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GIROLAMO DI STRIDONE COMMENTO ALLA EPISTOLA AI GALATI
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CORPVS CHRISTIANORVM IN TRANSLATION
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CORPVS CHRISTIANORVM Series Latina lxxvii a
S. HIERONYMI PRESBYTERI COMMENTARII IN EPISTVLAM PAVLI APOSTOLI AD GALATAS
CVRA ET STVDIO GIACOMO RASPANTI
TURNHOUT
FHG
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GIROLAMO DI STRIDONE
COMMENTO ALLA EPISTOLA AI GALATI Introduzione, traduzione e note a cura di Giacomo RASPANTI
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Supervisione accademica Claudio MORESCHINI
©2010, Brepols Publishers n.v., Turnhout, Belgium All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording, or otherwise, without the prior permission of the publisher.
D/2010/0095/197 ISBN 978-2-503-53153-3 Printed in the E.U. on acid-free paper
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INDICE GENERALE
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Introduzione
La svolta esegetica di Girolamo: com’è nato il Commentario In Galatas Dedicatari e destinatari del Commentario: Paola, Eustochio, Marcella Damasi os meus sermo erat La dialettica sulla vita ascetica e la diatriba esegetica La morte di Damaso e la partenza da Roma Alle origini dell’esegesi paolina di Girolamo Il metodo esegetico nell’In Galatas Esegesi e filologia L’esegesi polifonica Esegesi e ‘quaestiones’ La ‘doppia interpretazione’ Il rapporto con Origene e gli altri esegeti paolini I temi dell’esegesi di Girolamo su ep.Gal. La fine del giudaismo ed il confronto indiretto tra Paolo e Pietro La contesa ad Antiochia Gli ‘stolti e sciocchi’ Galati Il ricorso alla hebraica veritas, l’unità della Scrittura, il rifiuto della circoncisione e del letteralismo Anima, carne e spirito: l’antropologia geronimiana nell’esegesi di ep.Gal. L’ideale ascetico della rinuncia e della continenza
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INDICE GENERALE
La sezione finale parenetica di ep.Gal. L’esegesi dell’In Galatas e le eresie Nota alla traduzione ed alla Bibliografia
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Bibliografia
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Commento alla Epistola ai Galati
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Prefazione Note alla Prefazione Libro primo Note al Libro primo Libro secondo Note al Libro secondo Libro terzo Note al Libro terzo
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Indici
Indice scritturistico Indice delle opere antiche non cristiane Indice delle opere antiche cristiane Indice delle cose notevoli Indice dei nomi antichi e moderni
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INTRODUZIONE
La svolta esegetica di Girolamo: com’è nato il Commentario In Galatas Dedicatari e destinatari del Commentario: Paola, Eustochio, Marcella Un anno cruciale per la storia del cristianesimo antico e, più in generale, per l’evoluzione della cultura tardoantica: così, a mio giudizio, potremmo definire il 386, in virtù di alcuni eventi che toccano i tre più significativi autori della letteratura cristiana in lingua latina del iv/v secolo, Ambrogio, Girolamo e Agostino. Girolamo di Stridone dettò in rapida successione Commentari sulle epistole di Paolo a Filemone, a Galati, a Efesini e a Tito, intraprendendo un intenso lavoro di esegesi del testo sacro; questi Commentari constituiscono il primo frutto di un cambiamento radicale che intervenne nella vita dello Stridonense: mi riferisco all’allontanamento da Roma nel 385 ed al ritiro, l’anno seguente, in Terrasanta, dove il monaco di Stridone, probabilmente non ancora quarantenne, avrebbe trascorso il resto dei giorni (dunque oltre un trentennio) traducendo, rivedendo, emendando, commentando i libri della Bibbia; la versione così fissata dal lavoro di Girolamo, tanto sul versante testuale quanto sul versante ermeneutico (in sostanza, la Vulgata e i diversi Commentari, soprattutto veterotestamentari), sarebbe rimasta il riferimento unico per l’Occidente fino al xvi secolo inoltrato. Ma il 386 è altresì l’anno in cui Ambrogio affronta a
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INTRODUZIONE
Milano la delicatissima questione delle basiliche, resiste agli Ariani difendendo la basilica Portiana e si oppone al potere imperiale ed al tentativo di Giustina e Valentiniano II di intervenire nelle questioni di fede e di imporre con l’esercito la propria volontà politica: è forse uno dei momenti più importanti nel rapporto tra stato e chiesa in Occidente, perché s’impone, per opera del vescovo milanese, un fermo e, per certi versi, definitivo altolà ad ogni aspirazione di cesaropapismo in Italia, benché questo contribuirà al disgregamento politico e istituzionale dell’Impero d’Occidente. Infine, il 386 è l’anno della conversione di Agostino e dunque l’inizio, per l’Ipponese, di un percorso di studio e di vita cristiana che lo porterà, dopo il battesimo nel 387, alla costruzione della più importante riflessione filosofica e teologica per i cristiani dei secoli successivi. Torniamo, però, a Girolamo ed alla svolta esegetica del 386: lo Stridonense, che, in precedenza, mai aveva composto un commentario biblico vero e proprio, dettò i Commentari paolini a partire dall’estate-autunno, allorché, dopo la partenza da Roma, stabilì la sua dimora a Betlemme1; tuttavia l’interesse per l’esegesi di Paolo e le motivazioni del Commentario non nacquero a Betlemme, bensì vennero da lontano, dall’ambiente romano e dall’intricato groviglio di amicizie, pratiche ascetiche, lectio divina, esegesi, ma anche inimicizie, invidie, maldicenze, che nel triennio 382-385 caratterizzarono il soggiorno nell’Urbe di Girolamo. Sulla composizione dell’In Galatas abbiamo a disposizione le informazioni forniteci dall’autore all’inizio dell’opera. La Prefazione è infatti divisa in tre parti: le circostanze nelle quali il Commentario fu dettato2, le sue fonti3, l’argomento dell’epistola 1
Un’attenta ricostruzione sul luogo e sulla data di composizione si trova in F. Pieri, L’esegesi di Girolamo nel Commentario a Efesini. Aspetti storico-esegetici e storico-dottrinali. Testo critico ed annotazioni, Dissertazione dottorale, Bologna, 1998, p. VIII-XIII. Cf. anche P. Nautin, ‘La date des commentaires de Jérôme sur les Épîtres pauliniennes’, Revue d’histoire ecclesiastique, 74 (1979), p. 5-12; P. Jay, L’exégèse de saint Jérôme d’après son « Commentaire sur Isaïe », Paris, 1985, p. 407-409; A. Fürst, Hieronymus. Askese und Wissenschaft in der Spätantike, Freiburg im Breisgau, 2003, p. 116-119; D. Tessore, in Gir., In Tit. (trad.), Introduzione, p. 13-14. 2 In Gal. Pref. 1. 3 In Gal. Pref. 2.
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INTRODUZIONE
paolina4. La prima parte ci informa della decisione di Girolamo di intraprendere il Commentario su ep.Gal. pochi giorni dopo aver completato quello su Filemone: in ciò spinto, altresì, da una finalità consolatoria nei confronti della nobildonna romana Marcella, colpita dal grave lutto della perdita della madre Albina. Se dunque Paola, altra aristocratica dell’Urbe, e la figlia Eustochio, che avevano seguito Girolamo a Betlemme e qui si erano installate, sono le dedicatarie dell’In Galatas, non è da sottovalutare il ruolo di Marcella quale interlocutrice e destinataria del Commentario5: Girolamo ne tesse l’elogio e rievoca la passione con cui l’amica ‘pesava’ tutte le risposte ai quesiti scritturistici, al punto che il Nostro dice – affettuosamente – di avere in lei un giudice piuttosto che un’allieva6. È quindi per fare opera utile all’edificazione della comunità monastica di Paola ed Eustochio, ma anche molto gradita a Marcella, rimasta a Roma7, che il Nostro compone l’In Galatas. Considerando il ruolo decisivo che queste donne sembrano aver avuto sulla decisione di Girolamo di consacrarsi definitivamente all’esegesi della Scrittura8, è giusto interrogarsi sulle relazioni che il monaco Betlemita aveva instaurato con loro sin dal primo incontro a Roma nel 382. Marcella, appartenente alla nobile famiglia romana dei Caeionii, era stata l’ispiratrice del circolo di donne che si era costituito in un palazzo sull’Aventino intorno al giovane Girolamo al suo arrivo in città. Recependo ideali ascetici provenienti dal monachesimo egiziano la giovane donna aveva deciso, dopo essere rimasta vedova, di ritirarsi in una vita di semplicità e di preghiera, presto seguita da Paola, anch’ella rimasta vedova, e da altre giovani vergini: Blesilla ed Eustochio, figlie di Paola, In Gal. Pref. 3-4. Cf. S. Letsch-Brunner, Marcella-Discipula et Magistra: auf den Spuren einer römischen Christin des 4. Jahrhunderts, Berlin – New York, 1998, p. 175-179. Dietro, o meglio, a fianco a Marcella è da vedere, peraltro, l’intera comunità cristiana di Roma, presso la quale gli amici di Girolamo si facevano divulgatori della sua opera: cf. S. Rebenich, Hieronymus und sein Kreis. Prosopographische und sozial-geschichtliche Untersuchungen, Stuttgart, 1992, p. 168-169. 6 In Gal. Pref. 1. 7 In Gal. Pref. 2. 8 Cf. P. Jay, L’exégèse de saint Jérôme, p. 53. 4 5
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INTRODUZIONE
Marcellina e Felicita, Principia e Feliciana9. Questo cenacolo dedito alla vita ascetica10, favorito naturalmente dalle condizioni socio-economiche agiate delle donne che vi prendevano parte, aveva al suo centro, oltre ad una intensa attività spirituale, l’amore per la lettura ed il commento della Scrittura. Allorché furono noti l’entusiasmo di Girolamo per gli ideali monastici e soprattutto le sue conoscenze scritturistiche, Marcella lo convinse ad istruire sulla Bibbia le donne della comunità dell’Aventino. Nacque così un milieu completamente dedito allo studio del testo sacro, che Girolamo rievoca in questo modo: “Con quelle persone ho vissuto per tre anni all’incirca. Un nutrito stuolo di vergini mi è stato attorno sovente. Ad alcune di loro ho spiegato, con una certa frequenza, i Testi sacri, facendo del mio meglio. Questa scuola le aveva portate ad essere assidue, l’assiduità alla familiarità, la familiarità alla confidenza”11. All’interno del circolo un ruolo preminente ebbero naturalmente Paola e Marcella. La prima rappresenta, come ha scritto P. Jay, la “réussite parfaite de sa prédication ascétique et de son [di Girolamo] enseignement scripturaire”12, in quanto capace di abbracciare integralmente l’ideale della vita nello spirito e di nutrirlo costantemente col cibo della Scrittura, ciò che costituì per Girolamo uno stimolo costante a proseguire nella sua opera di commento dei libri della Bibbia. In tale direzione lo spingeva prepotentemente anche l’ardore che accendeva il cuore di Marcella per le Scritture e che, come testimonia lo scambio epistolare con Girolamo durante il soggiorno a Roma13, costringeva lo Stridonense a rispondere a numerose questioni scritturistiche postegli dalla Cf. S. Rebenich, Hieronymus und sein Kreis, p. 158; A. Fürst, Hieronymus. Askese, p. 52-55. 10 Sulla trasformazione del cenacolo in una vera e propria comunità monastica si confronti S. Rebenich, Hieronymus und sein Kreis, p. 158-159; D. Tessore, in Gir. , In Eph., Introduzione, p. 8. 11 Gir., epist. 45, 2, vol. 1, p. 351. Cf. P. Jay, ‘Jérôme et la pratique de l’exégèse’, in Le monde latin antique et la Bible – ed. J. Fontaine – C. Pietri, Paris, 1985, p. 526-527. 12 Cf. P. Jay, L’exégèse de saint Jérôme, p. 52. 13 Cf. P. Jay, L’exégèse de saint Jérôme, p. 50-51; inoltre, P. Laurence, ‘Marcella, Jérôme et Origène’, Revue des Études Augustiniennes, 42, 2 (1996), p. 268-279 e Id., Jérôme et le nouveau modèle féminin: la conversion à la « vie parfaite », Turnhout, 1997. 9
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INTRODUZIONE
donna. Ma vi è un altro aspetto del circolo dell’Aventino che si deve sottolineare e cioè l’interesse di Marcella per gli studi di Origene dedicati alla Scrittura14. Com’è noto, gli anni ottanta del iv secolo vedono ancora un Girolamo entusiasta delle opere esegetiche dell’Alessandrino: evidentemente in ciò era affiancato, e persino stimolato, dalle interlocutrici del circolo romano. Quest’interesse per l’esegesi origeniana non è certo secondario ai fini della ricostruzione delle circostanze di composizione del Commentario paolino del nostro autore.
Damasi os meus sermo erat15 Quella del circolo dell’Aventino non è, però, che una delle esperienze che contraddistinguono il soggiorno romano del monaco Betlemita. L’irrompere dello Stridonense sulla scena della chiesa capitolina e l’entusiasmo nei suoi confronti di ragguardevoli nobildonne non poteva che provocare umori contrastanti: da una parte, entusiasti ed incondizionati ammiratori delle sue doti, dall’altra agguerriti nemici delle sue idee rivoluzionarie e delle sue intriganti amicizie. Tra i primi vi era una figura di assoluto rilievo, cioè Damaso, Papa dal 366 al 384: colpito dalla brillante cultura del giovane presbitero16, Damaso lo nominò segretario ‘in chartis ecclesiasticis’, gli affidò il compito di rispondere ai sinodi convocati in Oriente ed in Occidente17, ne favorì gli ideali di vita ascetica e l’amicizia con le aristocratiche Paola e Marcella18, vedendo con favore la nascita del circolo dell’Aventino; ma, soprattutto, l’anziano Papa individuò in Girolamo Cf. P. Laurence, ‘Marcella, Jérôme et Origène’, p. 273-279. Gir., epist. 45, 3, vol. 1, p. 352. 16 Si veda J. N. D. Kelly, Jerome. His Life, Writings and Controversies, London – New York, 1975, p. 83-84. 17 Gir., epist. 123, 9, vol. 4, p. 234: “Molti anni addietro facevo da segretario per gli archivi ecclesiastici a Damaso, vescovo di Roma, e fra l’altro dovevo rispondere ai consulti sinodali sia d’Oriente che d’Occidente”. Cf. Y.-M. Duval, La décrétale Ad Gallos Episcopos: son texte et son auteur. Texte critique, traduction française et commentaire (Supplements to Vigiliae Christianae, 73), Leiden – Boston, 2005, p. 125-138. 18 Cf. S. Rebenich, Hieronymus und sein Kreis, p. 159-162. 14 15
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INTRODUZIONE
l’intellettuale che avrebbe potuto far fiorire in Occidente lo studio della Sacra Scrittura: gli commissionò dunque la revisione dei Vangeli19 e dei Salmi20 alla luce del testo greco21, non ostacolò il crescente interesse dello Stridonense per Origene22 e per gli originali testi in ebraico della Scrittura, si mostrò lieto del lavoro di ermeneutica biblica che Girolamo svolgeva per le amiche dell’Aventino. Anzi l’interesse di Damaso per la Scrittura e per le conoscenze del giovane pupillo era tale da sottoporgli alcune questioni scritturistiche che ritroviamo anche nell’opera del contemporaneo Ambrosiaster. Sappiamo, infatti, tramite l’epist. 35 del Nostro, che il Papa riprese e propose a Girolamo cinque questioni relative al Vecchio Testamento affrontate dall’Anonimo nelle Quaestiones Veteris et Novi Testamenti, evidentemente ritenendo non soddisfacenti le risposte fornite da Ambrosiaster: l’intervento dello Stridonense non si fece attendere ed è contenuto nell’epist. 36, anche se solo tre delle cinque quaestiones presenti in Ambrosiaster sono affrontate e discusse da Girolamo23. Cf. Gir., praef. Vulg. Euang., p. 1515-1516; cf. D. Brown, Vir Trilinguis. A Study in the Biblical Exegesis of Saint Jerome, Kampen, 1992, p. 97: “Damasus came to the conclusion that, because of the proliferation of variant readings in the Latin Bible of the day, a thorough revision was a desideratum. For this task, he commissioned Jerome. Although we do not have the actual words of his commission, we get a very clear idea of his wishes from Jerome’s preface to the four gospels”. 20 Cf. Gir., praef. Vulg. Ps. (LXX), p. 767. Inoltre si veda D. Brown, Vir Trilinguis, p. 101. 21 Cf. S. Rebenich, Hieronymus und sein Kreis, p. 149-151; A. Fürst, Hieronymus. Askese, p. 83-84 e p. 166-167. 22 Cf. S. Rebenich, Hieronymus und sein Kreis, p. 149. 23 Le quaestiunculae formulate da Damaso sono contenute in Gir., epist. 35, 2, vol. 1, p. 293-295; esse trovano corrispondenza con Ambrosiaster, quaest. test. 6, 9, 10, 12, 11. Nelle epistole di Damaso e di Girolamo non vi è, in verità, alcun riferimento all’opera di un altro autore, ma è evidente che il testo con cui polemizzano sia quello dell’Anonimo. P. Nautin, ‘Le premier échange épistolaire entre Jérôme et Damase: lettres réelles ou fictives?’, Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie, 30 (1983), p. 331-344, ha ritenuto che le epistole di Damaso siano un falso costruito dallo Stridonense per far bella mostra del favore di cui godeva presso il Papa, in occasione della polemica con Ambrogio nel 387-392. Opponendosi alla ricostruzione di Nautin, S. Rebenich, Hieronymus und sein Kreis, p. 145-147, ha confutato l’ipotesi dello studioso francese e ha concluso che non vi possa essere dubbio che l’avversario contro cui è rivolta l’epist. 36 è Ambrosiaster. Confermano il giudizio di Rebenich sull’errata ricostruzione di Nautin sia A. Cain, ‘In Ambrosiaster’s Shadow: A Critical Re-Evaluation of the Last Surviving Letter Exchange between Pope Damasus and Jerome’, Revue 19
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La dialettica sulla vita ascetica e la diatriba esegetica Non tutti, però, nella chiesa di Roma nutrivano per Girolamo lo stesso entusiasmo di Paola, di Marcella o di Damaso; erano in molti ad avversarlo. A parte il laico Elvidio, contro cui il Dalmata aveva composto nel 383 il De perpetua uirginitate beatae Mariae a difesa non solo della verginità post partum di Maria bensì soprattutto dell’idea che la verginità comporti una condizione antropologica superiore, esemplata, appunto, dalla madre di Gesù, una parte del clero romano si opponeva all’ascetismo orientaleggiante dello Stridonense: né tale resistenza era in qualche modo contenuta per il fatto che il Nostro godeva dell’appoggio di Damaso; anzi, forse proprio la convinzione che Girolamo stesse approfittando di amicizie importanti per ambizioni di carriera ecclesiastica accendeva l’ira degli avversari contro il protégé del Papa24. Tra coloro che all’interno del clero romano si opponevano al monaco Betlemita ritroviamo quell’Ambrosiaster di cui Damaso sconfessava i tentativi di esegesi biblica riproponendo a Girolamo
des Études Augustiniennes et patristiques, 51 (2005), p. 257-277, sia A. Volgers, ‘Damasus’ Request: Why Jerome Needed to (Re-)Answer Ambrosiaster’s Questions’, in Studia patristica. Vol. XLIII – ed. F. Young – M. Edwards – P. Parvis, Leuven, 2006, p. 531-536. In effetti, è evidente che, a prescindere dalla paternità damasiana o meno della epist. 35, reale e preciso è il bersaglio dell’epist. 36, cioè Ambrosiaster (e non certo Ambrogio), perché Girolamo punta su un ampio corredo di testimonianze bibliche, sul testo ebraico, sulla citazione di Tertulliano, di Origene e di vari interpreti (secondo un habitus esegetico che è antitetico ed in polemica con quello di Ambrosiaster: cf. A. Cain, ‘In Ambrosiaster’s Shadow’, p. 268-275). A me sembra, in sostanza, che si debba riaffermare quanto diceva H. J. Vogels, ‘Ambrosiaster und Hieronymus’, Revue Bénédictine, 66 (1956), p. 15, cioè che in base alle due epistole è certo che l’entourage di Damaso, ed in particolare Girolamo, conoscesse le Quaestiones: opinione condivisa e ben riformulata da E. Di Santo, L’apologetica dell’Ambrosiaster. Cristiani, pagani e giudei nella Roma tardoantica, Roma, 2008, p. 31: “[...] lo scambio epistolare dimostra comunque che l’opera di Ambrosiaster era ben conosciuta nell’ambiente ecclesiale romano. La risposta di Girolamo [...] prende chiaramente le distanze dall’esegesi dell’anonimo”. 24 Cf. S. Rebenich, Hieronymus und sein Kreis, p. 176; A. Cain, ‘In Ambrosiaster’s Shadow’, p. 275-276.
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quaestiones già affrontate dall’Anonimo25. Le ragioni di tale dissidio non risiedono in contrasti dottrinali, dal momento che sia lo Stridonense sia l’Ambrosiaster sono strenui difensori dell’ortodossia e condividono alcune idee riguardo alla polemica antipagana ed antigiudaica26; semmai sono ipotizzabili, nei due autori, modi diversi di concepire l’ascesi cristiana e l’esegesi della Bibbia, ciò che poté essere causa di contrasti tra due personalità forti ed intensamente coivolte nella vita della comunità di Roma. Non è qui il caso di riportare e discutere i brani delle opere di Ambrosiaster e di Girolamo nei quali appaiono i segni del possibile contrasto di Ambrosiaster con il punto di vista ascetico Cf. E. Di Santo, L’apologetica dell’Ambrosiaster, p. 38: “Dovette [...] trattarsi di una personalità in vista e influente, di formazione giuridica, buon conoscitore degli ambienti aristocratici e di governo, forse con un ruolo importante anche nella comunità cristiana (probabilmente un presbitero): questo spiegherebbe perché non abbia voluto esporsi nel caso di dure filippiche come la Q. CI sull’orgoglio dei diaconi romani e perché Papa Damaso non lo nomini quando sottopone all’autorità esegetica di Girolamo argomenti già affrontati dall’Ambrosiaster. Al contempo tutto ciò potrebbe dare una motivazione del contrasto di fondo che si rileva fra l’anonimo e lo Stridonense: se [...] Girolamo ha voluto prendere di mira l’Ambrosiaster, risulta inverosimile credere che egli non ne conoscesse l’identità e combattesse dunque un ignoto avversario. Non resta che pensare a una sorta di damnatio memoriae, con cui ha preferito tacere, anche nel De viris illustribus, di un personaggio scomodo della Roma damasiana”. L’ipotesi della damnatio memoriae messa in atto da Girolamo contro l’Ambrosiaster era stata già opportunamente avanzata da H. J. Vogels, ‘Ambrosiaster und Hieronymus’, p. 15, e da J. N. D. Kelly, Jerome, p. 149: bisogna tuttavia constatare che, ancora di recente, è stata riproposta l’inverosimile idea che Girolamo non conoscesse l’identità dell’avversario con cui polemizza in numerosi luoghi della sua opera: cf. A. Volgers, ‘Damasus’ Request’, p. 531-536 nonché S. Lunn-Rockliffe, Ambrosiaster’s Political Theology, Oxford, 2007, p. 19-26, che tuttavia non fonda, a mio avviso, su argomentazioni scientifiche e su dati testuali la sua ipotesi, né tiene nella debita considerazione i risultati delle ricerche di precedenti studiosi. 26 Cf. E. Di Santo, L’apologetica dell’Ambrosiaster, p. 510: “L’apologetica dell’Ambrosiaster nasce come risposta al fronte comune di pagani giudei eretici, che caratterizzò il periodo romano fra il 383 ed il 390: nell’insieme essa ci è apparsa riconducibile al clima del pontificato damasiano per i suoi contenuti e i toni sostanzialmente moderati”; inoltre, p. 514: Ambrosiaster “condivide il programma pastorale di Papa Damaso sia ad intra che ad extra. [...] I due scrittori [scil. Ambrosiaster e Girolamo] condividono [...] lo stesso tono moderato nella polemica ad extra verso pagani e giudei e le medesime istanze ad intra a favore dell’unità della chiesa romana, dimostrandosi abbastanza rigidi nella valutazione della mediocrità morale del clero e dei cristiani”. 25
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di Girolamo su questioni concernenti il clero27, le vedove28, le vergini29, il matrimonio30; va detto che rispetto alle ormai classiche interpretazioni di D. G. Hunter, per il quale Ambrosiaster rappresenta il punto di vista socio-politico di un clero definito conservatore31 perché legato alla tradizione di ascendenza aristocratica e romana e quindi assolutamente ostile alle idee propagandate da Girolamo, che erano considerate un pericoloso attacco alle prerogative ecclesiastiche32, 27
D. G. Hunter, ‘The Paradise of Patriarchy: Ambrosiaster on Women as (Not) God’s Image’, Journal of Theological Studies, 43 (1992), p. 465, afferma che a differenza di Girolamo, il quale insisteva sulla corruzione dei presbiteri e sulla necessità che essi dimostrassero preliminarmente una condotta virtuosa e casta, Ambrosiaster insiste sulla dignità del presbitero, sul suo ruolo e sul suo ufficio. Certo l’Anonimo si mostra molto favorevole ad una ‘disciplina ecclesiastica’ rigorosa (è favorevole al celibato dei presbiteri, ma senza estremismi: cf. Ambrosiaster, quaest. test. 127, 34-36, p. 414-416), ma mai si fa sostenitore di posizioni rigoristiche o ascetiche. Sul tema D. G. Hunter è ritornato più volte: cf. ‘Clerical Celibacy and the Veiling of Virgins: New Boundaries in Late Ancient Christianity’, in The Limits of Ancient Christianity: Essays on Late Antique Thought and Culture in Honor of R. A. Markus – ed. W. E. Klingshirn – M. Vessey, Ann Arbor (Michigan, USA), 1999, p. 139-152; Id., ‘2008 NAPS Presidential Address: The Significance of Ambrosiaster’, Journal of Early Christian Studies, 17, 1 (2009), p. 14-26. 28 Sull’avversione di Ambrosiaster agli abusi dell’istituto dell’assistenza delle vedove sotto l’apparente scelta di una vita ascetica si confronti O. Heggelbacher, Vom römischen zum christlichen Recht, Freiburg (Schweiz), 1959, p. 130-131; E. Di Santo, L’apologetica dell’Ambrosiaster, p. 98-100. 29 Per Hunter, ‘The Paradise of Patriarchy’, p. 447-469, Ambrosiaster insiste, nelle sue opere, sul fatto che la donna non è, secondo l’ordine originario della creazione, immagine di Dio; in tal modo si oppone all’idea di uguaglianza tra uomo e donna, uguaglianza che concetti cari a Girolamo come la verginità e l’ascesi finivano per propagandare, con gravi rischi per il sistema sociale romano e per la subordinazione delle donne al clero. 30 Nel commentare 1 Cor 7, 35 Ambrosiaster, senza assumere posizioni estreme o intransigenti, loda la verginità nel matrimonio – purché sia pura e veritiera – come sacrificio di ciò che è lecito, al fine di superare più facilmente gli impedimenti della carne per il raggiungimento della salvezza. Sull’assenza di posizioni rigoristiche in Ambrosiaster nei confronti del matrimonio si confronti O. Heggelbacher, Vom römischen zum christlichen Recht, p. 124; E. Di Santo, L’apologetica dell’Ambrosiaster, p. 96-98. 31 D. G. Hunter, ‘On the Sin of Adam and Eve: A Little-known Defense of Marriage and Childbearing by Ambrosiaster’, Harvard Theological Review, 82 (1989), p. 298, nonché Id., ‘The Paradise of Patriarchy’, p. 468. 32 Secondo Hunter, ‘On the Sin of Adam’, p. 283-299, l’Ambrosiaster, mediante la quaestio 127 De peccato Adae et Evae in cui esalta la santità del matrimonio e dei figli, intendeva contestare la strana idea di verginità di cui Girolamo si faceva promotore e difendendo il celibato del clero voleva, da un lato, opporsi al
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la rilettura della quaestio 127 De peccato Adae et Evae che di recente è stata fatta da E. Di Santo propone un giudizio più prudente sulla presunta avversione di Ambrosiaster al rigorismo ascetico geronimiano33 e mostra che “una rapida rassegna degli argomenti trattati nella Quaestio CXXVII può giovare a verificare che si tratta di un discorso più antimanicheo che antiascetico”34 e che, nonostante “il pensiero dell’anonimo si caratterizza certamente per un pronunciato anti-rigorismo, a cui si connette la difesa delle nozze e della procreazione come valore naturale e dell’economia della creazione”, tuttavia “la distanza dall’asceta dalmata non porta l’Ambrosiaster sulla via percorsa da Elvidio o da Gioviniano”35. Ad ogni modo, pur tenendo conto delle interessanti e ben documentate ed argomentate conclusioni di Di Santo, è innegabile la diversità di vedute fra Ambrosiaster e Girolamo (diversità che, peraltro, lo studioso siciliano non mette in dubbio): il giovane Dalmata incarnava il ruolo del promotore di idee innovative, che tuttavia risultavano sconcertanti per la cerchia dell’Anonimo; seppure il monaco Betlemita insisteva, in risposta ai sempre più frequenti e scandalosi fenomeni di corruzione del clero e della società, sui valori della disciplina morale, del distacco dalle ricchezze e dai beni mondani, oltre che sull’ascesi, sulla verginità e sulla vita cenobitica, non sfuggivano certo all’attenzione generale le sue amicizie potenti, il suo ambiguo appeal su donne ricche ed aristocratiche, le sue ambizioni ecclesiastiche: tutto ciò non poteva che provocare incomprensioni e sospetti nel clero vicino alle posizioni di Ambrosiaster. Né l’ostilità era limitata alla condotta di vita o ad aspetti di morale cristiana: forse ancora più grave era l’avversione nei confronti dei princìpi e della pratica ermeneutica divulgata da Girolamo, innovativa ed estranea alla tradizione occidentale. crescente entusiasmo per la rinuncia sessuale senza cadere nei rigorismi eretici di molti asceti, dall’altro, conservare un certo prestigio al clero soggetto agli attacchi di intellettuali come Girolamo, che lo accusavano di lassismo. 33 Cf. E. Di Santo, L’apologetica dell’Ambrosiaster, p. 92-107. 34 Cf. E. Di Santo, L’apologetica dell’Ambrosiaster, p. 103. 35 Cf. E. Di Santo, L’apologetica dell’Ambrosiaster, p. 105.
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In effetti, dinanzi all’entusiasmo di Girolamo e del circolo dell’Aventino per Origene e per gli esegeti greci, Ambrosiaster si mostra saldamente legato al fondamento della Scrittura interpretata in modo cristologico, secondo la tradizione latina, e con una mentalità storicizzante36; l’Anonimo è ostile alla ricerca filologica sui testi sacri in lingua originale37, a cui guarda con sospetto, ritenendola sinonimo, spesso, di eresia. H. J. Vogels ha individuato proprio in Ambrosiaster l’avversario contro cui Girolamo si scaglia nell’epist. 27 indirizzata a Marcella nel 38438; in tale epistola lo Stridonense si difende dall’accusa che taluni ‘bipedes aselli’ (‘somaretti a due gambe’) gli avevano rivolto per essere intervenuto, contro l’autorità degli antichi e l’opinione di tutti, sul testo latino dei Vangeli sulla base dell’originale greco39. Girolamo contrattacca stigmatizzando 36
Cf. G. Raspanti, ‘Aspetti formali dell’esegesi paolina di Ambrosiaster’, Annali di Storia dell’Esegesi, 16/2 (1999), p. 525-536. 37 Una testimonianza assai significativa si trova in Ambrosiaster, In Rom. 5, 14, 4e-5a, p. 138-139. Cf., sul brano, M. Pesce, ‘Il commento dell’Ambrosiaster alla Prima lettera ai Corinzi: alla ricerca della differenza tra esegesi antica e esegesi storica’, Annali di storia dell’esegesi, 7 (1990), p. 597-600; S. LetschBrunner, Marcella-Discipula et Magistra, p. 120; A. Cain, ‘In Ambrosiaster’s Shadow’, p. 271-272; S. Lunn-Rockliffe, Ambrosiaster’s Political Theology, p. 22-23; G. Raspanti, ‘L’esegesi della lettera ai Galati nel iv secolo d.C. Dal commentario dottrinale di Mario Vittorino ed Ambrosiaster a quello filologico di Girolamo’, Ho Theológos, 25, 1 (2007), p. 123-126; E. Di Santo, L’apologetica dell’Ambrosiaster, p. 35-36. 38 Cf. H. J. Vogels, ‘Ambrosiaster und Hieronymus’, p. 16-19. Dopo Vogels nessuno ha mai messo in discussione quest’identificazione con Ambrosiaster del destinatario dell’invettiva geronimiana, confermata nelle più recenti pubblicazioni: cf. S. Lunn-Rockliffe, Ambrosiaster’s Political Theology, p. 22-23, ed E. Di Santo, L’apologetica dell’Ambrosiaster, p. 35. 39 Gir., epist. 27, 1-2, vol. 1, p. 255-256: “[...] inaspettatamente mi viene riferito che alcuni uomini di poco conto (quosdam homunculos) mi criticano acerbamente. E perché? Contro l’autorità degli antichi e l’opinione di tutti io avrei cercato di fare alcune modifiche dei Vangeli! Di tipi simili potrei non curarmene affatto, e a buon diritto (è sempre vero che per un asino la lira suona inutilmente)! Ma per non sentirmi ridire che sono superbo, com’è loro uso, incassino questa risposta: penso di non avere uno spirito così ottuso e di non essere così grossolanamente zotico (è l’unica qualità che essi credono santità, ritenendosi discepoli dei pescatori: quasi che l’essere del tutto ignoranti li costituisca giusti), fino al punto d’azzardarmi a correggere in qualche modo la parola del Signore o da non crederla ispirata da Dio. Ho solo voluto riportare la cattiva traduzione dei codici latini – provata chiaramente dalle divergenze che si riscontrano in tutti i libri – all’originale greco, da cui – essi pure l’ammettono – erano stati tradotti. [...] Sono certo che quando leggi questa lettera corrughi la fronte: temi
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l’ignoranza degli avversari e sostenendo di essere intervenuto sui vizi dei codici latini in forza dell’originale greco, che era la lingua degli autori dei Vangeli40. In altri termini, Ambrosiaster rappresenta quella corrente della cristianità di lingua latina che temeva ogni tentativo di apportare novità al testo della Scrittura ormai consolidatosi in Occidente e che, conoscendo sempre meno il greco, avversava molta produzione esegetica greca, vedendo in essa il rischio dell’esplosione di nuove eresie. Se infatti ritorniamo per un momento alla quaestio 12 di Ambrosiaster riproposta da Damaso a Girolamo (epist. 35, 2), è evidente che lo Stridonense, in aperta dialettica con le modalità esegetiche dell’Anonimo, liquida con poche righe il tema proposto da Damaso, cioè il computo delle generazioni dalla promessa di Abramo all’uscita del popolo ebraico dall’Egitto41, per soffermare invece l’attenzione su aspetti testuali e filologici: che questa franchezza sia motivo di nuove dispute, è vero? E so che, se potessi farlo, vorresti chiudermi la bocca con le tue dita per non farmi denunziare le cose che altri non arrossiscono a fare. Ma ti prego, che ho detto mai per mio capriccio? [...] questo poveretto non ha detto che una sola cosa: che le vergini dovrebbero trovarsi più frequentemente con le donne che con gli uomini! E così ha offeso la dignità di tutta Roma: ognuno lo segna a dito”. 40 Anche R. Cantalamessa, ‘« Ratio Paschae ». La controversia sul significato della Pasqua nell’Ambrosiaster, in Girolamo ed in Agostino’, Aevum, 44 (1970), p. 219-241, ha ritenuto di potere individuare nella quaestio 116 di Ambrosiaster, nel commento del medesimo a 1 Cor 5, 7 ed infine nella quaestio 96 le tracce di una controversia tra l’Anonimo e Girolamo sul senso da attribuire al termine ‘pascha’; a giudizio di Cantalamessa, Ambrosiaster si fa paladino del senso tradizionalmente in uso nella cristianità latina, cioè ‘pascha’ = ‘passio dominica’ (e precisamente immolatio Domini), e, nel polemizzare con l’avversario (definito ‘contradictor pervicax’), insiste sul sacrificio pasquale come premessa al passaggio del Signore (transitus Domini) che salva gli israeliti e, in senso tipologico, tutti gli uomini. Girolamo, attaccando l’avversario sul piano della competenza linguistica e filologica, insiste sul significato ebraico del termine, per cui con ‘pascha’ è da intendere, per lo Stridonense, il “transitus Domini”, cioè il passaggio di Yahvé che salva le case degli israeliti (In Mattheum 4, 26, 2, CC SL 77, p. 245). Per Cantalamessa i due, Ambrosiaster e Girolamo, si sarebbero osteggiati ed avrebbero polemizzato, poiché, da un lato, l’Anonimo, che ignorava il greco ed era legato al testo della Vetus reso familiare e venerando dall’uso liturgico, reagiva alla condanna geronimiana del testo latino, ritenendola preconcetta e sommaria, dall’altro lato, Girolamo si faceva difensore dell’autorità dei codici greci, della ripresa dell’originale ebraico, del recupero della tradizione esegetica greca ed alessandrina, dell’avversione alle lezioni abusive e corrotte che erano proliferate nella varietà delle versione latine. 41 Cf. Gir., epist. 36, 11, vol. 1, p. 303-304.
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il testo tradotto dall’ebraico in greco da Aquila, la differenza di questo testo con quello della Settanta, l’errata traduzione della Settanta rispetto all’originale ebraico, le cause dell’errore42; indiscutibilmente Girolamo rivolge in questo modo i suoi strali polemici contro Ambrosiaster e contro il suo approccio alla spiegazione della Bibbia. Un altro episodio significativo della contrapposizione tra i due sul piano della dottrina ermeneutica ci viene segnalato dalla epist. 73 di Girolamo (c. 398): il Nostro si scaglia contro un esegeta, definito ‘imperitus sermone et scientia’, perché vede in Melchisedech non una figura dello Spirito Santo, ma un vero e proprio sacerdote, tipo del vero sacerdote, cioè Cristo; gli strali del Nostro sono contro un ‘ἀδέσποτον volumen’, che il presbitero Evangelo gli aveva inviato e che viene universalmente identificato con la quaestio 109 di Ambrosiaster, che appunto individua in Melchisedech l’azione dello Spirito Santo e non un sacerdote. Lo Stridonense attacca l’avversario ancora una volta sul piano della competenza ermeneutica e lo sfida con una spiegazione che si fa forte della tradizione giudaica che “fa di Melchisedech un antenato di Abramo: ciò gli permette di giustificare la benedezione ad Abramo e di parlare di Melchisedech come tipo di Cristo e della superiorità del sacerdozio della chiesa rispetto a quello della sinagoga”43. Nonostante, in quest’occasione, l’esegesi di Ambrosiaster sembra assumere caratteri ‘anagogici’, non troppo distanti da quelli origeniani particolarmente cari a Girolamo, prevale, nuovamente, nell’epistola del monaco Betlemita la vis polemica e l’opposizione, per così dire ‘pregiudiziale’, verso l’avversario personale. In definitiva possiamo concludere che a Roma Girolamo non godette della stima e del favore di tutti gli ambienti cristiani: all’amicizia sincera e devota di parte della chiesa dell’Urbe si contrapponevano inimicizie e sospetti, che sfociarono nel durissimo contrasto con Ambrosiaster caratterizzato persino da ingiurie ed intemperanze verbali: se infatti Girolamo chiama 42 43
Cf. Gir., epist. 36, 12-13, vol. 1, p. 304-306. E. Di Santo, L’apologetica dell’Ambrosiaster, p. 33-35, 339-340.
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‘bipes asellus’ l’avversario, Ambrosiaster non è da meno nel qualificare le idee degli asceti sul matrimonio come ‘praestrigia satanae’44.
La morte di Damaso e la partenza da Roma Nel contesto delineato la morte di Damaso, nel dicembre del 384, costituì un duro colpo per le aspettative di Girolamo45; in particolare, fu decisivo il fatto che, contrariamente forse alle sue previsioni, venne eletto papa Siricio, che non nutriva lo stesso entusiasmo di Damaso nei confronti delle idee ascetiche dello Stridonense. Non è da escludere, invece, che l’opera dell’avversario di Girolamo, Ambrosiaster, potesse godere presso Siricio di una certa fortuna: un indizio in tal senso ci viene dalla presenza di elementi di consonanza tra il commento dell’Anonimo a 1 Tm 3, 12 e un brano dell’epistola 5 di Papa Siricio ai vescovi della chiesa d’Africa46. È certo possibile che entrambi i testi Cf. Ambrosiaster, quaest. test. 127, 11, p. 403, 4-6; secondo D. G. Hunter, ‘On the Sin of Adam’, p. 297, Girolamo riecheggia le parole di Ambrosiaster affermando sarcasticamente nell’apologetica epistola 45 ad Asella del 385: “Io un mascalzone, io imbroglione e falso, io un bugiardo e un seduttore astuto come satana (satanae arte decipiens)!” (epist. 45, 2, vol. 1, p. 350). A me pare sostanzialmente corretto il giudizio di Y.-M. Duval, L’Affaire Jovinien. D’une crise de la société romaine à une crise de la pensée chrétienne à la fin du iveet au début du ve siècle, Roma, 2003, p. 34, n. 56, secondo cui Ambrosiaster si scaglia nella quaestio 127 contro quei cristiani (cioè, nell’opinione dell’Anonimo, Girolamo) che, con gli eccessi del rigorismo ascetico, si collegavano a Marcione ed ai Manichei; pertanto le parole ‘praestrigia satanae’ vanno considerate come un espediente retorico da inquadrare nell’ambito dell’invettiva contro Girolamo. Di avviso diverso è invece E. Di Santo, L’apologetica dell’Ambrosiaster, p. 101-107, per il quale la quaestio 127 prende effettivamente di mira gruppi Manichei presenti a Roma, che sarebbero destinatari altresì degli strali di Elvidio e Gioviniano. 45 Cf. D. Tessore, in Gir., In Eph., Introduzione, p. 9. 46 Nel commentare 1 Tm 3, 12 Ambrosiaster, dopo aver presentato la condizione di leviti e sacerdoti nell’Antico Testamento, descrive la diversa situazione della chiesa cristiana in tal modo (In I Tim. 3, 12, p. 269, 16 – 270, 2: riporto il testo latino per consentire il confronto con l’epistola di Siricio): “ac per hoc omnes [scil. diaconi et presbyteri] a conventu feminae abstinere debere, quia necesse est eos quotidie praesto esse in ecclesia nec habere dilationem, ut post conventum legitime purificentur sicut veteres. omni enim hebdomada offerendum est, etiam si non quotidie, peregrinis in locis tamen vel bis in hebdomada, et {de non sunt, qui prope quotidie baptizentur aegri. nam} veteribus ideo concessum est, 44
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dipendano da una medesima fonte, o che siano riconducibili entrambi alle esigenze di rinnovamento del clero presenti già nella Roma damasiana (e di cui Girolamo era l’interprete più rigorista ed estremo)47; ad ogni modo, possiamo altresì ritenere che il Commentario di Ambrosiaster, che certo a Roma era conosciuto e considerato, abbia influenzato l’epistola di Siricio48: evidentemente chi ha composto l’epist. 5 non doveva pensarla troppo diversamente da Ambrosiaster su una problematica delicata ed importante (il celibato dei preti) e ne condivideva quia multo tempore in templo non videbantur, sed erant privati. si enim plebeis hominibus orationis causa ad tempus abstinere se praecipit, ut vacent orationi, quanto magis levitis aut sacerdotibus, quos die noctuque pro plebe sibi conmissa oportet orare! {mundiores ergo esse debent ceteris, quia actores dei sunt}”. La lettera di Siricio nel raccomandare la continenza per leviti e sacerdoti presenta il seguente testo (epist. 5, PL 13, 1160-1161): “Praeterea quod dignum et pudicum et honestum est suadeamus, ut sacerdotes et levitae cum uxoribus suis non coeant: quia in ministerio, ministerii quotidianis necessitatibus, occupantur. Ad Corinthios namque sic Paulus scribit, dicens: Abstinete vos, ut vacetis orationi. Si ergo laicis abstinentia imperatur, ut possint deprecantes audiri: quanto magis sacerdos utique omni momento paratus esse debet, munditiae puritate securus, ne aut sacrificium offerat, aut baptizare cogatur? Qui si contaminatus fuerit carnali concupiscientia, quid faciat? Excusabit? Quo pudore, qua mente usurpabit? Qua conscientia, quo merito hic exaudiri se credit, cum dictum sit: Omnia munda mundis, coinquinatis autem et infidelibus nihil mundum”. Nei brani di Ambrosiaster e di Siricio si ha dunque il medesimo invito ad astenersi dai rapporti sessuali per adempiere alle necessità quotidiane del ministero presbiterale, nonché il medesimo paragone con i laici che si debbono astenere al momento della preghiera ed il medesimo ragionamento circa l’obbligo, per il presbitero, di essere puro in ogni momento per potere essere pronto al suo ufficio. Vi sono persino somiglianze linguistiche tra i due testi: “ministerii quotidianis necessitatibus” di epist. 5 corrisponde a “necesse est eos quotidie praesto esse” di In I Tim 3, 12; “sacrificium offerat” di epist. 5 è da accostare a “offerendum est” di In I Tim 3, 12; infine, “si ergo laicis [...] quanto magis sacerdos [...]” corrisponde a “si enim plebeis hominibus [...] quanto magis levitis aut sacerdotibus [...]”. Elementi in comune tra i due documenti individua, sia pur in modo molto generico, D. G. Hunter, ‘2008 NAPS Presidential Address: The Significance of Ambrosiaster’, p. 22-23. 47 In tal senso si spiega la somiglianza di questi due documenti con l’epistola un tempo attribuita a Siricio (epist. 10) ed oggi riconosciuta come testo damasiano, cioè la lettera Ad Gallos Episcopos: cf. Y.-M. Duval, La décrétale Ad Gallos Episcopos. 48 Poiché qualche riga più sotto, nel suo commento a 1 Tm, l’Ambrosiaster dice che a reggere la chiesa del suo tempo è Damaso, è da supporre che il commento dell’Anonimo a 1 Tm 3, 12 sia stato scritto entro la fine del pontificato di Damaso (384). L’epistola di Siricio è dunque posteriore: l’editore del Commentario dell’Ambrosiaster, H. J. Vogels, attribuisce l’epistola all’anno 386 (CSEL 81/3, p. 269).
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i toni moderati. Insomma, a differenza di quanto era accaduto al tempo di Damaso, l’opera e le idee di Ambrosiaster erano del tutto gradite alla linea di pensiero e d’azione del Papa, mentre si evidenzia, anche attraverso la testimonianza fornita dall’epist. 5, quanto le idee e l’attività di Girolamo fossero invise a Siricio ed al suo entourage. La freddezza del nuovo Papa verso monaci e comunità cenobitiche49, le sempre crescenti maldicenze per le relazioni di Girolamo con la vedova Paola50 determinarono la decisione del Nostro di lasciare l’Urbe per ritornare in Oriente: nel 385, pieno di acredine e di livore nei confronti di quanti all’interno della chiesa di Roma lo avevano avversato, Girolamo s’imbarcò per la Palestina con lo scopo di stabilirsi in Terrasanta insieme a Paola ed Eustochio e praticarvi gli ideali ascetici e contemplativi ardentemente vagheggiati51.
Alle origini dell’esegesi paolina di Girolamo Nella primavera-estate del 386 Girolamo si installò a Betlemme in una comunità monastica; a poca distanza, in un monastero Cf. P. Laurence, ‘Marcella, Jérôme et Origène’, p. 288. Cf. Gir., epist. 45, 1-2, vol. 1, p. 350-351. A. Cain, The Letters of Jerome. Ascetism, Biblical Exegesis, and the Construction of Christian Authority in Late Antiquity, Oxford, 2009, p. 99-127, attribuisce una responsabilità importante, nelle vicende che portarono all’allontanamento di Girolamo da Roma, ai familiari di Paola, che non vedevano di buon animo l’entusiasmo ascetico della donna e l’amicizia con lo Stridonense: essi si sarebbero fatti promotori, pertanto, di un’azione legale contro il monaco Dalmata, che, per evitare un colpo durissimo alla sua reputazione, si sarebbe, di fatto, trovato nelle condizioni di dover lasciare Roma. 51 F. Cavallera, Jérôme, sa vie et son oeuvre, Louvain-Paris, 1922, vol. 2, p. 86-88, ha ricostruito le circostanze della partenza da Roma sulla base della Prefazione della traduzione geronimiana del De Spiritu Sancto di Didimo il Cieco (consultabile in: Didyme L’Aveugle. Traité du Saint-Esprit – ed. L. Doutreleau, SC 386, Paris, 1992, p. 136-138) e sulla base di adv. Rufin. 3, 21-22, p. 269-275. Cf. altresì P. Nautin, ‘L’excommunication de saint Jérôme’, Annuaire de l’EPHE (Vème section), 80-81 (1972-1973), p. 7-8. Colpisce l’astiosa espressione “senatus Pharisaeorum” usata da Girolamo nella Prefazione In Dydimum de Spiritu Sancto per designare l’assemblea del clero romano che lo indusse a lasciare Roma. 49 50
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femminile, vivevano Paola ed Eustochio, con le quali lo Stridonense era in contatto: un’ottima sistemazione per la pratica quotidiana della lettura e del commento della Bibbia52. Girolamo era a pochi chilometri da Cesarea dove aveva a disposizione, grazie alla biblioteca di Panfilo, gli Hexapla e le opere esegetiche di Origene: poteva così dedicarsi alla composizione dei commenti scritturistici vivamente auspicati da Paola ed Eustochio, nonché dalla stessa Marcella, rimasta a Roma e tuttavia in corrispondenza epistolare con il Nostro. Così nacquero, in pochi mesi53, l’uno dopo l’altro54, i Commentari all’epistola a Filemone, ai Galati, agli Efesini, a Tito. È necessario chiedersi, al termine di questa ricostruzione delle circostanze storiche che videro la composizione dell’esegesi paolina di Girolamo, perché il Nostro scelse di iniziare a commentare, tra i libri della Bibbia, proprio le lettere di S. Paolo. Sicuramente rispondeva a specifiche sollecitazioni di Paola ed Eustochio55, ma questa non è stata l’unica motivazione; in verità, la decisione appare legata a quanto era avvenuto durante il soggiorno a Roma. È infatti chiaro che nelle intenzioni di Girolamo l’esegesi doveva circolare non solo nelle comunità monastiche betlemite, bensì, attraverso Marcella e gli amici dell’Urbe56, in tutto l’Occidente, in modo da poter raggiungere gli ambienti italici e romani a lui rimasti legati, ma anche quelli che avevano attaccato le sue idee ermeneutiche e la sua pratica esegetica. Insomma Girolamo decise Cf. P. Jay, L’exégèse de saint Jérôme, p. 529-534. Sulla rapidità di composizione dei Commentari paolini si confronti F. Pieri, L’esegesi di Girolamo, p. x e xii, e Gir., In Tit. (ed.) – ed. F. Bucchi, Introduzione, p. vii. 54 Circa l’ordine di composizione si consultino ancora F. Pieri, L’esegesi di Girolamo, p. ix-x, e Gir., In Tit. (ed.) – ed. F. Bucchi, Introduzione, p. v-vi. 55 Cf. Gir., In Philem., p. 81, 5-10: “praepostero ordine atque peruerso, in epistolas Pauli dictari a me uobis placuit. Nam cum id crebro, o Paula et Eustochium, peteretis ut facerem, et ego obnixe ne facerem recusarem, saltem paruam et quae uobis ut numero uersuum, ita sensu quoque et ordine uidebatur extrema, ut dissererem coegistis”. 56 M. Maritano, ‘Il « Lector » nel « Commento al Vangelo di Matteo » di Girolamo’, in Esegesi e catechesi nei Padri (secc. iv-vii) – ed. S. Felici, Roma, 1994, p. 44, definisce gli amici di Girolamo a Roma un vero e proprio « centro di documentazione ». 52 53
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di commentare Paolo non solo perché spinto dall’amicizia per Paola, Eustochio e Marcella, non solo perché entusiasta dell’esegesi origeniana dell’epistolario dell’Apostolo, non solo per il suo interesse per le tematiche paoline, ma altresì perché non aveva dimenticato il livore per il ‘senatus Pharisaeorum’57 e voleva contrapporsi nel modo più evidente ad Ambrosiaster che, oltre ad essere stato tra i suoi più acerrrimi avversari, era in Occidente l’esegeta del momento. In altre parole, poiché a Roma in quegli anni l’esegesi aveva il massimo rappresentante nell’opera dell’avversario, Girolamo accettò le sollecitazioni di Paola e Marcella in quanto intravedeva la possibilità di dimostrare l’ignoranza che imputava ad Ambrosiaster sul suo stesso terreno, cioè l’esegesi delle epistole di Paolo58: a tal fine aveva a disposizione, nella biblioteca di Cesarea, i testi e i commenti di lingua greca (Origene in testa a tutti) che poteva utilizzare per dettare il proprio commento. Trova così una spiegazione l’esordio ad effetto dell’In Galatas: “affronterò un’impresa non tentata prima di me dagli scrittori della nostra lingua e, tra i Greci stessi, frequentata da pochissimi, come richiedeva la dignità della materia” (Pref. 2); Girolamo sapeva che tale affermazione avrebbe sorpreso il lettore occidentale, ed in particolare romano, che conosceva le opere degli altri commentatori latini (Mario Vittorino e l’Ambrosiaster) e dunque non considerava una novità il Commentario geronimiano. Ma proprio facendo leva sulla complicità del lettore lo Stridonense intendeva, negando l’evidenza, stuzzicare l’interesse dei destinatari Cf. J. N. D. Kelly, Jerome, p. 141 e 149. Se il destinatario della epist. 27 è Ambrosiaster, come mostrato da Vogels e convintamente sostenuto da tutti gli studiosi (cf. supra, nota 38), durissime sono le parole con le quali Girolamo vi attacca l’ignoranza ermeneutica dell’avversario: “Ma se non riescono a gustare l’acqua di questa sorgente purissima [i.e. l’originale greco del Nuovo Testamento], continuino pure a bere ai ruscelli torbidi; leggendo la Scrittura, rinuncino alla meticolosità che li ha resi intenditori nel gustare piatti di uccelli e le qualità di conchiglie marine; soltanto in questo campo siano semplici, e prendano all’ingrosso le parole di Cristo su cui già da parecchi secoli non poche menti geniali hanno versato sudore, senza arrivare ad altro che a fare congetture, più che a esprimere con esattezza il significato di ogni parola! Perché non accusano anche di incapacità quell’Apostolo che è stato giudicato pazzo, solo perché era molto dotto?” (Gir., epist. 27, 1, vol. 1, p. 255-256). 57 58
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romani nei confronti delle novità della propria opera ed instaurare così una gara di aemulatio con gli altri esegeti latini59. Con ciò, però, siamo condotti all’analisi del metodo esegetico e delle fonti di Girolamo, sulla quale mi soffermerò nel prossimo capitolo.
Il metodo esegetico nell’In Galatas Esegesi e filologia Dopo la densa e articolata Prefazione60, il commento di Girolamo prende avvio, secondo modalità ormai ben consolidate nell’esegesi cristiana antica, attraverso la proposizione al lettore, per brevi pericopi, di ep.Gal.; dinanzi al versetto paolino l’attenzione dello Stridonense è spesso rivolta alle differenze tra il testo latino circolante (una versione della cosiddetta Vetus latina) ed il testo greco. Sono numerosi i lemmi di ep.Gal che lo Stridonense innova, giacché la traduzione dal greco non gli appare soddisfacente o gli risulta decisamente errata; il filologo Dalmata non tralascia occasione per discutere le varianti, per proporne di nuove e per avanzare soluzioni ermeneutiche sulla base di una nuova traduzione dell’originale greco61. Ho avuto modo di esaminare, in altri contributi ai quali rinvio62, numerosi esempi di quest’approccio a ep.Gal. che non tralascia Si veda M. Maritano, ‘Il « Lector »’, p. 59: “Questi lettori per noi senza volto [...] sono i veri interlocutori di Girolamo. Egli si pone in dialogo constante con essi: cerca di prevenire le loro difficoltà, le loro obiezioni, i loro dubbi, la loro curiosità sul piano esegetico, filologico e dottrinale, ma tenta anche di indovinare le loro emozioni, i loro desideri, le loro attese”. 60 Per la quale si consulti, soprattutto, Intr., p. 7-11 e 34-44. 61 Y.-M. Duval, Jérôme. Commentaire sur Jonas, Paris, 1985, Introduction, p. 42-51, ha messo in evidenza l’evoluzione della maniera in cui Girolamo presenta le differenze tra le diverse traduzioni latine di un versetto biblico: si va dalle osservazioni sulla Vetus inserite nel commento, come accade nell’esegesi paolina, all’accostamento, nei Commentari sui dodici Profeti minori, del doppio lemma che riporta i versetti sia nella traduzione latina dall’ebraico sia in una traduzione latina derivata dalla Settanta, in modo tale che “ce double texte complet prépare et facilite les comparaisons critiques auxquelles se livre Jérôme” (p. 45). 62 G. Raspanti, ‘L’esegesi della lettera ai Galati’, p. 111-118. 59
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una rigorosa analisi filologico-ermeneutica del lemma oggetto di commento63; ho altresì evidenziato64 il carattere fortemente innovativo di quest’esegesi per il pubblico occidentale65, perché è modificato il modo di lavorare in uso in Mario Vittorino ed Ambrosiaster, i quali, per precise circostanze storico-culturali, osservavano una dogmatica venerazione nei confronti delle traduzioni latine correnti di ep.Gal., in ossequio alle quali venivano talvolta adattate le interpretazioni.
L’esegesi polifonica Alla libertà con la quale Girolamo interviene sulla Vetus latina si unisce, nel solco tracciato dalla tradizione origeniana, la scelta di un’esegesi ‘polifonica’66. Due affermazioni dell’In Galatas chiariscono le modalità con le quali lo Stridonense ha elaborato il commento. La prima è nell’introduzione al terzo libro: “Il mio compito è discutere i luoghi poco chiari, sintetizzare quelli evidenti, soffermarmi su quelli incerti, per cui il genere dei commentari è anche denominato dai più ‘spiegazione’”67. Per il Nostro, l’esegeta ha il compito di dissertare sui brani oscuri dei testi commentati, sorvolando su ciò che è evidente e soffermandosi sui casi incerti. Queste parole trovano ampia eco e ulteriore 63 Girolamo aveva già maturato un’importante competenza traducendo per conto di Papa Damaso i Vangeli, qualche anno prima di lasciare Roma (383); sulla qualità di queste traduzioni, all’origine della Vulgata, si veda C. Rico, ‘L’art de la traduction chez saint Jérôme: la Vulgate à l’aune de la Néovulgate: l’exemple du quatrième évangile’, Revue des études latines, 83 (2005), p. 194-218; si consulti, inoltre, la messa a punto sul lavoro di Girolamo come traduttore di A. Fürst, Hieronymus. Askese, p. 83 e p. 88-90. 64 G. Raspanti, ‘L’esegesi della lettera ai Galati’, p. 126-127. 65 La portata di questa innovazione geronimiana non avrà, com’è noto, una facile acculturazione nelle comunità cristiane di lingua latina: cf. A.-I. BoutonTouboulic, ‘Autorité et tradition: la traduction latine de la Bible selon saint Jérôme et saint Augustin’, Augustinianum, 45, 1 (2005), p. 185-229. 66 Su aspetti metodologici e formali dell’In Galatas, sul compito dell’esegeta, e, più in dettaglio, sulle considerazioni geronimiane di seguito evocate rimando altresì a G. Raspanti, ‘Adgrediar opus intemptatum: l’Ad Galatas di Gerolamo e gli sviluppi del commentario biblico latino’, Adamantius, 10 (2004), p. 207-210, nonché alla bibliografia lì discussa ed utilizzata. 67 Gir., In Gal. 3, Prol., 3.
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e significativa illustrazione in una nota asserzione geronimiana dell’Apologia contra Rufinum, nella quale68 è chiarito che, se rendere manifesti i testi ‘obscure scripta’ è il fine dell’esegesi, si perviene a tale risultato utilizzando un linguaggio semplice e riportando le opinioni di diversi commentatori, le testimonianze e gli argomenti con i quali questo o quell’interprete hanno sostenuto le proprie spiegazioni69. In sostanza, Girolamo mostra di intendere l’esegesi come ‘dibattito ermeneutico’ intorno ai luoghi oscuri, come meditata e personale rielaborazione delle molteplici possibilità esegetiche rinvenute da altri commentatori oltre che da lui stesso: si tratta, come fa notare il medesimo filologo Dalmata, del principio teorico, ampiamente utilizzato nei commenti dei più illustri intellettuali del tempo non solo cristiani ma altresì pagani (Aspro, Mario Vittorino, Donato)70. Da qui deriva la necessità di attingere a molteplici fonti greche Gir., adv. Rufin. 1, 16, p. 45-47. Circa l’importanza della testimonianza per la teoria esegetica di Girolamo si vedano Y.-M. Duval, Commentaire sur Jonas, Introduction, p. 74-79; P. Jay, L’exégèse de saint Jérôme, p. 69-76; P. Siniscalco, ‘La teoria e la tecnica del commentario biblico secondo Girolamo’, Annali di Storia dell’Esegesi, 5 (1988), p. 229-230. 70 Poggia su queste dichiarazioni un’opinione diffusa e condivisa tra gli studiosi geronimiani, che cioè l’esegesi dello Stridonense sia erede del commentario grammaticale e retorico praticato a Roma nelle scuole, in primo luogo da Donato e Mario Vittorino. Ricordiamo i contributi a nostro giudizio più significativi a tal riguardo: L. Holtz, Donat et la tradition de l’enseignement grammatical, Paris, 1981, p. 37-46; P. Jay, L’exégèse de saint Jérôme, p. 20-28 e 72-73; Y.-M. Duval, Commentaire sur Jonas, Introduction, p. 29-42; P. Siniscalco, ‘La teoria e la tecnica del commentario’, p. 225-238; C. P. Bammel, ‘Die Pauluskommentare des Hieronymus: die ersten wissenschaftlichen lateinischen Bibelkommentare?’, in Cristianesimo latino e cultura greca sino al sec. iv (Studia Ephemeridis Augustinianum, 42), Roma, 1993, p. 205; M. Maritano, ‘Il « Lector »’, p. 36-39 (evidenzia però la differenza di finalità tra il commentario biblico e quello profano); V. Milazzo, ‘« Etsi imperitus sermone ... »: Girolamo e i solecismi di Paolo nei commentari alle epistole paoline’, Annali di Storia dell’Esegesi, 12/2 (1995), p. 262; L. Perrone, ‘Questioni paoline nell’epistolario di Gerolamo’, in Motivi letterari ed esegetici in Gerolamo, a cura di C. Moreschini – G. Menestrina, Brescia, 1997, p. 85-86; F. Pieri, L’esegesi di Girolamo, p. lxii-lxvi. P. Siniscalco, ‘La teoria e la tecnica del commentario’, p. 237, è giunto ad affermare che il monaco Betlemita “spiega la Sacra Scrittura nel modo con cui i suoi maestri commentavano Virgilio”. Ciò che a giudizio di Siniscalco differenzia il Commentario geronimiano da quello grammaticale è “il fine ultimo che Girolamo si propone commentando le Sacre Scritture”, che è “di natura esistenziale e non conoscitivo”. 68 69
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e latine nel commento di ep.Gal., in modo che il lettore71, leggendo spiegazioni di più esegeti, possa farsi un giudizio e scegliere la spiegazione che giudica più vera. Ciò ci riporta alla seconda affermazione metodologica importante dello Stridonense nell’In Galatas: “Ho letto tutti questi testi [scil. i commenti di Origene, di Didimo il Cieco, di Apollinare di Laodicea, di Eusebio d’Emesa, di Teodoro di Eraclea ma anche del latino Mario Vittorino] e accumulando nella mia mente idee diverse, fatto venire lo scrivano, ho dettato pensieri miei e di altri senza tenere conto della disposizione né talora delle parole né dei significati”72. Queste affermazioni sono una chiave decisiva per entrare nell’officina ermeneutica geronimiana nel 386 e comprenderne due aspetti fondamentali: in primo luogo, il continuo ricorso a molteplici fonti per la composizione dell’In Galatas73, in secondo luogo, il carattere zetetico ed euristico dell’esegesi su Paolo. Sulla pluralità di fonti, pur nella sostanziale centralità delle opere di Origene quale ipotesto diffuso di In Galatas, ho avuto modo di soffermarmi in passato74; è opportuno però sottolineare qui, con maggior forza di quanto non abbia fatto altrove, che non necessariamente le spiegazioni riportate da Girolamo come ‘vox aliena’ siano sempre da ricondurre ad altri esegeti: non raramente si tratta di un interlocutore ‘fictus’, al quale il Nostro attribuisce posizioni esegetiche proprie, sicché il lettore possa avere l’impressione di attingere, attraverso il lavoro del monaco Betlemita, ad una lunga tradizione ermeneutica dell’epistola a Galati che lo Stridonense si dà il compito di perpetuare fino ai propri giorni.
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A proposito delle caratteristiche del ‘prudens lector’ rinvio alle interessanti considerazioni di M. Maritano, ‘Il « Lector »’, p. 45-49. 72 Cf. In Gal. Pref. 2. 73 È un modo di leggere e commentare il testo sacro innovativo per l’Occidente cristiano di lingua latina: cf. C. P. Bammel, ‘Die Pauluskommentare’, p. 206, ma anche le mie precisazioni: G. Raspanti, ‘L’esegesi della lettera ai Galati’, p. 126-127. 74 Cf. G. Raspanti, ‘Adgrediar opus intemptatum: l’Ad Galatas di Gerolamo’, p. 195-207.
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Esegesi e ‘quaestiones’ Per quanto attiene alla seconda essenziale caratteristica della tecnica esegetica dell’In Galatas (che, ad ogni modo, alla prima è strettamente congiunta), bisogna effettivamente considerare l’incidenza che il genere delle ‘quaestiones et responsiones’ ha avuto sulla composizione di quest’opera; gli esempi dell’influsso del linguaggio e della metodologia zetetica sull’esegesi dell’In Galatas sono davvero numerosi75. Il Commentario di Girolamo mette in evidenza una completa compenetrazione degli aspetti teorici e pratici delle quaestiones nella struttura dell’In Galatas sia per il non raro inserimento di quaestiones nello sviluppo dell’esegesi sia perché tecnica e linguaggio zetetico sono del tutto assorbiti dalla prassi ermeneutica del Nostro76. In pratica, la tecnica zetetica porta in evidenza contraddizioni tra brani biblici, ovvero previene obiezioni che eretici o pagani potrebbero muovere interpretando il testo della Scrittura, o infine permette di approfondire meglio il senso del testo paolino cogliendo i significati profondi che l’Apostolo ha voluto comunicare con l’epistola. Individuati i punti oscuri o i punti deboli del testo oggetto di commento, Girolamo ne offre la spiegazione, nel maggior numero dei casi da un unico punto di vista (che questo sia veramente suo o non sia piuttosto una rielaborazione del testo di Origene ha qui poca importanza), in un certo numero di altri casi evocando molteplici punti di vista presentati attraverso tradizionali mezzi formali come quidam, alii, quis, aliter, etc77. 75 Essi sono esaminati in G. Raspanti, ‘Adgrediar opus intemptatum: l’Ad Galatas di Gerolamo’, p. 210-214. 76 È ovvio pensare che questo già avvenisse nella fonte principale del monaco Betlemita, cioè Origene. Ma non si deve considerare del tutto acritico il ruolo che può aver svolto lo Stridonense in questo fenomeno di assorbimento delle quaestiones nel Commentario: è degna di nota, infatti, l’acribia con la quale Girolamo riflette sulle regole del commentario e sulle conseguenze del sovrapporsi dei generi della quaestio e del commentario. A proposito della presenza nelle opere origeniane della metodologia zetetica si consulti L. Perrone, ‘« Quaestiones et responsiones » in Origene. Prospettive di un’analisi formale dell’argomentazione esegetico-teologica’, Cristianesimo nella storia, 15 (1994), p. 1-50. 77 Come dicevo, non è escluso che le spiegazioni di ‘certuni’ siano solo fittizie o non abbiano una paternità così definita come Girolamo vuol far credere; è anche possibile che nella fonte principale, Origene, Girolamo trovasse più
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La ‘doppia interpretazione’ Benché l’In Galatas abbia le caratteristiche, sin qui descritte, di esegesi ‘aperta’, bisogna altresì dire che il Commentario è solidamente incardinato sul principio della cosiddetta “duplex intellegentia”, che informa ogni aspetto dell’opera. Alcuni brani ci consentono di comprendere a fondo la ‘doppia interpretazione’; in primo luogo, deve essere preso a riferimento l’esegesi di Gal 4, 24b-26, in cui Girolamo riferisce di un commentatore fuori dal coro (a mio parere, potrebbe essere Origene la fonte di queste considerazioni), secondo il quale le due alleanze rappresentano due modi diversi di intendere la Scrittura, tanto l’Antico quanto il Nuovo Testamento, per cui sono figli di Agar (dunque della schiava) quelli che interpretano alla lettera la Bibbia, sono invece figli di Sara (quindi della donna libera) coloro che si rivolgono ai contenuti più profondi ed intendono il testo sacro in modo allegorico, cioè spirituale78; peraltro questa distinzione è anche, ad avviso della fonte evocata da Girolamo, una gradazione gerarchica che deve seguire, in modo personale, ciascun interprete della Bibbia passando dal livello letterale della Scrittura (historia) al livello superiore nel quale Cristo gli apre il senso del testo e si disvela altresì come significato del testo medesimo79. Quel che lo Stridonense presenta, in 4, 24b-26, 2, come spiegazione d’altri è, in verità, il baricentro della tecnica esegetica che egli utilizza nei tre libri dell’In Galatas, come emerge sia dalle continue dichiarazioni dell’autore sulla necessità di seguire la doppia interpretazione sia dalla presenza di spiegazioni che, dopo il chiaramento del senso storico-letterale
spiegazioni del medesimo Adamanzio, che poi presenta come esegesi di diversi autori; cf. Y.-M. Duval, Commentaire sur Jonas, Introduction, p. 75: “[...] le lecteur moderne ne doit pas se laisser induire en erreur par ce pluriel d’indétermination. Il a toute la chance de ne représenter qu’une seule personne. Les lecteurs de Jérôme le savaient”. 78 Cf. In Gal. 2, 4, 24b-26, 2. 79 G. Raspanti, ‘The Significance of Jerome’Commentary on Galatians in His Exegetical Production’, in Jerome of Stridon. His Life, Writings and Legacy, ed. A. Cain – J. Lössl, Aldershot, 2009, p. 168-169.
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del versetto paolino, procedono alla ricerca del senso spirituale della pericope. Utile è il commento a 4, 24a in cui lo Stridonense si sofferma sul valore della parola ‘allegoria’ tanto in ambito scritturistico quanto nella tradizione culturale greco-romana, al fine, innanzitutto, di contestualizzare l’uso del termine da parte dell’Apostolo80; Girolamo osserva così la presenza costante del linguaggio allegorico nella Scrittura e individua nell’uso di ‘allegoria’ una strategia di Paolo che prende a prestito la terminologia retorica delle ‘litterae saeculares’ per mostrare la necessità della ‘intellegentia spiritalis’ come unico e vero modo di interpretare tutta la Scrittura e di coglierne il pieno significato, cioè Cristo, senza ammettere elementi della tradizione rituale giudaica. Riveste una notevole significatività anche il paragrafo 4 del commento a Gal 4, 22-23, che contiene l’invito al lettore a tendere verso contenuti più elevati (anagogia) perché è vera discendenza di Abramo e nasce secondo la promessa non chi è istruito dalle parole della Scrittura prese alla lettera e si diletta ancora di spiegazioni giudaiche, bensì chi sale verso i contenuti più sublimi e comprende la legge spirituale81. Altro brano che ben testimonia la sistematica ricerca della doppia interpretazione nonché la polarità lettera/spirito è il commento a Gal 5, 17, paragrafo 6, nel quale lo Stridonense rappresenta la storia e il significato legalistico/carnale della Scrittura in contrasto con l’allegoria e la dottrina spirituale: poiché il senso carnale della Scrittura non può essere soddisfatto (infatti non siamo in grado di fare tutte le cose che sono prescritte nella legge), è dimostrato che gli uomini non sono nella condizione di poter adempiere la legge, dal momento che, se anche volessero seguire la lettera, non ne hanno la possibilità82. Bisogna, in effetti, notare che in molti casi Girolamo definisce il primo livello di lettura come livello della circoncisione e della legge, con chiaro riferimento alle tendenze storicoletteraliste tanto dell’esegesi giudaica quanto di quella di ambito Cf. In Gal. 2, 4, 24a, 1-3. Cf. In Gal. 2, 4, 22-23, 4. 82 Cf. In Gal. 3, 5, 17, 6. 80 81
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cristiano. Nella spiegazione di Gal 4, 21 il Nostro dichiara che è denominato ‘legge’ l’insieme dei testi veterotestamentari del Pentateuco e dei Profeti, e non, come si ritiene abitualmente, l’elenco delle prescrizioni rituali; ascoltare la legge vuol dire, quindi, comprenderne, secondo le istruzioni di Paolo, il valore spirituale e non seguirne, alla maniera dei Galati, solamente il guscio esteriore. È bene altresì soffermarsi sui risvolti che nel Commentario geronimiano ha la ‘doppia interpretazione’ sul piano dottrinale. In primo luogo, è da segnalare che la lettura tropologica praticata nell’In Galatas ha una valenza morale; in tal senso si consideri In Gal. 3, 5, 24, 4, nel quale lo Stridonense fornisce la seguente ‘seconda interpretazione’: “Il significato è questo: coloro nei quali vi sono i frutti dello spirito, la carità, la gioia e tutte le altre cose, hanno crocifisso l’interpretazione carnale della Scrittura, che qui è denominata la carne di Cristo, con le sue passioni e desideri, che generano, per i piccoli ed i lattanti, gli stimoli per i vizi. Ha crocifisso una tale carne di Cristo colui che milita non secondo la carne della storia, ma segue come guida lo spirito dell’allegoria”. In sostanza, l’esercizio delle virtù è per il cristiano conseguenza di una comprensione spirituale della Scrittura, mentre, viceversa, l’asservimento alla lettera, comporta i vizi del materialismo, elencati e discussi da Girolamo nell’esegesi di Gal 5, 19-21. In un’altro passo importante del Commentario lo Stridonense esplicita il significato teologico della lettura tropologica del testo paolino83: il compito dell’esegeta è di non arrestarsi alle parole ed al senso superficiale bensì di andare in profondità, lasciandosi guidare, in tale ricerca, dalla fede. La lettura della Bibbia non è fine a se stessa, ma deve avere una qualche utilità, che c’è solo a condizione che la ‘lectio divina’ sia pienamente trinitaria: “la Scrittura è utile a chi ascolta solo quando non è esposta senza Cristo, quando non è proferita senza il Padre, quando colui che predica non la comunica senza lo Spirito”. Un tipo di esegesi che non sia pienamente incentrata su questo 83
Cf. In Gal. 1, 1, 11-12, 3.
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fondamento di verità appartiene ad diavolo ed è fonte di eresie. Nel paragrafo 4 del medesimo commento Girolamo insiste sulla fede quale premessa alla conoscenza del Vangelo: solo ad un iniziale e indispensabile atteggiamento di fede verso il Vangelo può far seguito la ricerca ermeneutica che porta alla luce i contenuti che, nel libro sacro, sono espressi in modo enigmatico e attraverso parabole; ma perché tale ricerca sia fruttuosa è necessaria la rivelazione di Cristo. Ecco, dunque, che i versetti sull’ispirazione divina dell’annuncio dell’Apostolo, frutto della rivelazione di Cristo e non di insegnamenti umani (Gal 1, 11-12), sono l’occasione per ribadire il bisogno, contro Marcione e tutte le pestilenze eretiche84, non solo di un’esegesi che punti al midollo e non si arresti alla superfice del testo biblico, ma soprattutto di una lettura che su questa base tropologica sia divinamente ispirata, cioè, come detto, nasca dal Padre, sia Cristo a pronunciarla, sia lo Spirito a ispirare chi la diffonde. Lo Stridonense nota che la doppia interpretazione (e la lettura allegorica) della Scrittura non è una prerogativa delle comunità fedeli all’ortodossia, bensì, subdolamente, è propria anche degli eretici: in In Gal. 3, 4, 24b-26, 3, il Nostro polemizza con Marcioniti e Manichei, con le loro abitudini di intervenire a piacimento sul testo paolino e, soprattutto, con il loro metodo di interpretazione allegorica della Bibbia, basato, secondo Girolamo, sui propri (umani) convincimenti piuttosto che sull’autorità di chi ha scritto il testo sacro e più in particolare sull’autorità di Paolo, testimone della natura spirituale della legislazione mosaica e dell’Antico Testamento: quel Paolo, peraltro, che le dottrine marcionite e manichee ponevano alla base della loro speculazione. Dietro le significative asserzioni ermeneutiche e dottrinali di Girolamo nella spiegazione di Gal 1, 11-12 e 4, 22-24 è da supporre l’influsso dell’ipotesto, Origene (e la sua tradizione), Sul brano si veda B. Jeanjean, Saint Jérôme et l’hérésie, Paris, 1999, p. 307: “Dans le détournement frauduleux de l’Écriture, les hérétiques ne font que suivre le diable. L’image des coussins, empruntée à Ez. 13, 18, montre clairement leur dessein commun: endormir la conscience des auditeurs en assurant leur confort et leur satisfaction par l’intermédiaire d’une parole flatteuse”. 84
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per il quale ad un primo livello di approccio alla fede, quello puramente informativo-conoscitivo (spesso fornito dalla lettera del testo biblico), segue un secondo livello di approfondimento e penetrazione del senso autentico delle Scritture, senso che è Cristo e che si raggiunge per la mediazione di Cristo medesimo. L’ufficio dell’esegeta è appunto di inoltrare il lettore al secondo livello, cioè in sostanza alla conoscenza spirituale delle Scritture attraverso la spiegazione dei molteplici significati delle medesime. Ma nelle parole geronimiane di In Gal. 1, 1, 11-12, 3-4 si chiarisce altresì il ruolo di Paolo e dell’epistolario per i destinatari del Commentario: egli è l’intermediario della rivelazione di Cristo, colui per il cui tramite emerge la necessità di ricercare il livello profondo di verità (Cristo) presente nelle Scritture.
Il rapporto con Origene e gli altri esegeti paolini Girolamo nella Prefazione (§ 2) afferma che, avvertendo l’inadeguatezza dell’esegesi paolina latina, si è rivolto ad ogni opera in cui Origene ha commentato Paolo: le omelie, il Commentario In Galatas, gli Scholia, il decimo libro degli Stromati; l’Adamanzio è inequivocabilmente ‘la’ fonte dell’In Galatas del Dalmata85. Di questo materiale prodotto da Origene possediamo solo testi fortemente lacunosi, che sono stati di recente ricostruiti da F. Pieri86: gli unici due frammenti di Commentario 85 Cf. G. Grützmacher, Hieronymus. Eine biographische Studie zur alten Kirchengeschichte, vol. 2, Leipzig-Berlin, 1901-1908, p. 31; A. Souter, The Earliest Latin Commentaries on the Epistles of St. Paul, Oxford, 1927, p. 111; M. A. Schatkin, ‘The Influence of Origen upon St. Jerome’s Commentary on Galatians’, Vigiliae Christianae, 24 (1970), p. 49-58; P. Nautin, ‘La date des commentaires de Jérôme’, p. 11; C. P. Bammel, ‘Die Pauluskommentare’, p. 192; Gir., In Tit. (ed.) – ed. F. Bucchi, Introduzione, p. vii-ix; inoltre, sulla questione delle fonti di In Galatas, ricordo tre precedenti miei contributi: ‘San Girolamo e l’interpretazione occidentale di Gal 2,11-14’, Revue des Études Augustiniennes, 49, 2 (2003), p. 297-321; ‘Adgrediar opus intemptatum: l’Ad Galatas di Gerolamo’, p. 194-216; ‘L’esegesi della lettera ai Galati’, p. 109-110 e p. 117-127. 86 Origene. Esegesi paolina. I testi frammentari, Introduzione, traduzione e note a cura di F. Pieri (Città Nuova), Roma, 2009: si veda, in particolare, la ricostruzione dell’esegesi su ep.Gal. nelle p. 19-23 e 219-227.
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di Origene sull’epistola ai Galati sono nell’Apologia pro Origene di Panfilo di Cesarea87; ad essi si aggiunge una testimonianza del monaco Betlemita nella quale è tradotto ad litteram un brano del Commentario origeniano88; infine vi è un certo numero di passi dietro i quali gli interpreti hanno ritenuto di intravedere testi ed idee di Origene89. Naturalmente, a causa della perdita dei testi dell’Adamanzio, è difficile instaurare un confronto tra l’In Galatas di Girolamo e la sua fonte più importante. Ad ogni modo, grazie al lungo frammento riportato nei §§ 2-6 di 5, 13a, è senz’altro possibile comprendere il rapporto di In Galatas con l’ipotesto origeniano e mostrare, attraverso una breve disamina del testo di Origene, l’incidenza decisiva che esso ha avuto sull’opera di Girolamo. Analizziamo, pertanto, il commento origeniano a Gal 5, 13 onde poter verificare la presenza di quegli aspetti che sono altresì caratterizzanti del metodo ermeneutico e dei temi geronimiani. L’esordio del frammento di Origene (§ 2) segnala l’oscurità di 5, 13 e le difficoltà, per i lettori, di cogliere la coesione testuale che sorregge i versetti 13-23 del capitolo 5 di ep.Gal. (§ 4); abbiamo avuto modo di mostrare in precedenza90 il carattere zetetico ed euristico dell’esegesi di Girolamo, che appunto da un versetto giudicato oscuro, incoerente con il contesto o in contraddizione con altri testi della Scrittura prende spesso avvio per l’approfondimento del significato di una determinata pericope di ep.Gal. Origene, nel medesimo § 4, sottolinea la necessità di perseguire la ‘doppia interpretazione’ e di non adagiarsi, come fanno altri interpreti, su una spiegazione letteralista I due brani (ap. Orig. 109, p. 174-176 e ap. Orig. 111, p. 176-178) sono echeggiati nel commento geronimiano a Gal 1, 1 e 1, 11-12; una certa corrispondenza vi è altresì tra ap. Orig. 113, 85-90 (p. 190) e In Gal. 2, 4,4-5, 1, ma Pieri, sulla scorta di R. Amacker ed É. Junod, editori dell’Apologia, sottolinea l’incertezza non della paternità origeniana dell’ipotesto bensì dell’opera dell’Adamanzio cui l’excerptum si deve attribuire (cf. Origene, In Gal. fr., Introduzione, p. 20). 88 Cf. In Gal. 3, 5, 13a, 2-6. 89 Cf. In Gal. 1, 3, 1a, 2; 2, 4, 28; 3, 5, 24, 1. A questi luoghi, per i quali è altamente probabile l’influsso di Origene in virtù delle affermazioni del medesimo Girolamo, si aggiungono altre testimonianze più incerte: cf. A. Souter, The Earliest Latin Commentaries, p. 116-124, e M. A. Schatkin, ‘The Influence of Origen’, p. 57-58. 90 Cf. Intr., p. 29. 87
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di questi versetti; intendere 5, 13-14 così com’è scritto e restare vincolati al linguaggio letterale (definito ‘carne della Scrittura’) è fonte di errore: esiste, secondo Origene, un’argomentazione sviluppata in tutta l’epistola che rischia di essere contraddetta se l’interprete rimane nella carne/lettera della Scrittura e non s’innalza, invece, allo Spirito della stessa. Per altro verso, sappiamo quanto la ‘doppia interpretazione’ sia il tema centrale dell’In Galatas di Girolamo e quanto lo Stridonense si sforzi di attenersi a questa metodologia ermeneutica per assicurare una sostanziale coesione al commento, pur riportando una molteplicità di possibili spiegazioni del singolo versetto91. Nel § 5 Origene menziona una corposa serie di testimonianze bibliche che dimostrano che il livello letterale della Scrittura è fonte di tutti i mali che Paolo elenca in 5, 19-21: inimicizie, omicidi, liti, invidie, ire, lotte, discordie, ubriachezze, impurità, etc.; anche in questo caso è agevole verificare nell’In Galatas di Girolamo la citazione continua di brani biblici a chiarimento dei versetti commentati, ovvero a conferma dell’una o dell’altra ipotesi esegetica, o infine a sostegno della proposta tematica individuata dal Nostro con il metodo della ‘doppia interpretazione’. Origene (ancora § 4) ribadisce che il senso carnale della Scrittura (dunque il primo livello d’interpretazione) non ha alcun giovamento per l’edificazione del lettore, ma che se questi, superate la lettera e le figure, passa alla verità e allo spirito della Scrittura, subito si diffonde in lui la carità, la gioia, la pace, la bontà, la pazienza, la fede, la castità e tutti gli altri frutti dello Spirito elencati in Gal 5, 22-23 (§ 6). Allo stesso modo anche per Girolamo l’esegesi ha lo scopo di essere edificante, sicché, come spiegavo in precedenza92, l’interpretazione tropologica è, per il Nostro, morale, giacché nutre l’ascesi del credente orientandolo all’esercizio delle virtù e tenendolo lontano da vizi e passioni, è teologica, perché guida alla corretta comprensione del Cristo e delle sue relazioni con il Padre e con lo Spirito Santo allontanandolo dagli errori degli eretici, è pastorale, in quanto regola 91 92
Cf. Intr., p. 30-34. Cf. Intr., p. 30-34.
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la vita e le scelte della chiesa con l’alimento della preghiera e della disciplina ecclesiastica. La fortunata circostanza del confronto possibile tra il frammento di Origene e l’esegesi In Galatas dello Stridonense conferma quanto l’opera del Nostro sia vicina sotto ogni aspetto alla fonte, da cui eredita tecnica esegetica e contenuti. Tuttavia, il medesimo commento a Gal 5, 13a dimostra che, pur essendo Origene l’interlocutore principale del testo, il Commentario di Girolamo non è un plagio bensì nasce da uno sforzo di rielaborazione ed innovazione: dopo la citazione della fonte, egli aggiunge (§ 7) proprie considerazioni chiarendo meglio il significato di ‘libertas’ del versetto 13 mediante un opportuno riferimento al versetto 5, 1 (rafforzando, peraltro, l’idea della coerenza tra le parti dell’epistola). Poi il monaco Betlemita lascia spazio al dibattito ermeneutico aggiungendo un’altra possibile interpretazione (§ 8: “Ma si può intendere anche diversamente [...]”), che però ritiene confutata dal senso delle parole dell’Apostolo: la libertà di cui parla Paolo potrebbe certo essere interpretata come libertà da ogni precetto per cui sarebbe possibile che “qualunque cosa mi andrà e il piacere mi suggerirà lo farò, lo soddisferò, lo inseguirò”; ma la libertà paolina è da intendere – chiosa Girolamo – come la fine dell’asservimento alla legge e come servizio alla carità, nella quale si racchiudono tutti i precedenti precetti della legge. È evidente, insomma, che l’In Galatas non è un acritico e più o meno fedele calco o un riassemblamento di testi origeniani, come un po’ semplicisticamente concludeva Nautin93, bensì, come ha osservato felicemente Moreschini94, ci troviamo dinanzi ad “una tecnica esperta e raffinata, che non può in alcun modo essere confusa con il plagio”. Girolamo riformula, con le pretese e le intenzioni autoriali proprie di ogni intellettuale antico (in perenne ed intenso dialogo con gli ipotesti), l’esegesi paolina di Origene, 93 P. Nautin, ‘La date des commentaires de Jérôme’, p. 11: “Le plus souvent, Jérôme suit son modèle en l’abrégeant beaucoup. D’autres fois, il le traduit presque littéralement”. 94 C. Moreschini, ‘L’utilizzazione di Porfirio in Gerolamo’, in Motivi letterari ed esegetici in Gerolamo, a cura di C. Moreschini – G. Menestrina, Brescia, 1997, p. 190.
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mescolandovi altro materiale che deriva dall’Alessandrino o da qualche altro commentatore, ma anche conoscenze e riflessioni personali. Non è infatti da trascurare il ruolo che possono aver avuto gli altri commentatori citati nella Prefazione di In Galatas95; viene ad esempio identificata in Origene96 la fonte della spiegazione geronimiana di Gal 2, 11-14, dal momento che, quasi vent’anni più tardi, nell’epist. 112 il Nostro ribatte alle perplessità di Agostino dichiarando: “La mia tesi [scil. su Gal 2, 11-14] è stato Origene a sostenerla per primo, nel suo decimo libro degli Stromati – dove ha commentato la lettera di Paolo ai Galati –, e l’hanno sostenuta poi tutti gli altri esegeti. Il motivo per cui l’hanno avanzata (subintroducunt) è soprattutto questo: doveva essere una risposta alla bestemmia di Porfirio, il quale accusa Paolo di audace presunzione per aver osato criticare Pietro, il principe degli Apostoli, per avergli lanciato una aperta accusa, per averlo costretto ad ammettere d’aver agito male, e cioè d’esser caduto in un errore in cui lui stesso, oltretutto, era caduto, proprio lui che adesso accusava un altro di quel peccato”97. Queste affermazioni geronimiane sono sostanzialmente coerenti con quanto lo stesso afferma nella Prefazione di In Galatas (§ 4), dove è ben ribadita, in effetti, la cornice antiporfiriana nella quale si colloca l’esegesi di Gal 2, 11-14. Vi è però un dato significativo di epist. 112, 6 che ha suscitato non poche perplessità negli studiosi: scrivendo ad Agostino Girolamo dice di aver trovato nel decimo libro degli Stromati la spiegazione origeniana che riporta nell’In Galatas, ma certo non poteva trovarsi in Origene l’applicazione geronimiana di tale spiegazione contro le accuse che Porfirio rivolgeva ai cristiani utilizzando Gal 2, 11-14 nelC. P. Bammel, ‘Die Pauluskommentare’, p. 194-196, ha instituito un interessante confronto tra il Commentario dello Stridonense ed i pochi frammenti dell’In Galatas di Eusebio d’Emesa dimostrando che tra i due commentatori vi sono degli elementi di somiglianza, anche se è probabile che questi elementi dipendano dal fatto che entrambi stanno nella medesima tradizione che si richiama ad Origene. Cf., inoltre, G. Raspanti, ‘Adgrediar opus intemptatum: l’Ad Galatas di Gerolamo’, p. 201-202. 96 Cf. C. Moreschini, ‘L’utilizzazione di Porfirio’, p. 183 e 186. 97 Cf. Gir., epist. 112, 6, vol. 3, p. 384. 95
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la sua famosa confutazione della nuova religione: come nota F. Cocchini, “anche volendo ammettere una conoscenza diretta di Porfirio da parte di Origene [...] essa si sarebbe verificata a Cesarea: in un periodo quindi successivo alla composizione degli Stromati e comunque quando Porfirio era ancora giovane e non aveva di certo scritto i suoi quindici libri « Contro i cristiani »”98. A mio giudizio, la difficoltà sollevata dagli studiosi è agevolmente superabile con le seguenti considerazioni. In primo luogo, nell’In Galatas non v’è luogo in cui vengono messi in relazione la spiegazione origeniana di Gal 2, 11-14 (per intenderci, la simulazione diplomatica di Pietro e Paolo finti litiganti), il decimo libro degli Stromati e l’applicazione di tale spiegazione alla polemica con Porfirio; in secondo luogo, va riconsiderato molto attentamente il testo latino di epist. 112, 6: Hanc autem expositionem, quam primus Origenes in decimo Stromatum libro, ubi epistulam Pauli ad Galatas interpretatur, et ceteri deinceps interpretes sunt secuti, illa uel maxime causa subintroducunt, ut Porphyrio respondeant blasphemanti; ebbene, mi sembra che la traduzione di S. Cola, introducendo una pausa forte (un punto) dopo ‘secuti’, non tiene in adeguata considerazione la presenza di ‘uel maxime’ e produce un’ambiguità ed un rischio conseguente di fraintendimento del testo geronimiano. Gli interpreti che hanno seguito la spiegazione di Origene sono quegli stessi che la reimpiegano, la rimettono in gioco per rispondere alle blasfemie di Porfirio: ma Girolamo non dice che Origene l’ha avanzata contro Porfirio bensì che l’ha escogitata; non vi è alcuna ragione per includere Origene tra gli interpretes che hanno seguito la sua spiegazione (!), che – come detto – sono poi gli stessi che se ne sono serviti contro il filosofo di Tiro (vi è assoluta identità di soggetto per i due verbi sunt secuti e subintroducunt). In sostanza, non vi è, a mio giudizio, 98
Cf. F. Cocchini, ‘Da Origene a Teodoreto: la tradizione esegetica greca su Gal 2,11-14 e la controversia origeniana’, in Origeniana septima: Origenes in den Auseinandersetzungen des 4. Jahrhunderts – ed. W.A. Bienert – U. Kühneweg, Leuven, 1999, p. 304, n. 46. Si veda altresì C. Moreschini, ‘L’utilizzazione di Porfirio in Gerolamo’, p. 182-183. Anche per A. Fürst, Augustins Briefwechsel mit Hieronymus (Jarbuch für Antike und Christentum, 29), Münster, 1999, p. 15, la polemica antiporfiriana di cui parla Girolamo non poteva risalire ad Origene.
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contraddizione tra In Galatas ed epist. 112, 6, ovvero: la spiegazione di Gal 2, 11-14 è origeniana, il Nostro l’ha trovata negli Stromati (come dichiara in epist. 112, 6), ma Girolamo non ha seguito nell’In Galatas solo Origene bensì pure gli esegeti elencati nella Prefazione (§ 2) e confermati in epist. 112, 4 (Didimo, Apollinare, Eusebio d’Emesa, etc.); dimodoché non v’è ragione di dubitare che il Nostro, utilizzando sia Origene sia gli esegeti successivi, abbia tenuto conto del fatto che gli esegeti più recenti hanno utilizzato la spiegazione dell’Adamanzio per fini polemici, in particolare contro Porfirio; infine, è nell’elenco degli autori menzionati nella Prefazione dell’In Galatas che va cercato un auctor, comunque ipotetico (visto lo stato lacunoso della trasmissione di queste opere), dell’applicazione antiporfiriana dell’esegesi del finto litigio tra Pietro e Paolo ad Antiochia. È probabile infatti che questa applicazione della spiegazione origeniana di Gal 2, 11-14 potesse aver trovato nuova fortuna ed avesse ripreso vigore nel rinato dibattito tra intellettuali cristiani e pagani al tempo di Giuliano l’Apostata e nei decenni seguenti99, nel quale molti pagani riutilizzavano le argomentazioni di Porfirio100 e molti cristiani quelle di Origene101: tra quanti vi parteciparono troviamo, in posizione di rilievo, uno degli esegeti che il monaco Betlemita dice, nella Prefazione (§ 2), di aver utilizzato per la composizione dell’In Galatas, cioè Apollinare 99
Cf. L. Cracco Ruggini, ‘Un cinquantennio di polemica antipagana a Roma’, in Paradoxos politeia. Studi patristici in onore di G. Lazzati – ed. R. Cantalamessa – L. F. Pizzolato, Milano, 1979, p. 119-144; L. Perrone, ‘Echi della polemica pagana sulla Bibbia negli scritti esegetici fra iv e v secolo: le Quaestiones Veteris et Novi Testamenti dell’Ambrosiaster’, in Pagani e cristiani da Giuliano l’Apostata al sacco di Roma – ed. F. Ela Consolino, Messina, 1995, p. 149-172. Utile per comprendere la dialettica fra importanti intellettuali pagani, come Pretestato, Simmaco, Nicomaco Flaviano, e l’azione pastorale di autori cristiani durante il pontificato di Damaso è E. Di Santo, L’apologetica dell’Ambrosiaster, p. 117-131. 100 Che Giuliano potesse aver ripreso argomentazioni porfiriane anticristiane a proposito della vicenda di Gal 2, 11-14 è sostenuto da A. Fürst, Augustins Briefwechsel, p. 13. In effetti, sappiamo che Giuliano, in Contra Galilaeos fr. 78 (ed. E. Masaracchia, Roma, 1990, p. 276), attacca Pietro definendolo un ipocrita che è stato rimproverato da Paolo per il fatto che ora si preoccupava di vivere secondo i costumi dei Greci, ora secondo quelli dei Giudei. 101 Cf. A. Fürst, Augustins Briefwechsel, p. 15.
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di Laodicea102, autore di trenta libri Adversus Porphyrium (irrimediabilmente perduti), che ebbero un brillante successo, secondo la testimonianza dello stesso Girolamo103. Non sembra azzardato ipotizzare che Girolamo possa aver trovato nell’opera di questo protagonista della polemica antiporfiriana, che era anche un suo antico maestro104, una significativa applicazione dell’esegesi origeniana contro l’uso polemico di Gal 2, 11-14 da parte di Porfirio e dei suoi nuovi fautori105. Certo ci si potrebbe chiedere perché non solo nell’In Galatas ma anche in epist. 112 Girolamo non dica apertamente che da Apollinare ha tratto lo spunto polemico contro l’uso porfiriano di Gal 2, 11-14: bisognerebbe allora far caso alle parole della Prefazione del Commentario (§ 2) che sottolineano la condizione ereticale nella quale Apollinare si era venuto a trovare per la sua cristologia e diverrebbe 102
Anche nel Prologo del Commentario geronimiano all’epistola agli Efesini trova conferma l’uso, accanto a Origene, di Apollinare e Didimo: “Vi invito infine, in questa prefazione, a tenere presente che Origene ha scritto tre libri su questa Lettera, e noi lo abbiamo seguito in parte. Ugualmente Apollinare e Didimo hanno pubblicato dei commentari [su di essa]; anche da loro abbiamo preso qualcosa – ma poco – aggiungendo o togliendo secondo quel che ci sembrava opportuno. Lo zelante lettore sappia dunque fin da ora che quest’opera è in parte di altri e in parte nostra” (Gir., In Eph. Prol., p. 40-41). 103 Cf. Gir., uir. ill. 104, p. 209. Molto utile è epist. 70, 3, vol. 2, p. 297: “Contro di noi hanno scritto Celso e Porfirio; le risposte date da Origene al primo, da Metodio, Eusebio e Apollinare al secondo, sono state estremamente forti. Origene rispose con otto libri, Metodio è arrivato fino a diecimila righe, Eusebio ed Apollinare composero rispettivamente venticinque e trenta volumetti. Valli a leggere, e t’accorgerai che io, in confronto a loro, sono un ignorante. [...] Giuliano Augusto, durante la campagna contro i Parti, ha vomitato contro Cristo sette libri; poi, come dicono certe leggende poetiche, s’è infilzato con la sua stessa spada”. Cf. M. C. Paczkowski, ‘Girolamo e la polemica antiapollinarista’, Antonianum, 79, 3 (2004), p. 482: “È evidente però che molte volte il Nostro [scil. Girolamo] attingeva dal patrimonio interpretativo di Apollinare, anche se alle volte le sue spiegazioni dei versetti biblici gli sembravano troppo laconiche e sporadiche, riducendosi addirittura ad un semplice schema e indicazione degli argomenti. In realtà, Apollinare non commentava il testo biblico nel suo insieme, ma nei punti essenziali. Invece i suoi scritti apologetici erano, a giudizio di Girolamo, ‘i migliori tra i suoi lavori’. Egli cita abbondantemente la sua confutazione di Porfirio”. 104 Cf. P. Jay, ‘Jérôme auditeur d’Apollinaire de Laodicée à Antioche’, Revue des Études Augustiniennes, 20, 1-2 (1974), p. 36-41. 105 Favorevole a quest’ipotesi è A. Fürst, Augustins Briefwechsel, p. 13. C. Moreschini, ‘L’utilizzazione di Porfirio in Gerolamo’, p. 183, afferma che “se [scil. la spiegazione] era stata presentata da Origene, essa doveva replicare ai pagani già prima che intervenisse Porfirio”.
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così evidente la cautela con la quale il Nostro evita indicazioni bibliografiche troppo specifiche su una fonte di tal genere. Ad ogni modo, il dato che mi sembra emerga dalla discussione di un tema centrale dell’esegesi di In Galatas quale quello relativo al commento dell’incidente di Antiochia è che, seppur Origene sia l’ipotesto principale, è stato importante il contributo che Girolamo ha ricavato dalla tradizione ermeneutica greca del iv secolo, amalgamando, secondo le parole del Nostro nella Prefazione, riflessioni di diversa provenienza e pensieri personali in un tutto nuovo ed indistinto. D’altra parte, non è possibile leggere e comprendere l’In Galatas senza considerare altresì il rapporto con gli esegeti latini predecessori, Mario Vittorino ed Ambrosiaster: è opportuno, infatti, ricordare che l’ambiente cristiano a Roma, e più in generale in Occidente, è caratterizzato dalla fioritura, nell’arco di pochi decenni, di numerosi Commentari paolini parziali o completi106. Di Ambrosiaster, l’anonimo commentatore dell’intero epistolario paolino, operante a Roma, durante il papato di Damaso e dunque negli anni 366-384, e delle probabili relazioni ostili con Girolamo si è detto nel capitolo primo di questa Introduzione: 106 Commentano tutte o alcune epistole di S. Paolo, nell’ordine cronologico, Mario Vittorino, Ambrosiaster, Girolamo, Agostino, Anonimo di Budapest, Pelagio, Giuliano d’Eclano. Del fenomeno della fioritura di Commentari paolini si è occupata, soprattutto, M. G. Mara, ‘Ricerche storico-esegetiche sulla presenza del corpus paolino nella storia del cristianesimo dal ii al v secolo’, in Paolo di Tarso e il suo epistolario, L’Aquila, 1983, p. 6-64; inoltre, Ead., ‘Il significato storico-esegetico dei commentari al corpus paolino dal iv al v sec.’, Annali di Storia dell’esegesi, 1 (1984), p. 59-74. Possono risultare utili alla comprensione del contesto culturale nel quale s’innesta l’In Galatas dello Stridonense le seguenti conclusioni di Mara (‘Il significato storico-esegetico’, p. 74): “Nella seconda metà del iv secolo la storia romana si avvia a grandi passi a diventare cristiana e la risposta alla domanda di salvezza che era negli uomini acquista particolare urgenza per il numero di coloro che tale domanda pongono, per gli ambienti da cui provengono quanti al cristianesimo approdano, per il patrimonio culturale e religioso che distingue chi al cristianesimo già appartiene, per le diverse esigenze personali che i cristiani stessi avvertono nei confronti di una vita ascetica. È da sottolineare che è nella Bibbia che la storia romana cristiana del iv-v secolo cerca una risposta a questa domanda di salvezza che è negli uomini. Paolo, più di qualunque altro autore del NT, con la riflessione antropologica e soteriologica diveniva il punto di partenza più idoneo per tale riflessione. Inoltre proprio Paolo, con il suo epistolario carico di tensioni e in molti passi di non facile comprensione, offriva la possibilità di un discorso al tempo stesso unitario ed articolato”.
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abbiamo constatato che proprio il desiderio di opposizione alla prassi ermeneutica di Ambrosiaster potrebbe aver stimolato Girolamo a comporre i Commentari paolini in gara di aemulatio con il predecessore. Già in altri contributi107 ho messo in evidenza che, in tal senso, trova una spiegazione lo stranissimo silenzio dello Stridonense, che nella Prefazione (§ 2) cita tra i predecessori latini Mario Vittorino ma omette Ambrosiaster così come nel resto dell’In Galatas: il silenzio del monaco Betlemita su Ambrosiaster è frutto di un’ostilità sviluppatasi negli anni del soggiorno romano di Girolamo, il quale ha esteso questa ‘damnatio memoriae’ dell’avversario anche ad altri luoghi della sua opera108. Non va meglio a Mario Vittorino, unico latino citato dal Nostro tra gli esegeti paolini109: Girolamo lo giudica del tutto inadeguato a commentare le lettere dell’Apostolo (Pref. 2) a causa del retaggio di erudizione pagana (Vittorino era notissimo professore di retorica), per cui, secondo il Nostro, ha praticamente ignorato la Scrittura e non è stato in grado di spiegarla; in diversi altri contributi ho cercato di chiarire il perentorio giudizio geronimiano su Mario Vittorino ed il diverso contesto ecclesiale in cui fioriscono i Commentari dei due110. In questa sede è necessario ribadire la radicale diversità metodologica tra l’esegesi di Vittorino e quella 107
G. Raspanti, ‘Adgrediar opus intemptatum: l’Ad Galatas di Gerolamo’, p. 198-199. 108 Alcuni anni dopo, quando detta il De viris illustribus, Girolamo non menziona Ambrosiaster e nell’epist. 48, che risale all’incirca al 394, l’esegeta Dalmata cita numerosi commentatori della prima lettera ai Corinzi, ma omette sia Mario Vittorino sia Ambrosiaster (epist. 48, 3, vol. 1, p. 379: “La lettera in questione è stata commentata in lungo e in largo da Origene, Dionigi, Pierio, Eusebio di Cesarea, Didimo e Apollinare”). Secondo A. Stuiber, ‘Ambrosiaster’, in Reallexikon für Antike und Christentum, Supplementum 1/2 (1985), p. 302, fu l’anonimato scelto da Ambrosiaster che favorì Girolamo nel tralasciare, nel De viris illustribus, il più significativo esegeta di Paolo del suo tempo. Il silenzio geronimiano sull’Ambrosiaster non si limita all’esegesi paolina, ma coinvolge l’altra opera attribuita con sicurezza all’Anonimo, cioè le Quaestiones Veteris et Novi Testamenti. 109 Su questa importante personalità della chiesa d’Africa, prima filosofo neoplatonico, poi convertito al cristianesimo, nonché sul suo Commentario paolino (composto negli anni 362-366) si veda, da ultimo, S. A. Cooper, Marius Victorinus’ Commentary on Galatians. Introduction, Translation, and Notes, Oxford, 2005. 110 G. Raspanti, ‘Adgrediar opus intemptatum: l’Ad Galatas di Gerolamo’, p. 195-198; Id., ‘L’esegesi della lettera ai Galati’, p. 118-128.
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geroniniana: la prima non mette il lettore dinanzi ad una pluralità di spiegazioni accumulate intorno al versetto paolino e non pratica ‘la doppia interpretazione’; vi è semmai, in Mario Vittorino, uno spiccato interesse alla riflessione filosofica e teologica sugli spunti cospicui che l’epistola di Paolo offre di capitolo in capitolo. L’esegesi ‘polifonica’ di Girolamo, saldamente incardinata nel principio origeniano della ‘doppia interpretazione’, non indulge però quasi mai ad approfondimenti di tipo filolofico e dottrinale: anzi, nel commento a ep.Gal. 4, 6, il medesimo Stridonense si preoccupa di rimarcare la propria distanza dalla speculazione teologica, dichiarando (§ 2), dinanzi ad un possibile spunto per una riflessione trinitaria sullo Spirito Santo e sulla relazione di questi con il Padre ed il Figlio, che il suo proposito non è di scrivere un trattato filosofico e/o teologico bensì un commentario. In conclusione, credo che queste riflessioni sugli ipotesti dell’In Galatas evidenzino che il Commentario di Girolamo si inserisce in un contesto culturale vivace, nel quale il testo del Nostro è parte di un dibattito vivo e variegato sia su questioni concernenti la teoria e la prassi del commento sia sulle numerose problematiche sollevate dall’intepretazione dell’epistolario dell’Apostolo: molti aspetti dell’esegesi di Girolamo ricevono luce dal confronto con Origene e con i pochissimi frammenti degli altri esegeti greci, ma anche con i Commentari dei predecessori latini, Mario Vittorino e Ambrosiaster, che con la loro opera avevano avviato a Roma la grande stagione del genere del commentario cristiano e, soprattutto, dell’esegesi continua e sistematica dell’epistolario di Paolo.
I temi dell’esegesi di Girolamo su ep.Gal. La fine del giudaismo ed il confronto indiretto tra Paolo e Pietro Introducendo l’epistola ai Galati, Girolamo ne coglie il messaggio nell’invito ai fedeli a non prendere su di sé le prescrizioni legalistiche e le tradizioni giudaiche, perché esse sono
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ormai da considerare solamente figure ed immagini di quel che, invece, ha trovato compimento nella grazia del Vangelo e della fede111. Molto significativa è la contestualizzazione di ep.Gal. che lo Stridonense propone; dietro la circostanza dell’inopinata intromissione di alcuni che avevano fornito ai Galati un’errata lettura dei comportamenti di Paolo e degli apostoli e dunque dietro i toni risentiti con i quali sono redarguiti i fedeli di Galazia, Girolamo coglie una preoccupazione più grave, che fa da sfondo all’epistola: Paolo vuol preservare la libertà e l’universalità dell’annuncio evangelico pur nel rispetto della tradizione giudaica che quell’annuncio aveva preparato. A giudizio dello Stridonense quel che è in gioco, ben al di là della questione dei Galati, è il delicato rapporto tra Paolo e gli apostoli anziani (primo tra tutti, Pietro); in più di un’occasione l’esegeta invita a cogliere la diplomatica cautela di Paolo, che, pur non accusando direttamente Pietro e Giacomo, tuttavia esprime un fermo rifiuto di qualsivoglia accondiscendenza verso il giudaismo. Una siffatta preoccupazione attraversa, secondo Girolamo, i primi due capitoli di ep.Gal., nei quali l’autore difende con forza la rivelazione ricevuta da Dio al pari degli Apostoli che hanno convissuto con Gesù nonché la correttezza del suo operato a difesa della grazia e della libertà del Vangelo: si tratterebbe, per il Nostro, di una sottile ma continua presa di distanza da Pietro e dagli apostoli anziani. Insistendo sulla fine del giudaismo e sulla radicale novità del Vangelo Girolamo paragona il contenuto di ep.Gal. a quello dell’epistola ai Romani112, ma nota che i toni sono diversi e che in ep.Gal. Paolo utilizza un linguaggio più acceso e polemico, laddove l’epistola ai Romani approfondisce, sul versante dottrinale, il mistero dell’incarnazione e risurrezione di Cristo e dunque della salvezza operata tramite il battesimo, che rappresenta la fine della vecchia economia legalistica. La riflessione di Girolamo sulla veemenza della risposta di Paolo alla questione dei Galati e sulla ferma opposizione di costui 111 112
Cf. In Gal. Pref. 3-4. Cf. In Gal. Pref. 3; 2, 3, 15-18, 1.
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al giudaismo e ad ogni ipotesi di mantenimento di riti giudaici in ambito cristiano proveniente da ambienti legati a Pietro e Giacomo va ricondotta ad un contesto particolarmente polemico di ricezione di ep.Gal. nei primi secoli cristiani, nel quale la dialettica tra la visione apostolica paolina e quella pietrina era diventata terreno di scontro tra i cristiani e gli avversari pagani conoscitori della Bibbia, che utilizzavano, contro gli intellettuali cristiani, il confronto tra Pietro e Paolo per dedurne l’argomento della scarsa moralità e della poco edificante condotta dei due. Girolamo è esplicito nel rievocare le accuse di Porfirio contro Paolo e contro Pietro113, protagonisti, secondo il filosofo di Tiro, di una dura contrapposizione sfociata nell’aperto scontro di Antiochia (Gal 2, 11-14); altrettanto esplicita è la menzione di molteplici spiegazioni dell’incidente di Antiochia sorte in ambito cristiano proprio a difesa della condotta paolina e pietrina. Il commento a Gal 2, 11-14 è insomma un cruciale nodo ermeneutico della prima parte di ep.Gal., perché si tratta, per l’esegeta, di prendere posizione, sotto la pressione di attacchi da parte pagana, sul tema fondamentale dell’apostolato di Paolo e di Pietro nelle prime comunità dei credenti nonché sul rapporto giudaismo/cristianesimo.
La contesa ad Antiochia Per quanto concerne la spiegazione geronimiana dell’incidente di Antiochia rinvio al precedente capitolo (Il rapporto con Origine) e alle numerose note della traduzione, nelle quali è aggiornato, con le più recenti novità bibliografiche, lo specifico ed ampio contributo che già in passato ho dedicato all’argomento114. Mi limito, in questa Introduzione, ad affrontare la questione di un’apparente incoerenza dell’esegesi geronimina dei primi due capitoli, giacché se fino a Gal 2, 10 sembra prevalere l’idea di un Paolo saldo nella difesa dell’autorevolezza del suo Vangelo nonché 113 114
Cf. In Gal. Pref. 4; 1, 1, 16, 1; 1, 2, 11-13, 2-7. G. Raspanti, ‘San Girolamo e l’interpretazione occidentale’, p. 297-321.
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nell’opposizione all’accondiscendenza di Pietro verso i Giudei, nel commento all’incidente di Antiochia la dialettica tra i due apostoli appare edulcorata attraverso l’esegesi del finto scontro tra Pietro e Paolo, che salvaguarda sotto ogni aspetto l’armonia tra i due apostoli (i quali, sulla base di un’intesa, avrebbero solo inscenato un finto litigio per non scandalizzare Giudei e pagani, nell’interesse supremo della fede e della chiesa). In primo luogo, va detto che i primi capitoli di ep.Gal. hanno un carattere fortemente apologetico ed è quindi inevitabile che l’esegesi di Girolamo riproduca l’effetto di un Paolo in trincea contro i detrattori della sua predicazione; tuttavia, sin dalla Prefazione, lo Stridonense mitiga questa sensazione sottolineando la cautela paolina, per cui, nonostante risulti evidente in In Gal. 1, 2, 6a, 2 che Paolo si oppone audacemente a Pietro115, lo Stridonense lascia intuire che la disputa resta sempre da leggere nel quadro di una condotta cauta di Paolo, per effetto della quale egli procede prudentemente tra l’elogio ed il biasimo di Pietro, evitando di arrecargli offesa e, contemporaneamente, non rinunciando ad un comportamento fermo e coerente in nome della verità. In sostanza, il Nostro, consapevole del carattere fortemente apologetico dei primi due capitoli di ep.Gal. ma anche desideroso di tutelare l’immagine sia di Pietro sia di Paolo per evitare i rischi dell’interpretazione anticristiana degli intellettuali pagani, non sminuisce la forza dell’appasionata difesa paolina, evitando però ogni atto d’accusa di Paolo contro Pietro attraverso il ricorso al tema ermeneutico della prudenza e della cautela, divinamente ispirate, nonché alla spiegazione dello scontro ad Antiochia quale contrapposizione solo apparente tra i due apostoli. Bisogna, d’altra parte, considerare, per meglio chiarire la coerenza di fondo del commento sui primi due capitoli di ep.Gal., la metodologia ermeneutica ‘aperta’ di Girolamo, per cui, essendo ufficio dell’esegeta riportare le opinioni di altri commentatori, è inevitabile che l’inserimento nel commento di ogni versetto di spiegazioni provenienti da fonti diverse possa generare nel lettore la sensazione di incoerenza e contraddittorietà. 115
Cf. A. Fürst, Augustins Briefwechsel, p. 83-88.
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Gli ‘stolti e sciocchi’ Galati Nel commento a Gal 2, 21 Girolamo coglie una significativa cesura nel testo paolino coincidente con la fine del secondo capitolo: si conclude, infatti, a giudizio dello Stridonense, la parte in cui Paolo polemizza a distanza con Pietro; inizia da 3, 1 un’interlocuzione diretta con i Galati dimodoché l’esegeta avverte il bisogno di spiegare le ragioni dei comportamenti verificatisi in questa comunità. Un tema essenziale del commento al capitolo tre di ep.Gal. è, infatti, la riflessione sulla condotta stolta dei Galati e soprattutto sulla necessità, per la predicazione paolina, di adeguarsi ad essa116: in maniera risoluta e senza argomenti profondi bensì attraverso alcune citazioni veterotestamentarie Paolo ribadisce ai Galati, nel terzo capitolo, l’assoluta preminenza della fede sulle opere della legge e la validità della promessa fatta ad Abramo, cui la fede e non la legge dà compimento. Nel commento che comincia a partire da 3, 1 e si estende fino a 3, 18 lo Stridonense focalizza, dunque, le argomentazioni prevalentemente su due aspetti: da un lato, la caratterizzazione etnica dei Galati, dall’altro, le modalità con le quali bisogna spiegare le citazioni veterotestamentarie inserite da Paolo nei rimproveri ai destinatari dell’epistola. Centrale in questa sezione tematica è il ruolo del prologo al secondo libro, nel quale l’esegeta si sofferma appunto sulla caratterizzazione culturale e sulla storia del popolo dei Galati. Girolamo si dà il compito di spiegare le ragioni per le quali i Galati sono stati chiamati stolti e sciocchi da Paolo, attingendo notizie da varie fonti (anche classiche, benché, com’è sua abitudine, dichiara di non volersene servire) e soprattutto da Lattanzio, finendo con il comporre un breve ma interessante approfondimento geo-etnografico sulle migrazioni nel Mediterraneo antico117. D’altra parte, secondo un principio ermeneutico ben consolidato nell’esegesi dei Padri, lo Stridonense vuol dare risposta alla questione delle 116 È necessario ricordare, a dimostrazione della compattezza strutturale di In Galatas, che già nella Prefazione del Commentario Girolamo aveva annunciato proprio questo tema: cf. Pref. 3. 117 Cf. In Gal. 2, Prol., 1-3.
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caratteristiche dei Galati attraverso l’analisi delle virtù e dei vizi dei popoli descritti nella Scrittura: si tratta, in sostanza, di spiegare la Scrittura con la Scrittura e pertanto il commentatore prende in rassegna le descrizioni paoline delle comunità destinatarie di epistole, i Romani, i Corinzi, i Macedoni118. Da ultimo è evidenziata l’attualità della ‘stoltezza’ dei Galati, che lo Stridonense ritiene essersi perpetuata fino ai suoi tempi, come dimostra il gran numero di scismi ed eresie che sono fioriti ad Ancira (Ankara), capitale della Galazia.
Il ricorso alla hebraica veritas, l’unità della Scrittura, il rifiuto della circoncisione e del letteralismo Un’altra parte, non secondaria, delle considerazioni su Gal 3, 1-18 sono incentrate, come anticipato, sull’analisi dei versetti veterotestamentari citati da Paolo. Lo Stridonense ribadisce in più occasioni la convinzione che è indispensabile, in questi casi, il ricorso alle fonti originali, cioè in sostanza alla versione in ebraico della Bibbia, senza più affidarsi esclusivamente all’intermediazione del greco della Settanta e al latino della Vetus: questo principio, asserito con nettezza119, potrebbe apparire a noi moderni come una scelta ovvia, in realtà si è trattato di una decisione difficile120 e foriera di notevoli conseguenze121. Nel commento dei versetti 3, 1-18 vien fuori più volte l’interesse del Nostro per le questioni testuali poste dall’AT: egli, avendo a disposizione gli Hexapla origeniani122, mostra di conoscere, oltre alla Settanta, altre traduzioni in greco del testo ebraico dell’AT, In Gal. 2, Prol., 4-5. Cf. In Gal. 2, 3, 10, 1. 120 Come ha correttamente notato A. Fürst, Hieronymus. Askese, p. 109. 121 Cf. G. Raspanti, ‘The Significance of Jerome’Commentary on Galatians’, p. 165-166. 122 Nel Commentario In Tit. (trad.) 3, 9, p. 308, Girolamo dichiara apertamente l’uso degli Hexapla di Origene, che contenevano la Settanta: “Per questo abbiamo avuto cura di emendare tutti i libri dell’antica Legge che il dottissimo Adamanzio aveva trascritto dalla Biblioteca di Cesarea per poi riordinarli nei suoi Hexapla, e li abbiamo emendati sulla base degli originali, in cui le parole ebraiche sono scritte nella loro propria scrittura, ma sono anche trascritte 118 119
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quelle di Aquila, di Simmaco e di Teodozione123; ed è dunque logico ritenere che, attraverso queste traduzioni e attraverso i segni diacritici degli Hexapla, lo Stridonense si rendesse conto dei punti in cui l’originale era diverso dalle traduzione latine circolanti in Occidente e ricavate sulla Settanta: in queste occasioni, probabilmente già in maniera autonoma o comunque con il supporto di maestri ebrei, Girolamo si esibisce in attente valutazioni del contesto d’origine delle citazioni bibliche paoline e propone delle innovazioni testuali, dimostrando la radicale novità in Occidente del suo approccio al testo della Scrittura. A partire dal commento a Gal 3, 19 e poi nell’esegesi del quarto e dei primi versetti del quinto capitolo Girolamo sviluppa un’importante riflessione dottrinale sulla legge, sulla circoncisione e sul nuovo modo di intendere l’AT dopo la venuta di Cristo e l’avvento della fede e dell’azione dello Spirito. Delle considerazioni svolte dal Nostro in questa sezione tematica mi sono occupato in precedenza allorché ho esaminato la cosiddetta ‘doppia interpretazione’124; è evidente infatti che Girolamo considera le parole di Paolo nel capitolo quarto di ep.Gal. come un preciso e obbligato modello ermeneutico per ogni interprete che voglia leggere la Scrittura. Ad avviso dello Stridonense, le affermazioni di questo capitolo sono da considerare come istruzioni ai Galati, ma in realtà a tutte le comunità cristiane, sia quelle presenti sia quelle future, su come spiegare il testo dell’Antico Testamento125. In In Gal. 2, 4, 17-18, 2, Girolamo chiarisce quale debba essere il comportamento del cristiano: questi, leggendo Mosè ed i profeti, sa che tutto quel che è avvenuto prima per il popolo giudaico ed è narrato nell’AT, è ombra ed immagine; in verità è stato scritto per i cristiani, per i quali è giunta la fine dei tempi. Il fedele credente comprende accanto in caratteri greci. Anche Aquila, Simmaco, i Settanta e Teodozione hanno le loro rispettive colonne”. 123 L’uso di siffatte traduzioni è esemplarmente testimoniato da In Gal. 2, 3, 10, 1-2 e 2, 3, 13b-14, 1-2, dove vengono appunto riportate le traduzioni operate da Aquila, Simmaco e Teodozione rispettivamente di Dt 27, 26 e di Dt 21, 22-23. 124 Cf. Intr., p. 30-34. 125 Cf. G. Raspanti, ‘The Significance of Jerome’Commentary on Galatians’, p. 166-170.
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che la circoncisione non è del prepuzio ma delle orecchie e del cuore ed essendo risorto con Cristo ricerca i beni spirituali, liberato dal peso e dalla schiavitù della legge: se qualcuno, come un tempo è accaduto con i Galati, volesse persuadere il fedele a non intendere quel che è scritto nella Scrittura in senso figurato ma secondo la lettera che uccide, non lo sta invitando al bene, ma s’affanna a ritrarre indietro colui che a grandi passi correva verso le verità più grandi. Altrettanto significativamente Girolamo afferma che il modo d’intendere testé descritto è adatto alla chiesa cattolica, che asserisce l’unico disegno dell’Antico e del Nuovo Testamento né distingue nel tempo coloro che ha associato nella condizione126. La dichiarazione dello Stridonense circa l’unità dei due Testamenti risente, molto probabilmente, dell’influsso della fonte, Origene, che nella polemica contrapposizione a Gnostici e Giudei nell’Alessandria dei primi decenni del iii secolo si preoccupa di ribadire la progressione dell’Antico Testamento nel Nuovo ed il compimento in quest’ultimo dell’Antico, evitando l’ostilità letteralista degli Gnostici verso l’Antico Testamento e dei Giudei verso il Nuovo. Ad ogni modo, poiché gli inviti di Girolamo ad evitare le insidie delle eresie nell’interpretazione del testo sacro sono costanti nel corso del Commentario, essi vanno certamente considerati come deliberata scelta, da parte dell’autore, di mantenere quest’aspetto dell’esegesi origeniana nel contesto assai difficile degli aspri e continui conflitti dottrinali tra ortodossi ed eterodossi presenti nella chiesa del iv secolo. Nella sezione esegetica relativa a Gal 3, 19 – 5, 12 Girolamo riflette su uno dei simboli più importanti del giudaismo, la circoncisione, equiparata in tutto all’interpretazione letterale della Scrittura, dimodoché come la lettera è da fuggire così la circoncisione è un male, segno della prassi ritualistica e materialistica del giudaismo ormai superata dalla spiritualità cristiana. Vi è un brano assai interessante nel commento a Gal 5, 2, nel quale il monaco Betlemita instaura un confronto tra la pericope 126
Cf. In Gal. 2, 4, 1-2, 1.
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“se vi circoncidete Cristo non vi è utile” e Rm 2, 25 e 3, 1-2, versetti nei quali Paolo attribuisce un’utilità alla circoncisione. La spiegazione di Girolamo sulla presunta contraddizione tra i due testi richiama il cliché ermeneutico che è all’opera nell’esegesi di Gal 2, 11-14, benché questa volta è attribuito a Paolo quel che in precedenza era stato un comportamento talmente accondiscendente di Pietro verso i Giudei da essere giudicato motivo di cauto dissenso da parte del medesimo Paolo. Lo Stridonense spiega127 che nell’epistola ai Romani Paolo si rivolge a quanti avevano creduto dalle file giudaiche e pagane e agisce in modo che né l’uno né l’altro popolo si offenda, ma entrambi possano conservare le rispettive abitudini culturali. Scrivendo invece ai Galati, che non venivano dalla circoncisione ma erano pagani, Paolo afferma che la circoncisione non poteva essere utile a coloro che dopo la grazia del Vangelo si rivolgevano alla legge ed ai suoi riti (la circoncisione). Che in questa spiegazione il Nostro abbia in mente la problematica di Gal 2, 11-14, e più in generale la dialettica PaoloPietro nel capitolo secondo di ep.Gal., è subito confermato dalla menzione del concilio di Gerusalemme (At 15): dinanzi alla questione, sollevata da alcuni farisei diventati credenti, della necessità di circoncidere i pagani convertiti, gli anziani e gli apostoli che erano a Gerusalemme, radunatisi, avevano decretato attraverso lettere che non si ponesse su di quelli il giogo della legge né osservassero altro se non semplicemente l’astensione dagli idoli, dai sacrifici e dalla fornicazione. Infine, molto significativamente, Girolamo conclude il paragrafo128 affermando che nell’epistola ai Romani Paolo, dopo l’apparente apertura di 2, 25 e 3, 1-2, stempera il giudizio sulla circoncisione via via che procede verso gli argomenti successivi: in sostanza, come già accaduto nel corso dell’esegesi dei primi due capitoli di ep.Gal., il criterio ermeneutico utilizzato dallo Stridonense prevede che i comportamenti di Paolo e quelli di Pietro siano da valutare in rapporto alle circostanze ed alla prudenza con la quale gli apostoli si preocupavano di guidare le comunità e di regolare i rapporti tra di loro. 127 128
Cf. In Gal. 2, 5, 2, 2-3. Cf. In Gal. 2, 5, 2, 3.
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Anima, carne e spirito: l’antropologia geronimiana nell’esegesi di ep.Gal. Il commento di ep.Gal. 5, 13-26 è della massima importanza perché vi si delineano taluni elementi del pensiero antropologico di Girolamo. Naturalmente bisogna dire che le riflessioni in merito dell’autore non si concentrano esclusivamente in questa sezione, bensì, come del resto accade per i temi individuati nelle precedenti sezioni, abbracciano l’intero Commentario129. Tuttavia, spiegando il cosiddetto catalogo paolino dei vizi e delle virtù, lo Stridonense trae spunto dal lemma per esporre i propri convincimenti sull’uomo, la sua natura, la sua libertà ed i suoi limiti. Fondamentale è la spiegazione geronimiana di Gal 5, 17: vi si rappresenta la condizione dell’anima al centro della disputa tra la carne, che gode di beni presenti e brevi, e lo spirito che gode di beni futuri e eterni; il monaco Betlemita mette soprattutto in evidenza la libertà dell’uomo, che ha in suo potere il bene e il male, e l’assoluta autonomia della volontà, benché la determinazione umana non può avere carattere durevole e definitivo in quanto egli è limitato dalla precarietà: perciò può accadere che l’anima, se cade nella sottomissione alla carne e compie le sue opere, in seguito, attraverso il pentimento, può tornare allo spirito e fare le sue opere; si tratta di dichiarazioni evidentemente pronunciate contro ogni forma di dualismo e manicheismo dottrinale presente nel cristianesimo antico. Padroni del libero arbitrio, gli uomini sono carnali quando si abbandonano totalmente alle passioni; spirituali quando seguono come maestro lo Spirito Santo130. Nel commento a Gal 5, 25 Girolamo si domanda, parafrasando Paolo: “Chi è in effetti che vive nello spirito se non l’uomo nostro invisibile che talora suole anche vivere secondo la carne? Ma vivendo nello spirito, cammina nello spirito; volendo camminare nella carne, è morto, pur vivendo. L’uomo perfetto in Cristo vive sempre nello spirito: obbedisce allo spirito, non vive mai nella carne. 129 130
Altre riflessioni interessanti ritroviamo, ad esempio, in In Gal. 3, 6, 18, 1. Cf. In Gal. 3, 5, 17, 1-2; ma anche In Gal. 3, 5, 19-21, 2.
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Viceversa: colui che si è dato totalmente alla carne e si è affidato alle passioni non vive mai nello spirito. A metà tra questi vi sono coloro che non possiamo chiamare né spirituali né carnali; ma che fluttuando tra le virtù ed i vizi ora sono attratti verso i beni migliori e sono spirito, ora vengono trascinati giù sul terreno scivoloso della carne e sono carne”. Sulla condizione intermedia tra la via dello spirito e la via della carne, lo Stridonense si ferma a riflettere anche in altre occasioni nella sezione che qui sto analizzando; nell’importante commento a 5, 17 egli afferma che la fine della legge non comporta la fine della legge di natura, cioè l’esercizio della ragione, grazie alla quale l’uomo non è prostrato nell’infima condizione degli istinti131. Tuttavia, la ragione e la sapienza umana da sole non bastano: le forze razionali possono innalzare l’uomo al di sopra della pura materialità, ma non procedere oltre a comprendere le verità spirituali; si è appunto in quella condizione intermedia che certo non rappresenta la perfezione spirituale alla quale il cristiano è chiamato. Solo la grazia del Vangelo consente di rigettare la carne senza più lasciare spazio alle sue passioni, inducendo definitivamente alla via della carità: colui infatti che ama il prossimo si mette completamente al servizio dello spirito e così è in grado di fare ciò che questi vuole e gli suggerisce senza dover nulla alla legge ed alla carne, di cui non asseconda i desideri132. Le riflessioni dello Stridonense risentono naturalmente dell’influsso dell’antropologia paolina ma anche della fonte principale del Commentario, Origene. Considerata l’estrema complessità e densità del discorso origeniano sull’anima, oltre che la precarietà della trasmissione della sua opera (non possediamo né gli Stromati né il Commentario a ep.Gal.), è difficile ricostruire con precisione l’ipotesto dell’Alessandrino che ha ispirato le presenti considerazioni di Girolamo. È opportuno, ad ogni modo, menzionare Prin. 3, 4, 1-5, p. 436-448, e la cosiddetta questione delle ‘due anime’, fortemente problematica e aperta a soluzioni diverse; tra queste quella privilegiata da 131 132
Cf. In Gal. 3, 5, 17, 5. Cf. In Gal. 3, 5, 17, 4-5.
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Origene sembra l’ipotesi dell’anima che, posta in mezzo tra la carne e lo spirito, può scegliere se servire all’una o all’altro133.
L’ideale ascetico della rinuncia e della continenza Un altro tema spicca all’interno della sezione esegetica connessa con ep.Gal. 5, 13-26 ed è quello ascetico della continenza. Nel commentare i frutti dello spirito di cui Paolo fa menzione in 5, 22-23, Girolamo asserisce che la continenza è virtù importante e va vista in primo luogo in rapporto alla castità, oltre che in riferimento alle altre forme di desiderio e cupidigia134. Ma è degno di nota soprattutto quel che lo Stridonense dice a proposito dell’ubriachezza, inclusa tra le opere della carne in ep.Gal. 5, 19-21; ad avviso del Nostro, il male più grande causato dal vino è la lussuria e pertanto, essendo la verginità e la castità giudicate, implicitamente, quale valore supremo, il vino è da rifuggire alla stregua del veleno per chi, come la vergine Eustochio (destinataria del commento) e le altre donne dedite alla vita ascetica a fianco di Girolamo (Marcella, Paola, etc.), perseguivano la rinuncia e la continenza sessuale. Nel brano appena citato di ep.Gal. 5, 22-23 Girolamo evoca quanto dichiarato in epist. 22, 8 riguardo ai rischi del vino per le adolescenti che, come Eustochio, vivono la consacrazione verginale a Dio ma anche, più in generale, per coloro che osservano gli insegnamenti evangelici. Va notato, in effetti, che vi sono elementi tematici in comune tra la famosa epistola 22 (denominata altresì Liber de uirginate seruanda e composta a Roma nel 384) e l’In Galatas, dettato nel 386: si tratta di testi scritti in circostanze storiche e culturali vicinissime e che perciò presentano delle affinità. L’epistola, indirizzata ad Eustochio come il 133 Cf. G. Sfameni Gasparro, Anima, in Origene. La cultura, il pensiero, le opere. Dizionario – ed. A. Monaci Castagno, Roma, 2000, p. 20. Anche le riflessioni di Origene sul libero arbitrio potrebbero non essere estranee alle affermazioni di Girolamo: cf. L. Perrone, Libero arbitrio, in Monaci Castagno, Origene, p. 239. 134 Cf. In Gal. 3, 5, 22-23, 7.
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Commentario, non è un semplice elogio della verginità bensì raccoglie diversi consigli e precetti per conservare la verginità, “perché non basta conoscerne la bontà, se poi non custodiamo con vigilanza quello che abbiamo scelto”135. Proprio a sostegno del tema centrale della perseveranza e della vigilanza nei propositi ascetici di verginità Girolamo, nella prima parte di epist. 22, addita Paolo come modello per Eustochio: “Se Paolo apostolo, vaso di elezione preparato per annunziare il Vangelo di Cristo, sentendo il pungolo della carne e gli allettamenti dei vizi, tratta duramente il suo corpo e lo rende schiavo, per non rimanere lui stesso condannato dopo aver fatto da araldo agli altri; se, malgrado i suoi sforzi, scorge nelle sue membra un’altra legge che s’oppone a quella dello spirito e lo sottomette alla legge del peccato, [...] come puoi crederti sicura, tu?”136. L’invito che Girolamo rivolge nel 384 ad Eustochio è dunque di attingere nelle parole dell’Apostolo il fermo riferimento per le proprie scelte di vita: non casualmente Girolamo, Paola ed Eustochio riservano la propria attenzione all’epistolario paolino quale lectio divina dei primi mesi di soggiorno nelle due comunità monastiche in Terrasanta dove il Dalmata e le due nobildonne si trasfericono nel 386 dopo aver lasciato Roma. Ma l’epist. 22 è utile per meglio comprendere, nella sezione di commento a Gal 5, 13-26, un altro brano, incentrato ancora sul tema della moderazione e della continenza; in questo caso la misura va esercitata riguardo la ricerca di lodi, perché, spiega Girolamo, è forte il rischio di vanagloria soprattutto per chi pratica gli ideali ascetici del digiuno, della continenza e della castità: “Anche la stessa castità nel matrimonio, nella vedovanza, tra le vergini spesso cerca il plauso umano e, ciò che ora ho paura di dire ma pure bisogna dire, se il martirio stesso avviene con lo scopo di ottenere ammirazione e lode dai fratelli, il sangue è versato inutilmente”137. Contro la vanagloria il monaco Betlemita si scaglia apertamente nell’epist. 22: “Un’altra cosa devi evitare con cautela: non lasciarti infiammare dalla vanagloria. Cf. epist. 22, 23, vol. 1, p. 211. Cf. epist. 22, 5, vol. 1, p. 188. 137 Cf. In Gal. 3, 5, 26, 4. 135 136
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Gesù dice: « Come potete credere, voi che ricevete la gloria dagli uomini? » Capisci che razza di male è? Chi la possiede non può avere la fede”138; l’intero capitolo 27 dell’epist. 22 è una dura requisitoria di Girolamo contro l’assurdo comportamento di chi ricerca la lode proprio mentre fa mostra di fede, di umiltà e di vita ascetica: non mancano quindi, in queste affermazioni, elementi significativi di somiglianza con l’ampio paragrafo 4 di commento a ep.Gal. 5, 26. Peraltro, in questo paragrafo vi è un riferimento ai tre gradi della continenza (quella all’interno del matrimonio, quella delle vedove e infine quella delle vergini), abitualmente menzionati nella produzione dello Stridonense e altresì presenti in epist. 22, 15. Nonostante sia in epist. 22 sia in In Galatas la verginità è considerata la più sublime scelta di vita cristiana, nondimeno Girolamo, consapevole delle critiche che gli venivano lanciate per l’esaltazione di questo ideale ascetico, non disprezza il matrimonio, come constatiamo attraverso le affermazioni di epist. 22, 18-19 (p. 204), che è necessario citare ad illustrazione del tema della continenza sessuale e della verginità nel Commentario a ep.Gal.: “Abbia pure, il matrimonio, il suo tempo e il suo onore: per me vale la verginità consacrata da Maria e da Cristo. Qualcuno verrà fuori a dirmi: « Tu osi denigrare il matrimonio, che è stato benedetto dal Signore? » Rispondo subito: non è denigrare le nozze, preferire ad esse la verginità! Nessuno qui intende istituire un confronto fra un bene e un male. Le donne sposate siano fiere di trovarsi per dignità subito dopo le vergini. Dio ha detto: « Crescete, moltiplicatevi e riempite la terra ». Prolifichi e si moltiplichi colui che è destinato a popolare la terra: la tua schiera è nei cieli”. La posizione di Girolamo riguardo alle nozze, in queste affermazioni del 384, non potrebbe essere più chiara ed è altresì quella cui il Nostro resta saldo nelle riflessioni sull’argomento formulate nel 386 componendo l’In Galatas: la via da seguire per chi vive nello spirito è quella dello stato verginale, emulabile per quanti si sono già uniti in matrimonio o attraverso l’astinenza sessuale o, se il matrimonio si è 138
Cf. epist. 22, 27, vol. 1, p. 216.
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concluso per la morte di uno dei coniugi, attraverso la vedovanza perpetua. Il matrimonio non è condannato, ma è considerato terreno molto scivoloso e pericoloso, che difficilmente potrà perseguire chi vuol abbandonare la condizione della carne per salire verso la dimensione spirituale della perfezione. Il modello da imitare, nell’epist. 22 così come nell’In Galatas, è Maria, la cui perpetua verginità viene strenuamente difesa nel Commentario paolino ed in particolare nell’esegesi di In Gal. 1, 19, nella quale Girolamo ribadisce che Gesù non ebbe fratelli carnali e Maria non ebbe altri figli a parte il Salvatore. Le affermazioni a difesa della perpetua verginità di Maria vengono fatte dal Nostro contro Elvidio con il quale lo Stridonense aveva avuto modo di polemizzare a Roma nel 383 componendo un trattatello dai toni accessi, l’Adversus Helvidium, citato in In Gal. 1, 1, 19, 1: Elvidio, pur accettando l’idea del concepimento verginale di Maria, affermava che dopo Gesù la Madonna ebbe altri figli da Giuseppe e ciò dimostrava che Maria poteva essere presa a modello anche da chi, nella chiesa, contraeva le nozze; egli aveva buon gioco nel sostenere che autori della massima importanza come Tertulliano, ed altri dei primi secoli cristiani, non avevano affatto accettato l’idea della perpetua verginità di Maria e ancor meno la svalutazione del matrimonio: essi combattevano in tal modo contro eresie di derivazione gnostica come l’Encratismo e mostravano che Maria era modello sia per la verginità che per il matrimonio. Va detto non solo che esiste una contiguità tra le problematiche discusse da Girolamo nell’Adversus Helvidium e nell’In Galatas, bensì pure, a dimostrazione dell’estrema attualità che la questione aveva nelle comunità cristiane del tempo e del vivacissimo e sempre polemico dibattitto che era in corso, che Ambrosiaster, ben saldo nell’ortodossia ed esperto commentatore dell’epistolario paolino, era, all’opposto di Girolamo, palesemente ostile alla demonizzazione delle nozze e alla visione della sessualità come peccato o come possibile contaminazione di una ideale purezza verginale. Da ultimo, è bene considerare che la centralità del tema della verginità nel pensiero dello Stridonense non solo negli anni precedenti bensì pure in quelli immediatamente successivi al
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Commentario paolino è dimostrata dal fatto che egli ritorna in maniera più estesa e profonda sulla questione della verginità di Maria (sia in partu che post partum) scrivendo a Betlemme nel 393 l’Adversus Iovinianum; contro le tesi del monaco Gioviniano, che proponeva un rigore meno eccessivo nella vita ascetica e che elogiava la santità delle nozze, l’eguale condizione di tutti i battezzati (vergini e sposati, asceti e non) e l’eguale ricompensa celeste per chi ha conservato la fede, Girolamo lancia dure accuse di eresia (lo definisce l’Epicuro dei cristiani) e sviluppa ampie riflessioni esegetiche su una gran mole di brani biblici che, a suo giudizio, dimostrerebbero il grave errore dell’avversario.
La sezione finale parenetica di ep.Gal. Il capitolo 6 di ep.Gal. ha un forte carattere parenetico: Paolo esorta i Galati a sostenersi vicendevolmente nell’amore e pronuncia un accorato appello finale a non circoncidersi e a restare semmai fedeli a quanto egli aveva predicato (cioè la libertà dalla legge e dalla circoncisione). Per parte sua, Girolamo, nel commentare i primi versetti di ep.Gal. 6, si concentra sulla ‘doppia interpretazione’: al primo livello, letterale, utilizza le tecniche consuete della parafrasi, della riflessione linguistica e stilistica, della valutazione della coerenza del versetto con i temi dell’epistola e con il restante testo biblico; al livello spirituale, in virtù del contenuto precettistico di questa porzione dell’epistola, l’esegesi del Nostro ha un forte sapore moralistico di invito alla pratica della carità da parte degli spirituali nei confronti dei cosiddetti carnali. Ma nella sezione esegetica finale spiccano soprattutto due argomenti: le considerazioni di Girolamo nel commento a Gal 6, 11 sulle modalità di composizione delle epistole; la forte presenza di spunti polemici contro gli eretici (argomento di portata più generale nell’In Galatas per il quale rinvio al paragrafo successivo). In Gal 6, 11 il filologo Dalmata coglie un dato storico significativo dell’epistolario: in realtà Paolo non ha scritto ep.Gal.
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di suo pugno, bensì l’ha dettato ad altri, ma per eliminare il sospetto di falsità da ogni brano dell’epistola, ha sottoscritto, alla fine, di suo pugno139; l’esegeta spiega che l’Apostolo praticava quest’abitudine tutte le volte che sapeva che vi erano falsi dottori che potevano turbare le comunità e seminare nuove ed errate dottrine servendosi della sua autorità (come nel caso dell’epistola ai Colossesi, oltre che di quella ai Galati), ovvero quando si rivolgeva a destinatari come i Corinzi, in mezzo ai quali vi erano scismi ed eresie. Insomma, ad avviso del Nostro, le parole inserite da Paolo a conclusione di alcune epistole sono da considerare una specie di ‘sphragis’ mediante la quale i Galati e i destinatari delle epistole potevano pensare, mentre riconoscevano i tratti dei caratteri, di vedere quegli stesso che li aveva scritto in modo da attenenersi all’autorevolezza del suo insegnamento140. Siffatta ‘prima’ spiegazione geronimiana ricostruisce felicemente il contesto della predicazione paolina, caratterizzato, nel suo raggio di diffusione davvero ampio e senza precedenti, da oggettive difficoltà di comunicazione e di rapporti, alle quali la grande passione apostolica di Paolo ha cercato di ovviare con ogni cura. La ‘seconda’ spiegazione dei ‘caratteri grandi’ di ep.Gal. 6, 11 è naturalmente spirituale ed edificante: la grandezza delle parole finali di saluto di Paolo è segno, in quanto la parola di Paolo è parola di Dio, dell’immensità e della profondità del messaggio del testo biblico, di cui anche ep.Gal., composta sotto l’ispirazione dello Spirito, è ovviamente espressione.
L’esegesi dell’In Galatas e le eresie Come anticipato nel paragrafo precedente, il commento di Girolamo su ep.Gal. 6 presenta, in più occasioni, dichiarazioni contro gli eretici: in In Gal. 3, 6, 1, 2, egli attacca gli Gnostici, i quali, ritenendo che tra gli uomini vi siano nature diverse, pensano che quella spirituale è l’albero buono e non avrà mai 139 140
Cf. In Gal. 3, 6, 11, 2. Cf. In Gal. 3, 6, 11, 3.
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frutti cattivi, ma – chiarisce Girolamo – sono smentiti clamorosamente dalla loro stessa autorità, l’Apostolo, che dice che gli spirituali possono peccare, se si gonfiano, e cadere per la superbia del loro cuore e che i carnali possono diventare spirituali, se si volgono ai beni migliori. Nel commento a Gal 6, 6 Girolamo menziona la distorta interpretazione di Marcione, che giudica il versetto un’autorevole raccomandazione di Paolo ad una vita comune tra catecumeni e fedeli cristiani141: in verità, secondo il Nostro, il tema della preghiera è estraneo a 6, 6 e l’esegesi marcionita è quindi da considerare del tutto inattendibile. Durissimo è l’attacco che lo Stridonense rivolge a Cassiano, connotato come eresiarca degli Encratiti, nell’esegesi di Gal 6, 8142: l’attenta ed ampia difesa del versetto contro la presunta distorsione operata dal rigorismo estremo degli Encratiti deve essere ricollegata alla volontà di Girolamo di far luce sulla differenza tra la propria posizione di ascetico appassionato nel sostegno degli ideali di verginità e continenza e quella di chi, come gli avversari Encratiti, demonizzavano la donna, il matrimonio e la procreazione. Va detto che la polemica contro gli eretici è tema centrale dell’intero Commentario: già nell’esordio di In Galatas Girolamo dichiara i suoi intendimenti attaccando l’eresia di Ebione143 e di Fotino, di Mani e di Marcione, rei di manipolare la Scrittura per sostenere errate dottrine cristologiche144. Il 141 Cf. In Gal. 3, 6, 6, 1; Marcione battezzava solamente quelli che non vivevano nel matrimonio ed i nuovi convertiti, se sposati, dovevano immediatamente sciogliere il matrimonio, altrimenti restavano catecumeni; tuttavia non vi erano distinzioni nelle attività cultuali dei Marcioniti tra catecumeni e battezzati: questo non era accettabile per gli ortodossi per i quali i catecumeni erano convertiti dal paganesimo, candidati alla vita cristiana, ma non ancora cristiani e pienamente avanzati nella conoscenza del contenuto della fede. 142 Cf. In Gal. 3, 6, 8, 2-3. 143 Come rilevato da P. Jay, L’exégèse de saint Jérôme, p. 321 n. 670, e da B. Jeanjean, Saint Jérôme et l’hérésie, Paris, 1999, p. 178 n. 240, mentre Origene ed Eusebio spiegano attraverso l’etimologia il nome della setta degli Ebioniti (deriva dall’aramaico ‘ebhyonim’, poveri), Girolamo, erroneamente, sembra considerare Ebione un personaggio reale. Come Epifanio di Salamina, pan. haer. 1, 30, p. 409-489, e Girolamo, altresì Filastrio di brescia considera Ebione una persona: cf. 37, p. 57-59. 144 Cf. In Gal. 1, 1, 1, 5-6.
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fondamentale saggio di B. Jeanjean, Saint Jérôme et l’hérésie, chiarisce i risvolti, il contesto e gli ipotesti di queste polemiche: in particolare, mi sembra condivisibile l’idea dello studioso francese secondo il quale la significativa frequenza con cui l’In Galatas prende a bersaglio Marcione e le sette gnostiche (dunque, Valentino, Basilide, Apelle, gli Ofiti, i Borboriti) sia da ricondurre al forte influsso di Origene sullo Stridonense145. Ad ogni modo, è bene non sottovalutare l’influsso di Tertulliano sul filologo Dalmata: vi sono infatti alcuni aspetti che accomunano i due nel considerare l’epistolario di Paolo come la prima auctoritas della chiesa che condanna in modo esplicito gli eretici146. Nel De praescriptione haereticorum l’apologeta africano sottolinea che le dottrine degli eretici esistevano già al tempo delle prime comunità apostoliche147 e che molte considerazioni di Paolo confutavano le idee che Marcione e gli altri nemici della fede avrebbero sviluppato; ad avviso di Tertulliano, nella prima lettera ai Corinzi, Paolo condanna quanti, come i Sadducei, negavano, o almeno esprimevano dubbi sulla Resurrezione (1 Cor 15, 12): ebbene, Marcione, Apelle e Valentino si riattaccavano appunto a questa dottrina. In ep.Gal. Paolo, secondo il retore B. Jeanjean, Saint Jérôme et l’hérésie, p. 99-100, coglie, naturalmente, un dato statistico essenziale dell’In Galatas evidenziando che Marcione e gli Gnostici sono gli eretici più menzionati: per un’analisi circostanziata delle dichiarazioni antimarcionite ed antignostiche di Girolamo rinvio, pertanto, al saggio di Jeanjean, ma anche alle note che accompagnano la mia traduzione dell’In Galatas. 146 Dopo aver rintracciato una dozzina di allusioni a Tertulliano inserite nell’In Galatas (unitamente ad un paio di luoghi paralleli di Cipriano e Lattanzio), A. Cain, ‘Tertullian, Cyprian, and Lactantius in Jerome’s Commentary on Galatians’, Revue des Études Augustiniennes et patristiques, 55, 1 (2009), p. 48-50, conlude che l’influsso di Tertulliano su Girolamo seppur non è di secondaria importanza, tuttavia non sembra incidere sul nucleo di idee che sostanzia il Commentario: “If these echoes can be said to share one common denominator, it is that none of them immediately contributes to the core exegetical content, at least not in the way the Greek commentaries do. Their contribution is indirect and their basic function is ancillary, being essentially either utilitarian or aesthetic (or both simultaneously) in nature. [...] With the exception of Lactantius’ epistles to Probus, from which he directly quotes, none of the other writings by any of the three Fathers need have been open before Jerome as he composed his Commentary” (p. 48-49). 147 Cf. Tertulliano, praescr. 33, 1-5, p. 73-75. 145
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cartaginese, si scaglia contro coloro che affermavano e mettevano in pratica la circoncisione e la legge (Gal 3, 10; 5, 2) e tale era il principio eretico di Ebione; nella prima epistola a Timoteo, l’Apostolo rimprovera chi non ammette il matrimonio (1 Tm 4, 3), principio caro pure a Marcione e ad Apelle, suo seguace; per Tertulliano da 1 Tm 1, 4 verrebero confutate ante litteram le favole di Valentino e le complessissime genealogie valentiniane dei trenta Eoni. Mi sembra, in sostanza, che gli eretici che, secondo le opinioni espresse da Girolamo nell’In Galatas, sono smascherati dall’autorità di Paolo, ovvero mal si celano dietro i versetti dell’Apostolo, sono quegli stessi che Tertulliano bersaglia in praescr. 33: Marcione, Valentino, Apelle e gli Gnostici da un lato, Ebione dall’altro. Non è allora di secondaria importanza il fatto che un eterodosso di grande attualità nel iv secolo come Ario, con i suoi molteplici seguaci, venga menzionato solo una volta nel Commentario In Galatas148, al contrario di quanto succede in Ambrosiaster e, soprattutto, in Mario Vittorino, predecessori di Girolamo nell’esegesi paolina, i quali avevano non di rado tratto l’occasione dalle parole dell’Apostolo per ribadire l’ortodossa cristologia cattolica in funzione antiariana: Girolamo preferisce invece mantenere gli attacchi delle fonti contro eresie del passato come quella di Marcione o quella degli Ebioniti. È evidente, insomma, che alla polemica contro gli eretici Girolamo perviene non da teologo che interviene sulle problematiche dottrinali attuali, bensì da esegeta emulo di Origene e di Tertulliano. Sotto il loro influsso, avverte i rischi che corre chi spiega la Scrittura nonché le opportunità offerte dall’autorevolezza dell’Apostolo contro le dirstorsioni dottrinali: ma il Nostro non possiede la tensione speculativa grazie alla quale il medesimo Origene, ovvero, in ambito latino, Mario Vittorino, sfidavano i sistemi eterodossi approfondendo sul versante teologico e filosofico le profondità del pensiero paolino e del sottostante testo scritturistico. 148 In Gal. 3, 5, 9, 3: “Ario d’Alessandria è stato una scintilla sola; ma poiché non è stata subito soffocata, la fiamma ha distrutto tutto il mondo”.
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Di tale scarsa propensione dello Stridonense alla riflessione sull’attualità teologica di ep.Gal. è prova il caso delle limitatissime menzioni non solo del già citato Ario bensì di ogni altro eterodosso contemporaneo del Nostro. Il caso di Fotino è illuminante: è citato appena tre volte nell’In Galatas149 e sempre in associazione con Ebione, a dimostrazione che per lo Stridonense Fotino, definitivamente condannato come eretico nel 381 al Concilio di Costantinopoli e poi nel 382 da Papa Damaso (dunque 4 anni prima dell’In Galatas), è solo un nome accanto al quale l’esegeta pone una generica allusione alla negazione della divinità di Gesù Cristo, negazione assimilabile a quella, per l’appunto, degli Ebioniti. Alla menzione di Fotino Girolamo è indotto, probabilmente, dalla frequenza con la quale l’eresia ebionita è evocata, spiegata e confutata nella fonte origeniana sicché il Nostro, convinto della somiglianza tra le idee di Ebione e quelle di Fotino, associa all’antico errore il nome di un nuovo potenziale pericolo: mai però con la volontà di procedere al confronto dell’Ebionismo con la teologia di Fotino o di qualsivoglia altro ariano del tempo. A mio giudizio, tuttavia, nell’attenzione riservata all’eresia ebionita ed in queste rare associazioni ad essa dell’eresia fotiniana emerge il vero proposito di Girolamo, che è di natura esclusivamente esegetica, connesso cioè con il desiderio di manifestare l’attualità dei rischi di un certo modo di interpretare la Scrittura: opportunamente B. Jeanjean dimostra che il Dalmata condanna questi eretici non solo a causa dell’attaccamento alla legge giudaica e della visione ridotta del Cristo, considerato semplicemente uomo, bensì per l’esegesi fondata sul senso letterale della Scrittura150, che fa degli Ebioniti e di chi, come i Simmachiani, ancora nel iv secolo ne perpetuava idee e modello cultuale, dei novelli Giudei151. In altre parole, la condanna dell’eresia ebionita tocca il nucleo essenziale della visione ortodossa della fede da parte di Girolamo: l’errore primordiale Cf. In Gal. 1, 1, 1, 5 (due volte); 1, 1, 11-12, 1. B. Jeanjean, Saint Jérôme et l’hérésie, p. 186. 151 Secondo Eusebio di Cesarea (h. e. 6, 17, p. 33-34) i Simmachiani erano in buona sostanza gli Ebioniti. 149 150
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dell’eretico consiste nell’incapacità di intendere correttamente la Scrittura, cioè nell’incapacità di allontanarsi dall’esegesi letteralista (tipica appunto di Giudei, Ebioniti, Simmachiani e di ogni altra eresia) e di procedere a comprendere la Bibbia sotto la guida dello Spirito. Nel commento a Gal. 5, 19-21 il Nostro include l’eresia tra le opere della carne perché “chiunque interpreta la Scrittura diversamente da come richiede l’intenzione dello Spirito Santo, per opera del quale è stata scritta, anche se non si sia allontanato dalla chiesa, tuttavia può essere chiamato eretico ed è conforme alle opere della carne scegliendo le cose peggiori”152. L’eresia nasce da una cattiva prassi della doppia interpretazione, poiché solo una corretta interpretazione spirituale, ispirata dalla fede, sottrae il cristiano al pericolo dell’errore e lo custodisce in seno alla dottrina della chiesa. Le parole di Girolamo in 1, 1, 11-12, 3 chiariscono senz’appello il pensiero dell’esegeta: “Marcione e Basilide e tutte le altre pestilenze eretiche non hanno il Vangelo di Dio, poiché non hanno lo Spirito Santo, senza il quale il Vangelo che è insegnato diventa umano”. Per concludere, vorrei evidenziare un’altra significativa caratteristica del rapporto dell’In Galatas con le eresie, ovverosia l’attenta analisi del testo paolino marcionita; apprendiamo dal Nostro che nel primo versetto di ep.Gal. Marcione espungeva la pericope ‘e per Dio Padre’, giudicata, evidentemente, come un’interpolazione incoerente rispetto al contenuto della dottrina marcionita che non ammetteva l’incarnazione di Cristo e la sua resurrezione dalla carne; per Marcione, infatti, Cristo è Dio manifestato e non ha preso carne, visto che la carne è opera del Demiurgo (il Dio inferiore) ed appartiene al mondo. Girolamo segnala un’altra vistosa modifica di Marcione al testo di ep.Gal.: egli avrebbe cancellato dal testo dell’Apostolo i versetti 6-9 del terzo capitolo; si tratta di versetti dedicati ad Abramo, padre della fede e della giustificazione per i pagani, e pertanto figura fondamentale di passaggio tra l’ebraismo ed il cristianesimo, ciò che Marcione condannava in quanto rigettava il giudaismo ed ogni aspetto dell’Antico Testamento. Ma è 152
Cf. In Gal. 3, 5, 19-21, 8.
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importantissima la considerazione che Girolamo inserisce in In Gal. 2, 4, 24b-26, 3, ricordando che Marcione non ha eliminato dal suo testo le parole dell’Apostolo ‘queste sono affermazioni allegoriche’ e gli altri versetti che seguono; nella riflessione sull’intervento testuale di Marcione s’incrociano i tre aspetti essenziali del pensiero del monaco Betlemita, cioè filologia, esegesi ed eresiologia, giacché Gal 4, 24-26 è, come ho detto in precedenza, il punto cruciale della dottrina ermeneutica di Girolamo ma anche del cristianesimo antico: l’allegoresi si dimostra principio comune tra Marcione e la chiesa ortodossa, ma l’uno e l’altra ne fanno strumento opposto di interpretazione della Bibbia e dunque del fondamento della fede. Per Marcione le parole dell’Apostolo sono da intendere come svalutazione del senso letterale dell’Antico Testamento e prova del definitivo superamento del medesimo; per Girolamo e per gli ortodossi Gal 4, 24-26 è un invito di Paolo ai cristiani a cogliere il contenuto spirituale della legge veterotestamentaria, che è stato dettato dallo Spirito Santo e non è invece frutto di pensieri utili per sostenere contenuti e sistemi dottrinali umani.
Nota alla traduzione ed alla Bibliografia Il testo latino di riferimento del presente volume è l’edizione critica del 2006 ospitata nella serie latina del Corpus Christianorum153: ho apportato qualche lievissima correzione rispetto a quel testo latino, dandone conto nelle note a piè di pagina o di chiusura. È giusto avvertire il lettore che ogni eventuale riferimento all’edizione in latino è contrassegnato dall’abbreviazione ‘In Gal. (ed.)’, laddove in generale con ‘In Gal.’ ci si riferisce a questa versione tradotta del Commentario di Girolamo. Per la prima volta nella storia di In Galatas viene redatta una traduzione in lingua italiana; lo scopo della traduzione è stato di consentire la fruizione del Commentario anche a chi non 153 Cf. Hieronymus. Commentarii in epistulas Pauli apostoli ad Galatas – ed. G. Raspanti (CC SL, 77A), Turnhout, 2006.
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possiede alcuna conoscenza del latino e dunque non ha interesse a consultare il testo originale. Ho cercato di elaborare la traduzione con aderenza al dettato dello Stridonense (a volte riproducendone persino l’andamento anacolutico della scrittura), sforzandomi di evitare forzature stilistiche o linguistiche derivanti dal mio sentire di moderno, senza però asservirmi alla lettera e senza rinunciare alla massima perspicuità possibile per chi, come il lettore di oggi, vuol fruire con immediatezza e semplicità del commento di Girolamo. Nelle note che accompagnano il testo a piè di pagina vengono fornite informazioni ed osservazioni tali da consentire una piena comprensione del Commentario: le note di chiusura di ciascuno dei tre libri propongono maggiori approfondimenti nonché un aggiornato status quaestionis sulle problematiche connesse con l’interpretazione dell’In Galatas. Nella sezione qui di seguito dedicata alla Bibliografia non sono stati riportati tutti gli autori e le opere moderne citati nelle note dell’Introduzione e della traduzione: ovviamente nel caso in cui un articolo o un volume fosse citato solo nella singola nota, è fornito lì ogni dettaglio; delle opere citate di frequente o ritenute rilevanti vengono date le coordinate bibliografiche in occasione della prima citazione e poi nella Bibliografia, mentre nelle altre occorrenze è citato l’autore ed il titolo in forma abbreviata. Grazie all’Indice dei nomi antichi e moderni è sempre possibile, per il lettore, verificare la presenza nel volume di un determinato autore e rintracciare il luogo dove è menzionato. Autori ed opere antiche sono quasi sempre citati in forma abbreviata: delle opere di Girolamo e degli autori di letteratura cristiana antica è indicato in Bibliografia sia lo scioglimento dell’abbreviazione sia l’edizione utilizzata, che è quella a cui si riferiscono le pagine menzionate nelle note; abbreviazioni e coordinate degli autori classici sono quelle del Thesaurus Linguae Latinae e non si è ritenuto opportuno indicare una specifica edizione.
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[1.] Da pochissimi giorni, dopo aver commentato l’epistola di Paolo a Filemone, ero passato a Galati, tralasciati molti testi intermedi, ed ecco all’improvviso mi vengono consegnate lettere dall’Urbe che annunziano che Albina, anziana venerabile donna1, è stata restituita alla presenza del Signore e Marcella, santa donna2, privata della compagnia della madre, richiede, ora ancor più, o Paola3 ed Eustochio4, la vostra consolazione: poiché ciò per adesso non può avvenire a causa delle grandi distanze per mare e per terra, vuole perlomeno curare la ferita improvvisa con la medicina delle Scritture. Conosco il suo ardore, conosco la fede, quale grande fiamma abbia sempre nel petto, so che ella supera la condizione femminilea, dimentica i limiti umani e al suono dei cembali dei divini volumi oltrepassa il mar Rosso di questo mondo. Certo, quando vivevo a Roma, mai mi vide con fretta tale da non chiedere qualcosa sulla Scrittura. Né secondo il costume pitagorico giudicava retta qualsiasi
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a
L’espressione ‘superare sexum’ è da comprendere meglio alla luce di quanto Girolamo dice, nel contesto della celebrazione funebre di Marcella, in epist. 127, 7: “Non oso dire quali tesori di virtù, quale talento, quale santità, quale purezza ho trovato in lei; [...] Da persona molto prudente [scil. Marcella] conosceva quello che i filosofi chiamano tò prépon vale a dire la correttezza; così quando veniva interrogata rispondeva in modo che anche una sua opinione personale non la presentava come propria, ma come mia o di qualcun altro; in tal modo si professava discepola nell’atto stesso che insegnava. Conosceva, infatti, le parole dell’Apostolo: « Alle donne non permetto d’insegnare » [1 Tm 2, 12], ma lo faceva anche per non dare l’impressione di recare ingiuria al sesso virile e ai sacerdoti che talvolta l’interrogavano su problemi oscuri e ambigui” (vol. 4, p. 302).
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risposta, né valeva presso di lei un’autorità preconcetta senza ragionamento, ma esaminava tutto e pesava ogni cosa con mente sagace al punto che io sentivo di avere non tanto un’allieva quanto un giudice5. [2.] Pertanto, ritenendola molto gradita a lei assente e utile a voi presenti6, affronterò un’impresa non tentata prima di me dagli scrittori della nostra lingua e, tra i Greci stessi, frequentata da pochissimi, come richiedeva la dignità della materia7. Non perché ignori che Gaio Mario Vittorino, che a Roma insegnò retorica quando ero ragazzo, ha pubblicato Commentari sull’Apostolo8, ma perché quello, occupato dall’erudizione della letteratura secolare, ha ignorato del tutto la Scrittura e nessuno può, benché eloquente, trattare bene di ciò che ignora9. Che dunquea? Sono forse così stolto e temerario da promettere quanto quello non ha potuto fare? No. Anzi, mi sembra, sono in ciò più cauto e prudente, giacché sentendo la debolezza delle mie forze ho seguito i commentari di Origene10. Infatti quell’uomo illustre ha scritto in particolare cinque volumi sull’epistola di Paolo ai Galati e ha concluso il decimo libro dei suoi Stromati con una breve esposizione a commento di quell’epistola; ha composto altresì svariati Sermoni e Scolii11, che anche da soli potrebbero bastare12. Tralascio Didimob, il mio veggente, ed il Laodicenoc, da poco fuori della chiesa13, ed Alessandro, vecchio eretico, nonché Eusebio d’Emesad e Teodoro di Eracleae, i quali hanno lasciato anch’essi sull’argomento taluni brevi commentari14. Se anche recepissi pochi temi da loro, verrebbe fuori qualcosa che non sarebbe affatto da dia Il testo che inizia con questa interrogativa retorica e si conclude con la preghiera di Girolamo al Signore affinché i commenti greci, così apprezzati in Oriente, non venissero disprezzati dai lettori latini viene ripreso ad litteram dallo Stridonense nell’apologetica epistola 112 per dimostrare ad Agostino che le spiegazioni fornite in questo Commentario a Galati, in particolare quella concernente Gal 2, 11-14 duramente attaccata dall’Ipponese, erano in realtà un florilegio di esegesi greche tra le quali il lettore poteva liberamente scegliere: cf. Girolamo, epist. 112, 4, vol. 3, p. 381-382. b Cf. CPG, vol. 2, p. 108-109. c Cf. CPG, vol. 2, p. 316. d Cf. Eusebio D’Emesa, In Gal. fr., p. 46-52. e Cf. CPG, vol. 2, p. 285.
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PREFAZIONE
sprezzare. Perciò, per dirla in breve, ho letto tutti questi testi e accumulando nella mia mente idee diverse, fatto venire lo scrivano, ho dettato pensieri miei e di altri senza tenere conto della disposizione né talora delle parole né dei significati15. D’altra parte è compito della misericordia del Signore che a causa della nostra imperizia non scompaia quel che da altri è stato ben detto e che piacciano tra genti straniere quei contenuti che sono piaciuti tra destinatari della stessa lingua. [3.] Volendo dunque nella prefazione esprimere in breve sintesi il contenuto di questa epistola16 vi esorto a considerare che la materia dell’epistola di Paolo ai Galati è la stessa di quella ai Romani, ma la differenza tra l’una e l’altra consiste nel fatto che in quella usa un contenuto più elevato ed argomenti più profondi, qui, scrivendo per così dire a gente di cui successivamente dice ‘o insensati Galati’ e ‘sieti così sciocchi’ (Gal 3, 1.3), si è tenuto ad un linguaggio tale da rimproverare invece che istruire e che gli stolti potessero comprendere, in modo che rivestisse di un linguaggio comune opinioni comuni e in modo che l’autorità richiamasse quanti non aveva potuto convincere la ragione. Non vi è discorso dell’Apostolo, per lettera o di presenza, nel quale non si adoperi per insegnare che sono stati lasciati cadere i pesi dell’antica legge e che tutte le usanze che avevano preceduto in figure ed immagini (cioè il riposo del sabato, la violenza della circoncisione, la ricorrenza del primo del mese e delle tre solennità annuali, la scrupolosa osservanza dei cibi e le purificazioni giornaliere destinate a nuove sozzure) sono finite quasi d’improvviso per la grazia del Vangelo, alla quale dà compimento non il sangue delle vittime, ma la fede dell’anima che crede. Ma altrove l’argomento è stato discusso e quasi appena sfiorato, in modo parziale e di scorcio, come si era presentata la questione all’apostolo che si stava occupando di altro; in queste due epistole invece, come ho detto, è contenuta in modo specifico la fine della legge antica e l’introduzione della nuovaa.
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a La lucida sintesi dello Stridonense coglie perfettamente il tema che attraversa tutta l’epistola paolina ai Galati e che rappresenta, del resto, uno degli argomenti fondamentali della predicazione dell’Apostolo: “la fine dei pesi dell’antica legge”, cioè dell’economia legalistica basata sulle prescrizioni
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[4.] L’epistola ai Galati ha questo di peculiare, che non scrive a coloro che da Giudei avevano creduto in Cristo e pensavano di dover rispettare le tradizioni dei padri, ma a coloro che da gentili avevano ricevuto la fede nel Vangelo e poi, scivolati indietro, erano stati atterriti dall’autorità di certuni che asserivano che anche Pietro e Giacomo e tutte le chiese della Giudea avevano messo insieme il vangelo di Cristo con l’antica legge, che Paolo stesso faceva una cosa in Giudea, ne predicava un’altra in mezzo alle genti e che invano credevano nel crocifisso, se pensavano di dover tralasciare quello che i capi tra gli apostoli osservavanoa. E pertanto procede con prudenza ed equilibrio tra le due posizioni cosicché non tradisca la grazia del Vangelo spinto dal peso e dall’autorità degli anziani né offenda i predecessori allorquando è assertore della grazia, ma procedendo in modo indiretto e di nascosto, per così dire attraverso cunicoli, da un lato insegni che Pietro agisce a vantaggio del popolo della circoncisione a lui affidato (per evitare che allontanandosi bruscamente dall’antico modo di vivere non credesse, scandalizzato, nella croce), dall’altro che è giusto che, essendogli stata affidata la predicazione tra i gentili, difenda secondo verità quel che un altro simulava per diplomazia17. L’empio e bataneote18b Porfiriob, non comprendendo ciò, nel primo libro della sua opera contro di noi obietta che Pietro fu biasimato da Paoritualistiche della Bibbia, e “la grazia del Vangelo, cui dà compimento la fede”; intorno a questo tema ruotano tutte le interpretazioni che l’esegesi geronimiana via via propone esaminando le diverse sezioni e versetti della epistola e ad esso vengono altresì ricondotti i due livelli ermeneutici (letterale/storico e spirituale) che, sulla scorta di Origene, Girolamo s’impegna a perseguire. a Dopo la sintesi dei temi dell’epistola, Girolamo si sofferma a ricostruire brevemente il contesto storico dell’evangelizzazione della comunità dei Galati e le problematiche che hanno spinto Paolo ad inviare un’epistola a tale comunità, assumendo, peraltro, una posizione precisa e distinta rispetto alla predicazione pietrina. b Come spiego più approfonditamente nell’Introduzione e nelle note di chiusura, le linee guida dell’esegesi sul confronto Pietro/Paolo vengono ricondotte da Girolamo a motivazioni antiporfiriane: nella risposta ad Agostino dell’epist. 112 sulle scelte compiute nello spiegare l’epistola ai Galati lo Stridonense dice di aver attinto l’esegesi di Gal 2, 11-14 dal decimo libro degli Stromati di Origene, autore che tutti gli altri esegeti avevano seguito in risposta alle bestemmie di Porfirio (cf. Ger., epist. 112, 6, vol. 3, p. 384, ove ritroviamo, letteralmente, queste parole della Prefazione su Porfirio fino a “in disaccordo tra loro”).
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PREFAZIONE, NOTE
lo perché non procedeva con correttezza nell’evangelizzazione, intendendo bollare quello con la macchia dell’errore e questi con la macchia dell’impudenza, ed accusare la comune menzogna di una falsa dottrina, giacché i capi delle chiese erano in disaccordo tra loro19. Ora, per vostra preghiera, abbiamo toccato brevemente il senso nel quale questi argomenti sono stati pronunciati e nei luoghi specifici ne tratteremo più ampiamente. Ma è ormai tempo di proporre le singole parole dell’Apostolo e di spiegarle una per una.
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Note alla Prefazione 1
Come chiarisce Girolamo, Albina è la madre di Marcella e, proprio sulla base di questa testimonianza del Nostro, bisogna collocarne la morte, a Roma, qualche mese prima della composizione del Commentario, dunque nell’arco del 386; Albina fu la prima esponente cristiana della famiglia dei Caeionii Rufii: cf. A. Fürst, Hieronymus. Askese, p. 151. 2 Orfana di padre, Marcella si trovò vedova dopo sette mesi di matrimonio, tuttavia rifiutò un nuovo matrimonio propostole dalla madre Albina (quale ‘praesidium viduitati’) con il ricco e potente Nerezio Cereale per la motivazione che Girolamo ricorda nell’epist. 127, 2, vol. 4, p. 296: “Se volessi risposarmi, e non bramassi consacrarmi alla castità perpetua, quello che cercherei sarebbe un marito, non un’eredità”. Lo Stridonense conobbe Marcella intorno al 382, iniziando a frequentare il circolo di vedove e vergini che si riuniva nella casa della donna sull’Aventino e si dedicava alla vita ascetica e alla lectio divina; ebbe così inizio un’amicizia solida, anche se, ad avviso di P. Nautin, ‘La liste des œuvres de Jérôme dans le « De viris inlustribus »’, Orpheus, 5 (1984), p. 330-332, essa sarebbe stata incrinata a causa del presunto appoggio di Marcella all’elezione papale di Siricio con il conseguente allontanamento di Girolamo da Roma ed il trasferimento definitivo a Betlemme. Nell’epistolario geronimiano restano ben 18 epistole destinate a Marcella: cf.
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A. Fürst, Hieronymus. Askese, p. 52-55, 190-191; inoltre, A. Cain, The Letters of Jerome, p. 68-97. Un ritratto della donna è appunto offerto nell’epistola 127, che Girolamo scrisse per commemorarne la morte avvenuta nel 410: cf. S. Letsch-Brunner, Marcella-Discipula et Magistra, p. 16-21. 3 Più ancora di Marcella Paola rappresenta la fedele compagna degli ideali monastici perseguiti con determinazione da Girolamo. Nobilissima, vedova di Giulio Tossozio, Paola si accostò a Marcella e al circolo dell’Aventino, ove, nel 382, conobbe lo Stridonense, divenendone la seguace più accesa: cf. A. Fürst, Hieronymus. Askese, p. 200-201. Quando, infatti, il Nostro abbandonò Roma nel 385/6, Paola lasciò i figli Paolina, Rufina e Tossozio e lo seguì in Terrasanta con la figlia Eustochio, qui di seguito menzionata. Al momento di stabilirsi in Palestina Paola trasse vantaggio dal suo grande patrimonio finanziario e fece costruire un monastero maschile – che in Girolamo trovava la figura di superiore – e tre monasteri femminili: “Fondato il monastero maschile, e postolo sotto la direzione di uomini, divise poi in tre gruppi, in altrettanti monasteri, molte vergini che aveva radunato da provincie diverse, appartenenti sia alla nobiltà che a un rango sociale medio e basso. Restavano separate unicamente quando lavoravano e quando mangiavano, e si riunivano assieme per salmodiare e pregare” (epist. 108, 20, vol. 3, p. 340). Anche a Paola, come accadrà con Marcella, Girolamo dedica un elogio funebre, l’epistola 108, scritta a Betlemme, in seguito alla morte avvenuta nel 404 d.C. 4 Terza figlia di Paola, Eustochio, iniziata a meno di vent’anni alla vita ascetica predicata dallo Stridonense (cf. A. Fürst, Hieronymus. Askese, p. 174), è la destinataria dell’importante epistola 22, composta da Girolamo nel 384, così definita da S. Rebenich, Jerome, London, 2002, p. 33: “A marvellous example of his rhetorical campaign for asceticism is his famous letter, more precisely, his treatise ‘On the preservation of virginity’ (De virginitate servanda) addressed to Eustochium, but aimed at a wider audience, in which he praised the virgin as the Lord’s bride, laid down exact rules for her daily conduct and defined virginity as the highest level of asceticism”. Fondamentali e numerosissimi sono gli studi di N. Adkin sull’epist. 22: da ultimo ricordo N. Adkin, Jerome on Virginity. A commentary on the Libellus de virginitate servanda (Letter 22), Cambridge, 2003.
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È da notare che nel 410 Girolamo riprende da vicino queste considerazioni, allorché nell’epist. 127, 7 ricorda Marcella: “E siccome allora godevo d’una certa reputazione come esegeta della Scrittura, non venne mai da me senza interrogarmi su qualche passo scritturistico; e non si arrendeva, soddisfatta, alla prima spiegazione, bensì mi sottoponeva altre questioni, non per il gusto di disputare, ma per imparare, attraverso le domande fatte, le soluzioni a quelle obiezioni che lei capiva si sarebbero potute opporre” (vol. 4, p. 302). Colpisce tuttavia, rispetto al testo dell’epist. 127, l’espressione che qui lo Stridonense usa, “io sentivo di avere non tanto un’allieva quanto un giudice”; potrebbe spiegare queste parole lo stato piuttosto freddo dei rapporti tra Marcella e Girolamo negli anni 385-386: si vedano sull’argomento: P. Nautin, ‘La liste des œuvres’, p. 330-331: “Les manuscrits de la correspondance de Jérôme ne contiennent en effet aucune lettre à Marcelle pendant les années 385-394, et bien d’autres indices prouvént que Jérôme a boudé Marcelle pendant toute cette période”; S. LetschBrunner, Marcella-Discipula et Magistra, p. 172-175; B. Conring, Hieronymus als Briefschreiber. Ein Beitrag zur spätantiken Epistolographie (Studien und Texte zu Antike und Christentum, 8), Tübingen, 2001, p. 143-144 (in particolare la nota 70); N. Adkin, ‘« Ad fontem sermonis recurramus Hebraei »: Jerome, Marcella and Hebrew (Epist. 34)’, Euphrosyne, N. S. 32 (2004), p. 215-216. Ad avviso di Nautin (p. 331) è significativo della ‘rottura’ il fatto che Girolamo, dopo aver appreso della notizia della morte di Albina, non invii a Marcella un’epistola consolatoria, bensì un Commentario paolino, per di più dedicato a Paola ed Eustochio; a me pare che le argomentazioni di Nautin siano deboli: in primo luogo perché l’argomento e silentio del mancato invio di una epistola consolatoria non è mai dimostrabile veramente fino in fondo; poi, perché le parole con le quali in quest’esordio Girolamo si rivolge a Marcella sono comunque piene di affetto e di sincera compassione per il recente lutto: non a caso l’elogio di Marcella dell’epist. 127 riprende quasi alla lettera le parole di cui qui ci occupiano. Inoltre, il dono di un intero Commentario per “curare la ferita improvvisa con la medicina delle Scritture” è ben più di una epistola consolatoria, soprattutto se si considera l’autentica passione ermeneutica di Marcella di cui Girolamo dà testimonianza. In sostanza credo che le parole con le quali Girolamo rivolge a Marcella il Com5
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mentario a ep.Gal. siano da considerare una svolta nei rapporti tra lo Stridonense e la nobildonna romana: se acredine c’era stata tra i due a partire dal 385, è lecito pensare che l’episodio grave della morte di Albina ed il distacco spazio-temporale rispetto agli ultimi burrascosi momenti della permanenza a Roma di Girolamo potrebbero aver segnato un nuovo inizio nella relazione d’amicizia tra i due. Le parole di questa Prefazione ne sarebbero, a mio giudizio, una testimonianza. 6 A. Fürst, Hieronymus. Askese, p. 146: “386: In Bethlehem lässt die Gruppe sich nieder und erbaut in den kommenden drei Jahren mit Hilfe von Paulas Vermögen etwas außerhalb ein Männerkloster mit Kirche und Wehrturm (und Bibliothek) und in der Nähe der Geburtskirche ein Frauenkloster mit drei separaten Trakten – der Frauenkonvent gliedert sich nach sozialen Rängen – samt Pilgerherberge. Bis zur Fertigstellung der Gebäude im Jahr 389 wohnt man in einer Herberge. Bis an sein Lebensende leitet Hieronymus das Männerkloster, predigt in den Gottesdiensten, erteilt Unterricht in klassischer lateinischer Literatur, führt seine Propaganda für die Askese fort und weitet seine wissenschaftliche Arbeit und sonstige schriftstellerische Tätigkeit kontinuierlich aus”. 7 Nella rassegna di fonti latine e greche che si apre con queste parole stupisce il silenzio di Girolamo nei confronti di un importante esegeta di lingua latina, l’anonimo convenzionalmente denominato Ambrosiaster, che appena qualche anno prima, intorno al 380, aveva composto a Roma un commento sull’epistolario paolino: per un esame più approfondito delle relazioni tra l’esegesi di Ambrosiaster e quella di Girolamo rinvio a Introduzione, p. 13-25 e p. 34-44; nonché a G. Raspanti, ‘Adgrediar opus intemptatum: l’Ad Galatas di Gerolamo’, p. 198-199; A. Cain, ‘In Ambrosiaster’s Shadow’, p. 257-277; E. Di Santo, L’apologetica dell’Ambrosiaster, p. 30-44, 92-107. 8 Gir., uir. ill. 101, p. 207: “Vittorino, africano di origine, insegnò la retorica a Roma, sotto l’imperatore Costanzo e, convertitosi alla fede di Cristo nell’estrema vecchiaia, scrisse Contro Ario dei libri molto oscuri per il loro procedimento dialettico, che non sono compresi se non dagli esperti, e dei Commenti all’apostolo Paolo”. Sul rapporto ‘controverso’ di Girolamo con Vittorino si veda, oltre al capitolo secondo dell’Introduzione (soprattutto p. 34-44), altresì G. Raspanti, ‘Adgrediar opus intemptatum:
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l’Ad Galatas di Gerolamo’, p. 195-198; Id., ‘L’esegesi della lettera ai Galati’, p. 118-128. Si veda inoltre E. Plumer, Augustine’s Commentary on Galatians, Oxford, 2003, su queste righe del Commentario a ep. Gal. e sul “Jerome’s dismissal of Victorinus as a commentator on Paul” (p. 34); tra le varie considerazioni di Plumer, riportate nelle note di seguito, la meno convincente, perché non supportabile con alcuna testimonianza testuale, appare la seguente: “It is possible that Jerome, unlike Augustine, thought that Victorinus had hardly undergone any conversion at all” (p. 43). Inoltre, rinvio a S. A. Cooper, Marius Victorinus’ Commentary, p. 109-110. 9 E. Plumer, Augustine’s Commentary, p. 41-42: “Certainly the paucity of references to other parts of the Bible is a striking feature of Victorinus’ commentaries. How much more striking must it have appeared to Jerome as he compared Victorinus to Origen, who ‘knew the scriptures by heart’. [...] Yet inclusion among the viri illustres by no means implies Jerome’s wholehearted approval [...] But the decisive consideration here is Jerome’s general attitude towards pagan literature during this period. As we have shown, Jerome’s famous dream still haunted him, and he alludes to it in the Galatians commentary itself. [...] But this inconsistency in no way detracts from our thesis. In fact, it could even be interpreted as strengthening it if Jerome’s criticism of Victorinus is taken as an example of projection: Victorinus is being criticized for failing to live up to an ideal that Jerome himself is finding it hard to achieve”. Per una valutazione del contesto storico dell’esegesi paolina del retore africano si consulti G. Raspanti, Mario Vittorino esegeta di S. Paolo, Palermo, 1996, p. 63-92, e S. A. Cooper, Marius Victorinus’ Commentary, p. 16-87; sulle caratteristiche formali Mario Vittorino esegeta, p. 96-138, e Marius Victorinus’ Commentary, p. 88-126; sulla visione filosofico-teologica di Vittorino nei Commentarii si vedano Mario Vittorino esegeta, p. 147-166, e Marius Victorinus’ Commentary, p. 127-181. 10 E. Plumer, Augustine’s Commentary, p. 35, 40-41: “It will be helpful to consider first the standard by which Victorinus is being judged: that of Origen as understood by Jerome before the outbreak of the Origenist controversy in 393. For Jerome, Origen was the greatest teacher of the Church after the Apostles. [...] Adopting a method, therefore, derived from Donatus, while
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trying like Origen to distance himself from the pagan classics, Jerome sought but never really achieved a delicate literary balance between the secular and the sacred. In consequence his life’s work is marked by tension and inconsistency. He did, however, largely achieve his more important goal of providing a bridge whereby the wealth of Greek Christianity could be made available to the Latin Church, and he did so at a time when fewer and fewer people in the West were sufficiently skilled in Greek”. Resto, comunque, dubbioso sul fatto che il Commentario geronimiano sia incoerente sotto il profilo del bilanciamento tra fonti classiche e cristiane; semmai l’incoerenza è da vedere nella rielaborazione non sempre efficace delle fonti cristiane, e più in particolare di Origene. 11 Su queste opere si veda P. Nautin, Origène. Sa vie et son oeuvre, Paris, 1977, p. 238, 244, 254, 295. Tuttavia Nautin non ritiene che Origene abbia composto degli Scholia, bensì che Girolamo “se rappelle l’existence d’homélies sur cette épître et il est très probable qu’il leur joint des excerpta par simple conjecture, parce qu’il croit à tort qu’Origène a composé trois sortes d’ouvrages sur chaque livre saint: des excerpta, des homélies et un commentaire” (p. 238). 12 E. Plumer, Augustine’s Commentary, p. 34: “Now if the basic model for Augustine’s Commentary on Galatians was Marius Victorinus, the basic model for Jerome’s was Origen, and by this simple formula much of the antagonism between Jerome on the one hand and Victorinus and Augustine on the other may be explained. For it is essentially a clash of traditions: the Greek tradition symbolized by Origen, and a more recent Latin tradition symbolized by Victorinus”. Nessuno, oggi, dubita che l’Alessandrino sia l’ipotesto principale dell’esegesi paolina di Girolamo: per le indicazioni biliografiche sugli studiosi che si sono occupati dell’argomento rinvio a Intr., p. 34-44, così come, ovviamente, per una disamina più accurata del rapporto Girolamo-Origene. 13 Cf. M. C. Paczkowski, ‘Girolamo e la polemica antiapollinarista’, p. 480-481: “[...] bisogna rilevare che egli [scil. Girolamo] non nascondeva i suoi studi nella cerchia dei discepoli di Apollinare e il fatto che egli attingeva dalle sue interpretazioni. [...] è certo che egli durante il soggiorno ad Antiochia negli anni 374-375, ebbe occasione di ascoltare le lezioni dell’incontestabile maestro di esegesi biblica, che però si rivelava prevalentemente letteralista e dichiarato oppositore dell’allegorismo alessandrino. Grazie
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al contatto con Apollinare, Girolamo cominciò ad apprezzare il senso letterale e si liberò dall’uso indiscriminato dell’allegoria. [...] Per valutare adeguatamente gli elementi della polemica antiapollinarista, bisogna tenere conto dei contatti dello Stridonense con il Nazianzieno che con i suoi scritti, soprattutto le lettere cristologiche a Cledonio, rappresenta una tappa importante nella comprensione del mistero di Cristo. A Roma si ritrovò [scil. Girolamo] in un ambiente interessato direttamente della controversia suscitata dal Laodicese. Grazie a questa attenzione, in Occidente i temi cristologici venivano trattati con una certa ampiezza”. Si veda, altresì, Intr., p. 34-44. 14 Il monaco Betlemita rende note le fonti affiancate alle opere di Origene: i commenti di Didimo il Cieco, di Apollinare di Laodicea, di Eusebio d’Emesa, di Teodoro d’Eraclea, di un non meglio identificato eretico di nome Alessandro. Chi sia quest’ultimo personaggio è difficile da stabilire; probabilmente si tratta dell’eretico valentiniano di cui parla Tertulliano in carn. 16, 1, p. 389: si consulti C. P. Bammel, ‘Die Pauluskommentare’, p. 190 n. 21; A. Fürst, Augustins Briefwechsel, p. 4 n. 27. È arduo, per altro verso, stabilire l’esatta dimensione del debito di Girolamo nei confronti di ciascuno di questi esegeti, perché di essi non ci resta che qualche breve frammento (cf. C. P. Bammel, ‘Die Pauluskommentare’, p. 190). 15 Sul metodo esegetico con il quale Girolamo ha lavorato nel commentare ep.Gal. rinvio all’Introduzione e al mio ‘Adgrediar opus intemptatum: l’Ad Galatas di Gerolamo’, p. 194-216. 16 Come peraltro evidenzia l’enfatica posizione di ‘argumentum’, ha inizio, a partire dal § 3, una nuova sezione della Prefazione, ovverosia quella dedicata all’individuazione del tema dell’epistola e delle sue specificità nel contesto dell’epistolario paolino. Grazie a questa sezione il prologo geronimiano assume caratteristiche più ‘tradizionali’, in quanto nei predecessori latini del Nostro (Vittorino ed Ambrosiaster) vi erano appunto solo brevissime introduzioni dedicate all’argomento della epistola e mancava invece l’ampia parte dedicata alle circostanze di composizione ed alle fonti utilizzate. Agostino, nell’Esposizione della lettera ai Galati, riprende il costume di Vittorino ed Ambrosiaster lasciando da parte le questioni compositive ed il problema delle fonti. Inoltre è significativo che, come nel § 3 della Prefazione di Girolamo, anche in Agostino viene individuata un’analogia tra la lettera ai Romani
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e quella ai Galati e viene fatto un confronto tra i temi dei due testi paolini (cf. Agost., In Gal. 1, p. 569-571). 17 Se a giudizio di Mario Vittorino il comportamento pietrino nei confronti dei gentili non era stato lineare e poteva essere all’origine di un certo disorientamento di comunità quali quella dei Galati, dimodoché Paolo aveva ragione nell’opporsi apertamente a Pietro, Girolamo esclude sin dalla Prefazione che Paolo possa essersi opposto veramente a Pietro: ritiene invece che l’Apostolo abbia assunto un atteggiamento cauto e prudente, quasi ambiguo, sotto la spinta contrapposta di due necessità, cioè non arrecare offesa a Pietro e non tradire la grazia del Vangelo; per lo Stridonense Paolo avverte il dovere di ribadire, dinanzi al comportamento di Pietro verso i gentili, la libertà dai riti giudaici, ma lo fa in modo indiretto, muovendosi di nascosto e con circospezione: in tal modo, senza arroganza verso il primo degli Apostoli, Paolo può farsi strumento di salvezza per i gentili indotti in errore dalla mancata comprensione del comportamento pietrino (si veda meglio in G. Raspanti, ‘San Girolamo e l’interpretazione occidentale’, p. 297-321). Agostino invece, in aperta polemica con Girolamo, sin dal prologo punta il dito contro ogni sorta di simulazione e contro il comportamento di Pietro (cf. Agostino, In Gal. 1, p. 569-571). 18 G. Rinaldi, ‘Studi Porfiriani I. Porphyrius Bataneotes’, KOINΩNIA, 4 (1980), p. 25-37, dopo aver proposto di individuare nell’antica Bāšān, ad est del Giordano, la località da cui deriverebbe l’espressione geronimiana ‘Bataneotes’, asserisce, a mio avviso correttamente, che non si tratta tuttavia di ‘una mera indicazione geografica’ bensì di un termine polemico e persino dispregiativo, utilizzato tra l’altro anche da Giovanni Crisostomo nella medesima accezione: probabilmente, secondo Rinaldi, all’origine delle due testimonianze su ‘Porfirio Bataneotes’ sta Origene, che aveva contribuito a diffondere in ambito cristiano un’etimologia israelita di Bāšān come ‘confusione’, ‘ignominia’. Convincente è dunque la conclusione dello studioso: “[...] questi autori cristiani non volevano informarci sull’esatto luogo di nascita del brillante e pericoloso polemista anticristiano [che è e rimane Tiro, ndr] quanto, piuttosto, intendevano denigrarlo con una espressione parafrastica, un idiotismo aramaico, che, nel suo complesso, poteva significare qualcosa come « quello scellerato ed empio confusionario »” (p. 36). Per parte mia, aggiungo che è significativo che
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Epifanio, amico di Girolamo e da questi apprezzato eresiologo, colloca proprio nelle vicinanze di ‘Batanaia’ il luogo da cui si propaga una delle eresie frequentemente menzionate dallo Stridonense, cioè quella ebionita (pan. haer. 1, 30, 2, 7, p. 413), a conferma del fatto che la regione era nell’immaginario ebraico-cristiano luogo di ‘confusione’ ed ‘errore’. 19 Queste affermazioni di Girolamo nella Prefazione chiariscono il contesto apologetico nel quale si colloca l’interpretazione (geronimiana o della fonte?) del comportamento dei due Apostoli. Il tema dell’atteggiamento cauto e prudente di Paolo si rivela modellato sulle accuse di Porfirio ai cristiani, giacché ribadire la correttezza della posizione di Pietro significa per il Nostro evitare la “la macchia dell’errore” con cui il filosofo pagano colpisce Pietro; allo stesso tempo, negare ogni sorta di offesa di Paolo verso Pietro permette di evitare l’accusa di arroganza rivolta da Porfirio alla condotta paolina. Non comprendendo l’agire degli Apostoli il filosofo di Tiro male interpreta Gal 2, 11-14 (il c.d. incidente di Antiochia) e, immaginando un vero scontro tra i capi della chiesa, li presenta come bugiardi sostenitori di un finto dogma. È quindi probabile che l’esegesi dello Stridonense attinge ad una cornice apologetica in cui è essenziale la difesa a tutti i costi dell’immagine di Pietro e Paolo e nella quale sono presenti gli echi della polemica contro l’interpretazione porfiriana di Gal 2, 11-14 (cf. C. Moreschini, ‘L’utilizzazione di Porfirio in Gerolamo’, p. 182-185; inoltre G. Raspanti, ‘San Girolamo e l’interpretazione occidentale’, p. 306-307, 311-312, 317); sembra invece assente nei predecessori latini, Vittorino ed Ambrosiaster, l’immediata urgenza apologetica; non vi è infatti né nell’esegeta africano né nell’Anonimo (ma neppure nel successore di Girolamo, Agostino) alcun riferimento polemico a Porfirio.
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1,1 Paolo apostolo non per volontà di uomini né per tramite d’uomo, ma per Gesù Cristo e Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti. [1.] Non in modo superbo, come pensano alcuni, ma per necessità pone innanzi il suo essere apostolo né per volontà di uomini né per tramite d’uomo ma per Gesù Cristo e Dio Padre, per confondere con questo tipo di autorità coloro che andavano dicendo che Paolo era spuntato all’improvviso, al di fuori dei dodici apostoli e non so da dove, o che fosse stato nominato dagli anziani. Può, d’altra parte, intendersi che venga detto indirettamente, sia contro Pietro sia contro tutti gli altri, che il Vangelo gli fu consegnato non dagli apostoli, ma dallo stesso Gesù Cristo che aveva scelto pure loro come apostoli1. Tutto ciò del resto è predisposto affinché nessuno gli potesse obiettare mentre disputava contro i pesi della legge in difesa della grazia del Vangelo2: “Ma Pietro ha detto così”, “Ma gli apostoli hanno stabilito così”, “Ma i tuoi predecessori hanno decretato diversamente”: prepara ora, con parole per così dire velate, quello che successivamente rende più manifesto, allorquando riferisce che nulla gli fu apportato da coloro che sono considerati ragguardevoli e scrive che si era opposto a viso aperto allo stesso Pietroa, dicendo di non essere stato costretto da alcuna necessità a cedere all’ipocrisia dei Giudei. [2.] Se a certuni appare temerario che, sia pur velatamente, abbia parlato contro gli apostoli colui che s’affrettò ad andare a a
Cf. Gal 2, 6.11.
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Gerusalemme con lo scopo di confrontare con loro il Vangelo per timore di correre o di aver corso invano (Gal 2, 2), consideriamo per l’interpretazione questa circostanza: fino ad oggi vengono inviati apostoli da patriarchi ebrei dai quali anche allora, credo, i Galati furono depravati e cominciarono ad osservare la legge; ovvero, certamente, prendiamo in considerazione il fatto che altri, divenuti cristiani dalle fila dei Giudei, si erano recati in Galazia per asserire che anche Pietro, primo tra gli apostoli, e Giacomo, fratello del Signore, conservavano le usanze giudaiche3. [3.] Perciò per distinguere tra coloro che sono inviati da uomini e se medesimo, inviato da Cristo, ha esordito in questo modo: Paolo apostolo non per volontà di uomini né per tramite d’uomo. Apostolo, cioè inviato, è propriamente un termine ebraico che si pronunzia pure ‘Sila’a, al quale da ‘inviare’ è stato dato il nome ‘inviato’4 (cf. At 15, 22). Gli Ebrei dicono che anche tra gli stessi profeti e uomini santi vi sono alcuni che sono sia profeti che apostoli, altri invece che sono solo profeti; in breve, Mosè, al quale è detto: Ecco ti invierò al faraone ed egli risponde: Scegli di mandare un altro (Es 3, 10; 4, 13)b, ed Isaia, al quale Dio dice: Chi invierò e chi andrà da codesto popolo? (Is 6, 8), sono sia apostoli sia profeti. Conseguentemente noi possiamo anche intendere che Giovanni Battista deve essere chiamato sia profeta sia apostolo, giacché la Scrittura dice: Vi fu un uomo inviato da Dio il cui nome era Giovanni (Gv 1, 6). E nell’epistola agli Ebrei Paolo non ha anteposto come d’abitudine il suo nome né il termine ‘apostolo’, poiché si accingeva a
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a
Sila, forma grecizzata di un nome ebraico, fu compagno di Paolo. Come nota Girolamo in epist. 18[B], 5 (si consulti la nota 4), il nome Sila è attestato solo negli Atti degli Apostoli, mentre il nome Silvano compare nelle epistole paoline, a motivo di una traduzione imperfetta. Sila era un giudeo di Gerusalemme, uno dei primi a farsi cristiano, e in quella chiesa godeva di grande stima, essendo considerato profeta (cf. At 15, 32); fu incaricato di recare ai fratelli di Antiochia, Siria e Cilicia (At 15, 23) le decisioni prese al Concilio di Gerusalemme e di spiegarle. b Poiché la risposta di Mosè a quanto Dio gli dice in Es 3, 10 è, nel testo della Settanta come nella Vulgata, “Chi sono io per andare dal faraone” (Es 3, 11), è probabile che qui Girolamo abbia in mente il testo di Es 4, 13: “dài a chi vuoi [ma non a me!] l’incarico di questa missione”, di cui “scegli di mandare un altro” sarebbe una parafrasi assai prossima.
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parlare di Cristo: Voi che dunque avete il principe dei sacerdoti e l’apostolo della nostra fede Gesù (Eb 3, 1); non sarebbe stato conveniente che, dove Cristo doveva essere chiamato apostolo, lì venisse posto come apostolo anche Paolo. [4.] Quattro sono i generi di apostoli: uno che non è per volontà di uomini né per tramite d’uomo, ma per Gesù Cristo e Dio Padre; un altro che è certo da Dio, ma per tramite d’uomo; un terzo che è per volontà di uomo e non da Dio; un quarto che non da Dio né per tramite d’uomo né per volontà di uomo, ma per volontà sua propria. Al primo genere possono appartenere Isaia e tutti gli altri profeti e lo stesso Paolo, che fu inviato non per volontà di uomini né per tramite d’uomo ma da Dio Padre e Cristo. Al secondo genere Gesù figlio di Nun, che da Dio fu costituito apostolo, ma per tramite dell’uomo Mosèa. Il terzo genere è quando qualcuno è nominato per il favore e la devozione degli uomini, come ora vediamo molti che non per volontà di Dio, ma grazie al prezzolato favoreb del popolo sono eletti al sacerdozio5. Quarto è il genere dei falsi profeti e dei falsi apostoli, sui quali l’Apostolo dice: Questi tali sono falsi apostoli, operai iniqui, che si mascherano da apostoli di Cristo (2 Cor 11, 13), che dicono: “Così dice il Signore” ed il Signore non li ha inviati. Ma tale non è Paolo, che né per volontà di uomini né per tramite d’uomo, ma da Dio Padre fu inviato per mezzo di Gesù Cristoc. [5.] Con ciò è dimostrato che deve essere rintuzzata via da questo luogo biblico anche l’eresia di Ebione6 e di Fotino7, perché il Signore nostro Gesù Cristo è Dio, dal momento che l’Apostolo, che fu inviato da Cristo a predicare il Vangelo, nega di essere stato inviato da un uomo. S’insinuano in questo luogo tutte le altre eresie che, con la pretesa della Cf. Nm 13, 2.17; Dt 34, 9. Cf. Cipriano, Don. 11, p. 35; su questa allusione rinvio a A. Cain, ‘Tertullian, Cyprian, and Lactantius in Jerome’s Commentary’, p. 44. c È interessante notare che per tutto il paragrafo 4 disponiamo della possibilità di confronto con un frammento d’esegesi origeniana, ricostruibile attraverso Panfilo di Cesarea (ap. Orig. 109, p. 174-176), discepolo di Origene ed autore di una apologia del maestro scritta in carcere, in attesa del martirio, e completata da Eusebio di Cesarea (se ne conserva il primo libro nella traduzione latina di Rufino intorno al 398): Origene, In Gal. fr. 1, p. 220-221; cf. G. Raspanti, ‘Adgrediar opus intemptatum: l’Ad Galatas di Gerolamo’, p. 201-207. a
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carne putativa di Cristo, dicono che Cristo è Dio, non uomo, ed anche una nuova eresia, che asserisce un’economia dimezzata di Cristo8; e in tal modo se la fede della chiesa, consolidatasi in mezzo a così grandi naufragi di false dottrine, confessa che Cristo è uomo, si insinuano Ebione e Fotino, se dichiara fermamente che è Dio, saltano fuori i Manichei, Marcione e l’autore di una novella dottrina9. Insieme, dunque, ascoltino che Cristo è sia Dio sia uomo. Non perché uno è Dio e un altro è l’uomo, ma colui che era sempre Dio si degnò di essere uomo per la nostra salvezza. [6.] Bisogna anche sapere che nell’Apostolo di Marcione non è stato scritto ‘e per Dio Padre’10, poiché Marcione vuole mostrare che
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Cristo è risuscitato non per volontà di Dio Padre ma per se stesso, secondo quella testimonianza: Distruggete questo tempio ed io in tre giorni lo farò risorgere (Gv 2, 19); ed anche altrove: Nessuno toglie a
me la mia vita, ma io la offro da me stesso. Ho il potere di offrirla ed il potere di riprenderla di nuovo (Gv 10, 18). 1,2 E tutti i fratelli che sono con me, alle chiese della Galazia. [1.] Nelle altre epistole sono premessi nell’esordio Sostene e Silvano, talora anche Timoteo; in questa solamente, poiché era necessaria l’autorità di molti, è associata l’espressione ‘tutti i fratelli’, i quali probabilmente erano essi stessi dei circoncisi e non erano disprezzati dai Galati. Giacché è molto utile per la correzione del popolo il consenso di molti in un solo argomento ed in una sola opinione11. [2.] Poiché dice ‘alle chiese della Galazia’ si deve anche notare che soltanto in questa circostanza scrive in modo generale non ad una sola chiesa di una sola città, ma alle chiese di tutta quanta una provincia e chiama chiese quelle che in seguito biasima perché corrotte dall’errore. In conseguenza di ciò bisogna sapere che si può dire ‘chiesa’ in duplice accezione: sia quella che non ha macchia o ruga ed è il vero corpo di Cristo sia quella che si raduna in nome di Cristo ma non possiede virtù piene e perfette12. Come si dice ‘sapiente’ in due modi, sia di chi è dotato di piena e perfetta virtù sia di chi incomincia il cammino ed è in progresso (dei perfetti si dice: Invierò in mezzo a voi
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i sapienti (Lc 11, 49), degli incipienti: Rimprovera il sapiente ed egli ti amerà (Pr 9, 8); infatti colui che ha una piena e compiuta virtù non ha bisogno di correzione), in questo senso si deve intendere anche a proposito di tutte quante le altre virtù, che cioè le denominazioni ‘forte’ e ‘prudente’, ‘pio’, ‘casto’, ‘giusto’ e ‘temperante’ sono intese talora nel significato pieno, talora in modo improprio. 1,3 Grazia a voi e pace da Dio Padre e dal Signore nostro Gesù Cristo. Non dice, come in tutte le altre epistole, la grazia e la pace di Dio Padre e del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo delle quali ci sono condonati senza il merito delle opere gli antichi peccati e ci è concessa la pace dopo il perdono, ma sin d’ora intenta prudentemente l’azione contro coloro che erano stati conquistati dalla legge e credevano di poter essere giustificati per mezzo delle opere affinché sapessero che essi, salvi per grazia, dovevano perseverare in ciò che avevano cominciato.
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1,4-5 Che ha dato se stesso per i nostri peccati, per strapparci dal presente secolo malvagio secondo la volontà di Dio e Padre nostro, al quale è la gloria nei secoli dei secoli amen. [1.] Né il Figlio ha dato se stesso per i nostri peccati senza la volontà del Padre né il Padre ha consegnato il Figlio senza la volontà del Figlio, ma la volontà del Figlio è fare la volontà del Padre, come dice nel Salmo: fare la tua volontà, Dio mio, è stato il mio desiderio (Sal 40, 9). Il Figlio ha dato se stesso perché egli, la giustizia, distruggesse l’ingiustizia che era in noi, la sapienza si è consegnata per espugnare la stoltezza, la santità e la potenza si sono offerte per cancellare la sporcizia e la debolezza. E così non solo nel secolo futuro secondo le promesse e le speranze in cui crediamo, ma anche qui dal presente secolo ci ha liberati, nel momento in cui, morti insieme a Cristo, siamo trasfigurati grazie all’assunzione di sentimenti nuovi e non apparteniamo a questo mondo dal quale giustamente non siamo amatia. [2.] Ci si chiede in che senso si è parlato di ‘presente secolo malvagio’; in effetti gli eretici13 hanno l’abitudine di prendere a
Cf. 2 Tm 2, 11; Rm 12, 2; Gv 15, 19.
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spunto da qui per asserire l’esistenza di un creatore della luce e del secolo futuro e di un altro creatore delle tenebre e del secolo presente. Noi invece diciamo che è chiamato secolo non tanto il tempo fatto dello scorrere del giorno e della notte, degli anni e dei mesi, quanto, in modo omonimo [omōnymōs], i fatti che avvengono nel secolo, così come si dice che ad ogni giorno basta il suo male ed è scritto che i giorni di Giacobbe sono pochi e molto funestia. Non perché lo spazio di tempo in cui visse Giacobbe sia stato malvagio, ma perché le vicende che egli subì lo esercitarono attraverso varie tentazioni; e in quel tempo nel quale Giacobbe serviva per ottenere le moglib ed era tormentato da molte angustie, Esaù era tranquillo, e così il medesimo spazio di tempo per uno fu buono, per un altro cattivo; né sarebbe stato scritto nel Qoèlet: Non dire che i giorni precedenti erano per me positivi al di sopra di questi (Qo 7, 10), se non per differenza con i negativi. Per cui Giovanni dice: Tutto il mondo è stato posto sotto il potere del maligno (1 Gv 5, 19), non perché il mondo sia malvagio in sé, ma perché nel mondo compiono azioni malvage gli uomini che dicono: mangiamo e beviamo, perché domani moriremoc; e l’Apostolo stesso dice: Profittando del tempo presente, perché i giorni sono malvagi (Ef 5, 16). [3.] Hanno cattiva fama i boschi in quanto pieni di briganti, non perché la terra e gli alberi abbiano colpe, ma perché anche i luoghi si trascinano dietro la cattiva reputazione di un delitto; esecriamo la spada che ha versato sangue umano ed il calice nel quale è stato messo il veleno, non a causa del peccato della spada o del calice, ma perché suscitano odio coloro che di essi hanno fatto un cattivo uso. Così anche il secolo, che è un’estensione di tempo, non è di per se stesso buono o cattivo, ma è chiamato buono
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Cf. Mt 6, 34; Gen 47, 9. Girolamo allude qui agli eventi raccontati nel capitolo 29 del Genesi: per amore di Rachele Giacobbe servì sette anni per Labano, padre di Lia e di Rachele; questi però, contravvenendo alla sua promessa, dopo i sette anni diede a Giacobbe in sposa Lia garantendogli che gli avrebbe dato la figlia minore, Rachele appunto, ma chiedendogli altri sette anni di servizio; così Giacobbe servì altri sette anni ed ebbe in sposa anche Rachele. c Is 22, 13; 1 Cor 15, 32. a
b
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o cattivo per causa di coloro che si trovano in essoa. Pertanto devono essere disprezzati i deliri e le favole di Valentino, il quale in base al fatto che nella Scrittura si parla di secoli inventò trenta Eonib dicendo che essi sono esseri animati e che attraverso Tetradi e Ogdoadi, nonché Decadi e Dodecadi14, hanno partorito tanti secoli quanti sono i porcellini generatic dalla scrofa di Enea15. [4.] Ci si deve anche chiedere che differenza c’è tra secolo e secolo del secolo o anche secoli dei secoli, e quando secolo è posto a significare un breve spazio di tempo, quando invece l’eternità, poiché in ebraico secolo, cioè ‘olam’, quando presenta l’inserimento di una lettera ‘vau’ significa eternità, quando invece è scritto senza ‘vau’ significa cinquantesimo anno, che gli Ebrei chiamano ‘giubileo’d. Per questo motivo quell’ebreo che a causa della moglie e dei figli, per amore del suo padrone, si assoggetta al giogo della servitù facendosi forare l’orecchio, riceve l’ordine di servire per un secolo (cioè fino all’anno cinquantesimo)e, e i Moabiti e gli Ammaniti non entrano nell’assemblea del Signore fino alla quintadecima generazione e fino ad un secolof; poiché ogni dura condizione veniva dissolta con l’arrivo del giubileo16. a A. Cain, ‘Tertullian, Cyprian, and Lactantius in Jerome’s Commentary’, p. 32-34, analizza sia quest’exemplum sia il precedente paragrafo 2 ed afferma che possibili ipotesti di Girolamo siano qui Tertulliano, res. 16, 4-8, p. 69, nonché pud. 4, 3, p. 161-163 e spect. 8, 10, p. 59. b Secondo la gnosi valentiniana il mondo divino (Pleroma) è strutturato in trenta Eoni (‘aiōn’ in greco vuol dire ‘tempo, età’), connessi in coppie (sizigie) strettamente congiunte, attraverso le quali vengono generate dapprima due Tetradi (dunque, in alcuni testi gnostici, un’Ogdoade), poi una Decade, infine una Dodecade: si vedano su Valentino e sulla sua scuola le notizie in M. Simonetti, Testi gnostici in lingua greca e latina, Milano, 1993, p. 201-209 nonché la mia nota 14. c Cf. Virgilio, Aen. 3, 390-391. d Cf. Lv 25, 8-11. e In base a Es 21, 5-6 l’ebreo in schiavitù, al settimo anno, pur potendosene andare libero, poteva decidere, se era affezionato al padrone, alla moglie ed ai figli avuti sotto il padrone, di servire ‘in saeculum’, cioè per uno spazio di tempo delimitato; Girolamo allude poi, in virtù di Lv 25, 8-10, alla reintegrazione nei suoi diritti dell’ebreo schiavo, che sarà servo fino a quando non arriverà l’anno del giubileo (Lv 25, 10: “Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nel paese per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia”). f Cf. Dt 23, 3.
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[5.] Alcuni dicono che nei secoli dei secoli ha lo stesso significato di ‘in mezzo ai santi dei santi’, di ‘nei cieli dei cieli’, di ‘nelle opere delle opere’, di ‘nei cantici dei cantici’, e la differenza che hanno i cieli rispetto a quei cieli dei quali sono cieli, e le sante realtà che sono più sante a confronto di quelle sante, e le opere che sono migliori in quanto superiori alle opere, e i cantici che risultano eccellenti tra tutti i cantici, la stessa differenza hanno anche i secoli che sono secoli in confronto ai secoli. Perciò spiegano il secolo presente in modo tale da dire che esso deve essere calcolato a partire dal tempo in cui il cielo e la terra furono creati e che giunge fino alla fine del mondo, quando Cristo giudicherà ogni cosa. Si spostano anche in avanti e ritornano indietro nelle loro analisi dei secoli, disputando di quelli passati e futuri, se sono stati o saranno buoni o cattivi; e cadono in questioni così profonde che in questa discussione hanno composto anche libri ed infiniti volumi. [6.] La parola ebraica amen che conclude il prologo di Paoloa è tradotta dalla Settanta ‘genoito’, cioè ‘sia’; Aquila ‘pepistōmenōs’, ‘giustamente’ o anche ‘fedelmente’17. Anche il Salvatore la usa sempre nel Vangelo quando conferma le sue parole per mezzo di ‘amen’b. 1,6-7 Mi meraviglio che tanto rapidamente vi siete allontanati da colui che vi ha chiamati alla grazia di Cristo Gesù verso un altro evangelo, ma non ve n’è un altro; a meno che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sconvolgere il vangelo di Cristo. [1.] Leggiamo per la prima volta la parola ‘allontanamento’c nel Genesi nel
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a L’esegeta dunque individua nell’inserimento del termine ‘amen’ una chiara formula di transizione per mezzo della quale Paolo conclude il prologo della sua epistola, esteso, a giudizio dello Stridonense, per i primi cinque versetti del capitolo primo. b Cf. Mt 5, 18. c La prima parte del commento di Girolamo sui versetti 6 e 7 è incentrata sulla spiegazione della parola ‘transferimini’: l’esegeta fornisce le possibili accezioni di ‘transferre’ in base agli usi biblici e offre altresì i significati abituali del verbo nel contesto culturale greco e romano. Purtroppo nella traduzione italiana è impossibile mantenere un unico termine per le diverse accezioni ed i diversi contesti in cui, secondo la spiegazione geronimiana, è usato ‘transferre’ nelle sue varie forme: altrimenti si rischierebbe di chiamare ‘il Trasportato’ Dionisio e
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brano in cui Dio allontanò Enoch e non si trovava (Gen 5, 24), e poi nel libro dei Re quando la moglie Gezabele allontanò Acab dal culto di Dio verso la venerazione degli idoli affinché agisse in tutto alla maniera dell’Amorreo, che il Signore eliminò dal cospetto dei figli di Israelea. Ma pur essendo l’uno e l’altro un ‘allontanamento’, l’uno è proprio di Dio, l’altro del diavolo: chi è allontanato da Dio non è trovato dai suoi nemici né lo può assalire all’improvviso un nemico in agguato, perché questo penso che significhi ‘e non si trovava’; chi invece è allontanato dal diavolo è allontanato verso ciò che sembra esistere ma non esiste. Anche i sapienti del mondo chiamano ‘apostati’ coloro che si sono trasferiti da una dottrina ad un’altra, come il famoso Dionisio18 (la cui opinione prima era: “il dolore non è un male”, ma in seguito, oppresso e tormentato da disgrazie e dolori, cominciò ad affermare che il dolore è il più grande di tutti i mali) fu chiamato ‘Trasferito’ o ‘Apostata’, giacché evidentemente allontanandosi dal precedente convincimento era ricaduto nel contrariob. [2.] Paolo pertanto si meraviglia in primo luogo perché si sono allontanati dalla libertà del Vangelo verso la schiavitù delle opere della legge, poi perché si sono allontanati tanto rapidamente, dal momento che non è la stessa colpa essersi allontanati con difficoltà da qualcuno ed essersi allontanati rapidamente, come nel martirio non è colpito dalla stessa punizione colui che senza lotta e torture subito si è precipitato a negare e colui che, torturato, tra cavalletti, corde e fuoco è stato costretto a negare ciò in cui credeva. Era ancora fresca la predicazione del Vangelo, non era trascorso molto tempo da quando l’Apostolo aveva condotto i Galati a Cristo dagli idoli: si meraviglia pertanto di come si siano allontanati tanto rapidamente da non, com’è corretto e di immediata percezione per un fruitore della lingua italiana, ‘l’Apostata’. Dunque, al fine di rendere le varie accezioni di ‘transferre’ cui Girolamo allude nel commento, ho utilizzato vari termini italiani: ‘allontanare’ (allontanamento), ‘trasferire’ (trasferimento), ‘apostata’, ai quali in latino – è bene evidenziarlo – corrisponde un’unica radice lessicale. a Cf. 1 Re 16, 31; Es 34, 11. b Cf. Cicerone, Tusc. 2, 60; fin. 5, 94; Ateneo 7, 281; Diogene laerzio 7, 37.166-167.
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colui nel cui nome da poco erano diventati cristiani. Il brano presenta anche un iperbato, che, in modo ordinato, può essere spiegato così: Mi meraviglio che vi siete allontanati tanto rapidamente da Cristo Gesù che vi ha chiamati alla grazia dicendo: Non sono venuto a chiamare i giusti al pentimento ma i peccatori (Mc 2, 17); per mezzo della grazia, infatti, siamo stati salvati e non per la legge (cf. Ef 2, 8). [3.] Vi siete allontanati, dice, verso un altro Vangelo, ma non ve n’è un altro, poiché tutto ciò che è falso non esiste e ciò che è contrario alla verità non esiste, come dice quel versetto: Non consegnare, Signore, il tuo scettro a coloro che neppure esistono (Est 14, 11); e Dio ha invocato le cose che non esistevano affinché facesse esistere ciò che non era. Se pertanto è detto di coloro che credevano nel medesimo Dio ed avevano le medesime Scritture che si sono allontanati verso un altro Vangelo che non è un Vangelo, che cosa dobbiamo pensare di Marcione e di tutti gli altri eretici che rifiutano il creatore e inventano che Cristo è figlio di un altro Dio19? Questi non scivolano e cadono sull’interpretazione della legge o sulla contrapposizione lettera/spirito, ma contrastano con tutta quanta la legge della chiesa. [4.] Dice bene: a meno che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sconvolgere il Vangelo di Cristo. Vogliono, dice, cambiare, sconvolgere, turbare il Vangelo di Cristo, ma non ci riescono, perché ha una natura tale che non può essere diverso da com’è veramente. Chiunque interpreta il Vangelo con uno spirito ed una mente diversa da come è stato scritto turba i credenti e sconvolge il Vangelo di Cristo, per far passare alle spalle ciò che è sotto gli occhi e mettere sotto gli occhi ciò che è alle spalle: se qualcuno segue solo la lettera, mette davanti ciò che è dietro; se qualcuno si adegua alle interpretazioni giudaiche, mette alle spalle quanto per sua natura è stato messo sotto gli occhi. Nondimeno è altresì congruente il fatto che è stata adattata ai Galati la parola ‘trasferimento’: infatti nella nostra lingua Galazia significa ‘trasferimento’.
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1,8-9 Ma anche se noi o un angelo dal cielo vi predicasse un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia
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anatema! Come abbiamo già detto ed ora ribadisco: se qualcuno vi predicasse un Vangelo diverso da quello che avete appreso, sia anatema! [1.] L’espressione può anche essere intesa in modo iperbolico20, non perché o l’Apostolo o un angelo avrebbero potuto predicare diversamente da quanto avevano detto un tempo, ma, anche se si desse per assurdo il caso che l’Apostolo e gli angeli mutassero, tuttavia i Galati non avrebbero dovuto recedere da ciò che un tempo avevano ricevuto, specialmente perché l’Apostolo stesso dimostra in un altro passo la fermezza della sua fede dicendo: So che né morte né vita né angeli né principati né presente né futuro né potenze né altezza né profondità né alcun’altra creatura potrà separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù nostro Signore. Dico la verità, non mento, giacché la mia coscienza me ne dà testimonianza (Rm 8, 38 – 9, 1). Queste dunque non sono le parole di uno che possa un giorno allontanarsi dalla fede e dall’amore di Cristo. [2.] Quelli21 invece che non vogliono che il versetto sia stato pronunciato ‘kata hypothesin’ [per assurdo] ma realisticamente, cioè ritengono che apostoli ed angeli possano mutare in peggio, oppongono il fatto che anche lo stesso Paolo sarebbe stato consapevole di poter scivolare se si fosse comportato con debolezza, quando dice: Tratto duramente il mio corpo e lo espongo alla schiavitù, perché, mentre predico agli altri, non venga trovato io stesso malvagio (1 Cor 9, 27); obiettano che sono mutevoli anche gli angeli, che non hanno conservato il loro principato, ma lasciando la loro dimora sono riservati, nelle tenebre, alle catene eterne nel giudizio del gran giorno (cf. Gd 6); inoltre che è immutabile solo la natura di Dioa, del quale è scritto: Tu resti lo stesso (Sal 102, 28), ed egli dice di sé: Io sono il vostro Dio e non muto (Ml 3, 6); che è caduto Lucifero che sorgeva la mattina ed è stato abbattuto in terra colui che Cf. Origene, Cels. 1, 21, p. 107-108; 4, 14, p. 296-297; 6, 62, p. 486-487; nei primi due brani qui menzionati Origene sottolinea la pecularietà del pensiero cristiano (e giudaico) rispetto a quello stoico e, più in generale, pagano caratterizzato da una concezione mutevole della natura di Dio; l’Adamanzio menziona la medesima testimonianza del Salmo a conferma delle sue asserzioni. Più diretta contro Celso, e però sempre legata a Sal 102, 28 è la riflessione di Origene sull’immutabilità di Dio nel sesto libro dell'opera contro il filosofo pagano. a
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un tempo mandava i suoi messaggeri a tutte le genti (cf. Is 14, 12). In questo versetto Tertulliano, uomo molto dotto, scrive con eleganza contro Apelle e la sua vergine Filumene22, che era stata invasata da un angelo malvagio e dallo spirito diabolico, che l’angelo in questione era quello sul quale, molto prima che Apelle nascesse, era stato scagliato profeticamente dall’Apostolo, per ispirazione dello Spirito Santo, l’anatemaa. [3.] Anatema peraltro è termine specifico della lingua giudaica ed è presente sia in Giosuè sia nei Numeri, laddove il Signore ordinò che doveva essere maledetto ed assoggettato ad anatema tutto ciò che era a Gerico e presso i Madianitib. Interroghiamo coloro che affermano che Cristo e l’apostolo Paolo sono rispettivamente il figlio del Dio buono ed ignorato sino a quel momento ed il servo che non sa maledire e non ha saputo condannare nessunoc: come mai ora l’Apostolo di questo Dio si serve di una parola giudaica, cioè della lingua del Creatore, e vuole che periscano l’angelo o l’apostolo, se egli non ha l’abitudine di cercare vendetta? [4.] Aggiungendo le parole ‘come abbiamo già detto ed ora ribadisco’ mostra, da un lato, che all’inizio, mettendo in guardia da questo rischio, aveva minacciato l’anatema a coloro che avessero predicato diversamente e, dall’altra, che ora, dopo che la predicazione è compiuta, decreta quell’anatema che già prima aveva preannunciato. Perciò ha minacciato l’anatema sia a se stesso, che era accusato di agire in un modo in Giudea e di insegnare in un altro tra i gentili, sia all’angelo, che risultava essere persino più importante dei suoi predecessori apostoli, in modo tale che non fosse considerata grande l’autorità di Pietro e Giovanni, dal momento che neppure a lui, che in precedenza
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a
Il senso di questa allusione all’angelo di Apelle è il seguente: se si presentassero ai Galati pseudo-apostoli che, a nome di Paolo, li invitano a comportarsi in modo diverso, e se venisse ad essi un annunzio diverso persino da un autorità superiore, come ad esempio un angelo, sia anatema anche all’angelo, perché Paolo aveva previsto l’anatema a un finto angelo come quello di Apelle. b Cf. Nm 21, 3; Gs 6, 17. c Il bersaglio di queste parole è naturalmente Marcione e gli Gnostici, che asserivano la diversità tra il dio creatore e crudele dell’Antico Testamento ed il Dio buono svelato da Cristo ed annunciato dall’Apostolo Paolo.
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li aveva istruiti, né ad un angelo era lecito predicare in modo diverso da quanto una volta per tutte avevano appreso. Ha indicato dunque per nome se stesso e l’angelo, gli altri invece senza nome: Se qualcuno, dice, vi predicasse un Vangelo, in modo che con un’espressione generica non offendesse i predecessori e tuttavia in modo latente facesse i loro nomi23.
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1,10 Ora infatti voglio persuadere gli uomini o piuttosto Dio? O cerco forse di piacere agli uomini? Se ancora piacessi agli uomini, non sarei servo di Cristo! [1.] Non pensiamo che l’Apostolo ci insegni con il suo esempio a disprezzare i giudizi degli uomini, lui che ha detto in un altro versetto: Conoscendo dunque il timore del Signore, cerchiamo di persuadere gli uomini, a Dio invece siamo ben noti (2 Cor 5, 11), e ancora: Non date motivo di scandalo ai Giudei e alla chiesa di Dio, così come io cerco di piacere a tutti in tutto, non cercando il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza (1 Cor 10, 32-33)24. Ma se è possibile piacere parimenti sia a Dio sia agli uomini, bisogna piacere anche agli uomini; se diversamente non possiamo piacere agli uomini senza dispiacere a Dio, dobbiamo piacere a Dio piuttosto che agli uomini (cf. 1 Ts 2, 4). Del resto, anche lo stesso Paolo spiega perché cerca di piacere a tutti in tutto dicendo: non cercando il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza; colui che per mezzo di quella carità che non cerca il proprio interesse ma quello degli altri piace a tutti perché giungano alla salvezza, comunque piace prima di tutto a Dio a cui sta a cuore la salvezza degli uomini. [2.] C’è anche la parola ‘ora’, che qui è stata inserita in modo particolare: secondo le circostanze bisogna o piacere o dispiacere agli uomini, cosicché chi ora non piace un tempo, a causa della verità del Vangelo, è piaciuto per la salvezza di molti. Una volta Paolo era piaciuto ai Giudei, quando, emulo delle tradizioni paterne, viveva nella legge senza biasimo ed aveva tanto ardore e fede nei riti degli antenati che partecipò all’esecuzione di Stefano e si recò a Damasco per incatenare coloro che si erano allontanati dalla leggea. Ma dopo che da persecutore si traa
Cf. At 7, 57-58; 9, 2-3; 9, 15.
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sformò in strumento della scelta di Dio e cominciò a predicare la fede che un tempo aveva combattuto, cominciò parimenti a dispiacere ai Giudei ai quali prima era piaciuto. Questo è dunque quello che dice: forse che cerco di piacere ai Giudei ai quali, dispiacendo a Dio, sono piaciuto? Se infatti piacessi a quelli, non sarei più servo di Cristo: giacché sosterrei la legge e distruggerei la grazia del Vangelo. Ora invece non sono indotto neppure a simulare di osservare la legge perché non posso piacere parimenti sia a Dio sia ai Giudei: chiunque piace a Dio dispiace a costoro. [3.] Anche la parola persuadere è stata desunta dall’uso che gli uomini ne fanno quando qualcuno si sforza di inculcare in tutti gli altri ciò che egli ha e ha già accolto nella propria mente, e si legge in diversi luoghi delle Scritture, tra i quali anche quel brano: La persuasione non dipende da colui che vi ha chiamati (Gal 5, 8); come pure negli Atti degli Apostoli: Vennero dunque da lui nel suo allogio molti Giudei, ai quali predicava fino a sera testimoniando il regno di Dio e cercando di persuaderli riguardo a Gesù, a partire dalla legge di Mosè e dai profeti (At 28, 23). Tutto questo perché su di lui era stato messo in giro che custodiva la legge di nascosto e a Gerusalemme si era mischiato con quelli che vivevano alla maniera dei Giudei.
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1,11-12 Infatti vi dichiaro, fratelli, che il vangelo che è stato da me annunciato non è a misura d’uomo; infatti non l’ho ricevuto da un uomo né mi è stato insegnato, ma l’ho ricevuto per rivelazione di Gesù Cristo. [1.] Anche grazie a queste parole è eliminata la dottrina di Ebione e di Fotino, giacché Cristo è Dio e non solamente uomo25. Se infatti il Vangelo di Paolo non è a misura d’uomo né l’ha ricevuto da un uomo né gli è stato insegnato, ma l’ha ricevuto per rivelazione di Gesù Cristo, non è quindi uomo Gesù Cristo che ha rivelato il Vangelo a Paolo; se non è uomo, per conseguenza è Dio. Non perché neghiamo l’umanità assunta, ma perché confutiamo che sia solo uomoa. a Appare utile il confronto di questo paragrafo dell’esegesi di Girolamo con Origene, In Gal. fr. 2, p. 220-221; possiamo in tal modo verificare come il Dalmata ha lavorato sull’intertesto: cf. G. Raspanti, ‘Adgrediar opus intemptatum: l’Ad Galatas di Gerolamo’, p. 205-206.
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[2.] La questione è se le chiese di tutto il mondo abbiano ricevuto il Vangelo di Dio o quello di un uomo: quanti infatti fra noi lo hanno appreso per rivelazione di Cristo e non l’hanno conosciuto attraverso la predicazione di un uomo? Alla questione possiamo rispondere che quelli che possono dire: O forse cercate una prova di colui, Cristo, che parla in me? (2 Cor 13, 3) e: Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (Gal 2, 20), non sono tanto loro che insegnano bensì è in loro Dio, che dice ai santi: Io ho detto: voi siete dei e siete tutti figli dell’Altissimo e subito sui peccatori: Voi invece morirete come uomini e cadrete come uno dei potenti (Sal 82, 6-7). Poiché dunque a parlare sono Paolo e Pietro, che non muoiono come uomini né cadono come uno dei potenti, è chiaro che essi sono esseri divini; quanti sono divini trasmettono il Vangelo di Dio e non quello di un uomo. [3.] Marcione e Basilide26 e tutte le altre pestilenze eretiche non hanno il Vangelo di Dio, poiché non hanno lo Spirito Santo, senza il quale il Vangelo che è insegnato diventa umano. E non pensiamo che il Vangelo risieda nelle parole della Scrittura bensì nel significato, non nella superfice ma nel midolloa, non nelle foglie delle parole ma nella radice del pensiero. Di Dio si dice nel testo profetico: Sono benefiche le sue parole per chi è con lui (Mi 2, 7); la Scrittura è utile a chi ascolta solo quando non è esposta senza Cristob, quando non è proferita senza il Padre, quando colui che predica non la comunica senza lo Spirito. Altrimenti a parlare delle Scritture è il diavolo e tutte le eresie si cuciono da esse guanciali da porre sotto il gomito di ogni età secondo le parole di Ezechiele (cf. Ez 13, 18.21). Anch’io che parlo, se in me ho Cristo, non ho il Vangelo di un uomo; se invece sono un peccatore, è detto per me: Dio disse al peccatore: perché tu vai ripetendo i miei giudizi e hai sempre in bocca la mia alleanza? Tu invece odi la disciplina e ti sei gettato alle spalle le mie parole? (Sal 50, 16-17) e tutto il resto che segue. È un grande a Possibile influsso di Tertulliano, res. 3, 6, p. 47-49: cf. A. Cain, ‘Tertullian, Cyprian, and Lactantius in Jerome’s Commentary’, p. 34-35. b È un’asserzione assai significativa di Girolamo, come evidenzia l’innalzamento del livello stilistico conseguito mediante la litote e l’anafora della congiunzione temporale; rinvio ad Introduzione, p. 30-34, per gli aspetti di ermeneutica geronimiana implicati in questo brano.
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rischio parlare nella chiesa, perché non succeda che, a causa di una perversa interpretazione, il Vangelo di Cristo diventi Vangelo di un uomo o, ciò che è peggio, del diavolo. [4.] Tra ricevere e imparare la differenza è che riceve il Vangelo colui al quale è comunicato per la prima volta ed è indotto alla fede nel Vangelo perché creda che sono veri i contenuti lì scritti; invece impara colui che conosce le spiegazioni e i commenti dei contenuti che nel Vangelo sono espressi in modo enigmatico e attraverso parabole, e li conosce non per rivelazione di un uomo ma di Cristo che le ha rivelate a Paolo o di Paolo nel quale parla Cristo. Anche il termine stesso ‘apokalypsis’, cioè rivelazione, è specifico della Scrittura e non è stato usato presso i Greci da alcuno dei sapienti del mondo. Per cui mi sembra che come in altri casi di traduzione dall’ebraico al greco così anche in questo la Settanta si è molto sforzata di esprimere il senso proprio di una parola straniera, plasmando nuovi vocaboli per nuovi significati27, e intende significare qualcosa di coperto e velato che è mostrato e portato alla luce, una volta tolta dal di sopra la copertura. [5.] Vi propongo un esempio perché ciò sia più chiaro: Mosè parlava con Dio a viso scoperto e nudo, cioè senza velo, parlando invece al popolo si metteva un velo sul volto perché esso non era in grado di rivolgere lo sguardo verso di luia. Anche dinanzi l’arca dell’alleanza era steso un velo (cf. Es 40, 3): tirato indietro questo, quello che prima era nascosto era svelato e, per servirmi del medesimo termine, era ‘rivelato’. Se pertanto coloro che hanno preso l’abitudine di leggere gli eloquenti di questo mondo cominciassero a irriderci per la novità e la grossolanità del linguaggio, rinviamoli ai libri dedicati da Cicerone a questioni di filosofia e vedano lì da quale grande necessità egli sia stato costretto a esprimere meraviglie verbali tali che mai l’orecchio di un latino ha ascoltato: e ciò traducendo dal greco, che pure è una lingua vicina alla nostra. Che cosa soffrono allora quelli che tentano di esprimere le peculiarità a partire dalle difficoltà che pone la lingua ebraica? E comunque sono a
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Cf. Es 34, 4.30.35.
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in numero assai inferiore i termini che in così numerosi volumi delle Scritture suonano nuovi rispetto a quelli che Cicerone ha messo insieme in una piccola opera. [6.] È altresì possibile, come abbiamo detto all’inizio quando spiegavamo il versetto ‘Paolo apostolo non per volontà di uomini né per tramite d’uomo’ (Gal 1, 1)28, intendere allo stesso modo anche nel presente caso le parole di Paolo in riferimento indiretto contro Pietro29 e tutti gli altri predecessori, nel senso che chi ha Cristo come unico maestro del Vangelo non può essere spinto dall’autorità di alcuno in difesa della legge. Inoltre Paolo vuol significare quella rivelazione che ebbe allorquando, mentre andava a Damasco, fu degno di udire sulla strada la voce di Cristo e vide la vera luce del mondo nonostante l’accecamento degli occhia.
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1,13-14 Infatti avete sentito della mia condotta d’un tempo nel giudaismo, come oltremodo perseguitavo la chiesa di Dio e la combattevo e progredivo nel giudaismo più di molti coetanei della mia stirpe, straordinariamente pieno di zelo per le tradizioni dei miei padri. [1.] È molto utile per i Galati30 il racconto di come Paolo, un tempo persecutore della chiesa e accerrimo difensore del giudaismo, si sia convertito alla fede in Cristo all’improvviso e, soprattutto, nel momento in cui la predicazione del crocifisso nel mondo era agli inizi e la nuova dottrina era cacciata dai confini del mondo intero sia da parte dei gentili sia dagli Ebrei. Infatti potevano dire: se colui che fu istruito sin dalla prima infanzia nelle discipline dei farisei, che superava tutti i suoi coetanei nella tradizione giudaica, ora difende la chiesa che un tempo perseguitava con il massimo accanimento e preferisce la grazia e la novità di Cristo con l’ostilità di tutti piuttosto che la vetustà della legge con la lode di molti, che cosa dobbiamo fare noi che siamo diventati cristiani a partire dal paganesimo? [2.] Opportunamente31 ha aggiunto oltremodo perseguitavo la chiesa di Dio affinché anche da ciò nascesse un sentimento di ammirazione per il fatto che non uno qualunque di coloro che in modo blando perseguitavano a
Cf. At 9, 2-4.8; Gv 1, 9; 8, 12; 9, 5.
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la chiesa, ma colui che superava tutti gli altri nella persecuzione si era convertito alla fede. E con prudenza mentre narra altro inserisce che egli non era stato al servizio della legge di Dio bensì delle tradizioni paterne, cioè dei farisei, che insegnano dottrine, che sono doveri di uomini (cf. Mc 7, 7), e rigettano la legge di Dio per affermare le loro tradizioni. [3.] Che osservazione elegante e che peso delle parole: Avete sentito, dice, della mia condotta d’un tempo nel giudaismo; condotta non ‘grazia’, un tempo non ‘ora’, nel giudaismo non ‘nella legge di Dio’. Come oltremodo perseguitavo la chiesa di Dio e la combattevo: non la perseguitava come tutti gli altri ma oltremodo; non gli bastava una persecuzione sia pur violenta, ma devastava la chiesa come fosse un brigante ed un delinquente. Non dice la chiesa di Cristo, che Paolo, come pensava allora, disprezzava, che perseguitava; ma, come crede ora, la chiesa di Dio, significando sia che Cristo stesso è Dio sia che la chiesa è del medesimo Dio che un tempo diede la leggea. E progredivo, dice, nel giudaismo più di molti coetanei della mia stirpe, straordinariamente pieno di zelo per le tradizioni dei miei padri. [4.] Parla ancora una volta di profitto non della legge di Dio, ma del giudaismo; non al di sopra di tutti ma al di sopra di molti, non al di sopra degli anziani ma al di sopra dei coetanei, sia per rievocare il suo zelo nella legge sia per evitare di vantarsi. Menzionando le tradizioni dei padri, non i comandamenti del Signore ha mostrato sia di essere fariseo discendente di farisei sia di aver avuto lo zelo per Dio, ma non secondo la scienza (cf. Rm 10, 2). Fino ad oggi quanti intendono le Scritture con l’interpretazione giudaica perseguitano la chiesa di Cristo e la devastano non per amore della legge di Dio, bensì corrotti dalle tradizioni degli uomini32.
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1,15-16a Quando a colui che mi ha scelto dal seno di mia madre e mi ha chiamato per sua grazia piacque di rivelare il figlio suo in me, perché io lo annunziassi tra le genti. [1.] Non solo in questo versetto ma anche nella lettera ai Romani Paolo scrive che è stato scelto per il vangelo di Dio (Rm 1, 1); e di Geremia si a
Ancora un attacco, indiretto, dell’esegeta contro Marcione e lo gnosticismo.
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dice che, prima che si formasse nel grembo e fosse concepito nel seno di sua madre, era noto e consacrato a Dio (cf. Ger 1, 5); e del giusto, o meglio, come pensano alcuni, del Salvatore è detto: In te sono stato generato dal grembo, dal seno di mia madre sei tu il mio Dio (Sal 22, 11). Al contrario Davide canta dei peccatori: Ecco nelle iniquità sono stato concepito e nei delitti mi ha concepito mia madre (Sal 51, 7), e in un altro versetto: Sono traviati i peccatori sin dal seno materno (Sal 58, 4). E nell’uno e nell’altro senso prima che i bambini nascessero: Dio amò Giacobbe, ebbe in odio invece Esaù (Ml 1, 2-3). [2.] Gli eretici che pretendono che vi siano nature diverse, cioè una spirituale, una animale ed una terrena33, e che una sia salvata, una perisca, l’altra stia tra le due, sfruttano il brano per affermare che uno non verrebbe mai nominato giusto prima di fare qualcosa di buono o il peccatore non verrebbe mai odiato prima del delitto se non fosse diversa la natura di coloro che periscono e di coloro che sono destinati alla salvezza. A tale argomento si può rispondere in modo semplice che ciò accade per virtù della prescienza di Dio34 in modo che colui di cui Dio conosce la futura giustizia è amato prima che nasca dal grembo materno e colui di cui Dio conosce il futuro peccato è odiato prima che pecchi, non perché sia nell’amore che nell’odio vi sia iniquità da parte di Dio, ma perché Egli non debba considerare diversamente coloro che sa che saranno peccatori o giusti; si può rispondere che noi in quanto uomini giudichiamo soltanto in base a realtà presenti, egli, per il quale il futuro si è già compiuto, giudica sulla fine delle cose, non sugli inizi. [3.] Queste considerazioni siano pure svolte in modo alquanto semplice e tuttavia possono placare il lettore senza una dissertazione più approfondita35. Peraltro, quanti si sforzano di affermare che Dio è ingiusto in base al versetto che abbiamo riportato: Sono traviati i peccatori sin dal seno materno, aggiungono anche i versetti seguenti: hanno peccato sin dal grembo, hanno detto il falso e dicono: com’è possibile che i peccatori hanno peccato sin dal grembo ed hanno detto il falso se non potevano ancora parlare e capire? Oppure che giustizia è codesta della prescienza di Dio, che ama e custodisce uno prima che nasca, detesta un altro? E riferiscono le cause di questa situazione ad una vita precedente,
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il fatto, cioè, che ciascuno in rapporto ai suoi meriti subito da principio dopo la nascita sia assegnato o a buoni o a cattivi angeli; e tutto quel versetto su Giacobbe ed Esaù, di cui ora abbiamo fatto menzione, vanno dicendo che è stato scritto nell’epistola ai Romani in un modo tale che non è possibile dare loro una risposta senza sudore e senza l’elleboro di Crisippo36. [4.] Non è la stessa cosa dire ‘di rivelare il figlio suo in me’ invece che ‘di rivelare il figlio suo’ a me: infatti, a colui al quale qualcosa è rivelato può essere rivelato ciò che prima non era in lui, invece in colui nel quale qualcosa è rivelato è rivelato quello che prima era in lui e poi è stato rivelato. Simile è quel versetto nel Vangelo: In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete (Gv 1, 26), ed altrove: Era la luce vera che illumina ogni uomo che viene al mondo (Gv 1, 9). Da ciò diviene chiaro che è insita in tutti per natura la nozione di Dio e che nessuno nasce senza Cristo e ognuno ha in sé i semi della sapienza, della giustizia e delle restanti virtù, per cui molti senza fede e senza Vangelo di Cristo compiono gesti saggi e persino santi, come obbedire ai genitori, porgere la mano al povero, non sopraffare il vicino, non rubare; e diventano tanto più colpevoli nel giudizio di Dio perché pur avendo in sé i principi della virtù e i semi di Dio non credono in colui senza il quale non possono esistere. Si può intendere anche diversamente l’espressione ‘il Figlio di Dio rivelato’ in Paolo, cioè che fu reso noto ai pagani grazie alla sua predicazione colui che prima ignoravano. 1,16b Subito non ho acconsentito alla carne ed al sangue; sia, come si legge meglio nel testo greco37, non mi sono confrontato con carne e sangue. [1.] So che i più pensano che ciò è detto degli apostoli; infatti anche Porfirio obietta che dopo la rivelazione di Cristo non si degnò di andare da uomini e confrontarsi con loro38, evidentemente affinché dopo l’insegnamento da parte di Dio non venisse istruito da carne e sangue. Ma lungi da me ritenere Pietro, Giovanni e Giacomo carne e sangue, che non possono possedere il regno di Dio. Se gli apostoli, che sono spirituali, sono carne e sangue, che cosa pensare dei terreni? Paolo non si è confrontato apertamente dopo la rivelazione di Cristo con carne e sangue, perché non
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volle gettare le perle dinanzi ai porci né dare le cose sante ai cani (cf. Mt 7, 6); considera che cosa è stato scritto sui peccatori: Non resterà il mio spirito su questi uomini, perché sono carne (Gen 6, 3). Con costoro che erano carne e sangue, che neanche a Pietro rivelarono il Figlio di Dioa, l’Apostolo non confrontò il Vangelo che gli era stato rivelato, ma a poco a poco li trasformò da carne e sangue in spirito ed allora infine affidò loro i misteri nascosti del Vangelo. [2.] Qualcuno potrebbe dire: se non ha confrontato subito con carne e sangue il Vangelo tuttavia è sottinteso che si è confrontato con sangue e carne poco tempo dopo, e questa interpretazione, con cui spieghiamo che gli apostoli non sono carne e sangue, non può stare in piedi, perché colui che all’inizio non si è confrontato con sangue e carne nondimeno dopo un po’, come ho detto, si sarebbe confrontato con sangue e carne. Quest’argomento ci costringe a dividere le pericopi cosìb: non congiungiamo ‘immediatamente’, ovvero ‘subito’, con carne e sangue, ma uniamolo con le parole precedenti e leggiamo: Quando a colui che mi ha scelto dal seno di mia madre piacque, e poi: di rivelare il figlio suo in me, e da ultimo: perché io lo annunziassi tra le genti subito, per cominciare fin dall’esordio della propria predicazione: non mi sono confrontato con carne e sangue. Si deve ritenere che il senso così scorra di più, perché chi fu subito inviato, dopo la rivelazione di Cristo, ad annunciare il Vangelo ai pagani non è rimasto fermo né ha perso tempo con taluni indugi andando dagli apostoli e confrontando con uomini la rivelazione del Signore, ma andò in Arabia e tornando indietro a Damasco a Cf. Mt 16, 17: “E Gesù: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli»”. b Il paragrafo 2 del commento a Gal 1, 16b è uno degli esempi più significativi della filologia geronimiana, base di ogni successiva interpretazione. Si noterà, infatti, il procedimento ‘per quaestiones’ con cui Girolamo avvia la problematizzazione del versetto (“Qualcuno potrebbe dire ...”) e manifesta le difficoltà d’interpretazione che esso pone. L’autore procede quindi ad una diversa distinctio delle parole, che, a suo giudizio, rende più coerente il significato di 1, 16 nel contesto del pensiero paolino e nella storia degli inizi della predicazione apostolica. Questi elementi dell’esegesi del giovane Girolamo, entusiasta sostenitore di Origene e della sua ermeneutica, dimostrano che non vi è né nelle fonti né nello Stridonense una rigida distinzione tra metodi “allegorizzanti” e metodi “letteralistici”/”storicizzanti”; le due procedure si intrecciano, invece, in un processo ermeneutico ricco e complesso.
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dopo tre anni predicò il Vangelo ed allora infine, andando a Gerusalemme, vide Pietro, Giovanni e Giacomoa. 1,17a E non sono andato a Gerusalemme dagli apostoli, miei predecessori. Se avesse detto degli apostoli non mi sono confrontato con carne e sangue, che bisogno ci sarebbe stato di ripetere la stessa cosa dicendo: e non sono andato a Gerusalemme dagli apostoli, miei predecessori? Bisogna dunque accettare quella spiegazione che abbiamo fornito sopra. 1,17b Ma sono andato in Arabia e di nuovo sono tornato a Damasco. [1.] L’ordine storico non sembra essere coerente in base al racconto di Luca negli Atti degli Apostoli39 secondo cui, poiché Paolo, divenuto fedele di Cristo, predicò coraggiosamente per molti giorni il Vangelo a Damasco, furono fatti dei complotti nei suoi confronti ed egli fu calato di notte in una cesta lungo il muro e venne a Gerusalemme tentando di congiungersi con i discepoli; dal momento che era da loro evitato ed essi temevano di avvicinarsi a lui, Paolo fu condotto agli apostoli da Barnaba e lì narrò in che modo aveva visto il Signore lungo la strada e come aveva agito a Damasco apertamente nel nome di Gesù (cf. At 9, 19-27): Stava – dice Luca – con loro, entrando e uscendo a Gerusalemme e agendo apertamente nel nome del Signore. Parlava e discuteva anche con i greci, quelli invece cercavano di ucciderlo. Venutolo a sapere i fratelli, lo condussero a Cesarea e lo fecero partire per Tarso (At 9, 28-30). Qui invece Paolo dice di essersi spostato dapprima in Arabia e di essere ritornato di nuovo a Damasco; di essere venuto a Gerusalemme dopo un triennio, di aver visto Pietro e di essere rimasto con lui per quindici giorni e di non aver incontrato nessun altro tranne Giacomo, fratello del Signore (cf. Gal 1, 18-19). Perché queste parole fossero considerate veritiere (potevano infatti apparire dubbie agli assenti), ne dà conferma davanti ad un testimone dicendo: E per quanto vi scrivo, ecco, davanti a Dio attesto che non mentisco (Gal 1, 20). [2.] Possiamo dunque ritenere che Paolo secondo il racconto storico di Luca andò a Gerusalemme non come da apostoli a
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Cf. Gal 1, 17.18-19.
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predecessori per apprendere da loro qualcosa, ma per evitare la violenza della persecuzione che era stata provocata a Damasco contro di lui a causa del Vangelo di Cristo, e venne a Gerusalemme come se fosse andato in una qualunque città, da dove si allontanò subito a causa dei complotti e andò in Arabia o a Damasco e da lì dopo un triennio ritornò a Gerusalemme per vedere Pietro. Ovvero certamente così: subito dopo essere stato battezzato e rifocillato con il cibo ricevuto, egli fu per alcuni giorni con i discepoli che erano a Damasco e in mezzo allo stupore di tutti si mise subito a predicare nelle sinagoghe giudaiche che Gesù era Figlio di Dioa e allora appunto andò in Arabia e dall’Arabia ritornò a Damasco e lì visse un triennio: la Scrittura attesta questi giorni numerosi dicendo: Trascorsi quindi numerosi giorni, i Giudei fecero un complotto per ucciderlo. Ma i loro piani vennero a conoscenza di Saulo. E quelli facevano la guardia alle porte della città di giorno e di notte per ucciderlo; dunque i suoi discepoli lo presero e di notte lo fecero scendere lungo il muro, calandolo in una cesta. Venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi con i discepoli (At 9, 23-26). Luca invero ha trascurato il soggiorno in Arabia perché forse Paolo non aveva compiuto in Arabia nulla di particolarmente degno dell’apostolato e ha piuttosto esposto con un breve racconto quanto sembrava degno del Vangelo di Cristo. [3.] Né deve essere attribuito alla debolezza dell’Apostolo se egli fu inutilmente in Arabia, ma al fatto che vi fu un qualche piano e prescrizione di Dio perché tacesse. Infatti anche in seguito leggiamo che Paolo, partito con Sila, ricevette dallo Spirito Santo l’ordine di non proferire parola in Asiab. Altrimenti che cosa mi giova questo racconto (ma sono andato in Arabia e di nuovo sono tornato a Damasco), se leggo che Paolo dopo la rivelazione di Cristo subito andò in Arabia e dall’Arabia fece ritorno a Damasco e non so che cosa ha fatto lì o quale utilità ha avuto il suo andare e tornare? È l’Apostolo stesso che mi dà l’occasione di un’interpretazione più profonda nel corso di a b
Cf. At 9, 19.20-21. Cf. At 15, 40; 16, 6.
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questa medesima epistola quando discute di Abramo, Agar e Sara: Tali cose, dice, sono dette in senso allegorico. Giacché queste donne rappresentano le due alleanze: una, quella del monte Sinai, che genera nella schiavitù, ed è Agar. Infatti il Sinai è un monte in Arabia, che è confinante con quella che è la Gerusalemme attuale (Gal 4, 24-25). E mostra che l’antica alleanza, cioè il figlio della schiava, fu costituita in Arabia (che significa ‘umile’ e ‘caduca’40). Pertanto subito appena credette, Paolo rivolgendosi alla legge, ai profeti, ai misteri dell’antica alleanza, ormai posta in terreno caduco, vi cercò Cristo, del quale gli era stato ordinato di dare l’annunzio in mezzo ai pagani; e trovatolo, non dimorò troppo a lungo lì, ma ritornò a Damasco, cioè al sangue ed alla passione di Cristo; e da lì rinsaldato dalla lettura profetica si diresse a Gerusalemme, luogo di visione e pace, non tanto per apprendere qualcosa dagli apostoli quanto per confrontare con loro il Vangelo che aveva insegnato41.
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1,18a Poi, dopo tre anni, sono andato a Gerusalemme per vedere Pietro. [1.] Non per osservare gli occhi, le guance ed il volto di quello, se era macilento o grasso, se di naso adunco o retto e se la chioma gli copriva la fronte o (come riferisce Clemente nei Viaggi di Pietro42) avesse il capo calvo, né penso che sarebbe stato confacente alla serietà apostolica voler osservare qualche aspetto fisico in Pietro dopo una così lunga preparazione di tre anni, bensì lo guardò con quegli occhi con i quali anche ora Pietro è visto nelle sue epistole. Paolo vide Cefa con gli occhi con i quali lo stesso Paolo è considerato oggi da tutte le persone sagge. [2.] Se qualcuno non è d’accordo, ricongiunga tutte queste considerazioni con il tema precedente, il fatto cioè che gli apostoli non si confrontarono con lui; infatti anche in merito alla circostanza che egli pensò di andare a Gerusalemme, per questo andò, per vedere l’apostolo, non però con lo scopo di imparare, giacché anch’egli disponeva della medesima fonte per la predicazione, ma con l’obiettivo di rendere omaggio al più importante degli apostoli43. 1,18b E rimasi presso di lui quindici giorni. [1.] Non ebbe bisogno di un grande magistero colui che si era preparato per così lungo tempo per incontrare Pietro. E benché sembri
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superfluo a certuni considerare anche i numeri che si trovano nelle Scritture44, tuttavia penso non senza motivo che quindici giorni, durante i quali Paolo abitò presso Pietro, significhino la scienza piena e la perfetta dottrina. Dal momento che nel Salterio sono quindici i cantici e quindici i gradini per mezzo dei quali il giusto sale per cantare a Dio e per dimorare nella sua casaa; anche Ezechia, concessi quindici anni in aggiunta alla sua vita, merita di ricevere il segno della promessa di Dio nei gradi dell’ombra sulla meridianab; e le festività in onore di Dio cominciano dal quindicesimo giorno (cf. Es 12, 2-6). [2.] Anche per questo (giacché seguiamo la duplice interpretazione45) dice quindici giorni, per mostrare che non vi fu un grande spazio di tempo durante il quale avrebbe potuto apprendere qualcosa da Pietro, in modo che ogni argomento venga ricondotto a quel tema da cui ha iniziato: che egli non fu istruito da un uomo bensì da Dio46. 1,19 Ma non ho visto alcun altro apostolo, se non Giacomo fratello del Signore. [1.] Ricordo che mentre ero a Roma ho pubblicato per esortazione dei fratelli un libro sulla perpetua verginità di santa Maria, nel quale ho dovuto a lungo discettare su quelli che sono chiamati i fratelli del Signore47; per cui, dobbiamo accontentarci delle cose che abbiamo scritto qualunque esse siano. Ora sia sufficiente la considerazione che Giacomo è chiamato fratello del Signore a causa della singolare moralità, della fede senza pari e della sapienza non comune nonché per il fatto che fu il primo ad essere messo a capo di quella chiesa che, credendo per prima in Cristo, si era radunata fra i Giudei48. Anche tutti gli altri apostoli vengono certo chiamati fratelli del a
Girolamo fa riferimento ai cosiddetti Cantici delle ascensioni, cioè i salmi 120-134, che erano forse la preghiera in occasione del pellegrinaggio che i pii Israeliti facevano nella città santa, Gerusalemme. Erano così chiamati perché supponevano, e supportavano spiritualmente, la salita al colle di Sion (800 m. sul livello del mare); sono anche conosciuti come salmi graduali, essendo 15, come i gradini d’accesso al tempio di Gerusalemme b Per rendere più manifeste le parole dell’esegeta è utile riportare Is 38, 5-8: “Ecco io aggiungerò alla tua vita quindici anni [...] Da parte del Signore questo ti sia come segno che egli manterrà la promessa che ti ha fatto. Ecco, io faccio tornare indietro di dieci gradi l’ombra sulla meridiana, che è già scesa con il sole sull’orologio di Acaz”.
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Signore, come nel Vangelo: Va, di’ ai miei fratelli: io vado al Padre mio e Padre vostro, al Dio mio e Dio vostro (Gv 20, 17); e nel Salmo: Dirò il tuo nome ai miei fratelli; ti loderò in mezzo all’assemblea (Sal 22, 23). Ma principalmente è chiamato fratello colui al quale il Signore, andando al Padre, aveva affidato i figli di sua madre (cf. Gv 19, 26-27)49. E come certamente Giobbe e tutti gli altri patriarchi sono chiamati servi di Dio ma Mosè ebbe per così dire qualcosa di singolare sicché era scritto di lui: Ma non come il mio servo Mosè (Nm 12, 7), così anche il beato Giacomo fu denominato in modo speciale fratello del Signore (come abbiamo detto prima). [2.] Il motivo per cui, oltre ai Dodici, taluni sono chiamati apostoli è che tutti coloro che avevano visto il Signore e poi lo annunciavano con la predicazione furono chiamati apostoli, come è scritto ai Corinzi: Poi apparve agli Undici; in seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta, tra i quali molti sopravvivono ancor oggi, altri invece sono morti; inoltre apparve a Giacomo, poi a tutti gli apostoli (1 Cor 15, 5-7). A poco a poco, però, con il passare del tempo anche altri furono ordinati apostoli da quelli che il Signore aveva scelto, come dimostrano quelle parole ai Filippesi che dicono: Ho ritenuto necessario mandarvi Epafrodito, un fratello, un compagno di lavoro e di lotta, ma anche vostro apostolo e ministro per la mia necessità (Fil 2, 25); ed ai Corinzi è scritto di queste persone: Apostoli delle chiese, gloria di Dio (2 Cor 8, 23); anche Sila e Giuda sono stati nominati apostoli dagli apostoli (cf. At 15, 22.27). [3.] Pertanto ha sbagliato fortemente colui che ha ritenuto che questo Giacomo sia l’apostolo del Vangelo fratello di Giovanni, che risulta martirizzatoa per Cristo dopo Stefano secondo la testimonianza degli Atti degli Apostoli50. Questo Giacomo invece fu il primo vescovo di Gerusalemme, soprannominato il Giusto, uomo di così grande santità e fama in mezzo al popolo che la gente a gara desiderava toccare l’orlo della sua veste. Costui, dopo che fu gettato giù dal tempio dai Giudei, ebbe
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Cf. Mt 10, 3; At 12, 2.
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Simeone come successore, il quale, si racconta, subì anch’egli la crocifissione in nome del Signorea. Nega dunque di aver incontrato qualcuno degli apostoli tranne costoro51 affinché non nascesse un’obiezione occulta: anche se non sei stato istruito da Pietro, hai avuto altri apostoli come maestri. Invece non si vide con loro non perché provasse disprezzo, ma perché quelli si erano dispersi per tutto il mondo al fine di predicare il Vangelo. 1,20 Quanto vi scrivo, ecco attesto davanti a Dio che non mentisco. Si deve intendere sia in modo semplice perché il senso sia: quanto vi scrivo è vero e lo confermo dinanzi a Dio, giacché non sono state abbellite da alcuna arte retorica né da alcuna menzogna; sia in modo più profondo52 perché si legga: quanto vi scrivo è davanti a Dio, cioè degno di stare al cospetto di Dio. Perché, dunque, degno di stare al cospetto di Dio? Perché, evidentemente, non mentisco. E come gli occhi del Signore sono sui giusti (cf. Sal 34, 16), distoglie invece il suo sguardo dalla vista degli empi, così ora quel che è scritto è davanti al Signore dal momento che io che scrivo non mentisco: non sarebbe davanti al Signore, se mentissi. Questo può valere non solo a proposito di quello che scrive ora ai Galati, ma anche in generale di tutte le epistole, giacché non è falso quanto scrive e non v’è discrepanza tra il cuore e le sue parole. 40
1,21 Poi sono andato nelle regioni della Siria e della Cilicia. Dopo la visita di Gerusalemme si è recato in Siria, che da noi è chiamata ‘eccelsa’ e ‘sublime’, e da lì passò in Cilicia, che desiderava associare nella fede in Cristo, rivolgendo ad essa l’invocazione alla penitenza: Cilicia infatti significa ‘adozione’ o anche ‘invocazione lamentosa’53. 1,22-24 Ma ero sconosciuto di persona alle chiese della Giudea che erano in Cristo Gesù. Soltanto sentivano dire che colui che un tempo ci perseguitava, ora annuncia la fede che una volta combatteva; e glorificavano Dio in me. [1.] a Girolamo trae, probabilmente, queste notizie su Simeone, da Eusebio di Cesarea, h. e. 3, 11 e 32, p. 158 e 179-181, per il quale costui fu secondo vescovo di Gerusalemme, dopo Giacomo il Minore, e morì martire durante l’impero di Traiano.
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Le chiese che erano in Giudea conoscevano Paolo solo per fama, la maggior parte di esse aveva visto in lui il persecutore piuttosto che l’apostolo. Invece la Siria e le regioni della Cilicia, l’Arabia e Damasco forse lo conoscevano anche di persona, poiché il dottore dei gentili predicava il Vangelo di Cristo non ai Giudei ma ai gentili. Tutto quello che fa è mostrare che egli, con la fama di persecutore, non avrebbe mai potuto avere considerazione presso quelle stesse persone che in precedenza aveva perseguitato, se la sua predicazione non fosse stata approvata anche dal giudizio di coloro che prima si erano fatti una cattiva opinione di lui. E di nascosto ritorna al tema generale54, di essere rimasto per così breve tempo in Giudea, confermando che anche nel volto era sconosciuto ai credenti. Con ciò dimostra di non aver avuto Pietro, Giacomo, Giovanni come maestri, ma Cristo che gli aveva rivelato il Vangelo (cf. Gal 1, 12). [2.] Nello stesso tempo si deve altresì notare che sopra dice di aver combattutto la chiesa (cf. Gal 1, 13), qui la fede (lì gli uomini, qui il contenuto) affinché ora in modo più opportuno fosse detto: annuncia la fede che una volta combatteva; infatti non poteva parlare allo stesso modo della chiesa.
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2,1-2 Poi dopo quattordici anni sono salito di nuovo a Gerusalemme con Barnaba, dopo aver preso con me anche Tito. Ma sono salito in seguito ad una rivelazione; e ho confrontato con loro il Vangelo che predico fra i gentili – privatamente però con coloro che erano consideratia – per timore di correre o di aver corso invano. [1.] Quel che
a
La traduzione ‘coloro che erano considerati’ può sembrare generica: va pertanto precisata con il senso di ‘coloro che godevano di considerazione’ (che erano ‘ragguardevoli’). Se tuttavia non ho tradotto in modo così esplicito il testo latino è per evitare una forzatura rispetto all’andamento del commento geronimiano: infatti il medesimo Dalmata interviene più avanti, nel corso di In Gal. 2, 7-9, 6, sul senso da dare alle tre occorrenze di ‘qui uidebantur’ nei primi 9 versetti del capitolo secondo di ep.Gal. e ammette l’ambiguità del testo paolino: “Leggiamo che per tre volte è stato detto degli apostoli: privatamente però con coloro che erano considerati; e: da parte di coloro che erano considerati ragguardevoli; e: a me infatti coloro che erano considerati ragguardevoli nulla hanno apportato. Inquieto cercavo quindi che cosa mai significasse l’espressione ‘coloro che erano considerati’, ma ora Paolo mi ha liberato da ogni scrupolo aggiungendo coloro che erano considerati le colonne”.
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in precedenza il traduttore latinoa aveva reso come ho acconsentito nel versetto dove c’è scritto subito non ho acconsentito alla carne ed al sangue (Gal 1, 16), in questo versetto l’ha tradotto ho confrontato piuttosto che ho acconsentito. E, per dire il vero, la parola greca ‘anethemēn’ ha qualcosa di diverso rispetto a ciò che s’intende presso di noi, perché chiaramente confidiamo ad un amico quel che sappiamo e lo riponiamo per così dire nel suo grembo e nella sua coscienza affinché quel che sappiamo possa essere considerato giusto o sbagliato con un giudizio alla pari. [2.] È salito dunque dopo quattordici anni a Gerusalemme; ed egli che prima si era recato soltanto a vedere Pietro ed era rimasto presso di lui per quindici giorni, ora dice di esservi andato con l’intenzione di confrontare il Vangelo con gli apostoli, insieme con Barnaba circonciso e, tra i gentili, con Tito incirconciso, dimodoché ogni parola venisse detta al cospetto di due e tre testimoni (cf. Dt 19, 15). Una cosa è confrontare, altro apprendere; vi è parità tra chi si confronta, tra docente e discente è inferiore colui che apprende. Quando comincia a credere Paolo vede gli apostoli di passaggio; dopo diciassette anni (come egli dice) parla apertamente con loro e si umilia e per timore di correre o di aver corso invano si consulta per un duplice motivo, affinché fosse dimostrata l’umiltà di Paolo, che, ormai riconosciuto in tutto il mondo quale dottore dei gentili, era corso dagli apostoli predecessori, e affinché i Galati apprendessero che non avevano rifiutato il suo Vangelo anche coloro che presiedevano nelle chiese della Giudea. [3.] Nello stesso tempo insegna che in nome della fede in Cristo e della libertà del Vangelo osò portare Tito, uomo incirconciso, dinanzi a quelle persone che avevano appreso molte cose su di lui (il fatto che infrangeva la legge, che violava Mosè, che cancellava completamente la circoncisione), e in mezzo ad una così grande moltitudine di Giudei e nemici, che a causa dell’osservanza della legge desideravano per così dire bere il suo sangue, né Paolo stesso né Tito furono indotti dalla paura a cedere alla necessità: sia in virtù del a Siamo dinanzi ad una delle frequenti riserve di Girolamo rispetto alle traduzioni latine correnti; e come d’abitudine, lo Stridonense si sforza di precisare meglio sul versante linguistico la resa latina dell’originale greco.
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luogo sia per l’autorità degli anziani sia in rapporto al numero delle chiese, che, provenienti dal giudaismo, avevano abbracciato la fede in Cristo, sia per le circostanze, era una necessità che avrebbe potuto trovare giustificazione, al fine di evitare contemporaneamente una così grande ostilità. [4.] Alcuni55 dicono che egli è salito dopo quattordici anni a Gerusalemme allorquando secondo gli Atti degli Apostoli sorse ad Antiochia tra i fedeli la controversia sulle questioni dell’osservanza o dell’abbandono della legge e fu presa la decisione di andare a Gerusalemme e di aspettare il giudizio degli anziani (cf. At 15, 1-2), ed anche lo stesso Paolo e Barnaba furono inviati a Gerusalemme, e dicono che questo è quel che si legge nei codici latini: Nei cui confronti per un istante abbiamo ceduto alla sottomissione affinché la verità del Vangelo perseverasse presso di voi (Gal 2, 5); giacché, evidentemente, Paolo e Barnaba sopportarono di essere inviati a Gerusalemme a proposito di una questione chiara come se fosse incerta affinché si dimostrasse ai credenti che la grazia del Vangelo era confermata anche dal giudizio degli anziani e nessuno più dubitasse della fine della circoncisione, dal momento che attraverso le lettere degli apostoli veniva dato l’ordine di toglier via ai gentili che avevano creduto in Cristo il giogo della legge (cf At 15, 23-29). [5.] La pericope ho confrontato con loro il Vangelo che predico fra i gentili – privatamente però con coloro che erano considerati – per timore di correre o di aver corso invano può anche essere intesa in questo modo: di nascosto si è confrontato con gli apostoli sul tema della grazia, della libertà evangelica e della vetustà della legge abolita, a causa della moltitudine dei Giudei credenti che non erano ancora in grado di accettare in Cristo il compimento e la fine della legge, i quali in assenza di Paolo si erano anche vantati a Gerusalemme che egli correva o aveva corso invano pensando che la legge antica non dovesse essere seguita. Non perché Paolo temesse di aver predicato un falso Vangelo per diciassette anni in mezzo ai gentili, ma per dimostrare ai suoi predecessori di non correre o di non aver corso invano, come avevano ritenuto per ignoranza.
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2,3-5 Ma neppure Tito, che era con me, pur provenendo dai gentili, fu costretto a circoncidersi a motivo dei falsi fratelli introdottisi, che si erano intromessi a spiare la nostra libertà, che abbiamo in Cristo Gesù, per ridurci in schiavitù; nei cui confronti neppure per un istante abbiamo ceduto alla sottomissione affinché la verità del Vangelo permanga presso di voi. [1.] Se Tito pur provenendo dai gentili non poté essere costretto da alcuna paura a circoncidersi a Gerusalemme, la città principale dei Giudei, nella quale Paolo per l’inosservanza, giudicata blasfema, della legge di Mosè era oggetto di un’avversione così grande da essere in seguito quasi ucciso dai Giudei quando fu liberato dal tribunoa e inviato in catene a Roma da Cesare, come fanno alcuni a pensare che si debba leggere nei cui confronti per un istante abbiamo ceduto alla sottomissione perché la verità del Vangelo permanga presso di voi e si debba intendere che lo stesso Tito, che in precedenza non poté essere costretto alla circoncisione, poi fu circonciso e sottomesso?56 Ovvero qual è questa verità del Vangelo: cedere all’ipocrisia dei Giudei ed osservare quei riti che prima hai considerato come spazzatura e hai disprezzato quasi come dannosi e ritenere che valgano qualcosa pur non essendo niente? [2.] Ma è fortemente in contrasto anche con il significato dell’epistola stessa: allontanando i Galati dalla circoncisione Paolo in tutto quanto il testo del suo discorso agisce in modo da insegnare che egli, ebreo discendente da ebrei, un tempo custode di tutti i riti della legge, circonciso l’ottavo giorno, fariseo quanto alla legge, ciononostante disprezza tutti i riti a causa della grazia di Cristob; infatti, quando si recò a Gerusalemme e i falsi fratelli che avevano creduto tra i circoncisi volevano costringerlo a circoncidere Tito, né Tito né lui cedettero all’imposizione di non custodire la verità del Vangelo. Ora, se dice di essere stato vinto dalla necessità di circoncidere Tito, come fa ad allontanare i Galati dalla circoncisione dalla quale a Gerusalemme non poté dispensare Tito, che, provenendo dalle fila dei gentili, era con lui? a b
Cf. At 21, 31-32; 23, 10. Cf. Fil 3, 5-6.8.
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[3.] Pertanto o si deve leggere secondo i codici greci ‘nei cui confronti neppure per un istante abbiamo ceduto alla sottomissione’ perché in modo conseguente possa intendersi affinché la verità del Vangelo permanga presso di voi, oppure, se si sceglie di prestare fede agli esemplari latini, bisogna intendere secondo il significato precedente in modo che il cedimento momentaneo sia stato non quello di circoncidere Tito, ma di andare a Gerusalemme. Naturalmente Paolo e Barnaba hanno ceduto alla sottomissione di andare a Gerusalemme, allorquando scoppiò ad Antiochia una controversia a causa della legge (cf. At 15, 2), affinché per mezzo della lettera degli apostoli fosse confermata l’opinione di Paolo (cf. At 15, 23-29) e restasse salda presso i Galati la verità del Vangelo, che non consiste nella lettera ma nello spirito, non nel significato carnale, ma nell’intelligenza spirituale57, non nel giudaismo manifesto, ma in quello nascosto (cf. Rm 2, 29). [4.] Si deve inoltre sapere che la congiunzione ‘ma’ che è inserita nel presente versetto, ma a motivo dei falsi fratelli introdottisi, è superflua e, se è letta, non ha ciò che ad essa sia contrapposto e la completi; l’ordine di lettura ed il senso è invece: ma neppure Tito, che era con me, pur provenendo dai gentili, fu costretto a circoncidersi e subito soggiunge quale fosse la causa per cui veniva costretto contro voglia alla circoncisione: a motivo, dice, dei falsi fratelli introdottisi, che si erano intromessi a spiare la nostra libertà che abbiamo in Cristo Gesù, per ridurci in schiavitù. Neppure per un istante abbiamo ceduto (nel circoncidere Tito) a coloro i quali volevano con minacce, terrore, pressione della folla farci passare dalla libertà di Cristo alla schiavitù della legge, specialmente in considerazione del fatto che una certa necessità motivata da esigenze di pace ecclesiastica avrebbe potuto discolparci: ed abbiamo fatto così perché non vi fosse per voi alcuna occasione di allontanamento dalla grazia del Vangelo. [5.] Se dunque, a Gerusalemme, in mezzo a così tanti Giudei, mentre i falsi fratelli si introducevano di qua e di là e gli anziani sotto certi aspetti frenavano, noi non potemmo essere costretti con la forza e la ragione ad osservare la circoncisione che sapevamo essere conclusa, voi invece fra i gentili, voi in
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Galazia, voi, ai quali nessuna violenza poteva essere fatta, ritornate all’antica legge, ormai abolita, allontanandovi dalla graziaa. 46
2,6a Ma da parte di coloro che erano considerati ragguardevoli, quali siano stati un tempo a me non interessa: Dio non bada a persona alcuna. [1.] Per quanto, dice, il Signore abbia avuto con sé come apostoli Pietro e Giovanni ed essi lo abbiano visto trasfigurato sul monte e su di loro sia stato posto il fondamento della chiesab, a me tuttavia non importa nulla, poiché non parlo contro coloro che in quel tempo seguivano il Signore ma contro coloro che ora antepongono la legge alla grazia, né sminuisco i predecessori né accuso gli anziani in qualche aspetto, ma dico ciò perché Dio non bada a persona alcuna58. [2.] Dio infatti non badò a Mosè, non badò a Davide, non badò ad altri: né dunque baderà a coloro che, per un istante, sembrano cedere a certuni, ma sono d’accordo con me, giacché anche Pietro dice: In verità riconosco che Dio non bada alle persone, ma in ogni luogo chi lo teme ed opera la giustizia è a lui gradito (At 10, 34-35). Di tale argomento, dunque, si serve lo stesso santo apostolo Pietro contro coloro che si scandalizzavano per la vicenda di Cornelio, battezzato tra i gentili e non circonciso, e li tranquillizza dicendo di non aver potuto rifiutare l’acqua del battesimo a coloro che avevano ricevuto lo Spirito Santoc: ora il santo apostolo Paolo disputa contro lo stesso Pietro con il medesimo argomento, cioè che Dio non bada alle persone, ma giudica ciascuno secondo verità. E così in modo cauto e graduale procede con equilibrio tra lodi e rimproveri di Pietro, per cui è certo deferente nei confronti dell’apostolo predecessore ma nondimeno si oppone audacemente a lui a viso aperto sotto la sollecitazione della verità59. a
Si noti la triplice anafora del ‘voi’ e la vigorosa antitesi tra i due poli di comportamento (quello di Paolo e Tito, e quello dei Galati), mezzi retorici che rendono assai vivace il commento: è come se Girolamo riesca a rispecchiare meglio se stesso e la propria tempra di appasionato fustigatore dei costumi e della vita della chiesa in questi versetti del secondo capitolo in cui egli intravede non solo una vena polemica di Paolo contro i destinatari dell’epistola ma anche il sottile ricordo dei dissapori dell’Apostolo con gli anziani. b Cf. Mt 17, 1-2; Ef 2, 20. c Cf. At 10, 47; 11, 2-3.17.
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2,6b A me infatti coloro che erano considerati nulla hanno apportato. Egli sopra si è confrontato con gli anziani ed ha riportato loro molte cose che aveva perpetrato in mezzo ai gentili; quelli non apportarono nulla a luia, ma approvando semplicemente quel che egli aveva detto porsero la destra in segno di amicizia e ratificarono l’unico Vangelo loro e di Paolob. Si deve altresì notare che in greco ‘hanno apportato’ è il medesimo termine del quale in precedenza ci siamo occupatic.
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2,7-9 Semmai al contrario, dopo aver visto che è stato affidato a me il vangelo degli incirconcisi così come a Pietro quello dei circoncisi – colui infatti che ha operato in Pietro per l’apostolato dei circoncisi, ha operato anche in me tra i gentili – e dopo aver conosciuto la grazia che mi è stata concessa, Pietro e Giacomo e Giovanni, che erano considerati le colonne, porsero a me e a Barnaba le destre in segno di comunione, affinché noi tra i gentili, essi d’altra parte tra i circoncisi. [1.] Vi è un iperbatod e, tolte le parti che sono poste in mezzo, si può leggere in modo conciso così: Infatti a me coloro che erano considerati ragguardevoli nulla hanno apportato ma al contrario strinsero a me e a Barnaba le destre in segno di comunione. Ovvero il senso che egli sottintende senza iattanza di sé è: coloro che mi sembravano essere ragguardevoli nulla hanno apportato a me, ma al contrario io ho apportato qualcosa a loro, dal momento che sono diventati più saldi nella grazia del Vangelo. a
È praticamente impossibile rendere nella traduzione il gioco linguistico con il quale Girolamo sta alimentando in quest’occasione la sua esegesi: lo Stridonense, infatti, usa il medesimo verbo conferre sia in riferimento alla condotta paolina (cum illis contulit) sia in riferimento a quella pietrina e degli altri apostoli (nihil contulerunt) ma chiaramente con le diverse sfumature di significato di conferre, cioè nel primo caso utilizzando il senso di ‘confrontarsi’ nel secondo quello di ‘riferire, apportare’. Ovviamente l’uso del medesimo verbo consente allo Stridonense di enfatizzare maggiormente la diversità di atteggiamento tra Paolo e gli altri apostoli. b Cf. Gal 2, 2.7.9. c Cf. In Gal. 1, 2, 1-2, 1. d Girolamo non dimentica la lezione del grammatico Donato e del retore Mario Vittorino, alla cui scuola si è formato: coglie la particolarità dell’andamento stilistico del testo paolino, quindi la presenza dell’iperbato, figura retorica consistente nell’invertire la normale successione delle parole nel periodo.
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[2.] Tutto quello che dice è questo: un’unica e identica persona affidò a me il Vangelo del prepuzio e a Pietro quello della circoncisione; inviò me ai gentili, pose quello in Giudea. Né i gentili potevano essere tormentati, in età già adulta, dal dolore della circoncisione, che a nulla giova, e potevano astenersi dai cibi, ai quali da sempre erano abituati e che Dio aveva creato per l’uso (cf. 1 Tm 4, 3-5); né coloro che avevano creduto tra i Giudei ed erano circoncisi e pensavano di avere di più rispetto a tutti gli altri popoli in base al modo di vivere quasi per una sorta di seconda natura potevano facilmente disprezzare quei riti nei quali si gloriavano. Pertanto la provvidenza di Dio concesse uno degli apostoli ai circoncisi, affinché sembrasse compiacere alle ombre della legge, un altro agli uomini che erano nel prepuzio, dimodoché questi non ritenesse che la grazia del Vangelo è una schiavitù ma una fede libera: così non vi era la possibilità che sotto un qualche pretesto nascesse un impedimento alla fede e che a causa della circoncisione o del prepuzio non si credesse in Cristo. [3.] E non diciamo ciò perché Pietro, che negli Atti degli Apostoli dichiarò egli stesso che nessun uomo è profano (cf. At 10, 28) e che, in quell’oggetto che aveva visto scendere dal cielo calato per i quattro angolia, apprese che non ha alcuna importanza se uno è giudeo o pagano, abbia stimato, quasi dimentico delle precedenti esperienze, che bisognava osservare la legge al di sopra della grazia del Vangelo, ma perché anch’egli, fingendo di custodire la legge, a poco a poco allontanava i Giudei dall’antico modo di vivere. Infatti non potevano all’improvviso disprezzare il grande impegno nell’osservanza dei riti e l’attentissima condotta della vita precedente come spazzatura e come un danno. Da ciò comprendiamo che Pietro, Giacomo e Giovanni strinsero le destre a Paolo e Barnaba perché nella diversa osservanza non si stimasse un diverso Vangelo di Cristo, ma vi fosse un’unica comunità sia di circoncisi sia di coloro che hanno il prepuzio. [4.] Abilmente ha messo le mani avanti dicendo ‘colui infatti che ha operato in Pietro per l’apostolato dei circoncisi’, affinché a
Cf. At 10, 11; 11, 5.
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nessuno ritenesse che egli sminuiva Pietro ma, anticipate le sue lodi, si capisse che Pietro sotto certi aspetti accettava la circoncisione per giovare a coloro che tra i Giudei erano stati affidati a lui e per custodirli nella fede in Cristo e nel Vangelo. Sottindende anche che quello agiva senza colpa osservando a tempo quel che non è lecito per non perdere la gente a lui affidata, lui piuttosto, in base alla verità del Vangelo, doveva fare ciò che gli era stato affidato perché i gentili, spaventati dal peso e dalla difficoltà della legge, non si allontanassero dalla fede e dal credo in Cristo. [5.] Nasce a questo punto una questione nascosta60: che dunque? se Pietro avesse incontrato dei pagani, non li avrebbe condotto alla fede? Ovvero se Paolo avesse trovato gente circoncisa, non li avrebbe esortato al battesimo di Cristo? La questione si risolve col dire che a ciascuno fu affidato un mandato preminente rispettivamente tra i Giudei e tra i pagani, perché coloro che difendevano la legge avessero chi seguire, quelli che preferivano la grazia alla legge non mancassero di un dottore e di una guida; in comune invece essi ebbero il proposito di radunare in Cristo la chiesa composta da tutti quanti i popoli. Abbiamo letto infatti che anche san Pietro battezzò il pagano Cornelio e Paolo predicò spessissimo Cristo nelle sinagoghe giudaiche. [6.] Pietro e Giovanni e Giacomo, che erano considerati le colonne. Leggiamo che per tre volte è stato detto degli apostoli: privatamente però con coloro che erano considerati; e: da parte di coloro che erano considerati ragguardevoli; e: a me infatti coloro che erano considerati ragguardevoli nulla hanno apportato (Gal 2, 2.6). Inquieto cercavo quindi che cosa mai significasse l’espressione ‘coloro che erano considerati’, ma ora Paolo mi ha liberato da ogni scrupolo aggiungendo ‘coloro che erano considerati le colonne’. Le colonne della chiesa sono dunque gli apostoli e massimamente Pietro, Giacomo e Giovanni, due dei quali meritano di salire sul monte con il Signore (cf. Mt 17, 1-8), uno invece nell’Apocalisse presenta il Signore che dice: Porrò il vincitore come colonna nel tempio del mio Dio (Ap 3, 12), insegnando che tutti i credenti che vinceranno il nemico possono diventare colonne della chiesa. Scrivendo a Timoteo Paolo dice: Perché tu sappia come occorre
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comportarsi nella casa di Dio, che è la chiesa del Dio vivo, la colonna ed il sostegno della verità (1 Tm 3, 15). Per mezzo di queste e di altre testimonianze apprendiamo che tanto gli apostoli e tutti i credenti quanto anche la chiesa stessa sono chiamati ‘colonna’ nella Scrittura e che non fa nessuna differenza tra ciò che si dice del corpo o delle membra, giacché il corpo è diviso nelle membra e le membra sono del corpo (1 Cor 12, 12-27). [7.] Pertanto Pietro, Giacomo e Giovanni, che erano considerati le colonne, porsero a me e a Barnaba le destre in segno di comunione, ma a Tito, che era con loro, non porsero le destre: dal momento che non era ancora pervenuto ad un livello tale che potessero essere affidate a lui, alla pari con gli anziani, le mercanzie di Cristo e che avesse la medesima posizione di negoziazione che avevano Barnaba e Paolo, affinché noi tra i gentili, essi d’altra parte tra i circoncisi. 51
2,10 Soltanto ci ricordassimo dei poveri: mi presi cura di fare anche ciò. [1.] I santi poveri, di cui viene principalmente demandata da parte degli apostoli la cura a Paolo e Barnaba, sono coloro che giungendo alla fede dal giudaismo depositavano ai piedi degli apostoli il denaro dei loro beni da elargire ai bisognosi61 (cf. At 4, 34-35); ovvero sono coloro che erano considerati detestabili e sacrileghi dai loro compatrioti, dai parenti e dai genitori quasi come disertori della legge e gente che crede in un uomo crocifisso (cf. Lc 21, 16-17). Quanto sia stata grande la fatica che il santo apostolo Paolo ha sostenuto nel servizio di costoro è testimoniato dalle sue lettere allorquando scrive ai Corinzi, ai Tessalonicesi, a tutte le chiese dei gentili affinché preparassero questo genere di offerte da portare a Gerusalemme per mezzo di lui o di altri a loro piacimento. Pertanto ora dice con serenità: mi presi cura di fare anche ciò. [2.] D’altra parte, i poveri possono anche intendersi in un’altra accezione, a proposito dei quali si dice nel Vangelo: Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5, 3); infatti questo tipo di persone merita di essere ricordato dagli apostoli. Altresì possono intendersi quei poveri dei quali è scritto in Salomone: La redenzione dell’anima dell’uomo è la
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sua ricchezza; ma il povero non si accorge della minaccia (Pr 13, 8); in effetti non può ascoltare le terrorizzanti pene future il povero nella fede, il povero nella grazia, perché non possiede ricchezze spirituali né la scienza delle Scritture, che è paragonata all’oro, all’argento ed alle pietre preziose. [3.] Poiché dunque non hanno bisogno del medico i sani ma i malati (cf. Mt 9, 12), perciò nella stretta di mano con gli apostoli si convenne anche di non disprezzare i poveri, di non guardare dall’alto i peccatori; ma di ricordarsi sempre di loro, come Paolo sempre si è ricordato di quel famoso uomo corinzio: dopo averlo rattristato, nella prima lettera, per un periodo di tempo affinché, grazie alla sofferenza del corpo dovuta alla penitenza, lo spirito si salvasse, nella seconda lo fa rientrare nella chiesa perché non fosse inghiottito da un più grande motivo di tristezza e chiede a tutti di confermare in lui la carità e di perdonare al fratello, come egli aveva perdonato, al cospetto di Cristo, a ciascuno di loro, adempiendo il patto che aveva fatto a Gerusalemme di ricordarsi sempre dei poveria.
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2,11-13 Ma quando Pietro venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto, poiché era degno di rimprovero62. Infatti prima che venissero alcuni da parte di Giacomo, mangiava con i gentili; invece, dopo che vennero, si sottraeva e si separava per paura dei circoncisi. Ed anche tutti gli altri Giudei si associarono alla sua simulazione, cosicché persino Barnaba era indotto da loro a quella simulazione63. [1.] In base al fatto che Pietro, prima che alcuni venissero da Gerusalemme ad Antiochia, mangiava con i gentili è dimostrato che egli non si era dimenticato del precetto ‘non considerare profano o immondo nessun uomo’ (At 10, 28); ma poiché, a causa di coloro che ritenevano che si dovesse ancora osservare la legge, si era sottratto per un po’ alla vita in comune con i gentili (cosicché anche tutti gli altri che provenivano dal giudaismo facevano lo stesso e Barnaba, che aveva predicato il Vangelo con Paolo in mezzo ai gentili, era costretto a fare ciò), i gentili che avevano creduto ad Antiochia e non erano stati circoncisi erano costretti a passare ai pesi della a
Cf. 1 Cor 5, 5; 2 Cor 2, 6-10.
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legge non comprendendo il comportamento diplomatico di Pietro, per mezzo del quale desiderava la salvezza dei giudei, ma ritenendo che questa era la logica del Vangelo. Quando dunque l’apostolo Paolo vide che la grazia di Cristo era in pericolo, da guerriero al suo servizio si servì di una nuova strategia di lotta affinché correggesse il comportamento diplomatico di Pietro, per mezzo del quale questi desiderava la salvezza dei giudei, con un nuovo comportamento diplomatico di contrastoa e affinché si opponesse a lui a viso aperto, non contestando l’intenzione ma per così dire polemizzando in pubblico, in modo che i gentili, in virtù del fatto che Paolo rimproverando Pietro si opponeva, fossero preservati64. [2.] Se c’è qualcuno che pensa che realmente Paolo si oppose all’Apostolo Pietro e in difesa della verità del Vangelo offese con arroganza il predecessore65, costui non accetterà il fatto che pure lo stesso Paolo si fece giudeo con i Giudei per giovare ai Giudei (1 Cor 9, 20) e giudicherà Paolo colpevole della medesima simulazione dal momento che si tagliò i capelli a Cencre e a Gerusalemme, resosi calvo, offrì l’oblazione e inoltre fece circoncidere Timoteo e fece la processione a piedi nudi, riti che appartengono con la massima evidenza alle cerimonie giudaicheb. Se pertanto colui che era stato mandato a predicare ai gentili non ritenne di dire senza motivo: Non date motivo di scandalo ai Giudei e alla chiesa di Dio, così come io cerco di piacere a tutti in tutto, non cercando la mia utilità ma quella di molti, perché giungano alla salvezza (1 Cor 10, 32-33), e fece alcuni gesti contrari alla libertà del Vangelo per non scandalizzare i Giudei, a
Non dunque di vero scontro tra i due principali Apostoli si trattò ad Antiochia, bensì di un’accorta simulazione pubblica finalizzata alla salvezza di giudeocristiani e gentili. Anzi, nell’esegesi geronimiana si profila una doppia simulazione, giacché alla simulata osservanza della legge messa in atto da Pietro per non scandalizzare i giudeocristiani si affianca la simulata polemica escogitata da Paolo per una corretta evangelizzazione dei gentili: in questo modo i due Apostoli riuscirono ad assicurare la salvezza di entrambi i popoli affidati alla loro cura pastorale. È bene però chiarire che, per Girolamo, seppur lo scontro non sia da considerare vero, tuttavia esso è reale: in altri termini, a giudizio dello Stridonense, Paolo non si adirò veramente con Pietro, ma per la salvezza delle anime dei gentili inscenò un reale rimprovero che, attraverso Pietro, potesse raggiungere quelli che, non comprendendo la condotta pietrina, sbagliavano. b Cf. At 16, 3; 18, 18; 21, 23-26.
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con quale autorità, con quale impudenza osa biasimare in Pietro, che era l’Apostolo dei circoncisi, ciò che a lui stesso, l’Apostolo dei gentili, si rimprovera di aver commesso? [3.] Ma, come abbiamo già detto prima, si oppose pubblicamente a Pietro e a tutti gli altri affinché l’ipocrisia dell’osservanza della legge, che recava danno a coloro che avevano creduto tra i gentili, venisse emendata con l’ipocrisia della correzione ed entrambi i popoli si salvassero, giacché quanti esaltano la circoncisione hanno come modello Pietro e quanti non vogliono essere circoncisi vantano la libertà predicata da Paolo66. Quanto alle parole ‘era degno di rimprovero’, ha disposto il discorso in maniera attenta affinché comprendiamo che Pietro non era degno di rimprovero per Paolo quanto piuttosto per quei fratelli con i quali prima mangiava ma poi se n’era allontanato. [4.] L’esempio di Ieu re d’Israele ci insegna che in verità una simulazione è utile e può essere adottata a tempo; egli non avrebbe potuto uccidere i sacerdoti di Baal se non avesse finto di volere onorare gli idoli dicendo: Radunatemi tutti i sacerdoti di Baal: se infatti Acab servì Baal nel poco, io lo servirò in abbondanza (2 Re 10, 18-19); e ancora ce lo insegna l’esempio di Davide allorquando stravolse il suo volto davanti ad Abimelech e questi lo cacciò ed egli se ne andòa. Non è strano che degli uomini, ancorché giusti, tuttavia fingano qualcosa per un tempo preciso in difesa della salvezza propria e degli altri, se persino lo stesso Salvatore nostro, pur non avendo peccato né la carne del peccato, assunse la finzione della carne peccatrice affinché, condannando nella carne il peccato, ci costituisse in lui come giustizia di Diob. Paolo ave-
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Girolamo fa riferimento all’incipit del Salmo 34: il versetto, a sua volta, allude ad un episodio della vita “partigiana” di Davide narrato in 1 Sam 21, 11-16, allorché il futuro re di Giuda si finse pazzo per salvarsi dalla vendetta del re filisteo di Gat, Achis, e non Abimelech, come ora si dice in Sal 34, 1. Il nome Abimelech, poi, ricorre qui impropriamente, poiché nel citato libro di Samuele si parla di Achimelech. b Queste parole sono, per così dire, il cuore dell’esegesi geronimiana a Gal 2,11-14. In esse infatti è espresso il concetto della finzione utile, che è fermamente contestato da Agostino. Del resto, bisogna ammettere che le considerazioni geronimiane non sono felici perché attribuiscono a Cristo ‘la finzione della carne peccatrice’ e dànno in qualche modo l’impressione di una posizione docetista a
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va letto nel Vangelo le parole istruttive del Signore: Se il tuo fratello avrà peccato contro di te, va e correggilo tra te e lui solo; se ti ascolterà, gioverai al tuo fratello (Mt 18, 15); e dunque in che modo, poiché il Signore ha ordinato di fare ciò anche ai fratelli più piccoli, osò rimproverare a viso aperto il più grande degli apostoli con un’arroganza tanto grande, con un’insistenza tanto grande, se anche Pietro non fosse stato d’accordo nell’essere rimproverato così? E Paolo non avrebbe forse offeso colui del quale già prima aveva detto: Andai a Gerusalemme a vedere Pietro e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro (Gal 1, 18-19), e ancora: Colui che ha operato in Pietro per l’apostolato dei circoncisi (Gal 2, 8), e sotto: Pietro, Giacomo e Giovanni, che erano considerati le colonne (Gal 2, 9), e tutti gli altri argomenti con i quali pronuncia le sue lodi? [5.] Alcune volte, quando da ragazzo a Roma declamavo nelle controversie e mi esercitavo con finte liti per gli scontri veri, correvo nei tribunali e vedevo gli oratori più facondi contendere tra loro con così grande asprezza che spesso si volgevano, messe da parte le cause, ad offese personali e si mordevano reciprocamente con i denti dello scherno. Se quelli fanno così per evitare davanti agli imputati il sospetto di collusione ed ingannano il popolo circostante, che cosa pensiamo che avrebbero dovuto fare sì grandi colonne della chiesa, Pietro e Paolo, sì grandi vasi di sapienza in mezzo a Giudei e gentili in disaccordo, se non che la loro finta lite divenisse la pace dei credenti e la fede della chiesa trovasse la concordia grazie al santo litigio tra loro? [6.] Ci sono alcuni che ritengono che il Cefa, al quale Paolo qui scrive di essersi opposto a viso aperto, non sia l’apostolo Pietro ma un altro facente parte dei Settanta apostoli (cf. Lc 10, 1) chiamato con questo nome, e dicono che Pietro in nessun modo avrebbe potuto sottrarsi alla convivenza con i gentili67: egli aveva battezzato il centurione Cornelio (cf. At 10, 48) e, salito dello Stridonense. Resta naturalmente da precisare la questione dei rapporti di Girolamo con la fonte: cf. F. Cocchini, ‘Da Origene a Teodoreto’, p. 306.
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a Gerusalemme, poiché i circoncisi discettavano contro di lui e dicevano: Perché sei andato in mezzo a gente con il prepuzio e hai mangiato con loro? (At 11, 2), dopo la narrazione della visione aveva concluso il discorso così: Se dunque Dio ha dato loro la medesima grazia che ha dato a noi che abbiamo creduto nel Signore Cristo Gesù, chi ero io che potevo impedire Dio? Sentite queste parole, tacquero e glorificarono Dio dicendo: dunque anche ai gentili Dio concesse il pentimento per la vita eterna (At 11, 17-18). Non è Pietro soprattutto dal momento che Luca, uno storico, non fa alcuna menzione di questo litigio e non dice che Pietro fu in qualche circostanza con Paolo ad Antiochia; e dicono che si dà spazio alle blasfemie di Porfirio, se si ritiene o che Pietro abbia sbagliato o che Paolo abbia con protervia confutato il principe degli apostolia. [7.] Alle quali argomentazioni si deve rispondere innanzitutto che di non so quale altro Cefa noi forse conosciamob il nome, fuorché di colui che sia nel Vangelo sia nelle altre epistole di Paolo sia in questa stessa è chiamato ora Cefa ora Pietro; non perché Pietro abbia un altro significato rispetto a Cefa, ma perché quello che noi in latino e greco chiamiamo ‘pietra’ Ebrei e Siriani, a causa della vicinanza della lingua tra loro, chiamano ‘cefa’. In secondo luogo, è in contrasto con questa interpretazione tutto l’argomento dell’epistola in base al quale Paolo fa riferimento indirettamente a Pietro, Giacomo e Giovanni. [8.] Né è
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a Sin dalla Prefazione del Commentario Girolamo dichiara che la principale necessità che gli esegeti cristiani hanno dovuto fronteggiare nella spiegazione dell’incidente di Antiochia è la polemica spiegazione di Gal 2, 11-14 di un accanito nemico del cristianesimo, Porfirio di Tiro; cf. C. Moreschini, Storia della filosofia patristica, Brescia, 2004, p. 246-265. Anche nella risentita risposta ad Agostino nell’epist. 112, lo Stridonense richiama il contesto antipagano ed antiporfiriano in cui era maturata la tesi esegetica del finto scontro tra Pietro e Paolo. b Rispetto al testo latino che ho costituito in CC SL 77A propongo di sostituire nescire con scire: per sanare l’incongruenza che si verrebbe a creare con la presenza di nescire ipotizzo un errore dovuto alla penetrazione nel testo di una possibile particella interrogativa -ne che qualche copista delle fasi più antiche (se non dell’archetipo) potrebbe aver sovrascritto tra Cephae e scire per meglio evidenziare la presenza di un’interrogativa; col tempo il -ne sarebbe penetrato nel testo e non potendo essere unito a Cephae (che già concorda con un aggettivo interrogativo) divenne parte di scire ingenerando l’errore (nescire).
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straordinario se Luca ha taciuto quest’aspetto, dal momento che ha tralasciato per licenza storiografica molte altre cose che Paolo spiega di aver sopportato; e non vi è contraddizione se ciò che uno ha ritenuto degno di essere raccontato per qualche motivo, un altro ha tralasciato tra le altre cose. Infine, abbiamo appreso che Pietro fu il primo vescovo della chiesa antiochena, che da lì fu trasferito a Roma, cosa che Luca ha del tutto tralasciato. Da ultimo, se a causa della blasfemia di Porfirio dobbiamo inventare un altro Cefa perché non si pensi che Pietro ha sbagliato, dovrà essere cancellato un numero infinito di brani delle divine Scritture, che quello mette sotto accusa perché non comprende. Ma contro Porfirio, se Cristo ce lo chiederà, combatteremo in un’altra opera: ora continuiamo le altre cose. 2,14a Ma avendo constatato che non avanzano in modo retto verso la verità del vangelo, dissi a Pietro davanti a tutti. Come non hanno un difetto ai piedi coloro che avendo i piedi sani fingono di zoppicare, ma vi è un qualche motivo per il quale zoppicano, così anche Pietro, sapendo che la circoncisione ed il prepuzio non valgono niente ma ciò che vale è l’osservanza dei comandamenti di Dio (cf. 1 Cor 7, 19), mangiava prima con i gentili, ma per uno spazio limitato di tempo si sottraeva da loro per non privare i Giudei della fede in Cristo. Per conseguenza anche Paolo, con la medesima arte con la quale quello fingeva, si oppose a lui a viso aperto e parla davanti a tutti non tanto per rimproverare Pietro quanto perché siano emendati coloro per i quali Pietro aveva simulato. Ora, se qualcuno non accetta questa interpretazione in base alla quale si dimostra che Pietro non ha peccato e che Paolo non ha rimproverato in modo arrogante l’apostolo più anziano, deve chiarire con quale coerenza Paolo rimprovera in un altro quello che ha fatto egli stesso. 2,14b Se tu, pur essendo giudeo, vivi come i gentili e non come i Giudei, come puoi costringere i gentili a vivere secondo le consuetudini giudaiche? Con un argomento irrefutabile costringe Pietro, o meglio, attraverso Pietro, coloro che lo constringevano ad azioni tra loro in contraddizione. Se, dice, o Pietro, tu per natura giudeo, circonciso sin da piccolo e custode
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di tutti quanti i precetti della legge, ora per grazia di Cristo sai che essi non hanno di per sé alcuna utilitàa ma sono figura ed immagine di eventi posteriorib e mangi con i gentili senza più alcuna superstizione, vivendo, semmai, in modo libero e con indifferenza, come puoi indurre a vivere secondo le consuetudini giudaiche i gentili, allontanandoti adesso da loro e separandoti e staccandoti come da gente contaminata? Se infatti sono immondi coloro dai quali tu ti allontani (perciò ti allontani, perché non sono circoncisi), li induci a circoncidersi e a diventare giudei, benché tu stesso nato giudeo sei vissuto come i gentili. E mostra in modo latente il motivo per il quale ha polemizzato con lui68: evidentemente perché con la sua simulazione costringeva i gentili a vivere secondo le consuetudini giudaiche mentre cercavano di imitare lui. 2,15 Noi per natura giudei e non pagani peccatori. [1.] S’insinuano grazie a questo luogo degli eretici che inventando certe idee ridicole e sciocche dicono che la natura spirituale non può peccare né la natura terrena può fare qualcosa di giusto69. Ai quali chiediamo per quale motivo sono stati spezzati rami dall’albero dell’olivo buono e perché sono stati innestati rami dall’oleastro nella radice dell’olivo buono (cf. Rm 11, 17.24), se non vi può essere caduta dal bene né ci si può risollevare dal male; ovvero chiediamo in che modo Paolo perseguitò in un primo momento la chiesa, se era di natura spirituale, oppure in che modo poi diventò apostolo, se era stato generato dalla feccia terrena. Se ribattessero che egli non era terreno, consideriamo le sue stesse parole: Eravamo per natura figli dell’ira, come anche gli altri (Ef 2, 3). È per natura giudeo colui che appartiene alla stirpe di Abramo ed è stato circonciso dai genitori l’ottavo giorno; non è per natura giudeo colui che lo diventò in seguito dalle fila dei pagani. [2.] Per riassumere tutta l’argomentazione in poche parole, il messaggio che viene dato è questo70: noi, cioè io e tu, o Pietro (coinvolge infatti anche la sua persona per non dare l’impressione a b
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Cf. Fil 3, 5.7-8. Cf. Eb 8, 5; 10, 1; Col 2, 17.
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di arrecare offesa a quello), pur essendo, dice, per natura giudei che adempiono i precetti secondo la legge e non pagani peccatori (che o in generale sono peccatori perché servono gli idoli, oppure siamo noi ora che li consideriamo immondi), consapevoli che non potevamo essere salvati per opera della legge ma per la fede in Cristo, abbiamo creduto in Cristo affinché la fede che avevamo in Cristo ci offrisse quel che la legge non ci aveva dato. [3.] Ma se allontanandoci dalla legge, nella quale non avremmo potuto essere salvati, siamo passati alla fede, nella quale non si richiede la circoncisione della carne, ma la purezza di un cuore devoto, ed ora separandoci dai pagani ci comportiamo in modo che chiunque non è circonciso è immondo, allora la fede in Cristo, nella quale noi pensavamo prima di trovare la salvezza, è ministra di peccato piuttosto che della giustificazione che elimina la circoncisione, senza la quale siamo immondi? Ma lungi da me il rivendicare nuovamente quel che un tempo rifiutai e riconobbi essere di nessun giovamento per me. Allontanandomi una volta per sempre dalla legge sono morto alla legge per vivere in Cristo e, appeso alla sua croce e rinato nell’uomo nuovo, per restare saldo nella fede più che nella carne e uscire con Cristo dal mondo. Mantengo quel che una buona volta ho intrapreso; non è morto inutilmente per me Cristo, nel quale invano avrei creduto se avessi potuto essere salvato nell’antica legge senza la fede in lui.
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2,16a Sapendo invece che l’uomo non è giustificato dalle opere della legge, se non per mezzo della fede in Cristo Gesù, anche noi abbiamo creduto in Cristo Gesù, per essere giustificati nella fede in Cristo e non dalle opere della legge. [1.] Alcuni dicono che, se è vero quello che Paolo afferma, cioè che nessuno è giustificato dalle opere della legge bensì dalla fede in Cristo Gesù, i patriarchi e i profeti e i santi che vissero prima della venuta di Cristo furono imperfetti71. Dobbiamo ammonire costoro che qui si dice che non conseguono la giustificazione coloro che credono che possono essere giustificati soltanto dalle opere, invece i santi che vi furono sin dall’antichità sono giustificati dalla fede in Cristo: se è vero che Abramo vide il giorno di Cristo e si rallegrò (cf. Gv 8, 56); e Mosè giudicò ricchezza più
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grande del tesoro degli Egiziani l’obbrobrio di Cristo; guardava infatti alla remunerazione (Eb 11, 26); ed Isaia vide la gloria di Cristo, come ricorda l’evangelista Giovanni (cf. Gv 12, 41), e Giuda dice in generale riguardo tutti: Desidero ricordare a voi, che già conoscete tutte queste cose, che Gesù, salvando il popolo dalla terra d’Egitto, fece morire in seguito coloro che non credettero (Gd 5). [2.] Per cui non sono condannate le opere della legge bensì coloro che confidano che possono essere giustificati soltanto dalle opere, giacché anche il Signore dice ai discepoli: Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli (Mt 5, 20). Bisogna ammassare qui tutti gli innumerevoli precetti contenuti nella legge che nessuno è in grado di adempiere e al contrario bisogna dire che taluni precetti della legge sono rispettati anche da quanti la ignorano, ma non per questo è giustificato chi li mette in pratica poiché sono attuati senza la fede in Cristo: per esempio, non dormire con un uomo in seguito alla morte di sua mogliea, non commettere adulterio, non rubare, ma piuttosto onorare il padre e la madre, e tutti gli altri comandamenti. Se ci adducessero esempi di uomini santi per il fatto che dimorando nella legge eseguirono i precetti della legge, diremo che la legge non è stata stabilita per il giusto ma per gli iniqui e i non sottomessi, per gli empi e per i peccatori, per i contaminati e gli immondi (1 Tm 1, 9); ma non è necessario che chi è stato istruito da Dio sia anche istruito sulla carità, dal momento che Paolo dice: Non ho invece necessità di scrivervi riguardo l’amore fraterno: infatti voi stessi siete stati istruiti da Dio ad amarvi gli uni con gli altri (1 Ts 4, 9).
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2,16b Per il fatto che non ogni carne sarà giustificata dalle opere della legge. Non è giustificata dalle opere della legge quella carne a proposito della quale è scritto: Ogni carne è erba secca e ogni a Penso che ‘dormitio’ qui valga come sonno della morte (temporale); gli usi geronimiani del termine sono abbastanza univoci e lasciano dedurre che il Nostro utilizza ‘dormitio’ in quasi tutte le occorrenze (peraltro numerosissime) con valore figurato e, più in particolare, come alternativa a ‘mors’, che invece sembra specializzarsi in una connotazione ‘spirituale’. La durezza del senso del brano potrebbe in parte essere attenuata, per i lettori moderni, considerando che Girolamo ha in mente, nel dettare il commento, un destinatario femminile (Paola ed Eustochio).
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sua gloria è per così dire fiore di erba secca (Is 40, 6); è giustificata invece per mezzo della fede in Gesù Cristo quella carne a proposito della quale nel sacramento della resurrezione si dice: Ogni carne vedrà la salvezza di Dio (Lc 3, 6). Ma anche, in base ad un senso meno profondo, non ogni carne un tempo era giustificata, ma soltanto quegli uomini che erano in Palestina; ora invece è giustificata per mezzo della fede in Cristo Gesù ogni carne, dal momento che le sue chiese sono fondate in tutto il mondoa.
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2,19a Io infatti mediante la legge sono morto alla legge per vivere per Dio. [1.] Una cosa è morire mediante la legge e un’altra morire alla legge: chi muore alla legge viveva per essa prima che morisse, osservando i sabati, i noviluni e i giorni festivi e l’accuratezza formale dei sacrifici e le favole e le genealogie giudaiche; dopo invece che è venuto Cristo e quella legge della quale è scritto: Sappiamo in verità che la legge è spirituale (Rm 7, 14), mediante la legge del Vangelo costui è morto alla legge antica e l’anima, che in base alle considerazioni dell’epistola ai Romani, se si fosse unita in matrimonio mentre il marito era ancora in vita era chiamata adultera, quando invece morì il marito, cioè l’antica legge, si è unita in matrimonio con la legge spirituale per generare frutti per Dio (cf. Rm 7, 2-4); per cui anche in Osea si dice ad essa: Grazie a me si è trovato il tuo frutto (Os 14, 9), a cui in modo elegante è aggiunto il mistico versetto: Quale sapiente comprenderà anche queste cose? Ovvero quale intelligenza altresì le conoscerà? (Os 14, 10) Chi dunque mediante la legge spirituale muore alla legge della lettera vive per Dio, non essendo senza la legge di Dio, ma nella legge di Cristo72; chi invece muore alla legge per causa dei peccati certamente è morto ma non si può dire di lui quel che segue, cioè per vivere per Dio. [2.] Anche altrove l’Apostolo insegna che vi è una legge diversa, spirituale, al di fuori della legge della lettera quando dice: Pertanto la legge è santa, e santo e giusto e buono è il comandamento (Rm 7, 12); ed Ezechiele dice da parte di Dio: Ho fatto uscire loro, cioè il popolo ebraico, dalla terra d’Egitto e li ho condotto a Ho preferito considerare fundantur un indicativo di fundare sia perché in Girolamo ‘dum’ si presenta quasi sempre con l’indicativo sia per la vicina presenza del complemento di stato in luogo ‘in toto orbe’.
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nel deserto e ho dato ad essi i miei precetti e ho mostrato loro le mie leggi: l’uomo che le osserverà vivrà in esse (Ez 20, 10-11); invece a proposito di quella legge che pratica l’ira, alla quale l’Apostolo è altresì morto, poi aggiunge: Ed io ho dato ad essi precetti non buoni e leggi nelle quali non vivranno in esse (Ez 20, 25). Identico contenuto si trova anche nel Salterio: Giacché non ho conosciuto la letteratura, entrerò nella potenza del Signore (Sal 71, 15-16)a. 2,19b Sono stato crocifisso alla croce Con Cristo. Poiché aveva detto che mediante la legge era morto alla legge, mostra come sia morto: sono stato crocifisso alla croce con Cristo, prendendo la sua croce e seguendo Cristo e supplicando nel corso della medesima passione: Ricordati di me quando sarai nel tuo regno e subito sentendo: Oggi sarai con me in paradiso (Lc 23, 42-43). Se qualcuno, mortificate le membra sulla terra e morto al mondo, si è configurato alla morte di Gesù Cristo, è crocifisso con Gesù ed attacca il trofeo della sua mortificazione nel legno della passione del Signoreb.
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2,20a Non vivo più io, vive invece in me Cristo. Non vive colui che un tempo viveva nella legge, che perseguitava la chiesa; vive invece in lui Cristo, la sapienza, la potenza, la parola, la pace, la gioia e tutte le altre virtù, la cui mancanza non permette di dire: Vive invece in me Cristo. Tutto questo discute a proposito di Pietro, sotto l’apparenza della sua persona, ma contro Pietro73. 2,20b Ma poiché ora vivo nella carne. È cosa diversa essere nella carne e vivere nella carne: infatti quelli che sono nella carne a Quest’allusione geronimiana ai versetti 15-16 del Salmo 70, assai controversi, non è immediatamente perspicua; sembra evidente che lo Stridonense segua da vicino il testo della Settanta, probabilmente per influsso delle fonti greche del Commentario. Gli interpreti intendono generalmente l’espressione ‘non cognoui litteraturam’ nel senso: ‘poiché io sono stato poco esperto di mondana sapienza’, come se Davide avesse voluto dire: io non ho mai fatto professione di quell’infame astuzia di cui abbonda Achitofel mio nemico; il versetto 16 dovrebbe invece avere il senso: ‘Io entrerò volentieri nelle potenze del Signore’, cioè mi porrò a lodare la divina potenza. Che questa possa essere stata anche l’interpretazione di Girolamo e quindi il motivo della citazione qui del versetto non è credibile; piuttosto mi sembra che Girolamo intendesse i versetti nel senso ‘Poiché non mi sono limitato al senso letterale (ma ho approfondito il senso spirituale), entrerò nel regno del Signore’. b Cf. Col 2, 14.20; 3, 5; Fil 3, 10.
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non possono piacere a Dio, per cui a coloro che vivono bene è detto: Voi invece non siete nella carne (Rm 8, 9).
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2,20c Vivo nella fede del figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me. [1.] Nella lettera ai Romani dice di Dio che non ha risparmiato suo Figlio ma lo ha consegnato per noi (cf. Rm 8, 32); ora invece di Cristo che egli ha consegnato se stesso: che mi ha amato, dice, e ha consegnato se stesso per me. Ma nel Vangelo, laddove sono enumerati gli apostoli, è aggiunto: E Giuda Iscariota che altresì lo consegnò (Mt 10, 4); e di nuovo nel medesimo luogo: Ecco che si è avvicinato colui che mi consegnerà (Mt 26, 46). A proposito dei sommi sacerdoti e degli anziani del popolo la Scrittura ricorda che condannarono a morte Gesù e legandolo lo condussero e lo consegnarono in custodia a Pilato (cf. Mt 27, 1-2); e a sua volta di Pilato: Rilasciò per loro Barabba, Gesù invece dopo la flagellazione lo consegnò loro perché lo crocifigessero (Mt 27, 26). [2.] Dunque il Padre consegnò il Figlio e il Figlio consegnò se stesso e Giuda ed i sacerdoti con i capi lo consegnarono ed infine lo stesso Pilato consegnò colui che era stato consegnato a lui. Ma il Padre lo consegnò per salvare il mondo perduto; Gesù consegnò se stesso per fare la volontà sua e del Padre; Giuda invece e i sacerdoti e gli anziani del popolo e Pilato consegnarono inconsapevoli la vita alla morte (cf. At 3, 15.17)a. Poiché essa ha consegnato se stessa per la nostra salvezza, è beato e molto felice colui che, dal momento che Cristo vive in lui, può dire in ogni singolo pensiero ed opera: Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me. 2,21 Non rigetto la grazia di Dio: se infatti la giustificazione è mediante la legge, dunque Cristo è morto inutilmente.[1.]Rigetta la grazia di Dio tanto colui che dopo il a Il commento di 2, 20c nei §§ 1-2 è interamente concentrato sul modo in cui bisogna intendere il ‘tradere’ del lemma: Girolamo si preoccupa di applicare un principio tipico dell’esegesi antica, ovverosia utilizzare altre occorrenze testuali di un termine per spiegare uso e senso del medesimo nel contesto dato (p. es. già nel ii a.C. Aristarco di Samotracia adotta il metodo di ‘spiegare Omero con Omero’); in termini cristiani, è il principio della Scrittura in spiegazione della Scrittura, utilizzato sia da interpreti più inclini all’allegoresi sia da quanti sono più attenti al dato letterale e storico.
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Vangelo vive nella legge quanto colui che dopo il battesimo si sporca con i peccati. Chi invece può dire con l’Apostolo: la sua grazia in me non è stata vana (1 Cor 15, 10), costui dice con fiducia anche questo: non rigetto la grazia di Dio. [2.] Quel che segue è invece assai necessario contro coloro che ritengono che i precetti della legge devono essere conservati dopo la fede in Cristo. Infatti bisogna dire a costoro: se la giustificazione si ottiene mediante la legge, dunque Cristo è morto inutilmente; ovvero spieghino come Cristo, di certo, non sia morto inutilmente, se le opere giustificano. Ma, per quanto siano stupidi, non oseranno dire che Cristo è morto senza motivo. Perciò dinanzi ad un piccola porzione di sillogismo che qui si propone, cioè se infatti la giustificazione è mediante la legge, dunque Cristo è morto inutilmente, dobbiamo assumere la conseguenza che ne deriva e che non può essere messa in discussione: Cristo invece non è morto inutilmente, e concludere: dunque la giustificazione non si ottiene mediante la legge. Fin qui la parte contro Pietro, ora ritorna ai Galati74.
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3,1a O insensati Galati, chi vi ha ammaliati. [1.] Questo versetto può intendersi in due modi: o i Galati sono chiamati insensati perché da beni più grandi sono scesi a beni più piccoli, dal momento che avevano iniziato nello spirito e finivano nella carne; oppure per il fatto che ogni territorio ha le sue particolarità. L’Apostolo riconosce che correttamente il poeta Epimenide definisce i Cretesi sempre bugiardi, male bestie, ventri pigri (cf. Tt 1, 12); lo storico latino sferza i vanitosi Mauri e i feroci Dalmati; tutti i poeti maltrattano i timidi Frigi; i filosofi si vantano che ad Atene nascono gli ingegni più svegli75. Presso Cesarea Com’è noto, la Pro Ligario (qui è citato il cap. 11) è una delle cosiddette orazioni cesariane, pertanto non stupisce la menzione di Cesare: tuttavia non è ben chiaro se qui Girolamo abbia inserito l’espressione ‘presso Cesare’ come sinonimo di ‘in una delle orazioni cesariane’ o in modo più concreto come esplicito riferimento di Cicerone a Cesare, quindi ‘alla presenza di Cesare’ o ‘dinanzi a Cesare’; conseguentemente, per cercare di mantenere l’ambiguità delle parole dello Stridonense, forse dovuta all’inserimento un po’ troppo affrettato e veloce della citazione ciceroniana, ho tradotto ‘presso Cesare’. Peraltro devo segnalare che il brano della Pro Ligario dove si trovano queste parole risulta abbastanza perturbato e su di esso sono intervenuti più volte gli editori di Cicerone; infine va detto che per la comprensione del testo geronimiano è utile Livio 38, 37,3, a
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Tullio schernisce i malfidi Greci dicendo: “o dei malfidi Greci o dei crudeli barbari”, e nell’orazione “In difesa di Flacco” parla di: “Innata sconsideratezza e dotta iattanza”a. Tutte le Scritture accusano lo stesso Israele di avere un cuore duro e un’aspra cervice (cf. Es 32, 9). Dunque penso che in questo modo anche l’Apostolo abbia inteso colpire i Galati con la specificità della loro terra. [2.] Vi sono certo alcuni che infilandosi in questioni profonde, quasi con il pretesto di evitare l’eresia che inferisce l’esistenza di diverse nature, dicono che anche i Tirii e i Sidonii, i Moabiti e gli Ammaniti e gli Idumei, i Babilonesi e gli Egiziani e tutti i popoli nominati nella Scrittura, hanno taluni specifici attributi in virtù di cause precedenti o per merito di antiche opere, affinché non venga messa in dubbio la giustizia di Dio quando si afferma che ciascun popolo ha una virtù o un difetto che un altro non ha: noi, evitando queste profondità, seguiremo le spiegazioni esposte in precedenza dicendo o che essi sono accusati di stoltezza, per cui non sono in grado di distinguere lo spirito e la lettera della legge, o che sono rimproverati per la colpa tipica del loro popolo, cioè per il fatto che sono ignoranti e sciocchi e troppo lenti verso la sapienza. [3.] Dobbiamo spiegare in modo degno di Paolo (che, per quanto inesperto nel linguaggio, non lo è tuttavia nella dottrina [cf. 2 Cor 11, 6]) le parole che seguono, cioè chi vi ha ammaliati: non era dell’idea che vi fosse un malocchio (che secondo l’opinione del volgo si ritiene che arrechi danno), bensì ha utilizzato un linguaggio triviale e, come in altri brani, anche in questo ha assunto una parola dalla conversazione quotidiana. Leggiamo in una raccolta di proverbi: Il dono dell’invidioso fa languire gli occhib; il nostro termine ‘invidioso’ che parla di ‘feritas immanium barbarorum’ a proposito della crudeltà dei Gallogreci (Galati) e del timore che questa procurava nei popoli alleati dei Romani. a Cf. Cicerone, Flacc. frg. 9. b Benché a prima vista sembri che Girolamo faccia riferimento al libro dei Proverbi, in realtà il versetto non appartiene a quel libro dell’Antico Testamento e si tratta invece di una citazione di Sir 18, 18. Ha dunque visto bene P. Hamblenne, ‘L’exemplum formel dans l’oeuvre conservé de Jérôme’, Augustinianum, 36,1 (1996), p. 109, il quale ritiene che Girolamo non citi dai
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in greco è espresso in modo più pregnante come ‘ammaliatore’, e nel testo che s’intitola ‘Sapienza di Salomone’a leggiamo: la malia del male deturpa il bene (Sap 4, 12); attraverso questi esempi apprendiamo sia che l’invidioso è tormentato dall’altrui felicità sia che colui nel quale si trovino dei beni riceve nocumento se un altro gli getta addosso il malocchio, cioè prova invidia76. [4.] Si dice propriamente che il malocchio nuoce ai bambini, all’infanzia e agli esseri che non sanno ancora camminare con passo sicuro, per cui anche un autore pagano afferma: “Non so quale sguardo ammalia i miei teneri agnelli” (Virg., ecl. 3, 103). Sta a Dio giudicare se ciò sia vero o no, giacché può accadere che i demoni siano al servizio di questo peccato e allontanino dalle buone opere tutti coloro di cui sanno che hanno iniziato e profittato nell’opera di Dio. Ora il motivo per cui pensiamo che sia un’espressione tratta dall’opinione popolare è che, come si dice che la tenera età è danneggiata dal malocchio, così anche i Galati, da poco nati nella fede in Cristo e nutriti ancora con latte e cibo non solido (cf. 1 Cor 3, 1-2), come per un qualche malocchio sono danneggiati e hanno rigettato il cibo dello Spirito Santo per la nausea provata dallo stomaco della fede. Se qualcuno fa obiezione, spieghi come mai sono tratte dall’opinione comune espressioni come ‘la valle dei Titani’ nei libri dei Re, ‘le Sirene e gli Onocentauri’ in Isaia, ‘Arturo e Orione e le Pleiadi’ in Giobbe ed altre simili, che comunque hanno i nomi, le cause e le origini dei miti pagani. Chiediamo a questo punto a Marcione, il quale ripudia i profeti, come interpretare quel che segue.
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3,1b Dinanzi agli occhi dei quali è stato annunciato Gesù Cristo crocifisso. [1.] Infatti è vero che per noi è stato annunciato Cristo77, il cui patibolo e la cui passione, gli schiaffi e la Proverbi, ma faccia riferimento ad una raccolta di proverbi ed abbia in mente appunto Sir 18, 18. a Quello che comunemente chiamiamo il libro della Sapienza nel testo greco della Settanta è denominato ‘Sophia Salōmōnos’; un ulteriore indizio che Girolamo sta utilizzando fonti greche – Origene – che consultano la Settanta e che forse egli stesso usa frequentemente il testo greco dell’Antico Testamento.
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flagellazione sono predetti da tutto il coro dei profeti in modo che conoscessimo la sua croce non solo dal Vangelo, nel quale è riferita la crocifissione, ma molto prima che egli si degnasse di discendere in terra e di assumere l’uomo che è stato crocifisso. Né costituisce una piccola lode dei Galati il fatto che abbiano creduto nel crocifisso così come era stato annunciato loro in precedenza, affinché, evidentemente, leggendo attentamente i profeti e conoscendo tutti i misteri dell’antica legge pervenissero con metodo e ordine alla fede. [2.] In alcuni codici leggiamo: Chi vi ha gettato addosso la malia di non credere alla verità? Ma abbiamo tralasciato queste parole perché non si trovano negli esemplari dell’Adamanzioa. 3,2 Questo solo voglio sapere da voi: avete ricevuto lo spirito dalle opere della legge o dall’ascolto della fede? [1.] Sono certamente molti, dice, i quesiti che potrebbero costringervi a preferire il Vangelo alla legge, ma poiché siete stolti e non siete in alcun modo in grado di udirli, orsù, che vi parli con linguaggio semplice e vi faccia domande facili: lo Spirito Santo che avete ricevuto, ve lo hanno dato le opere della legge, l’osservanza del sabato, la superstizione della circoncisione e delle neomenie, o l’ascolto della fede per mezzo della quale avete creduto provenendo dai pagani? Se non si può negare che lo Spirito Santo e le virtù che all’inizio della fede seguivano il ricevimento dello Spirito sono state date non dalle opere della legge ma dalla fede in Cristo, è chiaro che voi, partiti da una posizione migliore, precipitate in una peggiore. [2.] Consideriamo attentamente che non ha detto: Voglio sapere da voi se avete ricevuto lo Spirito dalle opere, ma ha specificato dalle opere della legge; sapeva infatti che anche il centurione Cornelio ha ricevuto lo Spirito dalle opere, ma non dalle opere della legge che non conosceva (cf. At 10, 44-48). Se invece si obietta: dunque anche senza l’ascolto della fede si può ricevere lo Spirito, noi risponderemo che certamente egli ha ricevuto lo Spirito, ma dall’ascolto della fede e dalla legge naturale, che suggerisce nei nostri cuori quali buone azioni siano da fare e a
Cioè nella fonte principale dell’In Galatas dello Stridonense, Origene.
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quali mali siano da evitare; abbiamo riferito poco sopraa che per mezzo della fede furono giustificati anche Abramo, Mosè e tutti gli altri santi, fede che poi lo zelo delle opere e la giustizia della legge possono accrescere, non tuttavia della legge carnale che è venuta meno, bensì della spirituale: la legge infatti è spirituale (cf. Rm 7, 14). [3.] Né invero, poiché preferiamo la fede, distruggiamo le opere della legge né diciamo alla maniera di alcuni la cui condanna è giusta: Facciamo il male finché alfine venga il bene (Rm 3, 8); ma anteponiamo la grazia alla servitù e diciamo che i Giudei fanno per paura ciò che noi facciamo per amore; essi sono servi, noi figli; essi sono forzati al bene, noi facciamo il bene spontaneamente. Pertanto dalla fede in Cristo non nasce la licenza di delinquere, ma dall’amore della fede è accresciuta la volontà delle buone opere, in quanto facciamo il bene non perché temiamo il giudice ma perché sappiamo che esso è gradito a colui nel quale crediamo. [4.] Qualcuno può domandare: se non vi è fede se non dall’ascolto, come possono diventare cristiani quelli che sono nati sordi? Giacché uno può conoscere Dio Padre dalla grandezza e dalla bellezza delle creature (cf. Sap 13, 5) e conseguentemente il Creatore è conosciuto per mezzo delle creature; ma la nascita, la croce, la morte, la resurrezione di Cristo non può essere conosciuta se non dall’ascolto; dunque, o i sordi non sono cristiani o, se i sordi sono cristiani, è falso quel che altrove dice l’Apostolo: Pertanto la fede dall’ascolto, l’ascolto invece si compie per opera della parola di Dio (Rm 10, 17). Chi si accontenta di una risposta semplice78 a tale questione dice che Paolo non ha detto in senso generale ‘la fede di tutti deriva dall’ascolto’, ma ‘la fede dall’ascolto’, espressione che può essere intesa sia in senso parziale sia in senso globale, intendendo evidentemente la fede dall’ascolto di coloro che ascoltano, che credono. [5.] Chi invece s’impegna a dar corso ad una ricerca minuziosa prima cercherà di asserire che i sordi possono apprendere il Vangelo anche a gesti e attraverso la quotidianità e, per così dire, per mezzo dell’eloquente gestualità di tutto il corpo; poi dirà che la a
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Cf. In Gal. 1, 2, 16a, 1.
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parola di Dio, alla quale niente è sordo, parla in misura maggiore a quelle orecchie delle quali anch’essa dice nel Vangelo: Chi ha orecchie per ascoltare ascolti (Mt 11, 15) e nell’Apocalisse: Chi ha orecchie ascolti che cosa lo Spirito dice alle chiese (Ap 2, 11) ed Isaia: Il Signore mi ha dato l’orecchio (Is 50, 5) (si tratta dell’altro uomo al quale Dio parla di nascosto, che grida nel cuore del credente: Abba, padrea); e – lo abbiamo detto frequentemente – come il corpo ha tutte le membra ed i sensi così pure l’anima ha tutti i sensi e le membra e tra le altre anche le orecchie: chi le possiederà non avrà molto bisogno di queste orecchie del corpo per conoscere il Vangelo di Cristo. [6.] Al medesimo tempo prestate altresì attenzione al fatto che qui senza aggiunta alcuna s’intende lo Spirito Santo che riceviamo in dono e non lo spirito dell’uomo, del quale altrove è scritto: Lo Spirito incorruttibile è in tutti (Sap 12, 1) e: Lo stesso Spirito rende testimonianza al nostro spirito (Rm 8, 16) e in un altro luogo: Nessuno conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui (1 Cor 2, 11) e in Daniele: Benedite il Signore, spiriti ed anime dei giusti (Dn 3, 86). 3,3 Siete così stolti, pur avendo cominciato nello spirito, ora terminate nella carne? [1.] Se i Galati avevano ricevuto lo Spirito Santo, in che modo erano stolti? Il quesito si risolve subito: essi avevano certo iniziato nello Spirito ma, terminando nella carne, lo Spirito fu loro sottratto. Per cui hanno sopportato invano le avversità tanto grandi che hanno sopportato; Davide prega che non gli succeda questo in seguito al peccato dicendo: Non portar via da me il tuo Santo Spirito (Sal 51, 13). [2.] Prestate attenzione al fatto che si dice che termina nella carne colui che segue le Scritture alla lettera. Per questo motivo quanto è scritto nell’epistola ai Corinzi: Pur vivendo nella carne non militiamo secondo la carne (2 Cor 10, 3) può essere inteso meglio se affermiamo che militano nella carne coloro che spiegano il Vecchio Testamento in maniera poco profonda, mentre coloro che seguono l’intelligenza spirituale sono certamente nella carne perché hanno la medesima lettera dei Giudei, ma a
Cf. Rm 8, 15; Gal 4, 6.
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non militano secondo la carne dal momento che passano dalla carne allo spirito79. Quando vedrete che uno che si converte dal paganesimo e mette mano all’aratro di Cristo in un primo momento, grazie alla prudente guida di un maestro, si accosta al Vangelo per la via della legge così da intendere in modo degno di Dio tutto quello che ivi è scritto sul sabato, sugli azzimi, sulla circoncisione, sulle vittime, e in un secondo momento, dopo la lettura del Vangelo, è persuaso da qualche Giudeo o da qualche amico dei Giudei a interpretare le Scritture come sono state scritte, abbandonando le ombre e i veli dell’allegoria, di quest’uomo potete dire: Sei così stolto, pur avendo cominciato nello spirito, ora termini nella carne?
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3,4 Avete sopportato invano avversità tanto grandi? Se almeno fosse invano! [1.] Consideriamo l’infelicità dei Giudei, quanto sia grande la superstizione e la fatica dell’osservanza con le quali vivono in mezzo a tutte le altre nazioni dicendo: “non gustare, non assaggiare, non toccare”, e mostreremo che è vera l’asserzione: Avete sopportato invano avversità tanto grandi? Ma il ragionamento non è applicato direttamente a loro e resta vago: se almeno fosse invano, poiché viene detto di gente che dopo la legge può ritornare al Vangelo. [2.] Si può invece intendere meglio che i Galati, credendo nel crocifisso, sopportarono dapprima molte ingiurie sia da parte giudaica sia da parte pagana e subirono grandi persecuzioni: vengono accusati di averle sopportato invano, se si allontanano dalla grazia di Cristo a motivo della quale hanno tollerato avversità tanto grandi; nello stesso tempo vi è anche la speranza80 che chiunque abbia faticato per la fede in Cristo e poi sia scivolato nel peccato, come si dice che ha sopportato invano le fatiche precedenti mentre pecca, così nuovamente non le perde, se ritorna alla fede precedente e all’antica passione. Diversamente: se pensate, dice, che si debba seguire la circoncisione dopo la grazia, viene dunque vanificato tutto quello che avete sopportato vivendo fino ad oggi senza la circoncisione; certo a me sembra che voi non avete tollerato invano ciò perché so che la legge non ha valore dopo il Vangelo.
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[3.] Ovvero certamente così: non era un danno lieve se seguendo la circoncisione aveste perduto soltanto le precedenti fatiche della fede; ora invece a questo danno si associa pure la punizione del peccato sicché invano avete sopportato le condizioni precedenti ed in futuro sarete tormentati. Alcuni in modo più forzato intendono così: considerate la precedente libertà della grazia ed i pesi dell’attuale osservanza nella legge e vedrete quante cose avete fatto con inutile zelo, benché non bisogna ritenere del tutto perduto il frutto di codesto errore, in quanto ad esso siete stati indotti per amore verso Dio; infatti a voi che non sapete si può concedere il perdono se dimostrate, rivolgendovi a beni migliori, che ha ondeggiato la vostra conoscenza, non lo zelo. 3,5 Chi dunque vi dona lo spirito e suscita in voi le virtù, lo fa mediante le opere della legge oppure mediante l’ascolto della fede? [1.] ‘Dona’, cioè provvede, bisogna leggerlo al presente per mostrare che lo Spirito Santo è sempre donato ad ogni singola ora e ad ogni istante a quanti lo meritano; quanto qualcuno è progredito nell’opera e nell’amore di Dio tanto più ha in sé le virtù dello Spirito Santo, che sono condotte a perfezione dall’ascolto della fede e non dalle opere della legge. Non perché le opere della legge siano da disprezzare e si debba ricercare la semplice fede senza di esse, ma perché le opere stesse sono ornate dalla fede in Cristo; è nota infatti quell’opinione del sapiente secondo la quale non per la giustizia vive il fedele ma il giusto vive per la fedea. Al medesimo tempo si dimostra che i Galati, ricevuto dopo la fede lo Spirito Santo, ebbero i doni delle virtù, cioè la profezia, la conoscenza delle lingue, la cura delle malattie e tutte le altre che vengono enumerate ai Corinzi tra i doni spirituali (cf. 1 Cor 12, 4-11). E tuttavia dopo beni così grandi (forse perché non avevano la grazia del discernimento dello spirito) sono stati irretiti dai falsi dottori. a Intervengo a modificare il testo stabilito in CC SL 77A: mi sembra che la citazione formale di Abacuc 2, 4 sia semplicemente ‘sed iustum ex fide’ mentre ‘non fidelem uiuere ex iustitia’ è parte del ragionamento geronimiano che prepara la citazione vera e propria.
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[2.] È necessario osservare che si dice che le virtù operano anche in coloro che non mantengono la verità del Vangelo come in quelli che, pur non seguendo il Signore, facevano segni in suo nome, secondo le parole fortemente irritate di Giovanni: Maestro, abbiamo visto un tale che scacciava i demoni in tuo nome e glielo abbiamo impedito, perché non è con noi tra i tuoi seguaci (Lc 9, 49). Queste parole sono da rivolgere contro gli eretici che considerano una prova della loro fede il fatto di essere in grado di compiere un qualche segno81. Essi, benché hanno mangiato e bevuto nel nome del Signore (giacché anch’essi hanno il loro altare sacrilego) e si vantano di aver fatto molti segni dopo aver invocato il Signore, nel giorno del giudizio meriteranno di sentire: Non vi conosco, allontanatevi da me, operatori di iniquità (Mt 7, 23).
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3,6 Come Abramo “credette in Dio, e gli fu accreditato a giustizia” (Gen 15, 6). [1.] Marcione ha cancellato dal suo testo dell’Apostolo la parte a partire da questo versetto e fin dove è scritto: Quelli che vivono di fede saranno benedetti insieme al fedele Abramo (Gal 3, 9)a. Ma a che cosa gli è servito l’aver eliminato queste parole, se tutte le restanti che ha lasciato sono contrarie alla sua follia? [2.] Abramo pertanto credette in Dio uscendo dalla sua patria verso una terra che non conosceva: ebbe fiducia che Sara novantenne e sterile avrebbe partorito e, ascoltata la promessa di Dio secondo cui in Isacco avrebbe avuto nome la sua discendenza, offrì Isacco medesimo come vittima senza tuttavia dubitare della promessa del Signore (cf. Eb 11, 8-18). Correttamente è accreditata a giustizia la fede ad un uomo di tal genere (cf. Rm 4, 9) che oltrepassando le opere della legge ha meritato davanti a Dio non per paura ma per amore. 3,7 Sapete dunque che coloro che vivono di fede sono figli di Abramo. [1.] Nella lettera ai Romani tratta più ampiamente l’argomento per cui la fede è stata accreditata a giustizia ad Abramo non nella circoncisione ma nel prepuzio (cf. Rm 4, 9)82; e con a Dunque, secondo le notizie che qui ci fornisce Girolamo, nel testo di Marcione venivano eliminati i versetti 6-9 del capitolo terzo di ep.Gal.
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scrupolosa attenzione insegna che sono figli di Abramo tutti coloro che hanno creduto con la mentalità con cui, incirconciso, credette Abramo, che gioì di vedere il giorno del Signore e lo vide e si rallegròa. Per cui anche agli infedeli Giudei è detto: Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo (Gv 8, 39). Quali altre opere domandava loro il Signore al tempo in cui queste parole erano pronunciate se non la fede nel Figlio di Dio mandato dal Padre, che diceva: Chi crede in me non crede in me ma in colui che mi ha mandato (Gv 12, 44)? Per cui anche in un’altra occasione risponde a coloro che si vantavano dell’antichità e della nobiltà della loro stirpe: E non dite che abbiamo Abramo come padre; Dio infatti può far sorgere figli di Abramo da queste pietre (Mt 3, 9). Nessuno dubita che lì le pietre sono i cuori duri dei gentili, che poi sono stati addolciti e ricevettero il segno della fede. Lettore diligente83, enumera le virtù di Abramo, nelle quali egli piacque a Dio prima della circoncisione, e dirai che tutti coloro che troverai nelle stesse opere sono figli di Abramo, giustificato nel prepuzio, che ricevette la circoncisione non per i meriti delle opere ma come segno della fede precedente84. [2.] Poiché infatti Cristo doveva nascere dalla stirpe di colui nel quale era stata promessa la benedizione di tutte quante le genti e molti secoli dovevano trascorrere da Abramo fino a Cristo, Dio, provvedendo che la progenie dell’amato Abramo non si mescolasse con tutte le altre nazioni e che la sua discendenza a poco a poco non divenisse incerta, contrassegnò il popolo d’Israele con il cauterio della circoncisione (cf. Gen 17, 10) affinché vivendo in mezzo agli Egiziani, agli Assiri, ai Babilonesi e ai Caldei si distinguesse grazie a questo segno. Poi, per quarant’anni, nessuno fu circonciso nel deserto, poiché vivevano soli senza mischiarsi con altra gente (cf. Gs 5, 5-6); non appena il popolo oltrepassò la riva del Giordano e una massa di Giudei si riversò nella terra di Palestina, la circoncisione, necessaria a causa della mescolanza delle genti, anticipò l’errore futuro85. Quel che è scritto, cioè che il popolo fu circonciso dal secondo capo Giosuè (cf. Gs 5, 2-3), significa sia che a
Cf. Rm 4, 12; Gv 8, 56.
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nel deserto era cessata la circoncisione (che giustamente aveva luogo in Egitto) sia che i credenti devono essere purificati dal Signore nostro Gesù Cristo per mezzo della circoncisione spiritualea. 3,8-9 La Scrittura, prevedendo che Dio giustifica i popoli mediante la fede, preannunziò ad Abramo: “in te saranno benedetti tutti i popoli” (cf. Gen 12, 3). Dunque quelli che vivono di fede saranno benedetti con il fedele Abramo. [1.] Non perché la Scrittura in sé, cioè l’inchiostro e le pergamene (che sono insensibili) possano conoscere in anticipo il futuro, ma perché lo Spirito Santo ed il senso che si nasconde in mezzo a molte lettere hanno predetto eventi che sarebbero avvenuti dopo molti secoli. Inoltre l’esempio, che è tratto dal libro della Genesi, è così nel libro originale: E saranno benedette nella tua discendenza tutti i popoli della terra (Gen 22, 18); l’Apostolo interpretandolo in riferimento a Cristo dice: Non è scritto: “ai discendenti” come se si trattasse di molti, ma come ad uno solo, “alla tua discendenza”, che è Cristo (Gal 3, 16). [2.] In quasi tutte le citazioni che sono state desunte dagli antichi libri nel nuovo Testamento dobbiamo prestare attenzione al fatto che gli evangelisti o gli apostoli si sono affidati alla memoria e, formulato soltanto il senso, hanno cambiato l’ordine, talvolta hanno anche sottratto o aggiunto delle paroleb. Nessuno dubita che tutti quanti i popoli non sono stati benedetti in Isacco ed in Giacobbe o nei dodici patriarchi e negli altri che discendono dalla stirpe di Abramo, ma in Cristo Gesù grazie al quale tutti i popoli lodano Dio ed il nuovo nome è benedetto sulla terra. È altresì possibile che l’Apostolo abbia attinto l’esempio della discendenza da un altro brano della Genesi dove è scritto: Dio lo trasse fuori (non v’è dubbio che si tratti di Abramo) e gli disse: “Guarda in cielo e conta le stelle, se sarai in grado di contarle”; e disse a lui: “Così sarà
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Cf. Rm 2, 29; Col 2, 11. Questa considerazione descrive la tecnica di citazione in uso negli autori biblici ma, in fin dei conti, anche quella propria del medesimo Stridonense: ciò spiega talune incongruenze che spesso si registrano in coincidenza con le citazioni scritturistiche del monaco Betlemita. a
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la tua discendenza”. E Abramo credette a Dio e gli fu accreditato a giustizia (Gen 15, 5-6). [3.] Quanti, dunque, credono saranno benedetti con il fedele Abramo, che – si narra – fu il primo, grazie alla sua straordinaria fede in Dio, a credere in lui. Allo stesso modo – è scritto – anche Enos, grazie ad una speranza in Dio eccezionale e che spiccava tra tutti gli altri, sperò d’invocare il Signore Dio (cf. Gen 4, 26a), non perché sia Abele, del quale il Signore dice: La voce del sangue di tuo fratello risuona fino a me (Gen 4, 10), sia tutti gli altri non sperarono di invocare Dio, ma perché ciascuno è denominato in base a quella caratteristica che possiede in misura preminente.
Note al Libro primo 1
In queste parole compare uno dei temi portanti del Commentario, ovvero la presenza di interlocutori indiretti nell’epistola che formalmente Paolo indirizza ai Galati, cioè Pietro, Giacomo e le comunità cristiane di Gerusalemme e della Giudea: nei confronti di costoro vi è, secondo Girolamo, una sottile vena polemica, prevalentemente nella prima parte dell’epistola, finalizzata a prendere le distanze da una pratica di vita incoerente ed ambigua rispetto ai culti giudaici. In sostanza, come lo Stridonense spiega subito, il versetto iniziale ha lo scopo di mettere in chiaro l’autorità di Paolo e di legittimare, sia pur in modo velato in queste battute d’esordio, il coraggio con cui l’Apostolo delle genti aveva affrontato a viso aperto Pietro nel momento in cui le visioni diverse dei due sulle comunità cristiane si erano pubblicamente a Per la comprensione delle parole di Girolamo è essenziale tenere presente il testo della Settanta di Gen 4, 26 (di sicuro davanti agli occhi dello Stridonense), poi passato nella Vulgata: “hic [cioè Enos] coepit invocare nomen Domini”; diverso il testo del TM e la traduzione italiana: “Allora si cominciò ad invocare il nome del Signore”. Il Nostro, dunque, sulla base del precedente biblico che aveva in mente, ritiene che Enos è il primo che si rivolge al Signore per invocare e sperare nel suo nome.
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LIBRO PRIMO, 3,8-9 – NOTE
contrapposte (“scrive che si era opposto a viso aperto allo stesso Pietro”). 2 Perfetta ripresa, attraverso le parole “contro i pesi della legge in difesa della grazia del Vangelo”, del tema annunciato nella Prefazione circa “la fine dei pesi della legge” mediante l’azione salvifica del Vangelo. 3 È essenziale notare, sin da queste prime considerazioni, il modo di procedere spedito ed ellittico del commento geronimiano: accade così che la seconda possibile spiegazione dell’atteggiamento paolino di velata polemica nei confronti dei Galati venga introdotto col il semplice uel; ma nella traduzione è necessario, per consentire la comprensione del testo, esplicitare l’ellissi geronimiana. Inoltre, bisogna osservare l’andamento aporetico e zetetico dell’esegesi dello Stridonense, il quale, certo influenzato dalle fonti, si pone dinanzi le obiezioni che possono venire alla sua esegesi e risponde in modo aperto con due possibili interpretazioni in modo da lasciare al lettore la possibilità di scelta; si veda M. Maritano, ‘Il «Lector»’, p. 59. 4 Queste riflessioni sono da accostare a quanto Girolamo scrive nell’epistola 18[B], indirizzata a Papa Damaso, la cui datazione è significativamente collocata da P. Lardet, L’Apologie de Jérôme contre Rufin: un commentaire, Leiden – New York – Köln, 1993, p. 490, tra il 379 ed il 387; asserisce lo Stridonense: “Alcuni esegeti credono che ci si debba anche domandare a quali Profeti sia indirizzata la parola colui che invia o inviato, cui in greco corrisponde apostolo. Secondo loro, la differenza consiste in questo: tutti coloro che sono inviati sono contemporaneamente profeti e apostoli; coloro invece ai quali non è stata detta la parola inviato, sono solamente profeti. Questo rilievo lo ritengo superfluo. Poiché abbiamo finito col trattare del termine apostolo, voglio ricordare che Sila, compagno di Paolo, in ebraico significa apostolo. Egli scrisse alcune lettere con Paolo. Errata è la lezione di Silvano per Sila: il nome di Silvano non si legge negli Atti degli Apostoli” (epist. 18[B], 5, vol. 1, p. 145). Alla luce del testo del Commentario a ep.Gal., si chiarisce che i quidam dell’epistola 18[B] sono dei maestri ebraici; inoltre, è evidente che, coerentemente con quanto affermato nell’epistola 18[B], nel commento Girolamo non fa propria la distinzione tra ‘apostolo’ e ‘profeta’ e liquida con alcuni esempi biblici la sottile sfumatura che, per l’appunto, induce alcuni interpreti ebraici a distinguere, in base alla presenza di un mittente (cioè
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Dio), tra quanti sono ‘apostoli’ (inviati da qualcuno) e ‘profeti’ e quanti sono semplicimente ‘profeti’, perché nel testo biblico non è esplicitato che sono stati inviati da qualcuno. 5 In queste parole è presente l’ansia riformatrice del Dalmata (ovviamente ancor più accesa dopo il dolorissimo distacco da Roma), che mostra spesso, tra le pieghe del Commentario a ep.Gal., attenzione e preoccupazione per fenomeni di degenerazione in seno alla chiesa, per i quali Girolamo propone quale soluzione una vita di ascesi, preghiera e rinuncia ed una intensa frequentazione di Cristo nelle Scritture. Durissima è, in particolare, la polemica di questo brano contro la comprovendita di cariche religiose che ormai con frequenza aveva luogo in seno alle comunità cristiane. 6 Su Ebione personaggio reale nelle affermazioni di Girolamo si veda l’Introduzione, p. 61, nota 143. In In Gal. 2, 3, 13b-14, 2, lo Stridonense definisce sprezzantemente Ebione ‘mezzo cristiano’ e ‘mezzo giudeo’: infatti la setta venerava Cristo, non però come figlio di Dio, bensì come profeta dalle qualità straodinarie nel quale lo Spirito si era incarnato dopo essere stato già presente in Adamo ed in Mosè; come i Giudei, con i quali Girolamo associa volentieri gli Ebioniti, questa setta attendeva ancora la venuta del Messia. Una fonte possibile dei riferimenti di Girolamo agli Ebioniti potrebbe essere Tertulliano, praescr. 33, 1-5, p. 73-75; naturalmente bisogna tenere in considerazione Origene ed Eusebio di Cesarea, h. e. 6, 17, p. 33-34. 7 Una componente importante del Commentario geronimiano è la linea ermeneutica finalizzata a dimostrare che le parole di Paolo, se correttamente intese, non possono che sconfessare le interpretazioni distorte che di esse hanno fatto e fanno gli eterodossi: sul tema rinvio alle riflessioni di B. Jeanjean, Saint Jérôme et l’hérésie, p. 99-100, 275-278, 305, 435, 436. Per quest’aspetto l’In Galatas dello Stridonense non è troppo distante da Mario Vittorino e da Ambrosiaster, il quale, per esempio, asserisce in In Gal. 1, 1, 2, p. 36: “Con questa affermazione ha condannato simultaneamente due eresie, quella dei Manichei e quella di Fotino: infatti il Manicheo nega che Cristo sia stato uomo ma non nega che sia stato crocifisso; Fotino nega che Cristo sia stato Dio e tuttavia non osa negare che abbia risuscitato se stesso dai morti, cioè il suo corpo. E così il Manicheo, mentre non nega che Cristo sia stato crocifisso, stoltamente sembra non confessarlo uomo, e Fotino osa negare con incredibile empietà
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quale Dio proprio colui che confessa abbia risuscitato se stesso dai morti”; si veda S. A. Cooper, Marius Victorinus’ Commentary on Galatians, p. 197 e 251. Tuttavia è altresì evidente la maggiore libertà del monaco Betlemita rispetto alle polemiche dottrinali e lo spazio ridotto riservato alla riflessione speculativa e teologica (significativa invece in Vittorino). Ritengo che Girolamo eredita dalle fonti alcune polemiche antieretiche e ne aggiunge di sue, bersagliando così un ampio spettro di eretici senza attaccare in maniera diretta un gruppo particolare (come quello ariano nel caso di Vittorino): in pratica, egli opera, rispetto alle varie eresie, procedimenti di amalgama e raramente punta ad una descrizione dettagliata di questo o di quell’altro gruppo; cf. Jeanjean, Saint Jérôme et l’hérésie, p. 361-362. 8 Cf. B. Jeanjean, Saint Jérôme et l’hérésie, p. 174-175. Ritengo, però, che non sia corretto, come fa Jeanjean, ritenere che nel brano Girolamo voglia associare Ebione e Fotino con Mani, Marcione e l’autore di una nuova eresia, probabilmente Apollinare di Laodicea, in un unico nebuloso errore in cui si trovano insieme negazione della divinità di Cristo (cioè adozionismo fotiniano) e docetismo (cioè affermazione dell’esclusiva divinità di Cristo e rifiuto di una piena assunzione della carne umana e persino della resurrezione della carne di Cristo). Se infatti gli Ebioniti e Fotino negano la divinità di Cristo, al contrario Mani, Marcione e Apollinare negano la piena umanità e dunque lo scopo di Girolamo è quello di fare vedere le difficoltà della chiesa nel dover mostrare l’esatta esegesi del versetto paolino evitando i due errori opposti che a partire dalla medesima autorità biblica commettono i due diversi gruppi eretici. Del resto, risulta ben evidente che Girolamo sta sottilmente distinguendo e mettendo in guardia i lettori da due rischi contrapposti. Mi sembra, in buona sostanza, che qui lo Stridonense applichi il procedimento che il medesimo Jeanjean definisce lucidamente come ‘voie royale’ e che “consiste dans l’affirmation que la position orthodoxe se situe dans une situation d’équilibre entre deux erreurs opposées” (p. 385-387). 9 A giudizio di B. Jeanjean, Saint Jérôme et l’hérésie, p. 175, l’autore, qui taciuto, di un nuovo dogma è Apollinare di Laodicea. Effettivamente si può citare Gir., epist. 84, 2, vol. 2, p. 86: “Apollinare ha scritto dei libri d’una violenza straordinaria contro Porfirio [...] eppure ha inventato una dottrina su Cristo che ne riduce la persona a metà (‘dimidiatam Christi introducit oikonomian’)”.
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Ci si può chiedere se affermando che nel testo marcionita della lettera di Paolo ai Galati manca la pericope ‘e per Dio Padre’ Girolamo avesse dinanzi a sé il testo di Marcione, ovvero da quale altra fonte possa aver tratto la notizia filologica. Probabilmente all’origine della considerazione di Girolamo potrebbe esservi Tertulliano, adv. Marc. 5, 1,3, p. 75: “C’est lui-même, dit Marcion, qui a professé être apôtre, et à la vérité «non de la parte des hommes ni par un homme, mais par Jésus-Christ»”. Jeanjean, Saint Jérôme et l’hérésie, p. 203, nota che nell’opinione di Girolamo dietro la soppressione marcionita del testo ‘e per Dio Padre’ vi è il rifiuto dell’incarnazione di Cristo e della sua resurrezione nella carne cui si aggiunge l’idea che Cristo non sarebbe stato resuscitato per opera di Dio Padre ma per opera propria; inoltre secondo Jeanjean Girolamo vede in questo intervento testuale una prova dell’abitudine di Marcione di mutilare il testo biblico in funzione delle proprie esigenze dottrinali. È importante notare comunque, in queste battute iniziali, l’attenzione filologica che Girolamo presta al testo paolino e latino che commenta: è una delle caratteristiche della sua esegesi. 11 Il medesimo argomento della forza di un unanime consenso nella condanna di un comportamento errato si trova nel commento di Mario Vittorino, In Gal. 1, 1, 1-2, p. 185, che spiega: “per fare pressione sui Galati e sottolineare il loro grave errore aggiunge a sé tutti i fratelli che erano con lui”; nonché di Ambrosiaster, In Gal. 1, 2, p. 37: “[...] perché pesi sulla loro coscienza quanto da essi compiuto [...] indica che molti erano accesi di zelo insieme con lui per biasimare il loro errore”. 12 Alla maniera di Origene e dei predecessori latini Vittorino ed Ambrosiaster, ma anche di Donato, Servio e degli altri commentatori di testi classici l’attenzione del Nostro è concentrata sugli aspetti linguistici ed in particolare semantici: qui la riflessione di Girolamo si focalizza sull’accezione positiva e negativa del termine ‘chiesa’ secondo un procedimento tipico dello Stridonense e degli altri interpreti che tendono a polarizzare i significati di una parola tra i due estremi negativi e positivi dell'area semantica. La presenza di questa linea ermeneutica era già parsa importante nell’esegesi di Gal 1, 1, dove Girolamo si era ampiamente soffermato sul significato di ‘apostolo’, sul corrispondente greco ed ebraico (secondo le sue conoscenze) e sulle possibili accezioni del termine.
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Lo Stridonense ha qui in mente la variegata galassia gnostica, come emerge poco sotto a conclusione delle considerazioni sul senso da dare a secolo. 14 Risultano utili, per comprendere le parole di Girolamo in questo brano, le testimonianze di Epifanio, pan. haer. 1, 31, 5-6, p. 501-507, di Ireneo, adv. haer., 1, 1-8, p. 68-100, infine di Ippolito, refut. 6, 29-36, riportata in M. Simonetti, Testi gnostici, p. 324-345. Sulla citazione degli Eoni nella Scrittura richiamo, in particolare Ireneo, adv. haer. 1, 3, 1, p. 75: “Ugualmente Paolo – a credere a loro – indica molto chiaramente, e a più riprese, gli eoni; egli sta attento anche al loro ordine di emissione, quando dice in tutte le generazioni del secolo dei secoli (Ef 3, 21). Ma persino noi, quando diciamo durante l’eucaristia: Nei secoli dei secoli faremmo allusione a questi eoni. Dovunque si ritrovino le parole «secolo» (cioè «eone») o «secoli», secondo loro si fa riferimento ai loro eoni”. Si consulti altresì B. Jeanjean, Saint Jérôme et l’hérésie, p. 197: “Jérôme n’ignore cependant pas l’existence d’autres sectes gnostiques au premier rang desquelles figurent les valentiniens. Le corpus nous présente quelques traits précis de la cosmogonie valentinienne, à commencer par l’affirmation de ses 30 Éons qui se répartissent en Quadrades, Ogdoades, Décades et Dodécades. S’il est ainsi fait mention des regroupements d’Éons en différents ensemble, aucun développement n’indique que les valentiniens nomment ‘Plérôme’ l’ensemble de ces 30 Éons. Ceux-ci sont en revanche caractérisés par leurs unions et par les émissions qui en découlent, mais jamais Jérôme ne fait la moindre allusion à l’existence des 15 syzygies d’Éons mâles et femelles”. 15 È probabile che dietro quest’affermazione possa esservi, fra le diverse fonti, Tertulliano, adv. Marc. 1, 5,1, p. 121: “Plus honnête et plus généreux Valentin, lui qui, ayant osé concevoir deux dieux, Bythos (Abîme) et Sigè (Silence), essaima aussitôt la divinité en une portée qui, comme celle de la truie d’Enée, alla jusqu’à trente Éons!”. Interessanti le considerazioni di A. Cain, ‘Tertullian, Cyprian, and Lactantius in Jerome’s Commentary’, p. 32: “The presence of the Aenean epithet raises the viable possibility that the details about the Aeons present in Jerome’s text but not in Tertullian’s may have been gleaned from other Tertullianic writings, such as the De praescriptione haereticorum (33.8) or the Aduersus Valentinianos. Likewise, while Jerome and other Latin Fathers sometimes designated heresies as fabulae (taking their cue from Paul’s aniles
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fabulae [1 Tim. 4:7]), his application of it here may also recall the opening line of Tertullian’s Aduersus Valentinianos: Valentiniani, frequentissimum plane collegium inter haereticos, quia plurimum ex apostatis ueritatis et ad fabulas facile est”. 16 Il brano pone non poche difficoltà d’interpretazione; in primo luogo si deve evidenziare che, in base al testo di Dt 23, 3 nella Vulgata, nella Vetus di Sabatier e nella Settanta, Ammaniti e Moabiti non entreranno nella comunità del Signore neppure fino alla decima generazione: non è dunque chiaro perché Girolamo parli di ‘quintadecima generazione’ e dobbiamo presumere, se non vogliamo ipotizzare un guasto testuale, che la memoria non abbia ben sorretto la scrittura geronimiana; soprattutto in virtù dell’affermazione dello Stridonense in In Is. 6, 16, 1, nella quale si dice che Moabiti e Ammaniti non entreranno nell’assemblea di Dio fino alla decima generazione (ma non si deve trascurare Girolamo, epist. 22, 8, vol. 1, p. 194: “Di qui sono nati i Moabiti e gli Ammoniti, che furono nemici dichiarati d’Israele, e non entreranno nella Chiesa di Dio fino alla quattordicesima generazione, cioè in nessun tempo”). Non è inoltre comprensibile la relazione causale stabilita dallo Stridonense tra la condizione degli Ammaniti e dei Moabiti, che non entreranno nella comunità del Signore usque in saeculum (cioè – sembra di capire – per l’eternità, con scrittura piena del termine ebraico), ed il fatto che “ogni dura condizione veniva dissolta con l’arrivo del giubileo”. Le possibili spiegazioni del brano sono tre: o Girolamo era effettivamente convinto che l’anno giubilare comportasse anche la liberazione di Ammaniti e Moabiti dalla loro dura condizione (ma è un’ipotesi che non trova alcun riscontro nella produzione del monaco Betlemita); ovvero l’esegeta si è confuso (lo dimostrerebbe “fino alla quintadecima generazione”) ed ha incluso per errore anche Ammaniti e Moabiti nella remissione giubilare; o infine si deve spiegare il brano tenendo conto delle caratteristiche ‘orali’ di composizione dell’opera: Girolamo detta il commentario, non lo scrive di proprio pugno, sicché i pensieri si affollano, si sovrappongono senza la necessaria coerenza logica; in altri termini, Girolamo può aver avvertito che non era sufficientemente chiara la ragione della liberazione dell’ebreo in schiavitù in occasione del giubileo e dunque è tornato indietro, per così dire, a chiarire il suo dettato e a ribadire che “ogni dura condizione veniva dissolta con l’arrivo del giubileo”, benché ciò non avesse nulla a che vedere con la condizione di Ammaniti e Moabiti.
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Cf. nota 56 in In Gal. 3, 6, 14, 2. Girolamo fa riferimento al filosofo del iii sec. a.C. Dionisio di Eraclea, che fu allievo di Zenone Stoico; in seguito, per una malattia, secondo le testimonianze di Cicerone e Diogene Laerzio (e qui di Girolamo), abbandonò lo stoicismo per un completo edonismo, convinto dell’impossibilità pratica di rimanere indifferenti al dolore: perciò fu detto Metathemenos. Per le testimonianze ed i frammenti su questo filosofo si veda R. Radice (a cura di), Stoici antichi. Tutti i frammenti secondo la raccolta di Hans Von Arnim, Milano, 2002, p. 180-187. 19 Marcione è menzionato spesso da Girolamo ed è eretico ben noto ai lettori latini attraverso i cinque libri contro Marcione di Tertulliano; ma il Nostro lo conosce anche attraverso Origene. Il sistema marcionita, non propriamente gnostico, si basa sull’opposizione di un Dio buono e di un Dio giusto e creatore (cf. Gir., In Gal. 2, 3, 13a, 1: “Si insinua furtivamente in questo punto Marcione a proposito del potere del Dio creatore, che infama come Dio sanguinario, crudele e giudice, affermando che noi siamo stati redenti per mezzo di Cristo che è figlio di un altro Dio buono”). La critica del Dio giusto porta Marcione ad un rifiuto totale della legge (la legge ed i profeti infatti dimostrerebbero la condizione di giudice sanguinario e crudele del Dio giusto) ed ad una separazione tra legge e Vangelo. Cf. Jeanjean, Saint Jérôme et l’hérésie, p. 200-202. 20 È notevole il fatto che tra i cristiani Girolamo è il primo ad usare il termine ‘hyperbolice’ per analizzare e spiegare un versetto biblico; in verità, egli è praticamente l’unico autore cristiano di lingua latina che l’utilizza e, del resto, già in precedenza si è notato che nell’In Galatas lo Stridonense ricorre volentieri agli strumenti della retorica per esaminare le strategie stilistiche che, a suo giudizio, sono state messe in atto da Paolo. 21 A giudizio di Y.-M. Duval, ‘Gerolamo tra Tertulliano ed Origene’, in Motivi letterari ed esegetici in Gerolamo, ed. C. Moreschini – G. Menestrina, Brescia, 1997, p. 118, le considerazioni geronimiane sull’opinione di quanti pensano, in base al testo paolino, che anche gli angeli possono cadere e possono pervertirsi, fanno pensare a Origene: ciò, fra l’altro, conferma che se l’Adamanzio è l’intertesto principale del commento di Girolamo, questi non è comunque un semplice traduttore o adattatore delle opinioni altrui, ma esercita di continuo un vaglio critico che mette il lettore nelle condizioni di potersi confrontare con opinioni 17 18
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esegetiche differenti e di scegliere ‘quasi’ liberamente. In merito all’inserimento nel Commentario geronimiano di spiegazioni tratte da Tertulliano nonché riguardo al richiamo al De carne Christi dell’apologeta africano in pagine che, invece, sono piene di Origene si consultino le pag. 117-118 di Y.-M. Duval, ‘Gerolamo tra Tertulliano ed Origene’. 22 Cf. Tertulliano, carn. 6, 1-2, p. 361; 23, 1 – 24, 2, p. 407-409. Sul brano si veda anche Jeanjean, Saint Jérôme et l’hérésie, p. 204: “Or cette déclaration recoupe précisément l’affirmation de De Carne Christi, 6, 1-2, qui, après avoir rappelé combien le blasphème d’Apelle dépassait celui de Marcion, dénonce Philoumène, la prétendue vierge, à qui Paul a déjà répondu en anathématisant l’ange qui viendrait prêcher un autre Évangile que le sien. Cependant, si Jérôme connaît manifestement ce passage de Tertullien, il ne dit rien de la position d’Apelle qui s’y trouve exposée”. Ad avviso di A. Cain, ‘Tertullian, Cyprian, and Lactantius in Jerome’s Commentary’, p. 28-29, dietro queste parole di Girolamo è da vedere Tertulliano, praescr. 6, 5-6, p. 35: “Jerome’s description shares with De praescriptione haereticorum 6.5-6 an emphasis on how the Holy Spirit prophesied the future damnation of Apelles and Philumene (Spiritus Sancti uaticinio sit...prophetatum; Prouiderat iam tunc Spiritus Sanctus...). This unique point of contact tips the balance in favor of De praescriptione haereticorum 6.5-6 being the source-text at the forefront of Jerome’s mind”. 23 Mediante queste considerazioni finali su 1, 8-9 lo Stridonense riconduce i versetti al tema della polemica indiretta e nascosta di Paolo nei confronti di Pietro e Giacomo, polemica che, ad avviso dell’esegeta, è presente nei primi capitoli dell’epistola paolina. 24 Com’è abbastanza tipico degli esegeti paolini latini, anche Girolamo usa spiegare Paolo con Paolo; e non solo sul versante lessicale o storico-letterario, ma anche, come nel presente brano, allorché si tratta di cogliere il corretto messaggio paolino per ragioni parenetiche. 25 B. Jeanjean, Saint Jérôme et l’hérésie, p. 178: “[...] l’hérésie ébionite se manifeste tout particulièrement dans le domaine de la christologie. Ébion, que Jérôme présente comme le fondateur de la secte, partage en effet avec Photin, et avec les juifs, une vision réductrice de la personne du Christ: tous tiennent celui-ci pour un pur homme. Cette affirmation en amène deux autres: d’une part,
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Ébion nie l’Incarnation et d’autre part, il soutient que le Christ n’existait pas avant Marie”. Ibid., p. 186: “S’il les considère bien comme des hérétiques du passé, il dénonce toutefois leur erreur comme une menace encore présente au cœur même de l’Église. Cette actualité de l’ébionisme, manifestée par la place importante que Jérôme lui accorde dans son œuvre, n’est que l’expression des préoccupations personnelles du traducteur et de l’exégète. De fait, ce n’est pas tant pour leur conception réductrice d’un Christ seulement homme, que pour le danger que raprésente leurs traductions tendancieuses et leur lecture littérale de la Bible puisque des chrétiens aussi illustres que Tertullien, Irénée et tant d’autres n’ont pas toujours su l’éviter”. 26 Nel Commentario paolino, oltre a questa menzione, lo gnostico Basilide è citato in In Tit. (trad.) Pref., p. 239. Come ha osservato B. Jeanjean, Saint Jérôme et l’hérésie, p. 192-193, Basilide è attaccato da Girolamo non solo per il rifiuto dell’Antico Testamento bensì pure per gli interventi sul Nuovo Testamento ed in particolare per un vangelo apocrifo. 27 Sono interessanti le considerazioni che qui e nel paragrafo 5 Girolamo svolge sulle difficoltà della traduzione dall’ebraico e sul ricorso della Settanta a neologismi per esprimere concetti nuovi ed estranei alla cultura greca; allo stesso modo appare utile notare l’attenzione di Girolamo (poco sotto) agli sforzi compiuti in ambito latino da Cicerone per la creazione di un linguaggio filosofico che gli consenta di comporre le opere dedicate alla filosofia. 28 Significativamente, ma forse non casualmente, lo Stridonense richiama, come gli esegeti predecessori Mario Vittorino e Ambrosiaster, le parole di Paolo nel primo versetto dell’epistola ai Galati per spiegare le asserzioni di Gal 1, 11-12. 29 Girolamo riprende uno dei temi individuati sin dalla Prefazione del Commentario e che dominano, a suo avviso, il commento dei primi capitoli dell’epistola: ovverosia quello della polemica indiretta di Paolo nei confronti di Pietro e della chiesa giudaizzante. 30 Utile ricordare Mario Vittorino, In Gal. 1, 1, 13-14, p. 201: “l’ammonizione e la narrazione [scil. delle vicende personali di Paolo] sono molto utili per lo scopo prefissato: corregere i Galati”. 31 Si può notare come l’esegeta Dalmata colga (“Opportunamente ... con prudenza ... Che osservazione elegante e che peso delle parole ...”) le strategie retoriche messe in pratica da Paolo
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per realizzare al meglio l’obiettivo dell’epistola, che è quello di far comprendere ai Galati il valore del tutto ritualistico e non salvifico della legge e quindi la necessità di prendere le distanze dalle prescrizioni giudaiche e dalla mescolanza di legge e fede. 32 Come interpretare queste considerazioni ermeneutiche polemiche di Girolamo contro l’esegesi giudaica, giudicata letteralista e non in grado di comprendere la Scrittura? Frutto delle prese di posizione antigiudaiche delle fonti, Origene e l’esegesi del iii/iv secolo? È più probabile che qui lo Stridonense abbia di mira quei cristiani eretici che, in quanto puntavano su una interpretazione letterale della Scrittura e sul rispetto delle prescrizioni e delle ritualità previste dalla legge, si facevano in qualche modo seguaci dei Giudei ancora in pieno iv secolo: in altre parole, penso a gruppi come i Simmachiani, così denominati da Simmaco, l’autore, più volte citato da Girolamo nell’In Galatas, della traduzione in greco della Bibbia inserita da Origene negli Hexapla. Secondo Eusebio di Cesarea (h. e. 6, 17, p. 33-34) i Simmachiani erano in buona sostanza gli Ebioniti, ed in effetti si è già avuto modo di constatare la presenza di una polemica contro gli Ebioniti da parte di Girolamo nel commento a Gal 1, 11-12: le considerazioni di Jeanjean, che ho riportato in quell’occasione, evidenziavano nel pensiero del Dalmata la condanna di questi eretici a causa dell’attaccamento alla legge giudaica e al senso letterale della Scrittura nonché a causa della visione ridotta del Cristo, considerato semplicemente uomo. La preoccupazione per la vitalità delle idee ebionite e dei probabili seguaci di queste nell’avanzato iv sec., cioè i Simmachiani, non è un’esclusiva di Girolamo: la ritroviamo infatti nei due predecessori dello Stridonense, Ambrosiaster e Mario Vittorino. Nel coevo Ambrosiaster i Simmachiani vengono fatti discendere dai Giudei e sono associati nell’errore a Fotino (In Gal. Prol., p. 31): ciò è molto significativo perché, come si è visto, Girolamo sottolinea la prossimità tra Ebioniti e Giudei ma anche, d’altra parte, tende ad associare Ebione e Fotino; cf. E. Di Santo, L’apologetica dell’Ambrosiaster, p. 183-186. Mario Vittorino, invece, attacca i Simmachiani in quanto novelli giudeocristiani, che aggiungono alla fede in Cristo (ma in un Cristo concepito diversamente dalla fede ortodossa) l’osservanza del giudaismo, facendosi in tal modo seguaci di Giacomo, che per Vittorino predicava, non da apostolo ma da eretico, il Vangelo mescolato con il giudaismo: cf. In Gal. 1, 1, 19, p. 205-207.
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Lo Stridonense ha in mente i Valentiani, come dimostra il seguente brano di Tertulliano, adv. Val. 29, 1-2, p. 311: “Dopo aver professato una natura triforme e tuttavia riunita in Adamo, la dividono poi a seconda delle proprietà intrinseche a ciascuna stirpe cogliendo l’occasione per una distinzione di tal sorta dalla discendenza dello stesso Adamo, tripartita anche in base alle diverse doti morali. Caino, Abele e Seth, per così dire fonti del genere umano, si dividono in altrettanti simboli della natura e del carattere: riconducono a Caino quello terreno, che per natura ha tralignato dalla salvezza; quello psichico, per il quale è stata decretata una speranza intermedia, lo appaiano ad Abele; quello spirituale, giudicato degno di una salvezza certa, lo ripongono in Seth. Così distinguono in base ad una doppia proprietà anche le stesse anime, buone e malvagie, secondo lo stato terreno, da Caino, secondo quello psichico, da Abele”. Molto utile, per la comprensione del brano geronimiano, è anche Ireneo, adv. haer. 1, 7, 5, p. 93-94; infine Epifanio, pan. haer. 1, 31, 7, p. 509-511. Interessanti le considerazioni di B. Jeanjean, Saint Jérôme et l’hérésie, p. 217-218: “De fait, une telle répartition des natures en trois catégories rappelle l’hérésie valentinienne et la présentation qu’en fait Jérôme. Nous avons donc tout lieu de croire qu’il connaît l’existence des variantes entre les diverses théories des natures différentes dont il signale, selon le cas, la répartition en deux ou en trois catégories. Nous pensons qu’il expose ainsi parfois la théorie marcionite, fondée sur l’interpretation de Matth. 7, 18 qui oppose le bon et le mauvais arbre, parfois celle de Valentin qui introduit une nature intermédiaire entre la spirituelle et la terrestre. Rien n’empêche d’ailleurs de penser qu’il fait l’amalgame entre ces deux variantes à chaque fois qu’il mentionne, sans autre précision, les hérétiques qui introduisent des «natures différentes»”. 34 Ambrosiaster, In Gal. 1, 15, 2, p. 48: “Venne eletto dalla prescienza di Dio fin dal seno di sua madre, cioè prima che nascesse, ovvero appena nato Dio conobbe il bene futuro, così come dice a Geremia: «Prima che ti formassi nell’utero, ti ho conosciuto...»; e così accade anche per l’apostolo Paolo”. 35 Girolamo si trova dinanzi ad uno dei problemi più ardui dei primi secoli del cristianesimo, cioè quello del rapporto tra la natura e la condizione dell’uomo, la libertà di giudizio e il rapporto dell’uomo con il male e con il peccato e, infine, il giudizio di Dio sugli uomini. La posizione dottrinale che il monaco Betlemita fa
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propria è quella della prescienza di Dio, riuscendo, mediante tale teologumeno, a conciliare temi quali il peccato e la sua capacità di condizionare la natura umana, il libero arbitrio ed il giudizio eterno, giusto e insondabile di Dio. 36 Stando alla testimonianza di Valerio Massimo, 8, 7, stran. 5, era Carneade e non Crisippo a prendere l’elleboro, pianta medicinale purgativa, che Carneade utilizzava, secondo lo storico dell’età di Tiberio, ogni qual volta era in procinto di affrontare una disputa filosofica con Crisippo: si purgava con l’elleboro per essere in grado di corroborare meglio le proprie idee e di confutare, con maggior veemenza, quelle dell’altro; anche Gellio, 17, 15, 1-7, attribuisce l’uso dell’elleboro a Carneade (senza menzionare Crisippo) e descrive due tipi di elleboro. Coerente, invece, con le parole di Girolamo è la testimonianza di Petronio, 88, in base alla quale era proprio Crisippo che faceva uso di quest’erba per prepararsi meglio alla speculazione. 37 Come nota opportunamente S. A. Cooper, Marius Victorinus’ Commentary on Galatians, p. 264, n. 67, Mario Vittorino commenta l’errato acquievi della Vetus Latina, laddove già Ambrosiaster parafrasa il corretto testo greco (contuli), senza però avvertire il lettore, come invece fa Girolamo, che appunto segnala l’errore dell’antica traduzione latina. Bisogna tuttavia notare che Cooper sbaglia nell’intendere la spiegazione di Mario Vittorino di 1, 16 (p. 264, n. 69): per Vittorino infatti ‘carne e sangue’ non sono in alcun modo gli Apostoli (come tenderebbe a credere Cooper) bensì l’uomo esteriore, la condizione materiale di ogni uomo, rispetto alla quale Paolo, animato dalla gratia Dei, non si è tirato indietro, sopportando le immense fatiche del correre qua e là, i disagi dei viaggi, per annunciare il Vangelo attraverso popoli e regioni; non ha ceduto a ‘carne e sangue’ nella spiegazione di Vittorino vuol dire che Paolo non si è arreso ai limiti naturali di ogni corpo umano. 38 Sull’interpretazione porfiriana di Gal 1, 16 si veda C. Moreschini, ‘L’utilizzazione di Porfirio in Gerolamo’, p. 185. Bisogna ammettere che il commento geronimiano dei capitoli iniziali dell’epistola a Galati (il primo ed il secondo) risente dell’uso polemico che Porfirio faceva di questi versetti ed è chiaro che con quest’uso è connesso il tema frequentemente evocato nell’esegesi geronimiana di questa parte del Commentario, cioè la polemica indiretta di Paolo nei confronti degli Apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni.
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La ricerca della ‘coerenza’ tra diversi episodi biblici è un principio importante dell’ermeneutica cristiana antica; laddove questo principio non è verificabile (in sostanza laddove vi è un defectus litterae), gli interpreti fedeli alla lezione origeniana vanno alla ricerca di un significato più profondo. Infatti nel paragrafo 3 Girolamo dimostra di comportarsi secondo questo modo di fare esegesi e afferma: “Altrimenti che cosa mi giova questo racconto (ma sono andato in Arabia e di nuovo sono tornato a Damasco), se leggo che Paolo dopo la rivelazione di Cristo subito andò in Arabia e dall’Arabia fece ritorno a Damasco e non so che cosa ha fatto lì o quale utilità ha avuto il suo andare e tornare?” 40 Cf. Fürst, Hieronymus. Askese, p. 133: “Hieronymus war ferner in der Lage, Behauptungen seiner christlichen Quellen zur Bedeutung hebräischer Eigennamen aus eigener Kompetenz zu korrigieren, indem er auf das Hebräische rekurrierte. Die Etymologie spielte eine wichtige Rolle in der antiken, auch in der antik-christlichen Exegese. Namen enthalten, so die allgemeine Ansicht, die Hieronymus teilte, tiefere Bedeutungen und theologischeWahrheiten. Anders als die griechischen Exegeten benutzte Hieronymus onomastische Lexika jedoch nicht unkritisch und fast nach Belieben”. In effetti, le specifiche riflessioni etimologiche di questo brano (relative ad ‘Arabia’, ma di seguito anche a ‘Damasco’ e a ‘Gerusalemme’), se da un lato evidenziano il grande interesse e l’impegno di Girolamo nel 386 per questa metodologia di ricerca ermeneutica, dall’altro trovano una puntuale conferma nei luoghi paralleli (appunto su ‘Arabia’, ‘Damasco’ e ‘Gerusalemme’) del libretto ultimato dallo Stridonense appena qualche anno dopo l’In Galatas (389-391), cioè il Liber interpretationis hebraicorum nominum; si veda a tal proposito, nom. hebr., p. 76, 13.17.18). 41 Il paragrafo è della massima importanza; Girolamo applica i fondamenti della sua esegesi, legati esplicitamente a Gal 4, 24-25: per l’autore si tratta di constatare che il semplice racconto letterale del testo biblico sui viaggi paolini non ha un valore pregnante ma richiede un livello di senso più profondo (altior intellegentia), che è Cristo. La legittimazione di questo metodo viene addirittura dall’interpretazione metaletteraria dell’esperienza di Paolo in Gal 1, 17: l’Apostolo, dopo la conversione, si è rivolto all’Antico Testamento per cercarvi Cristo al di là della superfice testuale e, in tal modo, ha potuto raggiungere la perfezione spirituale. A tale modello di vita e di esegesi si fa quindi obbligo di guardare per
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i cristiani che vogliano porsi in cammino verso la Gerusalemme celeste, luogo di visione e di pace. 42 Cf. M. A. Schatkin, ‘The Influence of Origen, p. 57: “At Gal. 1,18 (p. 354A) Jerome rejects the view of ‘Clemens in Periodis Petri’ that Paul’s purpose in seeing Peter was to know whether or not he was bald. Origen also cites the Pseudo-Clementine Recognitions under the title ἐν ταῖς περιόδοις (In Genesim 14 = PG XII, 85A). Thus Courcelle has concluded that Jerome borrowed from Origen”. Dunque, forse attraverso Origene, Girolamo farebbe qui riferimento all’opera che oggi denominiamo Pseudo-Clementinae, un corpus di scritti comprendente tra l’altro le Recognitiones e le Homiliae, sull’origine dei quali gli studiosi hanno formulato molte ipotesi; ad ogni modo, pare che dietro questi scritti dell’inizio del iv secolo vi fosse un più antico romanzo che ha per protagonista Clemente Romano e che è stato composto da un autore sconosciuto di ambiente ebionita: in quest’opera, oltre a Clemente, è protagonista l’apostolo Pietro, con il quale, dopo l’incontro a Cesarea, Clemente compie dei viaggi. È interessante notare che tra gli autori che menzionano i Viaggi di Pietro di Clemente vi è anche l’amico, e spesso la fonte, di Girolamo, cioè Epifanio, pan. haer. 1, 30, 15, p. 441-443. 43 Cf. Ambrosiaster, In Gal. 1, 18, 1, p. 49-50: “Giustamente desiderò incontrare Pietro, in quanto era il primo fra gli apostoli, colui al quale il Salvatore aveva delegato la cura delle comunità; ciò fece non perché avesse da imparare qualcosa da lui, poiché aveva già appreso il Vangelo dall’autore della salvezza”. 44 È interessante questa considerazione dello Stridonense sulla necessità di una riflessione ermeneutica sui numeri presenti nel testo biblico: si tratta di uno spunto tradizionale per l’esegesi cosiddetta ‘allegorica’, e, fra l’altro, è evidente che qui Girolamo sta prendendo posizione in favore di questo procedimento allegorico e forse in polemica con altri interpreti di orientamento esclusivamente storico e letteralista: ma a chi rivolge gli strali il Nostro? 45 In scia alle importanti riflessioni di 1, 17b, 3 (cf. nota 41) Girolamo persegue il procedimento esegetico della cosiddetta ‘duplex intellegentia’ o ‘altior intellegentia’, cioè la ricerca di un significato profondo di natura spirituale che si accompagna (senza mai sostituirsi) al significato storico e letterale del testo paolino; è corretto ritrovare in quest’aspetto gli effetti dell’influsso di Origene, benché non si può non riconoscere una personale capacità
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di Girolamo di rielaborare la fonte tenendo conto del dibattito ermeneutico in corso nei suoi anni (come si può costatare attraverso gli spunti polemici che lo Stridonense inserisce qui e lì nel Commentario). 46 Girolamo richiama un tema già precedentemente individuato (Gal 1, 1) e che ritiene di notevole importanza nelle intenzioni di Paolo, cioè il carattere esclusivamente divino della rivelazione dell’Apostolo. Identica osservazione anche in Mario Vittorino, come nota S. A. Cooper, Marius Victorinus’ Commentary on Galatians, p. 265, n. 72. 47 È un richiamo all’Adversus Helvidium, breve trattato composto a Roma nel 383 su sollecitazione di alcuni componenti del gruppo ascetico che circondava Girolamo. La problematica discussa nell’Adversus Helvidium ed echeggiata nel commento a Gal 1, 19 è quella della verginità post partum di Maria: il pamphlet non è semplicemente un attacco ad un avversario giudicato eretico (Elvidio), bensì investe una questione più ampia ed assolutamente presente nel pensiero e nella vita di Girolamo al tempo dell’In Galatas (386), ovverosia la difesa degli ideali ascetici e monastici e l’idea che la verginità comporti una condizione antropologica superiore rispetto al matrimonio, donde lo sforzo di dimostrare, contro l’avversario, l’autorevole sostegno che la notizia biblica della perpetua verginità di Maria assicura a questa tesi. Sull’Adversus Helvidium è fondamentale G. Rocca, L’Adversus Helvidium di san Girolamo nel contesto della letteratura ascetico-mariana del secolo iv, Bern, 1998; si veda anche, in una prospettiva più ampia, Y.-M. Duval, L’Affaire Jovinien. D’une crise de la société romaine à une crise de la pensée chrétienne à la fin du IVe et au début du Ve siècle, Roma, 2003; infine, D. G. Hunter, Marriage, Celibacy, and Heresy in Ancient Christianity. The Jovinianist Controversy, Oxford, 2007, specie le p. 171ss. 48 Il nostro esegeta si riferisce a Giacomo (Lc 6, 15), il figlio di Alfeo (da identificare con Cleofa) e di Maria, sorella della Madonna e come lei ai piedi della croce insieme a Maria di Magdala (Gv 19, 25). Dopo il martirio di Giacomo il Maggiore e la partenza di Pietro, Giacomo divenne capo della comunità cristiana di Gerusalemme. Secondo lo storico Eusebio di Cesarea, Giacomo venne ucciso nell’anno 62 o 63 durante una sollevazione popolare istigata dal sommo sacerdote Hanan, che per quel delitto fu poi destituito.
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Per la comprensione del commento a 1, 19 va tenuto presente il capitolo 13 dell’Adversus Helvidium, ove pure vengono citati e discussi Gal 1, 18-19 e 2, 9: lo Stridonense vi constata che due sono gli apostoli di Gesù con il nome di ‘Giacomo’; quindi esclude, sulla base di quanto afferma Paolo in questo versetto 19, che uno che non era apostolo (un Giacomo diverso rispetto ai due apostoli) possa essere considerato ‘fratello di Gesù’ (cf. Gir., adv. Helv. 13, p. 257-259): è quello che fa per esempio Mario Vittorino, In Gal. 1, 1, 19, p. 205-207. Ricollegandosi dunque a quanto argomentato nell’Adversus Helvidium, Girolamo, ribadisce qui che fratelli del Signore sono gli apostoli, ma lo è principalmente Giovanni, il discepolo che Gesù amava (Gv 19, 26) e a cui affida, salendo al cielo, i “figli di sua madre” (i.e. della madre di Gesù), che sono, in senso spirituale, tutti i credenti figli della nuova Eva, cioè Maria. 50 Per Girolamo il ‘Giacomo’ al quale Paolo fa riferimento non è quel ‘Giacomo’ apostolo detto il Maggiore, figlio di Zebedeo e fratello dell’apostolo Giovanni, del quale si parla nei Vangeli: questi, secondo la testimonianza di At 12, 2, fu ucciso da Erode e fu il primo degli apostoli ad essere martirizzato; si tratta invece di Giacomo, detto il Minore, figlio di Alfeo. Come spiega lo Stridonense, questo Giacomo fu detto “Giusto” per l’integrità della sua vita, fu il primo vescovo di Gerusalemme e fu molto amato e venerato dalla comunità cristiana. 51 La conclusione dell’esegesi, assai delicata, di questo versetto è molto interessante: Girolamo ribalta la spiegazione di Mario Vittorino, per il quale il senso di 1, 19 risiede nell’intenzione di Paolo di mostrare che Giacomo non è apostolo e “l’appellativo di fratello indica la condizione secondo la carne” (In Gal. 1, 1, 19, p. 205-207); in sostanza l’auctoritas paolina è invocata dal retore africano contro i Simmachiani, i quali si richiamano a Giacomo, ma qui l’Apostolo fa vedere – a giudizio di Vittorino – che il loro presunto fondatore non era un apostolo bensì un eretico. In posizione diversa sta Ambrosiaster, probabilmente consapevole della polemica in corso tra Elvidio e Girolamo: egli afferma che Giacomo è il vescovo di Gerusalemme e attribuisce a Giuseppe la paternità carnale di Giacomo; poi dichiara, In Gal. 1, 19, p. 51: “Alcuni, spinti da insania, contestano che costoro [i.e. Giacomo e altri] siano veri fratelli del Signore nati da Maria, dicendo con empia asserzione che Giuseppe non è chiamato suo vero padre”; l’esegesi di Ambrosiaster è tanto originale quanto problematica e perciò 49
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rinvio alla recente proposta ermeneutica di E. Di Santo, L’apologetica dell’Ambrosiaster, p. 105, n. 201. In definitiva, è possibile evidenziare la novità dell’esegesi geronimiana sia rispetto a Vittorino, perché lo Stridonense considera il Giacomo citato da Paolo come uno dei Dodici e senza alcun legame carnale con Maria e Giuseppe, sia rispetto ad Ambrosiaster, la cui esegesi è ambigua nell’asserire l’idea della verginità perpetua di Maria e Giuseppe, di cui Giacomo sarebbe figlio. 52 Come notavo nella nota 41, dal versetto 1, 17b in avanti Girolamo fa scorrere con più costanza e coerenza la sua esegesi sul doppio binario della interpretazione letterale (‘intendere in modo semplice’) e della intepretazione spirituale (‘in modo più profondo’). 53 Si veda quanto detto nella nota 40; cf. Gir., nom. hebr., p. 76, 16.22. 54 Girolamo sottolinea ancora la compattezza strutturale e tematica dell’epistola, cogliendo il permanere, in queste parole dell’Apostolo (1, 22-24), di un tema generale che caratterizza i versetti dei primi due capitoli di ep.Gal., cioè il fatto che la rivelazione di Cristo è stata per Paolo un’esperienza personale e non il frutto dell’indottrinamento da parte di altri apostoli. 55 I paragrafi 4 e 5 sono testimonianza dell’esegesi aperta di Girolamo: egli lascia intendere l’esistenza di diverse possibili spiegazioni (riconducibili a lui ovvero ad altri commentatori) circa l’interpretazione di questi versetti, evidenziando, sin dall’inizio del controverso capitolo 2 dell’epistola, l’interesse che esso possedeva tra gli esegeti cristiani. Girolamo propone, nel paragrafo 4, un’interpretazione che, a mio parere, serve ad integrare la spiegazione precedente: si può discutere sulle circostanze temporali dell’incontro tra Paolo e gli anziani, tuttavia le ragioni dell’incontro restano, ad avviso di Girolamo, evidenti, ovverosia la dimostrazione che il Vangelo annunciato dall’Apostolo era quello di Cristo e che gli anziani non avevano nulla da obiettare in merito; semmai veniva esaltata la pazienza e l’umiltà di Paolo, che si sottoponeva a tale pellegrinaggio, e soprattutto il ricordo di questa riunione poteva essere utile ai Galati quale conferma della correttezza del Vangelo annunciato da Paolo. Va notato, in definitiva, che non sempre le spiegazioni supplementari servono ad escludere commenti precedenti, bensì svolgono la funzione di far emergere la ricchezza ed i molteplici livelli di senso presenti nel testo paolino.
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Il commento di Girolamo a Gal 2, 3-5 presenta novità rispetto all’esegesi di Mario Vittorino ed Ambrosiaster (gli ‘alcuni’ di cui fa menzione il Nostro?), poiché lo Stridonense accoglie il testo ‘neppure per un istante abbiamo ceduto alla sottomissione’, a differenza dei due predecessori che hanno ‘per un istante abbiamo ceduto alla sottomissione’. Se Vittorino ed Ambrosiaster, pur consapevoli di trovarsi dinanzi ad un testo dubbio, preferiscono comunque conservarlo ed accettare che Paolo possa aver ceduto ad un errore temporaneo (sia per Vittorino che per Ambrosiaster, però, il cedimento di Paolo è la circoncisione di Timoteo e non quella di Tito) in nome di una verità superiore senza che ciò comporti una denigrazione dell’immagine dell’Apostolo, Girolamo non solo accoglie il corretto testo greco, ma a prescindere dalla diversità del testo commentato sembra aderire ad un modello ermeneutico che non ammette in alcun modo un decadimento dell’immagine dell’apostolo Paolo (probabilmente la fonte geronimiana era legata ad un contesto apologetico in cui veniva messa sott’accusa la condotta paolina): dunque non solo Paolo non ha ceduto neppure per un istante, ma la sua resistenza è stata eroica ed è testimonianza fondamentale per la correzione dei Galati. Ampia discussione delle posizioni dei tre antichi esegeti è rinvenibile in G. Raspanti, ‘San Girolamo e l’interpretazione occidentale’, p. 308-312; si veda anche S. A. Cooper, Marius Victorinus’ Commentary on Galatians, p. 200-202. 57 Queste parole riprendono un tema centrale dell’intero commento, cioè la necessità di comprendere in modo spirituale l’intero testo biblico. 58 Ambrosiaster (In Gal. 2, 6, 1, p. 61-62) si sofferma sulla condizione di simplices homines di Pietro e degli altri apostoli ed interpreta l’affermazione paolina secondo la quale a lui non importa cosa siano stati gli uomini ragguardevoli nel senso che non guarda al passato di poveri ignoranti degli apostoli rispetto ai quali Paolo era un ebreo colto ed affermato. Girolamo invece punta l’attenzione sulla ragguardevolezza che deriva agli apostoli dall’aver vissuto con il Signore: è interessante notare, però, che anche Ambrosiaster come Girolamo allude, poco dopo (In Gal. 2, 9-10, 1, p. 63), al medesimo episodio biblico per spiegare le ragioni della superiore autorevolezza degli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni: la trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor dinanzi ai tre; il riferimento a questo episodio manca invece nel commento di 56
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Vittorino. Agostino dimostra di conoscere l’esegesi dei predecessori menzionando nella medesima circostanza lo stesso episodio in In Gal. 13, p. 583-585. 59 Ad alcuni studiosi è parso che le considerazioni del § 2 del commento a Gal 2, 6a siano in contrasto con la spiegazione di Gal 2, 11-14: A. Fürst, Augustins Briefwechsel, p. 83-88, è convinto che Girolamo interpreti il versetto come una vera critica di Paolo a Pietro e già F. Overbeck, Über die Auffassung des Streits des Paulus mit Petrus in Antiochien (Gal. 2, 11 ff.) bei den Kirchenvätern, Basel, 1877 (ristampa Darmstadt, 1968), p. 48, asseriva l’idea di un contrasto tra l’esegesi di Gal 2, 6 e quella di Gal 2, 11-14 affermando: “Ja eine Bemerkung des Hieron. im Kommentar zum Galaterbrief selbst lässt bezweifeln, ob er schon zu Gal 2,6 wusste, was er seinen Lesern zu Gal 2,11 nach Origenes vortragen würde”. Nonostante dica in In Gal. 2, 6 che Paolo si oppone a Pietro, lo Stridonense lascia intuire che la disputa è da leggere nel quadro della condotta cauta e ambigua di Paolo (tema già chiaramente e significativamente enunciato nel prologo dell’opera), per cui l’Apostolo dei gentili si muove prudentemente tra l’elogio ed il biasimo di Pietro, evitando di arrecargli offesa e, contemporaneamente, non rinunciando ad una condotta coerente in nome della verità. Come si chiarirà molto bene nell’esegesi di Gal 2, 11-14, vi è un’intesa non dichiarata per cui Paolo rimprovera Pietro realmente ma non veramente, sicché sul verbo disputare viene addensata tutta la connotazione ambigua che Girolamo attribuisce alla condotta di Paolo a partire dal prologo ed in tutto il resto dell’epistola. Anche in In Gal. 2, 6, insomma, ci troviamo dinanzi ad un disputare che indica un contrasto allo stesso tempo reale e simulato tra i due Apostoli. E dunque non v’è contraddizione tra l’esegesi della finta disputa di Gal 2, 11-14 ed il senso in cui debbono essere intese le parole conclusive di Gal 2, 6a. 60 Probabilmente Girolamo ha avuto dinanzi Ambrosiaster allorché propone e sviluppa nel commento a 2, 7-9 tale quaestio. Dopo aver spiegato che Pietro aveva il primato nel fondare la chiesa, ma che anche Paolo deteneva tale primato nella fondazione delle chiese presso i gentili, Ambrosiaster precisa in In Gal. 2, 7-8, p. 62: “e chiama se stesso eletto in modo similare, per avere il primato nella fondazione delle comunità dei gentili, cosicché, qualora fosse nata una disputa, Pietro potesse predicare ai gentili e Paolo ai giudei. Ed infatti si scopre che entrambi hanno fatto entrambe le cose”.
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S. A. Cooper, Marius Victorinus’ Commentary on Galatians, p. 276: “Compared with Jerome’s more historically correct reading, for whom the ‘poor’ here are the Jewish believers of Act 2: 44-5 [...], Victorinus’ exegesis is more actualizing: i.e. it intends to speak to contemporary Christians and advise them to be charitable but not hope for salvation from their activities in this or any other area”. In verità, a differenza di quanto lascia intendere Cooper, bisogna notare che Girolamo fornisce più di una spiegazione del versetto 10; anzi, articola l’esegesi sul consueto duplice livello, quello storico-letterale e quello spirituale (§§ 2-3). 62 Rispetto ai predecessori Mario Vittorino ed Ambrosiaster, Girolamo introduce un’importante novità testuale: presenta infatti reprehensibilis erat (i.e. ‘era degno di rimprovero’)” laddove gli altri esegeti latini hanno reprehensus erat (i.e. ‘era rimproverato’). Come fa notare G. Menestrina, ‘«Quia reprehensibilis erat». Gal 2,11-14 nell’esegesi di Agostino e Gerolamo’, in Tra il Nuovo Testamento e i Padri – ed. G. Menestrina, Brescia, 1995, p. 119, “il valore da dare al κατεγνωσμένος di Gal 2,11-14, che né il «reprehensibilis» della Vulgata né il «reprehensus» della Vetus Latina traducono soddisfacentemente, è fondamentale, in quanto guida tutta l’esegesi della pericope”. 63 Il commento sull’incidente di Antiochia è ampio e articolato: Girolamo dà innanzitutto (§ 1) la propria spiegazione di Gal 2, 11-13, o perlomeno una spiegazione che presenta come propria perché non è marcata dalle consuete espressioni che segnalano le spiegazioni altrui. Segue infatti la presentazione del commento di altri esegeti con la replica geronimiana a favore della propria esegesi (§§ 2-3). Vengono quindi introdotti una serie di paralleli luoghi biblici e di argomenti tratti dall’attualità a sostegno della proposta ermeneutica geronimiana (§§ 4-5). Nell’ultima parte Girolamo conferma l’importanza di questo brano soffermandosi ancora sulla spiegazione di un altro commentatore che, tuttavia, dichiara apertamente di non condividere nonostante essa abbia il merito di confutare la polemica spiegazione di Gal 2, 11-13 di un accanito nemico del cristianesimo, Porfirio; per liquidare l’esegesi di Porfirio è sufficiente, a giudizio del Nostro, constatare che le sue accuse blasfeme sono frutto dell’incapacità di comprendere il senso della Scrittura (§§ 6-8). Per la ricostruzione del contesto in cui è maturata l’esegesi dello Stridonense di Gal 2, 11-14 rinvio al mio ‘San Girolamo e l’interpretazione occidentale’, p. 297-321.
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Nonostante Girolamo qui non si preoccupi di avvertire il lettore, questa spiegazione dell’incidente di Antiochia sarebbe stata avanzata, secondo quanto egli scrive ad Agostino quasi vent’anni più tardi (404), da Origene nel decimo libro degli Stromati e sarebbe stata seguita da quasi tutti i commentatori greci (epist. 112, 6, vol. 3, p. 384-385): cf. G. Raspanti, ‘San Girolamo e l’interpretazione occidentale’, p. 302-308; poiché Agostino non era disposto ad ammettere una simulazione diplomatica da parte di Paolo in base al precetto che nella Scrittura non può esservi alcuna forma di ipocrisia e di menzogna, lo Stridonense gli rinfaccia che la sua è un’esegesi isolata, diversamente dalla propria che invece è condivisa da tutti i più grandi esegeti cristiani. Ad avviso di F. Cocchini, ‘Da Origene a Teodoreto’, p. 300, dal Commentario a Giovanni e dal Contra Celso di Origene emerge una spiegazione diversa di Gal 2, 11-14, secondo la quale il conflitto ad Antiochia sarebbe stato reale, non simulato: esegesi che, al pari di quella di Stromati X, avrebbe avuto una certa diffusione in Oriente. Anzi, la studiosa ipotizza che Origene nel Commentario a Galati avrebbe ribadito e confermato l’esegesi dello scontro reale e che “non sia dagli Stromati di Origene che egli [scil. Girolamo] ha tratto l’intepretazione di Gal 2 con l’orchestrazione di passi che la sostengono” (p. 305-306). Per la Cocchini la fonte della spiegazione che Girolamo qui fornisce dell’incidente di Antiochia è l’omelia ‘in illud: In faciem ei restiti’ di Giovanni Crisostomo, che Girolamo non “avrebbe menzionato nel Prologo perché in quel contesto, come è logico, aveva citato solo le opere interessate all’intera epistola paolina, i commentarioli appunto, non quelle dedicate a singoli passi” (p. 307). 65 Sull’interpretazione da dare a ‘qualcuno’, cioè sull’individuazione del destinatario della polemica geroniminana, hanno riflettuto R. Hennings, Der Briefwechsel zwischen Augustinus und Hieronymus und ihr Streit um den Kanon des Alten Testaments und die Auslegung von Gal 2,11-14 (Supplements to Vigiliae Christianae, 21), Leiden – New York – Köln, 1994, p. 255, ed A. Fürst, Augustins Briefwechsel, p. 43-44, con opinioni contrastanti: per il primo, si tratta di Mario Vittorino; per il secondo, di Porfirio. Probabilmente hanno ragione entrambi, giacché è noto che Vittorino ha utilizzato ampiamente nelle sue opere brani tratti dai testi di Porfirio, risemantizzandoli secondo le esigenze cristiane: sulla questione si consulti il mio ‘San Girolamo e l’interpretazione occidentale’, p. 317. S. A. Cooper, Marius Victorinus’ Commentary
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on Galatians, p. 204, spiega: “Jerome championed this exegesis as a bulwark against Porphyry, who had painted this scene in colours decidedly uncomplimentary to Christianity. Little wonder that Jerome’s commentary on Galatians would be so critical of Victorinus, who apparently failed to appreciate to this point. But the tradition of intepretation among Latin exegesis had led to another reading, which had always in some way acknowledged the genuineness of the confrontation even while responding to apologetic exigencies”. Non mi convince, invece, la ricostruzione di Cooper circa le relazioni tra l’esegesi di Gal 2, 11-14 di Vittorino e quella di Ambrosiaster (p. 205-209), per cui rinvio a ‘San Girolamo e l’interpretazione’, p. 312-319, testo che Cooper mostra di non conoscere. 66 Il commento di Girolamo è pertanto una netta reazione all’idea di Mario Vittorino e di Ambrosiaster di un Pietro realmente oggetto di pubblico rimprovero da parte di Paolo a causa di un grave errore, cioè quello di indurre la comunità dei gentili, per paura di quanti erano venuti da parte di Giacomo, alla pratica delle consuetudini giudaiche in conseguenza della confusione ingenerata nei gentili dalla presunta simulazione pietrina. Per lo Stridonense Paolo inscena un finto rimprovero solo per confermare i gentili nella fede ed impedire che rimanessero confusi dalla condotta pietrina: allo stesso modo la simulazione di Pietro era finalizzata allo scopo superiore di compiacere ai Giudei e non turbare la pace della comunità giudaica. Ma lo stesso Girolamo è costretto, nel commento a Gal 2,14b, ad ammettere implicitamente l’errore della condotta pietrina che spingeva i gentili alle pratiche giudaiche a causa della sua simulazione mal compresa. Il commento di Agostino a 2, 11-14 nell’Expositio epistolae ad Galatas, composto all’incirca nel 394, è una chiara presa di posizione contro l’esegesi di Girolamo. Secondo l’Ipponese (cf. In Gal. 15, p. 587), Pietro fu realmente rimproverato da un pastore di grado inferiore, Paolo, a causa di un comportamento ambiguo per cui si mostrava compiacente nell’imporre ai pagani i pesi dell’asservimento legalistico: ambiguità frutto della paura di coloro che venivano da parte di Giacomo; in tutta la vicenda trionfa, secondo Agostino, il comportamento di grande umiltà di Pietro che accetta il rimprovero di Paolo. Sulle esigenze antimanichee ed antidonatiste che potrebbero aver influito sull’intepretazione agostiniana di Gal 2, 11-14 e sulla polemica con Girolamo rinvio a E. Plumer, Augustine’s Commentary, p. 47-53; sullo scambio epistolare
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vivace ed animato che i due Padri ebbero in merito all’incidente di Antiochia si vedano, oltre ai volumi già citati nella nota 65 di R. Hennings e di A. Fürst, altresì G. Menestrina, ‘« Domino dilectissimo Hieronymo Augustinus ». Riflessioni sul carteggio Agostino-Gerolamo’, in Bibbia liturgia e letteratura cristiana antica – ed. G. Menestrina, Brescia, 1997, p. 89-177. 67 Com’è abitudine dello Stridonense, in brani che rappresentano cruciali nodi ermeneutici, come Gal 2, 11-13, vengono esaminate molteplici linee d’interpretazione; e dunque Girolamo prende in considerazione la spiegazione di un altro commentatore, che, tuttavia, viene lasciato nell’anonimato. Sappiamo però, attraverso Eusebio di Cesarea, h. e., 1, 12, 2, p. 83, che nel perduto quinto libro delle Hypotyposes di Clemente Alessandrino era avanzata l’idea che il Cefa di Gal 2,11-14 non fosse Pietro, bensì appunto uno dei Settanta discepoli (Hypot. 5, frg. 4, ed. O. Stählin, neu herausg. L. Früchtel, GCS 172, p. 196). Si consulti anche F. Cocchini, ‘Da Origene a Teodoreto’, p. 294, n. 5. 68 Non deve sorprendere la conclusione del commento a Gal 2, 11-14: per il lettore che non avesse immediatamente presente il tema della ‘condotta prudente e cauta’ di Paolo nei confronti di Pietro (già chiaramente e significativamente dichiarata da Girolamo nella Prefazione dell’opera), l’affermazione dello Stridonense “ha polemizzato con lui” potrebbe suonare in contrasto con quanto detto dall’esegeta a proposito della finta disputa. Ma la fondamentale espressione “in modo latente” allude all’intesa non dichiarata per cui Paolo rimprovera Pietro realmente ma non veramente, sicché sul verbo “polemizzare” viene addensata tutta la connotazione ambigua che Girolamo attribuisce alla condotta di Paolo a partire dalla Prefazione. Cf. G. Raspanti, ‘San Girolamo e l’interpretazione occidentale’, p. 298-302. 69 Ritengo che anche in questo caso, come in precedenti occasioni, l’obiettivo polemico di Girolamo siano i Valentiniani e la galassia gnostica, caratterizzata da un irriducibile dualismo ontologico; si veda in proposito quanto scritto nel commento a 1, 1,15-16a, nota 33. Aggiungerei che l’insistenza così pervasiva nella polemica contro gli usi gnostici dei versetti paolini mi sembra indizio dell’influsso che le fonti hanno avuto su Girolamo: fonti che, evidentemente, si confrontavano con le idee gnostiche e come in questo caso le confutavano, come certamente accadeva in Tertulliano non meno che in Origene. Circa l’importanza delle opere
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tertullianee per la produzione geronimiana si veda Y.-M. Duval, ‘Gerolamo tra Tertulliano ed Origene’, p. 107-135. 70 Significativamente Girolamo inserisce a questo punto, dopo l’impegno esegetico profuso nel commento dell’incidente di Antiochia, un argumentum, ovverosia un’introduzione generale ai versetti 15-21. Un modo di procedere non troppo diverso da quello geronimiano ritroviamo altresì in Mario Vittorino all’inizio della spiegazione di 2, 15-16: “Fin qui si estende la parte del discorso di Paolo che rivolge direttamente a Pietro la parola e lo accusa di associarsi erroneamente al giudaismo e di indurre così i pagani a vivere secondo tradizioni giudaiche” (In Gal. 1, 2, 15-16, p. 225); ciò è indizio del fatto che lo Stridonense ebbe dinanzi l’esegesi del retore africano, ma anche del fatto che Vittorino potrebbe aver utilizzato per il suo commento fonti familiari allo Stridonense, come per esempio Origene. Attraverso i §§ 2-3, che dunque parafrasano l’ultima parte del secondo capitolo di ep.Gal., avvertiamo un salto nel pensiero di Girolamo: al di là di ogni interpretazione del ricordo della condotta di Pietro e di Paolo ad Antiochia, per lo Stridonense è evidente l’intenzione dell’Apostolo di ribadire ai destinatari, attraverso il coinvolgimento del medesimo Pietro, l’inutilità della legge per la salvezza e la centralità assoluta della fede a prescindere dalla condizione di Giudei o di pagani dalla quale i fedeli provenivano. 71 Che dietro le parole del Nostro vi possa essere stata una ‘quaestio’ è intuibile attraverso le parole di Ambrosiaster a commento di 2, 16b: “Dice [scil. Paolo] che nessun uomo è giustificato dalle opere della Legge; tutti quelli infatti che sono giusti sono giustificati dalla fede come Abramo, Isacco, Giacobbe o gli altri santi” (In Gal. 2, 15-16, p. 68); credo che Girolamo abbia avuto presente anche queste sintetiche riflessioni dell’Anonimo. Una volta ancora, tuttavia, constatiamo che Girolamo continua a dar conto, polemicamente, di interpreti che si erano esercitati nell’uso dei versetti paolini per sminuire il valore dell’Antico Testamento: ovviamente si tratta, presumibilmente, di seguaci di Marcione e di sette di derivazione gnostica. 72 Riguardo al commento su Gal 2, 19-21 di Mario Vittorino e Agostino e al rapporto dei due esegeti con gli interpreti intermedi, Ambrosiaster e Girolamo, S. A. Cooper, Marius Victorinus’ Commentary on Galatians, p. 213, osserva: “Cipriani maintains that the
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coincidence [scil. tra Vittorino ed Agostino] is more significant if you compare Augustine’s comments here with the very different ones of Ambrosiaster and Jerome, the latter whom we know he read. But one line from Jerome’s exegesis is not all that different: ‘So he who dies to the law of the letter through the spiritual law lives to God, although he is not without the law of God but is in the law of Christ’. The idea is essentially the same exegesis found in Victorinus and Augustine. The vocabulary of these two agrees against Jerome, in their employment of the adverbial forms of the antithesis, carnaliter-spiritualiter”. 73 Riaffiora in queste parole il tema della disputa sottile con Pietro che, ad avviso dello Stridonense, Paolo porta avanti soprattutto nel capitolo secondo dell’epistola. 74 Girolamo coglie dunque una cesura importante del testo paolino alla fine del secondo capitolo: si conclude qui, infatti, a giudizio dello Stridonense la parte in cui Paolo ha polemizzato a distanza con Pietro e si è mosso con cautela tra l’encomio del confratello apostolo e la polemica per le sue prese di distanza dai convertiti pagani. Bisogna notare che di una siffatta partizione tematica dell’epistola di Paolo non vi è traccia né in Mario Vittorino né in Ambrosiaster come del resto nel successore Agostino. 75 Come intuito da Y.-M. Duval (cf. supra n. 21), Tertulliano è spesso la fonte di Girolamo: nel De anima 20, 2-3, p. 28-29, leggiamo ad litteram le parole che hanno ispirato lo Stridonense: Athenis sapiendi dicendique acutissimos [...]. Comici Phrygas timidos illudunt; Sallustius vanos Mauros, et feroces Dalmatas pulsat; mendaces Cretas etiam Apostolus inurit. Rispetto alla fonte, Girolamo sceglie di essere più generico, cioè sostituisce ‘poetae’ alla specifica indicazione di Tertulliano circa la presenza nei poeti comici di attacchi alla timidezza dei Frigi e soprattutto elimina la menzione di Sallustio. Per noi moderni (che non possediamo in maniera integra la produzione dello storico) non è possibile stabilire con precisione in quale opera di Sallustio vi sia questa caratterizzazione dei Mauri e dei Dalmati: A. Cain, ‘Tertullian, Cyprian, and Lactantius in Jerome’s Commentary’, p. 39-41, ipotizza un’allusione a qualcuno di quelli che per noi sono frammenti delle Historiae e, soprattutto, ritiene di poter affermare che qui Girolamo, a differenza di altri casi, lavora su Tertulliano e non direttamente sulle Historiae
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di Sallustio. Peraltro, nutro il sospetto che il medesimo Girolamo dubitasse della correttezza della notizia di Tertulliano e perciò ha omesso il nome di Sallustio. Secondo Cain, le considerazioni sui filosofi ateniesi sarebbero state ispirate a Tertulliano da Cicerone, fat. 4, 7, mentre non v’è traccia nei resti della poesia comica latina del maltrattamento dei Frigi e perciò Cain suggerisce, quale fonte di Tertulliano, Euripide, Or. 1351. 76 Cf. Mario Vittorino, In Gal. 1, 3, 1, p. 231: “Non subiscono inganno se non coloro che possiedono qualche bene e lo subiscono da parte dei malvagi e degli invidiosi”. S. A. Cooper, Marius Victorinus’ Commentary on Galatians, p. 216: “Of the Latin exegetes only Victorinus and Jerome remark directly on the magical meaning of the verb fascinare (so too the Greek baskainō; ‘to bewitch’ is the main sense)”. 77 La scelta testuale di ‘proscriptus’ sia nel lemma sia nel commento appare alquanto controversa, soprattutto considerando l’ottima base manoscritta che attesta ‘praescriptus’, in generale accolto anche da diversi antichi editori. Bisogna peraltro notare che Girolamo è l’unico commentatore latino che non intende proscribere nel senso di ‘deprivare dei beni, confiscare, svendere’, come accade invece da Mario Vittorino fino ad Agostino (cf. E. Plumer, Augustine’s Commentary, p. 25; S. A. Cooper, Marius Victorinus’ Commentary on Galatians, p. 215). Ora, non potendo contare su altre attestazioni geronimiane del versetto, potremmo pensare che, da una parte, Girolamo si è attenuto al versetto circolante nelle versioni tradizionali dell’ep.Gal. (cioè nelle veteres testimoniate, fra l’altro, dagli esegeti predecessori), dall’altra, che abbia voluto seguire da vicino il senso del testo greco ‘prographō’ e abbia cercato di recuperare il significato primo del verbo ‘proscribo’ cioè ‘annunciare pubblicamente, comunicare ufficialmente, dar pubblica notizia per iscritto’. A conferma dell’influsso su Girolamo del testo greco di ep.Gal. si può invocare il § 2 di questo medesimo commento a 3,1b in cui vi è un’esplicita dichiarazione che l’esegeta sta seguendo nel lemma il testo paolino di Origene. 78 Lo Stridonense utilizza una terminologia specialistica (‘risposta semplice’) che è quella delle cosiddette ‘quaestiones et responsiones’: sull’assorbimento, da parte di Girolamo, nel genere del commentario delle caratteristiche della quaestio sia attraverso l’inserimento di quaestiones nella struttura dell’In Galatas sia, ad
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un livello più profondo, per mezzo di un vero e proprio innesto di linguaggio e tecnica zetetica nel dominio specifico dell’esegesi rinvio al mio ‘Adgrediar opus intemptatum: l’Ad Galatas di Gerolamo’, p. 208-214. 79 Vi è nell’espressione ‘spiegare in maniera poco profonda’ un ulteriore e molto interessante modo di indicare il significato letterale in opposizione al senso spirituale della Scrittura. Ancora una volta il commento dell’epistola paolina è l’occasione per affrontare questioni ermeneutiche di fondo: Giudei e cristiani hanno il medesimo testo biblico (cioè l’Antico Testamento) e dunque si misurano con la medesima realtà fisica ma i cristiani si differenziano perché trascendendo il significato letterale si spingono oltre, verso lo spirito (attraverso il Nuovo Testamento). La coppia ‘vita/militia’ diventa un’antitesi sulla base della tradizionale opposizione ‘littera/spiritus’. 80 Cf. Mario Vittorino, In Gal. 1, 3, 4, p. 235: “Ma per non sembrare sfiduciato [‘desperare’], per aver detto «inutilmente», ha corretto il suo rimprovero dicendo: «se però inutilmente»”. 81 Riaffiora in queste parole il livello tematico della autorevolezza delle parole di Paolo contro ogni forma di distorsione eretica: si aggiunge, poco dopo, in Gal 3, 6, la denuncia delle manipolazioni operate nel testo paolino di Marcione. 82 Forte consonanza di queste parole con Agostino, In Gal. 20, p. 599: “Andando avanti reca l’esempio del patriarca Abramo, di cui si tratta più diffusamente e in modo più chiaro nella Lettera ai Romani”. 83 Non sono rari questi appelli al lettore da parte di Girolamo, cioè la richiesta di una fattiva collaborazione e di un dialogo ermeneutico più o meno fittizio: rinvio all’articolo di Maritano, già citato alla nota 3. 84 Cf. Mario Vittorino, In Gal. 1, 3, 7, p. 237: “Dunque, come Abramo fu giustificato, perché ha avuto fede, così anche noi, se abbiamo la fede in Cristo e nella totalità del suo mistero, saremo figli di Abramo, cioè tutta la vita ci verrà accredidata a giustizia”; Agostino, In Gal. 20, p. 599: “Questa [cioè la circoncisione] altro non fu se non un rito sacro da lui ricevuto più tardi come suggello della fede e, naturalmente, prima di ogni asservimento alla legge, che fu data più tardi ancora”. 85 A differenza di quanto accade nei predecessori Vittorino ed Ambrosiaster, Girolamo dedica uno spazio cospicuo ai precedenti
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veterotestamentari che chiariscono i versetti di Paolo; comprendiamo, attraverso esempi quali il § 2 del commento a Gal 3, 7, la dichiarazione dello Stridonense nella Prefazione, con la quale polemizza con Vittorino, dichiarato esperto di letteratura profana ma per nulla conoscitore della Scrittura. Eppure, come ho cercato di mostrare attraverso la menzione dei paralleli commenti del retore africano, Girolamo ha preso spesso in considerazione gli spunti di Vittorino e li ha inseriti nella propria esegesi.
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[1.] Appare necessario esporre ora nel secondo libro quel che nel primo libro del Commentario a Galati avevo lasciato intatto, allorché disputavo delle caratteristiche dei popoli: chi sono i Galati nonché da dove e dove giunsero, se la terra che ora abitano li abbia allevati da indigeni o da stranieri, e se hanno perduto la loro lingua a causa di una fusione oppure se ne hanno imparato una nuova ma non hanno perduto la loro. Marco Varrone, diligentissimo studioso di tutte quante le Antichità, e tutti gli altri che lo hanno imitato hanno tramandato su questa popolazione molte notizie, degne di memoria. Ma poiché ci siamo proposti di non introdurre uomini incirconcisi nel tempio di Dioa e, per dirlo con semplicità, sono ormai molti anni da quando ho perso la consuetudine di leggere queste cose, esporremo le parole che il nostro Lattanzio ha congetturato su questa popolazione nel terzo volume a Probo1: “I Galli fin dall’antichità – dice – erano chiamati Galati dal candore del corpo e così li chiama la Sibilla; questo volle significare il poeta quando dice: ‘I lattei colli sono cinti di oro’b, pur potendo dire
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a L’asserzione, ironica e metaforica, diventa ancora più significativa se si considera che viene svolta proprio all’interno di Commentari paolini, nei quali, com’è noto, non manca una componente antigiudaica che rispecchia il pensiero di Paolo. Naturalmente gli incirconcisi, cioè i pagani, destinatari prediletti della predicazione paolina, in questo caso devono essere tenuti fuori del ‘templum Dei’ (il gioco allude proprio al tempio ebraico, alla sinagoga, qui vera e propria metafora della Sacra Scrittura). b Cf. Virgilio, Aen. 8, 660-661.
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candidi. Da lì comunque è denominata Galazia la provincia nella quale i Galli un tempo giunsero mescolandosi con i Greci; per cui in un primo momento quella regione fu chiamata Gallogrecia, poi Galazia”. [2.] Non c’è da stupirsi se egli ha detto questo dei Galati e ha rammentato che popoli occidentali, oltrepassati vasti territori intermedi, si siano insediati in una regione orientale, giacché è noto che, in senso contrario, stirpi orientali e greche siano arrivate agli ultimi confini dell’Occidente. I Focesi hanno fondato Marsiglia: di loro Varrone dice che sono trilingui e parlano in greco, latino e gallico; coloni di Rodi hanno costruito la località di Roda, da dove il fiume Rodano ha ricevuto il nome. Tralascio i fondatori di Cartagine, i Tirii, e la città di Agenorea; tralascio la Tebe di Libero che egli fondò in Africa, città che oggi è chiamata Tebessa2; trascuro quella parte della Libia che è piena di città greche. Passo alla Spagna: forse che Sagunto non è stata fondata da Greci che provenivano dall’isola di Zacinto e non si tramanda che degli Ioni, greci di razza, abbiano fondato la città di Tartesso, che oggi si chiama Carteia3? Anche i monti della Spagna, Calpe, Idria4, i Pirenei; allo stesso modo le isole Afrodisiadi5 e le Ginnasie6, che sono chiamate Baleari: non mostrano forse indizi della lingua greca? La stessa Italia occupata da popoli greci un tempo era chiamata Magna Grecia; di sicuro, non lo si può negare, i Romani sono stati generati dalla discendenza di un uomo asiatico, Enea. [3.] In conseguenza di ciò accade che spesso si trovino in Occidente indoli di greca acutezza e che in Oriente certe indoli emanino un odore di barbara stoltezza. E noi non diciamo che in entrambe le parti non nascano dal territorio indoli di diversa natura, ma che anche tutte le altre indoli che non sono simili vengono denominati in base alla maggioranza. Perciò non è strano che i Galati siano stati chiamati stolti e lenti a capire, poiché persino Ilario, il Rodano7 dell’eloquenza latina, gallo egli stesso e nato fra i Pittavi, chiama ignoranti i Galli negli Inni8; e che ora siano ricchi di oratori non ha tanto a che vedere con la tradizione colta della regione quanto con la a
Cf. Virgilio, Aen. 1, 338.
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fortuna della retoricaa, specialmente dal momento che l’Aquitania si vanta di avere un’origine greca e i Galati sono derivati non da quella regione bensì dai Galli più rozzi. [4.] Volete sapere, o Paola ed Eustochio, in che modo l’Apostolo ha denotato ogni provincia con le sue caratteristiche? Restano fino ad oggi, infatti, le tracce delle medesime virtù ed errori. È oggetto di lode la fede del popolo romano: in quale altro luogo ci si reca con così grande passione e con tale affollamento nelle chiese e presso le tombe dei martiri? Dove un amen rimbomba a somiglianza di un tuono nel cielo e sono scossi i vuoti templi degli idoli? Non perché i Romani abbiano una fede diversa da quella che hanno tutte le chiese di Cristo, ma perché maggiore è in essi la devozione e la sincerità nel credere. Vengono però accusati di superficialità e superbia; di superficialità come in quei versetti: Vi prego, fratelli, di guardarvi da coloro che provocano divisioni e ostacoli contro la dottrina che avete appreso: allontanatevi da loro; infatti costoro non servono Cristo nostro Signore, ma il loro ventre e seducono il cuore dei semplici con dolci parole e lusinghe. La fama della vostra obbedienza è giunta dovunque; mi rallegro dunque di voi e voglio che siate saggi nel bene e immuni riguardo al male (Rm 16, 17-19); e di superbia: Non insuperbirti ma temi (Rm 11, 20), e: Non voglio che voi ignoriate, fratelli, questo mistero perché non siate presuntuosi (Rm 11, 25), e nella continuazione: Per la grazia che mi è stata concessa dico infatti a tutti quelli che sono fra voi: non abbiate un’opinione più grande di quanto bisogna averla ma abbiate un’opinione equilibrata (Rm 12, 3), e più apertamente: Rallegratevi con quelli che si rallegrano, piangete con quelli che piangono. Provando i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri, senza avere opinioni troppo alte, ma trovandovi d’accordo nell’umiltà. Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi (Rm 12, 15-16). [5.] Biasima anche i Corinzi perché le loro mogli non si coprono il capo e gli uomini si lasciano crescere i capelli e mangiano senza problemi
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a Vi è un’allusione da parte di Girolamo ai successi conseguiti, in età tardoantica, dagli oratori galli e di cui a noi è rimasta un’importante testimonianza nella raccolta denominata Panegirici latini; sull’argomento rinvio alla nota 7 del terzo libro dell’In Galatas.
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nei templi e negano, gonfi di sapienza secolare, la resurrezione della carnea: chi ha visto la Grecia non può dubitare che questa situazione rimane, in parte, fino ad oggi. I Macedoni sono lodati per la carità e per l’ospitalità e per l’assistenza ai fratelli, per cui è scritto nei loro riguardi: Non ho bisogno di scrivervi riguardo alla carità verso i fratelli; voi stessi infatti avete imparato da Dio ad amarvi reciprocamente; in effetti fate questo riguardo tutti i fratelli dell’intera Macedonia (1 Ts 4, 9-10). Ma sono rimproverati perché se ne vanno in giro oziosi per le case e, nell’attesa del cibo da parte di altri, mentre desiderano fare cosa gradita a ciascuno e corrono di qua e di là, riferiscono che cosa accade presso ciascuno; infatti continua: Vi domandiamo invece, o fratelli, di abbondare di più e di operare per vivere in pace e fare il vostro dovere e lavorare con le vostre mani come vi abbiamo insegnato e di comportarvi decorosamente verso gli estranei e di non desiderare i beni di alcuno (1 Ts 4, 10-12). [6.] Perché nessuno pensi che questo ammonimento sia stato fatto più per dovere di chi ammaestra che per un effettivo difetto di quella gente, Paolo, nella seconda lettera ai medesimi Tessalonicesi, incalza e ripete: Infatti anche quando eravamo con voi vi annunziavamo che se qualcuno non vuole lavorare neppure mangi. Sentiamo infatti che tra di voi alcuni vivono disordinatamente senza fare nulla ma bighellonando. A questi che si comportano così annunziamo e chiediamo con forza nel Signore Gesù Cristo che mangino il loro pane lavorando in silenzio (2 Ts 3, 10-12). Richiederebbe troppo tempo l’analisi delle virtù e dei vizi di ogni popolo descritto dall’Apostolo e da tutte le Scritture: ci siamo lasciati andare a queste considerazioni che abbiamo esposto in base al fatto che i Galati sono stati chiamati stolti e sciocchi. Chi ha visto Ancira, capitale della Galazia, sa insieme a me da quanti scismi sia lacerata fino ad oggi, da quante varie dottrine sia corrotta. Tralascio i Catafrigi9, gli Ofiti10, i Borboriti11 ed i Manichei: questi nomi dell’umana sciagura sono infatti già noti. Chi mai ha sentito parlare in un’altra regione dell’impero romano dei Passalorinciti12, degli Ascodrobi13, degli Artotiriti14 a
Cf. 1 Cor 11, 13-14.20-21; 1 Cor 4, 6.18.
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e di tutti gli altri che sono mostruosità piuttosto che nomia? Le tracce dell’antica stoltezza rimangono fino ad oggi. [7.] Aggiungiamo una sola considerazione e la riferiamo dopo averla promessa all’inizio: i Galati, a parte il greco, che è parlato in tutto l’Oriente, hanno una propria lingua quasi uguale a quella dei Treviri; non importa se rispetto a quella hanno perso alcuni aspetti, visto che anche gli Africani hanno modificato in una certa parte la lingua fenicia e la stessa latinità si modifica costantemente a seconda dei luoghi e nel tempo. Ma torniamo ora in argomento. 3,10 Tutti quelli infatti che sono soggetti alle opere della legge sono sotto la maledizione. Infatti è stato scritto: “Maledetto chiunque non è rimasto saldo in tutto ciò che è scritto nel libro della legge per darvi compimento” (Dt 27, 26). [1.] Ho quest’abitudine: tutte le volte che gli apostoli fanno qualche citazione dall’Antico Testamento ricorro ai testi originali e guardo attentamente in che modo le citazioni siano state scritte nel contesto d’origine15. Pertanto ho trovato nel Deuteronomio questo stesso testo tradotto così nella Settantab: Maledetto ogni uomo che non è rimasto saldo in tutti i discorsi di questa legge per dare ad essi compimento; e tutto il popolo dirà ‘sia’ (Dt 27, 26); in Aquila invece così: Maledetto colui che non ha fissato le parole di questa legge per dare compimento ad esse; e tutto il popolo dirà ‘giustamente’; Simmaco: Maledetto colui che non ha confermato i discorsi di questa legge per dare ad essi compimento; e tutto il popolo dirà ‘amen’; infine Teodozione ha tradotto così: Maledetto colui che i discorsi di questa legge non ha incoraggiato a compierli; e dirà tutto il popolo ‘amen’. [2.] Da ciò comprendiamo che l’Apostolo, come in tutte le altre occasioni, si è attenuto al senso più che
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Girolamo, in fin dei conti, non sembra darsi pena nel distinguere le peculiarità dei vari gruppi ed è semmai interessato a suscitare nei destinatari, con l’accumulo dei nomi, l’impressione di una regione (quella dei Galati) incredibilmente infestata da ogni sorta di eresia: insomma fa comodo allo Stridonense citare quanti più nomi possibili, pur, forse, a danno della precisione. b Girolamo sta utilizzando gli Hexapla di Origene e, del resto, nel Commentario paolino (In Tit. (trad.) 3, 9, p. 308), egli dichiara apertamente l’uso della versione esaplare della Bibbia, che conteneva, fra l’altro, la Settanta, Aquila, Simmaco e Teodozione.
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alle parole della citazione, ed è incerto se gli autori della Settanta abbiano aggiunto ‘ogni uomo’ e ‘in tutti’ oppure se era così nell’antico testo ebraico e poi queste parole siano state eliminate dai Giudei. A questo sospetto mi spinge il fatto che l’Apostolo, esperto conoscitore dell’ebraico e dottissimo nella legge, se non si fossero trovate nel testo ebraico, non avrebbe mai menzionato le parole ‘ogni’ e ‘in tutti’, quasi necessarie al senso intrinseco per mostrare che tutti quelli che sono soggetti alle opere della legge sono sotto la maledizione. Per questo motivo, rileggendo i volumi in ebraico dei Samaritani, ho trovato che c’è scritto‘chol’, che si traduce ‘ogni’ o anche ‘in tutti’, e che il loro testo concorda con la Settanta. Invano dunque i Giudei hanno eliminato quelle parole per non sembrare di essere sotto la maledizione se non fossero in grado di dare compimento a tutte le cose che sono scritte, dal momento che anche le testimonianze più antiche di un altro popolo confermano che così era stato scritto. [3.] L’Apostolo testimonia anche in un altro brano che nessuno può adempiere la legge e fare tutte le cose che vi sono ordinate, dicendo: Quel che era impossibile nella legge, in cui risiedeva la debolezza per causa della carne, Dio mandando suo Figlio a somiglianza della carne di peccato per il peccato16 condannò il peccato nella carne (Rm 8, 3). Se ciò è vero, ci si può obiettare: dunque sia Mosè sia Isaia sia tutti gli altri profeti che furono sotto le opere della legge sono sotto la maledizione? Chi ha letto l’Apostolo che dice: Poiché Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, fatto maledizione per noi (Gal 3, 13) non temerà di ammettere ciò e di rispondere che ciascuno dei santi a suo tempo è stato fatto maledizione per il popolo. Né attribuendo questo anche agli uomini giusti darà per forza l’impressione di sminuire il Salvatore, come se non avesse niente di straordinario ed eccellente l’essere fatto maledizione per noi, visto che anche tutti gli altri sono stati fatti maledizione per altri. Infatti nessuno di quelli, benché sia stato fatto maledizione, ha liberato qualcuno dalla maledizione tranne il solo Signore Gesù Cristo, che con il suo sangue prezioso ha redento sia noi tutti sia quelli (intendo dire Mosè ed Aronne e tutti i profeti e patriarchi) dalla maledizione della legge. [4.] Non pensate che questo sia frutto di una mia interpretazione: la
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Scrittura testimonia che Cristo, la grazia di Dio, ovvero, come si legge in alcuni testimoni, senza il termine ‘Dio’, è morto per tutti (2 Cor 5, 15); se per tutti, anche per Mosè e per tutti quanti i profeti, nessuno dei quali poté distruggere l’antica sentenza che era stata scritta contro di noi e inchiodarla alla croce: tutti hanno peccato e hanno bisogno della gloria di Dio (Rm 3, 23); anche l’Ecclesiaste conferma questo giudizio dichiarando: Non c’è sulla terra un uomo così giusto che faccia il bene e non pecchi (Qo 7, 20). Infine un’affermazione dell’Apostolo, fatta più sotto, dimostra altresì in modo chiaro che né Mosé né qualunque altro uomo importante tra gli antichi poté essere giustificato davanti a Dio per mezzo della legge. Infatti continua: 3,11-12 È invece chiaro che nella legge nessuno è giustificato davanti a Dio, poiché “il giusto vive per mezzo della fede” (Ab 2, 4). La legge invece non è dalla fede, ma “chi darà compimento a queste cose, vivrà in esse” (Lv 18, 5). [1.] Ha tratto dal profeta Abacuc un esempio con il quale mostra che il giusto vive per mezzo della fede (Ab 2, 4) e non delle opere; la Settanta lo ha tradotto così: il giusto invece vive per mezzo della mia fede; Aquila e Teodozione: il giusto invece vive per mezzo della sua fede, cioè di Dioa. [2.] È necessario considerare perciò che non ha detto l’uomo o l’‘uomo virtuoso’ vive per mezzo della fede per non dare l’occasione di disprezzare le virtù, bensì il giusto vive per mezzo della fede affinché chiunque è fedele e intenzionato a vivere per mezzo della fede non possa pervenire diversamente alla fede o vivere in essa se prima non è giusto e non è salito alla fede con la purezza di vita, quasi come attraverso dei gradini. Può accadere perciò che qualcuno sia giusto e tuttavia non viva senza la fede in Cristo; se chi legge ha un dubbio, prenda le parole nelle quali Paolo dice di sé: Secondo la giustizia che è nella legge senza biasimo (Fil 3, 6); Paolo era quindi in quel momento giusto nella legge, ma ancora non poteva vivere, poiché non aveva dentro di sé Cristo che dice: Io sono la vita (Gv 11, 25), credendo nel
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a Come già nel versetto precedente anche in questo Girolamo insiste nel riportare le varianti esaplari e nel far cogliere le differenze testuali che presentano gli originali in ebraico e le traduzioni in greco.
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quale poi ha cominciato anche a vivere. Ragioniamo anche noi in modo simile al versetto il giusto vive per mezzo della fede e diciamo: il casto vive per mezzo della fede, il sapiente per mezzo della fede, il forte per mezzo della fede, e rispetto a tutti quanti gli altri tipi di virtù esprimiamo un giudizio analogo contro coloro che non credendo in Cristo pensano di essere forti e sapienti, temperanti o giusti: sappiano che nessuno vive lontano da Cristo, senza il quale ogni virtù è viziata. [3.] La presente citazione può altresì essere letta ‘poiché il giusto per mezzo della fede’ in modo che subito segua: vive; giacché peraltro dice: la legge invece non è dalla fede, ma “chi darà compimento a queste cose, vivrà in esse” si dimostra in modo inequivocabile che non è designata la semplice vita, ma quella che si riferisce a qualcosa: infatti il giusto per mezzo della fede vive e non è aggiunto ‘in queste’ o ‘in quelle cose’. Vivendo invece nella legge chi darà compimento a queste cose, vivrà in esse, cioè in ciò che ha fatto, che ha reputato un bene, avendo come ricompensa del suo lavoro solo quelle opere che ha fatto: o una lunga vita (come credono i Giudei) o la possibilità di evitare la punizione a seguito della quale il trasgressore della legge è ucciso17. [4.] Non dobbiamo pensare che ‘vivere in esse’ siano parole dell’Apostolo, ma del profeta Ezechiele che dice: Ed io li ho condotto fuori nel deserto ed ho dato loro i miei precetti ed ho mostrato loro i miei riti, che l’uomo farà e vivrà in essi (Ez 20, 10-11); egli, dopo aver detto che quelli sarebbero vissuti se avessero camminato nei precetti e nei riti, ha aggiunto: E ho dato loro precetti non buoni e riti nei quali non vivranno in essi (Ez 20, 25). Quanta attenzione nelle parole! Quando ha detto ho dato loro precetti e riti nei quali vivranno in essi non ha aggiunto ‘buoni’; quando invece ha asserito nei quali non vivranno in essi ha aggiunto: ed io ho dato loro precetti non buoni e riti nei quali non vivranno in essi. Tuttavia maggiori particolari in Ezechielea; ora riprendiamo il filo del discorso dell’epistola. a L’espressione è ellittica e di non semplice interpretazione: Girolamo rimanda ad Ezechiele o ad un commentario su Ezechiele che ha in mente di comporre? Com’è noto, lo Stridonense compose alcuni decenni più tardi un Commentario su Ezechiele, nel 410-414; ma la distanza cronologica tra queste parole ed il
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3,13a Cristo ci ha riscattato dalla maledizione della legge, fatto maledizione per noi. [1.] Si insinua furtivamente in questo punto Marcione a proposito del potere del Dio creatore, che infama come Dio sanguinario, crudele e giudice, affermando che noi siamo stati redenti per mezzo di Cristo che è figlio di un altro Dio buono18. Se egli si rendesse conto della differenza tra ‘acquistare’ e ‘riscattare’ (poiché chi acquista acquista un bene di altri, chi invece riscatta acquista propriamente ciò che era stato suo ed era cessato di essere suo), non distorcerebbe le parole semplici della Scrittura nelle calunnie della sua dottrina. Cristo ci ha riscattato dunque dalla maledizione della legge, che è stata stabilita per i peccatori, ed egli li rimprovera dicendo per mezzo del profeta: Ecco siete stati venduti per i vostri peccati e nelle vostre iniquità ho mandato via vostra madre (Is 50, 1); e l’Apostolo ribadisce questo stesso concetto dicendo: Io invece sono carnale, venduto sotto il peccato (Rm 7, 14). Anche le maledizioni della legge che sono scritte nel Levitico e nel Deuteronomio non si compiono per volere di Dio, ma annunciano con spirito profetico quel che sarebbe capitato a coloro che avessero peccato. [2.] Se Marcione ci volesse costringere con la testimonianza dell’Apostolo che dice: Tutti quelli che sono soggetti alle opere della legge sono sotto la maledizione. Infatti è stato scritto: “Maledetto chiunque non è rimasto saldo in tutto ciò che è scritto nel libro della legge per darvi compimento” (Gal 3, 10) e affermare che tutti quelli che sono stati sotto la legge sono maledetti, chiediamogli se coloro che sono sotto il Vangelo di Cristo e non compiono i suoi precetti sono maledetti o no; se risponde che sono maledetti, si ritroverà nel Vangelo quel che noi abbiamo nella legge; se dice che non sono maledetti, i precetti del Vangelo risultano dunque inutili e saranno privi di ricompensa coloro che li avranno adempiuti. Pertanto l’una e l’altra questione si risolve in questo modo: come Cristo Gesù ci ha liberato dalla maledizione della legge fatto maledizione per noi, così pure ci ha strappato dalla maledizione del Vangelo che è stabilita per
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Commentario del 410 è tale (24 anni!) che non è facilmente ipotizzabile, sulla base di queste ambigue considerazioni, che il Nostro avesse già in mente nel 386 un commentario sul profeta.
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coloro che non compiono i suoi precetti, fatto per noi egli stesso maledizione, sapendo di non lasciare andare la minima parte di un talento e di esigere fino all’ultimo spiccioloa. 89
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3,13b-14 Poiché è scritto: “Maledetto chiunque pende sul legno” (Dt 21, 23), affinché si compisse fra i pagani la benedizione di Adamo in Cristo Gesù, affinché noi riceviamo la promessa dello spirito per mezzo della fede. [1.] Prima di parlare del significato e delle parole dell’Apostolo, mi sembra giusto fare delle brevi considerazioni sulla citazione del Deuteronomio da cui anche l’Apostolo ha tratto i versetti e confrontarla con tutte le altre edizioni19. La Settanta ha dunque tradotto così questo passo: Se in alcuno vi fosse una colpa, vi fosse la condanna a morte e morisse e lo appendereste sul legno, il suo corpo non riposerà sul legno, ma nel dargli sepoltura lo seppellirete in quel giorno, poiché è maledetto da Dio chiunque pende sul legno: e non contaminerai la tua terra che il Signore Dio tuo ti darà in eredità (Dt 21, 22-23); Aquila: Ed essendovi in un uomo una colpa, la condanna a morte ed essendo ucciso e avendolo appeso sopra il legno, non dimorerà il suo cadavere sopra il legno, ma nel dargli sepoltura lo seppellirai in quel giorno, poiché maledizione di Dio è colui che è tenuto appeso: e non contaminerai la tua terra che il Signore Dio tuo ti darà in eredità; Simmaco: Se un uomo commettesse una colpa per la condanna a morte e venisse ucciso e lo avresti appeso sopra il legno, non pernotterà il suo cadavere sopra il legno, ma gli darai sepoltura nel giorno stesso, poiché a motivo di offesa di Dio è tenuto appeso: e non contaminerai la tua terra che il Signore Dio tuo ti darà in eredità; Teodozione: E poiché vi sarà nell’uomo una colpa, la condanna a morte e morirà e lo appenderai sul legno, non dormirà il suo cadavere sopra il legno, poiché gli darai sepoltura nel giorno stesso, poiché maledizione di Dio è colui che è tenuto appeso: e non contaminerai la tua terra che il Signore Dio tuo ti avrà dato in eredità. [2.] Inoltre ‘adama’ significa nella lingua ebraica sia ‘terra’ sia suolob. Nel passo in cui Aquila e Teodozione hanno tradotto allo stesso modo dicendo: poiché maledizione a b
Cf. Mt 25, 28; 5, 26. Cf. Gir., nom. hebr., p. 2, 25-26.
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di Dio è colui che è tenuto appeso, in lingua ebraica è così: ‘chi klalat eloim talui’. Ebione20, il famoso eresiarca mezzo cristiano e mezzo giudeo, ha tradotto queste parole in tal modo: ‘hoti hybris theou kremamenos’, cioè ‘poiché, ingiuria di Dio, è stato tenuto sospeso’. Mi ricordo di aver trovato così nella Disputa tra Giasone e Papisco21, che è stata scritta in greco: ‘loidoria theou ho kremamenos’, cioè ‘maledizione di Dio colui che è stato tenuto sospeso’. Mi diceva l’ebreo, che in qualche modo mi ha istruito nella Scrittura, che potrebbe anche leggersi così: ‘poiché in modo oltraggioso Dio è stato tenuto sospeso’. [3.] Ho messo insieme queste considerazioni perché si tratta di una famosissima questione e i Giudei sono soliti rinfacciarci come un’infamia il fatto che il Salvatore nostro e Signore fu sotto la maledizione di Dio22. Dunque, per prima cosa, bisogna considerare attentamente che non è maledetto davanti a Dio chiunque sia appeso sul legno, bensì chi ha peccato ed è stato condannato a morte e alzato sulla croce a causa di un delitto: perciò non è maledetto perché è stato crocifisso, ma perché è caduto in una colpa tale da meritare di essere crocifisso. In secondo luogo, bisogna obiettare che, più avanti, la causa del patibolo è spiegata più chiaramente in quanto la Scrittura riferisce che egli è stato crocifisso a motivo di maledizione e offesa di Dio; Simmaco ha tradotto questo passo più palesemente dicendo: poiché a motivo di offesa di Dio è tenuto appeso. [4.] Da ultimo chiediamo ai Giudei: se Anania, Azaria e Misaele non volendo adorare l’idolo di Nabucodònosor (cf. Dn 3, 16-18) fossero stati appesi sul legno, come pure Eleazaro novantenne sotto Antioco, re di Siria, e la madre gloriosa con i sette figli (cf. 2 Mac 6, 18 – 7, 41), li avrebbero forse considerati maledetti o degnissimi di ogni benedizionea? Di certo se Amàn non fosse salito per sua
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a I tre giovani Sadràch, Mesàch e Abdenego subirono l’ira di Nabucodònosor per essersi rifiutati di venerare la statua che questi aveva fatto costruire e lo sfidarono apertamente, lasciandosi gettare nel fuoco di una fornace; Eleazaro, scriba stimato e rispettato, avanti negli anni, e la madre dei cosiddetti sette fratelli Maccabei furono invece vittime dei medesimi provvedimenti persecutori ed antigiudaici di Antioco IV Epifane (ca. 215 a.C. – 164 a.C.). Ciò che dunque accomuna questi personaggi biblici è l’eroismo della testimonianza di fede, di cui essi diedero prova benché non andarono incontro ad un martirio sulla croce
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colpa sulla croce che aveva preparato per Mardocheo (cf. Est 7, 9-10), questi, io credo, sarebbe salito su di essa non come maledetto, ma come un sant’uomoa. Attraverso questi e simili esempi si dimostra che è maledetto colui che ha compiuto un’azione degna del patibolo, non colui che è stato crocifisso a causa dell’iniquità dei giudici, della potenza dei nemici o del clamore del popolo o dell’invidia per le sue virtù o per l’ira di un re. Un giorno tutta quanta la città di Izreèl condannò anche Nabot a morte sulla base delle lettere di Gezabele (cf. 1 Re 21, 8-22)b; ma il suo sangue, in figura di Cristo, è vendicato molti secoli dopo poiché dice il Signore ad Osea: Chiamalo Izreèl, perché ancora poco e vendicherò il sangue di Izreèl sulla casa di Ieu (Os 1, 4). Questo contro i Giudei. [5.] D’altra parte, per tornare alla nostra discussione, non riesco a capire per quale motivo l’Apostolo abbia sia sottratto sia aggiunto qualcosa nel versetto Maledetto da Dio chiunque pende sul legnoc. Se infatti in prima battuta seguiva l’autorità (nel racconto dei Maccabei Eleazaro muore per i colpi della ruota con cui venne suppliziato, i sette fratelli e la loro madre furono via via fatti a pezzi e bruciati; i tre giovani Sadràch, Mesàch e Abdenego uscirono invece vivi dalla fornace); tuttavia, afferma Girolamo, se il supplizio loro imposto fosse stato quello della croce, non per questo da martiri coraggiosi ed eroici sarebbero diventati dei ‘maledetti’, secondo quello che è il ragionamento dei Giudei, che considerano un’infame maledizione la morte in croce di Gesù Cristo. a Come già negli esempi precedenti, anche in questo il ragionamento di Girolamo è ipotetico: Amàn voleva mettere in cattiva luce dinanzi al re Assuero il giudeo Mardocheo ed il suo popolo a causa del fatto che Mardocheo non si prostrava davanti a lui. Volendolo dunque uccidere, Amàn aveva fatto preparare un palo di cinquanta cubiti per impiccarvi Mardocheo. Ma grazie ad Ester, moglie di Assuero, il complotto di Amàn fallisce ed anzi il re fa impiccare Amàn al medesimo palo che aveva preparato per Mardocheo. Se mai, afferma nel brano Girolamo, Mardocheo, che si rifiutava di venerare un uomo e riteneva di doversi prostrare solo dinanzi a Dio, fosse stato costretto a morire per il complotto di Amàn, pur morendo su un palo, non sarebbe certo stato un ‘maledetto’, visto che moriva da martire giusto e fedele a Dio. b L’esegeta Dalmata allude al celeberrimo episodio della vigna che Nabot rifiutò ad Acab, in quanto eredità dei padri, e che il re Acab, grazie a false accuse ordite dalla moglie Gezabele contro Nabot dinanzi al popolo di Izreèl, riuscì ad estorcere facendo morire lapidato il povero Acab: l’episodio biblico ebbe molta fortuna tra gli intellettuali cristiani della tardoantichità, com’è confermato dal libello De Nabuthae di Ambrogio. c Chiarito il modo di intendere Dt 21, 23 Girolamo ritorna a Paolo, alle modalità con cui questi ha inserito il testo dell’Antico Testamento, al presunto
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della Settanta, avrebbe dovuto, come è stato edito da loro, aggiungere anche ‘da Dio’; se invece come ebreo discendente da Ebrei riteneva che fosse correttissimo quel che aveva letto nella sua lingua, non avrebbe dovuto citare le parole chiunque né sul legno, che non sono nel testo ebraico. In base a ciò mi sembra o che gli antichi testi ebraici erano diversi da come sono ora o che l’Apostolo, come ho detto in precedenza, abbia citato il senso del testo scritturistico e non le parole o, ciò che mi sembra preferibile, che dopo la passione di Cristo sia nei testi ebraici sia nei nostri codici sia stato aggiunto da qualcuno il nome di Dio per bollare noi d’infamia perché crediamo in Cristo maledetto da Dio. [6.] Perciò procedo con audacia in questa sfida per scommettere, in base ai testi, che in nessun brano è stato scritto che qualcuno sia stato maledetto da Dio, e dovunque sia posta una maledizione, non è mai aggiunto il nome di Dio: Maledetto tu da tutti gli animali (Gen 3, 14), viene detto al serpente; e ad Adamo: Maledetta la terra a causa delle tue opere (Gen 3, 17); e a Caino: Maledetto tu sopra la terra (Gen 4, 11); e altrove: Maledetto Canaan, sarà servo per i suoi fratelli (Gen 9, 25); anche in un altro brano: Maledetta la loro rabbia, perché è arrogante, e la loro ira, perché crudele (Gen 49, 7). Se enumerassi tutte quante le maledizioni che sono contenute nel Levitico, nel Deuteronomio e in Giosuè, sarei prolisso; e tuttavia in nessuna di esse il nome di Dio è stato inserito, al punto che anche lo stesso Satana, quando prometteva che Giobbe, se si fosse trovato in grandi sofferenze, avrebbe bestemmiato, espresse questo in accezione positiva dicendo: Vedrai se non ti benedirà in faccia (Gb 1, 11); e nel libro dei Re si racconta che Nabot fu lapidato per il fatto che benedisse Dio ed il re (cf. 1 Re 21, 13). [7.] Non deve colpire nessuno il fatto che Cristo sia stato fatto maledizione per noi, poiché anche Dio, che si dice lo abbia fatto maledizione, nonostante Cristo non conoscesse peccato, lo fece peccato per noi, ed il Salvatore si svuotò della pienezza del Padre assumendo la forma di servo: la vita morì e la sapienza
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‘sabotaggio’ del testo biblico compiuto ‘da qualcuno’ per marchiare d’infamia i cristiani ed infine al vero senso delle parole di Gal 3,13b-14.
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di Dio fu chiamata stoltezza affinché ciò che è stoltezza di Dio fosse più sapiente degli uomini; e nel Salmo sessantotto dice di sé: Dio, tu conosci la mia stoltezza, e le mie colpe non ti sono nascoste (Sal 69, 6). Pertanto l’offesa del Signore è la nostra gloria, egli è morto perché noi vivessimo, egli scese agli inferi perché noi salissimo al cielo, egli si è fatto stoltezza perché noi diventassimo sapienza, egli si svuotò della pienezza e della forma di Dio assumendo la forma di servo perché in noi abitasse la pienezza della divinità e da servi diventassimo padronia, egli restò appeso sul legno perché appeso cancellasse con il legno il peccato che avevamo commesso nel legno della conoscenza del bene e del maleb. La sua croce diede sapore dolce alle acque amare (cf. Es 15, 22-25) e, entrata nelle acque del Giordano, tirò fuori la scure perduta ed immersa nelle profondità (cf. 2 Re 6, 1-7). [8.] Da ultimo, egli è stato fatto maledizione: ‘fatto’, dico, non ‘nato’, affinché le benedizioni che furono promesse ad Abramo fossero trasferite, lui stesso ispiratore e precursore, ai pagani e si compisse in noi la promessa dello spirito per mezzo della fede in lui; dobbiamo intendere la promessa in doppio modo o nei doni spirituali delle virtù (cf. 1 Cor 12, 7-11) o nell’intelligenza spirituale delle Scritture (cf. Col 1, 9). 3,15-18 Fratelli, parlo secondo le abitudini umane: nessuno disprezza o modifica un testamento confermato, seppur di un uomo. Sono state fatte promesse ad Abramo ed alla sua discendenza. Non dice ai discendenti, come se si trattasse di molti ma come ad uno solo, “alla tua discendenza” (Gen 12, 7), che è Cristo. Questo io dico: la legge, che è stata fatta dopo quattrocentotrenta anni, non vanifica il testamento confermato da Dio per distruggere la promessa; poiché se l’eredità fosse dalla legge, non sarebbe più dalla promessa. Invece Dio concesse il suo favore ad Abramo per mezzo della promessa. [1.] L’Apostolo, che si è fatto tutto a tutti per guadagnare tutti (cf. 1 Cor 9, 22), debitore verso i Greci ed i barbari, i a b
Cf. Fil 2, 6-7; Col 2, 9-10; Gv 15, 14-15. Cf. Gen 2, 9.17; 3,11.
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sapienti e gli ignoranti (cf. Rm 1, 14), si è fatto stolto anche per i Galati, che poco prima aveva chiamato stolti. Infatti per loro non si è servito di quegli stessi argomenti di cui si è servito per i Romani, ma di argomenti più semplici e che potrebbero comprendere gli stolti e per così dire la gente volgare. Perché non sembrasse che aveva fatto così per imperizia e non a bella posta, placa in anticipo il prudente lettore23 e calibra quel che sta per dire facendo una premessa: Fratelli, parlo secondo le abitudini umane. In effetti quel che mi accingo a dire non lo dico secondo Dio, non lo dico secondo la sapienza nascosta e in relazione a gente che può nutrirsi di cibo solido bensì secondo coloro che a causa della fragilità di stomaco si cibano di latte (cf. 1 Cor 3, 1-2) e non possono ascoltare argomenti che sono elevati. Per cui anche ai Corinzi, presso i quali si sentiva dire che vi era fornicazione ed un tale livello di fornicazione quale non si registrava neppure tra i pagani (cf. 1 Cor 5, 1), dice: Io parlo e non il Signore (1 Cor 7, 12), e ai medesimi nella seconda lettera: Quel che dico non lo dico secondo il Signore, ma quasi nell’ignoranza (2 Cor 11, 17). [2.] Alcuni pensano che Paolo abbia detto: Fratelli, parlo secondo le abitudini umane per discutere del testamento di un uomo, della morte del testatore e del resto con esempi a somiglianza delle vicende umane; a me invece sembra che abbia fatto questa premessa certo a causa di quello che essi pensano, ma soprattutto in virtù di ciò che segue, cioè: Non dice ai discendenti, come se si trattasse di molti ma come ad uno solo, “alla tua discendenza”, che è Cristo. Ripercorrendo con il pensiero e con la memoria tutte quante le Scritture non ho mai trovato che vi fosse scritto ‘discendenti’ al plurale, bensì sempre al singolare, sia in accezione positiva sia in accezione negativa. Inoltre anche riguardo a quel che aggiunge ‘ora questo io dico: il testamento confermato da Dio’, se qualcuno confronterà attentamente i volumi ebraici e le altre edizioni con la traduzione della Settanta, troverà che dove è stato scritto ‘testamento’ non s’intende ‘testamento’ ma patto, che in ebraico si dice ‘berith’a. a
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Cf. Gir., quaest. hebr. in Gen., p. 26, 24-26.
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Per cui è palese che l’Apostolo ha fatto ciò che ha promesso e all’indirizzo dei Galati non si è servito di significati reconditi bensì di una terminologia quotidiana e usuale, che potrebbe dispiacere ai lettori prudenti se egli non avesse premesso: parlo secondo le abitudini umane. [3.] In questo brano bisogna calcolare gli anni a partire dal momento in cui il Signore parlò ad Abramo dicendo: E nella tua discendenza saranno benedetti tutti i popoli (Gen 22, 18) fino al legislatore Mosè: sono quattrocentotrenta, ovvero come mai nella Genesi il Signore promette ad Abramo che dopo quattrocento anni i suoi figli sarebbero usciti dalla terra della schiavitù (cf. Gen 15, 13)a? Infatti non è una questione da poco e, nonostante le ricerche di molti, non so se qualcuno abbia trovato la risposta24. Anche ciò che si legge nel medesimo libro della Genesi su Tamar e sui suoi due figli (cioè che il primo, che è chiamato Zara, mandò fuori la mano e l’ostetrica legò ad essa della stoffa scarlatta, poi, mentre questi ritirava dentro la mano, uscì il secondo, che è chiamato Fares [cf. Gen 38, 27-30b]) è congruente con questo luogo, poiché mostra che Israele nelle opere della legge ha ritirato la sua mano, quella dei profeti e quella insanguinata dello stesso Salvatore, poi invece è balzato fuori il popolo dei pagani a causa del quale si dice che il recinto è stato distrutto ed è stato abbattuto il muro di mezzo, che c’era tra i Giudei ed i pagani, affinché vi fosse un solo gregge ed un solo pastore e avesse gloria, onore e pace chiunque opera il bene, giudeo in primo luogo e grecoc. [4.] Il significato letterale che è presente in questo brano intende mostrare che per l’Apostolo le promesse che furono fatte ad Abramo prima non possono essere distrutte per mezzo della legge, che fu data dopo, e che eventi posteriori non possono pregiudicare eventi anteriori, poiché le a Girolamo dunque si chiede se la menzione paolina dei quattrocentotrenta anni, intercorrenti tra la promessa ad Abramo sulla discendenza e la legge di Mosè, e la dichiarazione di Gen 15, 13 sui quattrocento anni di dimora dei discendenti di Abramo in terra straniera siano congruenti. b Le denominazioni utilizzate da Girolamo nella menzione di tutto l’episodio biblico sono calchi del greco della Settanta e sono diversi rispetto al testo ebraico tradotto poi nella Vulgata. c Cf. Ef 2, 14; Gv 10, 16; Rm 2, 10.
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promesse ad Abramo (che cioè in lui sarebbero stati benedetti tutti quanti i popoli) furono fatte quattrocentotrenta anni prima, l’osservanza della legge invece (che cioè chi l’avesse adempiuta sarebbe vissuto in essa) fu prescritta a Mosè sul monte Sinai quattrocentotrenta anni dopo25. Al contrario qui si potrebbe dire: che bisogno c’era dunque che la legge venisse data tanto tempo dopo la promessa, dal momento che, data la legge, poteva anche nascere il sospetto che la promessa era eliminata e che, rimanendo in vigore la promessa, venisse data la legge che però non era in grado di giovare? L’Apostolo prevedendo tale questione se lo domanda egli stesso nei versetti seguenti e spiega dicendo così:
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3,19-20 Che dunque? La legge è stata fissata contro le trasgressioni, fino alla venuta della discendenza alla quale era stata fatta la promessa, ordinata per mezzo degli angeli nelle mani del mediatore. Ora il mediatore non è di una sola parte, Dio invece è uno solo. [1.] Poiché, pur restando la promessa che era stata fatta ad Abramo, la legge, data dopo per opera di Mosè, sembrava introdotta invano, spiega perché fu data: contro le trasgressioni, dice. Infatti dopo l’offesa del popolo nel deserto, dopo l’adorazione del vitello e i lamenti contro il Signore subentrò la legge per proibire le trasgressioni: Giacché la legge non è stata stabilita per il giusto ma per gli iniqui e i non sottomessi, per gli empi e per i peccatori (1 Tm 1, 9); e, per andare più indietro, dopo il culto degli idoli al quale in Egitto si erano assoggettati in modo da dimenticare il Dio dei loro padri e da dire: Queste sono le tue divinità, o Israele, che ti hanno fatto uscire dalla terra d’Egitto (Es 32, 4). [2.] L’usanza di venerare Dio e la punizione di coloro che sbagliano sono state sancite nelle mani del mediatore Cristo Gesù, poiché tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui e niente è stato fatto senza di lui (Gv 1, 3), non solo il cielo, la terra, il mare e tutte quante le cose che vediamo, ma anche quelle che per opera di Mosè furono imposte al popolo refrattario come il giogo di una legge. È scritto anche a Timoteo: Uno solo infatti è Dio, uno solo anche il mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù (1 Tm 2, 5).
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Dopo che a motivo della nostra salvezza si è degnato di nascere dal seno della Vergine, l’uomo Cristo Gesù è stato denominato mediatore tra Dio e gli uomini26; prima invece che assumesse il corpo umano e in principio presso il Padre fosse Dio (cf. Gv 1, 1-2), Parola per tutti i santi ai quali Dio ha parlato (cioè Enoch, Noè, Abramo, Isacco e Giacobbe, e poi Mosè e tutti i profeti che la Scrittura ricorda), è denominato solamente mediatore senza l’aggiunta ‘uomo’, che non aveva ancora assunto27. [3.] L’affermazione ‘la legge ordinata per mezzo degli angeli’ richiede che si capisca che in tutto l’Antico Testamento, quando si racconta che è apparso un angelo e poi è introdotto a parlare come se fosse Dio, qualsivoglia dei numerosi ministri sia apparso è rappresentato come angelo ma in lui parla il mediatore che dice: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe (Es 3, 6). Né c’è da meravigliarsi se Dio parla negli angeli, giacché il Signore parla attraverso gli angeli che sono negli uomini, cioè nei profeti, come dice Aggeoa: Disse l’angelo che parlava in me (Zc 2, 7) e poi aggiunge: Così dice il Signore onnipotente (Zc 2, 12); né infatti l’angelo, che era stato detto fosse nel profeta, avrebbe osato dire a nome proprio: Così dice il Signore onnipotente. Dobbiamo intendere che le mani del mediatore sono la potenza e la virtù di colui che, essendo, in relazione alla condizione divina, una sola cosa con il Padre, in relazione all’ufficio di mediatore è da intendere come altro da lui. [4.] Poiché l’ordine testuale è confuso e perturbato da un iperbato, ci sembra opportuno che si debba riordinare così: la legge è stata fissata nelle mani del mediatoreb contro le trasgressioni, a
La memoria non ha sorretto Girolamo, visto che il brano che cita è in Zaccharia e non in Aggeo. b Sono intervenuto a modificare il testo latino espungendo per angelos (CC SL 77A, p. 98-99, linee 46-47). Probabilmente la riorganizzazione esplicativa del testo da parte di Girolamo ha confuso l’archetipo all’origine della tradizione, com’è segnalato dall’omissione di ‘ordinata per angelos’ (linee 47-48) da parte dei codici D E Q C A: non vi è infatti ragione di ripetere due volte ‘per angelos’ sì da turbare nuovamente l’andamento scorrevole della frase. Ho ritenuto di espungere il primo ‘per angelos’ (linee 46-47) stimando che all’origine dell’errore possa esservi stata la penetrazione di queste parole (probabilmente una glossa) nella trascrizione del testo dell’archetipo. A tale errore ha cercato di ovviare l’antigrafo di D E Q C A eliminando le successive parole ‘ordinata per angelos’. Del resto, considerando il lemma riportato nell’incipit del commento vi è un solo
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ordinata per mezzo degli angeli, fino alla venuta della discendenza alla quale era stata fatta la promessa. La discendenza invece non v’è dubbio che significhi Cristo, che anche l’esordio del Vangelo di Matteo dimostra essere il figlio di Abramo secondo le parole della Scrittura: Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo (Mt 1, 1). 3,21-23 La legge è dunque contro le promesse di Dio? Mai. Se infatti fosse stata data una legge perché potesse dare la vita, la salvezza sarebbe veramente dalla legge; ma la Scrittura ha racchiuso tutto sotto il peccato affinché in base alla fede in Cristo Gesù la promessa fosse fatta ai credenti. Invece prima che venisse la fede eravamo custoditi sotto la legge entro precisi confini per quella fede che doveva essere rivelata. [1.] Come il mediatore tra Dio e gli uomini fu in mezzo tra chi dà e chi riceve la legge, così la legge stessa, che fu data dopo la promessa, subentrò in mezzo tra la promessa e la sua realizzazione. Non si deve ritenere che essa escluda la promessa perché, venendo dopo, sembra eliminare quella che esisteva da prima, bensì è chiaro che, per il fatto che non avrebbe potuto dare la vita né fornire ciò per cui la promessa prima si era impegnata, essa è stata data a tutela della promessa, non per la sua distruzione. Se infatti fosse stata data una legge che potesse assicurare la vita e dare ciò per cui la promessa si era impegnata, veramente si sarebbe ritenuto che la promessa era stata esclusa per mezzo della legge. Ora invece, fissata, come abbiamo detto sopra (Gal 3, 19), contro le trasgressioni, con più forza rimprovera quei peccatori a tutela e a guardia dei quali, per così dire, essa era stata data dopo la promessa: dal momento che non avevano voluto aspettare innocenti la promessa per mezzo del libero arbitrio della volontà, incatenati dai ceppi della legge e sottoposti alla schiavitù
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‘per angelos’ nel versetto 19 ed inoltre le porzioni di lemma fatte oggetto delle diverse parti della spiegazione sono ‘propter transgressiones’, poi ‘in manu mediatoris’, infine ‘ordinata per angelos’, senza dunque che vi sia un commento ad una sequenza ‘lex posita est per angelos’ quale si configurerebbe nelle linee 46-47 secondo il testo dei manoscritti.
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delle prescrizioni erano custoditi per l’avvento della futura fede in Cristo, che avrebbe arrecato il compimento della promessa28. [2.] Né peraltro si deve credere che la Scrittura sia responsabile del peccato perché si dice che abbia racchiuso tutto sotto il peccato, giacché la prescrizione, che a buon diritto viene impartita, dimostra e redarguisce il peccato piuttosto che essere causa del peccato, come anche il giudice non è responsabile del delitto mettendo sotto catene i malvagi, ma li rinchiude e li giudica colpevoli con l’autorità della sua sentenza affinché in seguito l’indulgenza29 imperiale, se vorrà, assolva quelli che devono scontare una pena.
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3,24-26 Perciò la legge è stata il nostro pedagogo in Cristo Gesù affinché fossimo giustificati per mezzo della fede. Ma quando è venuta la fede, non siamo più sotto un pedagogo. Infatti siete tutti figli di Dio per mezzo della fede in Cristo Gesù. [1.] Il pedagogo è assegnato ai piccoli perché l’età della passione abbia un freno e i cuori, inclini ai vizi, siano trattenuti fintantoché la tenera infanzia è istruita con gli studi e, costretta con il timore della punizione, si prepara alle discipline superiori della filosofia e della politica. Tuttavia il pedagogo non è il maestro e il padre, né chi è istruito aspetta l’eredità o la conoscenza del pedagogo, bensì il pedagogo custodisce il figlio di un altro per allontanarsi da lui dopo che quegli sia pervenuto al tempo legittimo per ricevere l’eredità. Del resto, anche il nome di pedagogo ha proprio questo significato ed è un composto che deriva dal fatto ‘che guida i fanciulli’, cioè li conduce. Perciò la legge di Mosè fu stabilita per il popolo, che viveva licenziosamente, alla maniera di un severo pedagogo affinché li custodisse e li preparasse alla fede futura. Dopo che essa è venuta e abbiamo creduto in Cristo, non siamo più sotto un pedagogo: il tutore ed il curatore si allontanano da noi ed entrando nel tempo legittimo della nostra età siamo nominati figli di Dio, a cui ci genera non la legge abolita, ma la madre, che è la fede che è in Cristo Gesù. [2.] Se qualcuno, dopo che ha raggiunto il tempo della sua età in cui è ormai denominato erede, libero e figlio, volesse restare sotto il pedagogo, sappia di non potere vivere con le leggi di
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un bambino: dove, infatti, può più realizzare quel versetto: Tre volte all’anno ogni tuo maschio comparirà al cospetto del Signore Dio tuo (Es 23, 17), una volta che Gerusalemme è stata distrutta ed il tempio è stato ridotto in cenere? Dove i sacrifici utili per la salvezza e ad espiazione del peccato? Dove, distrutto completamente il tempio, il fuoco eterno di olocausti a somiglianza di stelle celesti? Quale pena potrà essere decretata per i colpevoli in base alle parole della Scrittura: Toglierete di mezzo il vostro male (Dt 13, 5), se i Giudei sono servi ed i Romani regnano? E così accadrà che costui non viva sotto un padre né sotto un pedagogo, dal momento che la legge non può essere adempiuta, dopo che le è successa la fede, e non possiede la fede, visto che ricerca la legge come pedagogo. 3,27-28 Quanti infatti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non vi è giudeo, né greco; non vi è servo né libero; non vi è maschio né femmina. Siete infatti tutti una sola cosa in Cristo Gesù. [1.] Dimostra in che modo nasciamo figli di Dio per mezzo della fede che è in Cristo Gesù (Gal 3, 26) dicendo: quanti infatti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Che Cristo sia la veste è dimostrato non solo dal presente passo, ma anche da un altro in cui il medesimo Paolo esorta: Rivestitevi del Signore Gesù Cristo (Rm 13, 14). Se dunque coloro che sono stati battezzati in Cristo si rivestirono di Cristo, è chiaro che coloro che non si sono rivestiti di Cristo non sono stati battezzati in Cristo. Giacché a coloro che erano ritenuti fedeli e che avevano conseguito il battesimo di Cristo è stato detto: Rivestitevi del Signore Gesù Cristo. Se qualcuno ha ricevuto soltanto questo lavacro d’acqua fisico e visibile con gli occhi della carne, non si è rivestito del Signore Cristo Gesù. Infatti anche il Simone degli Atti degli Apostoli aveva ricevuto un lavacro di acqua (cf. At 8, 9-24), ma poiché non aveva lo Spirito Santo non si era rivestito di Cristo; anche gli eretici o gli ipocriti e coloro che vivono in modo spregevole ricevono all’apparenza il battesimo, ma non so se abbiano la veste di Cristo. Pertanto consideriamo se per caso anche in mezzo a noi non sia sorpreso qualcuno che non si dimostri battezzato in Cristo perché non ha la veste di Cristo.
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[2.] Una volta, invece, che uno si sia rivestito di Cristo e, immesso nella fiamma dello Spirito Santo, sia diventato incandescente grazie al calore non si capisce più se sia oro o argento: finché il calore avvolge la massa, vi è l’unico colore del fuoco, ogni differenza di genere, di condizione e di corpi è eliminato da questo tipo di rivestimento. Giacché non vi è giudeo, né greco: per greco dobbiamo intendere i pagani, poiché ‘hellēn’ significa l’uno e l’altro, sia greco sia pagano. Né il giudeo è migliore perché è stato circonciso, né i pagani sono peggiori perché hanno il prepuzio; bensì in relazione alla qualità della fede il giudeo o il greco è migliore o peggiore. Anche il servo ed il libero non sono distinti per la condizione ma per la fede, poiché anche il servo può essere migliore del libero ed il libero può superare il servo nella qualità della fede. Similmente il maschio e la femmina sono distinti per la forza e la debolezza dei corpi; ma la fede è apprezzata in rapporto alla devozione del cuore e spesso accade sia che la moglie sia motivo di salvezza per il marito sia che il marito superi la moglie in religiosità. [3.] Poiché è questa la situazione e tutta quanta la differenza di genere, di condizione e dei corpi è annullata dal battesimo di Cristo e dalla sua veste, tutti siamo una sola cosa in Cristo Gesù affinché come il Padre ed il Figlio sono in sé una sola cosa, così anche noi siamo una sola cosa in loro (cf. Gv 17, 11). 3,29 Se di Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa. [1.] Poiché le promesse furono fatte ad Abramo ed alla sua discendenza, che è Cristo Gesù, di conseguenza anche coloro che sono figli di Cristo, cioè la sua discendenza, sono chiamati discendenza di Abramo, del quale sono seme da seme. Ma tutte le volte che il Signore nostro Gesù è nominato discendenza di Abramo, bisogna intendere in senso fisico che è generato dalla sua stirpe; tutte le volte invece che noi, accolta la parola del Salvatore, abbiamo creduto in lui e abbiamo ricevuto la nobiltà del genere di Abramo, al quale fu fatta la promessa, dobbiamo intendere in senso spirituale la discendenza della fede e della predicazione. [2.] Quindi bisogna considerare anche il fatto che quando si riferisce al Signore, ad Abramo sono state fatte le promesse e alla
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sua discendenza (Gal 3, 16), cioè Cristo Gesù, parla al plurale di promesse; quando invece si riferisce a coloro che per mezzo di Cristo sono discendenza di Abramo, parla al singolare di promessa, come in questo passo: allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa. Giacché era conveniente che quel che era detto nel solo Cristo al plurale fosse posto al singolare in molti uomini. Segue: 4,1-2 Del resto io dico: per tutto il tempo in cui l’erede è fanciullo, in niente differisce dal servo pur essendo padrone di tutto, ma fino al tempo stabilito dal Padre è sotto i tutori e gli amministratori. [1.] Questo erede fanciullo che in niente differisce dal servo pur essendo padrone di tutto ma fino al tempo stabilito dal Padre è sotto i tutori e gli amministratori rappresenta tutto quanto il genere umano fino alla venuta di Cristo e, per dire di più, fino alla fine del mondo. Come infatti tutti muoiono nel protoplasto Adamo prima ancora di nascere, così anche tutti coloro che sono nati prima della venuta di Cristo sono vivificati nel secondo Adamo; e così accade che anche noi siamo stati asserviti alla legge nei padri e quelli siano salvati dalla grazia nei figli (1 Cor 15, 22). Questo modo d’intendere è adatto alla chiesa cattolica, che asserisce l’unico disegno dell’Antico e del Nuovo Testamento né distingue nel tempo coloro che ha associato nella condizione30. Tutti siamo stati edificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti, poiché ci tiene uniti la pietra angolare Cristo Gesù (cf. Ef 2, 20) nostro Signore che ha fatto dei due una sola cosa ed abbattendo la parete intermedia ha distrutto nella sua carne l’inimicizia tra l’uno e l’altro popolo (cf. Ef 2, 14) ed ha trasformato la difficoltà dell’antica legge con la pienezza della dottrina evangelica. Davvero in Cristo siamo tutti un solo pane e in due sulla terra ci siamo trovati d’accordoa. E come noi siamo stati costituiti sui profeti, così anche i patriarchi furono costituiti sul fondamento degli apostoli. [2.] È possibile intendere che i tutori e gli amministratori siano sia i profeti, grazie alle cui parole ogni giorno eravamo preparati alla venuta del Salvatore, secondo la spiegazione data in a
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Cf. 1 Cor 10, 17; Mt 18, 19.
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precedenzaa per cui la legge di Mosè ha un valore pedagogico, sia gli angeli dei fanciulli che ogni giorno vedono il volto del Padre (cf. Mt 18, 10) e pregano per coloro dei quali è stato detto: L’angelo del Signore entrerà nel cerchio di coloro che lo temono e li salverà (Sal 34, 8). Si dice giustamente che sono sotto i tutori e gli amministratori coloro che, pur avendo lo spirito di timore, non hanno ancora meritato di ricevere lo spirito di libertà e di adozione (cf. Rm 8, 15). I fanciulli infatti hanno paura dinanzi al male, temono il pedagogo, non ritengono di essere liberi benché per natura siano padroni. Ora in base all’uno e all’altro modo d’intendere, per cui abbiamo detto che i tutori e gli amministratori sono o i profeti o gli angeli, questo fanciullo rimane così a lungo sotto i tutori e gli amministratori fino a che non abbia raggiunto l’età legittima di uomo maturo (cf. Ef 4, 13). [3.] L’età legittima, come secondo le leggi romane si raggiunge a venticinque anni, così per il compimento del genere umano è considerata la venuta del Signore: non appena quello è venuto e tutti siamo cresciuti fino a diventare maturi, il pedagogo ed il tutore si allontanano da noi; in quel momento godiamo fino in fondo dell’autorità di padroni e del possesso dell’eredità: prima, pur nati in essa, eravamo considerati estranei31. 106
4,3 Così anche noi, mentre eravamo fanciulli, eravamo servi sotto gli elementi di questo mondo. [1.] Ha denominato elementi di questo mondo i medesimi che sopra aveva chiamato tutori ed amministratorib, poiché un tempo, costituiti Cf. In Gal. 2, 3, 24-26, 1. Nella spiegazione a Gal 4, 1-2, Girolamo aveva proposto due possibili piste ermeneutiche per intendere le parole paoline ‘i tutori e gli amministratori’, ovverosia, da un lato, tutori e amministratori sarebbero i profeti e la legge di Mosè, che hanno una funzione pedagogica e tutoriale del popolo di Dio fino alla venuta salvifica di Cristo, dall’altro, gli angeli, che stanno al cospetto di Dio ed intercedono per gli uomini. Associando dunque gli elementi di questo mondo ai tutori e amministratori Girolamo estende anche agli elementi del mondo le due possibilità ermeneutiche individuate per tutori e amministratori e chiarisce in che modo sia possibile spiegare che gli elementi di questo mondo sarebbero o gli angeli o i profeti e la legge di Mosè. La spiegazione che fa dei profeti e della legge gli elementi di questo mondo sembra essere, però, più gradita a Girolamo, il quale, accingendosi nel paragrafo 3 a spiegare ‘di questo mondo’ dichiara esplicitamente: “poiché abbiamo interpretato elementi del mondo come la legge ed i profeti”. a
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sotto questi presidi in quanto non potevamo ancora ricevere la venuta del figlio di Dio, eravamo istruiti nel mondo. Alcuni32 ritengono che gli angeli sono coloro che presiedono ai quattro elementi del mondo (cioè terra, acqua, fuoco ed aria) e che sia necessario che prima che qualcuno creda in Cristo sia retto sotto il loro arbitrio. I più pensano che siano denominati elementi del mondo il cielo e la terra e le cose che sono dentro questi, chiaramente perché i sapienti greci e le nazioni barbare ed i Romani, sentina di tutte le superstizioni, venerano il sole, la luna, i mari e gli dei delle selve e dei monti; dai quali, quando è venuto Cristo, siamo liberati perché comprendiamo che essi sono creature e non divinità33. [2.] Altri intendono che elementi del mondo sono la legge di Mosè e le parole dei profeti, giacché grazie a queste, quasi come gli inizi e i rudimenti dell’alfabeto, riceviamo il timore di Dio, che è il principio della sapienza (cf. Pr 1, 7)34. In sostanza l’Apostolo, nella lettera agli Ebrei, scrive a coloro che avrebbero dovuto essere già perfetti e, tralasciata la verità, restavano ancora attaccati ai principi della dottrina: Infatti, benché dovreste essere maestri in ragione del tempo trascorso, avete ancora bisogno di essere istruiti sui primi elementi degli oracoli di Dio (Eb 5, 12). Al contrario, qualcuno ci può sollevare l’obiezione che l’apostolo Paolo, scrivendo ai Colossesi, abbia denominato elementi del mondo altre cose affermando: Badate che qualcuno non v’inganni con la filosofia e con vuoti raggiri secondo la tradizione degli uomini, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo (Col 2, 8). Tuttavia, aggiungendo ‘secondo la tradizione degli uomini’ e ‘vuoti raggiri’, dimostra che non vengono designati i medesimi elementi nelle epistole ai Colossesi e ai Galati: poiché da questi elementi menzionati ai Galati siamo liberati quando è venuta la pienezza del tempo e salendo a beni più grandi riceviamo l’adozione di figli (cf. Gal 4, 4-5); da quelli dell’epistola ai Colossesi, invece, non si dice che segua alcunché di simile, ma semplicemente gli elementi s’intendono nel senso di lettere. Dunque, come abbiamo detto, la legge di Mosè e i profeti possono essere intesi come gli elementi delle lettere, poiché per mezzo delle lettere si congiungono sillabe e nomi e le lettere
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vengono apprese non tanto per un’utilità intrinseca ma in vista di un’altra realtà, affinché possiamo leggere un discorso elaborato, nel quale sono considerati il senso e la disposizione delle parole piuttosto che i caratteri delle lettere. [3.] Poiché abbiamo interpretato elementi del mondo come la legge ed i profeti, ‘mondo’ suole essere inteso in luogo di coloro che sono nel mondo come dice il medesimo Paolo: Dio era in Cristo riconciliando il mondo a sé (2 Cor 5, 19), e nel Vangelo: Ed il mondo è stato fatto per mezzo di lui ed il mondo non lo ha accolto (Gv 1, 10). Alcuni spaziano più liberamente verso quegli argomenti per capire se, poiché la legge ha l’ombra dei beni futuri, in un altro mondo, del quale il Salvatore dice: Io non sono di questo mondo (Gv 8, 23), dapprima siamo fanciulli e, posti sotto gli elementi degli inizi, a poco a poco avanziamo fino al vertice e riceviamo il luogo d’adozione che un tempo abbiamo perduto35. 108
4,4-5 Ma quando giunse la pienezza del tempo Dio mandò suo figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riacquistare coloro che erano sotto la legge, affinché riottenessimo l’adozione a figli. [1.] Badate attentamente che non ha detto nato per mezzo di donna (ciò che affermano Marcione e le altre eresie che inventano la carne putativa di Cristo36), ma da donna37 affinché si creda che non per mezzo di quella ma da quella è nato38. Quanto invece al fatto che abbia chiamato la santa e beata madre del Signore ‘donna’ non ‘vergine’a, la stessa cosa è scritta anche nel Vangelo secondo Matteo, quando è chiamata moglie di Giuseppe ed è rimproverata dal Signore medesimo con la denominazione di donnab. Non era necessario dire sempre ‘vergine’ in modo per così dire cautelativo e timoroso, giacché ‘donna’ ha il significato di genere sessuale piuttosto che di unione con un uomo ed in base alle modalità di traduzione dal greco ‘gynē’ può essere inteso sia come ‘moglie’ sia come ‘donna’39. [2.] Ma, a prescindere da tutto questo, come a Ovviamente per comprendere al meglio le parole di Girolamo è necessario intendere che qui mulier (‘donna’) vale come ‘donna sposata’, ‘donna ormai nelle condizioni di consumata verginità’. b Cf. Mt 1, 18; Lc 2, 5; Gv 2, 4.
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nacque sotto la legge per riacquistare coloro che erano sotto la legge, così a causa di coloro che erano nati da donna volle nascere da donna. Infatti perciò ricevette il battesimo nel fiume Giordano per così dire da penitente, pur essendo libero da peccati, per insegnare a tutti la necessità della purificazione per mezzo del battesimo e della generazione a figli con la nuova adozione dello spirito40. Giovanni Battista non comprendendo questo gli proibiva di avvicinarsi all’acqua dicendo: Sono io che devo essere battezzato da te (Mt 3, 14); e subito riceve l’insegnamento del sacramento: Lascia fare per ora, perché così conviene che noi adempiamo ad ogni giustizia (Mt 3, 15), perché colui che era venuto per la salvezza degli uomini non tralasciasse niente riguardo le abitudini umane. [3.] Qualcuno potrebbe investigare e dire: se nacque sotto la legge per riacquistare coloro che erano sotto la legge perché evidentemente sarebbe stato impossibile che venissero riacquistati coloro che erano sotto la legge se egli stesso non fosse nato sotto la legge, o nacque senza la legge per riacquistare coloro che non erano sotto la legge o se non nacque egli stesso senza la legge non ha riacquistato coloro che non erano sotto la legge, giacché se era possibile che coloro che erano senza la legge fossero riacquistati cosicché egli non nascesse senza la legge, allora è superfluo ‘nacque sotto la legge per riacquistare coloro che erano sotto la legge’. [4.] Se uno usa quella citazione ‘e fu annoverato tra coloro che erano senza legge’ (Lc 22, 37; Is 53, 12), risolverà brevemente la questione: infatti benché nei codici latini è stato tradotto malamente ‘e fu annoverato tra i malfattori’ per un’ingenuità degli interpreti, tuttavia bisogna sapere che uno è presso i Greci il significato che qui è usato di ‘anomon’, un altro di ‘adikon’ che si trova nei testi latini41; ‘anomos’ si dice infatti di colui che è senza legge e non è controllato da alcuna forma di diritto; ‘adikos’ invece significa sia iniquo sia ingiusto. Per cui l’Apostolo stesso in un altro passo dice. Pur non essendo senza la legge di Dio, tuttavia sono nella legge di Cristo (1 Cor 9, 21), e certamente anche in questo brano nel testo greco c’è scritto ‘anomos’, e chi ha tradotto bene qui avrebbe potuto interpretare anche lì allo stesso modo la medesima parola se non si fosse lasciato ingannare dall’ambiguità.
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[5.] Un altro esegeta invece considererà più attentamente la parola riacquistare e dirà che s’intende che sono stati riacquistati coloro che in un primo momento furono dalla parte di Dio e poi smisero di esserlo, quelli invece che non furono sotto la legge non sono ‘riacquistati’ piuttosto sono ‘acquistati’; per cui scrive ai Corinzi, presso i quali si sentiva dire che vi era fornicazione ed un tale livello di fornicazione quale non si registrava neppure tra i pagani (cf. 1 Cor 5, 1): Siete stati acquistati a caro prezzo (1 Cor 6, 20; 7, 23), non ‘riacquistati’, giacché non erano stati sotto la legge. Abbiamo dunque riottenuto l’adozione a figli di Dio e riacquistati da Cristo abbiamo smesso di essere sotto la servitù degli elementi del mondo e sotto il potere dei tutori. Come d’altra parte abbiamo mostratoa quale differenza c’era tra ‘riacquistare’ ed ‘acquistare’, così apprezziamo quale differenza c’è tra ‘ottenere’ e ‘riottenere’ l’adozione a figli. 4,6 Poiché siete figli di Dio, Dio ha mandato lo spirito del Figlio suo nei nostri cuori che grida: “Abbà, padre”. [1.] L’apostolo Paolo nomina apertamente tre spiriti: lo spirito del Figlio di Dio come nel presente versetto, ha mandato lo spirito del Figlio suo nei nostri cuori, e lo spirito di Dio come nel versetto: Quanti sono condotti dallo spirito di Dio sono figli di Dio (Rm 8, 14), e lo Spirito Santo come in quel versetto: I vostri corpi sono tempio dello Spirito Santo che è in voi (1 Cor 6, 19). È dimostrato chiaramente anche nel Vangelo che lo Spirito Santo è diverso dal Figlio di Dio: Chi parlerà contro il Figlio dell’uomo, gli sarà perdonato. Chi invece parlerà contro lo Spirito Santo non gli sarà perdonato né ora né in futuro (Mt 12, 32). [2.] Dico questo perché molti per imperizia riguardo le Scritture (ciò accade anche a Firmiano nell’ottavo libro delle Epistole a Demetriano42) affermano che spesso è denominato Spirito Santo il Padre, spesso il Figlio e, dal momento che chiaramente crediamo nella trinità, eliminando la terza persona asseriscono con forza che ne esiste non la sostanza ma il nome. Per non farla lunga (non scrivo infatti un dialogo ma un commentario) a
Cf. In Gal. 2, 3, 13a, 1.
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dimostrerò brevemente sulla base del cinquantesimo Salmo che sono tre gli spiriti nominati secondo le parole del profeta: Crea in me un cuore puro, o Dio, e rinnova lo spirito di rettitudine nelle mie viscere. Non allontanarmi dal tuo volto e non privarmi dello Spirito Santo. Dammi la gioia della salvezza e rafforzami con il sommo spirito (Sal 51, 12-14). Chiama il Padre sommo spirito poiché il Figlio è dal Padre e non il Padre dal Figlio; intende Cristo Signore come spirito retto di verità e di giustizia poiché il Padre ha dato ogni giudizio al Figlio: Dio, da’ al re il tuo giudizio ed al figlio del re la tua giustizia (Sal 72, 1); infine denomina con chiarezza lo Spirito Santo. Queste tre entità, benché diverse nei nomi e nelle persone, sono associate per sostanza e natura e indifferentemente il medesimo spirito per la comunanza di natura si dice che sia ora del Padre, ora del Figlio. [3.] Chiude con tale conclusione l’argomento che si sforza di portare avanti, cioè che noi non siamo più sotto la legge ma sotto la grazia del Signore Gesù: precedentemente aveva detto ‘affinché riottenessimo l’adozione a figli’ (Gal 4, 5), ora dimostra che noi siamo figli di Dio grazie allo spirito che abbiamo in noi. Non oseremmo mai dire, afferma, Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome (Mt 6, 9), se non grazie alla coscienza dello spirito che abita in noi e grazie alla voce potente di idee e dottrine che grida: “Abbà, Padre”. Abbà è espressione ebraica che ha il medesimo significato di Padre. In molti brani la Scrittura ha proprio quest’abitudine di porre accanto il termine ebraico con il suo significato: Bartimeo, figlio di Timeo, Aser, ricchezze, Tabità, gazzella, e, nella Genesi, Mesech, domestico, ed altre parole simili a questea. Poiché in lingua ebraica e siriaca padre si dice ‘abbà’ ed il Signore nostro insegna nel Vangelo che non bisogna chiamare nessuno padre se non Dio (cf. Mt 23, 9), non so con quale licenza nei monasteri noi chiamiamo con tale denominazione altre persone ovvero ci lasciamo chiamare noi così. E certo dà questo tipo di insegnamento colui che aveva detto che non bisogna giurare (cf. Mt 5, 34): se non giuriamo, a
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Cf. Mc 10, 46; Gen 30, 13; At 9, 36; Gen 15, 3.
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neppure dobbiamo chiamare qualcuno padre; se daremo una diversa interpretazione di padre, allora saremo costretti ad interpretare diversamente anche a proposito del giuramento. [4.] Bisogna anche notare che nella Scrittura ‘clamore’ non è un’emissione di una voce forte, bensì s’intende la potenza della scienza e della dottrina. Infatti anche nell’Esodo il Signore rispose a Mosè: Perché gridi verso di me? (Es 14, 15) nonostante Mosè non avesse emesso alcuna voce: ma evidentemente la Scrittura ha chiamato ‘clamore’ un cuore compunto e che emette gemiti e lacrime in favore del popolo. Come dunque colui che ha lo spirito del Figlio di Dio è figlio di Dio, così in modo reciproco colui che non ha lo spirito del Figlio di Dio non può essere chiamato figlio di Dio.
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4,7 Pertanto non è più servo ma figlio; anzi se figlio, anche erede grazie a Dio. [1.] Possedendo, dice, lo spirito del Figlio di Dio che grida in voi “Abbà, Padre” avete cominciato ad essere non servi bensì figli, poiché in precedenza non differivate in niente da un servo, pur essendo per natura padroni, ma vivevate come fanciulli sotto i tutori e gli amministratori (Gal 4, 2). Anzi se siete figli, conseguentemente a voi è dovuta anche l’eredità (cf. Rm 8, 17) affinché, come ricevendo lo spirito del Figlio di Dio siete diventati figli di Dio, così condotti dalla schiavitù alla libertà siate eredi con Cristo Gesù erede del Padrea, che parla nel Salmo attraverso la condizione dell’uomo assunto: il Signore mi ha detto: tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato. Chiedi e ti darò le genti, tua eredità, ed il tuo possesso, i confini della terra (Sal 2, 7-8). [2.] Dobbiamo osservare anche in tutti gli altri versetti quel che diciamo in questo, cioè che si parla al singolare di tutto il genere umano. Infatti tutti i credenti siamo una sola cosa in Cristo Gesù e, membra del suo corpo e ricondotti all’uomo perfetto, abbiamo lui come capo, poiché il capo dell’uomo è Cristob. a b
Cf. Rm 8, 21; Rm 8, 17. Cf. Rm 12, 5; Ef 4, 13; 1 Cor 11, 3.
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LIBRO SECONDO, 4,6 – 4,8-9
4,8-9 Ma un tempo ignorando Dio eravate asserviti ad esseri che per natura non erano dei; ora invece conoscendo Dio, anzi, meglio, conosciuti da lui, come mai vi rivolgete di nuovo agli elementi deboli e poveri, dei quali volete essere di nuovo servi? [1.] Rimprovera i Galati, che aveva riportato dal culto degli idoli alla fede del vero Dio: come mai, dopo aver abbandonato gli idoli, che per natura non erano dei, e conoscendo Dio, anzi, meglio, conosciuti da lui, dopo aver ricevuto anche lo spirito di adozione, desiderando essere di nuovo quasi come fanciulli sotto i tutori ed il pedagogo, ritornano agli elementi deboli e bisognosi, che nel deserto furono dati al popolo debole e privo di intelligenzaa, perché non erano in grado di ricevere e sostenere i beni più grandi? [2.] I medesimi elementi che ora ha chiamato deboli e poveri sopra ha semplicemente definito elementi del mondo; e dove sono stati denominati elementi del mondo, lì non è stato aggiunto deboli e poveri. Qui invece, dove sono stati chiamati deboli, è stato taciuto, come detto in precedenza, il termine ‘mondo’. Penso quindi che finché qualcuno è fanciullo e non ha completato il tempo fissato dal Padre perché possa essere chiamato figlio ed erede, è sotto gli elementi del mondo, cioè la legge di Mosè43. Quando invece dopo la libertà, l’adozione e l’eredità dovuta al figlio questi è ritornato nuovamente alla legge volendo essere circonciso e volendo ad ogni costo seguire alla lettera la superstizione giudaica, allora quelli che per lui prima erano soltanto elementi del mondo vengono chiamati anche inizi deboli e poveri. Infatti niente giovano a chi li coltiva al punto che non sono in grado di dare ad essi neppure ciò che prima avevano fornito, giacché Gerusalemme, il tempio e l’altare sono stati distrutti.
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Per rendere più solida la scelta della lezione dei codici, cioè ‘poterant’, che è difficilior rispetto al poterat degli editori precedenti l’edizione CC SL 77A, è utile inserire nel testo latino (come nella traduzione) una virgola tra deserto e quia: diviene così più evidente che propterea non è prolettico rispetto a quia, che svolge la propria normale funzione di connettivo causale il cui verbo (poterant) non ha per soggetto populus bensì i Galati dei quali Girolamo nel contesto sta ragionando.
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[3.] Qualcuno può rispondere e dire: se la legge ed i precetti che sono stati scritti nella legge sono elementi deboli e poveri e coloro che hanno conosciuto Dio, anzi, meglio, sono stati conosciuti da lui, non devono osservare la legge (per evitare non tanto di onorare Dio, dal quale sono stati conosciuti, quanto di ritornare ad esseri che per natura non sono dei), allora o Mosè ed i profeti osservarono la legge e non hanno conosciuto Dio né sono stati conosciuti da lui o, se hanno conosciuto Dio, non hanno adempiuto alle prescrizioni della legge. È pericoloso affermare l’una e l’altra cosa, o che quelli non hanno fatto quel che prescrive la legge e così hanno conosciuto Dio oppure che non hanno conosciuto Dio giacché custodivano gli elementi deboli e poveri della legge. [4.] Questa faccenda si può risolvere dicendo che quelli, così come Paolo si fece giudeo con i Giudei per guadagnare i Giudei e a Cencre si tagliò la chioma a causa di un voto e al tempio a Gerusalemme fece la processione a piedi nudi e si rasò per sedare l’ostilità di coloro che erano stati imbeccati su di lui che agiva contro la legge di Mosè e contro il Dio delle profeziea, allo stesso modo pure i santi uominib hanno certo fatto quel che prescrive la legge ma hanno seguito il senso della legge piuttosto che la lettera. Essi non meno di Abramo, tolto via il velo dal volto, desiderarono vedere il giorno di Cristo e lo videro e si rallegraronoc; fattisi deboli con il popolo debole per guadagnare i deboli e con coloro che erano sotto la legge quasi che fossero essi stessi sotto la legge per distoglierli dagli idoli ai quali si erano asserviti in Egitto. Giacché è assurdo che Mosè e gli altri interlocutori di Dio (cf. Es 33, 11) fossero in una condizione tale da farci ritenere che non sia giunto anche per Cf. 1 Cor 9, 20; At 18, 18; At 21, 21-26. Nell’originale latino prevale l’andamento frammentario ed un po’ confuso tipico del parlato (e del dettato, in particolare). Dopo ‘illos’ non segue il verbo dell’infinitiva, bensì una lunga incidentale nel quale lo Stridonense si sofferma sull’esempio rappresentato dalla condotta paolina; alla ripresa della proposizione che il commentatore aveva lasciato in sospeso, si rende necessario ribadire il soggetto di cui si sta ragionando, cioè i ‘sancti viri’, benché questo generi una ripetizione stilisticamente sconveniente. La traduzione italiana rende questa situazione senza però cadere nell’oscurità o nella mancanza di una certa coesione del brano. c Cf. Es 34, 33; 2 Cor 3, 15; Gv 8, 56. a
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loro il tempo fissato dal Padre e che non siano stati redenti dalla servitù della legge e non abbiano conseguito l’adozione a figli né abbiano ricevuto l’eredità con Cristo. Infatti tutte le cose che la sapienza di Dio ha dato a tutto il genere umano come ad un unico figlio, le ha elargito sempre a ciascuno dei santi per suo ordine e disposizione. [5.] Poiché noi diciamo che gli elementi deboli e poveri sono la legge di Mosè gli eretici trovano l’occasione per screditare il Creatore che ha fondato il mondo e ha sancito la legge. Ai quali noi risponderemo quel che abbiamo detto sopra: gli elementi sono deboli e poveri a causa di coloro che si rivolgono ad essi dopo la grazia del Vangelo. Prima che venisse il tempo fissato dal Padre, non sono denominati elementi deboli e poveri quanto piuttosto elementi del mondo. Infine, prima che risplendesse in tutto il mondo il Vangelo di Cristo, i precetti della legge ebbero un loro fulgore; dopo invece che brillò la luce più grande della grazia evangelica ed il sole di giustizia si mostrò a tutto il mondo, la luce delle stelle rimase nascosta ed i loro raggi furono oscurati cosicché l’Apostolo dice in un altro brano: Infatti sotto quest’aspetto ciò che è stato glorificato non è glorificato a causa della gloria sovraeminente (2 Cor 3, 10). Ciò ora asserisce in altre parole per dire: la legge di Mosè, che prima del Vangelo fu ricca e opulenta e illustre, dopo la venuta di Cristo fu in confronto a lui sminuita e distrutta quasi come debole e povera da colui che fu più grande di Salomone e del tempio e di Gionaa. Quel che è stato scritto: egli deve crescere, io invece diminuire (Gv 3, 30), non penso che sia stato detto da parte di Giovanni quanto della legge, poiché sempre i beni inferiori cedono a quelli superiori e le cose giunte al traguardo sono anteposte a quelle che iniziano. [6.] In un altro senso confermeremo gli elementi deboli e poveri come le tradizioni giudaiche e la vile comprensione letterale, che sono i riti non buoni ed i precetti non buoni (cf. Ez 20, 25). Poiché l’intelligenza spirituale della legge è salda e ricca, conseguentemente o non deve essere chiamata del tutto elemento o è elemento se la confrontiamo con il secolo futuro a
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Cf. Mt 12, 41-42; Mt 12, 6.
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e con la vita in Cristo Gesùa, nella quale ora vivono gli angeli e le virtù celesti. Paragonata al modo di intendere giudaico bisogna chiamarla non tanto elemento, cioè principio, quanto compimento. [7.] Il versetto ‘ora invece conoscendo Dio, anzi, meglio, conosciuti da lui’ dimostra che i Galati dopo il culto degli idoli hanno conosciuto Dio o piuttosto essi sono stati giudicati degni di conoscerlo. Non perché Dio, creatore di tutte le cose, ignori qualcosa, ma perché si dice che lo conoscono soltanto coloro che hanno abbandonato l’errore con la devozione. Il Signore conosce coloro che gli appartengono (2 Tm 2, 19), ed il Salvatore nel Vangelo: Io sono, dice, il buon pastore e conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me (Gv 10, 14); al contrario verso gli empi: Non vi conosco, allontanatevi da me, operatori d’iniquità (Lc 13, 27), e alle vergini stolte: Non so chi siete (Mt 25, 12). 4,10-11 Osservate i giorni ed i mesi e le stagioni e gli anni! Ho timore per voi di aver forse lavorato senza motivo nei vostri riguardi. [1.] Chi non adora il Padre in spirito e verità non conosce il sabatismo riservato ai santib, del quale Dio dice: Se entrassero nella mia quiete (Sal 95, 11), e non si ricorda di quei giorni dei quali è stato scritto: Ricordatevi i giorni dell’eternità (Is 46, 9) e altrove: Mi sono ricordato dei giorni antichi ed ebbi in mente gli anni dell’eternità (Sal 77, 6); costui osserva i giorni giudaici ed i mesi e le stagioni e gli anni. I giorni come i sabati e i noviluni e la festività a partire dal decimo giorno del primo mese fino al quattordicesimo, in occasione della quale è riservato come vittima l’agnello di carne, e dal quattordicesimo al ventunesimo giorno del medesimo mese, allorquando vengono consumati gli azzimic non di sincerità e verità bensì come lievito per l’antica malizia e la malvagità dei Fariseid. Chi calcola secondo il rito giudaico sette settimane doa Per comprendere questa asserzione bisogna tenere presente che Girolamo intende elementum nel senso di ‘principio, inizio’. b Cf. Gv 4, 23; Eb 4, 9. c Cf. Es 12, 3-6.18-20. d Con preciso riferimento al capitolo 12 dell’Esodo è qui descritta da Girolamo la principale festa ebraica ‘Pesach’, la Pasqua, che ha luogo nel mese di
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po gli azzimi onora anche i giorni della Pentecoste israeliticaa; nondimeno osservano i giorni ebraici anche coloro che al settimo mese proclamano, secondo l’uso, gli squilli di tromba il primo giorno del mese nonché, il decimo giorno del medesimo mese, l’espiazione, il digiuno e i tabernacolib. Custodiscono invece i mesi quanti, senza comprendere il mistero di verità, osservano il primo ed il settimo mese44. Onorano anche le stagioni quanti, venendo a Gerusalemme tre volte ogni anno, pensano di adempiere il precetto del Signore che dice: Celebratemi un giorno di festa tre volte all’anno: la solennità degli azzimi e la solennità delle primizie e la solennità del raccolto alla fine dell’anno (Es 23, 1416); e altrove: Tre volte all’anno ogni tuo maschio comparirà al cospetto del Signore Dio tuo (Es 23, 17). Poiché parla anche di anni, penso che si tratti del settimo anno dedicato al perdono e del cinquantesimo, che essi chiamano giubileoc. [2.] L’Apostolo spiega più ampiamente questo brano nell’epistola ai Colossesi dicendo: Nessuno dunque vi giudichi in fatto di cibo o di bevanda o di un’occasione di festa o di noviluni o di sabati, che sono ombra delle future realtà (Col 2, 16-17). Ha posto qui ‘un’occasione di
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Nissan, cioè il primo mese dell’anno secondo il calendario postesilico di origine babilonese, corrispondente a marzo-aprile: la festa dura 7 giorni, ovverosia fino al 21 dello stesso mese e prevede che vengano mangiati azzimi per 7 giorni in ricordo del fatto che il popolo di Israele lasciò l’Egitto precipitosamente e la pasta di pane preparata non ebbe il tempo di lievitare, ma venne cotta come matzah, cioè pane non lievitato: indicazioni che trovano conferma nel testo geronimiano. a Cf. Lv 23, 15-21; Dt 16, 9-12. Girolamo allude alla festa di ‘Shavuot’, la festa delle Settimane, o della Pentecoste, che cade al termine del conteggio dell’Omer, un periodo di sette settimane, attualmente 50 giorni, contati partendo dal primo giorno di Pesach. All’inizio di questo periodo, al Sacro Tempio veniva offerto un ‘omer’ (unità di misura biblica) del primo raccolto di orzo, e al termine, sette settimane dopo, un omer del primo raccolto di frumento: da queste “settimane” la festa ha assunto il nome. b Cf. Lv 23, 23-25.27-32.34-36. Lo Stridonense procede sintetizzando tre festività: innanzitutto ‘Rosh Hashanah’, il Capodanno ebraico, che Girolamo poco prima aveva evocato come neomenie: tale festività cade il primo del mese di Tishrei (il settimo mese) che viene a coincidere con la fine di Settembre e l’inizio di Ottobre; lo ‘Yom Kippur’, il Giorno dell’Espiazione, giorno di digiuno e preghiera, celebrato il 10 di Tishrei, cioè 10 giorni dopo Rosh Hashanah; infine ‘Sukkot’, detta anche Festa delle Capanne o Festa dei Tabernacoli, la terza festa ebraica del mese di Tishrei: dura per 7 giorni, dal 15 al 21 di Tishrei. c Sul giubileo si veda nel primo libro la nota e in 1,4-5, 4.
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festa’ a distinzione della festività perpetua in modo che consideriamo non una breve e, per così dire, piccola parte di tutto quanto l’essere ma tutto lo spazio della nostra vita come spazio della perpetua solennità in Cristo. E per collegare gli argomenti precedenti a quelli successivi, subito nella medesima epistola aggiunge quel che pensa della legge di Mosè e dell’eccessivo zelo per i cibi e afferma: Se infatti siete morti con Cristo rispetto agli elementi di questo mondo, perché fate prescrizioni come se ancora viveste in questo mondo: “Non prendere, non gustare, non toccare”, che sono tutte destinate a scomparire con l’uso medesimo, assecondando i precetti e le dottrine degli uomini? (Col 2, 20-22) [3.] Qualcuno può dire: se non è giusto osservare i giorni ed i mesi e le stagioni e gli anni, anche noi incorriamo in una colpa simile onorando l’ora quarta del sabato e la parasceve e la domenica ed il digiuno quaresimale e la festa di Pasqua e la gioia della Pentecoste e le feste stabilite in onore dei martiri in base alla diversità dei luoghi. Chi vorrà rispondere in modo semplice a tale questione dirà che i giorni dell’osservanza giudaica non sono i medesimi dei nostri; infatti noi non celebriamo la Pasqua degli azzimi, ma della risurrezione e della croce, né a Pentecoste contiamo secondo l’uso ebraico sette settimane, ma veneriamo la discesa dello Spirito Santo. E per evitare che un raduno disordinato del popolo possa sminuire la fede in Cristo, sono stati fissati alcuni giorni in modo che tutti potessimo convenire contemporaneamente nel medesimo luogo; non perché sia più affollato il giorno in cui ci raduniamo, bensì perché in qualunque giorno ci si deve radunare nasca una gioia più grande anche grazie al reciproco incontro. [4.] Chi invece cerca di rispondere alla questione proposta in modo più approfondito45 sostiene che tutti i giorni sono uguali e Cristo non è stato crocifisso solo durante la parasceve e risorge di domenica, ma sempre per il santo è giorno di resurrezione e sempre egli si nutre del pasto domenicale; invece i digiuni e le assemblee distanziate nei giorni sono state stabilite dai saggi a causa di coloro che sono dediti più al mondo che a Dio e non possono, anzi non vogliono, stare costantemente adunati in chiesa ed offrire a Dio, prima delle azioni umane, il sacrificio delle
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loro preghiere. In effetti, quante sono oggi le persone che praticano con continuità almeno questi pochi momenti che sono stati stabiliti o per pregare o per digiunare? Perciò come a noi è consentito di digiunare sempre o di pregare sempre e di celebrare, ricevuto il corpo del Signore, incessantemente nella gioia il giorno domenicale non altrettanto è lecito in ogni momento per i Giudei immolare l’agnello, celebrare la Pentecoste, fare la festa delle Capanne, digiunare quotidianamente. [5.] Ha pesato le parole abbastanza cautamente tra l’autorevolezza di apostolo e la dolcezza del sant’uomo46 aggiungendo: Ho timore per voi di aver forse lavorato senza motivo nei vostri riguardi. Se infatti avesse voluto condannarli in modo precipitoso, avrebbe comunque detto: “Ho timore per voi: infatti ho lavorato senza motivo nei vostri riguardi”. Ora invece, vedendo che essi hanno ardore per Dio ma non secondo dottrina (cf. Rm 10, 2), non ha disperato del tutto della salvezza di gente che era stata tratta in inganno da un pio errore né li ha lasciati del tutto privi di rimprovero, affinché non desse a loro l’occasione di perseverare nell’errore e ad altri di sbagliare allo stesso modo. Ha posto ‘ho timore per voi’ per il significato di ‘ho timore riguardo a voi’. Il maestro lavora senza motivo quando esorta gli alunni verso i migliori comportamenti e quelli, tornando indietro, si rivolgono verso i peggiori e spregevoli.
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4,12a Siate come me, perché anch’io come voi. [1.] Quel che dice è questo: come io mi sono fatto debole con voi deboli e non ho potuto parlare come a gente spirituale ma come a carnali e fanciulli in Cristo e, poiché non potevate nutrirvi ancora di cibo solido, vi ho nutrito esclusivamente con il latte del Vangeloa non volendo che voi restaste sempre fanciulli ma desiderando condurvi a poco a poco fino all’adolescenza e alla giovinezza per poter ricevere il cibo solido; così anche voi dovete essere come sono anch’io, cioè gustare i contenuti più perfetti, passare, dopo aver abbandonato il latte, ai cibi più sostanziosi e agli alimenti più importanti. Questo dice da imitatore per così dire del Salvatore: egli non considerò un tesoro il fatto di essere a
Cf. 1 Cor 9, 22; 1 Cor 3, 1-2; Eb 5, 12.
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uguale a Dio, ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo ed essendo nella condizione di uomo, affinché noi divenissimo dèi, da uomini che eravamoa, e non morissimo più, bensì fossimo chiamati, risorgendo insieme a Cristo, suoi amici e fratelli, perché il discepolo fosse come il maestro ed il servo come il signoreb. [2.] D’altra parte può anche essere inteso così: o fratelli, dice, una volta rigettata l’osservanza giudaica dei giorni, dei mesi, delle stagioni e degli anni, che sono ombra dei beni futuric, vi prego di imitare me che vivendo senza biasimo nella legge ho ritenuto tutto come spazzatura e feccia per guadagnare Cristo (cf. Fil 3, 6-8); giacché anch’io sono stato come voi siete ora, quando ero tenuto stretto alle medesime osservanze e devastavo la chiesa di Cristo perseguitandola perché non osservava questi riti. 4,12b-14 Fratelli, vi scongiuro. In nulla mi avete offeso; sapete del resto che a causa della debolezza della carne vi predicai per la prima volta il Vangelo e non disprezzaste la vostra prova nella mia carne né la rigettaste, ma mi avete accolto come un angelo di Dio, come Cristo Gesù. [1.] Congiungi con la frase precedente il mezzo versetto che qui segue; perché la cosa sia più chiara, sia questa la successione che immaginiamo: vi scongiuro, fratelli, siate come me, perché anch’io come voi47. Simile a questo è quel versetto: Vi supplichiamo in nome di Cristo, riconciliatevi con Dio (2 Cor 5, 20); nondimeno altrove: Chiedo con forza che vi siano prima di tutto suppliche, preghiere, domande, ringraziamenti (1 Tm 2, 1); anche le parole di Pietro che dice: Prego gli anziani in mezzo a voi, io stesso anziano come loro e testimone delle sofferenze di Cristo (1 Pt 5, 1). Tali testimonianze ci spingono all’umiltà e fanno cadere il cipiglio dei vescovi che, come collocati in una qualche vetta elevata48, a stento si degnano di gettare lo sguardo ai mortali e di rivolgere la parola ai loro conservi. Imparino che i Galati peccatori e stolti sono chiamaCf. Fil 2, 6-8; 2 Pt 1, 4. Cf. Col 3, 1; Gv 15, 15; Mt 10, 24-25. c Cf. Col 2, 17; Eb 10, 1. a
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ti fratelli dall’Apostolo; imparino le dolci parole di colui che, dopo il rimprovero, dice vi scongiuro. Ciò che scongiura è che siano suoi imitatori come egli lo è di Cristoa; anzi per essere fedeli al presente brano, non è niente di eccezionale ciò che chiede: come egli da superiore si è fatto inferiore per causa loro, così essi si innalzino da una condizione inferiore ad una superiore. [2.] In nulla, dice, mi avete offeso. L’alunno offende il maestro, se disperde per la sua negligenza i precetti e la fatica di quello. I Galati non avevano offeso l’Apostolo fino a quel momento, perché conservavano il suo Vangelo e le sue prescrizioni. Ovvero certamente così: quando vi annunziai per la prima volta il Vangelo e a causa della debolezza della vostra carne, poiché non potevate ricevere i misteri più grandi, vi ho predicato quasi come a fanciulli (cf. 1 Cor 3, 1) e ho simulato di essere io stesso malato per arrecare guadagno a voi malati (cf. 1 Cor 9, 22), forse che non mi avete accolto quasi come un angelo, come Cristo Gesù? Poiché dunque in nessuna cosa in quella circostanza mi avete offeso e avete considerato me, umile e prostrato per causa vostra, simile al figlio di Dio, come mai, esortandovi ai beni più grandi, vengo offeso da voi perdendo la mia fatica e quella strategia per cui avevo simulato di essere fanciullo lamentando ora un impegno finito nel nulla? [3.] A causa della debolezza della carne, non sua ma degli ascoltatori, Paolo predica ai Galati, i quali non erano in grado di sottomettere la carne alla parola di Dio, ma come carnali non accettavano in alcun modo l’intelligenza spirituale. Perché ciò sia più chiaro, facciamo qualche esempio: istruisce a causa della debolezza della carne colui che dice: Se non si contengono, si sposino (1 Cor 7, 9), e: Una donna, se suo marito è morto, è libera: sposi chi vuole, purché nel Signore (1 Cor 7, 39); non istruisce, invece, in alcun modo a causa della debolezza della carne rammentando queste cose: Sei stato liberato da donna, non cercare donna (1 Cor 7, 27), e: È tempo che coloro che hanno mogli si comportino come se non l’avessero (1 Cor 7, 29). Giacché alcuni a
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Cf. 1 Cor 4, 16; 1 Cor 11, 1.
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insegnamenti sono dati agli spirituali, altri ai carnali; e una cosa è ciò che è insegnato per autorità, un’altra ciò che è insegnato per benevolenza. [4.] E non disprezzaste la vostra prova nella mia carne né la rigettaste. È un luogo oscuro e a cui rivolgere la massima attenzione49. Io, dice, a causa della debolezza della vostra carne vi predicai per la prima volta il Vangelo come se foste fanciulli e lattanti (cf. 1 Cor 3, 1-2), cominciando dagli argomenti più semplici e, per così dire, quasi balbettando presso di voi. Questa strategia e questa finzione di una fiacca predicazione era certo un mio modo di gestire la situazione, ma era la vostra prova per vedere se vi piacessero e vi apparissero grandi quegli argomenti che in rapporto alla loro natura erano piccoli e che da me erano tirati fuori come argomenti umili. Voi, accogliendo questi argomenti non come piccole ma come grandi cose, siete rimasti così ammirati che avete accolto come un angelo e, per così dire, come il Figlio di Dio me che le esponevo. Questa vostra prova, dunque, mediante la quale vi tentavo nell’annuncio carnale del mio discorso, non fu spregevole né vile, ma ottenne più rispetto di quanto pensavo. [5.] Questo brano può essere spiegato anche così: quando venni da voi, non venni con un discorso di sapienza ma come uomo umile e spregevole che non annunciava alcunché di eccezionale, se non un crocifisso (cf. 1 Cor 2, 1-2). Avendomi visto dunque soggetto a malattie fisiche non mi prendeste in giro mentre promettevo i regni celesti né mi stimaste degno di disprezzo; giacché comprendevate che l’umiltà della mia carne e la spregevolezza dell’atteggiamento erano per la vostra prova, cioè per vedere se avreste disprezzato colui che era giudicato miserabile dai non credenti; ma al contrario avete accolto quell’uomo umile, vile e spregevole così come un angelo, e più che un angelo50. Ovvero possiamo di certo sospettare che l’Apostolo stesse male al tempo in cui per la prima volta si recò dai Galati e, pur frenato da una certa debolezza fisica, tuttavia non si fermò, né restò in silenzio rinunciando alla predicazione già intrapresa del Vangelo. Infatti narrano che
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egli spesso subisse un fortissimo mal di testaa e che questo era l’angelo di Satana, che gli si era posto vicino per colpirlo nella carne affinché non si esaltasse (2 Cor 12, 7). Questa debolezza e questa fiacchezza del corpo fu una prova presso coloro ai quali era annunziato il Vangelo, per capire se disprezzavano colui che mentre prometteva beni sublimi vedevano soggetto ai mali del corpo. Inoltre, si può anche dire che all’inizio del suo arrivo presso i Galati subì offese, persecuzioni e percosse da parte di coloro che si opponevano al Vangelo; e che questa fu anche la massima prova per i Galati che vedevano l’Apostolo di Cristo preso a bastonate. [6.] L’affermazione mi avete accolto come un angelo, come Cristo Gesù, per un verso, mostra che è più grande di un angelo Cristo, che secondo la dimensione del corpo il salmista ha cantato come inferiore dicendo: L’hai fatto poco meno degli angeli (Sal 8, 6), per l’altro, dimostra che le sue parole all’inizio avevano un valore tale da essere considerate come parole di un angelo e di Cristo. 4,15-16 Dov’è dunque la vostra beatitudine? Vi do infatti testimonianza che, se fosse stato possibile, vi sareste strappati gli occhi e me li avreste dati. Sono dunque diventato vostro nemico dicendovi la verità? [1.] Beato è colui che cammina nella via della virtù, se però riesce ad arrivare fino alle virtù; non serve allontanarsi dai vizi se non ottieni i beni migliori, poiché nei buoni propositi sono lodevoli non tanto gli inizi quanto la conclusione. Come infatti in una vigna molti sono i passaggi dell’uva prima di arrivare al torchio (prima è necessario che sui tralci la vite germogli, offra una speranza nella fioritura; quindi che, caduto il fiore, la forma del futuro grappolo si delinei e a poco a poco l’uva gonfiandosi partorisca perché, una volta pressata dai torchi, distilli il dolce mosto), così anche nella dottrina vi sono graduali progressi nelle beatitudini: è necessario che qualcuno ascolti la parola di
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a La notizia è altresì in Tertulliano, pud. 13, 16, p. 213: cf. A. Cain, ‘Tertullian, Cyprian, and Lactantius in Jerome’s Commentary’, p. 35.
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Dio, che concepisca, che si sviluppi nell’utero della sua anima e pervenga fino al parto, che, dopo che abbia partorito, allatti, nutra e attraverso l’infanzia, la fanciullezza, l’adolescenza, la giovinezza giunga fino all’uomo perfetto. Poiché dunque i singoli livelli possiedono la beatitudine secondo i rispettivi progressi, se mancherà la conclusione e, per così dire, l’ultima mano all’opera, tutto quanto il lavoro sarà inutile e si dirà: Dov’è dunque la vostra beatitudine? Benché, dice, vi chiamassi beati in quel tempo nel quale avevate accolto secondo la carne il Vangelo per il fatto che agli inizi eravate pieni di fervore, tuttavia ora, poiché non vedo il tetto posto sull’edificio e le fondamenta gettate quasi invano, sono costretto a dire: Dov’è la beatitudine per la quale in precedenza vi lodavo giudicandovi beati? [2.] In verità, infatti, io stesso confesso che all’inizio, quando vi predicavo argomenti umili ed altresì ero maltrattato con persecuzioni, mi avete amato così tanto che, se fosse stato possibile (quel che dice è da intendere in modo iperbolico), vi sareste strappati gli occhi e me li avreste dati perché vedessi di più grazie agli occhi di voi tutti. Giacché desideravate essere ciechi a causa dell’ineffabile amore verso di me, perché nel mio cuore nascesse in misura maggiore la luce del Vangelo; volevate che crescesse il mio utile con vostro danno e ciò nella circostanza in cui, da un lato, annunziavo a voi, come a dei fanciulli e a lattanti, a causa della debolezza della vostra carne argomenti umili e di poco conto, dall’altro, sembrava che non fossi degno di fiducia a causa delle menomazioni della mia carne. Ora invece, poiché dall’alfabeto, dalle sillabe e dalla lettura infantile ho cominciato a stimolarvi verso argomenti più impegnativi affinché teniate i libri fra le mani e apprendiate parole piene di conoscenza e di dottrina, scalciate, vi adirate, vi sembra duro il compimento delle dottrine e siete mutati verso altri sentimenti a tal punto che ora considerate come nemico me, che prima avevate accolto come un angelo e come Cristo, al quale volevate consegnare i vostri occhi, a causa del fatto che vi annunzio la piena verità.
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[3.] Conclude in modo elegante la frase dicendo sono dunque diventato vostro nemico dicendovi la verità per mostrare che gli inizi della predicazione erano non tanto la verità quanto l’ombra e l’immagine della verità. Simile a questa frase è quel detto di un poeta illustre di Roma: “L’ossequio genera amici, la verità odio”51 . Ma renditi conto di quanto la frase paolina sia migliore di quel detto: infatti l’Apostolo ha calibrato questa frase su coloro che aveva definito stolti e che aveva chiamato fanciulli e l’ha resa specifica dacché si è rivolto propriamente a delle persone e ai Galati; quello invece pronunziandola come frase universale e come propria disposizione verso tutti gli uomini ha sbagliato fortemente. Infatti l’ossequio, per mezzo del quale riteneva di avere amici, senza la verità non è tanto ossequio quanto adulazione e cortigianeria, le quali con evidenza devono essere chiamate inimicizie nascoste piuttosto che amicizie. [4.] D’altra parte, è necessario allo stesso tempo considerare che ancor oggi fintantoché spieghiamo le Scritture secondo la lettera a persone fanciulle, lattanti e a coloro nei cui cuori Cristo non è ancora cresciuto né è progredito in età, sapienza e grazia presso Dio e presso gli uomini (cf. Lc 2, 52), riceviamo lodi, sguardi e ammirazione; quando invece cominciamo a stimolarli a poco a poco perché passino ad argomenti più elevati, da nostri banditori diventano nemici e preferiscono seguire i Giudei piuttosto che gli apostoli, i quali staccandosi dalla dottrina e dalle tradizioni dei farisei sono andati verso Cristo stesso, intercessore e perfezione della legge; né si degnano di accogliere la parola divina, che ordina ai maestri della chiesa di salire verso i dogmi più alti ed innalzare la voce con tutte le forze, né di temere il clamore dei fanciulli che gridano intorno dicendo52: Sali su un alto monte tu che rechi buone notizie a Sion; alza la tua voce con forza tu che rechi buone notizie in Gerusalemme. Alza la voce, non temere (Is 40, 9). 4,17-18 Non vi emulano onestamente, bensì vogliono estromettervi perché voi emuliate loro. Emulate invece sempre il bene nel benea e non solamente quando sono
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a In questa traduzione geronimiana dell’originale biblico greco appaiono forti novità: la Vetus di Sabatier presenta ‘Aemulamini autem meliora dona. Bonum est
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presente in mezzo a voi. [1.] Emulano onestamente coloro che, quando vedono che in alcuni vi sono favori, doni e virtù, desiderano essi stessi essere tali e si sforzano di imitare la loro fede, la vita e lo zelo per mezzo dei quali essi hanno meritato quei riconoscimenti, affinché possano anche conseguire quei beni che sono degni di una onesta emulazione. A proposito dei quali anche l’Apostolo dice: Emulate i doni spirituali, soprattutto la profezia (1 Cor 14, 1); e poi: Così anche voi, poiché siete emuli dei doni spirituali, cercate di averli in abbondanza per l’edificazione della Chiesa (1 Cor 14, 12); e nuovamente: Perciò, fratelli, emulate la profezia, e non proibite di parlare in lingue (1 Cor 14, 39). Non emulano invece onestamente coloro che desiderano non tanto essere essi stessi migliori per imitare coloro che sono degni di emulazione, bensì vogliono rendere peggiori le persone da imitare e trarle indietro per mezzo di una cattiva emulazione. [2.] Ecco un esempio: uno è cristiano, legge Mosè ed i profeti; sa che per quel popolo tutto è avvenuto prima, ma ad ombra ed immagine, mentre è stato scritto per noi per i quali è giunta la fine dei tempia; comprende la circoncisione non tanto del prepuzio quanto delle orecchie e del cuore (cf. Ger 4, 4; 6, 10); è risorto con Cristo, ricerca i beni di lassù (cf. Col 3, 1); si è liberato dal peso e dalla schiavitù della legge che ordina “Non prendere, non gustare, non toccare” (cf. Col 2, 21): se qualcuno volesse persuadere costui per mezzo delle parole della Scrittura a non intendere quel che è scritto in senso figurato ma secondo la lettera che uccide (cf. 2 Cor 3, 6), ad essere giudeo scopertamente, non nel profondo (cf. Rm 2, 28-29), non lo emula onestamente, ma s’affanna a ritrarre indietro colui che a grandi passi correva verso i beni più importanti affinché piuttosto emuli lui che va indietro o certamente affinché non lo faccia avanzare molto oltre. aemulari in bonis semper’, testo abbastanza prossimo a quello di Mario Vittorino: ‘Aemulamini autem meliora dona. Bonum est aemulari meliora semper’; l’Ambrosiaster potrebbe in qualche modo aver tenuto conto di varianti basate su un originale greco e presenti nel manoscritto su cui ha operato, presentando il seguente lemma: ‘Aemulamini autem meliora dona. Bonum aemulamini semper’. Ma è con Girolamo che il versetto è completamente stravolto ed è presentata una nuova e più corretta traduzione del testo greco, cioè ‘Bonum autem aemulamini in bono semper’. a Cf. Col 2, 17; 1 Cor 10, 11.
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[3.] Si rivolge perciò ai Galati, che erano stati indotti da sostenitori della legge ad imitare loro mentre invece quelli avrebbero dovuto imitare i Galati (poiché è normale passare da una condizione inferiore ad una superiore, non da una superiore ad una inferiore), e dice: Emulate il bene nel bene, cioè non imitate gli assertori dell’osservanza giudaica, bensì imitate quelli che sono i beni. Come infatti colui che imita le ricchezze, il potere, la carica di qualcuno non emula tanto dei beni quanto quelle cose che sono da fuggire, così anche voi diversamente emulate il bene nel bene cercando i doni spirituali piuttosto che i carnali in modo che non insegnino quelli a voi ad essere giudei, ma al contrario voi a quelli ad essere cristiani. [4.] D’altra parte fate questo sempre perché possiate pervenire con passo perseverante alla conclusione della buona opera. Giacché prima, quando ero in mezzo a voi, emulavate il bene nel bene; dopo che mi sono allontanato da voi avete perso tutto quello che vi avevo consegnato, trascinati di nuovo in alto mare da una stazione sicura e da un fido porto a causa del riflusso dell’onda. Non è strano se, allontanandosi l’Apostolo, vaso d’elezione e persona nella quale parlava Cristo Signorea, i Galati sono cambiati, poiché vediamo che anche oggi nelle chiese succede la stessa cosa. Se qualche volta, infatti, per esortare alle virtù gli ascoltatori quasi con dei pungoli capita in una chiesa un qualche dottore, onorato per qualità oratorie e di vita, vediamo tutto il popolo affrettarsi, ardere, correre alle elemosine, ai digiuni, alla castità, al sostegno dei poveri, alle sepolture e a tutte le altre cose simili; quando invece quello se ne va, vediamo che a poco a poco questi propositi sfioriscono e si assottigliano senza essere più alimentati, impallidiscono, appassiscono e segue la fine di tutto ciò che prima era in voga. Per la qual cosa poiché la messe è molta, gli operai invece sono pochi (Mt 9, 37), chiediamo al Signore della messe che mandi operai per la mietitura, perché mietano le spighe del popolo cristiano, che stanno nella chiesa preparate per il grano futuro, le raccolgano e portandole nei granai non permettano in alcun modo che periscano. a
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Cf. At 9, 15; 2 Cor 13, 3.
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[5.] Ciò riguarda quello zelo e quella cattiva emulazione sulla quale anche altrove è stato detto: Non emulare in mezzo a coloro che agiscono malvagiamente (Sal 37, 1), e qui: non vi emulano onestamente. Troviamo del resto anche un altro zelo, a causa del quale i figli di Giacobbe hanno provato zelo contro il loro fratello Giuseppe, e Maria ed Aronne contro Mosè per l’amicizia con il Signorea. Infatti né quelli né questi sono stati spinti allo zelo per essere migliori di Giuseppe e di Mosè, ma perché si dolevano che quelli fossero migliori. Questo zelo è vicino all’invidia. È lungo se volessi tirar fuori dallo scrigno della Scrittura tutti i generi di zelo, sia quello buono sia quello cattivo53. Leggiamo lo zelo positivo di Pincas, di Elia, di Mattatiab e dell’apostolo Giuda (non però il traditore) che a causa dell’insigne virtù dello zelo ricevette anche il soprannome di Zelotac. Lo zelo cattivo, come quello di Caino contro Abele (cf. Gen 4, 8) e di tutti gli altri nei confronti di altre persone; e lo zelo dell’uomo di cui fu scritto: E venne su di lui lo spirito di gelosia (Nm 5, 14); a meno che per caso qui zelo è voce media e non può essere inteso né in accezione positiva né in accezione negativa, ma tra l’una e l’altra accezione è meglio denominato ‘gelosia’. In modo diverso: costoro che erano circoncisi vedendo i Galati, provenienti dai pagani, abbondare delle virtù dello Spirito Santo, mentre essi non parlavano in lingue, non avevano i doni delle guarigioni, non la grazia della profezia, spinti dagli stimoli dello zelo desideravano farli passare ai pesi della legge, affinché anche quelli cominciassero a diventare simili a loro. 4,19 Figlioli miei, che partorisco di nuovo fintantoché Cristo si formi in voi. [1.] Con quante difficoltà e sofferenze le creature nascono dall’utero lo dichiara la prima delle maledizioni dicendo: Partorirai i figli nella sofferenza (Gen 3, 16). Poiché dunque Paolo vuole dimostrare la premura dei maestri per i discepoli, quali sentimenti patiscano perché ai loro seguaci non sfugga la salvezza, dice: figlioli miei, che partorisco di nuovo. In effetti egli, Cf. Gen 37, 11; Nm 12, 1. Cf. Nm 25, 7.11.13; 1 Re 19, 10; 1 Mac 2, 26-27. c Cf. Lc 6, 15-16; At 1, 13. a
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che in un altro brano aveva detto, per così dire, da padre: Seppure aveste diecimila pedagoghi in Cristo, non molti padri però (1 Cor 4, 15), ora in Cristo parla non da padre ma come madre perché riconoscano la preoccupazione e l’affetto di entrambi i genitori nei loro confronti. Qualcosa di simile diceva a proposito del popolo anche Mosè: Forse che io ho concepito nell’utero tutto questo popolo? (Nm 11, 12) Chi di noi, per esempio, è preoccupato della salvezza dei discepoli al punto tale da tormentarsi non per poche ore o, al massimo, per due o tre giorni, bensì per tutto il tempo della sua vita fintantoché Cristo si formi in loro? [2.] L’esempio della donna gravida, che concepisce e forma dentro di sé i semi, deve essere attentamente tenuto in considerazione perché possiamo comprendere quel che si dice (della natura non ci si deve vergognare, ma bisogna rispettarlaa). Come infatti dapprima il seme è gettato informe nell’utero della donna affinché aderisca, quasi come incollato, ai suoi solchi e al suo terreno (anche il profeta ricordandosi della sua nascita dice a proposito di questo: i tuoi occhi mi hanno visto informe [Sal 139, 16]), poi durante nove mesi, riassorbito il sangue, il futuro uomo è addensato, prende un corpo, è nutrito e si forma nelle parti in modo che, dopo che ha iniziato a battere nell’utero, al tempo fissato è partorito e nasce con tante difficoltà quante poi ne richiede il nutrimento perché non perisca; così anche il seme della parola di Cristo, dopo che è caduto nell’anima dell’ascoltatore, cresce attraverso le sue tappe e, per tralasciare tanti aspetti (possiamo facilmente trasferire la descrizione fisica all’intelligenza spirituale), è a rischio così a lungo fino a che colui che ha concepito partorisca. Né l’aver partorito rappresenta la fine della fatica, ma è l’inizio di un nuovo impegno, per condurre il bimbo lattante, attraverso la premurosa alimentazione e le cure, fino alla piena età di Cristo. [3.] E come nella coppia spesso è il seme del marito sotto accusa per la mancata procreazione della prole, talvolta la moglie sterile non trattiene i semi, e frequentemente nessuno dei due è
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a Cf. Tertulliano, an. 27, 4 e 8, p. 38; inoltre, A. Cain, ‘Tertullian, Cyprian, and Lactantius in Jerome’s Commentary’, p. 37-38.
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in grado di generare o, al contrario, entrambi sono fecondi, così questa quadruplice suddivisione vale anche fra coloro che seminano la parola di Dio: il maestro fa il suo dovere ma è sterile l’ascoltatore, ovvero l’ascoltatore è di buona indole ma a causa dell’imperizia del maestro il seme della parola perisce, oppure è tanto stolto chi è istruito quanto colui che insegna, e raramente accade che tra il maestro e il discepolo ci sia armonia, cioè che questi istruisca tanto quanto quello è in grado di assorbire o che l’istruito accolga tanto quanto il maestro gli inculca. [4.] Ma oggi siamo tutti giudici: non sappiamo di quale salmo si tratti, di quale parte della profezia, di quale capitolo della legge, e con facilità d’eloquio interpretiamo audacemente ciò che non comprendiamo affatto. Non spetta a noi che Cristo si formi nel popolo, che ciascuno ritornando a casa sua abbia il seme della parola di Dio, e quando lo ha concepito possa dire con il profeta: Per il timore da te suscitato abbiamo concepito e abbiamo partorito, abbiamo fatto sulla terra i figli della tua salvezza (Is 26, 17-18); costoro passano tra gli apostoli e meritano di sentire dal Salvatore: Chiunque faccia la volontà del Padre mio, questi è mio fratello, sorella e madre (Mt 12, 50) e nella diversità delle denominazioni è dimostrata la diversità dei livelli di profitto. Cristo si forma nel cuore dei credenti anche quando si aprono per loro tutti i misteri e diventano perspicue quelle realtà che prima sembravano oscure. Ma si deve pure osservare che colui che a causa del peccato aveva in un certo qual modo smesso di esistere è concepito dal maestro per mezzo della penitenza ed è di nuovo promessa in lui la formazione di Cristo. Questo vale contro i Novaziani54, i quali pretendono che coloro che sono stati sopraffatti una volta dal peccato non vengano riabilitati. 4,20Vorrei essere presso di voi in questo momento e mutare il tono della mia voce, perché sono confuso nei vostri riguardi. [1.] La divina Scrittura edifica anche letta; ma giova molto di più se da testo scritto diventa voce dimodoché colui che aveva insegnato per mezzo dell’epistola istruisca di presenza gli ascoltatori. Giacché la viva voce ha una grande forza: la voce che risuona dalla bocca del suo autore, che è
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emessa e resa distinguibile per mezzo di quella pronuncia con la quale è stata generata nel cuore dell’uomo a cui appartiene. Pertanto l’Apostolo, sapendo che un discorso fatto in presenza ha una forza maggiore, desidera trasformare la voce epistolare, la voce affidata alle lettere scritte, in voce di presenza e, poiché questo era più utile a coloro che erano stati indotti in errore, desidera richiamarli alla verità con la parola viva. [2.] Ciò peraltro a motivo del fatto che è confuso nei riguardi di quelli; il che in greco è detto più propriamente: ‘aporoumai’ infatti non significa ‘confusione’, che presso di loro si dice ‘aischynē’ o ‘synchysis’, quanto piuttosto ‘privazione’ e ‘bisogno’. Perciò il senso è questo: vorrei ora essere presente presso di voi e, di presenza, pronunciare personalmente le parole scritte, poiché sono privato nei vostri riguardi; giacché non possiedo i frutti che sono soliti ottenere i maestri dai discepoli e il seme della dottrina è stato gettato senza motivo, dal momento che nei vostri riguardi subisco completamente la povertà al punto che posso gridare con la voce di Geremia: Non sono stato utile, né qualcuno mi è stato utile (Ger 15, 10)a. [3.] Questo brano può essere interpretato anche diversamente: l’apostolo Paolo, che si era fatto giudeo con i Giudei per guadagnare i Giudei e con coloro che erano sotto la legge quasi fosse egli stesso sotto la legge e si era fatto debole con i deboli per guadagnare i deboli (cf. 1 Cor 9, 20-22), mutava il tono della sua voce in rapporto alla qualità di coloro che desiderava salvare e a somiglianza degli attori (giacché si è fatto spettacolo al mondo, agli angeli e agli uominib) cambiava atteggiamento assumendo diversi aspetti e toni della voce; non perché fosse ciò che fingeva di essere ma perché solamente apparisse che fosse quel che giovava agli altri. Vede che i Galati abbisognano di altra dottrina, che devono essere salvati per un’altra strada, non per quella attraverso la quale la prima volta erano stati portati
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a La traduzione di Ger 15, 10 è coerente con il testo geronimiano, che a sua volta è vicino al testo greco della Settanta; la Vulgata e le successive traduzioni dell’originale ebraico presentano invece differenze, e ciò spiega la distanza tra la traduzione che qui presento e traduzioni correnti come per esempio quella della Bibbia di Gerusalemme: “Non ho preso prestiti, non ho prestato a nessuno”. b Cf. 1 Cor 4, 9.
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dal paganesimo alla fede in Cristo ed è costretto a dire: Vorrei essere presso di voi in questo momento e mutare il tono della mia voce; nei vostri riguardi, dice, vedo di non essere utile, se dico le stesse cose che ho detto in precedenza: a causa di questa situazione, ignorando che cosa fare e diviso fra opposti pensieri sono lacerato, sono confuso e dilaniato. [4.] E come i medici, quando vedono che il potere della loro arte al primo tentativo non ha risultati, passano ad altro e provano che cosa fra le tante possa giovare fintantoché pervengono alla cura per cui quel che non poté in alcun modo essere sanato per la debolezza di qualche medicamento è curato con un prodotto più aggressivo e con una cura più severa, così anch’io, poiché sono confuso nei vostri riguardi e nell’incertezza erro di qua e di là, vorrei pronunciare di presenza dalla mia bocca le parole scritte affinché vi rimproveri in modo più severo del solito: poiché la lettera non può esprimere la voce di chi rimprovera, non è in grado di far risuonare le grida di chi è adirato e di spiegare con un testo scritto il dolore del cuore. [5.] Può anche essere inteso in modo più semplice: presso di voi in questo momento ho utilizzato parole blande dicendo: fratelli, vi scongiuro e: figlioli miei, che partorisco di nuovo fintantoché Cristo si formi in voi; ma io, suasivo e dolce, che ho parlato presso di voi quasi come un padre, in nome di quella carità per la quale non accetto che i miei figli periscano e sbaglino continuamente vorrei ora essere presente, se non mi bloccassero le catene della persecuzione, e mutare il tono blando della voce in parole di rimprovero55. Né è indizio di leggerezza se ora blandisco, ora mi adiro: mi spinge la carità, il dolore mi spinge a parlare con sentimenti diversi. Non so infatti in quali parole prorompere e con quale medicina vi debba curare, poiché sono confuso nei vostri riguardi. 4,21 Ditemi voi che volete essere sotto la legge, non avete ascoltato la legge? Bisogna notare che qui è stata denominata ‘legge’ la storia della Genesi, non, come si ritiene volgarmente, quello che si deve fare e quello che si deve evitare, ma tutto quanto è scritto su Abramo e sulle sue mogli e figli
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è chiamato ‘legge’; anche in un altro luogo leggiamo che pure i profeti sono detti ‘legge’. Ascolta dunque la legge colui che secondo le indicazioni di Paolo non guarda la superfice bensì il suo midollo; non ascolta la legge colui che alla maniera dei Galati segue solamente il guscio esteriore56. 4,22-23 Infatti è scritto che Abramo ebbe due figli, uno dalla serva e uno dalla donna liberaa. Ma quello dalla serva nacque secondo la carne; quello invece dalla donna libera, in virtù della promessa. [1.] È estremamente difficile dimostrare che solo Isacco, che nacque da Sara, fu generato dalla promessa e non, allo stesso modo, Ismaele, che nacque dalla serva egiziana Agar57. Giacché la Scrittura riferisce che, quando Agar, perseguitata da Sara, fuggì incinta ed un angelo venne da lei nel deserto e la esortò a sottomettersi al volere della padrona (cf. Gen 16, 9), l’angelo medesimo disse altresì queste cose: Moltiplicherò la tua discendenza e non si conterà a causa della moltitudine (Gen 16, 10); e poi su Ismaele parole che comunque nessuno potrebbe dubitare che sian proprie di una promessa: Costui sarà un uomo rozzo: la sua mano sopra tutti e la mano di tutti sopra di lui e vivrà di fronte a tutti i suoi fratelli (Gen 16, 12). Ma si può rispondere che la promessa di un angelo ha una minore autorità che quella di Dio stesso; come infatti una stella non brilla quando c’è il sole, così anche le parole di un angelo, se confrontate con la promessa di Dio, si oscurano, svaniscono e non valgono niente. [2.] Questo genere di risposta sembra avere una qualche validità, ma è subito eliminata dall’autorità delle successive parole della Scrittura. Infatti è scritto: Abramo disse a Dio: “Possa Ismaele vivere al tuo cospetto!”; e Dio gli rispose così: “Ecco tua moglie Sara partorirà per te un figlio e lo chiamerai Isacco e stabilirò la mia alleanza con lui come alleanza perenne e per la sua discendenza dopo di lui”; riguardo ad Ismaele invece: “Ecco ti ho ascoltato e l’ho benedetto e lo accrescerò e lo moltiplicherò grandemente. Genererà dodici discendenti e farò di lui una grande nazione; ma stabilirò la mia alleanza con Isacco, che Sara ti genererà a questa data l’anno prossimo” (Gen a
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Cf. Gen 16, 4; 21, 2.
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17, 18-21). Da questi versetti è evidente che anche in base alle parole di Dio Ismaele fu generato secondo la promessa. Ma pure questo si risolve così: la promessa si compie propriamente nella concessione dell’alleanza ed una cosa è benedire, accrescere, moltiplicare grandemente, parole che sono scritte nei confronti di Ismaele, altro è rendere erede grazie all’alleanza, ciò che si dice di Isacco: Stabilirò la mia alleanza con lui come alleanza perenne e per la sua discendenza dopo di lui (Gen 17, 19) e nei versetti seguenti: stabilirò la mia alleanza con Isacco, che Sara ti genererà (Gen 17, 21); e come una cosa sono i doni, altro il patrimonio, una cosa i lasciti, altro l’eredità (leggiamo infatti che ai figli delle concubine di Abramo furono dati doni, al figlio di Sara invece fu lasciata l’eredità di tutto quanto il patrimonio), così, come abbiamo detto, una cosa sono la benedizione ed i lasciti, altro invece l’alleanza. [3.] Ma si può dire anche questo: di Ismaele o l’angelo o Dio parlarono dopo il suo concepimento, su Isacco, invece, Dio fece la promessa prima che fosse concepito nell’utero di Sara. Intanto valgano queste considerazioni per quanto permette la mediocrità del nostro ingegno. D’altronde, se qualcuno può trovare qualcosa di più significativo su come Ismaele, che nacque dalla serva, non sia figlio della promessa, ma lo sia Isacco, che nacque dalla libera, bisogna ascoltare piuttosto costui: E se pensate qualcosa di diverso, dice l’Apostolo, anche questo ve lo ha rivelato Dio (Fil 3, 15). [4.] Ora brevemente bisogna tendere verso contenuti più elevati per affermare che ciascuno di noi non nasce secondo la promessa fintantoché è istruito dalle parole della Scrittura prese alla lettera e si diletta ancora di spiegazioni giudaiche; quando invece è salito verso i contenuti più sublimi e ha compreso la legge spirituale, allora egli è generato dalla promessa e, per parlare più apertamente, ogni giorno coloro che fanno le opere di Abramo nascono da Abramo (cf. Gv 8, 39). Ma coloro che hanno lo spirito di schiavitù sono generati di nuovo nel timore dalla schiava egizia; quelli invece che hanno ricevuto lo spirito di adozione sono generati da Sara la libera (cf. Rm 8, 15): questa libertà l’abbiamo ricevuto in dono da Cristo (cf. Gal 4, 31). Il Signore si rivolge ai Giudei che preferivano restare ancora figli della schiava:
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Se resterete nella mia parola, sarete veramente miei discepoli e conoscerete la verità e la verità vi renderà liberi (Gv 8, 31-32). E quelli, poiché non comprendevano il valore mistico di quel che veniva detto loro, rispondevano: Siamo discendenza di Abramo e non abbiamo servito mai nessuno: come puoi dire: sarete liberi? Rispose loro Gesù: In verità, in verità vi dico che chiunque compie il peccato è schiavo del peccato. Lo schiavo non rimane in casa in eterno, il figlio rimane in eterno (Gv 8, 33-35). Se siamo servi del peccato, ci ha generato Agar egizia; se non regna il peccato nel nostro corpo mortale (cf. Rm 6, 12), siamo veramente figli di Dio. 4,24a Sono affermazioni allegoriche. [1.] L’allegoria58 appartiene propriamente all’arte grammaticale, e in che cosa differisca dalla metafora e da tutti gli altri tropi lo impariamo da bambini nelle scuole: una cosa pone dinanzi con le parole, altro significa nel senso; i libri degli oratori e dei poeti ne sono pieni. Anche la divina Scrittura è stata composta in misura non modesta per mezzo di essa. L’apostolo Paolo (uomo che in un certo qual modo aveva anche frequentato la letteratura secolare) sapendo questo ha utilizzato il termine specifico del linguaggio figurato per menzionare l’allegoria come si denomina presso i suoi, affinché evidentemente potesse mostrare meglio il senso di questo brano con una catacresi della lingua greca. [2.] D’altra parte, che Paolo conoscesse la letteratura secolare, benché non alla perfezione, lo attestano le sue stesse parole: Uno dei loro, proprio un loro profeta, disse: “I Cretesi sono sempre bugiardi, male bestie, ventri pigri” (Tt 1, 12); questo è un verso epico del poeta Epimenide, ricordato da Platone e da altri antichi poeti. Anche presso gli Ateniesi, quando si discolpava nell’Aereopago, Paolo aggiunse queste parole: Come hanno detto pure alcuni poeti fra voi: “Infatti anche noi siamo sua stirpe” (At 17, 28); questo emistichio si tramanda in Arato, che scrisse sul cielo e sulle stelle (phaen. 5). Inoltre anche quel verso: Le cattive compagnie corrompono i buoni costumi (1 Cor 15, 33), è un trimetro giambico tratto da una commedia di Menandro (fr. 187). [3.] Da questi e da altri esempi è evidente che Paolo non ha ignorato la letteratura secolare, e quella che qui ha de-
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finito allegoria altrove ha chiamato intelligenza spirituale come in quel luogo: Sappiamo infatti che la legge è spirituale (Rm 7, 14), in luogo di allegorica o anche figurata in modo allegorico; e altrove: E tutti mangiarono il medesimo cibo spirituale e bevvero la medesima bevanda spirituale. Giacché bevevano dalla roccia spirituale che li accompagnava, la roccia era Cristo (1 Cor 10, 3-4). Non vi è nessuno che possa dubitare che qui la manna e lo sgorgare di una fonte improvvisa e la roccia stessa che segue siano da intendere in senso allegorico. So che viceversa possono essere obiettati questi versetti: Fratelli, se uno fosse sorpreso in qualche colpa, voi spirituali istruitelo in spirito di mansuetudine (Gal 6, 1); ed in un altro brano: Lo spirituale giudica tutto, egli invece non è giudicato da alcuno (1 Cor 2, 15): in questi casi il termine ‘spirituale’ ha chiaramente un significato diverso rispetto a quello che abbiamo detto sopra. Ma noi chiamiamo spirituale, in grado di giudicare tutto e di non essere giudicato da alcuno, quell’uomo che conoscendo tutti i misteri delle Scritture li intende in modo sublime e vedendo Cristo nei libri divini non ammette in essi nulla della tradizione giudaicaa. 4,24b-26 Giacché queste donne rappresentano le due alleanze, una, quella del monte Sinai, che genera nella schiavitù, ed è Agar. Infatti il Sinai è un monte in Arabia, che è confinante con quella che è la Gerusalemme attuale ed è schiava con i suoi figli. Quella invece che è la Gerusalemme di lassù, che è la madre di tutti noi, è la libera. [1.] La spiegazione di quasi tutti su questi versetti è che individuano Agar la schiava nella legge e nel popolo giudaico, Sara la libera invece nella chiesa che è stata adunata dai pagani, che è la madre dei santi poiché Paolo dice: che è la madre di tutti noi59. Costei a lungo non partorì, prima che Cristo nascesse dalla Vergine, e fu sterile, giacché Isacco, il sorriso del mondob, non era ancora nato dal padre, l’eletto che risuona a
Queste sono tra le affermazioni più importanti dell’intero Commentario e certo tra le più vicine al pensiero di Origene: riassumono, infatti, perfettamente molti contenuti espressi dall’Adamanzio nel quarto libro del De principiis. b Isacco fu così chiamato per il riso di meraviglia e di gioia di Abramo, quando gliene fu promessa e annunziata la nascita.
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con la voce di dottrine sublimi, se è vero che nella nostra lingua Abramo significa padre eletto con il suonoa. Agar invece, che si traduce ‘paroikia’, cioè soggiorno o anche viaggiob, genera senza indugio Ismaele, che ascolta solamente i precetti di Dio ma non li compie, uomo rozzo, sanguinario, che ricerca i luoghi solitari, che è nemico di tutti i suoi fratelli generati dalla libera e si schiera contro di loro. Né è strano che l’antica alleanza è stata costituita sul monte Sinai, che è in Arabia e vicino a colei che è la Gerusalemme attuale, e non è stata stipulata per sempre, poiché soggiornare è cosa diversa rispetto al possesso perpetuo e il termine ‘monte Sinai’ significa ‘tentazione’c e Arabia vuol dire ‘declino’, e viceversa quella che è la Gerusalemme di lassù, che è la libera e la madre dei santi, dimostra che questa Gerusalemme, che è tra noi, è di quaggiù ed è immersa in un’umile ed infima condizione. [2.] Ci sono quelli che intendono anche diversamente le due alleanze per cui interpretano la Scrittura divina, tanto l’antica quanto la nuova, come la schiava o come la libera in base alla diversità di significati e all’opinione di coloro che leggono, e sono convinti che quanti sono ancora asserviti alla lettera ed hanno lo spirito di timore sono stati generati nella schiavitù (cf. Rm 8, 15) da Agar l’egiziana, mentre invece coloro che salgono verso i a Girolamo potrebbe alludere qui al capitolo 17 di Genesi ed in particolare al cambiamento di nome imposto da Dio ad Abramo, che si denominò non più ‘Abram’ ma ‘Abraham’. Gli interpreti, già prima dello Stridonense, si domandavano quale fosse la differenza tra i due nomi e quale il senso preciso dell’uno e dell’altro, considerata l’importanza che il nome aveva per il destino di ogni individuo secondo gli antichi. Un’eco della questione si trova in Filone di Alessandria, Abr. 82-84, al quale potrebbero in ultima analisi risalire le affermazioni di Girolamo, forse attraverso la mediazione di qualche fonte cristiana greca che il Nostro utilizza. Filone spiega che ‘Abram’ significa ‘padre che s’innalza verso i fenomeni celesti’, ‘Abraham’ invece ‘padre scelto del suono’; ‘suono’ è per Filone il ‘prophorikos logos’, dunque il linguaggio articolato, mentre ‘padre’ l’‘ēgemon nous’, quindi lo spirito interiore, che è padre (cioè genera interiormente le parole) del linguaggio che viene articolato all’esterno; ‘eletto’ infine sta, nell’interpretazione allegorica dell’Alessandrino, per ‘virtuoso’. Della questione vi è un’eco anche in Ambrogio, Abr. 2, 10, 77, p. 237: “Ma nella figura di Abramo è palese il mistero della Chiesa, che attraverso l’eredità della fede possiede il mondo intero; giustamente è detto padre eletto del suono, padre della fede, padre della pia confessione”. b Cf. Gir., nom. hebr., p. 76, 15. c Cf. Gir., nom. hebr., p. 76, 22.
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contenuti superiori e desiderano intendere in modo allegorico i testi sono figli di Sara, che nella nostra lingua si dice ‘archousa’, cioè ‘principe’ al genere femminilea. E affermano di prendere questa posizione per necessità, perché è iniquo intendere che Mosè e tutti i profeti sono generati dalla schiava, mentre gente qualunque tra i pagani è generata dalla libera; per cui è meglio non solo giudicare, tra coloro che sono nella chiesa, alcuni servi, altri schiavi in base ai diversi livelli di comprensione (come abbiamo detto), ma anche in merito ad un’unica e medesima persona ritenere che, fintantoché segue l’interpretazione letterale, è figlio della schiava, quando invece, aprendogli Gesù le Scritture, il suo cuore si è infiammato e nella frazione del pane ha visto colui che prima non vedevab, allora è denominato pure lui figlio di Sara. [3.] Marcione ed i Manichei non vollero togliere dai loro volumi questo versetto in cui l’Apostolo ha detto ‘queste sono affermazioni allegoriche’ e gli altri versetti che seguono, ritenendo che sono destinati contro di noi, cioè che la legge deve essere interpretata in modo diverso da come è stata scritta, benché in ogni caso, anche se deve essere intesa in senso allegorico (come anche noi ammettiamo e Paolo insegna), è stata composta così non in base alla volontà di chi legge ma per l’autorità di chi scrive ed essi vengono confutati da ciò stesso che hanno creduto di conservare contro di noi, perché Mosè, servo del Dio creatore, ha scritto testi di contenuto spirituale pure secondo l’insegnamento del loro Apostolo, che essi affermano predicatore di un altro Cristo e di un Dio migliore60. 4,27 È scritto infatti: “Rallegrati, sterile che non partorisci, prorompi e grida, tu che non hai le doglie del parto: molti sono i figli della donna abbandonata, più di quelli di colei che ha marito” (Is 54, 1). La sinagoga ebbe la legge come marito e secondo la profezia di Anna un tema
Com’è noto, infatti, Sara ha il significato di ‘principessa’: in Sara Dio realizza la promessa di una discendenza ad Abramo e fu Dio stesso (Gen 17, 15) a mutare il nome della moglie di Abramo da Sarai, cioè “mia principessa”, in Sara, “principessa”. Si veda Gir., quaest. hebr. in Gen., p. 27, 15-21. b Cf. Lc 24, 27.30-32.
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po fu anche feconda nel fare figli (cf. 1 Sam 2, 5); invece la chiesa, sterile senza il marito Cristo, senza alcuna consolazione della parola del promesso sposo, giacque a lungo abbandonata. Ma dopo che la sinagoga ricevette nelle sue mani il libro del ripudio e trasformò tutti gli ornamenti del marito nell’ornamento di un idolo, allora il marito, poiché la cinta precedente era putrida (cf. Ger 13, 7), si legò ai lombi un’altro balteo, un’altra cintura proveniente dai pagani: subito non appena la chiesa si congiunse con il marito concepì e partorì. Ed in Isaia il Signore esclama per mezzo del profeta: quando mai un popolo nasce in un istante? (Is 66, 8), dal momento che negli Atti degli Apostoli in un solo giorno credettero tre e cinque mila uominia. Né penso che sia necessario parlare della moltitudine dei cristiani e del numero esiguo di Ebrei, giacché in tutto il mondo risplendono i vessilli della croce e a stento nelle città appare qualche raro giudeo e perciò degno di nota. 4,28 Noi invece, fratelli, siamo figli della promessa alla maniera di Isacco. Non è difficile comprendere che l’Apostolo e i suoi simili sono figli della promessa alla maniera di Isacco. Ma poiché Origene spiegando questo versetto ha costituito così il testo dell’esempio dell’Apostolo61: Voi invece, fratelli, siete figli della promessa alla maniera di Isacco, ci si chiede come mai ora chiama figli della promessa alla maniera di Isacco i Galati, che prima aveva chiamato stolti e dei quali aveva detto che avevano cominciato nello spirito e finivano nella carne (cf. Gal 3, 3)? Diciamo perciò che l’Apostolo li chiama figli della promessa alla maniera di Isacco perché non dispera del tutto della loro salvezza e ritiene che essi torneranno di nuovo allo spirito nel quale avevano cominciato e che siano figli della libera; essi che, se avessero terminato nella carne, sarebbero figli della schiava.
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4,29-31 Ma come allora chi era nato secondo la carne perseguitava quello secondo lo spirito, così è anche ora. Ma che cosa dice la Scrittura? “Scaccia la schiava e suo figlio: infatti il figlio della schiava non sarà erede a
Cf. At 2, 41; 4, 4.
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con mio figlio Isacco” (cf. Gen 21, 10). Perciò, fratelli, non siamo figli della schiava, ma della libera. Con questa libertà Cristo ci ha liberati. [1.] Non penso che possiamo trovare un brano biblico nel quale Ismaele perseguitò Isacco: semplicemente, allorché il figlio dell’egiziana, che era più grande, scherzava con Isacco, Sara si indignò e disse ad Abramo: Scaccia la schiava e suo figlio: infatti il figlio della schiava non sarà erede con mio figlio Isacco. E comunque un semplice scherzo tra bimbi non merita l’espulsione e l’abdicazione, ma l’Apostolo, ebreo discendente da ebrei ed istruito ai piedi del maestro Gamaliele (cf. At 22, 3), che una volta aveva fermato con il suo consiglio i farisei infuriati contro il Signore, comprese, attraverso le parole di Sara che diceva: il figlio della schiava non sarà erede con mio figlio Isacco, che quello non era un semplice scherzo. In effetti, poiché forse Ismaele, che era più grande e circonciso nel momento in cui poteva già comprendere e sentire ciò che gli accadeva, rivendicava per sé la primogenitura, la Scrittura chiamò scherzo tra ragazzi il litigio; per cui anche Sara, non sopportando queste parole e non accettando l’abitudine del figlio della schiava che rivendicava sin dalla fanciullezza per sé la primogenitura, proruppe: Scaccia la schiava e suo figlio: infatti il figlio della schiava non sarà erede con mio figlio Isacco. Dal momento che sembrò gravoso ad Abramo (infatti ai primogeniti spettano sempre i beni più grandi) non solo che Ismaele cessasse di essere il primo, ma che non ricevesse neppure una parte uguale con il fratello minore, Dio, che voleva che la libera fosse dentro e che la schiava fosse espulsa, confermò le parole di Sara e disse ad Abramo: Non sia gravoso per te riguardo il fanciullo e la schiava. Ascolta tutto quello che ti ha detto Sara, ascolta la sua voce: poiché attraverso Isacco da te prenderà nome una stirpe (Gen 21, 12). [2.] Come dunque allora il fratello maggiore Ismaele perseguitava il fratello Isacco piccolo ed ancora lattante rivendicando per sé il privilegio della circoncisione e la primogenitura, così anche ora Israele secondo la carne si solleva, si gonfia, si erge contro il fratello minore, il popolo cristiano proveniente dai pagani. Consideriamo la follia dei Giudei, che hanno ucciso il Signore, hanno perseguitato i profeti e gli apostoli e si oppongono alla
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volontà di Dio, e vedremo che sono molto più grandi le persecuzioni, di cui ci informa anche la storia, suscitate dai Giudei contro i cristiani che quelle da parte dei pagani. Ci stupiamo a proposito dei Giudei? Ancora oggi coloro che sono fanciulli in Cristo e vivono in modo carnale perseguitano coloro che sono nati dall’acqua e dallo spirito e risorgendo con Cristo cercano i beni di lassù, non quelli di quaggiùa. Facciano quello che vogliono, perseguitino Isacco insieme con Ismaele: saranno cacciati fuori insieme con la madre schiava egizia, né riceveranno l’eredità che conseguirà solo chi è nato dalla promessa. [3.] È elegante anche l’affermazione secondo cui colui che è nato secondo la carne perseguita l’uomo spirituale; mai infatti l’uomo spirituale perseguita il carnale, ma lo perdona come se si trattasse di un fratello grossolano, sa che egli col tempo può migliorare e se talvolta vedesse il figlio dell’egizia che si adira, si ricorda dell’unico padre, che ha creato elefanti e zanzare, e che in una grande casa non vi sono solo vasi d’oro e di argento, ma anche di legno e di terracotta (cf. 2 Tm 2, 20). Perciò diciamo con l’Apostolo: Non siamo figli della schiava, ma della libera, e rinnovati in Cristo ascoltiamo le parole del Signore che dice ai Giudei: Se resterete nella mia parola, conoscerete la verità e la verità vi renderà liberi (Gv 8, 31-32); anche l’Apostolo liberato da questa libertà diceva: Infatti, pur essendo libero da tutto. Colui che compie il peccato è servo del peccato (1 Cor 9, 19): egli, poiché sapeva di essere libero da tutti i vizi, estraneo ad ogni concupiscenza ed errore, gioiva giustamente nella libertà di Cristo dicendo: Non siamo figli della schiava, ma della libera. Con questa libertà Cristo ci ha liberati (Gv 8, 34).
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5,1 State saldi e non lasciatevi trattenere di nuovo sotto il giogo della schiavitù. [1.] Anche da ciò si dimostra che non sta saldo colui che rimane attaccato al giogo della schiavitù e che colui che ha ricevuto in dono la libertà da Cristo è sotto il giogo per tutto il tempo che nel timore ha lo spirito di schiavitù e segue i princìpi della legge (cf. Rm 8, 15). Con l’affermazione state saldi esorta ad una fede ferma e stabile in Cristo affinché a
Cf. 1 Cor 3, 1-2; Gv 3, 5; Col 3, 1-2.
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le chiese della Galazia rimangano nel Salvatore con piede ben saldo; di ciò il giusto parla anche in un altro luogo: Ha stabilito i miei piedi saldi sopra la pietra (Sal 40, 3), intendendo dire sopra Cristo, affinché evidentemente non siano trascinati via da qualsiasi vento dottrinale e non siano conquistati verso contenuti oppostia. Per cui a coloro che stanno saldi è detto: E chi sta saldo badi di non cadere (1 Cor 10, 12), e in un altro brano: State saldi, agite con coraggio, siate forti (1 Cor 16, 13), affinché stiano saldi con colui che Stefano, perseverando nel martirio, vide saldo alla destra del Padre (cf. At 7, 55) e che disse a Mosè: Tu invece stai saldo con me (Dt 5, 31). [2.] Chiama invece giogo della schiavitù la legge, dura, difficile, laboriosa, che consuma di giorno e di notte i suoi cultori con un gravoso impegno. Come dice anche Pietro negli Atti degli Apostoli: Perché cercate di imporre un giogo gravoso sopra il collo dei fratelli, che né noi né i nostri padri poterono sopportare? (At 15, 10) Ha giustapposto le parole ‘non lasciatevi di nuovo’ non perché prima i Galati osservavano la legge, ma perché è gravoso anche il giogo dell’idolatria, schiacciato dal quale, alla maniera di un blocco di piombo, il popolo egiziano sprofondò nel mar Rosso (cf. Es 15, 10). [3.] In linea con quest’affermazione aveva detto anche in precedenza: Come mai vi rivolgete di nuovo agli elementi deboli e poveri, dei quali volete essere di nuovo servi osservando i giorni ed i mesi e le stagioni e gli anni? (Gal 4, 9-10) I Galati infatti, che, abbandonati gli idoli per via della predicazione dell’apostolo Paolo, erano passati alla grazia del Vangelo, non ritornavano alla schiavitù della legge giudaica che prima non avevano mai conosciuto, ma volendo osservare le stagioni, circoncidersi nella carne e offrire vittime di carne ricadevano in un certo qual modo nei medesimi culti ai quali un tempo erano asserviti nell’idolatria; diconob infatti che i sacerCf. 1 Cor 10, 4; Ef 4, 14. Sono intervenuto sulla punteggiatura di CC SL 77A: la considerazione sui comportamenti dei sacerdoti egiziani, di Ismaeliti e Madianiti deve essere più strettamente congiunta al periodo precedente in cui Girolamo descrive la condizione dei Galati, che, pur liberi dalla legge giudaica, circoncidendosi ed osservando i tempi ed i riti idolatrici finivano per essere simili ai pagani, cioè appunto Egiziani, Ismaeliti e Madianiti. In conseguenza di ciò, lo Stridonense a
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LIBRO SECONDO, 5,1 – 5,2
doti in Egitto, gli Ismaeliti e i Madianiti non hanno il prepuzio. Magari ignorassimo che i popoli osservano i giorni e i mesi e gli anni, al fine di non mescolare mai le nostre feste con quelli. 5,2 Ecco io Paolo vi dico che se vi circoncidete Cristo non vi è utile. [1.] Nel Vangelo il Salvatore dice ai discepoli: Chi ascolta voi ascolta me, chi accoglie voi accoglie me (Lc 10, 16); e l’Apostolo lo conferma dicendo: Non vivo ormai più io, ma Cristo vive in me (Gal 2, 20); e altrove: Forse cercate una prova di quel Cristo che parla in me? (2 Cor 13, 3) Da ciò si dimostra chiaramente che quel che ora ha detto, ecco io Paolo vi dico, non deve essere inteso come se fossero semplicemente parole di Paolo ma come parole del Signore. Infatti, anche nella prima lettera ai Corinzi avendo premesso: Per coloro invece che sono sposati non io affermo ma il Signore (1 Cor 7, 10), e subito avendo aggiunto: A tutti gli altri invece prescrivo (1 Cor 7, 12), perché la sua autorità non fosse considerata di poco conto, disse: io credo ed ho lo spirito di Dio (1 Cor 7, 40), affinché, mentre parlava in lui lo spirito e Cristo, non venisse disprezzato colui che imitando i profeti diceva: Questo dice il Signore onnipotente (Zc 2, 8). Risulterà più significativa l’affermazione del versetto ‘ecco io Paolo vi dico che se vi circoncidete Cristo non vi è utile’, se è unita con il versetto iniziale nel quale dice: Paolo apostolo non per volontà di uomini né per tramite d’uomo, ma per Gesù Cristo (Gal 1, 1) e tutto il resto, affinché chi ascolta sia spinto non tanto dall’autorità di colui che è stato inviato quanto dall’autorità di chi lo invia. [2.] Qualcuno può dire: è contrario a questo quel brano che è scritto ai Romani: La circoncisione è utile se custodisci la legge (Rm 2, 25), e sotto: Qual è dunque la superiorità del giudeo o quale l’utilità della circoncisione? Grande, sotto ogni aspetto. Anzitutto perché a loro è stata affidata la parola di Dio (Rm 3, 1-2). Se infatti Cristo non è utile a coloro che si erano circoncisi, in che modo la circoncisione è utile a coloro che custodiscono la
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si augura che i cristiani non abbiano consuetudine con i riti di altri popoli legati all’osservanza di fenomeni naturali distesi nel corso delle stagioni, perché in questo caso anch’essi rischierebbero di cadere nell’idolatria.
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legge? Ciò si risolve con questa rispostaa: l’epistola ai Romani è stata dettata per quanti avevano creduto dalle file giudaiche e pagane e Paolo agì così affinché né l’una né l’altra gente si offendesse, perché cioè l’uno e l’altro popolo avesse il proprio privilegio: né i pagani si circoncidessero né i circoncisi si rivolgessero indietro al prepuzio. [3.] Scrivendo invece ai Galati ha utilizzato un altro argomento: infatti quanti avevano creduto non venivano dalla circoncisione ma dai pagani; né la circoncisione poteva essere utile a coloro che dopo la grazia del Vangelo ritornavano di nuovo ai principi della legge (cf. Gal 4, 9). E il racconto storico degli Atti degli Apostoli riferisce che, poiché alcuni levandosi da parte dei circoncisi avevano detto che coloro che avevano creduto dalle file dei pagani dovevano circoncidersi e osservare la legge di Mosè, gli anziani che erano a Gerusalemme e parimenti gli apostoli, radunatisi, decretarono attraverso lettere che non si ponesse su di quelli il giogo della legge né osservassero altro se non semplicemente l’astensione dagli idoli, dai sacrifici e dalla fornicazione o se si vuole, come è scritto in alcuni esemplari, dagli animali soffocati (cf. At 15, 5-29). E affinché non resti alcun dubbio che la circoncisione non è utile ma è a causa di coloro che avevano creduto provenendo dai Giudei, nell’epistola ai Romani ha stemperato il giudizio sulla circoncisione via via che procede verso gli argomenti successivi della medesima epistola; ha mostrato che né la circoncisione né il prepuzio hanno qualche valore dicendo: Perciò la circoncisione è niente ed il prepuzio è niente, ma conta l’osservanza dei comandamenti di Dio (1 Cor 7, 19). [4.] In effetti la circoncisione non conta nulla a tal punto che non è stata in alcun modo utile neppure alla casa d’Israele che si vantava a proposito della circoncisione, come ricorda il profeta: Tutte le genti non sono circoncise nella carne, la casa d’Israele invece non è circoncisa nel cuore (Ger 9, 26), e al punto che Melchisedech, a
È il tipico procedimento ermeneutico per cui la spiegazione del versetto scaturisce dal confronto con altri versetti del medesimo Paolo e dall’apparente incoerenza tra brani biblici; la soluzione geronimiana è nella contestualizzazione delle testimonianze scritturistiche e nell’individuazione delle tematiche portanti di ciascuna epistola.
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LIBRO SECONDO, 5,2 – 5,3
non circonciso, ha benedetto Abramo circonciso (cf. Gen 14, 18-19). Infatti la pericope ‘se vi circoncidete’ è come se significasse se vi circoncidete nella carne. In un altro brano la chiama non ‘circoncisione’, ma ‘incisione’a dicendo: Badate all’incisione. Infatti la circoncisione siamo noi che serviamo lo spirito di Dio e ci gloriamo in Cristo e non confidiamo nella carne (Fil 3, 2-3). Non confida nella carne colui che attende ogni bene da Cristo e non semina nella carne per raccogliere corruzione dalla carne, ma nello spirito dal quale nasce la vita eterna (cf. Gal 6, 8). [5.] Deve essere esaminata in modo più profondo l’asserzione se vi circoncidete Cristo non vi è utile: giacché non solo nell’ipotesi che si circoncidano la circoncisione in sé non è utile ad essi, ma anche se risulta che abbiano tutte le altre virtù in Cristo fuorché la circoncisione, tutte quante periscono una volta che, dopo la fede in Cristo, si siano circoncisi. Che dunque? Per nulla è stata utile la circoncisione a Timoteo (cf. At 16, 3)? Molto, sotto ogni aspetto (cf. Rm 3, 2). Infatti non si circoncise perché riteneva che potesse conseguire un qualche guadagno dalla circoncisione ma piuttosto per arrecare vantaggio agli altri, fattosi giudeo per i Giudei, per portare con la sua circoncisione i Giudei alla fede in Cristo (cf. 1 Cor 9, 20-21). Allora, semmai, la circoncisione non è utile, quando si pensa che possa apportare di per se stessa una qualche utilità. 5,3 Dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che è obbligato ad osservare tutta quanta la legge. [1.] Dio, che prescrisse la circoncisione dapprima ad Abramo, poi nella legge per opera di Mosè, non solo ha stabilito la circoncisioneb, ma anche molti altri riti da osservare: la celebrazione dei giorni di festa a Gerusalemme, la perenne offerta
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Non è semplice rendere bene nella traduzione il pensiero di Girolamo, incentrato sulla differenza tra ‘circumcisio’ e ‘concisio’: bisogna considerare che lo Stridonense sta facendo riferimento con ‘concisio’ alle cruente mutilazioni rituali (dunque dal forte impatto fisico), ormai inutili nella nuova economia cristiana e con ‘circoncisio’ al significato esclusivamente spirituale che le pratiche culturali cristiane possiedono. b Cf. Gen 17, 10; Lv 12, 3.
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di vittime al mattino e al tramontoa, il sacrificio dell’agnello solamente in un luogo, il riposo della terra il settimo anno, l’anno della remissione ogni cinquant’annib e tutti gli altri riti che ogni lettore può dedurre facilmente dalle Scritture. Costringeremo perciò Ebione e gli altri suoi seguaci, i quali dopo il Vangelo pensano che i credenti in Cristo si debbano circoncidere, affinché o pratichino la circoncisione e tutte le altre cose che sono prescritte nella legge o, se è impossibile adempiere tutto, insieme al resto cessi pure la circoncisione che è stata tralasciata come cosa inutile. [2.] Se rispondessero di dover fare solo il possibile (giacché Dio non esige da noi quel che non possiamo compiere ma quello che possiamo), risponderemo loro che non appartiene al medesimo Dio volere che la legge sia custodita e abbandonare coloro che custodiscono la legge (ovvero in che modo Dio accuserà di aver tralasciato la legge coloro che, anche se volessero, non potrebbero adempiere tutto?); noi invece seguiamo la legge spirituale che dice: Non metterai la museruola al bue che trebbia (Dt 25, 4) e comprendiamo con l’Apostolo: Forse che a Dio stanno a cuore gli animali? È per noi invece che parla (1 Cor 9, 9-10), ed osserviamo il piacere del sabato (cf. Is 58, 1314) non perché il bue e l’asino nostro e le vili pecore godano duIn Es 29, 1-46 è descritto il rituale della consacrazione sacerdotale, riservata ad Aronne e ai suoi figli. La solenne celebrazione durava sette giorni durante i quali si rinnovavano precisi riti. Dopo la consacrazione dei sacerdoti, ecco quella dell’altare, altrettanto complessa. Per sette giorni si celebrava un sacrificio espiatorio, per purificare l’altare così da renderlo sacro e adatto al culto. Materia del sacrificio erano due agnelli di un anno, l’uno per il rito mattutino, l’altro per quello vespertino. È ricordato anche che tale celebrazione si doveva compiere “ogni giorno per sempre”, con evidente allusione al culto quotidiano che si celebrava nel tempio di Gerusalemme. b Cf. Es 29, 38-42; Lv 25, 4; Lv 25, 9-10. L’anno sabbatico è il settimo di una serie di anni (una settimana di anni). È l’anno nel quale, secondo la prescrizione del Signore a Mosè sul monte Sinai dovevano essere sospesi i lavori dei campi, si garantiva il riposo agli animali e agli uomini; i prodotti che provenivano dai campi dovevano essere lasciati ai poveri; era richiesta la liberazione degli schiavi ebrei; tutti i debiti fra ebrei erano considerati saldati. Tutto ciò doveva essere fatto in onore di Dio. L’anno del giubileo è il settimo di sette anni sabbatici (una “settimana di settimane” di anni). Il nome viene dall’ebraico ‘jobhel’, ‘corno di montone’ con il quale i sacerdoti annunciavano l’inizio dell’anno cinquantesimo, giubilare. Le terre dunque rimanevano incolte; ognuno rientrava in possesso del suo patrimonio, i campi e le case che erano stati alienati tornavano al primitivo proprietario. a
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rante il sabato, ma gli uomini ed il bestiame di cui è scritto: O Signore, salverai uomini e bestie (Sal 36, 7); ‘uomini’ sono tutte le persone razionali e spirituali, ‘bestie’ invece coloro che sono di ingegno tardo e sono istruiti dagli spirituali affinché onorino i sabati del Signore. [3.] Né è il contrario ciò che è stato detto precedentemente: se vi circoncidete Cristo non vi è utile e quel che ora segue: Dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che è obbligato ad osservare tutta quanta la legge rispetto a quanto è aggiunto da noi; infatti non sono giusti dinanzi a Dio coloro che ascoltano la legge, bensì saranno giustificati coloro che compiono la legge (cf. Rm 2, 13), giacché compie la legge colui che può dire: Noi siamo la circoncisione (Fil 3, 3) e: Giudeo nel profondo (Rm 2, 29) e: Sappiamo che la legge è spirituale (Rm 7, 14). Colui invece che segue la circoncisione e la lettera assassina non compie la legge ma è nemico della vera legge, specialmente dopo la venuta del Signore, che toglie il velo dal cuore di coloro che si rivolgono a luia affinché, contemplando a viso scoperto la gloria del Signore, tutti siamo trasfigurati dalla vetustà della lettera alla novità dello spirito (cf. 2 Cor 3, 18).
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5,4 Vi siete allontanati da Cristo voi che vi giustificate nella legge, siete decaduti dalla grazia. Come nessuno può servire due padroni (Mt 6, 24), così è difficile adempiere parimenti l’ombra e la sostanza della legge: l’ombra è nella legge antica fintantoché soffia la brezza del giorno e le ombre si dissolvono (cf. Ct 2, 17)b; la verità è nel Vangelo di Cristo: Poiché la grazia e la verità sono state fatte per mezzo di Gesù Cristo (Gv 1, 17). Perde dunque la grazia di Cristo e si fa sfuggire il Vangelo che aveva posseduto colui che pensa Cf. 2 Cor 3, 16; Es 34, 34. Il termine ‘ombra’ sta ad indicare l’apparenza esteriore, l’involucro esterno, che non costituisce il vero senso della legge: tale significato, che è quello fisico e letterale, è destinato a durare per tutto il tempo in cui perdura l’antica alleanza, cioè fino al momento in cui sul far della sera (secondo l’allusione geronimiana al Cantico 2, 17) la sposa (la comunità dei credenti) va incontro allo sposo (Cristo) che torna dai campi e finalmente potrà unirsi a lui: in quel momento, la sera appunto, quando le ombre prodotte durante il giorno dall’infrangersi del sole sugli oggetti si dissolveranno ed i due amanti si conosceranno intimamente e realmente, i cristiani conoscerenno la vera sostanza della legge. a
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di essere giustificato in una qualche osservanza della legge e, dopo aver perduto la grazia, è privato della fede in Cristo e rimane inoperoso nell’opera di Cristo: infatti ‘katērgēthēte apo tou Christou’ non significa, come è stato tradotto male in latino, vi siete allontanati da Cristo, bensì, meglio, ‘avete desistito nell’opera di Cristo’, in modo che ciò che in particolare Paolo aveva insegnato sulla circoncisione dicendo se vi circoncidete, Cristo non vi è utile ora esprime in senso generale su tutta la legge: non fanno progressi nell’opera di Cristo coloro che hanno creduto di dover essere giustificati in qualunque tipo di osservanza della legge. 5,5 Noi infatti nello spirito attendiamo dalla fede la speranza della giustificazione. Ha posto il termine ‘spirito’ per distinguerlo dalla lettera; la speranza della giustificazione invece deve essere ritenuto Cristo, poiché egli è la verità, la pazienza, la speranza, la giustificazione e tutte le virtù: di lui attendiamo il secondo avvento nel quale giudicherà tuttoa e non tornerà nelle vesti della pazienza ma in quelle della giustizia per rendere a ciascuno secondo le sue opere (cf. Rm 2, 6). Aspettando l’arrivo di questo giorno l’Apostolo e quelli simili a lui dicono: Venga il tuo regno (Lc 11, 2), affinché, quando il Figlio consegnerà il regno a Dio padre ed anch’egli sarà assoggettato in mezzo a tutte le cose assoggettate, allora il capo si ergerà nel corpo e Dio sarà tutto in tutto (cf. 1 Cor 15, 24.28). Poiché colui che ora è in parte nelle singole persone allora sarà tutto quanto in ogni persona.
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5,6 Infatti in Cristo Gesù non ha alcun valore né la circoncisione né il prepuzio, ma la fede che opera attraverso la carità. [1.] Per coloro che vogliono vivere in Cristo Gesù le virtù sono appetibili, i vizi da fuggire, i comportamenti che sono tra le virtù ed i vizi non sono né da fuggire né appetibili, come la circoncisione, il prepuzio e le altre cose simili a queste. La circoncisione è di certo utile se tu custodisci la legge (cf. Rm 2, 25): questa è stata pertanto utile a coloro che sono vissuti a
Cf. Fil 3, 20; 2 Tm 4, 1.
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nella legge non perché erano circoncisi ma perché hanno creduto alle parole di Dio (cf. Rm 3, 2) e trasformandole in opere non sono stati estranei alla salvezza. Non ci turbi il fatto che Zippora prendendo una pietra circoncise il figlio e allontanò dal marito l’angelo che cercava di soffocarloa (o anche la versione diversa scritta nel testo ebraico), poiché ora Paolo ha asserito non tanto che la circoncisione è inutile in assoluto quanto che essa non ha valore in Cristo Gesù, giacché nel momento in cui il Vangelo brillò in tutto il mondo la violenza della circoncisione è inutile62. Essa, come pure tutte le altre prescrizioni della legge, valse allora quando venivano promesse le benedizioni fisiche a coloro che osservavano la legge, cioè che, se l’avessero adempiuta, sarebbero stati benedetti in città, benedetti nei campi, avrebbero avuto i granai pieni e molti altri beni che sono contenuti tra le promesse (cf. Dt 28, 3-14). [2.] Noi invece vogliamo aver valore e trovare conforto in Cristo Gesù, cioè nella vera circoncisione e non nell’incisione fisica dei Giudei: Infatti non è giudeo chi lo è all’esterno né la circoncisione è quella visibile nella carne, ma è giudeo chi lo è all’interno e la circoncisione è quella del cuore nello spirito, non nella lettera (Rm 2, 28-29). Perciò non è per niente utile in Cristo la circoncisione della carne, bensì lo è quella del cuore e delle orecchie che elimina questa ingiuria dei Giudei: Ecco non sono circoncise le vostre orecchie e non potete udire (Ger 6, 10); è utile anche la circoncisione delle labbra che per umiltà Mosè diceva di non possedere ancora, come è scritto nel testo in ebraico: Io invece mi trovo ad avere il prepuzio sulle labbra (Es 6, 12). La circoncisione si dimostra molto utile anche nei piaceri di Venere, sebbene l’impudicizia è eliminata grazie alla castità. [3.] Dunque in Cristo Gesù non ha alcun valore né la circoncisione né il prepuzio corporale, poiché sono posti a metà strada, cioè tra i vizi e le virtù, bensì la fede che opera attraverso la carità, affinché sia comprovata la fede che ad Abramo fu computata per la giustificazioneb ed ogni opera di fede venga riposta nela b
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Cf. Es 4, 24-26. Cf. Gen 15, 6; Gal 3, 6.
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la carità, dal momento che tutta quanta la legge ed i profeti dipendono dalla carità. Il Salvatore ha affermato che la legge ed i profeti consistono in questi due precetti: Amerai il tuo Dio ed amerai il prossimo (Mt 22, 37.39-40); e Paolo in un altro luogo: Non commettere adulterio, non rubare, non desiderare, e se mai c’è qualche altro comandamento, si riassume in queste parole: amerai il prossimo tuo come te stesso (Rm 13, 9). Se dunque ogni comandamento si riassume nel versetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso, allora la fede che opera attraverso la carità vale moltissimo: è evidente che l’azione della fede attraverso la carità contiene la pienezza di tutti i comandamenti. [4.] Come pertanto secondo l’apostolo Giacomo la fede senza le opere è morta (cf. Gc 2, 26), così senza la fede le opere, per quanto siano buone, sono considerate morte. Coloro dunque che non credono in Cristo e sono di buoni costumi che cos’altro hanno più delle opere virtuose? Fornisca l’esempio della fede che opera attraverso la carità la meretrice del Vangelo quando lavò con le lacrime, asciugò con i capelli, spalmò con l’unguento i piedi al Signore che giaceva a mensa a casa di un fariseo, ed il Signore, dopo aver proposto la parabola dei cinquecento e dei cinquanta denari al fariseo che mormorava (cf. Lc 7, 36-46), aggiunse: Per questo io ti dico: a lei vengono rimessi molti peccati perché ha amato molto (Lc 7, 47) e rivolgendosi alla donna medesima disse: La tua fede ti ha salvato: vai in pace (Lc 7, 50). In modo chiaro infatti in questo brano è dimostrato che questa donna ha avuto una fede che opera attraverso la carità, che in Cristo ha avuto molto valore. [5.] Ci sarà qualcuno che dice: bene ha fatto a mostrare che in Cristo non ha alcun valore la circoncisione che sapeva che un tempo ebbe valore; ma forse che qualcuno aveva dubbi anche a proposito del prepuzio al punto da dire ‘né il prepuzio’? Ma se consideriamo che molti cristiani, cioè molti di noi che siamo stati inseriti dall’olivo selvatico nella radice dell’olivo buono, esultano al cospetto dei rami spezzati dei Giudei (cf. Rm 11, 17-19) e dicono che il prepuzio, nel quale Abramo piacque a Dio e la fede gli fu computata per la giustificazione, ha valore più della circoncisione, che fu data in segno della fede e non
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giovò ad Israele che la praticava, vedremo che in questa circostanza è stata eliminata, in modo assai prudente, anche questa cattiva abitudine di taluni.
Note al Libro secondo 1
Secondo le notizie che ricaviamo dal medesimo Girolamo, Lattanzio compose quattro libri di epistole indirizzate a Probo, delle quali, però rimangono solo pochi frammenti; Gir., uir. ill. 80, 2, p. 186: “Di lui [i.e. di Firmiano Lattanzio] abbiamo un Simposio, che scrisse ancora giovane in Africa, un Itinerario dall’Africa a Nicomedia, composto in esametri; [...] quattro libri di lettere A Probo; due libri di lettere A Demetriano, suo discepolo, ed un libro, indirizzato al medesimo, Sull’opera di Dio o sulla creazione dell’uomo”. La citazione dell’In Gal. geronimiano è stata utilizzata quale fonte del fr. 1 di quel che resta delle epistole a Probo: cf. Lattanzio, fr., p. 155. Va altresì detto che Girolamo potrebbe aver utilizzato, oltre che le epistole a Probo, anche il perduto Itinerario dall’Africa a Nicomedia, in esametri, quale possibile fonte delle copiose considerazioni geografiche inserite in questa prefazione del secondo libro. 2 Lo Stridonense si riferisce ad una città nel sud-est dell’Algeria: cf. P. Antin, Recueil sur saint Jérôme (Coll. Latomus, 95), Bruxelles, 1968, p. 260. L’antica cittadina numida di Teveste, la cui denominazione greca era ‘Hekatompyle’, dopo la sconfitta definitiva di Cartagine nel 146 a.C. divenne un’importante città romana con il nome di Tebessa. Grazie al fatto che era la base ove stazionava il quartier generale della terza legione Augusta a partire dalla fine del i secolo d.C., conobbe un notevole sviluppo per tutta l’età imperiale; a Tebessa morì, intorno al 295, il noto martire Massimiliano, che si rifiutò, in nome della fede, di prestare il giuramento militare. 3 Nonostante gli sforzi degli studiosi, la localizzazione dell’antica Tartesso resta incerta; tra i diversi pareri sembra prevalere quello che la identifica con Huelva. In base a Strabone, Geographia 3, 2,11, Tartesso sorgeva nella Spagna meridionale, nella regione
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della rocca di Gibilterra; quanto alla notizia della presenza greca a Tartesso è opportuno citare Erodoto, 1, 163, per il quale furono Greci di Focea a navigare verso questa mitica località. Da Strabone apprendiamo, infine, la notizia della coincidenza di Tartesso con Carteia (San Roque, Cádiz), la più antica colonia latina fondata fuori dall’Italia all’inizio del ii sec. a.C. dai Romani, che con la vittoria nella seconda guerra punica la strapparono all’antico dominio fenicio-punico: Ibid. 3, 2,14. 4 Il monte Calpe è la rocca di Gibilterra: cf. Solino, De mirabilibus mundi 23, 13; per quanto concerne l’Idria, devo ammettere, nonostante gli sforzi di identificazione di questa montagna o catena montuosa, di non essere riuscito ad individuare la località a cui il Nostro fa riferimento. 5 L’unica testimonianza che potrebbe avere un qualche valore per comprendere meglio l’allusione geronimiana alle isole Afrodisiadi è quella di Erodoto, 4, 169, che descrivendo la Libia dice a proposito dei Giligami: “Confinano con loro i Giligami, il cui territorio si estende verso occidente fino all’isola di Afrodisiade”. Il riferimento è all’isolotto di Chersa, a nord-est di Darnah in Libia. Ad ogni modo, il problema dell’identificazione di ‘Aphrodisiades’ resta aperto: in primo luogo, bisognerebbe vedere se questa testimonianza erodotea è veramente arrivata a Girolamo e, soprattutto, per quale via (cioè attraverso quale fonte intermedia); poi, su questa base, si dovrebbe verificare ogni ipotesi di localizzazione di questa/e isola/e. 6 Ginnasie era il nome greco delle isole poi denominate dalle popolazioni indigene e dai Romani ‘Baleari’ secondo le notizie di Diodoro Siculo, 5, 17,1. 7 Sul significato e sull’interpretazione da dare alla sorprendente metafora (‘il Rodano dell’eloquenza latina’) con cui Girolamo presenta in questo brano Ilario di Poitiers associandolo al fiume Rodano si veda P. Antin, Recueil sur saint Jérôme, p. 259-273, che analizza le sfumature positive e negative che i fiumi hanno nelle diverse opere geronimiane sì da poterne trarre la conclusione che ‘le Hilarius Rhodanus est élogieux, mais il est légitime de penser aux réserves à propos de mauvais fleuves [...] chez Jérôme’. 8 Ger, uir. ill. 100, 3 p. 207, menziona un Liber hymnorum et Mysteriorum di Ilario, del quale sono giunti a noi, incompleti, solo tre inni. 9 I Catafrigi, com’è noto, sono i seguaci di Montano e delle due profetesse Priscilla e Massimilla: il movimento, noto anche
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come Nuova Profezia, si sviluppò in Frigia nella seconda metà del ii secolo (cf. Filastrio 49, p. 67-69) ma raggiunse anche l’Occidente, in particolare Cartagine, ove Tertulliano con il suo spirito ascetico e rigorista abbracciò l’entusiasmo profetico e riformatore di Montano. 10 Gli Ofiti erano Gnostici che ebbero un certo seguito nel secondo secolo (Epifanio, pan. haer. 1, 37, 1-9, p. 725 ss.) e che vedevano nel serpente di cui si parla in Gen 3, 1 il primo latore per gli uomini (Adamo ed Eva) della conoscenza (gnosi) del bene e del male, in opposizione a Ialdabaoth, il Demiurgo, identificato dagli Ofiti con il dio dell’Antico Testamento, che teneva sotto la sua tirannia gli uomini (Epifanio, pan. haer. 1, 37, 3, p. 731-733): la discesa di Cristo sulla terra libera defintivamente l’umanità da Ialdabaoth. Secondo Epifanio (pan. haer. 1, 37, 5, p. 735) gli Ofiti, nelle loro comunità, allevavano serpenti e li tenevano a contatto con il pane che utilizzavano per una sorta di eucaristia. 11 Epifanio (pan. haer. 1, 26, 3, p. 323-325) spiega che, presso alcuni, gli Gnostici vengono chiamati anche ‘Borboriani’ in quanto ciò che li caratterizza è “la fangosa (‘borborōdēs’) perversione della loro oscenità ciarlatanesca”: in effetti, il vescovo di Salamina aveva attaccato, poco prima, questa particolare branca di Gnostici che si abbandonano ad assemblee promiscue prostrate in ogni sorta di fornicazione e sporcizia. Nel Sommario del tomo II del Panarion (probabilmente non composto da Epifanio), così come, molto fugacemente, in pan. haer. 1, 25, 2, p. 307, si parla, altresì, di alcuni autori che chiamano gli Gnostici ‘Borboriti’ (pan. haer., p. 249). Filastrio 73, p. 87, che scrive poco dopo Epifanio e contemporaneamente all’In Galatas geronimiano, dice a proposito dei Borboriani: “Un’altra eresia è quella dei Borboriani, che, implicati nei vizi del mondo e schiavi dei desideri colpevoli, non sperano nel giudizio futuro, ma piuttosto esaltano la concupiscenza della carne. Questi, pertanto, sprofondandosi nel fango e spalmandosene tutti, bruttano con esso i loro volti e le loro membra per mostrare a tutti, per così dire, come la creatura di Dio meriti il biasimo, mentre quella voragine di colpe e la condanna rovinosa dei vizi è derivata dalla volontà degli uomini non dal consenso della Legge divina”; il vescovo di Brescia (o una sua fonte) pare che rielabori con una certa fedeltà Epifanio e non si è affidato tout court al Sommario del t. II. Agostino, invece, in haer. 6, p. 71 così scrive: “Gli Gnostici si vantano di essere così chiamati, o del fatto che dovrebbero venir
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chiamati così, per la superiorità della loro scienza, mentre sono soltanto più vanitosi e turpi di quelli sinora nominati. In ogni caso vengono chiamati dagli uni o dagli altri, in vari punti della terra, in modi differenti e alcuni li chiamano Borboriti, termine che significa «immondo», a causa delle indicibili oscenità che si dice essi perpetrino nei loro riti misterici”. L’Ipponese sembra dunque ignorare il termine ‘Borboriani’ (diversamente da Filastrio) e c’è il sospetto che Agostino (o non piuttosto una fonte intermedia?) nel De haeresibus utilizzi il Sommario (ritenendolo originale) ma non il Panarion. Probabilmente, al momento della composizione dell’In Galatas, anche Girolamo come Agostino aveva in mente il Sommario ma non il Panarion, ovvero, in alternativa, bisogna pensare che lo Stridonense stesse pensando a pan. haer. 1, 25, 2: così si spiegherebbe la denominazione ‘Borboriti’ invece che quella più corretta di ‘Borboriani’. 12 Secondo le notizie di Epifanio, pan. haer. 2, 48, 14, p. 19-20, ‘Passalorinciti’ sarebbe semplicemente una denominazione diversa dei Tascodrugiti. Inoltre, nel medesimo contesto, Epifanio chiarisce che i Tascodrugiti sono un’ulteriore nome dei Catafrigi, cioè dei seguaci di Montano, o anche, in alternativa, un nome diverso della setta dei Quintillianisti, di cui il vescovo di Salamina si accinge a parlare dopo i Catafrigi e che si distinguono da questi solo per alcuni aspetti peculiari. Ciò che per Epifanio determina il nome ‘Tascodrugiti’ o ‘Passalorinciti’ è il fatto che in Frigia si denomina con ‘taskos’ il termine ‘passalos’ (cioè chiodo, paletto) e con ‘droungos’ il termine ‘rhynchos’ (cioè naso) a significare che durante la preghiera essi mettono il dito indice al naso per compunzione e rettitudine affettata; C. Trevett, ‘Fingers up Noses and pricking with Needles: possible Reminiscences of Revelation in later Montanism’, in Vigiliae Christianae 49 (1995), p. 258-269, ha ipotizzato che sia Epifanio sia gli eresiologi latini hanno mal compreso, se non distorto, il significato reale del gesto, che, secondo la studiosa, avrebbe invece attinenza con fonti bibliche e apocalittiche giudeo-cristiane diffuse nelle comunità della Nuova Profezia verso la fine del ii secolo piuttosto che con riti pagani della Frigia. Filastrio, nella notizia 76, p. 89, considera i Passalorinciti come una setta a sé (senza cioè relazioni con i Tascodrugiti, i Catafrigi ed altri movimenti riconducibili a Montano), ma le notizie che fornisce sulle ragioni della denominazione e sulle caratteristiche dei Passalorinciti sono identiche a quelle che si trovano in Epifanio.
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Anche Agostino, haer. 63, p. 125, non mette i Passalorinciti in relazione con i Catafrigi e con i Tascodrugiti: ma la descrizione dell’Ipponese è la stessa di Epifanio e di Filastrio. Infine Girolamo: sulla base delle menzioni troppo fugaci di questo Prologo del secondo libro dell’In Galatas non è facile giudicare se egli ritenesse Passalorinciti e Catafrigi come due realtà eretiche distinte. 13 B. Jeanjean, Saint Jérôme et l’hérésie, p. 225, ha proposto, sulla base di una nota vallarsiana al testo dello Stridonense, di identificare gli ‘Ascodrobi’ qui menzionati da Girolamo con i Tascodrugiti di cui parla Epifanio; si tratterebbe in sostanza di un unico gruppo eretico disceso dall’eresia di Montano, al quale il nostro esegeta si riferirebbe, secondo Jeanjean, con tre diverse denominazioni (Catafrigi, Passalorinciti e Ascodrobi), distinguendolo dall’altro gruppo eretico che Epifanio fa discendere da Montano, cioè quello dei Quintillianisti o Priscillianisti o Artotiriti (quest’ultimo nome è altresì usato da Girolamo nella sequenza che stiamo esaminando). A mio giudizio, non c’è motivo di ritenere che Passalorinciti (= Tascodrugiti di Epifanio) e Ascodrobi siano il medesimo gruppo eretico, perché non vi è alcun sostegno testuale a quest’ipotesi né in Girolamo né altrove; del resto, nulla impedisce di pensare che per lo Stridonense Passalorinciti e Artotiriti siano i due gruppi eretici discesi da Montano secondo le indicazioni di Epifanio. Semmai ritengo che gli Ascodrobi siano da identificare con gli ‘Ascodrugitae’ menzionati da Filastrio 75, p. 87, che li colloca in Galazia e fa derivare il loro nome da un otre gonfio (in greco ‘askos’) che ponevano al centro dei riti delle loro comunità male interpretando il versetto di Mt 9, 17; ad essi si riferisce Agostino denominandoli ‘Ascitae’ (haer. 62, p. 125), ma confermando sia l’origine del loro nome da ‘askos’ sia la spiegazione dell’otre gonfio con cui questi eretici andavano in giro affermando di essere gli otri nuovi riempiti di vino nuovo di cui si parla nel citato versetto evangelico. 14 Gi Artotiriti appartengono alla medesima galassia dei Catafrigi ed il loro nome non è altro, secondo le indicazioni di Epifanio, pan. haer. 2, 49, 1-2, p. 21-22, che un modo diverso di designare i Quintillianisti o Priscillianisti o Pepuziani, seguaci di Montano così chiamati perché legati alle sue due profetesse, Quintilla e Priscilla, o al nome della cittadina di Pepuza, dove i profeti andavano in estasi e parlavano per opera dello Spirito e dove, secondo una visione di Priscilla, Cristo avrebbe annunciato che
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sarebbe discesa la Gerusalemme celeste. Secondo Epifanio, il nome ‘Artotiriti’ deriva dalla consuetudine di questi eretici di mettere sull’altare, durante i riti, pane e formaggio e di celebrare con essi i loro misteri. Risultano del tutto dipendenti da Epifanio le brevissime notizie che Filastrio 74, p. 87, ed Agostino, haer. 28, p. 87, dedicano agli Artotiriti. 15 Le considerazioni con le quali il Dalmata introduce il ricorso agli originali in ebraico rappresentano una conferma del fatto che egli ormai aveva maturato l’intenzione di migliorare la Settanta e le traduzioni latine che su questa erano fondate attraverso il lavoro di traduzione diretto sui testi veterotestamentari nella loro lingua originale. Sono dunque condivisibili le valutazioni di A. Fürst, Hieronymus. Askese, p. 103-104: “[...] war seine [cioè di Girolamo] Einstellung als Übersetzer und Exeget gegenüber der jeweiligen Originalsprache eines Bibeltextes schon in den Jahren 382 bis 385 eine andere. Schon in dieser Zeit hat er exegetische Fragen ausgehend vom Hebräischen beantwortet [...]. Viele Jahre später hat Hieronymus seine Arbeit am Alten Testament mit der am Neuen auf folgende Weise verglichen: »Wenn im lateinischen Neuen Testament ein Problem auftaucht und die Ausgaben nicht übereinstimmen, gehen wir auf die Quelle zurück, das Griechische, denn das ist die Sprache, in der das Neue Testament geschrieben ist. Genauso verfahren wir im Alten Testament: Wenn die griechischen und lateinischen Texte nicht übereinstimmen, wenden wir uns an die Wahrheit des Hebräischen« [Ep. 106, (CSEL 55, 249)] Das ist Hieronymus’ berühmtes Konzept der »Wahrheit des Hebräischen « (ueritas Hebraica; auch Hebraea ueritas), das er seit dem zweiten Romaufenthalt verfolgte, auch wenn dieses Programmwort erst um 390 im Prolog zur Übersetzung der Königsbücher aus dem Hebräischen und 391/92 im Vorwort zu den Untersuchungen zur hebräischen Sprache im Buch Genesis auftaucht. [...] Mit diesem Interesse am hebräischen Text des Alten Testaments war Hieronymus originell und innovativ”. Sull’argomento si consulti anche A.-I. Bouton-Touboulic, ‘Autorité et tradition’, p. 188-209, nonché K. Smolak, ‘Hieronymus als Übersetzer’, in Athlon. Festschrift H.-J. Glücklich, ed. H. Loos, Speyer, 2005, p. 123-132. 16 Sull’interpretazione nei Padri di questo lemma paolino irto di difficoltà rinvio a K. H. Schelkle, Paulus Lehrer der Väter: die altkirchliche Auslegung von Römer 1-11, Düsseldorf, 1956, p. 274-278. Come qui Girolamo, anche Ambrosiaster ha omesso l’et; presso
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l’Anonimo il de peccato è riferito a damnavit anziché al participio mittens: cf. In Rom. 8, 3, p. 182. 17 Cf. Ambrosiaster, In Gal. 3, 12, p. 77: “La Legge non proviene dalla fede, perché non comanda nulla da credere. Tutto, infatti, in essa è chiaro affinché, chiunque osserva la Legge, viva. Se costui compie qualcosa di meno, è necessario che sia punito poiché ha accettato ciò che ha conosciuto deve essere evitato”. 18 B. Jeanjean, Saint Jérôme et l’hérésie, p. 100: “Il est par ailleurs à noter que l’hérétique le plus souvent cité dans ces commentaires est Marcion et que les hérétiques gnostiques y occupent une place de choix, ce qui n’est pas sans rapport avec leur inspiration fortement origénienne”. 19 F. Bucchi, ‘Il «Commento alla Lettera a Tito» di Gerolamo’, Adamantius, 8 (2002), p. 66, evidenzia: “Un procedimento metodologico, già presente in Origene, che Gerolamo utilizza frequentemente in Com. Tit., è quello consistente nell’illustrazione dei passi commentati, tramite il confronto con altri passi scritturistici vetero- e neotestamentari”; cf. anche G. Raspanti, ‘Adgrediar opus intemptatum: l’Ad Galatas di Gerolamo’, p. 203. In effetti, prima di entrare nella spiegazione dei versetti Girolamo ritiene necessario occuparsi di Dt 21, 22-23 citato da Paolo; l’interesse del Nostro per Dt 21, 22-23 è, certo ‘origenianamente’, di natura filologica in quanto l’esegeta si preoccupa di confrontare (componere) la testimonianza paolina con quella delle altre edizioni del versetto (caeteris editionibus), cioè la traduzione della Settanta, Aquila, Simmaco e Teodozione; quindi, dopo aver dato la translitterazione latina dall’ebraico, Girolamo si sofferma a discutere diverse altre traduzioni circolanti del versetto. Il medesimo modo di operare è altresì in 2, 3, 15-18, 2, dove Girolamo dichiara: “Inoltre anche riguardo a quel che aggiunge ‘ora questo io dico: il testamento confermato da Dio’, se qualcuno confronterà attentamente i volumi ebraici e le altre edizioni con la traduzione della Settanta, troverà che dove è stato scritto ‘testamento’ non s’intende ‘testamento’ ma patto, che in ebraico si dice berith”. 20 Su Ebione rinvio al primo libro, note 6, 8, 25, 32. Evidenzia una possibile influenza da parte di Girolamo il commento di Agostino, In Gal. 22, p. 603: “Riguardo alla stessa frase poi, ci sono stati alcuni dei nostri, un po’ profani nella conoscenza delle Scritture, i quali, spaventati dal suo contenuto, nell’accettare col dovuto onore i libri del Vecchio Testamento hanno pensato che
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il testo non parli del Signore ma di Giuda, suo traditore”. È evidente che i due esegeti si trovano a controbattere polemiche interpretazioni del versetto 3, 14 provenienti da ambiti giudaici ma anche pagani ed ereticali: Agostino, In Gal. 22, p. 603: “Questa affermazione per chi la intende spiritualmente è un mistero di liberazione; per chi invece ha sentimenti carnali, se si tratta di giudei è giogo di schiavitù, se si tratta di pagani o eretici è un velo che acceca gli occhi”; inoltre, In Gal. 22, p. 603: “Né per il fatto che al Signore sia stata applicata la frase: Maledetto l’uomo che pende dal legno, è da pensarsi a un’ingiuria lanciata contro di lui”. Fra i due esegeti vi sono però diverse sfumature interpretative; Girolamo ha un interesse nettamente filologico e si mantiene su considerazioni generiche circa il modo di intendere il versetto del Deuteronomio Maledetto ogni uomo che pende dal legno; Agostino invece tralascia ogni aspetto filologico e spiega in modo ampio e dettagliato il significato teologico che è da vedere in queste parole: cf. In Gal. 22, p. 603-607. Inoltre, probabilmente in sottile polemica con Girolamo, l’interesse che pure Agostino rivolge all’AT non è indirizzato al testo biblico bensì al significato allegorico (e, ancora una volta, teologico) dell’episodio di Mosè, che nel deserto innalzò il serpente sulla cima d’una stanga di legno, inteso quale prefigurazione del Cristo innalzato sul legno della croce. 21 Di quest’opera, ormai perduta, Girolamo fa menzione anche in quaest. hebr. in Gen., p. 3, 18-23, a proposito della presenza della variante ‘in filio’ nel versetto Gen 1, 1, testimoniata appunto dall’Altercatio Iasonis et Papisci oltre che da Tertulliano e da Ilario; ma a darcene notizia è soprattutto Origene (Cels. 4, 52-53, p. 332-333), grazie al quale sappiamo che l’Altercatio venne prese in considerazione da Celso nell’Alēthēs Logos, allorché il filosofo anticristiano selezionò quest’opera tra quante contenevano spiegazioni allegoriche dell’Antico Testamento. Nella discussione si affrontavano un giudeo-cristiano, Giasone, e un ebreo di Alessandria, Papisco: Giasone dimostrava che le profezie relative al Cristo trovano il loro adempimento in Gesù e così, al termine della discussione, l’ebreo Papisco riconosceva Cristo come Figlio di Dio e chiedeva il battesimo. Un frammento dell’Altercatio si trova in Pseudo-Cipriano, Ad Vigilium episcopum de Iudaica incredulitate – ed. W. Hartel (CSEL, 3/3), Wien, 1871, p. 119-132. Benché sia abbastanza probabile che il dialogo, appartenente alla letteratura antigiudaica dei primi secoli cristiani, sia stato composto ad
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Alessandria intorno alla metà del ii sec., resta incerta la paternità. L’attribuzione tradizionale dell’opera ad Aristone di Pella, autore del ii secolo, è stata contestata da G. Otranto, ‘La Disputa tra Giasone e Papisco sul Cristo falsamente attribuita ad Aristone di Pella’, Vetera Christianorum, 33 (1996), p. 337-351, mentre ha difeso la paternità di Aristone S. Borzì, ‘Sull’attribuzione della Disputa fra Giasone e Papisco ad Aristone di Pella’, Vetera Christianorum, 41 (2004), p. 347-354. I. Aulisa – C. Schiano, Dialogo di Papisco e Filone giudei con un monaco. Testo, traduzione e commento, Bari, 2005, p. 321-326, mostrano che l’Altercatio Iasonis et Papisci non ha nulla a che vedere con il ben più tardo Papisci et Philonis Iudaeorum cum monacho colloquium, nonostante la presenza di qualche residuo elemento in comune. 22 È interessante questo chiarimento circa la ragione dell’excursus filologico-ermeneutico su Dt 21, 22-23: lo Stridonense dichiara che vi è dietro ‘una famosissima questione’. Ho avuto occasione di dimostrare altrove (si veda, nel libro primo, la n. 78) che uno degli aspetti fondamentali dell’esegesi di Girolamo è l’inserimento di quaestiones bibliche all’interno del Commentario. Quella che qui viene inserita dal Nostro (per influsso di Origene?) è una ‘questione’ Adversus Iudaeos, finalizzata a dimostrare che la morte sulla croce di Cristo non è, come vogliono i Giudei, un segno di maledizione divina. 23 Sulle allocuzioni al ‘prudente lettore’ rinvio a Intr., p. 25, nota 59. 24 Notiamo la consueta presenza della tecnica delle quaestiones et responsiones nel Commentario paolino geronimiano. Ma l’interesse del brano è soprattutto un altro: Ambrosiaster ha dedicato attenzione alla medesima problematica in quaest. test. 10, p. 34-35, intitolata ‘Cum Deus dicat ad Abraham de filiis Israel, quod quarta progenie exituri essent de potestate Aegyptiorum, cur Lex dicit, Quinta progenie exierunt filii Israel de terra Aegypti?’ Una prova che Girolamo conosce l’opera dell’Anonimo e dialoga con i suoi testi? 25 Laddove Girolamo sottolinea il dato letterale di Gal 3, 17, secondo cui, Paolo ha inteso evidenziare il primato cronologico, nella storia della salvezza, della promessa fatta ad Abramo sulla legge e la conseguente impossibilità della legge di modificare il significato dell’evento precedente (la promessa), l’interesse principale del predecessore Ambrosiaster è il rapporto tra promessa e fede, tra promessa e legge: “I giudei respingono da sé
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due opposte accuse: infatti a nessun patto e per nessun motivo si può persuaderli che la promessa fatta ad Abramo è vanificata dalla Legge. [...] Eppure, per una sorta di imitazione di colui che non vede, non comprendono né considerano che, se la giustificazione viene per mezzo della Legge, la promessa è esclusa; e se la promessa sarà esclusa, senza dubbio risulterà vana la fede di Abramo [...]. La promessa giustifica mediante la fede, non mediante la Legge, così come anche Abramo fu giustificato dalle fede. Dunque, gli eredi della promessa di Abramo sono quelli che lo seguono accogliendo la fede nella quale Abramo fu benedetto e giustificato” (In Gal. 3, 18, 1-3, p. 82-83). Sulla scia di Ambrosiaster si colloca l’esegesi di Agostino: In Gal. 23, p. 607. 26 Mario Vittorino si sofferma sul termine ‘mediatore’ e su Cristo quale mediatore tra Dio e gli uomini allontanatisi da Dio a causa del peccato degli antenati e a lui ricongiunti per mezzo di Cristo, cioè della fede, che libera gli uomini (In Gal. 1, 3, 19-20, p. 241); soltanto Cristo, per l’esegeta africano, è mediatore e non le opere della legge, la giustificazione e la liberazione si compiono solo per la mediazione di Cristo. Per Ambrosiaster la legge è posta in mezzo tra la promessa e la discendenza a cui è stata fatta la promessa, cioè Cristo (In Gal. 3, 19, p. 84): la legge è in mezzo tra Abramo e Cristo per istruire il popolo sotto il timore di Dio e predisporlo all’accoglienza della promessa. Commentando poi Gal 3, 20 Ambrosiaster asserisce che il Salvatore è mediatore tra Giudei e pagani: “Senza dubbio il mediatore, cioè l’arbitro, non è di uno solo ma di due. Infatti: allorché i due popoli combattevano vicendevolmente l’uno contro l’altro, sempre in dissidio e nemici per la diversità di dottrina, il Salvatore di questi venne (come) arbitro eliminando da entrambi ciò per cui erano discordi, e così potessero essere in pace” (In Gal. 3, 20, p. 85). Una certa corrispondenza notiamo tra le affermazioni di Girolamo e quelle di Agostino; l’Ipponense afferma: “Che col termine mediatore si parli di Gesù Cristo in quanto uomo, si ricava in maniera più evidente dall’altra espressione del medesimo Apostolo: Uno è Dio e uno il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù” (In Gal. 24, p. 609), ed ancora: “Pertanto l’unico Figlio di Dio è diventato mediatore fra Dio e gli uomini quando il Verbo di Dio, Dio da Dio, depose la sua maestà fino ad adeguarsi all’uomo” (In Gal. 24, p. 609). Ad ogni modo la spiegazione agostiniana del versetto si avvicina a quella di Mario Vittorino per l’interesse rivolto alla mediazione di
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Cristo tra Dio e gli uomini prostrati dal peccato e riconciliati con Dio mediante la fede. 27 Il paragrafo 2 mostra significative somiglianze con un brano che Panfilo di Cesarea ci ha conservato dal perduto Commentario all’epistola ai Colossesi origeniano (In Col. fr., p. 370-371). Noteremo che il testo di Origene viene riformulato da Girolamo infrangendo la disposizione del testo base, cioè parafrasando alcune parole, ampliando alcuni concetti, riassumendone altri. Il confronto dei due testi mostra che il ‘non solo le creature’ di Origene viene da Girolamo specificato attraverso ‘non solo il cielo, la terra, il mare e tutte quante le cose che vediamo’; la citazione di 1 Tm 2, 5, solo accennata nell’esegeta greco, viene fatta per estesa dallo Stridonense; anche l’incarnazione di Cristo, brevemente rievocata in Origene, è ampliata dal Nostro con il riferimento alla Vergine Maria. Inoltre l’allusione a Gv 1, 1-2 viene spostata ed abbreviata da Girolamo rispetto alla forma più estesa che si trova nell’Alessandrino. 28 Bisogna dire che tutto il paragrafo 1 di questo commento geronimiano a Gal 3, 21-23 presenta elementi di somiglianza con il commento di Ambrosiaster a Gal 3, 19 (p. 84), che ho riportato nella nota 26. 29 Cf. J. Gaudemet, ‘Indulgentia principis’, in Conferenze Romanistiche, II, Milano, 1967, p. 3-45; A. Borgo, ‘Clementia: studio di un campo semantico’, Vichiana, 14 (1985), p. 25-73. 30 Girolamo sembra subire l’influsso della fonte, Origene, che spesso difende strenuamente, contro gli Gnostici, l’unità dei due Testamenti. 31 L’esegesi del Nostro su 4, 1-2 appare degna d’attenzione; benché non venga dichiarato esplicitamente dall’autore, vi è il consueto modo di procedere alla spiegazione del testo mediante un duplice livello, quello storico-letterale e quello più profondo, di tipo teologico e spirituale. Ma la stratificazione dell’esegesi non è lineare: il livello storico-letterale è in realtà esplicitato solo nel paragrafo 3, ove la spiegazione fa riferimento alla legge e alle consuetudini umane, con significativi elementi di somiglianza con i commenti di Mario Vittorino (In Gal. 2, 4, 1 – 4, 2, p. 249-251) e di Ambrosiaster (In Gal. 4, 1-2, p. 91). Nel paragrafo 2, Girolamo lascia spazio all’esegesi allegorica, offrendo due possibili spiegazioni di ‘tutori’ ed ‘amministratori’; la prima delle due (‘tutori’ ed ‘amministratori’ sono i profeti e la legge mosaica) è presente nei due predecessori la-
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tini, la seconda (‘tutori’ ed ‘amministratori’ sono gli angeli) è invece di chiaro sapore origeniano. Ma la vera interpretazione profonda, assente in Mario Vittorino e Ambrosiaster, è quella fornita nel primo paragrafo (significativamente, dunque, all’inizio del commento al capitolo quarto di ep.Gal.): Paolo sta qui parlando, secondo il Nostro, dell’umanità e del suo rapporto con Dio, al di fuori del tempo e della storia, secondo quanto il medesimo Apostolo preconizza in Rm 5, 12-21, che nelle parole dello Stridonense è sicuramente echeggiato; per Girolamo, Paolo ha in mente il disegno salvifico di Dio, unico per tutti gli uomini (senza distinzione, cioè, tra ebrei e pagani, tra antica e nuova alleanza), nel quale Cristo è lo spartiacque, colui che segna il trapasso dell’umanità dalla condizione adamitica del peccato all’umanità nuova, redenta dalla grazia intervenuta nella storia con il sacrificio e la resurrezione di Cristo. 32 Cf. E. Di Santo, L’apologetica dell’Ambrosiaster, p. 159: “Si noterà che Girolamo propone tre identificazioni degli elementa, già ritrovate qua e là nell’anonimo [i.e. Ambrosiaster]: gli angeli arconti dell’universo [...], gli astri elevati a divinità e la lettera della Legge giudaica”. 33 Mario Vittorino, In Gal. 2, 4, 3-4, p. 253, spiega: “Gli elementi del cosmo hanno e i propri movimenti e, per così dire, degli influssi derivanti dai movimenti, come avviene per gli astri, dal corso dei quali la vita degli uomini è condizionata; e così gli uomini, comportandosi come ordinano gli astri e come esige il movimento del cosmo, sono schiavi degli elementi. Da tutto ciò viene liberato chiunque, avendo fede in Cristo, abbia ricevuto da Cristo lo spirito come signore della propria vita per potere fuggire ed evitare qualsiasi influsso del cosmo e qualsiasi forza degli elementi, e non sia schiavo del cosmo, ma, servendo Cristo signore, abbia sotto la guida dello spirito la libertà nel suo agire”. S. A. Cooper, Marius Victorinus’ Commentary on Galatians, p. 299, n. 32, osserva: “How Victorinus conceived the ‘necessitas’ that arises from cosmic bodies, and how great its extent, are not stated clearly here. [...] he may indeed be endorsing a view in which fate, heimarmenē, is conceived as a concatenation of cosmic powers, from which Christ alone saves. This is the perspective of the gnostic Christian Excerpts from Theodotus (69-72), preserved by Clement of Alexandria”. Il commento di Vittorino (chiarito nella sua complessità da Cooper) e la pluralità di interpretazioni, a cui allude Girolamo, sulla pericope ‘elementi del mondo’ testimoniano le
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questioni filosofiche connesse con Gal 4, 3 sin dalle fasi più antiche in cui, specie in ambiente alessandrino, gli intellettuali cristiani si misuravano con l’esegesi di Paolo. 34 Cf. E. Di Santo, L’apologetica dell’Ambrosiaster, p. 158-159: “Lo Stridonense spiegando Gal. 4,3 sintetizza i possibili sensi di elementa, propendendo, sulla base di un criterio strettamente esegetico, per l’applicazione del termine al campo giudaico, tanto è vero che, ritornando a parlare di elementi in in Gal. 4,9ss [...] insiste sul significato spirituale del calendario cristiano in funzione antigiudaica, piuttosto che sulle festività pagane. Tutto ciò non vuol dire che quest’ultime non fossero ancora in vita negli anni in cui Girolamo scriveva, come lascia invece supporre l’Ambrosiaster, ma conferma ancora la diversità di interessi e di prospettive fra i due autori: nello Stridonense è evidente la preoccupazione di evitare, parlando della scansione temporale delle feste cristiane, ogni possibile sincretismo con le pratiche giudaiche, mentre l’anonimo si concentra di preferenza sul versante antipagano”. 35 Mi sembra assai probabile che le parole dello Stridonense si riferiscano ad Origene: ne possiamo avere prova attraverso le seguenti considerazioni del medesimo Gir., epist. 124, 5, vol. 4, p. 254: “Nel secondo libro [scil. del De principiis] ammette [scil. Origene] l’esistenza di mondi innumerevoli; non vi sarebbero – come vuole Epicuro – molti mondi contemporanei e somiglianti, bensì la fine di un mondo sarebbe l’inizio di un altro. Anche prima di questo nostro mondo ce ne sarebbe stato un altro, e dopo questo ve ne sarà un altro ancora, e dopo quest’altro ancora uno, e così via, in una successione indefinita”; inoltre, epist. 124, 9, vol. 4, 261: “Dice [scil. Origene] ancora [De principiis, III]: « [...] a causa della varietà dei movimenti vengono creati altrettanti mondi diversi, e quindi dopo quello che attualmente abitiamo esisterà un altro mondo, parecchio dissimile da questo. Ripartire i meriti in modo proporzionale alle varie cadute o al diverso progresso di ciascuno, e dare i premi per le virtù o le pene per i vizi, sia adesso che in un domani, e in ogni altro tempo sia passato che futuro, oltre che ricondurre all’unico fine tutte quante le cose, nessun altro lo può fare all’infuori di Dio, il solo creatore dell’universo, il solo che conosce le ragioni per cui alcuni li lascia liberi al proprio arbitrio permettendo loro di scivolare lentamente dalle posizioni più alte a quelle più basse, mentre altri comincia col visitarli per poi riportarli passo passo, come tenendoli per mano, al loro stato originale e sistemarli così nei cieli più alti »”.
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Con parole identiche a quelle pronunciate in In Gal. 1, 1, 1, 5, Girolamo evoca qui l’eresia del docetismo, associandola alla dottrina di Marcione. 37 Mi sembrano interessanti le considerazioni di S. A. Cooper, Marius Victorinus’ Commentary on Galatians, p. 304, n. 37: “None of the other Latin commentators have the exact biblical reading that Victorinus gives here: editum ex femina [...]. The rest of the Latin commentators all had the reading factum ex muliere, factum sub lege. [...] The fragments of an Arian author discovered in the Bobbio palimpsest apparently had a text reading factum per mulierem (fr. 9, V 67; CCSL 87, 242), a variant Jerome attributes to ‘Marcion and other heresies”. 38 L’influsso di Origene sullo Stridonense in questo brano è testimoniato da Panfilo, ap. Orig. 113, p. 190: “Et il ne faut pas prêter l’oreille à ceux qui disent que le Christ est né par l’intermédiaire de Marie, et non de Marie; d’ailleurs, dans sa prescience, l’apôtre l’a dit à l’avance en ces termes: «Quand fut venue la plénitude des temps, Dieu envoya son Fils né d’une femme, né sous la Loi, pour qu’il rachetât ceux qui étaient sous la Loi». Tu vois bien qu’il a dit non pas «mis au monde par l’intermédiaire d’une femme», mais «né d’une femme»”. 39 Le parole di Girolamo hanno un significativo parallelismo con le considerazioni con le quali è introdotta l’esegesi di ‘editum ex femina’ da Mario Vittorino, In Gal. 2, 4, 3-4, p. 255: “Nel linguaggio comune usiamo femina per indicare ciò che i Greci indicano con ‘gynē’. Inoltre, poiché ha generato Cristo, perché non si poteva usare mulier? Infatti ogni donna che genera qualcosa è detta mulier”. La spiegazione di Vittorino prosegue attraverso la ricerca di un significato profondo di tipo allegorico, laddove Girolamo, consapevole delle problematiche eresiologiche connesse al versetto, resta saldo al dato letterale e biblico. 40 Girolamo probabilmente prende le distanze, con queste riflessioni sul battesimo di Gesù al Giordano, dagli echi adozionisti che potevano risuonare nelle parole di Ambrosiaster a commento di Gal 4, 4-5 (p. 92): “La pienezza del tempo è il tempo adempiuto, quello che era stato prestabilito da Dio Padre allorché mandasse il Figlio suo, perché nascesse dalla Vergine fatto uomo, sottomettendosi alla Legge fino al momento del battesimo, per dare l’esempio di come i peccatori – purificati e liberati dal giogo della Legge – sarebbero stati 36
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adottati per la degnazione del Figlio di Dio, così come aveva promesso a quelli che sarebbero stati redenti per il sangue del Figlio suo”. 41 I paragrafi 3-4 sono un esempio del costruirsi attraverso quaestiones dell’esegesi geronimiana: per mezzo delle fonti e della personale esperienza il monaco Betlemita mostra di essere a conoscenza di una serie di problematiche interpretative del testo paolino e delle connesse questioni teologiche. In particolare, la questione della nascita di Cristo ‘sotto la legge’ potrebbe a prima vista apparire una fittizia elucubrazione dell’esegeta, tuttavia credo che dietro la quaestio ipotetica vi fosse un reale disagio in Girolamo, cioè l’insoddisfazione per la traduzione latina corrente del lemma paolino, e probabilmente qualche errore esegetico che da questo inadeguato testo biblico scaturiva. Pertanto, per prevenire eventuali distorsioni, lo Stridonense propone subito un’adeguata soluzione esegetica distinguendo ‘anomos’ da ‘adikos’. 42 Questa testimonianza sull’ottavo libro delle Epistole di Firmiano Lattanzio indirizzate a Demetriano è in contrasto con quanto il medesimo Girolamo dice in uir. ill. 80, 2, p. 186, in cui menziona solo due libri di epistole a Demetriano (si veda, in questo medesimo libro secondo, la nota 1). Girolamo è ancor più generico nell’epist. 84, 7, p. 93-94, a Pammachio e Oceano, nella quale ribadisce, senza però precisare il luogo testuale, che Lattanzio nega la sostanza dello Spirito Santo e ritiene che il termine ‘spirito’ si riferisca ora al Padre ora al Figlio e venga utilizzato dalle Scritture per la santificazione di quelle due persone della trinità: ma nonostante questo errore dottrinale – conclude Girolamo – chi può impedire di leggere le Institutiones di Lattanzio, scritte con straordinaria forza contro i pagani? 43 Qui, come anche poco sotto nei paragrafi 3 e 5, Girolamo segue una precisa linea interpretativa dei versetti 9-10, secondo cui gli elementi poveri e deboli menzionati da Paolo sono da spiegare come riferimento al giudaismo. Alcuni studiosi hanno sottolineato le diversità ovvero le affinità che contraddistinguono l’esegesi di 9-10 in Mario Vittorino, Ambrosiaster, Girolamo ed Agostino: A. Bastiaensen, ‘Augustin commentateur de saint Paul et I’Ambrosiaster’, Sacris Erudiri 36 (1996), p. 53-54; S. A. Cooper, Marius Victorinus’ Commentary on Galatians, p. 218-225. Lo Stridonense sembra prendere le distanze da Vittorino, che individua nelle parole dell’Apostolo un monito ai Galati sia circa un
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possibile scivolamento verso il paganesimo sia riguardo il rischio di intendere la legge in modo carnale e dunque di un appiattimento sul giudaismo, ma anche da Ambrosiaster, per il quale Paolo rimprovera in 9-10 i Galati perché “dopo la conoscenza di Dio avevano cominciato a seguire quelle cose che sono proprie dei pagani (In Gal. 4, 9, p. 95)”. Per Girolamo gli elementi deboli e poveri sono, senza esitazione, la legge di Mosè, le tradizione giudaiche e l’interpretazione letterale della Scrittura. 44 L’accurata descrizione delle festività e delle ritualità giudaiche, che, secondo l’esegeta Dalmata, Paolo ha in mente in questi versetti, stride fortemente con la spiegazione di Ambrosiaster, che interpreta 4, 10 in senso esclusivamente antipagano: “Osservano i giorni coloro che ad esempio dicono: domani non si deve partire; dopodomani non si deve iniziare una certa cosa, e così sono maggiormente ingannati. Seguono i mesi quelli che scrutano il corso della luna dicendo, per esempio: alla settima luna non devono essere fabbricati strumenti, alla nona luna non è bene che venga condotto a casa il servo acquistato, e per questo molto facilmente sogliono allignare le cose contrarie (alla fede). Osservano le stagioni quando dicono: oggi è l’inizio della primavera, è festa, dopodomani sono i Vulcanalia. [...] Così poi seguono gli anni quando dicono: alle calende di gennaio inizia il nuovo anno, come se quotidianamente non si compissero gli anni; ma per coltivare la memoria di quel Giano Bifronte, seguono questa superstizione che invece deve essere lontana dai servi di Dio” (In Gal. 4, 10, 1-2, p. 96-97). 45 I paragrafi 3-4 sono un esempio di esegesi per quaestiones et responsiones: come d’abitudine, inoltre, lo Stridonense fornisce la spiegazione più semplice e quella più approfondita (e spirituale). 46 Ritorna ancora il tema della cauta condotta pastorale paolina e del suo procedere con moderazione ed equilibrio: come nel commento dei primi due capitoli di ep.Gal. Girolamo metteva in evidenza la cautela e la prudenza di Paolo verso Pietro, ora è evidenziato il medesimo atteggiamento verso i Galati, destinatari del paterno zelo dell’Apostolo. 47 Il monaco Betlemita pratica la tecnica tradizionale dei filologi e procede ad una distinctio delle parole paoline diversa da quella dei precedessori Mario Vittorino ed Ambrosiaster; a sostegno di questa scelta, Girolamo menziona luoghi paralleli dell’epistolario di Paolo e della Bibbia. Quindi, da questa base testuale ritenuta
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solida, viene enucleato il messaggio morale edificante dell’umiltà del grande Apostolo. 48 Opportunamente A. Cain, ‘Tertullian, Cyprian, and Lactantius in Jerome’s Commentary’, p. 47, cita due possibili ipotesti di questa affermazione, Cipriano, Don. 9, p. 31-33, e Lattanzio, inst., 2, 2, p. 116; quindi dichiara: “The Cyprianic version is virtually identical to its Lactantian and Hieronymian counterparts but it nevertheless differs from them in two notable respects. In Cyprian, uelut is missing and specula is modified by illa, not aliqua. Two conclusions may therefore be drawn about the interrelationship of these three texts. Jerome borrowed wholesale from Lactantius. Lactantius in turn evidently mimicked Cyprianic phraseology, to which he made minor adjustments”. 49 Anche Mario Vittorino, In Gal. 2, 4, 14, p. 267-268, nutre delle perplessità su questa pericope e la giudica ambigua, interrogandosi lungamente sulle diverse possibili interpretazioni di ‘tempatio’. Per Girolamo la constatazione dell’oscurità delle parole paoline è l’occasione, origenianamente, per esercitare l’acribia dell’interprete: infatti propone diverse spiegazioni che non si escludono ed anzi si dànno luce reciprocamente. La prima di queste spiegazioni è riconducibile all’idea, presente nel Commentario, di una vera e propria strategia apostolica e pastorale messa in atto da Paolo nella sua predicazione e quindi in particolare nei confronti della comunità dei Galati. Il linguaggio (dispensatio ... simulatio ... gubernatio) richiama quello con il quale Girolamo commenta l’incidente di Antiochia. 50 Mario Vittorino, In Gal. 2, 4, 14, p. 267: “Ciò poteva sembrare una tentazione, nel senso che i Galati videro che Paolo era un uomo infermo e infermo nella carne, cioè che egli che serve Dio, predica Dio, è malato, e questo fu allora il loro pensiero: interroghiamolo, vediamo che cosa risponde su Cristo costui che è infermo nella carne. [...] Ma voi avete insistito, né avete disprezzato la vostra tentazione riguardo alla mia carne, ma vi siete avvicinati a me per verificare se fossi saldo nella mia fede e perseverassi nell’evangelo. Avete dunque tentato un infermo nella carne interrogandomi per conoscere se possedessi la salda dottrina dell’evangelo, sebbene fossi infermo nella carne; cioè non mi avete respinto come un infermo nella carne, come incapace di rispondere, oppure come colui che può cambiare dottrina perché è infermo nella carne”. 51 Cf. Terenzio, Andr. 68.
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Nonostante il dichiarato disinteresse di Girolamo per le eleganze dello stile e benché spesso constatiamo gli effetti di una composizione affrettata e non limata da parte dello Stridonense, sono pure presenti nel Commentario esempi di uso di figure retoriche, come in questo caso l’ipallage per cui ‘dicentem’ è riferito allo ‘strepitum’ piuttosto che a ‘paruulorum’. Peraltro bisogna dire che si nota una certa disomogeneità all’interno del Commentario, perché se nel primo libro e in parte del secondo si ha l’impressione di uno stile meno forbito e più trascurato, nel corso del secondo libro e poi nel terzo si nota una generale maggiore cura stilistica da parte dell’autore. 53 Mario Vittorino, In Gal. 2, 4, 17, p. 271, commenta: “Infatti, poiché aemulari ha due significati – il primo significato si ha quando qualcuno emula una cosa perché piace, perché è buona, il secondo significato si ha quando qualcuno emula una cosa per la quale prova invidia – «costoro – dice – vi emulano non a fin di bene», per cui mostra che la loro emulazione deriva da invidia”. S. A. Cooper, Marius Victorinus’ Commentary on Galatians, p. 226, chiarisce: “Jerome has the dual sense of aemulatio as imitation and jealousy, as does Pelagius (without identical language) and Chrysostom; but none of them contains the two meanings in the same order we find in the other three Latin exegetes [scil. Mario Vittorino, Ambrosiaster, Agostino]. Although aemulatio was commonly understood to have both a negative and a positive sense, the order of these observations in Victorinus, Ambrosiaster and Augustine – and the lexical parallels in the first and the last of these exegetes – would seem to suggest a literary relationship”. Credo, ad ogni modo, che Girolamo, certo vicino alla riflessione ermeneutica greca sul termine ‘zēlos’, non è rimasto insensibile alle considerazioni dei predecessori Vittorino ed Ambrosiaster, benché non vi siano chiari indizi di parallelisimi lessicali con questi autori: lo Stridonense ha certo avuto in mente le spiegazioni del retore africano e dell’Anonimo, rispetto alle quali ha allargato l’esegesi introducendovi gli esempi di zelo in accezione positiva e negativa, desumibili sulla base della Scrittura. 54 Come ci informa Girolamo in uir. ill. 70 (p. 177-179) ed in epist. 42, 1 (vol. 1, p. 341-342), all’origine dello scisma del prete romano Novaziano vi fu il rifiuto da parte di costui di reintegrare in seno alla chiesa i lapsi dopo la persecuzione di Decio nel 250 e la sua ferma opposizione al papa Cornelio, ritenuto eccessivamente
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lassista. Novaziano ed i suoi seguaci credevano che l’apostasia fosse un peccato contro lo Spirito Santo e dunque non ammettevano per esso alcuna forma di perdono né in questo mondo né nell’altro: cf., altresì, Epifanio di Salamina, pan. haer. 2, 59, p. 102-114. Sul rigorismo di Novaziano e sulla contaminazione tra la conoscenza che Girolamo aveva di quest’eresia e quella che possedeva del montanismo di Tertulliano si veda B. Jeanjean, Saint Jérôme et l’hérésie, p. 234-238. 55 S. A. Cooper, Marius Victorinus’ Commentary on Galatians, p. 226: “Unnoticed by previous scholarship, this verse is interpreted identically by Victorinus, Ambrosiaster, and Augustine. The question is further complicated by the fact that Jerome presents two interpretative options, the last of which contains a variant resembling the one voiced first by Victorinus”. In verità, a me pare, diversamente da Cooper, che in Girolamo siano presenti tre spiegazioni del versetto, non due: la prima, nei §§ 1-2, è quella che Cooper (p. 227) definisce “the commonplace observation that the ‘living voice’ of an author has a great power”; la seconda, nei §§ 3-4, consiste nella strategia simulativa e per così dire ‘teatrale’ di Paolo, finalizzata ad arreccare il massimo giovamento alle comunità alle quali era rivolto l’apostolato, per cui ‘fingere a fin di bene’ non è da considerare peccaminoso; infine, la terza, nel § 5, è la spiegazione che Girolamo condivide con i predecessori latini, in base alla quale queste parole di Paolo sono da interpretare come un mutamento di atteggiamento verso i Galati ed un vero rimprovero da parte dell’Apostolo, rattristato ed addolorato per la loro condotta. Emerge ancora una volta, in sostanza, la struttura aperta dell’esegesi geronimiana, che procede offrendo al giudizio del lettore una pluralità di spiegazioni possibili; inoltre, bisogna evidenziare che la seconda spiegazione, quella incentrata sulla finzione a fin di bene messa in atto da Paolo (non notata da Cooper come spiegazione specifica di Girolamo rispetto agli altri tre), è coerente con l’impalcatura tematica del Commentario dello Stridonense e più in particolare con la linea ermeneutica della utile simulazione di origeniana discendenza, che, presente sin dalla Prefazione dell’In Galatas, trova ampio spazio nella nota e significativa esegesi dell’incidente di Antiochia (Gal 2, 11-14). 56 Lo Stridonense ripropone uno dei temi chiave ravvisabili nel Commentario, cioè la necessità di liberarsi dell’esegesi letterale della Scrittura e di dedicarsi invece alla ricerca del senso profondo:
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su tale argomento lo Stridonense insisterà notevolmente nel corso dei commenti ai successivi versetti. 57 I paragrafi 1-3 del commento a 4, 22-23 sono caratterizzati da una forte tensione zetetica: l’intensa presenza del linguaggio delle quaestiones et responsiones segnala l’esistenza di tradizionali nodi ermeneutici connessi con queste parole di Paolo e dunque lo sforzo di Girolamo è di offrire risposte al quesito circa la promessa in virtù della quale fu generato solo Isacco e non Ismaele; ad ogni modo, lo Stridonense non presenta soluzioni definitive, giacché, come si è detto più volte, è in modo aperto che egli concepisce, alla maniera origeniana, il lavoro di esegeta biblico. 58 Sull’importanza delle considerazioni di Girolamo su Gal 4, 24-26 (in aggiunta a quelle a commento di Gal 4, 21 e al paragrafo 4 di In Gal. 4, 22-23) per la comprensione della dottrina esegetica del Dalmata ho avuto modo di riflettere sia in Introduzione, p. 30-34, sia in ‘The Significance of Jerome’Commentary on Galatians’, p. 167-169. 59 Un accenno alla spiegazione ‘di quasi tutti (gli esegeti)’ a cui Girolamo allude in questo brano si ha nel commento di Mario Vittorino a Gal 4, 23 e poi, più diffusamente, nel commento a Gal 4, 24-25; per Ambrosiaster sono i figli di Agar (Ismaele) e di Sara (Isacco) l’immagine dei due popoli (In Gal. 4, 23, 1, p. 102-103): “Perciò asserisce (Paolo) che queste cose sono dette per allegoria cosicché Isacco ed Ismaele significano altra realtà sotto altra (immagine). Ismaele indica la nascita dei giudei e di coloro che sono servi del peccato. Isacco invece indica la nascita dei cristiani, perché nascono alla libertà; infatti diviene libero colui che riceve la remissione dei peccati”. 60 L’importanza di Gal 4, 24-26 nel dibattito teologico così acceso dei primi secoli cristiani è reso evidente da queste parole di Girolamo, che sottolineano lo stretto legame tra filologia ed esegesi biblica da un lato e controversie dogmatiche e dottrinali dall’altro. Rigettando le idee di Marcione, il quale toglieva ogni interesse all’Antico Testamento e praticava una diffusa allegorizzazione di quel che conservava della Bibbia (Luca ed epistole di Paolo), lo Stridonense asserisce, nel § 3, che cogliere il senso profondo della Scrittura non significa cogliere il senso che l’inteprete proietta nella Scrittura presentandolo come il senso vero al di là dei veli della lettera, bensì rispettare l’autorevolezza del testo biblico e per questo procedere alla ricerca di un senso profondo solo dopo che
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l’accertamento storico-critico del senso superficiale autorizza l’approfondimento ulteriore da parte dell’interprete. 61 Emerge il consueto interesse dello Stridonense per questioni testuali e filologiche nonché la collazione continua con il testo greco paolino di Origene. Peraltro, bisogna notare che il testo origeniano è uguale a quello presente in Mario Vittorino ed Ambrosiaster (presumibilmente testimoni di una delle Veteres latine), cioè ha ‘vos’ invece che ‘nos’. La posizione testuale geronimiana appare alquanto isolata, perché in fin dei conti ‘vos’ è il testo biblico dei commentatori precedenti, di Origene e di Ambrogio (Abr., 1, 4, 28, p. 64-67); nella Vulgata invece è presente ‘nos’ come pure nelle citazioni agostiniane di questo versetto. Resta aperta, quindi, la questione dell’origine di questa modifica testuale di Girolamo. Cf. G. Raspanti, ‘L’esegesi della lettera ai Galati’, p. 115-116. 62 L’episodio di Es 4, 24-26, cui allude Girolamo, costituisce ‘l’un des textes les plus énigmatiques de la Bible’ secondo A. Le Boulluec, ‘Moïse menacé de mort. L’énigme d’Exode 4,24-26 d’après la Septante et selon les Pères’, Cahiers de Biblia Patristica, 1 (1987), p. 75. I versetti biblici raccontano dell’ira divina nei confronti di Mosè a causa della sua non circoncisione e dell’intervento salvifico della moglie Zippora che circoncidendo il figlio di Mosè e simulando la circoncisione di Mosè attraverso il contatto del prepuzio del fanciullo con le parti genitali del padre salvò la vita al marito. Esistono delle divergenze già tra il testo della Settanta e quello del Targum (come viene notato dal medesimo Girolamo) ed i Padri hanno spiegato secondo prospettive diverse questi versetti dell’Esodo. Tra le interpretazioni ricostruite da Le Boulluec (p. 79-83) la più interessante è quella di Origene, perché aiuta a comprendere le parole di Girolamo, che certo all’Alessandrino deve essersi inspirato: “Dans le long exposé sur la circoncision du Commentaire sur l’Epître aux Romains auquel Origène renvoie son lecteur en Contre Celse V, 47, le récit d’Ex 4,24-26 n’est pas traité pour lui-même, mais invoqué parmi les exemples qui sont censés prouver que la circoncision de la chair est désormais abolie et que seule prévaut la circoncision spirituelle, celle du cœur” (p. 82). In effetti, anche nell’esegeta Dalmata l’episodio di Es 4,24-26 è utilizzato, come in Origene, quale esempio per chiarire che la circoncisione della carne non giova in alcun modo, anzi in Cristo essa non ha più alcun valore. Inoltre, uno degli aspetti più originali della spiegazione di Origene è che l’angelo di cui si parla nel testo
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biblico è una potenza malvagia, un simbolo del male, ma coloro che credono in Cristo non hanno più bisogno della circoncisione (= sacrificio espiatorio che allontanava la forza del male) poiché la circoncisione di Gesù ha avuto come effetto di liberare i Giudei dalla minaccia dell’angelo, cioè dal male: da qui il divieto paolino (Gal 5, 2) di farsi circoncidere, perché per chi si fa circoncidere Cristo non serve a niente. Infatti, l’angelo di Es 4, 24-26 ha subito, secondo Origene, una sconfitta definitiva, nel senso più ampio che il peccato è stato condannato nella carne per mezzo dell’incarnazione di Cristo e che il potere della morte, il diavolo, è stato ridotto all’impotenza dalla morte di Gesù. Ora, ritornando alle parole di Girolamo, è evidente che nel modo in cui lo Stridonense introduce l’esempio è da vedere un indizio dell’influsso origeniano: non può indurre alla circoncisione (nec nos moueat quod) l’episodio di Zippora e della circoncisione del figlio di Mosé perché appunto la circoncisione non serve più ad allontanare la minaccia dell’angelo, evidentemente visto, come nell’Alessandrino, quale forza e simbolo del male. La circoncisione aveva valore quando le benedizioni carnali erano utili per quanti osservavano la legge, ma con la venuta di Cristo si compie la vera circoncisione, non quella giudaica, della carne, bensì quella spirituale, del cuore.
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LIBRO TERZO
[1.] Abbiamo composto questo terzo libro del Commentario all’epistola ai Galati, o Paola ed Eustochio, senza ignorare la nostra debolezza e sapendo che il ruscello di un ingegno esile1 risuona a malapena di un lieve mormorio. Ormai, infatti, anche nelle chiese si ricercano queste cose e, abbandonata la semplicità e la purezza delle parole degli Apostoli, ci si ritrova per così dire nell’Ateneo e negli auditori per suscitare il plauso degli astanti, perché l’orazione, imbellettata con l’inganno della retorica, si faccia strada tra il pubblico come una sgualdrinella2, non tanto per istruire il popolo quanto piuttosto per guadagnarsene il favore, e, alla maniera del salterioa e del flauto che risuona dolcemente, conquisti i sensi degli ascoltatori; dimodoché a ragione si può adattare al nostro tempo questo passo del profeta Ezechiele nel quale il Signore gli dice: Tu sei diventato per loro come la musica di una cetra dal dolce suono e ben accordata: ascoltano le tue parole e non le mettono in pratica (Ez 33, 32). [2.] Ma cosa dovrei fare? Stare zitto? È scritto però: Non ti presenterai al cospetto del Signore Dio tuo a mani vuote (Es 23, 15); ed Isaia si lamenta (come tuttavia si trova nei testi in ebraico): Povero me, poiché ho taciuto (Is 6, 5). Dovrei parlare? Ma
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a Il salterio è uno strumento musicale con corde (10 sono quelle evocate nei Salmi) disposte orizzontalmente sopra una tavola armonica. È di forma trapezoidale, spesso con uno o due fianchi incurvati; le corde vengono pizzicate direttamente con le dita o con un plettro. A ogni corda corrisponde una nota di altezza diversa. Il nome dello strumento deriva dal termine greco psalterion, che qui Girolamo traduce con psalterium.
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il suono stridulo delle letture in ebraico mi ha sporcato ogni eleganza dell’eloquio e la raffinatezza della lingua latina3. Sapete anche voi, infatti, che sono più di quindici anni da quando non ho più tra le mani Tullio, Marone o un qualsiasi autore di opere letterarie pagane; e se mentre parliamo qualcosa si insinua di nascosto da quelle fonti, è per così dire il ricordo nebuloso di un sogno passato. Lascio al giudizio degli altri che cosa abbia tratto dall’instancabile studio di quella lingua4: io so che cosa ho perso nella mia. Si aggiunge a ciò che a causa della debolezza degli occhi e di tutto il corpo non scrivo di mio pugno; né mi riesce di compensare la lenta fluidità dell’eloquio con il lavoro e l’impegno, giacché pure di Virgilio tramandano che abbia dato forma ai suoi libri leccandoli alla maniera dei piccoli degli orsi5. Invece, chiamato uno stenografo, o gli detto subito quello che mi è venuto in mente, o se voglio riflettere un po’ per dire meglio qualcosa, egli allora mi rimprovera col suo silenzio, tira indietro la mano, corruga la fronte e attesta con tutto il movimento del corpo che si trova lì inutilmente6. D’altra parte, un discorso, benchè sia il risultato di una mente talentuosa e sia abbellito con invenzioni e ornato dal fiore delle parole, tuttavia, se non è levigato e rifinito dalla mano dello stesso autore, non è accurato, non possiede la solennità mista a bellezza, ma, al modo di contadini arricchiti, è messo in discussione, piuttosto che essere ornato, dalle sue ricchezze. [3.] A che mirano queste considerazioni? Evidentemente a rispondere sia a voi sia a tutti gli altri (quelli che per caso volessero leggerle) che io non scrivo né un panegirico né una controversia7 ma un commentario, cioè questo è il mio intento: non che le mie parole ricevano elogi, ma che tutto ciò che è stato detto bene da un altro venga capito così come è stato detto. Il mio compito è discutere i luoghi poco chiari, sintetizzare quelli evidenti, soffermarmi su quelli incerti8, per cui il genere dei commentari è anche denominato dai più ‘spiegazione’9. Se qualcuno cerca l’eloquenza o si diletta per le declamazioni, trova nella lingua latina ed in quella greca Demostene e Cicerone, Polemone e Quintiliano. La chiesa di Cristo non è stata radunata da gente che proviene dall’Accademia o dal Liceo, bensì
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dal vile popolino; per questo anche l’Apostolo dice: Considerate, fratelli, la vostra vocazione, perché non ci sono molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili, ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti; e Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono (1 Cor 1, 26-28). [4.] Poiché infatti in base all’ordine, alla varietà, alla stabilità della creazione il mondo non aveva conosciuto Dio per mezzo della scienza, a Dio piacque salvare i credenti per mezzo della stoltezza della predicazione (cf. 1 Cor 1, 21), non nella scienza della parola, dimodoché non venisse svuotata di senso la croce di Cristoa (dov’è infatti il saggio, dove il grammatico, dove sono i ricercatori dei fenomeni naturali?), né nelle persuasive parole della filosofia, ma nel mostrare la virtù e lo spirito in modo che la fede dei credenti non risiedesse nella sapienza degli uomini, ma nella potenza di Dio (cf. 1 Cor 2, 4-5). Ragion per cui anche l’Apostolo diceva ai medesimi Corinzi: Anch’io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai con discorsi elevati e sapienti per annunziarvi la testimonianza di Dio. Io ritenni infatti di non sapere nient’altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo e questi crocifisso (1 Cor 2, 1-2). [5.] E affinchè per caso non si pensi che egli dicendo queste cose sia uno che predica la stoltezza, con mente profetica fa cadere tutte le possibili obiezionib: Ma parliamo – dice – della sapienza di Dio che è nascosta nel mistero, che nessun principe di questo mondo ha mai conosciuto (1 Cor 2, 7-8). Quanti oggi leggono Aristotele? Quanti conoscono i libri di Platone o il suo nome? A stento, i vecchi oziosi li studiano negli angoli; invece tutto il mondo parla dei nostri contadini e dei nostri pescatori, tutto il mondo ne risuona. Pertanto è necessario che le loro semplici parole vengano spiegate da discorsi semplici: le parole, dico, non il contenuto. Del resto se, con le vostre preghiere, potessi avere, nello spiegare le loro lettere, lo stesso spirito che quelli
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Cf. 1 Cor 1, 17. Intervengo sul testo latino per sostituire il punto con i due punti, in quanto penso che la citazione di 1 Cor. 2, 7-8 sia un logico sviluppo dell’affermazione precedente. a
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ebbero nel dettarle, allora vedreste che in esse è contenuta tanta solennità e ampiezza di vera sapienza quanta è stata la presunzione e la vanità negli intellettuali pagani. In poche parole vi rivelerò un pensiero segreto della mia mente: non voglio che colui che ha intenzione di accostarsi all’Apostolo attraverso le mie parole abbia difficoltà a capire i miei scritti e cerchi un altro interprete per decifrare il commentatore10. Ma è ora arrivato il momento di esporre il resto.
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5,7 Correvate bene; chi vi ha impedito di non ubbidire alla verità? [1.] Quel che l’interprete latino ora ha tradotto ‘non ubbidire alla verità’ e che in greco è stato scritto ‘tē alētheia mē peithesthai’ in un versetto precedente l’aveva reso così: ‘non credere alla verità’. Abbiamo annotato in quel luogoa che queste parole non si trovano negli antichi codici, benchè anche copie greche siano state viziate da tale errore. [2.] Il significato peraltro è questo: adoravate il Padre in spirito e verità e apprendendolo dalla pienezza di Cristo sapevate che la legge è solo stata data al popolo per mezzo di Mosè e non è stata anche adempiuta; al contrario la grazia e la verità non solo sono state date, ma si sono compiute attraverso Gesù Cristo. Poiché dunque correvate così bene asservendovi alla verità piuttosto che alle immagini (cf. 1 Ts 1, 9), intralciati da quale maestro malvagio seguite l’ombra della legge (cf. Eb 10, 1) e abbandonate la verità del Vangelo? Segue: Non sarete d’accordo con nessuno. Ma poiché non abbiamo trovato scritte queste parole né nei codici greci né negli autori che hanno commentato l’ Apostolo, bisogna tralasciarle11. 5,8 La vostra persuasione non dipende da colui che vi ha chiamati. [1.] Nei codici latini ho trovato il testo scritto così: la vostra persusione dipende da Dio che vi ha chiamati; io credo che in origine il testo sia stato ‘da colui’ e pian piano, non compreso a causa della somiglianzab, si diffuse ‘da Dio’ al posto di ‘da colui’. Ma neppur così può stare in piedi un significato del brano per cui, poco prima, egli li aveva accusati perché non Cf. In Gal. 1, 3, 1b, 2. Nel testo latino la differenza grafica tra ex Deo (da Dio) ed ex eo (da colui) è minima. a
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ubbidivano alla verità, lasciando intendere che è posta nel loro arbitrio la facoltà di ubbidire o di non ubbidire, adesso invece dichiara che questa persuasione e la loro ubbidienza non dipende da quelli stessi che sono chiamati bensì piuttosto da colui che li chiama. Dunque è meglio e più plausibile leggere così: la vostra persuasione non dipende da colui che vi ha chiamati12. Giacché uno è il compito di Dio, un altro è quello degli uomini: il compito di Dio è chiamare, quello degli uomini è credere o non credere. E se per caso in base alle Scritture si asserisce il libero arbitrio degli uomini in altri brani come per esempio: Se vorrete e mi ascolterete (Es 19, 5) e ancora: Ed ora Israele, che cosa ti chiede il Signore Dio tuo (Dt 10, 12), anche da questo luogo il libero arbitrio è massimamente confermato. Tuttavia tutte le persone troppo ingenue, pensando di affidarsi a Dio in modo da porre in suo potere anche la nostra persuasione, tolsero una parte del discorso, il non, e attribuirono all’Apostolo il senso opposto13. [2.] Quindi sia nel bene che nel male, non sono in gioco Dio o il diavolo, poichè la nostra persuasione non dipende da colui che ci ha chiamati, ma da noi che acconsentiamo o non acconsentiamo a colui che chiama. Secondo una diversa interpretazione: questa persuasione che voi adesso seguite non dipende da Dio che all’inizio vi ha chiamati, ma da coloro che vi hanno turbato in seguito.
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5,9 Un po’ di lievito fa fermentare tutta quanta la pasta. [1.] Nei nostri codici è riportato in modo errato: un po’ di lievito guasta tutta quanta la pasta e il traduttore ha trascritto il senso da lui individuato piuttosto che le parole dell’Apostolo. Paolo invece utilizza la medesima espressione che usa per i Corinzi quando prescrive che colui il quale convive con la moglie di suo padre venga tolto di mezzo e lasciato alla penitenza per la rovina e il tormento della carne attraverso digiuni e malattie, affinché il suo spirito possa essere salvo nel giorno del Signore Gesù Cristo (cf. 1 Cor 5, 1-2.5); infatti dice: Non è una bella cosa il vostro vanto, non sapete che un po’ di lievito guasta tutta quanta la pasta? (1 Cor 5, 6) o meglio (come abbiamo già corretto) fa fermentare tutta la pasta? E subito aggiunge: Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova poiché siete azzimi; infatti Cristo
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nostra pasqua è stato immolato. Celebriamo dunque il banchetto non con il lievito vecchio né con quello di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità (1 Cor 5, 7-8). [2.] Ora invece insegna con questa stessa frase che il pane spirituale della chiesa, che discende dal cielo (cf. Gv 6, 32-33.51), non deve essere profanato con un’interpretazione giudaizzante. E il Signore raccomanda ai suoi discepoli la stessa cosa, che stiano attenti al lievito dei farisei (cf. Mt 16, 6); e l’evangelista rendendo più chiaro questo concetto ha aggiunto: Aveva parlato loro della dottrina dei farisei (Mt 16, 12). Allora qual è quest’altra dottrina dei farisei, se non l’osservanza della legge secondo la carne? [3.] Il senso quindi è questo: non pensate che l’insidia di pochi uomini, che arrivando dalla Giudea dànno un insegnamento diverso (cf. At 15, 1), sia da ritenere di poco conto. Una scintilla è piccola e quasi non si vede quando appare; ma se fa prendere fuoco ad un pezzo di legno e la fiamma benchè piccola trova il suo alimento, divora mura, città, boschi grandissimi e regioni. Anche il lievito, su una diversa accezione del quale nel Vangelo è calibrata una parabola (cf. Mt 13, 33), sembra una cosa di piccole dimensioni e da nulla, ma dopo che, mescolato alla farina, con il suo vigore ha guastato tutta quanta la pasta, tutto ciò che si è unito al lievito passa ad assumere il carattere di questo: così anche una dottrina perversa, che comincia da uno, trova all’inizio appena due o tre seguaci; ma a poco a poco, il cancro si insinua nel corpo e, come in un detto popolare, la scabbia di un solo animale contamina tutto il gregge. Quindi anche la scintilla, non appena è apparsa, subito deve essere estinta e il lievito deve essere separato dal contatto con la pasta, le carni putride devono essere amputate e l’animale con la scabbia deve essere cacciato dal recinto delle pecore, affinché non bruci tutta quanta la casa, la pasta non si guasti, il corpo non marcisca e le pecore non muoiano. Ario d’Alessandria è stato una scintilla sola; ma poiché non è stata subito soffocata, la fiamma ha distrutto tutto il mondo. 5,10a Io sono fiducioso per voi nel Signore che non crederete a nient’altro. Non per una supposizione, come preferiscono alcuni, ma per ispirazione profetica Paolo afferma
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che i Galati ritorneranno sulla via della verità che avevano abbandonato. E infatti egli, che esortava gli altri a cercare di imitare i carismi (cf. 1 Cor 14, 1), soprattutto a profetare, colmo allo stesso modo della medesima grazia diceva: In parte conosciamo e in parte profetiamo (1 Cor 13, 9). Prevedendo dunque nello spirito che non avrebbero riposto la fiducia in nient’altro se non in ciò che veniva insegnato loro tramite epistola dice: Io sono fiducioso per voi nel Signore che non crederete a nient’altro. Infatti anche l’aggiunta del nome del Signore esprime questo stesso significato; se infatti pensava questo per una supposizione, avrebbe potuto dire: Io sono fiducioso per voi; ora invece aggiungendo ‘nel Signore’ ha profetizzato quello che sapeva che sarebbe accaduto confidando in uno spirito divino. 5,10b Chi vi turba subirà il giudizio, chiunque egli sia. [1.] Offende Pietro di nascosto, dicono, al quale, in precedenza, scrive di essersi opposto pubblicamente, per il fatto che non si accostava correttamente alla verità del Vangelo (cf. Gal 2, 11.14); ma Paolo non potrebbe rivolgere un attacco così arrogante contro il capo della chiesa né Pietro potrebbe meritare l’accusa di aver turbato la chiesa14. Da ciò bisogna ritenere che queste parole sono state pronunciate su un’altra persona che era stata insieme agli apostoli o era venuta dalla Giudea o aveva creduto dalle fila dei farisei o era reputata importante presso i Galati sì da subire il giudizio di aver turbato la chiesa, chiunque egli sia. [2.] Appunto subire il giudizio, cioè quello che in un passo successivo esprime con altre parole: Ciascuno porterà il proprio fardello (Gal 6, 5). E penso che nelle Scritture il termine ‘fardello’ possa essere interpretato sia in un’accezione positiva che in una negativa, cioè sia in riferimento a coloro che sono oppressi da peccati gravi sia in riferimento a quelli che sorreggono il peso leggero delle virtù. Riguardo ai peccati il penitente dice nel salmo: Le mie ingiustizie si sono innalzate al di sopra della mia testa, come un carico pesante hanno gravato su di me (Sal 38, 5); riguardo le virtù e l’insegnamento delle virtù il Salvatore dice: Il mio giogo è dolce e il mio fardello leggero (Mt 11, 30). Nel Vangelo diventa chiaro che anche il termine dottrina è inteso nel senso di peso; di certo i farisei legano fardelli pesanti e pesi che non si possono
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sopportare e li pongono sulle spalle degli uomini, ma essi non vogliono toccarli neanche con un dito (Mt 23, 4). [3.] Quanto sia grave turbare la tranquillità di qualcuno e agitare, per così dire, con le onde i cuori sereni degli uomini, lo dimostrano le parole del Salvatore che dice agli apostoli: il vostro cuore non sia turbato e non abbiate timore (Gv 14, 27). Giacché a colui che turba e crea scandalo a qualcuno nella chiesa conviene effettivamente che gli sia messa al collo un pietra molare e con essa venga gettato in mare piuttosto che scandalizzare uno tra questi piccoli che sono additati dal Salvatore (cf. Lc 17, 1-2). Dunque i Galati erano confusi, non sapendo cosa fare tra lo spirito e la lettera, tra la circoncisione e l’incisione, tra un giudaismo interiore ed uno manifesto (cf. Rm 2, 28-29). [4.] Si può però intendere in maniera più concisa anche così: chiunque sia colui che vi riconduce alla dottrina dei farisei e desidera essere circonciso nella carne, sebbene sia eloquente e si vanti della sua conoscenza della legge, a costui non dico niente di più se non questoa (cosa che neanche voi potete negare): per quest’azione subirà il giudizio e riceverà la ricompensa per il suo lavoro (cf. 1 Cor 3, 8).
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5,11 Io peraltro, o fratelli, se predico la circoncisione, perché subisco tuttora la persecuzione? Dunque lo scandalo della croce è annullato (ovvero è cessato, come si trova meglio nel testo greco). [1.] Lo leggiamo negli Atti degli Apostoli, ma anche nelle sue epistole l’Apostolo Paolo ricorda spesso di aver subìto numerosissime persecuzioni da parte dei Giudei per il fatto che insegnava che coloro che avevano creduto in Cristo dalle fila dei pagani non dovevano farsi circoncidereb. Perciò costoro, dei quali sopra dice: Chi vi turba, subirà il giudizio, chiunque egli sia, aggiungevano anche questo per raggirare i Galati: non solo Pietro, Giacomo e Giovanni e tutti gli altri apostoli in Giudea osservano la circoncisione e gli altri precetti della legge, ma anche lo stesso Paolo, che vi ha dato insegnamenti a
Bisogna evidenziare l’andamento fortemente anacolutico del testo geronimiano nel § 4. b Cf. At 21, 21; 1 Cor 7, 18.
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diversi rispetto alla realtà dei fatti, ha circonciso Timoteo e spesso, sotto l’urgenza della verità, si è fatto giudeo fra i Giudeia. [2] Ora Paolo, volendo togliere quest’idea dalle menti dei Galati, dice: Io peraltro, o fratelli, se predico la circoncisione, perché subisco tuttora la persecuzione? Tutto l’odio dei Giudei, dice, nei miei confronti e la rabbia con cui se la prendono con me, a nient’altro è dovuta se non al fatto che insegno ai pagani che non si devono circoncidere e che non devono custodire i carichi della legge non necessari e già aboliti. Poiché, del resto, subisco la persecuzione, è evidente che io non predico la circoncisione che voglio distruggere. Infatti subisco la persecuzione dai Giudei non tanto perché predico un uomo crocifisso (cf. 1 Cor 1, 23) e dico che Gesù è il Cristo che la legge e i profeti hanno preannunciato, quanto perché insegno che la legge è stata adempiuta. [3.] Che la croce sia scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani lo dimostra lo stesso Signore nostro, che è detto pietra d’inciampo e pietra dello scandalo (1 Pt 2, 8): per nient’altro penso se non per il fatto che quand’anche la predicazione procede a vele spiegate presso gli ascoltatori, non appena si arriva alla croce, si incaglia e in nessun modo riesce a procedere oltre con libero corso; ma questa croce che è scandalo per i Giudei e per i pagani è stoltezza, per noi che crediamo è potenza e sapienza: Cristo infatti è potenza di Dio e sapienza di Dio (1 Cor 1, 24) affinchè, a causa di ciò che era chiamato stoltezza, la stoltezza di Dio diventasse per gli uomini sapienza più grande e, a causa di ciò che è debolezza e scandalo, la debolezza di Dio diventasse forza maggiore per gli uomini (cf. 1 Cor 1, 25). Ma – dice – siccome lo scandalo della croce di Cristo rimane e io subisco la persecuzione, che non subirei se lo scandalo non rimanesse, invano alcuni vanno dicendo che io predico la circoncisione, combattendo la quale affronto la persecuzione.
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5,12 Magari vengano mutilati coloro che vi turbano. [1.] Ci si chiede in che modo Paolo, discepolo di colui che dice: Benedite coloro che vi maledicono (Lc 6, 28), e che personalmente afferma: Benedite e non maledite (Rm 12, 14) e in un altro luogo: I a
Cf. At 16, 3; 1 Cor 9, 20.
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maledicenti non erediteranno il regno di Dio (1 Cor 6, 10), ora abbia maledetto coloro che turbavano le chiese della Galazia e li abbia maledetti con l’auspicio di chi si augura: Magari vengano mutilati coloro che vi turbano. Infatti la sofferenza della mutilazione è talmente detestabile che colui che l’ha fatto a qualcuno contro la sua volontà è punito dalla legge e colui che ha castrato se stesso è giudicato un infame. Infatti, affinché sia veritiero quel versetto: Cristo vive in me (Gal 2, 20) e questo: Cercate una prova di quel Cristo che parla in me? (2 Cor 13, 3), un’espressione di insulto, dicono, non può indubbiamente appartenere a colui che dice: Imparate da me che sono umile, mite e buono di cuorea (Mt 11, 29); e si pensa che egli, a causa della furia giudaica e di una follia per così dire sfrenata, non abbia potuto trattenersi invece di imitare colui che, trovandosi come un agnello di fronte al proprio tosatore, non aprì la sua bocca (cf. Is 53, 7) e oltraggiato non ricambiò a coloro che lo maledicevano (cf. 1 Pt 2, 23): condannato, si consegnò piuttosto alla morte. [2.] Chi risponderà a ciò per conto di Paolo dirà così15: le parole che ha pronunciato non sono tanto di ira contro gli avversari quanto di amore nei confronti delle chiese di Dio16; giacché vedeva che l’intera provincia, che egli con il suo sangue e con i suoi rischi aveva condotto dall’idolatria alla fede in Cristo, era sconvolta da un improvviso cambio di fede, e non si poteva trattenere dalla sofferenza di apostolo, dal dolore di padre: cambiava voce e si arrabbiava con coloro che aveva lusingato per trattenere almeno con i rimproveri coloro che non era stato in grado di trattenere con la dolcezza. Né è strano se l’Apostolo, nella condizione di uomo e di persona ancora rinchiusa dentro un piccolo vaso e che si rende conto che un’altra legge lo tiene prigioniero nel suo corpo e lo costringe sotto la legge del peccato (cf. Rm 7, 23), per una volta abbia detto qualcosa nella quale vediamo cadere spesso gli uomini santi.
Gli interlocutori di cui Girolamo riporta le perplessità dinanzi a Gal 5, 12 obiettano, in sostanza, che il senso del versetto non può essere una maledizione, visto che Paolo, identificandosi con Cristo e presentandosi come persona nel quale parlava Cristo, non avrebbe potuto fare un’affermazione in palese contrasto con quanto Cristo medesimo aveva detto di sé, cioè di essere umile e mite. a
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[3.] Ma si può anche dire (sebbene a certuni sembri superfluo) che Paolo non abbia tanto maledetto loro ma che piuttosto abbia pregato per loro affinchè perdessero le parti del corpo a causa delle quali erano indotti a peccare17. E come è stato detto nel Vangelo che è meglio che qualcuno entri nel regno dei cieli senza un occhio, una mano, un piede e qualsiasi altra parte del corpo piuttosto che andare tutto intero alla Geenna (cf. Mt 18, 8-9), così anche adesso augura loro che perdano una parte del corpo piuttosto che essere condannati ad un fuoco eterno con un corpo integro. Se mai questo luogo viene criticato dai pagani, abbiamo dimostrato in che modo si possa rispondere loro18. [4.] Adesso facciamo un dichiarazione contro gli eretici, cioè contro Marcione, Valentino e tutti quelli che abbaiano contro l’Antico Testamento: in che modo essi, che mettono sotto accusa il creatore come Dio sanguinario, feroce guerriero e giudice soltanto, sono in grado di giustificare questo genere di affermazioni nell’Apostolo del Dio buono19. E penso che certamente nessuna frase nell’antica legge sia tanto crudele, tanto sanguinaria contro alcuni quanto questa: magari vengano mutilati coloro che vi turbano; né possono dire che l’Apostolo stesse pregando per i nemici di Cristo che turbavano le sue chiese; né che è detto per amore ciò che è dimostrato, dal peso stesso delle parole, pieno di rabbia e di indignazione. Qualunque giustificazione quelli adducano per Paolo, noi lo affermeremo in difesa dell’antica legge.
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5,13a Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati alla libertà; purchè non trasformiate (è sottinteso questo verbo che, poiché non si trova nel testo greco, è stato inserito dal traduttore latino) la libertà in un pretesto per la carne. [1.] Mi è sembrato opportuno tradurre parola per parola questo luogo dal decimo libro degli Stromati20, poiché è molto oscuro: non perché le singole parole non si possano spiegare nei loro specifici contesti e significati, ma perché se separate dal significato fin qui assunto dall’epistolaa difficilmente formano a Non penso che si debba tradurre in modo eccessivamente letterale l’espressione geronimiana ‘a superiore negotio’, perché altrimenti non è agevole per i lettori italiani comprendere il senso delle affermazioni dell’autore. Superior ha in Girolamo, secondo l’uso della lingua latina, il senso di ‘precedente’, ‘che sta
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un corpo unico e, se vengono intese così come risuonano, sembrano essere in contraddizione tra loro e scaturire in maniera incoerente e improvvisa21. Perciò queste sono le parole di Origenea: [2.] “È un passo difficile e ci sembra che si debba spiegare in questo modo. Colui che è libero e segue lo spirito e la verità mediante un senso più profondo disprezza sia le figure precedenti sia la lettera; non per questo deve guardare con disprezzo agli inferiori e deve dare a coloro che non possono pensare in modo più elevato un pretesto per perdere del tutto la speranza riguardo a se stessi. Infatti per quanto siano deboli e vengano chiamati carne sulla base del confronto con lo spirito, tuttavia sono la carne di Cristo. Se infatti egli comprende il mistero della carità che si fa serva dei più deboli, faccia qualcosa per i deboli, affinché nella sua scienza non muoia il fratello per il quale Cristo è morto (cf. 1 Cor 8, 11). Bada bene, dunque, se da quel che segue viene fuori questo significato22. [3.] Voi, dice, fratelli, siete stati chiamati alla libertà: forse per questo, perché non tutti avevano potuto accogliere la chiamata alla libertà; per la qual cosa ora ascoltate: purchè non trasformiate questa libertà in un pretesto per la carne. Infatti è opportuno che per amore i più grandi si occupino dei più piccoli, perché chi voglia essere il più grande sarà il servo di tutti (cf. Mc 10, 44). Né dunque l’uomo spirituale offenda le carni di Cristo né dia loro il pretesto di offendere a loro volta colui che li provoca per evitare che si rovinino reciprocamente (cf. Gal 5, 15). Dunque è necessario che colui che cammina nello spirito e che nello spirito segue le parole delle Scritture non soddisfi il desiderio della loro carne (Gal 5, 16). prima’ e non (se non in rarissimi casi) il senso di ‘profondo, superiore qualitativamente’. Anche il senso di negotium è molto latino: indica l’ufficio, il compito delle parole, cioè quello di unirsi a comunicare un messaggio al destinatario. Girolamo intende dunque dire che se i versetti da 5, 13 in poi non vengono intesi in coerenza con il messaggio veicolato dalle parole dei versetti dei quasi cinque capitoli precedenti, si rischia di non cogliere il filo conduttore che sta seguendo il ragionamento paolino e la portata del suo messaggio. a Origene, In Gal. fr. 3, p. 222-227 (cf. anche F. Pieri, Introduzione generale, p. 22-23).
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[4.] Ma se intendiamo in maniera letterale (come pensano molti) le parole: camminate secondo lo spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne (Gal 5, 16), è all’improvviso che Paolo proromperà in queste affermazioni contro il tema e l’argomentazione di tutta quanta l’epistola; subito infatti segue: Ma se vi fate condurre dallo spirito, non siete sotto la legge (Gal 5, 18), e il discorso, pur avendo sotto certi aspetti una struttura di per sé coerente fino a questo punto, se invece seguiamo il senso letterale, ci rimanda d’un tratto a insegnamenti disordinati discutendo della carne e dello spirito, cioè: infatti le opere della carne sono evidenti (Gal 5, 19), le tali e le tali, e all’opposto: invece il frutto dello spirito è amore (Gal 5, 22), ecceteraa. Ma neppure in queste parole dobbiamo venir meno alla coerenza, poiché i racconti dei libri sacri contengono opere della carne senza grande giovamento per coloro che li intendono così come sono stati scrittib. Chi infatti non imparerà ad essere schiavo della lussuria e a ritenere la fornicazione cosa da nulla, dopo aver letto di Giuda che andava da una prostituta e che i patriarchi avevano avuto molte mogli
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Dopo esser partito da 5, 13 ed aver ribadito la necessità della carità per chi è ‘spiritalis’ nei confronti delle restanti componenti della comunità cristiana evitando ogni lacerazione, Origene mostra che una considerazione puramente letterale di 5, 16 nonché dei versetti seguenti rischia di far apparire le parole di Paolo “contro il tema e l’argomentazione di tutta quanta l’epistola” e dunque non bisogna seguire la simplex intellegentia e valutare le affermazioni dell’Apostolo come una serie di inordinata praecepta. Semmai, in coerenza con i temi di ep.Gal., il testo dell’Apostolo è da leggere come un invito a tralasciare la lettera della Scrittura perché induce solo alle opera carnis: una lunga serie di esempi biblici (§§ 4-5) mostra le molte occasioni di mali per chi rimane nella carne della Scrittura e rischia di non conseguire il regno di Dio. È necessario invece (§ 6), secondo l’interpretazione origeniana di questi versetti paolini, ricercare lo spiritum Scripturae ed i suoi frutti, che non sono manifesti come le opera carnis, e pertanto bisogna, tralasciati i significati apparenti (typi), andare oltre, rivolgersi ad ueritatem Scripturae et spiritum, dimodoché uno dopo l’altro il cristiano conseguirà tutti i veri frutti della Scrittura. b In altri termini, se fin qui nell’epistola Paolo ha esortato i Galati a non prendere su di sé le prescrizioni ritualistiche contenute nella Scrittura perché sono un inutile fardello, del quale ci si deve liberare attraverso un’interpretazione spirituale dei medesimi riti, in modo coerente ora – spiega Origene – l’Apostolo allarga il discorso al resto della Scrittura (non più cioè solo a quei testi che prescrivevano obblighi religiosi) per consigliare che venga interamente interpretata in senso spirituale in modo da evitare, nella condotta pratica di ogni giorno, comportamenti moralmente errati che un’interpretazione letteralistica della Bibbia sembrerebbe avvalorare. a
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contemporaneamentea? In che modo non sarà spinto all’idolatria chi non ha ritenuto che il sacrificio dei tori e tutte le altre vittime del Levitico abbiano un significato più ampio di quello che c’è nella letterab? [5.] Che il testo scritturistico ad una prima evidenza insegni le inimicizie (cf. Gal 5, 20) è dimostrato anche da questo luogo: Figlia sventurata di Babilonia, beato chi ti restituirà la ricompensa che tu ci hai reso. Beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sbatterà contro la pietra (Sal 137, 8-9) e anche da quell’altro brano: Ucciderò al mattino tutti i peccatori della terra (Sal 101, 8); e altre opere simili a queste, vale a dire sulle liti, l’emulazione, l’ira, le lotte, le discordie (cf. Gal 5, 20). Gli esempi della storia sacra ci spingono verso queste cose piuttosto che allontanarcene (a meno che noi non cogliamo un livello di lettura più profondo). Anche le eresie (cf. Gal 5, 20) sono nate da una comprensione carnale della Scrittura piuttosto che dall’operato della nostra carne, come molti pensano. E impariamo altresì le invidie e le ubriachezze attraverso la lettera della legge (cf. Gal 5, 21): Noè si ubriaca dopo il diluvio e così pure i patriarchi in Egitto presso il fratello Giuseppec. Ma gozzoviglie sono descritte anche nel libro dei Re, allorchè Davide danza e suona con i timpani davanti all’arca dell’alleanza con Dio, e cose del genered. Ci si chiede in che modo il linguaggio letterale della divina Scrittura, che è definito la sua carne, ci stimoli a venefici e stregonerie (cf. Gal 5, 20) se non passiamo allo spirito della medesima Scrittura. Io penso che questo significa che Daniele e i tre fanciulli si dimostrarono dieci volte più saggi di magi, incantatori, indovinie e Caldei e che Mosè fosse istruito in ogni sapienza e dottrina degli Egizianif. Cf. Gal 5, 19; Gen 38, 14-18. Cf. Gal 5, 20; Lv 1-7. c Cf. Gen 9, 21; 43, 34. d Cf. Gal 5, 21; 2 Sam 6, 5.14-15. e ‘Indovini’ è traduzione di “Gazareni”, forma latinizzata dell’aramaico ‘gāzĕrîn’ (per un esame dettagliato di questo termine si veda A. Jeffers, Magic and divination in ancient Palestine and Syria, Leiden – New York – Köln, 1996, p. 30-31): nel Commentario a Daniele (1, 2, 27b, p. 790) Girolamo invita a tradurre ‘Gazareni’ come ‘hauruspices’, per l’appunto ‘indovini’; questo modo d’intendere ‘gāzĕrîn’ è transitato nella Vulgata e per questa via nelle traduzioni moderne. f Cf. Dn 1, 20; 2, 2; 5, 11; At 7, 22. a
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[6.] È dunque occasione di molti mali se qualcuno rimane nella carne della Scrittura; chi fa ciò non conseguirà il regno di Dio. Perciò dobbiamo ricercare lo spirito e i frutti della Scrittura, che si dice non siano evidenti; infatti nelle Scritture il frutto dello spirito si trova con fatica, con sudore e con una adeguata devozionea. Per cui ritengo che Paolo abbia detto in modo attento e preciso a proposito dei significati carnali della Scrittura: Le opere della carne sono evidenti (Gal 5, 19); invece a proposito dei significati spirituali non ha affermato, come in quel luogo, che il frutto dello spirito è manifesto, ma così: Il frutto dello Spirito è invece la carità, la gioia, la pace (Gal 5, 22) e il resto. Poiché se, superate le figure, passiamo alla verità e allo spirito della Scrittura, subito per prima si diffonde in noi la carità e poi, procedendo verso la gioia, perveniamo alla pace, grazie alla quale conseguiamo la pazienza. Chi allora non viene istruito alla commiserazione e alla bontà, nel momento in cui comprende che sono rimedi piuttosto che punizioni anche quelle azioni che nella legge vengono ritenute spiacevoli per taluni, intendo dire i castighi, le guerre, la distruzione dei popoli e le minacce alle genti per mezzo dei profeti? Il Signore infatti non sarà adirato per sempre (cf. Is 57, 16). Dunque quando queste cose saranno per noi chiare, la nostra fede sarà più razionale e la moderazione accompagnerà i sani costumi, alla quale seguiranno la continenza e la castità, e dopo tutte queste cose la legge comincerà ad essere nel nostro interesse”. Fin qui Origene. [7.] Possiamo aggiungere le seguenti considerazioni: quelli che sono stati chiamati dalla schiavitù della legge alla libertà del Vangelo (ai quali sopra è detto: state saldi e non tornate sotto il giogo della schiavitùb) anche adesso sono ammoniti perché seguendo il giogo lieve di Cristo e i piacevoli insegnamenti del Vangeloc
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a La fatica richiesta all’interprete per comprendere il senso profondo della Scrittura è un tema essenziale dell’ermeneutica di Origene: l’oscurità del senso apparente del libro sacro è motivo di esercizio dell’acribia dell’interprete, che attraverso uno sforzo di vita e di impegno intellettuale compie l’ascesa verso il senso più intimo della Scrittura, la Verità di Dio, e così può, con la fatica del lavoro interiore, fruire dei frutti dello spirito. b Gal 5, 1. c Cf. Mt 11, 30; 1 Gv 5, 3.
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in nessun modo credano che è consentito loro utilizzare questa stessa libertà di vita come un pretesto per la carne: evidentemente affinché vivano secondo la carne, vengano circoncisi secondo la carne; ma stiano saldi nello spirito, nello spirito taglino via il prepuzio della carne e aspirando ai contenuti più alti dello spirito abbandonino completamente la bassezza del testo letterale. [8.] Ma si può intendere anche diversamente. Qualcuno potrebbe dire: se ho smesso, o Paolo, di essere sotto la legge e sono stato chiamato dalla schiavitù alla libertà, allora devo vivere in modo da conformarmi alla libertà e non essere vincolato da altri precetti, ma qualunque cosa mi andrà e il piacere mi suggerirà lo farò, lo soddisferò, lo inseguirò. A ciò l’Apostolo ha risposto che noi certamente siamo stati chiamati alla libertà dello spirito, ma in modo tale che proprio la libertà non sia schiava della carne; né possiamo pensare che, poiché tutto per noi è lecito, tutto sia utilea: anzi, poiché abbiamo smesso di essere schiavi della legge, diventati liberi ci occupiamo, grazie alla carità, di più gli uni degli altri affinché i precetti di una legge prolissa23 siano riassunti nel solo capitolo dell’amoreb. 174
5,13b-14 Ma mediante la carità mettetevi al servizio reciprocamente. Infatti tutta la legge si adempie in un’unica parola: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (cf. Mt 22, 39-40). [1.] Colui che, pur essendo libero da tutto, a causa della carità si è fatto servo di tutti per guadagnare molti (cf. 1 Cor 9, 19) esorta giustamente anche tutti gli altri affinché si mettano al servizio mediante la carità, che non cerca il suo interesse ma quello del prossimo. Chi infatti vuole essere il primo sarà il servo di tutti (cf. Mc 10, 44), affinché, come il Salvatore essendo costituito nella forma di Dio non considerò un tesoro l’essere uguale a Dio, ma svuotò se stesso assumendo la forma di servo e trovatosi nella condizione di uomo si umiliò divenuto obbediente fino alla morte, alla morte di croce (cf. Fil 2, 6-8): così anche noi, qualunque cosa prima credevamo di fare sotto a b
Cf. 1 Cor 6, 12; 10, 23. Cf. Rm 13, 8; Gal 5, 14.
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l’obbligo della legge, ora sappiamo che da liberi dobbiamo farlo ancor di più mediante la carità. [2.] In effetti la carità è un bene così grande che tutta la legge è ricapitolata in essa. L’Apostolo elenca le virtù della carità anche in un altro brano dicendo: Non è invidiosa, non agisce malamente (1 Cor 13, 4) e, dopo aver rievocato molte virtù nel corso del discorso, alla fine conclude: Tutto spera, tutto sopporta, la carità non ha mai fine (1 Cor 13, 7-8). E il Salvatore dice nel Vangelo che se uno ama il prossimo, questa è la prova che si tratti di un suo discepolo (cf. Gv 13, 35): la qual cosa penso che si addica non solo agli uomini ma anche agli angeli. Il medesimo concetto è espresso con altre parole: Ciò che non volete sia fatto a voi, non fatelo agli altri (Tb 4, 15); e: Tutto ciò che volete gli uomini facciano a voi, allo stesso modo anche voi fatelo a loro (Mt 7, 12). Non voglio che mia moglie sia sedotta, non voglio che il mio patrimonio venga rubato, non voglio essere rovinato da una falsa testimonianza e, per dire tutto in poche parole, sopporto malamente che mi succeda una qualche ingiustizia: se farò agli altri e vorrò tutto ciò mediante la carità che opera in me, tutta la legge è compiuta. [3.] Né è difficile spiegare come tutti i precetti (non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianzaa e tutto il resto) siano racchiusi nell’unica regola della carità. È arduo da chiarire come anche le vittime, che sono prescritte nel Levitico, e l’astinenza o la liceità dei cibi (essendo alcuni considerati mondi, altri immondi), nonché il ritorno continuo delle festività negli anni, siano ricapitolate nell’unico comandamento della carità. A meno che qualcuno non passi ad affermare che la legge è spirituale e che noi abbiamo servito le immagini e la figura dei beni celesti prima dell’avvento del vero ponteficeb; dopo che egli ci ha riscattati una volta per tutte col suo sangue offrendosi come vittimac, tutte le varie e difficili leggi antiche sono compiute nel suo amore per gli uomini. Il
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Cf. Es 20, 13-16; Mt 19, 18. Cf. Rm 7, 14; Eb 10, 1. c Cf. Eb 7, 27; 9, 12. a
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Padre infatti amò così tanto il mondo da dare per noi il Figlio suo amatissimo e unigenito (cf. Gv 3, 16). Allora a colui il quale, vivendo una volta per tutte secondo lo spirito, ha fatto morire le opere della carne e, amato dal Salvatore, è chiamato non servo ma amico non è più imposta la legge, che è stata fissata per gli empi, i peccatori, i ribelli, i malvagia. [4.] Ma ora, facendo, sia pur in minima parte, tutto quello che è troppo difficile, non facciamo solo ciò che è più facile a farsi e senza il quale tutte quante le cose che facciamo sono inutili. Il digiuno fa sentire le dure conseguenze sul corpo, le veglie indeboliscono la carne, le elemosine vengono ricercate con fatica, nel martirio, sebbene la fede sia ardente, tuttavia il sangue non è versato senza paura e senza sofferenza. Lasciamo pure che ci sia chi fa tutte queste cose: solo la carità è senza affanni e, poiché da sola rende il cuore puro, è presa d’assalto dentro di noi dal diavolo affinché non riusciamo a vedere Dio con mente pura (cf. Mt 5, 8). [5.] Quando infatti sedendo parlo contro mio fratello e contro il figlio di mia madre creo uno scandalo (cf. Sal 50, 20), quando sono tormentato dall’altrui felicitàb e considero un mio male il bene di un altro, non trovano forse compimento in me le parole seguenti: Se vi mordete e divorate reciprocamente, badate di non rovinarvi reciprocamente? (Gal 5, 15) Il possesso della carità è raro. Chi seguendo l’Apostolo (cf. Rm 9, 3) vuole essere egli stesso anatema separato da Cristo a vantaggio dei suoi fratelli? Chi piangendo insieme a coloro che piangono, gioendo con coloro che gioiscono (cf. Rm 12, 15), è ferito dalla ferita altrui? Chi è annientato dalla morte del fratello? Tutti amiamo più noi stessi che Dio. Vedi quanto è grande il bene della carità? Se abbiamo subìto il martirio in modo da volere che le nostre reliquie siano onorate dagli uomini, se intrepidi abbiamo versato sangue inseguendo la gloria del popolo e abbiamo dato i nostri averi fino ad impoverirci personalmente (cf. 1 Cor 13, 3), a questo genere di azione non si Cf. Gv 15, 15; 1 Tm 1, 9. Cf. Cipriano, zel. liv. 7, p. 289; inoltre, A. Cain, ‘Tertullian, Cyprian, and Lactantius in Jerome’s Commentary’, p. 42. a
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dà una ricompensa ma piuttosto una pena e per la malafede ci sono i tormenti piuttosto che la corona della vittoriaa. 5,15 Se vi mordete e divorate reciprocamente, badate di non rovinarvi reciprocamente. [1.] Anche questo versetto può essere inteso in modo letterale: non screditiamoci reciprocamente, non pensiamo di vendicarci degli insulti, non desideriamo, se afflitti, affliggere gli altri e, simili alle bestie, egualmente mordere ed essere morsi, dimodoché dopo i morsi segua la morte e la distruzione. [2.] È meglio invece, affinché Paolo non prorompa all’improvviso in precetti straordinari contro il ragionamento e la logica24 di tutta quanta l’epistola, intendere queste parole in modo da riferire tutto alla circoncisione e all’osservanza della legge. Se gli altri, dice, vi turbano, voi invece vi lasciate turbare. Se leggendo tutta quanta la Scrittura la intendete così come è scritta, occhio per occhio, dente per dente (Dt 19, 21), e l’ira ricerca la vendetta, la vendetta però impone il dolore: la legge non solo non lo vieta, ma anzi prescrive la giustizia ricambiando secondo la logica del taglione; ne consegue che il derubato derubi, il ferito ferisca a sua volta, che chi ha ricevuto un morso morda a sua volta e che quella che sembra essere giustizia sia la rovina che non punisce uno, ma distrugge entrambi. 5,16 Dico invece: camminate secondo lo spirito e non asseconderete il desiderio della carne. [1.] Anche questo versetto, in base ai precedenti, deve essere inteso in modo duplice, per spiegare che coloro che hanno mortificato secondo lo spirito le opere della carne e hanno seminato nello spirito per raccogliere dallo spirito la vita eternab, tutte le volte che hanno sentito solleticare il piacere della carne, non assecondano il suo desiderio (se esso è saziato, risulta essere un allettamento temporaneo), ma secondo lo spirito lo frenano e vivono secondo l’affermazione dello storico “sotto la guida dell’animo, grazie ai
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a A. Cain, ‘Tertullian, Cyprian, and Lactantius in Jerome’s Commentary’, p. 42-43, ritiene che dietro queste considerazioni geronimiane vi sia ancora Cipriano, unit. eccl. 14, p. 43-45. b Cf. Rm 8, 13; Gal 6, 8.
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servigi del corpo”a. [2.] Nondimeno è valida anche quell’altra spiegazione: poiché la legge è spirituale ed è giudeo non chi lo è pubblicamente ma chi lo è nel profondo e la circoncisione del cuore è nello spirito non nella letterab, diciamo che camminano secondo lo spirito e non assecondano il desiderio della carne coloro che escono spiritualmente dall’Egitto e attingono cibo e bevanda spirituale dalla pietra spirituale (cf. 1 Cor 10, 3-4), che non sono giudicati nel cibo o nella bevanda o nell’ufficio del giorno festivo o delle neomenie e del sabato (cf. Col 2, 16), ma camminano in tutto spiritualmente non assecondando il desiderio della legge carnale o della lettera, ma raccogliendo i frutti dell’intelligenza spirituale (cf. Gal 5, 22). [3.] In questo brano alcuni propongono anche una terza interpretazione, che però non è molto diversa dalla seconda25, in modo da asserire che il desiderio della carne si trova in coloro che sono piccoli in Cristo, mentre la via dello spirito negli uomini perfettic, ed il senso è: camminate nella profondità dello spirito, cioè nella strada dell’uomo perfetto, e non asseconderete i desideri dei fanciulli.
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5,17 La carne infatti desidera contro lo spirito, lo spirito invece contro la carne. Queste cose infatti si avversano reciprocamente, cosicché voi non fate tutto quello che volete. [1.] La carne gode di beni presenti e brevid, lo spirito di quelli eterni e futuri. In questa disputa, in posizione mediana, si trova l’anima che ha in suo potere il bene e il male, il volere e il non volere, ma non ha questo stesso volere e non volere in eterno, perché può accadere che, dopo aver concordato con la carne e avere fatto le sue opere, in seguito, tormentandosi per mezzo della penitenza, si unisca allo spirito e compia le sue opere. Ecco dunque quel che dice: Queste a Sallustio, Catil. 1, 2. Intervengo rispetto al testo constituito in CC SL 77A eliminando le parentesi che delimitavano la citazione sallustiana: in tal modo è meglio espressa la vivacità del testo di Girolamo che è impreziosito da questa reminescenza classica; infatti, nel terzo libro, come ho evidenziato in precedenza, lo stile del commento è più levigato ed elaborato. b Cf. Rm 7, 14; 2, 28-29. c Cf. 1 Cor 3, 1; Ef 4, 13. d Cf. Lattanzio, inst. 7, 1, p. 581-582; inoltre, A. Cain, ‘Tertullian, Cyprian, and Lactantius in Jerome’s Commentary’, p. 47-48.
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cose si avversano reciprocamente, cioè la carne e lo spirito, cosicché voi non fate tutto quello che volete; non per sottrarci l’arbitrio personale per mezzo del quale diamo la nostra adesione o alla carne o allo spirito, ma perché ciò che facciamo non appartiene propriamente a noi ma l’opera stessa viene assegnata o alla carne o allo spirito. [2.] Richiede un grande lavoro e un’eccessiva discussione trovare, dopo aver mostrato le opere della carne e dello spirito, opere intermedie che non sembrano appartenere né alla carne né allo spirito. Siamo chiamati carnali quando ci abbandoniamo totalmente alle passioni; spirituali quando seguiamo come maestro lo Spirito Santo, cioè quando conosciamo grazie a lui che ci istruisce e siamo formati per mezzo della sua guida. Uomini animali penso che siano i filosofi che considerano sapienza il proprio pensiero26, dei quali giustamente si dice: L’uomo animale però non comprende le cose che sono dello Spirito. Per lui infatti sono stoltezza (1 Cor 2, 14). [3.] Affinché ciò sia più chiaro facciamo un altro esempio. Chiamiamo terra la carne, oro l’anima, fuoco lo spirito: fintantoché l’oro è in mezzo alla terra non ha il suo nome ed è denominato dalla terra, a cui è unito; quando invece, separato dalla terra, prende sia l’aspetto che il nome dell’oro, è chiamato oro ma non è ancora valorizzato; se invece viene bruciato e ripulito con il fuoco, allora acquista lo splendore dell’oro ed il valore della sua bellezza. Così anche l’anima, fra terra e fuoco, cioè stando fra carne e spirito, quando si affida alla carne, è chiamata carne, quando si affida allo spirito, è chiamata spirito. E se si affida alla propria intelligenza e ritiene di potere trovare la verità senza la grazia dello Spirito Santo, riceverà, per così dire come l’oro sordido, la denominazione di uomo animale27. [4.] Questo brano può essere meglio chiarito in tal modo e diventare, per così dire, un’unica sequenza e un corpo che ben si lega e non è discordante nelle parti: fratelli, siete stati chiamati dalla servitù della legge alla libertà del Vangelo; ma vi scongiuro di non trasformare la libertà in licenza e di non considerare che vi è lecita ogni cosa che è permessa (cf. 1 Cor 6, 12) e di dare un pretesto alla carne e alla lussuria; anzi piuttosto imparate che questa libertà è una schiavitù più grande per cui,
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se prima la legge estorceva l’obbedienza contro la libertà degli individui, ora per la carità mettetevi al servizio reciprocamente, se è vero che tutto il peso della legge e i molteplici precetti non sono esclusi attraverso la grazia del Vangelo bensì sono stati compendiati nell’unico linguaggio della carità, perché amiamo il prossimo come noi stessi (cf. Mt 22, 39): colui infatti che ama il prossimo attua pienamente la legge (cf. Rm 13, 8) perché dà al prossimo i beni senza fargli del male. Se manca l’amore e non vi è la carità attraverso la quale tutta quanta la legge trova compimento, ci sarà una specie di latrocinio generale fra gli uomini, cosicché l’uno contro l’altro infuriandosi e mordendosi si rovinino reciprocamente. Voi invece, fratelli, perciò dovete vivere secondo la legge dello spirito, per non assecondare i desideri della carne. [5.] La carne infatti teme il freddo, disprezza la fame, è indebolita dalle veglie, s’infiamma per i piaceri, desidera ogni cosa raffinata e gradevole; invece lo spirito ricerca le cose che sono contrarie alla carne e che possono debilitarla. Ne consegue che non per questo, perché avete smesso di essere sotto la schiavitù della legge, pensiate di essere liberi, ma sappiate piuttosto che siete trattenuti dalla legge della natura, poiché non subito, se la legge non ha potere, è venuta meno anche la natura, per cui evidentemente le opere non seguano la vostra volontà, ma, dal momento che la carne combatte contro lo spirito, siete costretti frequentemente a fare quelle cose che non volete. Perciò fratelli, vi chiedo questo, di non dare la vostra libertà come pretesto per la carne, ma piuttosto di mettervi al servizio dello spirito affinché cominciate a fare quelle cose che volete e a non dovere nulla alla legge, cioè a non essere sotto la carne. Poiché potrete ottenere veramente la libertà nel Vangelo, dopo l’abolizione della legge, solo quando la carne non vi costringa a fare ciò che non volete ma, mettendovi al servizio dello spirito, mostrerete di non essere sotto la leggea. [6.] E poiché prima avevamo cominciato a spiegare questo brano secondo il doppio modo di intendere, bisogna esporre quel che abbiamo tralasciato. La carne desidera contro lo spirito, a
Cf. Rm 7, 5-6.23.
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cioè: la storia e il senso carnale della Scrittura sono in contrasto con l’allegoria e la dottrina spirituale; lo spirito invece contro la carne, cioè: i contenuti più alti si oppongono a quelli bassi, gli eterni ai caduchi, la verità all’ombra28. E il senso carnale della Scrittura, poiché non può essere soddisfatto (infatti non siamo in grado di fare tutte le cose che sono state scritte), dimostra che noi non siamo stati messi nella condizione di poter adempiere la legge, dal momento che, se anche volessimo seguire la lettera, non se ne dà la possibilità.
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5,18 Se siete condotti dallo spirito, non siete sotto la legge. [1.] Non quello spirito di cui parla l’Apostolo in un altro versetto: lo Spirito stesso rende testimonianza al nostro spirito che siamo figli di Dio (Rm 8, 16), cioè non si tratta dello spirito dell’uomo che è dentro l’uomo stesso ma si riferisce allo Spirito Santo, seguendo il quale diventiamo spirituali e finiamo di essere sotto la legge. È da notare dunque che qui Spirito non è accompagnato da un articolo [‘arthrō’] e da qualche aggiunta, come leggiamo in altri luoghi spirito ‘di mansuetudine’ e spirito ‘di fede’a, ma è denominato semplicemente Spirito; queste minuzie rispettate più in greco che nella nostra lingua (noi non abbiamo affatto gli articoli [‘arthra’]) sembrano avere qualche rilevanza. [2.] Ci si chiede a questo punto: se chiunque sia condotto dallo Spirito non è sotto la legge, forse Mosè e i profeti furono condotti dallo Spirito e vissero sotto la legge (cosa che l’Apostolo nega), oppure essi, avendo lo Spirito, non furono sotto la legge (questo l’Apostolo afferma qui), o, in terzo luogo, vivendo sotto la legge non ebbero lo Spirito, cosa che in riferimento a uomini di tal genere è un’empietà da credere. A ciò risponderemo brevemente che non è la stessa cosa essere sotto la legge ed essere quasi sotto la legge (cf. 1 Cor 9, 21), come non è la stessa cosa essere a somiglianza della carne del peccato ed essere nella carne del peccatob; e neppure è la stessa cosa un serpente vero e il bronzo somigliante al serpente che Mosè sollevò nel deserto a b
Cf. Gal 6, 1; 2 Cor 4, 13. Cf. Rm 8, 3; 7, 25.
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(cf. Nm 21, 4-9)a. Così dunque i santi profeti e Mosè, camminando nello Spirito e vivendo nello Spirito, vissero non sotto la legge ma quasi sotto la legge in modo che sembrasse che essi erano sotto la legge ma giovassero a coloro che erano sotto la legge e li spingessero dalla bassezza della lettera all’altezza dello Spirito. Infatti anche Paolo, che si fece giudeo con i Giudei e tutto a tutti per guadagnare tutti, non disse ‘fatto giudeo sotto la legge’ ma ‘fatto quasi sotto la legge’ (cf. 1 Cor 9, 19-22) per mostrare che egli custodiva non la verità della legge ma l’apparenza. Ci sembra di aver risolto la questione proposta29. [3.] Ma che facciamo a proposito di quel capitolo in cui Paolo dice: Quando invece giunse la pienezza del tempo, Dio mandò suo figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riacquistare coloro che erano sotto la legge? (Gal 4, 4-5) Se infatti Cristo fu sotto la legge e non quasi sotto la legge, tutta quella precedente disputa risulterà vana. Ma anche questa contraddizione si risolverà attraverso il brano medesimo. Infatti colui che è nato sotto la legge proprio per riacquistare coloro che erano sotto la legge, ad ogni modo, pur essendo libero dalla legge, si sottomise volontariamente alla legge ed era molto più libero di Paolo, il quale asserisce che è stato non sotto la legge ma quasi sotto la legge. E come discese nella melma e nel baratro della morte a causa nostra che pregavamo dicendo: Chi mi libererà dal corpo di questa morte? (Rm 7, 24), così volle nascere da una donna ed essere sotto la legge per salvare coloro che erano nati da una donna e sotto la legge. E certamente non è nato da una donna, cioè da una donna sposata, ma da una vergine; in realtà la vergine è chiamata impropriamente ‘donna’ a causa di coloro che non sapevano che fosse vergine30. Come quindi è stato scritto ‘donna’ al posto di ‘vergine’ a causa di quelli che consideravano santa Maria una donna sposata, così a causa di quelli che pensavano che Cristo fosse sotto la legge non sapendo che era nato quasi sotto la legge per quelli che erano sotto la legge, si dice che egli nacque sotto la legge. a
Girolamo allude all’episodio biblico del serpente di bronzo che Dio fa costruire a Mosè e che, issato nel deserto, faceva guarire gli Israeliti dai morsi del serpente vero.
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5,19-21 Evidenti invece sono le opere della carne, cioè la fornicazione, l’impurità, la lussuria, l’asservimento agli idoli, i venefici, le inimicizie, le liti, le emulazioni, le ire, le lotte, le discordie, le eresie, le invidie, le ubriachezze, le gozzoviglie, e cose del genere; questo vi raccomando, come ho già detto, perché coloro che compiono queste opere non possiederanno il regno di Dio. [1.] In precedenza, quando parlavamo a proposito della carne e dello spirito, avevamo parlato di una triplice interpretazione31: o sono carnali coloro che, piccoli e corporei, non possono trovare in Cristo un cibo solido e gli alimenti di una vita da adulti; o sono carne della legge coloro che seguono soltanto la storia e la lettera secondo la tradizione giudaica; ovvero certamente, secondo il senso letterale, nella condizione di uomo sussistono la carne e lo spirito e le opere sono o della carne o dello spirito in base alla diversità della sostanza. Ora dunque quelle che qui sono chiamate opere della carne, fornicazione, impurità, lussuria e le altre che seguono, mi sembra che siano riferite all’interpretazione letterale della carne e dello spirito piuttosto che a quello della carne della legge e dei piccoli in Cristo (cf. 1 Cor 3, 1), quantunque in quel passo in cui sopra abbiamo tradotto parola per parola dal decimo libro degli Stromati di Origene sia stato detto che cosa si possa pure osservare in merito a queste opere. [2.] L’affermazione ‘evidenti invece sono le opere della carne’ dimostra o che queste sono note a tutti, poiché è chiaro di per sé che sono vizi e sono da evitare a tal punto che anche coloro che fanno queste cose desiderano nascondere ciò che fanno, o certamente che queste sono evidenti soltanto per quelli che hanno creduto in Cristo. Infatti moltissimi pagani si vantano nei loro comportamenti disonorevoli e pensano di aver conseguito, se hanno soddisfatto un qualche piacere, la vittoria delle turpitudini. Ma è espressione di accuratezza anche il fatto che ha posto le opere nella carne, i frutti nello Spirito (cf. Gal 5, 22), poiché i vizi vengono meno e periscono in se stessi, le virtù pullulano e ridondano di frutti. Non pensiamo che sia nulla l’opera dell’anima se i vizi sono attribuiti alla carne, le virtù allo spirito:
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perché l’anima (come abbiamo detto precedentemente32) è posta, per così dire, al centro e o è congiunta con la carne e di lei si dice: Il mio spirito non rimarrà in tali uomini perché sono carne (Gen 6, 3), oppure si unisce allo spirito e passa a denominarsi spirito: Chi infatti si unisce al Signore forma con lui un solo Spirito (1 Cor 6, 17). [3.] La prima opera della carne è pertanto la fornicazione. Ha posto le opere evidenti all’inizio per non dubitare di quelle intermedie. Infatti tutto ciò che un uomo fa è fuori dal corpo: invece l’uomo che fornica pecca contro il suo corpo (1 Cor 6, 18); noi non ci apparteniamo: infatti siamo stati comprati a caro prezzo, glorifichiamo e portiamo Dio nel nostro corpo (cf. 1 Cor 6, 19-20). Sotto quest’aspetto il fornicatore è colpevole di un crimine più grande perché prende le membra di Cristo e le rende membra di una meretrice; giacchè saranno due le possibilità in un’unica carne: chi non è fedele né crede in Cristo fa delle sue membra le membra di una meretrice; chi crede e fornica fa delle membra di Cristo le membra di una meretrice. Al contrario, non so se l’infedele nella sua fornicazione viola o edifica un tempio per un idolo; attraverso i vizi, in effetti, i demoni sono massimamente venerati. Questo solo so, che chi dopo la fede in Cristo fornica viola il tempio di Dio. [4.] La seconda opera della carne è chiamata impurità e la segue come compagna la lussuria. Come infatti nell’antica legge a proposito dei crimini nefandi, che accadono nella segretezza ed è turpissimo nominarli (affinché la bocca di chi parla e le orecchie di chi ascolta non vengano insozzate), la Scrittura si esprime complessivamente dicendo: Rendete i figli di Israele verecondi (oppure timorosi) rispetto ad ogni impurità (Lv 15, 31), così anche in questo passo ha chiamato impurità e lussuria tutti gli altri piaceri abnormi, persino le stesse opere delle nozze, se non avvengono con verecondia e onestà quasi sotto gli occhi di Dio semplicemente per la procreazione dei figlia. Si veda Tertulliano, ux. 2, 3, 4, p. 313: sulla relazione tra i due brani rinvio a A. Cain, ‘Tertullian, Cyprian, and Lactantius in Jerome’s Commentary’, p. 35-36. a
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L’idolatria occupa il quarto posto nel catalogo delle opere della carne; infatti chi si è lasciato andare una buona volta alla lussuria e ai piaceria, non ha riguardo per il Creatore. Ma del resto ogni sorta di idolatria si compiace delle feste, della gola, del ventre e di quelle cose che sono sotto il ventre. E affinché per caso non sembrasse che i venefici e le arti malefiche non siano proibite nel Nuovo Testamento, anch’esse sono nominate fra le opere della carne. Poichè accade spesso agli infelici di amare ed essere amati ricorrendo alla magia. [5.] Anche l’inimicizia, che è posta dopo i venefici, mostra quale peccato possieda essendo soggetta ad una colpa evidente. Per quanto dipende da noi non dobbiamo essere nemici di alcuno, ma essere in pace con tutti (cf. Eb 12, 14); se dicendo la verità, meritiamo l’inimicizia di alcuni, non siamo tanto noi nemici di quelli piuttosto sono quelli nemici della verità. Infatti, anche quello che è detto ad Abramo nella Genesi: Sarò nemico dei tuoi nemici e mi opporrò a coloro che ti sono avversari (Es 23, 22), deve essere inteso come sopra: non tanto che Abramo fosse nemico di quelli piuttosto che quelli lo erano delle virtù e della religione di Abramo, per mezzo della quale egli, calpestati gli idoli, venerava il Dio rivelato. Anche ciò che viene prescritto al popolo di Israele, di essere nemici dei Madianiti con un odio eterno e con un’ostilità trasmessa alle future generazioni, è detto, per così dire, come a coloro che erano sotto un pedagogob e in un altro brano erano degni di sentire: Avrai in odio il tuo nemico (Mt 5, 43). Ovvero, di certo, è stata creata inimicizia non tanto tra le persone quanto fra i costumi, affinché, come Dio pose utilmente l’inimicizia fra il serpente e la donna (cf. Gen 3, 15), perché non fosse nociva all’uomo la loro amicizia, a causa della quale fu scacciato dal paradiso, così nel caso di Israeliti e Madianiti è stato condannato un modo di vivere differente piuttosto che un popolo. [6.] La lite occupa il settimo posto fra le opere della carne, collocata per così dire tra i vizi in una posizione numerica sacra a b
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Nell’edizione CC SL 77A ‘uoluptatique’ è erroneamente in corsivo. Cf. Nm 31, 1-38; Gal 3, 25.
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e preminente. Non occorre che il servo del Signore sia rissoso ma che sia mansueto con tutti, maestro paziente, che istruisce con mansuetudine anche quelli che litigano con lui (cf. 2 Tm 2, 24-25). Ottava dopo la lite succede l’emulazione che in lingua greca è chiamata, in maniera più significativa e chiara, ‘zelo’a; non so chi di noi sia privo di questo vizio. Infatti anche i patriarchi hanno provato zelo nei confronti del loro fratello Giuseppe (cf. Gen 37, 4), e Maria ed Aronne, l’una profetessa e l’altro sacerdote di Dio, sono stati tratti in inganno da tale passione contro Mosè (cf. Nm 12, 1): al punto che colei della quale la Scrittura aveva parlato dicendo: La profetessa Maria prendendo in mano un timpano (Es 15, 20) etc., in seguito, cacciata fuori dalla città, fu macchiata dalla malattia della lebbra e osservò una penitenza alquanto lunga con l’isolamento di sette giornib. [7.] Quindi succede l’ira, che non opera la giustizia di Dio (cf. Gc 1, 20) ed è una specie del furore. Fra l’iracondia e l’ira questa invece è la differenza, che l’iracondo si infuria sempre, l’irato si agita per una circostanza. E non so chi possa possedere il regno di Dio, se colui che si adira è separato dal regno (cf. Mt 5, 22). Anche le lotte, che i Greci chiamano ‘eritheias’ intendendo altro (giacché lotta si dice ‘machē’), allontanano dal regno di Dio; l’‘eritheia’ è quando qualcuno, sempre pronto a a Risulta difficoltoso rendere in italiano il latino ‘zelus’, che ha la valenza semantica propria del greco, cioè ‘invidia’, e che tuttavia non è opportuno tradurre con ‘invidia’ perché, poco sotto, Girolamo menziona esplicitamente questo termine distinguendolo proprio da ‘zelus’. Inoltre, va rammentato che il Nostro si era già soffermato in In Gal. 2, 4, 17-18, 5, su ‘aemulatio’ e ‘zelus’ e, più in particolare, sulle diverse possibili accezioni, positive e negative di ‘zelus’ e sull’eventualità di intendere ‘zelus’ come voce media; fra l’altro, in quell’occasione, unitamente ai medesimi esempi di Giuseppe e di Maria / Aronne, veniva presentata dallo Stridonense un’ampia casistica biblica delle occorrenze di zelo e dei diversi modi d’intenderlo. D’altra parte, sebbene nella lingua italiana l’accezione dominante di zelo è positiva e normalmente lo zelo non viene considerato un vizio, bisogna comunque notare che esiste nella nostra lingua un’accezione negativa di zelo nel senso di ‘impegno, ardore eccessivo finalizzato ad un qualche interesse egoistico’. Pertanto, benché questo significato non ricalchi perfettamente l’uso che Girolamo fa qui di ‘zelus’ avendo in mente il greco, tuttavia la soluzione più adatta è mantenere, in italiano, ‘zelo’, avvertendo i lettori della necessità di intendere il termine con un valore negativo prossimo all’invidia. b Cf. Nm 12, 10.15.
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contraddire, è divertito dalla rabbia di un altro, litiga alla maniera delle donne e provoca il contendente. Questa è chiamata presso i Greci, con un altro nome, ‘philonikia’. Nondimeno anche le discordie sono opera della carne, quando qualcuno, senza essere perfetto, dice con lo stesso senso e la stessa intenzione: Io sono di Paolo ed io di Apollo e io di Cefa e io di Cristo (1 Cor 1, 12). Ma questa medesima discordia si trova anche nelle famiglie, cioè tra marito e moglie, tra padre e figlio, tra fratello e fratello, tra servo e servo, tra soldato e soldato, tra un artista ed un altro della medesima artea. [8.] Talvolta accade che la discordia sorga pure nelle spiegazioni della Scrittura, dalle quali saltano fuori anche le eresie, che ora sono collocate come opera della carne. Se infatti la sapienza della carne è nemica di Diob (sono infatti nemiche tutte le false dottrine in contrasto con Dio), di conseguenza anche le eresie, nemiche di Dio, sono riportate fra le opere della carne. In greco si dice ‘eresia’ da ‘scelta’, per il fatto che ciascuno sceglie per sé quella dottrina che considera migliore. Chiunque, pertanto, interpreta la Scrittura diversamente da come richiede l’intenzione dello Spirito Santo per opera del quale è stata scritta, anche se non si sia allontanato dalla chiesa, tuttavia può essere chiamato eretico ed è conforme alle opere della carne scegliendo le cose peggiori. Alle eresie segue l’invidia che non consideriamo la stessa cosa dello zelo, perché lo zelo può anche essere inteso in accezione positiva, allorché qualcuno si sforza di imitare le cose migliori, l’invidia invece è tormentata dalla felicità altrui e si divide in una duplice passione, quando qualcuno è egli stesso nella posizione in cui non vuole che ci sia un altro, oppure quando, vedendo che l’altro è migliore, si dispera di non essere simile a lui. Uno dei poeti neoterici, a giusto proposito, traducendo un verso greco in metro elegiaco scherzò sull’invidia dicendo: “Niente è più giusto dell’invidia, che consuma continuamente lo stesso autore e ne tormenta l’animo”c. Anche il beato Cipriano scrisse un libro
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Cf. Lc 12, 53; Rm 9, 20. Cf. Rm 8, 7. c Non è noto né l’autore né l’opera all’origine di questa citazione di Girolamo. a
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molto bello sullo zelo e sull’invidiaa: chi lo legge non dubiterà nell’annoverare l’invidia tra le opere della carne. Tra l’invidioso e l’invidiato, la differenza è che l’invidioso prova invidia per quello più felice, l’invidiato è colui che subisce l’invidia di un altro. [9.] L’ubriachezza occupa il quattordicesimo posto fra le opere della carne. Infatti gli ubriachi non possiederanno il regno di Dio e il Signore dice ai discepoli: Badate che per caso non si appesantiscano le vostre menti nel vino e nell’ubriachezza (Lc 21, 34). Il senno dell’uomo è rovinato dal vino, i piedi cascano, la mente vacilla, si accende il desiderio, per cui l’Apostolo dice a gran voce: E il vino nel quale c’è la lussuria (Ef 5, 18). Ciascuno è libero di pensare come vuole: io sono d’accordo con l’Apostolo sul fatto che nel vino c’è la lussuria, nel vino c’è l’ubriachezza. Né chi è vinto da queste passioni può negare che l’ubriachezza e la lussuria sono annoverate fra le opere della carne. E benché alcuni ritengano che in quel libro che ho scritto sulla necessità di custodire la verginità io debba essere rimproverato per il fatto che ho detto che le adolescenti devono fuggire il vino come fosse veleno, non mi pentirò della mia opinione33. In effetti lì abbiamo condannato l’azione del vino piuttosto che la creatura di Dio e abbiamo tolto ad una ragazza nel rigoglìo del calore della sua età la libertà di bere di più, con la scusa di bere un pochino, e di rovinarsi; peraltro sapevamo sia che il vino è consacrato nel sangue di Cristo sia che a Timoteo è stato ordinato di bere il vinob. L’ubriachezza può derivare tanto dal vino quanto dagli altri tipi di bevande preparate in vario modo; per questo motivo anche a proposito dei santi si dice: Non berrà vino e sicera (Lc 1, 15). Sicera vuol dire ubriachezza e, affinché qualcuno che non beve il vino non pensi di dover bere qualcos’altro, è esclusa a Cipriano, zel. liv., p. 279-301. Il vescovo di Cartagine compose quest’opera probabilmente nell’estate del 256, comunque prima della persecuzione di Valeriano del 257, data l’assenza di ogni riferimento ad una persecuzione. Cipriano vi mette in guardia i fedeli dal rischio di sottovalutare il peccato della gelosia e dell’invidia, ne analizza l’origine e, soprattutto, le gravi conseguenze all’interno della chiesa, ove gelosia ed invidia sono causa di scismi ed eresie. Infine, il vescovo mostra ai fedeli come evitare questi peccati e li esorta a distruggere i vizi della carne e a levare lo sguardo dalla terra verso il cielo rivolgendosi ai beni celesti e vivendo secondo lo Spirito. b Cf. Mt 26, 27; 1 Tm 5, 23.
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la giustificazione, dal momento che tutto ciò che può inebriare è eliminato insieme con il vino. [10.] La quindicesima ed ultima fra le opere della carne è la gozzoviglia; il popolo mangiò e bevve e si alzarono per divertirsi (cf. Es 32, 6): la lussuria è sempre congiunta all’ubriachezza. Un oratore non oscuro descrivendo un ubriaco svegliato dal sonno dice egregiamente: “Né, destato, poteva dormire né, ubriaco, poteva stare sveglio”a; con questa frase esprime in qualche modo il fatto che quello non era né morto né vivo. [11.] Era lungo riprendere tutte quante le opere della carne e fare un catalogo dei vizi: Paolo allora ha sintetizzato tutto in poche parole dicendo ‘e cose del genere’. Magari potessimo evitarle tanto facilmente quanto facilmente le comprendiamo. Dichiara: Vi raccomando, come ho già detto, perché coloro che compiono queste opere non possiederanno il regno di Dio. Dove prima aveva detto: Non regni il peccato nel vostro corpo mortale per obbedire ai suoi desideri (Rm 6, 12), il peccato possiede tutte queste specie, nella distinzione delle quali ora ci siamo forse trattenuti più di quanto sarebbe stato necessario; dunque in un’anima nella quale ha regnato il peccato non può regnare il regno di Dio: Quale relazione infatti tra giustizia e iniquità? Che cosa hanno in comune la luce e le tenebre? Quale accordo tra Cristo e Belia? (2 Cor 6, 14-15) Pensiamo di ottenere il regno di Dio se siamo immuni dalla fornicazione, dall’idolatria e dai venefici ed ecco che le inimicizie, la lite, l’ira, la lotta, la discordia, l’ubriachezza e anche le altre opere che giudichiamo lievi ci escludono dal regno di Dio. Né importa se qualcuno è escluso dalla beatitudine per una oppure per molte opere, poiché tutte escludono ugualmente. [12.] Nei codici latini si trasmette che in questo catalogo dei vizi sono riportati anche l’adulterio, l’impudicizia e gli omicidi. Ma bisogna sapere che sono state nominate non più di quindici opere della carne, in merito alle quali abbiamo discusso.
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a L’oratore menzionato da Girolamo dovrebbe essere il M. Celio di cui Quintiliano, inst. 4, 2, 123-124, riporta un breve frammento.
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5,22-23 Dello spirito invece è frutto la carità, la gioia, la pace, la longanimità, la benignità, la bontà, la fede, la mitezza, la continenza; non c’è legge contro tali cose. [1.] E quale altra virtù avrebbe dovuto avere il primato tra i frutti dello spirito se non la carità senza la quale tutte le altre virtù non sono reputate virtù e dalla quale nascono tutti quanti i beni? Effettivamente sia nella legge sia nel Vangelo essa ha il primato: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima e con tutta la tua forzaa e amerai il prossimo tuo come te stessob. In precedenza abbiamo spiegato brevemente di quali grandi virtù sia colma la carità34 ed ora è sufficiente aver detto anche poche cose, perché l’amore non ricerca il suo interesse (cf. 1 Cor 13, 5) ma quello degli altri, e benché qualcuno a causa del suo peccato è ostile a colui che ama e si sforza di spingere la tranquillità di chi ama verso i flutti dell’odio, tuttavia quello non si sconvolge mai, mai ritiene che una creatura di Dio meriti odio. La carità copre infatti una moltitudine di peccati (1 Pt 4, 8). Anche le parole che sono pronunciate dal Salvatore: L’albero buono non può arrecare frutti cattivi né l’albero cattivo può arrecare frutti buoni (Mt 7, 18), a mio parere non sono state pronunciate tanto sugli uomini quanto sul frutto della carne e dello spirito, poiché né lo spirito può mai compiere quei vizi che sono stati enumerati tra le opere della carne né la carne abbondare di questi frutti che nascono dallo spirito. Può accadere che a causa della negligenza di chi lo possiede anche lo spirito che dimora nell’uomo non abbia i suoi frutti ed al contrario la carne smetta di peccare una volta che sono state mortificate le sue opere. Tuttavia non giungono al punto tale che l’albero dello spirito, trascurato, porti le opere della carne e l’albero della carne, coltivato, faccia germogliare frutti spirituali. [2.] Al secondo posto dei frutti dello spirito è posta la gioia che anche gli Stoici, che distinguono in modo alquanto sottile tra le parole, pensano che sia qualcosa di diverso rispetto alla a b
Dt 6, 5; Mt 22, 37. Lv 19, 18; Mt 22, 39.
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letiziaa; giacché dicono che la gioia è “lo slancio di un animo che esulta per motivazioni dignitose”, la letizia invece “una sfrenata esaltazione dell’animo che non conosce misura e si rallegra anche di quelle cose che sono mescolate al vizio”35. Altri pongono all’opposto della gioia il piacere: non questo che stimola il corpo alla libidine, solletica i sensi, blandisce con dolci sensazioni, ma quello, omonimo [homōnymon] a questo, che esalta nel riso della letizia la sua voce senza moderazione e decoro alcuno. Se questo è vero e la loro distinzione tra le parole non inganna e non è frutto di un inganno, consideriamo se per caso non sia stato detto per questo: Gioire non appartiene agli empi, dice il Signore (Is 57, 21). Al contempo si deve anche notare che la gioia viene dopo l’amore. Infatti chi ama qualcuno si rallegra sempre per la sua felicità; e se vede che quello è stato ingannato da qualche errore ed è caduto sul terreno sdrucciolevole dei peccati, proverà dolore e si affretterà a tirarlo fuori, ma non potrà mutare la gioia in tristezza sapendo che nessuna delle creature razionali perisce presso Dio in eterno. [3.] Terzo frutto dello spirito è la pace da cui anche Salomone, che è venuto prima in figura di Cristo, ha ricevuto il nomeb ed il salmista canta della chiesa: La sua dimora è nella pace (Sal 76, 3) e tra le otto beatitudini evangeliche è scritto: Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio (Mt 5, 9). Anche nel primo dei salmi gradualic si canta: Ero in pace con questi che odiavano la pace (Sal 120, 7). E non pensiamo di dover ricercare la pace solo per il fatto di non litigare con un altro, ma la pace di Cristo, cioè la nostra eredità, è con noi quando la mente tranquilla non è sconvolta da alcuna passione. Dopo la pace segue la longanimità ovvero la pazienza, poiché possiamo tradurre nell’uno e nell’altro modo ‘makrothymian’. Contraria a questa virtù è la pusillanimità, di cui è scritto: Il pusillanime è terribilmente stolto (Pr 14, 29b). Chi invece è paziente
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Cf. Cicerone, Tusc. 4, 13. Cf. Gir., nom. hebr. (p. 63, 5); ibid. (p. 71, 5). c Si veda In Gal. 1, 1, 18b, 1, nota a. a
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e sopporta tutto, è un uomo saggioa; e con una epitasib è definito grandemente saggio, come pure è stato scritto nei Proverbi: l’uomo longanime è grande nella prudenza (Pr 14, 29a). [4.] Anche la benignità, o soavità, poiché in greco ‘chrēstotēs’ significa l’uno e l’altro, è una virtù mite, piacevole, tranquilla e un’appropriata convivenza di tutti i buoni, che stimola alla familiarità, soave nell’eloquio, moderata nei costumi. In breve anche gli Stoici la definiscono così: “la benignità è una virtù disposta a fare il bene di buon grado”. Non è molto diversa dalla benignità la bontà, poiché anch’essa appare “disposta a fare il bene”36; ma differisce nel fatto che la bontà può essere più accigliata e fare il bene ed offrire quel che è richiesto con fronte aggrottata a causa di costumi severi; non è però un’amabile convivenza e non invita tutti con la sua dolcezza. I seguaci di Zenone la definiscono così: “la bontà è una virtù che giova ovvero una virtù dalla quale nasce un’utilità o una virtù per se stessa o anche un sentimento che è fonte di vantaggi”. [5.] Tra i frutti dello spirito il settimo, e più sacro, posto appartiene alla fede, che anche altrove è posta tra tre virtù: la speranza, la fede, la carità (cf. 1 Cor 13, 13). Né è strano che la speranza non sia inserita in questo catalogo, poiché è nella fede ciò che si spera e l’Apostolo la definisce così scrivendo agli Ebrei: La fede è la sostanza delle cose che si sperano, l’argomento di quelle che ancora non si vedono (Eb 11, 1). Se davvero ciò che speriamo che si verificherà e che ancora non è lo possediamo a Rispetto a CC SL 77A ho eliminato il corsivo che induceva a ritenere come citazione biblica diretta le parole “qui uero patiens est et uniuersa sustentat, uir sapiens”: penso invece che esse siano una parafrasi di Girolamo; inoltre, ancora diversamente da CC SL 77A, ritengo che “Pusillanimis uehementer insipiens” sia citazione letterale di Pr 14,29b. Ho modificato, altresì, rispetto a CC SL 77A la punteggiatura, sostituendo il punto e virgola dopo ‘insipiens’ con un punto ed il punto dopo ‘sapiens’ con un punto e virgola: in tal modo, ho cercato di assicurare al testo una maggiore scorrevolezza ed anche una più omogenea distribuzione dei periodi. Infine, ho eliminato la virgola, erroneamente inserita in precedenza, tra ‘uir’ e ‘multus’. b Lo Stridonense dimostra il pedigree di grammatico e retore cogliendo la figura retorica utilizzata da Paolo (benché l’uso del termine greco lascia il sospetto di un influsso delle fonti greche sulle considerazioni del Nostro). ‘Epitasis’ indica un’esagerazione, un’intensificazione del concetto.
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per ora nella fede in quanto speriamo di conseguire ciò che crediamo, ci si chiede altresì in che modo la fede sia riposta nella carità. Chi ama non pensa mai di essere offeso, non immagina altro se non di amare e di essere amato; quando invece l’amore è venuto a mancare, parimenti anche la fede si allontana. [6.] Dopo la fede è annoverata la mitezza, che è contraria all’ira, alle lotte, alle discordie e non è mai attratta verso il proprio contrario producendo realmente i buoni frutti dall’albero buono dello spirito. Grazie ad essa il servo di Dio Mosè meritò di ricevere la testimonianza della Scrittura che dice: Mosè era mite più di tutti gli uomini sulla terra (Nm 12, 3). Ha detto ‘sulla terra’: infatti non poteva esserlo sopra coloro che guardavano Dio faccia a faccia (Gen 32, 30), poiché spesso siamo costretti a fare molte cose a causa della debolezza della carne. Anche di Davide lo Spirito Santo canta, in figura di colui che doveva venire: Ricordati, o Signore, di Davide e di tutta la sua mitezza (Sal 132, 1), benché molti pensano che si tratti di una profezia su nostro Signore (ciò che neanche noi neghiamo). Di chi era la mitezza che risplendette massimamente nei confronti di Saul, di Assalonne, di Simeìa? Giacché uno voleva uccidere Davide, l’altro tentava di defraudarlo del potere attraverso la macchinazione di nuovi intrighi, l’altro scagliando pietre contro di lui e agitando la polvere gridava e diceva: Vattene, vattene, uomo iniquo (2 Sam 16, 7). [7.] Ultima fra i frutti dello spirito è collocata la continenza, che non solo dobbiamo intendere in rapporto alla castità, ma anche nel cibo e nel bere, nell’ira e nel travaglio della menteb e nel piacere di screditare. Tra la modestia e la continenza vi è questa differenza, che la modestia appartiene agli uomini perfetti e di consumata virtù, dei quali il Salvatore dice: Beati i miti, perché erediteranno la terra (Mt 5, 4) e di se stesso: Apprendete
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Cf. 1 Sam 24, 5-15; 2 Sam 16, 5-23; 2 Sam 19, 1-24. Utile luogo parallelo per comprendere le parole “uexatione mentis” (che ho tradotto con ‘travaglio della mente’) è Gir., epist. 22, 37, vol. 1, p. 233: “Se digiuni due giorni, non ti credere per questo migliore di chi non ha digiunato. Tu digiuni e magari ti arrabbi; un altro mangia, ma forse pratica la dolcezza; tu sfoghi la tensione dello spirito (“vexationem mentis”) e la fame dello stomaco altercando; lui, al contrario, si nutre con moderazione e rende grazie a Dio”. a
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da me, perché sono docile, umile e mite di cuore (Mt 11, 29); la continenza invece è sulla strada della virtù, ma non è ancora arrivata al traguardo, poiché le cupidigie nascono ancora nel pensiero di colui che si contiene ed insozzano l’essenza della mente, benché non hanno la meglio e non trascinano alla pratica colui che le pensa. Non solo la continenza è necessaria nei desideri e nella cupidigia, ma anche nelle tre restanti passioni, cioè dolore, letizia e paura37. [8.] Non c’è legge contro tali frutti dello spirito: in effetti la legge non è stata stabilita per il giusto, ma per gli iniqui e i ribelli, per gli empi e per i peccatori (1 Tm 1, 9). La legge mi dice: non commettere adulterio, non uccidere, non dire falsa testimonianza, non essere fraudolento, non desiderare la roba altrui, non spergiurare, non rubarea: se non faccio tutte queste cose perché in me regna la carità, frutto dello spirito, i precetti della legge sono per me superflui. Del resto, anche i sapienti pagani hanno avuto sulla filosofia un’opinione tale per cui essa convince gli uomini a fare spontaneamente ciò che le leggi pubbliche impongono di fare. 5,24 Quanti invece appartengono a Cristo hanno crocifisso la carne con i vizi e le concupiscenze. [1.] Origene legge questo brano collegandolo così alle parole precedenti: non c’è legge contro costoro che hanno crocifisso la carne di Cristo con i vizi e le concupiscenze, cosicché non s’intende, come in latino, che coloro che appartengono a Cristo hanno crocifisso la loro carne con i vizi e le concupiscenze, ma che da costoro la carne di Cristo è stata crocifissa con i vizi e le concupiscenze. E si chiede38 in che modo la crocifissione della carne del Signore sia motivo di lode per costoro che hanno i frutti dello spirito e per i quali la legge ha cessato di esistere, dal momento che è stato scritto per infamare gli Ebrei: Crocifiggono di nuovo per loro stessi il Figlio di Dio e lo espongono all’infamia (Eb 6, 6) (in greco al posto delle parole ‘crocifiggono di nuovo’b si trova meglio un’unica parola Es 20, 13-17; Mc 10, 19. Con il proposito di rendere più fruibile la traduzione italiana ho deciso di tradurre il participio sia latino sia greco con un indicativo, non ripetendo in modo letterale nella lingua moderna l’uso geronimiano di riportare alla lettera il modo indefinito del testo citato prescindendo dal contesto di ricollocazione. a
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‘anastaurountes’, che noi possiamo tradurre ‘ricrocifiggono’). [2.] Innanzitutto si deve notare che una cosa è ‘crocifiggere’, altro ‘ricrocifiggere’; poi, che non è la stessa cosa ricrocifiggere il Figlio di Dio e crocifiggere la carne di Cristo con i vizi e le concupiscenze. Giacché la carne di Cristo non è essenzialmente e propriamente il Figlio di Dio, ma Cristo Gesù che, essendo in principio Dio Verbo presso il Padre, si fece carne e svuotò se stesso assumendo la forma di servo per crocifiggere la carne e spogliare i principati e le potestà trionfando su di essi nel legnoa e compiere ciò di cui l’Apostolo dice: Quanto al fatto che è morto, è morto al peccato una volta per tutte (Rm 6, 10). Se dunque i nostri corpi sono membra di Cristo, di conseguenza anche la nostra carne è la carne di Cristo, che crocifiggiamo mortificando attraverso di essa sulla terra la fornicazione, l’impurità, la passione, il desiderio malvagio e l’avidità; e come lode per noi qui è scritto ‘che hanno crocifisso la carne di Cristo Gesùb con i vizi e le concupiscenze’ e sempre portiamo la mortificazione di Gesù nel nostro corpo affinché anche la sua vita si manifesti nella nostra carne. Costa non poca fatica vivere nel mondo d’oggi in modo tale che già ora la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne; così infatti saranno vivificati anche i nostri corpi mortali attraverso lo spirito che abita dentro di noi (cf. Rm 8, 11). [3.] Dove il traduttore latino ha reso ‘vizi’ in greco si legge ‘pathēmata’, cioè ‘passioni’. E poiché ‘passione’ può significare sia il dolore sia tutte gli altri limiti corporali, l’Apostolo ha introdotto prudentemente i desideri cosicché non sembrasse negare negli uomini spirituali la natura del corpo ma solo i vizi. E se seguiamo l’edizione vulgata leggendo ‘coloro che appartengono a Cristo hanno crocifisso la carne con i vizi e le concupiscenze’, si
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Cf. Gv 1, 1; 1, 14; Fil 2, 7; Col 2, 15. Bisogna notare che nel riportare la pericope di 5, 24 Girolamo ha introdotto ‘Iesus’, assente nel lemma e nella spiegazione tradizionale, diversa da quella origeniana. La presenza di Iesus è però significativa perché è conforme alla spiegazione di Origene circa il modo di intendere ‘carnem Christi’ come la carne del figlio di Dio incarnatosi nel Gesù storico, crocifisso sulla croce e trionfatore, in tal modo, dei peccati e della carne dei peccati. Potrebbe, peraltro, non essere del tutto improbabile che ‘Iesus’ sia nel testo paolino origeniano, la cui spiegazione Girolamo sta riportando. a
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tenga presente questo ammonimento, cosicché affermiamo che essi hanno crocifisso non la carne di Cristo ma la loro. [4.] Mi sono quasi dimenticato della seconda interpretazione: infatti avevo detto prima che tutte le cose che seguono si devono riferire alla legge ed alla circoncisione. Perciò il significato è questo: coloro nei quali vi sono i frutti dello spirito, la carità, la gioia e tutte le altre cose, hanno crocifisso l’interpretazione carnale della Scrittura, che qui è denominata la carne di Cristo, con le sue passioni e desideri, che generano, per i piccoli ed i lattanti, gli stimoli per i vizi (cf. 1 Cor 3, 1-2). Ha crocifisso una tale carne di Cristo colui che milita non secondo la carne della storia, ma segue come guida lo spirito dell’allegoria. 5,25 Se viviamo nello spirito, camminiamo anche nello spirito. Utilizziamo questa testimonianza contro coloro che non vogliono interpretare in modo spirituale le Scritture. Chi è in effetti che vive nello spirito se non l’uomo nostro invisibile che talora suole anche vivere secondo la carne? Ma vivendo nello spirito, cammina nello spirito; volendo camminare nella carne, è morto, pur vivendo. L’uomo perfetto in Cristo vive sempre nello spirito: obbedisce allo spirito, non vive mai nella carne. Viceversa: colui che si è dato totalmente alla carne e si è affidato alle passioni non vive mai nello spirito. A metà tra questi vi sono coloro che non possiamo chiamare né spirituali né carnali39; ma che fluttuando tra le virtù ed i vizi ora sono attratti verso i beni migliori e sono spirito, ora vengono trascinati giù sul terreno scivoloso della carne e sono carne.
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5,26 Non diventiamo avidi di vanagloria, provocandoci reciprocamente, invidiandoci reciprocamente. [1.] Il traduttore latino ha espresso un’unica parola greca, ‘kenodoxoi’, con una circonlocuzione di tre parole. Gli innumerevoli libri dei filosofi e i due volumi che Cicerone ha scritto Sulla gloria40 sono indizio di quante numerose definizioni e significati abbia il termine ‘gloria’. Ma noi, poiché non c’impegniamo a dissertare sulle etimologie delle parole ma sul senso della Scrittura, collegheremo questo versetto con i precedenti così: se viviamo nello spirito, obbediamo allo spirito mettendoci al servizio reciprocamente non
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con la legge ma con la carità (cf. Gal 5, 13). Non dobbiamo litigare sull’interpretazione della Scrittura e dire: “la circoncisione è migliore”, “no, meglio il prepuzio”; “bisogna disprezzare la storia e seguire l’allegoria”, “al contrario, l’allegoria è inutile e di vana apparenzaa e non è sorretta da alcuna radice di verità”. Per cui accade che nascano invidie reciprocamente: giacché vogliono – dice – estromettervi perché voi emuliate loro (Gal 4, 17), desiderando non tanto insegnare la verità quanto avere la meglio. [2.] Per non lasciare però del tutto privo di commento il termine ‘gloria’, tralasciando ai filosofi le loro inezie, facciamo alcune considerazioni sulla Scrittura. Il termine ‘gloria’ ha il significato di reputazione davanti al volgo e di lode ricercata grazie al favore degli uomini: così è nel versetto: Fanno tutto per essere glorificati dagli uomini (Mt 23, 5) e altrove: Come potete credere cercando la gloria gli uni dagli altri? (Gv 5, 44), ma, nel medesimo versetto, in accezione positiva: e non cercando la gloria da colui che è il solo Dio? Da ciò comprendiamo che la medesima parola ora ha il significato di una virtù ora di un vizio. Se mi aspetto la gloria dagli uomini, è un vizio; è una virtù, se l’aspetto da Dio, che ci esorta alla vera gloria dicendo: Glorificherò coloro che mi glorificano (1 Sam 2, 30). [3.] Nelle divine Scritture ‘gloria’ significa anche altro, quando qualcosa di molto sacro e divino si offre agli sguardi degli uomini. È apparsa nel tabernacolo la gloria del Signore e nel tempio che fu costruito da Salomone vi era la gloria e nel volto di Mosè, quando non sapeva che il suo volto era stato glorificatob: della gloria di quel volto penso che anche l’Apostolo dica: Noi tutti invece, a viso scoperto, contemplando la gloria del Signore siamo trasformati in quella medesima immagine, da gloria in gloria, come dallo spirito di Dio (2 Cor 3, 18). Ed il Salvatore stesso è stato definito splendore di gloria e figura della sostanza di Dio (cf. Eb 1, 3). Anche Stefano vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla sua destra (cf. At 7, 55). Per arrogarci anche noi la libertà
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a Il termine ‘umbraticus’ è abbastanza raro nella produzione cristiana antica e questa è l’unica attestazione geronimiana; attraverso le testimonianze agostiniane sembra potersi dedurre il significato di ‘ombra, apparenza, fantasma’. b Cf. Es 40, 32; 1 Re 8, 11; Es 34, 29-35.
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di foggiare le parole (giacché per una nuova realtà bisogna, come dice qualcuno, foggiare parole nuovea), poiché qui è stato detto non diventiamo avidi di vanagloria (o di vuota gloria), affermiamo che sono avidi di gloria piena coloro che desiderano la gloria di Dio, la lode degna della virtù e la visione che mostra qualcosa di assolutamente divino. Per cui in molti luoghi i nostri hanno anche tradotto ‘maestà’ al posto di ‘gloria’. [4.] Già da un po’ vorrei esplodere, ma mi trattengo per paura di parlare. Tuttavia parlerò e non nasconderò il mio travaglio, un travaglio per così dire comune, non riguardo alle ricchezze, al potere, alla bellezza ed alla grazia dei corpi (queste infatti sono cose manifestamente annoverate tra le opere della carne): l’elemosina, se ha luogo per il desiderio di lode, è vanagloria, come pure le lunghe preghiere, il pallore che deriva dal digiuno; non sono parole mie ma del Salvatore che con fragore le proclama nel Vangelo (cf. Mt 6, 1-6.16-18). Anche la stessa castità nel matrimonio, nella vedovanza, tra le vergini spesso cerca il plauso umano e, ciò che ora ho paura di dire ma pure bisogna dire, se il martirio stesso avviene con lo scopo di ottenere ammirazione e lode dai fratelli, il sangue è versato inutilmente. Parli l’Apostolo, parli il vaso d’elezione41: Se dessi il mio corpo per essere glorificato ma non possiedo la carità, niente mi giova! (1 Cor 13, 3) Colui che aveva detto: Conosco un uomo in Cristo che quattordici anni fa – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo e poco dopo: Rapito in paradiso sentì parole misteriose, che non è lecito ad alcun uomo pronunciare (2 Cor 12, 2.4); colui, dico, che soffrì più di tutti perché la grandezza delle rivelazioni non lo esaltasse: costui ricevette uno stimolo per la sua carne, l’angelo di Satana, che lo schiaffeggiava cosicché non si esaltasse. E per ben tre volte chiese al Signore che l’allontanasse da quello; ma gli fu risposto: Ti basta la mia grazia: infatti la virtù trova compimento nella debolezza (cf. 2 Cor 12, 7-9). [5.] Quali opere possono appartenere a Dio più della lettura delle Scritture, della predicazione in chiesa, del desiderio del sacerdozio, del servizio dinanzi l’altare del Signore? a
Cf. Cicerone, ac. 1, 25.
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Eppure anche queste, se uno non custodirà il suo cuore con ogni diligenza (cf. Pr 4, 23), nascono dal desiderio di lode. Osserva i più (anche Tullio lo dicea) che intitolano i loro libri sul disprezzo della gloria e per la gloria premettono l’intestazione del proprio nome. Commentiamo le Scritture, diversifichiamo spesso lo stile, scriviamo testi che meritano di essere lettib: e se non avviene per causa di Cristo ma per ottenere il ricordo presso i posteri e la fama presso il popolo, sarà tutto inutile fatica e saremo come un timpano che risuona ed un cembalo che strepita (cf. 1 Cor 13, 1). Osserva i più che litigano fra loro sulle Scritture e trasformano la parola di Dio in un’arena da atleti: si sfidano reciprocamente e, se sono sconfitti, si odiano, poiché sono avidi di vanagloria. [6.] So che in quella citazione che ho inserito in precedenza, se dessi il mio corpo per essere glorificato (cf. 1 Cor 13, 3), nei codici latini vi è ‘bruciare’ invece che ‘essere glorificato’, ma l’errore è nato nei nostri codici per la somiglianza tra parole, poiché in greco ‘bruciare’ ed ‘essere glorificato’, cioè ‘kauthēsomai’ e ‘kauchēsomai’ si distinguono per una sola lettera. Ma anche presso gli stessi greci vi sono testimonianze testuali divergenti. 6,1 Fratelli, anche se un uomo fosse sorpreso in qualche colpa, voi che siete spirituali, istruitelo in spirito di mansuetudine; considerando la tua condizione perché anche tu non sia tentato. [1.] Paolo sapendo di onorare quel Dio che non vuole la morte del peccatore ma il pentimento (cf. Ez 33, 11) e sapendo che ad eccezione della trinità ogni creatura, benché non pecchi, può tuttavia peccare, esorta anche colui che è spirituale a porgere la mano a chi cade per paura che non capiti anche a lui di peccare. E giustamente parla di ‘uomo’ sorpreso in una colpa, che può morire, mostrando attraverso il nome stesso la fragilità della condizione affinché sia degno di perdono colui che, come uomo ingannato dall’errore e immerso in una voragine, non può risollevarsi senza l’aiuto di qualcuno. A ‘spirituale’ non è aggiunto invece ‘uomo’, ma costui è ammonito per a b
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Cf. Cicerone, Tusc. 1, 34; Arch. 26. Cf. Orazio, sat. 1, 10, 72-73.
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così dire da Dio affinché istruisca l’uomo sorpreso in una colpa, o anche (come è scritto meglio nel testo greco) lo perfezioni in spirito di dolcezza42; a colui che viene perfezionato non mancano però tutte le virtù ma alcune, insomma non a causa di molti peccati, ma sorpreso in qualche vizio ha errato. Nella correzione del peccatore lo spirituale usi lo spirito di dolcezza e di mansuetudine, non desideri correggere chi sbaglia con un atteggiamento severo, irato e burbero, ma lo stimoli garantendo la salvezza; promettendo il perdono porti la testimonianza di Cristo, che invita coloro che sono oppressi dal grave peso della legge e dei peccati al suo dolce giogo ed al suo carico leggero, affinché apprendano che è umile, mite e dolce di cuore e trovino pace per le loro animea. [2.] Utilizziamo questa testimonianza contro gli eretici43 i quali inventando le favole delle diverse nature dicono che quella spirituale è l’albero buono e non porta mai frutti cattivi. Ecco che l’Apostolo, di cui anch’essi seguono l’autorità, dice che coloro che sono spirituali possono peccare, se si gonfiano e cadono per la superbia del loro cuore (quel che anche noi ammettiamo), e che i ‘coici’ diventano spirituali, se si volgono ai beni migliori. Possono opporci44 il versetto che è rivolto ai Corinzi: Che cosa desiderate? Devo venire da voi con il bastone oppure con la carità e lo spirito di mansuetudine (1 Cor 4, 21)? Se infatti in questo versetto dice di venire dai peccatori non in spirito di mansuetudine ma con il bastone, come mai ora non usa il bastone per coloro che erano colti in qualche peccato? Ma in quel versetto si rivolge a quanti dopo il peccato non avvertendo il loro errore non volevano affidarsi agli anziani ed essere corretti con la penitenza; quando invece il peccatore, comprendendo la propria ferita, si consegna al medico per essere curato, in questo caso non è necessaria la verga ma lo spirito di dolcezza. [3.] Ma forse ci si chiede anche che, se qualcuno deve istruire il peccatore in spirito di dolcezza per il fatto che considera la sua condizione perché anch’egli non sia tentato, dunque il giusto, che è sicuro della sua coscienza, che sa di non poter scivolare, a
Cf. Gal 5, 1; Mt 11, 28-30.
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non istruirà il peccatore in spirito di dolcezza? Rispondiamo all’osservazione: anche se vincesse il male, il giusto sapendo con quale grande fatica ha vinto elargirà maggiormente il perdono a chi sbaglia. Infatti anche il Salvatore è stato tentato in ogni cosa come noi tranne che nel peccato affinché potesse compatire e soffrire per le nostre debolezze (cf. Eb 4, 15), istruito dalla sua personale esperienza su quanto sia difficile la vittoria nella carne. Se qualcuno restasse vergine fino alla vecchiaia, perdoni colui che è stato tratto in inganno da una qualche passione dell’adolescenza sapendo con quali grandi difficoltà ha superato quell’età. Se qualcuno, tormentato perché ammettesse di essere cristiano, vedesse un altro che nel corso delle torture ha negato, abbia compassione per le ferite di chi ha negato e non si stupisca per quello che è stato vinto bensì per la vittoria che ha ottenuto. Considerate la cautela delle parole di Paolo, perché non ha detto: considerando la tua condizione perché anche tu non cada, ma perché anche tu non sia tentato; giacché non è mai in nostro potere il vincere o l’essere vinto. Del resto l’essere tentato è nel potere di colui che tenta: se infatti il Salvatore fu tentato (cf. Mt 4, 1), chi può essere sicuro di attraversare il mare di questa vita senza essere tentato? [4.] Coloro che pensano che Paolo abbia detto per falsa modestia e non veramente: Anche se inesperto nel parlare, non però nella scienza (2 Cor 11, 6), difendano la coesione grammaticale45 di questo brano. Infatti avrebbe dovuto dire in modo grammaticalmente ordinato: Voi che siete spirituali istruite costui in spirito di dolcezza considerando la vostra condizione perché anche voi non siate tentati, e non avrebbe dovuto sovrapporre il singolare al plurale. Dunque, ebreo discendente da ebrei e dottissimo nella lingua d’origine non era bravo nell’esprimere contenuti profondi in una lingua straniera né si curava moltissimo delle parole, avendo però ben chiaro il senso. [5.] Queste considerazioni sono relative all’interpretazione letterale. Per seguire invece anche il filo della seconda interpretazione46, il versetto deve essere chiarito a partire dalla fine della lettera ai Romani. Lì, infatti, scrivendo similmente a proposito dei cibi e delle osservanze dei Giudei e descrivendo come saldi
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e perfetti coloro che disprezzavano i precetti della legge intesi in senso letterale, come deboli e piccoli coloro che invece erano allettati dalle antiche abitudini, vedendo, infine, litigare gli spirituali ed i carnali, ammonisce gli spirituali a non disprezzare i carnali e dice: Accogliete il debole nella fede, senza discutere le opinioni. Uno infatti crede di mangiare tutto; colui invece che è debole mangia legumi. Colui che mangia non disprezzi chi non mangia e colui che non mangia non giudichi colui che mangia, Dio infatti lo ha accolto. Chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo? Dipende dal suo padrone se sta in piedi o cada. Ma starà in piedi, giacché Dio è in grado di innalzarlo (Rm 14, 1-4); e dopo una sequenza intermedia in cui argomenta a lungo intorno a questo tema aggiunge alla fine: Non distruggere a causa del cibo l’opera di Dio (Rm 14, 20); e ancora: Noi più forti dobbiamo sostenere le debolezze dei deboli e non far piacere a noi. Ciascuno di voi piaccia al prossimo per la buona edificazione (Rm 15, 1-2). 6,2 Portate i pesi gli uni degli altri e così adempirete la legge di Cristo. [1.] Che il peccato sia un peso lo attesta anche il salmista dicendo: Le mie ingiustizie si sono innalzate al di sopra della mia testa, come un carico pesante hanno gravato su di me (Sal 38, 5); e Zaccaria vide l’iniquità sedere, sotto l’aspetto di donnaa, sopra un blocco di piombo47. Il Salvatore portò questo peso per noi insegnandoci con il suo esempio che cosa dovessimo fare. Egli in effetti porta le nostre colpe e soffre per noi ed invita coloro che sono appesantiti dal peso dei peccati e della legge al peso lieve della virtù dicendo: Il mio giogo è dolce ed il mio peso è leggero (Mt 11, 30). Chi dunque non dispera della salvezza del fratello, ma tende la mano al supplice e, per quanto dipende, da lui piange con colui che piange, è debole con il deboleb e considera suoi i peccati degli altri, costui adempie con la a Nel brano biblico cui lo Stridonense allude (Zc 5, 5-8) vi è il seguente racconto: “Poi l’angelo che parlava con me si avvicinò e mi disse: «Alza gli occhi e osserva ciò che appare». E io: «Che cosa è quella?» Mi rispose: «È un’efa che avanza». Poi soggiunse: «Questa è la loro corruzione in tutta la terra». Fu quindi alzato un coperchio di piombo; ecco dentro all’efa vi era una donna. Disse: «Questa è l’empietà!» Poi la ricacciò dentro l’efa e ricoprì l’apertura con il coperchio di piombo”. b Cf. Rm 12, 15; 1 Cor 9, 22.
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carità la legge di Cristo. Qual è la legge di Cristo? Questo è il mio comandamento, che vi amiate reciprocamente (Gv 15, 12). Qual è la legge del Figlio di Dio? Amatevi l’un l’altro come io ho amato voi (Gv 13, 34). Come ci ha amati il Figlio di Dio? Non esiste amore più grande di questo, cioè dare la propria vita per i propri amici (Gv 15, 13). Chi non ha clemenza né si è rivestito di sentimenti di misericordia e di compunzione, benché sia spirituale, non ha adempiuto la legge di Cristo. [2.] Ma congiungiamo anche questo versetto con i precedenti; infatti seguiamo il doppio livello di interpretazione. Se qualcuno è debole nella fede e si nutre ancora di latte come i bambini né può passare così rapidamente dall’osservanza della legge ai sacramenti spirituali, portate i suoi pesi voi che siete più robusti, perché a causa della vostra scienza non perisca il fratello per cui Cristo è morto (cf. 1 Cor 8, 11). Porta la necessità del fratello anche chi aiuta il povero gravato dal peso della povertà e si procura amici dall’iniqua ricchezza (cf. Lc 16, 9); al quale dopo la resurrezione Cristo dice: Venite a me, benedetti del Padre mio, possedete il regno preparato per voi dalla creazione del mondo. Infatti avevo fame e mi avete dato da mangiare; avevo sete e mi avete dato da bere (Mt 25, 34-35). In linea con questo significato anche in un’altra epistola Paolo, facendo delle raccomandazioni a Timoteo, ha aggiunto: Ai ricchi di questo mondo raccomanda di non essere saccenti (sta per: ‘non insuperbirsi’), di non riporre la speranza sull’incertezza delle ricchezze, ma in Dio, che dà tutto in abbondanza per poterne godere; di fare del bene, di essere ricchi nelle opere buone, di essere pronti a dare, di essere generosi, di mettersi da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vita vera (1 Tm 6, 17-19). Chi acquista la vita vera, cioè chi acquista colui che dice: Io sono la vita (Gv 14, 6), ha adempiuto la legge di Cristo, che tende alla vita.
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6,3 Infatti se uno ritiene di essere qualcosa mentre non è nulla, seduce se stesso. [1.] Se qualcuno non vuole portare i pesi degli altri e, privo di misericordia, è soddisfatto soltanto della sua opera e della sua virtù non cercando il bene degli altri ma il proprio, cioè se ama solo se stesso e non pure
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Dio, egli seduce se stesso. Si può leggere e distinguerea in due modi: o ‘se uno ritiene di essere qualcosa mentre non è nulla’; oppure così: ‘se qualcuno ritiene di essere qualcosa’, dimodoché poi aggiungiamo ‘non essendo nulla egli seduce se stesso’. E questa differenza riecheggia di più in greco che in latino. Il senso del primo modo di distinguere è: chi ritiene di essere qualcosa e non è niente, egli inganna se stesso. Il secondo significato è più profondo e ci piace maggiormente: se qualcuno ritiene di essere qualcosa, per il fatto che pensa di essere qualcosa e non giudica se stesso dalla misericordia verso il prossimo ma dalla sua opera e dal suo lavoro, contento soltanto della sua virtù, costui è niente a causa della sua stessa arroganza ed egli inganna se stesso: [2.] in greco vi è un’espressione più efficace ‘phrenapata’, cioè inganna la sua mente, per la quale il traduttore latino ha reso ‘egli seduce se stesso’. Inganna la sua mente colui che ritiene di essere sapiente e secondo le parole di Isaia è sapiente nella propria opinione ed intelligente dinanzi ai propri occhi (cf. Is 5, 21). Il senso di questo versetto è connesso alla circoncisione ed alla leggeb in questo modo: chi è spirituale e non ha misericordia verso il prossimo, disprezzando l’umile perché egli è superiore, questi inganna se stesso, non sapendo che la legge dello spirito è che ci amiamo in modo reciproco. 6,4 Ciascuno invece esamini il proprio operato e così troverà vanto soltanto in se stesso e non in un altro. [1.] Questo è il senso: tu che ti giudichi spirituale e sei più forte grazie alla debolezza di un altro non devi considerare i difetti di chi è caduto ma la tua forza. Infatti se un altro non può passare completamente dal giudaismo al cristianesimo, non per questo tu sei un perfetto cristiano, ma se la tua coscienza non ti tormenta, hai in te stesso il vanto e non in un altro. Un atleta non è forte perché ha vinto il debole ed ha superato le membra a Mantenendo nella traduzione (cioè nel verbo ‘distinguere’, con il senso di cogliere le pause che delimitano i vari sintagmi di una frase) il riferimento al termine tecnico della distinctio si comprende il lavoro filologico al quale Girolamo sta sottoponendo il testo che commenta. b Girolamo allude così a quello che altrove chiama ‘altior intelligentia’, ovvero l’interpretazione spirituale.
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languide dell’avversario, ma se è robusto, e si vanta per la sua forza, non per la debolezza di un altro. [2.] Si può anche intendere diversamente48: chi ha consapevolezza di un buon operato e, considerando se stesso, non rimprovera il proprio operato (cf. 1 Gv 3, 21) non deve gloriarsi di questo presso un altro e non deve riversare fuori le proprie lodi e parlarne con tutti e vantarsi per gli applausi degli uomini; ma trovi il vanto in se stesso e dica: Per me invece non vi sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo del quale il mondo per me è stato crocifisso ed io per il mondo (Gal 6, 14). Per chi aspetta la gloria da un altro né il mondo è stato crocifisso né egli è stato messo in croce con Cristo (cf. Gal 2, 19); giacché ha ricevuto dagli uomini quel che cercava, la sua ricompensa (cf. Mt 6, 2). 6,5 Ciascuno infatti porterà il suo peso. [1.] Sembra che contraddica i versetti precedenti dove dice: Portate i pesi gli uni degli altri. Se infatti ciascuno porterà il suo peso, non potrà portare l’uno i pesi dell’altro. Ma è necessario considerare che in quel brano insegnava a sostenerci reciprocamente in questa vita a causa del peccato e ad essere d’aiuto l’uno all’altro nel tempo presente. In questo brano, invece, parla del giudizio del Signore su di noi, per cui non a causa del peccato di un altro e per il confronto con uno peggiore, ma secondo il nostro operato siamo da lui giudicati peccatori oppure santi perché ciascuno riceve secondo il suo operato (cf. Rm 2, 6). [2.] Sia pur in maniera oscura veniamo istruiti attraverso questo breve versetto dal carattere sentenzioso su un nuovo contenuto dottrinalea che è nascosto: mentre siamo nel tempo presente possiamo aiutarci reciprocamente sia con le preghiere sia con i consigli; quando invece arriveremo davanti al tribunale di Cristo, né Giobbe né Daniele né Noè possono pregare per qualcuno (cf. Ez 14, 14), ma ciascuno porterà il suo peso.
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Lo Stridonense continua a proporre un livello più profondo di interpretazione dei versetti: in questo caso il senso spirituale è la prospettiva escatologica che Paolo vuol indicare ai cristiani.
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6,6 Colui che è istruito nella dottrina faccia parte in tutti i beni a colui che lo istruisce. [1.] Marcione ha interpretato questo brano in maniera tale da ritenere che i fedeli ed i catecumeni devono pregare insieme49 ed il maestro deve far parte nella preghiera ai discepoli (spinto soprattutto dalle parole che seguono ‘in tutti i beni’), mentre invece, se il discorso fosse stato sulla preghiera, non avrebbe dovuto essere rivolto a colui che è istruito ma a colui che istruisce, cioè non al discepolo ma al maestro. Quindi anche tutte le parole che seguono non sono congruenti con la spiegazione marcionita: Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato (Gal 6, 8), e: Non stanchiamoci di fare il bene: se infatti non desistiamo a suo tempo raccoglieremo (Gal 6, 9). Perciò il significato è questo: poiché sopra aveva esortato gli spirituali ad istruire in spirito di dolcezza quanti erano stati sorpresi in qualche colpa e a portare gli uni i pesi dell’altro adempiendo la legge di Cristo (cf. Gal 6, 1-2), ora al contrario ordina a coloro che erano ancora troppo deboli, discepoli e carnali, di offrire ai maestri beni materiali così come essi mietono beni spirituali dai maestri, i quali dedicandosi interamente alla scienza ed allo studio divino sono privi delle necessità di questa vita, e di realizzare quel che è scritto della manna: Chi ebbe molto non abbondò e chi poco non scarseggiòa. [2.] In questo brano, secondo la consuetudine ed il costume abituale del volgo, ha chiamato beni il vitto, i vestiti e tutte le altre cose che gli uomini enumerano tra i beni. Quando infatti abbiamo vitto e vestiti, dobbiamo accontentarci di questo (1 Tm 6, 8). Né è strano se Paolo ha contrassegnato con il nome di ‘bene’ le necessità corporali, poiché anche il Salvatore nostro ha detto a coloro che non erano ancora saliti al vertice delle virtù ma avanzavano ancora troppo umilmente e chiedevano che fosse data loro la fede: Se dunque voi, pur essendo malvagi, sapete dare dare i beni ai vostri figli, quanto più il Padre celeste darà i beni a coloro che glieli domandano (Mt 7, 11)! Io penso che anche Giobbe rivolgendosi alla moglie come ad una donna stolta, in considerazione di lei che aveva un’opinione positiva a
2 Cor 8, 15; cf. Es 16, 18.
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delle ricchezze corporali, disse: Se abbiamo ricevuto dalla mano del Signore i beni, e poi riguardo le sofferenze, i tormenti e le tentazioni che procurano la vittoria: perché non sopportare anche i mali (Gb 2, 10)? [3.] Poiché dunque i beni ed i mali non consistono nelle ricchezze e nelle sofferenze ma nelle virtù e nei vizi (come dice il giusto nel salmo: C’è qualcuno che vuole la vita, che desidera vedere dei buoni giorni? Preserva la tua lingua dal male e le tue labbra non pronuncino inganno. Evita il male e fai il benea), è chiamato propriamente male ciò che si deve evitare, bene ciò che dobbiamo fare. Anche quel ricco del Vangelo che non aveva la conoscenza del bene e del male considerava convenientemente ‘beni’ la ricchezza del raccolto dicendo: Anima, hai a disposizione molti beni per molti anni: riposati, mangia, bevi, rallegrati (Lc 12, 19). E un altro che giaceva nella porpora e abbondava di ricchezze ode Abramo negli inferi: Hai ricevuto i tuoi beni durante la tua vita (Lc 16, 25). [4.] Bisogna anche fare attenzione che il versetto non si possa altresì intendere così: è comandato ai discepoli di far parte con coloro che li istruiscono, di assecondarli e mostrarsi docili e affabili, nelle cose però che sono buone, che hanno valore spirituale e non sono eretiche o pervertite dalla malvagità giudaica.
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6,7 Non vi fate illusioni, Dio non si lascia beffare; un uomo infatti raccoglierà quello che avrà seminato. [1.] Prevedendo nello spirito che coloro che sono istruiti e devono dare ai maestri il denaro per le spese e i beni necessari alla vita possano addurre come pretesto la povertà e dire: “Quest’anno il mio campo è stato bruciato dalla siccità, la grandine ha distrutto la vigna, le tasse mi hanno tolto le entrate che potevo avere, non posso dare quel che mi viene comandato”, ha aggiunto: Non vi fate illusioni, Dio non si lascia beffare: conosce, dice, i vostri cuori, non ignora le vostre possibilità. Una scusa verisimile può placare un uomo, non può ingannare Dio. [2.] E per mostrare il precetto che ha dato esorta contemporaneamente con l’esempio del seme, perché l’uomo non ritenga che vada perduto quello che riceverà indietro con la moltiplicazione a
Sal 34, 13-15.
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degli interessi. Anche nell’epistola ai Corinzi mostra la logica del bene dato e ricevuto con un esempio simile: Chi semina poco, raccoglierà pure poco; e chi semina nell’abbondanza, raccoglierà pure nell’abbondanza. Ciascuno secondo le intenzioni del cuore, non con tristezza e per necessità: Dio infatti ama il donatore gioioso (2 Cor 9, 6-7).
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6,8 Poiché chi semina nella sua carne, raccoglierà dalla carne pure la corruzione, chi invece semina nello spirito, raccoglierà dallo spirito la vita eterna. [1.] Tutto quello che diciamo, facciamo, pensiamo è seminato in due campi, la carne e lo spirito. Se sono buone le cose che escono dalle mani, dalla bocca, dal cuore, seminate nello spirito abbonderanno dei frutti della vita eterna; se sono malvage, accolte dal terreno della carne, produrranno per noi la messe della corruzione. Altrimentia: chi intende la legge in maniera carnale, aspetta altresì le promesse carnali e quei beni che si corrompono nel tempo presente; chi invece ascolta in modo spirituale semina nello spirito e dallo spirito raccoglierà la vita sempiterna. Allo stesso tempo bisogna considerare il filo del discorso e lo si deve congiungere con i versetti precedenti, poiché è chiamato uomo che semina nello spirito colui che, allorquando avrà cominciato a raccogliere la vita sempiterna, forse smetterà di essere uomo. [2.] Cassianob, che introducendo l’argomento della carne apparente di Cristo50 ritiene che ogni unione di un uomo con una donna sia immonda, acerrimo eresiarca degli Encratiti51, traendo spunto dalla presente testimonianza ha utilizzato contro di noi quest’argomentazione: se chi semina nella carne, raccoglierà dalla carne la corruzione, chi si unisce alla donna semina nella carne; pertanto anche colui che ha rapporti con la moglie e semina nella carne della donna, dalla carne raccoglierà a Mediante l’avverbio lo Stridonense non allude ad una alternativa esegetica bensì al secondo livello di interpretazione, quello per cui le parole di Paolo devono essere spiegate, in riferimento alla legge ed alla Scrittura, nel senso più profondo e spirituale. b Da Clemente Alessandrino, str. 1, 21, p. 163 nonché 3, 13, p. 362, e da Eusebio di Cesarea, p. e. 10, 12, 1, p. 449, abbiamo notizia di un Giulio Cassiano, encratita, vissuto in Egitto intorno al 170 ed autore di un trattato Sulla continenza o sullo stato di ‘eunuco’.
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la corruzione. In primo luogo gli si risponderà che Paolo non ha detto chi semina ‘nella carne’ ma ‘nella sua carne’; nessuno del resto giace con se stesso e semina nella ‘sua’ carne. [3.] In secondo luogo, pur concedendogli con mano larga questa osservazione che abbiamo annotato, cioè nella sua carne, bisogna aggiungere che anche coloro che mangiano, bevono, dormono e fanno qualcosa per refrigerio del corpo seminano, secondo quelloa, nella carne e da essa raccolgono la corruzione. Se egli ricorrerà all’espediente di dire che coloro che bevono, mangiano, dormono, ma fanno tutte queste cose con temperanza nel nome del Signore (cf. Col 3, 17), non seminano nella carne ma nello spirito, anche noi allo stesso modo gli risponderemo che pure quelli che agendo con temperanza seguono il primo comandamento di Dio, crescete e moltiplicatevi e riempite la terra (Gen 1, 22), non seminano nella carne ma nello spirito. Il suo sillogismo è perciò futile e caduco: esso in prima battuta inganna l’ascoltatore con un sofisma, poi, se esaminato attentamente, si risolve facilmente. Né possiamo dire infatti che Abramo, Isacco e Giacobbe e gli altri santi uomini che sono nati in virtù della promessa, persino lo stesso precursore del Signore, poiché è nato nella carne, è germogliato dal germe della corruzione. [4.] Bisogna parimenti osservare che il testo ‘chi semina nella carne’ presenta l’aggiunta nella ‘sua’ carne, chi invece semina nello spirito non ha nel ‘suo’ spirito ma semplicemente nello spirito. Chi infatti semina cose buone non semina in qualcosa di suo ma nello spirito di Dio, dal quale si accinge a raccogliere pure la vita eterna.
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6,9 Non stanchiamoci invece di fare il bene: se infatti non desistiamo a suo tempo raccoglieremo. Esorta al desiderio di perseverare coloro che aspettano in questa vita la ricompensa delle buone opere non sapendo che come nella semenza c’è un tempo per la semina uno per la raccolta, così anche nella vita presente le opere sono la semina (quelle che vengono messe o nello spirito o nella carne), il raccolto invece il futuro giudizio delle opere: ed in base alla qualità ed alla diversità della semina noi a
Cioè secondo le opinioni di Cassiano.
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facciamo una diversa misura di raccolto, ora il cento ora il sessanta ora il trenta (cf. Mt 13, 23). Nessuno può raccogliere questa messe se desiste: chi infatti persevera fino alla fine, sarà salvo (Mt 10, 22; 24, 13), e dice la Scrittura: Non desistere (Is 5, 27). Come è possibile del resto che, mentre i peccatori sono accresciuti ogni giorno nelle opere malvagie, noi ci stanchiamo nelle buone opere? 6,10 Dunque finché abbiamo tempo, operiamo il bene verso tutti, specialmente verso i vicini nella fede. [1.] Il tempo della semina è, come abbiamo detto, il tempo presente e la vita che percorriamo; in questa ci è lecito seminare quello che vogliamo, quando questa vita passerà, finirà il tempo di operare. Per cui anche il Salvatore ha detto: Dobbiamo operare finché è giorno; verrà la notte, quando nessuno potrà più operare (Gv 9, 4). È sorta per noi la parola di Dio, il sole vero, e le bestie sono ritornate nelle loro tane: andiamo come gli uomini al nostro lavoro e fatichiamo fino a sera, come si recita misticamente nel salmo: Hai disteso le tenebre e si è fatta notte. Vagheranno durante la notte le bestie della foresta, i piccoli leoni ruggenti, per conquistare e chiedere a Dio il loro cibo. Il sole è sorto e si sono radunate e accovacciate nelle loro tane. Va l’uomo al suo lavoro ed alla sua opera fino a sera (Sal 104, 20-23). Sia che stiamo male sia che siamo in salute, umili o potenti, poveri, ricchi, sconosciuti, famosi, affamati e nutriti: facciamo tutto nel nome del Signore con pazienza e serenità e troverà compimento in noi quel che è stato scritto: Per coloro che amano il Signore tutto coopera verso il bene (Rm 8, 28). L’ira stessa, la lussuria e l’ingiustizia che brama vendetta, se freno me stesso, se taccio per causa di Dio, se grazie a ciascuna delle spine della passione e grazie alla seduzione dei vizi mi ricordo di Dio che dall’alto vigila su di me, diventano per me occasione di trionfi. [2.] Nel dare non diciamo: “Quello è un amico, costui non lo conosco”, “Questi merita un regalo, quello il disprezzo”; imitiamo il padre nostro che fa sorgere il suo sole sui buoni e sui malvagi e fa piovere sui giusti e sugli iniqui (Mt 5, 45). La fonte del bene è a diposizione di tutti: da lì attingono l’acqua allo stesso modo il servo ed il libero, il plebeo ed il re, il ricco ed il povero;
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la lucerna, quando in una casa è accesa, fa luce su tutti egualmente (cf. Mt 5, 15). Se i freni della liberalità vengono allentati indifferentemente verso tutti, quanto più verso i vicini nella fede e verso i cristiani, che hanno il medesimo Padre, vengono contrassegnati con il nome del medesimo maestro! Mi sembra che questo versetto possa pure essere coerente con quelli precedenti per cui chiama ‘vicini nella fede’ i maestri: sopra aveva dato l’ordine che i suoi ascoltatori donassero loro tutte le cose che sono considerate beni (cf. Gal 6, 6). [3.] È breve il corso di questa vita. Ciò stesso che dico, che detto, che viene scritto, che correggo, che rileggo, cresce o si consuma per me dal mio tempo. Si dice che Tito, il figlio di Vespasiano, che entrò vincitore a Roma dopo la distruzione di Gerusalemme per vendicare il sangue del Signore, fosse di così grande bontà che una sera, ricordatosi tardi a cena che quel giorno non aveva fatto nessuna opera buona, disse: “Amici, oggi ho perso un giorno”a. Noi forse pensiamo che non si perda per noi un’ora, un giorno, degli istanti, del tempo, delle stagioni quando diciamo una parola inutile per la quale dovremo rendere conto nel giorno del giudizio (cf. Mt 12, 36)? Se costui disse e fece questo naturalmente, senza la legge, senza il Vangelo, senza la dottrina del Salvatore e degli apostoli, che cosa dovremmo fare noi per cui sono motivo di condanna le sacerdotesse monogame di Giunoneb, le vergini di Vesta e i fedeli continenti di altre divinità pagane52? [4.] Il beato Giovanni evangelista, mentre, fino alla vecchiaia avanzata, dimorava ad Efeso e con difficoltà veniva trasportato in chiesa sulle mani dei discepoli né era più in grado di dire molte parole, nient’altro soleva proferire in ciascuna riunione se non questo: “Figlioli, amatevi gli uni gli altri” (cf. 1 Gv 3, 11); una buona volta i discepoli ed i fratelli che erano presenti, stanchi di sentire sempre le stesse cose, dissero: “Maestro, perché dici sempre questo?” Egli diede una risposta degna di Giovanni:
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Cf. Eutropio 7, 21; la fonte all’origine di questa notizia potrebbe essere Svetonio, Tit. 8, 1. b Allusioni assai simili alle sacerdotesse monogame di Giunone e alle Vestali ritroviamo in testi legati all’accesa controversia di Girolamo con Gioviniano nel 393/4: cf. adv. Iouin. 1, 11 ripreso da epist. 49, 6, vol. 1, p. 389. a
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“Poiché è l’insegnamento del Signore e se trova compimento è sufficiente”. Questo per il presente comandamento dell’Apostolo: Dunque finché abbiamo tempo, operiamo il bene verso tutti, specialmente verso i vicini nella fede.
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6,11 Considerate con quali caratteri vi scrivo di mio pugno. [1.] Coloro che volevano che i Galati si circoncidessero avevano sparso la diceria che Paolo faceva alcune cose, ne predicava altre e comprometteva i suoi discorsi con il comportamento, perché proprio lui che asseriva l’abolizione della legge si faceva trovare nella legge. Dal momento che Paolo non poteva confutare questa diceria di presenza davanti a tutti (infatti era impedito dalle catene che sopportava a causa del martirio in nome di Cristo), rende presente se stesso attraverso le lettere. E affinché non nascesse il sospetto di una falsa epistola, egli scrive di suo pugno a partire da questo versetto fino alla fine, dimostrando che i versetti precedenti erano stati scritti da un altro53. [2.] Del resto che sotto il suo nome erano inviate epistole da falsi dottori lo dimostrano anche queste parole della lettera ai Tessalonicesi: Vi preghiamo, fratelli, per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo e la nostra riunione in lui, di non lasciarvi confondere rapidamente, di non farvi atterrire né attraverso pretese ispirazioni né da discorsi né con una lettera fatta passare per nostra, quasi che il giorno del Signore sia imminente; nessuno vi seduca in alcun modo (2 Ts 2, 1-3). E per eliminare il sospetto di falsità da ogni parte dell’epistola che inviava, ha sottoscritto, alla fine, di suo pugno dicendo: Il saluto è di mio pugno, di Paolo, ciò è segno di riconoscimento in ogni epistola: scrivo così. La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con tutti voi (2 Ts 3, 17-18). Allo stesso modo ha contrassegnato anche le epistole che aveva dettato ai Colossesi: Il saluto è di mio pugno, di Paolo. Ricordatevi delle mie catene (Col 4, 18). E dovunque sapeva che vi erano falsi dottori che potevano seminare nuove dottrine servendosi dell’autorità dell’Apostolo, sottoscriveva di proprio pugno l’epistola. Infine anche scrivendo ai Corinzi, in mezzo ai quali vi erano scismi ed eresie perché ciascuno diceva: Io sono di Paolo ed io di Apollo, io invece di Cefa (1 Cor 1, 12), ha contrassegnato
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la sua epistola con tale annotazione: Il saluto è di mio pugno, di Paolo. Se qualcuno non ama il Signore Gesù Cristo, sia anatema. Maranà tha etc (1 Cor 16, 21-22). [3.] Dunque per questo, volendo togliere ogni occasione ai falsi dottori, che avevano allontanato anche i Galati dalla verità del Vangelo, ha completato l’epilogo dell’epistola con l’annotazione ‘di suo pugno’ dicendo ‘considerate con quali caratteri vi scrivo’; non perché i caratteri fossero grandi (giacché in greco questo è il significato di ‘pēlikois’), ma perché avessero per loro l’evidenza del suo pugno affinché pensassero, mentre riconoscevano i tratti dei caratteri, di vedere quegli stesso che li aveva scritto. [4.] Mi meraviglio di come un uomo molto erudito del nostro tempo abbia detto in questo luogo una cosa ridicola: “Paolo, dice, era ebreo e non conosceva i caratteri greci e poiché era necessario che sottoscrivesse la lettera di suo pugno, scriveva a stento, contro le sue abitudini, le tracce curve dei caratteri con grandi tratti, dimostrando anche in questo i segni della sua carità verso i Galati, perché a causa di quelli si sforzava di fare persino ciò che non poteva fare”54. In verità Paolo ha scritto l’epistola con grandi caratteri perché nei caratteri vi era un grande significato ed esso era stato composto per opera dello spirito del Dio vivo, non con l’inchiostro né con la penna55. Quanto poi al fatto che ha inserito ‘di mio pugno’, nel riferimento alle mani intendiamo l’opera; per la qual cosa, spesso, anche nei profeti si dice: Parola di Dio che è stata composta per mezzo della mano di Geremia o di Aggeoa, affinché sulla base di questa somiglianza sappiamo che anche per mezzo della mano di Paolo è stato composta la parola di Dio. Paolo scrive grandi caratteri non solo allora ai Galati ma anche oggi a tutti e, benché siano piccoli i tratti con i quali le sue epistole sono scritte, tuttavia sono grandi i caratteri perché nei caratteri il significato è grande.
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6,12 Quelli che vogliono piacere nella carne vi costringono a circoncidervi, soltanto per non subire la persecuzione della croce di Cristo. [1.] Sopra ha spiegato da quale punto dell’epistola ha sottoscritto di suo pugno, ora ina
Cf. Ger 37, 2; Ag 1, 1.
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vece ripete che cosa ha scritto. Gaio Cesare, Ottaviano Augusto e Tiberio successore di Augusto avevano promulgato delle leggi perché i Giudei dispersi in tutto l’impero romano vivessero con i propri riti e fossero soggetti alle patrie cerimonie. Chi dunque era circonciso, benché credesse in Cristo, era considerato quasi come giudeo dai pagani; chi invece evitando la circoncisione proclamava di non essere giudeo in virtù del prepuzio, finiva con l’essere esposto alle persecuzioni tanto dei pagani quanto dei Giudei. [2.] Desiderando quindi evitare queste persecuzioni, costoro che avevano corrotto i Galati persuadevano i discepoli a circoncidersi per difesa, cosa che l’Apostolo ora chiama fiducia nella carne, per il fatto cioè che nella persecuzione proponevano la circoncisione tanto ai pagani, che temevano, quanto ai Giudei, ai quali volevano piacere. Infatti né i Giudei né i pagani potevano perseguitare quelle persone che vedevano circoncidere i proseliti e conservare i precetti della legge. 6,13 Neppure quelli che sono circoncisi custodiscono in effetti la legge, ma vogliono circoncidervi per gloriarsi nella vostra carne. A causa della debolezza della carne, dice, la legge non può trovare compimento; per cui anche i Giudei custodiscono i precetti e le dottrine degli uomini (cf. Mc 7, 7-8) piuttosto che i comandamenti di Dio senza adempiere la legge corporale (giacché è impossibile) né quella spirituale che non capiscono. Perciò è questo tutto ciò che desiderano, che fanno, in cui s’impegnano: gloriarsi dinanzi ai Giudei dell’oltraggio della vostra carne e vantarsi che dei pagani si sono circoncisi per i loro insegnamenti; fanno tutto questo per piacere ai Giudei ed acquietare l’invidia per la distruzione della legge.
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6,14 Lungi invece da me gloriarsi se non nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale il mondo è stato per me crocifisso ed io per il mondo. [1.] Può gloriarsi nella croce di Cristo solo chi la prende e segue il Salvatore, chi ha crocifisso la sua carne con i vizi e le concupiscenze, chi è morto al mondo e non contempla le cose che sono visibili ma quelle che sono invisibilia, vedendo che il mondo è stato a
Cf. Mt 16, 24; Gal 5, 24; 2 Cor 4, 18.
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crocifisso ed il suo aspetto trapassa (cf. 1 Cor 7, 31). Del resto per il giusto è crocifisso quel mondo a proposito del quale il Salvatore dice: Io ho vinto il mondo e: Non amate il mondo e: Non avete ricevuto lo spirito del mondoa. È stato crocifisso il mondo per colui per il quale il mondo è anche morto; e viene per lui la fine del mondo e, diventato degno di un nuovo cielo, di una nuova terra e di una nuova alleanza, canta un canto nuovo e riceve un nome nuovo scritto sulla pietruzza, che nessuno conosce all’infuori di chi la riceveb. [2.] Ci si chiede come mai Paolo ora dica lungi invece da me gloriarsi se non nella croce del Signore nostro Gesù Cristo mentre in un altro brano si gloria d’altro, come in quel versetto: Grazie alla gloria che da voi ottengo in Cristo Gesù e di nuovo: Mi vanterò volentieri delle mie debolezze, affinché dimori in me la potenza di Cristo e in un altro versetto: Per me è meglio morire che farmi togliere da qualcuno questo vanto e tutti gli altri che sono stati scritti in questo modoc. Ma bisogna sapere che tutto quel vantarsi correlato alla croce è un vanto della croce e che qualunque cosa sia fatta nella virtù essa avviene grazie alla passione del Signore. 6,15 Non vale infatti qualcosa la circoncisione né il prepuzio, ma l’essere nuova creatura. [1.] Come l’essere fedele e l’essere privo di fede, pur trattandosi di un solo essere nella sostanza, si distingue in due secondo un diverso modo di comprendere, in virtù delle parole dell’Apostolo: Vi siete spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per la conoscenza ad immagine del Creatore (Col 3, 9-10), così anche il mondo, pur essendo uno solo secondo la sostanza, secondo il significato che assume diviene ora uno ora un altro: per il peccatore il mondo è vecchio, per il santo è nuovo. Infatti poiché per il santo il mondo è stato crocifisso, non esiste più per lui la circoncisione ed il prepuzio, non il giudeo né il pagano, ma l’essere nuova creatura nella quale si
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Gv 16, 33; 1 Gv 2, 15; 1 Cor 2, 12. Cf. Ap 21, 1; Lc 22, 20; Ap 5, 9; 2, 17. c 1 Cor 15, 31; 2 Cor 12, 9; 1 Cor 9, 15. a
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è trasfigurato il corpo della nostra miseria conforme al corpo della gloria di Cristoa: in effetti le cose vecchie sono passate, ecco sono state fatte tutte nuove (2 Cor 5, 17). [2.] E come una è la gloria del sole, altra la gloria della luna e altra la gloria delle stelle: ogni stella infatti differisce da un’altra nella gloria, così anche la risurrezione dei morti (1 Cor 15, 41-42), sulla quale all’unisono concorda anche Daniele dicendo: Molti di quelli che dormono si risveglieranno dalla polvere della terra, gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna e: quanti comprendono risplenderanno come lo splendore del firmamento, e sui giusti: Molti risplenderanno come le stelle per sempre (Dn 12, 2-3); né infatti nel sole e nella luna, nel firmamento e nelle stelle vale qualcosa la circoncisione o il prepuzio, ma è una nuova condizione, priva di queste parti dei corpi che possono essere tagliate via. Così dunque anche noi, che amiamo Dio e per i quali sono state preparate cose che né occhio ha visto né orecchio ha sentito né sono entrate nel cuore di uomo (cf. 1 Cor 2, 9), quando dal corpo di miseria saremo trasformati nel corpo della gloria del Signore Gesù Cristo (cf. Fil 3, 21), avremo quel corpo che né un giudeo può incidere né un pagano può custodire con il prepuzio, non perché sia altro secondo la sostanza, ma perché è diverso secondo la gloria: Occorre infatti che questo corpo mortale si vesta di immortalità e questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità (1 Cor 15, 53). [3.] Anche il beato evangelista Giovanni avendo in mente qualcosa di simile a questo disse: Carissimi, noi ora siamo figli di Dio e non è ancora chiaro ciò che saremo. Sappiamo che se egli si manifesterà, saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è (1 Gv 3, 2). Poiché dunque non è ancora manifesto quel corpo della gloria di Gesù Cristo che dopo la resurrezione ebbe i segni dei chiodi ed entrò a porte chiuse, noi che già ora siamo risorti con Cristo nel battesimo, rinati nell’uomo nuovo, né siamo servi della circoncisione né del prepuzio, ma già ora noi crediamo di essere ciò che saremo.
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Cf. Col 3, 11; Fil 3, 21.
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LIBRO TERZO, 6,15 – 6,17a
6,16 E su quanti seguono questa regola sia pace e misericordia, come su Israele di Dio. [1.] Tutte le cose si conformano ad un normaa e, una volta che è posta la regola, si dimostra se sono erronee o corrette. Così pure un insegnamento divino è per così dire una norma del discorso, che giudica ciò che è giusto e ciò che è sbagliato: chi seguirà quest’insegnamento avrà dentro di sé la pace, che supera ogni senso (cf. Fil 4, 7); e dopo la pace la misericordia, che è fondamentale in Israele di Dio. [2.] In effetti è denominato Israele di Dio per fare la differenza con quello che ha cessato di essere Israele di Dio. Infatti dicono di essere Giudei e non lo sono, ma mentono, perché appartengono alla sinagoga di Satana (cf. Ap 2, 9). Non ti stupire se è simile ad Israele spirituale Israele carnale, che non ha la pace né la misericordia (a proposito del quale è altresì scritto ai Corinzi: Guardate Israele secondo la carneb), dal momento che molti sono gli dei e molti i signori, sia in cielo sia in terra, ad imitazione di Dio e del Signore (cf. 1 Cor 8, 5). Per chiudere l’epistola in coerenza con l’enunciazione del tema, ha denominato opportunamente con un solo sintagma Israele di Dio, affinché, cioè, venisse mostrato che tutti gli argomenti discussi in precedenza non sono considerazioni fuori luogo bensì perfettamente in tema.
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6,17a D’ora innanzi nessuno mi sia molesto. [1.] Non è come se venisse meno nell’insegnare, bensì prova la sofferenza dell’agricoltore se si seccano i germogli che ha piantato, e la preoccupazione del pastore se il gregge, disperso, è sbranato. In greco dunque si legge meglio: d’ora innanzi nessuno mi procuri fatiche, affinché, cioè, non abbia la necessità di faticare di nuovo in mezzo a voi. Procura fatica al maestro colui che vive e pensa diversamente da come il maestro ha insegnato ed ha agito. [2.] È inoltre in grado di prevenire la loro contestazione, se mai qualcuno volesse in seguito contraddirlo, giacché anche nella lettera ai Corinzi dopo molte riflessioni sulla questione del capo velato delle donne e scoperto degli uominic ha concluso Cf. Cicerone, Mur. 3. 1 Cor 10, 18. c Cf. 1 Cor 11, 3-6: “Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che a
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dicendo: Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine e neanche la Chiesa di Dio (1 Cor 11, 16): cioè, noi abbiamo detto quel che ci sembrava decoroso e giusto; se qualcuno invece, non volendo accettare serenamente la verità, cerca che cosa possa obiettare e con quali argomenti si possa opporre, sappia che non è degno di risposta colui che è pronto a contestare piuttosto che a lasciarsi istruire. 6,17b Io infatti porto le stigmate del Signore nostro Gesù Cristo nel mio corpo. Chi si circoncide dopo l’incarnazione di Cristo non porta le stigmate del Signore Gesù, ma si vanta nella sua vergognaa. Colui invece che ha subìto le percosse oltre misura, la prigionia frequentemente, è stato picchiato tre volte con le verghe, lapidato una volta (2 Cor 11, 23-27) e tutte le altre cose che sono scritte nel catalogo delle glorieb, costui porta le stigmate del Signore Gesù nel suo corpo. Forse anche colui che tratta duramente il suo corpo e lo espone alla schiavitù, perché, mentre predica agli altri, non venga trovato egli stesso malvagio (cf. 1 Cor 9, 27), porta le stigmate del Signore Gesù nel suo corpo. Gioivano altresì gli apostoli di essere stati degni di subire degli oltraggi per il nome di Gesù (cf. At 5, 41). 6,18 La grazia del Signore nostro Gesù Cristo con il vostro spirito, fratelli. Amen. [1.] Non la discordia, non la schiavitù della legge, non la lotta, non il litigio, ma la grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con il vostro spirito. Niente affatto con la carne, niente affatto con l’anima, sia perché, diventati spirituali, avete smesso di essere carne ed anima sia perché in prega o profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo. Ma ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di riguardo al proprio capo, poiché è lo stesso che se fosse rasata. Se dunque una donna non vuol mettersi il velo, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra”. Nell’allusione assai concisa a questo brano constatiamo quella rapidità di elaborazione del Commentario, che è tratto precipuo di molte parti di In Galatas, soprattutto dei primi due libri, ma anche di questo terzo libro. a Cf. 1 Gv 4, 2; Fil 3, 19. b Nel capitolo 11 della seconda lettera ai Corinzi Paolo è spinto dalla verve polemica ad un lungo elenco delle sofferenze che ha dovuto patire per amore delle comunità cristiane, e di quella di Corinto in particolare, per così dire vantandosi di una serie di meriti che dimostrano la superiorità della sua passione apostolica rispetto a chiunque altro volesse mettere in discussione la sua predicazione.
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ciò che è superiore sono comprese anche le realtà che sono inferiori. Infatti l’anima e la carne sono assoggettate allo spirito, del quale l’Ecclesiaste dice: lo spirito tornerà a colui che lo ha dato (Qo 12, 7) e Paolo in un altro versetto: lo Spirito stesso rende testimonianza al nostro spirito (Rm 8, 16). [2.] D’altra parte questa grazia del Signore Gesù non è con tutti, ma con coloro che meritano di essere chiamati fratelli dall’Apostolo, fratelli fedeli e fratelli germani: quel che significa la parola ebraica ‘amen’. Infatti la Settanta ha tradotto amen con ‘sia’, Aquila, Simmaco e Teodozione con ‘fedelmente’ o anche ‘giustamente’56. E come nell’Antico Testamento, in base ad un modo abituale di giurare, Dio conferma le sue parole dicendo: Per la mia vita, dice il Signore e anche i santi giurano: Per la tua vitaa; così pure il nostro Salvatore dimostra nel Vangelo che sono vere le parole che dice attraverso il termine ‘amen’. [3.] Del resto, che ‘amen’ rappresenta il consenso di chi ascolta ed è segno di verità ce lo insegna anche la prima lettera ai Corinzi, nella quale Paolo dice: Altrimenti se tu benedici con lo spirito, come dirà amen al tuo ringraziamento colui che assiste come non iniziato, dal momento che non capisce quello che dici? (1 Cor 14, 16) Da ciò dimostra che colui che non è iniziato non può dire che è vero quel che viene detto, se non ha compreso ciò che gli è insegnato.
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Note al Libro terzo Cf. Cipriano, Don. 2, p. 21-23. A. Cain, ‘Tertullian, Cyprian, and Lactantius in Jerome’s Commentary’, p. 46: “Both writers use this self-deprecatory topos as an occasion for articulating the main lines of a Christian stylistic aesthetic they define in contradistinction to the one prevalent in the forensic (Cyprian) and scholastic and ecclesiastical (Jerome) spheres. When it comes to the Gospel, style should be trumped by substance, and rhetorical vacuity by straightforward meaning”. 1
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Cf. Nm 14, 28; Gdt 12, 4.
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L’esordio del terzo libro è scintillante e differente, sul versante dell’elaborazione formale, rispetto all’andamento affrettato e, a tratti, persino trascurato di molte parti dei due libri precedenti. Registriamo sin dalle prime frasi l’uso di figure retoriche; colpisce, nel solenne incipit, il plurale maiestatis nonché la ripresa del topos dell’inadeguatezza dei mezzi dell’autore, impreziosito dalla metafora del ruscello, che è poca cosa rispetto al fiume impetuoso dei discorsi degli oratori magniloquenti. In questo contesto caratterizzato dalla solennità dei mezzi linguistici Girolamo proclama il suo disinteresse per le ricercatezze formali e per la gloria che ormai sorride agli autori cristiani che abilmente utilizzano le raffinate tecniche della retorica per conquistare il popolo radunato nelle chiese; tali rivendicazioni, espresse con uno stile degno di Cicerone, sottolineano la capacità dello Stridonense di poter fare altrettanto e la volontà di rinunciarvi. Nel vibrante j’accuse geronimiano le chiese diventano sale di declamazione e luoghi di spettacolo (con il richiamo ad un altro argomento tipico degli scrittori cristiani da Tertulliano in poi, cioè quello della semplicità del messaggio apostolico) e l’eloquio dei predicatori cristiani è connotato dall’esegeta con una metafora fortemente negativa (la meretrice imbellettata che con l’ostentazione di sé scandalizza gli astanti). Insomma, nel prologo del terzo libro apprezziamo il miglior Girolamo, il Girolamo delle epistole, il fine e tagliente polemista sempre pronto a sferzare gli aspetti meno edificanti che, a suo giudizio, deturpano la chiesa, l’elegante discepolo di Donato e di Mario Vittorino che abilmente sfoggia una grande capacità d’eloquio proprio lì dove biasima quanti nascondono, con le risorse della retorica, il vuoto dei contenuti e l’indegnità dei comportamenti e della testimonianza cristiana. 3 Le brevissime ed insistite interrogative accrescono il pathos e colorano, stilisticamente, la difesa che Girolamo opera, soprattutto nelle sezioni prefatorie del Commentario (aventi un carattere metodologico e programmatico), della novità del suo lavoro sulla Bibbia, cioè la costante collazione di originali veterotestamentari in ebraico. Con la consapevolezza dell’importanza di questo lavoro Girolamo intende rispondere ai detrattori del suo stile, veri o presunti, e ribadire, secondo una consolidata tradizione degli autori cristiani, il rifiuto delle eleganze stilistiche apprese grazie allo studio dei classici, Cicerone e Virgilio (Sed omnem sermonis ... nebulam somnii recordamur). Naturalmente è un’abile strategia
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comunicativa, perché mentre nega di far ricorso alle tecniche della retorica lo Stridonense mostra di saper padroneggiare al meglio la strumentazione di quest’arte. 4 Molto opportunamente A. Fürst, Hieronymus. Askese, p. 77, cita il racconto che Girolamo fa dell’apprendimento della lingua ebraica in epist. 125, 12 e in epist. 108, 26. 5 Cf. Svet., frg. 25b, p. 59, 12-16 (Praeter Caesarum libros reliquiae – ed. A. Reifferscheid, Hildesheim – New York, 1971 [ristampa]); Gellio, 17, 10, 2-3; Gir., In Zach. 3, Prol., p. 187. I due testi geroniminani alludono probabilmente a quanto narrato sia nella vita di Virgilio di Elio Donato, trascrizione (o compendio) di materiale derivato dal perduto De poetis di Svetonio, sia da Gellio: in base a quanto apprendiamo dalle due fonti si tramandava che Virgilio componesse i suoi versi nel modo in cui le orse, secondo le credenze antiche (Plinio, nat. hist. 8, 126), davano forma ai piccoli appena nati, cioè leccandoli. Dunque nel testo di In Galatas il paragone è tra Virgilio e le madri dei ‘piccoli orsi’, che però vengono lasciate sottintese e ciò potrebbe disorientare il lettore. 6 Anche queste parole, che a prima vista potrebbero apparire una spontanea ammissione delle difficoltà materiali incontrate nella rielaborazione del Commentario, in realtà sono riconducibili ad un argomento diffuso dell’oratoria antica, di cui è testimone, ad esempio, Quintiliano, inst. 10, 3, 19-20, vol. IV, p. 75 (ed. S. Beta, Milano, 2001): “La mano di chi scrive velocemente, per quanto rapida essa sia, concede tuttavia qualche pausa per la riflessione, dal momento che non raggiunge mai la stessa velocità del pensiero: lo schiavo al quale noi dettiamo è per noi una pressione psicologica, e talvolta ci vergogniamo anche di avere un dubbio, di fermarci un attimo o di cambiare qualcosa, come se avessimo paura di lui che conosce la nostra debolezza. [...] Ma anche chi scrive sotto dettatura, se è stato un po’ troppo lento nello scrivere o troppo incerto nel capire, diventa una specie di inciampo, un ostacolo per la nostra velocità, e tutta la costruzione che era stata concepita dall’animo viene cancellata da un indugio o, talvolta, da uno scatto d’ira”. Girolamo dimostra, con lo stile dotto e con la preziosità delle allusioni letterarie di questa prefazione, che la sua requisitoria contro gli abusi di arte retorica all’interno della chiesa non è frutto di ignoranza e incapacità bensì della necessità di trovare nuove vie per conciliare quest’arte, di cui esibisce piena padronanza, con le esigenze della nuova fede religiosa.
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Lo Stridonense interviene sull’evoluzione del sistema letterario in età imperiale e riconosce il ruolo che nell’oratoria hanno acquisito due generi, il panegirico e la controversia. Una testimonianza fondamentale dell’importanza dei panegirici è fornita dalla raccolta dei XII Panegyrici Latini (composti, a partire dal 289, prevalentemente in ambito gallico, tranne il primo che è quello di Plinio il Giovane per Traiano), l’ultimo dei quali, il panegirico di Drepanio Pacato per Teodosio, è pronunciato a Roma, in Senato, nel 389, cioè tre anni dopo che Girolamo lasciò l’Urbe e compose il Commentario paolino. Si vedano M.-C. L’Huillier, L’empire des mots. Orateurs gaulois et empereurs romains aux 3e et 4esiècles, Paris, 1992; M. Mause, Die Darstellung des Kaisers in der lateinischen Panegirik, Stuttgart, 1994; C. E. V. Nixon – B. Saylor Rodgers, In Praise of Later Roman Emperors. The Panegyrici latini. Introduction, Translation, and Historical Commentary, Berkeley – Los Angeles – Oxford, 1994; D. Lassandro – G. Micunco, Panegirici latini, Torino, 2000, tenendo conto, però, delle valutazioni molto critiche che su questo volume sono pervenute da A. Hostein, ‘Le corpus des Panegyrici Latini dans deux ouvrages récents’, in Antiquité Tardive, 12 (2004), p. 373-385. Infine, R. Rees, Layers of Loyalty in Latin Panegyric: AD 289-307, Oxford, 2002. 8 Ho sostituito il punto e virgola del testo di In Gal. (ed.) con una pausa meno forte tra immorari e unde in modo da far emergere con più evidenza la consequenzialità della denominazione del ‘commento’ come explanatio (‘spiegazione’) in base a quanto asserito nella frase precedente. 9 Girolamo rende esplicite le ragioni delle scelte formali compiute nel comporre il Commentario. L’esegesi non richiede un’accurata elaborazione stilistica perché non si pone come obiettivo il successo e la persuasione di un pubblico; in quanto ‘explanatio’ di un’opera altrui richiede semmai l’eclissi dell’esegeta e il richiamo dell’attenzione sulle parole del testo commentato. Dinanzi a così nette dichiarazioni metodologiche ed ai toni polemici di questo prologo mi sembra credibile l’ipotesi che Girolamo si stia qui rivolgendo a specifici avversari in una prospettiva che è quella dell’aemulatio intertestuale con i rappresentanti del genere del commentario biblico paolino a Roma: si veda a tal proposito Raspanti, ‘Adgrediar opus intemptatum: l’Ad Galatas di Gerolamo’, p. 197, 207-210, 215-216. Penso comunque che quest’ipotesi non escluda la considerazione che lo Stridonense intenda formare attraverso i
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destinatari reali, Paola ed Eustochio, i destinatari ideali, cioè il pubblico di lettori di lingua latina, aduso alle performances omiletiche impreziosite dall’arte oratoria, ma forse non abituato alla ‘cultura meditativa’ che lo studio della Bibbia, ad avviso del Dalmata, richiedeva: è questo un aspetto messo in evidenza da C. P. Bammel, ‘Die Pauluskommentare’, p. 207. 10 Per quanto resti difficile comprendere al meglio le velate parole di Girolamo, potrebbe qui essere presente un’allusione al Commentario paolino di Mario Vittorino, già ricordato (e denigrato) dallo Stridonense nella Prefazione: Vittorino fu professore di retorica a Roma e famoso commentatore di Cicerone, autore di diverse traduzioni di opere aristoteliche, traduttore e commentatore di opere di filosofi neoplatonici come Plotino e Porfirio, autore di un’Ars grammatica molto nota (cf. G. Raspanti, Mario Vittorino esegeta, p. 23-34). A sostegno di questa ipotesi si può citare il giudizio che Girolamo dà degli scritti vittoriniani in uir. ill. 101, p. 207, che ho riportato nella nota 8 della Prefazione di In Galatas. 11 Al ricorso ai testi nella lingua originale (ebraico e greco) Girolamo affianca opportunamente le verifiche sui lemmi in uso presso gli altri commentatori (in primo luogo, Origene), esibendo così fine acume filologico. È interessante notare che tra i latini, Mario Vittorino ha il lemma ‘Non sarete d’accordo con nessuno’ e lo commenta come testo paolino; Ambrosiaster, invece, non ha ‘Non sarete d’accordo con nessuno’, a conferma dell’ipotesi di H. J. Frede e di A. Pollastri, Ambrosiaster. Commento alla lettera ai Romani. Aspetti cristologici, L’Aquila, 1977, p. 37-38, che Ambrosiaster ha utilizzato un testo paolino nel quale era stata già avviata una revisione sul greco e che questa revisione non è opera dell’Anonimo bensì egli ha utilizzato un testo in via di revisione. 12 Girolamo ha ritenuto di dover modificare il testo latino di questo versetto in polemica con le traduzioni latine più antiche e forse anche con gli esegeti predecessori. Infatti lo Stridonense contesta sia la sostituzione di ‘da colui’ con ‘da Dio’ ma soprattutto critica la mancata presenza di ‘non’, come accade nel lemma riportato da Mario Vittorino, In Gal. 2, 5, 8, p. 287; Ambrosiaster, In Gal. 5, 8, p. 110, ha ‘da Dio’, tuttavia non ha omesso la negazione: Il vostro convincimento non viene da Dio che vi chiama. 13 Girolamo spiega, dunque, che l’omissione di ‘non’ è una palese incoerenza sia con il contesto linguistico nel quale la pericope è inserita sia, più in generale, con il libero arbitrio e con le
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testimonianze scritturistiche che lo sorreggono; l’errore testuale è dovuto all’ignoranza ed alla cattiva dottrina di chi è intervenuto sul testo ed ha falsato così il pensiero dell’Apostolo. Probabilmente lo Stridonense fa riferimento agli interventi testuali degli Gnostici ed al permanere di questo errore nelle versioni bibliche latine successive fino a Vittorino, ma la mancanza nel commento del retore africano di qualsivoglia problematizzazione sull’assenza di ‘non’ non deve essergli sfuggita e il bersaglio del Dalmata potrebbe essere stato l’esegesi dell’illustre predecessore. 14 Girolamo torna a confutare l’interpretazione, annunciata già nella Prefazione dell’opera e poi ripresa più volte, di quanti (Porfirio? I novelli anticristiani nella seconda metà del iv secolo?) ritenevano che ep.Gal. fosse attraversata da una vena polemica di Paolo nei confronti di Pietro e fosse in definitiva un’ulteriore conferma dell’inimicizia tra i due capi della chiesa primitiva. Come ho osservato nell’Introduzione, p. 34-44, resta da vedere quanto sia stato profondo l’influsso di precedenti commentatori greci dell’epistola paolina (Origene, Apollinare, etc.) sulle opinioni e sulle le prese di posizione qui espresse dallo Stridonense. 15 È evidente da queste parole la presenza, nel commento a 5, 12, della metodologia esegetica delle quaestiones et responsiones. 16 S. A. Cooper, Marius Victorinus’ Commentary on Galatians, p. 240, osserva: “Jerome’s remarks betray an uneasy conscience concerning a possible violation here of the injunction against cursing found in Paul’s own letters as well as in Jesus’ teaching. He must be following Origen on this verse, as no such comments are found in the surviving Greek commentaries. Jerome openly admits that the text reads as a curse [...], but goes on to adduce numerous ways pious exegetes have mitigated this conclusion. No such scruple appears in Victorinus’ comment. [...] Ambrosiaster is similarly untroubled”. 17 La spiegazione è diversa rispetto a quella del § 2: l’invito alla castrazione sarebbe un atto di amore verso i Galati in quanto espressione del desiderio di preservarli dal peccato. Forse, però, qui Girolamo non ha l’intenzione di offrire una spiegazione ‘altra’; semmai sembra echeggiare una fonte (Origene, ad avviso di A. Souter, The Earliest Latin Commentaries, p. 116-124, e M. A. Schatkin, ‘The Influence of Origen’, p. 57) che offriva un livello di interpretazione più profonda del versetto paolino: in questa prospettiva, l’automutilazione è il gesto del ‘perfetto’ che, completamente immerso nel
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Logos divino, ha eliminato qualunque vincolo materiale che possa ostacolare il suo cammino verso Dio. 18 La quaestio a cui Girolamo sembra riferirsi nel commentare questo versetto potrebbe, dunque, essere eco del dibattito tra pagani e cristiani intorno alle contraddizioni o alle immoralità presenti nel testo biblico. Naturalmente sullo sfondo dell’esegesi del Nostro resta Porfirio, nonché i dibattiti di Origene con i pagani; del resto, bisogna notare che la spiegazione fornita da Girolamo nel § 3 ha un inconfondibile sapore origeniano. Quel che è probabile, in base alle parole del Dalmata, è che evidentemente Gal 5, 12 veniva utilizzato da parte pagana per dimostrare che l’apostolo Paolo non era il sant’uomo venerato dai cristiani e per denigrare quindi il fondatore della chiesa. 19 Per Marcione e per gli Gnostici il Dio creatore dell’Antico Testamento è arcigno e severo giudice nei confronti degli uomini e dei loro peccati, il Dio buono del Nuovo Testamento, Padre di Cristo, è superiore rispetto al Dio dell’antica alleanza stipulata con il popolo giudaico. In nome di questa particolare teologia e di un’interpretazione letteralista dell’Antico Testamento, Marcione riconosceva come testo sacro solo il Vangelo di Luca e alcune epistole di Paolo, nei quali ritrovava, attraverso l’interpretazione allegorica, i capisaldi della sua dottrina. 20 Gli Stromati di Origene sono un’opera a carattere miscellaneo, della quale ci restano pochi frammenti, tra cui appunto il lungo brano riportato di seguito da Girolamo. Ricaviamo notizie su quest’opera da Eusebio di Cesarea, h. e. 6, 24, 3, p. 45: “Quanto ai libri intitolati Stromati, che sono dieci di numero, li compose, come mostrano le intestazioni autografe all’inizio dei volumi, nella stessa città [i.e. Alessandria], durante il principato di Alessandro”; nonché da Girolamo, epist. 70, 4, vol. 2, p. 298: “Ricalcando la sua opera [i.e. di Clemente Alessandrino], Origene ha scritto i dieci libri di Stromati, dove mette a confronto i concetti cristiani con quelli dei filosofi, e conferma tutte le verità della nostra fede con testi di Platone, Aristotele, Numenio e Cornuto”. Sull’opera si veda P. Nautin, Origène, p. 293-302. 21 Il commento di Girolamo al versetto 5, 13 ha un’ampiezza considerevole, specialmente se lo si confronta con quelli di Vittorino ed Ambrosiaster. Il motivo principale d’interesse di questo commento consiste naturalmente nell’ampio brano di Origene che lo Stridonense dice di riportare ad verbum, contravvenendo
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un po’ alle consuetudini secondo le quali l’esegeta Dalmata non si preoccupa di interporre diaframmi espliciti tra sé e le fonti, ma si limita a proporre in un tutto indistinto spiegazioni proprie e degli altri esegeti (secondo la formula della Prefazione dell’In Galatas “uel mea uel aliena dictaui”). È lo stesso Girolamo che spiega le ragioni della sorprendente novità di 5, 13: egli definisce ualde obscurus il locus, nel senso che – come viene subito precisato – le singole parole sono chiare ma se separate dal più generale modo in cui si deve intendere l’epistola paolina e vengono prese alla lettera sono private del loro significato profondo e formano “unum difficile corpus” risultando incoerenti, contraddittorie e pletoriche (inconsequenter et abrupte repugnare inter se et scatere uideantur). Si deve ad ogni modo notare che Girolamo trae dallo stesso esegeta Alessandrino l’indicazione circa la presunta difficoltà del brano: infatti il testo origeniano riportato dal Dalmata si apre con le parole “difficilis locus est”. 22 Il testo di Origene si configura come una sorta di introduzione a 5, 13-22; la lunga citazione si può in un certo senso suddividere in due parti: nella prima (§ 2) viene presentato il significato di questi versetti, nella seconda, più ampia, (§§ 3-6) si realizza quanto Origene annuncia nella formula di transizione tra la prima e la seconda parte (“Bada [...] significato”), ovverosia l’esegeta mostra il dipanarsi coerente, attraverso i versetti 13-22, del messaggio di Paolo e di specifici temi. In effetti sembra che la difficoltà individuata da Origene sia proprio la coerenza di significato di questi versetti e lo sforzo compiuto dall’esegeta di Alessandria è di mostrare l’ordine dei pensieri in 5, 13-22 e la congruenza con i temi generali dell’epistola. 23 A. Cain, ‘Tertullian, Cyprian, and Lactantius in Jerome’s Commentary’, p. 30: “Jerome’s qualification of the precepts of the Mosaic Law, in contradistinction to those of the Gospel, as laciniosa (“tedious”) in Comm. in Gal. 3.5.13a recalls Adu. Marc. 4.1.6: compendiatum est enim nouum testamentum et a legis laciniosis oneribus expeditum”. 24 La ‘consequentia’ è la preoccupazione principale di Girolamo nell’esegesi dei versetti 5, 13-17 (esemplare è il paragrafo 4 del commento a 5, 17: consulta il mio commento a. l.), probabile riflesso dell’intensa ricerca della ‘akolouthia’ nella fonte greca, come si può constatare attraverso le parole di Origene negli Stromati tradotti ad litteram poco sopra e qui echeggiati dallo Stridonense. Vi
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è quindi – ad avviso del commentatore – un argomento preciso che anima l’epistola a Galati, al quale deve essere ricondotto ogni versetto trasferendo la comprensione dal livello letterale a quello più profondo, spirituale, ove è possibile cogliere la reale portata del messaggio paolino e di quello biblico. 25 Osserviamo l’abituale esposizione di molteplici spiegazioni, benché non è necessario pensare che Girolamo stia qui riportando l’interpretazione di una fonte diversa da quelle solite: il tono di questa terza spiegazione potrebbe infatti essere riconducibile ad Origene (considerando la presenza del termine ‘perfecti’ potremmo ritrovare l’opposizione origeniana tra incipienti e perfetti); la nuova spiegazione è peraltro un affinamento della seconda – come nota il Dalmata – secondo la tecnica di Origene, che procede, per giustapposizioni di esegesi, ad attingere il significato infinitamente ricco che è proprio di ogni singolo versetto della Scrittura. 26 Queste considerazioni di Girolamo in materia antropologica sono degne d’interesse: l’anima dell’uomo è al centro, in una posizione mediana, tra la carne e lo spirito, e può scegliere tra il bene ed il male; tale scelta non è definitiva bensì deve essere continuamente attuata, dimodoché se l’anima sceglie la carne ed i suoi vizi, diviene carnale, se invece segue la via opposta dello spirito e si lascia guidare dallo Spirito Santo diviene spirituale. Girolamo individua, inoltre, un livello intermedio tra le anime che scelgono la via della carne e quelle che scelgono la via dello spirito; si tratta dell’anima del filosofo in grado, con le sole proprie forze razionali, di innalzarsi al di sopra della pura materialità, ma non di procedere oltre e comprendere le verità spirituali. 27 Lo Stridonense, per esplicitare al meglio la condizione dell’uomo animale, cioè del filosofo, si affida al bell’esempio dell’oro, che, quando non è stato ancora depurato dalle scorie con le quali è mescolato nel giacimento sottoterra, è in una condizione intermedia, non essendo più terra ma non ancora oro splendido e lucente; allo stesso modo, il filosofo, pur possedendo il bene prezioso dell’intelligenza, non risplende perché non è purificato dalla grazia dello Spirito Santo e dunque permane in una condizione terrena, per quanto non del tutto prostrato nel male. 28 Si tratta di uno dei passi più significativi del Commentario a Galati; vi sono infatti, sulla scia di Origene, i capisaldi dell’ermenutica del giovane Girolamo: l’opposizione tra ‘historia et Scripturae carneus intellectus’, da un lato, e ‘allegoria et spiritalis doctrina’,
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dall’altro, tra veritas e umbra, tra la prospettiva trascendente ed eterna e quella terrena e materiale; la fine della legge veterotestamentaria nonché la condanna della mera ‘littera’ della Scrittura. 29 Secondo la consueta tecnica delle quaestiones et responsiones, al centro dell’indagine ermeneutica nel paragrafo 1 è la relazione tra la vita nello Spirito Santo e l’influsso della legge. L’assoluta estraneità alla legge di chi è sotto l’azione dello Spirito è ribadita attraverso il ricorso al tema della ‘apparenza fenomenologica’ dietro cui si cela la verità profonda e salvifica; l’apparente condotta di vita di Mosè e dei profeti sotto la legge era solo un espediente per salvare quanti poggiavano la propria fiducia esclusivamente nella legge. La matrice filosofica e culturale che sorregge queste considerazioni geronimiane è quella origeniana di una divaricazione tra la ‘littera’ (il segno materiale e visibile) che inganna e la ‘altitudo’, la profondità dello Spirito, che vivifica. 30 La questione della verginità di Maria era stata già toccata da Girolamo nel commento a Gal 1, 19 (cf. nota 47 del libro primo), e poi affrontata con toni non diversi e maggiori dettagli in In Gal. 2, 4, 4-5, 1. Il Nostro evidenzia in questo paragrafo 3 che l’eventuale obiezione di quanti potrebbero utilizzare Gal 4, 4-5 per contestare la spiegazione di Gal 5, 18 deve essere rigettata perché frutto di un modo errato di interpretare la condizione di Maria. L’argomentazione dell’esegeta poggia sull’individuazione di un doppio livello del reale, quello apparente del segno materiale e quello profondo del senso vero e spirituale, che deve essere la bussola che orienta chi interpreta, perché esso ha già investito la composizione del testo sacro e la sua diffusione in traduzioni, per cui agli estensori dei libri biblici è accaduto di essere stati mero strumento materiale di una verità ben più profonda che si cela dietro le parole, a volte persino ingannevoli. E questo ci riporta a quanto abbiamo detto pocanzi, nel corso di Gal 5, 18 (nota 29), sulla matrice filosofica e culturale che sorregge le riflessioni geronimiane, impregnate dalla continua volontà di sviluppare a cerchi concentrici il nucleo della ‘littera’ verso l’infinita profondità dello Spirito. 31 Nonostante, in virtù delle affermazioni conclusive di questo paragrafo 1, la mente corra agevolmente al testo di Origene riportato ad litteram nei paragrafi 2-6 del commento a 5, 13a, che ispira tutta l’esegesi dei vv. 5, 13-23, tuttavia, resta, a mio avviso, non del tutto chiaro quale punto dell’esegesi precedente abbia in mente qui lo Stridonense. Ad ogni modo, le tre possibilità d’interpretazione
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individuate da Girolamo sono rintracciabili nell’esegesi dei versetti 5, 16 e 5, 17, sebbene non con l’ordine con il quale sono presentati in quest’esordio di 5, 19-21; il primo modo d’intendere potrebbe essere ricondotto a quanto spiegato dal Dalmata alla fine del commento a Gal 5, 16, nel paragrafo 3; la seconda intellegentia, invece, si dovrebbe accostare alle considerazioni fornite nella prima parte del commento a Gal. 5, 16, paragrafo 2. Il terzo modo d’intendere, infine, dovrebbe corrispondere alla spiegazione fornita nei primi due paragrafi di 5, 17. 32 Come già aveva spiegato in In Gal. 3, 5, 17, 1-3, Girolamo situa l’anima tra la carne e lo spirito, alla maniera di Origene. Da questa posizione intermedia l’anima esercita il libero arbitrio sia sotto il profilo etico, scegliendo di occasione in occasione, il vizio o la virtù, sia sotto il profilo dottrinale e, più in particolare, ermeneutico, scegliendo di seguire l’interpretazione letterale del testo sacro o quella spirituale. 33 Girolamo allude all’epistola 22 ad Eustochio, meglio nota come Liber de uirginate seruanda, composta a Roma nel 384: “When Jerome addressed his Libellus de virginitate servanda to Eustochium, she had already decided to embrace the ascetic life: the purpose of Jerome’s treatise is therefore to encourage her to persevere” (cf. N. Adkin, Jerome on virginity, p. 9). In particolare lo Stridonense si sofferma nel capitolo 8, ed in parte del 9, sull’assoluta necessità, per la giovanissima Eustochio, di evitare il vino: “Se mi è lecito porgere un consiglio, e si dà credito alla mia esperienza, la prima raccomandazione, o meglio, la prima preghiera che rivolgo ad una sposa di Cristo è di astenersi dal vino come da un veleno” (cf. epist. 22, 8, vol. 1, p. 192); e nel medesimo capitolo l’esegeta ricorda il consiglio, più da medico che da apostolo, di Paolo a Timoteo (ibid., p. 193). Sul Liber, sulle fonti utilizzate da Girolamo e sul vasto tema della verginità, già ricco di trattatazioni nel 384, ma anche sul rapporto con Tertulliano, Cipriano, Origene ed il De virginibus di Ambrogio si veda il citato saggio di N. Adkin, ma anche le importanti osservazioni svolte da Y.-M. Duval nella recensione del volume di Adkin (Revue des Études Augustiniennes et patristiques, 50, 1 (2004), p. 217-219). 34 L’intera esegesi di Gal 5,13b-14 è dedicata da Girolamo al precetto della carità ed ai suoi molteplici benefici; ma bisogna anche ricordare che nel brano di Origene riportato ad litteram nel commento a Gal 5, 13a [§ 6] vi è la dimostrazione di come tutti i frutti
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dello spirito discendono, in verità, dalla carità e ne sono per così dire un’emanazione. Del resto, quel testo di Origene funge da leitmotiv di tutta la sezione di commento dedicata a Gal 5, 13-23 e lo Stridonense ne è costantamente influenzato. 35 Cf. A. Canellis, ‘Saint Jérôme et les passions: sur les «quattuor perturbationes» des Tusculanes’, Vigiliae Christianae, 54/2 (2000), p. 181-182. 36 Ipotesti delle considerazioni di Girolamo su benignitas e bonitas possono essere stati Cicerone, fin. 5, 65-66 nonché off. 2, 48; ma è utile tenere presente anche la riscrittura dei testi ciceroniani operata da Ambrogio, off. 2, 7, 29, p. 201. 37 Dietro quest’affermazione di Girolamo potrebbe esservi Cic., Tusc. 3, 24-25, ma occorre ricordare altresì fin. 3, 35. Sull’uso del termine ‘perturbatio’ nonché sul rapporto con Cicerone e con la quadripartizione stoica delle passioni si vedano A. Canellis, ‘Saint Jérôme et les passions’, p. 182; M. T. Messina, ‘«Passio» e «perturbatio»: Cicerone, Varrone e Girolamo’, Acme, 57 (1) (2004), p. 257. 38 Origene è esplicito punto di partenza del commento a 5, 24 di Girolamo, il quale ritiene opportuno spiegare sotto quale aspetto l’esegesi dell’Adamanzio si differenzia da quella vulgata in ambito occidentale; la circostanziata ripresa del testo origeniano ci consente di coglierne le caratteristiche zetetiche ed euristiche (“et quaerit quomodo”), che evidenziano sia lo sforzo di spiegare l’apparenza problematica della littera del testo paolino ma anche la ricerca di un più profondo significato antropologico (i corpi degli uomini sono membra di Cristo, § 2) e morale (attraverso la rinuncia ai vizi vengono glorificati i corpi degli uomini e nella vita dello spirito che è in essi si manifesta la crocifissione e risurrezione del Salvatore, ancora § 2). 39 Sull’argomento della condizione intermedia tra la carne e lo spirito Girolamo si è già soffermato nel commento a Gal 5, 17, §§ 1-2; ma anche in 5, 19-21, 2 dove, con argomenti simili a questi, il Nostro considera la possibilità per l’anima di unirsi alla carne o allo spirito, ovvero di restare nel guado tra i due poli. 40 Girolamo allude ad una perduta opera in prosa di Cicerone il De gloria, del 44 a.C.: alcuni frammenti sono stati editi da O. Plasberg (M. Tulli Ciceronis Scripta quae manserunt omnia, fasc. 47 [Bibliotheca Teubneriana], Stuttgart, 1917). Un’importante testimonianza su quest’opera si trova in Cic., off. 2, 31, nella quale,
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peraltro, l’Arpinate si dimostra insoddisfatto di quanto già scritto sulla gloria sicché, dopo lo specifico libro, introduce un’ulteriore ampia messa a punto, contenuta in off. 2, 32-51 (cf. G. Mazzoli, ‘Riflessioni sulla semantica ciceroniana della gloria’, in E. Narducci (a cura di), Cicerone tra antichi e moderni. Atti del IV Symposium Ciceronianum Arpinas, Firenze, 2004, p. 65); cf. anche J.-F. Thomas, Gloria et laus: étude sémantique, Louvain – Paris – Dudley (Ma), 2002. 41 I §§ 4 e 5 sono molto vibranti; lo stile geronimiano si carica di pathos (attraverso il ricorso a figure retoriche come la preterizione, le ripetizioni a raffica, l’asindeto, le citazioni di auctoritates come Paolo e Cicerone) in corrispondenza di una maggiore partecipazione alle tematiche emergenti dal testo paolino: s’infrange così lo stile oggettivo dell’esegesi e si apre una parentesi drammatica dalla forte coloritura parenetica e polemica. Con una certa acredine, infatti, lo Stridonense ritiene di dover toccare un nervo scoperto della vita delle comunità cristiane: le privazioni, le sofferenze, le rinunce e persino il martirio sono fatti con lo scopo di ottener gloria dinanzi agli uomini invece che per esercitare la virtù dinanzi a Dio. L’esegeta assume il ruolo del fustigatore dei costumi all’interno della chiesa, dell’asceta che non accetta la rilassatezza e la scarsa morigeratezza dei cristiani. 42 L’uso di ‘lenitas’ (“dolcezza”) è qui segno di una certa insoddisfazione da parte di Girolamo per ‘mansuetudo’ (“mansuetudine”), con il quale nella Vetus era tradotto – a quanto sembra dal lemma – l’originale greco: tale insoddisfazione si ricava un po’ da tutto il commento a 6, 1 nel corso del quale l’esegeta spiega volentieri il testo sostituendo a mansuetudo ‘lenitas’ nella iunctura con ‘in spiritu’. 43 Si tratta degli Gnostici, bersaglio frequente di Girolamo, presentato, come spesso succede, in forma generalizzata. Il brano è da mettere in parallelo con i §§ 2-3 del commento a Gal 1, 15-16b; ma sono utili anche In Gal. 1, 2, 15, 1 e In Gal. 1, 3, 1a, 2. 44 L’influsso del linguaggio esegetico greco, origeniano in special modo, di tipo zetetico ed euristico è visibile in più di un’espressione del commento a 6, 1: “possono opporci [...]” (§ 2), “ma forse ci si chiede [...]” (§ 3), “rispondiamo all’osservazione [...]” (§ 3). 45 La ‘consequentia’, cioè la coesione linguistica del testo biblico, qui invocata da Girolamo ha una precisa corrispondenza nella ‘akolouthia’ di Origene quale principio importante per spiegare,
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sia a livello testuale e letterale sia a livello del senso più profondo e spirituale, le pericopi che vengono interpretate. 46 È notevole il richiamo alla ‘secunda expositio’: su ep.Gal. 5, 13-23 era stata fornita da Girolamo la ‘altior intellegentia’ in modo complessivo, cioè riportando, discutendo ed arricchendo il brano di Origene che spiegava come intendere il catalogo dei vizi e delle virtù (cf. 5, 13a, 2-6). Adesso lo Stridonense riprende il filo di tale livello ermeneutico: appare confermato, in sostanza, che nel capitolo 6, come in tutta l’ep.Gal. (cf. 6, 2, 2: “Ma congiungiamo anche questo versetto con i precedenti; infatti seguiamo il doppio livello di interpretazione”), l’esegeta persegue due tipologie di spiegazione, una letterale ed una spirituale. 47 Mi sembrano utili le spiegazioni di Girolamo, In Zach. 1, 5, 5-8, p. 105-106: “L’anfora o misura usciva e veniva trasportata nell’aria. E affinché non fossimo incerti su quale denominazione le spettasse, l’angelo stesso che aveva mostrato l’anfora o misura le dà il nome e dice secondo i Settanta: Questa è la loro iniquità su tutta la terra; secondo gli ebrei: Questo è l’occhio, cioè la rivelazione di tutti i peccati. Ed ecco una donna sedeva dentro all’anfora o misura, che presso gli ebrei si dice epha e spesso dai Settanta è tradotta in oíphi; e questa donna era chiamata empietà. Mentre così scorgeva tutte queste cose, ecco veniva portato un talento di piombo, cioè un blocco come di pietra o per suo proprio moto o per comando del Signore oppure veniva portato da un altro il cui nome è stato taciuto. [...] Al posto di talento di piombo nel seguito leggiamo pietra di piombo. Talento si dice chachar, pietra aben. Questa pietra di piombo, dunque, che è anche talento di piombo, è ciò che noi, esprimendoci in modo più chiaro, abbiamo tradotto massa o sfera di piombo: da questo metallo è espresso il peso elevatissimo dei peccati”. 48 È interessante notare che con ‘aliter intelligere’ non s’intende un’interpretazione spirituale, riferita cioè alla legge e al giudaismo. Si tratta invece di un’interpretazione, diversa, che integra la precedente, che era semplicemente una parafrasi letterale coerente con la problematica storica della lettera ai Galati, mediante un commento di tipo morale, che attualizza le parole dell’Apostolo in riferimento alla condizione di ciascun uomo. 49 Anche Tertulliano, praescr. 41, 2, p. 88, sottolinea quest’aspetto della ‘conversatio haeretica’ nella quale non vi è distinzione di vita nella fede e nella preghiera tra ‘fidelis’ e ‘catechumenus’.
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Il particolare non è sfuggito a B. Jeanjean, Saint Jérôme et l’hérésie, p. 203, che lo segnala fra gli attacchi geronimiani a Marcione: “De même qu’il n’hésite pas à mutiler l’Écriture pour légitimer sa doctrine, Marcion ne recule pas devant les exégèses qui renforcent les pratiques rituelles de sa secte. L’In Galatas signale ainsi la justification par Gal. 6, 6, du rassemblement des catéchumènes et des fidèles pour une prière commune. C’est avec ce dernier détail que s’acheve la présentation spécifique de Marcion et de sa doctrine”. 50 Girolamo accresce la connotazione negativa di Cassiano, facendone un convinto assertore del docetismo: questa dottrina non ammetteva che in Gesù Cristo vi fossero contemporaneamente la natura umana e divina; il Salvatore non poteva avere un corpo umano reale, ma solo un corpo etereo (o apparente). Cristo, dunque, non sarebbe nato da Maria, non sarebbe morto né resuscitato e le sofferenze e l’umanità di Gesù Cristo erano apparenti e non reali. 51 Lo Stridonense ci presenta Cassiano come un acerrimo esponente degli Encratiti, setta che ancora nel iv secolo doveva avere una certa vitalità, soprattutto in Asia Minore, al punto che Teodosio fu indotto a pronunciare, con un editto del 382, una sentenza di morte contro coloro che si professavano Encratiti. Costoro ritenevano che, per accelerare il processo di liberazione della scintilla divina dalla materia corrotta del corpo, dominio di dei minori o demoni, identificati con le divinità del paganesimo, bisognasse evitare il consumo di carne, il matrimonio e la procreazione. In questa loro visione demonizzavano in particolar modo la struttura fisica della donna, vista come essere creato appositamente per produrre altra materia. L’uomo, a differenza della donna, avendo un ruolo secondario nella procreazione, poteva accedere più facilmente alla sfera divina e per questo gli Encratiti sostenevano che una donna, per potersi salvare, doveva prima farsi uomo. La strada per la salvezza passava quindi per il rifiuto della pratica matrimoniale con il conseguente blocco del ciclo generazione-corruzione-morte: veniva esaltato il valore della verginità come presupposto per una vita di contemplazione. Come giustificazione dottrinale di questo atteggiamento, gli Encratiti, portavano l’esempio di Cristo, che non si era mai sposato né aveva mai posseduto nulla di terreno. 52 Il passo è un po’ oscuro perché caratterizzato da uno stile ellittico e conciso; va chiarito intendendo che anche in mezzo ai pagani vi sono esempi di virtù e testimonianze della castità così spesso raccomandata dagli scrittori cristiani; dunque, la presenza
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di queste virtù presso coloro ai quali non è stata rivelata la verità della fede può risuonare come motivo di rimprovero e di condanna per i cristiani che, pur conoscendo il contenuto del Vangelo e la rivelazione di Cristo, tuttavia non compiono opere meritevoli di lode e non assumono i costumi e lo stile di vita temperante e continente che si addice al Dio che venerano. È probabile che Girolamo abbia in mente il capitolo 13 (p. 113-117) del De exhortatione castitatis di Tertulliano, nel quale lo scrittore africano si sofferma sugli esempi secolari e sull’importanza che la monogamia e la verginità hanno presso i pagani e dice che il diavolo cerca di ottenere per sé le forme di consacrazione che spettano a Dio (come appunto la verginità) e che per i cristiani è una sfida ed una vergogna se non dimostrano quella continenza che i pagani offrono al diavolo con la verginità e la vedovanza perpetua. Dietro le affermazioni dello Stridonense A. Cain, ‘Tertullian, Cyprian, and Lactantius in Jerome’s Commentary’, p. 36-37, individua, altresì, Tertulliano, mon. 17, 4, p. 182. 53 Opportunamente S. A. Cooper, Marius Victorinus’ Commentary on Galatians, p. 342, n. 210, nota che queste affermazioni di Girolamo rappresentano un elemento di novità rispetto alla tradizione esegetica latina, che con Mario Vittorino ed Ambrosiaster (seguiti da Agostino) aveva considerato interamente autografa l’originale epistola ai Galati, laddove per il Nostro solo questi ultimi versetti non sono frutto di dettatura. 54 Nel commento di Vittorino a 6, 11 vi è un elemento di somiglianza con le considerazioni che Girolamo attribuisce al predecessore lasciato nell’anonimato: “Per mostrare confidenza [...] di mia mano – dice – vi scrivo e dà una prova di amore (‘ex charitate signum dedit’)” (In Gal. 2, 6, 11, p. 301). Non vi sono, invece, contenuti simili in Ambrosiaster, né vi sono indizi che conducano ad altri scrittori latini dai quali lo Stridonense attinge abitualmente notizie esegetiche, come per esempio Tertulliano. Un’ipotesi credibile è che tanto Mario Vittorino quanto Girolamo possano aver attinto ad una fonte comune, probabilmente greca, visto che l’argomento della ‘prova d’amore’ si trova anche in Giovanni Crisostomo (PG 61, 678); ma non si può escludere che Girolamo abbia costruito questo interlocutore ‘fictus’ traendo semplicemente spunto dal testo di Vittorino, sì da prendere polemicamente le distanze, come spesso gli capita, dalle spiegazioni del retore africano.
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È altresì significativa la risposta di Girolamo alla spiegazione anomina che ritiene errata; per lo Stridonense i caratteri abnormi con i quali il medesimo Paolo sottoscrive l’epistola sono, secondo la lettura spirituale, indizio dei contenuti profondi che l’Apostolo ha voluto comunicare. In sostanza, Girolamo interpreta ad un secondo livello, quello della ‘altior intellegentia’, il versetto 6, 11, dopo aver ragionato sulla spiegazione storico-letterale: sulla scia delle fonti, la problematizzazione del significato letterale diviene strumento, secondo il meccanismo delle quaestiones et responsiones, del duplice livello di interpretazione. 56 Sul modo di tradurre il termine ‘amen’ Girolamo si è soffermato più volte nel corso del Commentario e sempre con le stesse considerazioni: cf. In Gal. 1, 1, 4-5, 6 nonché 2, 3, 10, 1. È utile ricordare, altresì, quanto Girolamo aveva scritto a Marcella nel 384, epist. 26, 4, vol. 1, p. 253: “Amen, invece, Aquila lo traduce pepistoménos. Noi possiamo esprimerlo con fedelmente, essendo un avverbio del vocabolo ebraico amuna, che significa fede. La versione dei Settanta porta invece ghénoito, cioè fiat. Per questo motivo, alla fine dei libri – il Salterio viene diviso dagli Ebrei in cinque parti –, hanno tradotto l’espressione ebraica amen, amen con fiat, fiat, come per confermare che quanto è stato detto precedentemente risponde a verità. È per questo stesso motivo che anche Paolo conclude: nessuno può rispondere amen – confermare cioè le cose sentite – se non ha capito il senso di quanto è stato detto”.
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Genesi 1, 1 1, 22 2, 9 2, 17 3,1 3, 11 3, 14 3, 15 3, 16 3, 17 4, 8 4, 10 4, 11 4, 26 5, 24 6, 3 9, 21 9, 25 12, 3 12, 7 14, 18-19 15, 3 15, 5-6 15, 6 15, 13 16, 4 16, 9 16, 10
16, 12 17, 10 17, 15 17, 18-21 17, 19 17, 21 21, 2 21, 10 21, 12 22, 18 29 30, 13 32, 30 37, 4 37, 11 38, 14-18 38, 27-30 43, 34 47, 9 49, 7
258 n. 21 323 196n 196n 253 n. 10 196n 195 299 228 195 228 154 195 154n 102 114, 298 286n 195 153 196 245 211n 154 151, 249n 198, 198n 233n 233 233
Esodo 3, 6 3, 10-11 4, 13 4, 24-26 6, 12 12, 2-6
233 152, 245n 238n 233-234 234 234 233n 240 240 153, 198 99n 211n 307 300 228n 286n 198 286n 99n 195 200 95 95n 249n, 271-272 n. 62 249 118
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INDICE SCRITTURISTICO
12, 3-6 12, 18-20 14, 15 15, 10 15, 20 15, 22-25 16, 18 19, 5 20, 13-16 20, 13-17 21, 5-6 23, 14-16 23, 15 23, 17 23, 22 29, 1-46 29, 38-42 32, 4 32, 6 32, 9 33, 11 34, 4 34, 11 34, 29-35 34, 30 34, 33 34, 34 34, 35 40, 3 40, 32
216n 216n 212 242 300 196 320n 277 289n 308n 100n 217 273 203, 217 299 246n 246n 199 303 144 214 109n 102n 311n 109n 214n 247n 109n 109 311n
Levitico 1-7 12, 3 15, 31 18, 5 19, 18 23, 15-21 23, 23-25 23, 27-32 23, 34-36 25, 4 25, 8-10 25, 8-11 25, 9-10
286n 245n 298 189 304n 217n 217n 217n 217n 246n 100n 100n 246n
Numeri 5, 14 11, 12 12, 1 12, 3 12, 7 12, 10 12, 15 13, 2 13, 17 14, 28 21, 3 21, 4-9 25, 7 25, 11 25, 13 31, 1-38 Deuteronomio 5, 31 6, 5 10, 12 13, 5 16, 9-12 19, 15 19, 21 21, 22-23 21, 23 23, 3 25, 4 27, 26 28, 3-14 34, 9
228 229 228n, 300 307 119 300n 300n 96n 96n 333n 105n 296 228n 228n 228n 299n 242 304n 277 203 217n 122 291 50n, 192, 257 n. 19, 259 n. 22 192, 194n 100n, 160 n. 16 246 50n, 187 249 96n
Giosuè 5, 2-3 5, 5-6 6, 17
152 152 105n
1 Samuele 2, 5 2, 30
239 311
354
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INDICE SCRITTURISTICO
21, 11-16 24, 5-15
133n 307n
2 Samuele 6, 5 6, 14-15 16, 5-23 16, 7 19, 1-24
286n 286n 307n 307 307n
1 Re 8, 11 16, 31 19, 10 21, 8-22 21, 13
311n 102n 228n 194 195
2 Re 6, 1-7 10, 18-19
196 133
Tobia 4, 15
289
Giuditta 12, 4
333n
Ester 7, 9-10 14, 11
194 103
1 Maccabei 2, 26-27
228n
2 Maccabei 6, 18 – 7, 41
193
Giobbe 1, 11 2, 10
195 321
Salmi 2, 7-8
8, 6 22, 11 22, 23 34, 1 34, 8 34, 13-15 34, 16 36, 7 37, 1 38, 5 40, 3 40, 9 50, 16-17 50, 20 51, 7 51, 12-14 51, 13 58, 4 69, 6 71, 15-16 72, 1 76, 3 77, 6 82, 6-7 95, 11 101, 8 102, 28 104, 20-23 120, 7 132, 1 137, 8-9 139, 16 Proverbi 1, 7 4, 23 9, 8 13, 8 14, 29 Qoèlet 7, 10 7, 20 12, 7
212
223 112 119 133n 206 321n 120 247 228 279, 316 242 98 108 290 112 211 148 112 196 141 211 305 216 108 216 286 104, 104n 324 305 307 286 229 207 313 98 131 305, 306, 306n 99 189 333
355
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INDICE SCRITTURISTICO
13, 21 14, 14 20, 10-11 20, 25 33, 11 33, 32
Cantico dei Cantici 2, 17 247, 247n Sapienza 4, 12 12, 1 13, 5
145 148 147
Siracide 18, 18
144-145n
Isaia 5, 21 5, 27 6, 5 6, 8 14, 12 22, 13 26, 17-18 38, 5-8 40, 6 40, 9 46, 9 50, 1 50, 5 53, 7 53, 12 54, 1 57, 16 57, 21 58, 13-14 66, 8
318 324 273 95 105 99n 230 118n 140 225 216 191 148 282 209 238 287 305 246 239
Geremia 1, 5 4, 4 6, 10 9, 26 13, 7 15, 10 37, 2
112 226 226, 249 244 239 231, 231n 327n
Ezechiele 13, 18
108
108 319 141, 190 141, 190, 215 313 273
Daniele 1, 20 2, 2 3, 16-18 3, 86 5, 11 12, 2-3
286n 286n 193 148 286n 330
Osea 1, 4 14, 9-10
194 140
Michea 2, 7
108
Abacuc 2, 4
150, 189
Aggeo 1, 1
327n
Zaccaria 2, 7 2, 8 2, 12 5, 5-8
200 243 200 316n
Malachia 1, 2-3 3, 6
112 104
Matteo 1, 1 1, 18 3, 9 3, 14
201 208n 152 209
356
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INDICE SCRITTURISTICO
3, 15 209 4, 1 315 5, 3 130 5, 4 307 5, 8 290 5, 9 305 5, 15 325 5, 18 101n 5, 20 139 5, 22 300 5, 26 192n 5, 34 211 5, 43 299 5, 45 324 6, 1-6 312 6, 2 319 6, 9 211 6, 16-18 312 6, 24 247 6, 34 99n 7, 6 114 7, 11 320 7, 12 289 7, 18 304 7, 23 151 9, 12 131 9, 17 255 n. 13 9, 37 227 10, 3 119n 10, 4 142 10, 22 324 10, 24-25 220n 11, 15 148 11, 28-30 314n 11, 29 282, 308 11, 30 279, 287n, 316 12, 6 215n 12, 32 210 12, 36 325 12, 41-42 215n 12, 50 230 13, 23 324 13, 33 278 16, 6 278
16, 12 16, 17 16, 24 17, 1-2 17, 1-8 18, 8-9 18, 10 18, 15 18, 19 19, 18 22, 37 22, 39 22, 39-40 23, 4 23, 5 23, 9 24, 13 25, 12 25, 28 25, 34-35 26, 27 26, 46 27, 1-2 27, 26 Marco 2, 17 7, 7 7, 7-8 10, 19 10, 44 10, 46 Luca 1, 15 2, 5 2, 52 3, 6 6, 15 6, 15-16 6, 28 7, 36-46 7, 47
278 114n 328n 126n 129 283 206 134 205n 289n 250, 304n 294, 304n 250, 288 280 311 211 324 216 192n 317 302n 142 142 142
103 111 328 308n 284, 288 211n
302 208n 225 140 169 n. 48 228n 281 250 250
357
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INDICE SCRITTURISTICO
7, 50 9, 49 10, 1 10, 16 11, 2 11, 49 12, 19 12, 53 13, 27 16, 9 16, 25 17, 1-2 21, 16-17 21, 34 22, 20 22, 37 23, 42-43 24, 27 24, 30-32 Giovanni 1, 1 1, 1-2 1, 3 1, 6 1, 9 1, 10 1, 14 1, 17 1, 26 2, 4 2, 19 3, 5 3, 16 3, 30 4, 23 5, 44 6, 32-33 6, 51 8, 12 8, 23 8, 31-32 8, 33-35 8, 34
250 151 134 243 248 98 321 301n 216 317 321 280 130 302 329n 209 141 238n 238n
8, 39 152, 234 8, 56 138, 152n, 214n 9, 4 324 9, 5 110n 10, 14 216 10, 16 198n 10, 18 97 11, 25 189 12, 41 139 12, 44 152 13, 34 317 13, 35 289 14, 6 317 14, 27 280 15, 12 317 15, 13 317 15, 14-15 196n 15, 15 220n, 290n 15, 19 98n 16, 33 329n 17, 11 204 19, 25 269 n. 48 19, 26 170 n. 49 19, 26-27 119 20, 17 119
309n 200, 261 n. 27 199 95 110n, 113 208 309n 247 113 208n 97 241n 290 215 216n 311 278 278 110n 208 235, 241 235 241
Atti degli Apostoli 1, 13 228n 2, 41 239n 3, 15 142 3, 17 142 4, 4 239n 4, 34-35 130 5, 41 332 7, 22 286n 7, 55 242, 311 7, 57-58 106n 8, 9-24 203 9, 2-3 106n 9, 2-4 110n 9, 8 110n 9, 15 106n, 227n 9, 19 116n 9, 19-27 115
358
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INDICE SCRITTURISTICO
9, 20-21 116n 9, 23-26 116 9, 28-30 115 9, 36 211n 10, 11 128n 10, 28 128, 131 10, 34-35 126 10, 44-48 146 10, 47 126n 10, 48 134 11, 2 135 11, 2-3 126n 11, 5 128n 11, 17 126n 11, 17-18 135 12, 2 119n, 170 n. 50 15 52 15, 1 278 15, 1-2 123 15, 2 125 15, 5-29 244 15, 10 242 15, 22 95, 119 15, 23 95n 15, 23-29 123, 129 15, 27 119 15, 32 95n 15, 40 116n 16, 3 132n, 245, 281n 16, 6 116n 17, 28 235 18, 18 132n, 214n 21, 21 280n 21, 21-26 214n 21, 23-26 132n 21, 31-32 124n 22, 3 240 23, 10 124n 28, 23 107 Romani 1, 1 1, 14 2, 6
2, 10 2, 13 2, 25 2, 28-29
198n 247 52, 243, 248 226, 249, 280, 292n 2, 29 125, 153n, 247 3, 1-2 52, 243 3, 2 245, 249 3, 8 147 3, 23 189 4, 9 151 4, 12 152n 5, 12-21 262 n. 31 6, 10 309 6, 12 235, 303 7, 2-4 140 7, 5-6 294n 7, 12 140 7, 14 140, 147, 191, 236, 247, 289n, 292n 7, 23 282, 294n 7, 24 296 7, 25 295n 8, 3 188, 295n 8, 7 301n 8, 9 142 8, 11 309 8, 13 291n 8, 14 210 8, 15 148n, 206, 234, 237, 241 8, 16 148, 295, 333 8, 17 212, 212n 8, 21 212n 8, 28 324 8, 32 142 8, 38 – 9, 1 104 9, 1 104 9, 3 290 9, 20 301n 10, 2 111, 219 10, 17 147 11, 17 137 11, 17-19 250
111 197 248, 319
359
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1/5/11 9:14 AM
INDICE SCRITTURISTICO
11, 20 11, 24 11, 25 12, 2 12, 3 12, 5 12, 14 12, 15 12, 15-16 13, 8 13, 9 13, 14 14, 1-4 14, 20 15, 1-2 16, 17-19 1 Corinzi 1, 12 1, 17 1, 21 1, 23 1, 24 1, 25 1, 26-28 2, 1-2 2, 4-5 2, 7-8 2, 9 2, 11 2, 12 2, 14 2, 15 3, 1 3, 1-2 3, 8 4, 6 4, 9 4, 15 4, 16 4, 18 4, 21 5, 1
185 137 185 98n 185 212n 281 290, 316n 185 288n, 294 250 203 316 316 316 185
5, 1-2 5, 5 5, 6 5, 7 5, 7-8 6, 10 6, 12 6, 17 6, 18 6, 19 6, 19-20 6, 20 7, 9 7, 10 7, 12 7, 18 7, 19 7, 23 7, 27 7, 29 7, 31 7, 35 7, 39 7, 40 8, 5 8, 11 9, 9-10 9, 15 9, 19 9, 19-22 9, 20 9, 20-21 9, 20-22 9, 21 9, 22
301, 236 275n 275 281 281 281 275 222, 275 275 275, 275n 330 148 329n 293 236 221, 292n, 297 145, 197, 219n, 222, 241n, 310 280 186n 231n 229 221n 186n 314 197, 210
9, 27 10, 3-4 10, 4 10, 11 10, 12 10, 17 10, 18 10, 23
277 131n, 277 277 18n 278 282 288n, 293 298 298 210 298 210 221 243 197, 243 280n 136, 244 210 221 221 329 15n 221 243 331 284, 317 246 329n 241, 288 296 132, 214n, 281n 245 231 209, 295 196, 219n, 221, 316n 104, 332 236, 292 242n 226n 242 205n 331n 288n
360
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1/5/11 9:14 AM
INDICE SCRITTURISTICO
10, 32-33 11, 1 11, 3 11, 3-6 11, 13-14 11, 16 11, 20-21 12, 4-11 12, 7-11 12, 12-27 13, 1 13, 3 13, 4 13, 5 13, 7-8 13, 9 13, 13 14, 1 14, 12 14, 16 14, 39 15, 5-7 15, 10 15, 12 15, 22 15, 24 15, 28 15, 31 15, 32 15, 33 15, 41-42 15, 53 16, 13 16, 21-22 2 Corinzi 2, 6-10 3, 6 3, 10 3, 15 3, 16 3, 18 4, 13 4, 18
106, 132 221n 212n 331n 186n 332 186n 150 196 130 313 290, 312, 313 289 304 289 279 306 226, 279 226 333 226 119 143 62 205 248 248 329n 99n 235 330 330 242 327
5, 11 106 5, 15 189 5, 17 330 5, 19 208 5, 20 220 6, 14-15 303 8, 15 320n 8, 23 119 9, 6-7 322 10, 3 148 11, 6 144, 315 11, 13 96 11, 17 197 11, 23-27 332 12, 2 312 12, 4 312 12, 7 223 12, 7-9 312 12, 9 329n 13, 3 108, 227n, 243, 282 Galati 1, 1
35n, 110, 158 n. 12, 169 n. 46, 243 1, 11-12 33, 35n, 163 n. 28, 164 n. 32 1, 12 121 1, 13 121 1, 16 114n, 122, 166 n. 38 1, 17 115n, 167 n. 41 1, 18-19 115, 115n, 134, 170 n. 49 1, 19 169 n. 47, 342 n. 30 1, 20 115 2, 2 95, 127n, 129 2, 5 123 2, 6 94n, 129, 173 n. 59 2, 7 127n 2, 8 134 2, 9 127n, 134, 170 n. 49 2, 10 46 2, 11 94n, 279
131n 226 215 214n 247n 247, 311 295n 328n
361
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INDICE SCRITTURISTICO
5, 8 107 5, 13 35, 37, 56, 311 5, 13-23 344 n. 34 5, 13-26 56 5, 14 288n 5, 15 284, 290 5, 16 284, 285, 343 n. 31 5, 17 31, 53, 344 n. 39 5, 18 285, 342 n. 30 5, 19 285, 286n, 287 5, 19-21 32, 65 5, 20 286, 286n 5, 21 286, 286n 5, 22 285, 287, 292, 297 5, 22-23 36 5, 24 328n 5, 25 53 6, 1 236, 295n 6, 1-2 320 6, 5 279 6, 6 61, 325 6, 8 245, 291n, 320 6, 9 320 6, 11 59 6, 14 319
2, 11-14 38, 39, 40, 40n, 41, 46, 52, 82n, 84n, 93 n. 19, 133n, 135n, 173 n. 59, 174 n. 63, 175 n. 64, 176 n. 65 e 66, 177 n. 68, 269 n. 55 2, 14 279 2, 19 319 2, 19-21 178 n. 72 2, 20 108, 243, 282 2, 21 48 3, 1 83 49 3, 1-18 3, 3 83, 239 3, 6 249n 3, 9 151 3, 10 63, 191 3, 13 188 3, 16 153, 205 3, 18 48 3, 19 50, 51, 201, 261 n. 28 3, 19 – 5, 12 51 3, 25 299n 3, 26 203 4, 2 212 4, 4-5 207, 264 n. 40, 296, 342 n. 30 4, 5 211 4, 6 148n 4, 9 244 4, 9-10 242 4, 17 311 4, 21 32, 230 n. 58 4, 22-23 31 4, 22-24 33 4, 24a 31 4, 24-25 117, 167 n. 41, 270 n. 59 4, 24-26 66, 270 n. 58 e 60 4, 31 234 5, 1 287n, 314n 5, 2 51, 63, 272 n. 62
Efesini 2, 3 2, 8 2, 14 2, 20 3, 21 4, 13 4, 14 5, 16 5, 18 Filippesi 2, 6-7 2, 6-8 2, 7 2, 25 3, 2-3 3, 3
137 103 198n, 205 126n, 205 159 n. 14 206, 212n, 292n 242n 99 302 196n 220n, 288 309n 119 245 247
362
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INDICE SCRITTURISTICO
3, 5 3, 5-6 3, 6 3, 6-8 3, 7-8 3, 8 3, 10 3, 15 3, 19 3, 20 3, 21 4, 7
3, 10-12 3, 17-18
137n 124n 189 220 137n 124n 141n 234 332n 248n 330, 330n 331
1 Timoteo 1, 4 63 1, 9 139, 199, 290n, 308 2, 1 220 2, 5 199, 261 n. 27 2, 12 81n 3, 12 20, 20n, 21n 3, 15 130 4, 3 63 4, 3-5 128 5, 23 302n 6, 8 320 6, 17-19 317
Colossesi 1, 9 196 2, 8 207 2, 9-10 196n 2, 11 153n 2, 14 141n 2, 15 309n 2, 16 292 2, 16-17 217 2, 17 137n, 220n, 226n 2, 20 141n 2, 20-22 218 2, 21 226 3, 1 220n, 226 3, 1-2 241n 3, 5 141n 3, 9-10 329 3, 11 330n 3, 17 323 4, 18 326 1 Tessalonicesi 1, 9 2, 4 4, 9 4, 9-10 4, 10-12
276 106 139 186 186
2 Tessalonicesi 2, 1-3
326
186 326
2 Timoteo 2, 11 2, 19 2, 20 2, 24-25 4, 1 Tito 1, 12
98 216 241 300 248n 143, 235
Ebrei 1, 3 3, 1 4, 9 4, 15 5, 12 6, 6 7, 27 8, 5 9, 12 10, 1
311 96 216n 315 207, 219n 308 289n 137n 289n 137n, 220n, 276, 289n 11, 1 306 11, 8-18 151 11, 26 139 12, 14 299
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INDICE SCRITTURISTICO
Giacomo 1, 20 2, 26
300 250
1 Pietro 2, 8 2, 23 4, 8 5, 1
281 282 304 220
2 Pietro 1, 4
220n
1 Giovanni 2, 15 3, 2
329n 330
3, 11 3, 21 4, 2 5, 3 5, 19 Giuda 5 6 Apocalisse 2, 9 2, 11 2, 17 3, 12 5, 9 21, 1
325 319 332n 287n 99 139 99 331 148 329n 129 329n 329n
364
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INDICE DELLE OPERE ANTICHE NON CRISTIANE
Arato Phaenomena 5
235
Ateneo Deipnosophistarum libri XV 7, 281
102n
Celio Orationis fragmentum apud Quintilianvm, Institutio oratoria 4, 2, 123-124
303n
Cicerone Academica 1, 25 De fato 4, 7 De finibus bonorum et malorum 3, 35 5, 65-66 5, 94 De officiis 2, 31 2, 32-51 2, 48 Pro Archia 26 Pro Flacco fgr. 9 Pro Ligario 11
312n 180 n. 75 344 n. 37 344 n. 36 102n 344 n. 40 345 n. 40 344 n. 36 313n 144n 143n
365
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1/5/11 9:14 AM
INDICE DELLE OPERE ANTICHE NON CRISTIANE
Pro Murena 3 Tusculanae disputationes 1, 34 2, 60 3, 24-25 4, 13
331n 313n 102n 344 n. 37 305n
Diodoro Siculo Bibliotheca historica 5, 17,1
252 n. 6
Diogene Laerzio Vitae philosophorum 7, 37.166-167
102n
Erodoto Historiae 1, 163 4, 169
252 n. 3 252 n. 5
Euripide Orestes 1351
180 n. 75
Eutropio Breviarium 7, 21
325
Filone De Abrahamo 82-84
237n
Gellio Noctes Atticae 17, 10, 2-3 17, 15, 1-7
335 n. 5 166 n. 36
Livio Ab Urbe Condita 38, 37,3
143n
Menandro Fragmenta 187 (Koerte-Thierfelder II, p. 74) orazio Satyrae 1, 10,72-73
235
313n
366
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INDICE DELLE OPERE ANTICHE NON CRISTIANE
Petronio Satyricon 88
166 n. 36
Plinio il Vecchio Naturalis historia 8, 126
335 n. 5
Quintiliano Institutio oratoria 4, 2, 123-124 10, 3, 19-20
303n 335 n. 6
Sallustio De coniuratione Catilinae 1, 2
292n
Solino De mirabilibus mundi 23, 13
252 n. 4
Strabone Geographia 3, 2,11 3, 2,14
251-252 n. 3 251-252 n. 3
Svetonio Fragmenta 25b Divus Titus 8, 1
335 n. 5 325n
Terenzio Andria 68
267 n.51
Valerio Massimo Factorum et dictorum memorabilium libri IX 8, 7, stran. 5 Virgilio Aeneis 1, 338 3, 390-391 8, 660-661 Eclogae 3, 103
166 n. 36
184n 100n 183n 145
367
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INDICE DELLE OPERE ANTICHE CRISTIANE
Agostino De haeresibus 6 28 62 63 In Galatas 1 13 15 20 22 23 24
253 n. 11 256 n. 14 255 n. 13 255 n. 12 92 n. 16 e 17 173 n. 58 176 n. 66 181 n. 82 e 84 257-258 n. 20 260 n. 25 260 n. 26
Ambrogio De Abraham 1, 4, 28 2, 10, 77 De officiis ministrorum 2, 7, 29
271 n. 61 237n 344 n. 36
Ambrosiaster Quaestiones Veteris et Novi Testamenti 6 9 10 11 12 109 127
12n 12n 12n, 259 n. 24 12n 12n 19 15n, 16, 20n
368
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INDICE DELLE OPERE ANTICHE CRISTIANE
127, 11 127, 34-36 In Romanos 5,14, 4e-5a 8,3 In Galatas Prol. 1,1, 2 1,2 1,15, 2 1,18, 1 1,19 2,6, 1 2,7-8 2,9-10, 1 2,15-16 3,12 3, 18, 1-3 3,19 3,20 4,1-2 4,4-5 4,9 4,10 4,23, 1 5,8 In I Timotheum 3,12
20n 15n 17n 257 n. 16 184 n. 32 156 n. 7 158 n. 11 165 n. 34 168 n. 43 170 n. 51 172 n. 58 173 n. 60 172 n. 58 178 n. 71 257 n. 17 260 n. 25 260 n. 26, 261 n. 28 260 n. 26 261 n. 31 264 n. 40 266 n. 43 266 n. 44 270 n. 59 337 n. 12 20-21n
Apollinare di Laodicea Fragmenta Commentariorum in epistulam Pauli ad Galatas Cipriano Ad Donatum 2 9 11 De ecclesiae catholicae unitate 14 De zelo et livore 7
82n
333 n. 1 267 n. 48 96n 291n 290n 302n
Clemente Alessandrino Hypotyposeis 5, frg. 4
177 n. 67
369
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1/5/11 9:14 AM
INDICE DELLE OPERE ANTICHE CRISTIANE
Stromateis 1, 21 3, 13
322n 322n
Didimo il cieco Fragmenta Commentariorum in epistulam Pauli ad Galatas Epifanio di Salamina Panarion 1, 25, 2 1, 26, 3 1, 30 1, 30, 2, 7 1, 30, 15 1, 31, 5-6 1, 31, 7 1, 37, 1-9 2, 48, 14 2, 49, 1-2 2, 59
82n
253-254 n. 11 253 n. 11 61n 93 n. 18 168 n. 42 159 n. 14 165 n. 33 253 n. 10 254 n. 12 255 n. 14 269 n. 54
Eusebio di Cesarea Historia ecclesiastica 1, 12, 2 3, 11 3, 32 6, 17 6, 24, 3 Praeparatio evangelica 10, 12, 1
117 n. 67 120n 120n 64n, 156 n. 6, 164 n. 32 339 n. 20 322n
Eusebio d’Emesa Fragmenta Commentariorum in epistulam Pauli ad Galatas
82n
Filastrio di Brescia Diuersarum haereseon liber 37 49 73 74 75 76
61 253 n. 9 253 n. 11 256 n. 14 255 n. 13 254 n. 12
Girolamo Adversus Helvidium 13
169 n. 47 170 n. 49
370
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1/5/11 9:14 AM
INDICE DELLE OPERE ANTICHE CRISTIANE
Adversus Iovinianum 1, 11 Adversus Rufinum 1, 16 3, 21-22 De uiris illustribus 70 80, 2 100, 3 101 104 Epistulae 18[B], 5 22, 5 22, 8 22, 15 22, 18-19 22, 23 22, 27 22, 37 26, 4 27, 1 27, 1-2 35, 2 36, 11 36, 12-13 42, 1 45, 2 45, 3 48, 3 49, 6 70, 3 70, 4 73 84, 2 84, 7 108, 20 108, 26 112, 4 112, 6 123, 9 124, 5 124, 9 125, 12
325n 27n 22n 268 n. 54 251 n. 1, 265 n. 42 252 n. 8 88 n. 8, 337 n. 10 41n 95n, 155 n. 4 56n 55, 160 n. 16, 343 n. 33 57 57 56n 57n 307n 349 n. 56 24n 17n 12n, 18 18n 19n 268 n. 54 10n, 20n 11n 43n 325n 41n 339 n. 20 19 157 n. 9 265 n. 42 86 n. 3 335 n. 4 40, 82n 38, 38n, 39, 40, 84n, 175 n. 64 11n 263 n. 35 263 n. 35 335 n. 4
371
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INDICE DELLE OPERE ANTICHE CRISTIANE
127, 2 127, 7 Hebraicae quaestiones in libro Geneseos Sara Testamentum In Isaiam 6, 16, 1 In Danielem 1, 2, 27b In Zachariam 3, Prol. 1, 5, 5-8 In Galatas Pref. 1 Pref. 2 Pref. 3 Pref. 3-4 Pref. 4 1, 1,1, 5 1, 1,1, 5-6 1, 1,4-5, 6 1, 1,11-12, 1 1, 1,11-12, 3 1, 1,11-12, 3-4 1, 15-16b, 2-3 1, 1,17b, 3 1, 1,18b, 1 1, 1,19, 1 1, 2,1-2, 1 1, 2,6a, 2 1, 2,15, 1 1, 2,16a, 1 1, 3,1a, 2 1, 3,1b, 2 2, Prol., 1-3 2, Prol., 4-5 2, 3,10, 1 2, 3,10, 1-2 2, 3,13a, 1 2, 3,13b-14, 1-2 2, 3,13b-14, 2 2, 3,15-18, 1 2, 3,15-18, 2 2, 3,24-26, 1
85 n. 2 81n, 87 n. 5 258 n. 21 238n 197n 160 n. 16 286n 335 n. 5 346 n. 47 8n, 9n 8n, 9n, 24, 28n 45n, 48n 9n, 45n, 264 n. 36 46n 64n, 264 n. 36 61n 349 n. 56 64n 32n, 65n 34 345 n. 43 168 n. 45 305n 58, 342 n. 30 127n 47 345 n. 43 147n 35n, 345 n. 43 276n 48n 49n 49n, 349 n. 56 50n 210n, 161 n. 19 50n 156 n. 6 45n 257 n. 19 206n
372
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INDICE DELLE OPERE ANTICHE CRISTIANE
2, 4,1-2, 1 2, 4,4-5, 1 2, 4,17-18, 2 2, 4,17-18, 5 2, 4,21 2, 4,22-23, 4 2, 4,24a, 1-3 2, 4,24b-26, 2 2, 4,24b-26, 3 2, 4,28 2, 5,2, 2-3 2, 5,2, 3 3, 4,24b-26, 3 3, Prol., 3 3, 5,9, 3 3, 5,13a, 2-6 3, 5,13a, 6 3, 5,13a, 7-8 3, 5,16, 2.3 3, 5,17, 1-2 3, 5,17, 1-3 3, 5,17, 4 3, 5,17, 4-5 3, 5,17, 5 3, 5,17, 6 3, 5,19-21, 2 3, 5,19-21, 8 3, 5,22-23, 7 3, 5,24, 1 3, 5,24, 4 3, 5,26, 4 3, 6,1, 2 3, 6,2, 2 3, 6,6, 1 3, 6,8, 2-3 3, 6,11, 2 3, 6,11, 3 3, 6,14, 2 3, 6,18, 1 In Ephesios Prol. In Titum Pref. 3,9
51n 342 n. 30 50 300n 32 31n 31n 30n 66n 35n 52n 52n 33 26n 63n 35, 35n, 342 n. 31, 346 n. 46 343 n. 34 37 343 n. 31 53n, 343 n. 31, 344 n. 39 343 n. 32 340 n. 24 54n 54n 31, 31n 53n, 344 n. 39 65n 55n 35n 32 56n 60 346 n. 46 61n 61n 60n 60n 161 n. 17 53n 41n 163 n. 26 49n, 187n
373
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INDICE DELLE OPERE ANTICHE CRISTIANE
In Philemonem Liber interpretationis hebraicorum nominum adama Agar Arabia Cilicia Damascus Hierosolyma Salomon Sina Syria Praefatio in libro Psalmorum (LXX) Praefatio in Evangelio
23n 192n 237n 167 n. 40 171 n. 53 167 n. 40 167 n. 40 305n 237n 171 n. 53 12n 12n
Ippolito di Roma Refutatio omnium haeresium 6, 29-36
159 n. 14
Ireneo di Lione Adversus haereses 1, 1-8 1, 3, 1 1, 7, 5
159 n. 14 159 n. 14 165 n. 33
Lattanzio Divinae Institutiones 2, 2 7, 1 Fragmenta
267 n. 48 292n 251 n. 1
Mario Vittorino In Galatas 1, 1,1-2 1, 1,13-14 1, 1,19 1, 1,19 1, 2,15-16 1, 3,1 1, 3,4 1, 3,19-20 2, 4,1 – 4,2 2, 4,3-4 2, 4,14 2, 4,17 2, 4,23
158 n. 11 163 n. 30 164 n. 32 170 n. 49 e 51 178 n. 70 180 n. 76 181 n. 80 260 n. 26 261 n. 31 262 n. 33, 264 n. 39 267 n. 49 e 50 268 n. 53 270 n. 59
374
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INDICE DELLE OPERE ANTICHE CRISTIANE
2, 4,24-25 2, 5,8 2, 6,11
270 n. 59 337 n. 12 348 n. 54
Origene Contra Celsum 1, 21 4, 14 4, 52-53 6, 62 In Galatas fr. 1 fr. 2 fr. 3 In Colossenses fr. De principiis 3, 4, 1-5
104n 104n 258 n. 21 104n 96n 107n 284n 261 n. 27 54
Panfilo di Cesarea Apologia pro Origene 109 113
96n 264 n. 38
Siricio, Papa Epistulae 5
21n
Teodoro di Eraclea Fragmenta Commentariorum in epistulam Pauli ad Galatas
82n
Tertulliano Adversus Valentinianos 29, 1-2 Adversus Marcionem 1, 5,1 4, 1,6 5, 1,3 Ad uxorem 2, 3, 4 De anima 20, 2-3 27, 4 27, 8
165 n. 33 159 n. 15 340 n. 23 158 n. 10 298n 179 n. 75 229n 229n
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INDICE DELLE OPERE ANTICHE CRISTIANE
De carne Christi 6, 1-2 16, 1 23, 1 - 24, 2 De exhortatione castitatis 13 De monogamia 17, 4 De praescriptione haereticorum 6, 5-6 33, 1-5
162 n. 22 91 n. 14 162 n. 22 348 n. 52 348 n. 52 162 n. 22 62n, 156 n. 6 346 n. 49
41, 2 De pudicitia 4, 3 13, 16 De resurrectione 3, 6 16, 4-8 De spectaculis 8, 10
100n 223n 108n 100n 100n
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INDICE DELLE COSE NOTEVOLI
Accademia (platonica), 274 adozionismo, 157 n. 8 Aereopago, 235 akolouthia, 345 n. 45 alleanza, 234 allegoria, 148, 235, 236, 295, 310, 311 allegorico, 30, 31, 236, 238 allegorizzazione, 270 n. 60 amen, 101, 101n, 184, 187, 333 amministratore, 205, 206, 206n amore, 224, 304 anatema, 105, 105n, 290 angelo, 103, 104, 105, 105n, 113, 200, 206, 206n, 207, 222, 233, 234, 249, 289, 312 anima, 83, 140, 148, 229, 292, 293, 298, 303, 332, 333 animale, 112, 293 anno giubilare, 160 n. 16, 246n anziani, 84, 94, 111, 123, 125, 126, 126n, 127, 130, 142, 244, 314 apostolo, 94, 95, 95n, 96, 113, 114, 114n arbitrio (libero), 166 n. 35, 201, 277, 293, 343 n. 32 argomentazione (argumentum), 137, 285, 285n arroganza, 92 n. 17, 93 n. 19, 132, 134, 318
Arturo (costellazione), 145 autorità, 83, 84, 94, 97, 105, 105n, 123, 133, 202, 243, 326 avvento, 248, 289 battesimo, 126, 129, 143, 203, 204, 209, 330 beatitudine, 223, 224 bene, 137, 147, 253 n. 10, 277, 292, 306, 320, 321, 324, 341 n. 26 benedizione, 152, 193, 196, 249 bontà, 287, 306, 325 Cantici (delle ascensioni), 118n Capodanno, ebraico, 217n caratteri (segni grafici), 208, 327 carità, 106, 131, 139, 186, 232, 249, 250, 284, 287, 288, 289, 290, 294, 304, 306, 307, 308, 310, 311, 317, 327 carnale, 125, 147, 219, 221, 222, 227, 241, 286, 287, 292, 293, 295, 297, 310, 316, 320, 322, 331 carne, 97, 113, 114, 114n, 122, 133, 133n, 138, 139, 140, 141, 142, 143, 148, 149, 186, 203, 205, 208, 221, 222, 223, 224, 239, 244, 245, 249, 278, 280, 284,
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INDICE DELLE COSE NOTEVOLI
235, 248, 274, 278, 282, 283, 284, 290, 292, 293, 296, 298, 305, 309, 312, 323, 330, 332, 344 n. 38, 347 n. 51 creatore, 99, 103, 105, 105n, 147, 161 n. 19, 191, 215, 216, 238, 283, 299, 339 n. 19 creatura, 147, 207, 228, 302, 304, 305, 313, 329 croce, 84, 138, 141, 146, 147, 189, 193, 193n, 194, 194n, 196, 218, 239, 258 n. 20, 275, 281, 288, 319, 329 crocifissione, 120, 146, 308
285, 285n, 286, 287, 288, 290, 291, 292, 293, 294, 295, 297, 298, 299, 301, 302, 302n, 303, 304, 309, 309n, 310, 312, 322, 323, 328, 332, 333 castità, 227, 249, 287, 307, 312, 347 n. 52 catalogo (dei vizi e delle virtù), 299, 303, 306 chiesa, 82, 84, 85, 97, 103, 108, 109, 110, 111, 120, 121, 122, 123, 126, 126n, 129, 130, 134, 136, 137, 140, 141, 156 n. 5, 163 n. 29, 185, 205, 218, 220, 225, 227, 236, 237n, 238, 239, 242, 273, 274, 279, 280, 282, 283, 301, 302n, 305, 312, 325, 334 n. 2, 335 n. 6, 338 n. 14 circoncisione, 83, 84, 122, 123, 124, 125, 128, 129, 133, 136, 138, 146, 149, 150, 151, 152, 153, 172 n. 56, 226, 240, 243, 244, 245, 246, 247, 248, 249, 250, 271272 n. 62, 280, 291, 292, 310, 318, 328, 329, 330 codice, 123, 125, 146, 195, 209, 276, 277, 303, 313 coerenza (testuale), 167 n. 39, 285, 285n, 331, 340 n. 22 coesione, 315 coici, 314 colpa, 102, 129, 144, 218, 299, 313, 314, 320 comandamento, 111, 136, 139, 250, 289, 323, 326, 328 commentario, 82, 82n, 183, 183n, 273, 274 comprensione (del testo), 215, 238, 286 contenuto, epistola ai Galati, 83 continenza, 287, 307, 308 controversia, 123, 125, 134, 274 corpo, 97, 130, 131, 147, 148, 183, 200, 204, 212, 219, 223, 229,
debolezza, 82, 98, 104, 116, 204, 221, 222, 223, 224, 232, 273, 274, 281, 307, 315, 318, 319, 328 Decade, 100 demoni, 145, 298, 347 n. 51 diavolo, 102, 108, 109, 272 n. 62, 277, 290, 348 n. 52 digiuno, 217, 217n, 218, 227, 277, 290, 312 disaccordo, 84n, 85, 134 discendenza, 151, 152, 153, 154, 197, 198, 198n, 201, 204, 205, 233, 234, 235, 238n discordia, 286, 301, 303, 307, 332 disputa, 166 n. 36, 173 n. 59 e 60, 179 n. 73, 296 docetismo, 157 n. 8, 264 n. 36, 347 n. 50 Dodecade, 100, 100n dolore, 102, 128, 161 n. 18, 232, 282, 291, 305, 308, 309 domenica, 218, 219 donna, 81, 81n, 85-86 n. 2, 208, 208n, 209, 221, 229, 250, 264 n. 39, 296, 299, 301, 316, 316n, 320, 322, 346 n. 47, 347 n. 51 dottrina, 85, 97, 102, 107, 110, 111, 118, 144, 186, 191, 207, 212,
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INDICE DELLE COSE NOTEVOLI
164 n. 31 e 32, 176 n. 66, 178 n. 70 e 71, 185, 189, 190, 201, 202, 203, 204, 213, 218, 226, 232, 241, 245, 248, 249, 250, 251 n. 2, 259-260 n. 25, 260-261 n. 26, 275, 282, 287, 290, 298, 306, 307, 317, 320, 335 n. 6, 346 n. 49, 348 n. 52 festa (delle Capanne), 219 figura, 83, 137, 194, 284, 287, 289, 305, 306n, 307, 311 filosofia, 109, 163 n. 27, 202, 275, 308 filosofo, 93 n. 19, 143, 161 n. 18, 180 n. 75, 258 n. 21, 293, 310, 311, 337 n. 10, 341 n. 26 e 27 finzione, 133, 133n, 222, 269 n. 55 follia, 151, 240, 282 fornicazione, 197, 210, 244, 253 n. 11, 285, 298, 303, 309
219, 223, 224, 225, 231, 278, 279, 280, 295, 301, 325, 326, 328, 339 n. 19, 347 n. 50 ebionita, 93 n. 18, 156 n. 6, 157 n. 8, 164 n. 32, 168 n. 42 ebraico (testo, lingua), 95, 95n, 100, 101, 109, 158 n. 12, 160 n. 16, 163 n. 27, 188, 192, 193, 195, 197, 211, 249, 256 n. 15, 257 n. 19, 273, 274, 333, 334 n. 3, 335 n. 4, 337 n. 11 elementi (del mondo), 206, 206n, 207, 208, 210, 213, 214, 215, 216, 216n, 262 n. 33 elemosina, 227, 290, 312 elleboro, 113 emulazione, 226, 228, 268 n. 53, 286, 300 enigmatico, 109 Eone, 100, 100n, 159 n. 14 epitasi, 306 eredità, 202, 206, 212, 213, 215, 234, 241, 305 eresia, 96, 97, 108, 144, 156-157 n. 7, 157 n. 8, 208, 253 n. 11, 255 n. 13, 264 n. 36, 269 n. 54, 286, 301, 302n, 326 eretici, 82, 91 n. 14, 98, 103, 108, 112, 137, 151, 157 n. 7 e 8, 161 n. 19, 164 n. 32, 169 n. 47, 170 n. 51, 181 n. 81, 203, 215, 255 n. 12 e 13, 256 n. 14, 258 n. 20, 283, 301, 314, 321 eternità, 100 etimologia, 310 evangelizzazione, 84n, 85, 132n
gelosia, 228, 302n gioia, 141, 218, 219, 236n, 287, 304, 305, 310 giorno (dell’Espiazione), 217n giubileo, 100, 100n, 160 n. 16, 217, 217n, 246n giudaismo, 110, 111, 123, 125, 130, 131, 164 n. 32, 178 n. 70, 280, 318, 346 n. 48 giudizio, 104, 106, 113, 121, 122, 123, 151, 165-166 n. 35, 189, 211, 247, 269 n. 55, 274, 279, 280, 319, 323, 325 giustificazione, 138, 143, 248, 249, 250 giustizia, 98, 112, 113, 144, 147, 150, 151, 154, 211, 215, 248, 291, 300 gloria, 139, 196, 198, 247, 290, 310, 311, 312, 313, 319, 330, 332, 334 n. 2, 345 n. 40 e 41 gnosi, 100n, 253 n. 10 gnosticismo, 111n
fardello, 279, 285n fede, 83, 84n, 97, 104, 106, 107, 109, 110, 111, 118, 120, 121, 122, 123, 128, 129, 130, 131, 134, 136, 138, 139, 140, 143, 145, 146, 147, 149, 150, 151, 152, 154,
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INDICE DELLE COSE NOTEVOLI
grazia, 83, 84, 84n, 92 n. 17, 94, 98, 103, 107, 110, 111, 123, 124, 125, 126, 127, 128, 129, 131, 132, 135, 137, 142, 143, 147, 149, 150, 155 n. 2, 189, 205, 211, 215, 225, 228, 242, 244, 247, 262 n. 31, 276, 279, 293, 294, 332, 341 n. 27 greco (testo, lingua), 109, 113, 122, 122n, 127, 135, 145, 145n, 184, 187, 189n, 193, 198, 198n, 208, 209, 225n, 226n, 231, 231n, 235, 237n, 251 n. 2, 255 n. 13, 271 n. 61, 273n, 274, 276, 280, 283, 295, 300, 300n, 301, 306, 306n, 308, 308n, 309, 310, 313, 314, 318, 327, 331, 337 n. 11, 340 n. 24, 345 n. 42 e 44, 348 n. 54
invidia, 145, 194, 228, 268 n. 53, 286, 300n, 301, 302, 302n, 310, 311, 328 iperbato, 103, 127, 127n, 200 iperbolico, 104, 224 ipocrisia, 94, 124, 133 ira, 141, 193n, 195, 271 n. 62, 282, 286, 291, 300, 307, 324 lapsi, 268 n. 54 legge, 83, 83n, 84, 94, 95, 98, 102, 103, 106, 107, 110, 111, 117, 122, 123, 124, 125, 126, 128, 129, 130, 131, 132, 132n, 133, 137, 138, 139, 140, 141, 142, 143, 144, 146, 147, 149, 150, 151, 155 n. 2, 161 n. 19, 164 n. 31 e 32, 178 n. 70, 187, 188, 189, 190, 191, 198, 198n, 199, 200, 201, 202, 203, 205, 206, 206n, 207, 208, 209, 210, 211, 213, 214, 215, 218, 220, 225, 226, 227, 228, 230, 231, 232, 233, 234, 236, 238, 241, 242, 242n, 243, 244, 245, 246, 247, 247n, 248, 249, 250, 259-260 n. 25, 260 n. 26, 261 n. 31, 264 n. 40, 265 n. 41, 266 n. 43, 272 n. 62, 276, 278, 280, 281, 282, 283, 285, 285n, 286, 287, 288, 289, 290, 291, 292, 293, 294, 295, 296, 297, 298, 302, 304, 308, 310, 311, 314, 316, 317, 318, 320, 322, 322n, 325, 326, 328, 332, 342 n. 28 e 29, 346 n. 48 letizia, 305, 308 lettera, 100, 103, 125, 140, 144, 148, 207, 213, 214, 225, 226, 234, 237, 247, 247n, 248, 249, 270 n. 60, 280, 284, 285, 285n, 286, 292, 295, 296, 297, 308n, 340 n. 21
idolatria, 242, 242n, 282, 286, 303 immagine, 83, 137, 220, 225, 226, 270 n. 59, 276, 289 impero, 120n, 186, 328 impudicizia, 249, 303 impurità, 298, 309 inimicizia, 205, 225, 286, 299, 303, 338 n. 14 intelligenza (spirituale), 125, 148, 196, 215, 221, 229, 236, 292 interpretazione, 83-84n, 95, 103, 109, 111, 114, 114n, 116, 118, 135, 136, 141n, 155 n. 3, 156 n. 7, 164 n. 32, 166 n. 38, 167 n. 41, 171 n. 52 e 55, 177 n. 67, 188, 212, 237n, 238, 258 n. 20, 262 n. 31 e 33, 266 n. 43, 267 n. 49, 271 n. 62, 277, 278, 285n, 292, 297, 310, 311, 315, 317, 318n, 319n, 322n, 338 n. 14 e 17, 339 n. 19, 341 n. 25, 342 n. 31, 323 n. 32, 346 n. 48, 349 n. 55
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INDICE DELLE COSE NOTEVOLI
letterale, 84n, 141n, 142n, 164 n. 32, 167 n. 41, 168 n. 45, 171 n. 52, 174 n. 61, 181 n. 79, 198, 215, 238, 247n, 259 n. 25, 261 n. 31, 264 n. 39, 266 n. 43, 269 n. 56, 283n, 285, 285n, 286, 288, 291, 297, 306n, 315, 316, 341 n. 24, 343 n. 32, 346 n. 45, 46 e 48, 349 n. 55 lettore, 82, 112, 139n, 152, 155 n. 3, 157 n. 8, 161 n. 19, 161 n. 21, 166 n. 37, 175 n. 64, 177 n. 68, 181 n. 83, 197, 246, 269 n. 55, 283n, 300n, 335 n. 5, 337 n. 9 libero arbitrio, 166 n. 35, 201, 277, 293, 337 n. 13, 343 n. 32 libertà, 92 n. 17, 102, 122, 123, 125, 132, 133, 150, 157 n. 7, 165 n. 35, 206, 212, 213, 234, 241, 284, 287, 288, 293, 294, 302, 311 Liceo (aristotelico), 274 linguaggio, 83, 109, 144, 146, 163 n. 27, 181 n. 78, 235, 237n, 267 n. 49, 270 n. 57, 286, 294, 345 n. 44 lite, 134, 286, 299, 300, 303 lode, 110, 126, 129, 146, 185, 225, 308, 309, 311, 312, 313, 319, 348 n. 52 lotta, 102, 132, 286, 300, 303, 307 lussuria, 285, 293, 298, 299, 302, 303, 324
martirio, 96n, 102, 169 n. 48, 193n, 242, 290, 312, 326, 345 n. 41 matrimonio, 85 n. 2, 140, 169 n. 47, 312, 347 n. 51 mediatore, 199, 200, 201, 260 n. 26 misericordia, 83, 317, 318, 331 mitezza, 307 modestia, 307, 315 moglie, 100, 100n, 102, 139, 185, 194n, 204, 208, 229, 232, 233, 238n, 271 n. 62, 277, 285, 289, 301, 320, 322 mondo, 81, 98, 99, 100n, 101, 102, 108, 109, 110, 113, 120, 122, 137, 140, 141, 142, 205, 206, 206n, 207, 208, 210, 213, 215, 218, 231, 236, 237n, 239, 249, 253 n. 11, 263 n. 35, 269 n. 54, 275, 278, 289, 290, 309, 319, 328, 329 monogamia, 348 n. 52 morte, 85 n. 1, 86 n. 2 e 3, 87-88 n. 5, 139, 139n, 141, 142, 143, 147, 193, 194, 194n, 197 n. 2, 259 n. 22, 271-272 n. 62, 282, 288, 290, 291, 296, 313, 347 n. 51 mortificazione, 141, 309 natura, 103, 104, 104n, 112, 113, 128, 136, 137, 138, 144, 165-166 n. 35, 184, 206, 211, 212, 222, 229, 294, 309, 314, 347 n. 50 neomenia, 146, 217n, 292 neoterico (poeta), 301 numero, 118, 123, 136, 168 n. 44, 239 Nuova Profezia, 253 n. 9, 254 n. 12
male, 99, 102, 137, 147, 185, 196, 206, 222, 223, 253 n. 10, 272 n. 62, 277, 287, 290, 292, 294, 315, 321, 341 n. 26 e 27 maledizione, 188, 191, 192, 193, 194n, 195, 196, 228, 259 n. 22, 282n malocchio, 144, 145 mansuetudine, 236, 295, 300, 313, 314, 345 n. 42
odio, 99, 112, 225, 299, 304 Ogdoade, 100n
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INDICE DELLE COSE NOTEVOLI
ombra, 118, 118n, 128, 149, 208, 220, 225, 226, 247, 247n, 276, 295, 311n opera, 98, 101, 102, 138, 139, 142, 143, 144, 145, 146, 147, 150, 151, 152, 188, 189, 190, 191, 198, 227, 234, 248, 249, 250, 260 n. 26, 285, 285n, 286, 287, 290, 291, 292, 293, 294, 297, 298, 299, 300, 301, 301n, 302, 302n, 303, 304, 312, 317, 318, 323, 324, 325, 348 n. 52 oratore, 134, 184, 185n, 235, 303, 303n, 335 n. 2 Orione, 145 oro, 183, 204, 293, 341 n. 27 orso, 274, 335 n. 5 oscuro, 222, 230, 283, 319 osservanza, 83, 122, 123, 128, 132n, 133, 136, 146, 149, 150, 199, 218, 220, 227, 243n, 248, 278, 291, 315, 317
319, 338 n. 17, 339 n. 19, 346 n. 47 pedagogo, 202, 203, 206, 213, 299 Pentecoste, 217, 217n, 218, 219 perdono, 98, 150, 217, 269 n. 54, 313, 314, 315 persecuzione, 111, 116, 149, 223, 224, 232, 241, 268 n. 54, 280, 281, 302n, 327, 328 piacere, 246, 249, 288, 291, 294, 297, 298, 299, 305, 307, 328 Pleiadi, 145 Pleroma, 100n polemica, 92 n. 17, 93 n. 19, 126n, 232n, 135n, 154 n. 1, 155 n. 3, 156 n. 5, 157 n. 7, 162 n. 23, 163 n. 29, 164 n. 32, 166 n. 38, 168 n. 44, 170 n. 51, 174 n. 63, 175 n. 65, 176 n. 66, 177 n. 69, 179 n. 74, 258 n. 20, 332n, 337 n. 12, 338 n. 14, 345 n. 41 povertà, 231, 317, 321 predicazione, 83n, 84, 84n, 102, 105, 108, 110, 113, 114, 114n, 117, 119, 121, 183n, 204, 222, 225, 242, 267 n. 49, 275, 281, 312, 332n prepuzio, 128, 135, 136, 151, 152, 204, 226, 243, 244, 248, 249, 250, 271 n. 62, 288, 311, 328, 329, 330 prescienza, 112, 166 n. 35 primogenitura, 240 profeta, 95, 95n, 96, 117, 138, 145, 146, 155-156 n. 4, 156 n. 6, 161 n. 19, 188, 189, 190, 191, 191n, 198, 200, 205, 206, 206n, 207, 208, 211, 214, 226, 229, 230, 233, 238, 239, 240, 243, 244, 250, 261 n. 31, 273, 281, 287, 295, 296, 327, 342 n. 29 promessa, 98, 99n, 118, 118n, 151, 152, 187, 196, 198, 199, 201,
pace, 98, 117, 125, 134, 141, 168 n. 41, 176 n. 66, 198, 287, 299, 305, 314, 331 paganesimo, 110, 149, 232, 266 n. 43, 347 n. 51 panegirico, 185n, 274, 336 n. 7 paradiso, 299 Pasqua, 216 n, 218 pastore, 176 n. 66, 198, 331 patriarchi, 95, 119, 138, 153, 188, 205, 285, 286, 300 pazienza, 171 n. 55, 248, 287, 305, 324 peccato, 98, 112, 133, 134, 138, 140, 143, 145, 148, 149, 150, 165166 n. 35, 188, 189, 191, 195, 196, 202, 203, 209, 230, 235, 260-261 n. 26, 262 n. 31, 269 n. 54, 272 n. 62, 279, 282, 295, 299, 302n, 303, 304, 305, 309, 309n, 314, 315, 316,
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INDICE DELLE COSE NOTEVOLI
202, 204, 205, 233, 234, 238n, 239, 241, 249, 259-260 n. 25, 260 n. 26, 270 n. 57, 322, 323 provvidenza, 128 pusillanimità, 305
scienza, 111, 118, 131, 212, 275, 284, 317, 320 scisma, 186, 268 n. 54, 302n, 326 scrofa (di Enea), 100 secolo, 98, 99, 100, 101, 152, 153, 159 n. 13 e 14, 194, 215 seme, 113, 204, 229, 230, 231, 321 senso, 85, 109, 114, 120, 125, 127, 127n, 140, 141n, 147, 153, 164 n. 32, 167 n. 41, 170 n. 49, 171 n. 55, 173 n. 59, 174 n. 63, 181 n. 79, 187, 188, 195, 195n, 204, 207, 208, 214, 215, 216n, 226, 231, 235, 236, 237n, 238, 248, 269 n. 56, 270-271 n. 60, 272 n. 62, 277, 278, 282n, 284, 285, 285n, 287n, 292, 295, 297, 310, 315, 316, 318, 318n, 319n, 322n, 342 n. 30, 346 n. 45 Settanta, 95n, 101, 109, 134, 141n, 145n, 154n, 160 n. 16, 163 n. 27, 187, 187n, 188, 189, 192, 194, 197, 198n, 231n, 256 n. 15, 257 n. 19, 271 n. 62, 333, 346 n. 47, 349 n. 56 sicera, 302 significato, 83, 98, 101, 101n, 108, 108n, 124, 125, 135, 192, 198, 202, 208, 209, 211, 219, 236, 237, 238n, 245n, 247n, 276, 279, 283, 284, 285n, 286, 287, 310, 311, 311n, 317, 318, 320, 327, 329, 340 n. 21, 341 n. 25, 344 n. 38, 349 n. 55 sillogismo, 143, 323 simulazione, 92 n. 17, 131, 132, 132n, 133, 137, 175 n. 64, 176 n. 66, 296 n. 55 sinagoga, 116, 129, 238, 239, 331 sofferenza, 131, 228, 282, 290, 321, 331, 332n, 345 n. 41, 347 n. 50 sostanza, 210, 211, 247, 247n, 265 n. 42, 297, 311, 329, 330
questione, 83, 87 n. 5, 101, 108, 123, 129, 144, 147, 181 n. 79, 191, 193, 198, 199, 209, 218, 259 n. 22, 263 n. 33, 265 n. 41, 271 n. 61, 296, 331, 342 n. 30 retorica, 82, 82n, 120, 161 n. 20, 185, 273, 334 n. 2, 335 n. 3 e 6, 337 n. 10 ricchezza, 131, 211, 227, 274, 312, 317, 320 rivelazione, 107, 108, 109, 110, 113, 114, 116, 169 n. 46, 171 n. 54, 312, 348 n. 52 sabatismo, 216 sabato, 83, 140, 146, 149, 216, 218, 246, 247, 292 sacerdote, 81n, 133, 142, 169 n. 48, 242, 242n, 246n, 300, 325 sacerdozio, 96, 312 sacramento, 140, 209, 317 salmi (graduali), 118n, 305 salterio, 118, 141, 273, 273n, 349 n. 56 salvezza, 92 n. 17, 97, 106, 112, 132, 132n, 133, 138, 142, 200, 203, 204, 209, 211, 219, 228, 229, 239, 249, 259 n. 25, 314, 316, 347 n. 51 sapienza, 98, 113, 118, 134, 141, 141n, 144, 186, 195, 196, 197, 207, 215, 222, 225, 275, 281, 286, 293, 301 scandalo, 280, 281, 290 schiavitù, 100n, 102, 125, 128, 198, 201, 212, 226, 234, 237, 241, 242, 287, 288, 293, 294, 332
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INDICE DELLE COSE NOTEVOLI
speranza, 98, 149, 154, 165 n. 33, 248, 306 spiegazione, 82n, 109, 115, 135n, 142n, 144, 155 n. 3, 162 n. 21, 166 n. 37, 170 n. 51, 171 n. 55, 173 n. 59, 174 n. 61 e 63, 175 n. 64, 177 n. 67, 178 n. 70, 200-201n, 205, 206n, 234, 236, 244n, 257 n. 19, 258 n. 21, 260 n. 26, 261 n. 31, 264 n. 39, 266 n. 44 e 45, 267 n. 49, 269 n. 55, 270 n. 59, 271 n. 62, 274, 292, 301, 309n, 320, 336 n. 8, 338 n. 17, 339 n. 18, 340 n. 21, 341 n. 25, 346 n. 46 e 47, 348 n. 54, 349 n. 55 spirito, 103, 105, 114, 125, 131, 143, 144, 148, 149, 150, 181 n. 79, 191, 206, 209, 210, 211, 212, 213, 216, 234, 237, 237n, 239, 241, 243, 245, 247, 248, 265 n. 42, 275, 276, 277, 279, 280, 284, 285, 286, 287, 287n, 288, 290, 291, 292, 293, 295, 297, 298, 302n, 304, 305, 306, 307, 307n, 308, 309, 310, 313, 314, 315, 318, 320, 321, 322, 323, 327, 332, 333, 341 n. 26, 343 n. 32, 344 n. 34, 38 e 39 Spirito Santo, 105, 108, 116, 126, 145, 146, 148, 150, 153, 156 n. 6, 203, 204, 210, 211, 228, 255 n. 14, 265 n. 42, 269 n. 54, 293, 295, 307, 333, 341 n. 26 e 27, 342 n. 29 spirituale, 84, 112, 113, 125, 131, 137, 140, 141n, 147, 148, 150, 153, 165 n. 33, 167 n. 41, 168 n. 45, 170 n. 49, 171 n. 52, 172 n. 57, 174 n. 61, 181 n. 79, 196, 204, 215, 219, 221, 222, 227, 229, 234, 236, 238, 241,
246, 247, 261 n. 31, 272 n. 62, 266 n. 45, 278, 284, 285n, 287, 289, 292, 293, 295, 304, 309, 310, 313, 314, 315, 316, 317, 318, 318n, 319n, 320, 321, 322, 322n, 328, 331, 332, 341 n. 24 e 26, 342 n. 30, 343 n. 32, 346 n. 45, 46 e 48, 349 n. 55 stenografo, 274 stile, 268 n. 52, 292n, 313, 334 n. 2 e 3, 335 n. 6, 345 n. 41, 347-348 n. 52 stoltezza, 98, 144, 184, 187, 196, 275, 281 storia, 114n, 232, 241, 259 n. 25, 262 n. 31, 286, 295, 297, 310n, 311 strategia (di Paolo), 131, 161 n. 20, 163 n. 31, 221, 222, 267 n. 49, 269 n. 55 superbia, 185, 314 superstizione, 137, 146, 149, 207, 213, 266 n. 44 terreno, 112, 113, 137, 165 n. 33, 341 n. 27, 342 n. 28, 347 n. 51 testamento, 197, 257 n. 19 Tetrade, 100, 110n Titani, 145 torture, 102, 315 traduttore (latino), 122, 277, 283, 309, 310 traduzione, 95n, 96n, 109, 122n, 163 n. 27, 164 n. 32, 166 n. 37, 189n, 197, 208, 225n, 226n, 231n, 256 n. 15, 257 n. 19, 265 n. 41, 337 n. 12, 342 n. 30 trasgressione, 199, 200 tribunale, 134, 319 trinità, 210, 265 n. 42, 313 tutore, 202, 205, 206, 206n, 210, 212, 213, 261-262 n. 31
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INDICE DELLE COSE NOTEVOLI
ubriachezza, 286, 302, 303 umiltà, 122, 171 n. 55, 176 n. 66, 220, 222, 249
virtù, 97, 112, 113, 141, 144, 146, 150, 151, 152, 185, 186, 189, 190, 194, 196, 200, 216, 223, 226, 227, 228, 245, 248, 249, 263 n. 35, 275, 279, 289, 297, 299, 304, 305, 306, 307, 308, 310, 311, 312, 314, 316, 317, 318, 320, 321, 343 n. 32, 345 n. 41, 346 n. 46, 347-348 n. 52 vizio, 186, 202, 223, 241, 248, 249, 253 n. 11, 263 n. 35, 297, 298, 299, 300, 300n, 302n, 303, 304, 305, 308, 309, 310, 311, 314, 321, 324, 328, 341 n. 26, 343 n. 32, 344 n. 38, 346 n. 46 volontà, 94, 95, 96, 97, 98, 110, 142, 147, 201, 230, 238, 241, 243, 253 n. 11, 282, 294 Vulgata, 95n, 154n, 160 n. 16, 174 n. 62, 198n, 231n, 271 n. 61, 286, 309
vedova, 85-86 n. 2, 86 n. 3 vedovanza, 312, 348 n. 52 veneficio, 286, 299, 303 verecondia, 298 vergine, 85 n. 2, 86 n. 3, 105, 208, 216, 296, 312, 315, 325 verginità, 118, 169, 171 n. 51, 208n, 302, 312, 342 n. 30, 343 n. 33, 347 n. 51, 348 n. 52 verità, 84, 103, 106, 124, 125, 126, 129, 130, 132, 133, 151, 172 n. 56, 173 n. 59, 207, 211, 216, 217, 224, 225, 231, 235, 247, 248, 276, 277, 279, 281, 284, 287, 287n, 293, 295, 296, 299, 311, 327, 332, 333, 339 n. 20, 341 n. 26, 342 n. 29 e 30, 348 n. 52 vescovo, 119, 136, 170 n. 50 e 51, 220, 302n Vestali, 325 Vetus Latina, 160 n. 16, 166 n. 37, 225n, 345 n. 42
zelo, 111, 147, 150, 218, 226, 228, 266 n. 46, 268 n. 53, 300, 301, 302 zetetico, 155 n. 3, 181 n. 78, 270 n. 57, 344 n. 38, 345 n. 44
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INDICE DEI NOMI ANTICHI E MODERNI
Abacuc, 150n, 189 Abdenego, 193-194n Abele, 154, 165 n. 33, 228 Abimelech, 133, 133n Abramo, 18, 19, 31, 48, 65, 117, 137, 138, 147, 151, 152, 153, 154, 178 n. 71, 181 n. 82 e 84, 196, 198, 198n, 199, 200, 201, 204, 205, 214, 232, 233, 234, 235, 236n, 237, 237n, 238n, 240, 245, 249, 250, 259-260 n. 25, 260 n. 26, 299, 321, 323 Acab, 102, 133, 194n Acaz, 118n Achimelech, 133n Achis, 133n Achitofel, 141n Adamo, 156 n. 6, 165 n. 33, 192, 195, 205, 253 n. 10 Adkin, N., 86 n. 4, 87 n. 5, 343 n. 33 Africa, 184, 251 n. 1 Africani, 187 Afrodisiadi, 184, 252 n. 5 Agar, 30, 117, 233, 235, 236, 237, 270 n. 59 Agenore, 184 Aggeo, 200, 200n, 327 Agostino, 7, 8, 38, 42n, 82n, 84n, 91 n. 16, 92 n. 17, 93 n. 19,
133n, 135n, 173 n. 58, 175 n. 64, 176 n. 66, 178-179 n. 72, 179 n. 74, 180 n. 77, 181 n. 82 e 84, 253-254 n. 11, 255 n. 12 e 13, 156 n. 14, 257258 n. 20, 260 n. 25 e 26, 265 n. 43, 268 n. 53, 348 n. 53 Albina (madre di Marcella), 9, 81, 85 n. 1-2, 87-88 n. 5 Alessandria, 51, 258-259 n. 21, 339 n. 20, 340 n. 22 Alessandro (eretico), 82, 91 n. 14 Alfeo, 169 n. 48, 170 n. 50 Algeria, 251 n. 2 Amacker, R., 35n Amàn, 193, 194n Ambrogio, 7, 12n, 13n, 194n, 271 n. 61, 343 n. 33 Ambrosiaster, 12, 12n, 13, 13n, 14, 14n, 15, 15n, 16, 17, 17n, 18, 18n, 19, 20, 20n, 21, 21n, 22, 24, 26, 42, 42n, 43, 43n, 44, 58, 63, 88 n. 7, 91 n. 16, 93 n. 19, 156 n. 7, 158 n. 11 e 12, 163 n. 28, 164 n. 32, 165 n. 34, 166 n. 37, 168 n. 43, 170-171 n. 51, 172 n. 56 e 58, 173 n. 60, 174 n. 62, 176 n. 65 e 66, 178 n. 71 e 72, 179 n. 74, 181 n. 85, 226n, 256 n. 16, 257 n. 17,
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INDICE DEI NOMI ANTICHI E MODERNI
Assiri, 152 Assuero, 194n Atene, 143 Ateneo (di Naucrati), 102n, 273 Ateniesi, 235 Augusto, 328 Aulisa, I., 259 n. 21 Aventino, 9, 10, 11, 12, 17, 85 n. 2, 86 n. 3 Azaria, 193
259 n. 24, 259-260 n. 25, 260 n. 26, 261 n. 28, 261-262 n. 31, 264 n. 40, 265-266 n. 43, 266 n. 44 e 47, 268 n. 53, 270 n. 59, 271 n. 61, 337 n. 11 e 12, 339 n. 21, 348 n. 53 e 54 Ammaniti, 100, 144, 160 Anania, 193 Ancira, 49, 186 Anna (profetessa), 238 Anonimo (di Budapest), 42n Antin, P., 251 n. 2 e 7 Antiochia, 40, 42, 46, 47, 90 n. 13, 93 n. 19, 95n, 123, 125, 131, 132n, 135, 135n, 174 n. 63, 175 n. 64, 177 n. 66, 178 n. 70, 267 n. 49, 269 n. 55 Antioco IV Epifane, 193, 193n Apelle, 62, 63, 105, 105n Apollinare (di Laodicea), 28, 91 n. 14, 157 n. 8 e 9 Apollo, 301, 326 Aquila (traduttore biblico), 19, 50, 50n, 101, 187, 187n, 189, 192, 257 n. 19, 333 Aquitania, 185 Arabia, 114, 115, 116, 117, 121, 167 n. 39 e 40, 236, 237 Arato (di Soli), 235 Ariani, 8 Ario (d’Alessandria), 63, 63n, 64, 88 n. 8, 278 Aristarco (di Samotracia), 142n Aristone (di Pella), 259 n. 21 Aristotele, 275 Aronne, 188, 228, 246n, 300, 300n Artotiriti, 186n, 255 n. 13, 255-256 n. 14 Ascodrobi, 186, 255 n. 13 Asella, 20n Aser, 211 Asia Minore, 116, 347 n. 51 Aspro (Emilio), 27 Assalonne, 307
Baal, 133 Babilonesi, 144, 152 Babilonia, 286 Baleari, 184, 252 n. 6 Bammel, C. P., 27n, 28n, 34n, 38n, 91 n. 14, 337 n. 9 Barnaba, 115, 121, 122, 123, 125, 127, 128, 130, 131 Bartimeo (figlio di Timeo), 211 Bāšān, 92 n. 18 Basilide, 62, 65, 108, 163 n. 26 Bastiaensen, A., 265 n. 43 Batanaia, 93 n. 18 Bataneote (Porfirio), 92 n. 18 Belia, 303 Betlemme, 8, 9, 22, 59, 85 n. 2, 86 n. 3 Blesilla (amica di Girolamo), 9 Borboriani, 253-254 n. 11 Borboriti, 62, 186, 253-254 n. 11 Borgo, A., 261 n. 29 Borzì, S., 259 n. 21 Bouton-Touboulic, A.-I., 26n, 256 n. 15 Brown, D., 12n Bucchi, F., 23n, 34n, 257 n. 19 Cain, A., 12n, 13n, 17n, 22n, 30n, 62n, 86 n. 2, 88 n. 7, 96n, 100n, 108n, 159 n. 15, 162 n. 22, 179-180 n. 75, 223n, 229n, 267 n. 48, 290n, 291n, 292n, 298n, 333 n. 1, 340 n. 23, 348 n. 52
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INDICE DEI NOMI ANTICHI E MODERNI
n. 65, 178 n. 72, 180 n. 76 e 77, 262 n. 33, 264 n. 36, 265 n. 43, 268 n. 53, 269 n. 55, 338 n. 16, 348 n. 53 Corinzi, 43n, 49, 60, 62, 119, 130, 148, 150, 185, 197, 210, 243, 275, 277, 314, 322, 326, 331, 332n, 333 Cornelio (centurione), 126, 129, 134, 146 Cornelio (Papa), 268 n. 54 Costantinopoli, 64 Cracco Ruggini, L., 40n Cretesi, 143, 235 Crisippo (di Soli), 113, 166 n. 36
Caino, 165 n. 33, 195, 228 Caldei, 152, 286 Calpe (monte), 184, 252 n. 4 Canaan, 195 Canellis, A., 343 n. 35, 344 n. 37 Carneade, 166 n. 36 Cartagine, 184, 251 n. 2, 253 n. 9, 302n Carteia, 184, 252 n. 3 Cassiano (Giulio, encratita), 61, 322, 322n, 323n, 346 n. 50, 347 n. 51 Catafrigi, 186, 252 n. 9, 254-255 n. 12, 255 n. 13, n. 14 Cavallera, F., 22n Cefa (Pietro), 117, 134, 135, 136, 177 n. 67, 301, 326 Celso, 104n, 258 n. 21 Cencre, 132, 214 Cesare, 124, 143n, 328 Cesarea, 23, 24, 115, 143, 168 n. 42 Chersa (isola), 252 n. 5 Cicerone, 102n, 109, 110, 143n, 144n, 161 n. 18, 163 n. 27, 180 n. 75, 274, 305n, 310, 312n, 313n, 331n, 334 n. 2 e 3, 337 n. 10, 344 n. 36 e 37, 344-345 n. 40, 345 n. 41 Cilicia, 95n, 120, 121 Cipriano, 62n, 96n, 267 n. 48, 290n, 291n, 301n, 302n, 333 n. 1, 343 n. 33 Clemente Alessandrino, 177 n. 67, 322n Clemente Romano, 117, 168 n. 42 Cleofa, 169 n. 48 Cocchini, F., 39, 39n, 134n, 175 n. 64, 177 n. 67 Cola, S., 39 Colossesi, 60, 207, 217, 326 Conring, B., 87 n. 5 Cooper, S. A., 43n, 89 n. 8 e 9, 157 n. 7, 166 n. 37, 169 n. 46, 172 n. 56, 174 n. 61, 175-176
Dalmati, 143, 179 n. 75 Damasco, 106, 110, 114, 115, 116, 117, 121, 167 n. 39 e 40 Damaso (Papa), 11, 12, 12n, 13, 13n, 14n, 18, 20, 21n, 22, 26n, 40n, 42, 64, 155 n. 4 Daniele (profeta), 148, 286, 319, 330 Darnah, 252 n. 5 Davide (re), 112, 126, 133, 133n, 141n, 148, 201, 286, 307 Decio (imperatore), 268 n. 54 Demetriano, 210, 265 n. 42 Demostene, 274 Di Santo, E., 13n, 14n, 15n, 16, 16n, 17n, 19n, 20n, 40n, 88 n. 7, 164 n. 32, 171 n. 51, 262 n. 32, 263 n. 34 Didimo (il Cieco), 22n, 28, 40, 41n, 43n, 91 n. 14 Diodoro Siculo, 252 n. 6 Diogene Laerzio, 102n, 161 n. 18 Dionisio (di Eraclea), 101n, 102, 161 n. 18 Donato (Elio), 27, 27n, 127n, 158 n. 12, 334 n. 2, 335 n. 5 Doutreleau, L., 22n Duval, Y.-M., 11n, 20n, 21n, 25n, 27n, 30n, 161-162 n. 21, 169
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INDICE DEI NOMI ANTICHI E MODERNI
n. 3 e 4, 87 n. 5, 139n, 185, 273, 337 n. 9, 343 n. 33 Eutropio, 325n Eva, 170 n. 49, 253 n. 10 Evangelo (destinatario di Girolamo), 19 Ezechia, 118 Ezechiele (profeta), 108, 140, 190, 190n, 273
n. 47, 178 n. 69, 179 n. 75, 343 n. 33 Ebione, 61, 61n, 63, 64, 96, 97, 107, 156 n. 6, 157 n. 8, 164 n. 32, 193, 246, 257 n. 20 Ebioniti, 61n, 63, 64, 65, 156 n. 6, 157 n. 8, 164 n. 32 Ebrei, 95, 100, 110, 135, 195, 207, 239, 306, 308, 349 n. 56 Ecclesiaste, 189, 333 Efesini, 7, 23 Efeso, 325 Egitto, 18, 139, 140, 153, 199, 214, 217n, 243, 286, 292, 322n Egiziani, 139, 144, 152, 242n, 286 Eleazaro, 193, 193-194n Elia, 228 Elvidio, 13, 20n, 58, 169 n. 47, 170 n. 51 Encratiti, 61, 322, 347 n. 51 Enea, 100, 184 Enoch, 102, 200 Enos, 154, 154n Epafrodito, 119 Epicuro, 59, 263 n. 35 Epifanio (di Salamina), 61n, 93 n. 18, 159 n. 14, 165 n. 33, 168 n. 42, 253 n. 10 e 11, 254-255 n. 12, 255 n. 13, 255-256 n. 14, 269 n. 54 Epimenide (poeta), 143, 235 Erode, 170 n. 50 Erodoto, 252 n. 3 e 5 Esaù, 99, 112, 113 Ester, 194n Euripide, 180 n. 75 Eusebio (d’Emesa), 28, 38n, 40, 82, 82n, 91 n. 14 Eusebio (di Cesarea), 64n, 96n, 120n, 156 n. 6, 164 n. 32, 169 n. 48, 177 n. 67, 322n, 339 n. 20 Eustochio (amica di Girolamo), 9, 22, 23, 24, 55, 56, 81, 86
Fares, 198 Feliciana (amica di Girolamo), 10 Felicita (amica di Girolamo), 10 Filastrio (di Brescia), 61n, 253 n. 9, 253-254 n. 11, 254-255 n. 12, 255-256 n. 14 Filemone, 7, 9, 23, 81 Filippesi, 119 Filumene (seguace di Apelle), 105 Filone di Alessandria, 237n Focea, 252 n. 3 Focesi, 184 Fotino, 61, 64, 96, 97, 107, 157 n. 8, 164 n. 32 Frigi, 143, 179-180n. 75 Frigia, 253 n. 9, 254 n. 12 Fürst, A., 8n, 10n, 12n, 26n, 39n, 40n, 41n, 47n, 49n, 85 n. 1, 86 n. 2, 3 e 4, 88 n. 6, 91 n. 14, 167 n. 40, 173 n. 59, 175 n. 65, 177 n. 66, 256 n. 15, 335 n. 4 Galati, 7, 23, 28, 32, 45, 48, 49, 50, 51, 52, 59, 60, 84, 84n, 92 n. 17, 95, 97, 102, 103, 104, 110, 120, 122, 124, 125, 126n, 143, 144, 144n, 145, 146, 148, 149, 150, 155 n. 3 e 4, 158 n. 11, 164 n. 31, 171 n. 55, 172 n. 56, 183, 184, 185, 186, 187, 187n, 197, 198, 207, 213, 213n, 216, 220, 221, 222, 223, 225, 227, 228, 231, 233, 239, 242, 242n,
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INDICE DEI NOMI ANTICHI E MODERNI
244, 265-266 n. 43, 266 n. 46, 267 n. 49, 269 n. 55, 273, 279, 280, 281, 326, 327, 328, 338 n. 17, 346 n. 48 Galazia, 45, 49, 95, 97, 103, 126, 184, 186, 242, 255 n. 13, 282 Galli, 183, 184, 185 Gallogreci, 144n Gallogrecia, 184 Gamaliele, 240 Gat, 133n Gaudemet, J., 261 n. 29 Gazareni, 286n Geenna, 283 Gellio, 166 n. 36, 335 n. 5 Geremia, 111, 231, 327 Gerico, 105 Gerusalemme, 52, 95, 95n, 107, 115, 116, 117, 118n, 119, 120, 120n, 121, 122, 123, 124, 125, 130, 131, 132, 134, 135, 154 n. 1, 167 n. 40, 168 n. 41, 169 n. 48, 170 n. 50 e 51, 203, 213, 214, 217, 225, 236, 237, 244, 245, 246n, 325 Gesù (figlio di Nun), 96 Gezabele, 102, 194, 194n Giacobbe, 99, 99n, 112, 113, 153, 178 n. 71, 200, 228, 323 Giacomo, 45, 46, 84, 95, 113, 115, 118, 119, 120n, 121, 127, 128, 129, 130, 131, 134, 135, 154 n. 1, 162 n. 23, 164 n. 32, 166 n. 38, 169 n. 48, 170 n. 50, 170-171 n. 51, 172 n. 58, 176 n. 66, 250, 280 Giasone (ebreo), 193, 258-259 n. 21 Gibilterra, 252 n. 3 e 4 Giligami, 252 n. 5 Ginnasie (isole), 184, 252 n. 6 Giobbe, 119, 145, 195, 319, 320 Giona, 215 Giordano (fiume), 92 n. 18, 152, 196, 209, 264 n. 40
Giosuè, 105, 152, 195 Giovanni (evangelista), 99, 105, 113, 115, 119, 121, 126, 127, 128, 129, 130, 134, 135, 139, 151, 166 n. 38, 170 n. 49 e 50, 172 n. 58, 215, 280, 325, 330 Giovanni Battista, 95, 209 Giovanni Crisostomo, 92 n. 18, 175 n. 64, 348 n. 54 Gioviniano, 16, 20n, 59, 325n Girolamo, 7, 8, 8n, 9, 9n, 10, 10n, 11, 11n, 12, 12n, 12-13n, 13, 14, 14n, 15, 15n, 16, 17, 17n, 18, 18n, 19, 19n, 20, 20n, 21, 22, 22n, 23, 23n, 24, 24n, 25, 25n, 26, 26n, 27, 27n, 28, 29, 29n, 30, 31, 32, 33, 34, 34n, 35, 35n, 36, 37, 38, 38n, 39, 39n, 40, 41, 41n, 42, 42n, 43, 43n, 44, 45, 46, 47, 48, 48n, 49n, 50, 51, 52, 53, 54, 55, 55n, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 61n, 62n, 63, 64, 65, 66, 81n, 82n, 84n, 85 n. 1, 85-86 n. 2, 86 n. 3 e 4, 87-88 n. 5, 88 n. 7 e 8, 90 n. 11 e 12, 91 n. 15, 92 n. 17, 93 n. 18 e 19, 95n, 99n, 100n, 101-102n, 107n, 108n, 114n, 118n, 120n, 122n, 126n, 127n, 132n, 133n, 134n, 135n, 139n, 140n, 141n, 142n, 143n, 144n, 145n, 151n, 154n, 154 n. 1, 155 n. 4, 156 n. 5 e 6, 157 n. 7, 8 e 9, 158 n. 10 e 12, 159 n. 14, 160 n. 16, 161 n. 18, 19 e 20, 160-161 n. 21, 163 n. 26, 27 e 29, 164 n. 32, 165 n. 35, 166 n. 37, 167 n. 39 e 40, 168 n. 42 e 44, 169 n. 45, 46 e 47, 170 n. 49, 50 e 51, 171 n. 52, 53, 54 e 55, 172 n. 56 e 58, 173 n. 59 e 60, 174 n. 61, 62 e 63, 175 n. 64, 176 n. 66, 177 n. 67, 68 e 69, 178 n. 70, 71
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INDICE DEI NOMI ANTICHI E MODERNI
e 72, 179 n. 74, 179-180 n. 75, 180 n. 77 e 78, 181-182 n. 85, 185n, 187n, 189n, 190n, 192n, 194n, 197n, 198n, 200n, 206n, 208n, 213n, 216n, 217n, 226n, 237n, 238n, 242n, 245n, 251 n. 1, 252 n. 7, 254 n. 11, 255 n. 12 e 13, 256 n. 16, 257 n. 19, 257-258 n. 20, 258 n. 21, 259 n. 22, 24 e 25, 260 n. 26, 261 n. 27 e 30, 261-262 n. 31, 262 n. 33, 263 n. 35, 264 n. 36, 39 e 40, 265 n. 41, 42 e 43, 266 n. 46 e 47, 267 n. 49, 268 n. 52, 268-269 n. 54, 269 n. 55, 270 n. 57, 58, 59 e 60, 271 n. 61, 271-272 n. 62, 273n, 282n, 284n, 286n, 292n, 296n, 300n, 301n, 303n, 305n, 306n, 307n, 309n, 318n, 325n, 334 n. 2 e 3, 335 n. 4, 5 e 6, 336 n. 7 e 9, 337 n. 10, 11, 12 e 13, 338 n. 14 e 17, 338-339 n. 18, 339 n. 20, 339-340 n. 21, 340 n. 24 e 25, 341 n. 26 e 28, 342 n. 30 e 31, 343 n. 32, 33 e 34, 344 n. 36, 37, 38, 39 e 40, 345 n. 42, 43, 45 e 46, 346 n. 50, 347 n. 52, 348 n. 53, 54, 55 e 56 Giuda (figlio di Giacobbe), 285 Giuda (Iscariota), 142 Giuda (detto Barsabba), 119 Giuda (epistola di), 139 Giuda (Zelota), 228 Giudea, 84, 105, 120, 121, 122, 128, 154 n. 1, 278, 279, 280 Giudei, 40n, 47, 51, 52, 64, 65, 84, 94, 95, 106, 107, 123, 124, 128, 129, 131, 132, 134, 147, 148, 149, 152, 164 n. 32, 178 n. 70, 188, 193, 194, 194n, 198, 214, 219, 225, 231, 234, 240, 241, 244, 245, 259 n. 22, 260 n. 26, 280, 281, 296, 315, 328, 331
Giuliano (d’Eclano), 42n Giuliano (l’Apostata), 40, 40n Giulio Cassiano (encratita), 322, 322n Giulio Tossozio, 86 n. 3 Giunone, 325, 325n Giuseppe (figlio di Giacobbe), 228, 286, 300, 300n Giuseppe (padre di Gesù), 58, 170-171 n. 51, 208 Giustina (imperatrice), 8 Gnostici, 51, 60, 62n, 63, 105n, 253 n. 10 e 11, 261 n. 30, 338 n. 13, 339 n. 19, 345 n. 43 Greci, 24, 40n, 82, 109, 144, 184, 186, 196, 209, 252 n. 3, 264 n. 39, 300, 301 Grecia, 186 Grützmacher, G., 34n Hamblenne, P., 144n Heggelbacher, O., 15n Hennings, R., 175 n. 65, 177 n. 66 Holtz, L., 27n Hostein, A., 336 n. 7 Huelva, 251 n. 3 Hunter, D. G., 15, 15n, 20n, 21n, 169 n. 47 Ialdabaoth, 253 n. 10 Idria (monte), 184, 252 n. 4 Idumei, 144 Ieu, 133, 194 Ilario (di Poitiers), 184, 252 n. 7, 252 n. 8, 258 n. 21 Ioni, 184 Ippolito (di Roma), 159 n. 14 Ireneo (di Lione), 159 n. 14, 165 n. 33 Isacco, 151, 153, 178 n. 71, 200, 233, 234, 236, 236n, 239, 240, 241, 270 n. 57, 270 n. 59, 323 Isaia, 95, 96, 139, 145, 148, 188, 239, 273, 318
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INDICE DEI NOMI ANTICHI E MODERNI
Ismaele, 233, 234, 237, 240, 241, 270 n. 57 e 59 Ismaeliti, 242n, 243 Israele, 102, 133, 144, 152, 160 n. 16, 198, 199, 217n, 240, 244, 251, 277, 298, 299, 331 Israeliti, 299 Italia, 8, 184, 252 n. 3 Izreèl, 194, 194n
Macedonia, 186 Madianiti, 105, 242n, 243, 299 Magna Grecia, 184 Mani, 61, 157n. 8 Manichei, 20n, 33, 97, 156 n. 7, 186, 238 Mar Rosso, 81, 242 Mara, M. G., 42n Marcella (amica di Girolamo), 9, 9n, 10, 11, 13, 17, 23, 24, 55, 81, 81n, 85 n. 1 e 2, 86 n. 3, 87 n. 5, 349 n. 56 Marcellina (amica di Girolamo), 10 Marcione, 20n, 33, 61, 61n, 62, 62n, 63, 65, 66, 97, 103, 105, 108, 111, 145, 151, 151n, 157 n. 8, 158 n. 10, 161 n. 19, 178 n. 71, 181 n. 81, 191, 208, 238, 264 n. 36, 270 n. 60, 283, 320, 339 n. 19, 347 n. 49 Marcioniti, 33, 61n Mardocheo, 194, 194n Maria (Vergine), 13, 58, 59, 118, 169 n. 47 e 48, 170 n. 49, 171 n. 51, 296, 342 n. 30, 347 n. 50 Maria (di Magdala), 169 n. 48 Maria (sorella di Mosè e Aronne), 228, 300, 300n, Mario Vittorino, 24, 27, 27n, 28, 42, 42n, 43, 43n, 44, 63, 82, 88 n. 8, 89 n. 9, 91 n. 16, 92 n. 17, 93 n. 19, 127n, 156-157 n. 7, 158 n. 11 e 12, 163 n. 28 e 30, 164 n. 32, 166 n. 37, 169 n. 46, 170 n. 49, 170-171 n. 51, 172 n. 56, 173 n. 58, 174 n. 62, 175-176 n. 65, 176 n. 66, 178 n. 70 e 72, 179 n. 74, 180 n. 76 e 77, 181 n. 80 e 84, 181-182 n. 85, 226n, 260 n. 26, 261-262 n. 31, 262 n. 33, 264 n. 39, 265 n. 43, 266 n. 47, 267 n. 49 e 50,
Jay, P., 8n, 9n, 10, 10n, 23n, 27n, 41n, 61n Jeanjean, B., 33n, 61n, 62, 62n, 64, 64n, 156-157 n. 7, 157 n. 8, 157 n. 9, 158 n. 10, 159 n. 14, 161 n. 20, 162 n. 22 e 25, 163 n. 26, 164 n. 32, 165 n. 33, 255 n. 13, 257 n. 18, 269 n. 54, 347 n. 49 Jeffers, A., 286n Junod, É., 35n Kelly, J. N. D., 11n, 14n, 24n Labano, 99n Lardet, P., 155 n. 4 Lassandro, D., 336 n. 7 Lattanzio, 48, 62n, 183, 251 n. 1, 265 n. 42, 267 n. 48, 292n Laurence, P., 10n, 11n, 22n Le Boulluec, A., 271 n. 62 Letsch-Brunner, S., 9n, 17n, 86 n. 2, 87 n. 5 L‘Huillier, M.-C., 336 n. 7 Lia, 99n Libero, 184 Libia, 184, 252 n. 5 Livio, 143n Luca, 115, 116, 135, 136, 270 n. 60, 339 n. 19 Lucifero, 104 Lunn-Rockliffe, S., 14n, 17n Maccabei, 193n, 194n Macedoni, 49, 186
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INDICE DEI NOMI ANTICHI E MODERNI
268 n. 53, 270 n. 59, 271 n. 61, 334 n. 2, 337 n. 10, 11,12 e 13, 339 n. 21, 348 n. 53 e 54 Maritano, M., 23n, 25n, 27n, 28n, 155 n. 3, 181 n. 83 Marsiglia, 184 Masaracchia, E., 40n Massimiliano (martire), 251 n. 2 Massimilla (seguace di Montano), 252 n. 9 Mattatia, 228 Matteo, evangelista, 201, 208 Mauri, 143, 179 n. 75 Mause, M., 336 n. 7 Mazzoli, G., 345 n. 40 Mediterraneo, 48 Melchisedech, 19, 244 Menandro, 235 Menestrina, G., 27n, 37n, 161 n. 21, 174 n. 62, 177 n. 66 Mesàch, 193-194n, Mesech, 211 Messina, M. T., 344 n. 37 Micunco, G., 336 n. 7 Milano, 8 Milazzo, V., 27n Misaele, 193 Moabiti, 100, 144, 160 n. 16 Monaci Castagno, A., 55n Montano, 252-253 n. 9, 254 n. 12, 255 n. 13 e 14 Moreschini, C., 27n, 37, 37n, 38n, 39n, 41n, 93 n. 19, 135n, 161 n. 21, 166 n. 38 Mosè, 50, 95, 95n, 96, 107, 109, 119, 122, 124, 126, 138, 147, 156 n. 6, 188, 189, 198, 198n, 199, 200, 202, 206, 206n, 207, 212, 213, 214, 215, 218, 226, 228, 229, 238, 242, 244, 245, 246n, 249, 258 n. 20, 266 n. 43, 271-272 n. 62, 276, 286, 295, 296, 296n, 300, 307, 311, 342 n. 29
Nabot, 194, 194n, 195 Nabucodònosor, 193, 193n Nautin, P., 8n, 12n, 22n, 34n, 37, 37n, 85 n. 2, 87 n. 5, 90 n. 11, 339 n. 20 Nerezio Cereale, 85 n. 2 Nicomaco Flaviano, 40n Nixon, C. E. V., 336 n. 7 Noè, 200, 286, 319 Novaziano, 268-269 n. 54 Oceano, 265 n. 42 Ofiti, 62, 186, 253 n. 10 Omero, 142n Orazio, 313n Origene, 11, 12, 13n, 17, 23, 24, 28, 29, 29n, 30, 33, 34, 35, 35n, 36, 37, 38, 38n, 39, 40, 41n, 42, 44, 49n, 51, 54, 55n, 61n, 62, 63, 82, 84n, 90 n. 10, 11 e 12, 91 n. 14, 92 n. 18, 96n, 104n, 107n, 114n, 145n, 146n, 156 n. 6, 158 n. 12, 161 n. 19, 161-162 n. 21, 164 n. 32, 168 n. 42 e 45, 175 n. 64, 177 n. 69, 178 n. 70, 180 n. 77, 187n, 236n, 239, 258 n. 21, 259 n. 22, 261 n. 27 e 30, 263 n. 35, 264 n. 38, 271 n. 61, 271-272 n. 62, 284, 284n, 285n, 287, 287n, 297, 308, 309n, 337 n. 11, 338 n. 14 e 17, 339 n. 18, 20 e 21, 340 n. 22 e 24, 341 n. 25 e 28, 342 n. 31, 343 n. 32 e 33, 343344 n. 34, 344 n. 38, 345 n. 45, 346 n. 46 Osea, 140, 194 Otranto, G., 259 n. 21 Overbeck, F., 173 n. 59 Pacato Drepanio, 336 n. 7 Paczkowski, M. C., 41n, 90 n. 13 Palestina, 22, 86 n. 3, 140, 152 Pammachio, 265 n. 42
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INDICE DEI NOMI ANTICHI E MODERNI
Panfilo (di Cesarea), 23, 35, 96n, 261 n. 27, 264 n. 38 Paola (amica di Girolamo), 9, 10, 11, 13, 22, 22n, 23, 24, 55, 56, 81, 86 n. 3 e 4, 87 n. 5, 139n, 185, 273, 337 n. 9 Paolina (amica di Girolamo), 86 n. 3 Paolo (apostolo), 7, 23, 24, 28, 31, 32, 33, 34, 36, 37, 38, 39, 40, 40n, 42n, 43n, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 52, 53, 55, 56, 59, 60, 61, 62, 63, 66, 81, 82, 83, 84, 84n, 92 n. 17, 93 n. 19, 94, 95, 95n, 96, 101, 101n, 102, 104, 105, 105n, 106, 107, 108, 109, 110, 111, 115, 116, 117, 118, 121, 121n, 122, 123, 124, 125, 126, 126n, 127n, 128, 129, 130, 131, 132, 132n, 133, 134, 135, 135n, 136, 137, 138, 139, 144, 147, 154 n. 1, 156 n. 7, 158 n. 10, 161 n. 20, 162 n. 23 e 24, 163 n. 28, 29 e 31, 166 n. 37 e 38, 167 n. 41, 170 n. 49 e 50, 170-171 n. 51, 171 n. 54 e 55, 172 n. 56 e 58, 173 n. 59 e 60, 176 n. 66, 177 n. 68, 178 n. 70 e 71, 179 n. 73 e 74, 181 n. 81, 182 n. 85, 183n, 186, 194n, 197, 203, 207, 208, 210, 214, 221, 228, 231, 233, 235, 236, 238, 243, 248, 257 n. 19, 259 n. 25, 262 n. 31, 263 n. 33, 265-266 n. 43, 266 n. 44, 46 e 47, 267 n. 49, 269 n. 55, 270 n. 57 e 60, 271 n. 61, 277, 278, 279, 280, 281, 282, 282n, 283, 285, 285n, 287, 288, 291, 296, 303, 306n, 313, 315, 317, 319n, 320, 322n, 323, 326, 327, 329, 332n, 333, 338 n. 14, 339 n. 18 e 19, 340 n. 22, 343 n. 33, 345 n. 41, 348 n. 55
Papisco (ebreo), 193, 258-259 n. 21 Passalorinciti, 186, 254-255 n. 12, 255 n. 13 Pelagio, 42 Pepuza, 255 n. 14 Pepuziani, 255 n. 14 Perrone, L., 27n, 29n, 40n, 55n Pesce, M., 17n Petronio, 166 n. 36 Pieri, F., 8n, 23n, 27n, 34, 34n, 35n, 284n Pietro (apostolo), 38, 39, 40, 40n, 44, 45, 46, 47, 48, 52, 84, 84n, 92 n. 17, 93 n. 19, 94, 95, 105, 108, 110, 113, 114, 115, 116, 117, 118, 120, 121, 122, 126, 127, 128, 129, 130, 131, 132, 132n, 133, 134, 135, 135n, 136, 137, 141, 143, 154 n. 1, 162 n. 23, 163 n. 29, 166 n. 38, 168 n. 42 e 43, 169 n. 48, 172 n. 58, 173 n. 59 e 60, 176 n. 66, 177 n. 67 e 68, 178 n. 70, 179 n. 73, 220, 242, 266 n. 46, 279, 279, 280, 338 n. 14 Pilato, 142 Pincas, 228 Pirenei, 184 Pittavi, 184 Platone, 235, 275 Plinio (il Giovane), 336 n. 7 Plinio (il Vecchio), 335 n. 5 Plotino, 337 n. 10 Plumer, E., 89 n. 8, 9 e 10, 90 n. 12, 176 n. 66, 180 n. 77 Polemone, 274 Pollastri, A., 337 n. 11 Porfirio (di Tiro), 38, 39, 40, 41, 46, 84, 84n, 92 n. 18, 93 n. 19, 113, 135, 135n, 136, 166 n. 38, 174 n. 63, 175 n. 65, 337 n. 10, 338 n. 14, 339 n. 18 Pretestato (Vettio Agorio), 40n
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INDICE DEI NOMI ANTICHI E MODERNI
Principia (amica di Girolamo), 10 Priscilla (seguace di Montano), 252 n. 9, 255 n. 14 Priscillianisti, 254 n. 13 e 14 Pseudo-Cipriano, 258 n. 21
Sabatier, P., 160 n. 16, 225n Sadducei, 62 Sadràch, 193-194n Sagunto, 184 Sallustio, 179-180 n. 75, 292n Salomone, 130, 145, 215, 305, 311 Sara, 30, 117, 151, 233, 234, 236, 238, 238n, 240, 270 n. 59 Satana, 20n, 195, 223, 312, 331 Saul, 307 Saulo, 116 Saylor Rodgers, B., 336 n. 7 Schatkin, M. A., 34n, 35n, 168 n. 42, 338 n. 17 Schelkle, K. H., 256 n. 16 Schiano, C., 259 n. 21 Servio, 158 n. 12 Sfameni Gasparro, G., 55n Sibilla, 183 Sidonii, 144 Sila, 95, 95n, 116, 119 Silvano, 95n, 97 Simeì, 307 Simeone (vescovo di Gerusalemme), 120, 120n Simmachiani, 64, 64n, 65, 164 n. 32, 170 n. 51 Simmaco (traduttore biblico), 50, 50n, 164 n. 32, 187, 187n, 192, 193, 257 n. 19, 333 Simmaco (Aurelio), 40n Simone (Mago), 203 Simonetti, M., 100n, 159 n. 14 Sinai, 117, 199, 236, 237, 246n Siniscalco, P., 27n Sion, 118n, 225 Siria, 95n, 120, 121, 193 Siriani, 135 Siricio (Papa), 20, 20n, 21, 21n, 22, 85 n. 2 Smolak, K., 256 n. 15 Solino (Giulio), 252 n. 4 Sostene, 97 Souter, A., 34n, 35n, 338 n. 17
Qoèlet, 99 Quintiliano, 274, 303n, 335 n. 6 Quintilla (seguace di Montano), 255 n. 14 Quintillianisti, 254 n. 12, 255 n. 13 e 14 Rachele, 99n Radice, R., 161 n. 18 Raspanti, G., 17n, 25n, 26n, 28n, 29n, 30n, 38n, 43n, 46n, 49n, 50n, 66n, 88 n. 7 e 8, 89 n. 9, 92 n. 17, 93 n. 19, 96n, 107n, 172 n. 56, 175 n. 64, 177 n. 68, 257 n. 19, 271 n. 61, 336 n. 9, 337 n. 10 Rebenich, S., 9n, 10n, 11n, 12n, 13n, 86 n. 4 Rees, R, 336 n. 7 Rico, C., 26n Rinaldi, G., 92 n. 18 Rocca, G., 169 n. 47 Rodano, 184, 252 n. 7 Rodi, 184 Roma, 7, 8, 9, 9n, 10, 13, 14, 19, 20, 20n, 21, 22, 22n, 23, 23n, 24, 26n, 27n, 42, 44, 55n, 56, 58, 82, 85 n. 1 e 2, 86 n. 3, 88 n. 5 e 6, 118, 124, 134, 136, 156 n. 5, 169 n. 47, 225, 325, 336 n. 7 e 9, 337 n. 10, 343 n. 33 Romani, 45, 49, 52, 83, 144n, 151, 184, 185, 197, 203, 243, 244, 252 n. 3, 315 Rufina (amica di Girolamo), 86 n. 3 Rufino (di Aquileia), 96n
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INDICE DEI NOMI ANTICHI E MODERNI
Spagna, 184, 251 n. 3 Stefano (martire), 106, 119, 242, 311 Stoici, 304, 306 Strabone, 251-252 n. 3 Stuiber, A., 43n Svetonio, 325n, 335 n. 5
Thomas, J.-F., 345 n. 40 Tiberio (imperatore), 166 n. 36, 328 Timoteo, 63, 97, 129, 132, 172 n. 56, 199, 245, 281, 302, 317, 343 n. 33 Tirii, 184 Tiro, 39, 46 Tito (imperatore), 7, 23, 121, 122, 124, 125, 126n, 130, 172 n. 56, 325 Traiano (imperatore), 120n, 336 n. 7 Trevett, C., 254 n. 12 Treviri, 187
Tabità, 211 Tabor (monte), 172 n. 58 Tamar, 108 Tarso, 115 Tartesso (città), 184, 251-252 n. 3 Tascodrugiti, 254-255 n. 12, 255 n. 13 Tebe, 184 Tebessa (città), 184, 251 n. 2 Teodoro (di Eraclea), 28, 82, 91 n. 14 Teodosio (imperatore), 336 n. 7, 347 n. 51 Teodozione (traduttore biblico), 50, 50n, 187, 187n, 189, 192, 257 n. 19, 333 Terenzio, 267 n. 51 Terrasanta, 7, 22, 56, 86 n. 3 Tertulliano, 13n, 58, 62, 62n, 63, 91 n. 14, 100n, 105, 108n, 156 n. 6, 158 n. 10, 159 n. 16, 161 n. 19, 161-162 n. 21, 162 n. 22, 165 n. 33, 177-178 n. 69, 179180 n. 75, 223n, 229n, 253 n. 9, 258 n. 21, 269 n. 54, 298n, 334 n. 2, 343 n. 33, 346 n. 49, 348 n. 52 e 54 Tessalonicesi, 130, 186, 326 Tessore, D., 8n, 10n, 20n
Valentiniani, 165 n. 33, 177 n. 69 Valentiniano II (imperatore), 8 Valentino, 62, 63, 100, 100n, 283 Valerio Massimo, 166 n. 36 Varrone (M. Terenzio), 183, 184 Venere, 249 Vespasiano, 325 Vesta, 325 Virgilio, 27n, 100n, 183n, 184n, 274, 334 n. 3, 335 n. 5 Vogels, H. J., 13n, 14n, 17, 17n, 21n, 24n Volgers, A., 13n, 14n Zaccaria (profeta), 200n, 316 Zacinto, 184 Zara, 198 Zebedeo, 170 n. 50 Zenone (filosofo stoico), 161 n. 18, 306 Zippora, 149, 271-272 n. 62
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