many rcgions of thc Mcditcrrancan. Not only because any Genocsc scttlemcnt along the coasts of Maghrcb, Egypt, Middle East, and Black Sea was nota colony, but a neighborhood of Genoa itsclf, materially, aesthetically, and symbolically. But al so, because the same structurc around which the entirc urban devclopment rcvolvcd in thc mcdicval ccnturics during which Genoa took its form and reached its pcak - the Ripa - clearly reveals the cocvolutionary processing of its 'mind' with the Mediterranean as a whole. Genoa, notable Europcan exccption (almost uniquc) had no centrai squarc playing thc rolc of town's hotspot, information hub, social

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gathering piace, venue for politica) debate: a real standard ali around Europe at the time (Romano 2015 ), an urban feature which strongly marks European towns distinguishing them from other urban cultures. Fact is that Genoa, in compliance with its trading mindset, to the extent that its homeland spanned over the Mediterranean and beyond, acquired in exchange ali those elements (urban structures, trade facilities, even words considering its important contribution to the evolution of Lingua Franca) (Dakhlia 2008) deemed relevant. So, the Ripa applied a typical structure of Eastern trade - the suqlbazar reimagining it according to the morphology of its site and the codes of its own community. The Ripa condensed, along the waterfront, trade and craft activities and residences as well as institutions of the city's government, then the function usually performed by centrai squares in European towns, and more (Eslami 2010, 191-199). Like the spinai cord of Genoa's mind, it connected the body of the city with the sea and its other limbs around the Mediterranean, filtering, organizing, exchanging, goods, people, information. Another Mediterranean example concerns nota single city but a long-standing regional urban network: the Bilad al-Sham region between the 19th and 20th centuries. In this regi on - which encompassed until the First World War the zone which would later be divided between the States of Lebanon and Syria (under French mandate), and between Palestine and Transjordan (under British mandate)-the cities of the region preserved, over the long term, their privileged relations, despite the ruptures caused by the formation of nation states imposed from outside and the pressures of globalization. And this was possible, both because the articulation between cities and territories was modulated through a complex multiscalarity, maintaining belonging's ties while continuing the work of modernization begun in the Ottoman era, and because in this articulation the cities have continued to be the main players, assuming a role not only at the locai scale. To this end, the organizational logie of urban and regional relations has shown its flexibility by rejecting the colonia) logie (trying to reduce the different scales of regional network to the one-dimensional level of competing nation states) and adapting resiliently to circumstances by seizing fit moments for changing, at least as long as international events and balances made it possible (Schayegh 2017).

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4. Who owns the city? The shift to what has been called the "neoliberal city" (Theodore, Peck, Brenner 2011) has represented a global transition, involving leftwing as well as right-wing governments, and started with the crisis of the Fordist (the city of production) and Keynesian (the city of consumption) models of urbanism in the '70s (Farinelli 2018, 197). The neoliberal city has overstressed, overemphasized a "shift from law to ties of allegiance" (Supiot 2017, 217) - so retrieving "feudal" forms of relationships on the backdrop of the withering-away of the State and the overturning of the public-private hierarchy on which states themselves have been built (Supiot 2017, 188-203). This meant the breach of sodai bonds and either the dismissal of ideals like solidarity and dignity as "unscientific", or their adoption as long as they are subjected to calculation, so paving the way to extreme atomization of communities, no more counting on the heteronomy of the law - a third party designed to be above ali parties. This is even more crucial when the basically unplanned (and averse to planning), informally structured nature of sodai "glue" is taken into account (Scott 1999 ). At this point, it should be emphasized that the sodai "glue" of today's sparlai multiplicities is increasingly shaped by algorithmic infrastructures18, which have become not only the sphere in which relationships are increasingly, massively, channelled (frustrating distinctions like public / private sphere), but above ali, they have been taking a crucial and pervasive role in decision-making procedures (algocracy), in the transition from government to governance that has been prevailing in Europe since the 1990s (Supiot 2017). Such algorithmic pervasiveness - which has found the ideai fuel in the mutuai strengthening between automation as an objective substitute for political subjectivity and the rise of techno-sciences under the aegis of neoliberalism - has been restraining localities in a private (in the originai sense of 'being deprived of) public sphere (Stiegler, Le Collectif Internation 2020), divesting them of the capability of forming shared territorialities, left prey to purely defensive reactions that populisms take advantage of, so going against the very collective nature of human mind.

18

Sticglcr (2015, cng. trans. 2016); Eubanks (2019); Longo et al. (2012.).

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Thc human brain is thc only brain in thc biosphcrc whosc potcntial cannot be realiscd on its own. It needs to bccomc part of a network before its design fcatures can be expresscd. Since wc are living beings, the networks wc create are complex, fuzzy, and multilayered, rathcr than lcan and mcan, or driven solcly by the needs of symbolic communication. This makes our networks radically different from thosc that have bcen inventcd for nonliving entitics, such as computers. The cognitive infrastructurc of human culture includes many things that wc do not normally cali symbolic, such as patterns of public action, the built cnvironmcnt, and conventional expressions of emotion. Thcsc things are the cognitive purpose, bccausc they convey a grcat dcal about intention, bonding, affiliation, attachment, and hierarchy. They provide structurc (Donald 2001, 324).

Tue role played by culture, not only in giving shape to our relationships but also (and maybe above ali) in being the ground on which our minds grow and thrive collectively, highlights that individualismas an anthropological trait stimulated and promoted by mainstream versions of neoliberal thought - goes against a primeval evolutionary characteristic of humans. Thc result is that wc are pluggcd-in, as no othcr spccies beforc us. Wc depcnd hcavily on culture for our developmcnt as conscious beings. And by exploiting this connection to the full, wc have outdistanced our mammalian anccstors [... ] Without culture, our world-models, thosc highly persona( and idiosyncratic visions of current rcality that define ali conscious expcrience, will inevitably shrivel. If wc line up thc kcy fcatures of thc many diffcrcnt kinds of minds that cocxist with us on Earth and rank thc breadth and complcxity of thcir world models, wc can scc how dccply wc dcpcnd on our cultura( hook-up (ibid.).

One of the most revealing indicators of the unbalance generated by the latest consequences of neoliberalism in the urban milieus is probably the most renowned code ofWestern culture, the law (Supiot 2009). Just like cultures are originally place-dependent, laws are context-bound, that is why they historically played a major role in defining territories, like maps. It is no coincidence that the surveyor encompasses both the figures of the jurist and the geometer in many cultures, as limiting and measuring represent the basic activities of most sedentary civilii.ations in giving form and existence to law as right (Benveniste 1969b, 9-15). The fondamenta( issues at stake in the territorial inscription of law are people's identity and by which laws are they governed. Now, while the identity's question always shows to some extent people's

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2.00

connection to the land, the obedience to the law is more complicated: "are pcople bound at ali times and places by the laws of their nation or must they obey the laws of the piace in which they happen to be?" (Supiot 2009, 3 80 ). In the Westero legai history, until modero times, two main modcls contended with each other: the "pcrsonality of laws" - that is, paying obedience to his/her ethnic group's law, no matter the piace one lives in (apparently, a nomadic custom) - and the "ideai of a supcrhuman, atemporal and universal Law, which would apply to every person in every piace and could ignore territorial diversity" (Supiot 2009, 376). Modernity, with the genesis and spread throughout the world of nation state's form due to colonialism, imposed the fixation on and in the land of law, by means of two different while complementary formats: sovereignty and property. So, while previously diverse subjects could "exercise different rights simultaneously in the same propcrty" (Supiot 2009, 382), the modero conception of law gave public (sovereign) and private (owner) domains distinct spheres of contro/ over the same land: an exclusive power. Such conception radically departed from the long-standing principle that the power over the land is a derived one (a reification of bonds among pcople through the land, or with the gods), imposing the fctishist notion of the land as a thing, paving the way to its transformation into a commodity (Polanyi 1944). Now, since the 1990s, under the aegis of neoliberalism, a proccss of law's uprooting has been expanding, undermining nation statcs' sovereignty and striking a deadly blow at the mutually reinforcing relationship between sovereignty and propcrty. Given that, in a politica) and legai world built around this conceptual pair, also identity's issues had to comply with it, there is no wonder that such uprooting proccss ended up affecting the same pcople's rooting into places, and that the question (already asked as early as the 1970s) has been raised again rccently, in a more informed manner: who owns the city? 1 9 Not an idle question when the disruption of communities' rooting process, already struggling to copc with the paradox sovereignty/ propcrty imposed by nation statcs' supremacy, is free to unfold on individuai grounds, with less and less safcguards provided by the states themsclvcs, not only at a national scale. Any doubt that the city-as-machine has taken the piace of the city-as-organism? 1

9 Pahl (1970); Sasscn (2.014).

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Tue capability of cities to organize and channel collective individuation process - as an extended mind - is being more and more displaced on impersonai and automatic programs, running based on formai logie, then excluding most of the historical-social human traits of rationality, to manage ever larger urban collectivities. To Calvino, "a city may endure calamities and dark ages, seeing different lineages replace each other in its houses, seeing its houses changed stone by stone, but it must, when the times come, in different forms, find its gods aga in". Assuming that today's urban gods be the algorithms, in grace of their impersonai and superhuman nature, would be a quite naive stance, for they are ali but superhuman. Rather, they have been swapping roles with human agents: from being the symbolic measure working as a medium to make transindividual process possible (Zellini 2016), to taking over decision-making procedures which deeply affect everyday life and the fabric of collective trust, like granting a loan or firing an employee (Eubanks 2019). Criticai thinking about urban forms of life can't help but scrutinize beyond the looking-glass of such taken-for-granted patterns of the real.

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Venezia è una nave da crociera La città-piattaforma tra opcra7joni estrattive e tecnologie di controllo

Giacomo-Maria Salerno

1.

Introduzione: tre scene

Scena prima La sera di venerdì 26 gennaio 2018, Rob Kitchin, professore di geografia alla Maynooth University, pubblica un post su Facebook a commento di un articolo di Stephen Goldsmith (ex sindaco di Indiana polis) e Neil Kleiman (direttore dell'NYU/Wager Innovation Labs), intitolato Cities Should Act More Like Amazon to Better Serve Their Citizens. L'afflato tecno-entusiasta dei due autori, che caldeggiano l'elaborazione di «un nuovo sistema operativo» (Goldsmith, Kleiman 2017) per il governo di società e territori ricalcato sulla logica di funzionamento delle piattaforme digitali, tradisce indubbiamente un certo "soluzionismo" tecnologico à la Morozov (2013), ma ha su Kitchin un effetto singolarmente violento. Il post è infatti accompagnato da queste sue disperate parole: «You can probably hear me bowling into the void where you are» 1 • Nel giro di un week-end, il grido di dolore dello studioso irlandese attrae decine e decine di commenti, che si traducono presto nelle chapter proposals di quello che diventerà un libro tanto spassoso quanto inquietante, How to Runa City Like Amazon, and Other Fables. Nella raccolta di testi, uscita per Meatspace Press nel 2019, si immagina come potrebbero funzionare delle città organizzate e governate sulla base dei modelli operativi di 3 8 diverse piattaforme digitali, da Amazon ad Appie, da Uber a Pornhub, da Spotify a EasyJet, utilizzando registri narrativi che spaziano dal saggio accademico al racconto distopico. Curiosamente però, nessun capitolo è dedicato ad una delle piattaforme che dello spazio urbano, o almeno 1

«Potete probabilmente sentirmi ululare nel vuoto ovunque voi siate•.

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GIACOMO-MARIA SALERNO

di uno dei suoi principali elementi costituitivi - la casa -, fa più uso di qualsiasi altra: Airbnb. Se un emulo lagunare del prof. Kitchin si fosse trovato, nel suo studio o nella sua casa veneziana, a sfogliare le pagine del simpatico libretto, siamo certi che si sarebbe ritrovato - se non ad ululare - almeno a prorompere in un sonoro e sconfortato sospiro. Scena seconda settembre 2020, l'ANSA batte un'agenzia che si apre con un intramontabile topos letterario: «come un "grande Fratello" di orwelliana memoria, Venezia si dota da oggi di una "smart contro) room", nella nuova sede della polizia locale, al Tronchetto» 2 • Frutto della cooperazione tra il gruppo TIM e Venis, società di servizi ICf controllata dal Comune di Venezia, la smart contro/ room (SCR) ambisce a funzionare come una sorta di «torre di controllo della città», secondo l'espressione del sindaco Luigi Brugnaro3, e costituirà l'infrastruttura necessaria a sviluppare il tanto decantato "contributo di accesso" alla città storica, che potrebbe presto tradursi in un sistema di bigliettazione coadiuvato da tornelli elettronici posti ai suoi accessi terrestri. Al cospetto del «grande cruscotto digitale»4, che centralizza e processa i dati relativi al traffico acqueo con quelli provenienti da 466 telecamere di videosorveglianza urbana, dai sensori contapersone distribuiti sul territorio, dagli smartphone e dalle celle di telefonia mobile, viene in quei giorni insignita del Leone d'Oro la nota influencer Chiara Ferragni, «per aver scelto la città di Venezia come tesoro da far conoscere al suo pubblico internazionale» 5. Alle inevitabili e immediate polemiche sul conferimento di un premio che dovrebbe rendere omaggio «alle eccellenze veneziane e metropolitane», il sindaco risponde obiettando che Ferragni «sul suo profilo Instagram ha 21 milioni di follower. Venezia grazie a queste immagini è stata vista da milioni di persone in 12

1

https://www .ansa.it/osservatorio_intelligenza_artificialc/notizic/societa/2.02.o/09/12./ venczia-una-smart-control-room-per-gcstione-flussi-in-citta_392.61dd2.-176d-402.b-bo282.ddoa94c12.fc.html 3 «Sistemi Integrati», 43, p. 65. Disponibile online: https://www.sistemi-intcgrati.net/ scarica-il-numero-4 3/ "'https://www.metropolitano.it/smart-control-room-venczia/ S https://www.ilgauettino.it/nordcst/venczia/sindaco_brugnaro_conscgna_lcone_fcrragni_protcstc-5465782.html

VENEZIA

b UNA

NAVE DA CROCIERA

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poche ore. E tutto a costo zero per le casse del Comune» 6• Pubblicità gratis insomma, ringraziata e premiata pubblicamente nell'ipertecnologica sala comandi da cui ci si aspetta - grazie a telecamere, dati, tornelli, prenotazioni e fantomatiche "gestioni dei flussi" - la soluzione miracolosa ai problemi dell'overtourism veneziano. Scena terza Il primo marzo 2019 si celebra a Trieste la cerimonia di battesimo della nuova Costa Venezia, costruita agli stabilimenti Fincantieri di Monfalcone. Per l'occasione, un'esibizione acrobatica delle Frecce Tricolori sorvola il cielo del golfo, illuminato poi a giorno da uno spettacolo di fuochi d'artificio. Su un megaschermo posizionato in Piazza Unità, i triestini seguono in diretta la cerimonia che si svolge a bordo, in quel Teatro Rosso - costruito sul modello della Fenice di Venezia che in serata ospiterà la première dello show Venezia Innamorata, una rivisitazione in chiave rock delle storie d'amore di Giacomo Casanova7. Il giorno prima, alla cerimonia di consegna della nave, l'allora vicepresidente del Consiglio dei Ministri, Matteo Salvini, immortalato dalle telecamere nell'atto di gigioneggiare alle strumentazioni della plancia di comando, salutava entusiasta il galleggiante trionfo del made in Italy «che porterà le nostre eccellenze nel mondo» 8 • Ed effettivamente la nave a tema, esplicitamente concepita per il mercato cinese, esibisce ovunque possibile i caratteri di una venezianità tanto esasperata quanto posticcia: oltre al già citato Teatro Rosso, l'atrio principale è ribattezzato Piazza San Marco, e il ristorante Canal Grande posiziona i suoi tavolini ai piedi di un finto ponte e lungo le rive di un canale altrettanto finto, di un azzurro irreale, dove fa mostra di sé una delle due vere gondole collocate a bordo, costruite allo squero di S. Trovaso nella vera Venezia9. Tutta questa "venezianità" salperà presto per la crociera inaugurale, che seguendo a ritroso «la rotta di

' https://www.ilgazzcttino.it/nordcst/vcnczia/sindaco_brugnaro_conscgna_lconc_fcrragni_protcstc-546578:z..hnnl 7 https://ilpiccolo.gclocal.it/tricstdcronacah.019/03/01/ncws/il-battcsimo-di-costa-vcnczia-rivc-affollatc-pcr-lc-frcccc-tricolori-1. 3005 508 5 8 https://www.crocicrcnotizic.comh.019/02lcosta-vcnczia-salvini-simbolo-madc-in.html 9 https://www.ilgazzcttino.it/nordcst/tricstdconscgnata_monfalconc_costa_vcnczia_la_ prima_la_cina-4 3 3077 3.html

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GIACOMO-MARIA SALERNO

Marco Polo» 10, la porterà a Tokyo e quindi a Shanghai, suo homc port designato. E mentre Costa Venezia solca i mari al ritmo delle feste in maschera e dei «karaoke in stile cinese», mentre gli ospiti si deliziano tra «le prelibatezze della cucina italiana» e lo «shopping nei negozi di bordo con tanti marchi famosi del made in Italy» 11 , nella vera Venezia, a Porto Marghera, prende lentamente forma la sua nave gemella, Costa Toscana, che nella piazza centrale sostituisce al leone alato una riproduzione del David di Michelangelo, ornando di finti cipressi un bordo piscina che dovrebbe richiamare le campagne del Chianti1 2 • Capoluogo, cittadina, borgo medievale che ancora sonnecchi fuori dai grandi circuiti turistici, de te fa buia narratur! Tre scene, tre immagini del contemporaneo che si svolgono su diversi piani di realtà. Cos'hanno in comune tra loro? L'obiettivo di questo testo sarà quello di rintracciare i fili che le annodano l'una all'altra, che le rendono in parte sovrapponibili, e che a partire dalla loro interpolazione gettano forse una nuova luce su ognuna di esse. Detto altrimenti, cosa congiunge il design di una nave da crociera con il dibattito accademico sulle piattaforme, cd entrambi con le tecnologie di controllo e marketing di un sistema urbano complesso? Attraverso una ricognizione del fiorente campo di studi del cosiddetto platform urbanism, si proverà a rendere conto di quanto, al di là dell'ambito del digitale in senso stretto, la città contemporanea sia essa stessa interpretabile come una piattaforma, utilizzando il caso di Venezia come banco di prova di queste suggestioni.

2.

Le molte forme del platform urbanism

Da qualche anno ormai, quello di "piattaforma" è un termine entrato nel linguaggio comune. Chiamiamo in questo modo quei siti e quelle app a cui ci colleghiamo quotidianamente per riservare un posto al cinema o ad un evento, per scorrere immagini e notizie di un social

10

hnps://ilpiccolo.gclocal.it/tricstc/cronaca/2.019/03/08/ncws/costa-vcnczia-c-tornataripartcnza-allc-2.o-sullc-traccc-di-marco-polo-1. 30077799 11 hnps://www.fincanticri.com/it/mcdia/comunicati-stampa-c-ncws/2.019/conscgnatacosta-vcnczia/ 11 https://www.lanazionc.it/fircnzc/cronaca/navc-costa-fircnzc-1.4 57 5884

VENEZIA ~ UNA NAVE. DA CROCIE.RA

2.II

network, per ordinare del cibo o prenotare una stanza o un appartamento. In questa versione immediatamente riconoscibile, intendiamo "piattaforma" essenzialmente come piattaforma digitale: estendendo l'immagine fisica di una superficie piana al dominio dell'immateriale, indichiamo quindi con questo termine un ambiente di esecuzione di software informatici, che prende presto la forma di alcuni specifici dispositivi, tutti solitamente associati ad un profilo aziendale. Sono così piattaforme per antonomasia le 38 protagoniste del libro curato da Kitchin, e ai loro nomi proprietari siamo abituati ad associare specifiche funzioni: Google, per cercare, Spotify, per ascoltare, Booking, ovviamente per prenotare, etc ... Secondo la definizione di Nick Srnicek, in termini generali le piattaforme sono «infrastrutture digitali che consentono a due o più gruppi di interagire» e che «si posizionano come intermediari che avvicinano utenti diversi: clienti, inserzionisti, prestatori di servizi, produttori, fornitori e anche oggetti fisici» (Srnicek 2017, trad. it. 2017, p. 42). Centrale nell'interpretazione delle modalità operative delle piattaforme è il concetto di disruptive innovation (Bower e Christensen 1996), che echeggia in qualche modo quello di distruzione creativa, riattualizzato negli ultimi decenni da David Harvey (1989, trad. it. 2010). Secondo questa lettura, le piattaforme sarebbero in grado, attraverso l'innovazione tecnologica di cui sono portatrici, di modificare completamente la logica fino a quel momento operante nel proprio mercato di riferimento, scalzandone le vecchie forme imprenditoriali. Grazie a questa loro caratteristica, questo nuovo tipo di aziende ha innervato in profondità i gangli dell'economia mondiale, al punto da costituirne ormai un elemento tanto centrale da delineare l'avvio di quello che lo stesso Srnicek ha definito platform capitalism, vale a dire di quel modello economico che esprime la tendenziale egemonia del digitale su ogni ambito della vita nelle società capitalistiche contemporanee. A partire dal ciclo economico neo-liberale inaugurato dalla crisi finanziaria del 2008, le più note piattaforme aziendali hanno conquistato crescenti quote di mercato, tanto che secondo alcuni quella che è stata individuata come la nuova Grande Recessione «andrebbe piuttosto ribattezzata come the Great Disruption» (Sadowski 2020, 56 3 ): è infatti proprio a partire da questa congiuntura che le piattaforme, grazie alle loro costitutive «tendenze monopolistiche spinte da effetti di rete» (Srnicek 2017, trad. it. 2017, 46), sono andate progressivamente incontro a un processo di «infrastrutturazione» (Plantin et al.,

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2018) che le ha rese indispensabili al funzionamento ordinario del sistema mondo, penetrando ogni ambito della vita sociale. Questa vera e propria colonizzazione della vita quotidiana si è resa possibile grazie alla loro capacità di installarsi proficuamente sulla soglia di demarcazione che regola il «rapporto tra il capitale e i suoi molteplici fuori» (Mezzadra, Neilson 2021, 224), facendosi veicolo di un'annessione di nuovi domini della vita sociale al regno del mercato attraverso la realizzazione di nuove enclosures: si pensi ad esempio a come prima di Airbnb «una camera libera in un appartamento era una stanza degli ospiti o uno spazio suscettibile di qualche nuovo uso, mentre oramai è un mancato guadagno», o a come, analogamente, prima di Blablacar «un tragitto da soli nella propria vettura era un'occasione per fantasticare o di prendere a bordo un autostoppista o che so io, mentre adesso è un'occasione per fare un po' di soldi in nero» (Comité Invisible 2017, trad. it. 2017, 93). Le nuove possibilità di estrazione del valore rese possibili dall'innovazione tecnologica veicolata dalle piattaforme sono così riuscite da un lato a portare nell'ambito del mercato delle pratiche sociali fino ad allora non monetizzate, e dall'altro a esercitare processi di distruzione creativa, o di disruption, su interi settori economici già segnati dalle dinamiche della crisi. È forse anche grazie a questo loro progressivo rendersi necessarie e quotidiane che la già consistente mole di studi sulle piattaforme digitali è andata via via ampliandosi, incorporando altri oggetti e campi disciplinari: è il caso tra gli altri degli studi urbani, che stanno vedendo sorgere, in un florilegio di commenti non sempre coerenti tra loro, il costrutto concettuale di platform urbanism. Come ogni concetto nascente, non è certo che autori diversi si riferiscano alla stessa cosa quando ne parlano. Da un lato, e principalmente, il tema è quello di comprendere come le piattaforme digitali impattino sulla scena delle città: moltiplicando il numero di intermediazioni digitali necessarie per l'accesso ai servizi, innestandosi sulle modalità di governance territoriale attraverso la produzione ed estrazione di grandi quantità di dati ed influenzando la produzione di immaginari locali attraverso la circolazione di immagini e informazioni, le piattaforme permeano la vita urbana ad una pluralità di livelli. Inteso in questo senso, il campo del platform urbanism diventa quindi un terreno di indagine dei modi in cui l'affermazione delle piattaforme riconfigura il fatto urbano nel suo complesso, trasformando tanto la sua organizzazione interna quanto i modi della sua esperibilità da parte dei city user.

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2.13

L'infrastrutturazione delle piattaforme diviene insomma un elemento decisivo della governance urbana e contribuisce a dare forma alla città contemporanea. Nel loro diventare punti di riferimento essenziali per il funzionamento dell'economia urbana, queste tendono inoltre a diventare degli attori istituzionali di primo piano in grado di interferire con le scelte politiche e urbanistiche, dalla semplice implementazione di policies a loro favorevoli fino alla vera e propria attività di pianificazione: è questo quanto viene prefigurato da progetti come quello-poi tramontato-di Sidewalk Labs a Toronto (vedi Sadowski 2021), o da programmi come Airbnb Citizen, attraverso cui la multinazionale californiana si dimostrerebbe in grado, come afferma Niels Van Doorn, di compiere un passo in avanti rispetto al semplice esercizio di un soft power volto ad ottenere scelte favorevoli in termini di politiche urbane, arrivando a sperimentare nuove forme di sovranità parallele che le permettono di «dare forma» (co-shape) al tessuto urbano e di «assicurarle una presa duratura sul tessuto socio-materiale delle città contemporanee» (2020, 1809 e 1821). Si pensi inoltre a come la possibilità dell'uso speculativo della casa abilitato dalla piattaforma di short-term rental stia attivamente influenzando non solo l'estetica contemporanea in fatto di arredamento di interni (Chayka 2016), ma anche l'organizzazione spaziale interna di appartamenti convertiti a quella funzione prevalente, in termini di distributivo, numero di bagni etc. Degli usi a breve termine, resisi strutturali e continuativi, rischiano insomma di incidere durevolmente non solo sulla composizione sociale di intere aree urbane, ma persino sulla stessa struttura dell'edificato. All'influenza delle piattaforme proprietarie sul governo della città, si aggiunge poi una sorta di piattaformizzazione digitale della governance stessa, come vedremo nel caso della SCR veneziana, veicolata dalla mobilitazione del settore pubblico. Anche al livello delle amministrazioni locali e statali, infatti, le piattaforme «stanno progressivamente infiltrando (e convergendo con) le istituzioni (off line, tradizionali) e le pratiche che strutturano sul piano organizzativo le società democratiche» (van Dijck et al. 2018, 2). È dunque da questo intreccio di piani, afferenti al settore pubblico come al privato, di scala minuta o globale, che l'affermazione delle piattaforme è parsa ad alcuni come un vero e proprio cambio di paradigma in grado di riverberarsi su ogni ambito della società. Questa profonda trasformazione affermerebbe cioè che «le città devono diventare smart, i

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business devono essere disruptive, i lavoratori flessibili e i governi lean e intelligenti» (Srnicek 2017, trad. it. 2017). Tuttavia, la crescente digitalizzazione della vita quotidiana non deve farci dimenticare che una piattaforma non è tale solo ed esclusivamente in virtù dell'elemento digitale che la informa: se in termini generali possiamo intendere le piattaforme come «imprese speculative che prosperano sulla creazione di connessioni istantanee e aperte tra campi discreti» (Mortenbock, Mooshammer 2021, 13), nulla vieta di riconoscere sotto tale ombrello concettuale anche un'infrastruttura fisica come, ad esempio, un centro commerciale (Srnicek 2017, trad. it. 2017, m2) o una città, che è già di per sé un sistema complesso di interpolazione tra la materialità del costruito e i flussi di popolazioni, merci, informazioni e capitali che la attraversano e costituiscono. In questo senso, se la parola piattaforma è certamente una «parola chiave dell'ipermodernità», questo si deve anche al fatto che - non a caso «la usiamo ambivalente sia per il digitale che per il territorio» (Bonomi 2021, 141 ). Riconsegnare il dibattito sul platform urbanism non tanto all'impatto delle piattaforme digitali sulla città, quanto piuttosto alla città-come-piattaforma in sé, è dunque un tentativo di afferrare la dimensione spaziale di quella «fabbrica territoriale sistemica» (ivi, 10) all'interno della quale si muove e produce la vita contemporanea, e di cui le piattaforme digitali non sono che una componente, per quanto sempre più centrale. Si tratterebbe insomma di affidarsi ad un costrutto euristico che descrive, anzitutto, una combinazione a geometria variabile tra territorialità e globalità, tra logiche della simultaneità e della prossimità; uno spazio ibrido tra luoghi e flussi in cui «l'intimità dei ne~i» (Becattini) convive con l'esigenza di connessione a reti lunghe (di conoscenza, tecnologie, capitali) e le tendem.c più avanzate all'industriali7:lazione della vita quotidiana (ibid.).

Secondo Louis Moreno, andrebbe pertanto capovolto l'assunto secondo il quale il fatto urbano, per come l'abbiamo conosciuto, rischierebbe di essere «dissolto dall'economia di piattaforma; piuttosto, esso costituirebbe l'infrastruttura su cui tutti questi network, start-up e piattaforme si basano per la loro crescita» (in Mortenb&k, Mooshammer 2021, 64). Invece di concentrarsi sul termine "piattaforma" per rendere conto di come l'urbano si stia trasformando radicalmente, bisognerebbe quindi chiedersi se il «nominalismo iperattivo» che ha sfornato negli anni «termini come Network Society (negli anni 1990),

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2.15

Creative Class (nei Duemila), Smart City (negli anni 2010) e Platform Capitalism (anni 2020)» (ibid.) non sia altro che una corsa a dare «un nuovo nome ad un vecchio sistema operativo» (ivi, 72), con buona pace dell'ex sindaco di Indianapolis. Dietro ognuna di queste parole magiche, che descrivono forse più gli entusiasmi della propria epoca che non altrettanti acclamati cambi di paradigma, non si cela forse quel processo di lunga durata attraverso cui il modo prevalente dell'accumulazione capitalistica è tendenzialmente passato, a partire dagli anni '70, dal «regime del profitto» al «regime della rendita» (Negri 2016), o, come si esprimono Harvey (1978) e Lefebvre (1974, trad. it. 1976), dal circuito primario del capitale a quello secondario, in cui la nuova centralità del settore immobiliare si trova strettamente legata ai processi di finanziarizzazione? D'altronde, le economie urbane evolvono ovviamente di pari passo con le trasformazioni del capitalismo contemporaneo, di modo che ormai «produzione della città materiale e (ri)produzione della vita urbana e sociale sono parte della stessa catena del valore» (Bonomi 2021, 19), e in questa catena un ruolo non secondario è giocato dal real estate: non è un mistero infatti (o, piuttosto, è il classico segreto di Pulcinella) che «la grande enfasi sull'innovazione sociale e sull'economia della conoscenza[ ... ] esprime - in primo luogo -interessi immobiliari» (ivi, 25). Continua Aldo Bonomi: cosa sono le economie di piattaforma fondate sulla messa a valore degli interstizi patrimoniali, delle eredità accumulate nei tempi della cetomedizzazione, se non industrializzazione delle economie fai da te di un peno di ceto medio, lavorate dalle machinc dei padroni dcli' algoritmo, fino ad arrivare alla costruzione di vere e proprie industrie immobiliari concentrate nei centri storici delle città d'arte? (ivi, 2.9).

Assumendo questa prospettiva non si vuole negare l'innovazione rappresentata dall'irruzione del digitale e delle piattaforme sulla scena urbana. Piuttosto, si vuole sottolineare come queste abbiano fondamentalmente approfondito la presa del capitale sulla vita sociale e sui suoi spazi, fornendogli un più vasto ventaglio di possibili «operazioni», nel senso che di questo termine danno M~aadra e Neilson (2021), adeguato all'era del «divenire rendita del profitto» (Vercellone 2010). E ciò che forse più conta è che la natura di queste operazioni si mostra sempre più nella sua dimensione essenzialmente estrattiva: come hanno affermato diversi autori, la categoria di estrattivismo andrebbe

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infatti estesa «ben oltre la sua tradizionale associazione con miniere e piantagioni» (Sassen 2014, trad. it. 2018, 219) e «più in là del riferimento alla ri-primarizzazione delle economie» (Gago 2015, 244), abbracciando un ampio spettro di fenomeni che, a partire da una certa interpretazione della categoria del comune - inteso come ciò su cui si esercita l'operazione estrattiva-, trova alla scala territoriale e urbana un suo campo di applicazione privilegiato. In questo senso, dunque, «la metafora della città-piattaforma sembra descrivere, oggi, prima di tutto un meccanismo estrattivo. Nella sua dimensione fisica, in cui determinate infrastrutture accelerano la produzione di valore, e nella sua dimensione sociale, in cui ogni interazione diventa produttiva» (Valz Gris 2019, 100).

3. Venezia è una nave da crociera Cosa emerge da questo itinerario nel dibattito contemporaneo sul platform urbanism, e perché queste considerazioni dovrebbero gettare una nuova luce sulle tre scene con cui si è aperto il capitolo? E infine, cosa ci dicono quelle tre istantanee sulla natura della città contemporanea? In primo luogo, si potrebbe affermare che il platform urbanism non andrebbe inteso come un oggetto di ricerca, quanto piuttosto come un modo - anzi, una pluralità di modi - di concentrare lo sguardo su alcune tendenze trasformative che informano la città contemporanea. In questo aguzzare la vista, però, si rischia di non mettere più a fuoco quanto già sappiamo dell'urbano e dei suoi meccanismi, facendoci incantare oltremisura dalle sirene del digitale e aggrappandoci senza la necessaria cautela alla nuova buzzword del momento. Dietro l'entusiasmo tecnofilo di Goldsmith e Kleiman (per citarne due interpreti a titolo d'esempio), dovremmo cioè riuscire ancora a scorgere la materiatissima realtà dei modi di produzione e di estrazione del valore, e su tutti il primato politico della rendita nell'indirizzo delle economie urbane. Questa «idea di un governo logistico del territorio e degli individui [che] si sviluppa attraversando differenti attori e culture politiche, in tipico stile da Californian Ideology» (loto the Black Box 2022), nasconde insomma dietro l'ideologia una durevole materialità che non può essere obliterata. In secondo luogo, se - prestata attenzione agli "ululati nel vuoto" che ci rammentano di queste dure realtà -ci soffermiamo ad osservare il funzionamento di un organismo urbano

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complesso, possiamo ciò non di meno ammirarne l'interazione con le nuove possibilità di operare sul territorio fornite dallo sviluppo delle tecnologie digitali. Non si tratterà quindi di dire che "tutto è come sempre", ma di prestare attenzione a quelle operazioni del capitale astratte e materiali al tempo stesso - permesse, facilitate o approfondite nei loro effetti dalle innovazioni di cui le piattaforme sono effetto e veicolo al tempo stesso. Proviamo allora ad osservare queste dinamiche a partire da un luogo specifico, ad esempio la città di Venezia. Soffermiamoci ad osservarla, immaginando una prospettiva a volo d'uccello: potremmo allora figurarci la città, immobile sulle acque sempre più agitate della sua laguna, come una «nave di pietra che sorge» (Bloch 1934, trad. it. 1992, 161 ), ormeggiata e forse in attesa di salpare al largo; il Ponte della Libertà potrà apparirci come la cima d'ormeggio che la tiene saldamente legata alla terraferma, per impedire che se ne scappi via nell'Adriatico come una versione ridotta della famosa zattera di Saramago; affaccendati nelle case-cabine o al passeggio sui suoi pontifondamente, vedremmo infine sciamare una moltitudine di passeggeri e marittimi, col passo svelto del lavoratore in ritardo o quello rilassato del flaneur in vacanza. Alcuni hanno detto che Venezia somiglia a un pesce (Scarpa 2000), ma senza dubbio anche l'immagine della nave le si addice: più precisamente, aggiornando l'intuizione blochiana, si potrebbe dire che Venezia sia una gigantesca nave da crociera alla fonda. Si confrontino due serie di numeri. Venezia è meta annuale di circa 30 milioni di turisti, tra escursionisti e pernottanti. Sul corpo della città storica, i posti letto ad uso turistico nelle diverse tipologie ricettive hanno raggiunto, già prima della pandemia, il numero dei residenti, ormai calati al di sotto della soglia simbolica di 50.000 unità. L'esplosione della ricettività in città storica, a lungo preparata dal costante aumento delle infrastrutture alberghiere, è strettamente collegata all'affermazione delle piattaforme di short term rental: in soli tre anni, dal 2016 al 2019, i posti letto extra-alberghieri nella Ven~Lia insulare sono infatti più che raddoppiati, passando da 16.000 a 39.000 1 3. Anche al netto delle percentuali di occupazione, ed aggiungendo ai pernottanti '3 https://ocio-venezia.it/paginc/affittanzc-dati/. Secondo la suddivisione di OCIO Osservatorio Civico sulla casa e la residenza, per "Venezia insulare" si intende la città storica più le isole maggiori (Murano e Burano).

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la quota dei cosiddetti day tripper, il rapporto tra turisti e abitanti in città storica è di circa 1,5 su base giornaliera (Salerno e Russo 2020) o, detto altrimenti, di «500 turisti/anno per ogni abitante in un tessuto storico di 7 50 ettari» (Fabbri et al. 2020, 41 ). Sul versante della popolazione occupata, sull'intera Città Metropolitana di Venezia sono registrati circa 40.000 addetti nei settori alberghiero e della ristorazione (Iannuzzi 2021), cifra che arriverebbe a 100.000 prendendo in considerazione l'intero spettro delle attività turistiche o connesse (Fondazione Studi CdL 2020). Pur se con scale territoriali differenti 1 4, e nella difficoltà di «tracciare la matrice di Lcontief per il turismo» (D'Eramo 2017, 11) per rendere davvero conto della mole delle attività collegate, questi pochi numeri descrivono eloquentemente un'economia urbana trainata dall'industria turistica, e in cui anzi questa opera di fatto come una monocoltura, che assimila, indirizza e governa anche gli altri settori economici (Salerno 2020). Prendiamo ora in considerazione i numeri di Costa Venezia, la nave di cui abbiamo seguito la trionfale inaugurazione al porto di Trieste. Con una stazza di 13 5. 500 tonnellate lorde, una lunghezza di 3 2 3 metri e una capacità di oltre 5.100 ospiti ripartiti su 2.104 cabine, Costa Venezia è una vera e propria città galleggiante. Le cabine riservate all'equipaggio sono 696, e possono ospitare 1446 marittimi. La proporzione tra membri dell'equipaggio e passeggeri è di poco inferiore a quella tra lavoratori del turismo e visitatori della città storica, e la differenza cresce se consideriamo esclusivamente il rapporto tra turisti e residenti. Questo leggero sfasamento non dovrebbe però inficiare il paragone: si noti infatti che nell'industria crocieristica «il numero dei marittimi presenti a bordo è tendenzialmente proporzionale al numero dei passeggeri, ma il rapporto fra passeggeri ed equipaggio varia sensibilmente a seconda del segmento di mercato, raggiungendo un rapporto di 1: 1 nelle navi del segmento Luxury» (Dosi et al. 201 3, 2 3 ). Se consideriamo Venezia, dedita com'è ad arrovellarsi sull'attrazione del fantomatico «turista di qualità» (OPA 2019), come una "nave di La scala territoriale di rifermento dei dati sull'occupazione, che coincide con il territorio dell'ex Provincia, è disomogenea rispetto a quella dell'offerta ricettiva, che si riferiva alla sola Venezia insulare. Tuttavia, per la peculiare conformazione del territorio veneziano, il baricentro turistico dell'intero territorio metropolitano è in larghissima parte costituito proprio da quest'ultima, che attira su di sé tanto i flussi turistici quanto quelli del lavoro pendolare. In mancanza di dati più circoscritti, si ritiene per questo ugualmente utile il confronto tra questi numeri, pur con la necessaria cautela. 14

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pietra" appartenente a quel segmento cli mercato, il parallelismo regge. Anzi, la città performa meglio della sua stessa industria crocieristica, se uno studio - pur datato - promosso proprio dall'Autorità Portuale veneziana rilevava che «per quanto concerne le navi da crociera giunte a Venezia il rapporto in parola è in media di 2,71 passeggeri per marittimo, ma scende a 1,93 per le navi di stazza inferiore alle 40.000 t., tra le quali è relativamente più presente la componente Luxury. In questa fascia si registra a Venezia il più basso rapporto pax./equipaggio: 1,13» (Dosi et al. 2013, 23). Tra le calli della città come sui ponti della nave, il lavoro si organizza con le caratteristiche dettate dalle esigenze dell'industria turistica: dalle cucine alle camere, dai banconi dei bar alle reception, in entrambe si registrano alte concentrazioni di lavoro precario e migrante, assemblato secondo le linee del genere e del colore (Iannuzzi 2021, Longo 2015) che ne segmentano la composizione tecnica, definendo mansioni e retribuzioni in funzione dei rispettivi regimi di (in)visibilità. La piattaforma-Venezia, nella sua forma "ormeggiata" e urbana così come in quella "navigante", rende così possibile l'incrocio produttivo tra flussi di «leisure based» e «subsistence based mobilities» (Scheppe 2009, 47), come sono quelle dei turisti e dei lavoratori migranti che assieme compongono la scena dell'industria turistica. Per strada come «a bordo, l'esperienza dell'autentico Carnevale veneziano rivive tutto l'anno con feste, balli in maschera e momenti cli intrattenimento a tema» (Costa Crociere 2020, 8). E qui come lì la capacità cli connessione tra il locale e il globale viene garantita dalla transazione commerciale, che sfrutta segni estratti del genius loci per ammantare di falsa autenticità le lunghe catene del valore. È infatti su una sua versione mercificata che si basa la particolare «tautologia» (Scheppe 2009, 47) per via della quale un turista cinese può trovarsi, grazie al suo viaggio in laguna o al suo imbarco in crociera, ad acquistare dei souvenir comunemente fabbricati proprio nel suo paese di provenienza: «gli iconici ninnoli kitsch con motivi veneziani [... ], per essere considerati autentici, richiedono il territorio cli Venezia solo come punto vendita. Tuttavia, questo business è altrettanto adatto ai derivati globali cli Venezia nei casinò cli Las Vegas e Macao» (ivi, 51 ), ed ovviamente a bordo di Costa Vene"".lia. Anche rispetto alle forme dell'abitare è possibile approfondire la comparazione. In relazione alla crocieristica, Valentina Longo descrive efficacemente «la cabina come casa» (2015, 64) nella sua stratificazione sociale, che nella nave prende la forma cli una piramide con in cima,

2.2.0

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ovviamente, i turisti - in base al loro portafogli -, e poi a scendere i marittimi in funzione del loro grado - ufficiali, sottufficiali e forza comune: man mano che scendiamo la piramide, «sia le dimensioni dei vari spazi, sia la densità abitativa e la qualità degli alloggi subiscono una stretta. Anche chi ha la possibilità di abitare in una cabina singola non gode delle stesse condizioni di vita dei ponti superiori» (ivi, 7 5); la posizione nella piramide di bordo «si traduce in segregazione spaziale» (ivi, 77) che dà forma alla geografia sociale della nave. Non occorrerebbe nemmeno cambiare troppo la terminologia per riferire queste descrizioni ad una disamina delle diseguaglianze e delle ingiustizie spaziali nel contesto urbano, trovandosi a immaginare studenti e lavoratori in stanze doppie e triple, buie e umide, in piani terra con la muffa ai muri o in sottotetti brucianti, in palazzi dove sola resiste una famiglia borghese in un alloggio decente e il piano nobile è la seconda casa di un super-ricco straniero, vuota 360 giorni l'anno, mentre la maggior parte degli appartamenti con affacci luminosi presentano tutti lo stesso arredamento in serie che esibisce immediatamente il marchio estetico di Airbnb. A separare e connettere i diversi spazi, la nave ha organizzato un doppio sistema di spostamento, in cui «per i turisti gli spostamenti avvengono in ambienti ampi» e di elevata qualità, mentre nell'angusto sistema destinato all'equipaggio «ricorre la plastica e il metallo» (ivi, 74), radicalizzando e istituzionalizzando l'esperienza quotidiana della circolazione pedonale veneziana, in cui nelle famose sconte 1 5, per le quali passano i residenti affrettati per evitare le masse turistiche che ingombrano calli e campielli, dominano le apparenze, i rumori e gli odori degli scarichi di cucine e impianti di condizionamento industriali. La nave, poi, come la città «limitata dalla sua stessa superficie e contornata dall'acqua» (ivi, 45), definisce una «bolla ambientale» (ibid.) in cui si trovano immersi ospiti ed equipaggio, analoga a quel «perimetro ben definito [che] separa lo spazio turistico dal resto dello spazio urbano» che Judd e Fainstein hanno definito tourist bubble (1999, 3 6). Ma a Venezia "tourist bubble" e città storica sostanzialmente coincidono, al punto da valerle il titolo di «primo theme park d'Europa» (Da vis, Marvin 2004, p. 3 ); allo stesso modo, nello spazio d'artificio della nave si sperimenta «il venire meno definitivo dei confini tra parchi a tema e crociera» (Longo 2015, 45), così che, in entrambe, il modello del parco tematico afferma la sua egemonia: la città-isola diviene •s Lctt. "nascoste", a indicare le strade secondarie e poco trafficate.

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«un'estensione della nave», tanto che «a terra i passeggeri trovano i medesimi temi» (ivi, 46) che hanno imparato a conoscere tra i ponti e i negozi della loro crociera. Sbarcando, passeranno semplicemente «dalla bolla nave alla bolla shopping dei mercati locali adiacenti il porto» (ivi, 192). Infine, a Venezia come in ogni nave che si rispetti, ci sono telecamere ovunque. La SCR del Tronchetto raccoglie in sé, come una sorta di piattaforma di piattaforme, una molteplicità di dati derivanti dall'aggregazione di diversi livelli e ambiti di rilevazione. Intesa come «il cervello del sistema» urbano, vi «confluiscono gli apparati di monitoraggio e controllo dei sistemi critici della mobilità urbana e di governo della città, fra cui: le centrali di controllo della rete multimodale del trasporto pubblico locale, i sistemi di videosorveglianza del traffico stradale, la rete semaforica, le telecamere di monitoraggio del traffico acqueo e pedonale, il sistema di videosorveglianza della Centrale Operativa della Polizia Municipale» (Comune di Venezia 2018, 61-62). A queste vanno aggiunte le informazioni processate a partire dai «BIG DATA TIM relativi alle celle di rilevazione delle SIM telefoniche» (Bettini 2021, 42), in grado di rilevare quantità, localizzazione e provenienza di ogni cellulare presente in città, ed è in fase di progettazione «l'integrazione con altri sistemi di monitoraggio insistenti sulla città, sia rispetto alla mobilità pubblica e privata (Aeroporto, Porto, Ferrovie, ANAS, rete autostradale), sia rispetto altri ambiti di monitoraggio del territorio (MOSE, Sistema Musei)» (Comune di Venezia 2018, 62). Si tratta dunque di un sistema complesso di estrazione di dati volto all'elaborazione di una «governance innovativa» (Bettio 2021, 84) dell'organismo urbano, che potrà essere utilizzato per segmentare l'accesso alla città nella forma del mero contributo d'accesso o persino della vera e propria realizzazione di uno sbarramento all'ingresso tramite tornelli fissi, attivabili con un QRCode16 • D'altronde, «sono maturi i tempi per muoversi nella direzione di una riduzione della mobilità inutile e che non crea ricchezza» (Poli 2021, 18-19), e in una «città simbolo della totale esposizione ai flussi» (Romano 2021, 124) ci sono pochi dubbi su quali regimi di mobilità verranno tarati i criteri di massimizzazione della performatività del sistema. 1 ' https://www.ilgazzcttino.it/nordcst/vcnczia/sindaco_brugnaro_mandato_lcggc_vcnczia-63 30469.hnnl

2.2.2.

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Se Venezia è continuativamente sotto sorveglianza, non differisce poi tanto da quella nave che «appare come una fortezza, una città blindata e costantemente monitorata da occhi sia elettronici che umani» (Longo 2015, 9). Il «panopticon liquido» in cui sono immerse, che sul modello delle smart cities cinesi articola « un sistema centralizzato di sorveglianza esercitato attraverso un assemblaggio pervasivo e altamente differenziato di dispositivi e istituzioni, connessi ma separati» (Nasi 2021), non solo esplicita una pervasività del controllo senza precedenti sul corpo della città-piattaforma, ma la predispone ad un ulteriore salto di qualità. I suoi dispositivi, collegati ad un'intenzionalità politica di sapore tecnocratico, predispongono il territorio a più vaste e dirette applicazioni di regimi di «inclusione differenziale», attraverso i quali l'accesso e la circolazione all'interno del perimetro urbano possono trovarsi soggetti «a vari gradi di subordinazione, comando, discriminazione e segmentazione» (Mezzadra, Neilson 2014, 204). La possibilità di controllo dei flussi in entrata, realizzabile a diverse intensità - dalla prenotazione obbligatoria con sistemi di incentivo/disincentivo fino alla bigliettazione e allo sbarramento fisico tramite tornelli - prefigura dunque una trasfigurazione del fatto urbano che lo avvicina sempre più al suo doppio marittimo. Se prendiamo questa testimonianza raccolta da Valentina Longo da un tecnico luci di una nave da crociera, in cui il lavoratore racconta come ogni volta che tomi alla nave dcvi mostrare il tesserino magnetico e passare le tue cose ai raggi x [... ]. A volte devi mostrare il tesserino alla polizia portuale e poi alla "security" della nave.[ ...] Lo so, sono dettagli, però le stronzate come queste sono mille e, tutte insieme, costituiscono una specie di prigione invisibile (Longo 2.015, 2.10)

possiamo facilmente intravedere in prospettiva il tipo di controllo all'accesso esercitabile sullo spazio urbano, tanto sul versante dei visitatori quanto su quello dei residenti o dei frequentatori abituali, a cui sarà trasferito l'onere della prova sull'avere una buona ragione per trovarsi in città. Alla luce di tutti questi elementi, può forse risultare meno provocatorio di quanto si pensi sostenere che davvero Venezia aderisca sempre più al modello delle navi che ne solcano la laguna. Sulle sue vecchie pietre vanno infatti configurandosi esperienze spaziali sempre più indiscernibili da quelle rinvenibili a bordo delle grandi crociere. Dalla pro-

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porLione tra abitanti e visitatori/passeggeri alla geografia dell'abitare, dalle forme lavorative all'organizzazione della viabilità, dai sistemi di controllo ai regimi di inclusione differenziale della popolazione transitante, la città, ostaggio da tempo della sua monocoltura turistica, è ormai pronta per mollare gli ormeggi e disporre la prua su una fantomatica rotta di Marco Polo, verso il Mar Cinese Orientale, dove ad attenderla troverà il suo doppio.

4.&it

Cartelli "exit" in una calle veneziana durante la festa del Redentore e a bordo di una nave da crociera.

Sono diversi i modi in cui si può dire che Venezia - solo apparentemente immobile nel suo passato - esibisca in maniera paradigmatica le trasformazioni urbane annunciate dall'avvento del platform urbanism e dei suoi discorsi. Il primo, e forse più immediato, è quello di mostrare come l'organismo urbano si collochi ormai all'intersezione tra i domini operativi di una pluralità di piattaforme, pubbliche e private, che lo hanno innervato al punto da renderne difficilmente immaginabile il funzionamento in loro assenza: che ne sarebbe ad esempio dell'enorme quantità di stock edilizio attivabile su richiesta tramite le piattaforme di short-term ren'tal senza l'esistenza della città in quanto piattaforma, capace di aggregare ed attrarre i flussi parallelamente organizzati sulle piattaforme di prenotazione di voli low cost e dei vettori ferroviari, monitorati dalle piattaforme di sorveglianza pubbliche e - in un futuro apparentemente prossimo - organizzabili a partire da un sistema di prenotazione? Che ne sarebbe dei flussi

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opposti di subsistence based mobilities, che contemporaneamente attirano forza lavoro pendolare verso la città storica e spingono fuori da essa popolazione residente proprio in virtù di quell'uso dello stock edilizio, senza la grande piattaforma turistica e urbana che incessantemente ridisegna, con moto centrifugo e centripeto al tempo stesso, le sue geografie? Forse che, senza la città-come-piattaforma, ritroveremmo la città, la cui ombra, «rimpianto di ciò che è morto perché è stato ucciso, forse il rimorso», affascina e ossessiona quanti ancora, imperterriti, si spingono sul luogo del delitto per «consumarne turisticamente» le rovine? (Lefebvre 1968, trad. it. 2014, 96-97) I processi globali che abbiamo attraversato in questo breve percorso non appaiono reversibili, come d'altronde non lo è mai la freccia del tempo e della storia. Leggere però, attraverso l'analisi o le suggestioni, il sovrapporsi della piattaforma urbana sul corpo della vecchia città, decifrarne i caratteri e sottolinearne i paradossi, può forse aprire all'immaginazione, anche politica, terreni di impensato su cui progettare dei futuri possibili, meno foschi e meno kitsch di quelli annunciati dal trionfo del modello theme park. Se Venezia insomma è davvero una nave da crociera, se le sue cabine erano le nostre case, l'ammutinamento diviene una prospettiva per chi, costretto a vivere sotto la linea di galleggiamento, voglia salire verso la luce del sole. Se Venezia è una piattaforma, piantata sui pali del caranto lagunare e intenta a pompare valore nelle casse dell'industria turistica come una piattaforma petrolifera succhia oro nero dal sottosuolo, ecco che quella ricchezza estratta è la risorsa il cui uso va nuovamente conteso a chi può appropriarsene attraverso la rendita. Ed è forse questo il secondo modo in cui Venezia può illuminare esemplarmente il nostro presente "fuori squadra", mostrando come la città turistica, lungi dall'essere una preoccupazione per anime belle, sia tra i migliori modelli disponibili per comprendere la città-piattaforma, forse ancor più del mondo della logistica. «Produrre turismo» significa infatti «catturare la fluidità dei flussi, fissarli e combinarli in uno spazio specifico» (Iannuzzi 2021, 3 5), in cui il ca pitale si realizza nella simultaneità di produzione e consumo (Yrigoy et al. 2021, 13). Come l'albergo, come la nave, la città turistica è un assemblaggio in cui «flussi multi-stratificati di mobilità si combinano con uno spazio territorializzato» (Iannuzzi 2021, 36), abitato da consumatori e lavoratori che quotidianamente lo mettono in opera. Le operazioni che vi avvengono esprimono la quintessenza del modello piattaforma, che articola sul sostrato della

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rendita «il controllo delle possibilità di accesso, lo sviluppo e la progettazione della domanda, [... ] la produzione affettiva di ambienti urbani, la stimolazione dell'attività e della circolazione, la regolazione dei sistemi sociali attraverso l'analisi dei dati e la pianificazione della vita pubblica» (Mortenbock, Mooshammer 2021, 12). Immaginare una fuoriuscita da questo modello non è impresa semplice. Richiede un'articolazione di lotte sociali e di pratiche minute, di immaginazione pianificatoria di ampio respiro così come di una sorta di "politica dell'invisibilità", per sottrarsi ai riflettori dello spettacolo che illuminano incessantemente la scena della cittàpiattaforma. Richiede di non farsi incantare unicamente dalle sirene del digitale, ma di coglierne le implicazioni mentre si presta ascolto, nel deserto animato di ciò che resta della città, anche agli ululati nel vuoto delle persone che la abitano. Bibliografia

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