Jacques Maritain protagonista del XX secolo 8870304604


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Jacques Maritain protagonista del XX secolo
 8870304604

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Armao - Bellingreri - Buscemi - Carmagnani - Cavadi - Chiarelli - Corselli - De Finance - Galeazzi - Ievolella - Palazzo - Pellegrino - Rizzuto - Roést Crollius Roncoroni - Saitta - Savagnone - Trifogli -Viotto - Vultaggio - Zammitti

JACQUES MARITAIN PROTAGONISTA DEL XX SECOLO

Editrice Massimo

«PROBLEMI

Collana DEL NOSTRO N. 60

TEMPO»

Digitized by the Internet Archive in 2023 with funding from Kahle/Austin Foundation

https://archive.org/details/jacquesmaritainp0000unse_y5b5

G. Armao - A. Bellingreri - M. L. Buscemi - R. Carmagnani - A. Cavadi - F. Chiarelli - M. Corselli - J. De Finance - G. Galeazzi - L. Ievolella - A. Palazzo - M. T. Palazzo - U. Pellegrino - R. P.

Rizzuto - A. Roést Crollius - M. Roncoroni - A. M. Saitta - G. Savagnone - A. Trifogli - P. Viotto - A. M. Vultaggio - G. Zammitti

JACQUES MARITAIN PROTAGONISTA DEL XX SECOLO a cura di Rossana Carmagnani

e Patrizia Rizzuto

MASSIMO - MILANO

Atti del Convegno organizzato dall'Istituto Regionale di Ricerca e Formazione Culturale «Jacques Maritain» di Palermo, in occasione del decimo anniversario della morte del filosofo francese (Palermo, Istituto «Gonzaga», 14-17 aprile 1983)

ISBN 88 - 7030 - 460 - 4 Prima edizione: marzo 1984

Copyright © 1984 by Editrice Massimo Corso di Porta Romana 122 - 20122 Milano Proprietà letteraria riservata - Printed in Italy Arti Grafiche Franco Battaia - Rozzano (Mi)

Introduzione

1. PERENNITA

DI UN FILOSOFO

«La luce che aveva creduto di scorgere sul suo volto le fece pensare che non si sarebbero rivisti più. Jacques sembrava avere la stessa intuizione» (!). Con queste parole Yves Simon riferisce dell’ultimo incontro tra Suor Marie Pascal, collaboratrice di Jacques Maritain, e il filosofo novantenne ormai gravemente malato, il giorno che ne precedette la morte. Il 28 aprile 1973, Jacques ritornava alla casa del Padre. Era stato per Paolo VI un maestro di pensiero, era stato una delle coscienze precorritrici del Concilio Vaticano II, era stato la coscienza critica di quella cristianità tanto amata, che più volte si

era sentito impegnato a richiamare alla sua vocazione di fedeltà al Vangelo e di testimonianza nel nostro tempo. Dieci anni dalla morte per un uomo così significano un tempo, nel quale dare spazio ad una discendenza, quella promessa a tutti coloro che sono nella verità e per la verità. E Jacques, che con Raîssa, davanti ad una finestra aperta sulla campagna, aveva vagheggiato una «scuola di vita», ha lasciato figli e discepoli nello spirito, nella mente e nel cuore. Un uomo così resta sempre vivo nella perennità della fede e della verità; non ha senso ricordarlo, ha senso invece custodirne la continuità della presenza. A motivo di ciò, l’Istituto Regionale di Ricerca e Formazione Culturale «J. Maritain» ha voluto promuovere un convegno, il cui scopo è stato quello di creare uno spazio privilegiato per attualizzare la «scuola di vita» tanto desiderata dai Maritain e nella quale Jacques tornasse ad essere presente con la bellezza del suo (1) Y. Simon, Omaggio a Jacques Maritain, introd. di R. Papini, Massimo, Milano 1982, p. 85.

pensiero, la forza trasparente della verità radicale, l’universalità del suo messaggio tutto proteso tra l’umano e il divino. Di questo protagonista del nostro tempo si è cercato pertanto di evidenziare tutta la pregnanza intellettuale e la ricchezza umana, «pensando insieme» ad alcune di quelle verità luminose, che egli per primo si è impegnato a incarnare. La riscoperta e la con-

templazione del mistero, l’affermazione e la rivendicazione della libertà, fondamento della persona umana, l’urgere del bisogno di Dio nella verità più profonda dell’uomo, l'esigenza di educare la persona nella integralità della sua natura, sono stati i temi di un dialogo vivo e avvincente, calato, peraltro, nella presa di coscienza che la comunità dei viventi trascende i confini geografici. 2. MARITAIN

FILOSOFO

DELLE

«PAROLE

ASSOLUTE»

Da un orizzonte così umano e planetario non poteva che provenire una forte esperienza di vita, e, se è vero che ogni esperienza di vita regala una volta di più il gusto della verità e il sapore del nuovo, che le è proprio, quale novità, quale ulteriore scoperta ci ha riservato in questa occasione l’incontro con Jacques Maritain? Lo abbiamo ritrovato, e riamato come il filosofo delle «parole assolute», di quelle parole che si nutrono della Parola stessa di Dio e che scaturiscono direttamente dal mistero della creazione, della perfezione, dell’infinito. Sono le parole, delle quali Raissa direbbe che gli uomini, pur avendone disperatamente bisogno, ne hanno nel contempo paura, perché sono quelle che conducono nel cuore delle realtà forti, radicali, definitive, quelle che aprono una strada senza ritorno, intrapresa la quale, chi si volge indietro, si smarrisce senza speranza.

Le «parole assolute» sgorgano travolgenti e fertili dalla sorgente dei trascendentali: dall’essere, dalla verità, dal bene e dalla bellezza. Sono le parole con le quali Dio ammanta la sua imperscrutabilità e incarnando le quali l’uomo scopre la sua immagine divina. Sono le parole con le quali Dio ha plasmato l’uomo: l’amore, l’amicizia, la libertà, la donazione, la gratuità, la castità, il mistero, il rischio. E la coscienza dell’uomo, che gioca il suo destino tra la conoscenza delle cose nel loro apparire e nella loro particolarità, da un lato, e l’intuizione della loro essenza, dall’altro, trova in queste parole l’espressione più piena di sé. 6

Parlare della perennità e della contemporaneità di Maritain, significa entrare nell’orizzonte di un linguaggio strutturato tutto di «parole assolute», senza vincoli, aperte alla vertigine del rischio e della trasformazione continua dell’intelligenza e del cuore. Significa uscire dalla esitazione del relativismo e della gratificazione momentanea per accedere all’universo dell’eternità di Dio. Il linguaggio di Jacques è una casa, nella quale natura e soprannatura, indagine, contemplazione e mistica, scienza e sapienza vivono insieme, nell’armonia della distinzione, che non è mai sentirsi separati, ma sempre e soltanto dinamismo di unione e di perfezione. 3. SCIENZA

E SAPIENZA OGGI

Che cosa ha reso possibile questo dialogo di «parole assolute», che Maritain riesce a creare? L’incontro tra persone, che lo amano come un vivente e che camminano lungo lo stesso itinerario di vita, che egli ha percorso. È nata così una comunione intellettuale e morale di spiriti nobili, mossi dalla gratuità e dall’amore della verità, che il nostro tempo troppo spesso mostra di mi-

sconoscere. Alfredo Trifogli ha aperto questo dialogo, nel quale i contenuti delle diverse relazioni si sono susseguiti con efficace complementarietà, evidenziando ne «Il pensiero di Maritain nella cultura contemporanea», la straordinaria capacità, che il filosofo francese ha avuto di affrontare globalmente i problemi fondamentali del nostro tempo, esercitando sicura e feconda influenza sulla storia culturale di molti paesi. Ricordando testimonianze autorevoli di «indimenticabili maestri» della nostra storia più recente, quali Paolo VI, Giorgio La Pira, Aldo Moro, Giuseppe Lazzati, fino a Giovanni

Paolo II, il relatore ha messo

in luce tutta la

rilevanza di cui la figura di Maritain gode ancora oggi, per il suo modo originale, intenso e sofferto di essere cristiano, per la forza della sua riflessione sulle ragioni della fede, per la provocazione della sua filosofia. Dopo una ricerca appassionata, della quale il relatore fa ripercorrere

le tappe

più significative, Maritain

trova

in Tommaso

d’Aquino un fecondo nucleo centrale, intorno al quale riflettere per tutta la vita con umiltà e con fedeltà, ma senza mai rinunciare alla sua autonomia e alla sua libertà di filosofo. Un nucleo 7

centrale a partire dal quale egli mette coraggiosamente in discussione tutta la filosofia moderna da Cartesio in poi e quell’umanesimo antropocentrico che vede i suoi risultati estremi nell’uomo e nella società dell’individualismo borghese, in un tempo che fa dello stato, della nazione, della razza, della classe i suoi valori assoluti. Di fronte alla proposta di Maritain, che prospetta «una nuova antropologia e pone le basi di una nuova società», la cultura ufficiale del nostro tempo non tarda a manifestare indifferenza e ostilità, non potendo tuttavia alla fine, come sta accadendo in anni a noi più vicini, non assumere posizioni più equilibrate o addirittura decidersi a riconoscerne il grande valore. A partire da tale prospettiva, la riflessione su Maritain non può che aprirsi al senso

radicale della verità, unica garanzia del sapere sapienziale attingendone la possibilità di fondazione nel bisogno insopprimibile, che l’uomo ha, talvolta suo malgrado, di Dio. In «Ateismo, ricerca

di Dio e metafisica in J. Maritain», Ubaldo Pellegrino ricorda l’esperienza che Jacques stesso fece della «eclissi di Dio», giungendo fino alla disperazione e cogliendo ad un tempo, in modo vitale, esistenziale, anche la crisi della intera cristianità europea. Il contributo di Pellegrino si è sviluppato delineando nei suoi tratti essenziali quell’umanesimo sapienziale e teocentrico, frutto della triplice sapienza metafisica, teologica e mistica, che Maritain indica quale valida alternativa all’umanesimo antropocentrico, che è origine della crisi contemporanea; crisi che ha coinvolto la stessa fiducia dell’uomo nelle sue possibilità conoscitive, limitandole entro il fenomenismo e il relativismo soggettivistico. La relazione di Rossana Carmagnani, «Percezione astrattiva dell’essere e intenzionalità in J. Maritain», ci riconduce pertanto entro l’orizzonte di una gnoseologia metafisica, «per vivere, con il filosofo francese, l'avventura della conoscenza»

e «varcare la so-

glia del mistero», diventando «partecipi di una vita nella quale la perfezione umana della intelligenza trascende se stessa in una divina possibilità». La gnoseologia maritainiana viene così ricondotta alla sua derivazione aristotelico-tomista, caratterizzata da quel realismo critico, che coglie in tutta la sua pregnanza l’inti-

ma relazione e ad un tempo l’intrinseca autonomia tra la coscienza e il mondo. Tra percezione astrattiva dell’essere e intenzionalità, l’avven-

tura della conoscenza ci si svela nel suo significato più pregnante e più carico di mistero; essa «sta — come afferma Maritain — nel suo porsi come una sovtaesistenza attiva e immateriale, per la quale il soggetto trascende la sua esistenza naturale limitata e si sprigiona in una esistenza illimitata e diviene, in virtù della sua attività conoscitiva, se stesso e gli altri». Tra conoscenza teologica e conoscenza metafisica si è collocata anche la riflessione di Augusto Cavadi in «A Dio, con intelligenza: indicazioni da Maritain». Il relatore annota che per Maritain il problema di Dio non si può ridurre ad una questione di fede soggettiva: l’intelligenza non va estromessa dall’ambito dell’esperienza religiosa, che, per il fatto di coinvolgere la dimensione esistenziale della persona, non cessa per ciò di interpellarne la ragione, contrariamente a quanto si è ritenuto nell’orizzonte della cultura occidentale, a partire dalla Critica della ragion pura di Kant. La possibilità o meno del possesso della verità ritorna anche nel contributo di Giuseppe Savagnone, «La verità in Maritain». Ancora una volta viene ribadito come in Maritain il discorso circa la verità venga «recuperato nei termini di un autentico realismo». Tale recupero si fonda sulla riaffermazione del valore del concetto e del valore della intuizione astrattiva. Savagnone ci conduce così nel cuore di quel cammino verso la verità, nel quale può riassumersi tutta la speculazione e la vita stessa di Jacques e Raissa.

Il possesso sapienziale della verità non può che condurre alla esultazione piena della libertà, fondamento e dignità della persona umana. Della scoperta progressiva del senso pieno della libertà lungo l’itinerario intellettuale di Maritain, Joseph De Finance ricorda le tappe fondamentali nella sua relazione «I diversi tipi di libertà in J. Maritain». Dalla esaltazione della libertà civile e politica negli anni della adolescenza, all’insoddisfazione prodotta nel filosofo francese dal positivismo agnostico e deterministico, imperante negli ambienti accademici del tempo; dall’incontro con Bergson, che gli schiude finalmente l’orizzonte metafisico e il regno della libertà — per quanto in modo poco convincente, visto che la libertà bergsoniana poco si distingueva dalla mera spontaneità —, alla conversione, che lo porta alla scoperta della libertà dei santi e infine all’incontro decisivo con Tommaso d’Aquino, da

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cui attinge la struttura metafisica per la sua elaborazione della nozione di libertà, l’itinerario di Maritain è percorso da De Finance con rigore teoretico attraverso alcune delle sue opere più significative. La filosofia bergsoniana, Il breve trattato, I gradi del sapere, Strutture politiche e libertà, Nove lezioni costituiscono le pietre miliari di un cammino lungo il quale Maritain fonda metafisicamente la libertà, grazie anche alle sollecitazioni provenienti dalle filosofie del nostro tempo, che esibendosi come novatrici, in realtà spacciano verità impazzite. In tale cornice metafisica, la libertà appare la nota più propria della persona e il suo mistero esprime il mistero della soggettività spirituale, della sussistenza aperta solo allo sguardo di Dio, della quale pertanto Maritain sottolinea il carattere impenetrabile e imprevedibile, non dimenticando mai che il senso più largo di libertà è la spontaneità propria dell’esistente spirituale, la facoltà di agire, seguendo le sole esigenze della propria natura. La perfezione di tale spontaneità è chiamata da Maritain «libertà d’esultanza», l’attività non impedita, non frustrata, meta di tutti i nostri sforzi, più perfetta del libero arbitrio perché esclude la possibilità di scegliere male, esclude il non essere e la negatività; è la libertà dei beati e di Dio stesso, alla quale De Finance, sulla scorta delle indicazioni maritainiane, dedica pagine di altissima forza speculativa e di mirabile carica espressiva. Il valore e il mistero divino della persona hanno trovato ulteriore esplicitazione nel contributo di Antonio Bellingrerti, «La metafisica della persona in J. Maritain». Il relatore ha sottolineato l’apporto che Maritain ha offerto, con la sua riformulazione del personalismo tomista, all’affermazione del valore della persona in un tempo, che sembra in molti modi averne programmato la negazione. La storicità della persona trova uno spazio di riflessione in «Dimensione gnostica e dimensione morale della filosofia della storia nel giudizio di Maritain». Con Corselli ci accostiamo alla posizione del filosofo francese nei confronti di un «genere filosofico che è stato in auge nella storia del pensiero occidentale in tempi relativamente recenti», quello della filosofia della storia. La prospettiva propriamente sapienziale del pensiero di Maritain non poteva non lasciare spazio al tema della filosofia cristia-

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na, che Giancarlo Galeazzi ha affrontato ne «Il problema della filosofia cristiana in J. Maritain», cogliendone ad un tempo l’unità e lo sviluppo dinamico. Se la prima è rintracciabile in tutto l’arco del pensiero maritainiano nella rivendicazione della specificità della filosofia, il secondo è individuabile nella progressiva maturazione speculativa che, nel decorrere della prima metà del nostro secolo, conduce il filosofo francese a chiarire il concetto di filosofia cristiana in termini sempre più aperti, che le consentono di sviluppare «in un clima cristiano le sue esigenze autonome, una sapienza della ragione non chiusa, ma aperta alla sapienza della grazia, dal momento che oggi la ragione deve lottare contro una deificazione irrazionalista delle forze elementari e istintive che minaccia di distruggere ogni civiltà. In questa lotta, il compito che incombe alla ragione è un compito di integrazione». E poiché l’intelligenza «non è nemica del mistero, ma vive di esso», «un’intelligenza formata esclusivamente agli abiti mentali della tecnologia e della scienza dei fenomeni [...] non è un ambiente normale per la fede». E proprio perché oggi più che mai gli uomini hanno bisogno del clima intellettuale creato dalla filosofia, dalla metafisica, dalla teologia per recuperare la loro integralità ontologica, occorre che esse intervengano a «reintegrare l’intelligenza nel suo funzionamento più naturale e profondo», consentendole di «riconciliare di nuovo le sue vie con il cammino proprio della fede». 4. PROMOZIONE

DEL DIRITTO

ED EDUCAZIONE

ALLA

LIBERTA

L’atteggiamento sapienziale della filosofia maritainiana non è l’atteggiamento meramente speculativo della contemplazione dell’essere, ma è quello di una coscienza evangelica, impegnata nel facere veritatem. Cosicché una comprensione attendibile di esso non può sottrarsi alla riflessione su qualche aspetto del concreto esistenziale della persona umana. Diritto e pedagogia divengono pertanto due ambiti privilegiati di confronto. Nell’affrontare il rapporto fra «Personalismo e diritti civili in J. Maritain», Antonio Palazzo ha proposto una lettura comparata de I tre riformatori — dove Maritain confronta i contenuti bergsoniani che gli eventi storici, «che reclamano una più consistente dottrina riguardante l’uomo associato e ritrova nella dottrina tomistica la chiave principale per la soluzione del problema del conLi

flitto sociale», — e di Urzanesimo integrale dove il filosofo francese elabora più compiutamente la sua «considerazione storicopolitica del pensiero tomista». Sul tema della libertà, affrontato in chiave pedagogica, si è articolata quindi la relazione di Piero Viotto «L'educazione alla libertà in J. Maritain», che ha argomentato fin dal suo avvio il «presupposto teoretico» del rapporto intercorrente fra libertà, verità e società.

Della disamina maritainiana concernente lo sviluppo della filosofia e della cultura moderna, Viotto ha ricordato tutti i passaggi nodali: dalla considerazione del «sogno» di Cartesio, di negare la scientificità della teologia, e di quello kantiano di negare il valore della stessa metafisica, all’attenzione con la quale il filosofo francese ha studiato il formarsi e l’inverarsi nella prassi politica del nostro tempo dell’umanesimo liberal-borghese, fino alla sua riflessione circa quella «corruzione del cristianesimo», di derivazione illuministica, che attraverso il deismo ha portato all’ateismo e al laicismo. Con Maritain il relatore ha inteso farsi assertore di un umanesimo integrale, che dell’uomo rispetti tutta la verità di creatura corporea e spirituale, che si inveri nella prassi di una democrazia organica e che sia orientato al perseguimento della libertà piena della persona, superamento e compimento della mera libertà di scelta tanto cara al liberalismo. Tale libertà è proposta da Maritain e da Viotto quale meta di ogni impegno educativo, di quello della famiglia anzitutto, di quello della scuola, della Chiesa e della società. Sul valore della persona insiste Felice Chiarelli, che in «La città dimensione temporale dell’uomo» la indica quale fondamento di ogni progetto culturale, antropologico, politico, «ispirato dalla testimonianza di fede». Nella sua relazione «Educazione, persona e verità nella crisi della società tecnocratica contemporanea: la proposta di J. Maritain», Massimo Roncoroni ha voluto affermare che il modo più adeguato per ripensare Maritain sia quello di mettersi alla sua scuola, di farsi illuminare da lui; l’uomo, pertanto, deve essere inteso come un essere spirituale dotato dei caratteri della totalità e della indipendenza, originariamente aperto all’essere ed ai suoi attributi universali, il vero, il bene, l’unità, la bellezza. Come un essere che, attuando progressivamente la propria essen82

za ha bisogno dell’esperienza educativa che «aiuti a partorire l’uomo dall’uomo stesso», nel rispetto della duplice dimensione «individuale» e «personale» e nella perenne tensione verso la conquista della verità, nella quale consiste la libertà interiore. Ma tale progetto pedagogico è oggi insidiato dalla società tecnocratica, che sfida ogni educatore a cimentarsi in un compito educativo eroicamente quotidiano. 5. LA FANTASIA

DEL DOMANI

E L'ETERNITÀ DEL MISTERO

Del pensiero di J. Maritain Ary Roést Crollius ha proposto, nella sua relazione «J. Maritain e le culture mediterranee», una lettura sicuramente suggestiva, che intende utilizzare le indicazioni più efficaci del filosofo francese non per «guardare indietro e fare opera di sistematica rilettura, ma per scoprire l’avvenire, per inventare il domani»; nella prospettiva di un tale impegno trova la sua giustificazione il mirabile tentativo compiuto da Ary R. Crollius: far dialogare Maritain con le culture mediterranee, tentativo fantasioso anche se non per questo meno scientifico. La sua elaborazione teoretica, che di quattro temi «tipicamente mediterranei», (quello delle Muse e della ispirazione artistica, quello dell’umanesimo personalista come fondamento della civiltà, quello del pluralismo come articolazione della comunità di culture e infine quello dell’esperienza della trascendenza come sorgente di cultura), offre una lettura in chiave maritainiana, ha così cer-

tamente il pregio della originalità, visto che il filosofo francese dal punto di vista della «attualità culturale» è stato un atlanticonord-occidentale e visto che egli non ha mai trattato direttamente della convivenza di culture nell’area mediterranea. Originale e fantasioso dunque il contributo di Crollius, ma, non per questo privo di rigorosità scientifica, visto che esso ci conduce a scoprire «le linee di forza che danno senso al “mosaico” culturale del mondo mediterraneo», mediante ben documentate indicazioni di Urz4nesimo integrale, de Il contadino della Garonna, de La Chiesa del Cristo, di Scienza e saggezza e di De la vie d’oraison.

Nelle pagine di Maritain il relatore ha trovato l’esplicitazione di quel carattere «musicale», immaginativo, gratuito e artistico tipico delle culture mediterranee, che salvaguarda dalla morte le civiltà e che è carattere tipico della vita dello spirito umano, culminante nella contemplazione divina, nella unione con Dio per 13

una conoscenza ineffabile. Ary Crollius ha potuto quindi concludere la sua relazione, definendo di ispirazione maritainiana la sua convinzione che nelle culture del mondo mediterraneo sono presenti «le potenzialità necessarie per stabilire un equilibrio fra cuore e ragione, fra saggezza e scienza, fra intuizione e ricerca analitica». Ne «Il mistero provocazione dell’intelligenza», Anna Maria Vultaggio ha evidenziato la stretta relazione intercorrente fra l’itinerario speculativo del filosofo e il cammino dell’uomo Maritain, illuminato e orientato dalla verità progressivamente scoperta e accolta attraverso gli incontri decisivi della sua vita. Emerge così una rigorosa riaffermazione del mistero, spesso relegato nella dimensione fideistica o in quella del sentimento e che, con Maritain, la Vultaggio ripropone quale provocazione dell’intelligenza, necessaria in ordine al pieno esercizio delle facoltà conoscitive dell’uomo. Dal canto suo Patrizia Rizzuto ha voluto cogliere una possibile chiave di lettura dell’unità di tutta la speculazione maritainiana nella consapevolezza del dinamismo dello spirito umano con la sua relazione su «La saggezza trascendimento-libertà dello spirito in Maritain». Già noto all’antichità pagana come connaturale all’essenza dell’uomo, il desiderio di saggezza trova una risposta nuova e sconvolgente nella civiltà ebraico-cristiana ad opera di una saggezza di salvezza e di santità, di una saggezza che si dona alla creatura e che culmina nell’amore di carità e nella contemplazione santa, traboccante per generosità nell’azione. La riflessione di Lucia Ievolella, «Alle radici dell’esperienza morale: il mistero della condizione umana», ci ha condotto nel vivo della filosofia morale di Maritain, cogliendo, con il filosofo francese, nella legge morale il segno della tensione insopprimibile, che muove l’uomo al superamento del proprio limite ontologico, della miseria della propria natura. Nella elaborazione della «metafisica della condotta», Lucia Ievolella vede l’intuizione più originale e più stimolante della riflessione maritainiana. Da tale prospettiva metafisica, che mette radicalmente in causa la soggettività individuale è delimitato per Maritain l’orizzonte etico. Nel cuore della concezione estetica di Maritain ci ha portato, invece, Maria Luisa Buscemi con la riflessione su «La bellezza,

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volto dell’essere»: l’opera d’arte ci si rivela come frutto dell’incontro tra la realtà umana e la realtà cosale, e come portatrice del mistero della persona, con la sua esperienza, le sue emozioni, i suoi sentimenti e, ad un tempo, di quello delle cose, con la loro bellezza, il loro orrore, la loro capacità di suscitare smarrimento e venerazione. Animatrice della filosofia, la ricerca lo è anche della creazione artistica: ricerca del vero quella filosofica, ricerca del bello quella artistica, entrambe prendono avvio dalla realtà sensibile per giungere ad una ultimità di significato e di orizzonte. Se la metafisica si muove nell’ordine del sapere, l’arte si muove nell’ordine del fare, in essa la passività della materia si incontra con l’attività dell’artista, associato a Dio nel creare opere belle per una sorta di incontenibile sovrabbondanza della persona. In coerenza con le indicazioni di Maritain e di tutta la tradizione cristiana, Maria Teresa Palazzo ha ricordato quanto sia importante «incentrare la vita politica su un bene comune oggettivo», al fine di «mantenere nel singolo il valore della propria soggettività e nel popolo l’esercizio del potere», tenendo la prassi politica al riparo da quelle tentazioni dittatoriali che si ispirano sempre a filosofie di tipo relativistico. In tale prospettiva la relatrice si propone, pertanto, attraverso la riflessione «Bene comune e carta democratica», di riflettere sull’origine e sul significato del bene comune per evidenziare attraverso Maritain l’importanza della «Carta democratica» quale strumento di educazione alla democrazia e alla amicizia civica. «Sovranità del popolo: spunti per una riflessione alla luce del pensiero di Maritain» è stato il tema del contributo di Gabriele Zammitti, che sulla scorta del filosofo francese esclude che la sovranità possa essere attribuita ad un soggetto politico, quale lo stato o il popolo, visto che nessun soggetto politico ha quella assolutezza e quella trascendenza che della sovranità sono caratteri definitori, a meno che non si intenda la sovranità nel senso ristretto di strumento per l’autogoverno e per l’autodeterminazione storica. Emerge inequivocabile da tale argomentazione la stretta connessione tra sovranità popolare e democrazia autentica. Il contributo di Gaetano Armao, «Dalla teoria del bene comu

ne alla tutela del diritto alla vita» ha inteso invece utilizzare l indicazioni di Maritain per riflettere intorno ad alcuni «drammi del nostro tempo», quali la legalizzazione dell’aborto, la costante 15

attenuazione della tutela del diritto alla vita, le proposte di legge per una legalizzazione della eutanasia. Si richiede, per affrontare adeguatamente tali tematiche, una vera filosofia dei diritti della persona, in ordine alla quale è irrinunciabile il riferimento all’idea di legge naturale e di bene comune. La riflessione sul mistero, la consapevolezza del valore della comunità umana come comunità civile, l'affermazione della inviolabilità della vita trovano il loro completamento e il loro inveramento nella riflessione sul mistero e sulla persona della Chiesa. Anna Maria Saitta ha delineato così la concezione maritainiana della Chiesa nei suoi aspetti salienti attraverso il suo contributo «Il mistero della Chiesa in J. Maritain». La Chiesa è una persona con doppia subsistenza, quella naturale degli uomini, suoi membri e quella soprannaturale, dotata di un’anima — la grazia del Cristo —, di una vita — la carità —, e di un corpo —, la co-

munità visibile. La riflessione sulla Chiesa ha portato così a compimento il nostro dialogo su Jacques Maritain, protagonista del nostro secolo, trascendendo il valore stesso della sapienza umana nel mistero salvifico del Cristo, che è Sapienza di Dio. 6. CONCLUSIONE

L’esperienza di questo convegno ha voluto, in tal modo essere, con Maritain e oltre-Maritain, il segno concreto di un impegno per la cultura e la verità, che trascende gli accademismi e rompe le chiusure per addetti ai lavori. Generazioni diverse si sono incontrate nella comunione e nella ricchezza della reciprocità, aprendo così la strada alla possibilità di una cultura, che vuole andare per le vie del mondo e impolverarsi i piedi al fine di condividere con tutti la meraviglia dell’essere, la forza della verità, la fertilità del bene, il fascino divino della bellezza. Tutto questo intorno alla presenza vivificante di un uomo, di cui il cardinale Pappalardo nel suo messaggio augurale ha detto: «A dieci anni dalla morte, Maritain è vivo nella cultura occidentale, che in parecchi settori si richiama al pensatore francese, facendone un preciso punto di riferimento nell’area mediterrapoeti nea». Rossana Carmagnani R. Patrizia Rizzuto 16

Parte prima

Scienza e sapienza oggi

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ALFREDO

TRIFOGLI

presidente della sezione

italiana dell’Ist. Intern. «J. Maritain»

Il pensiero di Maritain nella cultura contemporanea

1. J. MARITAIN NEL GIUDIZIO DEL NOSTRO TEMPO

DI ALCUNI

MAESTRI

L’Istituto Internazionale «J. Maritain» e le varie sezioni nazionali in cui esso si articola hanno colto l’occasione del centenario della nascita del filosofo francese non per organizzare manifestazioni celebrative e apologetiche, ma per continuare, con l’unico stile che si addice ad una istituzione culturale, quel lavoro di approfondimento del pensiero maritainiano e del suo confronto con le voci più autorevoli della cultura contemporanea iniziato nel 1974. In questa prospettiva, vanno segnalate, tra le numerose iniziative dell'Istituto, accanto a quelle organizzate da altre istituzioni, come il convegno dell’Università cattolica di Milano su «J. Maritain, oggi», il Congresso internazionale di Ottawa su «J. Maritain filosofo della città» e quello che si è tenuto a Parigi il 14 e 15 dicembre su «Diritti dell’uomo, pace e giustizia sociale internazionale». La sezione italiana, che cerca di leggere Maritain nel contesto della concreta situazione culturale italiana, animata dalla speranza di sviluppare un fecondo dialogo tra le esperienze culturali più vive del nostro tempo, ha trattato in convegni e seminari temi co-

me «Ispirazione cristiana, politica e collaborazione in un mondo diviso», «Ricomposizione, mediazione e progetto», «L’utopia di umanesimo integrale», «Il contributo teologico di Maritain». Certo è che ogni qual volta ci troviamo di fronte all’opera di Jacques Maritain, l’aspetto che risalta con maggiore evidenza è la straordinaria capacità che egli ha avuto di affrontare globalmente, mantenendo una sostanziale coerenza, i problemi fondamentali della cultura contemporanea, riuscendo insieme a liberarli da ogni astra19

zione ed a collegarli vitalmente con la storia del suo tempo. Paolo VI ha pronunciato a questo riguardo parole indimenticabili: «Maritain: davvero un grande pensatore dei nostri giorni, maestro nell’arte di pensare, di vivere e di pregare. [...] La sua voce, la sua figura resteranno nella tradizione del pensiero filosofico e della meditazione cattolica» (!). L’altra considerazione che

mi sembra opportuno proporre è quella della sua sicura e feconda influenza sulla cultura e sulla storia di molti paesi, tra i quali c'è senza dubbio l’Italia. Scrisse La Pira per uno dei primi convegni dell’Istituto: «Primato dello spirituale fu per noi tutti — appena apparve — come una stella orientatrice del nostro cammino spirituale e culturale: fu come la stella dell’anima che ci indicò Dio, primo conosciuto e primo servito! Quanta luce e quanto bene traemmo da quel libro meditato ed ispirato, il quale tanto sostanzialmente si collega a Urzanesimo integrale. La nostra intiera vita spirituale e culturale di questo trentennio è legata — come radice — all’opera intiera di Maritain» (?).

Aldo Moro, parlando alla televisione poco dopo la morte del filosofo francese, disse tra l’altro: «L’influenza di Maritain sul mondo cattolico italiano si è andata manifestando negli anni precedenti la seconda guerra e poi, in modo sempre più intenso, dal momento della ripresa della vita democratica in Italia. [...] I caratteri pluralistico, personalistico, comunitario della società che Maritain propone al cittadino nell’assolvimento del suo compito politico, sono espressioni di originali esperienze e promuovono originali modi di azione. [...] Possiamo dire davvero oggi che egli ci ha stimolato intellettualmente e moralmente, come forse nessun altro in questa età di nuova esperienza cristiana e di nuovo modo di essere nel mondo» (*). E Giuseppe Lazzati in una recente intervista ha dichiarato: «Penso che non fu soltanto un atto di omaggio e l’espressione di una personale amicizia che indusse Paolo VI a consegnare a J. Maritain, alla fine del Vaticano II, il messaggio dei padri conciliari agli intellettuali: era il riconoscimento dell’influenza della (1) L'Osservatore Romano, Roma, 30 aprile-1 maggio 1973, p. 1. (2) AA.VV., Jacques Maritain e la società contemporanea, Massimo, Milano 1978, p. 400. . (8) A. Moro, Per una iniziativa politica della Democrazia Cristiana, Agenzia Progetto, Roma 1973, pp. 73-75.

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sua opera sul Concilio. Penso soprattutto alla Gaudium et spes (il documento sul rapporto tra Chiesa e mondo contemporaneo), alla Apostolicam actuositatem (sul ruolo dei laici), alla dichiarazione Dignitatis bumanae» (*). Dopo queste autorevoli testimonianze di indimenticabili maestri della nostra storia più recente, sorge inevitabilmente la domanda se Maritain sia ancora in grado di offrire risposte valide alle domande del nostro tempo e di quello futuro. Le considerazioni che svolge Lazzati a questo riguardo, nella intervista già citata, mi sembrano validissime: «La crisi mondiale delle ideologie è sempre più profonda. Essa lascia un vuoto nell’uomo che deve essere colmato, pena lo scivolamento nell’irrazionalismo, nella disperazione, nel puro privato individualismo. Di fronte a questa situazione, ritengo che la sua filosofia ha ancora molte proposte positive da avanzare. Anzitutto non vi è salvezza per la cultura umana fuori della ragione: ragione tuttavia ben diversa dal razionalismo orgoglioso o povero di non poche espressioni della filosofia moderna, una ragione aperta all’integralità dell’essere e quindi metafisicamente fondata e amica della Rivelazione». E ancora: «Maritain ha messo in luce con singolare forza persuasiva le radici etiche ed evangeliche della democrazia, e di questa indicazione abbiamo speciale bisogno in un periodo in cui la democrazia sembra, disperando di se stessa, arretrare disarmata e sgomenta di fronte ai grandi problemi sociali e politici della nostra epoca o attestarsi all’insufficiente livello di un metodo formale». Mi sembra che queste parole giustifichino pienamente il crescente interesse di studiosi e di giovani per l’opera di Maritain e l’esistenza di un Istituto che a livello internazionale e a livello nazionale intende mantenere viva la memoria di questo originale pensatore, senza mitizzarlo, ma confrontando ciò che di vivo ci ha lasciato con i risultati più positivi della ricerca contemporanea. Uno dei risultati più significativi del nostro lavoro è senza dubbio il crescente interesse che il mondo universitario italiano sta dimostrando per Maritain: l’Università di Parma, ad esempio, ha recentemente organizzato un seminario sul tema: «Maritain e le scienze sociali», l’Università di Urbino ha dedicato un riusci(4) Il Messaggero, intervista 2 novembre 1982, p. 3.

a Giuseppe Lazzati, a cura di Marco Politi,

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tissimo seminario a «Epistemologia e scienze naturali nel pensiero di J. Maritain», mentre l’Università di Macerata gli ha dedicato una tavola rotonda. È certo infine che l’originale, intenso e sofferto modo di essere cristiano e la capacità di riflessione sulle ragioni della fede ha caratterizzato tutta l’opera e la vita di Maritain. Giovanni Paolo II ha pronunciato recentemente a questo riguardo parole chiare e definitive. Per Maritain «non si trattò di ripetere delle formule ma, alla luce di un pensiero tanto elevato da sfuggire alle vicende e all’usura del tempo, di fare da pioniere e, con tutta lealtà, opera innovatrice in molti campi, portando un contributo veramente originale nella riflessione filosofica e anche teologica» (°). Forse può essere utile dire ora qualche cosa su questo Istituto «Maritain» per valutare meglio il significato della nostra presenza, all'insegna del pensiero del filosofo francese, soprattutto in Italia. Nel 1964 nacque ad Ancona, con il benestare dello stesso filosofo francese, il «Circolo Culturale J. Maritain»,

che svolse

una intensa attività: ne fui il promotore e il presidente per lunghi anni. Il 28 aprile 1973 muore Maritain e decidemmo di ricordarlo non con una superficiale conferenza, ma con un convegno scientifico che si svolse ad Ancona alla fine del 1973, con grande successo, sul tema: «Il pensiero politico di J. Maritain». Nel 1974 l’Editrice Massimo di Milano ne pubblicò gli atti, che anche oggi sono ritenuti uno dei più qualificati contributi alla conoscenza di quel particolare aspetto del pensiero maritainiano. Gli studiosi italiani e stranieri convenuti ad Ancona per il Convegno suggerirono di dar vita ad una istituzione che si proponesse di studiare, di diffondere il pensiero di Maritain e di confrontarlo con quello delle più importanti correnti culturali del nostro tempo. Nacque così a Gallarate, sempre nel 1974, l’«Istituto Internazionale ‘J. Maritain’» che si articola in sezioni o asso-

ciazioni nazionali. Nel 1977 fu fondata la sezione italiana. Da allora convegni, seminari, congressi in tante parti del mondo e d’Italia. Una fra le numerose iniziative merita di essere segnalata: a Praglia (Padova), si sta istituendo un centro interna-

zionale per la formazione di giovani studiosi. 18) Dal messaggio di Giovanni Paolo II, inviato il 15 agosto 1982 al prof. Giuseppe Lazzati, Rettore dell’Università Cattolica, in occasione del Convegno internazionale su « Jacques Maritain oggi », in Vita e Pensiero, n. 12, dicembre 1982, p. 39.

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2. L'ITINERARIO SPECULATIVO

E UMANO

DI J. MARITAIN

Ma perché questo ritorno di interesse per Maritain? Quali sono gli aspetti fondamentali del suo pensiero che hanno agito e agiscono all’interno del dibattito culturale contemporaneo? Va subito detto che le sue proposte culturali sono state sempre al centro di vivaci dibattiti e che il mondo accademico lo ha largamente ignorato. Ciò deriva dal suo dichiararsi apertamente cattolico, dal suo rifarsi alla filosofia di s. Tommaso, dalle sue coraggiose prese di posizioni nei confronti dei maggiori problemi del suo tempo. Momento essenziale della sua vicenda è certo l’approdo alla fede cattolica: a 24 anni, l’11 giugno 1906, insieme alla moglie, Raissa e alla di lei sorella Vera, riceve il. battesimo. Padrini i coniugi Bloy. Egli era nato da una famiglia protestante e Raissa da una famiglia russa di ebrei ortodossi. Non fu un approdo facile, come racconta Raissa nel suo splendido volume I grandi amici. I giovani intellettuali dei primi anni del secolo vivevano e studiavano all’ombra della cultura dominante, il positivismo, che rivelava sempre più i suoi limiti e si dimostrava incapace di rispondere alle pressanti domande di chi non trovava appagamento in una visione materialistica della vita e della realtà e anelava ad una verità più totale, più aperta alle esigenze dello spirito, al bisogno di assoluto. Angoscia e disperazione costituivano lo stato d’animo dominante di molti giovani che registravano i limiti del positivismo, ma che non riuscivano a trovare maestri in grado di offrire risposte alternative. La tentazione del suicidio, come confessano i Maritain, appariva ai più sensibili ed ai più impazienti, una soluzione possibile. «Il relativismo dell’insegnamento ufficiale aveva condotto J. Maritain ad un agnosticismo accompagnato da una disperazione che

non era semplicemente disincantamento romantico, ma ferita mortale inflitta ad un’anima e a un cuore fatti per la verità e l’amore assoluto. L’impotenza orgogliosa dell’epoca a superare il dubbio e l’assurdo, queste piaghe dell’intelligenza, a render conto della sofferenza e a riparare nella dignità l’infelicità dei diseredati, a lui faceva orrore» (°). (6) J. Maritain, «Reponse a Jean Cocteau», in Oeuvres (1912-1939), Choix, presentation e notes par Henry Bars, tome I, Paris, Desclées De Brouwer, 19/757 D.1363:

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Venti anni più tardi, questo avvenimento spirituale aveva conservato per colui che era stato scelto, tutta la sua forza sconvolgente. «Chi sono io? Un convertito. Un uomo che Dio ha rivoltato come un guanto. Tutte le cuciture sono al di fuori, la scorza è all’interno, non serve più a niente. Un tale animale fatica a stimarsi qualche cosa, desidera chiedere perdono agli altri di esistere. Le loro pellicce, i loro gusci lo impressionano» (‘). J. Maritain appartiene dunque a quella pleiade di pensatori, di scrittori, di artisti cristiani che hanno segnato la storia di Francia prima e dopo il ’900: da Péguy a Claudel, da Bernanos a Mauriac. L’intervento risolutore della Grazia era stato preceduto e accompagnato da due incontri determinanti quello con Léon Bloy, il pellegrino dell’assoluto, l’uomo che con forza indomita e con intransigenza senza compromessi aveva rivendicato nei suoi scritti i diritti dello spirito contro una società sempre più prona di fronte alle divinità del denaro e del successo, e quello di Henry Louis Bergson.

Nel 1904, ascoltando le lezioni di Bergson al Collège di Francia, Maritain intuì di aver trovato il maestro che disperatamente cercava. Infatti Bergson aprì in lui la via all’irruzione della Grazia perché primo tra i pensatori del tempo, aveva saputo rispondere al «desiderio profondo di verità metafisica» che albergava nel giovane filosofo e aveva liberato in lui «il senso dell’assoluto» (*). Alla fine della vita, in Approches sans entraves, Maritain scriveva:

«Bergson è stato veramente

un metafisico,

[...] e noi, gli

siamo debitori di aver dato a gran voce, nel deserto metafisico del nostro tempo, il segnale del rinnovamento profondo che la filosofia attendeva

da tre secoli» (?). Bergson ebbe dunque, se-

condo Maritain, il grande merito di comprendere la povertà mortificante dello scientismo positivista e di oppotvisi rivendicando l'autonomia e la libertà dello spirito; ma a questo punto Maritain prese le distanze dal maestro: l’autore di L'evoluzione creatrice (1907) e più tardi (1932) di Le due sorgenti della morale e della religione ha svalutato, secondo Maritain, l’intelligen(?) O. Lacombe, «L’itinerario spirituale di Jacques Maritain», in Jacques Maritain e la società contemporanea, cit., p. 26. (8) J. Maritain, Confession de foi, in Oeuvres, cit., p. 1261. i (9) J. Maritain, Approches sans entraves, Paris, Libraire Fayard, 1973, p. 391; tr. it., Approches sans entraves, Città Nuova, Roma, 1978.

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za e sopravvalutato l’intuizione, per cui il suo pensiero perviene ad un involontario irrazionalismo. Nel periodo immediatamente successivo all’entrata di Maritain nel cristianesimo

(1906), un gran silenzio filosofico si fece nel

suo pensiero. Bergson stesso non era più in grado di soddisfare la sua intelligenza battezzata: la sua fede cercava l’intelligenza, ma senza febbre né fretta, nella gioia e nella serenità venute dall’alto in una specie di neutralità filosofica. Dopo la parentesi degli studi biologici, che contribuirono a fargli ammirare la probità, la purezza, il disinteresse e la fecondità della scienza genuina nei confronti della vuotezza dello scientismo positivista, avvenne l’incontro con s. Tommaso e la rivelazione della «santità dell’intelligenza». «Io che avevo viaggiato con tanta passione attraverso tutte le dottrine dei filosofi moderni e non vi avevo trovato niente altro che delusioni e grandi incertezze — scriverà egli più tardi — provai allora come una illuminazione della ragione; la mia vocazione filosofica mi veniva restituita in pienezza» (°). Il teologo e lo spirituale Tommaso d’Aquino faceva scoprire a J. Maritain l'ampiezza e la profondità della filosofia dell’essere, della metafisica realista incentrata su una autentica intuizione intellettuale dell’esistenza non empirica, ma ontologica, autentica anche se sfumata dal chiaro-scuro della condizione umana. Tommaso gli faceva anche vedere come la filosofia trovi la sua giusta autonomia nel concetto della saggezza cristiana integrale distinta nei suoi tre ordini: saggezza razionale culminante nell’approccio metafisico con Dio, saggezza della fede teologale esplicantesi per mezzo della ragione, saggezza della fede resa come sperimentale nell’approfondimento della carità nella dipendenza dei doni dello Spirito Santo. La filosofia di Tommaso, dopo un oblio di secoli, si era riproposta all’attenzione degli studiosi nella seconda metà del secolo XIX e l’enciclica Aeterni Patris (1879) di Leone XIII, che aveva indicato il tomismo come dottrina perennemente valida e guida per un retto filosofare, era stata di tale riproposta il momento più significativo. Ma anche dopo l’Aeterni Patris il tomismo, pur conoscendo una rigogliosa ripresa, era rimasto per lo più chiuso nelle scuole teologiche e nei seminari. (19) J. Maritain, Confession de foi, cit., p. 1261.

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Maritain trova, dunque, in Tommaso il nucleo centrale della filosofia intorno alla quale egli lavorerà per tutta la vita con umiltà, con fedeltà, ma senza rinunciare alla sua autonomia e alla sua libertà di filosofo. Tommaso — egli scrisse — «è venuto per ricavare dal Medio Evo una sostanza sopra-temporale che il Medio Evo non ha saputo utilizzare, è vissuto nell’istante critico in cui l’alta cultura del Medio Evo gettava i suoi ultimi bagliori; dopo di lui comincerà la clamorosa dissoluzione della civiltà medioevale. Troppo grande era per il suo tempo il suo umanesimo teocentrico. È lecito pensare che s. Tommaso d’Aquino sia stato un Santo profetico riservato ai tempi futuri, e che competa agli uomini di oggi preparare l’avvento della sua saggezza nella cultura e del suo umanesimo nella città» (!). La filosofia di Tommaso è, dunque, per Maritain un organismo intellegibile, fatto per crescere in continuazione;

è una dottrina aperta e senza

frontiere;

aperta ad ogni realtà ovunque essa si trovi e ad ogni verità da qualsiasi fonte provenga. 3. L'ANTIMODERNISMO DI MARITAIN E LA CULTURA UFFICIALE

Essere tomisti, per Maritain, significa inoltre essere antimoderni, ma solo in quanto si sia ultramoderni. Come ogni lettore attento di Maritain sa bene, non si tratta di un giuoco di parole, ma di una valutazione e di una proposta che vanno al cuore della crisi della cultura moderna e ne propongono in termini risolutivi il superamento. Per Maritain «antimodernità» non significa ‘attestarsi su una reazionaria ed indiscriminata condanna della cultura moderna, ma sul deciso rifiuto del suo antropocentrismo e delle sue catastrofiche conseguenze: rifiuto del moderno, dunque, «come orizzonte della dissociazione, delle divisioni e dei dualismi»; rifiuto che intende «porsi come contemporanea contestazione del modello borghese-liberale e di quello marxista-collettivista» e che nasce «dall’ipotesi di un terzo modello» che si colloca «oltre la dialettica della unilateralità a recupero dell’integra-

(11) J. Maritain, De Bergson è Thomas d’Aquin, Paris, P. Hartman éditeur, 1947, p. 332; tr. it., Da Bergson a Tommaso d'Aquino, Vita e Pensiero, Milano 1980.

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lità della persona e quindi di un “ritorno all’essere”» (!*). Di qui l’«ultramodernità» di questa proposta. Per avere un esempio di questa ultramodernità dell’antimodernismo di Maritain e delle sue fedeltà e libertà nei confronti di Tommaso possiamo soffermarci sulla classica questione dell’esistenza di Dio. Cinque sono le vie mediante le quali Tommaso ritiene che la ragione naturale possa pervenire alla certezza dell’esistenza di Dio (Dio come: primo motore immobile; causa prima; essere necessario; perfezione assoluta; intelligenza ordinatrice). Il mondo moderno ha rifiutato queste vie ed è pervenuto con Kant ad una forma di agnosticismo religioso: l’esistenza (come, del resto, la non esistenza) di Dio non è dimostrabile razional-

mente. Per Maritain le prove filosofiche dell’esistenza di Dio vengono fatte valere all’interno dell’atto primordiale mediante il quale l’uomo ha una conoscenza prefilosofica di Dio: «Le prove filosofiche dell’esistenza di Dio sono come una effusione o uno sviluppo decisivo, a livello del sapere razionale di tipo «scientifico» o «perfetto», della conoscenza naturale prefilosofica implicita nell’intuizione primitiva dell’atto di essere»

(5).

Il punto centrale della riflessione filosofica di Maritain può essere condensato in questa sua frase: «La intuizione dell’essere non è soltanto, come realtà del mondo e delle cose, il fondamento

assolutamente primo della filosofia. Esso è il “principio” assolutamente primo della filosofia» (!). Da questo aspetto centrale della metafisica maritainiana si diparte una originale ricerca che sarà filosofia della conoscenza, filosofia della natura, filosofia della storia, filosofia dell’educazione, filosofia del bello, filosofia della morale, filosofia della politica. È fin troppo evidente che viene rimessa in discussione tutta la filosofia moderna da Cartesio in poi ed è facilmente intuibile perché Maritain, contrapponendosi con tanta decisione e tanta coerenza allo storicismo imperante, possa essere considerato dalla

(22) A. Pavan, «Il marxismo “ultima eresia cristiana’’», in Vita e Pensiero, Milano, n. 1, gennaio-febbraio, 1973, p. 22. (13) J. Maritain, Alla ricerca di Dio, Edizioni Paoline, Roma, 1956, p. 21. (14) J. Maritain, Il contadino della Garonna, Morcelliana, Brescia, 1969, p. 169.

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filosofia ufficiale un isolato irrimediabilmente legato ad una concezione filosofica non più proponibile. Non sono un filosofo: non posso e non voglio addentrarmi nella esposizione del pensiero filosofico di Maritain e delle reazioni che suscitò. Può essere sufficiente citare due giudizi: l’uno di Benedetto Croce e l’altro di Remo Cantoni a testimonianza della difficoltà dell'impresa maritainiana e dell’arrogante sufficienza con cui i maggiori esponenti di quella «ideologia», che Maritain critica in Le Paysan de la Garonne, giudicavano i risultati della sua ricerca. Scrisse Croce: «Oh buon Dio, cosa è mai questo parlare in aria, come di un vigoroso, di un ‘terribile’ filosofo, del signor Jacques Maritain. Un paio di volte m'è capitato di recensire suoi scritti, non solo li ho trovati deboli assai nei concetti, ma errati nelle asserzioni di fatto» ('*). E Remo

Cantoni, con tono

più rispettoso, ma carico di meraviglia per tanto ardire, afferma: «L’importanza storica del Maritain consiste nella paradossalità del suo assunto, che è quello di riaffermare, nel secolo XX, la metafisica medioevale teocentrica» (9). Ma l'indifferenza e l’ostilità della filosofia ufficiale, insieme al-

l’amore e all’ammirazione di quanti avevano trovato in Maritain un coraggioso e originale rielaboratore della Philosophia perennis, crebbero man mano che il filosofo francese sviluppava la sua riflessione filosofica e con essa interpretava la storia della nostra civiltà, ne denunciava la drammatica crisi e poneva le premesse per la sua rinascita. Del resto queste reazioni Maritain le aveva previste ed era pienamente consapevole della difficoltà di aprire un fecondo dialogo. Egli infatti scriveva nelle «Avvertenze» di Umzanesimzo integrale (1936): «Il mondo uscito dal Rinascimento e dalla Riforma è sconvolto da energie spirituali potenti e, in verità, mostruose nelle quali l’errore e la verità si mescolano strettamente e si nutrono l’uno dell’altre, verità che mentiscono, e menzogne che dicono la verità. È compito di chi ama la saggezza pensare di purificare siffatte produzioni anormali e omicide e salvare la verità che questi fanno delirare. Sarebbe vano dissimularsi che questo compito è particolarmente ingrato. Coloro i quali recano nel mondo le energie di cui parliamo, ritengono di non aver alcun (5) G. Morra, Jacques Maritain, Forlì, Editrice Forum, 1967, p. 232. (16) G. Morra, Op. cit., p. 232.

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bisogno di essere purificati; i loro avversari non vedono in essi che mera impurità. Il filosofo, per quanto cerchi di armarsi di strumenti di purificazione, rischierà sempre di avere tutti contro di sé. Se è cristiano, lo sa da molto tempo e non se ne preoccupa, essendo discepolo di un Dio odiato dai Farisei come dai Sadducei, condannato dal principe dei sacerdoti e dal potere civile e volto in derisione dai soldati romani» (1). Ma negli ultimi anni è maturata negli studiosi italiani una maggior attenzione e una maggiore disponibilità nei confronti del pensiero di Maritain. Ecco infatti quanto ha scritto Nòrberto Bobbio: La propensione dei giovani nei confronti di Maritain «si spiega, credo, col fatto che, oltre ad essere filosoficamente più autorevole, Maritain ha elaborato una concezione generale dell’uomo e della storia; ha dato risposte quasi sempre nette, teoricamente

giustificate, spesso originali, pur in una ri-

spettosa fedeltà alla tradizione, alla maggior parte dei problemi filosofici — l’arte, la conoscenza, la politica, la morale —; ha costruito, sia pur con diverse stratificazioni, un sistema abbastanza rigido per suscitare le simpatie di chi cerca una disciplina, ma nello stesso tempo tanto aperto da permettere di pensare con la propria testa; offre solidi punti di attracco per chiunque non voglia restare continuamente in balia delle proprie inquietudini o trovare rifugi troppo sicuri ove si finisce per restare prigionieri» (5). E Nicola Abbagnano ha scritto quanto segue: a rendere efficace il richiamo a s. Tommaso «hanno contribuito soprattutto pen-

satori cattolici che hanno visto nel tomismo, non già l’antitesi della filosofia moderna, ma un modo per comprenderla e valutarla, accogliendone gli insegnamenti essenziali. Spicca tra questi pensatori J. Maritain che «si può ritenere difatti il miglior mediatore che la filosofia cattolica abbia avuto con la filosofia laica contemporanea. Egli non ha inteso togliere alla ragione, che si impegna nella ricerca filosofica, nessuno dei suoi diritti ed ha nello stesso tempo difeso i diritti della fede. Si è rifiutato di riconoscere nella soggettività umana il principio creatore del mondo (e cioè ha negato l’idealismo) ed ha accettato il realismo che è pro(17) J. Maritain, Urmzanesimo integrale, Studium, Roma 1949, III ed., p. 10. (18) N. Bobbio, «Prefazione» a N. Morra, I cattolici e lo Stato, Ed. Comunità, Milano 1961.

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prio di buona parte della filosofia contemporanea. E in questa coincidenza appunto ha riconosciuto uno degli insegnamenti fondamentali di s. Tommaso. “Realismo critico” chiamò Maritain la dottrina che riconosce come punto di partenza di ogni conoscenza valida la manifestazione, alla coscienza dell’uomo, della realtà oggettiva la cui origine è Dio. [...] Queste idee di Maritain, che in Francia sono state riprese da Mounier, continuano ad ispirare

il pensiero e l’azione politica dei cattolici più illuminati perché li salvaguardano dal clericalismo dei vecchi tempi e dal cedimento alle ideologie rivoltose dei tempi nuovi. Ma esse consentono pure un largo fecondo accordo tra laicismo e cattolicesimo, che venivano fino a qualche tempo fa contrapposti» (!). 4.

LA «TRAGEDIA NELLA STORIA

DELL'UMANESIMO» DELL'OCCIDENTE

Ma soffermiamoci per qualche istante su Umanesimo integrale, l’opera alla quale tanti di noi debbono in maniera determinante la propria formazione culturale. Tradotta in italiano da Giampietro Dore nel 1946 per l’Editrice Studium, era stata pubblicata da Maritain nel 1936, sulla base di una precedente pubblicazione edita in lingua spagnola e contenente sei lezioni tenute all’Università di Santander nel 1934 (Problemas espirituales y temporales de una nueva cristianidad, 1935). Lo studioso Sieniewicz

precisò nel convegno di Venezia, organizzato dall'Istituto Internazionale «J. Maritain» nel 1976, che la conferenza di Santander eta stata preceduta da una relazione di Maritain al Congresso di filosofia tomista tenuta a Poznan nel 1934: «L’ideale storico di una nuova cristianità».

Il tema centrale di quest'opera è l’umanesimo o meglio la tragedia dell’umanesimo. Maritain ripercorre le tappe di questa tragedia partendo dal Medioevo, una età sacrale, una età non riflessa, in cui i misteri naturali dell’uomo non erano sfruttati mediante una conoscenza scientifica e sperimentale: «Con l’ambizione assoluta e il coraggio inavvertito dell’infanzia la cristianità costruiva allora una immensa fortezza al sommo della quale si sarebbe assiso Dio; gli preparava un trono perché l’amava. Tutto l’umano era così sotto il segno del sacro, ordinato al sacro, pro(19) N. Abbagnano, I/ Giornale, 2 febbraio 1982.

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tetto dal sacro. [...] La creatura [...] si obliava per Dio» (”).

Partendo da questa fase di umanesimo sacrale e teocentrico, l’uomo prende gradualmente coscienza di se stesso e, dal periodo umanistico in poi, rivendica una sempre maggiore autonomia, sino a vedere in se stesso, nella sua ragione, l’unica realtà: si sviluppa così quell’umanesimo antropocentrico che caratterizza l’età

moderna e di cui noi siamo i figli nel bene e nel male. «Così in modo generale — conclude Maritain a questo riguardo, — lo sforzo dell’età di cultura di cui parliamo era teso verso [...] una

riabilitazione della creatura ripiegantesi su se stessa e come separata dal suo principio vivificatore trascendente. “Con il Rinascimento la creatura fa salire al cielo il grido della sua grandezza e della sua bellezza, con la Riforma il grido del suo affanno e della sua miseria. In ogni guisa, sia gemendo sia ribellandosi, domanda di essere riabilitata” (Science et sagesse, cap. III). [...] Sono stati così realizzati molti progressi concernenti anzitutto il mondo della riflessività e la presa di coscienza di sé, che scoprono, talora attraverso miserabili porte, alla scienza, alla poesia, alle stesse passioni dell’uomo e ai suoi vizi, la spiritualità che è loro propria. La scienza intraprende la conquista della natura creata, l’anima umana si fa un universo della sua soggettività, il mondo profano si differenzia secondo le proprie leggi, la creatura si conosce. E un tal processo, preso in se stesso, era normale». Ma «il vizio radicale dell’umanesimo antropocentrico è stato d’essere antropocentrico e non d’essere umanesimo»

(?'). L’umanesimo antro-

pocentrico merita, infatti, alla luce dei suoi sviluppi culturali e storici, il nome di umanesimo disumano e la sua dialettica deve essere considerata con la tragedia dell’umanità. L’uomo e la società dell’individualismo borghese, l’uomo e la società che nello Stato, nella Nazione, nella Razza, nella Classe vedono valori assoluti, l’uomo e la società del collettivismo marxista ne sono i risultati più evidenti e più drammatici. Bisogna co-

struire una nuova antropologia e porre le basi di una nuova società. Occorre tornare all’uomo considerato nella sua integralità (come individuo è parte di un tutto, come persona è superiore a qualunque società) ed è necessario favorire l’armonico sviluppo (20) J. Maritain, Umanesimo integrale, cit., pp. 21-22. (21) Ivi, pp. 30-31.

Sd

di tutte le sue potenzialità naturali e spirituali. Ci si potrà così porre come ideale la nascita di una «nuova cristianità» non più sacrale, ma profana e vitalmente cristiana, alla cui formazione dialetticamente concorrano l’utopia di una società costituita da cristiani e l’ideale storico concreto di gruppi di cristiani che l’animino dall’interno assumendone in proprio la responsabilità. 5. L'IMPEGNO DEI CRISTIANI COMUNITARIA

PER

UNA

SOCIETÀ

PERSONALISTA

E

‘Di qui la nota distinzione dei piani su cui dobbiamo esercitare il nostro impegno «in quanto cristiani» e membri della comunità ecclesiale e «da cristiani» assumendo in piena autonomia le nostre responsabilità sociali e politiche. La nuova società sarà così «personalista e comunitaria», «pluralista», «umanista integrale» e «vitalmente cristiana». Queste idee, lucidamente prospettate e vigorosamente difese, circolarono ampiamente in molti paesi e lasciarono spesso orme indelebili. Può essere interessante richiamare a questo riguardo un significativo esempio. Il 19 aprile 1934 Jacques Maritain, insieme a molti altri intellettuali francesi, tra cui Emmanuel Mounier, Etienne Gilson, Etienne Borne, firmò il manifesto «Pour le bien commun», in cui tra l’altro si legge quanto segue: «[...] il principio dinamico della vita sociale e dell’opera comune non è il mito della Classe, della Razza, della Nazione o dello Stato, ma l’idea della dignità della persona umana e della sua vocazione spirituale, e quella del bene comune della città, fondato sopra la giustizia e l’amore. La responsabilità e la libertà delle persone sarebbero i poli di un regime sociale e politico veramente umano. E la concezione dello Stato non sarebbe né quella di uno Stato totalitario né di uno Stato comunista, nemici entrambi della coscienza cristiana, ma quella di uno Stato pluralista che accoglie nella sua unità or-

ganica una diversità di raggruppamenti e di strutture sociali le quali incarnano delle libertà positive» (2). Alcide De Gasperi, che commentava sulla Illustrazione Vaticana fatti e idee del suo tempo, dal suo rifugio-esilio della Biblioteca Vaticana, con gli evidenti limiti imposti dalla situazione, ma (22)J.Maritain, Scritti e manifesti politici (1933-1939), a cura di G. Campanini, Morcelliana, Brescia 1978, p. 212 .

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con sensibilità e intelligenza non comuni, nel numero dell’1-15 agosto 1934 pubblicò un articolo intitolato «L'impegno degli intellettuali cattolici». In esso, con esplicito riferimento al mnanifesto sopra citato, precisava che, a quanto «dicono», il documento sarebbe stato scritto «da Gilson e Maritain» e aggiungeva: «Per la tecnica e la pratica l'opuscolo appare insufficiente, ma riguardo alle direttive è luminoso». Occorre «non lasciarsi attirare né a destra né a sinistra, ma tendere con tutti gli sforzi a che l’idée de la dignité de la personne bumaine et de sa vocation spirituelle et celle du bien commun de la citée fondée sur la justice et sur l'amour sostituiscano come principio dinamico della vita sociale le myte de la classe, de la race, de la Nation ou dell’Etat» (3). L’importante messaggio era stato dunque tempestivamente av-

vertito, era stato fatto proprio da uno dei protagonisti del cattolicesimo sociale e democratico ed era stato divulgato dall’autorevole foglio della S. Sede. È partendo da queste premesse che Maritain prenderà posizione nella guerra civile spagnola contestandone il carattere di crociata a difesa della civiltà cristiana, che parteciperà a tutte le battaglie per la difesa dei diritti umani e della libertà e che, esule negli Stati Uniti, confortato ed arricchito dall’esperienza della democrazia americana, lancerà i famosi messaggi contro il nazismo, contro ogni totalitarismo e darà il contributo essenziale alla rinascita della democrazia. L’opera di Maritain Cristianesimo e democrazia, scritta nel 1942,

pubblicata in francese nella primavera del 1943 e in italiano nel 1950, è sotto questo profilo esemplare. Partendo dalla tradizione culturale ebraica, greca e cristiana, Maritain ripropone il concetto di persona ed afferma: «Dire che un uomo è una persona è dire che nel fondo del suo essere è un tutto più che una parte, è più indipendente che servo» (?). La tesi centrale del volume è questa: la democrazia «è sorta nella storia quale manifestazione temporale della ispirazione evangelica» (7°) ed essa «ha più che mai bisogno del lievito evangelico per realizzarsi e sussistere» (9). (23) A. Trifogli, «De Gasperi e Maritain», in Jacques Maritain e la società contemporanea, cit., p. 300. (24) J. Maritain, Cristianesimo e democrazia, Edizioni di Comunità, Milano 1950, p. 81. (25) Ivi, p. 31.

(26) Ivi, p. 48.

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La rivoluzione francese ha provocato nella storia una «esplosione di idealismo cristiano laicizzato» (?’) tanto da far ritenere che «i frammenti spezzati della chiave del Paradiso, cadendo nella nostra vita di miseria e unendosi in lega con i metalli della terra, siano riusciti più della pura essenza del metallo celeste ad attivare la storia del mondo». Ciò non toglie che «l’oscura», «misconosciuta» ispirazione evangelica non abbia contribuito in maniera determinante a salvaguardare alcuni valori essenziali e che essa costituisca l’unica speranza che ci faccia intravedere il passaggio «dalla democrazia borghese inaridita dall’ipocrisia e dalla mancanza di linfa evangelica a una democrazia integralmente umana, dalla democrazia fallita alla vera democrazia» (*).

Avremmo un’anima da Schiavi — aggiunge Maritain — se non fossimo pronti a far nostri e a difendere i valori positivi di tale processo storico, ma saremmo ciechi ed imprevidenti se non avvertissimo e non denunciassimo la carenza e la crisi della democrazia così come si è storicamente sviluppata. La storia infatti là pronta a dimostrarci con i suoi drammi sanguinosi che senza «un supplemento d’anima» (’’) la democrazia può subire processi involutivi e tentazioni totalitarie. Ha bisogno infatti di questo fondamento d’amore l’uomo singolo per dominare «l’immenso fardello d’animalità, di egoismo e di barbarie latenti» che porta in sé, e ancor più ne hanno bisogno gli uomini nella loro esistenza collettiva in cui istinti e forze irrazionali urgono con forza immensa e richiedono un permanente richiamo a valori superiori e universali. Ma è soprattutto la democrazia con i suoi ideali di dignità umana, di giustizia, di uguaglianza, di libertà e di fratellanza, ad aver bisogno di «una ispirazione eroica ed una fede eroica e che soltanto Gesù di Nazareth ha fatto scaturire nel mondo» (*). Senza questo innesto «l’azione oscilla ad ogni vento e l’egoismo distruttore prevale nell’uomo (*) e, «senza il coraggio la comprensione per l’uomo e lo spirito di sacrificio non si può concepire la marcia in ogni istante ostacolata, verso un ideale di generosità e di fratellanza». L’unico (27) Ivi, p. 21.

(28) Ivi, p. 27. (2) Ivi, p. 29. (39) Ivi, p. 47.

(31) Ivi, p. 48. 34

aiuto può venirci da «un amore infinitamente più forte della filantropia predicata dai filosofi», perché «la democrazia è un paradosso e una sfida alla natura, alla natura ingrata e ferita», ed ha quindi bisogno di eroismo e di energie spirituali, di un fondamento di idealismo che sarà in continuo pericolo se la sua sorgente non sarà posta abbastanza in alto». Ben si addice, dunque, a Maritain la definizione che di lui è stata data di «filosofo cristiano della democrazia» (*).

È questa sua convincente dimostrazione, è questa sua illuminata ed appassionata difesa che ha conquistato definitivamente alla democrazia tanti uomini di ogni fede e, naturalmente, tanti cattolici. È ben noto, inoltre, che Maritain, soprattutto in presenza del-

la situazione politica che drammaticamente maturava in Francia e in Europa negli anni Trenta, rivendicava la sua indipendenza nei confronti dei blocchi che si andavano contrapponendo sempre più duramente ed auspicava una società nuova, una politica nuova, una «terza soluzione» tra destra e sinistra, tra fascismo e comunismo, che il mondo a suo giudizio attendeva «non solamente dal punto di vista dei valori spirituali, ma anche da quello dei valori temporali e dell’instaurazione di un ordine nuovo consono alla dignità delle persone umane»

(*).

Alla luce di questa analisi Maritain ritenne doveroso preparare la strada a livello intellettuale «ad una politica cristiana, non però cristiana solo in apparenza ed apparato, ma cristiana in senso vitale ed intrinseco» (*), per la quale riteneva necessario ed urgente dar vita ad una o più formazioni politiche che avessero come fine quello di «una rifondazione della società secondo i principi dell’umanesimo integrale» (*). Col passare degli anni («prefazione» all’opera di Henry Bars, La politica secondo J. Maritain, 1961; Le paysan de la Garonne, 1966) egli confesserà di essere profondamente scettico sulla possibilità di realizzare una politica cristiana nella situazione esisten(32) E. Borne, «La filosofia politica di J. Maritain», in I/ pensiero politico di J. Maritain, Massimo, Milano 1974, p. 26. its AT (33) J. Maritain, «Sulla guerra santa», in Scritti e manifesti politici 1933-

1939, cit., p. 108.

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(*) J. Maritain, «Lettera sull’indipendenza», in Scritti e manifesti politici 1933-1939, cit., p. 56. (35) Ivi, p. 65.

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te del mondo e del cristianesimo, anche se ciò nulla può togliere alla validità teorica del suo pensiero politico ed alla concreta influenza che esso ha esercitato nella storia del nostro tempo. 6. UMANESIMO

MARXIANO

feti

E UMANESIMO

INTEGRALE

;

rig

È

Maritain prese posizione nei confronti dei maggiori esponenti della cultura contemporanea e dialogò con loro, da Blondel a Dewey, da Heidegger a Sartre, da Mounier a Teilhard de Chardin, ricercando nel loro pensiero quanto poteva accordarsi con la sua filosofia dell'essere, col suo personalismo, con la sua fede, ma denunciando con fermezza quanto giudicava contrastante col suo pensiero. Ebbe un interesse vivissimo per le lettere e per le arti e coltivò preziose amicizie:

Green, Mauriac, Bernanos, Cocteau, Rouault,

Chagal, Severini. È impossibile soffermarsi ora su questi aspetti dei suoi interessi e della sua influenza: occorrerebbe una seconda relazione (*).Mi limiterò ad un piccolo esempio collegato alla cronaca per dimostrare come anche in questo campo la presenza di Maritain continui ad essere avvertita. A proposito della grande mostra dedicata a Gino Severini (Firenze, Palazzo Pitti, 25 luglio25 settembre 1983), Antonio Pinelli su I Messaggero del 2 luglio 1983, lamentava la rinuncia al progetto di documentare nel-

l'ambito della suddetta rassegna «quell’attività di Severini nel campo dell’arte sacra e, in generale, della grande decorazione murale, che se ha dato esiti di vario livello e, a volte, francamente

discutibili, resta pur sempre centrale per capire gli sviluppi severiniani dopo il cruciale incontro con Maritain

(1923) e la con-

seguente conversione al cattolicesimo». Ritengo invece necessario svolgere qualche rapida considerazione intorno alle valutazioni di Maritain su marxismo e comunismo (*). (36) Vanno segnalati alcuni recenti e importanti contributi: «Maritain et Bernanos: une amitié difficile», in Notes et Documents, n. 28, luglio settembre 1982, pp. 27-34; A. Seailles, «Maritain et Francois Mauriac», C. Zeppieri, «Maritain e Julien Green», in L'Osservatore politico letterario, 1982, pp. 24-65; F. Castelli, «Una grande amicizia: Julien Green e J. Maritain», in La Civiltà Cattolica, n. 3163, 3 aprile 1982; AA.VV., Creazione artistica e società. Per la liberazione dell’evento poetico, a cura di A. Pavan, Massimo, Milano 1983.

(0) Su questo tema suggeriamo la lettura dei seguenti volumi: AA.VV., Maritain e Marx, a cura di Possenti, Massimo, Milano 1978; V. Fagone, Il marxismo tra democrazia e totalitarismo, Present di B. Sorge, Introd. di R. Cormagnani e P. Rizzuto, Roma, Edizioni La Civiltà Cattolica, 1983.

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Per il filosofo francese due sono le dottrine propriamente filosofiche: l’una è il realismo marxista e l’altra è il realismo cristiano; l’una è opposta all’altra. Le altre sono «ideosofie». Il marxismo per Maritain è un umanesimo, ma un umanesimo ateo in cui trova esito l’umanesimo antropocenttico dei secoli razionalisti. Il marxismo, se capisce bene che l’uomo non è uomo che nella società, non capisce però, che in definitiva lo è al fine di superare la società. Insomma non concepisce l’individuo che come essere sociale; per esso l’individuo non è a nessun titolo un tutto e non emerge in alcun modo al sopra del tutto sociale; non ha realtà e dignità umane che in quanto è parte della società. L’umanesimo marxiano non può dunque essere l’umanesimo integrale, un umanesimo pienamente umano che in tanto è tale in quanto è aperto all’assoluto ed ha una giusta idea della persona. Su questo aspetto di fondo il contrasto è insanabile. Maritain riconosce, però, che il marxismo ha una sorgente morale incontestabile: nasce dalla protesta contro l’ingiustizia, chiede la rottura col disordine, rivendica la dignità dell’uomo, rifiuta l’individualismo. Difendere la dignità della persona umana nel lavoratore, il valore del lavoro, ascoltare «l'immenso lamento dei poveri» non può che unire marxismo e cristianesimo. Il necessario processo di liberazione può, però, far correre rischi mortali all’uomo e alla civiltà se la coscienza che se ne prende è falsata da una filosofia erronea. È per queste considerazioni che Maritain parla del comunismo come di una «eresia cristiana», dell’ultima e del tutto radicale eresia cristiana. Infatti, egli dice, è proprio sul terreno ove il cristianesimo è installato, è proprio dal di dentro della civiltà cristiana, che il comunismo conduce la propria battaglia, che è un processo di sostituzione o di soppiantamento piuttosto che di aggressione. Questa definizione di Maritain ha suscitato vivaci discussioni anche all’interno del mondo cattolico (e basterà ricordare a questo proposito la posizione di Augusto del Noce) ed in realtà può apparire paradossale e discutibile. Ma in essa probabilmente c’è una sostanziale coerenza con tutto il pensiero di Maritain così come ha esaurientemente dimostrato Antonio Pavan (*). Secondo l’analisi di Maritain — dice (38) A. Pavan, «Il marxismo “ultima eresia cristiana”», cit., pp. 5-27.

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Pavan — siamo debitori nei confronti del socialismo del sec. XIX: innanzi tutto per la «presa di coscienza che nel marxismo si è fatta, e per sempre, della dignità del lavoro e del lavoratore e del suo compito storico»; e poi per il «fatto che il marxismo si è nutrito, nel farsi portatore di questi valori di una linfa cristiana, non più al modo di Hegel che, con l’assunzione globale del cristianesimo, ha elaborato una gnosi completa e sistematica del contenuto della fede cristiana, quanto piuttosto al modo di un eretico che separa dalla realtà del tutto significante taluni aspetti o contenuti che vengono ricompresi entro un tutto diverso dal quale mutuano ormai il nuovo significato» (p. 14). Ci troviamo quindi di fronte ad un’«ultima eresia cristiana» perché il sentimento della giustizia è «il solo ed unico elemento cristiano che non solo rimane in Marx, ma che possa storicamente rimanere dopo Hegel e cioè dopo la totale storicizzazione del logos e dell’annuncio cristiano»; perché «la fede atea del marxismo è appunto l’unica fede in cui un resto reale del cristianesimo abbia trovato una sistematizzazione razionale in termini di dialettica hegeliana» (p. 25). Maritain, muovendo da queste premesse, è contrario alla costi-

tuzione di un fronte politico unico con i comunisti: ciò equivarrebbe ad accettare in anticipo, se non si è vittime di incurabili illusioni, il rischio di dover abbandonare il popolo alla loro egemonia ed alla discordia civile. Ma poiché i comunisti non sono il comunismo, si può anche accettare in determinate situazioni storiche la cooperazione dei comunisti e la loro partecipazione al compito comune, conservando una completa autonomia nei loro riguardi. È l’ormai classica distinzione tra errore ed errante che abbiamo ritrovato nella Pacem in terris. Ciò ovviamente comporta la priorità dei dati etici e naturali nei confronti dell’organismo ideologico ed una prudente valutazione delle concrete situazioni storiche. 7. CONCLUSIONE

Da questa rapida e imprecisa esposizione vorrei solo che fosse emersa la straordinaria ricchezza e fecondità del pensiero di Ma-

ritain. Non credo che nel nostro tempo sia esistito ed esista un altro pensatore cattolico capace come lui di allargare la riflessione filo38

sofica a tutti gli aspetti e a tutti gli interrogativi della vita e dell’universo e che abbia saputo dare una risposta, discutibile fin che si voglia, ma così organica e coerente.

Egli ci ha indicata una via, tra le più solide e sicure che la cultura contemporanea abbia tracciato e che merita di essere ulteriormente percorsa, approfondendo e innovando, secondo quanto auspicava lo stesso Maritain.

La sua decisione di trascorrere gli ultimi anni della sua vita presso i «Piccoli fratelli di Gesù», di Tolosa, è l’ulteriore testimonianza del primato che egli ha sempre riconosciuto, dalla conversione in poi, alla vita dello spirito, alla vita contemplativa, alla saggezza mistica che è al vertice di quei gradi del sapere che egli ha sapientemente distinti nell’unità indissolubile della persona umana.

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UBALDO

PELLEGRINO di Verona

dell’Università

Ateismo, ricerca di Dio e metafisica in J. Maritain

«L’Occidente ha perduto Cristo ed è per questo che muore, unicamente per questo». Fiodor Dostojevsky ha posto questa idea alla base della sua opera profetica I dezzoni, in cui prefigura la crisi della civiltà occidentale e la nascita della nuova Babele. A Dostojevsky ha fatto eco, nel nostro secolo, J. Maritain, che, come lo scrittore russo, 1) ha sperimentato in se stesso l’eclissi di Dio fino alla disperazione, cogliendo quindi in modo vitale ed esistenziale la crisi della cristianità europea; 2) ha opposto l’umanesimo sapienziale o teocentrico all’umanesimo antropocentrico, che è l’origine della crisi contemporanea; 3) ha indicato il progetto storico di una nuova cristianità come compito religioso

e morale della cristianità contemporanea. Svilupperò questi tre aspetti nella ricerca di Dio in Maritain, per il quale la speranza del mondo è in una riconquistata coscienza religiosa della umanità. Riporterò soltanto alcuni testi di Maritain, per non appesantire il discorso ('). 1. LA CRISI RELIGIOSA DI MARITAIN ENTRO LA CRISI DELLA CRISTIANITÀ

EUROPEA

Per Maritain la crisi religiosa è crisi della persona umana, e poiché la persona è inserita nella storia, è crisi non solo individuale, ma collettiva, non solo privata, ma pubblica, storica. La crisi personale di Maritain sfocia nell’ateismo e diventa orrore del nulla, nausea di una vita senza senso, disperazione. «Provai una sorta di orrore — come quando si ha paura nel buio più pro(1) Una più abbondante documentazione si trova nella parte antologica del volume, da me curato: J. Maritain, Ateismo e ricerca di Dio, Massimo, Milano 1982.

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fondo e non si ha il coraggio di gridare — un orrore della vita, della mia vita che avanzava» (2). Alla Sorbona Maritain s'innamora di Raissa, ebrea russa, emigrata da Rostov sul Don. Brillante studentessa, frequenta con Jacques le lezioni di scienze naturali, di filosofia, di storia. Anch’essa aveva perduto la fede in Dio. Essa scrive delle loro vite fuse nell'amore e del tormento della ricerca di un perché della vita, a cui l’università aveva risposto con «una lezione di relativismo integrale, di scetticismo intellettuale e di nichilismo morale» (5). Un breve periodo di entusiasmo per Spinoza e Nietzsche è solo l’illusione, che li atterrisce, lasciandoli ancora più soli. «Le gioie che Spinoza e Nietzsche ci avevano dato per un momento, ci lasciavano più vuoti e disperati»(‘). Lo stesso proposito di lottare per i poveri, di combattere per il proletariato (*), di adempiere insieme il voto che Jacques aveva fatto da ragazzo di «servire il proletariato e l’umanità» (9) non toglieva alla vita il carattere dell’assurdo, della commedia che finisce in tragedia. Fu a questo punto che, un pomeriggio d’estate, Jacques e Raîssa, mentre passeggiavano nell’orto botanico, decisero il suicidio (7). Il dubbio stava disintegrando la loro vita. È la stessa

angoscia che spinge oggi migliaia di giovani in tutto il mondo alla droga, alla violenza omicida e suicida, alla nausea della vita. «Quest’angoscia metafisica — scrive Raîssa — che penetra alle sorgenti stesse del desiderio di vivere, è capace di divenire una disperazione totale e di sfociare nel suicidio. [...] È una angoscia di questa specie, che ho vissuto allora, ma essa fu un poco più tardi, così misericordiosamente guarita, che mi è difficile, dopo tanta dolcezza e felicità, risentirla nuovamente in tutta la sua amarezza. Senza dubbio altre amarezze sono venute, altri dolori, spesso immensi; ma quell’angoscia lì non l’ha più conosciuta. Tuttavia non l’ho dimenticata: non si dimenticano le porte della morte» (8). (2) J. Maritain, Ricordi e appunti, Morcelliana, Brescia 1967, p. 22. (3) R. Maritain, I grandi amici, Vita e Pensiero, Milano 1956, pp. 68-69. (4) Ivi, p. 72.

(5) (6) (7?) (3)

J. Maritain, Ricordi e appunti, cit., p. 16. Ivi, p. 10. R. Maritain, I grandi amici, cit., p. 76. Ivi, p. 73.

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Dio per Jacques e Raîssa è stato prima un problema vitale, esistenziale, poi un problema di pensiero, una ricerca teoretica. Per questo Maritain sente la crisi della civiltà europea come crisi esistenziale, crisi delle sue radici vitali prima che teoretica. Egli ha anzitutto superato lo scetticismo mortifero in tre tappe, che non sono esclusivamente teoretiche, ma costituiscono la immersione in un mondo nuovo, in una vita, in un orizzonte prima scono-

sciuto: le lezioni di Bergson al Collegio di Francia, che gli fanno superare ogni tentazione materialista o naturalistica con l’esperienza di una metafisica spiritualista (1903); l’incontro con L. Bloy, che lo porta alla fede cattolica ed al battesimo (1906); infine, l’incontro con s. Tommaso d’Aquino (1908), che è incon-

tro con la riflessione intellettuale entro la fede, in cui la ragione critica, la metafisica si collega con la luce del soprannaturale (?). Entro questa luce, egli comprende non solo il significato della propria crisi religiosa, ma anche quello della crisi europea, che tocca le sue radici storiche, quella classica, quella cristiana e quella dell’umanesimo. La filosofia della storia di Maritain si apre ad una teologia della storia, in cui di fronte ai mali, che minacciano la civiltà del mondo, si pone la forza vivente dell’umanesimo cristiano. In diverse opere Maritain tratta delle radici della civiltà (1°):

quella classica, che ha avuto nella cultura greca la sua massima espressione, quella cristiana, che ha come centro la persona umana nei suoi valori naturali e soprannaturali e quella dell’Umanesimo e Rinascimento. Per Maritain non esiste uno sviluppo ne-

cessario della storia verso il progresso, poiché la storia è legata alla libertà dell’uomo, il suo valore è ambivalente (1). I valori religiosi, che sono costituiti dall’ingresso di Dio nella storia, per la salvezza dell’uomo dal male, possono essere contraddetti e difatti sono posti in crisi da movimenti storici, che sono giunti a

negare i fondamenti stessi della civiltà. Anzitutto il cuore della civiltà classica è stato colpito: nel suo concetto di verità. Il realismo classico, per cui la verità ontologica x fonda la verità logica o soggettiva, è stato sempre più contestato (°) J. Maritain, Il filosofo nella società, (19) Si vedano soprattutto: Umanesizzo gradi del sapere; I tre riformatori; Scienza CEI Maritain, Per una filosofia della 4l. pp.

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Morcelliana, Brescia 1976, p. 14. integrale; Religione e cultura; I e saggezza. storia, Morcelliana, Brescia 1972,

a partire da Cartesio. In Réflexions sur l’intelligence (*) addita in Nietzsche l’esito finale della lotta moderna contro la verità,

contro l’intelligenza, che contempla e scopre la verità oggettiva. Nietzsche, infatti, con estrema acutezza indica la radice della sua dinamite atea ed anticristiana nel pessimismo tedesco della ragione in antitesi con l’ottimismo dello spirito latino. «Di fronte alla natura ed alla storia, di fronte alla fondamentale immoralità della natura e della storia, al pari di ogni buon tedesco, dai più antichi tempi ad oggi, Kant era pessimista; credeva nella morale, non perché essa è dimostrata dalla natura e dalla storia, ma nonostante il fatto che dalla natura e dalla storia sia costantemente contraddetta. Per comprendere questo «nonostante» si può forse ricordare qualcosa di simile in Lutero, quell’altro grande pessimista, che una volta, con tutta la sua luterana prosopopea, istillò nell'animo dei suoi amici il pensiero che «se fosse dato cogliere con la ragione com’è che possa esser giusto quel Dio che rivela tanta ira e malvagità, a che cosa ci servirebbe la fede? «Niente infatti da tempo immemorabile ha prodotto un’impressione più profonda nell’animo tedesco, niente l’ha più tentata, di questa pericolosissima tra tutte le illazioni, che per ogni vero latino costituisce un peccato contro lo spirito: credo quia absurdum; è con essa che la logica tedesca fa per la prima volta il suo ingresso nella storia del dogma cristiano; ma ancora oggi, un millennio dopo, noi tedeschi, tedeschi sotto tutti i riguardi, ritardatari fiutiamo qualcosa di vero, una possibilità di verità dietro la famosa

fondamentale proposizione dialettico-realistica con cui Hegel aiutò, ai suoi tempi, a riportare vittoria sull'Europa: “la contraddizione muove il mondo, tutte le cose sono in contraddizione con se stesse”; noi siamo appunto, perfin nel cuore della logica dei pessimisti» (55). La nuova ontologia di Nietzsche, fondata sulla volontà di potenza, sfocia nella religione del superuomo, nella identificazione di Cristo con Dioniso. È un atto della volontà di credere, non un atto della ragione, perché la ragione non conosce una verità ontologica che s'impone all’uomo; è una fede, che nega ogni realtà al di fuori dell’uomo immerso nell’eterno ritorno, nel dive(12) J. Maritain, Réflexions sur l’intelligence, Paris 1926. (13) F. Nietzsche, Aurora e scelta di frammenti postumi 1879-1881, Mondadori, Milano 1964, p. 6ss.

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nire di ogni realtà, che ha, come l’uomo, il fine solo in se stessa,

non è misurata da nulla se non dalla propria volontà di essere. Maritain, spirito romano, classico, si pone in radicale antitesi con questa tesi volontaristica, antiintellettualistica. In opposizione a Nietzsche, Maritain scrive in Réflexions sur l’intelligence: «L’antiintellettualismo, là dove mantiene ancora qualche vigore metafisico, non conduce solo a quell’obliqua accettazione dell’assurdo, che è la fede nel divenire puro, ma costringe ad affermare pienamente che l’irrazionale, la discordia, il male è nel cuore della realtà. E per questa via conduce ancora, a suo modo, alla grande liberazione moderna dello spirito, al rifiuto dell’essere. Pertanto anche tra i più liberi pessimisti rimane ancora un’ultima servitù. Quale? Domandiamolo a Nietzsche: essi credono “ancora alla verità”, e sotto questo aspetto essi non sono più liberi dei “fantasmi di uomini liberi”; devoti della pseudoscienza, di cui Nietzsche vedeva il tipo in Davide Strauss, che egli chiama filistei della cultura, rachitici dello spirito. Credere alla verità è l’ultima servitù. ‘Si deve cercare una buona volta, scrive Nietzsche, di revocare in dubbio il valore della verità, sotto questo aspetto c'è una lacuna in ogni filosofia”. Egli per suo conto ha sinceramente cercato di liberarsi da quest’ultima schiavitù e perciò di dire sì, con una gioia disperata, al mondo di Schopenhauer, di ridere e danzare all’inferno. Sappiamo con quale esito» (!‘). Alla demolizione contemporanea della ontologia classica Maritain oppone il suo realismo critico, cioè il vaglio critico della esperienza umana, che porta a confermare i principi delia metafisica classica, fondati sulla intuizione trascendentale, analogica ed ontologica dell’essere e sui principi metafisici d’identità, di non contraddizione, di causalità e di finalità. Il realismo critico è presentato non solo nel libro del 1924, appena citato, ma approfondito in altre tre opere: il terzo capitolo di Distinguer pour unir il cui esito metafisico, opposto alla metafisica irrazionalistica contemporanea, va collegato con le analisi ontologiche delle opere Court traité de l’existence et de l’existant e Sept lecons sur l’étre.

Per Maritain

il nichilismo della cultura contemporanea,

di

cui quello nitzsceano, è solo un aspetto, va corretto con una metafisica, che riprenda i valori classici: tale metafisica è offerta dal realismo critico. (14) J. Maritain, Réflexions sur l’intelligence, cit., p. 36.

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La crisi della metafisica per Maritain investe necessariamente anche la verità cristiana, che implica un messaggio di fede, in cui sono contenuti ontologici, naturali e soprannaturali. La crisi della cristianità vede, su fronti contrapposti, la spaccatura di fede e ragione, la separazione tra valori naturali e soprannaturali, che vanno distinti, ma sono uniti in un unico piano di salvezza dell’uomo. Le due tendenze contrapposte implicano soluzioni unilaterali: quella fideistica, che afferma che solo la fede e non la ragione, la metafisica, ci dà la verità, e quella razionalista, che afferma che solo la ragione ci dà la verità, la scienza e quindi riduce la fede all’irrazionale. A queste tesi Maritain oppone la tesi della complementarietà di fede e ragione, per cui la fede ha bisogno della ragione per non cadere nel soggettivismo e nell’irrazionalismo e la ragione ha bisogno della fede sia per correggere i propri errori, sia per conoscere i misteri soprannaturali,

che la ragione da sola non potrebbe conoscere. Maritain vede le posizioni fideistiche testimoniate nel mondo cristiano soprattutto da Lutero e nella cultura cristiana contemporanea da Barth. Le infiltrazioni del fideismo nel mondo cattolico, che sono respinte dal magistero dottrinale dei papi, hanno diverse espressioni, pur nobili, ma per Maritain del tutto errate, come quella di Pascal. La motivazione del fideismo sta nella radicale opposizione al razionalismo, che, per Maritain, soprattutto in Cartesio, Spinoza ed Hegel pone come unico criterio di verità scientifica la ragione e relega quindi la fede nel mondo dell’irrazionale, del sentimento, della volontà o di una inferiore razionalità, che viene superata dalla luce della filosofia. Per Maritain non si tratta affatto di ritornare al Medioevo, dove la filosofia era trattata solo come strumento della teologia, si tratta di riconoscere l’autonomia della ragione e della filosofia e l'autonomia della fede e della teologia, in una reciproca collaborazione, che le arricchisce senza menomarne il valore di distinta ma complementare conquista ontologica. Scrive Maritain: « Nel Medioevo la filosofia era di fatto comunemente trattata come uno strumento a servizio della teologia; dal punto di vista culturale essa non si trovava nella posizione richiesta dalla sua natura; l'avvento di una sapienza filosofica o profana che risultasse compiutamente costituita per se stessa e secondo le sue finalità proprie, rispondeva dunque ad una necessità storica; il guaio fu che

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quest'opera si compì sotto il segno della divisione e di un razionalismo settario; Cartesio ha separato la filosofia da ogni forma di sapienza superiore, da tutto ciò che non proviene nell’uomo da ciò che è più alto di lui. Sono convinto che nell’ordine intellettuale ciò che da tre secoli è mancato al mondo ed alla civiltà è una filosofia che sviluppi in un clima cristiano le sue esigenze autonome; una sapienza della ragione non chiusa, ma aperta alla sapienza della grazia. Oggi la ragione deve lottare contro una deificazione irrazionalistica delle forze elementari e istintive, che minacciano di distruggere ogni civiltà. In questa lotta il compito che incombe alla ragione è un compito d’integrazione; comprendendo che l’intelligenza non è nemica del mistero, ma vive di esso, la ragione deve «rientrare in intelligenza» con il mondo irrazionale dell’affettività e dell’istinto, e così pure con il mondo della volontà, della libertà e dell'amore, e con il mondo sovrarazionale della grazia e della vita divina. «L'armonia dei gradi del sapere sarà così d’un tratto manifestata. Da questo punto di vista il problema proprio dell’epoca nella quale entriamo sembra quello della riconciliazione della scienza con la sapienza. Le stesse scienze sembrano invitare l’intelligenza a questo lavoro. Le vediamc spogliarsi da quelle vestigia di metafisica materialistica e meccanicistica che mascheravano il loro vero volto; esse fanno appello ad una filosofia della natura e il mirabile rinnovamento della fisica contemporanea restituisce allo scienziato il senso del mistero balbettato dall’atomo all’universo. Una critica della conoscenza elaborata con uno spirito veramente realista e metafisico ha quindi probabilità di essere ascoltata, quando affermerà l’esistenza di strutture conoscitive, specificamente

e gerarchicamente

distinte

(distinte

ma

non separate) e mostrerà che esse corrispondono a tipi di spiegazioni originali che non possono sostituirsi l’uno all’altra»(‘).

Per Maritain il corretto rapporto tra sapienza e scienza dà la risposta valida ‘al problema di Dio ed al problema dell’uomo. Risposta

che sfugge

all’umanesimo

contemporaneo

ateo.

Questo

è il terzo aspetto della crisi della civiltà contemporanea: quello dell’umanesimo. Per Maritain l’umanesimo moderno è positivo, è negativo l’umanesimo antropocenttico. Esso è sfociato nella (15) J. Maritain, «Professione di fede», in Il filosofo nella società, Morcelliana, Brescia 1976, p. 17ss.

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forma dell’ateismo contemporaneo, che per la prima volta nella storia è ateismo positivo e assoluto. Siamo passati dal naturalismo religioso di Rousseau al positivismo e materialismo anticristiano di Marx, Lenin e Stalin. A questo ateismo positivo assoluto Maritain oppone l’umanesimo integrale. Sui caratteri dell’umanesimo integrale di Maritain, opposto all’umanesimo antropocentrico, conviene

trattenerci più estesamente,

perché meglio

ci permette di intendere l’antidoto di Maritain alla crisi sapienziale contemporanea. 2. L'UMANESIMO

TEOCENTRICO

E SAPIENZIALE

L’umanesimo teocentrico di Maritain è frutto della triplice sapienza: metafisica, teologica e mistica. È dottrina di S. Tommaso, che Maritain approfondisce alla luce del realismo critico. Scrive in Scienza e saggezza: «Secondo la dottrina resa classica da S. Tommaso vi sono tre saggezze, essenzialmente distinte e gerarchicamente ordinate: la saggezza infusa o saggezza di grazia, la saggezza teologica e la saggezza metafisica. Differiscono le une dalle altre per il loro metodo specifico e per il loro oggetto formale. La prima ha come metodo proprio la connaturalità di amore con il soprannaturale e coglie, in modo sperimentale e sovrumano, Dio, nella sua vita intima e secondo la sua stessa divinità, e le cose create in quanto si riferiscono a Dio così conosciuto. È una saggezza di amore e di unione. I teologi indicano come suoi principi la fede, l’amore della carità e i doni dello Spirito Santo, operanti sotto una ispirazione e illuminazione attuale di Dio [...]. La seconda saggezza è la saggezza teologica. Ha per metodo proprio la comunicazione della scienza che Dio ha di se stesso, che ci è data mediante la rivelazione e che chiede di espandere in noi le sue virtualità attraverso lo sforzo della nostra intelligenza; essa conosce in modo umano e discorsivo Dio, la sua vita intima e secondo la sua divinità, e le cose create in rapporto a Dio così conosciuto. È una saggezza di fede e di ragione, una saggezza della fede che usa della ragione. Naturale nel senso che procede secondo il discorso umano e che si costituisce grazie al lavoro ed agli strumenti della ragione, è soprannaturale nella sua radice, perché non può esistere né vivere che grazie alla fede. [...] La saggezza metafisica ha per suo metodo l’intellezione dell’essere in quanto essere allo stato puro

47

(cioè senza riferimento intrinseco ad una rappresentazione dell'immaginazione o ad una esperienza del senso) al più alto grado dell’intuizione astrattiva. Suo oggetto formale non è Dio secondo la sua divinità, ma l’essere secondo il suo proprio mistero, ers secundum quod ens: essa non conosce Dio che come causa dell’essere. È una saggezza della ragione, è naturale per sua essenza. Ed è nelle evidenze razionali e naturali che si risolve completamente. Essa non implica per se stessa quella comunicazione, quella discesa soprannaturale della divinità di cui abbiamo parlato, ma soltanto la comunicazione naturale e quella indispensabile generosità; la generosità creatrice, con cui la prima Intelligenza illumina ogni uomo, che viene in questo mondo. La saggezza metafisica si costituisce completamente nell’ordine del movimento progressivo della ragione umana, verso le supreme verità che di diritto e da se stesse le sono accessibili» (19). Questo concetto di Maritain di una triplice sapienza vien da lui approfondito in una triplice direzione: quello della ontologia,

della filosofia cristiana e del progetto di una nuova cristianità, opposto al progetto dell’umanesimo ateo. Il punto centrale è il collegamento tra l’ontologia, o metafisica come fondata sull’intuizione dell’essere e la teologia, intesa come riflessione critica entro la fede. Per Maritain, se crolla l’ontologia non è una delle diverse teologie che crolla (quella tomistica o scotista o suareziana), ma Îa fede stessa nel suo valore ontologico. O la mente umana è aperta sull’essere reale ed allora il credo cattolico ha una portata reale (termina a contenuti reali, esistenti) oppure termina solo a simboli soggettivi, a nomi, desideri, bisogni immanenti all’animo umano. Per Maritain questo è stato l’errore più grave del modernismo e del neomodernismo: aver svuotato di valore ontologicoidogmi di fede, legandosi a filosofie che hanno negato il valore ontologico della metafisica in nome di filosofie soggettivistiche, in cui sono presenti solo valori relativi, non assoluti, in cui ogni conoscenza è inclusa nella storia, con esclusione di ogni valore metastorico. Contro queste posizioni, Maritain asserisce che la loro diffusione nella teologia contemporanea fa sì che il neomoderni-

(16) J. Maritain, Scienza e saggezza, Borla, Torino 1964, p. 69ss.

48

smo

sia ancor più pericoloso del modernismo, condannato

da

Pio X nella enciclica Pascendi (!"). La ragione di questa crisi sta per Maritain nel fatto che molti teologi, anche cattolici si proclamano antimetafisici, criticano tranquillamente le posizioni cattoliche tradizionali sulla filosofia perenne, e quindi pongono in pericolo non la teologia, ma la fede stessa. Per Maritain, infatti, il pensiero è apertura sull’essere e l’ontologia implica la teologia naturale. La più grave crisi della teologia moderna è stato lo svuotamento della ontologia, ridotta a formule solo nominali, astratte, senza contenuto reale, e quindi il rinnegamento della teologia razionale. La mente umana non è per molti filosofi contemporanei aperta sull’essere, su Dio. Questo ha portato ad una contrapposizione tra teologia soprannaturale, fede e ontologia, quindi ad una fede contrapposta alla ragione ed una teologia contrapposta alla ontologia. Negando la sapienza ontologica greco-cristiana oggi ci si allea con il fideismo di Kant. Quando Kant demolisce la metafisica teoretica, egli critica la metafisica come è presentata da Wolf, in cui cosmologia, psicologia e teologia razionale, sono separate dalla ontologia. La metafisica speciale è diventata una serie di formule, che pretendono aver la stessa certezza della verità evangelica. La reazione di Kant contro una teologia naturale svuotata della ontologia non tende all’ateismo, ma è volta a difendere l’assoluta trascendenza di Dio, il suo mistero, affermato per mezzo della ragione pratica, della fede morale. Kant porrà coerentemente una separazione netta tra la teologia razionale, svuotata del suo valore conoscitivo obiettivo e la teologia biblica rivelata, la cui realtà soprannaturale egli non contesta, ma pone come una possibilità al di là della ragione speculativa, come

tutto quello che appartiene alla cosa in sé, all’essere profondo delle cose. Così il cristianesimo dal punto di vista teoretico sarà ridotto a simbolo soggettivo e dal punto di vista pratico a impegno morale. Kant escluderà la stessa teodicea di Leibniz, che vuole essere una conoscenza positiva naturale di Dio in armonia con la rivelazione cristiana. Il grandioso tentativo metafisico di Leibniz, che aveva anche un intento ecumenico di superamento delle (1?) J. Maritain, Le paysan de la Garonne, Paris 1966, p. 200; tr. it., IL contadino della Garonna, Morcelliana, Brescia.

49

lotte tra le diverse confessioni cristiane, veniva attaccato nel suo

fondamento la tradizione

metafisico. Leibniz si collegava esplicitamente con medioevale

cristiana, di un’armonia

tra la cono-

scenza naturale e soprannaturale di Dio. Kant negava con la ontologia leibniziana la stessa possibilità di una positiva teologia naturale cristiana. Intendeva però salvare un aspetto essenziale della filosofia razionalista tedesca

(ed era in ciò ancora leibni-

ziano). L’idea di Dio rimane come ideale supremo della ragione con due funzioni: una positiva: quella di essere il supporto di una certezza di Dio, fondata sulla fede morale, sulla certezza dello imperativo categorico affermato dalla ragion pratica, ed una negativa: quella di escludere qualsiasi concezione ontologica (ateismo, materialismo, ecc.) che fosse in contrasto

con l’ideale su-

premo della ragione. Kant, in altre parole, negava una ontologia teoretica e affermava una ontologia fondata sulla volontà. È stato giustamente rilevato che con ciò Kant si collegava, con la sua teologia trascendentale negativa, con tutta una tradizione della teologia protestante, che opponeva, a partire da Lutero, la fede alla ragione, la teologia alla filosofia. Il fideismo, che pone come unica fonte della conoscenza di Dio la rivelazione di Cristo, escludendo la ragione, ha in Lutero, come base, la concezione pessimistica della natura umana, corrotta dal peccato ed

incapace di ascendere a Dio. Per Lutero, duramente antimetafisico, solo la grazia di Cristo, solo la fede in lui ci danno la certezza, la fiducia e la libertà di credere. Kant, negando all’uomo la capacità teoretica di conoscere Dio con certezza, è in questo

erede della tendenza irrazionalistica del protestantesimo. Ne tira le logiche conseguenze. Tutta la fede cristiana, dal punto di vista razionale, è una serie di simboli in funzione della morale umana. Il contenuto ontologico della fede, che, secondo la dottrina cattolica, termina 44 rem, perché si riferisce alla realtà stessa della Trinità, di Cristo, ecc., è annullato. Le buone intenzioni di Lutero e dei fideisti cattolici e protestanti, se si distrugge il presupposto ontologico, metafisico della fede, che è la filosofia perenne, non sono sufficienti a salvare la fede cristiana. Maritain, in questo decisamente antikantiano, in nome della metafisica classica e della fede, ha visto giusto. Un secondo aspetto molto importante per capire l’umanesimo 50

teocentrico e sapienziale di Maritain è il suo concetto di filosofia cristiana. Infatti, l’ontologia, da Maritain vista come essenziale espressione della sapienza metafisica in ordine alla fede, non va intesa in senso statico, ma dinamico.

La ontologia cristiana, secondo

Maritain, implica una fusione tra dati di fede e ragione che sono dinamici, diventano azione nella storia, incontro tra la rivelazione di Dio, che entra nella storia e l’azione dell’uomo, illuminata dalla ragione. Qui si inserisce il discorso sulla filosofia cristiana. Il discorso che ininterrottamente il magistero dei papi, soprattutto da Leone XIII a papa Giovanni Paolo II, fa sulla importanza della filosofia cristiana, può essere bene inteso alla luce del ripensamento maritainiano. L’accusa di alcuni teologi contemporanei a Maritain di esser uno storicista o un dualista che evade dalla storia (!) è del tutto

infondata. Infatti, Maritain, sulla base del principio cristiano della incarnazione del Verbo, supera sia lo storicismo che il dualismo, supera l’antitesi tra natura e soprannatura, ragione e fede, teologia e filosofia. Per Maritain, la ragione si inserisce esistenzialmente e dinamicamente nella fede, pur conservando la sua autonomia essenziale, nei principi, nel metodo, nelle conclusioni. Questa tesi è legata al concetto di filosofia cristiana, autonoma nella essenza, ma collegata esistenzialmente con la fede. In questa prospettiva si potrà comprendere per quali principi in Maritain il Dio di Abramo, di Cristo, il Dio della fede cristiana e della mistica cristiana, è lo stesso Dio della metafisica e della

filosofia perenne e naturale dell'animo umano, sia pure conosciuto in modi diversi. Dobbiamo tenere presenti tre punti essenziali della filosofia cristiana maritainiana se vogliamo anche capire l’estrema ignoranza, in fatto di filosofia, di quei teologi che accusano non solo Maritain

(il che sarebbe il meno), ma i

papi stessi di essersi troppo affidati alla filosofia. Questi i tre punti essenziali della filosofia cristiana di Maritain, che ci fanno comprendere la sua concezione della fede in Dio, come sapienza naturale e soprannaturale: a) Maritain è pienamente d’accordo con

Etienne

Gilson,

il

(18) Vedi, su questo: U. Pellegrino, «Teologia e filosofia cristiana della storia», in AA.VV., Storia e cristianesimo in J]. Maritain, Massimo, Milano 1979, p. 59ss.

di

grande storico della filosofia medioevale, su questa tesi: la rivelazione cristiana è generatrice di ragione perché la soprannatura o la grazia perfeziona la natura (!°); b) la filosofia è nella sua essenza razionale, ma nella sua esi-

stenza o nel suo stato è legata alla fede soprannaturale, ed implica, perché sia vissuta, «una ascesi non soltanto della ragione ma anche del cuore, esige che si faccia filosofia con tutta l’anima, come si corre col cuore e coi polmoni» (°°); c) lo stato cristiano della filosofia si riflette anche nella storia della filosofia. Anche qui Maritain, d’accordo con Gilson, rifiuta la tesi razionalista dell’abisso di tenebre filosofiche che esisterebbe tra la filosofia classica e Cartesio, che sarebbe, dopo l’antifilosofia medioevale, l’iniziatore della filosofia critica. Per Maritain, il Medioevo è invece stato epoca di fiorente ricerca filosofica, in cui sono presenti diverse correnti di filosofia cristiana (agostinismo,

francescanesimo,

tomismo).

Lo stesso

Cartesio

e

gran parte della filosofia moderna sono incomprensibili senza l’eredità del pensiero cristiano medioevale (2). In questo quadro si possono agevolmente comprendere le principali tesi di M. sul Dio che è oggetto della sapienza cristiana. 1) La fede nel Dio di Abramo e di Cristo è fede in un Dio

che entra nella storia, si fa uomo per dare all’uomo la pienezza della vita. La fede in Dio è, in altre parole, la fede nella salvezza integrale dell’uomo, è pure fede nell’umanesimo integrale. Il punto di partenza di questa teologia è la tesi della piena trascendenza di Dio sul mondo, di cui è creatore, tesi che mai i greci avevano raggiunto, ma è oggetto primo della rivelazione ebraico-cristiana e quindi conquista della filosofia razionale o cristiana medioevale (2). 2) Il Dio trascendente è tuttavia immanente al mondo, una presenza di verità e di amore, che supera ogni residuo lismo greco (7). 3) La rivelazione, da cui ha origine la fede, è quella di un che, essendo amore, fa un patto con il popolo di Dio, per

con dua-

Dio, gui-

(19) J. Maritain, Sulla filosofia cristiana, Vita e Pensiero 1978, p. 40ss. (20) Ivi, p. 40. (21) J. Maritain, «Le songe de Descartes», in J. e R. Maritain, Oeuvres complètes, Fribourg-Paris 1982, vol. V, p. 153ss. (22) J. Maritain, Il pensiero di s. Paolo, Borla, Torino 1964, p. 169ss. (3) Ivi, p. 52.

52

darlo nella storia del mondo, per fare di questo mondo il Regno di Dio, definitivamente concluso nella eternità beata. Questo

patto è fondato sia sulla grazia di Dio, sia sulla libertà e sulla capacità che ha l’uomo di accettarlo o rifiutarlo (4). Proprio perché il Dio della sapienza cristiana è il Dio che è entrato nella storia, la sua accettazione non implica solo una diversa teoria sul mondo e sulla vita, ma una prassi o progettazione storica, diversa da quella degli atei di tutte le tendenze. Qui si innesta il problema dell’umanesimo integrale come progetto di nuova cristianità e del suo rapporto con l’umanismo ateo, che ha opposti progetti storici. 3. UMANESIMO INTEGRALE, UMANESIMO E GLI OPPOSTI PROGETTI STORICI

ATEO

Chi ha il concetto dell’umanesimo integrale, proprio della teologia e filosofia cristiana che è apertura della persona umana, in quanto realtà naturale e soprannaturale, su Dio, è in grado di capire la radicalità dell’umanesimo ateo contemporaneo, nelle sue componenti psicologiche, etiche e politiche. Anzitutto, per Maritain, l’ateismo è psicologicamente possibile, in quanto ha una logica. L’ateo porta delle ragioni, quando l’ateismo è teoretico, per sostenere il proprio ateismo. Quando l’ateismo è pratico l’ateo nega Dio nella azione, anche se crede di credere in Dio. Il motivo logico fondamentale di questi atteggiamenti soggettivi è il fatto che Dio non è evidente né alla ragione, né alla fede. E ciò che non è evidente può essere negato. Maritain, con questa tesi, si oppone ad ogni posizione ontologistica, che, ad esempio, con Gioberti pone Dio come prima evidenza del pensiero umano. Per chi afferma che pensare è necessariamente pensare Dio, un vero ateismo non c’è mai. Vi può essere solo uno pseudoateismo. Per chi, invece, ammette che Dio è mistero e lo si raggiunge solo con una mediazione, l’ateismo è possibile

logicamente e psicologicamente (*). Un secondo aspetto che Maritain approfondisce è quello della responsabilità morale dell’ateo. Solo entro la prospettiva morale (24) J. Maritain, Il mistero d'Israele e altri saggi, Morcelliana, Brescia 1964, p. 156. (25) J. Maritain, Descartes ou l’incarnation de l’ange, in Oeuvres, I° vol., Paris 1975, p. 329 (sulla inclinazione ontologica di Cartesio).

006

53

di Maritain si può capire perché in Maritain la legge della morale cristiana, implicando un rapporto tra coscienza e sovracoscienza, include la possibilità di un divario tra la coscienza dell’ateismo e la realtà dell’ateismo. Per Maritain, infatti, la legge fondamentale della morale cristiana o della sapienza cristiana è la risposta umana al Verbo di Dio, incarnato, morto e risorto. Tre ne sono gli elementi essenziali: il dono di amore di Dio, quindi una salvezza che non è il frutto di uno sforzo umano, ma grazia che discende da Dio; la croce come disponibilità dell’uomo all’azione di Dio; la risposta dell’uomo, che è impegno nella vita, azione nella storia. Per il primo aspetto, la morale cristiana si oppone alle concezioni etniche greco-stoica e indiana, ponendo le virtù teologali (fede, speranza, carità), non quelle cardinali (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza) al centro della morale; per il secondo aspetto, si oppone all’attivismo in nome della contemplazione, partecipe della vita di Cristo morto e risorto; per il terzo aspetto, si oppone al quietismo, facendo passare l’onnipotenza di Dio nell’azione dell’uomo e conferendo all’uomo un'efficacia che da solo non avrebbe.

La fede in Dio, nel-

l’assoluto, che trascende la storia, difende l’uomo dalla disperazione e gli dà la capacità di unificare e dare senso alla storia. Maritain, in questo, è ancora seguace di Bergson: il cristianesimo collega la realtà morale alla realtà mistica, la realtà che è nel dominio della coscienza ad una realtà che trascende la coscienza.

In questa prospettiva sapienziale anche l’incredulità e l’ateismo assumono una diversa profondità, entrano nel misterioso rapporto tra coscienza e sovracoscienza, tra matura e grazia (9). Per Maritain, vi sono gli atei pratici, cioè coloro che hanno Dio nella coscienza, perché credono di credere in Dio, ma negano Dio nella loro azione, perché adorano il mondo, il potere, il denaro (”°). Di fronte ad essi vi sono gli pseudoatei, cioè coloro che

credono di non credere in Dio, ma in realtà credono inconscia(26) Per tutto il problema morale in Maritain in rapporto alla religione ed in particolare al cristianesimo, cfr.: J. Maritain, La filosofia morale, Morcelliana, Brescia 1973, p. 93ss.; id., Da Bergson a Tommaso d'Aquino, Logos, ps 1980, p. 62ss.; id., Ragione e ragioni, Vita e Pensiero, Milano 1982, p. 132ss. (2?) J. Maritain, I/ significato dell’ateismo contemporaneo, Morcelliana, Brescia, p. 86.

54

mente

in lui, hanno una fede inclusa nelle loro scelte morali.

Due infatti sono i motivi che spiegano il fatto dello pseudoateismo: gli pseudoatei hanno una falsa idea di Dio e quindi negano non il vero Dio, ma qualcosa di diverso, ed in secondo luogo le loro scelte morali sono talmente oneste, per la loro dedizione al bene, all’altruismo, al sacrificio fino alla morte, per cui la loro scelta pratica implica in modo implicito, ma vero, la scelta del Bene assoluto; cioè di Dio sovranamente creduto ed amato. Questa tesi dell’ateismo solo apparente degli pseudoatei che hanno un’oscura fede nel vero Dio, anticipa la tesi di Karl Rahner sui cristiani anonimi (*). Secondo Maritain, l’ateismo si proietta nella vita come progetto etico, entra nella storia come programma

antireligioso. Se-

condo Maritain, l’ateismo contemporaneo ha caratteristiche che lo distinguono da ogni altro ateismo della storia, e costituisce una suprema sfida ai cristiani. È, infatti, ateismo positivo, umanistico ed assoluto. È, sia nella versione idealistica, che positivistica e materialista,

un ateismo che si prefigge un fine positivo: creare un mondo più giusto e più libero di quello oggi esistente. Per Maritain, una pesante responsabilità grava sul cristianesimo borghese individualista, di facciata, se l’ateismo ha oggi una espansione enorme nel mondo. Non il cristianesimo, ma la cristianità ha fallito e deve convertirsi a un cristianesimo integralmente umano,

impe-

gnato nella giustizia, volto a testimoniare i valori della Incarnazione di Dio nel suo Regno (”). L’ateismo contemporaneo è pure un ateismo assoluto, cioè è un rinnegamento del vero Dio, creatore e redentore, per affermare che solo l’uomo può salvare l’uomo. Anche qui v’è una grave responsabilità da parte del cristianesimo solo mistico o escatologico. È una reazione al soprannaturalismo di una parte della cristianità, che ha dimenticato la necessità di un’attività temporale, profana, ispirata al cristianesimo. Contro un Dio senza mondo si è affermato un mondo senza Dio. Il cristianesimo sapienziale non può essere solo contemplativo, ma deve essere testimonianza, azione che trasforma il mondo (9). (28) Ivi, pp. 9,13; id., Ragione e ragioni, cit., p. 147. (2) È la tesi centrale di Urzanesimo integrale. (39) J. Maritain, I significato dell’ateismo contemporaneo, cit., p. 32ss.

55

L’ateismo contemporaneo

ha pure la caratteristica di essere

politico. V'è un ateismo di destra (nazismo) ed un ateismo di sinistra (comunismo) legati ad un progetto politico, in cui si e-

sprime il totalitarismo di Stato, la divinizzazione della politica. Il cristiano di fronte al progetto totalitario dell’ateismo politico deve contrapporre un progetto opposto: quello della nuova cristianità, sviluppo dell’umanesimo integrale in campo etico-politico.

È la sapienza che si fa politica ed in accordo con tutti gli uomini di buona volontà intende attuare una democrazia organica, comunitaria, personalista. Anche nell’ultimo suo libro, il suo testamento spirituale, Approches sans entraves, Maritain ha affermato che se grandi masse si ribellano al Dio, inteso come potere, i cristiani devono comunicare al mondo, secondo un’etica, che esige di diventare azione, progetto storico, Dio come Amote. L’8 dicembre 1965 Paolo VI alla chiusura del Concilio Vaticano II consegnava a J. Maritain il messaggio per gli uomini di pensiero e di scienza «in cui v’era un saluto specialissimo a voi ricercatori della verità, a voi uomini di pensiero e di scienza, esploratori dell’uomo, dell’universo e della storia, a voi tutti, pellegrini in marcia verso la luce, ed anche a coloro, che si sono arrestati nel cammino, affaticati e delusi per una vana ricerca». Il messaggio aveva come punto centrale l’accordo tra la fede in Cristo e la vera scienza, entrambe a servizio della verità (*). Il

messaggio si collegava con un punto centrale della costituzione Gaudium et spes (n. 15), ove si afferma che la sapienza è un bisogno essenziale dell’uomo, soprattutto nella nostra epoca. Questo insegnamento del Concilio Vaticano II conferma l’insegnamento di Maritain: il cristiano ha il compito di testimoniare vitalmente nella storia la sapienza di Cristo: via, verità e vita.

(31) J. Maritain, Approches sans entraves, Paris 1973, p. 315; tr. it., Approches sans entraves, Città Nuova, Roma 1978. ae Tutti i documenti del Concilio, Massimo, Milano, 11° ed. 1983,

p.

56

5 4.

ROSSANA CARMAGNANI presidente dell’Istituto regionale di ricerca «J. Maritain» di Palermo

e formazione

culturale

Percezione astrattiva dell’essere e intenzionalità in Jacques Maritain

«Poiché gli uomini si nutrono dell'essere; come il loro corpo vive di pane, il loro spirito vive dell'essere, della verità, della bellezza; essi hanno un bisogno immenso di essere approvvigionati di trascendentali. Per il solo fatto che si applica all'essere l'intelligenza lavora per il bene sia della città che dell'universo». J. Maritain, Theonas. Dialoghi tra un sapiente e due filosofi su argomenti di diS.. attualità, Vita e Pensiero, Milano 1982

1. LA CONOSCENZA,

DONAZIONE

GRATUITA

DI SENSO

Abbandonarsi al fluire della mente dell’uomo e lasciarsi condurre dai battiti del suo cuore per vivere l'avventura della conoscenza, significa varcare la soglia del mistero e diventare partecipi di una vita, nella quale la perfezione umana dell’intelligenza trascende se stessa quasi in una divina possibilità. Si- scopre così che non è necessario rubare il fuoco agli dei per carpirne i segreti, poiché si possiede la capacità reale di entrare nel solco della loro stessa vita. «L'essenziale consiste — come afferma Maritain — nell’aver visto che l’esistenza non è un semplice fatto empirico, ma un dato primo per lo spirito, al quale apre un campo infinito di osservazione, in breve, la fonte prima e sovraintelligibile dell’intelligibilità. «Non basta insegnare filosofia — egli prosegue — nemmeno filosofia tomista per avere questa intuizione. Si tratta piuttosto di fortuna o di dono, o forse di docilità alla luce [...]. Se il poeta è un veggente, pure il filosofo lo è, anche se in modo molto diverso. In certi momenti può essere colto dallo smarrimento, in altri dalla gioia della scoperta; ciò nasce dal fatto che egli con, 57

tutta la scienza manualistica e la conoscenza della vita possibile e immaginabile, rimane inebriato dall’essere» (!). La nostalgia dell’essere, l’ansia di coglierlo, la meraviglia di scoprirlo sono l’anima stessa della conoscenza, la motivazione profonda del suo sprigionarsi dall’intelligenza umana, l’inesauribile spinta per entrare nel segreto sacrale della realtà. Ancor prima di conoscerlo, noi già lo amiamo, l’essere, lo amiamo senza saperlo, amando la nostra vita e la nostra esistenza con tutto il loro mistero. E l’essere è il «mistero-luce» e della vita e dell’esistere. A motivo di ciò possiamo dire con Maritain che «la conoscenza è immersa nell’esistenza. L’esistenza — l’esistenza delle cose materiali — ci è data dapprima dai sensi, che attingono l’oggetto in quanto esistente, e cioè dall’azione reale ed esistente da esso esercitata sui nostri organi di senso; per questo il paradigma di ogni conoscenza vera è l’intuizione della cosa che vede e che si irradia su di me» (?). E quando l'intelligenza, per tramite della sua capacità astrattiva, impadronendosi degli intelligibili, «attinge nel profondo della sua stessa vitalità interna quelle nature o essenze che essa ha liberate, mediante l’astrazione, dalla loro esistenza materiale», compie tutto ciò «per restituirle all’esistenza

mediante l’atto in cui si compie e si consuma l’intellezione: cioè mediante il giudizio che dichiara it4 est, è così» (*).

È quindi una mirabile capacità di «donazione-gratuita-di-senso» quella tra l’intelligenza e l’essere per tramite del conoscere, in una reciprocità che per la coscienza è slancio intenzionale da sé verso il mondo e per il mondo è schiudimento del suo mistero e rivelazione del principio. Maritain ci conduce nello spirito di questa donazione con mirabile lucidità e scrive: «Ci troviamo [...] davanti alle cose, e abbiamo davanti a noi le cose, le diverse realtà conosciute mediante i sensi o le varie scienze, e a un certo momento

riceviamo come

la rivelazione di un mistero intelligibile nascosto in quelle cose, e talvolta questa rivelazione, questo «urto d’intelligibilità» si produce anche in intelletti non metafisici [....]. . (1) J. Maritain, Court traité de l’existence et de l’existent, Paris 1947; tr. e trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia 1974, P.6) Ivi, pp. 16-17. (3) Ivi, p. 16.

58

C'è una specie di intuizione improvvisa della propria esistenza o dell’essere inviscerato in tutte le cose, anche nelle più umili che un’anima può ricevere e può avvenire che in questa o quell’anima si presenti sotto le apparenze di una grazia mistica» (*). Maritain può così esplicitare, ulteriormente, che per penetrare la natura del conoscere occorre elevare lo spirito, poiché si entra in un ordine diverso di cose (5): dalla materialità alla sovraintelligibilità. L’uomo, infatti — e questo è uno dei suoi stigmi divini — è un essere conoscente in quanto è un essere anche immateriale. Ma l’intima relazione, e nel contempo l’intrinseca autonomia, tra la coscienza e il mondo è tale che Maritain, cogliendola in tutta la sua pregnanza e muovendosi entro il registro della gnoseologia aristotelico-tomista, ribadisce che la conoscenza delle species intelligibili non avviene attraverso una intuizione, ma per tramite dell’esperienza sensibile. 2. PERCEZIONE

ASTRATTIVA

E INTERSOGGETTIVITÀ

Entro questo orizzonte di relazione-autonomia

tra coscienza e

mondo, Maritain colloca la sua incisiva tematizzazione della «percezione astrattiva», condizione ineliminabile per la formulazione del giudizio di verità. Nel Breve trattato, egli conduce la sua disamina sulla scorta di una breve, ma efficace critica a «quella specie di sacro orrore che coglie i filosofi esistenzialisti — cristiani o atei — di fronte a ciò che essi chiamano l’universo degli oggetti [...]» (9). A riguardo egli annota: «Essi immaginano l’oggetto come un’idea reificata, una porzione di esteriorità pura, inerte e passiva, che ostacolerebbe lo spirito e si interporrebbe tra esso e il mondo dell’esistenza, ossia dei soggetti reali, cosicché solo l’esperienza vissuta dalla soggettività potrebbe coglierla. Essi non vedono — egli prosegue — che l’oggetto e l’oggettività sono la vita stessa e la salvezza dell’intelligenza, — l’oggetto è il termine della prima operazione dell’intelletto (percezione o «apprensione semplice»); che cosa (4) J. Maritain, Sette lezioni sull’essere, Massimo, Milano 1981, pp. 74-76. (5) J. Maritain, Distinguer pour unir ou Les degrés du savoir, Paris 19321959, tr. it., Distinguere per unire - I gradi del sapere, Morcelliana, Brescia 1974, p. 141. (6) J. Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, cit., p. 17.

59

è esso dunque, sotto tale aspetto determinato isolato dall’astrazione, se non la densità intelligibile di un soggetto esistente, resa trasparente in atto allo spirito e identificata con la sua attività vitale mediante e nel concetto?» (7). Tutta la consistenza ontologica della speculazione maritainiana ha già trovato qui la sua connotazione più esplicita: la realtà nella sua molteplicità entitativa si afferma autonoma e sovrana rispetto la coscienza, che non la fonda, bensì si pone di fronte ad essa — con atteggiamento estatico-contemplativo — per inverarla di senso. La coscienza, la soggettività, non è la verità delle cose, ma la ricercatrice della loro verità. È questo atteggiamento di radicale custode e assertore dell’essere, che consente a Maritain di annotare

ulteriormente:

«(Gli

esistenzialisti) non vedono che questo universo di oggetti che essi tentano di cancellare dall’esistenza, non pretende di esistere in quanto tale, ma esiste solo nello spirito, mentre ciò che esiste sono dei soggetti o dei supposita, oggettivati nello spirito per essere conosciuti, ma posti per se stessi nel mondo dell’esistenza concreta e contingente, dove si congiungono natura e avventura» (*). Si delinea così la mirabile «castità dell’intelligenza» dinanzi alle cose-che-sono: essa le indica, le significa, le custodisce. Le cose sono l’altro-da-sé verso cui l’intelligenza si protende per posarvi sopra lo sguardo, per coglierne la verità, il bene e la bellezza, restituendole petò, sempre di nuovo, alla loro sussistente autonomia. Questa «castità dell’intelligenza» trova, a nostro modo di vedere, espressione chiarificatrice in quanto Maritain afferma circa la filosofia tomista; «[...] da un altro punto di vista, semplicemente logico, vorrei osservare che per questa filosofia, secondo una distinzione troppo spesso trascurata, ciò che una scienza tende a conoscere è un soggetto determinato, nella sua inesauribilità esistenziale, mentre l’oggetto di questa scienza, a rigore di termini, sono le conclusioni alle quali essa giunge» (°). L’atteggiamento sapienziale conduce, pertanto, il conoscere da una posizione iniziale di intersoggettività — inesauribile nelle sue implicazioni epistemologiche (la coscienza come soggetto co(7) Ibidem. (8) Ibidem (corsivo mio). (9) Ivi, p. 18.

60

noscente e le cose come soggetti a conoscere) —

a una posizione

terminale di relazione oggettuale, regolata dalle conclusioni, alle quali la coscienza è in grado di pervenire per tramite del processo gnoseologico. Ciò significa, però, che il soggetto conosciuto trascende sempre ulteriormente il soggetto conoscente, l’oggettivazione intellettuale del quale non esaurisce mai completamente il radicale mistero ontologico. Maritain annota altresì che, di contro, l’accentuazione soggettivistica dell’esistenzialismo, si porrebbe la fedeltà dei marxisti alla nozione di oggetto. Essi però trascurano «l’universo dell’esistenza o l’universo dei soggetti, per attribuire ad un universo di oggetti reificati e di nature, divenute ormai semplici aspetti contingenti dell’immanenza del divenire, un’esistenza che non è che un’extra-posizione dell’Idea» (19). È questo il «mito idealista dell’oggetto». Nella speculazione maritainiana, invece, l’oggettività si pone come la possibile mediazione conoscitiva in un universo di soggetti esistenti e sussistenti, qual è l’universo dei soggetti conoscenti e dei soggetti conosciuti. «L’intelligenza — afferma il filosofo francese — coglie nella percezione astrattiva, in quella penetrazione che essa compie nel reale e nell’esperienza dei sensi per procurarsi da vivere le nature o le essenze che sono nelle cose,

o nei soggetti esistenti (ma non allo stato di intelligibilità in atto, né di universalità). Queste essenze non sono cose: l’intelligenza le desistenzializza, immaterializzandole. Ecco ciò che noi fin dall’inizio abbiamo chiamato intelligibile, o oggetto del pensiero»

(1).

Ecco ciò che noi, leggendo Maritain attraverso Maritain, abbiamo voluto chiamare «castità dell’intelligenza di fronte alle cose-che-sono». La visione eidetica delle cose ne rende possibile la significazione, essa è una donazione di senso, è una partecipazione alla presenzialità dell’essere, ma l’essere trascende l’intelligenza che lo coglie e lo contempla. Questo è quello che vorremmo chiamare il momento sacrale del conoscere, quello che ci fa condividere l’umiltà intellettuale del filosofo Maritain e ci fa amare e desiderare la luce, che è for-

tuna e dono a un tempo e di cui egli così ci parla: «Con questa (10) Ibidem. (11) Ivî, pp. 18-19.

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luce, anche se lungo il cammino si potrà sbagliare, si andrà molto più lontano che con anni di esercizi dialettici, di riflessione critica o di analisi concettuale dei fenomeni: si avrà inoltre il privilegio della solitudine e della malinconia»

(!).

È questa la condizione di accesso alla casa dell’essere, verso la quale è rivolta l'originaria nostalgia per gli dei fuggiti, che ci fa compiere la via del ritorno e di cui l’intuizione è la chiave di volta e la dignità stessa del filosofare. 3. LA FONDAZIONE ONTOLOGICA DELL’INTENZIONALITA CONOSCITIVA

Per entrare nel mistero dell’essere: «è necessario — come afferma Maritain — raggiungere un certo livello di spiritualità intellettiva, in cui allora un urto dell’intelligenza contro il reale, o meglio, giacché la metafora è troppo brutale, un silenzio attivo e attento dell’intelligenza fa sorgere, per così dire, dalle cose che vengono ricevute in noi attraverso i sensi e la cui species impressa è nascosta nelle profondità dell’intelletto, in cui dicevo quest’incontro dell’intelligenza e del reale, questa fortuna propizia, fa sorgere dalle cose in un verbo mentale, un’altra vita, un contenuto vivo che è un mondo di presenza trans-oggettiva e di intelligibilità; ed eccolo in noi che ci sta di fronte, che è l’oggetto di conoscenza, vivente della vita immateriale, della trasparenza fiammea dell’intellettualità in atto» (!9). Occorre, pertanto, al fine di svelare il segreto di questa possibile intimità tra l’intelligenza e il reale, così piena da «far sorgere un’altra vita», indagare sull’intrinseco dinamismo della coscienza, che la fa capace di esplodere dalla propria inseità per aprirsi all’universo delle cose. Come la freccia di un arco vibrante e ben teso, l’intenzionalità della coscienza saetta verso il mondo per coglierne il senso e provocarne il mistero. La nozione di intenzionalità, che ha trovato nel pensiero medioevale e in particolare nella Scolastica, i suoi caratteri definitori, così è espressa da s. Tommaso: Intentio, sicut ipsum nomen sonat, significat in aliud tendere; in aliquid autem tendit et actio

(12) Ivi, p. 23. (13) J. Maritain, Sezte lezioni sull’essere, cit., p. 77.

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moventis et motus mobilis (Sum. Theol. I-II, q. 12, aa. I, 5; oalaar2), Maritain, dal canto suo, di contro alla fruizione psicologistica

dei fenomenologi, riassume la nozione di intenzionalità in tutta la sua consistenza originaria: ontologica, entitativa, realistica. «L’intenzionalità — egli scrive nei Degrés — non è soltanto quella proprietà della mia coscienza di essere una trasparenza indirizzata, di prendere di mira degli oggetti in seno a se stessa; essa è, prima di tutto, quella proprietà del pensiero, privilegio della sua immaterialità, per mezzo della quale l’essere per sé posto “fuori di esso”, cioè pienamente indipendente dall’atto stesso del pensiero, diviene esistente in esso, posto per esso e integrato al

suo atto: è, insomma, quella proprietà per mezzo della quale pensiero e essere per sé esistono in una sola e identica esistenza sopraoggettiva» ("). Compiamo, allora, con Maritain questa reditio intenzionale della soggettività conoscente da se stessa al mondo e dal mondo a se stessa, per scoprire come questo viaggio dell’intelligenza, nell’universo evidente delle cose-che-sono, ci regala la certezza dell’ita est del giudizio. «La verità — afferma Maritain — segue l’esistenza delle cose o dei soggetti trans-oggettivi con i quali si cimenta il pensiero, è l’adeguazione dell’immanenza in atto del nostro pensiero a ciò che esiste fuori di esso. «Una sovraesistenza spirituale, mediante la quale io divengo, in un supremo atto vitale, l’altro proprio in quanto altroe che risponde all’esistenza esercitata o posseduta da questo stesso altro nel campo d'’intelligibilità che gli appartiene in proprio [....]» (19). L’intenzionalità è l’inafferrabile tensione che rende possibile questo «diventare altro da sé», questo «essere o diventare altro in quanto altro» del processo conoscitivo. La conoscenza, secondo Maritain, sembrerebbe pertanto porsi in una apparente violazione del principio d’identità. Una tale violazione, per essere effettiva, richiederebbe due condizioni peculiari: a) un superamento da parte del soggetto conoscente della sfera della materialità, che individua le cose nel loro essere; b) un’unione profonda tra conoscente e conosciuto, che trascenda (14) (15)

J. Maritain, I gradi del sapere, cit., p. 132. J. Maritain, Breve trattato, cit., p. 15.

63

ogni materialità, poiché ogni materia, che riceve una forma, viene a costituire un fertium quod che è la materia informata, ma ciò significa «diventare-altro» non «diventare-l’altro». Il conoscente, invece, pur conservando la sua natura, si identifica col conosciuto stesso, in una unità più stretta di quanto lo sia quella della materia con la forma (!): il conoscere infatti si relaziona al senso e all’intelligenza quali funzioni conoscitive come l’esistere all’essenza quale funzione quidditativa. L’avventura della conoscenza sta proprio nel suo porsi come una “sovraesistenza attiva e immateriale”, tale per cui il soggetto trascende la sua esistenza naturale, limitata e determinata dal genere, e si sprigiona in una «esistenza illimitata», nella quale, in virtù della sua attività conoscitiva, «è» e «diviene se stesso» e

«gli altri». È questa una diretta partecipazione al mistero di Dio stesso, nella cui infinitezza esistenza e conoscenza sono la medesima cosa. La Sua esistenza, infatti, è l’atto stesso della Sua intellezione. Analogicamente la conoscenza umana è un «divenire altro in quanto altro», in modo diverso dall’esistenza attuante un soggetto (!). Cosicché possiamo comprendere come non sia possibile far consistere la conoscenza in alcuna delle azioni che abitualmente compiamo o osserviamo. La stessa produzione dell’immagine nella sensazione o le stesse elaborazioni concettuali delle intellezioni non consistono formalmente nell’atto del conoscere, ma sono produzioni interiori che si collocano come condizione, mezzo ed espressione di questo atto. «L’atto del conoscere — si staglia così come — un’azione propriamente immanente e perfettamente vitale che appartiene al predicamento qualità» (!$). Questo atto immanente vitale crea, in tal modo, «un’altra vita», un esse che ci consente di distinguere la possibilità diun’esistenza diversa da quella del soggetto in quanto tale e dei suoi accidenti e che, nel contempo, nasce dalla piena corrispondenza tra intelligenza e realtà: tale è l’esse intentionale in relazione all’esse naturae: La meraviglia ontologica di questa esistenza, «tendenziale e (16) Cfr. J. Maritain, I gradi del sapere, cit., p. 142. (17) Cfr. ivi, n. 99, p. 143.

(18) Ivî, p. 143.

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immanente», consiste nel fatto che essa non pone una cosa esistente per se stessa fuori dal nulla come soggetto, bensì come “esistente per l’altro”, come relazione: l’intelligenza, non possedendo bensì custodendo l’essere delle cose, l’accoglie in sé a suo proprio completamento e trascendimento. Maritain può così affermare, citando il Caietano, che l’esse intentionale rappresenta il rimedio all’imperfezione, essenziale ad ogni soggetto conoscente creato, di avere un essere di natura limitato: di non essere cioè per se stesso tutto il resto (!°). In virtù dell’intenzionalità conoscitiva, animza est quodammodo omnia. 4. LA CONOSCENZA

COME

ORDINE METAFISICO

Attraverso una rigorosa riassunzione e rielaborazione del pensiero classico, Maritain si impegna quindi in una stringente argomentazione circa ciò che stabilisce l’unione tra il conoscente e il conosciuto.

Egli traduce l’antica dizione classica di species (cioè di quelle forme immateriali intrapsichiche, che nell’anima fungono da vicarie dell’oggetto) in «forme presentative oggettivanti» (2°): 1) presentative nel senso che “rendono presente” la cosa [funzione propria delle species expressae non delle species impressae (*)]. 2) oggettivanti nel senso che la cosa, mediante queste forme, è resa oggetto in modo radicale nella species impressa intelligibile, in modo espresso nel concetto. Allo stesso modo dell’esse intentionale, le species non sono elementi già noti. Vi si perviene infatti attraverso l’analisi del dato, che costringe lo spirito a riconoscerne la realtà, sempre che l’analisi abbia proceduto correttamente e diretta da necessità intelligibili. La species si definisce così come quella determinazione interna, in virtà della quale ciò che non è conoscente «diviene» nel conoscente, «vive» nel conoscente secundum

esse intentionale in

quella sovraesistenza attiva propria del conoscente che «si fa» la cosa conosciuta. . (19) Cfr. ivî, n. 102, p. 144. (2°) Cfr. ivî, n. 104, p. 145. (21) Cfr. ivî, pp. 146-149 ss.

65

Nella disamina maritainiana l’esse intentionale si attua per tramite delle species lungo due momenti costitutivi. Il primo momento è quello della sensazione, il senso esterno, mosso dalla tensione vitale e aperto anticipatamente a conoscere la cosa — (è paragonabile ad un abito intellettuale già acquisito) — che agisce con le sue qualità sull’organo (offrendosi per così dire alla sensazione:

«sensibile in atto»), riceve una species i7m-

pressa, che lo specifica. Nell’atto primo il «senso» diventa, pertanto, intenzionalmente il «sensibile» (senso e sensibile sono un solo principio di operazione). In atto secondo il senso diventa il sensibile nella sua stes-

sa azione immanente, costituendo con esso un solo atto e producendo nel contempo un’immagine del sentito nell’immaginazione e nella fantasia, ovvero una species expressa di ordine sensibile. Il secondo momento è quello nel quale l’intelligenza conosce le cose in virtù della sua immaterialità. L’intelletto agente, secondo l’orientamento aristotelico-tomista, libera l’intelligibilità che le rappresentazioni sensibili posseggono potenzialmente e, trascurando le note individuanti specifica l'intelligenza per mezzo di una species impressa, astratta dal sensibile e «ricevuta dall’intelligenza stessa». Questo momento costituisce l’atto primo, in cui l’«intelligenza è divenuta», in base alla sua attività, «intenzionalmente» l’oggetto, che essa contiene in germe per mezzo della sua species e quale co-principio del conoscere. L’intelligenza produce successivamente un verbo mentale o concetto, una species expressa di ordine intelligibile, nella quale l'oggetto raggiunge il grado più elevato di attualità e intelligibilità: essa diviene, nell'atto secondo, l’oggetto stesso. Nasce così «un contenuto vivo», un mondo di presenza «trans-

oggettiva e di intelligibilità», che, come abbiamo già citato, «ci sta di fronte, [...] è oggetto di conoscenza, vivente della vita immateriale, della presenza fiammea dell’intellettualità in atto». Ciò consente a Maritain di cogliere la conoscenza come un vero e proprio ordine metafisico, distinto da quello ontologico, poiché non fondato sull’esistenza del soggetto bensì sulla relazione tra soggetto e oggetto, dalla quale nasce l’esse intentionale. Nell’esse intentionale si congiungono, peraltro, «la distinzione della forma essenziale e dell’esistenza nella linea dell’es-

66

sere e della forma operativa e della operazione nella linea dell’azione» (7). La conoscenza, infatti, è contemporaneamente esistenza ed azione immanente:

l’anima, conoscendo, diviene prima intenzio-

nalmente l’oggetto stesso in atto primo, e lo diviene successivamente in atto secondo «come la natura preesiste nell’agire». 5. IL CONCETTO

PERFEZIONE

DELL’«ESSE

INTENTIONALE»

L’esse intentionale esprime, come abbiamo evidenziato, la sua perfezione nel concetto o verbo mentale, forma presentativa che l’intelletto proferisce entro se stesso e nella quale esso diviene intenzionalmente, in atto secondo, la cosa secondo uno dei suoi intelligibili. a) I segni

Maritain, in sintonia con la gnoseologia tomista, distingue due ordini di segni, il segno strumentale e il segno formale. Il segno strumentale è quello, la cui conoscenza ci consente di conoscere consecutivamente un’altra cosa (esempio, il fumo ci fa risalire al fuoco, il ritratto al suo modello, ecc.). Il segno formale è essenzialmente un significante: «è qualcosa che fa conoscere prima di essere esso stesso conosciuto come oggetto

[...], è conosciuto

scomparendo

davanti

non

all’oggetto,

apparendo

come

poiché la sua

oggetto,

essenza

ma

è di

mettere lo spirito in relazione con una cosa diversa da sé» (*). Le species expressae sono «segni formali»: la species expressa

dell’immaginazione non è ciò che è conosciuto quando ricordiamo, ma è «il mezzo» per il quale conosciamo il passato; il concetto non è ciò che è conosciuto dalla nostra intelligenza, ma è il mezzo che consente l’intellezione della determinatezza intelligibile di una cosa attualmente e possibilmente esistente. In tale senso, Maritain può affermare che le species expressae sono le sole realtà che rispondono alla nozione di segno formale. L’atteggiamento anti-idealistico di s. Tommaso evidenzia, pertanto, che esse non sono l’oggetto che conosciamo, ma il mezzo del nostro conoscere: esse divengono oggetto solo riflessivamente ed in base ad un nuovo concetto. (22) Ivi, p. 147. (23) Ivi, p. 150.

67

Maritain annota altresì che se le species fossero costitutive della nostra conoscenza e non mezzi, tutte le scienze si ridurrebbero, secondo Tommaso, alla sola psicologia ed anche le rappresentazioni contraddittorie sarebbero vere, in quanto il giudizio risulterebbe conforme non a ciò che è ma a ciò che ci rappresentiamo.

b) Le funzioni Nel concetto sono presenti, quindi, una funzione entitativa, — esso è una modificazione o un accidente dell’anima —, e una

funzione intenzionale, — esso è il segno formale della cosa ed in esso lo spirito coglie l’oggetto. In virtù della funzione intenzionale del concetto, l’oggetto colto dallo spirito è la cosa stessa, che attraverso il processo conoscitivo (sensazione-astrazione) è stata spogliata della sua esistenza secondo natura per esistere intenzionalmente nello spirito. L’oggetto e la cosa non sono, pertanto, due termini conosciu-

ti, ma uno solo, un solo e medesimo quod, «che esiste per sé come cosa ed è colto dallo spirito come oggetto». La dinamica della relazione conoscitiva è in sintesi così esprimibile: 1) il concetto è astratto e universale; 2) la cosa extra mentale è singolare e concreta; 3) l’oggetto, invece, che esiste nella cosa secundum esse naturae e che esiste nel concetto secun-

dum esse intentionale astratto, è «per sé» indifferente all’uno o all’altro stato, infatti nel giudizio «Pietro è uomo» identificherò sia l’individuo Pietro sia l’oggetto di pensiero uomo. Il concetto, quindi, in quanto esse intentionale, è da un lato «ciò che fa conoscere» e dall’altro è «ciò che la cosa o l’oggetto è “a titolo di termine” conosciuto». In tale prospettiva, Maritain è in grado di sottolineare come il segno formale sia prerequisito alla conoscenza e come successivamente faccia conoscere un’altra cosa: «è conosciuto proprio in quanto fa conoscere e nell’atto di far conoscere».

Maritain ci conduce, in tal modo, a comprendere che la funzione entitativa e la funzione intenzionale del concetto non sono due cose distinte — (occorre infatti ricordare che l’intenzionalità è un modo) — bensì sono due valori formali distinti della stessa cosa, poiché la prima è di ordine ontologico e la seconda è di ordine logico. 68

Il filosofo trae da questa distinzione due conseguenze fondamentali: 1) il concetto, in quanto entità, è un accidente, una qualità o modificazione dell'anima (”); 2) il concetto, che nell’anima è, in atto secondo, espressione dell’intelligenza già for-

mata in atto primo dalla species impressa, sotto l’azione dell’intelletto agente, «partecipazione creata della virtù divina», trascende la sua funzione entitativa ed è presente nella facoltà come uno spirito.

È opportuno, inoltre, sottolineare che il dinamismo del passaggio dall’atto primo all’atto secondo del conoscere — dalla species impressa alla species expressa — è necessitato dalla profonda unione ontologica dell’intelligenza con la corporeità, cioè dall’unità psicofisica della persona umana, in virtù della quale l’intelligenza, attivata dall’intelletto agente e per mezzo dei fantasmi, è formata in atto primo dalla species impressa, ma per attivazione dell’intelletto agente stesso produce in sé la species expressa e si attua in atto ultimo nella più completa immaterialità (3). Il concetto,

pertanto,

è nell’intelligenza

anche come

forma

spirituale, «non assorbita nell’attuare un soggetto per costituire con esso un tertium quid, ma, al contrario, come attuante o me-

glio terminante l’intelletto in modo intenzionale, e nella linea del conoscere, proprio in quanto esprime e rende diafano l’oggetto» (29). Ciò consente a Maritain di concludere che, nell’esse intentionale del conoscere concetto e oggetto sono indiscernibili, essi si distinguono, però, in quanto il primo fa conoscere e il secondo è conosciuto, l’uno è segno (significante), l’altro è significato, l’uno esiste nello spirito, l’altro esiste sia nello spirito sia nella cosa. É possibile, a questo punto, comprendere come il giudizio di verità abbia realmente una funzione esistenziale, tale per cui esso restituisce, in una operazione inversa a quella della perce-

(24) Cfr., ivî., p. 156: gli scolastici classificavano il concetto fra le qualità di primo genere-disposizioni e abiti-poiché predispone la natura in quanto conoscente. Il concetto è però un abito che non sta dalla parte del dinamismo del soggetto bensì dalla parte dell’oggetto che esso presenta allo spirito.

(5) Ivi, n. 123, p. 157. (26) Ivi, p. 158.

69

zione astrattiva, le essenze (oggetti del pensiero) all’esistenza (mondo dei soggetti). Maritain può così sottolineare, nel Breve trattato, che mentre per Cartesio il giudizio è un’operazione della volontà (l’esistenza che afferma è la posizione dell’ideaturz inaccessibile in sé, di cui l’idea è il ritratto), e per Kant il giudizio ha per sé solo una funzione ideale cui spetta il compito di fare il concetto sussumendo una materia empirica sotto una categoria, per s. Tommaso il giudizio non è solo un’operazione che segue l’apprensione e la formazione del concetto, ma è il compimento dell’intelligenza, così come l’esistenza da esso affermata è il compimento dell’essere e dell’intelligibilità. Si compie, in tal modo, l’itinerario dell’intenzionalità nella sua fondazione ontologica: l’intelligenza, quando giudica, vive intenzionalmente, mediante un atto che le è proprio, quello stesso atto di esistere che la cosa esercita o può esercitare fuori dallo spirito; l’esistenza, intenzionalmente vissuta dallo e nello spirito, è il compimento dell’intelligibilità in atto (7). L’esistenza va oltre l’intelligibile, poiché è un atto esercitato da un soggetto, la cui massima intelligibilità (sovraintelligibilità) sia oggettiva nell’atto stesso del giudizio: essa è un intelligibile in senso superiore e analogico. Il giudizio di verità circa l’esistenza, così come Maritain lo custodisce attraverso Aristotele e Tommaso, si rivela in senso

proprio come la «castità dell’intelligenza» di fronte alle cose-chesono, che essa vede e contempla, ma che restituisce sempre di nuovo alla loro ontologica autonomia. 6. CONCLUSIONE

L’intenzionalità, in Maritain, ci ha in tal modo condotto dall’apprensione semplice della cosa alle soglie della casa dell’essere, dove l’avventura della conoscenza si compie nell’intuizione intellettuale, che ci fa percepire l’essere per sé, svincolato dalla indeterminatezza del senso comune, dalle particolarizzazioni della scienza, dalla derealizzazione della logica. L’essere è percepito da una intellezione astrattiva, da una visualizzazione eidetica, che si origina nell’incontto dell’intelli(2?) Cfr., J. Maritain, Breve trattato, cit., p. 20.

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genza con l’atto di esistere colto nelle cose e che essa ha intenzionalmente ricevuto in se stessa nella sua integrità intelligibile e sovraintelligibile. Le vie, per pervenire all’apprensione, non essendo essa una analisi razionale, sono molteplici: «non ha importanza se sorge bruscamente come una grazia naturale, alla vista di un filo d’erba o di un mulino a vento [...], o se proviene dalla implacabi-

lità con cui l’essere delle cose indipendentemente da me mi si impone all'improvviso [...], o se mi dirigo verso di essa avendo in me l’esperienza della durata o quella dell’angoscia [...]. L’essenziale consiste nell’avere visto che l’esistenza non è un semplice fatto empirico, ma un dato primo per lo spirito, al quale apre un campo infinito di osservazioni, in breve la fonte

prima e sovraintelligibile dell’intelligibilità» (*). Scienza e sapienza si congiungono così di fronte al mistero dell’esistenza e del suo fondamento: la scienza con la sua tensione conoscitiva

verso

soggetti determinati,

ma entitativamen-

te inesauribili; la sapienza con la sua capacità di farci contemplativi dell’essere, «al sommo dell’intellettualità eidetica», «e aprendo, proferendo nello spirito un contenuto, un’intimità, un suono, una voce intelligibile, che trova solo nello spirito le sue condizioni di esistenza unica e universale» (?).

Per questa contemplazione dell’essere, vertice sublime della conoscenza, valgono bensì la solitudine e la malinconia del filosofo, alle quali Maritain ha orientato la nostra mentee il nostro cuore.

(28) Ivi, pp. 22-23. (29) J. Maritain, Sette lezioni sull’essere, Massimo, Milano 1981, p. 86.

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AUGUSTO CAVADI segretario nazionale dell'A.D.I.F.

A Dio, con intelligenza: indicazioni da Maritain

1. PREMESSA:

A DIO, MA

CON

INTELLIGENZA

Tra le colpe che più difficilmente si riescono a perdonare a Maritain è la caparbia ostinazione con cui ha sostenuto che il problema di Dio non si può ridurre, sic ef simzpliciter, ad una questione di fede soggettiva. Per ragioni differenti, e spesso opposte, credenti e non credenti hanno contribuito, specialmente dalla Critica della ragion pura in poi, ad estromettere l’intelligenza dall'ambito dell’esperienza religiosa, in modo da sottrarre le scelte individuali riguardanti tale ambito ad ogni possibile verifica «razionale». Fede ed incredulità sono così preservate da ogni dibattito «pubblico» e, con ciò stesso, da ogni obiezione indiscreta. Nonostante il divieto della cultura dominante, Maritain — nella consapevolezza molto poco hegeliana che la filosofia debba essere non solo testimone ma più ancora giudice del proprio tempo — si è ostinato a pensare Dio e a riflettere intorno a tutti gli interrogativi che la ricerca di Dio implica per una

coscienza seriamente critica.

É per questo che la lettura delle

sue opere impone, a chi crede come a chi non crede, di esplicitare e di esibire le ragioni della propria prospettiva; di prendere posizione teoretica nei confronti di una domanda — la domanda, appunto, su Dio — che, per il fatto di coinvolgere anche la dimensione esistenziale dell’interrogante, non cessa per ciò di interpellarne l’intelligenza. Vorrei notare in particolare (e toccando, en passant, una problematica che meriterebbe da sola una trattazione a parte) che a mio sommesso avviso l’istanza maritainiana di una propedeutica filosofica al momento specificamente teologico è talmente seria, e direi talmente fine, da poter interessare non solo quanti 72

fossero ancora impantanati nelle secche di fideismi e di razionalismi grossolani, ma anche quegli apprezzabili studiosi contemporanei d’ispirazione cristiana che hanno quasi del tutto eliminato la riflessione filosofica dall'ambito dei propri interessi in nome della teologia biblica e spirituale. É noto, infatti, con quanto rammarico si sia constatata la deformazione che il messaggio biblico ha subito, lungo i secoli, a causa di un’interpretazione «metafisica»

tendente

a leggere testi semitici con cate-

gorie greche e latine. Da qui la reazione, comprensibile, di tanti esegeti e biblisti che hanno fermamente denunziato l’indebita ingerenza di tecnicismi ontologici in sede di chiarificazione del tenore originario delle pagine ispirate e dell’intenzione otiginaria dei rispettivi redattori. Reazione comprensibile, ma solo fino a un certo punto giustificabile. Quando, infatti, essa si limita ad affermare, con ammirevole equilibrio, che «il significato più profondo del cristianesimo non è riposto nella filosofia e nella dogmatica, ma sta celato sotto il velo delle allegorie e dei simboli, per rivelarsi a chi abbia intelletto spirituale» (!), non può non trovare consenzienti i «metafisici» davvero consapevoli dei limiti dell’approccio metafisico. Quando, invece, assume toni più drastici e, poniamo con Karl Barth, asserisce di sapere «la grandezza e la miseria di una pretesa conoscenza naturale di Dio quale ha tentato di definire il Concilio Vaticano I», sì da ritenere

«l’azaglogia

entis un'invenzione

dell’Anticristo» (?), es-

sa allora pecca per eccesso di legittima difesa. Il fatto che si possa e si debba liberare il messaggio ebraicocristiano dalle letture “ontologico-metafisiche” che l’hanno lentamente appesantito sino a piegarlo in senso talvolta contrario rispetto allo slancio originario, non significa che il credente, in quanto persona umana, non abbia delle esigenze “metafisiche” e non possa affinare degli strumenti teoretici adeguati per affrontare il mistero della realtà: anzi, quando si voglia elaborare, (1) C.M. Martini, I vangelo secondo Giovanni, Borla, Roma 1980, p. 88. Sull’argomento mi è stata utilissima la lettura di E. Rindone, L'ispirazione della S. Scrittura dal Vaticano I al Vaticano II, Centro di Formazione Cristiana, Palermo 1982 (spec. pp. 101-110). (2) K. Barth, Dogmatica ecclesiale, 1/1, p. VIII-IX, cit. in I. Mancini, Introduzione all’ediz. it. di K. Barth, Dogmatica ecclesiale. Antologia a cura di H. Gollwitzer, tr. P. Pioppi, Il Mulino, Bologna 1968 (ed. or. 1957), p. XCVI.

"e,

a partire dai dati biblici, una teologia che possa veramente parlare all'uomo concreto, nessun esegeta, per quanto “scientifico”, potrà fare a meno d’una mediazione filosofica. Anzi, a voler essere un po” meno incompleti, va notato che un’attrezzatura filosofica è necessaria non solo nel momento di elaborare una proposta cristiana, ma ancor prima nel momento di interpretare il messaggio biblico. I biblisti più qualificati, infatti, avvertono — con molta acutezza — che, se è vero che la Scrittura non contiene una trattazione tecnica, organica, delle problematiche metafisiche, non manca però (e come, d’altronde, lo potrebbe, trattando di Dio e dell’uomo?) di asserzioni e contenuti metafisici altamente significativi (5). Tali contenuti, inseriti in contesti culturali semitici, vanno vagliati criticamente, così come i contenuti metafisici presenti in contesti orientali o occidentali: e ciò che sarà. alla fine, selezionato ed accolto, lo sarà mor in quanto semitico, orientale o occidentale, ma in quanto “vero”, rivelatore di ciò che è. Insomma, il rispetto della mentalità ebraica e del suo approccio simbolico-immaginifico non implica, di per sé, il rifiuto della mentalità greco-occidentale e del suo approccio concettuale-dia(3) «Occorre anzitutto mettersi d’accordo sul significato della parola metafisica. Se con essa si intende un tentativo di spiegazione razionale delle cose, elaborato per via di riflessione astratta, con l’intento di creare un sistema coerente (come quello di Platone, Aristotele, Cartesio o Hegel), diremo che la Bibbia non contiene alcuna metafisica. Se ne trovano, infatti, appena delle tracce occasionali nel libro della Sapienza ed in certe lettere paoline; per il resto il linguaggio della rivelazione ed il suo sustrato mentale sono prefilosofici. Ma se si intende per metafisica l'affermazione di certe realtà o di certi valori, che non cadono sotto i sensi, pur illuminando di propria luce la natura profonda dell’esperienza umana, allora diciamo che la Scrittura ne contiene, implicitamente od esplicitamente, e che la filosofia vi può attingere indicazioni per nuovi ed inediti sviluppi. In questo secondo senso è del tutto esatto parlare di una metafisica biblica, che ha segnato in modo indelebile il pensiero dei padri della Chiesa e dei filosofi cristiani» (P. Grelot, « La verità della sacra Scrittura », in AA.VV., La verità della bibbia nel dibattito attuale, a cura di I. de La Potterie, Queriniana, Brescia 1979, p. 107). In nota Grelot rimanda non solo a sue precedenti pubblicazioni, ma anche agli studi fondamentali di C. Tresmontant e di E. Gilson. Ai fini del mio discorso, è istruttivo osservare che la serie di esemplificazioni suggerite dall’Autore circa la «percezione concreta di certe realtà fondamentali» ad opera dei redattori del testo biblico (la creazione, l’uomo, etc.) inizia proprio con la nozione di Dio «come l’unico, come “Colui che è, che era e che sarà”, come l’assoluto personale, da cui noi dipendiamo ui come il solo cui debba indirizzarsi l’omaggio religioso dell’uomo» p. i

74

lettico: optare fra l’una e l’altra sarebbe sciocco come ritenere che si possa scegliere fra il pane e l’acqua. Esse appartengono a due “registri” differenti e, se si conserva la vigile coscienza della loro parzialità, possono completatsi vicendevolmente per sostenere l’uomo nell’incessante ricerca del vero Dio (*). 2. PRIMA INDICAZIONE: LA DOMANDA ALLA DOMANDA SULL'UOMO

SU

DIO COME

INTRINSECA

«La mancanza di Dio significa che non c’è più nessun Dio che raccolga in sé, visibilmente e chiaramente, gli uomini e le cose, ordinando in questo raccoglimento la storia universale e il soggiorno degli uomini in essa. Ma nella mancanza di Dio si manifesta qualcosa di peggiore ancora. Non solo gli Dei sono fuggiti, ma si è spento lo splendore di Dio nella storia universale. Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero. É già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza

di Dio come

mancanza» (°): dia-

gnosi come questa heideggeriana, nonostante l’estrema serietà con cui sono state elaborate, non sembrano condivise, nel loro nucleo fondamentale, da Maritain. Vero è, infatti, che nelle sue opere non si trova neppure l’ombra del fatuo ottimismo clerico-trionfalistico che sembra cieco di fronte al dramma dell’ateismo dilagante in forma tanto teorica quanto pratica(°); ma (4) In questa direzione mi pare d’intendere Ch. A. Bernard, Teologia simbolica, Paoline, Roma, 1981, per es. là dove si legge: «la concezione del Totalmente altro, che fonda la conoscenza dialettica di Dio, parte da un processo metafisico ove si presuppone l’alterità inconoscibile. Ma è molto dubbio che tale concezione sia mai bastata e possa mai bastare all'uomo che si colloca davanti a Dio. Infatti la coscienza che l’uomo acquista della realtà divina non si riduce all’aspetto gnoseologico, ma riguarda anche i rapporti di preghiera, di fede, di fiducia, di servizio. In breve: solamente attraverso un pericoloso inaridimento della relazione con Dio e la riduzione di quest’ultima alla negazione, il metafisico giunge a porre l’alterità apofatica come unica espressione autentica del senso di Dio. Ma la negazione non è l’ultima parola della conoscenza di Dio: è soltanto un momento del rapporto concreto con il Dio vivente» (p 117). (5) M. Heidegger, Sentieri interrotti, tr. P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1973 (ed. or. 1950), p. 247 (corsivo mio). (6) Dal punto di vista del «soggetto umano che professa l’ateismo, dirò che vi sono gli afei pratici che credono di credete in Dio, ma che in realtà negano la sua esistenza, in ogni loro azione; essi adorano il mondo, il potere o il denaro. Vi sono poi i pseudo-atei che credono di non credere in Dio, ma che in realtà credono inconsciamente in Lui, perché il Dio di cui essi negano l’esistenza non è Dio ma qualcosa di diverso. Infine vi sono gli

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non vi si trova neppure la sconsolata certezza che eventi stotici o istituzioni, ideologie o strutture

economico-sociali,

siano

riusciti a strappare realmente dal “cuore” dell’uomo la domanda su Dio. Proprio negli stessi anni, ad esempio, in cui Heidegger denunziava la povertà estrema di un’epoca incapace di riconoscere la mancanza di Dio come mancanza — cioè negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale —, Maritain — pur condividendo la convinzione di Sombart che il “borghese” dell’era capitalistica non fosse né “ontologico” né “erotico”, in quanto aveva perso «il senso dell’essere e il senso dell'amore» — aggiungeva, però, subito dopo: «La tortura e la morte, quali le ha dovute contemplare l’Europa, ci hanno fatto prendere coscienza del significato dell’ontologia; l’odio, del significato dell’eros» (7). In patticolare, per quanto riguarda la domanda su Dio, in una pagina d’un limpido volumetto del ’51 il filosofo francese fornisce — non so quanto consapevolmente, ma certamente non tematicamente — una delle ragioni di dissenso da posizioni radicalmente pessimistiche come quella heideggeriana. Delineando una sorta di psico-sociologia del fine ultimo, egli ha modo di soffermarsi, in particolare, ad esaminare il way of life dei Paesi occidentali di così detta «civiltà cristiana» e dei Paesi orientali di «cultura indiana». Preliminarmente a tale indagine settoriale, Maritain si chiede «in quali

termini viene còlto, nella grande generalità dei casi, dalla coscienza umana il problema del fine ultimo» e risponde che — sempre in linea generale — «il modo in cui esso viene còlto è in termini di tempo, di durata storica. Considerate» — spiega egli — «quel che avviene all’interno di una vita umana, nei limiti della sua durata. Attualmente, io sto facendo i miei studi; dopo un certo numero di anni, sarò diplomato o laureato in questo o quest’altro, mi sposerò, guadagnerò denaro, scriverò romanzi, farò del giornalismo, degli affari o della filosofia, diventerò una grande personalità politica, ecc. ...: una serie di fasi atei assoluti, che realmente negano l’esistenza proprio di quel Dio in cui credono i credenti, di Dio, cioè, Creatore, Salvatore e Padre, il cui nome è infinitamente al di sopra di qualsiasi altro nome noi possiamo pronunciare» (J. Maritain, Il significato dell’ateismo contemporaneo, tr. T. Minelli, Morcelliana, Brescia 1967, ed. or. 1949, pp. 9-10). (?) J. Maritain, Ragione e ragioni, Saggi sparsi, tr. L. Frattini, Vita e Pensiero, Milano 1982 (ed. or. 1947), p. 134.

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che si collocano all’interno della durata di una vita. «Ora consideriamo, non più le fasi che si succedono entro una vita umana, o nel corso della sua durata, ma questa vita o questa durata nel suo insieme, come un tutto. Non è in tale prospettiva che di solito la gente si pone. Ma arriva un momento in cui vi sorprendete a guardare la vostra vita così, come un tutto, a gettare lo sguardo sull’intero spazio del tempo messo a vostra disposizione: allora, cosa dirò? Dopo i miei anni di preparazione e di educazione, sarò pronto ad agire da adulto (a diciott’'anni, o a venticinque, come volete). Avrò allora davanti a me circa quaranta o cinquant’anni di vita, di esperienza e di lavoro. Quaranta o cinquant’anni di lavoro umano. Per quale risultato? a che cosa serviranno? quale sarà lo scopo di tutto ciò? In quel momento il problema del fine ultimo si presenta in maniera ineludibile, e più concreto che nelle analisi filosofiche» ().

Come formulare l'indicazione che questa pagina di Maritain offre — al di là del contesto in cui è stata originariamente concepita — in ordine al problema di Dio? Direi che la domanda su Dio non si profila come una domanda «culturale» (legata a particolari tradizioni di pensiero o a particolari condizioni sociali), bensì come radicata nel dinamismo costitutivo, «naturale»,

dell’esistenza umana. Sul piano esplicito, sul piano delle teorizzazioni formali, può accadere facilmente che dittature politiche o intellettuali censurino la domanda teologica, dichiarandola «alienante» rispetto alla prassi o «inverificabile» in base agli strumenti delle scienze sperimentali; di fatto, però, essa riemerge continuamente all’interno della domanda antropologica sul fine ultimo dell’esistenza personale. Ciò non significa, evidentemente, che le scuole filosofiche dominanti non possano cancellare, insieme al problema di Dio, il problema del senso dell’uomo;

al contrario, è proprio ciò che stanno tentando nel nostro tempo, e non senza una coerenza logica, i movimenti anti-umanistici (?). Tuttavia, anche se «in generale noi siamo interessati, nel (8) J. Maritain, Nove lezioni sulle prime nozioni della filosofia morale, tr. L. Frattini, Vita e Pensiero, Milano 1979 (ed. or. 1951), pp. 161-2. (9) Sulla «filosofia della morte dell’uomo» e sul suo background ontologico mi sono soffermato in «È ancora possibile un umanesimo? Senso dell’essere e senso dell’uomo» (cfr. AA.VV., Umanesimo cristiano e umanesimi contemporanei, Massimo, Milano 1983, pp. 105-119).

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nostro psichismo cosciente, ai fini immediati delle nostre azioni», gli altri fini, per quanto «troppo profondamente sepolti nel dinamismo abituale del nostro volere per essere coscienti», non cessano di persistere «nascosti per così dire nella nostra sostanza» (!°). Maritain si preoccupa di esemplificare, senza timore di apparire troppo didattico: «Perché andate all’università? Per seguire dei corsi. Perché seguite dei corsi? Per avere un’educazione umanistica. Perché volete avere un’educazione umanistica? Per saper pensare. Perché volete saper pensare? Dare una risposta diventa sempre più difficile, perché essa è sempre più sepolta nel nostro dinamismo vivente. Risponderemo talvolta con delle ragioni puramente sostitutive, talaltra con ragioni marginali o con approssimazioni, qualche volta con ragioni vere ma che ci sembreranno banali e più o meno vuote. Da ultimo, una volta esaurita tutta la concatenazione dei fini, bisognerà pur enunciare un ultimo perché: per essere un uomo buono; o per salvare la mia anima; o per fare la volontà di Dio; o per godere la mia indipendenza, o il mio successo; o per avere nella vita piaceri e benessere. Ci si troverà di fronte all’ineludibile questione del fine ultimo, del fine estremo» (1). Ecco, allora, che l’ipotesi Dio, almeno come

possibile risposta al problema del senso dell’esistenza dell’uomo, va necessariamente esaminata: potrà essere respinta come poco credibile, o combattuta come ignobile, ma non potrà essere sradicata aprioristicamente se non a prezzo di sradicare apriortisticamente la domanda sul fine «ultimo» — o «primordiale» — dell’esperienza umana ("). Solo se l’uomo riuscisse a non interrogarsi sul si(19) J. Maritain, Nove lezioni, cit., p. 128. (11) J. Maritain, Nove lezioni, cit., p. 129. (12) «Osservo tra parentesi che la parola “ultimo”, o “estremo”, è forse impropria; forse sarebbe meglio dire: fine primo, primordiale. Per il pensiero riflessivo, ricostruito logicamente dal filosofo, il fine in questione si trova al termine, all’ultima estremità di una catena di fini intermedi. Ma, da una parte, questi fini intermedi sono anch’essi determinati in virtù del fine ultimo, dal quale noi cominciamo, che è l’oggetto della nostra prima decisione morale; “ciò che è ultimo nell’ordine dell’esecuzione viene per primo nell’ordine di intenzione”. D'altra parte, questi fini intermedi non svolgono un ruolo molto importante nella nostra vita morale. Il ruolo capitale è svolto dal fine ultizzo che orienta tutto il dinamismo della nostra vita, e dal fine immediato (l’intenzione per cui facciamo un certo atto), il quale, come oggetto del nostro atto interiore di volontà, è l’elemento principale e più formale nella bontà morale o nella malizia del nostro atto» (J. Maritain, Nove lezioni, cit., p. 129).

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gnificato del proprio essere-nel-mondo, riuscirebbe veramente, come suppone Heidegger, a «non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza». 3. SECONDA INDICAZIONE: LA DOMANDA SOLO OLTRE L'ORIZZONTE SCIENTISTA

SU DIO È POSSIBILE

Se la domanda su Dio è, intrinsecamente, una domanda dell’uomo, non possiamo formularla in maniera «astratta», «anox

nima», prescindendo dalla soggettività di quell’essere personale in cui, molto concretamente, tale domanda emerge. In ordine all’esigenza di conoscere chi siamo noi che cerchiamo Dio, sotto la pressione di quali condizionamenti e con il sostegno di quali aspirazioni avvenga la nostra ricerca dell’Assoluto, dobbiamo attentamente considerare alzzeno il contributo che Maritain ci propone riguardo ad una dimensione caratteristica della mentalità contemporanea, dimensione la cui rilevanza per ogni possibile approccio dell’intelligenza al problema di Dio sarebbe difficilmente esagerabile. Già in se stesso, il linguaggio che si adopera spontaneamente nell’affrontare la questione di Dio è sintomatico. Si parla infatti — e nelle pagine precedenti è capitato di ricorrere a tali espressioni — di «problema» dell’esistenza di Dio, di «prove» a favore o contro la «soluzione» teista di tale problema, e così via. Esprimendoci in questo modo riveliamo — senza averne piena consapevolezza — una mentalità indubbiamente segnata dalla «rivoluzione scientifica» che, esplosa tre secoli fa con Copernico, Galilei e Bacone, non ha ancora finito di stupire con le sue scoperte e di moltiplicare le sue applicazioni tecnicooperative. Non solo il campo «naturale» del mondo fisico, oggettivo, ma anche (con Marx, Darwin, Freud) il campo «umano», il campo del mondo interiore del soggetto come del suo mondo sociale, sono stati sottoposti ad indagini, verifiche e reinterpretazioni di incalcolabile portata. AI di là delle possibili valutazioni di tale «rivoluzione» culturale e sociale, importa sottolineare qui il fatto ch’essa ha contribuito alla formazione di una “visione del mondo” non soltanto scientifica ma addirittura scientista: intendo dire che per l’uomo contemporaneo il sapere scientifico non è un4 delle forme del sapere razionale, quanto il sapere razionale tout court. Ti,

Con tale assolutizzazione del sapere scientifico si è passati dal «dispotismo filosofico» al «dispotismo scientifico», senza capire che la vera liberazione sarebbe «mettere un punto finale a co-

desti tentativi di imperialismo spirituale» (!*). Non c’è bisogno di ricorrere alle raffinatezze dell’epistemo-

logia più elaborata per intravedere come, in una prospettiva scientista, Dio, se pur esiste, sia introvabile. In fondo, uno degli insegnamenti più istruttivi dell'avventura intellettuale del Circolo di Vienna e del «primo» neo-positivismo rimane il fallimento del loro tentativo di ridurre ogni approccio concettuale e linguistico all’approccio scientifico: quando «questa operazione non riuscì dichiararono insensati gli ambiti linguistici irriducibili alla scienza», mentre in realtà —

come è stato notato an-

che di recente (!) — «i neopositivisti pretesero di giocare a scacchi con le regole del rugby; e credettero di aver definitivamente risolto problemi che erano stati invece grossolanamente elusi». (13) Cfr. J. Maritain, «Dell’umana conoscenza», conferenza del 1944 sulla quale riferisce A.H. Winsnes, J. Maritain, tr. A. Motzfeldt, S.E.I., Torino 1960, p. 134. Sull’argomento Maritain si era già soffermato in Science et sagesse (Labergerie, Parigi 1935) e tornerà più ampiamente con Distinguer pour unir: ou les degrés du savoir (Desclée de Brouwer, Parigi 1959). Per una eccellente ricognizione dello scientismo in occasione di un convegno sul contributo maritainiano all’epistemologia delle scienze umane, cfr. E. Agazzi, «Analogicità del concetto di scienza. Il problema del rigore e dell’oggettività nelle scienze umane», in AA.VV., Epistemologia e scienze umane, Massimo, Milano 1979, pp. 57-76. (14) D. Antiseri, Perché la metafisica è necessaria per la scienza e dannosa per la fede, Queriniana, Brescia 1980, p. 15. Il volumetto di Antiseri, a parte osservazioni acute come quella da me ripresa con approvazione, si muove in direzione provocatoriamente antimetafisica («Ma chi si sente addosso il complesso del duce — dai Tomisti agli Hegeliani e ai Neomarzxisti — respingerà la posizione di Kant e parlerà, in contesti diversi, di “veleno kantiano”, così come respingerà la posizione analitica a favore di quei sofismi delle proprie passioni che sono le metafisiche con pretese assolutistiche», p. 102). Sarebbe valsa la pena di confrontarsi con le opinioni del brillante studioso italiano se questo suo lavoro non si fondasse, sfruttandola continuamente, sulla polivalenza semantica del termine «metafisica». Da una pagina all’altra — e talora da una riga all’altra — si passa (surrettiziamente) da un significato ad un altro (talvolta opposto) di metafisica: in tanto vortice di accezioni non si può escludere che, intesa in un certo senso (presumo quello preferito da Antiseri), la metafisica possa essere davvero «necessaria per la scienza e dannosa per la fede». Ma (per fortuna) nella storia della metafisica non vi sono soltanto metafisiche che, ignorando i limiti della ragione, le consentono di «assurgere a ragione assoluta, costrut-

trice di vitelli d’oro, costruttrice cioè di surrogati terrestri della salvezza religiosa» (p. 100).

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In effetti, quando ci si pone alla ricerca intellettuale di Dio

da prospettive scientiste o non si trova alcunché di determinabile empiricamente (neppure indirettamente) e perciò — da quella prospettiva — alcunché di accessibile razionalmente; oppure, se ci si illude di aver trovato Dio per via sperimentale-induttiva, si tratta solo di una sua misera controfigura. Le implicazioni di queste considerazioni sono innumerevoli e, con Maritain, dobbiamo segnalarne almeno alcune. Dal «problema» al «mistero» Ci si potrebbe chiedere, ad esempio, sino a che punto l’interrogativo su Dio sia formulabile nei termini di un «problema» di cui trovare la «soluzione». Su questo punto Maritain non ha esitato, con la signorile apertura mentale che lo contraddistingueva, ad accogliere e far proprie le istanze dell’esistenzialismo postkierkegaardiano, preoccupato di marcare la differenza di piano fra indagini di tipo logico-matematico e sperimentale-induttivo, da un lato, ed indagini di tipo teoretico-ontologico, dall’altro. Ripensando, non senza originalità, una celebre distinzione di Gabriel Marcel, egli nota che «ogni questione posta da una scienza presenta un duplice aspetto: l’aspetto mistero e l’aspetto problema. É un mistero ed è un problema; un “mistero” sotto l’aspetto della cosa, dell’oggetto e della sua realtà extramentale; un “problema” sotto l’aspetto delle nostre formulazioni» (4). Evidentemente «mistero» non ha qui un’accezione prettamente «teologica» Se, infatti, «il tipo sovraeminente del “mistero”, è il mistero soprannaturale, quello che è l’oggetto della fede e della teologia», quello che «concerne la deità stessa, la vita intima di Dio», anche «la filosofia, anche la scienza, hanno attinenza al mistero, a un altro mistero, quello della natura e quello dell’essere». In senso analogico, il «mistero» è «una pienezza ontologica alla quale l’intelligenza si unisce vitalmente, e dove si immerge senza esaurirla (se la esaurisse sarebbe Dio, ipsum Esse subsistens, e l’autore stesso dell’essere)»: perciò non solo una filosofia può interrogarsi sulla dimensione meta-problematica del reale, ma lo deve. «Una filosofia che (15) J. Maritain, Sette lezioni sull’essere e sui primi princìpi della ragione speculativa, tr. M. Bracchi, M. Inzerillo, L. Frattini, Massimo, Milano 1981

(ed. or. 1934), p. 33.

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non avesse il senso del mistero» —

asserisce addirittura Mari-

tain — «non sarebbe una filosofia» (‘9). Non basta però scoprire che «ir ogni attività di conoscenza» i due «aspetti» del «mistero» e del «problema» sono «unit», inseparabili (!"): occorre precisare che «l’uno o l’altro aspetto predomina secondo i diversi tipi di conoscenza e di sapere», soprattutto là dove l’intelligenza si sforza di tematizzare «i segret dell’essere, della conoscenza, dell'amore; delle realtà puramente spirituali; della causa prima (e, al di sopra di tutto; della vita intima di Dio)» (!*). Dalla «prova» alla «via»

Con la nozione di «problema» entrano in crisi, a proposito della domanda su Dio, tutte le nozioni ad essa correlate nell’universo linguistico e conoscitivo degli scienziati e degli scien-

tisti. Si può, ad esempio, intraprendere una ricerca intellettuale di Dio attendendo una «soluzione» confrontabile con la «soluzione» di un problema matematico o di un problema di patologia medica? La domanda su Dio ammette, anzi esige, riflessione e chiarimenti; per certi versi, vere e proprie risposte logiche e cogenti, ma sempre parziali e sempre perfettibili. Si capisce bene, inoltre, la difficoltà che, in coerenza con queste considerazioni, avverte Maritain (insieme a non pochi altri pensatori teisti contemporanei) (‘°) nell’usare il termine ’prova’ a proposito (16) J. Maritain, Setfe lezioni, cit., p. 34. (17) «Il “mistero”, perché l’essere ci sarà sempre in qualche grado, la profondità, lo spessore dell’essere da penetrare; il “problema”, perché noi non possiamo naturalmente penetrare nell’essere se non per mezzo delle nostre formule concettuali, e perché queste si intrecciano naturalmente in problema da risolvere» (J. Maritain, Sette lezioni, cit., p. 35). (18) J. Maritain, Sette lezioni, cit., p. 35 (corsivo mio). (19) Si può rileggere, in proposito, il capitolo III («La prova di Dio») di H. de Lubac, Sulle vie di Dio, tr. M. Morganti, Paoline, Alba 1959 (ed. or. 1956), specialmente la considerazione di p. 115 («Le vie che la ragione prende a prestito per andare a Dio sono prove, e, viceversa, queste prove sono vie. Ciò non toglie ad esse il carattere di prove — sebbene siano spesso prove incomplete — ma il loro Oggetto, unico tra tutti gli oggetti del pensiero, conferisce loro un carattere a parte. Esse mon ce lo donano come le altre prove ci donano più o meno i loro oggetti. Esse non ce lo fanno penetrare. Solo, da una parte, Dio è già presente d’una presenza intima a colui che ne prova l’esistenza, come a colui che la nega. Ma al tempo stesso, d’una presenza così inafferrabile che, solo fra tutti gli oggetti, noi non Lo teniamo ») (corsivo mio).

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dell’esistenza di Dio. É come se egli sapesse che molte intelligenze del nostro tempo sono state confermate nel loro ateismo non dall’inadeguatezza di questa o di quell’altra «prova» dell’esistenza di Dio, quanto — più in radice — dalla sola pretesa da parte dei credenti di addurre «prove»: un Dio che, per ipotesi, potesse essere «provato», sarebbe per ciò stesso ancor degno d’interesse esistenziale? «Ci sia permesso» — nota in proposito Maritain — «di sottolineare quale delicatezza, quale riverenza filiale traspare dalla stessa parola “via” usata da san Tommaso. Queste vie sono prove, dimostrazioni. Ma quando abbiamo a che fare con cose propotzionate © connaturali alla nostra intelligenza, la dimostrazione, pur subordinandosi all’oggetto, tuttavia, in certo qual modo, subordina l’oggetto alla nostra presa, ai nostri mezzi di verificazione che le misurano, lo delimitano, lo

definiscono; si impadronisce dell’oggetto, lo tocca, lo maneggia, lo giudica; e ciò in modo tanto più sensibile quanto più materiali sono i procedimenti di cui la dimostrazione s’avvale. Gli scolastici, che hanno

ricevuto

in eredità l’alta nozione di una

Scienza casta, il cui rigore e la cui intellettualità procedevano da un rispetto religioso e da un’esigenza di purezza di fronte all’essere (e la loro missione è di mantenere questa nozione come un bene sacro), gli scolastici, forse, talvolta dimenticano

a

qual punto le parole “scienza”, “dimostrazione”, “prova” si siano caricate di materialità nell’uso dei moderni, dopo che il pensiero si è orientato, innanzi tutto, a dominare la natura sensibile, e dopo che “verificare” non richiama più al pensiero altro che metodi di misura e apparecchi di laboratorio. Rifiutandosi giustamente ad una terminologia degradata, essi rischiano di non spiegare sufficientemente il loro proprio lessico. Ma, comunque, sanno che dimostrare l’esistenza di Dio non significa sottomettere Dio alla nostra presa, né definirlo, né impadronirsene, né maneggiare nient'altro che idee malferme in confronto a tanto oggetto, né giudicare altro che !a nostra radicale dipendenza. Il procedimento con cui la ragione dimostra che Dio è, mette la stessa ragione in un atteggiamento di adorazione naturale e di ammirazione intelligente» (?°). (2°) J. Maritain, Distinguere per unire. I gradi del sapere, tr. E. Maccagnolo, Morcelliana, Brescia 1974 (ed. or. 1932-1959), pp. 266-267. Maritain, dopo essersi riferito a questo brano, così lo integra in un volume succes-

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4. TERZA INDICAZIONE: LA DOMANDA ESIGE IL SENSO DELL'ESSERE

SU DIO

Molto probabilmente, alla radice dell’impossibilità da parte della mentalità scientista di catturare con la propria rete conoscitiva il «mistero» di Dio, è il fatto ch’Egli — ammesso che esista — è un «oggetto» che non è un «oggetto». O meglio: lo è, se «intendiamo dire che Dio non è soltanto un’idea soggettiva ma un essere reale» (2); non lo è, «nel senso di Gegerstand, di un qualche cosa di cui si potrebbe “disporre”. Egli ha l’oggettività di un Mistero personale» (2°). Per evitare equivoci, si potrebbe asserire che Dio sia una realtà trans-oggettiva. Tra le innumerevoli implicazioni di tale trans-oggettività, non possiamo tacere la considerazione ch’Egli trascende non solo le nostre «immagini», ma persino i nostri «concetti»:

se è, è non

solo l’Inimmaginabile, ma anche l’Inconcepibile (nel senso di Non-concettualizzabile). É proprio qui che ogni versione dello scientismo rivela in pieno il suo micidiale potere paralizzante: sivo: «Queste vie sono prove, ma le parole “prova” e “dimostrazione” possono essere male intese. Provare o dimostrare è, nell’uso corrente, rendere evidente ciò che da sé non lo era. Ora, da una parte, Dio è non reso evidente da noi, non riceve da noi e dai nostri argomenti una evidenza che gli mancava; perché l’esistenza di Dio, che non è immediatamente evidente per noi, è immediatamente evidente i sé — più evidente ir sé che non il principio di identità, poiché essa è infinitamente più di un predicato che faccia parte del concetto d’un soggetto, essa è il soggetto, è la stessa essenza divina (ma per sapere questo con evidenza immediata bisognerebbe veder Dio). D’altra parte, ciò che è reso per noi evidente dai nostri argomenti non è Dio stesso, ma la testimonianza di lui contenuta nelle sue vestigia, i suoi segni o i suoi ‘specchi’ in questo mondo. I nostri argomenti non ci danno l'evidenza della stessa esistenza divina o dell’atto di esistere che è in Dio, e che è Dio stesso — come se potessimo avere l’evidenza della sua esistenza senza avere quella della sua essenza. Essi ci danno soltanto l'evidenza del fatto che l’esistenza divina deve essere affermata, o della verità dell’attribuzione del predicato al soggetto nell’asserzione “Dio esiste”» (J. Maritain, Ateismo e ricerca di Dio, tr. M. Barattini, Massimo, Milano 1982, ed. or. 1953, pp. 60-61). Riferendosi a Systemzatic Theology, in nota Maritain soggiunge: «Peccato che, per non aver visto questa semplicissima distinzione, teologi come il Dr. Paul Tillich, uno dei più notevoli rappresentanti del pensiero protestante negli Stati Uniti, credano che voler dimostrare l’esistenza di Dio significhi negarlo» (p. 61). (21) M. Kleiber, «Il problema dell’oggettività di Dio in Kant. La trasformazione dell’antitesi: soggetto-oggetto», in AA.VV., Processo all’oggettività di Dio. I presupposti filosofici della crisi dell’oggettività di Dio, tr. G. Pagannone, Borla, Torino 1971 (ed. or. 1969), p. 15.

(22) C. Geffré, «Il problema teologico dell’oggettività di Dio», in AA.VV.,

Processo, cit., p. 310.

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vieta infatti di accedere ad una forma di conoscenza che, senza misconoscere l’esperienza sensibile accessibile alle nostre categorie concettuali, ne ricerchi i fondamenti più radicali e gli aspetti più universali. In altri termini, è qui che ogni scientismo rivela la sua vis anti-metafisica, la sua insipienza ontologica, dichiarando «irreale» ciò che gli risulta — e a ragione — «non-immaginabile» e «non-concettualizzabile». Bisogna dunque infrangere la cappa dello scientismo se si vuole non dico «risolvere», ma almeno «aprire», la questione su Dio. E, per realizzare tale emancipazione, occorre innanzi tutto chiedersi se, a prescindere dall’ipotetico Essere divino, vi sia «qualcosa» che l’intelligenza umana possa conoscere in maniera trans-concettuale e che, per ciò stesso, riveli ad essa la la segreta tendenza a trascendere non solo le proprie immagini ma persino le proprie idee. Tocchiamo a questo punto uno dei nodi più cruciali del contributo, davvero magistrale, di Maritain intorno alla nostra questione: se l’indagine su Dio è compromessa tanto spesso 4 priori, lo si deve allo smarrimento del «senso dell’essere» da parte delle mentalità contemporanea di cui siamo, più o meno

consapevolmente,

partecipi. Nella misu-

ra in cui la prospettiva pregiudizialmente scientista è una prospettiva anti-metafisica — in quanto ci preclude, prima ancora che la conoscenza di realtà “al di là” del mondo fisico, la considerazione delle medesime realtà fisiche da un punto di vista “differente” da quello empirico-descrittivo — essa ci impedisce, prima ancora che di rispondere affermativamente alla domanda sull’esistenza di Dio, di impostarla correttamente. Ma procediamo un po’ analiticamente. La via intellettuale per arrivare a Dio non può che essere l’universo materiale ed il soggetto umano che vi è pienamente immerso in tutta la sua concretezza. Questo mondo — così come la nostra realtà personale in esso immersa — non è solo un mondo da ammirare con gli occhi del corpo né solo da misurare con il metro della ragione calcolante: esso, ammirevole esteticamente, misurabile matematicamente, custodisce ricchezze segrete che solo la ragione teoretica riesce a decifrare. Essa vi riconosce infatti delle strutture intelligibili, delle essenze, che rendono ciascun essere ciò che è

e conoscibile: è la famiglia delle innumerevoli «forme»

(«for-

me» interiori, non più esteriori) di cui è popolato l’universo e 85

che, in quanto princìpi di azione in ciascun essente, sono designabili come «nature». Già di fronte a tali «essenze» o «nature» l'intelligenza è come di fronte a un limite: «sa», per analisi razionale, che esse strutturano e determinano ogni realtà sostanziale, ma non ne «vede» che poche, e imperfettamente. Il sole che splende imperioso, la conchiglia che stringo nella mano, hanno certamente un’essenza specifica (per esprimermi più rigorosamente: sono costituiti anche da un’essenza specifica); noi pos-

siamo, risalendo dalle loro operazioni esteriori verso l’interno, individuarne alcune proprietà peculiari; ma, in se stesse, sono forse tali essenze tematicamente contemplabili? Per l’ingegnere l’essenza dell’aereo da lui stesso progettato è conoscibile chiaramente e distintamente, ma le essenze di tutto ciò che non è prodotto dalla mente e dalla mano dell’uomo sono direttamente conoscibili solo nei sogni dei razionalisti come

Cartesio (#).

Il paradosso della dimensione essenziale del reale sarebbe da solo abbastanza scandaloso per lo scientismo (che, infatti, già con Galilei e Bacone ha negato — o, per lo meno, messo fra parentesi — la problematica filosofica delle essenze): ma tale paradosso non è l’unico, né il più scandaloso. Se di «sole» o di «conchiglia» non posso formulare «il» concetto adeguato ed (2) «Una fissazione dell’intelligenza pura ed attenta in questo, o in quell'oggetto di pensiero, dai contorni decisi, libero d’ogni piega interna d’implicito o di virtuale, afferrato in pieno e per intero, da uno sguardo assolutamente originale e primo, e con una certezza di cui esso è da sé solo la singolare ragione. Ecco ciò che Cartesio chiama intuizione, intuitus, ed è a questo che oramai nella mente conoscente tutto si riduce» (J. Maritain, Tre riformatori. Lutero, Cartesio, Rousseau, tr. A. Pavan, Morcelliana, Brescia 1964, ed. or. 1937, pp. 97-98). Cfr. anche J. Maritain, Le sorge de Descartes suive de quelques essaîs, Buchet Chastel, Paris, s.d., specialmente le pp. 70-73 che appartengono ad un articolo apparso originariamente nel 1922, dove fra l’altro si legge: Dans la conception d’Aristotele et de saint Thomas, notre science porte bien sur toute l’étendue du réel, en cè sens que dans toute réalité elle peut trouver où se prendre, mais, parce quelle procède par voie d’abstraction, elle s'arréte en toutes choses à das zones d’intelligibilité assez haute et pour ainsi dire décantée, et en ce sens on peut dire qu'une partie du réel seulement — les lois essentielles de l’étre et des natures abstraites, ou leurs succédanés expérimentaux, — peut étre pour nous objet de science, c’est-à-dire de certitude démonstrative; il y a des choses qui ne sont pas objet de science humaine. [...] Descartes au contraire, qui, avec tous les modernes, fait consister la science dans l’invention plus que dans le jugement, a l’ambition d’une Science qui, d’un seul et méme mouvement, démontre en découvrant, ou découvre en démontrant, installée dès l'origine en pleine certitude, et qui rejette de soi, comme attentatoire à son étre, tout élément simplement probable.

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esauriente, posso però elaborare «dei» concetti che, convergentemente, mi avvicinano alla visione intellettuale delle loro «essenze». Quand’anche, però, riuscissi — più o meno definitivamente — a cogliere l’essenza di questo o di quell’altro essente (sì da conoscere la struttura intelligibile del sole o della conchiglia altrettanto bene che la struttura intelligibile dell’aereo o

della casa), avrei compreso davvero l’essente nella sua integralità?

No di certo. Siamo a quel nodo cruciale del contributo maritainiano che segnalavo sopra. La conoscenza pienamente umana non è una conoscenza solo concettuale: se fosse tale, le sfuggirebbe ancora l’«atto d’essere», l’energia esistenziale grazie alla quale un’essenza non è più soltanto «possibile» ma «attuale», reale, concreta (nel senso di «non-astratta»). Sappiamo tutti quanto impegnativi siano gli interrogativi sul modo in cui, secondo Maritain, sia conoscibile l’«essere come atto» (*): qui

mi preme evidenziare che l’essere, secondo il pensatore francese, in quanto (tomisticamente) atto di ogni atto e perfezione di ogni perfezione, trascende non solo la mia «immaginazione», ma anche la mia «intelligenza concettualizzatrice». L’esse è “qualcosa”, perché non è “nulla”, ma non è una “cosa”: non ha perciò un’essenza o, per parafrasare Gilson, ha per essenza di non essere un'essenza (”). Di fronte all’esse, all’atto d’essere dell’essente, siamo di fronte ad un «dato primitivo e originale, essenzialmente sopra-osservabile » (*), anzi —addirittura — «sovrintelligibile» (7).

Ecco dunque che di fronte all’atto d’essere del più minuscolo, del più effimero, del più trascurabile degli essenti, la mia intelligenza sperimenta la propria tensione verso il superamento (24) Per una chiara e perspicace esposizione della questione, con un’interessante tentativo di soluzione, cfr. L. Elders, «La connaissance de l’étre et l’entrée en métaphysique» in Atti dellVVIII Congresso Tomistico Internazionale, Libreria Editrice Vaticana, Roma 1981, vol. I, pp. 273-290. (2) Cfr. E. Gilson, L’étre et l’essence, Vrin, Paris 1962, pp. 326-332. Del medesimo Gilson, amico con cui Maritain ha lottato amorevolmente perché la resa di entrambi alla verità fosse quanto più totale possibile, è interessante in proposito «La conoscenza dell’essere», in AA.VV., Esistenzialismo, Atti della Settimana di studio indetta dall'Accademia di S. Tommaso, 8-13 aprile 1947, Marietti, Torino 1947, pp. 103-114. (26) J. Maritain, Sette lezioni, cit., p. 82. (27) J. Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell'esistente, tr. L. Vigone, Morcelliana, Brescia 1965 (ed. or. 1947-1964), p. 32.

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della concettualizzazione ed — inseparabilmente — i limiti costitutivi di tale dinamismo. Ed è proprio seguendo questa direzione, portando sino alle estreme conseguenze questo dinamismo non soltanto metempirico ma decisamente metaconcettuale, che si può intraprendere — senza pregiudizi scientisti — la ricerca i del vero Dio. Se Egli, infatti, non è un corpo rappresentabile, non è neppure un'essenza concepibile; anzi, per esprimersi rigorosamen-

te, non è neppure un essente, fosse pure l’Essente supremo (in quanto non è — al pari di ogni essente — ontologicamente

strutturato

come

sintesi

d’essenza

ed atto

d’essere).

Egli è sic et simpliciter: è, assolutamente, l’Essere. È Atto d’essere sussistente, infinito, perfetto. La sua «essenza» — se gliene si potesse attribuire una — sarebbe precisamente il suo atto d’essere, necessario e incircoscritto, inconfondibile con l’atto d’essere, contingente e circoscritto dalla propria essenza, di ogni altro essente . «Il colpo più duro contto Dio» — ha scritto in una pagina molto severa Heidegger — «non consiste nel ritenerlo inconoscibile, nel provare la indimostrabilità della sua esistenza [...]. Questo colpo non viene inferto da coloro che stanno a vedere e non credono in Dio, ma dai credenti e dai loro teologi che parlano del più essente degli enti senza mai impegnarsi a pensare l’essere stesso e senza quindi rendersi conto che quel parlare e questo pensare, considerati in base alla fede, sono la pura e semplice bestemmia di Dio, una volta mescolati alla teologia della fede» (2). É facile riconoscere che tale severità heideggeriana non colpisce pensatori come Maritain, proprio perché esigono il serso dell’essere quale requisito essenziale del senso dell’Essere, del senso di Dio. Anzi, per essere sinceri sino in fondo, bisogna aggiungere che Maritain, da fedele discepolo di Tommaso d’Ax quino (?), non solo è stato capace di cogliere perspicacemen(28) M. Heidegger, La sentenza di Nietzsche, pp. 238-239. (2) Hocercato di dimostrare questo passaggio in «L'essere supremo della metafisica o il Dio vivente della Rivelazione?», in AA.VV., Il problema di Dio in filosofia e în teologia oggi, Massimo, Milano 1982, pp. 135-145.

Cfr. anche i riferimenti di Gilson, più o meno espliciti, alle critiche hei-

deggeriane in Introduzione alla filosofia cristiana, tr. A. Bettini, Massimo,

Milano

88

1982 (ed. or. 1960). A p. 128, ad es., si legge:

«Un filosofo con-

te e di rispettare gelosamente la «differenza ontologica» fra essenti ed essere, ma l’ha condotta ancora più avanti rispetto allo stesso Heidegger. Affermando, infatti, con chiarezza, senza ambiguità, la struttura petsonale dell’Essere supremo blocca la strada ad ogni possibile esito panteistico-immanentistico del filosofare, esito che finirebbe col rinnegare il guadagno della «differenza ontologica» e che non può certo ritenersi estraneo al

filosofare del medesimo Heidegger (*). : Ma, con ciò, arriviamo ad una quarta indicazione di Maritain circa la domanda su Dio: indicazione tanto determinante da potersi considerare in qualche modo conclusiva. 5. QUARTA INDICAZIONE: OGNI POSSIBILE APPROCCIO INTELLETTUALE AL MISTERO DI DIO IMPLICA UN NUCLEO PERMANENTE QUASI-INTUITIVO

Facendo leva sul senso dell’essere, può capitare che si pervenga ad affermare con certezza interiore che Dio è: ma quasi mai si riconoscerà in tale certezza un «sapere». Si dichiarerà piuttosto che si è arrivati a «credere» in Dio, a «sentirlo», a «presentirlo», o — se mai — ad «intuirlo»: ma ci si rifiuterà fermamente di riconoscere nella propria affermazione la conclusione di un ragionamento. temporaneo ha rimproverato ai metafisici d’altri tempi di essersi soffermati troppo a lungo sul problema dell’ente (das Seiende) senza affrontare quello dell’essere (das Sei). Forse non comprendiamo l’esatto senso del rimprovero, perché ci sembrerebbe piuttosto che i metafisici più profondi; da Platone a Tommaso d’Aquino e oltre fino al nostro tempo, abbiano sentito l’urgenza di oltrepassare il piano dell’essenza per raggiungere quello della fonte e causa dell’essenza. A parte le altre, la metafisica dell’esse costituisce il. tipico caso di una ontologia che rifiuta espressamente di fermarsi al livello dell’ente e si spinge fino a quello dell’essere, dove l’ente attinge la sua fonte. Vero è che, una volta là, il metafisico non riesce quasi mai a evitare di parlare dell’essere in modo diverso che nel linguaggio del. l’ente, ma chi glielo rimprovera fa esattamente la stessa cosa. L'errore sta solo nel dichiarare che a partire da domani si comincerà seriamente a parlare del Seiz, quando in realtà si vuol dire che ormai da tempo se ne dovrebbe. parlare». Pagine prima, più esplicitamente, Gilson aveva argutamente notato: «Sappiamo con certezza fondamentale che l’essere è, che è ciò che è, e non può essere altro, ma è ben altra faccenda sapere che cosa esso sia. Ne parliamo da ben venticinque secoli e neppure Martin Heidegger ha ancora trovato la risposta a questa domanda» (p. 76). (39) La duplice serie di ragioni che inducono a ritenere Heidegger, nonostante i suoi preziosi passi in senso contrario, legato all’immanentismo l'ho esaminata nel contributo sopra citato. «È ancora possibile un umanesimo? Senso dell’essere e senso dell’uomo», p. 105-119.

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In effetti, occorre molta precisione per capire bene come stiano le cose. La distinzione che, preliminarmente, suggerisce Maritain concerne «due piani di accesso differenti - un piano pre-filosofico dove la certezza è immersa in una esperienza intuitiva, e un piano scientifico e filosofico dove la certezza emana da una dimostrazione logicamente elaborata e da una giustificazione metafisica razionalmente sviluppata» (*). Ora, se la esaminiamo attentamente, la conoscenza «intuitiva» di Dio che è possibile di fatto e di diritto a livello «pre-filosofico» non è una pura e semplice intuizione. È piuttosto una conoscenza che si fonda su alcune intuizioni e che approda ad altre intuizioni,

ma che, inseparabilmente, implica un «ragionamento senza parole, la cui concentrazione vitale e la cui rapidità rischiano di essere tradite se lo si esprime nel discorso» (*). Non possiamo in alcun modo misconoscere la preziosità di questo «moto della ragione umana per avvicinarsi a Dio» che è «un ragionamento raturale, cioè di tipo intuitivo, irresistibilmente mantenuto e vivificato da un capo all’altro nel lampo intellettuale dell’intuizione dell’esistenza» (*); d’altra parte, non possiamo neppure accontentarcene. Esso va ripreso, vagliato cri-

ticamente, corretto e rafforzato sul piano «scientifico e filosofico», là dove soltanto si può attingere una «certezza [...] cri tica», implicante cioè che «mediante l’esame delle relazioni e necessità razionali siano state sormontate le difficoltà inerenti alla questione» (*).

Ma come si profila questo germe vitale che, debitamente coltivato, può acquistare le dimensioni di una via rigorosa verso Dio e che, in certo modo, permane come nucleo vivificante d’ogni possibile argomentazione tecnicamente teoretica? Maritain lo espone in un saggio del ’47 (*) e lo riprende, quasi alla lettera,

(31) J. Maritain, Ateismo e ricerca di Dio, cit., p. 92. (32) J. Maritain, Alla ricerca di Dio, tr. M. Mazzolani, Paoline, Roma 1968 (ed. or. 1953), p. 13. Si tratta della medesima opera di Maritain citata nella nota precedente: il confronto con l’originale francese mi ha però indotto a scegliere, per questa seconda citazione, la traduzione (autorizzata da Maritain) più antica. (33) J. Maritain, Ateismo e ricerca di Dio, cit., p. 59. (3) Ibidem. (35) J. Maritain, Un nuovo approccio a Dio, ora in Ragione e ragioni, cit., pp. 132-154.

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in un volume del ’53 (#). Vari critici lo hanno ripresentato e commentato in maniera analitica (#): qui vorrei solo proporne una lettura “essenzializzata”. Dicevo sopra che l’itinerario a Dio rilevato da Maritain come più «spontaneo»,

«innocente» (*), presuppone

un

vivo

senso

dell’essere e proprio in esso trova la pista di decollo necessaria. Più precisamente, a suo avviso «l’intuizione primordiale» dell’essere implica, al proprio interno, «tre passaggi»: «l’intuizione primordiale dell’essere è l’intuizione della solidità e della inesorabilità dell’esistenza, e, secondariamente, della morte e del nulla cui /a mzi4 esistenza è soggetta. E, in terzo luogo, nello stesso lampo d’intuizione [...], io mi rendo conto che questa salda e inesorabile esistenza percepita in qualsiasi cosa, implica — non so ancora sotto quale forma, forse nelle cose stesse, forse separatamente da loro — una esistenza assoluta e irrefragabile, del tutto libera dal nulla e dalla morte» (*). L’«intuizione

naturale dell’essere»

(‘*) (nella sua triplice di-

mensionalità) è la prima «tappa»: la «seconda tappa» è quel «ragionamento senza parole» che «sorge immediatamente, quale frutto necessario di tale appercezione primordiale, e come imposto dalla luce e sotto di essa» (‘). Se, comunque, il ragionamento rapido e quasi-inconscio potesse diventare “parola”, esso si strutturerebbe essenzialmente così: a) «L’essere-con-il-nulla [...] implica, per essere, l’essere-senza-il-nulla» (*#); b) sia il

mio essere che l’essere della natura da cui immediatamente dipendo si presentano come «essere-con-il-nulla»; c) dunque «l’essere-senza-il-nulla» deve esistere «separatamente»: deve trascen-

(36) È il volume Approches de Dieu di cui ho già citato le due traduzioni italiane. (37) Probabilmente il contributo più accurato resta A. Gnemmi, «Conoscenza metafisica e ricerca di Dio in Jacques Maritain. II: La ricerca di Dio», in Rivista di filosofia neo-scolastica, LXIV (1972), III, pp. 485-517. Meno attento alla dimensione propriamente teoretica mi è sembrato A.M. Moschetti, «La via esistenziale a Dio», in AA.VV., Jacques Maritain, Morcelliana, Brescia 1967, pp. 289-318. (38) J. Maritain, Afeiszo e ricerca di Dio, cit., p. 59. (39) J. Maritain, Ateismo e ricerca di Dio, cit., pp. 56-57. (4) J. Maritain, Alla ricerca di Dio, cit., p. 11. (4) J. Maritain, Alla ricerca di Dio, cit., p. 13. (4) Ibidem.

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dere, cioè, sia il mio essere che «il tutto universale di cui io sono una parte» (*).

Abbiamo così un principio ontologico (‘‘visto”’ attraverso l’appercezione primordiale dell’essere); un dato fenomenologico (anch’esso visto attraverso la medesima appercezione primordiale in quanto rivolta all’essere dell’io finito o del non-io circostante);

(‘‘dedotta” consequenzialmenun’inferenza dialettico-razionale te). Misurare la validità di questo, sia pur fulmineo, “ragionamento” implicherà sondare la fondatezza delle due “premesse” e della “conclusione’’. Nell’impossibilità di realizzare compiutamente tale “verifica”, dovremo accontentarci di alcuni chiatimenti più rilevanti. Abbiamo notato che l’ubi consista, il trampolino di lancio, è l’apprensione dell’essere. Maritain stesso ha tentato di sintetizzare i tre volti di tale apprensione primordiale (*) ma, ancor più sinteticamente, si potrebbe ridurre all’asserzione, di per sé evidente e come tale incontrovertibile di diritto, che “ciò che è, 0 è necessario o è contingente e relativo ad un necessario”. Tale asserzione, in cui potrebbe prender “forma” l’apprensione “informale” dell’essere, può dunque fungere da “primo anello” del “ragionamento” teoretico: l’essere contingente implica l’essere necessario. Maritain non lo dice, ma non sarebbe questa una “versione” del principio di non-contraddizione? Affermare

che «l’essere-con-il-nulla

[...] implica, per essere,

l’es-

sere-senza-il-nulla» non equivale ad affermare che, a fondamento del reale, non può che essere un Essere che escluda, radicalmente il non-essere? Ciò che si sta affermando è l’identità originaria dell’essere con se stesso o — in termini equivalenti — ciò che si sta negando è la commistione originaria dell’essere con il nulla. Sarebbe interessante notare che ritenere opinabile, o addirittura falsa, tale originaria contraddittorietà di essere e di non-essere implicherebbe, per coerenza, l'ammissione della originarietà del non-essere. Che è precisamente il caso di Sartre: il quale proprio partendo dalla negazione del principio enunziato da Mari(4) Ibidem. (44) «L'intelligenza giunge all’esistenza attuale come esistenza che si afferma indipendentemente da me; da questa pura esistenza oggettiva alla mia esistenza minacciata, dalla mia esistenza abitata dal nulla alla esistenza assoluta» (J. Maritain, Alla ricerca di Dio, cit., p. 12).

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tain (partendo cioè dalla coappartenenza di essere e di non-essere, dall’asserto che l’essere-con-il-nulla o essere contingente non implica l’essere-senza-il-nulla o essere necessario) (*) perviene, coerentemente, alla dichiarazione dell’inintelligibilità intrinseca del reale tutto (‘). Ma non basta il principio — in sé evidente — che “qualcosa non può non essere necessario”: perciò, in quella che potremmo considerare la ‘premessa minore” del «ragionamento», si evidenzia la non-necessarietà di tutto il mondo esperienziale (del soggetto sperimentante come degli oggetti sperimentabili). «Vedo prima di tutto che il mio essere è soggetto alla morte, e, secondariamente,

che esso dipende da tutta la natura, dal tutto

universale di cui io sono una parte [...]. Ma anche il tutto universale di cui io sono una parte è essere-con-il-nulla, per il fatto che io ne sono una parte» (*): questa, in schizzo, la fenomenologia della contingenza dell’essere esperibile. Anche a questo proposito sarebbero numerosissime le osservazioni (anche critiche) da considerare; ma mi limito a quella forse veramente inevitabile. Se sono una parte dell’universo, l’universo è — almeno in quanto gli appartengo — affetto dal non-essere: contenendo me, infatti, esso contiene un essere-con-il-nulla, un essere ammalato di reversibilità verso il nulla. Tutto ciò l’esistenzialismo, da

Kierkegaard a Sartre, l’ha visto in maniera molto penetrante. Ma come è possibile, allora, il panteismo (e come sono possibili, in generale, tutte le visioni monistiche ed immanentistiche che identificano tout court l'universo con l’essere-senza-il-nulla)?

Essenzialmente considerando l’îo non una “parte”, ma un “mo(45) «L'essere è senza ragione, senza causa e senza necessità: la definizione stessa dell’essere ci dà la sua contingenza originale» (J.P. Sartre, L’essere e il nulla, tr. G. Del Bo, Il Saggiatore, Milano 1965, ed. or. 1943, p. 743). (4) «La parola Assurdità nasce ora sotto la mia penna»: essa è «la chiave dell’Esistenza». «Ma qui vorrei fissare il carattere assoluto di quest’assurdità. Un gesto, un avvenimento nel piccolo mondo colorito degli uomini non è mai assurdo che relativamente: in rapporto alle circostanze che l’accompagnano. I discorsi d’un pazzo, per esempio, sono assurdi in rapporto alla situazione in cui si trova, ma non in rapporto al suo delirio. Ma io, poco fa, ho fatto l’esperienza dell’assoluto: l’assoluto o l’assurdo». «Il mondo delle spiegazioni e delle ragioni non è quello dell’esistenza» (J.P. Sartre, La Nausea, tr. B. Fonzi, Mondadori, Milano 1965, ed. or. 1938, pp. 184-185). (47) J. Maritain, Ateismo e ricerca di Dio, cit., p. 57.

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mento” del Tutto. È necessario “ridurre” l’essere finito del singolo soggetto ad “epifenomeno” provvisorio, quasi irreale, dell'universo per poter continuare a pensare quest’ultimo come essere necessario, assoluto, senza-il-nulla. Sarà casuale, da questo punto di vista, la tendenza — comune a visioni monistiche d'’ispirazione molto differente (quali il buddismo, l’idealismo hegeliano, il materialismo dialettico) — a misconoscere la consistenza, sia pur relativa, del soggetto individuale nei confronti della Totalità cosmico-storica? Se però riconosciamo, anche rispettando l’attestazione dell’autocoscienza la relativa autonomia del nostro io rispetto al contesto mondano in cui siamo profondamente inseriti, dobbiamo riconoscere che il “mondo” nella sua globalità è non-necessario, almeno nella misura in cui non lo siamo noi che ne costituiamo un elemento reale.

Perciò — è la conclusione formulata da Maritain — vi «è un altro Tutto, — separato —, un altro Essere, trascendente e sufficiente a se stesso e sconosciuto in se stesso, e che vivifica tutti gli esseri, che è l’Essere-senza-il-nulla, vale a dire l’Essere di per sé» (‘). Asserire che «l’Esistenza assoluta o l’Essere senza-il-nulla trascende l’intera natura» (4) equivale ad asserire che Dio è: ed è l’asserzione “essenziale” di ogni monoteismo creazionistico (ebraico, cristiano, islamico o “anonimo”). Che il cammino verso tale asserzione monoteistica sia perfettibile, anzi da perfezionare, in maniera sempre più rigorosa ‘““dialetticamente”, è riconosciuto universalmente (anche dal medesimo Maritain); ma è

importante ricordarsi che l’uomo del nostro tempo «è divenuto cosciente» in modo nuovo «della semplicità e del potere liberatore, del carattere naturale e, in certo modo, intuitivo» (*) di

questo non-nuovo itinerario intellettuale a Dio. Perciò qualsiasi ulteriore elaborazione speculativa che finisse con l’allontanarsi in radice da tale itinerario “spontaneo” dell’intelligenza, finirebbe col tranciare il cordone ombelicale che la lega alla matrice autenticamente vitale del filosofare.

(48) Ibidem. (49) J. Maritain, Ateismo

(50) Ibidem.

94

e ricerca di Dio, cit., p. 58.

GIUSEPPE SAVAGNONE della Comunità «Cristo Sapienza»

La verità in Maritain

1. LA SETE DI VERITA

Raîssa Maritain narra un episodio che può essere estremamente

significativo per comprendere il senso profondo del discorso sulla verità di Jacques Maritain. Durante un pomeriggio d’estate passeggiavano, lei e Jacques, appena ventenni, nell’orto botanico, a Parigi. Due giovani studenti della Sorbona, che dopo anni di consuetudine con la cultura «ufficiale» scoprivano di aver appreso soltanto a dubitare di tutto e che quel giorno si trovavano a tirare le somme di questo fallimento con particolare amarezza e angoscia. «Se dobbiamo rinunciare a trovare un senso qualunque alla parola verità, alla distinzione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, non è più possibile vivere umanamente»

(!). In

questa atmosfera maturò una scelta terribile: essi decisero, quel pomeriggio, di proseguire ancora per qualche tempo la loro ricerca e poi, se essa fosse ancora rimasta infruttuosa, di suicidarsi. «Volevamo morire con un libero rifiuto, se non era possibile vivere secondo la verità» (7). Tutta la vita di Jacques e Raissa Maritain può riassumersi in questo cammino verso la verità che non avevano e — quando finalmente la trovarono — nell’instancabile esplorazione della ve-

rità che si era loro manifestata. Per amore della verità essi furono pronti a un certo momento, dopo l’incontro col cristianesimo, ad abbandonare perfino la filosofia (*), che poi però fu loro restituita quando, incontrato

san Tommaso,

scoprirono che «la

(1) R. Maritain, I grandi amici, tr. di I. Spanu De Zolt, Vita e Pensiero, Milano 1962, pp. 74-75.

(2) Ivi, p. 76.

(3) Ivi, p. 150.

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grazia perfeziona la natura e non la distrugge» (*) e che a chi è pronto ad abbandonare tutto per il regno di Dio il resto viene dato in sovrappiù. Molti anni dopo — quando ormai Raîssa era morta — Jacques Maritain non si era ancora stancato di insistere sul tema della verità: «È più necessario che mai — insegnava quest'uomo di ottantatrè anni — che i cristiani riflettano sulla verità. Poiché è il senso stesso della verità che oggi è obliterato e minacciato dai più» (5). Obliterato e minacciato dagli stessi cristiani, se è potuto accadere che essi, in talune occasioni, abbiano confuso il dialogo con l’abdicazione alla verità e sostituito quest’ultima con l’efficacia (9). Ma il cristiano non può tradire la verità senza tra-

dire il proprio cristianesimo, perché la verità è Dio stesso: Egli è la Verità sussistente, di cui tutte le altre, naturali e soprannaturali, sono un riflesso (7). «Non è possibile per un cristiano essese relativista» (*). 2. GRANDEZZA

E MISERIA

DELL’INTELLIGENZA

UMANA

Non si ritrova il senso della verità se non riscoprendo il valore dell’intelligenza. Il rifiuto della verità da parte di Nietzsche non è stato forse l’ultimo atto di un dramma che ha visto l’intelligenza tradita e misconosciuta nel corso di tutta la filosofia moderna? Perciò è ‘all’intelligenza che bisogna ritornare, respingendo i suoi poveri surrogati — il sentimento, la volontà e quanti altri ingredienti sono stati utilizzati dall’irrazionalismo per rimpiazzare il lume intellettuale (?). Più generalmente, si può affermare che «il male di cui soffrono i tempi moderni è innanzi tutto un male dell’intelligenza» (19). Essa è lo sguardo dell’uomo sulla realtà, e quando questo sguardo si oscura è tutta intera la vita umana che si atteggia in modo di(4)J. Maritain, «Approches sans _entraves». Scritti di filosofia cristiana, tr. di G. Mura, pref. di E. Korn, Città Nuova, Roma 1977, vol. I, p. 38. (5) Ivi, p. 33. (6) Cfr. J. Maritain, Il contadino della Garonna, tr. di B. Tibiletti, Morcelliana, Brescia 1980, pp. 138-144. (7) Ivi, p. 136.

(8) Ivi, p. 136. (9) Cfr. J. Maritain, Réflexsions sur l’intelligence et sur sa vie proprie, Desclée De Brouwer Paris 1930, pp. 36-37. 59 J. Maritain, Le Docteur Angélique, Desclée De Brouwer, Paris 1930,

p.

96

86.

storto nei confronti delle cose, degli altri uomini, di Dio. E san Tommaso può ben essere considerato «l’apostolo dei tempi moderni» perché la sua è «la santità dell’intelligenza»

(!). Egli è

colui che meglio di tutti ha visto la sua grandezza perché meglio di tutti ne ha visto i limiti. Perché l’intelligenza dell’uomo, non bisogna dimenticarlo, è la più imperfetta — inferiore a quella dei puri spiriti angelici e, a maggior ragione, a quella divina. Essa deve servirsi, per entrare in contatto con la realtà, dell’opera dei sensi e, ben lungi dal poter cogliere la verità con uno sguardo semplice e puro, deve procedere di tappa in tappa nel processo discorsivo della ragione. Si comprende la tentazione di Descartes, che ha voluto immaginare l’intelligenza umana sul modello di quella angelica, riffutando di vederne la povertà (!). Ma proprio questo orgoglioso rifiuto dei propri limiti creaturali costituisce la più grande povertà dell’intelligenza e la causa della sua rovina. Essa si estrania, allora, dalla ricchezza dell’essere e va per luoghi aridi, senza trovare riposo. Poiché non accetta di lasciarsi misurare dall’essere — e, in ultima istanza, dal Dio che l’ha creata — essa tradisce la propria vocazione e coinvolge nella propria rovina tutta l’uomo. «San Tommaso ama Dio più dell’intelligenza, ma ama l’intelligenza più di quanto l’abbiano amata tutti i filosofi. Per questo può restaurarla, ricordandole i suoi doveri. La trae fuori dalla sua viltà, le rende il coraggio di affrontare le verità supreme. La trae fuori dalla sua vanagloria, la piega a misurarsi sulle cose e ad ascoltare una tradizione. Le insegna di nuovo le due virtù complementari che essa aveva perduto insieme, la magnanimità e l’umiltà» (9). Ma una volta restituita alla sua autenticità, l’intelligenza può e deve essere amata come un «prodigio di luce e di vita» (!). È l’intera attività conoscitiva — di cui il momento supremo è quello intellettuale — che va riscoperta nella sua nascosta grandezza. Maritain non si stanca di richiamare la nostra attenzione di uomini distratti, incapaci di quel sano stupore che è la giovinezza dello spirito, sul prodigio che si compie quotidianamente nel più (11) Ivi, p. 94. (12) Cfr. J. Maritain, Tre riformatori. Lutero, Cartesio, Rousseau, tr. di A. Pavan, intr. di G. Montini, Morcelliana, Brescia 1979, p. 95 e ss. (13) J. Maritain, Le Docteur Angélique, cit., pp. 105-106. (14) Ivi, p. 87.

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piccolo atto conoscitivo: «È una cosa veramente sconvolgente la conoscenza, ed essa ci apparirebbe ben straordinaria se noi non fossimo tanto abituati alle sue meraviglie: ognuno di noi, un povero punto nel grande universo, un’anima d’uomo che non ha alcun peso, ecco che abbraccia e contiene il tutto, eccola più vasta del mondo!» ().

Maritain ne è stato a tal punto affascinato che ha dedicato a questa realtà la parte più consistente della sua opera; lo testimoniano gli stessi titoli di alcuni tra i suoi libri più importanti: Réflexions sur l’intelligence et sur sa vie propre, Les degrés du savoir, Science et sagesse. AI di là di questo dato puramente quantitativo, tutta la riflessione del pensatore francese è dominata

dalla scoperta dell’immensa ricchezza dell’atto conoscitivo e dalla passione di penetrarne il mistero, sotto la pesante maschera delle deformazioni che il pensiero moderno vi ha sovrapposto. Eppure nessuno più di Maritain è stato estraneo — anzi ostile — a quel primato della gnoseologia che ha caratterizzato tutto lo sviluppo della filosofia occidentale negli ultimi tre secoli e mezzo. Nella prefazione a Réflexions sur l’intelligence l’autore stesso precisa di che cosa si tratti quando avverte che l’opera ha un senso solo «per gli spiriti che riconoscono la legittimità e il primato del punto di vista metafisico». E continua: «I problemi che concernono la natura e il valore della conoscenza non sono

[...] di

competenza della psicologia e di uno studio, anche “trascendentale” del contenuto della coscienza. Essi sono di competenza del metafisico, voglio dire che dipendono da una luce che è quel. la del grado d’astrazione metafisico. La metafisica del conoscere

forma

normalmente

l’introduzione

della metafisica

dell’essere.

Quando si tratta del dominio proprio dell’intelligenza, bisogna dire al passante di buona volontà: che nessuno entri qui se non è metafisico» (6). Ci troviamo dunque di fronte a una «metafisica del conoscere» — impostazione ben inconsueta per la nostra mentalità ma che corrisponde a quanto aveva già fatto san Tommaso, a cui Maritain esplicitamente, come abbiamo visto, si ricollega (17). (15) J. Maritain, Réflexions sur l’intelligence, cit., p. 49. (16) Ivi, p. 7.

(12) Cin}: Vande Wiele, «Le problème de la vérité ontologique dans la O de saint Thomas», in Revue philosophique de Louvain, 1954

, p.

98

549.

E d’altronde non c’è da stupirsi di una simile prospettiva, dato che il conoscere, secondo i commentatori tomisti a cui Maritain si ispira frequentemente, in quanto attività immanente — che ha

il suo termine cioè nel soggetto e non fuori di lui — è più un modo di essere, una sua perfezione, che non una attività nel senso corrente del termine. O, per essere più precisi, è quella suprema attività in cui l’essere del soggetto conoscente attua compiutamente il proprio dinamismo e si realizza, così, anche su un piano ontologico. Certo, una simile impostazione è legittima solo a patto di non confondere l’essere di natura con quello intenzionale, presente solo nella mente dell’uomo; il che è possibile a Maritain grazie alla concezione analogica dell’essere che egli ha ereditato da san Tommaso e che ha sviluppato con particolare cura nelle sue opere metafisiche. 3. IL PENSIERO

E L'ESSERE

Per quanto importante sia il ruolo della conoscenza sensibile (8), il problema della verità dipende dunque, in primo luogo, dal valore che si dà all’intelligenza e, in particolare, da come si concepisce il rapporto fra l’intelligenza e l’essere. Maritain a questo proposito, ha avuto presenti due possibili errori, di cui la storia della filosofia dà ampia testimonianza, e che esprimono in modo estremo e unilaterale aspetti reali della conoscenza. Il primo consiste nell’avvicinare troppo la realtà e il pensiero, fino al punto da concepire la prima come del tutto identica al secondo e dotata dei medesimi caratteri delle rappresentazioni che si trovano in esso. A livello di semplice apprensione concettuale questa posizione porta alla soluzione platonica, con la conseguente ipostatizzazione delle idee. A livello di giudizio, ne risulta la tesi dei Megarici, che negavano la possibilità di attribuire un predicato a un soggetto dicendo che ciò sarebbe significato identificare due realtà diverse tra di loro. A livello di ragionamento, infine, questo errore ha la sua espressione nella dottrina hegeliana secondo cui la realtà coincide con la logica nel suo dispiegarsi (1°). GE

(18) Cfr. J. Maritain,

Réflexions

sur l’intelligence, cit., p. 31, nota

1,

p. 32, nota 1. (19) Ivi, pp. 14-16.

99

Il secondo errore è quello dell’idealismo moderno, che Maritain vede preannunciata in quella che egli chiama «la rivoluzione cartesiana», di cui quella operata da Kant non è stata, a suo avviso, se non uno sviluppo e un completamento. È la posizione contraria alla precedente: qui il pensiero e l’essere vengon separati e resi incomunicabili, cosicché se essi corrispondono l’uno all’altro —

come

ancora accade in Cartesio —

non si compenetrano

però vitalmente, ma restano giustapposti e collegati da un ter mine estrinseco (nel caso della filosofia cartesiana, dal Dio verace). Quando questo termine viene liquidato, nello sviluppo della speculazione successiva, all’intelligenza non resta che concepire la verità non come una corrispondenza alla realtà, bensì come «l’accordo della conoscenza con se stessa», secondo la formula di Kant o, che è lo stesso, come una costruzione dello stesso pensiero (2°). Maritain ritiene insostenibili entrambe le posizioni. Per quanto opposte, esse hanno in comune un punto debole: non tengono conto della possibilità dell’errore. È il caso della prima: se la realtà e i contenuti del pensiero fossero perfettamente omogenei, alla base di ogni nostra idea dovrebbe sempre esservi una realtà ad essa identica. L’errore introdurrebbe una frattura tra i due termini che, nella teoria in questione, è inammissibile, perché allora essa dovrebbe concedere che può esservi rappresentazione senza realtà corrispondente. Per quanto riguarda la seconda posizione, il ragionamento deve fare appello ai primi princìpi. Se veramente noi non conoscessimo la realtà, ma soltanto delle nostre rappresentazioni — se, in altri termini, la nostra intelligenza non fosse in contatto col mondo esterno, ma sempre ed esclusivamente con se stessa, come risulta dalla impostazione cartesiana e, più nettamente ancora, da quella kantiana — allora l’errore non sarebbe possibile perché mancherebbe un punto di riferimento esterno alla coscienza rispetto a cui dire che una certa idea sia sbagliata. Tutte le nostre opinioni sarebbero dunque vere, anche quelle che si contraddicono vicendevolmente. Sarebbe vero A e sarebbe, al tempo stesso e sotto lo stesso aspetto, non-A. Ma ciò va contro il principio dî

(20) Ivi, pp. 9 e 28-35.

100

identità, negando il quale la ragione non ha più nulla da dire e l’uomo si riduce a un vegetale (2).

Eppure, per quanto errate possano essere queste due prospettive, esse — soprattutto la prima — contengono qualcosa di valido che Maritain utilizza nel suo discorso costruttivo. Perché se è falso che l’essere si identifichi col pensiero, è vero però che essi sono in strettissima connessione: l’intelligenza è fatta per l’essere e non ha requie se non riposa in esso — e l’essere, a sua volta, è aperto, trasparente all’intelligenza perché, nella sua più alta espressione, l’Essere divino, si identifica con l’Intelligenza. E se d’altronde è un travisamento di tutto il processo conoscitivo separarlo dall’essere, è tuttavia vero che solo nella distinzione tra l’essere intenzionale — quale cioè si trova nella mente — e l’essere di natura si comprende la compenetrazione tra pensiero e realtà. In fondo siamo davanti a una applicazione del principio che ha guidato Maritain nel corso di tutta la sua ricerca: distinguere per unire, al di là della confusione da un lato, della separazione dall’altro. In questo superamento ha senso la formula con cui san Tommaso ha definito la verità: «adaequatio rei et intellectus» — «adeguazione dell’intelligenza e della cosa», traduce Maritain (?). Ma rischia di restare una soluzione generica, se non si precisa in che modo questa conformità sia possibile senza cadere nell’uno o nell’altro pericolo. E a questo scopo è necessario un esame dei due fondamentali momenti della vita dell’intelligenza, l’apprensione concettuale e il giudizio. 4. LA VITA DELL’INTELLIGENZA

Come è possibile, dunque, una adeguazione del pensiero e della realtà che mantenga la distinzione (contro la tesi dell’identità)

senza cadere nella separazione (contro la tesi cartesiano-kantiana)? Maritain ha cercato di rispondere a questo problema ripensando con particolare attenzione il processo della concettualizzazione. Pur senza trascurare il valore del giudizio, anzi ricono(21) Cfr. J. Maritain, Distinguer pour unir ou Les degrés du savoir, Desclée De Brouwer, Paris 1940, p. 163; Réflexions sur l’intelligence, cit., pp. 44-45. (2) J. Maritain, Réflexions sur l’intelligence, cit., p. 24. La citazione di san Tommaso è da Sum. theol. I, 16, 2.

101

scendo in esso (sulla linea di Aristotele e Tommaso) il «luogo» della verità, è alla simplex apprebensio che egli ha dedicato la maggior parte delle sue osservazioni (?). Il punto di partenza è la critica alla concezione cartesiana delle idee-quadro, delle idee, cioè, concepite come termine del processo conoscitivo. Se noi conosciamo le nostre idee e non la realtà,

ogni ulteriore sforzo di raggiungere poi quest’ultima gettando un ‘ponte’ verso di essa è destinato in partenza a restare sterile. In questo senso gran parte del pensiero moderno, malgrado le buone intenzioni dei singoli autori, è la prova di quali distorsioni possano nascere dallo sforzo di risolvere un falso problema. In realtà il pensiero non conosce le proprie produzioni — quelle che Descartes chiama «idee» e san Tommaso «species» — ma la realtà attraverso di esse. Il concetto non è ciò che viene colto, ma ciò in cui è colta la realtà. Maritain ricorre qui, per esplicitare meglio il pensiero di san Tommaso, alla dottrina di un suo commentatore, Giovanni di san Tommaso. Questi distingue tra «segno strumentale» e «segno formale». Il primo è quello che si ritrova in natura: il fumo, per es., segnala la presenza del fuoco. Questo tipo di segno fa conoscere ciò di cui è segno solo se prima viene esso stesso conosciuto. Il grande equivoco in cui Cartesio è caduto è stato di considerare il processo conoscitivo — che di per sé è immensamente più complesso e delicato di qualunque fenomeno materiale, perché appartiene alla sfera dello spirito — alla stregua di un processo fisico. Egli perciò ha creduto che l’idea fosse segno strumentale, mentre essa è segno formale. La caratteristica di quest’ultimo è che, a differenza del primo, non è co-

nosciuto prima della realtà che fa conoscere, ma dopo, attraverso una successiva opera di riflessione (*). Quanto a Kant, egli ha confuso l’attività conoscitiva, che è im(23) Cfr. L. Fraga De Almeida Sampaio, L’intuition dans la philosophie de Jacques Maritain, Vrin, Paris 1963, p. 57. Vedi anche quanto osserva a questo proposito J.-H. Nicolas, «Le réalisme critique», in Jacques Maritain. Son oeuvre philosophique, Bibliothèque de la Revue Thomiste/Desclée De Brouwer, Paris, s.d., pp. 232-233. (29) Cfr. J. Maritain, Réflexions sur l’intelligence, cit., pp. 58-59; Les degrés du savoîr, cit., p. 231 e ss. Alla luce di queste considerazioni si comprende come sia grossolano l'equivoco di chi accomuna la teoria della verità di san Tommaso — a cui Maritain qui si ispira — a quella di Cartesio (è il caso, per es., di F. Kaplan, La vérité et ses figures, Aubier Montaigne, Paris 1977, pp. 34-36).

102

manente, con quella costruttiva, che è transitiva e ha perciò il suo termine in un’opera, in qualcosa di prodotto. Ora, è vero che l’intelletto produce le species — quella impressa e quella expressa (concetto) —, ma questa attività produttiva è solo la condizione di quella propriamente conoscitiva e non va confusa con essa. La species — in particolare il concetto, che è il vertice dell’attività con cui l’anima fa passare all’atto l’intelligibilità che la cosa extramentale possiede in potenza — è certamente la condizione della conoscenza di ciò che la cosa è (appunto perché in essa la cosa diventa attualmente intellegibile), ma non è il termine di questa visione: come già contro Cartesio, anche contro Kant Maritain fa valere il fatto che tale termine è costituito dall’oggetto, sia pure colto zel concetto (*). Ancora una volta, dunque, vi è stato un fraintendimento dovuto al fatto che non si è saputo osservare la vita dello spirito rispettandone la peculiarità e la si è troppo facilmente assimilata a quella fisica, dominata dal primato dell’attività transitiva. In fondo questa perdita del senso dell’immanenza dell’azione conoscitiva si trova già in Cartesio: con la differenza che in Kant conoscere significa conferire un’impronta all’oggetto, in Cartesio significa, da parte del soggetto, riceverla (la conoscenza è dunque una modificazione del soggetto stesso). In entrambi i casi il modello a cui ci si ispira è quello della formazione dei corpi materiali, in cui una materia viene plasmata e, ricevendo una nuova forma, dà luogo a qualcosa che non è più né la materia né la forma, ma un nuovo oggetto in cui le componenti originarie sono ormai indistinguibili. Se la conoscenza fosse questo, è chiaro che si avrebbe ragione di dire che la realtà conosciuta, una volta ricevuta nel soggetto o fatta termine della sua attività, costituisce ormai con esso un tutt'uno in cui non si può più riconoscere l’identità della cosa conosciuta. Ma questo è appunto ciò che avviene nel mondo fisico. Le leggi dello spirito sono ben diverse. Certo, vi è anche in esso qualcosa che attiene al piano ontologico comune a tutti gli esseri, per cui anche nella conoscenza si realizza una ‘informazione’ della potenza conoscitiva ad opera delle species e la conseguente costituzione di un fertium quid in cui soggetto e forma conosciuta diventano indistinguibili. Ma si è (2) Cfr. J. Maritain, Les degrés du savoir, cit., p. 224 e ss.; Réflexions sur l’intelligence, cit., pp. 34-35 e 63-64.

103

detto già che la produzione di species non è la conoscenza, bensì la sua condizione. Nella intellezione vera e propria non vi è la formazione di alcun fertium: il soggetto si unisce all’oggetto conosciuto mella species senza esserne modificato e senza modificarlo in ciò che ha di essenziale, ma solo conferendogli un nuovo modo di essere (essere intenzionale). Nell’unità che così si rea-

lizza sussiste la distinzione dei due termini che la compongono e ciascuno di essi resta se stesso. «Conoscendo io non divento dltro, io divento l’altro, e vi è un mondo intero fra queste due formule» (%). Vi è un mondo perché la prima significherebbe che soggetto e oggetto hanno dato luogo a un nuovo ente, la seconda vuol dire che l’oggetto — l’altro — è accolto nel soggetto in quanto altro, unito ad esso proprio nella sua radicale alterità e può essere perciò colto per quello che è. L’adeguazione del pensiero e dell’essere è dunque possibile perché da un lato la cosa che viene conosciuta assume nel soggetto un nuovo modo di essere, dall’altro perché non viene deformata nella sua essenza. Maritain tuttavia sa bene che, finché si resta sul piano dei concetti, non vi è adeguazione nel senso pieno del termine e non vi è dunque neppure verità. Bisogna che l’intelletto faccia emergere la propria differenza rispetto alla realtà — l’alterità di cui abbiamo parlato — nell’atto stesso in cui si dichiara conforme alle cose: è appunto quanto accade nel giudizio dove, ancora una volta, la diversità del pensiero e dell’essere non esclude la continuità, anzi risalta proprio in relazione ad essa. La conformità implica che vi siano due termini, l’adeguazione esige l’alterità. Entrambi gli aspetti (conformità e alterità) sono ben presenti nel giudizio, dove l’intelligenza dichiara che due oggetti di concetto (soggetto e predicato) non sono che una medesima cosa nell’esistenza extramentale. Il fatto stesso che si faccia una tale affermazione richiede che, a differenza di quanto credevano i Megarici, i due oggetti di pensiero non siano in se stessi la cosa (altrimenti non potrebbero essere entrambi la stessa cosa, visto che come oggetti concettuali sono diversi); e che tuttavia possano essere riferiti ad essa (altrimenti non si potrebbe affermare che essi corrispondono ad una unità che nella cosa c’è effettivamente). Dunque, «la verità del nostro intelletto è propriamente (26) J. Maritain, Réflexions sur l’intelligence, cit., p. 53; cfr. Les degrés du savotr, cit., pp. 228-229.

104

una identificazione in noi, conforme a una identità nella cosa, una composizione nozionale conforme a una identità reale» (7). Si chiarisce, così, l'errore di Kant che, ponendo come giudizi necessari quelli analitici 4 priori e quelli sintetici 4 priori, ha misconosciuto o la diversità tra soggetto e predicato (che secondo lui manca negli analitici) o il loro fondamento, che è l’unità on-

tologica della cosa a cui soggetto e predicato si riferiscono (che secondo lui manca nei sintetici). Nessuno dei due modelli di giudizio esaminati dal filosofo tedesco può dunque servire a spiegare il giudizio quale realmente è: l’unione tra due termini che sono diversi l’uno dall’altro — altrimenti davvero non vi sarebbe progresso nella conoscenza — ma che hanno il fondamento di questa loro unione dal lato dell’oggetto e non del soggetto conoscente. In questo modo la definizione della verità data da Tommaso e accolta da Maritain emerge rafforzata e approfondita dal confronto con le contestazioni del pensiero moderno. L’adeguazione del pensiero e della realtà è qualcosa di più che l’ingenua pretesa del senso comune: partendo da questa — che in definitiva si è rivelata ben più seria di quanto a tanti filosofi sia parso — si è potuto giungere a una sua verifica critica pienamente soddisfacente (#). 5. LA VERITA E LE VERITA

Alla luce di quanto detto è possibile spiegare, secondo Maritain, anche la molteplicità dei sistemi filosofici. Ognuno di essi ha, centro e anima di tutte le sue costruzioni concettuali, una intui-

zione autentica della realtà in qualche suo aspetto — perché l’intelligenza è fatta per l’essere e non vi è dottrina così erronea che non lo colga in una certa misura. Si è già notato che la conoscenza, cioè la visione o intuizione (irtueor=vedo)

della realtà che si

attua zel concetto, non va confusa con la produzione di tale concetto, che ne è solo la condizione. Questa distinzione risulta preziosa adesso che si tratta di giustificare la presenza di una parte di verità in sistemi filosofici di per sé erronei. In essi l’intuizione fondamentale da cui il loro autore è partito è valida e coglie un (2?) J. Maritain, Réflexions sur l’intelligence, cit., p. 69. (8) Ivi, pp. 11-12.

105

aspetto dell’essere che forse altri autori non avevano colto. In questo senso la molteplicità delle filosofie è il segno della ricchezza della realtà, senza che vi sia tra esse una effettiva contraddizione (?°). Ma questa intuizione si dispiega attraverso un armamentario di concetti prodotti da noi sulla base di una formazione culturale spesso difettosa, viziata da deformazioni di vario genere. L'intelligenza «non coglierà così il reale che attraverso e nei segni che, prodotti e disposti con l’aiuto di un materiale preesistente carico di errori e di deficienze, l’esprimeranno male e con enunciati più o meno erronei» (*).

Vi è qui la base per un rapporto tra i filosofi, con le loro varie concezioni della realtà, che non si riduca a una pura e semplice ‘tolleranza’, ma dia luogo a una autentica collaborazione: perché ogni filosofo ha da guadagnare nell’aprirsi all’intuizione centrale degli altri (*), senza per questo accettare le forme concettuali in cui essa si esprime. Con tutto ciò, resta che tra i membri

di una

stessa

società

può esservi una diversità di vedute che, già forte sul piano filosofico, dà luogo a seri problemi quando è in gioco la differenza di concezioni religiose. La soluzione non sta in nessun caso nell’at-

tenuare la propria convinzione scendendo a compromessi che sarebbero un tradimento della verità in cui si crede. Maritain è estremamente deciso nel respingere la tesi di coloro che indicano nella rinunzia ad ogni verità «assoluta» la via per una buona convivenza. Egli fa notare a questo proposito che la stessa democrazia, con lo spirito di reciproco rispetto che essa implica, riposa su alcune verità che debbono pur essere accettate come assoluta-

mente valide: la libertà, la giustizia, etc. Una tolleranza fondata sullo scetticismo si suiciderebbe. Piuttosto, si tratta di non dimenticare la distinzione tra l’er-

rore e il soggetto concreto, l’altro uomo che sbaglia. L’intolleranza nasce dal credere che, come l’errore non ha alcun diritto, non ne abbiano neppure gli uomini che in buona fede lo professano. Il relativismo nasce dal credere, all'opposto, che i diritti di co(29) Cfr. J. Maritain, Il filosofo nella società, tr. di A. Ceccato e A. Pavan, intr. di A. Pavan, Morcelliana, Brescia, 1976, p. 68. (30) J. Maritain, Da Bergson a Tommaso d’Aquino, tr. di R. Bartolozzi, intr. di V. Possenti, Vita e Pensiero, Milano, 1980, pp. 35-36. (31) Cfr. J. Maritain, Il filosofo nella società, cit., pp. 68-70.

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loro che professano un errore siano, al tempo stesso, i diritti dell’errore come tale. La fraternità e la collaborazione non possono nascere tra le diverse concezioni, ma tra gli uomini, che sono ca-

paci di amore anche nella diversità dei punti di vista — perché l’amore non va alle idee ma alle persone — senza che per questo si debba minimamente rinunciare a esercitare il proprio giudizio critico nei confronti di tali punti di vista. Al contrario, la fraternità di cui si parla sarà tanto più autentica e viva quanto più ciascuno vi apporterà l’ardore della propria adesione alla verità che professa (*). Da questi cenni emerge con sufficiente chiarezza il nucleo speculativo della risposta maritainiana al problema della verità. In primo luogo ci troviamo di fronte a una vigorosa ripresa del tema

della concettualizzazione a un’accentuazione del valore del concetto, contro la svalutazione bergsoniana. Se Maritain parla, come Bergson, di ‘intuizione’, la sua è tuttavia pur sempre una «intuizione astrattiva», che si attua mediante il concetto e mai senza di esso. Il dualismo bergsoniano fra intuizione e intelligenza viene superato radicalmente: l’atto con cui l’intelletto vede è il medesimo per cui produce, i suoi concetti (*). Tuttavia il tema dell’intuizione è ripreso da Maritain, pur al prezzo di tutti i rischi di fraintendimento che questo termine comporta nella cultura contemporanea, per salvaguardare il concetto tomista dallo svuotamento e dalle deformazioni a cui, da Cartesio in poi, era stato sottoposto. Solo nell’inscindibile unione tra questi due temi — concetto e intuizione — il discorso sulla verità può venire recuperato nei termini di un autentico realismo. D’altro canto, pur nell’unione resta la distinzione fra i due aspetti — quello per cui l’intelligenza produce i concetti e quello per cui vede in essi la realtà. È una distinzione che consente di valorizzare gli apporti del pensiero moderno e l’attenzione di quest’ultimo per quanto vi è di creativo nel processo conoscitivo, senza

perdere di vista che questa creatività (che riguarda appunto i concetti) non impedisce un rapporto immediato fra l’intelligenza e la realtà (l’intuizione), anzi ne è la condizione. La medesima distinzione serve a Maritain, come si è visto, da strumento interpretativo nei confronti delle diverse filosofie che (32) Ivi, pp. 62-63, 65-66, 74, 78. (33) Cfr. J. Maritain, Les degrés du savoir, cit., p. 780.

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popolano la storia della cultura, fornendogli un criterio per distinguere ciò che in esse può esservi di valido (l’intuizione centrale) e ciò che invece è caduco e rischia di mascherare la verità profonda di un dato pensiero (il sistema di concetti attraverso cui l’intuizione si dispiega). Così, ancora una volta, lo tima fedeltà a san Tommaso ripetitività — come in tanti viene — ma utilizzando con

stile di Maritain è quello di una inottenuta non attraverso una mera

seguaci dell’Aquinate avveniva e avintelligenza gli apporti della cultura

moderna e contemporanea (in questo caso quello di Bergson) per

consentire al pensiero scolastico di dare una risposta adeguata ai problemi posti da questa stessa cultura.

108

JOSEPH DE FINANCE S.J. della Pontificia Università Gregoriana

I diversi tipi di libertà in Maritain

1. LA SCOPERTA

PROGRESSIVA

DELLA

LIBERTÀ

La libertà ha sempre occupato la mente e il cuore di Maritain. Per tutta la sua vita ha manifestato una forte ripugnanza contro ogni forma di costrizione, soprattutto in materia di pensiero. Già l’ambiente di sinistra nel quale fu educato — il suo nonno materno era stato uno dei Padri fondatori della Terza Repubblica francese — favoriva il suo interesse per il primo membro della triade repubblicana. Su questo tipo di libertà — la libertà civile e politica — tornerà il suo interesse, dopo una fase di quasieclissi — nel tempo del suo flirt con l’Action Frangaise —, soprattutto negli anni della guerra e dell’immediato dopoguerra, con una fioritura di libri e opuscoli che gli hanno valso principalmente la sua fama e la sua udienza, specie nei paesi anglosassoni e anche, credo, in Italia. (Mi scuserete se io vi dichiaro subito che non è questa Îa parte della sua opera che mi interessa particolarmente e ciò per motivo professionale: non ho mai avuto da occuparmi di siffatte questioni). Ma vi ritornerà munito di principii che non poteva allora possedere. Infatti — non dico che questo fu l’iter intellettuale di Maritain a questo proposito — la libertà civile e politica trae la sua dignità, il suo valore, dalla dignità della persona umana, la quale scompare se i suoi atti sono determinati dalla natura, dallo stato dell’organismo, dalla successione delle rappresentazioni o impressioni psichiche. In altre parole, la libertà civile e politica non ha senso se l’uomo non è dotato di libero arbitrio (libertas a necessitate). Ora, l’ideologia regnante nell’ambiente intellettuale e universitario del tempo imbevuto di positivismo, d’agnosticismo e di determinismo, non lasciava posto per la libertà, non più che per la ricerca autentica della verità e così l'adolescente, nel cer109

chio forzatamente ristretto del suo mondo filosofico, non trovava

risposte alla questione posta, pochi anni prima, da Maurice Blondel, all’inizio della sua famosa tesi: L’Azione. «Sì o no, ha l’esistenza umana un senso, e vale la vita la pena di essere vissuta?». Ma Maritain non conosceva Blondel e non credo che questi sarebbe stato l’autore adatto al suo stato d’animo. Questi due pensatori cristiani non si sono mai veramente incontrati e sembra non fossero capaci di comprendersi veramente. In un’opera tardiva — Il contadino della Garonna — Maritain concede che forse Blondel può essere chiamato filosofo (diremo perché). Co-

munque, la prima influenza liberatrice doveva venire a Jacques (e alla sua ancora solianto amica Raissa) da un altro lato.

Quanti hanno letto I grandi arzici si ricordano le pagine commoventi nelle quali Raîssa racconta come, un giorno, seduti su di un banco nel Giardino delle Piante di Parigi, Jacques e lei decisero, se dopo qualche tempo non sarebbero riusciti a scoprire quale fosse il senso della vita, di farla finita con essa. Fortunatamente, sul consiglio dell'amico Péguy, cominciarono ad ascoltare le lezioni di Bergson nel Collège de France — il filosofo era allora all’auge della sua gloria. Nel suo stile incantevole — i filosofi, in Francia, cercavano generalmente di scrivere bene e con la chiarezza resa possibile dalla materia: oggi petò... Bergson apriva, al di là del positivismo e dell’agnosticismo, la via alla metafisica, e, ciò che più ci interessa, demoliva gli argomenti del determinismo, mostrandone il postulato segreto — secondo lui — la spazializzazione del tempo. È vero — Maritain se ne accorgerà più tardi — che la metafisica di Bergson, a causa del suo metodo, non raggiungeva l’essere che sotto la forma della durata-coscienza-memotia

(tre realtà

identiche);

è vero

anche

che la libertà bergsoniana si distingueva male dalla mera spontaneità e che l’argomento secondo il quale il presente apporta sempre qualcosa che non è contenuto nel passato può sembrare poco convincente riguardo alla libertà umana. Comunque, questo incontro con Bergson fu per Jacques a Raîssa l’inizio della salvezza. Poi venne la conversione, il battesimo (11 giugno 1909) e quindi l’esperienza di un’altra forma di libertà: la libertà dei santi, di cui parlerà più tardi. Però non fu subito l’oggetto di una riflessione filosofica o teologica. Le sue ricerche erano orien110

tate in un’altra direzione. Anzi, si domandò —

si domandarono

— seriamente se Dio non richiedesse da loro la rinunzia all’attività filosofica, che era la loro vita. Erano pronti a questo sacrificio veramente eroico. Dio si contentò di questa generosità. Un direttore intelligente fece loro capire che il loro compito era mettere il loro lavoro filosofico al servizio di Dio e della Chiesa. Rendiamo grazie a questo direttore. Un terzo incontro fu quello di san Tommaso. Fu Raissa la prima a leggere il Dottore angelico. Quando Jacques aprì a sua volta la Somma teologica, ne divenne, egli dice, «innamorato». Il suo entusiasmo si esprimeva allora con grandi frasi ampollose: Vae mihi si non tomistizavero! Sarà più discreto in seguito. 2. LA LIBERTA E IL MISTERO

DELLA PERSONA

La scoperta del tomismoe non solo fece meglio capire a Maritain le manchevolezze della nozione bergsoniana di libertà, ma lo provvide di una struttura metafisica per l’elaborazione della sua. Nel suo prime libro: La filosofia bergsoniana, pubblicato nel 1913, Maritain, infatti, espone un’analisi dell’atto libero, ispirata principalmente dalla questione 6 del De Malo nonché da un eccellente articolo del P. Garrigou-Lagrange, O.P. allora in piena forza, nella Revue

Thomiste,

dove la stessa dottrina

viene esposta con lucidità e profondità. La linea portante è la distinzione tra l’ordine della specificazione, dove l’intelletto tiene il primato e l’ordine dell’esercizio, dove il primato compete alla volontà, di modo che la volontà si fa essa stessa determinare dall’intelletto, che essa muove come muove tutte le potenze. Le pagine di Maritain sono belle, limpide e penetranti, ma pur rivelando una assimilazione personale non comune del pensiero dell’Angelico, non apportano un contributo veramente originale al problema della libertà. Se non che l’esposizione del pensiero tomista in un libro scritto da un laico e pubblicato da una casa editrice non specificamente cattolica, era già, in quel tempo, qualcosa di originale. Invece, il libro, nel suo insieme, impetniato, come tutti sanno, sulla distinzione tra bergsonismo d’intenzione, considerato con simpatia, e bergsonismo di fatto, severamente giudicato, era senza dubbio un apporto personale di Maritain — per quanto possa sembrare spiacevole vederlo consacrare il suo primo libro a demolire quello che l’aveva salvato 111

dalla disperazione —. Ma Maritain era così: uomo dalle svolte a centottanta gradi. Riconosciamo però che la sua critica rimane sempre cortese. Molto più tardi, in una seconda edizione, scriverà una nuova prefazione dove giudicherà il bergsonismo con più mitezza ed equità. Un apporto veramente nuovo di Maritain nell’interpretazione tomista della libertà (del libero arbitrio), lo troviamo molto più tardi nel Breve tratto dell’esistenza e dell’esistente (1947),

quando l’esistenzialismo era in Francia in piena voga e l’affermazione sartriana: «l’esistenza precede l’essenza», sembra una geniale novità. Maritain vuol mostrare che questa è precisamente la dottrina di san Tommaso, in quanto, secondo il Dottore Angelico, l’esistenza (si direbbe meglio: l’esistere o ne il primato sopra l’essenza, come l’atto sopra la conseguenza, — e questo interessa direttamente il blema — l’ordine dell’esercizio, essendo di indole

l’esse), tiepotenza. Di nostro proesistenziale, tiene il primato sopra l’ordine della specificazione, di indole essenziale. Senza questo primato, l’esercizio sarebbe determinato dalla rappresentazione, il volere seguirebbe, senza poter dirigerlo, il corso dell’attività intellettuale. Più radicalmente ancora, perché, nell’essere finito, e spirituale, l’esistenza (l’esse) supera, con le sue infinite virtualità e aspirazioni (di cui riparleremo), l’essenza che lo limita, l’esistente spirituale non è adeguatamente determinato dalla sua natura. Si vede come l’interpretazione tomista della libertà viene ormai integrata da Maritain in una cornice metafisica più ampia, grazie ad una riflessione stimolata da filosofie che si vogliono novatrici ma non lo sono che esibendo, travestite, vecchie verità. Così intesa, la libertà appare al nostro pensatore la nota più propria della persona. Il suo mistero esprime il mistero della soggettività spirituale, della «sussistenza», che occupa un posto importante nella metafisica di Maritain come pure nel tomismo più classico, ma sulla quale non possiamo diffonderci. Tutti gli scolastici, del resto, e neppure tutti i tomisti, non concordano nell’ammettere questo «modo» o nel definirlo e lo stesso Maritain ne ha dato due interpretazioni alquanto differenti (!). Diciamo brevemente che, secondo l’ultima esposizione, il com(1) Distinguer pour unir, 7° ed. 1973, pp. 846-853 e 855-876.

112

pito della «sussistenza» è di «appropriare» l’esse all’essenza, di modo che sia in essa non solo «ricevuto», ma «esercitato». Non insisto su questa nozione, nata da un problema cristologico e che un puro filosofo non avrebbe probabilmente mai concepita. Quanto poi alla libertà, vista come nota propria della persona,

un teologo obietterebbe forse che, sebbene la libertà sia l’indice di un soggetto personale, non segue che ad ogni libertà individuale corrisponda un soggetto distinto. Altrimenti, o si dovrebbero affermare in Cristo due soggetti personali (nestorianesimo), o si dovrebbe negare in Lui la libertà umana

(monotelismo).

Sa-

rebbe più esatto vedere la nota propria della distinzione personale nella responsabilità. Non mi pare che Maritain abbia fatto questa distinzione, benché la si possa trovare insinuata laddove attribuisce alla sussistenza il compito di costituire l’esistente

spirituale come soggetto responsabile (?). Espressione del soggetto, con la suddetta precisazione, l’atto libero partecipa del suo mistero. È aperto solo allo sguardo di Dio. Nessun intelletto creato può conoscere ciò che io voglio, nell’intimo del cuore, se non mi apro a lui. In quanto poi il pensiero attuale implica un atto della volontà libera, nessuna creatura,

umana

od angelica, può sapere con

certezza

ciò che

io penso hic et nunc (le cogitationes cordis): solo può congetturarlo mediante qualche segno. L’interiorità della coscienza è dunque, per Maritain

(come già per s. Tommaso)

(5), dipen-

dente da quella dell’atto libero, il quale «non è di questo mondo», poiché sorge dalla volontà in quanto essenzialmente aperta al Bene assoluto e da Lui solo determinata. Il suo mistero è quindi connesso al mistero divino. Per ciò, la volontà costituisce un ordine sopramondano, autonomo in seno all’ordine universale, un ordine il cui vero capo è Dio, quale Legislatore e Fine (*). Impenetrabile, l’atto libero è pure imprevedibile, e questa volta, non soltanto riguardo agli altri o riguardo al soggetto stesso (non posso prevedere con certezza ciò che io vorrò domani, e questa incertezza è fonte di angoscia), ma riguardo a Dio stesso, il quale non prevede, ma vede, in quanto l’ordine (2) (3) (4) lecon

Ivi, p. 864. Somma teologica, I°, 57, 4. Cfr. Du régime temporel et de la liberté, Paris 1953, p. 27; Neuf sur les notions premières de la philosophie morale, Paris 1951, p.

67ss.

113

intero del tempo è presente al suo sguardo eterno. Dio vede oggi ciò che io vorrò domani, poiché oggi e domani son compresi nel Nunc stans dell’eternità, che contiene fontalmente nella sua semplicità tutta la serie temporale, ma non vede in ciò che io sono oggi già determinato il mio valore di domani. Poiché l’indeterminazione essenziale alla volontà riguardo ai beni finiti non può essere tolta che dal soggetto stesso. Dobbiamo lasciare fuori dalla nostra considerazione, in questa occasione, questioni molto importanti: anzitutto il problema di come conciliare l’affermazione della libertà creata con quella dell’universale causalità di Dio (sul piano teologico, l’eterna questione de gratia et libero arbitrio), riguardo alla quale Maritain propone una soluzione interessante che potrebbe forse porre fine a dispute secolari. Ma esporla richiederebbe troppo spazio per svilupparla completamente. 3. LA LIBERTÀ

Del

resto,

DELLA

INTELLIGENZA

la libertà,

per Maritain,

non

si esaurisce

nella

libertà di scelta, benché sia proprio questa che, nella storia della filosofia, ha sollevato più difficoltà e ispirato più teorie e interpretazioni talvolta contraddittorie. La libertà, nel suo sen‘so più largo, è, possiamo dire, la spontaneità propria dell’esistente spirituale, la facoltà di agire seguendo le sole esigenze della propria natura, senza interferenza esterna, senza costrizione: la libertas a coactione degli scolastici. Così, in due delle sue prime opere: Théonas (1921) e Anti moderne

(1922),

Maritain

dedica

un

capitolo

alla

« Libertà

intellettuale». L’intelligenza è libera quando segue la sua propria vocazione, che è la fedeltà all’essere, al vero. L’intelligenza umana, indebolita dal peccato, è esposta a tanti errori, a tante deviazioni, nelle quali cade inevitabilmente se viene abbandonata a se stessa. Però, secondo Maritain, «il caso della filosofia moderna è totalmente differente». Non si tratta solo qui di una debolezza congenita, ma di una vera (e volontaria) servitù. Ra-

zionalismo che sostituisce la ricerca dell’essere con il raziocinare senza fine, scientismo sotto diverse forme e soprattutto sottomissione cieca allo spirito del mondo... La critica maritainiana ha qui tutto il suo vigore tagliente e giovanile. Ma egli rimarrà sempre fondamentalmente «antimoderno», cioè opposto a 114

quella corrente di pensiero che ha pervaso i tre ultimi secoli. E ciò non solo nel campo filosofico, ma nel campo della cultura in generale. Non sembra stimare molto i classici francesi, non è ammiratore del grand siècle. Anche le forme devozionali di quest'epoca non sembra gli siano congeniali. Ammira immensamente il Medioevo, il gregoriano, gli ordini religiosi nati in quel tempo. Ma non sogna un impossibile ritorno al passato. Sta invece all’ascolto dell’avvenire. Si proclama non solo «antimoderno» ma «ultramoderno». Segno della sua meravigliosa «libertà», è aperto alle forme più sorprendenti, meno conformiste, dell’arte e della poesia. Ha pure, in qualche pagina di uno dei suoi ultimi libri (°) esaminato con una certa simpatia il fenomeno «hippy». Dico questo per dissipare i troppo frequenti equivoci intorno alla sua «antimodernità» ed anche per mostrare come la «libertà intellettuale» ron era soltanto per lui un concetto, ma una realtà vissuta. Qui può essere interessante istituire un paragone

tra la «libertà dell’intelligenza», nel senso maritainiano, e il «libero pensiero» che impregnava l’ambiente in cui il giovane Jacques fu educato. Non vedo che Maritain l’abbia fatto: ragione di più per tentarlo. Già la differenza dei vocaboli è espressiva. L’intelligenza, l'abbiamo detto, è fatta per l’essere e si realizza in libertà aderendovi, conformandovisi. Servire Deo regnare est: parallelamente,

sottomettersi

all’essere

è, per l’intelligenza,

di-

ventare ciò che è, entrare in possesso del suo diritto. Il pensiero, invece, dice apertura ad un mondo di idee. Nozione moderna che risale a Descartes. La sua misura non è più l’essere, la realtà, ma la coerenza interna e troppo spesso le preferenze del pensatore. Pensare liberamente non è, dunque, ordinare le proprie idee nella sottomissione all’essere manifestantesi all’intelligenza, ma in modo autonomo. È vero che il «libero pensatore» pretende di riconoscere l’autorità della ragione, anzi della ragione sola e dell’esperienza, ma si tratta di una ragione e di una esperienza arbitrariamente chiuse, mutilate, prive della dimensione metafisica e religiosa: servitù dell’intelligenza moderna che abbiamo vista deprecata da Maritain. È da notare che Maritain si mostra molto più negativo verso le dottrine che rinchiudono il pensiero nel mondo delle idee che (5) De V’Eglise du Christ, 1970.

115

non verso quelle che lo inchiodano alla realtà insufficiente ma solida delle cose. Queste riconoscono un certo primato dell’essere, pur limitandone indebitamente il campo e misconoscendone la profondità metafisica; quelle invece rompono il legame tra il pensiero e l’essere o, peggio ancora, lo rovesciano, sottomettendo la realtà al sistema. Questi pensatori, dice Maritain, non meritano di chiamarsi filosofi: sono degli «ideosofi», mentre i vari filosofi sono degli «ontosofi». E Maritain spinge il paradosso fino a dichiarare che oggi, i soli filosofi sono, da un lato, gli scolastici (con l’aggiunta di qualche altro come Bergson e forse, l'abbiamo visto, Blondel), dall’altro, i marxisti. Con loro si

può discutere, poiché riconoscono una realtà indipendente dal pensiero. Con gli altri, no. Si vede qui l’amore maritainiano dell’essere e il suo orrore per tutto ciò che sa di idealismo. Certo, Maritain non nega che le opere di questi pensatori manifestino una forza di pensiero non comune. Li ha molto studiati, li ammira; semplicemente nega che siano dei filosofi. Sono dei meravigliosi compositori, architettano sistemi che sono stupende sinfonie di idee; ma non è questo che si aspetta da un filosofo. La loro intelligenza, in realtà. è serva, perché non segue la sua più profonda aspirazione, che è di conformarsi all’essere, di identificarsi intenzionalmente ad esso, facendolo esistere in se stessa, «sopraesistendo» nella verità. Certo che per Maritain sau Tommaso appare come il modello eminente dell’intelletto libero. 4. LA LIBERTA DI ESULTANZA: SPONTANEITÀ DELL'ESISTENTE

SPIRITUALE

Più ampia, più fondamentale di questa libertà è quella che Maritain chiama «libertà di esultanza». È la perfezione della spontaneità, l’attività non impedita, non frustrata, non determi-

nata dal di fuori e si presenta a noi come la meta di tutti i nostri sforzi. Corrisponde a ciò che gli scolastici chiamavano libertas a miseria e che Mortimer J. Adler — un amico ebreo di Maritain — in The Idea of Freedom, dove espone i risultati di ricerche fatte in seminari da lui diretti intorno alla libertà, chiama Freedom of self-realisation. Di per sé, non esclude la necessità: Dio si vuole, si ama, i beati amano Dio con una totale

spontaneità e un’assoluta necessità. È tutta positività e quindi 116

si distingue dal libero arbitrio, il quale suppone sempre qualche non-essere, qualche negatività o nel soggetto, quando questi, non coincidendo con la regola del bene, può fuorviarsi (caso della libertà finita), o, in ogni modo, nell’oggetto, che per cadere sotto la libera scelta non deve essere il bene totale e saziante (caso anche della libertà divina). La libertà di esultanza, quale si verifica in Dio e nei beati, è «meno libera», dice Maritain ma più perfetta del libero arbitrio. « Meno libera » veramente? Sì,

ma dal punto di vista della nostra libertà, che giudica perfezione ciò che è in realtà imperfezione, la possibilità cioè di «scegliere male». Tale possibilità non estende davvero il campo della libertà, poiché il male è in sé non essere. La sedicente maggiore libertà del libero arbitrio è dunque una illusione. La libertà più libera è quella che meglio risponde alla magnifica definizione di s. Anselmo: Potestas servandi rectitudinem voluntatis, propter ipsam rectitudinem (6). Non vedo che Maritain abbia usato questo testo. Come si vede, la libertà di esultanza è un aspetto e quasi un altro nome della felicità. Forse si può dire che questa allude più direttamente al possesso saziante dell’oggetto del desiderio, mentre quella concerne l’attività del soggetto in quanto procedente da esso. Appetito non frustrato, spontaneità non impedita: in ambedue i casi, si tratta della piena «realizzazione» del soggetto. Comunque, Maritain giustamente osserva che la «libertà di esultanza» è proprio quella pet cui gli uomini lottano e muoiono. Non si muore per il libero arbitrio per la semplice ragione che

lo si possiede già e non può venire tolto. È la libertà di esultanza che gli uomini ricercano attraverso le diverse forme di libertà civile e politica, di cui abbiamo già parlato e sulle quali Maritain tornerà nella seconda parte della sua produzione filosofica. 5. LE ASPIRAZIONI

«La

TRANSNATURALI

DELLA

libertà di esultanza, dice ancora

PERSONALITÀ

Maritain, è un LI

altro

nome della pienezza e della sovrabbondanza dell’essere». Vale a dire che non è né può essere perfetta in noi né in qualsivoglia creatura. La sua perfezione si verifica solo in Dio, perché in Dio solo la spontaneità è totale, assoluta, originaria; l’atti(6) Dial. de libero arbitrio, c. 3; PL 158, col. 494 B.

DI

vità né ostacolata, né determinata, né condizionata da strutture o leggi 4 priori: la sua natura, la sua struttura, se si può parlar così, essendo identica col suo essere e il suo agire. Spontaneità assoluta, totale indipendenza. L’Esse divino può, dunque, venire considerato come l’Atto libero per eccellenza, l’archetipo della libertà non certo nel senso di Charles Secrétan, nella sua Filosofia della libertà: Io sono ciò che io voglio (essere), ma piuttosto nel senso in cui Plotino parla «della volontà e della libertà dell’Uno», nell’ammirevole trattato ottavo della sesta Erzeade. Non mi consta però che Maritain abbia mai chiamato l’Esistere divino un atto libero. Ma è nella logica del suo pensiero. Ben diversa è la nostra condizione. Le nostre attività presuppongono una natura già data, che non coincide con esse. La persona umana, anzi la persona finita in genere, «è sottomessa [...] come a oggetti specificatori della sua conoscenza e del suo volere, a realtà diverse da lei e, come a misurare regolatrici della sua azione, a leggi che essa non ha fatto» (7). Ora — e qui incontriamo una idea assai difficile ma illuminante di Maritain — questa situazione contraddice le aspirazioni «transnaturali» della personalità, ma ugualmente della libertà, anzi dello stesso essere, in noi. Che cosa intende Maritain per queste «aspirazioni transnaturali»? L’aggettivo esclude che si tratti di un «desiderio naturale», il quale sarebbe necessariamente frustrato, ciò che è assurdo per Maritain come per san Tommaso. Ma neppure si tratta di aspirazioni «soprannaturali»: queste, infatti sono il frutto di una grazia gratuita, mentre quelle, di cui parla Maritain sono date insieme con l’esse naturale. Ma — ed è ciò che le distingue dalle aspirazioni naturali — la loro radice è più profonda, più originaria della stessa natura specifica (o finita in genere). Si radicano nell’uomo non in quanto è uomo, ma in quanto è spirito, anzi in quanto è essere. Così l’aspirazione alla perfezione della libertà, alla totale autonomia, all’assoluta incondizionalità, abita la nostra libertà non in quanto è nostra non in quanto

è libertà umana

o libertà creata ma in quanto è libertà tou?

court, al livello, possiamo dire, trascendentale. «La persona, nel(”*) «L'idea tomista della libertà», in Da Bergson a Tommaso p. 166; cfr. «Spontaneità e indipendenza», ivî, p. 186.

118

d'Aquino,

la sua pura linea trascendentale

[...]richiede di determinarsi da

se stessa nel suo proprio essere» (*). Ora questo è il proprio di Dio. C'è, dunque, in noi «una aspirazione transnaturale a raggiungere la condizione divina e increata, una aspirazione a una perfezione dell’essere tale che l’essenza sia allora identica all’esistenza» (°). Aggiunge Maritain: «non sono io che aspiro all’esse divinum, non io che aspiro ad essere Dio [...] e nemmeno l'angelo né alcuna creatura può desiderare di essere uf Deus per aequiparantiam {...1. Ma l’essere in me aspira all’esse divinum. desidera passare ad una condizione divina. Ed è a causa di ciò che io aspiro a rassomigliare a Dio, e che ogni creatura desidera essere uf Deus per similitudinem» (!). Questo desiderio metafisico, inefficace, impossibile è quindi la radice di ogni desiderio naturale; è la molla segreta di ogni dinamismo. Siamo qui, mi pare, in una stratosfera intellettuale dove l’aria è estremamente rarefatta e le parole vengono meno, perdendo quasi il loro significato consueto. «Aspirazioni», «desiderio» si intendono bene quando vengono attribuite ad un soggetto concreto, ma quando si tratta di principi metafisici, che proprio non esistono, non sono

soggetti?

Però ciò che dice Maritain espri-

me una verità profonda. L’essere finito, è travagliato da una inquietudine, una specie di malessere metafisico — che non è il «male metafisico» di Leibniz, perché non è nella creatura la privazione di un bene ad essa dovuto, ma indica semplicemente che l’esse e le perfezioni ad esso connesse non si manifestano in lui che in un modo deficiente, non essendo ciò che potrebbero e dovrebbero essere secondo la loro pura verità trascendentale. Però in questo stato di limitazione conservano — parlando ancora una volta, un linguaggio consapevolmente inappropriato ma non avendo migliore approssimazione — conservano come la nostalgia dell’illimitazione originaria. Qui ci riferiamo all’idea della creazione senza la quale le «aspirazioni transnaturali» non mi sembrano intelligibili. Non c'è una «natura» trascendentale dell’essere al di sopra degli esseri: c'è l’Ipsum Esse Subsistens, la cui azione pone gli esseri imprimendo in loro il suo vestigio dinamico. E nello spirito, nell'uomo, questo malessere metafisico (8) «Spontaneità e indipendenza», in op. cit., p. 187. (9) Ibidem. (10) Ivi, p. 190.

119

si manifesta al livello dell’attività cosciente e scatena l’irresistibile e insaziabile processo del desiderio. Questo però rimane determinato e canalizzato dalla natura specifica, in noi, dalla natura umana. Di modo che le nostre aspirazioni «connaturali» rimangono al di sotto delle aspirazioni «transnaturali» dell’essere, della libertà in noi. Qualcosa in noi desidera ciò che non possiamo desiderare. Maritain ci ha detto che l’aspirazione transnaturale dell’essere in noi alla «condizione divina» si esprime nel desiderio «naturale» di essere come Dio per similitudinem. Ma questa espressione è deficiente e il malessere metafisico persiste, e non può non essere risentito dallo spirito. È possibile che venga appagato? No, certamente,

nell’ordine dell’essere reale: l'abbiamo visto: diventare Dio per identitatem significherebbe la mia propria distruzione. Ma è possibile una identificazione intenzionale o sopra-intenzionale, mediante la conoscenza e l’amore. «La postulazione transnaturale, nascosta

nell’essere

stesso

della persona

[...]

(dice Maritain),

che, presa assolutamente, è puramente e semplicemente insoddisfacibile, se non in Dio, [...] è tuttavia soprannaturalmente soddisfatta in un certo modo nelle creature, dico, secondo l’es-. sere intenzionale. quando esse giungono alla visione di Dio, perché vedendo l’Essenza divina, la creatura diventa intenzionalmente Ipsum Esse Subsistens» (!). Direi, chiosando un po’, ma non alterando, mi pare, il pensiero di Maritain, che la creatura, coincidendo intenzionalmente con la Causa del suo esse-

re aderendo all’amore creativo, raggiunge interiorizzandola la sua ragione di essere e diventa in qualche modo, in e mediante Dio, causa sui. E questa è la suprema libertà. 6. L'EDUCAZIONE

ALLA LIBERTA

Come abbiamo già detto, la libertà di autonomia ed esultanza sta all’orizzonte delle varie «liberazioni» agognate e poco a poco conquistate dall’umanità nel suo sforzo e nelle sue lotte plurimillenarie. Qui sarebbe il luogo di ricordare i vari scritti di Maritain intorno ai diritti dell’uomo e alla democrazia. Riguardo a questo, l’atteggiamento di Maritain si è modificato con gli anni e gli eventi, come fu esposto dal Prof. E. Berti nell’ottobre

(11) Ivi, p. 187. 120

scorso a Milano. All’inizio, quando simpatizzava con l’Action Francaise, l’atteggiamento era negativo. (È vero che per s. Tommaso,

come per Aristotele, la «democrazia»

è ciò che noi chiamiamo

«demagogia», mentre la «democrazia», nel senso moderno, viene chiamata politia, di cui la cosiddetta «democrazia» è una forma degenerata). Dopo la rottura con l’Action Frangaise il giudizio diventa progressivamente più positivo e si precisa la nozione di democrazia. In un primo tempo, essa viene interpretata come

demofilia, amore del popolo (parola, tra parentesi, che potrebbe venire da Maurras); poi viene intesa e approvata nel senso oggi comune, secondo la celebre formula lincolniana: «il governo del popolo dal popolo, per il popolo». Forse in questi cambiamenti di valutazioni si può scorgere, nel nipote di Jules Favre, la progressiva liberazione di una convinzione atavica, un momento oppressa da influssi estranei. Però, la libertà di autonomia non significa per Maritain, come non significa per s. Paolo, la spontaneità animale, l’abbandono ai desideri, alle pulsioni irrazionali. La vera libertà suppone il dominio della ragione. Secondo la terminologia di Mortimer J. Adler, già citato, non è solo freedom of self-realization, ma anche freedom of self-perfection. O, secondo la terminologia degli scolastici, non è solo libertas a miseria, ma libertas a peccato. L’essere ragionevole non è veramente autonomo che seguendo la legge della ragione, che è la legge propria della volontà, dell’«appetito razionale», e non gl’impulsi della sensibilità o la pressione dell’ambiente. Il ruolo dell’educazione, quale viene esposto ne L'educazione al bivio — libro scritto in America, verso la fine della guerra e pubblicato prima in inglese — è precisamente di formare l’educando alla vera libertà. Nell’educazione morale, come nell’educazione letteraria, estetica o artistica, non si tratta di provvedere l’educando di regole bell’e fatte, da applicare quasi meccanicamiente: si tratta di fare in modo che l’alunno le faccia veramente sue e, nei suoi tentativi, talvolta goffi, ne sperimenti il valore, intuendo in un lampo cosa sia la bellezza, la lealtà, la fedeltà, ecc. Cerco qui di capire Maritain, piuttosto che di esporlo usando le sue parole. Mi pare che il suo concetto dell’educatore si avvicina a quanto dice s. Ignazio di colui che predica gli esetcizi spirituali, nella «seconda annotazione», all’inizio del libro omo-

121

nimo. Il santo gli raccomanda di non dilungarsi, perché il poco che l’esercitante troverà, meditando, gli darà più gusto e frutto spirituale che non le belle considerazioni venutegli dal di fuori. Maritain sarebbe forse stato un po’ sorpreso di questo avvicinamento. Comunque, poiché siamo avviati su quel binario, si potrebbe anche istituire un parallelo tra l’educazione secondo Maritain

e l'educazione

secondo

Rousseau,

uno

dei Tre rifor-

matori resi da Maritain responsabili dell’individualismo moderno. Ambedue richiedono che le conoscenze acquisite dall’educando diventino veramente sue; ambedue vogliono che l’educatore favorisca l’iniziativa, l’esperienza personale dell’alunno. Ma il primo non condivide l’ottimismo ingenuo del secondo. L’educazione ha una funzione direttiva, l’educando ha bisogno di essere guidato. Maritain non pensa che l’uomo, l’individuo, lasciato a se stesso, trovi naturalmente il suo equilibrio. Solo am-

maestrato — dalla scuola, ma anche, specialmente riguardo alla formazione della volontà, all’applicazione dei principi, da altre istanze educative: famiglia, Chiesa... — egli imparerà a sottomettere i suoi desideri, i suoi istinti, i suoi impulsi al controllo di una ragione ben formata e rettificata. E solo così acquisterà la vera libertà, solo così sarà un cittadino atto a far funzionare per il bene comune una democrazia degna di questo nome. Poiché Maritain, mi pare, concorda con Montesquieu, laddove questi vede il principio proprio della democrazia nella virtù dei cittadini. Ma non voglio insistere — e ho detto perché — su questo aspetto dell’opera di Maritain. Forse del resto, come lo ha notato uno dei suoi ferventi discepoli, Jean Daujat, il suo temperamento speculativo non lo disponeva particolarmente allo studio dei problemi concreti posti dalla realtà sociale e politica. Non si è mai impegnato attivamente nella politica neppure da giovane, l’unica carica ufficiale, che ha esercitato senza averla cercata, fu quella di ambasciatore della Francia presso la Santa Sede, dal 1945 al 1948. Non fa meraviglia che talune pagine entusiastiche delle sue Riflessioni sull'America ci sembrano oggi un po’ ingenue, o altre, poi soppresse, ne L'educazione al bivio, dove prospetta la futura «rieducazione» del popolo tedesco diretta dai vincitori, profondamente irrealiste (ma qui bisogna tener conto della mentalità tanto particolare dell’emigrato). Né deve stupire il fatto 122

che i più fedeli seguaci della filosofia di Maritain, non si sentono tutti tenuti a seguirlo nelle sue opzioni concrete. Ma questo ci porterebbe troppo avanti, in un terreno dove non voglio inoltrarmi. 7. CONCLUSIONE

Abbiamo considerato vari tipi di libertà in Maritain. Sarebbe forse possibile unificarli sotto una definizione abbastanza comprensibile sulla quale poter tutti convenire. Propongo, pertanto la seguente: «un atto è libero quando la sua causa della sua determinazione

è nel soggetto stesso, non in un principio o una

natura distinta da esso e quando non può essere determinato che da un oggetto che contenga in sé il valore stesso del soggetto». Definizione più larga di quella del libero arbitrio, poiché non esclude la necessità (per es., nell'amore beatifico), ma che

conviene solo in un senso imperfetto alla pura assenza di impedimento o di coazione esterna. Questa libertà (lbertas 4 coactione)

sarebbe soltanto un ap-

proccio della libertà nel senso pieno, il cui archetipo trascendente sarebbe l’Ipsurz Esse subsistens, termine delle «aspirazioni transnaturali», del quale la libertà di esultanza e il libero arbitrio rappresenterebbero due prospettive o, come direbbe uno husserliano, due Abschattungen. Non so veramente ciò che Maritain avrebbe pensato di siffatta presentazione. Poco importa. Basta per noi aver cercato di esporre, nelle sue articolazioni essenziali, il suo pensiero sulla libertà.

123

ANTONIO

BELLINGRERI

di Comunione

docente

e Liberazione

nel liceo scientifico «Don

Bosco»

di Palermo

La metafisica della persona in Jacques Maritain

1. LA NOZIONE DI PERSONA E IL NICHILISMO DELLA CULTURA CONTEMPORANEA

Il nostro tempo vive nel segno del nichilismo. Questa affermazione non è soltanto «teorica», ma ha immediatamente un riscontro storico. Auschwitz resta forse nel nostro secolo il sim-

bolo più funesto della negazione programmata dell’uomo. Come ha scritto T.W. Adorno, Auschwitz rappresenta infatti il tentativo di dimostrare in modo rigoroso che l’uomo è cosa e non uomo ('). Per questo forse oggi risulta difficile parlare di persona o di personalità: così come, più in generale, in tutta la cultura contemporanea è equivoco parlare dell’uomo (?). Per descrivere tale situazione, potremmo dire che la questione teox . retica prima che si pone non è più, come nella cultura mediex

vale, la «dimostrazione dell’esistenza di Dio», ma è piuttosto una

nuova demonstratio, quella dell’esistenza dell’uomo. Scopo della presente comunicazione è l’analisi del contributo di J. Maritain a questo problema, fondamentale per la nostra epoca: l’analisi cioè di quello che egli stesso ha definito il «personalismo della dottrina di S. Tommaso» (3). Tale dottrina con(1) Oltre Adorno, mi piace qui ricordare quanto scrive lo scrittore polacco Jan Jésef Szezepanski su Auschwitz e, più in generale, sui campi di concentramento: «il loro compito tra gli altri era anche di dimostrare la finzione dell’etica della fratellanza, il principio che nel modo più palese confuta la pretesa dell’elitarismo razziale [...] in un certo senso i campi di concentramento costituivano un frammento del dibattito filosofico definitivo» (J.J. Szezepanski, «Massimiliano Kolbe o la domanda sul destino», in Il Nuovo Aeropago, a. II [1983], n. 1, pp. 128-129). (2) Ho presente in particolare la tradizione del marxismo teorico italiano; mi permetto di rimandare su questo punto al mio testo, Filosofia e ideologia. Il «destino» teoretico di Antonio Banfi, CUSL, Milano 1982. (3) Cfr. J. Maritain, La personne et le bien commun, Desclée De Brouwer, Bruges 1946; tr. it., M. Mazzolani, La persona e il bene comune, Morcelliana, Brescia 19764, p. 8.

124

tiene una «dimostrazione dell’esistenza dell’uomo», centrata sul-

la verità che l’uomo non è cosa, ma è persona. Fisso i limiti della mia ricerca perché possa insieme emergere il contributo che essa può fornire. Espongo le linee di fondazione ontologica delle proprietà della persona così come si rintracciano nel pensero di Maritain. Il centro di questa ontologia è la nozione di sussistenza

(il suppositum

o soggetto)

(4). La

mia analisi si mantiene, nella sua prima parte, ad un livello di ontologia generale: parlerò infatti in generale del supposito; solo nella seconda parte, parlando del supposito umano o persona, si tratterà di una ontologia, o meglio di una metafisica della persona. La analisi sarà volta innanzitutto, in quella che potremmo chiamare la sua intentio fondamentalis, ad esporre la dottrina di Maritain. A diversi livelli, ed in modo dialetticamente connesso con la semplice explicatio terminorum, traccerò le linee di un confronto della posizione maritainiana con aspetti dell’antropologia contemporanea: con la proposta antropologica del giovane Marx e con l’equivoca fondazione di una sorta di «oltre - umanesimo» presente in Schopenhauer; e inoltre: la concezione della natura umana della metapsicologia freudiana e l’analisi delle relazioni interpersonali di Sartre. 2. IL PERSONALISMO MARITAINIANO E LA PROPOSTA ANTROPOLOGICA DEL GIOVANE MARX

Il Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente (1947) è forse

il testo che contiene in modo sintetico ed efficace i concetti fondamentali di una ontologia generale. La sua importanza particolare risiede però nell’assunto che Maritain in esso si propone di illustrare quello che viene esplicitamente chiamato «l’esistenzialismo della metafisica tomista». Il fondamento di questa prospettiva teoretica è, come è noto, il concetto di esse come actus essendi: l’atto dell’ente, ciò per cui l’ente è tale, emergente dal nulla (3). Questa prospettiva permette di superare una riduzione «essenzialistica» dell’essere, quella stessa che non solo ha (4) Userò nel testo i termini: «supposito» o «supposto», quali sinonimi di soggetto. (5) Cfr. J. Maritain, Court traité de l’existance et de l’existant, P. Hartmann ed., Paris 1947 (19642); tr. it., L. Vigone, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia 1974?, cap. I.

125

dominato filoni della filosofia antica, ma anche e soprattutto è stata caratteristica della Seconda Scolastica ed è presente nella filosofia moderna. Nel capitolo terzo, quello che parla degli esistenti, si coglie nel modo più pregnante il senso esistenzialista della metafisica tomista. Possiamo esprimere nel modo seguente le tesi caratteristiche del tomismo: 1) Dio non crea essenze, ma dei soggetti esistenti che sussistono nella natura individuale che li costituisce;

2) solo i soggetti individuali esercitano l’atto di esistere; 3) nella scala dei soggetti, quello che ha densità ontologica più elevata è la persona (9). Maritain afferma che s. Tommaso

e poi i

due commentatori che egli segue maggiormente, il Gaetano e Giovanni di s. Tommaso spiegando «perché nel piano della realtà, ciò per cui il quod che esiste ed agisce è diverso dal quid che noi concepiamo, essi attestano il carattere esistenziale della meta-

fisica, spezzano il mondo platonico dei puri oggetti, giustificano il passaggio al mondo dei soggetti o dei suppositi» (7). Ora, la nozione metafisica che permette di cogliere per l’intelligenza metafisica il valore e la realtà dei soggetti è quello di «sussistenza», con la quale si indica chi ha un’essenza, chi esercita l’esistenza e l’azione, mentre l’essenza è ciò che una cosa è.

Nell’opera che sto analizzando, Maritain afferma che per i suddetti commentatori di s. Tommaso, il problema è di farsi una nozione «oggettiva» del soggetto, cogliere «la proprietà per cui il soggetto è soggetto e non oggetto». Propriamente, non è possibile alla conoscenza conoscere i soggetti come soggetti; noi li conosciamo oggettivandoli e la realtà tipica del soggetto sembra sfuggire al mondo delle nozioni o idee intellettuali. Noi non conosciamo i soggetti come soggetti, li conosciamo però oggettivandoli: «l’oggetto è qualcosa del soggetto trasferito nello stato di esistenza immateriale dell’intelligenza in atto». Dunque, conosciamo

i soggetti negli aspetti o piuttosto «inspetti e pro-

spettive intelligibili mediante

le quali sono

resi presenti allo

spirito» (*). (6) Cfr. Op. cit., pp. 54, 51 e 55. (7) Cfr. Op. cit., pp. 53-54. (8) Cfr. Op. cit., pp. 54-55; 52 e 51. Questa prospettiva implica le tesi caratteristiche della gnoseologia tomista di Maritain. Innanzitutto, il realismo critico come riconoscimento dell’esse extra-mentale (res) irriducibile all’esse intenzionale che, riguardato proprio nella sua intenzionalità, è

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Possiamo qui cogliere la diversità d’impostazione e la distanza tra la posizione tomista e la prospettiva del cosiddetto «umanesimo» del giovane Marx. Mentre la Questione ebraica e la Einleitung costituiscono il momento di passaggio, dal punto di vista politico, dalla prospettiva feuerbachiana al materialismo storico, i Maroscritti economico - filosofici segnano questo stesso passaggio da un pun-

to di vista filosofico-critico. La critica alla religione, «paradigma di ogni critica» conduce Marx dalla filosofia alla prassi e alla prassi intesa come rivoluzione, dove il principio del cambiamento pratico è concepito in termini dialettici e la dialettica secondo la categoria della negatività (’). Ora, però, se è vero che il principio della negatività implica una essenzialità umana decaduta, non è l’ontologia per Marx ad offrire tale fondamento: in breve, è ricercato un altro fondamento non più filosofico, ma scientifico, la «critica dell’economia politica». Nei Manoscritti Marx ha fatto questo guadagno metodico essenziale: inizia un nuovo tipo di sapere. È la «teoria critica», un procedimento in senso critico la cui peculiarità epistemologica è di collocare alla base del discorso economico delle categorie filosofiche che di fatto divengono «regolative» dello stesso impianto teorico economico. Si tratta, infine, di un sapere in cui filosofia e scienza sono in qualche modo inscindibili (/°). Qual è allora la filosofia «implicita» di questo nuovo tipo di l’obiectum (cfr. J. Maritain, Distinguer pour unir ou les degrés du savoir, Desclée De Brouwer, Paris 1932-19637; tr. it., E. Maccagnolo, Distinguere per unire. I gradi del sapere, Morcelliana, Brescia 1974, cap. III). Ma è necessario qui tener pure presente il senso che secondo Maritain è necessario annettere alla abstractio formalis come «visualizzazione eidetica» che progressivamente pensa o «intende» l’essere nel terzo grado di intellegibilità (cfr. Sept Lecons sur l’étre et les premiers principes de la raison speculative, Téqui, Paris 1934; tr. it., L. Frattini e Altri, Sette lezioni sull'essere e i primi principi della ragione speculativa, Massimo, Milano 1981, Terza lezione). (9) Cfr. «Die Judenfrage» (1843), in Marx-Engels, Werke, Dietz, Berlin, vol. I (1970), pp. 330ss. (tr. it., R. Panzieri, La questione ebraica e altri scritti giovanili, Ed. Riuniti, Roma 19743, pp. 45ss); inoltre, «Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie. Einleitung» (1843-1844), in Marx-Engels, Werke, vol. cit., pp. 390ss. (tr. it., R. Panzieri, Op. cit., pp. 89ss.). (19) Cfr. «Okonomisch-philosophische Manuskripte» (1844), in Marx-

Engels, Werke, cit., Erginzungsband (1968) pp. 50ss.; tr. it., G. Della Volpe in Opere filosofiche giovanili, Ed. Riuniti, Roma 1971, pp. 143ss. (in particolare, pp. 193ss.; 217ss. e 257ss.).

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sapere? Possiamo, per brevità, esprimerla in tre tesi fondamentali: 1) l’uomo è un «ente generico», per il quale è costitutivo il rapporto con la natura, che è fondamentalmente un rapporto pratico; 2) l’uomo è un ente sociale, ossia per commentare

con

la celebre Tesi su Feuerbach «l’uomo è l’insieme dei rapporti sociali» (!!); 3) veramente

reale è l’«uomo

totale», l’essenza ge-

nerico-sociale, ossia possiamo dir meglio, l’intero sociale è il soggetto della storia. La posizione dell’«esistenzialismo tomista» esposta da Maritain ci pare, confrontata con quella marziana, più aderente alla realtà, alla verità. Nella prospettiva di Marx innanzitutto (seguendo una convinzione che è già propria di Hegel del resto), il genere risulta più reale della specie, del singolo:ciò è falso poiché implica l’ipostatizzazione di un’astrazione (*). Inoltre, la definizione del soggetto non è ontologica, ma storica: ciò che implica la dipendenza della «prassi» marxiana dallo «spirito» di Hegel e la pretesa che per se stessa essa fornisca il senso della storia. Questo risulta però contraddittorio: è necessario infatti ammettere un criterio di giudizio della verità di quel senso storicamente acquisito e definito (*). 3. LA SUSSISTENZA

DELLA PERSONA

Stringiamo più da vicino il nostro oggetto.

La nozione

che

permette di pensare i soggetti individuali che esercitano l’atto di esistere — i soli, ripeto, che propriamente esistono — è, come si è detto, quella di sussistenza. Maritain ha approfondito questo concetto già nel 1932, dedicandovi un capitoletto in «Appendice» a I grandi del sapere. In questo testo è detto che la sussistenza non è uno dei costitutivi quiddativi dell’essenza, nè propriamente è ancora l’esistenza. Essa è un modo sostanziale, la cui (11) «In seiner Wirklichkeit ist es (das menschliche Wesen) das Ensenble der gesellschaftlichen Verhaltnisse» (Karl Marx dber Feuerbach vom Jabre 1845, «Appendice», a F. Engels, L. Fewerbach und der Ausgang der Klassischen deutschen Philosophie [1888], Dietz, Berlin 1972, pp. 76; Werke, cit., vol. XXI [1972], p. 264). (12) Ci pare questo il senso teoretico costruttivo delle critiche dell’esistenzialismo. (13) Limite critico anche dell’esistenzialismo, nella misura in cui si riconduce all’affermazione che «l’esistenza precede l’essenza» (cfr. J. Maritain Court traité etc., tr. it. cit., pp. 10-14). I

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funzione propria è di «terminare l’essenza sostanziale, di far sì che sia incomunicabile, cioè che non possa comunicare con un’altra essenza

sostanziale

nell’esistenza che l’attua»

(!). Si tratta

dunque, per Maritain, di un modo dell’individuazione. Per un verso infatti si può parlare di individuazione nell’ordine dell’essenza: è l’individuazione propriamente detta, «ultima concrezione della natura nella stessa linea della natura». Esiste però anche una individuazione dell’essenza di fronte all’ordine dell’esistenza, grazie alla quale «essa si appropria in esclusiva l’esistenza che riceve» (!). La sussistenza è precisamente questo secondo

modo di individuazione per cui, detto con altri termini, un q40, un’essenza acquisita qualcosa di realissimo: di essere un g40d, di tenersi nell’essere, senza che tuttavia ciò aggiunga qualche nota nella sua natura. Nel 1952 Maritain prepara una nuova redazione di quella Appendice, nella quale accogliendo alcune osservazioni critiche del P. Diepen, apparse nella Revue Thomiste del 1950, modifica la sua posizione e propone una più precisa definizione della nozione di sussistenza. Seguiamo pet gradi il suo movimento fondativo. La simplex apprebensio fa sì che lo spirito colga in stato di universalità le essenze che sono realmente esistenti nelle cose in uno stato di singolarità, come nature individuali. L’intelligenza coglie il principium quo, «ciò in virtù di cui le cose, soggetti o esistenti, sono tali o tal altri» (!). L’essenza è potenza rispetto all'esistenza che è atto di perfezione; ciò avviene naturalmente nell’ordine di esercizio, perché l’essenza è forma o atto nell’ordine della determinazione (!). Ora il fatto originario di ogni sapere metafisico è l’intuizione intellettuale dell’essere come actus essendi esercitato dalla cosa o soggetto esistente: per essa l’esse è percepito come actus exercitus, «un’attività nella quale l’esistente stesso è impegnato, un’energia che esso sviluppa» (19). L'esistenza non è dunque solo ricevuta, ma anche esercitata. Il punto centrale della teoria filosofica della sussistenza è questo distinguo fra esistenza ricevuta ed esistenza eserci(14) J. Maritain, Distinguer pour unir etc., tr. it. cit., p. 504.

(15) Op. cit., pp. 502 e 508. (1) Op. cit., p. 511 e nota.

(17) Ibidem. (18) Op. cit., p. 512; cfr. Court traité etc., tr. it. cit., pp. 23ss.

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tata. L'essenza come tale, dice Maritain, limita infatti l’esistenza che «riceve»;

ma

per esercitare l’esistenza, è necessario

che

l'essenza sia completata dalla sussistenza e divenga così supposito (0 persona - lo vedremo meglio - nei caso dell’uomo) (!).

Dopo aver proposto questa precisazione, Maritain riprende gli

aspetti già analizzati nella prima redazione per definirli meglio e trarre quelle conseguenze che la distinzione ora proposta permette di inferire. La sussistenza, si legge, è lo stato di soggetto che tiene l’essenza fuori dall'ambito della semplice possibilità, «sovracompletandola» e permettendole di esercitare l’esistenza. Solo così, infatti, l’essenza è tenuta fuori dal nulla: si tratta di una causa formale attuatrice, che è l’esercizio «attivo» (e nel caso dell’uomo «autonomo») per cui la natura individuale costituisce «un centro di attività esistenziale ed operativa», un soggetto appunto (7). Qui sta in fondo il mistero dell’atto di esistere: per l’esse, attuare il supposito «significa essere l’attività fondamentale e assolutamente prima del supposito stesso [...] in forza del quale esso è diverso dal nulla» (?'). Ora, tutto questo processo implica e presuppone come suprema condizione di possibilità metafisica l’azione creatrice di Dio, Primo Agente che è la pienezza dell’essere, l’essere stesso, che possiede per effetto proprio; Dio comunica all’essenza insieme l’esistenza e la sussistenza. La lettura dei testi tomisti proposta da Maritain richiama alla mente, dialetticamente, alcuni passaggi dell’Etbica spinoziana e della Monadologia leibniziana. La posizione di s.Tommaso - vale la pena notarlo, anche solo di passaggio - risulta in modo sorprendente moderna. Potremmo infatti cogliere meglio ciò che Spinoza ha detto e non detto, e perciò velato - a causa di una fondamentale limitazione essenzialistica del suo pensiero - con la teoria del coratus (?); oppure ritrovare il significato fondamentalmente aristotelico della monadologia di Leibniz (*). Risulte(19) Distinguer pour unir etc., tr. it. cit., p. 512.

C|lO ne so (21) Ibidem. (22) Cfr. B. Spinoza, «Ethica more geometrico demonstrata», in Opera, Ed. C. Gebhardt, Heidelberg, Akademie der Wissenschaften, 4 voll., 19231926; tr. it., R. Cantoni, Etica, Utet, Torino 1972, p. III, prop. VI e VII,

pp. 197-198.

(3)eGlr.S, Vanni Rovighi, «Introduzione» a G.G. Leibniz, Monadologia (1714), tr. it. S. Vanni Rovighi, La Scuola, Brescia, pp. IX-XXXVIII.

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rebbe più chiaro inoltre che il limite della metafisica nazionalista è forse da riportare a quanto Maritain ha indicato in modo esplicito nel suo scritto Riflessioni sulla natura ferita: pochi filosofi posseggono veramente l’intuizione intellettuale dell’essere come actus essendi e perciò pochi filosofi si muovono ad un livello autenticamente metafisico (*). 4. METAFISICA DEI GRADI DELL'ESSERE E SPONTANEITA DELLA VITA INTELLETTIVA

Maritain definisce la metafisica tomista una metafisica dello essere che è anche una metafisica dei gradi dell’essere. E perciò, nella prospettiva dell’analogicità che è propria dell’essere, essa è una metafisica dei gradi di esercizio dell’esistenza: secondo livelli diversi e diverse densità ontologiche, gli esseri attuano la propria natura, sono anziché non essere e sono quello che sono. Nello

scritto

Sportaneità

e indipendenza,

Maritain

ci offre

un saggio di metafisica dei gradi di spontaneità e infine di indipendenza degli enti (*). La spontaneità è propriamente assenza di costrizione (cortrainte) ed è un modo di libertà distinta dal libero arbitrio, che è assenza di necessità

(o di necessitazione).

Mancando ogni coazione esterna, ogni ente seguendo la propria natura

(o forma sostanziale in senso aristotelico), tende ad esse-

re quello che è: a svilupparsi, ossia a tenersi nell’essere. Essendo poi la natura, in ogni ente, il primo principio di attività, ogni natura in ogni ente comporta pet se stessa un zzirimum di spon-

taneità. Già le sostanze corporali non viventi (ad esempio gli atomi) hanno questo mizimum di spontaneità. La loro attività è però puramente transitiva e si esercita nell’interazione dei cotpi gli uni sugli altri, seguendo le formzae inditae a natura, la struttura costitutiva delle sostanze corporee (*). Ad un secondo gra-

do di spontaneità si trovano gli organismi viventi della vita vegetativa. Qui ci si trova innanzitutto di fronte ad una forma di atti(2) Cfr. J. Maritain, «Réflexions sur la nature blessée et sur l’intuition de l’étre», in Revue Thomiste, a. LKVIII (1968), n. I, pp. 5-40; tr. it., P. Nepi, in Approches sans entraves, Città Nuova, Roma 1978, vol. II, . 26ss. (5) Cfr. De Bergson è Thomas d’Aquin, P. Hartmann, Paris 1947; tr. it., R. Bartolozzi, Da Bergson a Tommaso d’Aquino, Vita e Pensiero, Milano 19822, pp. 176-207.

(26) Sono, spiega Maritain, «i principi prossimi di attività che traducono nell’ordine operativo le forme sostanziali dei corpi» (Op. cif., p. 177).

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vità immanente, autocostruttiva ed autoperfezionante, anche se però al più basso grado. Essa si esercita seguendo le forme inditae a natura o «condizioni di costruzione» degli organismi, in un modo che è più «libero» rispetto alle sostanze corporali non vi-

venti. Al terzo grado appartiene invece la vita sensitiva dell’animale. Ci si trova qui nel grado più alto di spontaneità. L'attività infatti avviene secondo forzz4e non più inditae e perciò puramente naturali o fisiche, ma ricevute intenzionalmente o immaterialmente dal senso e che conseguono all’attività immanente che è la conoscenza del senso o della 4estizzativa, conoscenza propria dell’istinto. Si tratta però di un grado basso di conoscenza ed è pure un grado assai basso della libertà. È certo una vittoria sulla materia inanimata, ma i fini sono prestabiliti dalla natura e il dinamismo avviene secondo condizioni psichiche ricevute dalla natura (7°). Il grado ontologicamente più perfetto di sussistenza è quello della vita intellettiva dell’uomo, modo specifico di attuazione della natura che è nell’uomo. Qui ci troviamo di fronte ad un tutto che sussiste ed esiste per la sussistenza e l’esistenza dell’anima spirituale, intellettiva e volitiva. La sussistenza porta seco uno stato di esercizio non solo attivo, ma anche — e specificamente — autonomo. Esso cioè è veramente e propriamente un futto, una persona in quanto «non soltanto agisce secondo forme o modelli di attività non prestabiliti dalla sua natura, ma ricevuti dalla sua propria attività di conoscenza; ma ancora i fini dei suoi atti non gli sono, come quelli dell’istinto animale, imposti dalla natura» (?). In sostanza, la natura non è più la natura fisica ma è la natura spirituale. Ora, è in essa che si radica il mondo della libertà di scelta che è il mondo della moralità. A partire da questa dottrina dei diversi gradi di esercizio della esistenza, in particolare dalla distinzione ontologica tra natura fisica e spirituale, è possibile istituire un confronto critico con la posizione di Freud. Il testo del 1920, A/ di là del principio del piacere segna, come è noto, un momento importante nell’elaborazione della teoria delle pulsioni. Sarebbe certo essenziale affrontare preliminarmente le questioni di epistemologia che qui si incontrano e che vertono fon(22) Op. cit., pp. 179-180. (28) Op. cit., p. 181.

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damentalmente sul senso della teoria psicoanalitica come metapsicologia (?). Qui voglio però fermare l’attenzione soltanto sul senso che Freud propone, nella sua teoria delle pulsioni, dell’istinto di morte. Egli per spiegare un «fatto sperimentale», quello della corruzione, introduce una «tesi interpretativa» affatto caratteristica: «lo scopo finale verso cui tende ogni vita è la morte»; e, reciprocamente:

«il non-vivente

è anteriore

al vivente»

(*). Come ha osservato su questo punto G. Cottier, Freud opera qui «una sorta di colpo di mano», passando dalla finitudine alla finalità, «in quanto la finitezza dell’individuo vivente e delle sue forze limitate definiscono la sua destinazione intrinseca» (5). Si tratta qui di una questione che è forse decisiva per il definirsi del senso stesso del discorso psicanalitico. Alla base della affermazione freudiana c’è infatti, si potrebbe dire sviluppando l’osservazione di Cottier, un misconoscimento della distinzione ontologica tra i diversi gradi dell’essere e perciò dei diversi gradi di esercizio dell’esistenza. La posizione freudiana, in sostanza, presuppone a livello metafisico una sorta di «monismo della materia» per cui l’unità originaria è quella del mondo inorganico rispetto alla quale la vita costituisce una sorta di differenziazione, una separazione. L’istinto di morte che per Freud è più profondo dell’Eros, esprime una caratteristica nostalgia dello stato primordiale (*). Ci troviamo di fronte, infine, ad un monismo della vita umana, concezione univoca delle forze istintuali che pretenderebbe spiegare la complessità e la pluralità di gradi della vita.

(29) Cfr. per questo aspetto P. Ricoeur, De l’interprétation. Essai sur Freud, Ed. du Seuil, Paris 1965; tr. it., G. Renzi, Dell’interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 1967, pp. 77-180. (39) Cfr. S. Freud, «Jenseits des Lustprinzips» (1920), in Gesamzzelte Werke, Hogart Press, London, vol. XIII (1940), pp. 3-69; tr. it., A.M. Marietti e R. Corloni in Opere (1917-1923), Boringhieri, Torino, vol. IX (1977), pp. 187 ss. (31) G. Cottier, «‘“Libido” de Freud et “appetitus” de St. Thomas», in AA.VV., L’anthropologie de St. Thomas, Presses Universitaires, Fribourg 1974, pp. 100-101.

(32) Art. cit., pp. 107-108.

133

5. LA SOVRAESISTENZA IMMATERIALE INTELLIGENZA E AMORE

DELL'UOMO:

Maritain cita spesso questa famosa espressione di s. Tomma-

so: Persona significat id quod est perfectissimum in tota natura scilicet subsistens in razionali natura (S. Tb., I, q. 29, a. 3). Ora come già si è accennato, l’uomo attua la propria natura seguen-

do le caratteristiche che sono proprie di essa, la conoscenza razionale e la volontà libera propria dell'anima spirituale. Questo significa che l’uomo da sé raggiunge il fine, ossia realizza ciò che è, in quanto conosce e vuole tale fine. È questo il fondamento ontologico della proprietà della persona nell’ordine morale, la padronanza che ha di sé: la libertà come indeterminazione nei riguardi dei beni particolari e autodeterminazione verso ciò che conosce sul ratione boni. Esaminiamo in questo paragrafo alcuni aspetti della vita specifica dell’intelligenza e dell'amore, cui l’uomo è chiamato in quanto natura spirituale. Contro la tesi dell’esistenzialismo contemporaneo, bisogna affermare, ci dice Maritain nel Breve trattato, che il soggetto umano ha un’essenza, è una sostanza la cui forma è l’anima spirituale. In quanto individuo, l’uomo è parte dell’universo fisico, cioè materiale, sensibile e mobile (*); in quanto persona è natura spirituale, cioè immateriale: possiede quel costitutivo intellegibile o ontologico delle cose senza più niente di sensibile e materiale (*). Ora, il propriumz della natura spirituale è che essa esprime, per la sua densità ontologica, in modo eminente la generosità o espansività dell’essere ed è fonte di verità dinamica e di unificazione. Maritain scrive precisamente: «ancor prima dell’esercizio della libertà di scelta e per renderla possibile, l’esigenza più profonda della persona è di comunicare con l’altro e con gli altri» (*). Comunicare con l’altro è conoscere, essere l’altro in una identità intenzionale; comunicare con gli altri è amare, esser gli altri in una identità reale. Queste tesi sulla comunione ontologica che implicano le attività immateriali del conoscere e dell’amare permettono un nuovo confronto critico; ho presente qui l’analisi della libertà umana e delle relazioni interpersonali di cui ci parla Sartre. In partico(33) Cfr. J. Maritain, La personne etc., cit., pp. 21-23. (4) Cfr. J. Maritain, De Bergson etc., cit., pp. 182ss. (35) Cfr. J. Maritain, Court traité etc., cit., 24, p. 65 (corsivo mio).

lare voglio riferirmi a quel passaggio de L’Essere e il nulla in cui, dopo aver parlato delle forme diverse ed estreme che assume il «conflitto» tra i soggetti in ogni rapporto reciproco, il filosofo francese parla di una esperienza degli altri «non conflittuale». Si tratta dell’esperienza di essere insieme con altri soggetti colti non come trascendenze trascese (coscienze oggettivate), né come trascendenze che mi trascendono (coscienze oggettivanti), ma come trascendenze trascendenti (ossia che non mi trascen-

dono). Questa coscienza è analoga a quella che si coglie nel cogito preriflessivo: è una coscienza non tetica degli altri, «laterale». Si tratta però, a ben vedere, di una affermazione del Mir sein che resta solo a metà. Per Sartre infatti questa esperienza «non è originaria», originario essendo invece il rapporto di conflitto, ossia la coscienza individuale, trascendente le altre coscienze o da queste trascesa (*). Sartre pretende fondare le sue affermazioni solipsistiche e conflittuali, feromenologicamente. La prima osservazione che si può fare è che una corretta fenomenologia della coscienza porta piuttosto a ritenere contraddittoria e sterile proprio una tale posizione

(*). Va osservato

inoltre

che una

prospettiva

come

quella di Maritain si pone oltre il piano della fenomenologia; © forse sarebbe meglio dire che in essa è fondato metafisicamente il referto fenomenologico. Originario e costitutivo è infatti il rapporto tra lo spirito e la totalità del reale, l’altro e gli altri? ora il fondamento metafisico di questo è nel rapporto di trascendenza/convergenza reciproca di ogni ente in quanto diversa partecipazione dell’Assoluto reale. A più riprese, Maritain sottolinea — soprattutto negli scritti sull’educazione e in quelli di filosofia politica — che l’uomo realizza se stesso conquistando la sua personalità e la libertà di autonomia. Inoltre, sclo la padronanza di sé per il dono di sé consente alla soggettività di rivelarsi a se stessa: nella sovrabbondanza in amore e conoscenza, l’uomo giunge al più alto grado (36) Cfr. J.P. Sartre, L’Étre et le Néant, Gallimard, Paris 1943; tr. it., G. Del Bo, L'essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 19724, pp. 504-505. Cfr. pure il commento a queste pagine fatto da A. Bausola, Libertà e relazioni interpersonali: introduzione alla lettura dell’«Essere e il nulla», Vita e Pensiero, Milano 1973, pp. 120ss. (37) Cfr. le critiche pertinenti fatte da V. Melchiorre, Metacritica dell’eros, Vita e Pensiero, Milano 1977, pp. 50-52 e 91-103.

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di esistenza, una sorta di «sovraesistenza», che è l’esistenza che si dona (*).

C’è un aspetto per cui il problema di conquistare un più alto grado di esistenza è il problema centrale della cultura romantica, in particolare di quella tedesca. Lo possiamo rintracciare sia in quello che altrove (*#) ho proposto di chiamare «l’oltre - umanesimo» di Schopenhauer, tentativo di un superamento positivo dell’umanesimo, coscienza e soprattutto esperienza della distanza dall’inanità dell’esistenza: di fronte al non-senso totale dell’esistenza, è meglio non viver più da uomini. Ora, l’esperienza antiumana, oltre-umana di Schopenhauer esprime forse la più compiuta coscienza del romanticismo tedesco: si potrebbe a questo punto parlare di una sorta di «filosofia dell’ironia». Difatti, l’esperienza oltre-umana come esperienza di liberazione della conoscenza che nell’estetica porta alla pura coscienza, al «puro soggetto di un puro oggetto», e che nell’etica porta alla neutralizzazione e all’estasi negativa della volontà, è un’esperienza che implica la cancellazione della coscienza finita, dei limiti della individualità. È, in breve, la forma caratteristica che assume in questa filosofia il problema dell’immediazione (Un-mittelbarkeit) romantica, ossia del rifiuto di mediazione tra finito e infinito (‘). Ma, vien fatto di chiedersi, è possibile questa «trasparenza perfetta» del finito di cui parla Schopenhauer e l’estetica romantica? è possibile superare la finitezza, cancellarla in un’estasi puramente negativa? è insomma un'esigenza ragionevole «realizzare l’infinito» e un essere finito può, senza pregiudizio, accedere a una condizione assoluta ()? Ben diversa ci pare, più aderente alla realtà, la prospettiva del tomismo, disegnata da Maritain. Essa ha presente il dramma

cui è sottoposto l’uomo nel mondo. Per un verso, infatti, fonda (38) J. Maritain, Court traité etc., cit., pp. 66-67. (39) A. Bellingreri, «L’anti-umanesimo di A. Schopenhauer», in AA.VV., Umanesimo cristiano e umanesimi contemporanei, Atti del IX Congresso Nazionale A.D.I.F. (Palermo, 27-30 dic. 1982), Massimo, Milano 1983, pp. 244-255. (4) Cfr. l’art. cit. nella nota precedente e i relativi rimandi, in particolare quelli all'opera maggiore, Die Welt als Wille und Vorstellung, e quelli a F. Schlegel. (41) Sono le domande che Schopenhauer, filosofo dell’«oltre-umanesimo», lascia aperte; domande che, a ben vedere, sono le difficoltà in cui si imbatte tutta la cultura romantica tedesca.

136

l’aspirazione dell’uomo all’infinito; per un altro verso, però, tien conto dei limiti naturali che condannano allo scacco il suo desiderio di essere come Dio. Fermiamoci da ultimo a cogliere più analiticamente i termini e il senso di questa sorte dell’uomo nel cosmo. A motivo della sua natura spirituale e delle perfezioni trascendentali in sé, l’uomo aspira all’infinito. Invero ogni natura determinata tende a tutta la perfezione che è adeguata al suo essere; solo per questo motivo essa tende a ricongiungersi al superius, alla natura e perfezione maggiore. C’è però insieme in ogni natura, in particolare in ogni natura umana, un desiderio natu-

rale, che è della proprietà trascendentale in noi, di oltrepassare la condizione umana. Per questo, dice Maritain commentando s. Tommaso (‘), l’esse in noi aspira all’esse divinum e la personalità in noi aspira a una esistenza che sia esistere di intelligenza e di amore. In queste riflessioni sta il fondamento, in primo luogo, dell’azzore naturale di Dio che è proprio di ogni soggetto creato; in secondo luogo, dei desideri elitici, «condizionali ed inefficaci», di essere Dio che abitano l’uomo. Senonché le aspirazioni al transnaturale, al sovraumano, di cui ci rende ragione la trascendentalità analogica della nozione oggettiva di persona, sono sottomesse a delle limzitazioni naturali e il dramma dell’esistenza è lo scacco di queste aspirazioni. Il primo limite è il corpo, la natura materiale, la quale, pur essendo parte necessaria della persona umana gli impone

dei limiti e delle costrizioni. L’altra limitazione è la creatura lità stessa, come dipendenza nella natura della intelligenza e della volontà, che è ricevuta e non viene da noi; e come dipendenza nell'essere che contraddice l’aspirazione transnaturale propria dell’essere stesso della persona in sé a determinarsi essa stessa nel suo essere (‘). Solo in Dio, tali aspirazioni (o postulazioni) trascendentali dell’essere stesso della persona trovano,

se così si può dire, il pieno compimento. Dio è nella teologia razionale tomista, l’analogato supremo della persona, e dunque la spontaneità assoluta di amar-Si e di conoscer-Si; l’esistere di-

(42) Cfr. J. Maritain, De Bergson etc., cit., pp. 188-191 (il testo di S. Tommaso, è S. Tb. I, q. 63, a. 3). (43) Op. cit., pp. 183-188.

197

vino, necessità per eccellenza, è insieme libertà di indipendenza

e di esultazione per eccellenza (*).

(4) Op. cit., pp. 191-197. Maritain rivolge in queste pagine una critica al concetto di Dio di Cartesio e di Spinoza. Al primo rimprovera la confusione della libertà di spontaneità della esistenza divina con una libertà di scelta; del secondo, invece, egli critica la concezione univoca, non analogica della necessità divina. Maritain così conclude: «L’Essere di Dio, l’essere stesso per il quale Dio esiste con una assoluta necessità ontologica, è ciò che può chiamarsi la super-esistenza immateriale di intellezione e di amore» (p. 196).

138

MANLIO

CORSELLI di Palermo

dell’Università

Dimensione gnostica e dimensione morale della “filosofia della storia” nel giudizio di Maritain

1. FILOSOFIA

DELLA

STORIA

E CONGIUNTURA

CULTURALE

L’argomento che costituisce materia della nostra considerazione non muove da un interesse rivolto verso quella specifica filosofia della storia di cui Maritain, come pensatore, è titolare, ma trova la sua giustificazione nell’esame della posizione da lui assunta nei confronti di un genere filosofico che è stato in auge nella storia del pensiero occidentale in periodi relativamente recenti. Ci preme, per il momento, non tanto sondare il quadro dei riferimenti da cui è possibile enucleare una teoria maritainiana della storia quanto puntualizzare l’atteggiamento che il pensatore francese tiene nei riguardi di questa disciplina che è, insie-

me, disciplina antica e moderna,

arcaica e del nostro

tempo.

«Oggi essa non solo è riconosciuta ma in un certo senso ne sia-

mo avvelenati. Noi abbiamo ereditato dal sec. XIX i sistemi di filosofia della storia più dogmatici, arbitrari e sofistici. E ciò, lungi dal farci disprezzare e rifiutare la filosofia della storia, dovrebbe stimolare a scoprite quanto v’è in essa di autentico e di positivo» (!). C'è, quindi, una «vicenda di pensiero» che ci coinvolge fino a tal punto da permeare la coscienza contemporanea secondo un

abito intellettuale ed esistenziale di «conformità alla storia». Questa vicenda di pensiero Maritain scruta non già nel senso di una ricapitolazione storiografica di alcuni indirizzi filosofici ma nel senso di un tentativo di definizione di un peculiare «spazio teorico» in cui essa si rende possibile e disponibile. Da questo

punto di vista l’eredità di cui noi continuiamo a fruire gli si pre(1) J. Maritain, Per una filosofia della storia, Morcelliana, Brescia, 1967,

p. 24; n. 13.

159

senta come una felice occasione sul limite della quale cominciare a ragionare criticamente i parametri di determinazione dell’ambito in questione. Accingendosi a questa impresa, Maritain ha viva consapevolezza che un gesto speculativo ha «già» disegnato il topos della moderna filosofia della storia e ne ha movimentato i diversi sistemi di pensiero che vi hanno dimora. In virtù di siffatto gesto speculativo, che ha una sua datazione nella fatica hegeliana di pensare, lo «storicismo» e la «storicità» delle filosofe del Novecento rappresentano le sporgenze tematiche di un discorso privo di soluzione di continuità che non costituisce un sistema per sé ma che è tutto quanto contratto in una otigi-

naria confisca della verità dovuta ad altri. Oggi «riconosciamo» la filosofia della storia perché torniamo a conoscerla nuovamente attraverso il progetto di costruzione di un assetto epistemologico proprio della ragione storica condotto dallo storicismo tedesco, oppure perché torniamo nuovamente a ravvisarla attraverso soggetti collettivi capaci di guadagnare l’autocoscienza, ovvero perché torniamo ancora a rivederla, mistificata e metaforizzata, nella raffigurazione della condizione dell’Esserci. Soprattutto la riconosciamo in quanto la valutiamo positivamente non più come un genere filosofico che possiede una sua attuale vitalità ma come una consolidata tradizione mentale che si rivolge alla storia fiduciosa di cogliervi nessi di conoscenza, un ordine intellegibile della disposizione degli eventi nel tempo, una forza di posizione e di realizzazione di scopi. Per Maritain l’insieme di questi motivi fa sì che la filosofia della storia si presenti sotto una duplice veste: per un verso appare come una struttura di pensiero le cui linee interne sviluppano una varietà di discorso riconducibile, tuttavia, ad un comune tratto gnostico, per altro verso proprio perché essa è una precipua manifestazione di una certa cultura — quella cristianooccidentale — esprime una esigenza di conoscenza degna di apprezzamento. In sostanza, la filosofia della storia, intesa come un particolare prodotto mentale di un’altrettanto particolare congiuntura culturale, va valutata iuxta propria principia, cioè va giudicata secondo quella parabola evangelica del grano e del loglio che Maritain reputa essere una delle leggi fondamentali della vita storica. La filosofia della storia, pertanto, la si può ‘concepire come un campo di teoresi dove germogliano insieme 140

dottrine positive e dottrine negative. Lungi dal distruggere un terreno così coltivato è opportuno, invece, avere una capacità di

discernimento tale da procedere, con retto intendimento, ad una netta separazione tra ciò che corrisponde ad una autentica visione della realtà e ciò che si accompagna ad una sua falsa rappresentazione. L’intento del pensatore francese mira, quindi, a reintegrare questa disciplina in un corretto rapporto col sapere filosofico, incominciando a lumeggiare quelli che sembrano essere stati i motivi principali per i quali questo legame si è alterato. Tra questi Maritain annovera l’ambizioso progetto che la filosofia hegeliana nutre di percorrere tutto il movimento attraverso cui lo Spirito si realizza nella sua storia. «Essa ha cercato di assorbire in sé tutta l’eredità teologica dell’umanità per rifonderla in termini puramente razionali. Essa è stata uno sforzo per digerire e assimilare filosoficamente tutti i problemi religiosi e teologici, in verità tutti i problemi spirituali dell’umanità. In ultima analisi, la metafisica hegeliana e la filosofia hegeliana della storia sono la Gnosi moderna, un puro gnosticismo» (7). Ed è proprio una professione di gnosi quella che spinge il filosofo a padroneggiare l’intero corso della storia sia nella persuasione di riuscire a totalizzare la classe degli eventi in un unico contesto semantico sia nella convinzione di poterne evidenziare pienamente l’intellegibilità. La storia, quella storia che è stata ordinata in un certo modo, diventa una sorta di oggetto scomponibile e ricomponibile, come se fosse un meccanismo spiegabile nei suoi interni ingranaggi e prevedibile nelle sequenze del suo dinamismo. Diventa pure un immenso feticcio in cui gli avvenimenti sono fisiologicamente ineluttabili e tutti quanti giustificati da leggi necessarie. Se la storia razionalmente concepita, quella hegeliana per intenderci, appartiene alla sfera degli idola specus, la storia razionalmente pre-detta, quella di Comte per esempio, appartiene alla sfera degli idola tribus. Ciò che le accomuna e che rende paradossalmente omogenea la metafisica dell’una e l’antimetafisica dell’altra è il modo di esercitare la conoscenza secondo quelli che Maritain chiama, sulle orme dello storico H.I. Marrou, i «peccati capitali» di una selezione arbitraria del materiale e di una spiegazione che ha l’ambizione di essere a priori, esaustiva e pienamente titolare dell’oggetto che ha delucidato. (2) Ivi, p. 26.

141

2. SIGNIFICATO SAPIENZIALE DELLA RIFLESSIONE SULLA

STORIA

Al contrario, il filosofo francese ritiene che la filosofia della storia è autenticamente motivata quando cessa di prospettarsi come paradigma di un sapere assoluto e si converte nella morfologia della istoriosofia. Nell’avere riguadagnato questo suo antichissimo significato sapienziale, in virtù del quale essa nacque sotto il segno cristiano dell’interesse verso il problema della caduta e della salvezza dell’uomo, la filosofia della storia rivitalizza i propri compiti incominciando a rinunciare alla centralità che detiene nella «enciclopedia delle scienze filosofiche» per aprirsi all’orizzonte della integralità raziocinativa ed esistentiva. «La filosofia della storia — sostiene Garulli — non potrà rivendicare un proprio orizzonte autonomo, come avviene con Hegel,

con Marx o con Comte (cui potrebbe aggiungersi la linea dello storicismo contemporaneo), ma questo limite è largamente compensato dalla visione integrale dell’esistenza, entro le cui linee è pensabile per Maritain la natura stessa della storia»

(*).

Il declino del suo primato, sta a significare, quindi, che siffatta vicenda di pensiero ha «ancora» un senso a condizione che si espliciti in un rapporto organicamente integrato con le altre manifestazioni del pensiero ed in una risoluzione altrettanto armonica con gli atti pratici che compongono la costellazione dell’esistenza. Il tomismo, con la sua attitudine a penetrare intellettivamente la realtà, può fungere da idoneo strumento di revisione fondativa della nostra disciplina, revisione che è, innanzi tutto, ripristino di una ben circoscritta dimensione gnoseologica. Maritain, in quanto fedele interprete della filosofia di Tommaso, si fa latore della tesi secondo la quale la conoscenza differisce dal sapere perché si obbliga ai dati sensoriali assumendoli come termini di riferimento per la risoluzione del giudizio dell’intelletto. Da questo punto di vista il processo conoscitivo che inerisce alla filosofia della storia rappresenta una ricognizione che si estende lungo un arco di dati che sono, al pari di tutti gli altri dati, singolari e particolari, sicché il giudizio che ne scaturisce deve essere ricondotto, dopo una

serie di astrazioni, al livello

(3) E. Garulli, «La “filosofia della storia” in Jacques Maritain: senso cristiano e partecipazione politica», in AA.VV., Il pensiero politico di Jacques Maritain, Massimo, Milano 1974, p. 155.

142

dell’individuale che gli compete come suo oggetto. Lo schema tratteggiato non dà però conto di una aporia che è connaturata al tipo di spiegazione che si serve di uno o più elementi individuali come strumenti euristici di una realtà pur essa individuale. Nel lavoro storiografico, infatti, lo storico ricostruisce un aspetto del passato umano collegando fatti, episodi, avvenimenti secondo una logica della causalità che lascia impregiudicata sia la ragione per la quale si seleziona un certo contesto sia le ragioni d’essere intellegibili delle componenti l’infinita congerie storica. «La spiegazione storica, poiché individuale, partecipa dell’infinità potenziale della materia; essa non è mai finita e non consegue mai (in quanto spiegazione) la certezza della scienza. Essa non ci fornisce mai una ragion d'essere ricavata da ciò che le cose sozo nella loro essenza [...1» (4). Quella storica è una conoscenza carente di statuto scientifico, è manchevole della compiutezza che deriva dalla dimostrazione rigorosa e necessitante, è prigioniera di quella infinità che dovrebbe padroneggiare almeno nella enucleazione di alcune verità di fatto. Ciò dipende dalla difficoltà intrinseca di costringere la «vigenza reale» della contingenza, compendiata nelle res gestae, nella struttura razionale che è la scienza di determinarsi al concetto e solo in virtù del concetto. Maritain sa che non può sottovalutare questa aporia la quale, pur appartenente all’ordine dell’ipotesi della storia come scienza, provoca una discrasia nella sua considerazione razionale della storia. In sostanza, intendiamo sostenere che la concezione classica della scienza lo fa saputo della problematicità dell’incontro tra filosofia e storia là dove si contrappongono la verità

dell’episteme e la probabilità dell’empiria. La filosofia della storia, infatti, dà corpo ad una sinossi tra ciò che è governato dalla scienza e ciò che scienza non è, una congiunzione che condivide un medesimo materiale, per l’appunto quello storico, ma non un medesimo oggetto formale. Il pensiero moderno ha però sfruttato la discrasia nel senso di un sondaggio dei presupposti epistemologici e metodologici della conoscenza storica, riuscendo a costruire una attrezzatura cognitiva rispettosa del carattere irripetibile del dato storico e funzionale ad esso. Maritain, in(4) J. Maritain, Op. cit., p. 12.

143

vece, è portato a sostenere non solo la negazione della scientificità della historia rerum gestarum ma anche la negazione della natura scientifica del suo oggetto formale rispetto all’affermazione della scientificità e dell’oggetto formale delle discipline scientifico-naturali e di quello della filosofia della natura. «Nel caso della filosofia della storia, similmente, avremo un oggetto «scientifico» in quanto esso sarà quello delia filosofia, ma non in quanto la materia considerata sia stata previamente scrutata da qualche altra disciplina scientifica» (°). Accade allora che, se per la filosofia della storia è valida la medesima osservazione che si compie per la filosofia della natura e per la filosofia dell’arte circa l’irrilevanza di una preliminare spiegazione scientifica del soggetto materiale da parte della fisica, della chimica e dell’arte, essa però necessita di una certezza fattuale che le può provenire esclusivamente dalla storiografia. La storia come bhisforia rerum gestarum non è una scienza perché i suoi contenuti oggettivi non sono universali, necessari, né passibili dell’astrazione intellettiva e pur tuttavia è condizione della certificazione della storia come res gestae. Sembra pertanto alquanto strano che Maritain, intendendo la storiografia come soltanto capace di certezze fattuali, sia costretto poi a ritenerla in qualche modo preliminare alla filosofia della storia seppure come orizzonte di documentazione e non di spiegazione. Probabilmente possiamo cogliere, in questa impostazione, la memoria del tema vichiano della conversione del fatto nel vero, che viene qui sciolto ricorrendo al seguente espediente. C'è una certezza fattuale la cui credibilità è testimoniata dalla profondità d’animo e dalla correttezza professionale dello storico di mestiere, e c'è una verità razionale la cui attendibilità è comprovata dall’acume del filosofo di sapere integrare il metodo induttivo con quello deduttivo: la deontologia dello storico non è però una condizione tale da garantire l’enucleazione di oggetti storico-universali (la tipicità di un’epoca o l’essenzialità di un aspetto della storia) che, al contrario, devono essere rilevati per astrazione induttiva e resi, successivamente, veri alla

luce di una operazione deduttiva che procede da verità filosofiche. Si comprende bene, a questo punto, come la responsabilità (5) Ivi, p. 13.

144

del trapasso del fatto nel vero sia del tutto riservata al filosofo della storia, nulla egli concedendo al contributo del valore del lavoro dello storico. 3. IL SENSO

DELLA

STORIA

E LA FONDAZIONE

MORALE

La curva parabolica, disegnata dalla filosofia della storia nella sua traiettoria orientata verso l’apprendimento nozionale del singolare, denota con estrema chiarezza come le leggi funzionali e le leggi vettoriali, fissate da Maritain per via induttiva, presuppongano un piano di radicazione dominato dalla filosofia morale. Non importa più restringere il compito critico all’esplorazione della legittimità teoretica, è notevole al contrario puntare l’attenzione sugli «atti umani visti nell’evoluzione dell’umanità»

(9), che ap-

paiono come gesti di libertà, prese di posizioni, assunzioni di responsabilità. La riflessione sulla storia, inoltre, si apre su quella avventura umana che è il pellegrinaggio temporale e mondano, un excursus destinato alla realizzazione di fini naturali sullo sfondo della relazione con la Rivelazione. L’antimoderno Maritain non ha nessuna difficoltà a pronunciare l’origine della filosofia della storia nel nome della teologia della storia e, sebbene distingue la prima dalla seconda, ci ricorda che la sapienza filosofica e la sapienza teologica furono fuse insieme da Agostino nella lettura della alleanza drammatica dell’uomo con Dio. Il mistero del mondo ed il mistero della Chiesa, la storia della salvezza ed il destino metastorico dell’intera umanità non possono ricevere risposte da dottrine ontologiche ma, come nota Pieper, vengono illuminate nella loro indisgiungibile connessione dall’interrogarsi su un gescheben che è un accadere originario ed un Geschick che è una destinazione assoluta. La filosofia della storia non può essere sorretta dalla filosofia dell’essere, essa viene adeguatamente sostanziata dalla teologia e, per converso, ne comprende la motivazione più profonda quando riconduce il senso dell’accadere nella rivelazione del progetto salvifico e nella incidenza del potere di nientificazione. «Una filosofia della storia — sostiene il pensatore tedesco — che si rifiuti di rifarsi alla teologia cessa di essere filosofia per diventare pseudo-filosofia — e questo in un senso (6) Ivi, p. 36.

145

molto più radicale di quanto non accada per la filosofia in genere [...]. Dove l’appoggio alla teologia viene respinto, là il carattere filosofico resta realmente distrutto; il problema cessa di indirizzarsi alla radice delle cose, e, degenerando in oggetti di interesse specialistico, perde la sua importanza umana. Ciò vale ‘innanzi tutto’ per la filosofia della storia: essa, in tal caso, non giunge a sussistere, neppure come problema e sua impostazione» (7).

Lungi da una così netta riprovazione, Maritain sa che il punto di vista universale della filosofia della storia non può essere quello ingenuamente descrittivo e neppure quello più elaborato della comprensione della totalità delle esperienze vissute storiche, bensì quello della inclusione di un significato metastorico. Si tratta cioè di essere capaci di definire una tessitura dove il dato storico risulti coesteso al dato teologico, in quel modo per cui i fili dell’esistenza vengono riannodati in un ordìto morale. «[...] Non c’è una filosofia della storia completa o adeguata senza una connessione con certi dati profetici o teologici. Da un altro lato (ed è questo un fatto contingente ed accidentale), le mie riflessioni e considerazioni personali sulla filosofia della storia, da molti anni in qua, sono state sollecitate dal problema pratico della condizione dei cristiani delle loro difficoltà e responsabilità temporali — nella società contemporanea e da uno sforzo per scoprire ed elaborare un insieme di elementi intellettuali che permettesse di dare una risposta a questo problema» (8%). L’esigenza maritainiana di ricomporre la cristianità e la seco-

larità, di pareggiare il cristianesimo ed il mondo cristiano, lasciano trasparire una concezione dualistica della storia che, come sostiene Forni (°) può essere interpretata come chiave di lettura di un fallimento storico oppure come difficoltà di vivere nella città degli uomini. Tuttavia ricorrere ad una filosofia della (7) J. Pieper, Sulla fine del tempo, Morcelliana, passim. (3) J. Maritain, Op. cit., p. 131. (9) Cfr. G. Forni, «Storia e prassi nel pensiero VV., Il pensiero politico di Jacques Maritain, cit., tore La filosofia della storia nel pensiero politico Bologna 1965, cui si rimanda per una conoscenza stiva dell’argomento.

146

Brescia 1959, pp. 22-23

di J. Maritain», in AA. p. 126. Dello stesso audi J. Maritain, Patron, più articolata ed esau-

storia, depurata dall’antropoteismo e filtrata dalle coordinate della redenzione, rappresenta un motivo valido per rivitalizzare la prassi cristiana ed una ragione sufficiente per storicizzare il millenarismo. L’intento di Maritain si svolge secondo questo scopo e merita di essere riproposto in funzione di apporto di

saggezza all’agire dell’uomo storico (!°).

(19) E. Garulli, Op. cit., p. 157.

147

GIANCARLO GALEAZZI direttore dell'Ufficio della formazione dell'Istituto Internazionale «J. Maritain»

Il problema della «filosofia cristiana» in Jacques Maritain

1. FILOSOFIA E LAICITA

Va subito rilevato che il problema della «filosofia cristiana» è stato centrale nel pensiero di Jacques Maritain, il quale ha sviluppato una propria impostazione che si può articolare secondo i tre periodi fondamentali del suo itinerario filosofico; vogliamo cioè dire che la posizione di Maritain ha una sua unità, rintracciabile nella rivendicazione della specificità della filosofia, ma presenta anche una evoluzione, nel senso che, dagli anni ’10 agli anni ’30 agli anni ’60, Maritain chiarisce il concetto di «filosofia cristiana» in termini sempre più aperti e dinamici, come appare

fin dalla questione terminologica. È infatti da ricordare che l’espressione «filosofia cristiana» non sembrava a Maritain adeguata, come ha dichiarato a più riprese. Così in Scienza e saggezza (1935), dove confessava che tale denominazione «a dire il vero non mi soddisfa molto», giacché evoca «non so quale confusione o diminuzione della filosofia ad opera del cristianesimo, non so quale arruolamento della filosofia in una pia confraternita o in una setta devozionale»

(!). Così

anche ne I/ contadino della Garonna (1966), dove Maritain tor-

nava ad affermare che «questi diavoli di parole come filosofia cristiana o politica cristiana sono davvero imbarazzanti: sembrano quasi — e la gente capisce sempre male — clericaleggiare una cosa secolare per natura e imporle un'etichetta confessionale» (?) e aggiunge che anche l’altra espressione: «filosofia nel(1) J. Maritain, Scienza e saggezza, Borla, Torino 1963, p. 23. (2) I Maritain, I/ contadino della Garonna, Morcelliana, Brescia p. 214.

148

1969,

la fede», già usata in Scienza e saggezza, pur essendo «forse migliore di filosofia cristiana», «si presta ugualmente ad equivoci». Così infine in Approches sans entraves (1973), dove Maritain ribadiva che l’espressione filosofia cristiana «rischia in effetti di essere del tutto fraintesa, e come se la filosofia in questione fosse più o meno imbrigliata da convenienze di ordine confessionale» (*). Da queste parole traspare con chiarezza la preoccupazione che

ha sempre accompagnato Maritain: quella di evitare che il problema si connotasse in termini confessionali o clericali. Coerentemente con la sua ispirazione generale, Maritain anche in questo caso persegue l’obiettivo fondamentale di individuare e verificare il valore della «laicità cristiana», che — chiarisce Maritain — comporta il superamento sia del sacralismo medievale sia del secolarismo moderno. Si tratta, in altre parole, di libe-

rare la filosofia dall’imperialismo teologico per un verso e dall’arroganza scientista per l’altro. La riduzione della filosofia ad una funzione meramente ancillare ovvero la sua esaltazione nella prospettiva razionalistica sono da rifiutare come unilaterali. Ciò comporta una «ultramodernità» che Maritain propone fin dall’inizio e che espliciterà con crescente precisione lungo il suo cammino filosofico. 2. IL PRIMO

MARITAIN

Già nella prima fase del suo pensiero, Maritain persegue un duplice obiettivo: per un verso rivendicare l’«autonomia» della filosofia, e per altro verso sottolineare il «nesso» con la fede. Infatti, con s. Tommaso, Maritain considera la filosofia come «perfectum opus rationis», e nello stesso tempo pone l’accento sulla necessità di evitare la radicalizzazione moderna che fa sconfinare la filosofia nell’intellettualismo. Motivato da queste preoccupazioni, Maritain afferma in Antimoderno — e più precisamente nel primo saggio su «La scienza moderna e la ragione» (1910) — che «nell’affrontare i problemi filosofici, la ragione è

ristabilita al suo posto preminente, grazie alla fede che l’ha rigenerata: anzi tutto perché le offre l’insieme armonico delle verità rivelate [...]; poi perché le consente una più ferma certezza (3) J. Maritain, Approches sans entraves, Città Nuova, Roma 1977, p. 90.

149

anche riguardo agli stessi primi principi dell’ordine naturale; infine e soprattutto perché la riordina e la risana dall’interno» (permettendole così di evitare sia lo scetticismo che il razionali

smo). Per questo, sempre in Antimoderno — nel saggio su «La libertà intellettuale» (1914) — Maritain sostiene che «la filosofia cristiana ci dà la vera libertà dello spirito». La rivendicazione del nesso tra filosofia e cristianesimo è sostenuta da Maritain senza alcun sacralismo

(s. Tommaso è «apo-

stolo dei tempi moderni»), con la piena coscienza che tale rapporto non inficia l'autonomia della filosofia. Infatti, come scrive nell’articolo su «Lo spirito di Descartes» (1922): «una filosofia non deve essere cristiana, ma semplicemente vera, e allora soltanto essa è autenticamente

cristiana»

(*) e in un altro articolo,

«Il tomismo e la civiltà» (1928) ribadisce che la filosofia «non

ha in nessun modo il suo punto d’appoggio nella fede religiosa, bensì nella sola evidenza dell’oggetto e nell’adesione dell’intelligenza a tutto l’ambito della realtà naturalmente intelligibile». Insomma, la filosofia vale «non perché cristiana, ma perché può dimostrare la sua verità» (5). 3. MARITAIN

NEGLI

ANNI

’30

Ma è all’inizio degli anni ’30 che il problema viene analiticamente affrontato da Maritain, il quale partecipa al dibattito che si svolge alla Societé Francaise de Philosophie. Nel suo intervento ($) Maritain sviluppa la sua analisi sulla base della distinzione

tra l’ordine della specificazione o «natura» della filosofia e l’ordine d’esercizio o «stato» della filosofia. Come lo stesso Maritain avverte, «questa distinzione presuppone l’idea che la filosofia sia qualcosa in se stessa, qualcosa di determinato». Si tratta di una abstractio formalis che — è sempre Maritain a precisarlo — «devia il nostro sguardo dalle condizioni esistenziali per portarlo sull’ordine dell’essenzialità; pone davanti al nostro pensiero un possibile; lascia da parte lo stato per considerare la natura». Ebbene, la natura della filosofia è determinata dall’«oggetto al (4) (5) (6) della

150

In Les Lettres, n. 1, p. 182. In Revue de Philosophie, p. 110. Pubblicato sul Bulletin della SFPh, 1931; cfr. AA.VV., Il problema filosofia cristiana, a cura di A. Livi, Patron, Bologna 1974.

quale si collega per essenza — in nessun modo dal soggetto ove essa risiede»; pertanto, dal punto di vista della natura la filosofia può essere specificata in senso solo razionale. Tuttavia non possiamo dimenticare che tale prospettiva è astratta; nel con-

creto «la considerazione dell’essenza non basta più, quella dello stato si impone», e da questo punto di vista la specificità «cristiana» risulta legittima, perché non ne modifica l’essenza, anche se «pone il soggetto umano nelle migliori condizioni per l’esercizio della ragione». Per comprendere

appieno

questa impostazione

occorre

ricor-

dare che Maritain nega che «la filosofia, nella sua genesi e formazione, non deve nulla se non alla ragione»; secondo Maritain invece l’intelligenza umana è «un intelletto che ragiona»: ciò significa che bisogna distinguere tra intelletto e ragione: non come due facoltà diverse, ma «come due aspetti diversi — a causa di due diversi modi di operare — di una sola e identica facoltà umana»; infatti, «l’intelligenza ha come fine specifico l’essere intelligibile, come bisogno essenziale l’evidenza o, almeno, la certezza, e s’avvale della dimostrazione solo per raggiungere questo fine»; e in quanto fa uso delle dimostrazioni e delle spiegazioni per conquistare l’essere intelligibile, la nostra intelligenza si chiama ratio, ragione. Così in Antimoderno

(7) e la distinzio-

ne costituisce un caposaldo della filosofia di Maritain, il quale la ribadisce anche ne I/ contadino della Garonna,

dove afferma

che l’intelletto umano, benché sia una «ragione» che amministra i suoi concetti, ligia alla più stretta logica (e questo gli proviene dalla sua condizione carnale), è anche un «intelletto», cioè una potenza capace di vedere nell’ordine intelligibile. Si tratta di «un’intuizione intellettuale, puramente e strettamente intellettuale, che è il bene proprio e sacro dell’intelligenza come tale; cioè innanzi tutto dell’intuizione assolutamente primaria senza la quale non

esiste sapere filosofico:

l'intuizione

dell'essere»

(*).

Anche in Approches sans entraves Maritain insiste su questa distinzione, ricordando che l’intelligenza, in quanto intelletto, «è capace di presa intuitiva: diventando la cosa intentionaliter essa la vede, o legge in essa (intelligere è intus legere)», e, in quanto ragione, «procede con un discorso che riunisce tra loro con(7) J. Maritain, Antimoderno, Logos, Roma, pp. 27-28. (8) J. Maritain, Il contadino della Garonna, cit., pp. 166-167.

DI

cetti per far passare attraverso

essi l’evidenza dei primi prin-

cipi» (°).

Ma torniamo all’altra distinzione: quella tra natura e stato della filosofia, per ricordare che essa si trova quasi letteralmente ripetuta in due opere fondamentali come Sulla filosofia cristiana (1933) e Scienza e saggezza (1935), dove sottolinea che la filosofia «riceve dalla fede e dalla rivelazione dei soccorsi senza i quali, come hanno rilevato i teologi, è incapace di realizzare pienamente [...] le esigenze della sua natura». Ne consegue che «la

filosofia cristiana è cristiana:

non, senza dubbio, specificamente,

ma in maniera intrinseca e vitale» (19). Se, dunque, quello che «importa di una filosofia non è che essa sia cristiana, ma che essa sia vera», importa anche sottolineare che «nell’ordine cristiano la filosofia si trova in migliori condizioni di esercizio, in uno stato di vero privilegio» (!!). Insomma, se volessimo sintetizzare la posizione di Maritain in questo periodo potremmo usare le parole de I gradi del sapere (1932) e dire che «dobbiamo chiamare filosofia cristiana una filosofia propriamente detta, una saggezza che si definisca come l’opera perfetta della ragione (perfectum opus rationis) e che si trovi, riguardo all’oggetto, in accordo con le verità rivelate, e riguardo al soggetto in connessione vitale con le energie soprannaturali da cui l’abito filosofico è distinto, ma non separato nell’anima cristiana» (!). In breve, Maritain è convinto che «di fatto il filosofo, quando prende come oggetto di studio qualcosa che tocca le condizioni esistenziali dell’uomo e il suo agire di persona libera [...], non può procedere scientificamente se non rispetta l’integrità del suo oggetto e, pertanto, la realtà di ordine soprannaturale implicate di fatto dall’oggetto stesso» (!). La conclusione, cui si perviene, può dirsi riassunta in uno scritto del 1941: Cartesio e la religione dove Maritain esprime la convinzione che «una filosofia autenticamente cristiana, vale a dire vivificata dall’interno dai doni della fede, possa essere la

(12) J. Maritain, Distinguere per unire. I gradi del sapere, Morcelliana, Brescia 1981.

(13) Ivi, p. 9.

152

sola a dare una risposta ai bisogni dell’intelligenza moderna e della civiltà moderna; ma — aggiunge Maritain — teniamo per acquisita, e nessuno non può non tenere per acquisita, l’autonomia culturale della filosofia e della scienza, infravalenti ma libere». Dunque, torna ad essere ribadita la legittimità del rapporto filosofia e cristianesimo in un orizzonte di riconoscimento

del proprium epistemologico della filosofia. 4. L'ULTIMO

MARITAIN

Anche l’ultimo Maritain continua ad essere profondamente convinto di tale impostazione, che peraltro viene silenziosamente rinnovata. La «novità» è data dal fatto che Maritain ne I/ contadino della Garonna e, soprattutto, in Approches sans entraves è preoccupato di porre l’accento sul carattere progressivo integrale ed esistenziale della filosofia cristiana, definita come «una filosofia affrancata», che «deve essere chiamata filosofia presa plenariamente come tale: questo — aggiunge Maritain — non implica certamente che essa sia garantita contro la possibilità di errore, ma le permette di andare indefinitamente

avanti,

di mantenere l’integrità del lavoro filosofico progredendo di secolo in secolo» (14). Questa prospettiva era stata anticipata ne Il contadino..., dove Maritain distingue tra ideosofia e ontosofia. Il problema della filosofia cristiana diventa in tal modo il problema della filosofia autentica, e in questa prospettiva Maritain parla di «ontosofia», in contrapposizione alla «ideosofia» propria dell’età moderna. L’ultramodernità maritainiana comporta cioè la fuoriuscita dalla modernità che, a partire da Cartesio, ha allontanato la filosofia dal suo oggetto proprio che è l’essere, e per il quale essa è ontosofia. Come si può notare questo termine sostituisce quello di filosofia cristiana.

AI riguardo potremmo dire che accade al concetto di filosofia cristiana qualcosa di analogo a ciò che accade al concetto di «nuova cristianità»: a partire dagli anni 50 scompare per lasciare il posto ad un concetto di democrazia che non corra il rischio di essere frainteso in senso sacrale e confessionale; l’esigenza rimane pur sempre la stessa nella sostanza: quella dell’umanesimo in(14) J. Maritain, Approches sans entraves, cit., p. 90.

153

tegrale, ma — per evitare che l’integralità sia confusa con l’integralismo — Maritain sente ad un certo punto il bisogno di la-

sciare cadere espressioni che possano dare adito a fraintendimenti. Si badi: non è una questione meramente terminologica, giacché l'abbandono di certe espressioni a favore di altre (invece di filosofia cristiana: ontosofia; invece di filosofia nella fede: filosofia plenariamente tale) comporta anche —- com’è ovvio — una novità concettuale che si esplicita negli anni ’60, ma che era stata preparata dalle riflessioni maritainiane precedenti (in particolare quelle relative alla filosofia della natura e alla filosofia della storia) ed è verificata negi anni ’60 e ’70 con le riflessioni di argomento teologico (su Dio, Cristo, la Chiesa). Ed è proprio il rinnovato rapporto che Maritain instaura tra «filosofia» e «teologia» ad essere ora essenziale per capire il problema della filosofia cristiana.

Si tratta di un rapporto a due direzioni: per un verso concerne l’uso che la teologia fa della filosofia, e per altro verso (e sta qui la novità) concerne l’attenzione che la filosofia porta alla teologia. Dal primo punto di vista è da dire che, per costituirsi come conviene

(cioè come

«una

conoscenza

solida e capace

di com-

pleta certezza — formalmente naturale [razionale] o umana ma soprannaturale nella sua radice —, nella quale la ragione scruta e organizza tra di loro le verità della fede, o del dato rivelato, e cerca di guadagnarne qualche intelligenza»), «la teologia ha bisogno dei servizi della sua arcilla, la filosofia, e soprattutto della metafisica, che ha l’intuizione intellettuale del suo oggetto: l’essere»; non solo: «ha anche bisogno delle illuminazioni più alte che sono quelle del dono di sapienza e della contemplazione d’amore. Essa richiede di unirsi a questi due generi di conoscenza, l’uno inferiore per sé, l’altro superiore di per sé al sapere teologico stesso, che si trova così preso tra le altre due sapienze». Una tale impostazione permette di evitare di concepire la teologia come una semplice applicazione della filosofia alla materia della Rivelazione, e permette nello stesso tempo di affermare che le verità teologiche procedono dalla luce della fede (!5). Per quanto concerne l’attenzione che la filosofia porta alla teologia, Maritain precisa che «il filosofo cristiano ha il dovere di affrontare nel(15) Ivi, pp. 63, 89 e 144,

154

la sua prospettiva e nella sua oggettualità proprio le questioni che sono di competenza della teologia», e questo «non soltanto per assolvere il meglio possibile la sua funzione di research worker al servizio della teologia», ma anche perché è richiesto dalla filosofia stessa quando è affrancata in altri termini dalla filosofia presa plenariamente tale, dal momento che questa prende, e il più presto possibile, totalmente coscienza di se stessa e del percorso che deve compiere. Insomma, «non potrebbe esserci filosofia cristiana che non sia condotta a levare lo sguardo verso la teologia, ed a proporre ferzatively le sue proprie opinioni su argomenti il cui sapere, essa non lo ignora, è di competenza, non della filosofia, ma della sapienza superiore a cui è dedicato l’opus fheologicum (9). È da osservare che tale impostazione non va confusa con quella che Maritain denunciava fin dal 1931, quando affermava che «oggi per effetto della dissociazione dalla sintesi cristiana, la filosofia ha ereditato dalla teologia e dalla mistica ogni sorta di compiti, di istanze e di inquietudini [...]. Divenendo meno intrinsecamente cristiana, la filosofia ha sviluppato in modo abnorme i residui estrinseci di cristianesimo che ha in seno» (!). Proceden-

do in tal modo la filosofia ha finito per essere una «teologia travestita», una teologia alla rovescio (e gli esiti ultimi della modernità lo testimoniano sia sul versante dell’idealismo che su quello del positivismo e del materialismo). Maritain, al contrario, so-

stiene che «per avere nella sua integrità un movimento di pensiero cristiano, non possiamo considerare solo la filosofia (anche cristiana) ma anche e indivisibilmente la teologia e la sapienza dei contemplativi». Questo, Maritain affermava nel 1931, ed è convinzione cui non ha mai rinunciato, nemmeno quando in Approches... giudicava «perfettamente normale» che la filosofia affrontasse questioni teologiche. Procedendo in tal modo, infatti, Maritain non annulla assolutamente la teologia in filosofia o la filosofia in teologia, giacché riconosce una specificità sia all’una che all’altra; anche quando la filosofia si occupa di questioni teologiche, se ne occupa filosoficamente: ciò significa che se ne occupa con la «libertà» e la «integralità» che le sono proprie, e che le derivano dalla sua oggettualità propria che è l’essere. (16) Ivi, pp. 94-96.

(17) Articolo pubblicato sul Bulletin della SFPh, cit.

155

5. CONSENSI

E DISSENSI

Tenendo dunque presente l’insieme dell’itinerario filosofico di Maritain, potremmo ora dire che la «filosofia cristiana» 0, meglio, l'«ontosofia» o «filosofia plenariamente tale» si caratterizza come una «filosofia dell’essere», in grado di cogliere le articolazioni della realtà, e come una «epistemologia concreta», capace di individuare i gradi del sapere: ci troviamo dunque di fronte ad una concezione «esistenziale»:

l’essere concepito come

«actus

essen-

di» permette di evitare sia l’essenzialismo che l’esistenzialismo in metafisica, sia l’astrattezza che il riduttivismo in epistemologia: il principio dell’analogia applicato all’essere e al sapere permette di giungere ad una visione pluralistica ed organica della realtà e della scienza: il realismo critico è il fondamento della metafisica e dell’epistemologia di Maritain. Ma, oltre a ciò, la filosofia per essere integrale deve anche assumersi altri compiti che pongono delle questioni di frontiera con la scienza e la teologia. Secondo Maritain, infatti, occorre sviluppare una riflessione in tema di «filosofia della natura» (necessaria per evitare le tentazioni sia dell’imperialismo filosofico antico che dell’imperialismo scientista moderno), in tema di «filosofia morale» (che per essere «adeguatamente presa» deve subalternarsi alla teologia morale) e in tema

di — potremmo dire — «filosofia teologica» (cioè di quei «tentativi» che il filosofo non può sottrarsi di fare in campo propriamente teologico). In tutti questi casi, però, il filosofo rimane sempre se stesso, perché procede secondo quello che è l’oggetto suo proprio, cioè l’essere; così il filosofo della natura non è lo scienziato, il filosofo della morale non è il moralista, il filosofo che si

occupa anche di teologia non è il teologo. Una tale impostazione — che Maritain è andato elaborando lungo tutto il suo cammino filosofico, anche se è stata più chiaramente proposta dall’ultimo Maritain (in particolare in Approches sans entraves) non ha mancato di suscitare «consensi e dis-

sensi», come si può constatare, per esempio, leggendo la prefazione di E.R. Korn (H.R. Schmitz), che si colloca sulla linea ma-

ritainiana, e la recensione di M.J. Nicolas ad Approches... (!8) che si trova in posizione contraria; o leggendo il recente volume Pour

une philosophie chrétienne di Yves Floucat, che accetta le tesi (18) In Revue Thomiste, 1974.

156

maritainiane e le sviluppa, mentre il prefatore del libro, p. V.M. Leroy, le critica decisamente. Il direttore della Revue Thomiste accetta «il concetto ormai classico di una filosofia intrinsecamente e vitalmente cristiana, in ragione non certo della sua essenza ma del suo stato e delle sue condizioni esistenziali che gli vengono tanto dall’apporto oggetti-

vo di verità di per sé naturali ma conosciute di fatto dalla rivelazione che dal sostegno soggettivo che il sapere naturale riceve dalla sua continuità, in seno alla stessa intelligenza, con le certezze superiori d’ordine soprannaturale». Ma, accettato questo, P. Leroy rifiuta sia l’idea di «una filosofia morale adeguatamente presa che, per realizzare compiutamente il suo compito, dovrebbe subalternarsi alla teologia cristiana (cessando con ciò di essere puramente filosofia!)»; sia «l’ipotesi elaborata da Maritain nei suoi ultimi anni, di una filosofia che, per essere plenariamente tale e completare i suoi lavori dovrebbe, senza perdere la sua identità, oltrepassare il proprio ambito e avventurarsi al di là del suo oggetto e del suo metodo nel campo proprio della teologia, in condizioni che addirittura la privileggerebbero per la ricerca in confronto al teologo di professione». P. Leroy ha ribadito le proprie critiche a tale concezione che giudica «veramente strana», al recente seminario di studio su «Prospettive teologiche in J. Matitain» tenutosi all’Angelicum nel 1982 per iniziativa della Sezione italiana dell’Institut international J. Maritain, quando ha affermato che «questa concezione gli pare difficilmente conciliabile, se non del tutto incompatibile, con il principio inderogabile della specificazione del sapere per mezzo del suo oggetto, principio che è al centro della dottrina magistralmente sviluppata in I gradi del sapere». “Di diverso avviso Ernst R. Korn che, nella prefazione ad Approches sans entraves ha con molta chiarezza e acutezza puntualizzato la novità epistemologica del concetto di filosofia nell’ultimo Maritain, quando abbiamo a che fare «non più con la filosofia presa come semplicemente tale, ma con la filosofia giunta alla sua piena maturità, alla filosofia come pienamente tale». Il che significa — aggiunge Korn — che «lo stato nel quale si trova la filosofia in regime cristiano è non solamente uno stato migliore per la ragione, ma uno stato in cui la filosofia in quanto tale attinge la sua pienezza specifica, e non può attingerla che lì». Ciò «im157

plica la presa di coscienza per la filosofia dell’ampiezza del suo dominio», che è «prima di tutto quello dell’oggetto formale del filosofo: l’essere per quanto è accessibile alla ragione naturale»; ma è anche quello «degli oggetti più elevati, che sono gli oggetti di una scienza superiore alla sua, quella del teologo. Sono questi certamente degli oggetti al di là del suo oggetto formale, ma proprio per questo richiede al filosofo di applicarvisi, per modo di ricerca personale, che non pretende affatto di sfociare in una certezza dimostrata, proponendo delle vedute e delle opinioni che sono di per sé sottomesse al controllo del teologo, e possa eventualmente servirlo». Insomma, «in virtù del suo oggetto formale, la filosofia è un sapere ed una saggezza puramente naturali, opera della sola ragione. Ma per il fatto che essa verte sull’essere, supera i limiti del suo oggetto formale per attingere — pur non essendo più, allora, sapere né saggezza e divenendo semplice strumento di ricerca — altre zone dell’essere, e le più alte, giacché l’intelletto non rinuncia mai ad aspirare all’adeguazione all’essere. [...] Ma non è soltanto l’essere cui essa fa fronte ad esigere dalla filosofia di portare il suo sguardo più in alto del suo immediato oggetto formale, ma anche la teologia stessa, per il fatto che propone al nostro intelletto degli oggetti più elevati di quelli della filosofia, invita questa ad allargare le dimensioni del suo campo». Per tutto ciò conviene «allora chiamare “teofilosofia” la filosofia presa come pienamente tale e che riconosce pienamente ed afferma chiaramente il suo rapporto con la teologia». Infatti, «non bisogna accusare la filosofia del suo legame con la teologia (ed anche con una certa mistica); ciò che bisogna rimproverarle — scrive Korn sulle orme di Maritain — è di aver camminato a separare e ad opporre fra di loro la filosofia, la teologia e la mistica, e poi di aver finito per riassorbire le due ultime nella filosofia stessa». Detto ciò, torna opportuno aggiungere che alla filosofia appartiene non solo il nome di «teo-filosofia», ma anche quello di Seinsphilosophie, perché questo le ricorda le sue umili origini; la filosofia infatti è «una conoscenza modesta» che «si eleva fino alla conoscenza di Dio partendo da quella delle cose

che noi tocchiamo. È in esse prima di tutto che la metafisica incontra il suo proprio oggetto, l’essere attinto mediante la ragione naturale». Possiamo dunque concludere che la filosofia, nell’ulti158

mo Maritain, «prende coscienza di ciò che le è richiesto, quando essa è propriamente se stessa, cioè a dire, quando essa non si trova più come in Aristotele al suo stato iniziale né delegata, come in san Tommaso, ad essere prima di tutto ancilla della teologia». Abbiamo con ampiezza citato Korn, perché condividiamo la lettura che ha fatto di Maritain: siamo convinti che «il campo proprio della filosofia si estende, per il fatto che essa è una saggezza, molto più lontano del suo oggetto formale ed abbraccia, per una ricerca congetturale, tutto ciò che nei tesori dell’essere è accessibile al nostro intelletto, grazie ad altri modi di sapere». Su questa stessa linea si pone Yves Floucat, per il quale ugualmente «lo spazio di riflessione del filosofo è ben più vasto che il suo oggetto formale». Da parte nostra ci limitiamo — in questa sede — ad affermare che l’impostazione maritainiana ci sembra tutt’altro che un «mostro epistemologico» (Leroy): rappresenta invece il tentativo — da riprendere e da verificare ulteriormente — di vedere in che senso sia possibile parlare di filosofia in termini aperti e progressivi (cioè nell’ottica dell’umanesimo integrale). 6. CONCLUSIONE

In questa prospettiva l’ultima opera di Maritain (Approches sans entraves) rappresenta una riflessione sul ruolo della filosofia quando perviene alla piena coscienza di sé, e costituisce nel campo filosofico la risposta alle esigenze di laicità ed integralità che hanno motivato tutto l’impegno filosofico di Maritain. In questo senso si potrebbe dire che, come L’uomo e lo Stato e Il contadino della Garonna testimoniano la presa di coscienza della maturità politica ed ecclesiale, e costituiscono pertanto un’evoluzione nei confronti rispettivamente di Umanesimo integrale e di Primato dello Spirituale, così Approches sans entraves sviluppa il discorso avviato in Sulla filosofia cristiana e porta alla consapevolezza della maturità filosofica. Ne consegue che, al di là degli

esiti specifici raggiunti da Maritain in filosofia della natura, della morale e della teologia, lo sforzo di Maritain ci sembra da apprezzare altamente perché, soprattutto, ha chiarito che il problema della filosofia cristiana è, a ben vedere, il problema della filosofia tout court, ragion per cui — a questo punto — il problema non è di sapere se sia o no legittima la filosofia cristiana, ma di 459

sapere se siamo o no per una filosofia integrale, capace per ciò stesso di sconfiggere quella «nefasta miseria dello spirito» che è l’integrismo ("°). Maritain si è adoperato a promuovere una filosofia che «sviluppi in un clima cristiano le sue esigenze autonome, una sapienza

della ragione non chiusa, ma aperta alla sapienza della grazia», dal momento che «oggi la ragione deve lottare contro una deificazione irrazionalista delle forze elementari e istinti ve che minaccia di distruggere ogni civiltà. In questa lotta, il compito che incombe alla ragione è un compito di integrazione». Maritain si è mosso proprio in questa direzione, cercando cioè di far comprendere che «l’intelligenza non è nemica del mistero, ma vive di esso»; ciò significa che «la ragione deve rientrare in intelligenza con il mondo irrazionale dell’affettività e dell’istinto, e così pure con il mondo della volontà, della libertà e dell’amore, e con il mondo sovrarazionale della grazia e della vita divina». Maritain si rendeva certamente conto che «un'intelligenza formata esclusivamente agli abiti mentali della tecnologia e della scienza dei fenomeni (come nel nostro tempo) non è un ambiente

normale per la fede», ma era anche convinto che «mai gli uomini hanno avuto maggior bisogno del clima intellettuale della filosofia, della metafisica, della teologia speculativa; è senza dubbio per questo che essi sembrano temerle tanto e che si ha tanta cura di non spaventarli con esse. Pur tuttavia esse costituiscono l’u-

nico mezzo efficace per reintegrare l’intelligenza nel suo funzionamento più naturale e profondo, e con ciò può riconciliare di nuovo le sue vie con il cammino proprio della fede» (?°). Ebbene, risolvere il problema della filosofia cristiana significa dare un contributo in questa direzione: Maritain ha offerto al riguardo delle indicazioni preziose, che meritano di essere riprese e sviluppate.

(19) Cfr. Il contadino della Garonna, cit., p. 240.

CR g Maritain, Il filosofo nella società, Morcelliana, Brescia 1976, pp. DISSI

160

Parte seconda

Promozione del diritto ed educazione alla libertà

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ANTONIO PALAZZO dell’Università di Palermo

Personalismo e diritti civili in Jacques Maritain

Sono uno studioso di diritto positivo per professione. Eppure la concretezza maritainiana ha portato la presidente dell’Istituto regionale «J. Maritain» ad ospitare un giurista. Questa attenzione al momento concreto, al momento in cui i principi vanno calati nella realtà e in essa ricevono la massima applicazione possibile, mi pare che sia proprio di stampo maritainiano. Infatti la vita di quest'uomo, a contatto con le vicende del suo tempo, che concretano essenzialmente la massima espansione della rivoluzione industriale, e quindi del conflitto tra le classi sociali che la Rivoluzione francese e la filosofia che aveva preparato la rivoluzione borghese non hanno assolutamente risolto, diviene un modello da indicare a ogni uomo contemporaneo, quale che sia la classe o il ceto di appartenenza. Riguardo al tema del personalismo e delle interrelazioni tra personalismo e diritti civili, ci servono innanzi tutto le sue riflessioni sui «riformatori» e in particolare su Rousseau, il filosofo della politica che presenta nonostante il suo primato della specifica trattazione, grosse incongruenze sul tema dei diritti civili. Infatti, è una responsabilità fondamentalmente roussoniana la transposizione formale dei principi di uguaglianza e libertà nella cultura giuridica laica e nelle costituzioni borghesi (!). Il principio di eguaglianza formale che pone tutti i soggetti in una medesima posizione dinanzi l’ordinamento, costringendoli

all’equidistanza tra loro, determina l’irrisolubilità dei conflitti che sorgono sempre più complicati a causa di quella rivoluzione industriale che, nata in Inghilterra nel XVII secolo, arriva da noi nei primi vent'anni di questo secolo. (1) J. Maritain, Tre riformatori, Lutero-Cartesio-Rousseau, tr. it. a cura di A. Pavan, Morcelliana, Brescia 1967, spec. pp. 161, 165, 167ss.

163

Maritain confronta i contenuti roussoniani e gli eventi storici che reclamano una più consistente dottrina riguardante l’uomo associato e ritrova nella dottrina tomistica la chiave principale per la soluzione del problema del conflitto sociale. La principale, ma non l’unica né la sola, da utilizzare intanto con una sua rilettura in chiave storico-politica. È in Umanesimo integrale che avviene la considerazione storico-politica del pensiero tomista. Mentre nei Tre riformatori Maritain indica le incongruenze

dei massimi interpreti delle esigenze dell’uomo moderno, in Urzenesimo integrale ricostruisce i contenuti della persona secondo i principi tomistici, liberati dalle categorie politiche del momento storico medioevale (7). La lettura comparata di queste due opere maritainiane conduce a un ridimensionamento dello Stato e dei caratteri del «senso dello Stato» quali si riscontrano non soltanto nel pensiero dei riformatori soggettivisti e illuministi, ma anche, per alcuni profili determinati quino.

dal condizionamento

storico, in Tommaso

d’A-

Se l’uomo hobbesiano e roussoniano è associato per necessità e quindi per costrizione, l’uomo tomistico è associato per natura,

ma la soddisfazione di alcune delle sue esigenze fondamentali passa per Tommaso attraverso la sovranità statuale che deve dall’alto scendere a considerare i bisogni della persona. La realizzazione delle esigenze politiche della persona possono essere individuate soltanto attraverso la considerazione che deve farne il sacrum imperium. Questa immagine del sacrum imperium che deve dall’alto calarsi nella realtà umana è indissociabile dallo schema tomistico ed è concettualmente indiscutibile, ma va rivista nel contesto storico attuale. J. Maritain vede lucidamente, perché lo considera nell’universalità storica, il pensiero di Tommaso e avverte i limiti dei riformatori. Le esigenze politiche della persona, prima che dallo Stato, vanno soddisfatte dalla coscienza sociale degli uomini attraverso il loro ricorso a quegli istituti politici che storicamente sono in grado di realizzare la solidarietà richiesta dalla loro natura. (2) J. Maritain, Umanesimo integrale, tr. it. di G. Dore, con presentazione di P. Viotto, Borla, Bologna 1962, spec. p. 234. Cfr. anche Strutture politiche e libertà, a cura di A. Pavan, Morcelliana, Brescia 1968, pp. 28ss, 47 e L’uomo e lo stato, tr. it. di A. Falchetti, «Introduzione» di V. Possenti, Vita e Pensiero, Milano 1954, pp. 62ss., 89ss., 114ss.

164

Maritain ha presente la realtà contemporanea delle società intermedie e indica le loro forme corrette attraverso l’indiscutibile presupposto dei contenuti della natura umana. Così il corpotativismo fascista non lo convince, mentre le sue riflessioni sul sindacato sovietico lo conducono a rigettare l’uno e l’altro che appartengono al grande modello «corporativo, autoritativo e pluralista» (5).

Ma Maritain sia pure filosofo nella società e pensatore attento alle esigenze politiche dell’uomo, non passa a considerazioni di politica del diritto privato e del diritto pubblico, quali conseguenti derivazioni pratiche del suo pensiero. Il passo verso la politica del diritto, tra i filosofi politici del pensiero cattolico, lo compie l’italiano Luigi Sturzo. Anzi, sono proprio le riflessioni sturziane sulla interrelazione tra personalismo e diritti civili che danno frutti sia nel campo della filosofia politica che in quello del diritto privato e del diritto pubblico (‘). Intanto, sia Sturzo che Maritain scrivono nel medesimo arco di tempo e rappresentano i lettori più concreti della filosofia politica tomistica, ma il filosofo siciliano si rivela ancora più fidu-

cioso delle risorse politiche della natura umana. E in tema di diritti civili basta un riguardo a uguaglianza e amore sociale. Mentre Maritain, seguendo Tommaso d’Aquino, ritiene che la eguaglianza rende gli uomini amici per cui lo Stato deve farsi carico di perseguire i mezzi necessari per renderli sempre più eguali, Sturzo è convinto che una formazione morale e. politica dell’uomo, attenta alle sue esigenze, conduce l’uomo all’amicizia sociale ancor prima del raggiungimento dell’eguaglianza. Inoltre, la stretta connessione tra politica e morale significa per Sturzo necessità di formazione culturale dell’uomo già all’interno delle società intermedie. La Chiesa, i sindacati, i partiti, ancor prima dello Stato, devono perseguire una politica culturale di for-

(3) Cfr. Umanesimo integrale, cit., p. 234 e spec. Strutture politiche e libertà, p. 47 e nota 27. (4) Ci permettiamo rinviare per le opere sturziane ai nostri saggi «Conflittualità e amore sociale», in AA.VV., Politica e sociologia in Luigi Sturzo, a cura di A. di Giovanni-E. Guccione, Massimo, Milano 1981; «L’intervento dello stato nell'economia secondo Sturzo», in AA.VV., Luigi Sturzo e la Rerum Novarum, a cura di A. di Giovanni-A. Palazzo, Massimo, Milano 1982.

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mazione dell’uomo che determinerà l’apertura della via verso la realizzazione dei diritti civili (5). Il conflitto sociale sarà inevitabile, anzi la lotta sociale è mezzo di progresso, ma che forma e che fine deve assumere il conflitto? Intanto, se nasce dall’ingiustizia e dalla immoralità di una parte sociale che vioia i diritti civili, la risposta della classe economicamente debole ma moralmente forte dev'essere cultural mente solida e quindi frutto di riflessioni politiche fondate sui contenuti diritti civili. Solo dopo l’insensibilità dell’altra parte a tale risposta è consentito il ricorso allo sciopero quale extrezmza ratio, pure motivato e quindi strumento per la composizione del conflitto (°). Ma il pensiero sturziano va ancora oltre quello maritainiano, quando indica gli strumenti giuridici per la realizzazione della libertà che prima di potere avere un consistente contenuto politico deve averne uno economico. L’azionariato operaio, l’azionariato popolare e la cooperazione sono gli istituti in grado di realizzare in capo a ogni soggetto la piena libertà economica e nel contempo di eliminare la diseguaglianza sostanziale e quindi la conflittualità, consentendo il controllo della produzione, del consumo e del risparmio (7). È necessario che il filosofo e il giurista approfondiscano il pensiero di questi due grandi pensatori della libertà e dei diritti civili con un approccio interdisciplinare. I tempi lo esigono.

(5) R. Carmagnani-A. Palazzo, «Encore un texte sur Maritain et Sturzo», in Notes e Documents, 1981, pp. 24ss. (6) A. Palazzo, «Conflittualità e amore sociale», cit. (7) A. Palazzo, «I collegamenti normativi tra rapporti economici e azione sindacale secondo Sturzo», in Luigi Sturzo e la Costituzione italiana, Massimo, Milano 1983.

166

PIERO VIOTTO dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

L’educazione

alla libertà in J. Maritain

La riflessione filosofica di Jacques Maritain

si sviluppa nel-

l’arco di sessanta anni, dal primo volume, La filosofia bergso-

niana del 1914

(!), all'opera postuma Approches sans entraves

del 1973 (?), come una meditazione sulla filosofia della storia, analizzata, non solo attraverso i momenti fondamentali dello sviluppo umano, ma soprattutto attraverso i protagonisti dai tre «riformatori», Lutero, Cartesio, Rousseau, che hanno iniziato l’età moderna, a Darwin, Freud, Marx la cui influenza sulle scienze, sulla filosofia e sulla politica caratterizza ancora il nostro secolo.

Per Maritain protagonista della storia non è la fatalità biologica o la necessità dialettica, ma la libertà della persona umana di fronte alla Persona Divina, per cui lo sviluppo della cultura e della civiltà sono condizionati dall’opera dell’uomo. Solo in questa prospettiva antropologica si possono leggere ed interpretare le linee della crisi della società contemporanea

individuate

da Maritain nell’artropocentrismo che ha portato ad un ateismo pratico e teoretico, nel prevalere della scienza sulla saggezza, che ha portato alla tecnocrazia, nel machiavellismo politico che ha portato alla dittatura dello Stato sull’uomo, nella corruzione del Cristianesimo, che ha portato alla presunzione della salvezza attraverso il solo sforzo umano. Questa diagnosi non vuole essere una considerazione pessimistica sugli eventi storici, ma una ricostruzione delle condizioni contemporanee nelle quali il paradosso dell’esistenza umana è diventato più cosciente alla riflessione filosofica, liberatasi dall’ottimismo dell’illuminismo settecentesco e dell’idealismo ottocentesco. Infatti la storia «progre(1) La philosophie bergsonienne: études critiques, Rivière, pp. 477. (2) Approches sans entraves, Fayars, Paris, 1973, pp. 598.

Paris

1914,

167

disce ad un tempo nel senso del bene e nel senso del male» (°) come bene evidenzia la parabola evangelica del capitolo XIII di Matteo, che Maritain commenta in Per una filosofia della storia: «La storia avanza nel tempo subendo questi due movimenti interni. Il cristiano sa che, pur costantemente avversato e costantemente nascosto, il travaglio dello spirito si compie nonostante

tutto, mentre la storia progredisce, e che di caduta in caduta, ma anche di oscura vittoria in oscura vittoria, il tempo avanza verso la resurrezione»

(*). Così Maritain non si limita ad elencare gli

aspetti critici e contraddittori della società contemporanea nata dall’Umanesimo-Rinascimento-Riforma, ma indica le prospettive di sviluppo per un recupero dei valori umanistici nello spirito cristiano secondo un possibile «ideale storico concreto», di una «nuova cristianità». 1. LA CRISI DELLA SOCIETA

CONTEMPORANEA

a) Il peccato originale della cultura contemporanea è dato dall’antropocentrismo dell’uomo, che si ritiene Dio a se stesso e rifiuta ogni collaborazione soprannaturale, perché si ritiene buono per natura, autosufficiente, capace di salvarsi e di giustificarsi da solo. Feuerbach ha teorizzato questa situazione demolendo l’illusione illuministica di un Dio costruito sulla base della pura ragione ad immagine e somiglianza dell’uomo. Si è passati dal teiszzo ebraico-cristiano-islamico, per cui Dio è «Colui che è» e l’uomo è la sua creatura, attraverso il deisrzo illuministico per cui Dio, come pura idea costruita dall'uomo si pone parallelamente all’uomo, all’afeiszzo marxistico per cui nell’immanenza assoluta l’umanità antropologicamente celebra il culto di se stessa. b) L’uomo che ha rifiutato la sottomissioe a Dio è diventato

schiavo dello Stato che si è posto nella storia come l’Assoluto. È questa la seconda linea di sviluppo della crisi contemporanea che Maritain individua nel machiavellismo assoluto. Per la filosofia classica e cristiana, la politica era considerata, da Platone ad Aristotele, da s. Tommaso a Suarez, come una parte della morale, per cui una azione politica immorale era intrinsecamente impoli-

(3) Per una filosofia della storia, Morcelliana, Brescia 1967, pp. 41.

(4) Ivi, p. 42.

168

tica, perché a distanza il male avrebbe prevalso sul bene apparente immediato del successo. A questa concezione di Stato i20rale per cui il diritto positivo deve rispettare il diritto naturale, lo Stato deve rispettare l’uomo, nell’età di mezzo della storia della filosofia, durante l’età illuministica, si è andata sostituendo con Machiavelli, Cartesio, Locke, Kant la concezione

di Stato

legale, che ha separato l’ordine politico, giuridico, economico della cosa pubblica dall’ordine morale della coscienza privata. Questo dualismo per Maritain è una conseguenza della divisione antropologica tra anima e corpo operata da Cartesio che ha separato la res cogitans dalla res extensa. Machiavelli non sosteneva che il Principe potesse imporre in coscienza la sua legge ai cittadini, ma separava la ragione dello Stato dalla coscienza morale; era questa una posizione di machiavellismo moderato. Fu l’idealismo di Hegel ad affermare lo Stato etico portando a conclusione il processo storico iniziato da Machiavelli, teorizzando lo Stato assoluto, ragione incarnata nella storia e identificando l’ordine morale con l’ordine politico. Il marxismo si è sviluppato in questa scia considerando deviazionisti, «troskisti», i cittadini

che dissentono dalla legge dello Stato. Si è così consumata la rivoluzione copernicana della vita politica: non è più l’uomo a fondare la cittadinanza, ma è la cittadinanza a fondate l’uomo (5). c) L’antropocentrismo e il machiavellismo non sono soltanto atteggiamenti pragmatici dell’uomo che vuole bastare a se stesso, ma anche la conseguenza di una rivoluzione epistemologica che ha scardinato l’universo delle scienze e delle saggezze. La filosofia classica riteneva che le scienze naturali dovessero essere subordinate alle scienze uzzane, e che le scienze umane dovessero

essere subordinate alle scienze divine, perché esiste una gerarchia di valori per cui, pur nella propria autonomia, ogni grado del sapere deve subordinarsi al grado superiore in relazione al proprio oggetto di studio e al proprio metodo di ricerca. Le scienze empiriologiche che hanno per oggetto la natura non possono esaurire l'intelligenza del reale e si limitano a descrivere e a calcolare i fenomeni naturali. Le scienze deontologiche invece non si fermano alla descrizione del fenomeno ed attingono al noumeno

(5) Cfr. Principes d’une politique bumaniste, Editions de la Maison Francaise, New York 1944, pp. 232.

169

cogliendolo nella sua intelligibilità, per cui la filosofia deve regolare le scienze naturali per quanto riguarda la loro utilizzazione umana, subordinando i mezzi ai fini, per cui l’economia va subordinata alla politica, e la tecnologia alla morale. Ma l’Essere nella sua assolutezza non è intelligibile all'uomo, perché Dio è sovraintelligibile alla intelligenza umana e solo una sua rivelazione può permettere all'uomo di conoscerLo. La teologia è quindi una scienza rivelata, che, pur utilizzando gli strumenti della ragione, è mossa dalla ispirazione interiore della fede. In Scienza e saggezza nel 1935 ($) Maritain studia il rapporto funzionale tra le scienze e le saggezze sviluppando sulla base del principio «distinguere per unire» la tematica de I gradi del sapere del 1932 (*). Questa epistemologia è stata progressivamente demolita dal pensiero moderno, perché Cartesio e il razionalismo hanno negato la scientificità della teologia, ridotta a pura prassi o a emozione sentimentale; Kant e il criticismo hanno negato la scientificità della filosofia, risolta nella pura morale; Dewey e il pragmatismo hanno negato la stessa scientificità delle scienze considerandole puri criteri metodologici validi per l’azione ma senza alcun contenuto intelligibile. Si è giunti così al prevalere della scienza sulla saggezza, della tecnica sulla cultura, della quantità sulla qualità, dell’economia sulla politica, della volontà sull’intelligenza, dell’azione sulla contemplazione. d) Ma la linea più perniciosa dello sviluppo della crisi contemporanea consiste mella naturalizzazione del cristianesimo, nella riduzione della grazia di Dio alla coscienza individuale, della fede soprannaturale alla ragione umana, della salvezza ecclesiale alla sicurezza sociale. Infatti il cristianesimo si fonda sulla Chiesa come corpo mistico del Cristo che continua per tutti gli uomini l’opera di rivelazione e di redenzione che si è compiuta nel Cristo e che va completandosi nella storia (*). Rousseau, a cui «dobbia-

mo il cadavere di idee cristiane la cui immensa putrefazione appesta oggi l’universo» (°), ha affermato che l’uomo è buono per (6) (7) Paris (8) sclée (9)

Science et sagesse, Labergerie, Paris Distinguer pour unir: ou Les degrés 1932, pp. 919. De l’Eglise du Christ, La personne de Brouwer, Paris 1970, pp. 310. Tre riformatori, Lutero, Cartesio,

1928, pp. 205.

170

1935, pp. 393. du savoir, Desclée de Brouwer,

de l’Eglise et son personel, De-

Rousseau,

Morcelliana,

Brescia

natura e che può salvarsi con le sue sole forze. La rivoluzione protestantica aveva già negato la necessità della Chiesa, perché ciascun uomo si salva da solo grazie al libero esame delle scritture; la rivoluzione illuministica nega la necessità del Cristo, perché ogni uomo si salva con la sua ragione che è giudice assoluto del comportamento umano; la rivoluzione marxista nega la necessità di Dio, perché l’uomo è Dio se stesso. Siamo giunti così alla dissoluzione della persona umana, che bene le mostruosità figurative di Picasso illustrano, e che le tavole del «Miserere» di Rouault profeticamente invitano a superare, e che un frammento di Thibon così descrive: «Scissione fra la vita e lo spirito, l'individuo e la società, la morale e l’arte, il passato e il presente; il reale e l’ideale, il profano e il sacro, l’umanità ci offre dovunque lo spettacolo di una dissociazione mostruosa fra elementi fatti per congiungersi e completarsi nell’unità della vita. Il mondo non è soltanto spezzato, è polverizzato: è diventato come un deserto, in cui ogni granello di sabbia, solitario e ribelle, pretende di essere Dio. Di fronte a questo disastro, il problema che domina tutti i problemi è quello di trovare un legame vivo, capace di riunire le membra sparse dell’umanità. E a questo proposito noi abbiamo una sola risposta. Quel che Dio ha unito e che l’uomo ha separato, solo Dio può unirlo di nuovo. E non un Dio astratto ma il Dio vivente, il Dio incarnato dal Cristianesimo» (!9). 2. L’ANTROPOLOGIA

INTEGRALE

Il fulcro della rivoluzione copernicana per cui si è passati dal teocentrismo all’antropocentrismo, dalla democrazia politica alla statolatria, dalla civiltà della contemplazione alla tecnocrazia, è da individuarsi in Cartesio (!) il cui fenomenismo, per cui l’uomo conosce soltanto le sue idee, le apparenze delle cose, ha fatto da mediazione tra il realismo della filosofia greca e cristiana, per cui l’uomo conosce le cose come stanno, e l’idealiszmo contemporaneo, per cui le cose sono come noi le conosciamo, cioè a mi-

sura d’uomo, secondo la volontà di potenza dello Stato. Proprio, conseguenza di questo fenomenismo, l’antropologia cartesiana ha (19) G. Thibon, La Scala di Giacobbe, Ave, Roma 1947, p. 24. (11) Cfr. Le songe de Descartes, Corréa, Paris 1932, pp. XII, 344.

171

separato l’anima dal corpo, la morale dalla politica, la contemplazione dall’azione, l’umano e il divino dando origine a quell’ «umanesimo liberal borghese» che persiste nell’attuale radicalismo, che pretende che l’uomo sia giudice esclusivo di se stesso: «io sono mia»! Così Maritain descrive il dualismo antropologico: «Il dualismo cartesiano spezza l’uomo in due sostanze complete, congiunte non si sa in quale modo: da una parte il corpo che non è altro che una distesa geometrica, dall’altra l’anima che non è che pensiero. Un angelo che abita in una macchina e che la dirige per mezzo della ghiandola pineale» (!). Da questo dualismo deriva il misconoscimento della vita affettiva per la separazione dell’amore dalla intelligenza, della prassi dalla teoresi; il prevalere della psicologia sperimentale, della psicoanalisi, della sociologia positiva sulla filosofia nel campo delle scienze umane; il predominio delle tecniche psicologiche e sociologiche nel campo dell’educazione dell’uomo. A questa antropologia dualistica Maritain risponde con una antropologia integrale, che non misconosce gli apporti della psicologia nello studio dell’uomo, l’importanza della tecnologia nella vita sociale, la necessità della conoscenza psicologico-sperimentale per l’educazione dell’uomo, ma che raccorda la conoscenza fenomenologica propria della psicologia e della sociologia con la conoscenza deontologica propria della filosofia e della teologia nella ricerca antropologica. Nella sua più nota opera pedagogica, L’educazione al bivio nel 1943, Maritain così precisa il suo pensiero: «Secondo il suo tipo genuino metodologico, l’idea scientifica dell’uomo, come ogni idea elaborata dalla scienza strenuamente sperimentale, si libera per quanto è possibile da ogni contenuto on-

tologico, in modo da diventare completamente verificabile nell’esperienza sensibile. Il concetto puramente scientifico dell’uomo è e deve essere un concetto espresso in termini di fenomeno, senza riferimento alla realtà ultima. Il concetto filosofico-religioso, al contrario, è un concetto ontologico. Esso non è interamente

verificabile nell’esperienza dei sensi, benché possegga criteri e prove che gli sono propri, e verte sui caratteri essenziali ed intrinseci (sebbene non visibili, né tangibili) e sulla densità intelligibile di quell’essere che chiamiamo «uomo» (").

(12) Ivi, p. 275. (13) L'educazione al bivio, La Scuola, Brescia 1975, pp. 17.

172

L’uomo è una unità-complessità, in rapporto con la natura e le cose, in relazione con le persone e la società, dipende dalla evoluzione biologica e dalla evoluzione sociale ma non ne deriva, perché è una unità, autocosciente e libera, una persona interamente materiale e interamente spirituale, proprio come un affresco è interamente materiale in ragione dei colori utilizzati ed interamente spirituale in ragione dell’intuizione creativa dell’artista. L'uomo non è quindi una cosa tra le cose, parte della natura come intende l’economicismo liberale, o parte della società come intende il politicismo socialista, ma è un tutto, una persona. «L'uomo è una persona che si possiede per mezzo della intelligenza e della volontà. Egli non esiste soltanto come un essere fisico: c’è in lui un'esistenza più nobile e più ricca: la sovraesistenza spirituale propria della conoscenza e dell’amore. Egli è così, in un certo senso, un tutto, e non soltanto una parte; è un universo a se stesso, un microcosmo, in cui il grande universo intero può essere racchiuso mediante la conoscenza. E mediante l’amore egli può donarsi liberamente ad esseri che sono per lui come degli altri se stesso. Di questa specie di relazioni non esiste alcun equivalente nel mondo fisico» (4). L’umanesimo integrale considera l’uomo in tutte le sue componenti distinguendo i diversi aspetti fisici, psichici, spirituali, sociali, religiosi, che costituiscono nella loro unità dinamica la persona umana, che quotidianamente, mediante l’educazione va facendosi personalità realizzando il suo ruolo sociale e la sua vocazione religiosa. Maritain così riassume la sua antropologia: «In risposta alla nostra domanda “Che cosa è l’uomo?” noi possiamo quindi dare l’idea greca, ebraica e cristiana dell’uomo: l’uomo è un animale dotato di ragione, la cui suprema dignità consiste nell’intelletto; è un individuo libero in personale rapporto con Dio, la cui suprema «giustizia» o rettitudine è di obbedire volontariamente alla legge di Dio; è una creatura peccatrice e ferita chiamata alla vita divina e alla libertà della grazia, e la cui

perfezione suprema consiste nell’amore» (5). L’uomo per Maritain è un animale ragionevole, che dipende dalla evoluzione naturale, è una persona sociale, condizionata ma non subordinata alla società, un figlio di Dio chiamato alla beatitudine eterna. ‘ (149) Per una politica più umana, Morcelliana, Brescia 1968, p. 57. (15) L’educazione al bivio, cit., p. 20.

173

3. L'UOMO, ANIMALE

RAGIONEVOLE

Come per Sertillanges anche per Maritain l’uomo è «un’essenza mista», un corpo animato di vita spirituale, e un’anima

incarnata fin dall’origine della sua esistenza. Lontano da ogni forma di materialismo e di angelismo, il realismo mariteniano considera l’unità sostanziale dell’uomo interamente materiale ed interamente spirituale, per cui l’anima nel suo essere, è intrinsecamente libera dal corpo, ma è estrinsecamente condizionata dal proprio corpo nel suo funzionare. Il pensiero e la libertà sono sempre atti spirituali, ma si esprimono nei condizionamenti fisico-psichici e nelle situazioni socio-ambientali di ciascun uomo. Pertanto ogni offesa fatta all’individualità materiale dell’uomo è un'offesa fatta direttamente alla persona umana e alla sua dignità. Come organismo l’uomo è al vertice dell’evoluzione biologica, come spirito è alla base della gerarchia degli esseri spirituali; infatti in lui la vita organica propria della materia, animata dallo spirito, diventa capace di pensare, mentre la vita spirituale si trova al livello inferiore degli esseri spirituali, perché uno spirito puro è più intelligente e più libero di uno spirito incarnato. Maritain osserva che un filosofo che non si ponga criticamente il problema dell’esistenza degli angeli è un cattivo metafisico, perché è più ragionevole riconoscere l’esistenza di uno spirito puro

che non quella di uno spirito incarnato. L’autocoscienza spirituale dell’uomo, atto nel quale il soggetto coglie la propria identità e si autodetermina responsabilmente nelle libere decisioni, è condizionata dalla vita psichica e dalla vita biologica. L’uomo non è libero «da» quelle condizioni di esistenza materiale in cui viene al mondo, ma è libero «in» quelle condizioni esistenziali, per cui può realizzarsi solo se unifica tutte le forze che urgono in lui senza rifiutare la sua condizione di animale ragionevole. Maritain ha esplorato a fondo questa situazione nell'opera Quattro saggi sullo spirito nel suo stato di incarnazione ('°) del 1939, in dialogo con la psicoanalisi e la etnologia ricercando, tramite l’osservazione del comportamento umano, le radici profonde della spiritualità dell’uomo. Proprio in questa prospettiva Maritain riconosce l’importanza dell’inconscio che avvolge l’uomo da tutte le parti, non solo dal basso ad opera (16) Quatre essais sur l’esprit dans sa condition Brouwer, Paris 1939, pp. 266.

174

charnelle,

Desclée

de

dei condizionamenti tività come

inconscio

fisio-psichici dell’istintualità e della affetsubconscio

(Freud),

ma

anche

dall’alto

ad opera delle influenze culturali della poesia, della filosofia, della religione come inconscio sovraconscio

(Platone).

Proprio nello studiare la musicalità della creatività artistica nell’opera L’intuizione creativa nella poesia e nell’arte

(!) del

1953, Maritain sottolinea il reciproco condizionamento di questi due inconsci, che sono alla base dell’unità profonda della persona umana, anche se acquisiscono valore e responsabilità nella luce solare dell’autocoscienza dello spirito: «Vi sono due grandi specie di inconscio, due grandi regni dell’attività psicologica lontana dallo stato di consapevolezza: il preconscio dello spirito nelle sue forme vive, e l’inconscio della materia, istinti, tendenze, complessi, immagini e desideri repressi, ricordi traumatici, che costituiscono un insieme dinamico chiuso o autonomo. Vorrei designare la prima specie di inconscio col nome spirituale o, per amore di Platone, inconscio o preconscio e la seconda col nome di inconscio automatico o sordo — sordo all’intelligenza, e strutturato in modo autonomo, separato dall’intelligenza — potremmo anche dire, in senso del tutto generale, lasciando da parte ogni teoria particolare, inconscio freudiano. Queste due specie di vita inconscia sono in stretto rapporto ed in continua comunicazione l’una con l’altra; nell’esistenza concreta esse di solito si mescolano e si frammischiano in modo più o meno grande; e io credo che mai — eccetto in qualche raro esempio di suprema purificazione spirituale — l’inconscio spirituale operi senza che l’altro sia presente, anche in misura minima. Ma sono essenzialmente distinti e di natura completamente diversa» (15). 4. L'UOMO, PERSONA

SOCIALE

La filosofia pagana aveva con Platone e Aristotele sottolineato la naturalità della socievolezza umana affermando che l’uomo è un «animale politico», ma tale definizione considerava la socievolezza soltanto come una carenza e un bisogno e, soprattutto

(17) 1953, (18) 1983,

Creative Intuition în Art and Poetry, Pantheon Books, New York pp. XXXII, 423. : L’intuizione creativa nella poesia e nell’arte, Morcelliana, Brescia p. 114.

175

subordinava l’uomo allo Stato, come bene Popper ha sottolineato nella sua critica alla Repubblica di Platone. Maritain invece, nella scia della tradizione cristiana, considera l’uomo una «persona sociale» che entra in società non solo per «bisogno», come gli animali del branco, ma anche per «dono», per generosità e soprattutto che non risolve la sua socialità nello Stato, perché la socialità è più della cittadinanza esprimendosi prima nella famiglia poi nella società civile, di cui lo Stato non è che la struttura amministrativa, ed infine, nella società ecclesiale. Così l’uomo è considerato come l’unità sociale, perché è proprio nella sua soggettività che si fonda il suo essere sociale, essendo le strutture sociali soltanto delle organizzazioni al servizio della persona umana. Commentando un testo di s. Tommaso, Maritain nell’opera La persona umana e il bene comune (*) afferma che l’uomo è interamente sociale ma non secondo tutto se stesso, per cui i valori della persona sono valori metapolitici. Infatti il bene comune non è il bene delle strutture organizzative della società, ma è il bene delle persone in società; il bene del matrimonio e della famiglia è il bene dei componenti il gruppo familiare, il bene della società civile è il bene dei cittadini, cioè il bene comune è tale solo se ridistribuibile ai componenti la società, la quale non è un tutto fatto di parti ma è «un tutto fatto di tutti». Maritain così ne I diritti dell’uomo e la persona umana (*) nel 1942 analizza il concetto di bene comune. «Il bene comune della

città non è la semplice collezione dei beni privati, né il bene proprio di un tutto (come la specie rispetto agli individui, o come l’alveare rispetto alle api) che si riferisca solo a se stesso e si sacrifichi le parti; è la felice vita ’umana” della moltitudine, di una moltitudine di persone, cioè di totalità insieme corporee e spirituali, e principalmente spirituali, anche se capita loro di vivere più spesso nella carne che nello spirito. Il bene comune della città è la loro comunione nel ben-vivere; egli è dunque comune al tutto e alle parti; cioè alle parti come esse stesse dei tutti, poiché la nozione stessa di persona significa totalità; esso è cope La personne et le bien commun, D193:

Desclée de Brouwer, Paris 1947,

(20) Les droits de l’homme et loi naturelle, Editions de ia Maison Frangaise, New York 1942, pp. 142.

176

mune al tutto e alle parti, sulle quali si riversa e che debbono beneficiare di lui» (2). Per Maritain dunque una società democraticamente organizzata deve essere «personalistico-comunitaria», perché la persona

umana è una persona sociale che naturalmente entra in società per bisogno e per dono, e l’uguaglianza, come «uguaglianza proporzionale» deve caratterizzare le relazioni interpersonali. A differenza

di Mounier,

viene

così sottolineata

la centralità

della

personalità di cui gli aspetti sociali sono essenziali ma collaterali, perché riguardano le relazioni interpersonali, che presuppongono la persona come loro fondamento. La comunità non è che l’insieme delle persone in un dato momento del divenire della storia in un dato paese; non si è uomini «se» non si è sociali, se non si vive nella propria comunità familiare, civile, ecclesiale, ma non si è uomini «perché» si è sociali. Per questi motivi la comunità deve organizzarsi pluralisticamente rispettando la identità delle persone alle quali si riferisce il bene comune (2), e l'uguaglianza fra le persone non va confusa con una uniforme parità, perché ogni uomo è un universo a se stesso.

Il discorso sull’uguaglianza, a cui Maritain ha dedicato un lungo articolo («L’uguaglianza umana») pubblicato nella rivista Etudes carmélitaines nel 1939, poi raccolto in volume, dipende non solo dalla filosofia politica ma dalla stessa epistemologia, perché se la parola «umanità» è un puro nome utile ma non vero, come intende il fenomenismo allora tutti gli uomini sono assolutamente diversi e non hanno nulla in comune, se invece è la realtà stessa, come afferma l’idealismo, allora non esiste più la persona individuale, essendo ogni uomo soltanto un modo di essere dell’unica umanità che nella storia si identifica nello Stato; mentre se la «umanità» non «è» idealisticamente tutta la realtà ma «ha» realtà nei singoli uomini, allora ogni uomo è un soggetto libero ed indipendente. Pertanto, la «equivocità», la «univocità» e la «analogia» della critica non sono pure questioni logiche, ma presupposti teoretici del discorso politico. Tutti gli uomini sono ugualmente uomini, ma lo sono diversamente in (21) I diritti dell’uomo e la legge naturale, Vita e Pensiero, Milano p. 47.

1977, ; (2) Cfr. P. Viotto, Per una filosofia dell'educazione, Vita e Pensiero, Milano 1982, Appendice XI: «Il pluralismo come metodologia».

1874

una uguaglianza di proporzioni per cui la giustizia non consiste

nel dare paritariamente a tutti l’eguale, ma nel dare «a ciascuno il suo» secondo il bisogno e secondo il merito. «Affermare l’uguaglianza di natura tra gli uomini è, per l’idealismo egalitario, volere che ogni disuguaglianza tra essi sparisca. Affermare l’uguaglianza di natura tra gli uomini o l’unità del genere umano è, per il realismo cristiano, volere che si sviluppino le disuguaglianze feconde per il cui mezzo la moltitudine degli individui partecipa al comune tesoro dell’umanità. L’idealismo egalitario decifra il termine uguaglianza solo alla superficie: il realismo cristiano la decifra in profondità» (*). Gli uomini sono uguali fra di loro, malgrado le differenze di razza, di sesso, di età, di cultura, ma non si tratta di una ugua-

glianza aritmetica, che sarebbe «un’uguaglianza della pura unità ripetuta» (2), bensì di «una uguaglianza organica» nella quale ciascuno apporta al bene comune, articchendolo, tutte le caratteristiche differenziantesi della sua individualità personale: «Nessun uomo è uomo per essenza, e cioè esaurisce in sé tutta la ricchezza delle perfezioni di cui la specie umana è capace: in questo senso tutta la diversità di perfezioni e di virtù che le generazioni umane si ripartiscono nello spazio e nel tempo, non è che partecipazione variata alle comuni e inesauribili virtualità dell’uomo» (>). Questa unità di valore di ciascun uomo nella reciproca complementarità, per Maritain si manifesta in modo particolare nelle relazioni tra l’uomo e la donna, perché la complementarità dei sessi non è soltanto un fatto biologico, relativo alla procreazione (gli uomini non si riproducono come gli animali che si ripetono di generazione in generazione, ma «procreano», per e con Dio, perché ogni «cucciolo d'uomo» non è solo un esemplare della specie umana, ma, ad opera dei genitori e di Dio insieme, una creatura originale, una novità nell’universo cosmico), ma anche e soprattutto un fatto psicologico e spirituale per cui l’umanità, che è «completa» in ciascun uomo, non è «compiuta» se non nelle relazioni tra l’uomo e la dorma! pet cui il diverso apporto maschile e femminile alla cultura e alla civiltà è neces(23) Per una politica più umana, (24) Ivi, p. 73. (25) Ivi, p. 80.

178

cit., p. 81.

sario per il progresso della società. In un articolo «Facciamogli un aiuto simile a lui» del 1967 Maritain giunge a scrivere: «L’essere umano non è compiuto se non nell'uomo e nella donna presi insieme» (‘), ed in un altro testo del medesimo periodo «Verso un'idea tomista dell’evoluzione» immagina che Adamo ed Eva fossero dei gemelli di una scimmia ominide diventati uomini per la sopraelevazione spirituale ad opera di Dio che ha infuso in loro l’anima spirituale sopraelevando lo sviluppo biologico, dando origine alla razza umana (7). 5. L'UOMO,

FIGLIO

DI DIO

L’uomo è una creatura di Dio, perché la persona, come un tutto originale, non può derivare dalla generazione biologica, ma è opera diretta di Dio per cui per natura è la più qualificata delle creature. Ma la «persona umana», pur nella sua autocoscienza e autodeterminazione, è al livello inferiore dell’universo delle persone, perché condizionata dalla materia di cui è forma. La «persona», che è completa in ciascun uomo e che umanamente si compie nei rapporti con tutti gli altri uomini, non raggiunge nell'uomo la pienezza della persona, la compiutezza della persona in quanto persona, perché solo nello Spirito assoluto la persona è compiuta. Maritain, avvicinandosi a Blondel ma evitando ogni forma di modernismo e ogni rischio di immanentismo, coglie nell’uomo la dinamica di due aspirazioni alla persona. In Da Bergson a Tommaso D'Aquino scrive che «la personalità è una perfezione analitica e trascendentale, che non è pienamente e assolutamente realizzata che in Dio, l'Atto Puro» (?), e precisa, distinguendo due dinamiche nello sviluppo umano: «Alcune aspirazioni della persona sono connaturali all'uomo. Esse riguardano la persona umana in quanto essa possiede una natura specifica determinata. Altre aspirazioni sono transnaturali e si riferiscono alla persona umana in quanto è persona e partecipa, secondo il suo grado imperfetto, della perfezione trascendentale della personalità» (?°). L’uomo non può accontentarsi di essere uomo, (26) Approches sans entraves. Scritti di filosofia cristiana, Città Nuova Editrice, Roma 1977-78, vol. I, pp. 186. (27) Ivi, pp. 87-153. (28) Da Bergson a Tommaso D'Aquino, Vita e Pensiero, Milano 1980, PAR9DI

(29) Ivi, p. 96.

179

l'umano è troppo umano per lui, direbbe Nietzsche, per cui ha bisogno di un «apporto trascendente» per soddisfare la sua sete di infinito, il suo desiderio di essere come Dio, ma questo non è possibile se Dio non lo sopraeleva soprannaturalmente. Si può

allora concludere «che esiste in noi, animali ragionevoli, un desiderio naturale, che non è precisamente nostro, ma di un elemento che ci trascende, un desiderio di oltrepassare la condizione umana ... Ma proprio perché queste aspirazioni ad oltrepassare la condizione umana non sono aspirazioni della nostra natura specifica, ma soltanto aspirazioni di un elemento trascendentale in noi, esse restano inefficaci e condizionali. Non hanno alcun diritto di essere esaudite. Se saranno esaudite in qualche modo ciò avverrà per mezzo della grazia» (9). Nell’«umanesimo integrale» di Maritain il cristianesimo presuppone l’umanesimo, ma l’umanesimo si realizza compiutamente solo nel cristianesimo, perché la fede completa la ragione sul piano cognitivo, la grazia completa la natura sul piano operativo, la Chiesa completa lo Stato sul piano sociale. Proprio su queste articolazioni tra natura e soprannatura Maritain ha sviluppato

a lungo la sua meditazione filosofica, evitando da una parte il naturalismo laico che pretende di risolvere il destino umano nella storia, perché l’uomo è buono per natura e si salva da solo, e il soprannaturalismo protestantico per cui la natura umana è perversa e la grazia di Dio non fa che nascondere il peccato dell’uomo. Per Maritain la natura umana è ferita dalla colpa originale, è indebolita nelle sue capacità di liberazione dalla cupidigia verso le cose, dalla concupiscenza verso le persone, dall’orgoglio verso Dio, ma la grazia di Dio aiuta l’uomo a redimersi nella incorporazione a Cristo, partecipando al mistero della Chiesa che nella storia porta la salvezza ad ogni uomo (*'). L’uomo da solo può avere solo la iniziativa del male, perché Dio è assolutamente innocente del male che avviene nel mondo,

ma l’uomo collaborando con Dio può salvarsi dal male perché la grazia divina lo redime interiormente, riabilitando la creatura davanti al Creatore, rendendola capace di promuovere il rinnovamento

della società, secondo un nuovo

umanesimo

cristiano.

(30) Ivi, p. 110. (31) Cfr. De l’Eglise du Christ. La personne de L’Eglise et son personnel, Ed. Cit., pp. 230-245.

180

Il Cristo, interamente uomo e interamente Dio, rappresenta il centro della storia, ed è in Lui, conosciuto o sconosciuto, prima o

dopo il suo avvento nel mondo, che si salvano tutti gli uomini; l’umanesimo integrale è il cristianesimo a cui tutti i popoli della terra sono chiamati e nel quale possono convivere le diverse civiltà con le loro differenze che arricchiscono l’umanità. Promozione umana ed evangelizzazione cristiana non sono che i due movimenti del processo di liberazione dell’uomo, l’uno che si svolge nella storia, l’altro che parte dalla storia ma si realizza nell’eternità (*). 6. IL PARADOSSO

DELLA CONDIZIONE

UMANA

La condizione umana di per se stessa non è contraddittoria, perché l’uomo è opera di Dio, anzi è il capolavoro della creazione ove materia e spirito, anima e corpo, individualità e socialità, DI

natura e soprannatura fanno tutt'uno, ma è un «paradosso» per la multiformità degli elementi fisici, psichici, spirituali, sociali,

religiosi che interagiscono all’interno della persona, dalla oscurità e dalla penombra dell’inconscio materiale e spirituale fino alla luce solare dell’autocoscienza. Questo paradosso era garantito nella sua esistenzialità funzionale dalla sopraelevazione della grazia di Dio, ma la colpa originale, la pretesa dell’uomo di bastare a se stesso, il rifiuto dell’aiuto soprannaturale di Dio ha incrinato questa unità, per cui, storicamente, ora, la condizione umana è una contraddizione, perché anche il ristabilimento delle relazioni con Dio, mediante la redenzione e la rivelazione non cancellano le conseguenze della colpa originale, per cui l’uomo chiamato al bene è attratto dal male e la società che dovrebbe pacificamente regolare nel bene comune i rapporti tra i popoli e tra le persone è retta dalla violenza. La condizione umana è una condizione tragica, dovuta al contrasto tra l’individualità carnale e la personalità spirituale, per cui l’intelligenza con fatica può passare dalle sensazioni alle idee; dovuta al conflitto tra la persona del singolo e la comunità sociale, per cui l'individuo come singolo deve subordinarsi al bene comune della società anche se il bene comune della società (32) Cfr. De la grace et de l'humanité de Jésus, Desclée Paris 1967, pp. 156.

de Brouwer,

181

si riferisce al bene della persona; dovuta alla contraddizione tra le aspirazioni ad essere pienamente persona e la impossibilità di soddisfare queste aspirazioni. Maritain nel 1960 ha dedicato la conclusione del corso di filosofia morale alla Princeton University all’esame di questa situazione paradossale, che l’uomo non può rifiutare, perché il suo rifiuto sarebbe un’evasione illusoria e che l’uomo non può accettare, perché la sua accettazione sarebbe una delusione (*). «Rifiutare — nell’intimo del cuore — la condizione umana, vuol dire

o sognare di uscire dai nostri limiti e voler godere di una libertà piena, nella quale, con i suoi poteri, la nostra natura possa espandersi, oppure giocare allo spirito puro (quello che abbiamo chiamato una volta il peccato di angelismo), oppure maledire e tentare di misconoscere tutto ciò che fa ostacolo alla vita dell’intelletto, e vivere in istinto di rivolta interiore contro il fatto di essere uomini, oppure sfuggire con una qualsiasi ebbrezza, magari nella follia della carne, questa situazione di una ragione alle prese dappertutto con la materia, che è una sfida permanente alle domande dello spirito in noi» (*#). Ma anche l’accettazione della condizione umana è insostenibile. «Questa accettazione pura e semplice non si pagherebbe meno cara e non è meno impossibile. Sarebbe tradire la natura umana misconoscere le richieste, che le sono consostanziali, del sovrumano nell’uomo, e l’esigenza che essa comporta del movimento progressivo dello spirito, con i suoi tormenti e i suoi pericoli, in altri termini, con la sua esigenza di perpetuo superamento del momento attualmente dato della nostra condizione sulla terra. E se vogliamo superarlo, è appunto perché non l’accettiamo senza riserve» (*). Per uscire dal paradosso e dalla contraddizione della condizio-

ne umana bisogna trascenderla e si hanno due vie nell’esperienza dell’umanità: quella dell’induismo e del buddismo che rifiutano «con eccezionale coraggio e un eccezionale orgoglio dello spirito» (*) la condizione di essere limitati ed incarnati annullando la

(33) La philosophie morale, Examen historique et critique systemès, Gallimard, Paris 1960, p. 588. (*) La filosofia morale, Morcelliana, Brescia 1971, p. 529. (35) Ivi, p. 531.

(36) Ivi, p. 533.

182

des grands

vita individuale nella volontà universale e quella dell’ebraismo e del cristianesimo che trascende ed insieme accetta la situazione umana mediante l’illuminazione e il soccorso di Dio. «Per il cristiano si tratta di trascendere la condizione umana, ma con la grazia di Dio — non, come per il saggio indiano, con una suprema concentrazione su se stesso — e consentendo nello stesso tempo a questa condizione, accettandola senza recalcitrare, sebbene non puramente e semplicemente; perché il cristiano l’accetta per quanto riguarda tutto ciò che è male di pena proprio della condizione umana, non per quanto riguarda l’errore morale o il peccato. Rottura con la condizione umana quanto al peccato, accettazione della condizione umana quanto alla contingenza radicale e quanto alla sofferenza, come pure quanto alle gioie che essa comporta: e tutto questo è chiesto dalla ragione, ma non è decisamente possibile, che in virtù della configurazione per grazia a Colui che è la santità stessa, perché è il Verbo incarnato. Nello stesso tempo, l’accettazione della condizione umana cessa di essere semplice sottomissione alla necessità, diventa consenso attivo, e per amore» (97). Occorre dunque, come scriveva Maritain nel 1936 nella prefazione alla sua opera più nota Umanesimo integrale, mettersi nella prospettiva di un umanesimo eroico, perché la civiltà dei consumi e la società socialista non possono soddisfare l’uomo. L’uomo, riprende Maritain da Bergson, ha bisogno di «un supplemento d’anima» per superare le contraddizioni della condizione umana, in quanto ogni tentativo di essere soddisfatto di sé, sia pure in una prospettiva di solidarietà, non può soddisfare l’uomo. Non c’è contraddizione tra umanesimo ed eroismo, tutti gli uomini sono chiamati alla santità. «Lo sforzo verso l’eroismo, la speranza di sorpassare le condizioni della vita umana ha la sua radice nella natura stessa dell’uomo, ed è tradire la natura umana persuadere gli uomini di accontentarsi dell’umano, petsuadere i mortali di accontentarsi di cose mortali» (*). Si tratta dunque di superare la condizione umana accentuandola nella sua esistenzialità, trascendendola nella sua prospettiva (37) (38) verses 1921,

Ivi, p. 535. È I ; Theonas, ou les entretiens d'un sage et de deux philosophes sur dimatiéres inégalement actuelles, Nouvelle Libraire National, Paris p. 54.

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religiosa. Il processo educativo consiste nell’accettare attivamente la «condizione umana», nel saper vivere con sicurezza nel-

la insicurezza, con libertà nei condizionamenti biopsichici e socioambientali, nel comportarsi realisticamente con soggettività personale nella oggettività naturale e sociale. Si tratta di apprendere ad utilizzare i determinismi naturali che agiscono sul temperamento biologico, i condizionamenti sociali che interagiscono con il carattere psichico individuale, e le influenze spirituali che sopraelevano la persona umana. L’uomo prende in mano il suo destino, accetta i suoi limiti, utilizza le sue risorse, realizza la sua personalità perché si comporta da soggetto nella oggettività dei rapporti con le cose e delle relazioni con le persone. Se invece pretende di essere solo soggetto, rifiutando i propri limiti, diventa un «personaggio», una caricatura della personalità, perché incapace di relazioni oggettive; se si abbandona ai determinismi ed ai condizionamenti, comportandosi conformisticamente secondo le tradizioni, riducendosi ad oggetto della vita economica e della vita politica, si annulla nella «massa». L’educazione è un rischio: bisogna evitare il conformismo abitudinario e l’originalità irrazionale per apprendere a disciplinarsi, senza presunzione e senza disperazione, nel rispetto delle cose e delle persone.

7. LA LEGGE E LA LIBERTÀ La formazione della coscienza impegna personalmente l’educando: infatti la coscienza morale si fonda sulla responsabilità personale dei propri atti, la coscienza sociale implica la partecipazione personale al gruppo, e la coscienza religiosa riguarda la salvezza personale nell’adesione al messaggio evangelico. Si possono riportare alla formazione dell’intera personalità le fasi di sviluppo, che il Guittard riferisce allo sviluppo della coscienza religiosa. Tre sono le tappe di questo sviluppo: una «imitativa», durante la fanciullezza, quando la coscienza eteronomica si forma su modelli derivati dal gruppo familiare, scolastico e sociale, dipende nei suoi giudizi dall’autorità degli adulti, che non mette in discussione, ma che accetta ed assimila spontaneamente; una «sconvolta» durante la crisi puberale, quando tutta la costruzione è messa in crisi, quando l’autorità degli adulti è discussa e l’io cerca una via indipendente per i propri comporta184

menti; infine un'ultima fase «personalizzata» quando l’io ha riconosciuto la validità delle norme oggettive, che ha fatto proprie, oltre ogni forma di pura imitazione, quando la personalità si è interiormente integrata ed esteriormente adattata all’ambiente sociale, raggiungendo la propria maturità nella giusta autonomia, come equilibrio di soggettività e di oggettività. a) I primissimi esordi della coscienza morale sono di natura istintiva e solo impropriamente possono dirsi morali. La psicologia li spiega con la formazione del super-ego: l’io del bambino entra in conflitto emozionale con l’ambiente familiare a causa dei divieti e delle imposizioni che deve subire, ed è costretto ad adattarsi. L’istinto vitale cerca la soddisfazione dei bisogni, ma urta contro i divieti che, impedendogli la soddisfazione, provocano uno stato di sofferenza, per cui l’io, allo scopo di evitare questo stato spiacevole, si inibisce, adattandosi alla imposizione. Questa regolazione, istintiva ed inconscia, del comportamento, dipende dalla paura delle conseguenze dell’infrazione al veto posto dall'ambiente; si tratta di una specie di riflesso con cui l’io si difende dalle possibili punizioni. Il super-ego nasce così da una assimilazione irrazionale del divieto, ad un livello infra-umano e pseudo-morale, caratterizzato dalla paura istintiva della sofferenza. Evidentemente questo comportamento egocentrico è antitetico alla vera morale, umana e razionale, che è fatta di amore e non di timore, che è ricerca dell’altro come rispetto del valore di ogni uomo e non atteggiamento di difesa nell’opposizione all’altro considerato come rivale. D'altra parte, però, questa prima regolazione degli istintiè la premessa necessaria per la formazione della coscienza morale, perché é la prima manifestazione di ordine nel caos dello psichismo infantile (Freud) (?).

b) Un secondo momento nello sviluppo della coscienza motale è dovuto al condizionamento sociale del comportamento in conseguenza del meccanismo dei premi e dei castighi. Il ragazzo si comporta moralmente più per la stima dell’autorità dei genitori e degli educatori che per una consapevolezza personale del valore della legge. La norma è conosciuta nella sua oggettività, ma come vincolo esterno, imposto dall’autorità alla coscienza, ed ogni infrazione alla legge si accompagna con un sentimento (39) Cfr. Quattro saggi sullo spirito Megnao; Morcelliana, Brescia 1978, pp. 13-45.

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di vergogna per avere offeso il gruppo sociale in cui si è inseriti e di cui non si merita più la stima. Ci troviamo già ad un livello superiore a quello della morale del super-ego, determinata dal condizionamento fisio-psichico della paura della sofferenza, ma il comportamento non può ancora dirsi compiutamente morale, perché fondato sul rispetto di una legge esteriore. C'è già la coscienza del dovere, ma il dovere non è ancora percepito e rispettato per la sua intrinseca obbligatorietà. La coscienza eteronomica è un passaggio necessario per il consolidamento del costume morale; dalla costrizione delle cose si passa alla costrizione delle persone, dal dispiacere di una frustrazione alla vergogna di una disapprovazione. La legge morale è già considerata nella sua oggettività e si manifesta un primo superamento dell’egocentrismo istintivo, ma non è ancora riconosciuta nella sua razionalità e riferita alla propria coscienza (Marx) (99). c) La morale raggiunge la sua più autentica espressione quando il ragazzo è in grado di comprendere l’interiorità della legge morale, come comandamento che impegna personalmente la coscienza e non solo nei suoi riferimenti con l’autorità del gruppo familiare o scolastico. Bisogna fare comprendere all’educando come la legge sia intrinsecamente morale, e che un comando non è giusto perché è comandato, ma deve essere comandato perché è giusto. Una morale fondata solo sull’autorità dei genitori e degli educatori, falsa la coscienza, perché considera la legge come esigenza sociale e non come imperativo della coscienza. Il retto comportamento morale di un’azione non dipende dalla socializzazione dell’azione, ma dalla sua finalizzazione rivolta ai valori: ad esempio, ingannare non è solo male perché si inganna il prossimo, ma anche e soprattutto perché non si rispetta la verità. Si giunge così alla morale autonoma fondata

sull’imperativo categorico della coscienza orientata ai valori, e l'infrazione a questa legge provoca non solo un sentimento di vergogna ma un vero e proprio sentimento di colpa, conseguente

all’offesa alla legge interiore. Si passa così dalla necessità di una legge ordinatrice del comportamento, propria del super-ego, attraverso il riconoscimento della sua oggettività, operato dalla mo(49) Cfr. La filosofia morale, cit., pp. 249-326.

186

rale eteronomica, alla razionalità dell’imperativo categorico, riconosciuto dalla morale autonoma (Kant) (‘). d) Ma l’imperativo categorico non può essere considerato il fondamento del comportamento umano perché altrimenti contradditoriamente, come pretende Rousseau, l’uomo dovrebbe essere contemporaneamente suddito e re. Così l’uomo sarebbe Dio a se stesso. Una cosa infatti non è giusta perché è comandata, ma è comandata perché è giusta, quindi l’imperativo categorico presuppone l’esistenza della giustizia, e la legge morale non basta a fondare se stessa perché esige un legislatore che sia il fondamento ultimo della legge, per cui il dovere morale in ultima istanza si presenta come comandamento di Dio. La colpa originale dell’umanità, che secondo l’espressione biblica ha voluto mangiare il frutto dell’albero del bene e del male, consiste proprio nella pretesa di essere legge a se stesso, di non ubbidire che a se stesso, di essere responsabili solo davanti alla propria coscienza. Per questo motivo Maritain riprende da s. Paolo il discorso sulla legge e sulla libertà affermando che l’uomo deve liberarsi anche dalla legge per potere realizzare compiutamente la propria libertà. Quando l’uomo riconosce di non essere il «legislatore» dell’ordine morale, ma soltanto il «promulgatore», allora compie la legge liberandosi da essa, non fa «per dovere» ma «per amore» quanto la coscienza gli prescrive, sentendosi in peccato quando infrange la legge, che non vale per se stessa ma per la persona del Legislatore. In questa prospettiva religiosa non si nega la legge ma si va «oltre la legge», per cui l’uomo con la grazia di Dio raggiunge la piena libertà della sua esperienza morale

(san Paolo).

A livello di super-ego nella anomia del comportamento istintuale il bambino sotto i morsi della paura è costretto a vivere «nella legge»; a questo livello la psicoanalisi blocca la fondazione della morale. Per il pensiero socialista, sia deweyano che marxista, la coscienza morale deriva dalla coscienza sociale e per non essere emarginati dal gruppo l’uomo è costretto a vivere «secondo la legge». Per la coscienza laica e liberale, l’uomo deve vivere «per la legge» sottomettendosi con le sue forze alla rigorosità dell’imperativo categorico che fonda l’autonomia assoluta. A

(41) Cfr. Ivi, pp. 117-148.

187

questo livello il «ruolo» sociale diventa un compito «morale» indipendente da ogni rapporto con le altre persone. Per il cristianesimo l’uomo deve liberarsi della stessa economia morale, senza negare i principi della morale, ma ponendosi per amore di Dio e nell'amore del prossimo «oltre la legge» superando la

stessa giustizia nella carità, perché la vita non è soltanto un ruolo acquisito nel gruppo, o un compito individualmente

as-

sunto, ma è una vocazione, perché ciascuna persona è chiamata

alla vita nella provvidenza di Dio. Così non sono le opere a dare la salvezza, ma è la fede a rendere valide le opere, perché

solo la fede può giustificare l’uomo e cancellare il peccato (‘). Il «vero super-uomo» non è l’io assoluto di Nietzsche, o la massa di Marx ma il santo cristiano che, non da solo ma da sé

con l’aiuto della grazia di Dio e dei doni dello Spirito Santo, accetta le condizioni

della sua

esistenza,

vivendo

la condizione

umana con impegno e generosità nel rispetto della legge morale e sociale per amore di Dio (‘).

(4) Cfr. Il pensiero di san Paolo, Borla, Torino 1964, p . 61-78. (4) Cfr. Theonas, Vita e Pensiero, Milano 1982, pp. 1351.

188

FELICE CHIARELLI dell’Associazione «Luigi Sturzo»

La città, dimensione temporale dell’uomo

1. LA PERSONA UMANA AL CENTRO E POLITICO AMMINISTRATIVO

DI OGNI PROGETTO

CULTURALE

Interpretare oggi i fermenti presenti nell’area cattolica, intesa questa nella sua più ampia accezione, e cioè dai laici impegnati nel mondo culturale, ai movimenti presenti nel sociale, alle aggregazioni del volontariato, a quei laici impegnati nel servizio della politica ispirato dalla testimonianza di fede (!), significa portare alla luce un progetto culturale e antropologico che abbia a fondamento la persona umana. La società e le città in cui viviamo sono delle unioni di persone. E le persone singole contano più della società, perché attraverso un esame logico, ontologico e teleologico, risulta che la persona viene sempre prima della società (prima come concetto, prima come

essere, prima come

fine) (?).

È noto che il concetto di persona, valore assoluto, è stato costruito ed impiantato nel pensiero umano dal cristianesimo, e ciò lo riconoscono anche i marxisti. E tra le varie componenti sociali, la Chiesa cattolica ha enunciato con chiarezza il primato ontologico, assiologico e teleologico della persona nei confronti della società (*). Basterebbe leggere alcuni testi come la Rerum novarum di Leone XIII, la Mater et Magistra di Giovanni XXIII, la Populorum progressio di Paolo VI, la Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, e la Redemptor hominis di Giovanni Paolo II. Come ha precisato egregiamente Maritain, noi non siamo (1) P. Arrupe, Impegno cristiano per la giustizia, Edizioni Aggiornamenti Sociali, Milano 1981. (2) B. Mondin, Una nuova cultura per una nuova società, Massimo, Mi-

lano 1981, p. 272. (3) Ivi, p. 273.

189

semplici individui, ossia realizzazioni distinte della specie umana, noi siamo anche delle persone per questo godiamo di un’esistenza unica, irripetibile ed indistruttibile (*). «Essendo dotata di un valore assoluto, la persona umana non può essere trattata come un oggetto, una cosa, uno strumento di produzione e di scambio, né soggiacere a progetti economici, politici, culturali che gli offrono solo delle cose. Una cultura veramente umanistica deve avere di mira anzitutto e soprattutto ‘la promozione della dimensione spirituale dell’uomo, la crescita del suo essere interiore. [...] Tocca alla società creare condizioni che facilitino a tutti gli uomini la realizzazione del loro pieno sviluppo, soddisfacendo in giusta misura i bisogni di tutti e fornendo a tutti un livello di educazione che li faccia meglio coscienti e responsabili nella conquista di una più ricca personalità » (°). Occorre promuovere

la personalizzazione dei rapporti, occor-

re creare una nuova forma spirituale nella società soprattutto «mediante la coltivazione e la promozione delle singole persone» (°). 2. IMPEGNO

PER UNA

DEMOCRAZIA

CRISTIANAMENTE

ISPIRATA

Quel progetto di nuova cristianità posto da Maritain altro non è che l’ideale democratico che si ispira al cristianesimo. Termine e destinatario delle strutture temporali è la persona umana. È un ideale democratico che si fonda sulla collaborazione i cui valori di base sono l’amore e l’amicizia ... «solo nell’ambito dell’amicizia — ché è la proiezione sociologica e temporale della carità evangelica — si risolve quella antinomia tra persona e società che nessun sistema capitalista e socialista è riuscito ad eliminare: l’uomo, impegnandosi all’opera comune e subordinandovisi, si impegna e si subordina al compimento della vita personale di altre persone; non si subordina allo Stato, alla classe, ad una casta, ecc., ma al bene di persone umane amate e rispettate in quanto persone» (7). (4) B. Mondin, Una nuova cultura... cit., p. 277; J. Maritain, La persona e il bene comune, Morcelliana, Brescia 1973. (5) B. Mondin, Una nuova cultura..., cit., p. 278.

(6) Ivi, p. 279. (?) B. Mondin, Una nuova cultura... cit., p. 245. V. anche: F. Viola, Introduzione alla filosofia politica, LAS, 1980, pp. 45-46.

190

I concetti di «corpo politico» e di «Stato» sviluppati compiutamente ed armoniosamente da Maritain nell’opera L’uomo e lo Stato, ci fanno cogliere l’attenzione data dal filosofo francese alla persona umana posta al centro del corpo politico e questo al centro dello Stato. «Il corpo politico e la società politica costituiscono il tutto. Lo Stato è una parte del tutto. [...] Una società politica solleci-

tata dalla natura e realizzata dalla ragione, è la più perfetta tra le società temporali. È una realtà concretamente e interamente umana, il bene comune. È opera di ragione [...] è ragione pura non più di quello che sia l’uomo stesso. La giustizia è la condizione prima per l’esistenza del corpo politico, ma l’amicizia è la sua vera forza animatrice. [...] Il senso civico deriva da questa dedizione, dall'amore reciproco, come dal senso della giustizia e della legge. L’uomo intero — ma non in ragione della sua intera persona e di tutto ciò che è e possiede — é parte della società politica; e così ogni sua attività tanto comunitaria quanto personale interessa il tutto politico» (*). La grande apertura di orizzonte culturale operata da Maritain si presenta ancora quando costruisce quest’ideale di democrazia sul pluralismo e afferma che «il corpo politico stesso contiene nella sua unità superiore i gruppi familiari, i cui diritti essenziali e le cui libertà gli sono anteriori, e una molteplicità di altre società particolari che procedono dalla libera iniziativa dei cittadini e che dovrebbero essere autonome il più possibile — questo è l’elemento del pluralismo inerente ad ogni società politica vera. [...] Poiché nella società politica l’autorità va dal basso in alto, attraverso la designazione del popolo, è normale che l’intero dinamismo dell’autorità nel corpo politico debba comporsi di autorità particolari e parziali che sorgono a catena una su l’altra, fino all’autorità vertice dello Stato» (9). E Maritain continua a presentarci questo modello di democrazia integralmente umana e afferma che «lo Stato potrebbe varare un movimento di decentrazione progressiva e di destatizzazione della vita sociale, tendente all’avvento di un regime nuovo personale e pluralistico. L’ultimo passo in questo nuovo regime dovrebbe effettuarsi quando lo stimolo dello Stato non fos(8) J. Maritain, L’uomo e lo Stato, Vita e Pensiero, Milano 1975, p. 12. (9) J. Maritain, L’uomo e lo Stato, cit., pp. 13-14.

191

se più necessario, e tutte le forme organiche di attività sociale ed economica, perfino le più ampie e le più comprensive, dovrebbero partire dal basso; intendo dalla libera iniziativa e dalla mutua tensione tra gruppi particolari, comunità di lavoro, organi cooperativi, sindacati, associazioni, gruppi federati di produttori e consumatori, che vengono in scala e riconosciuti istituzionalmente. Allora si effettuerebbe un tipo decisamente personale e pluralistico di vita sociale, dove si svilupperebbero nuovi tipi societari di proprietà e di impresa privata. Lo Stato dovrebbe lasciare a molteplici organi del corpo sociale l’iniziativa autonoma e l’amministrazione di tutte le attività che per natura lo riguardano. In questo senso l’unica prerogativa possibile dovrebbe essere quella di alto arbitrio e super-revisione, che regola queste attività spontanee e autonome dal punto di vista politico superiore del bene comune» (!°). Non è forse su questa strada che l’uomo d’oggi può meglio vivere la dimensione del temporale?

3. LA REPUBBLICA DELLE AUTONOMIE E LA SUA ALLA LUCE DELL’ART. 5 DELLA COSTITUZIONE E DELL'IDEALE DEMOCRATICO MARITAINIANO

REALIZZAZIONE

Il rischio avvertito da Maritain si èx avverato. Gli Stati democratici nello sforzo di sviluppare la giustizia sociale, e migliorare l’organizzazione economica, sono venuti a controllare dall’alto troppe funzioni di vita sociale. Tale tendenza nel nostro Stato è stata mitigata dai principi posti nella Carta costituzionale, che delineano un modello di Stato delle autonomie fondate su un articolato pluralismo sociale, già compiutamente espresso e sperato da Maritain, e frutto delle scelte dei cattolici democratici. La dimensione nella quale può la persona compiutamente esplicare le sue capacità e rendersi direttamente partecipe della vita della polis è senz’altro, prima di tutto, quella locale. E già nella elaborazione sturziana sulla problematica meridionale si raccoglie l'invito pressante e a volte accorato per il ri-

(109) Ivi, pp. 27-28.

192

spetto delle autonomie locali (!). «Il punto saliente della critica sturziana alla genesi dello stato unitario liberale stava nel fatto che si era voluto tagliare alle radici le tradizioni d’autonomia e d’autogoverno locale, sradicando le popolazioni dalle loro radici storiche, culturali, religiose che risalivano ben innanzi gli inizi dell’unificazione» (!).

È a partire dal progetto autonomistico stutziano che nell’ultimo dopoguerra i cattolici impegnati in politica si confrontano con le tematiche del personalismo e del pluralismo e con la accentuazione dei profili garantistici a favore della libertà della persona umana e della sua socialità (*).

Lo dimostrano la formulazione dell’art. 2 della Costituzione («La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili del-

l’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale») e dell’art. 5 («La Republica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento»).

Se nel testo della nostra Costituzioneè è presente il valore personalista e comunitario, nella sua attuazione si è rivelata una concezione «razionalista» dell’unità articolata della società per

la quale le autonomie non sono che decentramento amministrativo.

La stagione della realizzazione di uno Stato democratico fondato sulle autonomie locali (che ha luogo tra gli anni ’60 e ’70), è pervasa da una cultura che pone al suo centro quelle scienze

umane il cui paradosso teorico è l’espulsione della soggettività, l'opposizione tra umano e razionale, l’esorcizzazione di ogni elemento comunitario e la realizzazione di un disegno autonomistico di marca prettamente amministrativista. Questa è stata l’interpretazione data nelle leggi di trasferimento delle funzioni delle Regioni. È a partire da questa ’cultura’ che si capisce come nelle (11) N. Raponi, «Formazione dello Stato italiano», in AA.VV., Stato e senso die Stato oggi in Italia, Vita e Pensiero, Milano 1981, pp. 56-58.

EE: vi, p. 37.

(13) R. Ruffili, «Movimento cattolico e questione delle autonomie» in Dizionario storico del movimento cattolico în Italia, Marietti, 1981, p. 134.

193

autonomie

realizzate, a volte, dominino

l’uniformizzazione,

l’o-

mologazione, l’espansione ripetitiva del politico (e della sua crisi) quale si trova configurata al centro (tanto da far ritenere che le autonomie contribuiscono oggi di più a capillarizzare la crisi che a risolverla).

Il vero problema che bisogna allora affrontare alla luce della nostra Costituzione e dello spirito personalista e comunitario che in parte la pervade, è quello di incanalare la attitudine politica delle comunità locali e delle formazioni sociali in esse presenti, affinché con la loro azione, osteggiando qualsiasi potere sovrapposto, aumentino le potenzialità sociali dell’individuo e si creino effettivamente quella rete di rapporti di solidarietà che dovrebbe essere l’espressione prima della sovranità popolare (‘*). In quanto lo Stato, in base al dettato dell’art. 5, riconosce le autonomie locali territoriali, «esso riconosce perciò stesso che queste autonomie sono la prima posta nel cammino della sovra-

nità popolare verso la sintesi statale e riconosce quindi la funzione attiva della società nel processo di costruzione e di mantenimento dello Stato» (5). Ma, come si è già detto, proprio queste autonomie hanno sofferto «la distrazione dall’area sociale e l’inserzione tra i soggetti statali» (!°). Occorreva invece che i comuni, le provincie e soprattutto le regioni divenissero luoghi di composizione tra società e politica in modo che lo stato, come sintesi politica generale, non dovesse a sua volta confrontarsi con la società in modo diretto, ma fosse il risultato spontaneo della compresenza e della coordinazione delle organizzazioni comunitarie locaIFANGUOE Un maggiore impegno dei cattolici impegnati in politica si sarebbe richiesto per una adeguata fedeltà all’art. 5 della Costituzione, che avrebbe consentito una osmosi tra prima e seconda parte della Costituzione, e non certo il fermarsi ad una ossequiosa e formale applicazione dell’art. 117 della Costituzione, dimodocché «il processo di politicizzazione della società, anzic(14) G. Berti, «Il modello dello Stato nella Costituzione liana», ivi, p. 92.

(15) Ivi, p. 93. (16) Ibidem. (17) Ibidem.

194

repubblicana ita-

ché risolto una volta per tutte con l’investitura statale, si sarebbe storicizzato attraverso molteplici e progressive verifiche e non sarebbe sfuggito quindi al controllo della società stessa» (18).

E già Maritain scriveva: «[...] per il principio pluralistico tutto ciò che nel corpo politico può essere realizzato da particolari organi o società inferiori di grado allo Stato, nati dalla libera iniziativa del popolo, deve essere realizzato da quegli organi particolari o da quelle società [...], ciò significa che in fondo, a un livello più profondo che non quello dei partiti politici, l’interesse e l’iniziativa del popolo negli affari civici dovrebbero cominciare col risvegliare la coscienza comune nelle più piccole comunità locali. [...] Queste attività di crescita spontanea sono per il popolo mezzi indiretti ma efficaci per controllare lo Stato democratico, non solo perché hanno una ripercussione normale sul comportamento dei partiti politici, ma anche perché creano e mantengono nel corpo politico correnti di alta tensione e potenti tendenze che lo Stato non può ignorare» (9). E come è stato di recente affermato: «Il fallimento del Welfare State [...] non sta nel fallimento dell’idea di Stato-sociale,

teso al benessere di tutti i componenti della comunità, ma nella mefistofelica utilizzazione di strumenti che, in nome dello Stato sociale, mirano ad instaurare e a mantenere un’etica dell’avi-

dità, del possesso, pienamente realizzata dai detentori del potere e subdolamente suscitata nella coscienza collettiva: il vertice possiede e produce, la base subisce e consuma» (?°). Non è questo il disegno di Stato democratico e delle autono-

mie voluto dai costituenti di ispirazione cristiana, e già elaborato da Sturzo. Le autonomie vanno ricentrate sul comunitario che le motiva all'esistenza e che d’altra parte, è oggi bisogno e domanda emergente in tutte le società industrializzate. C'è anche oggi, un rischio, che a questo bisogno (al quale si lega l’ipotesi di una riforma delle autonomie) si risponda, auspice la pseudo-cultura politica che si è delineata attorno al disegno della «Grande riforma», con livelli di razionalizzazione e (18) Ivî, p. 94. (19) J. Maritain, L'uomo e lo Stato, cit., pp. 79-80. (20) AA.VV., Fede e politica oggi, Massimo, Milano

1983, p. 7.

195

di uniformizzazione ancora più potenti e sofisticati, facendo dei passi non tanto in direzione di un politico che, partendo dal basso e dai bisogni reali investa gli organi centrali del politico, e in particolare lo Stato, ma facendo dei passi in direzione di una espansione della crisi propria del centrale. Se non si vuole solo impressionare la platea con fumose macchinerie istituzionali, bisogna iniziare ad articolare le autonomie nella vicinanza dei bisogni sociali, affinché si inverta la tendenza per la quale, anzicché uno Stato e un politico che diffondono crisi, si faccia strada un sociale che, a partire da un’espressione di sé ai livelli elementari di governo, finirà anche per investire gli organi centrali del governo politico della società. Questa breve riflessione, vuole, infine, riprendere una proposta fatta da uno studioso ad un recente convegno sulle autonomie. Perché, anziché continuare a concepire le autonomie come terminali territoriali dello Stato (e della crisi di una statualità invadente e totalizzante), non portare i terminali delle autono-

mie nel cuore dello Stato e pensare, per esempio, alla «Camera delle autonomie»? (7).

(21) Si tratta della proposta lanciata nella relazione del prof. Antonio Pavan al Seminario sul tema: «Le autonomie locali tra comunità e istituzioni», che si è tenuto a Udine il 20 e 21 marzo 1982, per iniziativa del centro regionale Friuli Venezia Giulia dell’ISAL — Istituto di studi sull’ammini-

Soa locale — aritain.

196

e della sezione italiana dell’Istituto Internazionale

J.

MASSIMO RONCORONI nel liceo scientifico

docente

«San

Carlo»

di Milano

Educazione, persona, verità nella crisi della civiltà attuale. Il pensiero di Jacques Maritain

1. PREMESSA

ESPLICATIVA

Gli anni 1982-83 segnano la confluenza di due date fondamentali per la cultura universale in genere e per quella cristianocattolica in particolare. Essi infatti rappresentano rispettivamente il centenario della nascita e il decennale della morte di uno dei più grandi filosofi, nel senso originario del termine, e uomini di cultura in assoluto, che al mondo e alla Chiesa siano stati donati nel nostro secolo: Jacques Maritain. Anzi, per usare le parole di fratello René Page, Priore dei Piccoli Fratelli di Gesù, presso i quali Maritain trascorse gli ultimi anni della sua lunga vita dopo la morte della moglie Raîssa, potremmo aggiungere che «nel momento tormentato che il mondo sta attraversando, Jacques è una delle prove che Dio non abbandona mai il suo popolo — e per questo — la sua vita e la sua opera appartengono a Dio, definitivamente; e l’una come l’altra sono

state date alla Chiesa e per tutti gli uomini» (!). Anche in questo caso, infatti, il bene est difusivum sui; è, per sua natura, cattolico,

ossia

universale,

e intensivamente

e estensivamente.

Tali convergenze temporali sono state, e sono ancora occasioni di convegni di studio degni del pensatore cristiano e adeguati al valore della sua opera, proprio perché, per lo più, non si sono limitati a una celebrazione ripetitiva 0, ancor peggio, «accademica» della vita, del pensiero, dell’esistenza, della morte,

in sintesi dell’opera e della testimonianza umana e cristiana di Maritain, ma hanno avviato, per opera di eminenti studiosi di (1) Cfr. opuscolo Mazzolani, p. 2.

Jacques

Maritain

in traduzione

italiana

di Matilde

197

ogni parte del mondo, una riconsiderazione globale e critica di un uomo, di un filosofo e di un cristiano che, col trascorrere del tempo inizia ad assumere e, forse, assumerà sempre di più, nel futuro, la grandezza di un classico che, in quanto tale, costituisce una presenza sempre viva e attuale per la storia, la cultura e la civiltà umana universali: uno scrigno prezioso da cui sapientemente trarre nova et vetera, una fonte perenne e limpida di scienza e di saggezza. Per quanto riguarda il presente studio, mi sembra che il modo più opportuno e adeguato per ripensare Maritain oggi, sia quello di mettersi alla sua scuola e di farsi illuminare da lui sul tema che più direttamente

mi sta a cuore

e mi impegna,

e a

livello vocazionale e a livello professionale, ma che, ben al di là di questo, mi pare sia oggi più che mai di importanza decisiva per la vita e il destino dell’uomo in quanto uomo, nella miseria umiliante e nella grandezza esaltante della sua misteriosa umanità: il problema educativo 0, meglio, quello della materia e della forma dell’educazione o, in termini analoghi, dell’essenza, delle condizioni, degli scopi, dei fini e dei mezzi dell’atto e del fatto

educativo umano. E lo faccio rileggendo criticamente uno dei testi essenziali della filosofia pratica di Maritain e precisamente Pour une philosophie de l’éducation, per studiarne in particolare l'intreccio educazione-uomo-verità e i suoi fattori costitutivi nell’ordine: a) il concetto

di educazione

come

introduzione

alla totalità

dell’essere inteso nella sua perfezione di actus essendi, mediante la quale l’uomo si attua come e in quanto persona umana (); b) il concetto di worzo, come e in quanto persona umana,

soggetto primo e termine ultimo dell’atto e del fatto educativo; c) il concetto di verità come atto e come termine del dinami-

smo profondo e misterioso di liberazione del potere intuitivo dell’intelligenza e della volontà, mediante il quale l’uomo intero si apre alla realtà intera che gli viene incontro, per conoscerne (2) Cfr. lettera di Giovanni Paolo II al Rettore dell’Università Cattolica di Milano, in occasione del convegno su «Maritain a cento anni dalla nascita», scritta il 15/VIII/1982 (vedi Notes et Documents, n. 29, ott.-dic. 1982, pp. 41-42), ove in relazione alla valenza ontologica della realtà totale, termine dell’intenzionalità educativa, si dice «actus essendi, il cui valore trascendentale è la via più diretta per elevarsi alla conoscenza dell’essere fondamentale e dell’Atto puro che è Dio».

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la verità, amarne la bontà, percepirne e goderne la bellezza; e per ciò crescere in un rapporto creativo e inventivo con l’ordine dell’esistente. Il testo Pour une philosophie de l’éducation raccoglie una serie di saggi diversi per occasione, ma profondamente unitari per intenzione, che Maritain riunì in volume nel 1959, ma che rivide e in parte riscrisse alla fine degli anni ’60, sotto l’impressione ancora viva del ’68 parigino, e dal filosofo francese dedicati «ai giovani e ai vecchi amici, da parte di un vecchio eremita al quale spiacerebbe piacere e che non sa tacere», secondo un tratto tipico dell’ironia maritainiana così ricca di quell’«umorismo trascendentale» (*) che caratterizzò la sua vena polemica dagli inizi alla fine della sua opera in un intenso crescendo sapienziale (4). Come tutti i testi maritainiani, anche questo è animato da una forte carica metafisico-etico-politica che ha, quali componenti fondamentali, una conoscenza profonda delle grandi filosofie della storia e dei movimenti spirituali della sua epoca, un lungo e attento studio, attento e serenamente critico, dei pensatori, dei poeti, degli artisti, dei politici e dei teologi contemporanei, una esperienza diretta delle istituzioni europee e nordamericane, un’esperienza diplomatica delicata, come quella d’ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, che fanno di Maritain «un contemplativo sulle strade», per usare una bella immagine di Raissa; un uomo che vive il Vangelo e la contemplazione nel cuore delle masse e che fa scendere la filosofia nelle strade per farla vivere socraticamente e cristianamente «con il popolo» (°). Anche questo, come tutti gli altri libri di Maritain, è il frutto della sua assunzione e trasfigurazione intellettuale e spirituale della sua espe(3) Usiamo qui una felice espressione del Grande Gustavo Bontadini secondo il quale di tutto si può sotridere tranne che del ‘“Fondamento”, di “Dio creatore”; atteggiamento di ironia non cinica, bensì socratica nei confronti delle cose del mondo, a iniziare da se stessi, che bene si adatta alla situazione di equilibrio instabile tra grandezza e miseria, tipica della condizione umana. (4) Si vedano, al riguardo, opere come I/ contadino della Garonna, Morcelliana, Brescia 1969 e «Approches sans entraves», scritti di filosofia cristiana, I e 2 Città Nuova Editrice, Roma 1978. (5) Si veda, in proposito, l’illuminante saggio «Esistere con il popolo», ora tradotto in italiano in Ragione e ragioni, a cura di Vittorio Possenti, Vita e Pensiero, Milano 1981.

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rienza e produce una simbiosi così profonda di vita e pensiero che il lettore non sa più, come accade di fronte a ogni pensatore autentico, secondo la bella espressione di Emmanuel Mounier, «se viva il suo pensiero o pensi la sua vita» (°). Non si tratta infatti di un astratto e precettisticamente razionalistico trattato di pedagogia, bensì di una riflessione sull’atto e sul fatto educativo storicamente ed esistenzialmente motivato e intellettualmente e ontologicamente fondato; la riflessione maritainiana sull'educazione è quindi un momento strutturale della filosofia pratica, dotato di una fortissima valenza etica e politica e perciò col momento etico-politico dell’uomo contemporaneo si sviluppa in stretta connessione ed è continuamente paragonata. Ciò risulta pure dal punto di vista filologico-compositivo in quanto tale opera tuttora non tradotta in italiano nella sua organica integralità (7), si compone sostanzialmente di due sezioni:

la prima costituita dalla versione francese di Education at the crossroads, la seconda da due scritti più recenti Revues thomistes sur l’éducation e Sur quelques aspects typiques de l’éducation, tutti testi di conferenze svolte e pubblicate negli Stati Uniti d’America, e, in appendice, di uno scritto del 1946 dedicato a Le problème de l’école publique en France. Di importanza decisiva, tuttavia, per la contestualizzazione storica, culturale e politica di tutto il testo è, senza dubbio, il rifacimento pressoché totale cui Maritain ha sottoposto l’ultimo capitolo dell'Educazione al bivio, in particolare per quanto riguarda i seguenti paragrafi: «La crisi della civiltà», «La grande prova dell'educazione», «Maggio 1968», «Democrazia e tecnocrazia», che mi sembrano di rilevanza fondamentale non soltanto per l’opera testé considerata, ma per il tema stesso della condizione storica, culturale, esistenziale e metafisica in cui si pone la domanda sul tema educativo oggi. Ed è per questo che entrerò in medias res, dando largo spazio alla riflessione critica su questi paragrafi. (6) Cfr. il saggio Lo spirito filosofico scritto da Emmanuel Mounier e apparso in Aux Davidées e firmato Jean Sylvestre, pubblicato sotto forma di Lettera nel numero di novembre del 1929, pp. 83-89, disponibile in versione italiana nel bel libro di Virgilio Melchiorre I/ metodo di Mounier ed altri saggi, Feltrinelli, Milano 1960. (7) In lingua italiana, abbiamo sinora a disposizione due saggi che fanno parte di questo testo, rispettivamente L’Educazione al bivio e L’Educazione della persona, entrambi editi dalla Scuola di Brescia, a cura, il primo, di Aldo Agazzi, il secondo di Piero Viotto, autori entrambi di ottime introduzioni ai testi in parola.

200

2. EDUCAZIONE

E CRISI

DELLA CIVILTA

Il legame profondo che intesse questi saggi concepiti e scritti in momenti diversi dell’epoca contemporanea è la loro intenzione essenziale di porsi come rimedio alla perversione mentale dell’educazione per la morte, rappresentata ieri dalla ideologia e dall’antropologia del totalitarismo nazista e fascista, oggi dall’ideologia e dall’antropologia del totalitarismo tecnocratico 0, che è lo stesso, del pragmatismo-prassismo, utilitarista, edonista e al fondo cinico, proprio dello scientismo tecnologico nella sua versione nihilista che caratterizza profondamente e affligge capillarmente il modo di vivere, di pensare, di agire, di fare e di morire; in una parola, il comportamento e la cultura complessivi dell’epoca contemporanea ancora sotto l'egemonia del «moderno», come direbbe Lombardi Vallauri (*). Ideologia, antropologia e pedagogia della morte quella tecnocratica che, al pari di quella nazista e fascista, e non meno di quella dell’Arcipelago Gulag marxista-leninista, eclissano una cultura autentica dell’uomo fondata sul senso del vero in sé, del bene in sé, del giusto in sé, del bello in sé, dell’essere in sé e, con tale eclissi, minaccia di travolgere radicalmente le basi della forma e delle istituzioni demo-

cratiche che reggono politicamente le nostre società occidentali che le hanno conquistate, ricorda Maritain, al durissimo prezzo di lacrime, sudore e sangue combattendo e vincendo l’ultima guerra mondiale. Scrive infatti Maritain di sentirsi meno ottimista rispetto all'immediato dopoguerra nei confronti delle nostre democrazie in quanto, da una parte, appare ormai chiaro che il fenomeno di perversione radicale tipico del nazismo e del fascismo era un segno clamoroso di decadenza della civiltà che riguardava l’intero occidente, democrazie libere comprese; dall’altra l’occidente e le stesse libere democrazie non hanno saputo prendere spunto dalla vittoria militare «per operare le indispensabili riforme interiori tanto intellettuali quanto morali e sociali» (?).

Ma il guaio più grande, prosegue Maritain, «è la totale assenza, (8) Per la prospettiva globale di lettura della presenza egemonica dell’ideologia del «moderno» nel «contemporaneo», sono largamente debitore della lettura dei saggi di Luigi Lombardi Vallauri in particolare del Corso di Filosofia del diritto (Cedam, Padova 1981) che ho tenuto costantemente presente come termine di paragone complessivo nell’esame di tutto il discorso maritainiano sulla filosofia dell’educazione. (9) Opera in esame, p. 113.

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presso i popoli liberi, di una filosofia della vita e della società che sia loro propria e che fondi razionalmente e ragionevolmente la loro avversione al totalitarismo di destra o di sinistra, e la totale assenza simultanea di un ideale dinamico abbastanza potente per dirigere l’azione» (!°). Tale carenza di una sana, realistica, razionalmente e storicamente fondata filosofia della vita, surrogata dall’ideologia tecnocratica nelle sue diverse e convergenti ma insieme confliggenti versioni, provoca sul piano politico e delio stato e su quello personale e privato una situazione nella quale la volontà di potenza e di autoaffermazione escludente dei vari gruppi sociali e dei molteplici singoli, una condizione permanente di bellum omnium contra omnes, generata dalla conflittualità di interessi esclusivi contrapposti e tra loro incompatibili, in mezzo ai quali pure l’uomo onesto e vero «si dibatte senza una luce superiore» in un caos cosmico-storico caratterizzato dalla «pura contingenza degli avvenimenti e dalla casualità delle circostanze» (). La prevalenza generalizzata della volontà di potenza sull’amore della verità produce molteplici antagonismi pure tra nazioni che dovrebbero riconoscersi in valori sostanzialmente comuni e impedisce loro di riconoscere, «fosse pure come un fine lontano ma assolutamente necessario, l’idea di una autentica autorità so-

vranazionale in possesso di poteri ben definiti» (#). In tale quadro di un «mondo in frantumi» (5), continua Maritain con accenti quanto mai attuali, «il terrore di una guerra atomica gene-

rale ossessiona l'immaginazione» e la stessa deificazione dell’uomo tecnopolita che sembra a volte, ma oggi sempre di meno, inebriare la nostra civiltà altro non è che «un sogno di compensazione»; così, nonostante «i costanti progressi della tecnica e della macchina creata dall’uomo per soppiantare la natura, ciascuno si esaurisce in uno sforzo quotidiano che sorpassa le sue forze e sembra senza esito» (14). È davvero la nostra una civiltà kafkiana nella quale tutto fun(19) Ibidem. (11) Ibidem.

(12) Ivi, p. 114.

(13) Vedi le acutissime e decisive analisi di Solzenicin sulla crisi del mondo occidentale e il suo destino su Il mondo in frantumi, Casa di Matriona, Milano 1981. (14) Opera in esame, p. 114.

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ziona e tutto è compiuto, ma insieme tutto è privo di senso; una

civiltà dell’illusione e della frustrazione contrassegnata dall’individualismo possessivo (per il quale io mi realizzo se e in quanto riesco a poter avere e a poter fare quello che voglio) e del richilismo aggressivo (per il quale io mi realizzo se e in quanto riesco

a eliminare tutto ciò che è diverso da me), nella quale, pascalianamente, ci si abitua a stimare niente il tutto e tutto il niente. Così, da una parte i membri della classe dirigente e del mondo degli affari «restano fedeli al loro sordido egoismo consacrato» e, dall’altra, la classe operaia è afflitta da un processo progressivo e costante di imborghesimento e lo stesso Marx assume un aspetto arcaico di superato filosofo classico e il marxismo o si polverizza, disperdendosi in molteplici sette dissidenti, o si mummifica burocratizzandosi nel Leviatano sovietico. In tale civiltà, riprende Maritain, «il residuo tutto materialista di formazione sociale che si chiama società dei consumi appare, in barba ai tanti progressi parziali che proseguono i loro, corsi, come il segno e l'emblema di una civiltà in piena disintegrazione» (*). E tale giudizio maritainiano sulle gravi conseguenze sociali, giuridiche e politiche, non solo in senso ampio ma anche in senso stretto, della crisi della civiltà attuale, trovano un riscontro significativo in studiosi seri ma distanti dalla prospettiva metafisico-religiosa di Maritain, quali, per esempio, Luhmann, Darendorf, Bobbio, Sartori, Topisch, secondo i quali la presenza di un minimo di patrimonio assiologico o di religione civile è necessaria perché una società possa sopravvivere, in quanto società, pure sul piano funzionale (!). Rilievo questo che chiama in causa la ineludibile dimensione religiosa di qualsiasi esperienza storico-sociale umana e, in particolare, secondo Maritain, interpella la cristianità storica attuale; e qui il «vecchio eremita», non senza bonaria ironia, ricorda una previsione formulata da lui stesso trent'anni prima e ricordatagli da un amico, secondo la quale, un giorno, forse «dei missionari neri sarebbero venuti dall'Africa a predicare il Vangelo ai bianchi d’Europa e d’Ame(15) Ibidem. (16) Scrive in proposito E. Topisch in un’intervista apparsa sul quotidiano Avvenire nell'agosto 1981: «non vi è libertà senza un pluralismo di convinzioni, di valori e di espressioni. D'altra parte, non vi è libertà possibile senza l’accettazione di un insieme di convinzioni di base, concernenti le regole fondamentali della nostra vita sociale».

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rica e a reinsegnare loro i principi di un mo»

autentico

umanesi-

(1).

Occidente, dunque, come terra di missione evangelico-culturale; e sembrerebbe che tale pessimistica-realistica previsione possa oggi venire confermata nei fatti, pure se Maritain scommette una volta ancora per la civiltà occidentale europeo-americana, americano-europea (!8), la quale per la ricchezza di virtualità culturale della sua tradizione storica, dovrebbe riuscire, dopo e a causa di una prova particolarmente difficile sul piano storico-globale, a rigenerare se stessa in quanto le generazioni passano e non si rassomigliano e «se le vecchie generazioni incidono la loro amarezza [...] a ogni nuova generazione può rinascere una pensosa spe-

ranza» (!). Ed è precisamente a questo punto che fa leva sulla fede nei giovani, che il discorso di Maritain sulla crisi della civiltà occidentale si sposta sulla grande prova e sfida che investe l’educazione oggi, vista come pietra angolare di ogni ricostruzione-restaurazione, filosofica, culturale, sociale, economica, giuridica e politica: cioè umana. 3. LA GRANDE

SFIDA DELL'EDUCAZIONE

ODIERNA

Maritain mostra qui il suo realismo critico, storico e sapienziale che non ha bisogno di coniugare aporeticamente il pessimismo della ragione con l’ottimismo della volontà, quando osserva che una grande prova e sfida investe oggi l’educazione nel proseguire il suo compito in una «crisi di civiltà come quella che noi attraversiamo in seno a una cultura e a una intelligentsia in piena disfatta spirituale» (?); disfatta spirituale, culturale e politica che investe la quasi totalità dei sistemi istruttivi, formativi ed educativi dei paesi democratici che hanno tutti bisogno di un rinnovamento autentico e profondo. (17) Opera in esame, p. 114. (18) Per il legame profondo e a volte da entrambi stolidamente sottovalutato tra Stati Uniti di America ed Europa, differenti rispetto a un’identità più grande che le ha generate sul piano storico-culturale e alla quale coappattengono, vedi l’illuminante saggio di Maritain Riflessioni sull’ America, del 1958, ora disponibile in italiano (Morcelliana, Brescia 1974). (19) Vedi l’«incipit» e l’«excipit» dei risvolti-copertina del saggio di Luigi Lombardi Vallauri sopra citato che qui riprendo per la sua profonda vera-

cità esistenziale e la sua prossimità in questo tratto con la sensibilità maritainiana. (209) Opera in esame, p. 115.

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E subito Maritain indica il nemico, insieme più sottile e grossolano, che ostacola tale rinnovamento

nella «corrente

che tra-

scina oggi tanti spiriti verso le illusioni tecnocratiche», per le quali il sistema educativo va ridotto a istruttivo e, perciò, concepito esclusivamente in funzione del sistema produttivo a base scientifico-tecnologica e, oggi, nella sua versione prevalentemente tecnotronica; di conseguenza qualsiasi momento di formazione-istruzione deve essere visto come variabile dipendente della dimensione professionale-produttiva, e la scuola nel suo complesso altro non deve fungere che da servostruttura della tecnostruttura. Il giudizio di Maritain su questa prospettiva è inequivocabile: «nulla sarebbe più funesto di una educazione che mi-

rasse non a rendere l’uomo più veramente umano, ma a fare di lui l’organo perfettamente condizionato e perfettamente aggiustato di una società tecnocratica» (2). Non è tuttavia, quella maritainiana, una posizione da «gran rifiuto» della società industriale e da nostalgia classico-passatista o agropastorale ecologista, come pure è facile trovare in molta parte della polemica antiindustriale contemporanea; Maritain, infatti, riconosce pienamente l'immenso valore rappresentato dalla scienza e dalla tecnica e sa benissimo che non si tratta di negare o di minimizzare «l'immenso bisogno di tecnologia creato dai progressi incessanti della scienza e della struttura industriale», ma avverte che il problema è quello piuttosto di sapere «qual è l’esatto significato della tecnologia per l’uomo» e perciò «di non trasformare la tecnologia in saggezza suprema e regola della vita umana» (7); non confondere quindi i mezzi con i fini. La posizione di Maritain è qui singolarmente prossima, pet intelligenza teoretica e saggezza pratica, a quella di Albert Einstein, il quale, a proposito del rapporto scienza-saggezza-educazione, osserva che la nostra epoca dovrebbe assumersi il compito di coniugare la potenza analitica, esplicativa e operativa, propria della scienza e della tecnica, con la capacità sintetica, comprensiva e valutativa propria della saggezza; poiché, prosegue Einstein, se la scienza «ha una vista acuta per quanto riguarda i metodi e gli strumenti», la stessa è tuttavia «cieca per quanto ri-

guarda i fini e i valori [...] così che non c’è da meravigliarsi che (21) Ibidem. (22) Ibidem.

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questa fatale cecità sia passata dai vecchi ai giovani e oggi af-

fligga una intera generazione»

(#), incapace appunto di coniu-

gare la scienza e la tecnica con la saggezza e di subordinare l’ef ficacia dei mezzi con la giustezza dei fini. Nella nostra società, invece, caratterizzata dalla ideologia della scienza come

unica forma di conoscenza,

e dalla tecnica come

unica forma di dominio, cui deve piegarsi in funzione strumentale la stessa ragione scientifica, l’uomo vive esattamente il divorzio tra scienza e tecnica da una parte, e saggezza dall’altra, tra il continuo proliferare dei mezzi e il progressivo eclissarsi dei fini e dei valori, per cui lo stesso uomo che, con la ragione, rie-

sce ad analizzare e a spiegare la struttura materiale, funzionale, comportamentale, ontica della realtà, con la stessa ragione della stessa realtà non riesce a comprendere il significato, il valore, il fondamento ontologico, ponendosi nella posizione tragicomica (in effetti più tragica che comica) di un Prometeo su scala ridotta che spiega tutto ciò che riesce a dominare, ma che nulla comprende né del senso della realtà spiegata, né di quello della realtà dominata. E così lo scientismo tecnologico oscura nell’intelligenza dell’uomo la capacità di cogliere, seppur prospetticamente, i valori assoluti spirituali per i quali, e in forza dei quali, l’uomo ha combattuto contro la barbarie nazifascista per la costruzione di una civiltà libera e democratica che, tuttavia, è e non può che essere fondata su valori squisitamente filosofici e spirituali: in una parola, sapienziali. Se noi, invece, osserva Maritain, «non abbiamo alcun mezzo per determinare in che cosa consistano la libertà, la giustizia, lo spirito, la personalità umana, e la dignità umana, e perché è cosa degna che si muoia per queste cose, allora tutti i dolori e le immolazioni della guerra contro Hitler e tutti gli orrori dei campi della morte non sono stati sofferti che per delle parole» (?*). Inoltre se, come vuole l’ideologia dello scientismo tecnologico, tutto ciò che non è dominabile e spiegabile tecnicamente, scientificamente, economicamente, politicamente, tutto ciò che non è quantificabile, misurabile, calcolabile e materialmente sperimentabile non è che mito, e se in tal senso educhiamo ed educheremo la gioventù presente e futu(23) Albert Einstein, Pensieri degli anni difficili, pp. 22-23, Einaudi, a rino 1981. (24) Opera in esame, p. 115.

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ra e con questa noi stessi, «allora —

prosegue Maritain —

è va-

no combattere qualsiasi forma di totalitarismo», poiché «infatti, la premessa al totalitarismo è il misconoscimento della dignità spirituale dell’uomo, e il postulato che la vita e la moralità umane sono regolate da valori puramente materiali o biologici» (*). Se, dunque, l’uomo altro non è se non un animale culturale o una «scimmia nuda», perché non strumentalizzarlo e sactificarlo a qualcosa di più totale e di più organico in quanto in grado di dominarlo e di spiegarlo funzionalmente? In proposito sono esemplarmente chiarificatrici le parole di uno psicologo e pedagogista americano e disincantatamente behaviourista, tra l’altro in Italia discretamente è la page, B.F. Skinner, il quale così pretende di caratterizzare l’uomo: «un io è un repertorio di comportamento appropriato a un determinato insieme di contingenze [...]. All’uomo, in quanto uomo, noi diciamo volentieri buon viaggio. Solo spodestandolo noi possiamo volgerci a indagare le cause reali del comportamento umano. Solo allora potremo passare dall’inferenza all’osservazione, dal miracolo alla natura, dall’inaccessibile al manipolabile [...]. L'uomo è emerso da due processi evolutivi del tutto diversi: l’evoluzione biologica, responsabile della comparsa della specie umana, e l’evoluzione culturale, realizzata da tale specie [...]. Una persona non agisce sul mondo, ma è il mondo ad agire su di lei» (7). Se le cose stanno così non si vede perché la macchina del mondo e i padroni momentanei e successivi di essa non possano disporre a loro piacimento di ciascuno di noi, come vuole e fa ogni totalitarismo. Ma, continua, in profonda unità con le cose dette, Maritain, poiché l’uomo non può vivere un attimo senza adorare qualcosa come assoluto e con assoluta devozione, ecco nascere l’adorazione del Leviatano totalitario della scienza e della tecnica sotto forma del loro potere, e cioè della tecnocrazia. Ed è infatti la tecnocrazia e non la scienza e la tecnica in quanto tali a schiavizzare l’uomo contemporaneo privandolo della libertà e della dignità e riducendolo a cosa; ossia la scienza e la tecnica, dice Ma(25) Ibidem. (26) B.F. Skinner, Oltre la libertà e la dignità, Mondadori, Milano 1973, pp. 231, 233, 241, 245; vedi inoltre, come approfondimento di questa tematica dal punto di vista di un’ontologia storico-realistica, l’eccellente saggio di Francesco Botturi Cultura e Parola (aspetti antropologici della predicazione cristiana oggi), Ancora, Milano 1982.

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ritain, «comprese e riverite in modo gezza superiore e ogni attitudine e altro dai fenomeni calcolabili» e da umana «che relazioni di forza, o nel

tale da escludere ogni sagapplicazione a comprendere non lasciare altro nella vita caso migliore, di piacere, e

sbocca necessariamente in una filosofia del dominio» (7). Una società tecnocratica è, dunque, per natura e per struttura, una società totalitaria, inevitabilmente. Tuttavia, società tecnologica, democrazia e civiltà pienamente umana non sono eventi tra loro

incompatibili, a patto che siano vivificati da ciò che Maritain chiama «una ispirazione sovratecnologica», per la quale, riprendendo una profonda intuizione di Bergson, il mondo contemporaneo, per uscire dalle angustie mortali dell’ideologia moderna e borghese che lo dominano conducendolo necessariamente alla tecnocrazia, necessita di «un supplemento d’anima», che non va

inteso come estrinseco abbellimento spiritualistico e umanistico di una civiltà sostanzialmente meccanica, bensì come la capacità da parte dell’uomo contemporaneo di riscoprire, al di là dell’ordine necessario della sicurezza, quello non meno essenziale della sapienza intellettuale e spirituale e dell’amicizia gratuita e pluridimensionale; sicurezza, sapienza, amicizia che costituiscono i bi-

sogni e i desideri fondamentali dell’uomo in quanto uomo e sulla base dei quali si può realisticamente tentare di costruire una civiltà sempre più umana e sempre meno disumana che abbia come fine intermedio e finale la coltivazione dell’uomo nella sua umanità. Ma, per rimettere in piedi e in moto tale dinamismo autenti-

camente culturale e sapienziale che ha nell’atto e nel fatto educativo il suo fulcro essenziale, è necessario che l’uomo recuperi il primato dell’atteggiamento veritativo su quello dominativo nei confronti della realtà intera; atteggiamento veritativo che è scritto nel cuore di ogni uomo, al di là di qualsiasi condizionamento, o perversione, e che dimora nell’uomo come dono e capacità del suo essere, ma che l’uomo contemporaneo, afflitto dall’ideologia del moderno, ha perso a livello di ragione cosciente. La fede naturale della ragione nella verità è stata infatti minata, osserva Maritain, da «filosofie erronee che ci hanno insegnato che la verità è una vecchia nozione fuori uso che bisogna rimpiazzare con l’apriorismo kantiano o altri succedanei e finalmente — il (2?) Opera in esame, p. 116.

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processo ci sembra dotato di una logica ferrea di perversione della ragione — dalla praticabilità di un’idea, in cui il successo di un processo di pensiero espresso in azione, realizza un momento di felice adattamento tra le nostre attività mentali e le sanzioni pratiche» (*). È questa l’idea della verità come esito del dominio funzionale ed economicamente produttivo della realtà tipico del pragma-

tismo, per il quale «l’universo e il valore di realtà di tutto ciò che non è verificabile dall'esperienza sensoriale, o umanamente fattibile, hanno perso ogni specie di significato» (?°). Filosofia 0, meglio, ideologia del null'altro che ciò che è dominabile, quantificabile, misurabile, calcolabile, fenomenizzabile, che annulla qualsiasi piano di intellegibilità metaempirica e sfocia inevitabilmente nel nihilismo ontologico per il quale la verità delle cose, se non è scientificamente afferrabile, non esiste; è uguale a zero. Ora, nota Maritain, la grandissima rilevanza politica di tale ideologia ontologica deriva dal fatto che essa mina in radice la possibilità di una società e di una civiltà democratica. La causa fotmale, efficiente e finale di una società e di una civiltà democratica sono, infatti, di tipo spirituale fondandosi essenzialmente sulla volontà di giustizia e sulla speranza in un amore fraterno mentre «la sua filosofia è stata a lungo il pragmatismo, che è incapace di giustificare una fede reale in una tale ispirazione spirituale» (*°). D’altronde, prosegue Maritain, le filosofie del nostro tempo come l’esistenzialismo, lo strutturalismo, la fenomenologia, intesa come metodo votato all’inconcludenza sublime a livello assiologico-ontologico (*), da parte nostra potremmo aggiungervi il razionalismo critico di stampo popperiano-albertiano col suo decisionismo' politico conseguente il suo non cognitivismo etico,

non sono in grado di superare il pragmatismo dilagante, che anzi giacciono all’interno del suo abbraccio mortale per l’intelligenza e la volontà umane. Così risulta tragicamente vero che «vivere in uno stato di dubbio in ciò che concerne, non i fenomeni, ma le realtà ultime, la conoscenza delle quali è una possibilità

(28) Ibidem. (29) Ibidem. (30) Ibidem. (31) A proposito di queste filosofie, Maritain avrà occasione di dire che esse desiderano cercare la verità, a patto di non trovarla mai.

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naturale, un privilegio e un dovere per l’intelligenza umana, è vivere più miseramente degli animali che tendono con una cettezza istintiva, solida e allegra verso i fini della loro vita effimera» (*), mentre

l’uomo che ha censurato

in sé la possibilità

di cercare e di trovare la verità delle cose per amarne la bontà e fruirne della bellezza, ha negato la sua stessa umanità riducendosi a bruto secondo una tendenza della società e della civiltà contemporanea che presenta un aumento esponenziale quotidiano della violenza e della brutalizzazione della vita a ogni livello di essa. Tutto questo deriva, ad avviso di Maritain, dalla profonda scissione o schizofrenia che attraversa la storia contemporanea fra il complesso di valori che costituisce la ragion d’essere ideale della nostra società, civiltà, educazione ai quali non si crede più e il reale modo di pensare, di agire, di vivere e di morire: in sintesi, di stare al mondo che è

l’esatta contraddizione della ragion d’essere ideale che giustifica la nostra società, civiltà, educazione. Scissione e schizofrenia che attanagliano tutte le democrazie occidentali contemporanee fra ciò che dovrebbero credere e perciò vivere e pensare e ciò che di fatto credono, vivono e pensano. Da questo punto di vista, ma è un punto che riprenderemo alla conclusione del nostro lavoro, Maritain ritiene essenziale il compito e la missione dei giovani e dei cristiani, i più colpiti da tale temperie ideologico-storica, i quali dovranno «risolvere questo problema a loro rischio e pericolo», per cercare di riunire organicamente ideale e reale e far sì che pensiero e vita si muovano sincronicamente, sinergicamente e sintonicamente. 4. UN'OCCASIONE

SIGNIFICATIVA

MA

PERDUTA:

IL MAGGIO

1968

Ora, che proprio i giovani patiscano sensibilmente la schizofrenia fra valori affermati di diritto e situazione vissuta di fatto che costituisce la malattia mortale della nostra civiltà, società, democrazia, Maritain lo vede nella crisi culminata nel maggio °68; un sintomo esemplare della disfunzione organica e radicale che affligge le nostre democrazie e la nostra civiltà occidentale. Maritain, tuttavia, una volta ancora più realista che mai e dotato di lucidissimo senso storico, sa valutare adeguatamen(32) Opera in esame, pp. 116-117.

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te quale ruolo abbiano svolto «in questa rivoluzione mancata i gruppuscoli di sedicenti arrabbiati — in realtà istruiti con le migliori ricette tattiche e psicologiche entro i quadri rivali, anarchici o marxistieterodossi» di rispettiva appartenenza e sa bene che loro intenzione essenziale era lo stravolgimento non solo dell’Università, ma di tutta la vita sociale del paese, col mettere la rivolta degli studenti sotto il segno della presunta fecondità del caos (*). Da qui lo scatenarsi della violenza e di deliranti proclami nel segno di un delirante nihilismo morale che ha finito per coinvolgere troppi studenti e per scandalizzare l’opinione pubblica. Tuttavia, avverte Maritain, se guardiamo in profondità alle cause autentiche della rivolta studentesca, vediamo in essa un sintomo grandemente significativo e di importanza storica; la causa vera e profonda era infatti di ordine morale e, sempre ad avviso del grande saggio, «la gran parte degli studenti era generosa e si sentiva sconvolta da una indignazione giustificata, poiché è di un immenso disordine umano, sociale e politico oltre che intellettuale che essi prendevano improvvisamente coscienza» (*). Ma il guaio fu che essi, meno realisti degli operai, «brancolavano

in una confusione mentale, di cui essi non

era-

no responsabili, ignoranti di ogni vera filosofia politica, vittime infine di una tragica impossibilità di distinguere intellettualmente le ragioni della loro indignazione, essi percepivano ciecamente, in un modo puramente emozionale e tanto sconvolgente quanto inefficace insieme — che la società nella quale si preparavano a vivere era loro implacabilmente nemica» (*). E, prosegue Maritain in questa splendidamente vera e dolorosa analisi della rivolta studentesca alle sue origini, la ragione della collera e della rivolta non riguardava tanto aspetti particolari come la cattiva organizzazione degli studi, l’assenza di sbocchi effettivi quanto a prospettive di lavoro e, per finire il contrasto pur rilevantissimo tra una società materialistica e le fondamentali esigenze umane;

no, la ragione autentica era di tipo metafisico

e

precisamente era «il male metafisico che, anche se non si è equipaggiati per prenderne coscienza, si fa sentire nelle profondità dello spirito, e che tocca più crudelmente i giovani perché essi (33) Ivi, p. 118. (34) Ibidem. (35) Ibidem.

211

non sono ancora induriti a forza di mentire a se stessi: voglio dire il vuoto, il nulla completo di ogni valore assoluto e di ogni fede nella verità nella quale la gioventù è posta dall’intelligentsia al potere e da un’educazione scolastica e universitaria che in generale (e malgrado molte eccezioni individuali) tradisce allegramente la sua missione essenziale» (%). «La gioventù contemporanea — infatti afferma Maritain — è stata sistematicamente privata di ogni ragione di vivere. E questo è un crimine spirituale più grave certamente» di tutte le sciocchezze generate dalla contestazione studentesca (*). In sintesi, ad avviso di Maritain, i fatti del maggio ’68 hanno un significato bivalente e sono il sintomo di un male profondo che richiede rimedi ben più radicali di quelli riformisti nel migliore dei casi o demagogicopermissivisti nel peggiore dei casi, che si sono approntati per fronteggiarlo. Sono inoltre fatti che avrebbero dovuto in sede diagnostica e sovrattutto terapeutica interpellare la cristianità storica, nota amaramente Maritain, in questo d’accordo con Jean Daniélou, troppo impegnata a inginocchiarsi di fronte al mondo e a porsi al rimorchio della moda, o che è lo stesso della cronolatria, così da risultare sostanzialmente assente. E qui, ancora una volta, il vecchio Maritain scommette sui giovani quando afferma che «in definitiva è sulla gioventù stessa che bisogna contare per un tale sforzo. Spetta infatti ai giovani di fare opera costruttiva [...], di riscoprire i valori fondamentali, le basi razionali della fede nella verità, le ragioni di vivere di cui la natura umana non può fare a meno» (*).

5. DEMOCRAZIA,

EDUCAZIONE

E TECNOCRAZIA

Tuttavia tale lavoro di ricostruzione di una civiltà e di un mondo più umani o, per quanto possibile, meno disumani, sarà lungo, duro, non privo di dolorose difficoltà, di errori e di inevitabili sbandamenti; osserva infatti Maritain che «nell’attesa

che porti frutto il lavoro e l’influenza dei piccoli cenacoli ardenti per la verità», sui quali, come vedremo, il filosofo fran(36) Opera in esame, p. 119. (37) Ibidem. (38) Ibidem, pp. 119-120.

212

cese conta, occorre attendersi verosimilmente «un periodo di anni durissimi, sorta di periodo penitenziale durante il quale bisognerà riaggiustarsi, valga quel che valga, empiricamente, e non senza molti passi falsi e scontri con ciò di cui l’accadere costringerà a tener conto fra le esigenze di una civiltà che si dibatte per sopravvivere e di una educazione che si dibatte per ritrovare la la propria missione» (*). Ma ciò che consente di scommettere

per una positiva riuscita dalla crisi è proprio paradossalmente la sua stessa gravità, il suo stare per toccare il fondo della invivibilità da parte dell’uomo, che, quasi a livello di reazione etologica, spinge lo stesso uomo a «prendere coscienza delle inconfessate frustrazioni e degli smarrimenti dello spirito che, repressi con potenti e pesantissime

prassi meccanicamente

ripetitive, hanno

da più di un

secolo sconvolto a poco a poco le anime, e del processo di disintegrazione a cui le istituzioni sono state sottoposte. La saggezza popolare ci dice che un uomo avvisato è mezzo salvato» (‘°). Per quanto riguarda il sistema educativo, le previsioni di Maritain sono per una lenta prospettiva di cambiamento a causa dell’ostacolo costituito dai cattivi maestri che continueranno a seminare distruzione e in conseguenza del progressivo imbestialirsi dei loro discepoli che continueranno con arroganza a misconoscere e disprezzare le leggi proprie del pensiero e a dar prova di conformismo servile agli slogans di una ideologia politica marxisteggiante. Tuttavia in questo stato di cose che in Italia tarda a tramontare e tende a cronicizzarsi pure e forse soprattutto a livello di progettazione della politica scolastica, oltre che nella pratica quotidiana di insegnamento di molti, troppi professori sull’orlo di una frustrazione che viene scaricata sugli allievi e sfocia o in un dogmatismo sclerotizzato e intollerante o in uno scetticismo quietamente disperato ma altrettanto intollerante, Maritain spera nell’opera di maestri e discepoli autentici e capaci «di una contestazione questa volta fattasi intelligente, efficace e produttiva di una reale cooperazione» in ordine all’opera di necessaria riforma dall’origine della esperienza cultuturale e educativa e delle istituzioni ad essa ordinate (‘). Ma il (39) Ivi, p. 120. (40) Ivi, pp. 120-121. (41) Ivi, p. 121.

213

problema delle istituzioni pone subito quello del tipo di società di cui esse sono l’espressione dinamica e politicamente funzionale e, di nuovo, si fa innanzi il problema della perversione tecnocratica che sembra affliggere sempre più intensamente ed estesamente le nostre società democratiche occidentali con patticolari punte di sviluppo nello scorrere di questi tormentati e angosciati anni '80. E anche qui Maritain ribadisce che la tecnocrazia è il pericolo e la minaccia più grande per la democrazia oggi, in quanto v’è una incompatibilità radicale «tra un regime in cui il popolo prende lui stesso in mano il proprio destino politico attraverso i governanti che esso si sceglie e attraverso il controllo regolare che i suoi rappresentanti scelti esercitano su questi, e un regime in cui, secondo esigenze puramente materiali, — inumane in sé, e considerate sovrane — del progresso tecnico e della concorrenza industriale, i capi del settore tecnologico determinano in ultima istanza, irresistibilmente, i destini del popolo» (‘*). Ora, per orientare la nostra civiltà inesorabilmente tecnologica al servizio dell’uomo e non viceversa, Maritain consiglia di puntare sulle risorse della natura umana che, «malgrado le sue ferite resta buona nella sua essenza, e assetata di bene» (4) e,

a partire da tale realistica stima dell’uomo nella sua umanità, attraverso un processo esso pure penitenziale di prova ed errore (#rial and error), secondo l’anima di verità del popperismo oggi in voga, propone

di iniziare una

lotta metodica, co-

stante e sistematica contro le insidie della tecnocrazia che si faranno sempre più forti nelle democrazie dei nostri paesi, sovrattutto in fase di ristrutturazione industriale. Chiave di volta di tale lotta in vista della vittoria è che «essa divenga l’oggetto di una completa presa di coscienza e sia rischiarata da una giusta filosofia sociale e politica» (*), che inizi innanzitutto a chia-

rire il rapporto dell’uomo con la verità nella interezza storica, esistenziale e ontologica dei termini: ciò che costituisce l’atto e il fatto educativo nella integralità dei suoi fattori genetici, dinamici, evolutivi e teleologici.

(42) Ibidem. (43) Ivi, pp. 121-122. (4) Ivi, p. 122.

214

6. IL PROCESSO DISPOSIZIONI

EDUCATIVO: ERRORI DA EVITARE, DA FAVORIRE, FINI DA ATTUARE

Ora, una teoria e una pratica educativa che miti alla restaurazione di una civiltà pienamente umana e democratica, deve reagire, per prima cosa, contro i sette errori tipici dell’ideologia, dell’antropologia e della pedagogia moderne tuttora imperversanti che in ordine sono: a) il misconoscimento, il disprezzo e la dimenticanza dei fini veri dell'educazione e la loro subordinazione ai mezzi, per cui non conta o addirittura si ritiene impossibile conoscere il fine vero dell’educazione e ci si dà interamente al culto dei mezzi sempre più sofisticati per attuare un sedicente processo educativo ridotto foto coelo a processo istruttivo; b) il conseguente finalismo falso e parziale, per il quale si pon-

gono mete deformanti e/o paralizzanti al processo educativoistruttivo a seconda delle ideologie e dei progetti politici cui lo si vuole subordinare; c)il pragmatismo o culto dell’azione e del risultato in sé e

per sé, per cui educare equivale a istruite condizionando ad agire in modo utile ed efficace e a saper dominare la realtà col massimo risultato ottenuto e il minimo sforzo impiegato; d) il sociologismo o culto della società in sé e per sé, per cui educare equivale a istruire condizionando a inserirsi in modo assolutamente funzionale nell’ambiente biologico-sociale in cui si è immersi, da cui si è emersi e di cui si è considerati puri prodotti, puri epifenomeni; e) l’intellettualismo o culto dell’intelligenza in sé e per sé, per cui educare equivale a sviluppare in massimo grado la capacità di analisi e di sintesi intellettuale della mente dell’uomo a prescindere dal rapporto con la realtà esistente e, in particolare, con qualsiasi oggetto intellegibile extramentale, sacrificando così il potere intuitivo dell’intelligenza per cui essa non desidera tanto conoscere discorsivamente la realtà e la verità, quanto piuttosto vederle intuitivamente, alias contemplarle; f) il volontarismo

o culto della volontà in sé e per sé, per

cui educare equivale a sviluppare in massimo grado le capacità istintuali, sentimentali e volitive dell’uomo a prescindere dalla necessaria integrazione di esse con la stima intellettuale che giudica della verità del bene che l’uomo percepisce sensibilmente, 25

sente sentimentalmente e vuole volitivamente; g) insegnabilità di tutto, per cui si presume che la scuola sia l’unico, esclusivo e onnicomprensivo ambito e strumento di ogni possibile istruzione all’esperienza e alla conoscenza della realtà, mentre, osserva Maritain, ma è lezione che viene dalle cose stesse, i livelli più profondi e originali dell’esperienza dell’esistenza umana, quali l’intuizione della verità, l’amore del bene e del prossimo, l’incontro con l’evento del dolore e della morte e tutto ciò che chiamiamo saggezza come esito dell’assunzione spirituale del vissuto, possono, nel migliore dei casi, essere favorite dalla scuola, ma è solo ed esclusivamente la vita che ce le insegna, sovente, al prezzo di dure prove. Al riguardo, come notava un appassionato uomo di scuola, per lo più gli uomini imparano nonostante la scuola e lo stesso Maritain aggiunge che a scuola si può sì insegnare e imparare la storia della filosofia, ma non la saggezza e neppure l’amore della saggezza che sono ben altra cosa. Ciò non per negare la necessaria funzione della scuola, ma soltanto per dire che essa, al pari di ogni istituzione e opera dell’uomo, va adeguatamente relativiz-

zata e riconosciuta appartenente all’ordine delle realtà necessarie ma non sufficienti; avvertenza questa che, se trascurata, può dar

vita a quelle istituzioni pericolosamente totalizzanti che contrassegnano sempre più la vita delle nostre società democratiche minacciando gravemente il pluralismo culturale e sociale e politico ad esse connaturali. Come si può facilmente notare, gli errori dell'educazione moderna che Maritain consiglia di neutralizzare in vista di un au-

tentico e umanamente integrale processo educativo, sono l’esito necessario dell’ideologia moderna e borghese che si caratterizza anzitutto

per una

presa

di posizione

pragmatistica,

prassistica,

utilitaristica, edonistica, scientistica, fenomenistica, soggettivistica, matematicistica, fisicalistica, economicistica e sociopoliticistica nei confronti della totalità del reale; metafisica dello scientismo tecnologico e del soggettivismo assoluto che ha come conseguenze le seguenti: 1) la disintegrazione dell’unità dinamicamente concreta del-

l’esperienza dell’uomo con il divorzio tra la vita da una parte e il pensiero dall’altra; 2) la disintegrazione dell’unità dinamicamente 216

concreta della

conoscenza dell’uomo con il divorzio tra l’esperienza da una parte e la ragione dall’altra; 3) la disintegrazione

dell’unità

dinamicamente

concreta

del-

l’esistenza con il divorzio tra materia sensibile da una parte e forma intellegibile dall’altra; 4) la disintegrazione

dell’unità

dinamicamente

concreta

del-

l’uomo con il divorzio tra il corpo da una parte e lo spirito dall’altra (4). Tale serie di disintegrazioni e di divorzi dà necessariamente vita a una concezione di esperienza, di conoscenza, di realtà e di uomo ridotti e riduttivi che sono appunto la gnoseologia,

l’ontologia e l'antropologia tipiche dell’ideologia e della società tecnocratica moderna. Ora, per superare tali errori e avviare una

ricostruzione

in-

tegrale del concetto interamente adeguato di esperienza, di conoscenza, di realtà e di uomo, una teoria e una pratica piena dell'educazione dovrà invece favorire le cinque disposizioni fondamentali che, ad avviso di Maritain, costituiscono l’uomo e che, alla loro volta, in ordine sono le seguenti: 1) l’amore per la verità, termine della dimensione teoretica dell’uomo; 2) l’amore per il bene e la giustizia, termine della dimensione pratica dell’uomo; 3) l’espansività della e all’esistenza, termine della dimensione ontologica dell’uomo; 4) il senso del lavoro ben fatto, termine della dimensione «poietica» dell’uomo; 5) il senso della cooperazione e della solidarietà, termine della dimensione sociale, politica e amicale dell’uomo. Se queste sono rispettivamente la pars construens e la pars destruens della «difficile arte educativa» oggi, secondo Maritain, si deve concludere che scopo e fine specifico di quest’arte che «per la sua natura stessa appartiene alla sfera del morale e della saggezza pratica» (*) è la formazione

dell’uomo

e suo com-

pito principale è quello di guidare lo sviluppo dinamico per mez(45) Mi ripropongo di dimostrare più ampiamente e rigorosamente quanto qui accennato sulle scissioni che caratterizzano il pensiero dell’epoca moderna in un saggio di prossima pubblicazione dedicato al tema dal rapporto uomo-ragione-verità nella filosofia moderna. (4) Opeta in esame, p. 18.

217

zo del quale l’uomo forma se stesso a essere umano, un uomo che non è soltanto un animale naturale, ma anche, e sovrattutto, un animale storico, culturale e metafisico, una memoria biologi-

ca, storica e ontologica che può vivere e crescere e attuare se stessa soltanto entro lo sviluppo della società, della civiltà e della cultura. Ma per sapere adeguatamente che cosa significhi educare e con quali mezzi adatti ai fini condurre questo processo di umanizzazione dell’uomo, occorre saper rispondere alla domanda: che cosa è l’uomo. 7. IL PROCESSO EDUCATIVO DELLA PERSONA UMANA

COME

MAIEUTICA

Per quanto concerne l’uomo, Maritain inizia a distinguere un concetto scientifico da un concetto filosofico-religioso dello stesso. Il concetto di uomo elaborato dall’analisi scientifica spiega di che cosa è fatto, come è fatto, come funziona e che ruolo svolge all’interno degli esseri viventi e/o storici quel particolare fenomeno che può qualificarsi come fenomeno umano e indica dell’uomo tutti i fattori particolari, fenomenologici, sperimentalmente verificabili e misurabili. L'uomo costruito dalle scienze particolari sia naturali che umane è visto in interazione continua con l’ambiente biologico, psicologico, sociologico e più genericamente storico-culturale in cui è inserito; esse infatti spiegano, e non potrebbero fare altrimenti, il comportamento dell’uomo all’interno della rete fisico-biologico-psicologica-sociologica che lega l’uomo alle altre cose che costituiscono la realtà cosmica e storica. Ma, osserva Maritain, spiegare analiticamente

la struttura materiale, funzionale e comportamentale dell’uomo ai vari livelli del cosmo e della storia è condizione certamente necessaria e oggi ricca di prospettive e di occasioni affascinanti di meditazione, ma altrettanto certamente non è condizione suf-

ficiente per comprendere che cosa è l’uomo nella ricchezza complessa e pluridimensionale del suo significato e del suo destino ontologico. Ora, se educate vuol dire aiutare l’uomo a divenire uomo, occorre che una pedagogia adeguata a tale scopo, sia guidata da una filosofia veramente in grado di comprendere l’uomo nella sua essenza ontologica. E per questo, insegna Maritain, occorre trascendere il piano della pura conoscenza scientifica per porsi

218

su quello della conoscenza filosofico-religiosa, passando appunto dal concetto scientifico a quello filosofico-religioso dell’uomo. E, in proposito, Maritain precisa: «dico filosofico perché questo concetto riguarda la natura e l’essenza dell’uomo; e dico religioso a causa dello stato esistenziale della natura umana in rapporto a Dio e a causa dei doni speciali, delle prove e della vocazione che questo stato comporta» (‘). E questa è l’antropologia che, ad avviso di Maritain, può esprimere in modo adeguato il concetto di uomo,

il suo spessore ontologico, la sua concreta

esperienza

esistenziale. Tale antropologia integrale si costituisce sulle tre grandi vie che la civiltà occidentale ha percorso per cercare e trovare l’uomo: la via ellenico-ellenistica, per la quale «l’uomo è un animale dotato di ragione e la cui suprema dignità consi ste nell’intelligenza», la via giudaico-ebrea per la quale «l’uomo è un individuo libero in personale relazione con Dio, la cui suprema giustizia o rettitudine è di obbedire volontariamente alla legge di Dio», la via cristiana per la quale «l’uomo è una creatura peccatrice e ferita chiamata alla vita divina e alla libertà della grazia, e la cui massima perfezione consiste nell’amore» (‘). Per tale concezione integrale dell’uomo, sintesi delle grandi anime della civiltà occidentale ed europea, l’essenza dell’uomo sta nel suo essere persona, ossia animale razionale, libero, sociale, dotato di vita vegetativa, sensitiva, intellettiva e volitiva, ma anche dotato di una identità e di un destino unico e irrepetibile, perché posto in essere dall’atto creatore di Dio, che lo crea a propria immagine e somiglianza e con il quale perciò la persona umana sta non in un rapporto estrinseco come da servo a padrone, bensì in un rapporto intrinseco, così costitutivo da

esser intimior intimo meo, come figlio a padre; sul piano quindi di una paradossale e misteriosa reciprocità e intimità fondata sulla libertà e sull’amore. Sono questi i fattori che, secondo Maritain, fanno dell’uomo una realtà che non si esaurisce a livello ambientale e storico, ma

appunto una persona che tali livelli trascende pur essendovi incarnata, un essere spirituale dotato perciò dei caratteri della totalità e dell’indipendenza in quanto originariamente aperto al-

(47) Ibidem, p. 21. (8) Ivi, p. 23.

219

l'essere e ai suoi attributi universali e trascendentali: il vero, il bene, l’unità e la bellezza. Ma l’uomo non è una realtà già fatta, né totalmente da farsi, ma un’esistenza che attua progressivamente la propria essenza, possedendosi per mezzo dell’intelligenza e della volontà, attraverso un lavoro che è di tutta la vita e che, nota realisticamente Maritain, costa lacrime, sudore e sangue; ed è proprio in tale conquista di sé che l’uomo ha bisogno dell’esperienza educativa che lo aiuti a partorire la persona umana che c’è in lui, consentendogli di divenire ciò che è. L’educazione si pone così come maieutica della persona umana e suo scopo è perciò quello di «guidare l’uomo nel suo sviluppo dinamico che lo forma in quanto persona provvista di conoscenza, di capacità di giudizio, di virtù morali, in possesso dell’eredità spirituale delle generazioni che l'hanno preceduto, della nazione e della civiltà a cui appartiene, di esercitare un me-

stiere e di guadagnarsi la vita» (‘). Ma per cogliere meglio il fatto educativo nel suo soggetto primo e nel suo termine ultimo che è la persona umana, Maritain pone la distinzione tipica della sua antropologia metafisica, tra individuo e persona: l’individuo è ciò di cui è fatto un determinato uomo in tutte le sue componenti genetiche, materiali e funzionali, ambientali e storiche; la persona invece è ciò per cui quel determinato uomo è uomo e non altro. La persona è dunque la forma, l’essenza specifica dell’uomo. Ora, nota Maritain, per sfuggire a qualsiasi pericolo di dualismo antropologico, se per l’apertura all’infinito che lo abita, l’uomo è, in quanto persona, un tutto, per la sua individualità egli è una parte di un tutto, un frammento del cosmo e della storia. Se dunque l’educazione riguardasse solo l’uomo in quanto individuo, essa si ridurrebbe a un insieme di pratiche istruttive per adattarlo nel modo più produttivo e funzionale all’ambiente cosmico e storico di cui è parte, come vogliono per lo più la pedagogia e la filosofia pragmatistica moderna; al contrario, in quanto l’educazione riguarda eminentemente la persona, essa consiste essenzialmente in «un risveglio umano», in un atto di maieutica dell'umano presente nell’uomo.

(9) Ivi, p. 25. 220

Ne viene, osserva Maritain, «che è della massima impottanza per gli stessi educatori, di avere il rispetto dell'anima come del corpo dell’educando, il senso delle sue risorse interiori e delle profondità della sua essenza e una specie di sacra e amorosa attenzione alla sua misteriosa identità», parole tanto ricche di verità da costituire il timore e il tremore di ogni opera educativa; perciò, «ciò che conta sovrattutto nell’opera educativa è un continuo richiamo all’intelligenza e alla libera volontà del discepolo», cui non si dovrebbe chiedere nulla senza fornirgli insieme le ragioni necessarie, sufficienti e adeguate a giustificare quanto gli si chiede o propone o impone (*). È, dunque, la persona come presenza dell’umano nell’uomo l'oggetto privilegiato della attenzione e del continuo richiamo verso il quale deve dirigersi l’intenzionalità profonda dell’educatore; persona, dice Maritain, come «centro dinamico primordiale, [...] principio vitale immanente al soggetto stesso», pro-

blema-mistero di «quell’interno potere di visione dell’intelligenza che, in modo naturale e sin dall’inizio, percepisce entro e attraverso l’esperienza dei sensi, le prime nozioni da cui dipende

ogni conoscenza, divenendo così capace di procedere da ciò che già conosce a ciò che non conosce ancora» (°). Avviene così che

«la naturale attività dell’intelligenza da parte di colui che apprende e l’opera di guida intellettuale da parte di colui che insegna, costituiscano entrambe i fattori dinamici dell’educazione» (*). Si raccoglie qui tutta la tradizione della teoria e della pratica educativa della filosofia e della pedagogia classiche, dalla maieutica socratico-platonica ai trattati sul «Maestro» di Agostino e di Tommaso che caratterizzano il processo educativo come dialogo di ricerca della verità fondato sulla reciprocità del rapporto maestro-discepolo e sulla loro vicendevole fecondazione e liberazione dell’intelligenza verso la verità e della volontà verso il bene; processo naturale in cui il maestro si fa cooperatore della natura e strumento perché il discepolo nasca alla verità delle cose, pervenga, mediante l’insegnamento del maestro, alla autoevidenza della verità. Fine e frutto di tale atto e rapporto educativo è dunque la (5) Ivi, p. 26. (51) Ivi, pp. 26-27. (52) Ivi, pp. 44-45ss.

221

liberazione della personalità del discepolo nella quale accade pure, per la strutturale sovrabbondanza del positivo, l’arricchimento e la progressiva attuazione della personalità del maestro. «Ora — avverte Maritain — la liberazione della personalità si realizza con l’autonomia interiore dello spirito che cresce nella misura in cui la vita della ragione e della libertà domina sulla vita dell’istinto e dei desideri dei sensi, il che implica sacrificio di sé, sforzo verso la perfezione personale e verso l’amore» (5); in altri termini, condizione necessaria per l’educazione come maieutica della persona e liberazione-attuazione della personalità è il suo avvenire entro, in forza, in vita e di fronte alla verità. 8. LA VERITA COME FONDAMENTO DELL'EDUCAZIONE, DELLA LIBERAZIONE DEL POTERE INTUITIVO DELLO SPIRITO, DELLA FORMAZIONE INTEGRALE DELLA PERSONA UMANA

Se il luogo e il fondamento dell’educazione come maieutica della persona umana è la verità, nella conquista della quale consiste la libertà interiore, segno di un sano processo educativo in atto, occorre chiarire bene il senso di tale termine così decisivo e, insieme, per la mentalità moderna, così difficile da caratterizzare.

AI riguardo Maritain precisa che «essa non è un insieme di formule belle e fatte destinate a essere passivamente registrate in modo che la mente sia chiusa e avvolta da esse» (*). La verità invece, o meglio, il suo senso emergono come orizzonte «on-

niabbracciante inabbracciabile», «un regno infinito, infinito come l’essere, la cui pienezza trascende infinitamente la potenza della nostra percezione, e ogni frammento della quale deve essere afferrato da una attività interna, vitale e purificata» (5). E

tale conquista dell’essere, «questo progressivo impossessarsi delle nuove verità, o la progressiva comprensione del significato sempre crescente e sempre rinnovato delle verità già raggiunte,

apre e allarga la nostra mente e la nostra vita e realmente la pone nella libertà e nell’autonomia» (*). Infatti è proprio in (53) (5) (55) (56)

222

Ivi, p. 48. Ivi, p. 27. Ibidem. Ibidem.

forza dell’intuizione intellettuale del senso dell’essere come actus essendi che l’uomo, in quanto

persona,

può penetrare

sempre

più profondamente nella densità intellegibile della realtà creata per le vie privilegiate e tra loro convertibili della conoscenza e dell’amore, entrambi comprensivi, seppure non esaustivi, della realtà conosciuta e/o amata; la persona può trascendere così l’ambiente in cui è immersa per cogliere quella verità delle cose che è ciò per cui, in forza di cui e in vista di cui essa, la persona, perennemente si educa, diviene sempre più umana pre meno disumana.

e sem-

È dunque entro e in forza dell’orizzonte inesauribile della verità che si attua il processo di liberazione dell’intelligenza e della volontà, in sintesi dello spirito umano che costituisce l’acme e l’esito di ogni processo educativo autentico; e proprio tale liberazione del potere intuitivo o di visione della realtà dello spirito umano è uno dei temi essenziali di tutta la filosofia speculativa e pratica di Maritain, se non la sua intenzione più profonda, oltre che la chiave di volta essenziale per superare una buona volta il «fenomenismo soggettivistico che affligge massicciamente la nostra cultura, la nostra educazione e la nostra scuola e società; ideologia per la quale, della realtà esiste soltanto in modo significativo, ciò che è capace di divenire fenomeno senza residui per il soggetto che la conosce» (). Ma per cogliere adeguatamente la valenza teoretica e culturale di questo punto, occorre focalizzare l’attenzione sulla struttura ontologica e spirituale che forma la «interiorità oggettiva» (*) di ciascuno di noi, la natura più profonda del nostro io. Al riguardo Maritain distingue due livelli della nostra struttura coscienziale: 1) il livello del subconscio 0 inconscio spirituale: campo de(5?) Anche nella prospettiva della fenomenologia husserliana mi sembra che tale limite non sia superato se consideriamo la formulazione da parte di Husserl del «principio di tutti i principi» che suona così: «ogni intuizione che presenta originariamente qualche cosa è, di diritto, fonte di conoscenza; tutto ciò che si offre a noi originariamente nell’intuizione (che ci si offre per così dire in carne e ossa) deve essere assunto così come si offre, ma anche soltanto nei limiti in cui si offre» (Idem I, par. 24, p. 43/30). (58) Il concetto di «interiorità oggettiva» è tipico della filosofia di Michele Federico Sciacca, ma può essere assunto per esprimere adeguatamente pure questo punto del pensiero maritainiano.

223

gli istinti, delle immagini latenti, degli impulsi affettivi e delle tendenze della vita dei sensi; sfera questa esplorata con patticolare cura, pertinenza e competenza dalla scuola freudiana, non senza molte indebite assolutizzazioni ed enfatizzazioni;

2) il livello del preconscio spirituale: campo dei poteri dello spirito, ossia dell’intelligenza e della volontà allo stato nativo, viste nelle loro profonde e misteriosamente inesauribili radici ontologiche, «abisso senza fondo della libertà personale e della sete dello spirito che lotta e si sforza pet conoscere, vedere, afferrare ed esprimere quello che si può chiamare preconscio dello spirito umano» (*). È questo secondo livello che, per Maritain, costituisce la radice del nostro essere persona umana nella sua tensione a cogliere, esprimere e comunicare la forma originaria del proprio atto di esistere umano. Da questo punto di vista insieme ontologico ed esistenziale, la stessa conoscenza intellettuale, prima

di esprimersi in concetti, giudizi e ragionamenti, sorge da «un inizio di percezione, non ancora formulata che procede dall’incontro dell’attività illuminante dell’intelligenza con il mondo delle immagini e delle emozioni, che è un movimento umile e tremante, ma inestimabile, verso un contenuto intellegibile da cogliere» (9).

Potremmo, in tale contesto, aggiungere e precisare che la nostra intenzionalità profonda di cogliere la verità delle cose, di amare il loro bene, di fruire della loro bellezza, è radicata in una primordiale tensione ontologica e spirituale di affettività per tutto ciò che esiste, verso cui ci dirigiamo con tutto noi stessi. Ed è da tale originaria, ontologica, spirituale affezione per l'essere esistente che il processo educativo deve muoversi per sviluppare una dialettica di continuo superamento in verticale 0, anche, di sublimazione dell’inconscio irrazionale nel preconscio spirituale; dialettico di sublimazione dell’inconscio irrazionale da parte del preconscio spirituale in cui si attua la liberazione della personalità che dipende, in ultima istanza, dalla libertà del discepolo, ma nei confronti della quale, il maestro deve esercitare una costante e illuminata azione maieutica, incoraggiando l'interesse e l’apertura spontanea al mondo, la curiosità sana e (59) Opera in esame, pp. 54-55. (9) Ibidem.

224

naturale e, soprattutto, la potenza non della vana e per lo più morbosa fantasticheria, bensì della essenziale e quasi sempre feconda immaginazione. È, infatti, nella tendenza a cogliere, vedere, esprimere per immagini gli oggetti verso i quali tende, che il potere intuitivo o di visione dell’intelligenza è liberato e rafforzato. Se, infatti, non v'è nulla nell’intelligenza che prima non sia stato nella sensibilità, seppure una sensibilità sempre intelligenziata, il nostro

sguardo sul mondo

è e non può non

essere che uno sguardo carico di immagini ricche di intellegibilità da penetrare con gli strumenti del concetto e del giudizio, ma sempre per andare a vedere come stanno le cose nella loro verità essenziale. Indubbiamente, per Maritain, se sapere non si riduce a vedere, come accade per Descartes secondo la lettura di Jean Laporte (°'), il sapere implica sempre come momento determinante quello della visione e sensibile e intellettuale. Anche san Tommaso, del resto, ma è la verità del nostro modo di conoscere, osserva che le cose e i sensi non sono indegni della ragione, bensì la servono, fornendole il suo alimento naturale: le immagini sensibili della realtà. Osserva infatti l’Aquinate, in un passo della Suzma theologica, che «il senso trova il suo diletto nelle cose ben proporzionate, nelle cose che gli sono simili, poiché il senso è esso stesso una specie di ragione (o di proporzione vitale) come ogni potenza conoscitiva» (‘). Occorre quindi superare nell’opera educativa integrale, una concezione che divide, oppone e assolutizza la pura sensibilità da una parte e/o la pura razionalità dall’altra, retaggio tuttora dilagante, secondo le varie alternanze temporali del dominio ideologico del razionalismo idealistico e dell’empirismo materialistico, due facce di una stessa medaglia: una concezione dualistica e disintegrata della conoscenza, della realtà e dell’uomo; e occorre, di conseguenza, recuperare una gnoseologia integrale che sintetizzi dinamicamente la concretezza esistenziale della intuizione sensibile percettiva e immaginativa della realtà e la concretezza intellettuale della analisi e della sintesi razionale della realtà, non dimenticando la ricchezza esperienziale di forme (61) Si veda Jean Laporte, Le rationalisme de Descartes, Paris, PUF 1945 (28 ed 1950). (62) Cfr. Sum. Theol. I, 5, IV, ad. 1.

225

di conoscenza altre ma pienamente autentiche ed essenziali per l’uomo, quali la conoscenza per connaturalità, la conoscenza artistica e la conoscenza religiosa e mistica. Una educazione integrale presuppone quindi una antropologia integrale, una gnoseologia integrale e una ontologia integrale. E solo a queste condizioni sarà possibile promuovere quell’educazione liberale per tutti e per ciascuno che Maritain auspica come conditio sine qua non pet la restaurazione di una cultura, di una politica e di una civiltà più umane. E per educazione liberale e non servile intende non un astratto classicismo letteralistico da contrapporre a un altrettanto astratto scientismo tecnicistico, bensì un’educazione capace di liberare l’umano nell’uomo, mettendolo in grado di trascendere e signoreggiare il mondo delle cose, ma anche di coglierne tutta la verità, la preziosità e la bellezza. Da questo punto di vista dire educazione liberale equivale a dire educazione all’integralità umana, in termini pascaliani, un’educazione che miri al cuore dell’uomo che non è tanto la sua dimensione sentimentale quanto la sua dimensione intera che distingue per unire o, che è lo stesso, distingue nell’unito lo spirito di geometria e lo spirito di finezza. Educazione perciò come formazione integrale della persona umana capace perciò di liberare e promuovere l’attuazione della potenza della sensibilità, dell’immaginazione, dell’intelligenza, della volontà, dell’operatività manuale dell’uomo predisponendolo perciò a esercitare

il duro e affascinante lavoro della vita in tutti i suoi pluridimensionali aspetti, ritrovando e non perdendo in essi la sua umanità. Fine dell’educazione liberale è perciò quello, ad avviso di Maritain, di far sì che la gioventù, ma non solo essa, visto che il processo educativo è esigenza e bisogno fondamentale della vita dell’uomo in quanto uomo in tutte le diverse stagioni della vita, «colga la verità e la bellezza comunicata da una scienza, me: diante il potere naturale e i doni naturali dello spirito, e attraverso la naturale e intuitiva energia della sua ragione, sostenuta da tutto il dinamismo dei sensi, dell’immaginazione e dell’emozione».

Tale tipo di educazione, soprattutto nel cuore della crisi della cultura, della politica e della civiltà contemporanea, ma anche oltre essa, va impartita a tutti e a ciascuno in quanto è un diritto-

dovere di tutti e di ciascuno in quanto persone umane. Infatti, 226

perché l’uomo impari o reimpari a vivere bene è sì necessario che egli sappia guadagnarsi onestamente la vita, ma è altrettanto necessario, e, qguodammodo preliminare, che sappia pensare bene. Se ha imparato questo, può rapidamente acquistare tutte le conoscenze pratiche e tecniche adeguate a un mondo sempre più caratterizzato dalla potenza liberatrice e/o distruttrice (tale alternativa dipende unicamente e ultimamente dalla libertà che l’uomo ha di dire sì o no alla propria umanità) della scienza e della tecnica contemporanee. Se si incrementerà la diffusione dell’educazione liberale come diritto-dovere di ognuno di noi e si metteranno in atto istituzioni educative adeguate allo scopo, si supererà l’immagine dell’uomo ridotto a specialista («colui che sa sempre di più sul sempre di meno», secondo la geniale definizione bontadiniana) e deformato psichicamente e a livello personale e a livello sociale, e dall’altra si favorirà la formazione di uomini in grado di misurarsi con le varie responsabilità della vita. In tal senso sarà reso almeno possibile il superamento dell’individualismo possessivistico e aggressivo tipico dell’ideologia borghese e neoborghese e le varie forme di totalitarismo e di collettivismo da alveare, tipiche dell’ideologia socialista; una volta ancora due facce della stessa medaglia: la società di massa in cui l’uomo è ridotto a cosa da produrre, consumare, scambiare e infine distruggere secondo le esigenze ineludibili di un mondo e di una società ridotta a supermercato di-enne-dimensioni. Sarà così, forse, meno improbabile la nascita di brani più o meno estesi, più o meno intensi, ma comunque presenti ed esistenti, di una civiltà personalistica e comunitaria, fondata sul-

l’evento-valore assoluto rappresentato dalla presenza della persona umana, cui tutto dal sistema della sicurezza a quello della conoscenza e della sapienza e della amicalità, personale, sociale e politica va assiologicamente e funzionalmente subordinato.

227

ARY ROÈST CROLLIUS della Pontificia Università

Gregoriana

Jacques Maritain e le culture mediterranee

Il nostro scopo non è di fare una ricerca storica su ciò che Jacques Maritain ha detto e scritto sulle culture del mondo mediterraneo. Egli infatti non ne ha mai esplicitamente parlato, né come storico della filosofia né come filosofo della cultura. Considerando l’opera del nostro filosofo, nell’arco della sua vita, c'è un fatto che colpisce: l’alternarsi di studi su arte e poesia con ricerche filosofiche, come pure l’incontrarsi di scritti spirituali con riflessioni di teoria politica. La gratuità della contemplazione e dell’arte, insieme all’impegno scientifico e culturale sembrano aver caratterizzato Maritain. E per parlare di lui, credo che si debba trovare, inventare un linguaggio che raduni gratuità e serietà, contemplazione e ricerca. Inoltre, Maritain è stato più un maestro che un professore, più un contemplativo che un ricercatore, più una guida che un istruttore. Sarebbe un’inversione delle prospettive e del dinami-

smo della sua vita, guardare indietro e fare opera di sistematica rilettura di Maritain: occorre invece, sulle strade da lui indicate, scoprire l’avvenire, inventare il domani, costruire la società. Ciò che ci vuole dunque, per trattare oggi di Jacques Maritain, è, nel contempo, fedeltà al maestro e «intuizione creatrice». Negli elementi che troviamo nella sua opera, dobbiamo trovare il disegno, il significato per la nostra situazione. Come preludio, vorrei invitarvi ad una considerazione della realtà del mondo mediterraneo. Una considerazione che vuole essere artistica, ma non senza carattere scientifico, impegnata, ma non senza gratuità. Propongo una immagine pet questo mondo,

che viene desunta da quell’arte che è propria al mondo mediterraneo: l’arte musiva. «Il mosaico — nel senso che noi l’intendiamo abitualmente — è un’invenzione dei popoli classici mediterranei», dice una mono228

grafia norvegese ('). Quella tecnica di fare un disegno pet mezzo di piccoli elementi (spesso piccoli cubi) di pietre naturali, di terracotta o di pietre vitree, che vengono applicati sopra una superficie solida con un cemento o con un màstice, ha attinto il suo pieno sviluppo nel tempo ellenistico. Dalla Siria fino alla Spagna, dal Nord Africa fino alle Alpi si trovano mosaici. Il nome deriva da «musa»: un mosaico è un’opera che sta in relazione con le

muse. Ciò che è caratteristico del mosaico è che gli elementi che formano il disegno e che esprimono le sfumature di colori e di ombre, vengono giustapposti e perfino contrapposti per formare l’insieme. Non vengono ridotti in polvere né se ne fa una pasta uniforme, ma l’unità e il senso stesso di quell’unità è costituita dalla pluriformità in cui ogni elemento ritiene e conserva la sua «identità»: la sua sostanza, la sua Un'altra caratteristica del (come lo farebbe una statua, dro, una pittura, che occupa

forma, il suo colore. mosaico è che non riempie lo spazio e, in un certo senso, anche un quaun posto sulla parete), ma il mosaico costituisce piuttosto lo spazio e lo abbellisce. Così, fare un mosaico è ripetere l’atto del Creatore che ordinando e adornando ha costituito il cosmo. Notiamo che, creando lo spazio bene ordinato, il mosaico prepara il posto per un altro che abiterà quello spazio. In questo senso, il mosaico è «modesto», non sta al centro, ma forma e abbellisce la scena, nel suo senso originario: la tenda, come il cosmo, è la tenda preparata per l’uomo. E come la tenda cosmica separa le acque che sono sopra il firmamento dalle acque che vi sono sotto, così che le acque inferiori possano raccogliersi, così il mosaico separa l’abitazione umana dagli spazi esteriori, e forma l’ambito abitabile. Infine, il mosaico non è il muro, ma, in un senso, nasconde il muro, creando spazi nuovi. Nella basilica di Aquileia camminiamo sulle onde, nella Cappella reale di Palermo e nella chiesa di San Marco a Venezia, assistiamo all’intera storia della salvezza, dalle absidi romane i santi ci guardano dal cielo e a Monteale ci siamo quasi nel cielo. Quattro sono gli aspetti, le caratteristiche che distinguiamo così nell’opus musivum come simbolo del mondo delle culture medi(1) H.P. L’Orange und P.J. Nordhagen, Mosaik. Von der Antike bis zum Mittelalter, Miinchen 1960 (tradotto dal norvegese), p. 12.

229

terranee:

1) il nome si riferisce alle muse; 2) il significato unita-

rio e l’unità significante del mosaico non si ottengono mediante una fusione degli elementi come in un crogiuolo, ma per la giustapposizione e perfino il contrasto degli elementi; 3) il mosaico crea una abitazione per l’uomo; 4) il mosaico invita a guardare oltre i limiti dell’habitat umano, a trascendere i coordinati del tempo e dello spazio, aprendo nuove viste alla coscienza umana.

Non c’è bisogno di lunghi discorsi per vedere l’analogia fra mosaico e l’ecumene delle culture mediterranee. 1) Il riferimento alle muse non soltanto ricorda quelle figure graziose che sono state in onore precisamente sulle rive di questo

nostro mare, ma la gratuità graziosa che viene espressa con il riferimento alle muse vi è ancora oggi vivente. Basti menzionare quelle due altre parole in cui vive ancora il ricordo delle muse: «museo» e «musica». Il museo è il tempio che è dedicato alle muse, lo spazio degno delle muse e delle arti che esse ispirano. Dove, in questo mondo, si potrebbe trovare una regione così ricca di tesori artistici come il «mondo mediterraneo»? In quanto alla musica, essa continua ad essere la forza misteriosa che intorno al Mediterraneo, in una maniera particolarmente ricca e espressiva, solleva i corpi nella danza, i sentimenti nei canti, le menti nella preghiera.

2) In secondo luogo, l’unità fatta per la distinta giustapposizione degli elementi è ciò che è tipico per l’ecumene culturale del Mediterraneo. Lasciamo volentieri ad altre civiltà l’epiteto di melting pot, «crogiuolo» — per concepire la comunione fra le culture mediterranee si deve ispirarsi al titolo del famoso libro di Maritain, Distinguer pour unir. 3) AI terzo posto, lo spazio ordinato e ornato, l’habitat umano formato dal mosaico esprime in maniera evidente quella qualità mediterranea di essere un mondo «umanizzato», recando l’impronta dell’uomo, trasformato da lui. E, per l’ecumene culturale, c’è da menzionare quell’umanesimo personalista e pluralista, tipico per le culture nate e sviluppatesi qui. 4) Finalmente, la trascendenza delle limitazioni del momento attuale non è una caratteristica sovraggiunta alle culture mediterranee, ma è la loro sorgente e la loro energia portatrice, che fa che esse si rinnovino continuamente e possano anche arricchire altre parti del mondo. 230

Da questi temi mediterranei vediamo facilmente la rilevanza dell’opera maritainiana per un discorso sulla ecumene delle civiltà mediterranee — anche se Maritain non ha mai trattato direttamente della convivenza di culture in questa area e anche se egli, dal punto di vista dell’attualità culturale è stato piuttosto un atlantico nord-occidentale. Dopo questo preludio, dunque, parleremo in chiave maritainiana di questi quattro temi mediterranei: 1) le muse, l’ispirazione artistica; 2) l’umanesimo personalista come fondamento della civiltà; 3) il pluralismo come articolazione della comunità di culture; 4) l’esperienza di trascendenza sorgente di cultura. 1. L’ISPIRAZIONE

ARTISTICA

Parliamo del dato di fatto che l’area delle culture mediterranee costituisce una terra privilegiata delle belle arti, ed è, in più di un senso, la vera patria delle muse. Nel suo libro Creative intuition in Art and Poetry (*), Maritain dedica uno studio alle muse di Platone. Egli fa notare una strana coincidenza fra la concezione platonica e quella del surrealismo: ambedue separano l’ispirazione artistica — qui si tratta più specificamente di quella poetica — dall’intelletto. «Per Platone, il concetto della musa ha da fare con passione, mania, pazzia, gioco infantile e non-conscio» (*). E ciò che propone Maritain, per trovare una soluzione filosofica per il problema della relazione fra ciò che è mousikon e ciò che è intellettuale, è di «far scendere la musa platonica nell’anima dell’uomo, ove non è più musa ma intuizione creativa; e far scendere l’ispirazione platonica nell’intelletto unito con l'immaginazione, ove l’ispirazione dal di sopra dell’anima diventa ispirazione dal di sopra della regione concettuale, cioè: esperienza poetica». Il nostro filosofo distingue poi fra due tipi di inconscio nella persona umana: un inconscio spirituale, «musicale», e un inconscio animale, automatico, ove egli ritrova — senza che viene nominata — una antica tradizione di concezione antropologica che è rappresentata da s. Paolo, da Origene, da Guglielmo di s. Thierry, Tauler ed alcuni moderni. (2) Washington,

(3) Ivi, p. 85.

1953.

231

Ma ciò che interessa particolarmente sono i legami che esistono fra l’esperienza poetica e quella religiosa, mistica. È vero, Maritain avrà cura di distinguere: «L’esperienza poetica è essenzialmente differente dall’esperienza mistica. Essa si occupa del mondo creato e delle innumerevoli relazioni enigmatiche degli esseri fra di loro, mentre l’esperienza mistica si occupa del principio degli esseri nella sua unità che trascende il mondo» (4). Nondimeno, c'è una relazione profonda fra le due esperienze, che ha un suo fondamento nella maniera originale in cui, nelle tradizioni delle culture mediterranee si contempla Dio e la sua opera come trascendenti alla ragione umana; una trascendenza che viene espressa in termini di gioco, di danza, di musica. Lo stesso Platone dice: «L’uomo è un giocattolo nella mano di Dio — e questo è veramente il meglio che si può dire di lui» (°). In questo testo non si può negare che vi si trova un elemento di malinconia pagana dinanzi alla incomprensibilità della sorte. Tale concezione si ritrova nel tardo ellenismo, presso Filone di Alessandria, che scrive: «Il logos divino gira danzando, colui che molti chiamano la sorte» (9). In tale contemplazione del mondo, degli esseri e degli eventi, essi si vestono di un dolce splendore e una soave bellezza. Proclo, nel suo commentario del Timeo, dice: «Il sorriso degli Dei dava alle cose del cosmo la loro esistenza e la loro capacità di continuare ad esistere» (7). I Padri greci ritroveranno la danza e il gioco del Logos divino nelle parole in cui la divina sapienza (Hokmah) dice di se stessa, nel Libro dei Proverbi: «Quando egli fissava i cieli, io ero là, [...]

quando egli disponeva le fondamenta della terra; allora io ero con lui, come un piccolo bambino, ed ero la sua delizia ogni giorno, mi rallegravo davanti a lui in ogni istante; mi ricreavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo» (8). Per i Padri, questo gioco del Logos, che egli fa davanti al Padre, quella danza cosmica sul globo terrestre, è soltanto una allu-

(4) Approches de Dieu, Alsatia, Paris (1953), p. 99 (tr. it. Afeiszo e fe. di Dio. Con antologia del pensiero maritainiano, Massimo, Milano (5) (6) (7) (8)

252

Nomoi 803 BC. Quod Deus sit immutabilis, 172-6. Proclus, In Timaeum, III, 147 D. Prov 8, 27-31.

sione a ciò che era all’origine e ciò che sarà rivelato a noi (?). Massimo il Confessore scrive: «Questa nostra vita terrestre, paragonata con la vita futura, vera, divina e archetipica, è soltanto gioco da bambini [...]. Noi stessi, concepiti e nati come altri es-

seri, noi che da bambini diventiamo giovani e poi anziani: siamo come fiori che durano un momento e poi muoiono e sono trasferiti in questa altra vita — in verità, dobbiamo essere considerati come un gioco da bambini, giocato da Dio» (1°). Hans Urs von Balthasar commenta: «Una volta che questo punto esaltato di vista è stato raggiunto, tutte le dissonanze di questo mondo sono risolte per Massimo in una armonia finale» (!!). E con ciò noi ritroviamo qui, in immagini «musiche», le stesse caratteristiche del mosaico. Tecnica, politica, tutto il lavoro duro e responsabile, spesso sofferto e pieno di conflitti, nella costruzione della società umana e della convivenza delle culture, trova il suo senso su un livello superiore a quello della ragione umana, e che si può esprimere in termini di gioco e di arte, che vengono simboleggiate dalle muse. Per colui che ha scoperto che l’ultima ragione della ragione è al di sopra della ragione, la ragione stessa perde la sua ultima serietà: non prenderà mai troppo sul serio, né se stesso né il suo mondo. Dice P. Hugo Rahner, «siccome Dio è un Deus vere ludens, anche l’uomo deve diventare una creatura che gioca, hozzo ludens» (!). Giocando con piccoli cubi di vari colori l’artista fa un mosaico. Cerchiamo adesso di scoprite, seguendo alcune indi-

cazioni di J. Maritain, le linee di forza che danno senso e coe4 sione al mosaico culturale del mondo mediterraneo. Abbiamo voluto fare questa esplicitazione del carattere «musicale», immaginativo, gratuito e artistico, delle culture mediterranee, perché siamo convinti che la serietà smisurata è veramente mor-

tale per ogni civiltà e ogni convivenza di culture. Un atteggiamento troppo impegnato a livello socio-culturale soffoca la creatività dello spirito che per sé vuol’essere libero: questo suppone un certo distacco dalle realtà contingenti. Notiamo che è soltanto (9) Cfr., anche per le citazioni, H. Rahner, Mar at Play, New York 19723": 11ss. (19) Maximus, Ambigua, P.G. 91, 1189 D, 1416 C. (11) H.U. von Balthasar, Kosmische Liturgie, Freiburg, 1941, pp. 7- si (12)H. Rahner, Man at Play, New York 1972, p. 25.

233

a una certa distanza che si può vedere il disegno e le bellezze, del mosaico. 2. L'UMANISMO

PERSONALISTA,

FONDAMENTO

DELLA CIVILTA

In questa seconda parte riassumiamo gli altri temi sopra menzionati.

Sulla convivenza civile di culture differenti, Maritain ci offre alcune idee semplici e chiare che ritroviamo attraverso le sue opere. Il primo elemento è quello dell’umanesimo teocentrico. In Umanesimo integrale, egli scrive: «In questo nuovo momento della storia della cultura cristiana, la creatura non sarebbe miscono-

sciuta né annullata innanzi a Dio; non sarebbe neppure riabilitata senza Dio e contro Dio; sarebbe riabilitata in Dio. Non c’è più che uno scampo per la storia del mondo, dico in regime cristiano, checché ne sia del resto; ed è che la creatura sia veramente rispettata rei suoi legami con Dio e perché essa tiene tutto da lui; umanesimo, ma umanesimo teocentrico, radicato là ove l’uomo ha

le sue radici, umanesimo

integrale, umanesimo

ne» (1). Non è necessario sviluppare qui che umanesimo

dell’Incarnazioteocentrico si-

gnifica umanesimo personalistico. È anche evidente che tale umanesimo è un comune patrimonio delle tradizioni che si riferiscono ad Abramo come modello di fede nel Dio unico, e che hanno tanto influenzato le culture del mondo mediterraneo: il giudaismo, il cristianesimo e l'Islam. Ma ciò che è specialmente rilevante per il nostro tema è come tale umanesimo, enunciato qui in chiave cristiana, «checché ne sia del resto», possa servire nella convivenza di culture nel nostto mondo mediterraneo. Dal punto di vista religioso, culturale, economico e giuridico, ci troviamo qui in un mondo pluralista. La risposta maritainiana in tale situazione può essere articolata in tre momenti. a) Unità e pluralismo nella città temporale Prima di tutto, c'è una risposta a livello della organizzazione della città umana, della politica. Viviamo in un’epoca che richie-

de «una struttura organica implicante un certo pluralismo» (14). Maritain elabora i vari aspetti di questo pluralismo economico e (15) J. Maritain, Umanesimo (14) Ivi, p. 198.

234

integrale, Borla, Bologna

1962, p. 119.

giuridico, e poi, nel descrivere la struttura della città pluralistica, egli fa la distinzione importante fra progetto di unità sacrale e progetto sul piano temporale. A causa di questa distinzione, l’unità temporale o culturale «non richiede da sé l’unità di fede e di religione»: essa può essere cristiana pur raggruppando nel suo seno dei non-cristiani (!). Tale concezione preclude il ritorno di

un ordine politico ove l’autorità civile avrebbe influsso sulle coscienze delle persone. E viene rigettato anche ogni totalitarismo politico. Ciò che raduna i cittadini in un sistema pluralistico non è, perciò, un contenuto dottrinale. «Per quanto piccolo, modesto, timido questo si faccia, darà sempre luogo a contestazioni e a divisioni. E questa ricerca di un denominatore comune a convinzioni

contrastanti non può essere se non una corsa alla mediocrità e alla viltà intellettuali, che indebolisce gli spiriti e tradisce i diritti della verità» (1°).

D'altronde, la semplice unità di amicizia non è sufficiente per dare forma a una convivenza sociale. Allora, invece di cercare un «minimo teoretico comune», si deve cercare di realizzare una «opera pratica comune», che possa permettere a ciascuno di impegnarsi totalmente e di dare il massimo (!). «Quest'opera pratica comune — dice ancora Maritain — è un’opera non sacrale cristiana ma profana cristiana. Intesa nella

pienezza e nella perfezione della verità che implica, impegna certo tutto il cristianesimo, tutta la dommatica e tutta l’etica cristiana:

solo nel mistero dell’Incarnazione redentrice il cristiano scorge che cosa sia la dignità della persona umana e quanto costi». D’altra parte, «proprio perché profana e non sacrale, quest’opera comune non esige da ciascuno, come entrata in gioco, la professione di tutto il cristianesimo. Al contrario, comporta nei suoi tratti caratteristici un pluralismo che rende possibile il convivium dei cristiani e dei non cristiani, nella città temporale» (19).

Nel famoso discorso all’Unesco, pronunciato a Città del Messico, nel novembre 1947, ritorna su questo tema (!). Si tratta di (15) Ivi, p. 205. (16) Ivi, p. 206.

(17) (18) (19) 1969,

Ivi, p. 232. Ibidem. Cfr. J. Maritain, Il contadino della Garonna, Morcelliana, p. 104ss. (Humanisme intégral è apparso nel 1936).

Brescia

235

una collaborazione culturale in un mondo composto da famiglie spirituali diverse, civiltà differenti e scuole filosofiche antagoniste. Una riduzione su un accordo, su un minimo teoretico, ridurrebbe la collaborazione ad alcuni gesti simbolici. Si vuole invece che ognuno

s’impegni «completamente, con tutte le sue convinzioni

filosofiche e teoretiche» (2°). E di nuovo Maritain fa appello a una «ideologia pratica fondamentale» che egli vede realizzata nella Dichiarazione universale dei Diritti dell'Uomo. In questa Dichiarazione noi troviamo quell’“estremo rifugio per l'accordo degli spiriti”, necessario per una convivenza civile a livello planetario» (7). Per la convivenza delle culture nel mondo mediterraneo, però, c'è di più. E qui diventa necessario esplicitare alcuni elementi di dottrina religiosa delle tradizioni monoteistiche che hanno ispirato le culture mediterranee. Nell’ecumene fra di esse non si tratta più unicamente di un minimo di «ideologia pratica», ma ci sono elementi comuni di dottrina di fede e prospettive convergenti di speranza. b) La Chiesa e le tradizioni del monoteismo abrabamitico Nella maniera di considerare i non cristiani, molto è cambiato con il Concilio Vaticano II. Nel suo libro, Il contadino della Garonna, Maritain ha sottolineato l’importanza di questo cambiamento (2). Usando la terminologia impiegata dal cardinale Journet (#), egli vi propone di considerare i non cristiani non più soltanto come uomini, ma come membra del Cristo, implicitamente e invisibilmente se hanno la grazia del Cristo, e se non l’hanno almeno potenzialmente membra di Cristo. Evidentemente, si tratta qui di un discorso indirizzato a cristiani. Notiamo che la novità del Concilio consiste in un rinnova-

mento «interiore». Si tratta di un modo nuovo di «vedere» i non cristiani e di amarli meglio. Parlando dell’atteggiamento anteriore della media dei cristiani, il nostro autore spiega che allora, i non cristiani sono stati amati benché non fossero cristiani: «Si ama-

vano i non-cristiani innanzi tutto in quanto, per la disgrazia di non essere cristiani, erano chiamati a divenirlo; si amavano pri-

(20) Ivi, p. 106. (21) Ivi, p. 107.

(2) Ivi, p. 110ss. (2) Ch. Journet, L’Eglise du Verbe incarné, DDB, Paris 1951.

236

ma di tutto non per quel che erazo, ma per quel che erano chi4mati a divenire; si amavano prima di tutto come uomini seduti all’ombra della morte, riguardo ai quali il primo dovere di carità è di sforzarsi a convertirli alla fede» (24). Per ciò che riguarda «il grande capovolgimento interiore» operato dal Concilio, si può dire che ora siamo chiamati a ricono” scere nei non-cristiani, le membra invisibili di Cristo, almeno in potenza. «Li amiamo prima e sopra a tutto come sono e quali sono, cercando il loro bene secondo che, nell’esistenza attuale e

nelle condizioni storiche in cui si trovano attualmente debbono avanzare verso di esso in un universo religioso e in un sistema di valori spirituali e culturali dove possono abbondare gravi errori, ma dove sono certamente presenti anche verità degne di rispetto e di amore, attraverso le quali è possibile a Colui che li creò, alla Verità che è Cristo, di raggiungere segretamente il loro cuore, senza che neppure essi, né alcun altro al mondo, lo sappia» (3).

È evidente che tale capovolgimento interiore, che dà il primato alla carità, coinvolge una nuova missiologia. Sembra bene che una teologia della missione che vuole sottolineare troppo la distinzione fra «pre-evangelizzazione» e «evangelizzazione», oppure fra «dialogo» e «evangelizzazione», o fra «testimonianza» e «predicazione», non abbia la promessa di un avvenire fruttuoso. Nel contempo, però, occorre sottolineare la necessità, per il cristiano, di «essere fermo nel mantenere la differenza essenziale nell’ordine dottrinale e nel rendere chiare le opposizioni che, nel campo del vero e del falso, lo separano da uomini che ama con tutto il cuore. Facendo così, li onora; agire diversamente vorrebbe dire tradire la Verità, che è al di sopra di tutto» (*). Riguardo al giudaismo e all’Islam, la Chiesa e ogni cristiano si trovano in una relazione speciale. Maritain, nel suo penultimo libro, La Chiesa del Cristo, tratta di questa relazione e nota che nel giudaismo come nell’Islam si trovano degli «elementi di Chiesa», delle realtà salvifiche, dunque, che i giudei e i musulmani hanno in comune con i cristiani. Tale affermazione trova il suo fon«damento nella fede soprannaturale, «nel Dio trascendente che (24) J. Maritain, Il contadino della Garonna, cit., p. 114. (5) Ivi, pp. 114-115.

(26) Ivi, p. 124.

2347

ricompensa coloro che lo cercano e che si è rivelato agli uomini (fede che, da sé, contiene implicitamente tutto il resto)» (7). Si vede qui, dunque, come l’umanesimo teocentrico ha, nelle relazioni interculturali del mondo mediterraneo, un fondamento

che crea una comunità che non si trova in altre parti del mondo fra culture che hanno una ispirazione religiosa diversa. Il dialogo e la collaborazione interculturale, in questa area privilegiata del mondo, trova campi immensi e fruttuosi di incontro, specialmente nella riflessione teologica e antropologica, sia dal punto di vista della fede che da quello della filosofia. Poi, la felice esperienza di scambi sul piano delle scienze e delle arti è ancora oggi promessa di un futuro benefico anche oltre l’area mediterranea stessa. A causa, precisamente, del passato così ricco e in virtù della chiamata del Dio unico trascendente verso una convergenza transtorica, il dialogo interculturale nel mondo mediterraneo sarà sempre qualificato da un riferimento all’esperienza umana e religiosa, alla saggezza. Maritain ha mostrato come il mondo mediterraneo antico ha conosciuto un conflitto di saggezze, mentre il cristianesimo offre una sintesi, una «gerarchia di saggezze» (*). Lontani da ogni sincretismo, animati da amicizia fraterna e da una fede che li fa convergere, i rappresentanti delle grandi tradizioni religiose e culturali del mediterraneo, sapranno insieme scoprire la sintesi di saggezze che esprime per ognuno di esse la verità. 3. LA CONTEMPLAZIONE

NELL’AZIONE

Quando si parla di saggezza si parla di una conoscenza che è connessa con l’esperienza. Nelle tradizioni della fede monoteista, la conoscenza più preziosa è quella di Dio. La conoscenza della fede illumina tutte le altre scienze e conoscenze. La conoscenza della fede si esercita — inizia, è rinvigorita e illuminata, e si perfeziona qui in terra — nella contemplazione. Vorrei concludere queste considerazioni con una citazione del nostro autore, il quale ci indica, dinanzi a prospettive così esal. (22) J. Maritain, De l’Eglise du Christ, DD.B., Paris 1970, p. 196; sul giudaismo: pp. 196-199; sull’Islam: pp. 167-169; 199-200 (tr. it., La Chiesa del Cristo, Morcelliana, Brescia 1977). ; (28) J. Maritain, Science et sagesse, Labergerie, Paris 1935, p. 40ss. (tr. it., Scienza e saggezza, Borla, Torino 1964).

238

tanti di amicizia, collaborazione, ricerca e creazione artistica, come trovare l’ispirazione e l’energia: «Il mezzo per eccellenza per arrivare alla perfezione della carità e per esercitaria — mezzo che è congiunto con il fine — è la contemplazione divina, o l’unione con Dio per una conoscenza esperienziale, amorosa e ineffabile, che ciascuno può desiderare di ricevere dalla grazia di Dio, pat-

ticolarmente per la pratica assidua della orazione» (”). È sullo sfondo di tali esigenze che si possono affermare delle convinzioni che sono state formulate al primo incontro della Conferenza Permanente per gli Studi delle Culture del Mondo Mediterraneo, — convinzioni ispirate da idee maritainiane: «Riteniamo che le culture del mondo mediterraneo abbiano le potenzialità necessarie a stabilire un equilibrio fra cuore e ragione, fra saggezza e scienza, fra intuizione e ricerca analitica. «Vorremmo ugualmente che fossero considerate come qualità essenziali delle nostre culture, l’amore della vita, la capacità di celebrarne le gioie e di soppottarne i dolori, la ricerca della bellezza e della purezza, un desiderio di semplicità e di modestia e un nobile senso dell’onore e dell’ospitalità. «Nel dialogo e nella collaborazione interculturale le esperienze felici della storia dei popoli mediterranei ci invitano a considerare come terreni particolarmente promettenti di incontro, la spiritualità, una filosofia che sia veramente saggezza, una scienza che rispetti il mistero degli esseri e delle cose, un’arte che sia “lo splendore del vero”» (?°). Che il mosaico di culture che si riflette nello specchio del mare mediterraneo può realmente essere contemplato e, soprattutto dalle giovani generazioni, essere realizzato come splendore di verità divine e umane, distinte ma unite, questo è ciò che le nostre povere parole hanno voluto indicare.

(29) J. et R. Maritain, De la vie d’oraison, L’Art Catholique, Paris 1924, p. 27 (tr. it., Vita di preghiera, Borla, Torino 1961). (3°) Bari, 1982.

239

ANNA MARIA VULTAGGIO dell'Istituto Regionale di Ricerca e Formazione Culturale «J. Maritain»

di Palermo

Il mistero, provocazione

dell’intelligenza

1. LA “VOCAZIONE” FILOSOFICA DI MARITAIN E IL SUO SIGNIFICATO

L’itinerario speculativo di Maritain, che ci è dato di percorrere attraverso le sue opere, rivela in sede di riflessione filosofica il cammino stesso di un uomo, illuminato e orientato dalla verità, progressivamente scoperta dalla sua intelligenza e accolta dal suo cuore. All’inizio dei suoi studi accademici la filosofia scientista, unicamente proposta dalle cattedre della Sorbona, aveva condotto Maritain, come egli stesso avrebbe in seguito affermato, a «disperare della ragione». «Per un momento — egli scrive — avevo creduto di poter trovare la certezza integrale nelle scienze» (1).

L’indagine scientifica, partendo dalla costatazione empirica e dalla descrizione del proprio oggetto, perviene alla formulazione di principi generali sperimentalmente verificabili, che rendono ragione dei dati fenomenici considerati, ma lasciano privi di risposta i più profondi interrogativi sulla verità ontologica delle cose e sul significato ultimo dell’esistenza umana. La riduzione scientista della verità alla verificabilità è, pertanto, il segno della rinuncia da parte dell’uomo al pieno esercizio della propria intelligenza capace, per sua natura, di trascendere le conoscenze particolari e di contemplare il mistero inesauribile dell'assoluto, che si rivela anche come il supremamente desiderabile dal cuore umano, quando dinnanzi ad esso si ferma meravigliato lo sguardo dello spirito. Maritain, durante gli anni della Sorbona, accoglie con convinzione le verità parziali delle singole scienze, ma avverte nello stesso tempo quella angoscia metafisica derivante dalla consapevolezza p.

O J. Maritain, 14.

240

Il filosofo

nella

società,

Morcelliana,

Brescia i

1977,

che la sete di assoluto, sentita fin da ora in tutta la sua profondità, rimane inappagata. L’incontro con Bergson e con la sua filosofia contribuisce notevolmente al superamento delle acquisizioni precedenti ed apre a Maritain nuovi orizzonti speculativi. L'amicizia con Léon Bloy è decisiva per l'adesione di fede alla Verità rivelata, ma è la filosofia di Tommaso d’Aquino a provocare in lui «una illuminazione della ragione», che gli fa accogliere con una consapevolezza nuova la luce soprannaturale di cui già si alimentava la sua fede e lo preserva, al tempo stesso, dai rischi del fideismo. A seguito di questa scoperta significativa, egli stesso scrive: «[...] la mia vocazione filosofica mi veniva restituita in tutta la

sua pienezza [...]. E per trenta anni di lavori e di lotte, ho camminato sulla stessa via, sentendo di simpatizzare tanto più profondamente con le scoperte, le ricerche, le angosce del pensiero moderno, quanto più cercavo di farvi penetrare la luce che viene da una sapienza elaborata da secoli e che resiste alle fluttuazioni del tempo» (2). Come un albero, che traendo nutrimento da un fertile terreno e sviluppando tutte le proprie energie offre frutti rigogliosi, la speculazione maritainiana, alimentandosi della tradizione sapienziale e illuminata dalla Sapienza increata, rivela tutta l’originalità di pensiero del suo autore. Maritain con attenzione intelligente e critica dialoga, infatti, con le maggiori correnti filosofiche dell’età moderna accogliendo le verità in esse presenti e denunziandone i limiti. Tale atteggiamento gli consente di sottolineare che «dopo che Descartes ebbe negato il valore della teologia come scienza, e Kant quello della metafisica come scienza, abbiamo visto la ragione sperduta, abbandonata all’empirismo, cercare la sapienza con maggiore ansietà che mai, senza trovarla perché aveva rifiutato il senso del mistero» (5). 2. L’INTELLIGIBILITA DEL MISTERO, DELLA CONOSCENZA

POSSIBILITÀ

ULTIMA

L’assolutizzazione delle scienze particolari è resa maggiormente comprensibile dalla distinzione che per ogni questione scientifica (2) Ibidem. (3) J. Maritain, Sette lezioni sull'essere e sui primi principi della ragione speculativa, Massimo, Milano 1981, p. 39.

241

Maritain opera tra problema» e «mistero», attribuendo a questi due termini, già adoperati da Gabriel Marcel, un significato nuovo. Il «problema» «[...] è una difficoltà logica, un nodo di concetti inventati da uno spirito e che un altro spirito si sforza di, sciogliere. Quando avrà sciolto quel nodo, risolto quella difficoltà, è tutto finito, non c’è più niente da sapere» (‘). Nessuna disciplina scientifica può sottrarsi all’esigenza della problematizzazione, ignorando le difficoltà presenti all’interno della propria indagine e senza rendere ragione dei risultati a cui perviene. Aristotele stesso dedica uno dei primi libri della Metafisica alla trattazione delle aporie rimaste nella speculazione precedente e che egli risolve in una sintesi superiore anche per la chiara consapevolezza che di esse ha fin dall’inizio. La problematizzazione è, pertanto, un carattere costitutivo del sapere scientifico e in alcune scienze esso è addirittura predominante. Il pensiero moderno e contemporaneo tuttavia, assolutizzando progressivamente questo aspetto, ha riconosciuto nell’ésprit de géométrie la massima possibilità conoscitiva per l’intelligenza, ritenendo che, al di là dei risultati definiti ma non definitivi offerti dalle scienze, non ci sia nient'altro da esplorare. In tal modo il mistero, ritenuto inconoscibile, è stato spesso relegato nella dimensione fideistica o in quelia del sentimento. L’uomo che ha così rinunciato all’intelligenza del mistero, ha ridotto la possibilità di esercizio delle proprie facoltà, ritrovandosi sempre più incapace di volere e di amare qualcosa che ormai ha disimparato a conoscere. Dalla tradizione filosofica più remota, Maritain eredita la consapevolezza che la prima relazione che il soggetto umano instaura con la realtà è di tipo conoscitivo. Amare qualcosa significa infatti riconoscerla in tutto il suo valore, avendola previamente conosciuta nella sua verità ontologica. D'altra parte, è possibile amare l’altro solo dopo averlo in qualche modo conosciuto nella sua sussistenza ontologica e nella sua irripetibilità. In tale relazione intersoggettiva, l’amore per l’altro attinge dalla conoscenza la propria ragionevolezza e, a sua volta, la conoscenza riceve dall'amore un rinnovato e più forte incentivo a progredire, nella consapevolezza che l’interiotità del soggetto conosciuto e amato è un universo, di cui è impossibile trovare i confini. (4) Ivi, p. 34.

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ROSALBA PATRIZIA RIZZUTO dell'Istituto Regionale di Ricerca «J. Maritain» di Palermo

e Formazione

Culturale

La saggezza trascendimento-libertà dello spirito in Jacques Maritain

1. DINAMISMO

DELLO

SPIRITO E INQUIETUDINE

DELL'ANIMA

- Nella prefazione alla sua opera più sistematica, Distinguere per unire. I gradi del sapere, J. Maritain ci offre una possibile chiave di lettura della unità mirabile che lega in armonia tutta la sua speculazione, pur comprendente orizzonti di indagine tanto ampi e molteplici. In tale prefazione egli annota: «Non è soltanto la struttura che interessa mettere in luce, ma il movimento e lo slancio dello spirito, e quella meravigliosa legge di insoddisfazione entro la stessa sicurezza delle certezze acquisite, in virtù della quale, partendo dalla esperienza del senso, lo spirito dilata, innalza, trasforma la sua vita di grado in grado, impegnandola in mondi eterogenei di conoscenza e tuttavia solidali, e testimoniando che per una vita immateriale tendere alla perfezione è tendere ad una ampiezza infinita, vale a dire, alla fin fine, ad un oggetto, ad una realtà infinita che tale vita dovrà in qualche modo possedere» (!). Tutta la filosofia maritainiana si presenta a noi come animata e mirabilmente nutrita dalla consapevolezza circa il dinamismo dello spirito umano, che, pur conquistando ad ogni grado della sua vita fondamentali certezze, non può acquietarsi in nessuna di esse, mai appagato dalla «conoscenza» di una «verità parziale»,

aspirando al «possesso» della «Verità infinita». Una speculazione filosofica, quella di Maritain, diretta con forte rigore teoretico su tutte le manifestazioni della vita dello spirito, dalla poesia alle arti figurative, dalla scienza sperimentale alla filosofia della natura e alla saggezza, e capace di testimoniare, attra(1) J. Maritain, Distinguere per unire. I gradi del sapere, Morcelliana, Brescia 1981, p. 8.

245

dell’essere scoprendo, quando raggiunge la profondità della contemplazione, che il di più resta ancora da esplorare. Mentre la conoscenza scientifica in cui prevale la problematizzazione è caratterizzata da un «progresso per sostituzione» dove «[...] se una prima soluzione è incompleta, l’altra la sostituirà.

Come i paesaggi che mutano e si susseguono agli occhi del viaggiatore» (*), la metafisica in cui predomina l’apertura sapienziale al mistero dell’essere, si caratterizza per un «progresso per approfondimento», dove l’intelligenza penetra conoscitivamente una stessa realtà custodendo ciò che in precedenza di essa ha scoperto e accogliendo quanto le rivela di nuovo. «È così — afferma Maritain — che possiamo leggere e rileggere uno stesso libro [...] ed è ogni volta una esperienza nuova e più profonda» (?). L’uomo, che giunge all’esercizio pieno della propria intelligenza, può così essere considerato il lettore instancabile di sé e del mondo, cioè di quel grande libro che attraverso i suoi segni gli svela progressivamente i suoi significati più segreti.

Il filosofo, in questa progressiva lettura, è custode del cammino di approfondimento percorso dai suoi predecessori. A differenza di quelle dello scienziato, le sue scoperte non sostituiscono le precedenti; andando oltre nella sua ricerca egli recupera contemporaneamente la tradizione sempre viva di chi ha ascoltato l’essere prima di lui.

(8) Ivi, p. 36. (9) Ibidem.

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ROSALBA PATRIZIA RIZZUTO dell'Istituto Regionale di Ricerca e Formazione «J. Maritain» di Palermo

Culturale

La saggezza trascendimento-libertà dello spirito in Jacques Maritain

1. DINAMISMO

DELLO SPIRITO E INQUIETUDINE

DELL'ANIMA

Nella prefazione alla sua opera più sistematica, Distinguere per unire. I gradi del sapere, J. Maritain ci offre una possibile chiave di lettura della unità mirabile che lega in armonia tutta la sua speculazione, pur comprendente orizzonti di indagine tanto ampi e molteplici. In tale prefazione egli annota: «Non è soltanto la struttura che interessa mettere in luce, ma il movimento e lo slancio dello spirito, e quella meravigliosa legge di insoddisfazione entro la stessa sicurezza delle certezze acquisite, in virtù della quale, pattendo dalla esperienza del senso, lo spirito dilata, innalza, trasforma la sua vita di grado in grado, impegnandola in mondi eterogenei di conoscenza e tuttavia solidali, e testimoniando che per una vita immateriale tendere alla perfezione è tendere ad una ampiezza infinita, vale a dire, alla fin fine, ad un oggetto, ad una realtà infinita che tale vita dovrà in qualche modo possedere» (!). Tutta la filosofia maritainiana si presenta a noi come animata e mirabilmente nutrita dalla consapevolezza circa il dinamismo

dello spirito umano, che, pur conquistando ad ogni grado della sua vita fondamentali certezze, non può acquietarsi in nessuna di esse, mai appagato dalla «conoscenza» di una «verità parziale»,

aspirando al «possesso» della «Verità infinita». Una speculazione filosofica, quella di Maritain, diretta con forte rigore teoretico su tutte le manifestazioni della vita dello spirito, dalla poesia alle arti figurative, dalla scienza sperimentale alla filosofia della natura e alla saggezza, e capace di testimoniare, attra(1) J. Maritain, Distinguere per unire. I gradi del sapere, Morcelliana, Brescia 1981, p. 8.

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verso la stessa dinamicità del suo orizzonte, per un verso l’amore per la persona umana e la meraviglia di fronte alla energia crea. tiva del suo cuore e della sua intelligenza fatti per dominare e ricreare il mondo alla luce della verità e della bellezza di cui si nutrono, e, per altro verso, la convinzione circa il rilievo di ciascun grado della vita dello spirito, subordinato o sovraordinato gerarchicamente ad altri, non per misconoscimento del suo valore, ma, al contrario, per consapevolezza del suo ruolo insostituibile. Nel rispetto della legge di insoddisfazione che regola la vita dello spirito, nel rispetto della solidarietà naturale che unisce i mondi pur eterogenei della conoscenza, nella posizione che l’uomo di volta in volta assume nei confronti della verità, della scienza, della saggezza, si gioca, a nostro avviso, tutta la vita della persona, tanto nell’ordine speculativo, quanto in quello pratico. Qui si decide, infatti, la fondazione dell’universo della conoscenza e ad un tempo di quello della azione morale e politica e acquista la sua inequivocabile efficacia propositiva la filosofia di Maritain. Lo mostra chiaramente la storia dell’epoca moderna e contemporanea, segnata dal monismo noetico dell’idealismo e dello scientismo, dalla separazione, invece che dalla distinzione nella unità, dei gradi del sapere. Ne è pregnante esempio la rivalità conosciuta dal nostro tempo fra la scienza, che è conoscenza del particolare, del visibile, dello sperimentabile, e la saggezza, che è conoscenza dell’universale, aspirazione dello spirito a misurarsi con il mistero delle cose, a contemplare le sue conclusioni risalendo dal visibile all’invisibile, verso un mondo di realtà intelligibili trascendenti il mondo sensibile eppure implicate in esso. Assolutizzando la scienza e negando validità alla saggezza, il nostro tempo ha misconosciuto il naturale dinamismo dello spirito che le vuole solidali, per quanto eterogenee. Lo spirito, infatti, trascende l’esperienza sensibile, pur riconoscendone il valore, come una perfezione trascende un’altra perfezione. Esso, pur consapevole del valore delle scienze, non si accontenta di sfociare direttamente nella esistenza, ma vuole attingere le essenze e continua a cercare nel cuore delle cose l’astratto e l’immateriale, l’essere in quanto tale, con le sue necessità oggettive, con le sue leggi e

le sue evidenze invisibili.

246

2. LA SAGGEZZA:

UNA VERITÀ DA SERVIRE

Certamente, per il progresso della scienza un tale slancio verso la saggezza, il trascendimento del gusto del reale verso il senso dell’essere, della esperienza sensibile e delle certezze sperimentali verso le evidenze invisibili della ragione metafisica è del tutto inutile. Pur non contraddicendo i risultati della conoscenza scientifica del mondo sensibile, la saggezza non vi contribuisce comunque in alcun modo. «È ben vero che la metafisica», come anche ciascuna delle saggezze, annota Maritain ancora in Distinguere per unire. I gradi del sapere, «non è di alcuna utilità per il rendimento della scienza sperimentale. Scoperte e invenzioni del mondo dei fenomeni? La metafisica non può in proposito menare alcun vanto: il suo valore euristico, come si dice, è del tutto nullo in questo campo» (?). Proprio questa inutilità fa la grandezza di ogni saggezza, ne fa un fine veramente ultimo e dilettevole, la colloca sul piano del frui, di ciò che non serve ad altro perché è buono in sé e per sé, che è inutile perché al di sopra di ogni servitù e super-utile. Ancora a proposito della metafisica che, riproponendo la sistemazione lucidamente elaborata da Tommaso d’Aquino, Maritain vede come il primo grado della saggezza seguito e superato in ordine gerarchico dalla saggezza teologica e dalla saggezza mistica, il filosofo annota:

«Nulla [...] è più necessario all’uomo di questa

inutilità. Ciò di cui noi abbiamo bisogno non è di un insieme di verità che servono, ma piuttosto di una verità da servire. Questa [...] è il nutrimento dello spirito [...]. L’inutile metafisica mette ordine [...]; l'ordine scaturito dall’eternità nell’intelligenza speculativa e pratica [...]. La metafisica non è un mezzo,

è un fine, un frutto, un bene bonestur et delectabile, un sapere da uomo libero, il sapere più libero e più naturalmente regale, l’ingresso negli ozi della grande attività speculativa dove la sola intelligenza riposa, giacendo sulla cima delle cause» (*). La saggezza inutile, fatta da Maritain oggetto di riflessione a confronto con le aspirazioni più proprie dello spirito, si rivela sommamente necessaria. Non sarà utile per il progresso della scienza e della tecnica, ma conduce il cuore dell’uomo al senso dell’essere (2) Ivi, p. 22. (3) Ivi, pp. 22-23.

247

e della vita, nell’orizzonte del mistero per il quale valela pena di essere uomini, fino alla soglia del Vero, del Bene, della Bel lezza, dai quali scaturisce l’ordine dell’intelligenza, della volontà, della libertà. Non è per natura rivale della scienza, la saggezza; l’unità dello spirito, pur nella distinzione dei gradi gerarchicamente ordinati della sua vita, può farsi garante dell’armonia, della attiva solidarietà, di tutte le forme di conoscenza, ciascuna delle quali costituisce un modo originale di spiegazione, non sostituibile con un altro; «uno stesso slancio, che si trasforma di grado in grado, ma

che rimane pur sempre lo slancio dello spirito in cerca dell’essere», scrive Maritain in Scienza e saggezza, confermando quanto abbiamo annotato citando I gradi del sapere, uno stesso slancio «attraversa queste zone di conoscenza eterogenee dalla più umile ricerca di laboratorio fino alla speculazione dei metafisici e dei teologi ed anche fino all’esperienza soprannaturale e alla saggezza di grazia dei mistici» (*). L’ordine delle scienze e delle saggezze, dunque, per Maritain deve leggersi non come una struttura, ma come un movimento di ascensione, che è il dinamismo stesso dello spirito in cerca dell’essere, assetato di una verità sempre più grande e più profonda da conoscere, culminante nell’orizzonte ultimo della visione della

Verità infinita, nella dimensione

escatologica della beatitudine

eterna.

Tale dinamismo ascensionale si rivela mirabilmente, nell’ordine delle saggezze, nella aspirazione di ciascuna di esse ad elevarsi a quella che le è superiore: «più la metafisica conosce l’essere, più vorrebbe vedere la causa dell’essere [...], più la teologia conosce Dio da lontano e più essa vorrebbe conoscerLo per esperienza. Più la saggezza mistica conosce Dio per esperienza e più essa aspira alla visione. E ogni volta è il grado superiore che dona all’anima ciò che il grado inferiore le fa desiderare» (5). Per Maritain, dunque, l’aspirazione alla saggezza è del tutto connaturale alla vita dello spirito umano. Il filosofo trova conferma di ciò nel fatto che la ricerca della saggezza può riscontrarsi in tutte le civiltà umane e nel suo saggio Scienza e saggezza evi-

denzia in quattro emblematiche civiltà del mondo antico — quella (4) J. Maritain, Scienza e saggezza, Borla, Torino 1964, p. 79. (5) Ivi, p. 72.

248

indiana, greca, ebraica e cristiana — la consapevolezza circa la disposizione gerarchica, richiesta dallo stesso movimento dello spirito, della scienza e della saggezza. La antichità pagana, annota Maritain, quella indiana e greca per esempio, ha compreso che la saggezza è «una perfezione intellettiva che impegna le più alte energie speculative dell’intelligenza» e che «la scienza, le scienze particolari» non possono «pretendere di prevalere sulla saggezza ed entrare in conflitto con essa. La antichità pagana ha sempre saputo che la saggezza è sommamente desiderabile, che è un sapere di libertà, un sapere che avvicina l’uomo a Dio» (9).

su

3. UNA

SAGGEZZA

CHE

SI DONA

Il desiderio umano di saggezza è già noto dunque alla antichità pagana, già i greci e gli indiani lo conoscono e ne cercano appagamento, ma esso trova una risposta nuova, assolutamente sconvolgente rispetto ad ogni altra nell’orizzonte dell’antichità, nella civiltà ebraica e in quella cristiana. Per la prima volta nella storia dell’umanità è il cuore di Israele a comprendere che la persona oltre ogni possibile scienza e più di ogni altra saggezza ha bisogno di una saggezza di salvezza e di santità, di liberazione e di vita eterna e che una tale saggezza non può essere conquistata con le sole forze della natura umana caduta. «Questa saggezza soprannaturale è [...] una saggezza che si dona, che discende dal principio degli esseri come un fiume di generosità [...] non è l’uomo che la conquista, ma è Dio che la dona, non procede da un movimento di ascensione dalla creatura, ma essenzialmente da un movimento di discesa dello Spirito creatore» (7).

A differenza di ogni altra saggezza umana, come a ragione sottolinea Maritain, la saggezza ebraico-cristiana si configura come un movimento di discesa dall'amore increato alle profondità della creatura. Nessuno sforzo soltanto umano potrebbe bastare per raggiungerla e conquistarla, è essa stessa a donarsi, scandalizzando i filosofi e aprendo all'uomo un orizzonte nuovo, più ampio, nel (9) Ivî, p. 56. (7) Ivi, pp. 64-65.

249

quale il suo cuore possa muoversi anche oltre la scienza, oltre la saggezza dei filosofi che già i pagani conoscevano, e anche oltre quella dei teologi, verso la libera fruizione della saggezza che Dio stesso dona. Dopo la rivelazione di un tale orizzonte, anche ogni altro grado della vita dello spirito riceve un respiro e una collocazione nuova. Annota Maritain:

«tra la saggezza che conosce

attraverso le

ragioni superiori e nel mattino delle cose divine, e la scienza, che conosce attraverso le ragioni inferiori e nel crepuscolo delle cose create, c'è un ordine di gerarchia, pro o contro il quale gli spiriti e le civiltà debbono scegliere: perché la scienza è buona e degna di apprezzamento, ma non al di sopra della saggezza» (*). Nell’universo cristiano, che ha scelto per l’ordine gerarchico che vede al suo vertice la saggezza di grazia donata all'uomo da Dio, il movimento di ascesa dell’uomo verso Dio è preparato, sostenuto, alimentato dal movimento di discesa di Dio, che è il

primo. E più l’uomo si apre al primo movimento di discesa di Dio in lui, più diventa efficace il suo slancio di ascesa verso Dio. «Attivizzata nelle sue profondità», infatti, «la creatura uscita dal

sonno diventa tutta vigilanza e attività: al termine attività per eccellenza, attività di amore e di contemplazione e di sovrabbondanza, ma anche e per arrivarvi, attività morale e ascetica, pratica e militante» (?). Tale attività di amore, di contemplazione e sovrabbondanza propria della saggezza mistica è certamente, nella concezione ma-

ritainiana della persona la vetta più alta che lo spirito possa raggiungere nella vita terrena. In essa, infatti, l’aspirazione al possesso della Verità infinita, che muove lo spirito di grado in grado, è appagata nella misura in cui ciò è possibile alla creatura ferita e risanata. Tale saggezza, esemplare attuazione della saggezza ebraico-cristiana, è dono di Dio, saggezza di amore e di unione, pas: saggio dell’anima nel regime dell’amore folle per Dio e dei doni del suo Spirito (19).

(8) Ivi, pp. 65-66. (9) Ivi, p. 68. (19) Cfr. anche J. Maritain, Il filosofo nella società, Morcelliana, Brescia 1976, p. 104.

250

4. VIGILANZA

E ATTIVITÀ

Le considerazioni fin qui elaborate a proposito di scienza e saggezza, hanno evidenziato un carattere tipico della civiltà occidentale, che ha avuto, in tutto il corso della sua storia, il senso puro

della verità speculativa, conservato attraverso la Incarnazione del Verbo di Dio, testimone di Verità e di Sapienza. Ma questo senso forte del desiderio di verità, per cui ogni anima è chiamata al trascendimento di ogni conoscenza verso il possesso della Verità infinita, nel suo vertice si fonde con l’amore e sovrabbonda nell’azione. La saggezza cristiana, che supera quella dei filosofi e dei teologi, non è più soltanto speculativa, ma anche pratica; il suo atto è una contemplazione che non si ferma in se stessa, ma è generosa e comunicativa di sé. L’unità non statica, ma dinamica e composita della vita dello spirito, trova significativa conferma nella solidarietà dell’ordine speculativo e pratico, dell’ordine della contemplazione e della azione. Di grado in grado lo spirito umano si eleva a saggezze, sempre più perfettamente speculative e ad un tempo sempre più generosamente pratiche. Dalla metafisica alla teologia, dalla teologia alla saggezza mistica, sempre più intensamente contemplando l’essere e il bene, la verità e la bellezza, fino a contemplare la Vita e l'Amore sussistenti, l’uomo penetra il significato della azione umana e il senso più pregnante della presenza nel mondo e nella storia. A questo proposito Maritain ha scritto mirabilmente: «la conoscenza speculativa [...] riguarda la generosità dello spirito rispondente alla generosità dell’essere e vivente della vita sopratemporale della verità: ed essa è per ciò stesso nella relazione più intima con l’esistenza di un essere che non vive di solo pane, e che ha essenzialmente bisogno di ciò che non serve; ed essa aiuta, dirige e rischiara gli impegni e le opzioni con cui egli semina il tempo della sua libertà» (!). Nel pragmatismo e nell’attivismo dell’Occidente Maritain con grande acutezza vede il cattivo uso provocato dallo spirito di separazione da Dio, di quella generosità, di quella propensione a dare e a comunicare, di quel senso della sovrabbondanza ontolo-

gica che proveniva originariamente all'uomo occidentale dall’amo(11) J. Maritain, Scienza e saggezza, cit., pp. 119-120.

254

re di carità e dalla contemplazione santa traboccante in azione. In tal senso indicando al nostro tempo la via della riconciliazione della scienza con la saggezza, la via del rispetto per il dinamismo naturale della vita dello spirito, il filosofo francese ci addita anche la via della azione autentica, quella che discende «dalla sovrabbondanza della attività interiore per la quale l’uomo si unisce alla verità e alla sorgente dell’essere» (!). Di tale attività interiore non potrà che risentirne beneficamente anche l’ordine morale e politico della vita umana.

Ce P.

292

%

Maritain, Questioni di coscienza, Vita e Pensiero, Milano

1980



LUCIA IEVOLELLA

Alle radici dell'esperienza morale: il mistero della condizione umana

1. LA LEGGE

MORALE:

SFIDA AL LIMITE DELL'UOMO

Ciò che rende vivo ed inquietante il messaggio maritainiano è la passione per l’uomo che lo anima, una passione radicata nella consapevolezza profonda di quello che l’uomo è e fortificata dall’intuizione delle possibilità cui la natura umana si schiude quando è agita dalla grazia divina. Questa prospettiva, che costituisce l’orizzonte ermeneutico fondamentale dell’elaborazione filosofica di Jacques Maritain, acquista un significato ancor più pressante in sede morale. Ecco come, con poche incisive parole, Maritain ci proietta nel cuore della questione morale: «ogni grande sistema morale [...] è in realtà uno sforzo per domandare all’uomo, in un modo o nell’altro, e a un grado o ad un altro, di superare in qualche maniera la sua condizione naturale» (1). La legge morale è, infatti, espressione della tensione insopprimibile, che muove l’uomo al superamento di sé e che, ponendo-

lo in conflitto con il suo limite ontologico, lo impegna nello sforzo sublime ma vano di vincere la sua natura. La brevità della formulazione e la chiarezza espositiva, di cui Maritain si avvale nell’enucleare i termini essenziali del problema morale, sono il segno inequivocabile della risonanza interiore profonda da cui scaturiscono le sue considerazioni sulla dimensione etica dell’uomo. Solo quando il travaglio esistenziale precede e feconda lo sforzo intellettuale, è possibile delineare, in modo così nitido e preciso, i contorni di una «avventura dell’anima», quale è quella dello sprofondarsi nel mistero della coscienza per cogliere gli aspetti sublimi e paradossali della sfida perenne, che l’uomo pone a se (1) J. Maritain, La filosofia morale, p. 527, Morcelliana, Brescia 1979.

253

stesso con l’esperienza morale. Un viaggio verso la verità, che Maritain compie scrutando le profondità del proprio «io» per ritrovarvi, insieme ai segni della sua unicità irripetibile, le tracce di una umanità comune a tutti i viventi. La sua storia personale si innesta, così, nella vicenda del genere umano e le risposte, che egli formula dinanzi agli interrogativi pressanti della sua coscienza, valicano i confini dell’esperienza individuale per acquistare una dimensione di universalità. Questo cammino di discesa alle radici dell’essere è prerogativa esclusiva di quegli spiriti, che possiedono la singolare abilità di interpretare il linguaggio del cuore umano e che si assumono il compito gravoso di tradurne, con la loro opera, le esigenze più intime e i moti più profondi. La parola scritta, che sugella queste intuizioni sulla verità dell’uomo, perde, allora, la sua vuota fissità per animarsi ancora una volta della vita che l’ha generata e offrirsi come stimolo fecondo alla nuova vita che l’accoglie. Per esplorare in modo così radicale i domini segreti della coscienza umana, è necessario essere dotati di una straordinaria libertà interiore e nutrire, al tempo stesso, una fede incrollabile nell’uomo, che si traduca nell’impegno costante di riconoscerlo e rispettarlo nella sua autenticità. 2. LA «METAFISICA DELLA CONDOTTA»: FONDAMENTO DELLA RIFLESSIONE MORALE

Maritain è consapevole che, per promuovere l’uomo, occorre mantenersi «fedeli alla sua verità» e pone, pertanto, a fondamento della sua riflessione morale una analisi preliminare sulla condizione umana. La speculazione filosofica abbandona, così, il piano della mera astrazione intellettuale per incontrarsi con l’esperienza viva e reale dell’uomo comune, per entrare nel senso della sua storia e della sua sofferenza ed esplicitare le ragioni profonde della naturale infelicità, che ogni individuo scopre nel proprio cuore pur senza fornirne una spiegazione critica e riflessa. L’indagine maritainiana trae la sua forza dalla necessità imprescindibile in cui ciascun uomo si trova di prendere una posizione nei confronti della sua condizione esistenziale, di compiere questa opzione fondamentale da cui la sua condotta morale sarà inevitabilmente improntata. 254

La chiave di volta di tutto l’edificio della moralità è data, quindi, dall’atteggiamento che ciascun individuo assume dinanzi agli aspetti paradossali e contraddittori della condizione umana. «Il fatto è, crediamo, che, alle spalle di tutte le nostre difficoltà x morali, vi è un problema fondamentale che si pone ineluttabilmente a ciascuno e che in pratica non è mai pienamente risolto salvo in coloro che sono entrati nelle vie della perfezione: il problema della relazione dell’uomo con la condizione umana, o del

suo atteggiamento davanti alla condizione umana» (?). Ogni grande sistema morale è, pertanto, espressione di una scelta fondamentale circa le possibilità molteplici e contrastanti offerte dalla natura umana e l’ideale che esso propone è una sfida esaltante in cui l’uomo sperimenta di non riuscite a sopprimere in sé quell’anelito di perfezione, che alle sue forze, tuttavia, non

è dato di realizzare. L’intuizione, che sostiene l’indagine maritainiana e ne determina l’originalità, è quella di una «metafisica della condotta», che precede e fonda ogni sistemazione morale e che riguarda «le opzioni più generali alle quali il nostro atteggiamento nella vita si trova legato» (5).

L’orizzonte etico è, quindi, delimitato da questa prospettiva metafisica, che mette radicalmente in causa la soggettività individuale, imponendole di confrontarsi con la sua condizione per decidere dell’ideale morale cui ispirare il proprio agire. 3. TENTAZIONE

DELLA

GRANDEZZA

E TENTAZIONE

DELLA

MISERIA

La condizione umana è «quella di uno spirito unito sostanzialmente alla carne e impegnato nell’universo della materia. È una condizione infelice. È di per sé così miserabile che l’uomo ha sempre sognato un’età dell’oro in cui esserne più o meno affrancato,

e che, sul piano della rivelazione, la religione cristiana insegna che l’umanità è stata creata, con la grazia di Adamo, in una con-

dizione superiore in cui si trovava libera dal peccato, dal dolore, dalla servitù e dalla morte, condizione

da cui è decaduto.

La

tradizione ebraico-cristiana insegna pure che dopo la fine della

(2) Ivî, p. 528. (3) Ivî, p. 527.

255

storia e in un mondo nuovo la condizione umana sarà soprannaturalmente trasfigurata» (*).

Quest'opera di trasfigurazione si compie, dunque, al di là della storia ma ha inizio già nella storia e chiede all'uomo un tempo di rinnovamento e di purificazione, che sia di preludio alla pienezza escatologica. L’analisi maritainiana della condizione umana evidenzia l’incapacità dell’uomo di mantenersi saldamente, con i suoi soli mezzi, nella prospettiva di un umanesimo integrale e dalla conseguente facilità con cui egli cade in posizioni riduttive ed estremistiche. L’uomo, infatti, è sempre stato soggetto alla tentazione di cedere ad un facile aut-aut, che lo indirizzasse o al «rifiuto» della sua condizione, in un utopistico progetto di esaltazione di sé, o all’«accettazione pura e semplice» del suo stato, nell’abbandono passivo alla miseria del peccato e del male morale. Maritain delinea lucidamente il significato di questi due possibili atteggiamenti, mostrando come essi siano sostanzialmente irrealizzabili e come si risolvano in un tragico scacco esistenziale. «Rifiutare —

nell’intimo

del cuore —

la condizione

umana,

vuol dire o sognare di uscire dai nostri limiti e voler godere di una libertà piena nella quale, con i suoi poteri, la nostra natura possa espandersi, oppure giocare allo spirito puro (quello che abbiamo chiamato una volta il peccato di «angelismo»), oppure maledire e tentare di misconoscere tutto ciò che fa ostacolo alla vita dell’intelletto, e vivere in uno stato di rivolta interiore contro il fatto di essere uomini, oppure sfuggire con una qualsiasi ebbrez-

za, magari nella follia della carne, questa situazione di una ragione dappertutto alle prese con la materia che è una sfida permanente alle domande dello spirito in noi» (°). È quella che potremmo definire «tentazione della grandezza»: essa nasce dalle tracce di una regalità primigenia ed è espressione del sovrumano che abita nell’uomo, facendone una creatura perennemente protesa al superamento di sé. «Accettare puramente e semplicemente (se fosse possibile) la condizione umana significa accettarla tutta intera, con la miseria del peccato e con la miseria della sofferenza [....]. Supponendo che potesse essere portata al suo termine, una tale specie di accetta(4) Ivi, p. 528. (5) Ivi, pp. 529-530.

256

zione della condizione umana farebbe vivere l’uomo sull’orlo dell’animalità» (9).

È questa la «tentazione della miseria»: essa scaturisce dall’impotenza che l’uomo avverte dinanzi al limite e dal senso della sproporzione tra le sue deboli forze e il compito sublime cui è chiamato. Egli preferisce, allora, rifugiarsi nell’oblio di sé e rinnegare la sua vocazione eroica, rimanendo prigioniero del tempo e delle sue vanità. Follia o depravazione, aspirazione alla libertà illimitata dello spirito puro o volontà orgiastica di perdersi nell’oblio dei sensi: ecco gli esiti della tragica fuga dell’uomo da se stesso. Da essi traspare, petò, l’inquietudine del cuore umano, che, privo della luce soprannaturale, rincorre senza tregua il miraggio di una felicità impossibile. 4. ACCOGLIENZA DEL MISTERO DELLA CONDIZIONE UMANA

E TRASCENDIMENTO

«Quello che è chiesto all’uomo non è né di accettare puramente e semplicemente, né di rifiutare la condizione umana; è di trascenderla. [...] Per il cristiano si tratta di trascendere la condizione umana, ma con la grazia di Dio [...] e consentendo nello stesso tempo a questa condizione, accettandola senza recalcitrare, sebbene non puramente e semplicemente; perché il cristiano l’accetta per quanto riguarda tutto ciò che è male di pena proprib della condizione umana, non per quanto riguarda l’errore morale o il peccato. Rottura con la condizione umana quanto al peccato, accettazione della condizione umana quanto alla contingenza radicale e quanto alla sofferenza, come pure quanto alle gioie che essa comporta: e tutto questo è chiesto dalla ragione, ma non è decisamente possibile che in virtù della configurazione per grazia a Colui che è la santità stessa perché è il Verbo incarnato» (7).

Dalle parole di Maritain traspare la bellezza del mistero dell’amore di Dio, che compie e perfeziona la natura umana e in cui l’uomo sente acquietarsi il tumulto delle sue passioni perché scopre di poter essere, con Dio, signore della propria miseria e saggio amministratore della propria grandezza.

(6) Ivi, pp. 531-532. (7) Ivi, p. 535.

257

Il non senso della sua condizione è risolto nella chiarezza della rivelazione divina, che gli indica la via di una autentica liberazione attraverso l’estirpazione del male morale e la promozione delle energie positive insite nella sua natura.

La novità della prospettiva cristiana consiste in questa singolare dialessi di accettazione e rifiuto, che nulla sacrifica della verità dell’uomo ma lo apre, anzi, al trascendimento della sua real-

tà esistenziale. Tutto questo si compie nell’incontro tra la sapienza divina, che illumina la ragione umana, e la libertà della creatura desiderosa di perfezionarsi nella accoglienza del mistero. Dio rivela, così, l’uomo a se stesso e risponde alle aspirazioni mai sopite della sua natura, offrendogli la grazia come strumento di elevazione spirituale. All’uomo è concesso andare oltre se stesso solo aggrappandosi a Dio: egli, allora, vedrà il suo povero nulla convertirsi in testimonianza vivente della potenza di Dio, assisterà all’infrangersi della schiavitù della legge e sperimenterà quella «purificazione del cuore», che è l’anelito profondo di ogni genuina esperienza

morale.

258

MARIA LUISA BUSCEMI dell'Istituto Regionale di Ricerca e Formazione «J. Maritain» di Palermo

Culturale

La bellezza, volto dell’essere

1. L'OPERA

D'ARTE:

REALTA

UMANA

E MONDO

DELLE COSE

Il centro intorno al quale tutta l’opera di Maritan ruota è l’uomo colto nell’inesauribilità dei suoi tesori e nella profondità del suo mistero. La consapevolezza di una realtà umana così complessa, segnata dalla sofferenza e dalla bellezza, inducono Maritain a indagare su di essa nella molteplicità dei suoi aspetti, dall'ambito metafisico a quello conoscitivo, morale, politico educativo, estetico. E su quest’ultimo porrò la mia attenzione cercando di rilevare alcuni degli aspetti che, a mio avviso, sono più significativi per una comprensione della concezione estetica di Maritain. L’opera d’arte secondo Maritain è il frutto dell’incontro di due realtà, quella umana e quella cosale; da una parte quindi abbiamo l’uomo con la sua personalità, la sua ricchezza di esperienze, emozioni, sentimenti; dall’altra il mondo delle cose con la sua bellezza e il suo orrore, la sua immediatezza e indecifrabilità ad un tempo, con la sua capacità di suscitare smarrimento

e venerazione.

L’artista si trova dinanzi a tutto questo,

deve saperne cogliere i segni, «deve saper vedere più profondamente degli altri e scoprire nel reale delle irradiazioni spirituali che gli altri non vi sanno discernere» (!). Egli deve saper svelare qualcosa, investire di un senso gli elementi, superare la percezione. E svelare una cosa significa illuminarla con la forma, trovarle un posto nel tutto, scoprendo la sua bellezza. Al tempo stesso lo sforzo di entrare nel cuore delle cose, di coglierne la forma per l’artista non sempre è un vedere con chiarezza, ma anzi è ciò che resta oscuro ai suoi occhi, a causa della materia nella quale questa forma è immersa. (1) Cfr. J. Maritain, Arte e scolastica, Morcelliana, Brescia, 1980, p. 57.

259

Il mistero dinanzi al quale l’artista si trova è motivo di ricerca, stimolo alla sua intuizione creativa, ricchezza per ogni sua opera che ogni volta sarà il frutto di una apertura nuova e unica della sua intelligenza al mistero dell’essere. L’opera d’arte è dun-

que, ad un tempo, il tentativo di afferrare le cose, cercando di coglierne il significato misterioso e più profondo e di rivelare la personalità dell’artista attraverso un processo emotivo e conoscitivo. L'emozione è infatti essenziale nella percezione della bellezza alla quale l’opera d’arte tende, ma unita alla conoscenza attraverso la quale l’artista conquista l’altro da sé, se ne appropria, l'oggetto entra a far parte intenzionalmente del soggetto. Il mondo delle cose dinanzi al quale l’artista si trova penetra in qualche modo dentro di lui, è un rapporto, per usare le parole di Maritain, di «intercomunicazione fra l’essenza interiore delle cose e l’essenza interiore della creatura umana» (?). 2. L'ARTISTA MEDIATORE

TRA SPIRITO E MATERIA

Nell’arte, comunque, il rapporto conoscitivo con l’oggetto non è volto alla conoscenza fine a se stessa, ma è finalizzato al-

l’azione, cioè alla realizzazione dell’opera. Siamo nell’ambito dell’intelletto pratico il cui intento è quello di «Formare intellettualmente ciò che sarà portato ad essere, giudicare i fini e i mezzi, e dirigere e perfino comandare i nostri poteri di esecuzione» (*). Tutto questo viene compiuto dall’intelletto pratico, il quale deve tener conto delle regole e dei principi che devono essere rispettati nell'esecuzione di un’opera d’arte. Ecco quindi che l’uomo, l’artefice viene a trovarsi in una posizione singolare, infatti per un verso egli deve sottostare a queste regole, mantenere la sua intelligenza entro certi limiti, per altro rimane comunque colui che lascia la sua impronta su ciò che fa. L’artista infatti è colui che prima di tutto ha un suo progetto, una sua idea che trova concretizzazione nell’opera che egli realizza. «L’arte, nel suo fondo, rimane, dunque, essenzialmente fabbricatrice e creatrice. Essa è la facoltà di produrre, non certo ex nihilo, ma da una materia pre-esistente, una nuova creatura, un (2) J. Maritain, Intuizione creativa nell'arte e nella poesia, Morcelliana, Brescia 1957, p. 3.

(3) Ivi, p. 49.

260

essere originale, capace a sua volta di commuovere un’anima umana. Questa nuova creatura è il frutto di un matrimonio spirituale che unisce l’attività dell’artista alla passività di una data materia. Da qui proviene nell’artista il sentimento della propria dignità particolare. È come un associato di Dio nel fare opere belle» (*).

La sua opera porta in sé quell’elemento formale che la fa essere ciò che è, e che è stato a lungo meditato e maturato dall’intelligenza e dallo spirito dell’artista e che deve essere calato in una materia, deve assumere dei contorni ben definiti. L’opera, dunque, porta in sé tutto il travaglio esistenziale del suo autore, il quale deve riuscire a ricondurre tutto ciò che afferra con la percezione dei sensi, tutto ciò che immediatamente lo impressiona, alle regioni più profonde della sua anima, lo deve filtrare con la sua creatività e trovare poi le condizioni materiali più adeguate per esprimere tutto questo, deve necessariamente rimanere legato ai suoni, ai colori, alle immagini e ad un tempo comunicare qualcosa che è al di là di tutto questo. «L’arte in quanto ordinata alla bellezza, non si arresta, almeno quando il suo oggetto lo permette, alle forme e ai colori, e nemmeno ai suoni, alle parole presi in se stessi e «come cose» (e dapprima devono essere presi in questo modo, è la condizione prima), ma li prende «anche» come tali da far conoscere qualcos’altro di diverso, ossia «come

segni». E la cosa significata può essere segno a sua volta, e più l'oggetto d’arte sarà carico di significato (ma di significato spontaneo e colto intuitivamente, non di significato geroglifico), più vasta e più ricca e più alta sarà la possibilità di gioia e di bellezza» (5). Bellezza che viene immediatamente colta dai nostri sensi, ma non solo in quanto attraverso essi si giunge a dilettare l’intelligenza che coglie al di là delle apparenze la verità di ogni cosa e che inquanto conosce, ama ciò che è bello inguanto è bello. L’intelligenza in questo momento non deve preoccuparsi di astrarre un intelligibile dalla materia nella quale è immerso ma deve solo dilettarsi della «chiarità dell’essere». E d’altronde un’opera può dirsi bella se riesce a far trapelare al di là degli elementi materiali una forma che ne consente la leggibilità. Maritain tiene inoltre a sottolineare come bellezza non (4) J. Maritain, Arte e scolastica, cit., p. 58.

(5) Ivi, p. 53.

261

significhi conformità a un certo tipo ideale e immutabile, bello non è necessariamente ciò che è perfetto «Poiché qualunque cosa perfetta sotto ogni punto di vista nel proprio genere...e totalmente terminata e senza alcuna mancanza, perciò non lascia nulla a desiderare e perciò manca di quella brama e «irritazione malinconica»...che è essenziale per la bellezza...nulla è più prezioso di una certa sacra debolezza e di quella specie di imperfezione attraverso la quale l’infinito ferisce il finito» (9).

L’opera d’arte si comunica all’uomo colto nella sua interezza attraverso i suoni, i ritmi, i colori, le parole, essa deve saper suscitare emozioni, passioni sviluppandole nell’ordine della bellezza, purificandole, e deve saper dilettare l’intelligenza in una armonia che difficilmente l’uomo riesce a sperimentare nella sua vita. L’artista a sua volta deve far scaturire la sua opera come un tutto unico e spontaneo superando il dualismo della sua intelligenza e sensibilità. Singolare la realtà dell’artista che pur rimanendo legato di necessità alla materia attinge con la sua intelligenza a qualcosa di sovrumano poiché mira con la sua opera a creare bellezza, a creare qualcosa che appartiene al regno dello spirito. «La bellezza appartiene

[...] all'ordine trascendentale e meta-

fisico. Per questo tende di per sé a portare l’anima al di là del creato» (7). La bellezza rimarrà sempre per l’artista una fonte alla quale attingere senza il rischio che possa esaurirsi, mai la sua opera potrà contenerla tutta, mai il percorso che l’artista dovrà compiere ogni volta potrà essere scontato, nuovo sarà l’entusiasmo nel ricominciare, continua la tensione del suo spirito nei confronti di ciò che continuamente lo trascende. «L’artista sta davanti ad un mare immenso e deserto, e lo specchio che egli al mare presenta non è più grande del suo cuore» (*). 3. BELLEZZA

E SAPIENZA

Tanto la bellezza a cui tende l’opera d’arte, quanto il vero a cui tende la sapienza sono realtà che l’uomo non potrà mai esaurire. L’artista e il filosofo nella loro ricerca del bello e del vero (9) J. Maritain, Intuizione creativa nell'arte e nella poesia, cit., p. 180. (7) J. Maritain, Arte e scolastica, cit., p. 32. (8) Ivi, p. 44.

262

partono dalla realtà sensibile, cercano di conoscerla, di coglierne il significato ultimo, ma l’uno attraverso questa conoscenza crea un’opera d’arte, l’altro elabora concetti. «L’astrazione che è morte per l’uno, è respiro per l’altro; l’immaginazione, il discontinuo, l’inverificabile in cui questo perisce, sono la vita per l’altro» (°). Entrambi sono animati dalla freschezza e dall’inquietudine del loro spirito che vuole andare sempre più al fondo delle cose, animati dalla gratuità che nasce dall'amore per ciò a cui tendono, animati da un atteggiamento contemplativo che li fa sostare in silenzio e fa scoprire loro il sapore e l’essenza delle cose. Al di là delle analogie e dei punti d’incontro che Maritain mette in rilievo tra questi due ambiti di interesse dell’uomo, egli tiene a sottolineare anche le differenze che li caratterizzano. Essenziale è infatti, che, l’arte si muove nell’ordine del fare ed è volta ad una produzione concreta, la metafisica invece si muove nell’ordine del sapere ed è volta al conoscere fine a se stesso. L’artista crea qualcosa per una sorta di incontenibile sovrabbondanza di emozioni, intuizioni, impressioni che nascono in lui in questo scambio conoscitivo tra il mondo delle cose e il suo spirito, l’opera da lui fatta diventa in qualche modo ciò attraverso cui egli scopre se stesso, la sua grandezza e la sua miseria, le suggestioni e gli invisibili legami che sono tra le cose risuonano in lui ed egli sente il bisogno di esprimersi e dire tutto questo nella sua opera. Il filosofo invece è colui che è sospinto nella sua indagine esclusivamente dall’amore per il conoscere, che ricerca i principi primi e fondanti la realtà, che aspira alla contemplazione dell’essere e diversamente dall’artista si svincola completamente dal sensibile dopo avere colto la forma che in esso è contenuta. Il filosofo deve saper cogliere le cose nella loro verità e per questo deve impegnarsi a custodire quella libertà che giorno dopo giorno conquista attraverso la verità, deve costituire un punto di riferimento per tutti gli uomini che hanno sete di conoscenza e amore per la verità. «Quand’anche l’artista racchiudesse nella sua opera tutta la luce del cielo e tutta la grazia del più bel giardino, non avrebbe la gioia perfetta, perché sta sulle traccie della sapienza e corre dietro all’odore dei suoi profumi, ma non la pos(9) J. Maritain, Distinguere per unire. I gradi del sapere, Brescia 1974-1981, p. 20.

Morcelliana,

263

siede. Quand’anche il filosofo conoscesse tutte le ragioni intelligibili e tutte le virtù dell’essere non avrebbe la gioia perfetta,

perché la sua sapienza è umana» (9).

(19) J. Maritain, Arte e scolastica, cit., p. 35.

264

MARIA TERESA PALAZZO dell’Istituto Regionale di Ricerca e Formazione «J. Maritain» di Palermo

Bene comune

Culturale

e carta democratica

1. CENTRALITA DEL BENE COMUNE DELLA CARTA DEMOCRATICA

E FUNZIONE

Tutte le concezioni politiche che si ispirano a filosofie di tipo relativistico, prescindendo dalla fede o almeno dalla ricerca di una verità oggettiva, finiscono con il costituire, volutamente o meno, una pericolosa base per sistemi politici dittatoriali. In tali concezioni,

infatti, unico strumento

di unificazione

politica,

non esistendo una verità oggettiva e quindi neanche un bene oggettivo, è l’unificazione delle volontà in una unica (volontà) su-

prema, sovrana appunto, priva di alcun limite esterno o interno: essa annienta il valore e l’importanza delle singole persone e della loro partecipazione al governo. Incentrare la vita politica su un bene comune oggettivo, come fa Maritain in linea con tutta la tradizione cristiana, significa, invece, unirsi sul piano pratico per la realizzazione di un progetto comune, mantenendo nel singolo il valore della propria soggettività e nel popolo l’esercizio del potere. A partire da queste considerazioni, mi è sembrato interessante accennare all’origine e al significato del bene comune per evidenziare, attraverso Maritain, l’importanza della cosiddetta carta democratica quale strumento di educazione alla democrazia e all’amicizia. Se la comunità degli uomini si fonda su un fine che essi perseguono (!), la carta democratica ha il compito di indicare i concetti pratici in cui le volontà si incontrano, presenziando sempre (1) Scrive Maritain:

«Quest'opera da compiere è la ragione obiettiva del-

l'associazione e del consenso (implicito o esplicito) alla vita comune. Ci si unisce per qualche cosa, per un oggetto, per un’opera comune da compiere» (I diritti dell’uomo e la legge naturale, Vita e Pensiero, Milano 1977, p. 36).

265

i princìpi cui l’umanità, nella crescita della sua coscienza morale, è giunta e che considera condizioni essenziali per il raggiungimento del bene comune e di una convivenza pacifica. Sulla base della fondamentale distinzione individuo-persona («sono tutto individuo in ragione di ciò che mi viene dalla materia, e tutto persona in ragione di ciò che mi viene dallo spirito») (2), Maritain osserva che la «persona richiede per se stessa

di vivere in società [...] in quanto persona (e) in virtù [...] di quella apertura alle comunicazioni della conoscenza e dell’amore [...] che esigono l’entrata in relazione con altre persone secondo la legge di sovrabbondanza che è iscritta nel più profondo dell’essere, della vita, dell’intelligenza. E in secondo luogo è in ragione dei suoi bisogni [...], secondo le indigenze che derivano dall’individualità materiale, che la persona umana richiede questa stessa vita in società» (5). L’uomo ha perciò bisogno della so-

cietà perché da essa riceve beni essenziali, e non solo di natura materiale: è anche l’aiuto (educazione, soccorso) di cui ha bisogno per poter realizzare le sue attitudini potenziando le capacità intellettuali e morali. Attraverso la partecipazione al progresso culturale e morale, infatti, l’uomo cresce come persona, che, in quanto tale, conosce, vuole, ama. 2. AMICIZIA

E PLURALITA

DELLE CONCEZIONI

Questa esigenza di una vita con gli altri si manifesta attraverso l’amicizia: essa non si fonda sull’ordine dell’intelletto ma su quello del cuore e dell'amore, non va a qualità o a idee ma a persone, indipendentemente dalle diverse convinzioni, giuste o sbagliate che siano. La ragione della buona convivenza non può trovarsi quindi nella identità dottrinale ma solo nell’amicizia, di cui è proprio l’amare le stesse cose e il condividere le medesime scelte. Tale amicizia nell’ordine temporale si esprime in un’azione comune, secondo princìpi comuni di cittadini non in quanto aventi le stesse convinzioni «ma in quanto [...] legati insieme da costumi, tradizioni, interessi, modi di sentire e di vedere [...], o in quanto

p.

È J. Maritain, La persona e il bene comune, Morcelliana, Brescia 1973, 26. (3) Ivi, p. 29.

266

aventi in comune un certo ideale storico concreto»

(*). Se l’amici-

zia è il rapporto che si instaura tra gli uomini nella comune vita nella città, occorre stabilire quale elemento sia giustificazione e garanzia dell’unità spirituale all’interno della vita politica. L’esigenza di scoprire ed esplicitare la ratio di questa anima comune si è mantenuta costante nonostante l’evolversi delle dottrine politiche e, più in generale, delle varie visioni del mondo. Superate le concezioni che vedevano il fondamento della comunità civile nella religione (come la visione sacrale del Medioevo) o nella pura ragione separata dalla religione - la prima per la consapevolez-

za del valore umano temporale della società politica e la seconda per l’incapacità dimostrata a garantire l’unità spirituale dell’umanità - appare necessario fondare l’unità sulla consapevolezza del valore della libertà e della partecipazione di ciascuno alla realizzazione del bene comune. Quello della società, dice Maritain, non è il bene individuale, né la collezione dei beni individuali, ma il

bene del corpo sociale, cioè la «bvona vita umana della moltitudine di persone» (5), la loro comunione nel vivere.

Scrive altrove il filosofo: «L'errore del liberalismo borghese è stato quello di concepire la società democratica come una specie di campo chiuso... in cui tutte le concezioni concernenti ie basi della vita comune, anche le più distruttive per la libertà e per la legge, incontrano l’indifferenza del corpo politico»: perciò «la democrazia borghese era neutra anche nei riguardi della libertà» (î), non aveva un vero bene comune, né un pensiero comune. Una democrazia autentica, invece, implica il consenso su-

gli scopi e sulle basi della vita comune: perciò, cosciente di sé e dei propri princìpi, «deve essere capace di difendere e promuovere la propria concezione della vita sociale e politica, attraverso la educazione alla libertà, facendo di essa libertà una fede comune: non fede in senso religioso, ma temporale: (in quanto) il motivo è umano, come umano è il suo oggetto» (7), i dati essenziali del vivere insieme: i princìpi pratici giustificati dalla ragione in-

(4) J. Maritain,

Per una politica più umana,

Morcelliana,

Brescia

1977,

p. 104.

(5) J. Maritain, I diritti dell’uomo e la legge naturale, cit., p. 9. (O) Maritain, L’uomo e lo Stato, Vita e Pensiero, Milano 1981, p. 131.

(YUIvi®pi132:

267

dipendentemente dalle concezioni filosofiche perché, osserva Maritain, frutto di semplici intuizioni naturali del cuore alla luce del progresso della coscienza morale. Ecco la funzione e l’importanza della carta democratica: fissare i princìpi pratici che la società ritiene indispensabili per la convivenza e la pace e gli scopi della società stessa; scopi che tutti i membri della società si impegnano a perseguire non come monadi isolate ma partecipando comunitariamente, indipendentemente dalle diversità di religioni o di concezioni del mondo: ne deriva una unità nelle conclusioni pratiche nel pluralismo, e quindi nella ricchezza, delle giustificazioni teoriche. 3. LA CARTA

DEMOCRATICA

a) Educazione al bene comune Esempio pratico estremamente rappresentativo ci è dato dalla Costituzione italiana, frutto delle diverse tendenze politiche dell’Italia del dopoguerra: ma il risultato è una carta democratica che, al servizio della persona, pone al primo posto fra i valori degni di tutela nella società proprio il diritto e la libertà della persona, sia come singolo che nelle formazioni sociali: quindi tutela l’uguaglianza, la necessità di una comunità internazionale, i diritti e gli obblighi della famiglia, il governo del popolo, dal popolo e per il popolo, i doveri dei cittadini verso la patria, la funzione dell’autorità e dell’obbligo di obbedire alla legge e alla Costituzione stessa. Essa infatti dà anche le indicazioni per la individuazione degli strumenti pratici di fondazione e riconoscimento dell’autorità civile: indica cioè quando la legge, emanata secondo determinate garanzie (quale l’approvazione della maggioranza del Parlamento), può, essendo giusta (nel caso specifico, essendo conforme ai valori espressi dalla Costituzione), obbligare in coscienza.

Le concezioni filosofiche o politiche che giustificano l’adesione a questi valori possono essere le più varie: perciò, se il corpo poli-

tico ha il diritto e il dovere di promuovere la fede comune — il diritto perché essa è frutto del consenso del popolo e la manifestazione della sua unità, e il dovere perché ha il compito educativo di promuovere il progresso della coscienza civile in tutti i cittadini —

non si può imporre un «conformismo di ragione». «L’impor-

tante per il corpo politico è che il senso democratico sia concretamente mantenuto vivo dall’adesione degli spiriti, che liberamente 268

giustificano tale adesione» (*). Strumento di difesa della carta democratica e dell’unificazione che essa esprime è l’educazione democratica (°), l'educazione alla libertà che deve essere svolta a partire dalla famiglia e, in funzione ausiliaria, dalla scuola e dallo stato, il cui dovere, principale rispetto agli altri, è proprio quello di alimentare l’adesione fondata sulla ragione alla carta democratica. Il dovere di insegnarla ha lo scopo di tutelare la fede comune secolare, solo in nome del consenso degli spiriti, cioè senza il diritto o il potere di imporre alcuna concezione teorica. Ma l’insegnamento della carta democratica separata dalle sue radici è pura illusione: è una fede e come una fede va testimoniata. Non si può ridurla, senza renderla astratta, a formule disincarnate dalla vita, prive del vigore dello spirito delle persone concrete. Così Maritain mette ancora una volta in guardia dal formalismo e dalla adesione meramente esteriore alla carta: occorre che l’adesione sia rivolta ai concreti valori in essa riconosciuti e che sia espressa nel rispetto effettivo e vivo, nella concretezza delle opere. Perciò «coloro che insegnano la carta democratica devono credervi

con tutto il loro cuore, impegnarvisi con le loro convinzioni personali, la loro coscienza, con la profondità della loro vita morale» (!), per poter risvegliare in chi riceve tale insegnamento un interesse profondo. A questo scopo, secondo Maritain è necessaria in democrazia quella che definisce la leva attiva, l’energia dinamica che mantiene il movimento politico: persone, cioè, che per libera iniziativa incarnano ciò che la costituzione

può solo staticamente

esprimere,

non

alla ricerca

del successo elettorale, ma votate alla promozione di grandi idee sociali e politiche. Tali persone, che Maritain chiama «profeti del popolo», contribuiscono a risvegliare il popolo, a mantenere il corpo politico realmente vivo; l’attività così liberamente esercitata dai cittadini costituisce, quale mezzo costruttivo, stru-

mento di difesa, migliore rispetto alla censura e ai mezzi di polizia, anche dai c.d. eretici politici, coloro che, opponendosi ai principi fondamentali della società (libertà, eguaglianza, diritti e digni-

(8) Ivi, p. 134. } (9) «I mezzi positivi e costruttivi sono incomparabilmente più efficaci che le pure restrizioni della libertà d’espressione» (Op. ult. cit., p. 141). (19) Ivi, p. 144ss.

269

tà della persona, impero morale della legge), minacciano l’unità della comunità. b) Istituzionalizzazione dell’autorità civile

La seconda funzione fondamentale della carta democratica è quella di istituzionalizzare l’autorità civile, nel senso di dare ad alcuni il potere e l’autorità di governare, di scegliere i mezzi di realizzazione del fine, del bene comune: il governo non è di un soggetto sovrano, non subordinato a controllo, ma dell’autorità. La carta è perciò strumento per la necessità di far derivare dal diritto del popolo di governarsi l’autorità dei governanti, e quindi riconoscere come principio pratico essenziale alla vita comune la libera obbedienza in coscienza per il bene comune ad un’autorità giusta. Essa, in virtù dell’affidamento del popolo, deve essere obbedita per diritto naturale, dato che lo stato di cultura in cui la natura umana può svilupparsi implica la relazione di autorità, funzione di comando e governo ordinata al bene comune. La volontà e il consenso del popolo, espressi nella carta democratica, danno fondamento e riconoscimento

di autorità a deter-

minate forme di governo e istituzioni: ad esse, secondo particolari accorgimenti di carattere formale, ma che esprimono precise garanzie di collegamento con la volontà popolare (la legalità della nomina, la regolarità del funzionamento) è assegnato il compito, che è diritto e dovere insieme, di scegliere gli strumenti più idonei per il raggiungimento del bene comune. Se emanata secondo le regole (formali e sostanziali di rispetto della legge naturale e dell’ordine dell’essere, o più particolarmente, dei valori espressi e tutelati nella Costituzione) la determinazione dell’autorità obbliga in coscienza (11). Il potere di decisione dell’investito di autorità indica che, pur essendo soggetti al controllo del popolo e pur dovendo compiere in comunione con esso il proprio dovere, i governanti sono una immagine viva del popolo, sono cioè dotati di un reale potere: devono prendere le loro decisioni secondo coscienza e secondo i principi dell’etica politica, anche rischiando lo sfavore popolare. In ciò si [S

(11) «La legge è opera della ragione di coloro che hanno in consegna il bene comune: ma questa ragione del legislatore deve dare una forma, esprimere in una “parola” espressa [...] quel che esiste nel pensiero comune in un modo incoativo e informulato» (Op. ult. cit., p. 1665s.).

270

mostra la loro funzione educativa: nel fondare sempre la propria azione non nelle passioni momentanee o negli interessi particolaristici dell’opinione pubblica, ma sul rispetto dei valori fondamen-

tali espressi nella costituzione, quale manifestazione della volontà di vivere insieme: il rispetto della persona e della sua libertà e la partecipazione responsabile alla funzione di governo e di controllo.

271

GABRIELE ZAMMITTI della Comunità Cristo Sapienza

Sovranità del popolo: spunti per una riflessione alla luce del pensiero di Maritain

1. IL PENSIERO

DI JACQUES

MARITAIN

Il problema della sovranità è certamente tra i più complessi del-

la filosofia politica. È stato però affrontato in maniera diretta da J. Maritain soltanto in L’uorzo e lo Stato.

È noto che in quest’opera l'Autore esclude decisamente che si possa parlare in senso proprio di sovranità, e in particolare di sovranità del popolo, muovendosi nell’ambito della filosofia politica; ambito in cui, per Maritain, è sorto ed è stato elaborato il concetto stesso di sovranità (1). Tale concetto, secondo il filosofo francese, comporta due assunti: 1) la sovranità è diritto alla suprema indipendenza e al potere supremo, diritto naturale ed inalienabile; 2) tale potere supremo è anche separato e trascendente (?).

Colui che è sovrano non solo non dipende da altri, ma è anche separato, non è parte di un tutto (altrimenti sarebbe ad esso sottomesso): la sovranità implica necessariamente, dunque, l’assolutezza

e la trascendenza. Questo secondo elemento è quello decisivo ai fini della esclusione della sovranità come attributo inerente ad un soggetto politico. Di conseguenza, non è sovrano lo Stato (che, del resto, non possiede neanche per diritto naturale il potere supremo), né lo è il corpo politico. In particolare, affermare che il popolo ha diritto all’autogoverno, il che è proprio della concezione democratica, non significa per ciò stesso affermare la sua sovranità, ma solo la sua «autonomia». La sovranità del popolo implicherebbe, neces(1) J. Maritain, L’uomo e lo Stato, «Il mio assunto è che la filosofia come del concetto di sovranità». (2) Ivi, p. 40: «Sovranità o non premo, separato e trascendente, non

272

Vita e Pensiero, Milano 1981, p. 35: politica debba liberarsi della parola,

significa nulla, o significa potere suin vetta ma al di sopra di essa».

sariamente, infatti, una separazione all’interno del popolo stesso, con la conseguenza che una parte di esso diventerebbe rappresentante del tutto, senza avere alcuna responsabilità nei confronti del resto. È questo che, in fin dei conti, è accaduto nella considerazione dello stato sovrano; lo Stato, che è un apparato, è stato entificato e personificato e perciò stesso separato dal popolo (così come lo era stato il sovrano all’epoca delle monarchie assolute). Poiché, dunque, il concetto di sovranità porta con sé necessariamente la sua origine storica e filosofica (*) non sarà in alcun modo possisibile, per Maritain, parlare di sovranità del popolo. 2. IL FILONE

GIURIDICO

DELLA

NOZIONE

DI SOVRANITÀ

Essendo tuttavia convinto che, soprattutto oggi, sia difficile rinunciare del tutto alla nozione di sovranità popolare e che la coscienza politica democratica mal si adatterebbe a farne a meno, mi sembra opportuno rivalutare un filone di pensiero sul quale Maritain non ha centrato la propria attenzione: si tratta del pensiero giuridico, risalente all’epoca medievale, che ha indubbiamente in-

fluito nella formazione del concetto di sovranità. I giuristi medievali, infatti, volendo difendere l’autonomia delle città comunali nei

confronti del potere dell’imperatore, parlavano di civitates superiorem non recognoscentes.

In tale espressione il pensiero giuridico ha riconosciuto i primi passi della teoria della sovranità. Certamente è un senso puramente negativo di intendere la stessa (come indipendenza relativa all’origine e all’esercizio del potere), tuttavia tale impostazione fornisce un modo accessibile di concepire la nozione di sovranità popolare. Si può, infatti, così, a mio avviso, continuare a parlare di sovra-

nità del popolo, intesa in senso strumentale, ritenendo che l’indipendenza nell’esercizio del potere sia l’elemento caratterizzante il concetto di sovranità ed eliminando tutte le deformazioni che giustamente Maritain ha condannato. La sovranità del popolo è, in quest'ottica, strumento per l’autogoverno e per l’autodeterminazione storica, strumento, quindi, per l’attuazione di un potere ben preciso; anzi, quasi si identifica con tale potere (si dirà, allora, che sovranità è potere di autodetermi(3) Maritain individua la nascita della teoria della sovranità nel pensiero cinquecentesco di Bodin.

273

nazione). Di conseguenza, come ogni potere, «non ha valore in sé

[...] poiché non esiste potere che abbia valore a priori. Esso riceve valore attraverso il soggetto che ne prende coscienza, che decide, che lo trasforma in azione... esso è sempre azione o permissione» (‘*). In questa prospettiva, allora, se non si può dire che il popolo è sovrano, si può dire, invece, che la sovranità appartiene al popolo {come qualcosa di cui esso si serve). 3. L'AUTORITÀ,

FONDAMENTO

DELLA

SOVRANITA

POPOLARE

Ciò ci porta a considerare che alla base della sovranità debba] essere necessariamente qualcosa che le dia fondamento (ogni strumento, in quanto tale, è strumento per un fine); questo qualcosa

è l’autorità che il popolo ha, per diritto naturale, di autogovernarsi. Osserva giustamente Maritain: «Autorità e potere sono due cose diverse. Il potere è la forza per mezzo della quale potete obbligare gli altri ad obbedirvi. L’autorità è il diritto di reggere e comandare, di essere ascoltato ed obbedito dagli altri. L'autorità esige potere. Il potere senza autorità è tirannia» (°). Intuiamo così un altro motivo per cui la sovranità del popolo non è assoluta: dato che il diritto e la libertà all’autogoverno e all’autodeterminazione non sono privi di vincoli morali interni (l’autorità del popolo non è assoluta), ne consegue che necessariamente deve adeguarsi a tali vincoli e limiti anche lo strumento per realizzare il diritto stesso. Il popolo, quindi, libero, nella propria sovranità, da condizionamenti esterni, non lo è altrettanto da «condizionamenti interni». Questo in due significati distinti: da una parte, nell’esplicare il suo

potere di autogoverno (che si fonda sull’autorità) il popolo deve conseguire il bene comune nel rispetto della legge morale della persona umana; dall’altra, l’esplicazione di tale potere è di per sé necessario, poiché il popolo per sua struttura non può fare a meno di trovare una forma di autogoverno attraverso la sua volontà sovrana (l’esercizio della sovranità è, quindi, necessario).

Sovranità ed autorità, quindi sono in quest’ottica due cose diverse, pur trovando esse un punto di incontro nel fare parte della essenza del popolo. È bene precisare, però, che mentre la sovra(4) R. Guardini, Il potere, Morcelliana, Brescia 1963, p. 14-15. (5) J. Maritain, L'uomo e lo Stato, cit., pp. 150-151.

274

nità popolare può, di fatto, mancare, l’autorità no: l’autorità è, infatti, il diritto di reggere e comandare e, in quanto diritto, è inerente e permanente; come tale il popolo non può spogliarsene. Il popolo può spogliarsi, invece, del suo potere, cioè dell’esercizio di fatto di tale autorità. Tuttavia nella democrazia ciò non avviene: il popolo continua ad esercitare il suo potere sovrano attraverso un’articolazione di organi che non soltanto sono controllati dalla volontà popolare, ma sono veicolo della stessa. Tale pensiero si esprime con il concetto di vicariato o di rappresentanza, per cui il potere è esercitato periodicamente da uomini nei quali l’autorità risiede per designazione del popolo: un’autorità così intesa è, allora, immagine del popolo e, come tale, responsabile di fronte ad esso; anzi, Maritain indica nel principio per cui l’autorità dei governanti debba derivare dal diritto che il popolo ha di autogovernarsi, una verità fondamentale della filosofia democratica: «Il potere è esercitato da uomini nei quali l’autorità, entro certi limiti, va periodicamente a risiedere per designazione del popolo, e la cui condotta è controllata dal popolo» (9). 4. SOVRANITA

DEL POPOLO

E DEMOCRAZIA

L’intendere la sovranità popolare come potere di legittimazione ci conduce ad una considerazione: non vi è vera sovranità popolare senza democrazia. «Il suffragio popolare è alla base della democrazia. È un mezzo elementare ma genuino di dare al popolo! una parte della vita collettiva» (7); «o il popolo è chiamato a dire la sua parola [...] o il potere non sarà mai legittimo» (°). Ciò significa che uno Stato autenticamente democratico deve dare spazio alle diverse famiglie spirituali che lo compongono, riconoscendo in se stesso un «germe» di pluralismo culturale e politico: per Maritain «la società civile non è composta solo di individui, ma di società particolari formate da questi; e una città pluralistica riconosce a tali società particolari una autonomia profonda il più possibile e diversifica le proprie strutture interne secondo le convenienze tipiche della loro natura» (?). (6) Ivi, p. 159. (7) L. Sturzo, «Democrazia, autorità e libertà», in Politica e morale. Coscienza e politica, Zanichelli, Bologna 1972, p. 327. (8) Ivi, p. 343ss. (9) J. Maritain, Umzanesimo integrale, Borla, Roma 1980, p. 199.

275

E proprio perché di fatto è impossibile che il popolo esprima la propria volontà in maniera unanime, assume importanza nella vita democratica di una nazione il principio di maggioranza. Questo non è soltanto un criterio formale dettato da necessità

pratiche, ma risponde ad un requisito sostanziale del popolo stesso: la sua generale capacità di raggiungere la verità. All’interno del Parlamento è un principio fondamentale: a che servirebbe discutere se non si fosse convinti che l’opinione della maggioranza ha maggiore possibilità di essere vicina alla verità? Tuttavia, essendo quello di maggioranza un criterio anche formale (che può, cioè, essere sostanzialmente una fictio), non può

essere disconosciuto il diritto della minoranza al rispetto delle proprie opinioni (ammettendo, per esempio, la possibilità della disobbedienza civile).

In conclusione, ritengo sia possibile, sotto un certo aspetto, recuperare il concetto di sovranità popolare, anche condividendo le critiche ad esso mosse da Maritain. Bisognerà spogliare tale concetto di ogni carattere finalistico, ponendolo nell’ambito delimitato della nozione di potere e collegandolo, in senso strumentale, alla nozione di autorità, recuperando così preziose indicazioni del pensiero giuridico medievale.

276

GAETANO ARMAO $ presidente del Movimento per la vita di Palermo

Dalila teoria del bene comune alla tutela del diritto alla vita

1. MARITAIN

E LA TUTELA

DEL DIRITTO ALLA VITA

Uno dei motivi principali che mi ha spinto a rispondere positivamente alla attiva partecipazione a questo convegno, è l’aver letto qualche mese fa l’interpretazione che J. Maritain fa del motto di Péguy: «La rivoluzione sociale sarà morale o non sarà». Egli così la spiega: «Le rivoluzioni sono l’opera di un gruppo relativamente poco numeroso,

che vi consacra tutte le sue forze:

a questi

uomini si rivolge la frase di Péguy. Significa: voi non potete trasformare il regime sociale del mondo che provocando nello stesso tempo, ed anzitutto in voi stessi, un rinnovamento della vita spirituale e della vita morale, scavando sino ai fondamenti spirituali e morali della vita umana, rinnovando le idee morali che presiedono alla vita del gruppo sociale come tale, e svegliando, nella profondità

di questo uno slancio nuovo» (!). Da questa riflessione, nel suo significato così profondo, vengono per tutti noi delle vere indicazioni operative di impegno sociale e morale. In questa frase c’è, a mio parere, una prospettiva di cambiamento che passa dall'impegno di un gruppo di persone che cambiando se stesse si esprimono in uno slancio nuovo per l’umanità, uno slancio che comporta una risposta a tutti i disvalori, e le barbarie che la nostra civiltà occidentale oggi ci propone. Tra questi drammi si pone, oggi, il problema della legalizzazione dell’aborto, o in maniera più esatta, della costante attenuazione della tutela del diritto alla vita, ed in questa ottica si pongono le

proposte di legge per una legalizzazione dell’eutanasia. Lo sforzo che ho cercato di fare in questo piccolo intervento, si

: (4) J. Maritain, Umanesimo

integrale, Borla, Roma, p. 159.

20%

è orientato nel senso di vedere come Maritain si sarebbe posto di fronte a queste terribili contraddizioni della nostra società; ciò mi è stato molto facile visto l’acume che caratterizzò l’opera del filosofo francese, che intuì gli ambiti di «evoluzione» (sarebbe meglio dire «sviluppo», poiché questo può consistere spesso in una involuzione, definizione che si adatta perfettamente alle tematiche di cui sopra) della società moderna, mettendone in risalto la pro-

gressiva scristianizzazione. Questa è una delle idee di fondo del pensiero maritainiano: bisogna conoscere la società per potersi con

essa intelligentemente confrontare, per non rischiare di cadere nei preconcetti o in analisi anacronistiche e povere di significato. Maritain guarda, quindi, con profonda preoccupazione questo progressivo secolarizzarsi della società, ponendo l’accento sull’aspetto più drammatico; lo smarrimento di quei valori sui quali si costruisce il vivere comune;

«la città dell’uomo».

Da ciò la causa della intensa crisi del dialogo tra le culture, dovuta perciò principalmente alla progressiva svalutazione di quei «ponti» tra le culture che sono i diritti dell’uomo, che sono stati, come la storia ci insegna, le basi sulle quali si costruisce e si è costruita la società civile e la convivenza democratica di cui oggi siamo i gratuiti fruitori. 2. PER UNA FILOSOFIA DEI DIRITTI DELLA

PERSONA

Per capire veramente le basi antropologiche che portano alla legittimazione sociale, morale e giuridica delle anzidette rilevanti attenuazioni, o meglio violazioni (poiché un diritto fondamentale non può essere così notevolmente attenuato senza essere violato)

della tutela del diritto alla vita, bisogna prima confrontarle con le concezioni di società, persona, bene comune elaborate da J. Maritain nelle loro fondamentali asserzioni filosofiche ed antropologiche; in breve, è necessario accorgersi, attraverso la disamina dei concetti base della sua filosofia, cosa ha da dirci il filosofo francese sul «perché» della tutela del diritto alla vita di ogni essere umano. Per J. Maritain, al fine di elaborare una vera filosofia dei diritti della persona bisogna fare immancabilmente riferimento all’idea di «legge naturale», vista come la formula ideale di sviluppo di un dato essere, o, per dirla con le sue parole: «un ordine o una dispo-

sizione che la ragione umana può scoprire e secondo la quale la

278

volontà umana deve agire per essere in accordo con i fini necessari dell’essere umano» (?). Per cui, attraverso il riconoscimento e l’interpretazione di questa, passa l’idea del «bene comune» che: «non è né la semplice collezione dei beni individuali, né il bene proprio di un tutto che frutti soltanto per sé e sacrifichi a sé le parti» (*). Bene comune che sta a fondamento del concetto stesso di società vista come: «un tutto in cui le parti ciascuna sono un tutto, un organismo( fatto di libertà non di semplici cellule vegetative» (‘). Un tutto quindi in cui la persona è intesa integralmente come: «tutto, un tutto aperto e generoso» (*). Da ciò deriva il concetto-sintesi

di «società personalistica»: «Un tutto di persone la cui dignità è anteriore alla società, e che per indigenti che possono essere contengono nel loro essere stesso una radice d’indipendenza e aspirano a passar a gradi sempre più elevati d’indipendenza fino alla perfetta libertà che nessuna società è in grado di dare» (9). Ecco, quindi, saltare fuori l’idea chiave circa l’inscindibilità della correlazione tra diritti dell’uomo e uomo in quanto partecipe della comunità sociale; asserisce infatti Maritain: «La persona umana ha dei diritti per il fatto stesso che è persona e che per conseguenza non è soltanto un mezzo, ma un fine, un fine che deve essere trattato come tale» (°). Persona come tale dotata di una dignità: «La dignità della persona umana, questa espressione non vuol dire nulla se non significa che, per legge naturale, la persona umana ha il diritto di essere rispettata, è soggetto di diritti e possiede dei diritti: vi sono cose che sono dovute all’uomo per il fatto stesso che è uomo» (5). È chiaro, quindi, desumere da questa serie di concetti così correlati tra loro, che nei confronti della persona umana non si può parlare di concessione da parte dello Stato di tali diritti di carattere naturale che perciò trovano il loro fondamento anteriormente alla costituzione della comunità statale, che non può fare altro, così come la nostra Costituzione democratica,

che riconoscerli. (2) J. Maritain, I diritti dell'uomo Milano, p. 56.

(3) (4) (5) (6) (7) (8)

Ivi, p. Ivi, p. Ivi, p. Ivi, p. Ivi, p. Ibidem.

e la legge naturale, Vita e Pensiero,

9. 65. 60. 19. 60.

219

3. LEGGE NATURALE

E VIOLAZIONE

DEI DIRITTI DELL'UOMO

In questo terzo momento voglio rapportare il pensiero antropologico di Maritain con le esigenze, sorrette da basi antropologiche, che hanno portato la società italiana a legittimare moralmente, prima che giuridicamente, la violazione continuata del diritto alla vita. In questo piccolo apporto vorrei andare oltre gli approfonditi studi fatti circa la radicale differenziazione tra la weltanschauung di Umanesimo integrale ed in generale di tutta la tradizione filosofica cristiana, e le altre «visioni-del-mondo» di ispirazione liberale (Hobbes) o marxista, che per i loro fondamenti antropologici legittimano vari tipi di violazioni del diritto alla vita (?). Cercherò quindi di trovare in Maritain un altro angolo di osservazione che ci porti a ribadire il diritto alla vita come inalienabile ed intangibile. Per questo mi sono servito di due concetti centrali della filosofia maritainiana: a) la correlazione necessaria ai diritti

dell’uomo-legge naturale, b) l’idea di dovere. Oggi una delle fondamentali basi sulle quali si imposta la legittimazione delle violazioni del diritto alla vita ed in particolare dell’aborto è l’asserzione della contrapposizione di due diritti egualmente tutelabili da parte dell’ordinamento giuridico: da una parte il diritto del concepito a nascere, dall’altro quello della donna che lo ha nel grembo ad auto-determinarsi (vedi art. 6, L. 22 maggio

1978, n. 194: «L’interruzione volontaria della gravidanza dopo .i primi novanta giorni può essere praticata [...] e quando siano

accertati processi patologici tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie e malformazioni del nascituro, o determinanti un grave pericolo per la salute fisica o psichica della madre». Più in generale vedi principi ispiratori di tutta la normativa). Ma vi può essere conflitto tra due diritti fondamentali? Secondo Maritain, una vera filosofia dei diritti dell’uomo non può non fondarsi sulla legge naturale, poiché gli stessi diritti trovano in essa il fondamento, non essendo costituiti, ma soltanto riconosciuti dallo Stato. È possibile allora, secondo la concezione maritainiana dei diritti della persona, che vi sia una contrapposizione così netta tra due

(?) Su questi studi fatti da illustri studiosi, vedi, per tutti, G. Savagnone, L’eclisse della persona, Centro di formazione cristiana, Palermo, 1977.

280

diritti che appaiono entrambi fondamentali? Ma tale tipo di dialettica non è pienamente rapportabile alla nostra situazione sociale e politica di perenne conflittualità? Se vogliamo guardare questa situazione alla luce dell’appotto filosofico ed antropologico del filosofo francese, ci accorgiamo che, essendo il fondamento dei diritti della persona nella legge naturale, questa, secondo la definizione datane, non può creare conflitti tra diritti che apparentemente ad essa entrambi si ispirino. Ciò vuol dire che uno dei due è un falso diritto fondamentale, o meglio è un diritto tangibile in quanto non riposa il proprio fondamento sulla legge naturale, ma su una legge dello Stato, e come tale variabile nelle forme e nei contenuti in seguito ad opzioni di carattere politico e morale, che invece non possono mai condizio-

nare un diritto fondamentale in maniera rilevante senza violarlo. Questo diritto non-fondamentale è per me ravvisabile nel momento in cui viene contrapposto al primo dei diritti fondamentali dell’uomo, che è il diritto alla vita in tutte le manifestazioni in cui esso si esplichi. È purtroppo doloroso ravvisare tutto ciò nella quasi totalità delle legislazioni dei paesi evoluti che dimostrano in questo una crescita meramente economica e tecnologica a cui

non se ne accompagna una morale e culturale. Ecco che allora la prevalenza di qualsiasi diritto su uno fondamentale trova la propria tutela non nel bene comune, ma in un bene di parte che assurge a bene generale imposto in quanto proprio di una «categoria» più forte di un’altra, il criterio orientatore diventa la prevaricazione (nel caso dell’aborto prevalgono i più forti sul concepito estremamente indifeso). Tutto ciò trova la propria base nelle «filosofie del conflitto» che asservono il giusto e l’ingiusto all’interesse dei forti di turno; è questo, a mio avviso, un principio estendibile a tutta la realtà socio-politica di cui siamo partecipi: viviamo in una società «bloccata» dal conflitto di diritti, o meglio di pretese, dal cui contemperamento escono tante scelte che non sono altro che la sommatoria di interessi, come tali, quindi, ben lontani dal rappresentare il bene comune. Il conflitto è allora soltanto apparente; per superarlo è necessario scoprire quanto di ogni diritto trova il suo fondamento nella legge naturale, ed in ragione di questa corrispondenza coagularlo con le altre esigenze umane che, se anch’esse ispirantesi alla legge naturale, non potranno mai entrare in contrasto con questo; dove

281

c'è conflitto vi è artificio nelle asserzioni e nelle pretese ispirate a criteri e logiche di parte. Questo sforzo ermeneutico deve essere legge per la vita di ogni uomo, ed in generale per la vita di ogni ordinamento giuridico che voglia veramente essere a servizio dell’uomo che ritiene fine e non mezzo; proprio questo aveva intuito la civiltà latina definendo il diritto come iusti et iniusti scientia, e la giustizia come Unicuique suum tribuere, e dove può trovare fondamento il «suo» di ciascuno se non nella legge naturale e conseguentemente nel bene comune? Questo studio non può ritenersi completo senza l’analisi del secondo concetto sopra enucleato, ossia l’idea di dovere che è profondamente correlata al concetto di legge naturale, per cui ogni uomo «deve» comportarsi secondo la legge naturale, ma per ben capire questo concetto bisogna approfondire lo studio dell’idea di dovere per Maritain ed in generale di tutta la filosofia cristiana che il filosofo francese ha pienamente recuperato. Per questi, il dovere non viene inteso in termini esasperatamente coercitivi, come tanta filosofia di matrice protestante ha cercato di rendere, ma è visto come una opzione positiva, come già Rosmi-

ni nella sua Filosofia del diritto: «La persona è la potenza di affermare tutto l’essere quale e quanto viene da lui appreso intellettivamente». Deriva da ciò il carattere profondamente ed intimamente positivo dell’idea di dover-essere, di deontologico, in netta contrapposizione all’idea negativa di ostacolo alle libere esigenze del vivere umano. Esso è in verità un moto che indirizza la persona al raggiungimento della pienezza dell’essere uomo (Cotta). Il dovere in quanto intima adesione ad una prospettiva di essere che cresce nella sua umanità non può essere che guida e senso al rispetto dell’uomo, all’adesione profonda alla legge naturale. 4. CONCLUSIONE

Questo intervento non ha voluto far altro che cercare la tutela

del diritto alla vita come logica conseguenza dei presupposti antropologici in Maritain; analisi, come sarà facile intuire, complementare a quella comparativa delle weltanschauung, entrambe tese all'affermazione del fondamento dei diritti dell’uomo nella legge naturale, in un concetto perciò di carattere prestatuale. Ma, concludiamo con lo stesso pensiero di Maritain: «proprio 282

come ogni legge, specie la legge naturale su cui sono fondati, mira al bene comune, così i diritti umani hanno una relazione intrinseca col bene comune. Alcuni, poi, come il diritto alla esistenza o al perseguimento della felicità, sono di natura tale che il bene comune sarebbe compromesso se il corpo politico dovesse restringere in qualche modo il possesso che gli uomini ne hanno» (!) Da ciò deriva la inalienabilità dei diritti dell’uomo, ma soltanto di quelli che trovano nella legge naturale il loro fondamento. Sta proprio a noi iniziare quel processo di rinnovamento di cui parlavamo in apertura, consci che le proposte che fa Maritain comportano una grande opera di riconversione morale e culturale, a cominciare da quello scandalo per i nostri occhi, ma ancor più per i nostri cuori, che sono tutte le violazioni del diritto alla vita: tutto ciò richiede un grande coraggio che passa e prende coscienza nelle parole che Maritain riprende da san Paolo: «Noi non ab: biamo ricevuto per missione di far trionfare la verità, ma di combattere per essa» (1).

(19) J. Maritain, L'uomo e lo Stato, Vita e Pensiero, Milano 1981, p. 156. (11) J. Maritain, Il primato dello ‘spirituale, Logos, Roma, 123.

283

ANNA MARIA SAITTA dell'Istituto Regionale di Ricerca e Formazione «J. Maritain» di Palermo

Culturale

Il mistero della Chiesa in Jacques Maritain

1. LA PERSONA

DELLA CHIESA

Maritain parla della Chiesa come di una persona, e percorre quindi felicemente le vie tortuose e difficili ma splendide, non solo per la mente ma anche per il cuore dell’uomo, della filosofia. Egli dice che ogni cosa nel mondo ha una natura (essenza) ed una esistenza. «La natura di una cosa - come il filosofo afferma - è ciò che questa cosa è, 0 ciò mediante cui essa sta di fronte a noi con queste o quelle proprietà, mentre che la sua esistenza è per essa il fatto stesso di stare di fronte a noi o di essere posta fuori dal nulla. Per poter esercitare quest’atto (meraviglioso, a pensarci bene) che consiste nell’esistere, bisogna quindi che la mia natura (completa nella sua linea di natura o di essenzialità: che cosa sono? - «un uomo», e «quel dato uomo individuale») sia quella di un soggetto idoneo a vivere ciò che è nel mondo dell’esistere e dell’agire («esisto» oggi, «agisco» oggi). [...] Questo sigillo impresso sulla natura, e che la mette in stato di esercitare l’esistenza come suo atto prima, è ciò che chiamiamo la “subsistenza”» (1). Quando Paolo ci parla del corpo di Cristo, del oWua xpuotod, cioè quando egli usa il suo concetto caratteristico per indicare la Chiesa, afferma che essa è Cristo nel suo corpo. Come, secondo Pao-

lo, il corpo di un uomo è l’uomo nel suo corpo, il corpo quindi è l’uomo sotto un certo aspetto e non solo una parte di esso (Rm 1,24), così è anche del rapporto di Cristo con il suo corpo. Nel corpo di Cristo, la Chiesa, è presente Cristo stesso in una maniera particolare. (1) J. Maritain, De L’Eglise du Christ, Paris 1970, tr. it. di M. Mazzolani, La Chiesa del Cristo, Morcelliana, Brescia 1977, p. 23.

284

Quindi, la hiesa in quanto suo corpo non può essere separata da lui, ma nemmeno può identificarsi in senso pieno con lui. A motivo di ciò possiamo dire con Maritain, che «[...] San Paolo, dunque, ci insegna che questa grande moltitudine di uomini sparsa in tutta la terra e attraverso tutti i secoli, ha una personalità nel senso proprio del termine. Egli ci insegna, che la Chiesa è una persona [...]» (?). Anche per questo, san Tommaso ha potuto dire: «La preghiera domenicale è proferita dalla persona comune della chiesa. E se qualcuno che non vuole perdonare chi l’ha offeso recita la preghiera domenicale, non mente, benché ciò che dice non sia vero riguardo alla sua propria persona: perché ciò è vero riguardo alla persona della chiesa». «Questa personalità della Chiesa - annota il filosofo - noi la affermiamo implicitamente ogni volta che dichiariamo: Credo la Chiesa, la Chiesa una e santa, cattolica (in altri termini: universale) e apostolica» (5).

L’indagine fatta da Robinson sull’Antico Testamento lo ha portato a coniare il concetto di «personalità corporativa». Egli afferma che «un intero gruppo, compresi i suoi membri morti, viventi e futuri, può agire come un unico individuo, e precisamente attraverso ognuno dei suoi membri che sia chiamato a rappresentarlo» (*). Quindi la comunità, che è ben più di una semplice somma accidentale di singoli individui, può essere trattata come una «corporazione» 0 «corpo», che si presenta ed agisce come

un «grande Io». Vengono in luce, conseguentemente, due cose: in primo luogo, il fatto che un singolo individuo sta realmente al posto della comunità, che cioè, nella sua attività, egli si identifica con la comunità; in secondo luogo, il fatto che nonostante questo carattere corporativo, egli rimane una vera persona individua. Tutto ciò si realizza nel popolo di Dio. Particolare rilievo acquista questo fatto nell’«io» dei salmi, che abbraccia contemporaneamente tutto Israele ed il singolo Israelita; solo dal contesto si può stabilire chi dei due predomini nel pensiero e nel linguaggio del salmista. Ma si può aggiungere ancora che il re, soprattutto nei momenti

(2) Ivi, p. 25. (3) Ivi, p. 25.

(4) Cfr. Mysterium salutis, 7, p. 100.

285

salienti della vita, come ad esempio nel culto, agisce in nome del popolo. Il popolo intero è in lui ed egli è il popolo. Il re esprime le idee ed i sentimenti della società, ed agisce in modo che l’intera società agisca in lui. Il Figlio dell’uomo che, secondo il libro di Daniele (Dr 7) viene dal cielo e che, in quanto figura rappresentativa dei «santi dell’Altissimo», è in sè la personificazione di una entità collettiva, poi nell’apocalittica successiva all’Antico Testamento diviene una figura individuale concreta. «Nessuna comunità - asserisce il filosofo - d’ordine semplicemente naturale può essere una persona e al tempo stesso una moltitudine di esseri umani» (°).

E quale nazione oggi si concretizza in membri uniti fra loro non solo per la stessa discendenza e per la stessa sorte, ma anche per la comunione alla vita del connazionale, nella giustizia e nell’amore. «Ma per la Chiesa, - ritiene Maritain - è del tutto diverso. La Chiesa ha una doppia subsistenza; una subsistenza naturale come ogni comunità umana, quella delle persone umane suoi membri: se tutti i cristiani fossero sterminati non vi sarebbe più Chiesa quaggiù [...]. Essa ha una subsistenza soprannaturale, che presuppone ma trascende la subsistenza naturale delle persone individuali che sono suoi membri» ($). Inoltre, solo nel popolo di Dio si può effettuare una vera comunione, perché gli elementi sono uniti fra loro proprio nella comunione di un centro divino. Se qualcuno fa a meno di questo centro e dice di fare comunione, certamente non può essere nel giusto (7). A noi sembra opportuno, adesso, far seguire alcune nostre considerazioni. La Chiesa in quanto popolo di Dio in Cristo rappresenta la continuazione del popolo di Dio che è Israele. Essa inizia laddove ha inizio il popolo di Dio dell'Antico Testamento. Ma essa, in quanto tale continuazione, ne costituisce (5) JT.M., La Chiesa del Cristo, cit., p. 26. (6) Ibidem. (7) Il termine Xadg è quello usato dai traduttori greci dell'Antico Testamento per indicare Israele, che in quanto popolo di Jahve, si distingue dai popoli e dalle nazioni (in greco dvn). Nella Bibbia ebraica ad esso corrisponde 472, termine per indicare Israele. Am: esprime l’idea di legame tribale o gentilizio, invece 472, preso individualmente, è il parente per parte di padre, quindi porta in sé, in ambedue i casi, il concetto di comunione, di vita e di destino.

286

insieme il compimento. Cosicché possiamo dire, così come dice S. Pietro, che un tempo essa era «non popolo» cra invece è «popolo di Dio», un tempo era gente che non otteneva misericordia; ora invece l’ha ottenuta. È il popolo di Dio con il quale Dio stipulerà il nuovo patto (Ger. 31, 31). Patto o alleanza che Cristo ha sigillato nel suo sangue e che continua a sigillare nel convito del Signore (1 Cor II,

25). I membri della Chiesa non hanno alcuna terra santa in questo mondo, la loro terra santa è in cielo. Quaggiù sulla terra essi sono, come indica la I lettera di Pietro, tapertinuor, che soggiornano per breve tempo in paese stra-

niero. Nella TòAL5 terrena essi formano al massimo una colonia. La loro riserva nei confronti della terra non scaturisce da odio verso di essa, ma dal fatto che essi non si aspettano salvezza dal mondo ma da colui in cui credono, cioè Gesù Cristo. I membri della Chiesa, anzi, con la parola e le azioni devono predicare agli altri uomini la potenza divina della misericordia, che essi hanno sperimentato in se stessi e quindi da questo punto di vista sono legati indissolubilmente al mondo. In tale prospettiva, citiamo da Maritain: «Nella sua missione di trasmetterci le verità rivelate da Dio - la Chiesa - insegnandoci la dottrina della fede e dei costumi, di santificare gli uomini per mezzo dei sacramenti, e di perseguire anch'essa l’opera del Cristo soffrendo con lui fino alla fine del mondo, essa non può errare di venire meno» (*). In Matteo 28,20 si legge: «Ed ecco io sono con voi fino alla fine del mondo». Riprendiamo, per un momento, l’attrezzatura filosofica, seguendo le orme del nostro filosofo. Se consideriamo l’essenza «[...] la Chiesa ha un’anima, la grazia del Cristo, - e una vita -, la carità -, che sono una partecipazione soprannaturale della vita divina, e un corpo, il grande e complesso organismo visibile [...]» (°). Quindi, «da Colui che è la testa, il Cristo, il corpo intero riceve proporzionata consistenza e coesione per mezzo di varie arti-

colazioni che lo nutrono e lo muovono secondo la funzione di ciascuna parte, operando così la sua crescita e costruendo se stesso della carità. (Epb 4,15-16). “Considerata sul piano del(3) Ivi, p. 33. (9) Ivi, p. 27.

287

l’esistenzialità, la Chiesa, nel suo corpo e nella sua anima, che co-

stituiscono insieme un vivente solo ed indissolubile [...], proprio in quanto una e universale, ha una subsistenza ed una personalità soprannaturali» (!°). Ciò avviene perché Dio vede in questa moltitudine sparsa su tutta la terra ed attraverso i secoli, come vede nella moltitudine dei beati, l’immagine del Cristo. San Paolo dice che se uno è del Cristo, è una creatura nuova. «Il primo uomo, tratto dalla terra è terrestre, il secondo uomo viene dal cielo. [...] Così come abbiamo rivestito l’immagine del terrestre, dobbiamo rivestire l’immagine del celeste» (1 Cor. 15, 47-49); «Coloro che infatti egli preconobbe, li ha pure predestinati ad essere conformi all’immagine del suo Figlio» (Rw 8, 29). Ma come può l’uomo diventare, si chiede Maritain, «creatura nuova», «immagine del celeste», se non nella Chiesa, corpo

e sposa del Cristo? La sposa, infatti, porta l’immagine dello sposo, o addirittura è essa stessa questa immagine

(!).

L’essere individuo della Chiesa è simile all’essere individuo di ogni uomo. In altri termini, ogni uomo ha ricevuto come dono da Dio la subsistenza che fa sì che egli possa essere persona così come la Chiesa, solo ed esclusivamente per il fatto che in essa è presente Cristo, gode del privilegio di essere persona, sebbene sia una moltitudine di esseri umani. Possiamo, allora, sostenere, insieme al Filosofo, l'affermazione di Clerissac, secondo cui nella Chiesa si riflette «l’Essere divino, il più universale e il più personale di tutti gli esseri» (!). Il nostro ci illustra ulteriormente ciò, scrivendo: «Questo è il caso davanti al quale ci troviamo con tutti i misteri della fede: un Dio perfettamente uno nella sua natura in tre Persone differenti, una Persona divina incarnata che ha due nature, quella divina e quella umana, in modo che, in quanto umana, subìsce una passione atroce e muore sulla croce, un pane che mangiamo e che è in realtà il corpo del Cristo glorioso [...]» (!).

(19) Ibidem.

(11) Ivi, p. 28. (12) Ivi, p. 29. (13) Ibidem.

288

2. LA CHIESA: PERSONA VISIBILE-INVISIBILE

A questo punto, Maritain solleva un problema che a noi pare opportuno riproporre e che scaturisce dalla formula, la quale non è altro che il riassunto in lingua corrente di una dichiarazione del Concilio di Firenze (1438-1445), «Fuori della Chiesa non c’è salvezza» (1). Questa formula si è prestata a due interpretazioni, forse perché non molto esplicita. La prima, cheè stata dominante pet parecchio tempo, si attua in questi termini: «Non c’è salvezza per coloro che non appartengono visibilmente alla Chiesa visibile». La seconda, invece, dice così: «Non c’è salvezza per coloro che alla Chiesa visibile non appartengono visibilmente o invisibilmente». Senza dubbio il primo senso dato alla formula non può che essere errato, mentre il secondo rende molto efficacemente l’im-

magine della Chiesa ed è quello di cui il Filosofo si fa sostenitore. Egli asserisce che «ogni uomo, per il fatto stesso che l’anima umana è spirito, si interessa alle materie religiose e su queste ha le sue idee [...]» (5).

Quindi dà, volta per volta, le sue risposte ai quesiti che gli si pongono e si crea un proprio habitat spirituale. Un uomo può essere dotato di un’essere morale e di una volontà di bene così eccelsi, pur professando una religione non cristiana o addirittura l’ateismo, che deve far riflettere sul campo che Dio a sé riserva. Egli, così come il Nostro annota, «pur ignorando o misconoscendo nella sua mente il Cristo e la sua divinità, ha in sé la fede, senza saperlo, in fondo al cuore, e allo stato sopra-cosciente e sopra-concettuale [...]» (!°). Questi termini stan-

no ad indicare, per Maritain, quella sfera psicologica dell’anima dove essa conosce intuitivamente cose, che sa di non conoscere, e che perciò non può esplicitare né in concetti né in parole. Da queste argomentazioni viene conseguente ed opportuna l’asserzione: che «[...] non siamo obbligati ad ammettere che, affin-

ché un uomo professante l’ateismo possa salvarsi, è necessario che un Angelo venga ad istruirlo» (‘”).

La grazia del Cristo e l’anima della Chiesa sono la stessissima (14) (15) (16) (17)

Ivi, Ivi, Ivi, Ivi,

p. 103. p. 113. p. 113. p. 114.

289

cosa, per cui se un uomo è vivificato dalla prima è, a buon diritto, membro della Chiesa anche se appartiene ad una famiglia spirituale diversa o se addirittura non ne ha alcuna. La grazia di Cristo è libera così come la misericordia divina, contrariamente a quello che avviene per la nostra anima che è prigioniera del corpo che abita. Il Filosofo ci introduce nell’atmosfera di questo affascinante mistero con chiarezza e lucidità ammirevoli, scrivendo: «[...]

l’anima della Chiesa, pur essendo la «forma» del corpo della Chiesa, è anche in tutti coloro che appartengono alle altre famiglie spirituali ai quali, benché non siano visibilmente parte di questo corpo, il Cristo ha conferito la sua grazia: ciascuna di queste grazie individuali essendo di per sé una delle costituenti dell’anima della Chiesa» (18).

Ne consegue che un peccatore battezzato che mantiene la fede, «fede morta poiché è ora senza la carità», (!°) è sempre membro della Chiesa. Fra l’altro, la fede e tutto ciò che esiste attorno a lui

lo aiutano a recuperare la grazia: i fratelli, infatti, pregano per lui e basta solo che egli si confessi per ricominciare una nuova vita; «[...] l’anima della Chiesa c’è ancora, ma in modo del tutto

tendenziale e virtuale (o piuttosto iniziale, in ragione della fede rimasta in lui)» (2°). D'altro canto, il corpo della Chiesa, così come dice San Paolo, è il complesso delle strutture, delle articolazioni, delle giunture

e del capo terreno, che nel non-cristiano, o nel cristiano non cattolico, avente la grazia, non esiste. Ma la grazia che lo vivifica è quella che possiede per nascita, perché gli viene trasmessa nell’anima, e che è una delle costituenti di quel pleroma, pienezza di tutte le grazie individuali, che è l’anima della chiesa. La grazia da lui posseduta non è completa, sebbene possa essere di grado elevatissimo, perché non è partecipe di tutte le ricchezze in rapporto alla Chiesa, cioè dei sacramenti; del culto, della proclamazione della regalità del Cristo. Egli è, annota ulteriormente Maritain, «[...] anche se invisibilmente, membro della Chiesa e della comunione dei santi, vive veramente del-

la sua vita di grazia e di carità, è assunto dalla sua personalità, LS

(18) Ivi, p. 115.

(19) Ibidem. (20) Ivi, p. 116.

290

per mezzo di ciò partecipa alla sua missione co-redentrice, e può essere molto più alto, quanto alla santità di molti suoi membri visibili» (2).

Quindi, se il primo senso dato alla formula risulta non soddisfacente, la seconda interpretazione è palesemente idonea. Il motivo per cui non vi è salvezza se non nell’appartenenza visibile o invisibile alla chiesa, sta nel fatto che la nostra salvezza è Cristo e che la chiesa è la pienezza del Cristo, il suo Corpo, la sua sposa. 3. L'ECUMENISMO

ALL'INSEGNA

DELLA

VERITA

E DELL'UNITÀ

Il Concilio Vaticano II° ha parlato della Chiesa come dell’«universale sacramento della salvezza» (Lumen gentium, VII, 48)

ed ha additato ai cattolici la via dell’ecumenismo. Ma la parola «ecumenismo» non deve essere intesa nel senso di pessimo universalismo o qualunquismo dove, alla stregua di una specie di consiglio di amministrazione, i cemponenti dell’assemblea ecumenica raggiungono un compromesso che è il risultato di interessi diversi. In altri termini, l’obiettivo dell’unità fa

ecclissare ciò che è strettamente pertinente alla verità. L’unità, così, risulterebbe dalla somma dei diversi patrimoni culturali relativi ad ogni religione cristiana. «Il tutto-esplicita il nostro filosofo - già esiste, nella Chiesa una, santa, cattolica e apo-

stolica. La Chiesa, di cui il successore di Pietro è il capo quaggiù, ha ricevuto missione di proporre agli uomini l’intera verità della rivelazione compiuta dal Cristo e della dottrina della fede» (”). Cioè, l’ecumenismo santo deve consistere in un universalismo autentico, nel quale vivono in simbiosi i due grandissimi valori della fedeltà alla verità e dell'amore all’unità, preliminari per una vera comunione e fra i cristiani tutti e fra gli uomini nella loro totalità. «Ogni cattolico è e deve essere cosciente di questo [...] non si tratta per lui di chiedere a un luterano o a un quacchero d’abbandonare le verità di fede alle quali sono attaccati. [...]

La cosa che fa dispiacere al cattolico è che il luterano o il quacchero disconoscono altre verità di fede» (#). È necessario che tra

questi uomini diversi, in fatto di religione, esista una vera ami-

(21) Ivi, p. 118. (22) Ivi, p. 123. (23) Ibidem.

291

cizia, che sarebbe erroneo pensarla fondata sull’identità di personalità. L’amicizia più profonda può nascere, senza alcun’ombra di dubbio, fra uomini che su principi o fatti vitali hanno idee diverse, comportando certamente una nota di sofferenza da cui scaturisce la preghiera per il caro amico diverso, che non pregiudica né la stima né l’amore nei suoi confronti, anzi provoca un desiderio sempre più ardente di conoscerlo e comprenderlo meglio. «È strano constatare come oggi si usi abbondantemente il termine: dialogo ecumenico, [...] ma non si sente quasi mai parlare dell’amicizia ecumenica [...]» (#). Per quanto degni possano essere convegni, tavole rotonde ed incontri ben strutturati ed organizzati, in virtù del fatto che il prendere cibo insieme è un’occasione naturalissima dell’amicizia umana, Maritain ritiene che è molto più proficuo che cattolici e cristiani-non cattolici si potessero riunire a mensa per mangiare, bere, fumare, e discutere degli argomenti più disparati, costituendo rapporti fraterni e di impensabile fiducia reciproca (”). L'obiettivo di questo argomentare è la conoscenza, la comprensione e l’amore più autentici, che sottointendono ad uno scambio di doni che non teme confronti, il quale non si concretizza in un guazzabuglio, ma in una sintesi personale di tutto quanto viene proposto dal diverso. Sant'Agostino giustamente affermava che le eresie sono come spine che ci scuotono dal nostro torpore. Il cardinale Journet, amico di Maritain, diceva che insieme a queste spine si possono trovare anche delle rose (26). Un cattolico rileverà senz’altro con gioia quella venerazione,

caratteristica della spiritualità russa, verso l’uomo che soffre, senz’altro di gran lunga maggiore, nei confronti di colui che soffre ingiustamente. Egli si appassionerà pure all’esperienza tragica della salvezza che si riscontra in Lutero, secondo il quale l’uomo misero, avendo davanti un Dio nemico, si aggrappa disperatamente alla fede. Per quest’ultimo caso si tratterà di individuare quelle verità da ristabilire per l’integrità dell’asserzione. Il Concilio così afferma: «Tra gli elementi o beni, dal comples(24) Ivi, p. 124. (2) Cfr. ivi, p. 124. (26) Cfr., Ivî, p. 125.

292

so dei quali la stessa Chiesa è edificata e vivificata, alcuni, anzi parecchi e segnalati, possono trovarsi fuori dei confini visibili della Chiesa cattolica, come la Parola di Dio scritta, la vita della grazia, la fede, la speranza e la carità, e altri doni interiori dello Spirito Santo ed elementi visibili» (?°). «Quelli poi che ora nascono e sono istruiti nella fede di Cristo in tali Comunità, non possono essere accusati di peccato di separazione, e la Chiesa cattolica li abbraccia con fraterno rispetto e amore» (*). 4. CONCLUSIONE

Ribadire i valori che Maritain ha voluto dare agli uomini suoi contemporanei, avrebbe pochissimo o nessun senso, se questi doni fossero esclusivamente relativi al suo tempo e al suo spazio. Ma la valenza del filosofo non soffre queste ghettizzazioni e restrizioni perché ha superato l’arco della sua vita e si ripropone con un’efficacia ed un vigore tali da temere solo sporadici confronti. Meditando un po’ sul suo pensiero, impellenti e direi quasi rabbiose sorgono alcune domande: a) se la Chiesa è questo tipo di «persona», come può l’uomo e teologo, e filosofo, e leader politico, ed operaio, ed impiegato, ed artigiano, mai misurare completamente o almeno possedere un’idea molto vicina alla realtà dell’intensità e dell'amore di Dio? b) Conseguentemente, come può mai l’uomo affermare di aver fatto tutto con amore e bontà, e perciò dire di stare in pace con la sua coscienza, davanti ad un Dio così buono? c) Come mai l’uomo può stare in silenzio ed inoperoso davanti ad una simile meraviglia?

(2?) Decreto

sull’ecumenismo,

cap. 1, 3, in J. Maritain, La Chiesa del

Cristo cittp:127;

(28) Ibidem.

293

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CERTE:

Bibliografia generale degli scritti di J. Maritain a cura di Piero Viotto

In questa nota bibliografica vengono riportati, divisi per sezione, in ordine cronologico, tutti gli scritti di J. Maritain, ad eccezione delle lettere, delle interviste, degli interventi nei dibattiti, che per la loro brevità ed occasionalità, non sono necessari per la comprensione della formazione e dello sviluppo del pensiero maritainiano. Per una documentazione più analitica, e comprensiva anche dei testi brevi, bisogna fare riferimento alle note bibliografiche dei singoli volumi delle Oewvres complètes (Editions Universitaires-Editions Saint-Paul, Fribourg-Paris), di cui sono usciti nel 1983 il IV volume (1929-1932) e il V volume (1932-35) e dei singoli volumi delle Oeuvres choisies (Desclée de Brouwer, Paris) di cui sono disponibili il I volume (1919-1939) e il II volume (1940-1963) editi rispettivamente nel 1975 e nel 1978. La nota bibliografica in appendice alla edizione italiana di J.H. Griffin e Y.R. Simon Orzaggio a Maritain (Editrice Massimo, Milano 1981) riporta gli indici analitici, capitolo per capitolo, di tutte le opere di Maritain. Le numerazioni delle traduzioni italiane corrispondono ai numeri delle edizioni originali.

TITOLI

ORIGINALI I. Volumi

1 La philosophie bergsonienne: études critiques, Marcel Rivière, Paris 1914, pp. 477; II edizione, Téqui, Paris 1930, pp. XIX-383, riveduta e ampliata, con una nuova prefazione ed un’appendice Gloses sur Aristote; III edizione, Téqui, Paris 1948, come la precedente, con l’aggiunta di un postscriptum. 2 Art et scholastique, Librairie à l’Art Catholique, Paris 1920, pp. 188; II edizione, Librairie è l’Art Catholique, Paris 1927, pp. 352, con l’aggiunta di Frontières de la poésie; III edizione, Louis Rouart et Fils, Paris 1935, con diverse aggiunte rispetto alla precedente, ma senza Frontières de la poésie; IV edizione, Desclée de Brouwer, Paris 1965, pp. 278, come la precedente, ma con diversa impaginazione. 3 Éléments de philosophie: I. Introduction générale è la philosophie, Pierre Téqui, Paris 1921, pp. 228. 4 Théonas, ou les entretiens d’un sage et de deux philosophes sur diverses matières inégalement actuelles, Nouvelle Librairie Nationale, Paris 1921, pp. 220; II edizione, Nouvelle Librairie Nationale, Paris 1925, pp. 220, riveduta e corretta; III edizione, Desclée de Brouwer, Paris 1932, pp. 220, come la precedente. 5 Antimoderne, Éditions de la Revue des Jeunes, Paris 1922, pp. 247; II edizione, Desclée de Brouwer, Paris 1922, PP; 266. Riveduta ed ampliata con un capitolo aggiuntivo: Comnnaissance de l’Étre.

6 De la vie d’oraison, edizione fuori commercio e a tiratura limitata, pubblicata a Saint-Maurice d’Agaune 1922, opera scritta in collaborazione con

295

Raissa Maritain; II edizione, Librairie è l'Art Catholique, Paris 1925, pp. 102, riveduta ed ampliata con alcune note aggiuntive, includenti l’articolo ; ì Sur l’appel è la vie mystique et è la contemplation. 7 Éléments de philosophie; II. L’ordre des concepts 1° Petite logique, VESTA Pierre Téqui, Paris 1923, pp. XI-355. 8 Réflexions sur l’intelligence et sur sa vie propre, Nouvelle Librairie Nationale, Paris 1924, pp. 380; II edizione, Desclée de Brouwer, Paris 1926, pp. 388, come la precedente; III edizione, Desclée de Brouwer, Paris 1930, È ì pp. 378, con qualche correzione. 9 Trois réformateurs: Luther, Descartes, Rousseau, Librairie Plon, Paris 1925, pp. 284; II edizione, Librairie Plon, Paris 1937, pp. 322, riveduta ed ampliata. : 10 Réponse à Jean Cocteau, Librairie Stock, Paris 1926, pp. 71; II edizione, Librairie Stock, Paris 1964, pp. 147, comprendente anche la Lettre à Maritain di Cocteau. 11 Une opinion sur Charles Maurras et le devoir des catboliques, Librairie Plon, Paris 1926, pp. 75. 12 Primauté du spirituel, Librairie Plon, Paris 1927, pp. 315.

13 Quelques pages sur Léon Bloy, AÀ l’Artisan . 49.

du Livre, Paris

1927,

ar. Le docteur angélique, Desclée de Brouwer, Paris 1930, pp. 284; il terzo capitolo era già stato pubblicato con il titolo Saint Thomas d’Aguin, Apòtre des temps modernes, Éditions de la Revue des Jeunes, Paris 1923, pp. 47. 15 Religion et culture, Desclée de Brouwer, Paris 1930, pp. 115; II edizione, Desclée de Brouwer, Paris 1946, con una prefazione, pp. 115; III edizione nella collezione tascabile Foî vivante, Paris 1968, pp. 188, con l’aggiunta di Religion et culture II, tratto da Du régime temporel et de la liberté, vedi n. 19. 16 Le songe de Descartes, Éditions Corréa, Paris 1932, pp. XII-344; II edizione, Buchet-Chastel, Paris 1965, pp. 346, come la precedente. 17 Distinguer pour unir, ou les degrés du savoir, Desclée de Brouwer, Paris 1932, pp. XVII-919; II edizione, Desclée de Brouwer, Paris 1935, pp. 922, con postscriptum; III edizione, Desclée de Brouwer, Paris 1939, pp. 925, con un nuovo postscriptum; si può considerare definitiva la VII edizione, Desclée de Brouwer, Paris 1963, pp. 1000, riveduta e corretta, comprendente nove appendici. 18 De la pbilosophie chrétienne, Desclée de Brouwer, Paris 1933, pp. 166. Lant régime temporel et de la liberté, Desclée de Brouwer, Paris 1933,

pp.

284.

20 Sept lecons sur l’étre et les premières principes de la raison speculative, Pierre Téqui, Paris 1934, pp. 166. 21 Frontières de la poésie, Louis Rouart et Fils, Paris 1935, pp. 226. 22 La philosophie de la nature, essai chritique sur ses frontières et son objet, Pierre Téqui, Paris 1935, pp. 146. 23 Lettre sur l’indépendance, Desclée de Brouwer, Paris 1935, pp. 66. 24 Science et sagesse, suivi d’éclaircissements sur la philosophie morale, cage Paris 1935, pp. 393. 25 Humanisme intégral: problèmes temporels et spirituels d'une nouvelle chrétienté, Fernand Aubier, Paris 1936, pp. 334. La prima versione di questa opera è apparsa in lingua spagnola, Signo, Madrid 1935. ,26 Situation de la poésie, Desclée de Brouwer, Paris 1938, pp. 166; sono di Jacques Maritain i capitoli III e IV. ‘ 27 Questions de conscience: essais et allocutions, Desclée de Brouwer,

296

Paris 1938, pp. 279. 28 Le crépuscule de la civilisation, Éditions Les Nouvelles Lettres, Paris TIZI PPMWSIE 29 Quatre essais sur l’esprit dans sa condition charnelle, Desclée de Brouwer, Paris 1939, pp. 266; II edizione, Alsatia, Paris 1956, pp. 266, con l’aggiunta di due appendici e una nota: Signe et symzbole, La philosophie et l’unité des sciences, Intuition et conceptualisation. 30 De la justice politique: notes sur la présente guerre, Librairie Plon, Paris 1940, pp. XIII-114; II edizione, Paul Hartmann, Paris 1945, pp. XIII114, come la precedente. 31 A travers le désastre, Éditions de la Maison Frangaise, New York 1941, pp. 149; edizione clandestina pubblicata in Francia dai fratelli Ribaud a Gap; II edizione, Éditions de Minuit, Paris 1942, pp. 42; III edizione, Éditions des Deux-Rives, Paris 1946, pp. 137. 32 La pensée de Saint Paul, Éditions de la Maison Frangaise, New York 1941, pp. 252. 33 Les droits de l’homme et la loi naturelle, Éditions de la Maison Frangaise, New York 1942; pp. 142; II edizione, Paul Hartmann, Paris 1945, pp. 116. 34 Christianisme et démocratie, Éditions de la Maison Frangaise, New York 1943, pp. 92; edizione clandestina pubblicata in opuscolo in Francia nel 1942; II edizione, Paul Hartmann, Paris 1945, pp. 92. 35 Education at the crossroads, Yale University Press, New Haven 1943, pp. X-120; II edizione, L’éducation è la croisée des chemins, Egloff, Paris 1947, pp. 239, con l’aggiunta di un’appendice: Le problème de l’école publique en France. 36 De Bergson è Thomas d’Aquin: essais de méthaphysique et de morale, Éditions de la Maison Frangaise, New York 1944, pp. 269; II edizione, Paul Hartmann, Patis 1947, pp. 333. 37 Principes d’une politique bumaniste, Éditions de la Maison Frangaise, New York 1944, pp. 232; II edizione, Paul Hartmann, Paris 1944, pp. 206. 38 A travers la victoire, Paul Hartmann, Paris 1945, pp. 57. 39 Messages 1941-1945, Editions de la Maison Frangaise, New York 1945, pp. 221; II edizione, Paul Hartmann, Paris 1945, pp. 200. 40 Pour la justice, articles et discours 1940-1945, Éditions de la Maison Frangaise, New York 1945, pp. 367. 41 Court traité de l’existence et de l’existant, Paul Hartmann, Paris 1947, pp. 239. 42 La personne et le bien commun, Desclée de Brouwer, Paris 1947, pp. 93. 43 Raîison et raisons: essais détachés, Egloff, Paris 1947, pp. 358; l’edizione in lingua inglese The Range of Reason, Charles Scribner’s Sons, New York 1952, pp. 227, comprende testi diversi tra cui due non più ripresi in altre opere dall’autore, On Kyowledge Through Connaturality e Christian Humanism. 44 La signification de l’athéisme contemporain, Desclée de Brouwer, Paris 1949, pp. 42. 45 Man and the State, The Univetsity of Chicago Press, Chicago 1951, pp. X-219. 46 Neuf lecons sur les notions premières de la philosophie morale, Pierre Téqui, Paris 1951, pp. IV-195. 47 Approches de Dieu, Alsatia, Paris 1953, pp. 136. 48 Creative Intuition in Art and Poetry, Pantheon Books, New Yotk 1953. 49 George Rouault, Harry N. Abrams, New York 1954, pp. 74.

50 On the philosophy of History, Charles Scribner's Sons, New York

294

1957, pp. XI-180. S1 Reflections on America, Charles Scribner’s Sons, New York 1958, . 205. PPs; Liturgie et contemplation, Desclée de Brouwer, Paris 1959, pp. 98, scritto in collaborazione con Raissa Maritain. 53 Pour une philosophie de l’éducation, Arthème Fayard, Paris 1959, pp. 249; II edizione, Arthème Fayard, Paris 1969, pp. 269, con diverse variazioni ed aggiunte che modificano la precedente edizione. 54 Le philosophe dans la cité, Alsatia, Paris 1960, pp. 205. 55 The Responsability of the Artist, Charles Scribner’s Sons, New York 1960, pp. 120. 56 La philosophie morale: I. Examen historique et critique des grands systèmes, Gallimard, Paris 1960, pp. 588. 57 La contemplation sur les chemins: notes sur le “Pater”, Desclée de Brouwer, Paris 1962, pp. 106; riflessioni di Raissa sul Padre nostro ricostruite ed integrate da Jacques Maritain. 58 Dieu et la permission du mal, Desclée de Brouwer, Paris 1963, pp. 82. 59 Journal de Raissa publié par Jacques Maritain, Desclée de Brouwer, Paris 1963, pp. 384; raccolta di testi autobiografici di Raissa con una

avvertenza di Jacques Maritain ed una lettera di Olivier Lacombe. 60 Carnet de notes, Desclée de Brouwer, Paris 1965, pp. 430, raccolta di brevi testi autobiografici scritti tra il 1906 e il 1938 e di alcuni scritti più ampi: Amour et amitié, À propos de l’Eglise du Ciel, riportati in seguito in Approches sans entraves, vedi n. 65. 61 Le mystère d’Israél et autres essais, Desclée de Brouwer, Paris 1965,

raccolta di testi sul problema ebraico scritti dal 1926 al 1961, con un postscriptum del 1964. 62 Le paysan de la Garonne, Desclée de Brouwer, Paris 1966, pp. 410. 63 De la gréce et de l’humanité de Jésus, Desclée de Brouwer, Paris 1967, pp. 156. 64 De l’Eglise du Christ. La personne de l’Eglise et son personnel, Desclée de Brouwer, Paris 1970, pp. 310. 65 Approches sans entraves, Arthème Fayard, Paris 1973, pp. 598. II. Articoli e collaborazioni

1 Le néo-vitalisme en Allemagne sophie, Paris, ottobre

et le darwinisme, in Revue de Philo-

1910, pp. 417-441.

2 L'ésprit de la philosophie moderne. I. Les préparations de la réforme cartésienne. II. Descartes et la Théologie, in Revue de Philosophie, giugno 1914, pp. 601-625. 3 L'ésprit de la philosophie moderne. III. L’indépendance de l’ésprit, in Revue de Philosophie, luglio 1914, pp. 53-82. 4 Le réle de l’Allemagne dans la philosophie moderne, in La Croix, Paris, 1914-1915 (serie di articoli). 5 Sur l’unique facteur de grandeur francaise: l’ésprit, in Les Lettres, Paris, dicembre 1919, pp. 19-21. 6 Notes sur saint Thomas et la theorie de l’art, in Revue des Jeunes, Paris, 10 marzo 1920, pp. 584-594. 7 L'état actuel de la philosophie allemande, in La Revue Universelle, Paris, 15 marzo 1921, pp. 705-720. 8 Si de la question juive, in La Vie Spirituelle, Paris, luglio 1921,

pp.

305-310.

9 L’Eglise et la philosophie de saint Thomas, in Revue des Jeunes, 25

298

ottobre 1921, pp. 130-163. 10 Le témoignage d’Ernest Psichari, in Revue des Jeunes, 25 dicembre 1921, pp. 670-686. 11 Jean-Jacques Rousseau et la pensée moderne, in Annales de l’Institut Supérieur de Philosophie, Louvain, dicembre 1921, pp. 221-262. 12 Sainte Gertrude, in Revue des Jeunes, 8 aprile 1922, pp. 143-156. 13 Deux idées modernes, in La Revue Universelle, 1 maggio 1923, pp. 378-390. 14 Pensée moderne et philosophie thomiste, in La Revue Universelle, 15 maggio 1923, pp. 495-507.

15 Nouveaux débats einsteiniens, in La Revue Universelle, 1 aprile 1924,

pp. 56-77.

16 Le thomisme et la crise de l’ésprit moderne, in Acta Hebdomadae Thomisticae, Roma, dicembre 1923, pp. 55-79.

17 Regard sur l’histoire moderne, in La Revue Universelle, 15 novembre 1925, pp. 443-448.

18 The contemporary attitude towards scholasticism, in AA.VV., Day Thinkers and the New Scholasticism, B. Herder Books, Saint Louis e London 1926, pp. 185-195. 19 L’ésprit de Ramuz, in AA.VV., Pour ou contre, Éditions du Siècle, Paris

1926, pp. 181-188.

20 Saint Thomas d’Aquin, in La Revue Universelle, 1 febbraio 1927, pp. 257-282.

21 De l’obéissance au Pape: è propos du pouvoir indirecti, in La Vie Spirituelle, XV, pp. 755-757. 22 Le sens de la condemnation, in AA.VV., Pourquoi Rome a parlé, Spès, Paris 1927, pp. 329-385.

23 Poetry and religion in The New Criterion, London, gennaio 1927, pp. 7-22. 24 Le thomisme et la civilisation, in Revue de Philosophie, marzo-aprile 1928, pp.

109-140.

25 Le joug du Christ, in La Croix, 10 maggio 1928; ripreso in AA.VV,, Clairvoyance de Rome, Spès, Paris 1929, pp. 269-290.

26 A propos de la renaissance thomiste, in La Vie Intellectuelle, Paris, 10 febbraio 1930, pp. 314-324. 27 Jugements sur Bergson, in La Vie Intellectuelle, 20 giugno 1930, pp. 542-589. 28 Notes, in AA.VV., Vues sur la psichologie animale, Vrin, Paris 1930,

pp. 171-173.

29 Un Chrétien: Pierre Termier, in La Vie Catholigue, 1 novembre

1930,

A

30 L’essence de l’internationalisation, in La Croix, 25-26 dicembre

1930,

Da

31 L’activité du père Peillaube dans la fondation et l’organisation de la Faculté de philosophie à l’Institut Catholique, in Revue de Philosophie, gennaio-febbraio 1931, pp. 20-31. 32 Discours pour l’inauguration du monument au cardinal Mercier àè Louvain, in Annales de l’Institut Supérieur de Philosophie de l’Université de Louvain, 1931, pp. 44-52. 33 Science et philosophie d’après les principes du réalisme, in Revue Thomiste, Paris, gennaio-febbraio 1931, pp. 1-46. 34 Allocution pour le trentenaire de la Revue de Philosophie, in Revue de Philosophie, gennaio-febbraio 1931, pp. 20-31. i 35 La ligue des catholiques francais pour la justice et la paix internatio-

299

nales, in La Vie Intellectuelle, 10 marzo

36 Plon, 37 38 39 908. 40

1931, pp. 433-440. IGSIA Notes sur la personnalité, in AA.VV., Essais et poèmes 1931, Librairie Paris 1931, pp. 177-190. Les Iles, in Courrier des Iles, 1932, n. 1, pp. 5-28. Picasso, in Cahiers d’Art, 1932, pp. 171. Lettre sur le monde bourgeois, in Esprit, Paris, marzo 1933, pp. 897È Catholic Layman: On Teaching, numero unico del St. Michaels Col-

lege, Toronto 1933, pp. 7.

|

:

41 Mission de la pensée chrétienne, in La Vie Intellectuelle, 25 febbraio 1934, pp. 41-47. À ; 42 De la liberté dans une chrétienté moderne, in Bulletin de l’Union pour la Vérité, ottobre-novembre 1934, pp. 29-42. ; 43 Un génie catholique (Paul Claudel), in La Vie Intellectuelle, luglio 1935, pp. 26-29. ; 44 Reflexions on Sacred Art, in Liturgical Art, New York, luglio-agostosettembre 1935, pp. 131-133. 1 ; 45 Notes pour un programme d’enseignement de la philosophie de la nature et d’enseignement des sciences dans une faculté de philosophie, in Bollettino filosofico, Roma n. 2, 1935, pp. 15-31. 46 Entretien, in AA.VV., André Gide et notre temps, Paris, Gallimard 1935, pp. 38-48. 47 Nature de la politique, in La Relève, Montreal, gennaio 1936, pp. 131-139. 48 Léon Bloy, in The Colosseum, London, marzo 1936, pp. 11-21. 49 Le discerniment médical du merveilleux d'origine divine, in Études Carmélitaines, Paris, aprile 1937, pp. 95-104. 50 Sur la musique d’Arthur Lourié, in Revue Musicale, Paris, aprile 1936, pp. 266-271. 51 D’un nouvel bumanisme ou d'un humanisme intégral, in Bulletin de l'’Union pour la Verité, giugno-luglio 1937, pp. 350-418. 52 Philosophie de V’organisme: notes sur la fonction de nutrition, in Revue Thomiste, settembre 1937, pp. 263-275. 53 Étes-vous un barbare?, in Temps Présent, Paris, 10 dicembre 1937. 54 Les principes totalitaires et la religion, in Temps Présent, 1 luglio 1938. 55 War and the bombardment of Cities, in The Commonweal, New York, 2 settembre 1938, pp. 460-461. 56 Integral Humanism and the Crisis of Modern Time, in the Review of Politics, Notre Dame, gennaio 1939, pp. 1-17. Il testo francese è stato pubblicato in AA.VV., The Image of Man, University of Notre Dame Press, Notre Dame 1959, pp. 5-19. 57 Good Will in Science, in The New York Time, 4 agosto 1940, sez. IV, DEC.

58 The Education of Women, in The Inauguration of George N. Shuster, the Fifth President, numero unico, Hunter College of the City of New York, New York 1941, pp. 31-36. 59 Notre maitre perdu et retrouvé (Henri Bergson), in Revue Dominicaine, St. Hyacinthe P.Q., Canada, febbraio 1941, pp. 61-68; in collaborazione con Raissa Maritain. 60 The Conflict of Methods at the End of the Middle Ages, in The Thomist, New York, ottobre 1941, pp. 527-538. 61 Science, Philosophy and Faith, negli atti della conferenza Science, philosophy, and Religion: a Symposium, New York 1941, pp. 162-193.

62 Si la democracia tiene una realidad, esta es cristiana, in Lectura, Città

300

di Messico, ottobre 1942, pp. 158-161. 63 Wbhence This Crisis?, in The Catholic Universe Bulletin, Cleveland, Ohio, 18 dicembre 1942, pp. 22. 64 El cuarto centenario de san Juan de la Cruz, in Revista de las Indias, Bogotà, Colombia, febbraio 1943, pp. 289-297. 65 The Committee of Liberation Trustee of French Interest, in Free World, Chicago, agosto 1943, pp. 114-116. 66 Machiavel: ou l’illusion du succès immédiat, in La Nouvelle Relève, gennaio 1944, pp. 65-85. 67 Poetic Experience, in The Review of Politics, ottobre 1944, pp. 387-402. 68 Bien commun national et bien commun international, in La Vie Intellectuelle, agosto-settembre 1945, pp. 103-108. 69 Moral education, in A College Goes to School: Centennial Lectures, St. Mary’s College, Notre Dame and Holy Cross, Indiana, 1945, pp. 1-25. 70 Une tragédie universelle, in AA.VV., La Patrie se fait tous le jours: textes frangaises 1939-1945, Le Éditions de Minuit, Paris 1947, pp. 279-284. 71 Les civilisations humaines et le réle des chrétiens, in AAVV. Les intellectuelles dans la Chrétienté, Pax Romana, Fribourg 1948, pp. 87-105. 72 La philosophie du droit, in AA.VV., The King's Good Servant, Blackwell, Oxford 1948, pp. 40-48. 73 The Meaning of Human Rights, opuscolo della Brandeis Lawyers Society Philadelphia, 1949, pp. 27. Questa conferenza è stata anche ripresa col titolo Ox the Philosophy of Human Rights, in AA.VV., Human Rights: Comments and Interpretation, Columbia University Press, New York 1949, pp. 72-77, ed in edizione francese Les droits de l'homme, in La République Frangaise, VII, 1950, pp. 6-24. 74 Science, Materialism and the Human Spirit, in The Catholic Mind, New

York

1949, pp. 417-420.

75 Religion and the Intellectuals, in The Partisan Review, New Yotk, aprile 1950, pp. 322-327. 76 The Church and the Earth's Cultures, in Mission Studies, New York, 1 settembre 1950, pp. 16-17. 77 Convocation Addres nell’opuscolo Academic Convocation, Manhattan College, New York 1951, pp. 15-19. 78 On Knowledge Through Connaturality, in The Review of Metaphysics, New Haven, Connecticut, giugno 1951, pp. 473-481. 79 Larmes de lumières, in Marie, Nicolet P.Q. Canada, maggio-giugnoluglio 1951, pp. 55. 80 Reflections on the Mission, in Mission, New York, giugno-luglio 1951, . 3-4. PPa; A Synthesis in Modern Sacred Art, in Liturgical Art, novembre 1951, . 8-9.

PRA) Education and the Humanities, in un opuscolo di Centenary Lecture St. Michael’s College, Toronto 1952, pp. 9. 83 Ode aux mortis confédérés, in The Sewanee Review, Sewanee, Tennessee, gennaio-marzo 1953, pp. 1-11. 84 Dedication to the Mother of Wisdom, in Thought, New York, inverno 1954, pp. 485-486. 85 A Faithful Friend, in Review of Politics, gennaio 1955, p. 43. 86 Le Pape maître de la parole, in AA.VV., Pio XII Pontifex Maximus, Tipografia Poliglotta Vaticana, Roma 1956, pp. 381-397. 87 La péché de l’Ange, essai de ré-interprétation des positions thomistes, in Revue Thomiste, febbraio 1956, pp. 197-239. 88 Place unique de l’Immaculée dans l’Église et sa royauté d’amour, in

301

| Marie, novembre-dicembre 1956, pp. 279. 89 Hommage è Rouault, in Recherches et débats, Paris, dicembre 1958,

pp. 185-187; sviluppa l’articolo Georges Rouault 1871-1958, pubblicato in i The Commonweal, 11 aprile 1958, p. 1. 90 Moral and Spiritual Values in Education, nell’opuscolo Proceedings ot the Eighty-ninth Convocation of the Board of Regent of the State of New York, New York 1958, pp. 14-21.

91 Philosophy and nomics and Sociology, 92 About Christian World of Values. 93 Yves Simon, in francese: Yves Sizzon,

i

the Unity of Sciences, in American Journal of EcoLancaster Pennsylvania, luglio 1960, pp. 368. Philosophy, in AA.VV., The Human Person and the &Jubilée, New York, agosto 1961, pp. 2-3; edizione mon frère d’armes, in Nova et Vetera, Fribourg, gen-

naio-marzo

1973, pp. 43-45. 3 94 A propos de la foi de Jeanne en ses voix, in Bulletin des Amis du Vieux Chiron, 1962, n. 7, pp. 319-322. 95 Dieu et la science, in La Table Ronde, Paris, dicembre 1962. 96 Points de vue actuels sur la vie monastigue, opuscolo, Montserrat, 1966. 97 The Drawings of Arthur Lourié, in Latitudes, 1968, n. 2, pp. 6-8. 98 La spiritualité de Julien Green: fidelité è l’ésprit, in Renaissance de Fleury, ottobre 1970, pp. 13-14. 99 A propos de la vocation des Petits Frères de Jesus, opuscolo, Toulouse 1973, pp. 16. 100 L’Eglise et le monde, in Nova et Vetera, marzo-aprile 1973, pp. 170-173.

III. Manifesti e dichiarazione collettive

Si elencano, in ordine cronologico, i «manifesti» a cui J. Maritain ha dato la sua adesione, collaborando alla stesura del testo o sottoscrivendolo. 1 Manifeste pour un parti de l’intelligence, Paris 1919. Il testo redatto da H. Massi e sottoscritto da Maritain preparò la fondazione della Revue Uni verselle, che inizierà le pubblicazioni nel 1920. 2 Pour le bien commun. Les responsabilités du chrétien et le moment présent, Paris 1934, edito in opuscolo da Desclée de Brouwer, pp. 28, fu redatto da Maritain con la collaborazione di O. Lacombe, E. Borne, E. Gilson, Y. Simon, Maurice de Gandillac. 3 A propos de la répression des troubles de Vienne. Dichiarazione di un gruppo di scrittori francesi, redatta da Maritain, inviata al Presidente della Repubblica Austriaca, pubblicata in Esprit, 1° marzo 1934, pp. 1060-1061. 4 Pour la défence de l’Occident. Manifesto firmato da Maritain, pubblicato in La Vie Catholique il 19 ottobre 1935 e in Esprit, 1 novembre 1935. 5 Pour la Justice. Manifesto redatto da Maritain e Mounier, pubblicato in L’Aube del 19 ottobre 1935 e in Esprit, 1 novembre 1935. 6 Pour l’honneur. Manifesto sottoscritto da Maritain e pubblicato in L’Aube del 24 novembre 1936. 7 Pour le peuple basque. Manifesto pubblicato l’8 maggio 1937 in La Croix, firmato con Maritain anche da Mounier, Mauriac, Sturzo. 8 Appel du «Comité francais pour la paix civile et religieuse en Espagne». Testo sottoscritto da Maritain, pubblicato in Esprit, luglio 1937. 9 Sagesse. Manifesto preparato in un incontro a Kolbsheim nel luglio del 1949 da O. Lacombe e J. Maritain, pubblicato in fascicolo nella collana «Courrier des Iles» da Desclée de Brouwer, Paris 1951, p. 39.

302

IV. Prefazioni

1 Clerissac Humbert, O.P., Le mystère de l’Eglise, George Crès, Paris 1918, pp. III-XXII. 2 Driesch Hans, La philosophie de l’organisme, traduzione dal tedesco di M. Kollmann, Marcel Rivière, Paris 1921, prefazione alla traduzione francese, pp. I-II. 3 Goichon Amelie, Ernest Psichari, d’après des documents inédits, Éditions de la Revue des Jeunes, Paris 1921, prefazione, pp. 9-25. 4 Deploige Simon, Le conflit de la morale et de la sociologie, Nouvelle Librairie Nationale, Paris 1923, prefazione alla terza edizione, pp. XVII-XX. 5 Levaux Lepold, Quand Dieu parle, Bloud et Gay, Paris 1926, prefazione, pp. XI-XIV. 6 Bloy Léon, La femme pauvre, Mercure de France, Paris 1926. 7 De Hovre Frans, Essai de philosophie pédagogique, traduzione dal fiammingo di G. Siméons, Albert Dewit, Bruxelles 1927, pp. VIII-X. 8 Moureau Léon, Catbolicisme ou politigue d’abord, Éditions de la Nouvelle Equipe, Louvain, 1927, lettera di prefazione, p. 9. 9 Bloy Léon, Lettres è ses filleuls, Jacques Maritain et Pierre van der Meer de Walcheren, Libraitie Stock, Parigi 1928, prefazione, pp. IX-XIX. 10 Bruno De Jesus-Marie, O.C.D., Saint Jean de la Croix, Plon, Paris 1929, introduzione, pp. 1-28. 11 Le Masson Robert, Philosophie des nombres, Desclée de Brouwer, Paris 1932, prefazione, pp. IX-XII. 12 Dandoy G., L’ontologie de Vedànta, Desclée de Brouwer, Paris 1932. 13 Bloy Léon, Lettres è Véronique, Desclée de Brouwer, Paris 1933, introduzione, pp. XII-XX. 14 Cayrè Fulbert, Les sources de l’amour divin, Desclée de Brouwer, Paris 1933, prefazione, pp. I-VII. 15 Meer de Walcheren Pierre van der, Le paradis blanc, Desclée de Brouwer, Paris 1933, introduzione, pp. 11-24. 16 Biver Paul, Apétre et mystique: le Père Lamy, Gabriel Enault, Paris 1934, prefazione, pp. III-XIV. 17 Meer de Walchere Pieter van der, Mijz dagboek, Fidelitas, Amsterdam 1934. 18 Gardeil Ambroise, O.P., La vraie vie chrétienne, Desclée de Brouwer, Paris 1935, prefazione, pp. VII-IX. 19 Gracanin G., La personnalité morale d’après Kant. Son exposé, sa critique à la lumière du thomisme, Mignard, Paris 1935, prefazione, pp. 7-9. 20 Peterson Erik, Le mystère des Juifs et des gentils dans l’Eglise, traduzione dal tedesco di E. Kamnitzer e P. Corps, Desclée de Brouwer, Paris 1935, prefazione all’edizione francese, pp. V-XI. 21 Ghika Vladimir, Pensées pour la suite des jours (Seconde série), Gabriel Beauchesne, Paris 1936, introduzione, pp. 17-19. 22 Briefs Goetz, Le prolétariat industriel, traduzione dal tedesco di Y.R. Simon, Desclée de Brouwer, Paris 1937, prefazione alla traduzione francese, pp. VII-XII. 23 Mendizabal Alfred, Aux origines d’une tragédie: la politique espagnole de 1923 è 1936, Desclée de Brouwer, Paris 1937, prefazione, pp. 7-56. 24 Siwek Paul, Spinoza et le panthéisme religieux, Desclée de Brouwer, Paris 1937, prefazione, pp. VIII-XII. 25 Thompson W.R., Science and Common Sense: an Aristotelian Excursion, Longmans Green and Co., New Yotk 1937, prefazione, pp. V-VI. 26 Ameal Joao, Séo Tomas de Aquia, Livrairia Tavares Martins, Porto

303

; x 1938, prefazione, pp. VII-IX. 27 Pages choisies de St. Thomas d’Aquin, Gallimard, Paris 1939. 28 Adler Mortimer, Problems for Thomists: the Problem of Species, Sheed and Ward, New York 1940, prefazione, pp. VILXII. 29 Limagne Pierre, Témoignage sur la situation actuelle en France, par un dirigent francais d’Action Catholique, Editions de l’Arbre, Montreal 1941, ai p . 7-13. refazione, Helen, Light before Dusk: a Russian Catholic in France, i 30 id 1923-1941, Longmans, Green and Co., New York 1942, prefazione, pp. VII-IX. 31 O’Connor William R., The Layman’s Call, P.J. Kennedy and Sons, New York 1942, prefazione, pp. IX-XVI. ì pa 32 Aglion Raoul, L’épopée de la France combattante, Éditions de la Maison Francaise, New York 1943, prefazione (non appare nella traduzione inglese), pp. 9-12. i È 33 Albert André, In French Cameroon’s Dandjoon, traduzione di Brother John Mary, Éditions de l’Arbre, Ottawa 1943, prefazione, pp. 9-12. 34 Oesterreicher John M., Racisme, antisémitisme, antichristianisme, Éditions de la Maison Francaise, New York 1943, prefazione, pp. 11-20. 35 Vignaux Paul (a cura di), France prends garde de perdre ton dme (selezione dai Cahiers du Témoignage Chrétien), Éditions de la Maison Frangaise, New York 1943, prefazione, pp. 7-11. 36 Vignaux Paul, Traditionalisme et sindacalisme, Essai d’histoire sociale 1884-1941, Éditions de la Maison Frangaise, New York 1943, prefazione, . 7-16.

PP. AA.VV., Le droit raciste è l’assaut de la civilisation (Studi di E. Hamburger, M. Gottschalk, P. Jacob, J. Maritain), Éditions de la Maison Francaise, New York 1943, prefazione, pp. 13-15. 38 Frenkley Alexandre, Pierres de gloîre, pierres de France: suite d’images des grands monuments d’architecture de la France, International University Press, New York 1944. 39 Brennan Robert, O.P., History of Psychologie from the Standpoint of a Thomist, The Macmillan Company, New York 1945, lettera di prefazione, pp. VII-IX. 40 Catalogue Général 1940-1944, Éditions de la Maison Francaise, New York 1945, introduzione, pp. 1-2. 41 David André, Mon Père répondez-moi, Éditions du Mail, Paris 1946, lettera di prefazione. 42 Bloy Léon, Pilgrim of the Absolute, testi scelti da Raîssa Maritain, traduzione di J. Coleman e H.L. Binsse, Pantheon Books, New York 1947, introduzione, pp. 7-23. 43. Psichari Ernest, Le voyage du centurion, Louis Conard, Paris, 1947, prefazione, pp. I-X. 44 Naudon de la Sotta Carlos, El persamiento social de Maritain, ensayo de Élosofia social, Club de Lectores, Santiago de Chile 1948, lettera di prefazione, pp. 7-8.

45 Fumet Stanislas (testo di), Fresques de Fra Angelico au counvent St. Marc de Florence, Editions Artistiques et Documentaires, Paris 1948, prefa4 ai VIE Etienne Gilson,Gilson, philosophe phil .VV., de’ la chrétienté, saggi in onor di E. Gilson, Éditions du Cerf, Paris 1949, prefazione, pp. Tati Si 47 Human Rights, Comment and Interpretations, Columbia University Press, New York 1949, introduzione, pp. 9-17. 48 Bahya ben Joseph Ibn Paquda, Introduction aux devoiîrs des coeurs,

304

traduzione e introduzione di A. Chouraki, Desclée de Brouwer, Paris 1950, prefazione, pp. IX-XIX. 49 Kelley C.F., The Spirit of Love Based on the Teachings of St. Francis de Sales, Harper and Brothers, New York 1951, prefazione, pp. IX-X. 50 Bloy Léon, Pages choîsies (a cura di Raîssa Maritain), Mercure de France, Paris 1951, pp. 1-18. 51 Lanza del Vasto Joseph Jean, Judas, Bernard Grasset, Paris 1951, lettera di prefazione che porta la data 24 aprile 1939, pp. 1-3. 52 Oesterreicher John M., Walls are Crumbling, The Devin-Adair Co., New York 1952, prefazione, pp. VII-IX. 53 Vayron Marie-Anne, Aux îes fleuries: soeur Geneviève Termier 18971946, Éditions Spès, Paris 1952, prefazione, pp. 7-12. 54 Renard Henry, The Philosophy of Morality, The Bruce Publishing Co., Milwaukee 1953, prefazione, pp. VII-VIII. 55 Lahaye Simon, Ur homme libre parmi les mortis, Durassié et Cie., Paris 1954, prefazione, pp. 9-11. 56 Osterreicher J.M., Sept philosophes Juifs devant le Christ, Éditions du Cerf, Paris 1955. 57 AA.VV., The material Logic of John of st. Thomas: basic treatises, University of Chicago Press, Chicago 1955. 58 Brittain Robert, La guerre contre la faim, traduzione dall’inglese di A. Girard, Éditions Alsatia, Colmar-Paris 1956. 59 Reith Herman, C.S.C., Ax Introduction to Philosophical Psychology, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, New Jersey, prefazione, pp. III-IV. 60 Simonsen Vagn Lundgard, L’esthétigue de J. Maritain, Munksgaard, Copenaghen 1956, lettera di prefazione, pp. V-VI. 61 Bars Henri, La politique selon Jacques Maritain, Les éditions ouvrières, Paris 1961. 62 Green Julien, Parzphlet contre les catholiques de France, Plon, Paris 1963, prefazione, pp. 9-13. 63 Lanza del Vasto Joseph Jean, Judas, Denoél, Paris 1968, pp. X-251, preceduto da una lettera di J.M. e da una risposta dell’autore. 64 Bruckberger Raymond Léopold, O.P., L’histoîre de Jésus-Christ, Le livre de poche, Paris 1971, pp. 635 (nuova edizione accresciuta di note e di una lettera di J.M.). 65 Raissa Maritain, Poèmes et essais, Desclée de Brouwer, Paris 1968, pp. 7-11.

66 Nicolas M.J., Evolution et Christianisme, Arthème Fayard, Paris 1973, pp. 1-5.

V. Antologie 1 Para una filosofia de la persona umana, Cutsos de cultura catolica, Buenos Aires 1937, pp. 242. 2 Accion catolica y accion politica, a cura di Ernesto Palacio e Manuel Rio, Editorial Losada, Buenos Aires 1939, pp. 223. 3 Scholasticism and Politics, a cura di Mortmer J. Adler, The Macmillan Company, New York 1940, pp. VIII-248; nuova edizione: The Centenary Press, London 1954, pp. VIII-197; nuova edizione: Image Book, New York

1960, pp. 233. 4 Ransoming the Time, Charles Scribner’s Sons, New York, 1941, pp. XII-322; nuova edizione: Reddeming the Time, The Centenary Press, London, 1943, pp. VIII-273; nuova edizione:

Hilary House, New York 1957.

5 Sort de l'homme, a cura di C. Journet, Éditions de la Baconnière, Neu-

305

chatel 1943, pp. 155. te ; 6 The Social and Political Philosophy of Jacques Maritain, a cura di Joseph W. Evans e Leo R. Ward, Charles Scribner’s Sons, New York 1955,

. 348. Pb, The education of Man: the educational Philosophy of Jacques Maritain, a cura di Donald and Idella Gallagher, University of Notre Dame Press, Notre Dame, Indiana 1962, pp. 192. VI. Corrispondenze

1 Jacques Maritain introduction et notes pp.

- Emmanuel Mounier (1929-1939), Correspondance, de Jacques Petit, Desclée de Brouwer, Paris 1973,

210.

RD) Une grande amitié: spondance présentée et Green, Plon, Paris 1979, 3 Carissimo Giovanni cenza 1982, pp. 92.

Jacques Maritain - Julien Green 1926-1972, correannotée par Jean-Pierre Pirion, preface de Julien pp. 220. - Lettere a don Giovanni Stecco, La Locusta, Vi-

VII. Scritti pubblicati postumi 1 Quelques remarques sur la loi naturelle, in Nova et Vetera, gennaio1978, pp. 1-12. 2 Eventuelle catastrophe du politique, in Cahiers Jacques Maritain, Paris

marzo

1981 n 1*pps0L/=245

3 L'ambassade au Vatican 1945-48. Numero monografico dei Cabiers Jacques Maritain, 1982, 4/bis con una serie di testi brevi editi ed inediti. 4 Une société sans argent, in Cahiers Jacques Maritain, 1982, n. 4/5, pp. 67-68. 5 De la pensée catholique et de sa Mission, pubblicato originalmente in lingua tedesca nella rivista Der Katholische Gedanke nel quarto quaderno del 1930, pp. 344-356, ed in traduzione italiana in Oeuvres Complètes, volume IV, 1983, pp. 1115-1131. 6 Société d’études politiques et culturelles, in Oeuvres Complètes, volume IV, 1983, pp. 1141-1143.

TRADUZIONI

ITALIANE

I. Volumi

2 Arte e scolastica, traduzione di A. Pavan, P. Nepi, M. Ivaldo, Morcelliana, Brescia 1980. 3 Introduzione generale alla filosofia, traduzione ed introduzione a cura di A. Coiazzi, S.E.I., Torino 1947, pp. 210. (Non riporta l’appendice: indicazioni pratiche). 4 Theonas, dialoghi tra un sapiente e due filosofi su argomenti di diversa attualità, traduzione di L. Frattini, introduzione di A. Gnemmi, Vita e Pensiero, Milano 1982, pp. 150. 5 Antimoderno, traduzione di O. Orlandi, prefazione di L. Castiglioni,

Logos, Roma 1980. 6 Vita di preghiera, traduzione di G. Stanchi Gamba, Borla, Torino 1961.

306

9 Tre riformatori. Lutero, Cartesio, Rousseau, traduzione ed introduzione a cura di G.B. Montini per la prima edizione italiana del 1928, riportata anche nell’ultima, Morcelliana, Brescia 1967, pp. 261. 10 I contadini del Cielo, traduzione di G. Martorelli, La Locusta, Vicenza 1978. 12 Primato dello spirituale, Introduzione e traduzione a cura di G. Dore, Edizioni La Cardinal Ferrari, Milano 1940; nuova edizione con annessi, prefazione di G. Campanini, Logos, Roma 1980. 14 San Tommaso d’Aquino, traduzione di C. Bo, Cantagalli, Siena s.d. 15 Religione e cultura, traduzione a cura di U. Guanda, Guanda, Bologna 1938; nuova traduzione a cura di L. Castiglione, con introduzione di A. Pavan, Morcelliana, Brescia 1966, pp. 62. 17 Distinguere per unire. I gradi del sapere, traduzione di E. Maccagnolo, Morcelliana, Brescia 1974. 18 Sulla filosofia cristiana, traduzione di L. Frattini, nota bibliografica di P. Viotto, Vita e Pensiero, Milano 1978. 19 Strutture politiche e libertà, traduzione ed introduzione a cura di A. Pavan, Morcelliana, Brescia 1968, pp. 172. 20 Sette lezioni sull’essere e sui primi principi della ragione speculativa, traduzione di M. Inzerillo e L. Frattini, Massimo, Milano 1980. 21 Frontiere della poesia, traduzione di G. Stella, Morcelliana, Brescia 19815pp91322 22 La filosofia della natura, traduzione di Irma del Pretto, Morcelliana, Brescia 1974. 23 Lettera sull’indipendenza, in Scritti e manifesti politici 1933-1939, a cura di G. Campanini, Morcelliana, Brescia 1978. 24 Scienza e saggezza, traduzione ed introduzione di P. Viotto, Borla, Torino 1963, pp. 172. (Non riporta la parte quarta: Chiarimenti sulla filosofia morale e gli allegati). 25 Umanesimo integrale, traduzione riveduta dall’autore a cura di G. Dore, Studium, Roma 1946, pp. 242; nuova edizione a cura di P. Viotto con introduzione, Borla, Torino 1962, pp. 327; quarta edizione italiana con nuova introduzione a cura di P. Viotto, Borla, Torino 1968, pp. 335. 26 Situazione della poesia, traduzione di M. Mazzolani, Morcelliana, Brescia 1979. 27 Questioni di coscienza, traduzione di L. Frattini, Vita e Pensiero, Milano 1979. 28 Il crepuscolo della civiltà, in Scritti e manifesti politici 1933-1939, ed. cit. 29 Quattro saggi sullo spirito umano nella condizione di incarnazione, traduzione di L. Vigone, Morcelliana, Brescia 1978. 31 Attraverso il disastro, traduzione di V. Villi, Capriotti, Roma 1951, pp. 150. 32 Il pensiero di San Paolo, traduzione e introduzione a cura di P. Viotto, Borla, Torino 1964, pp. 200. 33 I diritti dell’uomo e la legge naturale, traduzione a cura di G. Usellini, Comunità, Milano 1953, pp. 120; nuova edizione, presentazione di V. Possenti, nota bibliografica di P. Viotto, Vita e Pensiero, Milano 1977. 34 Cristianesimo e democrazia, traduzione a cura di L. Frapiselli, Comunità, Milano, 1953, pp. 87; nuova edizione, presentazione di G. Lazzati, nota bibliografica di P. Viotto, Vita e Pensiero, Milano 1977. 35 L'educazione al bivio, traduzione e introduzione a cura di A. Agazzi, La Scuola, Brescia 1969; XI edizione, pp. 165 (non riporta l’allegato Il problema della scuola pubblica in Francia).

307

36 Da Bergson a Tommaso d'Aquino, traduzione di R. Bartoluzzi, introduzione di R. Cantoni, Mondadori, Milano 1947, pp. 296; nuova edizione, Vita e Pensiero, Milano 1980. i 37 Per una politica più umana, traduzione a cura di A. Pavan, Morcel: i i liana, Brescia 1968, pp. 158. 41 Breve trattato dell’esistenza e dell'esistente, traduzione a cura di L. è Vigone, Morcelliana, Brescia 1965, pp. 114. 3 42 La persona e il bene comune, traduzione a cura di M. Mazzolani, Morcelliana, Brescia 1948, pp. 48. ù È 43 Ragione e ragioni, traduzione di L. Frattini, introduzione di V. Possenti, Vita e Pensiero, Milano 1982, pp. 288. 4 ì 44 Il significato dell’ateismo contemporaneo, traduzione a cura di T. Minelli, Morcelliana, Brescia 1980, pp. 40. 45 L’uomo e lo Stato, traduzione a cura di A. Falchetti, Vita e Pensiero, Milano 1953, pp. 263.

46 Nove lezioni sulle prime nozioni della filosofia morale, traduzione di L. Frattini, introduzione di V. Possenti, nota bibliografica di P. Viotto, Vita e Pensiero, Milano 1979. 47 Alla ricerca di Dio, traduzione di M. Mazzolani, Edizioni Paoline, Roma 1968, pp. 117. Nuova edizione Afeismo e ricerca di Dio (con antologia del pensiero maritainiano), traduzione di M. Barattini, introduzione di U. Pellegrino, Massimo, Milano 1982. 48 L’intuizione creativa nell’arte e nella poesia, traduzione a cura di €. Bussola e G. Tansini, Morcelliana, Brescia 1957, pp. 453. 49 La passione secondo Rouault, traduzione di Paola Viotto, in Il Sabato n. 14, 29 marzo

1980, pp. 17-19.

50 Per una filosofia della storia, traduzione a cura di E. Maccagnolo, Morcelliana, Brescia 1967, pp. 142.

51 Riflessioni sull’America, traduzione a cura di A. Barbieri, Morcelliana, Brescia 1960, pp. 210. 52 Liturgia e contemplazione, traduzione di G. Barra, Borla, Torino 1960. 53 L'educazione della persona, traduzione e introduzione a cura di P. Viotto, La Scuola, Brescia 1962, pp. 147 (non riporta i capitoli relativi a L’educazione al bivio, compresi nell’edizione francese e tradotti in italiano in altro volume; comprende parzialmente Il problema della scuola pubblica in Francia).

54 Il filosofo nella società, traduzione di A. Ceccato, introduzione di A. Pavan, Morcelliana, Brescia 1976. 55 La responsabilità dell’artista, traduzione a cura delle suore benedettine di San Magno, Morcelliana, Brescia 1963, pp. 111. 56 La filosofa morale, traduzione a cura di A. Pavan, Morcelliana, Brescia, 1971, pp. 552. 57 Osservazioni sul Pater, traduzione di D. Rotundo, Morcelliana, Brescia 1966. 58 Dio e la permissione del male, traduzione a cura di A. Ceccato, Morcelliana, Brescia 1965, pp. 104. ta di Raîssa, traduzione di M. Beluschi Fabeni, Morcelliana, Brescia 1970. 60 Ricordi e appunti, traduzione di B. Tibiletti, Morcelliana, Brescia 1967. 61 Il mistero di Israele, raccolta di testi vari sul problema dell’antise-

mitismo tradotti da Anna Maria Pavan, a cura di A. Pavan con un postscriptum di J. Maritain.

62 Il contadino della Garonna, traduzione di Bice Tibiletti, Morcelliana, Brescia 1969.

308

63 Della grazia e dell'umanità di Gesù, traduzione di C. Tosana, Morcelliana, Brescia 1971. 64 ‘e Me del Cristo, traduzione di M. Mazzolani, Morcelliana, Brescia 1971. 65 Approches sans entraves - Scritti di filosofia cristiana, traduzione di G. Mura, P. Nepi, M. Ivaldo, Città Nuova editrice, Roma 1977-1978. II. Articoli e collaborazioni 1 Il neovitalismo in Germania e il darwinismo, traduzione di M. Garulli, in Filosofia e scienza della natura, Massimo, Milano 1983, pp. 229-253. 24 Il tomismo e la civiltà, in Rivista di filosofia neoscolastica, gennaiofebbraio 1929, pp. 12-32. 39 Lettera sul mondo borghese in Scritti e manifesti politici 1933-1939, ed. cit. 40 Sull’insegnamento, traduzione di Paola Viotto, Humanitas, marzo-aprile 1975, pp. 91-93. 44 Riflessioni sull’arte sacra, in AA.VV., Annuario di arte sacra internazionale, Edizioni novecento sacto, Roma 1936, pp. 101-103.

52 Filosofia dell'organismo. Nota sulla funzione di nutrizione, traduzione di S. Agostinis, in Filosofia e scienza della natura, Massimo, Milano 1983, pp. 262-278. 58 L'educazione della donna, traduzione di E. Carletti, in Scuola e Didattica, 1 aprile 1976, pp. 21-23. 60 Il conflitto dei metodi alla fine del medioevo, traduzione di A. Viotto, in Humanitas, ottobre 1979, pp. 553-564. 61 Scienza, filosofia e fede, traduzione di A. Viotto, in Humanitas, ottobre 1978, pp. 543-562. 67 L'esperienza poetica, traduzione di A. Viotto, in Otto/Novecento, Azzate-Varese, novembre-dicembre 1982, pp. 8-21. 69 L’educazione morale-religiosa nelle scuole, traduzione di E. Carletti, in La Scuola e l'Uomo, marzo-aprile 1977, pp. 83-89. 71 Le civiltà umane e il compito dei cristiani, in Studium, giugno 1947, pp. 187-194, ed anche in J. Maritain, La persone umana e l’impegno nella storia, La Locusta, Vicenza 1979, pp. 47-77. 72 La filosofia del diritto, traduzione di Alberto Viotto, in Humanitas, giugno 1982, pp. 412-422. 74 Umanesimo, tecnica, filosofia, traduzione di A. Viotto, in La Scuola e l'Uomo, Roma 1982, n. 5, pp. 116-121. 78 La conoscenza per connaturalità, traduzione di A. Viotto, in Humanitas, giugno 1981, pp. 383-390. 79 La Madonna della Salette, in AA.VV., Il breviario dei credenti, Massimo, Milano 1962, pp. 876-880. 82 L'educazione e le umanità, traduzione di Paola Viotto, in La Scuola e l'Uomo, luglio-agosto 1979, pp. 187-192. 90 I valori spirituali e morali nell'educazione, traduzione di Paola Viotto, in La Scuola e l'Uomo, settembre-ottobre 1978, pp. 258-260. 95 Dio e la scienza, in Sapienza, ottobre-dicembre 1966, pp. 399-415. 99 A proposito della vocazione dei Piccoli Fratelli di Gesà, in Humanitas, novembre 1974, pp. 820-837. 100 Le due grandi patrie, in Studi Cattolici, novembre 1973, pp. 696-697.

309

III. Manifesti e dichiarazioni collettive

1 Manifesto per un partito dell’intelligenza, traduzione di A. Pavan, in appendice al volume: A. Pavan, La formazione del pensiero di J. Maritain, Editrice Gregoriana, Padova 1967, pp. 299-302. 2 Per il bene comune - Responsabilità del cristiano nel momento presente, traduzione di Guido Stella, in J. Maritain, Scritti e manifesti politici, a cura di Giorgio Campanini, Morcelliana, Brescia 1978, pp. 201-218. 8 Appello del Comitato francese per la pace civile e religiosa in Spagna, traduzione di Velleda Minelli, in J. Maritain, Scritti e manifesti politici, edizione citata. IV. Prefazioni

1 Clerissac U., Il mistero della Chiesa, Morcelliana, Brescia 1935, pp. 7-33. 2 Driesch H., La filosofia dell'organismo, in AA.VV., Filosofia e scienze della natura, Massimo, Milano 1983, pp. 254-261. 7 De Hovre Fr., La pedagogia cristiana e le ideologie, La Scuola, Brescia 1973, pp. 1-6. 18 Gardeil A., La vera vita cristiana, Vita e Pensiero, Milano 1963, pp. 7-9.

23 Mendizabal A., Alle origini di una tragedia. La politica spagnola dal 1923 al 1936, pubblicata col titolo Sulla guerra santa, in Maritain - Scritti e manifesti politici 1933-1939, Morcelliana, Brescia 1978, pp. 75-110. 28 Adler M., Il problema della specie, in AA.VV., Filosofia e scienze della natura, ed. cit., pp. 279-282. 47 AA.VV., Dei diritti dell’uomo, Edizioni Comunità, Milano 1952, pp. 3-9. 50 Bloy L., Pagine scelte, Società Editrice Internazionale, Torino 1967, pp. 27-42. 61 Bars H., Il pensiero politico di J. Maritain, Morcelliana, Brescia 1965, pp. 7-15.

62 Green J., Svegliarsi all’amore, Logos, Roma 1980, pp. 7-11. 66 Nicolas M.J., Evoluzione e cristianesimo, Massimo, Milano 1978, pp. 1-9.

V. Antologie italiane

1 Jacques Maritain - Antologia del pensiero filosofico e pedagogico, a cura di G. Morra, Editrice Forum, Forlì 1967, pp. 248. 2 Jacques Maritain - Il pensiero politico, a cura di M. Vannini, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 168. 3 Jacques Maritain - La conquista della libertà, a cura di P. Viotto, La Scuola, Brescia 1977, pp. 180. 4 Jacques Maritain - Contemplazione e spiritualità, a cura di G. Galeazzi, Anonima Veritas Editrice, Roma 1978, pp. 182. 5 Jacques Maritain, Pluralismo e collaborazione nella società democratica, a cura di G. Galeazzi, Cinque Lune, Roma 1979, pp. 243. 6 Persona, società, educazione in J. Maritain (Antologia del pensiero filosofico e della critica), a cura e con introduzione di G. Galeazzi, Massimo, 1979, pp. 400. 7 Jacques Maritain, Azione e contemplazione, a cura di G. Barra, Torino 1962; nuova edizione 1980.

Milano

310

8 Jacques Maritain, Ateismo e ricerca di Dio (con antologia del pensiero maritainiano), a cura di U. Pellegrino, Massimo, Milano 1982.

VI. Corrispondenze 1 Maritain-Mounier, Corrispondenza 1929-1939, traduzione di E. Lombardi Vallauri, Morcelliana, Brescia 1976, pp. 224. 3 Carissimo Giovanni - Lettere a don Giovanni Stecco, traduzione di Mario ML introduzione di Tullio Monterle, La Locusta, Vicenza 1982,

pp.

92.

VII. Scritti pubblicati postumi 1 Alcune considerazioni sulla legge naturale, traduzione di A. Viotto, in Humanitas, ottobre 1980, pp. 692-707.

VIII. Traduzioni parziali 1 Cartesio e la religione, traduzione a cura di A. Viotto del XVII capitolo del volume Pour la justice (vedi n. 40 dell’elenco delle opere in lingua originale), in Humanitas, dicembre 1982, pp. 950-958. 2 Il problema della specie, traduzione di A. Cupparoni, da «Foreword» a M. Adler, Problems for Thomists: the Problems of Species, Sheed and Word, New York 1940, pp. VII-XII, in AA.VV., Filosofia e scienze della natura, Massimo, Milano 1983, pp. 279-282. 3 Religione e pace, traduzione, a cura di A. Viotto, del XXXIX capitolo del volume Pour la justice (vedi n. 40 dell’elenco delle opere in lingua originale), in Humanitas, dicembre 1983, pp. 958-966.

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Indice

Introduzione (Rossana Carmagnani e R. Patrizia Rizzuto) 1. Perennità di un filosofo - 2. Maritain filosofo delle «parole assolute» - 3. Scienza e sapienza oggi - 4. Promozione del diritto ed educazione alla libertà - 5. La fantasia del domani e l’eternità del mistero. - 6. Conclusione

PARTE PRIMA: SCIENZA E SAPIENZA OGGI 19

Alfredo Tritogli: Il pensiero di Maritain nella cultura contemporanea 1. J. Maritain nel giudizio di alcuni maestri del nostro tempo - 2. L’itinerario speculativo e umano di J. Maritain - 3. L’antimodernismo di Maritain e la cultura ufficiale - 4. La « tragedia dell’umanesimo » nella storia dell’Occidente - 5. L'impegno dei cristiani per una società personalista e comunitaria - 6. Umanesimo marziano e umanesimo integrale - 7. Conclusione

40

Ubaldo Pellegrino: Ateismo, ricerca di Dio e metafisica in J. Maritain 1. La crisi religiosa di Maritain entro la crisi della cristianità europea - 2. L’umanesimo teocentrico e sapienziale - 3. Umanesimo integrale, umanesimo ateo e gli opposti progetti storici

DI

Rossana Carmagnani: Percezione astrattiva dell’essere e intenzionalità in Jacques Maritain 1. La conoscenza, donazione gratuita di senso - 2. Percezione astrattiva e intersoggettività - 3. La fondazione ontologica dell’intenzionalità conoscitiva - 4. La conoscenza come ordine metafisico - 5. Il concetto perfezione dell’«esse intentionale» - 6. Conclusione

72

Augusto Cavadi: A Dio, con intelligenza: indicazioni da Maritain 1. Premessa: a Dio, ma con intelligenza - 2. Prima indicazione: la domanda su Dio come intrinseca alla domanda sull’uomo - 3. Seconda indicazione: la domanda su Dio è possibile solo oltre l’orizzonte scientista - 4. Terza indicazione: la domanda su Dio esige il senso dell’essere - 5. Quarta indicazione: ogni possibile approccio intellettuale al mistero di Dio implica un nucleo permanente quasi-intuitivo

315

95

Giuseppe Savagnone: La verità in Maritain 1. La sete di verità - 2. Grandezza e miseria dell’intelligenza umana 3. Il pensiero e l’essere - 4. La vita dell’intelligenza - 5. La verità e le verità

109 Joseph de Finance: I diversi tipi di libertà in Maritain 1. La scoperta progressiva della libertà - 2. La libertà e il mistero della persona - 3. La libertà della intelligenza - 4. La libertà di esultanza: spontaneità dell’esistente spirituale - 5. Le aspirazioni transnaturali della personalità - 6. L’educazione alla libertà - 7. Conclusione

124 Antonio Bellingreri: La metafisica della persona in Jacques Maritain 1. La nozione di persona e il nichilismo della cultura contemporanea 2. Il personalismo maritainiano e la proposta antropologica del giovane Marx - 3. La sussistenza della persona - 4. Metafisica dei gradi dell’essere e spontaneità della vita intellettiva - 5. La sovraesistenza immateriale dell’uomo: intelligenza e amore

139 Manlio Corselli: Dimensione gnostica e dimensione morale della «filosofia della storia» nel giudizio di Maritain 1. Filosofia della storia e congiuntura culturale - 2. Significato sapienziale della riflessione sulla storia - 3. Il senso della storia e la fondazione morale

148 Giancarlo Galeazzi: Il problema in Jacques Maritain

della «filosofia cristiana»

1. Filosofia e laicità - 2. Il primo Maritain - 3. Maritain negli anni ’30 - 4. L’ultimo Maritain - 5. Consensi e dissensi - 6. Conclusione

PARTE SECONDA: PROMOZIONE EDUCAZIONE ALLA LIBERTA 163 Antonio Palazzo: Maritain

Personalismo

DEL DIRITTO ED

e diritti civili in Jacques

167 Piero Viotto: L'educazione alla libertà in J. Maritain 1. La crisi della società contemporanea - 2. L’antropologia integrale - 3. L'uomo, animale ragionevole - 4. L’uomo, persona sociale - 5. L’uomo, figlio di Dio - 6. Il paradosso della condizione umana - 7. La legge e la libertà

316

189 Felice Chiarelli:

La città, dimensione temporale dell’uomo

1. La persona umana al centro di ogni progetto culturale e politico amministrativo - 2. Impegno per una democrazia cristianamente ispirata - 3. La repubblica delle autonomie e la sua realizzazione alla luce dell’art. 5 della Costituzione e dell’ideale democratico maritainiano

197 Massimo

Roncoroni:

Educazione, persona, verità nella crisi

della civiltà attuale. Il pensiero di Jacques Maritain 1. Premessa esplicativa - 2. Educazione e crisi della civiltà - 3. La grande sfida dell’educazione odierna - 4. Un’occasione significativa ma perduta: il maggio 1968 - 5. Democrazia, educazione e tecnocrazia 6. Il processo educativo: errori da evitare, disposizioni da favorire, fini da attuare - 7. Il processo educativo come maieutica della persona umana - 8. La verità come fondamento dell’educazione, della liberazione del potere intuitivo dello spirito, della formazione integrale della persona umana

228 Ary Roest Crollius: Jacques Maritain e le culture mediter-

ranee 1. L’ispirazione artistica - 2. L’umanesimo personalista, della civiltà - 3. La contemplazione nell’azione

240 Anna Maria Vultaggio: ligenza

fondamento

Il mistero, provocazione dell’intel-

1. La «vocazione» filosofica di Maritain e il suo significato - 2. L’intelligibilità del mistero, possibilità ultima della conoscenza

Rosalba Patrizia Rizzuto: La saggezza trascendimento-libertà dello spirito in Jacques Maritain 1. Dinamismo dello spirito e inquietudine dell’anima - 2. La saggezza: una verità da servire - 3. Una saggezza che si dona - 4. Vigilanza e attività

253 Lucia Ievolella: Alle radici dell'esperienza morale: il mistero della condizione umana 1. La legge morale: sfida al limite dell’uomo - 2. La «metafisica della condotta»: fondamento della riflessione morale - 3. Tentazione della grandezza e tentazione della miseria - 4. Accoglienza del mistero e trascendimento della condizione umana

229 Maria Luisa Buscemi: La bellezza, volto dell’essere 1. L’opera d’arte: realtà umana e mondo delle cose - 2. L'artista me3 diatore tra spirito e materia - 3. Bellezza e sapienza

dL7

265 Maria Teresa Palazzo: Bene comune e carta democratica 1. Centralità del bene comune e funzione della carta democratica - 2. Amicizia e pluralità delle condizioni - 3. La carta democratica

212 Gabriele

Zammitti: Sovranità del popolo: spunti per una riflessione alla luce del pensiero di Maritain

1. Il pensiero di Jacques Maritain - 2. Il filone giuridico della nozione di sovranità - 3. L’autorità, fondamento della sovranità popolare - 4. Sovranità del popolo e democrazia

ZIA Gaetano Armao: Dalla teoria del bene comune alla tutela del diritto alla vita 1. Maritain e la tutela del diritto alla vita - 2. Per una filosofia dei diritti della persona - 3. Legge naturale e violazione dei diritti dell’uomo - 4. Conclusione

284 Anna Maria Saitta: Il mistero della Chiesa in Jacques Maritain 1. La persona della Chiesa - 2. La Chiesa: persona visibile-invisibile - 3. L’ecumenismo all’insegna della verità e dell’unità - 4. Conclusione

295 Bibliografia generale degli scritti di J. Maritain Piero Viotto)

318

(a cura di

Il volume contiene gli atti del convegno svoltosi a Palermo nell’aprile del 1983 — in occasione del primo decennale della morte del grande filosofo francese — sul tema: ‘Jacques Maritain protagonista del XX secolo: scienza e sapienza”. Le elaborazioni maritainiane di metafisica, di gnoseologia, di filosofia morale e politica, di diritto, di pedagogia, sono state riproposte nelle loro suggestioni più significative, tramite il contributo di autorevoli conoscitori del pensiero del filosofo francese. La lettura di queste relazioni mette in risalto lo spirito del lavoro di Maritain, nel quale il rigore teoretico della speculazione filosofica è sempre strettamente unito all’amore per l’uomo e nutrito dalle intuizioni del contemplativo, dell’artista, dell’uomo di fede e di carità, attento ai segni dei tempi; segno concreto della volontà di portare la speculazione filosofica, anche la più rigorosa, a dialogare con l’uomo, con la sua vita, con il sen-

so della sua sofferenza e della sua storia. SomMARIo: Introduzione (R. Carmagnani - R.P. Rizzuto) - Parte prima: Scienza e sapienza oggi - Il pensiero di Maritain nella cultura contemporanea (A. Trifogli) - Ateismo, ricerca di Dio e metafisica in J. Maritain (U. Pellegrino) - Percezione astrattiva dell’essere e intenzionalità in J. Maritain (R. Carzzagnani) - A Dio, con intelligenza: indicazioni da Maritain (A. Cavadi) - La verità in Maritain (G. Savagnone) - I diversi tipi di libertà in Maritain (7. De Finance) - La me-

tafisica della persona in J. Maritain (A. Be/lingrerî) - Dimensione gnostica e dimensione morale della ‘filosofia della storia” nel giudizio di Maritain (M. Corselli) - Il problema della filosofia cristiana in J. Maritain (G. Galeazzi) - Parte seconda: Promozione del diritto ed educazione alla libertà - Personalismo e diritti civili in J. Maritain (A. Palazzo) - L'educazione alla libertà in J. Maritain (P.

Viotto) - La città, dimensione temporale dell’uomo (F. Chiarelli) - Educazione, persona, verità nella crisi della civiltà attuale. Il pensiero di J. Maritain (M. Roncoroni) - Jacques Maritain e le culture mediterranee (A.R. Cro/lius) - Il mistero, provocazione dell’intelligenza (A.M. Vultaggio) - La saggezza trascendimento-libertà dello spirito in J. Maritain (R.P. Rizzuto) - Alle radici dell’esperienza morale: il mistero della condizione umana

(L. Ievolella) - La

bellezza, volto dell’essere (M.L. Buscerzi) - Bene comune e carta democratica (M.T. Palazzo) - Sovranità del popolo: spunti per una riflessione alla luce del pensiero di Maritain (G. Zarzzzitti) - Dalla teoria del bene comune alla tutela del diritto alla vita (G. Arzz40) - Il mistero della Chiesa in J. Maritain (A.M.

Saitta) - Bibliografia generale degli scritti di J. Maritain (P. Viotto).

L. 15.000

ISBN

88-7030-460-4

(iva inclusa)