Cosmologia del XX secolo 8868024667, 9788868024666

Jacques Merleau-Ponty ha svolto un lavoro pionieristico nello studio della cosmologia contemporanea e il suo libro "

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Cosmologia del XX secolo
 8868024667, 9788868024666

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Jacques Merleau-Ponty (Rochefort-sur-Mer, 1916 - Cepoy, 2002) è stato un filosofo, epistemologo e storico della scienza francese, professore di epistemologia all’Università di Parigi X-Nanterre. Cugino del celebre filosofo Maurice Merleau-Ponty, è ricordato per i suoi studi sulla cosmologia relativistica.

JACQUES MERLEAU-PONTY COSMOLOGIA DEL SECOLO XX

Jacques Merleau-Ponty ha svolto un lavoro pionieristico nello studio della cosmologia contemporanea e il suo libro Cosmologia del secolo XX è oggi giustamente considerato un classico del genere. A partire dagli anni Trenta, con la teoria einsteiniana della relatività generale e con l’osservazione astronomica attraverso i telescopi spaziali, la cosmologia era diventata una scienza a sé stante. Questo campo nuovo da esplorare sollecitò l’interesse di molti filosofi, attratti dal significato che i modelli e i concetti teorici nascenti potevano rivestire. Guidato dalla ferma convinzione della necessità di un dialogo autentico tra filosofia e scienza, Merleau-Ponty ci racconta la storia delle conquiste cosmologiche contemporanee in un’avvincente narrazione, svelandoci le scoperte che avrebbero trasformato profondamente il volto dell’universo in cui viviamo.

JACQUES MERLEAU-PONTY COSMOLOGIA DEL SECOLO XX PREFAZIONE DI VINCENZO FANO INTRODUZIONE DI GIOVANNI MACCHIA

ISBN 978-88-6802-466-6

30,00 euro

9 788868 024666

PGRECO

PGreco Edizioni

PGRECO

JACQUES MERLEAU-PONTY

COSMOLOGIA DEL SECOLO XX Prefazione di Vincenzo Fano Introduzione di Giovanni Macchia

PGRECO

Titolo originale dell’opera: Cosmologie du XXe siècle Traduzione di Sergio Chiappori

© 2023 – PGRECO EDIZIONI Via Gabbro 4-20100 Milano Per informazioni E-mail: [email protected] www.edizionipgreco.it ISBN: 9788868024666 L’editore ha effettuato, senza successo, tutte le ricerche necessarie al fine di identificare gli aventi titolo rispetto ai diritti dell’opera. Pertanto resta disponibile ad assolvere le proprie obbligazioni.

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Prefazione di Vincenzo Fano Introduzione di Giovanni Macchia

Prefazione a “Cosmologia del secolo XX” di Jacques Merleau-Ponty di Vincenzo Fano*

Nei paragrafi finali dei Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive (1746), tradotto meritoriamente da Mimesis nel 2019, un Kant ventiduenne prova a dedurre la tridimensionalità dello spazio assumendo che valga la legge newtoniana della forza di gravità. Kant qui è ancora leibniziano e quindi tende a considerare lo spazio come un epifenomeno rispetto ai contenuti fisici. Per questa ragione la legge di gravità è più profonda ontologicamente ed epistemologicamente rispetto alla natura dello spazio. In effetti, assumendo che la forza di gravità sia una forza centrale, che cioè agisca lungo la linea retta che congiunge i due corpi che la provocano e dipenda solo dalla posizione reciproca dei due corpi, il fatto che questa forza sia inversamente proporzionale al quadrato della distanza è un forte argomento a favore della tridimensionalità dello spazio. Indubbiamente, la forza in uno spazio tridimensionale si diluirà su delle superfici sferiche concentriche, la cui area è proporzionale alla distanza al quadrato. Nei Prolegomeni (1783) § 38, Kant a seguito della sua “rivoluzione copernicana”, darà più oggettività allo spazio, anche se solo come intuizione a priori, per cui farà l’inverso, cioè dedurrà la legge di gravità dalla tridimensionalità dello spazio1. Questo esempio serve per individuare un punto messo molto bene in luce da Jacques Merleau-Ponty in questo straordinario libro, che Mimesis mette nuovamente a disposizione del lettore italiano. Quando facciamo scienza e filosofia, che cosa dobbiamo dare per scontato? E Merleau-Ponty propone proprio l’esempio della tridimensionalità dello spazio2, chiedendosi se sia una caratteristica che esige una spiegazione, * 1 2

Dipartimento di Scienze Pure e Applicate, Università di Urbino Carlo Bo Su questo argomento si veda Friedman (1992, pp. 25 e 166). A p. 79. Però Merleau-Ponty pensa a Eddington, non a Kant.

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Cosmologia del secolo XX

oppure vada data per scontata. Dare qualcosa per scontato, cioè senza spiegarlo, è una necessità di qualsiasi teoria scientifica, come ha mostrato la nuova filosofia della scienza di Popper, Kuhn ecc.3, ma per la cosmologia la questione è particolarmente delicata, poiché una componente teorica a priori sembra proprio necessaria. Le teorie scientifiche danno sempre qualcosa per ovvio. Magari una teoria T1 assume a, e poi un’altra T2 prova a spiegarlo, assumendo però b che T1 spiegava. In altre parole in ogni programma di ricerca è necessaria quella che Lakatos chiamava una “cintura protettiva” (1976). La cintura protettiva di un programma di ricerca è costituita da quelle ipotesi che lo caratterizzano e non possono essere messe in discussione senza abbandonare il progetto. Come vedremo meglio, la cosmologia si fonda esplicitamente su una cintura protettiva, costituita dall’assunzione dell’omogeneità e dell’isotropia dello spazio-tempo, che vanno a costituire quello che Milne ha chiamato il “principio cosmologico”. La relazione fra dogmi filosofici a priori e teorie scientifiche empiricamente controllabili domina tutta la discussione della storia e della filosofia della cosmologia di Merleau-Ponty. Vediamone alcuni aspetti. Quando Einstein nel 1917 con le sue Considerazioni cosmologiche dava inizio alla cosmologia scientifica moderna, assumeva senza dubbi che l’universo fosse statico. Per questo non si avvide che il modello che proponeva era altamente instabile, nel senso che bastava cambiare di poco il valore della costante cosmologica per renderlo in evoluzione. Merleau-Ponty spiega bene nei primi capitoli del libro, la fatica epistemologica (pp. 67-68) che dovettero affrontare personalità del calibro di De Sitter, Eddington e Hubble nell’accettare che l’universo non fosse statico né stazionario. Sarà Friedman già nel ’22, l’unico senza pregiudizi a mettere a punto un quadro teorico più generale. E sulla strada di mettere in discussione le nostre più ovvie convinzioni metafisiche il nostro autore fa un passo avanti, allo stesso tempo audace e provocatorio: e se la dinamicità dell’universo scoperta negli anni ’20 del secolo scorso fosse qualcosa di intrinseco, che non avrebbe bisogno di spiegazione4? E se tale dinamicità non andasse pensata – come siamo abituati a fare – come un processo che abbia un inizio e una fine, ma come puro cambiamento5, come immaginava Aristotele (p. 302)? Potrebbe cioè essere che l’universo sia solo cambiamento, senza necessariamente dover introdurre la nozione di un inizio di tale cambiamento e/o di una sua fine. Tale cambiamento intrinseco sarebbe rappresentato dal valore della costante cosmo3 4 5

Vedi, ad esempio, Watkins, 1958. Come la tridimensionalità dello spazio dell’esempio precedente. Per Aristotele, che Merleau-Ponty cita esplicitamente, il cambiamento è un concetto modale essenzialmente incompleto e quindi senza inizio e senza fine.

Prefazione a “Cosmologia del secolo XX” di Jacques Merleau-Ponty 

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logica nelle equazioni di Einstein. La storia e la filosofia della cosmologia di Merleau-Ponty non sono solo aderenti alla fisica e alle fonti, ma sanno essere piene di inaspettate suggestioni, come questa. Si può fare cosmologia completamente a posteriori, come voleva Tolman (pp. 95ss.)? No, perché l’universo è un oggetto unico e dobbiamo assumere che le leggi della fisica che conosciamo localmente siano estrapolabili a questo strano e unico sistema fisico. Non solo, a partire da osservazioni locali, dobbiamo assumere alcune caratteristiche generali dell’universo, che non possiamo controllare, in particolare che lo spazio-tempo sia isotropo e omogeneo. Se procedessimo in maniera solo induttiva, arriveremmo al massimo a sostenere che tali caratteristiche valgono sul nostro cono luce passato, poiché non riceviamo informazioni né su ciò che capita dentro il cono, né su ciò che succede fuori dal cono. E in effetti il nostro cono luce passato propone un’evidenza sperimentale molto forte a favore dell’omogeneità e dell’isotropia dello spazio-tempo, che quando Merleau-Ponty scrisse il libro ancora non si aveva, cioè la radiazione cosmica di fondo. Questa evidenza, però, non basta. Per fare cosmologia, dobbiamo assumere qualcosa che assomigli al Principio Copernicano, cioè alla tesi che il nostro punto di osservazione sia tipico, ovvero che se noi osserviamo omogeneità e isotropia localmente, allora possiamo estendere questo dato all’intero universo. Questa estensione è molto audace e quindi deve essere stabilita a priori. Fra l’altro, è difficile trovare anche metodi indiretti di controllo. Vediamo perché. Assumiamo che per l’universo valgano le equazioni di Einstein. E già questo è un forte presupposto. Merlau-Ponty racconta a lungo della scuola fortemente aprioristica di Milne (capp. IV e V) che non accettava la relatività generale come teoria cosmologica di riferimento; non solo, oggi, per spiegare la materia oscura, sono state proposte ipotesi di cambiamento delle leggi di gravitazione, le cosiddette teorie MOND (Merritt, 2020). Assumiamo, inoltre, il principio cosmologico, cioè che lo spazio-tempo su larga scala sia omogeneo e isotropo. Con questi due assunti possiamo dedurre l’esistenza della radiazione cosmica di fondo (Liddle, 2015, cap. 10). Potremmo allora considerare la radiazione cosmica di fondo una conferma dei nostri due assunti? No, purtroppo, perché per arrivare a eseguire il conto che predice la radiazione cosmica di fondo è sufficiente il principio cosmologico applicato solo all’universo osservabile, non è necessario assumere che valga per tutto l’universo. Questo vuol dire che la radiazione cosmica conferma solo il fatto che l’universo osservabile sia relativistico, isotropo e omogeneo e non che la stessa cosa valga per l’intero universo. Recentemente (Manchak, 2009) ha provato a dimostrare che sarebbe impossibile fare cosmologia di tutto l’universo, cioè che dovremmo accontentarci di

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Cosmologia del secolo XX

una cosmologia che riguardi solo l’universo osservabile, che ha un diametro di circa 100 miliardi di anni luce. Il conto è facile da eseguire. Il nostro universo ha circa 13,7 miliardi di anni e in questo periodo si è espanso di un fattore “4”, per cui il suo raggio sarà circa di 50 miliardi di anni luce. Manchak avrebbe mostrato che può esistere un universo completamente diverso dal nostro, del tutto equivalente al nostro dal punto di vista osservativo – quindi per noi indistinguibile dal nostro – e fisicamente ragionevole in tutte le sue parti osservabili. Questo vorrebbe dire che una cosmologia dell’intero universo sarebbe esclusa per ragioni di principio, finché assumiamo la geometria dello spazio-tempo come aspetto fondamentale che definisce la natura dell’universo. In realtà Cinti e Fano (2021) hanno mostrato che il teorema di Manchak assume sì ragionevolezza fisica nella parte osservabile dell’universo, ma riesce a dimostrare la possibile intrinseca diversità dal nostro nella parte non osservabile solo a costo di introdurre strani fenomeni abbastanza astrusi dal punto di vista fisico dove i nostri strumenti non possono arrivare. Questo non vuol dire che si possa fare cosmologia dell’intero universo a cuor leggero, ma significa che non sia impossibile farla, almeno stando alle nostre conoscenze attuali6. Certo, però, come aveva ben chiaro Merleau-Ponty (p. 64), dobbiamo assumere qualcosa a priori, cioè che la relatività generale, l’isotropia e l’omogeneità dello spazio-tempo abbiano validità universale. Le pagine indimenticabili del testo di Merleau-Ponty sono tante. All’inizio degli anni ’60, parecchio prima dell’articolo fondamentale di Earman (1970), Merleau-Ponty -contrariamente a quanto pensavano in molti – ha ben chiaro (p. 44ss.) che le equazioni di Einstein, con grande dispetto del suo autore, non rispettano il cosiddetto “principio di Mach”, cioè la tesi secondo cui l’inerzia dipenderebbe solo dalle masse e non dalla geometria dello spazio-tempo (p. 37). Non solo, in alcune soluzioni delle equazioni di Einstein, l’universo può possedere una rotazione assoluta (p. 260), come ribadito anche da Earman, stabilendo così qualcosa in parte analogo all’esperimento del secchio di Newton. Tutto il libro è pervaso inoltre da un autentico afflato religioso, nel senso di rispetto per ciò che va aldilà di noi. Merleau-Ponty cita con approvazione il famoso adagio di Pascal, secondo cui, un po’ di scienza allontana da Dio, molta scienza invece avvicina a Dio (p. 109). In pagine bellissime, l’Autore esprime infine il senso di insignificanza del genere umano rispetto all’immensità che 6

C’è però da dire che le nostre rilevazioni attuali sembrano giustificare che l’universo sia piatto e quindi infinito. Tale infinità toglie buona parte della rilevanza epistemica delle nostre osservazioni locali.

Prefazione a “Cosmologia del secolo XX” di Jacques Merleau-Ponty 

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già dagli anni Venti del secolo scorso si stava aprendo di fronte a noi. Questa immensità è del tutto inarrivabile. Per quel che ne capiamo, infatti, non saremo mai capaci di raggiungere anche solo le stelle più vicine (p. 424). Eppure, il cielo è sempre più vicino a noi (p. 403), grazie alla radiotelescopia e adesso anche alla cosmologia multimessaggera, basata anche sulla recente rilevazione delle onde gravitazionali. Il Dio che emerge dalla cosmologia scientifica è molto diverso da come ce lo eravamo immaginati, ma “lo si può amare anche così, e ammirarlo per essere diventato così rispettoso della matematica” (p. 427). Riferimenti bibliografici E. Cinti, V. Fano (2021), “Careful with those scissors, Eugene! Against the observational indistinguishability of spacetimes, Studies in History and Philosophy of Science Part A, 89, pp. 103-113. J. Earman, J. (1970), “Who’s afraid of absolute space?”, Australasian Journal of Philosophy, 48(3), pp. 287-319. A. Einstein (1917), “Kosmologische Betrachtungen zur allgemeinen Relativitätstheorie“, Sitzungsberichte der Königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften (Berlin), pp. 142-152. M. Friedman (1992), Kant and the exact sciences, Harvard University Press, Cambridge Mass. I. Kant (2016), Prolegomeni ad ogni futura metafisica che possa presentarsi come scienza, a cura di R. Pettoello, La Scuola, Brescia. I. Kant (2019), Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive, a cura di S. Veneroni, Mimesis, Milano-Udine. I. Lakatos (1976), “La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifici”, in I. Lakatos, A. Musgrave, a cura di Critica e crescita della conoscenza, Feltrinelli, Milano, pp. 164-276. A Liddle (2015), An introduction to modern cosmology, John Wiley, Chichester. J.B. Manchak, (2009), “Can we know the global structure of spacetime?”, Studies in History and Philosophy of Science Part B: Studies in History and Philosophy of Modern Physics, 40(1), pp. 53-56. D. Merritt (2020), A philosophical approach to MOND, Cambridge University press, Cambridge. J.W.N. Watkins (1958), “Confirmable and influential metaphysics”, Mind, 67, pp. 344-365.

Quando filosofi e scienziati si pongono le stesse domande: Jacques Merleau-Ponty e i primi passi della cosmologia moderna* di Giovanni Macchia**

Non c’è classificazione dell’universo che non sia arbitraria e congetturale. La ragione è molto semplice: non sappiamo che cosa è l’universo. Jorge Luis Borges1

Questo libro – uno dei primissimi approfonditi studi epistemologici e filosofici, nonché storici, sulla natura, i contenuti, il significato e i problemi irrisolti della moderna cosmologia – è la ristampa anastatica dell’edizione italiana, pubblicata meritoriamente nel 1974 da Il Saggiatore di Milano e ormai pressoché introvabile (a parte rare copie ingiallite su qualche bancarella), del testo originale in francese intitolato Cosmologie du XXe siècle. Ètude épistémologique et historique des théories de la cosmologie contemporaine, pubblicato nel 1965 a Parigi dall’Èditions Gallimard. È una ristampa, un po’ tardiva ma preziosa, che comincia, e speriamo sia soltanto l’inizio, a riempire un vuoto sugli scaffali italiani delle opere di Jacques MerleauPonty, uno dei grandi filosofi e storici della fisica e soprattutto della cosmologia moderna, pioniere di un approccio epistemologico, e più in generale filosofico, già fin dagli anni della formazione di questa scienza. Questo studioso, bisogna purtroppo ammetterlo subito, non ha ricevuto i riconoscimenti e la notorietà a livello * ** 1

Nel seguito, le citazioni prese da testi che nella bibliografia non compaiono in italiano sono state da me tradotte. Inoltre, le citazioni dal libro di Merleau-Ponty, sebbene riferite all’anno 1965 del testo originale francese, riporteranno le pagine del testo in italiano. Dipartimento di Scienze Pure e Applicate, Università di Urbino Borges (1952/2011, p. 1005).

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internazionale che avrebbe meritato: i suoi scritti, infatti, in originale in francese, non solo non sono stati tradotti in italiano2, ma quel che è più spiacevole, almeno per i ricercatori di questo campo di studi che solitamente frequentano testi del mondo accademico anglosassone, nemmeno in inglese3. Per questo è molto raro trovarlo citato nei lavori in questa lingua, anche se scritti da studiosi competenti e attenti. Questa assenza, è bene sottolinearlo esplicitamente, non è certo dovuta, per così dire, a deficit di qualità nella sua opera, ma solo a qualche imperscrutabile contingenza editoriale che ha relegato i suoi scritti prevalentemente all’ambito francese, dove invece il loro valore è stato da sempre riconosciuto, anche dopo la sua morte, sia con convegni che con studi specifici e altre iniziative4. Una vera perdita culturale, in particolare per questo libro che meriterebbe internazionalmente, ben oltre i confini delle sole Francia e Italia, lo status di classico, anche perché esso è considerato il capolavoro di questo insigne e appassionato studioso, del quale vorrei ora dare qualche cenno biografico prima di introdurre il testo. Jacques Merleau-Ponty: la vita Jacques Merleau-Ponty è stato un filosofo e storico della scienza francese, professore di epistemologia all’Università di Parigi X-Nanterre dal 1967, per anni presidente della Società Filosofica Francese, e grande sostenitore del dialogo fra filosofia, storia e scienza, dunque del ruolo fondamentale e privilegiato che la filosofia ha per la conoscenza scientifica, quest’ultima infatti considerata, nel suo dipanarsi storico e nei suoi contenuti, come un ricco campo di interrogazioni e meditazioni filosofiche. Il suo lavoro di ricerca si è soprattutto concentrato sulla storia ed epistemologia della fisica, in specie della cosmologia. Egli nasce il 26 luglio 1916 a Rochefort-sur-Mer, un comune nel sud-ovest della Francia. Attratto fin dai primi suoi studi dalla fisica, su consiglio del più noto cugino Maurice Merleau-Ponty (1908-1961), di otto anni più grande, 2 3

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A parte questo libro, sono a conoscenza soltanto di due altri suoi brevi saggi in italiano, cioè Merleau-Ponty (1972; 1982). Solo il suo libro Les trois étapes de la cosmologie (scritto in francese con Bruno Morando, Éditions Robert Laffont, Paris, 1971) è stato tradotto in inglese: The Rebirth of Cosmology (Traduz. di Helen Weaver), A. A. Knopf, New York, 1976. Sempre in inglese esistono soltanto, per quanto io ne sappia, tre suoi articoli: Merleau-Ponty (1966; 1977; 1978). Inoltre, è importante sottolineare che Cosmologie du XXe siècle è stato anche tradotto in spagnolo, col titolo: Cosmología del siglo XX. Estudio epistemológico e histórico de las teorías de la cosmología contemporánea (Traduz. di Jacinto-Luis Guereña), Gredos Editorial, Madrid, 1971. Si vedano, ad esempio, Seidengart e Szczeciniarz (2000), Robredo (2010).

Quando filosofi e scienziati si pongono le stesse domande

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esponente di rilievo della fenomenologia francese, si rivolge alla filosofia per affrontare proprio le rivoluzioni della fisica del Novecento, entrando all’École Normale Supérieure di Parigi, dove ottiene l’agrégation in filosofia. Purtroppo, il suo progetto di inserirsi nel settore scientifico che negli anni Cinquanta era il più nuovo, difficile e in un certo senso instabile, ossia la cosmologia moderna, viene ritardato dalla guerra. Infatti, viene mobilitato nel 1939, prima di terminare gli studi, per partecipare alla Seconda guerra mondiale. Nel 1940 è ufficiale di fanteria dell’esercito francese. Nello stesso anno viene fatto prigioniero di guerra, ma riesce a fuggire. Tornato a Parigi, entra a far parte, con la moglie France, di una rete della Resistenza, la rete di fuga Comète delle Forze Francesi Libere. La coppia era incaricata di accogliere gli aviatori alleati caduti nel territorio occupato sotto il fuoco della contraerea o paracadutati in missione, per poi ospitarli clandestinamente nella loro casa. Catturato e arrestato dalla Gestapo, viene condannato a morte dalle autorità di occupazione tedesche e rimane rinchiuso per quasi un anno nella prigione di Fresnes. Viene poi graziato e rilasciato in extremis solo nell’agosto del 1944, grazie all’intervento, a favore dei prigionieri politici, del console svedese Raoul Nordling, zio di sua moglie. Per la loro coraggiosa azione, che ha salvato e aiutato gli aviatori alleati, Jacques e France Merleau-Ponty saranno insigniti di un encomio dell’ordine delle Forze di Sbarco Alleate, firmato dal comandante in capo, il generale Eisenhower. Subito dopo la Liberazione, egli intraprende una breve carriera come giornalista presso l’Agenzia France-Presse e il giornale francese Combat (erede di giornali clandestini della Resistenza francese), e poi come insegnante di filosofia al Lycée de Beauvais e poi al Lycée Louis-le-Grand di Parigi. In seguito viene nominato ricercatore associato presso il Centre national de la recherche scientifique (CNRS), dove prepara la sua tesi di dottorato in filosofia. Da questa risultano i due seguenti libri, entrambi pubblicati nel 1965: per la tesi principale, discussa alla Sorbona il 19 giugno 1965, Cosmologie du xxe siècle. Étude épistémologique et historique des théories de la cosmologie contemporaine (pubblicato da Gallimard), e, per la tesi secondaria, Philosophie et théorie physique chez Eddington (Les Belles Lettres). Viene poi nominato docente presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Besançon, quindi ottiene una cattedra di epistemologia all’Università di Paris X-Nanterre, dove insegna fino al suo pensionamento, guidando un dinamico gruppo di dottorandi e ricercatori in epistemologia, filosofia e storia della scienza. Ha inoltre pubblicato i seguenti libri: Les trois étapes de la cosmologie (in collaborazione con l’astronomo Bruno Morando, 1971), Leçons sur la genèse des théories physiques : Galilée, Ampère, Einstein (1974), La Science de l’Univers à

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l’âge du positivisme. Étude sur les origines de la cosmologie contemporaine (1983), Le Spectacle cosmique et ses secrets (1988), Einstein (1993), oltre a saggi e articoli, alcuni dei quali in particolare forniscono il materiale per l’ultimo suo volume postumo sulla filosofia e la storia della cosmologia: Sur la science cosmologique. Conditions de possibilité et problèmes philosophiques (2003). Muore a 86 anni, il 7 giugno 2002 a Cepoy, un piccolissimo comune nel centro-nord della Francia. Cosmologia del secolo XX nella cosmologia del ventesimo secolo Forse nessun filosofo meglio di Jacques Merleau-Ponty ha potuto misurare la rivoluzione scientifica avvenuta nel ventesimo secolo con l’avvento della cosmologia moderna. Se si considera, infatti, che il suo primo lavoro di ricerca risale al 1945, quando la cosmologia si stava sviluppando grazie a contributi teorici e avanzamenti osservativi, si può dire che egli abbia partecipato quasi direttamente, attraverso le sue analisi epistemologiche e storiche, a questa rivoluzione. Prima di inoltrarci nel suo testo, però, può essere utile un breve excursus storico sulla cosmologia, in particolare quella del secolo scorso, per meglio collocarne temporalmente le analisi, evidenziando in primis che, quando esso fu pubblicato nel 1965, il suo titolo aveva ovviamente il senso di racchiudere il cammino percorso dalla cosmologia fino ad allora, mentre oggi tale titolo è perlomeno fuorviante, in quanto la disamina fatta da Merleau-Ponty non può che fermarsi a poco prima di quell’anno di pubblicazione (le sue citazioni arrivano al 1963), quindi mancano quasi quattro decenni densi di eventi e di risultati che quel ventesimo secolo ha visto poi realizzarsi. Inoltre è importante premettere che, modernamente, la cosmologia è la scienza che studia la struttura a larga scala dell’universo, dove con quest’ultimo termine s’intende tutto ciò che esiste, in senso fisico, pertanto l’universo è considerato come un sistema totale e unico. Si dice anche che la cosmologia studia l’universo come un tutto, vale a dire non s’interessa direttamente dei corpi celesti (pianeti, stelle, galassie, ammassi di galassie, ecc.) in esso presenti, che del resto vivono a “piccole” scale rispetto alla “totalità”, ma scopo principale della sua analisi è di ottenere una descrizione fisica coerente dell’universo nella sua interezza, dalle leggi naturali che lo permeano alla sua struttura geometrica e topologica, dalle sue dimensioni spaziali e temporali alla sua formazione, evoluzione ed eventuale fine, inclusi ovviamente i fenomeni accaduti nel suo lontano passato che hanno dato luogo alla sua attuale conformazione.

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La cosmologia, intesa molto più blandamente come tentativo di comprendere il mondo circostante, è una “pratica” antichissima, forse nata già con l’acquisizione di abilità linguistiche evolute da parte dell’Homo Sapiens, come afferma Harrison (1989, p. 13); ne consegue che, «ovunque ci sia una società umana, anche se assai primitiva, troveremo un universo» (1989, pp. 11-12), laddove col termine “universo” Harrison intende genericamente un sistema di credenze cosmiche condiviso da una comunità. In tempi relativamente più recenti, i “sistemi del mondo”, già a partire dall’antichità greca, integravano molto bene, con l’aiuto di ipotesi geometriche semplici ma ingegnose, i pochi dati osservativi allora disponibili. Le intenzioni conoscitive di quei primi studiosi, le cui dottrine cosmologiche erano spesso associate a scienze come l’astronomia e le matematiche, erano simili a quelle dei moderni cosmologi, ma ciò non toglie che due differenze importanti distanzino i loro risultati, come sottolinea Merleau-Ponty (1972, p. 304): la prima, piuttosto ovvia e quindi trascurabile, riguarda i mezzi utilizzati per realizzare quelle intenzioni; la seconda, decisamente più importante, concerne i modi di concepirle. Se fino al Seicento era naturale far intervenire, a vari gradi, nelle riflessioni sul cosmo considerazioni magiche, mistiche, teologiche, filosofiche, etiche ed estetiche, a partire da allora quei modi di concepire lo studio dell’universo, essendo sempre più ritenuti estranei allo spirito scientifico, persero progressivamente importanza, arrivando presto a non rivestire più alcun ruolo nella risoluzione pratica dei problemi cosmologici (intervenendo al più a monte, nelle motivazioni personali degli studiosi). È fondamentale sapere che quando si parla di moderna cosmologia scientifica solitamente ci si riferisce a quell’approccio teorico espresso per la prima volta in uno scritto del 1917 da Albert Einstein: è l’8 febbraio quando l’Accademia Prussiana delle Scienze di Berlino pubblica un suo breve saggio dal titolo Kosmologische Betrachtungen zur allgemeinen Relativitätstheorie (Considerazioni cosmologiche sulla teoria generale della relatività), in cui egli applica per la prima volta la sua recente teoria – appunto la relatività generale, pubblicata il 25 novembre 1915 – al cosmo nel suo complesso, ottenendo il primo modello di universo di quella che verrà anche detta cosmologia relativistica. Del resto questa teoria è la nuova teoria della gravitazione, che dopo tre secoli supera, generalizzandola, quella di Newton, e la gravitazione è proprio la forza principale che agisce fra le grandi concentrazioni di materia nell’universo. Che il modello di Einstein si dimostrerà dopo pochi anni insoddisfacente a descrivere il nostro universo è di secondaria importanza, ciò che conta è che di fatto si afferma un modo prevalentemente scientifico di studiare il cosmo: se prima di allora gli approcci erano stati segnati da caratteri più o meno marcatamente filosofico-speculativi, grazie

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ad Einstein quello studio acquista sia un coerente sistema concettuale basato su una solida struttura fisico-matematica (appunto quella della relatività generale), e quindi una rinnovata dignità scientifica prima non goduta appieno, sia un basilare approccio metodologico che ha reso possibile considerare l’intero universo come un oggetto scientifico descrivibile con grandezze della fisica.5 Del resto, fino ad allora, la cosmologia, come disciplina caratterizzata dall’accezione specifica poc’anzi vista, in effetti quasi non esisteva nella scienza moderna, e il termine stesso “cosmologia” veniva raramente usato6: si usava piuttosto “cosmogonia”, ma per riferirsi all’origine dei corpi celesti, mentre l’origine dell’universo non era un tema prettamente scientifico. Dunque non vi erano nemmeno cosmologi, ma solo astronomi, fisici o matematici che studiavano part-time il cosmo, senza un’identità professionale, né metodologie concordate, e soprattutto senza relazioni consolidate fra teoria e osservazioni (d’altronde, queste ultime, ancora estremamente scarse, in quantità e qualità). Si pensi che agli albori del ventesimo secolo, gran parte degli astronomi riteneva che tutta la materia dell’universo visibile fosse contenuta all’interno soltanto della nostra Via Lattea. Al di là, l’universo, spazialmente infinito, era probabilmente vuoto o permeato da un qualche etere: pochi astronomi ipotizzavano l’esistenza di nebulose (intese come le odierne galassie) esterne alla nostra. Era dunque un universo essenzialmente composto dalle stelle della Via Lattea, con il Sistema Solare posto più o meno al centro. Sebbene vi fosse consapevolezza di un’evoluzione locale – i corpi celesti (dai pianeti alle stelle), dotati di piccoli moti relativi, si formavano e vivevano un lasso di tempo finito –, l’universo era ritenuto complessivamente immutabile, statico (cioè senza variazioni nelle distanze fra i suoi punti), e probabilmente eterno. Pertanto, l’eventuale assegnazione all’universo di un’origine, ritenuta senza senso alcuno, e la comprensione 5

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La grande innovazione einsteiniana riguarda, dunque, la cosmologia teorica e non la cosiddetta cosmologia osservativa, che in sostanza è un’astronomia/astrofisica, ben più antica, che sottende osservazioni con valenze più strettamente legate al cosmo, ma con lo stesso grado di scientificità delle comuni misure e osservazioni astronomiche/astrofisiche, in quanto l’ottica di queste discipline è la stessa: occuparsi degli “oggetti” presenti nell’universo, e non dell’unico “oggetto” universo. Per questo la cosmologia osservativa non ha mai avuto quei specifici problemi metodologici ed epistemologici propri invece della cosmologia teorica, ai quali più avanti accenneremo. Stiamo parlando del suo senso scientifico: nel vocabolario filosofico, invece, fu introdotto, come neologismo, agli inizi del Settecento, dal filosofo tedesco Christian Wolff, per denotare l’ambito della tradizionale filosofia naturale considerata come parte della metafisica (si veda Agazzi 2006). Dunque, fino agli inizi del Novecento, la cosmologia si configurava più come una branca filosofica, sebbene – nota ancora Agazzi – interessi di tipo fisico-cosmologico siano esistiti sin dagli inizi in seno alla scienza moderna.

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delle sue regioni remote esterne alla Via Lattea, considerate al di là della portata di qualsiasi osservazione, erano temi giudicati non suscettibili d’indagine scientifica, ma al più filosofica. Con Einstein, insomma, la cosmologia, divenendo anche e soprattutto scienza teorica nel suo modellizzare matematicamente il singolo “oggetto universo”, s’impone, per certi versi, agli stessi addetti ai lavori, visto che la “scienza del tutto” era stata, per più di tre secoli, designata come impossibile e perfino proibita dagli stessi scienziati. Infatti, dall’epoca in cui maturò la separazione delle scienze sperimentali dalla speculazione genericamente filosofica, aveva imperato, come aspetto del metodo scientifico, ciò che lo stesso Merleau-Ponty chiama «uno dei più rigorosi comandamenti del catechismo scientifico» (M.-P. 1965, p. 10), al quale la ragione aveva dovuto sottomettersi: «‘Non parlare del Tutto’ – il diritto cioè di emanar leggi sull’Universo, di tracciarne a priori la configurazione, di ricostruirne, al di là del visibile, l’edificio, partendo da suoi elementi opportunamente pensati e misurati» (ibid.). Questo divieto era maturato perché i successi delle scienze della natura (soprattutto della fisica) sembravano possibili proprio grazie alla capacità di isolare settori della realtà in modo da farne oggetti di studio in condizioni controllate. Così, sebbene possa sembrare contraddittorio, proprio lo sviluppo della fisica newtoniana aveva allontanato il cosmo dalla scienza. Merleau-Ponty, in un bel saggio in cui esamina, tra l’altro, proprio il «problema della scomparsa della cosmologia scientifica nel secolo XIX» (1982, p. 40), scrive: «La rivoluzione scientifica dei secoli XVI e XVII aveva fatto a pezzi il vecchio cosmo, ma una volta acquisito il suo più positivo risultato, che è la teoria di Newton, il cosmo ancora non c’era e la nuova teoria non era di molto aiuto per ricostruirlo» (1982, p. 43). Infatti, la teoria di Newton (cioè le sue leggi del moto e le leggi gravitazionali), benché fosse stata il fondamento per la meccanica celeste, di fatto era intrinsecamente una teoria locale e non cosmologica, né forniva strumenti concettuali sufficienti a costruire un sistema cosmologico, anzi, proprio questa sua peculiarità, ben chiara a Newton stesso, la differenziava dalle antiche teorie della natura (si pensi alla fisica di Aristotele, in cui il cosmo figurava dall’inizio e ogni cosa in natura, in fondo, doveva essere compresa in quanto in relazione al cosmo, mentre le leggi newtoniane, appunto locali, dato un sistema meccanico spiegavano e predicevano ottimamente i moti interni al sistema, ma non le sue proprietà strutturali, né i problemi legati alle sue condizioni iniziali). Anche il ruolo dell’osservazione astronomica nella scienza di quei secoli contribuì in modo rilevante all’esclusione del cosmo: i più grandi astronomi, in primis William

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Herschel e Friedrich Wilhelm Bessel, erano estremamente più interessati a dare fondamento sperimentale al loro sapere, quindi, per esempio, a compilare cataloghi stellari, piuttosto che a ricavare immagini coerenti dell’universo. Perfino – continua Merleau-Ponty (1982) – uno dei pochi lavori scientifici con reali finalità cosmologiche – quello in cui Heinrich Wilhelm Olbers affrontava il problema legato al buio del cielo notturno e che diverrà un famoso paradosso – fu pressoché ignorato dalla comunità degli astronomi, nonostante la loro stima per Olbers. Pure i filosofi fecero la loro parte nel motivare la decadenza del cosmo e il suo ridursi ai confini del Sistema Solare, prima con l’illuminista Immanuel Kant, che, nel Settecento, eliminò la cosmologia dal dominio delle scienze naturali in quanto antinomica (ci sono ragioni valide sia per affermare la finitezza spaziale e temporale dell’universo, sia l’infinitezza, oppure sia la sua natura continua, sia quella discreta, ecc.), poi con il positivista Auguste Comte, che, nell’Ottocento, espunse dall’«astronomia positiva» (quella immediatamente utile in quanto confinata al Sistema Solare e ai corpi che lo attraversano) non solo lo studio della cosmologia emergente delle nebulose ma anche quello delle stelle, come afferma Bertotti citando appunto Comte, dal suo Cours de philosophie positive. Leçons sur l’astronomie del 1835: «Bisogna concepire l’astronomia positiva come consistente essenzialmente nello studio geometrico e meccanico del piccolo numero di corpi celesti che compongono il mondo di cui facciamo parte» (in Bertotti 1990, pp. 5-6). Insomma, era la meccanica celeste, nel cui schema matematico della dinamica newtoniana e analitica il movimento dei pianeti veniva strutturato e compreso al meglio, il paradigma dell’astronomia dell’epoca, mentre la speculazione cosmologica andava rifiutata non solo perché non aveva risvolti pratici e per la natura ambigua della sua metodologia, ma anche perché apparteneva ai modi del pensiero teologico e metafisico, ormai superati. Terminata questa breve digressione sull’“uscita di scena” della cosmologia dalla scienza post-newtoniana, si comprende forse un po’ meglio la grande portata rinnovatrice di quell’“azzardo” scientifico dello scritto einsteiniano del 1917, le cui intenzioni, in verità, erano assai più modeste (Einstein voleva sostanzialmente “testare” la relatività generale, e ben sapeva, come scrisse al collega Willem de Sitter, che il suo modello, dal punto di vista astronomico, era solo un «gran castello in aria» (Einstein 1917, p. 301)). A partire da quel suo fecondo saggio, la storia ormai più che centenaria della cosmologia si è sviluppata nella proposta di vari modelli d’universo, fondati in primis sulla relatività generale ma ovviamente sostenuti anche dalle restanti teorie della fisica consolidata. In questa storia possiamo individuare un significativo punto di svolta che si situa

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circa a metà del suo sviluppo, ossia intorno al 1965, proprio quando il libro di Merleau-Ponty viene pubblicato. Arriviamoci ripercorrendo brevissimamente le tappe salienti fino a quell’anno.7 Dopo l’articolo di Einstein, nella seconda metà degli anni Venti si prese coscienza dell’esistenza di galassie esterne alla Via Lattea, e anche di un incremento di almeno dieci volte delle sue dimensioni all’epoca stimate. Agli inizi degli anni Trenta si cominciò ad accettare, sulla scorta delle straordinarie osservazioni di Edwin Hubble, che il nostro universo non è statico, immutabile ed eterno come lo si era sempre creduto, ma in realtà ha una storia: poiché gli oggetti celesti più distanti risultavano allontanarsi da noi, si fece sempre più strada l’ipotesi che l’universo si stesse espandendo, e che quindi potesse avere avuto un’origine nel tempo (immaginata ripercorrendo temporalmente a ritroso quel moto spaziale espansivo fino a quel presunto assoluto istante iniziale che verrà poi chiamato big bang). Non venivano così stravolte soltanto le dimensioni spaziali dell’universo, ma anche la dimensione temporale: la variazione nelle prime costituiva l’essenza di un’evoluzione nella seconda. Negli anni Quaranta si gettarono le prime solide basi fisiche in grado di spiegare sia l’evoluzione delle stelle, tramite le reazioni nucleari al loro interno, sia la formazione, e attuale abbondanza, degli elementi chimici nell’universo, formatisi nei primi istanti successivi al big bang in quella che verrà definita nucleosintesi primordiale, avvicinando così la fisica atomica alla cosmologia. Negli anni Cinquanta, però, la validità di queste ricerche venne messa in dubbio da una nuova teoria, detta dello stato stazionario, in base alla quale l’universo come un tutto non evolve, sebbene si espanda: dunque esso non è nato, né finirà, ma esiste da sempre eternamente uguale a sé stesso, ovviamente nelle sue caratteristiche su larga scala, grazie a un’impercettibile creazione locale di materia in grado di compensare la diminuzione di densità dovuta all’espansione. Nei primi anni Sessanta, la giovane radioastronomia iniziò a sconfessare l’ipotesi dello stato stazionario. Dal conteggio di radiosorgenti (fra cui gli appena scoperti quasar) risultò che il loro numero nel lontano passato dell’universo era superiore a quello di tempi più recenti, dunque vi era stata un’evoluzione temporale su scala cosmica, sia nelle loro proprietà intrinseche che nella loro distribuzione, fatto che lo stato stazionario non poteva tollerare. Ma il colpo di grazia a questa teoria arrivò nel 1963, con la rilevazione di una radiazione a bassissima temperatura proveniente da ogni parte dell’universo – la cosiddetta radiazione cosmica di fondo a microonde – interpretabile teoricamente soltanto, come si appurò nel 1965, come residuo termico di un’epoca di poco 7

Per una disamina più dettagliata si veda Macchia (2016).

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successiva a una “deflagrazione” inimmaginabilmente energetica a partire da una singolarità originaria, in uno scenario dunque incompatibile con la teoria dello stato stazionario. Il 1965 fu così l’anno che consolidò lo status scientifico della cosmologia, che divenne una vera e propria disciplina fondata sul modello del big bang caldo, ora ben saldo in tale conferma empirica e quasi unanimemente accettato dalla comunità dei cosmologi, e fu il trionfo definitivo della relatività generale, le cui equazioni, ormai era assodato, governano la struttura e l’evoluzione dell’intero universo8. Dunque, per una curiosa coincidenza, proprio il 1965, anno di pubblicazione del nostro libro, è anche un anno storico per la cosmologia, in quanto essa matura definitivamente, abbandonando molte di quelle incertezze e per così dire intemperanze tipiche di ogni fase “adolescenziale”. Negli anni precedenti, infatti, proprio quando Merleau-Ponty intraprese i suoi studi per la tesi di dottorato – che poi confluiranno, come già detto, nella stesura anche di Cosmologia del secolo XX – la cosmologia, nonostante i suddetti progressi, non era ancora quella scienza accattivante, diffusa e ricca dei risultati coerenti, dal punto di vista osservativo e teorico, che la renderanno protagonista nei decenni successivi; pochissimi scienziati la padroneggiavano e ancora meno filosofi l’affrontavano epistemologicamente, e soprattutto era percepita da molti fisici e astronomi come una scienza marginale dotata di scarso potere predittivo e verificabilità. Il progetto di ricerca di Merleau-Ponty, insomma, non era per niente banale: non solo bisognava capire e pensare le scoperte di questa scienza ancora piuttosto anomala, per le ragioni sopra viste, e pretenziosa nel suo voler parlare dell’intero universo, vale a dire del “tutto”, ma anche accettare di relegarsi in un quadro ulteriormente periferico della fisica poiché la relatività generale, dai più ritenuta come il suo fondamento concettuale, dalla fine degli anni Venti fin verso alla fine dei Cinquanta, veniva ancora considerata da molti fisici, inclusi i fisici teorici, come “esoterica”, troppo astratta, matematicamente complicata e piuttosto eccentrica rispetto al corpus principale della fisica, sempre più incen8

Ulteriore recente evidenza della rilevanza di questa conferma, teorica e osservativa insieme, è il premio Nobel per la fisica assegnato nel 2019 all’astrofisico e cosmologo teorico canadese P. J. E. Peebles, per «le scoperte teoriche nella cosmologia fisica» (realizzate sin dalla metà degli anni Sessanta, in particolare proprio quelle sulla predizione della radiazione cosmica di fondo) che hanno «gettato le basi per la trasformazione della cosmologia negli ultimi 50 anni, dalla speculazione alla scienza», come recita la motivazione ufficiale del premio. A differenza di altri Nobel già assegnati per osservazioni relative alla cosmologia (nel 1978, proprio per la rilevazione di tale radiazione, e poi nel 2006, 2011, 2017), questo è, significativamente, il primo per la cosmologia teorica e per chi contribuì a costruire le basi del modello del big bang caldo.

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trato sulla meccanica dei quanti. Per affrontare la cosmologia bisognava, allora, impadronirsi della matematica molto elaborata della geometria differenziale costitutiva della relatività generale, ma anche della fisica atomica e della termodinamica, senza trascurare di comprendere i fenomeni e i dati astronomici più recenti. Insomma, ci volevano grandi competenze, passione, curiosità, coraggio intellettuale e intelligenza per osare avventurarsi in essa, soprattutto provenendo dalla filosofia pura. Merleau-Ponty, possedendo tutte queste caratteristiche, tipiche del grande studioso, aveva quindi ben capito che per esplorare il territorio della cosmologia con gli strumenti del filosofo bisognava prima dotarsi delle più dettagliate e profonde mappe, non solo fisico-matematiche ma anche storiche, di quel territorio, allo scopo di farne in primis un’analisi epistemologica appropriata, ma poi, anche al fine di estendere quell’indagine agli insegnamenti più generali, a livello propriamente filosofico, sulla natura della conoscenza e del mondo. In questo egli fu un vero pioniere, e il libro che state per leggere ne è efficace testimonianza. In esso non vi è solo una cronistoria, del tipo di quella brutalmente asciutta poc’anzi fatta, sui soli traguardi scientifici vincenti di questa scienza in formazione. Quei traguardi, infatti, non sarebbero stati raggiunti senza il nutriente humus di quel fitto sottobosco di ipotesi, tentativi, fallimenti, teorie, modelli, istanze filosofiche e persino temperamenti caratteriali degli scienziati che a quell’impresa si appassionarono. Ed è a questa storia più ampia e particolareggiata, la cui trama di fondo resta naturalmente quella dettata dagli sviluppi della fisica del cosmo, che Merleau-Ponty ha dedicato le fatiche del suo libro. È certamente un peccato che egli, tra l’altro simpatetico con la teoria dello stato stazionario, non sia riuscito a includere, in questa sua lunga disamina, proprio quanto stava di lì a poco per erompere sotto ai suoi occhi con la rilevazione della radiazione di fondo. Al contempo, però, è quasi sintomatico che essa porti a compimento la sua parabola proprio in quell’anno, allorquando anche l’interesse filosofico/metodologico per la cosmologia di fatto comincia a declinare: se, prima del 1965, possiamo dire che la ricerca in cosmologia aveva avuto un tono, in specie in alcuni periodi, significativamente epistemologico, con dibattiti incentrati esplicitamente sul suo metodo scientifico e sui suoi obiettivi, dopo il 1965, una volta assestatosi il versante scientifico grazie appunto alla conferma empirica della radiazione di fondo, e dunque una volta liberatasi, la cosmologia, dal ruolo di angusta propaggine della fisica fondamentale, i dibattiti sullo statuto filosofico e sugli aspetti fondazionali di questa ormai indipendente disciplina naturalmente tendono a passare in secondo piano. Quindi, in quell’anno, si chiude simbolicamente un’era nello studio epistemologico della cosmologia,

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per questo, se proprio vogliamo abbandonarci a una sorta di senso metastorico, possiamo vedere il testo di Merleau-Ponty come il più valido suggello di questa fase finale, appunto perché, come vedremo, esso, per i temi e persino per come è scritto, è espressione direi trasparente proprio di quella prima fase di formazione della cosmologia. Non è qui il caso di inoltrarsi negli sviluppi della cosmologia negli anni a seguire il 1965, ma può essere significativo fare un veloce accenno all’immagine odierna del cosmo per chiudere sommariamente il cerchio della storia dei suoi risultati principali, ma anche per apprezzare i passi da gigante, in quei primi decenni probabilmente insperati, che questa scienza ha percorso in poco più di un secolo, e magari tenerli a mente durante la lettura del libro, quasi a mo’ di riconoscenza nei confronti degli sforzi di quei primi protagonisti. Oggi i cosmologi calcolano che viviamo in un universo del diametro di circa 93 miliardi di anni luce (ma è solo il cosiddetto universo osservabile; quello “totale” è stimato, per via indiretta, essere infinito), che non solo è in espansione (il suo diametro aumenta a un tasso di circa 2 milioni di km al secondo, cioè a una velocità di circa 6,5 volte quella della luce, sol perché è lo spazio in realtà a dilatarsi), ma quell’espansione sta pure accelerando. È un universo nato, presumibilmente da un big bang, circa 13,8 miliardi di anni fa, a cui seguì un periodo brevissimo di espansione esponenziale, e che oggi ospita immense strutture di filamenti di gas, polveri e superammassi di galassie, quindi stelle e pianeti di ogni tipo ed età, buchi neri, onde gravitazionali, oltre a immense regioni vuote. Ma la materia ordinaria è solo circa il 5% del totale dei costituenti dell’universo, che è prevalentemente composto dalle cosiddette energia oscura (circa il 70%) e materia oscura (circa 25%), le cui effettive nature fisiche non sono ancora state chiarite. Torniamo adesso al nostro libro, sul quale, per orientarci alla lettura, diamo qualche “nota a margine”. Note al testo Intanto, credo sia doveroso specificare con sincerità che non è un libro divulgativo, cioè particolarmente adatto a un lettore che si affaccia su questa materia per le prime volte (anche per questo mi sono un po’ dilungato in questa introduzione, proprio per acclimatare al meglio questo eventuale lettore all’atmosfera che lo aspetta). Essendo un lavoro molto circostanziato – non dimentichiamoci che è una dissertazione di dottorato –, per certi versi è un testo per addetti ai

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lavori, da affrontare con un certo background e dunque da studiare, nel senso che, se se ne vogliono cogliere i dettagli e le profondità, è necessaria un’attenta e pacata disamina, visto che non poche sue pagine, in specie quelle in cui si dedica ad analizzare i tecnicismi fisico-matematici delle teorie fisiche e dei modelli di universo, non sono di agevole lettura (sebbene compaiano rarissime formule), per la semplice ragione che la materia è complessa in sé e se la si vuole rendere propriamente non bisogna troppo lasciarsi andare a derive semplicistiche9. Questo non significa affatto che non sia un libro notevolmente istruttivo e piacevole anche per una lettura, diciamo, più rilassata, che magari si concede il lusso di sorvolare sulle parti tecnicamente più ostiche: anche in questo caso si potrà apprezzare la grande maestria e padronanza con cui Merleau-Ponty si muove sia nel discorso scientifico che in quello filosofico, via via componendo un quadro storico che racchiude entrambi gli approcci alla questione cosmologica. Non ho ritrosie a sostenere che esso è, a mio modo di vedere, il miglior testo storico e soprattutto filosofico sulla moderna cosmologia, sia per i contenuti, sia anche per lo stile letterario, direi quasi di una maestria di altri tempi, così in grado di amalgamare con fluidità, nonostante un periodare non di rado lungo e corposo, l’acume del ragionamento filosofico, lo sguardo attento dello storico, e la precisione tecnica dello scienziato, non facendo mancare, qua e là, espressioni talvolta poetiche, talvolta argute, comunque inattese, che alleggeriscono la narrazione riportandola a un tono più colloquiale e pertanto accattivante. Ho detto narrazione perché questa è l’impressione personale che dalla sua lettura ne ho sempre ricavato, una narrazione quasi mai spezzata nel testo (se non per note a piè di pagina prevalentemente riguardanti riferimenti bibliografici) da citazioni altrui, quindi sempre espressa in “prima persona”, nel senso di filtrata dal proprio ragionamento, dalle proprie capacità di discernimento ed esplicazione, tipiche di chi ha piena consapevolezza di ciò di cui parla. Del resto, Merleau-Ponty è un fuoriclasse come pochi: oltre ad avere una grande competenza storico-filosofica “classica”, in grado anche di essere declinata nel linguaggio scientifico, ha una comprensione di prim’ordine anche della fisica (nei suoi studi si è occupato soprattutto di quella classica, nel senso di fisica newtoniana e relatività, ma non ha certo trascurato la meccanica quantistica, anche se non ha dato contributi epistemologici). Questa sua conoscenza della fisica si evince immediatamente dal suo muoversi, perfettamente a proprio agio, nei meandri 9

Vi è comunque un’appendice finale piuttosto ricca, di una cinquantina di pagine, in cui sono esposti i dettagli matematici e le formule fisiche di quanto spiegato a parole nel testo principale.

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dei dettagli fisico-matematici dei modelli d’universo, che però ricostruisce non sciorinando serie di formule contrappuntate da chiose esplicative come fanno sbrigativamente i più, ma usando soltanto la precisione discorsiva delle parole, lusso che pochi si possono permettere a un certo livello, la qual cosa gli consente di porre sullo stesso piano d’importanza, anche espositiva, l’essenza fisica dei modelli e il loro senso filosofico. È evidente che ha studiato approfonditamente i testi originali dei grandi cosmologi, quindi non ha bisogno di citarli, ma ha bisogno in un certo senso di contribuire a quei loro pensieri non solo con valutazioni personali ma anche armonizzando le loro istanze filosofiche, talvolta sottaciute o persino a loro stessi inconsce, con i rispettivi costrutti fisico-matematici, soppesandone le possibilità, i successi e i fallimenti, intessendo infine il tutto in un unico grande discorso storico che egli sembra monitorare con cura, tanto è il suo appassionato interesse. A differenza di altri testi storici di cosmologia, più o meno divulgativi, questo non ha un andamento strettamente cronologico. Ovviamente anche MerleauPonty, nelle sue analisi, segue a grandi linee il divenire storico di questa scienza e quindi il succedersi temporale degli avvenimenti che la riguardano dal 1917 al 1963 circa, ma non ne sottolinea tutte le tappe con rigore appunto storicocronologico. Non è un pedissequo elenco di fatti ordinato temporalmente il suo scopo, ma porre in luce i momenti salienti, di successo scientifico o meno, che hanno contribuito ad edificare questa nuova scienza, con i loro presupposti e prolungamenti epistemologici e filosofici. Anche in questo senso è un libro scritto da un filosofo, prima che da uno storico. Inoltre è un libro equilibrato nell’esposizione, come significativamente, e condivisibilmente, osserva uno dei più grandi cosmologi del Novecento, il fisico britannico Dennis Sciama, nella sua recensione al libro. In esso, infatti, «le diverse teorie ricevono tutte la loro giusta attenzione, e l’autore cerca di sottolineare ciò che c’è di meglio in ciascuna di esse» (Sciama 1968, p. 346), cosa nient’affatto scontata, egli premette, in quanto «c’è qualcosa nell’Universo che fa emergere tutto il bigottismo latente nell’uomo, cosicché nel definire il proprio atteggiamento verso di esso si tende ferocemente a escludere tutti gli altri atteggiamenti» (ibid.), ammettendo, infine, di essere anch’egli fra i colpevoli di questa propensione piuttosto partigiana nei confronti dei modelli di universo preferiti. Evidentemente, Merleau-Ponty aveva gioco facile nel non lasciarsi troppo andare a smaccate preferenze, non essendo appunto un cosmologo direttamente coinvolto in quelle ricerche, ma ciò non silenzia il plauso a un’attitudine più profonda e personale – e che sento di attribuirgli sullo slancio dell’idea generale che mi sono fatto dell’uomo e della sua probità – che ogni studioso serio penso

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dovrebbe avere di fronte all’ignoto o al dubbio, in ogni campo: cercare sempre il meglio nelle varie proposte, non il peggio. Ciò, non solo per una sorta di onestà intellettuale comunque lodevole, ma soprattutto per un più genuino e fecondo approccio alla ricerca tout court. Si noti, infine, che, essendo un libro datato, non va ovviamente letto per avere un quadro preciso ed esauriente della cosmologia nel suo primo mezzo secolo di vita, in quanto nel frattempo ci sono stati aggiornamenti, ripensamenti ed eventuali re-interpretazioni di vicende e studi di quel periodo. Questa “debolezza” è in realtà anche uno dei suoi valori aggiunti: forzando un po’ il concetto, esso è anche un documento storico in sé, per il fatto appunto di esser stato scritto quasi a ridosso degli accadimenti di cui narra (ovviamente questo è vero soprattutto per gli anni Quaranta e successivi), perciò è una testimonianza di quegli avvenimenti sicuramente più vivida – e maggiormente in grado di restituire lo spirito di un’epoca, o per meglio dire di una scienza che ne è il riverbero – di un testo recente. Per apprezzare quest’ottica, dobbiamo ovviamente metterci nei panni di un lettore di allora, che non aveva certo contezza dell’universo come noi oggi lo concepiamo. Prima di dare qualche cenno ai contenuti del libro, è significativo sottolineare che proprio il 1965 vide uscire altri due testi dalle tematiche affini. È una singolare casualità, data l’esiguità generale di studi su questi argomenti, ma rilevante, perché questi due libri appartengono ai due soli autori nati nei primi decenni del secolo scorso che, come Merleau-Ponty, si sono occupati ad altissimi livelli di storia e filosofia della cosmologia moderna. Uno è lo storico della scienza britannico John David North (1934-2008): anch’egli, proprio come MerleauPonty, dà alle stampe in quell’anno il suo primo libro, intitolato: The Measure of the Universe: a History of Modern Cosmology, Oxford, Clarendon Press (di cui non esiste una traduzione italiana). L’altro è il filosofo americano Milton Karl Munitz (1913-1995), nel 1965 già al suo terzo libro, dal titolo: The Mystery of Existence: An Essay in Philosophical Cosmology, New York, Appleton CenturyCrofts (trad. it: Il mistero dell’esistenza. Saggio di cosmologia filosofica, Roma, Ubaldini Editore, 1967). Sono entrambi libri di sicuro valore, ma non sovrapponibili al testo di Merleau-Ponty, né negli stili, né negli approcci. Quello di North ha un’impostazione generale diversa e se vogliamo più classica, più strutturata e oserei dire meno personale: un taglio maggiormente storico-cronologico, con un apparato di formule fisiche più corposo (sebbene la parte filosofica non manchi del tutto), in un quadro complessivo più interessato agli aspetti teorici delle teorie cosmologiche, laddove, invece, lo sguardo di Merleau-Ponty è più rivolto al sodalizio di

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teoria e osservazione. Il testo di Munitz è decisamente più metafisico degli altri: l’autore indaga sulla questione dell’esistenza anche alla luce della possibile “creazione” cosmologica. In senso lato, si può dire che Cosmologia del secolo XX sta a metà strada tra i due: rispetto al testo di North è di stampo più epistemologico, rispetto a quello di Munitz è più scientifico. Alcuni temi del libro Se vogliamo riassumere i contenuti del libro in una frase, possiamo dire che esso analizza uno dei più profondi mutamenti attuatosi nella concezione umana dell’universo: il passaggio da una visione statica del cosmo, che nemmeno la rivoluzione copernicana aveva intaccato, a una visione dinamica, all’idea assolutamente inedita, cioè, di un universo che ha avuto un inizio, un’evoluzione (dal punto di vista dinamico, termico e strutturale), e forse anche una fine. D’altronde, l’espansione cosmica, che è il cuore di questa concezione, è per MerleauPonty il «più prodigioso fenomeno astronomico mai osservato» (M.-P. 1965, p. 68), dunque è proprio con questa «trasfigurazione» – termine particolarmente espressivo da egli usato – che inizia il libro: In pochi anni, tra il 1910 e il 1930, proprio quando la parola ‘atomo’ assumeva un nuovo significato, l’universo dell’astronomia acquistò una nuova fisionomia, subì una vera e propria trasfigurazione, non meno importante di quella che, all’inizio del XVII secolo, aveva trasformato l’universo tolemaico in universo galileiano. Benché il quadro delle apparenze cosmiche abbia continuato ad arricchirsi prodigiosamente negli ultimi trent’anni, la nuova Gestalt non ha subito essenziali modifiche. Essa forma ancora lo sfondo di tutto il pensiero cosmologico. (M.-P. 1965, p. 15)

A più di cinquant’anni di distanza, queste parole sono ancora attuali: i cosmologi hanno sì catturato nei decenni a seguire altri fenomeni strabilianti riguardanti il cosmo, ma nulla di paragonabile a quella rivoluzione epocale, a quel cambiamento di paradigma, a quello stravolgimento del «postulato della stabilità fondamentale del Cosmo, della perennità della sua forma» (M.-P. 1965, p. 20). Anche per questo vale la pena tornare oggi a riflettervi con questo libro. Del resto, non fu solo una Weltanschauung a mutare, ma una nuova scienza ad emergere, anzi fu proprio quest’ultima a modellare – breccia dopo «breccia nell’edificio dei preconcetti» (M.-P. 1965, p. 39) – una nuova concezione del mondo, grazie soprattutto a quel proficuo rapporto dialettico fra teorie fisiche, osservazioni astronomiche e istanze filosofiche, il cui acme si consumò negli

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anni Trenta, e che è l’asse portante del libro. Ed è proprio nel perimetro di questa “nuova avventura della ragione” (M.-P. 1965, p. 10), come egli chiama la moderna cosmologia, che le scoperte osservative e gli avanzamenti teorici furono man mano in grado di trasformare l’universo in un oggetto scientifico, peraltro dotato di una propria storia. Di quei primi cinquant’anni di cosmologia, Merleau-Ponty distingue essenzialmente due grandi tappe: la prima riguarda le ricerche svolte sullo slancio del modello e delle concezioni relativistiche di Einstein, la seconda una cosmologia più indipendente dalla relatività generale. L’aspetto filosoficamente significativo è che queste due tappe non esprimono soltanto differenti modalità fisicoteoriche tese a modellare scientificamente il nostro universo, ma istanziano al contempo due differenti epistemologie – induttiva, la prima tappa, deduttiva, la seconda – le cui tante conseguenze s’insinuano nell’ossatura del libro, soprattutto nelle sue parti riguardanti i primi anni di quel periodo. Infatti, è soprattutto negli anni Trenta che i teorici dell’universo recarono nella discussione «gli elementi di una concezione personale del mondo, in poche parole di una filosofia» (M.-P. 1965, p. 78). Questo accade ogniqualvolta, volendo superare i contingenti limiti conoscitivi, si giunge a un punto in cui «qualunque sia il tecnicismo della discussione, termina la scienza e comincia la filosofia» (ibid.), e si risveglia così «un nuovo tipo di interesse, visto che non è più raggiungibile un certo genere di persuasione» (ibid.), quella appunto motivata da ragioni scientifiche. Dove non arriva la fisica a mettere d’accordo, insomma, si creano spazi ulteriori per la filosofia, magari in grado di integrare o ridurre quelli della prima. Ma addentriamoci brevemente in quelle due tappe. Secondo il metodo positivista, la scienza si fonda su osservazioni ed esperimenti, e siccome questi riguardano sempre fenomeni localizzati e particolari, sarebbe dovere della scienza estendere la sua indagine induttivamente, dal particolare al generale, quindi dai fenomeni locali a quelli via via che avvengono in domini più estesi. Era essenzialmente questo l’approccio seguito, a partire da Einstein, dai cosmologi della prima generazione (A. Friedmann, G. Lemaître, W. de Sitter, H. P. Robertson, ecc.), i quali, al di là delle differenze che li dividevano, erano d’accordo sul fatto che le equazioni della relatività generale dovessero costituire la base indispensabile alla costruzione dell’edificio cosmologico. Dunque, il modello di universo che cercavano rimaneva sostanzialmente un’operazione di estrapolazione e induzione a partire da una teoria locale quale appunto la relatività generale. Questo approccio, però, si scontrava con seri interrogativi: le nostre estrapolazioni induttive fino a che punto sono valide? Riescono ad esserlo per quelle

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zone dell’universo irraggiungibili per le nostre osservazioni, e addirittura per il cosmo intero? E se l’universo e tutta la sua struttura, inclusa quella geometrica, si trasformano espandendosi, in che senso potrà esser valida una qualsiasi inferenza che oltrepassa il presente? Insomma, una induzione che parta da osservazioni locali, per poi trarne proposizioni riguardanti la globalità dell’universo, non poteva rivendicare una grande attendibilità. Non è infatti possibile “mettere assieme” l’universo, per così dire, pezzo per pezzo, regione per regione: anche se si pensa all’astrofisica, che permette di conoscere dei sottosistemi dell’universo (dalle stelle alle galassie), questa graduale estensione “verso il globale”, osservativamente e matematicamente, sarebbe un compito fattualmente improponibile. Per questo l’approccio induttivo doveva necessariamente impiegare delle ipotesi, o convenzioni, specificamente cosmologiche, che potessero almeno garantire ab initio la possibilità di parlare dell’universo come un tutto e quindi di applicarsi a una cosmologia coerente. Però, tali ipotesi – non necessariamente contemplate dalla fisica locale, ma riguardanti proprietà con un valore fisico globale e perciò non soggette a un vero controllo empirico/osservativo – non potevano che essere di fatto estranee al metodo induttivo. Il cosiddetto principio cosmologico, già introdotto da Einstein nel 1917 – ossia un’assunzione di uniformità in base alla quale l’universo doveva essere, su scale opportunamente grandi, omogeneo (tutti i suoi punti indifferenziati) e isotropo (tutte le sue direzioni indifferenziate) – serviva proprio a questo10. Scontenti di ciò, alcuni autori, già a partire dai primi anni Trenta, proposero una strada differente, di stampo deduttivo. I protagonisti di questa «nuova cosmologia», come Merleau-Ponty (1965, p. 105), la chiama, furono E. A. Milne, il cui lavoro trovò compimento nella teoria della relatività cinematica, sostenuto anche dai suoi principali collaboratori, G. J. Whitrow e A. G. Walker, e poi, negli anni Cinquanta, H. Bondi e T. Gold, presto seguiti da F. Hoyle, i quali, riprendendo il programma di Milne e basandosi su principi epistemologici abbastanza simili, costruirono una teoria differente, la (summenzionata) teoria dello stato stazionario. L’approccio deduttivo capovolse l’ordine sia delle operazioni (riguardanti quali costrutti fisici porre a fondamento nell’elaborazione dei modelli d’universo), sia dei valori epistemologici: le equazioni della relatività generale non erano più necessarie a livello cosmico, e le ipotesi di uniformità introdotte nell’approccio induttivo, nel quale avevano pure uno statuto epistemologico piuttosto incerto, diventarono dei veri e propri assiomi. Questa nuova cosmologia si proponeva lo scopo di essere davvero assiomatica e deduttiva, costruita in modo 10 Si veda Fano e Macchia (2020).

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tale che la struttura metrica dello spaziotempo dell’universo, e il concetto stesso di universo, non risultassero da estrapolazioni di osservazioni, o constatazioni sperimentali, locali, né da principi empiristici, ma nascessero a priori, sulla base appunto di assiomi epistemologici e metodologici, per poi procedere in modo deduttivo confrontando i dati dell’esperienza con il modello elaborato. Il dibattito fra queste due fazioni fu in certi momenti molto acceso11, come mostra il libro di Merleau-Ponty, ma in sostanza la cosmologia deduttiva non fu mai accolta con favore dalla prevalenza degli addetti ai lavori, anche prima che le sue teorie venissero pressoché definitivamente accantonate, come già detto, su basi osservative a metà degli anni Sessanta. Per Merleau-Ponty, però, questo nuovo approccio rivestì un ruolo scientifico e filosofico importante, in quanto ebbe il merito, per almeno tre decenni, di mettere al centro del dibattito appunto lo status epistemologico della cosmologia, in specie il suo grande dilemma metodologico che stava a lui tanto a cuore: come porre la ricerca cosmologica in relazione alle altre teorie fisiche: per così dire, al primo o all’ultimo posto? Mentre nell’approccio induttivo l’essenza della cosmologia emergeva nell’ultimo termine (perlomeno in linea teorica) di un’estrapolazione che comunque avveniva all’“interno” della fisica, nell’approccio deduttivo la cosmologia assumeva un ruolo più fondamentale in quanto diveniva la scienza prima dal punto di vista logico, collocandosi all’“inizio” della fisica stessa (o, per certi versi, “prima” di essa): le leggi fisiche (quelle “locali”, insomma quelle basate su sperimentazioni) e i loro principi dovevano essere dedotti sulla base della cosmologia e della sua descrizione del cosmo. Ma qual è l’approccio giusto, visto che ognuno di essi intacca la coerenza della ricerca cosmologica? Se, infatti, nella scienza sperimentale è del tutto naturale concepire la conoscenza di una totalità come la sintesi delle sue parti, allora nella cosmologia, che per definizione è proprio la scienza dell’universo come un tutto, la conoscenza dovrebbe realizzarsi, come già accennato, «solo alla fine di un processo di induzione totalizzante, che metta d’accordo le conoscenze parziali man mano che queste continuano a precisarsi e estendersi» (M.-P. 1965, p. 405), proprio come è nelle corde del metodo dell’astronomia. In tal modo, però, la conoscenza cosmologica diventa una sorta di orizzonte che arricchendosi avanza, generando in continuazione soltanto l’illusione di una compiutezza in verità irrealizzabile (ciò accade non solo nel caso estremo di un universo infinito, 11 È significativo – come nota Mario Alai (comunicazione personale) – che, proprio in quegli anni, il neopositivismo logico mette a punto un’idea di metodo scientifico “induttivoipotetico-deduttivo” che è una sorta di sintesi di questi due approcci.

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ma anche per quelle regioni inosservabili e in espansione, di fatto impossibili da discernere, di un universo finito). E questa illusione è in stridente contrasto con la pretesa originaria e costitutiva della cosmologia di poter arrivare a cogliere la struttura del cosmo in un cammino induttivo. Di converso, il fatto che, per l’appunto, «la cosmologia difficilmente può presentarsi come semplice estrapolazione a partire dalle osservazioni astronomiche» (M.-P. 1965, p. 79) e che quindi «senza alcune ipotesi a priori essa è condannata al silenzio» (ibid.), la vincola a cercare risorse altrove, come assume l’opzione deduttiva, in un alveo di ipotesi o assiomi non rigorosamente scientifici e contrari ai suoi propositi costitutivi di effettiva scienza dell’universo. Questi due approcci non furono i soli a intessere le trame di quei decenni ripercorsi da Merleau-Ponty. Per esempio, tra il 1930 e il 1950, altri esimi fisici, in particolare A. S. Eddington, P. A. M. Dirac e P. Jordan, affrontarono il problema cosmologico ponendo come fatto fondamentale l’esistenza di coincidenze numeriche nelle combinazioni (fisicamente adimensionali) delle costanti fisiche fondamentali, riguardanti sia la microfisica che l’universo, ipotizzando che quell’approssimativa uguaglianza in quei numeri adimensionali non fosse dovuta al caso ma a leggi e teorie più profonde ancora da scoprire. Sullo sfondo di questi tentativi, il libro espone altri interrogativi cosmologici comunque di grande rilievo, che Merleau-Ponty affronta naturalmente da filosofo ma senza mai dismettere la loro essenza scientifica. La questione della totalità, ad esempio: la particolarità della cosmologia di essere la scienza del tutto, fisicamente inteso, cioè di quell’unico “oggetto” che è l’universo, la poneva subito al di fuori, o comunque ai margini, delle norme costitutive del pensiero scientifico: nella scienza un oggetto singolo viene compreso razionalmente per mezzo di una legge fisica/naturale, ma questa presuppone più individui (non nel senso di persone, ma di entità singolari) per rendere possibile il confronto o un’analisi statistica: data la singolarità dell’universo dobbiamo, allora, presumere che esso sia solo uno dei casi parziali (irrealizzati?) di qualche legge più generale, oppure che esistono strane leggi dipendenti soltanto da un individuo? E per giunta, qual è la natura di queste leggi: sono espressione della contingenza dell’universo (pertanto sono “frutto” del cosmo), oppure in qualche maniera ne regolano l’esistenza perché risiedono in una sorta di iperuranio platonico, essendo dotate di un’essenza a priori rispetto alla mera evenienza del cosmo (dunque, stavolta, sarebbe quest’ultimo un loro effetto, perlomeno dal punto di vista del suo “comportamento” fisico)? Conseguentemente, quali sono le proprietà essenziali e quali quelle accidentali dell’universo? Come decidere se una caratteristica della struttura cosmica appar-

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tenga di necessità all’universo o sia una sua mera congiuntura? D’altronde, non è possibile conoscere l’effetto di una eventuale variazione di qualcuna di queste proprietà cosmiche sulla nostra esperienza locale (in pratica, sulle nostre leggi di natura validate) per risalirne alla tipologia, né tantomeno sono realizzabili esperimenti scientifici per supporre come l’universo si sarebbe potuto evolvere a partire da condizioni iniziali differenti, saggiandone così l’eventuale sviluppo di altre caratteristiche. Insomma, anche nel caso delle proprietà (se vogliamo un sottocaso del caso poc’anzi visto riguardante la singolarità dell’ente che le istanzia: qui, appunto, l’universo), il confronto fra quei due tipi di proprietà ontologicamente profondamente differenti, e che se fossero posseduti da più individualità sarebbe realizzabile persino su mere basi osservative, risulta ovviamente impossibile. D’altronde, persino il concetto stesso di universo è di non facile definizione e piuttosto dubbio, anzi «non è altro che una congettura aleatoria» (M.-P. 1965, p. 51): «Nel mondo può esistere un numero infinito di cose tra le quali non è concepibile alcuna interazione: di per se stesso il concetto di universo non comporta alcuna condizione strutturale determinata […]. Può esservi un sistema nel quale si entra e si passa» (ibid., p. 63), vale a dire un sistema che non permane in qualche modo simile a sé stesso. Sebbene, allora, le apparenze che noi ricaviamo sembrino fondate su delle regolarità strutturali, in realtà potrebbe non esserci, magari a scale di distanza sufficientemente grandi (per noi), un ordine razionale precostituito in grado appunto di sostanziare propriamente un singolo ente fisico con i crismi basilari di un’identità strutturale (o perlomeno di una cosiddetta genidentità, ossia di un’identità di un individuo che rimane identica al passare del tempo e/o nel cambiamento). Un altro dei temi più appassionanti per Merleau-Ponty, che egli affronterà anche in seguito, è quello dell’ipotesi del tempo cosmico, ossia di quella scala temporale unica che consentirebbe di datare oggettivamente ogni evento nell’universo: egli lo ritiene uno dei più fondamentali e ardui della cosmologia, sia dal punto di vista fisico, ma anche filosofico, non essendo chiaro il suo significato e il suo status, se postulato autonomo, se conseguenza dell’isotropia spaziale, o altro. Strettamente connessi al divenire cosmico, ci sono poi i problemi legati all’origine dell’universo e della sua eventuale fine. Sebbene essi siano antichi quanto forse la civiltà umana stessa, ovviamente declinati nelle infinite forme delle nostre culture, nella moderna cosmologia assumono una veste nuova, fisicamente e metafisicamente nuova, nota Merleau-Ponty, poiché «non si tratta più soltanto del divenire delle cose nello spazio, bensì del divenire dello spazio e della stessa essenza del tempo. Il contenuto del tempo non è separabile dal tempo più di quanto il contenuto dello spazio non lo sia dallo spazio» (M.-P. 1965, p. 278).

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Infatti, nella relatività generale, spazio e tempo non sono più entità fisse e immutabili come nella fisica newtoniana, ma sono dinamiche, quindi cambiano prendendo parte al gioco stesso del divenire. In un tal quadro, la permanenza stessa delle leggi di natura diviene problematica: le descrizioni dell’universo primordiale dei cosmologi, per esempio, si basano sull’universalità e persistenza delle leggi che noi conosciamo, ma la supposizione che esse siano le stesse in tutti i tempi e luoghi come si spiega se l’universo è in evoluzione globale e irreversibile? Anche il concetto di creazione, tipicamente filosofico e religioso e da tempo abbandonato, rinasce con la cosmologia moderna, stavolta anche su basi, almeno potenzialmente, scientifiche, sebbene l’ipotesi di un inizio singolare dell’universo (e del tempo) sia in verità piuttosto indigeribile per Merleau-Ponty, ai limiti dell’assurdo, data anche la sua indefinibilità fisica. Resta il fatto che si ha un’idea scientifica della storia dell’universo abbastanza delineata ma questa storia inizia con qualcosa d’incomprensibile. E ancora, quali fatti osservativi possono interessare la cosmologia? Sicuramente quei fatti, probabilmente pochi e non facilmente distinguibili, a cui si può attribuire con certezza un significato universale (si pensi al redshift cosmologico, cioè quello spostamento relativo delle frequenze nella radiazione che ci giunge pressoché da tutti i corpi celesti a grandissime distanze, e che è manifestazione dell’espansione cosmica). La cosmologia non può, però, trascurare l’eventualità che alcune caratteristiche globali dell’universo possano manifestarsi anche in qualche fenomeno locale, dunque di base essa dovrebbe interessarsi a qualsiasi osservazione e a qualsiasi esperienza di laboratorio, appunto perché queste potrebbero rivelare inaspettatamente un qualche collegamento con la struttura a larga scala dell’universo. A priori, però, essa non è in grado di sapere quali di queste osservazioni locali possano essere in tal senso illuminanti. In generale, allora, per evitare di confondersi con effetti solo locali o transitori, le osservazioni andrebbero compiute su dimensioni enormi, a distanze estremamente lontane, ai limiti del visibile, perciò, chiosa con una battuta Merleau-Ponty, «la cosmologia è sempre più o meno obbligata a condurre un tenore di vita eccessivo rispetto alle possibilità dell’astronomia» (M.-P. 1965, p. 77). D’altronde, l’apporto di quest’ultima – o, per meglio dire, in termini più moderni e generali, dell’astrofisica – alla prima resta molto limitato, ma non per loro mancanze, quanto per le esigenze della cosmologia e per la natura dei suoi problemi, che la rendono, come appena detto, «interessata a priori da tutto e in particolare da niente» (M.P. 1965, p. 382). Osservazioni di portata veramente cosmologica, comunque, sono rare; per esempio, quelle di Hubble sull’espansione per Merleau-Ponty

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furono un fatto straordinario e inatteso: «In cosmologia, l’osservazione decisiva, cruciale, capace di troncare il dibattito teorico e di rivelare con evidenza una indiscutibile proprietà dell’Universo inteso nel suo complesso, […] questa osservazione ideale ha ben poche probabilità di realizzarsi» (M.-P. 1965, p. 383). Proprio per questa improbabilità, egli non poteva certo immaginare che, per ironia del destino, giusto pochi mesi dopo la stesura di quelle parole, un’altra osservazione – come già ricordato, quella della radiazione cosmica di fondo, magari non altrettanto straordinaria quanto quelle di Hubble ma di sicuro dirompente – confermasse il modello del big bang, troncando il dibattito teorico attorno alla teoria dello stato stazionario. Mi sia ora concessa una breve digressione sulla ricezione di Merleau-Ponty di questa “sconfitta” della teoria a cui andavano le sue simpatie. Egli prese presto atto che la sua validità, dopo quella osservazione, si era ormai fatta molto improbabile: già nel 1971, infatti, scrisse che «la ricerca teorica ha mostrato che, nel quadro di riferimento della cosmologia relativistica, non si possono evitare soluzioni caratterizzate da singolarità» (M.-P. e Morando 1976, p. 203). La sorpresa, però, per questa necessità di una singolarità iniziale non restò indenne, ma scosse profondamente la sua successiva analisi epistemologica e filosofica. I dubbi che un tale straordinario evento portava con sé erano, infatti, numerosi. La dimensione temporale – che doveva, appunto, ora farsi carico della presenza di una peculiarità, nel passato, così eccessivamente scivolosa dal punto di vista fisico (essendo espressa da quantità infinite o nulle, riguardanti materia, temperatura, densità, ecc.) – non rischiava di distruggere la scientificità dell’“oggetto universo” poiché ne impediva una reale conoscenza? O forse questa origine era solo un “punto” logico senza esistenza reale, al quale si sarebbe dovuto rinunciare a pensare? Si poteva salvare il rapporto fra filosofia e cosmologia, una volta che il significato scientifico “vacillava” o era addirittura perso? In questo “nonsenso” della singolarità iniziale che induceva a pensare a un universo “creato” vi era spazio per un ritorno al finalismo, al teismo o al deismo, e dunque bisognava rinunciare a una cosmologia scientifica per evitare queste derive della ragione? Merleau-Ponty s’interrogò a lungo su tali questioni, e su come passare da un universo eterno, stazionario, scientifico, a un universo “creato” ma altrettanto scientifico, in un contrasto così stridente da superare che, in riferimento alla singolarità originaria dell’intero universo, lo fece pensare a Pascal, in particolare «al ruolo svolto dal peccato originale nella dialettica del suo progetto apologetico: “punto impercettibile” da cui però tutto dipende» (M.-P. 1994, p. 287)12. 12 Per un’ampia panoramica si veda Robredo (2010).

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Tornando alla mia rapida e incompleta rassegna sulle tematiche principali del libro, per concludere, si può dire che tutte queste confluiscono naturalmente in un quesito epistemologico generale, di stampo kantiano, fondamentale nell’ottica di Merleau-Ponty: come è possibile la cosmologia? Ossia, quali sono le condizioni di possibilità della sua conoscenza? In fondo, sebbene essa sia un’impresa scientifica razionale ed efficace, al contempo non è una scienza, per quanto visto finora, dai profili “smussati” come le altre: come la metafisica per Kant, la cosmologia in un certo qual modo è una scienza dei limiti della ragione umana, sia nel senso di dove quest’ultima può arrivare nella comprensione, perlomeno riguardo all’estensione spaziotemporale del mondo circostante, sia nel senso di una propria conoscenza di quest’ultimo, in quanto la cosmologia tende per sua natura ad andare “oltre”, superando, o comunque continuamente rinegoziando, quel divisorio costitutivo, benché intrinsecamente sfumato, del discorso scientifico fra il possibile per la scienza e l’impossibile per l’esperienza. Oltre a tutte queste problematiche, e ad altre non citate, nel libro MerleauPonty si confronta anche con i profondi interrogativi sul posto che il genere umano occupa nell’universo. Nelle ultime pagine, infatti, egli si chiede: «Nel XX secolo la cosmologia possiede un’idea delle origini cosmiche del destino umano meno vaga che ai tempi di Esiodo?» (M.-P. 1965, p. 424). La risposta non è semplice, e lascio al lettore il piacere di leggersi le sue riflessioni; certo, al cospetto di simili domande perenni la scienza difficilmente potrà mai sporgersi oltre a determinati limiti “strutturali”, ma non è comunque un risultato da poco, per l’umanità, l’avere inserito i margini temporali della sua piccola avventura esistenziale nella grande storia del cosmo, arrivando anche a poter affermare, insieme a Merleau-Ponty, con poetica consapevolezza scientifica, che «noi viviamo per il fatto che un astro non ha ancora finito di morire» (M.-P. 1965, p. 425). Perché (ri)leggere oggi questo libro Nonostante queste incertezze, le diatribe e persino gli equivoci che persistono sui suoi fondamenti, metodi e rapporti con la fisica in generale, oggi la cosmologia ha raggiunto dei risultati strabilianti e impensabili anche solo fino a pochi anni fa, diventando un’area di ricerca centrale nella fisica fondamentale, e non più un suo sottocampo trascurato come lo era stato fino a metà degli anni Sessanta. Al contempo, non bisogna trascurare nemmeno il fatto che i lineamenti fisici essenziali dell’universo, già scoperti nei decenni passati, sono stati confermati grazie a nuovi e più accurati dati, circostanza di cui, quasi istintivamente

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ma erroneamente, si tende a sottovalutare la rilevanza, come evidenzia MerleauPonty: «Infatti, il consolidamento delle conoscenze impressiona meno della scoperta di fatti nuovi, meno anche, senz’altro, di quanto avverrebbe rimettendo in dubbio i dati acquisiti» (M.-P. 1965, pp. 384-5). È ormai quasi un luogo comune dire che siamo nell’età d’oro della cosmologia, basti pensare alle recenti straordinarie immagini dell’ultimo telescopio spaziale, il James Webb Telescope, e agli incredibili progressi sulle onde gravitazionali che forse un giorno permetteranno di “vedere” le fasi ancora più prossime al big bang. Insomma, sono tempi in cui la nostra immagine del cosmo si sta facendo sempre più matura rispetto a quella di mezzo secolo orsono, grazie appunto a una cosmologia che, ampliando enormemente la quantità e la qualità del suo bagaglio conoscitivo e il grado di coerenza dei riscontri nelle sue ricerche, sta facendosi, per certi versi, sempre più scientifica. Eppure, quest’opera pionieristica di Merleau-Ponty, sebbene storicamente datata, rimane ancora unica e impareggiabile, per nulla invecchiata nella sua forza e fascino, e piena di spunti e riflessioni filosofiche valide attualmente. Il punto è che, come ben sanno in generale i filosofi della scienza (e pure gli psicologi), la maturazione dei risultati di una scienza (lo sviluppo corporeo di un adolescente) non corrisponde automaticamente a una sua più salda chiarificazione epistemologica e filosofica (la maturazione psichica di quell’adolescente). Insomma, la cosmologia, anche in quanto scienza “giovane”, resta ancora peculiare, perennemente di frontiera, sia perché non ha ancora risposto ai grandi quesiti epistemologici finora esposti che nel profondo tentano di definirla (riguardo alle sue metodologie e al suo oggetto di studio), sia perché pone ancora le stesse tradizionali domande di stampo filosofico (sullo spazio, tempo, finitezza o infinitezza dell’universo, sulla sua origine, totalità, ciclicità, ecc.). A questi aspetti aggiungerei una riflessione, ancora di Merleau-Ponty, solitamente sottaciuta, ma la cui sottigliezza credo invece non debba essere sottostimata, e riguarda la potenziale instabilità della cosmologia. A differenza delle teorie fisiche, i modelli cosmologici hanno un “andamento” più a rischio. Le prime, infatti, sebbene nel tempo decadano, venendo poi sostituite da altre più generali, rimangono comunque, almeno approssimativamente, valide nel loro iniziale dominio di applicazione, conservando pertanto una certa stabilità nella successione dei loro progressi (la meccanica newtoniana, seppur soppiantata dalla relatività speciale di Einstein, funziona ancora benissimo nei limiti delle basse velocità). I modelli cosmologici, invece, sono strutturalmente meno rigidi, proprio in quanto modelli, ossia descrizioni formali (e non dirette espressioni di leggi di natura) di un certo quadro d’insieme che, in specie a livello cosmico globale, può rivelarsi improvvisamente fragile non appena qualche

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tessera di quel puzzle descrittivo, rimaneggiata da una nuova evidenza sperimentale, non combacia più, localmente, con l’interezza della figura. In ambito cosmologico, infatti, si possono ipotizzare in futuro, con un grado di probabilità non alto ma nemmeno nullo, delle osservazioni tanto inattese quanto prorompenti: ad esempio, potrebbero venire meno l’omogeneità e/o l’isotropia della distribuzione della materia nell’universo, oppure l’abbondanza relativa delle specie atomiche a grandi distanze potrebbe risultare molto diversa da quella finora creduta, ecc13. Tali osservazioni potrebbero così non solo far vacillare dei capisaldi degli attuali modelli cosmologici al punto da falsificarli in parte o totalmente, ma addirittura potrebbero distruggere l’universo come noi oggi lo intendiamo, relegando a semplici apparenze quelle che riteniamo essere le sue sostanziali caratteristiche. E allora, come chiosa Merleau-Ponty, «vedremmo, molto tristemente, scomparire un’altra volta il cosmo come un fantasma dell’immaginazione, proprio come accadde alcuni secoli fa. La cosmologia diventerebbe allora solo un’astrofisica molto filosofica» (M.-P. 1982, p. 50). Anche per tutti questi fattori, le odierne e straordinarie, ma ancora “adolescenziali”, conoscenze del cosmo non possono, a mio avviso, che far aumentare gli interrogativi filosofici (si pensi, pure, alla recente strabiliante ipotesi dei multiversi). E sebbene il secondo mezzo secolo di vita della cosmologia sia stato – come dicevo – meno epistemologicamente vivace rispetto al primo, oggi si sente la mancanza di un testo come questo di Merleau-Ponty, che, ovviamente aggiornato, possa dare un coronamento filosofico complessivo a tutto il primo secolo di vita dell’impresa cosmologica; anzi, proprio questa minor vivacità pretenderebbe uno sguardo d’insieme filosofico che la spieghi nel profondo, magari prendendo a modello – riguardo a come affrontare, nell’ottica di un tale sguardo, una scienza – proprio questo testo.14 D’altronde, guardiamo brevemente a due dei punti generali più rilevanti messi in luce da Merleau-Ponty in questo libro: 1) contrariamente al divieto 13 In verità, già adesso ci sono delle discrepanze da spiegare. Per esempio, recenti osservazioni indicano una tensione fra le determinazioni “locali” e quelle “globali” della costante di Hubble (cioè il termine che indica la velocità alla quale il nostro universo si sta espandendo), tensione dovuta a valori incompatibili fra loro, e ancora non si sa se queste differenze siano causate da errori sistematici nelle scale di distanza adottate e quindi nelle misure, o se invece siano un sintomo della necessità di modificare l’attuale modello d’universo. Un’altra discrepanza è il cosiddetto problema cosmologico del litio (7Li), la cui abbondanza osservativa è di circa un fattore 3 più bassa rispetto a quanto previsto nel modello della nucleosintesi primordiale, e le ipotesi risolutive proposte non incontrano ancora un accordo generale. 14 Recentemente, lo studioso italiano che più, e a mio avviso meglio, si è occupato di queste tematiche, tenendo in grande considerazione gli studi di Merleau-Ponty, è il fisico e storico della fisica/cosmologia Silvio Bergia; in particolare, si vedano i due libri Bergia (1995; 2002).

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di scienziati e filosofi del passato (si pensi a Kant), la ragione può comprendere l’universo e la sua evoluzione15; 2) contrariamente alla separazione tra scienza e filosofia imposta nei secoli scorsi, con la cosmologia la questione della totalità torna ad essere filosoficamente rilevante. Bene, direi che sia evidente come questi temi (appunto, i limiti e le forme della ragione, la (im)possibilità di comprendere la totalità, ecc.) meritino ancora oggi un’attenzione filosofica in grado di valorizzarli in forme magari inedite, in un alveo di analisi originatesi a monte in maniera “saldamente” scientifica, ma che poi a valle possano ravvivarsi alla luce dei recenti studi di più ampi settori culturali (metafisici, religiosi, persino letterari…). Tanto più che a invitarci a farlo è proprio lo sviluppo del pensiero cosmologico, che ha messo in luce un’apertura essenziale della scienza e una indisponibilità a lasciarsi delimitare da principi troppo rigidi, come afferma lo stesso Merleau-Ponty nel seguente brano, forse un po’ l’idea-guida epistemologica del libro: Ciò che infine è assai rilevante è il fatto che, per quanto nessuno possa dire che genere di scienza essa sia esattamente, né che forma assumerà domani, di fatto la cosmologia tuttavia esiste e partecipa al movimento generale della scienza della natura; ciò rende scettici sulla possibilità di una epistemologia che avesse la pretesa di porre a priori un limite all’estendersi dell’esplorazione scientifica e di definire un sistema di norme esplicite a cui qualsiasi enunciato passato, presente o futuro dovrebbe necessariamente conformarsi per potersi presentare come ‘scientifico’. (M.-P. 1965, p. 407)

E allora in quali modi approcciarsi filosoficamente alla cosmologia oggi? Affidiamoci alle parole di un suo scritto più recente, che di fatto non fanno altro che sintetizzare i due percorsi da lui concretamente seguiti nelle pagine di Cosmologia del secolo XX: Il primo è quello di interrogarsi sulle caratteristiche specifiche di questa scienza, sui suoi metodi, sulle sue relazioni con il suo oggetto, l’Universo, e sul suo posto tra le altre scienze; ci si chiede poi che tipo di scienza sia la cosmologia, se non incontra problemi specifici che è difficile affrontare completamente secondo i metodi delle altre scienze, la cui applicazione è tuttavia indispensabile. Il secondo […] consiste nell’interessarsi direttamente ai risultati da essa acquisiti in epoca contemporanea e nel collocarli in un quadro più generale, senza essere troppo esigenti nei confronti del grado di certezza che essi comportano. (M.-P. 1990, p. 189)

Mutuando le considerazioni di un altro importante storico della scienza, Helge Kragh, possiamo etichettare questi due tipi di percorsi filosofici verso 15 Si veda Fano e Macchia (2010).

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la cosmologia, rispettivamente, come filosofia della cosmologia e filosofia nella cosmologia16: laddove il primo approccio costituisce un’analisi tipicamente oggi perseguita dai filosofi della scienza nei confronti di una certa disciplina, quindi, in tal caso, sui metodi e le possibilità di ottenere una vera conoscenza dalla cosmologia, nonché sul suo oggetto di studio, il secondo è ancora uno studio filosofico ma più incentrato sugli aspetti fisici dei fenomeni in studio dalla cosmologia stessa, quindi più interno ai suoi specifici risultati scientifici, alle loro previsioni, interpretazioni e fondamenti concettuali, in un’ottica che è oggi più tipicamente seguita dai filosofi della fisica. Lungo questi due crinali, che appunto uniscono, rafforzandoli, i versanti fisici e filosofici della cosmologia, qualcosa si è sicuramente mosso negli ultimi anni, visto che in alcuni dipartimenti di filosofia che studiano i fondamenti della fisica, soprattutto in ambito anglosassone, si è fatta largo una nuova disciplina all’interno del dominio più a vasto raggio della filosofia della fisica: la filosofia della cosmologia (in senso generale, includente quindi i due approcci appena visti di Kragh e Merleau-Ponty). Conferenze e scuole estive sono state dedicate a questa disciplina17, e scritti tematici hanno cominciato ad apparire nelle riviste specializzate, nei libri e in qualche programma di ricerca filosofico: si pensi a quello dell’Università di Oxford, che guarda alla possibilità di studiare filosoficamente i fondamenti di tutte le teorie fisiche (dalla relatività generale alla meccanica quantistica, termodinamica, ecc.) non più singolarmente, ma proprio all’interno del perimetro unitario della cosmologia, visto che essa ormai contiene e usa pressoché il loro intero apparato di risorse concettuali, sperimentali, matematiche, in modo tale da rendere la filosofia della cosmologia, oltreché una branca estesa della filosofia della fisica, un approccio interdisciplinare alla cosmologia stessa. Certo, la filosofia della cosmologia rimane ancora una disciplina notevolmente di nicchia, e questo è comprensibile se si alza lo sguardo al corpus generale di tutti i saperi per valutare in esso lo spazio, decisamente esiguo, occupato non solo dalla filosofia della fisica ma anche dalla multidisciplinare filosofia della scienza. D’altronde, fra i filosofi stessi in generale, il credo professionale prevalente è purtroppo ancorato a una filosofia che si sostanzia a priori, cioè che trascura – con maggiore o minore presuntuosa sufficienza, ma con la stessa, a mio parere, insensatezza gnoseologica di fondo – i risultati della scienza. Meno comprensibile – è questa posizione di nicchia della filosofia della cosmo16 Si veda Kragh (1997, p. 22). 17 Ad esempio, una delle più note, e rinomate internazionalmente, scuole estive di filosofia della fisica, ossia quella organizzata dall’Università di Urbino, nel 2019 è stata proprio intitolata, e dedicata alla, Philosophy of Cosmology.

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logia, dicevo – se invece si resta all’interno della filosofia della scienza (e perché no, anche della storia della cosmologia tout court, visto che la storia di una qualsivoglia scienza difficilmente non è intrinsecamente contaminata perlomeno dalle istanze filosofiche dei suoi protagonisti e del loro tempo), ambito che potrebbe esser reso ancor più fruttuoso da una scienza come la cosmologia più costitutivamente filosofica di altre, così di frontiera nel suo essere tanto prossima ai confini sia dell’ontologia, cioè del sapere umano su ciò che esiste nel mondo e nell’universo fisico, sia dell’epistemologia, ossia sui modi di cogliere quel sapere. Bisogna purtroppo ammettere che la strada aperta cinquant’anni fa da Merleau-Ponty con questo suo libro – e poi proseguita, nei decenni successivi, con l’esempio dei suoi studi e con i suoi espliciti inviti alla riflessione filosofica sui progressi della cosmologia – non è stata molto battuta, come egli stesso ha affermato in una più recente intervista, riferendosi perlomeno alla sfera francese: «Conosco diversi filosofi più giovani di me che sono interessati alla cosmologia, ma il loro interesse è più concentrato sulla storia della cosmologia» (in Krob 2000). D’altra parte, questo disinteresse ha attraversato tutto il secolo scorso, come egli rimarca ampliando l’orizzonte filosofico: La cosmologia contemporanea […] è una branca del sapere scientifico molto originale, che si penserebbe possa attirare l’attenzione dei filosofi; tuttavia, dalla sua creazione e sviluppo, che risalgono a più di settant’anni fa, non è stato così, non solo da parte dei filosofi che pensano che la scienza non pensi18, ma anche da parte di altri. Carnap, Reichenbach, Cassirer, Russell, Brunschvicg hanno assistito alla sua nascita e ai suoi primi sviluppi, ma non ne hanno scritto. Non l’ha fatto nemmeno Bachelard, anche se – posso testimoniarlo – era pienamente informato sui suoi progressi […]. Popper e Quine hanno vissuto più a lungo nel secolo senza dire molto di più; e l’interesse a questo riguardo delle generazioni più recenti non sembra essere molto maggiore. Si tratta, a mio avviso, di una sorprendente e deplorevole miopia. (M.-P. 2000, p. 485)

Nonostante questo velo conclusivo di consapevole pessimismo di MerleauPonty, qui vogliamo restare fiduciosi, e sperare che anche la ristampa di quest’opera possa contribuire a correggere un po’ quella miopia e a far germogliare, in questo secolo che si preannuncia estremamente fertile per la cosmologia scientifica, nuove passioni filosofiche in grado di spingere il nostro sguardo e il nostro stupore ancora più lontano, nel cosmo e nell’uomo.

18 Direi che qui è abbastanza chiaro il riferimento critico a Martin Heidegger (ed eventuali epigoni), data la sua notorietà in quanto uno dei più studiati filosofi del Novecento, che infatti scrisse proprio che «la scienza non pensa» (1952, p. 88).

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Cosmologia del secolo XX

Ringraziamenti Ringrazio vivamente Mario Alai e Vincenzo Fano per i preziosi suggerimenti su una versione precedente di questo testo, di cui ovviamente resto l’unico responsabile. Questo è un lavoro sostenuto finanziariamente dal MIUR – Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – tramite il programma PRIN 2017 “The Manifest Image and the Scientific Image”, prot. 2017ZNWW7F_004. Bibliografia Agazzi, Evandro (2006), “Cosmologia, temi filosofici della”, in Enciclopedia filosofica, vol. III, Milano, Bompiani, pp. 2355-65. Bergia, Silvio (1995), Dal cosmo immutabile all’universo in evoluzione, Torino, Bollati Boringhieri. Bergia, Silvio (2002), Dialogo sul sistema dell’Universo, Milano, McGraw-Hill. Bertotti, Bruno (1990), “Cosmology, a peculiar science”, in B. Bertotti, R. Balbinot, S. Bergia e A. Messina (a cura di), Modem Cosmology in Retrospect, Cambridge University Press, Cambridge, pp. 3-9. Borges, Jorge Luis (1952), “L’idioma analitico di John Wilkins”, in Borges. Tutte le opere, Vol. 1, I Meridiani, A. Mondadori Editore, Milano, 2011, pp. 1002-1006. Einstein, Albert (1917), “Letter to de Sitter, March 1917”, in R. Schulmann, A. J. Kox, M. Janssen e J. Illy (a cura di), The Collected Papers of Albert Einstein, Vol. 8. The Berlin Years: Correspondence, 1914-1918, Princeton, Princeton University Press, 1998, p. 301. Fano, Vincenzo e Macchia, Giovanni (2010), “How contemporary cosmology bypasses Kantian prohibition against a science of the universe”, in M. D’Agostino, G. Giorello, F. Laudisa, T. Pievani e C. Sinigaglia (a cura di), New Essays in Logic and Philosophy of Science, London, College Publications, pp. 117-130. Fano, Vincenzo e Macchia, Giovanni (2020), “Historical-Epistemological Considerations on the Cosmological Principle”, Aquinas LXIII, I-II, pp. 309-324. Harrison, Edward (1989), Le maschere dell’universo, Milano, Rizzoli. Heidegger, Martin (1952), “Che cosa significa pensare”, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976, pp. 85-95. Kragh, Helge (1997), “On the History and Philosophy of Twentieth-Century Cosmology”, in P. Tucci (a cura di), Atti del XVI Congresso Nazionale di Storia della Fisica e dell’Astronomia, Comune di Como, Como, pp. 13-33. Disponibile anche in internet: http://www. sisfa.org/wp-content/uploads/2013/03/xviKragh.pdf. Krob, Josef (2000), “Jacques Merleau-Ponty - Josef Krob”, Filosofický časopis. Praha: Filosofický ústav AV ČR, vol. 48, No 6, pp. 1027-1032. ISSN 00015-1831. Macchia, Giovanni (2016), “La cosmologia relativistica, 1917-1965”, Giornale di astronomia, Numero speciale a cura di M. Realdi: Cento anni di Relatività Generale, Vol. 42, N. 4, pp. 24-31. Merleau-Ponty, Jacques (1965), Cosmologie du XXe siècle. Ètude épistémologique et historique des théories de la cosmologie contemporaine, Parigi, Èditions Gallimard. Trad. ital.: Cosmo-

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Finito di stampare nel mese di gennaio 2023 da Digital Team – Fano (PU)