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Italian Pages 384 [382] Year 2011
Giustina e le altre Sante e culti femminili in Italia settentrionale dalla prima età cristiana al secolo XII Atti del VI Convegno di studio dell’Associazione italiana per lo studio della santità, dei culti e dell’agiografia Padova, 4-6 ottobre 2004
a cura di Andrea Tilatti e Francesco G.B. Trolese
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Copyright © 2009 - Viella s.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione (carta): febbraio 2009 ISBN 978-88-8334-299-8 Prima edizione (ebook): giugno 2011 ISBN 978-88-8334-670-5 Questo volume contiene gli Atti del VI Convegno di studi dell’Associazione italiana per lo studio della santità, dei culti e dell’agiografia. Il Convegno è stato organizzato sotto l’egida dell’Abbazia benedettina di Santa Giustina.
abbazia di santa giustina padova
L’iniziativa è stata realizzata con il contributo di
(L. R. 5 settembre 1984, n° 51, art. 6) palladio restauri s.r.l. 35020 sant’angelo di piove di sacco padova
viella
libreria editrice via delle Alpi, 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it
Indice
Andrea Tilatti Introduzione
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Robert Godding Il dossier di santa Giustina negli Acta Sanctorum
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Sofia Boesch Gajano Dal martirio all’ascesi: percorsi della santità femminile tra tardoantico e alto medioevo
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Alba Maria Orselli Dialettiche di idiomi agiografici nelle tradizioni di santa Tecla
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Giuseppe Cuscito Alle origini del culto di santa Eufemia di Calcedonia. Bilancio bibliografico-critico
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Paolo Chiesa Donne martiri ad Aquileia 105 Luigi Canetti Culti femminili nell’antica provincia ecclesiastica ravennate: il caso di santa Giustina a Piacenza
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Cristina La Rocca I silenzi dell’agiografia. La mancanza di sante in età longobarda
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Stefano Magnani Le donne martiri della persecuzione di Diocleziano
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Francesco Scorza Barcellona Antiche martiri in racconti di passione africani e romani
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Indice
Vincenza Milazzo La Sicilia: Agata e Lucia. Note storiografiche
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Enrico Morini Santità monastica femminile in abiti maschili nell’Oriente cristiano
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Anna Vildera La musica dell’ufficio liturgico padovano per santa Giustina
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André Vauchez Conclusion
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Indice dei nomi di persona e di luogo
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Andrea Tilatti Introduzione
Il titolo originario del convegno, Giustina e le altre, sottolinea l’interesse per una vicenda individuale, localizzata, se si vuole, ma nello stesso momento emblematica di percorsi, di problemi, di interpretazioni storiche e storiografiche, che danno sostanza ad alcuni elementi e snodi cruciali della riflessione sul nostro passato; siano pure osservati con la lente dello studioso di agiografia. La preoccupazione degli organizzatori è stata dunque quella di allargare le prospettive, di comparare, di indagare altrove; con un risultato quasi paradossale. Chi legga, infatti, il programma stilato per le giornate di congresso (cfr. Appendice), e l’indice degli atti, potrebbe trarre l’impressione che Giustina sia quasi del tutto esclusa, assente dagli interventi. Eppure, la sua figura e la sua storia sono state i paradigmi sui quali è stato pensato e costruito l’intero convegno. Parlerò dunque io di Giustina, abbozzerò il suo ritratto e accennerò ai mutamenti cui fu soggetto, sperando che ciò sia sufficiente per illustrare le intenzioni di partenza dei promotori. Comincerò dalla leggenda. Ecco già un bel nodo, che verrà al pettine. Spesso le fonti agiografiche con le quali gli storici hanno a che fare sono di datazione assai incerta e, salvo eccezioni più o meno felici, hanno edizioni parziali o antiquate. La questione non è semplice e non è solo filologica. A cosa deve ambire l’editore di un testo agiografico che vanti una durata più che millenaria e una tradizione ramificata, complessa: alla ricostruzione di un ipotetico originale o ad apprezzare il senso peculiare delle varianti o delle riscritture? Come collocare sulla linea del tempo scritti che non lasciano per lo più intravedere chiaramente legami con una realtà contingente? Il dilemma tra l’aspirazione (pur consapevolmente disillusa) a restituire una astratta forma originaria e la preoccupazione di carpire lo spessore documentario di ogni singola versione, a costo di perdersi in esso, sembra
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quasi richiamare gli estremi del conflitto tra ideale e reale… Non è il caso di drammatizzare, evidentemente, eppure rispondere al problema di datare e di attribuire una fonte agiografica è fondamentale per qualsiasi altro discorso storico; significa restituirle un valido significato contestuale, al di là di ogni possibile, sebbene improbabile, valore biografico specifico. «Beata Iustina ex christianis parentibus oriunda fuit». Sono parole poste all’esordio della Passio. Giustina se ne stava ritirata nel suo praedium Vitalianum, quando a Padova sopraggiunse il crudele imperatore Massimiano, il quale, assetato del sangue dei santi di Dio, stabilì il suo tribunale nel Campo Marzio. La giovinetta volle visitare i cristiani sofferenti, ma appena giunta a Padova fu arrestata e condotta davanti all’imperatore. Interrogata, professò e sostenne in modo incrollabile la sua fede. Rifiutò di sacrificare agli dei pagani. Condannata alla pena capitale, fu trafitta da una spada e morì lentamente. I cristiani ne raccolsero pietosamente il corpo, lo imbalsamarono e lo seppellirono in un condignum cymiterium, ubicato a circa mille passi dalla città, «ubi usque in hodiernam diem eius nominis mysteria celebrantur» e dove convergono i pietosi cammini di una turba di fedeli. Il natale della martire si celebrava alle none di ottobre, il 7 di ottobre. Questa è la leggenda, breve, ristretta da me ai suoi dati essenziali ed esposta sine glossa. È pur sempre, a suo modo, una storia e, devo riconoscerlo, una storia accattivante nella sua semplice linearità e nel suo cristallino significato didattico. L’ultima edizione della Passio, quella del 1926, comparve nel «Bollettino diocesano di Padova», curata dal canonico Rizieri Zanocco, in una rubrica intitolata Per la Storia della nostra Diocesi, con la “s” di storia e la “d” di diocesi maiuscole, tanto per chiarire la posta in gioco. Quel breve racconto agiografico si colloca alle origini della chiesa padovana, in analogia a quanto spesso avviene per le leggende dei santi martiri, che arrossando con il proprio sangue gli albori di una comunità cristiana, la rendevano ancor più gloriosa e felice. Le glosse iniziano subito, la prima è cronologica: il 304, come anno del martirio, è una divinazione degli interpreti, dovuta alla presenza di Massimiano nel racconto e al parallelismo con la grande persecuzione dioclezianea. Non esiste, ad oggi, modo di verificare né l’anno né il nome del persecutore, ma il fiorire di congressi centenari fra il 2003 e il 2004 testimonia quanto queste percezioni, o queste realtà, fossero e siano condivise. Fra i tanti ne ricordo pochissimi, perché vicini geograficamente: i santi Canziani in Friuli sono stati oggetto di tre convegni; san Floriano di Lorch si è merita-
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to ancora più importanti manifestazioni, che comprendevano assise scientifiche, concerti e mostre, tra Austria e Italia. Ma l’elenco dei martiri celebrati sarebbe davvero lungo e coinvolgerebbe tutte le regioni della penisola. La seconda glossa riguarda il cimitero, ubicato a circa mille passi dalla città, correntemente riconosciuto nel luogo oggi occupato dalla basilica e abbazia di Santa Giustina. A rigore, la Passio non è così precisa e gli esiti delle ricerche archeologiche non tranquillizzano circa la possibilità di reperire tombe cristiane del IV secolo in quell’area. C’è dunque da domandarsi se i dati della leggenda, almeno quelli basilari, e le loro interpretazioni corrispondessero alla storia o fossero il riflesso di un presente (ma quale presente?) che guardava di volta in volta al passato in modo non disinteressato né neutrale, ma cercando di trovarvi le proprie illustri radici. Porsi un simile interrogativo significa in fondo chiedersi chi mai fosse Giustina. La curiosità è più che legittima e corrisponde a un imperativo antico, di stampo positivista, se si vuole, che però ha a che fare con la natura stessa del lavoro dello storico: diligere veritatem. Il metodo per tentare di risolverlo potrebbe essere quello additato da Hippolyte Delehaye: quello delle coordinate agiografiche. Ossia, come è ben noto, la verifica della data della festa e della localizzazione della tomba come elementi essenziali per confermare, o negare, la storicità di un santo. Per Giustina la strada è apparentemente in salita. Esistono altre fonti, a Padova e altrove, oltre alla Passio. In ordine sommariamente diacronico cito l’epigrafe e la basilica opilioniane, le immagini musive di Parenzo e di Ravenna, i ricordi di Venanzio Fortunato: tutti documenti del VI secolo. Se si trascura la leggenda agiografica, l’epigrafe di Opilione, il patrizio che viene sempre più concordemente identificato con il console del 524, reca per la prima volta la menzione di Giustina come martire. Opilione dice di aver portato a termine una basilica (vel oratorium) in suo onore, iniziata a fundamentis. Secondo un parere che era stato già di Jean-Charles Picard, e che ritengo sempre più convincente, Opilione e la sua chiesa sembrano essere alle origini della fortuna cultuale di Giustina. Le ultime indagini e revisioni dei reperti archeologici rinvenuti sotto l’attuale edificio e nella più estesa area cimiteriale romana circostante, se confermate, assegnerebbero un valore letterale alla dichiarazione di una costruzione iniziata “dalle fondamenta”, nel senso che non sono finora state rilevate tracce di stabilimenti di culto cristiani più antichi del VI secolo, ossia della basilica/oratorio nominati nell’epigrafe. Sotto la navata
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di quella basilica si trova un tomba ipogea romana, ma non è affatto facile comprendere se tale sepolcro fosse il primitivo giaciglio della salma di Giustina. La collocazione delle strutture non pare casuale, e ciò potrebbe far propendere per l’ipotesi che si trattasse anche della tomba di un santo, o che venisse considerata come se lo fosse, ma tutto è complicato dall’assenza di una simbologia cristiana coeva. Quello che l’archeologia e l’epigrafia in ogni caso, e per ora, non dicono è se Giustina fosse da Padova e se vi fosse a Padova la sua tomba, prima di un edificio di culto a lei dedicato. Nella basilica di Eufrasio a Parenzo e in Sant’Apollinare Nuovo di Ravenna Giustina fu rappresentata nei mosaici in compagnia delle altre sante: undici a Parenzo, in medaglioni che la effigiano a mezzo busto, ventuno a Ravenna, a figura intera nella teoria delle vergini. Giustina è resa illustre dalla corona del martirio, ma non è qualificata come padovana. Venanzio Fortunato è il primo a parlare della sua tomba, in Padova, e a considerarla vanto peculiare di santità della città euganea. Il cerchio è così chiuso. Dietro queste poche notizie sta gran parte della materia di questo convegno, e da qui le strade si moltiplicano e divergono. Da un lato rimane l’attenzione per la “nostra” Giustina, con tutti i quesiti relativi alla sua identità e biografia e alle possibili interferenze e sovrapposizioni con altre Giustine, soprattutto con quella di Antiochia/Nicomedia (ma, con una certa sorpresa, ho saputo che Monte Porzio Catone, in provincia di Roma, vanta il possesso del corpo di una santa Giustina, romana, martirizzata il 6 ottobre 306. La data autorizza qualche sospetto). Dall’altro lato, si comincia a guardare alle sue compagne, alle altre, appunto, a coloro che le sono state accostate, o alle quali si è aggregata, quale modello di virtù, di coraggio e di fortezza, fino al martirio. Tutto ciò è visibile con nitore nel VI secolo; quando era già passato molto tempo dagli anni delle persecuzioni cruente, le chiese avevano assunto stabili configurazioni istituzionali, territoriali, gerarchiche, sanzionate da rapporti di dialogo e di confronto, dallo sviluppo di una crescente “riflessione” sulle proprie origini, che spesso sboccava in agiografia. I santi, si sa, erano una componente essenziale dell’apparato religioso e della devozione cristiana. Essi erano patroni e intercessori per i singoli fedeli, ma anche vanto per intere comunità ecclesiali, simboli di identificazione, le loro reliquie viaggiavano e si scambiavano come segno di fratellanza tra personaggi e chiese, altre volte venivano trafugate, il loro culto si allargava e si moltiplicava, erano strumento ideologico di consenso
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e di potere. Quando si perdeva la memoria del dono, della traslazione, della migrazione, poteva nascere una nuova festa e, con essa, un nuovo santo. Ciò valeva per tutti, ma aveva una declinazione peculiare per le sante? La categoria del martirio come criterio di santità aveva una valenza egalitaria prevalente e perdurante sulle differenze di sesso, di ceto sociale, di stato giuridico? E fino a quando? Cosa significavano, sul piano della storia, le teorie di sante (in parallelo a quelle dei santi) che si vedono rappresentate nelle basiliche o recitate nel canone delle messe? Quale valore e funzione avevano, rispetto ai gruppi umani o alle istituzioni che hanno accolto o promosso i loro culti, le loro immagini? A queste domande i saggi qui contenuti tentano di dare qualche risposta, organizzata seguendo problematiche generali relative alle vie di promozione della santità, alle sue specificità femminili, se esistenti, oppure prestando attenzione a vicende individuali, ma di grande rilevanza, come quella di Tecla o di Eufemia, o guardando a contesti storici e istituzionali estesi a tutta l’alta Italia, ma senza dimenticare una serie nutrita di raffronti con altre realtà peninsulari e mediterranee. Le ricerche sono comprese in un ampio arco cronologico con l’intento di sfuggire all’effimero e al singolare. La scelta di una spanna tanto ampia, nelle intenzioni di partenza, rispondeva ad alcune ambizioni periodizzanti: ad esempio, a cercare di comprendere se la lente dell’agiografia fosse idonea a cogliere mutamenti epocali nelle società, nelle istituzioni, nei rapporti di potere, negli atteggiamenti religiosi, tanto da leggervi la traccia, il residuo, di un mutamento di transito tra l’antichità e il medioevo. Chi sa se la riflessione sulle sante possa consentire di intravedere un’area di passaggio, una delle tante, con tutte le sue peculiari diversità di regime, profondità, morfologia, eppure area di guado da una sponda a un’altra del fiume della storia. La vicenda della giovane Giustina o, meglio, della sua trasfigurazione agiografica, in questo senso mi pare potenzialmente rivelatrice. Da Opilione in poi, almeno, ella è davvero la martire di/da Padova. Si può ipotizzare che la spinta di Opilione, la sua rilevanza sociale e politica, le sue relazioni di amicizia, parentela e clientela, materializzate nell’impresa edilizia della basilica, siano state tali da meritarle una stabile inserzione nella élite dei culti di scambio dell’Italia settentrionale. Fatico a questo punto a pensare che, trovando una qualche Giustina in Italia settentrionale si possa ritenerla diversa da quella padovana. Il discorso vale, ad esempio, per la Giustina di Trieste (associata a Zenone, il 13 luglio), ma anche per la Giustina di
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Piacenza, abitualmente identificata con la martire di Nicomedia (26 settembre). Prove inoppugnabili non esistono, ma indizi sì, e fra questi il fatto che, al 12 ottobre, a Piacenza si festeggiava anche un Opilio/Opilione confessore. Il binomio è suggestivo, sebbene richieda estrema prudenza nella valutazione. Per un momento l’inserzione del patrizio munifico e pio nel catalogo dei santi balena pure a Padova. Un falso diploma di papa Gregorio IV, datato 828, ma risalente forse al XII secolo, allude a Opilione alla guisa dei santi, ne menziona il sepolcro nella stessa basilica che fece erigere, dove «eius corpusculum in pace requiescit […] supra duas colupnas» (CDP, II, 2, 1484). Forse dunque anche la Passio di Giustina, o una sua prima agiografia, rientra nel complesso e largamente oscuro gioco opilioniano, e fu compilata nel VI secolo, e ha connesso stabilmente la giovinetta con la città e con la chiesa episcopale. Ella sarebbe diventata a tutti gli effetti una patrona e il martirio, vero o presunto che fosse, fu il suo principale attributo agiografico e le garantì localmente un primato su altri santi. Questo, in un certo senso, è il punto di partenza, almeno quello che possiamo vedere, grazie alle fonti, nel VI secolo, con tutte le distorsioni che la loro parzialità può imporre. L’espansione della devozione per Giustina può essere seguita sull’insidioso terreno delle dedicazioni, sia nella diocesi di Padova, sia altrove, in Italia settentrionale. Calcare la via dei loca sanctae Iustinae è interessante e stimolante, ma ha il limite di scontrarsi con la difficoltà di pervenire a cronologie sicure. Giustino Prevedello, che ha dedicato tanti anni della sua vita allo studio di Giustina, ha enumerato oltre ottanta dediche, delle quali una quindicina riguardano chiese battesimali. L’elenco non è certo completo né di facile lettura, e necessita di ulteriori elementi di confronto e di riflessione. Non si può pensare di pervenire a qualche risultato più affidabile senza una migliore conoscenza delle correnti di flusso delle dedicazioni in Italia del nord nei secoli della tarda antichità e dell’alto medioevo, se non altro comparando la diffusione dei culti al femminile. Questa consapevolezza ha spinto gli organizzatori del convegno a promuovere un piccolo censimento dei loca sanctarum. È un tentativo che verrà discusso e analizzato fra qualche tempo. Fin da ora si può essere comunque certi che gli esiti non saranno di agevole lettura e il panorama sarà talmente complesso da impedire ogni semplificazione e ogni illusione di facile razionalizzazione, ma non escluderei che si possano individuare periodi in cui una dedicazione goda, per dir così, di maggior successo, sia per particolari corri-
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spondenze a un comune sentire religioso, sia per motivazioni simboliche o istituzionali, sia per connessioni con gruppi particolarmente influenti, che a loro volta creavano reti di solidarietà e di consenso impersonate dai santi. Occorrerà comunque distinguere: tra città e territorio, tra chiesa e chiesa, tra devozione e dedicazione, tra epoca ed epoca… e così via. Nello specifico, il culto di Giustina sembra aver goduto di una persistente fortuna. Di sicuro ha saputo essere efficace e rinnovarsi con il passare dei secoli, fino all’ultimo grande rilancio, in area veneta, collegandosi all’anniversario della battaglia di Lepanto: 7 ottobre 1571. Molte dedicazioni sono successive a questo evento. Una prima rilettura del culto per Giustina sembra doversi assegnare all’epoca longobarda. Gian Piero Bognetti vide un legame particolare tra Giustina e i Longobardi, considerandola quasi una loro “santa nazionale”. Io ho l’impressione che la rilevanza regionale del suo culto non sia di molto cambiata rispetto al panorama fissato nel secolo VI, e ritengo sia difficile anche connetterla senza esitazioni alla storia dello scisma tricapitolino, se non come prosecuzione di una configurazione istituzionale e religiosa già stabilita. Non proseguirò su questa strada. Per molti aspetti mi risulta più agevole e redditizio tornare a Padova e alle tracce agiografiche e cultuali di Giustina nella città custode della sua tomba. L’equazione già dichiarata da Venanzio Fortunato, tra Padova e Giustina, si ritrova pure in fonti successive, anche se, fra l’una e le altre notizie, si debba scontare un vuoto di secoli: almeno tre. Un privilegio di Ludovico II, dell’855, nomina il vescovo (Rorio) e la chiesa Sanctae Iustinae Pataviensis. Un quarantennio dopo, la celebre donazione della curtis di Sacco, ad opera di Berengario I, indirizzata «all’episcopio di Santa Maria vergine e di Santa Giustina martire», salvo errore, è il primo documento altomedioevale sicuro che dichiari il binomio Maria/Giustina come caratteristico della chiesa episcopale padovana. Era il 5 maggio 897. È ragionevole pensare che si trattasse del riverbero di una situazione più antica. La donazione di Berengario era il primo consistente nucleo di derivazione pubblica di un asse proprietario dell’episcopato padovano, che doveva costituire la base della potenza signorile del presule, in analogia con quanto accadeva per molte sedi vescovili e con un movimento ben più esteso di ricomposizione dell’autorità su base locale. E Giustina? Ho sostenuto in una mia ricerca di qualche anno fa che a Padova, nei secoli dell’alto e pieno medioevo, fu costituito un “sistema agiografico” che rifletteva ad ogni suo passaggio
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l’evoluzione religiosa, politica, istituzionale della città. Cos’è accaduto nell’agiografia padovana in questi secoli? O, per essere più prudenti, cosa si può pensare sia accaduto? Per tentare una spiegazione, sarà opportuno che mi affidi a un’altra leggenda: quella di san Prosdocimo, il presunto protovescovo di Padova. La sua Vita è piuttosto lunga, fantasiosa e ricca di digressioni, fra le quali quella più consistente riguarda la sua attività di conversione in quella regione che prenderà il nome di Marca Trevigiana. La parte relativa a Treviso è stata copiata pressoché alla lettera dalla leggenda di sant’Apollinare di Ravenna, il che svela il metodo di lavoro dell’agiografo – del resto ampiamente condiviso, a quei tempi – pronto ad appropriarsi delle fonti che conosceva e che riteneva idonee al suo scopo. Il compianto Ireneo Daniele ha ben studiato le questioni legate al culto di Prosdocimo e io stesso ho aggiunto qualcosa. Qui ne parlerò solo per il vincolo con Giustina, che rappresenta una sezione non trascurabile della Vita, ispirata senza dubbio dalla Passio della martire. Secondo la leggenda, Prosdocimo fu inviato dall’apostolo Pietro a Padova, per propagare la fede cristiana, e qui incontrò il rex Vitaliano. Non sfuggirà la coincidenza del nome del re con quello del fundum dal quale sarebbe giunta Giustina alla vigilia della sua uccisione. Il vescovo avrebbe guarito Vitaliano da un misterioso morbo e lo avrebbe poi battezzato assieme alla moglie Prepedigna. La coppia, prima sterile, avrebbe concepito e dato alla luce una bimba: Giustina, che fu battezzata e istruita nella fede da Prosdocimo. Si rispondeva così ad un altro dettaglio della leggenda di Giustina, che – come si ricorderà − era «ex christianis parentibus oriunda». Morti Vitaliano e la moglie, a Padova sarebbe giunto l’imperatore Massimiano, questa volta non tanto guidato dall’odio contro i cristiani, quanto piuttosto dal desiderio di sposare Giustina. Catturata dai soldati, la ragazza avrebbe tuttavia resistito alle profferte dell’imperatore, rifiutando di sacrificare agli idoli pagani. Resistette pure alle torture, sino a quando fu uccisa con un colpo di spada. Massimiano allora tornò a Roma e Prosdocimo recuperò e imbalsamò il cadavere della martire, seppellendolo in un condignum cymiterium. Le parole e le procedure sono identiche a quelle della Passio, la quale sarebbe appunto stata scritta da Prosdocimo a perpetua memoria di Giustina. Opilione, un patrizio vir christianissimus (si noti che la locuzione scioglie opportunamente rispetto al contesto agiografico il vir clarissimus dell’epigrafe), avrebbe da parte sua costruito in onore della martire una magnifica basilica ricoperta di
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mosaici, e Prosdocimo l’avrebbe consacrata, insieme con l’oratorio di Santa Maria, collocandovi un folto gruppo di monache. L’agiografo di Prosdocimo, che – per inciso – afferma di chiamarsi Massimo, secondo vescovo della città, ha sicuramente impiegato come fonti la più antica Passio e l’epigrafe opilioniana, forse altri documenti ora ignoti. La Vita del protovescovo è il primo indizio consistente dell’impresa di costruzione di un vero e proprio “sistema agiografico” padovano, che fu proseguito coerentemente con alcuni testi successivi, come l’Inventio dei santi Massimo, Giuliano, Felicita e Innocenti, quella di san Daniele levita, fino a quella di san Mattia e di san Luca, il cui ritrovamento è preceduto da quello del corpo di santa Giustina. La Vita di Prosdocimo è stata scritta verosimilmente nel X secolo. La datazione che io ipotizzo è in linea con quella a suo tempo dichiarata da Ireneo Daniele. Benché sostanzialmente coincidano quanto ai tempi, le ipotesi divergono quanto agli autori. Daniele aveva pensato ai monaci di Santa Giustina, io preferisco attribuirla ai vescovi padovani e alla loro cerchia di collaboratori. Uno degli elementi che mi spingono a tale soluzione è appunto il trattamento riservato a Giustina, che rimane gloriosa per il martirio, ma che nel contempo diviene una sorta di “creatura” del vescovo. Come s’è visto, Prosdocimo convertendo i genitori di Giustina propizia la sua nascita, la battezza, la istruisce e fortifica nella fede e nelle virtù, ne raccoglie pietosamente i resti, li imbalsama e li seppellisce, ne compone la leggenda, ne avvia e perpetua il culto. Sembra quasi che l’intera azione del presule sia indirizzata a porre sotto la propria tutela la giovinetta e indichi la volontà di riformulare la gerarchia santorale locale. Con l’avvento di Prosdocimo, la chiesa padovana, e quindi la storia della Padova cristiana, nasce con il suo primo pastore e ogni suo aspetto reca l’impronta episcopale. Questo modo di concepire la storia e il ruolo degli ordinari si concilia bene con il vigoroso episcopalismo che si manifesta a Padova, in parallelo con i sintomi di una ripresa della città, nel X secolo. Al di là delle incertezze sulla datazione precisa della leggenda, comunque, ciò che importa è che essa mi sembra un tentativo per relegare in secondo piano Giustina, di fronte alla emergente figura di un santo vescovo e, quindi, maschio. Un santo non martire, ma che in qualche modo assorbe e riassume in sé il martirio di Giustina. Nella vicina Aquileia, la metropoli, ho l’impressione che accada qualcosa del genere, quando il già fiorente culto di alcuni martiri, officiato in frequentati santuari e diffuso su scala sovraregionale tramite una cospicua
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rete di dedicazioni, come quello per i fratelli Canzio, Canziano e Canzianilla, sembra essere soppiantato con crescente decisione (a decorrere dal IX-X secolo) da quello per il vescovo Ermacora, successore dell’evangelista Marco nella serie episcopale aquileiese. In questi casi specifici, l’accentuazione della funzione episcopale, esaltata dai fasti degli altari, attribuiti sovente ex officio, appare talmente spinta da ridisegnare tacitamente la gerarchia stessa della santità, non più ormai sensibile al valore uniformante del martirio, ma attenta a considerare gli status personali dei protagonisti, relegando in secondo piano donne e chi vescovo non era. Una simile intenzione sembra comunque evidente leggendo la Vita di Prosdocimo. Tuttavia l’inerzia della tradizione ha saputo essere più forte dell’innovazione. Prosdocimo si aggiunse come patrono di Padova, e a lui, più tardi, si aggregarono san Daniele levita e sant’Antonio, ma non obliterò affatto Giustina, il cui nome restò legato tanto all’episcopio quanto alla città. Nella primavera del 1177 (secondo alcuni già a partire dal 1174) la basilica di Santa Giustina fu interessata da lavori edilizi, che comportarono anche una campagna di scavi alla ricerca di preziose reliquie. In quell’occasione furono dissepolti i corpi ritenuti di san Mattia apostolo e di san Luca evangelista. Prima, però, fu recuperato quello di Giustina. Il 9 dicembre del 1177 un Padovano, Terzo del fu Bonafede, a vantaggio della salute della sua anima, donò alcuni beni «al signore nostro Gesù Cristo e alla beata Giustina vergine e martire di Cristo e a san Luca evangelista e a san Prosdocimo confessore di Cristo e a tutti gli altri santi, che giacciono nel monastero di Santa Giustina di Padova», ponendoli simbolicamente «sopra l’arca in confessione della beata Giustina vergine e martire di Cristo, dove giace e dove oggi è collocato il suo corpo». Se non erro, questa è la prima attestazione esplicita di un interesse per una ripristinata materialità del corpo e delle reliquie della martire, che furono stabilmente identificate grazie a una epigrafe in tutto e per tutto debitrice dell’agiografia di Prosdocimo: † hic requiescit corpus beate Iustine virginis et martiris Christi que fuit filia Vitaliani regis Padue et a Maximiano imperatore gladio interfecta et a sancto Prosdocimo sepulta postea vero a titulo Concordie basilica Iustine fuit dicata
Ormai da lungo tempo la basilica di Santa Giustina, che custodiva i corpi santi, era diventata la chiesa del monastero benedettino. Una simile
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presenza istituzionale aggiunse altre sfumature al culto per la martire, che parve subire una contrazione spaziale, restringendosi a Padova, prima di approdare a una nuova espansione in età tardo medievale e moderna, grazie al nome della congregazione monastica e poi alle coincidenze belliche, già menzionate. Con le inventiones del tardo XII secolo il sistema agiografico padovano fondato sui santi antichi, resi famosi dal martirio o dall’ufficio episcopale, si completa. Giustina non era più sola, ma manteneva il proprio ruolo. Il XIII secolo fu anche a Padova il momento della santità nuova, contemporanea. Antonio fu il più felice dei santi padovani del Duecento, ma la sua affermazione non fu fulminea. Per quanto l’attualità proponesse nuovi modelli di vita e nuovi potenti taumaturghi, Giustina rimase in un certo senso l’unità di misura essenziale delle radici cristiane di Padova. Il suo nome non è mai stato in discussione, tanto che è quasi imbarazzante interrogarsi sulla storicità della sua persona e sullo sviluppo storico del suo culto. Il convegno si è aperto il 4 ottobre: solennità di san Francesco, uno dei maggiori esponenti della nuova santità medioevale – come si sa – e uno dei personaggi più amati non solo dai fedeli, ma pure dagli storici (e la distinzione non vuole affermare alcun dualismo). Quando furono fissate le date del convegno, la coincidenza festiva non era stata avvertita, ma al momento di iniziare i lavori mi è parso che cominciare il 4 ottobre per arrivare al 7 ottobre, festa liturgica di santa Giustina, fosse quasi un simbolico richiamo a quel metodo “prudentemente regressivo” per gli studi di storia, caro a Marc Bloch. Pronunciare nel presente i nomi, un poco desueti ma belli, di Giustina, Tecla, Eufemia, Felicita, Anastasia, Perpetua, Agnese e delle altre e – per par condicio – degli altri, immaginare, come vogliono gli agiografi, ilare e sereno il loro volto davanti alle sofferenze, ai carnefici, per conseguire il trionfo della morte in nome della fede, sono seduzioni troppo grandi per non intraprendere il cammino verso il passato, a scoprire forse pure il patire e il dolere, ma di sicuro le donne e gli uomini, le loro azioni e le loro intenzioni.
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Nota bibliografica La leggenda di santa Giustina attende ancora una edizione, per quelle edite (Bibliotheca Hagiographica Latina, 4571, 4572, 4573) si può far riferimento a Acta Sanctorum, Octobris, III, Antverpiae, apud Nicolaum Vander Beken, 1770, pp. 790-826: 824-825; Passio sanctae Iustinae virginis et martyris Patavii in Italia, in «Analecta Bollandiana», 10 (1891), pp. 467-470; R. Zanocco, La “Passio beatae Iustinae virginis et martiris”, in «Bollettino diocesano di Padova», 11 (1926), pp. 425-433. Vengono inoltre qui indicati, senza alcuna pretesa di completezza e in ordine cronologico, pochi riferimenti bibliografici circa il culto di santa Giustina e di alcuni altri santi padovani. A. Gloria, Codice diplomatico padovano dall’anno 1101 alla pace di Costanza (25 giugno 1183) (= CDP), II/2, Venezia 1881 (Monumenti storici pubblicati dalla r. Deputazione veneta di storia patria, VII. Serie prima. Documenti, VI); I. Daniele, San Prosdocimo vescovo di Padova nella leggenda nel culto nella storia, Padova 1987 (Fonti e ricerche di storia ecclesiastica padovana, 17); J.Ch. Picard, Le souvenir des évêques. Sépultures, listes épiscopales et culte des évêques en Italie du Nord des origines au Xe siècle, Roma 1988 (Bibliothèque des Écoles françaises d’Athènes et de Rome, 268); A. Tilatti, Istituzioni e culto dei santi a Padova fra VI e XII secolo, Roma 1997 (Italia sacra, 56); G. Prevedello, Giustina di Padova, vergine e martire, in Santi e beati della diocesi di Padova, Padova 1999, pp. 175-205; G. Zampieri, La tomba di “San Luca Evangelista”. La cassa di piombo e l’area funeraria della Basilica di Santa Giustina in Padova, Roma 2003 (Studia archaeologica, 123); San Luca evangelista. Testimone della fede che unisce, Atti del Congresso internazionale (Padova, 16-21 ottobre 2000), III: Ecumenismo, tradizioni storico-liturgiche, iconografia e spiritualità, a cura di F.G.B. Trolese, Padova 2004 (Fonti e ricerche di storia ecclesiastica padovana, 30); Santa Giustina e il primo cristianesimo a Padova, catalogo della mostra, a cura di A. Nante, Padova 2004; G. Zampieri, I sepolcri padovani di santa Giustina. Il sarcofago 75-1879 del Victoria and Albert Museum di Londra e altri sarcofagi della Basilica di Santa Giustina in Padova, Roma 2006 (Studia archaeologica, 141).
Appendice Convegno di studio Giustina e le altre. Sante e culti femminili in Italia settentrionale dalla prima età cristiana al secolo XII Padova, Abbazia di Santa Giustina, 4-6 ottobre 2004
Programma Lunedì, 4 ottobre 2004 Pomeriggio, ore 15,45 Saluti delle Autorità Discorso di apertura, Andrea Tilatti (Università “Alma Mater”, Bologna) (In chiusura, assemblea AISSCA) Martedì, 5 ottobre 2004 Mattino, ore 9 Robert Godding (Société des Bollandistes, Bruxelles), Il Dossier della Passio di Santa Giustina negli Acta Sanctorum Sofia Boesch Gajano (Università Roma Tre), Dal martirio all’ascesi Martina Caroli (Università “Alma Mater”, Bologna), Culti femminili e identità politico-istituzionali Alba Maria Orselli (Università “Alma Mater”, Ravenna), Tecla Giuseppe Cuscito (Università di Trieste), Eufemia Pomeriggio, ore 15,30 Paolo Chiesa (Università di Udine), Agiografia femminile nell’area aquileiese Paolo Tomea (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano), Martiri e sante dei primi secoli nell’agiografia femminile della provincia ecclesiastica di Milano Luigi Canetti (Università “Alma Mater”, Ravenna), Culti femminili nella provincia ecclesiastica ravennate Cristina La Rocca (Università di Padova), I silenzi dell’agiografia: perché manca una santità femminile in età longobarda?
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Mercoledì, 6 ottobre 2004 Mattino, ore 9 Raffronti Stefano Magnani (Università di Udine), Le martiri della persecuzione di Diocleziano Francesco Scorza Barcellona (Università Roma Due – Tor Vergata), Tipologie martiriali dell’agiografia dell’Africa e di Roma Vincenza Milazzo (Università di Catania), La Sicilia: Agata e Lucia Enrico Morini (Università “Alma Mater”, Bologna), Santità monastica femminile in abiti maschili nell’Oriente cristiano Conclusioni, André Vauchez (Institut de France, Paris)
Robert Godding Il dossier di santa Giustina negli Acta Sanctorum
Se si dovesse trovare un santo patrono per aiutare a risolvere la bruciante controversia riguardante l’adesione della Turchia all’Unione Europea, santa Giustina sarebbe senz’altro una candidata da considerare. Infatti, come se si sa, la battaglia di Lepanto avvenne il giorno della sua festa, il 7 ottobre 1571; se poi la vittoria venne generalmente attribuita alla Madonna – ed è questa l’origine della festa, instaurata da Pio V, di Nostra Signora della Vittoria, divenuta poi Madonna del Rosario –, la Repubblica Veneta volle invece vedervi l’intercessione di santa Giustina.1 Delle monete, chiamate appunto “giustine”, furono coniate, con la scritta: «Memor ero tui, Iustina virgo». Una promessa che stiamo osservando in questi giorni. Anche se gli Acta Sanctorum ci riferiscono l’episodio,2 tali preoccupazioni politiche erano del tutto assenti dal progetto erudito di Heribert Rosweyde, di Jean Bolland e dei loro successori. Come pure erano assenti considerazioni legate all’appartenenza della martire al cosiddetto sesso debole. In tal senso, uno studio del trattamento delle martiri negli Acta Sanctorum, quale mi è stato suggerito in un primo momento, non presenterebbe a mio avviso alcun elemento significativo di una differenza nel modo in cui viene trattata la santità femminile rispetto a quella maschile. In altri termini, la redazione degli Acta Sanctorum non costituisce un terreno fertile per i gender studies. Il nostro studio consisterà quindi semplicemente nell’esame del dossier di santa Giustina qual è stato progressivamente costituito dai primi 1. Cfr. Gibellini, Lepanto. 2. AA SS Oct. III, pp. 792-793.
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Bollandisti, per poi assumere una forma definitiva nel III volume degli Acta Sanctorum Octobris, stampato ad Anversa nel 1770. Il nostro scopo è dunque di capire meglio, con un esempio concreto, l’elaborazione di un dossier degli Acta Sanctorum; d’altra parte, tale esame, se non fornirà materiale nuovo, ci permetterà di rivisitare il dossier di santa Giustina in un modo alquanto inconsueto. Si sa bene che l’impresa degli Acta Sanctorum deve la sua origine all’iniziativa del gesuita Eriberto Rosweyde: i suoi Fasti sanctorum, pubblicati nel 1607, presentano il progetto della collezione, nonché un elenco alfabetico di circa 1.400 santi, dei quali Rosweyde pretende possedere le Vite, copiate da manoscritti conservati nelle biblioteche del Belgio. Tra quei nomi spunta quello di «Iustina V. & M.» festeggiata il 7 ottobre.3 La sua presenza risulta alquanto inaspettata, in quanto, da quello che sappiamo, appare poco probabile che il Rosweyde abbia trovato la sua Vita in un codice del Belgio. Quello che è certo è che il gesuita possedeva una copia manoscritta della passio pubblicata nel II volume del Mombrizio.4 Tale copia sussiste tuttora nei Collectanea Bollandiana, con annotazioni autografe del Rosweyde, le quali confermano la fonte mombriziana.5 L’elenco dei Fasti non è ancora stato l’oggetto di uno studio sistematico, sicché i criteri adoperati nella sua compilazione in parte ci sfuggono. Un rapido sondaggio mostra che non tutti i martiri presenti nel Mombrizio vengono ripresi: Rosweyde quindi, non ha sfruttato la raccolta mombriziana in modo sistematico. Le ragioni per cui egli fece copiare la Passio di Giustina, che si trovò ipso facto inserita nell’elenco dei Fasti, ci sfuggono in gran parte. Sarebbe senz’altro interessante fare l’inventario delle copie rosweydiane tuttora sussistenti nei Collectanea Bollandiana, e di confrontarlo con l’elenco dei Fasti: un tale lavoro getterebbe senz’altro una certa luce sulle fonti sfruttate, nonché sui criteri adoperati dal gesuita. Rosweyde scrisse addirittura alcuni appunti su santa Giustina, in preparazione ad una presentazione più articolata. Un foglio intitolato Notatio in Vitam s. Iustinae contiene la copia (di suo pugno) della notizia del Martirologio Romano e del commento del Baronio, insieme ad un tentativo d’identificazione di Vitalianus, presentato dalla Vita s. Prosdocimi come padre di Giustina. 3. Rosweyde, Fasti, p. 41. 4. Mombritius, Sanctuarium, II, ff. 40v-41v. 5. Bruxelles, Bibl. des Bollandistes, Ms. Boll. 160, ff. 48-50v.
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Quando, nel 1630, Bolland decide di mettere in opera il progetto di Rosweyde, eredita le sue carte, tra le quali si trovano la Notatio e la copia dell’edizione mombriziana della Passio. Non dispone allora di altri documenti manoscritti padovani, come lo vediamo dal dossier del diacono martire san Daniele, pubblicato nel primo volume di Gennaio degli Acta Sanctorum nel 1643, nel quale, ignorando l’Inventio del 1076, si accontenta di riprodurre delle fonti già edite.6 Nell’estate del 1660, Henschenius, il primo collaboratore di Bolland, accompagnato dal giovane Papebroch, iniziano un viaggio che li porterà, attraverso la Germania e l’Italia settentrionale e centrale, fino a Roma, tornando per la Francia.7 Lo scopo è di esplorare le biblioteche e di copiare i testi agiografici non ancora posseduti ad Anversa. Mentre Papebroch tiene un diario, Henschenius scrive ogni settimana a Bolland; queste due fonti complementari ci permettono di seguire con precisione ogni tappa del viaggio. Arrivano a Padova, da Vicenza, il 29 ottobre. Quel primo giorno è consacrato innanzitutto alla visita del Santo e di Santa Giustina. Scrive Papebroch: «Sed haec et omnia conspecta hactenus [si riferisce al Santo] superat D. Iustinae basilica nitidissimae fabricae elegantia». E fornisce una descrizione dettagliata dell’interno della basilica, con una particolare attenzione per le tombe dei santi: l’«egregium D. Iustinae mausoleum», il «sacellum elegans S. Prosdocimi […] cuius corpus sub altari marmoreo requiescit», ed il «marmoreus puteus […] in quo plurimorum sanctorum ossa». Non trascrive tuttavia né fa il minimo accenno alle iscrizioni antiche. L’indomani, i due gesuiti visitano varie altre chiese: carmelitani, olivetani, domenicani, oratoriani, francescani, il Duomo, la chiesa di San Giacomo… Di ciascuna, Papebroch fornisce una descrizione, vera anticipazione delle guide del Touring Club Italiano. Vorrebbero visitare la biblioteca dei Teatini, ricca, a quanto si dice, di ben 2.000 volumi, ma «domo aberat, qui clavem tenebat». L’unica biblioteca che riescono ad esplorare è quella dei canonici del Laterano in San Giovanni di Verdara, famosa «non tam a numero quam ab antiquitate librorum». Ma non vi trovano nulla per i loro studi: «libri super pulpita pulveribus obiecti, novi nulli, profani grammatici plerique», scrive Papebroch.8 «Nihil singulare reperi pro studiis nostris», 6. AA SS Ian. I, pp. 160-161. 7. Cfr. Delehaye, L’œuvre des Bollandistes, pp. 50-60. 8. Bruxelles, Bibl. des Bollandistes, Ms. Boll. 971, pp. 161-167.
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dice Henschenius.9 I canonici sembrano più interessati a far loro assaggiare il vino della cantina di casa. I due agiografi non hanno dunque avuto accesso alla biblioteca di Santa Giustina.10 Fatto più strano: mentre accennano alla biblioteca dei Teatini, che non hanno potuto visitare, non c’è la minima menzione né della biblioteca antoniana né di quella di Santa Giustina. Due giorni dopo il loro arrivo, non senza aver prima visitato le librerie della città, dove comprano due Vite di santi non ulteriormente precisate,11 si imbarcano per Venezia. La sosta padovana non sembra dunque aver contribuito all’arricchimento della loro documentazione manoscritta riguardante santa Giustina. C’è, evidentemente, l’esperienza insostituibile di aver visto la sua basilica, la sua tomba, e forse di averne riportato qualche ricordo – immagine, stampa, opuscolo – ma anche se tali souvenirs ci furono effettivamente, non ne rimane nulla oggi nei Collectanea Bollandiana. È fuori Padova, a Roma e a Milano, che scopriranno documenti inediti su santa Giustina. Nella Città eterna, fine principale della loro spedizione (il che spiega che non si potevano trattenere a lungo a Padova), rimarranno non meno di dieci mesi. E l’esplorazione sistematica della Biblioteca Vaticana farà loro scoprire una recensione, diversa da quella del Mombrizio, della Passio Iustinae, della quale faranno eseguire una copia.12 Sulla via del ritorno, la loro visita dell’Ambrosiana li fa scoprire il testo dell’Inventio dei santi Luca, Mattia, Giustina e dei santi Innocenti. Anche se il regolamento della biblioteca non consentiva di prendere copie dei manoscritti, nel loro caso, dato gli illustri precedenti della Vaticana e della Laurenziana, non viene applicato, sicché troviamo una copia del testo, quale conservato nel cod. S 91 (oggi O 173 sup.) nei Collectanea Bollandiana.13 Nello stesso codice,14 trovano due recensioni della Vita Prosdocimi, quella di Mombrizio, e di 9. Bruxelles, Bibl. Royale, ms. 7761, Henschenius, Lettera a Bolland, 5 nov. 1660, ff. 19v-20. 10. Si trattava ancora dell’antica biblioteca quattrocentesca; la decisione di costruirne una nuova verrà presa solo nel 1696 (Maschietto, Biblioteca e bibliotecari di S. Giustina, pp. 2-24). 11. «Emi 2 Vitas Sanctorum; tertiam donavit mihi R.P. Prior Praedicatorum […]» (Henschenius, Lettera a Bolland, cit. n. 9). 12. Bruxelles, Bibl. des Bollandistes, Ms. Boll. 160, ff. 53-54bis. 13. Bruxelles, Bibl. des Bollandistes, Ms. Boll. 165, ff. 173-176. 14. Catalogus codicum hagiographicorum, p. 353.
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un’altra, della quale prendono pure copia,15 nonché dell’incipit di due sermoni per la festa di santa Giustina, attribuiti al vescovo Massimo, successore di Prosdocimo ed autore della Passio di quest’ultimo. Non giudicano utile di fare una copia della Passio Iustinae, già pubblicata dal Mombrizio. Comunque, con la festa di Giustina nel mese di ottobre, la santa non appariva davvero prioritaria. A preoccuparsene sarà il bollandista Janning, verso la fine del secolo. Al di fuori dei viaggi, che rimanevano del tutto eccezionali, l’unico modo per i Bollandisti di completare la loro documentazione era tramite il contatto epistolare con gli eruditi del posto. Non sembra tuttavia che Janning né alcun altro degli agiografi di Anversa abbia cercato di entrare in relazione con i benedettini di Santa Giustina. Il metodo adoperato è più generico. Piuttosto che moltiplicare i corrispondenti, a Padova come in altre città, i Bollandisti preferiscono appoggiarsi ad una sola persona, alla quale chiederanno informazioni varie, incaricandola a consultare altri eruditi locali. La Compagnia di Gesù, con i suoi numerosi collegi, offriva una rete naturale di informatori eruditi. A Padova, il loro corrispondente si chiama Giovan Battista Romagnoli, ed è procuratore del collegio dei gesuiti. Abbiamo conservato sei delle sue lettere mandate tra il 1691 e il 1701, nelle quali risponde a vari quesiti riguardanti i santi del Padovano. In una di queste, datata del 12 giugno 1691, si lamenta di non aver potuto acquistare per i Bollandisti un esemplare del libro di Giacomo Cavacio, Historiarum coenobii D. Justinae Patavinae libri sex, divenuto introvabile a Padova: lo cercherà a Venezia; ma ha sentito dire dagli stessi monaci di Santa Giustina che intendono pubblicarne una nuova edizione accresciuta.16 Comunque, già nell’ottobre dello stesso anno 1691, annuncia di aver trovato il libro, per il quale ha speso 3 ducati e 2 soldi; e infatti a figurare nel catalogo della biblioteca degli antichi Bollandisti compilato sul finire del Settecento è l’edizione del Cavacio del 1606, e non la ristampa, uscita cinque anni dopo la lettera del 1691, nel 1696.17 La stessa lettera menziona una spesa di 16 ducati per la Bellunensis Historia del Piloni (Venezia 1607), e di 13 ducati e 12 soldi «per essere stato due volte a Burano in gondole», per esaminarvi la lapide di sant’Albano vescovo e martire:18 così i Bollandisti finanziavano le vacanze del loro confratello padovano. 15. Conservata oggi a Bruxelles, Bibl. Royale, ms. 3497, ff. 111-117. 16. Bruxelles, Bibl. des Bollandistes, Ms. Boll. 160, f. 55v. 17. Cf. Maschietto, Biblioteca e bibliotecari di S. Giustina, p. 22. 18. Bruxelles, Bibl. des Bollandistes, Ms. Boll. 122, ff. 133-134.
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Se le lettere preservate del Romagnoli non contengono altre menzioni di santa Giustina, i Collectanea Bollandiana conservano almeno un importante documento ottenuto per il suo tramite: il fascicolo di 72 pagine contiene la copia delle varie inventiones e translationes che ebbero luogo a Santa Giustina: tra le quali l’inventio, nel 1177, dei santi Luca, Mattia, Giustina nonché dei santi Innocenti (BHL 4575); e le translationes del 1502 e del 1562. In calce alla penultima pagina del fascicolo, il padre Pio Domenico Callegari, custode della libreria di Santa Giustina, certifica che «le copie sono state fedelmente tratte dal libro manuscritto degli annali del monastero di S. Giustina». In testa alla prima pagina, si legge la menzione, aggiunta dallo Janning: «Haec omnia desumpta sunt ex bibliotheca S. Iustinae Patavii anno 1688. Submisit P. Iohannes Baptista Romagnoli Societatis Iesu». Fu probabilmente lo stesso Romagnoli a fornire la copia di un altro documento, ugualmente conservato,19 la Historia revelationis sanctorum martyrum quiescentium in Ecclesia Sancte Iustine de Padua ante chorum, quae videlicet revelatio celebratur feria secunda ante diem Ascensionis Domini, tratta da un volume intitolato Passio B. Iustinae et Vita S. Prosdocimi necnon aliorum legendae sanctorum monasterii dictae S. Iustinae. Tale provenienza viene attestata in calce dal bibliotecario di Santa Giustina, Philippus Venetus20 e potrebbe corrispondere al codice attualmente conservato presso l’Archivio di Stato di Padova, con la segnatura Corporazioni soppresse, Santa Giustina, b. 78.21 Nell’attesa della loro pubblicazione, le copie manoscritte erano sistemate in un grande armadio fatto appositamente, con altrettante caselle quanti sono i giorni dell’anno. Tutto il materiale manoscritto relativo ai santi di un determinato giorno veniva ordinato nella casella corrispondente a quel giorno. Un problema particolare si poneva nel caso del fascicolo delle inventiones e translationes, le quali riguardavano vari santi. Una nota dello Janning, in testa al fascicolo, riflette il problema e ne da la soluzione: «Haec reponenda sunt 18 octobris, quia maior pars spectat ad s. Lucam Evangelistam». Ma in un secondo tempo, il bollandista si ravvisa e corregge: «Haec reponenda sunt ad 7 vel 18 octobris, quia maior pars spectat ad s. Iustinam et s. Lucam Evangelistam». Nel margine superiore, la scritta «18 19. Bruxelles, Bibl. des Bollandistes, Ms. Boll. 100, ff. 264-267. 20. Bruxelles, Bibl. des Bollandistes, Ms. Boll. 100, ff. 264-267. 21. I manoscritti medievali, pp. 8-9 (n. 7).
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octobris» è stata completata nello stesso senso, ed è stata inoltre aggiunta la data «2 Augusti», che si riferisce a san Massimo vescovo di Padova; infatti, il primo testo del fascicolo, l’Inventio SS. Maximi, Iuliani et Felicitatis, è stato pubblicato nel primo volume di agosto. Possiamo supporre che il nostro fascicolo veniva trasferito di una casella all’altra, dal 2 agosto al 7 ottobre, e poi al 18, a misura che i testi venivano pubblicati. Per quanto riguarda la Historia revelationis sanctorum martyrum, martiri anonimi dei quali non si sapeva quasi nulla, una nota sulla prima pagina del fascicolo decide saggiamente: «Referri haec possunt ad 7 octob. quando de s. Iustina, in cuius templo inventio facta». Un’altra lettera conservata nei Collectanea Bollandiana riveste un carattere più aneddotico. Mandata nel 1671 dal P. Alexander Wiltheim, di Lussemburgo, al Papebroch, informa il bollandista del passaggio, nel villaggio di Viller la Rue, del capo di santa Giustina vergine e martire, portato da Roma e proposto alla venerazione dei fedeli.22 E arriviamo così alla pubblicazione del dossier di santa Giustina nel III volume di ottobre, nel 1770. È l’ultimo volume pubblicato ad Anversa. Dal 1719, cioè dall’inizio del mese di luglio, i volumi sono apparsi ad un ritmo serrato, e cioè ogni due o tre anni. Ma il volume IV di ottobre non verrà pubblicato prima del 1780, 10 anni dopo. Nel frattempo, la Compagnia di Gesù era stata soppressa, ed i Bollandisti, in attesa di conoscere la stessa sorte, trasferiti a Bruxelles, dopo la confisca di una parte della loro biblioteca. Niente nel nostro volume III lascia supporre l’imminenza della tragedia. I dossiers sono ampi, fin troppo: il volume di più di mille pagine comprende i santi di tre giorni soltanto! Il dossier di Giustina occupa 37 pagine ed è opera del bollandista Jacques de Bue (attivo tra il 1762 ed il 1796).23 Rispetto ai volumi pubblicati nel Seicento da Bolland, Henschenius e Papebroch, che davano la priorità all’edizione dei testi, con un commentarius praevius limitato ai dati essenziali, i volumi del Settecento riflettono una tendenza a gonfiare smisuratamente il commentarius praevius a spese dell’edizione dei testi. Non sono pochi i casi nei quali i Bollandisti del Settecento, pur avendo dei testi inediti da pubblicare, rinunciano del tutto e preferiscono dilungarsi in dissertazioni erudite. La causa di tale mutamento mi sembra debba essere cercata nello spirito del tempo, il razionalismo 22. Bruxelles, Bibl. des Bollandistes, Ms. Boll. 160, f. 52. 23. Cfr. Reusens, Bue (Jacques De).
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dei Lumi, il quale si era insinuato fin dentro lo scriptorium degli agiografi. Laddove la prima generazione non esitava a pubblicare certi testi, pur nella consapevolezza del loro carattere favoloso, i loro successori del Settecento osservano un atteggiamento nettamente più cauto, escludendo i testi giudicati sprovvisti di ogni valore storico. Per compilare il dossier di Giustina, i Bollandisti dispongono da una parte dell’insieme di copie manoscritte raccolte da Rosweyde in poi, e sistemate nella casella del 7 ottobre nel famoso armadio del loro scriptorium; dall’altra, il loro Museum costituisce la migliore biblioteca erudita del tempo.24 Provvista, almeno sul finire del Settecento, di un doppio catalogo, per autori e per temi,25 è ricchissima, e non soltanto di agiografie; possiede una collezione unica di martirologi e di libri liturgici, per individuare le minime attestazioni di culto dei santi più sconosciuti; possiede una sterminata serie di storie delle regioni, delle città, dei monasteri, che consentono loro di sentirsi a casa nella topografia di posti che non hanno mai visitato. Se consultiamo il catalogo sistematico alla voce «Patavium», vi troviamo i titoli di ben sedici volumi. Vi si aggiungono due edizioni dell’Ordo recitandi officium divinum degli anni 1684 e 1699. Il libro del Cavacio figura sotto la voce “Monasteria particularia”. La compilazione di un dossier degli Acta Sanctorum si fonda sulla combinazione di questi due elementi: fonti manoscritte e opere a stampa, le quali spesso congiungono edizione di fonti e studi. Rispetto ad altri dossiers, quello di Giustina sembra a prima vista alquanto squilibrato. In un primo capitolo del Commentarius praevius, intitolato Sanctae Martyris Acta subdititia, memoria in Martyrologiis, et sacer per Italiam cultus, il de Bue comincia col discutere sul valore della Passio, per passare poi ai martirologi e alle testimonianze di culti locali; il secondo capitolo discute sulla figura storica di santa Giustina; ed i rimanenti sette capitoli trattano del luogo di culto principale, il monastero di Santa Giustina di Padova, e delle varie inventiones e translationes che vi ebbero luogo. Quest’ultima parte riempie 25 delle 37 pagine, ossia due terzi dell’intero dossier. A prima vista, la cosa si spiega dalla documentazione di cui disponevano i Bollandisti. Abbiamo visto che, tra le fonti copiate in loro possesso, l’insieme più cospicuo era costituito appunto dai resoconti dei successivi ritrovamenti delle reliquie di Luca, Giustina, Daniele ed altri, e 24. Cfr. Delehaye, L’œuvre des Bollandistes, pp. 65-66. 25. Bruxelles, Bibl. des Bollandistes, Ms. Boll. 20-23.
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delle loro traslazioni. Le parti relative a Giustina verranno effettivamente pubblicate in extenso... ma non a partire da quel manoscritto! L’unico capitolo dedicato alla Passio appare dunque relativamente modesto. Anche se il de Bue esprime qualche osservazione nuova, il suo giudizio si fonda essenzialmente sulle opere degli studiosi che l’hanno preceduto: il Baronio, il Cavacio, autore della famosa Historiarum coenobii D. Iustinae Patavinae, ottenuta dal Romagnoli, e il Tillemont. Ne diamo qui un breve riassunto. Se la figura di Giustina, vergine e martire di Padova, è famosa in Italia, come lo dimostra il suo culto nel Veneto, i fatti della sua vita appaiono del tutto incerti. Infatti, gli Acta pubblicati dal Mombrizio, dovuti ad un sedicente testimone oculare, il quale, secondo la Passio s. Prosdocimi, altro non sarebbe che lo stesso Prosdocimo, primo vescovo di Padova, non meritano la minima fiducia, e non sono certo l’opera di quel vescovo. Per il de Bue, la Passio risalirebbe al X secolo, o anche più tardi: sarebbe forse stata redatta addirittura dopo l’inventio del 1174. Quali sono le ragioni avanzate dal bollandista? L’opera è del tutto indegna di un vescovo di cui ci viene detto che la sua eloquenza riuscì a convertire le popolazioni del Padovano. Lo stile è indigente, vi troviamo addirittura un frammento metrico («tendensque ad sydera palmas»); la parola “legenda”, che appare nell’ultimo paragrafo del testo, tradisce un autore più tardo.26 Dal punto di vista contenutistico, l’episodio in cui la martire, letalmente ferita, cade in ginocchio e, le mani alzate al cielo, prega per una ora intera, appare poco credibile. De Bue allude anche alla recensio contenuta nel ms. Vaticano lat. 1190: il testo è in parte simile a quello della versione mombriziana, i fatti sono identici, ma l’autore non pretende di essere un testimone oculare. Rileviamo qui che la ragione ne è semplicemente che tale menzione figura nel Prologo, assente nel ms. vaticano. Una altra versione della Passio è attestata da Pietro Natali. Nel suo Catalogus Sanctorum, egli fa di Giustina la figlia del re Vitaliano e la dice martirizzata sotto il re Massimiano, successore di Vitaliano. Che non ci fossero dei re in Italia sotto l’Impero romano, lo osservava già il Baronio. Il Natali non fa altro che sfruttare la Passio Prosdocimi, che fornisce questi particolari. Il de Bue fa sua la conclusione del Tillemont, secondo cui nullam inesse Actis Mombritianis antiquitatem aut auctoritatem. Secondo il 26. Argomento importante, forse trascurato di recente da chi ha tentato di datare la Passio.
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Cavacio, gli atti autentici, tanto di Giustina, scritti da Prosdocimo, quanto dello stesso Prosdocimo, scritti dal suo successore Massimo, sono andati perduti. Solo pochi elementi mutili furono trasmessi ai nostri padri, i quali vi aggiunsero le tradizioni degli anziani, e così «historias ediderunt, quae prae manibus versantur. In his nihil vetustatem olet, non stilus antiqua tempora, non voces Latinum cultum, sed magis collapsam inibi Latinitatem deplores». Per il de Bue è la stessa idea dell’esistenza di atti scritti da Massimo e Prosdocimo che il Cavacio doveva rigettare: nello stesso modo in cui il benedettino rigetta l’attribuzione a Massimo di due sermoni per la festa di santa Giustina i quali, oltre il nome della santa, non contengono nulla di specifico e si possono applicare a qualsiasi santo. In corrispondenza con questo capitolo, però dopo il Commentarius praevius, viene data l’edizione della Passio di santa Giustina, intitolata Acta sublestae fidei et subdititia. Tale edizione riproduce tale e quale il testo del Mombrizio, con qualche annotazione relativa al contenuto. Stupisce il fatto che la recensio del ms. Vaticano 1190, della quale i Bollandisti avevano una copia, non viene affatto considerata; ora, alcune lezioni, quale la menzione conclusiva Martyrizata est autem beata Iustina sub Maximiano imperatore, assente dal Mombrizio, avrebbe meritato di figurare nell’apparato delle note. Comunque, data la rarefazione delle edizioni di testi agiografici di poco valore storico nei volumi settecenteschi degli Acta Sanctorum, lo stesso fatto di quell’edizione appare positivo. Dopo aver così fatto i conti con la Passio, il de Bue esamina le testimonianze del culto di Giustina. Innanzitutto ricorda la doppia menzione della venerazione di Giustina a Padova, fatta da Venanzio Fortunato, unus e veteribus.27 Sembra ignorare altre due testimonianze, messe in luce posteriormente: la presenza di Giustina nel canone della messa ambrosiana,28 e la sua immagine in un mosaico di Sant’Apollinare di Ravenna e in un altro nella basilica eufrasiana di Parenzo.29 Tra gli scrittori recentiores, fa i nomi di vari autori moderni, i quali, secondo le opere erudite consultate, avrebbero scritto vite di santa Giustina, ma il bollandista non ne ha visto alcuna; può darsi che alcune di esse fossero rimaste allo stato manoscritto. Viene poi, secondo uno schema collaudato, l’esame dei martirologi. 27. Venantius Fortunatus, Carmina, VIII, 3 (MGH, Auct. Ant., IV/1, p. 185). 28. Gianotto, Giustina, p. 1014. 29. Prevedello, S. Giustina, pp. 31, 67.
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De Bue non rileva la notevole assenza di Giustina dal Geronimiano. I primi martirologi a menzionarla sono alcuni manoscritti di Usuardo. Dopo di ché, troviamo Giustina nei martirologi di Greven, Molanus, la Viola sanctorum, Belinus, Galesinius e Maurolycus, per giungere al Martirologio Romano. Anche se la data del 7 ottobre è generalmente attestata, alcuni identificano la nostra martire con una Giustina festeggiata il 30 novembre, identificazione rigettata dal bollandista. Non esclude che il capo portato da Roma e proposto alla venerazione dei fedeli di Viller la Rue, secondo la lettera mandata dal gesuita lussemburghese Alexander Wiltheim, potesse appartenere a quell’altra Giustina. La notizia del Catalogus Sanctorum Italiae del Ferrari serve di transizione per l’esame dei principali luoghi, essenzialmente nel Veneto, dove il culto di santa Giustina viene attestato (il monastero padovano di Santa Giustina essendo l’oggetto di un capitolo ulteriore). Oltre alla Geographia sacra di Carlo di san Paolo, il bollandista si riferisce a vari directoria o ordines liturgici, di cui il Museum Bollandianum possedeva una imponente raccolta. Si dilunga sulla supplicatio annua istituita presso la chiesa di Santa Giustina a Venezia, in memoria della vittoria di Lepanto. Secondo le Ecclesiae Venetae antiquis monumentis illustratae di Flaminio Corner, questa stessa chiesa sarebbe una delle otto costruite dal vescovo san Magno nel VII secolo, in seguito ad una visione della santa, che il bollandista giudica piuttosto sospetta, come pure dubita dell’origine miracolosa della pietra, ivi custodita, e supposta conservare l’impronta delle ginocchia della santa, in quella preghiera che aveva preceduto il suo martirio. Altri edifici dedicati alla martire padovana vengono enumerati più brevemente, sulla base di varie opere erudite relative alle chiese e ai monasteri delle città e regioni d’Italia. Nondimeno, il bollandista non manca di discutere il valore della documentazione allegata. In conclusione, ricorda la speciale protezione esercitata da santa Giustina sulla città di Padova, in occasione di grandi calamità. Stranamente, è solo alla fine del capitolo che menziona l’esistenza, a Ravenna, di litanie anteriori a Gregorio Magno, che invocano santa Giustina. Nel secondo capitolo del Commentarius praevius, il de Bue discute gli argomenti relativi all’epoca in cui occorre situare il martirio di Giustina. L’esercizio appare un po’ artificiale, in quanto le datazioni proposte si fondano sui dati della Passio, tra i quali il nome di Massimiano, e quello di Vitaliano, il padre di Giustina secondo la Passio Prosdocimi, testi giudicati senza valore storico nel primo capitolo del commento! Il bollandista men-
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ziona la Notatio in Vitam s. Iustinae stesa dal Rosweyde, e che contiene degli appunti su Vitaliano, ma non è in grado di identificarne l’autore!30 In conclusione, il bollandista riconosce di non disporre di elementi sufficienti per decidere se Giustina sia stata martirizzata sotto Nerone, come lo vorrebbero alcuni scrittori patavini, o sotto Massimiano durante la grande persecuzione. In consequenza, l’inizio del Commentarius indica, quale elemento cronologico, forte sub Nerone vel Maximiano. Per quanto riguarda il luogo della sepoltura originaria, è di nuovo la Passio Prosdocimi ad affermare che Giustina sia stata sepolta dal vescovo Prosdocimo nell’oratorio di Santa Maria da lui fondato, affermazione ripresa da altri autori ed accettata dal bollandista. È a questo punto che il bollandista inserisce i martiri anonimi sepolti nella basilica, poiché c’è chi afferma che sarebbero stati martirizzati insieme a Giustina. E pubblica qui il testo della Historia revelationis: una rivelazione fatta ad una pia donna, presumibilmente nel XIII secolo, in seguito alla quale delle candele si sarebbero accese miracolosamente sulla tomba di questi martiri, situata non lontano dalla tomba della santa. Riferendosi al Cavacio, che situa il miracolo nell’anno 1269, il bollandista sottolinea con una certa soddisfazione che, mentre costui racconta l’episodio suo stilo, lui è in grado di pubblicare la stessa fonte.31 A partire dal capitolo III, il Commentarius si focalizza sul luogo principale del culto: la chiesa, poi monastero, di Santa Giustina a Padova. Iniziando da una iscrizione posta dai monaci di Santa Giustina nel 1561, e che cita dall’opera dell’Orsato, il de Bue non ha difficoltà nel dimostrarne le molte incongruità: secondo i monaci, la chiesa risalirebbe al tempo dell’imperatore Adriano! Bisogna considerare un’altra iscrizione, fondamentale questa: la famosa dedica di Opilione, tuttora conservata nell’attuale basilica di Santa Giustina.32 Il de Bue la cita dal Cavacio, confrontandone il testo con le edizioni dell’Orsato e dello Scardeone. Dopo aver stabilito che l’iscrizione non può risalire al secondo secolo, passa in rassegna e critica le varie identificazioni di Opilione proposte dagli studiosi, i quali lo situano nel quinto, sesto, od ottavo secolo. È in questo tipo di lavoro 30. «Quem S. Iustinae patrem fuisse, est, qui opinatus sit in Annotatis Mss. in Vitam S. Iustinae, quae, nescio unde aut a quo ad nos pervenerint» (AA SS Oct. III, pp. 795-796). 31. Il testo ne è stato recentemente edito in modo critico da Necchi, Reliquie (ed. pp. 114-118). 32. Cfr. Cuscito, Opilione.
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che il nostro bollandista sembra più a suo agio: si diletta nelle questioni di cronologia, di diplomatica, di prosopografia; conosce, e domina, tutta la letteratura specializzata: oltre agli autori già citati, possiamo enumerare il Fontanini, il Bacchini, il Muratori. Ma in fine, respinti i vari tentativi degli studiosi che lo hanno preceduto, il de Bue non ha alcuna soluzione da proporre! Con la stessa erudizione, discute, nel cap. V, gli inizi del monastero di Santa Giustina, riproducendo il testo integrale dei diplomi dei vescovi Rorio (870) e Gauslino (970). I capitoli VI e seguenti vengono dedicati all’inventio e alle successive translationes delle reliquie di santa Giustina. Per quanto riguardava l’inventio del 1177, inedita, i Bollandisti ne avevano due recensioni: l’una, da un codice dell’Ambrosiana; e l’altra, nella copia degli Annali del monastero di Santa Giustina, trasmessa dal Romagnoli. Il de Bue sceglie di pubblicare la prima, ma in modo frammentario, lasciando cadere i passaggi relativi alle reliquie di san Luca, rimandati al 18 ottobre. Per quanto riguarda invece le translationes, nonostante avesse a disposizione il fascicolo di 72 pagine mandato dal Romagnoli, qui, il de Bue preferisce riprodurre i documenti quelli stampati nell’opera di Pietro Saviolo, Thesaurus urbis Patavinae. «Eamdem quoque habemus in Mss», precisa, «sed brevius, et a Savioliana relatione subinde discrepantem, sed in minoris momenti rebus»; anche se, riconosce, il manoscritto fornisce alcuni dati, quali la preparazione dell’ornamentazione, o la concessione dell’indulgenza plenaria da parte di Pio V, o ancora il fatto che quaranta mila persone parteciparono alla solennità, tutti dettagli assenti dall’opera del Saviolo. Concludiamo. Abbiamo visto, a partire dall’esempio di santa Giustina, come si costituiva progressivamente un dossier degli Acta Sanctorum fino alla sua pubblicazione. Nel complesso dell’attività bollandista del Settecento, il dossier di santa Giustina appare più che soddisfacente. Dimostra una buona conoscenza delle fonti, che vengono tutte pubblicate, fornendo così una base solida per ulteriori ricerche. Tuttavia, il de Bue appare più storico che non filologo, come lo dimostra positivamente la sua discussione sulla dedica di Opilione; e negativamente, la decisione di riprodurre il testo del Mombrizio tale quale, senza preoccuparsi né di confrontarlo con il testo contenuto nel manoscritto dell’Ambrosiana nel quale aveva trovato l’Inventio (BHL 4575); né con la recensione copiata nel ms. 1190 della
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Vaticana; o il fatto di pubblicare l’Inventio in modo frammentario, rimandandone una parte al dossier di san Luca; o ancora, di riprodurre il testo delle translationes dal Saviolo, senza tentare un confronto con la copia manoscritta degli Annali del monastero di Santa Giustina. Se indubbiamente dei progressi notevoli sono stati fatti dal 1770, per esempio sul piano del censimento dei manoscritti (la recente lista compilata dal Prevedello ne conta 32),33 della storia della chiesa e del monastero di Santa Giustina (grazie anche agli scavi archeologici), o del contesto storico del culto, la figura storica di santa Giustina continua ad eluderci del tutto, e la stessa sua Passio, nonostante i recenti tentativi di Andrea Tilatti,34 resiste tuttora ai tentativi di datazione. Questo spiega forse perché santa Giustina sia più presente nel titolo del nostro convegno che non nel suo contenuto. Questo non ci impedisce di ripetere: Memor ero tui, Iustina virgo.
33. Prevedello, Giustina di Padova, pp. 180-181, n. 1. 34. Tilatti, Istituzioni e culto dei santi, pp. 64-70.
Sigle AA SS BHL
Acta Sanctorum, ediderunt Socii Bollandiani, Antverpiae-Bruxellis 1643-1940 Bibliotheca Hagiographica Latina, antiquae et mediae aetatis, edd. Socii Bollandiani, I-II, Bruxellis 1898-1899 (rist. anast. ivi 1949) (Subsidia Hagiographica, 6); Bibliotheca Hagiographica Latina, antiquae et mediae aetatis. Novum suppementum, ed. H. Fros, Bruxelles 1986 (Subsidia Hagiographica, 70)
Opere citate Catalogus codicum hagiographicorum latinorum Bibliothecae Ambrosianae Mediolanensis, in «Analecta Bollandiana», 11 (1892), pp. 205-368 Cuscito G., Opilione e le origini del culto martiriale a Padova, in Memoriam sanctorum venerantes, Miscellanea in onore di Mons. Victor Saxer, Città del Vaticano 1992, pp. 163-181 (Studi di antichità cristiana, 48) Delehaye H., L’œuvre des Bollandistes à travers trois siècles 1615-1915, Bruxelles 1959 (Subsidia Hagiographica, 13A) Gianotto C., Giustina, in Il grande libro dei santi. Dizionario enciclopedico, II, Cinisello Balsamo 1998, pp. 1013-1014 Gibellini C., Lepanto, il Rosario e Santa Giustina, in «Humanitas», 58 (2003), pp. 165-170 I manoscritti medievali di Padova e provincia, a cura di L. Granata, A. Donello et al., Firenze 2002 (Biblioteche e archivi, 9) Maschietto Fr. L., Biblioteca e bibliotecari di S. Giustina di Padova (1697-1827), Padova 1981 (Miscellanea erudita, 34) Mombritius B., Sanctuarium, 2 voll., Mediolani s.a. [ante 1480] Necchi E., Reliquie orientali e culto dei martiri a Santa Giustina di Padova, in «Italia medioevale e umanistica», 42 (2001), pp. 91-118 Prevedello G., Giustina di Padova vergine e martire, in Santi e beati della diocesi di Padova, Padova 1999, pp. 175-205 Prevedello G., S. Giustina V. e M. di Padova. Note di iconografia e di iconologia, Padova 1972 Reusens E.-H.-J., Bue (Jacques De), in Biographie Nationale, III, Bruxelles 1872, coll. 147-149 Rosweyde H., Fasti Sanctorum quorum Vitae in Belgicis bibliothecis manuscriptae, Antverpiae 1607 Tilatti A., Istituzioni e culto dei santi a Padova fra VI e XII secolo, Roma 1977 (Italia sacra, 56)
Sofia Boesch Gajano Dal martirio all’ascesi: percorsi della santità femminile tra tardoantico e alto medioevo
1. Premessa «Maria Maddalena, che era stata una peccatrice nella città, amando la verità si purificò nel pianto dalle macchie delle proprie colpe». La nascita della Maddalena medioevale, convertita alla fede, testimone privilegiata del mistero pasquale, modello di conversione e di penitenza per la vita eremitica, si deve a Gregorio Magno, che, unificando con geniale libertà le diverse testimonianze dei Vangeli, ha creato un’identità nuova, ricca di implicazioni teologiche e cultuali.1 Assumendo l’“invenzione” della Maddalena come momento di snodo nella mia riflessione sulla presenza femminile nella storia della santità fra tardoantico e altomedioevo, intendo rendere omaggio a Victor Saxer, cui dobbiamo la ricostruzione dell’itinerario che ha fatto di Maria Maddalena una delle figure centrali del cristianesimo occidentale.2 Dopo la conclusione dell’età delle persecuzioni all’inizio del secolo IV e dopo la fase eroica del rifiuto del mondo e la ricerca di luoghi solitari nei deserti dell’Egitto, della Siria, della Palestina dove praticare l’ascesi, scelte che vedono protagonisti uomini e donne, l’agiografia testimonia un’indiscutibile rarefazione della santità femminile: al decremento di esperienze reali, dovute alla crescente diffidenza per la “fragilità” femminile, che renderebbe la donna più facilmente complice del demonio e dunque poco incline alla perfezione, fa riscontro l’elaborazione di figure dai lineamenti mitici, come Maria Maddalena, appunto, destinata a uno 1. Gregorio Magno, Hom. In Ev. XXV e XXXII. 2. Saxer, Le culte de Marie Madeleine e Id., Le dossier vézelien de Marie Madeleine. Sull’importanza del contributo di Saxer cfr. Boesch Gajano, Il culto di Maria Maddalena.
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straordinario successo devozionale, o Pelagia, attrice ad Antiochia, poi penitente, vissuta santamente in monastero celata sotto abiti maschili,3 per non parlare della Vergine, che tenderà sempre più a incarnare il femminile nella storia della salvezza.4 La storia della santità segue percorsi articolati e complessi, che vedono continuità, ma anche profonde diversificazioni.5 È una storia di personaggi che nel corso dei secoli hanno vissuto la loro fede in forme ritenute eccezionali in quanto sostenute dal favore divino: esperienze reali, trasmesse da una memoria storica o che pretende di essere tale, nella quale si riconosce l’impronta della cultura che a seconda dei tempi ha individuato in quelle esperienze i segni della santità e ha inteso perpetuarne il ricordo, con finalità di edificazione e di esemplarità, e di promuoverne il culto. Questa storia è segnata da un tratto caratteristico che può essere così sintetizzato: il divario fra esperienze religiose e riconoscimento ufficiale codificato a livello comunitario e ecclesiastico, insomma, secondo una formula ormai entrata nell’uso, fra santità vissuta e santità canonizzata. Un divario particolarmente sensibile a partire dall’osservatorio femminile.6 Un breve segmento di questa storia è l’oggetto della pagine che seguono. 2. Il martirio: un orizzonte unificante Il fenomeno della santità, che in una dimensione storico-antropologica può essere definita come un’esperienza religiosa che, attraverso una particolare scelta di vita, tende all’avvicinamento o all’unione con il Divino e a cui una comunità o un’intera società riconoscono i caratteri di eccezionalità nel potere di mediazione spirituale e materiale fra natura e sopranatura, 3. Pélagie la Pénitente, Métamorphose d’une légende. Per il problema generale cfr. Patlagean, La storia della donna travestita da monaco. Al tema è dedicata anche la relazione di Morini in questi stessi atti. 4. Per un profilo storico e teologico del culto a Maria cfr. Amato, Maria. Per il i primi secoli La mariologia e in particolare per il nostro tema Giannarelli, Maria come «exemplum»; per il medioevo: Marie. 5. Per i lineamenti generali si veda Benvenuti et al., Storia della santità. 6. Per alcune ulteriori considerazioni generali rinvio a Boesch Gajano, La santità, pp. 71-75, 77-80; Ead., La strutturazione, pp. 141-145. Per le martiri cfr. Hall, Women.
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assume nel cristianesimo una nuova connotazione in relazione all’incarnazione: il Vangelo di Giovanni delinea la santità come attributo di Dio, in linea con l’Antico Testamento, e da questa fa derivare la santificazione di Gesù, nel quale il Padre condensa ricchezza, potenza, sapienza (17, 17); da Gesù la santità si estende ai discepoli (17, 19) e a tutti coloro che attraverso la fede e il battesimo entrano a far parte della comunità dei cristiani. La figura di Gesù Cristo risulta così fondamento della santità cristiana e ne spiega le peculiarità e lo straordinario sviluppo: egli è colui che, avendo vinto la morte fisica, è garante dell’immortalità dell’anima e del corpo di ogni uomo e il mediatore per eccellenza fra l’uomo e Dio.7 Rispetto a questa vocazione propria di ogni cristiano, l’Apocalisse (7, 13) introduce una diversificazione: coloro che pregano, che soffrono, che hanno il carisma della profezia e che arrivano anche a dare la vita come martiri, emergono per una loro caratteristica particolare, quella di possedere la testimonianza di Gesù (12, 17).8 La scelta del martirio come imitazione di Cristo, martire per eccellenza, porta alla certezza dell’accoglimento nella gloria celeste e della resurrezione, ancora una volta in virtù e a imitazione della resurrezione di Cristo. Il termine martys dal significato etimologico di testimone passa a quello, rimasto nella lunga storia della parola, di “morto per la fede”. All’originario appello alla santificazione universale fa allora riscontro una progressiva tecnicizzazione del termine “santo” funzionale a una “selezione” dei santi, operata attraverso il riconoscimento dell’eccezionalità di alcuni membri dalla comunità ecclesiale.9 Un piccolo gruppo di passioni, scritte fra il II e il IV secolo, in tempi dunque molto vicini agli eventi narrati, permette di individuare il significato del martirio nella sua dimensione esistenziale, prima ancora che teologica e ecclesiologica.10 Con il culto reso ai martiri, favorito dalla liturgia e dall’agiografia, inizia un fenomeno nuovo, destinato a immenso successo: i martiri diventano il fondamento delle principali chiese della cristianità, e le loro reliquie divengono strumento efficace per il radicamento della nuova religione in tutte le terre cristianizzate.11 Dal V secolo si assiste allo sviluppo imponente di narrazioni, relative ai tanti martiri, le cui tombe erano 7. Boesch Gajano, La santità, pp. V-VIII, 3-18. 8. Filoramo, Le origini; e Scorza Barcellona, Le origini. 9. Delehaye, Sanctus. Cfr. ora anche Zocca, Dai «santi» al «santo». 10. Scorza Barcellona, Le origini, pp.31-42, 61-67, 85-87 (bibliografia). 11. Ibidem, pp. 56-60, e Boesch Gajano, La strutturazione, pp. 105-108.
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oggetto di venerazione, così da soddisfare la curiosità dei fedeli, desiderosi di conoscere la vicenda umana di ciascuno di loro: queste passioni, pur prive di reale valore storico, continuarono a essere la struttura portante dei leggendari per tutto il medioevo e oltre.12 Tra i martiri dei primi secoli si incontrano donne e uomini, accomunati nello stesso ideale, nella stessa scelta, nella stessa gloria, oggetto della stessa venerazione. La Passione di Perpetua e Felicita († 203) ci permette di cogliere dal vivo un’esperienza femminile, nella quale la fede non nasconde sentimenti e affetti.13 Perpetua, Matrona Christi, è consapevole del suo rapporto privilegiato con Dio tanto da sollecitarne la manifestazioni attraverso le visioni. Fra maternità e martirio nessuna contraddizione: anzi potremmo parlare di una ostentazione della maternità nei caratteri più fisicamente visibili, come testimonia quel latte che goccia dalle mammelle proprio nell’anfiteatro. Non torno sul famosissimo episodio della visione del combattimento, oggetto di raffinate esegesi e di una molteplicità di interpretazioni, se non per ricordare l’interpretazione di Giuliana Lanata: «“Rivestirsi” dell’atleta Cristo, del dio maschile della tradizione ebraica e cristiana, significa inevitabilmente per Perpetua trascendere almeno momentaneamente la propria identità femminile, riconquistare in un momento di tensione estrema una sorta di androginia originaria. La “drammaticità gestuale” del rituale atletico (spogliarsi per lottare) la induce a cancellare la divisione dei sessi, trasformandola in un essere nuovo, masculus nella nudità del corpo e nella bravura atletica, femmina nella predicazione di sé che la sua coscienza di scrivente continua a dettarle: per tutta la durata del sogno, Perpetua continua a usare per sé il femminile».14 La sua autorevolezza nasce dal carisma non dal riconoscimento formale di una chiesa. Eppure il sigillo della santità è posto dalla visione in cui le due martiri sono accolte dagli angeli e da un vecchio in trono e, nella realtà, dall’incontro con il vescovo Otato e il prete Aspasio, che rendono loro omaggio, gettandosi ai loro piedi. Anche gli Atti dei martiri di Lione trasmettono un’immagine di eroicità martiriale femminile centrata nella figura di Blandina che «simile a un valente atleta ritrovò le forze nella confessione di fede e fu per lei riposo, ristoro e anestesia del dolore proferire la frase “Sono cristiana e da noi non 12. Per la persistenza delle tradizioni martiriali cfr. Dubois, Le martyrologes, Philippart, Le légendiers; Boureau, La Legende Dorée; Raccolte di Vite di santi; Erudizione e devozione; Europa Sacra; Martyrs and Martyrologies. 13. Passio Perpetuae et Felicitatis. 14. Lanata, Sogni di donne, p. 83. Della stessa autrice cfr. Gli Atti dei martiri.
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si fa niente di male”». La completa identificazione di una donna al modello di Cristo si ha nel racconto della sua crocefissione: «Blandina fu sospesa a una traversa e così offerta in selvaggia pastura alle fiere che le saltavano addosso. La sua figura sospesa sembrava allo sguardo aver forma di croce ed ella inoltre col suo pregare vibrante ispirava grande esaltazione nei compagni di martirio che durante l’agone scorgevano anche con gli occhi del corpo nella figura della consorella quella di colui che per loro era stato crocefisso, a convincere quanti hanno fede in lui che chiunque patisca per la gloria di Cristo ha perenne comunanza con il Dio vivente». Ella sopravvive alle torture così da infondere coraggio «lei che così piccola e debole e misera aveva potuto assumere le spoglie di quel grande e invincibile atleta che è Cristo per sopraffare più e più volte l’avversario e nell’agone finale esser cinta con la corona dell’immortalità».15 La presenza di donne protagoniste dell’età dei martiri, celebrate come eroine della fede dalla coeva letteratura agiografica è dunque ben attestata,16 talvolta con una sottolineatura più evidente della differenza di genere fra il rappresentante dell’autorità e la sua vittima: è il caso della Passio Crispinae, dove la fede permette all’eroina di affrontare l’autorità, i cui comportamenti mostrano una crudeltà specificamente volta a mortificare la femminilità: con la rasatura essa fu «ad omnem deformationem deducta».17 Ma nel breve volgere di qualche decennio, proprio nel periodo a ridosso dalla fine delle persecuzioni e allo sviluppo delle istituzioni cristiane, i testi agiografici testimoniano una percezione nei confronti della donna che scardina le fondamenta di parità di fronte al martirio proprie dei testi fin qui considerati. Nella Historia persecutionis Africae Vittore di Vita presenta una chiesa strutturata con vescovi, preti, diaconi: sono loro i protagonisti della vita religiosa, della resistenza ai Vandali, del martirio, con l’eccezione di due donne, Massima, che rinuncia al matrimonio, e la matrona Vittoria, che si sottrae alle preghiere del marito.18 All’inizio del secolo V il Peristephanon di Prudenzio († 405) testimonia un ulteriore passaggio essenziale per la storia della santità femminile. 15. Atti dei martiri di Lione, pp. 80-81. 16. Per il panorama delle letteratura martirologica cfr. Saxer, Saints anciens (testi in traduzione), Id., Afrique latine; Scorza Barcellona, Agli inizi dell’agiografia occidentale. 17. Franchi de’ Cavalieri, Osservazioni. 18. Victor de Vita, Historia persecutionis Africae provinciae, pp. 8-9 (Massima), 4647 (Vittoria).
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L’opera celebra i martiri della fede cristiana, costruendo un pantheon universale, nel quale tuttavia l’identità di ognuno viene saldamente radicata nella propria città e nella propria terra: proprio l’ambizioso progetto “universalistico” evidenzia la scarsità delle figure femminili. Ma più rilevante è che a delineare l’eccezionalità delle donne il martirio non è più sufficiente: nella elaborazione agiografica di Prudenzio la morte per la fede deve essere accompagnata dalla scelta della verginità. Se Eulalia è identificata come «virgineus potens titulus», Agnese «duplex corona est praestita martyri: intactum ab omni crimine virginal, mortis deinde gloria liberae … Cingit corona interea Deus frontem duabus martyris innubae; unam decemplex edita sexies merces perenni lumine confiat? Centenus extat frustus in altera».19 La verginità comincia ad affermarsi nella letteratura agiografica come il proprium della santità femminile. Valore emblematico assume allora la figura di Tecla, protagonista degli Atti Apocrifi di Paolo e Tecla, che respinge il matrimonio, passa attraverso una serie di prove – quasi un martirio – per raggiungere Paolo, da cui è investita del compito di apostola, e infine, secondo una delle versioni del testo, si ritira a vita ascetica presso Seleucia, compiendo tanti miracoli di guarigione da suscitare l’odio dei medici, che individuano la radice nel suo potere nella verginità e organizzano una spedizione punitiva di giovani incaricati di violentarla. Ma per le preghiere di Tecla la roccia si apre e poi si richiude su di lei miracolosamente, sottraendola ai persecutori e, aggiungiamo, facendola entrare in una dimensione mitica.20 Come dice Elena Giannarelli, questo racconto mostra «la presa del cristianesimo sulle donne, con la possibilità di creare eroine che si collocano in una realtà nuova fatta di elementi antichi risemantizzati e che agiscono in orizzonti dilatati rispetto al chiuso delle case prima e dei monasteri poi».21 A partire da Paolo, proseguendo con Cipriano († 258), vescovo di Cartagine, il primo a considerare le vergini un gruppo separato, e soprattutto con Ambrogio, un’ininterrotta riflessione condotta sul piano teorico e morale conferma la centralità della verginità nell’itinerario di perfezione per le donne.22 19. Prudenzio, Le corone, III; V; VI. 20. Atti Apocrifi di Paolo e Tecla. 21. Giannarelli, La donna nel cristianesimo antico, p. 113. Della stessa autrice si veda anche Paolo, Tecla. 22. La bibliografia relativa al problema della donna nel cristianesimo antico è ormai
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3. Ascesi e institutio monastica Se la tipologia martiriale conferma attraverso una produzione agiografica quantitativamente imponente una presenza se non paritaria almeno rilevante delle eroine dell’età delle persecuzioni, dal secolo IV si aprono nuovi scenari per chi intende vivere una perfetta vita cristiana: il rifiuto del mondo si realizza nella solitudine e nell’ascesi. La vita di penitenza diviene sostitutiva del martirio: Antonio († 356) ne rappresenta una sorta di mito fondativo, Girolamo († 420) uno sviluppo culturalmente consapevole.23 Ma tante sono le figure che popolano i deserti dell’Egitto, della Siria, della Palestina, sottoponendosi a prove così dure da suscitare la venerazione delle popolazioni circostanti, che “riconoscono” in loro una natura più divina che umana: sull’esempio del racconto evangelico, il deserto diventa il luogo per eccellenza della prova, lo strumento della perfezione spirituale, nei tanti racconti, che trasmettono ai secoli successivi un modello insieme agiografico, letterario e antropologico.24 Questa scelta è condivisa da uomini e da donne: Girolamo descrive e insieme rende omaggio all’esperienza drammatica e esaltante delle matrone romane, che abbandonano Roma, la famiglia, i figli, gli agi, per una vita di penitenza nel deserto.25 Presto tuttavia si fa strada la tendenza a considerare la vita eremitica una scelta pericolosa per le donne, proprio a motivo della loro identità sessuale: la loro presunta intrinseca “fragilità” fa del loro sesso un potenziale complice del demonio. Si innesta qui una netta diversificazione fra uomini e donne nella storia della santità nel cristianesimo occidentale. E ancora, se il pellegrinaggio aveva rappresentato una forma di esperienza religiosa sostitutiva del martirio, si assiste a una graduale sparizione anche delle donne pellegrine e alla loro emarginazione «to an almost legendary genre of transvestite saints», che mostra «that ascetism was the source of an ascetic freedom to overcome social and gender barriers for a short period. molto ampia: cfr. Børresen, Le Madri della Chiesa. Mi limito a segnalare i contributi di: Salisbury, Church Fathers, pp. 49-60; Giannarelli, La tipologia femminile; Ead., La donna nel cristianesimo antico; Consolino, La santità femminile fra IV e V secolo; Ead., Modelli di comportamento; Ead., Modelli di santità; Cooper, The Virgin and the Bride, di cui va ricordato il recente Poteri invisibili; Milazzo, Educare una vergine. 23. Boesch Gajano, Agiografia, pp. 830-833. 24. Brown, Il culto dei santi. 25. Girolamo, In memoria di Paola.
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The institutionalization of the Church fastered a climat for the removal of ascetic women from public life from male space into their closely geographically defined space: the monastery».26 La vita monastica si presenta come la più praticabile per le donne dalla tarda antichità e tale rimane nel corso dei secoli, anche quando si affacceranno rilevanti novità. In Oriente come in Occidente il monachesimo, offre, attraverso la formazione di comunità ordinate secondo una regola, il luogo ideale per lo sviluppo della vita spirituale e la pratica di una vita cristiana, sempre fuori del mondo, ma al riparo dai pericoli della solitudine.27 La institutio monastica diviene il luogo della perfezione possibile, secondo la teorizzazione di Giovanni Cassiano.28 Ma, osserva Franca Ela Consolino, «è notevole il ritardo con cui l’ascetismo femminile si irreggimenta in forme di vita monastica disciplinate da una regola (la prima espressamente scritta per un monastero femminile è quella di Cesario di Arles, completata nel 534), ed il modello cenobitico non si imporrà mai al punto da eliminare forme più o meno libere di ascesi domestica. Questa situazione di fluidità favorì un controllo maggiore che sugli uomini da parte della gerarchia ecclesiastica, giustificata nei propri interventi anche dalla riconosciuta debolezza di quel sesso».29 Ma se protegge la debolezza femminile, il monastero sembra talvolta assolvere anche la funzione di mettere al riparo scelte spirituali femminili da esigenze sociali e politiche volute e gestite da un potere maschile. Il panorama religioso della Gallia nel secolo VI può essere ricostruito attraverso le opere di due autori contemporanei: Venanzio Fortunato († 603 o 604) e Gregorio, vescovo di Tours († 595). Se entrambi si cimentano con la figura più prestigiosa della Gallia cristiana, Martino, vescovo di Tours, Venanzio celebra figure di vescovi antichi in opere che si possono definire d’occasione per l’interesse non all’individualità storico-agiografica del personaggio quanto piuttosto ai committenti e ai destinatari, membri dell’élite politica o ecclesiastica del suo tempo, con l’eccezione della Vita di Rade26. Schein, The ‘Female-Men of God’. 27. Leonardi, I modelli, p. 444: «Dal secolo IV, dice Claudio Leonardi, la divinizzazione del nuovo martire non si realizza più in riferimento alla morte, ma in riferimento al mondo. Il monaco, che è all’orgine del nuovo modello agiografico, è il perfetto seguace del Cristo in quanto vince il mondo morendo al mondo». Cfr. anche Id., Modelli di santità. 28. Su Giovanni Cassiano cfr. Leonardi, Alle origini della cristianità medievale, e Pricoco, L’isola dei santi. 29. Consolino, Ascetismo, p. 3.
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gonda, in cui il rapporto personale gli permette di cogliere l’individualità di un’esperienza, che non aveva ancora modelli di riferimento agiografico, raccontata con ammirazione sincera in forma diretta quale testimone oculare.30 Gregorio di Tours dal canto suo celebra sia i martiri antichi (Liber in gloria martyrum) sia i confessori (Liber in gloria confessorum), che avevano illustrato la Gallia fino ai suoi tempi, privilegiando i santi confessori incarnati nelle figure istituzionali di vescovi e di abati.31 Il panorama agiografico dell’età merovingia conferma inequivocabilmente la rarefazione della presenza femminile: basta scorrere gli indici dei volumi dei Monumenta Germaniae Historica, relativi all’agiografia di età merovingia. E qualche eccezione conferma la regola. È il caso di quella Vita Tigris virginis mauriennensis, che riprende un racconto di Gregorio di Tours relativo a una devota donna di Morienne, di cui non precisa il nome, che nel luogo di sepoltura di Giovanni Battista ad Alessandria avrebbe ottenuto miracolosamente con le sue preghiere una reliquia del santo, e, depostolo in una cassetta d’oro, lo avrebbe riportato in patria. Se la testimonianza di Gregorio di Tours è importante per la storia della religiosità femminile, l’elaborazione agiografica successiva, malgrado le incertezze della tradizione manoscritta, mostra la volontà di perpetuare la memoria dell’evento attraverso la costruzione di un personaggio femminile individualizzato attraverso l’attribuzione di un nome, Tigris: di famiglia nobile, istruita nella Sacra Scrittura, dedita a una vita di preghiera e di penitenza e insieme sollecita nella cura dei sacerdoti, dei pellegrini e dei poveri, e frequentatrice costante dei loca sanctorum, che da monaci provenienti dalla Scozia viene a conoscenza della storia delle reliquie di Giovanni Battista, suscitando in lei il desiderio di recuperarle costruendo una chiesa dove deporle. Se il profilo della donna si precisa in senso agiografico, vengono invece meno i tratti legati al suo spirito di iniziativa, al rapporto personale, non mediato, con oggetti sacri, alla capacità di provvedere alla loro gestione: i miracoli compiuti dalle reliquie attirano l’attenzione del re merovingio Gontrano, che a sua volta sollecita l’intervento dei vescovi, l’uno e gli altri interessati soprattut30. Mi permetto di rinviare al mio contributo L’agiografia di Venanzio Fortunato; ma si vedano in generale per l’autore gli atti dei due convegni a lui dedicati: Venanzio Fortunato tra Italia e Francia e Venanzio Fortunato e il suo tempo. 31. Per Gregorio di Tours, oltre all’edizione dei Miracula et opera minora, si può rinviare agli atti di due convegni: Gregorio di Tours e Grégoire de Tours.
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to alla gestione politica e ecclesiastica dei preziosi pignora: la protagonista della devozione e della conseguente acquisizione delle reliquie deve cedere il passo ai detentori del potere istituzionale e scompare dalla scena.32 In questo panorama di progressiva rarefazione di testimonianze relative a protagoniste della vita religiosa, rilievo eccezionale dobbiamo attribuire all’episodio narrato da Gregorio Magno nei Dialogi, in cui si fronteggiano, per così dire, Benedetto e Scolastica: di fronte al rifiuto opposto dal fratello a proseguire il colloquio spirituale nella notte in nome della regola, che gli imponeva di rientrare in monastero, Scolastica ottenne da Dio con le sue lacrime un temporale che lo costrinse a rimanere: a lei il pontefice riconosce un potere, conseguenza dell’amore, più forte della norma invocata da Benedetto.33 La santità di Benedetto sancita e “propagandata” da Gregorio Magno nel secondo dei quattro libri dei Dialogi (scritti fra il luglio 593 e il novembre 594) sulla base della testimonianza diretta dei discepoli del santo, rifugiatisi a Roma al momento della distruzione del monastero da parte dei Longobardi nel 581, trova dunque il suo limite in una figura femminile. La presenza femminile gioca un ruolo di rilievo anche nel libro IV dell’opera, là dove i racconti sono finalizzati all’esemplificazione del destino dell’anima dopo la morte del corpo: sono personaggi legati all’entourage del pontefice, donne di santa vita, la cui morte è accompagnata da visioni, suoni, profumi soprannaturali, destinati a dare ai presenti e al più largo pubblico dei fruitori dell’opera agiografica testimonianza della sopravvivenza dell’anima e al suo destino ultraterreno.34 La sanzione divina dell’eccezionalità spirituale si manifesta al momento della morte attraverso le visioni e altri segni soprannaturali anche in quei capitoli della Vita di Colombano († 597), scritta dal monaco e discepolo Giona di Bobbio agli inizi del secolo VII, dedicati alle fondazioni femminili del santo irlandese.35 Una documentazione non sempre ricca permette di ricostruire un’immagine del monachesimo femminile diversificato nella sua fisionomia istituzionale almeno fino alla riforma di età carolingia con Benedetto di Aniane, ma sostanzialmente omogeneo quanto all’origine e alle caratteristiche sociali: 32. Vita Tigris virginis mauriennensis, pp. 533-534; pp. 530-533 per la tradizione manoscritta. 33. Gregorio Magno, Dialogi, l. II, cap. XXXIII, pp. 200-203. 34. Gregorio Magno, Dialogi, l. IV, in particolare capp. XIV, XVI, XVII, XVIII. 35. Ionae Vita Columbani, l. II.
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fondazioni private dovute a famiglie aristocratiche, che con la dotazione di beni si assicurano, oltre al controllo della carica di badessa, la possibilità di collocare le donne della famiglia, che non vorranno o potranno destinare al matrimonio.36 Ma debolezza istituzionale e debolezza culturale giocano a sfavore della storia del monachesimo femminile: «l’estinzione della famiglia, la mancanza di candidate adatte a ricoprire la carica abbaziale, un impoverimento del gruppo parentale» portano frequentemente ad una rapida e definitiva scomparsa dell’istituzione, come osserva Giulia Barone per l’Italia: la fragilità istituzionale rende quasi invisibili le fondazioni da un punto di vista documentario.37 Se la vita monastica rimarrà il luogo privilegiato per vivere una vita di perfezione per gli uomini come per le donne, il riconoscimento della santità privilegerà indiscutibilmente i primi attraverso una memoria liturgica, agiografica, storiografica che ne perpetua il ricordo e ne sostiene il culto attraverso i secoli: «Anche se si può supporre che un certo numero di monache o badesse abbia goduto di fama sanctitatis, all’interno del cenobio, il fenomeno sfugge totalmente all’occhio dello storico».38 4. L’età della santità istituzionale La santità altomedioevale è una santità prevalentemente maschile, perché legata a istituzioni maschili, che gestiscono il potere sacramentale e liturgico. Fin dal secolo V vescovi e abati si erano proposti come protagonisti della nuova religione: le istituzioni ecclesiastiche e monastiche sono i luoghi scelti dai membri delle élites sociali per vivere la propria fede religiosa e per diffonderla: in queste trasferiscono beni, prestigio, cultura, potere. Sono proprio le funzioni stesse svolte dai vescovi e dagli abati in virtù del loro potere istituzionale e personale, reso più evidente dal progressivo venir meno del potere politico, a favorire il riconoscimento di eccezionalità, non solo e non tanto per le loro virtù cristiane, quanto soprattutto per il potere di intercessione verso Dio a favore della salvezza spirituale e ancor più materiale dei fedeli.39 36. Su questo tema cfr. la relazione di Cristina La Rocca in questo stesso volume; la stessa studiosa ha poi curato Agire da donna, con una bella Introduzione. 37. Barone, Società e religiosità femminile, p. 63. 38. Ibidem, p. 64. 39. Boesch Gajano, La strutturazione, pp. 116-120.
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Il luogo dell’esperienza religiosa coincide con quello della conservazione e trasmissione della memoria: corpo devotamente conservato, nome inserito nel calendario liturgico, memoria delle virtù e dei miracoli in vita e in morte tramandata oralmente e poi messa per iscritto. Le chiese vescovili e i monasteri sono dunque i luoghi che strutturano la vita religiosa e “costruiscono” la santità. Le reliquie del santo diventano il fondamento dell’istituzione, garanzia della persistente sacralità del luogo, del suo inesauribile potere di mediazione fra la terra e il cielo, del suo prestigio. La liturgia conferma il suo valore di testimonianza primaria per il riconoscimento della santità e per la conservazione e la trasmissione della memoria dei santi: dai calendari delle chiese locali, fino ai martirologi detti storici, che raccolgono vere e proprie, anche se brevi, Vite dei santi: quelli di Beda († 735), Floro (scritto fra l’825 e l’840), Adone (scritto fra l’853 e l’860), Usuardo († 877).40 Il patrimonio agiografico di tutto l’Occidente altomedioevale testimonia, insieme alla persistenza del culto rivolto ai martiri antichi, la promozione di una nuova santità legata alle istituzioni della Chiesa e dunque maschile. L’Irlanda è uno dei casi più significativi di forte e originale identità religiosa, sul piano delle istituzioni – con la coincidenza fra istituzioni vescovili e monastiche –, dell’organizzazione liturgica – con un computo della Pasqua diverso da quello della Chiesa di Roma –, e delle norme di comportamento religioso e morale. Il panorama agiografico altomedioevale è ricco di molti santi, la cui memoria e la cui venerazione sono affidate ai monasteri, centri indiscussi della vita religiosa e culturale nell’isola, in cui emerge la figura di Colomba († 597), fondatore dei monasteri di Derry, Durrow, e forse Kells, e soprattutto Iona, nell’isola di fronte alle coste sudoccidentali della Scozia, da dove iniziò la sua attività missionaria in Inghilterra, e ancor più quella di Colombano missionario sul continente, sopra ricordato. Ma proprio in questa terra si coglie anche un caso illuminante di rivalità cultuale: il culto di Patrizio († 461), figura fondante del cristianesimo irlandese, è insidiato dal secolo VII dal culto “rivale” di una donna, Brigida di Kildare, figura storicamente evanescente, anzi “sospetta” per la coincidenza del nome con quello di una divinità e per la festa (1 febbraio) legata alla Candelora e ai cicli del mondo rurale: una rivalità emblematica di una polarità maschile e femminile che coincide con una polarità fra culture.41 E l’esempio potrebbe non rimanere isolato. 40. Dubois, Les martyrologes. 41. Boesch Gajano, La strutturazione, pp. 101-103, 150-151 (fonti e bibliografia).
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La chiesa inglese, nata a seguito dell’iniziativa missionaria di Gregorio Magno, come ben testimonia l’Historia Gentis Anglorum del Venerabile Beda, monaco e abate di Jarrow († 735 o 736), venerato poi come santo, sancisce i caratteri della santità propria di quella terra: sono monaci e vescovi di grande spiritualità e cultura, come Cutberto (634?-687?), fondatore e abate di Lindisfarne, eremita e asceta zelante, eletto nel 685 vescovo per volontà dell’arcivescovo di Canterbury Teodoro e del re Ecgfrith di Northumbria, così venerato che al momento delle invasioni danesi nell’875 alcuni monaci fuggirono per porre in salvo le sue reliquie, finite dopo lunghissime peregrinazioni a Durham; e ancora Benedetto Biscop († 689), che dopo un pellegrinaggio a Roma si “convertì” agli usi romani, e fondò i monasteri di Wearmouth e di Jarrow in Northumbria; i re cristiani “martiri” dei re nemici pagani come Edwin († 633) e Oswald († 641), che, ucciso in battaglia, con il suo sangue sacralizza il suolo della patria. In questo panorama non mancano figure monastiche femminili come Hilda († 680) della famiglia reale di Northumbria, ma non rivestono caratteri di eccezionalità paragonabili a quelli delle contemporanee figure maschili.42 Nella diversificata situazione territoriale della penisola iberica, oltre al principe martire Ermenegildo, il panorama è dominato soprattutto dalle figure di grandi vescovi, membri prestigiosi dell’aristocrazia ibero-romana, destinata progressivamente a fondersi con la nobiltà visigota: Leandro († 599-600), figlio di un funzionario del regno visigoto, fratello di Fulgenzio, vescovo di Ecija, e di Isidoro, suo successore a Siviglia (600-636), il celebre autore delle Etymologiae e di altre opere esegetiche e teologiche, che ne fanno uno dei maggiori intellettuali dell’epoca; i due vescovi di Toledo Ildefonso († 667) e Giuliano di Toledo († 690). Dal secolo VIII, dopo la fine del regno visigoto a seguito dell’espansione islamica, la vita religiosa si sviluppò intorno alle istituzioni vescovili e quelle monastiche, sia nei regni cristiani sia nei territori musulmani, dove la Chiesa mozaraba, pur nella limitazione imposta dalla religione dominante, mantenne le sue strutture ecclesiastiche e monastiche, illustrate dal prestigio dei suoi prelati, con un pantheon parzialmente rinnovato con l’inserimento di martiri contemporanei, come attesta il Memoriale dei santi di Eulogio di Cordova della metà del secolo IX, ma fedele alla tradizione martirologica antica.43 42. Ibidem, pp. 103-104, 150-151 (fonti e bibliografia). 43. Ibidem, pp. 104-105, 151.
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Dalla fine del secolo VIII il dato più importante è costituito dall’affermazione dell’impero carolingio, all’interno del quale i monasteri, come già i vescovati, entrano a fare parte organicamente degli assetti del potere territoriale. In questo contesto sempre più frequente diventa la successione, nella vita del santo, di un’esperienza monastica, di un’alta formazione culturale, di rapporti organici – anche se dialettici e talvolta conflittuali – della carica episcopale con la corte imperiale. L’espansione verso est vede protagonisti figure, che a seguito dell’opera di evangelizzazione divengono titolari delle nuove diocesi o abati delle nuove fondazioni monastiche, celebrati dalla liturgia e dall’agiografia.44 Dalla fine del secolo VIII si moltiplicano anche le opere interessate a proporre la storia di una sede vescovile o di un monastero attraverso la serie di notizie relative ai vescovi o agli abati (gesta episcoporum, gesta abbatum): un genere letterario dalla doppia natura storiografica e agiografica, avente come minimo comune denominatore la celebrazione dell’antichità e del prestigio dell’istituzione, che ha il suo prototipo nel Liber Pontificalis della Chiesa romana, ma che si sviluppa dalla fine del secolo VIII, quando molte chiese episcopali, servendosi della penna di prestigiosi intellettuali, ricostruiscono la propria storia, rivendicando spesso origini “apostoliche” e mostrando così un’inedita consapevolezza della propria identità.45 In queste storie finalizzate a evocare la santità di un’istituzione le donne non hanno spazio: ad eccezione delle martiri antiche. Flodoardo ce ne da un esempio: una martire, la vergine Macra, è ricordata nella sua opera per il potere delle reliquie.46 5. Le sante regine: una santità di funzione? Il riconoscimento dell’eccezionalità religiosa femminile nell’altomedioevo si rivolge esclusivamente a figure nelle quali le virtù cristiane si innestano sul più alto prestigio sociale e politico. Radegonda aveva rappresentato un esempio precoce di questa tipologia, ma, come si è detto sopra, l’agiografia nel suo caso aveva ben chiarito i caratteri monastici della sua 44. Ibidem, pp. 116-124, 152-153 (fonti e bibliografia). 45. Sot, Gesta episcoporum. 46. Sot, Un historien, ad indicem.
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santità: una santità che passava attraverso l’abbandono della funzione regale. A partire dall’età degli Ottoni è l’ideologia dell’Impero cristiano che consente alla santità di lambire i vertici della società e del potere e alle donne di affermare una loro identità religiosa e agiografica senza rinunciare al loro ruolo. Lo status sociale riequilibra la differenza fra i sessi.47 La figura fondante di quella che il Corbet ha chiamato la “santità ottoniana”, è Matilde († 968), regina, madre, monaca, santa, considerata protettrice della dinastia: moglie di Enrico I e madre di Ottone I, aveva unito all’attività politica un forte impegno spirituale e materiale nelle fondazioni monastiche, ritirandosi infine in quella di Quedlinburg.48 Più prestigiosa appare la figura di Adelaide († 999), moglie di Ottone I, attraverso la biografia a lei dedicata dal grande abate di Cluny Oddone, nella quale si fondono i caratteri della santità dinastica e della santità monastica, che fu il fondamento del riconoscimento ufficiale del culto nel 1097 per opera di Urbano II.49 Solo nel secolo XII si elaborò l’esempio di “coppia santa” formata da Enrico II († 1024) e Cunegonda († 1033), esempio nel quale le virtù morali si uniscono con l’esercizio delle funzioni imperiali, anche se il loro destino agiografico, segnato dallo scontro fra papato e impero, fu diverso: il primo fu oggetto di culto fino al riconoscimento nel 1146 ad opera di Eugenio III; la seconda dovette attendere fino al 1200 per il riconoscimento della sua santità – fatta di virtù morali, castità nel matrimonio, esemplarità di vita nel monastero di Kaufungen da lei fondato –, con la redazione di una Vita, cui seguì la bolla di canonizzazione di Innocenzo III (3 aprile 1200).50 L’esemplarità reale trovò anche altre declinazioni nei regni formatisi in Occidente già nel corso dell’alto medioevo, trovando radici nella concezione sacrale del potere di origine soprattutto germanica, come ha mostrato Marc Bloch.51 Se il caso dei re taumaturghi può essere considerato peculiare delle monarchie di Francia e di Inghilterra, diventa sempre più frequente la santificazione dei re e talvolta delle regine negli stati di antica e nuova cristianizzazione, non senza diversificazioni che confermano la varietà del47. Un panorama generale della santità reale nei volumi di Folz, Le saints rois; Id., Les saintes reines. 48. Corbet, Le saints ottoniens, pp. 30-40 e ad indicem. 49. Ibidem, pp. 59-64; 81 ss. Cfr. inoltre il recente Adelaide de Bourgogne. 50. Corbet, Les saints ottoniens, ad indicem (Henri II; Cunegonde). 51. Bloch, I re taumaturghi.
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le esperienze e spesso la loro originalità scarsamente condizionata dalla tradizione agiografica. Non priva di tratti eccezionali in relazione al suo tempo è la figura di Margherita di Scozia († 1093), discendente dalla stirpe di Alfredo il Grande, e dunque dallo stesso Edoardo il Confessore, moglie e consigliera del re Malcom III di Scozia in un’attività politica, culturale e religiosa, in stretto contatto con la vita intellettuale e religiosa della cristianità occidentale impegnata nella riforma. La sua Vita, scritta dal priore di Durham, Turgot, già negli anni 1104-1108, delinea i caratteri della sua santità: moglie felice e ottima madre, eccellente sovrana, ispirò il suo comportamento reale ai principi cristiani, dando prova di umiltà e carità. Anche il suo culto conferma i caratteri della santità reale. Le sue reliquie furono collocate a Dunfermline, divenuto sacrario della famiglia reale, e il suo culto fu riconosciuto dalla Chiesa scozzese, e, nel 1249, dal pontefice Innocenzo IV, fino alla proclamazione nel 1643 del suo patronato sulla Scozia.52 Si potrebbe parlare nel suo caso di una vera santità di funzione. Diversa la fisionomia della “santa regalità” nell’Europa centrale e settentrionale. Qui le monarchie fin dal secolo X avevano fondato sui loro re guerrieri neoconvertiti, propagatori, difensori e talvolta anche martiri della fede, la propria identità dinastica e territoriale. Il culto dei sovrani fu favorito dalla Chiesa romana, che vide in loro gli artefici dell’ampliamento dei confini della cristianità e della formazione di chiese territoriali e attribuì loro le virtù proprie dei principi, il coraggio, unito alla giustizia, alla carità, allo zelo religioso. L’eccezionalità religiosa si incarnò dunque in questa fase esclusivamente in figure maschili, militarmente e politicamente potenti: il boemo Venceslao († ca 929), Olaf di Norvegia († 1030), Stefano d’Ungheria († 1038), Canuto di Danimarca († 1086), Eric re di Svezia († 1160), sono i protagonisti di questa stagione storica e cultuale. Una tipologia che avrà ancora un più tardo epigono in Alexander Nievski, divenuto simbolo dell’identità nazionale russa.53 Solo dal secolo XIII la santità reale sarà fortemente influenzata dalla religiosità di ispirazione francescana e domenicana. Siamo fuori dei confi52. Oltre a Folz, Les saintes reines, pp. 93-104, cfr. per le fonti e la bibliografia Love, Margherita di Scozia. 53. Folz, Les saints rois; cfr. anche Boesch Gajano, La strutturazione, pp. 124-127; 153 (bibliografia).
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ni cronologici della mia riflessione, ma è impossibile non ricordare l’emergere di una santità familiare e dinastica, sostenuta da opportune strategie agiografiche, studiate da Gabor Klaniczay.54 Figura eminente della nuova religiosità è Elisabetta di Ungheria († 1231),55 che modifica profondamente la fisionomia della santa regina altomedioevale: la santa regina diviene piuttosto una regina santa. Una riprova della prudenza con cui si deve parlare di tipologie, tenendo conto delle diversissime intepretazioni sottostanti ai ruoli e alle funzioni sociali. Alcune figure evocate in questo paragrafo sono frutto di una società in via di trasformazione e l’elaborazione della loro memoria storica è il prodotto di una cultura monastica, rivelatasi capace di cogliere l’emergere di nuove forme di religiosità. Lo sfondo unificante di queste novità è costituito dal movimento per la riforma, che dalla fine del secolo X coinvolge mondo monastico, istituzioni ecclesiastiche, società laica. 6. Nuovi protagonisti per una società in trasformazione La riforma della Chiesa comprende, dal punto di vista della vita religiosa e del riconoscimento dell’eccezionalità religiosa, una grande varietà tipologica. Ancora una volta con una preminenza schiacciante di figure maschili. Si ha in primo luogo la promozione di un’esemplarità strutturata intorno alla moralità, alla cultura, e soprattutto all’impegno per la difesa della Chiesa e delle sue prerogative a tutti i livelli della gerarchia ecclesiastica: il nuovo scenario agiografico è costituito da figure eminenti di papi e vescovi, che uniscono nel proprio percorso esistenziale un’esperienza religiosa profonda con un attivo impegno riformatore.56 E ancora: l’ideologia della guerra santa ripropone l’antico ideale del martirio, ma, a differenza del martirio dei primi secoli, la santificazione riguarda coloro che prendono le armi e insieme la 54. Klaniczay, Holy Rulers and Blessed Princesses. Si veda anche il volume Politik und heiligenverehrung im Hochmittelalter. 55. Per un accurato profilo e la bibliografia rinvio alla voce di Klaniczay, Elisabetta di Ungheria. 56. Cfr. Boesch Gajano, La strutturazione, pp. 130-133 con relativa bibliografia a p. 154. In particolare Golinelli, «Indiscreta sanctitas».
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croce, comprendendo i laici, marginali rispetto alle tipologie prevalenti finora individuate, la santità monastica e la santità vescovile, ma evidentemente escludendo le donne.57 E la Militia Christi diede vita ben presto agli ordini militari, con la codificazione della spiritualità crociata in una regola di tipo monastico, che prevedeva i voti di povertà, castità e obbedienza.58 Quanto al mondo monastico, da cui erano partiti, com’è noto, i primi segnali di riforma, continuerà a costituire per la società del tempo l’ambiente più idoneo per vivere la vita cristiana e il luogo più adatto per la conservazione della memoria delle azioni, delle virtù e dei miracoli di abati e monaci. La riforma cluniacense molto deve ad alcune grandi personalità di abati, oggetto dall’interno della comunità di elaborazioni agiografiche in cui si fondono i caratteri della santità benedettina tradizionale con caratteri nuovi del riformatore e del “combattente” per una nuova società cristiana riformata: Oddone († 942), Maiolo († 994), Odilone († 1049).59 Ma, come si è sopra ricordato, la cultura cluniacense seppe riconoscere forme di vita religiosa esterne al monastero, ma degne di essere tramandate alla memoria dei posteri, come nel caso già ricordato dell’imperatrice Adelaide, e con Geraldo di Aurillac († 909), la cui Vita scritta dall’abate Oddone, che delinea una singolare figura di santo, che aveva unito la condizione sociale nobile e l’esercizio delle armi per la lotta contro l’ingiustizia, per la pace e per la protezione delle chiese, con le virtù proprie del monaco, prototipo di altre figure che si svilupperanno nel secolo successivo, legate alla pratica della guerra santa.60 Il monachesimo dalla metà del secolo XI e per tutto il secolo XII vive una stagione di perpetua riforma. Sorgono nuove congregazioni, alcune a carattere più universale, altre a carattere più locale, alcune più ancorate alla regola, altre più innovative sul piano spirituale e organizzativo, ripropongono il mito della chiesa primitiva e della povertà degli apostoli: l’eccezionalità dei fondatori è celebrata dai monasteri con agiografie che uniscono i caratteri tradizionali della santità benedettina con aspetti innovativi sia in57. Henriet, Sainteté martiriale et communauté de salut. 58. Boesch Gajano, La strutturazione, pp. 135-136, con relativa bibliografia a p. 154155; ricordo il contributo dato al problema dal volume Guerriers et moines. 59. Iogna-Prat, Agni immaculati; Id., Etudes clunisiennes; Religion et culture autour de l’an Mil. 60. Iogna-Prat, La «Vita Geraldi»; Lauranson-Rosaz, La Vie de Géraud d’Aurillac.
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terni – nuove forme di organizzazione comunitaria e patrimoniale, sviluppo eremitico, potenziamento liturgico, innovazioni spirituali e devozionali –, sia esterni – impegno riformatore, predicazione.61 Ma è soprattutto nel corso del secolo XII secolo che vediamo apparire ulteriori tratti di novità, talvolta dai caratteri più rivoluzionari: tra questi un nuovo rapporto con le donne. Tra i personaggi Roberto di Arbrissel († 1116), figlio di un prete e prete lui stesso, che prima si impegna nella riforma contro il clero simoniaco e concubinario della Bretagna, poi fonda una comunità di canonici regolari, si dedica ancora a un’esperienza penitenziale, segnata dalla partecipazione alla vita degli emarginati, in particolare le prostitute – la promiscuità è tra le accuse rivolte dalle autorità ecclesiastiche come prova di superbia in quanto sfida al peccato e volontà di un improprio martirio – e infine a Fontevrault istituisce una comunità mista di uomini e donne. Celebrato poco dopo la sua morte da Baldovino di Bourgeuil su richiesta della badessa Petronilla, Roberto cade sostanzialmente nell’oblio: un’eccezionalità, la sua, che aveva assunto caratteri troppo eversivi per divenire esempio edificante e oggetto credibile di culto.62 Originale fu anche l’ordine, misto di canonici e di monache, e di fratelli laici, uomini e donne, ideato da Gilberto di Sempringham, morto centenario nel 1189: chierico, si dedica al servizio dei poveri, a dure penitenze corporee, per poi istituire numerose comunità, che godettero del favore della società inglese e poi del papa Innocenzo III, che canonizzò il fondatore già nel 1202 ad Anagni.63 All’interno di un monachesimo profondamente riformato le donne sono rappresentanti di una nuova spiritualità. Ildegarda di Bingen (10981179), precocemente protagonista di un rapporto con Dio, fatto di visioni di carattere mistico e profetico, che, spiegate, come affermava, dalla “voce” di Dio, mise più tardi per iscritto in tre opere: Scivias, Liber vitae meritorum, Liber divinorum operum. La fama delle visioni la mise in contatto con il pontefice Eugenio III, con Elisabetta di Schönau, con l’imperatore Federico Barbarossa, e le conferì un’indiscussa autorità manifestata nei suoi appelli alla riforma della Chiesa e nei suoi rimproveri rivolti ai pontefici Alessandro IV e Adriano IV, e in generale espressa attraverso le lettere e la predicazione in molte parti della Germania, pronunciata anche 61. Boesch Gajano, La strutturazione, pp.127-130, 153-154 (bibliografia). 62. Su Roberto di Arbrissel fondamentale lo studio di Dalarun, L’impossible sainteté. 63. Foreville, Un procès de canonisation e Vauchez, La sainteté, ad indicem.
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in pubblico, in contrasto con la norma canonica. La fama in vita proseguì dopo la morte, con due biografie e con il frequente appellativo di beata. Ma il processo di canonizzazione, con l’inchiesta sulle virtù e i miracoli, avviato due volte, nel 1233 su richiesta di Gregorio IX e nel 1243 su richiesta di Innocenzo IV, non giunse a buon fine: le testimonianze registravano infatti soprattutto le visioni, le profezie, i poteri taumaturgici, piuttosto che le virtù monastiche tradizionali, considerate le uniche utili ai fini del riconoscimento di santità.64 Elisabetta di Schönau (1128 ca-1164), di famiglia nobile e ben inserita ai vertici del potere attraverso il fratello Egberto, legato a Rainaldo di Dassel, cancelliere di Federico Barbarossa, alla fisionomia monastica tradizionale, centrata sull’ascesi e sulla mortificazione, unisce l’esperienza mistica e profetica, testimoniata dalle lettere e da opere ecome il Liber visionum, il Liber viarum Dei, le Revelationes, le Visiones de resurrectione Beatae Mariae virginis. Ma anche nel suo caso alla indiscutibile eccezionalità spirituale e culturale non fece seguito nessun riconoscimento cultuale, fino in età moderna quando il suo nome venne inserito nel Martirologio Romano.65 Il passaggio da un’età segnata da culture e pratiche religiose prevalentemente legate alla società rurale e all’economia agraria, che ha il suo punto di forza spirituale e culturale nel mondo monastico, a quell’età in cui economia, politica, religiosità e cultura hanno il proprio epicentro nelle città, si attua con gradualità, permettendo di cogliere influssi e intersezioni fra monachesimo tradizionale e religiosità urbana, fra clero e laici, fra ideo logie escatologiche e apocalittiche e urgenze di rinnovamento individuali e collettive. Il fenomeno urbano è fenomeno di dimensione europea, pur se caratterizzato da grande varietà di articolazioni regionali e nazionali; in Italia fu precoce e intenso e assunse caratteristiche propriamente politiche. Il potere cittadino rinnova i culti antichi, li adatta a nuove esigenze, li inserisce nella costruzione dell’identità comunitaria: a partire dal secolo XI il culto del santo patrono diviene strumento di coesione e simbolo di identità, sancito dalla costruzione di grandi nuove cattedrali, frutto di un’orgogliosa 64. Moulinier, Le manuscrit perdu à Strasbourg, cui rinvio anche per le testimonianze biografiche e agiografiche. Cfr. la recente traduzione italiana del Liber divinorum operum con un efficace profilo biografico di Michela Pereira. 65. Oltre al profilo di Leonardi, Elisabetta di Schönau, cfr. in particolare Clark, Elisabeth von Schönau.
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coscienza cittadina, e da una presenza scandita dalle festività con nuove forme liturgiche promosse dal potere politico. Si assiste dunque, per così dire, al “travaso” di una memoria agiografica funzionale alla vita della comunità ecclesiastica in una più complessiva memoria della comunità cittadina, che recuperava dal racconto agiografico conoscenza e coscienza delle proprie origini, rese illustri dalla predicazione di apostoli, di martiri e vescovi, discepoli degli apostoli o comunque vissuti agli albori stessi del cristianesimo e artefici della precocissima conversione degli abitanti della città.66 È questo il contesto che permette la rivitalizzazione di antichi culti martiriali femminili, al centro dell’attenzione nel nostro convegno. Assente invece la promozione cultuale di nuove figure di donne, che pure avevano cominciato a giocare un ruolo nella vita cittadina. Le aspirazioni religiose avevano portato infatti a una nuova consapevolezza complessiva del ruolo che potevano giocare i laici nella vita della Chiesa. Ed è qui che si cominciano a intravedere i primi segnali, esterni al mondo monastico e ecclesiastico, di aspirazione a una vita più conforme al Vangelo e a una Chiesa che a quegli ideali si ispirasse, che suscitarono subito la diffidenza della Chiesa romana, preoccupata di superare definitivamente il disordine presente nelle istituzioni ecclesiastiche e nella società cristiana, incardinando la vita religiosa dei fedeli entra un rigido ordinamento diocesano saldamente controllato sul piano sacramentale e devozionale dal clero. In questo ambito esplode dal XII secolo il protagonismo religioso femminile. Le donne sono seguaci di nuove proposte di riforma della Chiesa, guidate da personaggi come Pietro di Bruis, il monaco Enrico, Valdesio; sono ancora coraggiose sperimentatrici di nuove forme di vita religiosa comunitaria, come i beghinaggi, o individuale, con forme di reclusione volontaria. Si potrebbe parlare in questo caso di santità “collettiva”, i cui tratti essenziali sono dati proprio dal lavoro manuale «inteso nella sua accezione penitenziale, quale aggio del peccato originale e nel contempo strumento di redenzione, ma certamente vissuto pure come mimesi della vita apostolica».67 In questa temperie di inedita libertà spirituale e comportamentale alcune figure assumono tratti di eccezionalità, con esperienze centrate sulla povertà e sulla carità e soprattutto sul rapporto diretto con Dio. Precoce e 66. Benvenuti, La civiltà urbana, pp. 161-167 con relativa bibliografia. 67. Benvenuti, In castro penitentiae; Ead., La civiltà urbana, pp.168-180.
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esemplare il caso di Maria di Oignies (1177-1213), che unisce all’intensa vita spirituale, segnata da visioni e profezie, l’attività nei beghinaggi.68 E ancor più significativo sarà il caso di Chiara d’Assisi (1193-1253), la cui esperienza religiosa all’interno della prima comunità francescana si concluse bruscamente nella clausura monastica, dovuta a una consapevole scelta di Francesco: una scelta tradizionale e tutta maschile, che eliminava la presenza femminile dalla fraternitas, in quanto possibile ostacolo alla sua approvazione; ma una esclusione che Chiara seppe gestire in modo originale, imponendo al papa la conferma del privilegium paupertatis per la sua comunità, e sviluppando all’interno della clausura una vita di contemplazione, che le conferì “visibilità” e prestigio spirituale, confermato da una rapida canonizzazione.69 Dopo Benedetto e Scolastica, il diverso e più noto destino biografico di Francesco e Chiara rappresenta un invito a prestare attenzione alle “coppie agiografiche”, che possono fornire una preziosa chiave interpretativa per una storia declinata secondo il genere maschile e femminile. 7. Conclusioni La religiosità femminile dal XII secolo viene dunque intercettata dai nuovi ordini religiosi mendicanti, che non solo prevedono tempestivamente un secondo ordine femminile, ma cercano strumenti innovativi per incanalare la religiosità laica che continuava a esprimersi in forme non istituzionali: nascono così, come offerta spirituale e in funzione di controllo, i terzi ordini, all’interno dei quali emersero personalità di rilievo, dotate di una memoria storica oculatamente coltivata dagli storici dell’ordine con la costruzione di un variegato pantheon, capace di abbracciare in una sorta di unica “famiglia” agiografica, sia pure organizzata gerarchicamente come tutte le famiglie, i due sessi e tutti gli “stati di vita”.70 La stagione avviata nel secolo XII ha il suo acme nell’invasion mystique degli ultimi secoli del 68. Vauchez, Prosélytisme et action antihérétique; per le fonti e ulteriore bibliografia cfr. Id., Maria di Oignies. 69. Chiara d’Assisi, Scritti; Brufani, Le «legendae» agiografiche di Chiara d’Assisi; Id., Chiara d’Assisi (con bibliografia); e ora Frugoni, Una solitudine abitata. 70. Mercuri, Santità e propaganda.
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medioevo,71 con un fiorire di esperienze spirituali, mistiche e profetiche, che coinvolgono la società a tutti i livelli e in tutti i gradi istituzionali. Se le esperienze religiose si moltiplicano, il riconoscimento della santità, attraverso le nuove norme invalse dal secolo XIII con il processo di canonizzazione, riguarda solo in misura ridottissima le donne.72 Si potrebbe dire che proprio la rilevanza religiosa, sociale e culturale delle donne gioca in genere a sfavore del riconoscimento della loro santità. E questo, come sempre nel passato, porta di conseguenza al progressivo affievolimento della memoria delle virtù e delle azioni che le avevano viste protagoniste. Ma i risultati fin qui ottenuti dalla storiografia che ha posto al centro dei suoi interessi la storia delle donne e la storia di genere73 permette di dire che chi continuerà a cercare troverà tracce sempre più consistenti di una presenza, che sia pure con secoli di ritardo può ottenere il giusto riconoscimento del ruolo ricoperto nella società, nella religione, nella cultura.
71. Vauchez, Saints, prophètes et visionnaires. 72. Vauchez, La santità. 73. Per un panorama Zarri, La memoria di lei. Fondamentali sono le numerose ricerche individuali e collettive della studiosa, tra le quali ricordo in particolare: Sante vive e Recinti e tra le opere collettive curate dalla stessa Finzione e santità.
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Alba Maria Orselli Dialettiche di idiomi agiografici nelle tradizioni di santa Tecla
Collocato in una dimensione cronologica, e dunque anche culturale, che può apparirci ormai remota – appena meno che ottant’anni separano la pubblicazione de Le diocesi d’Italia dalla nostra umbratile presenza in questo oggi – Francesco Lanzoni già sapeva individuare alcune delle linee e delle dinamiche essenziali del grande tema, attuale per noi sino ai suoi possibili abusi, dei processi di interculturalità religiosa. Scriveva infatti, sollecitato precisamente dal «campione» della tradizione agiografica di santa Tecla associata a santa Eufemia come pretesa martire triestina: «le due rive dell’Adriatico si scambiarono reliquie dei loro santi, e come la riva occidentale trasformò quelli della sponda orientale in santi propri, così la riva orientale quelli dell’occidentale».1 Parole che ugualmente esplicitano la consapevole attenzione dell’autore alla reliquia in quanto problema teorico ed elemento di sistemi di culto.2 L’opera maggiore del Lanzoni, nostra preziosa eredità, però richiede ormai una generale rimessa a punto che tenga conto della ricchissima mes1. Lanzoni, Le diocesi d’Italia, p. 864. 2. Questo luogo tematico, da ultimo riproposto a largo spettro geografico nel volume monografico Reliques et sainteté dans l’espace médiéval, è frequentato oggi con particolare fortuna ed efficacia da studiosi della scuola dell’Università di Bologna: cfr. la monografia di Canetti, Frammenti di eternità, fortemente originale per ricchezza di spessore culturale e capacità di percorsi interdisciplinari; sulle valenze ideologico-religiose delle traslazioni reliquiali, su cui a suo tempo si era già appuntata con felici intuizioni l’attenzione di Duprè Theseider, La «grande rapina dei corpi santi», cfr. Caroli, Le traslazioni reliquiali e Ead., Traslazioni delle reliquie. Il saggio di Morini, Note di lipsanografia veneziana, disegna esemplarmente un paesaggio di relazioni interculturali che è di grande interesse metodologico, al di là dei riferimenti specifici, anche per il presente contributo. Ancora sulle relazioni interculturali radicate negli scambi reliquiali, cfr. il mio contributo Santi e culto dei santi.
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se documentaria di nuova acquisizione, e, più ancora, attui la sistematica coniugazione delle fonti testuali con le fonti archeologiche (la cui importanza certo non sfuggiva al Lanzoni stesso); e a una tale rimessa a punto vengono oggi indirizzandosi le ricerche dei gruppi di lavoro di alcune tra le maggiori Università italiane. Sempre però a partire da quella che me ne è apparsa la più felice intuizione teorica e impostazione di metodo: come cioè le origini di ogni singola chiesa si fondino, non meno che sulla certezza della successione, vale a dire del lignaggio episcopale a partire dal fondatore, sul patrimonio delle tradizioni martiriali cui si áncora quella chiesa medesima. Un patrimonio bollandianamente verificato, ma poi anche da interrogare, al di là delle coordinate agiografiche, nelle ragioni del suo farsi, del suo organizzarsi in un sistema di memorie; nei linguaggi che sono segni e veicolo di identità. Della Tecla cui si riferiva il Lanzoni, Tecla voluta compagna di Eufemia nelle memorie liturgiche di Trieste;3 ma prima compagna, oltre che di Eufemia, anche di Dorotea ed Erasma ad Aquileia4 – da dove, per il tramite gradense e forse per via di traslazioni reliquiali,5 il culto approderà ai non molti esiti veneziani e della terraferma ancora registrati nelle Rationes decimarum di Venetiae, Histria e Dalmatia6 –, una Tecla che senz’altro il Lanzoni da parte sua riportava al suo luogo autentico secondo la lunga tradizione che discende da una variante specifica degli Atti apocrifi dell’apostolo Paolo, Iconio di Cilicia sua patria nativa, poi Seleucia di Isauria orizzonte della fine della sua vita e polo del suo culto,7 come riportava Eufe3. Lanzoni, Le diocesi d’Italia, p. 864. Il Lanzoni ne ricorda la memoria triestina al 17 novembre; le tradizioni agiografiche fatte circolare con riferimento a Tecla e Eufemia come martiri a Trieste sub Valeriano sono registrate dalla BHL al n. 2717. 4. Ancora Lanzoni, Le diocesi d’Italia, p. 874, con rinvio a BHL 2706-2707; cfr. anche Burchi, Cannata, Eufemia, Dorotea, Tecla ed Erasma. 5. Cfr. Tramontin, I santi dei mosaici marciani, pp. 145 e 149; Id., Il «Kalendarium» veneziano, p. 312. 6. Rationes decimarum Italiae, ai nn. 1297, 1335, 1350, 1671, 2220, 2672-78, 3476, 3546, con rinvio a una fondazione dedicata a Sant’Eufemia [Dorotea e Tecla] de Iudayca de Venetiis e a una de Este dedicata a santa Tecla. 7. Sul profilo di questa celeberrima santa Tecla cfr. Fasola, Celletti, Tecla. Per i lineamenti che la disegnano nel suo dossier agiografico, a partire dagli apocrifi Atti di Paolo e Tecla (secoli II-III, BHG 1710-1716, in Acta apostolorum apocrypha, edd. Lipsius, Bonnet, edizione cui si rinvia anche nel presente contributo – traduzioni e recensioni latine BHL 8020-8024, Passio sanctae Theclae virginis, ed. von Gebhardt), e sino al corpus dei testi di V secolo (BHG 1717-
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mia a Calcedonia,8 proprio una «leggenda agiografica» molto tardivamente attestata sembra provvedere una qualche afferenza a un ben concluso, per quanto obsoleto, disegno ideologico-ecclesiologico pertinente l’area complessiva del Medio e Alto Adriatico. Mi riferisco agli echi ravennati, raccolti alla fine del Cinquecento dal Rubeus delle Storie Ravennati 9 e nel XVII secolo dal Fabri delle Sagre memorie di Ravenna antica,10 del sistema ecclesiologico aquileiese, che vedrebbero il protovescovo aquileiese Ermagora in stretta e fondante relazione con il protovescovo ravennate Apollinare, entrambi di pretesa discendenza petrina: ad Apollinare Ermagora avrebbe donato una importante reliquia di santa Eufemia, deposta in una chiesa a lei dedicata in Ravenna.11 Per la via della connessione con Ermagora la santa Eufemia in questione ci appare essere intesa, nella memoria erudita ravennate tra Cinque e Seicento, non tanto come il segnacolo dell’ortodossia calcedoniana, riferimento di tante dedicazioni in ambito o clima tricapitolino, ma appunto come una martire aquileiese, quella cui si associano Tecla, Dorotea ed Erasma. Se i nomi di queste tre ultime non compaiono in quella storiografia erudita, tuttavia verso la fine del XVII secolo – quindi in contestualità almeno con il testo del Fabri – essi entrano in qualche misura in una tradizione che per il tramite iconografico parrebbe rivendicare anche le altre sante a Ravenna, in seguito ad una casuale in1718; sul clima socio-culturale testimoniato in questi ultimi, cfr. la monografia di Dagron, Vie et Miracles de sainte Thècle; edizione dei testi alle pp. 167-412, con Appendice, edd. Paramelle, Dagron, pp. 413-421), mi sia consentito anche rinviare, appunto per la rassegna dei testi e i processi di costruzione del profilo, al mio contributo Tecla, la santa discepola, con edizione, alle pp. 183-190, del testo di una delle recensioni della serie BHL 8020, tràdita nel codice BUB 1473, ff. 235r-240v, e dunque espressione degli orientamenti della cultura agiografica di un qualificato ambiente monastico bolognese del XII secolo. Il riferimento complessivo alle edizioni dei testi originali e delle loro traduzioni latine è a p. 173, n.1. Sul culto della santa e sulla sua diffusione nel Tardoantico, cfr. Davis, The Cult of St. Thecla, una monografia che provvede una accurata ricostruzione dei contesti devozionali (non solo il culto dei martiri ma in primo piano l’ascetismo femminile e la pratica del pellegrinaggio) che orientano il culto di Tecla dalle sue origini a Seleucia (pp. 3-80), poi, soprattutto, ad Alessandria e in Egitto (pp. 83-190). Dei due interventi di Elena Giannarelli, Paolo, Tecla e la tradizione, e Viaggi di rottura e di confine, si apprezza per originalità di proposte il secondo, cui si farà riferimento infra nel testo e a nota 27. Di altri e più particolari contributi si darà notizia al luogo specifico. 8. Cfr. Euphémie de Chalcédoine. 9. Rossi (Rubeus), Historiarum Ravennatum l. I, p. 30. 10. Fabri, Le sagre memorie di Ravenna antica, p. 165. 11. Su questa, cfr. ora la messa a punto di Orioli, La Chiesa di Sant’Eufemia.
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venzione reliquiale, avvenuta nella chiesa di Santa Eufemia il 30 gennaio del 1686. Le reliquie ritrovate furono riconosciute come quelle delle sante Eufemia e Agata, quest’ultima non solo un altro segnacolo tradizionale dell’ortodossia, ma associata direttamente ad Eufemia nelle memorie liturgico-devozionali del Nord Italia.12 Nel medesimo 1686, fu commissionata al bolognese Giovanni Antonio Burrini una pala per l’altare della chiesa, che doveva raffigurare il martirio appunto di sant’Eufemia, pala tradizionalmente letta, ancora in un contributo di Santi Muratori del 1930, come rappresentazione del martirio di Eufemia e compagne.13 Ma nella pala del Burrini (oggi perduta, però come da un suo bozzetto e da una copia tuttora esistenti), le figure femminili risultano non quattro ma tre: la protagonista, Sant’Eufemia?, stante in attesa del colpo mortale, le altre due – non identificate né identificabili – giacenti, già decapitate, a terra. Le consuetudini cultuali ravennati sembrano del resto avere ignorato la memoria teclana. Tecla è assente dal canone iconografico dell’attuale Sant’Apollinare Nuovo, in cui compare invece, e al primo luogo tra le martiri, Eufemia14 (laddove le due sante sono associate nel corrispondente iconografico tardoantico e di ambito altoadriatico di quello, il mosaico della basilica eufrasiana di Parenzo);15 il nome stesso di Tecla non sembra occorrere nei documenti, e più in generale nei testi ravennati sino alla metà del IX secolo (dunque incluso il Pontificale Ravennate di Agnello), se non nel solo caso, che si incontra nella redazione più ampia e antica della Passio sancti Apollinaris (prima metà di VII), del nome attribuito alla seconda miracolata del santo, la moglie gravemente inferma di un tribunus militum: un miracolo che esplicitando definitivamente la presenza taumaturgica di Apollinare innesca la conversione al cristianesimo della città stessa di Ravenna.16 Ma lo 12. Tilatti, Istituzioni e culto dei santi, rinvia, a p. 67 n. 50, alla presenza di Agata e Eufemia nei dittici del Nobis quoque del canone delle Messe ambrosiane di VI secolo, e, a p. 67 n. 82, all’accostamento ugualmente immediato delle due sante nei testi poetici di Venanzio Fortunato. Seppure non direttamente affiancate (ma la composizione iconografica rimanda in questo caso a una proposta decifrabile?), le due sante sono anche presenti nel numero delle dodici che compaiono nel mosaico della basilica eufrasiana di Parenzo (su cui vedi infra), oltreché nella teoria delle vergini in Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna. 13. Muratori, Il “Martirio di santa Eufemia”. 14. Cfr. Lucchesi, I santi celebrati dall’arcivescovo Agnello, cfr. l’elenco a p. 62, n. 2. Eufemia precede Agata con il solo intervallo di Pelagia (vale la pena di sottolineare in questa sede, una volta di più, che la teoria comprende, come a Parenzo, anche Giustina). 15. Leclercq, Parenzo, col. 1675. 16. Cfr. Passio Apollinaris, col. 345 B-E.
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strumento prosopografico non consente di allargare ulteriormente il campo, tanto meno per l’area ravennate.17 La quale dunque, nella sua specificità, da qui in poi sarà lasciata da parte. La diffusione diversamente radicata della tradizione agiografico-memoriale di Tecla, o di Eufemia e Tecla, nell’area venetico-istriana – tanto radicata che i relativi testi hanno infine trovato accoglienza, in extenso o per excerpta, nel Codice Diplomatico Istriano del Kandler, a partire da testimoni del XIII secolo18 – assicura almeno della acquisita pertinenza della nostra santa, o delle due, alle antichità cristiane di quell’area. Verosimilmente, come scriveva Silvio Tramontin nel 1964,19 fu una translatio ad associarle e farle gradensi: cioé, come prima aveva ben scritto il Lanzoni, siamo di fronte a processi di migrazione reliquiale (e/o culturale) che in realtà devono rinviare ad un’origine non venetica né istriana, ma dalla Bitinia di Calcedonia per Eufemia, e dalla Cilicia di Iconio e dalla Isauria di Seleucia per Tecla. Se possiamo o dobbiamo continuare a convenire con la lettura del Lanzoni, tuttavia credo sia tempo di considerare i testi agiografici, nell’ampiezza dei loro cicli anche di più recente acquisizione, nei modi proposti in questa stessa sede da Paolo Chiesa: sulle tracce cioè non di un 17. La PLRE II, p. 1064, registra tre items, tre «Thecla» tutte afferenti la pars Orientis, scaglionate tra il passaggio dal IV al V secolo e la metà del VI. Alla fine del VI, il Registrum delle Lettere di Gregorio Magno comprende a IX, 54 (Nov. 598, a Romano defensor del patrimonio siracusano) la raccomandazione di definire una causa che ha in corso, con il vir magnificus Alexander, Tecla, abbatissa monasterii sanctae Mariae quod Neapolim in domo quondam Felici scolastici constitutum est: ed. D. Norberg, CChr CXLA, Turnholti 1982, p. 612. Nel suo III volume la PLRE non registra questa Tecla, verosimilmente per la diversa articolazione dei personaggi esperiti, secolari e religiosi, pur all’interno delle stesse fonti, tra cui Gregorio Magno, cfr. le indicazioni di p. VIII, ma soltanto, p. 1224, una Thecla comitissa nella pars Orientis negli anni 519-538; cfr. invece la PCBE, a p. 2160, e anche la menzione, a p. 2164, di una Thecla donatrice, con il marito Sergio il figlio Teodoro e una non meglio identificata Anastasia, di 45 piedi di mosaico per il pavimento di una chiesa a Grado. 18. Codice Diplomatico Istriano, I, Anni 50-1194, n. 2, pp. 5 s. (excerptum del martirio di Erasma e Dorotea, con menzione delle loro cugine Tecla e Eufemia: lo sfondo è Aquileia con la sua topografia tardoantica dai tratti sospesi tra il reale e l’immaginario. Potrebbe rinviare alla tradizione degli Apocrifi, fondamentale per il profilo teclano, l’allusione, p. 5, alle finestre della torre destinata ad abitacolo di Eufemia e Dorotea dal loro padre, forse reminiscenza della finestra dalla quale Tecla ascolta la predicazione dell’apostolo; da segnalare come la citata pala ravennate del Burrini, cfr. supra, ambienti il martirio delle sante in una torre, vd. Muratori, Il “Martirio di santa Eufemia”, p. 38), e n. 8, pp. 15-18 (racconto del martirio di Eufemia e Tecla a Trieste). 19. Cfr. supra n. 5.
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nuovo profilo agiologico, restando per entrambe immutati i lineamenti caratterizzanti, verginità e martirio, ma della costruzione di una nuova identità, aquileiese o triestina, entro uno spazio geo-culturale individuato. Del resto, secondo la medesima esigenza metodologica, credo si dovrebbe chiedere qualche supplemento di indagine sulla possibile autonomia prosopografica – che si deve intendere nell’ambito di una prosopografia agiografica – anche di altre sante di nome Tecla. Sembra aver avuto esistenza e profilo autonomo una Tecla martire palestinese, in quanto attestata da Eusebio; ma la chiesa a lei intitolata a Bethfage, cui si accenna negli Itinerari di VI secolo, potrebbe essere in realtà dedicata alla sua più celebre omonima di Iconio.20 Interrogativi particolarmente complessi pone però soprattutto la santa Tecla di culto egiziano, dotata di un ricco patrimonio documentario, in gran parte papiraceo.21 Si tratta di un culto di larga diffusione che ad Arsinoe sembra aver dato il nome ad un intero quartiere cittadino, tra VI e VIII secolo, in rapporto alla presenza di una chiesa così dedicata;22 che ad Ossirinco ha lasciato le sue tracce negli archivi degli Apioni, e che nella decorazione di oggetti devozionali appare associato ad altre fondamentali memorie santorali romee, di san Teodoro Stratelate, di Severo, il patriarca antiocheno che fu uno dei punti di riferimento del separatismo monofisita, e soprattutto, forse per attrazione degli itinerari di pellegrinaggio, alle memorie di san Mena.23 La Tecla oggetto di quel culto è stata, nel 2001, identificata dal Davis senz’altro con la celeberrima santa di Iconio/Seleucia: pitture murali della necropoli di El-Bagawat nell’oasi di Kharga (si collocano tra V e VI secolo) provvedono indizi inequivocabili almeno del culto in quel sito della Tecla di Iconio, discepola di san Paolo, culto forse connesso con una comunità monastica femminile che sarebbe stata lì presente.24 È però legittima l’ipotesi che in Egitto la forza 20. Cfr. Fasola in BS XII, coll. 179-180. 21. Papaconstantinou, Le culte des saints, pp. 92-95. 22. Ibidem, pp. 92 ss., III/1. 23. Ibidem, p. 93, III/3. Il caso dell’accompagnarsi in Egitto della memoria di Tecla a quella di san Mena, nei tradizionali oggetti devozionali per quest’ultimo, le ampolle, è accuratamente preso in esame dal Davis, The Cult of St. Thecla, pp. 114-136, che ne inferisce l’esistenza di un santuario di santa Tecla nella Mareotide. 24. Davis, The Cult of St. Thecla, pp. 150-172, figg. 17-24: nella cappella detta della Pace Tecla è ritratta con san Paolo, suo maestro, mentre ai due estremi della scena appaiono le figure parallele e antinomiche di Eva e di Maria; nella cappella detta dell’Esodo appare una scena del suo martirio tra le fiamme come narrato negli Atti di Paolo e Tecla, e Tecla è esplicitamente individuata con l’iscrizione del nome; nel medesimo comparto figurativo è
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della proposta agiologico-cultuale nel nome della vergine-martire (?) di Iconio sia all’origine anche di una sua geminazione agiografica locale,25 che fa Tecla sorella di un martire Paesi,26 errabonda sulle sue tracce verso Alessandria, su una barca in cui siedono la Vergine Maria e sant’Elisabetta e gli arcangeli Raffaele e Gabriele (al primo Tecla viene poi affidata dalla Vergine), per essere a sua volta martirizzata. Il singolare viaggio si configura ricco di elementi di abbastanza evidente tradizione folklorica, anche però soprattutto di altri a forte valenza simbolico-anagogica: una conferma tutt’altro che scontata, perché in diverso contesto culturale e quadro fattuale, del connotato di itineranza che Elena Giannarelli ha ben posto in rilievo per Tecla a partire dalle tradizioni degli apocrifi27 (e che suggerirei abbia di là stinto sulla storia della Tecla egiziana). Di quel connotato di itineranza, ben presente ancora a Simeone Metafraste che lo individuerà come uno dei nuclei caratterizzanti la biografia di Tecla, a conclusione della relativa notizia, riassumendolo nella definizione di hodoiporía,28 appare esplicitazione estrema e peculiare la tradizione trasmessa in una variante alternativa della conclusione degli Atti – nelle sole recensioni greche (e paradossalmente, anche dipinta una processione di sette parthenoi che procedono reggendo nella destra una lampada – rinvio simbolico alla parabola delle vergini sagge, evocata in rapporto a Tecla da Severo di Antiochia nella Hom. XCVII, p. 127, e forse possibile circolazione nelle comunità ascetiche degli echi del Simposio metodiano. Degli Atti di Paolo e Tecla è sufficientemente certa la conoscenza negli ambienti ascetici egiziani, giacché due citazioni ne occorrono nel Trattato sulla verginità di discussa attribuzione atanasiana, in cui Tecla viene presentata dall’autore appunto come modello della vita verginale. La paternità del testo resta incerta, ma il suo originale greco, oggi perduto, fu probabilmente composto in età tardoantica. Cfr. Davis, The Cult of St. Thecla, pp. 88-94. 25. Ibidem, pp. 180-187. 26. Papaconstantinou, Le culte des saints, pp. 94 e 163 s. 27. Cfr. Giannarelli, Viaggi di rottura e di confine, pp. 236 ss. L’Autrice sviluppa qui ulteriormente il tema, già proposto in Ead., Paolo, Tecla e la tradizione, della tecnica di costruzione del “personaggio” Tecla, con la scelta e lo scarto degli elementi caratterizzanti, a partire da una «Tecla storica del tutto scomparsa per noi». Aggiungerei che un possibile riferimento a una sorta di «sorellanza», questo radicato nella storicità delle tradizioni dell’ospitalità antica, mi parrebbe poter indicare nella raccomandazione onirica della giovane morta Falconilla alla madre Trifena di accogliere in suo luogo Tecla che è «straniera» e «sola» (Atti di Paolo e Tecla, 28: qui, come più sotto, il rinvio è all’edizione Lipsius, citata supra a nota 7, p. 256). 28. Simeone Metafraste, Vitae sanctorum, XV, col. 845B. Il testo del Metafraste (BHG 1719) sembra aver assunto per questo punto la formula conclusiva della recensione degli atti apocrifi cui si fa riferimento nel testo e subito infra a nota 29: recensione da cui è però assente la formula esplicita della hodoiporía di Tecla.
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cfr. infra), senza riscontro nelle versioni latine –, che vuole Tecla, dopo una lunga vita, inghiottita dalla roccia a Seleucia, e sprofondata nel terreno; e da quelle profondità, sotterraneamente, trasmigrata a Roma. Qui giunta, ancora una volta alla ricerca di Paolo, deve constatare l’avvenuta morte del suo maestro; presto a sua volta muore, e viene sepolta non lontano dalla tomba dell’apostolo.29 Questo testo assai singolare, che sembra collocarsi alla conclusione di un processo di mitopoiesi, aveva ricevuto già nel 1971 l’attenzione del Festugière, che lo aveva posto in relazione con una delle fonti di VII secolo fatte confluire nel cosiddetto Codice topografico della città di Roma, la Notitia ecclesiarum urbis Romae dell’età di Onorio I (ma con questa si devono anche citare le più brevi notizie del De locis sanctis martyrum quae sunt foris civitatis Romae e poi del Catalogo delle porte e dei santi di Roma assunto nel testo di Guglielmo di Malmesbury),30 riferentisi a una chiesa, una tomba di Santa Tecla. Più di recente (1995), Kate Cooper ha condotto una insistita analisi dei dati delle fonti testuali raccordandoli con le risultanze delle indagini archeologiche sulle memorie romane di Tecla, da quelle dell’Armellini a quelle della Santa Maria Scrinari (non approdate peraltro al sicuro riconoscimento del sito), proponendo l’ambiente monastico di provenienza cilicia o isaurica come possibile ambito di formazione, o di importazione, della tradizione stessa. Questa poi svolgerebbe a Roma funzione paragonabile a quella di un resoconto di traslazione, non però nel quadro di una concorrenza tra due luoghi di culto (Seleucia e Roma), ma di un collegamento cultuale reduplicativo e in qualche modo vicario.31 Nella lettura della Giannarelli, il connotato che chiamerò “odeporico” di Tecla si configura come “segno della conquista di un ruolo”. Ruolo “apostolico” certo, anche nel senso etimologico del termine (Atti di Paolo e Tecla, 41-43),32 però credo rappresentato al di là di qualsiasi competizione – sulla quale tanto insiste la Giannarelli – con l’autorità maschile, sia essa “mondana” o “religiosa” (cioé quella stessa dell’apostolo Paolo); ruolo che nel suo affermarsi trascorre attraverso il tempo, nella tradizione dei testi di lingua greca, così biografico-agiografici come encomiastici,33 29. Ed. Lipsius, pp. 270 s. 30. Cfr. Festugière, Collections greques de miracles, p. 24, su cui una rapida attenzione del Dagron, Vie et miracles de Sainte Thècle, pp. 49 ss. Il rinvio “romano” è al Codice topografico della città di Roma, pp. 89 s., 110 e 150. 31. Cooper, A Saint in Exile, pp. 13-23. 32. Ed. Lipsius, pp. 267-269. 33. A partire dal bios di V secolo edito dal Dagron, Vie et miracles de Sainte Thècle,
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lasciando presto da parte i giudizi negativi (e questi sì antifemministi) del latino Tertulliano di De Baptismo, 17.34 E però con l’urgenza sempre riproposta del superamento della distinzione tra i sessi: Tecla si raccoglie nella sua tunica «cucendola al modo di un mantello maschile» (Atti di Paolo e Tecla, 40),35 per raggiungere il suo maestro – che ne rimane in certo modo perplesso, così come poco più sopra (Atti di Paolo e Tecla, 25) l’aveva distolta dal recidersi le chiome per meglio seguirlo.36 Come altrove proponevo37 è questo piuttosto il grande tema della martire Perpetua che è fatta uomo per il combattimento escatologico, dietro cui risuona l’insegnamento fondamentale (e paradossale) di Gal 3,28; e non a caso il taglio dei capelli è vietato a Tecla da Paolo prima che sia rinnovata nel battesimo. La “virilità” escatologicamente conquistata ci appare da parte sua presto assunta, alla fine del III secolo, sotto il profilo che sopra individuavo come simbolicoanagogico, nel Discorso VIII del Simposio metodiano: nella raccomandazione alle vergini, affidata alla stessa Tecla, di assumere thymón ársena kai néphonta, opponendo una tale armatura alla «bestia turgida di superbia»;38 e la andreia è loro proposta nella panoplia delle virtù.39 La femmina “virile” è tema noto, per Tecla, a Severo di Antiochia,40 e ancora Fozio potrà additare Tecla come segno della vocazione alla areté (eccellenza) e, con linguaggio semioforico, alla andragathia (anche etimologicamente: virtus).41 Il martirio è a sua volta vocazione originaria di Tecla, seppure a quello venga di volta in volta miracolosamente sottratta, prima al fuoco, poi alle 13, p. 224 (dove Tecla è definita euanghelistria e se ne ricorda l’attività di catechesi e di battesimo), e 28, p. 278 ugualmente sull’azione evangelizzatrice della santa; cfr. anche l’epiteto esplicito, apostolos, nella più tarda Appendice, edd. Paramelle, Dagron, alle pp. 416 ss., hosía apostolos, hagía apostolos, apostolos senz’altro; sino al IX secolo di Fozio, Homilia XIX (BHG 1721), 9, p. 185, e al X in. della Oratio XVI di Niceta Paflagone (BHG 1722), col. 329B, e della citata notizia di Simeone Metafraste, XIII, col. 840D. 34. Ed. Borleffs, pp. 291-292. 35. Ed. Lipsius, p. 266. Nel bios edito dal Dagron, 25, p. 268, si parla di un vero e proprio mutamento di veste; il testo del Metafraste scolorirà l’allusione degli Atti sciogliendo il gesto di Tecla in una metálepsis che le fa indossare la veste al modo maschile (XII, col. 840B). 36. Ed. Lipsius, pp. 252 s. 37. Orselli, Tecla, la santa discepola, p. 176. 38. Method., Symp., Disc. VIII, 13, 205, p. 234. 39. Ibidem, Disc. VIII, 16, 223, p. 250. 40. Sever. Ant., Hom XCVII, pp. 128 e 132 s. 41. Phot., Homilia XIX, 1, p. 181.
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fiere, leoni orsi foche voraci, poi di nuovo al fuoco con cui vengono aizzati i tori selvaggi.42 Come “martire”, anzi “protomartire” (tra le donne), la propongono, in una formularità che è certo in gran parte ripetitiva, gli Atti apocrifi, i testi di V secolo – cioè la Vita e i Miracoli dello pseudo-Basilio di Seleucia –, il riferimento storiografico di Evagrio Scolastico, la citata Omelia di Severo di Antiochia e quella di Fozio, l’Encomio di Niceta Paflagone, le notizie agiografico-liturgiche del Metafraste, del Menologio di Basilio II, del Sinassario della Grande Chiesa.43 Ma almeno da Fozio a Niceta Paflagone il codice connotativo si fa più denso, perché Tecla è da entrambi definita anche parthenomartys.44 La verginità abbracciata sin dal primo ascolto dell’apostolo-maestro non è certo, nel profilo teclano, elemento isolato degli Atti apocrifi e del bios di V secolo dello pseudo-Basilio, che del complesso di quelli ripete la curva fattuale: è l’elemento che iscrive Tecla nella costellazione della perfezione cristiana del Simposio metodiano; e discepolato paolino, e attività apostolica, e vocazione martiriale ne sono infine (pur nobilissimi) accessori. Con la sua attenzione alle prospettive filosofico-religiose tardoantiche, con il suo linguaggio raffinatamente giocato su schemi costruttivi e scambi lessicali che rinviano all’escatologia e all’etica platonica,45 il testo del Simposio mi sembra costituirsi come cerniera tra l’insieme delle tradizioni pseudo epigrafiche tardoantiche, e gli sviluppi più tardi di quelle stesse, i testi protobizantini (pseudo-Basilio di Seleucia) e bizantini (Fozio, Niceta Paflagone, Simeone Metafraste, il Menologio di Basilio II). Rimasta virginalmente in vita, nelle tradizioni, anche quelle apocrife, meno arcaiche, sino ai novant’anni, Tecla corona l’esistenza terrena penetrando ancora viva nel suo42. Atti di Paolo e Tecla, 21-22, e 27-34, ed. Lipsius, pp. 249-251 e 254-262. 43. Cfr. la chiusa di una delle versioni greche degli Atti, ed. Lipsius, pp. 271 e 272; il bios di V secolo già nel titolo tràdito, ed. Dagron, p. 167, e nel Prologo, p. 168 (bis), ma passim, e così i Miracoli, a partire dal Prologo, pp. 281 e 288, e dal Mir. 1, p. 292; Evagr. Schol. Eccl. Hist. III, 8, pp. 177 s.; Sever. Ant., Hom XCVII, pp. 121, 130, 132 s., 136, 138; Phot., Homilia XIX, 2, p. 182, 5, p. 183, 7 (parthénomartys) e 9, p. 185; Nic. Paphl., coll. 301A, 304C, 333B (parthénomartys kai protomartys), 336A; Sym. Metaphr., già dal titolo, coll. 821-822, al capitolo finale, XV, col. 845B; Menologio di Basilio II, col. 69CD (protomartys); Synax. Eccl. Const., ed. Delehaye, coll. 75-78, passim. Non c’è riferimento alla vicenda di Tecla in quanto paradigma martiriale nei recentissimi contributi di Falcetta, From Jesus to Polycarp, e di Byrley, Voluntary Martyrs in Early Church. 44. Vedi supra, rinvii testuali a nota 43. 45. Orselli, Tecla, la santa discepola, pp. 174-178.
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lo (o nella roccia o pietra) apertosi per accoglierla, secondo alcune versioni lasciando di sé la sola traccia – o reliquia? – di un lembo della veste, «nel luogo stesso in cui è (stata) fissata la divina e santa tavola della celebrazione liturgica, costruita al centro di un peristilio circolare risplendente d’argento».46 Ancora una volta, è per la via di un lessico di grande capacità allusiva che si iscrive nel sistema biografico di Tecla anche la sua connotazione ascetica – o addirittura monastica (in Metafraste stesso, che associa per Tecla la áskesis he en to órei alla hodoiporía);47 Tecla, di cui nella conclusione del bios pseudo-basiliano si dice che giunge infine a Seleucia, en taute […] te polei katachtheisa kai arestheisa (cioé: «essendosene compiaciuta», come Antonio, e dopo di lui ogni monaco della tradizione dell’ecumene cristiana, aveva «amato» il luogo assegnatogli da Dio per il perfetto esercizio della virtù),48 mentre il suo prendervi dimora è paragonato a quello di Elia al Carmelo e di Giovanni nel deserto: cioè delle figure che il monachesimo assunse a suoi grandi archetipi, oltre che nel proprio stile di vita, prima e ancor più nel suo accogliere e trasmettere l’eredità della connotazione profetica.49 Avvio di un seminario di perfezione che al medesimo autore consente, nel Miracolo 44, di paragonare gli uomini e le donne di santa vita della Seleucia di IV e V secolo a quegli «uomini celesti che furono (ancora) Elia e Giovanni» e al «grande Eliseo».50 Solo però una più 46. Vita, 28, ed. Dagron, p. 286. Si ricorda che di questo bios, come dei miracoli, l’autore non è noto, anche se una tradizione vulgata gli attribuisce il nome di Basilio. Cfr. Dagron, Vie et Miracles de Sainte Thècle, pp. 13-30. 47. Sym. Metaphr., XV, col. 845B. Il tema della connessione tra verginità e martirio, questo anche come superamento dei sensi, di cui proprio Tecla è assunta a riferimento paradigmatico, è stato di recente svolto da Maria Stelladoro, I Martiri: vergini e mulier virilis, p. 124. 48. Cfr. Orselli, Lo spazio dei santi, pp. 888-890. 49. Vita, 27, ed. Dagron, p. 276. Sulla trasmissione del connotato e carisma profetico veterotestamentario, da quello di Mosè a quello di Elia e di Eliseo, e poi ancora a quello di Giovanni il Battista, all’antico monachesimo cristiano come configurato nelle fonti monastiche del Tardoantico, così ellenofone come latinofone, cfr. già le mie osservazioni in Orselli, Santi e città, pp. 806-808; e soprattutto l’articolata discussione che ne proponevo in Ead., Di alcuni modi e tramiti della comunicazione col sacro, pp. 932-941. In seguito, ha suggerito interpretazioni collimanti con le mie (senza però fare alcun riferimento ai miei – precedenti – lavori) Filoramo, ora nella raccolta del 2005 Veggenti, profeti, gnostici, pp. 69-72 – ma già 2000, saggio inedito – e pp. 271-274 – già in «Cristianesimo nella storia», 1999. 50. Mir., 44, ed. Dagron, p. 404. A titolo di mera ipotesi si sarebbe tentati di supporre
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tarda Appendice annessa ai testi pseudo-basiliani propone ripetutamente la più esplicita parola-segno, la designazione del luogo definitivo di dimora di Tecla come spélaion.51 Ma per Tecla una attestazione forse precedente, e particolarmente significativa, se ne incontra nell’Omelia di Fozio, che anch’essa fa riferimento alla diaite della vergine en spelaío e connota il luogo aggettivandolo con un’altra parola-chiave, Myrsenôn ho hesýchios topos ekeínos ekaleíto:52 un testo che forse poté costituirsi a fondamento anche dei più tardi rinvii nel Metafraste, che rimanda allo oros cui Tecla si dirige e allo spélaion in cui sceglie di dimorare,53 e nel Menologio di Basilio II che definisce Tecla hesycházousa en orei.54 Il sistema ci appare dunque costruito, oltre che per l’evocazione degli antichi profeti, anche per i rinvii, due almeno espliciti, al testo neotestamentario Hbr XI, 37-38 (perielthon en melotais, en aigeiois dermasin, […] epi eremiais planomenoi kai oresin kai spelaiois kai tais opais tes ges), che dal IV secolo si costituisce auctoritas fondante e giustificativa della scelta monastica cristiana;55 e il riferimento alla hesychía ne costituisce tecnicamente il sigillo. Si potrebbe essere tentati anche di supporre che la tenace trama dei rimandi idiomatici arrivi a includere l’equivalente latino del termine specifico nel testo della Notitia ecclesiarum urbis Romae di VII secolo, spelunca (in australi parte cerne ecclesiam sanctae Teclae supra montem positam, in qua corpus eius quiescit in spelunca in aquilone parte) – non saprei però quanto qui intenzionalmente usato, visto che è caratterizzante singolarmente il testo, ma non esclusivo per il luogo della sola Tecla.56 Dalle trame di rimandi idiomatici alle strutture di culto. Alcune nella stessa Seleucia, patria non nativa ma elettiva di Tecla: è il parthenôn tes un (diverso) connotato “eliano”, cfr. IV Rg 2, 11, di Tecla nel suo periodico visitare la cittadina di Dalisandos, in occasione della annuale panegyris in suo onore, «montata su un carro di fuoco da lei stessa guidato» (Mir., 26, ed. Dagron, p. 356; ma vedi le considerazioni dello stesso Dagron a pp. 51 ss.). 51. Passim, a pp. 416 ss.; ma il Mir., 36, a p. 388, usa due volte il sinonimo antron, per designare una grotta connessa al sito cultuale della santa, dove si opera il miracolo della fonte che viene citato più sotto, infra nel testo e a n. 69. 52. Phot., Homilia XIX, 9, p. 185. 53. XIV, col. 841B. 54. Col. 69D. 55. Cfr. Orselli, Di alcuni modi e tramiti della comunicazione col sacro, p. 943; Ead., Lo spazio dei santi, pp. 885 ss. 56. Codice topografico della città di Roma, pp. 89 s.
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aoidímou kores Theklas cui fa riferimento Gregorio di Nazianzo nel carme autobiografico;57 è la ricchezza di insediamenti monastici, di uomini e di donne, testimoniati pochi anni dopo nell’Itinerario di Egeria, all’interno del muro possente, murus ingens, che deve difendere il sito cultuale dagli attacchi degli Isauri.58 Le indicazioni testuali di V secolo lasciano però scorgere il delinearsi di un’altra dimensione del sito stesso, che appare funzione di altre dimensioni del culto teclano; e sapientemente il Dagron59 rivolgeva l’attenzione alla leophoros che «con valore di legame organico» connetteva Seleucia ad Hagia-Tekla (con l’avvertenza che il rinvio è ad anni che precedono il rinnovamento radicale del sito stesso con la costruzione della imponente nuova chiesa voluta dall’imperatore Zenone). Si entra cioè nell’ordine delle considerazioni che negli anni recenti hanno portato ad insistere sulla capacità poleogenetica di strutture come la porticus che connette il santuario – paradigmaticamente, in primo luogo, quello romano dell’apostolo Pietro – alla città.60 Nel caso di Seleucia e di HagiaTekla, si è già intravvista in Egeria un’altra città, fortificata, un kastron, accanto alla polis tradizionale – alla distanza di 1.500 passi – e in stretto e vitale rapporto con questa. Con una tale endiadi, si introduce la funzione poliade del culto di Tecla: prima sostituitosi, con difficoltà abbastanza evidenti, ai culti tradizionali, in primo luogo di Sarpedone figlio o fratello di Europa, un esempio di evemerismo, e anche identificato con una presenza oracolare rinviante ad Apollo, Apollo Sarpedonio,61 anche però ai culti di Atena, di Afrodite, e di Zeus, in un processo che vede vincitori i martiri incaricati da Dio, nell’ambito della ripartizione tra i santi delle diverse città e campagne;62 poi assunto senz’altro a centro e punto di riferimento della vita dei cittadini di Seleucia e della città stessa. Seleucia è salvata dall’assedio degli agareni da un intervento diretto di Tecla, apparsa sulle mura a lanciare fulmini e grida di guerra contro i nemici;63 consolidata da Tecla, 57. Vv. 548 ss., col. 1067. 58. Itinerarium Egeriae, 22, 2-23, 6, ed. Maraval, pp. 224-230. 59. Dagron, Vie et Miracles de Sainte Thècle, pp. 63 s. 60. Cfr. soprattutto i ripetuti riferimenti al tema nei saggi di Pani Ermini, Santuario e città fra Tarda Antichità e Alto Medioevo, e Dai complessi martiriali alle civitates. Formazione e sviluppo dello “spazio cristiano”, ora in Ead., “Forma” e cultura della città altomedievale, pp. 3-43 e 123-145. 61. Cfr. Dagron, Vie et Miracles, pp. 81 ss.; cfr. Mir. 1, ed. Dagron, pp. 290-292. 62. Mir. 2, 3, 4, pp. 292-296. 63. Mir. 5, p. 298.
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che compie funzione di “sigillo imperiale”, nell’ortodossia trinitaria, formalizzata nell’iscrizione musiva apposta, non a caso, su uno dei muri interni del santuario;64 difesa nel suo buon ordine, che è garantito dalla buona sorte dei funzionari imperiali65 e dalla giustizia dispiegata a difesa dei più deboli;66 protetta nella salute dei singoli67 ma più in quella della collettività, come accade quando i cittadini, colpiti da un contagio agli occhi, conseguono in massa la guarigione grazie all’utilizzazione di un luogo termale dedicato, i bagni del santuario trasformati in dispensario,68 e quando, per il bestiame ammalato, scaturisce miracolosamente, sempre presso il santuario, una fonte di acque guaritrici.69 Sul territorio circostante si estende la vigile protezione della martire: sulla nave cipriota che getta l’ancora nella rada e rischia il naufragio per una bufera improvvisa (ma la maggior parte dell’equipaggio era scesa a terra per partecipare alla panégyris di Tecla);70 sulle piccole città della costa, come Selinunte, minacciate dalle incursioni piratesche, a garantire le quali basta l’erezione, all’imbocco delle vie d’accesso, di un pur modesto santuario in onore della santa – che ne reduplica la presenza e si costituisce a fortezza.71 Per tacere che Tecla sembra chinarsi con sororale sollecitudine a consolare e soccorrere le donne della città, donne che riconquistano il perduto amore del marito, pie analfabete che miracolosamente apprendono a leggere per poter godere di un bel codice dei Vangeli che è stato loro donato, devote che hanno preso la dura risoluzione di staccarsi dagli affetti e dagli agi familiari e, nel loro primo e non facile ritiro notturno nel santuario, sono assistite dalla presenza e dall’abbraccio della santa.72 Perché Tecla è la meghíste martys aei parousa: e per tutti (sani e malati, gente fiduciosa e disperati, viaggiatori per terra e per mare, persone in 64. Mir. 10, pp. 308-310. 65. Mir. 13, 16, pp. 322-324, e 332-334. Sul paesaggio sociale dei miracoli, cfr Dagron, pp. 109-139. 66. Mir. 35, pp. 384-86. 67. Mir. 7, 8, 11, 12, 17, 18, 19, 24, 38, 40, 41, pp. 300-304, 312-322, 334-342, 350352, 390-394, 396-402. 68. Mir. 25, pp. 352-354. 69. Mir. 36, pp. 386-390, cfr. supra n. 51. 70. Mir. 15, pp. 330-332. 71. Mir. 27, pp. 358-360. 72. Mir. 42, 45, 46, pp. 400-402, 406-408.
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pericolo o in condizioni di sicurezza, singoli o in gruppi, famiglie, città, popoli, stranieri e cittadini, residenti ed espatriati, uomini e donne, padroni e servi, persone di età e giovani, ricchi e poveri, funzionari civili e militari, persone in giudizio, in condizione di guerra o di pace),73 è prómachos, polioúchos, méter, didáskalos.74 I primi due epiteti in particolare, il primo con le sue tradizionali connotazioni ateniesi, e il secondo pertinente al patrimonio epitetico ed epicletico delle antiche devozionalità poliadi,75 poi solo raramente assunto in fonti cristiane, e in quelle più culturalmente sofisticate e connesse con le tradizioni dell’evergetismo urbano, come è il caso di Teodoreto di Cirro,76 proiettano la devozione di Seleucia per Tecla sulla scena dei culti santorali cittadini. E, ancora una volta, l’ecumenismo necessario del cristianesimo è ricondotto entro lo spazio di una città e coniugato col peso delle tradizioni di questa e con l’orgoglio di una autocoscienza municipale: qui, lo spazio della città di Seleucia, sacralizzato dalla presenza teclana.77 Con applicazione estensiva di un idioma che da tempo ho proposto essere patrimonio semico non meno che lessicale dell’occidente latino, senza precise corrispondenze concettuali né formulari nell’oriente ellenofono – che non significa negare, in quest’ultimo, la presenza dei culti di santi “delle città”78 –, si potrebbe affermare che la santa Tecla dei testi pseudo-basiliani ci appare costruita come la “patrona” di Seleucia; ed è, ad ogni modo, la “santa di Seleucia”.79 Ma quella Seleucia con la sua dimensione strutturale e cultuale urbica, che pure si è vista non essere estranea all’itinerante occidentale Egeria negli anni Ottanta del IV secolo, non entra nelle altre fonti latine di 73. Cfr. le espressioni citate nel paragrafo introduttivo ai Miracoli, p. 288. 74. Mir. 6, p. 298. 75. Solo alcuni esempi dell’epiteto polioúchos con riferimento ad Atena in Nommer les Dieux, pp. 160 ss.; ma per le città dell’Anatolia del IV secolo, a cominciare dalla grande Antiochia, già Santoro, Epitheta deorum Asia graeca cultorum, p. 239. 76. Theodoretus Cyrrensis, Hist. eccl., II, 30, p. 168: dove è applicato da Teodoreto a Giacomo, il monaco profeta, in rapporto alla sua città episcopale, Nisibi. Sul tema e sull’epiteto cfr. Orselli, Santi e città, pp. 806-808; sulla piena partecipazione di Teodoreto di Cirro alle tradizioni della cultura urbica cfr. ora Orselli, Teodoreto di Cirro. 77. Sul culto cristiano dei santi come elemento decisivo di mediazione tra tensione ecumenica del cristianesimo e tradizione della municipalità saldamente radicata nell’ecumene greco-romana classica e tardoantica, cfr. Orselli, da ultimo, I santi patroni: i martiri come patroni civici nell’Occidente romano. 78. Cfr. i miei lavori sul tema, a partire da L’immaginario religioso. 79. Il rinvio è a Orselli, Coscienza e immagini.
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quel periodo né del tempo successivo. Vi entra la santa, Tecla, con il suo connotato verginale e martiriale radicato non solo nelle tradizioni degli apocrifi, ma anche, verosimilmente, nel contesto colto della diffusione del Simposio metodiano. E la mediazione fondamentale agli orizzonti cultuali e alla mentalità religiosa della pars Occidentis ne appare operata da testi di sant’Ambrogio, e per circoli che si riconobbero nella sua tradizione.80 Un testo di sicura attribuzione ambrosiana come il De virginibus, dove Tecla è posta in relazione con Maria stessa (e vorrei ricordare a questo proposito che l’accostamento si osserva anche nell’iconografia di El-Bagawat): sancta Maria disciplinam vitae informet, Thecla doceat immolari – e la dialettica/successione di martirio e scelta verginale si fa occasione per rinvii anche letterali ai racconti degli apocrifi, alla belva che si accovaccia a terra a leccare i piedi della santa81 –; o il De virginitate: certe Theclam non senectus, sed virtus probavit,82 enfatizzano in occidente il profilo verginale della santa. Così, ugualmente, alcune delle Lettere di Ambrogio stesso: oltre alla sempre citata Epistola 63 (secondo la numerazione dei Maurini) alla Chiesa di Vercelli,83 anche la 37 (secondo i Maurini) a Simpliciano, che esalta la gloria verginale e martiriale di Tecla accanto a quella di Agnese e di Pelagia.84 Ora, Agnese è associata alla vergine e martire Tecla in altre fonti testuali nord-italiane di fine IV – metà di V secolo,85 e Pelagia, già evocata a sua volta nel De virginibus come martire per la difesa della propria verginità,86 riapparirà strettamente connessa a Tecla nel sistema dei culti e delle strutture cultuali del Liber notitiae sanctorum Mediolani.87 As80. Sulla circolazione, assai limitata, delle tradizioni di santa Tecla nella antica letteratura cristiana antica di lingua latina cfr. Rordorf, Sainte Thècle. 81. Ambr., De virginibus, II, 3,19.20, pp. 180 ss. 82. Id., De virginitate, VII, 40, p. 40. 83. Id., Epistola XIV extra collectionem (olim Maurin. 63), 34, pp. 252 ss. 84. Id., Epistola II, VII (olim Maurin. 37), 36, p. 61. 85. Cfr. lo pseudo-ambrosiano De lapsu virginis consecratae, 3, col. 385C; e il Sermo 56 dello Ps.-Massimo di Torino (= Massimo II, ca. 451-465, cfr. CPL 221, p. 82), col. 646C. 86. Ambr., De virginibus, III, 7, 33, pag. 236. 87. Liber notitiae sanctorum Mediolani, col. 315B. Cfr. alla col. 383D i riferimenti del Liber alle reliquie teclane conservate a Milano in altari Salvatoris ecclesiae cathedralis, e alle coll. 384B-385B il compendio della Passio della santa (dagli Atti apocrifi), che si conclude con la citazione di un testo di uso liturgico anch’esso imperniato sulla memoria verginale e martiriale della santa: «festivitatem martiris primae mater ecclesia concelebret et
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sente da un testo liturgico della chiesa di Milano, venerando – seppur postambrosiano –, come l’Antiphonarium vetus,88 il nome di Tecla ritorna però nella storiografia, milanese e non, sino ai giorni nostri, come (pretesa) dedica della ecclesia maior, o ecclesia aestiva, che sarebbe la basilica nova, di diretta fondazione e memoria ambrosiana e destinata ad essere distrutta tra il 1461 e il 1462.89 Ma i più avveduti di quei contributi storiografici non hanno potuto non riflettere sul lungo silenzio delle fonti testuali, quanto alle origini del processo connotativo in primo luogo, perché nessuna fonte tardoantica cita il titolo teclano;90 mentre per attestazioni sufficientemente certe in tale senso occorre attendere il passaggio dall’VIII al IX secolo.91 Una ulteriore certezza del colorito ambrosiano della devozione per santa Tecla – almeno quanto all’Italia transalpina – nella lunga durata, se non con continuità verificabile, mi sembra poter assumere dal “campione” dei monumenti e documenti di Bologna. Mi riferisco all’unicum del sarcofago di uno dei due protomartiri bolognesi, Agricola, datato ai secoli XI-XII e conservato nel complesso stefaniano, cioè del monastero di Santo Stefano, in cui il martire è raffigurato alla destra di sant’Ambrogio che ha personet Tegle mira magnalia. / Cuius dotata capite Mediolani civitas Tegle sit venerabilis tibi semper sollempnitas. / Teglam rogemus supplices […] quae principatu martirii et virginitatis triumpha sublimis, choris circumcincta virgineis agni sequitur immaculati vestigia». 88. Lo rileva Tomea, Tradizione apostolica, pp. 558 e 567. 89. Ambr., Epistola LXXVI (olim Maurin. 20) alla sorella Marcellina, ed. Zelzer, p. 108: «basilica nova hoc est intramurana quae maior est» (la nota in apparato specifica: «hoc est basilica sanctae Theclae». Cfr. in tal senso anche l’Introduzione a pp. XXXIV ss.). 90. Ma Monneret de Villard, L’antica basilica di Santa Tecla in Milano, p. 2, proponeva senz’altro l’identificazione, leggendo la più antica menzione della basilica di Santa Tecla «nella lettera di sant’Ambrogio ai Vercellesi». Cfr. del resto supra n. 89. 91. Con ampia discussione e sostanziale prudenza, pur nel rispetto dell’autorità tradizionale delle fonti, procedeva De Capitani d’Arzago, La “chiesa maggiore” di Milano, pp. 77-84; ugualmente Migliarini, Alle origini del Duomo, pp. 61-64 e 73-79, e ancora Pracchi, La cattedrale antica di Milano, p. 252. Ancora con grande cautela, e al di fuori di un diretto interesse milanese, Dagron, Vie et miracles de sainte Thécle, p. 50, n. 1, e Picard, Le souvenir des évêques, pp. 99-101 e nn. 285 e 297-298. Da ultimo, con solido impianto di attenzione alle fonti archeologiche, e con valutazione prudente di quelle testuali ambrosiane, Lusuardi Siena, Il complesso episcopale di Milano, e Piva, L’ipotetica basilica doppia di Milano, che però assume, a p. 130, l’ipotesi del titolo tradizionale, rinviandolo al V secolo. Cautela aveva a suo tempo mostrato anche Bognetti, Milano longobarda, col limitarsi, a p. 186, a riferirsi «a San Salvatore (poi intitolata a Santa Tecla) che era la già menzionata cattedrale ambrosiana».
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alla sua sinistra santa Tecla, “la santa cara al metropolita milanese con una chiesa a Bologna” (specificherò subito, infra, le chiese essere state in realtà due), «Tecla, santa di schietto riferimento ambrosiano»;92 alla presenza nel più celebre codice agiografico bolognese, ora BUB 1473, scritto in quello stesso monastero di Santo Stefano prima della fine del secolo XII, di una recensione abbastanza ben collocabile nel complesso della articolata tradizione testuale delle versioni latine degli Atti di Tecla;93 alla dedicazione a santa Tecla di due chiese in Bologna, l’una prossima ancora al complesso di Santo Stefano ed esistente ancora nel 1575, quando venne raffigurata al suo luogo proprio nella rappresentazione – pianta di Bologna che si conserva nei Palazzi Vaticani, l’altra demolita nel XIV secolo per far luogo alla nuova grande basilica civica di San Petronio.94 Quest’ultimo sito era carico di valori simbolici che continuarono ad essere focalizzati nella chiesa di nuova fondazione: lì presso era stata la curia sancti Ambroxii, vicino alle case del Comune, memoria della tradizione ambrosiana certo remotamente radicata in Bologna (dai giorni della ricognizione e reposizione operata da Ambrogio, congiuntamente con il vescovo Eusebio o Eustachio, dei santi Vitale e Agricola), anche però ripresa ed enfatizzata nel XII secolo, l’epoca più probabile di fattura del sarcofago di sant’Agricola, l’epoca di formazione del codice BUB 1473, l’epoca di composizione della vita latina di san Petronio che in quello è trascritta, un testo in cui l’autorità di Ambrogio campeggia a legittimare l’operato di Petronio, quasi in un ideale passaggio di testimone urbano e civico.95 Se i lineamenti agiologici teclani, come stilizzati da Ambrogio con precisa afferenza alle narrazioni degli apocrifi, poi nella tradizione di Ambrogio, si sono venuti sempre confermando come proposta della scelta verginale, e dunque, infine, monastica, non sembra fuori luogo assumerne a suggello la chiusa della notizia di Tecla nel Liber epilogorum in gesta sanctorum del domenicano Bartolomeo da Trento (morto dopo la metà del XIII secolo), che, fatta ripercorrere alla protagonista la parabola dei contenuti narrativi degli Atti di Paolo e Tecla, la dice pervenuta alla dimensione 92. Cito dal saggio di Ropa, Il programma agiografico-liturgico, alle pp. 18, e n. 47, 31, e n.115, e 33. Per la datazione del sarcofago cfr. Porta, Due sarcofagi nel tempo. 93. Cfr. il riferimento alla mia trascrizione supra, a nota 7. 94. Cfr. Porta, Edilizia sacra in Bologna, pp. 153 ss. 95. Rinvio per questo grande tema di storia religiosa e culturale bolognese ai miei lavori Spirito cittadino e temi politico-culturali e Il profilo agiologico del codice.
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della vita eterna, a Iconio però, senza menzione di Seleucia, dopo che multarum virginum mater exstitit.96 Il viaggio della memoria di Tecla nel medioevo cristiano non può tuttavia considerarsi così concluso. Perché meno di un secolo dopo la proposta di sistemazione agiografica di Bartolomeo da Trento (che precede di pochi decenni quella della Legenda Aurea, che peraltro ignorerà il nome stesso di Tecla), quella memoria torna ad ancorarsi ad una traslazione reliquiale, che la proietta sino all’estremo Occidente cristiano allora conosciuto: un tesoro di testi armeni in traduzione latina, e di testi latini con quelli connessi, riprende una volta ancora le linee guida delle antiche fonti apocrife, incluso il particolare della scomparsa di Tecla nel cuore della roccia, e anche propone il racconto di una serie di prodigi operati in seguito dalla santa, accompagnando e coonestando la acquisizione da parte della Catalogna di re Giacomo II (1291-1327) di preziose reliquie di Tecla, provenienti dal regno della Piccola Armenia, cioè dalla Cilicia, per la cattedrale di Tarragona.97 Se si conviene di uscire dalle secche di uno sterile dibattito sull’esistenza (e trasferimento) o meno di reliquie “reali” di santa Tecla, resta la lunga durata dell’idioma reliquiale, che nello specifico consolida, al piano politico-commerciale, il legame tra realtà – che potrebbero apparirci remote, ma erano effettivamente collegate dalla diaspora armena – come l’Oriente della Piccola Armenia/ Cilicia e l’Occidente catalano; attribuendo alla santa una patria ulteriore, e facendo di lei la civis sacra anche dell’occidentale Tarragona. 96. Bartolomeo da Trento, Liber epilogorum in gesta sanctorum, p. 295. 97. Il tema fu nitidamente affrontato e discusso negli anni Venti del secolo scorso da García Villada, La traslación del brazo de santa Tecla, e da Marinescu, La Catalogne et l’Arménie au temps de Jacques II (1291-1327); è ora stato ripreso, con attenzione soprattutto all’ecdotica dei testi armeni e delle loro traduzioni latine, da Calzolari, Une traduction latine médiévale de la légende arménienne de Thècle. Le memoria cultuale di santa Tecla appare ben presente già nel Tardoantico (intorno all’età dello pseudo-Basilio) alla storiografia armena, cioè della Grande Armenia. P’awstos Buzand, Storia degli Armeni, IV, 10, pp. 100-102, fa manifestare il presagio della fine dell’imperatore eretico Valente a un «sofista eloquente», in una «cappella della santa signora Tecla». Santa Tecla, ornata e splendente, riceve una folla di santi martiri, che deliberano di affidare l’esecuzione del «malfattore Valente» a due di loro, «l’uno dei due si chiamava Sergio e l’altro Teodoro». I due tornano ad annunciare alla santa accolta di avere svolto il proprio compito – e non è chi non riconosca nel racconto dello storico armeno il calco di quelli di Palladio e di Sozomeno, dell’uccisione di Giuliano l’Apostata affidata dal tribunale celeste a san Mercurio, un santo militare come Sergio e Teodoro: cfr. Orselli, Regalità e profezie nella storiografia cristiana tra V e VII secolo.
Sigle AA SS BHG BHL
BS BUB CChr sl CPL CSEL DACL GCS PCBE PG PL PLRE PO SChr
Acta Sanctorum, ediderunt socii Bollandiani, Antverpiae-Bruxellis 1643-1940 Bibliotheca Hagiographica Graeca, par F. Halkin, I-III, Bruxelles 19573 (Subsidia Hagiographica, 8); Novum auctarium bibliothecae hagiographicae graecae, par F. Halkin, Bruxelles 1984 (Subsidia Hagiographica, 65) Bibliotheca Hagiographica Latina antiquae et mediae aetatis, edd. Socii Bollandiani, I-II, Bruxellis 1898-1899 (rist. anast. ivi 1949) (Subsidia Hagiographica, 6); Bibliotheca Hagiographica Latina antiquae et mediae aetatis. Novum supplementum, ed. H. Fros, Bruxelles 1986 (Subsidia Hagiographica, 70) Bibliotheca Sanctorum, 17 voll., Roma 1961-1999 Biblioteca Universitaria, Bologna Corpus Christianorum, series latina, Turnholti 1954Clavis Patrum Latinorum, ed. E. Dekkers, Steenbruggis 19953 Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, Vindobonae 1866Dictionnaire d’Archéologie Chrétienne et de Liturgie, par F. Cabrol, H. Leclercq, Paris 1924-1953 Griechische christliche Schriftsteller der ersten drei Jahrhunderte, Berlin 1897Prosopographie chrétienne du Bas-Empire, Paris-Roma 1982-2000 Patrologiae Cursus Completus, Series Graeca, ed. J.-P. Migne, 161 voll., Paris 1857-1866 Patrologiae Cursus Completus, Series Latina, ed. J.-P. Migne, 221 voll., Paris 1844-1864 Prosopography of the Later Roman Empire, Cambridge 1971-1992 Patrologia Orientalis, edd. R. Graffin, F.N. Nau, Parisiis 1907Sources Chrétiennes, Paris 1941-
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Giuseppe Cuscito Alle origini del culto di santa Eufemia di Calcedonia. Bilancio bibliografico-critico
Fra tutte le date che attestano il nome di Eufemia nel Martirologio geronimiano, due rivestono particolare importanza: il 16 settembre, che registra il dies natalis della martire confermato dalla notizia dei Fasti consolari chiamati dal Mommsen Fasti Vindobonenses priores,1 e l’11 luglio, a ricordo del prodigioso intervento di santa Eufemia in appoggio alla dottrina duofisita del tomus Leonis proclamata nel concilio di Calcedonia,2 che si celebrò nel martyrion dedicato alla santa tra l’ottobre e il novembre del 451 e di cui Eufemia divenne la patrona. 1. La data esatta del suo martirio è attestata dai Fasti Vindobonenses priores, p. 290: Diocletiano VII et Maximiano V. His cons. ecclesiae demolite sunt et libri dominici combusti sunt et passa est sancta Eufemia XVI kl. Octobris. Come vide bene il Mommsen, questi dati cronologici corrispondono al 303, che fu in effetti il primo della grande persecuzione. 2. L’origine di questa festa è piuttosto oscura; essa tuttavia è conosciuta in Occidente dal Martirologio geronimiano (cfr. Delehaye, Commentarius perpetuus in Martyrologium Hieronymianum, pp. 368, 380) e dal Calendario marmoreo di Napoli del secolo IX (cfr. Mallardo, Il calendario marmoreo di Napoli, pp. 152, 162) e in Oriente è accolta pressoché in tutti i calendari. Il Synaxarium Ecclesiae Constantinopolitanae, coll. 811-813, racconta anche i particolari del “miracolo del tomo” ricordato in questa festa: le due professioni di fede, quella ortodossa del tomus Leonis e quella eutichiana, erano state collocate dentro la tomba sul petto della santa, ma riaperta dopo alcuni giorni l’urna debitamente sigillata, il testo ereticale fu trovato ai piedi della martire, mentre quello ortodosso stretto fra le sue mani; cfr. Schneider, Sankt Euphemie: l’A. a p. 301 avanza l’ipotesi che tale festa sia da collegarsi piuttosto alla traslazione delle reliquie della santa a Costantinopoli o alla dedicazione della basilica costantinopolitana di Santa Eufemia detta «dell’Ippodromo». Per la festa si veda anche Acconcia Longo, Il concilio calcedonese, pp. 307-308. Sulla tradizione del “miracolo del tomo”, tramandato anche da Costantino di Tio tra il 796 e l’806, si vedano le critiche del Baronio riportate da J. Stilting, in AA SS Septembris, V, Venezia 1770, p. 257. Alla festa piuttosto oscura dell’11 luglio si aggiunge quella del 13 aprile, che per Croquison, La mémoire de sainte Euphémie de Chalcédoine, p. 168, è «une fête liturgique mysterieuse».
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Occorre però anticipare che, se il Calcedonese ebbe grande peso per la diffusione del suo culto, questo è più antico, come attestano documenti anteriori al concilio stesso, quando Eufemia godeva già di una grande venerazione sia in Oriente che in Occidente.3 Anche la prima fonte agiografica sul martirio di Eufemia è anteriore al concilio di Calcedonia: si tratta della Descriptio picturae, nel suo genere, una rarità della letteratura cristiana antica, scritta da Asterio vescovo di Amasea, morto intorno al 410.4 Nella sua XI omelia in laudem S. Euphemiae, infatti, l’autore afferma di aver ammirato in uno dei portici presso la basilica di Santa Eufemia a Calcedonia alcune splendide pitture raffiguranti scene del martirio della santa, morta sul rogo con le braccia levate al cielo dopo aver subito coraggiosamente la tortura, piuttosto rara, dell’estrazione dei denti.5 Benché gli agiografi posteriori non abbiano tenuto conto di tale narrazione, F. Halkin6 ritiene l’autorità di Asterio «fort considérable», come aveva già sostenuto il Tillemont:7 questi infatti accreditava la tradizione di Asterio, a differenza degli antichi bollandisti che preferivano riferirsi alla passio, supponendo che Asterio avesse parlato di un’altra Eufemia. Del racconto della passio, non posteriore al V secolo e quindi più recente rispetto alla testimonianza di Asterio, ci sono giunte cinque diverse redazioni,8 tutte sostanzialmente concordi nel far morire Eufemia nell’arena, condannata ad bestias.9 Tale documento precisa i nomi dei nobili genitori, il senatore Filofrone e la madre Teodorisiana,10 del proconsole Prisco 3. Acconcia Longo, Il concilio calcedonese, p. 305. 4. Asterio d’Amasea, Descriptio picturae, pp. 283-284 (Homil. XI, in PG XL, coll. 333-338); De Rossi, Dei veli adorni di immagini cristiane, pp. 61-62; Leclercq, Euphémie; Id., Chalcedoine, con la traduzione francese del passo di Asterio; Halkin, Euphémie de Chalcédoine (edizione critica dell’omelia), pp. 4-8. 5. Lucchesi, Eufemia. 6. Halkin, Euphémie de Chalcédoine, pp. 2-3. 7. Lenain De Tillemont, Mémoires pour servir à l’histoire ecclésiastique des six premiers siècles, pp. 405-412, 746-748. 8. Halkin, Études byzantines et hagiographie, p. 352. La passione antica non può essere posteriore al secolo V, poiché la sua traduzione latina era già stata utilizzata da Ennodio di Pavia († 521), se non addirittura da Eusebio di Milano († 462); cfr. Halkin, Euphémie de Chalcédoine, p. XIV; alle pp. 13-33, l’A. pubblica in edizione critica il testo greco della passio. 9. AA SS Septembris, V, Venezia 1770, pp. 266-274. 10. «Patre nata Philophrone senatore, matre Theodorisiana, muliebre pia […]».
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l’Europeo e del delatore Apeliano,11 dà ad Eufemia altri 49 compagni di prigionia,12 mette in bocca alla santa dei discorsi che sono dei modelli di apologia secondo i canoni del secolo V, conferisce a tutto il racconto un’impronta biblica ispirata all’episodio dei tre fanciulli nella fornace ardente (Dan. 3), fa degli stessi carnefici le prime vittime dei tormenti preparati per la santa e, secondo i caratteri consueti all’agiografia dell’epoca,13 descrive una serie di supplizi particolari da lei superati indenne: il supplizio della ruota che dovrebbe stritolarla, delle fiamme che dovrebbero consumarla, di un pozzo nascosto che dovrebbe ingoiarla, di verghe e seghe che dovrebbero farla a pezzi, infine di fiere che dovrebbero sbranarla fino a quando una belva la morde e la santa spira, mentre voci dal cielo e scotimenti della terra atterriscono i presenti. Osserva l’Halkin che, fra il racconto di Asterio e quello delle passiones, la differenza è tanto grande che «entre le deux récits aucune conciliation n’est pas possibile», sebbene simili trasformazioni non siano affatto rare in agiografia.14 Il racconto di Asterio tuttavia non rimase senza seguito, se, invocato due volte nel concilio di Nicea del 787 a prova dell’antichità del culto reso alle immagini dei santi, fu inserito dal patriarca Niceforo di Costantinopoli nei suoi scritti polemici contro gli iconoclasti. A giudizio dell’Halkin però, le due versioni così diverse del martirio della santa non sembrano aver turbato i pii lettori che festeggiavano sia il martirio di Eufemia il 16 settembre sia il suo prodigioso intervento in appoggio dell’ortodossia calcedonese l’11 luglio.15 La testimonianza di Asterio accreditata dal Tillemont fu però respinta dallo Stilting, autore del Commentarius praevius su santa Eufemia negli Acta Sanctorum,16 e dallo Schneider, autore di uno studio sulla santa nel 11. «Imperante Diocletiano, et proconsule Prisco Europaeo […] Priscus vero proconsul amicum habebat impiissimum, nomine Apelianum, scientia sophistam, qui assiduus erat apud demonem Martem. Hic igitur Apelianus factus est accusator Christianorum […]». 12. «[…] erat autem numero quadraginta et novem, ita ut sancta Euphemia esset quinquagesima […]». 13. Lucchesi, Eufemia, col. 156. 14. Basterebbe ricordare il caso di san Procopio, autentico lettore ed esorcista di Scithopolis in Palestina, presto mutato in un ufficiale pagano battezzato dal Cristo stesso, come si apprende dalla seconda leggenda; cfr. Delehaye, Le leggende agiografiche, pp. 181-210 e spec. p. 195. 15. Halkin, Euphémie de Chalcédoine, pp. XVII-XVIII. 16. AA SS Septembris, V, Venezia 1770, pp. 252-266.
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volume miscellaneo Das Konzil von Chalkedon del 1951.17 Entrambi sono convinti che Asterio non abbia mai visitato Calcedonia, mentre la Descriptio picturae non sarebbe che un esercizio di stile: Asterio infatti sembra ignorare la topografia cristiana di Calcedonia, collocando il martyrion e la tomba della santa in una basilica urbana presso l’agorà e ponendo la sua sepoltura in un portico attiguo alla chiesa, che non possono identificarsi con la basilica cemeteriale e con il sepolcro di santa Eufemia descritti da Evagrio di Antiochia (536-600 ca.) nella sua Historia ecclesiastica; da qui risulta infatti che la basilica era collocata su una ridente collina nei pressi di Calcedonia a non più di due stadi dal Bosforo e che l’urna argentea della santa era accolta nella grande rotonda posta a oriente della basilica.18 Infine lo Stilting invoca l’unanime testimonianza della tradizione, che, da Ennodio di Pavia a Beda, a Floro e ad Adone, conferma il racconto della passio con la versione autentica del martirio. Per trovare una soluzione a tali problemi, lo Stilting aveva supposto che Asterio parlasse di un’altra Eufemia, vissuta ad Alessandria o ad Amiso.Tale ipotesi è però respinta dallo Schrier,19 considerando la celebrità di Eufemia di Calcedonia attestata anche da Eteria, contemporanea di Asterio, nella sua Peregrinatio (23, 7)20 e da Melania Iuniore, che visitò il santuario calcedonese intorno al 436 e nel cuore della notte fu rianimata da un soavissimo profumo emanato come dono di grazia dalle reliquie della santa.21 Le conclusioni dello Stilting hanno rivelato la loro fragilità soprattutto 17. Schneider, Sankt Euphemie, pp. 291-302. 18. Evagrio d’Antiochia, Historia ecclesiastica, coll. 2491-2496. La celebre basilica sepolcrale di Santa Eufemia descritta da Evagrio non esiste più; essa era collocata su una collina nei pressi di Calcedonia e a poche centinaia di passi dal Bosforo; era preceduta a ovest da uno splendido porticato e, attraverso la basilica, si poteva giungere alla grande rotonda con cupola, posta a oriente, dove era collocata l’urna della santa fabbricata in argento; questa presentava una fenestella sul lato sinistro per la raccolta del “liquido sacro” quando si produceva il “miracolo del sangue”. Merita segnalare che da questa descrizione appare evidente la somiglianza del complesso architettonico con quello del Santo Sepolcro. Il santuario esisteva già nel 399, se in esso s’incontrarono Arcadio e il goto Gaina (Socrate, Storia ecclesiastica, VI, 6, coll. 677-678; Sozomeno, Storia ecclesiastica, VIII, 4, coll. 1523-1524) e se Eteria ne parla come di un martyrium nella sua Peregrinatio (23, 7); cfr. nota 20. 19. Schrier, A propos d’une donnée négligée, pp. 332-333, n. 23. 20. Éthérie, Journal de voyage, p. 186: «[…] perveni Calcedona, ubi propter famosissimum martyrium sanctae Eufimiae ab olim michi notum iam, quod ibi est, mansi loco». 21. Simeone Metafraste, Vita Melanae, XXVIII, coll. 783-784; Giardina, Melania la santa.
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dopo lo studio del Delehaye sul genere letterario delle passioni, uscito nel 1921 (Les passions des martyrs et les genres littéraires), da cui appare che la passio di santa Eufemia appartiene al genere delle passioni epiche, cioè a «une oeuvre d’imagination», caratterizzata specialmente «par les dialogues artificiels entre le juge et les martyrs, par la variété des supplices indéfiniment renouvelés et par la fréquence des interventions miraculeuses».22 Ma, se il valore storico della passio veniva così ridotto o annullato, non ci guadagnava tuttavia la testimonianza di Asterio, perché, secondo il parere dello Schrier, «il semblait difficile de réfuter la critique de Stilting».23 Del resto, quando nel 1951 la questione tornò sul tappeto nel centenario del concilio di Calcedonia, anche lo Schneider, pur rifiutando l’attendibilità della passio, non si mostrò meno scettico sulla verità storica dell’ekphrasis di Asterio, con nuovi argomenti alle obiezioni dello Stilting: infatti, se la pittura raffigurava il vero supplizio di Eufemia, non si comprende come mai la passio, a Calcedonia certamente nota, faccia morire la santa nell’arena fra bestie feroci che, per compassione, la uccidono dolcemente, senza alcun accenno all’estrazione dei denti, né alla morte sul rogo. Perciò egli arriva a concludere che, a meno di non ritenere l’ekphrasis di Asterio una pura invenzione, il suo autore doveva aver appreso la storia di Eufemia da tradizioni orali incontrollate e aver conservato un ricordo assai vago di quanto poteva aver veduto a Calcedonia, se mai la visitò.24 Viceversa la Bourdara, chiedendosi quale possa essere il testo di questo “dossier” più prossimo alla verità storica, conclude che l’ekphrasis di Asterio, ispirato alla tradizione orale, presenta degli elementi giuridici preziosi «qui sont plus proches de la réalité», mentre gli agiografi, che nelle loro esagerazioni hanno voluto infarcire il racconto con una varietà di penosissimi e inverosimili tormenti, «ont pensé que lor récit serait plus intéressant».25 Quanto alla passio, lo stesso Halkin,26 che ha prodotto l’editio princeps, ne sottolinea il carattere leggendario senza peraltro pronunciarsi sui problemi sollevati dallo Stilting e dallo Schneider forse perché, come osserva lo Schrier,27 egli non parlava da storico ma da filologo. 22. Halkin, Euphémie de Chalcédoine, p. 12. 23. Schrier, A propos d’une donnée négligée, p. 333. 24. Schneider, Sankt Euphemie, pp. 292-295. 25. Bourdara, Le dossier byzantin de sainte Euphémie, pp. 383-389. 26. Halkin, Euphémie de Chalcédoine, pp. 13-33. 27. Schrier, A propos d’une donnée négligée, p. 334.
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In appoggio al dato tradizionale della verginità di Eufemia e, «almeno velatamente», a quello del supplizio del fuoco, l’unico comune a tutte le tradizioni, il Lucchesi riteneva di poter utilizzare un passo del De laude sanctorum, composto più o meno contemporaneamente all’opuscolo di Asterio dal vescovo Vittricio di Rouen per l’ingresso di reliquie in quella chiesa fra il 395 e il 397; nel paragrafo 6, egli vi leggeva infatti sulla scorta del testo ristampato nella Patrologia Latina del Migne: «hic [invenietis] Eufemiam, quae quondam ustulato animo sub percussore virgo non palluit».28 Ma lo Schrier osserva che la lezione ustulato animo del Sangallensis 102 (secolo X) va corretta in musculato animo attestato dal Sangallensis 98 (secolo IX), da cui deriva; in tal modo Vittricio avrebbe voluto dire che Eufemia sub percussore non palluit in quanto dotata di un animus musculatus ovvero masculatus, cioè di un animo forte.29 Ma, a prescindere dall’epiteto usato da Vittricio per celebrare la fermezza di Eufemia, lo Schrier riteneva necessario porre la sua attenzione sull’espressione da tutti disattesa sub percussore […] non palluit. Così, dopo un’analisi del termine percussor nell’opera di Vittricio, egli pensava di poter concludere, sulla scorta di tale fonte, che la vergine di Calcedonia fosse stata giustiziata con la spada,30 come del resto si legge in un prefazio della liturgia milanese per santa Eufemia databile intorno al secolo VI.31 Alcune coincidenze avevano indotto l’Halkin a ritenere che il prefazio potesse dipendere da una traduzione latina della passio,32 ma lo Schrier ha messo in rilievo la fondamentale differenza tra i due testi, considerato che nel prefazio milanese Eufemia muore di spada e non nell’arena: «Novissime gladi mucrone confossa, carnea relinquens claustra, caelesti choro iungitur laeta». A questa tradizione di Rouen e di Milano sembrano affiancarsi anche due versi che Paolino di Nola dedica alla santa intorno al 403: «et quae Chalcidicis Euphemia martyr in oris / signat virgineo sacratum sanguine litus» («[…] e la martire Eufemia, che sulle spiagge di Calcedonia 28. Vittricio di Rouen, De laude Sanctorum, col. 448B 29. Schrier, A propos d’une donnée négligée, p. 335 e n. 35. 30. Ibidem, p. 336. 31. Il prefazio è riportato da Iacopo da Varazze, Legenda aurea, p. 769, che lo attribuisce ad Ambrogio. Paredi, I prefazi ambrosiani, pp. 269-302, lo riferiva a Eusebio di Milano († 462). Da ultimo si veda Heiming, Das mailändische Präfationale. Per il testo cfr. anche Schrier, A propos d’une donnée négligée, p. 337. 32. Halkin, Euphémie de Chalcédoine, p. 10, n. 4 e p. 51, n. 6.
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segna il lido consacrato dal suo sangue verginale»).33 Poiché il verso signat virgineo sacratum sanguine litus sembra alludere a una morte accompagnata da effusione di sangue, lo Schrier conclude che Paolino doveva aver la stessa idea del suo amico Vittricio sul martirio della santa, in seguito confermato dal prefazio milanese e più tardi da Iacopo da Varazze, mentre la tradizione della passio compilata dopo il 451 sarebbe da considerarsi tout à fait an-historique.34 Da quanto detto fin qui, risultano tre ipotesi sul tipo di pena inflitta alla santa: il rogo per Asterio, la spada per Vittricio e per il prefazio milanese, le bestie nell’arena per la passio. Dopo questa analisi critica delle fonti liturgiche, letterarie, agiografiche e iconografiche a disposizione, nonché della recente storiografia su questa triplice possibilità interpretativa, pare arduo stabilire con certezza la natura del martirio subito da Eufemia: ancora una volta infatti dobbiamo constatare che all’agiografo interessava la glorificazione del santo e delle sue virtù più che la conformità della narrazione ai fatti realmente accaduti. Se è vero che le testimonianze anteriori alla metà del secolo V (Eteria, Asterio, Vittricio, Paolino, Pier Crisologo) documentano la notorietà della santa già prima del concilio di Calcedonia, è altrettanto indubitabile che da questo il suo culto abbia ricevuto un decisivo sviluppo, quando deve essersi diffusa una seconda versione del suo martirio con un testo appartenente al genere delle passiones epiche e quando deve aver preso corpo la tradizione sui miracoli postumi della martire. Così, sullo scorcio del secolo VI, lo storico Evagrio, descrivendo la basilica di Santa Eufemia a proposito del grande concilio, ricorda anche il sangue miracoloso che di tanto in tanto sgorgava dall’urna della martire.35 Lo stesso prodigio è descritto agli inizi del secolo VII, quando l’urna di Eufemia si trovava ancora a Calcedonia, da Teofilatto Simocatta, scrittore ufficiale del regno, per il quale la liquefazione del sangue si sarebbe prodotta ogni 16 settembre, nell’anniversario del martirio.36 Sul cosiddetto “miracolo del tomo” 33. Paolino di Nola, I carmi, carme 27, vv. 430-431, pp. 270-273. 34. Schrier, A propos d’une donnée négligée, pp. 342-343. 35. Evagrio d’Antiochia, Historia ecclesiastica, II, 3, coll. 2491-2496. 36. Theophilactus Simocatta, Historiae, VIII, 14, p. 312, 5-8. Dal passo di Teofilatto, riportato in AA SS Septembris, V, p. 256, risulta che il miracolo del sangue era ritenuto da parte dei monofisiti un’impostura del clero calcedonese, tanto che, per dar loro soddi-
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più su accennato,37 occorre dire che, dopo lo studio di P. Canart, la prima testimonianza ci viene dal codice Vaticano Greco 1876 con un panegirico frammentario in onore di santa Eufemia anteriore di un secolo rispetto alla nota Storia delle reliquie compilata da Costantino vescovo di Tio tra il 796 e l’806,38 quando ormai le reliquie della santa, già traslate a Costantinopoli durante il regno di Costantino IV Pogonato (668-685) per la minaccia delle incursioni arabe,39 erano state disperse a seguito della crisi iconoclasta. Circa il “miracolo del sangue”, apprendiamo da Evagrio che, col sangue liquido estratto dal sepolcro della martire, si riempivano fialette venerate e inviate in tutto il mondo: tale notizia sembra potersi porre in sfazione e ridurre la resistenza al Calcedonese, l’imperatore Maurizio (582-602) ordinò un’indagine quanto meno irriverente sulle reliquie della santa: «Ornamentis igitur argenteis sepulcrum nudat et obsigant id quod incredulitatis audacia postulabat»; cfr. Grégoire, Sainte Euphémie et l’empereur Maurice. 37. Halkin, Le Concile de Chalcédoine, p. 185; Acconcia Longo, Il concilio calcedonese, p. 307. 38. Halkin, Euphémie de Chalcédoine, pp. 93-95 e n. 1: la tradizione di tale miracolo, che era commemorato dalla Chiesa bizantina l’11 luglio e che fa della santa la protettrice del dogma calcedonese, avrebbe avuto origine dal linguaggio immaginoso della lettera indirizzata dal concilio a papa Leone; le audaci metafore sarebbero state prese alla lettera e «le patronage spirituel de la sainte s’est transformé en une intervention matérielle et prodigieuse». Rileva la Acconcia Longo, Il concilio calcedonese, pp. 308-309, che «sia Evagrio, sia Teofilatto Simocatta, ambedue ortodossi, tacciono su una qualsiasi celebrazione liturgica di S. Eufemia collegata al IV Concilio e sul miracolo del tomo». 39. Anche questa notizia, come la prima testimonianza sul “miracolo del tomo”, si ricava da un frammento dell’elogio premetafrastico, ricordato sopra, anteriore di circa un secolo a Costantino di Tio, sulla cui fede la traslazione delle reliquie di Eufemia a Costantinopoli era collegata a un’incursione dei Persiani (cfr. AA SS Septembris, V, Venezia 1770, p. 275); viceversa il panegirico del codice Vaticano Greco 1876 precisa che il trasferimento ebbe luogo sotto Costantino IV e la sua testimonianza, ancora vicina all’avvenimento, deve essere preferita alle indicazioni di Costantino di Tio, già deformate dalla leggenda; cfr. Canart, Le palimpseste Vaticanus, pp. 81-104 e spec. p. 99; da lui dipende Acconcia Longo, Il concilio calcedonese, p. 321. Costantino IV Pogonato collocò le reliquie della santa nella basilica detta «dell’Ippodromo», ricavata da una sala esagonale del palazzo costruito all’inizio del secolo V dall’eunuco Antioco, praepositus sacri cubicoli; secondo Naumann e Belting, Die Euphemia-Kirche, la nuova destinazione d’uso del locale in parola sarebbe da collocare all’inizio del secolo VI in base ai resti di ciborio e di cancelli presbiteriali recuperati. Il Grabar però, in una recensione al volume di Naumann e Belting apparsa in «Cahiers Archéologiques», 17 (1967), pp. 251-254, proponeva di datare tali materiali al secolo VII e di riferire allo stesso secolo l’adattamento dell’edificio profano a nuovo santuario di Santa Eufemia a seguito della traslazione delle sue reliquie da Calcedonia a Costantinopoli, che egli riteneva ancora di dover imputare alle incursioni persiane.
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relazione con gli ingressi di reliquie di Eufemia, singolarmente frequenti in Occidente già prima del concilio. Ne siamo informati infatti per Milano,40 per Aquileia,41 per Nola,42 per Rouen43 e probabilmente per Ravenna, come lasciano supporre l’elogio che san Pier Crisologo († 450) fa della santa nel sermone 97 e la sua raffigurazione nel musaico di Sant’Apollinare Nuovo del secolo VI.44 In quasi tutti questi casi, è un dato rilevante la presenza di reliquie della martire calcedonese assieme a quelle degli apostoli.45 40. Sotto il 9 maggio il Geronimiano riporta un ingresso di reliquie apostoliche (Mediolano de ingressu reliquiarum apostolorum Iohannis, Andreae et Thomae in basilica ad portam Romanam) da mettersi in relazione con la dedicatio della basilica apostolorum, avvenuta, secondo Paredi, S. Ambrogio e la sua età, pp. 352 e 544, nel 386 e, secondo Duval, Aquilée et la Palestine entre 370 et 420, pp. 307-308, uno o due anni prima; da questa serie di reliquie documentate nella tradizione milanese non è da escludere una eventuale connessione con quelle di Eufemia, se consideriamo che nel codice epternacense del Geronimiano si legge Mediolano […] Ephenici, probabile corruzione di Euphemiae; cfr. Delehaye, Commentarius perpetuus, pp. 241-242. Sotto la data del 27 novembre, il Geronimiano documenta un ulteriore ingresso di reliquie a Milano (Mediolani Lucae, Andreae, Iohannis, Severi et Euphemiae), che sarebbero servite alla dedicazione della basilica Virginum (San Simpliciano) nel 398 o nel 399; cfr. Delehaye, Commentarius perpetuus, pp. 623-624 e Mirabella Roberti, Testimonianze archeologiche a Milano nell’epoca di S. Ambrogio, pp. 253-262 e spec. 261. 41. Sotto il 3 settembre, il Geronimiano registra la dedica di una basilica apostolorum e l’ingresso delle relative reliquie, cui sono associate quelle di Eufemia (In Aquileia dedicatio basilicae et ingressio reliquiarum sanctorum Andreae apostoli, Lucae, Iohannis et Eufemiae); cfr. Delehaye, Commentarius perpetuus, pp. 485-486. L’elenco dei santi qui ricordati è più o meno lo stesso di quello del 27 novembre per Milano. 42. Paolino di Nola, carme 27, vv. 430-431, pp. 270-273. 43. Vittricio di Rouen, De laude Sanctorum, coll. 443-458. 44. Pietro Crisologo, Sermo 97, coll. 472-473. Inoltre Massimiano dedicherà nel 550 la grande basilica ravennate di Santo Stefano anche con reliquie di Eufemia; cfr. Agnello, Liber Pontificalis, 27, in Codex Pontificalis Ecclesiae Ravennatis, p. 191. 45. Non sarebbe da escludere la presenza di reliquie di Eufemia anche a Concordia, considerato che il sermone lacunoso di Cromazio In dedicatione ecclesiae Concordiensis (sermo XXVI, in CCL IX A, pp. 119-122) non esclude categoricamente la presenza di Eufemia nel gruppo delle reliquie apostoliche e che, secondo il Delehaye (Loca sanctorum, pp. 11-13), «la presence d’une martyre n’empêchait de qualifier l’ensemble de reliquiae apostolorum»; del resto Cracco Ruggini, Aquileia e Concordia, pp. 81, n. 45) ha avanzato l’ipotesi che il punto originario d’irradiazione di reliquie apostoliche nell’Italia settentrionale fosse proprio Aquileia-Concordia (almeno per Aquileia il Geronimiano più su citato documenta la presenza di reliquie di Eufemia assieme a quelle apostoliche), piuttosto che Milano come supposto da Picard (Le souvenir des évêques, pp. 272-273), «tenuto conto dei più diretti e precoci contatti fra questi due centri altoadriatici e Alessandria, Costantinopoli, la Palestina».
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Il culto di Eufemia a Milano, a Roma, in Gallia e in Africa si fonda dunque sulla tradizione della martire calcedonese.46 Solo più tardi a Ravenna la tradizione posteriore relativa a sant’Apollinare si collegherà alla leggenda aquileiese di Ermacora, di cui ora veniamo a parlare.47 Dallo scorcio del secolo IV, quando furono trasportate in Occidente le reliquie degli apostoli assieme a quelle di Eufemia, il possesso delle reliquie e la data del loro ingresso consolidarono il culto di questa santa popolare in Aquileia, dapprima indubbiamente ritenuta martire calcedonese ma presto dagli agiografi sostituita con una martire locale. Il momento più opportuno, secondo R. Bratož, sarebbe stato quello dello scisma tricapitolino, quando la santa, patrona del concilio di Calcedonia celebrato nel suo martyrium, era divenuta per gli scismatici simbolo di opposizione al cesaropapismo di Giustiniano.48 Io però non vedo perché proprio i tricapitolini di Aquileia, così radicalmente e puntigliosamente legati alla dottrina duofisita di Calcedonia, tanto da dedicare a Eufemia la nuova cattedrale di Grado in cui celebrarono la sinodo scismatica del 3 novembre 579,49 avrebbero dovuto 46. Delehaye, Les origines du culte des martyrs, pp. 299, 325 ss., 338, 356, 389, 401. 47. Bratož, Il cristianesimo aquileiese, pp. 87-89. 48. Ibidem, p. 99. 49. La tutela di santa Eufemia è documentata dal Chronicon Gradense, in Cronache veneziane antichissime, p. 42: «Dehinc Helias, egregius patriarcha, Gradensem regendam suscepit ecclesiam. Ipse in eadem ecclesiam sancte Eufimie iuxta nominis proprietatem fabricare precepit, nam quod grece Eufimia, latine bona forma sonat». In seguito la notizia è trasmessa con maggior chiarezza da Dandolo, Chronica per extensum descripta, pp. 80-81: «[…] Helyas venerabilis episcopus ecclesiam sancte Euphomie […] in Grado construxit et […] concilium celebravit in ecclesia». Una conferma di ciò contemporanea alla dedicazione della basilica potrebbe venire dall’epigrafe mutila che si legge nel tondo musivo quasi al centro del pavimento, se è attendibile il risarcimento di Ferrua, Antichità cristiane: Aquileia e Grado, p. 170: «Servus Ie(s)u Chr(is)ti Haelias ep(iscopu)s Aquil(eiensis) Dei gratia auxilioque fundator eccl(esiae) s(an)c(t)ae Euphemiae votum solvit». Per una diversa lettura cfr. Brusin, Zovatto, Monumenti paleocristiani di Aquileia e di Grado, p. 456 e n. 70. Il Brusin, rec. a Ferrua, Antichità cristiane. Aquileia e Grado, col. 74, non si mostrava alieno dall’accogliere l’integrazione del Ferrua e riteneva assai giustificato il richiamo diretto a santa Eufemia, che invece manca nell’epigrafe metrica solennemente elogiativa di Elia e della sua opera collocata pure in posto d’onore nella navata centrale, ma era del parere che le parole sanctae Euphemiae supplite dal Ferrua potessero rientrare nello spazio disponibile solo con notevoli abbreviazioni poco conformi al resto dell’epigrafe. Questa è oggi pressoché illeggibile, tanto da poterla considerare quasi perduta. Cfr. Cuscito, Una pianta settecentesca del Duomo di Grado, col. 118, n. 11; Cuscito, Cristianesimo antico ad Aquileia e in Istria, p. 315 e n. 6.
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sostituire la patrona del Calcedonese con una supposta martire locale; viceversa a me pare più probabile che, indipendentemente dallo scisma e solo in seguito, almeno dopo il secolo IX, l’ambizione aquileiese abbia fatto delle celebri martiri venerate a Milano e nell’Italia settentrionale, Eufemia, Tecla, Dorotea ed Erasma, quattro martiri locali.50 Probabilmente solo allora il culto della martire “importata” sarebbe stato sostituito con quello di una presunta martire di Aquileia, quando si consideri che tale culto non si diffuse oltre i confini di quel patriarcato né si registra in alcuno dei martirologi storici, mentre il Martirologio romano riassume brevemente la leggenda aquileiese connessa con quella di Ermacora. Essa è tramandata dal Chronicon Patriarcharum Aquileiensium riferito al secolo IX: Ermacora, durante il principato di Nerone, «Aquileiensem ecclesiam sacro martyrio decoravit, praemittens ad palmam nobiles sacratissimas virgines, Eufemiam, Dorotheam, Theclam et Erasmam, quas propriis manibus baptizavit».51 Così Eufemia, Dorotea Tecla ed Erasma, battezzate dallo stesso Ermacora, sarebbero state le prime vergini a morire per Cristo. La loro festa si celebrava nelle diocesi di Udine e di Gorizia il 3 settembre (III Non. Sept.), ma non si può provare dai documenti liturgici che sia più antica del secolo XIII.52 Forse il primo nucleo da cui prese corpo la fioritura leggendaria posteriore è da ricercarsi proprio in quella notizia del Geronimiano, che sotto la data del 3 settembre registra appunto, come abbiamo detto sopra, l’ingresso in Aquileia di reliquie apostoliche, associate a quelle di Eufemia. Il successivo trasporto di reliquie di Eufemia da Aquileia o da Grado a Trieste e forse anche a Rovigno d’Istria ha dato origine a leggende locali, di cui quella triestina si riallaccia in parte a quella di Aquileia53 e quella di Rovigno invece alla leggenda della martire calcedonese.54 Il culto di 50. Cuscito, I martiri aquileiesi, pp. 34-35. A parte Eufemia, Dorotea è la celebre martire di Cesarea di Cappadocia; Tecla è la famosa martire di Nicomedia venerata a Milano dalla metà del secolo V anche per la presenza di un’insigne reliquia; Erasma, come Eufemia e Tecla, è nominata nel canone ambrosiano della Messa; cfr. Biasutti, Il «Proprium sanctorum» aquileiese, pp. 28-29. 51. De Rubeis, Monumenta Ecclesiae Aquileiensis, p. 6. 52. Paschini, La Chiesa aquileiese ed il periodo delle origini, p. 45. 53. Bratož, Il cristianesimo aquileiese, pp. 152-157. 54. Cuscito, Alle origini della Chiesa di Rovigno; Bratož, Il cristianesimo aquileiese, pp. 99-100, n. 190: «Nel caso rovignese si tratta pertanto di un adattamento della nota tra-
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Eufemia e Tecla come martiri triestine non oltrepassò mai l’ambito della Chiesa locale, mentre la data del martirio, riferito al 17 novembre, deve dipendere dal Geronimiano, dove si registra il martirio che una Tecla non meglio identificabile avrebbe subito assieme a Diofido e Matrona nella provincia d’Asia: tale data si riferirebbe dunque a una notizia scritta autentica che l’agiografo ha trasposto dall’Oriente a Trieste. Eufemia e Tecla sono raffigurate anche fra le imagines clipeatae delle dodici sante nell’intradosso dell’arco trionfale dell’Eufrasiana di Parenzo della metà del secolo VI: è probabile che il committente abbia inteso lì celebrare nel musaico le martiri autentiche e non le più note nel gruppo delle martiri aquileiesi, la cui leggenda peraltro, come abbiamo visto, non ha nulla di autentico ed è sorta posteriormente in base alla tradizione che accomunava le due martiri e in base al possesso di reliquie.55 In definitiva possiamo concludere che i documenti letterari fin qui esaminati, da Asterio a Iacopo da Varazze, attestano il largo culto di Eufemia, che ha sollecitato la fantasia di molti agiografi e ha appagato le aspettative della pietà popolare per i fedeli dell’antichità e del medioevo, attenti alla gloria del santo e all’exemplum proposto più che all’attendibilità storica della narrazione del martirio. La sua venerazione, radicata in Oriente e in Occidente prima del 451, trova appoggio, oltre che nelle testimonianze letterarie spesso contraddittorie, nei pellegrinaggi al suo santuario e negli itinerari delle sue reliquie, che hanno viaggiato da Calcedonia o da Costantinopoli attraverso i maggiori centri politici dell’Occidente, spesso associate a quelle di apostoli o di martiri. La questione tricapitolina, esplosa in Occidente intorno alla metà del secolo VI e radicalizzatasi nella provincia ecclesiastica di Aquileia, fece moltiplicare i luoghi di culto dedicati alla martire di Calcedonia, divenuta la patrona di quel concilio.
dizione alle esigenze locali in cui è possibile ricostruire il grado di dipendenza dalle fonti primarie ed il modo dell’elaborazione». Nulla aggiunge alla conoscenza della santa e della sua venerazione il cosiddetto sarcofago di santa Eufemia, opera di bottega aquileiese del secolo III, per cui cfr. Ubaldini, Note sul sarcofago di santa Eufemia a Rovigno. 55. Bratož, Il cristianesimo aquileiese, p. 155.
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Raccontando le vicende del protovescovo Ermagora, il Chronicon Aquileiense – uno dei documenti più importanti per la storia dell’antico patriarcato di Aquileia, anche se non è facile dire a quale periodo risalgano le varie notizie che vi si trovano stratificate, visto che i manoscritti che ce lo riportano sono solo trecenteschi1 – racconta che egli «praemisit ad palmam nobiles sacratissimas virgines Eufemiam, Dorotheam, Theclam et Erasmam, quas propriis manibus baptizavit», e aggiunge: «Hae virgines post Christi passionem primae per martyrii palmam immaculato Agno sua corpora tradiderunt».2 Quando venne redatta questa notizia, quindi, la chiesa di Aquileia rivendicava come proprie delle sante martiri di particolare eccellenza: che erano non solo martiri di tradizione apostolica, attraverso la catena Pietro-Marco-Ermagora, ma addirittura le martiri più antiche (donne, perché di uomini ce n’erano altri, a partire da Stefano) della cristianità: le primae a essere passate per martyrii palmam. È probabile che la notizia del Chronicon non sia particolarmente antica. Come vedremo, di queste quattro vergini le tradizioni aquileiesi primitive tacciono, e la loro fisionomia agiografica e il collegamento con le vicende di Ermagora sono state costruite nel medioevo inoltrato, attraverso la scrittura di una Passio che sarà molto diffusa nell’area. Però sono proprio Eufemia, Dorotea, Tecla ed Erasma a costituire l’espressione più tipica e originale dell’agiografia martiriale femminile ad Aquileia; anche perché, come vedremo, a differenza di molte altre tradizioni simili recuperate o 1. Edito da De Rubeis, Monumenta Ecclesiae Aquileiensis. Cfr. Cuscito, Martiri cristiani ad Aquileia e in Istria, p. 26. 2. De Rubeis, Monumenta Ecclesiae Aquileiensis, appendice, p. 6.
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costruite nel medioevo, che risultano poco caratterizzate da connotazioni locali, quella relativa alle Vergini – come esse venivano per antonomasia chiamate nella zona – appare precisamente collocata nel contesto geografico che la espresse. Si può dubitare che fino a circa l’XI secolo sia esistita una vera e propria agiografia femminile caratteristica di Aquileia. Qualche santa e qualche culto femminile sono bensì segnalati, ma sono di importanza secondaria oppure dipendono da tradizioni importate. Il Martyrologium Hieronymianum, la cui redazione giunta fino a noi è da vari studiosi ritenuta aquileiese per via dell’epistola fittizia di Cromazio di Aquileia e Eliodoro di Altino che vi funge da prologo, è a dispetto di ciò caratterizzato da una presenza soltanto modesta di santi di quest’area, e quei pochi che vi figurano, spesso in una forma che dà adito a dubbi e problemi, sono quasi esclusivamente uomini. Fra le donne, l’unica martire di origine e culto certamente aquileiese è Canzianilla, che rientra con i fratelli Canzio e Canziano in un medesimo gruppo familiare all’interno del quale riveste un ruolo marginale e non ha alcuna particolare caratterizzazione come figura femminile. Molto dubbia è invece l’oscura menzione, che pure si incontra nel Hieronymianum, delle sante Ciria (o Geria, o Ciriaca) e Mosca, una coppia il cui martirio è attribuito ad Aquileia, secondo Hippolyte Delehaye indebitamente.3 Di esse diremo che esistono tracce di un culto tardo, ma manca quasiasi attestazione antica, così come manca una Passio che le riguardi; è possibile che questo culto, per altro sempre assai debole, si sia sviluppato nel basso medioevo proprio in virtù della surrettizia localizzazione geografica che, partendo dal Hieronymianum, si era insinuata in certi manoscritti del martirologio di Usuardo.4 Poco diversa appare la situazione sul versante dei manoscritti agiografici. Quelli di area aquileiese ancora oggi conservati sono parecchi, ma in genere relativamente tardi (a partire dal XII secolo, con delle serie per circulum anni complete a partire dal successivo). Esistono però anche due codici di età sufficientemente alta (Cividale, Museo Archeologico Nazionale, cod. XXII [seconda parte], X secolo;5 Graz, Universitätsbibliothek, 3. AA SS Nov. II, 2, pp. 322-323. 4. Cfr. Biasutti, Il «Proprium sanctorum» aquileiese e udinese e le sue variazioni. 5. Descritto da Scalon, Pani, I codici della Biblioteca Capitolare di Cividale, pp. 139141. Cfr. anche Scalon, Un codice cividalese degli inizi del X secolo, pp. 13-24.
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412, prima metà del IX secolo)6 che permettono di avere un’idea della circolazione dei testi agiografici nella regione nel periodo altomedievale. Il codice di Graz comprende, all’interno di una raccolta più ampia, uno spezzone di 17 passiones di martiri aquileiesi o venerati ad Aquileia, come Ilario e Taziano, Floriano, i Canzi, Giusto di Trieste, Pelagio di Emona, Mauro di Parenzo, Ermagora e Fortunato; nessuna donna, tranne la solita Canzianilla nascosta dentro il suo gruppo familiare, e la romana Felicita, che doveva godere di una certa popolarità nella zona. Anche all’interno del codice Cividale XXII (seconda parte), un più ridotto spezzone di passionario pure assai caratterizzato in senso locale, figurano poche figure femminili: la solita Canzianilla, ancora Felicita, e inoltre Anastasia, la matrona romana che è il filo conduttore di un celebre romanzo agiografico che si muove fra Roma, Aquileia, Tessalonica e Sirmio, che però non è lei stessa aquileiese né per origine, né per martirio (all’interno del romanzo il martire aquileiese è semmai un uomo, Crisogono). Se passiamo a esaminare le serie dei codici agiografici del basso medioevo, che ci interessano in questo momento in quanto recettori delle tradizioni precedenti, l’impressione che la presenza femminile nel santorale aquileiese sia piuttosto scarsa sembra confermarsi. Nei passionari duecenteschi per circulum anni che appartenevano alla canonica di Aquileia7 il numero delle martiri è scarso (sono classificabili come femminili circa il 17% dei testi); la proporzione non cambia nell’altrettanto e più ampio passionario-lezionario trecentesco di Cividale, in 4 volumi.8 Non saprei dire se si tratti di una percentuale particolarmente modesta o si allinei a quella consueta nelle raccolte agiografiche anche di altre zone; quello che mi sembra più significativo è che comunque fra le sante che figurano in questi passionari pochissime sono legate ad Aquileia.9 Troviamo, è vero, alcune martiri del territorio patriarcale in senso lato, come Giustina di Padova e 6. Descritto da Kern, Die Handschriften der Universitätsbibliothek Graz, pp. 241243; Pani, Scriptoria friulani d’epoca carolingia. 7. Oggi facenti parte del Tesoro del Duomo di Gorizia e conservati presso la Biblioteca del Seminario Arcivescovile di quella città. Una descrizione in Chiesa, Note sui passionari di Aquileia. 8. Si tratta dei manoscritti Cividale, Museo Archeologico Nazionale, codd. VII, IX, XI, XIII. Cfr. Scalon, Pani, I codici della Biblioteca Capitolare di Cividale del Friuli, s.v.; Chiesa, Struttura, organizzazione e interdipendenze dei passionari manoscritti di Cividale. 9. Una presenza femminile assai modesta fra i santi tipici dell’area aquileiese e gradese è rilevata anche da Tomea, L’agiografia dell’Italia settentrionale (950-1130), p. 144.
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la coppia Fosca-Maura venerata a Torcello;10 ma il panorama aquileiese tradizionale è sempre il solito, poco consistente e meno ancora specifico: Canzianilla e le sante del romanzo di Anastasia (oltre alla protagonista, il gruppo costituito da Agape, Chionia e Irene, che neppure loro subiscono il martirio ad Aquileia). Non stupisce perciò che l’unico vero passionarium virginum di Aquileia, quello che apre l’attuale codice Cividale XVIII,11 comprenda per lo più sante “internazionali”, cioè l’asiatica Marina, il terzetto romano Fede, Speranza e Carità, Cristina di Bolsena, Tecla di Iconio, Fede di Agen, Giustina di Padova, l’altra Giustina di Nicomedia. La grande novità di quest’epoca – siamo interno alla metà del XIII secolo – è la stabilizzazione della presenza delle sante Eufemia, Dorotea, Tecla ed Erasma, la cui Passio figura tanto nei passionari per circulum anni, tanto nel passionarium virginum, e da questo momento in poi sempre nei codici agiografici che comprendano il mese di settembre. Si direbbe dunque che almeno a questa altezza temporale, se non già qualche decennio prima, le quattro Vergini siano divenute le principali e autentiche rappresentanti femminili del santorale di Aquileia; ruolo che non avevano mai potuto svolgere Canzianilla, solo comprimaria in una storia per il resto tutto maschile, né Anastasia o il terzetto Agape, Chionia e Irene, che secondo il racconto che le riguarda da Aquileia erano bensì passate, ma non vi avevano subito il martirio né trovato mai sepoltura.12 10. Fosca e Maura sono ora studiate da Paolo Tomea, che ringrazio per avermi passato una sua dettagliata scheda in proposito. 11. Scalon, Pani, I codici della Biblioteca Capitolare di Cividale, pp. 129-131. 12. Povera di presenza femminili è conseguentemente anche la recente raccolta degli Atti e passioni dei martiri di area aquileiese curata da Ada Gonzato e Massimiliano Poncina (Atti e passioni dei martiri aquileiesi), che fornisce un punto di riferimento importante per il suo carattere comprensivo, anche se poi non offre novità di rilievo dal punto di vista critico. Nel volume sono riuniti 20 testi martiriali, tutti in senso lato “aquileiesi”: l’orizzonte geografico spazia dall’Anaunia (con i santi Sisinnio, Martirio e Alessandro) e da Padova (con Giustina) fino a Salona (con Anastasio), a Sciscia (con Quirino), a Lorch (con Floriano). Non si trova invece la Passio di Eufemia, Dorotea, Tecla ed Erasma, forse perché essa non è finora mai stata pubblicata: sotto il profilo testuale, infatti, il volume riproduce senza modifiche edizioni precedenti. Di 17 di queste storie i protagonisti sono uomini; in due compaiono in scena delle donne, ma sono le solite, poco caratterizzate, Canzianilla e Anastasia; l’unica santa che abbia una vera e propria Passio a lei riservata è appunto Giustina, che non proveniva dal centro del patriarcato e che progressivamente andò a identificarsi con una Chiesa, quella padovana, ormai ben distinta da quella aquileiese. Nella Chiesa di Trieste, in origine strettamente collegata, da un punto di vista geografico e storico, a quella aquileiese, ma in seguito
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Nulla di più ci rivela l’indagine sui documenti strettamente liturgici, in particolare sui calendari, che per Aquileia non sono conservati se non a partire dal XII secolo.13 Delle sante aquileiesi antiche, nei calendari si trovano citate quasi sempre i nomi di Canzianilla – beninteso all’interno del suo gruppo – e di Anastasia; solo occasionalmente quelli di Agape, Chionia, Irene; ancora più di rado compaiono quelli di Ciria e Mosca, e solo come acquisizioni recenti. Quella che al contrario non manca mai è la menzione delle quattro Vergini, festeggiate in genere alla data “aquileiese” del 19 settembre:14 nel santorale locale, come lo conosciamo a partire dal basso medioevo, esse hanno raggiunto una popolarità pari soltanto a quella dei grandi vescovi e martiri antichi, come Ermagora, Felice e Fortunato, Ilario e Taziano. Popolarità invero tutta aquileiese, perché esse sono pressoché sconosciute al di fuori della stretta linea formata da Cividale, Aquileia, Grado e Venezia; tanto che la loro menzione in documenti liturgici e agiografici è quasi da sola elemento sufficiente per assegnarne la provenienza a questa zona. Chi sono dunque Eufemia, Dorotea, Tecla ed Erasma? Il più antico documento che parla delle quattro Vergini pare essere il cosiddetto Chronicon Gradense, attestato per la prima volta nel codice Vaticano Urbinate 440, dell’XI secolo.15 Secondo il racconto che vi si legge, nel 568 un prete resasi autonoma, vennero elaborate proprie tradizioni agiografiche femminili attraverso la riscrittura – per non dire la falsificazione – di testi di origine forestiera: la storia della Giustina che sarebbe stata martirizzata a Trieste con Zenone ricalca quella di Dorotea e Teofilo di Cesarea, mentre la coppia Eufemia-Tecla, che avrebbe pure subito il martirio a Trieste, non sono che una duplicazione di due delle quattro omonime Vergini aquileiesi. Poiché la Passio dell’Eufemia e della Tecla tergestine è conservata nel passionario dell’Archivio Capitolare di Trieste, databile al XIII o al XIV secolo, la rielaborazione non può essere successiva a questa data. Della Passio di Anastasia esiste ora un’edizione critica: Moretti, La Passio Anastasiae. 13. Una panoramica sull’argomento in Biasutti, Il «proprium sanctorum» aquileiese ed udinese, pp. 28-29. Un elenco delle feste tipiche dell’area aquileiese in Vale, La liturgia nella chiesa patriarcale di Aquileia, che riprende e sviluppa le indicazioni di Paschini, La chiesa aquileiese ed il periodo delle origini, p. 71. Cfr. anche Peressotti, Il breviarium aquileiese nei manoscritti medievali. 14. Cfr. Biasutti, Il «proprium sanctorum» aquileiese, pp. 28-29. Le quattro Vergini sono invece festeggiate il 3 settembre nella tradizione gradese e veneziana, che potrebbe essere per questo particolare più antica. Era quella la data del concilio di Aquileia del 381, di argomento antiariano, e anche, secondo la tradizione, dell’ingresso successivo delle reliquie di Eufemia di Calcedonia, una santa che venne utilizzata in Occidente come bandiera antiariana; la coincidenza delle date gioca a favore dell’ipotesi che la Eufemia aquieleiese non sia altro che una duplicazione o reinterpretazione locale di quella calcedonese. Per tutta la questione rimando all’intervento di Giuseppe Cuscito in questo stesso volume. 15. Origo civitatum Italiae seu Venetiarum, edito da R. Cessi. Questa edizione non
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triestino di nome Geminiano avrebbe trovato ad Aquileia, devastata dai Longobardi, le reliquie di quattro martiri di nome Eufemia, Dorotea, Tecla ed Erasma; portatele a Grado, le avrebbe consegnate al patriarca Paolo; questi avrebbe dato loro solenne sepoltura nella chiesa di Santa Maria,16 mentre il suo successore Elia avrebbe dedicato alla prima delle quattro, Eufemia, la nuova chiesa da lui fatta costruire. Questa tradizione, per la quale è difficile proporre una data di origine, non contiene alcun cenno agli elementi che appariranno poi nella Passio delle Vergini: non si parla delle modalità del martirio, né della sua epoca, né soprattutto di possibili collegamenti con il protovescovo di Aquileia, Ermagora. Secondo i non molti studiosi che si sono occupati della cosa – Pio Paschini e, più di recente, Antonio Niero, Rajko Bratož e Giuseppe Cuscito17 – il culto delle Vergini sarebbe derivato dall’attribuzione a un gruppo di sconosciute martiri locali (la cui traslazione da Aquileia a Grado può essere effettivamente avvenuta, oppure solo inventata per fondare una tradizione di continuità) dei nomi di più famose martiri straniere, a partire da Eufemia di Calcedonia – popolare ad Aquileia, che doveva detenerne una reliquia già alla fine del IV secolo –, per proseguire poi con Dorotea di Cesarea e Tecla di Iconio; resta però oscura l’origine di Erasma, una santa che non ha omonime. L’operazione, secondo Bratož, sarebbe da collocare nel periodo tricapitolino, e la Passio sarebbe stata redatta nella forma che conosciamo nel IX secolo; datazioni comunque piuttosto incerte, e che nel caso della Passio si direbbero un po’ troppo alte, soprattutto se si considera la mancata menzione delle tre sante nella Passio di Ermagora e la totale assenza del testo dalle raccolte agiografiche aquileiesi, pure come si è visto piuttosto dettagliate, fino al XII secolo. sostituisce del tutto, per la parte che ci riguarda, quella precedente di Cronache veneziane antichissime, perché non riproduce la lezione dell’Urbinate, che presenta importanti diversità rispetto alla tradizione successiva. 16. La redazione più recente del Chronicon aggiunge che il patriarca Paolo stabilì la data della festa al 3 settembre. La notizia però manca nella forma del Chronicon conservata nel codice Urbinate (Cronache veneziane antichissime, pp. 41-42); potrebbe anche trattarsi di una glossa successiva, che recuperava la data dalla consuetudine gradese e veneziana, inserita per parificare la menzione delle Vergini a quella di altri santi che nel Chronicon immediatamente precedono. La redazione più recente della storia (Origo civitatum Italiae seu Venetiarum, pp. 74-75) presuppone anche la conoscenza della Passio, perché viene indicata la rispettiva parentela delle due coppie Eufemia-Dorotea e Tecla-Erasma. 17. Cfr. Paschini, La chiesa aquileiese ed il periodo delle origini, pp. 44-48; Niero, I martiri aquileiesi, pp. 172-173; Bratož, Il cristianesimo aquileiese prima di Costantino, pp. 90-102; e il contributo di Giuseppe Cuscito in questo stesso volume.
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A questa data risale infatti il più antico esemplare della Passio, il codice Cividale XXIII; e della prima metà del XII secolo è la prima menzione in un documento liturgico (il famoso Kalendarium Venetum del codice Bologna, Biblioteca Universitaria, 2679).18 Al silenzio precedente fa riscontro, a partire da questo momento, una presenza costante delle quattro Vergini sia nelle raccolte agiografiche, sia nei documenti liturgici per tutto il basso medioevo, scemata poi progressivamente in età moderna. Sorte fortunata ebbero le reliquie, che vennero trasferite a Venezia intorno al 1380 e trovarono sepoltura alla Giudecca, in una chiesa che era probabilmente già in precedenza intitolata alle Vergini19 e che lo è ancora oggi;20 come molti altri santi minori venerati a Venezia, esse sono effigiate nei pennacchi della Basilica di San Marco.21 Nell’area aquileiese e veneziana la Passio delle Vergini [BHL 27062707b]22 ebbe una circolazione non trascurabile. Essa è nota, a mia conoscenza, dai seguenti manoscritti: –
Belluno, Seminario Vescovile, Biblioteca Lolliniana, 5, ff. 22v27v, secolo XIV;23
18. Pubblicato da Borgia, Kalendarium Venetum saeculi XI, e da Cappelletti, Storia della Chiesa di Venezia. La datazione tradizionale all’XI secolo è però troppo alta; cfr. Chiesa, Recuperi agiografici veneziani, pp. 259-262. 19. È possibile che la chiesa esistesse già dal 952, ma è probabile che in un primo momento fosse dedicata alla sola Eufemia (di Calcedonia): cfr. Tramontin, Niero, Musolino, Candiani, Culto dei santi a Venezia, p. 123. Documenti agiografici e liturgici relativi alle sante sono comunque attestati a Venezia già ben prima del XIV secolo. Delle reliquie si trovavano già, a quanto sembra, fin dal 1200 circa, nella chiesa di Sant’Andrea alla Certosa (Corner, Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia e Torcello, pp. 61 e 63). 20. Corner, Ecclesiae Venetae, parte XII, pp. 442-445. Varie informazioni sulla chiesa (da usarsi però con molta cautela) in Basaldella, Santa Eufemia. Sul culto delle sante nella liturgia veneziana cfr. Cattin, Musica e liturgia a San Marco, III, p. 148. 21. Ibidem, p. 145. 22. La Bibliotheca Hagiographica Latina non registra alcuna edizione completa del testo: essa individua con il numero 2706 la forma pubblicata parzialmente da Kandler, Codice diplomatico istriano, n° 2, probabilmente sulla base di uno dei due breviari triestini; con il numero BHL 2707 la riduzione, inedita, di Pietro Calò (cfr. oltre, nota 46); e con il numero 2707b l’epitome, pure inedita, conservata nel codice Vallicelliano H.8.1, parte dell’imponente miscellanea di testi agiografici raccolta nella seconda metà del Cinquecento dall’oratoriano Antonio Galloni. 23. Cfr. Pellegrini, Per la biblioteca Lolliniana di Belluno, pp. 414-415. Ringrazio Paolo Pellegrini per l’assistenza fornitami per l’esame del codice.
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Berlino, Staatsbibliothek, theol. lat. qu. 256, ff. 43r-54v, secolo XIII;24 Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale, cod. X, ff. 239r-242v, secolo XV;25 Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale, cod. XIII, ff. 186v-192r, secolo XIV;26 Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale, cod. XVIII, ff. 31r-42r, secolo XIII;27 Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale, cod. XXIII, ff. 69r-76v, secolo XII;28 Gorizia, Seminario Vescovile, Tesoro del Duomo, cod. 8, ff. 1r10v, secolo XIV;29 Heiligenkreuz, Stiftsbibliothek, 13, ff. 236r-237v, secolo XII;30 Lilienfeld, Stiftsbibliothek, 60, ff. 243r-244v, secolo XIII; Londra, British Library, Add. 22767, ff. 53r-64v, secolo XV;31 Melk, Stiftsbibliothek, 677, ff. 90r-93v, secolo XV; Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, Gerli ms. 26, ff. 107v112r, secolo XV;32 Roma, Biblioteca Vallicelliana, H.8.1, ff. 315r-316r, secolo XVI (parz.);33 Udine, Biblioteca Arcivescovile, Arciv. 56, ff. 1r-1v, secolo XV (parz.);34 Udine, Biblioteca Arcivescovile, 61, ff. 221v-230r, secolo XV (parz.);35
24. Achten, Die theologischen lateinischen Handschriften, pp. 186-188. 25. Scalon, Pani, I codici della Biblioteca Capitolare di Cividale, pp. 99-105. 26. Ibidem, pp. 115-119. 27. Ibidem, pp. 129-131. 28. Ibidem, pp. 141-143. 29. Chiesa, Note sui passionari di Aquileia, pp. 306-308. 30. I codici di Heiligenkreuz, Lilienfeld e Melk sono altrettanti esemplari del cosiddetto Magnum legendarium Austriacum; cfr. Poncelet, De magno legendario Austriaco, p. 81. Altri codici agiografici austriaci sono ancora in parte da esplorare; è possibile che indagini a tappeto possano portare all’individuazione di altre copie della Passio in quest’area. 31. Catalogue of Additions to the Manuscripts in the British Museum, p. 729. 32. Chiesa, Recuperi agiografici veneziani, p. 229. 33. Catalogus codicum hagiographicorum Latinorum, pp. 418-423. 34. Scalon, La biblioteca arcivescovile di Udine, p. 124. 35. Ibidem, pp. 126-128.
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Venezia, Biblioteca Marciana, lat. IX.27 (2797), ff. 202r-206v, secolo XIII;36 Venezia, Bibiloteca Marciana, lat. XIV.51 (4271), ff. 143r-150v, secolo XVII;37 Zwettl, Stiftsbibliothek, 40, ff. 93v-97r, secolo XII.38
A questi manoscritti si possono aggiungere gli uffici compresi nei breviari, che del testo offrono una forma sintetica: – – – – –
Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale, cod. LXXIV, ff. 479r-480r, secolo XV;39 Trieste, Archivio Capitolare, breviario, ff. 433r-433v, secolo XV;40 Trieste, Biblioteca Comunale, Archivio Diplomatico, R.P. MS 1.22, ff. 393r-v, secolo XV;41 Udine, Archivio Capitolare, 5, ff. 282r-v, secolo XV;42 Udine, Biblioteca Arcivescovile, 10, ff. 498r-499v, secolo XV.43
La Passio figura, come abbiamo detto, in tutti i passionari per circulum anni aquileiesi e cividalesi dal XII sec. in poi che comprendano il mese di settembre; in quello trecentesco appartenuto al Capitolo di Aquileia (ora a Gorizia), il testo appare in posizione di particolare eccellenza, sia perché apre il volume, pur non cadendo in una data liturgica rilevante (il 19 settembre), sia perché conseguentemente esso è corredato – caso rarissimo in questo passionario – da un’iniziale miniata.44 Dall’area aqui36. Cfr. Cattin, Musica e liturgia a San Marco, I, pp. 51-52, 221-226; II, pp. 315-332. 37. Cfr. Valentinelli, Bibliotheca manuscripta S. Marci Venetiarum, pp. 122-124. 38. Cfr. Ziegler, Zisterzienserstift Zwettl, pp. 84-86. 39. Scalon, Pani, I codici della Biblioteca Capitolare di Cividale, pp. 255-258. 40. Manca una descrizione dettagliata del codice. Esso è citato come Breviario Tergestino Aquileiese, in Pergamene, codici e carte dell’Archivio Capitolare di San Giusto, p. 53 e fig. 3; cfr. anche Di Brazzano, Passio sancti Iusti martyris, p. 61. 41. Pure di questo codice, anch’esso un breviario, manca una descrizione dettagliata. Cfr. Di Brazzano, Passio sancti Iusti martyris, pp. 59-60. La ricerca sui breviari è stata svolta soltanto in misura sommaria; è probabile che altri libri di questo genere della regione aquileiese abbiano conservato forme parziali della Passio. 42. Peressotti, Il breviarium aquileiese nei manoscritti medievali, pp. 135-136. 43. Scalon, La biblioteca arcivescovile di Udine, pp. 82-83. 44. La copia che si trova nel codice Marciano lat. XIV.51 è un apografo del manoscrit-
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leiese il testo passò oltralpe, come mostra la sua conservazione all’interno del Magnum legendarium Austriacum – anche per altri aspetti recettore importante di materiale aquileiese –; veicolo del passaggio sarà stato un manoscritto simile al codice Zwettl 40, che contiene in successione numerosi testi agiografici di interesse aquileiese, fra cui la nostra Passio.45 Ancora alla tipologia dei codici liturgici può essere ricondotto il maestoso esemplare che si incontra nel Leggendario di San Marco (codice Marciano lat. IX.27), scritto nell’altro centro principale del culto, cioè a Venezia;46 oltre alle forme compendiate che si ritrovano nei breviari. Fin qui è quello che ci potevamo aspettare. Ma la Passio delle Vergini non ha una circolazione limitata all’ambito dei manoscritti liturgici per circulum anni. La ritroviamo anche nella singolare raccolta agiografica veneziana del codice Braidense Gerli ms. 26, esemplata secondo criteri che sembrano piuttosto documentari ed enciclopedici; nel codice Lolliniano, che riunisce quattro testi agiografici soltanto, tre dei quali di interesse bellunese (la Passio di Vittore e Corona, venerati a Feltre; quella di Joatà o Zota, venerato a Belluno; quello di Martino, patrono principale della città), mentre il quarto è la Passio delle Vergini;47 in un altro leggendario atipico di area veneta o friulana, attualmente a Berlino, che comprende una quindicina fra testi agiografici e apocrifi neotestamentari;48 e infine nel codice di Londra, un piccolo manoscritto quattrocentesco di argomento teologico, to di Gorizia, come si dichiara esplicitamente: «cavata da un libro grande esistente nell’Archivio di Aquileia di carta pecora coperto di corame negro, in cui sono legende di diversi santi manuscritte di lettera antica». Per l’interesse agiografico del manoscritto Marciano, cfr. Chiesa, Il tomo perduto del Passionario di Aquileia. 45. Sull’interesse di questo manoscritto cfr. Chiesa, Struttura, organizzazione e interdipendenze, pp. 117-118. 46. In area veneziana fu elaborato anche il rifacimento della Passio eseguito nel Trecento dal domenicano chioggiotto Pietro Calò. Il testo si conserva nei manoscritti Marciano lat. IX.19, ff. 105v-107v, e Vaticano Barb. lat. 714, ff. 182r-185r, entrambi del XIV sec.; cfr. Poncelet, Le légendier de Pierre Calo, a p. 90, n. 625. 47. Non sono riuscito a trovare tracce di un loro culto a Belluno. Una possibilità è che il testo si trovi nel manoscritto perché copiato di seguito alla Passio di Zota o Joatà (BHL 9027), un’agiografia rarissima che si ritrova soltanto nel Magnum legendarium Austriacum e nei passionari di Aquileia (oltre che in una copia erudita più recente: Milano, Biblioteca Ambrosiana, L.22.Suss.), e che insieme i due testi siano passati nella città cadorina. 48. Il codice berlinese ha una certa affinità di contenuto agiografico con il Cividale XXIII.
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nel quale la nostra Passio è l’unico testo agiografico. In tutti questi casi – quelli cioè dove la Passio non si trova all’interno di passionari liturgici – la sua presenza è interessante perché mette in luce una intenzionalità di copiatura che per l’area aquileiese è, a mia conoscenza, del tutto eccezionale, e non ha paralleli neppure per testi agiografici più antichi e illustri, prima fra tutte la Passio di Ermagora. Molto conosciuta fra Aquileia e Venezia – ma come si è detto fra Aquileia e Venezia soltanto – fra il XII e il XVI secolo, la Passio delle martiri aquileiesi fu in seguito screditata e finì per essere dimenticata. I Bollandisti che prepararono il volume degli Acta sanctorum relativo al 3 settembre rinunciarono a pubblicare il testo, considerandolo «fidei non satis probatae et exiguae vel nullius potius auctoritatis»,49 e si limitarono a riferire alcune lezioni di un officio riservato alle Vergini.50 In seguito, passato ormai in secondo piano il culto, la Passio non venne stampata neppure come pubblicazione devozionale; a un’edizione critica del testo sta ora attendendo Emanuela Colombi.51 La ragione per cui la Passio di Eufemia, Dorotea, Tecla ed Erasma non ha interessato particolarmente gli studiosi è che essa, per quanto sia piuttosto ampia e articolata sul piano narrativo, non è per nulla originale. La storia infatti altro non è che una riscrittura di un’altra agiografia, la Passio di Barbara,52 che riproduce in gran parte testualmente, con gli adattamenti necessari per essere utilizzata in un contesto diverso. Il poter identificare con sicurezza il modello, se rende l’opera inutilizzabile come fonte storica, costituisce una risorsa non indifferente sul piano letterario e agiografico, perché permette di comprendere meglio l’operazione dell’autore, di percepire gli interessi suoi e del suo pubblico; e in questo senso la Passio delle Vergini costituisce un caso pressoché esemplare. 49. I Bollandisti, per altro, disponevano di una copia completa del testo (un apografo dell’esemplare di Melk del Legendarium Austriacum), e la rinuncia rappresenta perciò una precisa scelta di valore. 50. AA SS Sept. I, pp. 603-608. La notizia si deve a Jean Pien e fu pubblicata nel 1746. 51. Cfr. Colombi, Vite inedite di santi aquileiesi, pp. 103-118; Ead., Scrittura e riscrittura nelle passiones dei santi aquileiesi (ringrazio l’autrice per avermi mostrato il dattiloscritto dell’articolo). 52. Tale testo non figura nei manoscritti agiografici aquileiesi più antichi, ma si ritrova nel XIII sec. nel passionario della canonica di Aquileia (codice Cividale XVI). Il fatto che non si trattasse di un testo popolare nella regione era una condizione necessaria perché si potesse effettuare la riscrittura.
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La storia è ambientata all’epoca di Nerone, mentre ad Aquileia governa un praeses di nome Sevasto. Qui vivono le sorelle Eufemia e Dorotea, figlie di un pagano di nome Valenzio; esse hanno due cugine, Tecla ed Erasma, figlie del fratello di Valenzio, di nome Valenziano, che è invece cristiano. Le quattro cugine si incontrano spesso, e vengono iniziate al cristianesimo prima da Valenziano, poi dallo stesso vescovo Ermagora. Eufemia e Dorotea sono bellissime, e alla loro mano aspirano vari gentiluomini della città, ma il padre Valenzio considera un matrimonio prematuro; fa costruire dunque per loro una torre sul fianco del suo palazzo, lambito dalla Natissa, il fiume di Aquileia, dove rinchiuderle e tenerle lontane dagli uomini. Il progetto della costruzione prevede l’apertura di due finestre; ma una volta che il padre si è recato per qualche faccenda a Trieste, le due ragazze convincono gli operai ad aprirne una terza – in onore della Trinità o per poter meglio pregare –, e prima del suo ritorno ricevono il battesimo da Ermagora insieme alle cugine. Al ritorno di Valenzio, Eufemia e Dorotea riescono a tacere i motivi dell’apertura della terza finestra; ma quando il padre finalmente si decide a programmare il loro matrimonio, esse rivelano di non potersi sposare essendosi votate a Dio col battesimo, e davanti all’ira del genitore si rifugiano presso lo zio. Tradite da un servo – che cadrà per questo in preda al demonio e finirà annegato nella Natissa – esse vengono riprese da Valenzio, insieme alle cugine, condotte dal praeses Sevasto e da lui imprigionate, mentre Ermagora, rimasto libero, rincuora il resto della comunità. Segue il processo, durante il quale le vergini fanno professione di fede e subiscono impavide varie torture dalle quali escono vittoriose; vengono fra l’altro tagliati loro i seni, che si conservano intatti e vengono poi ritrovati da Ermagora; vengono spogliate e trascinate per la città, ma un angelo le difende dall’oltraggio coprendone la nudità con un velo. Vengono infine condannate alla decapitazione. La condanna è eseguita dallo stesso padre e zio Valenzio, nella torre che egli aveva fatto costruire per le figlie, dalla quale poi i corpi sono gettati nel fiume. Seguono i consueti segnali divini di celebrazione delle martiri: Valenzio e i suoi accoliti vengono inceneriti da un fulmine, si verifica un forte terremoto, il tempio di Giove è avvolto dalle tenebre. Valenziano, lo zio buono, si reca da Ermagora a raccontare l’accaduto; i due recuperano dalla Natissa i corpi, completi delle teste, che sono consegnati loro da due angeli su una barca. Le reliquie vengono riposte nella casa di Valenziano, trasformata in una chiesa intitolata alla Vergine Maria e alle quattro martiri. Lì Ermagora
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stabilisce la sede dell’episcopato; Valenziano dona tutti i suoi beni ai poveri; ricevono il battesimo tremila fedeli, che corrispondono, si dice, ai tre quarti della popolazione cittadina. Il modello di questo racconto è, come si è detto, la Passio di Barbara, nella forma identificata come BHL 915, che spesso è ripresa letteralmente.53 Ma rispetto alla sua fonte la Passio delle Vergini aquileiesi presenta varie modifiche, e soprattutto degli ampliamenti, di notevole interesse. Diversa è anzitutto la contestualizzazione generale: la Passio di Barbara è ambientata a Nicomedia all’epoca di Massimiano o Massimino, forse Galerio, sotto un persecutore di nome Marciano, mentre quella delle quattro Vergini si svolge ad Aquileia all’epoca di Nerone sotto un persecutore di nome Sevasto. La dislocazione temporale serve a creare un collegamento con quella che almeno dal IX secolo è la tradizione più illustre della Chiesa aquileiese, quella del protovescovo Ermagora, che secondo la sua Passio fu martirizzato appunto da Sevasto al tempo di Nerone; e non mi sembra privo di interesse il fatto che nel momento in cui doveva scegliere fra una cronologia “neroniana” di interesse locale e una “dioclezianea” proposta dal modello – una cronologia, quest’ultima, che restava pur sempre quella più nobile nella tradizione martiriale – l’agiografo abbia optato per la prima. La presenza di Ermagora è ricorrente, ma palesemente posticcia. Egli costituisce una sorta di deus ex machina che vigila sul percorso spirituale delle sante e interviene in alcuni momenti importanti: le battezza; viene informato da Valenziano delle loro vicende; rincuora i fedeli quando esse vengono uccise; insieme a Valenziano ne riceve le spoglie e le depone in un luogo consacrato. Ma il suo comportamento è narrativamente incongruo: nel momento topico del martirio egli è assente; pur convertendo centinaia di anime non viene arrestato; contro di lui né il feroce Valenzio né il persecutore Sevasto pronunciano mai una parola né conducono azioni. Del resto l’agiografo non poteva contraddire la tradizione ermagoriana ormai consolidata, quella raccontata dai suoi Acta, dove della vicenda delle Vergini non vi era il minimo cenno. Ermagora non è l’unico personaggio aggiunto nella storia di Eufemia, Dorotea, Tecla ed Erasma rispetto a quella di Barbara. A prescindere dal fatto che le protagoniste qui sono quattro in luogo di una – il che porta con 53. Pubblicata da Paschini, S. Barbara. Note agiografiche; le citazioni che seguiranno sono tratte da questa edizione.
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sé una dilatazione delle parti dialogiche, perché a ciascuna delle battute di Barbara nella Passio modello tendono a corrisponderne quattro nella Passio derivata – è nuovo anche il personaggio di Valenziano, padre di due e zio delle altre due martiri. Egli è in realtà uno sviluppo dell’unico altro cristiano di cui si parla nella Passio di Barbara, un uomo di nome Valentinianus che alla fine della storia raccoglie le spoglie della santa e dà loro sepoltura; una figura strutturalmente necessaria, dunque, perché attraverso di lui si rendeva possibile la conservazione della memoria e la fondazione del culto. Il narratore della Passio delle Vergini ha dato al personaggio uno spessore ben diverso, immaginando che egli fosse il padre di due delle quattro. Questo può rispondere forse al desiderio di rendere più verosimile la vicenda (altrimenti tutte e quattro sarebbero dovuto essere sorelle, e il delitto del padre sarebbe apparso ancor più incredibile di quanto già non fosse); ma è anche un elemento importante di quella che potremmo chiamare la ricontestualizzazione ecclesiastica della storia. Nella Passio di Barbara la vergine di Nicomedia appare l’unica cristiana in scena (a parte la fugace e obbligata presenza di chi ne raccoglie le spoglie): non ha alle spalle una comunità, non fa riferimento a un vescovo, nulla si dice di suoi amici e maestri. Le quattro Vergini di Aquileia vivono invece, come si è visto, all’interno di una comunità cristiana già ben strutturata, dove esiste un vescovo come Ermagora e dei seniores come Valenziano; anacronistico, certo, rispetto all’epoca di Nerone, ma ben più familiare e tranquillizzante per l’agiografo medievale e il suo pubblico. Dato il contesto, nel racconto originario Barbara non poteva che battezzarsi da sé: ella entrava nel balneum vuoto e chiedeva a Dio di riempire il fonte di acqua viva per potere purgare il suo corpo dalla fraus diaboli; il fonte si riempiva miracolosamente, e questo era il segno dell’intervento divino di purificazione battesimale. Era una procedura, l’autobattesimo, che nel medioevo difficilmente poteva essere proposta a modello, e alla quale si poteva facilmente ovviare nella Passio delle Vergini trasformandola in un rituale canonico, dato che qui il vescovo esisteva ed era presente; ed è appunto Ermagora ad amministrare il battesimo a Eufemia e alle sue compagne. Interesse più spiccatamente letterario e meno specificamente agiografico hanno altre modifiche che rispondono a un mutato gusto narrativo. Fra esse citerò solo il caso del taglio dei seni, una tortura cui anche Barbara viene sottoposta, ma che nella sua Passio è semplicemente nominata senza ulteriori particolari. Lo stesso supplizio è inflitto alle quattro Vergini, ma
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stavolta l’agiografo aquileiese aggiunge qualche particolare che pare a noi oggi grottesco, ma che ha vari paralleli in tanta letteratura agiografica femminile “epica”: i seni tagliati vengono gettati ai cani,54 e la notte il buon Valenziano li ritrova iacentes in terra e splendenti sicut rosae, li raccoglie e li consegna a Ermagora. Ma quello che sembra a me più caratteristico del rifacimento è la contestualizzazione cittadina e specificamente aquileiese della storia delle quattro Vergini, in luogo della contestualizzazione generica e in un caso perfino “rurale” del modello. Nella Passio di Barbara la santa, minacciata dal padre dopo che gli ha rivelato di essere cristiana, fugge in latere [latebras?] montis; il padre la insegue, e chiede a due pastori se l’hanno vista; uno dei due la tradisce, e per questo è maledetto dalla santa e miracolosamente punito (finisce pietrificato insieme a tutto il suo gregge). Nella storia derivata, le Vergini – in questo caso solo due, Eufemia e Dorotea – nella loro fuga non lasciano la città, ma si rifugiano nella casa amica dello zio cristiano; a tradirle non è un pastore, ma un servo; identica è la maledizione, lanciata dalla sola Eufemia, ma diversa è la punizione (il servo si getta nel fiume e annega). Al termine del racconto, Barbara viene trascinata dal malvagio padre Dioscoro sul monte vicino alla città e qui uccisa; mentre nella storia delle quattro Vergini il padre e zio Valenzio le trascina in un altro luogo elevato, cioè nella torre che egli aveva fatto costruire per loro, e qui le uccide. Vicino ad Aquileia, certo, era difficile trovare dei monti dove le fanciulle potessero rifugiarsi o essere uccise, e la trasformazione del particolare geografico era in qualche modo inevitabile; ma i riferimenti alla topografia di Aquileia non sono banali, e ritornano anche dove un adattamento non era necessario. Il fiume nel quale abbiamo appena visto gettarsi il servo maledetto è la Natissa, espressamente nominata, che attraversa la città e ne cinge le mura. La torre costruita da Valenzio per le sue due figlie è descritta come un edificio sull’acqua («erat autem Natissa fluvius fluens per mediam turrim per arcus»); pure affacciata sul fiume è la casa di Valenziano; è nell’acqua del fiume che le Vergini ricevono il battesimo (mentre Barbara veniva battezzata in un balneum); dopo essere state uccise di spada le quattro vengono gettate nel fiume, ed è ancora il fiume a restituirle su una barca miracolosa. La presenza del fiume, un fiume di 54. La redazione longior della Passio (per la quale vedi oltre, nota 57 e testo corrispondente) aggiunge il particolare che da essa i cani si allontanano impauriti.
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vita e un fiume di morte, nel paesaggio urbano aquileiese è costante, tanto da togliere al racconto quella genericità topografica che si incontra in quasi tutte le passiones dei martiri – compresa quella di Ermagora e le altre dell’antichità patriarcale – ed è un documento interessante della percezione che gli Aquileiesi del medioevo centrale dovevano avere della propria città (o almeno, dell’idea mentale di come fosse stata la propria città nei tempi antichi) come di una città d’acqua. Ma anche altri luoghi vengono precisamente nominati: della casa di Valenziano, sulla quale viene infine costruita la chiesa «ad honorem sanctae et perpetuae virginis Mariae», che fungerà da sepoltura per le sante e da sede dell’episcopato, si dice essere vicino a una «porta Valenciani», in un luogo chiamato «ripa Clementis»;55 e una simile indicazione potrebbe nascondere un intendimento eziologico circa la primitiva fondazione di quella che nel medioevo era la grande Basilica aquileiese.56 Attraverso le sue ricerche, Emanuela Colombi ha potuto rilevare che della Passio esistono due redazioni stilisticamente piuttosto diverse, una delle quali presenta alcune informazioni in più rispetto all’altra; la redazione longior sembra quella derivata, e la redazione brevior quella originaria, anche se non tutte quelle che dovrebbero essere “aggiunte” sono altrettanto facili da giustificare.57 Da un punto di vista della circolazione, la forma bre55. Non ho trovato riscontro a questi nomi in Vale, Contributo per la topografia d’Aquileia, coll. 1-34. 56. A proposito della localizzazione della sede episcopale, si può osservare che la prima volta che nel testo compare in scena Ermagora, nella posizione defilata che abbiamo detto, i manoscritti che riportano quella che dovrebbe essere la versione più recente dell’opera (cfr. la nota seguente e il testo corrispondente) precisano che egli «morabatur in loco ubi sanctus Marcus evangelista sedem statuerat infra civitatem Aquilegiam, et vocabatur locus ille pabulum vitae». Nulla di tutto questo si legge in quella che dovrebbe essere la versione più antica della Passio; ma alla fine, nell’una e nell’altra forma, si dice che Ermagora «sedem beati Marci evangelistae statuit et suam» nella chiesa che aveva dedicato alla Vergine e alle quattro martiri nella casa di Valenziano, «et ceperunt viri christiani vocare ipsam domum matrem ecclesiam». 57. Colombi, Vite inedite di santi aquileiesi. Fra i casi più problematici vi è quello dei personaggi presenti al momento del battesimo delle Vergini. I manoscritti abitualmente portatori della redazione brevior citano, oltre a Valenziano e al vescovo Ermagora, tre chierici di cui non vengono detti i nomi; quelli che abitualmente riferiscono la redazione longior citano anche l’arcidiacono Fortunato, e riportano i nomi dei tre chierici, Onorato, Benigno e Amato. Fortunato è il celebre compagno di Ermagora, e il suo nome potrebbe essere stato aggiunto senza difficoltà dall’autore del rifacimento; ma gli altri tre nomi non sembrano
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vior è quella che si ritrova in una parte dei manoscritti cividalesi – compreso il codice XXIII, che è il più antico – e in tutti quelli riconducibili all’area veneziana, mentre quella longior appare in un’altra parte della tradizione di Aquileia, e da lì sembra essere passata a nord, a Belluno e in Austria.58 Saremmo dunque in presenza di una renovatio del testo volta a migliorarlo sul piano stilistico, eseguita nel luogo che era il centro del culto; fenomeno piuttosto familiare a chi ha dimestichezza con le trasformazioni dei testi agiografici medievali. Si è insistito sulla forte caratterizzazione locale della Passio delle quattro Vergini aquileiesi, che rimane uno degli elementi più singolari e interessanti del testo. Nel momento in cui l’agiografo si trovò a riscrivere la storia di Barbara per dare ragione di un culto preesistente di cui non si trovava più fondamento, oppure per inventarlo di sana pianta, lo legò strettamente non solo alla tradizione illustre della chiesa di Aquileia, quella ermagoriana, il che era abbastanza ovvio, ma anche alla configurazione topografica della città, il che era assai meno ovvio, ed è anzi piuttosto insolito. Iniziata in un’epoca che potremmo cautamente fissare, nel silenzio delle fonti precedenti, verso il principio del XII secolo, la promozione del culto delle Vergini – quel culto martiriale femminile che l’antica chiesa aquileiese non aveva avuto – ebbe successo, e le quattro divennero una presenza stabile nel santorale del Patriarcato nel basso medioevo e nell’età moderna. La Passio costituì certo uno strumento pubblicistico e pastorale importante; uno strumento di un certo impegno, perché si tratta di un testo lungo, abbastanza elaborato e forse non insensibile a suggestioni letterarie locali. Nella figurare in nessuna tradizione aquileiese, e occorrerebbe spiegare la loro origine (forse allegorica e augurale, dato il loro intrinseco significato). Un’altra differenza di rilievo, notata dalla Colombi, è la formula del Credo, pronunciata da Eufemia davanti al persecutore, in un passo che non ha riscontri nel modello della Passio di Barbara. I manoscritti abitualmente portatori della redazione brevior presentano il testo con la formula «qui descendit ad infernum», assente nella redazione longior, dove figura invece la formula «qui in quinquagesimo die spiritum suum sanctum apostolis misit». Emanuela Colombi osserva che non vi sono motivi per supporre una soppressione dell’articolo della discesa all’inferno, che anzi costituiva un contributo antico della Chiesa aquileiese alla formazione della dogmatica cristiana, e sospetta che in questo caso le forma redazionale più antica sia quella longior. 58. La redazione longior si trova nei codici di Gorizia (con l’apografo Marciano lat. XIV.51), Cividale XVIII, Belluno, Udine, Trieste, Zwettl e nel Legendarium Austriacum. Riportano la redazione brevior i codici Cividale X, XIII, XXIII, Braidense, Berlinese, Londinese e Marciano lat. IX.27, e da questa forma deriva anche il rifacimento di Pietro Calò.
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sua Historia Romana Paolo Diacono, raccontando della conquista e della distruzione di Aquileia da parte degli Unni, parla di una matrona di nome Digna, «forma quidem eximia sed candore pudicitiae amplius decorata», che abitava «super ipsa moenia» della città e aveva «turrim excelsam suae domui inminentem, subter quam Natissa fluvius vitreis labebatur fluentis»; quando ella vide perduta la città «se eadem turre obvoluto capite in gurgitem praecipitem dedit», preferendo quella morte memorabilis al rischio di essere violata dai barbari.59 Anche qui case sull’acqua, torri, sante donne che precipitano, un fiume che ne accoglie il corpo: elementi caratteristici del paesaggio urbano di Aquileia, che potrebbero aver costituito un topos narrativo locale per l’intero medioevo.
59. Pauli Diaconi Historia Romana, p. 196 (XIV, 9). L’editore ritiene l’episodio della matrona derivato dalla tradizione locale, perché di esso non c’è traccia nella fonte che Paolo sta fedelmente seguendo in questa parte dell’opera, cioè i Getica di Giordane.
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Luigi Canetti Culti femminili nell’antica provincia ecclesiastica ravennate: il caso di santa Giustina a Piacenza
Credo che tutti noi, accogliendo di buon grado l’invito degli organizzatori, fossimo ben consapevoli di quanto a volte può rivelarsi rischiosa la ricerca di un oggetto così sfuggente da vanificare anche le più tenaci strategie di presa. Nella storia non esistono oggetti naturali, scontatamente eleggibili allo sguardo privilegiato del senno di poi. Prima dei secoli XIIXIII, cioè anteriormente alla nascita, nell’Occidente latino, di una specifica pastorale rivolta alle donne e di un movimento religioso coinvolgente larghi strati dell’universo femminile, si può certo parlare di donne sante – vergini, ma anche mogli, vedove e madri – ovvero di donne glorificate nell’ortoprassi cultuale, edificata in primo luogo dai testi liturgici e dai racconti agiografici (epigrafi e immagini offrono in genere minori tracce per l’alto Medioevo, e quella di Giustina è un’eccezione che conferma la regola). Non ritengo però corretto, se non forzando inevitabilmente i testi, parlare di culti femminili tout court, nonostante tutto ciò che si è potuto osservare, anche molto acutamente, sull’inedita esaltazione di sante madri e di sante mogli (regine e aristocratiche) in agiografie di ambiente monastico prodotte ad esempio in età ottoniana.1 La questione è indubbiamente più delicata per l’età tardoantica, del resto ampiamente studiata in anni recenti anche da questo punto di vista.2 Si potrebbero facilmente invocare le vergini ambrosiane, con le loro succursali bolognesi e piacentine;3 1. Penso qui alle fini letture agiografiche di Corbet, Les saints ottoniens, pp. 181-206, 256-268; e Barbero, Un santo in famiglia, pp. 176-191. 2. Un valido punto di partenza è ancora costituito dal saggio di Consolino, La santità femminile; mentre un’ampia rassegna bibliografica su un tema che ha conosciuto negli ultimi anni una crescente fortuna si troverà in Bibliografia agiografica italiana, pp. 85-91. 3. Cfr. Ambrosius Mediolanensis, De virginibus I, x, 57 («Denique de Placentino sacrandae virgines veniunt, de Bononiensi veniunt, de Mauretania veniunt, ut hic velentur.»).
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i circoli delle aristocratiche gravitanti intorno a Gerolamo; le comunità arelatensi e poi i monasteri dell’aristocrazia merovingia e carolingia.4 Sul fronte delle opere, Peter Dronke ha scritto pagine molto importanti sulle scritture femminili a partire dagli archetipi martiriali di Perpetua e Felicita evidenziando peculiari e inedite declinazioni muliebri nell’universo della letterarietà e dell’immaginario.5 Tutto questo però non significa che tali indubbie specificità femminili si possano sempre enucleare nelle agiografie di sante donne, o addirittura in quel poco che ci è dato sapere sulla natura e le forme dei culti loro rivolti nel primo millennio cristiano. Un conto sono le pochissime voci femminili giunteci da quei secoli; un altro sono i modelli di virtuosismo ascetico, che per quanto (o forse proprio perché) codificati il più delle volte dai maschi restano in genere poco suscettibili di declinazioni di genere, quantomeno, direi, fino ai secoli XIII-XIV. Una cosa, poi, sono i discorsi agiografici elaborati in ambiente aristocratico, e un’altra ancora le loro eventuali ricadute mnemostoriche, che si esprimevano nel culto liturgico e nella prassi devozionale. E culto, per quei secoli, nell’Occidente latino, significa essenzialmente presenza di corpi santi e di reliquie, benché sappiamo, ormai, che anche in quest’area della cristianità le immagini dovevano avere molta più importanza di quanto solitamente si ritenesse sulla base di pregiudiziali articolazioni rispetto a un malinteso “Oriente” bizantino.6 Una sfida tra le più interessanti del nostro incontro sta proprio nell’aiutarci a rispondere con maggior precisione – fissando coordinate spazio-temporali perspicue a quelle che potevano sembrare mere invarianti o addirittura funzioni e modelli quasi atemporali o, al contrario, impropriamente ridotti ad ambiti settoriali – al problema di cosa siano, e di quando nascano, la santità e l’agiografia femminili. È ovvio che anche prima del Mille esistessero donne virtuose, e in particolare religiose e regine additate a modello di comportamento regolare o elevate ad insegna del prestigio dinastico. Ma la santità, così come lo scrivere di santi, è un problema di autorità e perciò di potere. La santità 4. Cfr. Cristiani, La sainteté féminine; Barbero, Un santo in famiglia, pp. 114-119. 5. Cfr. Dronke, Donne e cultura nel Medioevo; si veda inoltre Medioevo al femminile; una bella antologia di testi (a partire, e pour cause, dal secolo XIII), fu proposta da Giovanni Pozzi e Claudio Leonardi in Scrittrici mistiche italiane. 6. Per un quadro aggiornato basti ora rinviare alle seguenti opere d’insieme: Cristianità d’Occidente; Arti e storia nel Medioevo.
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è una relazione eccettuativa di potere rispetto all’equilibrio ordinario tra il mondo visibile e il mondo invisibile; un equilibrio governato essenzialmente, nel primo millennio, da quei peculiari mediatori della figura del divino che erano i re e i sacerdoti (o meglio, i re-sacerdoti, oltre ai vescovi e ai monaci).7 Quello che cambia strutturalmente dopo l’XI secolo è la dislocazione della santità rispetto al potere regio e sacerdotale: con la rivoluzione papale, nella misura in cui si divaricano i destini delle categorie giuridiche e sociali che li esprimono, e che vengono a loro volta plasmate dai nuovi modelli, si aprono possibilità inedite e differenziate di una santità sacerdotale, di una santità monastica e di una santità laicale. E prima di (e intorno a) quest’ultima, anche di una religiosità laicale e femminile, non più gestibili dai paradigmi rassicuranti fissati nell’ecclesiologia degli ordines ovvero filtrati dagli specula principum.8 Quali sono, dunque, le condizioni di possibilità del mio contributo? Attesa l’esiguità dei culti femminili accertabili nella provincia ecclesiastica ravennate fin verso la metà del secolo XII; vista l’ancor più scarsa tradizione di testi agiografici relativi a sante donne prodotti all’interno della stessa regione in quello stesso arco cronologico;9 scontando poi l’evidenza che quella stessa penuria di materiali non consente di elaborare risposte unitarie ragionevolmente soddisfacenti, per la specifica scala regionale in quell’arco di secoli, ai rilevanti quesiti che gli organizzatori del nostro convegno hanno offerto ai relatori come traccia di articolazione problematica (tipologie e funzionalità dei culti; comparazioni di genere; peso specifico all’interno di un ipotetico sistema cultuale e agiografico di ambito provinciale); e dati, infine, i limiti delle mie conoscenze, ho preferito evitare di fornire un elenco poco più che rapsodico dei culti, e relative tradizioni testuali e documentarie superstiti, per tutta l’area emiliano-romagnola dalle origini cristiane fino al sorgere dei Comuni.10 Non starò a richiamare an7. Cfr. Orselli, Di alcuni modi e tramiti della comunicazione col sacro; Ead., Santi re e santi imperatori. 8. Cfr. Savigni, Les laïcs dans l’ecclésiologie carolingienne; Dubreucq, La littérature des «specula». 9. Cfr. Tomea, L’agiografia dell’Italia Settentrionale, p. 150. 10. Un articolato quadro d’insieme, particolarmente attento alla documentazione emiliano-romagnola, viene offerto dagli studi di Golinelli, Città e culto dei santi; doveroso è poi il rimando alle schede regionali e diocesane contenute nella Bibliografia agiografica italiana.
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cora una volta la fragile perspicuità euristica di una ripartizione regionale come quella emiliano-romagnola, sia pur intesa nella specifica dimensione territoriale e amministrativa – e dunque anche liturgico-sacramentale – squisitamente inerente la distrettuazione ecclesiastica.11 Una rassegna sistematica e un’accurata valutazione critica delle fonti e dei problemi sul tappeto vengono ora fornite dal bel saggio di Paolo Tomea, che provvede utilissimi ragguagli anche per i secoli anteriori alla soglia editoriale della sua trattazione, la metà del secolo X.12 Inoltre, sempre per il nostro territorio, costituiscono ancora una bussola imprescindibile le ricerche pionieristiche di Hippolyte Delehaye e di Francesco Lanzoni, pubblicate nella prima metà del secolo scorso. I lavori di Alba Maria Orselli, Gian Paolo Ropa, Jean-Charles Picard e Paolo Golinelli, dalla metà degli anni Sessanta del Novecento, hanno infine proiettato le ricerche di ambito regionale in una dimensione problematica di respiro europeo. Mi è parso dunque opportuno riprendere una questione specifica, quella del culto di santa Giustina in Emilia occidentale, in particolare nella diocesi di Piacenza. Oltre a garantire un solido ancoraggio al motivo ispiratore del nostro congresso, assicurando provvidenzialmente al sottoscritto la possibilità di avvalersi di quello che risulta essere l’unico testo agiografico a soggetto femminile, e di un qualche spessore letterario, prodotto a livello regionale fino a quasi tutto il secolo XI,13 si tratta di un tema che 11. Quello emiliano-romagnolo, come da molti è stato ribadito, è un quadro storiografico puramente convenzionale (cfr. p. es. Orselli, Organizzazione ecclesiastica, pp. 307-309; Canetti, Prospettive per la ricerca, pp. 239-240). D’altra parte, la provincia ecclesiastica ravennate è stata un’istituzione dalle funzioni tutto sommato rapsodiche e intermittenti quantomeno fino al VII secolo, e non è facile determinarne un qualche tipo di congruenza rispetto alla dislocazione e alla diffusione dei culti, benché nella fattispecie si possano accertare non poche ricorrenze e analogie tra i maggiori poli gravitazionali del territorio. Direttrici e modalità andranno comunque accertate di volta in volta evitando di farsi troppo condizionare dagli a priori di una distrettuazione ecclesiastica troppo labile, perlomeno fino a tutto l’XI secolo, per non essere stata variamente condizionata anche da fattori esogeni. La mappatura documentaria dei quadri diocesani della Regio VIII (Flaminia et Aemilia) fino a Gregorio Magno è ancora debitrice del magistrale quadro tracciato ottant’anni fa da mons. Lanzoni, Le diocesi d’Italia, pp. 705-819, di cui sarebbe ormai auspicabile un integrale rifacimento. 12. Cfr. Tomea, L’agiografia dell’Italia Settentrionale, pp. 129-139, 158-160. 13. Una Passio Vitalis et Valeriae (BHL 8704) fu prodotta a Ravenna alla fine dell’XI secolo (cfr. Tomea, L’agiografia dell’Italia Settentrionale, p. 135); sul centone agiografico bolognese relativo a santa Giuliana martire, comunque databile al secolo XII, si veda Golinelli, Santi e culti bolognesi, p. 19.
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di recente ha conosciuto una certa fioritura di studi (una monografia, un piccolo convegno, qualche saggio specialistico di interesse archeologico e liturgico-musicologico) anche in relazione alla vexata quaestio del titolo e della sede materiale della chiesa vescovile di Piacenza dalle origini fino all’epoca ottoniano-salica.14 1. «Ecclesia sanctae Iustinae» La prima attestazione sicura di un culto prestato a una santa di nome Giustina in Emilia occidentale viene fornita da un diploma autentico di Carlo Magno, emesso ad Aquisgrana il 26 maggio 808 a beneficio di Giuliano «sanctae Placentine [sic] urbis ecclesiae episcopus, que est constructa in honorem sanctorum Antonini et Victoris nec non et Iustine [sic] virginis».15 Rilevo subito un dato: in questo caso, ma anche nei successivi documenti pubblici anteriori al Mille, a Giustina non viene sempre associato il titolo di martire, che figura soltanto nel secondo di due diplomi di Carlo il Grosso, concesso nel giugno 883 ai canonici della cattedrale,16 e in un privilegio autentico di re Lotario del febbraio 948 a beneficio dei «sacerdotes Sanctae martiris Iustinę de canonica Placentini episcopatus», ai quali si confermano i possessi e i diritti donati dall’imperatore Lamberto e da altri.17 In tutti gli altri casi si parla semplicemente di «santa» o, al più, 14. Cfr. Piva, La cattedrale di Piacenza; Id., Les églises doubles; Id., Il battistero paleo cristiano di Piacenza; Møller Jensen, «In Placentia»; Id., Santa Giustina; Panzetti, Il culto di Giustina; Ponzini, Santa Giustina; «Sancta Martyre Justina». 15. Cfr. Die Urkunden Pippins, Karlmanns und Karls des Großen, p. 277, r. 42 s. (Caroli Magni Diplomata, n° 207). In un precedente diploma del re longobardo Ilprando, dato nel 744, apparivano soltanto Antonino e Vittore, di cui Piacenza possedeva il corpo, come titolari e patroni della chiesa locale (cfr. Codice Diplomatico Longobardo, pp. 80-85, n° 18). 16. Il primo diploma di Carlo III, del 9 aprile 881, a favore di Paolo vescovo e della chiesa di Piacenza, ricorda soltanto la dedicazione di quest’ultima ai santi Antonino, Vittore e Giustina, senza ulteriori qualifiche: cfr. Die Urkunden Karls III, p. 59, rr. 19-21 (n° 35). Il secondo diploma fu emesso nel giugno 883, dallo stesso re e imperatore, a beneficio dei «cardinales etiam sanctae Iustinae virginis et martiris Christi ecclesiae»: cfr. ibidem, p. 129, r. 19 s. (n° 129). Come rileva Tilatti, Istituzioni e culto dei santi, p. 61, nel caso della Giustina venerata a Padova il titolo martiriale, dopo l’epigrafe di Opilione, sarebbe ricomparso solo nel momento in cui, con la scrittura della Passio (XI secolo), si avviò la ricognizione delle coordinate biografiche della santa. 17. Cfr. Campi, Dell’historia, I, p. 264; ma se ne veda l’edizione critica ne I Diplomi di
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di «vergine».18 Il titolo martiriale lo si incontra poi, sempre più spesso, nelle carte di donazione a beneficio della chiesa che ne conserva il corpo, a partire dal 1002, cioè dai mesi immediatamente seguenti la traslazione dell’agosto 1001, l’evento catalizzatore delle coordinate biografiche della santa.19 Non intendo sopravvalutare l’apporto delle fonti diplomatistiche: sporadicità di attestazione, frequenza di falsificazioni (o interpolazioni) e inerzialità dei formulari cancellereschi devono indurre molta prudenza; d’altra parte, in mancanza di dati forniti dai documenti privati anteriori al Mille – i quali, fin dalla prima età carolingia, rilevano invece il titolo di una chiesa, e la ricorrenza di un festum, consacrati all’antico patrono Antonino –, sono proprio i privilegi dei sovrani ad offrirci l’unico barlume per orientare in qualche modo la ricerca. Non entro nel merito dell’annoso problema dell’ubicazione e della titolarità della primitiva cattedrale di Piacenza, che già le valide intuizioni di Picard, e poi le conferme dovute alle indagini di Gisella Cantino Wataghin e Paolo Piva,20 hanno infine consentito di situare in area intrameniale, grosso modo nel sito attualmente occupato dalla catterdale romanica, fin da epoca paleocristiana. Si è potuto così smentire la vecchia tesi del Campi, abbracciata da tutta la storiografia locale, di una primitiva sede cemeteriale identificata con la basilica dei Santi Antonino e Vittore, dove sarebbero stati sepolti i primi vescovi, e che a partire dalla seconda metà del IX secolo Ugo e Lotario, pp. 262-266 (n° VII, Milano, 13 febbraio 948): p. 263, r. 11 s. Il precendente documento di Lamberto menzionato nel testo è andato perduto (cfr. I Diplomi di Guido e Lamberto, p. 110, n. 9). 18. Nella carta inedita del 15 maggio 888, conservata presso l’Archivio capitolare del Duomo di Piacenza («Donazioni diverse», n° 19), che è stata segnalata e utilizzata da Paolo Piva (La cattedrale di Piacenza, p. 253) per provare l’esistenza fin dal IX secolo di un edificio ecclesiastico intitolato a Santa Giustina diverso da quello dedicato a San Giovanni Evangelista (ritorno fra poco sulla questione), si parla semplicemente di «ecclesia sancte Iustine». 19. Le donazioni di poco successive al 1001 si leggono ancora in Campi, Dell’historia, I, p. 497, n° LXIV (donazione del conte Lanfranco, nel 1002, all’altare e alla chiesa di Santa Giustina); ibidem, pp. 498 s., n° LXXVII (donazione di alcuni bardigiani, nel 1010, «Oratorio et Altario Sanctae Justinae Virginis»); ibidem, p. 501, n° LXX (donazione di Mainardo e Adalberto, nel 1018, all’altare di Santa Giustina); Canetti, «Gloriosa Civitas», p. 102 e n. 93; Ponzini, Santa Giustina, pp. 169-171; Golinelli, Giustina di Antiochia, p. 55. 20. Cfr. Picard, Le souvenir des évêques, pp. 275-277, 313-316, 650-652; Testini, Cantino Wataghin, Pani Ermini, La cattedrale in Italia, pp. 157-159 (scheda firmata da G. Cantino Wataghin); Piva, La cattedrale di Piacenza ; Id., Les églises doubles ; Id., Il battistero paleocristiano.
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sarebbe stata sostituita da una nuova sede cattedrale e canonicale dedicata a Santa Giustina.21 Rimane aperto, in ogni caso, il problema della complessa relazione diadica, secondo una tipologia funzionale che non può non rimandare a quella delle cattedrali doppie, con la chiesa di San Giovanni Evangelista, abbattuta nel Cinquecento, ma che le fonti testuali (diplomi, carte, cronache, libri liturgici ecc.) e gli scavi già di fine Ottocento lasciano ben individuare come contigua alla domus episcopalis, e la cui funzione squisitamente battesimale doveva integrarsi con quella di sede canonicale svolta dalla chiesa (talvolta però definita semplicemente oratorium ovvero sacrarium) di Santa Giustina (dal 1122, SS. Maria e Giustina).22 Inoltre, si può ormai ritenere acquisito che i titoli santorali attestati nell’indirizzo dei diplomi sovrani non denotano necessariamente la sede materiale dedicata al santo, l’edificio della cattedrale, in cui eventualmente se ne conservino le spoglie. Quei titoli – è il caso del diploma piacentino dell’808, ma anche di quelli dei susseguenti decenni, laddove si attesti una condedicazione a Giustina – connotano semmai per metonimia la ecclesia come comunità spirituale, di cui il vescovo è pastore e guida, e di cui il santo è il garante e il protettore celeste. Del resto, soltanto le fonti dei primi anni dopo il Mille, cioè a partire dalla stessa Translatio e dai lasciti testamentari a beneficio del sacrarium (ovvero oratorium ovvero altarium) di Santa Giustina, consentono di precisare l’esistenza di uno spazio architettonico e liturgico che, in seguito alla traslazione delle reliquie della santa, si configura vieppiù come il centro d’irradiazione e anche il polo di convergenza del culto.23 Non intendo riaprire il problema del dove si collocasse precisamente quell’altare ovvero quell’oratorio: il testo della Translatio (BHL 2054) documenta una prima deposizione delle sacre spoglie in San Giovanni Evangelista, ma non sappiamo come, e a partire da quando, esse siano state ricollocate nella preesistente chiesa canonicale di Santa Giustina, se è vero, come vorrebbe Paolo Piva sulla base di un documento inedito dell’888, che quest’ultima era già da molto tempo una 21. Cfr. Picard, Le souvenir des évêques, pp. 342 s.; Tilatti, Istituzioni e culto dei santi, pp. 33 s. 22. Il problema nasce anche dal fatto che si parte spesso da un’idea anacronistica di “cattedralità”. In ogni caso, come ha dimostrato definitivamente Picard, le sepolture episcopali altomedievali non sono da ritenersi un indice significativo della cattedralità di una chiesa. 23. Vedi nota 19.
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chiesa a tutti gli effetti del complesso urbanistico vescovile, officiata da un autonomo capitolo canonicale, e non una semplice cappella all’interno di San Giovanni de domo, come anch’io, nei miei primi studi, ero stato propenso a credere.24 Le menzioni dedicatorie, di là dai problemi che sollevano, nulla ci dicono evidentemente su come poté nascere o approdare a Piacenza il culto per una santa di nome Giustina. Mi sembra infatti piuttosto ovvio ritenere che tale dedicazione, affiorante per la prima volta, e inopinatamente, ai primi anni del IX secolo, fosse invalsa perlomeno da qualche tempo. Fino a che punto, allora, possiamo spingerci nella catena dei possibili “antecedenti”? In effetti, per i secoli anteriori al IX, brancoliamo quasi nel buio nonostante Piacenza, con i due archivi capitolari di Sant’Antonino e della Cattedrale, sia tra le poche città del Regnum a possedere ancora fondi pergamenacei con documenti privati risalenti alla tarda età longobarda.25 La nostra città è poi tra le pochissime del Nord Italia a vantare un culto martiriale autoctono risalente con certezza all’età ambrosiana, quello per sant’Antonino, un soldato di Apamea di Siria che in età dioclezianea avrebbe subito il martirio nei pressi di Piacenza dopo avervi predicato il Vangelo.26 Nei secoli immediatamente seguenti si venne inoltre radicando in città la venerazione per la memoria dei vescovi Vittore e Savino: suffraganeo di Ambrogio, tradizionalmente identificato con l’omonimo protagonista di un celebre prodigio fluviale nel III libro dei Dialogi di Gregorio Magno, Savino appare, già in un contratto del 16 marzo 788,27 come santo titolare di una basilica sita in un’area extramurale a oriente del castrum, nei pressi dell’Aemilia, e che, dopo una prima riedificazione alla fine del IX secolo, solo intorno al Mille diventerà, a fianco di San Sisto, il più importante istituto monastico piacentino.28 Quali tracce, allora, possiamo seguire, per avanzare una qualche ipotesi circa i tempi e le modalità della diffusione di un culto o comunque di una semplice dedicazione per una santa martire di nome Giustina? 24. Cfr. Piva, La cattedrale di Piacenza, p. 253. 25. Cfr. Le carte più antiche di S. Antonino; Le carte private della cattedrale di Piacenza. 26. Si veda, da ultimo, Antonino di Piacenza. 27. Le carte private della cattedrale di Piacenza, p. 31, r. 5 s. (doc. 2). 28. Si fa il punto della questione in Canetti, La chiesa piacentina.
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Tutti conoscono i rischi ma anche le tentazioni dell’agiotoponomastica, specie quando la ricerca sui toponimi e le dedicazioni non venga o – come nel nostro caso – non possa ancora incrociarsi con i dati provenienti dagli scavi archeologici. L’ampio territorio diocesano di Piacenza è a tutt’oggi ancora pressoché vergine a scavi sistematici (o anche sporadici ma scientificamente aggiornati) sui luoghi di culto altomedievali.29 Mons. Domenico Ponzini, benemerito agli studi sulla storia della chiesa di Piacenza, nella monografia sulla compatrona pubblicata nel millenario della traslazione, ha avuto il merito di recensire tutte le dedicazioni ecclesiastiche del territorio piacentino che, a suo dire, risalirebbero ad epoca longobarda, cioè «buona parte» di esse. Anzi, secondo Ponzini, bognettiano ortodosso, «proprio attraverso le dedicazioni delle chiese si riescono ad isolare alcuni territori in cui i sudditi di Alboino si stanziarono occupando luoghi più o meno strategici».30 Con lo scandaglio di quelle che il Bognetti, in un famoso saggio del 1952, aveva definito «dedicazioni dei presidî», Ponzini trova praticamente ovunque, specie in area appenninica, «nuclei evidentissimi» di stanziamento longobardo, giacché le numerose dedicazioni a san Pietro, san Giovanni Evangelista, san Giorgio, san Michele, san Martino, e anche a santa Giustina, rinvierebbero tutte all’epoca della conquista. Ora, siccome Giustina, al pari di Eufemia, fu ritenuta dal Bognetti una santa nazionale tricapitolina (il caso esemplare e citato è quello del vescovo filoaquileiese Agrippino di Como, e della celebre epigrafe di Piona sul lago di Como, che ricorda l’erezione nel 616 di un oratorio consacrato a santa Giustina martire), ecco che anche da noi, a Piacenza, tutte le chiese con il titolo della martire padovana (anche questo però è un assunto a priori) sarebbero state fondate da missionari tricapitolini magari in funzione antiariana. Anzi, quelle dedicazioni permetterebbero, come una sorta di sismografo devozionale, «di conoscere il lento cammino di tali barbari [scil. i Longobardi] verso il Sud, presidiato dai Bizantini, loro nemici naturali».31 Innanzi tutto andrebbe osservato che le più antiche attestazioni di una diffusione del culto per santa Giustina nel Nord Italia sono anteriori allo scoppio dello scisma tricapitolino (553); e la cosa assume poi un rilievo 29. Una panoramica aggiornata sul Nord Italia viene ora fornita negli studi raccolti da Brogiolo, Le chiese rurali tra VII e VIII secolo. 30. Ponzini, Santa Giustina, p. 11. 31. Ibidem, p. 15; il riferimento, ovviamente, è a Bognetti, I «loca sanctorum».
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ulteriore nel caso di una regione ecclesiastica, come quella ravennate in età giustinianea, che non risulta orientata a favore di quell’opzione teologica.32 Ma il problema più grave, che non sembra inquietare Ponzini, è che le dedicazioni a santa Giustina nel Piacentino sono tutte, nessuna esclusa, sicuramente documentabili molto dopo l’XI secolo; la maggior parte di esse addirittura in piena epoca moderna (secoli XVII-XVIII). E dunque, nel caso di Giustina, è difficile pensare che non riflettano il processo di diffusione in tutta la diocesi del culto per la compatrona di Piacenza, rinvigorito dall’arrivo delle reliquie nel 1001. In un caso, quello della corte di Varsi, sede di una pieve intitolata a san Pietro fin dalla tarda età longobarda, siamo praticamente certi che le cose andarono proprio in quel modo, anche se a causa delle successive modifiche subite dall’edificio non possediamo più tracce documentarie, iconografiche o architettoniche del culto locale per santa Giustina in epoca medievale. Come narra la Translatio, gli abitanti del luogo, che avevano manifestato un certo scetticismo sull’autenticità delle reliquie (tant’è che Varsi si chiamerebbe così «quasi Varia, quia homines varie de hoc sentiebant»), ebbero poi modo di ricredersi quando la «pietas Christi», per i meriti di Giustina vergine, risanò una sorda e una «foemina quae in fluxu sanguinis laborabat».33 Per negare il senso di questa evidenza si dovrebbe supporre che il drappello dei piacentini, di ritorno da Roma, avesse deciso di sostare proprio lì perché già si conosceva l’esistenza in loco di un culto per santa Giustina. Il ché mi pare manifestamente assurdo, sia per quello che sappiamo sulla dinamica delle traslazioni (e di questa in particolare) sia per l’alto rischio di furto della merce che trasportavano:34 nel caso i piacentini avessero saputo di un culto per santa Giustina a Varsi è molto probabile che sarebbero rimasti alla larga da quel centro. A meno che non si voglia intendere lo scetticismo dei valligiani come espressione di un campanilismo risentito e della conseguente volontà di sconfessare l’autenticità di un’operazione a beneficio esclusivo del capoluogo, complice la proverbiale «romana falsitas».35 Invero, la spiegazione più semplice è che il percorso della Val Ceno, a valle della roccaforte di Bardi, fatta erigere 32. Così anche Golinelli, Giustina di Antiochia, p. 55. 33. Translatio beatae Justinae, §§ 5-6, p. 259D-E. 34. Cfr. Canetti, Mnemostoria e archeologia rituale delle traslazioni ; Tomea, Prima di Giustina. 35. Cfr. ibidem, § 5, p. 240C.
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dal vescovo Everardo di Piacenza alla fine del IX secolo come baluardo contro le prime incursioni ungariche, era una tappa consueta e pressoché obbligata nel percorso della Francigena tra la Lunigiana e l’Emilia occidentale; e presso il borgo appenninico, dopo il passaggio delle reliquie, si radicò la memoria e il culto, ancor oggi attestato, per la santa patrona di Piacenza. Che poi quelle terre siano state, con molta probabilità, anche un antico presidio arimannico (teste il toponimo bardigiano di Selva degli Arimanni), è discorso che ha poco a che fare, a mio sommesso avviso, con la questione della dedicazione dei luoghi di culto, quantomeno nei secoli dopo il Mille. Comunque la si pensi intorno alla presunta rarefazione delle strutture urbane di matrice classica a partire dal V-VI secolo, la conquista longobarda di Piacenza, che aveva già subito nel 546 un pesante assedio e la conquista da parte dei Goti di Totila,36 non sembra avere più di tanto esaurito quello che era stato, fin dall’epoca remota della deduzione della colonia romana, il tratto distintivo di Placentia, cioè il suo carattere di nodo viario di fondamentale importanza nel collegamento tra il Nord-Ovest della Penisola, la pianura padana e la regione appenninica in direzione Roma attraverso le valli del Taro, la Lunigiana e la Tuscia. Al crovevia tra l’Aemilia e la Postumia, che irradiavano verso Genova, Aquileia e Rimini, la città poteva inoltre vantare il maggior porto fluviale sul Po verso la direttrice alpina. Questa funzione di cerniera tra ambiti territoriali distinti, e poi soggetti a differenti dominazioni (si pensi alla stretta prossimità con la capitale del Regnum Langobardorum ma anche con la Liguria, enclave imperiale fino alla conquista di Rotari), è stato riconosciuto come il maggior elemento di continuità tra la Placentia romana e quella longobarda.37 Perlomeno dall’epoca ambrosiana è poi documentabile anche archeologicamente una tenace persistenza di ubicazione, funzione e, in molti casi, anche intitolazione dei maggiori luoghi di culto cristiano della città.38 Su questo sfondo, la relativa intensità dei rapporti tra la chiesa locale e la primitiva metropoli milanese, e più tardi – benché se ne possa scontare la certezza istituzionale non prima della seconda metà del VII secolo – con 36. Cfr. Procopio di Cesarea, La guerra gotica, III, 13. 37. Cfr. Azzara, I territori di Parma e Piacenza, pp. 37 s. 38. Un’ottima messa a punto si trova ora nella tesi ancora inedita di Bergamini, Piacenza tardoantica, pp. 40 ss., 126 ss., 146 ss.
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quella ravennate,39 inducono ad avanzare l’ipotesi che l’eventuale approdo piacentino del culto per santa Giustina fosse stato filtrato dalle maglie cultuali del centro esarcale e, più in generale, dalle rete delle comunicazioni stradali e fluviali dell’asse padano-emiliano. A Piacenza, tra l’altro, sembra attestata fin da epoca remota (dal VI secolo, secondo Campi: ma la questione attende ancora uno studio approfondito) una dedicazione a sant’Apollinare – era invero una semplice cappella all’interno della basilica di San Giovanni Evangelista, non una chiesa, come un tempo si riteneva.40 Segno, per quanto sporadico, di un persistere di relazioni tra la sede metropolitica e le più remote diocesi suffraganee dell’Emilia occidentale, territorio solo in apparenza periferico a quella koiné culturale altoadriatica, che, specialmente in epoca giustinianea, facendo capo a Ravenna doveva ancora irradiarsi fino alle propaggini centro-occidentali e nord-occidentali del bacino padano. È proprio lungo il corso del VI secolo che affiorano nel Nord Italia le più antiche testimonianze, scritte e figurate, di un culto per una santa di nome Giustina, irradiatosi (da Padova?) a Sud-Est verso Ravenna e Rimini (nel centro imperiale e poi esarcale è attestata precisamente dall’epoca giustinianea una chiesa di Santa Giustina in capite porticus,41 a non voler ricordare la celebre effigie musiva della martire nella teoria delle vergini in Sant’Apollinare Nuovo). Approdato in Istria in quegli stessi anni (celeberrima è un’altra immagine di Giustina nella basilica eufrasiana di 39. Cfr. Lanzoni, Le diocesi d’Italia, pp. 813-819; Ponzini, Dipendenza di Piacenza, p. 554; Orselli, Organizzazione ecclesiastica, pp. 311, 314 s. 40. Cfr. Piva, La cattedrale di Piacenza, p. 253: si fa riferimento a una carta inedita (Piacenza, Archivio capitolare della Cattedrale, «Donazioni diverse», n° 19) con la quale Paulo, «presbiter cardinalis», il 15 maggio 888 faceva dono di una casa e di alcuni beni ai custodi dell’altare di Sant’Apollinare nella chiesa di San Giovanni Evangelista. I due «custodes» sono poi definiti «duo presbiteris cardinalis de ipsa ecclesia sancte Iustine». Paolo Piva, come già anticipavo, ritiene che qui ci troviamo di fronte alla prova dell’esistenza di due chiese, entrambe integrate nel centro episcopale piacentino, dal momento che in una stessa carta non potrebbe citarsi due volte uno medesimo edificio sacro con nomi diversi. Tuttavia, in attesa di una edizione critica (la pergamena, per dichiarazione dello stesso Piva, non è di facile lettura), sarei propenso a non sottovalutare il pronome «ipsa» anteposto ad «ecclesia»: perché inserirlo se ci voleva davvero riferire a un’altra chiesa? 41. Cfr. Mazzotti, Santa Giustina «in capite porticus» ; Farioli Campanati, Ravenna, Costantinopoli, p. 144; Lo Iacono, S. Giustina «in capite porticus», pp. 31-40; Gugliotta, Santa Giustina del Duomo, pp. 23-37.
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Parenzo),42 il culto è inoltre attestato, nella Milano del VI secolo, dall’iscrizione del nome della santa nel canone della messa ambrosiana;43 e poi ancora, a Como, dove la venerazione di Giustina sarebbe stata introdotta dal vescovo Agrippino, di bognettiana memoria;44 e infine, in epoche e modi non precisabili, e con diverse ricorrenze anniversarie rispetto a quella patavina, a Verona, Adria, Trieste, nel Tirolo, e poi a Piacenza.45 Benché nella città emiliana la fissazione definitiva delle coordinate antiochene di santa Giustina coincidesse precisamente con la redazione della Translatio, intorno al 1006 (vi ritorno tra poco), è molto probabile che già da qualche anno si fosse pensato di dare consistenza fisica al culto della locale patrona, titolare a Piacenza di una chiesa canonicale quantomeno fin dalla prima età carolingia, attraverso il reperimento delle reliquie e la redazione ovvero il procacciamento di un testo che ne accreditasse una sicura e prestigiosa identità garantendone, da quel momento, l’autoctonia e l’originalità rispetto a culti e luoghi santi di altre città. E la Roma lunare degli Ottoni, grande serbatoio di corpi santi e teatro delle «grandi rapine», doveva presentarsi anche ai piacentini come la notte ideale in cui tutte le vacche potevano sembrare nere.46 Sembra indubbia, in effetti, la presenza di un culto per la martire antiochena nella Roma altomedievale, come testimoniano, oltre le fonti liturgicoletterarie cui accennerò fra breve, la letteratura dei Mirabilia e degli Itineraria romana già per il VII secolo.47 Tra l’altro, il culto romano per Cipriano e Giustina continuerà anche nei secoli seguenti, come fa fede la inventio dei loro corpi da parte di papa Anastasio IV presso il battistero laternanense e la nuova repositio di essi nell’area absidale di San Giovanni in Laterano (1154). La cosa, in effetti, non soddisfa al principio di non contraddizione: ma in 42. Cfr. p. es. Rizzardi, Relazioni artistiche fra Ravenna e l’Istria. 43. Cfr. Tilatti, Istituzioni e culto dei santi, p. 59. 44. Vedi sopra, nota 30 e contesto. 45. Cfr. Tilatti, Istituzioni e culto dei santi, p. 60; Golinelli, Giustina d’Antiochia, p. 54. Prima del 1133 è attestata anche a Parma una chiesa dedicata a santa Giustina (cfr. Schumann, Authority and the Commune, p. 85). 46. Sulle traslazioni di reliquie dall’Italia in età ottoniano-salica si veda ora la grande opera di Huschner, Transalpine Kommunikation im Mittelalter, II, pp. 685-727. 47. Cfr. De locis sanctis martyrum, cap. 19, lin. 106: «Ibi Hereneus, Iulianus, Primitivus, Tacteus, Nemeseus, Eugenius, Iustinus, Crescentianus, Romanus sunt sepulti, et sancta Cyriaca, sancta Simferosa et Iustina cum multis martyribus sunt sepulti.»
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questa sede non è il caso di ribadire come l’ortoprassi e la giustificazione teologica del culto reliquiale fossero governate fin dal IV-V secolo non già dalla logica aristotelica bensì dalle figure di sineddoche e metonimia, cioè dal principio di contiguità efficace tra l’intero e la parte che lo rappresenta.48 2. «Quaedam virgo in civitate Antiochia» In base a quanto si è detto finora potrebbe sembrare abbastanza ovvio pensare che la Giustina attestata a Piacenza a partire dal IX secolo altro non sia che la martire venerata a Padova e in tutto il Nord Italia. Quando, in occasione della mia tesi di laurea, mi occupai per la prima volta della questione, pensai di lasciare da parte la traccia patavina;49 in effetti, al centro del mio interesse, non stava tanto l’origine e la prima diffusione del culto quanto il possibile significato del suo rilancio in occasione dell’arrivo delle reliquie nella Piacenza del Mille. Riguardo la traslazione piacentina del 1001, e soprattutto la conseguente redazione della Translatio (BHL 2054), cioè lo scritto con cui si veniva a fissare autorevolmente l’identità antiochena della martire di Piacenza,50 Andrea Tilatti e Paolo Golinelli hanno avanzato la ragionevole ipotesi di un’appropriazione, cioè di un tentativo riuscito, assai frequente a quei tempi, di ancoraggio e razionalizzazione di un titolo legato all’istituzione maggiore della chiesa piacentina, il complesso edilizio della cattedrale. In effetti, il rinnovato prestigio dell’istituto diocesano e della sede vescovile negli anni del presule Sigefredo, potevano anche esigere, con l’affermato possesso del corpo santo, la fissazione di una sicura e originale identità biografica per quella santa titolare, di cui allora si conosceva pochissimo; e di quel poco che era stato saputo dovevano ormai essersi perse le tracce. Insomma, era un caso esemplare di invenzione della memoria e rinvigorimento della tradizione.51 Da questo punto di 48. Una trattazione analitica di tali figure, precisamente in rapporto alla logica metonimica del dispositivo reliquiale, ho potuto svolgere nel mio libro Frammenti di eternità, pp. 105-138 e passim. 49. Cfr. Canetti, «Gloriosa Civitas», pp. 96 ss. 50. Cfr. Translatio beatae Justinae, § 8, p. 259F (particolare dell’indemoniata, attraverso la cui bocca il diavolo afferma: «Nonne sat tibi fuit, quod Antiochiam, nostris viribus fractis, tua ad Christum convertisti victoria?»; ma vedi anche ibidem, § 1, p. 258D. 51. Per questi concetti rinvio ai casi di studio raccolti ne La mémoire des origines.
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vista, rimane ancora essenziale l’indagine sui motivi e sul contesto storico che poterono giustificare quel tentativo di appropriazione: è un problema su cui di recente ho avuto occasione di ritornare, e che riprendo in sintesi nella parte finale di questo saggio.52 Paolo Golinelli ha acutamente rilevato il particolare dell’esistenza di un culto piacentino per un confessore di nome Opilio. Tale personaggio è in effetti menzionato al 12 di ottobre nel calendario del codice 65 del’Archivio capitolare del Duomo di Piacenza, il celeberrimo Liber Magistri, uno tra i più imponenti codici liturgici del pieno Medioevo, confezionato, per questa sezione, verso la metà del secolo XII, e particolarmente sensibile, secondo l’autorevole interpretazione di Brian Møller Jensen, alle ragioni giurisdizionali e patriottiche (scissione di Piacenza da Ravenna dopo il concilio di Guastalla del 1106, ma soprattutto in seguito al decreto di Adriano IV del 115553) che dovevano catalizzare una copiosa registrazione delle festività dei numerosi santi locali (o localmente acquisiti) nel quadro di un’imponente riforma liturgica coinvolgente tutte le consuetudines della ecclesia piacentina.54 Seguendo dunque l’ipotesi di Golinelli, Opilio (ovvero Opilione) richiamerebbe il celebre omonimo padovano, prefetto al pretorio, che l’epigrafe del sacello di San Prosdocimo, risalente ai primi anni del VI secolo, ricorda come promotore della fondazione o del rifacimento della basilica ovvero oratorio di Santa Giustina martire. La memoria del patrizio Opilio, promotore del culto di Giustina a Padova, sarebbe allora approdata a Piacenza insieme al culto della martire padovana, «confermandone così l’identità».55 L’idea è suggestiva, ma resta il grave problema che un culto piacentino per il diacono Opilio – identificato dalla tardiva Legenda sancti Opilii, tràdita dal codice E (secolo XIV ex.) dell’Archivio capitolare di Sant’Antonino,56 con l’accolito addetto alla basilica vittoriana che avrebbe 52. Cfr. Canetti, La chiesa piacentina. 53. Cfr. Ponzini, Dipendenza di Piacenza, pp. 557-565; Rossi, Arduinio vescovo di Piacenza, pp. 215 s., 221 s.; Musajo Somma, Il capitolo di S. Antonino, p. 184. 54. Cfr. Møller Jensen, «In Placentia», p. 443; sulla struttura e i contenuti del codice cfr. Id., The piacentinian Liber Magistri. 55. Cfr. Golinelli, Giustina di Antiochia, p. 56. 56. Cfr. Riva, La biblioteca capitolare, pp. 221 s.
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partecipato alla traslazione di sant’Antonino martire ai tempi del vescovo Savino – non sembra attestato a Piacenza anteriormente a quella prima menzione liturgica di metà XII secolo.57 Perciò, anche scontando una possibile inerzia di qualche decennio nella ricezione liturgica di indirizzi devozionali acquisiti o radicatisi in epoche precedenti (ma quando?), il ricordo calendariale della festa di un sant’Opilio nella liturgia piacentina (ma senza un ufficio proprio) rimonta a una data assai tarda rispetto alla definitiva cristallizzazione dell’identità antiochena della Giustina di Piacenza, sicuramente tale dai primi anni dopo il Mille, ma probabilmente in via di definizione già da qualche tempo. E l’attribuzione alla santa di tali coordinate specifiche sembra assai tempestiva non soltanto sul terreno agiografico (Translatio e successiva redazione della Passio, testimoniate localmente dal codice 63 della Cattedrale, un lezionario corale, composto, per la sezione che ci riguarda, nel secolo XII)58 ma anche in ambito cultuale (i primi lasciti e donazioni all’altare di santa Giustina si registrano per gli anni immediatamente seguenti la traslazione, e nel 1122 viene eretta sul sito dell’antica la nuova cattedrale romanica delle Sante Maria e Giustina) nonché, altrettanto precocemente, in quello liturgico (il testo della Translatio è fin dalla prima volta attestato sotto forma di nove lectiones liturgiche).59 Dunque, nel caso di Opilione di Piacenza, anche se in assoluto non si può escludere la possibilità di un culto residuale, del quale ormai poteva essersi smarrita la memoria di una connessione pur sempre da provare con l’antico patrizio patavino – peraltro, a quanto mi consta, mai venerato come santo a Padova o altrove –, sarei molto cauto nel conferire troppo peso a questo labile indizio onomastico. Prima di presentare l’ulteriore pista indiziaria che intendo percorrere per scovare possibili tracce del culto piacentino per Giustina, vorrei richiamare anche una vecchia ipotesi dello Zanocco (1926) riguardo la datazione della leggenda della martire di Padova; ipotesi che giustamente Andrea Ti57. Franco Molinari, nella “voce” Opilio da lui curata per la Bibliotheca Sanctorum, mi pare abbia dato un po’ troppo credito alla dubbia storicità del personaggio. 58. Cfr. Møller Jensen, Santa Giustina, pp. 285 s.; Panzetti, Il culto di Giustina, p. 60; Ponzini, Santa Giustina, p. 17, n. 1. 59. Piacenza, Archivio capitolare della Cattedrale, codice 63, cc. 35v-38v (Translatio); anche le nove lezioni della “passione” (Illuminatio) si trovano ivi alle cc. 100r-104v.
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latti ritiene essere, in sé, non troppo convincente, ma in ogni caso costituire uno spunto valido a riformulare la questione, tutt’ora irrisolta, della genesi delle Passions épiques a partire dall’Egitto del IV secolo, secondo la classica lettura di Hippolyte Delehaye.60 Zanocco aveva rilevato il particolare del segno di croce che Giustina si fece su tutto il corpo prima di subire il martirio, e lo riteneva una possibile traccia della liturgia siro-antiochena, secondo l’uso attestato tra i monaci d’Egitto nel V secolo.61 Credo di non dover fare troppi sforzi per accreditare la mia totale mancanza di entusiasmi campanilistici, e avverto che non intendo in alcun modo arrampicarmi sui vetri della liturgia – sui quali peraltro scivolerei subito – per tentare anche solo di ipotizzare l’orientalità o addirittura l’antiochenità della Giustina di Padova, con tutte le conseguenze del caso. Mi limito soltanto a chiosare quello che in fondo aveva già osservato l’amico Tilatti riportando la palla al centro del campo minato: forse la vera questione storica non è quella della “patavinità” o della “piacentinità” ovvero di qualche altra presunta e irriducibile autoctonia cittadina di questo o quel culto particolare. L’autoctonia – con tutti gli epifenomeni liturgici e patriottici – si “inventa”, si edifica e si ricrea incessantemente attraverso i processi storici che, per ragioni talvolta ricostruibili ma più spesso oscure, innestano in un dato ambiente pronto a riceverlo o bisognoso di accoglierlo un determinato tema leggendario o una determinata traccia testuale o materiale di un culto.62 E in questo senso tutti sappiamo come assai poco importi che le ossa o le ceneri venerate a Padova (o quelle trasportate a Piacenza) fossero realmente, e da sempre, quelle di una persona con un certo nome, vissuta giustiziata e sepolta in un certo luogo. Ma il punto è un altro. E cioè che tutti questi rimandi testuali, tematici e iconografici tra le poche fonti superstiti dovrebbero richiamarci una volta di più all’evidenza che l’Italia tardoantica, tra IV e VII secolo, o almeno quella compresa nel quadrilatero padano che ha come vertici Milano, Genova, Ravenna e Aquileia, è attraversata da una rete complessa di culti e di testi (cioè di uomini 60. Cfr. Tilatti, Istituzioni e culto dei santi, p. 69; Delehaye, Les passions des martyrs, pp. 171 ss. 61. Cfr. Zanocco, Il valore della «Passio» di S. Giustina, pp. 492 s. 62. Le retoriche identitarie di gruppi etnici e comunità politiche sono ora esaminate nel brillante saggio di Aime, Eccessi di culture; sulla «mitodinamica del ricordo» nelle civiltà premoderne rimane d’obbligo il riferimento ad Assmann, La memoria culturale.
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e cose, di scambi e discorsi) molto più larga, molto più instabile e molto più permeabile di quanto certi vecchi pregiudizi campanilistici, confessionali e occidentalistici ci avessero anche solo per inerzia indotti a pensare per definirne i contorni tagliando nel vivo realtà ben altrimenti dinamiche, e coinvolgenti tutto il bacino mediterraneo. E proprio questo mi porta a enunciare la suggestione che segue. Come si è visto, le tracce dedicatorie e toponomastiche, attraverso le quali si è voluto provare l’ascendenza del culto alla prima età longobarda, non portano da nessuna parte. Ho continuato così a interrogarmi sulla possibilità di seguire ancora una volta gli indizi testuali. La tradizione letteraria del ciclo epico-agiografico di Cipriano e Giustina di Antiochia, pur non essendo ricchissima per il primo millennio – la sua crescente fortuna, culminata in età moderna, è documentabile soprattutto a partire dal basso Medioevo63 –, consente però di appurare che i motivi essenziali della leggenda, nelle province dell’estremo Occidente latino, fossero già ben noti al volgere del IV secolo.64 In effetti, dopo un lungo sermone di Gregorio Nazianzeno, pronunciato intorno al 380,65 fu, tra i latini, il poeta Prudenzio a dedicare alla vicenda del mago-vescovo Cipriano, confuso però con l’omonimo cartaginese, qualche cenno nei versi del XIII carme del suo Liber Peristephanon.66 La martire farà la sua comparsa di lì a poco negli scritti di Eudocia imperatrice, tra gli anni Venti e gli anni Quaranta del V secolo: la metafrasi metrica redatta dalla consorte di Teodosio II, vissuta per molti anni a Gerusalemme, ebbe grande fortuna nell’alto Medioevo, e fu tradotto in molte lingue (latino, siriaco, armeno, paleoslavo, ecc.).67 Nella seconda metà del VII secolo la leggenda riaffiora 63. Basti pensare a Calderòn, a Goethe e al marchese de Sade: si veda il saggio di Avalle, Da santa Uliva a Justine ; Fumagalli, Introduzione, pp. 23 s. 64. Secondo Paolo Golinelli il culto di Cipriano e Giustina giunse in Europa nell’VIII secolo (Giustina di Antiochia, p. 52), ma credo non si possa escludere l’ipotesi di un’epoca anteriore. 65. Cfr. Gregorii Nazianzeni Oratio XXIV, 9, coll. 1177-1180 (ed. Moreschini, pp. 584587): la fanciulla che Cipriano tenta di sedurre non ha ancora qui il nome di Giusta o Giustina. 66. Prudentii Peristephanon, XIII, 21 ss. (ed. Bergmann, pp. 425 s.). Per l’identità di Cipriano, confuso da Prudenzio e da Gregorio con l’omonimo cartaginese, rinvio al classico studio di Delehaye, Cyprien d’Antioche, pp. 323 ss. 67. Cfr. Eudociae Augustae Carmen de sancto Cypriano; il carme eudossiano (BHG 458-459) verrà poi recensito dal patriarca Fozio: vedi infra, nota 70.
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nel De virginitate di Aldelmo di Malmesbury († 709).68 E in quegli stessi anni il martirologio di Beda è il primo a menzionare Cipriano e Giustina, non ricordati dal geronimiano. I due santi figurano invece nei martirologi di Usuardo, Adone e Rabano Mauro, e poi in quello Romano.69 Ancora: nelle schede della sua Biblioteca consacrate alle opere dell’imperatrice Eudocia, il patriarca Fozio si sofferma a lungo sulla leggenda di Cipriano e Giustina.70 Infine, verso la metà del X secolo lo storico e antiquario Flodoardo di Reims († 966) consacra alla vicenda un poemetto incluso nel suo De triumphis Christi Antiochiae gestis.71 Ma rispetto agli scritti di Aldelmo c’è però una cursoria testimonianza latina più antica di almeno un secolo: è quella che sembra affiorare da un passo del cosiddetto Itinerarium Antonini Placentini, il resoconto di un viaggio devozionale in Terrasanta e nel Vicino Oriente fornito in tarda epoca giustinianea (anni 560-570) da un anonimo cittadino di Piacenza.72 Si tratta di una delle più importanti testimonianze di quel genere odoeporico cristiano sviluppatosi a partire dal IV secolo in coincidenza con il grande essor della pratica del pellegrinaggio e della inventio dei luoghi santi nella regione siro-palestinese e sinaitica.73 Dopo la sosta ad Apamea, la città siriaca del martire Antonino, si racconta di una visita ad Antiochia, dove riposano san Babila e i tre fanciulli, ma anche santa Giustina, san Giuliano e i fratelli Maccabei: sette tombe in tutto, annota l’anonimo, sulle quali sono stati appesi «tormenta eorum», i rispettivi strumenti di tortura.74 La recensio altera, cioè la riscrittura dell’opera in un latino normalizzato secondo i gusti propri alla scholarship della piena età ca68. Cfr. Aldhelmi Scireburnensis De virginitate, I. Prosa, cap. XLIII; II. Carmen, vv. 1869-1882, ed. Ehwald, pp. 295 s., 430. 69. Cfr. Canetti, «Gloriosa Civitas», pp. 113 s. 70. Cfr. Phothius Patriarcha, Bibliotheca, cod. 184 (128b-129b), ed. Bekker (= PG, CIII), coll. 537-541; ed. it. a cura di Wilson, pp. 315-319. 71. Cfr. Flodoardi Remensis De triumphis Christi Antiochiae gestis, I, xv, coll. 567A572C; sulla figura di Flodoardo si veda ora il bel libro di Sot, Un historien et son église. 72. L’edizione di riferimento rimane quella curata da Milani, Itinerarium Antonini Placentini ; nuove precisazioni sulla tradizione manoscritta dell’opera ha fornito ora Chiesa, Itinerarium Antonini. 73. Cfr. Menestò, Relazioni di viaggi, pp. 537-550; la trattazione più esaustiva sulla pratica del pellegrinaggio in Terrasanta in età tardoantica rimane quella di Maraval, Liex saints. 74. Cfr. Milani, Itinerarium Antonini Placentini , p. 232 (§ 47, 1 rec. prior).
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rolingia, edulcora, per dir così, ed eufemizza l’evidenza archeologica di quei «tormenta» affermando, in maniera piuttosto stupefacente, che sulle tombe erano scritte le passioni di quei santi martiri («et super unuscuiusque sepulchrum scripta sunt passiones illorum»).75 La recensione antica è testimoniata da due soli manoscritti, il Sangallense, di fine VIII-inizi IX secolo, in scrittura minuscola alamannica; e il Rhenaugiense-Turicense, probabilmente vergato a Reichenau verso la metà del IX secolo.76 Sedici, invece, sono i codici che ci tramandano la nuova recensione, tutti posteriori al IX secolo e di produzione transalpina; il piacentino Pallastrelli 139, e il Vaticano Barberiniano lat. 664, sono tardi apografi rispettivamente del Cinquecento e del Seicento.77 Tra i testimoni perduti è noto però un codice piacentino del 1360, già conservato presso l’archivio di Sant’Antonino, collazionato per l’edizione ginevrina di Tobler e Molinier degli Itinera Hierosolymitana (1879).78 Dunque, benché già fosse lecito ritenere più che probabile la conoscenza dell’Itinerarium a Piacenza ben prima del Trecento – è qui, tra l’altro, che si dichiara ultimato il viaggio-resoconto dell’anonimo,79 che aveva preso le mosse dalla città padana auspicando la protezione del santo martire protettore Antonino, con cui veniva sostanzialmente identificato, specie nel dettato della recensio altera;80 identificazione che si voleva confermata, secondo una prima supposizione del Diehl, poi rivelatasi erronea, dall’epigrafe della “pietra di Cana”81 –, c’è quantomeno una prova indiretta del fatto che i piacentini dovessero conoscere quel testo e, altrettanto verosimilmente, averne tratto qualche pur scarna notizia anche sui martiri titolari delle proprie chiese maggiori. Certo, il pellegrino di Piacenza non sembra in questo caso tradire un particolare entusiasmo per la scoperta antiochena, né soffermarvisi più di tanto. Del resto, non intendo assumere quell’inciso come prova del fatto 75. Cfr. ibidem p. 233 (§ 47, 1 rec. altera). 76. Cfr. ibidem, pp. 33, 47 ss.; con le ulteriori annotazioni di Chiesa, Itinerarium Antonini, pp. 228 s. 77. Cfr. Milani, Itinerarium Antonini Placentini , pp. 48 s., 57; Chiesa, Itinerarium Antonini, pp. 227, 231. 78. Cfr. Milani, Itinerarium Antonini Placentini , p. 49; la vicenda dell’edizione ginevrina è brevemente illustrata da Chiesa, Itinerarium Antonini, p. 228; lo studio accurato di Anna Riva, La biblioteca capitolare, non sembra accennare al manoscritto in questione. 79. Cfr. Milani, Itinerarium Antonini Placentini, p. 235 (§ 48, 4 rec. altera). 80. Ibidem, p. 89 (§ 1, 1 rec. altera); si veda ibidem, p. 34. 81. Cfr. ibidem, p. 35 e n. 18.
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che i piacentini dovevano essere consapevoli dell’identità antiochena (e non patavina) della “loro” Giustina già molti secoli prima della traslazione del 1001, e conoscere dunque le gesta di lei. Tuttavia, tanto nel caso – non dimostrabile – che essi avessero potuto leggere l’Itinerarium nell’antica recensione, quanto – e a maggior ragione – nell’eventualità che ne conoscessero il più aulico révernissage di età carolingia, con il ghiotto particolare dell’esistenza di una passio, ebbene: una qualche suggestione, e una qualche curiosità, i dotti lettori locali di quell’antico resoconto di viaggio è difficile pensare non ne avessero tratto.82 Certo, anche da quel pochissimo che riusciamo a scorgere delle pur note istituzioni scolastiche e relativi ateliers scrittorî di Piacenza anteriormente al secolo XII,83 è ben difficile potersi spingere oltre le soglie del IX secolo quanto alla cronologia di una possibile diffusione e conoscenza dell’Itinerarium. Ma che la traccia fornita da quell’opuscolo possa avere rappresentato un precedente “anagrafico” di un qualche peso, su cui poi, in piena fioritura letteraria ottoniana – nel milieu ellenofono ed ellenofilo promossa da Giovanni Filagato, e nell’intereccio di relazioni codicologicamente documentate che intercorsero nei decenni a cavallo del Mille tra le scuole capitolari di Piacenza e i centri scrittorî di Bobbio e Nonantola, ma anche con il Mezzogiorno grecanico e la Bamberg di Enrico II84 –, si 82. A suo tempo mi ero chiesto se un motivo intrinseco alla leggenda di Cipriano e Giustina potesse aver favorito a Piacenza l’opzione dedicatoria per la martire di Nicomedia, ammesso che già prima del Mille vi fossero note le linee portanti di quel ciclo agiografico; e così formulavo l’ipotesi che il modello verginale di Giustina rispecchiasse o quantomeno incontrasse elettivamente la peculiare sensibilità del milieu monastico femminile riformato di età carolingia (cfr. Canetti, «Gloriosa Civitas», pp. 102 ss.). Dall’anno 870 fioriva a Piacenza l’abbazia femminile di San Sisto, originale creazione dell’imperatrice Angilberga, sposa amatissima di quel Ludovico II che, a pochi anni dalla fondazione del monastero, concedeva al vescovo Paolo il diritto di fortificare la nuova canonica di Santa Giustina a ridosso delle mura urbane (cfr. ibidem, pp. 30 s.). Quel grande monastero, oltre al rilievo economico-politico e strategico-territoriale che veniva ad assumere nel programma imperiale, rispondeva all’esigenza propria delle aristocrazie locali di collocare le donne nubili o le vedove in una sede tale da assicurare loro una dignitosa e protetta esistenza cristiana, per tacere ovviamente dei corposi interessi economici e politico-territoriali sempre connessi alla fondazione di una grande abbazia. 83. Cfr. Riva, La biblioteca capitolare, pp. 3-9; Ead., Libri, cultura e scuola, pp. 323-327. 84. Cfr. Ropa, Letteratura e agiografia, pp. 79 s.; Riva, Libri, cultura e scuola, pp. 325 s.; ulteriori indicazioni in Canetti, «Gloriosa Civitas», p. 113; sulle relazioni culturali tra Bizanzio e l’Occidente durante gli anni di reggenza tra Ottone II e Ottone III si veda ora
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pensò bene di ordire la trama di un quadro biografico di ben altro spessore e fortuna, è un’ipotesi che non mi pare si debba escludere a priori. L’origine, come si sa, spiega ben poco dei successivi sviluppi di un culto; e a quel culto, in effetti, fu dato impulso nella Piacenza di Sigefredo, nei primi anni dopo il Mille; quando, evidentemente, si avvertiva impellente il bisogno di attribuire alla santa quelle coodinate biografiche atte a confortare il possesso delle reliquie e a sostanziare il tenore delle celebrazioni liturgiche.85 Ed è ovvio che ormai, in quel frangente politico-ecclesiastico, dovesse andar bene a tutti la rimozione di una scomoda questione di precedenza e originalità dedicatoria – ammesso che mai qualcuno l’avesse sollevata in maniera radicale prima di allora: e si ha motivo, io credo, di dubitarne. Insomma, la Giustina di cui ormai si potrà vantare il possesso delle reliquie, e della quale si celebrava il culto nel complesso edilizio vescovile (chiese battesimale di San Giovanni Evangelista e cattedrale-canonica di Santa Giustina) e nella città tutta, non poteva che essere quella di cui si parla nella Translatio. La storia doveva a quel punto essere già ben nota, poiché il resoconto della traslazione vi allude ripetutamente.86 Giustina è una vergine antiochena circuita dal mago-teurgo Cipriano per conto del pagano Aglaide, bramoso di lei. Convertitosi dopo avere sperimentato la vanità delle arti demoniache nel fiaccare la resistenza della fanciulla, Cipriano, con il rogo rituale dei libri di magici, viene fatto dapprima custode e poi sacerdote e taumaturgo presso la chiesa antiochena; a diciassette anni dalla conversione è la grande opera di Huschner, Transalpine Kommunikation im Mittelalter, II, pp. 495-509. Il Prisciano piacentino del IX-X secolo, con i suoi numerosi grecismi non traslitterati (cfr. Riva, La biblioteca capitolare, p. 7), sembra provare che qualcuno a Piacenza, in quell’epoca, era ancora in grado di leggere il greco. Nello scriptorium di Nonantola, nella seconda metà del secolo X, operavano numerosi letterati grecofoni; e il futuro Giovanni XVI, che fu abate del cenobio modenese prima della nomina a vescovo di Piacenza, potrebbe avere consciuto proprio lì il testo o quantomeno il motivo letterario di Cipriano e Giustina veicolato dal Carme di Eudocia o dalla Biblioteca di Fozio. Le relazioni politico-diplomatiche di Giovanni Filagato, arcivescovo di Piacenza e arcicancelliere del Regnum, sono state finemente analizzate negli studi di Huschner, Piacenza – Como – Mainz – Bamberg, pp. 19-30; Id., Transalpine Kommunikation im Mittelalter, I, pp. 141-144, 247-256; cfr. anche D’Acunto, Nostrum Italicum regnum, pp. 34 s., 78, 94, 103 s., 121 s. 132. Ho potuto tener conto delle nuove risultanze di queste indagini nel mio saggio di sintesi La chiesa piacentina. 85. Ritorno più avanti su questo punto chiave. 86. Translatio beatae Justinae, §§ 1-2, p. 258D-E; § 6, p. 259D; § 8, 259F; § 9, p. 260A; § 12, p. 260D;
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eletto vescovo della città siriaca. Dopo l’arresto e le molte torture (sospeso in aria in catene e scorticato, mentre la vergine è fustigata col nerbo di bue; entrambi vengono poi immersi in un pentolone pieno di pece, grasso e cera bollenti), subisce infine la prova estrema del martirio a Nicomedia, sotto Diocleziano, insieme a Giustina e ad un certo Teoctisto o Teognisto, tutti decapitati sulle rive del fiume Gallo. I corpi, sottratti alla sorveglianza da un gruppo di marinai, verranno pietosamente raccolti e trasportati a Roma dove, nei pressi del foro di Claudio, la pia matrona Rufina avrebbe eretto un santuario in memoria dei martiri. Una leggenda fascinosa e piccante (se ne sarebbe appropriato anche il marchese de Sade nel tratteggiare gli scabrosi infortunî della virtù di Justine),87 e di cui ben presto anche i chierici di Piacenza si procurarono copia ovvero, probabilmente, rispolverarono dai loro archivi reali o immaginari. Il primo testimone locale della Passio di Cipriano e Giustina è in effetti un lezionario-corale del secolo XII, il codice 63 dell’Archivio capitolare del Duomo, che ci tramanda anche una recensione della Translatio leggermente diversa da quella che Cristoforo Poggiali, poco dopo la metà Settecento, trasse da un manoscritto ora perduto, e che inviò ad Anversa al Bollandista Stiltingh per l’edizione nel VII volume di settembre degli Acta Sanctorum (il testo fu però curato da J. Cleus, che a quanto sembra collazionò l’apografo pergamenaceo della cattedrale con la trascrizione del Poggiali).88 È degno di nota un particolare riferito dallo stesso Poggiali, secondo il quale il titolo del manoscritto cui attingeva era il seguente: «Incipit alia translatio Sanctorum Martirum Cypriani et Justine, quam episcopus Aldo a Constantinopoli detulit, sicut in Grecorum libris interpretatam et scriptam invenit».89 Il testo greco ritrovato dal presule riformatore piacentino, di cui è nota l’inventio del corpo di sant’Eufemia corrente l’anno 1091, poteva essere difficilmente quello della translatio da Roma a Piacenza. Malgrado i singolari grecismi del testo latino di BHL 2054 – giustificabili a mio avviso con una redazione facente capo al circolo ellenofono di Giovanni Filagato, promotore dell’inventio romana e donatore delle reliquie di Giustina ai piacentini, che nella 87. Vedi nota 63. 88. Cfr. Canetti, «Gloriosa Civitas», p. 112. 89. Piacenza, Archivio capitolare della Cattedrale, codice 63, fol. 126 b ; Actes constatant la participation des Plaisançais, p. 398; cfr. Poggiali, Memorie storiche, III, p. 247; Canetti, «Gloriosa Civitas», pp. 146 s.; Ponzini, Santa Giustina, pp. 17 s.
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Roma del millenario di Cristo lo visitarono nella prigione in cui l’antipapa era stato rinchiuso da Ottone III e Gregorio V all’indomani della penosa destituzione90 –, è piuttosto improbabile l’esistenza di un antigrafo di una versione greca, per giunta importato dal vescovo piacentino Aldo al suo ritorno dalla prima Crociata (1106-1107). In realtà, doveva trattarsi della Passio o comunque di una versione del ciclo leggendario relativo a Cipriano e Giustina di Antiochia, di cui appunto il codice 63 dell’archivio capitolare del duomo costituisce in loco la più antica testimonianza latina (intitolata Illuminatio). Siccome il manoscritto della versione latina fatta approntare da Aldo conteneva effettivamente anche il testo della Translatio è probabile che il copista, il quale verosimilmente conosceva almeno un’altra recensione locale dell’opera, abbia operato una sorta di sineddoche involontaria collegando il titolo dell’opuscolo piacentino all’intero corpus di testi relativi ai martiri di Nicomedia, che si accingeva a trascrivere. Entrambi i testi tràditi dal codice 63 (Illuminatio e Translatio) appaiono già suddivisi in nove letture liturgiche, e dunque rappresentano uno stadio di rielaborazione successiva rispetto ai modelli cui il redattore poté a suo tempo attingere.91 Oltre alle copiose fonti cronachistiche che ne rievocano, ancora a distanza di anni, l’usurpazione del soglio papale tra l’aprile 997 e il febbraio 998,92 una traccia importante dei trascorsi romani del monaco greco-calabro Giovanni Filagato, arcivescovo di Piacenza e già abate di Nonantola e arcicancelliere del Regnum negli anni della reggenza di Teofano, è proprio quella legata al ritrovamento, che lui stesso avrebbe promosso «in basilica Sanctae Rufinae»,93 delle reliquie della santa martire Giusti90. Cfr. Canetti, «Gloriosa Civitas», pp. 73 ss.; Id., Giovanni XVI; Huschner, Giovanni XVI. 91. Per le sequenze liturgiche su santa Giustina contenute nel codice 65 (Liber Magistri) si veda l’analisi accurata di Møller Jensen, Santa Giustina, pp. 287 ss. Dopo le menzioni della festa del 26 settembre nei martirologi storici (vedi nota 69), la leggenda di Cipriano e Giustina non ha avuto nell’Occidente bassomedievale una grande diffusione liturgica: oltre che a Piacenza è attestata, per quanto ora ne sappiamo, anche in un leggendario di Fano dell’XI secolo, segnalato qualche anno fa da Verrando, Due leggendari ancora inediti, p. 520. 92. Per i dettagli della vicenda e l’analisi sistematica della fonti rinvio alle “voci” di Huschner, Giovanni XVI; e Canetti, Giovanni XVI; cfr. anche Id., Giovanni Filagato. 93. È questo un particolare attestato da tutta la tradizione letteraria della Passio di Cipriano d’Antiochia: cfr. Acta SS. Sept. VII, pp. 197B, 202A (J. Cleus, Comm. praevius ad diem 26 Sept.); Delehaye, Cyprien d’Antiochie, p. 320; Amore, Cipriano, Giustina e Teoctisto, col. 1285; Cipriano d’Antiochia, Confessione, p. 96.
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na. Testimonianza indiretta di quella inventio – probabilmente un furtum sacrum su commissione, prassi allora comunissima, e in questo caso facilitata dalla momentanea collocazione del nostro al vertice istituzionale della città-scrigno reliquiale per antonomasia – viene fornita dal testo della Translatio piacentina, che fa risalire il trionfale rimpatrio dei sacri resti all’anno 1001.94 Si tratta di un paludato testo liturgico redatto negli anni immediatamente seguenti (non prima del 1006, giacché l’agiografo, dopo aver fatto allusione alla morte precoce di Ottone III, avvenuta nel 1002,95 parla di miracoli verificatisi ininterrottamente per cinque anni intorno al sepolcro piacentino della santa, il che ci porta appunto al 1006),96 e che tradisce, nei toni e nel linguaggio, sia una forte simpatia per Filagato sia, come già anticipavo, un probabile influsso dell’entourage letterario ellenofilo ed ellenofono legato alla presenza di lui prima a Nonantola e poi a Piacenza.97 Un drappello di piacentini si reca dunque a Roma presso l’antipapa, imprigionato ma ancora in possesso delle reliquie della santa, per sollecitare il dono promesso di quella preziosa eredità. Va sottolineato il fatto che la delegazione piacentina incontrò Giovanni soltanto dopo la sua destituzione e durante la successiva prigionia, e perciò non prima del marzo/aprile del 998: i colloqui avvenuti con l’ex arcivescovo, qui presentato come ancor sofferente per le torture subite e ridotto a una truce maschera deforme, sembrerebbero allora documentare la possibilità che le sue mutilazioni siano state meno gravi di quanto non appaia da altre fonti coeve, se non altro perché la lingua non poteva essergli stata tagliata, come del resto si evince anche dalla sobria ma precisa testimonianza di Rodolfo il Glabro e poi da quella ben più polemica del cronista milanese Arnolfo.98 Suggestiva, ma non per ciò senz’altro suffragabile, è la proposta di attribuire la redazione del testo allo stesso Sigefredo; proposta che è stata suggerita da Paolo Golinelli anche sulla base di quanto io stesso avevo potuto 94. Translatio beatae Justinae, § 15, p. 261B. 95. Cfr. ibidem, § 3, p. 258F. 96. «Per quinquennium enim nulla pene die fuit, quae absque miraculis vacua transiret.» (ibidem, § 13, p. 260E). 97. Cfr. Canetti, «Gloriosa Civitas», pp. 83 ss., 112 s.; Philippart, Trigalet, Légendes hagiographiques de Parme et de Plaisance, pp. 252 s., 277; Tomea, L’agiografia dell’Italia settentrionale, p. 137. 98. Rodolfo il Glabro, Storie, I, iv, 12, pp. 30 s. ; Arnulfi Mediol. Liber gestorum recentium, I, 11, ed. Zey, p. 135; ed. Scaravelli, p. 72.
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scrivere sull’attivismo cultuale di quel presule. È vero che tale ipotesi «spiegherebbe l’andata dell’agiografo a Roma, la sua partecipazione attiva alle vicende che narra», la precisione di alcune notazioni topografiche inserite nel testo nonché la successiva promozione piacentina del culto della martire.99 Tuttavia, il tono di deferenza tradito nei confronti di Giovanni Filagato mal si concilia, di là dall’ovvia compassione per il mutilo prigioniero, con la possibilità (anch’essa indimostrabile ma non perciò inverosimile) che Sigefredo fosse stato l’eletto del 988 scalzato dalla nomina di Filagato da parte della basilissa Teofane; e, in ogni caso, mal si concilia con la successione di Sigefredo a Filagato stesso, attestata dal diploma imperiale del luglio 997, e sostenuta da Ottone III e Gregorio V, i quali, di lì a pochi mesi, faranno deporre e torturare l’antipapa, dopo averlo fin da subito ripudiato e scomunicato.100 L’attribuzione a Sigefredo appare inoltre poco congrua allo stile ellenizzante della Translatio, che rinvia semmai all’entourage dello stesso Filagato, anche se non si può escludere la persistenza locale, negli anni a venire, di qualche chierico affiliato o influenzato dalla sua cerchia nonostante la damnatio memoriae dell’antipapa e la precoce emarginazione presso la corte germanica dei personaggi che dovevano la loro fortuna agli anni della reggenza di Teofano.101 La venuta di Sigefredo a Roma è in effetti attestata, ma soltanto in occasione del concilio papale del 999 e poi, successivamente, non prima del 1012.102 È anche vero che non è documentabile la presenza del nostro a Piacenza o altrove nel 1001, l’anno della traslazione; ma anche qui non si esce dal terreno sdrucciolevole delle ipotesi ex silentio. In ogni caso è molto improbabile che qualcun altro dal presule in carica – non menzionato, e pour cause, dal testo della Translatio – abbia potuto orchestrare l’adventus trionfale delle reliquie di Giustina nella chiesa vescovile di San Giovanni de domo in quella tarda estate del 1001.103 Sigefredo era stato uno dei tredici prelati italici entrati in carica dopo la prima discesa di Ottone II in Italia (marzo 996) sui trentasette nel complesso attestati a partire da quel momento ma già insediati da qualche an99. Golinelli, Giustina di Antiochia, p. 52; con riferimento al mio studio «Gloriosa Civitas», pp. 104 ss. 100. Per tutte le vicende qui richiamate rinvio alle indicazioni fornite sopra alla nota 85. 101. Vedi nota 84. 102. Vedi infra, note 109-112. 103. Cfr. Translatio beatae Justinae, § 10, p. 260B.
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no.104 Sei di quei tredici provenivano direttamente dal prestigioso vivaio di esperienze internazionali costituito dalla cappella regia (non è il caso del nostro vescovo), ma anche i restanti erano uomini di provata obbedienza imperiale e appartenevano a famiglie in qualche modo legate al regno imperiale sassone.105 Rampollo della famiglia capitaneale dei da Besate, di origine longobarda, Sigefredo era figlio di Rotofredo, un fratello dell’arcivescovo Giovanni di Ravenna;106 legato perciò a doppio filo allo zio e superiore ecclesiastico, era poi imparentato con numerosi chierici e alti prelati dell’Italia centro-settentrionale, come i vescovi Cuniberto di Torino e Giovanni di Lucca.107 A questa stirpe apparteneva anche il retore Anselmo il Peripatetico, membro dell’ordo maior della chiesa milanese, che fornisce ragguagli preziosi e peraltro ben noti sulla propria genealogia.108 Ottime le relazioni intrattenute da Sigefredo con i vescovi di Roma: sottoscrisse al concilio romano del gennaio 999 tenuto in San Pietro alla presenza di Ottone III;109 il 2 dicembre del 1006 fu incaricato da papa Giovanni XVIII, unitamente ai colleghi Leone di Vercelli, Gezo di Torino e Costantino d’Alba, di consacrare l’abbazia di Frutturia, il grande cenobio dinastico fondato da Arduino d’Ivrea e Guglielmo di Volpiano.110 Nel dicembre del 1012, a Roma, sottoscrisse con altri vescovi una lettera di Benedetto VIII al vescovo Ermengaldo di Urgel;111 infine, il 3 gennaio del 104. A quanto mi consta, la prima attestazione disponibile dell’esercizio effettivo dell’episcopato piacentino da parte di Sigefredo è costituita dalla sua menzione in un placito tenuto il 26 gennaio 998 «in castro sancti Antonini» da Balderico chierico e messo imperiale: cfr. I Placiti del «Regnum Italiae», pp. 360-362, n° 233). Il testo è interessante anche per la menzione di giudici del sacro palazzo e di vassalli vescovili. 105. Più che di astratta politica filo-vescovile, si tratta «di interventi specifici tesi a privilegiare alcuni prelati che provengono dall’entourage imperiale e che non a caso continuarono a farne parte anche dopo l’elezione episcopale» (D’Acunto, Nostrum Italicum regnum, p. 132). 106. Cfr. Schwartz, Die Besetzung der Bistümer, pp. 151 s. 107. Cfr. ibidem, pp. 131 s., 212. Fra l’altro, l’ultima menzione di Sigefredo vivente è quella relativa al suo intervento in qualità di intercessore, a fianco del papa, dell’imperatrice e di altri vescovi, in un diploma di Corrado II dato a Roma il 7 aprile 1027 a favore di Giovanni di Lucca, parente del nostro (cfr. Die Urkunden Konrad II., pp. 112 s., n° 83). 108. Cfr. Schwartz, Die Besetzung der Bistümer, pp. 189 s.; Neiske, Das ältere Nekrolog, pp. 44-46, 246 s.; Pauler, Das Regnum Italiae, p. 87; si sofferma ora sulla figura di Sigefredo anche Huschner, Transalpine Kommunikation im Mittelalter, I, pp. 363-365; II, pp. 849 s. 109. Cfr. Papsturkunden, p. 707 (n° 361). 110. Ibidem, p. 824 (n° 430). 111. Ibidem, p. 906 (n° 477).
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1015, sempre in Laterano, il suo nome figura accanto a quello di numerosi altri vescovi e abati in calce a un privilegio dello stesso papa a favore del monastero di Fruttuaria.112 Fedele sostenitore di Enrico II durante la lotta contro l’ultimo re “nazionale” d’Italia, dopo la rovinosa sconfitta sul Brenta di Arduino d’Ivrea, nella primavera del 1004, Sigefredo, con l’arcivescovo Federico di Ravenna e gli altri suffraganei della provincia ecclesiastica, all’altezza di Brescia andò incontro al sovrano accompagnandolo poi nella trionfale discesa verso Pavia, dove il re di Germania, il 12 maggio, avrebbe ricevuto la corona italica tra violente manifestazioni di ostilità antitedesca.113 Negli anni a seguire, la diocesi di Piacenza si conferma nel proprio ruolo di ganglio importante nel sistema di alleanze filoimperiali dell’Italia centro-settentrionale, un assetto ancor sempre incentrato sui maggiori vescovadi e su alcune stirpi dell’aristocrazia signorile.114 Il favore del sovrano alle istituzioni ecclesiastiche si tradusse, inoltre, nella prammatica ricognizione del sostegno imperiale al cenobio femminile di San Sisto,115 ma soprattutto nella conferma del recentissimo privilegio ottoniano a favore del monastero di San Savino, ricostruito nell’anno Mille per iniziativa di Sigefredo con gli auspici di Ottone III,116 dopo che gli Ungari, nel 112. Ibidem, p. 938 (n° 495). 113. Cfr. Cammarosano, Storia dell’Italia medievale, pp. 230 ss. Qualche esitazione iniziale di Sigefredo a favore di Arduino, come ipotizza Pauler, Das Regnum Italiae, pp. 87 s., sembrerebbe tradire la datazione, secondo gli anni di regno di Arduino, del documento pubblicato dal Campi, Dell’historia, I, p. 497, n° LXIV (donazione del conte Lanfranco e della moglie Berta alla chiesa di Santa Giustina). La menzione del nostro, tra i vescovi politicamente indecisi, nella biografia enriciana di Adalboldo di Utrecht (Adalboldi Vita Heinrici, 15, p. 687), è subordinata al problema della «dubitosa testimonianza» di questa fonte (Cammarosano, Storia dell’Italia medievale, p. 264, nota 10); non mi è stato possibile consultare l’edizione a cura di H. van Rij (Amsterdam 1983). 114. Cfr. Die Urkunden Heinrichs II. und Arduins, pp. 583-586, n° 461 (San Zeno di Verona, 6 dicembre 1021): Sigefredo presenzia e sottoscrive, unitamente al patriarca di Aquileia, agli arcivescovi di Colonia e di Milano, ai vescovi di Verona, Vercelli, Treviso, Belluno e Parma, e a numerosi pubblici ufficiali, al placito imperiale in cui l’abate Michele di San Zeno e il suo avvocato, Amelgauso, rivendicano contro il conte Regimbaldo e il nipote di lui, Giovanni, la proprietà di sei cappelle nel contado di Treviso. 115. Cfr. Die Urkunden Heinrichs II. und Arduins, pp. 217 s., n° 183 (Ingelheim, 1008). 116. L’originale del documento sottoscritto da Sigefredo, finalizzato alla reparatio e alla reformatio del monastero di San Savino, e conservato nell’Archivo di Stato di Parma, fu pubblicato da Giovanni Drei ne Le carte degli archivi parmensi, I, p. 277, n° XCIII (ma vedi
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924, avevano raso al suolo l’omonima chiesa abbaziale edificata dal predecessore Everardo alla fine del IX secolo.117 La rinata abbazia fu subito oggetto di importanti provvedimenti a tutela di un cospicuo patrimonio: erano mansi, orti, vigne, e intere corti, ville, chiese e castelli, con relative rendite e decime, sparsi in tutto il territorio diocesano. In particolare, si segnala un «decretum de non auferendis terris vel rebus» promulgato dal vescovo Sigefredo, di cui è fatta menzione in un privilegio di Gregorio V, confermato qualche anno dopo da Benedetto VIII su richiesta del nostro presule e dell’abate Guimperto (1012-1014),118 dove fra l’altro si denunziavano i rischi di ordinazioni simoniache o comunque dettate da mera ambizione temporalistica, spia di una prassi di appropriazione signorile di beni e uffici ecclesiastici, in quegli anni ovunque massicciamente diffusa e largamente attestata.119 Il titolo di una basilica dedicata all’antico vescovo di età ambrosiana compare per la prima volta in un documento della fine dell’VIII secolo.120 In questa chiesa, più volte riedificata, le spoglie di san Savino sarebbero state inumate e poi conservate nel corso dei secoli.121 Costruita in area funeraria, a oriente della città, nei pressi della via Emilia, sarebbe stata in origine dedicata ai Dodici Apostoli: è quanto vorrebbe accreditare l’esordio del Necrologio del 1046, dove si dice che «[…] questa chiesa venne edificata da Costantino e Opiniano, originari di Roma, e consacrata i onore dei XII Apostoli dal beato vescovo Savino, il cui corpo qui riposa accanto a quello di cinque altri santi […]».122 Benché non sia dato verificare dal punto di vigià Campi, Dell’historia, I, p. 496, n° LXIII). Il diploma imperiale fu rilasciato a Roma, il 5 novembre dell’anno 1000, su espressa richiesta del «dilectissimus noster domnus Sigefredus Placentinae aecclesiae venerabilis presul» (Die Urkunden Otto des III., p. 814, n° 385). 117. Cfr. Campi, Dell’historia, I, pp. 478 s., n° XL (anno 903); Le carte degli archivi parmensi, I, pp. 32-37, n° III (da una copia del secolo X dell’Archivio di Stato di Parma); cfr. Canetti, «Gloriosa Civitas», p. 41, nota 76. 118. Cfr. Papsturkunden, pp. 893 s., n° 470 (anni 1012-1014); Neiske, Das ältere Nekrolog, p. 226. 119. Cfr. Papsturkunden, pp. 675 s., n° 347 (Ravenna, gennaio/febbraio 998); Neiske, Das ältere Nekrolog, pp. 44 s., 246 s. 120. Vedi nota 27; cfr. Picard, Le souvenir des évêques, p. 275; Canetti, «Gloriosa Civitas», p. 65. 121. La più recente (e affidabile) rassegna di dati storicamente accertabili sull’antico vescovo di Piacenza è costituita dalla voce «Sabinus [II]» contenuta nella Prosopographie chrétienne du Bas-Empire, pp. 1969-1973. 122. Neiske, Das ältere Nekrolog, p. 118; cfr. Picard, Le souvenir des évêques, pp. 275 ss.
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sta archeologico o filologico i dati contenuti in questo mito di fondazione, il testo, unitamente al calendario-necrologio che vuole introdurre – il quale ultimo è di per sé, innanzitutto, uno straordinario documento prosopografico per la storia politico-sociale –, costituisce una testimonianza molto interessante sul piano mnemostorico, rappresenta cioè la spia di quel processo di ricognizione e rielaborazione di memorie e tradizioni cultuali relative al passato cittadino, che in quei decenni les élites colte (ancora quasi esclusivamente di estrazione clericale) dell’Italia centro-settentrionale andavano promuovendo servendosi di mezzi e strategie differenziate, dalla redazione di testi narrativi e liturgici alla produzione di documenti raccolti in grandi cartulari; dalla committenza di epigrafi commemorative alla ricostruzione di edifici monumentali.123 È probabile, nel nostro caso, che il testo proemiale del Necrologio costituisse il tentativo di razionalizzazione di dati e di nomi che risultavano da una lettura di epigrafi funerarie o dalla manomissione di tombe e reliquie di vescovi e santi realmente presenti in loco, e scrupolosamente elencate dal redattore.124 Sempre all’alba del nuovo millennio, il perfezionamento, per interpolazione e contaminazione, delle esili coordinate agiografiche e delle lezioni liturgiche relative alla sua Passio, favoriva e rifletteva il consolidarsi dell’antico culto patronale per il martire Antonino.125 E al vescovo 123. Cfr. Golinelli, L’agiografia cittadina; Id., Città e culto dei santi, pp. 67-88. Tomea, L’agiografia dell’Italia Settentrionale, pp. 137 s., n. 98, ha formulato la suggestiva ipotesi, anche sulla base delle mie pagine del 1993 e dei lavori di Racine, che il testo inedito del panegirico di san Savino (BHL 7450b), tràdito dal ms. Vat. lat. 5772 (sec. XII in.), sicuramente posteriore alla fine del IX secolo (giacché l’autore mostra di avvalersi, oltre che della notizia fornita in III 10 dei Dialogi di Gregorio Magno, della Inventio sancti Antonini [BHL 580], a sua volta trasmessa dal Vat. lat. 5771, di provenienza bobbiense), potrebbe essere stato composto proprio negli anni dell’episcopato di Sigefredo. 124. Alla fine del prologo del Necrologio si riporta in effetti un «Epitafium super tumba sancti Sabini» (cfr. Neiske, Das ältere Nekrolog, p. 118). 125. In particolare, nel quadro della riforma dei libri liturgici attribuita a un arcidiacono Giovanni, venne allora fissandosi il canone leggendario relativo al martirio di Antonino, esemplato sulla Passio del martire omonimo di Apamea di Siria (cfr. I. B. Sollerius in Acta SS. Iul. II, coll. 7A-19E; I. Stiltingus in Acta SS. Sept. I, coll. 340A ss.); ne è testimone la narrazione tràdita dal codice 63 dell’Archivio capitolare della Cattedrale di Piacenza (sec. XII). La tesi ardita, già formulata da Michele Tosi, e ora trionfalmente accolta da Domenico Ponzini, secondo cui il testo della Inventio sancti Antonini (BHL 580) tràdito dal codice Vat. Lat. 5771 (un passionario bobbiense del IX-X secolo) sarebbe stato composto, salvo una più tarda interpolazione, e come proverebbe «un attento esame paleografico», in epoca ambro-
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Sigefredo, o comunque agli anni del suo episcopato, sembra fra l’altro da attribuirsi la promozione dei lavori di restauro che modificarono il vecchio assetto planimetrico della basilica intitolata al patrono locale.126 È in questo ambiente, dunque, che rifioriva il culto per la martire Giustina, dopo l’arrivo trionfale delle reliquie. Il lungo pontificato di Sigefredo (morirà nel 1031) è costellato da svariate campagne di fondazione di chiese e promozione di culti; specchio, fra l’altro, degli stretti legami giuridico-patrimoniali e funzionariali (avvocatura e altri uffici curiali e giudiziari di matrice pubblicistica) tra la chiesa vescovile e le famiglie aristocratiche della città e del contado.127 Cinquant’anni prima che la città venga investita dalle polemiche e dai conflitti per la riforma ecclesiastica, la chiesa piacentina conosce un momento di grande slancio. La tenacia e le doti di una figura eccezionale, germinando sul terreno fertile dell’espansione economico-demografica e delle trasformazioni politico-istituzionali, favoriscono il consolidarsi del prestigio e delle prerogative dei vescovi, che si affermano nel riassetto delle strutture ecclesiastiche sfruttando al meglio le nuove capacità aggreganti degli antichi culti patronali. siana «vivente il vescovo Savino» (Ponzini, S. Antonino patrono di Piacenza, p. 170), fautore dell’autenitco ritrovamento dei resti del protomartire di Piacenza, continua a destare molte perplessità nonostante le ipotesi cronologiche e attributive avanzate nel mio studio del 1993 fossero premature e certamente da rivedere, come più volte ho avuto occasione di riconoscere. Le tracce archeologiche, topografiche e letterarie addotte da mons. Ponzini documentano semplicemente la continuità del culto (cosa che nessuno aveva mai messo in dubbio), e sono ben poco congrue alla dimostrazione della presunta paternità saviniana del ritrovamento e della contemporaneità del testo della Inventio a quell’evento semileggendario. Per non dire che il patente calco ambrosiamo, la celeberrrima lettera a Marcellina, costituisce il paradigma letterario per eccellenza di tutta l’agiografia latina medievale relativa alle inventiones di reliquie. In ogni caso, si dovrebbe prima chiarire cosa si intenda esattamente per «storicità del ritrovamento dei resti mortali» (ibidem), e se davvero lo storico dell’immaginario religioso debba limitarsi a una sempiterna riproposizione delle inventiones archeologiche dei suoi illustri antenati o non abbia anche il diritto/dovere di occuparsi delle alchimie della memoria che riplasmano incessantemente un passato che è sempre sotteso alle trame del presente. 126. Valenzano, Sant’Antonino di Piacenza, ha confermato, anche sulla base di recenti scavi archeologici, la tradizione scritta (messa in dubbio dal Picard, Le souvenir des évêques, p. 314, nota 8; ma cfr. Canetti, «Gloriosa Civitas», p. 108 e nota 112) relativa a quell’episodio. 127. Cfr. Racine, Il vescovo di Piacenza, pp. 271-274, dove è ben delineata, sulla scia degli studi del Dilcher e del Tabacco, la natura della Stadtherrschaft vescovile e la tipologia dei rapporti funzionariali e patrimoniali tra il presule e l’aristocrazia piacentina tra X e XI secolo.
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Cristina La Rocca I silenzi dell’agiografia. La mancanza di sante in età longobarda
Ragionare sulle assenze è sempre rischioso e, qualche volta, persino inutile. Tuttavia il caso della mancanza assoluta di santità femminile nel regno longobardo merita qualche riflessione, soprattutto se paragoniamo questa vistosa assenza con la presenza massiccia di sante e di sante-regine nel vicino regno dei Franchi, a partire dalla fine del secolo VI e fino alla metà dell’VIII secolo. Va subito detto che, secondo l’ottica tradizionale di valutazione del regno longobardo, il problema che qui mi pongo sarebbe risolto con grande rapidità: si direbbe infatti, seguendo l’impostazione a suo tempo data sulla questione della religiosità longobarda da Gian Piero Bognetti, che non vi furono non soltanto sante, ma nemmeno santi, di età longobarda, perché i Longobardi erano rimasti tutto sommato pagani, dato che la loro conversione «superficiale e opportunistica» all’arianesimo era stata soltanto una mossa di Alboino per conquistare la simpatia dei Goti e non un processo derivante dalla trasformazione delle coscienze aristocratiche oppure da una ufficiale conversione regia.1 Dal Bognetti in poi si sono infatti ripetutamente sottolineate le difficoltà che il cristianesimo incontrò nell’essere davvero accettato e praticato con coerenza, sia dalla popolazione rurale, ma anche dalle élites guerriere del regno: si è perciò più volte fatto ricorso al concetto di “vernice cristiana” che avrebbe mascherato e modellato comportamenti sociali e religiosi rimasti di matrice fortemente pagana.2 Sotto il profilo materiale, lo stesso fenomeno della deposizione dei defunti 1. Su tutti questi elementi: Gasparri, I Germani immaginari; Id., Culture barbariche. 2. Discute specificamente questo punto il recente lavoro di Pohl, Deliberate Ambiguity.
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aristocratici con un ricco corredo funebre di armi e di gioielli è ancora interpretato come persistenza del paganesimo delle élites “germaniche”, a dispetto dell’adozione formale del cristianesimo da parte regia.3 Secondo questa prospettiva, quindi, ci sarebbe piuttosto da stupirsi se i santi e le sante in età longobarda ci fossero. Ma la recente ricerca, mi riferisco in particolare ai lavori di Walter Pohl, Ian Wood e Mayke De Jong,4 ha profondamente modificato non soltanto la valutazione degli aspetti della religiosità altomedievale – a lungo ritenuta permeata da aspetti cosiddetti germanici che l’avrebbero allontanata irrimediabilmente dal cristianesimo autentico – ma anche ha profondamente mutato la prospettiva di osservazione. Innanzitutto è ormai chiaro che la linea di demarcazione tra “romani” e “germani” (e quindi tra “cristiani” e “pagani”) – dal punto di vista politico, religioso, culturale – non può essere tracciata meccanicamente; inoltre i criteri di distinzione dei ‘germani’ dai ‘romani’ non possono essere, nel corso del VI secolo e in quelli successivi, quelli utilizzati da Tacito cinque secoli prima. Si è fatto notare invece che tali nette scissioni sono del tutto implausibili e non verificabili a un attento esame delle fonti. Infatti, se occorre non prospettare l’avanzata del cristianesimo come un processo senza ostacoli e contrasti, altrettanto mistificante appare contrapporre troppo risolutamente pagani e cristiani: entrambe queste categorie non risultano infatti né fisse né immutabili, poiché entrambi i concetti risultano ancorati a un modello teorico di “cristianità originaria”, perfetta e priva di contaminazioni, esso stesso mutevole nel tempo. Se è pur vero che, durante il corso della loro storia, le istituzioni ecclesiastiche auspicarono con vigore il ritorno alla “cristianità originaria” – si pensi all’età carolingia – come processo di depurazione dalle contaminazioni e come strumento attraverso il quale misurare l’intollerabile distanza del presente, è altrettanto vero che le “cristianità originarie”, di volta in volta invocate, erano diversissime le une dalle altre, e che esse esistevano, come differenti modelli di perfezione, soprattutto nella mente dei chierici e non tanto nella realtà del passato. 3. La dicotomia tra sepolture con corredo e cristianizzazione è infatti ancora data per scontata da molti archeologi, per esempio, molto recentemente da De Marchi, Edifici di culto e territorio. 4. Wood, The Missionary Life; e il breve, ma importante saggio di De Jong, Christianity; sull’etnogenesi dei Barbari, si veda, naturalmente, Pohl, Le origini etniche dell’Europa e Strategies of Distinction.
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Nonostante i tentativi effettuati dalla storiografia nel fornire ai Longobardi una chiara identità religiosa – sia essa cattolica, ariana o pagana – occorre sottolineare che il tratto distintivo della religiosità longobarda rimane assai difficile da definire e da inserire in una precisa categoria confessionale. Gli indizi finora utilizzati per individuarla sono infatti suscettibili di profondi dubbi: per esempio occorre notare che, tra VI e VII secolo, i corredi funerari con armi e gioielli comprendono oggetti, quali le crocette auree, che sono esplicitamente cristiani; inoltre, le stesse tombe con armi e gioielli sono di frequente rinvenute proprio all’interno di edifici ecclesiastici, come dimostrano inoppugnabilmente le recenti ricerche di Gian Pietro Brogiolo.5 È indubbio, dunque, che i Longobardi, sin dal VI secolo, utilizzarono simboli cristiani e luoghi cristiani di sepoltura, e sembra logico dedurre che il processo di cristianizzazione dei Longobardi incluse anche le sepolture con corredo. Sembra proprio che per i Longobardi l’arianesimo e il cattolicesimo siano rimaste, fino ad una età abbastanza avanzata, due opzioni alternative, che però restarono interpretate come un fatto strettamente individuale e non fornirono alcuna colorazione religiosa complessiva al regno: affermare che l’identità ariana costituisse un elemento di separazione tra i Longobardi e gli “indigeni romani” è senz’altro un’esagerazione non confermata dalle fonti stesse.6 Insomma, il problema della mancanza di sante nel regno non pare proprio possa risolversi in una semplice mancanza di religiosità, ma deve essere ricercato altrove. Una peculiarità longobarda comunque esiste davvero, soprattutto rispetto alla retorica delle fonti narrative. Se è norma che le fonti narrative tendano a condensare il processo di conversione cristallizzandolo in un unico episodio eclatante, frutto immediato dell’agire di un singolo individuo – si pensi, per tutte, alla conversione di Clodoveo narrata da Gregorio di Tours7 – il processo di conversione dei Longobardi non è segnato, nelle fonti narrative giunte fino a noi, da nessun gesto memorabile, da nessuna conversione regia effettuata in modo spettacolare, da nessuna opera missionaria che sia oggetto di una apposita e specifica narrativa. Lo stesso 5. Le chiese rurali tra VII e VIII secolo. 6. Gasparri, Culture barbariche; Id., Roma e i Longobardi. 7. Sulla cui datazione si veda Wood, Merovingian Kingdoms, pp. 25-31.
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Bognetti, per dare forma alla sua improbabile ipotesi di missioni orientali dirette ai Longobardi dell’Italia settentrionale, fu costretto a ricostruirle attraverso una complicatissima serie di nessi e suggestioni e non su testi che esplicitamente le menzionassero.8 L’unico aspetto che si può conoscere con certezza è che nel momento in cui compaiono le carte relative a transazioni private e i diplomi regi, vale a dire all’inizio del secolo VIII, sia la regalità longobarda sia l’aristocrazia del regno si presentano come cristiane, favorendo la costruzione di nuove chiese, fondando propri monasteri privati, urbani e rurali, e, da ultimo, fornendo il reclutamento dell’episcopato. Piuttosto, fino all’inizio del secolo VIII, si può parlare di una mancata identificazione tra natio e religio, vale a dire che nel regno dei Longobardi la confessione religiosa rimase un fatto strettamente individuale, privo di qualsiasi rilevanza di natura politica e unificante, almeno fino al regno di Liutprando. Tale mancanza derivò assai probabilmente dalla stessa struttura della regalità longobarda, che rimase – grazie alla forza dell’aristocrazia – sostanzialmente un fatto elettivo, e quindi aperto a tutta l’aristocrazia.9 Tutti i tentativi di dinastizzazione del potere regio – anche per via femminile – fallirono, uno dopo l’altro: l’unico che appare accuratamente preparato da Desiderio e Ansa alla seconda metà dell’VIII secolo, attraverso la nomina di coreggente di Adelchi e una sapiente politica matrimoniale internazionale tramite le proprie figlie, fu stroncato dalla conquista carolingia e non ebbe quindi modo di dispiegarsi compiutamente.10 È però significativo che, proprio durante questo progetto dinastico sapientemente creato e orchestrato, compaiano sulla scena due fatti: la fondazione del monastero femminile del Salvatore a Brescia da parte della coppia regia, a cui seguirono una serie di incrementi di beni fondiari e di prestigio aristocratico nel corso della seconda metà del secolo,11 e l’importazione della vita di Giulia, ben studiata da Paolo Tomea, le cui reliquie andarono a ornare proprio il monastero regio.12 Da questo punto di vista possiamo allora fare una prima osservazione: 8. Il riferimento è ovviamente a Bognetti, Chierici, De Capitani D’Arzago, Santa Maria “foris portas”. 9. Sugli sforzi dinastici compiuti dall’aristocrazia friulana, si veda Gasparri, Istituzioni e poteri. 10. Cfr. Nelson, Making a Difference in Eight Century Politics; Gasparri, I Longobardi fra oblio e memoria. 11. Cfr. infatti l’analisi in La Rocca, La legge e la pratica. 12. Tomea, Intorno a Santa Giulia.
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quando natio e religio vennero a costituire un binomio indissolubile, quando la cristianità cattolica dei Longobardi fu interpretata come strumento identitario del regno – cioè a partire dall’età di Liutprando –, e un progetto dinastico ebbe modo di costruirsi con coerenza, la santità femminile, veicolata attraverso un monastero femminile, fa la sua apparizione. Le fonti consentono infatti di cogliere, in parallelo ai tentativi di dinastizzazione del potere regio, dei tentativi di costruire aloni di santità femminile che poi, però, non trovarono un effettivo compimento. È questo il celeberrimo caso di Teodelinda, di sua figlia Gundiperga, ma anche quello di Teoderada, duchessa di Benevento. Queste tre donne sono, nelle narrazioni, le fautrici dell’avvicinamento del proprio marito alla religiosità cattolica; costruiscono chiese e monasteri; provvedono a reperire preziose reliquie – Teoderada quelle di Savino di Canosa, Teodelinda e Gundiperga quelle di San Giovanni a Monza e a Pavia, esattamente come la regina merovingia Radegonda per il proprio monastero della Ste-Croix a Poitiers, la regina Baltilde per il monastero di Chelles, oppure ancora Gertrude, figlia di Pipino, per il monastero di Nivelles. Nonostante, nelle narrazioni, gli atti concreti compiuti dalle regine al di qua e al di là delle Alpi siano sostanzialmente analoghi, una profonda differenza divide i due gruppi. Le sante regine merovingie sono rispettivamente una vedova che decise di velarsi dopo la perdita del marito, come Baltilde; una giovane donna che rifiuta di prendere marito per ritirarsi in un monastero, come narra la vita di Gertrude figlia di Pipino; e infine una donna sposata a forza – la turingia Radegonda, bottino di guerra di Clotario I – che secondo Gregorio di Tours decise spontaneamente di rinunciare alla vita coniugale e a scegliere la castità ritirandosi in un monastero.13 Il discorso narrativo sulle regine merovingie si fonda dunque su una caratteristica comune: a prescindere dall’età e dallo status (moglie di re, vedova di re, figlia di un aspirante re), i tre esempi che ho menzionato possono essere accomunati da una virtù principale che è la scelta della castità, ove l’astinenza sessuale sostituisce idealmente il martirio di età precedente, e trovano in un monastero femminile il luogo in cui la propria santità 13. Il caso di Baltilde è esaminato da Nelson, Queens as Jezabels, pp. 31-44; Ead., Gendering Courts in the Early Medieval West, pp. 188-192; su Radegonda, Rosenwein, Gregory of Tours and Episcopal Exemption, con la relativa bibliografia; su Gertrude, Wood, Genealogy Defined by Women.
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viene a manifestarsi. La regina merovingia santa è una donna che, abdicato o cessato il proprio ruolo coniugale, trova nel nuovo ruolo – quello di monaca in un monastero da lei stessa fondato – lo spazio per rafforzare i suoi legami e, come ben dimostra il caso di Radegonda a Poitiers, grazie al suo status di ex-regina di procurarsi illustri reliquie, promuovendo culti anche indipendentemente da un accordo con la sede episcopale locale.14 La scelta di velarsi fa parte della “paradoxical freedom” delle regine merovingie, così ben sottolineata da Janet Nelson anni fa: in un contesto in cui la famiglia dei re merovingi si distanzia con sempre maggiore nettezza dalle altre famiglie aristocratiche, anzitutto assumendo la speciale abitudine matrimoniale di sposare serve o principesse straniere, l’isolamento della sposa del re costituisce contemporaneamente uno strumento di libertà nelle proprie relazioni sociali per le stesse mogli, costrette, per restare “regine”, a attivarsi fittamente per avere proprie alleanze, propri sostenitori e clientele, così com’erano prive di un sostegno famigliare aristocratico in loco che riuscisse a proteggerle dal ripudio o dalla morte.15 Il ritiro in monastero funge, in questo caso, da strumento di consolidamento delle proprie alleanze e il monastero stesso rappresenta il luogo dal quale tali alleanze possono essere attivate e perseguite all’interno di un contesto sacrale. Invece, nel regno longobardo, il discorso narrativo sulle regine è tutto ancorato alla loro funzione di spose del re, e quando esse cessano di esserlo, semplicemente scompaiono dalla narrazione. Questa caratterizzazione non è certo casuale, poiché in un regno, quale quello longobardo, ove il potere regio restò fondamentalmente elettivo, il ruolo della regina vedova è precisamente quello di trasmettere il potere regio al successore del marito, quindi un ruolo di tramite della regalità che si identifica totalmente con quello di donna sposata. Lo si vede chiaramente nel caso più celebre di Teodelinda, sposa prima di Autari e poi di Agilulfo, ma anche di sua figlia Gundiperga, prima sposa di Rodoaldo e poi di Rotari:16 a proposito di 14. Cfr. Rosenwein, Negotiating Space, pp. 52-58. 15. Nelson, Queen as Jezebels, pp. 32-37. 16. Pauli Diaconi Historia Langobardorum, IV, 47: «Rodoald igitur post funus patris Langobardorum regnum suscipiens, Gundipergam Agilulfi et Theudelindae sibi filiam in matrimonium sociavit […] Haec dum de crimine adulterii apud virum accusata fuisset, proprius ejus servus Carellus nomine a rege expetiit ut cum eo qui reginae crimen ingesserat pro castitate suae dominae monomachia dimicaret». Si veda La Rocca, Les cadeaux nuptiaux, pp. 499-504.
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quest’ultima unione lo pseudo Fredegario afferma esplicitamente che Rotari «per ipsam omnes Langobardi eum sublimavant in regno».17 Dunque, la mancanza di una dinastia promotrice di un suo proprio aspetto sacrale femminile, e la mancanza di uno status paragonabile a quello verginale, sembrano aver impedito il consolidarsi di un’aureola di santità, e quindi di agiografia, nei confronti di regine che, secondo le fonti, compirono azioni del tutto analoghe di munificienza e di carità rispetto alle loro omologhe merovingie, ma sempre restando fermamente ancorate al loro ruolo di spose. Fino a Tassia, moglie di Ratchis, per nessuna delle regine longobarde è testimoniato il ritiro in un monastero.18 Ma non basta. Occorre infatti ribadire che se nel regno dei Longobardi la carica regia restò elettiva – cioè potenzialmente aperta a tutta l’aristocrazia – questo poté avvenire soltanto grazie alla persistente volontà e forza dell’aristocrazia di tenere aperta la competizione per la carica regia, e quindi di impedire la formazione di una “famiglia regia” specificamente distinta per proprie speciali caratteristiche. Dunque, la mancanza di sante regine può anche essere correlata al processo di competizione interno dell’aristocrazia, la quale impedì sia il formarsi di una dinastia regia, sia il cristallizzarsi, all’interno dei gruppi aristocratici, di punti di memoria dinastica e sacrale che permettessero a un gruppo famigliare di prevalere con continuità sugli altri. Nel regno dei Longobardi, infatti, il vero e proprio custode della memoria regia fu esercitato non dai monasteri che detenevano le spoglie dei singoli re, bensì dalla città di Pavia, che, in quanto capitale del regno, legittimava come spoglie regie i sovrani appartenenti a gruppi familiari affatto diversi.19 È proprio l’aspetto della competizione aristocratica che merita una ulteriore riflessione. Nel regno merovingio anche la santità aristocratica ha 17. Fredegarii Chronicon et continuationes, IV, 70, p. 156: «Gundeberga regina, eo quod omnes Langobardi eidem fidem cum sacramentis firmaverant, Chrothacharium quidam unum ex ducibus de terreturio Brissia ad se venire precepit, eum conpellins, uxorem quam habebat relinquerit et eam matremonium acciperit; per ipsam omnes Langobardi eum sublimavant in regno», cfr. anche ibidem, IV, 50-51, 71, pp. 132-133, 157. 18. Cfr. Bougard, Dot et douaire en Italie centro-septentrionale, pp. 75-76. 19. Non esiste uno studio d’insieme delle sepolture dei re longobardi in questa specifica prospettiva: si vedano però Lusuardi Siena, Giostra, Spalla, Sepolture e luoghi di culto in età longobarda, e alla massa di dati raccolti da Krüger, Königsgrabkirchen.
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una precisa connotazione monastica: le protagoniste delle Vitae del VII e VIII secolo, sono più precisamente figlie di aristocratici che si ritirano in un monastero rurale che il proprio padre ha costruito sulle terre di proprietà. Santità femminile e monasteri aristocratici appaiono dunque inestricabilmente connessi. Régine Le Jan ha giustamente notato che queste Vitae femminili sono costruite secondo un parametro che ben rispecchia il dinamismo dell’aristocrazia franca: la futura santa ha, di norma, un conflitto durissimo con il padre o con i fratelli, i quali la vorrebbero sposata, mentre ella desidera ritirarsi in monastero. Dopo un periodo di contrasto, le Vitae celebrano costantemente la ritrovata concordia tra padre e figlia: frutto di tale concordia è la fondazione di un monastero famigliare che è presentato come opera congiunta del padre e della figlia. La santità femminile, così come i monasteri femminili, ha dunque la caratteristica di rafforzare la famiglia dei fondatori, poiché il possesso di un monastero femminile conferisce una dimensione sacrale al potere del gruppo familiare fondatore, e, viceversa, nella famiglia il sacro si colloca precisamente all’interno del gruppo delle donne consacrate: il possesso di reliquie, l’organizzazione dei culti attorno ad esse, trasferisce infatti il potere delle reliquie stesse di operare miracoli in potere per chi le possiede.20 In questa prospettiva, sia dal punto di vista patrimoniale, sia da quello simbolico, i monasteri femminili, ben più di quelli maschili, sono dei monasteri propriamente familiari, all’interno dei quali agiscono in concordia una figlia e un padre, vale a dire il polo maschile e quello femminile di un gruppo famigliare. Funzione della badessa è quella di restare strettamente legata al suo gruppo parentale, servendone gli interessi, accogliendo e allevandone le figlie, le nipoti, agevolando, al contempo il gioco politico familiare maschile. In quanto strumento e simbolo della molteplicità delle sfere di autorità e di prestigio che il possesso di un monastero femminile garantiva al gruppo dei suoi fondatori, la separazione tra laici ed ecclesiastici – tradizionalmente utilizzata dalla storiografia per trattare delle istituzioni religiose – perde, nel caso dei monasteri femminili, qualsiasi significato. Si può anzi affermare che i monasteri familiari femminili servissero a fondare e a radicare in un ambito sacrale il potere dei gruppi familiari. Questi 20. Si vedano infatti le interessanti osservazioni di metodo attraverso le quali indagare i monasteri femminili in una prospettiva di “genere”: Stafford, Queens, Nunneries, and Reforming Churchmen; Mac Lean, Queenship, Nunneries and Royal Widowhood.
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monasteri femminili, da cui promana la santità femminile del VII secolo, si trasformano, nelle generazioni, in luoghi di memoria delle sante stesse: le sante e i loro congiunti sono sepolte all’interno della chiesa abbaziale, costituendo il fondamento della sacralizzazione del potere famigliare nelle generazioni. Esse sono dunque integralmente parte di progetti di dinastizzazione famigliare del potere e della terra e le violenze cui i monasteri femminili andarono soggette da parte regia, testimoniano in maniera eloquente quanto alto fosse il nesso tra la loro preminenza locale e sacrale e la loro forza potenzialmente disgregatrice per la stabilità del potere centrale.21 Osservando la documentazione scritta nel secolo VIII di area longobarda possiamo notare, sia sotto il profilo sociale, sia sotto il profilo contestuale, delle differenze profonde con il contesto che ho appena delineato. Anzitutto il fenomeno del monachesimo femminile di età longobarda è un fenomeno prevalentemente urbano e non rurale, come invece nel regno dei Franchi.22 Dal punto di vista sociale, poi, i fondatori dei monasteri femminili si collocano tra la piccola aristocrazia urbana, di norma collegata al vescovo della città, sia per via parentale, sia per via clientelare: vale a dire che, là dove i monasteri femminili furono fondati (come per esempio a Lucca), essi costituivano uno strumento di collegamento del gruppo parentale all’interno della propria residenza urbana e non uno strumento di controllo territoriale più ampio, come nei casi franchi.23 Il nesso tra la famiglia del fondatore e i nuovi monasteri resta e rimane certo una caratteristica distintiva di “genere” dei monasteri femminili anche in area longobarda, ma tale nesso non assume – per il contesto cittadino in cui si verifica – delle valenze sacrali più ampie che permettano di estrinsecare progetti dinastici di ampia portata. Inoltre, tali monasteri si raccordano di norma all’autorità vescovile locale, la quale in alcuni casi è esplicitamente indicata come responsabile dell’ordine e della tutela del monastero stesso nelle generazioni. Si prenda, come esempio significativo, il caso veronese di un monastero femminile fondato nel centro di Verona da parte del gruppo familiare di Autconda, della sorella Natalia con l’accordo del marito e cognato Nazario, nel 745. Questa carta è tutta impegnata a designare chi sarà il defensor 21. Le Jan, Convents, Violence and Competition for Power. 22. La Rocca, Lo spazio urbano tra VI e VIII secolo. 23. Cfr. Collavini, Spazi politici e irraggiamento sociale.
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del monastero nel caso che l’abate del monastero maschile di Santa Maria in Organo «contra regulam uiolentia inponere audeat», indicando proprio il vescovo come colui che può invece garantire che «nulla eis uiolentiam aut dominacio contra regulam inponatur».24 In un contesto urbano, un piccolo monastero femminile appare maggiormente soggetto a pressioni e a soprusi, poiché più alto è il tasso di competizione sociale che qui si attua. In altri termini, la santità femminile appare strutturarsi là dove più ampi progetti dinastici, potenza fondiaria e controllo territoriale permettono ai fondatori dei nuovi monasteri femminili di manifestare, anche sul piano agiografico, l’eccellenza del gruppo parentale dominante. In Italia, la competizione dell’aristocrazia per la carica regia non permise, se non tardivamente – ad Ansa e a Desiderio – di fondare monasteri femminili che fungessero davvero da tramite di sacralità per la propria famiglia. I monasteri femminili, sorti in ambito urbano da parte di un ceto di media ricchezza e disponibilità, erano, più modestamente, una via di collegamento con altre istituzioni ecclesiastiche urbane e, parallelamente, uno strumento di distinzione urbana in cui gli spazi per una risonanza sacrale delle imprese individuali presentavano un’audience ben più ridotta e controllata degli ampi spazi rurali a disposizione dell’aristocrazia franca.
24. Codice Diplomatico Longobardo, I, n. 83, Verona (745 maggio 10), pp. 245-248.
Sigle MGH
Monumenta Germaniae Historica, Hannoverae 1826-
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Stefano Magnani Le donne martiri della persecuzione di Diocleziano
Il martirio di Giustina, tradizionalmente datato al 7 ottobre del 304, coincide con la fase più aspra della persecuzione dioclezianea, successiva all’emanazione del cosiddetto quarto editto, avvenuta tra l’inverno e la primavera dello stesso anno. Esso precede di circa due mesi quello che è considerato l’episodio più tardo della persecuzione in occidente, il martirio di Crispina, avvenuto a Tebessa il 5 dicembre.1 Giustina e Crispina non sono che due delle tante donne martiri di questa persecuzione, all’interno di una comunità, quella cristiana, nella quale le donne erano probabilmente più numerose degli uomini e assai bene accette. Rispetto a questi ultimi, infatti, la loro “invisibilità” politica e sociale ne facilitava l’adesione ad una religio illicita quale era il Cristianesimo, nel cui ambito, per contro, esse potevano godere di una maggiore autonomia di scelta rispetto alla società tradizionale e raggiungere talvolta un ruolo di rilievo nella comunità dei fedeli. Contribuivano a questa partecipazione numerosa anche motivi di natura economica, legati alle possibilità patrimoniali di cui disponevano le donne appartenenti ai ceti abbienti, soprattutto nel caso di nubili o vedove che non dovevano dipendere dalla tutela di un marito e che pertanto potevano più liberamente contribuire al finanziamento delle attività religiose e cultuali, e i cui beni, in assenza di eredi, potevano essere incamerati dalle chiese.2 Proprio attraverso il martirio e, prima ancora, nelle radicali e “rivoluzionarie” scelte di vita che ad esso conducevano, la donna cristiana sembra avere acquisito una dimensione pubblica e una voce all’interno della comunità che 1. Passio sanctae Crispinae, 1. 2. Prinzivalli, La martire cristiana.
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non trovano confronti nel mondo romano tradizionale, nel quale essa appare generalmente relegata in posizione subordinata da ogni punto di vista.3 Evidenziata in alcuni resoconti martiriali, tale condizione di accresciuta autonomia e visibilità sociale risalta in negativo nell’atteggiamento dei persecutori, colti forse alla sprovvista dalla fermezza dimostrata dalle martiri di fronte alle minacce e alle sofferenze. Lo stupore colpiva anche i correligionari, e taluni atteggiamenti non mancarono di suscitare forti inquietudini in seno alla Chiesa cattolica.4 Le donne martiri, infatti, si facevano portavoce di esigenze che investivano la sfera religiosa e morale, e non solo quella cristiana. Le testimonianze di Eusebio di Cesarea e di alcune fonti coeve e sufficientemente attendibili consentono di cogliere tale aspetto dirompente del martirio femminile che, dal punto di vista morale e religioso, si pone in una luce particolare nel contesto della persecuzione messa in atto da Diocleziano e conclusasi solo con la fine del sistema tetrarchico da lui ideato. 1. La persecuzione L’avvio di quella che è passata alla storia come la “Grande persecuzione”, il 23 febbraio del 303, in occasione della festività dei Terminalia, sembra aver colto di sorpresa il mondo cristiano, assuefatto alla pace tra Chiesa e Impero che durava ormai da un quarantennio; da quando cioè Gallieno aveva compiuto una svolta radicale rispetto alla politica religiosa di Decio e del padre Valeriano, emanando il rescritto indirizzato a Dionigi, vescovo di Alessandria, e agli altri vescovi dell’Egitto, col quale si rimettevano ai vescovi stessi i luoghi di culto confiscati negli anni precedenti, e con il rescritto ulteriore che prevedeva la restituzione ai cristiani dei cimiteri.5 La sensazione dello stupore, del risveglio brutale dopo un periodo di torpore e rilassamento, è resa con chiarezza da Eusebio.6 Persino chi viveva alla corte di Nicomedia, come Lattanzio, che con Eusebio costituisce il principale testimone diretto degli avvenimenti di quegli anni, sembra preso alla 3. Mazzucco, «E fui fatta maschio», pp. 95-113. 4. Aug., De civ. Dei, I, 26. 5. Euseb., Hist. eccl., VII, 13. Sul significato e la portata dei rescritti di Gallieno si vedano: Lane Fox, Pagans and Christians, pp. 553-556; Sordi, I Cristiani, pp. 127-130. 6. Euseb., Hist. eccl., VIII, 1.
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sprovvista dal susseguirsi degli eventi, a partire dall’ordine dato dall’imperatore alle guardie pretoriane di fare irruzione nella chiesa di Nicomedia che si trovava vicino al palazzo imperiale, di bruciare i libri sacri rinvenuti e di distruggerne gli arredi.7 Altrettanto può dirsi dell’editto affisso pubblicamente il giorno seguente e in seguito diffuso per tutto l’Impero, di cui qualche sprovveduto non colse la gravità facendone immediatamente le spese e acquisendo così il merito di divenire il primo martire della nuova ondata persecutoria.8 L’editto segnava ufficialmente l’inizio della persecuzione contro i cristiani, ordinando alle autorità locali di radere al suolo le chiese e di consegnare e bruciare le sacre scritture. Il provvedimento colpiva inoltre quei cristiani che occupavano cariche pubbliche e che dovevano essere destituiti dal loro incarico qualora avessero persistito nella professione della fede, mentre i liberti del servizio imperiale potevano perdere la loro libertà.9 Privati di ogni onore e dignità, indipendentemente dalla loro posizione sociale, i cristiani erano soggetti a qualunque azione giudiziaria intentata contro di loro e passibili di tortura, senza avere il diritto di proporre alcun tipo di azione legale in propria difesa.10 Sulla base della testimonianza di Eusebio, a questo primo editto ne seguirono altri due nel corso dello stesso anno ed un quarto all’inizio del 304. 7. L’episodio è narrato da Lattanzio, che probabilmente poté assistere all’evento dalle finestre del palazzo imperiale di Nicomedia, nel quale svolgeva l’attività di insegnante, così come fecero – stando appunto alla sua testimonianza – Diocleziano e Galerio (Lact., De mort. pers., 12). Si veda anche Euseb., Hist. eccl., VIII, 2, 4-5. Sulla permanenza di Lattanzio a Nicomedia fino al 305 o poco dopo, cfr. Barnes, Lactantius, p. 40. 8. Euseb., Hist. eccl., VIII, 5; Lact., De mort. pers., 12, 1. 9. Euseb., De mart. Pal., Praef., 1; Euseb., Hist. eccl., VIII, 2, 4. L’espressione « » nel testo di Eusebio ha dato luogo a interpretazioni differenti da parte dei commentatori moderni, anche se questa sembra la soluzione più soddisfacente. Poco oltre, infatti, Eusebio ricorda il martirio di Doroteo e di Gorgonio, e di molti altri «t basilik oketa» (ibidem, VIII, 6, 1-5), nei quali si dovrebbero dunque riconoscere i liberti del servizio imperiale, i Caesariani menzionati nel secondo editto di Valeriano, databile al mese di giugno del 258 (Cypr., Epist., 80). Cfr. in proposito De Ste Croix, Aspects, pp. 75-76; Lactance, pp. 278-279; Eusèbe de Césarée, p. 7; Barnes, Constantine, p. 21; Christensen, Rufinus, p. 27; Keresztes, From the Great persecution, p. 382; Kolb, L’ideologia tetrarchica, p. 17. Diversamente, ad. es., Frend, Martyrdom, p. 491, traduce il testo dell’editto del 23 febbraio del 303 in riferimento agli schiavi che professandosi cristiani non avrebbero più potuto essere liberati. 10. Lact., De mort. pers., 13, 1.
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Il secondo editto ordinava l’arresto del clero cristiano ovunque nell’Impero e imponeva con ogni mezzo l’obbligo del sacrificio agli dei tradizionali.11 Il terzo editto, forse in coincidenza con una amnistia generale concessa in occasione della celebrazione dei Vicennalia dei due Augusti Diocleziano e Massimiano, svoltasi a Roma il 20 novembre del 303, prescriveva che fossero rilasciati coloro che avevano compiuto il sacrificio e che si aggravasse il supplizio per coloro che si ostinavano nel rifiuto.12 Il quarto editto, emanato agli inizi del 304, prevedeva conseguentemente l’estensione a tutti i sudditi dell’Impero dell’obbligo del sacrificio e della libagione agli dei,13 segnando un inasprimento nella persecuzione. Non si può escludere che tali provvedimenti, per i quali Eusebio è l’unica fonte, più che in veri e propri editti siano consistiti in direttive volte a precisare e rafforzare i termini di applicazione dell’unico editto vero e proprio che sarebbe stato emanato dagli imperatori, quello del 24 febbraio.14 Questo concorrerebbe a spiegare in parte i motivi della differenza riscontrabile negli esiti della persecuzione in oriente e in occidente. Benché estesi ufficialmente a tutto l’Impero, infatti, gli interventi imperiali ebbero conseguenze assai diverse nelle distinte province, nelle quali il cristianesimo era diffuso in maniera disomogenea dal punto di vista sociale e da quello geografico, avendo trovato una maggiore adesione fra i ceti cittadini, anche elevati, e un più forte radicamento nelle regioni orientali dell’Impero, mentre era assai poco diffuso in quelle occidentali, ad esclusione di alcune aree come l’Italia, in particolare a Roma, e la provincia d’Africa.15 Differenti da provincia a provincia erano poi anche gli assetti amministrativi e organizzativi e le condizioni socio-economiche. In oriente erano assai più numerosi i centri urbani di medie e grandi dimensioni, dove le comunità cristiane si erano gradualmente allargate, assumendo un ruolo di rilievo e rappresentando una notevole fonte di preoccupazioni per l’élite pagana che ne costituiva il gruppo dirigente, con particolare riguardo alla diffusione dei contenziosi che spesso insorgevano tra le stesse amministra11. Euseb., Hist. eccl., VIII, 2, 5 e VIII, 6, 8-9. 12. Ibidem, VIII, 6, 10. 13. Euseb., De mart. Pal., 3, 1. 14. Tale ipotesi è sostenuta da Kolb, L’ideologia tetrarchica, e ripresa da Rosen, Passio Sanctae Crispinae, in part. pp. 122-125. 15. Kolb, L’ideologia tetrarchica, pp. 20-21.
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zioni locali e le comunità cristiane, accusate di sottrarre una cospicua parte di risorse che venivano devolute alle chiese.16 Di conseguenza, anche gli atteggiamenti dei governanti e delle amministrazioni locali furono di volta in volta diversi, adeguandosi alle realtà presenti nelle regioni governate. Se si esclude il discusso caso di Crispina17, in occidente sembra che i funzionari alle dipendenze di Massimiano e Costanzo Cloro abbiano limitato il proprio intervento all’applicazione del primo editto, anche perché, soprattutto nelle regioni governate da Costanzo, il livello di cristianizzazione sembra essere stato molto basso e pertanto non dovette destare eccessive preoccupazioni.18 Le differenze regionali e locali, così come la disparità dei comportamenti e delle preoccupazioni da parte degli imperatori e dei loro governatori, si accentuarono in seguito all’abdicazione di Diocleziano e Massimiano, e alle tormentate vicende della cosiddetta “seconda tetrarchia”. Il 1° maggio del 305, infatti, seguendo un copione che era stato stabilito da tempo, i due anziani Augusti, Diocleziano e Massimiano, nominarono come nuovi Augusti e loro successori i rispettivi Cesari, Galerio e Costanzo Cloro, ed affiancarono ad essi come Cesari Massimino Daia e Severo.19 L’avvicendamento al vertice dello stato era una componente essenziale del sistema tetrarchico che, tra gli altri problemi, intendeva porre rimedio a quello della successione imperiale, evitando gli scontri e le spaccature che avevano caratterizzato i decenni centrali del III secolo e garantendo così la continuità del governo e la stabilità dello stato. Ma, nonostante gli sforzi, i problemi non tardarono a riemergere nelle figure dei due grandi 16. Alcuni documenti assai interessanti a questo proposito provengono dalle regioni orientali dell’impero, ove la maggiore presenza cristiana acuiva appunto i conflitti; cfr. Mitchell, Maximinus, pp. 105-124. 17. Per una presa di posizione a favore dell’affidabilità della tradizione sul martirio di Crispina e dunque dell’applicazione anche in occidente dell’obbligo del sacrificio agli dei tradizionali, si veda Rosen, Passio Sanctae Crispinae. Cfr. inoltre, Kuhoff, Diokletian, pp. 295-296. 18. Sulla coerenza dell’atteggiamento di Costanzo Cloro con quello dei suoi colleghi e sulla distorsione operata dalla più tarda propaganda costantiniana che mirava a presentarlo come assai vicino al cristianesimo, si veda Kolb, L’ideologia tetrarchica, pp. 20-21. Sulle modalità di applicazione degli editti si vedano: De Ste Croix, Aspects, pp. 84-96; Keresztes, From the Great Persecution, pp. 387-388. 19. Lact., De mort. pers., 18-19; Eutr., Brev., 9, 27, 1-2; 10, 1; Aur. Vict., De Caes., 39, 47-48 e 40, 1.
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esclusi dalla successione, Costantino e Massenzio. Figli rispettivamente di Costanzo Cloro e di Massimiano, essi incarnavano quella spinta dinastica da sempre insita nel potere imperiale che la riforma dioclezianea aveva tentato di limitare regolando la successione con un meccanismo complesso che escludesse sia le ingerenze familiari sia quelle dell’esercito. Nel 306, Costanzo Cloro morì in Britannia e Costantino fu acclamato Augusto dalle sue truppe, mentre Massenzio si fece proclamare princeps a Roma.20 Nel 307, Severo, che era stato incaricato di operare contro Massenzio, fu ucciso.21 Galerio, che era rimasto l’unico Augusto ufficiale, convocò Diocleziano e Massimiano a Carnuntum, alla ricerca di una soluzione che fu trovata in sostanza nel mantenimento dello status quo, con la nomina di Licinio come Augusto al posto di Costanzo Cloro e il disconoscimento e la condanna senza effetto di Massenzio.22 La politica persecutoria nei confronti dei cristiani rimase comunque ufficialmente in atto fino all’emanazione dell’editto del 30 aprile del 311 da parte di Galerio,23 la cui morte sopravvenuta solo pochi giorni più tardi, il 5 maggio, segnò il definitivo tramonto del progetto tetrarchico elaborato da Diocleziano. Tuttavia, mentre in oriente, sotto il governo del Cesare Massimino Daia, la persecuzione si fece più aspra e cruenta e proseguì fino alla morte dello stesso Massimino, avvenuta nel 313,24 in occidente Costantino e Massenzio, che non a caso erano gli elementi estranei al sistema tetrarchico, attuarono una politica di tolleranza che intendeva avvicinare e conciliare le esigenze cristiane e quelle dell’Impero. Queste considerazioni non sono prive di importanza per tentare di comprendere la natura della persecuzione voluta da Diocleziano, che non 20. Pan. lat., VII, 7, 1-5; Origo Const., 2, 2-4; AE 1961, 240. Su questi eventi, si vedano Barnes, Imperial Campaigns, p. 191; Davies, The Origin and Purpose, p. 81; Kuhoff, Diokletian, pp. 790-795. 21. Lact., De mort. pers., 26; Aur. Vict., De Caes., 40, 5-7; Eutr., Brev., 10, 2-3; Epit. de Caes., 40, 2-3; Zosim., II, 9, 2-3. 22. Lact., De mort. pers., 29, 1-2; Aur. Vict., De Caes., 40, 8; Eutr., Brev., 10, 4; Zosim., II, 10, 4-5 e 2, 11. 23. Lact, De mort. pers., 34-35; Euseb., Hist. eccl., VIII, 17. 24. Sulle attività persecutorie di Massimino, la documentazione principale è fornita da Eusebio, che mette in rilievo l’esistenza di una sequela di fasi alterne di acquiescenza e recrudescenza (Euseb., De mart. Pal., 3, 5-4, 15; 8, 12-9, 6) e l’emanazione di nuovi editti nel 306 e nel 309 (ibidem, 4, 8, e 9, 5-6). Su alcuni aspetti della politica di Massimino, si vedano: Mitchell, Maximinus; Davies, The Origin and Purpose, pp. 71-74.
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sembra separabile dagli sviluppi del progetto tetrarchico e della sua ideologia. Dopo gli editti di Gallieno, infatti, il dissidio tra cristianesimo e Impero che aveva alimentato le persecuzioni di Decio e Valeriano sembrava avere trovato una sua possibile soluzione, nonostante l’opposizione neoplatonica25. Come avrebbe dimostrato Costantino, l’assunzione di un numen divino unico come il Sol invictus, al cui culto era stato particolarmente legato Aureliano, poteva anche tramutarsi in un passo decisivo in direzione del dio cristiano.26 Diocleziano aveva intrapreso tuttavia un’altra strada. Energico e risoluto, fin dalla sua assunzione al trono, avvenuta in drammatiche circostanze il 20 novembre del 284 d.C.,27 egli si apprestò a compiere un’opera di riforma dello stato la cui necessità appariva in tutta la sua gravità e che progressivamente avrebbe riguardato ogni suo aspetto.28 Uno dei primi passi fu quello di allargare la partecipazione al potere cooptando come Cesare e successivamente come Augusto uno dei più valenti generali, M. Aurelio Massimiano,29 al duplice scopo di proteggere la propria posizione evitando la tragica fine degli imperatori che lo avevano preceduto e di usufruire di un valido supporto nell’azione di intervento militare e amministrativo. Queste stesse esigenze, unite all’elaborazione di un meccanismo di successione che garantisse la continuità oltre che la stabilità dell’Impero, lo indussero pochi anni più tardi, nel 293, a trasformare la diarchia in una tetrarchia, adottando come Cesari C. Massimiano Galerio e Fl. Valerio Costanzo Cloro.30 Il sistema, almeno nel suo sviluppo finale, prevedeva ogni dieci anni l’abdicazione degli Augusti e la successione automatica dei Cesari, con la nomina di nuovi Cesari, quasi certamente scelti al di fuori dei diretti legami di sangue, come dimostra l’esclusione di Costantino e Massenzio. 25. Espressa in particolare nelle opere di Porfirio e Ierocle; cfr. Barnes, Sossianus Hierocles. 26. Cfr. Drake, Costantine, pp. 129-130 (Aureliano) e pp. 178-191 (Costantino). 27. Scriptores Historiae Augustae, Carus, 12-13. 28. Una recente e rapida presentazione dei principali interventi e dei provvedimenti legislativi è data da Demandt, Diokletian; per un approfondimento, si vedano i distinti capitoli in Kuhoff, Diokletian. 29. Nominato Cesare nel corso del 285, Massimiano fu cooptato come Augusto nel dicembre dello stesso anno; cfr. Kolb, Diocletian, pp. 22-24; Kuhoff, Diokletian, pp. 28-36. 30. Cfr. Kolb, Diocletian, pp. 68-87; Kuhoff, Diokletian, pp. 107-124. Il sistema è descritto come segue da Lattanzio (Lact., De mort. pers., 18, 5): «ut duo sint in re publica maiores, qui summam rerum teneant, item duo minores qui sint adiumento».
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Il ruolo al vertice dello stato e la salute del sistema erano garantiti da un complesso e ambizioso apparato ideologico e religioso. Probabilmente indirizzato dal richiamo presente nel suo nome d’origine, Diocles,31 fin dalla proclamazione di Massimiano ad Augusto Diocleziano aveva legato la propria figura a Iuppiter, equivalente celeste dell’optimus imperator in terra, assumendo il cognomen Iovius.32 Massimiano assunse invece il cognomen Herculius.33 Come attestano le prime emissioni monetarie, tale legame fu immediatamente sfruttato a livello di propaganda.34 L’epiteto Iovius, in quanto sanzione divina che ne identificava il numen tutelare, il ruolo e l’ascendenza dal dio stesso, implicava verosimilmente non solo il riconoscimento della grazia divina nella figura imperiale, ma una partecipazione all’essenza del dio stesso.35 Enfatizzando la valenza divina dell’imperatore si cercava una via che consentisse di escludere le interferenze esterne, svincolato dal controllo degli eserciti o di altri organismi direttivi dello stato che non fossero l’imperatore stesso e il suo consilium.36 In questa direzione, la creazione di una famiglia divina di Iovii ed Herculii escludeva persino la famiglia umana, nella quale le mogli e i figli erano solo strumenti accessori di coesione.37 Mentre attraverso una serie di misure legislative, economiche e amministrative si accentravano progressivamente i poteri decisionali nelle mani dell’imperatore e dal punto di vista ideologico si rafforzava la percezione degli aspetti divini della sua figura, grazie a strumenti come il culto imperiale, la porpora, l’adorazione,38 si avvertiva la necessità di consolidare il 31. Il nome è riportato Lact., De mort. pers., 9, 11 e 19, 5; Aur. Vict., De Caes., 39, 1. Per quanto diverso per origine ed etimo, il nome risulta associabile alla forma greca composta dei termini o e klo, nell’ambivalente e ambiguo significato di «colui che rende gloria a Zeus» o «colui che riceve gloria da Zeus». Cfr. Desnier, Dioclès, p. 168. Sul nome completo, C. Valerius Diocletianus, ufficializzato al momento dell’assunzione al trono in M. Aurelius C. Valerius Diocletianus, cfr. Chastagnol, L’accentrarsi del sistema, p. 196; Kuhoff, Diokletian, p. 19. 32. Aur. Vict., De Caes., 39, 18. Sul significato e la funzione dei cognomina imperiali, si veda Kolb, Diokletian, pp. 88-114. 33. Kuhoff, Diokletian, p. 42, con discussione dell’ampia bibliografia in proposito. 34. Per una analisi dei panegirici e della documentazione iconografica, oltre a Kolb, Diokletian, pp. 88-114, si veda Desnier, Dioclès, pp. 157-181. 35. Cfr. Marcone, La politica religiosa, pp. 225-226. 36. Si veda, in questo senso, Desnier, Dioclès, p. 172. 37. Sulla famiglia degli Iovii e degli Herculiis si veda Lact., De mort. pers., 52, 3: «magnifica illa et clara per gens Ioviorum et Herculiorum cognomina». 38. Ibidem., 7, 4; Aur. Vict., De Caes., 39, 1-7.
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sentimento di unità attorno all’imperatore e allo stato anche con la legittimazione morale e religiosa della tradizione romana. Tale tradizionalismo si esprime in maniera sempre più accentuata nella legislazione dioclezianea col trascorrere degli anni. Al 285 risale un provvedimento contro la bigamia, dal quale furono esentati i Giudei.39 Nel 295 fu promulgato a Damasco un editto in materia matrimoniale che puniva il matrimonio tra consanguinei: «In quo id etiam providendum quam maxime esse censuimus, ut matrimoniis religiose atque legitime iuxta disciplinam iuris veteris copulatis».40 La religione divenne tema di legislazione nel 297, durante il conflitto con la Persia,41 o forse pochi anni dopo, nel 302,42 quando con un rescritto indirizzato al proconsole d’Africa Giuliano, Diocleziano e Massimiano intesero colpire duramente i manichei. Nel testo dell’editto l’innovazione religiosa è denunciata come un atto criminale e perseguibile,43 in termini che trovano una stringente consonanza nelle motivazioni con cui Galerio avrebbe poi giustificato la persecuzione contro i cristiani nel 311.44 L’editto contro i manichei, motivato sulla base della presunta origine persiana del culto e dell’accusa che i manichei stessi svolgessero un’attività antiromana nel momento del conflitto con l’Impero sasanide, in realtà colpiva una eresia cristiana sviluppatasi in area mesopotamica e che proprio in Persia aveva già subito una dura persecuzione.45 Esso si iscrive dunque pienamente nell’ambito dei provvedimenti e degli interventi coevi che caratterizzarono i rapporti col mondo cristiano, come i martirii del centurione Marcello e della recluta Massimiliano, datati rispettivamente al 293 e 295,46 o l’epurazione dei cristiani dall’esercito ordinata nel 301 da Veturio.47 39. Cod. Iust., 5, 5, 2. La legge fu applicata ai Giudei un secolo più tardi, nel 393 (ibidem, 1, 9, 7); correggo qui quanto indicato in Magnani, Le persecuzioni, p. 73, ove erroneamente ho trascritto la data del 293. 40. Coll. leg. mos. et rom. 6, 4, 2. 41. Brown, The Diffusion of Manicheism, p. 92; Bruce, Diocletian. 42. Barnes, Imperial Campaigns, pp. 246-250. 43. Coll. leg. mos. et rom., 15, 3, 2: «Maximi enim criminis est retractare quae semel ab antiquis statuta et definita suum statum et cursum tenent ac possident». 44. Lact., De mort. pers., 34, 5; Euseb., Hist. eccl., VIII, 17. 45. Brown, The Diffusion of Manicheism, pp. 92-98. 46. I due casi sembrano rispondere a esigenze di disciplina militare più che ad una politica anticristiana. Cfr. Lanata, Gli atti dei martiri, pp. 194-208; Pucciarelli, I cristiani, pp. 284-309. 47. Euseb., Hist. eccl., VIII, 4, 2-3; Euseb., Chron., a. 301. Eusebio in questo caso sembra già indicare un mutato atteggiamento degli imperatori nei confronti del cristianesimo.
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All’interno della cerchia culturale pagana, soprattutto in ambito neoplatonico, che aveva una forte influenza presso la corte imperiale, la religione cristiana appariva come un elemento di disgregazione e di potenziale sovversione dell’ordine tradizionale, ormai incarnato nella famiglia divina degli imperatori e garantito dalla sanzione delle divinità della tradizione romana. Così pure nell’ideologia imperiale. Nel governo di una tetrarchia “divina” o per “grazia divina” non c’era infatti spazio per una religione monoteista ed esclusiva, e dopo i manichei sarebbe toccato ai cristiani farne la dura esperienza. Nel mondo pagano la religione aveva un preminente significato civico,48 che nell’Impero e nel sistema tetrarchico si esprimeva soprattutto attraverso l’adesione ai culti dello stato. Per la salvezza dell’Impero era necessario il favore delle divinità che da sempre ad esso presiedevano ed occorreva pertanto che vi fosse coesione nel culto da parte di tutti i cittadini, compresi i cristiani. La richiesta di compiere il sacrificio alle divinità tradizionali che veniva loro rivolta era una richiesta di lealtà all’Impero che si riconosceva negli dei che lo proteggevano e il rifiuto che essi opponevano corrispondeva ad un delitto contro la sovranità stessa dello stato. Il documento più evidente in questo senso è costituito dall’editto col quale il 30 aprile del 311 si chiuse formalmente la persecuzione che era stata avviata da Diocleziano. Il testo del decreto costituisce una vera e propria riflessione sulle cause e sugli effetti della persecuzione. In esso Galerio individua chiaramente la colpa dei cristiani nell’avere abbandonato la religione dei padri, quella giudaica, e nel non seguire più le istituzioni degli antichi, ma di essersi dati leggi a proprio piacimento.49 L’imperatore si mostrava tuttavia tollerante, accogliendo di fatto il cristianesimo tra le religioni dell’Impero, ed invitando i cristiani a ricostruire i luoghi di culto e a pregare per la salute dell’imperatore e dell’Impero, oltre che di 48. Euseb., Hist. eccl., IX, 7, 6-8. 49. Lact., De mort. pers., 34, 1-2: «Inter cetera quae pro rei publicae semper commodis atque utilitate disponimus, nos quidem volueramus antehac iuxta leges veteres et publicam disciplinam Romanorum cuncta corrigere atque id providere, ut etiam christiani, qui parentum suorum reliquerant sectam, ad bonas mentes redirent, siquidem quadam ratione tanta eosdem christianos voluntas invasisset et tanta stultitia occupasset, ut non illa veterum instituta sequerentur, quae forsitan primum parentes eorundem constituerant, sed pro arbitrio suo atque ut isdem erat libitum, ita sibimet leges facerent quas observarent, et per diversa varios populos congregarent».
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loro stessi. Non più nemici dello stato, i cristiani potevano ora diventare il suo sostegno: «Unde iuxta hanc indulgentiam nostram debebunt [scil. christiani] deum suum orare pro salute nostra et rei publicae ac suae, ut undique versum res publica perstet incolumis et securi vivere in sedibus suis possint».50 2. Le donne della persecuzione Una delle difficoltà maggiori nella ricostruzione o comunque nella comprensione della persecuzione dioclezianea e, dunque, anche della vicenda martiriale femminile, è rappresentata dalle fonti. Gli autori pagani, come è noto, in sostanza sembrano non aver avuto alcun sentore della persecuzione. La documentazione fondamentale è costituita pertanto dagli autori cristiani, fra cui spiccano le testimonianze di Eusebio e Lattanzio, cui si aggiungono le numerose Passiones o gli Acta martyrum, che presentano tuttavia il grave difetto di essere difficilmente utilizzabili come fonti storiche, essendo state oggetto di molteplici revisioni successive quando non di vere e proprie riscritture, spesso in chiave del tutto fantasiosa o con intenti e toni fortemente influenzati dalle vicende politiche e religiose dell’epoca in cui tali testi furono redatti.51 In particolare, proprio gli atti relativi ai martiri della persecuzione di età tetrarchica sembrano aver subito più profonde rielaborazioni rispetto alle testimonianze di epoca precedente,52 risentendo della riflessione innescata dalle scelte di Costantino e dalla successiva affermazione del cristianesimo, in seguito alla quale le prospettive erano destinate a radicali rovesciamenti. Eusebio, contemporaneo ai fatti che descrive, anche se il suo resoconto è comunque influenzato dalla novità della svolta costantiniana, fornisce una vasta documentazione degli episodi di martirio in Palestina e, in genere, nelle regioni orientali dell’Impero, soffermandosi anche su numerosi casi di donne che avevano affrontato la morte per offrire la testimonianza 50. Ibidem, 34, 5. 51. Si veda Consolino, Modelli di santità, che sottolinea come questi testi riflettano sostanzialmente una realtà più tarda ed in particolare la polemica cristiana e pagana tra la fine del IV e l’inizio del V secolo. Sulla tradizione relativa alla persecuzione dioclezianea, si veda Consolino, La donna, in part. pp. 104-106. 52. Cfr. Lanata, Gli atti dei martiri, p. 27; De Ste Croix, Aspects, p. 81.
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della propria fede. Lo scritto De martyribus Palestinae, la cui prima versione fu redatta a ridosso degli avvenimenti, dopo la morte di Galerio, e che in seguito in forma ridotta confluì nell’VIII libro dell’Historia ecclesiastica,53 costituisce probabilmente non solo la testimonianza più vicina ma anche quella meno ritoccata degli avvenimenti. Al suo resoconto si aggiungono poche altre testimonianze, almeno in parte attendibili, che contribuiscono comunque ad ampliare il quadro del martirio femminile nel contesto della persecuzione. La prima donna martire ad essere menzionata esplicitamente da Eusebio è Tecla, ricordata in due passi per essere stata data in pasto alle belve.54 Di lei non viene detto nient’altro, ma Eusebio la distingue dalla omonima leggendaria compagna di Paolo e concentra l’attenzione sul compagno di martirio, Agapio,55 la cui colorita e tormentata vicenda martiriale appare evidentemente più suggestiva agli occhi del vescovo di Cesarea. È questo comunque anche l’unico caso di martirio femminile che egli ricordi nei primi anni della persecuzione in Palestina, mentre più numerosi sono i casi riferiti agli anni in cui a capo della diocesi orientale fu Massimino Daia (305-313), nel corso dei quali si ebbe un inasprimento della persecuzione. Nel quinto anno della persecuzione, il 2 aprile del 307, a Cesarea, viene ricordato il martirio di Teodosia, una vergine di Tiro non ancora diciottenne. Teodosia, avendo intravisto un gruppo di prigionieri cristiani che confessava la propria fede di fronte al tribunale del governatore, si era avvicinata e rivolta loro per esprimere la propria solidarietà e per ottenere la loro intercessione presso dio, in virtù dell’azione di mediazione attribuita ai martiri, ma era stata notata dalle guardie e condotta al cospetto del governatore Urbano, che le chiese di compiere il sacrificio in onore degli dei tradizionali.56 Avendo opposto un fermo rifiuto, la giovane fu sottoposta a 53. Sulle date di redazione delle due opere e delle loro successive versioni si veda Tabbernee, Eusebius, pp. 326-334. 54. Euseb., De mart. Pal., 3, 1 e 6, 3. La festività di santa Tecla è riportata al 19 agosto, probabilmente del 304 (cfr. Eusèbe de Césarée, nota 6, p. 126). 55. Ad Agapio è dedicato ampio spazio in Euseb., De mart. Pal., 6, 3-7, da cui risulta che, dopo essere scampato in più occasioni all’esposizione alle fiere, Agapio subì il martirio nel quarto anno della persecuzione. 56. Il nome del praeses di Palestina, Urbano, è in questo caso ricordato esplicitamente solo nella prima versione del De martyribus Palestinae, più ampia e ricca di dettagli poi omessi da Eusebio nella seconda versione.
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crudeli tormenti che non ne fiaccarono tuttavia la fede, ed infine fu fatta gettare in mare. Ai confessori toccò la diversa sorte di finire nelle miniere di Phaínon presso il Mar Morto.57 Nel sesto anno della persecuzione (308-309), Eusebio ricorda alcune donne e perfino dei bambini nel numero dei confessori che da tempo erano stati condannati ai lavori forzati nelle miniere della Tebaide e che furono portati davanti al governatore di Palestina Firmiliano, succeduto a Urbano.58 Dopo essere stati torturati e mutilati, gli sventurati furono relegati nelle miniere della provincia,59 sostituendo al martirio una esistenza di sofferenze. Probabilmente al 15 luglio del 308 si data il duplice martirio di una donna di Gaza e di Valentina di Cesarea, il cui svolgimento ha attirato l’attenzione di Eusebio, che vi ha dedicato ampio spazio.60 A Gaza, un gruppo di fedeli era stato sorpreso in flagrante durante lo svolgimento di una riunione dedicata alla lettura dei testi sacri e condotto con altri prigionieri dinnanzi al governatore e allo stesso Cesare Massimino per subire la tortura e il supplizio.61 Fra i cristiani vi era una vergine, che Eusebio definisce donna nel corpo ma virile nella determinazione d’animo ( ), la quale, di fronte alla minaccia della prostituzione, che le era stata evidentemente prospettata per indurla a sacrificare ed abiurare, inveì duramente contro Massimino, il tiranno, e fu pertanto punita prima con la fustigazione poi con altre forme di tortura. Non sopportando la vista dei supplizi ai quali la sventurata era sottoposta, un’altra giovane vergine il cui nome era Valentina, in apparenza debole fisicamente e di aspetto dimesso, ma forte nello spirito e più salda d’intelletto che di corpo, si rivolse al giudice chiedendogli provocatoriamente fino a quando avrebbe persistito nel torturare con tale violenza sua sorella. Anch’essa fu allora condotta davanti al giudice e, di fronte alla richiesta di compiere il sacrificio e al tentativo di obbligarla con la forza, in un ulteriore atto di ribellione rovesciò con un calcio l’altare e con esso le carni del sacrificio e il braciere. Sottoposta a tortura, fu infine condannata al rogo con l’altra vergine. 57. Euseb., De mart. Pal., 7, 1-2. 58. Per una lista dei praesides di Palestina negli anni della persecuzione, desunta essenzialmente da Eusebio, si veda Barnes, The New Empire, p. 152. 59. Euseb., De mart. Pal., 8, 1. 60. Ibidem, 8, 4-7. 61. Ibidem, 8, 4.
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Va notato che il termine , utilizzato da Valentina per indicare l’altra donna, va riferito alla fede che univa entrambe, nella quale la vera famiglia era quella della comunità dei fedeli. Eusebio precisa infatti che, mentre quest’ultima era originaria di Gaza,62 Valentina proveniva invece da Cesarea. Al 13 novembre del 308 viene datato il martirio di Ennata di Scitopoli, anch’essa giovane vergine dal nome indigeno, che fu trascinata in giudizio dopo aver subito numerosi oltraggi da parte delle guardie. Spogliata in parte dei propri abiti era stata trascinata per le vie di Cesarea, malmenata e fustigata pubblicamente, mantenendosi salda nella propria fede; né più benevolo fu il governatore Firmiliano, che la condannò ad essere arsa viva e che, con gesto di estrema violenza nei confronti suoi e di altri martiri cristiani, ordinò che fosse vietata la sepoltura dei loro corpi.63 Nella Storia ecclesiastica Eusebio estende a molte delle regioni orientali dell’Impero il suo elenco, comprendendo numerosi casi di martirio femminile sui quali, tuttavia, solo raramente si dilunga. Così, riporta ad esempio la notizia che a Nicomedia, dopo l’incendio scoppiato nel palazzo imperiale di cui furono incolpati i cristiani, nella primavera del 303 si ebbero innumerevoli martirii. Uomini e donne si sarebbero gettati volontariamente tra le fiamme, altri sarebbero stati gettati in mare; ma solo il caso di Antimo viene ricordato esplicitamente.64 Nella Tebaide, in Egitto, dove episodi di persecuzione si verificarono a più riprese e con particolare violenza, accanto agli uomini, anche numerose donne subirono torture ignominiose o il martirio.65 Il fatto che Eusebio non faccia generalmente nomi non infirma l’attendibilità del suo resoconto per quanto riguarda il verificarsi degli episodi stessi, anche se si deve ammettere una certa coloritura, con la resa drammatica e suggestiva degli eventi tesa a sottolineare la crudeltà dei persecutori e soprattutto la fermezza d’animo dei martiri cristiani di fronte alle inenarrabili torture.66 62. Probabilmente, il suo nome era Thea, dato che una martire con tale nome viene ricordata con Valentina alla data del 15 luglio (cfr. Delehaye, Les origines, p. 187). 63. Euseb., De mart. Pal., 9, 6-8. 64. Euseb., Hist. eccl., VIII, 6, 6. 65. Ibidem, VIII, 9, 1. 66. Per un confronto tra il testo di Eusebio e quello delle fonti da lui utilizzate per quanto riguarda gli episodi di martirio (nel caso, il martirio di Policarpo), si rimanda a Lazzati, Nota su Eusebio, che evidenzia gli aspetti retorici introdotti da Eusebio, il quale accentuando la crudeltà dei persecutori e dei supplizi inferti esalta per contrasto la forza dei martiri e con essa il trionfo del cristianesimo.
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Probabilmente agli esordi della persecuzione, un episodio particolarmente cruento ebbe luogo in Frigia, dove un piccolo centro abitato, il cui nome non viene menzionato da Eusebio, fu circondato dall’esercito e dato alle fiamme con i suoi abitanti, comprese le donne e i bambini, e compresi pure gli strateghi, ovvero i supremi magistrati del luogo, e il logist, o curator, responsabile delle finanze municipali. Tutti gli abitanti, infatti, si erano dichiarati cristiani e si erano rifiutati di adorare le divinità pagane.67 Forse non si trattava di un semplice villaggio, se possedeva proprie magistrature come la strategia e richiedeva l’intervento di un logist, che in genere era un ricco e influente cittadino di un centro vicino,68 così che questa testimonianza risulta particolarmente rilevante per comprendere il radicamento del cristianesimo nella regione e la sua diffusione anche fra le élite cittadine. In particolare, è significativo il fatto che alcuni cristiani detenessero cariche pubbliche, nello svolgimento delle quali si era chiamati spesso ad ottemperare ad obblighi religiosi nei confronti delle divinità tradizionali. Evidentemente, fino al momento dell’emanazione della legislazione anticristiana e dell’avvio del processo di persecuzione, la popolazione del luogo e le stesse autorità romane non avevano trovato alcuna incompatibilità nel fatto che dei cristiani esercitassero funzioni pubbliche di un certo rilievo, sia pure a livello locale. Un ulteriore episodio altamente significativo è poi quello relativo ad una famiglia di Antiochia, al quale Eusebio dedica particolare attenzione. Una cristiana, santa e meravigliosa per la virtù dell’animo, anch’essa definita come donna solo nel corpo (t d s`ma gun), famosa in tutta la città per la sua ricchezza, la stirpe e la reputazione, aveva educato alla religione cristiana le due giovanissime figlie e le teneva nascoste in un luogo segreto lontano da quanti nutrivano cattive intenzioni nei loro confronti. Chiamate con l’inganno ad Antiochia, esse caddero tuttavia nelle mani dei soldati, che le scortarono verso la città. Per evitare che le figlie subissero violenze e soprattutto il disonore, chiarendo loro la sorte che le attendeva la madre le convinse ad affrontare la morte con coraggio. Le tre donne, infatti, forse con la compiacenza dei soldati stessi,69 si gettarono volontariamente nel fiume, probabilmente l’Oronte presso cui sorgeva la 67. Euseb., Hist. eccl., VIII, 11, 1. 68. Cfr. Sartre, L’Asie Mineure, p. 246. 69. Stando ad Eusebio, su richiesta delle tre donne i soldati si sarebbero un poco allontanati, consentendo loro in tal modo di gettarsi nelle acque del fiume.
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città, ove annegarono.70 Benché Eusebio non ne menzioni i nomi, sembra si tratti di Bernice, Domnina e Prosdoce, il cui martirio è ricordato il 20 aprile nel martirologio siriaco.71 La loro morte dovette forse suscitare qualche perplessità nei pensatori cristiani, che non apprezzavano quelle forme di martirio volontario – sempre che si possa a ragione distinguere tra martirio volontario e non – che rasentavano il suicidio ma che erano state particolarmente incoraggiate prima dai montanisti e poi dai donatisti africani.72 Sempre ad Antiochia, secondo Eusebio, due giovani donne vergini furono precipitate in mare,73 ma il suo resoconto appare generico e celebrativo, suscitando forti dubbi sulla sua credibilità.74 In oriente, lo si è detto, la persecuzione proseguì ben oltre il 305, soprattutto per opera di Massimino. Alle sue efferate imprese Eusebio dedica un ampio spazio, tratteggiando negativamente la figura di questo principe che significativamente egli qualifica col titolo di tiranno. In realtà, proprio grazie anche alle informazioni di Eusebio è possibile comprendere meglio il tentativo di Massimino di trasformare il culto pagano, di riformarlo attraverso la realizzazione di una struttura organizzativa e gerarchica modellata su quella della Chiesa cristiana.75 Si tratta di una idea che avrebbe trovato seguito, anni dopo, nell’opera dell’ultimo imperatore pagano, Giuliano. Tra le vittime di Massimino e delle sue violenze non potevano non trovare spazio anche le donne. Oltre alle martiri già menzionate, alcune delle quali subirono il supplizio di fronte allo stesso Cesare, Eusebio ne ricorda una in particolare che si distinse dalle altre sottoposte alle sue personali violenze. Si trattava di una cristiana di Alessandria, di cui Eusebio ovviamente elogia la ricchezza, i luminosi natali, l’educazione e la cultura (paidea),76 e soprattutto la castità che rappresentava per lei la virtù fondamentale. Essa riuscì a resistere alle pressioni del tiranno, pronta anche a morire, ma di fronte a tanta resistenza e fermezza Massimino non osò ucciderla e si limitò 70. Euseb., Hist. eccl., VIII, 12, 3-4. 71. Cfr. Delehaye, Les origines, pp. 197-198. 72. La questione fu affrontata ad esempio da Agostino (De civ. Dei, I, 20-27). 73. Euseb., Hist. eccl., VIII, 12, 5. 74. Cfr. Delehaye, Les origines, p. 198. 75. Si veda in particolare Euseb., Hist. eccl., VIII, 14, 7-14, e IX, 4. 76. Da notare che anche lo strumento della paidea era stato visto nel mondo romano pagano come un mezzo di mascolinizzazione della donna; cfr. Cracco Ruggini, La donna e il sacro, nota 32, pp. 262-263 e nota 41, p. 269.
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ad esiliarla e a confiscarne i beni.77 Non si trattò dunque di un martirio, poiché Dorotea,78 così pare che si chiamasse la casta donna, ebbe salva la vita, ma dietro questo episodio si intravedono alcune indicazioni che potrebbero avere una certa importanza nella comprensione del ruolo femminile all’interno della comunità cristiana e dei motivi, non solo religiosi e politici ma anche economici e finanziari, che sembrano aver in qualche modo stimolato alcuni momenti della persecuzione contro i cristiani. Direttamente collegato a questo episodio, nonostante un brusco passaggio dall’oriente a Roma, è il caso di una nobildonna romana, la più nobile e casta di tutte, cristiana e moglie nientemeno che del praefectus Urbis, la quale vedendo giungere presso di lei gli sgherri inviati da Massenzio allo scopo di condurla da lui, preferì darsi volontariamente la morte trafiggendosi con la spada.79 Il suo nome era probabilmente Sofronia, se si presta fede alla testimonianza di Rufino,80 ma essa non compare nei martirologi. Comunque si voglia intendere questa notizia, che sembra originata dalla volontà di Eusebio di mettere in una cattiva luce Massenzio, in quanto era stato il rivale di Costantino, dipingendolo come un tiranno ad imitazione di Massimino,81 col quale sarebbe stato segretamente legato da una stretta amicizia, come con un fratello nella disgrazia ( n pr delfn tn kakan),82 e che al contrario aveva mostrato un certo interessamento per le vicende assai tormentate della comunità cristiana di Roma,83 si deve presumere che essa quanto meno rispecchi, come nel caso precedente, quello che doveva essere per Eusebio il modello della donna e soprattutto della martire cristiana. Si tratta di un modello che presenta alcune costanti e che si presta a qualche considerazione. Il ritratto della donna martire delineato da Eusebio è, almeno nella maggior parte dei casi, quello di una figura dai nobili natali, detentrice di un ricco patrimonio, bene educata, se possibile vergine 77. Euseb., Hist. eccl., VIII, 14, 15. 78. Rufinus, Hist. eccl., VIII, 14, 15. 79. Euseb., Hist. eccl., VIII, 14, 16-17. 80. Rufinus, Hist. eccl., VIII, 14, 16-17. 81. Euseb., Hist. eccl., VIII, 14, 16. 82. Ibidem, VIII, 14, 7. 83. Per una valutazione diversa di Massenzio si veda Opt. Mil., I, 18, 1; ma lo stesso Eusebio, in un primo giudizio, si era rivelato più morbido nei suoi confronti, pur accusandolo di aver finto nel mostrarsi benevolo verso i cristiani (Euseb., Hist. eccl., VIII, 14, 1). Cfr. Cullhed, Conservator Urbis suae, in part. pp. 72-73, con bibliografia in proposito.
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o altrimenti moglie casta ed irreprensibile, semmai madre integerrima di figlie vergini; debole solo in apparenza ma in realtà assai forte d’animo, tanto da poter essere definita virile e donna solo nell’aspetto corporeo. La donna di Eusebio, ovviamente cristiana innanzitutto, riconosce come valore primario ed ineludibile la propria verginità (o, comunque, la continenza e la castità), per difendere la quale è disposta ad affrontare con aumentato vigore la morte in nome della fede. Ed anzi, la conservazione della propria verginità è talvolta la causa vera del martirio stesso. Se vale il confronto con la documentazione riferibile alle età precedenti, in Eusebio sembra delinearsi l’avvenuta affermazione di una scala di valori nella quale, se si esclude il martirio, la verginità femminile rappresenta il valore più alto per una donna cristiana, mentre in secondo piano si pongono la maternità e persino la vedovanza, che pure aveva costituito una realtà originale e che aveva avuto uno straordinario spessore all’interno del mondo cristiano nel corso del II e del III secolo.84 Proveniente, assai più di frequente degli uomini, dalle classi colte ed agiate, la donna cristiana gestisce il proprio patrimonio, sceglie autonomamente della propria vita. Essa si dimostra salda e ferma nella fede spesso assai più degli uomini. Tuttavia, il suo modello di riferimento è appunto quello maschile: le qualità della donna ed anche della donna martire si misurano solo nel confronto con la controparte maschile, nel raggiungimento della virilità.85 La documentazione fornita da Eusebio costituisce dunque un corpus organico e ben delineato, anche se limitato, che trova però alcuni confronti e conferme negli Atti e nelle Passioni dei martiri giudicati maggiormente attendibili e relativi a casi di martirio femminile nel corso della persecuzione di età tetrarchica. Il caso più interessante è senz’altro quello delle tre vergini di Tessalonica, Agape, Irene e Chione, processate sul finire di marzo del 304 di fronte al tribunale presieduto dall’gemn (praeses) di Macedonia, Dulcizio. Le tre giovani donne facevano parte di un gruppo più ampio, comprendente un ragazzo, Agatone, ed altre tre giovani donne, Cassia, Filippa ed Eutichia. 84. Sul cambiamento di valori, tra III e IV secolo, si veda Mazzucco, «E fui fatta maschio», in part. pp. 56-57 (pp. 44-69 sul fenomeno e l’importanza delle vedove e delle vergini nel mondo cristiano). Cfr. inoltre, Prinzivalli, La martire cristiana, in part. pp. 163 e 170. 85. Euseb., De mart. Pal., 8, 5; Euseb., Hist. eccl., VIII, 14, 14.
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I giovani si erano rifiutati di compiere il sacrificio agli dei e di mangiare le carni sacrificali. Agape e Chione sono dunque condannate al rogo il 25 marzo, per avere disobbedito all’editto (kleusi) degli imperatori. Gli altri, per la giovane età e perché Eutichia è incinta di oltre sette mesi, vengono gettati in carcere.86 Va notato in proposito che Dulcizio insiste molto sul fatto che Eutichia sia incinta nonostante il marito sia morto da 7 mesi. Qualche giorno dopo, Irene viene reintrodotta davanti a Dulcizio perché nel frattempo era emerso che deteneva in casa numerosi testi sacri, proibiti fin dal primo editto. Durante l’interrogatorio, di cui probabilmente mancano alcune sedute, si viene a sapere che Irene e il gruppo di giovani avevano trascorso l’ultimo anno nascosti sui monti, da quando per la prima volta era stato diffuso l’ordine imperiale; si tratta evidentemente del cosiddetto primo editto relativo alla consegna dei testi sacri. Irene rifiuta di rivelare dove esattamente avevano trovato rifugio, di fare il nome di coloro che li avevano aiutati e di coloro dai quali avevano ricevuto i testi sacri, e viene pertanto esposta nuda in un bordello, non solo o non tanto come punizione ma, come emerge chiaramente dal testo, per cercare di ottenere una confessione circa gli altri cristiani coinvolti nella loro vicenda e una sua abiura. La giovane infatti non subisce alcuna violenza nel postribolo. Rivelatosi infruttuoso ogni tentativo, Irene viene condannata al rogo il 1° aprile.87 Il resoconto del martirio è tra quelli considerati più attendibili, consistente in documenti processuali raccolti e incorniciati successivamente in una veste narrativa, essenzialmente costituita dal prologo e dalla conclusione, nella quale si riassumono le parti apologetiche ed agiografiche, ove l’autore si sofferma nella improbabile descrizione di Irene che si getta da sola nelle fiamme dopo averne ricevuto l’ordine dal carnefice.88 Dulcizio viene caratterizzato senza particolare enfasi; svolge il suo mestiere e procede in base alle direttive imperiali. Egli sembra ritenere assai sospetto che i giovani avessero agito da soli, e tuttavia non procede alla tortura dell’imputata ma alla sua esposizione, evidentemente contando sul fatto che la minaccia di una violenza alla verginità della giovane costituisse un timore sufficiente a farla recedere dai suoi saldi propositi.89 86. Mart. sanct. Agapae, Irenae, Chionae, 1-4. 87. Ibidem, 1-6. 88. Ibidem, 1-2 e 7. 89. Per un commento più ampio, si veda Lanata, Gli atti dei martiri, pp. 209-220.
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Dal punto di vista storico, questa è una delle prime testimonianze o forse la prima testimonianza relativa all’applicazione del cosiddetto quarto editto o, comunque, della disposizione imperiale che rafforzava i precedenti provvedimenti dioclezianei nei confronti dei cristiani e che prevedeva l’obbligo per tutti i cittadini dell’Impero di offrire sacrifici e libagioni alle divinità, comminando pene durissime per chi avesse opposto un rifiuto.90 In merito a questo problema, nel corso del procedimento sembra che Dulcizio presupponga l’esistenza di una successione di editti imperiali o di ordini (viene infatti più volte utilizzato il termine kleusi), dei quali il primo sarebbe stato emanato circa un anno prima, o comunque una progressione nelle forme della persecuzione, delle accuse e delle richieste nei confronti dei cristiani. Questa, d’altra parte, è l’ipotesi tradizionale formulata dalla storiografia moderna, che si fonda sostanzialmente sulla testimonianza di Eusebio.91 È interessante notare che l’applicazione della direttiva più recente non cancella ma si somma a quella precedente, così che dopo aver proceduto contro Irene per il rifiuto del sacrificio il giudice procede contro di lei anche per la detenzione di testi proibiti. Quanto alle figure delle martiri – vergini e salde nella propria fede –, esse sembrano costituire una sorta di confraternita, forse a partire da reali legami parentelari, dato che Dulcizio chiede ad un certo punto ad Irene se il loro padre fosse a conoscenza di dove esse si nascondevano. Di certo, grazie probabilmente ad una rete assistenziale “clandestina”, esse avevano vissute isolate per quasi un anno, e se lo avevano fatto era perché possedevano numerosi testi sacri, forse in quanto svolgevano anche un ruolo particolare all’interno della comunità.92 I rapporti familiari e le divisioni che si potevano creare tra i membri, cristiani e non, della stessa famiglia sono presentati nella Passio dei martiri di Abitinae, località dell’Africa proconsolare, ove si narra di un gruppo di cristiani, fra cui anche un numero cospicuo di donne, sorpreso durante la 90. Euseb., De mart. Pal., 3, 1. 91. Euseb., Hist. eccl., VIII, 2, 4 e 6, 8-10; Euseb., De mart. Pal., 3, 1. 92. L’elenco presentato da Dulcizio comprende dittici, libri, tavolette, codicilli e pagine scritte (Mart. sanct. Agapae, Irenae, Chionae, 5). Si trattava pertanto di un quantitativo cospicuo di testi la cui presenza nelle mani dei giovani appare difficilmente spiegabile senza l’intervento delle autorità ecclesiastiche locali.
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celebrazione domenicale e processato a Cartagine, il 12 febbraio 304.93 L’eroina di turno è Vittoria, vergine cristiana in contrasto con la famiglia; il fratello infatti è tra gli accusatori al processo. In particolare, egli accusa un cristiano, Dativo, di avere influenzato e traviato la giovane Vittoria, ma viene smentito dalla sorella stessa, che aveva tentato persino il suicidio pur di difendere la propria virtù.94 In quest’ottica favorevole al suicidio come forma di martirio, il testo sembra essere stato però ampiamente ritoccato in ambito donatista.95 Lo stesso si può affermare di un’altra Passio, quella di Massima e Donatilla, giovani vergini di Thuburbus Maius, il cui martirio si collocherebbe al 30 luglio 304. Diversamente dagli uomini che le accompagnavano esse si rifiutarono di apostatare e di celebrare i sacrifici agli dei pagani e furono decapitate. La tradizione donatista vuole che a loro si affianchi il martirio di Seconda, che si sarebbe gettata volontariamente dal balcone per raggiungerle.96 Infine, occorre menzionare, fra le innumerevoli altre, la martire Crispina, la cui Passio, che appare attendibile nelle sue parti processuali, pone interessanti interrogativi. Nobile, ricca, sposa e madre,97 Crispina di Tebessa subisce il martirio, secondo la tradizione, il 5 dicembre del 304.98 Il suo sembra essere, in occidente, l’ultimo episodio di martirio nel corso della persecuzione dioclezianea e, al tempo stesso, il primo caso sicuro di applicazione del cosiddetto quarto editto. Di qui un lungo dibattito che dura tuttora. Agostino la dipinge, idealizzandone i tratti, come una donna all’apparenza fragile e delicata, la quale tuttavia aveva saputo abbandonare ogni bene terreno, compresi i propri figli, per la beatitudine celeste, in virtù della propria altissima fede. Essa deve essere di esempio per quanti si accontentano della felicità terrena e, al tempo stesso, modello di umiltà per quelle vergini che contando sulla superiorità della verginità rispetto al matrimonio fanno della propria condizione un motivo di vanto e di orgoglio. 93. Aug., Brev. conl., III, 17, 32. 94. Passio sanct. Saturnini, 7 e 17. 95. Consolino, La donna, p. 106. 96. Cfr. ibidem, p. 105. 97. Aug., Enarr. in Ps., 120, 13;137, 7; Aug., De sancta verg., 44. 98. Passio sanctae Crispinae, 1.
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In questo caso, come nell’atteggiamento critico di fronte al martirio volontario, Agostino appare però una voce tutto sommato isolata all’interno di una Chiesa ormai divenuta parte costituente dell’Impero e pronta a sopravvivergli.99 3. Conclusioni In conclusione, credo sia interessante vedere in che rapporto si ponga il martirio femminile rispetto all’ideologia imperiale, da un lato, e al ruolo della donna nella società romana dall’altro. Si è fatta strada negli ultimi decenni l’idea – o quantomeno si è aperto un dibattito su di essa – che si possa parlare nel cristianesimo dei primi secoli di una forma di emancipazione della donna. Di certo, nel mondo antico, e quello romano non fa eccezione, la donna era relegata ad una posizione di secondo piano alla quale solo raramente riusciva a sfuggire. Sprovvista della maggior parte dei diritti, bisognosa di tutela giuridica, essa godeva di un riconoscimento pubblico limitato anche quando era impegnata in attività che uscivano dalla caratteristica sfera domestica alla quale, almeno idealmente, sembrano essere limitate le sue competenze. Non fanno eccezione neppure le donne appartenenti ai ceti più elevati, la cui posizione rimaneva secondaria rispetto alla controparte maschile, e che pure abbisognavano di tutela giuridica da parte di un uomo nell’espletamento di ogni loro atto pubblico. Va detto però che in età imperiale, proprio lo snaturamento di una serie di privilegi e requisiti tipicamente maschili aveva lasciato maggiori spazi alla donna, almeno all’interno dell’aristocrazia.100 In proposito, si è notato che il cristianesimo sembra offrire alla donna alcune nuove scelte e opportunità, di cui Eusebio è testimone. I primo luogo la castità, nelle forme della vedovanza e soprattutto della verginità. Essa garantiva alla donna cristiana una maggiore autonomia, in assenza di un marito, la disponibilità di tempo da impiegare nella propria crescita spirituale o nell’assistenza sociale, la disponibilità di denaro, 99. Cfr. Consolino, La donna, p. 111. 100. Sulla condizione femminile nel mondo romano si rimanda a Thomas, La divisione dei sessi; Gourevitch, Raepsaet-Charlier, La femme, in part. pp. 65-86 e 241-267; Cenerini, La donna romana, in part. pp. 29-45.
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in particolare nel caso della vedova, da impiegare anch’esso nell’assistenza sociale o da devolvere all’organizzazione ecclesiastica. In primo luogo, però, la scelta religiosa della continenza o della rinuncia sessuale costituiva un atto di volontà autonoma della donna, che disponeva di se stessa svincolandosi dalla tutela maschile.101 Nel corso del II e del III secolo, le organizzazioni di vedove, veri e propri ordini elettivi, svolgevano talvolta un ruolo concorrenziale rispetto a quello maschile, tanto da amministrare il battesimo e avanzare rivendicazioni eucaristiche.102 In particolare, tra i montanisti, ove il riconoscimento di un rapporto diretto tra l’individuo e lo Spirito poneva uomini e donne sullo stesso piano, si può supporre che le donne fossero anche ammesse a far parte del clero.103 Di certo, spiccano all’interno di questo movimento figure come le profetesse Prisca, Massimilla e Priscilla, che ebbero un grande successo, specialmente in oriente.104 L’altra scelta offerta alla donna dal cristianesimo era il martirio, attraverso il quale, come si è osservato nelle testimonianze sopra riportate, la donna si trasfigurava facendo proprie una fermezza di spirito e una saldezza del corpo che la qualificavano come virile. E proprio in questo aspetto, credo, risiede il nocciolo della questione. In quanto martire, la donna acquisisce infatti un ruolo di guida nel contesto religioso; in virtù dell’autorità che il martirio le conferisce, a lei si rivolgono gli altri cristiani per ottenerne il consiglio e l’intercessione, e dopo la morte diventa oggetto di culto e venerazione, un exemplum da seguire.105 Da questo punto di vista, pertanto, la donna martire raggiunge certamente una dimensione pubblica e autonoma del tutto inusuale; tuttavia, la sua emancipazione finisce nel momento in cui essa non propone un nuovo modello ma assume a riferimento o le viene fatto assumere quello maschile. Di fatto, comunque, una trasformazione di questo tipo del ruolo femminile nella società doveva interessare e preoccupare l’autorità imperiale, impegnata nell’impedire e bloccare ogni innovazione religiosa e sociale 101. Mazzucco, «E fui fatta maschio», pp. 45-69. 102. Ibidem, pp. 53-56. 103. Ibidem, pp. 80-83. 104. Sul fenomeno del montanismo si veda Hirschmann, Horrenda Secta, in part. pp. 99-119 sulle profetesse di Frigia; cfr. inoltre Mazzucco, «E fui fatta maschio», pp. 71-93. 105. Prinzivalli, La martire cristiana, pp. 165-170; Mazzucco, «E fui fatta maschio», pp. 111-113. In generale, sul martirio femminile, si veda anche Mazzucco, Figure di donne cristiane.
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ritenuta pericolosa. E che le donne cristiane rappresentassero un problema risulta evidente dall’attenzione ad esse prestata già nell’editto emanato da Valeriano, nel quale sono specificate le diverse categorie che vengono prese di mira con provvedimenti particolari e specifici, tra cui le matrone, colpite con l’esilio.106 La piena adesione femminile al cristianesimo implicava l’abbandono dei legami familiari – cosa che costituiva un ulteriore e grave motivo di critica morale – nelle due forme di astinenza sessuale e di verginità o di abbandono della famiglia per una forma di vita dedicata alla fede, a meno che la religione cristiana non fosse praticata anche dagli altri membri della famiglia, perché l’individuo si inseriva all’interno della nuova famiglia rappresentata letteralmente dalla comunità di culto. Ed è proprio all’interno della famiglia che si svolge in parte il conflitto tra paganesimo e cristianesimo.107 Negli anni della persecuzione, il filosofo Porfirio, riprendendo un tema che era stato caro alla critica di età alto imperiale,108 per sottolineare il ruolo assunto dalla donna cristiana e le sue potenzialità eversive, affermava non a caso che all’interno della comunità dei fedeli esse avevano persino un proprio senato, svolgevano un ruolo dominante nelle chiese e determinavano le nomine sacerdotali.109 Questo senato di matronae et mulieres aveva una sua ragione d’essere nella società romana tra II e III secolo, al cui interno, a diversi livelli, la donna aveva acquisito una posizione di sempre maggior rilievo.110 Tra l’età degli Antonini e quella dei Severi è documentata ad esempio a Lanuvio l’esistenza di un senato locale composto da donne,111 mentre a Roma stessa Elagabalo aveva sostituito un precedente conventus matronalis sul Quirinale con un più ufficiale senaculum femminile, e sua madre, Giulia Soemia, era stata aspramente criticata per aver 106. Cypr., Epist., 80, 2. 107. Cfr. Lane Fox, Pagans and Christians, pp. 308-312. 108. Tac., Ann., III, 33. 109. Porph., Contra christ., F 97 Harnack = Hieron., Comm. in Esaiam, II, 3, 12. È piuttosto interessante notare che negando le accuse di Porfirio, Gerolamo cancella ogni ambizione di emancipazione femminile in ambito ecclesiastico: «Caveamus ergo et nos, ne exactores simus in populo, ne iuxta impium Porphyrium matronae et mulieres sint noster senatus, quae dominantur in ecclesiis, et de sacerdotali gradu favor iudicet feminarum». 110. Cfr. in proposito Cracco Ruggini, La donna e il sacro, pp. 251-259. 111. CIL, XIV, 2120. Sulla curia mulierum a Lanuvio, attestata epigraficamente, si veda Donati, Sull’iscrizione lanuvina, pp. 235-237.
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preso parte alle riunioni del senato.112 Il rimprovero di Porfirio costituisce tuttavia anche una allusione erudita, che rimanda alle commedie sarcastiche di Aristofane, in particolare L’assemblea delle donne, nella quale le donne ateniesi si riuniscono nell’Ecclesia travestite da uomini, con gli abiti dei mariti e le barbe posticce. Esso trova un singolare riscontro in una sorta di romanzo cristiano, la leggendaria (o forse non tanto leggendaria) storia di Eugenia, che al tempo della persecuzione di Valeriano avrebbe vissuto per anni in un monastero presso Alessandria d’Egitto travestita da uomo e con i capelli rasati, svolgendo funzioni importanti tanto da divenire abate. Fino a quando era stata costretta a rivelare la propria identità perché insidiata da una donna che, ignara, si era innamorata di lui/lei.113 La possibilità di emancipazione da una condizione femminile inferiore, in un mondo al cui interno pure si avvertono delle tensioni e dei tentativi di apertura, passa dunque attraverso l’assunzione degli attributi della virilità da parte della donna, con l’adozione di un travestimento maschile, la negazione di ogni aspetto della femminilità e della sessualità, o un comportamento martiriale maschile. Emancipandosi attraverso la castità e il martirio, sia pure con tutti i limiti di una definizione moderna applicata alla realtà antica, la donna cristiana nel corso del II e del III secolo finisce per assumere un atteggiamento oppositivo nei confronti dell’autorità imperiale, che, nella rivoluzionaria istituzione tetrarchica voluta da Diocleziano, escludeva invece l’elemento femminile da qualsiasi ruolo nella successione, limitandolo a semplice strumento della politica matrimoniale di consolidamento del rapporto interno tra i tetrarchi. Come mostra lo straordinario rilievo conservato a San Marco, la vera famiglia era quella umana e divina ad un tempo dei soli quattro imperatori; tra questa famiglia e la donna cristiana non poteva esservi che un aspro conflitto.
112. Scriptores Historiae Augustae, Helag., 4. 113. Della vicenda romanzata di Eugenia esistono differenti versioni, latine e greche, le principali delle quali sono la Vita sanctae Eugeniae pseudorufiniana e la Passio sanctorum Prothi et Hiacynthi martyrum. Sulla possibilità che la narrazione contenga alcuni elementi storici, si veda Sordi, Un martire romano. Più critica, in questo senso, Consolino, Modelli di santità, pp. 101-106.
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Francesco Scorza Barcellona Antiche martiri in racconti di passione africani e romani*
Il culto dei martiri è una espressione non secondaria del cristianesimo africano dei primi secoli: esso ci è attestato da un consistente numero di Passioni relative a martiri locali a partire dalla seconda metà del II secolo – la Passione dei martiri di Scilium del 180, nell’ipotesi che sia stata composta a ridosso dei fatti narrati, sarebbe con tutta probabilità il più antico testo della letteratura cristiana d’Africa, e sicuramente la più antica che ci sia pervenuta in lingua latina – fino a quelli della persecuzione dioclezianea, venendo così a costituire la parte più consistente dell’agiografia latina prenicena;1 e anche di martiri di età posteriore alla svolta costantiniana, se consideriamo casi sporadici di cristiani uccisi in episodi di reazione pagana * In questo contributo limito la bibliografia allo stretto necessario, rinviando alle voci di BS e di GLS, riservandomi di aggiungere qualche essenziale aggiornamento bibliografico. In generale, per le figure di donne nella più antica letteratura cristiana, cfr. Mazzucco, «E fui fatta maschio»; Consolino, Modelli di santità; Ead. La donna negli Acta martyrum; Giannarelli, La tipologia femminile; Ead., La donna nella famiglia cristiana, oltre ai contributi di altri autori nelle raccolte La donna nel pensiero cristiano antico; Matrimonio e famiglia. 1. Dei quindici testi elencati in CPL, pp. 676-679, nel paragrafo Acta martyrum antenicaenorum, dieci sono relativi a martiri africani: e a questi probabilmente si devono aggiungere gli Acta Gallonii recentemente scoperti e pubblicati da Chiesa, Un testo agiografico africano scoperto ad Aquileia. Nel successivo paragrafo Vitae sanctorum Africae (CPL, pp. 679-681), su dodici testi elencati sono nove le Passioni – tra le quali la Passio Cassiani ludimagistri (BHL 1626), relativa a un martire di Imola, deve essere sostituita dalla Passio Cassiani Tingitani (BHL 1636) – cui si devono aggiungere le tre Passioni donatiste registrate in CPL p. 248, nn. 719-721, la Passio Marcianae, per la quale si veda più avanti, e la Passio Victoris Caesariensis (BHL 8565), su cui vedi Scorza Barcellona, La passione di Vittore di Cesarea. Sulla “agiografia prenicena” vedi Scorza Barcellona, Agli inizi dell’agiografia occidentale, pp. 39-40.
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in zone meno controllate, come Salsa di Tipasa di cui ci occuperemo più avanti, alle Passioni di quelli che i donatisti considerarono loro martiri in quanto vittime della repressione imperiale, per non parlare della reviviscenza della tradizione del martirio attestata dalla Storia della persecuzione della provincia africana di Vittore di Vita e alla Passione dei sette monaci, quando in età vandalica i cattolici d’Africa, soprattutto i membri del clero, subirono violenze da parte degli invasori ariani. A partire comunque dal V secolo in Africa la produzione agiografica sembra ridursi rispetto all’età precedente, sia per le difficili condizioni in cui versavano i cattolici, specialmente il clero, sotto la pressione degli ariani, sia anche come reazione agli eccessi di fanatismo per il culto dei martiri mostrato per tutto il IV secolo e oltre dalla chiesa donatista, e per il controllo della gerarchia cattolica sull’elaborazione di testi che, secondo la tradizione locale, erano letti nella liturgia: fenomeno non documentato a Roma, anzi avversato, con il conseguente sviluppo, fuori dell’Africa e non solo a Roma, di una letteratura che godeva il favore del popolo.2 A differenza dalla situazione africana – se si esclude la Passione di Giustino e compagni, che nella sua recensione più antica si ritiene composta probabilmente a Roma a breve distanza dai fatti narrati, i quali si pongono ad una data non meglio precisata durante la prefettura urbana di Quinto Giunio Rustico (162-168) – una produzione agiografica romana non è documentata prima degli ultimi decenni del IV secolo a partire dagli epigrammi di papa Damaso (366-384), pur se la memoria dei martiri sul piano cultuale si era già fissata a Roma nella Depositio martyrum, che risale alla prima metà dello stesso secolo. Quanto appena detto induce a tener presente che le tradizioni agiografiche di Roma e dell’Africa romana sono comparabili soltanto se si tenga conto della loro non perfetta sincronia, e quindi della diversa temperie culturale e spirituale che caratterizza le più antiche passioni africane rispetto a quelle romane, più recenti. Per converso, avremo modo di vedere come la produzione agiografica africana più tardiva presenti elementi comuni con quella coeva romana, il che rinvia a una circolazione di idee e di testi. Non dimentichiamo infatti che la stessa Depositio martyrum attesta il culto a Roma di martiri africani come Cipriano, Perpetua e Feli2. Simonetti, Letteratura cristiana d’Africa, pp. 40-41. Le riserve della Chiesa romana sulla lettura delle Passioni durante la liturgia sono espresse in Decretum gelasianum IV, 4 (pp. 39-42).
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cita, ed è probabile che subito o in un secondo momento la ricezione degli anniversari di questi martiri abbia comportato anche quella delle relative testimonianze letterarie. La predicazione di Agostino d’Ippona († 430) ci informa del culto tributato in Africa nella sua età a martiri romani come Agnese e Lorenzo, oltre a Pietro e Paolo. Circa un secolo dopo, il Calendario cartaginese include le ricorrenze di santi romani come Sebastiano, Pietro e Paolo, Agnese, Sisto, Lorenzo, Ippolito, oltre ai meno noti Timoteo3 e Genesio.4 Anche solo dal punto di vista quantitativo le figure femminili sono ben rappresentate nell’agiografia africana, già a partire della Passione dei martiri di Scilium, un gruppo di sei cristiani tra cui Donata, Seconda e Vestia: nella sentenza finale i condannati a morte sono dodici, e alle tre martiri precedentemente nominate si aggiungono anche Ianuaria e Generosa, di cui non ci occupiamo, in quanto di esse ci è noto solo il nome.5 Le tre martiri non sono descritte nella Passione,6 che rientra nel gruppo di quelle in forma di verbale giudiziario che si sogliono distinguere con il nome di Atti: esse intervengono personalmente e di seguito, dopo Cittino il quale, all’invito del proconsole a non prendere parte alla follia di Sperato, il presumibile capo del gruppo, dichiara anche a nome degli altri di non temere nessuno al di fuori del Signore Dio che è nei cieli. Donata riprende subito la tematica impostata all’inizio dell’interrogatorio nel dibattito tra proconsole e Sperato, quella cioè del rapporto tra la propria fede e l’appello ad obbedire all’imperatore, e ricollegandosi alle parole di Cittino, afferma che all’imperatore in quanto tale spetta solo l’onore, mentre solo a Dio è dovuto il timore.7 Come in ri3. Martire del 22 agosto, ricordato nella Depositio martyrum romana con l’indicazione del suo luogo di culto sulla via Ostiense, e che successivamente comparirà negli Actus Sylvestri come proveniente da Antiochia accolto da papa Silvestro a Roma dove avrebbe predicato fino alla morte: cfr. Amore, Celletti, Timoteo. 4. Si tratta di Genesio il mimo, citato nel Martyrologium hieronymianum alla data del 24 agosto, probabile sdoppiamento di Genesio di Arles, martire del 25 agosto: cfr. Prete, Celletti, Genesio. 5. Altre martiri africane di cui conosciamo soltanto il nome nella sentenza capitale sono Massima, Mustella, Romana e due di nome Vittoria tra i martiri di Timida Regia, Casta, Donata e Pelagia tra i martiri di Utina, rispettivamente in Acta Gallonii 39. 43 (p. 267). 6. Margarucci Italiani, Scillitani; Saxer, Afrique latine, pp. 29-33; Gianotto, Martiri scillitani. Una più recente edizione della Passione è quella di F. Ruggiero, Atti dei martiri Scilitani. 7. Acta Scilitanorum, 6: «Honorem Caesari quasi Caesari; timorem autem Deo» (pp. 102-103).
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sposta a una domanda del proconsole non riportata, volta a mettere alla prova la costanza degli altri cristiani convenuti,8 Vestia si dichiara cristiana, e Seconda soggiunge di voler essere quello che è: cioè, anche lei, cristiana.9 Perpetua nell’omonima Passione10 nel cui titolo è associata a Felicita, è figura di prima grandezza nella letteratura martirologica, non solo africana, presentata a tutto tondo nel diario che le è attribuito e in quanto tale riportato all’interno della Passione, come nel racconto del redattore della medesima sugli ultimi momenti dei martiri del gruppo. Perpetua è una giovane catecumena di circa 22 anni, di buona famiglia, bene istruita e degnamente maritata, con un bambino ancora lattante. Arrestata con altri catecumeni, dopo pochi giorni riceve con essi il battesimo. Successivamente il gruppo di neofiti è trasferito in prigione, dove Perpetua con sua gioia riuscirà a poter tenere con sé il bambino: dopo la condanna alle belve del circo, quando il padre di Perpetua, pagano, che in un misto di segni di affetto e scatti d’ira si era adoperato invano di far recedere la figlia dall’ostinazione nel professarsi cristiana,11 trattiene con sé il bambino che gli era stato affidato per il giorno del processo, il piccolo non ha più bisogno di essere allattato, per cui Perpetua è sollevata dalle cure materne. La condizione di carcerata a causa della sua fede attribuisce a Perpetua la consapevolezza di poter conversare con il Signore, al punto che, sollecitata dal fratello, chiede la grazia di una visione per sapere se l’aspetta il martirio o avrà salva la vita e la ottiene, avendo la conferma del futuro martirio. Nella complessa visione12 Perpetua assume sin 8. Cfr. Bastiaensen in APM, p. 409. 9. Acta Scilitanorum, 9: «Vestia dixit: “Christiana sum”. Secunda dixit: “Quod sum, ipsud volo esse”» (pp. 102-103). 10. Quacquarelli, Celletti, Perpetua, Felicita e compagni; Bastiaensen, Perpetua e Felicita; Saxer, Afrique latine, pp. 33-35; Tilley, The Passion of Perpetua and Felicity; Vierow, Feminine and masculine voices in the “Passion of Saints Perpetua and Felicitas”; Bremmer, Perpetua and her Diary. Una più recente edizione del testo è Passion de Perpétue et de Félicité, a cura di J. Amat. 11. Nel primo incontro con la figlia, il padre cerca di farle rinnegare la fede: Perpetua chiede al padre se un vaso che stava lì per terra poteva chiamarsi in altro modo che con il suo nome, e alla risposta negativa del padre soggiunge che anche lei non può dirsi altro che quello che è, cioè cristiana («Sic et ego aliud me dicere non possum nisi quod sum, christiana»: Passio Perpetuae, 3, 2 [pp. 118-119]), che richiama l’affermazione di Seconda nella Passione dei martiri Scilitani. 12. Non affronto qui l’interpretazione delle visioni di Perpetua, per le quali esiste una specifica letteratura, tra la quale segnalo principalmente Meslin, Vases sacrées et boissons d’éternité; Corsini, Proposte per una lettura della Passio Perpetuae; Mertens, Les premiers
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dall’inizio i caratteri della nuova Eva quando calpesta la testa del serpente che le impedisce di salire sulla scala, simbolo del martirio, che la porta nel giardino paradisiaco. In una successiva visione Perpetua vede il fratellino Dinocrate, morto precedentemente, in difficoltà nell’aldilà, e consapevole di poter intercedere per lui prega ogni giorno, finché un’altra visione non le conferma che Dinocrate è stato liberato dalla pena. Senza dubbio la più famosa visione di Perpetua è l’ultima, alla vigilia del supplizio nel circo, in cui ha la conferma che il combattimento del giorno seguente sarà non con le belve, ma con il demonio, raffigurato in un gladiatore di pelle scura, che si muove con alcuni tratti propri del serpente, e sul quale ella, precedentemente trasformata in maschio, trionfa sotto lo sguardo dell’arbitro dei giochi, che probabilmente è lo stesso Cristo. Nel racconto del redattore, il giorno del supplizio Perpetua entra nell’anfiteatro con il volto luminoso e l’incedere calmo, e si oppone a che lei e i suoi compagni siano costretti a indossare simboli pagani. La giovane donna è esposta a una vacca ferocissima, ma ne subisce i colpi senza accorgersene, preoccupata, quando cade, solo di aggiustarsi la tunica sul fianco scoperto e di raccogliersi i capelli. Al momento del colpo finale è lei stessa a guidare la mano del gladiatore inesperto. Perpetua è un personaggio tutt’altro che convenzionale: è figlia e madre, soffre per l’incapacità di stabilire un rapporto con il padre,13 anche se si sente sollevata della sua assenza;14 si preoccupa del figlioletto che deve allattare, ed è più tranquilla quando in prossimità dell’esecuzione, il bambino può essere affidato alla famiglia perché se ne occupi. Per quanto abbia capito che dal momento del battesimo non poteva far altro che impetrare la capacità di soffrire nella carne, non è determinata al martirio, tanto che cerca di conoscere mediante una visione quale sorte l’aspetti, secondo il consiglio del fratello. Sa essere ironica, quando al tribuno che non permette ai martiri la cena prima dell’esposizione alle fiere definisce sé e i suoi compagni criminali illustri, che conviene mostrare alla folla ben pasciuti, ma anche dura, come quando si oppone a che lei e i compagni siano rivestiti di simboli pagani, modesta e delicata quando dopo essere stata aggredita dalla vacca inferocita si rassetta la tunica e i capelli; coraggiosa infine quando guida la mano che le dà il colpo di grazia.15 martyrs et les rêves; Amat, L’authenticité des songes de la Passion de Perpétue et Félicité, rinviando per una rassegna generale a Ead., Songes et visions, passim. 13. Passio Perpetuae, 5, 6 (p. 122); 6, 5 (p. 124). 14. Ibidem, 3, 4 (p. 118). 15. Cfr. Consolino, La donna negli Acta martyrum, pp. 100-101.
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Felicita fa parte del gruppo dei catecumeni processati a Cartagine con Perpetua, ed è probabilmente la moglie di Revocato, insieme al quale è citata.16 Al momento dell’arresto era all’ottavo mese, e dopo la condanna temeva che la sua esecuzione fosse differita, costringendola a morire tra delinquenti comuni. Due giorni prima dell’esecuzione i compagni pregano per lei, e subito hanno inizio le doglie. Durante il travaglio, particolarmente faticoso, un carceriere le chiede come farà a sopportare le belve del circo, se soffre tanto in quella circostanza. Felicita gli risponde che in quel momento è lei che patisce, ma che nel circo sarà un altro a patire per lei, perché lei patirà per lui. Infine la giovane dà alla luce una bambina, affidata subito a una sorella di fede.17 Quando il giorno dell’esecuzione i futuri martiri entrano nell’anfiteatro, si dice che Felicita è piena di gioia per aver partorito e di poter combattere contro le fiere, facendo così l’esperienza di un secondo spargimento di sangue con il colpo di grazia che le sarà dato dal reziario, quello che per lei costituirà il lavacro del secondo battesimo. Di più non è detto di Felicita, se non che Perpetua, dopo l’assalto della vacca, l’aiuta a rialzarsi:18 anche lei, come gli altri, è tra quelli che ricevono immobili e in silenzio il colpo di grazia.19 Nelle altre Passioni africane di martiri del III secolo non compaiono come attivi e parlanti altri personaggi di donne, se non la sola Quartillosia nella Passione di Lucio e Montano e compagni,20 martiri del 259 a Cartagine. Quartillosia si trova con gli altri martiri in carcere, forse arrestata con il marito e il figlio che già due giorni prima avevano affrontato il martirio, quando ha una visione: le appare il figlio, che si siede sul bordo del recipiente dell’acqua, per confortare i martiri dicendo che il Signore vede le loro sofferenze nella difficoltà della persecuzione. Entra un secondo giovane di meravigliosa statura portando due coppe di latte dalle quali tutti bevono, perché il loro contenuto non viene mai meno. Il giovane annuncia l’arrivo di una terza coppa, e la promessa sembra realizzarsi il giorno dopo 16. Passio Perpetuae, 2, 1 (p. 116): che fosse la sposa di Revocato è ipotesi di Bastiaensen, APM, p. 415, in base al significato di conserva eius, cioè di Revocato, come è ivi definita. 17. Passio Perpetuae, 15 (pp. 134-136). 18. Ibidem, 20, 6 (p. 142). 19. Ibidem, 20, 8 (p. 142). 20. Lucchesi, Montano, Lucio; Dolbeau, La Passion des saints Lucius et Montanus; Saxer, Afrique latine, pp. 47-49.
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con l’arrivo del diacono Erenniano e del catecumeno Gennaro, paragonati alle due coppe della visione, i quali portano un alimentum indeficiens mandato loro dal presbitero Luciano, il futuro vescovo di Cartagine.21 Dopo la Passione di Perpetua questa è la prima e forse l’ultima visione attribuita a una martire nell’agiografia africana – se si esclude quella abbastanza convenzionale che avrà Paola insieme a Ciriaco nella loro Passione: la visione si ricollega a quelle di Perpetua – in cui oggi la critica tende a vedere riferimenti sacramentali – se il cibo che non viene mai meno, portato da Erenniano e Ianuario, è l’eucaristia.22 Il testo aggiunge che Quartillosia muore in carcere – come tale le spetta dunque il titolo di martire – ma non si può negare che nell’episodio citato non è la martire che spicca per atteggiamenti o qualità particolari, in quanto essa è ricordata soltanto per la visione che riferisce ai suoi compagni di prigionia. Non meglio caratterizzate sono nella Passione del prete Mammario e compagni – un gruppo di martiri di una zona posta tra la Numidia e l’Africa Proconsolare che oggi si ritengono dell’epoca di Diocleziano – le figure di Faustina di Vicus Tigisi e di Fausta: la prima si dichiara cristiana come farà successivamente Fausta insieme al marito Faustino, quando si uniscono spontaneamente al gruppo di confratelli di fede inviati in arresto a Boseth Amphoraria, località non meglio conosciuta.23 È invece protagonista di una Passione specifica Crispina di Thagora24 in Numidia, martire del 5 dicembre del 304: la Passione si presenta come 21. Passio Lucii, 8-9 (pp. 71-72). Così è introdotto il racconto della visione in Passio Lucii, 8: «De hoc enim sorori nostrae Quartillosiae hic nobiscum positae ostendit, cuius mulieris et maritus et filius ante triduum passi erant. Ipsa quoque hic reddens propinquitatem suam uelociter subsecuta est; quae in hunc modum quod uidit exposuit» (p. 71). 22. L’interpretazione della visione di Quartillosia è discussa; si veda Lomanto, Rapporti tra la «Passio Perpetuae» e «passiones» africane»; Meslin, Vases sacrés, pp. 148153; Amat, Songes et visions, pp. 142-144. 23. Lucchesi, Mammario; Scorza Barcellona, Sogni e visioni, pp. 203-205; Saxer, Afrique latine, pp. 56-58. Lo studioso francese non esita a porre la vicenda del gruppo di Mammario in età dioclezianea, contro il parere di studiosi precedenti che, in base ai contrastanti dati cronologici della Passione, pensavano piuttosto alla metà del III secolo. La Passione, diversamente valutata per il suo valore documentario, si ritiene nel suo stato attuale l’ampliamento di un testo precedente. Le due martiri compaiono in Passio Mammarii, 3-4 (p. 269 A-C). 24. Boccanera, Crispina; Maier, Le dossier du donatisme, I, pp. 92-105; Saxer, Afrique latine, pp. 60-64; Rosen, Passio sanctae Crispinae; Scorza Barcellona, L’agiografia donatista, pp. 138-140.
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il resoconto di un interrogatorio, che ne presuppone uno precedente in cui si era proceduto a stabilire l’identità dell’imputata. Abbiamo altre notizie su Crispina da Agostino d’Ippona, che ha predicato almeno due volte nel giorno anniversario del suo martirio, e ne parla in altre opere. Da Agostino sappiamo che era sposata,25 che con la sua forza vinse il suo sesso,26 che aveva figli,27 che era ricca raffinata, nobile e di alto rango, forse senatoriale.28 Dunque una donna di alto lignaggio, non diversamente da Perpetua, forse anzi anche superiore. In quello che ci resta dei suoi interrogatori, svoltisi a Theveste in Numidia, ci è presentata come una donna forte che sa tenere testa al proconsole Anullino, confessa il suo Dio, maledice gli déi, si dichiara pronta a sopportare ogni tortura piuttosto che compiere un sacrificio sacrilego, non si lascia nemmeno smuovere dalla minaccia di essere rasata ed esposta al pubblico ludibrio. La costanza di Crispina, per non dire la protervia, almeno agli occhi di Anullino, esaspera il proconsole, il quale si chiede a che pro si debba sopportare ulteriormente l’empia cristiana, per cui la condanna alla pena capitale. La sentenza di morte, accolta da Crispina con una serie di dossologie, è seguita dall’esecuzione immediata. Dato il genere della Passione, quella nella forma di atti processuali, il personaggio della protagonista risalta soltanto attraverso le sue parole, senza altra notizia o descrizione. Dalle sue risposte piuttosto articolate, anche se talvolta in esse riaffiorano luoghi comuni di situazioni analoghe della letteratura martiriale, emerge soprattutto il senso di superiorità di Crispina, forse anche un certo livello culturale, che sembrerebbero confermare quanto di lei dice Agostino, e una grande capacità dialettica: tutti tratti messi in evidenza dal redattore della Passione. Colpisce semmai il tono aggressivo della martire nei confronti del proconsole Anullino, che si avvicina all’atteggiamento dei martiri in quelle che Delehaye chiama «Passioni epiche». *** Pur nella varietà degli atteggiamenti messi in luce da autori diversi e in forme letterarie distinte, e prescindendo da Donata Vestia e Seconda del 25. Agostino, Sermo 354, 5.5 (pp. 234-235). 26. Id., Sermo 313/G (= Morin 2), 3 (pp. 718-719). 27. Id., Enarrationes in Psalmos, 137, 7 (pp. 440-441). 28. Ibidem, 120, 13: «[…] feminam divem et delicatam […] Clarissima enim fuit, nobilis genere, abundans in divitiis» (pp. 1454-1457).
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gruppo dei martiri Scilitani, da Faustina del gruppo di Mammario, sulle quali non abbiamo ulteriori notizie, le altre cinque martiri fin qui descritte hanno un tratto in comune: sono tutte donne sposate o vedove, e di tutte, tranne che di Fausta del gruppo di Mammario, si dice che hanno avuto figli. Ci dobbiamo occupare adesso delle protagoniste di altre Passioni, quasi tutte per giudizio unanime considerate più tardive delle precedenti, accomunate da tutt’altri caratteri: si tratta di giovani donne, non sposate, di cui a vario livello, nei loro discorsi e nel racconto dei diversi redattori, si celebra la virtù della castità. Nella sua trattazione dell’agiografia africana Victor Saxer introduce la categoria delle “Passioni delle sante vergini” in cui comprende le Passioni di Marciana di Cesarea, e quella di Salsa di Tipasa,29 ma per la tipologia delle protagoniste possiamo aggiungere anche la Passione di Massima Seconda e Donatilla, martiri a Thuburbo, nonché la Passione di Ciriaco e Paola di Urci;30 a queste figure di vergini martiri, in particolare a Seconda compagna di Massima e Donatilla, si ricollega il personaggio di Vittoria nella Passione di Saturnino, Dativo, Felice, Ampelio e compagni, martiri di Abitinae, di cui Saxer tratta nella sezione dedicata alle Passioni “donatistizzate”.31 Massima, Seconda e Donatilla di Thuburbo32 sono martiri del 30 luglio del 304, lo stesso anno del martirio di Crispina e degli episodi narrati nella Passione dei martiri di Abitinae appena ricordata, Massima, che ha quattordici anni, e Donatilla sono due sante vergini, accusate di essere cristiane dagli abitanti della possessio Cephalitana, un centro agricolo non meglio identificato dell’Africa proconsolare; il proconsole Anullino le interroga sul posto e le manda a Thuburbo dove subiranno un primo interrogatorio; in una seconda seduta le vergini saranno condannate dallo stesso Anullino, prima ad essere divorate da un orso, poi, non avendo avuto effetto il supplizio perché l’orso le risparmia, alla decapitazione. Si è detto che Massima e Donatilla sono due vergini, ma della loro condizione verginale non si fa cenno nell’interrogatorio: Anullino si limita a chiedere alle due vergini di sacrificare, e queste si rifiutano, con una violenza pari se non superiore a 29. Saxer, Afrique latine, pp. 68-70. 30. Ibidem, pp. 58-59. 31. Ibidem, pp. 60-64. 32. Gordini, Massima, Donatilla e Seconda; Saxer, Afrique latine, pp. 60-64; Scorza Barcellona, L’agiografia donatista, pp. 136-138.
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quella dimostrata da Crispina nei confronti dello stesso magistrato nella sua Passione. Nelle due sentenze e nella scena del martirio a Massima e a Donatilla è associata la dodicenne Seconda, che si è unita a loro durante il trasferimento successivo al primo interrogatorio, e proprio la castità è il movente principale che spinge Seconda a seguirle per affrontare il martirio. Nella Passione si narra che Seconda ha circa dodici anni e che aveva rifiutato tutte le proposte di fidanzamento perché amava Dio soltanto. Dal balcone superiore della sua casa, vedendo passare le altre due fanciulle, Seconda si getta senza tenere conto della ricchezza dei genitori, disprezzando tutte le brutture di questo mondo, rifiutando le ricchezze e desiderando soltanto colui che meritò di trovare per sempre.33 Sembra così che Seconda si getti dal balcone per trovare la morte, cosa che invece non avviene, perché si mette subito a parlare con le altre due vergini chiedendo di andare con loro. Quando Massima e Donatilla le consigliano di dedicarsi al padre, dato che è figlia unica, Seconda non esita ad affermare che per lei è meglio disprezzare il padre carnale e cercare quello spirituale, e alle obiezioni delle compagne, che la mettono sull’avviso che per loro si prepara il martirio, Seconda risponde di desiderare lo sposo spirituale, quello che non corrompe la verginità, ma che consola e conforta anche le più piccole.34 Il salto di Seconda dal balcone, dopo il quale la giovane si rialza incolume, si presta a differenti interpretazioni: in esso si è visto un vero suicidio secondo la modalità di quello praticato in certi ambienti donatisti, rimaneggiato poi 33. Passio Maximae, 4: «[…] se praecipitauit nullum habens ante oculos intuitum diuitiarum parentum; omnes utique mundi huius, ut dictum est, squalores contempsit, diuitias despexit, unum concupiuit quem in aeternum inuenire meruit» (p. 100). Alla data del 30 luglio nel martirologio di Adone si legge il riassunto di una versione della Passione differente da quella pubblicata dal bollandista de Smedt e ripresa da Maier: questi nell’apparato critico della sua edizione tiene conto della versione di Adone, che cita integralmente secondo l’edizione di Quentin, Les martyrologes historiques, pp. 559-560: cfr. ora anche Dubois, Renaud, Le Martyrologe d’Adon, pp. 239-240. Secondo H. Quentin, il testo utilizzato da Adone sembra più coerente della versione edita da de Smedt. Tutta una serie di problemi sulla composizione della Passione e la sua interpretazione potrà forse avere una soluzione soltanto dopo un confronto più approfondito tra le due versioni. Non ho potuto consultare lo studio di Dalvit, Virgines speciosae et sanctimonialae, segnalato da Cacitti, Furiosa turba, p. 85, nota 20. 34. Ibidem: «Melius est mihi contemnere patrem carnalem et diligere spiritalem […] Me sententia huius mundi terrere non potest quia sponsum quaero spiritalem Iesum Christum […] Sed sponsum ego cupio accipere qui uirginitatem non corrumpit. O qualis sponsus est qui minimas consolatur et confortat!» (pp. 100-101).
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da un cattolico che avrebbe sorvolato sul suicidio facendo morire Seconda insieme a Massima e Donatilla, o al contrario il semplice gesto di Seconda che si precipita dal balcone per seguire le altre due, trasformato in suicidio, o piuttosto adattato per richiamarlo più da vicino, ad opera di un rimaneggiatore donatista. A noi qui interessa mettere in rilievo il fatto che Seconda vede il martirio come il modo per raggiungere lo sposo celeste. Il tema di quello che ha tutto l’aspetto di un tentato suicidio accomuna Seconda al personaggio di Vittoria, figura di spicco nel gruppo dei martiri di Abitinae35 processati a Cartagine il 12 febbraio 304. Vittoria, chiamata martyra e al cui futuro martirio si accenna più volte nella sezione che la riguarda, è celebrata con un’enfasi tutta particolare: «santissima tra le donne, fiore delle vergini, onore e dignità dei confessori, di nascita onorabile, santissima per la religione, riservata nei costumi, in cui la bontà della natura risplendeva di candida pudicizia e alla bellezza del corpo corrispondeva ancor più bella la fede del suo spirito e una santità integrale». Già dall’infanzia in Vittoria si intravvedevano i segni del suo attaccamento alla purezza, come del rigore purissimo del suo spirito e della dignità della sua futura passione.36 Quando, cresciuta e permanendo nella sua verginità, i genitori contro la sua volontà vollero darle un fidanzato in vista del matrimonio, Vittoria per sfidare il fidanzato si gettò nel vuoto, ma con il favore dell’aria cadde a terra incolume. Si rifugiò allora in una chiesa, tempio della carità e rifugio del pudore dove poté conservare la santissima chioma del suo capo consacrato a Dio e votato alla perpetua verginità.37 Per l’ignoto autore se Vittoria non si fosse salvata dalla caduta motivata dalla volontà di conser35. Gordini, Saturnino, Dativo; Maier, Le dossier du donatisme, pp. 57-92; Saxer, Afrique latine, pp. 60-64; Scorza Barcellona, L’agiografia donatista, pp. 140-145; Dolbeau, La “Passion”des Martyrs d’Abitina. 36. Passio Saturnini, 17: «sanctissima feminarum, flos uirginum, decus et dignitas confessorum, honesta natalibus, religione sanctissima, moribus temperata, in qua naturae bonum candida pudicitia relucebat respondebatque pulchritudini corporis fides pulchrior mentis et integritas sanctitatis […] Huic namque ab infantia iam clara pudicitiae signa fulgebant et in rudibus adhuc annis apparebat rigor castissimus mentis et quaedam dignitas futurae passionis» (p. 81). Vittoria compare anche nel par. 7 della stessa Passione quando suo fratello Fortunaziano accusa Dativo, in quel momento torturato al cavalletto, di avere sedotto con le sue idee la sorella e altre due giovani donne. Anche in quel contesto Vittoria si dichiara cristiana e afferma di aver partecipato alla riunione domenicale (pp. 68-69). 37. Ibidem: « […] ibique consecrati deo dicatique capitis in perpetuam uirginitatem sacratissimum crinem inconcusso pudore seruauit» (pp. 81-82).
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vare il suo pudore, non avrebbe potuto soffrire per Cristo. Così, quando sta per essere interrogata da Anullino, si affretta al martirio, precedentemente definito «la seconda palma», portando nella destra trionfale la palma fiorita della pudicizia. Così Vittoria si professa cristiana, rifiuta i tentativi del fratello Fortunaziano che vuole scagionarla dicendo che è stata ingannata dalle vane argomentazioni dei cristiani, afferma che suoi fratelli sono quelli che osservano i precetti del Signore, e conferma di avere partecipato con essi alla riunione liturgica, per cui è rimandata in prigione con gli altri, per essere poi destinata al martirio.38 La Passione dei martiri di Abitinae pone molti problemi di datazione e di composizione, soprattutto per l’impressione che possa essere stata rielaborata dai donatisti. Non è escluso che tutta la sezione relativa a Vittoria sia un’aggiunta posteriore, forse anche soltanto della fine del IV secolo o degli inizi del V, e che risenta di motivi diffusi in altri ambiti: vi incontriamo infatti la tematica del duplice premio, le due palme, quella del pudore e quella del martirio, di cui tratteremo fra poco a proposito della martire romana Agnese attestata a partire dagli ultimi decenni del IV secolo in Ambrogio e in altri autori. I rapporti tra l’episodio di Vittoria in questa Passione e quello di Seconda nella Passione precedentemente esaminata sono ancora da definire. Alla persecuzione di Diocleziano e Massimiano, e sempre in Africa proconsolare sotto Anullino, ci riporta anche la Passione di Ciriaco e Paola di Urci, martiri a Tremeta il 18 giugno di un anno non meglio precisato.39 Si tratta di due fratelli, consegnati al proconsole Anullino perché cristiani. Dopo un lungo interrogatorio e la flagellazione sono gettati in prigione: qui Ciriaco invita la sorella a prepararsi insieme a lui al martirio, confidando nel Signore che ha saputo liberare dalle tribolazioni Daniele, i tre fanciulli Anania Azaria e Misaele, Tecla. La notte nel carcere appare ad essi il Cristo, in aspetto d’angelo, esortandoli ad agire virilmente. Dopo un secondo interrogatorio Anullino condanna i due fratelli a vari supplizi che non hanno effetto, e infine alla lapidazione, che avviene a Tremeta, dove risultano vani i tentativi di distruggere con il fuoco i loro corpi. La figura di Paola 38. Ibidem, pp. 82-83. 39. Gaiffier, La Passion des saints Cyriaque et Paule, 1-9; Fusconi, Ciriaco e Paola; Saxer, Afrique latine, pp. 58-59; Scorza Barcellona, Sogni e visioni, pp. 205-208. Se dobbiamo prestare fede al processo dei due martiri sotto Anullino, la loro vicenda si pone nel 303 o nel 304.
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risulta abbastanza appiattita su quella del fratello. Nel primo interrogatorio le risposte ad Anullino sono messe in bocca a entrambi i martiri quando non al solo Ciriaco. Nel secondo interrogatorio interviene soltanto Paola, e in quell’occasione si dice che ha circa diciotto anni. Anullino cerca di farla desistere, promettendole un ricco sposo: allora la giovane risponde di avere come sposo Gesù Cristo, che ha creato i ricchi e i poveri; non potrebbe trovarne un altro che ami la castità, e non intende lasciarlo, dal momento che è stata trovata da lui.40 Non abbiamo difficoltà a riconoscere qui il tema dello sposalizio spirituale con il Cristo, come nei propositi di Seconda, ma colpisce il fatto che Paola non sia presentata in questo atteggiamento sin dall’inizio: si ha come l’impressione di un repêchage di un luogo comune. Marciana di Rusuccuru, martire a Cesarea di Mauretania, ci è presentata nell’omonima Passione41 come una vergine bellissima, consacrata a Dio, di nobile famiglia, che disprezzate le lusinghe del mondo va a vivere a Cesarea in una cella, custodendo la verginità.42 Un giorno, non sopportando la vista di una statua di Diana in una fontana, la distrugge. Per questo è battuta e portata in tribunale, dove davanti al giudice lancia un accorato appello ad abbandonare gli idoli per adorare il vero Dio. Il giudice la condanna ad essere consegnata ai gladiatori perché abusino di lei. Marciana confida nel Signore che custodirà la sua pudicizia. Quando di notte arriva il gladiatore Flammeo, questi al buio non riesce a trovare Marciana, perché tra loro si è frapposta prodigiosamente una parete di pietra. La mattina seguente Flammeo chiede perdono a Marciana, pregandola anche di ottenere che sia esonerato dai combattimenti. La vergine gli promette che lo sarà il giorno del suo martirio. Per due notti successive altri gladiatori sono mandati ad abusare di lei, ma si ripete il prodigio della parete di pietra. Marcia40. Passio Cyriaci, 8: «Iam sponsum abeo dominum Iesum Christum, qui pauperes fecit et divites. Similem non invenio, qui castitatem diligit, non eum relinco, quia iam inventa sum ab eo» (pp. 13-14). 41. Gordini, Marciana di Cesarea; Saxer, Afrique latine, pp. 68-70; Scorza Barcellona, La Passione di Vittore di Cesarea, pp. 158-159. 42. Passio Marcianae, 1: «virgo pulcherrima, Deo dicata, nobilis genere; quae contemptis divitiis ad Caesaream veniens, accola in cellula sua habitabat, et mundanae conuersationis ambitiones et delicias fugiebat» (p. 569): il tema del disprezzo delle ricchezze riappare nella chiusa della Passione, Passio Marcianae, 6: «Beata Martyr Marciana contempta diuitiarum potentia de mundo transiuit ad martyrium […]» (ibidem).
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na dà poi prova delle sue capacità divinatorie prevedendo che un allenatore dei gladiatori sarà ferito: per questo subisce gli insulti degli ebrei della casa dell’archisinagogo Budario, e di rimando preannuncia che la casa sarà distrutta, non potrà essere mai ricostruita, e che le sue pietre non potranno mai essere usate per ricostruire altri edifici. Un 9 gennaio la folla chiede che Flammeo sia rimandato in libertà, ma al tempo stesso chiede che Marciana sia esposta alle fiere: un leone la risparmia, un toro, espressamente richiesto da Budario con i suoi figli e altri ebrei, la ferisce, e finalmente la vergine, che ha modo di ringraziare il Signore per aver conservato la sua castità, è finita da un leopardo. La casa di Budario prende fuoco, è distrutta, e si avvera la profezia di Marciana. La storia di Salsa di Tipasa, non è molto diversa da quella di Marciana, anche se consegnata ad una Passione43 assai prolissa e con pretese letterarie. Salsa è una giovane di circa quattordici anni, figlia di genitori pagani, ma battezzata e consacrata a Dio. Durante la festa del Drago – un idolo pagano di bronzo che rappresentava un serpente con la testa dorata – i genitori la portano al tempio della divinità. Invano la giovane cerca di far desistere i genitori e i cittadini dall’idolatria, per cui decide di eliminare l’idolo, e vi riesce, prima gettandone in mare la testa dorata, poi il resto, pronta ad affrontare il martirio, come afferma in un soliloquio con la propria anima. Il rumore della rovina della statua fa accorrere le sentinelle poste a guardia del tempio dopo la sparizione della testa dell’idolo e tutta la folla: Salsa è linciata e gettata in mare. Le onde trasportano il corpo di Salsa verso il porto, e sarà un marinaio proveniente dalle Gallie quello che lo recupererà, ammonito da un sogno che si ripete per ben tre notti consecutive. Il corpo di Salsa è sepolto in una cappella, e la Passione termina con il racconto dei prodigi avvenuti verso il 372 durante la rivolta di Firmo, che si era recato nella cappella per ottenere la protezione della martire, ricevendone invece segni infausti che preannunciavano la sua sconfitta e la morte. A differenza di Marciana, che subisce un processo, Salsa muore vittima di una rivolta popolare. Il fatto che nella Passione si dica che l’idolatria era ancora in auge sebbene i templi fossero ancora in rovina e rara era la fede cristiana, fa pensare che la vicenda della martire si sia svolta negli ultimi anni di Costantino. La Passione si suole ascrivere all’epoca di Agostino, e si pensa 43. Gordini, Salsa; Saxer, Afrique latine, pp. 68-70; Scorza Barcellona, La Passione di Vittore di Cesarea, pp. 161-163; Passio Sanctae Salsae.
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che possa essere opera dell’autore di un’altra tardiva Passione della Mauretania Cesariense, quella di Fabio vessillifero. Anche Salsa è presentata come una fanciulla che si è consacrata a Dio, disprezzando il mondo, la carne e le lusinghe dei piaceri mondani, e la sua stessa esibizione delle virtù era segno della sua predisposizione al martirio, con un accostamento presente anche nella descrizione di Vittoria nella Passio Dativi.44 Dunque in Passioni tardive (Marciana, Salsa, Ciriaco e Paola) e in probabili aggiunte tardive a Passioni più antiche (l’episodio di Seconda in una presumibile Passione delle sole Massima e Donatilla, quello di Vittoria nella Passione di Saturnino), emerge il tema del martirio connesso con quello della castità consacrata a Dio o del matrimonio con lo sposo spirituale, del rifiuto delle ricchezze o più in generale del mondo. È assai poco probabile che all’epoca della persecuzione dioclezianea ci si potesse esprimere nei termini in cui sono descritti i propositi di Vittoria e di Seconda; più contenuti, ma inequivocabili, gli accenni di Paola allo sposo celeste; la Passione di Salsa insiste particolarmente sul rifiuto del mondo e della carne; Marciana ci è presentata addirittura come un’asceta consacrata a Dio che vive in una cella, e la sua castità è messa a repentaglio quando è consegnata ai gladiatori, tanto che giunta in fin di vita ringrazia il Signore di avergliela conservata. *** L’insistenza sulla verginità connessa con il martirio, che abbiamo appena esaminato in alcune passioni africane, ci introduce a una delle tematiche più tipiche della produzione agiografica romana, che inizia dalla 44. Passio Salsae, 2: «Fuit namque gloriosissima feminarum Tipasitanae urbis indigena, primae aetatis adhuc rudimentis imbuta, annis fere XIIII nata, sed iam martyrum felicitate grandaeua; minor ad pugnam, maior ad gloriam, provectior ad coronam, et quod minor cernebatur in temporibus aetatis, perfectum emicabat in ostensione uirtutis, in tantum donata Deo ut iam esset praedestinata martyrio; et quoniam Christo in omnibus suam consecrauerat mentem, ante annos et mundum proculcauit et carnem; spreverat illa omnes inlecebras saecularium uoluptatum, natam se sciendo non saeculo […] Abiciens retro quod habuit ex natura, adepta est quod censebatur ex gratia, et renata Deo per baptismum, respuit illud quod originis suae importabat elogium, ut moriens saeculo uiueret caelo et uinceret in Cristo. Nam de corporis eius forma interea nihil dico: quae etsi fuit, ut perhibetur, egregia, utpote quae fuerat sanctimoniae consecrata, non est adeo in hoc dumtaxat praedicatione laudanda […]» (pp. 71-75).
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seconda metà del IV secolo con le iscrizioni di papa Damaso (366-384) sulle tombe dei martiri, per poi continuare con una serie di Passioni, che si sogliono chiamare anche Gesta martyrum romani. Per il periodo precedente si hanno valide ragioni per ritenere che sia di origine romana, e scritta a poca distanza dall’esecuzione del gruppo dei martiri avvenuta a Roma attorno al 165, la Passione di Giustino, Caritone, Carito, Evelpisto, Ierace, Peone e Liberiano. Il prefetto Rustico interroga dapprima Giustino, poi rivolge ad ognuno degli imputati la domanda se sono cristiani. Solo a Carito, la terza ad essere interrogata dopo Giustino e Caritone, il prefetto chiede che cosa possa dire in proposito, e Carito risponde di essere cristiana per dono di Dio,45 non molto diversamente da Donata Seconda e Vestia della Passione dei martiri di Scilium, o da Faustina e Fausta nella Passione di Mammario e compagni. I Gesta martyrum romani rappresentano un corpus consistente di testi, composti a distanza di tempo dagli eventi narrati, a partire forse già dalla fine del IV secolo, talora con un impianto narrativo assai articolato, anche su lunghi periodi, che conferisce loro l’aspetto di veri romanzi, oppure cicli di narrazioni che forniscono una vicenda a tradizioni di martiri sepolti nello stesso cimitero o in cimiteri contigui, ovvero ricordati nei calendari nello stesso giorno o a breve distanza l’uno dall’altro: oggetto di studio specialmente nella prima metà del secolo appena trascorso,46 e sui quali converrebbe tornare per ulteriori approfondimenti sui rapporti tra l’una e l’altra Passione, per i non facili problemi di datazione, i riferimenti topografici, le tipologie dei martiri e degli altri personaggi. Dal punto di vista che ci interessa si segnala uno studio relativamente recente di Franca Ela Consolino,47 che affronta specificamente il problema della tipologia delle protagoniste delle Passioni che si ritengono composte nel V secolo o nei primi decenni 45. Passio Iustini, 4, 2: «Il prefetto Rustico si volse a Carito: “A te la parola (sù ti légeis), Carito?”. E Carito: “Cristiana sono, per dono di Dio (christiané eimi, têi toû theoû doreâi)”» (pp. 54-55). 46. Ricordo principalmente Dufourcq, Étude sur les Gesta Martyrum romains, in particolare il t. I, classico ma ormai superato per l’impostazione e per l’apporto di nuovi studi su singoli dossier, oltre a Lanzoni, Le diocesi d’Italia, ma soprattutto Delehaye, Étude sur le légendier romain, i cui primi capitoli costituiscono una buona introduzione a queste Passioni, cui si aggiungono i contributi su singoli dossier dello stesso Delehaye, e di Pio Franchi de’ Cavalieri. 47. Consolino, Modelli di santità.
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del VI. Non potendo affrontare in poche pagine l’insieme di questa letteratura mi atterrò al citato studio per i testi specifici che vi sono presi in esame, consapevole che il giudizio che ne consegue resta forzatamente parziale, in quanto non tengo conto di altre Passioni romane di datazione discussa, né di figure femminili che compaiono in Passioni con protagonisti maschili. Non si può che cominciare evocando quella che è la più famosa martire romana dell’antichità, Agnese,48 già ricordata nella Depositio martyrum alla data del 21 gennaio sulla via Nomentana, e per la quale si ha un cospicuo dossier agiografico, dall’epigramma 37 di papa Damaso, l’Elogium S. Agnetis, che forse risale al 368,49 alle testimonianze di poco successive di Ambrogio di Milano, all’inno XIV del Peristephanon di Prudenzio, fino alle Passioni, una latina e una greca, che si pongono agli inizi del V secolo. Nell’epigramma damasiano Agnese è una fanciulla che all’inizio della persecuzione lascia il grembo materno e sfida le minacce e la furia del tiranno che vorrebbe esporla alla tortura o al supplizio del fuoco. Con gran forza Agnese supera la paura; quando è esposta nuda si copre con i capelli perché il suo corpo, tempio di Dio, non sia profanato da sguardi mortali, e per questo Damaso la celebra come «santo ornamento del pudore».50 Non sappiamo quanto Damaso conoscesse della vicenda di Agnese, eventualmente anche soltanto in base a una tradizione orale. Ambrogio di Milano nel De virginibus sviluppa il tema già damasiano del pudore di Agnese, celebrando principalmente il contrasto tra la tenera età dei dodici anni che la tradizione le attribuisce e l’enormità del martirio, per cui colei che non era ancora in grado di affrontare una pena fu considerata già matura per conseguire la vittoria.51 Trascinata all’altare per compiere un 48. Josi, Aprile, Agnese di Roma; Consolino, Modelli di santità, pp. 99-101; Giannarelli, La tipologia femminile; Airoldi, Agnese di Roma. 49. Cfr. Ferrua in Epigrammata damasiana, p. 176, in nota. 50. Ibidem, 7-9: «Nudaque profusum crinem per membra dedisse/ Ne Domini templum facies peritura videret / O veneranda mihi sanctum decus alma pudoris/ Vt Damasi precibus faveas precor inclyta martyr» (p. 176). 51. Ambrogio di Milano, De virginibus, I, 2, 8: «Nouum martyrii genus: nondum idonea poenae et iam matura uictoriae, certare difficilis, facilis coronari magisterium uirtutis impleuit, quae praeiudicium uehebat aetatis» (pp. 108-109). Il De virginibus risale al 377. In De officiis I, 204 (pp. 148-149) Ambrogio osserva che Agnese, posta a rischio della castità della vita, conservò la castità e scambiò la vita con l’immortalità. Altro riferimento di Ambrogio ad Agnese è in Epistula 7, 36 (pp. 92-93).
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sacrificio, Agnese tende le mani a Cristo tra le fiamme e traccia un segno di croce; mette il collo e le mani in ceppi troppo grandi per membra così piccole, si reca al martirio come se andasse verso il talamo. Alle minacce del carnefice e alla richiesta di averla in sposa da parte di molti, Agnese invoca un rapido colpo di spada evitando così al suo vero Sposo di doverla attendere, e perché il suo corpo non sia profanato da sguardi non desiderati: altro punto di contatto con l’epigramma damasiano. Per questo Agnese ha affrontato un duplice martirio, quello del pudore e quello della fede.52 L’inno ambrosiano Agnes beatae virginis, la cui autenticità è riconosciuta per consenso quasi unanime, riprende varie tematiche appena accennate: Agnese è una vergine consacrata nel suo sangue, matura per il martirio quando ancora non lo era per le nozze, eppure sembra che si rechi alle nozze quando deve andare al martirio53 a seguito del suo rifiuto di compiere un sacrificio sull’altare, disposta a spegnere il fuoco con il suo sangue. Quando è colpita con un ultimo gesto di pudore si copre con la veste, e anche mentre scivola a terra piegando le ginocchia la sua è una caduta piena di verecondia. Nell’inno XIV del Peristephanon di Prudenzio ritroviamo ampliati vari elementi “ambrosiani”, a cominciare da tema della duplice corona, quella della castità che moltiplica i suoi frutti per sessanta, e quello del martirio che rende il cento per cento54 e uno sviluppo narrativo più articolato: Agnese si rifiuta di presentarsi per rinnegare la sua fede, resiste alle torture, e allora è condannata ad essere esposta in un trivio perché, ostinata 52. Ambrogio di Milano, De virginibus, I, 2, 9: «Habetis igitur in una hostia duplex martyrium, pudoris et religionis: et uirgo permansit et martyrium obtinuit» (pp. 110-111). 53. Ambrogio di Milano, Hymnus, XI, 5-7, 13-14, 25-32: «Matura martyrio fuit/ matura nondum nuptiis […] Prodire quis nuptum putet / sic laeta uultu ducitur […] Percussa quam pompam tulit / Nam ueste se totam tegens / curam pudoris praestitit / ne quis retectam cerneret» (pp. 72-75). Il particolare della martire che cade coprendosi per non essere vista può essere la ripresa di un topos della letteratura classica (cfr. le osservazioni di G. Biffi ibidem, p. 75, nota a vv. 29-32): abbiamo già notato più sopra che anche Perpetua cadendo sotto i colpi della vacca inferocita pensa a coprirsi il fianco con la tunica e ad aggiustarsi i capelli. 54. Prudenzio, Peristephanon XIV, 7-9; 119-123: «Duplex corona est praestita martyri / intactum ab omni crimine uirginal / mortis deinde gloria liberae / […] Cingit coronis interea deus / frontem duabus martyris innubae: / unam decemplex edita sexies / merces perenni lumine conficit, / centenus extat fructus in altera» (pp. 358-367). Il riferimento alla rendita dei meriti celebrati con le due corone è in relazione alla parabola del seminatore. Matteo 13, 3-8, 18-23. Si veda in proposito Van Assendelft, in APM, p. 596.
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come è nella sua fede e nella sua verginità, i giovani possano abusare di lei. Agnese, vergine consacrata, confida nella protezione del Signore.55 Quando un giovane osa guardarla è accecato e cade a terra ansimando, e la vista gli è restituita soltanto per l’intercessione di Agnese. Il giudice, adirato per questa sua sconfitta, ordina a un soldato di prendere la spada per eseguire l’ordine dell’imperatore. Ma, preferendolo a un giovane corteggiatore languido e ricercato che potrebbe mettere a repentaglio la sua virtù, la vergine esulta davanti al carnefice folle e violento, quasi fosse un focoso amante, ansiosa di lasciare immergere la spada nel suo petto, fino al cuore, per poter salire al cielo.56 L’inno termina con la descrizione dell’ascesa di Agnese al cielo, che contempla con distacco le bassezze e le vanità di questo mondo: potere, oro, ricchezze, abitazioni eleganti e preziose, vesti frivole, cupe passioni, il paganesimo, il diavolo.57 Si direbbe che un’eco di questa lunga descrizione sia presente in quelle Passioni di martiri africane sopra esaminate in cui l’esercizio della castità si accompagna al disprezzo del mondo e delle sue ricchezze. Probabilmente dipende dall’inno di Prudenzio, per l’episodio dell’e sposizione di Agnese una Passione greca pubblicata da Pio Franchi de’ Cavalieri,58 in cui Agnese è rappresentata non come una fanciulla quanto piuttosto come una donna virtuosa che istruisce le matrone romane sulla vera fede. Per lo stesso studioso dipende da questa Passione la più nota e diffusa Passione latina,59 pervenuta anche in una versione greca che da essa dipende, in cui Agnese torna ad essere una fanciulla, questa volta di tredici 55. Che anche per Prudenzio la martire sia una vergine consacrata si comprende quando replica al giudice, nel momento in cui è condannata all’esposizione nel lupanare, che il Signore non permette che i doni della castità consacrata siano insozzati: «Praesto est pudicis nec patitur sacrae / integritatis munera pollui» (Prudenzio, Peristephanon XIV, 34-35: pp. 360-361). 56. Ibidem, 69-78: «Exulto, talis quod potius venit / vaesanus atrox turbidus armiger / quam si veniret languidus ac tener / mollisque ephebus tinctus aromate, / qui me pudoris funere perderet. / Hic, hic amator iam, fateor, placet. / Ibo inruentis gressibus obviam / nec demorabor vota calentia; / ferrum in papillas omne recepero / pectusque ad imum vim gladii traham» (pp. 362-363). 57. Ibidem, XIV, 91-133 (pp. 364-367). 58. Franchi de’ Cavalieri, S. Agnese nella tradizione e nella leggenda, pp. 318-327. 59. Non tratto qui del capitolo terzo della Passione, relativo al martirio di Emerenziana, sorella di latte di Agnese, «virgo sanctissima licet catechumena» (pp. 353-354), che presenta i caratteri di un’aggiunta posteriore.
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anni, e in cui si imbastisce la vera e propria storia di un amore, quello impossibile da parte del giovane figlio del prefetto di Roma, innamorato di Agnese ma respinto, perché la giovane dichiara di avere un altro sposo che lei potrà amare, toccare e accogliere, mantenendo sempre la sua purezza verginale.60 Il giovane ne fa una malattia, interviene suo padre, e Agnese è condannata ad essere esposta nuda in un lupanare, dove però è protetta miracolosamente, in quanto le crescono i capelli con i quali può coprirsi, un angelo la riveste di una luce tanto immensa che nessuno poteva guardarla, e la vergine riceve una stola candidissima di cui si riveste, intendendo che questa è segno che il Signore l’ha accolta nel numero delle sue ancelle. Il lupanare diventa un luogo di preghiera, e chi vi entra ne esce più puro di quando vi si era introdotto, per avervi venerato, adorato e glorificato la gran luce che vi risiede. Chi invece vi entra con l’intenzione di oltraggiare la vergine è qui proprio il figlio del prefetto, il quale però, accecato dalla luce, cade soffocato dal diavolo. Un compagno del giovane, la folla e anche il padre del giovane accusano Agnese di magia; Agnese ribatte che il giovane è stato ucciso per le sue malvagie intenzioni. Il prefetto replica che riterrà Agnese aliena dalle arti magiche soltanto se otterrà dall’angelo che è venuto a custodirla la restituzione del figlio, ma quando questi, resuscitato, proclama la sua fede nel Dio dei cristiani, tutto il popolo sobillato dai sacerdoti e dagli aruspici impreca contro la strega. Il prefetto non sa che fare, colpito da quanto ha visto, ma non volendo inimicarsi i sacerdoti pagani se ne va rattristato, rimettendo il giudizio finale al vicario Aspasio, che condanna Agnese alle fiamme. Queste però si dividono e non riescono a toccare Agnese, che pronuncia una preghiera, dopo la quale il fuoco si spegne. Aspasio ordina di sgozzare la fanciulla, che con il proprio sangue è consacrata da Cristo sua sposa e martire. Abbiamo così seguito l’evolversi della leggenda dai pochi cenni allusivi di Damaso a momenti di una vicenda in progress registrati o introdotti da altri autori, fino alla Passione tanto romanzesca quanto efficace sul piano narrativo, per sottolineare come il tema della castità che si accompagna 60. Passio Agnetis, 1, 3: «Quem cum amauero, casta sum; cum tetigero, munda sum; cum accersero, virgo sum». Rilevante, nelle espressioni che precedono, il contrasto tra il rifiuto del giovane innamorato, occasione di peccato, e la metafora dell’unione fisica applicata al rapporto con lo sposo spirituale: «Discede a me fomes peccati, nutrimentum facinoris, pabulum mortis […]. Iam mel et lac ex ore eius suscepi: iam amplexibus eius castis adstricta sum: iam corpus eius corpori meo sociatum est, et sanguis eius orbauit genas meas» (p. 351).
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al martirio si imponga sempre più, introducendo sull’una e sull’altro un giudizio di valore uguale, o quasi uguale secondo Prudenzio, che attribuisce loro ricompense diverse. La giovinetta Agnese, che secondo Damaso nel supremo momento del martirio si era preoccupata di coprirsi per difendere il suo pudore dagli sguardi indiscreti, si è trasformata nel simbolo per eccellenza della castità consacrata, riflettendo così uno degli ideali più diffusi nella nobiltà romana convertita. Ma la castità è virtù in cui si possono impegnare tutte le donne, in qualunque stato esse si trovino. Nell’omonima Passione,61 Rufina e Seconda sono due vergini, figlie dei clarissimi Asterio e Valeria. I loro fidanzati Armentario e Verino durante la persecuzione di Valeriano e Gallieno rinnegano la fede cristiana, e vorrebbero convincerle a fare altrettanto. Le due giovani fuggono nella Tuscia, e i fidanzati le denunciano come cristiane, per cui sono arrestate e consegnate al prefetto di Roma con l’accusa di tramare contro l’imperatore. Il prefetto minaccia Rufina, prospettandole la possibilità di tornare in libertà e le nozze con il promesso sposo se sacrificherà agli dei. Rufina rifiuta di sacrificare agli dei perché ciò comporta la morte eterna, le nozze perché significano perdere la gloria della propria verginità: lei non può andare in sposa ad un uomo, perché ciò significherebbe non aver veramente votato la propria verginità a Cristo, figlio di Dio.62 Il prefetto fa flagellare in presenza di lei la sorella Seconda, sperando così di convincerle a seguire i suoi consigli, ma neanche Seconda recede, rifiutando entrambe il matrimonio in quanto loro hanno scelto la dignità dello stato verginale, per cui preferiscono essere uccise piuttosto che accettare il matrimonio. Quando il prefetto chiede a Seconda che cosa sarebbe del loro rapporto con Cristo qualora perdessero la verginità anche contro la loro volontà, Seconda risponde che la verginità consiste nel cuore puro, per cui una vergine non può perderla se non è stata lei a decidere di allontanarsi della giustizia: subire violenza sta a significare la passione, e la passione comporta li premio della palma martiriale.63 Dopo vari e vani tentativi pri61. Cignitti, Rufina e Seconda; Consolino, Modelli, pp. 97-98. 62. Passio Rufinae, 4: «in matrimonii sortem admitti non possum, quia si ego hominis uxor esse desiderem, constat me virginitatem meam Christo Dei filio non vere vovisse» (p. 30 D). 63. Ibidem, 5: «Virginitas in corde puro, Christo Dei filio, exhibetur. Non potest virgo integritatem suam perdere: si non consenserit a justitia declinare. Violentia enim passionem indicat, et passio praeparat palmam» (p. 30 F).
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ma di piegarle con una prigione oscura e piena di odori nauseabondi, poi di ucciderle gettandole in un recipiente di acqua bollente, quindi di annegarle nel Tevere, le due sorelle sono decapitate al decimo miglio della via Cornelia. In questa Passione, in cui si teorizza anche la verginità non come fatto fisico, ma come scelta di volontà che non è cancellata dall’aver subito violenza, le due protagoniste all’inizio figurano come fidanzate, mentre nel prosieguo del racconto figurano come vergini consacrate. Non si comprende questa situazione contraddittoria se non supponendo che la scelta per la verginità sia avvenuta dopo che i fidanzati hanno abiurato e cercato di convincere Rufina e Seconda a seguirli in questo passo. È una scelta di castità quella di vari personaggi della Passione di Eugenia, Proto e Giacinto, un testo dal carattere accentuatamente romanzato nei molti spostamenti dei personaggi e per il motivo della donna vestita da uomo, e dalla improbabile cronologia, la cui fortuna è dimostrata dalle sue versioni in molte lingue orientali.64 Il nobile romano Filippo è inviato da Commodo (176-192) in Egitto come prefetto di Alessandria insieme alla moglie Claudia e ai figli Eugenia, Avito e Sergio. La sedicenne Eugenia ha avuto un’ottima istruzione letteraria e filosofica, e dopo aver ricevuto a quindici anni le prime proposte di matrimonio ha scelto la castità; avendo poi letto le lettere dell’apostolo Paolo e la storia di Tecla si converte al cristianesimo insieme ai giovanissimi eunuchi Proto e Giacinto, con i quali decide di entrare in un monastero maschile, fingendosi uomo con il nome di Eugenio: la famiglia si dispera per la sua scomparsa. Entrata in monastero, Eugenia approfondisce la conoscenza della scienza divina, si impadronisce delle Scritture e dà prova di virtù, tanto che alla morte dell’abate i confratelli la eleggono al suo posto. Una matrona alessandrina di nome Melanzia ottiene da Eugenia la guarigione, ma se ne innamora, credendola un uomo, fino a farle proposte peccaminose che la giovane rifiuta, argomentando la miseria dei desideri mondani e i danni della concupiscenza. Melanzia la denuncia allora al prefetto Filippo, e a questo punto avviene la rivelazione che l’abate del monastero è una donna, proprio la figlia di Filippo e di Claudia. I genitori e i fratelli di Eugenia si 64. Delehaye, Étude sur le légendier romain, pp. 171-186; Gordini, Eugenia; Giannarelli, La tipologia femminile; Consolino, Modelli di santità, pp. 101-108. Nel riassumere la Passione latina seguo la recensione pubblicata da Mombritius, Sanctuarium seu Vitae sanctorum (BHL 2667), che per Delehaye è anteriore a quella pubblicata da Rosweyde nelle Vitae Sanctorum (BHL 2666).
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convertono. Gli imperatori Severo e Antonino ordinano a Filippo di tornare alla religione pagana, ma questi, fingendo una malattia, vende i suoi beni e ne distribuisce il ricavato ai poveri, tanto che è nominato dal popolo vescovo di Alessandria, quale resterà fino alla sua morte, ucciso da inviati degli imperatori. Eugenia fonda un monastero nella Nitria, Claudia un ospizio, poi tornano entrambe a Roma con Avito e Sergio. Questi ottengono importanti incarichi politici in Africa, mentre madre e figlia operano molte conversioni. La vergine Basilla, nipote del futuro imperatore Gallieno (259-268), cerca di mettersi in contatto con Eugenia, ed essa manda Proto e Giacinto ad istruirla: il battesimo di Basilla è celebrato da papa Sotero. Scoppia la persecuzione, e le due vergini rivelano l’una all’altra, a seguito di un’ispirazione divina, che dovranno affrontare il martirio: Basilla per la sola verginità, mentre Eugenia riceverà una duplice corona, per quanto ha patito ad Alessandria e per il martirio imminente. In prossimità della persecuzione Eugenia pronuncia un discorso in lode della verginità. Basilla da parte sua si rifiuta di ricevere il promesso sposo Pompeo, e questi la denuncia all’imperatore in quanto cristiana. Gallieno ingiunge a Basilla di accettare il matrimonio, a Eugenia di sacrificare agli dei. Basilla si oppone a quanti le consigliano il matrimonio, per cui è mandata a morte. Proto e Giacinto si rifiutano di sacrificare a Giove e sono decapitati. Il prefetto di Roma interroga Eugenia per farla abiurare: Eugenia con una preghiera provoca un terremoto che fa crollare il tempio di Diana in cui è stata condotta. L’imperatore la fa gettare nel Tevere legata a un sasso, che si spezza insieme ai legami; cerca allora di farla bruciare nelle Terme severiane, ma il calore si estingue; la fa gettare in prigione senza luce e senza cibo, ma lì si produce una gran luce e appare il Salvatore stesso a portarle il pane, annunciandole che morirà il giorno stesso in cui egli è nato, come di fatto avviene per mano di un gladiatore. Dopo la sepoltura sulla via Latina, Eugenia appare alla madre per annunciare che è stata accolta dal signore tra i santi, e scompare in una gran luce. La famosissima Passione di Cecilia65 ci fa conoscere la tematica della castità condivisa da marito e moglie sin dall’inizio del matrimonio. La protagonista è una virgo clarissima che sotto il vestito intessuto d’oro porta il cilicio, ama solo il Cristo e non vuole rinunciare alla castità con il matrimonio impostole dai genitori. La notte delle nozze Cecilia rivela allo 65. Cfr. Delehaye, Étude sur le légendier romain, pp. 73-96. Su Cecilia e la sua Passione cfr. Josi, Celletti, Cecilia; Consolino, Modelli di santità, pp. 95-96; Giannarelli, Cecilia.
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sposo Valeriano di avere per amante un angelo che custodisce il suo corpo, il quale avrebbe infierito su di lui se avesse osato toccarla con amore peccaminoso, mentre gli avrebbe dimostrato la sua grazia se l’avesse amata di amore immacolato rispettando la sua verginità.66 Valeriano pone come condizione di poter vedere l’angelo di cui parla Cecilia, e seguendo le sue indicazioni, si reca sulla via Appia per ricevere da Urbano il battesimo, lo incontra, e dopo una visione ottiene il battesimo. Al ritorno a casa vede Cecilia insieme all’angelo, che porta due corone di rose e di gigli a loro riservate in quanto si sono impegnati ad osservare la castità. Valeriano chiede all’angelo la conversione del proprio fratello Tiburzio, e la ottiene dopo che Tiburzio è stato lungamente istruito da Cecilia, e poi battezzato da Urbano. Scoppia poi una persecuzione voluta contro i cristiani dal prefetto Turcio Almachio. Valeriano e Tiburzio si segnalano per la cura di seppellire i corpi abbandonati dei cristiani, e per opere di carità. Sono arrestati, subiscono lunghi interrogatori, Valeriano è fustigato, e dopo che si è rivolto alla folla per esortarla ad abbandonare gli dei fatti di pietra è condannato a morte insieme a suo fratello. Improvvisamente si converte alla fede cristiana anche Massimo, l’ufficiale incaricato di far eseguire la sentenza, con tutta la sua famiglia e i carnefici: il loro battesimo avviene in presenza di Cecilia. Tuttavia Valeriano e Tiburzio sono portati al luogo dell’esecuzione, e rifiutatisi di sacrificare agli dei, sono decapitati. Massimo dichiara di aver visto le loro anime portate in cielo, e quando il prefetto sa della conversione di Massimo lo fa uccidere sul posto. Anche Massimo è sepolto da Cecilia presso la tomba di Valeriano e Tiburzio. È poi la volta di Cecilia, la quale distribuisce ai poveri le ricchezze di Valeriano e Tiburzio, converte molte persone e le fa battezzare in casa sua da Urbano, e si ostina a non sacrificare agli dei dichiarandosi cristiana. Cecilia è condannata ad essere bruciata nei bagni della sua casa, ma dopo una notte intera la si ritrova sana e salva come se fosse stata in un luogo fresco. Allora Almachio ordina di decapitarla, ma il carnefice non riesce a staccarle la testa dal corpo, neanche dopo il terzo colpo. Cecilia muore dopo tre giorni, durante i quali ha 66. Passio Ceciliae, 4: «Angelum Dei habeo amatorem qui nimio zelo corpus meum custodit; hic si vel leviter senserit quod tu me polluto amore contingas, statim suum furorem circa te exagitat et amittis florem tuae gratissimae iuventutis. Si autem cognoverit quod me sincero et immaculato amore diliges et virginitatem meam integram illibatamque custodias, ita te quoque diligit, sicut et me, et ostendit tibi gratiam suam» (pp. 196-197).
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confortato e edificato quanti aveva assistito e portato alla fede, donando a Urbano la propria casa perché la trasformasse in chiesa. Questa Passione è forse una delle prime che ci presenta il tema della castità nel matrimonio: il particolare della sposa che convince lo sposo a rispettarla perché ha fatto voto a Dio della sua verginità era stato messo in rapporto con la vicenda di Massima e Martiniano riferita nella Storia della persecuzione della provincia africana di Vittore di Vita: Massima è serva di un vandalo insieme a Martiniano, Saturiano e due loro fratelli, e il padrone spinge Massimiano alle nozze con Massima. Questa però è già consacrata a Dio, e la notte delle nozze convince lo sposo a seguirla nella sua scelta di castità al servizio di Dio. Massimiano accetta la proposta, e riesce a convincere i suoi tre fratelli a condividere la sua scelta, fuggendo poi i quattro fratelli nel monastero di Tabraca, Massima in un vicino monastero di vergini. Ritrovati e torturati duramente, essi sopravvivono miracolosamente ai supplizi, mentre il malvagio padrone muore. Cambiato padrone, e per l’intervento di Geiserico re dei vandali, Massima è lasciata libera e si ritira in un monastero, mentre i quattro fratelli subiranno dopo qualche tempo il martirio.67 Contro l’opinione che vedeva nella Passione di Cecilia il modello di Vittore di Vita, si è imposta in seguito l’opinione opposta, quella cioè della dipendenza della Passione dal racconto di Vittore di Vita.68 Può considerarsi una variante della vicenda di Cecilia e Valeriano, in quanto la decisione di fingere un matrimonio votandosi alla castità è presa insieme dai due protagonisti, quella di Crisanto e Daria69 nell’omonima Passione, una sorta di romanzo ciclico in cui si dà una storia a un gruppo di martiri sepolti sulla via Salaria nel cimitero di Trasone o nelle sue vicinanze. Crisanto, ricco giovane alessandrino figlio del senatore Polemio, va a Roma dove è convertito dal prete Carpoforo. Polemio cerca di far ravvedere il figlio in tutti i modi, facendolo incontrare prima con alcune giovani prostitute, alle quali Crisanto resiste con una lunga preghiera in cui attribuisce solo a Dio la possibilità di sfuggire alle lusinghe della lussuria; poi con Daria, sacerdotessa di Minerva e molto colta, che nel corso di una lunga conversazione sugli dei del paganesimo è invece convertita 67. Victor Vitensis, Historia persecutionis Africanae provinciae, I, 30-38. 68. Cfr. Delehaye, Étude sur le légendier romain, pp. 78-80. 69. Simonelli, Celletti, Crisanto e Daria; Consolino, Modelli, pp. 95-96; Scorza Barcellona, Crisanto e Daria.
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da Crisanto. I due si accordano nel fingere di essere sposati per mantenersi nel timore di Dio e nella gloria della castità. Daria è battezzata nella casa di Crisanto, in pochi giorni si impadronisce di tutte le divine Scritture e assume il velo della santità, «unita a Crisanto non nel calore del corpo, ma nel fervore dello Spirito Santo».70 I due presunti sposi compiono numerose conversioni, determinando uomini e donne a votarsi alla castità, nel pieno scontento dei rispettivi coniugi o promessi sposi. Nella città scoppia una rivolta, a seguito della quale Crisanto e Daria sono arrestati. Crisanto resiste ai numerosi supplizi cui è sottoposto, e dai quali esce sempre illeso, tanto da far convertire il tribuno Claudio, cui era stato affidato, con tutta la sua famiglia e settanta soldati. Claudio e i suoi tre figli sono mandati a morte, e la moglie di Claudio li fa seppellire sulla via Salaria, presso il quale muore anch’essa quando sta per essere arrestata. Daria è condotta in un lupanare, ma qui giunge un leone fuggito dal circo per proteggerla da quanti tentano di accostarsi a lei. Alla fine Numeriano fa seppellire vivi i due sposi in una cava di arena sulla stessa via Salaria, e successivamente anche un gruppo di cristiani che si erano riuniti in un grotta attorno alle tombe dei due martiri. La castità si può mantenere nel matrimonio anche ricorrendo a sotterfugi. La Passione di Anastasia71 – una complessa Passione ciclica, che ingloba quelle dei martiri Crisogono di Aquileia, Agape Chionia e Irene di Tessalonica, Teodota e i tre figli – ci presenta una nobile e giovane romana, figlia dell’illustre Pretestato, pagano, e della cristiana Fausta, andata in moglie al potente Publio con il quale, fingendo una malattia, non ha più rapporti. Publio viene a sapere che la moglie assiste i cristiani in prigione umilmente vestita, e la fa sorvegliare in casa. La donna intrattiene una corrispondenza epistolare e racconta le sue difficoltà a Crisogono, un uomo di Dio che vive in casa di certo Rufino presso il quale era stato inviato agli 70. Passio Chrysanti, 14: «Erat tamen iuncta Chrysanto non calore corporeo, sed Spiritus Sancti fervore sociata» (p. 476). 71. Cfr. Delehaye, Étude sur le légendier romain, pp. 151-171; Anastasia è ricordata nel Martirologio geronimiano alla data del 25 dicembre come martire a Sirmio: la sua Passione sembra intesa a farne una martire romana identificandola con la matrona che dava nome al titulus Anastasiae ai piedi del Palatino. Brandi, Orienti, Anastasia; Moretti, ibidem, pp. 26-39, fa risalire la Passione alla metà del secolo V, come probabile espressione di un “circolo pannonico” legato alla famiglia e all’entourage del pannone Vivenzio, praefectus urbi nel 365-367, praefectus praetorio Galliarum nel 368-371.
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arresti da Diocleziano, e da lui convertito con tutta la famiglia. Crisogono le risponde confortandola ed esortandola a resistere. Publio è inviato in Persia, e dispone che Anastasia sia sorvegliata in casa, senza luce e senza alimenti, in modo che muoia. Muore invece Publio, di cui torna il corpo dalla Persia. Anastasia è finalmente libera dai suoi carcerieri, fuggiti dalla casa, e corre ad annunciare a Crisogono quanto è accaduto «con gioia e in lacrime»,72 vende i suoi beni, e torna ad assistere i prigionieri cristiani. Quando Diocleziano, trasferitosi ad Aquileia, fa venire Crisogono, Anastasia lo segue, anche lì occupandosi dei cristiani in prigione. Crisogono si rifiuta di apostatare, è condannato a morte ed è sepolto dal prete Zoilo in un terreno vicino alla casa delle cristiane Agape, Chionia e Irene, che vivono insieme a lui. Dopo trenta giorni Zoilo muore, annunciando il martirio delle tre donne, come si verifica puntualmente a Tessalonica, dove Diocleziano si è trasferito con i prigionieri cristiani ed Anastasia al loro seguito; sarà proprio lei a seppellire i loro corpi. Poi Diocleziano si trasferisce a Sirmio, sempre con i prigionieri cristiani e Anastasia che li assiste, ma è segnalata per la sua attività e interrogata da Probo, prefetto dell’Illirico, il quale si stupisce di avere davanti a sé la figlia di Pretestato e avvisa Diocleziano. L’imperatore chiede di informarsi sulla fine che ha fatto il patrimonio che si dice Anastasia abbia venduto: Anastasia risponde che non ha più niente, ed è pronta a raggiungere Cristo. Diocleziano si adira quando viene a sapere che Anastasia ha confessato di avere fuso le statue degli dei per farne monete, per cui decide di darla in sposa a Ulpiano, pontefice massimo che ne ha fatto richiesta. Naturalmente Anastasia si rifiuta, come rifiuta i doni di Ulpiano. Quando questi si avvicina per abbracciarla, stramazza a terra cieco, poi muore in preda ai demoni. Anastasia si confida con Teodota, giunta da Nicea di Bitinia con i suoi tre figli e oggetto delle attenzioni del comes Leucadio, che vorrebbe sposarla se sacrifica agli dei. Poiché Teodota si rifiuta di accettare la proposta, è consegnata con i figli a Nicezio, consolare di Bitinia, che non riesce a convincere né Evodio figlio di Teodota torturato davanti alla madre, né la stessa Teodota, fatta accompagnare in un lupanare da un certo Irtaco, che viene respinto dal pugno sul naso tiratogli da un giovane vestito d’oro. Teodota e i tre figli sono condannati al rogo. Anastasia è introdotta davanti al prefetto dell’Illirico, Lucio, il quale cerca di farsi consegnare i suoi beni, ma Anastasia resiste sprezzantemente. Lucio la rimanda in prigione, ordi72. Passio Anastasiae, 7: «cum gaudio lacrimabiliter» (pp. 118-119).
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nando di darle da mangiare solo la sera, e poco, ma per trenta notti lo spirito di Teodota le appare portandole conforto e cibarie in abbondanza. Lucio ordina allora che Anastasia sia posta su una nave piena di criminali, destinata ad essere affondata: ma appare di nuovo Teodota, che ostruisce la falla della nave e la fa pervenire all’isola di Palmaria, dove tutti si convertono. Lucio fa ordinare a tutti di sacrificare agli dei, ma tutti si rifiutano e sono uccisi: Anastasia muore legata a quattro pali su un fuoco acceso. Anche lo stato vedovile è interessato alla castità. La Passione di Felicita e dei suoi sette figli73 è stata verosimilmente composta per dare una storia unitaria, facendoli fratelli e figli di una stessa madre, a un gruppo di sette martiri ricordati dalla Depositio martyrum alla data del 10 luglio, a come sepolti in cimiteri diversi, Felice e Filippo in quello di Priscilla, Marziale Vitale e Alessandro in quello dei Giordani, Silano nel cimitero di Massimo, Ianuario in quello di Protestato; Felicita appare invece per la prima volta nel Martyrologium hieronymianum alla data del 23 novembre come sepolta nel cimitero di Massimo. Il modello evidente di tutta la vicenda è quello dei Sette fratelli Maccabei: al tempo di Antonino Pio, Felicita è una vedova che come tale ha fatto a Dio voto di castità, sempre intenta a pregare e a edificare chi aveva fatto la sua stessa scelta.74 I sacerdoti pagani la denunciano in quanto Felicita e i suoi figli adorando il Dio cristiano insultano gli dei; se Felicita non adorerà gli dei, questi si adireranno senza possibilità di rimedio. Convocata dal prefetto urbano Publio, questi non riesce a convincerla a tornare al culto egli dei, in quanto essa si dichiara pronta piuttosto a morire. Publio la minaccia di far morire i suoi figli, ma Felicita risponde che vivere è non sacrificare agli dei, mentre compiere un tale misfatto conduce alla morte eterna. I figli sono interrogati uno alla volta, dopo che la madre li ha esortati a restare fedeli al Signore. Tutti resistono a Publio, e Antonio ordina di sottoporli a vari tipi di supplizio;75 alle fine anche Felicita è decapitata.76 73. Caraffa, Celletti, Felicita e VII figli; Consolino, Modelli di santità, pp. 86-91; Février, Guyon, «Septimus e numero fratrum». 74. Passio Felicitatis: «in viduitate permanens, Deo suam voverat castitatem, et die noctuque orationibus vacans, magnam de se aedificationem castis mentibus dabat» (p. 12 C). 75. Sono elencati quattro tipi di supplizio applicati due a singoli figli (Ianuario, Silano), uno a due figli (Felice, Filippo), l’altro a tre figli (Marziale, Vittore, Alessandro), raggruppati cioè secondo come appaiono sepolti nella Depositio martyrum. 76. Non tratto qui della Passione di Sinforosa di Tivoli e dei suoi sette figli, martiri sotto Adriano, sicuramente modellata su quella di Felicita, oltre che sull’episodio dei sette
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In queste passioni romane l’importanza della castità nella vicenda delle protagoniste è sottolineata quasi quanto la determinazione nell’affrontare il martirio.77 Ma altri elementi sono comuni ad esse, a parte quelli topici della fermezza della martire, gli interventi prodigiosi, certe forme di supplizio o di punizione, a cominciare dall’esposizione in un lupanare che non ottiene l’effetto desiderato: mi riferisco, sulla base di quanto rilevato da Consolino, all’appartenenza delle protagoniste alle classi altolocate quando non alla nobiltà, per lo più cristiane a differenza della propria famiglia di provenienza o dei pretendenti (Agnese, Basilla) fidanzati (Rufina e Seconda) e mariti (Anastasia, Cecilia), consacrate alla verginità rinunciando al matrimonio (Agnese, Basilla, Cecilia, Eugenia, Rufina e Seconda), o nello stato vedovile (Felicita), ovvero, se sposate, astenendosi dai rapporti sessuali (Anastasia, Cecilia, Daria), umili nel vestire (Anastasia, Cecilia), dedite all’assistenza dei cristiani perseguitati (Anastasia, Cecilia, Daria, Eugenia) fino all’alienazione del proprio patrimonio (Anastasia, Cecilia: ma anche Filippo, padre di Eugenia nella omonima Passione). Queste donne, che talvolta mantengono un rapporto privilegiato con il proprio vescovo (Cecilia, Eugenia) o con un consigliere spirituale (Anastasia), concludono la loro vita con il martirio al tempo delle persecuzioni, quando ancora paganesimo e cristianesimo sono contrapposti e si imputa alla nuova religione l’ira degli dei e ogni calamità a livello personale o collettivo. Alla Consolino va il merito di avere ricollegato le situazioni sopra delineate all’impatto fratelli Maccabei, presa egualmente in considerazione da Consolino nel citato articolo, pp. 88-89, ma probabilmente più tardiva di quella di Felicita. Nella sua Passione la vedova Sinforosa è meno caratterizzata, senza riferimenti alla scelta della castità nel suo stato vedovile. Essa subisce il martirio prima dei sette figli, ed è sepolta nel suburbio di Tivoli, i figli in una fossa profonda all’ottavo miglio della via Tiburtina. La Consolino si sofferma sul riferimento di Sinforosa al marito Getulio e al di lui fratello Amanzio, tribuni che hanno affrontato il martirio piuttosto che sacrificare agli idoli, inquadrandolo nel diffuso interesse, nel secolo V, per i martiri militari. Il problema è che tanto nella Passione di Getulio quanto in quella di Zotico, che hanno in comune tutta la prima parte tranne che per i nomi del protagonista e alcune differenze di ambientazione – Getulio risiede in una non meglio identificata Gabii in Sabina, Zotico a Gabii sulla via Prenestina – e pochi altri particolari, Sinforosa è la moglie del protagonista. D’altra parte il richiamo della Passione di Sinforosa a Getulio, o a Zotico in alcuni manoscritti è il segno di un rapporto tra l’una e l’altra Passione che non è facile stabilire come si sia originato. Dell’argomento mi occupo in I martiri Zotico Amanzio Cereale e Primitivo e la loro Passione, n.19, pp. 424-425. 77. Consolino, Modelli di santità, p. 84.
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del cristianesimo nell’aristocrazia romana tra la seconda metà del IV e gli inizi del V secolo, quando la conversione della parte femminile delle varie famiglie si attua prima di quella della parte maschile, mentre si registra ancora una forma di reazione al cristianesimo da parte pagana, propensa a considerarlo responsabile di ogni evento tragico e catastrofico che fosse sopraggiunto, ultimo il sacco della città da parte di Alarico nel 410.78 Sappiamo inoltre che furono rappresentanti delle classi altolocate quelle che si riunivano attorno a maestri di spiritualità come Girolamo, Rufino, poi Pelagio, accomunate dagli interessi per lo studio della Scrittura come da quelli per l’ideale ascetico, impegnandosi in scelte di vita consacrata nell’esercizio della castità: anche nel matrimonio, come i coniugi Piniano e Melania iuniore, i quali decisero anche di vendere il loro consistente patrimonio suscitando controversie e interventi politici.79 Lo stretto rapporto delle matrone cristiane di Roma con il papa, delineato soprattutto nella Passione di Cecilia, è già documentato al tempo di Damaso, e proprio Cecilia, che porta il cilicio sotto vesti auree, può ricordare la nobile Melania seniore esempio di aristocratica orgogliosa dell’umile saio80 che, secondo la testimonianza di Paolino di Nola, riceveva vestita di sacco i senatori che andavano a renderle omaggio vestiti di porpora.81 In definitiva queste Passioni, mentre poco ci dicono dei martiri che mettono in scena a una distanza ormai considerevole dall’epoca in cui sono ambientate le loro vicende, risentono l’influsso di una serie di problemi e di istanze proprie della comunità romana dalla fine del IV a tutto il V secolo. *** Terminata questa rassegna, si impone qualche osservazione conclusiva sulle diverse rappresentazioni di figure femminili di martiri nell’agiografia africana e romana. Rispetto alle figure di martiri dedite alla castità nella condizione verginale, coniugale o vedovile di entrambe le agiografie prese in esame, espressioni di una letteratura più recente di cui possiamo porre gli inizi a partire dal V secolo, le figure di martiri dell’agiografia africana più anti78. Cfr. ibidem, pp. 87-88. 79. Cfr. ibidem, pp. 93-95. 80. Ibidem, p. 96. 81. Ibidem, p. 91.
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ca presentano un tratto diverso, in quanto ci sono presentate, con tutte le stilizzazioni che cogliamo e che possiamo presumere, negli ultimi giorni di vita quando non soltanto nel momento del processo finale, come nelle Passioni in forma di verbale dell’interrogatorio e della sentenza, venendosi così a confrontare con l’imminente martirio. Il fatto che le martiri di cui siamo maggiormente informati siano tutte donne sposate e con figli, o lo siano state come Quartillosia, vedova di recente, è un dato sicuramente accidentale, non essendovi ragione di pensare che si siano volute rappresentare deliberatamente donne di questa condizione, ad esclusione di vergini e di vedove, e probabilmente attendibile: si tratta inoltre di Passioni che si presumono più vicine ai fatti narrati, forse per questo degne di fede per quanto riguarda le notizie sui protagonisti, anche se in proposito si devono evitare generalizzazioni, valutando caso per caso. In queste più antiche Passioni si tende a mettere in evidenza la figura esemplare della martire, che non esita a dichiararsi cristiana, anche talvolta con atteggiamenti di sfida nei confronti di chi l’interroga e la condanna come nel caso di Crispina, tutte assorbite – quando nelle Passioni narrative c’è spazio per descrivere gli stati d’animo – dall’imminenza della sorte che le aspetta. Si pensi soltanto a Perpetua, la cui vicenda abbraccia un periodo di più giorni, la quale già al momento del battesimo in carcere sente di dove richiedere la forza di soffrire nella carne, successivamente acquista in una visione la certezza che l’attende il martirio, e nell’ultima visione comprende che nell’anfiteatro dovrà combattere non con le belve cui sarà esposta, ma con il demonio. Certo non esistono quasi più affetti familiari per Perpetua, che pure afferma di soffrire per l’impossibilità di stabilire un rapporto con il padre; non sappiamo nulla di suo marito, dei rapporti con i fratelli e con la madre, e quanto al figlioletto, se si preoccupa di allattarlo quando è in prigione, dopo il suo svezzamento non ha più pensieri per lui. Lo stesso può dirsi di Felicita, rattristata di non poter morire con i suoi fratelli di fede se non partorirà prima del giorno fissato per l’esecuzione, e di cui non si accenna ad alcun sentimento per la figlioletta che lascia appena nata alle cure di una sorella di fede. Si deve tenere presente che questo tipo di letteratura ha lo scopo di fissare il ricordo dei martiri anche come modelli di comportamento in un’epoca in cui le persecuzioni sono possibili, e l’esperienza del martirio, come la sua spiritualità espressa in modo diverso a seconda delle capacità dei diversi autori, vi assume un ruolo centrale.
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A partire dalla fine del IV secolo l’epoca delle persecuzioni si sente come lontana, mentre il culto dei santi, che comincia a estendersi anche a illustri figure di non martiri, assume una dimensione che non aveva avuto in precedenza. È l’epoca in cui un altro fenomeno, quello della vita ascetica nelle sue diverse forme, caratterizza ormai la vita cristiana a partire da oriente per estendersi all’occidente mediterraneo. All’ideale del martirio, eventualità sempre più remota nella progressiva cristianizzazione dell’impero ma viva nella celebrazione che se ne fa nel culto dei martiri – particolarmente centrato presso le loro reliquie che cominciano ad essere meta di pellegrinaggio anche per la fama di miracoli di guarigioni che vi si compiono – si associa allora quello delle virtù che ogni cristiano può praticare: la fede in primo luogo, ma anche la preghiera, lo studio della Scrittura, una vita di opere di carità, di penitenza e di rinunce: tra queste in primis la scelta della castità. Se i predicatori insistono su queste tematiche in occasione delle ricorrenze dei martiri – l’abbiamo visto a proposito di Ambrogio per Agnese, e Agostino non è da meno nei suoi sermoni sui martiri – si assiste anche alla fusione del tema dell’antico ma forse non più praticabile ideale del martirio e di quello dei nuovi ideali ascetici nelle Passioni che si compongono per dare una storia a martiri reali o presunti, di cui si conosceva la data e il luogo del culto, ma di cui si era perduta o non era stata trasmessa notizia. È il caso delle Passioni delle martiri romane appena esaminate, aventi come protagoniste donne appartenenti per lo più alle classi elevate, in concomitanza con il fatto che a Roma nel corso del IV e del V secolo furono in prevalenza donne dell’aristocrazia ad essere impegnate nel processo di cristianizzazione e le prime ad impegnarsi nell’esercizio dell’ascetismo cristiano: in queste Passioni, come abbiamo visto seguendo lo studio di Franca Ela Consolino, si sente l’eco dei modi e dei problemi che hanno caratterizzato quel processo e l’introduzione degli ideali ascetici nell’antica capitale dell’impero. È evidente che anche l’agiografia africana più tardiva risente dell’impatto generale del movimento ascetico tra IV e V secolo, forse in modo meno originale sul piano letterario, quando ci presenta figure di martiri che precedentemente si sono votate alla castità, come nel caso di Marciana, Paola, Salsa, Seconda e Vittoria. È presumibile che l’agiografia africana tardiva abbia subito anche l’influsso letterario di testi legati alla celebrazione di martiri romane, come l’inno prudenziano su Agnese nella tipiz-
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zazione di Salsa e di Seconda, per le quali assieme al motivo del martirio e della castità si sottolinea quello del rifiuto del mondo e dei suoi valori: e si potrebbe pensare, per l’intreccio narrativo, all’influsso della Passione di Agnese su quella di Marciana di Cesarea. Per converso si deve ammettere l’influsso di un motivo dell’agiografia africana su quella romana se è vero che alla base dell’episodio di Cecilia che la sera delle nozze convince Valeriano a convertirsi e poi a darsi alla vita ascetica, coinvolgendo poi in questa scelta anche il fratello, dobbiamo vedere la ripresa dell’episodio di Massima e Martiniano narrato nella Storia della persecuzione della provincia africana di Vittore di Vita. Nell’uno e nell’altro caso, nella più antica agiografia africana e in quella di epoca più recente, tanto di Africa quanto di Roma, cogliamo come questo tipo di letteratura rifletta sempre i problemi del tempo e dell’ambiente che li produce.
Sigle Acta Sanctorum quotquot toto orbe coluntur, Antverpiae (Tongerloo-BruxellisParisiis) 1643 ss. Atti e Passioni dei martiri, Introduzione di A.A.R. Bastiaensen. Testo critico e APM commento a cura di di A.A.R. Bastiaensen, A. Hilhorst, G.A.A. Kortekaas, A.P. Orbán, M.M. Van Assendelft. Traduzioni di G. Chiarini, G.A.A. Kortekaas, G. Lanata, S. Ronchey, Milano 1987 Bibliotheca Hagiographica Latina antiquae et mediae aetatis, ediderunt Socii BHL bollandiani. Bruxellis 1898-1901 (Subsidia Hagiographica, 6), e Bibliotheca Hagiographica Latina antiquae et mediae aetatis. Novum Supplementum, edidit H. Fros, Bruxelles 1986 (Subsidia Hagiographica, 70) Bibliotheca Sanctorum, 17 voll., Roma 1961-1999 BS CPL E. Dekkers, Clavis Patrum Latinorum, Steenbruggis 19953 GLS Il grande libro dei santi. Dizionario enciclopedico, dir. Cl. Leonardi, A. Riccardi, G. Zarri, a cura di E. Guerriero, D. Tuniz, 3 voll., Cinisello Balsamo 1998 Nuova Biblioteca Agostiniana, a cura della Cattedra Agostiniana presso l’“AuNBA gustinianum” di Roma, Direttore P. A. Trapè. Opere di Sant’Agostino, edizione latino-italiana, Roma 1965 ss. SAEMO Sancti Ambrosii Mediolanensis Episcopi Opera – Tutte le opere di Sant’Ambrogio, edizione bilingue a cura della Biblioteca Ambrosiana, promossa dal cardinale G. Colombo in occasione del XVI centenario dell’elezione episcopale di Sant’Ambrogio, Milano-Roma 1994 ss. AASS
Testi* Acta Gallonii: Chiesa, Un testo agiografico africano scoperto ad Aquileia (v.), pp. 265268 Acta Iustini: Testo critico e commento a cura di A. Hilhorst, traduzione di S. Ronchey, in APM pp. 47-57, 391-396 Acta Scillitanorum: Testo critico e commento a cura di A.A.R. Bastiaensen, traduzione di G. Chiarini, in APM, pp. 97-105, 405-411 Agostino, Enarrationes in Psalmos, 120: Sant’Agostino, Esposizioni sui Salmi, III, a cura di T. Mariucci, V. Tarulli, Roma, 1976 (NBA, 27), pp. 1428-1459 Agostino, Enarrationes in Psalmos, 137: Sant’Agostino, Esposizioni sui Salmi, IV/1, a cura di V. Tarulli, Roma 1932, (NBA 28/1), pp. 432-457 Agostino, Sermo 313/G (= Morin 2): Sant’Agostino, Discorsi, V (273-340/A) su i santi, a cura di M. Recchia, Introduzione di A. Quacquarelli, Roma 1986 (NBA 33) pp. 716-719 * Sono riportate le edizioni dei testi analizzati e citati in nota, precedute dal titolo latino abbreviato che si è utilizzato. La sigla (v.) rinvia agli studi citati qui di seguito nella sezione.
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Vincenza Milazzo La Sicilia: Agata e Lucia. Note storiografiche
La felice stagione attualmente vissuta dalla ricerca agiografica non ha mancato di investire anche la Sicilia, e se ne cominciano a cogliere frutti sempre più numerosi e maturi. Gli studi sui primi santi dell’isola hanno ormai acquisito una fisionomia problematica, essendosi in larga misura liberati tanto dai più inerti gravami delle letture apologetiche e devozionali1 quanto dalle angustie interpretative di un certo municipalismo, antico nelle sue radici storiche. Due vizi, beninteso, non esclusivi della ricerca agiografica sulla Sicilia e di cui malgrado tutto si continua a scorgere qualche segno nella stessa letteratura scientifica, ma senza ormai la forza condizionante del passato. A fronte della sterilità delle prospettive municipalistiche e regionalistiche, appare invece utilmente feconda la connessione fra la ricerca agiografica e le indagini sul cristianesimo siciliano, antico e medievale. È questo lo sfondo, la premessa necessaria a una più matura e consapevole conoscenza del terreno nel quale germogliarono figure come quelle di Agata e di Lucia, sorelle siciliane della martire Giustina. Il merito di avere dato sistematica e funzionale evidenza alle molteplici interconnessioni fra la dimensione agiografica e l’indagine storica sul cristianesimo insulare, ma anche il merito di aver proposto una più meditata interpretazione del concetto stesso di agiografia regionale, va attribuito, in tempi recenti, a Salvatore Pricoco, ideatore e in qualche caso organizzatore di una serie di convegni nei quali l’agiografia ha avuto ruolo centrale.2 1. Non menziono, perché sarebbe inutile e superfluo, gli innumerevoli volumi che studiosi o devoti locali, più o meno aperti ad accogliere le suggestioni della ricerca, hanno dedicato e dedicano soprattutto alle due più antiche sante siciliane, Agata e Lucia. Vorrei solo ricordare, come esempio positivo, il volume a più mani Agata. La santa di Catania e Magnano, Lucia di Siracusa. Recentissimo il catalogo della mostra Agata santa. Storia, arte, devozione, corredato di alcuni ottimi contributi. 2. Prima tappa della serie di Convegni organizzati nell’arco di un ventennio da Prico-
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Gli incontri promossi da Pricoco hanno dato impulso alla riflessione sui santi dell’isola, attirando l’attenzione anche sull’importanza della tradizione storiografica, soprattutto cinquecentesca e secentesca, fonte ancora insostituita di alcune nostre conoscenze, ma dalla quale spesso scaturiscono errori e deformazioni prospettiche che, a volte, continuano a pesare sui nostri stessi quadri mentali e concettuali di riferimento.3 Si può comunque ormai contare su una crescente e diffusa consapevolezza storiografica capace di cogliere e di evidenziare le molte zone d’ombra che ancora coprono i primi secoli del cristianesimo isolano; disposta a fare i conti con una realtà avara di fonti e di documenti, ma che si percepisce e si palesa viva, variegata e fortemente diversificata in relazione a un territorio cui appaiono sempre più estranei i caratteri di un’artificiosa omogeneità; consapevole che solo dal confronto e dalla sinergia tra specialisti di ambiti disciplinari diversi possano attendersi risultati autenticamente innovativi; pronta a vagliare con sempre maggiore incisività i dati acquisiti, a tentare vie nuove, a cercare in altre fonti o in altri indizi, oltre a quelli consueti, segni, attestazioni, suggestioni che aiutino a comporre un mosaico cui ancora co può essere considerato l’incontro di Caltanissetta del 1985, l’ultima, quella che ha avuto luogo a Catania e Siracusa, a ridosso di questo stesso Convegno (1-2 ottobre 2004). Ecco i titoli degli Atti: Il cristianesimo in Sicilia; Storia della Sicilia e tradizione agiografica; Sicilia e Italia suburbicaria; La Sicilia nella tarda antichità; Euplo e Lucia. La riflessione sul concetto di agiografia regionale, letto alla luce della specifica situazione siciliana, è stata sviluppata in un lungo saggio spoletino dallo stesso Pricoco, Un esempio, pp. 319-376. Ai Convegni “catanesi” vanno accostati i periodici appuntamenti “palermitani” dei Congressi internazionali di Studi sulla Sicilia antica, sempre più aperti alle testimonianze sul cristianesimo isolano, i cui Atti sono pubblicati sulla rivista «Kokalos». 3. Le prospettive da cui, ancora oggi, a volte si guarda al cristianesimo siciliano, in particolare alle sue origini, risalgono spesso ai grandi storici locali del Cinquecento e del Seicento. Tra i primi si annoverano figure di altissimo rilievo quali l’abate messinese Francesco Maurolico (1494-1575), matematico, storico e agiografo, e il gesuita siracusano Ottavio Gaetani (1566-1620); tra gli altri, alcuni eruditi di più modesta statura, quali Pietro Carrera (1573-1647). Negli uni e negli altri agiscono, talvolta in un’equilibrata e sottile interconnessione, tal altra in maniera sfacciatamente sbilanciata e scoperta, quelli che possono essere considerati due macromodelli di lettura della realtà territoriale, il “regionalismo” e il “municipalismo” (cfr. Milazzo, Prima del Gaetani). Si deve a Pricoco, sulla scia di una ormai consolidata tradizione di studi che risale al breve, ma importantissimo saggio di Momigliano (La riscoperta) e annovera interventi di storici moderni del calibro di Giarrizzo (La Sicilia dal Viceregno), il merito di aver posto l’accento sulla storiografia di età moderna e di avere sollecitato a considerarne la funzione di filtro nelle ricostruzioni delle origini del cristianesimo siciliano (cfr. soprattutto, Da Fazello).
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mancano parecchie tessere. I bilanci storiografici apparsi in questi ultimi decenni rendono sistematicamente conto, del resto, di un panorama di ricerche che si infittisce vieppiù sia allargandosi in superficie sia scandagliando in profondità.4 E un tale fervore di indagini comincia già a produrre le prime mature sintesi storiografiche, come il recentissimo volume che Daniela Motta ha dedicato ai Percorsi dell’agiografia siciliana; un saggio poderoso e ben documentato, esito di una tesi di dottorato, nel quale sono ricomposti in un quadro coerente i risultati delle numerose ricerche che in anni recenti hanno affrontato il problema del cristianesimo siciliano e del suo radicarsi in età tardoantica e bizantina. Un saggio in cui l’agiografia, letta mettendo a frutto un ampio ventaglio di prospettive metodologiche, diventa strumento privilegiato per un’analisi a tutto campo della variegata storia, sociale e culturale, della Sicilia pre-araba, e nel quale il binomio agiografia-territorio, spogliato di ogni sovrastruttura ideologica, agisce in profondità sia come chiave interpretativa della storia di lunga durata sia come elemento di conoscenza dei singoli segmenti che quella storia costituiscono. In un quadro generale come quello appena abbozzato, le più antiche e note martiri siciliane hanno beneficiato di una rinnovata attenzione. È il momento dunque per riflettere sulle linee di tendenza evidenziate dagli studi recenti su Agata e Lucia e sulle opzioni metodologiche ad essi sottese. In tale direzione intendo muovermi nel mio intervento, nel quale terrò conto della produzione degli ultimi anni: ovviamente solo una minima campionatura, che spero tuttavia significativa. Molte sono le realtà e i nuclei problematici su cui sarebbe interessante riflettere; nello spazio a mia disposizione non potrò andare oltre qualche rapida considerazione relativa al corpus dei testi e al modello di santità.5 In entrambi i casi cercherò di mettere in evidenza, ove possibile, la dialettica fra la dimensione regionale, 4. Mi riferisco a quelli presentati nell’ambito dei convegni palermitani sopra ricordati (Pincherle, Sulle origini del cristianesimo; Rizzo, Gli studi sul paleocristianesimo; Pricoco, Studi recenti su alcuni aspetti) e ai contributi della Sgarlata, Il cristianesimo primitivo, della Ramelli, Annotazioni sulle origini e ancora di Rizzo, Il cristianesimo siciliano). Di recente pubblicazione i 2 voll. di Rizzo, Sicilia cristiana. 5. Non prenderò in considerazione l’aspetto forse più indagato e che ha dato risultati senz’altro significativi: quello della diffusione e della promozione del culto delle due martiri fuori dalla Sicilia. Mi basti rimandare ai contributi di Cracco Ruggini, Il primo cristianesimo, Milazzo, Rizzo Nervo, Lucia tra Sicilia; Morini, Sicilia, Roma; Pasini, Chiesa di Milano; Motta, Percorsi; Sardella, Roma e la Sicilia. Per quanto riguarda il culto di sant’Agata nel nord Italia, ancora utile il contributo di Fasoli, Su la diffusione.
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che fa da sfondo come si diceva ai fatti e ai testi, e la lettura regionalistica o municipalistica che degli uni e degli altri è stata e in qualche caso è ancora proposta, anche allo scopo di favorire il confronto di esperienze di ricerca che questo nostro convegno implicitamente sollecita. Gli studi sui dossier agiografici delle due vergini siciliane, martirizzate, secondo la tradizione, l’una, Agata,6 al tempo della persecuzione di Decio (251), l’altra, Lucia,7 al tempo di quella di Diocleziano (304), non sono particolarmente numerosi nell’insieme preso in considerazione. Poco rappresentato il filone letterario, per il quale meritano di essere ricordati gli articoli che Francesca Rizzo Nervo ha dedicato al martyrion greco di Lucia, in particolare alle strutture narrative della sua “riscrittura” bizantina,8 ad alcuni motivi letterari in esso presenti9 e alla funzione narrativa che la figura di Lucia assume in composizioni agiografiche più tarde, appartenenti anche ad aree geografiche molto distanti dalla Sicilia.10 Più complessa la fisionomia dei saggi dedicati da Carmelo Crimi ad alcuni testi “minori” della produzione bizantina su Agata, saggi nei quali la sensibilità letteraria si salda in modo strutturale, direi, con un approccio filologico e una consapevole attenzione al dato antiquario e storiografico.11 Del tutto margina6. BHG 36-38b; BHL 133-140 con gli ampliamenti e le precisazioni del Novum Supplementum di BHL (1986). Cfr. Brusa, Gli Atti del martirio; Cartocci, Gli Atti del martirio. Da segnalare che la tradizione agiografica non è del tutto concorde sulla data del martirio: un filone marginale, rappresentato dalla recensione BHL 134, lo colloca infatti nel 304, durante la grande persecuzione dioclezianea. 7. BHG 995-995g; BHL 4992-5003. Per un quadro d’insieme sulla produzione tardoanatica e bizantina, cfr. Brusa, La tradizione del martirio e Milazzo, Rizzo Nervo, Lucia tra Sicilia. 8. Rizzo Nervo, Tradizione narrativa, sul confronto tra il testo tardoantico del mar tyrion greco e il suo rifacimento bizantino, opera di un anonimo siracusano del IX secolo, contenuto in un ms. messinese del San Salvatore pubblicato da Costanza, Un Martyrion inedito. 9. In particolare la Rizzo Nervo si è occupata del motivo letterario della vergine al lupanare, che ricorre anche nella passio di Lucia: La vergine e il lupanare. 10. Dalla Vita di Zosimo, redatta nella Siracusa bizantina del VII secolo alla Vita Odiliae, badessa del monastero alsaziano di Hohenburg (inizio VIII secolo): Rizzo Nervo, Lucia nelle altre Vite. La santa di Siracusa appare in sogno anche a Rusticola, badessa merovingia del monastero di San Giovanni di Arles: Milazzo, Sogni e visioni. 11. Cfr. Crimi, L’encomio «lacerato», e Id., Ancora sull’encomio, sulla falsificazione secentesca dell’Encomio che Metodio di Siracusa, patriarca di Costantinopoli (843-847),
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le, invece, l’interesse per l’aspetto letterario nel recentissimo volumetto di Maria Stelladoro, Agata. La martire, giunto a conclusione di un percorso di studi che ha privilegiato soprattutto la tradizione manoscritta della redazione greco-bizantina del martyrion della vergine catanese.12 Per altri versi sono le interrelazioni fra testi letterari e liturgici ad aver prodotto risultati degni di nota nell’ambito della cronologia delle redazioni. Così, la constatazione dell’assenza di brani della passio latina di Lucia dal cosiddetto sacramentario gregoriano, cui invece una consolidata e diffusa linea storiografica attribuiva valore di terminus cronologico,13 ha permesso di fissare la cronologia del testo in modo meno aleatorio che nel passato, precisando nel contempo i termini della sua fruizione liturgica.14 Al contrario, i riferimenti abbastanza precisi alla redazione latina della passio di Agata in quello che è considerato il nucleo originario del sacramentario ambrosiano – in particolare nel prefazio della messa in onore della martire pronunziò in onore di sant’Agata nella basilica di Costantinopoli a lei dedicata; Id., L’«Epitafio di Atanasio di Metone», sull’Epitafio che Pietro vescovo di Argo declamò in memoria di Atanasio, un catanese fuggito bambino da una Catania ormai araba e divenuto vescovo della cittadina peloponnesiaca di Metone. Anche l’epitaffio fu vittima di interessate “revisioni” secentesche, proprio a proposito di Agata e di Catania. Crimi è tornato su tali temi in S. Agata a Bisanzio. 12. Stelladoro, Agata. Cfr. Ead., Ricerche; Ead., Il codice Ω. I. 14. 13. Cfr., ad es., Garana Capodieci, Santa Lucia, pp. 32 e 107 e lo stesso Rossi Taibbi, Martirio di santa Lucia, p. 15. 14. Milazzo, in Milazzo, Rizzo Nervo, Lucia tra Sicilia, pp. 103 ss. Brani della passio, assenti nel sacramentario gregoriano, sono invece largamente presenti nei Libri dell’Ufficio sia del Cursus Romanus sia di quello monasticus. Un più sicuro terminus ante quem della redazione latina delle passio è rappresentato dalla rielaborazione di Aldelmo di Malmesbury (seconda metà del VII secolo) nei suoi due De virginitate, l’uno in prosa (c. 42, pp. 294 s.), l’altro in versi (vv. 1779-1841, pp. 427-429). Le due opere del vescovo inglese (che rielabora anche la passio latina di Agata: c. 41 e vv. 1736-1778, pp. 293; 425-427) dimostrano senza alcun dubbio che le passiones delle martiri siciliane erano già inserite in Passionarii che ampia diffusione avevano nell’Europa alto medievale. Non direi, come fa Motta, Percorsi, pp. 35 s., che la loro menzione nelle opere di Aldelmo e nei Martirologi di area gallica e britannica sia da attribuire al ruolo della Sicilia mediterranea; concordo invece con quanti ritengono che la diffusione del culto delle due martiri (e successivamente delle loro passiones) nell’Europa medievale sia da mettere in relazione con l’inserimento del loro nome nel Canone della Messa da parte di Gregorio Magno, come del resto ricorda lo stesso Aldelmo: «[…] quas praeceptor et pedagogus noster Gregorius in canone cotidiano, quando missarum sollemnia celebrantur, pariter copulasse cognoscitur». (Ald., De virg., 42, p. 294).
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catanese celebrata nella liturgia ambrosiana – inducono a ritenere che il testo latino fosse già diffuso al tempo della composizione di quei libri liturgici.15 Se l’incerta datazione di questi ultimi, oscillante com’è noto tra V e VII secolo, rende problematica ogni deduzione in proposito, mi sembra tuttavia si possa condividere la cauta posizione di Cesare Pasini che colloca «al più presto al VI sec.» la redazione del sacramentario, fondandosi proprio sulla presenza della passio latina di Agata,16 la cui diffusione fuori dalla Sicilia sembra precedere dunque quella della redazione greca, così come hanno dimostrato per altre vie, rispettivamente per Lucia e per Agata, Francesca Rizzo Nervo e Enrico Morini.17 Benché poco numerosi e piuttosto circoscritti nell’ambito di riferimento, gli studi in questione appaiono frutto di una ricerca ormai matura. Seguono e a loro volta segnano strade sicure, dalle quali è possibile attendere ulteriori risultati. Più problematico, invece, il panorama relativo agli interventi che, in anni recenti, hanno interessato gli aspetti filologici, ecdotici e storico-testuali delle passioni tardoantiche. Qualche anno fa, nel 1997, Guy Philippart affrontava il problema dell’agiografia siciliana inserendolo nell’ambito più ampio dell’agiografia 15. Cfr. da ultimo Pasini, Chiesa di Milano, pp. 394 ss., che riprende una questione già messa in campo da Paredi, I prefazi ambrosiani. Il prefazio per Agata è tra i 76 considerati “originari”. Alla stessa area appartiene l’Inno pseudoambrosiano In sanctae Agatae che dipende con tutta evidenza dalla passio latina: Cartocci, Gli Atti del martirio, pp. 13 s. La sua stesura potrebbe essere contemporanea o posteriore al prefazio (su cui cfr. nota seguente). 16. Pasini, Chiesa di Milano, non concorda con l’ipotesi di Paredi dell’esistenza di un testo “ridotto” della passio latina di Agata già diffuso a Milano a metà del V secolo ma ritiene che «il prefazio dipenda da una redazione della Passio di sant’Agata sullo stile di quella a noi pervenuta, e che quindi esso […] risalga, al più presto, al VI secolo». (p. 396). Pricoco, Un esempio, p. 322, nota 11 , a proposito di sant’Agata afferma: «Nessuno dei testi a noi pervenuti, sia letterari che liturgici, risale oltre il tardo VI secolo». 17. Rizzo Nervo, in Milazzo, Rizzo Nervo, Lucia tra Sicilia, pp. 126 ss. e Morini, Sicilia, Roma, pp. 132 ss. I due studiosi concordano nel rimarcare la posteriorità della diffusione del culto (e dei connessi testi agiografici) delle due martiri in area bizantina, rispetto alle attestazioni “occidentali”. Morini inoltre mette in evidenza che esse furono accolte nel Sinassario costantinopolitano almeno dall’VIII secolo, ben prima che, nell’XI secolo, i corpi delle due martiri arrivassero dalla Sicilia sul Bosforo, al seguito di quel razziatore di corpi santi siciliani che fu il generale bizantino Giorgio Maniace (cfr. Scalia, La Traslazione, pp. 43 ss.).
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occidentale latina;18 un’ottica specifica la sua, coerente e interna al grande progetto in atto all’Università di Namur; in qualche modo sfasata, è vero, rispetto alla stragrande produzione agiografica isolana in lingua greca, ma capace tuttavia di definire un quadro, di focalizzare con efficacia questioni ancora oggi aperte. Il contributo, infatti, è il frutto dello sguardo d’insieme con cui uno dei più agguerriti specialisti di agiografia latina abbraccia la produzione agiografica di una regione che proprio tra tardo antico e primo Medioevo si colloca al margine del mondo occidentale, sempre più attratta nell’orbita bizantina; una regione la cui produzione agiografica, vitalissima in quel periodo, esprime posizioni e veicola messaggi di cui è stata riconosciuta l’autonomia sia da Bisanzio19 sia da Roma, pur in un’ottica sostanzialmente “filoromana”.20 La prospettiva di Philippart, per certi versi, come dicevo, sfasata rispetto all’oggetto di indagine – della qual cosa naturalmente lo studioso è ben consapevole – se per un verso gli offre il vantaggio di muoversi con una qualche leggerezza e libertà nel campo minato dell’agiografia siciliana (senza, per es., sentirsi in qualche modo intrappolato nei lacci più o meno sottili e ambigui della latinità o della grecità dell’isola), per l’altro però rischia di dare a chi legge una visione parziale dell’insieme, soprattutto in relazione ai testi della prima letteratura agiografica che lì si produsse, che fu – è bene ricordarlo – bilingue, con redazioni cioè in lingua greca e in lingua latina, di cui spesso non è facile stabilire cronologia, priorità e relazioni reciproche. Inoltre non vi è dubbio – e certo non ne ha Philippart, diversamente da alcuni studiosi locali tenacemente ancorati al mito dell’autenticità21 –, che le passiones delle nostre due martiri debbano collocarsi nel ricchissimo coacervo delle passions 18. Philippart, L’hagiographie, pp. 167-204. Il contributo rappresenta una messa a punto di prim’ordine dei testi latini che compongono il panorama della letteratura agiografica siciliana fino al XII secolo, in piena età normanna. Si tratta di uno studio importante perché colma in qualche modo un vuoto, quello appunto dell’agiografia siciliana, esclusa, molto probabilmente per il prevalere in essa della facies linguistica greca, dal progetto di Hagiographies (su cui cfr. Id., Pour une histoire). 19. Patlagean, Les Moines grecs d’Italie. 20. Morini, Sicilia, Roma, pp. 144 ss. Pricoco, Un esempio, pp. 344 ss., individua nel contesto provinciale e nell’«aspirazione delle diocesi siciliane a costituirsi un blasone di antichità e di nobiltà apostolica» i motivi generatori della produzione agiografica siciliana. 21. Cito per tutti, per la diffusione di questo studio anche in ambito scientifico, D’Arrigo, Il martirio, pp. 223 ss.
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épiques, di cui Delehaye ha così efficacemente delineato caratteristiche e moduli compositivi.22 Ciò comporta naturalmente il problema della loro datazione che, nell’un caso e nell’altro, rimane estremamente sfuggente e che coinvolge direttamente sia l’aspetto linguistico, data, come si è detto, la presenza, di redazioni greche e latine (o latine e greche, a seconda dei punti di vista), sia quello filologico, il solo in grado di stabilire senza approssimazioni i rapporti reciproci tra le redazioni. La composizione di entrambe le passiones è infatti certamente da collocare prima della totale bizantinizzazione dell’isola, lungo un arco di tempo che va dal IV al VI o al più tardi all’inizio del VII secolo, un lungo «période de transition»,23 nel quale, al contrario di quelli successivi dominati da una produzione letteraria in lingua greca, sono ugualmente presenti testi agiografici redatti nelle due lingue. «Avec le Passions d’Agathe et de Lucie», afferma dunque Philippart, «nous entrons dans le monde des “passions epiques”» e, poco oltre, affrontando gli aspetti più specificamente filologici, aggiunge: 22. Delehaye, Les passions des martyrs, pp. 236 ss. 23. L’hagiographie, p. 179. È questa la seconda delle cinque sezioni nelle quali lo studioso accorpa tutta la diversificata e consistente produzione agiografica siciliana tardoantica e medievale, che si snoda lungo un arco di tempo di otto secoli, dall’inizio del IV, alla conquista normanna, nel XII secolo: 1) periodo arcaico (prima del 313); 2) di transizione (313-600); 3) bizantino (tra il 600 e l’850); 4) siculo-calabro (850-1110); 5) periodo latino (dopo il 1110). Nessun testo ci è stato conservato però del primo periodo, cui Philippart ascrive il nucleo originario degli Acta Eupli, i soli cui, da Pio Franchi de’ Cavalieri (S. Euplo) in poi, sia stato riconosciuto un fondamento di genuinità e che non a caso figurano in raccolte di Acta martyrum come quella di Musurillo (The Acts of the Christian Martyrs) o nella recente rassegna sull’agiografia occidentale precostantiniana curata da Scorza Barcellona per il III volume di Hagiographies (cfr. Agli inizi e da ultimo, Id., La Passione). Al secondo vanno assegnate le redazioni, greche e latine, dei testi letterari relativi ad Agata e a Lucia (entrambe escluse, giustamente, dalla rassegna di Scorza Barcellona). La periodizzazione consueta distingue: 1) agiografia siculo-romana (dalle origini fino allo sbarco del generale bizantino Belisario in Sicilia, 536 o al più tardi, fino a Gregorio Magno (604); 2) siculo-bizantina (dalla fine del VI al IX secolo); 3) italo-greca (tra la metà del IX all’XI secolo, dall’occupazione araba al successivo insediamento dei Normanni): Schirò, Per l’esumazione, pp. 86 ss.; Cracco Ruggini, Il primo cristianesimo, pp. 87 s. Tali scansioni hanno ormai rimpiazzato quella proposta a suo tempo da Lancia di Brolo, Storia della Chiesa, I, pp. 37-41 che comprendeva tre fasi: 1) dei «Notari», 2) dei «Panegiristi», 3) dei «Leggendari», in un progressivo allontanamento dalla realtà storica. In tale prospettiva le passioni di Agata e Lucia, appartenenti alla prima fase, erano del tutto assimilate agli Acta dei martiri e ritenute documenti autentici.
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De la Passion latine de sainte Agathe, cinq recensions on été distinguées […] Le dossier de Lucie est complexe lui aussi mais n’a pas été étudié comme celui d’Agathe. Ni de l’un ni de l’autre, nous n’avons ancore d’édition critique.24
Gli scritti più antichi compresi nei dossier agiografici delle due martiri dunque, presenterebbero una situazione simile, anche se quelli relativi ad Agata sembrano registrare un netto vantaggio: se infatti delle passiones dell’una e dell’altra manca l’edizione critica, tuttavia della passione latina di Agata sarebbero state individuate cinque “recensioni”,25 mentre ancora del tutto oscure rimangono le possibili articolazioni di quella della martire siracusana.26 Un’affermazione, questa, condivisibile, ma solo in parte, come vedremo, dal momento che, al contrario, il quadro complessivo relativo ai più antichi testi agiografici dei due dossier è in effetti più mosso di quanto non si possa evincere dalle parole dello studioso belga. Egli infatti, in ossequio al progetto all’interno del quale il suo intervento si inscrive, dà conto, e correttamente lo dichiara, dello status quaestionis inerente alle redazioni latine, ma così facendo, di fatto le isola dalle redazioni greche con le quali esse invece interagiscono, seppure con modalità non univoche, che vanno certamente di volta in volta individuate e vagliate, ma che non possono essere sottaciute. Se guardiamo, allora, allo stato complessivo delle redazioni, in greco e in latino, dei due dossier, il quadro appare mutato, addirittura capovolto rispetto a quello tracciato da Philippart. Se non vi è dubbio infatti che, per quanto attiene alle redazioni latine «ni de l’un ni de l’autre, nous n’avons ancore d’édition critique», dal momento che siamo ancora di fatto fermi al XVII secolo, in particolare per quella di Agata al 1658, anno in cui vide la luce il I tomo di febbraio degli Acta Sanctorum,27 e per Lucia addirittura a qualche decennio prima, ossia alle Vi24. Philippart, L’hagiographie, pp. 182 s. 25. Le cinque recensioni in questione sono le quattro segnalate in BHL 133, 134, 135, 136, distinte sulla base degli incipit, cui Philippart aggiunge una quinta individuata dalla Morini, Una redazione sconosciuta e La passione di S. Agata, pp. 61 ss., da lei denominata «cistercense». 26. Manca una recensio dei mss. della passio latina di Lucia. Tuttavia, il confronto tra le edizioni di Mombritius (Sanctuarium, pp. 58-59v), Caietanus (Vitae, I, pp. 116-118) e Surius (De probatis, XII, pp. 247-248) basta ad evidenziare, soprattutto nella parte finale, differenze abbastanza significative che fanno pensare a recensioni diverse. 27. L’insieme del dossier agiografico su sant’Agata è in AA SS Febr., I, pp. 595-656: la passio latina, alle pp. 615-618. Jean Bolland, che ritenne gli Acta latini longe praeferen-
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tae sanctorum Siculorum di Ottavio Gaetani, pubblicate postume a Palermo nel 1657,28 del martyrion greco di Lucia è disponibile invece, ormai da oltre un cinquantennio, un’edizione critica realizzata con rigorosi criteri ecdotici dal bizantinista palermitano Giuseppe Rossi Taibbi.29 Nulla di simile, invece, per Agata,30 nonostante alcune pubblicazioni recenti abbiano esplorato lo stato della tradizione manoscritta relativa sia alla tradizione greca sia a da rispetto alla redazione greca, riprodusse la recensione pubblicata da Mombritius, dopo averla collazionata con altri 16 mss. latini (ibidem, p. 599). Il testo degli Acta Sanctorum (BHL 133) è quello che a tutt’oggi si legge nelle pubblicazioni che riportano la passio latina di Agata (cfr., ad es., D’Arrigo, Il martirio, pp. 359-374; Zito, Il contesto, pp. 49-65). Ottavio Gaetani, Vitae, I, pp. 50-53 pubblicò un testo latino traendolo da 5 mss., tre siciliani e due romani (Vitae, I, animad., p. 43). I mss. latini più antichi che tramandano la passio di Agata risalgono all’VIII secolo. 28. Vitae, I, pp. 116-118; animad., pp. 90-93. Il testo della passio latina di Lucia è leggibile nelle più importanti raccolte agiografiche, dal Sanctuarium di Bonino Mombritius al De probatis Sanctorum historiis del Surius (citate a nota 26). Il dossier agiografico della santa siracusana non figura negli Acta Sanctorum, non essendo mai stati pubblicati, com’è noto, i tomi relativi ai santi del mese di dicembre. Per quanto riguarda il testo della passio latina fornito dal Gaetani, bisogna tener presente che il gesuita siracusano, in ossequio ad una inveterata tradizione e nonostante la sua sensibilità al rinnovamento critico-filologico portato avanti in quegli anni dai Bollandisti, sottopose il materiale raccolto a revisione stilistica per renderne il dettato cultiore stilo: cfr., Pricoco, Un esempio, p. 329; Stelladoro, Le carte preparatorie, pp. 255 ss. Ottavio Gaetani morì a Palermo nel 1620 e la sua opera fu completata e pubblicata, dopo quasi un quarantennio, dal confratello Pietro Salerno. Il materiale raccolto per la compilazione delle Vitae, oggi custodito presso la Biblioteca Centrale della Regione Siciliana, è stato censito dalla Stelladoro, Contributo allo studio, pp. 233-305, la quale ha appena pubblicato anche uno studio monografico (Le «Vitae Sanctorum Siculorum»). Sulla raccolta del gesuita, inserita nel contesto della Sicilia spagnola in cui fu concepita, cfr. i contributi di Sara Cabibbo, Le «Vitae sanctorum Siculorum» e Il Paradiso, pp. 11-41. 29. Martirio di Santa Lucia. Rossi Taibbi editò la più antica redazione greca (quella tràdita dal perduto cod. Papadopulos e pubblicata, in trad. latina, dal Gaetani, Vitae, I, pp. 114-115) procedendo alla collazione di 16 mss. italo-greci. Tenne costantemente presente anche la redazione latina. 30. Bolland tradusse in latino e pubblicò la redazione greca contenuta in un ms. messinese = BHG 36 (AA SS Febr., I, pp. 618-620) e la trad. dello Hexentovius di quella attribuita a Metafraste = BHG 37 (ibidem, pp. 620-623); l’orazione di Metodio (BHG 38) fu edita nella trad., “rimaneggiata” in senso filocatanese, di Leonardo Paté (ibidem, pp. 624-631): su cui cfr. Crimi, L’encomio. Solo di quest’ultima è disponibile un’edizione critica (Mioni, L’encomio di S. Agata), di cui Crimi ha recentemente evidenziato «errori e manchevolezze»: S. Agata a Bisanzio, p. 145. Lo studioso ne ha annunciato una nuova con trad. italiana e commento. Anche nelle Vitae del Gaetani si può leggere una trad. latina del martyrion greco, effettuata su un ms. vaticano da Agostino Fiorito (Vitae, I, pp. 47-50).
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quella latina31 e nonostante il volumetto sopra ricordato di Maria Stelladoro rimandi nel sottotitolo (dalla tradizione greca manoscritta) all’ambito testuale. Lì, infatti, forse per le caratteristiche divulgative della collana in cui il saggio è ospitato, non si legge il testo del martyrion greco ma una «libera interpretazione [sic!] in italiano» degli Atti greci del martirio, nello specifico della «trascrizione» tradita dal ms. Parisinus Graecus 1452, un apografo del X secolo, «il più antico», dice ancora la Stelladoro «tra quelli rinvenuti».32 La situazione è insomma desolante: di fatto BHG 36 è ancora inedita33 e di BHG 37 non leggiamo, in lingua originale, se non il testo riprodotto in PG 114, il quale, per giunta, pare essere stato tratto da un ms. parigino inesistente.34 Dunque, nel complesso, la situazione testuale delle redazioni tardoantiche su Lucia è relativamente migliore di quella di Agata: la possibilità di disporre dell’edizione critica di Rossi Taibbi non garantisce infatti solo un solido testo della redazione greca, ma presenta un indiscutibile vantaggio anche per chi opera sul latino, permettendo di ancorare a basi filologicamente salde le relazioni reciproche delle redazioni a noi pervenute.35 31. Mi riferisco agli articoli della Stelladoro sulla tradizione manoscritta relativa alle due recensioni greche della passio di Agata (Ricerche; Il codice Ω. I. 14; Agata, pp. 121128); ad alcuni contributi di Carla Morini sulla redazione latina (Una redazione sconosciuta; La passione di S. Agata; La ‘Passio s. Agathae’; La passio s. Agathae) e alle pagine che alla trad. ms. dedica mons. D’Arrigo (Il martirio, I, pp. 281-356, per la redazione greca; pp. 374-480, per quella latina). 32. Stelladoro, Agata, p. 105. Il ms. contiene BHG 37, dunque la recensione pseudometafrastica e, a quanto si evince dalla trad. italiana, pare non discostarsi dal testo edito dal Migne in PG 114 (cfr. nota 34). Nulla di nuovo, dunque, rispetto al già noto. La fatica della studiosa sarebbe stata certo più meritevole se avesse collazionato i mss. da lei stessa individuati e recensiti e avesse fornito un testo critico. 33. Sulla trad. ms.: Dörrie, Agatha, col. 180, che menziona 4 mss. dell’XI-XII secolo e Stelladoro, Ricerche, p. 73, che ne elenca due, entrambi apografi del perduto ms. messinese. 34. Il testo della recensione pseudometafrastica è tradito da una trad. ms. più consistente dell’altra (cfr. Dörrie, Agatha, col. 180, che parla di 15 mss., dei quali i tre più antichi sono del X secolo, e Stelladoro, Ricerche, pp. 76-85 che ne elenca 25), ma anche di questo manca un’edizione critica, dal momento che si legge ancora oggi nell’ediz. di PG 114, coll. 1332-1346. Il Migne riprodusse un ms. Parigino del X secolo, il Graecus 999, che, stando alle ricerche della Stelladoro, non conterrebbe però alcuno scritto su Agata: ibidem, p. 72. Il D’Arrigo, Il martirio, che non distingue tra le diverse recensioni, riproduce alle pp. 259280 il testo di PG 114. 35. Penso, ad es., alla possibilità di dedurre con ragionevole certezza lo stato delle relazioni reciproche delle due redazioni a partire da un testo criticamente stabilito. Cfr. Milazzo, «Parrhesìa».
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Dossier così articolati e compositi non possono ovviamente non suscitare tutta una serie di problemi, che si assommano a quelli sempre posti dall’edizione dei testi agiografici. Mentre su questi ultimi si è da tempo incentrata la riflessione critica degli specialisti,36 gli uni e gli altri, intendo quelli peculiari dell’agiografia siciliana e quelli più genericamente connessi all’edizione critica dei testi agiografici, sono invece assenti, non so se ignorati o accortamente elusi, nel poco che finora si è fatto soprattutto per i testi relativi a Agata. La facies linguistica della Sicilia tardoantica ancora in gran parte sfuggente nelle sue articolazioni cronologiche e territoriali, e comunque indubbiamente non uniforme, né esclusivamente “latina” né “greca”,37 impone che chi si accosta ai nostri testi lo faccia con estrema cautela e con la consapevolezza che un lavoro di tipo filologico o ecdotico su una delle redazioni, greca o latina che sia, debba avere sullo sfondo l’altra. Ora, se per quanto riguarda Lucia, l’edizione di Rossi Taibbi e il suo stesso metodo di lavoro hanno in gran parte sgombrato il campo dai dubbi relativi alla cronologia relativa tra le due redazioni38 e aprono certamente la strada anche a chi vorrà affrontare l’edizione della redazione latina, per quanto riguarda Agata non mi sentirei di dire altrettanto. Innanzi tutto, – lo si è visto –, lo status del dossier è molto più complesso di quello di Lucia in quanto siamo in presenza di tre redazioni, due in greco e una in latino, di cui ancora si è ben lontani dall’aver stabilito con relativa certezza possibili reciproche relazioni e di fronte alle quali si oscilla tra il deciso convincimento di una redazione originaria latina da cui sarebbero scaturite le successive (greche e latine) a noi pervenute,39 o, al contrario, di un ar36. La discussione tematica su L’edizione critica delle fonti agiografiche curata da Scorza Barcellona, che ha inaugurato nel 2004 la nuova veste di «Sanctorum», ne pone sul tappeto alcuni fondamentali. 37. Si vedano, in proposito, le pluriennali ricerche epigrafiche di Manganaro, sintetizzate, da ultimo, in Greco nei pagi e latino nelle città. 38. Mostrando senza ombra di ragionevole dubbio l’anteriorità della greca di cui la latina è “traduzione”, seppure ampliata e modificata. Il problema ancora aperto è inerente alle modalità e alle finalità della traduzione (e ciò vale anche per le redazioni della passio di Agata): essa, infatti, potrebbe essere stata effettuata in Sicilia tra V e VI secolo ed essere dunque espressione del culto locale e del bilinguismo della regione; o potrebbe essere stata redatta fuori dall’isola (a Roma, ad es.) in concomitanza e in appoggio alla diffusione del culto delle due martiri in area occidentale, tra la fine del VI e l’ inizio del VII secolo. Manca tutt’ora uno studio in proposito. 39. L’ipotesi dell’anteriorità della redazione latina risale a Bolland, scaturita soprat-
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chetipo greco scomparso, matrice delle successive redazioni in entrambe le lingue.40 In questo quadro i contributi recenti che più direttamente affrontano problemi filologici o critico-testuali (e da qui quello della redazione originaria) sono per lo più ancorati quasi esclusivamente all’uno o all’altro “filone” linguistico, escludendo di fatto dal proprio orizzonte di riferimento l’altro ramo della tradizione. Nonostante la loro indiscutibile utilità e l’interesse per lo spaccato che offrono della diffusione anglosassone della Passio di Agata, ad es., i numerosi contributi di Carla Morini, senz’altro il più organico lavoro sulla tradizione del testo della passio latina,41 non fanno luce su tale intreccio né tengono conto del nodo problematico cui ho accennato. Del resto, va ricordato che la Morini è una filologa germanica, interessata in primo luogo alla fruizione anglosassone della Passio S. Agathae, nel cui ambito ha pubblicato nel 1993 il testo in antico inglese contenuto nella terza raccolta di Sermoni e Omelie (le Vite dei santi) di Ælfric, un monaco benedettino vissuto a cavallo tra X e XI secolo. Condotta in margine all’identificazione della redazione latina utilizzata da Ælfric,42 la recensio di un numero cospicuo di mss. latini effettuata dalla studiosa sarà senz’altro utilissima anche per chi si sobbarcherà all’impresa dell’edizione critica della passio latina. La fatica della Morini ha però, per quanto riguarda la più complessiva “questione agatina”, un interesse abbastanza limitato, segnata com’è da una ben definita pregiudiziale linguistica, che può risultare fuorviante in un’indagine che si apre al più ampio quadro della composizione e della diffusione dell’intero dossier agiografico della martire catanese. Va detto che la Morini fonda alcune delle sue affermazioni, in particolare quelle relative alla redazione tardoantica della passio, sul saggio di mons. Salvatore D’Arrigo, uno studioso locale, particolarmente devoto di Agata, autore di due corposi volumi che, nonostante il loro impianto scotutto dal fatto che si riteneva che, al tempo della stesura della passio, in Sicilia, si parlasse solo latino. Fu rafforzata, in seguito, da Dufourcq, Étude, II, pp. 197 ss. che comunque la datava al VI secolo. Da ultimo, l’ha sostenuta con argomentazioni linguistiche e letterarie, la Cartocci, Gli Atti del martirio. 40. Brusa, Gli Atti del martirio. 41. Per questo è più volte citata da Philippart, L’hagiographie, pp. 182 s. 42. La studiosa ha individuato un «Leggendario cistercense» in un ms. del XII secolo con una redazione della passio non precedentemente nota, «tratta per contaminazione trasversale da BHL 133 e BHL 135»: La passione di S. Agata, pp. 53 s.
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pertamente devozionale e apologetico, godono di una qualche cittadinanza anche nel panorama scientifico. In effetti, la monografia di D’Arrigo ha notevole circolazione, e non solo in ambito locale, frequentemente citata sia come studio d’insieme sia perché, per la prospettiva che qui più ci interessa, offre una rassegna dei mss. agiografici agatini più ampia di quella altrimenti disponibile, soprattutto per quanto riguarda la redazione latina.43 La rassegna e la descrizione dei mss. però, per la mancanza di qualsiasi criterio scientifico, o non è utilizzabile o lo è con la massima cautela. Sia D’Arrigo sia la Morini, inoltre, fanno propria l’idea della priorità della redazione latina rispetto alla greca, senza tenere in alcun conto argomentazioni contrarie, come, ad es., quelle di Luciana Brusa, che, negli anni Cinquanta dello scorso secolo, aveva invece dimostrato, attraverso un puntuale raffronto testuale e contenutistico, l’anteriorità di un originale greco oggi perduto, dal quale sarebbero scaturite la redazione latina e le due redazioni greche oggi note. È fuori di dubbio che, tra le redazioni pervenute, quella anteriore sia la latina ed è fuori di dubbio che già alla fine del VI secolo quel testo circolasse anche fuori dalla Sicilia (in area ambrosiana, almeno, come si è visto più sopra), ma non è possibile dire se essa sia la redazione originaria oppure se siamo già in presenza di una traduzione da un testo greco precedente. Quel che va sottolineato, mi sembra (e che meriterebbe di essere attentamente studiato e valutato) è la differenza tra le redazioni (la più macroscopica delle quali riguarda, come vedremo, la “sezione” palermitana) certamente funzionale a un progetto e a destinatari diversificati. Non mi sentirei dunque di condividere quanto afferma la Morini e cioè che «lo status quaestionis sull’origine della Passio s. Agathae nella forma in cui la possediamo, non è […] ancora mutato rispetto alle congetture avanzate da Dufourcq all’inizio di questo secolo»,44 dal mo43. Per la latina i mss. censiti sono 171 (il sito della BHLms ne offre 160 e il Dörrie, Agatha, col. 180, ne ricordava un centinaio) e 27 sono quelli greci (senza distinzione di redazioni e compreso l’Encomio di Metodio, contro i 19, relativi alle due sole recensioni del martyrion, menzionati da Dörrie). In «Appendice» la Morini, I manoscritti inglesi, pp. 645-656, aggiunge altri 20 mss. Interessante la notazione della studiosa sul fatto che molti dei mss. inglesi o di origine inglese collocano il martirio durante la persecuzione di Diocleziano (come Beda e Aldelmo) piuttosto che durante quella di Decio. Da segnalare che D’Arrigo trascrive, alle pp. 379-387, anche il testo tradito da un ms. di Würzburg dell’VIII secolo particolarmente interessante, oltre che per la sua antichità, perché è uno dei 7 (ma D’Arrigo non lo dice né si pone il problema) rappresentanti della recensione BHL 134, quella accolta da Beda e da Aldelmo, mai prima pubblicata. 44. La passione di S. Agata, p. 55.
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mento che, in realtà il quadro complessivo delle conoscenze sulla Sicilia tardoantica è molto mutato proprio nel corso di questo secolo e oggi nessuno si sentirebbe di sottoscrivere la ricostruzione dello studioso francese, se non dopo averla profondamente rimeditata e ridefinita, non foss’altro perché, proprio in relazione ai dossier agiografici delle due martiri siciliane, non vi era presa di fatto in considerazione la tradizione greca.45 Ma, nel caso specifico di Agata, si aggiunge e si intreccia al problema squisitamente filologico, un elemento che, almeno ai giorni nostri, dovrebbe essergli estraneo e cioè quella componente municipalistica di cui dicevo all’inizio di questo intervento. Avviene così che l’anteriorità dell’una o dell’altra redazione, sia supportata o meno dalla presenza di precisi riferimenti alle città che si contesero la nascita della più antica martire siciliana. I due tomi di D’Arrigo ci permettono di fare in questo senso qualche rapidissima considerazione, in quanto sul devoto monsignore catanese sembra ancora attiva l’antica controversia tra Palermo e Catania circa i natali di Agata, una disputa che ha ripercussioni anche su alcune ipotesi di datazione delle due redazioni. Poiché i mss. greci indicano Palermo o come città di nascita o come luogo di origine della martire, il catanese D’Arrigo non ha dubbi sull’anteriorità della redazione latina che di Palermo non parla e che, proprio per questo, non considera una pia leggenda agiografica, bensì un autentico documento storico. La questione dell’origine palermitana di Agata, distingue, infatti, nettamente le redazioni greca e latina della passio, almeno nelle forme giunte fino a noi. Le due redazioni greche presentano, infatti, nella parte iniziale alcuni episodi del tutto assenti nella latina: l’arresto di Agata a Palermo da parte degli emissari di Quinziano, il viaggio verso Catania, il miracolo dell’oleastro. Minime le varianti: secondo la passio anonima (BHG 36), Agata soggiornava a Palermo (non è detto se si trattasse di un soggiorno temporaneo o no), secondo lo Pseudo Metafraste (BHG 37) era, più specificamente, originaria di quella città. I Palermitani, comunque, nell’una e nell’altra redazione, non emergono né per coraggio né per fede, anzi: durante il viaggio verso Catania, Agata si china ad allacciarsi un calzare e, voltandosi indietro, si accorge che i Palermitani, dopo averla seguita per 45. Dufourcq accenna alla redazione greca della passio di Lucia come traduzione della latina: Dufourcq, Étude, II, p. 191 e non dubita dell’anteriorità della passio latina di Agata: ibidem, pp. 200 s.
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un tratto del percorso, sono tornati indietro, abbandonandola. La fanciulla allora prega Dio di operare un miracolo che mostri a tutti l’incredulità e la scarsa fiducia che gli abitanti di quella città avevano riposto nella sua capacità di sostenere la prova del martirio; l’oleastro, spuntato improvvisamente, è segno del “rimprovero” che quell’incredulità aveva meritato. Niente di tutto ciò nel testo latino. Ed ancora è da notare che le rielaborazioni successive in lingua greca riportano l’episodio palermitano (l’Encomio di Metodio, ad es., nella versione originale, prima della falsificazione catanese), mentre in quelle latine (a partire già da Aldelmo), non v’è alcun cenno né a Palermo né al miracolo dell’oleastro. In assenza di un’accurata ricognizione della tradizione manoscritta e senza una più sicura definizione dei reciproci rapporti fra le due redazioni, non è possibile dire se la sezione “palermitana” sia stata aggiunta all’una o al contrario sia stata tolta all’altra redazione o se si tratti di due redazioni parallele e indipendenti. Mi basta avere sottolineato come l’opzione editoriale e storico-testuale di monsignor D’Arrigo – e della stessa Morini – non permetta di fatto di cogliere questa per molti versi interessante differenza, anche se non è certo facile capire come mai il corpus greco presenti tale sezione e come mai il latino ne sia privo e tutto ciò in un tempo in cui, presumibilmente, nessuna disputa tra le due città siciliane era ancora sorta sui natali di Agata.46 46. La disputa che oppose Catania e Palermo toccò le sue punte più alte nel corso del XVII secolo ed è meticolosamente registrata da Bolland nel Commentarius praevius al dossier della martire, nel quale sono elencati e discussi gli argomenti portati a sostegno dall’una e dall’altra città: AA SS Febr. I, pp. 605-615. Dufourcq, Étude, II, pp. 201 s., aveva messo in relazione il riferimento a Palermo nelle redazioni greche con la residenza, nella città di uno dei due rectores del patrimonio ecclesiastico: «Or, Palerme était, avec Catane, la résidence des deux recteurs des patrimonies siciliens de l’église romaine. On comprend que Palerme ait été partager la gloire d’Agathe avec la ville dont la situation était analogue à la sienne» (il corsivo è dell’autore). Restano da spiegare però le ragioni della differenza del mezzo linguistico, tanto più che, solitamente, è la regione orientale della Sicilia ad essere caratterizzata da un uso quasi ininterrotto del greco, piuttosto che quella occidentale. Motta, Percorsi, pp. 76 ss., pone la “rielaborazione” greca della passio «in una Palermo fortemente imbevuta di cultura bizantina» (p. 80), in un arco di tempo tra VI e VII secolo. E ciò dopo aver passato in rassegna le attestazioni del culto palermitano di Agata già al tempo di Gregorio Magno, in un periodo cioè in cui il culto della martire siciliana non pare possa essere messo in relazione con la “bizantinizzazione” dell’isola, ma al contrario, può essere letto come un forte atto “politico” messo in campo dal pontefice romano per legare la Sicilia, già bizantina dal punto di vista politico e amministrativo, alla Chiesa di Roma. Cfr. Cracco
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Qualcosa di simile, anche se non di così marcatamente connotato, avviene tra le redazioni della passio di Lucia. Stavolta ad essere interessata è l’ultima parte, nella quale, con molta maggiore enfasi che nel testo greco, l’agiografo latino si sofferma sulla morte della martire e sugli avvenimenti successivi: in quella greca, Lucia, piegate le ginocchia nell’attesa del colpo finale, profetizza la fine della persecuzione e il proprio patronato su Siracusa, quindi viene decapitata. Nella latina invece, viene colpita dalla spada prima in gutture, poi in visceribus e la profezia è collocata tra le due ferite, con un accresciuto effetto drammatico. La giovane morente assiste inoltre all’arresto del governatore Pascasio, accusato di malversazione, da parte dei messi del senato che lo condurranno a Roma, dove subirà la pena capitale. Infine, prima di morire, la fanciulla riceve la comunione. È vero, siamo senz’altro di fronte a compiaciuti effetti drammatici, a più o meno consapevoli reminiscenze di antiche malversazioni, ma c’è anche la volontà di proporre comportamenti che la Chiesa raccomanda al buon cristiano.47 Anche stavolta però la domanda sulle possibili motivazioni di tali mutamenti e sui contesti di cui sono espressione rimane aperta. La corposa consistenza dei due dossier agiografici, la capillare diffusione del culto, in occidente e in oriente e quindi la presenza di numerosissimi manoscritti (soprattutto latini, quasi 200 per ciascuna passio, poche decine, invece per la tradizione in lingua greca) di numerose rielaborazioni in versi e in prosa che percorrono tutto l’arco della latinità medievale e della grecità bizantina, fanno in definitiva dei dossier delle due sante siciliane uno di quei casi per cui, come a suo tempo auspicò Philippart, sarebbe indispensabile organizzare gruppi di lavoro compositi di cui facciano parte latinisti e bizantinisti, ma anche storici e archeologi, le cui competenze sono necessarie per comporre un quadro d’insieme attendibile.48 O almeno, nell’attesa, il serait indispensable de commencer par des bonnes éditions provisoires, qui n’aient pas la prétention de recourir à la totalité de la tradition manuscrite, Ruggini, La Sicilia tra Roma; Milazzo, Rizzo Nervo, Lucia tra Sicilia. La questione rimane poco chiara anche in relazione all’atteggiamento dell’agiografo nei confronti dei Palermitani. Ritengo, in definitiva, che in assenza di una solida ricostruzione testuale, sia azzardata qualsiasi ipotesi interpretativa. 47. Come la pratica della comunione in punto di morte, su cui cfr. Dufourcq, Étude, II, pp. 192 s. 48. Philippart, L’hagiographie, pp. 199 s.
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mais qui se fonderaient sur les manuscrits latins les plus proches de la traduction originelle et sur les parallèles ou modèles grecs.49
Il già fatto, in questo caso, ha purtroppo valore molto relativo e comunque circoscritto. Ma le passiones tardoantiche sono la base di un composito insieme testuale più tardo, comprendente numerose composizioni in versi,50 testi liturgici, (martirologi,51 antifonari, sia del cursus Romanus sia di quello monasticus,52 sacramentari, inni53), epitomi, ma anche tutta una produzione colta in volgare, da rappresentazioni drammatiche a veri e propri poemi (da segnalare quelli che connotarono la grande ripresa, in chiave municipalistica, del culto di sant’Agata tra XVI e XVII secolo).54 Un materiale vastissimo,55 in lingua greca e in lingua latina che attende ancora, soprattutto quest’ultimo, in grandissima parte di essere conosciuto e studiato e che può costituire un utilissimo contributo allo studio della diffusione del culto delle due martiri siciliane nell’Europa continentale medievale e moderna. E accanto ai racconti più noti, ci sono altri filoni narrativi, di cui pure non è ignota l’esistenza, ma a cui praticamente nessuno ha finora dedicato attenzione. Un solo esempio: il panorama agiografico in lingua latina su 49. Ibidem, p. 200. 50. Su cui ha richiamato l’attenzione Dolbeau, Un domaine négligé. Per quanto riguarda la produzione su Lucia in lingua latina segnalo il Carmen de sancta Lucia (IX secolo); la passio metrica di Sigeberto di Gembloux (BHL 4995), dell’XI secolo: cfr. Licht, Sigebert von Gembloux e il carme edito da Fischer, Zum Codex. Le composizioni del monaco benedettino belga Sigeberto sono tramandate, fra l’altro, da un ms. del XII secolo (Berlin, Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz, Kupferstichkabinett 78 A 4) con splendide miniature che raffigurano i momenti più salienti della passio latina: Hahn, Icon and Narrative. 51. Le due martiri sono ricordate in tutti i martirologi medievali, da quello di Beda a quelli di Floro, Rabano Mauro, Adone, Usuardo. 52. Una rapida carrellata sulla presenza di brani delle passiones latine di Agata e di Lucia nei testi liturgici medievali, offre ora Heinz, Agata, Lucia. 53. Basta scorrere i voll. degli Analecta Hymnica Medii Aevi per rendersene conto e, per quanto riguarda l’innografia greca, quelli degli Analecta Hymnica Graeca. 54. Cfr. Modica Vasta, L’agiografia agatina. Ricordo anche il dramma secentesco Il martirio di S. Agata del Cicognini: Naselli, “Il martirio di sant’Agata”. 55. Rimando, per la produzione latina e greca relativa a Lucia, a Milazzo, Rizzo Nervo, Lucia tra Sicilia, e per quella bizantina relativa ad Agata a Crimi, S. Agata a Bisanzio.
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Lucia comprende fra l’altro una nativitas (BHL 4996b) inedita, tradita da un solo manoscritto, un codice francescano del XV secolo di provenienza abruzzese, oggi alla Biblioteca Nazionale di Napoli (VIII AA. 32, ff. 129v-131).56 Si tratta di un unicum anche dal punto di vista della tradizione agiografica su Lucia di Siracusa, poiché, pur ricollegandosi alla notissima passio, della quale si pone come l’antefatto, tuttavia sviluppa un racconto da essa palesemente autonomo. Il breve testo narra infatti di un santo eremita e di una ricca coppia siracusana senza figli; del grave disagio che ciò causa nella coppia, della visita della moglie all’eremita; del battesimo di lei; del tentativo del marito geloso di ucciderla; di sogni premonitori, della conversione del marito, del voto di consacrare l’eventuale prole a Cristo, e infine della nascita della piccola Lucia, la cui luce illumina non solo Siracusa, ma l’intera Sicilia. Vi si narra inoltre del goffo tentativo dei genitori di disattendere il voto e del conseguente miracolo di punizione (l’inarrestabile emorragia da cui è colpita la madre) e della libera scelta di Lucia di votarsi a Cristo. Il racconto si arresta dove la passio ha inizio, cioè con il pellegrinaggio che Lucia e la madre effettuano a Catania per impetrare, da Agata, la guarigione della donna. La nativitas, espressione verosimilmente di un’ingenua devozione per colei che era nel tempo diventata la santa della luce, non ha lasciato traccia di sé nei testi letterari più tardi, anche in lingua volgare, o nella produzione iconografica che da quelli in gran parte dipende. Il suo interesse è tuttavia notevole, sia dal punto di vista narrativo, quale attestazione dei diversificati processi di “produttività” del racconto agiografico, sia, su tutt’altro piano, per il contributo che esso può offrire alla conoscenza degli ambiti di diffusione del culto della santa.57 Vorrei concludere con una riflessione sul nesso tra regionalismo e modello di santità, a proposito delle passiones delle due martiri. Credo sia senz’altro da attribuire ancora a Salvatore Pricoco il merito di aver scosso in qualche modo il “mito”, sapientemente elaborato dalla storiografia cinquecentesca e tenacemente persistente come griglia interpretativa anche attuale, 56. Il ms. è descritto da Poncelet, Catalogus codicum, pp. 146 ss. e da Cenci, Manoscritti francescani, II, n. 426, p. 798. Me ne sono occupata io stessa in Spunti narrativi. 57. Penso, ad es., all’ambito dell’Osservanza francescana in relazione alla composizione e alla fruizione del manoscritto abruzzese: Mercuri, Santità e propaganda.
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di una compatta agiografia “regionale” siciliana. L’ha fatto nel concreto, in relazione a quelle che costituiscono, se così si può dire, le fasce laterali del complesso e diversificato cospicuo patrimonio agiografico isolano e cioè la produzione tradizionalmente collocata nel primo periodo, precedente alla “bizantinizzazione”, e quella successiva all’occupazione araba della Sicilia. Lo studioso catanese, autore, nel 1989, di un contributo spoletino che costituisce un punto di riferimento per chi si occupa di agiografia siciliana, nel mettere in guardia dall’affidabilità della partizione comunemente in uso,58 espresse l’idea che solo nella letteratura agiografica in lingua greca qui prodotta tra VII-IX secolo, sia possibile cogliere caratteri specificamente siciliani.59 Le perplessità di Pricoco entrano nel vivo del concetto e della realtà di agiografia regionale (entrambi ambigui e meno definiti di quanto possa fare pensare una realtà di riferimento solo apparentemente compatta come quella insulare)60 e investono direttamente le prime manifestazioni dell’agiografia isolana, cui «è difficile riconoscere sufficienza di dimensioni e autonomia di caratteri».61 Condivido pienamente il ridimensionamento operato dallo studioso siciliano e ribadito nell’«Introduzione» all’ultimo convegno catanese,62 ridimensionamento che coinvolge direttamente la “sicilianità” di Agata e di Lucia. Non mi pare abbia fondamento, infatti, l’idea che le due martiri costituiscano una sorta di prototipo della santità femminile dell’isola.63 Ammesso che si possa parlare di una santità siciliana, il modello incarnato da Agata e Lucia nelle loro passioni tardoantiche,64 non differisce, infatti, da quello delle 58. Troppo strettamente correlata, a suo parere, alle vicende storico-politiche di cui l’isola era stata teatro (cfr. nota 23). 59. «Di fatto, la letteratura agiografica siciliana appare rinserrata nella quasi totalità in un unico periodo, tra gli ultimi decenni del VII secolo e la metà del IX, in un’unica matrice culturale, quella bizantina, o meglio siculo-bizantina, se, come noi riteniamo, vi si colgono caratteri specificamente siciliani» (Pricoco, Un esempio, p. 328). 60. Cfr. Burgarella, Sicilia e Calabria. 61. Pricoco, Un esempio, p. 328. 62. Euplo e Lucia, pp. 11 s. 63. Così, ad es., afferma Marilena Modica, spostando forse troppo all’indietro il rapporto che unisce saldamente modello di comportamento e realtà regionale in età moderna: «[…] Agata e la siracusana Lucia […] costituiscono il modello-base, l’archetipo, si potrebbe dire, della santità femminile isolana»: Modica Vasta, L’agiografia agatina, p. 113. 64. In alcuni testi più tardi, come la rielaborazione bizantina del IX secolo o l’hypomnema di Giovanni Tzetze (XII secolo), figurano invece connotazioni più marcatamente locali: Rizzo Nervo, Tradizione narrativa, p. 260 e Milazzo, Rizzo Nervo, Lucia tra Sicilia, p. 135.
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numerosissime vergini e martiri che costellano l’universo dell’agiografia antica. Giovani, belle, ricche, fiere di fronte al persecutore, capaci di tener testa con argomentazioni spesso sottili e condotte sul filo della polisemia della parola alla rozzezza, anche verbale, di chi le interroga, inflessibili di fronte ai sempre più feroci tormenti che per loro sono escogitati, le due fanciulle sono, come le loro compagne ideali di tutte le regioni, soprattutto incrollabili custodi della loro verginità consacrata a Cristo, testimoni della loro fede fino all’effusione del sangue. Fatte salve alcune differenze, ben poco distingue insomma, sia dal punto di vista del modello di santità sia da quello di comportamento, le passiones di Agnese, Cecilia, Agata, Lucia, ecc. L’associazione verginità-martirio costituisce, com’è a tutti noto, cifra caratterizzante di una produzione agiografica che non conosce confini geografici e che fa parte di una ben orchestrata strategia di promozione dell’ascetismo che ebbe il suo vigoroso impulso iniziale nella grande produzione patristica, greca e latina, del IV secolo. Sono state da tempo messe in evidenza le interrelazioni tra scrittura agiografica e riflessione patristica sulla verginità65 e sarebbe superfluo qui insistervi, ma non vi è dubbio che i testi letterari che raccontano del martirio delle due vergini siciliane si iscrivono a buon diritto nella vastissima e solo apparentemente stereotipata produzione che, dal V secolo in poi, veicola ad un pubblico sempre più ampio e poco caratterizzato dal punto di vista geografico e “regionale”, le complesse acquisizioni della riflessione dei Padri sull’ascetismo. Il ridotto carattere regionalistico della prima produzione agiografica siciliana, del resto, ha una evidente controprova in quella che Philippart avverte come un’eccezione: la straordinaria diffusione di questi testi fuori dall’isola, di contro alla circolazione ristretta, spesso limitata alla sola chiesa locale che caratterizza la maggior parte della restante produzione isolana.66 Dai dati elaborati dal suo gruppo di lavoro emerge infatti la rilevanza delle due martiri, le quali figurano rispettivamente al terzo e al quarto posto in una serie, riguardante la santità femminile, che vede al primo posto Maria e al secondo Agnese, segno evidentissimo della capillare diffusione della loro leggenda agiografica in area occidentale.67 Certo, l’inserimento dei loro nomi nel Canone romano della messa da parte di Gregorio Magno ha 65. Cfr. Consolino, Modelli di comportamento; Milazzo, Educare una vergine. 66. Philippart, L’hagiographie, p. 194. 67. Ibidem, p. 183.
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favorito il loro culto fuori dall’isola, soprattutto in ambito latino, ma non vi è dubbio che il modello di santità da loro veicolato potesse essere proposto, insieme a quello di altre martiri, come esempio “universale” di santità femminile e inserito senza cesure in insiemi omogenei, quali (per citare le prime testimonianze) il carme De virginitate di Venanzio Fortunato (dove il nome di Agata figura insieme a quello di Giustina)68 o i De virginitate, in prosa e in versi, di Aldelmo sopra ricordati, in cui le passiones delle due siciliane precedono quella della martire padovana. Al più, in quei contesti, i riferimenti geografici specifici (penso all’accenno all’Etna presente nella più parte delle rielaborazioni greche e latine della passio di Agata) non hanno tanto lo scopo di restringere il campo visivo dell’obiettivo ad un ambito regionale, quanto piuttosto di dare evidenza ad un’esemplarità senza confini, di introdurre elementi che arricchiscono il repertorio del meraviglioso, e insieme di rendere il santo facilmente identificabile. In quanto a modello di santità dunque Agata e Lucia partecipano degnamente di quel corteggio celeste di cui fanno parte – come recita il titolo del nostro convegno – Giustina e le altre. Questo non significa, però, che le due martiri non abbiano alcun rapporto con il territorio, con le città nelle quali, secondo la tradizione, subirono il martirio, Siracusa e Catania. Anzi, strettissimo e insistito, nelle passiones di entrambe, in greco e in latino, è il legame che, per un verso, le unisce alle rispettive città, per l’altro, loro tramite, salda reciprocamente le due città della costa orientale dell’isola.69 Un legame, soprattutto quello che riguarda Agata e Catania, consolidato prima in epoca normanna, quando, in seguito ad una ben orchestrata operazione gestita dai nuovi signori normanni e dai vescovi-abati benedettini della città,70 il suo corpo fu avventurosamente traslato da Costantinopoli nella città etnea71 (lo stesso non avvenne, è noto, per Lucia, il cui corpo fu traslato a Venezia),72 poi, successivamente, tra XVI e XVII secolo, quando le accese contese municipalistiche che contrapposero Catania e Palermo si radicarono proprio sulle redazioni più antiche della sua passio. 68. Venanzio Fortunato, De virginitate, Carm. VIII, 3, 33-34: «Eufemia illic pariter quoque plaudit Agate / et Iustina simul consociante Thecla», p. 428. 69. Cfr. da ultimo, Motta, Percorsi, pp. 43 ss. 70. Tramontana, Sant’Agata. 71. Scalia, La Traslazione. 72. Cfr. Bertoli, Il corpo di santa Lucia.
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Enrico Morini Santità monastica femminile in abiti maschili nell’Oriente cristiano
C’è un monaco misterioso a Sceti, recluso in una cella isolata, al quale il celebre anziano Daniele fa portare l’acqua da bere una volta alla settimana. Questo monaco nasconde un doppio segreto: sotto gli abiti maschili si cela una donna, Anastasia, che si spaccia per eunuco, e questa donna è un patrizia costantinopolitana, una dama di corte concupita da Giustiniano e da lui invano cercata nel deserto monastico, dopo la morte dell’augusta Teodora. Al di sotto del racconto manifestamente edificante noi riconosciamo un motivo ricorrente, intensamente ricco di valenze antropologiche e religiose, che si è espresso in uno specifico modello di santità, peculiare dell’Oriente cristiano – emigrato in Occidente unicamente per le traduzioni latine dei testi orientali –, ben presto però abortito per l’ambiguità dottrinale del suo marchio d’origine e, più probabilmente, per il suo carattere sociologicamente eversivo, oltre che per le sue delicate implicazioni di ordine sessuale. Si tratta di un tema agiografico e di un modello di santità che ha avuto una diffusione ben delimitata nel tempo e nello spazio, interessando, ad un tempo, due diversi periodi del primo millennio e due diverse regioni dell’ecumene cristiana. La sua fortuna si colloca infatti in un arco di tempo che va dalla fine del IV alla fine del VI secolo, con una ripresa, in tono minore, tra l’VIII ed il IX secolo; gli ambiti di diffusione sono le aree monastiche dell’Egitto e della Bitinia, con due centri metropolitani di gravitazione, rispettivamente Alessandria e Costantinopoli. Tra IV e V secolo si situa nel deserto di Sceti la vicenda di Atanasia/ Atanasio, moglie e collega nella santità di Andronico, anacronisticamen-
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te legati alla figura dell’abba Daniele;1 nel V secolo quelle di Apollinaria/Doroteo, pretesa figlia dell’imperatore Antemio, legata invece a san Macario,2 di Eufrosina/Smaragdo, figlia e collega nella santità di Pafnuzio, anch’essa a Sceti;3 di Pelagia/Pelagio, maliarda ad Antiochia e penitente a Gerusalemme, di cui ha scritto lo pseudo-Giacomo;4 di Teodora/Teodoro 1. In età teodosiana, Andronico, un argentiere di Antiochia di Siria, alla morte dei due figli, intraprende con la moglie Atanasia un pellegrinaggio in Terrasanta e nei deserti monastici egiziani. Qui, a Sceti, i due coniugi vengono convinti ad abbracciare entrambi la vita monastica dall’abba Daniele (personaggio storico, ma vissuto nel VI secolo), che trattiene Andronico presso di sé ed invia Atanasia nel monastero femminile pacomiano di Tabennesi. Dopo dodici anni, quest’ultima, per poter intraprendere un’ascesi più rigorosa, vestì abiti maschili e la fama di questo presunto abba Atanasio si diffuse a tal punto che lo stesso Andronico chiese di vivere con lei, nel monastero da lei guidato, detto “del XVIII miglio” (da Alessandria). Dopo altri dodici anni Atanasia morì e soltanto allora il marito ne scoprì la vera identità, chiedendo poi di essere sepolto al suo fianco, a Gerusalemme. 2. Una delle due figlie dell’imperatore Antemio (467-472), Apollinaria detta Sincletica, cioè senatrice, intraprende un pellegrinaggio in Terrasanta ed in Egitto, per fuggire il matrimonio ed abbracciare invece la vita monastica. Venerata la tomba di san Mena ed indossato lo schema monacale, vive a lungo solitaria in una palude, ma poi chiede a san Macario, di entrare nel suo cenobio, fingendosi un eunuco di nome Doroteo. Qui le viene mandata la sorella indemoniata ed ella, tenendola nella sua cella, in totale incognito, la libera da ogni vessazione. Ritornata questa presso i genitori, accusò il monaco Doroteo d’averla messa incinta; convocata allora a corte, Apollinaria rivelò ai genitori la propria identità. Ritornata a Sceti, vi morì dopo pochi giorni e, in occasione della sepoltura, tutti i monaci poterono conoscere il suo segreto. 3. Anche Eufrosina, unica figlia di Pafnuzio, un laico di Alessandria estremamente filomonaco, che la portava sempre con sé nelle sue frequenti visite ad un monastero di Sceti, a diciotto anni si fa monaca in questo cenobio per fuggire il matrimonio, fingendosi un eunuco, di nome di Smaragdo, proveniente dal palazzo di Teodosio (II, 408-450), per sfuggire alle ricerche del padre. Questi, recatosi al monastero per essere consolato della perdita della figlia, viene affidato proprio alle sue cure spirituali, dando inizio ad una serie di colloqui che si protrarranno per trentotto anni. Al termine di questi, Eufrosina, morente, rivelerà la propria identità al padre, che entrerà a questo punto come monaco in quel cenobio, vivendovi per una decina d’anni, prima di morire ed essere sepolto accanto alla figlia. 4. Il nucleo storico di questa leggenda è rappresentato da un esempio edificante inserito, da san Giovanni Crisostomo, ancora predicatore ad Antiochia, in una delle sue omelie (la LXVII) di commento al Vangelo di Matteo: si tratta della vicenda di una formidabile prostituta della sua città, tristemente famosa ai suoi tempi, arrivata persino negli ambienti di corte, dove riuscì a sedurre il fratello dell’imperatore, ma poi convertitasi clamorosamente e, una volta ricevuto il battesimo, dedicatasi come reclusa ad una vita di incredibili penitenze, grazie alle quali superò nella castità anche quelli che sin dalla nascita vivevano nella verginità. La tradizione agiografica ha liberamente integrato, come spesso accade, tutti gli elementi che la testimonianza crisostomica aveva lasciato nell’ombra, a partire dal
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di Alessandria;5 di Maria/Marino, figlia di Eugenio, in una versione in Palestina e in un’altra in Bitinia,6 e di Matrona/Babila a Costantinopoli, con temporanei soggiorni in Siria, Palestina, Sinai e Libano.7 Nel VI secolo nome. Essa si sarebbe chiamata Pelagia (assumendo questo, ed altri connotati, dall’omonima martire quindicenne di Antiochia, suicida per non perdere la propria verginità, nonché dall’omonima – ed assai meno storica – martire di Tarso di Cilicia, suppliziata dentro un toro di bronzo reso incandescente), sarebbe stata convertita dalla sua vita di peccato e battezzata da un vescovo di nome Nonno, presente ad Antiochia per partecipare ad uno dei concili locali, così frequenti nel IV secolo (per questo la sua cronologia sotto il regno di Numeriano, 283-284, è troppo alta). Si sarebbe poi ritirata, come monaca reclusa, in una cella sul Monte degli Ulivi a Gerusalemme, fingendosi un eunuco ed assumendo il nome di Pelagio, per occultare ancora di più il suo infamante passato e, di riflesso, lo splendore della presente virtù. Lo Pseudo-Antonino di Piacenza ci informa che al suo tempo, sulle pendici del Monte degli Ulivi, nella cella da lei abitata, si custodiva e si venerava il suo corpo. 5. Donna sposata di Alessandria, vissuta la tempo dell’imperatore Zenone (474-491), Teodora cedette alle mire di un corteggiatore e per espiare il proprio peccato entrò in monastero, sotto abiti maschili e con il nome di Teodoro, per sfuggire alle ricerche del marito: si tratta ancora del monastero “al XVIII miglio” (da Alessandria). Dopo otto anni di vita monastica esemplare, viene accusata di avere sedotto una ragazza, che porta al monastero il bambino, frutto di quell’unione. La santa monaca, sempre ritenuta un monaco, lo alleva con esemplare dedizione (accettando la calunnia per non svelare la propria identità), trasferendosi in una capanna da lei costruita vicino alla porta del cenobio, sì che alla morte dell’igumeno i monaci la vogliono come suo successore. Solo alla sua morte si scoprirà che Teodoro era in realtà Teodora. 6. Figlia di Eugenio e di Eugenia, Maria segue il padre allorché questi entra in monastero, fingendosi un eunuco di nome Marino, per vivere con lui nello stesso cenobio. Dopo la morte del padre persevera esemplarmente nell’ascesi, senonchè la figlia di un locandiere, messa incinta da un soldato di passaggio, attribuisce questa colpa ad uno dei tre monaci, per l’appunto Marino, che nella stessa notte avevano alloggiato nella locanda, nello svolgimento di una commissione ricevuta dall’igumeno. Questi, saputa la cosa dal padre della ragazza, espelle dal monastero Maria, che si stabilisce in una spelonca presso la porta del cenobio. Il locandiere le porta il bambino appena nato e Maria lo nutre con il latte fornitole da pastori del circondario. Dopo tre anni di questa vita, l’igumeno, edificato, la riprende in monastero, con il bambino, che verrà anch’egli avviato alla vita monastica. Solo dopo la sua morte, al momento del lavatura della salma per la sepoltura, si scoprirà la sua identità. In quel frangente la figlia del locandiere, invasa dal demonio, confesserà l’inganno. La recensione A della Vita prima (trasmessa da un codice gerosolimitano aghiotafita del X secolo) fa seppellire il corpo della santa a Gerusalemme, presupponendo in tal modo che sia vissuta nel deserto monastico palestinese; la recensione B (trasmessa dal Paris. gr. 2474, del XIII secolo) la fa nascere in Bitinia e la recensione D (il berlinese Gr. Quart. 16, del XVII secolo) attribuisce al padre il nome di Eufemiano. 7. Questa Matrona è la fondatrice, nel V secolo, di un famoso monastero costantinopolitano, centro di resistenza ai tentativi di imporre nella Chiesa l’Henotikon dell’imperatore Zenone. Nata a Perge di Panfilia, ma vivente dall’età di quindici anni a Costantinopoli
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si situa, sempre a Sceti, la vicenda di Anastasia/Anastasio, essa pure legata, come abbiamo visto, all’abba Daniele,8 e, tra l’VIII ed il IX, quella di Anna/Eufemiano, prima nell’Olimpo di Bitinia e poi a Costantinopoli.9 In posizione marginale, in questo elenco – per la connotazione martiriale, che – al tempo dell’imperatore Leone I (457-474) –, e sposata con Domiziano, Matrona appare perennemente in fuga dal marito, per vivere la propria vocazione monastica. Per questo, alla morte della figlia Teodote, era entrata nel monastero costantinopolitano fondato da san Bassiano – la sua guida spirituale – facendosi passare per un eunuco di nome Babila. Poiché anche questo non valse a stornare il marito dalle sue ricerche, san Bassiano la fece partire per Emesa, in Siria, dove divenne igumena del monastero femminile detto “di Ilara”. Qui assistette al secondo rinvenimento del capo di san Giovanni Battista (celebrato, insieme al primo, il 24 febbraio) e con il myron fluente da questa reliquia guarì un cieco. In seguito, sempre per sfuggire all’infaticabile Domiziano, si trasferì a Gerusalemme, al Sinai e quindi a Berythos (Beirut), dove costituì una comunità monastica sotto la sua direzione. Finalmente poté ritornare, con tutta la sua comunità, a Costantinopoli. Qui, consigliata sempre da san Bassiano, fondò un monastero, in località Severiana, in una proprietà donatale da Antiochena, moglie di Sforachio. Qui morì, quasi centenaria. La sua Vita, scritta forse da un monaco del monastero di San Bassiano e comunque con intenti celebrativi del monastero dei Severiana, non è anteriore al VII secolo. 8. Anastasia, patrizia costantinopolitana molto ammirata, per la sua bellezza, da Giustiniano (I, 527-565), dovette abbandonare la corte per la gelosia di Teodora e, trasferitasi ad Alessandria, nell’Egitto patria del monachesimo, edificò un cenobio nella località “V miglio” (dalla città) detto poi “della Patrizia”, dove entrò come monaca. Quando però seppe che Giustiniano, rimasto vedovo – dunque dopo il 548 – si era messo alla sua ricerca, si sprofondò nel deserto interno di Sceti, dove l’abba Daniele le indicò una spelonca, non lontana dal suo monastero, dove rinchiudersi in abito maschile, assumendo il nome di Anastasio l’Eunuco. Dopo ventotto anni in cui non vide e non fu vista da nessuno – una volta alla settimana un monaco, dal monastero di Daniele, deponeva pane ed acqua davanti alla sua grotta – sentendo imminente la morte, fece avvertire l’abba Daniele. Quando venne sepolta da Daniele e dal monaco che l’aveva servita, quest’ultimo vide che era una donna e divulgò la notizia, suscitando scalpore in tutta Sceti. Il Clugnet, editore dei Racconti dell’abba Daniele, propone di identificarla con la diaconessa Anastasia, corrispondente del patriarca anticalcedoniano Severo di Antiochia. 9. Figlia di un diacono delle Blacherne, Anna, rimasta prima orfana e poi vedova, ancora ventenne, intorno al 780, abbracciò la vita monastica – come aveva predetto un suo zio monaco dell’Olimpo in Bitinia, confessore sotto l’iconomachia – proprio al Monte Olimpo, in abiti maschili e con il nome di Eufemiano. Fondò poi, sempre come Eufemiano, un monastero, detto degli Abramiti, sulle rovine di un altro monastero messo a sua disposizione dal patriarca di Costantinopoli, san Tarasio. Costretta alla fuga dall’Olimpo, quando si incominciò a dubitare del suo sesso, si trasferì dapprima nei dintorni del Bosforo, dove condusse vita monastica – ripresi forse gli abiti femminili – con due monaci, Eustazio e Neofito, probabilmente eunuchi. Si avvicinò ulteriormente a Costantinopoli, fissandosi in località Sigma, presso il porto Giuliano, e poi rientrò in città, all’incursione dei Bulgari di Kroum (pertanto nell’813). Qui, non molto dopo, forse prima dell’820, sarebbe morta.
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urta, per motivi cronologici, con la pretesa professione monastica,10 nonché per il carattere vistosamente leggendario delle relative Vite-Passioni –, sono infine da collocare le figure di Eugenia/Eugenio,11 romana di nascita e per il martirio, alla quale viene attribuito, non a caso in Egitto, il procedimento del travestimento monastico maschile, e della palestinese Susanna/Giovanni,12 10. La compresenza di entrambe le qualifiche connota precisamente la categoria delle , cioè delle monache-martiri. Il vistoso anacronismo insito in questa categoria santoriale consiste nel presupposto – non autorizzato da alcuna fonte storica – che forme di monachesimo organizzato fossero già presenti nella Chiesa già al tempo delle persecuzioni, cioè in epoca precostantiniana. 11. Il dossier agiografico di questa santa è emblematico delle cosiddette Passioni leggendarie – e come tale è stato esemplarmente studiato dal Delehaye (Étude sur le Légendier romain, pp. 171-186) –, di cui presenta le due caratteristiche più evidenti: i clamorosi anacronismi e il drenaggio di molti dei suoi protagonisti da altre Passioni, per così dire, storiche. Per quanto riguarda gli anacronismi, la vicenda ha come scena due città, Alessandria e Roma, senonché gli eventi in Egitto si collocano sotto Commodo (180-192), mentre quelli in Italia sotto Valeriano (253-260) e Gallieno (260-268). Eugenia è figlia di Filippo, giunto in Egitto da Roma con la moglie Claudia e i tre figli (oltre ad Eugenia, anche Abdon e Sergio), tutti ancora pagani, come prefetto di Alessandria. Qui Eugenia, per sfuggire alle nozze con Aquilio, figlio del console locale, con l’aiuto dei due eunuchi Proto e Giacinto, fugge in un monastero e, fingendosi anch’essa eunuco, vi entra con il nome di Eugenio e ne diventerà persino igumeno. Innamoratasi di lei (supposto lui) la nobile Melanzia, questa, vedendosi respinta, ribaltò l’accusa nei confronti di Eugenia. Istituito il processo davanti al prefetto (Filippo, il padre di Eugenia), questa si vide assolta, a prezzo però di rivelare la sua vera identità, tramite lo sconcertante metodo – attestato anche nella vicenda di Apollinaria/ Doroteo – dell’esibizione pubblica dei propri attributi sessuali. Lieta per la ricomparsa della figlia creduta morta, tutto il resto della famiglia si convertì alla fede cristiana e Filippo, da prefetto della città, ne divenne addirittura l’arcivescovo (clamoroso falso storico!). Dopo dieci anni di governo pastorale, egli fu però fatto uccidere dal nuovo prefetto e sepolto nel monastero femminile frattanto fondato dalla figlia. Questa, con la madre Claudia ritornò allora a Roma e qui esse accolsero, nel loro monastero, la nobile Basilla, imparentata con l’imperatore Gallieno, affidandola ai soliti Proto e Giacinto per un’educazione cristiana. Ma il promesso sposo di Basilla, Pompeo, denunciò il fatto all’imperatore. Vennero pertanto martirizzati, prima la ragazza, con i due eunuchi, e poi anche Eugenia, decapitata per ordine del prefetto Nicezio, il 25 dicembre, «nel giorno stesso della nascita del Cristo». Claudia invece sarebbe morta poco dopo di morte naturale. Per le contaminazioni con altre Passioni, sarà sufficiente ricordare la presenza in questa leggenda agiografica dei martiri Proto e Giacinto, altrove attestati, e Abdon e Sennen (qui corrotto in Sergio). 12. Susanna, figlia del pagano Artemio e dell’ebrea Marta, vive in Palestina al tempo dell’imperatore Massimiano (286-305). Battezzata dal prete Silvano, alla morte di entrambi i genitori entra in un monastero maschile, con il nome di Giovanni. Un’ asceta (donna) di passaggio al monastero si innamora di lei, credendola uomo, ma Susanna respinge ogni tentativo di approccio. La donna per vendicarsi accusa, come di consueto, l’antagonista virtuoso del suo stesso fallo e Susanna si dichiara colpevole per nascondere la propria identità,
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monaca in abito maschile, poi diaconessa, ed infine martire ad Eleuteropoli.13 Tutte queste figure sono entrate nel culto della Chiesa ortodossa, tramite la loro assunzione nel santorale della Grande Chiesa, il Sinassario costantinopolitano,14 e/o nei menologi, metafrastici e no. Lo stesso è avvenuto per le cristianità acalcedoniane, che ne hanno recepite alcune attraverso traduzioni copte del VI secolo e siriache del VII-VIII secolo. Così che deve però rivelare quando il vescovo di Eleuteropoli (eparchia suffraganea di Cesarea) la convoca per prendere provvedimenti a suo carico (l’esibizione degli attributi sessuali avviene però, più pudicamente, alla presenza di due fanciulle vergini e di due eunuchi). Grandemente edificato, il vescovo la ordina allora diaconessa e la pone anzi a capo di tutte le diaconesse della città. Divenuta famosa per le sue taumaturgie, la santa viene costretta dal prefetto Alessandro a sacrificare agli idoli; di fronte al suo rifiuto, viene sottoposta a crudeli tormenti – dai quali esce prodigiosamente incolume – finché verrà uccisa con il fuoco. 13. Per un primo approccio a queste figure si rimanda alle voci ad esse dedicate nella Bibliotheca Sanctorum: Brandi, Andronico e Atanasia; Gordini, Apollinaria; Bertocchi, Eufrosina (Smaragdo); Sauget, Colafranceschi, Pelagia; Angarano, Teodora; Sauget, Marina (Maria)-Marino; Janin, Matrona; Fusconi, Anastasia; Japundžić, Anna la Giovane (Euphemianus); Gordini, Eugenia, Filippo; Sauget, Susanna. Per quanto riguarda il primo approccio critico – anche se ovviamente ancora incipiente – alle loro figure si rimanda ai relativi Commentarii praevii dei Bollandisti alle edizioni dei loro Acta o ad una Silloge storico-critica negli Acta Sanctorum: De Bue, De ss. Andronico et Athanasia; Henskens, De s. Apollinare quae et Dorotheus; Henskens, De s. Euphrosyna; De Bye, De s. Pelagia; Stilting, De s. Theodora Alexandrina; Du Sollier, De s. Marina Marinus dicta; Delehaye, De s. Matrona; Matagne, De s. Anna quae et Euphemianus; Périer, De s. Philippo martyre; Stilting, De s. Susanna. Per Atanasia/Atanasio si veda Clugnet, Introduction a Vie et récits de l’abbé Daniel, pp. 74-77, e per Anastasia/Anastasio ibidem, pp. 64-68. Per la loro presenza nel culto della Chiesa ortodossa, si rimanda a Eustratiades, : , p. 41; , p. 50; , p. 157; , , p. 385; , p. 179; , pp. 294-295; , pp. 327-328; , pp. 34-35; , p. 45; , pp. 139-140; , , pp. 443-444. 14. Si rimanda ai punti in cui queste sante risultano commemorate nel Sinassario della Grande Chiesa (Synaxarium Ecclesiae Constantinopolitanae): Teodora/Teodoro, cc. 33-35 (11 settembre); Susanna/Giovanni, cc. 58-59 (19 settembre), 311-312 (15 dicembre); Eufrosina/Smaragdo, c. 77 (25 settembre); Pelagia/Pelagio, cc. 117-120 (8 ottobre); Anna/ Eufemiano, cc. 173-178 (29 ottobre); Matrona/Babila, cc. 203-205 (9 novembre); Eugenia/ Eugenio, cc. 339-344 (24 dicembre); Apollinaria/Doroteo, cc. 369-372 (4 o 5 gennaio); Maria/Marino, c. 460 (12 febbraio); Atanasia/Atanasio, cc. 501 (2 marzo), 661-662 (6 maggio), 679-680 (12 maggio), 125-126 (9 ottobre); Anastasia/Anastasio, c. 932 (28 agosto), 523-528 (10 marzo).
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la vicenda di Ilaria/Ilarione, nell’agiografia copta15 – il cui corpo è tuttora venerato nel celebre monastero di San Macario nel Wadi Natrun16 – è chiaramente esemplata su quella di Apollinaria/Doroteo,17 così come le versioni siriache delle vicende di Eugenia/Eugenio, di Eufrosina/Smaragdo e di Maria/Marino ci sono tramandate da un palinsesto sinaitico del 778, contenente una compilazione di Giovanni Stilita di Beth-Mari Qanun.18 Maria/ Marino, a sua volta, con il nome di santa Marina, ha il suo corpo venerato dai Copti nel cuore nel Cairo, in una chiesa lungo l’Haret al-Rum, la strada dei Romani,19 e, nel contempo, la tradizione siriaca la vuole vissuta in una spelonca della Qaddisha, la valle santa dei maroniti, presso il monastero di Kannoubin – un cenobio, come dice il nome, di pretesa fondazione teodosiana, antica sede del patriarcato maronita –, dove pure si venera il suo corpo.20 Va segnalato inoltre che un ulteriore corpo integro, attribuito 15. La Vita di sant’Ilaria (BHO 379) si legge in Amélineau, Histoire des deux filles de l’empereur Zénon, pp. 194-198; Giron, Légendes coptes, pp. 49-58; Drescher, Three Coptic Legends, pp. 68-82, 121-131. Cfr. anche Wensinck, The Legend of Hilaria, pp. 19-20; Wallis Bugde, The Book of the Saints of the Ethiopian Church, II, pp. 527-530; Basset, Le Synaxaire Arabe-Jacobite, pp. 624-638. 16. Vogt, “The Woman Monk”, p. 141. 17. Come Apollinaria viene presentata come figlia dell’imperatore Antemio (467472), così Ilaria è detta figlia di Zenone. Entrambe inoltre – divenute monache a Sceti spacciandosi per eunuchi (Apollinaria sotto la guida di san Macario, Ilaria sotto quella di san Pambo) – sveleranno la loro identità ai regali genitori una volta convocate a Costantinopoli per discolparsi dall’accusa di avere sessualmente approfittato della sorella minore vessata dal demonio, da loro accolta nella propria cella e guarita dalla possessione diabolica. Cfr. Drescher, Three Coptic Legends; Wensinck, The Legend of Hilaria; O’Leary, The Saints of Egypt; Vogt, “The Woman Monk”, pp. 142-143. 18. Selected Narratives of Holy Women, pp. 1-35 (Eugenia/Eugenio), 36-45 (Maria/ Marino) e 46-59 (Eufrosina/Smaragdo). Cfr. anche Holy Women of the Syrian Orient. 19. Vogt, “The Woman Monk”, p. 141. 20. Nau, Histoire de sainte Marine, pp. 276-277. A differenza del Nau, il Brossé non registra la presenza del corpo di Maria/Marino nella spelonca, in cui la santa sarebbe vissuta e morta, bensì ritiene che esso sia stato subito, o assai presto, traslato nel monastero stesso, del quale sarebbe divenuto la principale reliquia. Oltre a questa spelonca, situata a meno di cento metri dal monastero di Kannoubin (dal greco ), egli ne censisce altre due, sempre nella regione, ugualmente dedicate alla santa: una a sud del serraglio d’Amioun, consistente in un’antica cavità sepolcrale, ed un’altra a nord di Kalamoun, della quale analizza e descrive la decorazione pittorica (Brossé, Les peintures de la grotte de Marina, p. 45, n. 1). In essa evidentemente si vennero sovrapponendo i culti per la Marina martire di Antiochia, la santa demonoctona – che infatti vi è raffigurata, con iscrizione greca, nella tradizionale iconografia, che la presenta in atto di percuotere il demonio con un martello – e la
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a questa santa Marina, giunto a Venezia dopo la quarta crociata e proveniente però dai sobborghi di Costantinopoli, è oggi custodito nella chiesa di Santa Maria Formosa21 e la sua tradizione agiografica è stata studiata da Giorgio Fedalto22 e da Antonio Niero.23 Resta inoltre da segnalare il caso di due sante monache, la cui ascesi ha comportato il travestimento maschile, ma che, per la seriorità della loro tradizione agiografica, non sono entrate nel Sinassario costantinopolitano e che pertanto oggi non figurano nel santorale della Chiesa ortodossa. In entrambi i casi la ripresa di questo motivo ci sembra determinato dai loro nomi, che evocano le più celebrate tra le sante “travestite” della tradizione. La prima è Eufrosina la Giovane (o, meglio, la Nuova), una monaca costantinopolitana del IX-X secolo, la cui memoria è legata – in modo reale o fittizio – ad alcuni celebri monasteri femminili della capitale e la cui Vita – anche se presumibilmente ricalca un testo più antico perduto – è estremamente tardiva, essendo attribuita ad un celebre prolifico autore del XIV secolo, Niceforo Callisto Xanthopoulos, prete della Grande Chiesa e poi monaco con il nome di Nilo.24 Con la seconda ci trasferiamo dalla capitale negli ambienti ellenofoni siciliani dell’inizio del XII secolo: si tratta di Marina di Scanio, tuttora venerata a Termini Imerese, pellegrina Marina monaca in abiti maschili, le cui vicende sono riprodotte, questa volta con iscrizioni latine, in quattro pannelli nel registro superiore, più due, pervenuti a noi solo parzialmente – in modo tale da non permettere di identificare le scene – ed altri due semplicemente presunti, nel registro inferiore. 21. Morini, Note di lipsanografia veneziana, pp. 162-171. Per la descrizione dello stato attuale di questa reliquia, cfr. Corrain, Capitanio, Ricognizioni di alcune reliquie, pp. 45-46; per una fotografia, cfr. D’Antiga, Guida alla Venezia bizantina, p. 51. 22. Fedalto, Il caso di santa Marina. 23. Niero, Santa Marina di Bitinia. 24. Nata nel Peloponneso, subito dopo la metà del IX secolo, Eufrosina crebbe nella Calabria ellenofona, ma si trasferì poi a Costantinopoli. Qui, per fuggire il matrimonio, prese l’abito monastico, fingendosi un eunuco, e dimorò in diversi monasteri maschili della capitale; di uno di questi stava per essere eletta igumeno, quando fuggì di nuovo e si mise al servizio di un monaco solitario. Dopo trent’anni di travestimento, riprese gli abiti femminili e fu ammessa nel monastero della Fonte (), dove visse da reclusa, ricevendo, per la fama raggiunta, illustri visite, tra cui quella dell’imperatore Leone VI il Sapiente (886-906). Fondò poi un suo monastero, dedicato alla Santa Trinità, presso la porta detta . Infine, per motivi di sicurezza, passò nel monastero della , sul Bosforo, dove morì, non ancora settantenne, l’8 novembre di un anno tra il 921 ed il 923. Cfr. Delehaye, De s. Euphrosyna Juniore, e Janin, Eufrosina la Giovane.
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e poi monaca in Terrasanta in abiti maschili, ma morta in Sicilia,25 e le cui vicende ci sono tramandate unicamente dal menologio del chartophylax Daniele, scritto alla mandra messinese del Salvatore negli anni 1307-1308, in una breve Vita pubblicata da Giuseppe Rossi Taibbi.26 Si tratta di un tema ampiamente studiato, dapprima indirettamente, a partire dal XIX secolo, da parte di Hermann Usener, nel considerare il dossier agiografico di santa Pelagia, 27 e poi, agli inizi del secolo scorso, da parte di François Nau e di Léon Clugnet, nel pubblicare quello di santa Marina28 e i racconti di Daniele Scetiota,29 nonché da parte di Hippolyte Delehaye a proposito delle leggende agiografiche.30 Direttamente se ne sono occupati prima antropologi culturali, come Marie Delcourt,31 poi agiologi non scevri dall’applicare all’agiografia questa disciplina, come Evelyne Patlagean.32 Prima di quest’ultima ne aveva espressamente scritto – a parte l’approccio indiretto di Jacques Le Goff, a proposito degli exempla,33 e di Pierre Petitmengin, a proposito sempre del dossier di santa Pelagia34 – John 25. Nata a Scanio, una località della Sicilia occidentale di difficile identificazione – forse Termini Imerese, presso la quale si trova il toponimo Pizzu di Scaniu – intorno al 1062 (pertanto dopo la venuta di Ruggero nell’isola), Maria prima simula la follia, per evitare il matrimonio, poi riceve la tonsura monastica con il nome di Marina (senza però entrare in monastero) ed infine, per sfuggire alla fama di santità acquisita, decide di partire per la Terrasanta. Viaggiando sola, per motivi di sicurezza, assume un travestimento maschile e lo mantiene anche, quando, dopo avere venerato il santo Sepolcro, si fissa in uno dei monasteri del deserto di Gerusalemme. Rientra una prima volta in Sicilia, con il consenso dell’igumeno, ma poi, constatata la morte dei genitori, ritorna sui suoi passi e rientra di nuovo nel suo monastero palestinese. Una rivelazione divina le ordina però di ritornare in patria per morirvi: questo avverrà dopo appena sei mesi, forse il 20 luglio, di un anno di poco anteriore alla fine dell’XI secolo. Il suo culto, a Termini Imerese (Palermo), non sembra anteriore al XVII secolo. 26. Rossi-Taibbi, Martirio di s. Lucia. Vita di s. Marina, pp. 75-77, e Stelladoro, Agiografia e agiologia nel di s. Marina di Scanio (BHG 1170). 27. Usener, Legenden der heiligen Pelagia. 28. Nau, Histoire de sainte Marine. 29. Clugnet, Vie et récit, pp. 43-50. 30. Delehaye, Les légendes hagiographiques, pp. 186-194. 31. Delcourt, Female Saints. Cfr. anche Ead., Le complexe de Diane; Ead., Herma phroditea. 32. Patlagean, L’histoire de la femme déguisée en moine. 33. Jacques Le Goff trattò di questo fenomeno in un seminario sugli exempla, cfr. «Annuarie de l’École Pratique des Hautes Études. Sciences Économiques et Sociales», (1972-73), p. 224; (1973-74), pp. 165-166. 34. Pierre Petitmengin ne trattò a sua volta nell’ambito di un seminario all’École Nor-
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Anson35 e dopo Kari Vogt.36 Più recentemente ancora il tema è stato ripreso da Elena Giannarelli nel suo lavoro sulla tipologia femminile nella biografia cristiana,37 da Khalifa Abubakr Bennasser nella sua dissertazione dal titolo Gender and Sanctity in Early Byzantine Monasticism, scritta sotto la direzione di Angeliki Laiou-Thomadaki alla Rutgers University del New Jersey,38 da Clementina Mazzucco nel suo studio sulla donna nel cristianesimo primitivo dal titolo E fui fatta maschio,39 da dom Réginald Grégoire nel suo Manuale di Agiologia,40 da Francesca Rizzo Nervo nel saggio Dalle donne travestite al travestimento delle donne,41 nonché da Eva Nardi in un capitolo della sua monografia Né sole né luna.42 Il motivo è già ben conosciuto in ambito greco pre-cristiano: si possono citare gli ekdysia cretesi, testimoniati da Strabone e da Plutarco, gli hybristica di Argo e gli oschoforia.43 è stato riconosciuto, nell’assunzione degli abiti del sesso opposto, un espediente per fortificare la potenza sessuale. Nella sua valenza evocatrice del mito androgino del superamento della distinzione sessuale, tale motivo trova udienza ed applicazione anche in ambito cristiano, dove potrebbe avere trovato – secondo un’ipotesi di Kari Vogt, che non ha riscontro nelle fonti – una verifica scritturistica nel celebre passo paolino relativo all’asessualità spirituale (Galati 3, 28b),44 dove viene piuttosto enunciata l’abolizione della disparità sociologica tra i male Supérieure, dal quale sarebbe uscita, sotto la sua direzione, la pubblicazione, in due volumi, del dossier agiografico di santa Pelagia, con il titolo di Pélagie la Pénitente. Métamorphose d’une légende. 35. Anson, The Female Transvestite. 36. Vogt, “The Woman Monk”; Ead., “Divenire maschio”. 37. Giannarelli, La tipologia femminile, pp. 26-27, 86-88. 38. Bennasser, Gender and Sanctity in Early Byzantine Monasticism. 39. Mazzucco, “E fui fatta maschio”. 40. Grégoire, Manuale di agiologia, pp. 275-277. 41. Rizzo Nervo, Dalle donne travestite al travestimento delle donne, pp. 71-90. 42. Nardi, Né sole né luna, pp. 199-208. 43. Lambropoulou, Reversal of Gender Roles, p. 149. Per gli Ekdysia il riferimento è a Strabone (X, 462) e a Plutarco (Mulierum virtutes, IV, 245 f.). 44. «Non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù ( )». Cfr. Vogt, “The Woman Monk”, pp. 147-148. Sulla centralità di questo presupposto paolino nei fondamenti antropologici della società cristiana, in stretto paragone con quella pagana, si è recentemente soffermata Averil Cameron nell’articolo Neither Male or Female.
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due sessi. Ben più suggestivo ci pare identificare i presupposti antropologici e culturali di questo tema nei loghia androgini del Vangelo gnostico di Tommaso, tramandatoci in copto dalla biblioteca monastica di Nag-Hammadi, nei quali viene proclamata la necessità che il maschile e il femminile perdano la propria identità per potersi salvare e pertanto l’ineludibile esigenza che la donna si faccia uomo per entrare nel Regno.45 Per l’ambito greco, il medesimo concetto, espresso con un’unica formula: «il maschio con la femmina né maschio né femmina», compare anche nella cosiddetta seconda Lettera di Clemente Romano ai Corinzi46 – in realtà un’omelia della metà del II secolo – e negli Stromata di Clemente Alessandrino.47 45. Loghion 118: «Simon Pietro disse: “Maria si allontani da noi, poiché le donne non sono degne della vita!” Gesù disse: “Ecco, io la trarrò a me per renderla maschio, perché anch’essa divenga uno spirito vivo simile a voi maschi. Poiché ogni femmina che diventerà maschio entrerà nel regno dei Cieli!”»; loghion 27: «Essi (i discepoli) chiesero: “Se saremo piccoli entreremo nel Regno?” E Gesù rispose: “Quando farete in modo che i due siano uno…! E se voi fate del maschio e della femmina una cosa sola, affinché il maschio non sia più maschio e la femmina non sia più femmina, … allora entrerete!”» (L’Evangile de Thomas; trad. it. rispettivamente alle pp. 101 e 90). Per il commento a questi passi, cfr. Doresse in Il Vangelo secondo Tommaso, pp. 141 e 181-182, e Gärtner, The Theology of the Gospel of Thomas, pp. 250-257. 46. «Il Signore stesso, interrogato sul giorno della venuta del suo Regno, rispose: “Quando i due saranno uno … e il maschio con la femmina né maschio né femmina” ( , , , … , )»: Clemente Romano, Epistula altera ad Corinthios, XII, 2, p. 198, ll. 5-8. L’ignoto autore si preoccupa immediatamente di dare una spiegazione “ortodossa” a questo loghion così sibillino, riferendolo, rispettivamente, al matrimonio cristiano ed alla verginità consacrata: «I due sono uno, quando ci si dice reciprocamente la verità e, senza alcuna ipocrisia, c’è un’anima in due corpi ( , ) … e il maschio con la femmina né maschio né femmina, questo vuol dire, che il fratello, guardando la sorella, non vede in lei nulla di femminile e lei, a sua volta, non vede in lui nulla di maschile. Se farete così, vuol dire, verrà il regno del Padre mio ( , , . , , )»: ibidem, XII, 3, 5-6, p. 198, ll. 8-9, 12-16. Più avanti ancora, con una ulteriore valenza teologica “ortodossa”, affermerà che «il maschio è Cristo e la femmina è la Chiesa ( , )» (ibidem, XIV, 2, p. 202, l.1). 47. «Alla richiesta di Salome, quando sarebbero state note le cose di cui lo interrogava, rispose il Signore: “Quando calpesterete il rivestimento della vergogna e i due organi diventeranno uno e il maschio sarà congiunto con la femmina e non ci sarà più né maschile né femminile” ( ,
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Le prime avvisaglie, in ambito cristiano, di questo tema del travestimento, rappresentanti, per così dire, la sua preistoria, si rilevano, in modo assolutamente cursorio, in due testi di alta antichità e, significativamente, più o meno marginali rispetto all’ortodossia della Grande Chiesa. Quello più di frontiera, che è anche il più antico, collocandosi al passaggio dal II al III secolo – di cui si denuncia la pseudoepigrafia già da parte di Tertulliano48 e d’ispirazione montanista, se ha ragione Pierre de Labriolle49 – sono gli Atti di Paolo e di Tecla, dove la santa, protomartire muliebre e “isapostola”,50 indossa un abito maschile nel recarsi da Antiochia a Mira )»: Clemente Alessandrino, Stromata, III, XIII, 92, 2, p. 238, ll. 23-26 (trad. it. Clemente Alessandrino, Stromati, p. 415). L’autore afferma di desumere questo passo dal perduto Vangelo apocrifo, detto “degli Egiziani”, che verosimilmente era la fonte primaria della formula , . 48. «Quodsi quae Acta Pauli quae perperam scripta sunt [exemplum Theclae] ad licentiam mulierum docendi tinguendique defendunt, sciant in Asia presbyterum qui eam scripturam construxit quasi titulo Pauli de suo cumulans conuictum atque confessum id se amore Pauli fecisse loco decessisse»: Tertulliano, De baptismo, XVII, 5, pp. 291-292, ll. 23-28. 49. De Labriolle, Les sources de l’histoire du montanisme. 50. Questi due termini, attribuiti alla santa nel culto della Chiesa ortodossa, si fondano su due particolari della sua leggenda: il primo sulla sua immolazione volontaria allorché, all’arrivo dei persecutori, si infilò nella roccia che si era miracolosamente aperta davanti a lei e che subito si richiuse, ed il secondo sul mandato missionario da lei ricevuto da parte dell’apostolo Paolo nel corso del loro ultimo incontro a Mira di Licia. L’apostolo Paolo aveva infatti convertito la diciottenne fanciulla di Iconio, in occasione delle sue predicazioni in casa di Onesiforo, e questa, sottraendosi al progetto della madre Teocleia di un suo matrimonio con Tamiride, l’aveva seguito ad Antiochia di Pisidia. Qui, arrestata dal prefetto Alessandro, viene esposta a vari supplizi – come l’assalto di belve affamate e di tori infuriati –, dai quali però viene miracolosamente preservata. Si reca poi a Mira di Licia – e qui interviene il travestimento in abiti maschili – per un ultimo incontro con l’apostolo. Dopo avere evangelizzato molte città, ritorna infine nella regione d’origine e si stabilisce in una spelonca, in uno dei monti della Seleucia Antica, chiamato Calamone, dove abbraccia la vita monastica ed opera miracoli. È già novantenne quando, all’assalto dei persecutori alla suddetta spelonca, per sfuggire alle loro mire, si immerge nella roccia che si apre e si richiude. Qui fu innalzato il famoso martyrion della santa, di cui sulla collina di Meriamlink permangono le vestigia, archeologicamente datate alla seconda metà del V secolo (anche se, nel secolo precedente, ne parla già la pellegrina Eteria). Per la sua presenza nel Sinassario della Grande Chiesa, il 24 settembre: Synaxarium Ecclesiae Constantinopolitanae, cc. 75-78. Cfr. anche Eustratiades, , s.v. , , p. 172.
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di Licia per un ultimo incontro con l’apostolo.51 Il particolare è conservato anche nella successiva versione della storia, quella della metà del V secolo – falsamente attribuita a Basilio di Seleucia, ma in realtà opera di un chierico di quella città52 –, anche se già si sente il bisogno di giustificare un procedimento così trasgressivo con l’edificante desiderio di Tecla di dissimulare la propria bellezza.53 Pressoché negli stessi termini esso rimane anche nella versione metafrastica del X secolo.54 È molto indicativo che il precedente teclano sia esplicitamente evocato nella leggenda agiografica di Eugenia/Eugenio, nella dichiarazione della protagonista di volere intenzionalmente emulare, con il travestimento maschile, la “megalomartire” di Iconio. Di grande interesse ci sembra infine, alla luce dell’iniziale ambientazione di questo modello di santità nell’Egitto monastico, la suggestione di Steven Davis55 – ripresa da Alba Maria Orselli –, che ravvisa un «inedito percorso egiziano dell’esempio teclano negli ambienti verginali di Alessandria e del basso Egitto tra IV e V secolo»;56 è significativo, al riguardo, che nella raccolta dei Miracoli – pure del V secolo – la santa appaia ai devoti in abito monastico.57 L’altro testo è il non meno celebre Martirio 51. « , »: Acta Pauli et Theclae, 40, in Acta Apostolorum Apocrypha, I, p. 266, ll. 3-4 (Vouaux, Les Actes de Paul, p. 222). 52. Sui rapporti tra gli Atti apocrifi e la Vita del V secolo, si veda il capitolo La Vie et la tradition des Actes apocryphes, in Dagron, Vie et Miracles de sainte Thécle, pp. 31-54. 53. « , , » : Vita et miracula s. Theclae, 25 (Vita), p. 268, ll. 17-19. Già in precedenza, nel racconto dello Pseudo-Basilio di Seleucia, Tecla, appena udita la predicazione di Paolo, si recide la chioma – compiendo quell’atto che verrà stigmatizzato dal concilio di Gangre –, proprio per nascondere la sua femminilità: « , , . , , , » (ibidem, 14, pp. 224-226, ll. 13-16). 54. « »: Vita s. Theclae, XIII, c. 840 B. 55. Davis, The Cult of Saint Thecla, p. 180. 56. Orselli, Tecla, la santa discepola, p. 178, n. 30. 57. La santa appare ad Ipsistio di Claudiopoli vestita «come una vergine, come è di norma per le sante serve del Cristo ( )»: Vita et miracula s. Theclae, 14 (Miracula), p. 328, ll. 41-42. Si allude verosimilmente alle monache che, vivendo nel luogo dell’asceterio della
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di Perpetua e Felicita, composto entro il primo quarto del III secolo, dove Perpetua, nell’anticipazione onirica la sera prima del suo martirio, si vede nell’arena a combattere, in abiti maschili, sotto gli occhi di Cristo, contro l’infernale egiziano.58 Una volta entrato nell’agiografia, nell’ambito cronologico e geografico sopra precisato, questo motivo si rivela estremamente sfaccettato, ricco di implicazioni e di valenze antropologico-religiose, ora apertamente dichiarate, ora lasciate inespresse. Queste ultime sono ovviamente le più compromettenti, al punto che, diversamente da quanto è avvenuto per la “follia in Cristo”, il modello di santità monastica conseguente a questo tema agiografico ha avuto più limitata diffusione e, soprattutto, una più breve esistenza. Non meno della follia simulata il travestimento dell’asceta femmina in abiti maschili è un’azione volutamente provocatoria e profondamente eversiva dell’ordine del mondo, di cui la taxis, l’ordinamento sociale, è il riflesso. Nondimeno tale rottura non coinvolge soltanto il buon ordine monastico, che vuole uomini e donne rigorosamente separati nell’ascesi, ma configura anche un implicito rifiuto del disegno creaturale di Dio, che ha direttamente voluto, sino dall’antropogonia, la differenziazione sessuale. è pertanto corretto vedere nel travestimento maschile della monaca l’equivalente femminile della pratica, ampiamente documentata e sempre condannata, dell’autoevirazione maschile “per motivo di ascesi”. Significativa è, al riguardo, la condanna pronunciata dal concilio locale di Gangre, del 340 circa, nelle sue delibere antieustaziane,59 nei confronti dell’assunzione di abiti maschili, e del conseguente taglio di capelli, da parte di donne “per presunto ascetismo”. In questi termini si esprime il canone 13,60 mentre il 17 ravvisa in questa pratica un carattere potenzialmente santa, custodivano il suo martyrion, il cui centro di culto era rappresentato, ovviamente, non già dalla sua reliquia, bensì dalla roccia della sparizione della santa e da parte del suo velo pietrificato. 58. «Et expoliata sum et facta sum masculus»: Passio Perpetuae e Felicitatis, 10, 7, p. 128, ll. 14-15. 59. Su questo concilio, la sua cronologia ed il significato delle sue deliberazioni relative alla vita monastica, si veda Gribomont, Le monachisme au IVe siècle en Asie Mineure. 60. «Se una donna cambia il suo vestito per pretesto d’ascesi ed al posto del consueto abito femminile ne porta uno maschile, sia anatema ( , , )»: Joannou, Discipline Générale Antique, I, 2, pp. 94-95.
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eversivo nei confronti di un altro aspetto dell’ordine stabilito da Dio – sempre sulla base del contesto antropogonico –, quello cioè della prescrizione paolina della soggezione della donna all’uomo.61 Altrettanto significativa è del resto la precisazione – fatta nel XII secolo, quando già questo modello di santità era pienamente entrato nel culto, dal grande canonista Teodoro Balsamone, a commento del canone 13 di Gangre – che l’espediente del travestimento maschile può anche essere espressione di un’ascesi autentica e pura, ed in tal caso non ricade nella condanna pronunciata dal concilio, ma rappresenta una sperimentata via di salvezza.62 La prima valenza di questo modello agiografico, quella che potremmo definire la decodificazione ortodossa e che viene di solito chiaramente espressa dall’agiografo, è non a caso in una sintonia, che non potrebbe essere più perfetta, con l’antropologia cristiana. Essa si rivela in realtà un modo indubbiamente geniale per affermare che in Cristo la differente capacità dei due sessi è trascesa: comporta infatti l’incontrovertibile dimostrazione che la donna eguaglia l’uomo nella virtù ascetica, che ormai essa è resa partecipe della virilità spirituale e capace di un’andreia purificata che trascende i limiti che la natura femminile ha posto alla sua andreia fisica.63 è precisamente ed esplicitamente questo il valore dell’episodio riferito 61. «Se una delle donne si taglia per pretesto di ascesi le chiome che Dio le ha dato per ricordare la sua sottomissione, sia anatema, in quanto ha infranto il precetto della sottomissione ( , , , »: Joannou, Discipline Générale Antique, I, 2, p. 96. 62. «Colei infatti che fa qualcosa di simile, non per simulazione e frode, ma in verità ed in vista di un’autentica ascesi, non solo non deve essere colpita da anatema, ma piuttosto sarà oggetto di riconoscenza. Molte donne infatti hanno compiuto la corsa dell’ascesi in abiti maschili e sono pervenute al vertice della salvezza, come santa Melania, santa Eugenia ed altre ( , , , , , , , )»: Teodoro Balsamone, Canones synodi Gangrenae, XIII, PG CXXXVII, c. 1257. 63. Sulla prerogativa dell’andreia nel mondo classico ed in quello biblico-cristiano, si veda Giannarelli, La tipologia femminile; Mattioli, e ; Vogt, “Divenire maschio”; Aspegren, The Male Woman; Castelli, “I Will Make Mary Male”; Newman, From Virile Women to Women-Christ; Cloke, “This Female Man of God”; Delierneux, Virilité physique et sainteté féminine.
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all’interno dell’apoftegma 4 di Bessarione, nella serie alfabetica, e relativo all’eremita di Sceti sepolto dal santo e dal suo discepolo Doulas e rivelatosi essere una donna, proprio al momento della sepoltura: lo esprime il commento dell’anziano che «anche le donne possono vincere Satana».64 Il motivo ritorna, in un episodio pressoché identico e soprattutto dalla medesima valenza, nel Prato di Giovanni Mosco, dove un eremita trovato morente, in una spelonca lungo il cammino dal deserto di Gerusalemme a quello del Sinai, si rivela, al momento della sepoltura, essere una donna.65 In entrambi i casi il particolare inquietante del travestimento maschile non viene in alcun modo rilevato, e non c’è da stupirsene, data la sua più piena fruibilità nell’ambito cenobitico rispetto a quello eremitico, dove l’abbigliamento era ridotto all’essenziale e, in qualche caso, si rinunziava persino al minimo indispensabile. Per i compilatori di questi Paterika fine primario del racconto era infatti la dimostrazione di come, nella nuova economia, non c’è più differenza tra l’uomo e la donna persino nell’eccellenza dell’ascesi. Analogamente, nel racconto relativo ad Atanasia/Atanasio, si legge che, scoperta allo stesso modo l’identità femminile della santa, tutti gli Scetioti, accorsi al suo funerale, glorificano Dio, perché anche alle donne è stata data siffatta perseveranza.66 L’assimilazione della donna asceta in abiti maschili all’eunuco, anche se, nell’economia del racconto, essa è manifestamente finalizzata a consentire alla donna, con la sua fisionomia imberbe, di mimetizzarsi all’interno di una comunità maschile, interviene altresì ad esprimere il concetto che l’acquisita virilità spirituale comporta il trascendimento del suo corrispettivo fisico, cioè della virilità sessuale. è questa una delle numerose valenze leggibili tra le righe di questi racconti, le quali, anche se rimangono inespresse, risultano tuttavia altamente significative. Con un procedimento del tutto naturale accade, in questo stereotipo agiografico, che il superamento della debolezza e della fragilità proprie del sesso femminile, acquisito a prezzo di un’ascesi straordinaria, abbia come conseguenza il superamento della femminilità anche sul piano della sessualità. Uno dei frutti, infatti, 64. Apophthegmata Patrum, De abbate Bessarione, 4, cc. 140 A - 141 B (trad. it.: Vita e detti dei padri del deserto, ed. 1990, I, pp. 155-156; ed. 1997, pp. 149-151). 65. Pratum, 170, cc. 3036-37 (trad. it.: Giovanni Mosco, Il prato, pp. 181-182). 66. « »: così si esprime il Sinassario della santa in AA SS Oct., VI, p. 1000 E.
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della mortificazione corporale dell’asceta in abiti maschili è l’annullamento stesso degli attributi sessuali femminili: i seni di Anastasia/Anastasio, ad esempio, sono «avvizziti come foglie morte»67 ed il corpo di Apollinaria/ Doroteo è «rugoso come il guscio di una tartaruga».68 è d’altronde significativo che lo svelamento della realtà, con la rivelazione universale che il presunto eunuco era in realtà una donna, avvenga di solito proprio grazie alla manifestazione, al momento della preparazione del cadavere per la sepoltura, dei suoi attributi sessuali: si può infatti supporre che dopo la morte, quando è materialmente esaurita, oltre che spiritualmente destituita di significato, ogni ulteriore possibilità di ascesi, la femminilità, anche fisica, può pacificamente riapparire. Senonché questo annullamento integrale della femminilità, avvertibile nella filigrana dei nostri racconti, l’andrizzazione – come lo chiama Eva Nardi69 – risulta implicitamente e pacificamente in contraddizione con il loro fine edificante, espressamente dichiarato dagli agiografi, che è quello di enunciare la parità dei sessi nelle virtù ascetiche. Con una sorprendente eterogenesi dei fini, un motivo agiografico nato allo scopo di attestare la pari dignità e capacità ascetica del sesso femminile è finito per promuovere il più radicale annullamento della femminilità. D’altronde un’ulteriore componente topica di questa eccentrica tipologia di santità monastica interviene, a nostro parere, a correggere, in modo parziale ma significativo, ogni sua implicazione negativa in ordine alla categoria della femminilità. Si tratta dell’episodio, centrale nelle vicende di due delle figure in questione, Maria/Marino e Teodosia/Teodosio – tra l’altro le due che hanno avuto maggiore spazio nel culto sia della Chiesa ortodossa sia di quelle orientali acalcedoniane –, nel quale le due sante in abiti maschili vengono accusate di avere messo incinta una giovane ed accettano, pur di nascondere il proprio segreto, di tenere presso di sé e di allevare il bambino nato dal presupposto sacrilego rapporto. Ora, dietro l’aspetto edificante dell’eroica accettazione di un’accusa infamante, si scopre agevolmente nell’allevamento materno della prole, svolto sotto spoglie paterne, come il giudizio negativo sulla femminilità non coinvolgesse la 67. «»: Vita prima s. Anastasiae, p. 52, ll. 26-27; « »: Vita altera s. Anastasiae, p. 55, ll. 23-24. 68. «Evasit eius corpus tamquam pellis testudinis»: Vita s. Apollinariae, III, 12, p. 260. 69. Nardi, Né sole né luna, p. 199.
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maternità, avvertita, rispetto alla sessualità, quale risvolto positivo della femminilità. Nell’esercizio di una maternità che non ha compromesso la verginità, non è forse azzardato riconoscere in questo topos, all’interno del motivo della monaca in abiti maschili, la realizzazione, in forma infinitamente meno reale, ma, se vogliamo, più umanamente accessibile, dell’ideale conciliazione di verginità e maternità, rappresentata dalla Madre di Dio, salutata, proprio alla fine del VI secolo, nell’inno akathistos, come colei che «ha conciliato gli opposti per il medesimo fine». Analoga valenza sembra avere un altro stereotipo inerente a questo motivo agiografico, indubbiamente meno sconcertante, come espediente narrativo, rispetto al precedente, ma forse ancora più clamoroso, in quanto negatore non già della femminilità sessuale, ma della stessa identità femminile. Si tratta del motivo dell’assoluta irriconoscibilità della donna/ uomo anche da parte dei familiari più stretti: mentre gli altri interlocutori non distinguono il suo essere donna, i familiari non riconoscono neppure la sua identità. Così Atanasia/Atanasio vive dodici anni nella stessa cella con il marito Andronico e questi non la riconosce; Eufrosina/Smaragdo ha innumerevoli colloqui, nella sua cella esicastica, con il padre Pafnuzio, ma – in quanto «sfigurata dall’ascesi» scrive l’agiografo,70 quasi per giustificare l’assurdo – non viene da lui riconosciuta. Forse proprio per la sua già rilevata ambiguità etico-sociologica questo motivo,71 una volta estinto nella sua valenza originaria, riesce a soprav70. « , »: così di esprime la Vita metafrastica di santa Eufrosina/ Smaragdo (XII, c. 317 C). 71. Evelyne Patlagean, nell’ultima nota del suo contributo, rileva la presenza di una fanciulla in cerca di abito maschile, nella Vita dell’eremita palestinese Martiniano, nella versione anteriore al rimaneggiamento metafrastico (Patlagean, La storia delle donna travestita da monaco, n. 77, pp. 164-165). Sempre a margine di questo nostro lavoro, nell’assenza di qualsiasi riscontro cultuale, noi aggiungiamo il caso dell’anonimo anziano del Monte Olimpo, al quale un altro anziano demanda la soluzione di un delicato caso di coscienza, che si rivela essere una donna. Ne parla Paolo di Monemvasia (scomparso nella seconda metà del X secolo) nella Narrazione utile (all’anima) pubblicata dal Delehaye (BHG 1318y; Delehaye, Un groupe de récits “utiles a l’âme”, in Mélanges Bidez, pp. 262-266 = Mélanges d’hagiographie grecque et latine, pp. 389-393). L’abbiamo censito unicamente per il fraintendimento iniziale in ordine al sesso dell’eremita, ma, per quanto riguarda l’assunzione di abiti maschili – la donna infatti, dal suo nascondiglio, li chiede a gran voce per potersi mostrare –, essa è determinata non già dal desiderio di occultare la propria identità femminile, bensì dalla necessità di nascondere, agli occhi dell’inatteso visitatore, la propria
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vivere soltanto a prezzo di un cambiamento di significato, passando cioè dal valore positivo di esempio edificante a quello negativo di comportamento sconveniente. Il travestimento non è più finalizzato infatti ad un meritorio occultamento della virtù, bensì ad un colpevole occultamento della trasgressione: da travestimento virtuoso diventa pertanto – senza essere un travestimento vizioso, in quanto determinato sempre da motivi di devozione – un travestimento trasgressivo. La donna, devota ma non santa, assume fogge maschili per eludere l’abaton, cioè la consuetudine che le preclude l’accesso allo spazio monastico maschile, e potere così fruire, al pari dell’uomo, della sacralità di un luogo o della capacità taumaturgica di determinate reliquie. Un esempio – databile alla fine del X secolo, o all’inizio del successivo, e proveniente dall’ambiente ellenofono della Calabria – ci è offerto dalla Vita di sant’Elia Speleota, dove, nella sistematica raccolta dei miracoli avvenuti alla tomba del santo, incontriamo l’episodio dell’indemoniata, nipote del monaco Giacomo, introdotta dallo zio nella spelonca sepolcrale del santo per impetrare la sua liberazione, dopo averle fatto indossare abiti maschili, peraltro dall’agiografo minuziosamente descritti. Anche se il contesto è ordinato primariamente ad esaltare le virtù taumaturgiche del santo, lo stratagemma in questione non viene tuttavia giudicato con troppa severità – diversamente da quanto si verifica in precedenza nel medesimo testo, dove il santo, ancora in vita, apostrofa con estrema durezza due monache, che si erano introdotte nel suo monastero allo scopo di incontrarlo. Il taumaturgo infatti non solo guarisce la donna, con il consueto procedimento dell’incubatio,72 ma le rivolge in sogno un rimprovero assai blando, definendo addirittura la sua trasgressione una «lodevole frode», tanto è vero che, una volta risanata, ella continua a pernudità. Tale motivo, che ha il suo archetipo nella vicenda di santa Maria Egiziaca – donde è passata poi in quella di santa Teoctista di Lesbo – appartiene ad un altro modello di santità monacale, quello dell’eremita assoluto – in questo caso in versione femminile –, che è caratterizzato appunto dalla nudità integrale. 72. Su questa pratica, consistente nel passare la notte nel santuario dei santi medici “anargiri” per essere guariti dalla vista notturna dei santi che, apparendo in sogno ai degenti – come odierni primari che passano in rassegna le corsie dell’ospedale – prescrivono loro il rimedio adatto alle singole patologie (talvolta intenzionalmente eccentrico e fantasioso), si rimanda a Deubner, De Incubatione; Id., Kosmas und Damian; Festugière, Collections grecques de Miracles; Fernandez Marcos, Los “Thaumata” de Sofronio. Contribucion al estudio de la “Incubatio” cristiana, pp. 1-242 (ampio studio critico sull’incubatio cristiana); Sansterre, Apparitions et miracles à Menouthis: de l’incubation païenne à l’incubation chrétienne.
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correre, in abiti maschili, gli spazi monastici, partecipando alla salmodia mattutina nella chiesa rupestre del cenobio.73 Il tema in Occidente fu recepito dapprima con grande fedeltà alla sua valenza originaria, essenzialmente tramite il culto per alcune di queste sante, come Eufrosina/Smaragdo, Pelagia/Pelagio e Maria/Marino, che comportò, nel contesto delle Vitae patrum, l’“internazionalizzazione” del loro profilo agiologico.74 Successivamente esso rimase, spogliato di qualsiasi valore edificante o trasgressivo, quale semplice espediente narrativo,75 come, ad esempio, nel caso del dramma ottocentesco di Angel de Saavedra, Don Alvaro o la forza del destino, donde fu tratto, da Francesco Maria Piave, il libretto per il forse più noto melodramma verdiano. Ben diversamente sono andate le cose, in età moderna, nel mondo religioso russo, così naturalmente recettivo nei confronti del patrimonio agiografico greco. Quando Bisanzio generò alla fede la Russia, con il battesimo della Rus’ kieviana, trasfondendole pressoché tutti i contenuti della sua esperienza religiosa – e continuando a farlo lungo i secoli della dipendenza gerarchica e culturale della Chiesa russa da Costantinopoli –, la forza creativa di questo motivo topico si era già esaurita, o era sul punto di spegnersi. Tuttavia l’inventiva della santità russa, così profondamente nutrita dai modelli proposti nel santorale costantinopolitano, non tralasciò di cimentarsi anche in questo espediente dell’ascesi femminile in abiti maschili, e peraltro in tempi assai recenti. Lo riscontriamo, pressoché simultaneamente, nel corso del XVIII secolo, in due estremi assai lontani dell’impero russo, a San Pietroburgo, la nuova capitale sul Baltico, ed a Kiev, l’antica metropoli della Rus’ cristiana. Nella forma, per così dire, degenerata, di questo modello, quella trasgressiva, il travestimento maschile fa parte dello jurodstvo di 73. Vita s. Eliae Spelaeotis, XII, 82, pp. 881 F-882 D. 74. Di Eufrosina/Smaragdo il Rosweyde aveva pubblicato una Vita latina (BHL 2723) che abbiamo definito altera, in quanto una più antica, risalente all’VIII secolo (BHL 2727), sarà poi pubblicata dal Boucherie, di Pelagia/Pelagio la traduzione latina di Eustochio della Poenitentia della santa del diacono Giacomo (BHL 6605), ripubblicata di recente dal Dolbeau, e di Maria/Marino una Vita latina (BHL 5528), ripubblicata, in tre differenti versioni, dal Clugnet. 75. Si rimanda, a questo proposito, al secondo volume uscito dai lavori del seminario dell’École Normale Superieure di Parigi, dedicato appunto alle Métamorphoses d’une légende e guidato da Petitmengin: Pélagie la pénitente, 2: Le survie dans les littératures européennes.
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santa Csenija la Beata – canonizzata dalla Chiesa russa all’estero nel 1978 e da quella patriarcale moscovita dieci anni dopo –, che condusse per un quarantennio (la sua morte si colloca tra il 1790 ed il 1803) la sua vita errabonda nel deserto metropolitano di San Pietroburgo, indossando la divisa militare del marito, un ufficiale dell’esercito prematuramente scomparso.76 In lei questo espediente, finalizzato non già ad occultare l’identità femminile della santa, quanto piuttosto a negarla pubblicamente e clamorosamente – accompagnato com’era dall’assunzione del nome maschile del coniuge, Andrej Fëdorovic – rientra perfettamente nel quadro dell’atteggiamento volutamente provocatorio caratterizzante la fisionomia esteriore dello jurodivij, l’omologo russo del salòs – il “folle in Cristo” – della tradizione agiografica greca. L’altro caso, invece, rientra nella versione classica del travestimento virtuoso, e ne rinverdisce tutti i motivi topici: Darija Tjapkina, figlia di nobili di Rjazan’, ma cresciuta in un monastero femminile del Cremlino di Mosca, si presenta, sotto le sembianze di un contadino fuggiasco, alla celeberrima Laura delle Grotte di Kiev, per esservi accolta come monaco. Rifiutata in quanto ritenuta un servo della gleba ribelle al proprio padrone, fissò la sua dimora in una spelonca, che si sarebbe poi trasformata nell’eremo del Kitaj. Da questo reclusorio si affermò come un venerato starec, visitato persino dall’imperatrice Elisabetta, ed ottenne l’agognato abito monastico, con il nome di Dosifej (Dositeo), proprio grazie ad una deroga concessa dalla sovrana. Lo starec parlava con i visitatori attraverso le fessure della porta del suo eremo, che non apriva a nessuno, e si deve al suo carisma il discernimento della vocazione del più grande santo della Russia moderna, san Serafino di Sarov. Visitata dalla sorella, non fu da lei riconosciuta e, una volta rientrata alla Laura, dovette fuggire, mettendosi a praticare lo jurodstvo per le strade di Kiev, onde evitare l’ordinazione diaconale, che i superiori avevano deciso di imporle, ignorandone l’identità femminile. Sarebbe morta, nel 1776, esprimendo anch’essa per iscritto la richiesta che il suo corpo venisse sepolto senza il consueto lavaggio. Questa volta la sua volontà fu rispettata, ma l’immancabile riconoscimento sarebbe avvenuto, di lì a poco, quando fu mostrato alla sorella il ritratto del 76. Su questa santa si veda Ferrari, Jazykova, Csenia di Pietroburgo, nonché Goraïnoff, “I pazzi in Cristo”, pp. 137-140. Dell’ampia bibliografia in russo – peraltro registrata nel contributo di Aldo Ferrari – citiamo solo il seguente lavoro, di più agevole reperibilità in quanto stampato in occidente: Taisija, Žitija Svjatych, I, pp. 67-71.
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santo starec.77 La sua canonizzazione è avvenuta, ad opera della Chiesa autonoma ucraina afferente al Patriarcato di Mosca, nel 1993, ma ciò che più conta è che nel culto a lei costantemente tributato, questa santa è stata sempre venerata con il nome maschile di Dositeo e collocata pertanto nella categoria non già delle monache, bensì dei monaci, ad ulteriore conferma che determinante – rispetto alla reale identità femminile, afferente però alla sfera mondana – è il ruolo svolto nella società monacale.
77. Su questa santa si veda Basin, Dositeo di Kiev. Dell’ampia bibliografia in russo – peraltro registrata nel contributo di Il’ja Basin – citiamo solo il seguente lavoro, di più agevole reperibilità in quanto stampato in occidente: Taisija, Russkoe pravoslavnoe ženskoe monašestvo, pp. 29-31.
Sigle AA SS BHG BHL
BHO GCS PG PL PO
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pp. 998-1000; in Vie et récits de l’abbé Daniel le Scétiote (VIe siècle), a cura di L. Clugnet, pp. 380-384 (= Bibliothéque hagiographique orientale, pp. 57-71) — Vita syriaca, a cura di F. Nau, ibidem, II, pp. 391-401 (trad. fr. pp. 401-406) Angarano F.A., Teodora, penitente di Alessandria, santa, in Bibliotheca Sanctorum, XII, Roma 1969, cc. 220-221 Anna iunior, quae et Euphemianus, monialis Constantinopoli saec. VIII-IX — Vita (versione latina), in AA SS Oct., XII, Bruxellis 1867 (rist. anast. ivi 1970), pp. 915-916 Anson J., The Female Transvenstite in Early Monasticism: the Origin and Development of a Motif, in «Viator», 5 (1974), pp. 1-32 Apollinaria, quae et Dorotheus, virgo inclusa in Sceti — Vita (BHG 148), in J. Drescher, Three Coptic Legends. Hilaria. Archellites. The Seven Sleepers, in «Annales du Service des Antiquités de l’Égypte», 4 (1947), Supplément 4, pp. 152-161 = Appendix III: The Life of St. Apollinaria (per la difficoltà di reperire questa edizione, ci siamo basati sulla versione latina della recensione metafrastica, in AA SS Ian., I, Antverpiae 1643 [rist. anast. Bruxellis 1966], pp. 258-261) Apophthegmata Patrum “Collectio alphabetica” (BHG 1444), in PG LXV, cc. 77-440 (= J.B. Cotelier, Ecclesiae graecae monumenta, I, Parisiis 1677, cc. 340-712) Aspegren K., The Male Woman: A Feminine Ideal in the Early Church, Stockholm 1990 Basin I., Dositeo di Kiev, monaco, santo, in Enciclopedia dei santi, Le Chiese orientali (Bibliotheca Sanctorum Orientalium), I, Roma 1998, cc. 718-719 Basset R., Le Synaxaire Arabe-Jacobite (Rédaction copte), III, in PO XI (1915), pp. 505 [471]-859 [825] Bennasser K.A., Gender and Sanctity in Early Byzantine Monasticism: A Study of the Phenomenon of Female Ascetics in Male Monastic Habit, with a Translation of the Life of St. Matrona, New Brunswick (NJ) 1984 Bertocchi P., Eufrosina (Smaragdo) di Alessandria, vergine, santa, in Bibliotheca Sanctorum, V, Roma 1964, cc. 175-176 Brandi M.V., Andronico e Atanasia, santi, confessori in Egitto, in Bibliotheca Sanctorum, I, Roma 1961, cc. 1178-1179 Brossé Ch.-L., Les peintures de la grotte de Marina prés Tripoli, in «Syria», 7 (1926), pp. 30-45 Cameron A(veril), Neither Male or Female, in «Greece and Rome», 27 (1980), pp. 69-76 Castelli E.A., “I Will Make Mary Male”. Pieties of the Body and Gender Transformation of Christian Women in Late Antiquity, in Body Guards. The Cultural Politics of Gender Ambiguity, a cura di J. Epstein, K. Straub, New York-London 1992, pp. 29-49 Clemente Alessandrino, Stromata, in Clemens Alexandrinus II, Stromata I-VI, a cura di O. Stählin, Lipsiae 1906 (GCS 15) Clemente Alessandrino, Stromati. Note di vera filosofia, Introduzione, traduzione e note di G. Pini, Milano 1985 Clemente Romano (Pseudo-), Epistula altera ad Corinthios, in Opera Patrum Apostolicorum, I, a cura di F.X. Funk, Tubingae 1887, pp. 184-211 Cloke G., “This Female Man of God”. Women and Spiritual Power in the Patristic Age, AD 350-450, London-New York 1995 Clugnet L., Introduction a Vie et récits de l’abbé Daniel le Scétiote (VIe siècle), in «Revue de l’Orient Chrétien», 6 (1901), pp. 56-81
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Anna Vildera La musica dell’ufficio liturgico padovano per santa Giustina
1. I codici La musica dell’ufficio liturgico in onore di santa Giustina è attestata a Padova soltanto da tre fonti: Zagreb, Metropolitanska Knižnica (Biblioteca Metropolitana), MR 72, I-II, Breviario, ca. 1270, II, cc. 143v-147v (= Zag 72);1 Padova, Biblioteca Capitolare, B 16, Antifonario, secolo XIV in., cc. 186r-203r (= Pd B16);2 Padova, Archivio di Stato, Corporazioni soppresse, S. Giustina, busta 78, Uffici propri e graduale per s. Giustina e s. Prosdocimo, secolo XV2/2, cc. 41r-55v (= Pd 78). La provenienza di questi testimoni è certa in due casi: Pd 78 apparteneva all’abbazia di Santa Giustina, mentre Pd B16 fa parte della nota serie di Antifonari corali secundum consuetudinem Romanae Curiae, compilata per la cattedrale di Padova all’inizio del Trecento. Tale origine è comprovata dalla differente redazione, in quanto quest’ultima, più breve, è di cursus romanus, mentre l’altra è di cursus monasticus.3 L’origine di Zag 72, al contrario, a mio parere non è affatto così sicura, nonostante esso sia noto come “Breviario di S. Giustina”: sono infatti osservabili una serie di dati secondo i quali sarebbe più opportuno ridefinire questa attribuzione, ponendo una serie di precisazioni che, pur confermando un legame con l’abbazia padovana, indirizzano altrove la ricerca della sua destinazione e soprattutto delle sue origini liturgico-musicali. 1. Miniature a Brera, pp. 84-89, scheda n. 12 a cura di Valagussa; La miniatura a Padova, pp. 64-66, scheda n. 10 a cura di Trolese e Valagussa. 2. Ibidem, p. 93 scheda n. 22, e per la bibliografia p. 90 scheda n. 19, a cura di Bellinati. 3. Il cursus romanus, proprio delle cattedrali e delle chiese secolari, prevede un Mattutino costituito da nove antifone e nove responsori, suddivisi in tre notturni. Nei monasteri, invece, il canto del Mattutino prevedeva quattro responsori per ciascun notturno (quindi dodici, complessivamente); dodici erano anche le antifone, divise però tra i primi due notturni.
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Il Breviario conservato a Zagabria contiene un Ufficio liturgico per tutti i santi patroni di Padova, ma l’unica alla quale è riservato un Ufficio proprio completo è s. Giustina. Questo particolare rilievo attribuito alla santa diede senz’altro adito alla giustificata ipotesi – quasi una certezza – di una sua provenienza dall’abbazia di Santa Giustina. Una serie di considerazioni di carattere liturgico-musicale, tuttavia, fa riflettere seriamente su tale ipotesi, dato che al tempo della compilazione del Breviario soltanto s. Giustina possedeva un Ufficio proprio: in Zag 72 (II, c. 59r-v) l’Ufficio in onore di s. Daniele levita, martire padovano, rappresenta infatti una prima fase di transizione, di poco precedente ad una seconda fase di transizione attestata dall’Ordinario della cattedrale di Padova (= Pd E57, cc. 55v-56v).4 Queste due redazioni ancora in evoluzione sono assai simili, giacché entrambe le fonti fanno ricorso al comune dell’Ufficio unius martyris,5 e solo limitatamente inseriscono canti dedicati esclusivamente al santo. L’Ufficio proprio per s. Daniele sarà fissato soltanto all’inizio del XIV secolo. Pure l’Ufficio per s. Prosdocimo, protovescovo padovano, sarà introdotto in epoca successiva, e precisamente in uno degli Antifonari della cattedrale secundum consuetudinem Romanae Curiae del XIV secolo.6 Zag 72 (II, cc. 158v-159r) e l’Ordinario padovano (cc. 143v-144r) utilizzano il formulario del commune confessorum, con la sola differenza che in Pd E57 figurano già alcuni dei canti del nuovo Ufficio proprio, scritti però su rasura. Inoltre il cursus di Zag 72 è esclusivamente romanus, ed anche il Salterio che ne fa parte (I, cc. 7r-36v), confrontato con testimoni padovani coevi, concorda con i Salteri secolari (Ox 3707 e Ud 928) e non con quello monastico (Bo 3469). 4. Padova, Biblioteca Capitolare, E 57, Liber Ordinarius, secolo XIII (ca. 1256-1275). 5. Si veda la collazione delle fonti testuali dell’Ufficio per s. Daniele che porta a queste conclusioni in Vildera, L’Ordinario padovano: descrizione, pp. LXXXVIII-CI. 6. Padova, Biblioteca Capitolare, B 16, cc. 220r-238r. 7. Oxford, Bodleian Library, ms. Canon. Liturg. 370, Salterio con Calendario-Obituario e Innario, 1266, Padova, cattedrale, scriptor Giovanni da Gaibana (= Ox 370): cfr. Hänsel, Die Miniaturmalerei, p. 112, n. 8, fig. 16. 8. Udine, Biblioteca Arcivescovile, ms. 92, Salterio con Calendario e Innario, 12501300, Padova (= Ud 92). 9. Bologna, Biblioteca Universitaria, ms. 346, Salterio con Calendario e Innario, 12751300, Padova, abbazia di Santa Giustina (?) (= Bo 346): cfr. Pfändtner, Die Psalterillustration, pp. 6, 13, nota 80, 15 e nota 90, 16, 20, 21, 24, 27, 40, 58, 70, 71, 75-91, 110, 113, 154155, IX-XIII, tavv. 82-96; Calligrafia di Dio, pp. 150-152, scheda n. 27 a cura di Medica.
La musica dell’ufficio liturgico padovano per santa Giustina
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La suddivisione dei salmi risulta dunque marcata in modo differente dal miniatore:10 Ox 370
Zag 72
Ud 92
Bo 346
Beatus vir, Ps 1
[lacuna]
Beatus vir, Ps 1
Beatus vir, Ps 1
Dominus illuminatio, Ps 26
[lacuna]
Dominus illuminatio, Ps 26
Domine in virtute tua letabitur, Ps 20
Dixit custodiam, Ps 38
[lacuna]
Dixit custodiam, Ps 38
Dominus illuminatio, Ps 26
Dixit insipiens, Ps 52
[lacuna]
Dixit insipiens, Ps 52
Dixit custodiam, Ps 38
Salvum me fac, Ps 68
Salvum me fac, Ps 68
Salvum me fac, Ps 68
Dixit insipiens, Ps 52
Exsultate Deo, Ps 80
Exsultate Deo, Ps 80
Exsultate Deo, Ps 80 Salvum me fac, Ps 68
[lacuna]
Cantate Domino canticum novum quia mirabilia, Ps 97
Cantate Domino Qui regis Israel, Ps canticum novum 79 quia mirabilia, Ps 97
Dixit Dominus Domino meo sede a dextris, Ps 109
Dixit Dominus Domino meo sede a dextris, Ps 109
Dixit Dominus Domino meo sede a dextris, Ps 109
Dilexi quoniam exaudiet, Ps 114
Exsultate Deo, Ps 80
Cantate Domino canticum novum cantate Domino omnis terra, Ps 95 Domine exaudi orationem, Ps 101 Confitemini Domino quoniam bonus [...] Quis loquetur, Ps 105 Dixit Dominus Domino meo sede a dextris, Ps 109
10. L’appartenenza al cursus secolare o monastico può essere identificata in base alle tabelle proposte da Hughes, Medieval Manuscripts, pp. 224-237.
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L’identificazione di alcune feste benedettine nel calendario di Zag 72, inoltre, non appare così determinante: il Transito e la Traslazione di s. Benedetto (rispettivamente 21 marzo e 11 luglio), così come s. Scolastica (10 febbraio), figurano anche nel calendario di Ox 370, la cui origine è inequivocabile, visto che comprende addirittura un obituario della cattedrale. S. Mauro, inoltre, menzionato il 21 novembre, non è il discepolo di s. Benedetto (di cui solitamente si fa memoria il 15 gennaio, oppure il 5 ottobre assieme a s. Placido), ma un vescovo di Verona, già identificato con l’omonimo martire di Porec/Parenzo: del resto è ricordato in tutti gli altri tre calendari padovani collazionati (Ox 370, Ud 92, Bo 346), di cui i primi due appartenuti a istituzioni non monastiche. Il s. Mauro invocato nelle Litanie, invece (Zag 72, I, c. 58v), è più probabilmente il santo benedettino, visto che è preceduto da s. Benedetto e seguito da s. Placido: un indizio importante, forse una traccia consapevole,11 quasi un sigillo che spicca dal contesto. Non si rivela invece così determinante, per stabilire l’origine di Zag 72, la rubrica Consecratio Sancte Marie maioris ecclesie m.c.lxxx alla data del 24 aprile (Zag 72, I, c. 2v), dal momento che tale indicazione figura rubricata non soltanto in uno dei calendari dei manoscritti secolari (Ox 370, c. 2v; in Ud 92 non compare), bensì anche in quello monastico (Bo 346, c. 2v). La presenza di s. Olderico (4 luglio), se da una parte potrebbe essere ricollegabile all’abate Olderico da Limena, dall’altra è ridimensionata da analoghe considerazioni: tutti gli altri tre calendari collazionati ne fanno memoria il 4 luglio, e soltanto la fonte monastica (Bo 346, c. 185r: «Sancte Odelrite») lo inserisce pure nelle litanie. Il culto in onore di s. Olderico vescovo di Augsburg, dove nacque nell’890 e morì nel 973 - fu imposto in tutto l’Impero dopo il concilio di Seligenstatt (1022), e città filo-imperiali come Padova e Verona inserirono questo santo nel loro calendario.12 A questo punto l’ipotesi di un collegamento di Zag 72 con Olderico da Limena, abate di Santa Maria in Organo a Verona (1255-1271: fu però effettiva11. Si veda il caso del cosiddetto “Breviario di Spalato” (Venezia, Biblioteca d’Arte e di Storia veneziana del Museo civico Correr, ms. Classe V, n. 154, Libro d’Ore, a. 1291, appartenuto probabilmente a Stephanus de Osessico, iudex, di Zara): anch’esso nel santorale reca indizi importanti, i quali inaspettatamente indirizzano sia verso Spalato sia verso Zara, città distintesi storicamente per la loro costante rivalità (Vildera, Il breviario di Split, pp. 126-129, 132). 12. L’Orazionale dell’arcidiacono Pacifico, p. 124.
La musica dell’ufficio liturgico padovano per santa Giustina
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mente a Verona soltanto dal 1259 al 1261) e poi di Santa Giustina a Padova (1271-1289), viene ad affievolirsi notevolmente. Un aiuto per ricondurre il Breviario a Santa Giustina proviene invece dalla decorazione pittorica: il miniatore dedica una considerevole attenzione ai ritratti dei santi, destinando una miniatura a s. Prosdocimo, patrono di Padova, nonché ad altri santi di grande popolarità come Lucia, Sebastiano, Paolo, Biagio, Agata, Vitale, Nicomede, Barnaba, i martiri Canzio, Canziano e Canzianilla, Vito, i martiri Giovanni e Paolo, Pietro, Paolo, Paolino, Giacomo, Lorenzo, Bartolomeo, Agostino, Giovanni Battista, Matteo, Luca, Cecilia, Clemente, Caterina. Sembra sbilanciarsi, tuttavia, in tre casi: infatti raffigura s. Giustina per ben due volte sulla stessa carta; un doppio ritratto è poi riservato a s. Martino; infine anche s. Andrea è rappresentato una seconda volta, ma insieme a Simon Pietro. Nel più importante dei due ritratti di s. Giustina (iniziale B del responsorio Beata Iustina, c. 144v, primo responsorio del Mattutino), si può notare una forte somiglianza del suo volto con uno dei personaggi scolpiti nel coevo portale della basilica dell’abbazia di Santa Giustina: ma non si tratta della martire padovana, bensì della figura femminile in abbigliamento regale, identificata come la rappresentazione della Chiesa.13 Si notino infatti l’ovale, gli occhi, la forma del naso e soprattutto delle labbra, la corona sul capo, nonché l’acconciatura dei capelli. E non preoccupi la diversità delle vesti, giacché è stato rilevato che il corpo e il capo di questa figura del portale furono scolpiti indipendentemente l’uno dall’altro, e solo in un secondo momento quest’ultimo sarebbe stato inserito nel portale:14 il miniatore avrebbe dunque potuto avere a disposizione come modello la sola testa della rappresentazione della Chiesa, mentre era ancora separata dal resto della figura, scolpita invece direttamente nel portale. La duplice raffigurazione di s. Martino potrebbe egualmente essere collegata a s. Giustina: Venanzio Fortunato,15 nel congedarsi dalla sua operetta sulla vita di s. Martino, la prega di recarsi a Padova e di visitare da parte sua la tomba di Giustina, recandole il suo bacio devoto; sottolinea, inoltre, che sulla parete del sepolcro della vergine martire sono raffigurate le gesta del santo di Tours. 13. Zuliani, Il portale maggiore, p. 35. 14. Ibidem, p. 262, scheda 20. 15. Fortunatus, Vita, IV, vv. 669-675, in MGH, IV, p. 369.
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Sono questi, a mio parere, gli autentici legami “forti” del Breviario con l’abbazia benedettina, che potrebbero far pensare, però, ad un lavoro commissionato allo scriptorium di Santa Giustina, e non necessariamente destinato al monastero benedettino, cui liturgicamente non appartiene. Il fatto che i due volumi del Breviario (originariamente uno solo) prendano ad un certo punto la via di Verona – si vedano le aggiunte, alcune delle quali si riferiscono per lo più a santi della tradizione cultuale veronese: s. Zeno (dies natalis, 10 aprile; translatio, 21 maggio), s. Elena (14 aprile), s. Metrone (8 maggio), s. Fidenzio16 «et f.» (18 maggio) –17 suggerisce anche l’eventualità di una diversa ipotesi. Il committente potrebbe essere stato un alto prelato, ma non monaco. Il calendario del Salterio padovano conservato ad Udine (Ud 92),18 già 16. Il vescovo Fidenzio sarebbe propriamente un santo di Padova, dove è però celebrato il 24 novembre nel Duecento e il 16 novembre dal Trecento in poi (Vildera, Il santorale marciano, pp. 282, 299). Il fatto che non sia qualificato come confessor, bensì gli sia aggiunta l’estensione et f(ratrum) (?), fa pensare ad un culto differente rispetto a quello padovano. Infatti si tratta del martire nonché vescovo africano Fidenzio (Fidenziano), commemorato il 18 maggio e il 15 novembre: a Verona, dunque, sussisteva una certa confusione tra i due, visto che i calendari ricordavano entrambe le date del 18 maggio e del 16 novembre, qualificando quasi sempre il santo come confessor (et pontifex), o tutt’al più omettendo qualsiasi genere di attributo. Il Carpsum veronese ricorda soltanto la data del 18 maggio (L’Orazionale dell’arcidiacono Pacifico, pp. 122 [e nota 2], 125, 144, 208, 214, 276 n. 570). 17. Questi sono i giorni del calendario di Zag 72 ai quali sono state apposte le aggiunte, effettuate da varie mani: gennaio 10 (s. Paolo primo eremita); aprile 12 («Zenonis confessoris et summi pontificis»), 13 (s. Eufemia v.), 16 (Elena v.; si noti la rasura del testo vergato dalla mano del copista principale, «sancte Helene virginis», al 22 maggio), 24 («Georgii martyris Christi» si trova su parziale rasura di «[Consecratio Sancte Marie maioris ecclesie] m.c.lxxx»; la mano del copista principale aveva invece posto la festa di s. Giorgio il 25 aprile, assieme a quella di s. Marco, com’era nell’uso padovano, che riservava il 24 aprile al solo festeggiamento dell’anniversario della consacrazione della cattedrale: cfr. Vildera, Il santorale marciano, pp. 282-283, 293), 28 (s. Vitale), 29 (s. Pietro); maggio 1 (Geremia profeta e s. Sigismondo), 8 («vitoria sancti Michaelis arcangelus [sic], sanctus Metro apostitur[?]»), 11 ([s. Maiolo] ab. e c.), 13 (Dedicazione di Santa Maria «ad martyres»), 14 (s. Vittore, s. Corona), 16 («sancti Siri(n)[?] ep. et cf.»), 18 («sancti Fidentii et f(ratrum) [?]»), 19 (s. Potenziana), 21 (Traslazione di s. Zeno), 22 (rasura su s. Elena vergine), 28 (s. Germano); luglio 13 (s. Margherita), 26 (s. Anna); ottobre 21 (ss. Undicimila vergini), 25 (ss. Crispino e Crispiniano; il copista principale li aveva assegnati al 23, con successiva espunzione); novembre 2 (Commemoratio omnium mortuorum), 6 (s. Leonardo; «p(rimo) die fito domus Iacomus»), 19 (s. Elisabetta); dicembre 8 (Conceptio sancte Marie), 10 (s. Melciadis p. m.), 11 (s. Damaso p. e m.), 12 (s. Ermogene m.). 18. Scalon, La Biblioteca Arcivescovile, pp. 161-163 n. 92.
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considerato, ricorda i congiunti di un arciprete di Verona, Aleardino, canonico anche a Mantova e a Padova, nella data della loro morte: la madre Gemolina, il 16 agosto 1259,19 e il padre – forse Balzanelus o Otonelus o Guilielmus –, il 16 dicembre 1269,20 entrambi tumulati nella cattedrale di Mantova; il fratello – Crosna o Crosa o Cosma – il 12 maggio 1272. 21 L’obituario della cattedrale di Padova, nel calendario di Ox 370, menziona la morte del medesimo Aleardino il 5 giugno («Obiit venerabilis presbyter dominus Aleardinus Veronensis electus, canonicus Paduanus diaconus»), senza però specificare l’anno: sino ad ora, comunque, gli atti che probabilmente lo riguardano lo vedono attivo fino al 1272.22 Sembra invece un dato certo, e lo specifica la nota obituaria relativa al padre, che il canonico Aleardino appartenesse alla nobile famiglia veronese dei da Monzambano:23 si noti che in Ud 92 figurano in pratica soltanto le tre det19. «M.C.C.lviiii, indicione ii, obiit domina Gemolina, mater domini Aleardini archip(re)b(yte)ri Veronensis, canonici Mantuani et Paduani, in civitate Mantue, et iacet apud ecclesiam cathedralem cum avia sua.» (Ud 92, c. 5v). 20. «M.CC.lx. nono, inditione viii, obiit dominus [...n]el(us)/[...i]el(mus)(?) de [Moteça(m)bano], pater domini Aleardini electi archi(pres)b(yte)ri Veronensis, Mantuani et Paduani canonici, in civitate Mantue: et iacet apud ecclesiam maiorem cathedralem.» (Ud 92, c. 4v). 21. «M.CC.lxxii, indicione [...], die iovis xii intrante m[aio], [obiit](?) [dominus](?) C(r) osa/C(r)osa/Cos(m)a(?) frater domini Aleardini archip(res)b(yte)ri Veronensis, [canoni]ci Mantuani et Paduani, in civitate R[...] apud ec[clesiam] [...] Nove» (Ud 92, c. 2r). 22. Varanini, La chiesa veronese, pp. 26-28, nota 43. 23. I documenti riportati in Hagemann, Documenti sconosciuti, menzionano un Aleardino, arciprete del capitolo di Verona, nel 1260 (doc. n. 5), ma successivamente, nel 1264, appare col medesimo titolo un Aleardino de Freschanovella (docc. nn. 11, 13; si riferiscono alla medesima controversia anche i docc. nn. 12, 15-17). Questo dato induce Varanini, La chiesa veronese, p. 27 nota 43, a non prestare del tutto fede alle asserzioni di Dondi Dall’Orologio, Serie cronologico-istorica, p. 119, che lo identificava come un Monzambano sulla base di un’annotazione osservata in un non meglio specificato «codice delle vigilie»: anche la famiglia Frescanovella, infatti, figura tra i guelfi banditi da Verona, e giustamente pare a Varanini più corretto propendere per le informazioni tratte dalle testimonianze archivistiche. Le note obituarie di Ud 92 creano dunque, apparentemente, una crux storica, che potrebbe essere risolta solamente con una più minuziosa lettura dei documenti d’archivio che riguardano Aleardino. Si noti, tuttavia, che la famiglia da Frescanovella sembra presto scomparire (Varanini, La chiesa veronese, p. 28 nota 43), e che, negli elenchi degli esiliati dalla città di Verona del 1239, Balzanello da Frescanovella e figli figurano subito dopo i fratelli Bonacursius ed Henrigetus da Monzambano e figli, seguiti da Danesius da Monzambano e Riguolus Baruffaldus (forse anch’egli un Mozambano, oppure un socius), anch’essi con i loro figli (Bresciani, Monzambano, p. 105: l’edizione dell’elenco dei nobili
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tagliate note obituarie qui riportate,24 quindi, a ragione, è stato ipotizzato uno stretto legame del Salterio con l’arciprete veronese.25 I da Monzambano, fedelissimi alla parte guelfa ed avversi ad Ezzelino da Romano, erano stati banditi dalla loro città sin dal giugno del 1239.26 A partire dal 124527 i documenti d’archivio fanno emergere i nomi di alcuni esponenti interessanti di questa famiglia,28 in quanto ci ricollegano, in qualche modo, al nostro Aleardino quale probabile committente/destinatario del Breviario padovano eseguito nello scriptorium benedettino di Santa Giustina: il primo è Entraversato o Traversato da Monzambano,29 che nel 1264 fu latore della lettera di scomunica provocata dalle accuse di Aleardino nei confronti di podestà, capitano e anziani del comune di Verona, del vicario del vescovo Manfredi, di alcuni canonici e di un mansionario del capitolo della e milites banditi il 13 giugno 1239 è compilata sulla base di una lettura del documento di G. Sancassani; cfr. anche Parisio da Cerea, Chronicon, col. 640): si potrebbe ipotizzare che il toponimo utilizzato occasionalmente da Aleardino da Monzambano nella propria nominatio (da Frescanovella), fosse legato a suoi possedimenti personali o appartenuti al ramo specifico della sua famiglia. Bonaccorso ed Enrigeto possedevano fino al 1245 il castello di Marano (Cipolla, «Annales Veronenses antiqui», p. 73 n. 95): proprio nella valle di Marano, nella villa di Valgatara, per esempio, esisteva presso la pieve di San Floriano una località chiamata «Nova Villa a molendino de Fassinello» (Varanini, La Valpolicella, p. 36). Si può ipotizzare una distorsione di questi toponimi? 24. In più, il giorno 25 febbraio, è aggiunta l’annotazione: «Ob. Mathyusa», che prosegue il 26 febbraio con «et Ursula» (Scalon, La Biblioteca Arcivescovile, p. 161). 25. Scalon, La Biblioteca Arcivescovile, p. 162. 26. Varanini, Il comune di Verona, pp. 122 nota 15a, 136 nota 78, 156 nota 186; Bresciani, Monzambano, p. 105. Cfr. anche Parisio da Cerea, Chronicon, col. 640 (opppure Annales Veronenses, p. 17), per il bando del 1269, quando i Monzambano furono nuovamente esiliati per il loro coinvolgimento in una congiura contro Mastino Della Scala (Bresciani, Monzambano, p. 16): tra di essi figurano Rizzardo, Bartolomeo e Nicolò, figli del fu Pecorino, il loro nipote Pecorino, Balzanello da Frescanovella con i figli. 27. Già nel secolo precedente i membri di questa famiglia erano già noti, e assai presenti nella vita della città di Verona, come attestano i documenti raccolti in Le carte del capitolo, p. 98 n. 56 riga 1 (Ottolinus, 11 marzo 1172), p. 102 n. 58 riga 10 (Marchio, 26 giugno 1172), p. 131 n. 73 riga 127 (Enrichetus, 29-30 giugno 1176), p. 147 n. 81 riga 5 (Conradus, 7 gennaio 1279). 28. Cfr. Varanini, Il comune di Verona, pp. 136 nota 78, 156 nota 186: Bonaccorso ed Enrigeto (Cipolla, «Annales Veronenses antiqui», p. 73 n. 95, a. 1245); Aimerico e Albertino di Corrado (VRas, S. Domenico, perg. 27, a. 1246); Baruffaldo di Danesio (VRas, Santa Congregazione del Clero Intrinseco, reg. 13, c. 70r, 23 febbraio 1252); Riçardus e nipoti (VRas, Comune, perg. 2366, a. 1254). 29. VRas, Ospitale civico, perg. 855b, 857.
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cattedrale nonché di Guido Della Scala, arciprete della Congregazione del Clero Intrinseco di Verona.30 La lettera fu consegnata a Giovanni Rizzuto, mansionario della cattedrale di Padova; giudice delegato del papa per la scomunica era il priore di San Giacomo di Pontecorvo, a Padova. Il medesimo Traversato, probabilmente, negli anni Settanta agì come procuratore di Pietro di Aleardino,31 abate di San Zeno dal 1252 al 1291; già un altro da Monzambano, il miles Bonaccorso, era stato procuratore del medesimo Pietro di Aleardino, allorché quest’ultimo fu introdotto nella predetta carica da Bernardo, abate di Santa Maria in Organo.32 Sarà Pietro di Aleardino, incaricato dal patriarca di Aquileia, Gregorio da Montelongo, a nominare abate di Santa Maria in Organo Olderico da Limena,33 il quale otterrà successivamente la medesima carica presso l’abbazia di Santa Giustina a Padova.34 30. Hagemann, Documenti sconosciuti, p. 345 n. 15. 31. Il padre Aleardino risulta defunto prima del 1271: cfr. Il Liber feudorum, pp. XXIX nota 95, e VRas, Ospitale civico, perg. 846. 32. La sua elezione avvenne per volere dei monaci di San Zeno fuoriusciti a Mantova nel 1252 (Il Liber feudorum, pp. XXIX-XXXIII): la sua nomina fu confermata dalla bolla di Innocenzo IV, datata 7 ottobre 1252, da cui risulta che Pietro di Aleardino fosse già abate di Santa Maria di Sesto al Réghena, in territorio friulano (circa 10 Km. a nord di Portogruaro). Come abate di San Zeno, Pietro operò soprattutto nella zona sud del territorio veronese, ossia a San Pietro in Valle (già San Pietro in Monastero), Santa Maria di Gazzo, Ostiglia, nonché Mantova, dove dimorò per un certo tempo (VRas, Ospitale civico, perg. 751, 752, 755, 756, 758, 767-769, 772, 773, 775, 776, 780, 783, 875. Cfr. inoltre Il Liber feudorum, p. XXXI nota 101: De Sandre Gasparini, Ezzelino e la chiesa veronese, p. 437 nota 102; VRas, Ospitale civico, perg. 772, 13 agosto 1255; perg. 776, 15 agosto 1255. Cfr. ancora Il Liber feudorum, p. XXXVIII nota 132: Documenti per la storia delle relazioni diplomatiche, p. 147, ovvero MNas, Archivio Gonzaga, busta X, 12 febbraio 1273 - tra i testimoni è Traversato del fu Marchesius da Monzambano -; VRas, Ospitale civico, perg. 855b, del 4 febbraio 1275). 33. Cfr. infra. 34. VRas, S. Maria in Organo, perg. 574-576, a. 1255. Questa digressione su Pietro di Aleardino, oltre ad istituire un collegamento tra i Monzambano e l’abbazia di Santa Giustina, ha la funzione di mettere a fuoco alcune notizie relative a tale personaggio: a Pietro, nel passato, è stata attribuita una stretta parentela con i Della Scala, ma più recentemente l’ipotesi è stata messa fortemente in dubbio (Varanini, La Valpolicella, pp. 170-171; Varanini, La chiesa veronese, p. 33 e nota 58; Il Liber feudorum, p. XXIX nota 95). Nel contesto che ho cercato di delineare sommariamente, le ipotetiche origini di Pietro di Aleardino sembrano compatibili con la storia della famiglia da Monzambano: il nome del padre, la scelta relativa ai suoi procuratori (fu assistito dai Monzambano nel 1252 - Bonaccorso: cfr. Il Liber feudorum, p. XXX – e nel 1275 – Entraversato: cfr. ibidem, p. XXXVIII, nota 132; VRas, Ospitale civico, perg. 855b, 4 febbraio 1275; perg. 857, 28 marzo 1275), le circostanze
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Anche negli atti in cui agisce il canonico veronese Aleardino sono riscontrabili manifesti collegamenti con Santa Maria in Organo.35 Il 4 maggio 1252, papa Innocenzo IV gli affida il compito di risolvere una questione relativa ai diritti di decima tra l’abate di Santa Maria in Organo e alcuni laici mantovani: analoghe deleghe gli sono commesse il 21 giugno 1253, e nei giorni 11 e 12 novembre 1255.36 All’epoca, quando anche Verona era oppressa dal prepotere di Ezzelino da Romano, Aleardino si trovava a Mantova nella condizione di fuoriuscito: nonostante ciò tali documenti, che lo vedono agire a favore del clero di Verona, gli conferiscono un ruolo d’un certo rilievo nell’amministrazione della diocesi. Il 23 dicembre 1259 l’arcidiacono Aleardino, in qualità di canonico e arciprete, aveva prestato giuramento di fedeltà al proprio mandato dinanzi al capitolo della cattedrale veronese. Qualche settimana dopo (bolla di Alessandro IV del 15 gennaio 1260) fu eletto vescovo di Verona Manfredo Roberti, canonico di Padova, il quale, probabilmente, non riuscì nemmeno a mettere piede a Verona: la morte di Ezzelino aveva scatenato infatti la lotta politica e militare per il possesso della città, cui aspiravano sia Manfredi, figlio di Federico II, sia i Della Scala. Sorte simile pare sia toccata al suo successore Aleardino,37 con l’aggravante di essere stato eletto vescovo in concorrenza con Guido Della Scala, «rettore della chiesa di San Tomio ed arciprete della Congregazione del clero intrinseco» di Verona, «eletto per volontà di Mastino [...], e dei canonici» nel 1268.38 Non è dato di sapere quale dei due fosse il vescovo politiche che lo vedono spesso amministrare l’abbazia di San Zeno dal territorio confinante con Mantova o da Mantova stessa, sia durante la dominazione ezzeliniana, sia dopo, fanno notare le affinità tra l’abate Pietro di Aleardino e l’arciprete Aleardino da Monzambano. 35. VRas, S. Maria in Organo, perg. nn. 577, 565, 577, 578 (Sancassani, Notizie genealogiche, p. 325). 36. Non mi sembra sia stata ancora segnalata un’eventuale documentazione d’archivio relativa ad un rapporto diretto tra l’arciprete della cattedrale di Verona Aleardino e Olderico da Limena, eletto abate di Santa Maria in Organo nel 1255, ma entrato in possesso dell’abbazia soltanto il 16 novembre 1259 (Il Liber feudorum, p. LXVIII, nota 250), e in seguito divenuto abate di Santa Giustina nel 1271 (La miniatura a Padova, pp. 64-66, scheda n. 10 a cura di Trolese e Valagussa). 37. Varanini, La chiesa veronese, p. 141 nota 16: la documentazione relativa alla lite di Aleardino col clero veronese, in difesa della propria posizione di episcopus electus, si trova in VRac, perg. II.24.2r-3r, e si riferisce agli anni 1267 (1 dicembre) e 1268 (16 e 27 aprile, 25 maggio, 4 giugno). 38. Pighi, Cenni, p. 115. Dai documenti d’archivio Guido risulta figlio di Jacopino
La musica dell’ufficio liturgico padovano per santa Giustina
311
legittimo: tuttavia si può essere portati a credere che l’opposizione nei confronti di Aleardino, costretto a rifugiarsi forse in qualche suo possedimento fuori Verona,39 e poi a Mantova,40 non fosse ben vista dalla Sede apostolica, giacché il capitolo veronese fu assolto dalle censure del legato pontificio soltanto dopo aver pagato ad Aleardino un risarcimento in denaro. Un Aleardino, canonico padovano, è titolato magister decretalium negli anni 1256, 1264 (15 settembre) e 1267 (27 luglio e 27 ottobre):41 è assai Della Scala, e quindi è fratello di Mastino (Sancassani, Notizie genealogiche, p. 324): fu chierico della chiesa di San Tomio dal 1248 al 1267 (VRas, S. Maria della Scala, chiesa, perg. nn. 15, 16, 20, 23, 24), nonché arciprete della Santa Congregazione del Clero Intrinseco di Verona dal 1263 al 1273 (VRas, Santa Congregazione del Clero Intrinseco, reg. n. 13, cc. 17r [2 gennaio 1270]; 19r [14 giugno 1270]; 20v [12 ottobre 1270]; 47r [5 giugno 1273]; 48v [28 luglio 1273]; 53r, 60v [16 marzo 1262]; 54v [3 giugno 1273]; 133r [15 gennaio 1272]; reg. n. 15, regesti 3, 10 [8 ottobre 1266]; regesti, cc. 5v, 12v [29 gennaio 1267]; S. Maria della Scala, chiesa, perg. n. 16; SS. Nazario e Celso, atti trasferiti da Venezia, b.6, C.I, perg. n. 15). Dal 1265 fu anche canonico del capitolo della cattedrale, fino all’elezione a vescovo di Verona nel 1268 (Hagemann, Documenti sconosciuti, pp. 347-348). 39. Pighi, Cenni, p. 115, sostiene che Aleardino possedeva una castello a «Modio», ma la veridicità di tale asserzione è ancora da dimostrare: in ogni caso, il Pighi si riferisce probabilmente a Moggio (ora Moggio Udinese), dove sorgeva l’importante abbazia benedettina di San Gallo. Annotazioni trecentesche a margine del calendario di Ud 92 (in realtà costituito da due differenti calendari, entrambi mutili, che si completano a vicenda; l’ordine della successione dei mesi, inoltre, è talora scompaginato) fanno riferimento al plebanus della chiesa di Santa Maria «de Monte Utinorum», ovvero al plebanus di Santa Maria «de Castro Utinorum»: forse il codice ha seguito il suo presunto proprietario nei suoi possedimenti friulani? È da sottolineare che, in Ud 92, ad Aleardino è attribuito soltanto il titolo di arciprete di Verona. 40. Biancolini, Notizie storiche, IV, p. 579. Aleardino si trovava a Mantova ancora il 29 gennaio 1270 (rescritto a favore degli Agostiniani di Santa Eufemia, in cui si firma «Episcopus electus»: Pighi, Cenni storici, II, p. 115). 41. Gloria, Monumenti, n. 476, pp. 388-389. Negli anni successivi ritroviamo a Padova, tra i forestieri, altri probabili membri di questa famiglia, presumibilmente legati all’Università: nel 1284 il medico Bonaccorso del fu Bernerio di Verona; nel 1291 il veronese Aleardino del fu Bonaccorso da Monzambano, forse studente dell’Università (Gloria, Monumenti, n. 524 p. 422; n. 530 pp. 426-427). Quest’ultimo lo si deve probabilmente identificare con il chierico Aleardino di Bonaccorso da Monzambano, «che si lega nella seconda metà del Duecento al giovane e prestigioso Altegrado» di Crosna da Lendinara, in seguito vescovo di Vicenza nonché professore dell’Università di Padova (Varanini, La chiesa veronese, pp. 28 nota 43, 143 nota 21): si osservi che la madre dell’Aleardino arciprete di Verona portava il curioso nome di Gemolina, e che i da Lendinara - anch’essi banditi da Verona al pari dei da Monzambano - possedevano il castello di Cinto, in territorio padovano, dove sorge il monte Gemola, nei colli Euganei. Sia l’arciprete Aleardino da Monzambano sia Altegrado di Crosna da Lendinara, infine, in momenti successivi, vantarono diritti sui possedimenti di Cinto (Varanini, La chiesa veronese, pp. 140-143). Se l’ipotesi di una
312
Anna Vildera
verosimile che si tratti del nostro arciprete di Verona Aleardino, appartenente alla famiglia guelfa dei da Monzambano, come lo identifica la nota obituaria di Ud 92.42 Un titolo universitario in materia di giurisprudenza è infatti coerente con il suo ruolo istituzionale di arciprete del capitolo veronese (dal 1259), che lo colloca in una posizione assai prossima a quella di Olderico da Limena, abate di Santa Maria in Organo dal 1255 e residente a Verona proprio negli anni 1259-1260.43 In tale periodo, forse, può essersi instaurato o approfondito il rapporto tra l’abate e l’arciprete, già giudice, per delega di Innocenzo IV, nelle cause in cui Santa Maria in Organo si era trovata a difendere i propri diritti, e risolte a favore dell’abbazia.44 Risulta quindi plausibile che questa possa essere la direzione in cui collocare la prima destinazione del Breviario di Zagabria: non una chiesa o un monastero, ma un altolocato committente, o destinatario di un dono, sulla cui figura sembrano intrecciarsi fittamente i legami tra la cattedrale di Padova, la cattedrale di Verona e l’abbazia di Santa Giustina. 2. Tabella riassuntiva del formulario dell’Ufficio di santa Giustina e trascrizione della musica secondo la lezione di Zag 7245 Si fa precedere la tabella riassuntiva da alcune indicazioni. Soltanto per i testi delle letture e delle orazioni è stata effettuata una trascrizione parentela tra i Monzambano e i Lendinara è esatta, allora la lezione corretta del nome del fratello di Aleardino in Ud 92 è, probabilmente, Crosna. 42. Secondo Pighi, Cenni, p. 115, Aleardino apparteneva alla famiglia «a Capite Pontis»; il suo nome poteva anche far pensare alla famiglia degli Aleardi (Sancassani, Notizie genealogiche, p. 324: VRas, Aleardi, regesti di istrumenti, c. 1r). Le due nobili famiglie veronesi erano entrambe di parte guelfa e vassalle del monastero di Santa Maria in Organo (come anche i Della Scala, i Visconti, i Marzi di Castello): furono convocate da Olderico da Limena negli anni 1259-1260, intenzionato a ripristinare l’assetto politico precedente alla dominazione ezzeliniana (Il Liber feudorum, p. LXVIII). A tale assemblea prese parte, probabilmente, anche l’eminente famiglia dei da Monzambano. 43. Il Liber feudorum, p. LXVIII nota 253. 44. Cfr. supra. 45. Le varianti musicali e testuali sono segnalate in un apparato critico che non ha trovato spazio in questa pubblicazione: si rinvia ad un prossimo saggio, che sarà compreso negli Atti della Giornata di studio sul tema I frammenti musicali padovani tra Santa Giustina e la diffusione della musica in Europa (Padova, 15 giugno 2006, Abbazia di Santa Giustina e Biblioteca Universitaria).
La musica dell’ufficio liturgico padovano per santa Giustina
313
integrale e fedele; i testi dei canti sono invece richiamati dagli incipit normalizzati. L’asterisco * alla fine di un incipit segnala che nella fonte il canto è indicato col solo incipit testuale o testuale-musicale. La dicitura “idem” indica identità di posizione del canto nelle fonti di cursus romanus rispetto a quelle di cursus monasticus; nel caso di diversità di posizione, nella colonna delle fonti di cursus romanus si rinvia alla colonna delle fonti di cursus monasticus mediante delle sigle, formate da lettere maiuscole e numeri separati da un trattino, il cui significato è chiarito dai seguenti schemi: Formulari (numeri e lettere prima del trattino) 3 = Terza
L = Lodi
V = I e II Vespri
6 = Sesta
M = Mattutino
V1 = I Vespri
9 = Nona
N+1/2/3 = I, II o III nottur- V2 = II Vespri no del Mattutino
Forme dei canti, letture e orazioni (numeri e lettere dopo il trattino) 1/2/3/4/5/6/7/8/9 = posizione del canto o della lettura all’interno del formulario (Vespri, notturno, Mattutino, Lodi) A = antifona
EvH = evangelium ad PS = salmo homiliam
AB = antifona al Benedictus
HOM = omelia
r
AC = antifona ad cantica
HY = inno
R = responsorio
AM = antifona al Magnificat
INV = invitatorio
v
CANT = cantico
LE = lectio
VER = versus di responsorio
CAP = capitolo
OR = orazione
= responsum di versiculus
= versiculus
314
Anna Vildera Ufficio di s. Giustina cursus romanus (c.r.) (Zag 72, Pd B16)
Ufficio di s. Giustina cursus monasticus (c.m.) (Pd 78; Pd 588) I e II Vespri
I Vespri
idem V-A1 Surgites prudentes virgines V-PS1 Dixit Dominus [Pd 588: V1-PS1 Laudate V-PS1 Euouae46 pueri; V2-PS1 Dixit Dominus] idem V-A2 Cursitet namque ordo virginum V-PS2 Laudate pueri [Pd 588: V1-PS2 Laudate V-PS2 Euouae Dominum omnes gentes; V2-PS2 Letatus sum] idem V-A3 Ecce sancta Iustina celestis sponsa V-PS3 Letatus [Pd 588: V1-PS3 Lauda anima V-PS3 Euouae mea; V2-PS3 Nisi Dominus] idem V-A4 Illam sequitur vero celestis exercitus V-PS4 Nisi Dominus [Pd 588: V1-PS4 Laudate V-PS4 Euouae Dominum quoniam bonum; V2-PS4 Memento Domine] idem V-A5 Huc igitur veniat fidelis turba V-PS5 Lauda Ierusalem [Pd 588: V1-PS5 Lauda V-PS5 Euouae Ierusalem; V2-PS5 ] Zag 72: V-CAP Domine, Deus meus, exaltasti super terram habitationem meam et pro morte defluenti deprecata sum [Sir 51,13]47 V-R Regnum mundi* [CAO 7524] V-HY Iesu48 coro‹na›* [AH 2,113] V-v Specie tua et pulchritudine* V1-AM O laude digna Iustina V-CANT Magnificat
idem idem
46. Euouae indica la differentia, ossia la conclusione del tono salmodico: si riferisce alle vocali delle ultime parole (seculorum. Amen) della dossologia minore (il Gloria Patri) che generalmente segue il salmo, di cui viene così a costituire gli ultimi due versetti. 47. Il testo del capitolo, rispetto alla fonte biblica, è adattato all’occasione liturgica: infatti aggiunge l’introduzione «Domine, Deus meus», e modifica il soggetto della frase successiva, in questo caso riferito alla martire Giustina («deprecata sum»), mentre Sir 51,13 reca «deprecatus sum». 48. Iesu] Ihesu Zag 72.
La musica dell’ufficio liturgico padovano per santa Giustina V-R Regnum mundi* [CAO 7524]
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Pd B16: V-R Regnum mundi. VER Eructavit cor meum [CAO 7524]
V-CAP Fratres. Qui gloriatur* V-HY Phebus astris cum omnibus / Phebe cunctis syderibus [AH 4,166] V-v Ora pro nobis beata Iustina V-r Ut digni efficiamur promissionibus Christi
Pd B16 : idem idem Zag 72 : V-OR1 Deus, qui nos beate martyris Iustine annua solemnitate49 letificas, da, quesumus, ut quam veneramur officio50 etiam pie conversationis sequamur exemplo. Per [COR 1842 (C)] Eodem die s. Marci: V-OR2 Exaudi, quesumus, Domine, preces nostras et, interveniente beato Marco confessore tuo atque pontifice, supplicationes nostras placatus intende. Per [commemorazione di s. Marco papa:51 COR 2486]
Mattutino
Mattutino
M-INV Adoremus Christum regem virginum om- idem nium. Qui eterna sanctam Iustinam. PS Venite I notturno
I notturno
N1-A1 Iustina virgo dominum Iesum Christum idem voce. idem N1-PS1 Domine Dominus noster N1-A2 In cuius sacro pectore Altithroni Filius N1-PS2 Celi enarrant
idem idem
N1-A3 Quis non ambiat virginis tante Iustine N1-PS3 Domini est terra
idem idem
49. solemnitate] sollempnitate Zag 72. 50. officio] offitio Zag 72. 51. La commemorazione di s. Marco papa figurava nei Sacramentari gregoriano e gelasiano: cfr. BS VIII, col. 700.
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Anna Vildera
N1-A4 Adiuva ancillam tuam in angustia N1-PS4 Eructavit N1-A5 Ego colo dominum Iesum Christum N1-PS5 Deus noster N1-A6 Nam lapidibus surdis et mutis N1-PS6 Magnus Dominus N1-v Diffusa est gratia*. N1-r Propterea benedi- N1-v Specie tua et pulchritudixit te Deus in* [CAO 8014] ne tua*.52 N1-r Intende prospere pro(cede)*53 [CAO 8201] M-LE1 In diebus illis beata igitur Iustina ex christianis parentibus oriunda fuit atque inter generosas feminas preclare indolis fama subnixa [Mombritius II, 40v-41v] N1-R1 Beata Iustina impio presidi. VER Qui dixit idem ego sum via M-LE2 In cuius mente sacre religionis instantia sobrium sapi(enti)e culmen, sponsam sibi dictam, Christus domicilium collocavit [Mombritius II, 40v41v] N1-R2 Lumen meum margarita pretiosa. VER Te N1-R4 del c.m. namque solum amavi (Teque solum) M-LE3 Quis non optet et ambiat sancte virginis ac ministre Christi placere iudicio,54 que superni sanguinis nobilitatem sic humilitate provexit ad gloriam, ut in celestis patrie senatu fieri mereretur electa [Mombritius II, 40v-41v] N1-R3 Congaudere dignum est tam gloriose virgi- N1-R2 del c.m. ni. VER Sanctam et beneplacitam Iustinam
52. Specie et pulchritudine tua] Specie tua Zag 72. 53. Intende prospere pro] om. Zag 72. 54. iudicio] iuditio Zag 72.
La musica dell’ufficio liturgico padovano per santa Giustina
317
N1-R4 Adest Iustina virgo sub cuius membra. VER Venite omnes Christi milites II notturno
II notturno
N2-A1 Ipsi me offero sacrificium N2-PS1 Benedixisti
N1-A4 e PS4 del c.m.
N2-A2 Hoc quod in se credentibus N2-PS2 Fundamenta
N1-A5 e PS5 del c.m.
N2-A3 Tanta eam Dominus sanctitatis N2-PS3 Cantate I
N1-A6 e PS6 del c.m.
N2-A4 Illustris potentia generosa N2-PS4 Dominus regnavit exultet N2-A5 Continuit palmam mens pudica N2-PS5 Cantate II N2-A6 Vere dignum in quo Christus habitaret N2-PS6 Dominus regnavit irascantur N2-v Specie tua et pulchritudine*. N2-r Intende N2-v Adiuvabit eam Deus v(ultu)*.55 prospere* [CAO 8201] N2-r Deus in medio eius non*56 [CAO 7934] M-LE4 Vere dignum in quo Dominus habitaret templum erat tot tantisque meritis sanctum corpus diversis margaritis ornatum, ieiuniis castigatum, orationibus semper refectum, puritate mundissimum [Mombritius II, 40v41v] N2-R1 Virgo sancta Domini gaude Iustina. VER N1-R3 del c.m. Esto virgo prudentissima M-LE5 Cuius magnitudo tante prudentie gemina resplendens lampade plus luceret, vere nomine meritoque Iustina [Mombritius II, 40v-41v] N2-R2 O quam beata et felix virgo Iustina. VER N2-R1 del c.m. Cherubim et seraphim cunctique ordines
55. Adiuvabit eam Deus v(ultu)] Adiuvabit eam Deus Zag 72. 56. Deus in medio eius non] om. Zag 72.
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Anna Vildera M-LE6 Que dum nominis sui dignitate pascitur, sic promeruit et coronam sic vivit, ut nequeat amittere quod vocatur generosa: illustris potentia generosa, illustrior religione divina, continuit palmam mens pudica [Mombritius II, 40v-41v]
N2-R3 Exsultet celum laudibus resultet terra. N2-R2 del c.m. VER De cuius solemnitate precipua N2-R4 Regnum mundi et omnem ornatum. VER Eructavit cor meum verbum bonum III notturno
III notturno
N3-AC Iustina Christo Deo dilecta N3-CANT Audite me divini fructus [Sir 39, 17-21]
N2-A1 e PS1 del c.m. N2-A2 e PS2 del c.m. (Hic qui) N2-A3 e PS3 del c.m.
N3-v Adiuvabit eam*. N3-r Deus in medio eius N3-v Elegit eam Deus*. N3-r In non commovebitur* [CAO 7934] tabernaculo*57 [CAO 8046] M-LE7 EvH In illo tempore dixit Iesus discipulis suis parabolam hanc. Simile est regnum celorum decem virginibus, que accipientes lampades suas exierunt obviam sponso et sponse. [Mt 25,1] HOM beati Augustini episcopi de eadem lectione VII Que sint decem virgines, quarum sunt quinque prudentes et quinque stulte, non facile indagari possunt [Aug., Sermo 93,1: PL XXXVIII, col. 573; Clavis 513; Verbraken p. 76] N3-R1 Virgo Christi Iustina martyr. VER Eius in- N2-R3 del c.m. tercessio nobis ad Deum obtineat
57. r In tabernaculo] om. Zag 72; Et habitare eam facit in tabernaculo suo CAO 8046.
La musica dell’ufficio liturgico padovano per santa Giustina
319
M-LE8 Verumtamen secundum ea, que continet ipsa lectio quam caritati vestre, etiam hodie volui recitare, quantum mihi Dominus intellectum donare dignatur [Aug., Sermo 93,1: PL XXXVIII, coll. 573-574; Clavis 513; Verbraken p. 76] N3-R2 Quis non optet et ambiat sancte Iustine. N3-R1 del c.m. VER Vere dignum templum M-LE9 Non mihi videtur ista parabola vel similitudo ad eas solas pertinere, que propria et excellentiori sanctitate virgines in ecclesia nominantur, quas etiam usitatiore vocabulo sanctimoniales appellare consuevimus: sed, nisi fallor, hec similitudo ad universam Ecclesiam pertinet [Aug., Sermo 93,1: PL XXXVIII, col. 574; Clavis 513; Verbraken p. 76] N3-R3 O Iustina virgo pia. VER Funde preces N3-R4 del c.m. (Signans) virgo decens N3-R4 Signavit se beata Iustina vexillo. VER Fixis in terra genibus Zag 72: Te Deum Lodi
Lodi
L-A1 Maximianus Iustinam beatissimam L-PS1 Dominus regnavit
idem
L-A2 Cui sacra virgo respondit L-PS2 Iubilate
idem
L-A3 Quid moraris cupio ad illum migrare Do- idem minum L-PS3 Deus Deus meus L-A4 Benedico te Pater domini mei Iesu Christi L-PS4 Benedicite
idem
L-A5 Gratias tibi ago Domine L-PS5 Laudate
idem
320
Anna Vildera Zag 72: L-CAP = V-CAP
L-v Diffusa est gratia* [CAO 8014]
L-v Diffusa est gratia in labiis tuis58 [CAO 8014]
L-AB Dum iuberetur sancta Iustina L-CANT Benedictus
idem idem
L-HY Iustina que Christi* [AH 4,165] L-v Ora pro nobis*
Pd B16: L-v Ora pro nobis beata Iustina. L-r Ut digni efficiamur promissionibus Christi Zag 72: 3-A Maximianus* 6-A Cui sacra virgo* 6-CAP Invocavi Dominum patrem Domini mei, ut non derelinquat me in die tribulationis mee et in tempore superborum sine adiutorio [Sir 51,14] 9-A Quid moraris* 9-CAP Laudabo nomen tuum assidue et collaudabo illud in confessione et exaudita est oratio mea [Sir 51,15]
II Vespri
II Vespri
V2-AM Hodie Iustina passa est V-CANT Magnificat
idem idem
58. in labiis tuis] om. Zag 72.
La musica dell’ufficio liturgico padovano per santa Giustina
321
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Anna Vildera
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323
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Anna Vildera 28
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La musica dell’ufficio liturgico padovano per santa Giustina
335
Responsorio 3 (II modo), Zag 72, II, c. 146r
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336
Anna Vildera
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III NOTTURNO Antifona 1 (VIII modo), Zag 72, II, c. 146r
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Ps. Cantate.
Antifona 2 (I modo), Zag 72, II, c. 146r
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La musica dell’ufficio liturgico padovano per santa Giustina
Antifona 3 (I modo), Zag 72, II, c. 146r
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Ps. Cantate.
Responsorio 1 (I modo), Zag 72, II, c. 146r-v
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338
Anna Vildera
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339
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La musica dell’ufficio liturgico padovano per santa Giustina
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LODI Antifona 1 (VII modo), Zag 72, II, c. 147r 2 3 4 ¡ ¡ ¡5 ¡ ¡ ¡ ¡ ¡
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Antifona 2 (VIII modo), Zag 72, II, c. 147r
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Anna Vildera
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Antifona 4 (VIII modo), Zag 72, II, c. 147r
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Antifona 5 (VII modo), Zag 72, II, c. 147r-v
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Antifona al Benedictus (I modo), Zag 72, II, c. 147v
¡ 1
¡¡¡ ¡ ¡¡¡ ¡¡ ¡¡ ¡¡¡ ¡ ¡
2
3
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Dum
4
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-
5
6
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7
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9
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10
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¡ ¡ ¡¡¡¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡¡ ¡¡ ¡¡ ¡¡ ¡¡ 11
12
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15
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16
17
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25
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Do - mi - num:
33
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32
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38
39
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¡¡¡¡¡¡¡ ¡¡ - tas me 45
¡¡¡¡ ¡ ¡ ¡ ¡¡ ¡ ¡ um - quam se - pa - ra - ri. 49
20
tru - ci - da - ri,
28
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18
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47
48
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¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡¡ ¡¡
55 56
57
Ps. Benedictus.
58 59
60
344
Anna Vildera
II VESPRI Antifona al Magnificat (I modo), Zag 72, II, c. 147v
¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡¡¡¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ 1
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Ho - di - e
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20
- vit ad Do - mi - num, 31
32
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ho - di - e
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34
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- dos per - fe - cto mar - ty - ri - o, 42
10
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¡ ¡ ¡¡ ¡ ¡ ¡ ¡¡ ¡ 30
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58
59 60 61 62 63 64
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E u o u a e.
¡
-
La musica dell’ufficio liturgico padovano per santa Giustina
345
CANTI DELL'UFFICIO DI S. GIUSTINA CHE APPARTENGONO ALL'UNICA FONTE PERVENUTA DI CURSUS MONASTICUS VESPRI Inno (V modo), Pd 78, cc. 41v-42v
¡
¡ ¡ ¡¡ ¡ ¡
¡ ¡ ¡
1
2
3
4
5
6
7
1. Phe - bus a - stris cum o 2. Iu - sti - na, vir - go Do 3. Pro - ve - cta in su - bli 4. Urbs Pa - ta - vi Ve - ne 5. Con - ve - xa ce - li a 6. Al - ti - thro - num nos af 7. Sit, Chri - ste, rex pi - is -
¡¡¡ ¡ 13
14
1. sy 2. per 3. ta 4. que 5. rum 6. ce 7. que
de no li flo pe ve glo
¡¡ ¡¡ 23
1. di 2. po 3. fi 4. bri 5. stu 6. ta 7. cli
24
-
bus li ma e lit gat, to
¡¡¡¡¡ 33
A -
-
¡
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ri bi ti ri ti ge ri
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¡
15
16
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¡
25
so mar per quam quam quos in
¡¡
34
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¡
¡
18
¡
9 10 11 12 ¡ ¡ ¡ ¡¡
Phe - be pro - sa per bi or - tu a - gmen que hic ti - bi
¡
19
cun - ctis pi - a na nane - cece - lonos prePa - tri-
¡ ¡ ¡ 22¡
20
21
e - ther tel - lus - que il - lu - stris co - smi ab - ie - cta hic ad Ma - xi - mi - a - no tam do - gma Chri - sti con - iun - gi se - cum cum Spi - ri - tu Pa
26
net tyr bi suf cru per sem
mni - bus, mi - ni, mi - a ti - ca di - it, fe - rat si - me,
17
bus, li a, da it, tat, a
8
¡
27
-
¡
28
¡¡¡ ¡
29
que plebs car que The - u na hec mor fert a Sub or su - i fru - i nos pi - ter - na
30
-
-
mi Fi ta Ce pre a se
-
31
-
¡
ni li li sa sti gi cu
lauac insosubsara-
¡
32
-
bus. i. a. re. tit. tat. la.
346
Anna Vildera
MATTUTINO II NOTTURNO 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 ¡ ¡¡¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡
Antifona 4 (VIII modo), Pd 78, c. 46v 1
2
Il - lu - stris *po - ten - ti - a
ge - ne - ro - sa
17 18 19 20 21 22 23 ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡
¡ ¡ ¡¡¡ ¡¡ ¡
16
re - li - gi - o - ne
su
30
-
31
i
32
di - vi - na,
33
34
di - gni - ta - te
¡¡¡ ¡
¡
24
¡
¡
42
43
44
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et
co - ro - nam
45
46
35
36
a - mit - te - re
quod
¡ ¡ ¡ ¡¡¡ ¡ ¡ 1
2
3
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14
-
mi - nis
39
pa - sci - tur
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pro - me - ru -
48
sic
vi
¡
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15
6
* pal - mam 16
17
Iu - sti - na,
40
41
49 50 51 ¡ 52¡ 53¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡
47
-
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ut
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¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡¡¡
62
vo - ca - tur.
¡ ¡ ¡ ¡¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ sa
-
28
38
Antifona 5 (VIII modo), Pd 78, cc. 46v-47r
13
27
37
55 56 57 58 59 60 61 ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡¡
-
26
que dum no
54
Con
25
¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡¡¡ ¡ ¡ ¡
¡¡ ¡ 29
il - lu - stri - or
63 64
65
66
67
Ps. Dominus regnavit exul(tet).
¡¡¡ ¡ ¡¡¡ ¡ ¡ ¡ 7
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mens
9
pu - di
10
-
11
12
ca, vir - go
20 21 22 23 24 25 ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡
18
19
que ge - mi - na lam - pa - de
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La musica dell’ufficio liturgico padovano per santa Giustina 27 28 29 30 31 ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡
¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡¡
26
- splen - dens plus
32
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¡¡ ¡¡ ¡¡ ¡ ¡ 39
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33
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38
me - ri - to quam e - o - us,
¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡
¡
43
347
44
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46
47 48 49 50
Ps. Cantate II.
Antifona 6 (VI modo), Pd 78, c. 47r
¡ ¡¡¡¡¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡¡ ¡ ¡ 1
2
3
4
5
6
di - gnum * in
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10
11
12
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¡¡¡¡¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ 13
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ka - ri - sma - ti - bus
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30
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-
3
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12
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13
14
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-
o
¡¡¡ ¡ ¡ ¡¡ ¡ ¡ ¡ ¡¡ ¡ 11
24
41
42
Ps. Dominus regnavit ‹exsultet› terra.
¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡¡¡ ¡ ¡ ¡ 2
23
a - dor - na - tum,
¡ ¡
39
Antifona ad cantica (VI modo), Pd 78, c. 49r 1
22
31
¡
38
21
¡ ¡¡ ¡ ¡
pus
¡
29
¡
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-
20
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¡¡¡ ¡ 34
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¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡¡ ¡ cor
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16
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18
19
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¡¡¡ ¡ 8
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20
21
22
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¡ ¡ ¡ ¡¡ 23
348
Anna Vildera
¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡¡ ¡ 24
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31
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¡¡¡ ¡ ¡¡¡¡¡ ¡ 37
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41
ris Do - mi - num.
33
75
76
77
78
Cant. Audite me divini fructus.
III NOTTURNO Responsorio 2 (VIII modo), Pd 78, c. 50r-v
¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ 1
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¡ ¡ ¡¡¡ ¡ ¡¡
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18
19
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mi - ni - stre
¡¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡¡ ¡¡¡ ¡ ¡¡ ¡¡ -
-
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22
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-
di
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La musica dell’ufficio liturgico padovano per santa Giustina
- ci
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¡ ¡ 32¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ 33¡ 34¡ ¡ 35 ¡ ¡
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349
31
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Anna Vildera
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Responsorio 3 (VIII modo), Pd 78, cc. 50v-51r
¡¡¡ ¡¡ 1
2
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Iu
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12 13 14 15 16 17 18 19 20 ¡¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡
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Do - mi - num,
21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 ¡ ¡ 31¡ ¡ ¡ ¡ ¡¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡ ¡
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Sigle e abbreviazioni 3- 6- 9- A AB AC AM Aug. CANT CAP CRas EvH HOM HY INV L LE M MNas N+1/2/3 OR perg. PS r R reg. s., ss. v V V1 V2 VRac VRas VER
Terza Sesta Nona antifona antifona al Benedictus antifona ad cantica antifona al Magnificat Augustinus, Aurelius cantico capitolo Cremona, Archivio di Stato evangelium ad homiliam omelia inno invitatorio Lodi lectio Mattutino Mantova, Archivio di Stato I, II o III notturno del Mattutino orazione pergamena, -e salmo responsum di versiculus responsorio registro santo/a, santi versiculus I e II Vespri I Vespri II Vespri Verona, Archivio Capitolare Verona, Archivio di Stato versus di responsorio
Sigle dei manoscritti Bo 346 Ox 370
Bologna, Biblioteca Universitaria, ms. 346, Salterio con Calendario e Innario, ca. 1270 (Pfändtner) / ca. 1285-1290 (Medica), Padova, abbazia di S. Giustina (?) Oxford, Bodleian Library, ms. Canon. Liturg. 370, Salterio con CalendarioObituario e Innario, 1266, Padova, cattedrale, scriptor Giovanni da Gaibana; passato poi alla prepositura di S. Pietro in Carnia
352 Pd 78 Pd 588
Pd B16 Pd E57 Ud 92 Zag 72
Anna Vildera Padova, Archivio di Stato, Corporazioni soppresse, S. Giustina, busta 78, Uffici propri e graduale per s. Giustina e s. Prosdocimo, sec. XV2/2, Padova, abbazia di S. Giustina Padova, Biblioteca del Seminario Vescovile, 588, Miscellanea storica e liturgica, secc. XVIII, XIX, cc. 7r-122v: Antifonario, sec. XI ex., Padova, monastero di S. Pietro, copia settecentesca del testo effettuata da G. Brunacci Padova, Biblioteca Capitolare, B 16, Antifonario, sec. XIV in., Padova, cattedrale Padova, Biblioteca Capitolare, E 57, Liber Ordinarius, sec. XIII (ca. 12561275), Padova, Cattedrale Udine, Biblioteca Arcivescovile, ms. 92, Salterio con Calendario e Innario, sec. XIII2/2, Padova Zagreb, Metropolitanska Knižnica (Biblioteca Metropolitana), MR 72, I-II, Breviario, ca. 1270 (Valagussa), Padova
Sigle dei repertori AH BS CAO Clavis COR Mombritius PL Verbraken
Analecta Hymnica Medii Aevi, a cura di G.M. Dreves, C. Blume, H.M. Bannister, 55 voll., Frankfurt am Main 1966; Register, 3 voll., a cura di M. Lütolf, Bern-München 1978 Bibliotheca sanctorum, 15 voll., Roma 1961-2000 Corpus Antiphonalium Officii, a cura di R.-J. Hesbert, 6 voll., Roma 19631979 (Rerum ecclesiasticarum documenta. Series maior. Fontes, 7-12) Clavis patristica pseudepigraphorum Medii Aevi, I, A, a cura di I. Machielsen, Turnhout 1990 (Corpus Christianorum. Series Latina) Corpus orationum, inchoante E. Moller (†), subsequente I.M. Clément (†), totum opus perfecit B. Coppieters’t Wallant, 9 voll., Turnholti 1992-1996 B. Mombritius, Sanctuarium, seu vitae sanctorum, Hildesheim 1978 Patrologiae cursus completus, seu bibliotheca universalis omnium SS. Patrum, doctorum, scriptorumque ecclesiasticorum. Series latina, a cura di P. Migne, 221 voll., Parisiis 1844-1864 P.-P. Verbraken, Études critiques sur les Sermons authentiques de Saint Augustin, Steenbrugis 1976 (Instrumenta Patristica, XII)
Opere citate Annales Veronenses, in Monumenta Germaniae historica, inde ab anno Christi quingentesimo usque ad annum millesimum et quingentesimum [...]. Scriptorum, XIX, a cura di G.H. Pertz, Hannoverae 1866, pp. 1-18
La musica dell’ufficio liturgico padovano per santa Giustina
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Anna Vildera
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André Vauchez Conclusion
Encore un colloque sur la sainteté féminine, se diront peut-être ceux qui apercevront ce livre sans l’avoir ouvert! Réaction compréhensible si l’on tient compte de l’abondante production – de qualité inégale – que nous a valu le succès de la «Gender History» tant aux Etats-Unis qu’en Europe, et de l’intérêt porté par les historiens qui s’en réclament aux sources hagiographiques au cours des trente dernières années. Mais ceux qui craindraient de trouver dans ce volume l’écho d’un féminisme échevelé ou de problématiques stéréotypées feraient fausse route et il leur suffira de feuilleter la table des matières pour s’en convaincre; car les auteurs des diverses communications ont su éviter les pièges d’une approche abstraite et systématique d’une réalité dont nous ne saisissons que quelques aspects fugaces, et enraciner l’enquête dans un contexte historique et un cadre territorial – celui de l’Italie du Nord-Est de l’Antiquité tardive au Moyen Age, à laquelle Jean-Charles Picard a consacré son beau livre sur Le souvenir des évêques publié à Rome en 1988 – élargi dans une perspective comparatiste à l’ensemble de l’aire adriatique, avec des ouvertures sur quelques autres régions du monde méditerranéen. Tout a été dit par Andrea Tilatti sur sainte Justine et sur les sources qui nous la font connaître dans l’excellent status quaestionis qui figure en tête de ce volume et rend compte à la fois de la richesse et des apories de son dossier, ce qui me permettra de passer rapidement sur cet aspect des choses. En fait, nous ne savons rien de précis sur la sainte de Padoue avant le VIe siècle et, plus précisément, avant l’inscription où elle est qualifiée de martyre qu’Opilion, consul en 524, fit graver sur le porche de l’église qu’il avait fait construire en son honneur, sans qu’il soit possible de dire
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si celle-ci fut édifiée sur l’emplacement présumé de son tombeau ou s’il s’agit d’une création ex nihilo. Dès lors, on voit les mentions de Justine se multiplier: son effigie figure avec la couronne du martyre, à côté de celle d’autres saintes vierges, dans l’église d’Eufrasio à Parenzo (Istrie) et surtout à Saint-Apollinaire le Neuf de Ravenne, et le poète Venance Fortunat est le premier à parler de sa tombe à Padoue. Plus tard, à une époque qui ne doit pas être antérieure au Xe siècle, fut rédigée une Passion de sainte Justine, où son destin croise à plusieurs reprises celui de saint Prosdocimo, considéré comme le premier évêque de Padoue, mais cette référence n’est pas d’un grand secours pour éclairer la chronologie de la vie de la martyre puisque son auteur fait du prélat un disciple de saint Pierre qui aurait été persécuté et mis à mort sous le règne de Maximien. En l’absence d’autres informations, il est donc très difficile de dire ce qui a pu se passer avant le VIe siècle: Justine est-elle bien une martyre de Padoue, ou s’agit-il d’un avatar local d’une autre martyre du même nom, Justine d’Antioche et de Nicomédie, dont les reliques seraient parvenues au fond de l’Adriatique après 500? La question n’est pas dénuée d’intérêt, mais nous n’avons aucun élément pour y répondre dans un sens ou dans l’autre. Bornons nous donc à constater que le débat ouvert par les Bollandistes au XVIIIe siècle pour savoir si Justine avait été martyrisée sous Néron ou sous Dioclétien est sans objet, mais que son culte semble s’être rapidement diffusé, à partir du VIe siècle, en Italie septentrionale et sur les deux rives de l’Adriatique, et qu’il s’y est affirmé pendant tout le Moyen Age, au point que les Vénitiens attribuèrent à son intercession la victoire navale remportée par les chrétiens sur les Turcs à Lépante le 7 octobre 1571, jour de sa fête. Faute d’en savoir plus sur Justine elle-même, il faut se tourner vers les autres, comme l’indique le titre du colloque Giustina e le altre, c’est-à-dire vers les saintes femmes de l’Antiquité et du Haut Moyen Age. Comme l’a souligné à bon droit Sofia Boesch Gajano, orfèvre en la matière, il n’existe pas à cette époque, pour le sexe dit faible, de modèle anthropologique et hagiographique comparable à celui du «holy man» cher à Peter Brown. Les saintes et les saintes des premiers temps chrétiens sont d’abord des victimes, masculines et féminines, des persécutions, comme l’indique la date de 304 à laquelle sainte Justine aurait été mise à mort, transformées en martyres par le clergé et les fidèles qui ne tardèrent pas à les présenter comme des êtres d’exception, dotés de vertus héroïques, et à leur rendre un
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culte. En raison des souffrances qu’ils avaient endurées et qui les avaient rendus semblables au Christ, ces témoins de la foi – qu’ils s’agisse d’hommes ou de femmes, de vierges ou d’époux – avaient en effet acquis un pouvoir d’intercession auprès de Dieu, qui se traduisait par des miracles et par la virtus thaumaturgique qui émanait de leurs précieux restes. Plus que de modèles, il s’agissait d’exemples, car leur sainteté ne se présentait pas comme un programme de vie ou une doctrine spirituelle mais résultait d’un acte de foi et d’une persévérance dans l’épreuve qui leur ouvrait la voie d’une immortalité bienheureuse. Avec la fin des persécutions et le développement d’un processus de cléricalisation, le martyre ne suffira plus pour faire la sainteté et ne sera bientôt même plus indispensable. En Orient, l’accent est mis sur l’ascèse anachorétique ou monastique; en Occident, sur la construction de l’Eglise et la défense de la foi, où les évêques jouent un rôle éminent en tant qu’évangélisateurs, pasteurs, pères des pauvres et défenseurs de la cité. La nouvelle sainteté, qui fleurit entre le IVe et le VIIIe siècle, est d’abord une sainteté de fonction, où s’affirme, à côté de celle du saint prélat, la figure du saint moine “athlète du Christ”, sorte de “super-chrétien” dans la vie duquel la violence était étroitement associée au pouvoir miraculeux. De ce fait, les femmes se trouvèrent progressivement marginalisées, puisqu’elles étaient exclues du sacerdoce et de la sphère doctrinale et qu’elles n’avaient guère de pouvoir ni dans la société ni dans l’Eglise. Mais surtout, au delà des différences typologiques, la sainteté se définit moins désormais comme le prix d’une mort que comme la sanction d’une vie édifiante. Pour les femmes, la virginité – c’est-à-dire le dépassement de la sexualité et de la faiblesse considérée comme caractéristique de leur sexe – devient le nouveau critère d’exceptionnalité requis pour la naissance d’une fama sanctitatis. C’est pourquoi sainte Justine, présentée d’abord comme une martyre, le sera aussi comme une vierge, ainsi qu’en témoignent ses attributs iconographiques dans la procession des saintes de Ravenne. Mais l’historien ne saurait s’en tenir à ces critères purement ecclésiastiques qui, à eux seuls, ne permettent pas de comprendre le parcours “accidenté” de la sainteté féminine dans le Haut Moyen Age occidental. Plusieurs communications contenues dans ce volume montrent bien qu’en dernière analyse, c’est le problème du rapport au pouvoir qui a conditionné à cette époque sa reconnaissance par l’Eglise et par l’opinion publique.
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L’exception qui confirme la règle est constituée par le monde franc, où l’on assiste au VIe et VIIe siècle à une efflorescence de la sainteté féminine, en liaison avec la mise en place d’une nouvelle organisation politique et sociale: de Geneviève à Bathilde, de Radegonde à Gertrude, on voit s’affirmer le rôle des saintes femmes proches de la royauté franque qui, en tant qu’épouses ou parentes du souverain et fondatrices ou abbesses de monastères bénédictins, conférèrent un prestige sacral à une dynastie et à des lignages qui en étaient dépourvus, tout en permettant à ces derniers d’affirmer leur autorité sur un territoire donné et de maintenir vivante la mémoire de leurs ancêtres en facilitant par leurs prières l’accès de ces derniers à l’au-delà. Mais dans le royaume lombard, où l’appartenance religieuse demeura un fait d’ordre privé et où l’aristocratie fit obstacle à la sacralisation du pouvoir royal, les monastères féminins demeurèrent rares et l’on n’y connaît guère de figures de saintes femmes à cette époque, comme d’ailleurs dans la plus grande partie de l’Occident. Restait à expliquer comment, dans un contexte globalement aussi défavorable, des figures comme celles de Justine, mais aussi d’Euphémie, de Thècle ou d’autres encore ont pu continuer à jouer un rôle dans la dévotion des fidèles, qui semble d’ailleurs s’être accrue à l’époque carolingienne et ottonienne, dans la région du Haut Adriatique. A Ravenne, les processions de martyrs, hommes et femmes, se développent en parallèle, comme pour souligner la par conditio des deux sexes dans la perspective du salut; à Aquileia et à Grado, en Vénétie et en Istrie, la place des femmes dans les calendriers liturgiques et les collections hagiographiques reste faible (elles représentent 18% du total), mais on note cependant la présence permanente à travers les siècles de certaines figures féminines, comme sainte Euphémie, la martyre de Chalcédoine dont la fête était mentionnée dans le Martyrologe hiéronymien, à Grado et Trieste, sainte Thècle, martyrisée à Iconium, dont le culte est attesté à Milan et Bologne, et sainte Justine à Padoue mais aussi à Piacenza, sans que l’on sache si la Justine qui était vénérée dans la cathédrale de cette ville était celle d’Antioche ou celle de Padoue, encore que la présence à ses côtés d’un «saint Opilion» à partir du XIIe siècle, rende plus vraisemblable la seconde hypothèse. A Aquileia enfin, on voit s’affirmer, à coté du culte d’Euphémie et de Thècle, celui de Dorothée et Erasma, ces quatre femmes étant considérées comme des vierges originaires de la région qui se seraient suicidées pour ne pas être
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violées par les Huns, selon leur Passion qui ne peut être antérieure au IXe ou au Xe siècle. En fait, il doit s’agir, dans ce cas, de cultes liées à des reliques de ces saintes qui se trouvaient à Aquileia, comme on peut le déduire d’un passage du Martyrologe hiéronymien qui signale la présence de celles de sainte Euphémie en cette ville et du fait que la cathédrale de Grado était dédiée à cette dernière. A Aquileia comme à Padoue semble s’être opéré un amalgame entre les martyres vénérées localement et les figures – mythiques – des premiers évêques du lieu, saint Ermagora dans la première, saint Prosdocimo dans la seconde, auxquels les Passions de ces saintes femmes attribuent le mérite de les avoir baptisées et d’avoir joué à leur côté le rôle de directeurs spirituels. Une telle association n’est certes pas le fruit du hasard. Elle renvoie une fois encore à une question de pouvoirs, dans la mesure où, à travers ces textes tardifs et dépourvus de consistance historique, s’affirme, de la part de l’autorité épiscopale, une volonté nouvelle de contrôler la vie spirituelle et temporelle de ces cités et des campagnes environnantes. Car, autour de l’an mille, c’étaient les évêques et, dans une moindre mesure, les moines qui réglaient les relations entre la terre et le ciel, rôle qui sera dévolu ultérieurement à la papauté. Mais le succès de ces cultes et de ces légendes, plus invraisemblables les unes que les autres, n’aurait pas été possible s’il n’avait existé dans ces régions voisines de l’Adriatique une sensibilité particulière de la part des fidèles à un type de sainteté: celui de la vierge martyre, qui ne constitue pas un modèle de perfection typiquement féminin, mais la version féminine d’une conception traditionnelle associant le prestige acquis par les martyrs au prix de longues et cruelles souffrances et d’une mort sanglante à celui de la virginité, elle-même source d’un pouvoir miraculeux et thaumaturgique. Ce modèle anthropologique hérité de l’Antiquité tardive, se retrouve au Moyen Age dans d’autres parties du bassin méditerranéen, comme la Sicile avec les cultes d’Agathe, Lucie et, plus tard, Rosalie, ainsi qu’en Corse, avec sainte Giulia, ou encore dans l’Afrique chrétienne. Son succès dans l’actuelle Vénétie, illustré par le culte de sainte Justine qui a survécu à Padoue à travers les siècles, s’explique sans doute par la permanence des influences byzantines et, plus largement, par l’intensité des échanges entre les deux rives de l’Adriatique qui, avant la conquête turque, n’a jamais constitué une frontière. Il fait en tout cas de cette région une sorte de conservatoire de la sainteté chrétienne archaïque, au même titre que le
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culte des apôtres Luc et Marc dont Aquileia, Padoue et Venise affirmaient posséder les reliques. Par la suite, d’autres strates, comme le culte de saint Antoine à Padoue, viendront se superposer à ce socle archaïque, périodiquement renforcé par l’action des évêques et des moines, mais sans parvenir à l’effacer. Les contributions réunies dans le présent volume ne nous ont sans doute pas révélé le vrai visage de Justine, dont on peut craindre qu’il nous échappe à tout jamais; mais elles nous ont au moins permis de mieux comprendre les raisons pour lesquelles son culte s’est enraciné dans cette abbaye de Santa Giustina et dans cette ville de Padoue qui aujourd’hui encore maintiennent vivant son souvenir.
Indice dei nomi di persona e di luogo a cura di Francesco G.B. Trolese
Abd al Masih Yassah, 296 Abdon, martire, 275n Abitina (Abitinae), 194, 213, 215, 216 Acconcia Longo Augusta, 89n, 90n, 96n, 101 Acten Gerard, 112n, 123 Adalberto, donatore di Piacenza, 130n Adalboldo di Utrecht, 152n, 156 Adda Edvige, 353 Adelaide, imperatrice, santa, 51, 54 Adelchi, re, 166 Adone, martirologio, 48, 92, 143, 214n, 260n Adria, 137 Adriano IV, papa, 55, 139 Adriano, imperatore, 32, 232n Adriatico, mare, 65, 67, 356, 358, 359 Aelfric, monaco, 255 Africa, 20, 98, 178, 183, 194, 206, 207, 211, 213, 216, 227, 237, 359 Afrodite, divinità, 77 Agape, martire, 108, 109, 192, 193, 230, 231 Agapio, martire, 186 Agata, martire, 20, 68, 243, 245-258, 260, 261, 262, 263, 264, 305, 359 Agatone, martire, 192 Agen, 108 Agilulfo, re longobardo, 168 Aglaide, pagano di Antiochia, 146n Agnello, arcivescovo di Ravenna, 68, 97n, 101 Agnese, martire, 17, 42, 80, 207, 216, 221225, 233, 236, 237, 263 Agostino, vescovo di Ippona, santo, 176n, 190n, 195, 196, 207, 212, 218, 236, 238, 239, 305, 318, 319
Agricola di Bologna, santo, 80, 82 Agrippino, vescovo di Como, 133, 137 Aime Marco, 141n, 156 Airoldi Marina, 221n, 239 Alarico, re, 234 Alba, 151 Albano, vescovo, santo, 25 Alboino, re longobardo, 133, 163 Aldelmo di Malmesbury, 143, 156, 247n, 256n, 258, 264, 265 Aldo, vescovo di Piacenza, 147, 148 Aleardi, famiglia di Verona, 312n Alessandria d’Egitto, 45, 67n, 92, 97n, 176, 190, 199, 226, 227, 271, 272n, 273, 274n, 275n, 283 Alessandro IV, papa, 55, 310 Alessandro, martire anauniese, 108n Alessandro, martire romano, 232 Alessandro, prefetto, 276n, 282n Alessandro, vir magnificus di Sicilia, 69n Alfredo il Grande, re di Scozia, 52 Almachio Turcio, prefetto di Roma, 228 Alpi, monti, 167 Altegrado di Crosna da Lendinara, vescovo di Vicenza, 311n Altino, 106 Amanzio, martire, 233n Amasea, 90 Amat Jacqueline, 208n, 209n, 211n, 239, 241 Amato Angelo, 38n, 60 Amato, chierico di Aquileia, 120n Ambrogio, vescovo di Milano, 42, 80, 81, 82, 84, 94n, 125n, 132, 155n, 156, 216, 221, 222n, 236, 238, 239
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Indice dei nomi di persona e di luogo
Amelgauso, avvocato di San Zeno di Verona, 152n Amélineau Émile, 277n, 293 Ameling Walter, 240 Amioun, serraglio, 277n Amiso, 92 Amore Agostino, 148n, 156, 207n, 239 Ampelio, martire di Abitinae, 213 Anagni, 55 Anania, figura biblica, 216 Anastasia di Grado, 69n Anastasia, martire di Sirmio, 17, 107, 108, 109, 230, 231, 232, 233 Anastasia/Anastasio, patrizia, santa, 271, 272, 274, 276n, 287 Anastasio IV, papa, 137 Anastasio, martire di Salona, 108n Anatolia, 79n Anaunia, 108n Andenna Gianfranco, 174 Andrea, apostolo, 97n, 305 Andreose Mario, 296 Andronico, marito di Atanasia, 271, 272n, 288 Angarano Francesco Antonio, 276n, 294 Angilberga, imperatrice, 145n Anna/Eufemiano, monaca, santa, 274, 276n Ansa, regina longobarda, 166, 172 Anselmo il Peripatetico, retore milanese, 151 Anson John, 280, 294 Antemio, imperatore, 272, 277n Antimo, martire, 188 Antiochena, moglie di Sforachio, 274n Antiochia, 38, 70, 79n, 138, 142, 143, 189, 190, 207n, 272, 273n, 277n, 282, 356 Antiochia di Pisidia, 282n Antioco, eunuco, 96n Antonini, imperatori, 198 Antonino di Antiochia, santo di Piacenza, 129, 130, 132, 139, 140, 143, 144, 151n, 154 Antonino Pio, imperatore, 227, 232 Antonino-pseudo da Piacenza, 273 Antonio di Padova, santo, 16, 17, 360 Antonio, abate, santo, 43, 75 Antonio, funzionario romano, 232 Anullino, proconsole, 212, 213, 216, 217 Anversa, 22, 23, 25, 27, 147 Apamea di Siria, 132, 143, 154n Apeliano, sofista, 90, 91n
Apioni, 70 Apollinare, vescovo di Ravenna, santo, 67, 68, 98, 136 Apollinaria detta Sincletica vedi Sincletica Apollinaria/Doroteo, santa, 272, 275n, 276n, 277, 287 Apollo, divinità, 77 Aprile Renato, 221, 241 Aquileia, 15, 66, 69n, 97, 98, 99, 100, 105, 106, 107, 108, 109, 110, 113, 114n, 115, 116, 117, 118, 119, 120, 121, 122, 135, 141, 152n, 231, 358, 359, 360 Aquilio, figlio del console di Alessandria, 275n Arcadio, imperatore, 92n Arduino, vescovo di Ivrea, 151, 152 Argo (Grecia), 247n, 280 Aristofane, 199 Arles, 207n, 246n Armellini Mariano, 72 Armenia, 83 Armentario, fidanzato di Rufina, 225, 226 Armstrong Guyda, 174 Arnolfo, cronista milanese, 149, 156 Arsinoe, 70 Artemio, padre di Susanna, 275n Asia, 100, 282n Aspasio, prete, 40 Aspasio, vice prefetto di Roma, 224 Aspegren Kerstin, 285n, 294 Assendelft Marion M. van, 222n, 238, 298 Assmann Jan, 141n, 156 Asterio, clarissimus romano, 225 Asterio, vescovo di Amasea, 90, 91, 92, 93, 94, 95, 100, 101 Atanasia/Atanasio, santa, 276n, 286, 288 Atanasio, vescovo di Metone, 247n Atena, divinità, 77, 79n Augsburg, 304 Aureliano, imperatore, 181 Aurelio Vittore Sesto, 179n, 180n, 182, 200 Austria, 9, 121 Autari, re longobardo, 168 Autconda, nobile veronese, 171 Avalle d’Arco Silvio, 142n, 156 Avito, martire, 226, 227 Azaria, figura biblica, 216 Azzara Claudio, 135n, 156
Indice dei nomi di persona e di luogo
Babbi Anna Maria, 299 Babila, santo, 143 Bacchini Benedetto, 33 Bacht Hans, 103 Balderico, chierico piacentino, 151n Baldissin Molli Giovanna, 353 Baldovino di Bourgeuil, 55 Baltico, mare, 290 Baltilde (Batilde), regina, santa, 167, 358 Balzanelus o Otonelus o Guilielmus, padre di Aleardino, 307 Bamberg, 145 Bannister Henry Marriott, 265, 352 Banterle Gabriele, 239 Barbara, martire di Nicomedia, 115, 117, 118, 119, 121 Barbero Alessandro, 125n, 126n, 156 Barcellona Rossana, 269 Bardi, 134 Bardy Gustave, 201 Barnaba, santo, 305 Barnes Timothy David, 177n, 180n, 181n, 183n, 187n Barone Giulia, 47, 60, 157, 173, 240 Baronio Cesare, cardinale, 22, 29, 89n Bartolomeo da Trento, domenicano, 82, 83, 84 Bartolomeo, apostolo, 305 Basaldella Francesco, 111n, 123 Basilio II di Seleucia, pseudo, 74, 75, 76, 83n, 283 Basilla, martire, 227, 233, 275n Basin Il’ja, 292n, 294 Basset René, 277n, 294 Bassiano, santo, 274n Bastiaensen Antonius Adrianus Robertus, 60, 208n, 210n, 238, 239, 240, 298 Baviera Johannes, 201 Beda il Venerabile, santo, 48, 49, 92, 143, 256n, 260n Bekker Immanuel, 143n,160 Belayché Nichole, 86 Belgio, 22 Belino di Padova, martirologio, 31 Belisario, generale bizantino, 250n Bellinati Claudio, 301n Belluno, 111, 114, 121, 152n
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Belting Hans, 96n, 102, 103 Benasser Khalifa Abubakr, 280, 294, 298 Benedetto Biscop, santo, 49 Benedetto da Norcia, santo, 46, 58, 304 Benedetto di Aniane, santo, 46 Benedetto VIII, papa, 151, 153 Benigno, chierico di Aquileia, 120n Benvenuti Anna, 38n, 57n, 60 Berengario I, re, 13 Bergamini V., 135n, 156 Berggreen Brit, 297, 300 Bergmann Ioannes, 142n, 160 Berithos (Beirut), 274n Berlino, 112, 114, 121n, 260n, 273n Bernardo, abate di Santa Maria in Organo di Verona, 309 Bernice, martire, 190 Berselli Aldo, 159 Berta, moglie del conte Lanfranco, 152n Bertelli Carlo, 174 Bertini Ferruccio, 159 Bertocchi Pietro, 276n, 294 Bertoli Bruno, 264n, 265 Besate da, casata, 151 Bessarione, santo abate, 286 Bethfage, 70 Beth-Mari Qanun, 277 Bevegni Claudio, 158 Biagio, martire, 305 Biancolini Giovanni Battista, 311n, 353 Biasutti Guglielmo, 99n, 101, 106n, 109n, 123 Bidez Joseph, 85 Biffi Giacomo, 222n, 239 Biffi Inos, 239 Birley Anthony Richard, 74n, 84 Bisanzio, 145n, 249n, 290 Bitinia, 69, 231, 271, 273, 274 Blandina, martire, 40-41 Bloch Marc, 17, 51, 60 Blochet Edgar, 297, 298 Blume Clemens, 265, 352 Bobbio, abbazia, 145, 154n Boccanera Giacomo, 211n, 240 Bocchi Francesca, 87 Boemia, 52 Boesch Gajano Sofia, 19, 37-64, 266, 356
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Indice dei nomi di persona e di luogo
Bognetti Gian Piero, 13, 81n, 84, 133, 156, 163, 166, 173 Bolland Jean, 21, 23, 24n, 27, 251n, 252n, 254n, 258n Bollati Milvia, 353 Bologna, 19, 20, 65n, 81, 82, 84, 111, 125n, 302, 303, 304, 351, 358 Bolsena, 108 Bonamente Giorgio, 202 Bonnet Maximilian, 60, 66n, 84, 300 Boor Carl de, 103 Borgia Stefano, 111n, 123 Borleffs Jan Wilhelm Philipp, 73n, 88, 300 Børresen Kari Elisabeth, 43n, 60 Boseth Amphoraria, 211 Bosforo, 92, 248n, 274n, 278n Boskovits Miklos, 353 Boucherie Anatole, 290n, 296 Bougard François, 169n, 173 Bourdara Calliope Alk, 93, 101 Boureau Alain, 40n, 60 Brandi Maria Vittoria, 230n, 240, 276n, 294 Bratož Rajko, 98, 99n, 100n, 101, 110, 123 Bremmer Jan N., 208n Brenta, fiume, 152 Brescia, 152, 166, 169n Bresciani Bruno, 307n, 308n, 353 Bresslau Harry, 161 Bretagna, 55 Brigida di Kildare, santa, 48 Britannia, 180 Brock Sebastian P., 297 Brogiolo Gian Pietro, 86, 133n, 157, 165, 173, 174 Brossé Ch.-L., 277n, 294 Brown Peter, 43n, 60, 183n, 356 Brubaker Leslie, 173, 267 Bruce L. D., 183n, 200 Brufani Stefano, 58n, 60 Brühl Carlrichard, 157 Brulé P., 86 Brunacci Giovanni, 352 Brusa Luciana, 246n, 255n, 256, 265 Brusin Giovanni, 98n, 101 Bruxelles, 19, 22n, 23n, 24n, 25n, 26n, 27, 28n Budario, archisinagogo, 218 Budge Ernest Alfred Wallis, 277n, 300
Bue Jacob de, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 276n, 295 Burchi Pietro, 66n, 84 Burgarella Filippo, 262n, 265 Burrini Giovanni Battista, pittore, 68, 69n Bye Cornelis de, 276n Cabibbo Sara, 252n, 265 Cacitti Remo, 214n, 240 Caffiero Marina, 157, 240 Calabria, 278n, 289 Calamone, monte, 282n Calati Benedetto, 62 Calbi Alda, 267n Calcedonia, 67, 89, 90, 92, 93, 94, 95, 96n, 98, 99, 100, 109n, 358 Calcide, 94 Calderòn de la Barca Pedro, 142n Callander Murray Alexander, 174 Callegari Pio Domenico, 26 Calò Pietro, 111n, 114n, 121n Caltanisetta, 244n Calzolari Valentina, 83n, 84 Cameron Averil, 280n, 294 Cammarosano Paolo, 152n, 156 Campi Pietro Maria, 129n, 130, 136, 152n, 153n, 156 Cana, 144 Canali Luca, 63 Canart Paul, 85, 96, 101 Candiani Carlo, 87, 88, 111n, 124 Canetti Luigi, 19, 65n, 84, 125-161 Cannata Pietro, 66n, 84 Canova Mariani Giordana, 353 Canterbury, 49 Cantino Wataghin Gisella, 130, 161 Canuto, re di Danimarca, santo, 52 Canziani, santi, 8, 107 Canzianilla, martire, 16, 106, 107, 108, 109, 305 Canziano, martire, 16, 106, 305 Canzio, martire, 16, 106, 305 Capitanio Antonia, 278n Capo Lidia, 173 Cappadocia, 99n Cappelletti Giuseppe, 111n, 123 Caraffa Filippo, 232n, 240 Carandini Andrea, 203
Indice dei nomi di persona e di luogo
Cardini Franco, 159 Carello, servo longobardo, 168n Carile Antonio, 158 Carità, martire, 108 Carito, martire, 220 Caritone, martire, 220 Carlo di san Paolo, 31 Carlo III il Grosso, imperatore, 129 Carlo Magno, imperatore, 129 Carmelo, monte, 75 Carnuntum, 180 Caroli Martina, 19, 65n, 85 Carpoforo, prete romano, 229 Carrera Pietro, 244n Cartagine, 195, 207, 210, 215 Cartocci Maria Cecilia, 246n, 248n, 255n, 266 Cassia, cristiana di Tessalonica, 192 Casta, martire di Utina, 207n Castaldi Lucia, 157 Castelli Elizabeth A., 285n, 294 Castelnuovo Enrico, 156 Catalogna, 83 Catania, 20, 244n, 247n, 257, 258n, 261, 264 Caterina, martire, 305 Cattin Giulio, 111n, 113n, 123, 354 Cavacio Jacopo, 25, 28, 29, 30, 32 Cavallo Guglielmo, 160 Cecilia, martire, 227-229, 233, 234, 237, 263, 305 Celletti Maria Chiara, 66n, 85, 207n, 208n, 227n, 229n, 232n, 239, 240, 241 Cenci Cesare, 261n, 266 Cenerini Francesca, 196n, 200 Cephalitana possessio, 213 Cesarea di Cappadocia, 99n, 135n Cesarea di Mauretania, 213, 217, 237 Cesarea di Palestina, 186, 187, 188, 276n Cesaretti Paolo, 158 Cesario di Arles, 44 Cessi Roberto, 109n, 124 Chastagnol André, 182n, 200 Chelles, monastero, 167 Chiara d’Assisi, santa, 58, 60 Chiarini Gioacchino, 238, 239, 298 Chierici Gino, 166n, 173 Chiesa Paolo, 19, 69, 105-124, 143n, 144n, 157, 205n, 240
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Chione, martire, 192, 193 Chionia, martire, 108, 109, 230, 231 Christensen Torben, 177n, 200 Cicognini Iacopo, 260n Cignitti Benedetto, 225n, 240 Cilicia, 66, 69, 72, 83 Cinto Euganeo, 311n Cipolla Carlo, 308n, 353 Cipriano e Giustina, martiri di Antiochia, 137, 142, 143, 145n, 146-147, 148, 157 Cipriano, vescovo di Cartagine, martire, 42, 177n, 198n, 201, 206 Ciria, martire, 106, 109 Ciriaca, martire, 106, 137n Ciriaco, martire di Urci, 211, 213, 216, 217, 219 Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 24, 29, 30, 34, 109, 110n, 114n, 144 Cittino, martire, 207 Cividale del Friuli, 106, 107, 108, 109, 111, 112, 113, 114n, 115n, 121 Clark Anne L., 56n, 60 Classen Peter, 85 Claudia, moglie di Filippo prefetto di Alessandria, 226, 227, 275n Claudio, tribuno martire, 230 Claudiopoli, 283n Clément Iohannes Maria, 252 Clemente Alessandrino, 281, 282n, 294 Clemente Romano, papa, santo, 281, 305 Cleus Johan, 147 Clodoveo, re dei Franchi, 165 Cloke Gillian, 285n, 294 Clotario I, imperatore, 167 Clugnet Léon, 274n, 276n, 279, 290n, 293, 294, 297 Cluny, abbazia, 51, 54 Colafranceschi Caterina, 276n, 299 Collavini Simone, 171n, 173 Colomba, abate di Jona, santo, 48 Colombano abate, santo, 46, 48 Colombi Emanuela, 115, 120, 121n, 123 Colombo Giovanni, 238 Colonia, 152n Commodo, imperatore, 226, 275n Como, 133, 137
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Indice dei nomi di persona e di luogo
Comparetti Domenico, 160 Concordia, 97n Consolino Franca Ela, 43n, 44, 60, 61, 125n, 185n, 195, 196n, 199n, 201, 205n, 209n, 220, 221n, 225n, 226n, 227n, 229n, 232n, 233, 236, 240, 263n, 266 Cooper Kate, 43n, 61, 72, 240 Coppieters’t Wallant Bertrand, 352 Corbet Patrick, 51, 60, 125n, 157 Corner Flaminio, 31, 111n, 123 Corona, martire egiziana, 114, 306n Corrado II, imperatore, 151n Corrain Cleto, 278n, 295 Corsi Dinora, 85 Corsica, 359 Corsini Eugenio, 208n, 240 Costantino IV Pogonato, imperatore, 96 Costantino, cittadino romano, 153 Costantino, imperatore, 180, 181, 191, 218 Costantino, vescovo di Alba, 151 Costantino, vescovo di Tio, 89n, 96 Costantinopoli, 89n, 91, 96, 97n, 100, 147, 246n, 247n, 264, 271, 273, 274, 277n, 278, 290 Costanza Salvatore, 246n, 267 Costanzo Cloro Fl. Valerio, imperatore, 179, 180, 181, 185 Cotelier Jean Baptiste, 294, 299 Cracco Giorgio, 157, 353 Cracco Ruggini Lellia, 97n, 190n, 198n, 245n, 250n, 258n, 259n, 266 Cremascoli Giuseppe, 62 Cremona, 351 Crescenziano, martire, 137n Crimi Carmelo, 246, 252n, 260n, 266 Crisanto, martire, 229, 230 Crisogono, martire di Aquileia, 107, 230, 231 Crispina di Thagora, martire a Tebessa, 41, 175, 179, 195, 211, 212, 213, 214, 235 Crispiniano, martire, 306n Crispino, martire, 306n Cristiani Marta, 62, 126n, 157 Cristina di Bolsena, martire, 108 Cromazio di Aquileia, santo, 97n, 101, 106 Croquison Joseph, 89n, 101 Crosna o Crosa o Cosma, fratello di Aleardino, 307 Crotacario, duca di Brescia, 169n
Csenija la Beata, santa, 291 Cullhed Mats, 191n, 201 Cunegonda, imperatrice, santa, 51 Cuniberto, vescovo di Torino, 151 Cunningham Maurice Patrick, 160 Cuscito Giuseppe, 19, 32n, 35, 89-103, 105n, 109n, 110, 124, 202 Cutberto, abate di Lindisfarne, 49 D’Acunto Nicolangelo, 146n, 151n, 157 D’Antiga Renato, 278n, 295 D’Arrigo Salvatore, 249n, 252, 253n, 255n, 256, 257, 258, 266 Dagron Gilbert, 67n, 72n, 73n, 74n, 75n, 76n, 77, 78n, 81n, 283n, 300 Dalarun Jacques, 55n, 61 Dalisandos, 76n Dalvit M., 240 Damasco, 183 Damaso, papa, 206, 220, 221, 224, 234, 239, 306 Dandolo Andrea, cronista, 98, 102 Daniele Ireneo, 14, 15, 18 Daniele levita, santo, 15, 16, 23, 28, 302 Daniele, abba, 271, 272, 274 Daniele, chartophylax, 279 Daniele, figura biblica, 216 Danimarca, 52 Daria, martire, 229, 230, 233 Darija/Dosifej (Dositeo) Tjapkina, santa, 291 Dativo, martire di Abitinae, 195, 213, 215n, 219 David Massimo, 156 Davies P. S., 180n, 201 Davis Stephen J., 67n, 70, 71n, 85, 283, 295 De Capitani d’Arzago Alberto, 81n, 166n, 173 De Jong Mayke, 164, 173 De Marchi Paola Marina, 164n, 173 De Nicolò Salmazo Alberta, 354 De Rossi Giovanni Battista, 90n, 102 De Rubeis Johannes Franciscus Bernardus Maria, 99n, 102, 105n, 124 De Sandre Gasparini Giuseppina, 309n, 353 De Smedt Carlo, 214n De Ste Croix Geoffrey E.M., 177n, 179n, 185n, 201 Debidour Victor-Henry, 86
Indice dei nomi di persona e di luogo
Decio, imperatore, 176, 181, 246, 256n Degani Ernesto, 353 Dekkers Eligius, 200, 238 Delcourt Marie, 279, 295 Delehaye Hippolyte, 9, 23, 28n, 35, 39n, 61, 74n, 88, 89n, 93, 97n, 98n, 102, 103, 106, 128, 141, 142n, 148n, 158, 188n, 190n, 201, 212, 220n, 226n, 229n, 230n, 239, 240, 250, 266, 275n, 276n, 278n, 279, 288n, 295, 296, 298, 300 Delierneux Nathalie, 285n, 295 Della Scala Guido, vescovo di Verona, 309, 310, 311n Della Scala Jacopino, 310n Della Scala Mastino, signore di Verona, 308n, 310 Della Scala, famiglia, 310, 312n Della Torre Renato, 353 Demandt Alexander, 181n, 201 Depreux Philippe, 173 Derolez Albert, 62 Deroux Carl, 200 Derry, monastero, 48 Deshusses Jean, 353 Desiderio, re longobardo, 166, 172 Desmulliez Janine, 160 Desnier Jean-Luc, 182n, 201 Deubner Ludwig, 289n, 295 Deuffic Jean-Luc, 87 Di Brazzano Stefano, 113n, 124, 270 Diana, divinità, 217, 227 Diehl Ernst, 144 Diercks Gerardus Frederik, 201 Dierkens Alain, 299 Digna, matrona aquileiese, 122 Dilcher Gerhard, 155n Dinocrate, fratello di Perpetua, 209 Diocleziano Aurelio C. Valerio, imperatore, 20, 91n, 147, 175, 176, 177n, 178, 180, 181, 182, 183, 184, 199, 211, 216, 231, 246, 256n, 356 Diofido, martire d’Asia, 100 Dionigi, vescovo di Alessandria, 176 Dioscoro, padre di santa Barbara, 119 Dobschütz Ernst von, 239, 240 Dobszay László, 354 Dolbeau François, 210n, 215n, 239, 240, 260n, 266, 290n, 299
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Dombart Bernhard, 200 Domiziano, marito di Matrona/Babila, 274n Domnina, martire, 190 Donata, martire di Utina, 207, 212, 220 Donati Angela, 198n, 201, 267n Donatilla, martire a Thuburbo, 195, 213, 214, 215, 219 Dondi Dall’Orologio Francesco Scipione, 353 Donello Andrea, 35 Dopsch Alfons, 161 Doresse Jean, 281n, 296 Dorotea, di Cesarea di Cappadocia, martire, 66, 67, 69n, 99, 105, 108, 109, 110, 115, 116, 117, 119, 191, 358 Doroteo, eunuco, 272n Doroteo, martire, 177n Dörrie Heinrich, 253n, 256n, 266 Dositeo, santo, 292 vedi anche Darija Doulas, eremita di Sceti, 286 Drago, idolo pagano, 218 Drake Harold Allen, 181n, 201 Drei Giovanni, 152n, 157 Drescher James, 277n, 294 Dreves Guido Maria, 265, 352 Dronke Peter, 62, 126, 158 Du Sollier Jean Baptiste, 276n, 295 Dubois Jacques, 40n, 48n, 61, 240 Dubreucq Alain, 127n, 158 Dufour Liliane, 269 Dufourcq Albert, 220n, 240, 255n, 256, 257n, 258n, 259n, 266 Dufraigne Pierre, 200 Dulcizio, prefetto di Macedonia, 192, 193, 194 Dümmler Ernst, 269 Dunfermline, sacrario reale di Scozia, 52 Duprè Theseider Eugenio, 65n Durham, monastero, 49, 52 Durrow, monastero, 48 Duval Yves-Marie, 97n, 102 Ecgfrith, re di Northumbria, 49 Edoardo il Confessore, re di Scozia, 52 Edwin, re di Northumbria, santo, 49 Egberto, fratello di Elisabetta di Schönau, 56 Egeria vedi Eteria Egitto, 37, 43, 67n, 70, 141, 176, 188, 199, 226, 271, 272n, 274n, 275, 283 Ehwald Rudolf, 143n, 156, 265
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Indice dei nomi di persona e di luogo
Elagabalo, imperatore, 198 El-Bagawat (Egitto), 70, 80 Elena, santa, 306 Eleuteropoli, 276 Elia Speleota, santo, 289 Elia, patriarca di Grado, 98n, 110 Elia, profeta, 75 Eliodoro di Altino, vescovo, 106 Elisabetta d’Ungheria, santa, 53, 306n Elisabetta di Schönau, santa, 55, 56 Elisabetta, imperatrice russa, 291 Elisabetta, santa, 71 Eliseo, profeta, 75 Emerenziana, martire, 223n Emesa di Siria, 274n Emilia, 128, 129, 132, 135, 136, 153 Emona, 107 Ennata di Scitopoli, martire, 188 Ennodio di Pavia, santo, 90n Enrico I, imperatore, 51 Enrico II, imperatore, santo, 51, 145, 152 Enrico, monaco, 57 Epstein Julia, 294 Erasma, martire, 66, 67, 69n, 99, 105, 108, 109, 110, 115, 116, 117, 358 Erbetta Mario, 60 Ercole, divinità, 182 Erenniano, diacono, 211 Eric, re di Svezia, santo, 52 Ermagora (Ermacora), protovescovo di Aquileia, santo, 16, 67, 98, 99, 105, 107, 109, 110, 115, 116, 117, 118, 119, 120, 359 Ermenegildo, martire, 49 Ermengaldo, vescovo di Urgel, santo, 151 Ermogene, martire, 306n Este, 66n Étaix Raymond, 62, 101 Eteria, pellegrina, 77, 85, 92, 95, 102, 282n Etna, monte, 264 Eudocia Augusta, imperatrice, 142, 143, 146n, 158 Eufemia di Calcedonia, martire, 11, 17, 65, 66, 67, 68, 69, 89-103, 105, 108, 109, 110, 111n, 115, 116, 117, 118, 119, 121n, 133, 264n, 306n, 358, 359 Eufemia, martire di Piacenza, 147 Eufemiano, 273n Eufrasio, vescovo di Parenzo, 10, 356
Eufrosina la Giovane o la Nuova, santa, 278 Eufrosina/Smaragdo, 272, 276n, 277, 288, 290 Euganei, colli, 311n Eugenia di Alessandria, martire, 199, 226227, 233, 285 Eugenia, madre di Maria/Marino, 273n Eugenia/Eugenio, martire, 226, 275, 276n, 277, 283 Eugenio III, papa, 51, 55 Eugenio, martire, 137n Eugenio, padre di Maria/Marino, 273 Eulalia, martire, 42 Eulogio di Cordova, agiografo, 49 Euplo, santo, 250n Europa, 21, 52, 247n, 260, 355 Europa, divinità, 77 Eusebio di Cesarea, storico, 70, 176, 177, 178, 180n, 183n, 184n, 185, 186, 187, 188, 189, 190, 191, 192, 194, 196 Eusebio di Milano, 90n, 94n Eusebio o Eustachio, vescovo di Bologna, 82 Eustazio, monaco, 274n Eustochio della Poenitentia, 290n, 299 Eustratiades Sophronios, 276n, 282n, 295, 296 Eutichia, cristiana di Tessalonica, 192, 193 Eutropio, storico, 179n, 180n Eva, 70n, 209 Evagrio di Antiochia, 92, 95, 96, 102 Evagrio Scolastico, 74, 85 Evelpisto, martire, 220 Everardo, abate del monastero di San Savino di Piacenza, 153 Everardo, vescovo di Piacenza, 135 Evodio, martire, 231 Ezzelino da Romano, 308, 310 Fabio vessillifero, martire, 219 Fabri Girolamo, 67, 85 Falcetta Alessandro, 74n, 85 Falconi Ettore, 157 Falconilla, figlia di Trifena, 71n Faller Otto, 84 Fangarezzi Riccardo, 85 Fano, 148n Farioli Campanati Raffaella, 136n, 158 Fasola Umberto Maria, 66n, 70n, 85
Indice dei nomi di persona e di luogo
Fasoli Gina, 245n, 267 Fausta moglie di Faustino, martire, 211, 213, 220 Fausta, moglie di Pretestato, 230 Faustina, martire di Vicus Tigisi, 211, 213, 220 Faustino, martire, 211 Fedalto Giorgio, 278 Fede di Agen, martire, 108 Federico I Barbarossa, imperatore, 55, 56 Federico II, imperatore, 310 Federico, arcivescovo di Ravenna, 152 Fëdorovic Andrej, 291 Felice scolastico di Napoli, 69n Felice, martire aquileiese, 109 Felice, martire di Abitinae, 213 Felice, martire romano, 232 Felici Sergio, 63 Felicita, martire, 17, 40, 107, 126, 206, 208, 210, 235, 284 Felicita, santa di Padova, 15, 27 Felicita, vedova romana, martire, 232, 233 Feller Laurent, 173 Feltre, 114 Fernandez Marcos Natalio, 289n, 296 Ferrari Aldo, 291n, 296 Ferrari, agiografo, 31 Ferraro Vettore Paola, 353 Ferrua Antonio, 98n, 101, 102, 221n, 240 Festugière André Jean, 72, 85, 289n, 296 Février Paul-Albert, 232n, 240 Fidenzio, martire, 306 Filippa, cristiana di Tessalonica, 192 Filippi Filippo (Veneto), benedettino, 26 Filippo, martire romano, 232 Filippo, padre di Eugenia, prefetto e poi vescovo di Alessandria, 226, 227, 233, 275n Filofrone padre di sant’Eufemia, senatore, 90 Filoramo Giovanni, 39n, 61, 75n, 85 Fiorito Agostino, 252n Firenze, 24 Firmiliano, governatore di Palestina, 187, 188 Firmo, 218 Fischer Bonifatius, 353 Fischer Klaus-Dietrich, 260n, 266 Flaminia, 128n Flammeo, gladiatore, 217, 218
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Flodoardo di Reims, storico, 50, 143, 158 Floriano, martire di Lorch, 8, 107, 108n Floro, martirologio, 48, 92, 260n Flusin Bernard, 299 Folz Robert, 51n, 52n, 60, 61 Fontanini Giusto, 33 Fontevrault, monastero, 55 Foreville Raymonde, 55n, 61 Fortunato, martire aquileiese, 107, 109, 120n Fortunaziano, fratello di Vittoria, 215n, 216 Fosca, martire, 108 Fozio, patriarca di Costantinopoli, 73, 74, 76, 85, 142n, 143, 146n, 160 Fraipont Iohannes, 200 Francesco d’Assisi, santo, 17, 58 Franchi de’ Cavalieri Pio, 41n, 61, 201, 220n, 223, 240, 250n, 267 Francia, 23, 51 Francigena, via, 135 Fraschetti Augusto, 102 Fredegario-pseudo, 169, 173 Frend William Hugh Clifford, 177n, 201 Frescanovella Aleardino da, 307n, 308n Frescanovella Balzanello da, 307n, 308n Frescanovella da, famiglia veronese, 307n, 308n Freyburger Gérard, 86 Frigia, 189, 197n Friuli, 8, 114 Fros Henryk, 238, 265, 293 Frugoni Chiara, 58n, 61 Fruttuaria, abbazia, 151, 152 Fulgenzio, vescovo di Ecija, 49 Fumagalli Beonio Brocchieri Mariateresa, 158 Fumagalli Stefano, 142n, 157, 158 Fumagalli Vito, 160 Funk Franz Xaver, 294 Fusconi Gian Michele, 216n, 276n, 296 Gabii in Sabina, 233n Gabriele, arcangelo, 71 Gaetani Ottavio, 244n, 251n, 252, 266 Gaiffier Baudouin de, 216n, 239, 241 Gaina, comandante goto, 92n Galerio C. Massimiano, imperatore, 117, 177n, 179, 180, 181, 183, 184, 186 Galesino Pietro, martirologio, 31
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Indice dei nomi di persona e di luogo
Galetti Paola, 157 Galinié Henri, 62 Galletier Édouard, 202 Gallia, 44, 45, 98, 218, 230n Gallieno, imperatore, 176, 181, 225, 227, 275n Gallo, fiume, 147 Galloni Antonio, 111n Gangre, concilio, 283n, 284, 285 Garana Capodieci Ottavio, 247n, 267 Garcia Villada Zacarias, 83n, 85 Gärtner Bertil, 281n, 296 Gasparri Stefano, 163n, 165n, 166n, 173 Gauslino, vescovo di Padova, 33 Gauthier Nancy, 62 Gaza, 187, 188 Gebhardt Oskar von, 66n, 87 Geiserico, re dei vandali, 229 Gembloux, 260n Geminiano, prete triestino, 110 Gemola, colle, 311n Gemolina, madre di Aleardino arciprete di Verona, 307, 311n Generosa, martire, 207 Genesio, martire, 207 Gennaro, catecumeno, 211 Genova, 135, 141 Genoveffa, martire, 358 Geraldo di Aurillac, santo, 54 Geremia, profeta, 306n Geria vedi Ciria, martire Germania, 23, 55, 152 Germano, santo, 306 Gertrude, figlia di Pipino di Landen, santa, 167, 358 Gerusalemme, 92n, 142, 272, 273n, 274n, 286n Gesù Cristo, 16, 39, 40, 41, 44n, 91n, 105, 134, 209, 214n, 216, 217, 219n, 222, 224, 225, 227, 231, 261, 263, 275n, 280n, 281n, 283n, 284, 285, 291, 314, 315, 316, 317, 318, 319, 320, 323, 325, 326, 328, 330, 331, 332, 333, 334, 336, 338, 342, 343, 345, 347, 348, 349, 357 Getulio, marito di Sinforosa, martire, 233n Gezo, vescovo di Torino, 151 Giacinto, martire, 226, 275n Giacomo II, re di Catalogna, 83
Giacomo, apostolo, 305 Giacomo, diacono, 290 Giacomo, monaco profeta, 79n Giacomo, nipote di Elia Speleota, 289 Giacomo-pseudo, 272 Giannarelli Elena, 38n, 42, 43n, 61, 62, 67n, 71, 72, 85, 205n, 221n, 227n, 241, 280, 285n, 296, 298 Gianotto Claudio, 30n, 35, 207n, 241 Giardina Andrea, 61, 92n, 102, 266 Giarrizzo Giuseppe, 244n, 267 Gibellini Cecilia, 21n, 35 Gilberto di Sempringham, santo, 55 Giona di Bobbio, agiografo, 46 Giordane, storico goto, 122n Giorgio, martire, 133, 306n Giostra Caterina, 169n, 174 Giovanni Battista, santo, 45, 75, 167, 274n, 305 Giovanni Cassiano, santo, 44 Giovanni Crisostomo, santo, 272n Giovanni da Gaibana, copista, 302n, 351 Giovanni e Paolo, martiri, 305 Giovanni Evangelista, apostolo, 39, 97n, 130n, 131, 132, 133, 136, 146, 150 Giovanni Filagato, arcivescovo di Piacenza, 145, 146n, 147, 148, 149, 150, vedi anche Giovanni XVI, antipapa Giovanni Mosco, 286, 296, 299 Giovanni Stilita di Beth-Mari Qanun, 277 Giovanni XVI, antipapa, 146n, 149, 150 Giovanni XVIII, papa, 151 Giovanni, arcidiacono di Piacenza, 154n Giovanni, arcivescovo di Ravenna, 151 Giovanni, nipote del conte Regimbaldo, 152n Giovanni, vescovo di Lucca, 151 Giove (Iuppiter), divinità, 116, 182, 227 Girolamo, santo, 43, 62, 126, 198n, 234 Giron Noël, 277n, 296, 297 Giulia Soemia, madre di Elagabalo, 198 Giulia, santa, 166, 359 Giuliana, martire, 128n Giuliano di Antiochia, santo, 143 Giuliano di Padova, santo, 15, 27 Giuliano di Toledo, santo, 49 Giuliano l’Apostata, imperatore, 190 Giuliano, martire romano, 137n Giuliano, porto, 274n
Indice dei nomi di persona e di luogo
Giuliano, proconsole d’Africa, 183 Giuliano, vescovo di Piacenza, 129 Giuntella Anna Maria, 87 Giustina, martire, 137n Giustina, martire di Padova, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 21-34, 68n, 107, 108, 125, 128, 129, 133, 134, 136, 137, 138, 139, 140, 141, 145, 175, 243, 264, 301-354, 355, 356, 357, 358, 359, 360 Giustina, martire di Trieste, 11, 109n Giustina, martire romana, 10, 27, 31 Giustina, vergine e martire di Antiochia, 12, 108, 125, 129, 130, 131, 132, 134, 137, 138, 140, 141, 142, 145, 146, 147, 148, 150, 155, 356, 358 Giustiniano I, imperatore, 98, 271, 274n Giustino, martire, 137n, 206, 220 Giusto di Trieste, martire, 107 Gloria Andrea, 18, 311n, 353 Glorie François, 158 Godding Robert, 19 Goelzer Henri, 203 Goethe Johann Wolfgang von, 142n Golinelli Paolo, 53n, 62, 85, 127n, 128, 130n, 134n, 137n, 138, 139, 142n, 149, 150n, 154n, 156, 158 Goltz Andreas, 201 Gontrano, re merovingio, 45 Gonzato Ada, 108n, 123 Goraïnoff Irina, 291n, 296 Gordini Gian Domenico, 213n, 215n, 217n, 218n, 226n, 241, 276n, 296, 297 Gorgonio, martire, 177n Gori Franco, 84 Gorizia, 99, 107n, 112, 113, 114n, 121n Goullet Monique, 60 Gourevitch Danielle, 196n, 201 Grabar André, 96n, 102 Grado, 69, 98, 99, 109, 110, 358, 359 Graffin René, 293 Granata Leonardo, 35 Graz, 106, 107 Greci Roberto, 156, 160 Grégoire Henri, 96n, 102 Grégoire Réginald, 280, 297 Gregorio da Montelongo, patriarca di Aquileia, 309
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Gregorio di Tours, storico, 165, 167 Gregorio I Magno, papa, 31, 37, 46, 49, 62, 69n, 85, 128n, 132, 154n, 247n, 250n, 258n, 263 Gregorio IV, papa, 12 Gregorio V, papa, 148, 150, 153 Gregorio IX, papa, 56 Gregorio Nazianzeno, santo, 77, 142, 158 Gregorio, vescovo di Tours, 44, 45, 62 Greven, martirologio, 31 Gribomont Jean, 284n, 297, 353 Grillmeier Aloys, 103 Gruendel Roland, 201 Guastalla, 139 Guglielmo di Malmesbury, 72 Guglielmo di Volpiano, santo, 151 Gugliotta B., 136n, 158 Guidi Ignazio, 297 Guillaumont Antoine, 296, 299 Guimperto, abate di San Savino di Piacenza, 153 Gundiperga, regina longobarda, 167, 168, 169n Guyon Jean, 232n, 240 Hagemann Wolfgang, 307n, 309n, 311n, 353 Hahn Cyntia, 260n, 267 Halkin François, 85, 90, 91, 93, 94, 96n, 102, 293 Hall Stuart-George, 38n, 62 Halm Carolus, 64 Hänsel Ingrid, 302n, 353 Hansen Günther Christian, 88 Harnack Adolf von, 198n, 203 Harster Guilelmus, 266 Heiligenkreuz, monastero, 112 Heiming Odilo, 94n, 102 Heinz Andreas, 260n, 267 Hellegouarc’h Joseph, 201 Henriet Patrick, 54n, 62 Henry René, 160 Henschenius Godefridus, 23, 24, 27, 276n, 297 Henskens vedi Henschenius Hervey Susan Ashbrook, 297 Hesbert René-Jean, 352 Hexentovius Iohannes David, 252n Hilda di Northumbria, santa, 49
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Indice dei nomi di persona e di luogo
Hilhorst Anton, 238, 298 Hirschmann Vera-Elisabeth, 197n, 202 Hohenburg, monastero, 246n Horstmann Carl, 300 Huges Andrew, 303n, 353 Huschner Wolfgang, 137n, 146n, 148n, 151n, 158, 159 Hyvernat Henri, 297 Iacopo da Varazze, 94n, 95, 100, 102 Ianuaria, martire, 207 Ianuario, martire romano, 211, 232 Iconio di Cilicia, 66, 69, 70, 71, 108, 282n, 358 Ierace, martire, 220 Ierocle, 181n Ilaria/Ilarione, santa, 277 Ilario, martire aquileiese, 107, 109 Il Cairo, 277 Ildefonso di Toledo, santo, 49 Ildegarda di Bingen, santa, 55, 62 Illiria, 231 Ilprando, re longobardo, 129n Imola, 205n Ingelheim, 152n Inghilterra, 51 Innocenti, santi, 15, 24, 26 Innocenzo III, papa, 51, 55 Innocenzo IV, papa, 52, 56, 309n, 310, 312 Iogna-Prat Dominique, 54n, 60, 62, 63 Iona, monastero, 48 Ippolito, martire, 207 Ipsistio di Claudiopoli, 283n Irene, martire, 108, 109, 192, 193, 194, 230, 231 Ireneo, martire, 137n Irlanda, 48 Isauria, 66, 69, 72, 77 Isidoro di Siviglia, santo, 49 Israele, 303 Istria, 69, 136, 356, 358 Italia, 9, 11, 12, 19, 23, 29, 31, 47, 68, 81, 97n, 99, 132, 133, 136, 138, 141, 151, 152, 154, 172, 178, 245n Ivrea, 151, 152 Janin Raymond, 276n, 278n, 297 Janning Conrad, 25, 26
Japundžić Marko, 276n, 297 Jarrow, abbazia, 49 Jazykova Irina, 291n, 296 Joannou Perikles Petros, 284n, 285n Joatà, martire, 114 Josi Enrico, 221n, 227n, 241 Kalamoun, 277n Kalb Alfons, 200 Kamil Mourad, 296 Kandler Pietro, 69, 85, 111n, 124 Kannoubin, monastero, 277 Karst Josef, 201 Kataskepe, monastero, 278n Kaufungen, monastero, 51 Kehr Paul Fridolin, 161 Kells, monastero, 48 Keresztes Paul, 177n, 179n, 202 Kern Anton, 107n, 124 Kharga (Egitto), oasi, 70 Kiev, 290, 291 Kitaj, eremo ucraino, 291 Klaniczay Gabor, 53, 62 Kolb Frank, 177n, 178n, 179n, 181n, 182n, 202 König Ingemar, 202 Kortekaas Georgius Arnoldus Antonius, 238, 298 Kroum, re dei Bulgari, 274n Krüger Karl Heinrich, 169n, 173 Krüger Paul, 201 Krusch Bruno, 62, 63, 173 Kuhoff Wolfgang, 179n, 180n, 181n, 182n, 202 La Rocca Cristina, 19, 47n, 62, 163-174 Labriolle Pierre de, 282, 295 Labrousse Mireille, 202 Laiou-Thomadaki Angeliki, 280 Lamberto, imperatore, 129, 130n Lambropoulou Voula, 280n, 297 Lanata Giuliana, 40, 63, 183n, 185n, 193n, 202, 238, 298 Lancel Serge, 200 Lancia di Brolo Domenico Gaspare, 250n, 267 Lane Fox Robin, 176n, 198n, 202 Lanfranco, conte, 130n, 152n
Indice dei nomi di persona e di luogo
Lanuvio, 198 Lanza Emanuela, 353 Lanzoni Francesco, 65, 66, 69, 85, 128, 136n, 159, 220n, 241 Laourdas Basileios, 85 Lattanzio, 176, 177n, 179n, 180n, 181n, 182n, 183n, 184n, 185 Latyšev Basilius, 293, 297 Lauranson-Rosaz Christian, 54n, 63 Lauwers Michel, 62, 158 Lazzati Giuseppe, 188n, 202 Le Goff Jacques, 279 Le Jan Régine, 170, 171n, 173, 174 Leandro, santo, 49 Lechner Johann, 161 Leclercq Henri, 68n, 85, 90n, 102 Lemarié Joseph, 101 Lenain de Tillemont Sébastien, 29, 90, 91, 102 Lendinara da, famiglia nobile, 311, 312n Leonardi Claudio, 44n, 56n, 62, 63, 126n, 161, 238 Leonardo, santo, 306n Leone I, imperatore, 274n Leone I, papa, 96n Leone VI il Sapiente, imperatore, 278n Leone, vescovo di Vercelli, 151 Lepanto, battaglia, 13, 21, 31, 356 Lesbo, 289n Lévy C., 299 Lewis Agnes Smith, 296, 298 Libano, 273 Liberiano, martire, 220 Licht Tino, 260n, 267 Licia, 282n, 283 Liguria, 135 Lilienfeld, monastero, 112 Limena, 304, 309, 310n Lindisfarne, abbazia, 49 Lione, 40 Lipsius Richard Adelbert, 60, 66n, 71n, 72n, 73n, 74n, 84, 300 Liutprando, re longobardo, 166, 167 Lo Iacono R., 136n, 159 Lomanto Valeria, 211n, 241 Londra, 112, 114, 121n Lorch, 108n Lorenzo, martire, 207, 305
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Lotario, re, 129 Lovato Antonio, 354 Love Rosalinde Claire, 52n, 63 Luca, evangelista, 15, 16, 24, 26, 28, 33, 34, 97n, 305, 360 Lucca, 151, 171 Lucchesi Giovanni, 68n, 86, 90n, 91n, 94, 102, 210n, 211n, 241 Lucia, martire, 20, 243, 245, 246, 247, 248, 250, 251, 252, 254, 259, 260n, 261, 262, 263, 264, 305, 359 Luciano, vescovo di Cartagine, 211 Lucio, martire, 210 Lucio, prefetto dell’Illirico, 231, 232 Ludovico II, imperatore, 13, 145n Lunigiana, 135 Luongo Gennaro, 61, 270 Lussemburgo, 27 Lusuardi Siena Silvia, 86, 169n, 174 Lütolf Max, 352 Mac Lean Simon, 170n, 174 Macario, santo, 272, 277n Maccabei, santi sette fratelli, 143, 232, 233n Macedonia, 192 Machielsen Iohannes, 352 Macra, martire, 50 Magistretti Marco, 85 Magnani Stefano, 20, 175-203 Magnano Pasquale, 243n, 267 Magno, vescovo, santo, 31 Maier Jean-Louis, 211n, 214n, 215n, 239 Mainardo, donatore di Piacenza, 130n Maiolo, abate di Cluny, santo, 54, 306n Maisano Riccardo, 296 Malaguti Giulio, 88 Malcom III, re di Scozia, 52 Mallardo Domenico, 89n, 102 Malmesbury, 72, 143, 247n Mammario, martire, 211, 213, 220 Manaresi Cesare, 160 Manfredi, re, 310 Manfredi, vescovo di Verona, 308 Manfredo Roberti, vescovo eletto di Verona, 310 Manganaro Giacomo, 254n, 267 Maniace Giorgio, 248n Mantova, 307, 309n, 310, 311
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Indice dei nomi di persona e di luogo
Mar Morto, 187 Marano, castello, 308n Maraval Pierre, 77n, 85, 143n, 159 Marcellina, sorella di sant’Ambrogio, 81n, 155n Marcello, centurione, martire, 183 Marciana di Cesarea, martire, 213, 217, 218, 219, 236, 237 Marciano, persecutore, 117 Marco, evangelista, 16, 105, 120n, 360 Marco, papa, 306n, 315 Marcone Arnaldo, 123, 182n, 202 Mareotide, 70n Margarucci Italiani Bianca Maria, 207n, 241 Margherita di Scozia, santa, 52 Maria di Oignies, santa, 58 Maria Egiziaca, santa, 289n Maria Maddalena, santa, 37 Maria Vergine, 13, 38, 56, 70n, 71, 80, 116, 120, 131, 140, 263, 288 Maria, figura evangelica, 281n Maria/Marino, monaca santa, 273, 276n, 277, 287, 290 Marina di Scanio, santa, 278, 279 Marina, martire di Antiochia, 108, 277, 278, 279 Marinatos Nanno, 297, 300 Marinescu Constantin, 83n, 86 Mariucci Tommaso, 238 Marta, madre di Susanna, 275n Marte, divinità, 91 Martiniano, eremita, santo, 288n Martiniano, martire, 229, 237 Martino, vescovo di Tours, santo, 44, 114, 133, 305 Martirio, martire, 108n Marzi di Castello, famiglia, 312n Marziale, martire romano, 232 Maschietto, Francesco Ludovico, 24n, 25n, 35 Massenzio, imperatore, 180, 181, 191 Massima, martire a Thuburbo, 195, 213, 214, 215, 219 Massima, martire africana, 41, 229, 237 Massima, martire di Timida Regia, 207n Massimiano M. Aurelio, imperatore, 8, 14, 16, 29, 31, 32, 117, 178n, 179, 180, 181, 182, 183, 216, 275n, 319, 320, 341, 345, 356
Massimiano, vescovo di Ravenna, 97n Massimiliano, martire, 183 Massimilla, profetessa montanista, 197 Massimino Daia, imperatore, 117, 179, 180, 186, 187, 190, 191 Massimo II, vescovo di Torino, 80n Massimo, martire romano, 228 Massimo, vescovo di Padova, 15, 25, 27, 30 Massimo-pseudo di Torino, 80n, 86 Matagne Henricus, 276n, 298 Mathyusa, monte, 308n Matilde, imperatrice, santa, 51 Matrona, martire d’Asia, 100 Matrona/Babila, santa monaca, 273, 276n Matteo, evangelista, 222n, 305 Mattia, apostolo, 15, 16, 24, 26 Mattioli Umberto, 201, 240, 285n, 298 Maura, martire, 108 Mauretanea Cesariense, 219 Mauretania, 217 Mauritania, 125n Maurizio, imperatore, 96n Mauro di Parenzo, martire, 107, 304 Mauro, santo, 304 Maurolico Francesco, 31, 244n Mazzotti Mario, 136n, 159 Mazzucco Clementina, 176n, 192n, 197n, 202, 205n, 241, 280, 298 McKitterick Rosamond, 173 Medica Massimo, 302n, 351 Meersseman Gilles Gérard, 353 Melania Iuniore, santa, 92, 234 Melania seniore, aristocratica romana, 234, 285 Melanzia, matrona alessandrina, 226, 275n Melchiade, papa, martire, 306n Melk, abbazia, 112n, 115n Mena, santo, 70, 272n Menestò Enrico, 143n, 159 Mercuri Chiara, 58n, 63, 261n, 267 Mercurio, santo, 83n Meriamlink, collina, 282n Mertens Cées, 208n, 241 Meslin Michel, 208n, 211n, 241 Messana Vincenzo, 266 Messina, 246n, 279 Metafraste vedi Simeone Metafraste Metafraste-Pseudo, 257
Indice dei nomi di persona e di luogo
Metodio di Olimpo, 71n, 73n, 86 Metodio di Siracusa, patriarca di Costantinopoli, 246n, 252n, 256n, 258 Metone (Grecia), 247n Metrone, santo, 306 Michele, abate di San Zeno di Verona, 152n Michele, arcangelo, 133, 306n Michetti Raimondo, 61 Migliarini Margherita, 81n, 86 Migliavacca Luciano, 239 Migne Jacques-Paul, 94, 203, 253n, 265, 293, 352, 354 Milani Celestina, 143n, 144n, 159 Milano, 19, 24, 33, 80n, 81, 94, 97, 98, 112, 114, 121, 137, 141, 152n, 221, 222n, 248n, 358 Milazzo Vincenza, 20, 43n, 63, 243-270 Minerva, divinità, 229 Mioni Elpidio, 252n, 266, 268 Mira di Licia, 282, 283 Mirabella Roberti Mario, 97n, 102 Misaele, figura biblica, 216 Mitchell Katheleen, 174 Mitchell Stephen, 179n, 180n, 202 Modica Vasta Marilena, 260n, 262n, 268 Moeller Edmond Eugène, 352 Moggio Udinese, 311n Mohrmann Christine, 62 Molano Giovanni, 31 Molinari Franco, 140n, 159 Molinier Auguste, 144 Møller Jensen Brian, 129n, 139, 140n, 148n, 159 Mombrizio (Mombritius) Bonino, 22, 24, 25, 29, 30, 33, 35, 202, 226n, 239, 241, 251n, 252n, 268, 316, 317, 318, 352 Momigliano Arnaldo, 244n, 268 Mommsen Theodor, 89, 102 Monemvasia, 288n Monneret de Villard Ugo, 81n, 85, 86 Montano, martire, 210 Monte Porzio Catone (Roma), 10 Monticolo Giovanni, 101, 124 Monza, 167 Monzambano Aimerico da, 308n Monzambano Albertino di Corrado da, 308n Monzambano Aleardino da, arciprete di Verona, 307, 308, 310, 311, 312
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Monzambano Aleardino del fu Bonaccorso, 311n Monzambano Bartolomeo da, 308n Monzambano Baruffaldo di Danesio da, 308n Monzambano Bonaccorso da, 307n, 308n, 309 Monzambano Corrado da, 308n Monzambano da, famiglia nobile veronese, 307, 308, 309n, 311n, 312n Monzambano Danesio da, 307n, 308n Monzambano Enrigeto da, 307n, 308n Monzambano Entraversato o Traversato da, 308, 309 Monzambano Marchio da, 308n Monzambano Ottolino da, 308n Monzambano Pecorino da, 308n Monzambano Riguolo Baruffaldo da, 307n Monzambano Rizzardo da, 308n Moreau Joseph, 202 Morello Giovanni, 61 Moreschini Claudio, 142n, 158, 242 Moretti Paola Francesca, 109n, 124, 230n, 239, 241 Morienne, 45 Morini Carla, 251n, 253n, 255, 256, 258, 268 Morini Enrico, 20, 38n, 65n, 86, 245n, 248, 249n, 268, 271-300 Mortari Luciana, 300 Mosca, 291 Mosca, martire, 106, 109 Mosé, patriarca, 75n Motta Daniela, 245, 247n, 258n, 264n, 268 Moulinier Laurence, 56n, 63 Mühlbacher Engelbert, 161 Muratori Ludovico Antonio, 33, 354 Muratori Santi, 68, 69n, 86 Musajo Somma Ivo, 139n, 159 Musolino Giovanni, 87, 88, 111n, 124 Mustella, martire di Timida Regia, 207n Musurillo Herbert, 86, 202, 250n, 265 Nag-Hammadi, monastero, 281 Naldini Mario, 241 Namur, 249 Nante Andrea, 18 Napoli, 69n, 89n, 261 Nardi Eva, 280, 287, 298 Naselli Carmelina, 260n, 268
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Indice dei nomi di persona e di luogo
Natali Pietro, agiografo, 29 Natalia, nobile veronese, 171 Natissa, fiume, 116, 119, 122 Nau François, 277n, 279, 293, 294, 298 Naumann Rudolf, 96n, 102, 103 Nazario, nobile veronese, 171 Necchi Elena, 32n, 35 Neiske Franz, 151n, 153n, 154n, 159, 174 Nelson Janet Laughland, 166n, 167n, 168 Nemesio, martire, 137n Neofito, monaco, 274n Nerone, imperatore, 32, 99, 116, 117, 118, 356 Nestori Aldo, 202 New Jersey, 280 Newman Barbara, 285n, 298 Nicea, 91, 231 Niceforo, patriarca di Costantinopoli, 91 Niceta Paflagone, 73n, 74, 86 Nicezio, prefetto, 231, 275n Nicomede, martire, 305 Nicomedia, 99n, 117, 118, 145n, 147, 176, 177, 188, 356 Niero Antonio, 87, 88, 110, 111n, 124, 278, 298 Nievski Alexander, 52 Nisibi, 79n Nitria, 227 Nivelles, monastero, 167 Nola, 94, 97, 234 Nonantola, abbazia, 145, 146n, 148, 149 Nonno, vescovo, 273n Norberg Dag, 69n, 85 Northumbria, 49 Norvegia, 52 Numeriano, re, 230, 273n Numidia, 211, 212 O’Leary de Lacy Evans, 277n, 298 Oddone, abate di Cluny, santo, 51, 54 Odilone, abate di Cluny, santo, 54 Olaf, re di Norvegia, santo, 52 Olderico da Limena, abate, 304, 309, 310n, 312 Olderico di Augsburg, santo, 304 Olimpo di Bitinia, 274 Olimpo, monte, 288n Onesiforo, martire, 282n
Onorato, chierico di Aquileia, 120n Onorio I, papa, 72 Opilio/Opilione, diacono confessore, 12, 139, 140, 358 Opilione, console romano, 9, 11, 14, 32, 33, 129n, 139, 140, 355 Opiniano, cittadino romano, 153 Orbán Arpad Peter, 60, 238, 298 Orienti Sandra, 230n, 240 Orioli Giorgio, 67n, 86 Orlandi Giovanni, 160 Oronte, fiume, 189 Orsato Sertorio, 32 Orselli Anna Maria, 19, 65-88, 127, 128, 136n, 158, 159, 283, 298 Ossirinco, 70 Ostiglia, 309n Oswald, re martire, 49 Otato, vescovo, 40 Ottato di Millevi, 191n Ottone I, imperatore, 51 Ottone II, imperatore, 145n, 150 Ottone III, imperatore, 145n, 148, 149, 150, 151, 152 Ottoni, imperatori, 137 Ousterhout Robert, 267 Oxford, Bodleian Library, 302, 303, 304, 307, 351 P’awstos Buzand, 83n, 87 Padova, 8, 9, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 19, 23, 24, 25, 26, 28, 29, 31, 32, 33, 34, 108, 129n, 136, 138, 140, 141, 301, 302, 304, 306, 307, 308, 309, 310n, 311n, 312, 314, 315, 320, 323, 345, 346, 347, 348, 350, 351, 352, 355, 356, 358, 359, 360 Padovese Luigi, 87, 298 Paesi, martire, 71 Pafnuzio, santo, 272, 288 Palazzo Eric, 62 Palermo, 252, 257, 258n, 259n, 264, 279n Palermo Giovanni, 353 Palestina, 37, 43, 91n, 97n, 185, 186, 187, 273, 275n Palladio, vescovo di Ellenopoli, 83n Palmaria, isola, 232 Pambo, santo, 277n Panfilia, 273n
Indice dei nomi di persona e di luogo
Pani Ermini Letizia, 77n, 87, 106n, 107n, 108n, 112n, 113n, 124, 130n, 161 Panzetti Piero, 129n, 140n, 159 Paola di Urci, martire, 211, 213, 216, 217, 219, 236 Paoli Emore, 84 Paolini Lorenzo, 158 Paolino di Nola, santo, 94, 95, 97n, 103, 234, 305 Paolo di Monemvasia, 288n Paolo Diacono, 122, 124, 168n, 174 Paolo, apostolo, 42, 66, 70, 72, 73, 186, 207, 226, 282, 305 Paolo, eremita, santo, 306n Paolo, patriarca di Grado, 110 Paolo, presbiter cardinalis, 136n Paolo, vescovo di Piacenza, 129n, 145n Papaconstantinou Arietta, 70n, 71n, 87 Papebroch Daniel, 23, 27 Paramelle Joseph, 67n, 73n Paredi Angelo, 94n, 97n, 103, 248n, 268 Parenzo, 9, 10, 30, 68, 100, 107, 137, 304, 356 Parigi, 20, 253, 273n, 290n Parisio da Cerea, 308n, 354 Parma, 137n, 152n Parmentier Léon, 85, 88 Paronetto Vera, 239 Pascasio, governatore romano di Siracusa, 259 Paschini Pio, 99n, 103, 109n, 110, 117, 124 Paschoud François, 203 Pasini Cesare, 245n, 248, 268 Pastorello Ester, 102 Paté Leonardo, 252n Patlagean Evelyne, 38n, 63, 249n, 268, 279, 288n, 299 Patrizio, santo, 48 Pauler Roland, 151n, 152n, 160 Pavia, 92, 152, 167, 169 Peeters Paul, 293 Pelagia la Penitente, santa, 38, 63, 280n Pelagia, martire, 68n, 80 Pelagia, martire di Utina, 207n Pelagia/Pelagio, 272, 273n, 276n, 279, 290 Pelagio di Emona, martire, 107 Pelagio, scrittore, 234 Pellegrini Paolo, 111n, 124
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Peloponneso, 278n Peone, martire, 220 Pereira Michela, 56n, 62 Peressotti Giuseppe, 109n, 113n, 124 Perge di Panfilia, 273n Peri Vittorio, 265 Périer Jean, 276n, 299 Pernout L., 86 Perpetua, martire, 17, 40, 73, 126, 206, 208209, 210, 211, 212, 222n, 235, 284 Persia, 183, 231 Pertz Georg Heinrich, 352 Petershon Jürgen, 63 Petitmengin Pierre, 63, 279, 290n, 299 Petronilla, badessa di Fontevrault, 55 Petronio, santo, 82 Petschenig Michael, 239 Pfändtner Karl-Georg, 302n, 354 Phainon, miniere della Palestina, 187 Philippart Guy, 40n, 62, 63, 149n, 160, 161, 241, 248, 249, 250, 251, 255n, 259, 263, 268, 269 Piacenza, 12, 125, 128, 129, 130, 131, 132, 133, 134, 135, 136, 137, 139, 140, 141, 143, 144, 145, 146, 147, 148, 149, 150, 152, 153, 154, 155, 273, 358 Piave Francesco Maria, 290 Piazzoni Ambrogio M., 61 Picard Jean Charles, 9, 18, 63, 81n, 87, 97n, 103, 128, 130, 131n, 153n, 155n, 160, 355 Pichlmayr Franz, 201 Pien Jean, 115n Pietri Charles, 160 Pietri Luce, 160 Pietro apostolo, santo, 14, 77, 105, 133, 134, 207, 281n, 305 Pietro Crisologo, santo, 95, 97, 103 Pietro di Aleardino, abate di San Zeno di Verona, 309, 310n Pietro di Bruis, 57 Pietro, vescovo di Argo, 247n Pighi Giovanni Battista, 310n, 311n, 312n, 354 Piloni Giorgio, 25 Pincherle Alberto, 245n, 268 Pini Giovanni, 294 Piniano, marito di Melania Iuniore, 234
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Indice dei nomi di persona e di luogo
Pio V, papa, 21, 33 Pioletti Antonio, 299 Piona, monastero, 133 Pipino, re merovingico, 167 Piredda Anna Maria, 241 Pisidia, 282n Piva Paolo, 81n, 87, 129, 130, 131, 132n, 136n, 160 Placido, santo, 304 Plutarco, 280 Po, fiume, 135 Poggiali Cristoforo, 147, 160 Pohl Walter, 163n, 164, 174 Poitiers, 167, 168 Polemio, senatore, 229 Policarpo, martire, 188n Poma Gabriella, 267n Pompeo, fidanzato di Basilla, 227, 275n Poncelet Albert, 112n, 114n, 124, 261n, 268 Poncina Massimiliano, 108n, 123 Ponzini Domenico, 129n, 130n, 133, 134, 136n, 139n, 140n, 147n, 154n, 155n, 156, 160 Porfirio, filosofo, 181n, 198, 199, 203 Porta Paola, 82n, 87 Portogruaro, 309n Postumia, via, 135 Potenziana, martire, 306 Pozzi Giovanni, 126n, 161 Pracchi Attilio, 81n, 87 Prepedigna, madre di santa Giustina di Padova, 14 Prete Sisto, 207n, 241 Pretestato, nobile romano, 230, 231 Prevedello Giustino, 12, 18, 30n, 34, 35 Pricoco Salvatore, 44n, 63, 243, 244, 245n, 248n, 249n, 252n, 261, 262, 266, 268, 269, 270 Primitivo, martire, 137n Prinzivalli Emanuela, 175n, 192n, 197n, 203 Prisca, profetessa montanista, 197 Prisciano, piacentino, 146n Priscilla, profetessa montanista, 197 Prisco l’Europeo, proconsole, 90 Probo, prefetto dell’Illirico, 231 Procopio di Cesarea, 135n, 160 Procopio, santo, 91n Prodi Paolo, 158
Prosdoce, martire, 190 Prosdocimo, santo, 14, 15, 16, 23, 24, 25, 26, 29, 30, 31, 32, 139, 301, 302, 305, 352, 356, 359 Prost Francis, 86 Proto, martire, 226, 275n Prudenzio Clemente A., poeta, 41, 42, 63, 142, 160, 221, 222, 223, 225 Publio, marito di Anastasia, 230, 231 Publio, prefetto di Roma, 232 Pucciarelli Enrico, 183n, 203 Puech Henri-Charles, 296 Qaddisha, valle santa dei maroniti, 277 Quacquarelli Antonio, 208n, 238, 241 Quartillosia, martire, 210, 211, 235 Quartiroli Anna Maria, 239 Quedlimburg, monastero, 51 Quentin Henri, 214n, 241 Quinziano, funzionario romano, 257 Quirino, martire di Sciscia, 108n Quispel Gilles, 296 Rabano Mauro, 143, 260n Racine Pierre, 154n, 155n, 157, 160 Radegonda, regina merovingica, santa, 45, 50, 167, 168, 358 Raepsaet-Charlier Marie-Thérèse , 196n, 201 Raffaele, arcangelo, 71 Ramelli Ilaria, 245n, 269 Ratchis, duca longobardo, 169 Ravenna, 9, 10, 14, 19, 30, 31, 67, 68, 97, 98, 125, 127, 128, 136, 139, 141, 151, 152, 153n, 356, 357, 358 Recchia Marcella, 238 Regimbaldo, conte, 152n Reichenau, abbazia, 144 Reims, 143 Remitz Helmut, 174 Renaud Geneviève, 240 Reusens Edmond-Henri-Joseph, 27n, 35 Revocato, marito di Felicita martire, 210 Rheinau, abbazia, 144 Riccardi Andrea, 62, 63, 238 Richard Marcel, 297 Rij Hans van, 152n Rimini, 135, 136 Rinaldo di Dassel, cancelliere imperiale, 56
Indice dei nomi di persona e di luogo
Riva Anna, 139n, 144n, 145n, 146n, 160 Rizzardi Clementina, 137n, 160 Rizzo Nervo Francesca, 245n, 246, 247n, 259n, 260n, 262n, 267, 269, 280, 299 Rizzuto Giovanni, mansionario di Padova, 309 Rjazan, famiglia nobile, 191 Roberto di Abrissel, 55 Rodoaldo, re longobardo, 168 Rodolfo il Glabro, 149, 160 Roma, 10, 14, 19, 20, 24, 27, 43, 46, 48, 50, 72, 98, 107, 111n, 112, 134, 135, 137, 147, 148, 149, 150, 151, 152, 153, 178, 180, 191, 198, 206, 207n, 220, 221, 224, 225, 226, 227, 228, 229, 230, 232, 233n, 234, 236, 237, 249, 254n, 258n, 259, 275n, 355 Romagnoli Giovan Battista, gesuita, 25, 26, 29, 33 Romana, martire di Timida Regia, 207n Romano Angelo, 296 Romano, corrispondente di Gregorio Magno, 69n Romano, martire, 137n Ronchey Silvia, 238, 298 Ropa Gian Paolo, 82n, 87, 88, 128, 145n, 160 Rordorf Willy, 80n, 87 Rorio, vescovo di Padova, 13, 33 Rosalia, santa, 359 Rosen Klaus, 178n, 179n, 203, 211n, 242 Rosenwein Barbara H., 167n, 168n, 174 Rossi (Rubeus) Girolamo, 67, 87 Rossi Simona, 139n, 161 Rossi Taibbi Giuseppe, 247n, 252, 253, 254, 267, 279, 298 Rosweyde Héribert, 21, 22, 23, 28, 32, 35, 226n, 290n, 295, 296, 297, 299 Rotari, re longobardo, 135, 168, 169 Rothschild Jean-Pierre, 299 Rotofredo, padre di Sigefredo, 151 Rouen, 94, 97 Rovigno d’Istria, 99 Rufina, martire, 225, 226, 233 Rufina, matrona romana, 147 Rufino Tirannio, 191, 203, 230, 234 Ruggero, re di Sicilia, 279
379
Ruggiero Andrea, 103 Ruggiero Fabio, 207n, 242 Rus’, 290 Russia, 290, 291, 292 Rustico Quinto Giunio, prefetto di Roma, 206, 220, 224 Rusticola, badessa di San Giovanni di Arles, 246n Rusuccuru, 217 Saavedra Angel de, 290 Sacco, corte, 13 Sade Donatien Alphonse François, marchese de, 142n, 147 Salerno Pietro, 252n Salisbury Joyce E., 43n, 63 Salome, santa, 281n Salona, 108n Salsa di Tipasa, martire, 206, 213, 218, 219, 236, 237 Saltarelli Maria, 159 Salvatore Maria Rosa, 87 San Floriano (Verona), pieve, 308n San Gallo, abbazia, 144 San Pietro in Carnia, 351 San Pietroburgo, 290, 291 Sancassani Giulio, 308n, 310n, 312n, 354 Sansterre Jean-Marie, 289n, 299 Santa Maria di Gazzo (Verona), 309n Santoro Marcella, 79n, 87 Sardella Teresa, 245n, 266, 269 Sarpedone, divinità, 77 Sartre Maurice, 189n, 203 Satana, 286 Saturiano, martire, 229 Saturnino, martire di Abitinae, 213, 219 Sauget Joseph-Marie, 276n, 299 Savigni Raffaele, 127n, 161 Savino di Canosa, santo, 167 Savino, vescovo di Piacenza, 132, 140, 152, 153, 154n, 155n Saviolo Pietro, 33, 34 Saxer Victor, 37, 41n, 63, 64, 207n, 208n, 210n, 211n, 213, 215n, 216n, 217n, 242 Scalia Giuseppe, 248n, 264n, 269 Scalon Cesare, 106n, 107n, 108n, 112n, 113n, 124, 306n, 308n, 354
380
Indice dei nomi di persona e di luogo
Scaraffia Lucietta, 61 Scaravelli Irene, 149n, 156 Scardeone Bernardino, 32 Scartozzoni Franco, 353 Sceti (Egitto), 271, 272, 274, 277n, 286 Scetiota Daniele, 279 Scheibert Peter, 85 Schein Sylvia, 44n, 64 Schiaparelli Luigi, 158, 173 Schirò Giuseppe, 250n, 265, 269 Schlange-Schöningen Heinrich, 201 Schmitt Pantel Pauline, 203 Schneider Alfons Maria, 89n, 91, 92n, 93, 103 Schrier Omert J., 92, 93, 94, 95, 103 Schumann Reinhold, 137n, 161 Schüssler Fiorenza Elisabeth, 242 Schwartz Eduard, 203 Schwartz Gerhard, 151n, 161 Scilium, 205 Sciscia, 108n Scitopoli di Palestina, 91n, 188 Scolastica, santa, 46, 58, 304 Scorza Barcellona Francesco, 20, 39n, 41n, 64, 157, 205-242, 250n, 254n, 266, 267, 269 Scozia, 45, 48, 52 Scrinari Santa Maria Valnea, 72 Sebastiano, martire, 207, 305 Seconda, martire a Thuburbo, 213, 214, 215, 216, 217, 219, 220, 236, 237 Seconda, martire di Roma, 225, 226, 233 Seconda, martire di Scili, 195, 207, 208n, 212 Seleucia di Cilicia, 42, 66, 67n, 69, 72, 74, 75, 76, 77, 79, 83, 283 Seleucia Antica, 282n Seligenstatt, 304 Selinunte, 78 Sella Pietro, 87 Selva degli Arimanni, 135 Sennen, martire, 275n Serafino di Sarov, santo, 291 Sergi Giuseppe, 156, 173 Sergio, marito di Tecla di Grado, 69n Sergio, martire , 83n226, 227, 275n Sesto al Reghena, abbazia di Santa Maria, 309n Sevasto, funzionario romano, 116, 117
Severi, imperatori, 198 Severiana, monastero, 274n Severo di Antiochia, vescovo, 274n Severo, imperatore, 179, 227 Severo, patriarca di Antiochia, 70, 71n, 73, 74, 87 Severo, santo, 97n Sforachio, marito di Antiochena, 274n Sgarlata Mariarita, 245n, 269 Sicilia, 20, 243, 244n, 245n, 246, 247n, 248n, 250n, 254, 255n, 256, 257, 258n, 261, 262, 279, 359 Sickel Theodor, 161 Sigeberto di Gembloux, 260n Sigefredo, vescovo di Piacenza, 138, 146, 149, 150, 151, 152, 153, 154n, 155 Sigismondo, santo, 306n Sigma, località di Costantinopoli, 274n Silano, martire romano, 232 Silvano, prete, 275n Silvestro, papa, 207n Simeone Metafraste, 71, 73n, 74, 75, 76, 87, 92n, 103, 252n Simonelli Prospero, 229n, 242 Simonetti Manlio, 206n, 242 Simpliciano, santo, 80 Sinai, 273, 274n, 286 Sincletica, santa, 272n Sinforosa di Tivoli, martire, 232n, 233n Sinforosa, martire romana, 137n Siracusa, 244n, 246n, 259, 261, 264 Siria, 37, 43, 132, 154n, 272n, 273, 274n Sirmio, 107, 231 Siro, santo, 306n Sisinnio, martire, 108n Sisto II, papa, martire, 132, 152, 207 Smit Jan W., 62 Smith Julia M. H., 173 Socrate, storico, 92, 103 Sofronia, martire, 191 Sofronio, vescovo di Gerusalemme, 299 Soldi Rondinini Gigliola, 161 Sollerius Iohannes Baptista, 154n Sordi Marta, 176n, 199n, 203 Sot Michel, 50n, 64, 143n, 161 Sotero, papa, 227 Sozomeno, storico, 83n, 103 Spagna, 49
Indice dei nomi di persona e di luogo
Spalato, 304n Spalla E., 169n, 174 Sparks Hedley Frederick Davis, 353 Speranza, martire, 108 Sperato, martire, 207 Stafford Pauline, 170n, 174 Stählin Otto, 294 Stantchev Krassimir, 157 Stati Uniti d’America, 355 Stefano de Osessico, giudice, 304n Stefano, protomartire, 105 Stefano, re d’Ungheria, santo, 52 Stelladoro Maria, 75n, 88, 247, 252n, 253, 269, 270, 279n, 299 Stendardi Attilio, 62 Stevanoni Cristina, 299 Stilting Johannes, 89n, 91, 92, 93, 103, 147, 154n, 276n, 299, 300 Strabone, storico, 280 Straub Kristina, 294 Surius Laurentius, 251n, 252n, 270 Susanna/Giovanni, martire, 275, 276 Svezia, 52 Tabacco Giovanni, 155n Tabbernee William, 186n, 203 Tabennesi, monastero, 272n Tabraca, monastero, 229 Tacito, storico, 164, 198n, 203 Taisija, monaca, 291n, 292n, 300 Tamiride, 282n Tangl Michael, 161 Tarasio, patriarca, santo, 274n Taro, valle, 135 Tarragona, 83 Tarso di Cilicia, 273n Tarulli Vincenzo, 238 Tassia, moglie di Ratchis, 169 Tatteo, martire, 137n Taziano, martire aquileiese, 107, 109 Tebaide, 187, 188 Tebessa, 175, 195 Tecla (Thecla), moglie di Sergio di Grado, 69n Tecla di Iconio, martire, 11, 17, 42, 65-88, 99, 100, 105, 108, 109, 110, 115, 117, 186, 216, 226, 264n, 282, 283, 358 Tecla, badessa di Santa Maria di Napoli, 69n
381
Tecla, comitissa, 69n Tecla, egiziana, santa, 71 Tecla, martire palestinese, 70, 186 Teocleia, madre di Tecla di Iconio, 282n Teoctista di Lesbo, santa, 289n Teoctisto o Teognisto, martire, 147 Teodelinda, regina longobarda, 167, 168 Teoderada, duchessa di Benevento, 167 Teodora, imperatrice, 271, 274n Teodora/Teodoro, santa, 272, 273n, 276n Teodoreto di Cirro, 79, 88 Teodorisiana, madre di sant’Eufemia, 90 Teodoro Balsamone, canonista, 285, 300 Teodoro figlio di Sergio e di Tecla di Grado, 69n Teodoro Stratelate, santo, 70 Teodoro, arcivescovo di Canterbury, 49 Teodoro, santo, 83n Teodosia di Tiro, martire, 186 Teodosia/Teodosio, santa, 287, 287 Teodosio II, imperatore, 142, 272n Teodota, martire, 230, 231, 232 Teodote, figlia di Matrona, 274n Teofane, basilissa, 150 Teofano, imperatrice, 148, 150 Teofilatto Simocatta, 95, 96n Teofilo di Cesarea, martire, 109n Termini Imerese, 278 Terrasanta, 143, 273n, 279 Tertulliano Q. S. F., apologeta, 73, 88, 282n, 300 Terzo del fu Bonafede, 16 Tessalonica, 107, 192, 230, 231 Testi Rasponi Alessandro, 101 Testini Pasquale, 130n, 161 Tevere, fiume, 226, 227 Thagora, 211 Thea, martire, 188n Theuws Frans, 174 Theveste in Numidia, 212 Thiele Walter, 353 Thomas Yan, 196n, 203 Thuburbo, 213 Thuburbus Maius, 195 Tiburzio, martire, 228 Tigris di Morienne, 45 Tilatti Andrea, 7-18, 19, 34, 35, 68n, 88, 129n, 131n, 137n, 138, 141, 161, 354, 355
382
Indice dei nomi di persona e di luogo
Till Walter Curt, 296 Tilley Maureen A., 208n, 242 Tilliette Jean-Yves, 299 Timida Regia, 207n Timoteo, martire, 207 Tio, 96 Tipasa, 206, 213, 218, 219n Tiro, 186 Tirolo, 137 Tivoli, 232n, 233n Tobler Titus, 144 Tomea Paolo, 19, 81n, 88, 107n, 108n, 124, 127n, 128, 134n, 149n, 154n, 161, 166, 174 Tommaso, apostolo, 97n Tommaso, vangelo gnostico, 281 Toniolo Federica, 353 Tononi Gaetano, 156 Tonzig Maria, 354 Torcello, 108 Torino, 151 Tosi Michele, 154n Totila, re dei Goti, 135 Tours, 305 Tramontana Salvatore, 264n, 270 Tramontin Silvio, 66n, 69, 87, 88, 111n, 124 Trapé Agostino, 238 Tremeta, 216 Trevigiana, Marca, 14 Treviso, 14, 152n Trieste, 19, 66, 69n, 99, 100, 108, 107, 109n, 113, 116, 121n, 137, 358 Trifena, madre di Falconilla, 71n Trigalet Michel, 149n, 160 Trolese Francesco Giovanni Battista, 18, 301n, 310n, 354 Tuksar Stanislav, 354 Turcan Robert, 203 Turchia, 21 Turgot, priore di Durham, 52 Tuscia, 135, 225 Tzetze Giovanni, 262n Ubaldini Renata, 100n, 103 Udine, 19, 20, 99, 112, 113, 121n, 302, 303, 304, 306, 307, 311n, 312, 352 Uglione Renato, 201
Ulpiano, pontefice massimo, 231 Uluhogian Gabriella, 87 Ungheria, 52 Urbano I, papa, santo, 228, 229 Urbano II, papa, 51 Urbano, governatore di Palestina, 186, 187 Urci, 211, 213, 216 Urgel, 151 Ursula, morte, 308n Usener Hermann, 279, 299 Usuardo, martirologio, 31, 48, 106, 143, 260n Utina, 207n Utrecht, 152n Val Ceno, 134 Valagussa Giovanni, 301n, 310n Valdesio Pietro, 57 Vale Giuseppe, 87, 109n, 120n, 124 Valente, imperatore, 83n Valentina di Cesarea, martire, 187, 188 Valentinelli Giuseppe, 113n, 124 Valentini Roberto, 85 Valenzano Giovanna, 155n, 161 Valenziano, fratello di Valenzio, 116, 117, 118, 119, 120 Valenzio, padre di Eufemia e Dorotea, 116, 117, 119 Valeria, moglie di Asterio, 225 Valeriano, imperatore, 66n, 176, 177n, 181, 198, 199, 225, 275n Valeriano, sposo di Cecilia, martire, 228, 229, 237 Valgatara, 308n Varanini Gian Maria, 307n, 308n, 310n, 311n, 353, 354 Varsi, corte, 134 Vauchez André, 20, 55n, 58n, 59n, 64, 355360 Venanzio Fortunato, santo, 9, 10, 13, 30, 44, 68n, 264, 270, 305, 353, 356 Venceslao, re di Boemia, santo, 52 Veneto, 31, 69, 114, 356, 358 Venezia, 21, 24, 25, 31, 66n, 109, 111, 113, 114, 115, 121n, 199, 264, 278, 304n, 311n, 360 Verbraken Pierre-Patrick, 318, 319 Vercelli, 80, 151, 152n
Indice dei nomi di persona e di luogo
Verino, fidanzato di Seconda, 225, 226 Verona, 137, 152n, 171, 172, 304, 305, 306, 307, 308, 309, 310, 311, 312 Verrando Giovanni N., 148n, 161 Veselovskij Aleksandr Nikolaevic, 156 Vestia, martire, 207, 208, 212, 220 Veturio, 183 Vian Paolo, 61 Vicenza, 23, 311n Vicus Tigisi, 211 Vierow Heidi, 208n, 242 Vildera Anna, 301-354 Viller la Rue (Francia), 27, 31 Visconti, famiglia, 312n Vitale di Bologna, martire, 82, 305, 306n Vitale, martire romano, 232 Vitaliano, re, 14, 16, 29, 31 Vito, martire, 305 Vittore di Vita, 41, 64, 206, 229, 237, 239 Vittore, martire, 114, 129, 130, 306 Vittore, vescovo di Piacenza, santo, 132 Vittoria, martire africana, 41, 236 Vittoria, martire di Timida Regia, 195, 207n, 213, 215, 216, 219 Vittricio di Rouen, vescovo, 94, 95, 97n Vivenzio, prefetto pannone, 230n Vogt Kari, 277n, 280, 285n, 300 Vogüé Adalbert de, 62 Volpato Antonio, 242 Volpiano, 151 Vouaux Léon, 283n, 300 Wadi Natrun, monastero di San Macario, 277 Waitz Georg, 156, 174 Wearmouth, abbazia, 49 Weber Robertus, 353 Wensinck Arent Jan, 277n, 300 Wessely Karl, 300
383
Wilson Nigel Guy, 143n, 160 Wiltheim Alexander, gesuita, 27, 31 Wood Diana, 63 Wood Ian N., 164, 165n, 167n, 174 Würzburg, 256n Xanthopoulos Niceforo Callisto Nilo, 278 Zagreb, Metropolitanska Knižnica, 301, 302, 303, 304, 306n, 312, 314, 315, 316, 317n, 318n, 319, 320, 321, 322, 323, 324, 325, 326, 327, 329, 330, 331, 332, 333, 335, 336, 337, 338, 340, 341, 342, 343, 344, 352 Zampieri Girolamo, 18 Zanocco Rizieri, 8, 18, 140, 141, 161 Zara, 304 Zarri Gabriella, 59n, 61, 62, 63, 64, 238 Zelzer Michaela, 81n, 84 Zeno, santo, 306 Zenone, imperatore, 77, 273n, 277n Zenone, martire di Trieste, 11, 109n Zeus, divinità, 77, 182n Zey Claudia, 149n, 156 Ziegler Charlotte, 113n, 124 Zimmermann Harald, 160 Zito Gaetano, 252n, 267, 270 Zocca Elena, 39n, 64 Zoilo, prete, 231 Zosimo, storico, 180n, 203 Zota, martire vedi Joatà Zotico, martire, 233n Zovatto Paolo Lino, 98n, 101 Zucchetti Giuseppe, 85 Zuliani Fulvio, 305n, 354 Zurigo, 144 Zwettl, monastero, 113, 114, 121n Zycha Joseph, 200