Gio Ponti. Vita e percorso artistico di un protagonista del XX secolo 8867416065, 9788867416066

Questo studio affronta i molteplici aspetti dell'attività di Gio Ponti con taglio innovativo, per fornire una nuova

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Italian Pages 136 [138] Year 2016

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Gio Ponti. Vita e percorso artistico di un protagonista del XX secolo
 8867416065, 9788867416066

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Mauro Pratesi

GIO PONTI Vita e percorso artistico di un protagonista del XX secolo introduzione di Cesare de Seta

Pratesi, Mauro Gio Ponti : vita e percorso artistico di un protagonista del XX secolo / Mauro Pratesi ; introduzione di Cesare de Seta. - Pisa : Pisa university press, 2015. (Conessioni) 720.92 (22.) I. De Seta, Cesare 1. Ponti, Gio - Architetti 2. Architetti italiani CIP a cura del Sistema bibliotecario dell’Università di Pisa

Membro Coordinamento University Press Italiane

Progetto di copertina Laboratorio di Grafica del Biennio di Arti Visive e Nuovi Linguaggi Espressivi dell’Accademia di Belle Arti di Firenze condotto da Paolo Parisi e Maurizio Di Lella. Hanno collaborato: Daniela Benucci, Dania Menafra, Livia Rei Dagostino In copertina Gio Ponti, Interno della Facoltà di Matematica, 1933-1936, La Sapienza, città universitaria, Roma Impaginazione Creative Mouse (http://www.creativemouse.it) © Copyright 2016 by Pisa University Press srl Società con socio unico Università di Pisa Capitale Sociale Euro 20.000,00 i.v. - Partita IVA 02047370503 Sede legale: Lungarno Pacinotti 43/44 - 56126, Pisa Tel. + 39 050 2212056 Fax + 39 050 2212945 e-mail: [email protected] http://www.pisauniversitypress.it ISBN 978-886741-6066 Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi - Centro Licenze e Autorizzazione per le Riproduzioni Editoriali - Corso di Porta Romana, 108 - 20122 Milano - Tel. (+39) 02 89280804 - E-mail: [email protected] - Sito web: www.cleareadi.org

A Emilio, Giorgia, Guido e Lucia

CONNESSIONI Obiettivo di questa collana è favorire connessioni tra i diversi saperi che ruotano intorno alla cultura visiva: processi culturali che hanno creato stratificazioni di conoscenze storico artistiche e teoriche rispondenti a diverse sensibilità e coinvolgenti vari ambiti, dalla museologia al design all’industria culturale. Un insieme di saperi, che oggi vengono riorganizzati in modo inedito dalla cultura digitale, sono affrontati con lo scopo di tracciarne le prospettive in maniera originale. Attraverso saggi monografici e miscellanee, la collana promuove il confronto dei punti di vista, privilegiando la relazione tra soggetti e istituzioni differenti che convergono su temi comuni di ricerca, con lo scopo di dare spazio a interrogativi provenienti dal presente e finalizzandoli, in particolare, alla didattica. Accademia di Belle Arti di Firenze Direttore: Eugenio Cecioni Comitato Scientifico: Eugenio Cecioni, Marina Carmignani, Rolando Chiodi, Franca Falletti, Giuseppe Furlanis, Mario Pagano, Paolo Parisi, Franco Speroni, Vincenzo Ventimiglia.

Indice

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Avvertenze per il lettore

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Introduzione

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GIO PONTI Vita e percorso artistico di un protagonista del XX secolo

Fig. 1. Gio Ponti, Lisa Ponti, Franco Toselli ed altri con annotazioni Lisa Ponti , foto anni ’70.

Avvertenze per il lettore

Il libro o, come avrebbe detto Ponti, il “libriccino” ha preso forma strada facendo: nato per essere pubblicato da un importante quotidiano milanese, è poi divenuto un lavoro più circoscritto e definito intorno all’opera del grande protagonista. Tenendo conto che, per svariati fattori, l’ambito degli studi di storia dell’arte e dell’architettura è andato sempre più incanalandosi in aridi specialismi e virtuosismi tecnici, vediamo come adesso nessuno rischia più di invadere territori di competenza altrui, infatti, spesso gli storici dell’arte affrontano esclusivamente, o quasi, argomenti di propria pertinenza lasciando altri temi, come, appunto in questo caso, l’architettura o il design, ai loro specialisti. È lontano il tempo in cui i nostri padri e maestri assoluti della storia dell’arte, i Longhi, i Venturi, ma anche gli Argan o i Brandi, potevano liberamente, con estro e sapienza ineguagliabile, spaziare, senza paura (anche a costo di incappare in qualche ‘ruzzolone’), da un campo all’altro. Oggi, invece, siamo confinati, anche negli insegnamenti, all’interno di campi specifici, con sigle e numeri senza fantasia. Mentre prima, ad esempio, il curatore era anche lo storico o il critico d’arte, ora sembra che siano, ormai, due figure diverse e distanti; qualche decennio fa nessuno avrebbe osato definire Palma Bucarelli, Franco Russoli o Viale Ferrero – solo per rimanere in ambito italiano, senza scomodare i vari Michel Laclotte o Kenneth Clark –, esclusivamente come dei ‘curatori’ e non, invece, come storici dell’arte, anche perché questi si sarebbero offesi e avrebbero per lo meno querelato chi li avesse appellati così. Ma, oggi, la disciplina dell’arte in genere si è perlopiù dissipata in uno specialismo insipido e sempre meno sorretto da quell’intuito e quell’occhio sensibile che i vecchi maestri avevano saputo erigere a vero magistero, magari sbagliando e rischiando, ma forse c’era più vita e sangue in quelle pagine che non nelle asettiche ed estetiche, quanto chirurgiche, paginette di adesso!

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Ricordo le innumerevoli discussioni, nel 1991, con Carmine Donzelli – allora a capo della Marsilio e non ancora editore in proprio – e con Enrico Crispolti, responsabile della collana sull’arte contemporanea in Italia per il nostro libro sulla Toscana (scritto in collaborazione con Giovanna Uzzani). Ci interrogavamo su problemi riguardanti, proprio, l’inclusione o meno nei nostri testi dello svolgimento dell’architettura, quando, infine, decidemmo di non trattare l’argomento in quanto, a mio parere, troppo specifico (anche se, ovviamente, il libro contiene abbondanti cenni di architettura). Col senno di poi, ritengo che quella scelta fu un errore, oggi sicuramente opterei per un’altra decisione. Così come ritengo sia stato uno sbaglio l’anno prima (1990) quando, con Gino Dato della Laterza e sempre con Crispolti – coautore insieme a me del libro sull’arte del disegno nel ‘900 italiano –, evitammo di includere, nell’antologia dei maestri del disegno, autori come Sant’Elia, Sottsass, Aldo Rossi, Franco Purini o Renzo Piano, indispensabili per comprendere lo sviluppo formidabile del processo creativo dell’arte del disegno. Oggi, come ho detto, agirei diversamente, essendo sempre più convinto del viscerale legame tra le arti e in particolare tra quelle, così dette, figurative e ambientali, l’architettura e il design; infatti, ad esempio, per comprendere Boccioni è indispensabile capire Sant’Elia e viceversa, così come con l’architettura radicale si comprende l’arte degli anni Sessanta e Settanta. Caso emblematico a questo riguardo è proprio quello di Gio Ponti, al quale il mio ‘libriccino’- a fronte delle monumentali e numerosissime edizioni sul suo nome fiorite negli ultimi decenni – rende omaggio e, forse, un poco di giustizia, con una lettura critica globale, anche se, per ragioni di spazio e ampiezza, manchevole di alcuni momenti riguardanti l’opera dell’artista, che avrei voluto approfondire di più. Ho lavorato alla stesura del testo, impugnando il

mentale monito del bell’elzeviro di Mendini, il quale si era chiesto, con acume allora non mercenario né sospetto, quale valutazione fare del grande personaggio, come bisognava considerare la sua figura, e rispondendo con sicurezza: come quella del «generoso» e come quella dell’«artista»; nel primo caso, volenti o nolenti Ponti è stato, per «gli architetti italiani», «il padre di tutti loro e il più generoso moltiplicatore della loro cultura» e, nel secondo caso, sempre volenti o nolenti, «per certi critici», Ponti «è stato indiscutibilmente un grande artista». E un merito di questo libro, se posso avanzare, sempre con la dovuta modestia, spero sia quello di aver reso giustizia tanto al «generoso», quanto all’«artista». Nello svolgere questo mio lavoro, che deve essere letto come una sorta di racconto critico su Ponti, ho scelto e sottolineato determinati momenti del sublime artefice, selezionandoli tra una innumerevole massa di opere e documenti – una mole davvero enorme! -, tanto che sembra sorgere spontanea la domanda su come l’autore abbia potuto realizzare in una sola vita una quantità tale di lavoro. Mi piacerebbe che il testo fosse letto, pur senza esserlo, come una specie di ‘glossario’ intorno allo stile e al linguaggio pontiano, quale frutto della scelta di uno storico e critico di arte contemporanea che ha, con un po’ di coraggio, affrontato un argomento non proprio del suo settore di competenza. Qualcuno potrà, certo, opporre che io non ci sia riuscito, ma mi sia lecito dire che almeno ci ho messo il mio spirito e occhio critico, senza avere la pretesa di aver fatto entusiasmanti nuove scoperte, ma semplicemente, quanto umilmente, di aver offerto un punto di vista, almeno spero, inedito sul grande protagonista Ponti. Alla fine di una fatica, breve o grande che sia, molte sono le persone che bisogna ringraziare, ma il rischio di dimenticare qualcuno che, inevitabilmente, è stato indispensabile, incombe. In primo luogo tengo a

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ringraziare Cesare de Seta, per aver offerto generosamente la sua brillante prefazione, allo stesso tempo ringrazio Caterina e Lisa Ponti, che con altrettanta generosità mi hanno concesso la consultazione e, poi, in parte, la pubblicazione del materiale specifico. Ringrazio Maurizio Di Lella e Paolo Parisi per l’elaborazione grafica, Franco Speroni, Giorgia, Emilio e mia moglie Lucia per i generosi consigli, ma, prevalentemente, mi attengo a ricordare il personale e le istituzioni stesse delle biblioteche fiorentine, che mi hanno accolto offrendomi assistenza e gentilezza, quali quella della Facoltà di Architettura, quella dell’Accademia, quella della Marucelliana, quella del Kunsthistorisches Institut in Florenz e della Biblioteca Centrale Nazionale, sempre di Firenze.

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HA IL PREGIO DELLA PRECISIONE E DELLA LETTURA CRITICA E IL

“DIFETTO”, DEL TUTTO GIUSTIFICATO, DI AMARE MOLTO L’OGGETTO DELLE SUE PAGINE. CROCE SCRISSE CHE SE NON SI AMAVA IL SOGGETTO DEI PROPRI INTERESSI È MEGLIO RINUNCIARCI: MI SEMBRA UNA ASSAI SAGGIA RACCOMANDAZIONE. PRATESI HA LE SUE INCLINAZIONI E MI ATTRIBUISCE UN MERITO (O UN DEMERITO?) DI CONSIDERARE PONTI UN PRECURSORE DEL POSTMODERN: MOVIMENTO CHE NON HO MAI AMATO MENTRE HO SEMPRE APPREZZATO L’OPERA DI GIO PONTI, ANCHE SENZA GLI ENTUSIASMI DI SUOI AMMIRATORI DI CUI DIRÒ PIÙ AVANTI. Già sul finire degli anni Venti, Gio Ponti (1891-1979) era un protagonista sulla scena professionale milanese. Sia perché consapevole della nuova aria che tirava nell’architettura europea, sia perché di questa svolta in atto fornì una versione moderata: senza cioè le nette prese di posizioni di un Terragni o di un Pagano. Questo suo “stile” – parola usata per la prima volta da Edoardo Persico nel ‘34 – gli consentì di affermarsi come uno dei garanti del nuovo senza per questo turbare agli ambienti tradizionalisti che dominavano l’accademia, la professione e la committenza milanese. Questo gli consentì di intrattenere rapporti di amicizia con Ugo Ojetti: dal 1930 collabora al Corriere della sera fino al 1963: gli scritti, sono stati opportunamente pubblicati dalla Fondazione. Le prime esperienze privilegiano la tradizione del neoclassico lombardo, si misurano con le eleganti porcellane per Richard Ginori a partire dal 1923 o per la villa a Garques per un facoltoso cliente. Sul finire degli anni Venti la sua voce si fa più sicura, il timbro delle sue architetture robusto. Ponti sperimenta una composizione articolata, capace di dare risposta al tema della casa borghese e a quello dell’ufficio, tema essenziale nel panorama della capitale industriale e tipologie da lui privilegiate. La casa di Via Domenichino (1930) è trattata a colori vivaci e si risolve nel tetto con una sorta di pagoda: è l’inizio di una ricerca di sicura qualità professionale.

Introduzione

NON AMO AFFATTO LE INTRODUZIONI REPLAY CHE FANNO IL VERSO A QUEL CHE DICE L’AUTORE E PER RISPETTO ALL’ANALITICO PROFILO DI MAURO PRATESI NON MI SMENTIRÒ: IL SUO TESTO

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La mostra alla Triennale di Milano Espressioni Gio Ponti (catalogo Electa con il reprint di Aria d’Italia) lo ha celebrato con una monografica labirintica, come la definisce lo stesso curatore Germano Celant. Perché Ponti ha fatto di tutto: pittore, architetto e designer, uomo d’editoria con le riviste da lui fondate “Domus” e “Stile”, scrittore. E ormai non si contano le mostre e le monografie a lui dedicate. Tutto oro quello che cola? Francamente no. Un grande professionista per tutta la sua lunga, fortunatissima carriera Gio Ponti è cosa diversa da un “genio”, qualifica che è sfuggita dalla penna dell’entusiasta corifeo in catalogo. Per questo ho apprezzato il testo di Sandro Mendini che mette a fuoco, con affetto ma anche con precisione, gli anni a cavallo della guerra: quando Ponti è costretto a guardarsi allo specchio, e vedere che molti dei suoi antagonisti in primis Pagano e Terragni avevano seguito un altro itinerario e avevano pagato con la vita il prezzo delle loro scelte. Nel palazzo della Montecatini Gio Ponti si esprime al meglio del suo talento di grande professionista sul tema da lui privilegiato dell’ufficio: la ristrettezza del lotto, non gli impedisce di dare un’articolazione propriamente urbana al complesso, che ha la possanza di una fortezza del capitalismo milanese: l’attitudine a mediare il nuovo con la città preesistente sono segno inconfondibile. Questo mi consente di aggiungere che Ponti non fu solo professionista a tutto tondo ma scrittore versatile, pubblicista, autore di volumi oggi introvabili. Ho qui tra le mani Amate l’Architettura, edito da un piccolo editore di Genova nel 1957. Il libro vuole essere una sorta di viatico all’arte per costruire e per pensare lo spazio: me lo donò lui stesso nel 1972 dopo che era uscito da Laterza il mio saggio La cultura architettonica in Italia tra le due guerre. Con la tigna e forse la crudeltà dei giovani, lì scrissi che Ponti aveva fatto suo lo slogan della Dc: privilegiando, cioè, “un progresso senza avventure”.

Il giudizio l’aveva ferito: mi fece sapere che avrebbe voluto incontrarmi, qualche tempo dopo ebbi il piacere di conoscerlo e trascorremmo un lungo pomeriggio. Capii che nella ricostruzione di quegli anni ero stato tendenzioso, privilegiando molto i miei amici, da Gardella a Belgioioso, da Pollini a Baldessari, da Rogers a Pagano e Persico in primis. Uscii da quell’incontro con la netta sensazione che senza Ponti nella Milano degli anni Venti e Trenta, quella stessa generazione di giovani innovatori non sarebbe stata l’avanguardia che fu. Ponti non fu mai l’avanguardia, se ne tenne sempre un passo indietro, ma ne capì le ragioni profonde e a suo modo la protesse. Il grattacielo Pirelli con Rosselli, e soprattutto con la struttura a carena di nave di Pier Luigi Nervi fu l’alternativa alla Torre Velasca, e porta impresso il segno del suo “stile” di cui disse Persico: il Pirellone nasce da una logica formativa del tutto simile a quella che lui adottò per disegnare un coltello, o di un qualsivoglia oggetto tra i tanti da lui disegnati, Ponti indubbiamente ebbe una sua cifra. Una vita così lunga da comprendere l’esile piatto di porcellana del’22 o le ceramiche: ma io amo soprattutto il Ponti della straordinaria sedia «superleggera» del secondo dopoguerra che diverrà una sorta di bandiera del design italiano nel mondo. Infine ho sempre molto apprezzato l’uomo d’editoria, certo quello di “Domus”, ma direi ancor più per l’avventura originale di “Stile” che, partita nel 1941, si concluse nel ’48, quando Ponti tornò a dirigere “Domus”. Certo io sarei stato un lettore di “Casabella” di Pagano e Persico, ma non ho dimenticato di scrivere che Persico quando era in dissenso con il suo amico fraterno Pagano – i loro dissensi erano frequenti e Anna Maria Mazzucchelli che divedeva con loro la redazione mi ha raccontato molto in merito – diede a Ponti e pubblicò su “Domus” alcuni dei suoi capitali articoli che sono alla radice della storiografia architettonica non solo italiana degli anni Trenta.

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Giò Ponti quasi mai trasgredì la regola che si era dato: qualificarlo “irrazionalista” (come crede Celant) mi lascia assai perplesso: rimane Ponti un “razionalista moderato” e talvolta non resse la scala dell’intervento e ciò accadde nella chiesa di Taranto e in complessi che appartengono al suo troppo operoso tramonto: strade senza uscite dal labirinto. Cesare de Seta

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Si può affermare che la prima inconsapevole ma formidabile riscoperta di Ponti sia avvenuta, grazie al cinema italiano, nel periodo che Guido Aristarco definì come «realismo critico»2, quando nacque cioè un filone foltissimo di film, inevitabilmente girati a Milano, dove gli edifici di Ponti giocavano un ruolo scenografico non indifferente. Viene in mente, in particolare, il film di Carlo Lizzani La vita agra, del 1964, tratto dall’omonimo romanzo del 1962 di Luciano Bianciardi, ambientato sullo sfondo della bohème milanese dei primissimi anni sessanta e interpretato da uno strepitoso Ugo Tognazzi, nella figura di un anarchico idealista, intenzionato a far esplodere il grattacielo Pirelli (da poco inaugurato nel 1960), come chiaro simbolo di protesta contro il consumismo e il capitalismo industriale. Il film ci regala inquadrature e riprese formidabili del principale soggetto, l’architettura di Gio Ponti (fig. 3) ma, a parte la storia del film e del romanzo – non sappiamo come reagì l’architetto – qui interessa riscontrare che, la vera cognizione critica della grandezza di Ponti, si determinò per lo più nel corso degli anni settanta e ottanta, alla luce di alcune mostre, a partire dalla storica e memorabile Milano 70/703. È significativo anche il fugace inserimento di Ponti alla Biennale del 1976, nella mostra tematica “Il razionalismo e l’architettura in Italia”4, seguita A. Arbasino, Piero Fornasetti, in, Id., Ritratti Italiani, Milano, Adelphi 2014, p. 250. 2 G. Aristarco, Miti e realtà nel cinema italiano, Milano, Il Saggitore 1961, p. 17 e ss. Dello stesso autore vedi anche, Sciolti dal giuramento. Il dibattito critico-ideologico sul cinema negli anni Cinquanta, Bari, Edizioni Dedalo 1981, in particolare, Introduzione. Per riconquistare la sufficienza oggi come allora, pp. 7-48. 3 Milano 70/70 un secolo d’arte, 3 voll., cat. mostra a cura di AA.VV., Milano, Museo Poldi Pezzoli, dal 30 maggio 1972, Milano, Monolito editore 1972. 4 Il razionalismo e l’architettura in Italia durante il fascismo, mostra a cura di Silvia Danesi, Luciano Patetta, Venezia, Ex Chiesa di S. Lorenzo, 18 luglio

GIO PONTI Vita e percorso artistico di un protagonista del XX secolo

...Arlecchini e Pulcinelli passati attraverso Gio Ponti1. (A. Arbasino)

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Fig. 2. Gio Ponti, disegno di costume per «Pulcinella» di Stravinsky, Milano 1939, Teatro della Triennale.

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dall’esposizione, altrettanto propositiva, “Il design italiano degli anni Cinquanta”5 ma, sostanzialmente, a riproporre la centralità dell’architetto, furono le due mostre epocali: “La metafisica: gli Anni Venti” e, “Annitrenta Arte e Cultura in Italia”6. Gio Ponti fu totalmente rivalutato e riscoperto come precursore del gusto Postmoderno7 anche grazie agli spunti di Paolo Fig. 3. Fotogramma da: C. Lizzani, La vita agra, 1964.

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– 10 ottobre 1976, in cat. generale La Biennale di Venezia 1976. Ambiente, partecipazione, strutture culturali, a cura di Vittorio Gregotti, vol.II, Venezia, Alfieri Edizioni D’arte 1976, pp.221-234. 5 La mostra sul design italiano degli anni ‘50 fu organizzata al Centrokappa di Milano nel 1977 e, come ha ricordato V. Castelli nella sua Premessa, il catalogo non fu stampato in quell’occasione, ma solo più tardi nel 1985 nell’intento, di non disperdere «una ricerca che non volevamo andasse perduta», in AA.VV, Il design italiano degli anni Cinquanta, Milano, R.D.E., Ricerche Design Editrice 1985, p. 9. 6 Le due mostre di Bologna e Milano, seppure sommarie in certi argomenti, tuttavia, segnarono una decisa svolta nel senso di una seria rivalutazione filologica e storica dell’arte italiana tra le due guerre: la Metafisica: gli Anni Venti, vol. I., Pittura e Scultura, cat. mostra a cura di Renato Barilli e Franco Solmi, Bologna, Galleria d’Arte Moderna, maggio-agosto 1980, Bologna, Grafis Edizioni d’arte 1980; la Metafisica: gli Anni Venti, vol. II., Architettura, arti applicate e decorative, Illustrazione e grafica, Letteratura e spettacolo, Musica, Cinema, Fotografia, cat. mostra a cura di Renato Barilli e Franco Solmi, Bologna, Galleria d’Arte Moderna, maggio-agosto 1980, Bologna, Grafis Edizioni d’arte 1980, in part. vedi gli interventi di C. de Seta, Architettura, p. 11 e ss.; F. Irace, Il «Novecento» a Milano: l’altra metà del modernismo, p. 19 e ss., e R. Bossaglia, Arti Applicate e Decorative, p. 145 e ss.; AA.VV, gli Annitrenta Arte e Cultura in Italia, cat. mostra, Milano, Arengario e luoghi vari, 27 gennaio – 30 aprile 1982, Milano, Mazzotta 1982, in part. vedi la sez., Architettura, a cura di C. de Seta, p. 213 e ss., e La casa sospesa, a cura di F. Irace, p. 217 e ss. 7 Riguardo all’affermazione del movimento architettonico postmoderno vedi la prima edizione della Mostra della Biennale Architettura con la famosa “Strada Novissima”, che consacra, di fatto, internazionalmente, il movimento architettonico “Postmoderno”, La presenza del passato, cat. mostra a cura di Paolo Portoghesi in collaborazione con la commissione consultiva del settore Architettura della Biennale di Venezia, Venezia, Corderia dell’Arsenale, 28 luglio - 20 novembre 1980, Venezia, Edizioni «La Biennale di Venezia» 1980; all’interno del catalogo vedi in part., il saggio di P. Portoghesi, La fine del proibizionismo, nel quale, anche se non trattato, il nome di Ponti si evince tra le righe come rimando culturale; conseguentemente dopo il clamore dell’esposizione veneziana è l’esplicita mostra svoltasi a Tokyo, Gio Ponti 1891-1979 from the Human-Scole to the Post-Modernism, Tokyo, The Seibu Museum of Art, 19 settembre – 7 ottobre 1986, mostra curata dalla supervisione di Arata Isozaki, Tokyo, The Seibu Museum of Art Edition, 1986. Più recentemente vedi la recensione alla mostra, Espressione di Gio Ponti, (2011), di A. Besio, Gio Ponti, il design dal volto umano, in “La Repubblica”, sabato 28 maggio 2011. Sull’argomento, come noto, esiste una foltissima bibliografia, tra gli ultimi brillanti interventi,

Portoghesi8, Rossana Bossaglia9 e, infine, alle fondamentali monografie di Ugo La Pietra10, Fulvio Irace11 e di Lisa Licitra Ponti12. Cesare de Seta, in uno scritto apparso su Tuttolibri del 29 settembre 1979, nel ricordare Ponti da poco scomparso il 16 settembre, avanzava già nel titolo il senso di revisione critica intorno al grande protagonista, ancora non pienamente valutato: Gio Ponti: lo invidiano ma nessuno lo studia (non esiste un saggio sul grande architetto scomparso). È così che lo studioso, nel 1983, in occasione della ripubblicazione in nuova edizione riveduta e ampliata, del suo storico testo La cultura architettonica in Italia tra le due guerre, si sentiva di asserire che, nonostante si contassero a centinaia gli articoli sull’architetto e designer, mancava ancora «una ricerca propriamente monografica» e «una mostra che ne illustri compiutamente l’opera»13. Fino a quel periodo, infatti, il nome di Ponti era stato ampiamente sottovalutato e relegato a un gusto borghese, eclettico, che poteva sì riconoscergli eleganza e serietà professionale, ma che non conquistava il favore dei maggiori critici del tempo, come Zevi, Argan, Benevolo, De Fusco, Dorfles e Tafuri14, i quali, nelle loro opere critiche e nelle crovedi, C. Bordoni, L’inutilità del postmoderno dato per morto o moribondo più volte sarà ricordato solo per le fragili utopie, in, “La Lettura – Corriere della Sera”, domenica 2 agosto 2015, pp. 6-7. 8 G. Massobrio - P. Portoghesi, Album degli Anni Venti, Roma-Bari, Laterza 1976; P. Portoghesi, Tra avanguardia e cauta saggezza, in “L’Avanti!”(Milano), 19 settembre 1979. 9 Omaggio a Gio Ponti, cat. e mostra a cura di Rossana Bossaglia, Milano, Decomania 1980. 10 U. La Pietra, Gio Ponti. L’arte si innamora dell’industria, Milano, Coliseum Editore 1988, nuova edizione aggiornata cons., Milano, Rizzoli 2009. 11 F. Irace, Gio Ponti e la “casa attrezzata”, in “Ottagono”, Milano, XXI, 82, settembre 1986, pp. 50-59; dello stesso autore vedi, Gio Ponti. La casa all’italiana, Milano, Electa 1988. 12 L. Licitra Ponti, Gio Ponti. L’opera, con pref. di G. Celant, Milano, Leonardo Editore 1990. 13 C. de Seta, La cultura architettonica in Italia tra le due guerre, (1972), Roma-Bari, Laterza, nuova edizione riveduta e ampliata in occasione della pubblicazione nella collana “ Grandi Opere”, 1983, nota 59, p. 132. 14 Come esempio significativo è il lavoro di G.C. Argan, che si proponeva, proprio, come storico dell’arte specialmente interessato ai problemi

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nache di architettura, quasi non dedicarono una sola riga al grande architetto o, – come aveva denunciato Portoghesi – pur ricordandolo tra gli esponenti italiani del Novecento, non gli resero giustizia, appiattendolo nell’ambito di una tendenza15. Non è casuale partire da quello che è, a tutti gli effetti, l’edificio moderno più noto e consumato, destinato a trasformare lo skyline dell’immagine di Milano: ci riferiamo a quel «torracchione di vetro e di cemento»16 che Bianciardi, parlandone implicitamente nel suo romanzo, voleva riempire di metano miscelato con aria, per farlo saltare in aria. Il grattacielo Pirelli, più comunemente “Pirellone”, è indubbiamente un simbolo inconfutabile della città di Milano e della sua complessa modernità, alla cui immagine e realizzazione Ponti ha dato un contributo certo e rilevante. È vero, d’altronde, che fra tutte le città italiane, Milano, a differenza di Torino o Firenze – e per certi aspetti anche di Roma –, non è la città che ha espresso una sola famiglia di architetti. È per questo che a Milano è difficile individuare il segno architettonico legato a un solo nome o a una famiglia, intesa come scuola,

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dell’architettura e, in particolare, di quella moderna che seguiva con impegno etico e sociale da oltre trent’anni all’interno di vicende spesso avvincenti e finanche drammatiche, vedi a tale riguardo la sua raccolta di scritti e saggi, Progetto e destino, Milano, Il Saggiatore, 1965, la quale raccoglie, infatti, gli scritti dello studioso su questo argomento che risalgono dal 1930 al recente (1964) che dà il titolo alla raccolta; vedi inoltre le altre raccolte di saggi e scritti o opere antologiche di, B. Zevi, Editoriali di Architettura, Torino, Einaudi 1979; G. Dorfles, L’architettura moderna, (1954), Milano, Garzanti, V edizione riveduta e ampliata nella collezione “I Garzanti” 1972; M. Tafuri, Storia dell’Architettura Italiana, Torino, Einaudi 1982; 15 Vedi a tale riguardo, P. Portoghesi, Le ceramiche di Gio Ponti, nel quale si denuncia chiaramente che «nessun cenno all’opera di Ponti si ritrova nelle maggiori storie dell’architettura moderna, da Giedon a Russel Hitchcock, da Pevsner a De Fusco e anche Benevolo e Zevi...» in P. Portoghesi e A. Pansera, Gio Ponti alla manifattura di Doccia, catalogo della mostra, s.d., Milano, Centro Internazionale di Brera 1982, Milano, Sugarco Edizioni 1982, p. 11. 16 L. Bianciardi, La vita agra, Milano, Rizzoli 1962, p.159; ma forse lo scrittore si riferiva, non proprio al grattacielo Pirelli, come, poi, Lizzani invece farà nel suo film, ma al grande edificio della Società Montecatini sempre opera di Ponti, ma ben più antica.

che abbia dato un suo carattere distintivo alla città, come invece è accaduto a Firenze, in merito alla visione e presenza “michelucciana” o, quando parliamo di Piacentini, quale imprescindibile artefice di Roma17. Milano, infatti, è la città che, nel corso del XX secolo, ha lasciato maggiormente spazio al confronto fra i molteplici autori, quali: Albini; Portaluppi; Muzio; Caccia Dominioni; Zanini; Figini; Pollini; Lancia; Baldessari; Bega; Buzzi; Terragni; Rogers; i BBPR e, appunto, Ponti. Questi e altri architetti, fino alle generazioni successive, vengono attratti di volta in volta o dalla polarità modernista, ma moderata, oppure da quella più dichiaratamente avanguardista. Semplificando, si può rilevare una sorta di formazione sparsa, dove si confrontano in singolare dialettica, nel percorso del tessuto urbano cittadino, da una parte Muzio e gli altri, dall’altra Terragni con i veri e propri razionalisti. Contesto, questo, dove Gio Ponti gioca un ruolo da vero battitore libero e, come in un Monopoli in grande stile, piazza le sue costruzioni da una parte all’altra della città, determinando così quell’immagine che diviene gusto e cifra stilistica, nonché estetica, della stessa metropoli18. La grandezza di Ponti sta proprio nel fatto di operare a 360 gradi: architetto; arredatore; designer; scenografo e costumista; fine saggista; divulgatore estetico; editorialista per il “Corriere della Sera”; docente universitario; organizzatore e responsabile culturale di grandi esposizioni; inventore e direttore di importanti riviste. Sta di fatto che Ponti ha lasciato in ogni settore un’impronta indelebile, che diventa un vero e proprio carattere distintivo, tanto da poterlo definire, come ha rilevato Alessandro Mendini, il padre nobile e generoso degli architetti Riguardo al ruolo e all’importanza di Piacentini nel corso degli anni Venti, tra i tanti testi, rimando a, M. Pratesi, Longhi 1918 e uno scritto “dimenticato” su Marcello Piacentini, in “Bollettino d’Arte”, XCIX, serie VII, 21, gennaio-marzo 2014, pp.87-96. 18 Per quest’aspetto rimando al testo scritto sotto forma di racconto da G. Biondillo, Metropoli per principianti, Parma, Guanda 2008, in part. il capitolo My Playlist (Il Novecento Italiano a mio modesto avviso), p. 29 e ss. 17

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italiani del pieno novecento, «moltiplicatore della loro cultura», perciò volenti o nolenti, anche «certi critici» dovevano rassegnarsi a considerarlo «indiscutibilmente un grande artista»19. Non so se Ponti sia stato il più bravo di tutti, per quanto può valere quest’ espressione, ma certo, con il suo magistero, ha saputo regalare alla borghesia del tempo – e non solo ad essa – un giusto profilo moderno e un gusto elegante, finanche puritano. Borghesia che, fino a quel momento, un gusto tale non lo aveva mai avuto, ostinatamente ancorata com’era a vuoti e tronfi richiami ad un passato senz’ anima e a certi cascami dello stanco e morente stile di ascendenza liberty. Ponti, senza pencolare verso estremismi arditi, ha avuto il merito di spezzare questo indirizzo rigettandolo, col suo operato, in un cul de sac, ed è quindi prevalentemente grazie a lui che Milano, o buona parte di essa, non è diventata una città in “stile”, ma una città dove l’architettura del Novecento ha avuto la sua migliore espressione, non solo in virtù dell’isolata opera di pochi grandi architetti, ma soprattutto nel condizionamento che questi hanno trasmesso, come un vincolo estetico, alla qualità media dell’edificato, permettendo anche percorsi personali senza mai, però, trascendere nel vernacolare o nella bassa retorica. Comprovato che Gio Ponti è stato uno dei fondamentali protagonisti del rinnovamento architettonico connesso alle arti decorative, sappiamo anche che egli inizia assai presto ad articolare una sua chiara visione estetica. Nato nel 1891 da un’agiata famiglia dell’alta borghesia milanese, attiva nell’imprenditoria tessile – il padre era un alto dirigente della Società Edison, produttrice di energia elettrica –, si laureò in architettura nel 1919. Il periodo d’interruzione per gli eventi bellici del 1915-18, lo vide inevitabilmente coinvolto. Nel 1923 ottenne il primo incarico di rilievo che lo proietterà 20

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A. Mendini, Gio Ponti 1891 – 1979, in “Domus”, 599, ottobre 1979, p. 1.

alla ribalta nazionale: la direzione artistica e creativa della manifattura Richard-Ginori, nelle sedi di San Cristoforo (Milano) e Mondovì (Cuneo) per quanto riguardava le terraglie ma, sostanzialmente, nella sede di Doccia, a Sesto Fiorentino, presso Firenze, per le porcellane e i pezzi unici20. L’esordio avvenne in grande stile alla I Mostra Internazionale delle arti Decorative di Monza del 1923, dove la manifattura ottenne il riconoscimento ufficiale del Gran Diploma D’Onore, proprio in merito alla nuova produzione. Quest’ultima, infatti, non passò certo inosservata e suscitò un clamore critico non indifferente se, tra i tanti commenti critici di rilievo, quello di Carlo Carrà individuò il merito di questo successo nella figura del «giovane architetto Giovanni Ponti», il quale, con le sue invenzioni, aveva decisamente rinnovato la produzione della Ditta Richard-Ginori, specializzata «fino a ieri nell’imitazionismo» privo di originalità e che ora invece invertiva tale tendenza, presentando un «numero veramente ragguardevole di ceramiche moderne, assai significative»21. Carrà definiva il «giovane architetto», «un neoclassico di Milano, profondamente sincero nelle sue ricerche stilistiche e, quello che più monta, riccamente dotato di qualità inventive»22. Anche Aldo Carpi avrebbe rilevato la stessa sostanza, giudicando «la sala di Richard Ginori [...] all’avanguardia con un giovane architetto»23. Tra la vastissima bibliografia sull’argomento vedi, AA.VV., Gio Ponti. Ceramiche 1923-1930. le opere del Museo Ginori di Doccia, cat. mostra, Firenze, Sala d’Arme di Palazzo Vecchio, 19 marzo – 30 aprile 1983, Milano, Electa 1983; e il recente catalogo della mostra, Gio Ponti e la Richard-Ginori Una corrispondenza inedita, a cura di Livia Frescobaldi Malenchini e Oliva Rucellai, Monza, Belvedere, Villa Reale di Monza, 12 aprile – 7 giugno 2015, Mantova, Corraini Edizioni 2015; Gio Ponti. La collezione del Museo Richard – Ginori delle Manifatture di Doccia, a cura di Livia Frescobaldi Malenchini, Maria Teresa Giovannini, Oliva Rucellai, Falciano (RSM), Maretti Editore 2015. 21 C. Carrà, L’arte decorativa contemporanea. Alla prima Biennale Internazionale di Monza, Milano, Edizioni “Alpes” 1923, p. 58. 22 Ibid. 23 L’artista milanese Aldo Carpi scrisse queste considerazioni, in merito alla I Biennale di Monza, in una lettera, datata 19 maggio 1923, indirizzata allo scultore Libero Andreotti, ora riportata integralmente in C. Pizzorusso 20

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Ma, ancora più deciso e autorevole, era il giudizio di Roberto Papini, eminente critico d’arte, il quale rilevava come «la vecchia e gloriosa fabbrica Ginori, che stava per divenire decrepita», avesse preso nuovo vigore proprio per merito di un «uomo di gusto come l’arch. G. Ponti», definito dal «gusto un po’ eclettico e troppo sollecito spesso di guardare alle mode straniere o di innestare nella decorazione della porcellana motivi di tarocchi o di stampe popolari», ma assolutamente «raffinatissimo in ogni modo e ardito», tale da fare «onore grandissimo alla Richard-Ginori che improvvisamente si manifesta nella mostra di Monza all’avanguardia delle fabbriche odierne»24. Da quel momento le ceramiche ideate da Gio Ponti s’imposero all’attenzione internazionale, determinando un gusto e uno stile, fino a divenire veri oggetti di culto. L’architetto resterà alla guida della manifattura fino alla morte di Augusto Richard, nel 1930, ma continuando a collaborare con la ditta almeno fino al 1938 (figg. 4, 5, 6, 7). È in questo periodo che a Milano prende corpo e si definisce il gruppo degli architetti “neoclassici” che, con la loro azione improntata a un gusto lineare quanto pulito nelle forme e asciutto stilisticamente, negli arredi, negli oggetti, nonché nei profili architettonici, pongono il definitivo rifiuto dei postulati ottocenteschi, che sempre imperavano nell’arredamento e nell’architettura con un gusto eclettico, ibrido, di marca ancora umbertina. Questo rifiuto portava la firma, in primis, di Ponti, insieme a quella di Giovanni Muzio, Emilio Lancia, Tommaso Buzzi, Guglielmo Ulrich, Giuseppe De Finetti, Ottavio Cabiati e Giuseppe Pizzigoni. Questi “neoclassici”, oltre a manifestare un’altissima maestria nell’arredamento, erano decisamente orientati verso la modernità ed anche su posi-

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e S. Lucchesi, Libero Andreotti Trent’anni di vita artistica Lettere allo scultore, Firenze, Olschki 1997, p.211. 24 R. Papini, Le Arti a Monza nel MCMXXIII, Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche 1923, p. 76.

Fig. 4. G. Ponti, (da sinistra), Urna con “La passeggiata archeologica”, 1924-1925, porcellana, Doccia (Firenze), manifattura Richard-Ginori; Calamaio con “La passeggiata archeologica”, 1924-1925, porcellana, Doccia (Firenze), manifattura Richard-Ginori; Urna con “Grottesca”, 1924-1925, porcellana, Doccia (Firenze), manifattura Richard-Ginori; Fermacarte con “Delfini”, 1924, porcellana, Doccia (Firenze), manifattura Richard-Ginori; Urna con “La passeggiata archeologica”, 19241925, porcellana, Doccia (Firenze), manifattura Richard-Ginori.

Fig. 5. G. Ponti, Vaso a forma di orcio “dei fiori e delle donne”, 1924, maiolica, Doccia (Firenze), manifattura Richard-Ginori.

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Fig. 6. G. Ponti, Vaso a forma di orcio “dei fiori e delle donne”, 1924, maiolica, Doccia (Firenze), manifattura Richard-Ginori.

zioni ben presto più avanzate25. Su queste stesse posizioni di gusto si possono collocare, fra i tanti, Guido Andloviz, Giuseppe Gariboldi e Umberto Zimelli con le loro raffinate ceramiche, come le impeccabili decorazioni di Giulio Rosso e la grafica di Raffaello Bertieri. Quest’ aura “neoclassica”, di fatto, superava sia gli eccessi utopici e radicali della recente avanguardia futurista e dei suoi epigoni, sia il retaggio ottocentesco e liberty, scavalcando il tutto e recuperando, invece, la lezione asciutta e pulita settecentesca, nelle illustri memorie dei vari Giocondo Albertolli, Giuseppe Maggiolini, o nella qualità grafica pura della pagina creata da Bodoni, magari riallacciandosi alle suggestioni più recenti della scuola viennese di un Josef Hoffmann, o di un Adolf Loos e delle riviste Art Décoration, Stickerei und Spitze, Gebrauchsgraphik. Per questo aspetto vedi l’esauriente, Gio Ponti Interni Oggetti Disegni 19201976, a cura di Laura Falconi, Milano, Electa 2004, in part. il capitolo, Dal primo al secondo dopoguerra, p. 29 e ss.

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Fig. 7. G. Ponti, figure plastiche modellate da Libero Andreotti, Cista “La conversazione classica”, 1924-1925, porcellana, Doccia (Firenze), manifattura Richard-Ginori.

Per questi esponenti del nuovo “neoclassicismo” milanese l’antico era, insomma, un’arma contro il «finto anticume»26. Questa posizione nell’architettura, nell’artigianato e nelle arti decorative, che vedeva schierati Ponti e gli altri artefici, corrispondeva, certamente, al clima che era già ampiamente in circolo nel mondo della pittura e della scultura, da Valori Plastici a Realismo Magico e Novecento, come appare evidente nella raccolta di saggi e riproduzioni, già precedentemente apparsi su la rivista “Valori Plastici”, che Mario Broglio raccolse in volume nel 1923, per l’edizione francese dal titolo esplicito di Le Neoclassicisme dans l’art contemporain. Ma già su “La Ronda” del luglio 1920, era apparso il famoso articolo di Giorgio De Chirico, Classicismo pittorico, che quasi sicuramente non passò inosservato a Ponti, in particolare laddove il famoso artista scriveva: «dobbiamo conchiudere che pure il demone del classicismo è demone lineare, di segno o di stile»27 e soprattutto quando De Chirico asseriva che «Ancor oggi», nella «grande confusione dell’arte contemporanea», il «demone del classicismo non è sparito»28. Fu nello stesso 1923, al tempo della II Biennale Romana, che la stampa accolse apertamente questa etichetta di “neoclassici”, com’è evidente, nella recensione della mostra apparsa sul quotidiano “Il Secolo XX” del gennaio 1924, dall’eloquente titolo cubitale I Neo-classici alla II° Biennale Romana, scelto per definire le opere di artisti, come Antonio Donghi, Francesco Trombadori, Cipriano Efisio Oppo, Amerigo Bartoli, Vedi a tale proposito quanto asserisce R. Papini nelle Conclusioni in, Id., Le Arti a Monza... cit., pp. 125-128; e lo stesso Ponti nella breve prefazione al suo, La casa all’italiana, Milano, Editoriale Domus, 1933, s.p. 27 G. De Chirico, Classicismo pittorico, in “La Ronda”, II, 7, luglio 1920, pp. 506-511, ora, in La Ronda Antologia, a cura di G. Cassieri, Firenze, Landi Editore 1955, pp. 145-150. 28 Ibid. De Chirico in questo scritto rimarcava autorevolmente il valore del “classicismo” con sicumera laddove affermava «E ripetiamo ancora essere il demone del classicismo demone di segno e di linea» e ancora si auspicava di «essere ancora mistici per una rinascita del classicismo», p. 508 e p. 511. 26

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Virgilio Guidi e Carlo Socrate. La validità della definizione, divenuta oramai luogo comune e, quindi, per estensione, una categoria, sarà poi confermata e suggellata, nel 1929, dall’autorevole giudizio di Roberto Longhi: «Oppo, Bartoli, Socrate; Guidi e la Cecchi-Pieraccini; Trombadori; Donghi fra i cosidetti neoclassici»29. Quando Ponti, nel 1923, assunse l’incarico per la direzione artistica della Richard-Ginori, si propose definitivamente come uno degli alfieri del nuovo corso, offrendo un linguaggio asciutto e decisamente moderno, in un momento in cui la sottocultura della provincia italiana andava ancora proponendo mobili e oggetti in stile, spaziando dal cinquecento toscano al settecento veneziano. Per Ponti la collaborazione con la manifattura fu, infatti, l’occasione per attuare in Italia, quel processo di rinnovamento dell’oggetto industriale, dove la forma e la decorazione trovavano ora, finalmente, nuove soluzioni: Ponti creava oggetti dalle forme pure, attingendo ad un repertorio “classico” che, di fatto, scavalcava di netto la recente stagione del manufatto di gusto liberty. Egli trasformava gli oggetti, utilizzando temi decorativi dei quali impiegherà, in seguito, anche solo alcuni motivi in forme diverse, poiché il suo linguaggio si basava proprio sulla possibilità di ottenere soluzioni diverse attraverso combinazioni di un tema principale. Ponti attingeva e individuava dal repertorio “classico” o “neoclassico” le forme per antonomasia: coppe, ciste, urne, alzate, ciotole, anfore, orci ed altro. Su questi manufatti prendevano vita, in maniera del tutto personale e alquanto innovativa, specialmente per il contesto italiano, esili figurine eleganti e raffinate, disegnate a punta d’agata in preziosi colori oro zecchino, blu oltremare, nero e rosso rubino, tutto queR. Longhi, La Mostra Romana degli Artisti Sindacati, in “L’Italia Letteraria”, 7 aprile 1929, cons. in Id., Scritti sull’Otto e Novecento 1925-1966, Firenze, Sansoni 1984, p. 121.

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sto in ripartizioni geometriche rigorose con elementi, festoni, grottesche e decorazioni architettoniche varie, come, ad esempio, l’arco e la colonna, memori del linguaggio della «trattatistica classica» di Vitruvio, Serlio e Palladio30 (figg. 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14). L’elaborazione di questi sublimi manufatti raggiunse un livello insuperato di raffinata preziosità, non algida, ma venata, il più delle volte, da una sottile ironia personale, che rimandava agli affetti familiari e al quotidiano, non rinunciando a conciliare questo aspetto anche con temi di derivazione popolare e folkloristica. Raffaello Giolli, uno dei più attenti e fervidi intellettuali del tempo, ben comprese tale portata e, riferendosi proprio all’esordio di Ponti alla “Biennale di Monza” del ’23, lo commentò con grande enfasi critica: «Quella prima saletta di Richard-Ginori non rappresentava solo un ordine classico al posto d’un turbamento romantico, la disciplina d’un segno lineare al posto di un colore fosforescente, una abitudine architettonica dei piani logici invece del capriccio d’un chiaroscuro lirico che non si decide mai ad essere un solo chiaro o un solo scuro». Per Giolli rappresentava, invece, in modo convincente, «un ordine mentale che non diremo più profondo ma che certo era anche più raro, nella disciplina delle collaborazioni sociali, nella gerarchia dei movimenti produttivi» e, infine, per l’illustre critico, rappresentava «l’esempio inatteso d’una grande industria, organizzata in ogni scrupolo tecnico, anche di tecnica economica che ora all’improvviso aveva riconosciuto all’intelligenza creatrice dell’artista il suo giusto posto nell’ordine naturale delle A tale riguardo la figlia dell’architetto, Lisa, in un cordiale e lucido colloquio del 3 febbraio 2016, mi ha testimoniato un felice aneddoto relativo al padre che spesso per gioco e fantasia interrogava i piccoli figli rivolgendo loro la domanda «quali sono i maestri architetti amati da papà?» e loro in coro, quasi cantando una litania, dovevano rispondere: « Vitruvio, Serlio, Palladio!». Su questo aspetto, inoltre, vedi, Antichità e manifatture: un itinerario, a cura di G. Pucci, in part. il cap. Il Novecento e il fascino discreto dell’antico, in Memorie dell’antico nell’arte italiana, a cura di S. Settis, III, Dalla tradizione all’archeologia, Torino, Einaudi 1986, pp. 253-257.

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Fig. 8. G. Ponti, Urna “Serliana”, 1924-1925, porcellana, Doccia (Firenze), manifattura Richard-Ginori.

Fig. 9. G. Ponti, Vaso a forma di orcio”Prospettica”, 1925, maiolica, Doccia (Firenze), manifattura Richard-Ginori.

Fig. 10. G. Ponti, Vaso a forma di orcio “La casa degli Efebi”, veduta lato destro, 1924-1925, maiolica, Doccia (Firenze), manifattura Richard-Ginori.

Fig. 11. G. Ponti, Piatto con carro trionfale, (della Libertà?), 1929-1930, porcellana, Doccia (Firenze), manifattura Richard-Ginori.

Fig. 12. G. Ponti, Grande piatto “I gemelli”, 1930, maiolica, e Bolo con due fanciulli che lottano con un serpente, 1924, maiolica, entrambi Doccia (Firenze), manifattura Richard-Ginori.

Fig. 13. G. Ponti, Piatto “la migrazione delle sirene”, 1930, porcellana, Doccia (Firenze), manifattura Richard-Ginori.

Fig. 14. G. Ponti, Piatto “Triumphus Mortis”, 1930, porcellana, Doccia (Firenze), manifattura RichardGinori.

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cose»31. E così, quella prima comparsa “pontiana” nella saletta della Richard-Ginori, appariva, alla valutazione finale del Giolli, come il segno di «un esempio [nella baraonda delle sconnesse incoerenze dell’arte decorativa italiana] non solo di gusto artistico ma di orientamento industriale»32. I riconoscimenti a tale lavoro non tardarono a venire sia a livello nazionale, sia, e in maniera più rilevante, in una dimensione europea. In particolare a Parigi, nel 1925, in occasione della grande esposizione internazionale del “Salon des Arts Décoratifs”, la Richard-Ginori ottenne due Grand Prix, uno dei quali assegnato allo stesso Ponti per la parte creativa; la ditta, in breve tempo, sulla scia di questo successo, vedrà quintuplicare le sue vendite, tanto più sul mercato internazionale. La manifattura Richard-Ginori, sotto l’impulso di Ponti, si collocherà, tra le manifatture europee, all’avanguardia del gusto e stile del momento, definito comunemente Déco. Tuttavia Ponti pur assimilando certi formalismi e mode del “movimento”, come, ad esempio, l’elegante silhouette stilizzata della figura umana, negli slanciati allungamenti, o l’adozione degli animali alla moda, come i levrieri, si basava sostanzialmente, differenziandosi dagli altri artefici Déco, su un impianto meno effimero e più costruttivo, realizzato con un preciso metodo scientifico e matematico nelle scansioni compositive, a prescindere dalle dimensioni reali dell’oggetto. In realtà, nelle creazioni di Ponti la natura progettuale dell’architetto è sempre presente e viva, da ciò si evince quell’equilibrio fra la razionalizzazione dello spazio e la distribuzione dei motivi decorativi, siano questi, figure, motivi geometrici o architettonici, in una volontà ordinatrice, rigorosa e composta e, tuttavia, a volte, non priva di sottile ironia e venata di tradizione popolare (figg. 15, 16, 17). R. Giolli, Saggi della ricostruzione: l’esempio della Richard-Ginori, in “Emporium”, Milano, vol. LXX, 417, settembre 1929, pp. 149-162, in part. p. 149. 32 Ibid.. 31

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Fig. 15. G. Ponti, Mano fiorita, 1935, porcellana, e Piatto con amorini della serie “La vispa Teresa”, 1935, porcellana, entrambi, Doccia (Firenze), manifattura Richard-Ginori.

Fig. 16. G. Ponti, Piatto “I tarocchi”, 1923, porcellana, Doccia (Firenze), manifattura Richard-Ginori.

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Fig. 17. Disegno pubblicitario Richard- Ginori, inventato da Ponti ed eseguito da Gariboldi, 1928, da “Domus”, aprile 1928, p.3.

Il ruolo fondamentale di Ponti era apertamente riconosciuto, al tempo dell’ultima “Biennale di Monza”, da Tommaso Buzzi, che lo vedeva anche come principale traino e guida di tutta la ceramica italiana, «sì da acquistarle un nuovo prestigio anche all’estero»33; questo aperto riconoscimento di Ponti, ritenuto senza meno uomo «assolutamente d’eccezione» era da riscontrarsi nelle qualità artistiche e umane dell’artista, così come Buzzi andava rilevando: «Temperamento personale, di spirito e cultura italianissimi, il Ponti è sensibile in alto grado agli orientamenti stilistici attuali, pronto a coglierli nel loro germoglio, incline a subire le influenze più diverse e queste trasformare sino a farle cosa sua: in fondo, fedele sempre alle sue predilezioni che sono classiche e umanistiche, il che vuol dire fedele a sé stesso»34. Ponti si collocava, dunque, con un ruolo determinante (anche come interior designer) nel contesto cittadino di Milano che, per molteplici fattori, è da considerarsi, in Italia, il centro più vitale e innovativo negli ambiti artistici e pratici dell’architettura e dell’arredamento. Non a caso gli impulsi produttivi dell’industria lombarda fecero nascere, nel 1930, dalle ceneri della precedente “Biennale di Monza”, la “Triennale”, la quale, a partire da questa edizione, non è più detta, genericamente, «delle arti decorative», ma «delle arti decorative e industriali moderne»35. Nel capoluogo lombardo, fin dalla V edizione del 1933, la “Triennale” ha avuto un successo e uno sviluppo, come non sarebbe stato possibile altrove e nel quale Ponti ebbe un ruolo determinante, facendo parte del “Direttorio organizzatore”, insieme ad Alberto Alpago-Novello e Mario Sironi, nell’edizione del 1930 e, con lo stesso Sironi e Carlo Alberto Felice, in quella successiva del T. Buzzi, Le ceramiche italiane all’esposizione di Monza, in “Dedalo”, XI, fasc. I, giugno 1930, pp. 241-260, in part. p. 247. 34 Id., Ibid. p. 247. 35 Per le vicende in merito alla storia della Triennale rimando al fondamentale testo di A. Pansera, Storia e cronaca della Triennale, Milano, Longanesi&C., 1978. 33

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1933. Di fatto Ponti ne rappresentò la spinta innovativa e propulsiva e, con la sua azione tout court, contribuì, nel corso degli anni Trenta e Quaranta, al fondamentale e formidabile rinnovamento architettonico di Milano. Rinnovamento dovuto in virtù, come dicevamo, di molteplici fattori e, tra i principali, vi furono l’adeguamento e il rilancio industriale alle nuove istanze moderne, quello della formazione scolastica, in particolare universitaria, la prima istituzione in Italia, nel 1929, dell’I.S.I.A (l’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche) di Monza e, da ultimo, ma non per importanza, il fermento culturale. Quest’ultimo fu non meno decisivo nel raccogliere i suoi architetti e designer intorno ad un gruppo di riviste, che rappresenteranno la parte più viva e coraggiosa della cultura architettonica italiana, insieme alla Triennale36. È così che, come da un sol parto, seppure ideologicamente distanti, videro la luce, nel gennaio 1928, le due riviste più innovative e dirompenti: “La Casa Bella, rivista per gli amatori della casa bella”, affidata alla direzione di Guido Marangoni e “Domus, architettura e arredamento dell’abitazione moderna in città e in campagna”, diretta e fondata da Gio Ponti (figg. 18, 19, 20). Le due riviste s’imporranno subito all’attenzione del dibattito critico e del pubblico – la prima costava 8 lire, la seconda 10 – e saranno in seguito pubblicate entrambe dalla Editoriale Domus S.A. di Gianni Mazzocchi. “Casabella” può essere descritta attraverso la storia delle variazioni dei suoi nomi: “La casa bella. Arti e Industrie de l’arredamento” e poi “Rivista per gli amatori de La Casa Bella” (1928-1929), diretta da Guido Marangoni; “La Casa Bella”, diretta da Arrigo Bonfiglioli (1930-1932), diverrà, nel 1933 fino al 1937, “Casabella. Rivista mensile di architettura e di tecnica”, pubblicata dall’Editoriale Domus, diretta Per quest’ aspetto vedi, M. Salvati, L’inutile salotto. L’abitazione piccoloborghese nell’Italia fascista, Torino, Bollati-Boringhieri 1993, in part. il capitolo, Modernità a Milano alla fine degli anni trenta: «una casa per tutti»?, p. 106 e ss.

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Fig. 18. Copertina numero 1 della rivista “Domus”, gennaio 1928.

Fig. 19. Copertina numero 12 (numero di Natale) della rivista “Domus”, dicembre 1928.

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Fig. 20. Copertina numero 4 della rivista “Domus”, aprile 1928.

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da Giuseppe Pagano Pogatschnig – in questo periodo Edoardo Persico partecipa, prima come redattore e poi come condirettore, fino alla sua tragica morte nel 1936 –. Dal 1938 al ’39, “Casabella-Costruzioni Rivista mensile di architettura”, con la direzione di Giuseppe Pagano e, “Costruzioni-Casabella Rivista mensile di architettura e di tecnica”, dal 1940 al 1943, con la regia di Pagano affiancato, come redattore capo, da Matricardi. Su imposizione del Ministero per la cultura popolare, la rivista cesserà le pubblicazioni nel dicembre 1943 con il n.191/192, dopo che Pagano era già stato imprigionato e deportato, prima a Bolzano e poi a Mauthausen, dove troverà la morte nel 1945. Infine, “Casabella” riprenderà le pubblicazioni nel 1946 con il titolo “Costruzioni Rivista mensile”, diretta da Franco Albini e Gian Carlo Palanti; dal 1947 al 1953 la rivista non sarà pubblicata, mentre, nel 1953 riprenderanno le pubblicazioni dal n. 199 con la direzione di Ernesto Rogers, che riproporrà anche la vecchia testata, per cui è ancora edita e conosciuta, “Casabella”.

La rivista arrivò ad avere una tiratura di oltre 9.000 copie e le firme che si potevano leggere sulle sue pagine erano fra le più significative della cultura milanese e non solo. I collaboratori della rivista erano, oltre che architetti, letterati, musicologi, critici d’arte e uomini di scienza, che collaborarono insieme per un’azione, non solo estetica, ma anche sociale e politica, facendone una valida roccaforte dell’antifascismo milanese, quindi un’azione fondamentalmente morale e che fu di immensa e provata efficacia37. “Domus”, aveva seguito una parabola analoga rimanendo, altresì, solo indirettamente, impegnata in tal senso. La rivista nacque dall’iniziale sodalizio culturale col potente Ugo Ojetti38 e anzi, il titolo stesso della rivista sembrerebbe suggerito da quest’ultimo, il quale aveva sottoposto al giovane amico architetto l’interessante proposta – formulatagli dal predicatore barnabita, nonché singolare uomo di dottrina e attivista sociale, padre Giovanni Semeria – di fondare una nuova rivista che avesse al centro dei propri interessi la “casa”, intesa come fulcro della famiglia nei suoi più profondi valori cristiani ed avente la grande funzione sociale di elemento di coesione nazionale. Da qui il nome di “Domus” che, tra l’altro, ben si inseriva nell’attivismo ojettiano del periodo, infatti, proprio in questo lasso di tempo – dal marzo 1926 al dicembre 1927 –, l’eminente giornalista e scrittore assumeva la carica di direttore del “Corriere della Sera”. Anche dopo la revoca della carica, Ojetti continuerà a svolgere il ruolo di redattore della pagina culturale del giornale; ma egli divenne anche, dal 1920, direttore e fondatore della prestigiosa rivista d’arte “Dedalo” e poi, dal ’29, del mensile di lettere, arti e musica, “Pegaso” e, infine, della rivista Per un’analisi della rivista rimando all’antologia, Casabella. Per l’evoluzione dell’architettura dall’arte alla scienza (1928-1943), a cura di M. Universo, Treviso, Canova 1978. 38 Lisa Ponti mi ha riferito in un colloquio del 3 febbraio 2016 che il padre, inizialmente, era riconoscente a Ojetti, per lo più, per avergli insegnato brillantemente la pratica o professione giornalistica, ossia, quella di scrivere velocemente un articolo per un giornale o un periodico. 37

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“Pan”, fondata nel 1933. Vediamo così come appaia assai in linea una rivista denominata Domus, dedicata all’architettura e all’arredo della casa moderna, che mancava nel novero ojettiano. Alla fondazione e alla direzione della rivista Ponti dedicherà non poche energie e tutto il suo impegno almeno fino al 1940, quando abbandonò la direzione, a causa degli avvenuti contrasti col nuovo editore Gianni Mazzocchi e con il direttore dell’antagonista “Casabella”, Giuseppe Pagano, per dar vita, nel 1941, alla nuova iniziativa per i tipi di Aldo Garzanti, “Stile”, che dirigerà fino al termine delle pubblicazioni (nel 1947) (figg. 21, 22, 23), per riprendere poi, nel 1948, la direzione di “Domus”, che terrà fino al termine della sua vita, avvenuta nel 1979. Nel frattempo, dal 1939 al 1940, Ponti ebbe anche una fruttuosa collaborazione con la raffinatissima rivista d’arte “Aria d’Italia” (fig. 24), ma indubbiamente fu “Domus”, la rivista di arte e architettura più diffusa in Italia, cui Ponti dedicò le maggiori energie fin dalla sua fondazione. “Domus”, fin dalla sua nascita, si propose di orientare il gusto di un pubblico prevalentemente borghese e colto, non solo con un’informazione aggiornata in campo internazionale in diversi ambiti, dall’architettura all’arredo e alla decorazione, ma impartiva anche precise indicazioni su rassegne d’arte per orientare i nuovi collezionisti e infine dava consigli utili per la casa, come, ad esempio, allestire una festa, imbandire una cena, ricevere ospiti e altro39, curare il giardinagA tale riguardo sono esplicative le note e la rubrica fissa, all’interno della rivista, che curava E.V. (Emma Vanzetti), in arte Quattrova, raccolte in una pubblicazione nel 1931, La cucina elegante ovvero il Quattrova illustrato, e, poi, nel 1936, Il doppio Quattrova ovvero la cucina elegante, editi entrambi dall’Editoriale Domus, con illustrazioni di Ponti e Buzzi e la prefazione di Piero Gadda, nuova pubblicazione cons., La cucina elegante ovvero il Quattrova illustrato, Milano, SE 2015, a tale riguardo è indicativo, tra i tanti spunti, quello in cui Quattrova indica come ricevere degli ospiti: «non crediate che rimpinzare elegantemente i vostri ospiti sia l’unico compito che vi si impone. Sta a voi comporre quell’armonia in cui la preparazione della tavola, la scelta del menu, I fiori, le luci, il giro delle conversazioni, il vostro charme, si fondano, creando quell’euforica atmosfera di benessere e felicità in cui I vostri convitati voluttuosamente dimenticheranno tutto quello che non sia voi e la vostra tavola», p. 33.

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Fig. 21. Copertina numero 15 della rivista “ Stile”, marzo 1942.

Fig. 22. Pagina all’interno del sevizio di G. Ponti, Opere durature agli artisti, non solo premi ed esposizioni. Anticipazioni di Padova, in “Stile”, 13, gennaio 1942, p.29.

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Fig. 23. Pagina all’interno dell’articolo, Nello studio di Fornasetti, “Stile”, 2, febbraio 1941, p. 53.

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Fig. 24. Copertina della rivista “Aria d’Italia” del numero monografico dedicato a Gio Ponti, VIII, Daria Guarnati Editore, Milano 1954.

gio e le piante da interno, o avere buona cura degli animali. Proprio per questo l’intento della rivista – e di Ponti – fu quello di instradare e determinare il gusto di una classe borghese nei confronti del buon uso della casa edificata e abitata, tant’ è che venne a determinarsi una vera e propria moda e perfino, in alcune circostanze, un’infatuazione di ordine estetico, riferite quasi esclusivamente alla “Domus”, per cui ogni tema trattato sulle pagine della rivista, a partire da una grafica impeccabile, era commentato da foto a colori e in bianco nero di grande fascino, accompagnate da testi essenziali e sintetici (figg. 25, 26, 27, 28). Si trattava, quindi, di una rivista dalla consultazione rapida e piacevole anche per i non addetti ai lavori, pur restando un indispensabile strumento di lavoro per quanti operavano nel settore, come, ad esempio, i mobilieri che, nella scelta delle opere riprodotte, potevano registrare le più sottili variazioni del gusto. Ponti gestiva al meglio questa funzione, anzi ne era il regista supremo, mantenendosi con oculatezza

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Fig. 25. Articolo di Giulia P. Vimercati, Le piante grasse, da “Domus”, I, 3, 15 marzo 1928, p. 34.

Fig. 26. Articolo (Giulia P. Vimercati ?), Alcune piante per appartamento, da “Domus”, I, 4, 15 aprile 1928, p. 23.

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Fig. 27. Articolo (Giulia P. Vimercati ?), Le tovaglie colorate, da “Domus”, I, 4, 15 aprile 1928, p. 44.

sulla cresta della tendenza e del gusto momentaneo, anticipandolo e pubblicizzandolo quasi sempre sulla rivista, dove presentava continue riflessioni sul ruolo dell’artista nella società moderna, battendosi e divulgando al contempo, uno stile di vita particolare e il buon gusto nelle case degli italiani. Non è casuale che il suo primo editoriale, all’esordio di “Domus”, fosse intitolato proprio La casa all’italiana. Un titolo, questo, che si presenta come una sorta di programma, o meglio, una dettagliata esegesi filosofica sul senso dell’abitazione, vissuta non tanto come “luogo” ideale e neanche inteso come rifugio «imbottito e guarnito» da chi vi abita contro le «durezze del clima», ma come “luogo” attivo dove l’uomo e la famiglia si ritrovano: «la casa all’italiana è come il luogo scelto da noi per godere in vita nostra, con lieta possessione, le bellezze che le nostre terre e i nostri cieli ci regalano in lunghe stagioni». Ponti, inoltre, riteneva che “La casa all’italiana” dovesse presentarsi «di fuori e di dentro

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Fig. 28. Articolo di Giulia P. Vimercati, Fiori in casa, da “Domus”,I, 5, 15 maggio 1928, p. 22.

senza complicazioni», che dovesse accogliere «suppellettili e belle opere d’arte» in uno spazio ordinato, rifuggendo dalla «folla o miscuglio» dell’accumulo di oggetti e cose. Il suo disegno non doveva discendere «dalle sole esigenze materiali del vivere»40, in quanto la casa non doveva essere esclusivamente una “brutale” “machine à habiter”41 espressa da Le Corbusier, nei cui confronti, tuttavia, Ponti mostrava un vivo interesse e un forte riconoscimento. Il concetto stesso coniato da Le Courbusier di “machine à habiter” aveva, per Ponti, un risvolto «veramente benefico nello studio del problema dell’abitazione moderna», perché perfezionava e risolveva, «coi procedimenti tecnici», la questione «essenziale della igiene, della comodità, della praticità e della qualità» dei bisogni “preliminari” cui doveva rispondere «una abitazione nella sua forma e nel suo arredamento»42. Per Ponti il “comfort” doveva essere qualcosa di superiore, la casa doveva esprimere, con la sua architettura, «una misura per i nostri stessi pensieri, nel darci con la sua semplicità una salute per i nostri costumi, nel darci con la sua accoglienza il senso di una vita confidente e numerosa»43. Infine la casa, nel suo valore simbolico e materiale, era per Ponti la «nostra vita», era il “vaso” che doveva raccogliere le «nostre ore belle e brutte» e, ancora, era il «tempio per i nostri pensieri più nobili», perciò questa casa non doveva assolutamente essere «di moda», proprio in virtù del principio fondante che non doveva «passare di moda»44 (fig. 29). G. Ponti, La casa all’italiana, in “Domus”, I, 1, 15 gennaio 1928, p. 7. Id., La “machine à habiter”, in “Domus”, I, 7, 15 luglio 1928, p. 10. 42 Ibid. 43 Id., La casa all’italiana..., cit., p. 7. 44 G. Ponti, La casa di moda, in “Domus”, I, 8, 15 agosto 1928, p. 11; Ponti avrebbe, poi, riunito in un unica pubblicazione questi suoi scritti definendoli significativamente una sorta di poetica, come si evince dalla sua breve prefazione: «Sono qui riunite cose scritte dal 1928 in qua. Battaglie quasi vinte (contro il finto antico); battaglie da vincere (contro il moderno brutto); esami di coscienza (sulle arti d’oggi); una professione di certissima fede nelle moderne arti italiane», in, Id., La casa all’italiana, Milano, Editoriale Domus, 1933, s.p. 40 41

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Fig. 29. Articolo di Gio Ponti, La casa di moda, I, 8, 15 agosto 1928, p. 11.

Senza dubbio, in quel periodo Ponti si mostrò molto reverente e attento ai consigli di Ojetti, tanto che, nella copiosa corrispondenza intercorsa tra i due, puntualmente lo indicava come «Illustre amico»45. D’altronde, era stato Ojetti ad averlo messo in contatto con Padre Semeria, per la nascita di “Domus”, per la quale Ponti fin da subito accettò con entusiasmo di «lavorare per la diffusione del buon gusto»46, anche se presto il giovane architetto andò ricercando una sua totale autonomia, che lo portò, come abbiamo accennato, ad un conflitto con i gerenti della casa editrice “Domus”. Anche il rapporto con Ojetti si raffredderà, pur senza interrompersi, visto che probabilmente si trattava di un rapporto mal posto, frutto di una visione distorta da parte dello stesso Ojetti, il quale non sembrava aver compreso il punto di vista di Ponti, come ben si evince dalla Lettera a Giovanni Ponti, sul lusso necessario, che Ojetti pubblicò su “Pegaso”, nel gennaio 193347, all’indomani della presentazione della “V Triennale di Milano”, la prima che si svolgeva nel capoluogo lombardo, dopo le precedenti edizioni monzesi. In questo intervento, l’eminente personalità coglieva – e in parte stravolgeva – quel fondamentale principio di Ponti per cui un manufatto esprimeva il suo valore estetico non tanto per l’uso di materiali preziosi ma piuttosto per la sua esecuzione magistrale, da parte delle tante maestranze italiane, nei vari settori della ceramica, dei metalli, dei vetri, del mobilio. Per Ponti questo modus non doveva essere disgiunto dalla creatività legata alle nuove tecniche di produzione e alla ricerca di nuovi materiali, anzi, come sarà nel corso della sua lunghissima attività, esso doveva offrire una formidabile opportunità all’artista creaLettera di Gio Ponti a Ugo Ojetti datata, Milano 7.11.1927, conservata presso il “Fondo Ugo Ojetti”, Galleria Nazionale Arte Moderna, Roma, cons. in F. Irace, Gio Ponti..., cit., nota 24, p. 49. 46 Ibid. 47 U. Ojetti, Lettera a Giovanni Ponti, sul lusso necessario, in “Pegaso” (MilanoFirenze), V, 1, gennaio 1933, pp. 97-99. 45

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tore, senza per questo dover rinunciare alla sapienza tradizionale delle maestranze di antica memoria. In questo il “lusso” – sarebbe meglio definirlo “prezioso” – dell’oggetto, certo rivolto a un pubblico benestante, era componente insita, ma non assolutamente indispensabile e “necessaria”, come invece aveva inteso Ojetti: «se sono oggetti di lusso, non s’ha da averne paura, tanto meno in tempi di povertà, perché l’umanità non va avanti, né in morale né in arte, che guardando in alto...»48. Ojetti in fondo non capiva la differenza sostanziale tra la creazione di un mobile moderno, fatto con i nuovi metodi dell’impiallacciatura, e quella di un mobile fatto, invece, alla vecchia maniera in massello di quercia, cadendo così nell’equivoco che tale differenza non era dovuta a un diverso stile di vita, bensì, a un’«ambizione d’apparire più di quello che si è». Ojetti continuava dicendo che, una volta «abolita la decorazione di rilievi o di bronzi in un mobile», ora «ridotto liscio e, come dicono, strutturale», sono tornati a ristabilire «il pregio e il lusso», sia pure con «un’impiallacciatura spessa un millimetro [...] purché l’opera sembri ancora ricca e impareggiabile»; per non parlare delle sedie, «fabbricate in serie di migliaia piegando a macchina un tubo di metallo cromato»49. Tutto questo per Ojetti era il frutto di un indirizzo sbagliato che vedeva il «piccolo borghese» compiacersi, sentendosi così, al pari della grande borghesia, per una «tavola e letto impiallacciati di finto palissandro o di finta radica», «piccolo borghese» che, solo vent’ anni prima, «sarebbe stato orgoglioso di possedere per la sua mensa una tavola in massello di quercia o per le sue nozze un letto tutto di noce»50. Il punto d’incomprensione tra il pensiero di Ojetti e quello di Ponti risaliva all’assunto che per l’artista il “lusso” non era assolutamente necessa48 49

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Ibid., p. 97. Ibid., p. 98. Ibid.

rio, ma una conseguenza della ricerca di una perfezione. Per Ponti, infatti, possiamo asserire, parafrasando Bruno Munari, che il lusso non era il fine, ma il mezzo, il segno distorto dello stile, anche quando faceva uso dei materiali più scelti e ricercati, come nelle mirabili porcellane disegnate a punta d’agata con l’impiego di elementi come l’oro, il cobalto o il blu di prussia: l’oggetto finito risulta essere di un’eleganza sopraffina, mai opulenta e si fa apprezzare per la sua perfezione, quasi incantata e leggiadra. Non è un caso che, nella superba e aristocratica abitazione di Ojetti, la villa “Il Salviatino”, alle pendici di Firenze, esempio fulgido del gusto «neo cinquecentesco toscano», vi fosse un tripudio di opere antiche: dalle sculture di Jacopo della Quercia e Alessandro Algardi, alle tele di Nicolas Poussin e Giambattista Tiepolo, intramezzate da innumerevoli quadri moderni di Oscar Ghiglia e dalle più belle sculture di Libero Andreotti, in un contesto arredato rigorosamente con autentici mobili di manifattura toscana quattro-cinquecentesca, abilmente accostati a manufatti esclusivamente «in massello», ad opera delle più rinomate botteghe artigiane fiorentine, che recuperavano, nelle forme, nelle decorazioni e nella funzionalità, i modelli antichi51. In questo contesto, quindi, appare evidente che non potevano figurare i mobili pontiani, impiallacciati o in massello, di moderna e sprezzante “classicità”, ma solo alcuni soprammobili in ceramica, come la bellissima cista della Passeggiata archeologica (fig. 30), eseguita appositamente per Ugo e Fernanda Ojetti, realizzata ovviamente ad opera della manifattura Richard-Ginori e modellata, nelle piccole figure plastiche alate, da Libero Andreotti52. Per quest’ aspetto della collezione e dell’arredo di Villa il Salviatino residenza di Ojetti vedi, G. Battaglia, La raccolta Ojetti, in Da Fattori a Casorati. Capolavori della collezione Ojetti, cat. mostra a cura di Giovanna De Lorenzi, Viareggio (Lucca), Centro Matteucci per l’Arte Moderna, 26 giugno – 12 settembre 2010, Viareggio (Lucca),Edizioni Centro Matteucci 2010, pp. 31-45. 52 In riferimento, proprio, alla grande cista con figure alate La passeggiata archeologica, oggi conservata presso il Museo Poldi Pezzoli di Milano, Ponti 51

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Fig. 30. Gio Ponti, figure plastiche modellate da Libero Andreotti, Cista “La passeggiata archeologica”, esemplare eseguito e dedicato per Ugo e Fernanda Ojetti, 1927, Milano, Museo Poldi Pezzoli.

Lo scultore fiorentino collaborò in molte altre imprese di Ponti, come la cappella funeraria per la famiglia Borletti, nel cimitero monumentale di Milano del 1929-31, dove realizzò, con la collaborazione di Bruno Innocenti, due bassorilievi in pietra serena del fronte principale. È inoppugnabile che Ponti, negli anni della RichardGinori, scegliesse come collaboratori, artisti molto vicini o sostenuti da Ojetti e qui, oltre all’Andreotti, artista di chiara fama, è da ricordare in primis lo scultore Italo Orlando Griselli, già titolare della cattedra di scultura presso l’Accademia fiorentina. Inoltre, altri significativi e più sporadici collaboratori, nel corso del tempo, furono il finissimo e ricercato ceramista, già docente e poi direttore dell’Istituto d’Arte di Sesto Fiorentino, Giuseppe Piombanti Ammannati53, o la decoratrice Elena Diana e il pittore Vittorio Faggi. Nella fruttuosa collaborazione che Griselli ebbe con Ponti, è da ricordare il gruppo plastico centrale, raffigurante l’Italia, per il sontuoso Trionfo da Tavola, ideato da Ponti con la collaborazione di Tommaso Buzzi, per le Reali Ambasciate d’Italia all’estero, poi prodotto in serie limitata nel 1926-27 (figg. 31, 32, 33). I manufatti in questione erano chiaramente rivolti ad una clientela esclusiva, in un’Italia che si andava sempre più impoverendo disastrosamente e dove neanche le blande ricette dell’autarchismo l’avrebbero salvata da una nefasta e repressiva politica, sia in campo economico che sociale. A questo riguardo forse, giova anche ricordare che, verso il 1932, i disoccupati raggiungevano la cifra enorme di oltre 1.200.000, ne scrisse in merito in una bella lettera, datata 3 settembre 1926, indirizzata allo stesso Andreotti, nella quale asseriva di voler parlare «delle belle figurine per la cista di Ojetti ... vedendo in esse i segni del tuo spirito e del tuo lavoro mi sono commosso», ora riportata integralmente in C. Pizzorusso e S. Lucchesi, Libero Andreotti Trent’ anni di vita artistica... cit., p.239. 53 Sul rapporto intercorso tra Piombanti e Ponti rimando al mio, Il ruralismo magico di Giuseppe Piombanti Ammannati, cat. mostra a cura di Mauro Pratesi, Oratorio di Santa Caterina delle Ruote, Bagno a Ripoli (Firenze), 12 aprile – 25 giugno 2006, Firenze, Edizioni Polistampa, pp. 15-66.

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Fig. 31. Gio Ponti, Disegno del pezzo centrale del Trionfo da tavola per le Ambasciate d’Italia all’estero, da “Domus”,12 (numero di Natale), dicembre 1928, p. 63.

su una popolazione che non arrivava a 40.000.000 di abitanti, e che i salari maschili subivano la riduzione del 20%, nonostante che gli anni tra il 1929 e il 1934 fossero stati il periodo di maggior consenso della dittatura fascista guidata da Mussolini; ciò a fronte di un inasprimento delle difese doganali contro le merci straniere, grano compreso, e del processo della concentrazione industriale a carico totale del consumatore e del contribuente54. Così la crisi sociale, economica e politica ben poco si faceva sentire dalle belle sale del Salviatino, dove Ojetti predicava, poco credibilmente, a favore di un lusso ideale che non doveva spaventare la gente «tanto meno in tempi di povertà». Certo, anche la crisi si doveva sentire sicuramente in altra maniera, rispetto Su quest’aspetto della vita sociale e borghese del tempo vedi la ricognizione, dal punto di vista mondano, storico e politico-sociale, a cura di N. Aspesi, Il Lusso & l’Autarchia Storia dell’eleganza italiana 1930 – 1944, Milano, Rizzoli 1982.

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Fig. 32. Gio Ponti, figura plastica modellata da Italo Griselli, Italia turrita, 1925-1927, porcellana, Doccia (Firenze), manifattura Richard-Ginori.

Fig. 33. Gio Ponti, figura plastica modellata daItalo Griselli, Italia turrita, 1925-1927, esemplare colorato, probabile variante dell’originale o eseguito per il mercato privato, porcellana, Doccia (Firenze), manifattura Richard-Ginori.

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al resto della popolazione, dalle belle case milanesi arredate con marmi, metalli e specchi dagli architetti del momento, come Ponti, Bega, Buzzi, o Pagano; è vero però che almeno qui, gli architetti avevano portato avanti una sorta di educazione a un senso del gusto e, quindi, a un lusso decisamente moderato, nei confronti di una categoria abbiente composta per lo più da industriali e professionisti. Anche attraverso i consigli impartiti alle signore della casa, da parte di riviste come, appunto, la Domus di Ponti, dove il lusso, pur essendoci, non era ostentato, si divulgava, al contempo, un arredamento moderno, funzionale, ma comunque elegante ed esclusivo, insieme alle innovative usanze, già in atto nella Parigi del tempo, relative al modo di ricevere gli invitati: tutto pronto sui tavoli e ognuno prende ciò che vuole. È chiaro perciò che questo prevedeva un’apertura mentale difficilmente rintracciabile nel conservatorismo alto borghese, del quale Ojetti si faceva portatore e ispira-

tore. È singolare il fatto che, nella Firenze dei primi anni trenta, non fosse stato Ojetti ad affidare a Ponti l’arredamento e la sistemazione della propria villa, com’era d’altronde prevedibile visti i buoni rapporti, bensì furono i Conti Alessandro e Vittoria Contini Bonacossi, famosi collezionisti d’arte antica e moderna, che affidarono all’architetto l’arredamento della loro Villa Vittoria: i mobili furono disegnati appositamente da Ponti con la collaborazione di Buzzi ed eseguiti dal mobilificio Quarti, come si evince dalle foto del tempo55. L’arredamento di Villa Vittoria, un vero unicum per Firenze (fig. 34), rispecchiava, e in un certo senso riassumeva, gli indirizzi dell’architetto fino a questo momento, già ampiamente divulgati con le iniziative dell’impresa del Labirinto, promossa da Ponti nel 1927: una sorta di sodalizio fra imprenditori dell’artigianato esclusivo e di qualità, tra i quali Venini, Carla Visconti di Modrone, Pietro Chiesa e gli architetti Lancia, Buzzi, Marelli, e la linea di arredamento Domus Nova, creata per i grandi magazzini de “la Rinascente” sull’esempio organizzativo dei grandi empori francesi. Qui l’autore, sempre in collaborazione con Lancia, proponeva un arredamento totale, meno esclusivo del Labirinto, con esemplari coordinati più accessibili ed economici, ma sempre molto curati nei dettagli, che tuttavia potevano raggiungere nuove fasce di acquirenti (figg. 35, 36, 37, 38, 39). Edoardo Persico, nel riprendere le argomentazioni di Ojetti, non si manifestava certo clemente nei confronti della “V Triennale”, dove la «maggior parte degli espositori», secondo il suo giudizio, si era assecondata «ai gusti di una clientela ipocrita e reazionaria»56. All’interno del suo giudizio fortemente critico, Persico faceva la sola “eccezione” positiva Gli arredi furono più volte pubblicati sui numeri della rivista “Domus”, ora, tra i molti, in U. La Pietra, Gio Ponti... cit., p. 50 e ss. 56 E. Persico, Il gusto italiano, in “L’Italia letteraria”, 4 giugno 1933, cons. in Edoardo Persico Scritti d’architettura (1927/1935), a cura di G. Veronesi, Firenze, Vallecchi 1968, p. 58. 55

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Fig. 34. Gio Ponti – Tomaso Buzzi, Angoliera cantonale, produzione “Il Labirinto” 1930-1931; Sgabello in cuoio, velluto e bronzo; poltroncina in radica di noce, esecuzione ebanista Mangoni per la ditta Quarti, Milano 1930-1931.

Fig. 35. Gio Ponti-Emilio Lancia, Vetrina in acero grigio, produzione “Il Labirinto”, Milano 1928; al centro, G. Ponti, Urna con “La passeggiata archeologica”, 1924-1925, porcellana, Doccia (Firenze), manifattura Richard-Ginori.

Fig. 36. Gio Ponti, Disegno pubblicitario per mobili e oggetti d’arte “Il Labirinto”, da “Domus”, I, 4, 15 aprile 1928, p. 52.

Fig. 37. Gio Ponti-Emilio Lancia, Appartamento Schejola, sala da pranzo, Milano, Cassettone con specchiera, produzione “Domus Nova”, Milano 1928-1929; alla parete è riconoscibile il quadro di Achille Funi, Nudo femminile, 1929, olio su tela, ora, coll.priv.

Fig. 38. Gio Ponti, Ringhiera in ferro battuto, esecuzione Castellini e Garuti, Milano 1928 c.

proprio per Gio Ponti, riportando significativamente quanto l’architetto aveva enunciato nel suo scritto «La casa all’italiana» e ravvisando che, nelle parole di Ponti, così come «in tutte le opere sue», vi era «come il rimpianto poetico di uno spirito romantico costretto a venire a patti con una civiltà industriosa e organizzatrice». Persico arrivava a considerare la poetica di Ponti come frutto del suo sdegno per la moda, che non voleva dire «avversione al mondo moderno», bensì, impugnando Taine, un segno di coerenza come frutto dell’«inventore isolato», per il quale la storia dell’arte non era da ritenersi un progresso meccanico, ma «una successione di diversità»57. Persico doveva ancora e più convincentemente ribadire le sue idee, nel 1934, nel suo pezzo L’architetto Gio Ponti, dal quale si trae forse uno dei profili più belli e calzanti fra gli innumerevoli dedicati all’architetto. Qui, Persico esordiva, con inusitato coraggio, proprio contro l’immagine, a suo vedere fuorviante, che di Ponti aveva dato l’Ojetti solo l’anno prima su Pegaso. A questo proposito Persico affermava che non si doveva vedere in Ponti solo l’artista «rappresentativo del gusto borghese», immagine tanto cara all’illustre critico (Ojetti), perché, altrimenti, non si potevano 64

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Ibid., p. 59.

Fig. 39. Gio Ponti, Vetrata per appartamento, esecuzione Piero Chiesa, Milano 1928 c.

«risparmiargli le critiche più severe e motivate», ma che bisognasse «cercare [in Lui] il perfetto “novecentista” », per poter comprendere la sua opera di architetto e di organizzatore e cogliere, così, tutto il suo «valore non trascurabile nell’evoluzione del gusto italiano degli ultimi anni»58. Avere, per lo più, ridotto lo stile di Ponti, secondo Persico, «all’ossessione di un’arte di lusso», equivaleva improvvidamente a «disconoscere le preoccupazioni morali di cui gli deve tener conto anche l’avversario»59. Persico riteneva così che l’opera di Ponti fosse come una “missione”, in particolare nella sfera delle arti decorative, al pari dei pittori “novecentisti”, per il fatto di aver salvato e, allo stesso tempo, percepito l’inevitabile decadenza del gusto italiano e avergli ridato una coscienza europea, tutte “preoccupazioni” di uno stile decisamente e «concretamente moderno», totalmente estraneo «alle preferenze della nostra borghesia», che invece, secondo il parere di Ojetti, aveva custodito «la provvida ambizione di apparire più di quello che si è»60. In questo processo l’opera di Ponti non si poteva mai ritenere un’aspirazione dilettantesca o in antitesi alla moderna arte italiana, rifuggendo al pari di un Carrà o di un De Chirico i limiti angusti di una tradizione paesana, in quanto lo stile di Ponti sarebbe risultato incomprensibile all’infuori di questo assunto: «In lui il neoclassicismo, sulla scorta di un Hoffmann o di un Lallemant, è soltanto un’aspirazione all’arte moderna attraverso un problema di cultura». Inoltre, in virtù del suo «gusto neoclassico», Persico riconosceva a Ponti il merito di avere affossato le convenzioni romantiche e decadenti del «liberty trapiantato in Italia»61. Infine, Persico elogiava la figura di Ponti a confronto delle “preferenze” italiane del primo quarto del secolo, in quanto la sua opera veniva a E. Persico, L’architetto Gio Ponti, in “L’Italia letteraria”, 29 aprile 1934, cons. in, Edoardo Persico Scritti... cit., pp. 137-138. 59 Ibid., p. 137. 60 Ibid., p. 138. 61 Ibid. 58

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rappresentare inesorabilmente, in Italia, la cosciente «responsabilità del gusto europeo, e la sua necessità di essere moderno ad ogni costo», e se Ponti aveva, con la sua opera, accettato l’etica della borghesia europea, questo per l’acuto critico, non era da ritenersi altro che «una intima avversione per le avventure spirituali»62. Tant’ è che Ponti quando espose a Parigi nel 1925, accanto al grande Ruhlmann, lo fece senza «equivoci e senza mistificazioni provinciali»63. Persico chiudeva perentorio affermando che, da tutta questa esigenza, era nato il programma di Ponti per una «casa all’italiana», dove era avvertibile tutto «il dramma del gusto italiano del nostro tempo» ed era proprio per questo che riteneva «soprattutto cara la figura dell’artista»64. Ponti non mancò di ringraziare Persico con una lettera scritta il 1° maggio del 1934, all’indomani dell’uscita del pezzo, nella quale l’architetto dichiarava: «... il Suo modo di vedere le cose, che pone il mio lavoro sotto l’esame di un’etica artistica e di un’estetica in conseguenza di quella che si potrebbe chiamare “l’avventura del mio successo”, mi richiama ad una responsabilità. Che Lei mi sia vicino potrebb’ essere un’altra delle mie fortune: speriamo di meritarla. Suo Ponti »65. Nel 1935 Persico dedicherà a Ponti un’ultima nota relativa al progetto d’asilo-nido a Bruzzano, considerandolo «un momento importante nell’opera dell’architetto Ponti», cogliendo molto acutamente quel lento processo di lievitazione in senso razionalista, presente nello spirito di alcuni artisti “autenticamente” legati al filo della tradizione. In fondo si trattava per Persico di un’inevitabile «conversione al razionalismo degli artisti di gusto neoclassico» e perciò l’attività dell’architetto doveva leggersi nella giusta linea Ibid. Ibid. 64 Ibid. 65 Lettera di Gio Ponti a Edoardo Persico, datata Milano, 1° maggio 1934, parzialmente trascritta e riportata da G. Veronesi, in Edoardo Persico Scritti... cit., nota 7 p. 138. 62 63

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di quanti operavano «nell’ambito delle scuole nazionali», che avevano mirabilmente «legato il problema dell’arte alla situazione storica del paese»66. Singolarmente, in quello stesso 1935, Ojetti, nel recensire l’annuale “Fiera Nazionale dell’Artigianato di Firenze”, Arti e artigiani d’Italia, tuonava contro tutti i mobili impiallacciati di radica, descrivendoli «lisci e lucidi» e, a suo vedere, in singolare e deprimente competizione con le forme delle «sedie a tubi di metallo bianco». In questo modo il critico lanciava, per «uscire da questa monotonia», proprio a Ponti, Andlovitz e Buzzi, un improponibile appello, chiedendo al loro “garbo” «un poco d’intaglio o un poco d’intarsio», per restituire decoro e sobrietà di antica memoria a «sedie, armadi, tavole, letti»67. Va da sé che l’appello rimase inascoltato, in pratica il monologo di chi, dall’alto della propria autorità (Ojetti), non aveva capito o non voleva capire il messaggio estetico di un diverso linguaggio artistico, quello di Ponti. Nel frattempo Ponti aveva raggiunto la sua piena maturità da un punto di vista architettonico, soprattutto con le opere eseguite a Milano, anche in collaborazione con gli amici “neoclassici” Muzio e Lancia, come la Casa di via Randaccio del 1925, Casa Borletti di via San Vittore del 1928, il Monumento ai Caduti di piazza Sant’ Ambrogio del 1928, la Casa di via Domenichino del 1928-30, la cappella Borletti al Cimitero Monumentale del 1929-31. La palazzina di via Randaccio (fig. 40), progettata insieme a Lancia, fu, inizialmente, anche la prima dimora dell’architetto e non mancò di suscitare ampi consensi critici come quello di Ferdinando Reggiori, che descrisse questo primo lavoro del duo Ponti-Lancia, pur se dalle dimensioni assai modeste, come un’opera E. Persico, Un progetto di Ponti, in “Casabella”, aprile 1935, cons. in Id., Oltre l’architettura. Scritti scelti e lettere, a cura di R. Mariani, Milano, Feltrinelli 1977, p. 186. 67 U. Ojetti, Arti e artigiani d’Italia, (aprile 1935), in, Id., Ottocento Novecento e via dicendo, Milano, Mondadori 1936, pp. 217-224, in part. p. 223. 66

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Fig. 40. Gio Ponti, Casa in via Randaccio, 1924-1925, Milano.

molto raffinata che veniva a rappresentare non tanto una «creazione materiale», quanto «un organismo edilizio», nella «traduzione tangibile di un colorato disegno ornamentale». In fondo Reggioni coglieva a ragione il nesso col disegno «un po’ bizzarro» di certe architetture «un po’ false e fuori prospettiva», che Gio Ponti contemporaneamente andava realizzando «sugli albi panciuti delle sue ceramiche»68; Muzio, dal canto suo, offriva un pregevole “cameo” definendo la casa di via Randaccio «tutta ricca e variamente modulata di ritmi di finestre e di spazi»69. Analoga vicenda è la coeva villa Bouilhet a Garches, nei dintorni di Parigi (figg. 41, 42, 43), concepita con la collaborazione di Lancia e Buzzi, elegantissima nelle proporzioni e nei dettagli, dal disegno nitido degli interni, ove è possibile cogliere la perfetta lievità d’impronta “neoclassica”, a tratti perfino ironica nei rimandi classici, di gusto decisamente moderno anche se aliena da soluzioni formali estreme e virtuose. La realizzazione più significativa di questo periodo, come esempio peculiare di «integrazione delle arti alla struttura del guscio architettonico»70, doveva essere il monumento ai Caduti, lungo il fianco claustrale della basilica di San’Ambrogio (fig. 44), non casualmente salutata da Muzio come «l’opera di maggiore mole» del «ritorno al classicismo» ad opera di quel manipolo di artefici della nuova «avanguardia della tradizione»71 che, d’altronde, lo vedeva schierato nel progetto esecutivo insieme allo stesso Ponti, a Buzzi, Cabiati e Alpago-Novello. Il sacrario ai Caduti o, tempio della Vittoria, voluto da Benito Mussolini per celebrare il decennale della Grande Guerra, fu inaugurato, infatti, il 4 novembre del 1928 ed eseguiF. Reggiori, Villa a Milano in via Randaccio degli architetti Emilio Lancia e Giovanni Ponti, in “Architettura e Arti Decorative”, VI, 1926-1927, pp. 568 e ss. 69 G. Muzio, Alcuni architetti d’oggi in Lombardia, in “Dedalo”, XI, vol. IV, 1930 – 1931, p. 1109. 70 F. Irace, Gio Ponti... cit. p. 10. 71 G. Muzio, Alcuni architetti d’oggi …, cit., pp. 1082-1119. 68

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Fig. 41. Gio Ponti, Villa Bouilhet, 1925, Garches, Parigi.

Fig. 42. Gio Ponti, Disegno, fronte esterno di Villa Bouilhet, 1925.

Fig. 43. Gio Ponti, Disegno, interno di Villa Bouilhet, 1925.

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Fig. 44. Gio Ponti con A. Alpago Novello, T. Buzzi, O. Cabiati, G. Muzio, Monumento ai caduti della Grande Guerra di Sant’Ambrogio, 1926-1928, Milano.

to in un solo anno. L’edificio a pianta ottagonale, a ricordo delle otto porte della città, si erge per un’altezza di 43 metri e un diametro di 18, tutto in marmo levigato di Musso, lo stesso materiale usato per opere di età romana, e infatti, la struttura si rifà idealmente all’impianto architettonico centrale di matrice classica della Roma augustea. La plasticità del sacrario trova una sua completa esaltazione nell’interazione con le sculture e gli ornati, tra cui, in particolare, il capolavoro di Adolfo Wildt del Sant’ Ambrogio in atto di calpestare le sette serpi che simboleggiano i vizi capitali. Tutto l’impianto plastico-decorativo trova una continuità stilistica nei confronti delle adiacenti opere all’interno dell’antico complesso della basilica, come si evince dai mosaici raffiguranti vasi romani antichi. Al piano inferiore si situa la cripta ottagonale formata da un deambulatorio da cui parte la bella struttura della scala elicoidale, che avvolge tutto il monumento e si sviluppa lungo un’imponente colonna centrale. Il monumento si presenta esternamente circondato dalle sobrie inferriate ad opera di Alessandro Mazzucotelli e dalle sculture di Wildt, Antonio Maiocchi e altri. In un primo tempo, anche Libero Andreotti avrebbe dovuto partecipare al progetto con due gruppi equestri72, ma non furono accolti e tale rifiuto causò uno stato di frustrazione nello spirito dello scultore. Forse fu proprio per rimediare a questo smacco che Ponti commissionò successivamente, allo stesso Andreotti, l’esecuzione dei due bassorilievi raffiguranti l’Angelo della fede e l’Angelo della carità per la A tale riguardo vedi quanto Ponti comunicò confidenzialmente all’artista in merito alle realizzazioni decorative del monumento in una prima lettera datata, Milano luglio-agosto 1927, nella quale l’architetto esponeva il programma iconografico del Tempio della Vittoria, ma più puntualmente in altra lettera datata 9 gennaio 1928, nella quale emergevano le sostanziali difficoltà in merito alla realizzazione dei gruppi plastici, ove Ponti gli comunicava che «Noi ci eravamo battuti per il marmo: il bronzo nel nostro clima è meno bello. È bello se è esplicito, con elementi chiari leggibili altrimenti diventa un mucchio sordo» lettere riportate integralmente in C. Pizzorusso e S. Lucchesi, Libero Andreotti Trent’anni di vita artistica... cit., pp. 247-248 e p.259

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nuda facciata della Cappella funeraria della famiglia Borletti73 (fig. 45). Nella Cappella del cimitero monumentale di Milano, inaugurata nel 1931, Ponti instillò il concetto dell’essenzialità, purificata da ogni vanità, attraverso la forma sobria del parallelepipedo sulle cui pareti esterne lisce e piatte, le porte e le finestre sono incise a filo del muro, dove la luce riflette in maniera omogenea. La cappella, disadorna, ospita pochi ma importanti segni cristiani come le vetrate eseguite da Pietro Chiesa in cristallo inciso e la grande croce centrale incorniciata da diorite d’Anzola, che taglia la facciata. Essa rappresenta per l’architetto emblema di morte e assurge a simbolo di “forca”, liberando l’interno da ulteriori abbellimenti, dà vita ad una forma purificata da ogni orpello architettonico, per non distrarre dalla contemplazione spirituale74. Nel corso degli anni Trenta Ponti si applicò a una dimensione più ampia, che non si apriva solo sul piano dell’abitazione borghese o ricercata, ma anche sul piano urbanistico, intervenendo sulla tipologia della casa condominiale e realizzando vasti “falansteri”, che caratterizzarono l’area urbana e cittadina, con un linguaggio e un segno ben precisi. Ponti affrontò questa nuova avventura, senza rinunciare al suo “segno”, al raffinato gusto per i particolari e alle soluzioni più ricercate che lo avevano ormai reso famoso e riconoscibile: voleva dimostrare che il suo concetto di “casa” valeva univocamente, non solo per la casa esclusiva, ma anche per quella condominiale, medio-borghese o, finanche, quella popolare. Andreotti realizzò, con la collaborazione di Bruno Innocenti, infatti, i due bassorilievi in pietra raffiguranti due Angeli, come si evince anche dalla missiva inviata, in data 1 febbraio 1930, allo scultore da Ponti, ove si legge l’esplicita richiesta: «ti mando un alzato della tomba Borletti. Non vorrei discostarmi o da quello che tu hai fatto o deposizione oppure due begli angioli: l’idea di Marta e Maddalena mi pare troppo lontana dai Borletti», lettera riportata integralmente in, C. Pizzorusso e S. Lucchesi, Libero Andreotti Trent’anni di vita artistica... cit., p.275. 74 Per quest’aspetto vedi F. Massarini, I monumenti della memoria, in, Gio Ponti e l’architettura sacra, a cura di M. A. Crippa e C. Capponi, Milano, Silvana Editoriale 2005, p. 198. 73

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Fig. 45. Gio Ponti, Cappella funeraria per la famiglia Aldo Borletti,1929-1931, Cimitero Monumentale, Milano.

Per Ponti il tema della casa condominiale divenne, tra il 1930 e il 1935, una tipologia ben precisa di quel concetto di “domus”, mettendo in atto quel progetto, ampiamente divulgato sulle pagine di “Domus” e sulle rubriche del “Corriere della Sera”75, della «casa all’italiana», pensata in funzione di una utenza medio-borghese, dove l’architetto riuscì a coniugare l’idea di una rifondazione dell’istituto domestico. In questo contesto, Ponti unisce alla figura del progettista quella, inedita, del moderno investitore e gestore di capitali altrui. Ponti realizzerà, così, un programma fattivo che fino a questo momento, era stato demandato prevalentemente ad un ordine teorico ed estetico. Prendeva corpo, quindi, quella funzione sociale dell’abitazione fondata intorno al nucleo familiare, che si concretizzava in una rigorosa e conVedi a questo proposito l’antologia degli scritti, Gio Ponti e il «Corriere della Sera» 1930 – 1963, a cura di L. Molinari e C. Rostagni, Milano, Rizzoli 2011.

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sona distribuzione razionale degli alloggi. Altresì, Ponti riformulerà, in sintonia con i migliori esempi dell’architettura europea, il concetto della facciata, non più intesa come tronfia apparenza, appesantita da decori o elementi architettonici, ma alleggerita da ogni trabeazione, colonne, cornici o marcapiani, avvalorando il concetto per cui «L’esterno della casa è tutt’ uno con l’organismo che la costruzione rappresenta, e questo organismo è tutt’ inteso a offrire agio e piacere per l’abitazione con verande, terrazze, con grandi vetrate»76. Questi elementi furono per Ponti indispensabili e fondanti, anzi vennero a costituire la casa stessa, ove gli “sfoghi” verso l’aria e il sole si dovevano aprire nelle «più belle stanze: verande, terrazze e belle aperture», caratteristiche peculiari e indispensabili, che dichiaravano come un suggello «le doti per “vivere” delle case»77. A questo concetto, una vera dottrina, Ponti resterà fedele nel corso della sua lunga attività e, tra i tanti suoi interventi teorici in merito, va ricordato quello da lui espresso in occasione del prestigioso convegno internazionale sul tema Rapporti dell’Architettura con le arti Figurative, organizzato nel 1936 dalla Fondazione Alessandro Volta, presso la Reale Accademia d’Italia a Roma, al quale parteciparono i nomi di spicco del panorama artistico europeo, da Filippo Tommaso Marinetti, a Le Corbusier, Carlo Carrà, Felice Casorati, Marcello Piacentini, Giuseppe Pagano, André Lhote, Willem Marinus Dudok, Paul Fierens, Giovanni Muzio, Piero Portaluppi, Leo Planiscig, Mario Sironi, Felice Carena, ed altri. In questa solenne occasione Ponti, in sintonia con la relazione di Carena, ribadiva con forza il suo credo: «Non si tema dunque troppo il nudismo: alla fine, o pittori, sarà solo una parete nuda che potrà essere dipinta o potrà accogliere un quadro, non certo una

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76 G. Ponti, Nuova concezione dell’edificio d’abitazione, in Id., La casa all’italiana, Milano, Editoriale Domus 1933, pp. 42-43. 77 Ibid.

parete “decorata”! sarà solo una facciata semplice, o scultori, che potrà “echeggiare” l’eloquenza d’una statua! Ma andate a mettere una statua davanti ad una facciata liberty tutta rilievi!»78. Queste idee avevano già trovato ampia applicazione nella costruzione di quelle “case tipiche”, tra il 1931 e il 1933, nei complessi di Domus Julia, Domus Carola e Domus Fausta in via Aristide De Togni a Milano e in via Letizia (fig. 46). In particolare la Domus Julia, la prima della serie, avvalora il concetto di attrezzatura domestica, riducendo al minimo gli ambienti di servizio, in funzione di un ambiente vivibile, ampiamente spazioso e di un annesso terrazzo. Contemporaneamente a questa soluzione spaziale nacque l’esigenza, da parte dell’architetto, di offrire un arredo integrato, capace di dividere funzionalmente l’ambiente in aree di diversa utilizzazione, tant’ è che Ponti riteneva questi elementi come integrali alla struttura, predicando esplicitamente che «vetrine, scaffali fissi debbono diventare elementi già compresi nella costruzione»79. Anche nelle successive Domus Carola e Fausta (fig. 47) sviluppò principi analoghi, tanto che nel loro insieme, i tre edifici si uniformarono per omogeneità stilistica, giocando sulla scansione di piccole differenze, come i portali d’ingresso o l’alternanza di finestre e balconi dipinti in varie tinte – dal giallo ocra per la Domus Fausta, al rosso mattone per la Carola e al verde per la Julia –, avvalorando l’effetto ricercato da Ponti di una «gaiezza tutta italiana»80. Concepite nello stesso giro di anni, tra il 1933 e il 1934, sono anche le Domus Livia, Aurelia, Honoria e Serena di via del Caravaggio, come la Domus Flavia di Seguito delle discussioni sulle Relazioni di F. Carena e F. Fichera, intervento di G. Ponti, in Convegno di arti - Rapporti dell’architettura con le arti figurative, a cura di M. Piacentini, Reale Accademia d’Italia-Fondazione Alessandro Volta, Roma 25-31 ottobre 1936, Roma, Tipografia del Senato 1937, pp. 241-242. 79 G. Ponti, L’Italia che si rinnova, in “Domus”, VI, 72, dicembre 1933, pp. 624-626. 80 Ibid. 78

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Fig. 46. Gio Ponti, “Case tipiche”, in via De Togni, Domus Carola, 1932-1936, Milano.

Fig. 47. Gio Ponti, “Case tipiche”, in via Caravaggio, 1931-1936, Milano.

via Leopoldo Cicognara, sempre a Milano. Le unità rappresentano uno dei progetti più organici dell’attività pontiana, pensate come germi urbanistici ed elaborati intorno ad un’idea di «strada-giardino». Ponti progettò un’intera unità di quartiere con abitazioni integrate, sviluppando un programma edilizio basato su una sostanziale ripetitività tipologica, che prevedeva l’uso di comuni materiali e una semplificazione volumetrica, caratterizzata dai colori di facciata e dalle diverse sagomature, elementi che l’architetto attinse dagli esempi coevi promossi in Germania dagli architetti radicali, realizzando appartamenti dal doppio ingresso, i cui elementi di facciata proiettavano all’esterno la natura stessa degli ambienti interni. In particolare, nella Domus Serena, Ponti sperimentò la soluzione brillante, poi ripetuta per casa Marmont, della doppia fila di balconi legati da una serie di pilastri verticali che davano vita a delle logge sovrapposte che, nella prima versione, dovevano culminare con un motivo di obelischi, a rappresentare i caratteristici «elementi italici», insieme alle sagomate “cartelle” in stucco, distribuite parsimoniosamente lungo gli scarni prospetti81. La Domus Honoria si contraddistingue, invece, per le singolari soluzioni delle aperture prospicienti, i balconi, con le alternanze ritmiche di porte e finestre. Nel 1933, per la “V Triennale”, Ponti inaugurava, nel parco del Sempione, la Torre Littoria (ora Torre Branca) (fig. 48), progettata insieme a Cesare Chiodi per i calcoli strutturali. Secondo Persico, la sagoma slanciata della torre, sorta di moderno obelisco puntato verso il cielo, era non solo un’opera frutto di calcoli audaci, ma anche una straordinaria «opera d’arte», tanto che la scelta del materiale per la costruzione, il tubolare d’acciaio della Dalmine, invece dei comuni profilati, Lettera di Ponti in riferimento ad una variante della “Domus Serena”, datata, Milano 2 dicembre 1933, cons. in F. Irace, Gio Ponti... cit., nota 16, p. 88.

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Fig. 48. Gio Ponti, Torre Littoria, ora Torre Branca,1933, Parco del Sempione, Milano.

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per Persico, non rispecchiava per niente una necessità tecnica, ma una «esigenza stilistica»82 e, lo stesso Ponti precisava in merito che la ricerca artistica era nata come “risultato”, mai come “presupposto”, perché come tale la ricerca «non riesce mai!»83. Nel frattempo, tra il 1932 e il 1935, prendeva corpo la realizzazione della Città Universitaria di Roma ad opera di Marcello Piacentini, designato dal Governo «Direttore generale e Architetto Capo», un’operazione, questa, tra le più rilevanti del periodo, uno dei grandi eventi architettonici e urbanistici dell’Italia fascista. Piacentini sceglierà e assegnerà direttamente a vari architetti gli incarichi per gli edifici delle facoltà, chiamando a collaborare, tra i tanti, Pietro Aschieri, Giovanni Michelucci, Giuseppe Pagano e Ponti, al quale affiderà l’Istituto di Matematica. La realizzazione di Ponti, con una sola entrata, è da considerare, forse, la più originale di tutto il complesso (figg. 49, 50), dove l’architetto offre una sorta d’interpretazione in chiave “romana” del “neoclassicismo” milanese, con una particolarissima e ben riuscita estetica razionalista, espressa in modo pulito sul retro dell’edificio, dalle ampie vetrate e dai profili lineari, netti e chiari. Nel 1933 progettò, insieme a Lancia, la Casa e Torre Rasini, tra Corso Venezia e i Bastioni, a Milano (fig. 51). Il complesso delle due case, pensate come un grande cubo e una forma cilindrica, si bilancia plasticamente ed armoniosamente, dove l’elegante torre, che si affaccia sul parco circostante, si accosta alla superficie marmorea della più bassa e cubica casa d’angolo sul corpo di Corso Venezia. Gli stessi archiE. Persico, La torre al parco, in “Casabella”, agosto-settembre 1933, cons. in Id., Oltre l’architettura... cit., pp. 92-93. 83 G. Ponti, Fantasia degli italiani, in “Stile”, 12 dicembre 1946, pp. 16-23; per la posizione critica di Ponti vedi quanto l’autore ebbe a scrivere intorno ad uno scritto di Sergio Samek Ludovici, Avventura della critica architettonica, il quale – come specificò lo stesso Ponti – era nato da «note numerose di Ludovici che si riferiscono a mie note in margine al suo manoscritto», G. Ponti, Avventura della critica architettonica, in “Stile”, luglio 1944, p. 20 e note pp. 22-23. 82

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Fig. 49. Gio Ponti, Interno dell’ingresso della Facoltà di Matematica, 1933-1936, La Sapienza, Città Universitaria, Roma.

Fig. 50.Gio Ponti, Esterno della Facoltà di Matematica, 1933-1936, La Sapienza, Città Universitaria, Roma.

Fig. 51. Gio Ponti- Emilo Lancia, Casa e torre Rasini, 1933, Bastioni di Porta Venezia, Milano1928

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tetti, nella nota descrittiva di accompagnamento del progetto, annotavano di aver dato, proprio per il complesso di Corso Venezia, «una classica compostezza affidata all’unitarietà del motivo centrale dei balconi, all’euritmia dei vuoti e dei pieni ed alla nobiltà del materiale, costruito da lastre di pietra dalla base alla gronda» mentre, per l’edificio di maggiore altezza, la torre, era stato «necessario dare movimento di masse e varietà di colori che creasse un elemento pittoresco sullo sfondo del verde»84. Di particolare raffinatezza sono i successivi edifici condominiali milanesi di Casa Marmont, in via Gustavo Modena (1934-1936) (figg. 52, 53, 54) e Casa Laporte, in via Benedetto Brin (1935-1936) (figg. 55, 56, 57), caratterizzati da prospetti dal disegno sottile e da dimensionali lastre piane. In questa prima metà degli anni trenta Ponti eseguì alcuni oggetti di finissima qualità (pezzi unici o di serie), come gli specchi incisi per la ditta Luigi Fontana, con scene di animali e di fiori o di soggetti dal richiamo vagamente mitologico, interpretato liberamente con estro fantasioso, come nel caso del raffinato specchio raffigurante La pesca della sirena (1931); (fig. 58), ma anche l’esclusivo Gonfalone dell’ospedale Maggiore di Milano: un grande pannello 255x140 cm., eseguito nel 1935, interamente rivestito in seta, con ricami in oro fino e in argento e con inserti di pietre dure e perle85 (fig. 59). Nel 1935 Guido Donegani, fondatore e padrone dell’industria Montecatini, gli commissionava la realizzazione del grande complesso della società, da edificarsi in via della Moscova, angolo via Turati, a Milano86. Ponti, con la collaborazione di Antonio G. Ponti-E. Lancia, Relazione, datata 28 marzo 1933, Milano, Archivio Comunale, Rip. Ed. Priv., prot., n. 187726-33, cons., in, F. Irace, Gio Ponti... cit., nota 3, p. 95. 85 Vedi a tale proposito, P. M. Galimberti, Il gonfalone dell’ospedale Maggiore di Milano, 1935, in Gio Ponti e l’architettura sacra … cit, pp. 121-125. 86 Lisa Ponti mi ha confidato, nell’incontro del 3 febbraio 2016, che inizialmente Donegani, su consiglio dei suoi collaboratori, aveva ritenuto 84

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Fig. 52. Gio Ponti, Casa Marmont, 1934-1936, via Gustavo Modena, Milano.

Fig. 53. Gio Ponti, Interno di casa Marmont, cameretta per l’ospite con l’armadio in noce chiaro, 1934 c.

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Fig. 54. Gio Ponti, Interno di casa Marmont, con l’armadio in noce scuro, 1934 c.

Fig. 55. Gio Ponti, Casa Laporte, 1935-1936, via Benedetto Brin, Milano.

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Fig. 56. Gio Ponti, Soggiorno di casa Laporte, via Benedetto Brin, Milano, l’appartamento nel quale Ponti e la sua famiglia hanno abitato prima della seconda guerra, alla parete l’opera di Massimo Campigli, La famiglia dell’architetto Ponti, 1934, olio su tela, coll. priv.; al centro è riconoscibile il grande tavolo di Ponti, in radica di noce e cristallo securit (1932).

Fornaroli ed Eugenio Soncini, ingegneri e soci nel lavoro e dell’omonimo studio (Ponti, Fornaroli, Soncini), darà vita, nel 1936, al primo Palazzo Montecatini, indubbiamente la prova progettuale più ardua che l’architetto si trovò ad affrontare nel corso degli anni trenta (figg. 60, 61). Ponti creò, con lucida coerenza progettuale, una singolare sintonia tra il disegno esterno del grande complesso e il design delle attrezzature interne, riproducendo nei minimi dettagli tutte le componenti d’arredo. La meticolosa cura dei particolari e dei materiali attuata da Ponti, rendono l’edificio del tutto singolare, basti analizzare la scelta accurata del rivestimento in cipollino rigato delle Apuane, che l’architetto fece tagliare in maniera nuova ed originale, inventando e sperimentando, in questo modo, proprio per la Montecatini, il taglio “controverso”, denominato il “tempesta”87. Un mate-

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inadatto il progetto della Montecatini o almeno in parte sbagliato, ma l’architetto deciso si oppose ad ogni cambiamento: «non posso cambiare niente, mi dispiace molto di perdere questa importante committenza, ma veramente non posso modificare il progetto» a questo punto Donegani, convinto dalla sicurezza di Ponti, rispose: « bene architetto, allora, faccia come crede e non cambi niente» 87 G. Ponti, (Il Marmo), in Id., Amate l’Architettura l’architettura è un cristallo, Genova, Vitali & Ghianda 1957, p. 149.

Fig. 57. Gio Ponti, Interno di casa Laporte, 1935-1936, via Benedetto Brin, Milano.

Fig. 58. Gio Ponti, Specchio inciso raffigurante, “La pesca della sirena”, con cornice di metallo, esecuzione e produzione, ditta Luigi Fontana, 1931.

Fig. 59. Gio Ponti, Progetto con i Cavalieri del santo Sepolcro che reggono il Gonfalone dell’Ospedale Maggiore, 1930, pubblicato in, Per il Gonfalone dell’Ospedale Maggiore di Milano, Alfieri & Lacroix, Milano 1934.

Fig. 60. Gio Ponti, con Fornaroli e Soncini, Primo Palazzo Montecatini, 1936-1938, via Turati, Milano.

Fig. 61. Gio Ponti, con Fornaroli e Soncini, Palazzo Montecatini,veduta del sistema pneumatico di posta interna, 1936 c., via Turati, Milano.

riale, questo, che si sposa perfettamente con i profilati delle finestre in alluminio, che l’architetto realizzò «rigorosamente col cristallo al filo stesso esterno del muro, sullo stesso piano»88, dato che l’idea costante e portante della finestra era, per Ponti, un punto imprescindibile di tutta l’architettura e, come ebbe modo di ribadire nel corso della sua attività, «Con le finestre comincia il gioco arcano dell’Architettura, il disegno, la vita»89. Alberto Savinio intese bene che per meglio «rispecchiare la faccia del proprio tempo» la struttura esterna della Montecatini, era dotata delle «necessarie qualità speculanti», infatti a suo vedere: «La Montecatini fa specchio, e in essa si riflette una umanità, collettivizzata e passata alla pómice»90. Quando, nel 1954, la rivista “Aria d’Italia” dedicherà a Gio Ponti lo splendido numero monografico, l’architetto, riordinando per “episodi” la sua lunga esperienza, inseriva nella categoria del “classicismo” sia il primo palazzo della Montecatini, del 1936, che quello successivo del 1951, postillando a commento un incisivo: «esiste una continuità classica oltre le forme e gli esempi classici», dove, «educazione classica» per l’artista non voleva assolutamente essere intesa come «derivazione classica». Infine, esprimeva il migliore e lapidario commento in merito ai due complessi architettonici: «in questo palazzo, semplici prospettive; nel successivo, prospettive con nuovi aspetti»91. Nel 1934 Ponti vinse il concorso per l’allestimento del Liviano, sede dell’Università di Padova e l’ottimo rapporto di amicizia e fiducia col rettore Carlo Anti, agevolò la buona riuscita del progetto, dato che fu lo stesso rettore a dare ampia libertà e credito all’arId., (La Finestra),in, Id., Amate l’Architettura... cit., p. 140. Id., Ibid., p. 139. 90 A. Savinio, Ascolto il tuo cuore, città (1944), Milano, Adelphi Edizioni, 1984, p. 181. 91 espressione di Gio Ponti, numero monografico di “Aria d’Italia”, VIII, Milano, Daria Guarnati Editore 1954, cons. nella ristampa anastatica edita, come catalogo, in occasione della mostra, Espressioni di Gio Ponti, a cura di Germano Celant, Milano, La Triennale (Palazzo), 6 maggio-24 luglio 2011, Milano, Electa 2011, p. 98 e ss. 88 89

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chitetto, informandolo puntualmente riguardo alle esigenze dei docenti, al clima, alla durata della vita accademica, fornendogli tutte le altre indicazioni utili. Per Savinio «la Facoltà di lettere di questo Ateneo» «per opera di Gio Ponti» aveva trovato finalmente «una sede nitida e casta come una fanciulla»92. Ponti sin dall’inizio coinvolse nell’operazione Massimo Campigli (figg. 62, 63, 64), affidandogli l’incarico di affrescare il grande atrio centrale, in modo che risultasse come il fulcro spettacolare del complesso architettonico. Già nel 1936 l’architetto aveva chiesto all’artista un primo bozzetto per l’opera murale dell’atrio del Liviano, anche se poi furono seguite le procedure ufficiali con non pochi inconvenienti, ma la scelta di Campigli per Ponti era imprescindibile e veniva ritenuta in «perfetta comunione spirituale con me [...] esattamente complementare alla mia concezione»93, tant’ è che al concorso ufficiale, bandito nel 1938, l’artista venne preferito a Guido Cadorin e a Mario Sironi. Così Campigli, nell’autunno del 1939, cominciò a lavorare all’affresco, dedicato alla commemorazione della figura e dell’opera di Tito Livio e i lavori proseguirono spediti per cinque mesi, fino alla conclusione, anche se, nel 1943, furono necessarie alcune correzioni ed altri interventi di natura tecnica. Nel frattempo Ponti, tra il 1937 e il 1939, portava a termine l’incarico, ideando ogni mobile e suppellettile e scegliendo personalmente gli altri interventi artistici, dai pannelli decorativi, che furono affidati a Filippo De Pisis, ai grandi smalti a parete di Fabio De Poli, dalle tele di Giuseppe Santomaso, al grande gruppo statuario di Arturo Martini, fino alle bellissime lampade di Chiesa e a quelle di Pulitzer, realizzate da Fontana Arte. Infine, egli stesso, con l’assistenza di Flavio Pendini, realizzava gli ampi affreschi a tempera per i A. Savinio, Ascolto il tuo cuore, città (1944), Milano, Adelphi Edizioni, 1984, p. 72. 93 Lettera di Gio Ponti a Carlo Anti, riportata da F. Irace, Gio Ponti... cit., pp. 115-116. 92

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Fig. 62. Gio Ponti, Complesso del Liviano, veduta esterna, 1937, Padova.

riquadri delle finestre raffiguranti emblemi e simboli universitari e, nel 1940, aiutato dalla giovanissima figlia Lisa, eseguiva il grande affresco della parete concava alla sommità dello scalone monumentale. L’allestimento e la decorazione del complesso del Liviano, grazie alla possibilità di utilizzare un folto numero di artisti nei vari settori delle arti, rappresenta una tra le opere predilette dall’architetto e, sicuramente, quella che ha espresso con maggiore forza la sua consuetudine con l’arte, nella concezione di «un’opera d’arte totale»94. Nel frattempo, precisamente nel 1936, Ponti realizzava la ristrutturazione dell’Istituto Italiano di Cultura, Palazzo Füstenberg di Vienna, fornendo il suo magistrale gusto di arredatore d’interni, come stanno a testimoniare le belle fotografie degli ambienti, che rendono gli spazi nitidi e finanche di sapore metafisico, quasi minimalista, con la pregnanza formidabile dell’oggetto isolato e spoglio, come evocato in una rappresentazione pittorica o scenografica-teatrale (figg. 65, 66). G. Ponti, Concorso edilizio per la sistemazione della Università di Padova, in “Architettura”, 9, 1934, citazione riportata da F. Irace, Gio Ponti... cit., p. 191.

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Fig. 63. Gio Ponti, Veduta prospettica della “Basilica” nel palazzo centrale del Liviano, 1934-1938, Padova.

Fig. 64. Gio Ponti, Il vestibolo del Liviano con il ballatoio e gli affreschi di Campigli, 1939- 1943, Padova.

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L’attività di architetto continuò con formidabile impeto fattivo: alle spalle di piazza San Babila, tra Corso Giacomo Matteotti e via San Pietro All’Orto a Milano, Ponti, nel 1939 realizzò, sempre in collaborazione con Fornaroli e Soncini, il Palazzo Ferrania, poi palazzo Fiat. Il suddetto palazzo d’uffici, appartiene, quindi, alla stessa fase di rinnovamento architettonico succedutosi all’esperienza costruttiva della Montecatini; analogamente al grande complesso, l’edificio Ferrania si presenta rivestito interamente da levigate lastre di marmo di Musso, materiale assai caro all’architetto, usato in sintonia elegantissima con i finimenti in alluminio anodizzato degli infissi. Il palazzo viene a testimoniare, definitivamente, la completa adesione da parte dell’architetto al nuovo corso estetico improntato, ora, ad una più ricercata funzionalità e sobrietà razionalista. Ponti, seppure in questi anni fosse ampiamente impegnato nei grandi progetti, non abbandonò la realizzazione di abitazioni più esclusive e certamente elitarie per una ristretta clientela, ma pur sempre improntate a quella ricercata poetica funzionale, dai valori nitidi e razionali, basati su quella «evocazione

Fig. 65. Gio Ponti, Interni dell’Istituto Italiano di Cultura Palazzo Fürstenberg, 1936, Vienna.

Fig. 66. Gio Ponti, Interni dell’Istituto Italiano di Cultura Palazzo Fürstenberg, 1936, Vienna.

mediterranea», come egli stesso ebbe a definire. Per lui l’architettura “mediterranea” doveva rispecchiarsi in «un’accademia naturalista», assoggettata a quella «legge mediterranea», per la quale, secondo l’architetto, al mare “tutto” doveva «essere coloratissimo»95. Esempio fulgido di questo modo di pensare l’architettura è, senza dubbio, Villa Marchesano a Bordighera, realizzata fra il 1937 e il ‘38, basata essenzialmente sull’utilizzo limitato di un repertorio formale, così come lo stesso architetto ebbe a parlare della villa: «nata da una ispirazione del luogo che s’è incontrata col mio desiderio di fare una casa tutta allungata sul bordo del mare e riassume le mie idee sulle ville al mare, che vorrei tutti amassero così: semplici, murarie, luminose, dove occorre ombrose di portici»96 (figg. 67, 68, 69). Ponti era fermamente convinto, anzi “convintissimo”, che questa semplicità fosse il vero e unico «raggiungimento di un lusso dello spirito», dove qualunque altra aggiunta di “ricchezza” esteriore e fine a se stessa avrebbe portato ineluttabilmente ad «un risultato inferiore»97. Tant’ è che la villa è impostata su un semplice parallelepipedo allungato sul fronte del mare, costruita dal semplice involucro della struttura muraria, dove il tetto sviluppa una sottile metafora marina, rivelandosi come l’elemento connotativo e indicativo più decorato dell’abitazione. Infatti la villa, vista dalla facciata sembra non rivelare niente ma, se guardata dall’alto, il tetto svela tutto il suo volume: un tetto bianco in ceramica, inteso dall’architetto come una poesia di un gran lenzuolo steso ad asciugare al sole, rigato dalle ombre blu dei pini. La felicità creativa di Ponti rimase sempre una costante, pure nell’approssimarsi degli anni quaranta, che ineluttabilmente, saranno segnati da una crisi G. Ponti, Evocazione Mediterranea, in, espressione di Gio Ponti, numero monografico di “Aria d’Italia”... cit., p. 23 e ss. 96 G. Ponti, Una casa al mare, in “Domus”, XI, 138, giugno 1939, p. 40 e ss. 97 Ibid. 95

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Fig. 67. Gio Ponti, Esterno della villa Marchesano, 1938, Bordighera.

Fig. 68. Gio Ponti, Esterno della villa Marchesano, 1938, Bordighera.

Fig. 69. Gio Ponti, Interno della villa Marchesano, 1938, Bordighera.

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profonda determinata dalla tragica vicenda del secondo conflitto mondiale, vissuta con tutto il suo dramma umano di distruzione. A tale proposito merita ricordare la perdita dei cari amici Giolli e Pagano98 scomparsi entrambi in campo di concentramento a Mauthausen nel 1945, come quella di Gianluigi Banfi, affettuosamente chiamato da Ponti, Giangio, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, uscito vivo dallo stesso lager, ma fisicamente debilitato. Senza dimenticare l’improvvisa e misteriosa morte di Persico99 avvenuta nel 1936 e infine la morte nel 1943, di Giuseppe Terragni, in circostanze mai ben chiarite, poco dopo essere tornato dal fronte russo. I segni di questa profonda crisi saranno evidenti, anche in virtù di altri fattori, nell’abbandono della sua Domus verso la fine del 1940 anche se, come abbiamo già analizzato, dopo pochi mesi sarà nuovamente impegnato nell’impresa editoriale di Stile, a partire dal primo numero del gennaio 1941 e di cui rimarrà direttore fino al 1947100; allo stesso tempo, continuerà ad influenzare la rivista Aria d’Italia. Tuttavia negli anni quaranta Ponti progetterà fondamentali “oggetti” per l’industria, dai caratteri della produzione in serie, che prenderanno consistenza negli anni successivi del dopoguerra, e continuerà a muoversi con la solita disinvoltura tra oggetti raffinati e selettivi e oggetti pensati per la grande produzione. Nacquero così, nel 1949, alcune realizzazioni che saranno delle vere icone del design, come la macchina per cucire Visetta (fig. 70), di produzione Visa di Voghera e la macchina per caffè Su questi aspetti riguardanti le personalità di Giolli, Pagano e Persico, tra la copiosa bibliografia, vedi il fondamentale, Il destino dell’architettura Persico Giolli Pagano, a cura di C. de Seta, Roma-Bari, Laterza 1985. 99 Riguardo a questa tragica vicenda vedi l’affascinante ricostruzione, anche se romanzata e discutibile, offerta da A. Camilleri, Dentro il labirinto, Milano, Skira 2012. 100 Riguardo a quest’ aspetto molto utile è la ricostruzione antologica a cura di M. Martignoni, Gio Ponti gli anni di stile 1941-1947, Milano, Editrice Abitare Segesta 2002. 98

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Fig. 70. Gio Ponti, Macchina per cucire Visetta, 1949, produzione Visa, Voghera.

espresso La Pavoni di Milano, entrambe disegnate in un bellissimo involucro ma soprattutto evidenziandone le innovative funzioni delle varie componenti tecniche. Nello specifico, la forma della Visetta riassumeva tecnica, praticità ed economia produttiva, caratteristiche raggiunte con estrema semplificazione formale e con la massima riduzione delle dimensioni. I tecnici della Visa, infatti, seguendo i passi del progettista, inventarono un nuovo meccanismo, brevettato per avvolgere la spola della navetta, che si risolveva nel movimento di una piccola leva, unico elemento visibile all’esterno; inoltre, Ponti pensò un supporto aperto che non occultasse la macchina da cucire, ma che fosse un insieme di forme con la macchina stessa. Anche la luccicante e tutta cromata macchina da caffè, La cornuta, prodotta da La Pavoni (fig. 71, 72), s’impone per la sua forma dinamica, simile a quella di una rombante motocicletta con i suoi tubi cromati, a dimostrazione di come la tecnica potesse giungere all’eleganza formale101. Con questi intenti Ponti 101 Vedi tra la folta bibliografia quanto lo stesso autore pubblicò in, espressione di Gio Ponti, numero monografico di “Aria d’Italia”... cit., p. 91 e ss.

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Fig. 71. Gio Ponti, Macchina per caffè espresso “La cornuta”, 1949, produzione La Pavoni, Milano.

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realizzò, poco dopo, nel 1951, la famosa sedia Leggera 646, per la ditta Cassina di Meda (figg. 73, 74), in frassino nazionale, «il più forte», impagliata con strisce di materia plastica di bellissimi colori, “ridisegno” del noto esemplare di sedia “chiavarina”; a questo esemplare “leggero”, visto l’enorme successo riscontrato, nel 1957 seguì il nuovo modello della Superleggera. “La sediolina”, come Ponti chiamerà affettuosamente la sua creatura, nacque «semplicemente, rapidamente, e senza complicazioni», ideata per «quel tipo di sedia verso il quale [...] si debba sovrattutto tendere, una sedia cioè leggera e forte nello stesso tempo, di sagoma robusta, di prezzo basso». L’architetto, infine, esprimeva tutta la sua filosofia del design, affermando che si trattava di una «sediasedia», ovvero una sedia “normale” e non tanto una «sedia con aggettivi», “razionale”, “moderna”, “prefabbricata”, “organica”, ma «una sedia-sedia e basta, leggera, sottile, conveniente», studiata «con piacere, e con facilità, ed in poco tempo». Questa sedia “povera”, «verginella ed innocente» rispetto alle «sedie inquietanti d’autori illustri, con le sedie complicate con “pedigree” e con papà e mamma», viene sorprendentemente accolta dalla critica e dal mercato, come «una rivelazione», una “novità”, «come la invenzione

Fig. 72. Gio Ponti, Macchina per caffè espresso “La cornuta”, (part.), 1949, produzione La Pavoni, Milano.

Fig. 73. Gio Ponti, Sedia “Leggera”, 1951, produzione Cassina, Meda (Milano).

Fig. 74. Gio Ponti, Tavolo da parete, 1952, produzione Singer & Sons, New York.

della sedia»102. Quella che l’architetto volle non fosse «di Ponti», bensì «fatta da Ponti» e che divenne un successo planetario: “comperata”, «esportata in America» in grossi quantitativi, “contesa” da innumerevoli ditte in Francia ed Olanda e, infine, esposta nelle più prestigiose rassegne internazionali103. La Superleggera va assimilata, a tutti gli effetti, a quei grandi manufatti e oggetti che fecero la fortuna del gusto italiano nel mondo, al pari della mitica Vespa della Piaggio (progettata quasi come un ‘riutilizzo’ nel primo modello del 1945 da Corradino d’Ascanio), o la Lambretta dell’Innocenti del 1947 (progettata da Cesare Pallavicino e Pierluigi Torre) o, ancora, la Fiat 500 di Dante Giacosa del 1956: di fatto, questi oggetti 102 103

G. Ponti, Senza aggettivi, in “Domus”, 268, marzo 1952, p. 1. Ibid.

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che divennero icone del costume italiano, contribuirono a determinare quell’etichetta indelebile del good design del made in Italy104. Non meraviglia, infatti, che la sedia Leggera, nel 1954, ricevette il prestigioso premio Good Design Award del Metropolitan Museum of Modern Art di New York. Queste creazioni a tutti gli effetti contribuirono a determinare la rinascita, nel dopo guerra, dell’industria italiana e della sua immagine, come sinonimo di qualità nel mondo105. Milano, inevitabilmente, si apprestava a divenire «la capitale del miglior design in Europa», proprio grazie all’azione e «ai ‘ripieghi’» interdisciplinari dei suoi bravi «architetti geniali», i quali, avevano saputo superare, seppure “tormentosamente”, – secondo la lucida riflessione di Arbasino – quella cappa di «moralismo rigido e calvinista della Resistenza antifascista, e delle battaglie culturali combattute in nome del Bauhaus e di Gropius, per abbracciare il wishful thinking di una Nuova Sinistra spesso molto hippie...»106 Infine, per dirla con Ponti, che interpretò al meglio questa rinascita e questo spirito creativo, rifuggendo da quella «inquietudine creativa, nell’ansia di esprimersi anche attraverso la forma di un chiodino», l’architetto riteneva che ci si fosse talmente «allontanati tanto dalla spontaneità della verità, dalla naturalezza e semplicità delle cose» che, l’apparire di un “oggetto” vero «naturale e semplice», portò a «successi assolutamente inaspettati»107. E, morale di questa morale, sempre per Ponti, non poteva che essere quella di tornare a fare «sedie-sedie» e «case-case», senza aggettivi e senza etichetta, ed è proprio in virtù di questa sua convinzione che l’architetto si prometteva di fare «case-case – e non case organiche, razionali, o d’altra

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104 Per quest’aspetto, tra gli innumerevoli testi, vedi, Il design italiano degli anni ’50, a cura del Centrokappa, Milano, R.D.E., 1985. 105 Vedi riguardo a questo aspetto, A. D’Aura, Architettura e arti applicate negli anni Cinquanta La vicenda italiana, Venezia, Marsilio 2012, in part. il cap., La vicenda del design e la nascita del made in Italy, pp. 155 e ss. 106 A. Arbasino, Gae Aulenti, in, Id., Ritratti italiani... cit., p.39. 107 G.Ponti, Senza aggettivi... cit., p. 23.

etichetta – farò letti-letti, armadi-armadi, uffici-uffici, eccetera»108. Con tale impegno Ponti realizzerà i nuovi apparecchi sanitari Serie Z per la Ideal Standard, entrati in produzione nel 1954 e che, per circa 25 anni, vennero prodotti a un ritmo, nel momento di maggiore successo, di 400.000 l’anno109. Con poche varianti, peraltro disegnate dallo stesso Ponti, la linea di sanitari fu la prima disegnata integralmente da un solo architetto, che ne rivoluzionò radicalmente la forma integrata alla funzione, così come lo stesso architetto ebbe a definirla: «una forma fisiologica, non geometrica come prima»110. Gli apparecchi sanitari, dalla forma estremamente semplificata, risultavano innovativi in ogni componente: erano avvitati al pavimento senza che i bulloni apparissero, non avevano zoccolatura, né orlo di coronamento in rilievo e si evidenziavano dal profilo superiore lievemente modulato. Il bidet o il w.c. apparivano puri e lineari, come delle forme scultoree, tanto da richiamare alla mente le creazioni “organiche” di Arp, Brancusi, Moore, o Viani e infatti, l’aspetto formale, plastico, di questi pezzi, per Ponti coincideva, «senza alcun artificio», con le forme «che la scultura astratta ci ha reso familiari». Per l’architetto bisognava distinguere bene il rapporto «forma-funzione» e le relative conseguenze fra «la forma e la funzionalità», in quanto l’«efficienza, cioè la rispondenza pura e semplice alla funzione sul piano del bisogno e dell’uso, è indipendente dalla forma»111 (figg. 75, 76). È in questo clima di gusto e di cultura che la Ideal Standard Italiana commissionò a Ponti «non delle forme nuove per i suoi apparecchi (sarebbe stata solo una variante di più), ma le loro vere forme»112. Ibid. Vedi, Gio Ponti ceramica e architettura, a cura di G. C. Bojani, C. Piersanti, R. Rava, Firenze, Centro Di 1987, p. 68. 110 espressione di Gio Ponti, numero monografico di “Aria d’Italia”... cit., p. 92. 111 G. Ponti, Una nuova serie di apparecchi sanitari, in “Domus”, 308, luglio 1955, pp. 55-56. 112 Ibid. 108 109

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Fig. 75. Gio Ponti, Apparecchi sanitari, Serie Z, 1953, produzione Ideal Standard, Milano.

Fig. 76. Gio Ponti, Apparecchi sanitari, Serie Z, 1953, produzione Ideal Standard, Milano.

La fervida ed inesauribile attività di Ponti, in questo decennio, trovò la sua piena espressione, nella quale sviluppò la teoria della «forma vera». Inoltre, l’architetto non si risparmiò dal ruolo di infaticabile organizzatore e promotore di cultura e iniziative, tutte di largo respiro e lungimiranti, come l’istituzione, nel 1956, di una associazione nel campo del design, l’A.D.I. (Associazione Disegno Industriale) e il conseguente premio annuale del Compasso d’Oro «per l’estetica del prodotto», attribuito a quegli industriali, artigiani e progettisti che si fossero particolarmente impegnati in ricerche “formali” nel campo della produzione industriale, raggiungendo una felice sintesi unitaria tra la qualità estetica del prodotto e le sue caratteristiche tecnico-funzionali113. Nel 1956 il “Gran Premio Nazionale Compasso d’Oro”, come riconoscimento integrale all’autore, fu assegnato allo stesso Ponti, venendo a coronare un’ampia riconoscenza a livello internazionale. Infatti, nel 1954, l’America aveva dedicato alla figura dell’architetto una serie di mostre itineranti, con l’importante monografia espressione di Gio Ponti, promossa e curata dalle Edizioni della rivista di Daria Guarnati “Aria d’Italia”, in collaborazione con James S. Plaut, conservatore dell’Institute of Contemporary Art di Boston. Inoltre, nel 1955 fu la Svezia a dedicargli un’ampia rassegna collettiva, così come avverrà, al contempo, in Australia e a Basilea. Nel 1951 Ponti realizzò, in collaborazione con Fornaroli, il Secondo Palazzo Montecatini in Largo Guido Donegani, adiacente al primo edificio del 1936. La nuova sede ne ripeteva l’andamento ad ali serrate, attraverso l’adozione delle “finestrature” a «trama esile», in contrasto con la scala “enorme” della nuova facciata (fig. 77). Le due grandezze, del primo e del secondo edificio, si confrontano senza che tra di esse si stabilisca una netVedi a tale riguardo L. Falconi, Gio Ponti Interni Oggetti Disegni 19201976... cit., in part. il cap. L’opera di Ponti e lo sviluppo del design in Italia e nel mondo, p. 173 e ss.

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Fig. 77. Gio Ponti, con Fornaroli e Soncini, Secondo Palazzo Montecatini, 1951, via Turati, largo Donegani, Milano.

ta gerarchia visiva, per cui ora l’architettura si evidenzia attraverso «una superficie arretrata complanare», davanti alla quale risaltano gli «esili divisori verticali ed orizzontali in alluminio», materializzando l’idea pontiana di una «architettura e movimento» così, come asseriva l’autore, era possibile, «girando attorno all’edificio non vedere solo l’architettura in prospettiva, ma vedere nuovi aspetti: questa facciata, muovendole attorno, chiude le palpebre da “tutto cristallo” a “tutto alluminio”»114. Gli anni cinquanta rappresentarono, forse, per Ponti il periodo più intenso e ricco dove l’architetto e designer raggiunse, nella piena maturità, il culmine creativo del suo sorprendente e invidiabile percorso, realizzando non pochi capolavori assoluti, come, soprattutto, Villa Planchart a Caracas in Venezuela. Ponti aveva soggiornato nei primi anni cinquanta in America Latina, a São Paulo in Brasile, lavorando con l’amico Pietro Maria Bardi, già trasferitosi in quella città nel 1946 e dove aveva fondato il più prestigioso museo di arte contemporanea dell’America Latina: il Museu de Arte de São Paolo (MASP). Per la città brasiliana, nel 1953, eseguì il progetto che però non venne realizzato, della Facoltà di fisica nucleare teorica alla Città Universitaria, improntato a quell’idea di un’architettura che doveva farsi con “leggerezza”, secondo l’intuizione più felice e feconda della maturità artistica dell’architetto: «L’arte è illusiva; senza violare la integrità strutturale, anzi interpretandola, si deve raggiungere l’espressione della leggerezza, che è il carattere dell’architettura d’oggi»115. Sempre a São Paulo, nel 1953, Ponti progetta con l’architetto Luiz Contrucci, il grande centro Italo-brasiliano, anch’ esso non realizzato ma, nel suo intento, doveva avvalorare il concetto della «forma definita», che non si poteva 114 espressione di Gio Ponti, numero monografico di “Aria d’Italia”... cit., p. 98 e ss. 115 Ibid., p. 138.

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aumentare in altezza o in larghezza; infatti le ripetizioni di vari elementi in superfici parallele non erano altro che “fette” d’architettura e non propriamente “architetture”, in sostanza per Ponti non era «il volume» a fare l’architettura, ma «la forma», indelebilmente «chiusa, finita, immodificabile»116. A questo preciso momento appartiene anche l’esecuzione del bellissimo Istituto italiano di cultura, Fondazione Lerici, a Stoccolma, con la collaborazione, in loco, dell’architetto Ture Wennerholm. Nella realizzazione di questo edificio, analogamente ai progetti brasiliani, Ponti abbandonava la pianta rettangolare ad angolo retto, in quanto ritenuta foriera di gerarchie «facciata, fianco, etc», favorendo la nuova forma prediletta a diamante – che caratterizzerà, da questo momento, tutte le sue realizzazioni –, poiché questa soluzione offriva «un’unità plastica dell’edificio» in «una continuità di vedute collegate le une alle altre»117. Ma è a Caracas, tra il 1953 e il 1956, che Ponti troverà l’ambiente ideale per progettare e costruire uno dei suoi capolavori per i coniugi Anala e Armando Planchart, cioè la loro villa e, proprio la sua splendida collocazione naturale (figg. 78, 79), situata in cima ad un colle che domina Caracas, fu il punto germinale di partenza del progetto di Ponti, rispetto al quale affermava che «una abitazione sopra una collina» doveva «posarsi sul terreno con estrema leggerezza», in quanto non doveva essere più intesa come una “roccaforte”, ossia una sorte di «roccia abitata»118, bensì come uno spazio aperto e libero, inserito nel contesto ambientale. Ponti, infatti, pensò e progettò le pareti e le coperture dell’edificio come «superfici staccate», che limitano gli spazi e non «chiudono volumi»119. Ibid., pp. 140-141. Ibid., pp. 132-133. 118 Ibid., p. 147. 119 G. Ponti, Il modello della villa Planchart in costruzione a Caracas, “Domus”, 303, febbraio 1955, pp. 3-14. 116 117

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Fig. 78. Gio Ponti, Villa Planchart, (veduta dall’alto), 1954, Caracas (Venezuela).

Fig. 79. Gio Ponti, Villa Planchart, (veduta esterna notturna), 1954, Caracas (Venezuela).

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L’architetto spiega magistralmente che per la villa dei Planchart aveva pensato e realizzato «una forma concava per trattenere i venti dell’ovest, i più pericolosi», tanto che su quel lato aveva inserito «meno aperture possibili»120. Tutta la villa persegue una forma sfilata e sgusciante attraverso le piante, con l’assottigliamento geometrico dei muri, la bucatura asimmetrica delle facciate, la moltiplicazione dei coni ottici e delle intersezioni spaziali degli interni, sviluppando pienamente quel concetto di “leggerezza” e “trasparenza”, che sono i principi portanti dell’architetto, attuati nel perimetro diamantato dell’edificio, che si apre all’interno come le sfaccettature di un cristallo. A ben ragione l’architetto poteva asserire che questa sua costruzione, fatta «per la vita di chi l’abita», era un «gioco di spazi, superfici e volumi che si offrono con aspetti diversi a chi vi penetra: è una “machina”, o se volete una scultura astratta in scala enorme, non da guardare dal di fuori, ma da guardare dal di dentro, penetrandovi e percorrendola: fatta per essere osservata girando continuamente l’occhio»121. Ponti realizzò, così, un progetto integrale, grazie all’intelligente e amichevole disponibilità dei committenti, i quali furono definiti «genitori esemplari» del progetto, per la loro grande libertà di mezzi messi a sua disposizione, ma più che altro per la «simpatia umana», intercorsa in virtù di una «discrezione rara», accompagnata da una comprensione e fiducia determinante per il suo lavoro, che non si era fermato al solo progetto architettonico, ma aveva diretto tutto nei minimi particolari, dalla decorazione e coloritura delle porte e dei soffitti, alla cura dei pavimenti geometrici di rara raffinatezza astratta, in un fermo equilibrio di rapporti con le superfici scialbate di bianco, lasciate vuote per creare una sorprendente luminosità. Ma di sua mano sono Ibid. G. Ponti, Una villa “fiorentina” casa per Anala e Armando Planchart a Caracas, in “Domus”, 375, febbraio 1961, pp. 1-40. 120 121

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anche la scelta degli arredi e di tutte le parti suppellettili, pensate appositamente e unicamente per l’ambiente e fatti eseguire personalmente dalla ditta Cassina, o i mobili commissionati a Giordano Chiesa, il servito di posate fatto eseguire da Red & Burton, le bellissime stoviglie da Richard-Ginori, i lampadari da Seguso e Venini e, ancora, le splendide ceramiche eseguite da Guido Gambone, le sete di Ferrari, gli oggetti di Danese, e ancora le lampade di Arredoluce, i tappeti “astratti” in pelle di vacca di Colombi; senza dimenticare la collezione di quadri di Morandi, di Campigli e le sculture di Melotti122. Speculare a questa realizzazione fu la seconda villa costruita nel 1955 a Caracas per la famiglia Arreaza, denominata affettuosamente Diamantina (fig. 80). Costituita dalle ceramiche a diamante che rivestono le facciate, anche in questo caso si tratta di una «architettura di spazi e non di volumi», che si esprime appropriatamente nella pianta «a ventaglio», dal caratteristico grande tetto che sembra un’ala, di vedute che attraversano la casa in più direzioni, «finestre arredate, mobili autoilluminanti e i colori blu e bianco a dominare la composizione», ed anche in questo caso c’è la consapevolezza da parte dell’autore di aver realizzato «una casa calda e intima, una casa vera ed umana di oggi pur dentro quei termini esclusivamente di modernità, d’ordine ed unità che tanto spesso determinano invece una disumana freddezza»123. In patria Ponti partecipò, intorno al 1956, insieme con Piero Portaluppi, Giordano Forti ed altri, all’ampliamento del Politecnico milanese per la nuova sede della facoltà di Architettura ma, a rappresentare un’immagine vivida e un elemento inconfondibile della skyline del capoluogo lombardo, fu più che altro il così detto “Pirellone”, il grattacielo della Società Ibid. G. Ponti, Villa “la diamantina” nel Country Club a Caracas, in “Domus”, 349, dicembre 1958, pp. 5-22. 122 123

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Fig. 80. Gio Ponti, Villa Arreaza, (distrutta), 1955, Caracas (Venezuela).

Pirelli in piazza Duca d’Aosta, costruito fra il 1956 e il 1960, oggi sede della Regione Lombardia, che si staglia con l’eleganza dei suoi 130 metri di altezza in un’area strategica appena fuori dalla Stazione Centrale e che costituisce il centro direzionale di Milano (figg. 81, 82, 83). Progettato in collaborazione con gli altri soci dello studio, cioè Antonio Fornaroli e Alberto Rosselli, Giuseppe Valtolina ed Egidio Dell’Orto, avvalendosi della speciale consulenza strutturale e statica di Pier Luigi Nervi e Arturo Danusso, il grattacielo è, indubbiamente, tra le opere che hanno assicurato la grande notorietà internazionale di Ponti. Arbasino, a tale proposito, si è chiesto ferrigno quanti di noi avrebbero potuto citare un «solo edificio italiano del nostro tempo» del tutto paragonabile per originalità e importanza a parecchi «nostri libri o film, e a parecchi esemplari – magari eccitanti e discutibili- della nuova architettura americana o giapponese?»124. Il fine letterato sapidamente, a questo suo interrogativo, non avrebbe trovato altro all’infuori di un solo caso fortunato: «il grattacielo Pirelli a Milano»125 nato dal felice incontro di un facoltoso 124

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A. Arbasino, Gae Aulenti, in, Id., Ritratti italiani... cit., p.39. Ibid.

Fig. 81. Gio Ponti, con Fornaroli e Rosselli, Voltolina, Dell’Orto e la consulenza strutturale di Nervi e Danusso, Grattacielo Pirelli (in costruzione), 1956-1960, Milano.

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Fig. 82. Gio Ponti, con Fornaroli e Rosselli, Voltolina, Dell’Orto e la consulenza strutturale di Nervi e Danusso, Grattacielo Pirelli, stato attuale, 1956-1960, Milano.

Fig. 83. Gio Ponti, con Fornaroli e Rosselli, Voltolina, Dell’Orto e la consulenza strutturale di Nervi e Danusso, Grattacielo Pirelli, (stato attuale), 1956-1960, Milano.

industriale col talento di «un vecchio e glorioso eroe nazionale della patria architettura, Gio Ponti»126. Il Grattacielo Pirelli, pensato da Ponti come una bella scultura astratta dalla pianta inevitabilmente diamantata, presenta un’architettura straordinariamente trasparente e luminosa dal volume alla superficie, caratterizzata da una snella lastra vetrata in Courtain Wall che continua per tutta l’altezza, contrapposta agli stretti fianchi lunghi, rastremati, accostati che formano i prospetti laterali. È così che Ponti fa emergere il grattacielo, come un grande obelisco o torre isolata, circondata da bassi edifici, dove, come elemento costitutivo interno, vi sono due strade discendenti, un corpo frontale e uno posteriore. Il corpo basso frontale viene a formare un piazzale d’accesso sopraelevato per i visitatori; sotto il piazzale sono localizzati gli impianti amministrativi del centro meccanografico e l’auditorium da 6000 posti e infine, nel sottosuolo, il “teatro” degli impianti tecnici. Ponti condivide questa sua fatica con gli altri componenti, ai quali non mancherà di riconoscere i meriti «attraverso l’opera comune», come il vero nesso «dell’architettura moderna», asserendo: «la collaborazione dei miei amici è stata tenace e preziosa all’estremo»127. In particolare va dato risalto alla messa a punto del sistema statico da parte di Nervi128 e Danusso, i quali aiutarono a definire con maggiore precisione il problema delle piante lenticolari, dove la tesa ossatura in cemento armato a vista fa da supporto alla trasparenza totale degli esili schermi vitrei, per attuare l’idea pontiana di una pura «architettura selflighting»129. Qui è l’arIbid. G. Ponti, “Espressione” dell’edificio Pirelli in costruzione a Milano, in “Domus”, 316, marzo 1956, pp. 1-16. 128 Lisa Ponti mi ha ricordato in una conversazione conviviale del 3 febbraio 2016 che Nervi, entusiasta del progetto di Ponti del grattacielo Pirelli, gli fornì gratuitamente tutti i calcoli strutturali dell’edificio e quando si recava presso lo studio di via Dezza con spensierata allegria soleva dire, riferendosi, ovviamente, al lavoro intorno al grattacielo: «adesso andiamo alla caccia dei pesi inutili» 129 Vedi a tale proposito, F. Irace, Gio Ponti …, cit., p. 164. 126 127

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chitetto a esprimere il valore del suo progetto come «forma finita» già nella composizione, assolutamente in contrapposizione al «ritmo senza fine per ripetizione di elementi». In altre parole l’edificio Pirelli è un’architettura basata esclusivamente sul concetto di «essenzialità, cioè la costruzione portata all’essenziale», fieramente contraria ad ogni «esteticismo di marca o tradizionale o modernistica». Tant’è che Ponti andava elencando quei principi, che erano anche le sue linee guida, e cioè «l’invenzione strutturale» contro «ogni routine strutturale», «la rappresentatività» contro «l’inespressività dell’architettura ad elementi ripetuti», «l’espressività che caratterizza la costruzione» contro «una pura e semplice sostanzialità tecnica» e, infine, avvalorava «la illusività che deve trasporre la costruzione su un piano poetico, senza di che essa non diviene architettura»130. A fronte di questa non indifferente mole di lavoro e dei riconoscimenti a livello internazionale, certo non mancarono vistose contraddizioni rispetto allo stesso riconoscimento di Ponti come una delle figure di rilievo nell’ambito dell’architettura e del design contemporanei. Infatti, nelle opere dei maggiori storici dell’architettura del tempo, a malapena il suo nome e la sua opera venivano citati, e mi riferisco, in particolare, alla fondamentale e mastodontica edizione di Architecture: Nineteenth and Twentieth Centuries, a cura di uno dei massimi studiosi del periodo a livello mondiale, Henry-Russell Hitchcock, edita da Penguin Books nel 1958 e nel 1968 e che vide la traduzione italiana per i tipi Enaudi nel 1971, nella prestigiosa collana di «Biblioteca di storia dell’arte». Qui il nome di Ponti e la sua opera non sono trattati neanche di sfuggita, certo non è questo il contesto per una tale riflessione, alla quale abbiamo già accennato in apertura, ma non possiamo esimerci dal constatare, rimandando l’indagine ad altre occasioni, che se già l’architettura italiana nel suo complesso viene alquanto trascurata 130

G. Ponti, “Espressione” dell’edificio …, cit., p. 3 e ss.

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in queste opere critiche e penso, oltre all’Hitchcock, a quelle coeve e, non meno prestigiose, di Nikolaus Pevsner, anche il nome di Ponti appare appena citato tra i tanti, come fenomeno del tutto marginale. Non sappiamo come l’architetto abbia reagito a fronte di questa negazione, se non andando a scandagliare nell’immensa corrispondenza e documenti degli oltre 96.000 testi autografi dell’autore, ma certo gli anni Sessanta per Ponti furono anche questo. A margine di questa breve riflessione mi sovviene un fugace riferimento in merito al corposo e, per certi versi, imprescindibile A Dictionary of Architecture, curato da Pevsner con la collaborazione di Hugh Honour e John Fleming nel 1966 per la Penguin Books, quando, al tempo dell’edizione italiana curata da Renato Pedio per i tipi Einaudi nel 1981, questi, oltre a riscriverne molte voci, ne redasse di nuove, in particolare in merito agli architetti italiani dell’Ottocento e del Novecento che mancavano nell’edizione originale. E seppure in quest’occasione figura una scarna biografia di Ponti, tuttavia, nella parte generale riguardante l’Italia, il curatore, nel rilevare che l’architettura italiana del dopoguerra era caratterizzata da elevati talenti, cita i soli nomi di Albini, Moretti, Pollini e Scarpa e, infine, considera che la sola «figura internazionalmente più importante è Nervi»131. Senza niente obbiettare al riconoscimento attribuito al grande ingegnere strutturalista, è curiosa, tuttavia, la scelta dell’immagine per la copertina dell’edizione italiana, cioè la Torre Velasca di Milano, opera del gruppo B.B.P.R. (Banfi, Belgiojoso, Peressutti, Rogers) del 1958 e, quindi, coeva del nostro “Pirellone” e comunque architettura di indubbio valore e parimenti famosa e apprezzata. Il confronto tra i due grattacieli milanesi fu preso in esame superbamente da uno dei maggiori architetti internazionali, Arata Isozaki, nel N Pevsner, J. Fleming, H. Honour, ad vocem Italia, in Dizionario di architettura, ed. It., Torino, Einaudi 1981, p. 363.

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1986, al tempo in cui curava il catalogo e la mostra retrospettiva su Gio Ponti 1891-1979. From the Human Scale to the Post-Modernism per il Seibu Museum of Art di Tokyo. Egli rilevava che, mentre il grattacielo di Ponti vuole esprimere una discontinuità storica, il secondo nasce dall’idea che una città è un contesto storico con una lunga tradizione alle spalle e, in questo, l’opera di Rogers rompe sì, con lo stile fascista, ma «la sua rivisitazione del gotico finisce per produrre una sensazione di oscurità e opacità»; al contrario, il Grattacielo Pirelli «è straordinariamente trasparente e luminoso», progettato come una scultura astratta132. Nell’arco degli anni sessanta, Ponti si rivolse prevalentemente all’architettura di spazi pubblici, anche se il decennio si aprì con la sua terza villa, la Nemazee a Teheran. Seguirono gli alberghi di Sorrento e Roma e l’Air Terminal Alitalia a Milano, ma furono due edifici di culto milanesi a caratterizzare fortemente questo decennio: la Chiesa di San Francesco al Foppino, in via Giovio, costruita tra il 1961 e il 1964 e la Chiesa Santa Maria Annunciata dell’Ospedale San Carlo Borromeo, in via Pio II, costruita tra il 1963 e il 1969. Gli edifici hanno la caratteristica pianta «a diamante», motivo che si ripete volutamente e insistentemente nei rivestimenti esterni in ceramica, prodotti, appositamente, dalla Ceramica Joo, con piastrelle diamantate lisce di color grigio, che riflettono una luce screziata, quasi iridescente, dal profondo sapore simbolico, con anteposto un ampio sagrato. In particolare, nel primo edificio il compito non fu di facile soluzione, a causa dell’esistenza della seicentesca chiesa di Santi Giovanni e Carlo al Fopponino (fig. 84), ma Ponti riuscì magistralmente nell’impresa, inserendo armoniosamente la moderna costruzione nell’antica presenza con un passaggio pedonale che poneva in comunicazione il A. Isozaki, Gio Ponti from today’s perspective, in Gio Ponti 1891-1979, cat. Mostra, Tokyo, Seibu Museum of Art, 19 settembre –7 ottobre 1986, Tokyo 1986, pp. 8-9. Ora, in Espressioni di Gio Ponti …, cit., pp. 70-71.

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Fig. 84. Gio Ponti, Chiesa di san Francesco al Fopponino, 1961-1964, Milano.

luogo seicentesco con le nuove strutture parrocchiali. Come altri edifici di culto, la chiesa si colloca su un piano rialzato rispetto al livello stradale, per far risaltare l’imponente facciata dalla geometrica semplicità, che si propone come una quinta teatrale in raccordo tra l’edificio di culto e gli edifici prospicienti. Ponti attinge alla cultura romanica-lombarda delle facciate a vento, realizzando un’inedita facciata, composta da una parete traforata da aperture tripartite in forme esagonali, che incorniciano il cielo e la rendono vibrante agli effetti solari con magistrali giochi chiaroscurali, che anticiperanno il suo capolavoro della nuova concattedrale di Taranto. La chiesa, anche nel suo interno, incarna quel concetto, così caro all’architetto milanese, di essenzialità e purezza che, già nel 1957, gli aveva fatto asserire in Amate l’architettura: «San Francesco, religioso puro, non aveva nella chiesa francescana, stanzone rettangolare, puro, ritrovato l’essenziale per la costruzione religiosa?»133. Santa Maria Annunciata si presenta in pianta molto simile al grattacielo Pirelli: è configurata da una navata 128

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G. Ponti, (L’Architettura Religiosa), in Id., Amate l’Architettura... cit., p. 265.

unica con le estremità fortemente rastremate e non è priva di soluzioni innovative rispetto ai tradizionali luoghi di culto, in primo luogo, ad opera dei due ingressi contrapposti, simmetrici e di uguale importanza, posti sui lati lunghi della planimetria esagonale, accessibili tramite ampie scalinate. Gli allineamenti assiali sono, infatti, i princìpi portanti dell’edificio, planimetricamente allineato col vasto complesso ospedaliero, del quale Ponti fu consulente generale. Ponti aveva ben definito l’essenzialità strutturale con la bella sequenza delle capriate in cemento armato a vista dell’interno, poggianti su ventidue esili pilastri, che determinano la forma della copertura, creando un estremo effetto di leggerezza del volume interno, corrispondente a quello esterno. La chiesa sembra così acquisire un effetto navale, con una sua prua e una poppa, in corrispondenza dell’area presbiteriale e del fondo dell’aula, entrambe su un piano rialzato134. Nell’ultimo decennio della sua vita, Ponti si concentrò sulla proposizione della «casa adattata» e sul conseguente sviluppo figurativo della facciata architettonica, lavorando sul vuoto della funzione statica e, quindi, elaborando fino all’estremo il concetto di leggerezza della facciata, che è traforata e trattata come un foglio di carta piegato e tagliato in forme geometriche; analogamente, anche le parti interne, che si riducono di spessore, vengono liberamente traforate da lunghe feritoie sia verticali che orizzontali, come tramite tra esterno ed interno. A tale proposito, l’architetto scrive che il suo edificio – Denver Art Museum –, rappresenta una «vera rivelazione, o divinazione» proprio, «di questa architettura»: «l’invito al sole». In questo modo, l’architettura «Dietro quelle feritoie» diveniva un «tesoro fragile dell’Umanità» e, in quanto “Tesoro”, «protetto da mura sottili e verti134 Per questi due edifici religiosi vedi quanto ha scritto F. Zanzottera, San Francesco al Fopponino, Milano 1961-1964; Santa Maria Annunciata dell’ospedale San Carlo Borromeo, Milano 1963-1969, in Gio Ponti e l’architettura sacra …, cit., p. 154 e ss.

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ginose, ma gelose: da quelle feritoie entrano le semoventi lame di luce del sole vergine di Denver, e dal di dentro quelle feritoie verticali e orizzontali, rendono stupende ed impreviste le vedute della città, e delle Rocky Mountains profilate sui cieli limpidissimi di Denver»; Ponti chiude con un assolo magistrale: «cieli angelici. Andate e vedrete»135. Con questi intenti portava a termine, nel 1971, la costruzione del suo tardo capolavoro assoluto: la chiesa della Concattedrale Gran Madre di Dio, a Taranto e il Denver Art Museum in Colorado (U.S.A.) (figg. 85, 86), edifici questi, seppure molto diversi per funzione e spazi, che mostrano una stretta analogia nel trattamento della facciata, usata come imponente e visivo elemento di richiamo a grande distanza. Forse non è fuori luogo definire la Concattedrale uno degli edifici più belli e meglio riusciti del Novecento e non solo a livello italiano. La genesi costruttiva si sviluppa in un arco temporale che va dal 1964 al 1970 e la chiesa, voluta fortemente dall’arcivescovo Guglielmo Motolese, era nata dall’esigenza di erigere una cattedrale nel nuovo asse di espansione della città, in aggiunta a quella antica di San Cataldo. Ponti ricerca un linguaggio che coniughi alla cifra moderna la tradizione pugliese delle severe chiese romaniche, che colpirono la sua immaginazione, come, infatti, ebbe a scrivere: «San Nicola di Bari è una misura di forma e nobiltà che non si può dimenticare: fa tremare»136. Questi esempi illustri lo spingono a pensare la cattedrale completamente ed essenzialmente rivestita di intonaco bianco all’esterno, così come all’interno, in sintonia con l’uso mediterraneo d’intonacare le case. Nasce in questo modo l’idea di una cattedrale che prende vita dagli elementi naturali: l’aria, l’acqua e

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135 G. Ponti, A Denver. Il Denver Art Museum, di James Sudler, Joal Cronenwett, Gio Ponti, in “Domus”, 511, 6, giugno 1972, pp. 1-7, in part. p. 3. 136 G. Ponti, Lettera a Guglielmo Motolese, Milano, 10 marzo 1966, archivio arcivescovile di Taranto. Fondo Motolese, fasc.1, cons. in M.M. Torricella, Gio Ponti 1964-1971. Progetto e costruzione di una cattedrale. La Gran Madre di Dio a Taranto, (TA) Martina Franca, Edizioni Pugliesi 2004, p. 14.

Fig. 85. Gio Ponti, con Sudler e Cronenwett, Denver Art Museum, (veduta esterna), 1971, Denver (Colorado). Fig. 86. Gio Ponti, con Sudler e Cronenwett, Denver Art Museum, (part. del grande terrazzo esterno), 1971, Denver (Colorado).

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la vegetazione, ma che sia anche vissuta come luogo di spirito, o come spazio, quasi domestico, di ritrovo. Proprio per questi motivi, egli pensa di escludere lo sfarzo dei marmi e di altri materiali preziosi, optando per la scelta del cemento armato a vista, come la naturale e più logica prosecuzione moderna della nuda pietra tufacea paleocristiana e romanica, usata ampiamente nelle costruzioni, non solo religiose, pugliesi137. Inoltre, l’architetto adatta a questo luogo la precedente certezza riscontrata nello spirito francescano, inteso come il più puro ed essenziale dell’intero Occidente, coniugando la nuda povertà francescana con quella delle bianche e spontanee architetture pugliesi. Così Ponti dà vita ad una costruzione a pianta rettangolare, a navata unica, con due parti architettoniche distinte, che chiama la “nave” e il “castello”: la prima è il corpo basso della cattedrale, mentre il castello è l’elemento verticale che funge da campanile o cupola e che segnala l’abside, elemento connotativo dell’edificio anche da lontano138. In questo modo, l’architetto, dopo vari ripensamenti, trova una giusta sintesi tra l’esterno spettacolare e l’interno a dimensione del fedele, pertanto abbasserà la facciata e la navata, slanciando il tiburio in un’inconfondibile forma a vela, traforata da una ottantina di finestre dalla caratteristica forma esagonale diamantata, e composto altresì da due pareti in cemento armato unite tramite due torri campanarie per un’altezza di 41 metri e una larghezza di 22. La cattedrale sembra, così, prendere vento come una nave spiegata sul mare, chiaro riferimento alla tradizione marinara della città di Taranto. antistante la chiesa Ponti situa uno specchio d’acqua ferma a tre livelli, per creare un’effetto di riflessione. All’interno, la copertura della navata si alza gradualmente in senso longitudinale, fino agli 11 metri, dove Vedi a questo riguardo, A. Simioli, Gran Madre di Dio, concattedrale di Taranto 1964-1971, in Gio Ponti e l’architettura sacra …, cit., p. 178 e ss. 138 Vedi a tale riguardo quanto rilevò L. Moretti, Il fastigio della cattedrale, in “Domus”, 497, aprile 1971, pp. 11-12. 137

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si ferma in corrispondenza del tiburio in modo che esso sia inondato di luce, mentre il resto della chiesa rimane in penombra139 (figg. 87, 88). La cattedrale di Taranto, per Ponti, assurge, con ogni probabilità, a un valore etico, un suo testamento ideale140, che ci manifesta come l’architetto abbia saputo rendere leggera la dura materia, trasformando l’architettura in luce col proprio magistero, operando in piena gioia di vita. Perciò non meraviglia se, sul finire della sua lunga e ricca vita, assegnerà alla cara ed adorata figlia Lisa il compito di custodire questo valore: «Lisa so benissimo di essere famoso nel mondo per la Superleggera e il Grattacielo Pirelli, ma erano lavori di vent’anni fa, io ho continuato a lavorare e i miei culmini sono la Cattedrale di Taranto e la poltroncina Gabriela detta, comunemente, ‘sedia di poco sedere’»141.

Vedi quanto ebbe a scrivere lo stesso G. Ponti, La concattedrale di Taranto, in “Domus”, 497, aprile 1971, pp. 13-23. 140 Sicuramente, come mi ha testimoniato Lisa Ponti, in data 3 febbraio 2016,l’intero progetto della Concattedrale fu difeso e sostenuto apertamente dal vescovo Motolese su quanti vedevano in questo lavoro qualcosa di diverso e deviante rispetto all’ortodossia architettonica delle chiese cattoliche. 141 Testimonianza fattami personalmente da Lisa Ponti il 3 febbraio 2016; analoga citazione, con alcune varianti, è riportata da Graziella Roccella: «Dicono che io abbia raggiunto l’apice della carriera con la Torre Pirelli, ma erano gli anni cinquanta. Ho continuato a lavorare per altri venti anni e la cattedrale di Taranto è un altro capolavoro. Per favore, Lisa, dillo alla gente», in G. Roccella, Gio Ponti 1891-1979 Maestro della leggerezza, Colonia, Taschen 2009, p.88. 139

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Fig. 87. Gio Ponti, Concattedrale Gran madre di Dio, (veduta frontale della facciata), 1971, Taranto.

Fig. 88. Gio Ponti, Concattedrale Gran madre di Dio, (veduta frontale notturna della facciata), 1971, Taranto.

Finito di stampare nel mese di aprile 2016 da Impressum - Marina di Carrara (MS) per conto di Pisa University Press srl