Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle 9783823367871, 3823367870

Quale rapporto esiste tra i generi lirici e le tragedie di Sofocle? Per quali vie si innestano nelle sezioni cantate dei

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Table of contents :
Indice
Introduzione
I. Lo stasimo iporchematico dell’Aiace
1. L’invocazione a Pan
2. Danze di Misia e di Cnosso
3. Autoreferenzialità del coro
4. Apollo, uso della variatio e simmetria interna
5. Un iporchema?
II. Confl uenza di generi lirici, allusività epica e performancenel primo stasimo delle Trachinie
1. Natura ibrida del canto: uno stasimo ditirambico
2. Avvio innodico e Priamel
3. Epinicio ed epos
4. Indizi di performance
5. L’epodo e il ritorno all’«io»
6. Un esito epitalamico
7. Nota di chiusura
III. La parodo dell’Antigone: un canto di vittoriatra memoria poetica e coerenza formale
1. Struttura della parodo
2. Memoria poetica e tracce di natura innodica
3. Un peana irrealizzato
4. Coerenza interna
5. Ritorno al peana: aspetti della performance
IV. Elementi dell’inno nelle tragedie superstitie corali innodici dell’Antigone: forma e funzione
1. Identità del coro dell’Antigone
2. Forme dell’inno sofocleo
3. Uno stasimo iporchematico?
4. Ricorsività interne
5. Nota di chiusura
Appendice
1. La grande forza di Oceano
2. Oceano e Acheloo: dall’epos a Derveni
3. Acheloo ed Eracle: dalla formula epica alla scomposizione tragica
Index locorum
Riferimenti bibliografi ci
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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle
 9783823367871, 3823367870

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Andrea Rodighiero

Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

DRAMA

Neue Serie · Band 12

Studien zum antiken Drama und zu seiner Rezeption Herausgegeben von Bernhard Zimmermann in Zusammenarbeit mit Juan Antonio López Férez (Madrid), Giuseppe Mastromarco (Bari), Bernd Seidensticker (Berlin), N.W. Slater (Atlanta), Alan H. Sommerstein (Nottingham), Pascal Thiercy (Brest).

Andrea Rodighiero

Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

Informazione bibliografica della Deutsche Nationalbibliothek La Deutsche Nationalbibliothek registra questa pubblicazione nella Deutsche Nationalbibliografie; dettagliati dati bibliografici sono disponibili in Internet al sito http://dnb.dnb.de.

Gedruckt mit Unterstützung des Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica, Università degli Studi di Verona

© 2012 · Narr Francke Attempto Verlag GmbH + Co. KG Dischingerweg 5 · D-72070 Tübingen Das Werk einschließlich aller seiner Teile ist urheberrechtlich geschützt. Jede Verwertung außerhalb der engen Grenzen des Urheberrechtsgesetzes ist ohne Zustimmung des Verlages unzulässig und strafbar. Das gilt insbesondere für Vervielfältigungen, Übersetzungen, Mikroverfilmungen und die Einspeicherung und Verarbeitung in elektronischen Systemen. Gedruckt auf säurefreiem und alterungsbeständigem Werkdruckpapier. Internet: www.narr.de E-Mail: [email protected] Druck und Bindung: Hubert + Co., Göttingen Printed in Germany ISSN 1862-7005 ISBN 978-3-8233-6787-1

Indice Introduzione I.

Lo stasimo iporchematico dell’Aiace 1. L’invocazione a Pan 2. Danze di Misia e di Cnosso 3. Autoreferenzialità del coro 4. Apollo, uso della variatio e simmetria interna 5. Un iporchema?

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II. Confluenza di generi lirici, allusività epica e performance nel primo stasimo delle Trachinie 1. Natura ibrida del canto: uno stasimo ditirambico 2. Avvio innodico e Priamel 3. Epinicio ed epos 4. Indizi di performance 5. L’epodo e il ritorno all’«io» 6. Un esito epitalamico 7. Nota di chiusura

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III. La parodo dell’Antigone: un canto di vittoria tra memoria poetica e coerenza formale 1. Struttura della parodo 2. Memoria poetica e tracce di natura innodica 3. Un peana irrealizzato 4. Coerenza interna 5. Ritorno al peana: aspetti della performance

103 108 121 128 134

IV. Elementi dell’inno nelle tragedie superstiti e corali innodici dell’Antigone: forma e funzione 1. Identità del coro dell’Antigone 2. Forme dell’inno sofocleo 3. Uno stasimo iporchematico? 4. Ricorsività interne 5. Nota di chiusura

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Appendice. Formularità epica e dizione tragica: un caso di scomposizione (da Omero – a Derveni – a Sofocle) 1. La grande forza di Oceano 2. Oceano e Acheloo: dall’epos a Derveni 3. Acheloo ed Eracle: dalla formula epica alla scomposizione tragica

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Index locorum

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Riferimenti bibliografici

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Introduzione «Rouze up ye Thebans; tune your Io Pæans!» John Dryden – Nathaniel Lee, Oedipus

Molti sono stati i contributi che gli studi letterari e di filologia hanno dedicato nel corso degli ultimi decenni (e prima) al ruolo del coro nella tragedia attica e alle sue modalità espressive1. Accanto all’esegesi esercitata dal lavoro filologico, evidente è stato il prevalere – in special modo in anni a noi più vicini – di un approccio critico che ne evidenziasse la funzione drammatica e le implicazioni di status e di genere (vecchi vs. giovani, schiave vs. libere, maschile vs. femminile e così di séguito), o che portasse alla luce l’implicita relazione politica con la società di cittadini che di quella performance era committente e fruitrice, e infine l’importanza (ora amplificata ora minimizzata) del contesto festivo nel quale il canto dei coreuti trovava realizzazione (le celebrazioni in onore di Dioniso). Pur provando a tener conto di questa complessa, vasta e recente attività di ricerca, questo libro parte dal presupposto di una centralità: quella del testo di alcuni cori sofoclei e del loro stile, inteso come somma di componenti formali e lessicali che ne determinano la struttura e che ne assicurano l’efficacia all’interno del contesto di cui sono parte, vale a dire il genere della tragedia di V secolo a.C. A tale presupposto si è tentato di abbinarne un altro, avvertito come di non secondaria importanza: il fatto che la tragedia, genere tra altri generi, per le sue parti cantate dallo spazio dell’orchestra si colloca idealmente e cronologicamente al crocevia ma anche al vertice della storia della poesia lirica greca di età arcaica e classica. Essa costituisce infatti il momento di incontro di una dizione melica devota a prassi compositive che altre tradizioni, lontano dagli spalti del teatro, erano andate definendo e codificando nel corso del tempo. Per ricorrere a una metafora che tornerà utile anche più sotto, si è inteso qui provare a mettere in relazione alcuni passi del poeta di Colono con delle ‘sorgenti luminose’ che pur collocandosi al di fuori del ‘quadro’ della tragedia sofoclea nondimeno possano aiutare a rischiararla, ovviamente al fine di esaltarne il colore e non di stemperarne, o peggio smentirne, l’unicità. Già su questa soglia, tuttavia, si potrà avvertire il rischio di categorizzazioni troppo nette, ma non si entrerà nel dettaglio di un dibattito che meriterebbe – e ha meritato – separati approfondimenti: che cos’è un genere e che 1

È impossibile qui fornire una bibliografia anche solo parziale, ci si accontenterà di citare qualche titolo generale recente e, nello specifico, qualche riferimento a Sofocle: BURTON 1980; BOLLACK – JUDET DE LA COMBE 1981, XI-CXXV; GARDINER 1987; PAULSEN 1989; WINKLER 1990; SCOTT 1996; WILSON 2000; BUDELMANN 2000, 195-272; FOLEY 2003; CALAME 2005; KITZINGER 2008; SWIFT 2010; DHUGA 2011; GOLDHILL 2012, 81-133; MURNAGHAN 2012; alcuni dei saggi raccolti in MONACO 1984-1985, in GOLDER – SCULLY 1994-1995 e 1996, in SILK 1996 (specialmente le pagine di John Gould e di Simon Goldhill), in RIEMER – ZIMMERMANN 1998, in PERUSINO – COLANTONIO 2007 e in RODIGHIERO – SCATTOLIN 2011. Sulla fortuna dei cori tragici nella letteratura italiana a partire dal Rinascimento (ma non solo) si veda ora NATALE 2011.

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

cosa è ‘canonico’ per esso nella poesia, e nella fattispecie nella poesia greca? A quale contesto performativo, con quale forma esteriore (e con quale veste metrica e musicale) esso si presentava e per quali fini? Di fronte all’enorme vuoto lasciato dalla tradizione, come riconoscere ciò che è genuinamente e volutamente tipizzato da ciò che costituisce una variazione consapevole sul piano stilistico, del contenuto e soprattutto dell’occasione? Se, come è vero, «the formulation of an explicit grammar of genres postdates the performance culture of archaic and early classical Greece», cosa possiamo salvare dell’intreccio a tratti invisibile fra ciò che senza ombra di dubbio e senza alcun imbarazzo classificatorio è per noi un canto di tragedia – una sezione in lyricis di un dramma di V secolo – e la disomogenea tradizione liricoperformativa ad essa coeva, preesistente e, nel caso, recenziore? È evidente che queste domande non troveranno piena e adeguata risposta nelle pagine che seguono, né si intende offrire un’analisi minuziosa delle fonti antiche. E tuttavia è proprio l’osmotica linea di confine che distingueva genere da genere e che permetteva, tra l’uno e l’altro, efficaci modulazioni, a consentire di azzardare che il confronto sia realizzabile, se si provi a guardare ai testi con la consapevolezza di questa mobilità non tassonomica. Essa era infatti limitata in modo sufficiente e tale da costruire e garantire le premesse di una risposta estetica da parte dell’uditorio e da assecondarne le aspettative e la comprensione, appunto, ‘per generi’. Ma la mobilità del segno che li separava era anche sufficientemente flessibile da poter di volta in volta ridefinire ex novo proprio quelle stesse aspettative2. Una riconoscibile coloritura di genere, specie quando si tratti di sezioni liriche in tragedia, non andrà dunque mai intesa come l’indizio-chiave che permetta alla nostra sensibilità ermeneutica (buona o cattiva che sia) il gesto definitivo di collocamento dei passi in esame dentro un linneiano e ipoteticamente più leggibile casellario, organizzato secondo tratti distintivi 2 Cfr. CAREY 2009, 22: «literary genres are best seen not as fixed categories but as tendencies». Con eccessiva uniformazione HARVEY 1955 pensa a differenze di stile e tecnica tra genere e genere «remarkably elusive» (p. 164), ma giustamente evidenzia un punto fermo che è necessario ribadire, quale l’indubitabile distanza tra classificazione alessandrina in generi e quindi in ‘libri’ (si pensi a Pindaro) e viceversa la ‘classificabilità’ dei testi «at the time when the poems were written» (p. 157, su questa linea si muove CALAME 1974, per rintracciare indietro nel tempo «une certaine continuité dans les marques de distinctivité des genres lyriques d’Homère à Platon en passant par Pindare»: pp. 118-119). Ci si limita a ulteriori essenziali rinvii senza entrare nel merito delle fonti antiche (disponibili nei qui citati Harvey e Färber, ma non solo) e nel cuore del complesso dibattito sulla (possibilità di una) ripartizione dei generi e per generi: oltre alla catalogazione di FÄRBER 1936 (con le giuste riserve di HARVEY 1955, 157 e di CALAME 1974, 114-115), si vedano almeno le classiche pagine di ROSSI 1971 che molto dibattito hanno suscitato, con speciale focalizzazione sull’idea di leggi, distintive di ciascun ei\do~, non scritte «ma rispettate» e codificate dall’uso per l’epoca arcaica, «scritte e rispettate» per l’epoca classica e scritte ma non rispettate per l’età ellenistica (contra, e.g., DI BENEDETTO – MEDDA 1997, 393-396, CERRI 2007, 180, e già parzialmente CALAME 1974, 126); ROSENMEYER 1985; NAGY 1990; CALAME 1998 e CALAME 2006 (sulla classificazione della ‘poesia lirica’); i saggi raccolti in DEPEW – OBBINK 2000; CINGANO 2003; NICOLAI 2004, 29-36; MASTRONARDE 2010, 44-62 (già 1999-2000, 23-39); SWIFT 2010, 6-34; FORD 2011, 69-90. Più rivolto a ricorrenze e a convenzioni formali e topoi organizzati intorno a un motivo trasversale ai generi canonici della poesia greco-latina è CAIRNS 1972.

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Introduzione

individuabili una volta per sempre, ricorrenti e comuni. Verrebbero infatti in questa maniera obliterati in un solo gesto i molti e a volte insormontabili limiti imposti al nostro giudizio; si indicano qui di séguito in forma di nuda lista quelli che paiono di maggior peso: a) la scarsità del materiale di confronto; b) l’ambiguo rapporto fra identità autoriale e identità di genere, fra creatività, come espressione della soggettività artistica di chi fa poesia, e astratta definizione di un modello-guida esemplare a cui si possa far risalire il testo derivato3. Tale archetipo formale e normativo, dotato di sue proprie leggi (appunto esemplari) che trascendono i singoli esiti letterari, risulterà spesso assente, o meglio ricostruibile di fatto solo a posteriori; c) la mutazione ‘interna’, e attiva su un arco di secoli, alla quale in costante dinamismo sono sottoposti – per quel tanto di reperibile – le forme e anche i contenuti della letteratura arcaica e classica a dispetto della fissità dei termini-contenitore a noi noti (inno4, peana, ditirambo, imeneo, treno, nomo, iporchema ecc.). Al contrario, «proprio l’inevitabile uso classificatorio dei generi continua ad alimentare l’equivoco della loro fissità»; d) la variabile dei modi della performance, dipendente non soltanto da una classificazione standardizzata, immanente a un testo e da esso veicolata, ma dalle circostanze sociali, religiose e cultuali, pubbliche o private e anche finanziarie in seno alla comunità che lo generavano, come oramai constatato da più parti. Si dovrà aggiungere che, ogni qualvolta siano innestati dentro la tragedia, i potenziali codici di un repertorio di genere risultano per forza decontestualizzati. Andranno dunque letti – dove si possa – in funzione di un hic et nunc di secondo livello nel confronto tra il testo e, nell’ordine, un comune luogo di esecuzione (l’orchestra, ma anche lo spazio finzionale che essa rappresenta), i suoi esecutori (un coro drammatico, ma anche il ruolo specifico che ciascun coro incarna nel dramma), il tempo dentro il quale tale testo si colloca (il tempo di esecuzione ma anche il tempo mitico inventato dal plot, magari segnato da marcature deittiche e a volte, in aggiunta, dalla presenza di un ulteriore piano cronologico e spaziale di terzo livello, quello dell’eventuale presenza di «choral projection» verso passato o futuro)5. Per questo, e anche grazie al sostegno di un’indubitabile uniformità del contorno che 3 Per modello-esemplare e testo derivato (ma non solo), con speciale riferimento al mondo latino, si vedano CONTE 1985 e CONTE – BARCHIESI 1989, 94-96 («questo ci sembra nell’intertestualità il momento più importante: la trasformazione», p. 88), con le osservazioni di CICU 2005, 65-75, oltre che, per intersezione e contaminazione di generi distinti, FEDELI 1989 – in particolar modo tra poesia greca e poesia latina: ma qui la bibliografia sarebbe troppo vasta. 4 Poche ‘etichette’ letterarie sono state in Grecia altrettanto ambigue e in grado di indicare quasi qualsiasi tipo di canto: un primo ma necessario inquadramento in FURLEY – BREMER 2001; la citazione che segue è tratta da NICOLAI 2004, 29, n. 60. Efficace è anche l’immagine saussuriana della scacchiera evocata da ROSSI 2000, 150: i generi tradizionali diventavano di volta in volta diversi da quello che erano prima sulla base del sistema letterario (la partita a scacchi) nel quale si trovavano combinati come pedine, «e cioè a seconda del loro contesto nel sistema». 5 Con CALAME 1994-1995; HENRICHS 1996.

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

occasiona la messa in scena, con specifiche regole organizzative e rituali (le feste drammatiche di Atene)6, possiamo considerare i canti del dramma di V secolo come un insieme coerente ed omogeneo. Lo stile di ciascun autore, i gusti del pubblico e l’orizzonte urbano sono soggetti a mutamenti anche radicali, ma a questa altezza non si è in effetti ancora del tutto spezzato l’antico vincolo – dismesso in epoca alessandrina – tra opera letteraria e occasione, con conseguente compatta uniformità del contesto situazionale7. Abbiamo il vantaggio, inoltre, del fatto che lungo tutto il suo arco cronologico si mantiene intatta la specificità del gruppo sociale riconoscibile come principale destinatario: la tragedia si rivolge ai cittadini della polis attica. Ma anche da questo deriva il forzoso raggruppamento, a teatro, di generi distinti restituiti nelle forme più varie dentro il tessuto drammatico e sottratti alla loro peculiare contestualizzazione. Perché essa è sempre, non dimentichiamolo, anche connessa al rito, che può costituire occasione per il canto o per l’agone poetico, o che è a sua volta generato e orientato dalla circostanza (come nel caso, ad esempio, del lamento funebre o del canto di vittoria)8. Quanto detto fin qui sembrerebbe escludere a priori qualsiasi possibilità di confronto, e negare ogni giustificazione ai tentativi di analisi proposti di séguito. Potremmo cioè tautologicamente dire che un canto di tragedia non è altro da un canto di tragedia9, e che non è in esso realizzabile nessuna forma di Kreuzung o, con espressioni di valore analogo, di crossing e mixing tra generi10. Ancora, 6 Il ruolo giocato dal contesto civile (e non meno da quello religioso e rituale) è stato messo in evidenza in anni recenti soprattutto da pubblicazioni di area anglosassone (ma anche dai lavori di Anton Bierl, per la commedia – qui inevitabilmente sacrificata –, e di Claude Calame: un capitolo a parte rappresenterebbe la non meno importante stagione della scuola storico-antropologica francese, a partire da Jean-Pierre Vernant e Pierre Vidal-Naquet); per non citare che pochissimi titoli, come non esaustivo punto di partenza: RODRÌGUEZ ADRADOS 1983, SEAFORD 1994a, HENRICHS 1994-1995, CSAPO – SLATER 1995, alcuni dei saggi raccolti in WINKLER – ZEITLIN 1990, in SILK 1996, in EASTERLING 1997 e in CSAPO – MILLER 2007, WILSON 2000, SOURVINOU-INWOOD 2003 (sintesi e ulteriori titoli in GRUBER 2009, 11-14). Per i complessi rapporti fra tragedia e storia ateniese ci si limita a rinviare alla lista di titoli raccolta in RODIGHIERO 2012, 56, n. 4 – oltre al vol. in cui quel saggio è contenuto –, cui andrà aggiunto BELTRAMETTI 2011. 7 Giuste però le riserve di ALLAN 2008, 66-72, che sottolinea l’inevitabile mutevolezza, nel corso di più di un secolo, anche di un genere sotto altri aspetti fisso come la tragedia. 8 I culti, i luoghi e le committenze variavano: la natura dinamica del medium (l’occasione) doveva per forza influire sulla natura solo teoricamente statica dei generi lirici che di volta in volta venivano impiegati. Per i rischi di etichette di genere troppo nette in mancanza di certezza sul contesto di esecuzione, sia pure con riferimento a Saffo, cfr. YATROMANOLAKIS 2004. 9 Si proverà, proprio per questo, a non tracciare radicali opposizioni tra contesto funzionale e forma, mettendoli piuttosto in dialogo tra loro fin dove possibile, conciliando il ruolo che un particolare genere poteva giocare nel rituale e nel contesto sociale con il profilo letterario (la ‘sagoma’) che esso assumeva: nel caso del teatro perde di vigore la domanda, pur necessaria, se sia l’occasione performativa a ‘produrre’ e circoscrivere il genere (addirittura «the occasion is the genre», e viceversa, dentro quest’identità, se l’occasione è perduta il genere la può ricreare per NAGY 1990, 362, e si veda NAGY 1994, 13), o la forma del testo che lo trasmette indipendentemente dal Sitz im Leben (i generi non esisterebbero in questo caso che dentro e per mezzo dei testi, ma si tratta come noto, per la cultura greca di età arcaica e classica, di un adynaton; molte occasioni reali ‘si perdono’, invece, con il passaggio alla letteratura ellenistica: si veda almeno FANTUZZI 2002, 20-37). 10 Nondimeno l’idea di tragedia come mistione, ma con riferimento ai modi e non ai generi letterari, è notoriamente già antica: scrive Aristosseno a proposito della ‘scoperta’ da parte di Saffo

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Introduzione

sulla stessa linea, potremmo affermare l’impossibilità del riconoscimento di un indicatore (tematico, di lessico, di carattere) tarato in modo da permettere di apporre con certezza sopra un testo tragico, dopo adeguata ‘misura’, una rigida etichetta di privilegiata tonalità. Come affermare, per esempio, che un testo lirico di tragedia è veramente innodico, veramente peanico o veramente ditirambico11? e quanto di ciascun genere, celato e occultato, può essere riportato alla superficie, quanto risultano nascosti, in tragedia, i profili della coralità non drammatica? Già lo sradicamento della performance lirica dal sito d’origine che l’avesse occasionata, con la ricollocazione nel terreno del teatro, basterebbe infatti a scoraggiare l’operazione. Aggiungiamo un’evidenza poco rassicurante: non siamo in grado di individuare un solo passo lirico di una tragedia di V secolo che possa genuinamente essere scambiato per un esempio di un determinato genere12. Purtuttavia, la rintracciabilità di componenti primarie come fondamenti del testo, di alcune costanti formali e di strutture equivalenti (e.g. i modi in uso nell’inno cletico al dio, al limite della formularità), la ricorsività di forme della sintassi e dell’elocuzione e gli evidenti effetti linguistici determinati dall’impiego non sporadico di un lessico dedicato, insieme a ricorrenze metrico-ritmiche, costituiscono la materia prima – ancorché non paradigmatica e dai contorni naturali parzialmente porosi e soggetti alla ‘liquidità’ delle regole di volta in volta in uso – di una comparazione possibile e necessariamente contrastiva. Ciò è fattibile solo se riconosciamo ai generi della letteratura antica (lo ripetiamo: con necessaria flessibilità) un valore istituzionale in grado di orientare, in Grecia, le pratiche di composizione e di scrittura attraverso una serie di competenze e di regolarità formali riconosciute e condivise – da poeta e comunità – in maniera più o meno esplicita. Come ha scritto Claude Calame, «le poète lyrique obéissait en connaissance de cause aux lois du genre dans lequel il écrivait»13, e la destinazione del canto dirigeva giocoforza, almeno sul piano della nuda nomenclatura, la scelta del genere. Non diremo quindi, dietro il discorso dell’eufonista Pausimaco in Filodemo, che del modo misolidio che la poetessa sarebbe stata fonte di apprendimento per i poeti tragici; essi avrebbero poi fuso il ‘patetico’ modo orientale con il più severo stile dorico: mevmiktai de; dia; touvtwn tragw/diva (Aristox. fr. 81 Wehrli = [Plut.] de mus. 1136 D; notoriamente stigmatizza invece la mescolanza di generi – ma non specificamente in tragedia, quanto nella musica nuova – il passo di Plat. Leg. 700a-e: lamenti funebri combinati con inni, peani con ditirambi, melodie dell’aulo imitate dalla cetra). Per Kreuzung secondo la classica definizione di KROLL 1924, 202-224 (creazione di nuovi generi a partire dall’incrocio di quelli preesistenti), cfr. le considerazioni di BARCHIESI 2001. 11 Si pensi, e.g., all’emblematica e oramai classica definizione di ‘stasimi ditirambici’ per certi tardi corali euripidei (dal 415 a.C.): cfr. KRANZ 1933, 254; PANAGL 1971, con le giuste riserve di CSAPO 1999-2000 (Euripide innovatore più che imitatore soggetto a nuove tendenze musicali anche prima dello scorcio finale del V secolo). 12 Con SWIFT 2010, 369. 13 CALAME 1974, 124, e cfr. CALAME 2006, 55; SWIFT 2010, 16-17. Di opinione opposta – ma con speciale e giusto riferimento al piano pragmatico del componimento (festa e cerimonia) e al suo contenuto – ANGELI BERNARDINI 1991, 86: il poeta arcaico «non componeva certo il suo canto cercando di obbedire a regole rispondenti a una tipologia prestabilita, né era condizionato dall’esigenza di rispettare le regole di un “genere letterario”».

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

se il fine ultimo di ogni genere è il medesimo – il conseguimento di un bel suono – allora tragedia, giambo e lirica non differiscono tra loro14: significherebbe mettere fuori gioco proprio un elemento distintivo fondamentale che già abbiamo menzionato, quello dell’occasione che genera il componimento. Il punto fermo, sotto questo profilo, è rappresentato proprio dal genere tragico così come si manifesta nella sua fase matura, cronologicamente determinata e collocabile su uno sfondo geografico e temporale estremamente ristretto. Atene e l’Attica vivono però in parallelo e quasi nel medesimo arco di tempo la massima concentrazione, per la Grecia dell’epoca, di esecuzioni di poesia non drammatica (in una battuta: «Athens performed»)15, diventando così tra la fine del VI e l’inizio del V secolo «a kind of conservatoire for student composers of lyric poetry». Diamo dunque per acquisita, senza tornare sul tema e sulle fonti, la pervasività della diffusione della poesia lirica per coro in Atene16. In grado quindi di segnalarsi come un unicum, nel rivendicare la sua assoluta unicità il genere del dramma mostra tuttavia anche il suo carattere spiccatamente inclusivo. Come ‘prodotto derivato’ dalla tradizione («tragedy was that tradition’s final, hybrid flower»)17, il dramma è capace di assorbire l’amalgama di forme della melica corale che gli preesisteva e con esso era destinato a convivere. Circoscrive così una cornice – per riprendere la metafora iniziale – che serve a inquadrare altri oggetti (altri generi), e che deve essere continuamente spostata e riposizionata; il coro tragico è tale «in the wider Greek religious and social sense of a group constituted to sing and dance» in grado di marcare con la sua presenza i momenti più importanti della vita sociale e religiosa della comunità. E si fa così carico, all’interno del dramma, delle funzioni di ciascuno dei cori ‘attivi’ nella vita reale18. Se questo amalgama dentro un genere particolar14

Phld. Po. I, col. 77, 15-22, p. 270 Janko: ouj gavr, o{ti diavforovn pou tragw/diva kai; i[ambo" kai; to; ejmmelev", dia; tou'to sumbalou'men ejx eJtevrou gevnou" pohth;n pohtei', tou' tevlou" uJpav»rco¼nto" panti; gevnei taujto‹u`Ì, con JANKO 2000, 271 e 165-189. Altrove lo stesso Filodemo (che reinterpreta Aristotele dando a ei[dh il significato di ‘generi’ e non di ‘parti’) scrive che pleivona me;n ei[dh th;n tragw/divan perievcein, in Phld. Po. IV, col. 120, 2-3 (pp. 308-309 Janko = Aristot. peri; poihtikh`~ kai; poihtw`n diavlogo~ F 27 Janko): «Philodemus is making Aristotle grant what he would deny, namely that there are several ‘genres’ in tragedy»: JANKO 2011, 309, n. 2. 15 PELLING 2005, 83, ma con speciale riferimento alla relazione esistente fra tragedia e performance retorica (sull’importanza e pervasività delle più varie forme della rappresentazione nella cultura ateniese si potrà partire dai saggi raccolti in GOLDHILL – OSBORNE 1999). 16 Materiali in SWIFT 2010, 35-60. 17 Ancora fondamentale, in questo senso, HERINGTON 1985 (le espressioni citate sono rispettivamente da p. 96 e da p. ix). Cfr. la giusta osservazione di GRIFFITH 2009, 15, n. 30: «it is worth observing that the evidence for the existence of distinguished local Attic poets before the 5th C. is very small; and at no point was ‘Attic song’ or ‘Athenian music’ accorded any recognition at all, in contrast e.g. to Spartan and Dorian, or Theban and Aeolian, modes, songs, and poets (to say nothing of Lydian, Phrygian, or Thracian ones). It looks as if the choral and musical components of Athenian tragedy (and dithyramb too, perhaps) were regarded as being more of an amalgam of imported elements than a home-grown (Attic) cultural creation». E tuttavia la poesia tragica, così fortemente ‘mista’ e amalgamata, ha al contrario tra i suoi massimi esponenti autori di nascita ateniese. 18 Così WILSON 2005, 188, che continua: «the tragic chorus […] can sing and dance what looks very much like elements of the victory-song (epinikion) […]. It can sing a wedding-song

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Introduzione

mente vorace come la tragedia19 si verifica ed è registrabile, un mero e inevitabilmente incompleto censimento del fenomeno risulta carente sotto un altro profilo. Presupposto infatti che interferenze e sovrapposizioni sono il frutto di un’eredità comune e condivisa, il risalto di tali interferenze in ambito teatrale deve provare a spingere in avanti il limite dell’interpretazione. Un’indagine da rivolgersi, nello specifico, alla produzione sofoclea non può rinunciare all’idea che si tratti di un sistema aperto sulla tradizione culturale che lo ha prodotto e influenzato (e anche condizionato) ma anche verso il proprio interno, dove l’autorità di quella stessa tradizione viene reimpiegata e piegata all’uso contestuale. Ci si dovrà in altre parole anche chiedere ragione del riutilizzo di elementi ripetuti in condizioni analoghe, o simili (e qui sarà inevitabile un approccio che provi a essere attento alla struttura del testo, anche eventualmente dopo o meglio al di fuori di una pur utile e strumentale classificazione nomenclatoria)20, e della funzione che questi elementi svolgono – per vie manifeste o alluse – all’interno del sistema che li contiene (lo specifico dramma, la sua trama mitica, i suoi personaggi). Il proposito consiste nel cercare di mettere in luce quale pertinenza essi possano assumere nella costruzione del meccanismo drammatico, e a quale altezza di esso intervengano. Una parodo, ad esempio, si realizza sul piano esecutivo e su quello del ruolo del coro in maniera differente rispetto a uno stasimo, con conseguente mutamento della materia cantata proporzionalmente al tempo interno del dramma21. Ma altrettanto importante sarà cercare di stabilire come questi canti corali precisino ciascuno la propria distanza, per affinità o per contrasto, rispetto al repertorio con cui di volta in volta si misurano, inteso anche come lascito performativo-esecutivo (la danza, ad esempio, dove presumibilmente reperibile)22 dotato di una certa più o meno

(humenaios), or a paean (paian) […]. It can perform any number of more or less formal choral dirges, often in exchange with actors. […] it can even sing and dance the god’s characteristic hymn, a dithyramb». Dalla medesima prospettiva di ricerca parte anche il citato lavoro di SWIFT 2010, che fin dalle premesse chiarisce il proprio fine: «to explore the range of ways in which the tragedians deploy references to lyric genres, or to compare the way the same genre is evoked across different plays» (p. 2; in ordine: peana, epinicio, partenio, imeneo, sezioni trenodiche; il volume è dedicato all’analisi della pervasiva presenza dei generi menzionati non soltanto in lyricis ma anche nelle parti dialogate, dove il contatto si manifesta attraverso il lessico e la tematizzazione di motivi-guida, appunto, di genere). 19 «The mimetic nature of tragedy makes it a particularly voracious genre, adept at incorporating and referring to other forms»: SWIFT 2010, 26. 20 Con CALAME 1974, 114, secondo il quale, onde sfuggire a facili ‘ammodernamenti’, è necessaria una «analyse structurale après mise entre parenthèses des présupposés de la réflexion contemporaine aux œuvres considérées et de ceux de la critique alexandrine». 21 Si vedano, per Eschilo, le condivisibili riflessioni di GRUBER 2009, 487 (si torna brevemente sulla questione al par. 1 del cap. IV; nelle pagine seguenti Gruber analizza utilmente i casi di un preciso impiego dei termini designanti generi extradrammatici nella produzione eschilea). Intenzionalmente non si tornerà qui sull’aristotelica opposizione tra cori sofoclei ‘pertinenti’ al dramma e cori che non appartengono al racconto (Aristot. Po. 1456a 25-30): sulla questione si veda da ultimo SCATTOLIN 2011. 22 Come si tenta di fare soprattutto ai capp. I e II.

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

complessa elaborazione stilistica23, e anche come lascito tematico, o come motivo ritualistico-religioso ragionevolmente compreso dentro l’orizzonte cultuale del dramma24. Il vaglio che si spera il più circostanziato possibile di alcuni dei passi sottoposti a commento ha condotto anche – come nel caso del cosiddetto stasimo iporchematico dell’Antigone – a conclusioni in netto contrasto rispetto a quelle largamente accolte da una vulgata critica a volte (come è inevitabile che sia) incline a riconoscersi dentro un sentire condiviso; in situazioni simili provando a ricostruire a ritroso le linee tracciate dai percorsi esegetici se ne potranno forse cogliere la storicità, le vie di irradiazione e il peso da essi esercitato sulle nostre odierne letture. L’assenza in questo libro di un’articolata trattazione degli epicismi (di situazione o di vocabolario) è stata dettata soprattutto dalla consapevolezza dei propri limiti, resa ancora più salda dal notorio monito di Eduard Fraenkel25; non ne consegue che Omero sia stato del tutto soppresso: nei cori vagliati non si è mancato di registrare richiami puntuali a passi dei poemi, né mancano tentativi di comprendere il senso della ricollocazione della tessera omerica nel contesto lirico di volta in volta in esame. Ci si è limitati a una sola indagine circoscritta e di dettaglio, un case study collocato in appendice, con la speranza di poter tornare sul complesso problema di riprese in lyricis e per coro (quindi poesia cantata e danzata) di passi di poesia epica. Si dovrebbe infine tenere conto di un altro fattore (ancorché meno presente nei saggi che compongono il volume), vale a dire quello costituito dalla relazione tra ‘letterario’ e ‘popolare’. È evidente che uno dei due oggetti del confronto – la produzione tragica – si colloca sempre sul versante del ‘letterario’, o almeno in questa maniera si è propensi a classificarlo. È invece più difficilmente verificabile l’evidenza dei dati derivabili da una tradizione popolare i cui contorni e contenuti non sono sempre definibili in maniera netta. Essa si configura come cronologicamente trasversale rispetto alla poesia colta, e passibile di mutamenti nel fluire del tempo; ma è soprattutto implicata in forme a volte non del tutto manifeste nel tessuto linguistico-formale, fatalmente selettivo, del dramma attico, e in generale nel riuso letterario di motivi, temi e strutture di una produzione anonima e più elementare. Uno spoglio dei loci simili in alcuni di questi casi potrà fornire, ci si augura, una sufficiente assicurazione, se non di totale appartenenza, almeno di prossimità a un’ambita Stimmung che il poeta intende risemantizzare radicalmente 23 Si veda, sui diversi livelli di elaborazione di modelli consueti, in special modo (ma non solo) il cap. IV, par. 2. 24 È l’ipotesi avanzata per l’Aiace al cap. I, par. 3, e per l’Antigone al cap. III, par. 3. Lucida e condivisibile è la ben più vasta carrellata di occasioni di adattamento/innovazione valide per Eschilo di una tradizione preesistente offerta in GRIFFITH 2009 (epica, poesia gnomica e ‘di saggezza’, lirica corale celebrativa, poesia monodico-simposiale, speech acts non letterari ma rituali – preghiere, maledizioni, formule magiche –, linguaggio della scienza presocratica, della legge e della vita politica). 25 «Sofocle sa a memoria Omero come sa a memoria Eschilo. Le idee omeriche sono sempre presenti come la Bibbia per Dante. De Sophocle Homeri discipulo è il lavoro che vorrei fare, ma una vita non basterebbe»: FRAENKEL 1977, 15.

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Introduzione

nella nuova situazione generata dal dramma. Si veda a questo proposito, e.g., quanto scritto sul travestimento del ritornello peanico all’inizio del secondo stasimo dell’Aiace, il paragrafo dedicato a presenze imenaiche nella chiusa del primo stasimo delle Trachinie, il possibile riecheggiamento di apostrofi da canto popolare nella formula d’attacco nello stile del «tu» della parodo dell’Antigone, l’analisi delle movenze formali assunte da taluni inni sofoclei e la loro affinità con il canto rituale delle donne di Elea, o ancora la persistenza sia pure sfumata di un tono da ninna nanna nel breve inno al Sonno del Filottete26. Sul versante dell’eclettismo musicale ben nota risulta, e non è qui il luogo per tornarvi, la polemica che nei versi delle Rane27 Eschilo innesca con il rivale Euripide proprio per le fonti diciamo popolari e canzonettistiche – in altre parole: volgari – dei motivi per la sua poesia (non serve la lira per suonarli, bastano ostraka). Il più giovane tragediografo prende «il suo miele dappertutto» e asseconda in questo modo le tendenze care alla musica nuova. Non si dovrà dimenticare che Eschilo pochi versi prima è ritratto all’estremo opposto – tradizione vs. innovazione – come un fine conoscitore della lirica non drammatica e devoto imitatore dell’antica citarodia dattilica28. Viene da chiedersi, purtroppo senza poter avanzare ipotesi, a quali conclusioni sarebbe giunto Aristofane se anche Sofocle fosse stato reso parte di un simile dibattito comico. Mettere alla prova la ‘familiarità’ di un poeta come Sofocle rispetto alla tradizione che lo precede e lo accompagna significa dunque anche accettare una sfida che si dà per scontato di perdere. Si frappone in più a ostacolo, come detto, di una desiderata ma non realizzabile completezza il vuoto lasciato al lettore di oggi dal vaglio operato dal tempo. Le sette tragedie e i frammenti superstiti non bastano per definire la complessità di una poetica che doveva essere di gran lunga più variegata rispetto a quanto oggi possiamo intuire. Va tuttavia preso in considerazione almeno un dato, la cui distorsione (e dunque la cui lettura ‘viziata’) è direttamente proporzionale al bottino perso nel naufragio. Potrebbe trattarsi di un semplice difetto di selezione e di conservazione, ma l’interesse del poeta per procedimenti imitativi sembra a un primo sguardo agglutinarsi soprattutto dentro la produzione concordemente considerata più antica (Aiace, Trachinie, Antigone). È come se soprattutto nella fase matura egli avesse avvertito l’esigenza di una ‘fusione’ all’insegna della variazione, di un incontro possibile fra contesti di performance corale (e dunque, in parte, di scrittura) differenti, per il tramite dell’innesto di forme non drammatiche (o di tracce evidenti di esse) dentro 26

Per il concetto di «interdiscursivity of ‘literary’ and ‘popular’/‘folk’ songs» cfr. YATROMA2009; oltre a PORDOMINGO 1996, per un esaustivo quadro anche teorico su esistenza e contenuti della poesia popolare in Grecia si vedano PALMISCIANO 2003a e NERI 2003b. 27 Ar. Ran. 1298-1307. 28 Ar. Ran. 1281-1295: si vedano a proposito le condivisibili considerazioni di DI MARCO 2011, 40-44: «certamente gli spettatori ateniesi avranno colto, nel pot-pourri di versi eschilei, un riecheggiamento più o meno preciso dei moduli ritmici e delle melodie della citarodia arcaica» (p. 42; altri casi di ‘lire tragiche’ – opposte all’aulo – in WILSON 2005, 185-186). NOLAKIS

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

la partitura lirica dei suoi testi per coro drammatico. Non abbiamo però a disposizione nessuna garanzia: la parodo peanica dell’Edipo re, l’inno a Ga e la ricordata ninna nanna del Filottete, la preghiera ad Ade dell’Edipo a Colono costituiscono, viceversa, il segno di una continuità di sperimentazione animata forse da intenti a quell’altezza mutati. La presenza sulla scena attica delle innovazioni di Euripide e di Agatone e più in generale della cosiddetta Nuova Musica non dovette del resto lasciare Sofocle indifferente quanto a pratica compositiva e ridefinizione di un suo ‘stile tardo’; si potrà pensare, ad esempio, al più cospicuo ricorso a monodie ajpo; skhnh`~, con conseguente spostamento di interesse dalla voce del coro verso la voce degli attori: almeno in questo Sofocle non dovrebbe apparirci come meno ‘moderno’ e meno sperimentale di Euripide29. Prendendo dunque in considerazione l’opera superstite (ma ponendo anche i limiti del percorso ben lungi da un esame complessivo di dettaglio di ogni singolo canto)30, dovremo concludere a favore di una sistematica inefficacia dell’analisi? In altre parole: la quantità di elementa di genere che il tragico pare squadernare davanti allo sguardo di un lettore moderno è sintomo del valore affatto irrilevante che egli vi attribuisce, disinnescandone così ogni funzione caratterizzante e indipendentemente dalla fase di produzione? Esiste un pericolo ancora peggiore: quello di essere attenti solo ai rapporti di derivazione, di trasformarsi in non troppo inconsapevoli vittime di quell’indiscriminato ‘conferrismo’ – magari incapace delle più elementari forme di selezione – che a più riprese è stato rimproverato e rinfacciato come grave difetto alle discipline classiche. Ciò condurrebbe inevitabilmente al presupposto (sia chiaro: fasullo) del riconoscimento di un ammanco di ‘autenticità’ del testo (nella fattispecie le sezioni in lyricis dei drammi sofoclei) a favore della messa in evidenza delle sole specifiche e riconoscibili trame allusive, delle forme di ripresa, dei rifacimenti, delle imitazioni – dei plagi31. Il rischio è ovviamente quello di ridurre le tragedie 29 In generale si vedano ESPOSITO 1996 e la sintesi di CSAPO 1999-2000, 407-414, e per il Sofocle dell’Edipo a Colono CERRI 2007, dove si realizzerebbe «una sperimentazione quasi programmatica di forme nuove della lirica corale» (p. 160, con 179-180); su Sofocle sperimentatore di monodie maschili (non solo nella produzione recenziore): BATTEZZATO 2005, 156-157. 30 Non sono state prese in esame, ad esempio, le sezioni di intonazione trenodica con eventuale utilizzo dei moduli del lamento (anche questo caso comporta peraltro realizzazioni letterarie di forme della poesia popolare e d’occasione): il coro sofocleo vi è perlopiù coinvolto in strutture commatiche (Ant. 806-882; El. 86-250; OC 1670-1750; utile punto di partenza risulta la sezione sinottica approntata in SWIFT 2010, 402-405, con 298-366; cospicua bibliografia in ALEXIOU 2002, DUÉ 2006 e SUTER 2008; per la tragedia: HOSE 1990, 240-256; SCHAUER 2002). Un caso a parte è costituito da Trach. 947-952, la prima coppia strofica del quarto stasimo – la più breve di tutto il teatro sofocleo –, in cui vengono riprodotte le movenze del pianto rituale con l’assunzione della consueta struttura antifonale grazie alla forma interrogativa e al ricorso a ripetizioni e assonanze. 31 Non si tratta, come noto, di un’esagerazione: Sofocle (ma anche Euripide) avrebbe plagiato il lavoro di Callia – dubbia la sua identificazione con il commediografo – secondo quanto riportato in Ath. VII 276a e X 453c-e (= Call.Com. T *7, 1-22 K.-A. = TrGF IV T 175a-b); nulla purtroppo ci è permesso di dire sul peri; th`~ Sofoklevou~ kloph`~ di Filostrato di Alessandria citato da Porfirio in Eus. Praep. Ev. X 3, 13, 1-2 (= Porph. 408 F [p. 481, 68-70 Smith] = TrGF IV T 154a, cui si aggiunga T 154b = PSI 1287, 6): kaqavper oJ ÆAlexandreu;" Filovstrato" Peri; th'" tou' Sofoklevou"

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Introduzione

di Sofocle o qualsiasi altro testo a mero esito ultimo di questo infinito bricolage32. Disegnare la mappa: questo è piuttosto il fine, magari non sempre realizzato, delle pagine che seguono, definire un territorio frastagliato e dai confini mobilissimi entro il quale poter ricollocare il poeta Sofocle e le sue scelte compositive, egli stesso come parte di una geografia letteraria resa ancora più complessa, per paradosso, dalla limitatezza del territorio da mappare, dentro e fuori la tragedia. Rimane all’opposto ferma la sensazione della singolarità e dell’unicità della sua produzione, ed è per questo che a partire dai testi e dal serrato (a volte magari apparentemente poco produttivo) confronto con essi si proverà a tener conto del dettaglio anche il più minimo se avvertito come stilisticamente rilevante. Mi auguro che possa emergere così a tratti anche la semplice bravura del poeta. Sto pensando a quella peculiare capacità propria del grande autore che consiste non tanto, romanticamente, nella creazione istintiva, inconscia ed ex nihilo, ma nella rimodulazione a favore della differenza e della novità a volte con consapevolezza del procedimento (con piena coscienza, cioè, della trasgressione di un codice di riferimento), altre volte come riflesso culturale meno strategico (ma non per questo meno operativo) generato da quello straordinario repertorio, già disponibile all’altezza di V secolo a.C., al quale, ancora ricorrendo a una generica formulazione, si dà il nome di ‘tradizione’. «Si può toccare l’eccellenza nell’arte – ha scritto un poeta del secolo scorso33 – senza apparentemente inventare nulla». Bosco, 28 maggio 2012

kloph'" pragmateivan katebavleto. Per puntuali riprese allusive in tragedia di specifici passi lirici si

rinvia all’utile BAGORDO 2003. 32 Dobbiamo viceversa immaginare il poeta «engaged in the explicit discussion of the formation of tragedy as a genre» (GOLDHILL – HALL 2009, 21), e probabilmente proprio a partire dallo scritto peri; corou` (TrGF IV T 2, 7 = Suda s 815 Adler, s.v. Sofoklh`~, su cui si veda la sintesi di DE MARTINO 2003, 441-448, con bibliografia pregressa). 33 Devotissimo ascoltatore di poesia per musica: E. Montale, ora in Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di G. Zampa, Milano 1996, 962 (è uno scritto del 1955: Che cosa può insegnarci il cavaliere W.A. Mozart).

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Nota al testo Il materiale che qui si propone a stampa è per buona parte inedito, ed è stato pensato fin dall’inizio come insieme di tappe lungo un cammino omogeneo, sebbene abbia assunto la sua struttura nel corso di un oramai lungo periodo di gestazione. Il primo capitolo ha visto un’anticipazione molto ridotta (limitatamente al paragrafo 2) in «Eikasmos» XXIII (2012) 115-134; il secondo è apparso in una precedente versione, qui aggiornata, in Didaskaliai II. Nuovi studi sulla tradizione e l’interpretazione del dramma attico, a cura di G. Avezzù, Verona 2008, 293-369, mentre al quarto parzialmente contribuisce un saggio già apparso in Antigone e le Antigoni. Storia forme fortuna di un mito, a cura di A.M. Belardinelli e G. Greco, Firenze 2010, 159-181; l’appendice deriva da una breve nota pubblicata in Studi in onore di Gilberto Lonardi, a cura di G. Sandrini, Verona 2008, 289-302. Ai curatori e ai responsabili delle pubblicazioni menzionate vada il mio ringraziamento per avermi permesso di riproporre il materiale in questa sede. Al congedare queste pagine per la stampa si accompagna il piacere di ringraziare le molte persone che hanno contribuito a migliorarle nelle più varie forme, dalle amichevoli e private conversazioni con i colleghi veronesi alle occasioni di dibattito pubblico durante convegni e conferenze, dalle illuminanti opportunità di incontro attorno a temi comuni, alla fornitura di materiale di studio, fino agli utilissimi lasciapassare per poter accedere, fuori Italia, a preziosi fondi librari, momenti forieri di impagabili scambi e di indimenticabili passeggiate ‘di lavoro’. Ringrazio gli amici del Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Università di Bologna, del Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università La Sapienza di Roma, del Dipartimento di Scienze del Testo e del Patrimonio Culturale dell’Università di Urbino, del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Venezia e del Centro Anhima di Parigi, che mi hanno dato la possibilità di discutere con loro alcune delle questioni qui proposte in proficui incontri seminariali. Un sentito ringraziamento vada inoltre a Guido Avezzù, Anna Maria Babbi, Gianluigi Baldo, Nadia Baltieri, Anna Maria Belardinelli, Felix Budelmann, Claude Calame (quanto segue deve molto al suo insegnamento), Alberto Camerotto, Ettore Cingano, Daniela Colomo, Federico Condello, Gian Battista D’Alessio, Massimo Di Marco, Marco Dorati, Andrea Ercolani, Patrick Finglass, Edoardo Ferrarini, Alessandro Fo, Valentina Garulli, Gregory Hutchinson, Olimpia Imperio, Frédéric Lefebvre, Liana Lomiento, Francesco Lupi (anche per il prezioso aiuto nella stesura dell’index locorum), Sabina Mazzoldi, Ornella Montanari, Marella Nappi, Massimo Natale, Camillo Neri, Roberto Nicolai, Maria Pia Pattoni, Paolo Pellegrini, Corinna Riva, Giuseppe Sandrini, Lorenza Savignago, Paolo Scattolin, Seth L. Schein (che mi ha generosamente accolto a Davis), Arnaldo Soldani, Laura Swift, Renzo Tosi, Giuseppe Ucciardello; rivolgo infine un ringraziamento particolare a Bernhard Zimmermann, che ha voluto accogliere il volume nella collana da lui diretta. Questo libro è dedicato a Marco e a Luciano.

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I

Lo stasimo iporchematico dell’Aiace 1. L’invocazione a Pan Incastonata la Trugrede tra due stasimi di opposta natura e intonazione, Sofocle colloca il breve secondo canto dell’Aiace, che si svolge in assenza di personaggi in scena – e dunque percepibile come performance lirica pura –, come efficace cornice esterna, di marca positiva, all’ambiguo discorso dell’eroe. Così il testo (vv. 693-718)1: e[frixÆ e[rwti, pericarh;" dÆ ajneptavman. ijw; ijw; Pa;n Pavn, w\ Pa;n Pa;n aJlivplagkte, Kullaniva" cionoktuvpou petraiva" ajpo; deiravdo" favnhqÆ, w\ qew'n coropoivÆ a[nax, o{pw" moi Muvsia KnwvsiÆ ojrchvmatÆ aujtodah' xunw;n ijavyh/". nu'n ga;r ejmoi; mevlei coreu'sai. ÆIkarivwn dÆ uJpe;r ÿ pelagevwn ÿ molw;n a[nax ÆApovllwn oJ Davlio" eu[gnwsto" ejmoi; xuneivh dia; panto;" eu[frwn.

str.

e[lusen aijno;n a[co" ajpÆ ojmmavtwn ÒArh". ijw; ijwv, nu'n au\, nu'n, w\ Zeu', pavra leuko;n eujavmeron pelavsai favo" qoa'n wjkuavlwn new'n, o{tÆ Ai[a" laqivpono" pavlin, qew'n dÆ au\ pavnquta qevsmiÆ ejxhvnusÆ eujnomiva/ sevbwn megivsta/. pavnqÆ oJ mevga" crovno" maraivnei: koujde;n ajnauvdhton fativxaimÆ a[n, eu\tev gÆ ejx ajevlptwn Ai[a" metanegnwvsqh qumw'n tÆ ÆAtreivdai" megavlwn te neikevwn.

ajnt.

695

700

705

710

715

Non più consapevole delle reali intenzioni di Aiace, il coro palesa la sua 1

Si segue il testo edito in LLOYD-JONES – WILSON 1990a. La brevità dello stasimo è spiegata dallo schol. 693a (p. 159, 2-5 Christodoulou) come un necessario e corto intervallo prima dell’arrivo del nunzio. Ci si limita qui a una mera lista delle possibili (e note) riprese, da parte del coro, di elementi lessicali e/o concettuali impiegati da Aiace nella Trugrede (sul cui valore trenodico si veda NOOTER 2012, 41-53): 706 con 646-649 e 676 (idea di ‘presa’, scioglimento e liberazione); 708-709 con 672-673 (la luce del nuovo giorno); 713 con 667 (il rispetto dovuto); 714 con 646647 (il tempo che muta l’apparenza di ogni cosa: la consapevolezza della ripresa è già antica come attesta lo schol. 714-718 [p. 166 Christodoulou]); 715-716 con 648 (attese/speranze di eventi: si veda BURTON 1980, 29).

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

gioia in un canto dai toni concitati e fin dal suo esordio autoreferenziale, prima della ripresa dell’azione e dell’impossibilità dell’adempimento degli ordini ricevuti (vv. 687-689, e v. 691: uJmei`~ dÆ a} fravzw dra`te). Andrà anzitutto considerato l’avvio dello stasimo. Pur non essendo un unicum nella produzione superstite sofoclea – non è il solo caso in cui il coro dice «io» nominandosi a inizio canto, o con un verbo alla prima persona singolare2 – mantiene qui un evidente impeto (assente altrove) nell’attacco. Nella duplice rappresentazione di un interno frisson e nel riferimento a una gioia, espressa dai gesti, che addirittura fa ‘mettere le ali’, lo stato fisico e la condizione emotiva del coro trovano una loro adeguata e completa manifestazione verbale. E tuttavia in e[frixÆ e[rwti («fremo di gioia» – con eco di v. 686: toujmo;n w|n ejra/` kevar –, ma anche «sono scosso») si può cogliere il segno di una contraddittorietà capace di associare la gioia scaturita dal possibile esito positivo del discorso di Aiace a più ombrose sensazioni di tremito legate a stati di paura3 (o di mistico sbigottimento, come quello avvertito dal ‘nuovo iniziato’ alla Bellezza descritto in Plat. Phaedr. 251a: e[frixe). Il testo è d’altronde probabile ripresa dell’attacco di un trimetro eschileo (TrGF III F 387), su cui grava tuttavia il peso di una tradizione incerta: e[frixÆ: ejrw' de; tou'de mustikou' tevlou~4. Né del resto il verbo ajneptavman connota sempre situazioni positive, almeno nell’uso sofocleo: al medesimo verbo – e allo stesso uso figurato – si ricorre infatti in Ant. 1307, durante il concitato dialogo nel quale il nunzio comunica a Creonte la morte della moglie dopo quella di Emone (ajnevptan fovbw/, afferma Creonte)5. Così nell’Aiace in una sorta di struttura chiastica d’apertura il poeta ha bisogno di ribadire l’inevitabile e prevedibile stato di esultanza dei marinai al séguito dell’eroe: alle sue estremità stanno i due verbi ‘neutri’, il cui senso è disambiguato solo dalla presenza del sostantivo e dell’aggettivo. pericarhv~ non ammette, in questo senso, dubbio alcuno, e permette di creare una forte distanza tra ciò che il pubblico sente e sa e ciò che il coro pensa di sapere, favorendo quindi fin da subito l’impressione 2

El. 472: eij mh; Ægw; paravfrwn mavnti~ e[fun, apertura del primo stasimo; OT 1086-1087: ei[per ejgw; mavnti~ eijmi; ktl, apertura del terzo stasimo (caso, quest’ultimo, omesso da RUTHERFORD 2007, 35, che utilmente fornisce la lista degli usi di prima e seconda persona). 3 SEAFORD 1994b, 284-285 parla di «contradictory emotions of mystic initiation», e non semplice «thrill of joy» («“I shuddered with passionate desire” does not seem odd to those who recognise the evocation of the contradictory emotions of mystic initiation»), interpretando la Trugrede come un discorso intriso di allusioni misteriche. Gli altri usi di frivssw in Sofocle confermano la valenza non positiva del termine: El. 1407; Trach. 1044; OT 1306 (frivkhn); Ant. 997. 4 Schol. Soph. OC 1049 (p. 47, 19-21 De Marco); cfr. l’apparato di Radt: e[rw~ dev L, e – tra altre proposte – e[rwti Brunck, ejrw` dev Dindorf. 5 Con la nota di KAMERBEEK 1978, 208 per altri esempi di «ajnapevtomai and the like in expressions of violent emotions», e di FINGLASS 2011, 343, e – limitandoci a Sofocle – cfr. TrGF IV F 355: tiv dÆ, w\ geraievÉ tiv~ sÆ ajnapteroi` fovbo~É, e OT 487: pevtomai dÆ ejlpivsin. Si veda già, per Eros e volo (in contesto assai diverso) Anacr. fr. 83 Gentili (= PMG fr. 378): ajnapevtomai dh; pro;~ ÒOlumpon... dia; to;n ÒErwtÆ:, con parziale ripresa in Ar. Av. 1372 (e si vedano i vv. 703-704): Gregory Hutchinson mi ha suggerito che ci potrebbe essere, in Sofocle, un riuso per così dire ‘pubblico’ del motivo squisitamente privato anacreonteo.

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I. Lo stasimo iporchematico dell’Aiace

che lo stasimo sia un chiaro esempio di ironia tragica. Si tratta di una gioia improvvisa e passeggera, ma ponendosi idealmente – almeno dal punto di vista del coro – dopo il momento di maggior tensione, costituisce un finto ‘happy ending’ (forse esagera William B. Stanford nell’affermare che il verso «indicates a physical reaction like an erotic orgasm»6, e di altra natura sono le gioie notturne di eros che la guerra impedisce: vv. 1203-1206). Si diceva che il verso rappresenta un adeguato preludio allo stasimo, ma costituisce anche – qui più che altrove – il naturale scivolamento dalle ultime parole di Aiace al canto vero e proprio. Esso si colloca, con funzione di cerniera, dopo i trimetri di apparente ‘redenzione’, ed è l’attesa risposta alla chiusa del discorso dell’eroe. Morbido appare questo passaggio dal recitato al canto, perché il v. 693 è un trimetro giambico (  , con cesura pentemimere seguita dal quadrisillabo pericarhv~ e la serie di brevi capace di far precipitare il verso in un crescendo accelerato)7. Si potrebbe pensare – ma l’ipotesi si spinge forse troppo avanti – non a una esecuzione a canto spiegato, quanto ad una modulazione magari non ancora perfettamente intonata sulla linea musicale dell’inno che segue; si tratta di un raro caso di trimetro giambico isolato a inizio di strofe e preceduto da trimetri recitati, altrove in Sofocle esclusivamente in Phil. 135 e 6768. Rimane ovviamente altrettanto aperto il problema dell’antistrofe (v. 706), dove il trimetro giambico si ripresenta con la medesima soluzione di un tribraco in terza sede, soluzione diffusa, che compare nei trimetri recitati dell’Aiace ai vv. 81 (di forma analoga al v. 693: pentemimere + quadrisillabo), 332, 575, 730, 828, 896, 1033 (pentemimere + quadrisillabo), 1292. Se ci atteniamo a quanto segue al v. 706 (l’invocazione a Zeus), possiamo supporre anche qui una ideale cerniera, stavolta tra due sezioni cantate, la cui natura esecutiva rimane al nostro orecchio una questione insoluta di fronte alla quale la cautela è d’obbligo. È certa però la ripresa del medesimo motivo musicale nell’inno, 6 Giusta invece l’osservazione che segue: «this, with the repetitions of the name Pan, god of wild passion, and the irregular rhythm, creates a moment of ecstatic joy unparalleled in Greek tragedy» (STANFORD 1983, 43). 7 Altrettanto ‘morbido’ ci appare il passaggio dal terzo stasimo dell’Elettra sofoclea – che si chiude con un trimetro giambico al v. 1397 – allo scambio che segue, parzialmente lirico (scena/orchestra/retroscena: 1398-1441), aprentesi su trimetri giambici (per i vv. 1398-1406 «natura lirica ed esecuzione cantata sono estremamente improbabili»: MAZZOLDI 2008, 178); non sono assimilabili al nostro caso i due trimetri pronunciati dal coro in apertura dell’amebeo dopo i trimetri recitati da Danao in Aesch. Supp. 734-735 (= 741-742), verosimilmente recitati (cfr. FRIIS JOHANSEN – WHITTLE 1980, III, 92). Sull’uso di giambi lirici cfr. DENNISTON 1936, e specificamente per l’Aiace STANFORD 1963, 249-250; in generale per l’appartenenza semantica e la natura letteraria delle parole in piede soluto nel trimetro sofocleo cfr. SARDIELLO 1975. 8 Non si spinge così avanti GOLDHILL 2012, 96: «I wonder if the metrical contrast is to be fully articulated in performance to capture the outburst of their feelings?». Anche Eur. Heracl. 892 – avvio del quarto stasimo – è un trimetro isolato preceduto da giambi dialogati, la sua natura lirica è però garantita dalla sinafia verbale con il verso seguente; più in generale «l’occorrenza di trimetri giambici nelle parti liriche della tragedia e della commedia lascia aperto il problema della loro effettiva modalità di resa. […] Si può talora assumere che fossero recitati e che la performance comportasse un’alternanza di recitato (o recitativo) e di canto»: GENTILI – LOMIENTO 2003, 137, con rinvio per Sofocle a El. 1235, e cfr. Eur. Hipp. 817ss. con BARRETT 1964, 319.

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

che torna in refrain al v. 707 (sottolineato da nu`n au\) a partire dall’anaforico ijw; ijwv9. L’interiezione, già di per sé espressione sonora di un adfectum animi, è riprodotta quattro volte dopo i due trimetri giambici, in un impeto di impulsiva emotività che si traduce in un vigoroso staccato e che a un commentatore antico parve piuttosto manifestazione di meraviglia, di qaumastikovn (scholl. recc. 694 e 707 [p. 313 e p. 314 Christodoulou]); ijw; ijwv, molto più comunemente sintomo, in tragedia, di sofferenza morale o fisica (o di un sentimento di compassione e sollecitudine: forse in Phil. 759, ma cfr. AVEZZÙ 2003 ad l.), trova modo qui e in Trach. 221 (ijw; ijw; Paiavn) di allegarsi, con il vocativo di chiamata, a una reazione affatto positiva, come nell’esclamazione più che di gioia forse di sollievo (ijw; ijwv, movli~ faneiv~) nella quale prorompe Giocasta all’inattesa comparsa di Polinice in Eur. Phoe. 310; rimane in tutti i casi «une ponctuation émotionelle paroxystique de l’énonciation lyrique»10. La pericope così isolata (ijw; ijw; Pa;n Pavn) permette che almeno nella strofe, dal v. 694, il canto provi a irregimentarsi entro una forma innodica più tradizionale e compatta, attraverso alcuni indizi formali che confermano – lo vedremo – l’intonazione generale. L’uso dei due aoristi (e[frixa e ajneptavman) favorisce quell’idea di momentaneità puntuale che dà risalto al forte pathos del momento11, tuttavia apparentemente contraddetto nel secondo caso dal fatto che la danza movimentata prevederebbe non un unico, vale a dire isolato e appunto momentaneo, balzo di gioia, ma un coinvolgimento del coro nell’entusiasmo della danza a partire da ora. Nella impossibilità di avvalorare l’ipotesi con un sia pur minimo margine di verosimiglianza che nella pratica della performance il canto cominciasse dal verso 694, dovremo almeno constatare l’intento di rimodulare modelli lirico-innodici con un profilo affatto estraneo a quelli che potremmo definire standard formali, certamente più consueti per il pubblico e di derivazione non drammatica. Tali standard troverebbero la loro adeguata realizzazione in coincidenza con il (e solo a parti9 I vv. 693-694 e 706-707 sono definiti da KRAUS 1957, 35 (e cfr. 120) come una sorta di «Kopf», un collegamento unitario a quanto precede – grazie al primo elemento – ma capace anche di ‘introdurre’ quanto segue con il secondo elemento (con POHLSANDER 1964, 17 e 189: «the prefixing of a metrical unit to the strophic construction proper»), in questo caso un trimetro () seguito da ia + sp (, sync ia dim per DALE 1981, 18). 10 Per l’uso di interiezioni in tragedia – come noto soggette, soprattutto se extra metrum, alla fluttuazione della tradizione manoscritta: WILLINK 1999, 417, n. 29 – si vedano PERDICOYIANNIPALÉOLOGUE 2002, 60 e 67-68 in particolare, e BIRAUD 2010, 133-137 (da cui si cita), con raccolta dei passi: per ijwv seguito da vocativo come herbeirufen cfr. PFEIFFER 1938, 11-12 (in Eschilo e Sofocle ijwv con vocativo marca sempre «a proper address or apostrophe, not a mere exclamation to oneself»: HUTCHINSON 1985, 121, cfr. e.g. Soph. Phil. 400, riferito alla Madre Terra/Cibele). Per Aristofane si vedano invece, nei due valori dell’interiezione come ‘voce che chiama qualcuno’ (non necessariamente quale espressione di allegria) e come manifestazione di dolore, le considerazioni di LABIANO ILUNDAIN 2000, 231-241; per il più comune w\ con vocativo in forme di epiclesi cfr. DORSCH 1983, 223 (e per contesti rituali p. 231, n. 188). 11 Come il citato Ant. 1307, ajnevptan fovbw/, un «‘dramatic’ aorist» per GRIFFITH 1999, 351, dietro SMYTH 1956, 432 (§ 1937: un uso «derived from familiar discourse»); «the Aorist expresses a sudden emotional experience with no emphasis on its duration»: STANFORD 1963, 151; cfr. OC 1466: e[pthxa qumovn.

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re dal) ribattuto ijw; ijw; Pa;n Pavn. L’attacco è infatti palesemente ricalcato sul refrain più comune, e quasi omofono, con il nome di Paiavn. L’anadiplosi (il nome del dio torna per quattro volte in due versi) è dunque escogitata quale esagerazione utile a ribadire il concitato e confuso stato d’animo del coro12, ma anche per rimarcare la presenza di un lascito di genere qui difficilmente trascurabile. Limitandoci per ora alla duplice nominazione dello stesso dio, troviamo conferma dell’impianto dello stasimo nel tono impetrativo di Theocr. 1, 123-124, w\ Pa;n Pavn ktl, ribadito dalla richiesta di venuta e dalla presenza di ei[te/ei[te quale ‘alternativa geografica’ dell’habitat della divinità. La reduplicazione del nome è anche nell’invocazione di Glauc. AP IX 341, 5: Pavn, Pavn... e[rceu, ma soprattutto nella chiusa di un inno epigrafico a Pan forse di età imperiale, a Epidauro: w] ijh; Pa;n Pavn (IG IV2 I 130 = PMG fr. 936, 19), dove, come nel passo tragico, è probabile che il poeta «giochi deliberatamente sulla quasi-omofonia fra Pavn e Paiavn»13. A maggiore distanza, vv. 1 e 3, il nome viene ripetuto nel carme conviviale PMG fr. 887, dove «l’anadiplosi del nomen divino (v. 3) in un modulo allocutivo tradisce – soprattutto nel caso di Pan – una confidente e gioiosa esultanza per l’avvento del dio» (FABBRO 1995, 102). Il verso di apertura dell’inno pindarico a Pan (fr. 95 Sn.-M.), w\ Pavn, ÆArkadiva" medevwn, trasmesso con una sola ricorrenza del nome da schol. Pind. P. 3, 139a (II, p. 81, 11 Drachmann), è tuttavia tramandato con la lieve ma significativa variante del raddoppiamento del teonimo in V. Pi. Ambr. (I, p. 2, 5-6 Drachmann), vale a dire w\ Pa;n Pavn, ÆArkadiva~ medevwn. La lezione con anadiplosi sarebbe dunque da allinearsi accanto ai casi in esame, ed è tuttavia da LEHNUS 1979, 108-109 ragionevolmente considerata, se pure «metricamente accettabile e ammissibile in teoria», «debole nella sostanza», perché più spesso la ripetizione è segno di giubilo ed esaltazione: «tensione ed entusiasmo consoni a esclamazioni improvvise e a brevi preghiere o refrains sconvengono in realtà alla caratura solenne dell’esordio innico»; come notato da WAGMAN 2000, 141, almeno «l’errore della Vita rimarrebbe sintomatico della facilità con cui questo teonimo si prestava alla ripetizione in inni e preghiere». Simili raddoppiamenti sono, appunto, comuni in preghiere e appelli alla divinità, da Il. 5, 31 (ÇAre" ÒAre": unico caso in Omero di ripetizione del vocativo), ad Archil. fr. 177 W.2 (w\ Zeu`, pavter Zeu`) ad Aesch. Ag. 973, Choe. 246 (Zeu` Zeu`), Soph. Phil. 827 (ÓUpnÆ... ÓUpne), OC 1559 (Aijdwneu` Aijdwneu'), Eur. Tr. 840 (ÒErw~ ÒErw~), Ba. 370-371 (ïOsiva... ïOsiva), 584 (w\ Brovmie Brovmie)14 per non andare oltre. 12

Si veda, e.g., quanto scrive Demetrio (eloc. 140, 6-7): hJ ajnadivplwsi~ pro;~ deinovthta~ ma'llon

dokei' euJrh'sqai.

13 WAGMAN 2000, 141, e già WAGMAN 1995, 102-103 in particolare. Si tratta di una stele del santuario di Asclepio che presenta, oltre all’inno a Pan, inni per tutti gli dei e per la Madre (IG IV2 I 129 e 131 = PMG frr. 937 e 935). Per le ‘alternative geografiche’ negli inni si veda il cap. IV, par. 2, con la n. 27 a p. 145. 14 Si potranno aggiungere – ma con più forte sfumatura esclamativa – Aesch. Supp. 890 = 900 (ma` Ga`, ma` Ga`), Ag. 1073 (w[pollon w[pollon), Choe. 382 e 855, Eur. Hipp. 1363 (Zeu` Zeu`); esempi in NORDEN 1957, 136; DODDS 1960, 80; BARRETT 1964, 169; DORSCH 1983, 203, n. 5; ma si veda

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Non vogliono essere, questi dati e altri raccolti sotto, la manifestazione di un semplice approccio catalogico, in sé sterile, ma servono piuttosto a chiarire la funzione eminentemente religiosa che il canto del coro viene ad assumere nell’Aiace, almeno nei suoi tratti formali più salienti. È proprio la posizione iniziale, come evidenziato, tra altri, da RACE 1992, ad essere favorita per il collocamento del nome della divinità (o di un suo epiteto caratterizzante), sia nella tradizione degli inni omerici che in quella dei «cultic hymns» nel più usuale «Du-Stil»15, ma qui la lista dei loci sarebbe troppo lunga16. Resta il fatto che ci troviamo di fronte a una sorta di ‘doppio inizio’, o di ‘falsa partenza’, con l’inno vero e proprio che ha origine dall’invocazione a Pan, e il trimetro giambico che apre lo stasimo con una legittimazione affatto inferiore rispetto a quanto segue: l’ambiguità, al di là dei modi di esecuzione, è costruita ad effetto. A dimostrazione di una aderenza a volte robusta a schemi tradizionali, si potrà ulteriormente notare che l’epiteto seguente (w\ Pa;n Pa;n aJlivplagkte) fa parte anch’esso di un corredo formale (vale a dire: nome del dio, sua geminazione e seconda ricorrenza accompagnata da un aggettivo) che vanta paralleli quali Alcm. PMGF 14: Mw`sÆ a[ge, Mw`sa livgha, i ricordati Il. 5, 31 (ÇAre" ÒAre" brotoloigev) e Aesch. Ag. 973 (Zeu`, Zeu` tevleie)17. Il raro aJlivplagkto~, di valore attivo – «vagante/vagando per il mare»18 –, è almeno parzialmente un epiteto generato, per l’universo di controllo e azione di Pan, dall’attività dei loquenti, vale a dire marinai di Salamina a servizio di Aiace, e come tali legati anche nel ricorso ad espressioni cultuali all’ambito costiero ed equoreo. L’epiteto ha nel passo sofocleo la sua attestazione più antica, e andrà anzitutto accostato all’aggettivo che poco sopra, al v. 597, definiva l’isola di Salamina «battuta dal mare», il pur incerto aJlivplakto~19 (senza dubbio i due aggettivi sono in eco interna), varia soprattutto FEHLING 1969, 169, 174-175 e WILLS 1996, 50 («the second member is often given an epithet»). 15 Cospicua la bibliografia, a partire da NORDEN 1913, 157-170 per «Du-» ed «Er-Stil», ed e.g. MEYER 1933; DORSCH 1983, 11-12; RACE 1992, 19-31: «cultic hymns are distinguished from rhapsodic by their consistent second-person address to the god or goddess (‘Du-Stil’)» (p. 28). 16 Per limitarci solo ai casi tra i più noti in tragedia con nome del dio invocato a inizio del canto (o a inizio strofa): Aesch. Ag. 160 (Zeus) e 355 (Zeus e Notte), Soph. Ant. 781 ed Eur. Hipp. 525 (Eros), Eur. Heracl. 748 (Terra e Luna). Sugli inni in Sofocle si torna più estesamente al cap. IV. 17 Una certa concentrazione è riscontrabile in Theocr. 18, 50-53 (Latw;... Latw; kourotrovfo~... Kuvpri~... qea; Kuvpri~... Zeu;~... Kronivda~ Zeuv~): la nota di GOW 1952, II, 360 non dà conto dello standard della struttura all’interno di una preghiera d’augurio: «the repeated epanalepsis […] seems singularly frigid». 18 Cfr. e.g. Aesch. Ag. 303: aijgivplagkto~, di monte «frequentato da capre», e il doppio valore di nuktivplagkto~ ai vv. 12 e 330 («che si muove di continuo durante la notte» e «che porta agitazione di notte»), con la n. di FRAENKEL 1950, II, 12; in Aesch. PV 467 e Eur. Hec. 782 (di navi e di cadavere): qalassovplagkto~. Incertissimo Soph. TrGF IV F 1133, 51, 1: ¼pl” a ” gkt.». Ancora utile è la lista di epiteti fornita da BRUCHMANN 1893, 185-189. Sono nominati dei mavkare~ aJlivplagktoi, «dii permarini» (LOBECK 1866, 257) in Opp. H. 4, 582, mentre Pan è «leggero viandante su acque inattraversabili» in Nonn. D. 43, 214. 19 Altrimenti solo pindarico: P. 4, 14 detto di Tera (per la diffusa confusione -plakt-/-plagktnei mss. cfr. BRASWELL 1988, 79-80; HUMMEL 1999a, 172, 257). Per Ai. 597 si veda STANFORD 1963, 136, e BJÖRCK 1950, 237, il quale propende per una lettura analoga a quella di v. 695, confermata

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lectio per aJlivplagkto~. Nel contempo, però, potremo altresì considerare tali Wanderungen di Pan al v. 695 come elemento distintivo di divinità in costante peregrinazione e capaci di intervenire e apparire in ogni dove (Eros vaga uJperpovntio~ in Ant. 785). Forse la formazione dell’aggettivo non era del tutto estranea, per campo semantico, a una famiglia di epiteti utili a designare traiettorie e tragitti dentro vaste e spesso indefinitamente generiche geografie divine, come in Ar. Thesm. 326, dove nel cuore di un inno cletico a Zeus e ad altre divinità le Ninfe sono invocate come ojrivplagktoi20. L’immagine di un Pan procedente sul mare – ma anche, dunque, che appare ‘arrivando sul mare’ – pare in ogni caso suggerita anche da una necessità formale, utile a imprimere al canto una nuance di genere. È pur vero che nella preghiera del coro egli è invitato a lasciare le arcadi cime del Cillene, e gli sarà necessario dunque vagare sulle acque per giungere alle coste della Troade in un ideale viaggio di avvicinamento21, più che come consueta prassi, per così dire, rituale. Siamo spinti a credere che i due valori (epiteto cultuale stretto, «tu qui maria pervagari soles», vs. idea di movimento verso un luogo, «per mare huc ades») siano qui adoperati in reciproca interferenza, tanto che il ruolo dell’aggettivo risulta rafforzato proprio dal contrasto al limite dell’ossimoro che esso crea con l’immediato apparire di cime battute dalla neve22. La convergenza di elementi apparentemente così lontani miscela l’hic et nunc della performance – che nella finzione del dramma si svolge nei pressi della riva del mare – ai connotati caratteristici del dio boschivo e montano, rappresentato da L e da A. Secondo GARVIE 1998, 193 «it is probably fortuitous that both stasima begin with such similar words», ma sottolinea giustamente in riferimento a poluvplagkto~ di v. 1186 (p. 233) che «it is odd that three stasima begin with this kind of compound». 20 Altre ricorrenze in AUSTIN – OLSON 2004, 160. Di minore aiuto possono essere aggettivi di matrice analoga inseriti in invocazioni nei tardi H. Orph. (6, 1: aijqerovplagkto~, 7, 8: hjerovplagkto~, 21, 1: oujranovplagkto~, 72, 5 e 73, 3: poluvplagkto~, che è più diffuso e già omerico e sofocleo, in Ai. 1186 e Ant. 615, ma fuori da contesti innodici: «molto vagante», ma anche «causing many wanderings», con STANFORD 1963, 206). 21 aJlivplagkte non andrà dunque, come sostenuto da JEBB 1896, 109 (e da ultimo cfr. FINGLASS 2011, 343), del tutto e solamente correlato con il successivo favnhqÆ con la giustificazione che «as merely a general epithet of the god, it would here be less fitting» (ma già altri prima: «Bothius [BOTHE 1806, 517: «pontivage… nobis appare»] et Hermannus [HERMANN 1817, 84: «coniungenda enim videntur verba aJlivplagkte favnhqi, per mare huc ades»] verba aJlivplagkte favnhqi conjungenda putant»: LOBECK 1866, 258, che traduce, contra, «tu, qui maria pervagari soles», seguito da DORSCH 1983, 224, n. 139, e si veda STANFORD 1963, 151); l’epiteto è invece come sospeso tra il vocativo iniziale – con funzione dunque ‘di ornamento’ rispetto al nome del dio – e l’imperativo che segue, «riferito alla scena dove Pan è invitato a guidare l’improvvisa danza, piuttosto che come epiteto generico capace di accreditare in Sofocle l’immagine di un dio che liberamente e ‘per abitudine’ vaga sulle acque» (LEHNUS 1979, 184, sulla questione cfr. anche KAMERBEEK 1963, 147 e MOORHOUSE 1982, 30-31; si veda Phil. 827-829: ÓUpnÆ ojduvna" ajdahv", ÓUpne dÆ ajlgevwn, | eujah;" hJmi'n e[lqoi", «vieni a noi col tuo soffio benefico», i.e. ‘favorevole’ – anche qui con ripetizione del teonimo –, e Ai. 703705: ÆApovllwn... ejmoi; xuneivh... eu[frwn). 22 Non si entrerà qui nel merito di un’attribuzione discussa, ma è giocoforza segnalare anche quella che BORGEAUD 1979, 223, n. 141, considera un’invocazione che «semble préfigurer celle de S. Aj. 693 sqq.»: in P.Oxy. 2624, fr. 1 (= SLG S 387) si chiede a una divinità legata a luoghi solitari e messa in relazione con una tempesta sul mare – indubitabilmente Pan chiamato come dai`mon aijgivkname (v. 4) – di apparire, o forse di offrire la sua poetica ispirazione (si veda VAN DER WEIDEN 1986, 15-23).

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in H. Hom. Pan. 19, 6-7 come frequentatore di plaghe remote e ‘in altura’ (il dio pavnta lovfon nifoventa levlogce | kai; korufa;~ ojrevwn kai; petrhventa kevleuqa). L’inno costituisce anche, insieme al passo sofocleo, la più antica traccia letteraria a disposizione per confermare i contatti del dio con Cillene: «il più alto dei monti dell’Arcadia» (Paus. VIII 17, 1) è diffusamente consacrato – nell’inno a Pan ai vv. 28-31, e cfr. Soph. OT 1104 – come luogo di nascita e di culto di Ermes (che di Pan, nell’inno come altrove, è padre); e tuttavia se, come è stato ipotizzato, H. Hom. Pan. fosse posteriore al dramma attico e addirittura attingesse ai frutti di quella stagione, Sofocle potrebbe costituire il più antico terminus post quem conservato per testimoniare la presenza letteraria di una tradizione che leghi Pan a Cillene23. Del resto Pan come arcade e dio-pastore non trova spazio nel pantheon omerico ed esiodeo, «and scarcely won any recognition in literature before the Persian War»24. Acquisisce via via nel corso del V secolo, e oltre, i tratti salienti di un dio che Sofocle altrove, in contiguità con Apollo (quali potenziali genitori di Edipo), Ermes e Dioniso, definirà ojressibavth~ (OT 1100) e la cui familiarità con cime innevate e picchi scoscesi è ampiamente attestata, come testimoniano passi di Stimmung innodico-celebrativa o impetrativa25. Ma perché il contingente al séguito di Aiace dovrebbe invocare Pan sulla costa troiana? Una prima risposta è senz’altro legata al carattere panellenico del dio, aspetto che sembra già di per sé giustificare la sua nominazione insieme a una attestata passione per le danze e per i ritmi, come si vedrà. Non dobbiamo tuttavia dimenticare che a intonare il canto sono marinai di Salamina impegnati in un’azione militare lontani dalla patria e accampati sulle coste d’Asia. «Quando i marinai salaminî dell’Aiace invitano Pan a mostrarsi […], è con gli occhi di un ateniese che Sofocle osserva la scena sul lido della Troade» (LEHNUS 1979, 49, n. 183). Del resto, seguendo lo schol. 134a (p. 46, 1-5 Christodoulou, con MEIJERING 1985, 95), considerata in termini di pithanotes è stata una buona scelta quella di inserire un coro di uomini da Salamina, perché da uomini liberi possono essere franchi e, da concittadini, preoccupati per lui; non sarebbe stato plausibile per il poeta – continua lo scoliasta – ricorrere a un coro di Achei, perché non avrebbero condiviso la sofferenza di Aiace. Con anacronismo non certo atipico in Sofocle26 potrebbe esserci qui, infatti, un possibile velato legame con il ruolo svolto nella più recente storia attica dal dio, che fu capace di aiutare i greci non solo a Ma23 Per la proposta, su base stilistica, di una datazione bassa dell’inno, non prima della fine del V sec. o addirittura nel IV, si rinvia ad ANDRISANO 1978-1979. Un culto pastorale cillenio è testimoniato anche da Eryc. AP VI 96, 3 (cfr. BROMMER 1956, col. 995, r. 61). 24 ALLEN – HALLIDAY – SIKES 1936, 402, con FRAENKEL 1950, II, 36. 25 Cfr. e.g. Eur. TrGF V, 1 F 696, 2-3 (l’inizio del Telefo) e l’inno a Pan di Castorione di Soli (SH 310, 1-2): se; to;n bolai`~ nifoktuvpoi~ dusceivmeron | naivonqÆ e{dran, qhronovme Pavn, cqovnÆ ÆArkavdwn, dove si noti l’hapax nifoktuvpoi~. Ancora per il teatro: è da tutti accolta la correzione di Meineke ad Aesch. Eum. 943, dove Pan (il nome è frutto dell’emendazione) è dio della fertilità e della pastorizia; è invocato insieme ad altri (Ermes e le Ninfe) in Ar. Thesm. 977-978. 26 Cfr. per un caso simile (l’ulivo distrutto dai persiani e ricresciuto, evocato in OC 694-703) RODIGHIERO 2012, 62-64.

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ratona ma in special modo durante la battaglia di Salamina, quando truppe persiane si erano spinte a occupare Psittalia27. Pan, dunque, oltre a vantare una naturale predisposizione a interventi in fasi di emergenza e pericolo per l’universo dei greci, è divinità storicamente cara alle genti costiere e isolane di Salamina e dei dintorni (e agli abitanti della polis più in generale) proprio a partire dall’epoca delle guerre persiane, probabile punto di partenza per una sua più stabile diffusione in ambiente ateniese28. Se quindi, in via ipotetica, la presenza benefattrice del dio in coincidenza di eventi recenti avesse potuto spingere Sofocle – certo a qualche decennio di distanza – a mettere sulle labbra dei marinai il nome di «a domestic deity to Salaminians» (JEBB 1896, 109), congiuntamente andrà rilevato un altro motivo, forse più congruo, di carattere orchestico: il dio ama le danze, e proprio sulle rive di Psittalia (dove ancora secondo Pausania I 36, 2 non c’erano altre statue se non alcuni xovana di Pan) egli si aggira: nh`sov~ ti~ e[sti provsqe Salami`no~ tovpwn, | ... h}n oJ filovcoro~ | Pa;n ejmbateuvei pontiva~ ajkth`~ e[pi (Aesch. Pers. 447-449, e fino a Dem. Tricl. schol. Aesch. Pers. 448 [p. 48, 2-3 Massa Positano] si trasmette la notizia che ejntau`qa parÆ aijgialw`/ sorgeva un suo naov~). Nella sua natura semiferina, capace dunque di abili balzi da capro, dovremo forse riconoscere anche la vivacità di una coreografia la cui natura è perduta. Tono smodatamente lieto, autoreferenzialità, evocazione di due figure-chiave legate alla danza come Pan e Apollo nel giro di pochi versi fanno supporre un’esuberanza che non doveva essere solo verbalizzata ma anche resa manifesta dal movimento, dal nome iterato di Pan alla sua invocazione come coropoiov~: «one can almost hear the thud of the dancers’ feet beating out the resonant word»29, e il tonfo del piede che percuote il suolo potrebbe trovare conferma – dietro GARVIE 1998, 193 – nella seconda parte del composto cionoktuvpou. Assistiamo in verità all’enunciazione precisa del tipo di danza cui il coro intenderebbe invitare il dio30. In Ant. 152-154 l’autoesortativo ejpevlqwmen prefigura una festa ‘procrastinata’ – attraverso un tipico caso di «choral 27 Cfr., per l’apparizione al messaggero Fidippide, Hdt. VI 105 e Paus. I 28, 4 (con GARLAND 1992, 47-63); l’episodio di Psittalia è narrato in Hdt. VIII 76 e 95, ed evocato in Aesch. Pers. 447464, dove l’isola non ha nome (cfr. GARVIE 2009, 208); per la sua discussa collocazione si veda ASHERI 2003, 275. Suda a 1241 Adler, s.v. aJlivplagkto~, condensa varie tradizioni sul dio (a cui è parzialmente sovrapponibile lo schol. ad v. 694 [p. 160, 3-5 Christodoulou]): ou{tw" kalei'tai oJ Pavn, h] o{ti ejbohvqhse toi'" ÆAqhnaivoi" ejn th/' naumaciva/ [con riferimento a Psittalia], h] o{ti to;n Tufw'na diktuvoi" h[greusen [cfr. Opp. H. 3, 15-25], h] o{ti oiJ aJliei'" timw'si to;n Pa'na wJ" novmion qeovn [e.g. Pind. fr. 98 Sn.-M. = schol. Theocr. 5, 14-16b {p. 161, 2-4 Wendel}; Agath. AP VI 167, e cfr. HALDANE 1968, 22-23; LEHNUS 1979, 180-187], h] o{ti megalovfwno" ejn th/' coreiva/, wJ" aJlivbromo", h] o{ti th'" ÆHcou'" ejra/': poluvhco" de; hJ qavlassa. e[sti de; oJ Pa;n corw'n provxeno", con evidente riferimento, in quest’ultimo caso, alla sua propensione per la danza. 28 Con LEHNUS 1979, 53-54, 90 e n. 136. Molte le connessioni tra Atene e il dio: cfr. almeno BORGEAUD 1979, 195-237; in sintesi FABBRO 1995, 100-101; NENCI 1998, 267-269; a Pan era consacrata una caverna sul lato settentrionale dell’Acropoli: TRAVLOS 1971, 93 [fig. 116], 417-421. 29 STANFORD 1963, 151. Su cionoktuvpou (hapax) si veda anche FINGLASS 2011, 344. 30 Per l’invito alla danza rivolto a una divinità si considerino almeno Ar. Eq. 559, un inno in

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projection» nel futuro – alla notte di celebrazione della vittoria contro l’assedio argivo, con l’invito a Dioniso a unirsi alla danza là espresso in terza persona, ma nell’Aiace il ribattuto nu`n (tra strofe e antistrofe compare tre volte) fa pensare piuttosto a un richiamo all’attualità della performance. Del resto qualsiasi riferimento alla danza nelle frasi che compongono il canto di un coro in movimento doveva essere di riflesso messo in relazione dagli spettatori con quanto si svolgeva davanti a loro nell’orchestra, indipendentemente dalla priorità o seriorità della proiezione corale31. Una contraddizione terminologica, questa sì affatto simile al citato caso di Antigone, rimane evidente: al v. 700 il verbo ijavyh/~ esprime un invito al dio perché sia lui a «lanciare» la danza (GI2 985: «appari per dare inizio alle danze»)32, a esserne il promotore e l’artefice, mentre però i marinai già stanno cantando, in moto. E del resto lo stesso impiego, al v. 698, di un verbo del vocabolario innodico per eccellenza quale favnhqÆ sembra confermare l’urgenza di una immediatezza sostenuta dal desiderio che il dio si unisca al coro nella danza attuale. A prescindere dal tono festoso o lugubre dell’epiclesi, e dalla funzione drammatica dell’auspicata epifania, si potranno vedere – limitandoci nella casistica all’impiego drammatico di favnhqi33 – l’invocazione rivolta all’ombra di Dario in Aesch. Pers. 666 (con iJkou', | e[lqÆ ai vv. 658-659: appare al v. 681); a Dioniso in Soph. Ant. 1149 (profavnhqÆ); ai trissoi; ajlexivmoroi Atena, Artemide, Apollo in Soph. OT 163 (profavnhte); a Pallade Atena in Ar. Eq. 591 (con deu'rÆ ajfikou' al v. 586) e in Ar. Thesm. 1143 (favnhqÆ); alle Nubi in Ar. Nub. 266 (favnhtÆ); da Megara a Eracle in Eur. HF 494 (a[rhxon, ejlqev:... favnhqiv moi: appare al v. 523); a Dioniso in Eur. Ba. 1017; a PaiánFebo in Alc. 91-92 (ma qui con il desiderativo eij... faneivh~); a Eros in Hipp. 528 (mhv moi pote; su;n kakw/' faneivh~, con BARRETT 1964, 259); a Reso in [Eur.] Rh. 370: ejlqev, favnhqi (appare al v. 380); una breve ‘antologia’ di espressioni è concentrata, infine, in Ar. Thesm. 1136-1159, inno in onore di Atena, Persefone e Kore. Ma paradigmaticamente vicino al nostro è il caso di Ant. 1149, perché in entrambi i drammi, in luogo della divinità invocata, sarà un personaggio di grado affatto inferiore, come il nunzio, a comparire, rispetonore di Poseidone Ippio che contempla l’appello diretto con il «tu»: deu'rÆ e[lqÆ eij~ corovn, e 586589 (ad Atena); Nub. 562-573; i loci sono raccolti in OLSON 1998, 225. 31 «From the perspective of an Athenian audience watching the performance of tragic or comic choruses, any reference to dancing on the part of such a chorus must have been seen as a mirror image of the dancing in the orchestra» (HENRICHS 1996, 53, con DAVIDSON 1986a, 40). Ci si tornerà brevemente più sotto. 32 Per KAMERBEEK 1963, 148 il nesso potrebbe anche significare «to make quick movements in dancing» sulla scorta di Aesch. Supp. 547, o «fare oscillare mani e braccia» («the act of putting forth the feet or the arms in lively movement»: JEBB 1896, 110); ma contra cfr. LONG 1968, 91-92, che lo collega a un passo eschileo: «to ‘shoot forth dances’, just as Aeschylus (Ag. 1548) talks of ‘shooting out the hymn’» (con altri esempi di sostantivi in -ma accompagnati da composti aggettivali rari). 33 «The most intense form of a cletic hymn»: FURLEY – BREMER 2001, II, 336 (cfr. anche, tra altri, CITTI 1962, 147, n. 46). Altre forme sono diffuse in tragedia: e[lqe, molei'n, bavske, bavqi, i[qi, iJkou' (esempi raccolti in KRANZ 1933, 186-187; DEVLIN 1994, 372, n. 34; PULLEYN 1997, 136-144; le ricorrenze aristofanee sono in WILLI 2003, 31, n. 97; altri esempi nel più ampio contesto della cultura indoeuropea in WEST 2007, 318-321).

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tivamente ad Ai. 719 e Ant. 1155; al messaggero viene affidato il compito di far virare la vicenda drammatica verso toni ed eventi più cupi, in Antigone annunciando la rovina di Creonte, qui mettendo in guardia il coro sui piani del protagonista. 2. Danze di Misia e di Cnosso Attacco di genere e invocazione per una sperata epifania si coniugano con la rivendicazione di forme orchestiche precise, e nondimeno risulta singolare e unica la specifica competenza ivi palesata per danze e coreografie ‘regionali’ se non addirittura ‘tecniche’, vale a dire quelle di Misia e di Cnosso. È pressoché impossibile chiarire a che tipo di danze il poeta facesse qui riferimento. Certo l’originale indicazione geografica delle stesse concorre alla forte impressione di Kreuzung che i versi sofoclei comunicano, ma a un migliore intendimento della natura di tali Muvsia KnwvsiÆ ojrchvmatÆ aujtodah` si oppone anzitutto un problema testuale. Muvsia del v. 699 è infatti la variante consegnataci dal recto di un lacerto ossirinchita, P.Oxy. 1615, del IV sec., pubblicato alla p. 162 (e tav. IV) nel tredicesimo volume della serie dato alle stampe nel 1919. Lo si riporta, per la parte che qui interessa, integrato dei segni lezionali: ijw; ijwv, Pa;n » w\ Pavn, Pa» laniva" ci» petraiva" » qew`n co» Muvsia K» xunw;n ij»

Tale variante è nota, come vedremo, anche – e solamente – a Suda n 619 Adler, s.v. Nuvsia, ed è diffusamente (ma non in modo concorde) accolta dagli editori e nei commenti con un margine di incertezza che non ne mina la plausibilità e la preferibilità in luogo della paradosis medioevale, ovvero il Nuvsia che campeggia nelle edizioni sofoclee fino alla oxoniense a cura di Alfred Chilton Pearson, del 1924. È lui che per primo34 mette a testo non più Nuvsia ma Muvsia a séguito della recente pubblicazione del papiro35. 34 Accolgono Muvsia: PEARSON 1924; WILAMOWITZ 1932, 177, n. 2; STANFORD 1963, 152 (ma anche Nuvsia «makes tolerable sense»); KAMERBEEK 1963, 147 (dubbiosamente: «Muvsia may be the right word»); LLOYD-JONES – WILSON 1990a (con LLOYD-JONES – WILSON 1990b, 23: «though we cannot be sure that it is right»); DAWE 1996a; GARVIE 1998, 193; MAZZOLDI 1999, 182; FINGLASS 2011, 345-346. Stampano invece Nuvsia: MASQUERAY 1922; COLONNA 1975 (che in apparato giustifica la scelta con il rinvio a Ant. 1131); DAIN – IRIGOIN 1985. Rimangono alla lezione dei mss. i dizionari: GI2 1426, s.v. Nuvsio~, registra, con H. Hom. Cer. 2, 17, anche il passo sofocleo, così come LSJ9 1185 che, avendo in uso per Sofocle l’edizione di Pearson, annota s.v. Nuvsio~ un non altrimenti chiarito «S. Aj. 699 codd.». 35 A p. 163 del ricordato vol. XIII dei papiri di Ossirinco si legge che Nuvsia «seemed appropriate enough in view of the close connexion between Pan and Dionysus. But, as was observed

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Riferiamoci per ora alla lezione tràdita da tutti i manoscritti, ipotizzando per l’isolata variante un errore di maiuscola: la presenza di danze «di Nisa», al di là della irrealizzabile, per noi, collocazione territoriale del rinvio topografico, favorisce un accostamento tra l’invito rivolto a Pan e la figura di Dioniso, essendo Nisa tradizionalmente consacrata al dio. Se numerose sono le località omonime individuabili come luogo di devozione bacchica e se questa dovesse in via ipotetica essere l’originale scelta sofoclea, è più plausibile un richiamo alla Nisa di Tracia in virtù del contesto e dell’ambientazione epici del plot drammatico, quella stessa rammentata in Il. 6, 132-133 (le pendici del monte Niseo) come sede delle nutrici di Dioniso, più che alla Nisa d’Egitto (H. Hom. Bacch. 1, 8-9) o di Eubea (Ant. 1131-1133)36. La menzione di Nisa, dopo Cillene per Pan e prima di Delo con riferimento ad Apollo (v. 704), costituirebbe inoltre l’ulteriore specificazione di un ‘luogo d’origine’, con la funzione di marcare spazialmente la genealogia delle divinità chiamate alla – e dalla – danza (quindi anche il pur non nominato Dioniso?)37. Non si può qui dare conto dell’intero corpus di possibili associazioni tra Pan e il signore del corteggio bacchico, che sono indubbie (ma estremamente deboli e poco frequentemente attestate per il V secolo)38: ci basti menzionare il fatto che più di tutti gli altri si rallegra proprio Dioniso alla nascita del dio montano nell’inno omerico a lui dedicato (H. Hom. Pan. 19, 45-46: pavnte" dÆ a[ra qumo;n e[terfqen | ajqavnatoi, perivalla dÆ oJ Bavkceio" Diovnuso"), e che, ancora molti secoli dopo, Pan è per Luc. Bis Acc. 9, 15-16 tw'n Dionuvsou qerapovntwn to;n bakcikwvtaton. Se ci si limita ai rituali estatici e di possessione, Plutarco (Mor. 758 E-F) ricorrerà addirittura a un segmento sofocleo per ribadire una possibile affinità di entusiasmi coreutici, con l’orgiasmós bacchico avvicinato ai riti del culto panico, oltre che metroaco39: ejnqousiasmou' de; to; mantiko;n ejx ÆApovllwno" ejpipnoiva" kai; katoch'", to; de; bakcei'on ejk Dionuvsou, «kajpi; Kurbavntesi coreuvsate» fhsi; Sofoklh'" [= TrGF IV F 862]: ta; ga;r mhtrw/'a kai; panika; koinwnei' toi'" bakcikoi'" ojrgiasmoi'". Danze bacby Mr. A. C. Pearson, Muvsia is probably right» (si tratta di una nota che Pearson spedì a B.P. Grenfell nel 1917, come chiarito in PEARSON 1922, 25), con rinvio a Strab. X 3, 7, p. 466 C. e all’Ida ‘troiano’: «the region of Trojan Ida was in Mysia (Jebb on Ai. 720 [= JEBB 1896, 113])», su cui infra. 36 Cfr. JEBB 1900, 202; GRIFFITH 1999, 320. Per il tentativo di localizzare la Nisa dell’Antigone si veda la sintesi offerta da CULLYER 2005, che propende per la Nisa di Tracia; si vedano inoltre GEBHARD et al. 1937 e DODDS 1960, 146, ad Ba. 556 (è luogo di nascita di Dioniso per Soph. TrGF IV F 959 e connessa con il dio, in ambito tragico, anche in Eur. Cycl. 68). 37 «Nysiae, quas Satyri Nysigenae Nymphaeque Bacchi nutrices saltarunt»: LOBECK 1866, 259. 38 Si rinvia a BORGEAUD 1979, 168-171; LEHNUS 1979, 189-190, n. 1; FINGLASS 2011, 346 («in a fifth-century context Dionysus fits much less well than the Mother. Later his link with Pan strengthens, and so corruption from original Muvsia to Nuvsia becomes plausible»); per un primo orientamento su accostamenti iconografici tra Pan e Dioniso (consueti da metà IV secolo a.C.): BORGEAUD 1979, 87; HENRICHS 1994-1995, 102, n. 84; esula dai nostri fini lo studio dell’iconografia di Pan, per la quale cfr. LIMC VIII, 1, 923-941, oltre a BROMMER 1956 e al sintetico BOARDMAN 1997. 39 Poco più sotto (759 A-B) vengono associati ta; bakcika; kai; korubantika; skirthvmata, che dopo l’entusiasmo to;n rJuqmo;n metabavllonte" ejk trocaivou kai; to; mevlo" ejk Frugivou prau?nousi kai; katapauvousin, con accostamento del rituale coribantico al canto frigio: cfr. infra.

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chiche sono associate a Pan e a riti di purificazione e iniziazione anche da Plat. Leg. 815c-d, e sulla medesima linea di un sincretismo il più delle volte difficile da districare, ma capace di stabilire sia pure genericamente contatti fra tradizioni e modalità cultuali eterogenee, risulta la notizia tramandata dal Marmor Parium, che menziona arie suonate dal frigio Hyagnis, primo auleta, sull’armonia frigia, e le accosta a a[llou~ novmou~ Mhtrov~, Dionuvsou, Panov~ (IG XII 5, 444 = FGrHist 239 A 10): Dioniso, dunque, di nuovo con Pan e con la Gran Madre. Le danze dionisiache celate sotto i Nuvsia ojrchvmata parrebbero perciò nello stasimo affatto giustificate, se a ispirarle e a insegnarle dovrà essere Pan, date le tradizionali analogie rilevabili fra i due tipi di esaltazione, quella bacchica e quella, appunto, panica. Oltre a ciò, qualora si volesse conservare Nuvsia in armonia con i manoscritti, l’implicita evocazione di Dioniso con il richiamarsi del coro alla sua consueta area di influenza andrebbe nondimeno a conferma del fatto che in tutti i casi attestati di autoreferenzialità (resa qui palese dal verso 701: nu'n ga;r ejmoi; mevlei coreu'sai) il coro sofocleo tenderebbe a suggerire un fondale dionisiaco per il proprio canto danzato, come sostenuto da Albert Henrichs: al coro verrebbero dunque in questi casi genericamente assegnate «explicit Dionysiac identities», e più in particolare «the Pan of this stanza also represents the realm of Dionysos and Dionysiac enthusiasm». Pur sostenendo una marcata atmosfera bacchica – costituita dagli evidentemente movimentati passi del coro in onore di Pan –, anche Henrichs accoglie Muvsia40: ciò che oggi porta commentatori e (quasi tutti gli) editori a difendere la lezione del papiro – benché come visto si confessino dubbio e incertezza – non è solo il fatto che si tratta della lezione recata dai testimoni più antichi, ma anche la relazione altrettanto stretta, in letteratura, delle celebrazioni di danza e canto in onore di Pan in accoppiata con l’asiatica e soprattutto frigia Gran Madre Cibele, il cui nome sarebbe implicitamente alluso nel richiamo del coro alla Misia; dunque Muvsia = Cibele vs. Nuvsia = Dioniso. L’abbinamento fra Pan e la Gran Madre, di cui già si sono visti alcuni esempi proprio in unione con Dioniso, è del resto testimoniato almeno a partire da Pindaro, in P. 3, 77-7941: ajllÆ ejpeuvxasqai me;n ejgw;n ejqevlw | Matriv, ta;n kou'rai parÆ ejmo;n provquron | su;n Pani; mevlpontai qamav | semna;n qeo;n ejnnuvciai, e in special modo nell’Inno a Pan, dove il dio arcade figura come ojpadov~ della dea: w\ Pavn, ÆArkadiva" medevwn | kai; semnw'n ajduvtwn fuvlax, | * * * Matro;" megavla" ojpadev (fr. 95, 1-3 Sn.-M.)42. In un saggio che rimane 40

HENRICHS 1994-1995, 74; si cita da pp. 60 e 75. Con GENTILI 1995, 418-419, e per la possibile esistenza di un culto di Cibele a Tebe, in sintesi, ibid., 77, n. 2, SCHACHTER 1986, 138-141, OLIVIERI 2009, 108-109 (contra, SLATER 1971, che riconosce nella ‘Madre’ non Cibele ma Demetra, seguito da ARRIGONI 1982, 41, n. 30 e 60, n. 134). Cibele è espressamente nominata da Pindaro – se si accolgono le integrazioni – solo al fr. 80 Sn.-M., su cui LIDOV 1996, che nega l’intonazione innodica del passo. 42 Con Pind. fr. 96 Sn.-M.: w\ mavkar, o{n te megavla" | qeou' kuvna pantodapovn | kalevoisin ÆOluvmpioi. 41

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a tutt’oggi imprescindibile per l’inno pindarico, Luigi Lehnus, proprio a partire dal poeta tebano, riconosce qualcosa di potenzialmente analogo al rapporto tra pavredro" e povtnia di Pan e Cibele-Meter anche nello stasimo sofocleo, pur nell’incertezza del testo e nell’effettiva assenza, in esso, del nome della divinità femminile: se davvero nel passo del poeta tragico si sta parlando delle danze misie come parte del corredo del culto di Cibele, non solo si incontrerebbe, nell’Aiace, «una delle prime testimonianze sul sincretismo tra la divinità materna anatolica e quella cretese [considerato l’immediatamente successivo rinvio a Cnosso], ma disporremmo anche di una preziosa conferma indiretta del carattere parallelamente avventizio e ‘asiatico’ della Mavthr megavla associata a Pan in Pindaro», pur rimanendo indimostrabile la conoscenza da parte di Sofocle dell’inno pindarico43. Questa intuizione, che coglie il valore allusivo implicito nell’appellativo geografico come dato non secondario nell’intonazione del canto, ha buone probabilità di essere corretta; il nesso tra la divinità d’Asia e il dio dei boschi come suo attendente è altresì potenziato da caratteristiche condivise, come la frequentazione montana e di luoghi selvatici e la sonorità strepitante del culto, e soprattutto viene confermato sulla scena attica da un passo degli Uccelli di Aristofane, dove canti per Pan e coreuvmata per la dea si celebrano all’unisono (Av. 744746): diÆ ejmh'" gevnuo" xouqh'" melevwn | Pani; novmou" iJerou;" ajnafaivnw | semnav te Mhtri; coreuvmatÆ ojreiva/44. Il Pan dello stasimo sofocleo, dunque, in virtù della sua funzione di devoto accompagnatore della dea insegnerebbe ai marinai coreografie «di Misia», a cui tuttavia andranno ad aggiungersi gli ojrchvmata considerati familiari nella cretese Cnosso45. Rinviando ancora di un poco la lettura solo parzialmente chiarificatrice offerta dalla tradizione scoliastica, possiamo già provare a giustificare l’inserzione almeno di Knwvsia quale secondo epiteto geografico. Cibele-Rea manteneva in effetti i suoi due centri di culto, testimoni di una continuità secolare che giunge fino all’età imperiale e oltre, proprio sull’Ida di Creta e sull’Ida ‘troiano’, niente affatto lontano dal supposto luogo in cui il dramma sofocleo ha il suo svolgimento, se ai vv. 720-721 Teucro giunge, a detta del messaggero, dalle balze misie (Musivwn ajpo; krhmnw`n). Tale fami-

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Si veda LEHNUS 1979, 52 e 95-97 (la citazione è tratta da p. 97). «Both were worshipped with ecstatic rituals involving drums (Mother: Pi. Dith. 2. 8-11 [= fr. 70b, 8-11 Sn.-M.]; Pan: Ar. Lys. 2-3)»: DUNBAR 1995, 465, e si veda schol. Pind. P. 3, 139a-b (II, p. 81, 7-18 Drachmann), dove – tra altro – a commento dell’inno a Pan il dio viene definito pavredro~ di Rea; ulteriori riferimenti su tale «solidarité cultuelle» in BORGEAUD 1979, 215-216, 253-254; LAVECCHIA 2000, 139. Per rilievi che li vedono accostati cfr. CCCA II, nrr. 180, 182, 309, 339, 432 (di età ellenistica, vi compare anche Dioniso) e 409: un rilievo marmoreo (ultimo quarto del V sec.) dal Metroon di Moustaphades presso Tanagra, su cui ARRIGONI 1982, p. 10 e p. 39, n. 19. 45 Luogo di riferimento già di antiche coreografie fin dalla nota scena raffigurata da Efesto sullo scudo di Achille (Il. 18, 590-606); più in generale Creta era sinonimo di buoni ballerini, come si apprende da Luc. Salt. 8 e da Ath. V 180f-181b, e si ricordino anche i Knwvsia kw`la dell’adespoto TrGF II F 225 (= Hesych. k 3166 Latte, glossato ta; oJrmhtikav) con l’apparato di Snell, che rinvia a Ai. 699. Cfr. la sintesi tracciata in LAWLER 1951, e la documentazione archeologica in WARREN 1984. 44

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liarità con le due distinte cime dell’Ida46 – in special modo con la montagna d’Asia – viene ribadita in alcune delle ricorrenze tragiche in cui la dea fa la sua comparsa, vale a dire Eur. Or. 1453 (la monodia del Frigio, dove è Madre Idea), Hel. 1319-1324 (Cibele/Demetra insieme alle Ninfe dell’Ida: Dioniso è nominato qualche verso più sotto)47 e Pal. TrGF V, 2 F 586 (insieme a Dioniso); si tratta di tre esempi della non così massiccia presenza della divinità asiatica nei testi per il teatro, espressamente nominata in essi (si intenda: non solo evocata allusivamente) a partire – se non prima – almeno dagli anni Trenta del V secolo, con Hipp. 141-144 come terminus certo (dove la dea è menzionata come possibile causa della follia di Fedra, siano colpevoli lei, Pan, Ecate, o i Coribanti), e verosimilmente già qualche anno prima con Eur. Cret. TrGF V, 1 F 472, 9-15, dove ancora in contesto cretese oltre a Zeus Ideo e a Zagreo vengono accostati alla Madre dei monti i Cureti e, di nuovo, i culti bacchici48. Accogliamo dunque il Muvsia Knwvsia dell’Aiace affidando agli aggettivi (e alla geografia da essi evocata) valore di titolarità ed eleggendoli a effettiva lezione d’autore: andrà ora però meglio spiegato il senso, nel contesto, di tale presenza. Il coro nel passo dell’Aiace farebbe cenno, nel definirle asindeticamente «di Misia, di Cnosso», a peculiari forme di danza movimentata e rumorosa insegnate da Pan ma legate a stretto giro alle pratiche dei seguaci della Gran Madre Cibele/Rea. Sono infatti soprattutto loro a condurre nella direzione di Creta: della conoscenza di tali forme di danza sarebbero stati depositari, come da più fonti attestato, i Cureti ivi stanziati49 – donde il riferimento a Cnosso nello stasimo – e con loro i Coribanti d’Asia Minore, insieme alla dea non dichiaratamente nominati ma ipoteticamente impliciti nel riferimento alla Misia. Al fine di una prima ricognizione sull’intreccio di queste tradizioni rimane essenziale un passo straboniano (Strab. X 3, 7, p. 466 C. – 22, p. 473 C.) dedicato a un lungo excursus sui Cureti, l’etimologia che li definisce e le loro danze armate in grado di salvare l’infante Zeus dal padre 46 Per le attestazioni archeologiche del culto cfr. CCCA I, Misia e Troade ai nrr. 261-431, e SCHWERTHEIM 1978. Per l’Ida di Creta cfr. PRENT 2005, 374-377, 591-603 e per i culti sull’isola SPORN 2002, 329-331 e 334-336 con tab. 9, p. 386 (Rea/Cibele) e tab. 15, p. 389 (Pan e Cureti). 47 «The earliest extant evidence for the transferral of Demeter’s Eleusinian myth» a Cibele: ALLAN 2008, 295 (con OLIVIERI 2009, 103-104, ma si veda, per probabili sovrapposizioni già in Pindaro e in area tebana, LAVECCHIA 1994, 38-44). 48 Si rinvia a ROLLER 1996, e per i Cretesi COZZOLI 2001, 83-91. Dioniso è alla Gran Madre collegato per la natura orgiastica del cerimoniale già nel ricordato Pind. fr. 70b, 1-11 Sn.-M. (su cui LAVECCHIA 1994, 44-50), probabilmente in TrGF II F 629 (con BIERL 1991, 246) e cfr., dalla perduta Semele, Diog.Ath. TrGF I 45 F 1, con KANNICHT 1969, II, 331-332 e in generale SFAMENI GASPARRO 1985, 9-19. 49 I Cureti sono però, a testimonianza di una sovrapposizione territoriale già arcaica, non cretesi ma frigi e suonatori di aulo per l’anonimo autore della perduta Phoronís, fr. 3 Bernabé (= Strab. X 3, 19, p. 472 C.): forse un’epopea nota a Sofocle, cfr. TrGF IV F 364, «Fruvge~ (sc. Dactyli Idaei)», e l’apparato di Radt (sono filopaivgmone~ ojrchsth`re~ per Hes. fr. 123, 3 M.-W., dal medesimo passo straboniano: X 3, 19, p. 471 C.); sulla stessa linea, i Cureti sono therapontes della Madre degli dei secondo l’autore della Danaís per Phld. Piet. B 5818 Obbink (dal vol. 2 in corso di stampa: si tratta di P.Herc. 1088 VI 21-26 [p. 42 Gomperz] = fr. 3 Bernabé).

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che lo voleva ingoiare, i berevkunte~ di Frigia che onorano la Gran Madre e i numerosi culti ad essa legati. Nondimeno, però, queste pagine ci confermano una volta di più il legame con la sfera di Dioniso (X 3, 11-15, pp. 468-470 C.): vi viene infatti ricordato con diretta citazione del passo del tragico il nesso ‘dionisiaco’, appunto, statuito già da Euripide in Ba. 120-125 tra Cureti di Creta (ivi sovrapposti ai Coribanti), nascita di Zeus, Madre Rea, e Bacco50. Per sintetizzare: il materiale ‘cretese’ e ‘frigio’ nella sua forma combinata (senza più distinzione fra la tradizione insulare e quella orientale) doveva essere stato integrato alla letteratura ierografica già dalla prima metà del V secolo; i Cureti cretesi, connessi con il mito della nascita di Zeus e con il fragore derivato dai loro movimenti, rappresentano una sorta di variante di analoghe figure religiose, là dove si constatino riti di carattere orgiastico che prevedano danze sfrenate e musica: tanto che il nome dei Cureti dell’isola, fedeli a Rea, poté essere esteso ai membri del corteggio della Gran Madre Cibele, i Coribanti di origine frigia, e – come ad esempio in Euripide – accostarsi/sovrapporsi ad esso51. Non permette di fare ulteriori passi avanti la tradizione scoliastica al passo sofocleo (scholl. 699a-g [pp. 162-163 Christodoulou]), che convalida la lezione dei codici e prova a spiegarla; essa si limita infatti a confermare la lectio Nuvsia, a fornire una possibile associazione con Dioniso non solamente di Nisa ma anche di Cnosso (schol. 699a [p. 162, 3-4 Christodoulou]: kai; hJ Knwso;" ga;r Dionuvsou)52 e a classificare in due distinti gruppi le forme di danza (schol. 699b [p. 162, 2-5 Christodoulou] + schol. 699c [p. 163, 1-3 Christodoulou]): (a) Nuvsia KnwvsiÆ ‹ojrchvmatÆÌ: ejn Nusiva/ kai; ejn Knwsw/' ejpimelh;" hJ o[rchsi". h] Nuvsia, ta; ejn th/' Nuvsh/ ginovmena (e[sti de; au{th Dionuvsou iJerav): kai; suna/vdei tw/' Knwvsia (kai; hJ Knwso;" ga;r Dionuvsou).

(b) tw'n ojrchvsewn aiJ mevn eijsi Dionusiakai; aiJ de; Korubantikai; ‹ai}Ì kai; ejnovplioi. Nuvsiai ou\n aiJ Dionusiakaiv, para; th;n Nu'san, Knwvsiai de; aiJ Korubantikaiv: Knwso;" ga;r povli" th'" Krhvth", ejn th/' Krhvth/ de; uJpo; Korubavntwn ejtravfh oJ Zeuv".

50 Strab. X 3, 13, pp. 469-470 C. Cfr. DODDS 1960, 84 (e 76-77: la contiguità di Dioniso con Cibele è già registrata in Ba. 72-82); per ulteriori riferimenti allo strepito prodotto dai Cureti, finalizzato alla salvezza di Zeus e alla sua protezione dal padre Crono cfr., e.g., Call. Jov. 52-53, e a proposito dell’Hymnus Curetum di Palaikastro (IC III II, 2 = CA p. 160), probabilmente del IV sec. a.C., si vedano FURLEY – BREMER 2001, II, 12; sui Cureti in Strabone JEANMAIRE 1939, 427-430 e 593-616; GUIZZI 2003. 51 Si veda ROLLER 1999, 119-125 e 169-177; «the syncretism [tra Cibele e Rea] may perhaps have taken place in the latter half of the sixth century»: p. 174 (cfr. anche XAGORARI-GLEIßNER 2008, 8-25). Le occorrenze di Kybebe/Kybelis sono già in Hippon. fr. 127 W.2 = fr. 125 Degani (per il dibattito sul nome utile la sintesi di MUNN 2006, 120-125) e – per la prima volta accostata a Rea – in Hippon. fr. 156 W.2 = fr. 167 Degani (Tzetz. Schol. ad Lyc. 1170 [II, p. 339, 15-17 Scheer]); si veda inoltre ALLAN 2004, 140-146. Le fonti su Coribanti e Cureti sono raccolte in SCHWENN 1922a e 1922b (e si veda LINFORTH 1946, 121, n. 1). 52 L’associazione non sarebbe isolata: per Creta, Dioniso e la festa dei Theodaisia cfr. PFEIFFER 1949, 53: ad Call. fr. 43, 86 = 50, 86 Massimilla (Aet., con i mutili vv. 106-117: Cnosso e Dioniso Zagreo); MASSIMILLA 1996, 353-354; COZZOLI 2001, 18-23.

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(c) tw'n ojrchvsewn hJ me;n Berekuntiakh; levgetai, hJ de; Krhtikh; h} kai; purrivch. Nuvsia ou\n aiJ Berekuntiakai; (th'" ga;r Nusiva" ejsti;n hJ Berevkunto"), Knwvsia de; ‹aiJÌ Krhtikaiv.

Il testo delle note esegetiche antiche – che in L compare secondo questo assetto – viene confermato e ripreso nel lemma della Suda n 619 Adler, s.v. Nuvsia, il quale «undoubtedly derives from the scholia on this passage» o potrebbe presupporre una fonte comune53, secondo un ordine di citazione che coincide con gli attuali scoli al v. 699 c + a + b Christodoulou. Nel lemma della Suda, che riportiamo qui sotto, fa però la sua comparsa anche un riferimento alla Misia come luogo nel quale – non diversamente che a Cnosso – la danza è tenuta in gran conto (ejn Musiva/ ga;r kai; Knwssw/' ktl: ripresa parzialmente puntuale dello schol. 699a – ejn Nusiva/ kai; ejn Knwsw/' ktl – ma contenente, magari come semplice errore del compilatore o della fonte a cui attinge, la lectio al passo sofocleo che ci viene testimoniata soltanto da P.Oxy. 1615)54: Nuvsia: ojrchvmato" ei\do": tw'n ga;r ojrchvsewn hJ me;n Berekuntiakh; levgetai, hJ de; Krhtikhv, hJ de; Parrikhv. Nuvsia ou\n ta; Berekuvntia: Nusia;" gavr ejstin hJ Berekuntiakhv. Knwvssia de; Krhtikhv: ejn Musiva/ ga;r kai; Knwssw/' ejpimelh;" hJ o[rchsi": Nuvsia de; ta; ejn th/' Nuvsh/ ginovmena. e[sti de; au{th Dionuvsou iJerav. kai; ta; Knwvssia wJsauvtw". a[llw": tw'n ojrchvsewn aiJ me;n eijsi; Dionusiakaiv, aiJ de; Korubantiakaiv, aiJ ejnovplioi: Nuvsiai de; aiJ Dionusiakaiv, Knwvssiai de; aiJ Korubantiakaiv: Knwsso;" ga;r povli" Krhvth". ejn th/' Krhvth/ de; uJpo; tw'n Korubavntwn ejtravfh oJ Zeuv".

Danze ‘dionisiache’ o ‘berecinzie’ (frigie) da un lato, dunque, con Nisa, e dall’altro danze ‘coribantiche’ ed ‘enopliache’ o pirriche55 con Cnosso. Raccogliamo dalla tradizione esegetica antica un indizio in più: gli scoli spingerebbero infatti, per il passo dell’Aiace, verso l’accostamento tra movimenti orchestici di non meglio definita natura dionisiaca56 e di pirriche cretesi come danze armate consistenti essenzialmente in movimenti rapidi dei danzatori – pur mancando ovviamente la possibilità di definirne il corredo –, che certo ben si adatterebbero alla effettiva natura militare del contesto di danza dell’Aiace (la zona antistante una delle tende di un esercito accampato), e che dovrebbero trovare una via di conciliazione con il tono vivace dello stasimo e una danza apparentemente scomposta e improvvisata, scaturita dal repentino e inatteso generarsi del canto. La tradizione, ancorché propensa,

53 Si cita da PEARSON 1922, 25. I rapporti fra tradizione scoliastica e Suda sono illuminati, con principale riferimento all’Edipo a Colono, da TOSI 2003 (in generale è «del tutto probabile che i compilatori dell’enciclopedia si trovassero spesso di fronte a glosse simili in due diverse fonti: in un lessico e negli scolî in margine al codice sofocleo»: p. 361); ma per un aggiornato status quaestionis si veda anche XENIS 2010, 76-80. 54 Più risoluto è invece FINGLASS 2011, 345: «elsewhere in the entry Muvsia is corrupted to Nuvsia, but we can deduce from the content that its text must originally have read Muvsia». 55 In schol. 699c il termine purrivch è correzione certa di Küster e Brunck per purrikhv di L: Parrikhv Suda. 56 Ma poco hanno a che fare i Berecinti, sacerdoti frigi di Cibele, con Dioniso: PEARSON 1922, 25; LEHNUS 1979, 96, n. 166; per pirrica e Dioniso cfr. CECCARELLI 1998, 211-213.

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come da più parti ripetuto, a complessi sincretismi57, non è, come si sa, un unicum: già gli uomini che procedono verso la piazza in Ar. Lys. 558 sono descritti xu;n o{ploi~ w{sper Koruvbante~, e i movimenti di danza, affermerà Luciano (Salt. 7, 7-14), che sono antichi almeno quanto Eros e traggono derivazione dall’ordine degli astri, vennero per la prima volta imposti proprio tra Asia minore e Creta da Rea a Coribanti e Cureti in occasione della nascita di Zeus (Salt. 8, 1-3): prw'ton dev fasin ïRevan hJsqei'san th/' tevcnh/ ejn Frugiva/ me;n tou;" Koruvbanta", ejn Krhvth/ de; tou;" Kourh'ta" ojrcei'sqai keleu'sai. Ma ciò che risulta per noi interessante è che speciale caratteristica di tale o[rchsi~ sarebbe stata proprio la sua natura di danza in armi e piena di strepito (Salt. 8, 8-10): ejnovplio" de; aujtw'n hJ o[rchsi" h\n, ta; xivfh metaxu; krotouvntwn pro;" ta;" ajspivda" kai; phdwvntwn e[nqeovn ti kai; polemikovn. Luciano (e con lui Diod. Sic. V 65, 4, con riferimento ancora ai Cureti che succedettero ai Dattili dell’Ida e inventarono ta;~ ejnoplivou~ ojrchvsei~, e cfr. Apollod. I 1, 6-7 e schol. Pind. P. 2, 127 [II, p. 52, 18 – p. 53, 1 Drachmann]) sembra potersi leggere in simmetria con la tradizione scoliastica al passo sofocleo, perché a suo dire Coribanti e Cureti sono i primi danzatori in armi, e danze cretesi di Cnosso sono danze di Coribanti – affermano gli scoli: ulteriore segno dell’ormai secolarmente ammessa equivalenza fra Coribanti e Cureti –, e le danze dei Coribanti sono «armate»; così, per chiudere il cerchio, le danze di Cnosso, ovvero cretesi, sono pirriche, a conferma di una tradizione che di frequente riconosce proprio in Creta il luogo d’origine della danza armata58. Dunque alla luce di queste testimonianze – che non sono le sole: cfr. per il mondo latino almeno Lucr. II 629-640 – un coro di una tragedia di V secolo che inviti Pan a danze di Nisa/Misia e in special modo di Cnosso sta danzando qualcosa che rievochi una ejnovplio~ o[rchsi~ o una pirrica? Il filo del ragionamento sfiora evidentemente la tautologia, i rinvii interni non confortano (troppo generica l’espressione a[ndre~ ajspisth`re~ di v. 565) e non possiamo aggiungere molto di più, data l’impossibilità di stabilire, per qualsivoglia testo antico, la sua natura performativa di pirrica59. Ma «se veramente la danza del coro dell’Aiace sofocleo – coro che è costituito dai guerrieri che hanno accompagnato Aiace, che quindi doveva visivamente presentarsi come di per sé adatto alla pirrica – può essere considerata una pirrica (così la interpretavano gli scoliasti), allora questo canto permette di vedere come la pirrica poteva inserirsi nel quadro di una rappresentazione tragica, ed esservi avvicinata a danze in onore della Madre, di Dioniso o Pan»60. 57

Cfr. SOMMERSTEIN 1990, 182; DODDS 1959, 105 e n. 2. Nelle fonti un limite cronologico invalicabile en arrière per il collegamento esclusivo (senza includere i Coribanti, si intende) tra i Cureti e la danza in armi è rappresentato da Plat. Leg. 796b 4-5 e da Ephor. FGrHist 70 F 149 (= Strab. X 4, 16, pp. 480-481 C.), ed è dunque possibile individuare «un terminus ante quem nel momento della composizione dell’opera di Eforo: al più tardi nel IV secolo la danza dei Cureti poteva esser detta pirrica»: CECCARELLI 1998, 116, con 108-115 per la danza armata in contesto cretese. 59 CECCARELLI 1998, 165, n. 1. 60 Ibid., 220, e 37-45 per i rapporti con il teatro; l’ipotesi che la danza di Ai. 693-718 sia ese58

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Rimane tuttavia ancora da spiegare la ‘motivazione sofoclea’ dell’opzione per Muvsia, se sia stato deciso di presceglierla come autoriale e incontrovertibilmente autografa; in special modo tale ambiguità persiste ancora più energicamente dopo la lettura degli scoli, che viceversa provano a spiegarsi, ritenendolo ‘originale’, il Nuvsia tràdito dai manoscritti. Perché dunque preferire alle danze di Nisa le danze di Misia? Si potrà dire, a favore del testo di P.Oxy. 1615, che la Misia non è assente dalla memoria letteraria precedente e coeva, e sembra maggiormente plausibile che il coro sofocleo, attento nei versi che seguono (e nel corso di tutto il dramma) a un preciso realismo toponomastico, preferisca qui dare spazio a una geografia avvertita come reale piuttosto che a una di natura mitica (Nisa: ma quale?) che non sia per i marinai collocabile entro una mappa da essi data altrimenti per conosciuta. Contingenti misii sono del resto indicati quale porzione degli alleati dei troiani in Il. 2, 85861 e, fuori dalla mitografia letteraria, menzionati da Erodoto accanto alle genti di Lidia, entrambi sotto la guida di Artafrene (Hdt. VII 74, e cfr. Aesch. Pers. 52). Come noto, Musoiv è titolo di un perduto dramma di Eschilo (TrGF III F 143-145: si apriva con l’invocazione ijw; Kavi>ke Muvsiaiv tÆ ejpirroaiv: F 143), oltre che di Sofocle (TrGF IV F 409-418) e dubitativamente di Euripide (TrGF II F 327c, e cfr. l’adespoto TrGF II F 560 – un Telefo? –: cwri;" ta; Musw'n kai; Frugw'n oJrivsmata). E Agatone proprio nei Misii avrebbe inserito anomali cromatismi secondo quanto riferito da Plut. Mor. 645 D-E = TrGF I 39 F 3a62. In essi è ovviamente il personaggio di Telefo, un greco ‘domiciliato’ in Asia (il ‘misio Telefo’ di Eur. TrGF V, 2 F 704, Ar. Ach. 430 e Nub. 922) a fare da collante come protagonista della vicenda dell’erroneo sbarco degli Achei sulle coste della Misia (non sconosciuta a Pindaro – e.g. I. 8, 49-51 e O. 9, 72-73 – e già in Hes. fr. 165, 8-15 M.-W., nel ‘nuovo’ Archiloco di P.Oxy. 4708, fr. 1, e nei Cypria: se ne veda l’argumentum, da Proclo, p. 40, 36-37 Bernabé, e Apollod. epit. 3, 17). Va però prudentemente osservato un fatto che parzialmente contraddice la ricostruzione proposta sopra: nella letteratura arcaica e classica l’aggettivo muvsio~ non risulta caratterizzare in maniera inequivoca l’ambito culguita «vielleicht sogar auf der Grundlage einer Pyrrhiche» è avanzata – ma non sviluppata – anche in KRUMMEN 1998, 311-312 (per ulteriori riferimenti alla pirrica in tragedia, o a sue imitazioni, si rinvia al cap. II, par. 4 e nn. 76-77, p. 85). Di non poco interesse è un passo di Eustazio (commento ad Il. 18, 590-605 [IV, p. 266, 20 – p. 268, 2 van der Valk]), dove pirrica e Kourhtikh; kivnhsi~ vengono, una volta di più, associate (per il Tessalonicese tali danze sono nel passo iliadico accostate a una danza collegata con Bakcika; schvmata, su cui Luc. Salt. 22): le danze di Cnosso hanno secondo Eustazio a che fare con il labirinto e i giovinetti che erano con Teseo (maschi e femmine, salvi, per la prima volta ballarono insieme), e dalla città deriverebbe anche il riferimento di Sofocle (ajfÆ h|~ kai; ta; Knwvssia para; Sofoklei` ojrchvmata: p. 267, 25 van der Valk); uomini del suo tempo, infine – marinai specialmente –, avrebbero danzato coreografie piene di torsioni e giri, intesi appunto a ricordare le sinuosità del labirinto: se ne può forse dedurre che egli intendesse attribuire anche alla danza descritta da Sofocle le medesime labirintiche e contorte volute? 61 E cfr. e.g. Il. 10, 430 e 13, 5; Aiace colpisce a morte Irtio, capo del contingente misio, in Il. 15, 511-512. 62 Su cui BÉLIS 2001, 30 e 38.

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tuale della Gran Madre, né come epiteto della divinità né come appellativo geografico atto a indicarne la zona di influenza, a differenza della comune assegnazione alla Frigia, ben distinguibile passepartout territoriale quando si tratti di Cureti, Coribanti, Cibele, Madre degli dei, Rea, Dindimene o Agdistis63. Del resto frigia, e legata specialmente all’aulo – ed eccitata –, era considerata l’armonia che accompagnava i riti della Mavthr ojreiva e dello scatenamento coribantico64, anche se nulla si potrà aggiungere in merito alla natura musicale di voce e aulo dello stasimo sofocleo, non potendo ipotizzare più di una vaga corrispondenza con modulazioni ‘asiatiche’. Se infatti davvero nell’accenno misio dobbiamo sottintendere una sorta di eteronimo per ‘Frigia’ e, seguendo gli indizi offerti dalla tradizione scoliastica, una volta di più rimarcare la sotterranea presenza di culti metroaci e coribantici nel brano sofocleo, potremo almeno menzionare il rapporto diretto tra intonazione ‘non dorica’ e tali culti convalidato da Dion. Hal. Dem. 22, 1-3 (p. 92, 1-14 Aujac: Isocrate ‘dorico’ vs. Demostene, in grado di ingenerare un entusiasmo in nulla distinto da quello coribantico: diafevrein te oujde;n ejmautw/' dokw' tw'n ta; mhtrw/'a kai; ta; korubantika; kai; o{sa touvtoi" paraplhvsiav ejsti, teloumevnwn)65. Conforta la notizia che sarebbe stato proprio Sofocle a introdurre tra i poeti ateniesi l’uso dell’armonia frigia66, ma rimane ovviamente impossibile stabilire quali parti delle tragedie sofoclee siano state composte in una determinata armonia: al di là del vuoto lasciato dalla musica, non si dovranno confondere e porre sullo stesso piano una prospettiva teorica mirante alla classificazione e, viceversa, l’effettiva pratica musicale messa di volta in volta in opera per ogni singolo segmento lirico67. Nondimeno la Frigia, luogo di devozione metroaca e ‘denominazione d’origine’ delle smodate armonie e danze coribantiche, più che la Misia, parrebbe al nostro orecchio di moderni meglio adeguarsi alla Stimmung del canto dei marinai di Salami63 Cfr. Strab. X 3, 12, p. 369 C.; lista in SANTORO 1974, 340. Per l’impiego di epiteti in riferimento alla dea si veda anche HENRICHS 1976, 253, n. 3 in particolare. 64 Si vedano, e.g., Eur. Ba. 120-169; Telest. PMG fr. 810; [Plut.] de mus. 1137 D, con almeno WEST 1992, 180-181, PAGLIARA 2000, 188-189 (con pregressa bibliografia), DI BENEDETTO 2004, 87-88, e GOSTOLI 2007 per la singolare interpretazione platonica: in Plat. Resp. 399a-c l’armonia frigia è percepita come ‘composta’ e pacifica, ma il senso del passo sarebbe secondo l’autrice da collegarsi ai riti coribantici, su cui infra. 65 Cfr. HAGEL 2010, 394, n. 64, e si veda anche più genericamente Dion. Hal. Orat.Vett. 1, 1, 7 (p. 71, 10-13 Aujac), con la ‘musa attica’ decaduta che lascia spazio a quelle di recente giunte dall’Asia, Mush; h] Frugiva ti" h] Karikovn ti kakovn. 66 Aristox. fr. 79 Wehrli = Vita Sophoclis 23, in TrGF IV T 1, 95-97): fhsi; de; ÆAristovxeno"

wJ" prw'to" tw'n ÆAqhvnhqen poihtw'n th;n Frugivan melopoiivan eij" ta; i[dia a/[smata parevlabe kai; tou' diqurambikou' trovpou katevmixen (e cfr. T 99a, 4-6; per modo frigio, delirio dionisiaco e ditirambo

si veda Aristot. Pol. 1342b 1-12, dove si narra anche di come Filosseno di Citera, quando tentò di comporre il ditirambo I Misii nel modo dorico, senza riuscirci fu costretto a tornare all’armonia frigia [= PMG fr. 826, ma il testo è incerto: muvqou~ codd., Muvsou~ Schneider]). 67 Si veda, per le harmoniai considerate care a Sofocle dalle fonti antiche, COMOTTI 1989, 4547; dell’uso di auli di tipo frigio da parte del poeta dà testimonianza Ath. IV 176f (= TrGF IV F 450 e F 644): un legame sotto il profilo musicale tra Frigia e Creta sarebbe rappresentato già dal secondo millennio e fino all’epoca storica proprio dall’aulo frigio – e anche la tradizione iconografica ne serberebbe il ricordo – secondo BÉLIS 1986, 36-39.

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na. Dovremo perciò forse aggiungere alla precedente un’ulteriore domanda: perché non Frigia ma Misia? A questo punto una deviazione è d’obbligo. Nel finale dei Persiani Serse partecipa alla disperazione del coro, in un kommós incrociato di lamenti cui si accompagnano, con precise didascalie interne a sottolinearne l’efficacia, i segni e i gesti della lamentazione e del dolore, suoni inarticolati e ripetute interiezioni (e.g. ijh; ijhv, ijw; ijwv di Serse al v. 1004), urla, acuti pianti, colpi autoinferti al petto, bianche barbe strappate, capelli tirati, vesti lacerate con le unghie. Il pianto rituale messo in scena nella sezione esodica del dramma eschileo si struttura, come da più parti evidenziato, nella ieratica forma antifonaria del botta e risposta, molto verosimilmente costruito su modelli liturgici noti e tradizionali, con ricchezza di ripetizioni e refrains, allitterazioni e poliptoti, insieme a un vasto repertorio di figure retoriche adeguatamente predisposto per rivelare lo stato di profondissima prostrazione in cui versano il sovrano e il coro di vecchi, fino alla battuta finale che come un sigillo accompagna, fungendo da scorta nel lamento, Serse verso il fuori scena: pevmyw toiv se dusqrovoi" govoi". Entro questa cornice patentemente trenodica arricchita dalla violenta e concitata gestualità dell’automutilazione, quale parte della fitta antilabé si colloca anche l’invito che Serse rivolge ai suoi con il trimetro lirico di v. 1054: kai; stevrnÆ a[rasse kajpibova to; Muvsion, dove per ‘canto misio’ si dovrà intendere il ‘lamento di Misia’ – con un’estensione metonimica dell’appellativo geografico nella sua forma di neutro sostantivato –, e a tale invito il coro risponde al verso seguente con un ribattuto e, appunto, lamentevole (nonché hapax limitato ai soli Persiani) a[nia a[nia. Chiosano i commentatori antichi (schol. ad 1055 [pp. 268-269 Dähnhardt]) che si tratta di un ei\do~ mevlou~ qrhnhtikou`, e d’altronde Misii e Frigi sono le genti più inclini al lutto espresso tramite il lamento trenodico: oiJ ga;r Musoi; kai; oiJ Fruvge" eijsi; mavlista qrhnhtikoiv68. Pur essendo altamente probabile che «Mysian, like Kissian [Pers. 120] serves to describe oriental lamentation in general»69, il canto misio è in ogni caso suggerito da Serse al coro come forma lirica capace di esprimere in pieno nelle modalità previste dal rituale un grado supremo di angosciata afflizione, e dunque un sentimento all’apparenza opposto a ciò che gli ojrchvmata di Misia dovrebbero nell’Aiace comunicare: un labile nesso tra i due usi, con l’intento di addurre un ulteriore motivo a difesa di Muvsia, andrà verosimilmente intravisto nei tratti ‘orientali’ – fuori 68 Al mito di Ila e al lamento di donne di Misia sulla sua scomparsa si ricollega invece, partendo dal verso eschileo, il lemma di Hesych. e 4645 Latte: cfr. SOURVINOU-INWOOD 2005, 74-76, 245-248 e 368-370. 69 GARVIE 2009, 367, e cfr. 347, con almeno BROADHEAD 1960, 310-317; ALEXIOU 2002, 83-85 e 134-136; GARVIE 2009, 340-342; SWIFT 2010, 326-335; CALAME 2013 (che sottolinea il fenomeno di ‘ellenizzazione’ a cui il lamento è sottoposto); l’idea che canti di lamento abbiano a Levante la loro origine è comune per la tragedia: i passi sono in GARVIE 1986, 159, ad Choe. 423-424, e HALL 1989, 83-84; si vedano Eur. IT 179-185 e Phoe. 1301-1303 – oltre a Or. 1385 – per il ‘lamento asiatico’ sul morto e il trenodico ‘barbaro grido’; si potranno ricordare, nel quadro di questa localizzazione orientale del lamento, anche gli auli mariandini menzionati in PMG fr. 878, con Aesch. Pers. 938 (per la connessione tra aulo e trenodia si veda PALMISCIANO 2003b, 88-90 e 105-109).

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

misura, incontrollati, senza freno – che caratterizzano in entrambi i passi il comportamento del coro. È stato anche ipotizzato70, per cambiare contesto letterario ma rimanere nel medesimo orizzonte di riferimento, che il collegamento tra il lacrimevole govo~, i gohtaiv e le boscose vallate di Misia (ijw; Muvsiai | dendroevqeirai ptucaiv) invocate dagli uomini dell’esercito persiano in rotta a Salamina in Tim. PMG fr. 791, 100-106 sia non casuale ma voluto, per il fatto che la scelta dell’etnia che leva il pianto sarebbe motivata proprio dall’associazione già eschilea tra la Misia e forme conosciute di espressione del lutto (si ricordi che poco più sotto, ai vv. 123-129 – insieme allo Tmolo e alla città lidia di Sardi: vv. 116-117 – è la Madre dei monti a essere invocata come dea salvatrice da una delle ‘voci’ del nomos)71. Certamente azzardato, ancorché forse non del tutto implausibile, è supporre che nel passo sofocleo l’evocazione di danze misie costituisca un segnale sufficiente per far risaltare la contraddizione: l’intonazione di canti di gioia immotivata e ingannevole sarebbe contrastata – ad anticipare ambiguamente l’errore del coro e il suicidio – da coreografie e gesti che rievocano, in uno dei due nomi che le definisce, un lamento di Misia dall’accento trenodico. Per cercare, però, di meglio comprendere il senso di Muvsia dobbiamo probabilmente tornare a fissare la nostra attenzione non sul singolo termine ma sulla dittologia in asindeto, e considerarla una coppia in cui il primo termine è ‘giustificato’ dal secondo e viceversa, dove cioè Muvsia Knwvsia non si possa pensare che come una unità significante in sé. La sovrapposizione fra Cureti di Creta e Coribanti d’Asia, come abbiamo visto, si protrae nei secoli, più o meno scopertamente portandosi appresso l’accostamento spaziale che ne deriva. La testimonianza che dobbiamo fin qui considerare come la più antica di un simile vincolo che mette sullo stesso asse e in parole contigue spazi montani d’Asia sacri alla Madre dei monti e spazi insulari votati al culto di Cibele-Rea è costituita da un luminoso esempio in una sezione (in trimetri giambici) del papiro che tramanda il frammentario inno cletico a Cibele congetturalmente attribuito alla Theophorumene di Menandro (PSI XV, 1480 = ?Men. CGFP fr. *145)72, dove l’invocata – tra i Coribanti: r. 8 della col. I – è appunto la dea frigia e madre montana (rr. 10-11 della col. I), divinità non solo orientale ma più specificamente «di Frigia, di Creta»; qui i righi 23-25 della col. I: ¼ mh`ter qew`n ÒAgg¼d³isti Frugiva Krhsiva d¼eu`ro kuriva

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HORDERN 2002, 185. Per la possibile (sia pur indimostrabile) autopsia del poeta milesio della statua ivi descritta si veda HENRICHS 1976, 267-271. 72 Si rinvia, per bibliografia e commento, all’edizione di G. Bastianini (ma la princeps è di V. Bartoletti, 1965) nel citato volume dei PSI, pp. 101-106. 71

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Per contiguità geografico-territoriale e per il riaffiorare del medesimo stilema asindetico73, possiamo senz’altro associare l’espressione di rigo 24, ÒAgg¼d³isti Frugiva Krhsiva – dove ÒAg(g)disti" è titolo frigio e montano di Cibele-Rea e Agdos un picco presso Pessinunte – al sofocleo Muvsia Knwvsia. Ma di questa continuità scorgiamo traccia fino almeno a Nonn. D. 13, 149-157, dove Coribanti d’Eubea, guardiani di Dioniso in fasce – e discendenti dei Cureti – vengono descritti ancora una volta entro i medesimi limiti topografici, vale a dire in fuga verso Cnosso, a Creta, e poi al séguito di Rea eij~ Frugivhn Krhvthqen74, donde muovono alla volta di Atene e poi di ritorno in Eubea, nella terra che aveva dato i natali ai Cureti amanti dello strepito delle spade e della ajspidovessa coreivh (mentre, viceversa, altri Coribanti da identificarsi con i Dattili dell’Ida sono originari di Creta: Nonn. D. 14, 23-35); ciò che rimane saldo nel complesso sistema di collegamenti messi in atto dal poema – inesistenti e quindi infruttuosi sono i nessi con lo stasimo sofocleo, fatta salva tuttavia la ‘vicinanza’ tra Frigia e Creta – è il vincolo costante che nell’epos nonniano si mantiene tra Coribanti, Creta, e in special modo Cnosso: si vedano D. 3, 62-63 e 13, 14975. Il ‘contatto’, in forma di coppia polare, di Muvsia Knwvsia per danze considerate coribantiche dai commentatori antichi nello stasimo sofocleo, di Frugiva Krhsiva per la dea asiatica nel lacerto papiraceo forse menandreo, di eij" Krhvthn ejk Frugiva" per Cureti in viaggio (Strab. X 3, 19, p. 472 C.)76 73 La presenza di coppie asindetiche di aggettivi – comune già nell’epos: e.g. Il. 1, 551 – non è estranea alla tragedia: cfr., in una situazione di concitato terrore, Aesch. Sept. 78-80 (con BROMIG 1879, 34-39); più raro l’uso sofocleo: un caso di asindeto con due aggettivi – ma su due trimetri diversi – è in Trach. 770-771: foiniva~ | ejcqra`~ ejcivdnh~, con enjambement che attenuerebbe ma non ‘spegnerebbe’ del tutto la figura, e dove tuttavia il costrutto porta alcuni editori ad accogliere foivnio~ (scil. ijov~, al v. 771) di PIERSON 1830, 38: cfr. DAVIES 1991, 189-190 (si veda TIMPANARO 1988, dove vengono riportati anche casi, in tragedia, di asindeti distanziati: si rinvia alla ristampa del 1994, pp. 70-74). La figura, capace di imprimere al testo una sorta di accelerazione, è frequentissima in Menandro, tanto da «costituire uno degli aspetti più appariscenti e […] quasi l’elemento catalizzatore del suo linguaggio poetico» (FERRERO 1976, 82: per serie asindetiche di aggettivi, comunque rare, cfr. p. 86); l’asindeto viene trattato già da Aristotele (ma non ci sono esempi con aggettivi) come strettamente legato alla recitazione e capace di avere un effetto teatrale: Aristot. Rh. 1413b 17-1414a 7 (si vedano BOCCOTTI 1975, 34-47; NANNINI 1986, 24-25). 74 Ma e contrario Demetrio di Scepsi confermava l’origine frigia dei Cureti e il loro arrivo a Creta al servizio di Rea, FGrHist 468 F 2, p. 419, 18-19 = Strab. X 3, 19, p. 472 C.: oiJ Kourh'te"... eij" Krhvthn ejk Frugiva" metapemfqevnte" uJpo; th'" ïReva", con GUIZZI 2003, 171-172. 75 L’intera questione è illuminata da VIAN 1995, 220-223. Cureti e Coribanti sono considerati da una tradizione recenziore – le cui tracce (certo precedenti) affiorano tardi, fra terzo e quarto sec. d.C. – i fondatori di Cnosso, ed è lì che avrebbero istituito il culto di Cibele: cfr. Eus. Hieron. Chron. 22b (21 F, 20-26 Helm): Creta dicta a Crete indigena, quem aiunt unum Curetarum fuisse, a quibus Iuppiter absconditus est et nutritus. Hi Cnoson civitatem in Creta condiderunt et Cybelae matris templum, e 42b (61 F, 1-4 Helm): Curetes et Corybantes Cnosson condiderunt, qui modulatam et inter se concinentem in armis saltationem repperere (da Afric. Chron. fr. 24 [p. 279, 5-7 Routh]:

oiJ ajpo; th'" Kourhteiva", th'" nu'n ÆAkarnaniva", Kourh'te" kai; Koruvbante" Knwsso;n w/[kisan, oiJ th;n ejn o{ploi" eu[ruqmon kivnhsin euJrovnte", ripresi in Giorgio Sincello, Ecloga chronographica, p. 145, 22-23,

e p. 175, 8-10 Mosshammer; cfr. anche, per gli antichi segni del culto di Rea a Cnosso, Diod. Sic. V 66, 1 con XAGORARI-GLEIßNER 2008, 123-124). 76 E cfr. Strab. X 3, 7, p. 466 C.: ta; te Krhtika; kai; Fruvgia [scil. le tradizioni locali] iJerourgivai" tisi;n ejmpeplegmevna... periv te th;n tou' Dio;" paidotrofivan th;n ejn Krhvth/ kai; tou;" th'" mhtro;" tw'n qew'n ojrgiasmou;" ejn th/' Frugiva/, con Strab. X 3, 19, p. 472 C.: ouj tou;" Kourh'ta", ajlla; tou;" Koruvbanta" Fruvga", ejkeivnou" de; Krh'ta".

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

e eij~ Frugivhn Krhvthqen per gli spostamenti, ancora, dei Coribanti nella tarda epica nonniana (e si veda il citato Luc. Salt. 8, 2: ejn Frugiva/ me;n tou;~ Koruvbanta~, ejn Krhvth/ de; tou;~ Kourh`ta~) è indubbia testimonianza di una precisa e diacronicamente diffusa carta del mito, anche in poesia, sul cui asse territoriale (dall’Asia all’isola) si muovono tutti gli attanti evocabili e non nominati – oltre a Pan e ad Apollo – a partire dal nostro stasimo: la Gran Madre, i Coribanti, i Cureti. Al pur succinto repertorio potremo annettere l’apparentemente simile e ancora una volta asindetico ej~ o[rea Fruvgia, Luvdia di Eur. Ba. 140 (pochi versi dopo la menzione di Coribanti, Cureti e Rea). Certo non è coppia oppositiva ma piuttosto dittologia sinonimica, perché marca spazi confinanti e contigui entro i quali agisce Dioniso durante il rituale77, ma nondimeno costituisce prova ulteriore che una simile accumulazione aggettivale (il costrutto è capovolto: sostantivo + due indicazioni geografiche) pare innescata da riferimenti a stretto o ampio raggio ai rituali connessi con la dea d’oriente e il suo corteggio. Resta da capire perché non Frigia ma Misia. Un’associazione fra ‘troiano’ e ‘frigio’ è in ambito drammatico non inusuale, e l’accostamento (che verosimilmente risale a non prima del V secolo) è frequente in Euripide: si vedano i Fruvgia mevlea e le grida gioiose cui i cittadini (pa'sa de; gevnna Frugw'n, v. 531) e le fanciulle di Troia si erano abbandonati quando trascinarono il cavallo dentro le mura in Eur. Tr. 544-547 (con i vv. 7, 151-152, 567 e 994; Troia è ‘città dei Frigi’ anche in Eur. Andr. 194 ed Hec. 4)78. Perciò nel contesto dell’Aiace sarebbe stato sotto un certo profilo scomodo – perché contraddittorio – definire frigie le danze di truppe greche durante l’assedio della città, se si considera anche che nel dramma la Frigia designa un’entità (più etnica che geografica) ben specificata come nemica e talvolta connotata negativamente: ai vv. 210 e 488 Tecmessa ricorda di essere figlia di un frigio, e Aiace stesso è qualificato da Menelao come un nemico ejcqivw Frugw`n (v. 1054: scil. peggiore dei Troiani), mentre Teucro definisce Pelope – per ricambiare l’offesa ricevuta da Agamennone – un barbaro frigio (v. 1292). L’epiteto sembra dunque giocoforza escluso dal lessico autoreferenziale dei marinai di Aiace79, e l’implicito im77 «Lydia […] was deemed to be a part of Phrygia in the wider sense of that elastic geographical term»: STANFORD 1963, 217. Meno forte è CCCA I, nr. 625 = IEPH. IV 1218: ÓErmwn / Mhtri; ÆOrivh/ / Frugivh/ Patrwiv»h/¼ (e cfr. IEPH IV 1217), perché il primo è epiteto sì locativo – ‘dei monti’ – ma soprattutto consueto appellativo cultuale della Gran Madre (si veda GRAF 1985, 317). 78 Ettore è ‘frigio’ in Eur. Or. 1480: si veda JEBB 1896, 161; altri rinvii in CROALLY 1994, 105, n. 78: ma sulle labbra di Dioniso – e con riferimento ai timpani del rituale bacchico e di Cibele/ Rea – in Ba. 58-59, ai[resqe tajpicwvriÆ ejn Frugw'n povlei | tuvpana, ïReva" te mhtro;" ejmav qÆ euJrhvmata, polis vale non «nella città dei Frigi» ma più genericamente ‘regione’, ‘terra’. Per la «Phrygianization of Troy» non prima di Eschilo (TrGF III F 446) cfr. HALL 1988 e 1989, 38-39; per l’incerta collocazione di precisi confini geografici tra Frigia, Misia e Troade già nel mondo antico si veda in sintesi AVRAM 2004, 974-976. 79 Esso potrà assumere a teatro valore ingiurioso come sinonimo di ‘codardo’: Eur. Or. 13511352, 1447, 1483-1485; Alc. 675-676 riecheggiato in Ar. Av. 1244, con LONG 1986, 140-142 e HALL 1989, 124-126 (p. 81 per la ‘morbidezza’ dei lidii). Anche ‘misio’ rientra in realtà nella gamma di etnonimi utilizzati in commedia con sfumatura fortemente sfavorevole, come del resto ‘lidio’ e ‘persiano’: valere come ‘l’ultimo dei misii’, proverbialmente, significa non valere nulla: Magn. fr.

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pedimento a un suo utilizzo dalla valenza positiva nel contesto dello stasimo potrebbe avere indotto Sofocle all’opzione Muvsia, certo meno evidente ma più appropriata. Plausibilmente dovremo dunque trattare il nesso Muvsia Knwvsia come un costrutto di invenzione sofoclea, una cercata e metonimica variante della liaison Frigia-Creta, quando si tratti di culti della Gran Madre e dei suoi mitici seguaci, dove – per concludere – «di Misia» rinvia alla Frigia e «di Cnosso» all’isola: in effetti, a conferma di quanto da Lehnus congetturato, una delle più antiche testimonianze (risalente alla metà del V secolo a.C.) del sodalizio tra Pan e la madre montana e del sincretismo tra la dea anatolica e la divinità cretese. 3. Autoreferenzialità del coro Possiamo aggiungere un ulteriore tassello, non fosse altro per ribadire la difficoltà dell’esegesi quando abbiamo a che fare con la performance. Ancora Luciano (Bis Acc. 10) immagina che Pan si lamenti con il padre Ermes della scarsa attenzione che gli ateniesi gli dedicano, nonostante egli li abbia liberati dall’invasore barbaro; insieme al sacrificio di un capro puzzolente, Pan – notoriamente filovkroto~ e poluvkroto~ (già in H. Hom. Pan. 19, 2 e 37) – si rallegra del fatto che lo onorano yilw/`... tw/` krovtw/, con grande strepito (con il battito delle mani?) dei sacrificanti, i quali lo dilettano perlomeno grazie al loro buonumore (plh;n ajllÆ e[cei tinav moi yucagwgivan oJ gevlw" aujtw'n kai; hJ paidiav). Non possiamo così escludere (ma è impossibile dirlo con certezza) che nell’Aiace la gioia eccessiva del coro di marinai provenienti da Salamina, luogo più di altri devoto al dio, fosse accompagnata dallo strepito, magari prodotto da un applauso, se davvero «il s’agit d’un acte rituel, propre à son culte», e «le crotos (bruit frappé), le gelos (rire), l’euphrosyne (bonne humeur) apparaissent […] comme des éléments constitutifs du rituel panique», e non solo come banali manifestazioni dell’atmosfera festiva80. Probabile strepito e tripudio esuberante sono dunque, anche nello stasimo, più specificamente riconducibili al dio che fa da sfondo al canto, ispiratore di esso nel presunto ritrovamento di un ‘benessere’ che si riteneva perduto, e insieme sacro dedicatario i cui guizzi caprini i coreuti imitano con i loro stessi balzi (v. 693: pericarh;~ dÆ ajneptavman). L’abilità del dio qui invocato come ideale exarchon della danza verrebbe dal coro riconosciuta nel secondo epiteto che ne designa i movimenti, perché egli avrebbe imparato «da sé» le coreografie in oggetto – istruendo quin5 K.-A.; Men. frr. 54, 153, 658 K.-A. dove la trad. manoscritta ha Frugw`n Musw`n, senz’altro da correggere: cfr. schol. [Eur.] Rh. 251 (p. 89, 4 Merro); Philem. fr. 80 K.-A.; Plat. Theaet. 209b (con schol. ad l. [pp. 72-73, 254 Cufalo]), e cfr., per un bottino facile da ottenere come quello dei misii e.g. Stratt. fr. 36 K.-A. (e Sem. fr. 37 W.2); Cic. Flac. 65: quid porro in Graeco sermone tam tritum atque celebratum est quam, si quis despicatui ducitur, ut ‘Mysorum ultimus’ esse dicatur?, con ORTH 2009, 174. 80 BORGEAUD 1979, 218-219.

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

di se stesso, perché nessuno gli ha insegnato –, come pare suggerire l’esegesi antica81. Tali ojrchvmatÆ aujtodah` definiti con un termine raramente attestato (per l’età classica solo in Diagora, PMG fr. 738, 3) nascerebbero dunque dal suo apprendimento spontaneo e affatto naturale. È tuttavia necessario, come sembra suggerito in FRIIS JOHANSEN – WHITTLE 1980, II, 13 («possibly ‘which we have taught ourselves’»), riconoscere nell’aggettivo sofocleo un valore anfibologico, scorgendo in esso un più preciso e contingente riferimento non solo a Pan ma anche alla ‘spontaneità’ del coro di marinai. Privi del training necessario e professionale del danzatore, si trovano coinvolti essi stessi in movimenti ouj didaktav: «Pan is to inspire them (not to teach them) to perform these dances»82, e trasmette un ‘saper fare’ di derivazione non umana frutto dell’entusiasmo divino che si traduce – negli uomini – in danza e in canto sottoposti all’intervento stimolatore del dio. La tradizione, nondimeno, vuole Pan danzatore e iniziato alle pratiche coreutiche, parte di cori divini, animatore di divine movenze di danza e coreuta degli dei (Pind. fr. 99 Sn.-M.: to;n Pa`na coreuth;n telewvtaton qew`n o[nta), filovcoro~ (Aesch. Pers. 448), dio votato alla danza anche nei ricordati H. Hom. Pan. 19, 22 e nel carme conviviale PMG fr. 887, 2; ed è, ancora, crusevwn corw`n a[galma e eujcovreuto~ nell’inno da Epidauro, PMG fr. 936, 3 e 10 (l’intero componimento enfatizza il carattere di Pan come «cosmic dancer», e l’aggettivo ne è la sintesi: FURLEY – BREMER 2001, II, 196). L’invocazione che nello stasimo sofocleo lo definisce qew`n coropoivÆ a[nax è dunque appropriatamente usata dai marinai per enfatizzare il compito del dio come «celui qui forme le chœur»83, con il ricorso a un lemma che dietro Poll. IV 106 può adattarsi anche a un contesto drammatico per designare il corifeo ma è comune per cori lirici tout court, durante le celebrazioni del peana per Apollo agli Hyakinthia a Sparta, quando Agesilao ejtavcqh uJpo; tou` coropoiou` (Xen. Ages. II 81 Cfr. schol. 698a: o{pw" moi sunavyh/" o[rchsin poioumevnw/ pantoivan, th;n oujk ejk didach'" soi genomevnhn ajllÆ ejk fuvsew": oujdei;" ga;r ejdivdaxe to;n Pa'na, schol. 699h: aujtodah': aujtomaqh', a} ejk fuvsew" e[cei", ouj didaktav, e schol. 699i: aujtomaqh`, a} su; sauto;n ejdivdaxa" (pp. 162163 Christodoulou; e cfr. similmente Suda a 4488 Adler, s.v. aujtodah' ); LSJ9 279, s.v.: «self-taught»,

DGE III, 614, s.v.: «aprendido por sí mismo, natural», GI2 382, s.v.: «che s’impara da sé, cioè senza studiare» (e cfr. il caso singolare del leone che aveva appreso da solo le danze di Cibele in Alc.Mess. AP VI 218, 10: qh`ra, to;n ojrchsmw'n aujtomaqh' Kubevlh"); Femio è aujtodivdakto~ (autonomo nell’usare repertori e tecniche appresi), ma ispirato dal dio, in Od. 22, 347 (non è luogo per ridiscutere il senso di un termine su cui non manca il dibattito critico: si rinvia a GARULLI 2009, 172-175, con bibliografia, e specialmente a HUMMEL 1999b): come l’aedo non inventa storie ex novo, così il coro dovrebbe in Aiace non improvvisare una danza qualsiasi ma ricorrere a un repertorio orientabile secondo l’occasione del momento e sotto ispirazione divina (il termine di Ai. 700 «se présente comme une variante morphosémantique parfaite de aujtodivdakto~»: HUMMEL 1999b, 40). 82 STANFORD 1963, 152. «Pan is the inspired and inspiring coropoiov~»: JEBB 1896, 110. Per il rapporto di probabile dipendenza dello scolio attico PMG fr. 887 da Pind. fr. 95 Sn.-M. cfr. LEHNUS 1979, 94-95, e pp. 191-192, con rinvii, per la danza come attività prediletta del dio (e cfr. FINGLASS 2011, 344). 83 Cfr. CALAME 1977, I, 94; le Muse esiodee corou;" ejnepoihvsanto (Hes. Th. 7): l’azione del «fare i cori» implica – come nel passo sofocleo – anche il prendervi parte. Per il coropoiov~ come colui che assegna le posizioni nella danza (nel caso un coro di fanciulli cui prende parte Agesilao) si veda anche Plut. Mor. 208 D 9-E 1.

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I. Lo stasimo iporchematico dell’Aiace

17, 7: il coropoiov~ viene associato a un costruttore di navi e a un carpentiere che assemblano e dispongono le parti del loro lavoro in Aristid. Or. III, 144 [p. 340, 6-7 Lenz – Behr] = Or. XLVI, 158 [II, p. 211, 9-10 Dindorf]). In questo senso Pan ‘compone’ il coro degli dei, e la sua funzione pare concernere l’aspetto organizzativo della danza. Dunque: «tu che fai, che organizzi le danze degli dei», «‘divine dance-maker of the gods,’ rather than, ‘among the gods, that god who makes dances’» (JEBB 1896, 110, con il genitivo plurale associato a coro-: KAMERBEEK 1963, 147, ma contra FINGLASS 2011, 344: «translations such as ‘lord who directs the dances of the gods’ are wrong, since most gods are not normally portrayed as dancing»). Con richiamo all’autoreferenzialità dei movimenti dei coreuti, egli è altrettanto utile anche per comporre le danze degli umani a teatro, nello spazio reale dell’orchestra, e parrebbe quasi scalzare da un’analoga posizione il dio tradizionalmente aJgevcoro~ e teryivcoro~84, quell’Apollo, invocato qualche verso più sotto, che come esperto di musica tra gli Olimpi, secondo Ar. Av. 219, ha il compito di disporre i cori divini, qew`n i{sthsi corouv~. Ma recuperando almeno di scorcio le danze di Misia e di Cnosso, possiamo forse tornare a riflettere sulle provate connessioni con i Coribanti. Sollevati in aria, presi da tremore estatico con i capelli che si rizzano sul capo85 e dediti a movenze curetico-coribantiche in onore di Pan, i marinai nel giro di pochi versi cadono per loro stessa ammissione in uno stato di liberatoria e frenetica teolessia (si cercherà di vedere meglio più sotto come questo comporti l’utilizzo di una sorta di schema reduplicato nella strutturazione formale della prima strofe). I coreuti stanno dunque ritualizzando attraverso il canto e la danza anche l’avvenuta espulsione della follia di Aiace e l’affrancamento dall’ansiosa minaccia che essa costituiva per il gruppo – è sul suo mutamento di qumov~ che si chiude il canto. Realizzano che Ares in contrasto con la presenza festosa di eros al v. 693 ha sciolto dagli occhi del loro signore l’aijno;n a[co~ menzionato al v. 706. E gli scolii al verso (scholl. 706c-d [p. 165 Christodoulou]) glossano ‘Ares’ come un equivalente di maniva e di luvssa. È noto che mettere intenzionalmente in atto uno stato di esagerata eccitazione abbandonandosi all’armonia e al ritmo ‘facendo i Coribanti’, come hanno mostrato, tra altri, Ivan M. Linforth e Eric R. Dodds, era pratica diffusa nella cultura ateniese di V-IV secolo, e non solo. Pur essendo per noi molto incerti e sfumati i confini di simili rituali, rimane evidente che a quelli connessi ai Coribanti si riconosceva la capacità di svolgere una funzione di ‘rilassamento’ su persone affette da un disturbo. Così una possessione estatica deliberatamente indotta poteva essere considerata una valida cura 84 Ar. Lys. 1281 (certa correzione di Hermann: cfr. HENDERSON 1987, 216) e l’adespoto AP IX 525, 20. Apollo è guida alla danza in H. Hom. Ap. 3, 514-519 e coropoiov~ in H. Orph. 34, 6, e così è definita la giovinezza dionisiaca in Ar. Ran. 353 (cfr. MASTRONARDE 1994, 379, a Eur. Phoe. 788: cavrite~ coropoioiv). Per l’immagine canonica di Apollo alla cetra che accompagna il canto e la danza si rinvia a CALAME 1977, I, 102-107. 85 «The basic notion [del verbo frivssw] seems to be the bristling of the hairs in a frisson of excitement or emotion»: STANFORD 1963, 151, dietro Suda e 3967 Adler, s.v. e[frixa.

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contro il disordine mentale o generici deivmata causati da debolezza psichica; la coreomania coribantica era in grado di guarire dalla follia risolvendo uno stato di tensione (si veda Plat. Leg. 790e): «the disorder which they relieved was an inner tumult of fear and apprehension caused by a bad condition of the soul, and the cure was wrought by the external tumult of the rites», con accompagnamento di movimenti sfrenati, grida, e il rizzarsi delle chiome tra i ‘sintomi’ di tale tumulto86. Il canto mescola elementi apparentemente così diversi per via di rapidissimi cenni più che per il tramite di una sistematica trattazione, e questo più di tutto impone prudenza: né i Cureti né i Coribanti sono nominati, ma solo ojrchvmata che dovrebbero essere loro propri. Colpisce ad ogni modo il potenziale effetto omeopatico e curativo della danza, che probabilmente operava su una determinata affezione psicopatica attraverso la produzione di sintomi simili a quelli del disordine da curare. Tale effetto è qui espresso anche attraverso un incontrollabile desiderio di abbandonarsi ad essa fino alla necessità di affermarlo a piena voce, e viene trasferito al coro come rimedio all’ansia di cui è stato vittima fino a poco fa; esso è infine strettamente correlato, come conseguenza e non come causa, con la simultanea ed effettiva dissoluzione della mania di Aiace, almeno dal punto di vista dei marinai. Non ci troviamo di fronte a un caso esplicitato e apertamente riconoscibile di coribantismo, del resto mai descritto da nessun autore antico in maniera coerente e puntuale, e non possiamo rilevare qui la presenza di un rituale rigidamente formalizzato, ma forse appena segnalato. Il malato psichico affetto da comportamenti deviati (Aiace) non si sottopone inoltre alla sacra terapia musicale di sua volontà o perché inconsapevolmente attratto da essa, lasciandosi possedere dal rito e assoggettandosi così alle pratiche 86 LINFORTH 1946, 158; cfr. Ar. Vesp. 8 e 119 (con schol. ad l. [p. 27 Koster]: i misteri dei Coribanti sono utili a purificare dalla mania, ejpi; kaqarmw/` th`~ maniva~), e, e.g., Plat. Leg. 790d-e, Ion 533e, 8-534a, 1 (oiJ korubantiw'nte" oujk e[mfrone" o[nte" ojrcou'ntai), Euthd. 277d; i passi sono discussi da Linforth e più di recente in VELARDI 1989, 73-98 e PRETINI 1999, oltre che – con riferimento al rapporto stretto con i riti dionisiaci – in SCULLION 1998, 106-114: tratti dionisiaci e coribantici risultano combinati insieme, come già rimarcato da DODDS 1959, 104-112 («possiamo anzitutto rilevare la somiglianza essenziale fra la cura coribantica e la vecchia cura dionisiaca: ambedue proclamavano di operare la catarsi mediante una contagiosa danza ‘orgiastica’, accompagnata da musica ‘orgiastica’ della stessa specie; melodie di modo frigio sul flauto e sul tamburello»: 106, con n. 2, e il già ricordato Plut. Mor. 758 E-F, con VELARDI 1989, 84, oltre che Hesych. k 3676 Latte: korubantismov": kaqarismo;" maniva". Per una possibile circolarità delle danze coribantiche cfr. GIL 2004, 324-326). Sulla stessa linea – oltre a JEANMAIRE 1951, 131-137 – BARRETT 1964, 189: Pan, Ecate, Cibele e i Coribanti sono associati come possibili cause della follia di Fedra in Eur. Hipp. 141-144, ed era del resto credenza condivisa l’idea che disturbi mentali di varia natura fossero determinati dall’intervento di una divinità (ancora Pan in Eur. Med. 1172, e cfr. la serie di domande poste ad Aiace dal coro nella parodo, vv. 172-181), ma come mostrato ampiamente dal saggio di Linforth, «we know that the experience of the Corybantic rites acted as a cure for various kinds of disorders which were not said to be produced by the Corybantes» (p. 151). In Ar. Eccl. 1068-1069 dei Panes sono invocati insieme a Eracle, Coribanti e Dioscuri: «these four appeals indicate that Epigenes is afraid he is going mad» (SOMMERSTEIN 1998, 229). Anche alla Gran Madre, di cui Pan è paredro – e a Dioniso –, vanno ascritti poteri curativi secondo schol. Pind. P. 3, 139b (II, p. 81, 1415 Drachmann), kaqavrtriav ejsti th'" maniva" hJ qeov": kai; to;n Diovnuson de; kaqa'rai th'" maniva" dokei'. In Apollod. III 5, 1 è Dioniso a essere in Frigia purificato dalla pazzia ad opera di Cibele/Rea ed è in quell’occasione che apprende i riti estatici.

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curative. Tuttavia le circostanze evocate tra scena e orchestra prevedono un individuo in cui si evidenzia uno stato di alterazione – ma che non si abbandonerà alla danza – e viceversa un gruppo ‘sano’ catturato da una sfrenata coreomania. Possiamo almeno azzardare un accostamento fra il dramma e le sia pur sfumate e non sempre trasparenti informazioni che fonti sotto molti aspetti generiche ci trasmettono su una pratica finalizzata alla risoluzione di conflitti psichici. Manca ad esempio nel passo sofocleo qualsiasi riferimento ad uno stato evidente di trance e in special modo alla pratica dell’intronizzazione, la qrovnwsi~ legata alla cerimonia coribantica di purificazione87. Ma si dovrà aggiungere la presenza di Pan e il ruolo che il dio assume nella trasmissione di stati di follia o di ‘panico’88, e ovviamente di entusiasmo e di esaltazione che si traduce in danza estatica: dentro gli argini del rituale le vittime della follia panica trovano modo, fino allo scioglimento del legame imposto dalla divinità, di decantarla e di curarla (dia; qusiw`n qerapeuvontai: caratteristiche, queste del dio, affiancate a quelle dei Coribanti nella trattazione del pur tardo Iamb. Myst. 3, 10 – si cita da par. 122, 10 des Places). Per certo nel dramma sofocleo prima della Trugrede, sulle note del canto dello stasimo precedente, Aiace era stato definito con impiego di lessico medico come vittima di una dissociazione psichica, di un vero e proprio stato di alienazione, dusqeravpeuto~ e qeiva/ maniva/ xuvnaulo~ (vv. 609-611) «a riprova del rigido meccanismo teurgico che domina tutti i casi patologici della tragedia sofoclea», oltre che nosou`nta frenomovrw~ (vv. 625-626, e ancora ai vv. 635640). Ora invece agli occhi del coro è completamente ‘risanato’89, e quindi recuperabile all’interno del gruppo di appartenenza. L’urgenza che spinge al movimento, così come è espressa al v. 701, si inquadra a sua volta dentro la cornice catartica che tale momento assume all’interno della vicenda scenica dell’Aiace: dichiarando l’impellenza del 87 Fonti in LINFORTH 1946, 123-124 e 156; Pindaro avrebbe composto degli ÆEnqronismoiv secondo Suda p 1617 Adler, s.v. Pivndaro~: «probablement étaient-ce des poèmes écrits en l’honneur de Pan et de la Mère des Dieux» secondo IRIGOIN 1952, 36-37, ma un’estrema cautela è d’obbligo nell’impossibilità di dire di più. 88 Il raccordo tra follia e agitazione rituale di liberazione da essa è operante nello stasimo secondo MAZZOLDI 1999, 182: Pan è «ritenuto anche responsabile di alcune forme di manía e, nello stesso tempo, guaritore della follia stessa […]. Per questa ragione […] la sua evocazione è giustificata in questo contesto» (discussione delle fonti in GALLINI 1961: per il passo sofocleo p. 231; per Pan in generale come nume guaritore prima bibliografia in WAGMAN 2003, 147, n. 5, ma si veda più sotto per una possibile assimilazione – almeno fonica – fra Pan e Paián: sposta proprio su Apollo la funzione terapeutica MASQUERAY 1922, 38, n. 1: il dio «qui guérit les maux des hommes» – si dovrà intendere in quanto Apollo-Peana – «est naturellement invoqué, puisqu’il a guéri ceux d’Aiax»). 89 Non si entrerà qui nel merito della natura della ‘follia’ di Aiace: un primo orientamento è offerto dalla nota di STANFORD 1963, 237 (il quale, a proposito del seswmevnon di v. 692, sottolinea che il verbo «can also be used […] in the medical sense ‘I have recovered from sickness’»: p. 150); per il lessico medico ci si limita a rinviare a CESCHI 2009, 167-172 (si cita da p. 167), 285-294 con bibliografia pregressa: per Aiace cfr. BACELAR 2010. La pazzia dell’eroe poteva essere sotto certi aspetti contagiosa, e catturare il danzatore stesso che la mimava stando a un aneddoto riferito in Luc. Salt. 83-84: a tal punto l’attore in movimento sembrava calato nella parte dello sconfitto dopo la contesa delle armi (ma in realtà vittima di un accesso di follia) che nel pieno di gesti inconsulti trascinò il teatro a saltare, gridare e strapparsi le vesti insieme a lui, nell’imbarazzo generale.

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proprio desiderio, il coro svela da un lato il proprio grado di incontenibile eccitazione, e dall’altro il ruolo liberatorio, nell’essere ‘fuori di sé’ dalla gioia, che essa assume anche come garanzia dell’avvenuta guarigione del protagonista. Com’è noto una così esplicita perentorietà non è unica, nella tragedia di V secolo; ha fatto oramai giustamente scuola, per ciò che concerne l’autoreferenzialità del coro tragico, un saggio di Albert Henrichs: frequente e via via sempre più complessa nella produzione euripidea, tale «choral convention» conosce una sua compiuta realizzazione proprio in quattro tragedie sofoclee, dove – come sopra ricordato – secondo Henrichs l’autore assegna identità esplicitamente dionisiache ai cori che commentano la loro propria performance. Utile a contrappuntare momenti di crisi drammatica e di rovesciamento tragico, l’autoreferenzialità viene da Sofocle in genere usata (come nell’Aiace) per sottolineare la frattura determinatasi fra la tragica incapacità di comprendere del coro e l’espressione della sua gioia90. Al nostro nu'n ga;r ejmoi; mevlei coreu'sai sono da accostare, non meno espliciti, OT 896: tiv dei' me coreuveinÉ, qui con prospettiva capovolta – il coro vorrebbe non danzare più –, Ant. 152-154: qew'n de; naou;~ coroi'~ | pannucivoi~ pavnta~ ejpevl- | qwmen, oJ Qhvba~ dÆ ejleliv- | cqwn bavkcio~ a[rcoi, e infine il lungo intermezzo di Trach. 205-224, con specialmente i vv. 216-22091, un passo che nell’intensità della gioia espressa e nell’intonazione mista del canto (vi si nominano Apollo e Artemide, ma anche Dioniso, e non manca l’impiego del refrain peanico) è raffrontabile allo stasimo dell’Aiace. Il ‘marcatore d’urgenza’ è forte, come già, nel nostro dramma, al v. 205 e al v. 432 (nu`n ga;r ktl, rispettivamente coro e Aiace)92. Oltre al riferimento al qui e ora, anche l’impiego del verbo mevlei è in grado di suggerire l’importanza che canto e movimenti assumono per il coro: l’azione che viene descritta è realizzata nel nu`n che indica lo svolgimento stesso della indifferibile performan90 HENRICHS 1994-1995, 60; cfr. anche HENRICHS 1996, 49: l’autoreferenzialità serve a «underline the mounting disparity between joyful dancing and tragic imbroglio». 91 È vero, come scrive FINGLASS 2011, 347, che «dance is a fundamental element of ancient worship and celebration», negando la presenza di ogni «extra-dramatic reference to the tragic chorus», ma l’identità fra gesto e testo del canto danzato è troppo esplicita per essere ignorata. Anche nel cosiddetto iporchema di Pratina, PMG fr. 708, 3, l’urgenza che spinge alla danza e allo strepito viene espressa da un ‘dovere’ irrinunciabile: ejme; dei` keladei`n, ejme; dei` patagei`n. Per i versi di Ant. si veda il cap. III, par. 2, per Trach., corale infraepisodico considerato iporchematico, si veda il cap. IV, par. 3. I passi con riferimenti alla propria danza sono discussi già in HEIKKILÄ 1991, che a p. 51, n. 1, rinvia agli altri esempi in tragedia, già parzialmente in DAVIDSON 1986a, 39, e – compresi gli aristofanei – in CHRIST 1874, 672; per esortazioni in generale cfr. LAWLER 1964b, 47. Per un confronto tra i possibili esempi di autoreferenzialità del coro (o di un personaggio) all’hic et nunc della propria danza e del canto nell’orchestra nel caso particolare di «choral projection» – danza posta nel passato o nel futuro, quindi in contrasto con l’attualità della performance –, ci si limita a rinviare a HENRICHS 1996 (con ulteriore bibliografia) e a OT 1086-1095; Eur. HF 673-686; Hel. 1451-1470 (cfr. 381-383, 1312-1314, 1341-1368); Phoe. 786 (cfr. 226-238, 649-656); Heracl. 892 (ejmoi; coro;~ me;n hJduv~); Ion 1074-1086; Tr. 325-340 (con 542-555 e 1071-1076); Ba. 862-876; El. 178-180 (con 434-437, 467, 712-720, 859-865, 873-875); TrGF V, 1 F 370, 5-10, e F 453, 7-8 (cfr. anche i passi raccolti da HUTCHINSON 2001, 433-434, e n. 12, con speciale riferimento a Eur. HF). 92 Simile al nostro, in trimetri, è anche Soph. El. 788 (con v. 794, e FINGLASS 2007, 336): oi[moi tavlaina: nu'n ga;r oijmw'xai pavra: ora è tempo di lamenti.

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ce, effettuata mentre la si descrive, confermando l’atmosfera rituale di cui lo stasimo è circondato; a titolo di confronto potremo associare al nostro passo il tono nervoso e pieno di «incantatory repetitions» della preghiera di Aesch. Choe. 719-729, dove al nu`n il coro fa ripetutamente ricorso93, ma soprattutto Eur. Tr. 515-516, con l’annuncio di un canto a venire – ma nel contempo in atto – e il ricorso all’usuale ‘futuro performativo’ per narrare, nel caso specifico, eventi del recente passato: nu'n ga;r mevlo" ej" Troivan ijachvsw. 4. Apollo, uso della variatio e simmetria interna Torniamo ora per un istante al nome ripetuto della divinità: Pan diventa accostabile al dio di cui di lì a poco si attende l’ulteriore epifania grazie a un gioco paretimologico. Il suo nome potrebbe svolgere infatti funzione anticipatoria rispetto all’invocata presenza di Apollo. Esulando da qualsiasi considerazione fuori percorso sull’improbabile contiguità originaria tra i due teonimi (Pan/Paián), ci si limiterà qui a dire che una normale tendenza a una sovrapposizione meramente sonora pare confermata, oltre che dal passo sofocleo, da Men. Dysc. 407-408 (to;n Pa'na to;n | Paianioi`) – laddove il Pan del demo di Peania avrebbe nei versi menandrei la sua prima nonché unica evidenza cultuale94 – e ancora dal menzionato inno di Epidauro, PMG fr. 936, 19, dove il finale w] ijh; Pa;n Pavn sembra plasmarsi sul più diffuso intercalare innico [w]] ijh; (anche ije;) Paiavn (e.g. PMG fr. 867, 3 = Pai. 35, 3 Käppel: w] ije; Paiavn, e PMG fr. 933, 1 = Pai. 36a, 37-39 Käppel: ijh; Paiwvn, w[, ijh; Paiwvn ter repet.). Secondo RUTHERFORD 2001, 70-71 insieme al passo dell’Aiace proprio l’inno di Epidauro andrà considerato come un caso «related to quasi-paiavn refrains», cioè a dire un’espressione che non si mostri in maniera regolare durante il canto bensì in ricorrenza isolata, e verosimilmente da valutarsi come un più tardo sviluppo rispetto alla formabase del ritornello ripetuto (quasi-refrains andranno dunque contemplati, per Sofocle, anche in OT 154, ijhvi>e Davlie Paiavn, e 1096, ijhvi>e Foi'be). Gli esempi più numerosi di refrain si collocano tuttavia generalmente in chiusa di componimento (o di unità formale), mentre, pur non del tutto assente, poco frequente si rivela la loro presenza al principio del canto, come testimoniano l’attacco di Pind. Pae. 5 (= D5 Rutherford = fr. 52e Sn.-M.: ijhvi>e DavliÆ ÒApollon, quasi identico a OT 154) e quello della citata iscrizione eritrea per Apollo, PMG fr. 933.

93 Con Aesch. Choe. 783 e GARVIE 1986, 240. Per nu`n oltre a DANIELEWICZ 1990, 11-12 (con ulteriori rinvii), cfr. – ma non in riferimento a questo stasimo – CALAME 1994-1995, 144-145; per i segni di un’impellenza rituale si veda HENRICHS 1994-1995, 102, n. 82, con SEGAL 1990, 414, che osserva un tipo di urgenza legato a una «funerary performance» nel ripetuto nu`n di due tavolette di Pelinna (seguito da OBBINK 2011, 300). 94 Cfr. VANDERPOOL 1967. Pan è inoltre kavrpime Paiavn in H. Orph. 11, 11 (ma è epiteto diffuso: RICCIARDELLI 2000, 263).

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Nell’ambito di questa sorta di sottogruppo dobbiamo dunque collocare anche il passo sofocleo: ma allora quale ruolo verrebbe a svolgere la comparsa di Apollo pochi versi dopo un’invocazione aperta dalla lieve ma significativa variazione di un ordinario grido di letizia? E non dobbiamo forse considerare il pur comune e apollineo appellativo geografico, nell’espressione ÆApovllwn oJ Davlio", come ‘strascico’ di questo intento imitativo, con separazione e mutamento degli elementi costitutivi del refrain? Da forme comuni come il pindarico ijhiv e> DavliÆ ÒApollon e il sofocleo ijhiv e> Davlie Paiavn si ricava qui, infatti, ma in sedi di poco distanziate, un’emulazione di genere che produce il nostro ijw; ijw; Pa;n Pavn + ÆApovllwn oJ Davlio~. Sul piano della ricostruzione dell’incerta genealogia, ad Apollo – accanto a Ermes – viene dalla tradizione attribuita la paternità del dio dei boschi95, e da Pan avrebbe appreso l’arte mantica secondo Apollod. I 4, 1 (con arg. Pind. P.a [II, p. 2, 3-5 Drachmann]). Più probabilmente, tuttavia, ci troviamo di fronte all’intenzione di rappresentare l’esultanza della celebrazione a partire da un ‘falso’ ritornello, come espressione del sentimento ingannevole di cui il coro è vittima: a tale sentimento ben si addicono dunque sia la distorsione del tradizionale refrain in ijw; ijw; Pa;n Pavn, | w\ Pa;n Pavn grazie all’applicazione di un mutamento minimo dal consueto e verosimilmente atteso ijw; ijw; Paiavn (non ignoto a Sofocle in questa identica forma nel cuore del giubilante corale infraepisodico: Trach. 221, e si veda Eur. Ion 125-127 e 141-143: w\ Paia;n w\ Paiavn, | eujaivwn eujaivwn | ei[h", w\ Latou'" pai')96, sia l’effettiva evocazione della divinità delia. Dunque a una ‘primitività’ quasi ingenua palesata dal coro nel suo esprimersi attraverso il grido andrà nondimeno associato il riuso consapevole di materiale tradizionale sottoposto però a rielaborazione, sia pure elementare e di facile decrittazione97. Abbiamo inoltre qui a che fare con un tipo di corteggio non estraneo al normale ruolo assolto da Pan, che, pur coropoiov~ al v. 698, è in genere destinato a stare al servizio o alla presenza di altre divinità98. Lo testimonia, tra altri casi, Ar. Ran. 229-234, dove con lui sono evocati le Muse e, appunto, 95 Si veda e.g. Pind. fr. 100 Sn.-M. con l’esaustiva analisi di LEHNUS 1979, 127-149. In sintesi, per una successiva fase di sincretismo tra Pan e Apollo-Helios cfr. WAGMAN 2000, 76-77, con rinvii. Connessioni tra Pan e peana non mancano nella tradizione aneddotica dell’inno pindarico al dio: Aristid. Or. XLII, 12 (p. 338, 1-2 Keil) = Or. VI, 40 (I, p. 69, 3-4 Dindorf) e V. Pi. Ambr. (I, p. 2, 2-4 Drachmann), con Pan che canta e danza il peana di Pindaro. Altri casi sono raccolti in RUTHERFORD 2001, 12, n. 8, che considera «the evidence for a link between Pan and the paiavn» come «quite strong»: purtuttavia a un vaglio dei singoli passi ivi trattati i dubbi debbono rimanere altrettanto forti. 96 Anche in Ar. Ach. 1212. KOWALZIG 2007, 232: «the ‘false’ paean cry “Io, Io, Pan, Pan” (rather than “Ie Paean”) at the start cannot fail to evoke that association (693)». La forma con a (paiavn, non paiwvn) in lyricis dovrebbe peraltro essere quella normalmente attesa: cfr. BARRETT 1964, 406 e OLSON 2002, 362. Per il refrain peanico ricorrenze e forme in RUTHERFORD 2001, 69-72. L’epiteto paián non è di necessità legato al nome del dio: vi è riferito, in tragedia, in Aesch. Ag. 146 e Eur. TrGF V, 1 F 477, e si veda Soph. Trach. 209-221. Sulla costruzione di un più complesso falso peana e l’utilizzo di ulteriori elementi peanici in Sofocle si rinvia al cap. III, par. 3. Sul peana dello Ione euripideo si veda al cap. IV, p. 149, n. 40, e da ultima PACE 2009. 97 Qualcosa di non dissimile da quanto descritto per Eschilo (ma là in più distese forme di refrains) da MORITZ 1979. 98 Ninfe in special modo: Ar. Thesm. 977-980; H. Hom. Pan. 19, 22-23; Pl.Jun. AP IX 823,

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I. Lo stasimo iporchematico dell’Aiace

Apollo come esperti musici in grado di apprezzare il gracidio delle rane; e saranno Pan e Apollo ad accompagnare con i loro strumenti (la canna montana e la lira) il ritorno di Ifigenia su una nave argiva verso Atene, come immaginato dal coro in Eur. IT 1125-1131. Il legame tra i due nello stasimo sofocleo sembra dunque suggerito da una contiguità in special modo orchestico-musicale che fa scivolare la performance dal contesto umano in cui essa si attua a un contesto epifanico nel quale siano gli dei stessi a intervenire, in modo che la loro presenza danzante si profili come sigillo di convenienza e garanzia di opportunità per la gioia in eccesso99: pur non essendo rappresentato Pan nei suoi attributi ‘panici’, l’effetto della Trugrede e la sua intonazione indubitabilmente cosmica si prolunga sul canto (anche attraverso l’unico riferimento alla musica e alla danza nel corso dell’intero dramma) che nondimeno investe l’universo divino, oltre a una geografia allargata all’Ellade e alle isole. Tale liaison è confermata dal fatto che i due canti sono omologati alla stessa struttura: la spontaneità sembra dunque supportata, stilisticamente, anche dalla ripetizione di concetti simili. L’epiclesi divina, l’invito a rendersi presente, la specificazione del contributo che essi devono dare all’attività coreutica dei marinai sono intenzionalmente architettati dal poeta su un’impalcatura doppia edificata, per così dire, sulle medesime fondamenta; non ci troviamo però qui di fronte al noto procedimento sofocleo che prevede una reduplicazione del racconto del medesimo evento da parte di distinti personaggi, una regola drammatica utile ad amplificare la tensione e a rilanciare l’azione attraverso una narrazione plurivoce (applicata, nell’Aiace, alle informazioni sull’attacco notturno contro gli animali del bottino di guerra)100. Si tratta invece dell’utilizzo di una tecnica più semplice di variatio, capace altrove di realizzarsi in forme più sviluppate e complesse, sia nella poesia epica che in quella lirica, dalla riproposizione di un motivo-guida alla Ringkomposition. Qui tuttavia si limita nella preghiera a ribadire di séguito i medesimi motivi, elementari e logicamente paralleli (ma con diversa costruzione sintattica, a partire dal mutamento del nome nella Anrede con, in aggiunta, il passaggio dallo ‘stile del tu’ all’impiego della terza persona)101. Il v. 701 (nu`n ga;r ejmoi; mevlei coreu'sai) funge da cerniera tra le due parti secondo lo schema seguente: H. Orph. 11, 9: suvgcore numfw`n, e per il V-IV sec. a.C. si vedano le testimonianze iconografiche in BROMMER 1949-1950, 20-27. 99 Sulla stessa linea HENRICHS 1994-1995, 74-75: «the focus shifts, significantly, from the performative to the epiphanic mode, from the chorus to their divine role model, and from the orchestra to a ritual setting at once more distant and imaginary». WILAMOWITZ 1932, 177, n. 2, riconosceva per Apollo un ruolo funzionale alla purificazione dell’eroe: «auch Apollon soll von Delos kommen und dem Chore gnädig bleiben: das ist der kaqavrsio~, denn Aias muß sich entsühnen». Pan è legato ad Apollo anche nella menzione della grotta nella quale Creusa partorì Ione in Eur. Ion 492-509. 100 Su cui DE JONG 2006. 101 Cfr. già in parte DORSCH 1983, 80-81. Alcuni casi di variatio a breve distanza sono analizzati più sotto, al cap. II, par. 4: si tratta di Trach. 503-504 ~ 513-514, e di 523-525 ~ 527-528. Per la lirica si veda, e.g., il noto caso di Pind P. 4, 19-23 ~ 34-37, con BRASWELL 1988, 112.

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

a) nome della divinità che si desidera far apparire: Pavn... favnhqÆ ~ ÆApovllwn... molwvn

b) regione di provenienza/luogo di nascita e spazio da percorrere per raggiungere le coste della Troade, rispettivamente Pan da Cillene, via mare, e Apollo da Delo (dove il dio è nato e donde tradizionalmente muove: H. Hom. Ap. 3, 25-29)102, anch’egli via mare. La variatio prevede un parallelo incrociato, stilistico e geografico (per KAMERBEEK 1963, 147 aJlivplagkte «does not differ much from uJpe;r pelagevwn molw;n»), cioè a dire 1a percorso + 1b nascita ~ 2a percorso + 2b nascita, dove però 2a e 1b sono composti alla stessa maniera, vale a dire toponimo (Kullaniva~ ~ ÆIkarivwn) + preposizione (ajpo; ~ uJpevr) + sostantivo (deiravdo" ~ pelagevwn)103: aJlivplagkte, Kullaniva~... ajpo; deiravdo" ~ ÆIkarivwn dÆ uJpe;r pelagevwn... oJ Davlio"

c) impiego del medesimo epiteto celebrativo e identica espressione del desiderio che il dio si unisca al coro, come fatto più saliente e rilevante ai fini della buona riuscita della celebrazione: a[nax... moi... xunwvn [Pan] ~ a[nax... ejmoi; xuneivh [Apollo]

L’epiteto è apparentemente generico e diffuso, ma se per Pan è riservato ai soli casi di H. Hom. Pan. 19, 48 (un vocativo nella formula di congedo) e dello stasimo sofocleo, Apollo risulta fin da Omero e in età classica il dio, fra tutti, maggiormente designato come ‘signore’104. Il verbo xunei`nai è a sua volta un segnale della benevola presenza di entrambe le divinità, come mostrano i passi paralleli di OT 274-275: h{ te suvmmaco" Divkh | coij pavnte" eu\ xunei'en eijsaei; qeoiv, e soprattutto (nell’ambito di un inno a Hygieia probabilmente di età ellenistica e definito un peana in Ath. XV 702a) Ariphr. PMG fr. 813, 1-2: meta; seu` | naivoimi to; leipovmenon biota`~, su; dev moi provfrwn xuneivh~, parzialmente sovrapponibile ad Ai. 705: ejmoi; xuneivh dia; panto;~ eu[frwn. In entrambi i casi l’idea di un’alleanza auspicata nella preghiera si accompagna a una prospettiva eterna di permanente ‘coabitazione’ tra l’orante e il dio invocato: nella formula la captatio benevolentiae è sommata all’idea, per il coro, di trarre beneficio dalla presenza del dio105. 102

Per Davlio~ come titolo familiare di Apollo si veda FINGLASS 2011, 347. Apollo è descritto muoversi sul mare d’Icaro (Il. 2, 145: povntou ÆIkarivoio), ma Delo «in its stricter location lies well south of the direct route from Delos to Troy: but this is lyric poetry, not a geographical description» (Stanford 1963, 152); egli giunge come il raggio del sole che apparso – nella parodo dell’Antigone – su Tebe vincitrice si è mosso sopra le correnti Dircee: ÆIkarivwn dÆ uJpe;r pelagevwn molwvn ~ Dirkaivwn uJpe;r rJeevqrwn molou'sa (scil. ajkti;~ ajelivou: Ant. 104105). Sul testo di v. 702 (incongruente è parso il plurale pelagevwn) si vedano RENEHAN 1992, 347349, LLOYD-JONES – WILSON 1990b, 23-24, con LLOYD-JONES – WILSON 1997, 21: per mantenere la responsione si dovrà accogliere la correzione del Livineius al v. 715, fativsaimÆ – come in DAWE 1996a: chor + anc + chor (chor dim B per DALE 1981, 18-19, e si veda FINGLASS 2011, 342 e 348). 104 HEMBERG 1955, 7-12, e per Apollo p. 8, n. 5, e p. 11, n. 1. 105 Per la ‘buona disposizione’ della divinità nei confronti dell’orante si vedano gli esempi già in ADAMI 1900, 234 e per eu[frwn soprattutto KEYßNER 1932, 88-89 (sulla natura iperbolica di questo ‘per sempre’ cfr. ibid., 34), con FRAENKEL 1950, II, 365. 103

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I. Lo stasimo iporchematico dell’Aiace

Possiamo infine vedere in atto anche l’applicazione di una trama fonica che chiude in circolo la prima strofe, connettendo il nome del dedicatario del canto alla seconda presenza divina invocata, da Pavn a dia; pantov~, al v. 705 (troppo distanti, forse, pavnquta al v. 712 e pavnqÆ al v. 714), se davvero «punning of Pan’s name begins already in HHPan 47: Pa`na dev min kaleveskon, o{ti frevna pa`sin e[terye, or in Pindar fr. 96» Sn.-M., dove il dio è megavla~ | qeou` kuvna pantodapovn (FURLEY – BREMER 2001, II, 196). «Con Pan in particolare l’adnominatio variamente paretimologica, e con essa sovente la creazione di nuovi composti, è quasi d’obbligo» (LEHNUS 1979, 162), e si aggiungano i ricordati inno a Pan, PMG fr. 936, 9, 13, 16 e 18: pamfuev~, panwdov~, pa`sa, pavntwn, e l’inno a Pan di Castorione di Soli, SH 310, dove il Pavn di v. 2 risuona nel pavgkleitÆ e[ph di v. 3. Il canto sfrutta fino a qui appieno una vasta gamma di elementi messi a disposizione da un lato dalla tecnica della composizione letteraria e dall’altro da quella di più schietta ispirazione popolare, adempiendo così alla propria natura (solo a prima vista) di improvvisazione, dove al di sotto dell’apparente semplicità del dettato andranno però riconosciuti più complessi e sotterranei rapporti con la tradizione. È vero che l’intonazione innodica tende nel corso dell’antistrofe a divenire via via più debole, fino a stemperarsi del tutto, e risulta nondimeno altrettanto chiaro che nello stasimo è avvertibile, dentro l’assetto formale dato da Sofocle a questo ricchissimo repertorio di genere (meglio forse dire: di generi), una massiccia presenza autoriale che regola sapientemente i registri, armonizzando per altra via le due simmetriche sezioni del canto, e il canto stesso con il resto del dramma. Ci si limiterà, per ciò che concerne l’antistrofe, solo a considerazioni che possano integrare l’analisi fin qui condotta sulla strofe. I versi animati dall’urgenza dell’immediatezza anche all’inizio della seconda parte dello stasimo andranno confrontati con un parallelo individuabile all’interno della superstite produzione sofoclea, un’immagine analoga non fortuitamente inserita – in chiusa di strofe – nel cuore di uno degli stasimi classificati, come il nostro, fra quelli di intonazione iporchematica (si veda più sotto). Si tratta del canto inneggiante all’ormai imminente ritorno di Eracle in Trach. 653-654: nu'n dÆ ÒArh" oijstrhqei;" | ejxevlusÆ ejpipovnwn aJmera'n. I problemi di carattere testuale106 non elidono l’evidenza del parallelo: se nelle Trachinie Ares ha posto fine ai giorni di pena dell’eroe (ejxevlusÆ), al v. 706 dell’Aiace è il medesimo dio a sciogliere (e[lusen) l’a[co~ di cui è stato vittima il Telamonio. Il trimetro e[lusen aijno;n a[co~ ajpÆ ojmmavtwn ÒArh~ è un verso, già si diceva, che presenta un tribraco in terza sede (  )107. È proprio l’applicazione della medesima soluzione adottata al respondens v. 693 a permettere del resto il mantenimento dell’eroe entro 106 ejpipovnwn aJmera'n è correzione di Erfurdt da molti accolta per ejpivponon aJmevran dei mss. (la responsione strofica del v. 654 con il v. 662 non è controllabile, data l’incertezza che grava sulla chiusa dell’antistrofe): ma cfr. LONGO 1968, 234. 107 I mss. (ma non Lac) hanno un ametrico gavr dopo e[luse(n): si veda FINGLASS 2011, 349. Anche accogliendo, dietro e.g. STANFORD 1963, 152, lu`sen gavr, le soluzioni del trimetro non mutano.

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

i confini di un universo etico e linguistico, quello epico, cui allo sguardo e a giudizio dei marinai egli appartiene fin dalla parodo. Più nello specifico fin dall’impiego di un nesso omerico, la coppia aggettivo-sostantivo ai[qwni sidhvrw/ al v. 147, nell’entrata del coro su ritmo anapestico: ma l’intero dominio di valori là accampato riconduce all’epica arcaica. L’esplicita ricorrenza, anche nel nostro stasimo, di un lessico tratto via di peso dall’epos, colpisce forse di più dato l’incastonamento della iunctura aijno;n a[co" nel giambo di avvio dell’antistrofe. Non è probabilmente fortuito il ricorso a questa e non ad altra formula, particolarmente distintiva – benché non esclusiva – di un eroe quale Ettore, vale a dire di una figura niente affatto assente nel nostro dramma, oltre che per citazione diretta anche in più celate forme di assimilazione della coppia Aiace/Tecmessa alla coppia Ettore/Andromaca108. A mantenere viva l’impressione della Stimmung rituale nell’avvio dell’antistrofe contribuisce un’ulteriore ripetizione, anche in questo caso di parole semanticamente (quasi) vuote eppure utili per testimoniare il trionfale eccitamento, che riduce l’isometria iniziale (non estranea a canti di trionfo)109 a corrispondenze di due bisillabi e una serie di monosillabi: vv. 693-694: vv. 707-708:

ijw; ijw; ijw; ijwv,

Pa;n Pavn, nu'n au\,

w\ Pa;n Pavn nu'n, w\ Zeu'

Una rispondenza isometrica è in verità attivata anche nel cuore del canto, e non sarà forse eccessivo notare che, nel gioco responsivo, alla danza certamente confusa si viene a opporre dentro questo contesto eolo-coriambico110 108 Rimane in questo senso fondamentale l’analisi di EASTERLING 1984, cui andranno aggiunte le chiarificanti pagine di ZIMMERMANN 2002. Cfr. per aijno;n a[co" Il. 4, 169; 8, 124 (ÓEktora dÆ aijno;n a[co" puvkase frevna", cui si oppone con e[lusen l’idea dello ‘scioglimento’ in Sofocle: KAMERBEEK 1963, 149), 147 e 316 (Ettore); 15, 208; 16, 52, 55 e 508; 17, 83 (Ettore, con Aiace che nei versi seguenti difende il corpo di Patroclo: cfr. GARNER 1990, 62); 19, 307; Od. 18, 274; senza contiguità: Il. 22, 43; Od. 16, 87; addirittura su due esametri distinti, con enjambement e aggettivo sospeso in ultima posizione in H. Hom. Ven. 5, 198-199; si veda per l’idea contraria Il. 17, 591: to;n dÆ a[ceo" nefevlh ejkavluye mevlaina. Poco più sotto, al v. 710, compare ancora lessico omerico nell’apparentemente ridondante qoa'n wjkuavlwn new'n, dove «wjkuvalo~ is Homeric and the combination is a variation of Od. VII 34 nhusi; qoh/'sin toiv ge pepoiqovte" wjkeivh/si»: KAMERBEEK 1963, 150 («neque omnino rarum est ut conjungantur epitheta idem aut fere idem significantia»: LOBECK 1866, 272, con e.g. H. Hom. Ap. 3, 107; Hes. Th. 786-787, e GOW 1952, II, 136). Per il formulare ai[qwni sidhvrw/ di v. 147 cfr. Il. 4, 485 (in una scena con Aiace); 7, 473; 20, 372; Od. 1, 184; Hes. Op. 743. 109 Cfr. la nota di BOND 1981, 265-266, a HF 763 ~ 772: coroi; coroiv ~ qeoi; qeoiv, e per ulteriori considerazioni sulla tendenza di Sofocle a non ripetere parole uguali in sede uguale, più avanti il cap. II, par. 3 (in Ai. si vedano, a proposito, i vv. 396 ~ 414: e{lesqÆ e{lesqev mÆ oijkhvtora ~ polu;n poluvn me darovn te dhv, dove il me dell’antistrofe risulta di una sillaba ‘asimmetrico’ rispetto al mÆ della strofe, in entrambi i casi dopo anadiplosi). 110 Le analisi metriche di queste due stanze, che prevedono inserti giambici, sono in STANFORD 1963, 257-258, DALE 1981, 18-19 (con DALE 1968, 151: «an example of Sophocles’ liking for the rarer aeolic variants», e 154), DAWE 1996a, 74, FINGLASS 2011, 342. Stanford segnala come nello stasimo siano stati notati «overlapping anacreontic rhythms»: THOMSON 1929, 31-32; al di là del fatto che Thomson vedeva qui un accavallamento di gliconei e anacreontici, invero risulta interessante per l’accostamento proposto ad altri testi dedicati a Pan più sopra considerati: «if we ask why Sophocles uses this rhythm here, perhaps we shall find the answer in a fragment of Pindar’s» (il fr. 95 Sn.-M.), «when Sophocles addresses a hymn to Pan, he writes in the rhythm used by Pindar for the same purpose before him. Possibly, the intention of both was to remind their audiences of a tra-

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I. Lo stasimo iporchematico dell’Aiace

una forte vocazione alla simmetria verbale, come a creare una tensione fra contenuto e impianto dell’ode. L’immagine giocata dal ruolo del tempo che eternamente «confonde ogni cosa» si sovrappone al «mi importa danzare», evocando (probabilmente anche in repentini e sinuosi movimenti) un disordine dettato dalla gioia e contemporaneamente, in responsione, dall’altrettanto repentino mutare della situazione imposta da crovno~ (coreu`sai ~ maraivnei). Eppure il mantenimento del medesimo word-pattern, e quindi una spinta formale a un assetto equilibrato, è palese. Il poeta lo attua riproducendo in una porzione di testo identiche fini di parola e addirittura identiche elisioni, ancorché senza alcuna attivazione – mi pare – di equivalenze vocaliche o consonantiche (a esclusione forse di xunwvn ~ sevbwn). La simmetria cadenzata dagli inserti coriambici risulta più evidente se si osservano i versi dentro le griglie di una tabella: vv. 699-701: Muvsia KnwvsiÆ

ojrchvmatÆ aujtodah'

xunw;n ijavyh/".

nu'n ga;r ejmoi; mevlei coreu'sai.

sevbwn megivsta/.

pavnqÆ oJ mevga" crovno" maraivnei:

vv. 712-714: pavnquta qevsmiÆ ejxhvnusÆ eujnomiva/

Lo schema111  dei vv. 698 ~ 711 e 701 ~ 714 è confermato nel continuum del canto da quanto immediatamente precede. Ai vv. 700b ~ 713b aujtodah` xunw;n ijavyh/" ~ eujnomiva/ sevbwn megivsta/ è perfettamente sovrapponibile a quanto segue ai vv. 701 ~ 714: nu`n ga;r ejmoi; mevlei coreu`sai ~ pavnqÆ oJ mevvga~ crovno~ maraivnei. Così anche il v. 710, (qoa`n) wjkuavlwn new`n, o{tÆ Ai[a~, ‘comprende’ lo schema nel faleceo () (non così nella strofe, al v. 697, petraiva~ ktl, dove non abbiamo le medesime fini di parola) e precede l’identico v. 711, laqivpono" pavlin, qew'n dÆ au\ (~ 698: qew'n coropoivÆ a[nax, o{pw" moi, qui con sinizesi di qew`n); la ripetizione di tali sequenze nell’esecuzione musicale doveva offrire l’idea di un forte legato. Potremo aggiungere la ripetizione della stessa radice, con identica posizione metrica nel respondens, ai vv. 704112 e 717: oJ Davlio~ eu[gnwsto~ ~ ditional song: or did the song take its shape in reminiscence of the poets?» (p. 32, con riferimento a PMG fr. 887: sulla possibile presenza di refrains legati al culto e a danze tradizionali e popolari si veda anche HALDANE 1968, 30-31 per la chiusa dell’inno di Epidauro, PMG fr. 936, 19: ma giuste sono le riserve di LEHNUS 1979, 88-89: «più solido appare il richiamo dei gliconei iniziali [di Pind. fr. 95 Sn.-M.] all’apostrofe a Pan in S. Ai. 695-7 […] e degli ‘eolici’ in genere alle cadenze ritmiche della poesia innica cultuale» con rinvio a FRAENKEL 1962, 191-194 (già in parte in FRAENKEL 1931, 11, n. 28). Per la colometria antica dell’Aiace, in relazione alla trasmissione di questa diade in L, oltre che in P.Oxy. 1615, cfr. PARDINI 1999, 96-97 e 116-117. 111 «In Sofocle lo schema  ricorre, con i codici, in Ai. 698 = 711 e 701 = 714; Oed. C. 130 = 161 (in contesto coriambico)»: GENTILI – LOMIENTO 2003, 49, analizzato come «cho penthemia (reiz)» alla pagina precedente (si tratta di OC 129 ~ 161 nell’analisi di L. Lomiento in GUIDORIZZI 2008, 389). Al v. 714 i mss. hanno maraivnei te kai; flevgei, «but there is nothing in 701 to correspond metrically with these words: so Jebb, Pearson and others delete them [si vedano LOBECK 1866, 273 e da ultimo FINGLASS 2011, 350]»: STANFORD 1963, 153 (che viceversa mantiene te kai; flevgei presupponendo lacuna al 701, come già – dietro Erfurdt – HERMANN 1817, 85, e più di recente GARVIE 1998, 195). 112 Dove «the brevis in longo at the end of 704 makes the pause clear»: DALE 1981, 19 (un tel dragged; ma per DAWE 1996a, 74: anc + chor + sp).

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

Ai[a~ metanegnwvsqh. È noto che tali rispondenze (proprie specialmente in tragedia di momenti di particolare pathos legato a lamentazioni o threnoi) possono trovare realizzazione anche in celebrazioni di vittoria, come, e.g., in Aesch. Choe. 935-941 ~ 946-952113. Ma a tradire, viceversa, una volta di più nello stasimo il totale abbandono a uno spirito positivo è l’insistenza sull’uso del prefisso eu-, bilanciato con due ricorrenze per stanza. Apollo è eu[gnwsto" («‘easily recognised’, i.e., in a visible shape, ejnarghv~: JEBB 1896, 111») e eu[frwn in chiusa di strofe (vv. 704-705). Del resto la divinità dovrà – come d’uso nelle preghiere – mostrarsi propizia e ben disposta nei confronti dell’orante che chiede favori o ne domanda il favore e l’appoggio114. Nell’antistrofe eujavmeron (v. 708, della luce del giorno) e eujnomiva/ (v. 713)115 sono manifestazione dell’ottimistico atteggiamento del coro nel momento della riacquisizione sul far del giorno, appunto, di una nuova luce, metaforica e non solo, che porta salvezza.

5. Un iporchema? Alla luce di quanto sopra raccolto, rimane nondimeno parzialmente celata (perché, crediamo, già ab antiquo non chiaramente definita) la precisa identità (o almeno affinità) di genere cui il canto dei marinai di Salamina si ispira. Possiamo partire dalla constatazione del fatto che a séguito di una prassi definitoria moderna (se ne tratta estesamente, anche a proposito del nostro passo, al cap. IV, par. 3) questa coppia strofica è annoverata tra i cosiddetti ‘stasimi iporchematici’ sofoclei, e anzi ne rappresenta sotto molti aspetti il modello ideale, vale a dire risulta essere uno di quei canti nei quali l’incapacità di comprensione del coro si fa più marcata, e mentre prevale il sentimento che la vicenda volga al meglio, in realtà il dramma si avvicina alla catastrofe; tale incapacità del coro si traduce, per contrasto, nell’abbandono

113 Per analoghe simmetrie, generalmente legate al raddoppiamento di parole identiche o simili spesso come «kultische Elemente» espressi attraverso una «Parallelität des Logos im Lied», cfr. KRANZ 1933, 127-130 e 189-190, con BARRETT 1964, 323, e DOVER 1968, 137 per Ar. Nub. 275-290 ~ 298-313, con ulteriori esempi in tragedia. Su strutture antifonali e parallelismi nelle lamentazioni ALEXIOU 2002, 131-160: per la tragedia p. 233, nn. 45-46; SWIFT 2010, 306-307; per equivalenze vocalico-consonantiche, a volte anche con il mantenimento della medesima lunghezza di parola, cfr. almeno i pochi esempi raccolti in COXON 1947, 70-71 (per Sofocle OC 1484-1485 ~ 1498-1499 e Ai. 892 ~ 938). Cfr. anche, al cap. II, p. 76, n. 43. 114 Una lista parziale delle occorrenze è in PULLEYN 1997, 218-220, con p. 145. 115 Dietro DORSCH 1983, 226, che registra la medesima ripetizione di eu- come prefisso positivo anche in PMG fr. 936, 5, 8, 10 (l’inno a Pan di Epidauro) e PMG fr. 937, 7, 8, 13 (in quest’ultimo verso compare eujnomiva/, altri casi per gli inni in KEYßNER 1932, 165 e 157: per il valore del termine si vedano WEST 1966, 407 e LONG 1968, 57). Forse meno percepibile, ma non assente, è la ripresa di au tra strofe e antistrofe: aujtodah' al v. 700, au\ ai vv. 707 e 711, cui andrà accostato anche ajnauvdhton al v. 715. L’uso di pavlin e di au\ al v. 711 sembra del resto ribadire l’idea di un ritorno a una condizione di normalità e al rispetto di norme prima tradite (sevbwn 713 ~ sevbein 667: «au\ suggests the (supposed) return of Ajax to the normal service of the gods», e il coro, sulla base dei vv. 655 e 666-667, ritiene imminente un sacrificio: KAMERBEEK 1963, 150).

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I. Lo stasimo iporchematico dell’Aiace

a vivaci movimenti di danza e a un giubilo che si rivelerà di lì a poco eccessivo. Nel caso dell’Aiace, Sir Richard Jebb come altri prima di lui si spinse a definire la coppia strofica «a joyous dance-song, uJpovrchma, which holds the place of the second stasimon» (corsivo nostro), il cui fine è quello di «prepare for the catastrophe by a contrast»116. Ma è forse possibile provare a deporre la definizione moderna di ‘stasimo iporchematico’, mirante di fatto a sottolineare in ambito tragico soprattutto gli aspetti legati a una performance di sfrenate movenze, come prodotto ed esito di un improvviso e inatteso motivo per gioire. È meglio tentare un raffronto tra questo canto e alcuni indizi selezionati tra i non molti offerti dalle fonti antiche sull’iporchema come genere a sé, nato e sviluppatosi autonomamente e non come segmento di tragedia o di dramma satiresco117. Non si cercherà di ridefinire in maniera complessiva la fisionomia di cori in cui canto e danza dovevano risultare estremamente interconnessi (difficile dire quale fosse la reciproca funzione ‘mimetica’, ma si veda sotto) e i cui tratti peculiari inevitabilmente ci sfuggono. Senza voler dare conto in toto delle fonti sull’iporchema118, si prenderanno in considerazione esclusivamente gli elementi che ancora dirigono verso i Cureti e Creta. Risulterà nondimeno impraticabile definire il nostro stasimo come un esemplare superstite dell’antico genere dell’iporchema (sarebbe sintomo di eccessiva sicumera classificatoria). È cosa nota che le fonti antiche individuano nel genere una stretta contiguità tra le parole cantate da un coro (o da parte di esso) e i movimenti danzati che trasformano in azione, per così dire, le emozioni suscitate dai diversi momenti del culto o dell’occasione festiva119. Con ogni probabilità si trattava dunque di un canto, accompagnato indifferentemente da aulo o da lira, che poteva essere eseguito da uomini o donne ma anche da giovani o ragazze, senza alcuna distinzione di età o genere. L’effetto complessivo doveva essere quello di una decisa combinazione tra 116 JEBB 1896, 109, e si veda, tra altri, MASQUERAY 1922, 37, n. 1 («le chœur, abusé par les paroles d’Ajax, se livre à la joie, dans cet hyporchème»); PERROTTA 1935, 157 parla della «sostituzione di un iporchema allo stasimo tradizionale» come di un’esclusiva sofoclea, considerando questi versi dell’Aiace come direttamente derivati da Ant. 1115-1154 (p. 178). È un peana iporchematico per DE FALCO 1928, 148, e un vero e proprio stasimo con carattere peanico: cfr. DE FALCO 1958 (già 1924), 60, 65, 79 e lista delle caratteristiche salienti a p. 88. Ottima sintesi sulla questione in MAZZOLDI 1999, 181. 117 Un significato, questo, pure attestato in Anecd. Paris. I, p. 20 Cramer, e Tzetz. de trag. 114-116, p. 105 Koster. 118 Rimangono fondamentali le considerazioni di DI MARCO 1973-1974, con dettagliata discussione dei passi e pregressa bibliografia (a quelle pagine spesso si farà qui riferimento); si vedano inoltre DIEHL 1914; FÄRBER 1936, II, 41-42 (lista parziale delle fonti); DALE 1950, con DALE 1968, 210; KOLLER 1954, 166-173; SEAFORD 1978, 87; HENRICHS 1994-1995, 59-60 e le nn. 20-25 alle pp. 93-94; NAPOLITANO 2000, 116-119; CAREY 2009, 25. La prima attestazione del termine, senza alcuna attinenza con i cori della tragedia e accanto a ditirambi ed encomi, è in Plat. Ion 534c. 119 Si riprendono qui le considerazioni di JEANMAIRE 1939, 429, il quale – a dimostrazione del margine di incertezza che non permette di spingerci oltre un fondale destinato a rimanere inattingibile – ritiene che l’Hymnus Curetum di Palaikastro (IC III II, 2 = CA p. 160) rappresenti «probablement ce qui nous donne le mieux l’idée du genre de danse auquel s’appliquait la désignation d’hyporchème» (p. 432).

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testo, danza e accompagnamento musicale120 (come ad esempio nella danza di Delo, un iporchema secondo Luc. Salt. 16, durante la quale i giovani migliori venivano scelti per interpretare il canto con i gesti: paivdwn coroi; sunelqovnte" uJpÆ aujlw/' kai; kiqavra/ oiJ me;n ejcovreuon, uJpwrcou'nto de; oiJ a[ristoi prokriqevnte" ejx aujtw'n)121. Ateneo, che non mostra tuttavia coerenza nella sua trattazione (si vedano I 20d-e con XIV 630e, dove è probabile il riferimento a una forma ‘secolarizzata’ e recenziore, oramai più simile al pantomimo e di natura comica), azzarda addirittura un collegamento tra iporchema e Od. 8, 261-264 – le danze di giovani in accompagnamento del canto del solo Demodoco –, oltre che con la danza descritta sullo scudo di Achille in Il. 18, 569-572, aggiungendo che (I 15d) uJposhmaivnetai de; ejn touvtoi" oJ uJporchmatiko;" trovpo", o}" h[nqhsen ejpi; Xenodhvmou kai; Pindavrou. kaiv ejstin hJ toiauvth o[rchsi" mivmhsi" tw'n uJpo; th'" levxew" eJrmhneuomevnwn pragmavtwn.

Fiorito ai tempi di Senodamo (cfr. [Plut.] de mus. 1134 B-C) e di Pindaro, l’uJporchmatiko;" trovpo" è una o[rchsi" che mira dunque all’imitazione delle azioni interpretate dalle parole. Si incrociano a questi primi dati tradizioni diverse, che trovano nella figura di Taleta di Gortina attivo nel corso del VII secolo un terminus post quem: sarebbe stato lui l’indiscusso maestro del genere, meritevole di averne favorito la diffusione in Sparta; e tuttavia la nascita leggendaria dell’iporchema sarebbe da far risalire direttamente ai Cureti e alle loro danze strepitanti. Il collegamento con Creta – dunque in contrasto con quanto riportato da Luciano – è esplicitato dagli scoli pindarici, dove vengono menzionati congiuntamente la pirrica per la quale si composero iporchemi, i Cureti come inventori della danza in armi e Taleta come suo ‘diffusore’, donde deriverebbe l’uso di definire ta; uJporchmatika; pavnta mevlh come Krhtai>kav122: dievlketai de; hJ th'" purrivch" o[rchsi", pro;" h}n ta; uJporchvmata ejgravfhsan. e[nioi me;n ou\n fasi th;n e[noplon o[rchsin prw'ton Kouvrhta" euJrhkevnai kai; uJporchvsasqai, au\qi" de; Puvrricon Krh'ta suntavxasqai, Qalhvtan de; prw'ton ta; eij" aujth;n uJporchvmata: Swsivbio" de;, ta; uJporchmatika; pavnta mevlh Krhtai>ka; levgesqai.

Ciò che di indiscutibile emerge almeno da qui è un collegamento tra l’iporchema cretese, la danza armata in generale e la pirrica più nello specifico: «l’evidente carattere ‘eurematologico’ della testimonianza mi sembra 120

Così LAWLER 1951, 45, e 46: «all that we can say with assurance is that from first to last the hyporcheme was essentially a lyric with strong musical, orchestic, and mimetic accompaniment». Sintetiche considerazioni anche in SWINDLER 1913, 54-57. 121 NAGY 1990, 351-353 rileva come il nome dovesse specificare un assoggettamento della danza al canto come suo accompagnamento e ‘supporto’, con inevitabile intensificazione del virtuosismo di cui il performer – nel caso il danzatore – doveva dare prova (ma «in uJpovrchma l’originario senso di subordinazione espresso da uJp- si confonde […] con l’idea di accompagnamento»: DI MARCO 1973-1974, 334, n. 18). 122 Si tratta del già ricordato schol. Pind. P. 2, 127 (II, p. 52, 17 – p. 53, 3 Drachmann). Per Cureti e pirrica si rimanda a quanto detto nei paragrafi precedenti.

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I. Lo stasimo iporchematico dell’Aiace

che non infici la validità (che direi ‘storica’) di alcune importanti notazioni: il legame pirrica-iporchema, la composizione di iporchemi da parte di Taleta, la fioritura del genere in ambiente cretese»123. Proprio un lacerto testuale considerato pindarico riconduce a una pretesa origine insulare. Esso è classificato tra gli iporchemi ascrivibili al poeta tebano, tra altri, da Bruno Snell (fr. 107b Sn.-M.)124 ma tramandato anonimo in connessione con il genere dell’iporchema da Ath. V 181b (completamento di un testo trasmesso da Plut. Mor. 748 A-C, che nello stesso passo, delle Quaest. conv., sottolinea la natura movimentata della danza). Scrive Ateneo che una particolare predisposizione alla danza è insita – già lo si è visto – nella tradizione locale cretese, ed è per questo, aggiunge, che gli iporchemi sono chiamati ‘danze cretesi’ (o{qen kai; Krhtika; kalou`si ta; uJporchvmata), citando a seguire il verso 2 dell’attuale frammento 107b Sn.-M., ejlafro;n o[rchmÆ oi\da podw'n meignuvmen: | Krh'ta me;n kalevonti trovpon, to; dÆ o[rganon Molossovn125. Tracce analoghe sono rilevabili nell’epitome foziana di Proclo (Phot. 320b, 33-37 Bekker = Procl. Chrest. 55-56, p. 47 Severyns), dove di nuovo l’iporchema viene dato come di origine cretese – essendo esso frutto dell’invenzione dei Cureti – ma contemporaneamente messo in collegamento con la pirrica ideata da Neottolemo126: uJpovrchma de; to; metÆ ojrchvsew" a/jdovmenon mevlo" ejlevgeto: kai; ga;r oiJ palaioi; th;n ®uJpov® ajnti; th'" ®metav® pollavki" ejlavmbanon. euJrevta" de; touvtwn levgousin oiJ me;n Kourh'ta", oiJ de; Puvrron to;n ÆAcillevw": o{qen kai; purrivchn ei\dov" ti ojrchvsew" levgousin.

Tuttavia la mancanza di specificità del termine, la millenaria duttilità del suo significato e l’intermittenza con la quale nelle fonti lo si collega alla pirrica – verosimilmente perché in entrambi i casi si tratta di danze fortemente mimetiche – non permettono di spingerci oltre, costringendo alle limitate nonché finali osservazioni che seguono. Tali osservazioni mirano, proprio in virtù della loro necessaria approssimazione, a evitare indebite generalizzazioni e altrettanto illegittime etichettature. Lo stasimo sofocleo per ammissione 123 DI MARCO 1973-1974, 337, n. 24; per il cretico come metro caratteristico dell’iporchema cfr. ibid. 124 Si veda ancora DI MARCO 1973-1974, 330 e n. 10; POLTERA 2008, 429-435, torna a considerare simonideo il testo (fr. 255: si tratterebbe dell’unico frammento superstite di un iporchema del poeta di Ceo). 125 Sul riferimento poco comprensibile allo «strumento molosso» cfr. CECCARELLI 1998, 108, n. 89 (un’ulteriore probabile connessione tra iporchema e pirrica?); POLTERA 2008, 429 e 435 non lo considera parte della citazione. 126 Si rinvia a CECCARELLI 1998, 178-179. Si vedano anche le pagine di commento al passo di Proclo in SEVERYNS 1938, 172-178 («c’est, pour prendre une définition très vague, une chanson à danser», p. 172), secondo il quale la confusione in Fozio sarebbe da spiegare con l’originario carattere armato della danza cui si accompagnava l’iporchema, almeno nella sua prima fase di ‘sistemazione letteraria’, quella dovuta, secondo le fonti, a Taleta di Gortina: il carattere di ‘danza in armi’ avrebbe condotto Fozio a riassumere nel medesimo passo tanto l’invenzione dell’iporchema a Creta quanto quella della pirrica a opera di Neottolemo.

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del coro stesso ha a che fare con danze cretesi, e possiamo immaginare che esso, nella stretta connessione autoreferenziale tra ciò che il coro dice e ciò che il coro fa (v. 693 e v. 701 in particolare), potesse illustrare quella reciproca interdipendenza fra parola, canto e danza di cui le fonti sull’iporchema informano; a ciò si aggiunga la pur generica informazione che di tanto in tanto affiora: quella di una relazione fra iporchema e danza armata. Rimangono così posizionate le tessere di un mosaico difficilmente componibile nella sua interezza, ma nondimeno utili per poter almeno avvicinarsi a un’idea vaga di che cosa il canto danzato dell’Aiace rappresentasse nella Mischung di costituenti diversi. Essi sono: le coreografie di Misia e di Cnosso che indirizzano alla Gran Madre e al suo séguito di Cureti e Coribanti, l’autoreferenzialità mimetica, la vivacità della voce e dei movimenti non disgiunta da una forte tendenza al legato nella contiguità di sequenze sovrapponibili (quasi che la forma provasse ad avere la meglio sull’emozione)127, la possibile imitazione di una danza in armi favorita dal contesto epico della fiction drammatica, l’intrusione di elementi innodici con imitazione del refrain peanico128 e infine la (moderna) interpretazione di questo stasimo sofocleo come eminentemente ‘iporchematico’.

127 Da Ath. XIV 628d-e, dove si insiste sul carattere nobile dell’iporchema e sull’accordo tra danza e canto, possiamo, secondo DI MARCO 1973-1974, 334, ricavare l’impressione che l’iporchema «assurse nel campo della teoria musicale, nel corso del V sec., a espressione paradigmatica di misura e di coerenza», ma già da metà secolo il genere sarebbe venuto a perdere le proprie connotazioni caratteristiche (p. 335). 128 Come noto l’iporchema tende a sovrapporsi, nelle fonti, al peana: si pensi, per non citare che un caso, a Dion. Hal. Dem. 7, 7 (p. 59, 22 – p. 60, 1-2 Aujac), che considera ditirambo o iporchema Pind. Pae. 9 (fr. A1 Rutherford = fr. 52k Sn.-M., su cui al cap. III, par. 2). Ci si limita al rinvio a DEUBNER 1919, 396-397, con DI MARCO 1973-1974, 341, n. 31 («la designazione d’‘iporchema’ sarebbe nata solo in un secondo momento, in séguito all’esigenza di differenziare dal peana tradizionale un peana di tipo speciale in cui l’elemento orchestico aveva assunto un ruolo di particolare importanza»); ulteriori riferimenti bibliografici in NAPOLITANO 2000, 119, n. 31. Spesso i versi dell’Aiace proprio per la loro natura ‘mista’ sono stati accostati al canto infraepisodico di Trach. 205-224 (sul quale si veda al cap. IV, par. 3), oltre che (da LAWLER 1964b, 31) al kallivniko~ di Eur. Ba. 1153-1164.

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II

Confluenza di generi lirici, allusività epica e performance nel primo stasimo delle Trachinie 1. Natura ibrida del canto: uno stasimo ditirambico L’argomento del primo stasimo delle Trachinie, svolto in una triade di due strofe e un epodo, celebra la proverbiale invincibilità di Afrodite e si configura anzitutto come una sorta di ripresa e di estensione delle parole pronunciate da Deianira ai vv. 441-448: «chiunque si opponga a Eros come un pugile – aveva detto la donna accogliendo Iole – è fuori di senno»1, ouj kalw'~ fronei'. Il dio infatti a[rcei kai; qew'n o{pw~ qevlei. L’episodio della lotta tra Acheloo ed Eracle fornisce dunque, sviluppando in forma di canto le generiche riflessioni della donna, un esempio ottimale della potenza del dio evocata poco sopra. Sono appunto loro, il fiume e l’eroe qui ritratti, a venire alle mani, e a essersi battuti per amore come due puvktai. Soluzione drammaturgica solo apparentemente inefficace, l’azione sembra subire dall’inserto dello stasimo un rallentamento e una digressione: a questo punto dell’intreccio ci si potrebbe forse attendere un rinvio alle recenti vicissitudini di Iole, piuttosto che un balzo verso circostanze lontane della storia2. Nel momento in cui il pubblico constata che Deianira ha perduto l’amore del proprio marito tornato dalla spedizione di Ecalia con un séguito di prigioniere, il coro narra invece di come Eracle aveva conquistato la sua più antica sposa, riportandoci all’antefatto dei primi versi della tragedia. Integrando il resoconto là sommariamente tratteggiato, lo stasimo descrive ciò che prima, ai vv. 20-25, Deianira non aveva raccontato. Dunque a giusto titolo sono stati riconosciuti indizi tematici e lessicali ben evidenti che connettono saldamente questa triade lirica al prologo3. Immettendosi in maniera insolita nella trama e assumendo il ruolo di narratore (si tratta dell’unica occorrenza di questo tipo nell’opera superstite sofoclea)4, il coro recupera – come se fosse stato allora presente, ma non lo era – quella storia pregressa, introducendo un elemento di raccordo nella concatenazione degli avvenimenti e dimostrandosi in grado di riesumare almeno lungo questa breve sequenza i frammenti di fatti passati (il corteggiamento di Acheloo presso la casa di Eneo a Pleurone e l’inatteso 1

Per un primo orientamento sul tema dell’invincibilità di Eros cfr. CALAME 1983b, XXVIII(con i saggi compresi nel volume, in particolare sulle Trachinie: S. Durup – 143-157 – e C. Segal – 171-192). 2 GARDINER 1987, 125. 3 L’arrivo di Eracle (19 ~ 510-511), l’attesa di un pretendente (15 ~ 525), l’attesa della fine dello scontro (24 ~ 527-528). 4 Cfr. la lista di «extended choral narrative passages» in RUTHERFORD 2007, 33; questi i passaggi sofoclei, oltre al nostro, ivi considerati ‘narrativi’: El. 472-515; OT 489-511; OT 1197-1222; Ant. 100-147; Ant. 582-625; Ant. 944-987. XXXVIII

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arrivo di Eracle che evita a Deianira un connubio mostruoso) nei quali le fanciulle di Trachis non avevano in verità avuto alcuna parte (vv. 497-530)5: mevga ti sqevno~ aJ Kuvpri~: ejkfevretai nivka~ ajeiv. kai; ta; me;n qew'n parevban, kai; o{pw" Kronivdan ajpavtasen ouj levgw, oujde; to;n e[nnucon ÓAidan, h] Poseidavwna tinavktora gaiva": ajllÆ ejpi; tavndÆ a[rÆ a[koitin ‹tivne"Ì ajmfivguoi katevban pro; gavmwn, tivne" pavmplhkta pagkovnitav tÆ ejxh'lqon a[eqlÆ ajgwvnwnÉ

str.

oJ me;n h\n potamou' sqevno", uJyivkerw tetraovrou favsma tauvrou, ÆAcelw/'o" ajpÆ Oijniada'n, oJ de; Bakciva" a[po h\lqe palivntona Qhvba" tovxa kai; lovgca" rJovpalovn te tinavsswn, pai'" Diov": oi} tovtÆ ajollei'" i[san ej" mevson iJevmenoi lecevwn: movna dÆ eu[lektro" ejn mevsw/ Kuvpri" rJabdonovmei xunou'sa.

ajnt.

tovtÆ h\n cerov", h\n de; tovxwn pavtago", taureivwn tÆ ajnavmigda keravtwn: h\n dÆ ajmfivplektoi klivmake", h\n de; metwvpwn ojloventa plhvgmata kai; stovno" ajmfoi'n. aJ dÆ eujw'pi" aJbra; thlaugei' parÆ o[cqw/ h|sto to;n o}n prosmevnousÆ ajkoivtan. ejgw; de; qath;r me;n oi|a fravzw: to; dÆ ajmfineivkhton o[mma nuvmfa" ejleino;n ajmmevnei ‹Ì· kajpo; matro;" a[far bevbacÆ, w{ste povrti" ejrhvma.

500

505

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515 ejp.

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Partendo da una considerazione strutturale dovremo notare che ci troviamo di fronte a tre forme chiuse. Esse sono in stretta connessione tematica e metrico-ritmica, accordata quest’ultima dal massiccio uso – lo si vedrà in séguito più nel dettaglio – dei kat’enoplion-epitriti, cari come noto alla produzione della lirica corale6: gli anapesti di avvio delle due strofe7 sono sostituiti in apertura di epodo da telesilleo + coriambo (517-518) prima della ripresa 5

Il testo dello stasimo riproduce quello stampato e discusso in RODIGHIERO 2004. Esso si discosta in due punti dall’edizione oxoniense: 1) al v. 526 gli editori inglesi stampano ÿ ejgw; de; mavthr me;n oi|a fravzw: ÿ (cfr. LLOYD-JONES – WILSON 1990a; ÿ mavthr me;n oi|a ÿ in DAWE 1996c: si rinvia più in dettaglio a RODIGHIERO 2003); 2) al v. 528 (discusso infra) essi accolgono l’integrazione di GLEDITSCH 1883, 255: ‹tevlo~Ì (così anche DAWE 1996c). I rapporti temporali degli eventi contemplati nel dramma e il ruolo svolto in esso da fatti del passato sono indagati in KYRIAKOU 2011, 371-431. 6 Da Stesicoro a Simonide, Bacchilide e Pindaro (per un orientamento generale cfr. GENTILI – LOMIENTO 2003, 197-219). 7 Per attacchi strofici simili in tragedia, in contesti di kat’enoplion-epitriti, cfr. GRIFFITH

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II. Confluenza di generi lirici nel primo stasimo delle Trachinie

di sequenze dattiliche (519-522), ma coppia strofica ed epodo presentano chiuse eoliche, aristofaneo (506 ~ 516) e gliconeo + ferecrateo (529-530). Le due strofe e l’epodo rimangono tuttavia ancorate a un andamento del canto che fluisce verso pause nette, quasi in tre tempi: a) discorso generale, b) presentazione dei personaggi e loro arrivo nell’arena, c) scontro ed epilogo. È inoltre di fatto il solo canto, nelle Trachinie, che non contiene riferimenti espliciti allo stato presente delle cose: non mancano, come detto, i legami forti con il resto del dramma, ma ogni elemento dello stasimo ‘funziona’, per così dire, in maniera autonoma, con una compiutezza che ha permesso di ritenerlo «un unicum, in forma di ballata narrativa, stilizzato araldicamente, quasi dello stesso genere dei ditirambi di Bacchilide»; o ancora più nel dettaglio, di considerare l’avvicendamento di una strofe interrogativa seguita da un’antistrofe di risposta come assimilabile alla struttura dialogica del ditirambo 18 M. di Bacchilide8. In effetti il coro trascorrendo dal tema generale – la potenza di Afrodite – al caso particolare della lotta d’amore per Deianira, marca il passaggio con una serie di interrogative, come se non si sapesse ancora nella strofe chi fosse l’oggetto della querelle e chi i concorrenti dell’agone nella mischia confusa. In aggiunta, sull’impressione ditirambica si è innestata quella che vi riconosce un tono da epinicio, al quale certo contribuisce la presenza dell’eroe atletico per eccellenza, e sopra ogni altro votato all’agone, Eracle, oltre al fatto che si annuncia nel canto fin dal primo verso il nome del vincitore delle contese ivi narrate, vale a dire quella Cipride che ejkfevretai nivka~ ajeiv. Si tratterebbe insomma del solo ‘stasimo ditirambico’ non euripideo (tanto da far supporre ad alcuni una datazione bassa e dunque più a ridosso della produzione euripidea dell’ultimo quarto del secolo), ma capace di far nel contempo riverberare – per soggetto, materia e stile – echi pindarici9. Non dobbiamo però a mio avviso partire dal presupposto 1977, 44, con rinvio a Aesch. PV 545-560, Soph. Trach. 647-662; l’analisi metrica è, tra gli altri, in DALE 1971, 25-27 (già in parte in DALE 1968, 192-193, con DAVIES 1991, 135-136). 8 Si vedano rispettivamente le considerazioni di Karl Reinhardt (ora in REINHARDT 1989, 261, da cui si cita) e GARDINER 1987, 136; più generico PERROTTA 1931, 157: «il Coro, tutto narrativo, ha la grazia squisita e molle d’un ditirambo di Bacchilide». Il tema generale del ditirambo bacchilideo (le imprese di Teseo contro mostri e briganti che infestano le zone intorno all’Istmo) si adatta, in più, al modello delle imprese civilizzatrici di Eracle. Per ciò che concerne la musica, l’utilizzo da parte del poeta del tropos ditirambico finisce per essere un elemento quasi aneddotico: è citato nella Vita Sophoclis 23 (= TrGF IV T 1, 95-97, e cfr. T 99a, 4-6; si rinvia al cap. I, p. 38, n. 66). 9 Così rispettivamente KRANZ 1933, 254-258, e – per il tono da epinicio – BURTON 1980, 58, ed EASTERLING 1982, 133-134: «subject matter and style are reminiscent of Pindar or Bacchylides», ma «Soph.’s epinician echoes only point the contrast» (seguita da ZIMMERMANN 1992, 75-76: qui Sofocle «sowohl sprachlich […] als auch formal im triadischen Strophenbau ein Epinikion anklingen läßt»). Cfr. anche HUTCHINSON 2001, 437-438: «in the introduction of the narrative at Soph. Trach. 497-507 the nervous piety of the praeteritio and the particular form of the epic questions have obvious affinities with Pindar and Bacchylides. But more widely the recurrent impulse to move away from the situation in hand comes from the lyric genre». A una vicinanza tra il passo e gli stasimi narrativi delle tragedie di Euripide pensava PERROTTA 1935, 554, che collocava le Trachinie dopo il 415: per una più dettagliata trattazione della cronologia si rinvia a RODIGHIERO 2004, 37-40. Si veda anche WEBSTER 1969, 21 – dietro KRANZ 1933, 217 e 254 –: «this chorus is Pindaric in form and parabasis of this kind is common in Pindar» (con riferimento alla praeteritio, su cui infra). Per epinicio e tragedia: SWIFT 2010, 118-172 (che riconosce, per Eracle, diffusi toni da epinicio anche

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

(sbagliato) di considerare il canto come altro da ciò che rappresenta: esso è e resta un coro di tragedia. L’intento è qui quello di provare a distinguere, nella mistione dei generi a cui la critica rinvia, le loro reciproche interferenze, cercando di stabilire i punti di raccordo e la funzionale coerenza di essi nelle singole sezioni dell’ode, mettendoli in parallelo con le scelte lessicali, la forma assunta dal tema mitico e – dove possibile – anche con la prassi esecutiva. Non si dovrà peraltro dimenticare che tali interferenze sono ben rappresentate, in Trachinie, dall’intonazione mista (iporchema, peana, ditirambo) del canto astrofico infraepisodico dei vv. 205-224, della cui natura iporchematica meglio si dirà al cap. IV, par. 3. Si pone del resto qui una questione fondamentale, che è quella che pertiene alla consapevolezza e alla competenza del pubblico teatrale rispetto alle più varie forme di riuso puntuale della produzione lirica precedente: potremo solo dare qualche indicazione semplificante e inevitabilmente sintetica, quindi insufficiente, e che tuttavia risulterà un’acquisizione valida anche per i capitoli seguenti (si veda, e.g., il ricorso a un incipit pindarico nell’attacco della parodo dell’Antigone, su cui al cap. III, par. 2). Si può anzitutto affermare che le citazioni dai lirici testimoniate dalla produzione comica rivelano che il teatro attico (quindi anche la tragedia) conosceva i generi della poesia corale: «le citazioni di Alcmane, Stesicoro, Ibico, Simonide, Pindaro in Aristofane mostrano infatti che i comici attici attingevano non ai carmi erotici ma ai generi corali più solenni – inni, ditirambi, prosodii, epinici – perché questi erano i testi insegnati nelle scuole, e per questo motivo facilmente riconoscibili dalla grande maggioranza del pubblico»: CINGANO 1990, 207 (alla n. 66 specifici rimandi ai passi di Aristofane). Per un primissimo – ovviamente non esaustivo – orientamento nella complessa relazione tra commedia e lirica si vedano HERINGTON 1985, 231, n. 70, HUTCHINSON 2001, 427, n. 1 (loci paralleli), e più specificamente il lavoro di KUGELMEIER 1996; sul rischio di un eccesso nello sforzo di individuare parentele allusive con la tradizione lirica precedente si veda la messa a punto di BAGORDO 2003, 16-35; così a p. 26: «Schulunterricht und Symposion sind letzten Endes zwei untergeordnete Aspekte einer umfangreicheren Frage, nämlich der nach Ursprung der literarischen Kentnisse des athenischen Publikums». Si veda, oltre a CALAME 1999, 148-153 (il pubblico in virtù della sua educazione musicale poteva essere portato a un «process of identification» con il coro e sentirsi parte della performance) e all’utile ed efficace sintesi di LOMIENTO 2001, 324-327, anche IRIGOIN 1952, 9-16, con, e.g., Ar. Nub. 966-968: i ragazzi venivano istruiti a cantare in coro passi dai poeti lirici; «chez les adultes, l’exécution de ces chants, au cours d’un repas, par un soliste qui s’accompagnait à la lyre, a dû être goûtée un certain temps, comme le montre, toujours chez Aristophane, l’exemple de Strepsiade demandant à son fils Phidippide de prendre sa lyre et de chanter un poème de Simonide (Nuées, 1355-1356)», e cfr. anche Ar. fr. 235 K.-A. Eupoli (fr. 398 K.-A.) avrebbe affermato che i carmi di Pindaro erano caduti in oblio «per la disaffezione dei più al bello»: altrove Eupoli precisa che questa disaffezione riguardava anche Stesicoro, Simonide e Alcmane (fr. 148 K.-A.). Pindaro sembra però godere da subito di una fortuna locale: citato già da Erodoto, la sua influenza dovette essere netta proprio a partire da Sofocle (IRIGOIN 1952, 11-12; a questo proposito cfr. anche SCHMID – STÄHLIN 1929, 616 e n. 1: Sofocle rivela – come viene di fatto confermato dal nostro stasimo – «in Geist und Diktion der Chorgesänge pindarischen Einfluß»). Per il grado di competenza nello stasimo di avvio trenodico e di celebrazione dell’eroe in Eur. HF 348-450: pp. 124-129); più nello specifico per questo stasimo e per le Trachinie, SWIFT 2011: «the epinician language of the first stasimon […] should be understood not simply as an isolated poetic feature, but as something integral to the play’s wider concerns» (p. 412, e pp. 399-405 per Eracle come eroe per eccellenza dei canti di vittoria).

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intellettuale del pubblico del teatro nel corso del V secolo si vedano le considerazioni di REVERMANN 2006, secondo il quale il massimo grado di consapevolezza artistica venne raggiunto sul finire del secolo e con l’avvio del IV.

Chiunque abbia anche solo per poco praticato lo stile ornato nell’uso degli aggettivi da parte di un autore come Stesicoro, o anche di Bacchilide e Pindaro, dovrà giungere a una prima constatazione, facilmente deducibile alla sola lettura, che conduce a rilevare quale elemento comune a tutto il canto sofocleo la cospicua incidenza di termini composti, che in numerose occasioni si identificano, non accidentalmente, con hapax assoluti, nel numero di 7 (vanno considerati anche il verbo rJabdonovmei al v. 516, ricorrenza unica, e l’impiego avverbiale di ajnavmigda, e si arriva a 11 se si valutano gli hapax in tragedia) o prime occorrenze (con il caso dubbio di eu[lektro~, che compare nella forse contemporanea Antigone). Si dà segno, in tabella, di tale consistente utilizzazione (del resto tipica, ma non ripetuta con questa intensità dal poeta di Colono): termine greco e[nnucon tinavktora ajmfivguoi pavmplhkta pagkovnita uJyivkerw tetraovrou palivntona eu[lektro~ rJabdonovmei ajnavmigda ajmfivplektoi ojloventa eujw'pi~ thlaugei' ajmfineivkhton

prima occorrenza

hapax

composto •

hapax in tragedia • • hapax in tragedia

• • • • • • • • • •



• (cfr. Ant. 796) • • • • hapax in tragedia hapax in tragedia •

• • •

Da questa ossatura dalle complesse articolazioni linguistiche – ancora una volta genericamente ditirambica – viene retto lo scheletro dello stasimo sofocleo. Per Aristotele, infatti (Po. 1459a 8-9) – che potrebbe tuttavia riferirsi alla fase di produzione del ditirambo nuovo –, «le parole composte si adattano soprattutto ai ditirambi» (tw'n dÆ ojnomavtwn ta; me;n dipla' mavlista aJrmovttei toi'~ diquravmboi~); l’idea è comunque ribadita e confermata in Rh. 1406b 1-2: gli autori di ditirambi ricorrono infatti alla diplh' levxi~ perché sono yofwvdei~, «portati alla sonorità». Il motivo (già nel Cratilo platonico: 409b-c) diventerà consueto almeno fino a Demetrio (eloc. 91, 116 e 143). Possiamo supporre che lo stasimo sofocleo fornisca parziale testimonianza di una simile tendenza? 65

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Non si trova tuttavia concorde, la critica, nel definire la lexis di genere: si veda SEAFORD 1978, 88, che riconosce tra le caratteristiche del ditirambo l’uso di «elaborately compound epithets» (ma contra HAMILTON 1990, 214-215), con IERANÒ 1997, 297-303. ZIMMERMANN 1992, 118-121, considera – per la commedia – la tendenza all’accumulo di aggettivi composti, anche di più di due membri, come «ein besonders Merkmal des Neuen Dithyrambos» tra fine V (periodo, secondo ZIMMERMANN 1989 – con esempi – particolarmente votato alla Gattungsmischung, al manierismo e ad effetti arcaizzanti) e inizio IV sec. a.C. Contro l’idea di una composizione polisintetica come caratteristica distintiva del ditirambo – dietro MEYER 1923, 153ss. – si veda anche NAPOLITANO 2000, 133-135: le testimonianze a disposizione servirebbero «al più a provare una particolare predilezione per la composizione nominale bimembre […]. La novità della composizione nominale ditirambica non è tanto nella lunghezza dei composti, quanto nella tendenza alla giustapposizione inedita e arbitraria di membri eterogenei» (ne sia segno, nello stasimo, l’incisiva e determinante percentuale di hapax bimembri). Per la tragedia si potrà almeno vedere l’alta concentrazione di composti in Aesch. Choe. 423-428, con schol. ad 428 (I, p. 26, 14 Smith): kwmw/dei'tai wJ~ diquvrambo~, e il comm. di GARVIE 1986, 160 (l’espressione si riferisce probabilmente «to the passage as a whole», e il tono sarebbe piuttosto vicino a un «emotional oriental lament»), e UNTERSTEINER 2002, 300, che rinvia al passo della Poetica citato poco sopra.

2. Avvio innodico e Priamel L’incipit imprime già al canto un tono solenne, marcato anche dal complesso andamento sintattico che sembra richiedere una sorta di pausa dopo il nome di Afrodite. Correggendo i manoscritti – seguiti invece da Dain nell’edizione Belles Lettres – e dietro gli editori oxoniensi che accolgono l’intervento di Wakefield, un punto in alto dopo Kuvpri~, dovremo tradurre la frase nominale greca10 nel modo che segue: «la potenza» come predicato di «Cipride», con ellissi della copula, e «vittoria» come accusativo plurale retto dal verbo. Letteralmente: «Cipride è [i.e. ha] una grande forza11, ottiene sempre delle vittorie». Al di là del minimale intervento, ci si trova in realtà di fronte a una parziale sovrapposizione di due costrutti: 1) «grande la forza di Cipride», 2) «Cipride ottiene vittorie sempre»12, il primo dei quali non si realizza del tutto. Il verso è stato infatti giustamente definito da Felix Budelmann come un esempio di ‘cambio di direzione’. Ci attenderemmo qui in maniera naturale un genitivo, qualcosa, appunto, come «grande è la potenza di Afrodite», e l’aspettativa sarebbe sostenuta da alcuni luoghi omerici 10 Si vedano, sulla frase nominale, le considerazioni di BENVENISTE 1966: «une assertion nominale, complète en soi, pose l’énoncé hors de toute localisation temporelle ou modale et hors de la subjectivité du locuteur» (p. 160, con esempi dalle Pitiche alle pagine seguenti); «elle sert toujours à des assertions de caractère général, voir sentencieux. […] La phrase nominale vise à convaincre en énonçant une ‘vérité générale’» e «pose un rapport intemporel et permanent qui agit comme un argument d’autorité» (pp. 162-163). 11 Cfr. Eur. El. 958: e[cei ga;r hJ Divkh mevga sqevno~. Qui: «mighty strength is Kypris; she ever bears away victories»: cfr. STINTON 1976, 137-138 e STINTON 1985, 41-42, dove sono discusse le interpretazioni, con LLOYD-JONES – WILSON 1990b, 160 (altri tentativi di lettura raccolti in PENNESI 1988, 49-64). 12 Il nome della dea, «su cui cade incisivamente l’accento […] a livello normativo funziona esclusivamente quale soggetto del secondo» (FERRARI 1983, 43-44).

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nei quali dopo l’espressione mevga sqevno~ si colloca il genitivo13. Si cercherà di chiarire meglio in appendice il senso di questa iunctura: al valore sintattico assunto dai singoli termini verrà infatti ad anteporsi una memoria poetica (operativa peraltro in più punti dello stasimo) che pare più interessata alla sovrapponibilità di inserti formulari sullo schema del canto che non alla specificità del loro significato (cfr. i vv. 507-509 e i vv. 510-512, di cui più sotto), così da rendere plausibile – crediamo – anche l’apparente variatio tra v. 497 e v. 507. In effetti non esistono altri esempi, nell’opera superstite di Sofocle, di una strofe interrotta da un segno di interpunzione all’inizio di uno stasimo14. Tuttavia una simile intonazione è forse giustificata dal carattere pindarico di questo avvio, e non sarebbe troppo distante dall’apertura di Olimpica 1 (del 476), anch’essa, come lo stasimo, con esordio a Priamel15 evidenziato da una ‘sospensione’, ottenuta dall’impiego della frase nominale, che là emargina (ma con interpunzione debole) il primato dell’acqua sugli altri elementi e che qui attraverso la pausa iniziale alona e isola la divinità nella perentoria asserzione della sua primazia. Così Pind. O. 1, 1-2: a[riston me;n u{dwr, oJ de; cruso;~ aijqovmenon pu'r a{te diaprevpei nukti; megavnoro~ e[xoca plouvtou:

Vi potremo accostare anche l’epinicio per Alcibiade, Eur. PMG fr. 755, 1-2: se; dÆ a[gamai, w\ Kleinivou pai`: kalo;n aJ nivka.

Dunque: a[riston me;n u{dwr [pausa] ~ mevga ti sqevno~ aJ Kuvpri~ [pausa] ~ kalo;n aJ nivka [pausa]. Tipicamente sofocleo (cfr. anche Ant. 332: polla; ta; deinav ktl, ancora una Priamel), l’esordio del primo stasimo delle Trachinie esprimerebbe – secondo KRANZ 1933, 191, con esempi – un valore oggettivo e sentenzioso («so ist es») rispetto alla prassi euripidea, incline piuttosto a introdurre, a inizio canto, una sfumatura di soggettività che si configuri come espressione del punto di vista del coro («so fand ich es»). Dovremmo 13 BUDELMANN 2000, 45 e 47: «this sentence defies analysis», ma rimane saldo che «the words aJ Kuvpri~ are given prominence at the heart of a sentence that changes direction»; dietro le premesse

teoriche di Budelmann l’analisi di una ‘logica dell’inatteso’ nella scrittura sofoclea è sviluppata da SILK 2009 («in very general terms […] semantic diversion does belong to the realm of the ‘new and sudden’ – or at least to the realm of productive tension between the ‘new and sudden’ and prior expectation»: 145). 14 Ragione che induce DAVIDSON 1987b, 290, a ritenere improbabile la soluzione accolta da Stinton e a interpretare nivka~, dietro una lunga tradizione, come genitivo: in Sofocle «such an abruptly ‘punctuated’ opening of a first strophe is completely without parallel» (STINTON 1976, 137, riporta gli esempi pindarici di ‘staccato’ «for dactylo-epitrites and the like», ma solo il caso di O. 13, 47 si colloca a inizio strofe, anche qui con tono di sentenziosità: e{petai dÆ ejn eJkavstw/ | mevtron:). È per il genitivo, da ultima (e dietro KAMERBEEK 1959, 118) BITTRICH 2005, 37 e n. 128: «Nivka~ ist explikativer Genitiv zu sqevno~»: «großen Triumph trägt Kypris stets davon» (cfr. lo schol. ad 497c [p. 137 Xenis]: sqevno~ de; nivkh~: perifrastikw'~ th;n nivkhn). 15 Su cui più sotto. Sull’incipit così DAVIES 1991, 138: «it provides an appropriately Pindaric opening generalization, terse and effective (the absence of the copula from the first phrase is particularly Pindaric: a[riston me;n u{dwr)».

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forse però considerare l’attacco solenne e ‘pindarico’ anche sotto il profilo della possibile applicazione disfunzionale di un modello, quello dell’inno cletico a Eros/Afrodite, che ha i suoi esiti più compiuti, nell’ambito della produzione drammatica di quinto secolo, in Ant. 781-800 (ÒErw~ ajnivkate mavcan, | ÒErw~, o}~ ejn kthvmasi pivptei~..: con riferimento in ajnivkate ancora alla invincibilità, oltre al fatto che ci troviamo «in den Rahmen einer militärischen Metaphorik»)16 e in Eur. Hipp. 525-564 (ÒErw~ ÒErw~, oJ katÆ ojmmavtwn | stavzwn povqon ktl). In prima istanza, infatti, è qui celebrata, secondo il topos ricorrente e il ricorso a un modulo espressivo innodico, l’invincibile potenza di Afrodite. Con linguaggio universalizzante la sua totale sovranità si esercita sul mondo divino e su quello umano (cielo, terra, acqua: sono terra e acqua in Soph. Ant. 781-786, terra e acqua in Eur. Hipp. 1268-1282, dove però l’elemento aereo è ribadito dalle ali di Cipride e dallo svolazzare di Eros). Ma a sancire l’irregolarità della realizzazione del modello, nonostante l’avvio celebratorio, sono l’assenza di preghiere e l’impiego della terza persona (ovvero assenza del caratteristico «Du-Stil», che tuttavia, come nell’inno a Zeus di Aesch. Ag. 160-183, non impedisce l’esaltazione del dio). Insieme, ancora, all’assenza di connotazioni cultuali evidenti, andrà notata anche la mancanza dell’atteso vocativo accompagnato dalla tipica costruzione di frasi relative e participiali «che specificano le funzioni e le caratteristiche della divinità»17. Tuttavia dopo la sezione nella quale si costruisce, per exempla, l’aretalogia della dea, viene almeno infine da Sofocle garantita e rispettata nella chiusa dell’antistrofe la struttura ad anello che è tipica dell’inno cletico, con la ripresa dell’immagine di Afrodite, ‘unica’ e ‘sola’, posta a sigillo negli ultimi due versi: 497 ~ 515. Dovremo in questo senso riconsiderare in parallelo almeno il caso, accostabile al nostro, di Ant. 781 ~ 799-800, con il primo verso della strofe ripreso in eco dall’ultimo dell’antistrofe nella rappresentazione concreta dell’operato di Eros/Afrodite (uno dei «caratteri innodici distintivi» di questo canto secondo DORSCH 1983, 59). Anche in Eur. Hipp. 525 ~ 534 (avvio del primo stasimo) il nome del dio è ribadito al primo e all’ultimo verso della prima strofe, e soprattutto in Eur. Hipp. 1268-1269 ~ 16 Così BITTRICH 2005, 31; a proposito dello stasimo di Antigone si veda il cap. IV, par. 2. Per un’altra Afrodite sofoclea ‘combattiva’ cfr. TrGF IV F 941, 13, tivnÆ ouj palaivousÆ ej~ tri;~ ejkbavllei qew'nÉ, dove si assiste – e l’affermazione è valida anche per il nostro passo – a un «procedimento di negazione della metafora militare», perché, come ribadito ai vv. 15-16 del fr., la dea vince in realtà senza armi; come nello stasimo «solo a Cipride [non a Eros] Sofocle attribuiva la superiorità politico-militare sullo stesso Zeus» (si cita da PATTONI 2003, 230 e 251, n. 99, che rimanda anche a Soph. TrGF IV F 684, dove a essere esaltata è la potenza di Eros). 17 CERBO 1993, 645; per limitarci alla tragedia cfr. Soph. Ant. 781-800; Phil. 391-402 (ojrestevra pambw'ti Ga`... a}... nevmei~ ktl); Eur. Hipp. 525-564 (comm. in BARRETT 1964, 258-259) e – senza relativa – 1268-1269 (su;... Kuvpri); Tr. 840-841 (ÒErw~ ÒErw~, o}~ ta; Dardavneia mevlaqrav potÆ h\lqe~ ktl); Ba. 370-375 (a Hosia); per converso tale struttura viene nelle Trachinie riattata – con ardita anticipazione del pronome relativo: o{n in iperbato ad apertura di canto – nell’inno cletico al Sole della parodo, vv. 94-102: o}n aijovla nuvx ktl, «te, che la notte screziata…» (più in dettaglio su questo passo e sugli inni sofoclei, con speciale riferimento all’Antigone, si rinvia al cap. IV, come anche per l’uso del «tu» nell’inno al Sonno di Phil. 827-832. Si rinvia al cap. I, p. 24, n. 15 per l’uso, in preghiera, della seconda e della terza persona («Er-Stil»).

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1281-1282, dove il nome di Cipride (sola) si colloca in apertura e in chiusa del breve canto astrofico che costituisce il quarto stasimo18. Avremo dunque: Trach. 497 ~ 515: aJ Kuvpri~ ~ movna dÆ eu[lektro~... Kuvpri~ Ant. 781 ~ 799-800: ÒErw~ ajnivkate mavcan ~ a[maco~ ga;r ejm- | paivzei qeo;~ ÆAfrodivta Hipp. 525 ~ 534: ÒErw~ ÒErw~ ~ ÒErw~ oJ Dio;~ pai'~ Hipp. 1268-1269 ~ 1281-1282: su;... Kuvpri ~ Kuvpri... movna

Si noti peraltro che l’aggettivo eu[lektro~ si contende la palma della prima occorrenza proprio con Ant. 796, antistrofe dell’inno a Eros (sarà poi solo in Maced. AP V 245, 8: eujlevktrou Kuvprido~). Immediatamente a seguire, dopo la maestosa celebrazione di Afrodite, per intensificare l’idea di un’influenza senza frontiere Sofocle nomina le tre divinità preposte al governo dell’universo (già in Il. 15, 189-193): Zeus, Poseidone signore delle acque e Ade, che regna sul mondo dei morti. I modelli sono qui offerti per analogia, e la focalizzazione al centro, al punto principale della costruzione a Priamel (la sequenza di elementi disposti paratatticamente e con enfatizzazione dell’ultimo caso della serie)19 avviene con un movimento che dal contesto generale conduce a episodi particolari, esempi di una più vasta verità: quella, appunto, del potere della dea. Ma ancora la sequenza esplicativa si colora di una maggiore complessità, venendo offerta da una serie di casi di cui il coro dichiara di non voler parlare. Gli esempi trovano conforto dal posizionamento dell’elemento da mettere in risalto (la forza di Afrodite) in prima sede di canto, oltre che sulla sommità di una graduatoria esplicitata dalle parole stesse: Afrodite nella gerarchia delle forze «vince» sempre e su tutto. Al motivo tipico della uJperochv (RACE 1982a, 20), di una preminenza utile a marcare la forza della generalizzazione, viene associato l’innesto, sulla Priamel, della praeteritio applicata alla lista di esempi. Se infatti l’affermazione generale (mevga ti ktl) è posta all’inizio, in una sede di risalto, gli episodi che seguono, legati da una forte analogia esibita dall’affermazione stessa – che li riassume e li congloba come proprio 18 Per l’unicità del potere di un dio come «traditional element of Greek prayers and hymns» si rinvia a BARRETT 1964, 395 (ad Eur. Hipp. 1280-1282). Ulteriore esempio di inno ad Afrodite è Aesch. Supp. 1034-1042, dove ne viene ribadita la forza (1035): duvnatai ga;r Dio;~ a[gcista su;n ÓHra/ (sui tratti innodici del canto cfr. DORSCH 1983, 21-29: «mit dem nächsten Vers beginnt der Dienerinnenchor die hymnische Aretalogie: Die duvnami~ der Aphrodite in Verbindung mit Hera, der Schützerin der Ehe, ist fast so groß wie die des Zeus» – 23 e n. 60, con rinvio ai passi qui sopra presi in esame –; anche in Supplici, come nel nostro stasimo, «die ganze hymnische Preisung kommt ohne einen direkten Anruf an die Göttin aus»: p. 25). 19 Si segnala la già ricordata Priamel di Pind. O. 1, 1-7, su cui BURZACCHINI 2005, 332 e GERBER 1982, 3-7, con esempi (altri casi di Priamel pindarica in posizione incipitaria sono O. 11, 1-6; N. 3, 6-8; fr. 106 Sn.-M.). Bundy riconosceva nella Priamel «perhaps the most important structural principle known to choral poetry, in particular to those forms devoted to praise», riportando l’esempio canonico di Sapph. fr. 16 V. («la cosa più bella…»: BUNDY 1962, 5). Su Saffo, per contrasto rispetto alla Priamel dello stasimo, dove la preferenza del coro per l’episodio narrato viene messa in luce senza riferimento al giudizio espresso da altri e attraverso una semplice selezione della casistica disponibile – come in Soph. Ant. 332-341, il polla; ta; deinav – cfr. almeno RACE 1992, 16: «Sappho sets forth a proposition and attempts to prove it, first by an appeal per exemplum to the authority of tradition, and then by adducing her own experience» (con l’analisi della struttura in BIERL 2003, 124; per la nota Priamel asindetica di Eur. Ba. 902-911 cfr. DODDS 1960, 190).

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sfondo20 – sono dati per via di negazione. Gli esempi mitici non sono sviluppati (parevban e ouj levgw, vv. 499-500), al contrario il coro rinuncia a darne conto offrendo l’impressione di voler escludere alcuni soggetti dal suo canto, ma di fatto la praeteritio mira alla visualizzazione del ‘centro’ del racconto sfruttando la ritrosia ellittica in funzione amplificante21. Un caso di praeteritio è già in Il. 2, 488-493, all’inizio del catalogo, con la selettiva menzione dei soli capi delle navi, simile a Od. 11, 328 e ai più complessi Od. 4, 240-242 (Elena sceglie nel suo racconto solo alcune tra le imprese di Odisseo): pavnta me;n oujk a]n ejgw; muqhvsomai oujdÆ ojnomhvnw, | … ajllÆ oi|on tovdÆ… ~ Od. 11, 517-519 (Odisseo all’Ade narra ad Achille delle imprese di Neottolemo). Varrà la pena di ricordare che essa può trasformarsi in un vero e proprio rifiuto, come all’inizio del partenio di Alcmane, PMGF 1, dove si viene a costituire una struttura anulare: oujk ejgw;]n Luvkaison ejn kamou'sin ajlevgw, «non sarò io ad includere Licéso tra i battuti», v. 2, e ai vv. 12-13 tw;~ ¼ parhvsome~, «i migliori | ometteremo»; tale uso «gives ajrivstw~ | » the narrator a role like a poet’s: it draws attention to the organization as resulting from the narrator’s will»22. Nella praeteritio di fatto il parlante – qui il coro sofocleo – si propone come un ‘compositore’ che seleziona il proprio materiale, anche se nel nostro caso potremmo forse meglio parlare – più che di esclusione – di premessa che introduce il paradigma mitico ‘interno’. Il mito di Acheloo ed Eracle costituisce infatti esso stesso un presupposto dell’azione drammatica delle Trachinie. Ancora, la recusatio ritorna nel cuore dell’encomio a Policrate di Ibico23 (PMGF S151, 10-12): nu']n dev moi ou[te xeinapavtan P[avri]n | ..] ejpiquvmion ou[te taniv[sf]ur[on | uJm]nh'n Kassavndran, «né Paride traditore degli ospiti | desidero cantare e nemmeno Cassandra | dalle lunghe caviglie» (trad. – qui come per Alcmane – di C. Neri). Si aggiunga però l’impressione che Sofocle capovolga in un certo senso la formula ibicea: «il rifiuto di Ibico sembra inserirsi nella normativa arcaica del genere poetico, dal quale Senofane [Xenoph. fr. B 1, 21-23 W.2] e Anacreonte [fr. 56 Gentili = eleg. 2 W.2], in elegie di carattere programmatico, escludono qualsiasi racconto di guerre, tumulti e violente contese»24. Viceversa Sofocle non canta gli inganni d’amore e le storie degli dei che ne subirono gli esiti, i.e. non canta temi da simposio, bellezza ed eros; essi, solo accennati di scorcio e non svolti, lasciano spazio a un episodio sospeso tra agone e scontro armato. Pur mettendo al centro del canto Afrodite, il tragico in maniera attenuata 20

Illuminanti le considerazioni di GENTILI 2006, 76-80 (ma già 1984): «l’episodio mitico diviene l’esemplificazione di una norma, di un aforisma o di un aforistico preambolo (Priamel) oppure la vicenda esemplare di un’azione lodevole o nefasta in rapporto all’occasione e alla situazione del canto» (si cita da p. 76). 21 Per il coro tragico implicato in prima persona in sezioni narrative cfr. KAIMIO 1970, 82-91: «all the tragedians employ without exception the first person singular when referring to the chorus as the narrator» (p. 82): il nostro caso è brevemente analizzato a p. 87. 22 HUTCHINSON 2001, 82; per la struttura anulare cfr. CALAME 1983a, 317. 23 Si rinvia, per una sintetica e non senza polemica trattazione dell’uso, a PAVESE 1992, 13-14 e in part. 21-25. 24 GENTILI 2006, 204 (già 1984).

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dalla contiguità del soggetto – l’aretalogia della dea – rovescia così un tipico andamento della forma della recusatio lirica, che a favore di più lievi intrattenimenti di carattere conviviale e amoroso rifiuta la celebrazione dei temi guerreschi, eletti viceversa nello stasimo ad argomento di canto25. Il primo nome evocato nella lista degli esclusi è quello di Zeus: è evidente che per giustificare Eracle si può fare appello ai mille tradimenti di suo padre, la cui volubilità amorosa è tema sviluppato insistentemente nella tradizione letteraria26. Cercando di isolare il valore rappresentativo di questo primo termine di confronto, Sofocle introduce gli aggettivi in maniera graduale: Zeus è infatti nominato senza epiteto, Ade è chiamato «il tenebroso» (schol. ad 501 [p. 138 Xenis]: to;n ejn skovtw/ diatrivbonta, e cfr. OC 1558: ejnnucivwn a[nax) mentre Poseidone ha diritto a due termini, tinavktora gaiva~. Ricorre inoltre qui, ben inserendosi nella sequenza di kat’enoplion-epitriti, «the regular Homeric form» Poseidavwna (JEBB 1892, 77: più genericamente «epic» per DAVIES 1991, 140), caso unico (e sintomatico residuo epico) in lyricis tragici. Dal canto loro, in una sorta di innere Responsion, i nomi di Cipride, Zeus e Ade si collocano dopo una sequenza di analoga lunghezza: in coincidenza dell’inizio del terzo piede anapestico di v. 497 e v. 500 il primo e il secondo – Kuvpri~ e Kronivdan –, in coincidenza del terzo dattilo di v. 501 il terzo, ÓAidan, con evidente omoteleuto per gli ultimi due. E ancora, intrecciando le figure di suono, l’aggettivo tinavktwr (alla sua prima occorrenza)27 apre una ricorsività frequente nel breve giro di versi della strofe: tin-avktora, a[koi-tin (~ ajko-ivtan, 525), tivn-e~, con rovesciamento in pagkov-nit-a, e ripreso nell’antistrofe, non casualmente, da pal-ivnt-ona e dal participio tin-avsswn al respondens 512. Su quest’ultimo avremo modo di tornare, poiché esso serve a determinare uno di quei ‘bilanciamenti asimmetrici’, con evidente ripresa ma senza ripetizione isometrica, che compaiono nel carme. Dopo questa sorta di scala ascendente, tutta di materia divina, Sofocle cambia in modo inatteso l’oggetto della narrazione: nel sigillare la lunga pre25 Per l’autoinvito al silenzio, oltre a Pind. fr. 81 Sn.-M., cfr. il caso particolare della praeteritio di Pind. O. 9, 35-41: tacere il racconto e tenere guerre e battaglie lontano dagli dei, su cui GERBER 2002, 39-42. In Sofocle un caso di rifiuto dei temi guerreschi (la battaglia appena trascorsa) a favore di più gioiose danze è nel peana cantato dai vecchi tebani in Ant. 150-154: ejk me;n dh; polevmwn | tw'n nu'n qevsqai lhsmosuvnan: | qew'n de; naou;~ coroi'~ | pannucivoi~ pavnta~ ejpevl- | qwmen, oJ Qhvba~ dÆ ejleliv- | cqwn bavkcio~ a[rcoi, su cui al cap. III, par. 2. 26 Dietro l’impiego del verbo ajpavtasen, oltre al reiterato motivo di Afrodite doloplovko~, è forse un’allusione a Il. 15, 33: mÆ ajpavthsa~, esclama Zeus irritato, dopo essere stato ingannato da Era con l’aiuto di Afrodite; egli giace e dorme con la propria sposa (Il. 14), che nel frattempo porta soccorso ai Danai (cfr. PONTANI 1949, 235; BITTRICH 2005, 38). Il coro sofocleo è un anello di una lunga catena: a Zeus, infatti, adultero per eccellenza, ci si appella come exemplum di prodezze e debolezze amatorie. Con questo argomento Elena giustifica la sua relazione adulterina in Eur. Tr. 948-950 (il tema è in Theogn. 1345-1350, e frequente, come nell’adespoto AP V 100 – vi sono nominati Zeus, Poseidone e Ade, vittime dell’eros). Il grande amore di Ade è Persefone, Poseidone si innamora di Pelope in Pind. O. 1, 25-42 (difficile dire se si tratti di invenzione pindarica: GERBER 1982, 54, e VERDENIUS 1988, 16-17), o di Tiro (titolo di una perduta tragedia di Sofocle: TrGF IV F 648-669), oltre a unirsi con numerose ninfe: egli è fratri par in amore Iovi in Prop. II 26, 46. 27 Ricomparirà tardissimo: Corn. De Natura Deorum 42, 2 e Nonn. D. 21, 100 e 155. Cfr. anche la qalassivan te gh'~ tinavkteiran novson | trivainan, aijcmh;n th;n Poseidw'no~ di Aesch. PV 924-925.

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messa l’impiego enfatico di ajllav introduce e focalizza il mito principale. L’avversativa serve a chiudere retoricamente la figura introdotta con il primo verso e a marcare la climax della Priamel attraverso il cambio di soggetto (si tornerà all’«io» del coro solo al v. 526) e un nuovo andamento sintattico. È come se il cardine della Priamel, costituito dall’asserto iniziale, fosse seguito da una serie di esempi che servono a mettere ulteriormente a fuoco il punto di interesse su cui si orienta e culmina l’attenzione del canto del coro nella chiusa della stanza. Essa viene così ad assumere una forma quasi circolare: punto di interesse della Priamel, sviluppo e costituzione di uno sfondo esemplificativo, e infine messa a fuoco di un nuovo punto di interesse che costituisce, da ultimo, un caso particolare della serie. E tale culmine (la lotta tra Acheloo ed Eracle) viene appunto introdotto dall’avversativa28, che come di consueto conduce dal caso generale (v. 497: ajeiv, equivalente temporale di pa'~) al caso particolare di un hic et nunc certo posto nel passato eppure enfaticamente evidenziato dall’uso del dimostrativo. Il cui ruolo di deittico parrebbe qui puramente ‘mentale’, am Phantasma, funzionale quindi a dirigere l’attenzione (non lo sguardo) dello spettatore su una contingenza determinata e su «questa sposa» all’interno di un più generico récit dedicato ai poteri di Cipride: ejpi; tavndÆ a[rÆ a[koitin (v. 503). Si vedrà come i deittici di v. 523, aJ dÆ, e di v. 527, to; dÆ, possano forse assolvere un compito di più puntuale concretezza scenica (Deianira tornata visibile). Si potrebbe in alternativa postulare che – come in una sorta di cerniera che collega la prima all’ultima sezione del canto: tavndÆ… a[koitin ~ aJ dÆ / to; dÆ – Deianira al 503 sia ancora presente agli occhi del coro e del pubblico dopo aver annunciato la sua uscita di scena (vv. 492-493) e torni ad esserlo, appunto, al 52329. In verità l’avversativo ajllav è anche già fuori dalla Priamel, e assume funzione diversa grazie al riuso di una domanda di matrice epica. Se infatti dal punto di vista della strutturazione consueta l’interrogativa è assimilabile30 a sezioni liriche come Aesch. Ag. 1008-1021 e Choe. 585-598, non bisognerà trascurare che qui non si tratta di una domanda retorica, bensì della maniera per introdurre l’ascoltatore all’identificazione non già di personaggi indefiniti (come Ag. 1018-1020 ~ Choe. 594-595: to; dÆ... tiv~..É ~ ajllÆ... tiv~..É = «chi mai..?» = 28

Cfr. RACE 1982a, 14, con la n. 39: «ajllav is very commonly used to mark the preceding material (often introduced with ouj) as foil, and to introduce the climax. Cf. Bundy (1962) 22 n. 50 and 36 n. 3. ajllav clearly exhibits the ‘cardinal’ function of both dismissing previous material and emphasizing the coming climax»; cfr. anche p. 91. Per l’uso di a[ra nelle interrogative cfr. DENNISTON 1954, 39-40: il nostro sarebbe l’unico caso registrato in cui la particella precede l’interrogativo, ma si veda per l’uso anche il modello omerico citato poco sotto (Il. 1, 8-9); la singolare posizione di a[ra potrebbe contribuire all’enfatizzazione della domanda (ipotesi già in PENNESI 1988, 79), mentre secondo DAVIES 1991, 140, essa apparterrebbe alla categoria che lo stesso DENNISTON 1954, 33, «defines as “primary use, expressing a lively feeling of interest”». 29 A favore della probabile uscita al v. 496 di Deianira, di Lica e anche del nunzio, è TAPLIN 1977, 91: sull’incerto valore dei deittici in tragedia cfr. almeno ibid., 149-152, con D’ALESSIO 2007, 96-105; sulle complesse implicazioni delle Poetics of Deixis nei lirici si rinvia ai saggi raccolti in FELSON 2004. 30 Dietro RACE 1982a, 87, n. 129, e 90-91.

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oujdeiv~)31 ma di figure reali che vengono riconosciute e nominate nei versi immediatamente successivi (ajllÆ... tivne~..É). L’unico caso tragico accostabile al nostro, con la risposta a una richiesta di identificazione collocata all’inizio della strofe seguente, è Aesch. Supp. 571-575: kai; tovte dh; tiv~ h\n..É = una divinità da individuarsi in Zeus32. Riuso di una formula di tradizione rapsodica, già omerica (Il. 1, 8-9: tiv~ tÆ a[r sfwe qew'n e[ridi xunevhke mavcesqaiÉ | Lhtou'~ kai; Dio;~ uiJov~), il nesso diviene un procedimento tipico negli epinici. Isolando come solo esempio il passaggio cui di norma i commenti ai versi sofoclei rinviano, si dovrà almeno ricordare Pind. P. 4, 70-71 (inizio del viaggio argonautico)33: tiv~ ga;r ajrca; devxato nautiliva~, tiv~ de; kivnduno~ krateroi'~ ajdavmanto~ dh'sen a{loi~É

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Ciò che qui interessa è soprattutto la funzione programmatica di queste domande: in entrambi i casi (già nei primi versi dell’Iliade, come nella Pitica – e nello stasimo) esse servono a stabilire il punto di partenza del racconto e a catturare l’attenzione del pubblico: «chi? Quando? Che cosa è successo?». 3. Epinicio ed epos Verosimilmente in maniera premeditata Sofocle mantiene incerto il senso dell’aggettivo ajmfivguoi al v. 504, ulteriore omaggio all’epos omerico, dove, come attributo di armi (spada o lancia), vale ‘a doppio taglio’, o ‘appuntito’, o ancora ‘che curva su ambo i lati’. Si è anche ipotizzato che eroe e fiume siano descritti semplicemente come antagonisti (uno dei significati proposti dallo schol. ad 504 [p. 138 Xenis]: ajntivpaloi), o come ambidestri, con una lancia in ogni mano34. Acheloo è del resto spesso rappresentato con braccia d’uomo (non si dimentichi però che nel nostro caso il dio assume figura di toro, a quattro zampe)35 e sono nominate poco sotto le armi di Eracle (una 31

Con GARVIE 1986, 206-207, e RACE 1982a, 89-90. Su cui FRIIS JOHANSEN – WHITTLE 1980, II, 456-459. 33 Con BRASWELL 1988, 161; cfr. l’apertura di Pind. O. 2: «inni sovrani della lira, | quale dio quale eroe quale uomo canteremo?» (trad. di F. Ferrari) su cui RACE 1992, 25, e da associare a Pind. fr. 29 Sn.-M.; ancora: O. 10, 60-63: «chi si prese la corona…?», con (ma senza immediata risposta e conseguente sviluppo narrativo) O. 13, 18-22, I. 5, 39-42, e la lunga serie di interrogative di I. 7, 1-15; cfr. anche la formula epica che introduce la lista degli uccisi, espressa dall’interrogativa: Il. 5, 703; 11, 299; 16, 692 (già KRANZ 1933, 155-156). 34 Così PENNESI 1994, 96 (alla quale si rinvia per un esaustivo trattamento della questione) che ritiene l’ambiguo aggettivo una variatio dell’omerico peridevxio~ di Il. 21, 163 (vi è descritta la lotta tra Achille e Asteropeo, di stirpe fluviale; al v. 162 egli viene rappresentato armato con un’asta per parte, douvrasin ajmfiv~, e al v. 194 viene nominato lo stesso Acheloo). L’ipotesi che lo scontro tra un umano e un corso d’acqua descritto dallo stasimo sia modellato su Il. 21, 139-202 è già in JEBB 1892, 78-79, seguito da LONG 1968, 101, n. 134: dopo Asteropeo, Achille combatte con lo Scamandro, che al v. 237 è «mugghiante come un toro»). Si rinvia all’appendice, par. 2. 35 Cfr. già il v. 11: ejnargh;~ tau'ro~. Per una rassegna delle rappresentazioni del dio-fiume, 32

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per ogni mano, come di consueto per eroi che giungono ‘da fuori’: il Giasone di Pind. P. 4, 79 e il Teseo di Bacch. 18, 49 M., o pronti a combattere, come e.g. Sarpedone in Il. 12, 298 e Asteropeo in Il. 21, 145). La trama fonica sembra non meno importante di quella argomentativa: Sofocle non rinuncia all’impiego del gioco paronomastico nei due composti accostati al v. 505 (entrambi hapax): pavmplhkta (il cui senso letterale è ‘dai molti colpi’: cfr. schol. ad 506 [p. 139 Xenis]: plhgw'n mestav) e pagkovnita («con molta polvere»)36, per dare segno del fatto che i due si oppongono in una lotta ad armi pari, dato che una sine pulvere palma – Hor. Ep. I 1, 51 – è una vittoria ottenuta senza difficoltà (cfr. il greco ajkonitiv). Immediatamente dopo viene a instaurarsi un’ulteriore liaison interna tra la forma (singolare) parevban e katevban (plurale), dove l’eco non viene impedita dalla distanza del senso, costituendo l’epico katevban anche il primo vocabolo ‘tecnico’ che fa scorrere il canto verso un tono da epinicio37. katabaivnw designa il movimento ‘verso il basso’, al luogo della pubblica gara38, sarà variato da i[san ej~ mevson di v. 514 e prepara la scena dello scontro (pro; gavmwn a sua volta anticipa iJevmenoi lecevwn). Del resto la stessa sequenza a[eqlÆ ajgwvnwn, fortemente connotata dal punto di vista del lessico, rimanda fuori di dubbio all’universo dei canti di vittoria e di scontri da non intendersi come combattimenti guerreschi ma come gare agonistiche, appunto, con premio in palio e arbitro, e si rivela al contempo come traccia di una memoria epica. Il nesso tra ‘premio’ e ‘gara’ è infatti consueto e già omerico: si vedano ad esempio Il. 23, 258-259 – ajgwvn è qui il luogo designato per la gara – e Il. 23, 273, dove gli a[eqla... ejn ajgw'ni indicano i premi per i giochi in onore di Patroclo (con 23, 507, mevsw/ ejn ajgw'ni). Per i giochi in onore di Achille, in Od. 24, 85-86, Teti stessa non necessariamente in forma di toro – cfr. ISLER 1970, 123-191 (con tavole; ulteriore bibliografia in D’ALESSIO 2004, 27, n. 33): «Stierkampfdarstellungen des Herakles finden sich erst in der zweiten Hälfte des sechsten Jahrhunderts, Achelooskampfbilder jedoch mindestens schon seit dem Jahrhundertbeginn» (ISLER 1970, 12). Per il rapporto tra la scena dello stasimo e un cratere agrigentino conservato al Louvre (= LIMC I, 1, 25 e I, 2, 46, nr. 218, della metà del V sec. a.C.) e l’identificazione della figura ammantata ivi presente con l’Afrodite del coro sofocleo cfr. PENNESI 2001. DAVIES 2004, 253 (con paralleli) vede nella lotta tra i due «yet another version of Heracles’ conquest of Death (or a death-demon)». Per lo scontro descritto in Philostr.Jun. Im. 4 (pp. 11-13 Schenkl – Reisch) cfr. SOCCAL 2004. 36 «Abbiamo qui due hapax, in cui il pan- ha eminentemente funzione intensiva (probabilmente, il primo composto allude al pugilato, il secondo alla lotta)»: LONGO 1968, 190. Per analoghe costruzioni aggettivali con prefisso pan-, con solo riferimento alle Trachinie, cfr. v. 50 e in particolare la sequenza ‘intensiva’ dei vv. 652, 660, 661. 37 Per forme simili di terza persona plurale in tragedia cfr. la lista di referenze in SIDERAS 1971, 105-106. 38 Cfr. Pind. P. 11, 49: Puqoi' te gumno;n ejpi; stavdion katabavnte~, con il comm. ad l. di P. Angeli Bernardini in GENTILI 1995, 662-663: «katabaivnw in senso proprio con il valore di ‘scendere in gara’ ricorre in Pae. 6,60; Sofocle, Trach. 504; con lo stesso valore, ma in senso figurato, in Pyth. 8,78 […] e Pae. 2,34» (cfr. LSJ9 884, I, 3: «go down into the scene of contest», con l’aggiunta di Hdt. V 22; Pind. N. 3, 42; Xen. An. IV 8, 27; Plat. Leg. 834c 6 e Isocr. Ep. 4, 11, 2, insieme all’importante Ar. Vesp. 1514, gara di danza nella quale «Filocleone dice che deve ‘scendere’ verso i suoi antagonisti [katabatevon gÆ ejpÆ aujtouv~ moi]: può trattarsi di notazione registico-scenica o di espressione usuale per ‘scendere in gara’»: ROSSI 1978, 1153 e n. 22; STARKIE 1968, 387: «probably eij~ ajgw'na like descendere», con rinvio a Soph. Trach. 504).

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perikallevÆ a[eqla | qh'ke mevsw/ ejn ajgw'ni: in Omero – ma non solo – come anche nel nostro stasimo la gara sta ‘nel mezzo’, al centro. L’espressione che chiude la strofe e fa come da titolo alla sezione seguente somiglia dunque molto a una variante intenzionale dell’uso omerico. Vale a dire che Sofocle muterebbe l’epico a[eqla... ejn ajgw'ni in a[eqlÆ ajgwvnwn, mantenendo l’accezione ambiguamente sospesa tra il valore già arcaico di premi – nella fattispecie la stessa Deianira – posti in un luogo associato a una competizione sportiva (‘luogo di lotta’, ‘arena’) e uno slittamento per estensione al significato di ‘competizione’: i premi dell’arena, e insieme i premi della lotta e la lotta stessa (cfr. il v. 20, detto del medesimo scontro: eij~ ajgw'na... mavch~)39. Tale connessione trova conferma in un massiccio uso pindarico dei due termini in contiguità40: si tratterà di riconoscere dunque negli a[eqla cantati dal coro delle donne di Trachis quei medesimi premi in contesto agonale che nell’incipit dell’Olimpica prima (a[eqla, v. 3)41, dopo la già evocata Priamel dei due versi di apertura, Pindaro intende cantare celebrando i giochi di Olimpia (ÆOlumpiva~ ajgw'na: v. 7) come la gara più eccelsa. L’intonazione da epinicio in Sofocle – operante sia sul piano lessicale che sul piano formale – è confermata peraltro da un accrescimento del procedimento retorico, simile nei due casi (Pindaro e Sofocle) ma arricchito nello stasimo dalla prossimità fra tema di apertura (la potenza di Afrodite, che risulta quindi come causa, giudice, ma infine anche unica vincitrice diremmo ‘morale’ della contesa e la sola laudanda dell’epinicio)42 e l’exemplum contestualizzato che ad esso si associa (lo scontro per amore di Deianira). Nell’apertura di O. 1 Pindaro fissa il primato delle gare olimpiche sugli altri agoni in parallelo – ma con scarto semantico – rispetto al primato dell’acqua sugli altri elementi, mentre nello stasimo l’iniziale primato ‘sportivo’ della potenza di Afrodite che «consegue vittorie» è confermato per analogia nella chiusa della Priamel dal più esemplare e rivelatore dei casi citabili, l’agone mitico tra Eracle e Acheloo. Con il primo verso dell’antistrofe e con la ripetizione (anche in questo caso non isometrica) del termine sqevno~, l’ascoltatore è rinviato all’inizio del canto. Sembra che Sofocle tenda a spostare di poco la ripetizione, sbilanciando la simmetria senza rinunciare al gioco delle Wiederholungsfiguren (in una sorta, forse, di intensificazione prosodica). Evita però almeno qui ciò 39

Per ajgwvn «used as a metaphor for ‘battle’» cfr. la breve nota di REED 1975; lo schol. ad 506 (p. 139 Xenis) chiosa a[eqla con ajgwnivsmata; così BERS 1984, 69: «at 517 the fight begins, hence the accusative here can well indicate a site», e DAVIES 1991, 141: «ajgwvn = ‘contest’ (the usual Pindaric meaning)». Si veda anche H.J. Mette in LfgrE, s.v. ajgwvn, 2: «Versammlungsplatz der Wettkämpfen», con CAMPAGNER 2001, 50, che rinvia a Et. M. s.v. ajgwvn: oJ tovpo~ (Od. 8, 260); to; plh'qo~ tw'n qeatw'n (Il. 24, 1); to; a[qroisma (Il. 20, 33); to; a\qlon (Od. 8, 259); oJ naov~ (Il. 7, 298). 40 Sempre per combattimenti contemplati in gare istituzionalizzate, non scontri militari tout court: I. 5, 7, e[n tÆ ajgwnivoi~ ajevqloisi, con I. 1, 18; I. 9, 8; O. 6, 79; N. 6, 11-13; N. 10, 22-24. Cfr. anche NAGY 1990, 136-137. 41 Sull’ambiguità dell’espressione pindarica («contests» o «prize») cfr. la nota di GERBER 1982, 15: «most members of the audience were probably aware of this ambivalent usage». 42 Non casuale deve dunque essere il ricorso a sqevno~, che è forza fisica, possanza del corpo, tipico per l’epica di contesti militari: si vedano DELG, s.v., e l’appendice.

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che KRANZ 1933, 116, definisce «Symmetrie des Logos», la replica di parole e suoni uguali o simili nella stessa sede, e rinuncia anche a una ricollocazione che reduplichi analoghe strutture sintattiche, pur ribadendo «in un canto i concetti essenziali con il richiamo a una o più parole-chiave, ma per lo più queste non appaiono in responsione nella strofe e antistrofe». Dunque «la ripetizione di parole significative per ribadire il motivo conduttore del coro è un espediente che Sofocle usa, ma senza legarlo necessariamente alla simmetria metrica»43. Si innesta tuttavia nel nostro canto una simmetria che è piuttosto di concetto all’interno di cola rispondenti: la forza che muove Acheloo alla lotta è la forza stessa di Afrodite/Eros, e non a caso Kuvpri~ occupa nella strofe la sede metrica nella quale in antistrofe si riversa, per così dire, la potenza del suo sqevno~ (sqevno~ aJ Kuvpri~ ~ potamou' sqevno~) in modo che il tema della potenza della dea venga condotto dal generale all’occasione particolare di una delle sue manifestazioni. Allo stesso modo Poseidone che scuote la terra (tinavktora gaiva~) anticipa la figura di un Eracle che più modestamente «scuote» le sue armi (tinavsswn). Ma c’è qualcosa di più: accanto agli elementi pindarici (l’incipit solenne, anzitutto) abbiamo già segnalato la presenza di una tonalità epica, che viene appunto ribadita dall’espressione potamou' sqevno~44 al v. 507; da un lato, come detto, rinvia alla strofe e alla forza di Cipride, ma soprattutto riproduce il nesso di Il. 18, 607: ejn dÆ ejtivqei potamoi'o mevga sqevno~ ÆWkeanoi'o (vi si torna nell’appendice). Andrà qui notato, per inciso, che il tetraovrou di v. 507, indicante la figura del fiume trasformato in toro quadrupede45, ‘contiene’ (anche grazie al cercato preziosismo stilistico reso più agevole dal consueto ricorso al vocalismo -a) il sostantivo che lo specifica: a essere a quattro zampe, nella co-

43 Cfr. in Trach. 94 aijovla nuvx (primo verso di strofe), che ricompare leggermente ‘spostato’ ai vv. 132-133 – primo e secondo verso dell’epodo –, mentre kateunavzei al v. 95 è ripreso da eujnavzei di v. 106. Si cita da BORNMANN 1993, 566-568, con altri esempi («nei casi in cui il parallelismo metrico coincide con quello verbale, si tratta per lo più della coincidenza di una sola parola o di un nesso breve, tuttavia rilevante per il senso. Le coincidenze e ripetizioni più estese sembrano legate a momenti di particolare coloritura religiosa»). Per Trach. cfr. anche i vv. 842 ~ 849-850 ~ 893-895: megavlan… dovmoi~ blavban ~ dolivan | kai; megavlan a[tan ~ megavlan… dovmoisi toi'sdÆ ÆErinuvn e i vv. 947-948 ~ 950-951: povtera provteron ejpistevnwÉ | povtera tevlea peraitevrw ~ tavde me;n e[comen oJra'n dovmoi~, | tavde de; mevnomen ejpÆ ejlpivsin, con KRANZ 1933, 189; casi di iterazioni isometriche sono raccolti in BARRETT 1964, 323, e BOND 1981, 265-266: diversamente da Sofocle, «Euripides tends to repeat a word (sometimes with a small change) at the same place in strophe and antistrophe». 44 Si tratta di uno dei casi frequenti di sostantivi risolti nella somma di due nomi: v. 506: a[eqlÆ ajgwvnwn; v. 508: favsma tauvrou; v. 527: o[mma nuvmfa~, su cui cfr. anche più sotto; si tratta, secondo LONG 1968, 102, di perifrasi «very close to the Homeric type», utili a isolare e sottolineare «a physical property». Altri esempi sofoclei di Genitive of definition sono raccolti in MOORHOUSE 1982, 53-54. 45 Così lo schol. ad 508 (p. 140 Xenis): tetraskelou'~. Il termine, indicante normalmente cavalli aggiogati nel tiro a quattro, è già in Od. 13, 81 («di cui il nostro luogo potrebbe essere reminiscenza»: così LONGO 1968, 191), e in Pind. P. 10, 65; N. 7, 93: cfr. la nota seguente. Dal canto suo uJyivkerw, già in Od. 10, 158, poi in Bacch. 16, 22 M. e Pind. fr. 325, 1 Sn.-M., aumenta l’impressione di maestosità.

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struzione del gioco paronomastico, è infatti il favsma tauvrou46. C’è inoltre da considerare la maniera enfatica con la quale la possanza dell’andatura del fiume-toro viene rimarcata, come di solito per divinità in movimento47. Nonostante tali rinvii a una dimensione mitica e favolistica che lascia corso anche alla rappresentazione del mostruoso, con le indicazioni di provenienza e la presentazione dei due avversari48 Sofocle mira a ricreare una volta di più – giustificando il lessico impiegato nella chiusa della strofe – l’atmosfera di una pubblica gara. Ne siano esempio, in parallelo, l’enumerazione degli atleti presentati alla corsa dei carri in Soph. El. 693-708 e l’annuncio del vincitore da parte dell’araldo in Pind. P. 1, 30-33 (Pindaro conferma anche altrove il valore essenziale assunto dal luogo di provenienza del vincitore, sia nell’annuncio del buon risultato ai giochi sia nella conseguente celebrazione poetica)49. Inseriti in una struttura chiastica sono i nomi dei due ‘atleti’, quasi che l’antagonismo dei protagonisti si rispecchiasse nell’andamento sintattico: oJ me;n [a] ÆAcelw/'o~ [b] ajpÆ Oijniada'n [c] vs. oJ de; [a] Bakciva~ a[po Qhvba~ [c] pai'~ Diov~ [b]50. Il nome del primo atleta Acheloo, in posizione di rilievo, apre il v. 510, mentre la genealogia divina del suo avversario è introdotta in apertura del v. 513 (pai'~ Diov~). «La posposizione del soggetto della frase» la pone «in pregnante evidenza»51, nonostante si mantenga intatta la struttura simmetrica delle opposizioni («l’uno, oJ me;n [a]…, l’altro, oJ de; [a]…») riunificate nell’immediatamente successivo oi} tovtÆ ajollei'~. Bisogna altresì considerare che le qualità sportive, in questa continua sovrapposizione di

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In Euripide frequente è anche la forma attica tevtrwro~, ma una sola volta in lyricis: IA 214. Per l’uso dell’aggettivo cfr. BJÖRCK 1950, 112-114: «‘vierspännig’ heisst tetravoro~, und das a herrscht nicht nur bei Pind., Timotheos und den Tragikern, sondern auch schon in Hom. […] Wechsel-formen dazu sind die prosodisch identischen tevtrwro~ und tevqrippo~, von welchen das letztere prosaicher und zugleich expliziter ist» (114); in tragedia compare, oltre che nel nostro passo (dove, caso unico, significa «four-legged»: DAVIES 1991, 142), in Eur. Supp. 667, 675 e Hel. 723. 47 Cfr. Soph. Ant. 1142, dove ci si augura che Dioniso possa molei'n kaqarsivw/ podiv (vi dovremmo forse vedere uno specifico riferimento alla danza, con HENRICHS 1994-1995, 103, n. 90: «the cathartic power is not a function of the divine foot per se, but an effect produced by the dancing associated with Dionysos and with the Dionysiac chorus»). Si veda anche al cap. IV, p. 148, n. 36. Cfr. BROWN 1982, 306, n. 7: «emphasis on the foot or footwear of a divinity is a persistent feature of epiphanies: cf. Hymn.Hom.Dem. 188-89 […]; Ar. Ran. 330-31 […]; also pertinent […] Aesch. Pers. 659-60»: altri esempi, oltre il V sec., in FRAENKEL 1993, 282, n. 191. 48 «Each of the competitors for a prize must have a city»: CAMPBELL 1881, 291. 49 Su cui HAMILTON 1974, 15 e 22, n. 16. 50 Cfr. BURTON 1980, 55. KAMERBEEK 1959, 121, riconosce qui il chiasmo, ma non con questi medesimi elementi; VAN DER VALK 1967, 118, individua – oltre a un «chiasme compliqué» – un griphos nell’assonanza tra il nome della città di Eniade e oinos, rimarcato immediatamente dopo dall’aggettivo ‘bacchico’ a designare Tebe: non si dovrebbe trattare, a nostro avviso, più che di un gioco di parole (KAMERBEEK 1959, 120, a proposito di Eniade nota invece che «probably there existed some relation between this name and that of D.’s father», vale a dire Eneo). 51 Come in Pind. P. 12, 17: uiJo;~ Danava~ a inizio di strofe, e come in particolare – molto vicino al nostro – I. 4, 53-55: Qhba' n a[po Kadmeia'n… h\lqÆ ajnhvr… uiJo;~ ÆAlkmhvna~, con uiJo;~ ÆAlkmhvna~ isolato a inizio di strofe (si cita dalla nota di P. Angeli Bernardini in GENTILI 1995, 678, che raccoglie le ricorrenze: cfr. almeno anche O. 10, 34 e I. 6, 35; analogamente in rilievo Eur. Hipp. 534: ÒErw~ oJ Dio;~ pai'~, in fine di strofa).

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epos e toni da epinicio52, sono combinate alle qualità guerresche: il v. 512 rappresenta anche una sintetica lista, sia pure incompleta, delle armi tradizionali di Eracle, a metà strada tra l’equipaggiamento dell’arciere53 e quello dell’oplita: arco, lancia, clava. L’esplicita epicità del breve tratto di canto concernente l’eroe è verificabile da un semplice raffronto intertestuale54. Al di là, infatti, della difficoltà di individuare l’effettivo valore dell’aggettivo, si dovrà considerare che alla sua presunta oggettività e specificità tecnica, viene ad accostarsi a palivntona la sua funzione puramente esornativa, quale epiteto quasi forzatamente costretto, data la lezione omerica, ad accompagnarsi all’arco55 (ben attestata anche la variante al singolare). Di maggior rilievo è l’inequivocabile conferma della coloritura epica: l’esempio omerico di Il. 8, 266 fornisce a Sofocle un modello sfruttabile, anche in virtù del fatto che l’esametro si colloca all’interno di una sequenza di nomi di eroi chiamati allo scontro, sequenza nella quale Teucro viene come nono (e ultimo) di una serie. Il testo sofocleo, forse non per un caso in perfetta simmetria con il passo omerico, gioca ulteriormente su due livelli: la scomposizione di tre segmenti dell’esametro e la loro non scoperta ricollocazione in lyricis da un lato, e dall’altro l’inserimento – per il quarto e ultimo elemento lessicale – dell’assonante tinavsswn che recupera variandolo il titaivnwn omerico. Il primo elemento di ripresa si colloca a inizio del colon e il quarto a chiusura di quello successivo: Trach. 510-512: Hom. Il. 8, 266:

oJ de;… Teu'kro~ dÆ ei[nato~

h\lqe palivntona… h\lqe palivntona

tovxa… tovxa

tinavsswn titaivnwn

Lo iato tra v. 510 e v. 511 (presente anche nei vv. della strofe: 500-501) marca l’autonomia dell’espressione di v. 511, anche in virtù del ricorso all’anastrofe della particella con l’aggettivo in Bakciva" a[po che chiude e separa il v. 510 e nel contempo prepara il doppio iperbato: del ‘lontano’ Qhv b a~ , anzitutto. Conseguentemente (secondo iperbato) la sequenza omerica aggettivo-sostantivo viene a sua volta spezzata dall’inserzione, in luogo del sostantivo prevedibile dopo palivntona, del nome di città (Qhv b a~ ), rendendo quasi inevitabile l’attesa del ricomporsi del sintagma all’inizio del 52

«Epische Züge gehen also einher mit epinikischen Anklängen»: BITTRICH 2005, 39. L’uso dell’arco, l’arma più vile perché evita il corpo a corpo, sarà motivo di biasimo, in Eur. HF 160-161, agli occhi di Lico – che ‘corregge’ la panoplia descritta nello stasimo negando che Eracle abbia mai fatto uso di lancia –: Eracle infatti oujdÆ h\lqe lovgch~ ejggu;~ ajlla; tovxÆ e[cwn, | kavkiston o{plon, th/' fugh/' provvceiro~ h\n. 54 Già JEBB 1892, 192-193, cfr. anche la nota di DAVIES 1991, 143, con SIDERAS 1971, 69, che riconosce la iunctura omerica nel nostro passo senza però connetterla a Il. 8, 266 (l’aggettivo si troverebbe sempre «in einem direkt oder indirekt auf Homer anspielenden Wortzusammenhang»). 55 Rari i casi, fino al V secolo, di un diverso accostamento aggettivo-sostantivo: il dubbio Heraclit. 22 B 51 D.-K., dove è v.l. per palivntropo~, detto però dell’armonia «come di arco [tovxou] e di lira» (cfr. KIRK 1954, 213-214, oltre a DIANO – SERRA 1980, 136-137); Ar. Av. 1738-1739 (hJniva~ | hu[qune palintovnou~), e forse l’incertissimo Aesch. Choe. 162: palivntonÆ ejn e[rgw/ bevlh pipavllwn, con GARVIE 1986, 85. Per palivntona… tovxa cfr. – oltre a Il. 8, 266 di cui sotto – Il. 10, 459; H. Hom. Dian. 27, 16; Hdt. VII 69, 1. 53

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colon seguente (paliv n tona... | tovx a ) e mantenendo comunque intatta la ripresa dell’esametro omerico a partire dalla lunga del terzo metron, a costituire l’ossatura dello hemiepes femminile di v. 51156. L’operazione è resa più semplice dalla perfetta corrispondenza, nell’esametro iliadico, tra sillabe in tempo forte e accento di parola: Trach. 511:

h\l qe paliv n tona Qhv b a~ | tov x a

Il. 8, 266:

h\l qe paliv n tona tovx a

       

Qui davvero, per utilizzare un’espressione di Roberto Pretagostini, l’elemento verbale sembra acquistare «maggior forza e addirittura un accrescimento di significato in virtù dell’elemento metrico che l’accompagna»57, grazie alla contaminazione del verso omerico e, come già detto – al fine di creare una responsione verbale ma non metrica tra strofe e antistrofe con tinavktora al v. 502 –, con il ricorso a tinavsswn. Il verbo è noto all’epica ma risulta da Sofocle costretto a un uso zeugmatico (come da più commenti indicato), e in ogni caso sul piano militare affatto inefficace. Un arco va infatti «teso» e non «scosso», a differenza delle lance o di una spada: si veda almeno, per una corrispondenza nell’uso participiale, duvo dou're tinavsswn in Il. 12, 298 – in fine di verso – e Il. 22, 311, tinavsswn favsganon ojxuv (diventerà consueto, per Nonno, utilizzare il verbo come elemento di chiusura dell’esametro: 20 ricorrenze). 4. Indizi di performance Pare dunque evidente che su questo tessuto favoloso, vale a dire la lotta, che ha per arbitro Afrodite, tra un dio-fiume e un eroe, dopo un incipit dai tratti innodici il poeta offra indizi che ci conducono da un lato sul versante dell’epica e dall’altro a forme peculiari degli epinici, ivi compreso il ricorso ai kat’enoplion-epitriti58. Malgrado la singolarità di questi combattenti, il testo in effetti contiene anche un’indicazione del luogo del duello: essi scendono ej~ mevson, «verso il centro»59 (v. 514), mentre, con ricorso al poliptoto, 56

MARCHIORI 1993, 117: «ripresa letterale con separazione degli elementi formulari in sequenza dattilo-epitritica» (segnalata ma non sviluppata da BERGSON 1956, 81), e per altri casi MARCHIORI 1995, 123. Per il valore dello iato, reso più evidente dalla collocazione della preposizione tra aggettivo e nome, cfr. STINTON 1977, 63: data la presenza di «a clear pause before h\ l qe […] the hiatus actually helps us to point the sentence correctly», traducendo «the other, from Bacchic Thebes, came brandishing a bow», e non: «l’altro venne da Tebe ecc.» (ma siamo persuasi dall’idea di una cercata ambiguità dell’intero costrutto). 57 PRETAGOSTINI 1990, 107, ripreso in PRETAGOSTINI 2003, 261. 58 È il metro impiegato ad esempio nella lode di Peleo in forma di epinicio in Eur. Andr. 766801, su cui ALLAN 2000, 217-221 (con SWIFT 2010, 120-121). 59 Cfr. anche DIGGLE 1973, 265: per ej~ mevson detto di combattenti che avanzano per scontrarsi si vedano Il. 23, 814; 6, 120; 20, 159, e per ejn mevsw/ Il. 3, 69 e 90; 17, 375; 18, 264; Eur. Phoe. 1361, e al di là dei problemi testuali Eur. Supp. 699, discusso da Diggle (un uso analogo sarà in Theocr.

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Afrodite stessa – al v. 861 definita pravktwr, artefice della rovina dell’eroe – si colloca ejn mevsw/, «al centro», come magnetica forza di attrazione, nel ruolo di giudice di gara60 (v. 515, Omero direbbe mevsw/ ejn ajgw'ni: Il. 23, 507 e Od. 24, 86; preposto al giudizio in qualità di arbitro è anche un i[stwr a cui si rivolgono i due antagonisti – la folla divisa parteggiante per l’uno o per l’altro – nella scena di contesa giudiziaria rappresentata sullo scudo di Achille in Il. 18, 497-508, mentre i gevronte~ siedono in cerchio con gli scettri in mano ed ejn mevssoisi – v. 507 – giacciono due talenti d’oro, da consegnare a colui che pronuncerà la sentenza più giusta). Si noti, in più, che tale centralità è creata anche da un singolare equilibrio delle due sezioni dello stasimo, situandosi l’espressione ejn mevsw/ a metà esatta del canto dei coreuti. L’analisi ha tenuto fin qui conto di aspetti di ordine formale, ma è forse il momento di provare a ricollocare tali aspetti dentro un contesto performativo. Nella difficoltà di immaginare una combinazione tra danza, testo e canto, a quali ipotesi è possibile sottoporre il passo? Si dovrà anzitutto prendere atto che non ci troviamo di fronte a un caso, pur frequente in tragedia, di autorappresentazione metateatrale. Vale a dire che il coro non descrive se stesso mentre danza, non è qui presente, per utilizzare un’espressione di Albert Henrichs, una «self-reflexivity» dei danzatori sulla propria choreia, quale ad esempio – ed è il caso più antico in tragedia – il canto delle Erinni che danno inizio al loro movimento intorno a Oreste invitandosi reciprocamente alla danza (Aesch. Eum. 307: a[ge dh; kai; coro;n a{ywmen), «l’attestazione tragica più verisimile di una danza a schema circolare»61. 22, 183, combattimento tra Castore e Linceo). Sul senso politico della nozione di centralità si veda DETIENNE 1965, con esempi: «comme l’ajrchv, comme le pouvoir, l’affaire à débattre, la question qui concerne les intérêts du groupe se dépose ‘au milieu’»; «dès l’épopée, l’expression ej~ mevson fait son apparition dans toute une série de contextes: contexte de jeux, de partage du butin [cfr. Il. 23, 704: una donna], d’assemblées, de justice. Ce sont toujours des contextes institutionnels», ma che «renvoient à un même groupe social, le groupe formé par les hommes spécialisés dans la fonction guerrière» (427-428, 429 e 437). 60 L’espressione non ha solo valore locativo, ma si riferisce «to the umpire judging impartially between the two competitors»: EASTERLING 1982, 137 (con bibl. in DAVIES 1991, 144: «the inspiration for Aphrodite in this role is Sophocles’ entirely»); cfr. già schol. ad 515-516 (p. 141 Xenis): movnh de; hJ Kuvpri~ parou'sa ejbravbeuen kai; dievtatten. rJabdou'co~ è definito l’arbitro di un agone retorico in Plat. Prot. 338a 8; è più generico (mazziere, magistrato preposto a sorvegliare il campo di gara) il valore del termine – senz’altro espresso in contesto agonale – in Thuc. V 50, 4: cfr. LSJ9 1563 = GI2 1877. La scena – ricorda JEBB 1892, 80 – «was not always so conceived», e a Olimpia piccole figure in legno di cedro rappresentavano lo scontro tra i due (Paus. VI 19, 12): Zeu;~ de; ejntau'qa kai; hJ Dhiavneira kai; ÆAcelw'/o~ kai; ïHraklh'~ ejstin, ÒArh~ te tw'/ ÆAcelw'/w/ bohqw'n. eiJsthvkei de; kai; ÆAqhna'~ a[galma a{te ou\sa tw/' ïHraklei' suvmmaco~ (con SALADINO 1999, 327: «poiché in queste scene non troviamo di solito Zeus né Ares, è probabile che Pausania abbia frainteso l’immagine di Oineo, padre di Deianira, e di Iolao, aiutante di Eracle», con rinvio a ISLER 1970, 107). 61 Così PICKARD-CAMBRIDGE 1996, 327, n. 42. Cfr. SOMMERSTEIN 1989, 136-137: «chanting in anapaests, the chorus regroup themselves», e «the dance is to be a circular one with joining of hands […]. There is evidence for the occasional use of circular dances both in tragedy (Aesch. fr. 379; Eur. IA 1480-81) and in comedy (Ar. Th. 662, 954, 968)». Per Eum. 370-376, l’autodescrizione delle Erinni, persecutorie e in moto cfr. ibid., 146: «here one may picture the circle of dancers […] closing in on their imaginary victim», e (ai vv. 372-376) «here again the words may indicate the dance-movements» (ulteriori rinvii a una momentanea idea di circolarità, non necessariamente accompagnata da una danza in tondo, in DAVIDSON 1986a, 42; pionieristici nel sostenere una coe-

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Fatti salvi i casi di autoreferenzialità – un coro afferma: «sto danzando/ ho danzato/danzerò», e mette in pratica ciò che dice –, se ogni riferimento alla danza, passata o di là da venire, è percepito in modo identitario rispetto ai concreti e visibili movimenti del coro, possiamo inferirne più estesamente che nel caso dello stasimo sofocleo la rappresentazione, la ‘visualizzazione’ cantata di un movimento descritto dalle parole potesse costituire un’immagine speculare del movimento reale del coro? Qualora – come abbiamo ipotizzato – la parte iniziale del canto alludesse veramente nella composizione e nel lessico a strutture innodiche (sia pure da una misurata distanza), non saremmo comunque in grado di individuarne la natura performativa. A ciò si aggiunga che in linea generale la difficile decrittazione dei movimenti del coro durante gli stasimi (più semplice pensare a movimenti di entrata e di uscita) ha visto alternarsi allo sforzo di definizione e di indagine la constatazione che la povertà degli elementi disponibili costringe pressoché al silenzio62. Le fonti testimoniano uniformemente che il coro drammatico si disponeva in formazione rettangolare, anche se non mancano occasioni e circostanze nelle quali, come visto, esso poteva compiere danze in cerchio63. Ma «sui movimenti e i gesti dei coreuti nel corso della maggior parte del dramma le informazioni dirette sono scarse, se non inesistenti», e «non siamo sfortunatamente in grado di risolvere il problema più interessante, quello dell’azione del coro durante il canto delle strofi e antistrofi dello stasimo». Resta però «altamente verisimile che di norma i coreuti eseguissero movimenti e gesti adatti al contenuto di quanto andavano contemporaneamente cantando, probabilmente non eccessivamente rapidi e violenti», né siamo sicuri «che i movimenti eseguiti dal coro nell’antristrofe ripetessero esattamente quelli della strofe. La musica era probabilmente la stessa, ma le figure di danza eseguite dal coro che cantava avrebbero potuto riferirsi piuttosto alle parole

sistenza di danza circolare e tetragona nella produzione drammatica sono già FERRI 1931 e FERRI 1932-1933 – p. 340 sul passo delle Eumenidi –, sia pure nella genericità di talune affermazioni). Per i casi di autoreferenzialità del coro sofocleo si rinvia al cap. IV, par. 3. 62 Tra i dubbiosi è GARDINER 1987, 7-8: «there is no evidence whatever to confirm the notion that a choral ode was an independent performance, always accompanied by dance». 63 Per la formazione rettangolare cfr. PICKARD-CAMBRIDGE 1996, 326-327 (con le testimonianze: Poll. IV 108, 5-109, 4; Tzetz. Schol. ad Lyc., II, p. 2, 19-20 Scheer; GG I, 3 [p. 18, 8-9 Hilgard]; Et. M., s.v. tragw/diva): essa «comprendeva cinque righe (zugav) e tre file (stoi'coi)», con i movimenti che potevano essere eseguiti con un fronte di tre coreuti o con un fronte di cinque; si vedano anche CALAME 1977, I, 84-87, HENRICHS 1994-1995, 96, n. 38, che per la forma rettangolare (e il rapporto con l’efebia ateniese) rinvia a WINKLER 1990, 42-48, e 50, il quale segue nella sostanza PICKARD-CAMBRIDGE («the usual reconstruction of tragic choral movement imagines that the dancers sometimes occupied the center of the orchestra, sometimes split into two groups, at times facing the actors and at other times facing the audience. The performance of such maneuvers would have exercised the same precision skills that were required for hoplite marching»). In HENRICHS 1994-1995 rimane salda l’ipotesi cultuale che connette rito e danza circolare: «circular dances in tragedy were linked to sacrificial ritual and performed around the orchestral altar», e ancora: «circular dances mentioned self-referentially by comic choruses tend to be connected with the cult of Demeter (Ar. Frogs 445, Thesm. 954-968)»; si veda su danza circolare e performance rituale anche CSAPO 2008, 280-286.

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del canto»64. Tendendo a uno sforzo di visualizzazione, KITTO 1955, 39-40, suppone che la danza sofoclea non dovesse avere natura mimetica, ma si limitasse a suggerire «a mood or an ethos», e che non risultasse ‘pittorico’ un movimento che imitasse l’azione quanto piuttosto «a musical realisation of the rhythm». Più in là, senza purtroppo fornire maggiori dettagli a un’ipotesi comunque suggestiva, si spinge KERNODLE 1957, nell’immaginare che i coreuti eseguissero azioni intere, e che le parole del loro canto in molti casi indicassero che essi stavano compiendo gesti che potevano essere visti (p. 2). Sarebbe il caso di Eur. Hipp. 764-775 che ‘metterebbe in scena’ l’impiccagione di Fedra mimando il momento in cui la donna lega la corda attorno al collo e poi l’oscillazione del corpo dal soffitto, o ancora, nella parodo di Aesch. Ag., ai vv. 228-247 il coro ‘ri-agirebbe’ il sacrificio di Ifigenia, e così via. In generale secondo Kernodle «the chorus enacts some historical or divine story that can make clear the implications of the main action» (p. 6: si veda, contra, TAPLIN 1977, 20, n. 1: al di là dell’attraente supposizione, se accettassimo un’ipotesi totalmente mimetica, al coro verrebbe infatti a mancare la sua identità di ‘gruppo’ e andrebbe inoltre perduta la responsione; e ancora, oltre a risultare annullato il contrasto tra azione e canto – potremmo anche dire la distanza e la separazione dei ruoli tra scena e orchestra – «many allusions are too brief to be danced out, some would be grotesque»). Paiono in ogni caso plausibili le considerazioni di DAVIDSON 1986a, 40: sarebbe irragionevole immaginare che almeno quando in un passaggio esteso in lyricis il coro si riferisce a una danza fuori scena (dunque non un’azione di natura qualsiasi) non palesi agli occhi degli spettatori il movimento da essa descritto. Si potranno citare Eur. IA 1036-1057, le danze di Muse e di Nereidi associate al matrimonio di Peleo e Teti, con Tr. 542-555 (le celebrazioni in Troia quando il cavallo di legno era stato condotto dentro le mura) e Ba. 862-876 (nostalgica rievocazione di una danza estatica), e infine Ion 1074-1086, la descrizione della fiaccolata sacra a Eleusi con la danza degli elementi naturali. Ma se nel nostro stasimo alcuni indizi fanno pensare a un’atmosfera prossima a quella dei canti di vittoria, dovremo forse allargare il ventaglio delle ipotesi relative alle possibili modalità di esecuzione, e a partire da qui tentare una risposta che rimarrà – sia fin da subito chiaro – giocoforza parziale. Nel caso della danza epinicia si potrà ammettere, con cautela, l’idea di una gestualità che imitasse in alcuni suoi tratti il movimento degli atleti65. 64 PICKARD-CAMBRIDGE 1996: si cita dalle pp. 333-334 e 345; ma cfr. DALE 1968, 204-206 e 213-214: «it does not seem to me impossible that different conventions of responsion prevailed in long triadic compositions and the comparatively restricted parallels in drama» (206), e per ciò che concerne la danza «the probability of such general correspondence is very strong», ma talvolta «the requirements of dramatic accompanying action seem to call for some modification of similar movements» (p. 213). 65 Cfr. MULLEN 1982, 58-59: «something like the anapale¯ ought to be kept in mind when one tries to imagine the choreography of an epinician ode. […] If the poet is responsible for the postures of praise of the chorus as well as himself, it follows that he will contrive modes in which they, too, can praise the athlete by imitating him. And what more striking mode then to avail himself of a choreographic convention with which his audience would be familiar, the stylization of athletic

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Nella grande incertezza entro la quale i moderni sono costretti a muoversi, ci potremo dunque limitare a dire che proprio in un genere come l’epinicio gli elementi della coreografia dovevano essere il risultato di una fusione: lungi dal poter immaginare per esso un movimento fisso e definito, la danza di accompagnamento verosimilmente associava forme tra loro autonome e distinte. Ci si potrebbe figurare la coreografia dell’epinicio come occasionalmente allusiva, ad esempio – in concomitanza con l’esecuzione di esercizi di atletica o di schemata come quelli della anapale66 –, a convenzioni riconoscibili quali movimenti di pirrica, la danza armata («elementi della coreografia della pirrica potevano essere presenti in altre forme di danza, senza che per questo esse fossero definite ‘pirriche’»)67. In più, tornando al nostro passo, dovremo tenere conto anche del fatto che ripetendo l’assetto ritmico della strofe, l’antistrofe si apre e continua con prevalenza di anapesti (507-510 ~ 497-500) per poi virare in coincidenza dello iato (presente anche nei vv. della strofe: 500-501) verso i kat’enoplion-epitriti con il v. 511 (~ 501). Data l’evocata presenza di un animale che avanza imponente sulle quattro zampe68, sembra del tutto naturale immaginare su questo impianto ritmico – con la consapevolezza che l’osservazione può essere valida solo per l’antistrofe – un procedere cadenzato di tipo mimetico: forse un movimento in cui i coreuti

positions? […] The poet imitates the athlete by finding athletic words, the chorus by dancing them». Si veda, tra i casi citati da Mullen, per un atteggiamento ‘da atleta’, il coro che «prende fiato» prima di riprendere il racconto in Pind. N. 8, 19: i{stamai dh; possi; kouvfoi~, ajmpnevwn te privn ti favmen. Simili i casi di O. 1, 52 e N. 5, 16: «both aphistamai and stasomai in these two passages stand alone in asyndeton, and both are meant to exhibit the dancers stopping and “standing off” before the words of their dance take them any further into the dark version of the myth they have begun to tell» (MULLEN 1982, 68). Per la metafora marinara di P. 10, 51-52 – fissare l’ancora, come indicazione di stasi nell’epodo –, immagine che poteva essere anticipata dalla danza, cfr. ancora Mullen, 128-129. Il caso di N. 5, 16 è analizzato anche da SEGAL 1974, che tuttavia non rileva implicazioni performative (p. 401): «it is the poet himself, a living man, who must ‘stand’» prima di affrontare «this darker part of the Aeacid past» (associato a O. 1, 52 anche da GERBER 1982, 89). 66 Cfr. la generica definizione di Ath. XIV 631b: «la danza della ginnopedia assomiglia a quella che gli antichi chiamavano anapàle. I ragazzi danzan tutti nudi, eseguendo dei movimenti ritmici e delle figure con le braccia, avanti e indietro: l’effetto è quello di scene di palestra e di incontri di pancrazio, ma con i piedi mossi a tempo di musica» (trad. di L. Citelli). 67 CECCARELLI 1998, 37, n. 46 (e cfr. anche ibid., 221, n. 8), con MULLEN 1982, 64-65; sui rapporti non chiari tra anapale e pirrica cfr. anche WINKLER 1990, 55. 68 Per danze animalesche di tipo mimetico, oltre alla bibliografia raccolta in NAEREBOUT 1997, 141, cfr. PICKARD-CAMBRIDGE 1962, 151-157; LAWLER 1964a, 58-73; PRUDHOMMEAU 1965, 465; con riferimento ai delfini (ma non solo) anche in ambito ditirambico, LONSDALE 1993, 98 (con Pind. fr. 70b, 22-23 Sn.-M., dove il dio è connesso alle danze delle fiere): «choreographic portrayals of animals that, like the dolphin, move in groups may well have been one of the variations undertaken by choruses performing dithyrambs in honor of Dionysus». Ovvio per la commedia il rinvio al coro di Rane e Uccelli (su cui ROTHWELL 2007). Si aggiunga in contesto agonale il nomos Pitico (almeno all’inizio citarodico, poi auletico) nel quale era descritta in cinque parti la lotta di Apollo con il serpente, su cui, per le fonti antiche, cfr. almeno Poll. IV 84; Strab. IX 3, 10; Plut. Mor. 293 C; arg. a alle Pitiche (II, p. 1ss. Drachmann), con LAWLER 1964a, 65; COMOTTI 1991, 19; GENTILI 1995, XIII e n. 4, e P. Angeli Bernardini in GENTILI 1995, 681, con bibliografia: «anche il nomos Pitico, secondo le fonti, aveva un carattere mimetico perché i musici […] riproducevano con lo strumento musicale le varie fasi della lotta di Apollo con il serpente Pitone».

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si piegavano in avanti richiamando la figura sia di un quadrupede che di un corpo che si preparava alla lotta69? Non si può qui dare conto della varietà di testimonianze relative al carattere eminentemente imitativo della danza greca, ma vale la pena di segnalare in termini affatto generali – e purtroppo parziali – alcune possibili linee di tangenza con il nostro contesto. Si consideri anzitutto il valore che può assumere nello stasimo l’applicazione di una gestualità dal tratto ampio quale quella nota sotto il nome di cheironomia, il movimento delle membra durante una danza o esercizi ginnici70; possiamo ipotizzare con un discreto margine di verosimiglianza che il coro (o un numero limitato di coreuti?) gesticolasse imitando i colpi descritti nell’avvio dell’epodo. A tale proposito non molto ci viene chiarito dal ricco materiale – purtroppo spesso non altrimenti verificabile – repertoriato da Ateneo. Siamo tra le altre cose informati del fatto che Eschilo fu il primo a insegnare schvmata ojrchstikav ai cori, eseguendo egli stesso le figure davanti agli aspiranti ballerini71. Alcuni erano particolarmente abili a rendere evidenti azioni drammatiche, come nel caso dell’incerta notizia relativa a Teleste, «così dotato nella propria arte che nel danzare I Sette contro Tebe rese chiara l’azione attraverso la danza». È difficile però che un singolo attore potesse danzare un dramma intero72 riproducendo per via di imitazione e quadro per quadro quanto accadeva sulla scena. Ma già per Aristotele i danzatori «per mezzo di ritmi figurati» imitavano «caratteri, emozioni e azioni», e molti secoli dopo Luciano riferisce di un pantomimo capace di rappresentare senza aulo né canti e con il solo ausilio di danza e mani l’adulterio di Afrodite e Ares, il Sole che li scopre ed Efesto che li prende in trappola73. Anche sulla base di questi pur sparsi e vaghi indizi, rimane dunque aperta l’ipotesi che il contenuto del testo venga qui rappresentato con una danza illustrativa; qualcosa di più marcatamente teatrale rispetto a ciò che dobbiamo immaginare per l’epinicio, con un movimento ‘gestito’ dal testo stesso, tanto che esso sembra – almeno in alcuni punti – contenere anche precise indicazioni di regia coreografica: il fiume è «a quattro zampe», l’eroe scuote 69 Sul tipo penché en avant come posizione utilizzata dai lottatori cfr. PRUDHOMMEAU 1965, I, 43-44, con rinvio alle immagini. 70 CECCARELLI 1998, 13; cfr. e.g. l’uso smodato che di essa fece Ippoclide secondo Hdt. VI 129: Clistene tiranno di Sicione deve scegliere un buon partito per la figlia Agariste fra i pretendenti che scendono a gara ej~ to; mevson, e Ippoclide ubriaco si ‘gioca’ il matrimonio mettendosi a danzare a testa in giù, ‘mostrando con le mani’ (sull’episodio CATONI 2005, 149-152: Ippoclide produsse «un sovvertimento di tipo buffonesco che sfigurava la nobile arte della cheironomia»; essa è associata alla pirrica in Ath. XIV 631c e in Plut. Mor. 747 B). 71 Cfr. Ath. I 21d che riporta Ar. fr. 696, 1 K.-A. (= Aesch. TrGF III T 103); inutile per noi la notizia di una particolare abilità di Sofocle nella danza: Ath. I 20e-f = Soph. TrGF IV T 28 (su cui CATONI 2005, 170). 72 Così PICKARD-CAMBRIDGE 1996, 344, n. 109. La notizia è in Ath. I 22a = Aesch. TrGF III T 81 (trad. di M.L. Gambato). 73 Luc. Salt. 63. Per Aristotele cfr. Po. 1447a 27-28: kai; ga;r ou|toi dia; tw'n schmatizomevnwn rJuqmw'n mimou'ntai kai; h[qh kai; pavqh kai; pravxei~. Cfr. anche Po. 1461b 30-32: auleti scadenti che si muovono esageratamente per mimare un’azione.

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l’arco. Viene naturale pensare, dunque, a una danza in armi, almeno stando all’attrezzeria solo virtualmente messa in campo dalle parole dello stasimo nell’applicazione di una evocativa scenografia verbale (Platone offrirà un secolo più tardi una descrizione della danza guerriera come imitazione di movimenti per evitare l’avversario, o di posture offensive: sferrare colpi, lanciare con l’arco o con il giavellotto)74. Non siamo in grado di dire in maniera inequivocabile quale fosse la formazione nella quale si eseguiva la pirrica, ma almeno ad Atene e in epoca arcaica e classica è possibile che sia stata danzata in una formazione (come per il coro tragico) rettangolare75. È inoltre probabile che «fosse talvolta mimesi di una battaglia reale, eseguita da due semicori affrontati (i pirrichisti raffigurati sulla base di Atarbos sono per esempio divisi in due gruppi di quattro)», e proprio ad Atene, stando alle testimonianze raccolte da Paola Ceccarelli, sembrano essere presenti esempi di «danza di un gruppo contro nemici invisibili; di due gruppi l’uno contro l’altro; di un danzatore contro un nemico invisibile; e di due danzatori l’uno contro l’altro»76. Nonostante questo possibile e comunque parziale imprestito, dobbiamo altresì convintamente ribadire l’impossibilità di individuare una sola e unica danza-modello. In altre parole non si sta affatto sostenendo che la coreografia dello stasimo era una pirrica, nonostante essa potesse essere eseguita anche in teatro come parte di una rappresentazione, dalla commedia alla tragedia ai drammi satireschi, o entrare come ‘porzione’ di esecuzioni corali quale il ditirambo («non vi è alcun testo antico di cui si possa dire con certezza che era eseguito come una pirrica»)77. Le donne di Trachis 74 Plat. Leg. 815a: e[n te tai'~ tw'n tovxwn bolai'~ kai; ajkontivwn kai; pasw'n plhgw'n mimhvmata, su cui MORROW 1960, 360-362; danze spartane apprese fin dalla tenera età «seem to have been a gymnastic presentation, without arms, of the pyrrhic steps. It was held in equal honor at Athens, being an ancient feature of the Panathenaic and Dionysiac festivals»: p. 361, corsivo nostro, con Lys. 21, 4, Is. 5, 36 e Ath. XIV 631a. Sul rapporto tra educazione del guerriero e danza, oltre a WINKLER 1990, cfr. MULLEN 1982, 60-61 (danza come «training for killing»): «it was traditional wisdom that the best dancers made the best fighters», con Ath. XIV 628f – una considerazione attribuita a Socrate –: oi} de; coroi'~ kavllista qeou;~ timw'sin, a[ristoi | ejn polevmoi~. Continua Ateneo: scedo;n ga;r w{sper ejxoplisiva ti~ h\n hJ coreiva, da accostare ad Ar. Vesp. 1060-1061: vecchi un tempo a[lkimoi me;n ejn coroi'~, | a[lkimoi dÆ ejn mavcai~. 75 CECCARELLI 1998, 44. 76 CECCARELLI 1998, 36 e 88; e ancora 34: la base di un bassorilievo ateniese – detto base di Atarbos dal nome del dedicante (datato al 366/5 a.C.) – «di cui ci rimangono due frammenti, porta sul blocco di sinistra un bassorilievo raffigurante una figura avvolta in un lungo mantello e sette coreuti, anch’essi drappeggiati in mantelli […]. Sul blocco seguente sono raffigurati a sinistra una figura avvolta in un lungo mantello (molto probabilmente una donna, da interpretare come una Musa o una personificazione; secondo l’interpretazione tradizionale, il corego o il ‘didaskalos’) e poi otto pirrichisti ripartiti in due serie di quattro» (cfr. IG II2 3025, Ath. Acr. 1338, IV n° 2). Tali considerazioni sono mitigate da giusta cautela (ibid., 24): «se la conoscenza dei singoli movimenti permette di sottolineare ancora una volta il rapporto della pirrica con la guerra, essa non ci dà alcuna indicazione su quella che poteva essere la coreografia, sul modo in cui cori di pirrichisti eseguivano le loro evoluzioni (mimesi di battaglia fra due semicori? esecuzione collettiva? un corego di fronte a un coro unito? successione di esibizioni individuali?)». Per varietà di contesti pubblici e privati in cui la pirrica poteva venire danzata (non facile stabilire quali) cfr. LONSDALE 1993, 145-148; per forme di pirrica improvvisata durante il simposio si vedano i vasi analizzati in VISCONTI 2011. 77 CECCARELLI 1998, 165, n. 1, e per la sua presenza nei generi codificati ibid., 219-220; per il

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mancherebbero anzitutto dell’equipaggiamento, e non si dimentichi che si tratta di un coro di fanciulle – attori maschi – che mima un combattimento tra un dio multiforme e un eroe semidivino. Rimangono però saldi alcuni elementi in comune, sia pure non ulteriormente indagabili: l’uso dell’aulós (utilizzato quasi sempre nelle rappresentazioni di pirrica che ci sono giunte), l’impiego forse di cori contrapposti, la mimica dello scontro armato, l’intersezione con l’universo degli epinici, il ricorso a metri kat’enoplion78. In una danza continuata almeno nella sequenza dell’antistrofe e nella prima sezione dell’epodo dovremo rilevare la presenza di rinvii a degli schemata il cui valore mimico non doveva essere trascurato dai coreuti, ma essere piuttosto reso visibile al pubblico. Potremo forse pensare a una fusione tra emmeleia tragica e altri movimenti di natura mimetica, tenendo conto dell’ulteriore difficoltà di decodifica nascente in questo caso dal fatto che non esiste un elemento interno al canto facente riferimento alla danza. Il coro delle Trachinie darebbe piuttosto una forma scenica, se così si può dire, al contenuto del proprio racconto: sarebbe la danza mimata a commentare le parole, interpretando un’azione, e non le parole a commentare una danza mimata79. Proviamo a fare un ulteriore passo. Nel tentativo di giungere alla decrittazione di un messaggio visivo attraverso il testo è forse maggiormente intuibile (senza poter – né dover pensare di – attribuire un nome allo schema eseguito) che esista in esso una relazione tra i movimenti del coro e le espressioni ej~ mevson e ejn mevsw/, ai vv. 514 e 515. Proprio dietro l’imitazione non necessariamente stretta di più noti movimenti – anche di pirrichisti – Sofocle avrebbe avuto l’opportunità di dividere il coro in due sezioni di 7 elementi possibile legame tra pirrica e secondo stasimo dell’Aiace cfr. il cap. I, par. 2. Riferimenti alla pirrica in tragedia potrebbero essere, oltre a Eur. Andr. 1129-1241 (pirriche ‘ballate’ da Neottolemo presso l’altare di Delfi: cfr. BORTHWICK 1967), la descrizione dei movimenti dei piedi di Atena in Aesch. Eum. 294-295 – su cui BORTHWICK 1969 e SOMMERSTEIN 1989, 134 – e il suo combattimento con il gigante Encelado cui si accenna in Eur. Ion 209-211 (BORTHWICK 1970, 319); si veda anche CECCARELLI 2004, 105-106: vi si discute la possibilità di una relazione tra ditirambo e pirrica (con CECCARELLI 1995, 292-300, e CECCARELLI 1998, 221-224), con rinvio a LUETCKE 1829, 62, che ritiene la pirrica una danza appropriata all’esecuzione ditirambica: «ceterorum autem Graecorum [rispetto ai Lacedemoni], praecipue Atticorum, purrivch non bellica sed bacchica erat […]. Saltatores enim thyrsos pro telis manibus gestantes, et faces in comites jacientes, historias ex Bacchi vita repraesentabant» (traduce di fatto Ath. XIV 631 a-b). 78 Uso dell’aulós: CECCARELLI 1998, 181-182. Per il possibile rapporto tra kat’enoplion e «danzare in armi» cfr. ibid., 174-177, con BORTHWICK 1970, 324, n. 2. 79 Rubo l’espressione, capovolgendola, da ROSSI 1978, 1159; per il nostro stasimo dovremo infatti immaginare, in via ipotetica, una situazione opposta a quella che si doveva presentare al pubblico nel finale delle Vespe, qui movimenti continuati, là «una sorta di frammentazione, che esclude l’esecuzione continuata di una danza particolare», ma in entrambi i casi con una Mischung di movimenti appartenenti a generi differenti: cfr. – in merito all’impossibilità di una classificazione univoca – ROSSI 1978, passim (niente di più scenicamente efficace «che antologizzare schemata singoli, eventualmente di ogni e qualsiasi tipo, esasperandone la scostumatezza e la goffaggine proprio nella forma di ‘belle statuine’ mimate»; per ciò che riguarda il coro si dovrà supporre un’esecuzione di «musica piena più mimo», con il coro che esorta gli attori a passi specifici). Per un’analisi del rapporto tra imitazione verbale e gestuale cfr. la classificazione (rituale/interpretativa/emozionale) proposta da CALAME 2004, 159-160 (con CALAME 1997, 197, e CALAME 2001, 117 e già in nuce in CALAME 1994-1995, 149): ci troveremmo nel nostro stasimo di fronte a un’imitazione di tipo ‘interpretativo’.

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e di lasciare il quindicesimo (il corifeo?) immobile al centro dell’orchestra, con una rhabdos, il bastone, in mano. Mentre le due metà del coro marciavano a passo di danza verso il centro, ej~ mevson, riproducendo l’approcciarsi dei due contendenti, l’ultimo elemento – personificando Afrodite – sarebbe rimasto immobile nel ruolo di ‘giudice’ e di ‘arbitro’. Se viceversa dovessimo pensare a un coro costituito da dodici elementi, nella suddivisione in due potremmo postulare la presenza e conseguentemente una posizione preferenziale, nella perfetta simmetria delle parti, del corodidascalo? Dobbiamo in ogni caso rimanere nel vago, con PICKARD-CAMBRIDGE 1996, 320 (e n. 12), affermando che tale numero «sembra essere stato di dodici per i drammi di Eschilo e di quindici per quelli di Sofocle e di Euripide», e mai verosimilmente inferiore a 12. Ma a che altezza del quinto secolo Sofocle avrebbe portato il coro da 12 a 15? Le testimonianze non ne danno segno: Vita Sophoclis 4 (= TrGF IV T 1, 22-23), Suda s 815 Adler, s.v. Sofoklh'~ (= TrGF IV T 2, 3-5). Nella grande indeterminatezza della cronologia molteplici restano le ipotesi possibili; per il caso di un’iscrizione relativa a una messa in scena euripidea che indicherebbe la presenza di 14 tragoidói (= coreuti con esclusione del corifeo?) cfr. GHIRON-BISTAGNE 1976, 119-121 (cfr. anche WINKLER 1990, 45, n. 72). Confermano il numero di 15 anche Poll. IV 109 e numerosi scoli: si veda almeno schol. Ar. Eq. 589b (p. 148, 13 Mervyn Jones): ma 14 in GG I, 3 (p. 18, 9-10 Hilgard), dovuto forse ad assimilazione al n. di 24 coreuti comici citato di séguito? Davvero troppo generiche e inutilizzabili – anche se confermerebbero l’ipotesi qui proposta – le considerazioni di PRUDHOMMEAU 1965, I, 498-499: «on peut penser que dans certains cas où le texte indique une division en demi-chœurs, il existait deux groupes de sept, le coryphée étant isolé». IRIGOIN 1952, 8, ipotizza che il testo originale usato dal trainer del coro dovesse contenere sia le notazioni musicali sia le istruzioni per il movimento dei danzatori: «des indications sur les mouvements des choreutes étaient probablement portées sur la partition, soit par le poète quand il dirigeait lui-même l’exécution de son œuvre, soit par le chorodidascale», ma siamo nell’ambito della pura speculazione. Posizioni privilegiate in seno al movimento di un coro – non tragico – potevano essere di fatto occupate da tre distinti partecipanti, vale a dire corodidascalo, corifeo, e auleta o citarista/citarodo; si veda, a proposito del valore di ‘centro’, CALAME 1977, I, 78-84 (che però collega centro e circolarità): «le centre du chœur est occupé soit par un objet de culte (autel, statue d’une divinité), soit par la personne qui […] dirige le chœur. Ce trait de ‘centre’ est capital dans la représentation homérique du chœur et de la musique» (79). Demodoco si dispone ej~ mevson in Od. 8, 262-263, mentre «intorno gli stavano i giovani danzatori abilissimi», e cfr. anche il giovane con la cetra al centro delle danze durante la vendemmia in Il. 18, 569, oltre che gli acrobati di Il. 18, 604-605. Per Apollo al centro di cori danzanti cfr. Hes. Sc. 201-203 e Pind. N. 5, 22-25 (suona la lira tra cori di immortali e di Muse). Nel coro ditirambico era probabilmente l’auleta a situarsi al centro: ejn de; toi'~ coroi'~ toi'~ kuklivoi~ mevso~ i{statai aujlhthv~ (schol. Aeschin. 1, 10 [p. 15, 25 Dilts], con PICKARDCAMBRIDGE 1962, 35, IERANÒ 1997, 237-238, e la lista raccolta in STEPHANES 1988, 577583, comprensiva anche degli esempi di kuvklio~ aujlhthv~). Si veda anche, nonostante la recenziorità dell’informazione, Ath. IV 152b (che cita Posidonio), a proposito delle feste dei Celti: kavqhntai me;n ejn kuvkloi~, mevso~ de; oJ kravtisto~ wJ~ a]n korufai'o~ corou', con HERINGTON 1985, 185: «since the formation is circular, Posidonius’s reference is almost certainly to a dithyrambic chorus. This is the only passage I have found that mentions the position taken up by a lyric koryphaios». Difficile condividere l’ipotesi espressa da MULLEN 1982, 36 su Pind. O. 6, 91, che vorrebbe vedere nell’associazione tra Enea, istruttore del coro che rimpiazza Pindaro nell’esecuzione presso Stinfalo, in Arcadia, e la skutavla, il bastone adoperato a Sparta per trasmettere messaggi cifrati (Enea vi è definito skutavla delle Muse chiomate), «an intricate metaphor for an exarcho¯ n standing in the midst of a band of dancers that ‘winds about’ him» (meno improbabile, ancorché indimostrabile,

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l’ipotesi di un Pindaro «in his maturity standing with his lyre in the dancers’ midst or executing restricted movements that play off against their larger whirlings», ibid., 37; sulla questione raccolta di pareri in BONIFAZI 2001, 133ss.).

Su questa medesima linea interpretativa si potrà ancora aggiungere che al v. 513 l’aggettivo ajollei'~ è riferito a due persone, ai due contendenti, ciò che aveva già suscitato la perplessità dello scoliasta (schol. ad 513 [p. 141 Xenis]: katacrhstikw'~ ei\pen ejpi; duvo to; ajollei'~: ejpi; plhvqou~ ga;r levgetai). L’aggettivo ricorre infatti in Omero e nei tragici per designare combattenti di una medesima schiera che avanzano verso la mischia del corpo a corpo, oppure – ciò che fa al caso nostro – gruppi compatti che si muovono insieme (cfr. ad esempio la chiusa del Filottete, 1469), e solo qui resta riferito a due persone80. Quale ulteriore allusione epica rinvigorita dalla presenza dell’omerico i[san, esso aiuterebbe ad aumentare la sensazione della confusione serrata che i due creeranno nella lotta, ma dando forse segno di un’implicita, non dichiarata, autoreferenzialità. Il coro rinvierebbe indirettamente al proprio movimento convergente al centro in due gruppi distinti e compatti: oi} tovtÆ ajollei'~ | i[san ej~ mevson varrebbe «ed essi allora entrambi (= tutti insieme, da parti opposte le due metà del coro) muovevano verso il centro». In realtà non possiamo dire di trovarci di fronte a precise simmetrie lessicali con la strofe, al punto da poter «essere sicuri che le responsioni verbali e semantiche indicassero una corrispondenza dei movimenti dei coreuti, che molto probabilmente erano mimici»81. Di variatio si può forse parlare almeno per i respondentia 503-504 e 513-514 (dove al 514 si noti la collocazione, in chiusa del dimetro anapestico, del motivo-chiave del matrimonio: pro; gavmwn ~ lecevwn): ejpi; tavndÆ a[rÆ a[koitin | ‹tivne"Ì ajmfivguoi katevban pro; gavmwn

~ ajollei'~ | i[san ej~ mevson iJevmenoi lecevwn

con l’immagine ripetuta sia nella strofe che nell’antistrofe dei due fronti contrapposti e rivali (forse, come visto, un’indicazione nell’ambiguo ajmfivguoi, glossato da ajntivpaloi) come anche del movimento – movimento reale dei coreuti? – verso uno spazio comune di gara ‘per’ le nozze e per desiderio della sposa. Il disporsi dei coreuti su due file che procedono separatamente 80 Cfr. LSJ9 173 = GI2 261 = DGE II, 369 (aggettivo e verbo sono insieme in Il. 16, 601: sta;n dÆ ajmfÆ aujto;n ijovnte~ ajolleve~). «Si noti il parallelismo su cui sono impostati i vv. 513-516: ad ajollei'~ risponde movna, a ej~ mevson, ejn mevsw/, e lo stesso eu[lektro~ risponde in fondo a iJevmenoi lecevwn»:

LONGO 1968, 193. Il medesimo problema – che ha spinto a intervenire sul testo – si ripropone in Mosch. Europa 48-49, dove ajollhvdhn sarebbe riferito (così la paradosis) a doioi;... fw'te~: cfr. BÜHLER 1960, 97-98. 81 Ciò che vale per Ar. Vesp. 729-735 ~ 743-749 secondo ROSSI 1989, 70-71 (da cui si cita), che continua con parole che ci sentiamo di fare nostre: «propongo di vedere in casi del genere delle didascalie implicite, che davano al coro indicazioni di impostazione e coordinamento dei movimenti che si aggiungevano alla responsione della partitura ritmica e la confermavano nel dettaglio […]. Non è possibile che una lirica legata alla danza come quella del dramma, che di responsioni verbali e semantiche è così ricca […], rinunciasse a funzionalizzare questi fatti stessi anche sul piano della realizzazione orchestica».

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verso un punto, o avanzano e retrocedono uno davanti all’altro, o incrociano le due linee che danzano fronteggiandosi, potrebbe del resto non essere stato estraneo alle coreografie della tragedia nella generica e non meglio interpretabile forma registrata con il nome di diplh` da Poll. IV 105 (come cori ‘in opposizione’, coroi; ajntistoicou`nte~ ajllhvloi~?)82. 5. L’epodo e il ritorno all’«io» Apriamo le poche osservazioni che saranno dedicate all’epodo con una notazione di stile: la polvere, l’intreccio dei corpi, le grida, i colpi, i sospiri, sono resi con l’ausilio di effetti onomatopeici vivacemente sottolineati dal ricorso a iterazioni foniche (t, pl, kl) e dall’impiego di suoni gutturali (ajnavmigda keravtwn, ajmfivplektoi klivmake~, plhvgmata). Tali elementi contribuiscono a creare un effetto di immediatezza e di prossimità alla scena, quasi che il poeta volesse rendere reale il combattimento. Una simile ricerca di concretezza si compie anche attraverso l’inusuale ripetizione (4 volte)83 dell’imperfetto del verbo ‘essere’ seguito dal sostantivo («c’era… c’era…» ecc.) con il ricorso al non diffusissimo accostamento di un verbo al singolare e di un soggetto plurale, dal v. 520: h\n… klivmake~, … plhvgmata, nell’applicazione dell’impropriamente detto schema Pindaricum. Il verbo è stato in verità anche considerato «nothing but an old plural verb-form–h\n […]. In Soph. Trachin. 520 the simplest explanation is that Sophocles was consciously using an archaic or Doric form, perhaps partly for artistic reasons»: così HAYDON 1890, 182183, con gli altri esempi. Lo schema (caso unico in Sofocle), è comunemente ab antiquo interpretato come fenomeno sintattico-stilistico associabile a Pindaro, ma si vedano le giuste considerazioni di HUMMEL 1993, 57: la definizione stessa di schema Pindaricum è in qualche misura eccessiva, analizzando i singoli casi non ci troveremo infatti di fronte, in Pindaro, a «un phénomène spécifique et bien spécifié» (scettica, dunque, la posizione espressa alle pp. 57-62). Gli ulteriori esempi di schema Pindaricum in tragedia sono Aesch. Pers. 49 (con BELLONI 1994, 91: la costruzione è un unicum in Eschilo); Eur. Hel. 1358-1365 (cfr. KANNICHT 1969, II, 356: con una possibile eco, dato il tono dionisiaco del canto, dello «Stil der (pindarischen) Dithyramben»); Phoe. 349 (con MASTRONARDE 1994, 248). Il caso di Eur. Hipp. 1255 (trim.) è incerto già nella tradizione manoscritta (sumforav: O, sumforaiv: BAVL): lo schema sarebbe inoltre, secondo BARRETT 1964, 390, «a rare lyric use unacceptable in tragic dialogue»; andrebbero perciò ridiscussi anche 82 L’immagine è in Xen. An. V 4, 12 (ma sulla dibattuta questione dei doppi cori si rinvia anzitutto a LAMMERS 1931); sulle possibili figure assunte dalla diplh` si veda LAWLER 1945, 64-65 (non tutti gli esempi paiono cogenti), e LAWLER 1964b, 34-35, che rinvia anche a Eur. IA 1036-1057, con i due gruppi di Muse e Nereidi (ma anche i Centauri) che giungono danzanti al matrimonio di Peleo e Teti, ipotizzando che «it would be natural for the chorus to imitate those dances, briefly» (sul passo si veda ora BALTIERI 2011, 214). 83 Utili, sia pure riferite alla prosa, le parole di DENNISTON 1952, 80: «in some passages a great effect of force is obtained by the frequent employment of the same word, or cognate words, at short intervals, not, as in the case of anaphora, solely at the opening of clauses, but in different positions» (citato da EASTERLING 1973, 18, che giustamente rileva come Sofocle «can hardly have used repetition functionally without expecting it to have as much effect on his audience as any other element in his writing»).

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Eur. Ba. 1350 (con DODDS 1960, 238: «we may say that fugaiv is added in explanatory apposition to the impersonal subject of devdoktai: “It is settled – exile”») e TrGF II F 191 (h\lqe‹nÌ de; laoi; murivoi pro;~ h/oj nv a: laoiv avrebbe valore collettivo), mentre Eur. Ion 1146 (ejnh'n ktl), pur in trimetri, rientrerebbe, con Hec. 1000-1002 – come del resto il nostro passo –, in un’ampia casistica in cui l’iniziale «c’è, c’era» poteva essere impiegato senza preoccupazione per il numero dei sostantivi che seguivano. Ulteriori esempi, in poesia, di iniziale h\n seguito da sogg. plur. sono raccolti da BARRETT 1964, 436-437; si veda anche RICHARDSON 1974, 253 (con esempi dall’epica: oltre a H. Hom. Cer. 2, 279, Hes. Th. 321 e 825, su cui WEST 1966, 255: «ejstiv or h\n, especially at the beginning of the sentence, is often followed by a plural subject», con rinvio a Trach. 520 e Eur. Ion 1146). Per Pindaro, oltre a GERBER 1982, 148, cfr. BRASWELL 1988, 139: registra gli altri casi pindarici, ridiscussi da HAMILTON 1990, 217-218, che pensa a un uso dello schema esclusivamente nel Pindaro dei ditirambi («this seems confined to dithyrambs and Pindar’s dithyrambs in particular»: collegabili sono forse – con VAN DER WEIDEN 1991, 69 – libertà grammaticale e «looseness and liberty […] of the bacchic scene»). Il tebano, almeno in alcune occasioni, accentuerebbe in ogni caso l’espressività del testo mediante un artificio «che appare peculiare dei Ditirambi, e, fra gli autori di ditirambi, è attestato solo in Pindaro (frr. 70b [Sn.-M.], 8-9, 13; 75, 16-17, 18 e 19; 78, 2-3)», e «tranne che in fr. 78, 2-3 esso viene usato in rapporto ad azioni o realtà foniche e visive legate alla festa, e rende così più evidente la partecipazione corale alla teletav» (corsivo nostro): cfr. LAVECCHIA 2000, 15 (che corregge BARRETT 1964, 437, il quale estendeva l’uso dello schema, in generale, «to the dithyrambic style»). Questa pur lunga disamina ci conduce a tener particolarmente conto, qui, del caso rappresentato in Pindaro dal fr. 70b, 8-18 Sn.-M., e non soltanto per il fatto che l’uso dello schema pindarico pare vicino all’espediente stilistico accampato nello stasimo: il predicato al singolare (katavrcei, v. 8) evidenzia la sincronia dei rJomv boi tupavnwn, i rumori emessi dai tympana, «il loro sovrapporsi produce un suono percepito come un’unica entità. Anche la figura dei vv. 12-3 sembra ricercare un effetto simile». Colpisce in più nel ditirambo pindarico – come h\n nel nostro passo – l’insistita anafora di ejn a inizio verso (v. 8: ejn, vv. 10, 12, 15: ejn dev), che «concentra l’attenzione sui singoli elementi della scena, e nello stesso tempo evidenzia la sincronia fra le diverse componenti della teletav»; l’importanza della dimensione fonica della festa dionisiaca sarebbe, secondo LAVECCHIA 2000, «rappresentata come un tutto in cui si perdono le individualità dei partecipanti»: pp. 145-146, 148 (e 285; già, sullo stesso tono, SUÁREZ DE LA TORRE 1992, 187, e cfr. anche, per la «combinazione di suono e movimento», ZIMMERMANN 1999, 107). L’anafora non sarebbe, però, «to be interpreted as a characteristic of excited dithyrambic style […] because a similar repetition is found in the description of Achilles’ shield (Il., 18, 483-485 etc.) and also in Sapph. fr. 2 Voigt»: VAN DER WEIDEN 1991, 70 (associazione con Saffo anche in VILLARUBIA 1992, 19). Sicure sono invece, al di là di effetti di stile con buona probabilità poligenetici e non strettamente di genere, le affinità di tipo tematico tra lo stasimo e il frammento, un canto per i Tebani che narrava l’impresa di Eracle contro Cerbero. Tali affinità sono rafforzate dall’ipotesi che l’indicazione offerta dal fr. pindarico 249a Sn.-M. (= schol. ad Il. 21, 194 [V, p. 165, 71-81 Erbse]) rinvii plausibilmente al medesimo componimento (così i più, compreso MAEHLER 1982, 80 e n. 13, e cfr. OLIVIERI 2009, 110-113: tenta di superare le eventuali obiezioni SUÁREZ DE LA TORRE 1992, 186 e n. 10); il fr. menziona infatti l’incontro con Meleagro all’Ade e la lotta tra Acheloo, in forma di toro, ed Eracle, che diepavlaisen aujtw'/ tauvrou morfh;n e[conti: cfr. Trach. 1-25 e 507-508, ma già Archil. fr. 287 W.2. Anche se non si può escludere che lo scolio omerico «si riferisca ad un componimento diverso dall’Eracle», tale componimento «poteva chiudersi con un richiamo alle ultime imprese dell’eroe (lotta contro Acheloo, matrimonio con Deianira, presa di Ecalia, e anche morte e apoteosi?)» (LAVECCHIA 2000, 108, con 207-209; cfr. anche VILLARUBIA 1992, 23, che con giusta prudenza oscilla tra l’ipotesi che lo scolio omerico sia «la síntesis del episodio mítico del ditirambo» – che quindi conteneva anche il tema del nostro stasimo, la lotta tra Eracle e Acheloo – e l’ipotesi opposta, che esso contenga «una historia mítica resuelta [da Pindaro] en diferentes composiciones»).

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II. Confluenza di generi lirici nel primo stasimo delle Trachinie

Al di là di questa ipotizzabile ascendenza stilistica e tematica di matrice pindarica, per tornare allo stasimo, ciò che resta evidente in esso è il raggruppamento di una serie di sostantivi attraverso l’uso del verbo al singolare che lega termini unificabili in un collettivo84. Mai tuttavia si assiste all’iterazione della struttura con il medesimo verbo ripetuto uniformemente quattro volte («der Gleichförmigkeit halber ist das anaphorische h\n statt h\san gesetzt»)85. La ripetizione è inoltre utile qui a rievocare la cadenza, enfatizzata anche dalla tre volte replicata particella dev86, dei colpi riprodotti da un lato da due richiami sonori (pavtago~: A – originariamente indicante il rumore generato dal cozzare di due oggetti – coordinato e in opposizione a stovno~: A, l’ansimare dei due, un rumore ‘umano’), entrambi al singolare e senza attributo ma accompagnati da genitivo, e dall’altro da due richiami visivi, il tecnico ajmfivplektoi klivmake~ e ojloventa plhvgmata (al plurale e con aggettivo: B). I quattro elementi vengono dunque a disporsi in struttura chiastica ABBA, mentre l’uso dei sostantivi in luogo di azioni espresse da un verbo aggiunge «an abrupt effect which harmonizes admirably with the events described» (così LONG 1968, 76). D’un tratto in questa specie di diretta sportiva l’attenzione degli spettatori viene allontanata dal frastuono del luogo del combattimento e nello spezzato imposto solo qui al continuum del canto è attirata da un’altra immagine, statica e silenziosa, il cui ‘fuoco’ è Deianira, principale protagonista dell’ultima parte dell’epodo. Ci si chiede se non sia possibile ipotizzare una precisa deissi che combini, complice lo spazio scenico, attualità della performance ed evocazione del passato, una demonstratio ad oculos coincidente con l’entrata

84 L’hapax ajmfivplektoi (LSJ9 93: «intertwined» = GI2 165: «intrecciato» = DGE II, 217: «que se entrelaza, de llaves de lucha») appartiene a una famiglia di composti rara: a parte il già omerico eu[plekto~, cfr. Pind. N. 9, 52: qemivplekto~ (la proposta di correzione ajmfivpliktoi, «straddling», è discussa in DAVIES 1991, 145-146). Per klivmake~, termine del combattimento e mossa da lottatore, cfr. (oltre allo schol. ad 520c [p. 142 Xenis]) DAVIES 1991, 146, con POLIAKOFF 1987, 51: «a hold called the kli'max consisted in climbing onto the opponent’s back and wrapping one’s legs around his waist or lacing them around each of his legs» (già in parte HERMANN 1848, 87: «positum erat, nisi fallor, in eo, ut quis averteret adversarium, atque a tergo complexus, quasi per scalam, dorsum eius conscenderet»; fonti antiche raccolte e discusse da GARDINER 1906, 15-19). Cfr. anche BURTON 1980, 57: «there can be little doubt» che il termine «would be familiar to wrestling fans among the audience». Per il valore di pavtago~ come rumore di oggetti cfr. KAIMIO 1977, 213-214. Anche plhvgmata è raro: non attestato prima, gode di sole cinque ricorrenze fino a tutto il quinto secolo, tre delle quali in Sofocle (qui e in Ant. 250 e 1283, dove «the guttural sound adds harshness to the violent sense»: LONG 1968, 38, con le pp. 35-46, dedicate ai nomi in -ma) e due in Euripide (Tr. 794 e IT 1366), variante metrica del già omerico plhghv (sul cui valore sonoro/musicale – percussione come causa del suono – si veda ROCCONI 2003, 13). 85 RADERMACHER 1914, 101-102. Si veda, per un confronto, l’anaforico tlh' (3 volte) in Il. 5, ripetuto ai vv. 385, 392 e 395. DODDS 1960, 238, scrive a proposito del citato Eur. Hel. 1358-1365 che «a collection of subjects are mentally unified»: non è molto distante dal nostro caso. 86 Qui senza il mevn di apertura, come invece di solito accade se la particella è usata in anafora: cfr. però per i molti esempi «in serious poetry» (tra cui il nostro, con OT 312-313 e Phil. 827-831) DENNISTON 1954, 163, e FEHLING 1969, 207-208 (si può constatare l’assenza di mevn «when a word is repeated in balancing clauses»: EASTERLING 1982, 217, con Trach. 1147-1148, kavlei... kavlei dev).

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

in scena dell’attore-Deianira – aJ dÆ, v. 523 / to; dÆ, v. 527 –, poco prima che costei riprenda a parlare in trimetri a partire dal v. 53187. Dal punto di vista del ritmo possiamo almeno osservare un cambiamento brusco che corrisponde al passaggio dai dattili dello scontro, fino all’ultimo hemiepes femminile di v. 522, a sequenze di sillabe lunghe88 proprio in corrispondenza del cambio di soggetto al v. 523. Esse dovevano verosimilmente rallentare la danza: non si dimentichi che si è ipotizzato che il coro sia convenuto verso il centro nei versi precedenti. A ciò si aggiunga, a ribadire l’impressione di un rallentato, che dopo l’egemonia dell’anafora di h\n, che dura per ben otto versi, i verbi a seguire riferentisi a Deianira, fin dal primo al v. 52589 – ed eccetto l’ultimo che chiude lo stasimo: «se ne andò» – sono verbi di ‘sosta’ o di attesa: h|sto, prosmevnousÆ, ajmmevnei (per fravzw pronunciato dal coro si veda sotto). E di ‘effetto ritardante’ si può parlare proprio per la serie aggettivale asindetica aJ dÆ eujw'pi~ aJbrav (v. 523), che riesce fin da subito a far risultare evidente la sostituzione della coloritura attributiva (ora più consona a una promessa sposa, dolce e bella) la quale, a seguire, connota anche la misera condizione della giovane: ajmfineivkhton, ejleinovn, ejrhvma90. Dal canto suo l’hapax ajmfineivkhton, il cui senso è «donna contesa da ambo le parti», motivo di disputa tra due pretendenti, e che varia evidentemente ta;n ajmfineikh' di v. 10491, se da un lato ci trasferisce nell’universo femminile, al contempo ribadisce e prolunga l’effetto del nei'ko~ tra i due – come mi fa notare Sabina Mazzoldi –, e chiude la sequenza unitaria degli aggettivi in omeoarto (504: ajmfivguoi, 520: ajmfivplektoi, ma anche ajmfoi'n al v. 522, come se Sofocle intendesse offrire l’impressione di una forza bilanciata da entrambe le parti). E insieme, nella messa in scena di un agone che evolve da epico in ‘nuziale’, secondo la convenzione già fissata da una sorta di prototipo che Omero inventa o fa suo nel terzo libro dell’Iliade (lo scontro tra Menelao e 87 «The chorus’ flawed characterization of Deianeira is all the more evident when she enters unannounced in mid-song at the very moment when they are singing of her weakness»: SCOTT 1996, 105 (ma con riferimento ai vv. 529-530). 88 I vv. 523 e 524 () in GENTILI – LOMIENTO 2003, 126 e n. 23 (già GENTILI 1951, 101) vengono interpretati come due itifallici con spondeo in prima sede (per l’alternativa mol + ba cfr., tra altri, DALE 1968, 101 [ma ba dim in DALE 1971, 26]). 89 I vv. 525-527 sono interpretati come «syncopated iambic metra»: DAVIES 1991, 136; ma sono forse meglio intellegibili (con GENTILI – LOMIENTO 2003, 126, n. 24) come in linea con quanto precede: 525 cho + ithyph ( + : così anche DALE 1971, 26 e lo stesso Davies), 526 e 527 ia + ithyph ( + ); chiudono l’epodo un gliconeo (529, ma per l’incertezza della lieve corr. di Dobree, bevbacÆ per bevbaken dei mss. [= hipp], cfr. DALE 1971, 27, e DAVIES 1991, 136) e un ferecrateo (530, per il 528 cfr. infra). 90 Così DAVIES 1991, 146: «harshly onomatopoeic adjectives and nouns give way to gentler and more ornamental epithets, vowels replace consonants». 91 Cfr. FRAENKEL 1950, II, 331, che spiega ajmfineikh' riferito a Elena in Aesch. Ag. 686 (unica altra ricorrenza con Trach. 104): «it is obvious from [Trach.] 507ff. that the strife of the two opponents is meant»; il senso è confermato da JUDET DE LA COMBE 1982, 28-29, che giustamente pone l’accento sull’indissolubile legame, nell’Agamennone, fra lo scontro Paride/Menelao e il matrimonio («Hélène a, dans les faits, réuni guerre et mariage», come – ci pare – Deianira; l’aggettivo potrebbe essere reminiscenza eschilea: LONG 1968, 102, n. 136, e ora BAÑULS OLLER – CRESPO ALCALÁ 2006b, 78).

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II. Confluenza di generi lirici nel primo stasimo delle Trachinie

Paride sotto gli occhi di Elena, con la differenza che Elena non è distinguibile dai due rivali)92, la donna al centro della disputa è presente, essa stessa, alla lotta. Ed è ben visibile ai due contendenti se interpretiamo l’espressione thlaugei' parÆ o[cqw/ come indicante un tumulo «visibile da lontano»93. Verrà volontariamente lasciata da parte la discussione del verso 526: si conferma qui soltanto che non si legge, con i manoscritti, mavthr, optando per la pur non certa correzione di Zielin´ski, qathvr94. Si aggiungerà però qualche considerazione a proposito di ejgw; dev, dato che al di là degli emendamenti proposti, il verso contiene «a first person singular reference to the narrator»95, e che si tratta di un caso senza paralleli nelle sezioni cantate sofoclee. Si sa che nella lirica corale il ricorso alla prima persona («io»/«noi») non viene sempre disambiguato, potendo esso rappresentare di volta in volta il poeta, il coro nella sua interezza, il leader del coro, «la comunità e l’uditorio di cui il coro si fa portavoce» o addirittura la persona celebrata96. In questo passo del dramma – come in ogni altro passo in tragedia – «the separation [del parlante] from the author is crucial»97, e non ci sono dubbi in merito all’identità del parlante. Esclusa quindi la presenza del cosiddetto «bardic ‘I’» (LEFKOWITZ 1991, 3), le fanciulle sono ritratte come un insieme che illustra il tipo di azione svolto dall’emittente, il canto stesso, ossia l’azione espressa al presente dal verbo fravzw98: «io – coro – narro con il mio canto», in forte contrasto con h|sto, ascritto viceversa alla storia passata di Deianira. 92 Cfr., per il tema, KAKRIDIS 1971, 33: «what is the framework of the myth in G? Two men fight a duel about a woman, and this woman, the prize of this combat, stands there above them»; oltre alle testimonianze figurative, Kakridis (pp. 33-35) rinvia alla presenza di Penelope alla gara tra Odisseo e i Proci (Od. 21, dal v. 63, ma viene spedita – e torna – nelle sue stanze ai vv. 350-358), al fatto che Ippodamia siede sul carro di chi gareggia con il padre Enomao in Apollod. epit. 2, 5, mentre non è chiaro se Iole è presente durante la gara con l’arco tra Eracle ed Eurito in Apollod. II 6, 1. Alla n. 27 vengono ricordati i premi collocati da Achille ai giochi in onore di Patroclo, tra cui una donna nel mezzo, Il. 23, 704: ajndri; de; nikhqevnti gunai'kÆ ej~ mevsson e[qhke (su cui, come visto, anche DETIENNE 1965, 429). Per la concessione, in Trach. e altrove, di una figlia dopo un agone nuziale cfr. in sintesi RODIGHIERO 2004, 148. 93 L’aggettivo, già in Bacch. 17, 5 M. (Eracle e Deianira) è di frequente uso pindarico (fr. 52g, 12 Sn.-M.; O. 6, 4; P. 2, 6; P. 3, 75; N. 3, 64), e cfr. anche Ar. Av. 1092, 1711. Esimendoci dall’avanzare ipotesi in merito alla non dimostrabile presenza di un rialzo, si rinvia a DI BENEDETTO – MEDDA 1997, 13: «all’interno del cerchio dell’orchestra potevano esserci delle strutture rialzate non permanenti, costruite in relazione a particolari esigenze di singoli drammi. Nei Persiani e nelle Coefore di Eschilo sono presenti i tumuli che raffigurano le tombe rispettivamente di Dario e di Agamennone: Eschilo fa riferimento a queste strutture con il termine okhthos (‘rilievo’, ‘tumulo’)» (cfr. Pers. 647, 659; Choe. 4). 94 Si veda RODIGHIERO 2003. 95 KAIMIO 1970, 87. 96 GENTILI 1990, 21, con n. 47, che ricorda il caso di Pind. I. 7, 49, «dove il pregnante plurale a[mmi si riferisce al vincitore»: già in FRÄNKEL 1962, 543, n. 12 (altra cosa è la percezione del pubblico: giuste le considerazioni di DANIELEWICZ 1990, 9 – dietro PAVESE 1979, 27 –: «the lyrical I» doveva essere avvertito dall’uditorio come riferentesi ai coreuti nell’hic et nunc della performance, pur assumendo nel testo valenze distinte). Cfr. anche MULLEN 1982, 21, con CINGANO 1993, 356, n. 35 (con esempi): frequente è «nei poemi corali […] l’alternanza tra io singolare e io plurale all’interno della stessa ode». 97 Perentoria e giusta l’affermazione di HUTCHINSON 2001, 436. 98 Per la complessità della questione – che qui non si intende affrontare – negli epinici

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

È però difficile riconoscere la funzione assolta qui dall’espressione ejgw; dev, che se da un lato sembra imprimere al racconto una pausa forte grazie all’autoreferenzialità del coro al proprio movimento enunciativo, rimettendo in uso modelli della lirica corale (con brusco cambio di soggetto, ma come incastonato e costretto tra i due deittici all’indirizzo di Deianira), in realtà non costituisce del tutto un salto, un ritorno dopo l’exemplum mitico, all’hic et nunc e all’attualità del canto (si ricordi almeno, in questo senso, Alcm. PMGF 1, 39-40: ejgw;n dÆ ajeivdw | ÆAgidw'~ to; fw'~). Né il perentorio ritorno all’«io» del coro segnala una transizione tematica, il passaggio cioè a un altro argomento. Dopo la pausa di v. 526, questo passaggio viene infatti disatteso dalla sintetica ma efficace variatio (come già ai vv. 504 e 514) introdotta nei versi seguenti, utile a insistere per due volte sullo stesso motivo, divenuto centrale nell’ultima sezione di canto, ovvero l’attesa della giovane promessa sposa (dove «prosmevnousa è allibrato rispetto al successivo ajmmevnei»99: 523 ~ 527; 525 ~ 528), resa ancor più ‘attuale’ dall’uso dell’unico presente (ajmmevnei) nel corso dell’intero récit, finora collocato, per ciò che concerne i tempi verbali inerenti la storia di Deianira, al passato: 523-525: 526: 527-528:

aJ dÆ ↕ to; dÆ

ejgw; de... …

eujw'pi~... ↕ o[mma nuvmfa~...

h|sto, fravzw

to;n o}n prosmevnousÆ ajkoivtan ↕ ajmmevnei

Il rinvio autoreferenziale all’interno di un racconto che aveva fin dalla strofe eclissato la presenza del narratore rimane dunque sospeso, venendo incidentalmente reinserito in maniera inattesa anche rispetto alla sequenza aJ dÆ (v. 523) / ejgw; dev (v. 526) / to; dÆ (v. 527) = Deianira/coro/Deianira. A proposito dell’uso del pronome di prima persona nel nostro passo, al v. 526, BURTON 1980, 58 (e n. 40), rileva che «this use of the first person pronoun is a recognized device in choral lyric where poet or chorus intrude at the end of a myth to stay the narrative and return to the occasion of the poem. ejgw; dev is used here in precisely this way, and to emend it out of the text would destroy this important sign of a coda or a transition to another theme», «cf. e.g. Pi. O. 1.100 [ejme; dev]; 8.54 [eij dÆ ejgwv]; 9.21 [ejgw; dev]; 10.97 [ejgw; dev]; N. 1.33 [ejgw; dÆ]; I. 1.14 [ajllÆ ejgwv]». Si aggiungano I. 1, 32 [ejgw; dev], e il meno

pindarici cfr. almeno LEFKOWITZ 1991; sintesi bibliografica in BONIFAZI 2001, 35-37 e RUTHERFORD 2001, 66, n. 23 (si veda anche, per il coro tragico, CALAME 2013). Con riferimento alla propria danza (non è il nostro caso) «in choral lyric as well as in the choral odes of tragedy and comedy, choral self-referentiality is always expressed in the first person» (HENRICHS 1994-1995, 62). 99 «Ed entrambi creano una trama lessicale con mivmnomen (539)»: CONCA 2005, 181. Quello dell’attesa è del resto uno dei motivi-guida della tragedia: cfr. i vv. 335, 648, con KAMERBEEK 1959, 124; si tratta della ragione che ha spinto MCDEVITT 1982 a difendere la paradosis mavthr al v. 526: passato e presente sono, in questi versi, riunificati, e il coro – tornando al presente della performance – parlerebbe in loco matris: «nothing has changed; Deianeira is still waiting». Per l’integrazione ‹Ì proposta da molti al v. 528 – onde evitare la tripodia giambica ejleino;n ajmmevnei, prodotta dalla corr. di Porson di ejleeinovn, la forma non contratta dei mss. – si rinvia a DAVIES 1991, 148-149, e in sintesi a RODIGHIERO 2004, 184-185, con bibliografia: ribadiamo qui la preferenza per levco~, in GILDERSLEEVES 1985, termine più di altri adeguato al contesto epitalamico (su cui infra), in eco con il v. 514 e più in esteso con i vv. 27-28 (difendono la paradosis BAÑULS OLLER – CRESPO ALCALÁ 2006b, 78-79).

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forte P. 1, 42 [a[ndra dÆ ejgw; kei'non]; Burton rimanda a SCHADEWALDT 1928, 300, n. 6: «das Personalpronomen, auch in obliquen Fällen, ist neben dem an den Anfang des Satzes gestellten Verb der ersten Person bei Pindar deutliches Kennzeichen neuer Absätze» (con ulteriori esempi. KRANZ 1967, 52 – ma già 1961 – segnala l’uso prevalentemente epodico dell’espressione di trapasso in Pindaro, ricordando tra gli altri anche i casi di O. 1, 52 [ejmoi; dÆ]; N. 11, 11 [a[ndra dÆ ejgwv]; fr. 52d, 52 Sn.-M. [ejmoi; dÆ: ma è un ‘io mitico’ a parlare]). Nota LEFKOWITZ 1991, 55, che «all Pindar’s first personal statements, choral, epinician, and personal, have the same basic functions, serving both as introductions to new themes and also as statements about who is speaking». Per un analogo uso dell’espressione aujta;r ejgwv come formula di transizione dopo un proemio innodico cfr. OBBINK 1996, 196-197 e 201 in part.; nel passaggio del citato partenio di Alcmane (Alcm. PMGF 1, 39-40) il ritorno all’«io» «souligne la transition de cette partie gnomique à la description de l’action dans laquelle les jeunes chanteuses sont elles-mêmes engagées»: CALAME 1983a, 322. Per tornare alla tragedia, celebrativo è anche l’avvio del canto in Soph. Ai. 596: w\ kleina; Salamiv~, su; mevn ktl, bruscamente interrotto al v. 600 da ejgw; dÆ oJ tlavmwn, a sottolineare per opposizione e non per continuità la misera condizione dei marinai di Aiace a Troia. Come notato da KAIMIO 1970, 88, «Sophocles does not use the first person singular of the narrator as a link between different parts of the song […], without leading to a context of a different kind». In merito ai verbi di «dire», evidentemente diverso è il tono di perentorietà – di natura quasi profetica ed esternazione di un punto di vista al limite della gnome – espresso dal famiv di Aesch. Eum. 553, con Eur. Heracl. 608: ou[tinav fhmi qew'n a[ter o[lbion, e Med. 1090, il cui valore è già in Bacch. 1, 159-160 M.: fami; kai; favsw mevgiston | ku'do~ e[cein ajretavn. Ci pare più vicino al caso di Trachinie, invece, Aesch. Ag. 104: kuvriov~ eijmi qroei'n ktl, dove «le chant comme moyen de connaître l’expédition des Atrides, à distance, sans y avoir participé, forme d’abord, avant l’expédition elle-même, le sujet du chant»: BOLLACK – JUDET DE LA COMBE 1981, 128. E si pensi anche a Eur. HF 348-356 (non è l’unico caso in cui il coro fa riferimento all’esecuzione del proprio canto: vv. 110-111 e 673-700), dove all’inizio del lungo threnos per Eracle, evocativo delle sue imprese, dopo pochi versi il coro afferma di voler celebrare l’eroe, come puntualmente fa nei versi che seguono: ejgw; de;... uJmnh'sai... qevlw, «dans la plus pure veine pindarique mais aussi par des métaphores reprises à la tradition du discours de célébration funéraire» (CALAME 2005, 50); «Euripides’ earlier choruses tend to start with a reference to themselves like Alc. 962 […]. So again at HF 637 […]. Here ejgw;... uJmnh'sai... qevlw echoes the formal exordia of the Homeric hymns»: BOND 1981, 151 (referenze ad epinici e a odi funerarie a p. 153). Cfr. anche Eur. Ba. 72: Diovnuson uJmnhvsw e con riferimento al passato Tr. 551-555: ejgw; de;… ejmelpovman | coroi'si (più in generale si vedano anche i casi proposti da HUTCHINSON 2001, 436, n. 16, e la lista dell’uso della prima persona in cori drammatici stilata da RUTHERFORD 2007, 35).

6. Un esito epitalamico A questo punto, si diceva, la ricercatezza del dettato coincide con la variazione tonale. Tale variazione è segnalata già dall’uso dell’aggettivo eujw'pi~, hapax in tragedia, ma che in Od. 6, 113 e 142 (in entrambi i casi nella iunctura eujwvpida kouvrhn) designa lo splendore di una promessa sposa d’eccezione come Nausicaa, e che ben si attaglia alla consueta celebrazione della bellezza della giovane prossima al rito100, la cui tenerezza viene ulteriormente marcata 100 Raro, l’aggettivo ritorna prima di Sofocle in H. Hom. Cer. 2, 333 (Persefone), in H. Hom. Bacch. 7, 58 (Semele), e in Pind. O. 10, 74 (luna); per l’ipotesi di connotazioni legate al matrimo-

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dall’aggettivo che segue; aJbrav è infatti «not a purely ornamental epithet, but especially appropriate to a bride». Così VERDENIUS 1962, 392, che rileva come in Alc. fr. 42, 8 V. «Thetis at her wedding is called pavrqeno~ a[bra. […] Thetis as well as Andromache [Sapph. fr. 44, 7 V.] and Deianira (Soph. Trach. 523) are called a{bra» (sic): l’epiteto è dunque usato per designare due spose di coppie paradigmatiche, Peleo e Teti ed Ettore e Andromaca (si vedano anche Sapph. fr. 128 V., a[brai Cavrite~, attacco di un epitalamio secondo FERRARI 2007, 116, n. 2; l’incerto Hes. fr. 339 M.-W., aJbrh; parqevno~; Pind. N. 5, 25-26 dove l’aggettivo è ‘trasferito’ da Teti a Ippolita che tenta di sedurre Peleo; Aesch. TrGF III F 313, 1, parqevnoi~ aJbrai'~); in Sapph. fr. 44, 7 V., secondo PERNIGOTTI 2001, 16-17 (e n. 33), «viene attribuito alla figura del mito quello che a buon diritto può essere considerato come il segnale di riconoscimento del tiaso saffico stesso, vale a dire il possesso della ajbrosuvnan», sul cui valore poetico/politico come «distinctive aristocratic lifestyle», contro un uso del termine circoscritto al mondo femminile – e pure legato al matrimonio «in the context of the leading-home of the bride» –, cfr. KURKE 1992, 96-100 (già in parte, in un quadro più ampio, LOMBARDO 1983, 1084-1085 per Saffo e il mondo femminile). Si veda anche KAMERBEEK 1959, 123: l’aggettivo «suggests the delicacy of her virginal beauty» (con DELG, s.v.; è anche termine designante danza o incedere delicati, cfr. BORTHWICK 1970, 325, che rinvia tra gli altri – oltre a Eur. Med. 829-830 – a Luc. Salt. 73: è da lodare della danza, scrive Luciano, il fatto che si possa rivelare nella stessa persona kai; ïHraklevou~ to; kartero;n kai; ÆAfrodivth~ to; aJbrovn).

Insieme all’andamento metrico-ritmico sopra descritto, dal v. 523 anche l’aggettivazione sembra confermare dunque il modificarsi del racconto, e ad esso contribuisce nella chiusa l’innesto della diffusa metafora dell’addomesticamento della fanciulla vergine. Paiono qui capovolti, nel preservarne la ricorsività, alcuni luoghi comuni di canti nei quali si celebri la giovane, animale da domare, che viene condotta lontano dalla madre e consegnata al suo nuovo compagno durante il rito dell’abduzione, prima di finire sotto il giogo del matrimonio (d’abitudine una cerbiatta, una giovenca o una puledra)101: dal punto di vista strutturale, dunque, tale deriva di genere si colloca, nello nio nell’episodio che ha a protagonista Nausicaa, dove sarebbe usato «the traditional language of wedding songs» cfr. HAGUE 1983, 143, n. 15, con bibliografia (non manca nemmeno il topos del paragone – Od. 6, 149-152 e 163 –, per cui cfr. sotto). Per il topos della bellezza della promessa sposa, LAMBIN 1992, 96, con Sapph. fr. 108 V. ~ Theocr. 18, 38, e soprattutto Sapph. 112, 3-4 V., dove – come per Deianira – si celebra la grazia di occhi e volto: soi; cavrien me;n ei\do~, o[ppata ‹dÆ .... Ì | mevllicÆ, e[ro~ dÆ ejpÆ ijmevrtw/ kevcutai proswvpw/. Anche su questa base, è probabile che nello stasimo o[mma nuvmfa~ sommi un senso proprio (occhio, sguardo impaurito) e uno perifrastico, «bell’aspetto», «bel volto» (cfr. LONG 1968, 101-102: «the face, or the quality of the face», seguito da DAVIDSON 1986b, 23: «it is the context which more fully allows the genitive nuvmfa~ to highlight the significance of the part o[mma»; si tratta di una sineddoche per lo scoliasta, dal nome della parte più bella (schol. ad 527 [p. 143 Xenis]), ma contra LONGO 1968, 194: sarebbe «lo sguardo ansioso della fanciulla in attesa che si decida la sua sorte», però già RADERMACHER 1914, 102: «nur das Mädchen ist ajmfineivkhto~, aber im Blick liegt die Angst und Sorge»); per la costruzione «with an adjective attributive to the regens» seguito da un sostantivo al gen. cfr. MOORHOUSE 1982, 153, e in part. per la «transference of epithets» (non l’occhio, ma la fanciulla è contesa) gli esempi raccolti in FRIIS JOHANSEN – WHITTLE 1980, II, 61. 101 Si veda CALAME 1977, I, 411-415, con esempi. Sulla tradizione lirica della donna-cavalla, non necessariamente con connotati di tenerezza, cfr. almeno BURZACCHINI 2005, 269-270. Non sarebbe l’unico caso in Trachinie: i vv. 141-149 e i vv. 205-224 (su cui al cap. IV, par. 3) sono secondo SEAFORD 1986 fortemente influenzati, nel tono e nella sostanza, da canti di nozze. Per imeneo e tragedia: SWIFT 2010, 241-297, con BALTIERI 2011 per Euripide.

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stasimo, al punto legittimo, ossia quando ci dovremo aspettare – assegnata la sposa – l’inizio della celebrazione festiva e del canto di nozze durante la domum deductio. Partiamo dall’esempio forse più noto, il frammento di un epitalamio saffico, fr. 104a V.102: e[spere pavnta fevrh/~ o[sa faivnoli~ ejskevdasÆ Au[w~, fevrh/~ o[in, fevrh/~ ai\ga, fevrh/~ a[pu mavteri pai'da.

Si dovrà anzitutto considerare l’ajpo; matrov~ dello stasimo alla stregua di un’espressione formulare, una sostanza tematica tradizionale103, con il suo pendant di nozze non realizzate, o di là da venire, nel caso in cui la fanciulla rimanga – o venga lasciata – accanto alla madre: para; matriv (così Theocr. 18, 13 nell’epitalamio per Elena e Menelao, e le fanciulle che intonano l’imeneo private della compagnia di Elena sono come agnelle sole che cercano le poppe della madre: vv. 41-42). Alla stessa maniera la fanciulla ancora ignara delle opere di Afrodite in Hes. Op. 520-521 risiede para; mhtevri, come la Baucide di Erinna (fr. 4 Neri, 28-30): «ma quando in sposa [a un uomo t’imbarcasti,] allor dimenticasti tutto | quello che, ancor bamb[ina dalla] mamma udisti (matro;~ a[kousa~), | Baucide mia: e dell’oblio [ ] Afrodite». In entrambi i passi, Esiodo ed Erinna (cui si aggiunga lo stasimo), viene rimarcata «la contiguità su clausole successive di una ‘mamma’ e di Afrodite, a descrivere l’età pre-nuziale di una fanciulla»104. Siamo dunque di fronte a un tratto coerente (atteso e del resto attendibile) nel formulario descrittivo della condizione della promessa sposa, una sorta di norma linguistica che stabilisce un rapporto temporale binario tra il prima (presso la madre) e il dopo (via dalla madre). Nello stasimo, tuttavia, la particolare condizione dello sposo non prevede che la ajgwghv, l’abduzione verso la nuova dimora, si compia secondo il rito, e il matrimonio di Deianira, come del resto l’unione a cui Iole, da schiava, è chiamata, non segue la procedura tradizionale. Al di là dell’assenza di un riferimento al banchetto e della totale omissione della figura paterna (è il padre che nella nymphagogia consegna di norma la figlia: si veda poco sotto), lo stesso corteo nuziale, durante il quale il promesso sposo conduce la sposa a casa propria, è qui compromesso da molteplici fattori: la sposa è un premio di gara e, dal momento che Eracle non ha casa, essa andrà a collocarsi in un thalamos non suo (anche se qui la breve sezione, 102 Con Cat. 62, 20-23: Hespere, quis caelo fertur crudelior ignis? | qui natam possis complexu avellere matris, | complexu matris retinentem avellere natam, | et iuveni ardenti castam donare puellam (e Cat. 61, 56-59: tu fero iuveni in manus | floridam ipse puellulam | dedis a gremio suae | matris, o Hymenaee Hymen): pur nell’incertezza di una ripresa diretta dei versi saffici, «appare significativo il richiamo proprio alla madre di una figlia che va sposa» (BURZACCHINI 2005, 173). Cfr. anche Soph. TrGF IV F 583, 8: la nuova sposa è strappata qew'n patrw'/wn tw'n te fusavntwn a[po (altre immagini di separazione legate al matrimonio in SEAFORD 1987, 106, n. 2). 103 Cfr. anche lo schol. ad 529 (p. 144 Xenis): paracrh'ma gamhqei'sa tw'n th'~ mhtro;~ ajfwrivsqh pragmavtwn. Si veda anche Anacr. fr. 28 Gentili, una cerbiatta smarritasi nella foresta e spaventata: ajpoleifqei;~ ajpo; mhtro;~ ejptohvqh. 104 Ma per lo stravolgimento del modello operato da Erinna cfr. NERI 2003a, 360 (da cui si cita).

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secondo quanto ci si attenderebbe, «like the evening epithalamion it is sung by a choir of girls»: DIGGLE 1970, 149, con esempi). Si aggiunga a questo la particolare incidenza dei termini designanti, nello stasimo, gli sposi, il matrimonio e in special modo il letto nuziale, stilema tipico e luogo dell’atteso compimento dell’abduzione e del rito105: a[koitin, pro; gavmwn, lecevwn, eu[lektro~106, ajkoivtan, nuvmfa~ (dove la ricerca di una sposa – a[koitin – della strofe ‘trova risposta’ nell’attesa dello sposo – ajkoivtan – dell’epodo). Ancora un’aggiunta: LONGO 1968, 190, rileva una sorta di formularità dell’espressione pro; gavmwn107 in contesti di rituale nuziale, rinviando a due passi euripidei; si tratta, nel primo caso, di una fanciulla/giovenca (Elena) che è rimasta a casa prima delle nozze, nel secondo di giovenche che devono essere sacrificate prima delle nozze (movscon e oi[koi~: Hel. 1476, movscoi: IA 1113) con ambiguo riferimento al fatto che Ifigenia sarà in effetti sacrificata come una giovenca – si tornerà, poco sotto, al rapporto evidente di questi versi con IA 1080-1088. Ci troviamo, nello stasimo, di fronte a una formularità di immagini ben rintracciabile, quando non di un lessico caratterizzante. Ad essa si aggiunga il potenziale metaforico compreso nell’associazione fanciulla/giovenca, che si configura come posta in palio concessa al vincitore dell’agone (uno dei due si porterà via, in premio, una ‘giovenca’). Ma rappresenta forse anche l’applicazione di un’ulteriore pratica dei canti di nozze, ossia l’impiego di paragoni (non necessariamente antropomorfi)108 e la reiterazione del motivo dell’aggiogamento come perdita della verginità, ribadito immediatamente sotto (kovrhn gavr, oi\mai dÆ oujkevtÆ, ajllÆ ejzeugmevnhn: v. 536) in una sorta di 105

Cfr. LYGHOUNIS 1991, 186: «il riferimento al letto nuziale, mediante i termini levco~, eujnhv, levktra è frequente in questi canti (Eur. Tr. 312, 323-340; Aristoph. Aves 1758; Him. Or. 9, 20, 264-265). In Theocr. 18, 19 vi si allude menzionando la clai'na sotto la quale giace la nuova coppia, in Soph. Ant. 804ss. designando con qavlamo~, numfei'on, pastav~ la tomba di Antigone». Non è mancata anche una più esplicita presa di posizione: cfr. e.g. LUCAS DE DIOS 1982, 223: «de restos rituales de himnos se conservan en Sófocles tres ejemplos: Traq. 497 ss., Ant. 781 ss. y Ant. 1115 ss. Según su contenido preciso podemos subdividirlos en: himeneo: Traq. 497 ss. y Ant. 781 ss., […] himno a Dioniso: Ant. 1115 ss.». 106 Cfr. LONGO 1968, 192: Afrodite «è insieme la dea il cui letto è desiderabile, e colei che dispensa le gioie del letto; essa instaura le nozze in quanto è essa stessa sposa». 107 Sul cui significato, nel nostro passo al v. 504, cfr. MOORHOUSE 1982, 121-122: non tanto prima quanto piuttosto «in view of»: «‘who entered the marriage lists, to win her as a bride?’». 108 Per il tipico impiego di paragoni in canti di nozze cfr. HAGUE 1983, 132ss.: «one type of song which belongs specifically to one part of the wedding, in this case to the wedding feast, is that in which an eikôn, or comparison, is made» (per lo sposo – Ares, virgulto e Achille – cfr. Sapph. frr. 111, 115 e T 218 V., per la sposa – mela e fiore – fr. 105a-b V.; cfr. anche Theocr. 18, 26-31 dove nell’epitalamio per Elena la giovane è paragonata all’aurora, alla primavera, all’abbondanza di messi, a un cipresso e a un cavallo tessalo. In altri casi il matrimonio – reale o presunto – trova il suo pendant in modelli mitico-eroici, come il già ricordato Sapph. fr. 44 V. – Ettore e Andromaca –, con l’incerta coppia divina di Sapph. 141 V.; Eur. IA 1036-1088 – Peleo e Teti –; Ar. Av. 1731-1742, Zeus ed Era (con DUNBAR 1995, 756-757); cfr. anche SEAFORD 1986, 52, n. 10: «bride compared to animal or plant: Cat. 61, 22. 102-105. 187-188; 62, 49-58 […]; Men. Rhet. 404, 7. 408, 15. 32». In un più organico uso di comparazioni animalesche in tragedia, «confronti topici con animali, volta a volta introdotti per sottolineare l’audacia, la tracotanza – o viceversa la timidezza, la debolezza», è inserita l’immagine da MUREDDU 2006, 212-213.

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legato tematico che in maniera naturale fluisce dal canto al recitato. Deianira, infatti, ritiene che Iole non sia più vergine ma già nuova sposa di Eracle: varrà la pena di riportare almeno parzialmente la breve sezione dell’Ippolito euripideo, i vv. 545-554 (l’inno a Eros), nei quali Iole, sfortunata nell’imeneo di nozze, è descritta come una puledra «senza giogo di letti» consegnata a Eracle dalla stessa Cipride (con variazione dello schema consueto che prevede che il padre ‘dia’ la figlia allo sposo)109: ta;n me;n Oijcaliva/ | pw'lon a[zuga levktrwn… oi[kwn zeuvxasÆ ajpÆ Eujrutivwn… ÆAlkmhvna~ tovkw/ Kuvpri~ ejxevdwken: w\ | tlavmwn uJmenaivwn. Non occorre ricordare che l’immagine del giogo è tradizionalmente associata all’unione sessuale e al matrimonio, e la sequenza di esempi si potrebbe in questo senso moltiplicare. Nel nostro dramma la metafora è però anche ambiguamente associata alla più tragica evocazione di una bestia (una povrti~ ejrhvma) strappata alla madre e condotta al sacrificio: questa donna sarà sottomessa e guidata come si conduce una vittima, così come le vergini condotte a morte sono di norma paragonate ad animali da sacrificare, promesse spose destinate alle nozze con Ade110. Per l’associazione giogo-matrimonio, limitandoci alla tragedia, si ricordino almeno Soph. TrGF IV F 583, 11; Eur. Alc. 994, El. 99, Supp. 822, Med. 242, 673, 804-805, Tr. 669-676, Ba. 468, Phoe. 337-338 e 1366, Ion 900-901, IA 698 e 805, 669-670. Il caso di Phaëth. 231-235 Diggle (TrGF V, 2 F 781, 18-22) prevede un intervento del coro di fanciulle – come in Trachinie – nel corso del quale Cipride viene celebrata come divinità tutelare del matrimonio: povtnia, soi; tavdÆ ejgw; numfei'Æ ajeivdw, | Kuvpri qew'n kallivsta, | tw'/ te neovzugi sw'/ | pwvlw/ to;n ejn aijqevri kruvptei~, | sw'n gavmwn gevnnan, dove un accostamento, sia pure solo di intonazione, è forse possibile con il nostro v. 526: tavdÆ ejgw; numfei'Æ ajeivdw ~ ejgw;… oi|a fravzw – indipendentemente dalla difficoltà di riconoscere, in Euripide, l’identità degli sposi (cfr. DIGGLE 1970, 155-160; CONTIADES-TSITSONI 1994, 52-56: è ovvio che nel Fetonte «das Motiv der Hochzeit» è connesso «mit dem des Todes» – p. 54: cfr. vv. 221-222). In merito al sacrificio della vergine cfr., e.g., Eur. Hec. 141-142: Polissena verrà portata via da Odisseo come una puledra, strappata dai seni della madre Ecuba: h{xei dÆ ÆOduseu;~ o{son oujk h[dh | pw'lon ajfevlxwn sw'n ajpo; mastw'n | e[k te geraia'~ cero;~ oJrmhvswn. Ancora, Hec. 205-208 (è Polissena a parlare): skuvmnon gavr mÆ w{stÆ oujriqrevptan | movscon deilaiva deilaivan | ‹ Ì ejsovyh/ | ceiro;~ ajnarpasta;n | sa'~ a[po laimovtomovn qÆ ÓAida/. Ecuba nel riferirsi a Polissena, al v. 513 afferma puntualmente che la figlia è stata strappata dalla madre: o[lwla~, w\ pai', mhtro;~ aJrpasqei'sÆ a[po. Per finire, Ifigenia è sacrificata dall’esercito greco come una giovenca, ed era una promessa sposa rimasta fino ad allora – ancora a conferma della specifica ricorsività della convenzione terminologica – «accanto alla madre, per andare poi sposa a un figlio di Inaco» in Eur. IA 1087-1089: para; de; matevri numfokovmon | ÆInacivdai~ gavmon, quando poco sopra lei stessa è definita dal coro una giovenca intatta (movscon ajkhvraton: v. 1083) che finirà sgozzata. Guardando a lei destinata a tornare in Grecia le sue attendenti rimemoreranno le loro danze di 109 Su cui ancora LYGHOUNIS 1991, 165 e n. 25: fra le testimonianze dello schema consueto «z + forme attive del verbo divdwmi + y come complemento oggetto + x come complemento di termine» (padre/figlia/sposo) non viene registrato il caso anomalo di Eur. Hipp. 553, né quello, sia pur incompleto (senza dativo), di Trach. 359-360. 110 Per il caso specifico di Trachinie si veda REHM 1994, 74-75, con LORAUX 1988, 36-44, SEAFORD 1986, e soprattutto SEAFORD 1987, dove sono discussi i passi in tragedia. Cfr. anche Lyc. Alex. 102: kai; th;n a[numfon povrtin aJrpavsa~ luvko~ (detto del ‘lupo’ Paride che rapirà la ‘giovenca’ Elena – già sposata, in realtà – senza averla in moglie).

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

ragazze ancora accanto alla madre durante nobili feste di nozze in IT 1143-1146: coroi'" dÆ ejnstaivhn, o{qi kai; | parqevno" eujdokivmwn gavmwn | para; povdÆ eiJlivssousa fivla" | matevro" hJlivkwn qiavsou".

Per riassumere: si intreccia qui l’evidenza di una tradizione che in pochi versi prevede per cenni la ripresa di topoi ben riconoscibili: l’insistenza sul tema delle nozze attraverso terminologia specifica, il motivo dell’allontanamento della promessa sposa dalla propria madre (che si compie subito, in fretta, come se a[far suggerisse la celerità dello scontro, l’espressione è peraltro in eco interna con i vv. 133-134 sui repentini cambi della fortuna)111, l’associazione della fanciulla con una giovenca da aggiogare (i.e. da sposare) ma anche con un animale da aggiogare per il sacrificio (i.e. da uccidere) a indicare l’infelice condizione di Deianira. Il tono normalmente festoso del canto di nozze (a cui si accompagna ovviamente la danza) scivola quindi nel suo opposto, animato da una Stimmung trenodica112. Se il pubblico di allora aveva familiarità con questo genere di immagini, inserite in canti da eseguire durante feste di matrimonio, i versi sofoclei erano in grado di colpire l’uditorio proprio in virtù del fatto che essi evocavano sentimenti ed emozioni diffusi e positivi legati, appunto, alla celebrazione del rito nel suo svolgimento ordinario e gioioso113. 7. Nota di chiusura La complessità dello stasimo permetterebbe forse ulteriori scomposizioni, ma qui si intende concludere, sintetizzando. Attraverso il ricorso a generi differenti – scelti con finalità stilistiche precise – Sofocle ottiene un effetto di grandiloquenza: l’incipit che oscilla tra solennità innodica e ouverture pindarica e il diffuso tono da epinicio si adattano perfettamente a un incedere della narrazione da ballata ditirambica, che ha fatto pensare all’intonazione dei canti bacchilidei ma che si chiude in una sorta di antiepitalamio. Sullo sfondo, affiancato da un’esuberante ridondanza linguistica, il debito nei confronti di Omero riappare con forza, operando allusivamente sia su singoli elementi lessicali sia attraverso la metafrasi metrica, e consente al poeta di stendere una patina epica sulla rappresentazione dello scontro tra i due eroi. In tale direzione si è quindi tentato di immaginare il testo – per riprendere 111

Oltre a ELLENDT 1872, s.v., cfr. R. Führer in LfgrE, s.v. a[far, 1b: il senso più vicino a quello del nostro passo è «gar bald»; si veda anche – oltre a TSITSIBAKOU-VASALOS 1989 – SIDERAS 1971, 95: «dieses Adverb ist in der griechischen Tragödie selten, es findet sich je einmal bei Aischylos (Pe 469) und Euripides (I.T. 1274), während es auffallenderweise bei Sophokles viermal im selben Stück (Trach. 133, 529, 821, 958) vorkommt». 112 Cfr. CONTIADES-TSITSONI 1990, 28, che tuttavia usa l’espressione in riferimento a una situazione «in der die Hochzeit durch den nahenden Tod verhindert wird» (vale a dire i casi di Eur. IA e Tr., su cui CONTIADES-TSITSONI 1994). Per danze associate a feste di nozze, oltre a Od. 4, 17-19 e Od. 23, 131-149, cfr. Theocr. 18, 1-8 e il già ricordato Cat. 61, 14-15 (con FITTON 1973, 255). 113 Cfr. SEAFORD 1986, 53.

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le parole del titolo del capitolo – come luogo di confluenza di generi e come ‘contenitore’ (in una forma di inclusione e interazione, dunque, tra aspetti linguistico-letterari e aspetti esecutivi) della performance corale danzata di cui esso conserva ancora traccia.

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La parodo dell’Antigone: un canto di vittoria tra memoria poetica e coerenza formale 1. Struttura della parodo Se volessimo seguire la via di una preliminare classificazione relativa al ‘codice incipitario’ del coro sofocleo – ai modi del suo esordio sulla scena – si dovrà constatare, a un semplice raffronto tra le parodoi delle tragedie superstiti, che a differenza di Eschilo ed Euripide, i quali esibiscono il dispiegamento di una più variata gamma di opzioni, nei drammi del poeta di Colono il coro compie la sua entrata nello spazio dell’orchestra – danzando o in anapesti di marcia – con un’apertura verbale che si configura sempre come una Anrede mit ‘du’1. La parodo dell’Antigone non fa eccezione. All’interno di questo espediente omogeneo si potranno rilevare ulteriori diffrazioni: in Aiace, Elettra e Filottete il coro è impegnato in un appello nel quale il «tu» è rivolto a uno dei personaggi, sia esso o meno presente sulla scena (in Aiace il coro parla al protagonista già tornato nella tenda). Entra alla spicciolata esortandosi all’indagine autoptica nella concitata parodo autoreferenziale dell’Edipo a Colono, mentre è nella «voce di Zeus dalla dolce parola» che in Edipo re i coreuti cercano conforto, e alla luce del sole, al suo sguardo, si rivolgono rispettivamente il coro di vecchi di Antigone e il coro di fanciulle di Trachis: gli uni per celebrarne la beneaugurante venuta, le altre per domandare notizia del disperso Eracle. Possiamo dunque, almeno sotto questo profilo, considerare la parodo dell’Antigone coerentemente allineata rispetto agli altri drammi2, e tuttavia sotto un altro aspetto non ha paralleli in tutta la produzione tragica conservata. Il coro prende posto nell’orchestra mentre la scena è vuota, e lo fa cantando: è naturale domandarsi, condividendo le conclusioni di TAPLIN 1977, 64, in che modo nelle parodoi prive di anapesti esso facesse il suo ingresso e in che modo potesse mantenere una struttura responsiva anche per ciò che concerne la coreografia. Si può supporre che alla presenza di anapesti esso «made its entrance stepping to these anapaests, and continued its marching movements until it began on the choreography of the strophic lyrics». Ma se viceversa l’entrata prevede un attacco in lyricis, in caso di scena vuota alla fine del prologo3 il coro non poteva cominciare il suo canto sulle parole 1 Cori che esordiscono con il «tu»: Aesch. PV 128; Eur. Andr. 117; Hec. 98; Supp. 42; El. 167 (~ Soph. El. 121); Tr. 153; IT 126 (invocazione ad Artemide: cfr. KYRIAKOU 2006, 84-85); Or. 140 (si'ga si'ga, a se stesso); [Eur.] Rh. 1 (bh'qi, a se stesso ~ Soph. OC 117: o{ra). Questa dell’Antigone è l’apostrofe più ampia tra quelle in lyricis di Sofocle (MASULLO 1998, 35-36). 2 Come già notato da NESTLE 1930, 121, le parodoi di Ant., Ai. e OT sono accomunate da una contiguità tematica che le connette al prologo; in Trach., El. e Phil. (dal v. 169) oggetto del canto è il destino dell’eroe; in Phil. e OC non mancano richiami alla simultanea azione del coro. 3 Oltre ad Antigone cfr. e.g. Eur. Hipp. (e OT secondo NESTLE 1930, 69; TAPLIN 1977, 246,

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finali degli attori: «so it seems probable that when there was no anapaestic prelude the chorus entered with the opening words of the first strophe. In what respects, if any, the choreography of the antistrophe responded to the entry we cannot say». I versi 77-135 dell’Alcesti, verosimilmente di pochi anni posteriori all’Antigone, possono in una certa misura rivelarsi adatti a un confronto; il coro infatti anche qui (come accade del resto altrove, nell’Agamennone o nell’Aiace) entra a scena completamente vuota. Questi versi rappresentano inoltre la sola ricorrenza euripidea di parodo con introduzione anapestica, e a tale introduzione seguono due coppie strofiche intercalate da ulteriori anapesti (vv. 93-97 e vv. 105-111, dopo strofe a e antistrofe a, e vv. 132-135 dopo la seconda coppia)4. La natura ‘dialogica’ dei versi dell’Alcesti contrasta tuttavia con il carattere narrativo della struttura sofoclea, che in questo rimane, appunto, un unicum senza alcun termine di paragone, in virtù di un dato caratterizzante non rintracciabile altrove: il fatto che nell’ordine esecutivo gli anapesti di marcia non precedono ma seguono, nell’Antigone e solo qui, l’attacco lirico. A questo si aggiunga che – come già notato da NESTLE 1930, 116 – non vi è nel dramma di Sofocle alcuna dialogicità tra il coro (versi lirici) e l’esecutore degli anapesti (verosimilmente il corifeo, benché rimanga indecidibile l’attribuzione delle parti in recitativo). Resta fuori di dubbio che l’intero ductus del testo è affidato alla sola voce del gruppo di coreuti, stiano essi o meno cantando: l’alternanza tra i passaggi cantati, che si strutturano in due coppie strofiche di andamento eolo-coriambico, e i quattro sistemi anapestici (l’ultimo dei quali prelude all’arrivo in scena di Creonte e al ritorno ai trimetri) non prevede l’intervento di attori. Così KAIMIO 1970, 190: «since the anapaests announcing the actor [vv. 155-161] are in a position similar to the other anapaestic passages of the parodos, it is best to suppose that all of them were delivered in the same way – whether by the chorus-leader or the whole chorus seems to be insoluble»; lascia aperte entrambe le ipotesi anche MÜLLER 1967, 42. Frequenti, come noto, sono i casi di passaggio e alternanza tra anapesti recitativi e lirici in tragedia (raccolti in DALE 1968, 50-52), mentre viceversa come ricorda VAN NES DITMARS 1992, 28, n. 7, «the parodoi of Ajax, Philoctetes, and Prometheus Bound have choral lyric interspersed with anapaests recited by one of the characters». Ma se di primo acchito la forma del canto in Antigone pare simile a quella di Aiace, Filottete, Prometeo – con stanze liriche, dunque, che si alternano a sezioni anapestiche – nondimeno nei casi menzionati a eseguire le sezioni non liriche interviene un attore (Tecmessa, Neottolemo e Prometeo rispettivamente). Per GRIFFITH 1999, 139, a eseguire gli anapesti nell’Antigone è il «Chorus Leader (koryphaios), with the anapaests serving to explain

n. 1; GARDINER 1987, 99, n. 27; altri sono per la presenza di Edipo durante la parodo, cfr. BOLLACK 1990, 140): sul modulo a scena vuota che prevede in Ai., Eur. Alc. – ma con attacco anapestico – e Hipp. domande sul destino del protagonista si veda PATTONI 1990, 100. 4 In Sofocle ed Euripide i soli drammi con successione di anapesti e canto lirico entrambi eseguiti dal coro sono Aiace e Alcesti. Cfr. PATTONI 1990, 113, n. 48: «in successive tragedie sofoclee ed euripidee sequenze anapestiche iniziali sono attribuite all’attore (Elettra sofoclea, Medea, Ecuba, Ione, Troiane), oppure inglobate nel sistema strofico (Troiane); nel caso dell’Ecuba gli anapesti sono assegnati al Coro e le strofi liriche agli attori»; dopo l’avvio lirico anapesti eseguiti da Edipo, Antigone e coro accompagnano movimenti scenici nella parodo di OC, vv. 138-148, 170-175, 188-191.

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III. La parodo dell’Antigone

and supplement the more oblique lyrics rather than to contrast with them»; del medesimo avviso BURTON 1980, 90 (e n. 5: «Dindorf may be right in replacing the Doric forms ga'n and ga'/ etc. in these anapaests by the Ionic/Attic forms gh'n and gh'/»), incline all’idea che gli anapesti fossero «recited» dal corifeo, presumibilmente per marcare la differenza di tono – ma evidentemente non di lingua letteraria – tra i due sistemi, come già per JEBB 1900, 27: le parti anapestiche erano «recited by the Coryphaeus alone, in the pauses of the choral dance» (forse si tratta di una posizione esagerata). Per una sintesi dei giudizi su funzione e natura di tale alternanza (anapesti ‘descrittivi’ vs. canto celebratorio, tragedia familiare vs. vittoria civica, ecc.) cfr. KITZINGER 2008, 13-14 e 18. Si consideri che in DAWE 1996b e in GRIFFITH 1999 viene mantenuta la coloritura dorica anche nella prima sezione anapestica (ma leukh'~ al v. 114), contro la scelta di DAIN – IRIGOIN 1989 e degli editori oxoniensi (che stampano però uJperevpta al v. 113): la patina lirica risulta per questi versi mista anche nella tradizione (L ha hJmetevra/, ga/', ga'n, uJperevpta, A ha invece aJmetevra/; P.Oxy. 3686 – ed. H.M. Cockle –: a³m³etera, con in nota «a³: not h», ma leukh/` al v. 114). JEBB 1900, 248, rileva a ragione che pur non essendoci altri dorismi negli anapesti della parodo (ciò che spinge taluni a stampare ai vv. 110-113 hJmetevra/ [anche in Jebb], gh/', gh'n, uJperevpth), «in this passage [vv. 110-116] the anapaests are essentially part of the choral song; and the Doric forms ga/', ga'n, uJperevpta, are therefore appropriate. They serve to maintain the continuity of lyric character» (ma leukh'~ al v. 114; su questa linea COLONNA 1978, 80 anche per l’integrazione proposta da Nauck al v. 112 – su cui si rinvia a p. 113, n. 24 –: «Doricam restituens scripturam a[gage», ma al v. 110 stampa hJmetevra/). È in verità fluttuante lo stesso Dindorf, chiamato in causa da Burton: aJmetevra/ ga'/ e ga'n uJperevpta in DINDORF 1830, 170 (con XVI: «memorabilis est huius parodi compositio, in qua chori canticis tria interposita sunt systemata anapaestica coryphaei»), DINDORF 1832, 158 e DINDORF 1849, 156; hJmetevra/ gh'/ e gh'n uJperevpth in DINDORF 1860, 21-22 (con le nn. al v. 110: «non ab choro canuntur, sed ab coryphaeo recitantur», e ancora «formae Doricae in verbis hJmetevra/ ga'/ et v. 113. ej~ ga'n uJperevpta non dubitandum quin debeantur librario praecedentis strophae formis Doricis ajelivou, Qhvba/, aJmevra~ inducto, quae plane alienae sunt ab interpositis his anapaestorum systematis»); ma hJmetevra/ gh/' e ga'n uJperevpth in DINDORF 1863, 236-237 (con ajeto;~ ej~ gh'n nella nota al v. 113 a p. LI della praefatio) e hJmetevra/ gh/' e gh'n uJperevpth in DINDORF 1867, 18 (come nota PEARSON 1928, 180: «if these anapaests are lyrical […] we expect to find a general metrical correspondence [con il secondo sistema anapestico], a consideration which serves to account for the Doric forms (obliterated by Dindorf)»). Maggiore attenzione meriterebbe un problema di non poco conto che non investe ovviamente solo la tragedia ma le lingue letterarie in generale: si vedano le considerazioni di FORSSMAN 1966, 118-119 a proposito di Pind. P. 1, 30 (gaivh~ vs. gaiva~), con PALMER 1980, 132-133, O. Tribulato, p. 194, e S. Kaczko, pp. 254-255 in CASSIO 2008 (si tratta di meri punti di partenza per una discussione che qui non troverà spazio, e tuttavia utili per ulteriori sviluppi). Dietro PRETAGOSTINI 1976, potremo discernere la natura esecutiva di un sistema anapestico a partire da criteri linguistici, metrici e di struttura (vale a dire la valutazione del contesto, melico o in recitativo, nel quale gli anapesti sono inseriti). Dovremo concludere, per il caso dell’Antigone, che una serie di incertezze non permette una risposta univoca, a partire dalla presenza/assenza di dorismi lirici e dalla conseguente ambiguità nella pratica editoriale che ne deriva; ma i brevi e asimmetrici sistemi, che pure risultano incastonati tra versi in lyricis, si presentano decisamente irregimentati e privi della libertà di soluzioni che caratterizzerebbe un’esecuzione, appunto, lirica (vi si constata, e.g., la costanza della dieresi mediana ad eccezione del paremiaco di v. 161 – che tuttavia chiude l’intera parodo prima dei trimetri –, l’assenza del proceleusmatico, di dimetri olodattilici od olospondaici). Il contenuto del primo sistema, con immagini belliche e di soldati ed eserciti in movimento, nonostante la patina dorica sembra peraltro favorire l’ipotesi di un’andatura marziale e di marcia.

Oggetto del canto del coro è la celebrazione della vittoria militare ottenuta da Tebe contro l’esercito argivo: sorprende in effetti il numero di riferimenti 105

Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

alla città (nominata per tre volte: ai vv. 102, 149 e 153), che ovvia alla carenza di informazioni della parte prologica, in cui il luogo non viene specificato (parve, questo, un tratto del Sofocle più antico già a NESTLE 1930, 44, e del resto al v. 18 il generico ejkto;~ aujleivwn pulw'n è un indicatore ‘scenico’ e non geografico). Alla venuta del giorno nuovo questo consesso di vecchi chiamato da Creonte a una levsch fuori dal palazzo celebra e descrive la cacciata dell’aggressore: dopo essere stati semplici spettatori dello scontro gli anziani notabili di Tebe, nel loro entusiasmo e nel desiderio di dare risalto al senso di liberazione dal pericolo, mettono al centro del loro primo canto proprio la rotta del nemico guidato da Polinice, avvenuta ejn nukti; th'/ nu'n, come riferito da Ismene al v. 16, nel corso di questa notte che volge ormai al giorno5. In tale celebrazione – è stato scritto – similitudini e metafore sono portate fino al limite, come se gli uomini venuti da Argo diventassero una sorta di mostro dal volto cangiante, in un procedere confuso e quasi allucinato di immagini che scivolano una nell’altra. Ma nonostante la terribilità del momento descritto, è l’esultanza per lo scampato pericolo a rimanere il sentimento dominante del canto per tutto il corso di questa sessantina di versi6. Ismene rientrata a palazzo e Antigone partita per seppellire il fratello lasciavano spazio a quella che doveva essere avvertita, in assenza di altri attanti visibili, come una performance lirica pura. Veniva così probabilmente favorita la percezione, da parte del pubblico, del tono innodico di questo canto processionale d’entrata ispirato da gioia autentica, e in contrasto con l’ultima parola della protagonista al v. 97 (qanei'n), dato che il livello di consapevolezza del coro7 è al momento nullo, ignorando esso l’editto di Creonte e l’intenzione di opporvisi espressa da Antigone nel prologo. Così la lunga parodo8 (vv. 100-161): 5 JOUANNA 1999, 179: «l’invocazione al sole situa il canto della parodo nella cronologia di questo giorno tragico». Così quando Antigone andando verso la sua ultima dimora si lamenta di guardare l’ultima luce del sole (v. 807: nevaton de; fevggo~ leuvssousan ajelivou) bisogna certo intendere che vede il sole per l’ultima volta, «ma è anche la luce di un sole declinante»: il tentativo di sepoltura si colloca dopo mezzogiorno, ai vv. 415-416. Qui «die Sonne am Himmel gehört für den Dramatiker zur Skene, sie spielt mit», secondo SCHMIDT 1971, 38-39, per il quale le tragedie in cui il passaggio dal buio al giorno viene esplicitato nel prologo o nella parodo (per Sofocle in Aiace, Antigone e nella prima monodia di Elettra) dovevano essere i drammi d’apertura della trilogia, rappresentati alle prime ore del mattino. 6 VAN NES DITMARS 1992, 25: «sober facts are confined to sober meter in such a way that joy remains the dominant mood of the ode»; si veda anche GOHEEN 1951, 31. 7 NESTLE 1930, 57-58, ne rileva il senso: il coro è all’oscuro di ciò che è accaduto nel prologo come i vecchi della parodo di Aesch. Ag., e non solo: «auch in Ai. und O. T. ist der Chor über den Fortschritt der Handlung innerhalb des Prologs noch nicht unterrichtet […]. In allen vier Stücken [Ag.; Ai.; Ant.; OT] ist die Parodos in gleicher Weise dem Aufbau eingegliedert: der Chor zieht ein, um eine dem Zuschauer durch den Prolog bereits bekannte Mitteilung zu empfangen; er erhält sie durch den nach der Parodos auftretenden Schauspieler». Ma andrà inserito un distinguo, con PATTONI 1989, 33: non è quella dell’Antigone una parodo ‘simpatetica’, e l’interesse del coro è rivolto alla comunità e non alla sorte del protagonista, altrove (come, e.g., in Elettra o Aiace) «destinatario privilegiato del discorso lirico del Coro». 8 Da DAWE 1996b: singole questioni testuali verranno discusse di volta in volta. Analisi metrica in POHLSANDER 1964, 25-26; MÜLLER 1967, 42-46; DALE 1981, 22-23; VAN NES DITMARS 1992, 2023 e 27-31; DAWE 1996b, 67; GRIFFITH 1999, 140-143; GIANNACHI 2011, 27-33 (colometria della tradizione manoscritta).

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III. La parodo dell’Antigone ajkti;~ ajelivou, to; kavlliston eJptapuvlw/ fane;n Qhvba/ tw'n protevrwn favo~, ejfavnqh~ potÆ, w\ cruseva~ aJmevra~ blevfaron, Dirkaivwn uJpe;r rJeevqrwn molou'sa, to;n leuvkaspin ÿ ÆArgovqen ÿ fw'ta bavnta pansagiva/ fugavda provdromon ojxutovrw/ kinhvsasa calinw'/. o}n ejfÆ aJmetevra/ ga'/ Poluneivkh~ ajrqei;~ neikevwn ejx ajmfilovgwn ‹Ì ojxeva klavzwn aijeto;~ w}~ ga'n uJperevpta, leukh'~ ciovno~ ptevrugi stegano;~ pollw'n meqÆ o{plwn xuvn qÆ iJppokovmoi~ koruvqessin. sta;~ dÆ uJpe;r melavqrwn fonwvsaisin ajmficanw;n kuvklw/ lovgcai~ eJptavpulon stovma e[ba privn poqÆ aJmetevrwn aiJmavtwn gevnusin plhsqh'naiv te kai; stefavnwma puvrgwn peukavenqÆ ÓHfaiston eJlei'n. toi'o~ ajmfi; nw'tÆ ejtavqh pavtago~ ÒAreo~, ajntipavlw/ dusceivrwma dravkonto~. Zeu;~ ga;r megavlh~ glwvssh~ kovmpou~ uJperecqaivrei, kaiv sfa~ ejsidw;n pollw'/ rJeuvmati prosnissomevnou~ crusou' kanach'~ uJperoplivai~, paltw'/ rJiptei' puri; balbivdwn ejpÆ a[krwn h[dh nivkhn oJrmw'ntÆ ajlalavxai. ajntituvpa/ dÆ ejpi; ga'/ pevse tantalwqei;~ purfovro~ o}~ tovte mainomevna/ xu;n oJrma'/ bakceuvwn ejpevpnei rJipai'~ ejcqivstwn ajnevmwn. ei\ce dÆ ÿ a[lla ta; dÆ a[lla ta; dÆ ejpÆ a[lloi~ ÿ ejpenwvma stufelivzwn mevga~ ÒArh~ dexiovseiro~. eJpta; locagoi; ga;r ejfÆ eJpta; puvlai~ tacqevnte~ i[soi pro;~ i[sou~ e[lipon Zhni; tropaivw/ pavgcalka tevlh, plh;n toi'n stugeroi'n, w} patro;~ eJno;~ mhtrov~ te mia'~ fuvnte kaqÆ auJtoi'n dikratei'~ lovgca~ sthvsantÆ e[ceton koinou' qanavtou mevro~ a[mfw.

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle ajlla; ga;r aJ megalwvnumo~ h\lqe Nivka ta'/ poluarmavtw/ ajnticarei'sa Qhvba/, ejk me;n dh; polevmwn tw'n nu'n qevsqai lhsmosuvnan: qew'n de; naou;~ coroi'~ pannucivoi~ pavnta~ ejpevlqwmen, oJ Qhvba~ dÆ ejlelivcqwn bavkcio~ a[rcoi. ajllÆ o{de ga;r dh; basileu;~ cwvra~, Krevwn oJ Menoikevw~ ‹Ì neocmo;~ nearai'si qew'n ejpi; suntucivai~ cwrei' tivna dh; mh'tin ejrevsswn, o{ti suvgklhton thvnde gerovntwn prou[qeto levschn koinw'/ khruvgmati pevmya~É

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2. Memoria poetica e tracce di natura innodica Si sa che la rappresentazione della disfatta nemica è potenziata – oltre che da un repertorio di espressioni epicizzanti – dalla memoria della concitata parodo (ma non solo) dei Sette a Tebe. Se là il senso di terrore descriveva un attacco imminente e l’entrata del coro era parimenti motivata dall’intenzione di pregare la divinità, qui facendo trascolorare il panico delle fanciulle tebane nella gioia dei cittadini anziani Sofocle duetta con Eschilo fino a riutilizzare nel dettaglio il medesimo lessico. Il caso forse più evidente, accostabile ad Ant. 106-107, to;n leuvkaspin... fw'ta, «il guerriero dal bianco scudo», è il leuvkaspi~... laov~, «la schiera dal bianco scudo», di Aesch. Sept. 90-91 (la connessione tra il valore cromatico dello scudo e l’armata argiva è destinata a durare, se in Phoe. 1099 Euripide ricorre al pur raro aggettivo per definire il medesimo esercito invasore: leuvkaspin eijsorw'men ÆArgeivwn stratovn)9. È del resto l’impianto stesso dell’elaborazione del tema a rifarsi al modello della parodo eschilea: si vedano Aesch. Sept. 80, rJei' polu;~ o{de lew;~ provdromo~ iJppovta~ (e ai vv. 85-86 l’esercito rappresentato come un torrente impetuoso, con v. 211 – provdromo~ detto del coro giunto di corsa – e con Pers. 88: megavlw/ rJeuvmati fwtw'n) ~ Ant. 129, pollw/' rJeuvmati, e Ant. 108, fugavda provdromon (ma qui dell’esercito in fuga: fugavda perivdromon in Aesch. Supp. 350); Sept. 103-105, pavtago~... ÒArh~ ~ Ant. 125, pavtago~ ÒAreo~ (Ares è là potenza invocata a più riprese e qui fido e vigoroso alleato), cui si aggiungano la schiera dei sette (Sept. 124-126 ~ Ant. 141), l’assedio circolare alla città, come da sopra le mura (Sept. 90-91 e 120-121 ~ Ant. 117-118), le mascelle e il morso dei cavalli (Sept. 122-123 ~ Ant. 109 e 121)10. 9 I bianchi scudi sono «firmly fixed as an attribute of the Argives» (MASTRONARDE 1994, 453), «painted white» per JEBB 1900, 28, «polished bright» per KAMERBEEK 1978, 54: considerazioni ‘tecniche’ (scudi e corazze coperti di lino contro la vampa del sole?) in CRAIK 1986, 104-105. 10 Analisi delle corrispondenze in ELSE 1976, 35-41, e in special modo in DAVIDSON 1983.

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III. La parodo dell’Antigone

Al di là dei ben distinguibili echi dei Sette, sulla scorta dei commenti una classificazione sia pur generica della natura di questa parodo ci condurrebbe a una risposta omogenea. Si tratterebbe di un canto processionale di andamento innodico-celebrativo11 che esibisce più nel dettaglio, almeno per la prima strofe, l’intonazione di un peana per la vittoria12, in conformità con il suo contenuto trionfale, perché Tebe si è liberata del nemico e il rito prevede che si renda grazie ad Apollo, invocandolo. Forse di maggior conto è però il fatto che i versi di attacco dell’ode (vv. 100-104: glyc x 3 + 2cho B + glyc) ricalcano allusivamente l’incipit appunto di un peana di Pindaro13: Pind. Pae. 9, 1-7 (fr. A1, 1-7 Rutherford = fr. 52k, 1-7 Sn.-M.)

Soph. Ant. 100-104

ajkti;~ ajelivou, tiv poluvskopÆ ejmhvsao, w\ ma'ter ojmmavtwn, a[stron uJpevrtaton ejn aJmevra/ kleptovmenonÉ ‹tiv dÆÌ e[qhka~ ajmavcanon ijscuvn tÆ ajndravsi kai; sofiva~ oJdovn, ejpivskoton ajtrapo;n ejssumevnaÉ ejlauvnei~ ti newvteron h] pavro~É ajlla; se pro;~ Diov~, iJpposova qoa;~ ktl.

ajkti;~ ajelivou, to; kavlliston eJptapuvlw/ fane;n Qhvba/ tw'n protevrwn favo~, ejfavnqh~ potÆ, w\ cruseva~ aJmevra~ blevfaron, Dirkaivktl.

La palese conformità dell’esordio è considerata quasi unanimemente un’imitazione consapevole: cfr. MÜLLER 1967, 47; KAMERBEEK 1978, 53; GARNER 1990, 81 («an apt poetic quotation, a tribute to an earlier song»); GRIFFITH 1999, 143: «these opening words echo those of Pindar’s 9th Paian». Alcune delle calamità menzionate da Pindaro ai vv. 13-20 sono altrettanto rilevanti in Antigone, come la stavsin oujlomevnan ricordata dal tebano al v. 15 secondo RUTHERFORD 2001, 189-200 (cui si rinvia per un più puntuale commento; a p. 199, n. 34, Rutherford menziona la «remoter possibility» che essi abbiano un modello comune: si vedano anche i versi di apertura delle Fenicie). Per il testo pindarico cfr. anche FURLEY – BREMER 2001, I, 199-205 e II, 150-160: ivi si ritiene sicuro il reimpiego dell’attacco pindarico anche in Eur. Phoe. 3-5 («Euripides’ recall of Pindar’s ‘eclipse poem’ is, no doubt, deliberate, to excite in his audience a sense of 11 GRIFFITH 1999, 139-140; FURLEY – BREMER 2001, I, 298: «the chorus expresses joy and relief in hymnic form», ma già KRANZ 1933, 191; per MANTZIOU 1981, 212, n., il canto «is a song of rejoicing, not an actual hymn». Vi vede un tono più ‘privato’ GARDINER 1987, 84: «more personal than civic. Their song contains no sweeping prayer for the safety of the state, nor is it a hymn of thanksgiving offered to the gods for the rescue of the city». 12 KAMERBEEK 1978, 10: «the first strophe of the Parodos is more or less a paean of victory», con BURTON 1980, 91 («possibly a paean»), RUTHERFORD 1994-1995, 126-127 («Greeks would have thought of it as a victory paean», ripreso in RUTHERFORD 2001, 110 e 199-200) e SWIFT 2010, 29 («while the ode has few of the formal features of the paian, it could be seen to play the role of a paian»); così KITZINGER 2008, 14: «the two alternating modes of paean and marching rhythm translate the victorious army and the battle itself into different levels of mimetic representation on stage». POZZI 1971, 63, pensa a «an epinician ode», e nota GRIFFITH 1999, 140 che «images of athletic competition add an ‘epinikian’ flavour» a una forma innodica non di stretta osservanza. 13 L’attacco pindarico è considerato da Dionigi di Alicarnasso un ditirambo o un iporchema: Dem. 7, 7 (p. 59, 22 – p. 60, 1-2 Aujac), con RUTHERFORD 2001, 193-194; per la natura verosimilmente processionale (di almeno alcuni) dei peani pindarici si veda ibid., 175-176, con D’ALESSIO 1997, 30-31.

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

foreboding») oltre che nell’attacco sofocleo, «another clear ‘echo’ of Pindar’s paian» (II, 153). Furley e Bremer offrono dei vv. 1-3 del frammento pindarico questa traduzione: «what did you have in mind (by contriving) that the highest star was stolen?» (II, 153: l’alternativa è considerare a[stron uJpevrtaton un vocativo, «“o highest star (who was) stolen by day”, but the added participle makes the apostrophe of “highest star” awkward»; si veda tuttavia la traduzione offerta in I, 199: «what did you intend, […] by disappearing, highest star [vocativo], by day?»). Proprio il confronto con il passo sofocleo fa deporre per la presenza di un’ulteriore, seconda apostrofe dopo w\ ma'ter ojmmavtwn anche nel peana pindarico («luce del sole, cos’hai meditato, tu che tutto vedi, madre degli occhi, astro eccelso in pieno giorno sottratto alla vista?»: trad. di R. Sevieri): a[stron uJpevrtaton... kleptovmenon ~ Ant. 100-102 to; kavlliston... fane;n... favo~. Più cauto BURTON 1980, 91 e n. 6: «the echo [del testo pindarico] is therefore purely verbal»; l’invocazione è in effetti corrente, ma la forma ajevlio~ è diffusa in tragedia – cfr. BJÖRCK 1950, 165 – e convive come già nella lirica accanto ad a{lio~. È perciò plausibile che alle spalle della forma sofoclea ajelivou ci sia l’intenzionale riesumazione dell’attacco pindarico, oltre che il reimpiego di una variazione di costrutti simili secondo DAVIDSON 1983, 41-42 (Od. 7, 84: hjelivou ai[glh; Bacch. 5, 161-162 M.: ajelivou... fevggo~; Pind. P. 4, 144: sqevno~ ajelivou, e fr. 129, 1 Sn.-M.: mevno~ ajelivou; Od. 10, 160: mevno~ hjelivoio ~ H. Hom. Ap. 3, 371 e 374; Theogn. 712: favo~ hjelivou; Aesch. Ag. 575: hJlivou favei). Il sofocleo ajkti;~ ajelivou... favo", dunque, «can be seen as a logical formulation in terms of the poetic tradition to which he belonged». Per l’invocazione cfr. e.g. Eur. Med. 1251-1253 (è il coro): ijw; Ga' te kai; pamfah;~ | ajkti;~ ïAlivou, kativdetÆ i[dete ta;n | ojlomevnan gunai'ka; Trach. 1086: w\ Dio;~ ajktiv~, pai'son (la iunctura ajkti;~ hJlivou è anche in Eur. Supp. 650); similmente l’Elettra sofoclea si rivolge, entrando in scena, alla luce solare: El. 86: w\ favo~ aJgnovn (ma senza «optimism»: FINGLASS 2007, 122) mentre a una luce senza chiarore, per l’ultima volta, si rivolge Edipo vecchio a Colono: OC 1549: w\ fw'~ ajfeggev~. Per il sole che ‘vede’ cfr. tra altri Aesch. Ag. 676-677, eij dÆ ou\n ti~ ajkti;~ hJlivou nin iJstorei' | Êclwrovn te kai; blevponta e per la ricorsività di un simile cliché, oltre a Soph. Trach. 102, Ar. Nub. 285: o[mma... aijqevro~. Ma non si dovrà sottovalutare il fatto che il richiamo allo sguardo della divinità è anche forma consueta nell’invocazione cultuale (cfr. CITTI 1962, 17 e 150 con n. 64). Per una ulteriore possibile Anspielung da (o di) Ione di Chio (PMG fr. 745: ajoi'on ajerofoivtan | ajstevra meivnamen, ajelivou | leuka/' ptevrugi provdromon, ma fr. 84, 3 Leurini: leukoptevruga provdromon) cfr. almeno GARNER 1990, 78-80; BAGORDO 2003, 219-221; se si propende per l’idea di una dipendenza di Sofocle da Ione, assisteremmo a un procedimento non nuovo in Sofocle, di ‘ripescaggio’ e collocazione di unità poetiche compiute in posizioni distinte rispetto alla struttura offerta dall’ipotesto; questi i termini ripresi: ajelivou, leuka/' ptevrugi (~ leukh'~ ciovno~ ptevrugi, v. 114), provdromon (v. 108). Si potrà confrontare infine il nostro passo, come esempio di memoria melica incipitaria ‘forte’, con l’attacco della seconda parabasi in Ar. Eq. 1264-1265, tiv kavllion ajrcomevnoi- | sin h] katapauomevnoisin ktl, che riprende puntualmente l’inizio di un prosodio pindarico (fr. 89a Sn.-M.). Tale attacco, secondo FRAENKEL 1962, 206, riproduceva anche una melodia riconoscibile, almeno da un pubblico colto: «sobald der Chor mit dem Gesang von Tiv kavllion ajrcomevnoisin begonnen hatte, erkannten die musikalisch gebildeten Mitglieder des Publikums – und das muss damals eine stattliche Anzahl gewesen sein – nicht nur die Worte des Pindarischen Hymnus, sondern auch seine Melodie»; la notorietà di questo incipit «è testimoniata anche dalla trasposizione elegiaca operata da Dionisio Calco […] (fr. 6 Gent.-Pr. [= fr. 6 W.2], ap. Ath. 15.702c)»: così TOTARO 1999, 36-37, con bibliografia.

Questa consonanza è resa ancora più salda da una affinità nella rappresentazione dell’astro: ai vv. 5-7 del peana, Pindaro descrive il raggio come un rapido guidatore di cavalli, suggerendo l’immagine del sole che guida il suo carro, mentre Sofocle ne fa la forza che ha cacciato il nemico incitandolo alla 110

III. La parodo dell’Antigone

fuga con il morso14. L’identica contestualizzazione geografica dei due eventi descritti, vale a dire Tebe15, ci rinvia a un peana nel quale l’iniziale invocazione al Sole è riflesso ed esito di una paura diffusa. Pindaro va descrivendo nel canto (verosimilmente del 463)16 un’eclissi che ha oscurato il cielo, e l’allusione è dunque qui complicata dal fatto che nell’attacco della parodo dell’Antigone l’espressione-modello verrebbe applicata a una situazione opposta: non la sparizione infausta del sole e lo spavento apotropaico generato dall’eclissi, ma la gioia per il suo fausto apparire17, che potrebbe tuttavia costituire per Sofocle la rievocazione di un voluto, rovinoso, presagio. La voce del coro, lo si è già rilevato, muove dal caratteristico «tu», in conformità con un uso che pare precipuamente sofocleo. Tuttavia, se considerato sotto un altro profilo, il ricorso in principio del canto all’espediente del «Du-Stil»18 già lo flette verso una caratterizzazione di genere. Rimane inoltre evidente che la solennità del passo, in questo fedele al suo ‘prototipo’ lirico, viene a sua volta enfatizzata dalla struttura innodica tripartita iniziale: 1) ajkti;~ ajelivou, 2) to; kavlliston... tw'n protevrwn favo~19, 3) w\ cruseva~ aJmevra~ blevfaron (assimilabile, questo «occhio di un giorno d’oro», al pindarico w\ ma'ter ojmmavtwn). Sembra in effetti che questo attacco costituisca il normale sviluppo di una premessa epicletica (ovviamente eliminata nell’economia del canto e del dramma: l’invocazione alla luce precede fittiziamente la celebrazione della sua venuta). ejfavnqh~ potÆ, ribadito dalla parechesis con fanevn e favo~, funziona infatti come naturale conseguenza e ‘risposta’ positiva a un’antecedente invocazione espressa nelle forme diffuse di epiclesi quali, e.g., deu'ro favnhqi, deu'rÆ ajfikou', il saffico e[lqe moi kai; nu'n (fr. 1, 25 V.) e ancora l’anacreonteo e[lqÆ hJmivn (fr. 14, 7 Gentili = PMG fr. 357, 7), ma la lista potrebbe continuare. L’inno che scioglie l’angoscia presuppone una preghiera – «sei infine apparso, raggio del sole» – nell’hic et nunc del canto che replica alla richiesta ordinaria, anticipata e accorata (ma qui esclusa) del «vieni, appari!»20. 14 Un’ulteriore invocazione al Sole iJpponwvma~ è in Ar. Nub. 571-574, un contesto cletico segnalato dalla presenza dell’aggettivo megalwvnumon al v. 569 – come in Ant. 148 –, su cui infra: per la sacrale serietà del tono di questi versi cfr. DOVER 1968, 172-173. 15 Possibile omaggio sofocleo alla patria di Pindaro secondo BAGORDO 2003, 202. 16 Cfr. RUTHERFORD 2001, 192. 17 RUTHERFORD 2001, 199-200: «a celebratory victory paiavn, contrasting with the fearful and apotropaic song of Pindar», con RUTHERFORD 1994-1995, 127. Per l’uso comune di favo~ come ‘salvezza’ si veda EASTERLING 1978, 146 (con Hesych. f 814 Hansen – Cunningham: fovw~: fw'~. carav. swthriva, e LSJ9 1916, II, s.v.); CSAPO 2008, 278, con bibliografia. Elaborazioni simili del motivo della luce fuori dalla tenebra sono, tra altri, Aesch. Pers. 299-301; Soph. Ai. 706-710. 18 Si veda, per l’espediente retorico, il cap. I, p. 24, n. 15. 19 Per la costruzione cfr. MÜLLER 1967, 47-48; GRIFFITH 1999, 144: «fairer than all», e in particolare DAVIDSON 1983, 42. 20 ejfavnqh~ sarebbe da considerarsi passivo secondo ALLAN 2006, 123-124: «finally you have been shone forth». Gli esempi tragici di richiesta di apparizione sono raccolti al cap. I, par. 1. Si veda l’accoglienza dell’usignola, fivltaton ojrnevwn, alla sua uscita in apertura del kommation della parabasi di Ar. Av. (sono i vv. 676-681, metri eolici): h\lqe~, h\lqe~, w[fqh~ (v. 680), «con la serie di epiteti iniziali che ricorda lo schema dell’inno cletico» (ZANETTO 1992, 238), e riecheggia se non

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

Altri elementi sono riconducibili in maniera pressoché certa al lessico e alla Stimmung degli inni consegnatici dalla tradizione. Non si entrerà qui nel dettaglio di un dibattito complesso e che richiederebbe una trattazione a parte che esula dal fine di queste pagine, se cioè la parodo tragica e le parabasi comiche costituissero, come residuo di primigenie forme drammatiche, la sede privilegiata per l’intonazione di un inno agli dei (con Temistio, che in Or. 26, 316d attribuisce ad Aristotele l’idea che per la tragedia to; me;n prw'ton oJ coro;~ eijsiw;n h/\den eij~ tou;~ qeouv~). Ciò che invece ci si propone è il reperimento dell’eventuale presenza di spie che riconducano a strutture sintattiche o a un lessico dedicati. Non dovremo dunque attenderci una inderogabile fedeltà, diremmo, alla ‘librettistica’ innodica, quanto invece l’allestimento da parte di Sofocle di una propria personale linea di sviluppo vicina a quella della tradizione ma ad essa non completamente sovrapponibile attraverso dei procedimenti e una fraseologia conformati al contesto. Si tratta sempre di valutare in quale misura la natura innodica sia nell’impianto di pura invenzione drammaturgica – e quindi connessa con la funzione dell’elemento cletico all’interno della performance come caratterizzazione del ruolo del coro e funzionale al contesto dell’agone – o legata a una diretta e primitiva matrice cultuale come riteneva Eduard Fraenkel21. Almeno per l’incipit abbiamo già visto che ci troviamo all’interno di una evidente ‘retorica della preghiera’, benché l’epiclesi non generi qui una richiesta ma si limiti a un ringraziamento. Non sembra però del tutto assente nemmeno la parte che generalmente segue l’attacco innodico, quella relativa – secondo la definizione corrente – alla eulogia22, se consideriamo la prima strofe nel suo sviluppo complessivo. Si noterà infatti che la voce dei coreuti qui si inarca sul tragitto di un’intera stanza senza alcuna pausa sintattica fino al primo sistema anapestico, forse a rievocare con variazione il tradizionale Partizipialstil (su cui d’obbligo e ovvio è il rinvio alle classiche pagine di NORl’anonimo motivo della rondine (PMG fr. 848, 1-3) forme di canto popolare (IMPERIO 2004, 325330, oltre a DUNBAR 1995, 426). È forse accostabile, dall’Hymnus Curetum di Palaikastro (IC III II, 2 = CA p. 160), probabilmente del IV sec. a.C., l’incerto refrain bevbake~ seguito dall’invito a tornare, e{rpe (ora in FURLEY – BREMER 2001, I, 68-75 e II, 1-20, con bibliografia, e il commento di WEST 1965, 151-152, che traduce «who […] art gone», con la cautela espressa dagli editori dei Greek Hymns). Fuori contesto innodico – non sono certo gli unici casi – cfr. Il. 24, 104; Od. 16, 23: h[luqe~... qea; Qevti ed h\lqe~, Thlevmace, «sei giunta/o», con valore tra asseverativo ed esclamativo (altri esempi, più propriamente casi di prosphonetikón, in CAIRNS 1972, 17-23). 21 Ci si limita al rinvio a FRAENKEL 1931 e 1962; CITTI 2003, 41 e n. 5: l’esiguità di esempi tragici e il ruolo delle parodoi, spesso funzionali al plot e non ad esso estranee, non confermano tale ipotesi (cfr. le considerazioni di DEVLIN 1994, 163-164). Per la commedia – ed epiclesi di Muse e divinità –, oltre a HORN 1970, 12-21, si veda una sintesi in IMPERIO 2004, 93-99; per la natura innodica delle odi della parabasi dei Cavalieri cfr. FRAENKEL 1962, 191-196, e ancora IMPERIO 2004, 226-228 e le successive sezioni di commento (234 in particolare: «invocazioni analoghe, a divinità o a Muse, ad assistere il coro o a unirsi a esso nel canto e nella danza sono ricorrenti nelle odi parabatiche aristofanee»; per Acarnesi 665-718 cfr. pp. 142-144). Così BREMER 1981, 212-213: «it cannot be fortuitous that especially in the parodos of tragedy and in the parabasis of comedy the chorus sings songs to one god, or a group of gods, in perfect hymnic style» (con riferimento per la tragedia, in n. 67, a Aesch. Sept. 87-180; Ag. 160-183; Soph. OT 158-167; Eur. Ba. 72-169). 22 Ma come noto anche altrimenti definita: cfr. almeno FURLEY – BREMER 2001, I, 51.

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III. La parodo dell’Antigone

1913, 166-176)23. Si ricorre al participio già ai vv. 100-102 (to;... fane;n... favo~), ribadito dal molou'sa di v. 105 (ancora un verbo di ‘venuta’) e infine, a chiudere la lunga sequenza vocativa, il kinhvsasa al v. 109. È fatta inoltre salva la coincidenza tra periodo sintattico e lunghezza della stanza, retta da un unico verbo finito, ejfavnqh~ (al di là delle questioni testuali è certo il cambio di soggetto al v. 110)24. È qui che viene messa in luce la duvnami~ dell’astro divinizzato, come anche l’esplicito riferimento al suo operato e a una geografia dalla toponomastica connotata in funzione celebrativa che coincide con la sua zona d’influenza (vv. 104-105: Dirkaivwn uJpe;r rJeevqrwn molou`sa25, e cfr. Pind. I. 1, 29, rJeevqroisiv te Divrka~ e[fanen ktl, di Castore e Iolao, dentro un vero e proprio inno a loro dedicato, e soprattutto Soph. Ai. 702-703, dove Apollo è chiamato a unirsi al coro di marinai che accompagnano Aiace ÆIkarivwn dÆ uJpe;r pelagevwn molwvn). Epiteto cultuale, frase relativa seguita da participiale e specificazione dell’area di competenza sono peraltro riutilizzati da Sofocle più avanti, ai vv. 1115-1154 in quello che si configura come un tradizionale inno a Dioniso (molto meno ambiguamente rispetto alla parodo e con una elevatissima concentrazione di topoi innodici)26. Nella parodo la connotazione innodica subisce, dopo questo avvio, una battuta d’arresto, ma riemerge nell’ultima sezione del canto, ai vv. 148-151 in particolare (prax II x 2 + hemiascl I + 2cho B): DEN

ajlla; ga;r aJ megalwvnumo~ h\lqe Nivka ta'/ poluarmavtw/ ajnticarei'sa Qhvba/, ejk me;n dh; polevmwn tw'n nu'n qevsqai lhsmosuvnan:

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A spezzare il tono lugubre che ha animato la precedente sezione anapestica (vv. 141-147), senz’altro la più cupa di tutte, interviene con funzione di rottura ajlla; gavr. Tale recisione riporta il coro e gli spettatori all’hic et nunc della festa, e della gioia manifestata nella prima stanza27, dopo la lunghissima parentesi narrativa che dura dal v. 110. La iunctura appare qui e poco sotto, al v. 155 (e, per limitarsi ai passi in lyricis, Soph. El. 223), e sembra un 23

Con DORSCH 1983, 11; FURLEY – BREMER 2001, I, 56-60 (ma già ADAMI 1900, 242-243). Per il testo di DAWE 1996b si veda più sopra: la difesa della paradosis al v. 110 (o}n ktl anche in P.Oxy. 3686, dove forse già c’era lacuna secondo GIANNACHI 2010, 33) è condotta in modo persuasivo da KAMERBEEK 1978, 55, e si veda anche GRIFFITH 1999, 146, ma con la necessità che il verbo della principale (il cui soggetto è Polinice) sia compreso nella lacuna postulata al v. 112, variamente integrata (qualcosa come «condusse», Nauck: ‹h[gage: kei'no~ dÆÌ, con cambio di soggetto dopo il punto in alto, «quello che… Polinice… condusse; ed egli come un’aquila…», e cfr. schol. ad l. [p. 222, 8 Papageorgiou]: h[gagen oJ Poluneivkh~, mentre PEARSON 1928, 180, che difende h[gagen, mira al ripristino della responsione con il secondo sistema anapestico, vv. 127-130, su cui infra). LLOYD-JONES – WILSON 1990b, 119, giustificano o}~... Poluneivkou~ di Scaligero (tra altri difeso da JEBB 1900, 30; VAN NES DITMARS 1992, 33-34): «lui [l’uomo da Argo] che… sollevato… come un’aquila…». 25 GRIFFITH 1999, 144 chiarisce l’ambiguo riferimento: il fiume scorre a ovest, opposto al sorgere del sole (JEBB 1900, 28: «the Dircè is preferred, as the representative river of Thebes»). 26 Su di esso si veda al cap. IV, parr. 2 e 3. 27 «The h\lqe Nivka repeats the ajkti;~ ajelivou molou'sa, as the ta/' poluarmavtw/ ajnticarei'sa Qhvba/ reflects to; kavlliston eJptapuvlw/ fane;n Qhvba/»: WHEELER 1904, 243. 24

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

primo ancorché vago debito che Sofocle paga in questa manciata di versi a Pindaro – già celebrato sulla soglia del canto – e alla tradizione lirica. I due elementi del nesso conservano il loro valore, avversativo il primo e causale il secondo, «e il senso avversativo, che non è espresso, può essere supplito dal contesto»28: qualcosa come «ma (ora basta) perché è giunta…», o anche – come a voler distinguere l’essenziale dall’accessorio – «ma ecco, è giunta…». Dopo l’utilizzo di metri eolici nelle prime due stanze, i versi 148149 (come già nella strofe i vv. 134-135) palesano il ricorso al raro prassilleo II (: 3da + tr)29, che contribuisce a un tono di solennità epicizzante. Nike sperata (e verosimilmente, come la luce del giorno nuovo, invocata) scende dunque su Tebe in una festosa epifania di grazia30, e questa Vittoria, ‘depositata’ a fine verso dai dattili, è megalwvnumo~. L’aggettivo va ricondotto senz’altro nell’alveo della poesia religiosa, come parte di un lessico resistente da riferire come epiteto al dio, data la nota tendenza, per la forma e il linguaggio della poesia sacrale, a una forte conservatività31. La prima ricorrenza disponibile risale ai poeti di Lesbo (Sapph. fr. 44A, 3 V. = Alc. fr. 304, 3 L.-P.), dove l’aggettivo è riferito a Zeus, ma il termine gode di una secolare vitalità proprio in ambito innodico, fino a Isidoro e ai suoi inni in onore di Iside (I secolo a.C.), alla fitta presenza negli Inni orfici – dovuta al fatto che l’aggettivo è facilmente collocabile in sequenze dattiliche – e alla tradizione dei papiri magici. Sono forse le ricorrenze aristofanee a meglio illuminare il ruolo che il termine assume anche nel passo del poeta tragico. Anzitutto megalwvnumo~ compare non a caso in Thesm. 315-316 nel cuore di un inno cletico (vv. 312330): Zeu' megalwvnume, crusoluvra te | Dh'lon o}~ e[cei~ iJeravn («  D [prolonged] ia cho» in contesto metrico «primarily iambic and dactylic»32; da confrontare con l’analogo v. 320 e l’altrettanto connotan-

28 P. Giannini in GENTILI 1995, 437 (a Pind. P. 4, 32); si veda DENNISTON 1954, 98-108 (l’espressione marca «the contrast between what is irrelevant or subsidiary and what is vital, primary, or decisive»: p. 100); per Pindaro cfr. O. 1, 55; 6, 53-54; P. 4, 32; N. 7, 30 e 52; I. 4, 16; 7, 16; fr. 52f, 54 Sn.-M.; fr. 60a, 11 Sn.-M. (con Aesch. Sept. 861 – in sezione da taluni espunta –, dove il coro annuncia l’arrivo in scena di Antigone e Ismene: ajlla; ga;r h{kousÆ ai{dÆ ktl ~ Ant. 155: ajllÆ o{de ga;r dh; basileu;~ ktl, su cui infra). 29 Cfr. GENTILI – LOMIENTO 2003, 107: «l’associazione del dattilo con il trocheo si riscontra in due versi: il decasillabo alcaico […] e il prassilleo II. […] Rari gli esempi nel dramma attico: vedi Soph. Ant. 134 sg. = 148 sg.» (con, e.g., Aesch. Ag. 1547, altri casi in DALE 1968, 161). La continuità con la prima coppia strofica è garantita dal nucleo coriambico, ai vv. 136 = 150 e 137 = 151:  +  (emiasclepiadeo I + dimetro coriambico B): si veda p. 116, n. 36. 30 Per WHEELER 1904, 244, questa Nike è «the type familiar to us from the vase-paintings, the cupid-like Nike who with the fillet as badge of victory in her hand flits down to greet and decorate the victorious charioteer» (si veda LIMC VI, 1, 901, nrr. 326-329, specialmente 329, rilievo marmoreo ateniese dell’ultimo quarto del V sec., oggi al British Museum, = SMITH 1892, I, 373, nr. 814: immagine in THÖNE 1999, tav. 10, 3, con le pp. 87-89), ma cfr. sotto per le connessioni con trofeo e peana. Per l’importanza che essa assunse dopo le guerre persiane in Atene si veda WILSON 2007, 259-263. 31 FURLEY – BREMER 2001, I, 45. 32 AUSTIN – OLSON 2004, 155, seguendo PARKER 1997, 406-409; così, ancora, AUSTIN – OLSON

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III. La parodo dell’Antigone

te aggettivo che vi compare per Artemide: kai; poluwvnume qhrofovnh)33. Esso, ancora, è in Nub. 563-574 all’interno di una sequenza – aperta dall’invocatio di Zeus cui seguono quella di Poseidone, di Etere e del Sole «reggitore di cavalli» – dalla natura giambico-coriambica, che prevede l’inserimento di nove dattili lirici ai vv. 569-570: kai; megalwvnumon hJmevteron patevrÆ Aijqevra semnovtaton, bioqrevmmona pavntwn (scil. kiklhvskw: v. 565). L’uso aristofaneo conferma dunque in corrispondenza dell’aggettivo l’assecondamento, per così dire, di un’andatura dattilica in occasioni di canto schiettamente innodiche: «il dattilo tra gliconei è notevole, e ricorre ancora in Thesm. 1136 ss., un inno cletico di grande polimetria e raffinatezza formale. Se si esclude l’invocazione a Etere, il canto suona tradizionale anche nel tema»34. I passi concernenti la ‘grandezza del nome’ come epiteto esornativo innodico, poco sopra dati per sommi capi, sono raccolti in KEYßNER 1932, 47 (con aggettivi ad esso affini, quali e.g. eujwvnumo~, o l’antitetico duswvnumo~). Non andrà dimenticato che il mutilo e frammentario peana di Sofocle (PMG fr. 737(b) = Pai. 32 Käppel: si tratta di IG II2 III 4510 = SEG XXVIII 225) si dispiega a partire da un’invocazione a Coronide con una serie di dattili – convenzionali al genere secondo FARAONE 2011, 225-226 – e con un aggettivo al nostro affine: (w\) Fleguva¼ kouvra periwvnume ma'ter ajlexipov»n¼o»io¼ qeou'. Non manca peraltro l’invito alla divinità a «giungere»: movloi~ al v. 6; si veda DE MARTINO 2003, 458-464; per FURLEY – BREMER 2001, I, 261-262 e II, 219-221 si tratta del canto che nel 420 a.C. accompagnò l’introduzione del culto di Asclepio in Atene – su cui, per le inferenze con la biografia sofoclea, CLINTON 1994, con TrGF IV T 67-69 e 73. L’epiclesi potrebbe in Ant. apparire come affatto generica, ma si potrà pensare, in associazione, all’apparentemente estrema genericità della già evocata poluwnumiva (cfr. anche Ant. 1115, e cap. IV, par. 2); la Vittoria è ‘dai molti nomi’ in Bacch. AP VI 313, 1 (= Epigr. 1, 1 M.): Kouvra Pavllanto~ poluwvnume, povtnia Nivka.

Tebe visitata dalla Vittoria, come vuole una tradizione già omerica, è designata da un epiteto esornativo che ne sottolinea qualità militari e quindi in linea con il tema portante della narrazione. Ma se appare affatto naturale al verso 149 che la città sia chiamata poluavrmato~, non deve sfuggire che

2004, 156: l’aggettivo, raro e poetico, è «first attested at Sapph. fr. 44A. a. 3 (of Zeus); subsequently at Nu. 569 […]; V. 1518/19 (lyric; of Karkinos’ sons)». 33 FURLEY – BREMER 2001, II, 348: «megalwvnume, poluwvnume: the epithets highlight the importance of ‘naming’ in hymns […]. Giving the god addressed the right title served both to accord him/her honour, and to pinpoint the deity called on exactly, so his/her power might flow more effectively». 34 LOMIENTO 2007, 324: «il canto è intonato dalle Nuvole, il cui ingresso in scena era appunto segnato da misure dattiliche: quasi un loro specifico leitmotiv» (andrà tenuta presente come traccia di metodo anche l’analisi metrico-tematica della parodo dei Sette in LOMIENTO 2004). Si vedano anche DOVER 1968, 172 e PARKER 1997, 194: «metrically, the song [delle Nuvole] has a strong resemblance to the parabasis-song of Knights (551 ff.=581 ff.), another cletic hymn. Both songs begin with two sections in iambo-choriambic, followed by a third section in a distinctive rhythm (asclepiadic in Knights, dactylic in Clouds) and end in aeolo-choriambic». L’inno cletico di Ar. Thesm. 1136-1159, basato sul tipo innodico del «Poseidone ippio signore…» della parabasi dei Cavalieri (PARKER 1997, 197, n. 3), è in eolici, con inserto di 4 dattili al v. 1157 dove c’è anche correptio epica (con le note di AUSTIN – OLSON 2004, 333 e 336, ma cfr. anche PARKER 1997, 449 – per la quale si tratta di contesto «aeol da» – e 451). Per l’intensa presenza, nel passo delle Nuvole, di epiteti cultuali, si veda WILLI 2003, 19.

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

l’aggettivo è hapax assoluto, e tuttavia sotto ogni aspetto un ‘pindarismo’35. Pindaro chiama infatti Tebe filavrmato~ (I. 8, 20), ma anche brisavrmato~ (fr. 70b, 26 Sn.-M.: OLIVIERI 2009, 101 e n. 40) e eujavrmato~ (fr. 195, 1 Sn.-M.). L’aggettivo è pure altrove nel poeta beota, ma non riferito alla città: l’unica altra ricorrenza al di fuori di Pindaro è proprio in Ant. 844-845: Qhvba~ tÆ eujarmavtou. Verrebbe da ipotizzare che si tratti a tutti gli effetti, dietro modelli offerti dall’autore lirico, di una neoformazione sofoclea. Nell’incertezza si potrà almeno senz’altro affermare che il tragico intendeva concedere maggior vigore alla reciprocità della cavri~ (tra città e dio che la visita) anche attraverso un’affinità ‘ritmica’: se infatti Nivka è megalwvnumo~ (v), Tebe è poluavrmato~ (v). L’impiego ‘omerico’ dell’abbreviamento in iato tra poluarmavtw/ e ajnticarei'sa doveva rafforzare l’impressione della contiguità fonico-ritmica dei due versi (148 e 149), trovandosi peraltro Nivka e Qhvba/ a occupare le ultime due sillabe del prassilleo II. Interviene in più, come detto, la sua anima dattilica a concorrere insieme con la correptio al v. 149 a fornire una coloritura epica, mantenendo tuttavia nel contempo una forte coerenza con l’andamento eolo-coriambico dell’intera ode36. Proprio in ajnticarei'sa (ajnticaivrw è hapax fino a Eustazio) si ritrova un ulteriore esempio di lessico investito di aura religioso-sacrale. Si tratta della manifestazione della forma consueta di ‘reciprocità’ testimoniata da sezioni innodiche (sovente di chiusura) dove saluto al dio e salute/favore per gli uomini vengono a intersecarsi, dove l’attitudine di grata adorazione che idealmente caratterizza il fedele si fonde con la grazia e la compiacenza palesati dal dio come conseguenza del culto: nessun’altra famiglia di termini sembra riassumere altrettanto bene la relazione che l’orante si sforza di stabilire con la divinità37. Tale attitudine di scambio ha una delle sue forme più compiute nella sequenza di dattili lirici del carme epigrafico a carattere cerimoniale trasmesso in quattro iscrizioni di epoca e geografia differenti, noto, dalla sua versione più antica, come peana eritreo (l’iscrizione di Eritre è databile come terminus post quem al IV sec. a.C.), un canto per Asclepio invitato a rendere visita alla città e ai suoi 35

«Nous avons probablement affaire ici à des pindarismes»: BERGSON 1956, 77 (l’aggettivo «is an exotic-heroic detail, enhanced by dactylic rhythm» per GRIFFITH 1999, 153); Pindaro ha anche – ma non per Tebe – ajrisqavrmato~ (P. 5, 30); rJimfavrmato~ (O. 3, 37, e Soph. OC 1062); calkavrmato~ (P. 4, 87: hapax); crusavrmato~ (O. 3, 19; P. 5, 9; I. 6, 19). Già nell’epos la città è nota per cavalli e corse (cfr. e.g. Il. 4, 391: Kadmei'oi kevntore~ i{ppwn), ma la tradizione è plurisecolare (si veda ad esempio Eur. Phoe. 17, Qhvbaisin eujivppoi~). 36 GRIFFITH 1999, 142-143 parla di «quasi-epic flavour […] suggesting an air of victorious confidence»: i due prassillei () «pick up on the pattern of 105 = 122 ( ), with reiteration of the pendant ending, and internal expansion of the choriambic element». La lista degli «heavy compounds» (nome + aggettivo o nome + verbo) è in EARP 1944, 67 (oltre ai due citati: eJptavpulo~, pansagiva, iJppovkomo~, dexiovseiro~, pannuvcio~, ejlelivcqwn). 37 RACE 1982b, 8 e 10: cavri~ è «one of a multitude of words used to seek the benevolence of the deity», ma anche «the most versatile, and probably the most important, term of its kind in Greek hymnology». Repertorio in KEYßNER 1932, 132, dove vengono ricordati i casi in cui il dio – come qui – si rallegra delle preghiere, dei doni o dei sacrifici ricevuti, come, e.g., Ar. Nub. 274; Av. 1743; Thesm. 312-314 (i versi che precedono Zeu' megalwvnume ktl, al v. 315) e 977-980; ma già H. Hom. Bacch. 26, 11-12: kai; su; me;n ou{tw cai're polustavfulÆ w\ Diovnuse: | do;~ dÆ hJma'~ caivronta~ ej~ w{ra~ au\ti~ iJkevsqai; Theocr. 15, 149. Si veda anche WILLI 2003, 29, con bibliografia.

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spazi; in esso la richiesta della concessione ai cittadini caivronte~ di «vedere la luce del sole» è come di consueto augurio di un bene e di una salvezza che il dio è chiamato a garantire giorno dopo giorno (PMG fr. 934, 19-23 = Pai. 37, 19-23 Käppel)38: cai'rev moi, i{lao~ dÆ ejpinivseo ta;n ajma;n povlin eujruvcoron, ije; Paiavn, do;~ dÆ hJma'~ caivronta~ oJra'n favo~ ajelivou ktl.

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Ora che la luce del sole è sorta, nel caso del passo sofocleo la reciprocità dovrebbe consistere nella benevolenza mostrata da Nike, divina ipostasi della vittoria militare da poco ottenuta e quindi ‘condotta’ e celebrata in città. È ad essa che spetta il merito di porre lhsmosuvna, «dimenticanza», del conflitto recente39. L’occasione innodica che qui viene data per presupposta sulla base dell’analisi condotta più sopra legittima ulteriormente al v. 151 (= 137, 2cho B: ) l’elezione a testo (con Kamerbeek, Dawe, Griffith – già Jebb –, ma non Lloyd-Jones e Wilson) del difficilior infinito iussivo qevsqai (RVT) in luogo del pur ben tràdito qevsqe (LATs.l.)40. Esso andrà infatti accostato all’«infinitif d’ordre» (JOUANNA 2007b, 126) di Ant. 1142-1143, molei'n kaqarsivw/ podiv – a Dioniso – e ad altri inconfondibilmente inseriti in contesti celebrativi o di preghiera, quale la parola d’inizio del breve canto delle donne di Elea (PMG fr. 871: ejlqei'n... Diovnuse... tw/' boevw/ podiv)41. Del resto tali due esempi, in Antigone, di «unprepared jussive infinitive» si collocano non a caso nei due inni della tragedia, a conferma di una somiglianza non solo drammatica ma anche sintattica tra le due sezioni (BERS 1984, 175: «the dramatic action casts both infinitives in an ironic light»; i verbi che seguono nel primo caso sono un congiuntivo esortativo – ejpevlqwmen – e poi un ottativo – a[rcoi –, ed è come se qevsqai pescasse il proprio soggetto nel dativo Qhvba/ che lo precede). Questo perentorio «basta con la guerra» (o con temi guerreschi) è espediente non raro, e si potrà accostare alla funzionale invocazione rivolta alla 38 Con cavrma al v. 4: per la cronologia cfr. KÄPPEL 1992, 193, e per l’analisi metrica CERBO 2010; si veda anche FURLEY – BREMER 2001, II, 166, e I, 61-63 (cronologia alle pp. 212-214): «the two sides are complementary […]. Cavri~, caivrw, carivzomai are basic vocabulary of the hymnodist in expressing this mood of reciprocal pleasure» (pp. 61-62). Considerazioni sulla reciprocità anche in BREMER 1998 (di cui, per la lettura che propongo, andrà segnalato l’asserto a p. 135: «can we describe paeans as cult-songs of thanksgiving? Yes, definitely», e alla pagina seguente: «the paean must have fulfilled the function of a thankful outburst in the direction of the saving god who had demonstrated that he deserved to be invoked as such», con esempi). 39 Allusione a Hes. Th. 55 per GARNER 1990, 210: le Muse furono partorite perché fossero lhsmosuvnhn te kakw'n a[mpaumav te mermhravwn, ma è una troppo vaga corrispondenza. 40 Così l’apparato di DAWE 1996b: «qevsqai RSVT, fort. Lac qevsqe Lpc rell.». 41 Sui rapporti tra il canto delle donne di Elea e l’inno a Dioniso, nonché sull’infinito iussivo, si torna al cap. IV, par. 2. Si ricorda qui almeno una preghiera a Dioniso quale Anacr. fr. 14, 7-8 Gentili (= PMG fr. 357, 7-8), kecarismevnh~ dÆ | eujcwlh'~ ejpakouvein, dove è da notare l’idea di cavri~, come nel peana di Isillo (fine IV sec. a.C.), Pai. 40, 58 Käppel: ije; Paiavn, caivren.

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Musa, ostile a povlemo~, e al riuso del motivo della guerra ‘da respingere’ in Ar. Pax 775-777: Mou'sa, su; me;n polevmou~ | ajpwsamevnh metÆ ejmou' | tou' fivlou covreuson (a sua volta probabile Anspielung a un frammento stesicoreo)42. Nel passo di Aristofane alla recusatio che mira a bandire i conflitti militari dal proprio canto a favore di meno gravi intrattenimenti viene ad accompagnarsi, come in Ant. 152-154, l’invito alla danza festosa. Così il dettato sofocleo, che va a chiudere prima dell’ultimo sistema anapestico il canto vero e proprio (2cr + 2cho + 2cho + reiz): qew'n de; naou;~ coroi'~ pannucivoi~ pavnta~ ejpevlqwmen, oJ Qhvba~ dÆ ejlelivcqwn bavkcio~ a[rcoi.

La festa notturna prevede celebrazioni nei templi degli dei, e ascrive a Bacco il ruolo speciale di guida nelle danze43. Una breve digressione è qui necessaria, per meglio inquadrare il nostro passo entro una rete di richiami di genere anche altrove messi in conflazione fra loro da Sofocle. Non deve infatti stupire l’affiorare di simile centralità per Dioniso. Restando a Sofocle sarà da menzionare il ‘peana ditirambico’ di Trach. 205-224 (v. 221: ijw; ijw; Paiavn, e vv. 210-211: oJmou' de; paia'na, pai- | a'nÆ ajnavgetÆ, w\ parqevnoi), annoverato per la sua natura festosa e autoreferenziale tra gli stasimi iporchematici sofoclei, dove la gioia per l’annunciato ritorno di Eracle si fonde con un invasamento menadico al suono scatenato dell’aulo che guida la vivace danza al grido dell’evoé. Dovremo insieme pensare, in special modo, al ruolo che il dio44 svolge nella chiusa della parodo dell’Edipo re, dove elementi della preghiera si fondono con un’invocazione peanica45, e dove egli è chiamato – insieme ad Apollo – come ‘cacciatore’ di Ares (vv. 203-215). La parodo 42 PMGF fr. 210, su cui FRAENKEL 1962, 207-208; OLSON 1998, 225. Per il rifiuto di celebrare eroi e battaglie cfr. GENTILI 2006 (già 1984), 204. 43 GRIFFITH 1999, 154: «the almost incantational alliteration and assonance of 152-4 (p, q, c/k, and esp. pan-, qw/qh) are typical of cult invocation»; per la suddivisione cfr. VAN NES DITMARS 1992, 23, n. 3, diversamente dalla quale però al v. 152 si accoglie, come la maggior parte degli editori, il recenziore pannucivoi~ (ZcZfZo [vd. app. Dawe] Tm) contro pannuvcoi~ di LAT (stampato, e.g., da LLOYD-JONES – WILSON 1990a: si veda KAMERBEEK 1978, 60). Si va così a costituire in pannucivoi~ pavnta~ ejpevl-, in luogo di cr + cho, un 2cho che favorisce un probabile andamento (2cho + 2cho + reiz, così anche DALE 1981, 22-23) affine alla chiusa della prima coppia strofica (107-109 = 124-126: 2cho B + 2cho B + pher), con il reiziano dei vv. 140 = 154 () echeggiante il ferecrateo dei vv. 109 = 126 (). Va però rilevato – qui come nella strofe – un diverso ‘stacco’ in LAT: qew'n de; naou;~ coroi'~ pannuvcoi~ pavn- | ta~ ejpevlqwmen, oJ Qhvba~ | dÆ ejlelivzwn [ejlelivcqwn Ls.l.T: si veda p. 137, n. 95] bakcei'o~ a[rcoi. Al v. 154 bakcei'o~ è corretto in bavkcio~ da BOTHE 1806, 285, da tutti seguito (bavkcio~ a[rcoi ~ dexiovseiro~, v. 140). 44 Sulle connessioni fra i versi della parodo e l’inno a Dioniso in Antigone si tornerà brevemente al cap. IV, par. 4, così come sulla natura ‘iporchematica’, ma di fatto mista, di Trach. 205-224 (cap. IV, par. 3). 45 I versi dell’Edipo re erano già da KRANZ 1933, 193 messi in relazione con la parodo dell’Antigone. La prima lettura ‘religiosa’ del canto spetta ad AX 1932: «von Anfang bis Ende haben sich in diesem Liede die Anklänge an liturgische Poesie gezeigt» (p. 416). Per la presenza di linguaggio e atmosfera peanici nel passo si rinvia a SWIFT 2010, 77-81, con le ancora utili considerazioni di FAIRBANKS 1900, 14-17, e con BURTON 1980, 141-148; per la sua natura innodica e impetrativa si

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dell’Edipo, dalla sintomatica e massiccia presenza dattilica nelle prime due coppie strofiche46, contiene come noto spie evidenti di matrice cultuale (epiclesi, ragione della richiesta, preghiera vera e propria), a partire dall’invocazione iniziale, w\ Dio;~ aJduepe;~ favti, al refrain ijhvi>e Davlie Paiavn (v. 154 – con Pind. Pae. 5, 1 = D5, 1 Rutherford = fr. 52e, 1 Sn.-M.: ijhvi>e DavliÆ ÒApollon –, e v. 186: paiw;n de; lavmpei). Esso sottolinea il carattere eminentemente sacrale del canto nell’invocazione del dio ‘guaritore’ in relazione alla pestilenza che affligge Tebe. Si aggiungano la ‘targa’ cletica profavnhtev moi (v. 163: si vedano i passi raccolti al cap. I, par. 1) e la hypomnesis dei vv. 164-167: ei[ pote... e[lqete kai; nu'n. Dentro la finzione drammatica la città devastata dalla peste (la stessa città che fa da sfondo all’Antigone) crea il contesto ideale per l’innalzamento di una preghiera che si configura nell’andamento complessivo come un peana/richiesta di soccorso dai toni lugubri e lamentevoli (v. 186); proprio l’invocazione di Dioniso (in «Er-Stil»: to;n crusomivtran te kiklhvskw, v. 209) e la speranza di una sua subitanea epifania, sono avvertite come principio di salvezza per Tebe. Torniamo però all’Antigone. È grazie all’attesa epifania di Dioniso nel finale della parodo che viene rispettata la prevedibile configurazione ad anello: all’invocazione in «Du-Stil» di apertura era seguita la lunga sezione narrativa, ma – complice la praeteritio dopo che in realtà tutto il canto si è concentrato su temi guerreschi – il coro torna all’autoesortazione ad abbandonarsi alla festa e soprattutto ripiega verso il finale «Er-Stil». Individuando in Dioniso il proprio ideale corifeo i vecchi lo invitano a a[rcein, a essere cioè ejxavrcwn (verrebbe da pensare che la proiezione del coro faccia riferimento a una danza ditirambica, trattandosi di Bacco): «guidare» il canto e «dare inizio» alla coreografia47. vedano FURLEY 1995, 41; CALAME 1999, 132-133; FURLEY – BREMER 2001, II, 280-289; CITTI 2003; STEHLE 2004, 144-148. Vi si torna brevemente al cap. IV, par. 2. 46 Così HALDANE 1963, 55, a proposito del peana al Sonno risanatore in Soph. Phil. 827-832 (con i[qi i[qi moi paiwvn al v. 832, vi si torna al cap. IV, par. 2): «the dactylic metre [con riferimento a v. 827, in responsione con v. 843: 4 da, così AVEZZÙ 2003, 333; DALE 1983, 277] was a favourite one of the paean. It is used in the opening pair of strophes in the Oedipus Tyrannus parodos, in the paean of Macedon and the Erythraean paean (I), and, according to the conjecture of Wilamowitz (Gr. Verskunst, p. 353 [WILAMOWITZ 1921]), in the inscriptional paean of Sophocles». Sull’utilizzo di sequenze dattiliche come tratto comune tra parodo di intonazione peanica dell’Edipo re, i ricordati peana sofocleo e peana eritreo per Asclepio e quello di Macedonio (Pai. 41 Käppel) – e anche altri passi, come l’attacco in dattili del breve inno al Sonno del Filottete – si sofferma CERBO 2010, 227, n. 13, e 239-241: FARAONE 2011, inoltre, ipotizza l’esistenza di una tradizione specialmente ateniese di inni peanici dattilici e astrofici almeno a partire dall’età di Sofocle. In un quadro più ampio giustamente CERBO 2010, 239 ricorda che «per l’assetto metrico originario il peana eritreo si ricollega ad una tradizione alquanto fiorente di canti a carattere rituale in versi dattilici […] presenti già nella lirica arcaica», rinviando ad Alcm. PMGF 14 e 27 (con le considerazioni generali, per il peana, di FAIRBANKS 1900, 46-48). Si tornerà brevemente più sotto su un possibile ma poco dimostrabile rapporto fra gliconei e peana. 47 L’esortativo ejpevlqwmen non è l’unico autoinvito alla danza da parte di cori sofoclei: si vedano – per il supposto sfondo dionisiaco che caratterizzerebbe tutti i casi di autoreferenzialità in Sofocle – i passi citati al cap. IV, par. 3. Così KAIMIO 1970, 102, n. 5: «it cannot, however, always be said that the dramatic illusion is broken; in S. Ant. 152 and OT 1093 the idea of dancing is well suited to the reactions of the people in drama» – e cfr. anche p. 52, e p. 144 per il ricorso

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Ma nel momento in cui spinge al movimento se stesso e il dio, il coro smette, proiettandosi invece dentro il primo episodio con l’annuncio dell’arrivo di Creonte e il suo effettivo apparire nel quarto sistema anapestico, come se questo ‘cominciamento’ della festa contenesse già la sua fine nella prevista comparsa del personaggio (è lui ad avere indetto un’assemblea: vv. 159-161). Tale comparsa è marcata dall’espressione ajllÆ o{de ga;r dhv (v. 155) che pur in continuità con l’inizio della seconda antistrofe (ajlla; gavr, v. 148) segna anche l’interruzione brusca del canto: qui – come dopo la parodo dell’Edipo re e dopo l’inno a Dioniso in Ant. 1155ss. – l’avvento sperato della divinità è disatteso. E in seno al dramma è proprio l’inno a Dioniso a costituire il naturale pendant di questi versi; il dio è là evocato come corego degli astri (v. 1147: coravgÆ a[strwn)48 con il suo corteggio di menadi danzanti tutta la notte (vv. 1151-1154: pavnnucoi | corevousi ktl), come per converso nella parodo è chiamato a danze festose e notturne (vv. 152-154: coroi'~ | pannucivoi~ ktl)49. In una sorta di composizione anulare e con opposta funzione alla fine della tragedia si chiede al dio di tornare «con piede puro» (v. 1140: kai; nu'n, e vv. 1142-1143: kaqarsivw/ podiv), non più invocato come divinità di una danza liberatoria e ‘positiva’ ma per sanare Tebe da una «malattia violenta» (biaiva~... novsou: vv. 1140-1141). Come prima era apparsa la luce del sole (ejfavnqh~ potÆ: v. 103) ora il coro invoca l’apparizione di Dioniso notturno (profavnhqÆ: 1149), da un inno a un altro tramutando la gioia in un canto dai toni più lugubri. La programmatica espressione di una volontà precisa innesta dunque anche il punto d’arrivo e la fine dell’esibizione di elementi di genere50. Sofocle realizza nell’orchestra ora per la prima volta occupata dal coro una situazione radicalmente opposta rispetto a quella immaginata anni dopo da Euripide in Ba. 71-72, dove è nella chiusa del preludio anapestico che il coro entrante esprime l’intenzione di cantare Dioniso (ta; nomisqevnta ga;r aijei; | Diovnuson uJmnhvsw), e tale proposito puntualmente si realizza in una parodo anch’essa costruita proprio sulla falsariga di un inno al dio51 evocato come e[xarco~ al v. 141, con 114-115: aujtivka ga' pa'sa coreuvsei, | Brovmio~ eu\tÆ a]n a[gh/ qiavsou~ (in Eur. Hipp. è invece il protagonista ad agire da ‘guida’ nel momento in cui allo «hortative subjunctive» ejpevlqwmen, qui anticipato dai possessivi al v. 110 (aJmetevra/) e al v. 120 (aJmetevrwn); è solo a questo punto della parodo, però, che il coro si riferisce al proprio agire sull’orchestra (in questo caso un agire nell’immediato futuro della notte che verrà: per ora si prepara a incontrare Creonte, non a danzare). Per l’invito alla danza rivolto a una divinità cfr. il cap. I, p. 27, n. 30: in Ar. Eq. 586-589 l’invito è rivolto ad Atena, deu'rÆ ajfikou' labou'sa th;n... hJmetevran xunergo;n Nivkhn, h} corikw'n ejstin eJtaivra (su Nike in questo passo cfr. IMPERIO 2004, 247-250; si veda anche LOMIENTO 2007, 322). 48 Si rinvia, per la danza degli astri, al cap. IV, par. 3, con p. 156, n. 66. 49 «La présence de Thèbes dans la parodos et le dernier stasimon – et non dans les autres chants intermédiaires – est une raison supplémentaire de croire que Sophocle a tissé des liens entre le chant initial et le chant final»: JOUANNA 2007b, 121, n. 27, con 2007a, 456-462 e 850, e si veda al cap. IV, p. 163, n. 91. 50 «At this point their song might have passed into a regular hymn addressed to a series of gods but their religious impulse is cut short by Kreon’s entrance»: FURLEY – BREMER 2001, I, 298. 51 Si vedano almeno le analisi di FESTUGIÈRE 1956 e FERRARI 1979.

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III. La parodo dell’Antigone

spinge i cacciatori del suo séguito a levare un inno ad Artemide: vv. 58-60). Andrà altresì rilevato quale ulteriore distinguo che se i tratti innodici della parodo delle Baccanti sono, come in Antigone, assimilabili a una processione d’entrata a scena vuota, tuttavia la celebrazione della festa nella tragedia sofoclea viene procrastinata perché impedita all’improvviso. 3. Un peana irrealizzato Si dovrà ora fare un passo indietro: l’inventario messo insieme fin qui contiene un incipit che ricalca l’attacco di una composizione pindarica insieme a un’assimilazione, potremmo dire d’atmosfera (ma anche con puntuale dispiegamento di risorse di genere), a un inno – composto almeno in parte in liaison con l’altro inno del dramma, in onore di Dioniso – e a un ejpinivkio~ paiavn52. Dobbiamo senz’altro giudicare la parodo dell’Antigone come un peana per la vittoria, afferma lo stesso editore e commentatore del testo pindarico. Tuttavia, continua giustamente Ian Rutherford, «no formal features corroborate this»53 per quanto non manchino i casi di esplicite menzioni del peana in Sofocle a testimonianza di una sua qualche familiarità con il genere (si veda sotto alla n. 69, p. 127). Già si è constatato che il canto consacrato dai generi della lirica non drammatica e dalle singole occasioni performative migrando in ambito drammatico perde i suoi aspetti canonici più vistosi, e (come sottolineato da DEVLIN 1994, 136ss.) può limitarsi a fornire alla tragedia non tanto il ‘pieno’ di una intonazione rituale quanto piuttosto solo il modello d’attacco, senza sviluppo di formule cletiche iniziali. Forse però per Antigone alcuni elementi ci spingono ulteriormente nella direzione del motivo alluso in esergo, portandoci a dire che nel passo operano sia un’allusività testuale precisa (Pindaro), e verisimilmente anche riconoscibile da una parte del pubblico, sia referenze a un ‘clima lirico’ intuibile come peanico. Potremmo cioè provare a ipotizzare per questo testo – già fortemente orientato verso una dimensione religiosa – uno statuto da ‘falso peana’, o meglio da peana che di volta in volta non riesce compiutamente a realizzarsi, fallendo54. Il canto di festa si colloca infatti, nello svolgersi della vicenda, opportunamente al momento di massima gioia, e contribuisce quindi alla creazione di quello scarto all’interno dell’azione drammatica tra una situazione positiva presunta e la catastrofe imminente. Assolve in questo senso a un ruolo non diverso da altri stasimi iporchematici sofoclei, che precedendo e non preconizzando il disastro manifestano un particolare effetto di giubilo 52

La più antica traccia è in Il. 22, 391-394, peana di vittoria che Achille e compagni intonano portando il corpo di Ettore al campo. Un cenno al peana per Apollo è già in Il. 1, 472-474. 53 RUTHERFORD 2001, 110. 54 RUTHERFORD 1994-1995, 118: «paeans in tragedy are often deceptive; a calm appearance sets the stage for a disaster». Un ulteriore caso di «failed paean», con il canto che volge al lamento, è riscontrabile nei Sette a Tebe: si vedano BATTEZZATO 2005, 162-163 e SWIFT 2010, 28.

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

espresso nel canto e nella danza55. La voce corale svolge in questo modo la sua «funzione performativa nella misura in cui i coreuti, donne o uomini, fanno uso delle forme musicali e della dizione propri della poesia melica rituale e, nell’adottare le forme del peana, dell’imeneo o del threnos, compiono nell’orchestra atti di culto cantati, che si inseriscono nello svolgimento dell’azione eroica rappresentata»56. L’esecuzione dell’inno in onore del Sole percepito come promotore della salvezza e della stabilità della polis è qui condotta da vecchi inermi a battaglia conclusa, ma il peana di celebrazione è canto per eccellenza giovanile57. Tale elemento di contrasto rispetto a una pratica nota, accanto all’espressione di una gioia in eccesso rispetto alla catastrofe che si prepara, è forse il primo indizio di ambiguità che rinvia ad altri virtuali e interrotti, o falliti, peani. Di nuovo Eschilo poteva fornire al poeta più giovane un ipotesto ulteriore, dato che il Polinice dei Sette – attenendoci a quanto riferisce a Eteocle il messaggero che descrive l’eroe schierato alla settima porta – al v. 635 si augura di «cantare, in esaltazione bacchica»58 il suo paiavn di vittoria (aJlwvsimon paia'nÆ ejpexiakcavsa~). Ancora nei Sette Ippomedonte lancia il suo grido di battaglia (ejphlavlaxen: v. 497) e bakca/'... quia;~ w{~ (v. 498), «baccheggia come un’invasata». Una situazione raffrontabile a quelle immaginate da Eschilo (oltre ai Sette, in Aesch. Supp. 96-97 il dio ijavptei i mortali ejlpivdwn | ajfÆ uJyipuvrgwn) non manca nella parodo sofoclea, dove viene descritto un personaggio precipitato dagli spalti per opera di uno Zeus che mal sopporta i vanti di una lingua arrogante, megavlh~ glwvssh~ kovmpou~, come detto ai versi 127-128 (quasi un’anticipazione della chiusa del dramma: vv. 1350-1353, come sottolineato da VAN NES DITMARS 1992, 36-37), dove alla massima di valore universale viene fatto seguire un exemplum ‘interno’59. Il dio infatti (vv. 131-137):

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Si vedano il cap. I, par. 5, e il cap. IV, par. 3. CALAME 2007, 50. 57 RUTHERFORD 1994-1995, 115-116 e 2001, 58-63, con FURLEY – BREMER 2001, I, 89: «the dance of the male youths […] is an artistic and cultic expression of their readiness to support and defend the polis». Per peani ‘al femminile’ si vedano CALAME 1977, I, 147-152; KÄPPEL 1992, 81-82; in tragedia HENRICHS 1996, 59, con esempi. 58 Il verbo è l’hapax ejpexiakcavzw: così traduce GI2 778, e cfr. LSJ9 617: «shout in triumph over». Così lo schol. ad Aesch. Sept. 635b (p. 149, 2-3 Morocho Gayo = II, 2, p. 279, 2-3 Smith): kai; bohvsa~ kai; ajlalavxa~ paia'na kai; u{mnon aJlwvsimon kai; ejpinivkion (per la imagerie musicale nei Sette si veda HALDANE 1965, 36-37). Oltre a questo passo, per la labilità dei confini di culto in alcuni testi si veda anche, e.g., il peana di Filodamo Scarfeo (339 a.C.: Pai. 39, 11 Käppel) che in refrain accosta Bacco e Peana, come anche in Aesch. TrGF III F 341; Eur. TrGF V, 1 F 477; PLitGoodspeed 2, fr. f, 13-14 Meliadò (altri casi in RUTHERFORD 2001, 133 e n. 14, e MELIADÒ 2008, 123-124; si veda anche BERTAZZOLI 2009, 441 e n. 13). 59 Così BURTON 1980, 92. Un’altra spia di dipendenza di Sofocle da Eschilo secondo ELSE 1976, 37: «kovmpo", its compounds, and words of kindred meaning (e.g., ejpeuvcesqai, uJpevrfrwn) provide an insistent ground-bass in the description of the attackers and their shield-devices» (seguito da DAVIDSON 1983, 46; paralleli in KAMERBEEK 1978, 57). Sul passo delle Supplici ha richiamato la mia attenzione Liana Lomiento: per un’analisi dell’intera parodo del dramma eschileo cfr. LOMIENTO 2008. 56

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III. La parodo dell’Antigone paltw'/ rJiptei' puri; balbivdwn ejpÆ a[krwn h[dh nivkhn oJrmw'ntÆ ajlalavxai. ajntituvpa/ dÆ ejpi; ga'/ pevse tantalwqei;~ purfovro~ o}~ tovte mainomevna/ xu;n oJrma' bakceuvwn ejpevpnei rJipai'~ ejcqivstwn ajnevmwn.

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Il nemico purfovro~ salito fino al punto più alto delle mura leva il suo ajlalav di vittoria, e nell’impeto dell’assalto è anch’egli preda della frenesia. Di lui il coro dice che spirava in raffiche di vento d’odio «baccheggiando con furia da invasato», ai vv. 135-137. Quando gli tocca in sorte di essere gettato a terra da Zeus60 sta intonando un ejpinivkio~ paiavn, verosimilmente meno articolato di quello che il coro sofocleo sta celebrando nella ‘diretta’ del canto (la nivkh acclamata e attesa da questo tracotante nemico è effettivamente giunta in città – come ammesso dal coro al v. 148 –: ma a favore della parte avversa). Alcuni hanno ritenuto di dover identificare nel personaggio senza nome che sale sugli spalti non Capaneo ma Polinice61, benché il «portatore di fuoco» venisse riconosciuto come Capaneo già dall’esegesi antica anche sulla base dei versi che lo descrivono nei Sette62. Egli lancia dunque in esaltazione bacchica il suo grido di vittoria – nivkhn oJrmw'ntÆ ajlalavxai – che già ab antiquo assume la parvenza di qualcosa di analogo al peana di vittoria evocato dal messaggero eschileo per il Polinice dei Sette, e uno scolio al verso dell’Antigone glossa infatti ajlalavxai con paiwnivsai63: il peana per Nike cantato dallo straniero non è andato a buon fine perché l’invasore è stato 60

tantalwqeiv~, hapax, poteva significare «dopo aver vacillato» o «patendo il destino di Tantalo» (interpretazioni raccolte in DAVIDSON 1987a): si rinvia allo schol. ad 134 (p. 224, 10-19 Papageorgiou) e all’esegesi di SCATTOLIN 2004, a cui ci si rifà; ajntivtupo~ si dice in senso attivo «di ciò che restituisce un colpo se colpito», in senso passivo di ciò che è «respinto da una superficie, tipicamente il suono e la luce» (p. 407): la connessione tra Capaneo e Tantalo sarebbe una caduta (venne cacciato dall’Olimpo ma anche, oltre al noto supplizio, schiacciato sotto il monte Sipilo scagliato da Zeus o ‘minacciato’ da un masso sul capo); Sofocle avrebbe attinto dalla tradizione «la suggestione e della colpa [una lingua impudente: WILLINK 1983, 30-33] e della punizione, condensandole in unum per rendere completo il paragone con la caduta di Capàneo, colpevole di u{bri~ per l’esibito disprezzo della potenza di Zeus (cfr. Aesch. Sept. 422-436)» (pp. 412-413). 61 Dietro SEGAL 1981, 166, 170, 197 e 202 (che riferendosi a Polinice e mai a Capaneo non sembra – almeno a queste pagine – contemplare una possibile ambiguità) e LONNOY 1985, 68, si muove BIERL 1991, 63 e n. 55, secondo il quale già nei Sette Polinice viene attratto nella sfera della maniva dionisiaca (v. 661); l’oro delle armi – cfr. Ant. 130 – è caratteristica degli scudi di entrambi in Aesch. Sept. 644 e 660 (Polinice) e 434 (Capaneo, con JEBB 1900, 34; ELSE 1976, 37); contro l’interpretazione di Bierl si schierano LLOYD-JONES – WILSON 1997, 69. GRIFFITH 1999, 150 non rileva nel passo dell’Antigone «specifically Dionysiac reference» (come già DAVIDSON 1983, 48), ma la cifra dionisiaca nella caratterizzazione di Capaneo costituisce un naturale e sinistro elemento di connessione con il motivo delle danze dionisiache evocate in chiusa (WINNINGTON-INGRAM 1980, 116): la superiorità di Ares ha placato la follia nemica, ora sarà il corteggio bacchico ad avere la meglio sulle «guerre di ora» (vv. 150-151). In Aesch. Sept. 343 Ares mainovmeno~ dÆ ejpipnei': vi scorge un gioco allusivo con Ant. 134-140 GARNER 1990, 210. 62 Vv. 423-436: oltre al kovmpo~ e alla volontà di bruciare Tebe, porta sullo scudo la figura di un atleta purfovron. Per Capaneo ‘incendiario’ in tragedia cfr. anche Soph. OC 1318-1319. 63 Aggiungendo che ajlavlagma è una ejpinivkio~ wj/dhv: schol. ad 133 (p. 224, 8-9 Papageorgiou).

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atterrato da Zeus, e ora che la situazione è capovolta, a intonarlo è il corpo civico dei nobili tebani. Il testo sofocleo, almeno nell’attacco, entrerebbe anche nelle strette maglie di una definizione del genere ‘peana’ fissate (contra KÄPPEL 1992) in SCHRÖDER 1999, 50-53 e passim, quale canto di ringraziamento e/o preghiera dedicato ad Apollo (mancherebbe però qui l’irrinunciabile – per Schröder – refrain ijh; [Paiavn]: cfr. D’ALESSIO 2000 e la sintesi proposta da FURLEY – BREMER 2001, I, 87-88, con FORD 2006, 286-289 e SWIFT 2010, 66-67). Come concisa definizione del peana ‘militare’ si potrà ricorrere a HORDERN 2002, 226: «the paean was a triumphal song to Apollo, which could be performed both before (e.g. A. Pers. 393, X. Cyr. 4. 1. 6) and after (e.g. Il. 22. 391 […]) a battle. Not all paeans were addressed to Apollo; cf. E. IA 1466-99 (of Artemis), A. Sept. 870, Ch. 149-51, E. Alc. 424 (all of Hades), Ariphr. [PMG] fr. 813 (Hygieia)». Per il peana cantato prima della battaglia cfr. almeno schol. Thuc. I 50, 5 (p. 45, 10-12 Hude): duvo paia'na~ h/\don oiJ ÓEllhne~, pro; me;n tou' polevmou tw/' ÒArei, meta; de; to;n povlemon tw/' ÆApovllwni (un ejmbathvrio~ paiavn è descritto anche in Plut. Lyc. 22: raccolta e discussione

delle fonti in PRITCHETT 1971, 105-108, con ulteriore bibliografia). HUTCHINSON 1985, 144 rinvia a un episodio assimilabile al sofocleo, riportato da Thuc. II 91, 2: i peloponnesiaci che avanzavano via mare contro gli ateniesi a Naupatto ejpaiavnizon... wJ~ nenikhkovte~, «come se già avessero vinto» («although the action was not yet concluded»; e si vedano, per l’effetto di confusione che il peana poteva creare se male interpretato, Hdt. V 1 e Thuc. VII 44, 6; in Aesch. Pers. 388-394 i barbari sono spaventati dal peana greco). Per la classificazione del grido di ajlalaiv come «war-cry» cfr. RUTHERFORD 2001, 20, con 43 e n. 30; così ancora RUTHERFORD 1993, 80: «for the Greeks paiavn-poems (of whatever degree of sophistication) and paiavn-cries were closely related phenomena». È questo il grido dei Sette che si avvicinano a Tebe anche in Eur. Phoe. 1102: paia;n de; kai; savlpigge~ ejkelavdoun oJmou' (con la nota di MASTRONARDE 1994, 456). Per urla di festa/ vittoria cfr. almeno Ar. Av. 1763-1764: ajlalalaiv, ijh; paiwvn: | thvnella kallivniko~ (con Lys. 1291 e su cui CALAME 2001, 123-124 e 132-135) e il commento di DUNBAR 1995, 540 (con i passi ivi citati) e 769, oltre che Eur. TrGF V, 1 F 370, 5-6: h\³ potÆ ajna; povlin ajlalai'~ - ijh; paiavn - | k¼allivnikon boavsw mevlo~ (sull’impiego di ajlalav come «grito ritual de victoria» in tragedia si vedano anche BAÑULS OLLER – CRESPO ALCALÁ 2006a, 73-88). È interessante – ma non accoglibile – una proposta di lettura per i martoriati vv. 138-139: ÿ a[lla ta; dÆ a[lla | ta; dÆ ejpÆ a[lloi~ ÿ, così in DAWE 1996b, dal cui apparato ricaviamo che «ajlala; hic latere suspicatur Bergk» (e si veda la adnotatio critica in BERGK 1858, LV: «conjeci ei\ce dÆ ajlala; ta; me;n», ma non a testo a p. 218; su di essi saranno da consultare almeno MÜLLER 1967, 54-56; KAMERBEEK 1978, 58-59, con LLOYD-JONES – WILSON 1997, 69 e WILLINK 2001, 68-69; il luogo desperatus ma il cui senso generale sembra comunque desumibile era già ampiamente discusso in JEBB 1900, 248-249: si veda la lunga lista di emendamenti proposti nel repertorio di congetture a Sofocle stilato da Liny van Paassen, consultabile presso l’Università di Verona).

Un elemento ulteriore comprova forse la natura polimorfa e cercatamente equivoca di questa parodo; nel terzo sistema anapestico si racconta degli eroi schierati alle sette porte che hanno lasciato le armature, involontario tropai'on, sul campo di battaglia (vv. 141-147), tutti eccetto due: eJpta; locagoi; ga;r ejfÆ eJpta; puvlai~ tacqevnte~ i[soi pro;~ i[sou~ e[lipon Zhni; tropaivw/ pavgcalka tevlh, plh;n toi'n stugeroi'n, w} patro;~ eJno;~ mhtrov~ te mia'~ fuvnte kaqÆ auJtoi'n dikratei'~ lovgca~ sthvsantÆ e[ceton koinou' qanavtou mevro~ a[mfw.

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I verbi usualmente impiegati per indicare l’erezione dei tropai'a segnalano che essi venivano piantati e fissati al suolo64. Così con tragica ironia Sofocle fa dire al coro che i due fratelli drizzano e piantano le lance, unico loro trofeo, uno nel corpo dell’altro: «a mordant play on the ‘erecting’ of a trophy», come notato da GRIFFITH 1999, 152. Il rituale dell’innalzamento (la cui azione, fuor di metafora, è qui ascritta ai Sette e ai loro avversari)65 si svolgeva in effetti nel luogo in cui il nemico era stato vòlto alla fuga quale simbolica rappresentazione dell’altrui disfatta, ed era – w{sper eijkov~, scrive Senofonte – accompagnato dal paianivzein. Tale pratica è annullata nella nostra circostanza dal fatto che non un solo eroe rimasto vivo sarebbe in grado di mandare a effetto la consuetudine di intonare il canto nell’elevare il tumulo di armi nemiche. Ciò che normalmente si configura come rituale d’offerta è ora descritto come un rituale di morte, e a Zeus tropai'o~ vengono dedicate le panoplie di entrambi gli schieramenti. A proposito di questo terzo sistema anapestico in KITZINGER 2008, 18 si ipotizza un movimento figurato: «we can imagine the movement of the dance representing in some way the seven commanders facing each other. […] Yet in miming that action the chorus also creates an image of balance and order without a sense of human struggle as the cause»; e ancora (p. 19): «the chorus imitates with its movement the action of the leaders of the two armies and gives a clear description of the actual battle»; già in parte su questa linea, ma senza pensare a una danza schiettamente naturalistica, KITTO 1955, 38-39 («the dance could not have been a mime»). Si veda per peana e trofeo RUTHERFORD 2001, 45, insieme all’esplicita ‘ammissione’ di consuetudine dell’usanza di accostarli attestata da Xen. Hell. VII 2, 15: oiJ me;n Fleiavsioi tropai'on i{stanto lampro;n paianivzonte~, w{sper eijkov~. Nell’impossibilità di riportare tutte le fonti relative si rinvia all’analitica disamina del materiale offerta da PRITCHETT 1974, 246-275 (con bibliografia), da cui si citano solo poche righe, a guisa di definizione: «the trophy was a memorial of victory set up in the field of battle where the enemy’s line was routed. It consisted partly of captured arms and was dedicated to the god to whom the victory was attributed. […] The one who erected the trophy was the acknowledged master of the field, and he might allow the enemy to bury their dead during a suspension of hostilities» (p. 275). Pur in assenza del termine ‘tecnico’, l’esempio forse più antico è in Il. 10, 458-468, protagonisti Odisseo e Diomede che erigono un simulacro in onore di Atena (così Eustazio ad Il. 10, 465 [III, p. 111, 2-3 van der Valk]: fasi; de; oiJ palaioiv, o{ti tropaivou sch'ma ejntau'qa mimei'tai oJ poihthv~). Nella distinzione tra un ‘memoriale perenne’ a séguito di una guerra e un monumento elevato sul campo di battaglia subito dopo la vittoria nel punto della trophv nemica si dovrà supporre che Sofocle abbia in mente il secondo (si vedano almeno Thuc. I 54, 2; VII 54 e passim; in II 92, 5 i peloponnesiaci innalzarono un trofeo wJ~ nenikhkovte~, da mettere 64 PRITCHETT 1974, 251, n. 19, e si veda LSJ9 841, A, s.v. i{sthmi. Un ancora più immaginifico «trofeo di Ate» è evocato in Aesch. Sept. 956-957: e{stake dÆ ÒAta~ tropai'on ejn puvlai~, | ejn ai|~ ejqeivnonto (scil. i due fratelli), con ai vv. 953-954 il grido di vittoria delle Maledizioni – teleutai'ai dÆ ejphlavlaxan | ÆArai; to;n ojxu;n novmon –, e le parole di Eteocle al v. 277, ma in una sezione da molti espunta: qhvsein tropai'a. Si veda anche Eur. Phoe. 1250-1253: i due sono incitati l’uno a Zhno;~ ojrqw'sai brevta~ | tropai'on, l’altro a essere kallivniko~. 65 «In O.C. 1313 ff. the list agrees with that of Aesch.»: Anfiarao, Tideo, Eteoclo, Ippomedonte, Capaneo, Partenopeo, Polinice; «(Adrastus, who escaped, is not counted as one of the seven). Capaneus, though not slain by human hand, is included, since he was vanquished. Amphiaraus, according to the legend which Soph. recognises in El. 837, was swallowed up by the earth, but seems here to be reckoned among those who fell in fight» (JEBB 1900, 36); si veda anche nel dettaglio CINGANO 2002, 28 e 35-36 in particolare.

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in relazione con il già citato II 91, 2 – poche frasi più sopra nel racconto tucidideo –, dove gli stessi ejpaiavnizon... wJ~ nenikhkovte~. Le tavole di sintesi sono in PRITCHETT 1974, 264-269). Si vedano anche Eur. Heracl. 786: nikw'men ejcqrou;~ kai; tropai'Æ iJdruvetai (con vv. 936-937 ~ Phoe. 1473) e schol. ad Eur. Phoe. 572 (I, p. 308, 12-13 Schwartz): trovpaia: nikhthvria, ajpo; tou' trevyai kai; diw'xai tou;~ polemivou~. A Zeus esso è consacrato nel passo di Antigone e in Euripide, come di norma (si veda Plut. Mor. 306 B, 5-6, ma non mancano altre dediche, come a Poseidone in Paus. VIII 10, 8); indicazioni e bibliografia su Zeus tropai'o~ ancora in PRITCHETT 1974, 272 e n. 78: «primarily, of course, trophies set up on the field of battle were war-dedications, presumably to the god to whom the victory was ascribed»; «a trophy-bearing Nike is common in the ‘commemorative’ iconography», per la quale si rinvia alla voce Nike in LIMC VI, 1, 850-904, in particolare pp. 891-892 («Nike steht vor einem Tropaion»), e a THÖNE 1999, 69-70 e 154.

A quale grado di consapevolezza dobbiamo ascrivere la connessione ipotizzata a testo? Fra le testimonianze disponibili, un passo benché fuori quadro rispetto alla cronologia dell’Antigone suggerisce una dimensione di familiarità e prossimità con le pratiche reali della comunità ateniese, quella a cui il dramma era destinato66. Sul finire del V secolo (o nei primi anni del successivo) Timoteo di Mileto mise in versi, nel nomos ditirambico dei Persiani, la disfatta dei barbari invasori durante la battaglia navale di Salamina, e dopo avere raccontato la rotta degli asiatici descrisse così la gioia per la vittoria (PMG fr. 791, 196-201): oiJ de; tropai'a sthsavmenoi Dio;~ aJgnovtaton tevmeno~, Paia'nÆ ejkelavdhsan ijhvion a[nakta, suvmmetroi dÆ ejpektuvpeon podw'n uJyikrovtoi~ coreivai~.

200

Il passo fornisce un altro dato non irrilevante (sul quale si tornerà), ossia che i greci cantando il peana battevano i piedi suvmmetroi abbandonandosi a danze rumorose. Timoteo fa dunque cenno a un indefinito movimento orchestico caratterizzato dal sonoro cadenzare dei piedi, e in effetti nel quasi totale silenzio delle fonti un elemento comune e ricorsivo nella descrizione della performance del peana è proprio «a stamping motion of the feet»67. Il trofeo (o più probabilmente i trofei) che i greci elevarono dopo Salamina entra fin da subito – e per secoli – a far parte della memoria collettiva68, 66

Nove in quegli anni furono i trofei che Pericle innalzò (e[sthsen) secondo Plut. Per. 38, 3. Sulla performance del peana si veda RUTHERFORD 2001, 63-68, si cita da pp. 65-66: «of the types of dance involved, and their movements, we know almost nothing (alas), except that one characteristic was a stamping motion of the feet, denoted by the verb rJhvssw at Homeric Hymn to Apollo, 516, and apparently not incompatible with marching». Peana e danza sono connessi in Xen. An. VI 1, 11: i mantineesi e gli arcadi, in armi, marciano al ritmo della melodia marziale di un aulo, cantano un peana e danzano come in processione (ejpaiavnisan kai; wjrchvsanto w{sper ejn tai'~ pro;~ tou;~ qeou;~ prosovdoi~, con WHEELER 1982, 228-230, che ridimensiona la natura mimicomilitare e soprattutto la valenza di «military training» di simili movimenti). 68 Si vedano Plat. Menex. 245a; Paus. I 36, 1; un trofeo è anche a Psittalia secondo Plut. Arist. 9, 4: per le evidenze archeologiche e un tentativo di localizzazione (Cinosura e appunto Psittalia) cfr. WALLACE 1969, 299-303; ASHERI 2003, 295-296; per la menzione del trofeo che sorgeva a 67

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III. La parodo dell’Antigone

e la notizia ci accosta a un episodio che secondo una tradizione accolta – ma indubbiamente non altrimenti confermabile – aveva coinvolto Sofocle giovinetto. Essa non costituisce prova di nulla, ma conforta ulteriormente nell’idea di una discreta confidenza degli ateniesi, e probabilmente del poeta, con le modalità esecutive del genere69. Un passo della Vita Sophoclis riferisce infatti di come dopo Salamina il poeta fu tra i giovani che danzarono nudi attorno al monumento della vittoria, e anzi fu egli stesso l’ejxavrcwn del coro dei ragazzi70: meta; th;n ejn Salami'ni naumacivan ÆAqhnaivwn peri; trovpaion o[ntwn meta; luvra~ gumno;~ ajlhlimmevno~ toi'~ paianivzousi tw'n ejpinikivwn ejxh'rce.

Sulla scorta di questi indizi non dobbiamo ritenere che il poeta abbia assegnato alla parodo la forma definita e stretta di un paiavn: assistiamo piuttosto al camuffamento di un modello lirico adattato, come spesso, al contesto drammatico; non si sta insomma affermando che la parodo è un peana, quanto piuttosto che essa sembra contenere elementi ascrivibili alle circostanze di esecuzione di un peana. Oltre all’attacco iniziale, il grido nemico che si spandeva dagli spalti, e ancora il richiamo alla rituale offerta del tropai'on. Sembra ora più naturale e giustificato dal racconto l’apparentemente improvviso ‘scarto’ operato dai coreuti nei versi che seguono: la Vittoria è evocata dal trofeo, ne è l’ineludibile conseguenza. La tessitura realizzata tra le sezioni liriche e quella anapestica è resa ancora più evidente se comprendiamo che peana, trofeo innalzato sul campo di battaglia e celebrazione di Nike erano interrelati da vincoli di consuetudine e appartenevano a pratiche ordinarie e comuni: intonare il paiavn per Nivkh e innalzare il tropai'on in onore di Zeus, tale era la prassi concreta, tra i greci71. Sofocle procede per accostamenti di figure analogiche, realizzando una combinazione di elementi – nella stretta Maratona, anch’esso monumento ‘piantato’ a ricordo di un’eroica impresa, cfr. e.g. Ar. Eq. 1334; Vesp. 711; Lys. 285; Plat. Menex. 240d (di un trovpaion livqou leukou' si fa cenno in Paus. I 32, 5). 69 Molti del resto sono i segni di una consuetudine del tragico con il genere del paiavn: oltre a PMG fr. 737(b) = Pai. 32 Käppel, e all’impiego del termine (supra, p. 119, n. 46), cfr. TrGF IV T 73a = Philostr. VA 3, 17, 13-15; TrGF IV T 73b = Ps.-Luc. Dem.Enc. 27, 8-11; TrGF IV T 174, 12-14 = Philostr.Jun. Im. 13 (p. 34, 19 – p. 35, 1-2 Schenkl – Reisch) = PMG fr. 737(a); TrGF IV T 2, 6-7 = Suda s 815 Adler, s.v. Sofoklh'~: kai; e[grayen... paia'na~, con RUTHERFORD 2001, 39. 70 Si tratta del paragrafo 3 della Vita Sophoclis (= TrGF IV T 1, 17-19, con TrGF IV T 28, 3-4 = Ath. I 20f). Così JOUANNA 2007a, 20, a proposito dell’episodio: «fut-il un exécutant, parmi d’autres, du chœur des jeunes gens? Ou joua-t-il, comme le laisse entendre l’auteur de la Vie anonyme, le rôle d’exarque, c’est-à-dire de chef de chœur, entonnant en solo le péan en l’honneur de la victoire avant que l’ensemble du chœur ne reprenne en écho?». Si aggiunga a questo l’oracolo esametrico di Bacide (riportato in Hdt. VIII 77 = Bakis AP XIV 98), che presagiva la vittoria dei greci a Salamina (ma è verosimilmente posteriore ad essa: si veda ASHERI 2003, 277-279) e designava Zeus e Nike come le due divinità in grado di condurre sull’Ellade il giorno della libertà (vv. 6-8): calko;~ ga;r calkw/' summivxetai, ai{mati dÆ ÒArh~ | povnton foinivxei. tovtÆ ejleuvqeron ïEllavdo~ h\mar | eujruvopa Kronivdh~ ejpavgei kai; povtnia Nivkh. 71 È utile menzionare la lettura sociologica e storico-religiosa della parodo dell’Ifigenia in Aulide offerta da BURKERT 1993, con il rinvenimento nel testo (in particolare la corsa di Achille accanto al tiro a quattro dei vv. 206-215, che rinvierebbe alla corsa dell’ajpobavth~ – su cui Dion. Hal. VII 73 –, e l’immagine di Pallade Atena ai vv. 247-252) di precisi echi di pratiche rituali note agli spettatori: lo storico delle religioni può vedere, conclude Burkert, «wie lebendig die Festrituale

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fascia di un canto d’entrata – che, sia pure da un’ambigua e imbrogliata profondità, pare ancora affiorare. 4. Coerenza interna Questo continuo approssimarsi del testo a certi luoghi privilegiati in funzione potremmo dire ‘dissimmetrica’ (il peana non si realizza compiutamente e la gioia è destinata a mutarsi in sciagura) è sostenuto dal bilanciamento del canto, un intero apparentemente scandito da sezione a sezione eppure pienamente unitario. Le connessioni sono infatti operative in più luoghi e a più livelli, dal lessicale al metrico, dalla coloritura di genere alla trama del tessuto fonico. Proviamo dunque a concentrarci sulla naturale coerenza che lo struttura e che riesce a concatenare saldamente non solo le stanze in responsione ma anche le sezioni anapestiche con queste ultime, e tra loro. L’articolazione di questa dialogicità fra le parti mira anche evidentemente a costruire una logica che ‘contenga’ e superi tale concatenazione narrativotematica. Il racconto procede infatti a immagini nette, con continui salti di focalizzazione, fatto salvo il quarto e ultimo sistema anapestico appartenente già all’episodio che segue, annunciando esso l’arrivo in scena di Creonte e terminando sulla sospensione dell’interrogativa (espediente utile a rilanciare l’azione dopo l’intermezzo musicale). L’impressione di un procedere per blocchi del racconto è forse suggerita anche dalla natura indipendente delle singole sezioni – comprese le anapestiche – senza alcun enjambement sintattico tra le parti72. Già si è descritto come fenomeno tipicamente sofocleo lo sforzo di evitare – a differenza di quanto accade più di consueto nei drammi eschilei e di Euripide – la replica di parole e suoni uguali o simili nella stessa sede73. Qui si osserva in effetti una forte vocazione all’armonia delle parti tenute insieme da una fittissima rete sonora, ma che a un più attento vaglio risulta essere spesso come ‘fuori asse’. La prima coppia strofica include una massiccia presenza gliconica74, e dopo una sequenza, appunto, di tre gliconei und die durch sie geprägten Bilder und Identitätsbegriffe für ein athenisches Publikum und seinen Dichter erscheinen» (p. 92, con ulteriori esempi a n. 27). 72 KRANZ 1933, 193 riconosce unità alla parodo, con gli anapesti che danno chiara illustrazione delle fasi dell’azione, ma parla di parti «selbständig geformt wie die Kugeln einer Kette». 73 Si veda, al cap. II, p. 76, n. 43. La pratica di creare ‘cerniere’ tra strofe e antistrofe non sarebbe estranea neanche a Eschilo: i passi sono in SCHINKEL 1973, 84-86 (102-103 per la «Verklammerung von Strophen durch Wiederholungen»). 74 Nell’esiguità delle testimonianze ci si limita a constatare che i frammenti di peani di V secolo sono per lo più in eolici: vd. KÄPPEL 1992, 78 (Pindaro, oltre che Bacch. fr. 5 M.), che però nota a ragione: «es gibt keine Epoche in der Geschichte des Paians, die bestimmte Metren bevorzugt» (p. 80); RUTHERFORD 2001, 78: «the commoner ones are aeolic with iambic and dactylic expansions […], and dactylic», e cfr. pp. 448-449. L’andamento gliconico del nostro avvio può essere messo in relazione anche tematicamente con l’incipit dell’inno ‘patriottico’ – per Atene e Atena – di Eur. Heracl. 748-750, dove un ruolo evidente doveva giocare in esecuzione la simmetria dei primi due versi: ga' kai; pannuvcio~ selav- | na kai; lamprovtatai qeou' | faesimbrovtou aujgaiv (dove ga' kaiv = -na kaiv

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(vv. 100-102), l’antispasto con cui si apre il dimetro coriambico B al verso 103 (ejfavnqh~ potÆ, w\ cruseva~: ) contiene il termine che sul piano retorico e soprattutto sintattico risulta essere il più importante75: il verbo della principale si colloca in evidente sequenza allitterante e paronomastica dopo fanevn e dopo favo~, e segnala l’avvenuta e attesa comparsa della luce dell’astro (ejfavnqh~ potÆ). Ad esso corrisponde in antistrofe (v. 120) ancora il verbo della frase principale, e[ba privn poqÆ, con ripresa nella medesima sede di potÆ ~ poqÆ che adeguatamente sottolinea l’effetto («the moment of resolution from tension/danger»: GRIFFITH 1999, 141): nella notte il mostro argivo se n’è andato dopo avere spalancato le sue fauci, prima dell’apparire del sole. Non sfugga che tutti i verbi schierati nella strofe e tutti – eccetto klavzwn – quelli del primo sistema anapestico sono verbi indicanti irruzione o movimento: almeno fino a stav~, che aprendo l’antistrofe a sembra come frenare la marcia in entrata (e si potrà ricordare, per la sosta repentina della danza del coro, il cambio di movimento previa indicazione di pausa in Ar. Thesm. 968: eujkuvklou coreiva~ eujfua` sth`sai bavsin, nell’ultimo verso di un mesodo prima di una nuova coppia strofica76, oltre che – ma in recitati – l’invito di Dioniso a Penteo in Eur. Ba. 647, sth`son povda, e del nunzio a Deianira in Soph. Trach. 339-340). Con ogni probabilità dopo il breve sistema anapestico stav~ impone dunque anche un cambio di movimento e di coreografia rispetto alla (per noi sconosciuta) modalità di esecuzione dei versi che immediatamente precedono77. Era stato il sole, viceversa, ai vv. 106-109 (= 123-126, 2cho B x 3 + pher), a «mettere in moto» il nemico (kinhvsasa: v. 109, come «mette in moto» – kinei' – un canto d’uccelli in Soph. El. 17-18): to;n leuvkaspin ÿ ÆArgovqen ÿ fw'ta bavnta pansagiva/ fugavda provdromon ojxutovrw/ kinhvsasa calinw'/.

All’entrata dei vecchi tebani si contrappone dunque nell’immaginario del pubblico l’altrettanto repentina partenza della schiera argiva «venuta» (bavnta: v. 107) da fuori. Al v. 108 e al respondens v. 125 (fugavda provdromon seguiti da un quadrisillabo e dal ‘finto’ bisillabo prodotto dalla sinafia: selav- = qeou'), con insistita ricorrenza dei suoni ga kai gai (ejnevgkai al v. 751 se si accoglie la correzione di Wilamowitz per ejnevgkatÆ di L: cfr. WILKINS 1993, 147, con analisi metrica a p. 145: 2 gliconei + «reizianum?» [750: ]). In entrambi i casi, nel passo euripideo e in Antigone, il coro incarna lo spirito della città (in Heracl. pronta a combattere contro Argo) e intona l’inno a scena vuota. 75 Così VAN NES DITMARS 1992, 16. Si noti cru±s-, come in OT 157, 188, e altrove in tragedia ma solo in lyricis (Eur. Med. 633-634; spesso in Pind., e.g. P. 4, 4 – con BRASWELL 1988, 65). 76 Per una diversa interpretazione («set the noble pace of the well-circled dance») è, tra altri, CSAPO 2008, 282 e n. 95: in ogni caso si tratta, dal punto di vista della coreografia, di «begin a new task». Per altri casi di possibile sosta nella danza (dell’epinicio) si veda al cap. II, p. 82, n. 65. 77 «The aor. participles […] represent the critical moment between the arrival (110-16) and the rout (120ff.) of the invaders» (GRIFFITH 1999, 147), dove sta;~... ajmficanwvn precede temporalmente e[ba (KAMERBEEK 1978, 55). Verbi di movimento utili a «recreate the departure [verso l’Ellade] of the Persian army battalion by battalion» (DAVIDSON 1975, 174) sono anche nella parodo di Aesch. Pers.: vv. 1, 13, 18, 25.

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ojxutovrw/ ~ pavtago~ ÒAreo~, ajntipavlw/) la ‘fuga’ di brevi nel precipitoso dimetro coriambico B () accompagna la fulminea rotta nemica sotto l’incalzare del pungolo del sole e dello strepito di Ares, rotta non solo figurata dal testo ma assecondata dal ritmo e verosimilmente dalla melodia78. Quello stesso Ares risulta più lungamente operativo, almeno fino ai vv. 139140, dove il dio peraltro sembra riconfigurare l’immagine di carri e cavalli in corsa nell’aggettivo che lo denota, dexiovseiro~. Il termine, hapax, indica il cavallo esterno di destra costretto nel giro di pista a mostrare maggior vigore (cfr. e.g. Soph. El. 721-722: dexio;n... seirai'on i{ppon)79. Osserviamo anche, integrando le osservazioni di Elizabeth van Nes Ditmars, che il fenomeno dissimmetrico di cui si diceva coinvolge una porzione ulteriore del testo; se infatti ai vv. 101-102 – secondo e terzo verso della strofe: gliconei – leggiamo -liston eJptapuvlw/ fane;n | Qhvba/ tw'n protevrwn favo~ ( | ), ai vv. 119-120 – terzo e quarto verso dell’antistrofe: un gliconeo e un dimetro coriambico B – leggiamo lovgcai~ eJptavpulon stovma | e[ba privn poqÆ aJmetevrwn ( | ). Oltre allo iato si constatano la medesima posizione di eJptapuvlw/ (v. 101) ~ eJptavpulon (v. 119), entrambi innestati nel gliconeo in coincidenza del coriambo80, e l’assonanza tra Qhvba/ ed e[ba (un identico gioco fonico, ma con i due termini adiacenti, ricompare nella parodo dell’Edipo re, vv. 152-153: e[ba~ | Qhvba~, dove è notevole «l’effetto parechetico in enjambement»)81. 78

Oltre a Soph. Ai. 1185 (con POHLSANDER 1964, 22; DALE 1968, 152) anche Euripide «scioglie l’intero metron in sequenze di sei brevi» nel 2cho di Hipp. 61 (GENTILI – LOMIENTO 2003, 147), sempre in contesto gliconico, vale a dire – BARRETT 1964, 168 – «a traditional metre for simple cult-songs of this kind (so Ar. Kn. 551 ff., 581 ff.; cf. Cl. 563 ff., 595 ff.)». Variamente emendato è il v. 106 (2cho B in antistrofe, v. 123) e ambiguo il bavnta di v. 107: o «venuto † da Argo †» (la tradizione ha l’ametrico ÆArgovqen, difeso da GIANNACHI 2010, 37-38), o «departing in full armour» da accostare a e[ba di v. 120 (così, e.g., COLONNA 1978, 80): si rinvia a GRIFFITH 1999, 145. LLOYD-JONES – WILSON 1997, 68, danno rilievo alla proposta di GÜNTHER 1990, 407-408: leukavspisin ÆArgovqen | ... pansagivai~. In DAIN – IRIGOIN 1989 è accolto ÆApiovqen di Ahrens (ulteriori proposte sono nel repertorio di Liny van Paassen). WILLINK 2001, 67 difende (come MÜLLER 1967, 48) ÆInacovqen di MEKLER 1885, LXII (già lodato da JEBB 1900, 29): «pace Griffith, the sentence runs much better with bavnta as “having come (from)” than as “departing”», così anche CRAIK 1986, nell’idea che la prima strofe rappresenti un’avanzata e non una rotta, «with the appositional phrase fugavda provdromon referring to Polyneikes» (definito fugav~ da Creonte al v. 200 e nella tradizione tragica della saga tebana; provdromo~ varrebbe quindi «venuto prima»: pp. 101-102). Propendo per una partenza precipitosa: «il guerriero dal bianco scudo, venuto † da Argo † con tutte le sue armi, vòlto indietro, in fuga». 79 Si veda la dettagliata nota in JEBB 1900, 36; FRAENKEL 1950, III, 777; FINGLASS 2007, 322; dexiovceiro~ è lezione di La.c. e dello schol. ad l. (p. 225, 15-16 Papageorgiou): eja;n de; h\/ dexiovceiro~ ajnti; tou' gennai'o~ kai; peridevxio~, difesa da MÜLLER 1967, 55. 80 «Seven of the ten lines of the first system show responsion in the position of word division (sometimes in two places) within the cola, making this opening ode musically even more distinct and clear» (VAN NES DITMARS 1992, 28 e già DALE 1981, 23): vv. 101-104 = 118-121, e 107 = 124; sovrapponibilità di tutte le parole ai vv. 108 = 125 (2cho B) e 109 = 126 (pher). 81 CITTI 2003, 45, n. 22. «Such echoes occur even in lyric trimeters standing in responsion; cf. the striking repetition of the sound of h|par in Soph. Aj. 892 tivno~ boh; pavraulo~ ejxevbh navpou~ = 938 cwrei` pro;~ h|par, oi\da, gennaiva duvh. This shows that they are not due to a simple tendency to rhyming in the same metrical position (which would produce a proportion of echoes in non-lyrical trimeters), but are a result of the essentially musical nature of Greek lyric composition»: COXON 1947, 71, n. 1.

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È l’aquila strepitante che si libra sulla pianura di Tebe – sia essa Polinice o l’intera armata: si veda la n. 24 a p. 113 – a favorire nel giro di pochi versi lo spostamento della descrizione sul piano del fantastico: l’argivo predatore si fa mostro dalle fauci spalancate, non senza che il sovrapporsi di un’immagine sull’altra contribuisca alla creazione di un breve squarcio epico. Ai vv. 113-114 il paragone dell’uccello leukh'~ ciovno~ ptevrugi steganov~ – che riprende peraltro la notazione di colore offerta dall’aggettivo leuvkaspin (v. 106) – prelude infatti all’inserto di lingua e di atmosfere iliadiche82. In verità la Stimmung omerica è introdotta già da ojxeva klavzwn al v. 112, a sua volta anticipato al v. 108 da ojxutovrw/ (o ojxutevrw/: si veda sotto) perché epico è l’utilizzo del verbo proprio in riferimento a eroi o a uccelli in lotta (Il. 17, 88: ojxeva keklhgwv~, di Ettore, con Il. 12, 125 – grida d’assalto – e Il. 2, 222 detto degli schiamazzi di Tersite; di Patroclo e Sarpedone, come avvoltoi, Il. 16, 429-430: megavla klavzonte... keklhvgonte~). Tali atmosfere risultano del resto confermate nell’ultimo verso della prima sezione anapestica, che contiene per intero lessico omerico (v. 116). L’accostamento di un aggettivo altrimenti assente in tragedia (BERGSON 1956, 103: «je voudrais appeler l’épithète de Sophocle ‘picturale’») e del sostantivo nel sintagma xuvn qÆ iJppokovmoi~ koruvqessin è un unicum nel dramma di V secolo, ma trova paralleli epici: Il. 13, 132 (= 16, 216), iJppovkomoi kovruqe~, con Il. 16, 338, iJppokovmou kovruqo~, tanto che il paremiaco di clausola () sembra ‘assumere’ forma enopliaca proprio in virtù del tono epicizzante83. Si potrà a questo punto continuare a muoversi attraverso la parodo in un sondaggio che coinvolga le ripetizioni intenzionali perseguite per un effetto mirato, ma facendo anche tesoro delle indagini di Jean Irigoin, e aggiungendo ai risultati ricavabili dall’analisi stilistica del canto sofocleo ciò che lo studioso francese – mutuandolo dalla fisica – definiva con il termine «rémanence»84. È indubbiamente cercata la ricorsività del numero sette, che fa da collante lungo l’intero canto: le porte della città beota (vv. 101 e 119) e 82 Per eroi paragonati ad animali cfr. almeno la lista offerta da DAVIDSON 1983, 43: in Il. 12, 200207 aijetov~ e dravkwn (si veda Ant. 126 e infra, p. 133, n. 88) sono protagonisti di un presagio funesto per i Troiani. ajrqeiv~ (Ant. 111) è impiegato in un paragone ornitologico a Il. 13, 62-65, dove Poseidone levantesi come sparviero «si getta per la pianura a inseguire un altro uccello». Divisi i commenti su steganov~, «probably passive» per KAMERBEEK 1978, 55 (con rinvio a FRAENKEL 1950, II, 189, per il quale in Sofocle è passivo «because the picture is kept up of the broad and level spread of the eagle’s wing»), e già JEBB 1900, 31. Due i sensi possibili: 1) «coperta – scil. l’aquila – da ali bianche come neve» (schol. ad 114 [p. 222, 21 Papageorgiou]: ejstegasmevno~ leukoi'~ o{ploi~); 2) più probabilmente «coprendo – scil. la nostra terra – con ali bianche come neve», così DAWE 1978, 103: «must surely be active. It is the extended wings that menace the land», con MÜLLER 1967, 50 e GRIFFITH 1999, 147: «probably active». 83 «L’estensione del meccanismo flessivo al dativo plurale dà luogo ad un segmento impiegabile nel ritmo dattilico, equivalente ad un paremiaco»: MARCHIORI 1995, 74. Su klavzw («sometimes associated with especially harsh and horrific suffering», come in Aesch. Pers. 948 ed Eur. Ion 905906) cfr. le considerazioni di SCHEIN 2009, 390-391, con riferimento ad usi eschilei ma non solo. 84 IRIGOIN 1992-1993, 10: «le souvenir du texte adopté pour une strophe se traduit, dans l’antistrophe correspondante, par la reprise, avec des mots différents, d’un certain nombre de phonèmes, vocaliques ou consonantiques, […] un phénomène subtil, inconscient, auquel j’ai donné le nom de rémanence, par un emprunt au vocabulaire de la physique. On ne confondra pas des répétitions de sons voulues par le poète pour leur valeur expressive avec cette rémanence».

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i sette eroi disposti presso di esse (eJptav per due volte nello stesso verso: 141). Con BERGSON 1956, 77 potremo dire che qui «l’épithète [eJptavpulo~] est extrêmement banale, ou, du moins, fort affaiblie; elle n’a probablement aucun son spécialement homérique» (ribadito a p. 177), e se in tragedia (Aesch. Sept. 165; Eur. HF 543, 782; Phoe. 79) l’aggettivo descrive correntemente Tebe, la sua funzione a volte appare essersi assestata su un valore più neutro. Spesso connesso alla spedizione dei Sette e degli Epigoni, il termine «si trova anche in un contesto ormai svincolato dal mito dei Sette (Hes. Scut. 49 = fr. 195 M.-W.), e sarà costantemente impiegato nella tradizione poetica posteriore per rievocare il passato epico-mitico di Tebe»85 (si vedano anche Soph. TrGF IV F 773, 1: puvla~ eJptastovmou~, ed Eur. Phoe. 287: eJptavstomon puvrgwma Qhbaiva~ cqonov~, da confrontarsi con Ant. 119-122: eJptavpulon stovma... stefavnwma puvrgwn). Un gioco puramente sonoro è forse da rilevarsi anche in uJperevpta al verso 113, che inaugura a sua volta una sequenza di termini in omeoarto, con uJperecqaivrei (v. 128) e uJperoplivai~ (v. 130)86. Il groppo vocalico-consonantico ter/mer/meter annunciato già dal protevrwn di v. 102 procede coerentemente con aJmevra~ (v. 104), aJmetevra/ (v. 110), ptevrugi (v. 114), aJmetevrwn (v. 120) e infine mevro~ (v. 147). Verrebbe perciò da inserire in questa progressione di effetti acustici il pur incerto ojxutevrw/ (v. 108, con ojxeva al v. 112) contro ojxutovrw/ adottato in LLOYD-JONES – WILSON 1990a e in DAWE 1996b; la lezione ojxutevrw/ è giustificata da JEBB 1900, 29 («“in swifter career”, dat. of manner with fugavda provdromon») e ora da GRIFFITH 1999, 145, che pure ammette che «the MS variant ojxutovrw/ (“sharp-piercing”, cf. diavtoro~) would also be possible». Difende ojxutovrw/ come «the sharply-piercing bit», «the bit of compulsion, not the actual bit», LLOYD-JONES 1957, 12-15, che traduce (LLOYD-JONES 1994, 15) «with a bridle of constraint that pierced him sharply» (e in maniera autonoma come «raggi che pungolano come un morso» sugli argivi-cavalli in fuga anche SMITH 1965, 5: «since the ajktiv~ leads from the sun (the charioteer) to the Argives (who are being driven on by it like horses), it may be described as a rein (calinov~) and as piercing (ojxuvtoro~) because it is a single shaft of light focused on the Argives and, of course, because it is acting as a goad». Così anche KAMERBEEK 1978, 54 («ojxutovrw/ is the correct reading») e MÜLLER 1967, 48-49. Per un’ulteriore discussione del passo si veda LLOYD-JONES – WILSON 1997, 68: «Kopff 157 [= KOPFF 1993, 156] has found ojxupovrw/, conjectured by Musgrave, in S (Vaticanus Urbinas Graecus 141), and opines that “a fast-moving bridle, i.e. one which drives the horses into [swift] flight, is what we want”. Does one drive horses into flight with a bridle? A. Brown, CQ 41 (1991) 408 returns to the defence of Blaydes’ ojxutovnw/, which is ingeniously derived from A., Sept. 122 f.», con riferimento «to the wind (or the horses’ breath)». La complessa questione testuale della trasmissione delle due varianti e della tradizione scoliastica è chiarita in SCATTOLIN 2004, 395-396 (questo l’apparato ivi

85

Si veda CINGANO 2002, 29, n. 8 (con loci similes, e CINGANO 2000, 141-143). Ma già uJpe;r rJeevqrwn al v. 105, in parziale assonanza con uJpe;r melavqrwn di v. 117. uJperecqaivrei è hapax per l’età classica. «Vauvilliers’ uJperoplivai~, with the i long and as a dativus modi [“con arroganza”] is highly convincing; it explains the vox nihili uJperoptiva~ of the mss and gives excellent sense» (KAMERBEEK 1978, 57), lezione adottata da DAWE 1996b e GRIFFITH 1999. LLOYDJONES – WILSON 1990b, 120, difendono uJperopteivai~ di Musgrave. GÜNTHER 1996, 121, propone un accusativo riferito a Capaneo: «man lese in 130 crusou' kanach/', s‹u;n dÆÌ uJperovptan». Per la tradizione scoliastica cfr. SCATTOLIN 2004, 399-400. 86

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III. La parodo dell’Antigone

proposto: «ojxutovrw/ fere codd. [L quoque], ojxutevrw/ Ks.l.RVZfZo [“novit SL” Dawe], ojxupovrw/ S et coni. Musgrave» [ojxupovrw/ è difeso, da ultimo, da WILLINK 2001, 67]).

Procedendo nel catalogo dei possibili nessi tra le parti, salta all’occhio un’alta percentuale di composti in ajnti- e in ajmfi-, sorta di indicatori di relazioni spaziali tali da suggerire il peso di una minaccia guerresca che insieme si oppone e rimbomba del suono delle armi, e che circonda e assedia nella contesa: neikevwn ejx ajmfilovgwn (v. 111)87; ajmficanwvn (v. 118); l’accostabile ajmfi; nw'tÆ (v. 124); ajntipavlw/ (v. 125); ajntituvpa/ (v. 134)88, per giungere al più disteso, perché ormai fuori dal tempo della battaglia, ajnticarei'sa (v. 149), che propone finalmente un’interazione positiva e non oppositiva: la Vittoria che risponde alla gioia di Tebe89. L’incipit del secondo sistema anapestico pare inoltre riecheggiato dall’incipit dell’antistrofe b (vv. 127 e 148). Il richiamo parziale viene giocato sulla ripresa fonica e sull’impiego di gavr, e l’utilizzo della particella viene riconfermato, unitamente ad ajllav, in apertura della terza e della quarta e ultima sezione anapestica (vv. 141 e 155). Il pubblico viene così orientato a seguire con l’orecchio questa sorta di andamento antifonale, sempre a inizio sezione, che si sviluppa per quasi trenta versi: v. 127: v. 141: v. 148: v. 155:

Zeu;~ ga;r megavl- ktl eJpta; locagoi; ga;r ktl ajlla; ga;r aJ megal- ktl ajllÆ o{de ga;r ktl.

L’uso del deittico, mancante nei ‘paralleli’, aiuta a ripristinare al v. 155 la situazione drammatica interrotta in precedenza dal canto, «marking the appearance of a new character on the stage» (DENNISTON 1954, 103, nr. 4). Sembra evidente peraltro – a sancire l’efficacia del cambio del passo espo87

Il gioco su Polinice «dalle molte contese» (vv. 110-111) torna in Eur. Phoe. 636-637, spiegazione etimologica del suo destino (o[noma Poluneivkh... neikevwn ejpwvnumon, con i vv. 1493-1494) ma è eredità eschilea: Sept. 577 (su cui JOUAN 1978, 73; HUTCHINSON 1985, 134-135), 658, 829-830. Altre le etimologizzazioni in Sofocle: Edipo in OT 1032-1036, Aiace in Ai. 430-432, Odisseo in TrGF IV F 965 (da Od. 19, 406-409), Sidero in TrGF IV F 658. 88 Correzione di Porson (in PORSON 1812, 169) per ajntivtupa della maggior parte dei mss. (ajntivtupo~ T, -w~ Ls.l.). Il testo dei vv. 125-126, restando certa l’identità del serpente, non è perspicuo: ajntipavlw/ | dusceivrwma dravkonti è la paradosis dei mss. (e si veda lo schol. ad l. [p. 223, 1-17 Papageorgiou]), ma ajntipavlou... dravkonto~ Ls.l.As.l.. Secondo KAMERBEEK 1978, 56-57, «we might suppose that both readings are the product of case-ending assimilation»; ci si attiene a questa interpretazione, leggendo ajntipavlw/ = «enemy» e dravkonto~ metonimico per l’armata tebana, dunque dietro Kamerbeek (e la lezione del solo V): «a thing hard to overcome for the adversary of the dragon», come già JEBB 1900, 32-33, e LLOYD-JONES – WILSON 1990b, 120 (ma GRIFFITH 1999, 148149 ha ajntipavlou... dravkonto~: «a hard-won victory of snake antagonist»). Cfr. POZZI 1971 per dusceivrwma, hapax assoluto e definito «no more Greek than thlevgramma» da HOUSMAN 1925, 79, che polemizzando con Jebb proponeva di emendare con M. Schmidt ajntipavlw/ dou;~ ceivrwma dravkonti, «that gave him for a conquest to his adversary the dragon» (soggetto è pavtago~ ÒAreo~). Per i sostantivi sofoclei in -ma si veda LONG 1968, 41-44 (poco sopra, al v. 122, è un termine in omoteleuto e isosillabico, stefavnwma – con OC 684 –, «a favourite word in Pindar»: p. 43, n. 54). 89 Per le figure di suono specialmente ai vv. 117-126 vd. GRIFFITH 1999, 148 («there is forceful alliteration of p/f in 122-6 and of t/q in 124-6»); KITZINGER 2008, 16; ma «eine vollständige Erfassung aller solcher Mittel ist nur in der Rezitation möglich» (MÜLLER 1967, 52).

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

sitivo – che all’identica espressione abbia fatto ricorso Euripide nell’attacco anapestico dopo versi lirici nel Fetonte, TrGF V, 2 F 773, 59 = v. 102 Diggle: ajllÆ o{de ga;r dh; basileu;~ pro; dovmwn (con le considerazioni di KRANZ 1933, 204-207, che pure non mette in parallelo i due passi: lo fa invece Kannicht in apparato all’edizione del frammento, con DIGGLE 1970, 116). Confrontabili sono anche la chiusa del terzo e del quarto sistema anapestico, dove i due paremiaci iniziano in maniera identica, al v. 147, koinou' qanavtou mevro~ a[mfw (), e al v. 161, koinw'/ khruvgmati pevmya~ (), cui si aggiunga un’ulteriore affinità fonica e metrica (: ma non la medesima sede) offerta, questa volta in lyricis, da stufelivzwn (v. 139) e da ejlelivcqwn (vv. 153-154: esso sembra chiudere una progressione compresa nei pochi versi dell’antistrofe b, con h\lqe ed ejpevlqwmen, segnata dall’impiego accostato di e/h, l, q). A livello di affinità semantica, ancora, già si è constatato come all’ingiusto e trasgressivo baccheggiare del nemico sugli spalti replichi lo svolgimento di un corteo bacchico regolarmente irregimentato all’interno della celebrazione di notturne danze cittadine rivolte ai templi di tutte le divinità (v. 136: bakceuvwn, e v. 154: bavkcio~, il solo caso in cui Sofocle connette una frenesia di stampo affatto negativo con il nome di un dio invocato nel medesimo canto)90. 5. Ritorno al peana: aspetti della performance Il segno più forte – ancorché meno evidente – di quella che fin dal titolo è stata definita «coerenza formale» sta nella giuntura a distanza che Sofocle costruisce tra il principio del primo sistema anapestico (vv. 110-111) e l’apertura della strofe b (v. 134). L’omogeneità non solo di fonemi ma di significanti all’interno di due sistemi esecutivi inconciliabili (quello anapestico, probabilmente in solenni recitativi, e quello lirico) – oltre a un evidente effetto rimico – depone a favore della consapevolezza e non di una mera casualità; ancora una volta Sofocle poteva almeno comunicare all’uditorio l’impressione manifesta di un legato: vv. 110-111:

           |   o}n ejfÆ aJmetevra/ ga'/ Poluneivkh~ | ajrqeiv~             

v. 134:

ajntituvpa/ dÆ ejpi; ga'/ pevse tantalwqeiv~

Le due immagini sono complementari: al suolo contro cui Polinice muove insieme all’esercito argivo si associa nel prosieguo del canto d’entrata la terra che rimbomba sotto il corpo dell’eroe precipitato dagli spalti. È possibile ipotizzare che Sofocle avvertisse il valore rimico dei due participi, resi peraltro antifrastici dall’esito opposto della direzione: il primo atto ad esprimere, sia pure figurativamente, un movimento verso l’alto (ajrqeiv~); il 90

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JEBB 1900, 35; TRALAU 2008, 254-255.

III. La parodo dell’Antigone

secondo, tantalwqeiv~, denotante il vacillamento che precede la caduta (in entrambi i casi si ricorre a ejpiv). E la caduta fa percepire nell’espressione ajntituvpa/ dÆ ejpi; ga'/ lo strepito del cadavere che tocca terra. Tale tessitura per così dire di rilancio dalla sezione in anapesti alla sezione lirica, con ripetizione di ga'/, doveva essere sottolineata dalla cadenza del piede sul termine collocato, in anapesti, dopo la dieresi centrale (e si dovrà segnalare anche l’assonanza dei due isometrici aJmetevra/ e ajntituvpa/); il piede verosimilmente di nuovo ribatteva a terra, questa volta in lyricis, in corrispondenza di ga/'. Poco più sotto, al verso 113 nel medesimo sistema anapestico, sarà da additare la ripresa del termine. Il passo, un paremiaco in DAWE 1996b (aijeto;~ w}~ ga'n uJperevpta: ), compare in L con questa suddivisione (vv. 112-113): ojxeva klavzwn aijeto;~ eij~ ga'n | w}~ uJperevpta | ktl (per l’incertezza dell’ordo verborum si vedano KAMERBEEK 1978, 55; DAWE 1978, 102-103 [a conferma della scelta adottata in DAWE 1996b]; GRIFFITH 1999, 147, e supra, p. 113, n. 24). Nell’impossibilità di chiarire come si svolgesse il movimento sugli anapesti d’entrata, ci si limita a rinviare a RUIJGH 1989 e alla breve rassegna di pareri proposta in ZAMINER 1988 (si realizzerebbe al v. 110 ciò che egli definisce un «contrapposto ritmico», con il ritmo del verso che «passa dall’ordine anapestico immediatamente al suo contrario, l’ordine dattilico», e stando alla sua interpretazione si doveva assistere a un conseguente, parziale, ‘arresto’: «la gamba sinistra appena scaricata non trova più il tempo per avanzare e può venir solo riavvicinata e allineata alla destra, portante» – p. 186: l’ipotesi resta suggestiva ma ovviamente indimostrabile). Sul battere cadenzato come caratteristica degli anapesti (anche in contesti militari) si vedano le sintetiche e chiare considerazioni di GENTILI – LOMIENTO 2001, 108-109, con bibliografia. Al v. 134, come già visto un prassilleo II, «the dactyls get the speed of the descent with the final [tantalwqeiv~] long-short-long-long giving us the force of the impact»: KITZINGER 2008, 18, n. 14. Per la connessione di questi versi con altrettante immagini dei Sette che preludono alla caduta di Capaneo si vedano Aesch. Sept. 629-630 (puvrgwn dÆ e[ktoqen balw;n | Zeuv~ sfe kavnoi keraunw'/) e v. 525, con ELSE 1976, 37: «the graphic detail of the earth rising up to hit him a counterblow has been drawn out of the first line of the same stanza, 521, where Dio;" ajntivtupon means “Zeus’s adversary”. This time Sophokles has made concrete out of general». La descrizione della caduta dell’eroe argivo colpito da Zeus (con strepito: … ejktuvphse de; | cqwvn) è anche in Eur. Phoe. 1180-1182.

Una breve ricognizione delle modalità esecutive del peana (o più in generale di canti in onore di Apollo) ci riporta – come sopra ricordato: p. 126, n. 67 – a dati ricorsivi, anche se estremamente scarni, e tuttavia la genericità dell’informazione nel contempo svela pratiche diffusamente in atto. All’impiego del verbo rJhs v sw nella descrizione di una danza cretese in H. Hom. Ap. 3, 516-517 durante l’esecuzione del peana, saranno da accostare le fanciulle danzanti di Pind. Pae. 6, 15-18 (fr. D6, 15-18 Rutherford = fr. 52f, 15-18 Sn.M.) che «battono», probabilmente la terra, in onore di Apollo91: tovqi Latoi?dan 91 La performance poteva consistere in «a recognizable stamping or marching, which in some cases amounted to dance»: RUTHERFORD 2001, 85. «The hymn [ad Apollo] was sung while the performers approached the temple or the sanctuary and this seems the original way of singing the paean. […] that this may include an aspect of dancing, is suggested by rJhvssonte"»: BREMER 1981, 197-198. Non estranea all’esecuzione peanica appare la danza circolare (esempi in RUTHERFORD 2001, 65, n. 18): per il periodo classico (oltre a Theogn. 776-779) Eur. IA 1467-1484; HF 687-700, peana per Eracle danzato circolarmente come per Apollo – eiJlivssousai, v. 690 – con CALAME

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

| qamina; Delfw'n kovrai | cqono;~ ojmfalo;n para; skiaventa melp³»ov¼menai | podi; krotevo»nti ga'n qo¼w',/ così come i giovani descritti in Ap. Rh. I 536-539, che in danze in onore di Febo ejmmelevw~ kraipnoi'si pevdon rJhs v swsi povdessin. Dubbio il caso di Ar. Pax 453-454, dove si leva il grido di refrain, ijh; paiwvn, ijhv (v. 453), e l’interlocutore giovandosi dell’assonanza gli risponde al verso seguente con un secco «lascia perdere il battere», a[fele to; paivein: ajllÆ iJ hj ; j movnon levge: mi chiedo se possa essere ammissibile pensare – oltre a un semplice gioco di parole – a un ulteriore effettivo riferimento ai modi dell’esecuzione, vale a dire un improvviso battito (al suolo) in coincidenza di ijh; paiwvn92. Ma più interessante sarà tornare al passo di Timoteo sopra considerato, evocante, nel corso della narrazione che descrive la rotta nemica, il peana celebrato per la vittoria sui barbari a Salamina. È lo stesso a cui secondo altre fonti il giovane Sofocle avrebbe preso parte (o perlomeno ad esso simile). Come anticipato, in suvmmetroi dÆ ejpe- | ktuvpeon podw'n | uJyikrovtoi~ coreivai~ (PMG fr. 791, 199-201) pare concentrarsi la descrizione di una modalità esecutiva che oltre a un movimento «a tempo» prevede che gli ateniesi «stamped with the high-pounding dances of their feet» (HORDERN 2002, 225), dove ejpiktupevw designa un battito che produce rumore d’intorno (si veda e.g. Ar. Eccl. 483: toi'n podoi'n ejpiktupw'n bavdize). HERINGTON 1985, 158 si spingeva forse troppo in là ipotizzando che addirittura Timoteo durante la performance imitasse la danza del peana93. Sarà però almeno da rilevare per analogia il peso cospicuo che vengono ad assumere nella parodo sofoclea 1977, I, 147-148; BOND 1981, 245: l’espressione usata ai vv. 691-694, paia'na"... keladhvsw, è accostabile a Paia'nÆ ejkelavdhsan di Tim. PMG fr. 791, 197-198. Si aggiunga il canto misto di Soph. Trach. 205-224 (uJpostrevfwn al v. 221, su cui al cap. IV, par. 3). DAVIDSON 1986a, 42 giustamente nota che una momentanea idea di circolarità espressa dal testo non può spingere a credere che il coro assumesse una formazione affine (nella fattispecie per ‘mimare’ l’assedio ai vv. 117-123). 92 Incerta l’attribuzione delle battute: Ermes/Trigeo o Trigeo/coro: cfr. OLSON 1998, 164-165 e 170; RUTHERFORD 1993, 81 (e n. 11: con rinvio all’etimo registrato in Macr. Sat. I 17, 17: Paia;n ajpo; tou' paivein, di Apollo che colpisce Pitone). Sia Olson che Rutherford designano il passo come «pun» e «joke» senza avanzare l’ipotesi scenica; mi fa notare Olimpia Imperio per litteras che «dal punto di vista etimologico, laddove è certa la connessione tra paivein-paiwvn e il gesto del percuotere (con le mani)», non risulta una connessione con il battere del piede a terra. Così MASTROMARCO 1983, 600, n. 51: Trigeo coglie nel grido «un nesso etimologico con paivein, ‘percuotere’, verbo che gli evoca immagini di guerra: perciò esorta Ermes a non levare più quel grido». Fanciulle che battono i piedi mentre un coro di giovani canta un nomos sono in Call. Del. 304-306: aiJ de; podi; plhvssousi corivtide~ ajsfale;~ ou\da~ (su cui FURLEY – BREMER 2001, I, 147-148). Altre danze cadenzate a tempo, non necessariamente peani, in SCULLION 1998, 103; HORDERN 2002, 227-228. Ecuba prigioniera in Eur. Tr. si lamenta stesa a terra e nella sua immobilità rievoca per contrasto (vv. 147-152) le passate cadenze del suo piede che a Troia «guidava la danza» (podo;~ ajrcecovrou plagai'~... eujkovmpoi~: vv. 151-152); essa svolge qui funzione di guida anche per il coro di prigioniere «resa esplicita dal verbo ejxavrcein, ricorrente due volte a breve distanza» (v. 147 e v. 152): PATTONI 1989, 51. 93 Contra è HORDERN 2002, 31 e 224. JANSSEN 1984, 126, dà di suvmmetroi (LSJ9 1679, 3: «in time»; GI2, 2007: «a tempo») una meno probabile sfumatura: «(they sang in honour of Paean) and keeping even with one another and in accompaniment to (their song) they stamped loudly»; in uJyikrovtoi~ egli vede «the high-swinging of the legs and the high-leaping of the dancing Greeks», come HORDERN 2002, 227: «possibly a style of dance involving leaping or prancing was particularly associated with paeans» e «particularly apt for processional dances», con rinvio a H. Hom. Ap. 3, 516 (Apollo danza kala; kai; u{yi bibav~) – oltre a esempi comici e a Pind. Pae. 2, fr. D2, 99-100 Rutherford = fr. 52b, 99-100 Sn.-M.

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termini afferenti a un preciso campo semantico, vale a dire all’idea del ‘battere’ e del ‘percuotere’: rJiptei' (v. 131); ajntituvpa/ (v. 134); l’epico stufelivzwn (v. 139)94; ejlelivcqwn (vv. 153-154)95. Non mancano inoltre parole indicanti ‘strepito’: ojxeva klavzwn (v. 112); pavtago~ (v. 125); kanach'~ (v. 130). Per riprendere l’ipotesi fin da principio avanzata, dunque, e concludendo su un interrogativo destinato a rimanere tale – di fronte a questa soglia invalicabile sarà bene fermarsi –: potremmo nei versi d’entrata del coro dell’Antigone rintracciare anche l’impronta sia pur vaga e forse non ulteriormente sondabile di quella danza rumorosa che i greci erano soliti cadenzare a ritmo con i piedi quando si trovavano a intonare il peana di vittoria?

94 DELG, s.v.: «frapper durement, maltraiter, battre»: qui la scelta «acknowledges the frequent use of various forms of the word in the Iliad» (DAVIDSON 1983, 47). 95 Si veda LSJ9 531, s.v.: «Dionysus is called oJ Qhvba~ ej. because the ground shook beneath the feet of his dancing bands». ejlelivcqwn «seems more likely than the variant oJ... ejlelivzwn (participial clause, “the one who shakes Thebes”, with Qhvba~ acc. plural)»: GRIFFITH 1999, 154.

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IV

Elementi dell’inno nelle tragedie superstiti e corali innodici dell’Antigone: forma e funzione 1. Identità del coro dell’Antigone La mentalità del coro tragico – ha scritto di recente Helene Foley – deriva dalla sfera religiosa tanto quanto (e forse più che) da quella politica1. Si tratta di un’affermazione apparentemente generica che, come gli oramai secolari (e leciti) sforzi di definizione della natura e del ruolo del coro, dev’essere ‘rimisurata’ ogni volta che ci si avvicini a un testo del teatro di V secolo a.C. Da questa affermazione sembra tuttavia utile partire perché essa può attagliarsi in modo appropriato non tanto a ciò che il coro rappresenta e incarna (o noi lettori d’oggi riteniamo che rappresenti) nell’Antigone di Sofocle, ma almeno in parte a ciò che il coro canta. Non si sarà in grado di aggiungere molto sui meccanismi che regolano la maniera in cui il coro ‘ha a che fare’ con la tragedia Antigone, se esso cioè vi svolga una funzione attiva e dirimente, se sia occulto regista prevalentemente da una certa fase del dramma di alcune delle scelte di Creonte, oppure spettatore inerme, o addirittura vittima del potere coercitivo esercitato sulla collettività dal nuovo sovrano di Tebe e succube di uno strisciante sentimento di paura: tutte ipotesi già ampiamente formulate e documentate, nonché suffragate da precisi riscontri testuali2. Si potrà però senz’altro affermare che l’incolumità dei coreuti non è mai in discussione, né essi sembrano temere per sé più di quanto non temano per la città nel suo insieme, esposta com’è – alla fine della guerra fratricida – al rischio di un vuoto di potere subito eluso, che viene viceversa a realizzarsi nella chiusa del dramma con l’allontanamento di Creonte3. Nulla sa il pubblico di quanto attende Tebe e i suoi vecchi saggi, e tuttavia proprio la saggezza di impianto gnomico-proverbiale manifestata dal coro nella sezione esodica sembra escludere l’annientamento dell’ordine della povli~ e l’instaurazione di uno stato di anarchia4. Non dovrà sfuggire l’emersione (anzi la soprav1

«Choral mentality derives from the religious sphere as much as, and perhaps more than, from the political sphere (those spheres are in many ways inseparable in any case)»: FOLEY 2003, 21 (ma con riferimento, nello specifico, a cori femminili). 2 Oltre ai capitoli dedicati al dramma in BURTON 1980 e in GARDINER 1987, si vedano almeno, nella sterminata bibliografia, MÜLLER 1961; ALEXANDERSON 1966; SCHWINGE 1971; COLEMAN 1972; RÖSLER 1983; JOUANNA 1999; ZIMMERMANN 2003; DHUGA 2011, 129-167. 3 Per l’atteggiamento mostrato dal coro al cospetto dell’autorità cfr. BURTON 1980, 86-87. 4 Temuta dallo stesso Creonte: ajnarciva~ de; mei'zon oujk e[stin kakovn (v. 672: al v. 676 è il suo opposto positivo, peiqarciva). Per la ‘sopravvivenza’ del coro oltre il destino e le azioni dei personaggi si vedano le utili considerazioni di MASTRONARDE 1998, 58, 61, 66, n. 17 (riprese in MASTRONARDE 2010, 97 e 101), insieme all’articolata riflessione di BUDELMANN 2000, 206-272, nello specifico dedicata a Edipo re, Aiace ed Elettra (alcune frasi sono utili come sintesi per comprendere la prospettiva adottata: «Sophoclean tragedy gives prominence to groups under threat but ultimately safe, rather

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vivenza come unica forma superstite) di un solo potere lecito e uJyivpoli~, normato, moderato, condiviso, sostanzialmente di tipo oligarchico. Chiamati da Creonte a una levsch di primi cittadini (suvgklhton... gerovntwn... levschn: vv. 159-160) i vecchi del coro sono per Antigone Qhvbh~ oiJ koiranivdai (un hapax, al v. 940), «membri della classe dirigente»5, ma anche ‘parte per il tutto’ se dal messaggero e da Euridice si sentiranno chiamati in causa – non senza un preciso e scenico valore enfatico – come rappresentativi di tutti i tebani (v. 1155, Kavdmou pavroikoi, e v. 1183, w\ pavnte~ ajstoiv). Dobbiamo dunque considerare questi anziani come un gruppo scelto, connotato per appartenenza di casta e per età, ma nel contempo come voce che parla per la città, e della città si preoccupa. Ne siano prova fin dalla parodo i possessivi al v. 110, aJmetevra/, e al v. 120, aJmetevrwn, dove il coro si configura direttamente, per così dire, come parte lesa: «la nostra terra», «il nostro sangue». Dentro la condizione finzionale imposta dalla scena, il coro è dunque atto anche all’imitazione di esperienze coreutiche affini a quelle note e in uso presso una qualsiasi comunità greca. Una simile imitazione andrà altresì considerata (come altrove in tragedia) ‘impura’, data la natura realistica ma non reale dello spettacolo6: si intende dire che anche le sezioni cantate sono in prima istanza immanenti all’opera, hanno cioè a che fare con essa e con il mito che vi si rappresenta. Ma già si è visto che il genere tragico portava in scena cori che, per lo spettatore, risultavano assimilabili ad altri cori: ha efficacemente scritto Bernhard Zimmermann che «la vita cultuale e culturale del cittadino attico era fortemente condizionata dalla sua partecipazione attiva o passiva alle performances corali» 7. Eppure la tradizione occidentale ha giustamente individuato in Antigone il cardine del dramma: è in lei che la tragedia trova il suo compimento e si realizza (sebbene, come sottolineato da George Steiner nelle sue Variations sur Créon, inseparabilmente connessa a Creonte: dopo l’uscita di Antigone «vers la nuit, le drame appartient à Créon»)8. Ma viceversa l’organizzazione del festival, le modalità di reclutamento e di premio, il contesto agonale e religioso in cui il dramma di V secolo si colloca, ci parlano di una centralità imprescindibile del coro e dei than saved», p. 230; «Sophoclean gods let the group survive», p. 270; «Sophoclean choruses and the large group that is somewhere behind them provide a degree of permanence and stability in a world of death, despair and destruction», p. 272). 5 Un titolo, questo, non solo per i basilei'~ ma anche per gli e[ndoxoi tw'n politw'n, sostiene lo schol. ad l. (p. 261, 2 Papageorgiou). 6 ZIMMERMANN 2003, 373; si vedano anche CALAME 1999 e FURLEY 1999-2000, 185-187, nonché, per l’adattabilità di forme innodiche nei drammi, non meri atti rituali indipendenti ma ‘imitazioni’ di inni arrangiati al contesto e alla fiction drammatici, FURLEY – BREMER 2001, I, 275-279. Forti sono state però anche le riserve su una possibile assimilazione tra canti rituali e canti tragici, nonché sull’identificazione tra pubblico e coreuti: si veda STEHLE 2004 («scholars are tempted to assign ritual value to choral song in tragedy ad libitum»: p. 123). 7 ZIMMERMANN 2003, 372. 8 STEINER 1983, 77: ne sia un’ulteriore prova la frequentissima assenza del coro nella selva delle riscritture del dramma.

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IV. Elementi dell’inno nelle tragedie superstiti e corali innodici dell’Antigone

suoi componenti9. Se abbiamo già anticipato nelle pagine introduttive che non possiamo trattare le sezioni corali del teatro come altro da ciò che sono (le parti orchestiche e le sezioni dialogiche del testo formano un amalgama inseparabile), nel contempo alcuni dei brani cantati in tragedia anche a noi moderni appaiono a volte – se non eguagliabili – più agevolmente comparabili rispetto ad altri a forme lirico-corali di produzione extradrammatica. Ciò che in Antigone succede in maniera evidente e registrata da tutti i commenti in due casi, nell’inno a Eros e Afrodite dei vv. 781-800 e nell’inno a Dioniso dei vv. 1115-1154, e in modo più sottile ma almeno nitido nella scelta incipitaria (una citazione dal peana 9 di Pindaro) all’interno della lunga parodo lirico-anapestica dei vv. 100-161, fortemente debitrice di elementi e atmosfere tratti da circostanze connesse con l’esecuzione del peana10. Il sentimento di religiosa gratitudine del coro di anziani è mostrato fin dall’inizio11: il raggio del sole per volere di Zeus ha messo in rotta l’esercito nemico e ha visto la Vittoria planare come dall’alto su Tebe ricca di carri; sono del resto le forme del rituale esplicitamente in onore di una divinità precisa ad essere più spesso identificate dalla critica come, appunto, «the ritual face» dei canti e delle danze dei cori tragici12. Tuttavia determinare con certezza il grado di ‘necessità contestuale’ che ha prodotto nel caso di Antigone tale incidenza, vale a dire in che misura l’occasione rituale della performance in seno alla festa ateniese delle Grandi Dionisie ha guidato Sofocle verso una caratterizzazione more religioso della voce del coro, è impresa a dir poco ardua. Fatto salvo il valore imprescindibile del contesto, questa prospettiva di analisi deve essere ridefinita tragedia per tragedia, senza dimenticare il giusto monito ribadito in tempi recenti da Donald J. Mastronarde: «if some critics of the nineteenth and twentieth centuries made the error of exaggerating the “literary” side of Greek tragedy, this does not justify our falling into the opposite extreme of recognizing only a “non-literary” (political and social) side» 13. Siamo nondimeno condotti almeno a una certezza: Antigone è il dramma sofocleo con la maggior concentrazione di indizi, tonalità ed elementi innodici14. La funzione dei corali in forma di inno pertiene dunque più da vicino all’impianto drammaturgico d’insieme, ossia alla struttura di una storia che vede il corpo civico impegnato di volta in volta in azioni rituali precise a emulazione delle forme 9 Su questa linea si muove, come noto, il lavoro di WILSON 2000; si vedano anche le sintetiche ma utili considerazioni di FOLEY 2003, 2-4. 10 Come si è cercato di mostrare al cap. III. 11 In prima battuta tale sentimento sembra essere proiezione del sentimento di Creonte stesso, per il quale sono stati gli dei a «raddrizzare saldamente la città» (sono le sue prime parole ai vv. 162-163: ajsfalw'~ qeoi;... w[rqwsan). Tuttavia se l’attitudine dei sentimenti del coro è puramente religiosa, «l’atteggiamento di Creonte verso gli dei è sempre ancorato strettamente alla propria azione politica» (si vedano a proposito le considerazioni di UGOLINI 2000, 123). 12 STEHLE 2004, 126. 13 Così MASTRONARDE 2010, 45. 14 Si rinvia alle tavole di sintesi in FURLEY – BREMER 2001, I, 279 (Eschilo), 299 (Sofocle), 312 (Euripide).

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consuete del canto della comunità secondo gradi diversi di approssimazione. Tali azioni rituali sono: peana per la vittoria, celebrazione di Eros e Afrodite antifrasticamente evocativa di un epitalamio, inno cletico con puntuale ancorché circoscritta richiesta di soccorso. 2. Forme dell’inno sofocleo Già si è constatato nel capitolo precedente che la forma dell’invocazione posta all’inizio della sezione lirica trova un efficace utilizzo nella parodo dell’Antigone, e più in generale – oltre ai due inni del medesimo dramma che si analizzeranno più sotto – si dovrà riconoscere a titolo di premessa una spiccata predilezione, da parte del poeta di Colono, per invocazioni posizionate in apertura di canto15. Esse possono esprimere un’intenzione di tipo religioso (inno, preghiera con esplicita richiesta di intervento) ma anche configurarsi come di natura più vaga (i.e.: applicazione non connotata sacralmente della forma del «Du-Stil»): Ai. 596 (w\ kleina; Salamiv~, su; ktl), Trach. 94 (o}n aijovla nu;x ejnarizomevna ktl) e 633 (w\ nauvloca kai; petrai`a qerma; loutra; ktl), OT 151 (w\ Dio;~ aJduepe;~ favti) e 1186 (ijw; geneai; brotw`n), Phil. 827 (ÓUpnÆ ojduvna~ ajdahv~ ktl). Se volessimo cercare di definire il grado di elaborazione stilistica dei canti a Eros e a Dioniso nell’Antigone dovremmo concludere che in essi Sofocle non ha infuso un elevato e distintivo livello di complessità (una complessità che resta in ogni caso superiore rispetto, ad esempio, ai molti inni di IV secolo tramandatici per via epigrafica). È vero infatti che la loro stessa ‘intonazione’ sacrale, insieme al rilevamento in percentuali altissime di clichés di genere, ne determina giocoforza un innalzamento (come se i coreuti in questi punti venissero chiamati al tono alto della preghiera – e quindi della richiesta – o della celebrazione). Ma è vero anche che le loro caratteristiche sintattiche e lessicali, come vedremo, non si discostano da assetti ‘normati’16. Ci basterà confrontare con questi passi l’ambiguo e potente attacco a Priamel di quello che a ragione è stato definito un «inno alla grandezza dell’uomo»17 , il polla; ta; deinav del primo stasimo della medesima tragedia, ai vv. 332ss. Ma per restare nell’ambito dell’imitazione più acclarata di formule impetrative si potrà scegliere quale più congruo termine di comparazione l’audace incipit della parodo delle Trachinie18. L’invocazione al sole 15

Si veda DAVIDSON 1991, 32-36. Per cori che esordiscono, nel loro primo intervento scenico, con il «tu» si veda al cap. III, p. 103, n. 1. 16 Non sarà inutile ricordare, una volta di più, che «i percorsi tragici e comici dell’inno agli dei, della preghiera, della supplica, della semplice epiklesis, se dimostrano la vitalità dei motivi innici nella poesia greca, dimostrano anche l’impossibilità di risalire ad un unico archetipo» (ANGELI BERNARDINI 1991, 94). 17 REINHARDT 1989, 89. Sulla Priamel in questi versi cfr. RACE 1982a, 13; GRIFFITH 1999, 185. 18 Ci si permette di rinviare più in generale alle note di commento in RODIGHIERO 2004, 154155, da cui si trae anche il testo dell’avvio della parodo citato poco sotto.

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– coincidente quindi con l’apparire del coro nello spazio dell’orchestra e con le sue prime parole – viene realizzata, senza alcun parallelo possibile, da una frase che si apre con un pronome relativo all’accusativo (v. 94: o}n aijovla nu;x ejnarizomevna: , ia + hem.). In effetti l’apertura in accusativo, non estranea a forme dell’inno, sembra riportarci allo stile rapsodico, ma con la fondamentale differenza che in genere il complemento iniziale, oggetto di canto/preghiera/lode, non compare come relativo. Ci possiamo così chiedere se Sofocle non stia qui alludendo a una iunctura epica riproducendola solo in maniera parziale, priva cioè dell’anticipazione dell’informazione chiave (vale a dire: chi viene generato?), informazione che in Trachinie viceversa segue e non – come di consueto – precede il pronome relativo19. È questo un caso, forse, in cui risulta in opera quella differenziazione generale definita da Michael Silk che porta a distinguere tra corali «high without intensification» e corali «high with intensification»20. Meno ‘intensi’ si rivelano infatti costrutti assimilabili ma palesemente non altrettanto originali, come Trach. 647. Qui il pronome relativo è collocato a inizio della strofe b: o}n ajpovptolin ei[comen ktl, così come nel cuore della lunga parodo innodica21 in Eur. Ba. 87-92 è a inizio antistrofe a (v. 88, non all’inizio del canto, dunque): … to;n Brovmion. || o}n... mavthr e[teken. Il passo è da accostare22 al peana di Filodamo Scarfeo (del 340-339 a.C., Pai. 39 Käppel) nel cui attacco, dopo l’iniziale invocazione al dio, il relativo fa la sua comparsa (vv. 6-7): o}n Qhvbai~... | ... geivnato kallivpai~ Quwvna. Infine anche l’avvio dell’inno narrativo di Eur. IT 1234-1236, eu[pai~ oJ Latou'~ govno~, | o{n pote... | ‹e[tikteÌ, palesa ancora una volta un inferiore grado di ‘intensificazione’ (il relativo non fa da incipit), ed è ben raffrontabile con il sofocleo o}n aijovla nu;x... | tivktei ktl. Così, dunque, la prima strofe della parodo, i vv. 94-102, delle Trachinie: o}n aijovla nu;x ejnarizomevna tivktei kateunavzei te flogizovmenon ÓAlion, ÓAlion aijtw' tou'to karu'xai to;n ÆAlkmhvna~, povqi moi povqi moi naivei potÆ, w\ lampra'/ steropa'/ flegevqwn, h] pontiva~ aujlw`na~, h] dissai`sin ajpeivroi~ kliqeiv~, ei[pÆ, w\ kratisteuvwn katÆ o[mma.

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Lo ‘stile del relativo’ d’apertura viene pertanto convertito in un giunto sintattico fortemente distorto, con il pronome sospeso in posizione incipi19

o}n tevke è in Il. 2, 658; 16, 175; 22, 353; Hes. fr. 357, 3 M.-W.; o}n tivktei è in Aesch. TrGF III F 281a, 31, Eur. IT 1319, Ba. 2 e 42. Si veda LIDOV 1996, 134, con ulteriori esempi ivi raccolti: «an accusative beginning depends, of course, on a verb that describes the activity of the prayer, as in the rhapsodic Hymn to Hermes, which combines a direct invocation of the Muse with an indirect invocation of the god» (H. Hom. Merc. 4, 1-3: ïErmh`n u{mnei, Mou`sa… o}n tevke Mai`a, da accostare a H. Hom. Merc. 18, 1-3, e si vedano H. Hom. Jun. 12, 1; H. Hom. Herc. 15, 1-3). 20 Scil. intensificazione stilistica: SILK 1998, si cita da p. 11. 21 Su cui si veda al cap. III, par. 2, con p. 120, n. 51. 22 Come giustamente notato da DI BENEDETTO 2004, 290-291.

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taria (mentre di norma segue il nome del dio o viene sostituito da articolo e participio)23 che permette fin da subito l’inserzione della genealogia (tivktei) su un lessico epicizzante, qui però attenuata dal ruolo della notte che certo «genera» ma anche kateunavzei. Ad essa segue la preghiera vera e insistita dalla ripetizione (ÓAlion, ÓAlion aijtw'). Infine «l’epiclesi w\ lampra'/ steropa'/ flegevqwn, che è predicazione in Partizipialstil e un’aretalogia in nuce, ripropone la predicazione della frase relativa dell’inizio: flogizovmenon ~ flegevqwn»24. Pare, in più, che ci sia un intenzionale capovolgimento della mansione abitualmente svolta in contesto innodico da verbi come «vivere», «frequentare», «abitare» (si veda più sotto). naivei non serve infatti a esprimere una geografia cultuale precisa (del resto il sole non conosce limiti alla sua ubiqua presenza) bensì l’incertezza dei luoghi ‘frequentati’ da Eracle disperso. Il verbo è inoltre inserito in una sintassi mista, che doveva rivelare la sua ambiguità soprattutto in fase esecutiva, mettendo in frizione un’infinitiva (aijtw'... karu'xai... to;n ÆAlkmhvna~...: «chiedo che annunci [dove vive] il figlio di Alcmena») con la domanda diretta: povqi naivei25, ma con ‘regolare’ espressione delle ragioni della preghiera al v. 103 che apre l’antistrofe: poqoumevna/ ga;r ktl («infatti…»). E questo basti per misurarne la lontananza da un ideale ‘grado zero’. La forma inconsueta di avvio della parodo delle Trachinie è comparabile – ancora una volta garantendosi il podio più alto grazie all’ardita superiorità di una tortuosa trama sintattica – con la prima antistrofe della parodo di intonazione peanica dell’Edipo re26, dove Atena, Artemide e Apollo sono invocati in accusativo/vocativo e però, come di consueto in preghiera, anche evocati nella speranza di una salvifica apparizione (OT 159-163): prw`ta se; keklovmeno~... ÆAqavna,... ÒArtemin,... kai; Foi`bon... aijtw` [~ Trach. 96: ÓAlion, ÓAlion aijtw`], ... profavnhtev moi. Molti sono del resto nella parodo dell’Edipo gli indizi della completezza formale di questa preghiera; l’impiego della hypomnesis e la supplica modulata al presente secondo il consueto paradigma del da quia dedisti (ei[ pote... e[lqete kai; nu`n: vv. 164-167, con p. 155, n. 63 più sotto) insieme al gavr del verso seguente a esprimere le ragioni della richiesta di aiuto, le simmetrie interne e le rispondenze sonore e verbali (a[mbrote Favma ~ a[mbrotÆ ÆAqavna, ajnavriqma ~ ajnavriqmo~, cruseva~ ~ cruseva, keklovmeno~... profavnhte ~ kiklhvskw... pelasqh`nai, la ripetizione di quvgater Diov~, il poliptoto phvmato~, phvmata, e a[llon, a[lla/, a[lloqen, a[llai) contribuiscono alla creazione di un forte ‘effetto liturgico’ (BURTON 1980, 144) e di legato, reso ancora più evidente dall’insistito riferimento, nel corso di tutto il canto, al motivo della luce e del fuoco. Ma dentro questa sintetica raccolta di componenti normate e raffinate – e imposte – dalla consuetudine 23 DAVIES 1991, 78: «the relative usually follows the god’s name, and that is usually in the vocative […]. In the present instance the relative comes first and there is hyperbaton». 24 KORZENIEWSKI 1998, 160-161, con le più sintetiche considerazioni di MANTZIOU 1981, 449450. 25 Esempi in Kühner – Gerth II, 2, 579, Anmerk. 4, con LONGO 1968, 63. 26 Su di essa, e sulla sua relazione con la parodo dell’Antigone, si veda anche al cap. III, par. 2 (e p. 118, n. 45 per la bibliografia).

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e dal genere innodico-impetrativo, in entrambi i testi (Trach. 100: h]... h[, e OT 194-196: ei[te... ei[te) Sofocle fa ricorso a una variante della formula che serve normalmente per indicare dove un dio possa essere rintracciato – o le modalità della sua chiamata –, con evidente ulteriore riuso di un modulo, appunto, di genere. Tuttavia l’inserzione di una struttura nota e riconoscibile viene piegata a un uso parodico serio: nel primo caso per esprimere incertezza su dove si trovi un disperso mortale, Eracle, e nel secondo per dichiarare dove Ares possa essere spedito, lontano da Tebe, in modo da liberare la città dalla pestilenza. Si potrà aggiungere che l’apertura della terza coppia strofica nella parodo dell’Edipo, ÒArea... o}~... flevgei... ajntiavzwn (OT 190-192) assume la forma di una preghiera di invocazione con il nome del dio in prima sede, frase relativa e stile participiale, ma il movimento dovrà essere, nell’intenzione dell’orante, appunto di allontanamento da Tebe e non – come di consueto – verso la città. Oltre al passaggio dell’inno a Dioniso in Ant. 1144-1145, si potranno utilmente confrontare con il modulo dell’alternativa polare «o… o…» pienamente attivato e senza scarto rispetto all’attesa funzione, le parole di Oreste che prega per la venuta di Atena in Aesch. Eum. 292-297, l’inno alle Nuvole in Ar. Nub. 270-273 e l’invocazione a Pan in Theocr. 1, 123-12427. Restando nel non illimitato ambito della poesia innodica sofoclea potremo osservare la mancata dissimulazione di un giubilo incontenibile che si avvicina piuttosto al tentativo, da parte del poeta, di ricreare l’effetto mimetico di un’improvvisazione estemporanea, una gioia inattesa scatenantesi nell’attacco di un inno in onore di Pan ai vv. 693-701 dell’Aiace28: e[frixÆ e[rwti, pericarh;~ dÆ ajneptavman. ijw; ijw; Pa;n Pavn, w\ Pa;n Pa;n aJlivplagkte, Kullaniva~ cionoktuvpou petraiva~ ajpo; deiravdo~ favnhqÆ, w\ qew'n coropoivÆ a[nax, o{pw~ moi Muvsia KnwvsiÆ ojrchvmatÆ aujtodah' xunw;n ijavyh/~. nu'n ga;r ejmoi; mevlei coreu'sai.

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Lo stasimo è stato a ragione definito ‘iporchematico’, quale espressione di un particolare stato di esultanza dopo la Trugrede di Aiace, annunciante il suo ravvedimento. L’avvio in prima persona racconta addirittura di uno stato fisico ed emotivo (e[frixÆ e[rwti: «fremo di gioia», ma anche «sono scosso»). Esso prova poi a irregimentarsi – senza riuscirvi del tutto – entro più tradizionali forme dell’inno, dal ribattuto ijw; ijw; Pa;n Pavn (ricalcato sul refrain più comune e quasi omofono ijw; Paiavn, dove però l’anadiplosi è ideata per dare concitazione al discorso), all’attesa richiesta di un’epifania del dio (favnhqi)29, 27 28 29

Altri esempi sono raccolti in ADAMI 1900, 227-231. Testo in LLOYD-JONES – WILSON 1990a. Si rinvia al cap. I per una più dettagliata analisi dell’intero passo dell’Aiace, nonché per

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fino alla giustificazione della chiamata nel nu'n gavr di v. 701. Questi ultimi sono rispettivamente comparabili, nell’inno a Dioniso dell’Antigone, a profavnhqi, «appari», del v. 1149, e, sia pure con diversa sfumatura, a kai; nu'n e a w{~, «anche ora… poiché», di v. 1140. Accostabili, ancora, alla manifestazione di un particolare stato d’animo indotto come reazione a una situazione contingente sono l’espressione di paura che il coro di Edipo re ammette nel ricordato peana in tempo di peste della parodo30, nonché la gioia sfrenata che ispira il canto infraepisodico delle Trachinie annunciante il ritorno di Eracle, ai vv. 205-22431, con l’invito a levare le voci guidate dall’accompagnamento musicale e ad abbandonarsi alla danza nel nome di Paián e di Dioniso. Per tornare all’oggetto principale della nostra analisi, negli stasimi dell’Antigone di tutta questa libertà autoreferenziale non resta nulla. In essi per converso si percepisce una sorta di astratto ascendente formale che sembra rispondere piuttosto al tentativo di rifarsi a un corredo tradizionalissimo di modi dell’inno celebrativo e della preghiera impetrativa, quasi a voler rendere più efficace la preghiera stessa negandole qualsivoglia procedimento di emancipazione dalla fissità di una struttura data. Si partirà qui da una campionatura ‘per contatto’ e non più ‘per contrasto’; una coerenza simile possiamo riscontrarla – limitatamente all’incipit – in un frammento sofocleo (TrGF IV F 371) appartenente al perduto Laocoonte32: Povseidon, o}~ Aijgaivou nevmei~ prw'na~ h] glauka'~ mevdei~ eujanevmou livmna~ ejfÆ uJyhlai'~ spilavdessi ÿ stomavtwn ÿ

Questo purtroppo mutilo inno a Poseidone è con ogni evidenza passato attraverso il medesimo setaccio formale dei due inni dell’Antigone: Povseidon, o}~... nevmei~... h]... mevdei~

è perfettamente sovrapponibile ad Ant. 781-785, ÒErw~... o}~... pivptei~... o}~... ejnnuceuvei~, foita'/~ dÆ uJperpovntio~ ktl

e ad Ant. 1115-1123: poluwvnume... o}~ ajmfevpei~... mevdei~ de;... naietw'n ktl.

Ai vv. 596-598 dell’Aiace Sofocle ricorre a un costrutto quasi analogo, evidentemente imitando incipit innodici consueti ma rinunciando al relativo (nome in prima sede, stile del «tu», uso del verbo di «stare»). Così l’isola di

l’uso consueto nelle preghiere – anche in tragedia – della richiesta di apparizione con l’impiego del verbo faivnw (par. 1). 30 OT 153: ejktevtamai fobera;n frevna deivmati pavllwn. 31 Si veda più sotto, p. 161, n. 81. MILO 2006 vi riconosce «funzione di stasimo» pur ritenendo che «a cantare sia qui la sola corifea»: p. 175 e p. 162, n. 8. 32 Questo il metro ipotizzato da Snell, in TrGF IV, p. 331: «pher cr | cr ia ia | ia pher …?».

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Salamina invocata dai marinai assume un’aura diremmo quasi divina, mentre l’intento celebratorio è assicurato dall’aggettivazione: w\ kleina; Salamiv~, su;... naivei~... eujdaivmwn, pa`sin perivfanto~ aijeiv ktl.

La tipicità di tale corredo, per tornare in ambiente dionisiaco, sembra addirittura deducibile da un frammento sofocleo in trimetri (TrGF IV F 959, 1-3)33: o{qen katei'don th;n bebakciwmevnhn brotoi'si kleinh;n Nu'san, h}n oJ bouvkerw~ ÒIakco~ auJtw/' mai'an hJdivsthn nevmei

L’inserzione di un passo non in lyricis parrà meno incongruente se consideriamo la materia lessicale di cui si sostanziano questi versi, che hanno quasi l’andamento di una parafrasi in giambi e in terza persona. Siamo di fronte alla più antica attestazione letteraria, insieme proprio alla chiusa dell’inno a Dioniso, dell’assimilazione dell’eleusino Iacco a Dioniso-Bacco34 (Ant. 1121: w\ Bakceu', e 1154: to;n tamivan ÒIakcon). Nel frammento essa è resa ancora più evidente dal richiamo a Nisa, che Iacco nevmei. Si tratta infatti di uno dei luoghi – Eubea o Tracia: sintesi in CULLYER 2005, che propende per la seconda, e si veda qui il cap. I, par. 2 – frequentati dal dio anche nei versi dell’Antigone (vv. 1131-1133: kaiv se Nusaivwn ojrevwn kisshvrei~ o[cqai ktl). È confermata in seconda istanza la natura tauromorfa di Iacco-Dioniso, che ritroviamo nel probabilmente antico canto delle donne di Elea tramandato da Plutarco, dove il dio (a[xie tau're) dovrà giungere al tempio tw/' boevw/ podiv, con piede bovino (Plut. Mor. 299 B 2-7 = PMG fr. 871)35: ejlqei'n h{rw Diovnuse ÆAleivwn ej~ nao;n aJgno;n su;n Carivtessin ej~ nao;n tw/' boevw/ podi; quvwn, a[xie tau're, a[xie tau're.

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Il testo è tramandato da Strab. XV 1, 7, p. 687 C.: para; Sofoklei' dev tiv~ ejsti th;n Nu'san

kaqumnw'n wJ~ to; Dionuvsw/ kaqierwmevnon o[ro~.

34 Sui rapporti tra Dioniso e Iacco si vedano DODDS 1960, 165-166 (al v. 725); HENRICHS 1990, 276, n. 40; FURLEY – BREMER 2001, II, 70; si veda inoltre specialmente GRAF 1974, 51-58. Per le relazioni dello stasimo dell’Antigone con temi misterici ed eleusini cfr. sotto. 35 Al v. 5 sarà da leggere un ripristinato quvwn in luogo di duvwn, come giustamente rilevato da FURLEY – BREMER 2001, II, 376-377 (per il culto di Dioniso a Elea si veda Paus. VI 26, 1: il dio visitava la città durante feste dette Qui`a – e si veda Ant. 1150-1151: sai`~... Quivaisin). Si potranno aggiungere almeno Eur. Ba. 100: taurovkerwn qeovn, e 1017: favnhqi tau'ro~ (con ulteriori esempi in NERI 2003b, 232; DI BENEDETTO 2004, 293). La struttura semplice ma ‘normata’ del canto di Elea trova conferma in passi tragici: Aesch. Pers. 658-671; Soph. Phil. 827-832; Eur. Or. 175-179 (con DEVLIN 1994, 138-143): invocazione con nome o epiteto seguita da verbo di ‘chiamata’ verso un luogo determinato, specifica referenza all’andatura della divinità che si avvicina (si veda la nota seguente) o al suo aspetto esteriore, e in generale ai ‘modi’ della venuta, e in alcuni casi presenza dell’efimnio.

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Si può notare che in questa serie incrociata di luoghi comuni – compreso l’impiego dell’infinito iussivo: ejlqei'n nel frammento e molei'n nel testo sofocleo – al Dioniso dell’Antigone verrà domandato di giungere kaqarsivw/ podiv (vv. 1142-1143) con peculiare e consueta attenzione rivolta ai modi dell’incedere del dio oggetto dell’epiclesi36. Sostenuto da un’architettura essenziale è, ancora, il cosiddetto inno al Sonno dei vv. 827-832 del Filottete: ÓUpnÆ ojduvna~ ajdahv~, ÓUpne dÆ ajlgevwn, eujah;~ hJmi`n e[lqoi~, ‹eujaivwn,Ì eujaivwn, w\nax: o[mmasi dÆ ajntevcoi~ tavndÆ ai[glan, a{ tevtatai tanu`n: i[qi i[qi moi paiwvn.

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L’impiego del «tu», la ripetizione del nome posto in prima sede, all’apertura della sezione lirica, della divinità invocata per portare soccorso e sollievo con funzione lenitiva e guaritrice, e ancora l’invito a venire con benevolenza rimarcato da e[lqoi~ e dalla ripetizione di i[qi (e di eujaivwn) insieme alla presenza di un quasi-refrain peanico fanno sì che si concentrino in questo breve canto alcuni elementi che ne evidenziano l’indubbia tonalità cletica37. Essi sono da Sofocle accostati/sovrapposti ad altri verosimilmente ispirati da cadenze di poesia popolare. La natura di peana è palesata dalla funzione stessa del canto almeno nel suo avvio, perché il dio dovrà essere benevolo e portare sollievo. Ma ovviamente il sonno permetterà di realizzare l’inganno, e così le parole del coro suonano come una ninna nanna «che in verità, nonostante le tenere invocazioni di Hypnos, è tutto meno che una ninna nanna, ma è piuttosto un canto di seduzione, sottile, ma tanto più possente in quanto porta al tradimento»38. È in effetti indiscutibile l’andamento da berceuse incorniciata dentro un’efficace sequenza fonica, in cui i suoni si rincorrono e si ripetono (a partire dal rimato eujaivwn ~ paiwvn) fin dall’avvio dei 4 dattili al v. 827 e subito dopo nella catena di sillabe lunghe, in una «azione coordinata del codice verbale e del codice metrico». Sono proprio le sillabe lunghe a determinare «un ritmo lento, grave, un vero e proprio rallentando, in perfetta sintonia con le parole tenere e dolci, il pianissimo, come lo definisce Perrotta, della ninna nanna»39. Tutto ciò rappresenta an36

È possibile che in entrambi i casi (tw/' boevw/ podiv e kaqarsivw/ podiv) ci sia un richiamo alla danza stessa del coro: per il passo sofocleo cfr. JOUANNA 2007a, 850, e già FURLEY – BREMER 2001, II, 278, sulla linea delle considerazioni di SCULLION 1998, 101-105, e di HENRICHS 1994-1995, 103, n. 90: «the cathartic power is not a function of the divine foot per se, but an effect produced by the dancing associated with Dionysos and with the Dionysiac chorus» (con HENRICHS 1990, 275, n. 37); ma per una lettura ‘catartica’ dello stasimo si veda più sotto. Per l’enfasi posta sui modi dell’incedere o sui calzari del dio in associazione con la sua epifania si rinvia ai passi raccolti da BROWN 1982, 306, n. 7 (cfr. anche il nostro cap. II, p. 77, n. 47). 37 Si vedano almeno HALDANE 1963, 54-55; RUTHERFORD 1994-1995, 128-129 (anche per ai[glan e eujaivwn impiegati in ambito cultuale e peanico: su un passo dello Ione euripideo si veda poco sotto); AVEZZÙ 2000, 54; SWIFT 2010, 30-31. Il testo greco qui ripreso è tratto da AVEZZÙ 2003. 38 Così REINHARDT 1989, 199. 39 Il passo del Filottete, in quanto antistrofico, non è elencato tra gli esempi raccolti da FA-

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IV. Elementi dell’inno nelle tragedie superstiti e corali innodici dell’Antigone

che un riscontro della possibile conflazione di stilemi appartenenti in principio a generi considerati distinti e dell’evidente mescolanza di poesia alta (la struttura dell’inno, la tessera peanica) e di un registro più basso e, appunto, popolare. Figure di reduplicazione e parechesi, allitterazioni, parallelismi, soavità della sequenza dei suoni (si noti anche l’abbondanza di dittonghi) sono segno del desiderio di emulare forme semplici probabilmente tradizionali, e la struttura elementare del breve canto ben si coniuga con il motivo dell’addormentamento e del sonno (il fine dell’intervento del coro, anche in Sofocle, è chiaro: che il protagonista si assopisca). Il passo è alla lontana confrontabile con il lacerto di una ninna nanna di epoca bizantina, della prima metà del XIII sec. (eu|de, mou paidivon, eu|de, mou pai`), e con una nota in greco moderno40 il cui avvio suona VUpne pou paivrnei~ ta paidiav. Non c’è del resto berceuse che non faccia propria la figura della ripetizione, certificata anche dai non molti esempi grecoantichi di passi che paiono voler emulare una ninna nanna, quali Simon. PMG fr. 543, 21-22 (il lamento di Danae: kevlomai dÆ, eu|de brevfo~, | euJdevtw de; povnto~, euJdevtw dÆ a[metron kakovn) e Theocr. 24, 7-9 (eu{detÆ, ejma; brevfea, glukero;n kai; ejgevrsimon u{pnon: | eu{detÆ, ejma; yucav, duvÆ ajdelfeoiv, eu[soa tevkna: | o[lbioi eujnavzoisqe kai; o[lbioi ajw` i{koisqe). Il breve inno-peana del Filottete palesa dunque una natura che potremmo definire ibrida, volutamente declinata mirando a una mescolanza che associa il tono elevato della preghiera di invocazione e un più piano e per così dire modesto andamento da lullaby. Potremmo addirittura scorgere il medesimo schema innodico-impetrativo dissimulato, disseminato e disperso lungo l’arco di molti versi, anche negli anapesti che segnano l’entrata del coro nella parodo dell’Aiace41. Si tratta di un caso speciale fatto risaltare, oltre che dalla modalità esecutiva – anapesti d’entrata – dalla fondamentale differenza che qui la preghiera e la richiesta di aiuto sono rivolte a un mortale e non a una divinità. Facilmente RAONE 2011 a sostegno dell’ipotesi dell’esistenza di una tradizione specialmente ateniese di inni peanici dattilici e astrofici almeno a partire dall’età di Sofocle: ma si veda supra, cap. III, p. 119, n. 46; l’analisi metrica è in PRETAGOSTINI 2003 (si cita da p. 274 e da p. 277: il rinvio è a PERROTTA 1935, 443). Nota CERBO 2010, 240, n. 42 che «già nell’Aiace (v. 172 s.) Sofocle aveva utilizzato in incipit di canto il tetrametro dattilico, seguito dal trimetro catalettico, per conferire all’ode una valenza di inno»: h\ rJav se Tauropovla Dio;" ÒArtemi" – | w\ megavla favti", w\ | ma'ter aijscuvna" ejma'". 40 Riportate rispettivamente da BÖHME 1897, 703 e da LACARRIÈRE 2006, 12-13. Per l’analisi delle figure di suono del passo sofocleo cfr. WATKINS 1995, 514-515. Si vedano inoltre LAMBIN 1992, 15-18 e WAERN 1960 (p. 4: «the opinion that this lyric is founded on a real, anonymous lullaby is supported by the similarity with Eur. Ion 125-7 = 141-3», w\ Paia;n w\ Paiavn, | eujaivwn eujaivwn | ei[h~, w\ Latou`~ pai`, con FAIRBANKS 1900, 30; PACE 2009, 370-371; si veda anche BERTAZZOLI 2009, 441442 per l’aggettivo eujaivwn nel peana di Filodamo Scarfeo [Pai. 39, 13 Käppel]). Secondo Waern e Lambin anche l’inno che Elettra rivolge alla Notte in Eur. Or. 174-179 lascia ugualmente trasparire un’eco lontana delle berceuses antiche a partire dal fine stesso del canto: l’arrivo del sonno. 41 Si seguono le sintetiche considerazioni di BROWN 1977, 55 e n. 11. Non è estraneo alla parodo dell’Aiace un tono cultuale nemmeno nella sezione lirica per DAVIDSON 1975, 169: la strofe (172181, con l’invocazione a favti~ ai vv. 173-174, accostabile a quella a Favma in OT 158, e si aggiunga El. 1066) «is in the form of a series of excited questions», forse – dietro KRANZ 1933, 188 – «an echo of the old cult formula in which the worshipper invoked the god from the different shrines with which he was associated, or asked which of several possible services he required of him».

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

vi riconosciamo in apertura la Anrede con intento celebratorio nella forma del «tu» (dal vocativo all’accusativo sev) con immediata definizione dei luoghi di ‘controllo’ dell’invocato e uso della participiale (e[cwn), ai vv. 134-136: Telamwvnie pai`, th`~ ajmfiruvtou Salami`no~ e[cwn bavqron ajgcivalon, se; me;n eu\ pravssontÆ ejpicaivrw:

135

Più in là, alla constatazione della propria impotenza senza l’appoggio dell’entità sollecitata (vv. 165-166), segue l’urgente richiesta di un’epifania e di una venuta risolutiva che ponga fine alle malelingue, gestita di nuovo con il corredo lessicale tipico della preghiera: ejxaivfnh~ eij su; faneivh~ (v. 170). Ad essi si potranno accostare, in lyricis, alcuni versi dell’Edipo a Colono, ma ancora una volta al di fuori di un contesto di preghiera vera e propria eppure con la concitata espressione di chi attende una venuta. L’arrivo atteso è quello di Teseo, perché assista Edipo nel suo ultimo viaggio, in un’atmosfera decisamente sacrale e misterica (OC 1491-1495)42: ‹ijou; ijouvÌ, ijw; pai`, ba`qi ba`qÆ, ei[tÆ a[kron ejpi; guvalon ejnalivw/ Poseidaonivw/ qew`/ tugcavnei~ bouvquton eJstivan aJgivzwn, iJkou`.

1495

Vi si ravvisano infatti l’impiego di richieste di apparizione e di soccorso (bavqi, iJkou`) accompagnato dalla ripetizione delle particelle esclamative, e ancora il consueto interrogarsi sui luoghi ‘frequentati’ (ei[te ktl, ma ripetiamo: questa volta da un umano, che addirittura sta sacrificando agli dei) e infine, al v. 1496, le ragioni della richiesta: oJ ga;r xevno~ ktl. Oltre a questo ripetuto e, come si evince dagli esempi, consolidato formalismo addirittura adattabile a situazioni che si collocano anche al di fuori della schiera di canti di intonazione religiosa, si dovrà però ora vedere quali sono gli elementi considerati ordinari nell’innografia greca superstite che Sofocle reimpiega nei due stasimi dell’Antigone (del resto noti e da più parti sottolineati). Così l’inno a Eros, ai vv. 781-80043:

42 Testo critico di G. Avezzù in GUIDORIZZI 2008. Un numero considerevole di caratteristiche innodiche in questo canto è rilevato anche da MANTZIOU 1981, 400. Per rimanere al medesimo dramma, i vv. di OC 1556-1578 (su cui VOLPE CACCIATORE 2009) rappresentano una preghiera alle divinità ctonie che rimane tuttavia lontana da un impianto formale innodico-celebrativo (e si veda anche OC 1085-1095, con l’invito alla ‘venuta’ delle divinità, insieme a CITTI 1962, 117-118). 43 Il testo, con alcune segnalate modifiche, è tratto da DAWE 1996b; l’analisi metrica di queste due stanze eolo-coriambiche è in MÜLLER 1967, 170-171; KORZENIEWSKI 1998, 158-160; DALE 1981, 26-29; VAN NES DITMARS 1992, 87 e 91-95; CERBO 1993, 655; DAWE 1996b, 69; GRIFFITH 1999, 256-257; GIANNACHI 2011, 53-56 (colometria della tradizione manoscritta). Esuleremo qui da un’indagine dettagliata sullo stasimo: oltre ai commenti al dramma, cfr. almeno CERBO 1993; FURLEY – BREMER 2001, II, 269-272; LASSO DE LA VEGA 2003 (già 1991); BITTRICH 2005, 30-35; MACEDO 2011. Esso andrà confrontato con gli altri inni a Eros in tragedia: Eur. Hipp. 525-564 (ad Afrodite ed Eros ai vv. 1268-1282) e Tr. 840-859.

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IV. Elementi dell’inno nelle tragedie superstiti e corali innodici dell’Antigone ÒErw~ ajnivkate mavcan, ÒErw~ o}~ ÿ ejn kthvmasi pivptei~ ÿ o}~ ejn malakai'~ pareiai'~ neavnido~ ejnnuceuvei~, foita'/~ dÆ uJperpovntio~ e[n tÆ ajgronovmoi~ aujlai'~: kaiv sÆ ou[tÆ ajqanavtwn fuvximo~ oujdeiv~, ou[qÆ aJmerivwn sev gÆ ajnqrwvpwn, oJ dÆ e[cwn mevmhnen.

str. aV

su; kai; dikaivwn ajdivkou~ frevna~ paraspa'/~ ejpi; lwvba/: su; kai; tovde nei'ko~ ajndrw'n xuvnaimon e[cei~ taravxa~: nika'/ dÆ ejnargh;~ blefavrwn i{mero~ eujlevktrou nuvmfa~ ÿ tw'n megavlwn pavredro~ ejn ajrcai'~ ÿ qesmw'n: a[maco~ ga;r ejmpaivzei44 qeo;~ ÆAfrodivta.

ajnt. aV

785

790

795

800

È innodico l’attacco con il nome del dio, qui anche in anafora (ÒErw~... ÒErw~), dove la seconda ripetizione (o}~ ejn... o}~ ejn) si sovrappone e si concatena alla prima grazie alla seconda apostrofe nominale convertita in una frase relativa (ÒErw~ o}~ ktl)45. E sono innodici il ricorso al «Du-Stil», l’acclamazione della forza e del potere del dio46 oltre che l’estensione della sua influenza sull’orbis terrarum e l’impiego massiccio di una metaforologia militare: ajnivkate mavcan (v. 781), ejnnuceuvei~ (v. 784)47, fuvximo~ (v. 787), nika/' (v. 795), a[maco~ (v. 799), il pur incerto ejn... pivptei~ (v. 782)48 e forse anche oJ dÆ e[cwn (v. 790, da confrontarsi con Eur. TrGF V, 1 F 430: e[cw... ÒErwta, pavntwn dusmacwvtaton qeovn). Si mantiene così una struttura chiusa e saldata ad anello, proprio con il ripristino a fine antistrofe della medesima metafora guerresca, questa volta utilizzata per Afrodite (Ant. 781 ~ 799-800): ÒErw~ 44

ejmpaivei in Dawe, che accoglie un emendamento del Livineius, a meno che non si tratti di «an old variant» come sostenuto da PEARSON 1928, 185-186. 45 KORZENIEWSKI 1998, 159. 46 Per lo stile del «tu» si veda al cap. I, p. 24, n. 15. Cfr. anche Soph. Trach. 496: mevga ti sqevno~ aJ Kuvpri~: ejkfevretai nivka~ ajeiv, con i vv. seguenti, sulla cui intonazione innodica ‘distorta’ da un’applicazione solo parziale degli elementi consueti si veda al cap. II, par. 2 (utilizzo della terza persona, sentenziosità della frase nominale d’attacco, assenza delle relative e delle participiali, ma anche costruzione di un’aretalogia divina e tipica struttura ad anello: cfr. il v. 515, movna dÆ eu[lektro~... Kuvpri~). 47 Immagine che probabilmente adombra la veglia del soldato: JEBB 1900, 145; KAMERBEEK 1978, 144: «not ‘sleep’, but ‘watch the night through on’»; si veda l’impiego di nuceuvw in Eur. El. 181: passare la notte in lacrime; in [Eur.] Rh. 520 il senso di nuceu'sai (detto di esercito) resta forse ambiguo tra «passare la notte» e «dormire» («tu es en embuscade, à l’affût», in Antigone, per COULON 1956, 251, da Hesych. n 755 Latte: nuceuvei: kruvptei: nuktereuvei); per il possibile valore rituale di pervigilium si veda più sotto. Per l’idea di Eros vigile custode, già in Ibico (PMG fr. 286), cfr. CERBO 1993, 646, n. 3, con bibliografia, e soprattutto GENTILI 1984. Eros sulle guance delle fanciulle trova il suo modello in Frinico, TrGF I 3 F 13: lavmpei dÆ ejpi; porfurevai~ parh/'si fw'~ e[rwto~. 48 Con BITTRICH 2005, 31, e cfr. LSJ9 545, s.v. ejmpivptw, 2. Per Eros als Krieger cfr. SPIES 1930, 11-23.

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

ajnivkate mavcan ~ a[maco~ ga;r ejmpaiv- | zei qeo;~ ÆAfrodivta. Privo com’è di richieste specifiche, questo canto rispetta dunque i più diffusi luoghi comuni sulla invincibilità di Eros e sulla follia prodotta dal dio49, applicati all’occasione del dramma («il tutto si conclude in maniera cupamente funesta»)50. Non vi sono previsti – a differenza del più complesso inno a Eros dei vv. 525-564 dell’Ippolito euripideo – sviluppi narrativi mitici: esso serve piuttosto a «evidenziare l’azione di potenze divine nell’ambito della vicenda che veniva rappresentata, e in particolare in relazione ai fatti accaduti immediatamente prima del canto»51 . Se è difficile non pensare ad Antigone e alle sue prossime nozze con Ade, c’è chi ha addirittura voluto vedere un griphos, ai vv. 793-794, che celerebbe i nomi di Polinice ed Emone in tovde nei'ko~ e in xuvnaimon52. Il tono epitalamico del canto, dettato dalla sua stessa posizione nell’andamento narrativo del dramma e dal riferimento a qavlamo~/Ade poco sotto (vv. 804-805: to;n pagkoivthn o{qÆ oJrw' qavlamon | thvndÆ ÆAntigovnhn ajnuvtousan)53, è reso esplicito dalla insistita presenza di una generica «fanciulla» (v. 784: neavnido~, vv. 796-797: eujlevktrou | nuvmfa~), dal riferimento a i{mero~, nonché dal popolare topos dell’amore ‘per via di sguardo’54. I motivi innodici sono nel canto per Dioniso anche più numerosi e forse più evidenti, a partire dall’architettura tripartita che combina gli elementi cletici secondo uno schema consueto: l’invocazione di apertura, la parte degli attributi con il segmento narrativo dell’inno, e infine la preghiera vera e propria nell’exitus (vv. 1115-1154)55: poluwvnume, Kadmeiva~ a[galma nuvmfa~ kai; Dio;~ barubremevta

str. aV

49 Il topos è diffusissimo dalla letteratura arcaica a quella ellenistica, e ha una delle sue prime attestazioni in Il. 6, 160 (Antea che «impazziva», ejpemhvnato, per Bellerofonte); cfr. anche LASSO DE LA VEGA 2003, 274-275. 50 KORZENIEWSKI 1998, 160. 51 DI BENEDETTO – MEDDA 1997, 275. 52 Cfr. VAN NES DITMARS 1992, 94. Del resto una palese etimologizzazione del nome era già ai vv. 110-111, dove Polinice è accostato alle «contese» (Poluneivkh~... neikevwn): cfr. il cap. III, p. 133, n. 87. 53 Si veda SEAFORD 1987, 108, ma si tratta per Antigone di un rito ‘senza inni’ (vv. 810-816, con – per il tema del matrimonio con la morte – REHM 1994, 59-71: 63 per questi versi). «L’inno ad Eros, per la sua configurazione semantica e metrica, è strettamente correlato alla situazione scenica in cui si trova inserito, così che la sua funzione drammaturgica rende plausibile l’originale presenza ‘tragica’ del canto cultuale dedicato a questa divinità»: CERBO 1993, 645. Eros è celebrato in contesto epitalamico in Ar. Av. 1737-1742. 54 Sull’uso sofocleo del raro aggettivo eu[lektro~ (anche in Trach. 515) si veda al cap. II, par. 2 (per la funzione da esso svolta insieme ad altri elementi nel creare una Stimmung epitalamica nel primo stasimo delle Trachinie cfr. anche, sempre al cap. II, p. 98, n. 106). 55 Testo da DAWE 1996b: le modifiche sono segnalate nelle note seguenti. Le due coppie strofiche mantengono, sia pure con non poche irregolarità, un andamento eolo-coriambico: l’analisi, resa ulteriormente complessa da problemi testuali, è in MÜLLER 1967, 242-243; DALE 1981, 32-33; VAN NES DITMARS 1992, 153 e 163-165; DAWE 1996b, 71; GRIFFITH 1999, 314-317; GIANNACHI 2011, 81-90 (colometria della tradizione manoscritta). Oltre ai consueti commenti, ci si limita a rinviare ad ADAMI 1900, 237-244; POZZI 1979; BURTON 1980, 134; DORSCH 1983, 66-78; DEVLIN 1994, 148-154; SCULLION 1998; FURLEY – BREMER 2001, II, 272-279; CHAPOT – LAUROT 2001, 115-116; JOUANNA 2007b.

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IV. Elementi dell’inno nelle tragedie superstiti e corali innodici dell’Antigone gevno~, kluta;n o}~ ajmfevpei~ ÆItalivan56, mevdei~ de; pagkoivnoi~ ÆEleusiniva~ Dhou'~ ejn kovlpoi~, w\ Bakceu', Bakca'n matrovpolin Qhvban naietw'n parÆ uJgro;n ÿ ÆIsmhnou' rJeveqron ajgrivou ÿ tÆ ejpi; spora'/ dravkonto~:

1120

1125

se; dÆ uJpe;r dilovfou pevtra~ stevroy o[pwpe lignuv~, e[nqa Kwruvkiai steivcousi nuvmfai Bakcivde~, Kastaliva~ te na'ma. kaiv se Nusaivwn ojrevwn kisshvrei~ o[cqai clwrav tÆ ajkta; polustavfulo~ pevmpei, ajmbrovtwn ejpevwn57 eujazovntwn Qhbai?a~ ejpiskopou'ntÆ ajguiav~:

ajnt. aV

ta;n ejk pasa'n tima'/~ uJpertavtan povlewn matri; su;n kerauniva/: kai; nu'n, wJ~ biaiva~ e[cetai pavndamo~ povli~ ejpi; novsou, molei'n kaqarsivw/ podi; Parnasivan uJpe;r kleitu;n h] stonoventa porqmovn.

str. bV

ijw; pu'r pneiovntwn coravgÆ a[strwn, nucivwn fqegmavtwn ejpivskope, pai' Zhno;~ gevneqlon, profavnhqÆ, w\nax, sai'~ a{ma peripovloi" Quivaisin, ai{ se mainovmenai pavnnucoi coreuvousi to;n tamivan ÒIakcon.

ajnt. bV

1130

1135

1140 1145

1150

Anche a limitarci a un’incompleta lista di occorrenze, saranno da segnalare almeno l’iniziale ricorso alla poluwnumiva attribuita al non nominato dio, cui segue un riferimento alla parentela, che illumina il rapporto tra la divinità e Tebe, e ovviamente la convalida di una genealogia divina nel richiamo a Zeus. Se il nome del dio e l’epiteto caratterizzante iniziale vengono qui sostituiti dall’aggettivo che li comprende tutti («dio dai molti nomi», come garanzia contro ogni dimenticanza), subito dopo viene per converso confermata la presenza della frase relativa laddove il coro costruisce a memoria una geografia mitica (gli spazi prediletti, frequentati o visitati dalla divinità)58. 56

Dawe congettura Oijcalivan, ma il riferimento all’Italia è ben giustificato da GRIFFITH 1999, 318, e si veda sotto, p. 162, n. 83. 57 eJpeta'n Dawe, dietro Pallis. 58 Sulla cui lista di ricorrenze si veda già ADAMI 1900, 227-229, e soprattutto 241; si considerino, per naivein, e.g. Il. 2, 412 e 16, 233 (due preghiere a Zeus); Hes. Op. 8 (l’inno che le Muse levano a Zeus); Aristonoo Pai. 42, 2 Käppel; l’anonimo testo delfico Pai. 45, 10 Käppel; Limenio

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

Sulla frase relativa a sua volta si innesta la participiale (naietw'n al v. 1123, correzione di Dindorf per naivwn dei mss., da tutti accolta), che se da un lato costituisce una normale variatio pressoché formulare, dall’altro serve a eleggere Tebe come l’unico luogo in cui il dio abita, «lungo le fluide correnti dell’Ismeno». Il ricorso allo stile del «tu» avviene anche qui, come già nell’inno a Eros, tramite la sostituzione del nominativo con il complemento oggetto59: nello stasimo precedente, dopo due pronomi relativi al nominativo (v. 782 e v. 783: o{~) veniva inserito al v. 787 kai; se60, per poi tornare al su; kaiv (due volte, ai vv. 791 e 793: su; kai; dikaivwn ajdivkou~ e su; kai; tovde nei'ko~). Nell’inno a Dioniso assistiamo a un’operazione equivalente in apertura di antistrofe; questa sorta di nuova partenza corrisponde a un’ulteriore evocazione di territori consacrati al dio, ma stavolta con sintassi ribaltata: Dioniso diviene oggetto del culto dei luoghi che lo onorano, al v. 1126 se; dÆ uJpe;r dilovfou pevtra~, e al v. 1131 kaiv se Nusaivwn ojrevwn, fino a giungere alle Tiadi che lo accompagnano e che «danzano e cantano» Iacco stesso: ai{ se... coreuvousi, con costruzione transitiva del verbo, per celebrarlo ma anche per determinarne la venuta attraverso la danza (vv. 1152-1154)61. Anche in questo caso i paralleli non mancano: possiamo far riferimento al brevissimo inno alla Terra Madre (Cibele-Rea) dei vv. 391-402 del Filottete, dove ritroviamo – come nel citato fr. 371 – la reiterazione di elementi di genere assai codificati (si riportano i soli vv. 391-395)62:

Pai. 46, 3 Käppel. Diffusa negli Inni orfici, infine, la relativa o}~ / h} naivei~. Per il consueto motivo della poluwnumiva cfr. già AUSFELD 1903, 518-520. Sulla molteplicità dei nomi divini e sulla difficoltà dell’orante nel reperire quello più giusto (motivo che trova la sua espressione più nota in Aesch. Ag. 160-161) si vedano anche SBARDELLA 1993, 25-26 e 37 e FURLEY – BREMER 2001, II, 348; nell’ambito di una preghiera perfettamente formalizzata l’aggettivo viene impiegato per l’epiclesi di Artemide in Ar. Thesm. 320, e, e.g., riferito a Nivkh in Bacch. AP VI 313, 1 (= Epigr. 1, 1 M.). Per il complesso ruolo svolto dall’epiclesi nella preghiera si rinvia anche ai saggi raccolti in BELAYCHE et al. 2005. 59 Si veda JOUANNA 2007b, 123: un ‘passaggio’ dal nominativo ad altro caso «fait partie de la syntaxe hymnique traditionnelle», con i molti esempi raccolti da NORDEN 1913, 158-160 (in particolare l’inno a Bacco delle Tesmoforiazuse, vv. 987-1000). KRANZ 1933, 187, nota un analogo andamento anacolutico tra le sezioni di apertura dei due inni sofoclei: dopo il v. 786 e il v. 1125 i vocativi sono lasciati in sospeso, e in entrambi i casi la proposizione successiva si avvia, appunto, con un accusativo, rispettivamente ai vv. 787 e 1126. Si vedano e.g. Anacr. fr. 1, 1 Gentili (= PMG fr. 348, 1): gounou'maiv sÆ ejlafhbovle, con Anacr. fr. 14, 6-7 Gentili (= PMG fr. 357, 6-7): gounou'maiv se, su; dÆ eujmenh;~ | e[lqÆ hJmivn, ktl. E ancora l’attacco del peana 6 di Pindaro (fr. D6 Rutherford = fr. 52f Sn.-M.): pro;~ ÆOlumpivou Diov~ se, cruseva | klutovmanti Puqoi', | livssomai ktl, l’attacco del mutilo peana 7b (fr. C2 Rutherford = fr. 52h Sn.-M.): ÒApollo»n ¼ | se; kai; ktl. Si veda anche l’inno ad Atena, Nike e Artemide in avvio di canto in Eur. Ion 452-454: se;... ejma;n ÆAqavnan, iJketeuvw. 60 Al v. 789 sev gÆ è correzione di Blaydes in luogo di ejpÆ della più parte dei mss.: cfr. almeno KAMERBEEK 1978, 144; GRIFFITH 1999, 258-259. 61 Come supposto da FURLEY – BREMER 2001, II, 279. Cfr. Pind. I. 1, 7: kai; to;n ajkersekovman Foi'bon coreuvwn, con OT 1092-1093: kai; coreuvesqai pro;~ hJ- | mw'n, Eur. Ion 1084-1086, delle Nereidi: coreuovmenai | ta;n crusostevfanon kovran | kai; matevra semnavn (pochi versi sopra sono la luna e gli astri a danzare durante una festa notturna: per le connotazioni cultuali di tali danze si veda infra), HF 685-686: ou[pw katapauvsomen | Mouvsa~ ai{ mÆ ejcovreusan (ma qui con il significato di «set dancing»: si veda la nota di BOND 1981, 243). 62 Testo critico da AVEZZÙ 2003.

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IV. Elementi dell’inno nelle tragedie superstiti e corali innodici dell’Antigone ojrestevra pambw'ti Ga', ma'ter aujtou' Diov", a} to;n mevgan Paktwlo;n eu[cruson nevmei", se; kajkei', ma'ter povtniÆ, ejphudwvman

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Saltano immediatamente all’occhio il vocativo iniziale, la frase relativa, l’uso del verbo nevmw, il «Du-Stil» anche all’accusativo; con la differenza che nella tragedia più recente l’inno si stempera subito per lasciar posto al ricordo, nel rapido cenno alla consegna delle armi di Achille a Odisseo. Schiettamente innodico, per riprendere il passo dell’Antigone, è anche il kai; nu'n di v. 1140, che (almeno da Saffo, fr. 1, 25 V.: e[lqe moi kai; nu'n) serve all’orante per ridefinire un orizzonte d’attesa epifanico, appoggiandosi al verbo di comando – sia pure accorato – rivolto alla divinità che si prega63: «vieni anche ora». L’incidentale introdotta da wJ~ funziona come hypomnesis (se ne è visto sopra un caso simile a proposito di OT 164-167), qualcosa come «tu hai onorato Tebe in passato, e poiché ora Tebe soffre, torna lungo le sue strade come ejpivskopo~». E proprio nell’immagine del dio accolto per le vie della città ci pare di poter rilevare un’ulteriore omogeneizzazione con loci similes (vv. 1134-1136: ajmbrovtwn ejpevwn | eujazovntwn, Qhbai?a~ | ejpiskopou'ntÆ ajguiav~, con ejpivskope al v. 1148). Siano testimonianza di tale conformità a una precisa norma tematico-terminologica propria dell’innologia alcuni versi64 del già ricordato Peana di Filodamo: Pai. 39, 144-149 Käppel: ajlla; devcesqe Bakc»ia¼s³ta;n Di»ov¼nus»on, ejn dÆ ajgui-¼ ai'~ a{ma su;g »cor¼oi's³i k»iklhviskete¼ kiss»oc¼aivtai~ E»ujo¼i` w\ ijo; bavkcÆ, w\ ije; »Paiavn¼: pa`san »ïEl¼lavdÆ ajnÆ oj»lbiv¼am

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In ambito tragico la parodo delle Baccanti offre un ulteriore parallelo (vv. 83-87) nella ripresa del Lieblingsmotiv del coro di fedeli, che vuole in Euripide ricondurre il dio ancora una volta a tutte le strade (ajguiav~) di Grecia: i[te bavkcai, i[te bavkcai, brovmion pai'da qeo;n qeou' Diovnuson katavgousai

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63

La difesa del tràdito kai; nu'n in luogo di nu'n dÆ, correzione introdotta in LLOYD-JONES – WIL1990a, è ragionevolmente sostenuta da JOUANNA 2007b, 126, n. 39 (con bibliografia). PRIVITERA 2011, 129, propone kai; nun: «sei dio di Tebe, la città sta male, e dunque vieni con piede purificante. La iunctura […] serve anche a enfatizzare l’invito. L’infinito molei`n ha la funzione di imperativo, e nun come rafforzativo dell’imperativo è attestato ampiamente»; ma per il tema del da quia dedisti si vedano gli esempi raccolti in AUSTIN – OLSON 2004, 336; oltre al già ricordato inno saffico ad Afrodite cfr., per l’impiego di kai; nu'n in augurii o preghiere, Il. 1, 455; Aesch. Eum. 30 (e cfr. la reiterazione ‘liturgica’ di nu'n nella preghiera di Choe. 722-729); Soph. OT 167; Eur. Alc. 223 e IT 1084; Ar. Thesm. 1158 ed Eq. 594. 64 L’integrazione a v. 145, da tutti accolta, è già nella princeps di H. Weil: cfr. WEIL 1895, 410 (con, per ajguiaiv legate alla presenza di una divinità, Soph. OC 715 e Dem. Mid. 52, 6; si veda anche – oltre ai numerosi esempi in Bacchilide: tra altri un frammento di peana, 4, 79 M. –, contro Archiloco e in riferimento a strade associate a celebrazioni festive e religiose, Diosc. AP VII 351, 7-8: il poeta non sarebbe mai stato scorto da Neobule e sorella né ejn ajguiai`~ né nel sacro recinto di Era). SON

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle Frugivwn ejx ojrevwn ïEllavdo~ eij~ eujrucovrou~ ajguiav~, to;n Brovmion:

A costituire, infine, una sorta di sigillo di chiusura innodico che si accompagna alla richiesta di aiuto è in Antigone il profavnhqi di v. 1149. Esso è reso ancora più vigoroso in questo caso dalla combinazione con un infinito ‘d’ordine’ (il menzionato molei'n al v. 1142) utile a introdurre proprio alla fine del canto una nota d’urgenza65, che viene puntualmente disattesa dall’arrivo in scena non della divinità ma di un personaggio di rango ben inferiore, il messo che annuncia la rovina di Creonte. Una situazione non dissimile si verifica dopo la parodo, con l’arrivo in scena di Creonte dopo l’intenzione, espressa dal coro, di danzare festosamente sotto la guida di Dioniso durante la notte che verrà (vv. 152-154). 3. Uno stasimo iporchematico? Si potrà tornare ora alla chiusa della seconda strofe e alla seconda antistrofe, dove Dioniso viene invocato per liberare Tebe dalla novso~ che la tiene, e dove viene descritto come divinità notturna, quale guida del corteggio degli astri66 e oggetto del culto di altrettanto notturne menadi. L’espressione «tutta la città è presa da una violenta malattia» (biaiva~ e[cetai | pavndamo~ povli~ ejpi; novsou) si configura certamente come ambigua, ma che la causa scatenante non sia il mivasma di cui il corpo insepolto di Polinice è potenziale portatore, bensì la decisione che dimora a monte di quella che appare solo come conseguenza67, è dimostrato da due rimandi interni, che ci dirigono a Creonte68. Il timore qui espresso dal coro è, appunto, un timore comuni65 L’uso in preghiera dell’infinito iussivo è ben attestato, si vedano PULLEYN 1997, 152 (con ulteriore bibliografia), che sottolinea la relativa minoranza degli imperativi infiniti di seconda persona, e FURLEY – BREMER 2001, II, 278, con H. Hom. Cer. 2, 494: ojpavzein, una preghiera a Dioniso in Anacr. fr. 14, 7-8 e 10-11 Gentili (= PMG fr. 357, 7-8 e 10-11): kecarismevnh~ dÆ | eujcwlh'~ ejpakouvein, Ar. Vesp. 869-872: w\ Foi'bÆ ÒApollon... aJrmovsai, Pai. 40, 58 Käppel (il peana di Isillo di fine IV sec.): ije; Paiavn, caivren (oltre al citato canto delle donne di Elea, PMG fr. 871, 1: ejlqei'n). Per l’impiego in Sofocle cfr. MOORHOUSE 1982, 243-244; per il probabile qevsqai di Ant. 151 si rinvia al cap. III, p. 117, n. 40. 66 Sul motivo della danza degli astri si vedano DE VRIES 1976 e CSAPO 2008 (267-272 in particolare), che rileva come l’immagine – non sempre connotata positivamente – sia legata in poesia soprattutto a «cultic hymns, and, for the most part, hymns connected to Dionysus, Eleusis, or mystery cult» (p. 264), e per la tragedia, oltre al nostro passo, Eur. El. 467-468, Ion 1074-1086, un frammento di Crizia, TrGF I 43 F 4, e l’adespoto TrGF II F 89a. 67 Un’ottima analisi della terminologia medica impiegata in Antigone è in SCULLION 1998 (di cui si condivide l’idea che l’espressione kaqarsivw/ podiv nasconda un riferimento alla danza – pp. 101-105 – ma non l’ipotesi di un inno iporchematico e ‘catartico’, «the earliest explicit attestation of the kathartic effect of ecstatic Dionysiac dancing»: p. 96; sul problema dell’assenza di un ruolo di Dioniso come guaritore nelle fonti – eccetto il passo sofocleo – e per una raccolta di pareri cfr. ibid., pp. 99-101). 68 Come novso~ povlew~, nel racconto del mito dell’incivilimento narrato da Protagora, dovrà venire ucciso colui che non sia in grado di aijdou'~ kai; divkh~ metevcein: Plat. Prot. 322d 4-5 (è Zeus a parlare): kai; novmon ge qe;~ parÆ ejmou' to;n mh; dunavmenon aijdou'~ kai; divkh~ metevcein kteivnein wJ~ novson

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IV. Elementi dell’inno nelle tragedie superstiti e corali innodici dell’Antigone

tario: se infatti nelle prime parole del dramma, pronunciate da Antigone, veniamo a sapere (ai vv. 7-8) che «si dice» (fasi) che lo strathgov~ ha proclamato un khvrugma valido per tutta la città (pandhvmw/ povlei)69, ora è il coro a proclamare che quella stessa città (pavndamo~ povli~) è sotto l’effetto della novso~ (vv. 1140-1141). Ed è evidente che l’origine del khvrugma e, appunto, della malattia, è unica. Lo aveva ribadito Tiresia poco prima: la città soffre a causa della frhvn70 di Creonte (v. 1015: kai; tau'ta th'~ sh'~ ejk freno;~ nosei' povli~). La formalizzazione della eujchv, della richiesta propriamente detta, avviene dunque attraverso l’impiego della già sfruttata metafora medica – novso~ – applicata all’intero corpus dei cittadini – la povli~: è il solo momento in cui il coro sembra palesare paura per un rischio effettivo, neutralizzando così ogni eventuale carica positiva. E sarà da notare che alla città le parole del coro tornano per tragitti dalle volute quanto mai ampie, ma seguendo una logica che posiziona nella zona di confine delle prime tre stanze l’accenno a Tebe (vv. 1122-1125, 1135-1136, e v. 1141: povli~), come se venisse così annullato il potenziale effetto di liberatoria evasione, attivo fin dall’evocazione della lontana Italia, che, collocata a inizio stasimo, non è ancora in grado di evidenziare nell’immediato la connessione tra canto e azione appena trascorsa71. Concentriamoci proprio a partire da questo riscontro su una definizione già prima accennata. Almeno da metà Ottocento e – come una sorta di guado verso il nuovo secolo – con l’avallo del monumentale commento di Richard Jebb, contestualmente ad alcuni passi lirici sofoclei si tende a usare una definizione standard 72. Per ‘canti iporchematici’ (ha scritto con chiarezza Massimo Di Marco, limitandosi legittimamente ai due esempi più congrui, vale a dire lo stasimo di Aiace, vv. 693-718, e il canto infraepisodico di Trachinie, vv. 205-224) si intendono oggi quei canti in cui «appare più evidente la fallibilità del giudizio del coro»; sono canti che «in Sofocle il coro intona in una fase della tragedia in cui la minaccia che gravava sul protagonista sembra alfine felicemente stornata. Come liberatisi da un incubo angoscioso, i coreuti manifestano il loro sollievo e la loro gioia, abbandonandosi a vivaci movimenti di danza (di qui, appunto, il nome di ‘iporchemi’, da ojrcevomai = povlew~. BURTON 1980, 100, mette in relazione il passo platonico con l’ode sulle capacità dell’uomo, non con i versi dell’inno a Dioniso. 69 Vv. 7-8: kai; nu'n tiv tou'tÆ au\ fasi pandhvmw/ povlei | khvrugma qei'nai to;n strathgo;n ajrtivw~É. La medesima espressione in Soph. El. 982; l’aggettivo, comune, ricompare in Ai. 175 e 844. 70 Il termine, con fronei'n, è parola-chiave in special modo nella scena tra Emone e Creonte (603, 623, 648, 682-683, 707, 727, 754-755), e torna al v. 792. 71 Per JOUANNA 2007a, 460, l’inno è «une rupture avec la précipitation du drame» e «un moment d’évasion pour l’imagination du spectateur». Per la centralità di Tebe nell’ode, anche dal punto di vista formale e non solo come ‘centro’ geografico del canto, si veda MACEDO 2011, 407-408. 72 Come è noto la definizione moderna nasce da un errore antico: sarebbero ‘iporchemi’ (perché danzati) i canti corali in cui effettivamente il coro dice che sta danzando, in opposizione all’idea che lo stasimo implicasse un canto da fermo: sulla questione si vedano almeno DALE 1950, con DALE 1968, 210; DI MARCO 1973-1974, 345-346; HENRICHS 1994-1995, 93, n. 21; sull’iporchema come genere indipendente, di probabile nascita cretese, si veda il cap. I, par. 5.

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

‘danzare’). In realtà la catastrofe non solo è sempre in agguato, ma incombe ormai vicina»73. Si tratta dunque, in estrema sintesi, di canti gioiosamente concitati il cui effetto di giubilo doveva essere messo in risalto da particolari soluzioni orchestiche: secondo un’istanza condivisa essi sarebbero Ai. 693718, Trach. 205-224 e 633-662, Ant. 1115-1154, OT 1086-110974. Non è semplice ricostruire le vicende di una prassi definitoria sedimentatasi nel tempo: essa appare già, sul finire della prima metà del diciannovesimo secolo, nella Storia della Letteratura greca di Karl Otfried Müller, il quale definisce come iporchemi «songs which depict an enthusiastic state of feeling, and were united with expressive animated dances […]. They are frequently used by Sophocles in suitable places, to mark a strong but transitory sentiment»75. Nello specifico per Aiace e per Antigone la definizione torna nei commenti alle due tragedie di Friedrich Wilhelm Schneidewin: in merito all’Antigone, del 1852, per quanto risulta, terminus post quem76. Più in generale, come sottolineato da Albert Henrichs, «the term ‘hyporcheme’ has been widely used to characterize those self-referential choruses in Sophocles who verbally recognize their choral performance while being physically engaged in the dance»77. Su una linea affine lo stasimo dell’Antigone è stato considerato, se non specificamente iporchematico, strettamente connesso con atmosfere dionisiache78 scatenate e gioiose; come tale, dunque, è stato letto l’inno a Dioniso, 73 DI MARCO 2009, 184. Per la classificazione e il «carattere speciale» del canto iporchematico (un canto para; prosdokivan) cfr. DE FALCO 1958 – ma già 1924 –; KRANZ 1933, 213: si tratta in genere di «ein hoffnungsfreudiges Lied, feurig im Tempo des Gesanges und Tanzes; ist es verklungen, so öffnet sich ein Abgrund»; KIRKWOOD 1958, 199-201; RODE 1971, 107; SCULLION 1998, 98; MILO 2006, 170-173; BAÑULS OLLER – CRESPO ALCALÁ 2006b, 81. 74 Ma anche Eur. El. 859-865 e 873-879, «vero iporchema» per DE FALCO 1958, 79, n. 74, con DENNISTON 1939, 154. Sintesi dei pareri e delle definizioni in HENRICHS 1994-1995, 101, n. 76. 75 MÜLLER 1840, 314 = MÜLLER 1841, 71-72 (la traduzione inglese precede l’edizione tedesca di un anno), con riferimento, in nota, a Trach. 205ss., Ai. 693ss., Phil. 391ss. e 827ss. 76 SCHNEIDEWIN 1849, 12 e 61 («der Chor stimmt statt eines Stasimon ein seiner Stimmung entsprechendes Bacchisches Tanzlied an, wie Antig. 1115 ff. Trach. 205 ff. O. R. 1086 ff.») e, per Antigone, SCHNEIDEWIN 1852, 132-133 e soprattutto 22, dove si parla di «carattere iporchematico» dell’inno a Dioniso: «der Chor, sich der Hoffnung überlassend, Kreons Umkehr sei noch nicht zu spät, ruft in einem heitern, auf die Parodos einen eignen Reflex zurückwerfenden Liede von hyporchematischem Charakter 1115-1154 den Thebanischen Schutzgott herbei, um durch sein Erscheinen die Sühnschuld von der Stadt zu nehmen». Si veda anche J. Sommerbrodt, De Aeschyli re scenica, III (1858: pare errato il rinvio al libello Rerum scenicarum capita selecta, del 1835, in DE FALCO 1958, 60, n. 7; il testo sugli iporchemi sofoclei si legge ora in SOMMERBRODT 1876, 220-221, con riferimento ad Ai. 692ss. [= 693ss.] e a Trach. 205ss.); MUFF 1877, 39 – dietro WALTHER 1874, 15 – afferma che «auch der Gesang Antig. 1115-1154 ist noch hierherzuziehen» (si intenda: tra gli iporchemi, ma non vi accoglie OT 1086-1109: cfr. p. 39, n. 1); l’associazione è confermata alle pp. 116-117: cfr., qui sotto, la n. 78. 77 HENRICHS 1994-1995, 59, ma si veda in particolare l’analisi dei passi alle pp. 73-85. 78 Si veda e.g. BÖCKH 1828, 99-100 (poi in BÖCKH 1843, 280-282), dove il passo è collegato a Trach. 205-224 e ad Ai. 693-718, ma l’impressione che non fosse uno stasimo è già in BÖCKH 1824, 86 (dove delle sezioni corali dell’Antigone si afferma che sono «vier Stasima und ein fünfter Chorgesang») e soprattutto 87-88: «während die Bühne leer ist, singt der Chor einen Flehgesang an Dionysos (1102-1139.). Dieser kann kein Stasimon sein; sowohl der Inhalt als die Rhythmen

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IV. Elementi dell’inno nelle tragedie superstiti e corali innodici dell’Antigone

con sostanziale uniformità di giudizio79. Possiamo così dichiarare – collazionando solo alcuni dei molti pareri disponibili, di cui si dà parzialmente conto qui sotto – che il canto dell’Antigone è un iporchema, un inno eccitato e ottimistico animato da un’atmosfera di confidenza e speranza (se non di gioia) proprio per creare quello stato di contraddittoria tensione sospeso tra esultanza e disastro che si prepara (percepibile da parte del pubblico, si potrà aggiungere, già dalla parodo dell’Antigone). E ancora: una pausa di attesa gioiosa contraddetta dagli eventi che seguono, dove il dio viene invocato come portatore di letizia. Per i segni di positivo «excitement» dello stasimo di Antigone si vedano i commenti di CAMPBELL 1879, 548 (che non usa però il termine ‘iporchema’), e JEBB 1900, p. xvi («a short and joyous ode»), e p. 198 («this uJpovrchma, or ‘dance-song’, takes the place of a fifth stasimon», esso è «full of gladness» e messo in relazione con altri iporchemi che sostituiscono lo stasimo con la medesima funzione drammatica, di anticipazione antifrastica della vicina catastrofe, i citati passi di Ai., Trach. e OT). La terminologia è confermata in JEBB 1892, 34, a proposito di Trach. 205-224: un «lively ‘dance-song’ (uJpovrchma)». Così scrive De Falco, utile anche per una rassegna dei pareri ottocenteschi (ora in DE FALCO 1958, 58): «resta ancora da spiegarsi come mai esso [scil. lo stasimo] abbia un carattere così lieto, vivacemente orgiastico e dionisiaco, sebbene Tiresia abbia dato già il suo triste responso», ma qui «il Coro si è perfettamente rassicurato: […] perciò intona il lieto inno a Dioniso, che quindi non ha il carattere di preghiera ma piuttosto di ringraziamento»; e ancora (p. 61): «evidente e generalmente riconosciuto è il carattere iporchematico di Antig. 1115 ss. […] le dirette e chiarissime allusioni nel canto stesso, specialmente alla fine, dimostrano che anche qui si aveva una danza bacchica» (si veda, a conferma, anche DE FALCO 1928, 148). Per Perrotta «finalmente, Creonte, l’inflessibile, cede. […] Il Coro canta allora un iporchema» (PERROTTA 1935, 81). Per Lesky «il coro, pieno di speranza, rivolge a Bacco la propria gioia, facendo appello al dio stesso perché venga come salvatore e come portatore di una letizia festosa» (ora in LESKY 1996, 298). Per VICAIRE 1968, 359, nell’iporchema il coro «invoque joyeusement Dionysos» con un erfordern Bewegung: offenbar tanzt und schreitet der Chor beim Dionysischen Altar. Eben so ist in den Trachinerinnen nach der Parodos ein Tanzlied der Jungfrauen eingelegt (205.)»; vd. MUFF 1877, 116-117: «Boeckh führt in den Abhdl. d. Berl. Akademie 1824 aus, dieser Flehgesang an den Dionysos könne kein Stasimon sein. […] In allem wesentlichen hat Boeckh das Rechte getroffen. Zunächst ist das Lied ein Hyporchema. […] Auch steht es gleich den anderen Hyporchemen bei Sophokles unmittelbar vor der Katastrophe». Se Böckh si limitava a non considerarlo uno stasimo, Muff trovava conferma del carattere iporchematico del canto dell’Antigone, come detto, almeno a partire da Schneidewin. 79 Ma anche con qualche isolata eccezione, in particolare WINNINGTON-INGRAM 1980, 113-114, che rileva la presenza di segni sinistri, a partire dal fuoco stesso: «in how many passages in Greek literature is pu'r pnei'n or puvrpnoo~ used without a suggestion of hostility?» (p. 114, con MÜLLER 1967, 247, che però associa il canto agli stasimi iporchematici: p. 244, come fa NOVO TARAGNA 1979, 131 [chiama lo stasimo «hyporchema»] e 141, n. 2: «non direi […] che il canto sia animato da una esultante speranza»). Non si dimentichi che il fuoco è l’elemento dominante nella metaforologia impiegata per descrivere la peste nella parodo di Edipo re, dove è Ares (oJ purfovro~ qeov~, come definito al v. 27 del prologo) il dio da combattere. Contro una lettura affatto positiva dello stasimo è anche VAN NES DITMARS 1992, 156 e 157: «the chorus in Antigone are neither blithe nor hysterical»; «the mood is one of great urgency, but the joy that can be heard in the anticipation and desire speak in rhythms more characteristic of true religious fervor than false hope. […] The fifth stasimon has ominous notes». Cfr. anche POZZI 1979, 30, che vi legge un accento peanico e il prevalere del tono della supplica in un canto animato più dal terrore che dall’allegria: «himno ritual exaltado, de inspiración dionisíaca […] que clama por la salvación y que tiene el mejor paralelo en la párodo de Edipo Rey».

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«espoir chaleureusement exprimé». KAMERBEEK 1978, 186: «this choral song is in many ways comparable to Ai. 693-718, O.T. 1086-1109 (in a lesser degree to Trach. 633-662)», dove si sottolinea anche il carattere quasi estatico «of this dithyrambic song with its joyous overtones». GARDINER 1987, 95: «the chief function of the ode is to create the joy-before-disaster effect». Più sfumato BIERL 1989, 53, per il quale l’inno si bilancia tra l’essere «hoffnungsfroh» e l’imminente catastrofe di coloritura ctonia, e «wegen seiner dramaturgischen Wirkung wird er zu Recht immer wieder mit dem sogenannten Sophokleischen Hyporchema verglichen» (ripreso parzialmente in BIERL 1991, 131-132). Secondo HENRICHS 1990, 266, lo stasimo per la prospettiva eleusina e oltremondana che contiene «is far from negative». È una «pausa di attesa fiduciosa che sarà subito contraddetta» e «un lungo inno gioioso» per DI BENEDETTO – MEDDA 1997, rispettivamente 251 e 276. L’inno è comparabile all’immagine della liberazione dalla tenebra degli occhi di Aiace in Soph. Ai. 706-710 («a poignant choral evocation of mystic joy before the catastrophe») per SEAFORD 1994b, 284, n. 64. Per SCULLION 1998, 105 («one of those euphoric songs, immediately preceding the catastrophe, that are a favourite Sophoklean device») e 122, il coro «manifests its euphoria in the form of kathartic ritual». GRIFFITH 1999, 313: «an excited and optimistic hymn». MILO 2006, 172: stasimo dal «carattere iporchematico», un «canto di gioia» ma «misurato nel tono rispetto e al corale astrofico delle Trachinie e al secondo stasimo dell’Aiace», e «l’unica allusione orgiastica» dimorerebbe nella conclusione. JOUANNA 2007a, 461: «tout est fait dans la fin de l’hymne pour qu’une atmosphère de confiance et d’espoir, sinon de joie, endorme l’angoisse qui tenait le spectateur au moment de son départ et éveille l’illusion d’une heureuse issue possible» (si veda, insieme, JOUANNA 2007b, 117, n. 23). Anche FINGLASS 2007, 239 annovera il passo dell’Antigone tra quelli esprimenti gioia prima del disastro (a proposito della ‘variazione’ di Soph. El. 472-515, dove «Electra and the chorus will soon think that their optimism was misplaced, whereas we in the audience will know better»). Ancora: BAÑULS OLLER – CRESPO ALCALÁ 2008, 100-101 pensano a un iporchema esprimente la momentanea allegria del coro; sulla stessa linea KITZINGER 2008, 65-66.

Ci sono però delle ragioni formali che ci dirigono lontani da questa interpretazione, e ci inducono a non condividerla, perché un confronto con i casi paralleli non dà conferma all’ipotesi. Dovremo anzitutto considerare la posizione dell’inno all’interno del ‘macrotesto’ del dramma; le esecuzioni comunemente classificate come iporchematiche (ossia – ripetiamo – di esultanza, al di là dell’ambiguità che dimora nell’uso di un termine antico designante una categoria moderna) non sono mai l’ultimo canto dispiegato dall’orchestra: prevedono cioè che il coro torni poi a intonare uno stasimo, quasi che Sofocle fornisse l’occasione per ricredersi rispetto alle pregresse false aspettative. Viceversa i coreuti dell’Antigone si limiteranno da qui in avanti a esprimersi in trimetri o in anapesti (si tratta del quinto e ultimo stasimo del dramma). In seconda istanza, pur potendo stabilire un nesso tra le coreografie degli astri e delle menadi di cui Dioniso è, appunto, coragov~ (sono i vv. 1146-1154) e la simultanea performance del coro (vale a dire: i vecchi stanno danzando come gli astri e le menadi nelle feste notturne)80, non ci troviamo in presenza di un caso esplicitato di autoreferenzialità del 80 A proposito delle implicazioni della «choral projection» si vedano almeno HENRICHS 19941995 (per questo passo p. 78: «in a cascade of choral projection, Dionysos himself leads the astral chorus of stars, while the mythical maenads perform their dances under the night sky and the tragic chorus of the here and now follows suit in the orchestra») e HENRICHS 1996.

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IV. Elementi dell’inno nelle tragedie superstiti e corali innodici dell’Antigone

coro alla propria danza e nemmeno all’impiego di un lessico gioioso e inconsapevole. Questi tratti non sono mai assenti nei cosiddetti iporchemi, dove il canto sgorga improvviso, così come inatteso è il motivo di festa: e[frixÆ e[rwti... nu'n ga;r ejmoi; mevlei coreu'sai («fremo di gioia… ora a me importa danzare»: Ai. 693-701); ajeivromÆ oujdÆ ajpwvsomai | to;n aujlovn, w\ tuvranne ta'~ ejma'~ frenov~. | ijdouv mÆ ajnataravssei | ‹eujoi'Ì eujoi' mÆ | oJ kisso;~ a[rti bakcivan | uJpostrevfwn a{millan («mi sento come sollevare in alto e non respingerò il flauto, oh sovrano del mio animo. Vedi, mi scuote – evoé – l’edera trascinandomi a gara in un vortice bacchico»: Trach. 216-220)81; oJ kallibova~ tavcÆ uJ- | mi'n aujlo;~ oujk ajnarsivan | ajcw'n kanaca;n ejpavneisin, ajlla; qeiva~ | ajntivluron mouvsa~ («presto per voi il flauto dal dolce suono si leverà echeggiando non di un lugubre strido, ma simile alla lira dal canto divino»: Trach. 640-643); kai; coreuvesqai pro;~ hJ- | mw'n wJ~ ejpivhra fevron- | ta toi'~ ejmoi'~ turavnnoi~ («e noi ti danzeremo [scil. il Citerone] perché elargisci graditi favori al mio sovrano»: OT 1092-1095, con riferimento a una danza che si terrà ‘domani’ con la luna piena82 – e in questo assimilabile all’invito alla danza notturna cui il coro incita se stesso in Ant. 152-154 – e successivo rinvio a un quasi-refrain di genere al v. 1096, ijhvie Foi`be). Non pare del resto che i vecchi tebani siano in Antigone privi di sospetti o affrancati dalla consapevolezza del rischio corso dalla comunità, né che riferimenti alla danza o al canto palesino in nessun punto imprudente avventatezza. Al contrario la perfetta formalizzazione della preghiera – che come detto prevede un’alta concentrazione di clichés di genere senza alcun apparente allontanamento da una costruzione che possiamo astrattamente considerare ‘normata’ – fa piuttosto pensare a una controllata coscienza, e 81 «Nowhere else in Sophoclean tragedy does choral self-referentiality find such vivid and agitated expression. […] Ai[romai thus corresponds emotionally as well as structurally to the pericarh;~ ajneptavman of the equally euphoric and Dionysiac chorus in Aias (693)»: HENRICHS 19941995, 82. La natura concitata del passaggio potrebbe essere ulteriormente rimarcata dal ‘cambio di direzione’ del canto, ciò che SILK 2009, 150-151 definisce ‘semantic diversion’, rientrante nella logica dell’inatteso: non ci aspetteremmo qui un riferimento alla gara bacchica, la bakcivan a{millan (del coro contro se stesso, o contro un semicoro? si veda RODIGHIERO 2004, 164-165), ma alla possessione divina, al folle invasamento. Su questi versi si rinvia almeno a DE FALCO 1958, 69-81 (con l’ipotesi che fosse cantato dalla sola corifea); D’ALESSIO 2007, 109-110 (un «canto ‘iporchematico’»); CALAME 2005, 60-61 (un peana – con ‘coda’ ditirambica per RUTHERFORD 1994-1995, 120, e n. 32 e RUTHERFORD 2001, 108-115 e in particolare 113 e n. 14); KAMERBEEK 1959, 70-71. GRANDOLINI 1995 propende per una soluzione iporchematica, anche se elementi di diversa tonalità «inducono a considerare il canto per certi aspetti un iporchema, per altri un peana o un ditirambo» (p. 254). Si vedano anche POLIZIO 2004 (commento metrico e colometria della trad. manoscritta) e MILO 2006. Il coro sofocleo in ogni caso adotta qui un atteggiamento ‘bacchico’ e percepisce come una competizione sotto l’egida di Dioniso la propria danza (probabilmente circolare: Bakcivan | uJpostrevfwn a{millan: vv. 220-221; per uJpostrevfwn cfr. BURTON 1980, 52: «a circling movement in which the dancers return to the starting-point»). Ai vv. 202-203 è Deianira a chiamare le donne al canto: la pratica dell’attore che spinge all’esecuzione lirica è rara ma non estranea alla tragedia (Aesch. Choe. 151, dove Elettra invita il coro a eseguire un «peana del morto»; Pers. 619-620; Sept. 267-268, dove Eteocle spinge a eseguire l’ojlolugmov~ del peana). 82 Si veda ancora HENRICHS 1994-1995, 71-72: «at this moment of renewed self-reflection, the syntax of the choral voice becomes uncommonly intricate, even by Sophoclean standards» (si cita da p. 71).

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gli stessi ingredienti eleusini mantengono il tono entro un grado di moderata, non infiammata, speranza83. Potremmo forse rilevare nella presenza delle Tiadi un accenno a festose e dionisiache celebrazioni di marca positiva, ma dovremo a questo punto non dimenticare il corteo di menadi84 che accompagnano Dioniso nei versi di chiusura della parodo in forma di peana dell’Edipo re (vv. 209-215), le cui tinte fosche, come visto sopra, sono indiscutibili. Sono, questi dell’Edipo re, versi accostabili in maniera affatto naturale al passo dell’Antigone, fino all’impiego in entrambi del dativo strumentale quale ‘arma’ per sconfiggere il dio portatore della peste. Se infatti in Ant. 1142-1143 Dioniso dovrà «venire con un piede» (molei'n... podiv) in grado di stornare la novso~, similmente in OT 213-215 è invocato perché «venga… con una torcia» (pelasqh'nai... peuvka/)85 con cui bruciare il rovinoso Ares. 4. Ricorsività interne In direzione contraria, la parodo peanica dell’Antigone86 prorompe come reazione al dissolversi del terrore e del buio, risposta a una presunta ma qui esclusa preghiera di impetrazione: l’inno che libera dall’angoscia sottintende l’antefatto di una domanda, così che possiamo percepire in ejfavnqh~ pote di v. 103 – «sei infine apparso, raggio del sole» – la risposta alla richiesta ordinaria (qui esclusa) del favnhqi, «vieni, appari!»87. L’inno a Eros, sia esso allestito come interposta espressione dell’amore di Emone per Antigone, o di una legge di ordine universale capace di opporsi al caos88, anticipazione epitalamica delle prossime nozze della protagonista con Ade o sforzo di attenuare la tensione prodotta dall’agone tra padre e figlio, nasce come conseguenza di quanto sappiamo accaduto nel terzo episodio, in particolare nella 83 L’analisi condotta in HEIKKILÄ 1991 dei casi di autoreferenzialità sofoclea porta a concludere che la menzione della propria danza da parte del coro appare in passaggi di contenuto fortemente emozionale, con espressione di gioia e gratitudine come segno di false speranze e di una cattiva comprensione di quanto accade (fatto salvo il caso di OT 896, tiv dei' me coreuveinÉ). Il rapporto con temi misterici ed eleusini è evidente (già allo schol. ad 1146 [p. 271, 14 Papageorgiou] per l’immagine di Dioniso corego degli astri) sia nel lessico che nella geografia, a partire dall’Italia: ci si limita a rinviare a SEGAL 1981, 180-181, 203, con SEGAL 1990, 416-417, e in special modo HENRICHS 1990, 264-269; BIERL 1991, 127-132; SEAFORD 1994a, 381-382 e 1994b, 281-282 (ma «in poignant contrast to Kore, Antigone will not in the end be released from her dark bridal chamber beneath the earth»: p. 282); MIKALSON 1991, 302, n. 73, annovera viceversa il tono religiosamente misto del canto tra le possibili «irregularities» adottate da Sofocle nella manipolazione, a fini letterari, del culto tradizionale (con pp. 219-221). 84 Elemento tipicamente innodico: l’inno delle donne di Elea sopra ricordato (PMG fr. 871) fa riferimento alle Cariti che scortano Dioniso, e cfr., e.g., Pai. 46, 38 Käppel (Limenio): movlete prospovloisi. Le Tiadi lo accompagnerebbero venendo esse stesse dalle falde del nominato Parnaso: cfr. MCINERNEY 1997, 269-283. 85 L’accostamento è proposto in SCULLION 1998, 102. 86 Come la parodo dell’Edipo, anche il canto d’entrata dell’Antigone «apre nell’invocazione agli dèi la dimensione teologica dell’intera vicenda»: ZIMMERMANN 2003, 374. 87 Si veda al cap. III, par. 2. 88 VAN NES DITMARS 1992, 98-102; KITZINGER 2008, 45-46.

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IV. Elementi dell’inno nelle tragedie superstiti e corali innodici dell’Antigone

sticomitia che precede lo stasimo. L’inno a Dioniso costituisce infine l’ideale ‘colonna sonora’ dell’affrettata azione di Creonte, persuaso da Tiresia e dal coro al seppellimento di Polinice e alla liberazione di Antigone. In tutti e tre i casi dunque la molla del canto scatta – più che per gli altri corali – a partire dalle circostanze presenti. Ci possiamo anche spingere a cogliere alcune affinità per così dire situazionali: rimane attivo, lungo tutto il testo sofocleo, un cortocircuito linguistico, senza tuttavia che possiamo supporne una funzione cripticamente simbolica. Se il coro della parodo si proietta in un futuro prossimo di celebrazioni (quello della notte che verrà) è proprio sotto il segno e sotto la guida coreografica di Dioniso che tali celebrazioni dovranno compiersi. Sono i vv. 152-154: qew'n de; naou;~ coroi'~ pannucivoi~ pavnta~ ejpevlqwmen, oJ Qhvba~ dÆ ejlelivcqwn bavkcio~ a[rcoi.

E il dio è di nuovo evocato quale corego degli astri insieme al séguito di Tiadi ai vv. 1146-115489: ijw; pu'r pneiovntwn | coravgÆ a[strwn, nucivwn | fqegmavtwn ejpivskope, e ai{ se mainovmenai pavnnucoi | coreuvousi ktl, a cui si potrà accostare l’appello a Iacco corego dell’adespoto PMG fr. 1027(d): ÒIakce qrivambe, su; tw'nde coragev (= Dion. Hal. Comp. 17 [II, p. 70, 16 Usener – Radermacher]). Non si dimentichi il racconto su Licurgo dei vv. 963965, e il suo tentativo di porre fine al culto del dio, versi nei quali ancora vengono rimarcati invasamento ed «evio fuoco» come tratti distintivi della pratica rituale: pauveske me;n ga;r ejnqevou~ | gunai'ka~ eu[iovn te pu'r, | filauvlou~ tÆ hjrevqize Mouvsa~90. Dentro una composizione speculare91, ma con opposta funzione, nel primo e nell’ultimo canto si chiede al dio di tornare, non più invocato come divinità di una danza liberatoria e di segno positivo (così nella parodo) ma per sanare Tebe. Si tratta di una ragione ulteriore per escludere l’inno dal gruppo dei canti iporchematici. I cori dionisiaci tebani che dureranno tutta la notte (coroi'~ pannucivoi~, v. 152) preparano inoltre per contrasto le danze delle menadi che pavnnucoi coreuvousi. Il repertorio di notturni movimenti non si ferma qui: nel medesimo campo semantico dovremo ricondurre anche la metafora militare del pervigilium di Eros che «passa la notte» (ejnnuceuvei~, v. 784) sulle tenere guance delle fanciulle, dove – benché non se ne tro89 Sul valore dell’interiezione ijwv come espressione sonora di un adfectum animi si veda l’analisi di Ai. 694 e 707 condotta al cap. I, par. 1. 90 Come già evidenziato in HENRICHS 1994-1995, 78: ulteriormente da accostare, forse, al ‘baccheggiante’ Capaneo – bakceuvwn ejpevpnei – descritto nella parodo come «portatore di fuoco», purfovro~ (vv. 135-136): «the phrase “fire-breathing” also reminds us of Kapaneus the fire-bringer, although the primary reference is to the role of Iakchos as “light-bringing star of the nocturnal rites” (Aristoph. Frogs 341-342) in the Eleusinian Mysteries» (CULLYER 2005, 16). 91 Un confronto tra parodo e stasimo sulla linea dell’ambigua dualità positivo/negativo (Dioniso è anche negativo) è condotto in OUDEMANS – LARDINOIS 1987, 154-159.

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vi traccia nei commenti al dramma – dobbiamo forse spingerci a scorgere un’allusione a femminili pannucivde~ in onore di Afrodite92. Eros vaga inoltre inesausto, attraversando distese equoree, passando sopra il mare (foita/'~ dÆ uJperpovntio~, v. 785)93 come Dioniso attraversa e oltrepassa lembi marini: uJpe;r... porqmovn (v. 1145; non si dimentichi, ai vv. 334-336, la celebrazione delle potenzialità di conquista umane: pevran povntou... cwrei'). Ancora, il pur ametrico parÆ uJgro;n | ÆIsmhnou' rJeveqron dei vv. 1123-112494 pare echeggiare i vv. 104-105 della parodo: Dirkaiv- | wn uJpe;r rJeevqrwn. Anche tenendo conto del rischio di arbitrarietà insito in ogni sondaggio numerico, non è un caso, forse, che – con la probabile funzione di dare complessivo risalto all’eccesso di comportamenti fuori misura – il prefisso uJper- (o la preposizione) compaia in Antigone 30 volte, più che in qualsiasi altro dramma superstite di V secolo (dove al secondo posto per Sofocle troviamo Edipo re con sole 13 ricorrenze). C’è un altro aspetto che nella totale perdita dell’effetto visivo possiamo almeno parzialmente inferire dal testo: sia la parodo che i due stasimi (o perlomeno il canto a Dioniso) sono cantati a scena vuota, dando perciò corso a quella che doveva essere avvertita, in assenza degli attori, come una performance lirica pura, favorendo probabilmente in questo modo una più netta percezione, da parte del pubblico, della loro intonazione innodica e sacrale. Non come canti di tragedia, dunque, ma – nel rispetto della fiction – come canti di cittadini di volta in volta rimodulati con caratteristiche extradrammatiche precise95. 92 Si veda, sulle feste notturne femminili, BRAVO 1997, con le pagine di FERRARI 2007, 107-113 (più nello specifico dedicate a Saffo, con rinvio, a p. 109 e n. 2, al «nesso frequente che possiamo registrare fra veglie notturne ed esibizioni di cori specialmente femminili»), e DELNERI 2006, 1213; oltre a Soph. Ant. 1151-1154 e al coro – ma qui di maschi – che danzerà alla luna piena in OT 1089-1095, cfr. Pind. P. 3, 77-79, danze in onore della Gran Madre e di Pan: si veda al cap. I, par. 2; Eur. Tr. 1071-1073, Hel. 1365 (con ALLAN 2008, 309), Ba. 862 e, dall’Ipsipile, TrGF V, 2 F 752 (Dioniso danza con il suo séguito sul Parnaso alla luce delle fiaccole); Ar. Ran. 370-371 e 447-448; Crit. 88 B 1, 8 D.-K. (Anacr. PMG fr. 500) per limitarci al V secolo. Per feste religiose notturne in onore di Afrodite si veda ZIEHEN 1949, coll. 630-631; la festa simposiale di Call. fr. 227 Pf. prevede sì la presenza di Amori e di Afrodite, ma come mera manifestazione dell’atmosfera conviviale. Molti secoli dopo Menandro Retore ancora sottolinea il legame tradizionale tra l’amore e le ore della notte, abbinando in esse proprio le celebrazioni per Dioniso e per Afrodite: Puvqia me;n ga;r

kai; ÆOluvmpia kaqÆ hJmevran telei'tai, ‹ta;Ì Bavkcou de; kai; ÆAfrodivth~ nuktov~: e[rwti ga;r kai; gavmw/ kai; uJmenaivw/ kaqievrwtai nuvx (Men.Rh., p. 410, 23-25 Spengel).

93 Il motivo della ‘mobilità’ e ubiquità di Eros è del resto frequente: limitandoci alla tragedia (oltre a TrGF IV F 941: la potenza di Cipride) per Sofocle si veda TrGF IV F 684, 3: Eros kajpi; povnton e[rcetai (ma = Eur. fr. 431, 3 N.2); per Euripide cfr. Hipp. 1272-1273. 94 Variamente corretto: e.g. parÆ uJgroi'~ ÆIsmhnou' rJeivqroi~ Hartung, con KAMERBEEK 1978, 187-188 e più in sintesi GRIFFITH 1999, 319. 95 La parodo prevede che il coro entri quando le due sorelle escono di scena nella chiusa del prologo. Creonte certamente lascia la scena al v. 1114, e con buona probabilità al v. 780, per disporre della condanna di Antigone; si veda GARDINER 1987, 91, n. 15: «it is a reasonable assumption that Creon remains onstage during the ode; certainly there is no evidence in the text to show he exits at 780, and at 883 he has clearly overheard Antigone’s laments. […] Even more likely is the possibility that Creon exits at 780 and then re-enters with Antigone and her escort of guards at 806». La vicenda è chiarita e riassunta in ZIOBRO 1971: «the traditional arrangement of Antigone, 766-883 has Haemon exit after 765, Creon after 780, and Antigone enter at 801, and Creon suddenly at 883»

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IV. Elementi dell’inno nelle tragedie superstiti e corali innodici dell’Antigone

5. Nota di chiusura Eravamo partiti da considerazioni estremamente generali (e forse vi approdiamo anche), ma per tornare a un almeno parziale rilevamento degli atteggiamenti del gruppo orchestico nell’Antigone, il percorso intrapreso ci ha condotto se non altro a un’impressione. Ci troviamo di fronte all’inclinazione forte da parte del poeta a non deformare un modello immaginario di genere, ma viceversa quasi alla presenza di un imperativo stilistico vòlto a esagerarne i tratti convenzionali e tipizzati, rendendoli di fatto tutti manifesti, senza dunque concessioni a uno stile più libero e meno irregimentato cui pure – come si è visto – Sofocle non è estraneo. I paralleli mitici costruiti con cura quasi sapienziale dal coro per consolare Antigone esibiscono nel dramma anche la messa in crisi di una pratica diffusa in tragedia, quella appunto della consolatio attraverso l’exemplum, come mostrato di recente da Roberto Nicolai96. Non potremmo allora pensare che anche la paradigmaticità delle due sezioni esplicitamente innodiche riveli nella funzione e soprattutto nella forma del canto un non dissimile effetto di chiusura e distanza tra i personaggi e il coro, e un suo progressivo allontanamento, sancendo anche in questo caso l’incapacità di una condivisa sumpavqeia?

(p. 82); egli ritiene però che Antigone stia davanti a Creonte – entrambi in scena, dunque – dal v. 766 (p. 84): «the choral ode to Love becomes much more powerful if both Antigone and Creon are silently on scene during it» (p. 85). Neanche GRIFFITH 1999, 255 ritiene che Creonte esca, dal momento che egli è «certainly present to address her [Antigone] at 883, without any announcement of departure or re-arrival». 96 «Nell’Antigone il coro non può che celebrare il suo fallimento, non solo sul piano dell’azione, ma anche su quello della parola. La generalizzazione indotta dai paradigmi, oltre a essere di difficile decifrazione, non conduce a sciogliere i conflitti e a definire un’ideologia condivisa»: NICOLAI 2011, 12-13. Per altra via – la presa di coscienza, dopo un’iniziale incertezza, degli errori commessi sia da Antigone che da Creonte e delle loro colpe – giunge all’idea di una separazione netta fra personaggi e coro alla fine del dramma anche DHUGA 2011, 160-167.

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Appendice

Formularità epica e dizione tragica: un caso di scomposizione (da Omero – a Derveni – a Sofocle) When a word-group has been cemented into a formula, the group has a certain autonomous existence.

1. La grande forza di Oceano Ricorrendo all’ormai classica definizione di ‘formula omerica’ – ma intenzionalmente senza entrare nel merito del dibattito se essa implichi o meno una tecnica compositiva di improvvisazione orale – si potrà affermare con Milman Parry che «dans la diction des poèmes aédiques la formule peut être définie comme une expression qui est régulièrement employée, dans les mêmes conditions métriques, pour exprimer une certaine idée essentielle»1. Nel canto 18 dell’Iliade, dopo che il racconto ecfrastico si è esteso per circa centotrenta versi, il poeta descrive le ultime azioni di Efesto intorno allo scudo preparato per Achille. Il dio zoppo sigilla il bordo esterno dell’arma e vi cesella a chiusura della sua fatica un contorno che racchiuda quell’universo in miniatura, sistemando sulla superficie circolare («sull’orlo estremo dello scudo saldamente costruito») la «grande forza del fiume Oceano». Così i due esametri (Il. 18, 607-608)2: ejn dÆ ejtivqei potamoi'o mevga sqevno~ ÆWkeanoi'o a[ntuga pa;r pumavthn savkeo~ puvka poihtoi'o.

Dopo il lungo indugio descrittivo, il verso 607 si posiziona a conclusione di un’iterata sequenza locativa (ejn dÆ ejtivqei 4 volte, con i vv. 541, 550, 561) immediatamente prima della frettolosa descrizione della messa in opera di corazza, elmo e gambali, nonché dell’altrettanto repentino congedo di Teti

1 PARRY 1928, 16 (= PARRY 1971, 272). Com’è noto la definizione di Parry è stata estesamente e variamente discussa, commentata e contestata; cfr. almeno, per un primo parzialissimo inquadramento e la segnalazione di qualche tappa del dibattito (nella consapevolezza che qualsiasi rassegna bibliografica risulterebbe, sul tema, riduttiva): HAINSWORTH 1968, 33-45 e passim (formula come ‘repeated word-group’: la frase a esergo di questo testo è tratta da p. 57); RUSSO 1997; i saggi raccolti in LÉTOUBLON 1997; sintesi preliminare e ampia bibliografia in CAMEROTTO 2005; ERCOLANI 2006, 157-168 («formula è “un gruppo di parole ripetuto”, ovvero una struttura duttile, modificabile, espandibile o comprimibile, che può assumere configurazione prosodica diversa ed essere collocata in posizioni diverse all’interno dell’esametro»: p. 167). 2 Per un primo inquadramento sulle questioni relative alla struttura compositiva delle varie sezioni dello scudo cfr. EDWARDS 1991, 200-233 (i vv. 607-608 sono commentati a p. 232), ma cfr. ora D’ACUNTO – PALMISCIANO 2010, con un’utile rassegna bibliografica a cura di M. Arpaia (pp. 233-245).

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

da Efesto, con la dea impegnata a trasportare al figlio, nel campo acheo, l’intera armatura. Prevedibile risulta l’incidenza, in special modo pretragica, di sqevno~ accompagnato dal genitivo del nome di persona, alla cui casistica ci si limita: cfr. per l’epica Il. 9, 351: ajllÆ oujdÆ w|~ duvnatai sqevno~ ÓEktoro~ ajndrofovnoio, con Il. 13, 248: oijsovmeno~: to;n de; prosevfh sqevno~ ÆIdomenh'o~. Ancora: Il. 18, 486: Plhi>avda~ qÆ ïUavda~ te tov te sqevno~ ÆWrivwno~ (= Hes. Op. 615, e cfr. Op. 598: sqevno~ ÆWrivwno~ nella medesima sede, e 619: eu\tÆ a]n Plhi>avde~ sqevno~ o[brimon ÆWrivwno~); per la lirica Pind. fr. 29, 4 Sn.-M.: h] to; pavntolmon sqevno~ ïHraklevo~. Cfr. infine, in trimetris, Aesch. Eum. 299: ÆAqhnaiva~ sqevno~. Si fa qui solo menzione del comune impiego epico, assimilabile al nostro, dei sostantivi bivh, i[~ e mevno" (sqevno~ costituisce però più nello specifico la «force physique», la forza di un corpo che combatte: DELG, s.v.) seguiti dal genitivo del nome di persona in fine di verso (oltre al nesso consueto sost./agg. bivh ïHraklheivh [ma bivh ïHraklh'o~ in Il. 18, 117] si ricordino Il. 23, 720: i]~ ÆOdush'o~, e in Odissea i frequenti i]~ Thlemavcoio e iJero;n mevno" ÆAlkinovoio dopo pentemimere): «parfois le génitif comporte une valeur purement explicative et descriptive, si bien qu’il se trouve très proche de la valeur d’une apposition. […] à cette syntaxe» va ricondotto «le tour formulaire avec un nom de personne au génitif» (CHANTRAINE 1953, 62).

Appaiono manifestamente confrontabili con Il. 18, 607 gli esametri di Il. 23, 827 e di Hes. fr. 204, 56 M.-W., insieme in special modo a Il. 21, 195. Non è difficile verificare che l’espressione epitetica si colloca, sedimentandosi nella parte finale del verso, nella medesima sede metrica dopo cesura femminile, e che conseguentemente il nome di persona occupa sempre la sequenza della dieresi bucolica3: Il. 18, 607: Il. 21, 195: Il. 23, 827: Hes. fr. 204, 56 M.-W.:



ejn dÆ ejtivqei potamoi'o oujde; baqurreivtao o}n pri;n me;n rJivptaske ejk Krhvth~ dÆ ejmna'to



mevga sqevno~ ÆWkeanoi'o mevga sqevno~ ÆWkeanoi'o mevga sqevno~ ÆHetivwno~ mevga sqevno~ ÆIdom»enh'o~

La naturale ‘tendenza’ di mevga sqevno~ a fissarsi come tipologia formulare generica4 occupante sede identica con clausola esametrica genitivale (ripetiamo, con gen. = nome proprio) sembra confermata dalla lieve e solo apparente variante sfruttata da Apollonio Rodio5 in I 531: mevssw/ dÆ ÆAgkai'o~ mevga 3 Analoga posizione, ma senza genitivo di persona, in Il. 11, 11 (= Il. 14, 151): mevga sqevno~ e[mbalÆ eJkavstw/, e cfr. Il. 21, 304: mevga ga;r sqevno~ e[mbalÆ ÆAqhvnh (sulla rilevante variazione di questo

verso, in contesto ‘fluviale’, si veda infra). 4 Essa potrebbe essersi generata come ampliamento di una base sqevno~ + genitivo, passando alla più complessa formula aggettivo + sqevno~ + genitivo, ma in Omero risulta dotata di una sua forte identità metrico-semantica (con l’aggettivo) proprio a partire dal genitivo costituito dal nome di Oceano. Mi ricorda Andrea Ercolani per litteras che una ‘specializzazione’ assimilabile si realizza con la formula generica di`o~ ÆOdusseuv~ (aggettivo + nome proprio), ampliatasi esclusivamente per Odisseo in poluvtla~ di`o~ ÆOdusseuv~ (aggettivo + aggettivo + nome proprio). Se di fraseologia tradizionale si tratta, essa è assimilabile a uno degli schemi metrici delle formule prototipiche anche della poesia epico-corale, nonché della lirica arcaica, secondo GENTILI – GIANNINI 1977, 25: una struttura enopliaca = a[nax Dio;~ uiJo;~ ÆApovllwn, ×; ora in GENTILI – LOMIENTO 2003, 279-283. 5 Si tratterebbe di uno di quei casi in cui «there are modifications which the word-group itself may undergo, independently of any modification of its members, without upsetting the bond

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Appendice. Formularità epica e dizione tragica

te sqevno~ ïHraklh'o~. Essa è da confrontarsi con III 560, dove però si assiste all’anticipazione del genitivo: oujkevtÆ ÆEnualivoio mevga sqevno", ej~ de; peleiva~, con ripresa della iunctura – ma senza genitivo – in II 1206: mevga te sqevno~ ijsofarivzoi (che sembra riecheggiare Il. 21, 194-195, su cui infra), e in III 1044, mevga te sqevno~, oujdev ke faivh~. Esempi con genitivo anche da Socr. AP XIV 4, 1: Aujgeivhn ejreveine mevga sqevno~ ÆAlkei?dao, oltre che dai Posthomerica di Quinto Smirneo, 1, 508 e passim: w}~ favto: tw'/ dÆ ejpivqhse qrasu; sqevno~ Aijakivdao (con 1, 607: ojloo;n sqevno~ Aijakivdao), e limitandoci ai soli casi di ‘grande forza’ si segnala – sempre con genitivo – 6, 584: eijsopivsw katevmarye mevga sqevno~ Eujrupuvloio (per mevga sqevno~ nella stessa sede ma non accompagnato da specificazione cfr. anche 4, 99a; 6, 286; 8, 7; 8, 25; 14, 127).

2. Oceano e Acheloo: dall’epos a Derveni La lista potrebbe continuare con un’ulteriore campionatura tardoantica. Ma per tornare all’epos, si è già rilevato come la ‘grande forza’ di Oceano ricompaia, a distanza di tre canti, in Il. 21, 195. Il passo vede Achille impegnato in un’aristia di vendetta per la morte di Patroclo lungo le sponde dello Scamandro. Dopo Licaone cade sotto i suoi colpi Asteropeo, figlio di Pelegone e nobile discendente del fiume Assio. Contro Asteropeo il figlio di Peleo vanta la propria appartenenza alla stirpe del Cronide e pronuncia parole di animosa ostilità; se Zeus è più potente di tutti i fiumi che vanno verso il mare, così la stirpe di Zeus è più forte di chi conta un corso d’acqua tra i suoi progenitori: «non è possibile lottare con Zeus figlio di Crono, | con lui nemmeno il potente Acheloo può misurarsi alla pari, | neanche la grande forza di Oceano dalle correnti profonde, | da cui sgorgano tutti i fiumi e tutti i mari, | tutte le sorgenti e i pozzi profondi». Ai vv. 193-197 si incastona dunque una climax di energie che vede al suo sommo Zeus e a seguire le due potenze acquatiche: … ajllÆ oujk e[sti Dii; Kronivwni mavcesqai, tw/' oujde; kreivwn ÆAcelwvi>o~ ijsofarivzei, oujde; baqurreivtao mevga sqevno~ ÆWkeanoi'o ejx ou| per pavnte~ potamoi; kai; pa'sa qavlassa kai; pa'sai krh'nai kai; freivata makra; navousin:

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Non si intende tornare sulla questione della probabile recenziorità del v. 195, già in dubbio per Megaclide nel IV sec. a.C., «non scritto», o «atetizza-

of mutual expectancy by which it is cemented», vale a dire il caso di «insertion, omission, or change of particles or prepositions. […] the introduction of connectives does not change a word-group» (corsivo nostro): HAINSWORTH 1968, 38; Apollonio Rodio poteva inoltre contare su modelli epici ‘parziali’ – senza genitivo – quali il già citato Il. 21, 304 (e cfr. Hes. Sc. 420: mevga ga;r sqevno~ e[mpese fwtov~ detto della forza di Eracle), e Od. 8, 136: aujcevna te stibaro;n mevga te sqevno~: oujde; ti h{bh~. Per un primissimo orientamento sulla formularità apolloniana cfr. (oltre ai suoi precedenti lavori) FANTUZZI 2002, 359-387.

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

to» da Zenodoto e difeso da Aristarco6: il dibattito antico/moderno è stato nitidamente riepilogato e ridiscusso in modo esaustivo in un contributo del 2004 di Giovan Battista D’Alessio7. Ci si limiterà qui unicamente al tentativo di segnalare la ricorsività di una cellula minima, dietro le tracce dell’indubbia associazione – e nel contempo opposizione – tra Acheloo e il mevga sqevno~ (questa la cellula) del potamov~ Oceano (cfr. Il. 18, 607). L’accostamento ricompare infatti alla col. XXIII del Papiro di Derveni (che conserverebbe copia – su supporto più recente – di un’opera degli ultimi anni del V secolo, «composed near the turn of the fifth century BC»), commento in prosa a un poema orfico esametrico. Questi i passi8: P.Derv. col. XXIII, 3-7 eu[dhlon o{ti ®ÆWkeanov~® ejstin oJ ajhvr, ajh;r de; Zeuv~. ou[koun ®ejmhvsato® to;n Za'na e{tero~ Zeuv~, ajllÆ aujto;~ auJtw'i ®sqevno~ mevga®. oiJ dÆ ouj ginwvskonte~ t³o³;n ÆWkeano;n potamo;n dokou'sin ei\nai o{ti ®eujru; rJevonta® prosevqhken.

5

P.Derv. col. XXIII, 11 ®i\na~ dÆ ejgk³a³t³»evle¼x³Æ ÆAcelwi?ou ajrgu³»r¼odivn³e³»w®.¼

Sulla base del commento papiraceo dell’anonimo autore – ma non solo di esso –, così Alberto Bernabé ha ricostruito un’esigua porzione della frammentaria teogonia orfica di partenza (Orph. fr. 16)9: »mhvsato dÆ au\¼ Gai'avn »te kai;¼ Oujrano;n eujru;n »u{perqen¼, mhvsato dÆ ÆWkeanoi'o mevga sqevno~ eujru; rJevonto~. i\na~ dÆ ejgkatevlexÆ ÆAcelwivou ajrgurodivnew, ejx ou| pa'sa qavlas»sa 6 Cfr. lo schol. A ad l. (V, p. 168, 3-5 Erbse): o{ti Zhnovdoto~ aujto;n oujk e[grafen: givnetai ga;r oJ ÆAcelw/'o~ phgh; tw'n a[llwn pavntwn, con lo schol. Ge (V, p. 168, 8 Erbse): o{ti Zhnovdoto~ tou'ton hjqevthken a[ra~ (lo scolio ginevrino – V, p. 168, 12 Erbse – aggiunge che Megaclide parevlipen to;n peri; tou' ÆWkeanou'). Per Aristarco cfr. P.Oxy. 221 col. IX, 5-8: oJ mevnt»oi gƼ ÆArivstarco~ ïOmhriko;n aujt»o;¼n ajpof»aivn¼ei: ta; ga;r rJeuvmata ejx ÆWkean»o¼u' ei\nai. Si veda anche Paus. VIII 38, 10: ÆAcelw/'on... e[fhsen ejn ÆIliavdi ÓOmhro~ potamw'n tw'n pavntwn a[rconta ei\nai. Un’acuta analisi della questione è già

in PASQUALI 1988 (già 1934), 225-227: «tutta questa parte deriva da un poema epico nel quale Eracle combatteva con Acheloo» (p. 227: vedremo che una simile ipotesi, benché difficilmente dimostrabile, potrebbe riverberarsi fino al dramma di V secolo). 7 Il quale considera la versione più corta – senza il v. 195 – come la più antica; i versi iliadici rifletterebbero una tradizione arcaica nella quale Acheloo era considerato origine di tutte le acque: D’ALESSIO 2004, 16-37. Ma si veda anche RICHARDSON 1993, 69: «the line is surely genuine. How could Akheloos be the origin of the whole sea?»; il verso rivelerebbe, grazie alla ‘centralità’ di mevga sqevno~, «a balanced structure of epithets and nouns». 8 Si riproduce il testo da KOUREMENOS – PARÁSSOGLOU – TSANTSANOGLOU 2006, 107; ad essa si rinvia anche per l’ormai copiosa bibliografia. L’indicazione cronologica relativa alla composizione del testo si ricava dall’introduzione di K. Tsantsanoglou, p. 10 (relativamente alla scrittura del papiro cfr. ibid., p. 9: «a dating between 340 and 320 BC on the basis of script is perhaps closer to reality, but one must keep in mind that the age of the scribe, or an affectation of archaism on his part, would result in dating the document too early»). Il commento alla col., di T. Kouremenos, è alle pp. 256-260. Cfr. anche BERNABÉ 2007, 248-249. 9 In BERNABÉ 2004, 29-31; fondamentali per un primo orientamento bibliografico le pp. 2-12 (sui rischi e i limiti di una ricostruzione exempli gratia cfr. p. 10; aggiornamento in BERNABÉ 2007, 171-181).

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Appendice. Formularità epica e dizione tragica

Perduto soggetto dei verbi in terza persona, Zeus-ajhvr creatore della terra e del cielo «concepisce» anche «la grande forza di Oceano che ampio scorre» (e che di Zeus diviene una sorta di avatar) e le ‘forze’ di Acheloo «dai flutti argentei» (i suoi ‘tendini’, quindi figurativamente il suo ‘nerbo’)10, legandoli a una medesima matrice divina e costringendoli in una ulteriore confusa paternità. Tale paternità è assegnata dalla teogonia orfica a un Acheloo ‘contenuto’ da Oceano, Acheloo che si rivela essere quindi – diversamente dal tràdito Il. 21, 194-196 – origine e principio di tutte le acque proprio in funzione di Oceano, perché in esso compreso. I vv. 3-4 sono confermati dalla ricorrenza dell’identico passaggio poetico commentato in P.Oxy. 221 col. IX, 1-311; il v. 4 riecheggia il citato Il. 21, 196: ejx ou| per pavnte~ potamoi; kai; pa'sa qavlassa da confrontarsi con ejx ou| pa'sa qavlas»sa. Si consideri il commento di Derveni al rigo successivo, col. XXIII, 12: tw`»i¼ u{da»ti¼ o{³l³»w~ tivqh¼s³i ÆAcelw`ion o[nom³»a, «è all’acqua in generale che [Orfeo] dà il nome di Acheloo» (la tradizione è consolidata: e.g. in Orph. fr. 154 Bernabé e si veda BERNABÉ 2007, 249-250); cfr. quanto scrive T. Kouremenos in KOUREMENOS – PARÁSSOGLOU – TSANTSANOGLOU 2006, 259, «all streams of water derive their strength from Okeanos, the source of all flowing water» (si veda anche BETEGH 2004, 162 e 216-217: Acheloo, in questo contesto, come «son of Okeanos», ma con diversa lettura di rigo 12; Acheloo è effettivamente conosciuto da Hes. Th. 337-340 come uno dei figli di Oceano, v. 340: ÆAcelw/'ovn tÆ ajrgurodivnhn). «The Orphic text turns out to be doubly relevant for the discussion of Il. 21.194-5: it shares with the shorter version [vale a dire senza il v. 195] the unique identification of Acheloios with the origin of sea and of all waters; and it shares with the longer version the coexistence of Ocean and Acheloios in two consecutive lines»: D’ALESSIO 2004, 23. Si aggiunga che tale connessione (anzi una vera identificazione) tra Acheloo e il potamov~ Oceano è ulteriormente confermata dai due esametri di una Herakleia citati nel ricordato P.Oxy. 221 col. IX, 8-11 = Panyasis, fr. dub. 31 Bernabé (= fr. 28 Matthews, con commento), pw'³»~¼ dÆ ejpor»euvq¼h³~ rJeu'mÆ ÆAc»elw¼ivou ajrgu»ro¼divna | ÆWkeanou' potamo»i'o diƼ eujrevo~ uJg»r¼a; kevleuqaÉ: una simile reiterata associazione/identificazione non è forse del tutto estranea al possibile reimpiego del ‘giro formulare’ così come lo si vedrà ricomparire nella descrizione del combattimento tra Eracle e Acheloo nelle Trachinie di Sofocle (su cui infra).

Una volta riconosciuta l’effettiva e per certi aspetti insormontabile difficoltà di ricomporre con certezza le tessere che costituivano la teogonia, dovremo almeno segnalare la singolarità strutturale del verso 2 di Orph. fr. 16. «The verse – così D’Alessio – has been reconstructed by West, on the basis of its constituent elements quoted in the prose paraphrase»12. La 10 i\na~... ÆAcelwivou: l’origine dell’espressione ancora una volta «may go back to the epic periphrastic use of i[~, bivh and similar nouns, followed by a genitive of a noun (cf., in particular, i]~ potamoi'o of Xanthos/Skamandros in Il. 21.356)», ma «both for a Greek poet of this age and for his public, the words i\na~ ... ÆAcelwivou would unavoidably evoke the meaning ‘the sinews of Acheloios’», che indicherebbero «the springs and rivers from which the sea derives» (D’ALESSIO 2004, 24 e 33). 11 Su cui BERNABÉ 2004, 30, e 2007, 247-248; D’ALESSIO 2004, 18ss.; T. Kouremenos in KOUREMENOS – PARÁSSOGLOU – TSANTSANOGLOU 2006, 258-259, che conferma l’identità dei due testi e a proposito del v. 4 scrive: «the P.Oxy. verse is followed by ejx ou| pa'sa qavlas»sa (fr. 16.4 Bernabé), which could have stood right after the same verse in the poem of the Derveni author». 12 D’ALESSIO 2004, 22 e BERNABÉ 2004, 29 in app.: si veda WEST 1983, 115 (si tratta del v. 36), ma la segnalazione è già in MERKELBACH 1967, 28, e cfr. BETEGH 2004, 129: «I do not see any harm in following Merkelbach» (con p. 181).

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

ricostruzione di Martin L. West (il quale rispetta a buon diritto la sequenza dell’originale così come è riprodotta dal commentatore di Derveni) risulta convincente sotto ogni aspetto; va altresì detto, sulla base di quanto rilevato, che non viene replicato un ordo verborum (peraltro impossibile, a meno di non condannare il primo emistichio) in linea con la tradizione antecedente. Mantenuta infatti salda la posizione della tipologia formulare mevga sqevno~, viene disattesa la ‘norma’ epica secondo la quale il nome di Oceano si collocherebbe lecitamente in corrispondenza della dieresi bucolica, analogamente ai versi di tradizione omerica ed esiodea visti sopra (vale a dire: mevga sqevno~ ÆWkeanoi'o)13. Lo stesso eujru; rJevonto~ (determinato nel ‘restauro’ di West in Orph. fr. 16, 2 Bernabé dall’acc. eujru; rJevonta del commentatore di Derveni: col. XXIII, 6) è del resto clausolare, e presente 4 volte in Iliade. A un più stretto vaglio dei casi si potrà constatare che sempre la sequenza è riferita al fiume Assio, il già nominato progenitore di Asteropeo contro cui Achille combatte in Il. 21, il fiume che ‘produce’ nel duello verbale tra i due il paragone che oppone Zeus ad Acheloo e Oceano; agli emistichi di Il. 2, 849 = 16, 288, ajp ÆAxiou' eujru; rJevonto~, andrà associato Il. 21, 157, dove Asteropeo vanta e dichiara la propria origine: aujta;r ejmoi; geneh; ejx ÆAxiou' eujru; rJevonto~. Ad Asteropeo risponde Achille pochi versi più sotto, Il. 21, 186-187, un istante prima di stilare la sua classifica (Zeus vs. Acheloo/Oceano): fh'sqa su; me;n potamou' gevno~ e[mmenai eujru; rJevonto~, | aujta;r ejgw; geneh;n megavlou Dio;~ eu[comai ei\nai. La sequenza eujru; rJevonto~ viene dunque ripresa in eco nella successione dei due passi a breve distanza, caratterizzandosi nel suo uso genitivale come distintiva delle correnti dell’Assio e al suo nome strettamente legata. Si potrà aggiungere ancora qualcosa: incalzato dallo Scamandro, nei versi seguenti di Il. 21, Achille fugge per la pianura, lontano dalle rive, e con l’aiuto di Poseidone ed Atena acquisisce quel mevga sqevno~ che gli permette di scampare all’ira del corso d’acqua (Il. 21, 303-304): … oujdev min i[scen eujru; rJevwn potamov~: mevga ga;r sqevno~ e[mbalÆ ÆAqhvnh.

I versi iliadici sembrano chiamare a raccolta elementi di diffusa formularità (giocoforza una formularità eminentemente ‘fluviale’), dal potamov~ che «ampio scorre» – eujru; rJevwn qui alla sua unica occorrenza epica in questa sede14 – alla ‘grande forza’, ora instillata nell’eroe e sufficiente per sostenerne la fuga (serve che Atena infonda forza ad Achille perché egli possa sfuggire al potamov~ incollerito)15.

13 Una sorta di forma metrica estesa del nome, in cui il nome viene dopo, come del resto accade alla successione consueta epiteto + nome; ciò valga anche in virtù del fatto che il primo caso di variatio, l’anticipazione del nome di persona rispetto alla formula, lo si registra, come visto, in Ap. Rh. III 560. 14 Cfr., per una distinta sede della iunctura, ancora Ap. Rh. II 1261: Fa'sivn tÆ eujru; rJevonta kai; e[scata peivrata Povntou. 15 Per il motivo cfr. i già citati Il. 11, 11 e 14, 151.

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Appendice. Formularità epica e dizione tragica

3. Acheloo ed Eracle: dalla formula epica alla scomposizione tragica Nel primo stasimo delle Trachinie di Sofocle (vv. 497-530), celebrando la proverbiale invincibilità di Afrodite, il coro di fanciulle evoca l’antico agone che vide opposti Eracle e il dio-fiume Acheloo per il possesso di Deianira, inconsapevole e spaventata promessa sposa16. Del duello tra «il glorioso figlio di Zeus e Alcmena» (v. 19) e Acheloo, il pubblico delle Trachinie ha già udito raccontare: esso era stato evocato nel prologo, dove il fiume, pretendente di Deianira (v. 9: mnhsth;r... potamov~), viene raffigurato nel ricordo della donna come dio multiforme dalla cui barba scura uscivano scorrendo rivoli di acqua sorgiva (vv. 13-14: ejk de; daskivou geneiavdo~ | krounoi; dierraivnonto krhnaivou potou')17. Ora di nuovo il coro torna su quegli eventi lontani, e riconosce quale principio e causa dell’antica disputa l’irresistibile potenza di Afrodite. La ‘grande forza’ di Cipride, cantata in apertura di strofe, innesta una simmetria terminologica tra cola rispondenti che in apertura di antistrofe sembra riversare la forza magnetica della dea nel medesimo sqevno~ che muove alla lotta Acheloo, presentato al v. 507 come «forza di fiume» (sqevno~ aJ Kuvpri~ = potamou' sqevno~). Così l’attacco delle due strofe (anap. dim. + ia.):                 v. 497: v. 507:

mevga ti sqevno~ aJ Kuvpri~: ejkfevretai nivka~ ajeiv. oJ me;n h\n potamou' sqevno", uJyivkerw tetraovrou

La formula sembra nello stasimo difficilmente reperibile, dal momento che il contesto drammatico (in lyricis, in aggiunta) la rende di fatto irriconoscibile. Tuttavia la corrispondenza tematica e insieme lessicale dell’incipit di strofe e antistrofe ci può fornire la traccia di una duplice manovra, vòlta alla sentita necessità di etichettare Acheloo secondo un codice consegnato dalla tradizione ma insieme da ri-enunciare. Dentro questa rielaborazione di materiale formulare18 la tipologia della ‘grande forza’ di una potenza fluviale (Oceano vs. Acheloo) viene ora riferita ad Afrodite, giudice ma anche ideale vincitrice (e quindi in quanto tale dotata di sqevno~ come forza fisica) dell’agone per la contesa Deianira. Il suo nome non declinato – naturalmente atteso in genitivo – produce una frase nominale, sentenziosa e oggettiva («una grande forza [è = ha] Cipride19, ottiene sempre delle vittorie»). La 16

Lo stasimo sofocleo è oggetto di una più dettagliata analisi supra, al cap. II. Viene naturale accostarli a Il. 21, 196-197: ejx ou| per pavnte~ potamoi; kai; pa'sa qavlassa | kai; pa'sai krh'nai kai; freivata makra; navousin. Cfr., per i versi del prologo, RODIGHIERO 2004, 147. 18 Di cui lo stasimo fornisce ulteriori prove, anche in virtù del suo impianto che prevede un robusto impiego di kat’enoplion-epitriti: cfr. in particolare i vv. 510-512: oJ de;… h\lqe palivntona… tovxa… tinavsswn da accostare a Teu'kro~ dÆ ei[nato~ h\lqe palivntona tovxa titaivnwn di Il. 8, 266 (si veda supra, cap. II, par. 3). 19 Cfr. Eur. El. 958: e[cei ga;r hJ Divkh mevga sqevno~. Mi fa giustamente notare Andrea Ercolani per litteras che si potrebbe pensare, almeno per il v. 497 e per Afrodite, a una più semplice memoria 17

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

formula mantiene però inalterato il proprio contatto con uno dei referenti ‘antichi’ – Acheloo – presentato come il primo dei due contendenti che scendono a gara per Deianira, e specificamente nominato per esteso poco sotto, al v. 509 (ÆAcelw/'o" ajpÆ Oijniada'n). Il modello viene così scomposto in due versi in responsione attraverso l’impiego di mevga sqevno~ al 497 e di potamou' sqevno~ al 507, riferito quest’ultimo all’ideale rivale mitico del potamov~ Oceano: è soprattutto a lui che la tradizione ha assegnato di essere dotato di ‘grande forza’. Nella tabella seguente si è cercato di dare conto di tali presumibili incroci, che sulla base dei casi sopra ricordati (e qui riuniti) potremmo ipotizzare come legati al riuso di una diffusa convenzionalità non solo lessicale ma anche tematica, una traditional referentiality20 che farà la sua comparsa ancora una volta – presumibilmente qualche decennio dopo le Trachinie – nel commentario di Derveni: Il. 18, 607: potamoi'o mevga

sqevno~

ÆWkeanoi'o Il. 21, 195:

mevga

sqevno~

ÆWkeanoi'o mevga

sqevno~

ÆWkeanoi'o

Orph. fr. 16, 2 Bernabé, da P.Derv. col. XXIII, 3-6:

Orph. fr. 16, 3 Bernabé = P.Derv. col. XXIII, 11: i\na~



ÆAcelwivou

P.Derv. col. XXIII, 3-6: ÆWkeanov~ (3)

sqevno~ mevga

(5)

ÆWkeano;n

potamovn (6)

Trach. 497: mevga ti sqevno~

aJ Kuvpri~ Trach. 507-509:

potamou'

sqevno~



ÆAcelw/'o~

Non siamo in grado di dire con certezza se realizzando un simile smontaggio il tragico operava in modo consapevole anche su un’originaria e

del nesso non inusuale (si veda sopra alla n. 3) mevga sqevno~ senza genitivo. Saremmo più propensi ad aspettarci, trattandosi dell’avvio celebrativo dello stasimo, qualcosa come «grande è la potenza di Afrodite», ragione per la quale il verso delle Trachinie è stato definito come un esempio di ‘cambio di direzione’: BUDELMANN 2000, 45-47; sulla questione sintattica relativa al v. 497, che vanta ampia bibliografia, e sulla natura ‘pindarica’ di questo incipit cfr. ancora il cap. II, al par. 2 (con le nn. 10 e 13, p. 66 e 67). 20 Con l’impiego di apparentemente generici epiteti che in realtà «esprimono una serie di virtù che definiscono lo status eroico dei personaggi secondo un codice di valori e uno spettro di significati fissati nella tradizione poetica in rapporto alla leggenda eroica»: CAMEROTTO 2005, 108. Per il concetto di traditional referentiality (o metonymic referentiality) cfr. almeno FOLEY 1991 e 1995, passim (con le considerazioni di CAMEROTTO 2005, 116).

174

Appendice. Formularità epica e dizione tragica

competitiva dualità di ruoli tra Acheloo e Oceano (che del resto non figura nello stasimo). Si tratta sempre di interrogarsi se Sofocle stia semplicemente rielaborando la lingua omerica (e nel nostro caso anche una più vasta congerie di immagini tradizionali di volta in volta riassemblabili, verosimilmente legate a una o più teogonie orfiche) o se stia importando, nell’applicazione diremmo qui virtuosistica della propria memoria poetica, anche almeno una parte del precedente e probabilmente oramai ordinario contesto mitico-religioso21.

21

Cfr. DAVIDSON 2006, 33: ci si deve domandare se il tragico «is simply reworking Homeric language without importing anything of the Homeric context into his new context». La posizione di Davidson – non specificamente su questo passo – è di estrema cautela: «in any given instance, can we validly speak of a conscious choice involving a particular strategy, rather than just the reflection of a poetic mind steeped in the Iliad and the Odyssey?» (p. 25).

175

176

Index locorum ADESPOTA TRAGICA TrGF II F 89a: 156, n. 66 TrGF II F 191: 90 TrGF II F 225: 32, n. 45 TrGF II F 327c: 37 TrGF II F 560: 37 TrGF II F 629: 33, n. 48 AESCHINES schol. 1, 10 Dilts: 87 AESCHYLUS Ag. 12: 24, n. 18 104: 95 146: 50, n. 96 160: 24, n. 16 160-161: 154, n. 58 160-183: 68; 112, n. 21 228-247: 82 303: 24, n. 18 330: 24, n. 18 355: 24, n. 16 575: 110 676-677: 110 686: 92, n. 91 973: 23; 24 1008-1021: 72 1018-1020: 72 1073: 23, n. 14 1547: 114, n. 29 1548: 28, n. 32 Choe. 4: 93, n. 93 149-151: 124 151: 161, n. 81 162: 78, n. 55 246: 23 382: 23, n. 14 423-424: 39, n. 69 423-428: 66 585-598: 72 594-595: 72 719-729: 49 722-729: 155, n. 63 783: 49, n. 93 855: 23, n. 14 935-941: 56 946-952: 56 schol. 428 Smith: 66

Eum. 30: 155, n. 63 292-297: 145 294-295: 86, n. 77 299: 168 307: 80 370-376: 80, n. 61 372-376: 80, n. 61 553: 95 943: 26, n. 25 Pers. 1: 129, n. 77 13: 129, n. 77 18: 129, n. 77 25: 129, n. 77 49: 89 52: 37 88: 108 120: 39 299-301: 111, n. 17 388-394: 124 393: 124 447-449: 27 447-464: 27, n. 27 448: 44 469: 100, n. 111 619-620: 161, n. 81 647: 93, n. 93 658-659: 28 658-671: 147, n. 35 659: 93, n. 93 659-660: 77, n. 47 666: 28 681: 28 938: 39, n. 69 948: 131, n. 83 1004: 39 1054: 39 schol. 1055 Dähnhardt: 39 schol. Dem. Tricl. 448 Massa Positano: 27 PV 128: 103, n. 1 467: 24, n. 18 545-560: 63, n. 7 924-925: 71, n. 27 Sept. 78-80: 41, n. 73 80: 108 85-86: 108 87-180: 112, n. 21 90-91: 108 103-105: 108 120-121: 108

177

Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

122-123: 108; 132 124-126: 108 165: 132 211: 108 267-268: 161, n. 81 277: 125, n. 64 343: 123, n. 61 422-436: 123, n. 60 423-436: 123, n. 62 434: 123, n. 61 497: 122 498: 122 521: 135 525: 135 577: 133, n. 87 629-630: 135 635: 122 644: 123, n. 61 658: 133, n. 87 660: 123, n. 61 661: 123, n. 61 829-830: 133, n. 87 861: 114, n. 28 870: 124 953-954: 125, n. 64 956-957: 125, n. 64 schol. 635b Morocho Gayo: 122, n. 58 Supp. 96-97: 122 350: 108 547: 28, n. 32 571-575: 73 734-735: 21, n. 7 741-742: 21, n. 7 890: 23, n. 14 900: 23, n. 14 1034-1042: 69, n. 18 1035: 69, n. 18 TrGF III F 143: 37 TrGF III F 143-145: 37 TrGF III F 281a, 31: 143, n. 19 TrGF III F 313, 1: 96 TrGF III F 341: 122, n. 58 TrGF III F 379: 80, n. 61 TrGF III F 387: 20 TrGF III F 446: 42, n. 78 TrGF III T 81: 84, n. 72 TrGF III T 103: 84, n. 71 AFRICANUS, SEXTUS JULIUS Chron. fr. 24 (p. 279, 5-7 Routh): 41, n. 75

178

AGATHO TrGF I 39 F 3a: 37 ALCAEUS fr. 42, 8 V.: 96 fr. 304, 3 L.-P.: 114 ALCMAN PMGF 1: 70 PMGF 1, 2: 70 PMGF 1, 12-13: 70 PMGF 1, 39-40: 94; 95 PMGF 14: 24; 119, n. 46 PMGF 27: 119, n. 46 ANACREON fr. 1, 1 Gentili: 154, n. 59 fr. 14, 6-7 Gentili: 154, n. 59 fr. 14, 7 Gentili: 111 fr. 14, 7-8 Gentili: 117, n. 41; 156, n. 65 fr. 14, 10-11 Gentili: 156, n. 65 fr. 28 Gentili: 97, n. 103 fr. 56 Gentili: 70 fr. 83 Gentili: 20, n. 5 fr. 181 Gentili: 164, n. 92 ANECDOTA PARISIENSIA I, p. 20 Cramer: 57, n. 117 ANTHOLOGIA PALATINA V 100: 71, n. 26 V 245, 8: 69 [Macedonius] VI 96, 3: 26, n. 23 [Erycius] VI 167: 27, n. 27 [Agathias] VI 218, 10: 44, n. 81 [Alcaeus Messenius] VI 313, 1: 115; 154, n. 58 [Bacchylides] VII 351, 7-8: 155, n. 64 [Dioscorides] IX 341, 5: 23 [Glaucus] IX 525, 20: 45, n. 84 IX 823: 50, n. 98 [Plato Junior] XIV 4, 1: 169 [Socrates] XIV 98: 127, n. 70 [Bakis] XIV 98, 6-8: 127, n. 70 [Bakis] APOLLODORUS I 1, 6-7: 36 I 4, 1: 50 II 6, 1: 93, n. 92

Index locorum

III 5, 1: 46, n. 86 epit. 2, 5: 93, n. 92 3, 17: 37 APOLLONIUS RHODIUS I 531: 168 I 536-539: 136 II 1206: 169 II 1261: 172, n. 14 III 560: 169; 172, n. 13 III 1044: 169 ARCHILOCUS fr. 177 W.2: 23 fr. 287 W.2: 90 P.Oxy. 4708, fr. 1: 37 ARIPHRON PMG fr. 813: 124 PMG fr. 813, 1-2: 52 ARISTIDES, AELIUS Or. III, 144 (p. 340, 6-7 Lenz – Behr): 45 XLII, 12 (p. 338, 1-2 Keil): 50, n. 95 ARISTONOUS Pai. 42, 2 Käppel: 153, n. 58 ARISTOPHANES Ach. 430: 37 665-718: 112, n. 21 1212: 50, n. 96 Av. 219: 45 676-681: 111, n. 20 680: 111, n. 20 703-704: 20, n. 5 744-746: 32 1092: 93, n. 93 1244: 42, n. 79 1372: 20, n. 5 1711: 93, n. 93 1731-1742: 98, n. 108 1737-1742: 152, n. 53 1738-1739: 78, n. 55 1743: 116, n. 37 1758: 98, n. 105

1763-1764: 124 Eccl. 483: 136 1068-1069: 46, n. 86 Eq. 551ss.: 115, n. 34; 130, n. 78 559: 27, n. 30 581ss.: 115, n. 34; 130, n. 78 586: 28 586-589: 28, n. 30; 120, n. 47 591: 28 594: 155, n. 63 1264-1265: 110 1334: 127, n. 68 schol. 589b Mervyn Jones: 87 Lys. 2-3: 32, n. 44 285: 127, n. 68 558: 36 1281: 45, n. 84 1291: 124 Nub. 266: 28 270-273: 145 274: 116, n. 37 275-290: 56, n. 113 285: 110 298-313: 56, n. 113 562-573: 28, n. 30 563ss.: 130, n. 78 563-574: 115 565: 115 569: 111, n. 14; 115, n. 32 569-570: 115 571-574: 111, n. 14 595ss.: 130, n. 78 922: 37 966-968: 64 1355-1356: 64 Pax 453-454: 136 775-777: 118 Ran. 229-234: 50 330-331: 77, n. 47 341-342: 163, n. 90 353: 45, n. 84 370-371: 164, n. 92 445: 81, n. 63 447-448: 164, n. 92 1281-1295: 15, n. 28 1298-1307: 15, n. 27 Thesm. 312-314: 116, n. 37

179

Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

312-330: 114 315: 116, n. 37 315-316: 114 320: 114; 154, n. 58 326: 25 662: 80, n. 61 954: 80, n. 61 954-968: 81, n. 63 968: 80, n. 61; 129 977-978: 26, n. 25 977-980: 50, n. 98; 116, n. 37 987-1000: 154, n. 59 1136ss.: 115 1136-1159: 28; 115, n. 34 1143: 28 1157: 115, n. 34 1158: 155, n. 63 Vesp. 8: 46, n. 86 119: 46, n. 86 711: 127, n. 68 729-735: 88, n. 81 743-749: 88, n. 81 869-872: 156, n. 65 1060-1061: 85, n. 74 1514: 74, n. 38 1518-1519: 115, n. 32 schol. 119 Koster: 46, n. 86 fr. 235 K.-A.: 64 fr. 696, 1 K.-A.: 84, n. 71 ARISTOTELES Po. 1447a 27-28: 84, n. 73 1456a 25-30: 13, n. 21 1459a 8-9: 65 1461b 30-32: 84, n. 73

I 20f: 127, n. 70 I 21d: 84, n. 71 I 22a: 84, n. 72 IV 152b: 87 IV 176f: 38, n. 67 V 180f-181b: 32, n. 45 V 181b: 59 VII 276a: 16, n. 31 X 453c-e: 16, n. 31 XIV 628d-e: 60, n. 127 XIV 628f: 85, n. 74 XIV 630e: 58 XIV 631a: 85, n. 74 XIV 631a-b: 86, n. 77 XIV 631b: 83, n. 66 XIV 631c: 84, n. 70 XV 702a: 52 XV 702c: 110 BACCHYLIDES Dith. 16, 22 M.: 76, n. 45 17, 5 M.: 93, n. 93 18 M.: 63 18, 49 M.: 74 Ep. 1, 159-160 M.: 95 5, 161-162 M.: 110 Epigr. 1, 1 M.: 115; 154, n. 58 fr. 4, 79 M.: 155, n. 64 fr. 5 M.: 128, n. 74 CALLIAS COMICUS T *7, 1-22 K.-A.: 16, n. 31

Pol. 1342b 1-12: 38, n. 66 Rh. 1406b 1-2: 65 1413b 17-1414a 7: 41, n. 73

CALLIMACHUS Del. 304-306: 136, n. 92 Jov. 52-53: 34, n. 50

ARISTOXENUS fr. 79 Wehrli: 38, n. 66 fr. 81 Wehrli: 11, n. 10 ATHENAEUS I 15d: 58 I 20d-e: 58 I 20e-f: 84, n. 71

180

fr. 43, 86 Pf.: 34, n. 52 fr. 43, 106-117 Pf.: 34, n. 52 fr. 227 Pf.: 164, n. 92 CASTORIO SOLEUS SH 310, 1-2: 26, n. 25 SH 310, 2-3: 53

Index locorum

CATULLUS, CAIUS VALERIUS 61, 14-15: 100, n. 112 61, 22: 98, n. 108 61, 56-59: 97, n. 102 61, 102-105: 98, n. 108 61, 187-188: 98, n. 108 62, 20-23: 97, n. 102 62, 49-58: 98, n. 108 CICERO, MARCUS TULLIUS Flac. 65: 43, n. 79 CORNUTUS De Natura Deorum 42, 2: 71, n. 27 CORPUS CULTUS CYBELAE ATTIDISQUE (CCCA) I, nrr. 261-431: 33, n. 46 I, nr. 625: 42, n. 77 II, nr. 180: 32, n. 44 II, nr. 182: 32, n. 44 II, nr. 309: 32, n. 44 II, nr. 339: 32, n. 44 II, nr. 409: 32, n. 44 II, nr. 432: 32, n. 44 CRITIAS 88 B 1, 8 D.-K.: 164, n. 92

DIAGORAS PMG fr. 738, 3: 44 DIODORUS SICULUS V 65, 4: 36 V 66, 1: 41, n. 75 DIOGENES ATHENIENSIS TrGF I 45 F 1: 33, n. 48 DIONYSIUS CHALCUS fr. 6 W.2: 110 DIONYSIUS HALICARNASSENSIS VII 73: 127, n. 71 Comp. 17 (II, p. 70, 16 Usener – Radermacher): 163 Dem. 7, 7 (p. 59, 22 – p. 60, 1-2 Aujac): 60, n. 128; 109, n. 13 22, 1-3 (p. 92, 1-14 Aujac): 38 Orat.Vett. 1, 1, 7 (p. 71, 10-13 Aujac): 38, n. 65 EPHORUS FGrHist 70 F 149: 36, n. 58

TrGF I 43 F 4: 156, n. 66 CYPRIA arg. p. 40, 36-37 Bernabé: 37 DANAÍS fr. 3 Bernabé: 33, n. 49 DEMETRIUS RHETOR eloc. 91: 65 116: 65 140, 6-7: 23, n. 12 143: 65 DEMOSTHENES Mid. 52, 6: 155, n. 64

ERINNA fr. 4, 28-30 Neri: 97 ETYMOLOGICUM MAGNUM s.v. ajgwvn: 75, n. 39 s.v. tragw/diva: 81, n. 63 EUPOLIS fr. 148 K.-A.: 64 fr. 398 K.-A.: 64 EURIPIDES Alc. 77-135: 104 91-92: 28 93-97: 104 105-111: 104

181

Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

132-135: 104 223: 155, n. 63 424: 124 675-676: 42, n. 79 962: 95 994: 99 Andr. 117: 103, n. 1 194: 42 766-801: 79, n. 58 1129-1241: 86, n. 77 Ba. 2: 143, n. 19 42: 143, n. 19 58-59: 42, n. 78 71-72: 120 72: 95 72-82: 34, n. 50 72-169: 112, n. 21 83-87: 155 87-92: 143 88: 143 100: 147, n. 35 114-115: 120 120-125: 34 120-169: 38, n. 64 140: 42 141: 120 370-371: 23 370-375: 68, n. 17 468: 99 556: 30, n. 36 584: 23 647: 129 725: 147, n. 34 862: 164, n. 92 862-876: 48, n. 91; 82 902-911: 69, n. 19 1017: 28; 147, n. 35 1153-1164: 60, n. 128 1350: 90 Cycl. 68: 30, n. 36 El. 99: 99 167: 103, n. 1 178-180: 48, n. 91 181: 151, n. 47 434-437: 48, n. 91 467: 48, n. 91 467-468: 156, n. 66 712-720: 48, n. 91 859-865: 48, n. 91; 158, n. 74 873-875: 48, n. 91

182

873-879: 158, n. 74 958: 66, n. 11; 173, n. 19 Hec. 4: 42 98: 103, n. 1 141-142: 99 205-208: 99 513: 99 782: 24, n. 18 1000-1002: 90 Hel. 381-383: 48, n. 91 723: 77, n. 46 1312-1314: 48, n. 91 1319-1324: 33 1341-1368: 48, n. 91 1358-1365: 89; 91, n. 85 1365: 164, n. 92 1451-1470: 48, n. 91 1476: 98 Heracl. 608: 95 748: 24, n. 16 748-750: 128, n. 74 750: 129, n. 74 751: 129, n. 74 786: 126 892: 21, n. 8; 48, n. 91 936-937: 126 HF 110-111: 95 160-161: 78, n. 53 348-356: 95 348-450: 64, n. 9 494: 28 523: 28 543: 132 637: 95 673-686: 48, n. 91 673-700: 95 685-686: 154, n. 61 687-700: 135, n. 91 690: 135, n. 91 691-694: 136, n. 91 763: 54, n. 109 772: 54, n. 109 782: 132 Hipp. 58-60: 121 61: 130, n. 78 141-144: 33; 46, n. 86 525: 24, n. 16; 68; 69 525-564: 68 e n. 17; 150, n. 43; 152 528: 28

Index locorum

534: 68; 69; 77, n. 51 545-554: 99 553: 99, n. 109 764-775: 82 817ss.: 21, n. 8 1255: 89 1268-1269: 68 e n. 17; 69 1268-1282: 68; 150, n. 43 1272-1273: 164, n. 93 1280-1282: 69, n. 18 1281-1282: 69 1363: 23, n. 14 IA 206-215: 127, n. 71 214: 77, n. 46 247-252: 127, n. 71 669-670: 99 698: 99 805: 99 1036-1057: 82; 89, n. 82 1036-1088: 98, n. 108 1080-1088: 98 1083: 99 1087-1089: 99 1113: 98 1466-1499: 124 1467-1484: 135, n. 91 1480-1481: 80, n. 61 Ion 125-127: 50; 149, n. 40 141-143: 50; 149, n. 40 209-211: 86, n. 77 452-454: 154, n. 59 492-509: 51, n. 99 900-901: 99 905-906: 131, n. 83 1074-1086: 48, n. 91; 82; 156, n. 66 1084-1086: 154, n. 61 1146: 90 IT 126: 103, n. 1 179-185: 39, n. 69 1084: 155, n. 63 1125-1131: 51 1143-1146: 100 1234-1236: 143 1274: 100, n. 111 1319: 143; n. 19 1366: 91, n. 84 Med. 242: 99 633-634: 129, n. 75 673: 99 804-805: 99

829-830: 96 1090: 95 1172: 46, n. 86 1251-1253: 110 Or. 140: 103, n. 1 174-179: 149, n. 40 175-179: 147, n. 35 1351-1352: 42, n. 79 1385: 39, n. 69 1447: 42, n. 79 1453: 33 1480: 42, n. 78 1483-1485: 42, n. 79 Phoe. 3-5: 109 17: 116, n. 35 79: 132 226-238: 48, n. 91 287: 132 310: 22 337-338: 99 349: 89 636-637: 133, n. 87 649-656: 48, n. 91 786: 48, n. 91 788: 45, n. 84 1099: 108 1102: 124 1180-1182: 135 1250-1253: 125, n. 64 1301-1303: 39, n. 69 1361: 79, n. 59 1366: 99 1473: 126 1493-1494: 133, n. 87 schol. 572 Schwartz: 126 Supp. 42: 103, n. 1 650: 110 667: 77, n. 46 675: 77, n. 46 699: 79, n. 59 822: 99 Tr. 7: 42 147: 136, n. 92 147-152: 136, n. 92 151-152: 42; 136, n. 92 152: 136, n. 92 153: 103, n. 1 312: 98, n. 105 323-340: 98, n. 105 325-340: 48, n. 91

183

Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

515-516: 49 531: 42 542-555: 48, n. 91; 82 544-547: 42 551-555: 95 567: 42 669-676: 99 794: 91, n. 84 840: 23 840-841: 68, n. 17 840-859: 150, n. 43 948-950: 71, n. 26 994: 42 1071-1073: 164, n. 92 1071-1076: 48, n. 91 Phaëth. 221-222: 99 231-235: 99 TrGF V, 1 F 370, 5-6: 124 TrGF V, 1 F 370, 5-10: 48, n. 91 TrGF V, 1 F 430: 151 TrGF V, 1 F 453, 7-8: 48, n. 91 TrGF V, 1 F 472, 9-15: 33 TrGF V, 1 F 477: 50, n. 96; 122, n. 58 TrGF V, 1 F 696, 2-3: 26, n. 25 TrGF V, 2 F 586: 33 TrGF V, 2 F 704: 37 TrGF V, 2 F 752: 164, n. 92 TrGF V, 2 F 773, 59: 134

FRAGMENTE DER GRIECHISCHEN HISTORIKER, (FGrHist) 239 A 10 [Marmor Parium]: 31 468 F 2, p. 419, 18-19: 41, n. 74

DIE

GEORGIUS SYNCELLUS Ecloga chronographica, p. 145, 22-23 Mosshammer: 41, n. 75 p. 175, 8-10 Mosshammer: 41, n. 75 GRAMMATICI GRAECI I, 3, p. 18, 8-9 Hilgard: 81, n. 63 I, 3, p. 18, 9-10 Hilgard: 87 HERACLITUS 22 B 51 D.-K.: 78, n. 55 HERODOTUS V 1: 124 V 22: 74, n. 38 VI 105: 27, n. 27 VI 129: 84, n. 70 VII 69, 1: 78, n. 55 VII 74: 37 VIII 76: 27, n. 27 VIII 77: 127, n. 70 VIII 95: 27, n. 27

PMG fr. 755, 1-2: 67 [EURIPIDES] Rh. 1: 103, n. 1 370: 28 380: 28 520: 151, n. 47 schol. 251 Merro: 43, n. 79

HESIODUS Op. 8: 153, n. 58 520-521: 97 598: 168 615: 168 619: 168 743: 54, n. 108

EUSEBIUS Praep. Ev. X 3, 13, 1-2: 16, n. 31

Sc. 49: 132 201-203: 87 420: 169, n. 5

EUSEBIUS – HIERONYMUS Chron. 22b (21 F, 20-26 Helm): 41, n. 75 42b (61 F, 1-4 Helm): 41, n. 75 EUSTATHIUS THESSALONICENSIS ad Il. 10, 465: 125 ad Il. 18, 590-605: 37, n. 60

184

Th. 7: 44, n. 83 55: 117, n. 39 321: 90 337-340: 171 340: 171 786-787: 54, n. 108 825: 90 fr. 123, 3 M.-W.: 33, n. 49

Index locorum

fr. 165, 8-15 M.-W.: 37 fr. 204, 56 M.-W.: 168 fr. 339 M.-W.: 96 fr. 357, 3 M.-W.: 143, n. 19 HESYCHIUS e 4645 Latte: 39, n. 68 k 3166 Latte: 32, n. 45 k 3676 Latte: 46, n. 86 n 755 Latte: 151, n. 47 f 814 Hansen – Cunningham: 111, n. 17 HIMERIUS Or. 9, 20, 264-265: 98, n. 105 HIPPONAX fr. 127 W.2 = fr. 125 Degani: 34, n. 51 fr. 156 W.2 = fr. 167 Degani: 34, n. 51 HOMERUS Il. 1, 8-9: 72, n. 28; 73 1, 455: 155, n. 63 1, 472-474: 121, n. 52 1, 551: 41, n. 73 2, 145: 52, n. 103 2, 222: 131 2, 412: 153, n. 58 2, 488-493: 70 2, 658: 143, n. 19 2, 849: 172 2, 858: 37 3, 69: 79, n. 59 3, 90: 79, n. 59 4, 169: 54, n. 108 4, 391: 116, n. 35 4, 485: 54, n. 108 5, 31: 23; 24 5, 385: 91, n. 85 5, 392: 91, n. 85 5, 395: 91, n. 85 5, 703: 73, n. 33 6, 120: 79, n. 59 6, 132-133: 30 6, 160: 152, n. 49 7, 298: 75, n. 39 7, 473: 54, n. 108 8, 124: 54, n. 108 8, 147: 54, n. 108 8, 266: 78 e nn. 54-55; 79; 173, n. 18 8, 316: 54, n. 108

9, 351: 168 10, 430: 37, n. 61 10, 458-468: 125 10, 459: 78, n. 55 11, 11: 168, n. 3; 172, n. 15 11, 299: 73, n. 33 12, 125: 131 12, 200-207: 131, n. 82 12, 298: 74; 79 13, 5: 37, n. 61 13, 62-65: 131, n. 82 13, 132: 131 13, 248: 168 14, 151: 168, n. 3; 172, n. 15 15, 33: 71, n. 26 15, 189-193: 69 15, 208: 54, n. 108 15, 511-512: 37, n. 61 16, 52: 54, n. 108 16, 55: 54, n. 108 16, 175: 143, n. 19 16, 216: 131 16, 233: 153, n. 58 16, 288: 172 16, 338: 131 16, 429-430: 131 16, 508: 54, n. 108 16, 601: 88, n. 80 16, 692: 73, n. 33 17, 83: 54, n. 108 17, 88: 131 17, 375: 79, n. 59 17, 591: 54, n. 108 18, 117: 168 18, 264: 79, n. 59 18, 483-485: 90 18, 486: 168 18, 497-508: 80 18, 507: 80 18, 541: 167 18, 550: 167 18, 561: 167 18, 569: 87 18, 569-572: 58 18, 590-606: 32, n. 45 18, 604-605: 87 18, 607: 76; 167; 168; 170; 174 18, 607-608: 167 e n. 2 19, 307: 54, n. 108 20, 33: 75, n. 39 20, 159: 79, n. 59 20, 372: 54, n. 108 21, 139-202: 73, n. 34 21, 145: 74

185

Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

21, 157: 172 21, 162: 73, n. 34 21, 163: 73, n. 34 21, 186-187: 172 21, 193-197: 169 21, 194: 73, n. 34 21, 194-195: 169; 171 21, 194-196: 171 21, 195: 168; 169; 170, n. 7; 171; 174 21, 196: 171 21, 196-197: 173, n. 17 21, 237: 73, n. 34 21, 303-304: 172 21, 304: 168, n. 3; 169, n. 5 21, 356: 171, n. 10 22, 43: 54, n. 108 22, 311: 79 22, 353: 143, n. 19 22, 391: 124 22, 391-394: 121, n. 52 23, 258-259: 74 23, 273: 74 23, 507: 74; 80 23, 704: 80, n. 59; 93, n. 92 23, 720: 168 23, 814: 79, n. 59 23, 827: 168 24, 1: 75, n. 39 24, 104: 112, n. 20 schol. 21, 194 Erbse: 90 schol. A 21, 195 Erbse: 170, n. 6 schol. Ge 21, 195 Erbse: 170, n. 6 Od. 1, 184: 54, n. 108 4, 17-19: 100, n. 112 4, 240-242: 70 6, 113: 95 6, 142: 95 6, 149-152: 96, n. 100 6, 163: 96, n. 100 7, 34: 54, n. 108 7, 84: 110 8, 136: 169, n. 5 8, 259: 75, n. 39 8, 260: 75, n. 39 8, 261-264: 58 8, 262-263: 87 10, 158: 76, n. 45 10, 160: 110 11, 328: 70 11, 517-519: 70 13, 81: 76, n. 45 16, 23: 112, n. 20 16, 87: 54, n. 108

186

18, 274: 54, n. 108 19, 406-409: 133, n. 87 21, 63: 93, n. 92 21, 350-358: 93, n. 92 22, 347: 44, n. 81 23, 131-149: 100, n. 112 24, 85-86: 74 24, 86: 80 HORATIUS FLACCUS, QUINTUS Ep. I 1, 51: 74 HYMNI HOMERICI Ap. 3, 25-29: 52 3, 107: 54, n. 108 3, 371: 110 3, 374: 110 3, 514-519: 45, n. 84 3, 516: 126, n. 67; 136, n. 93 3, 516-517: 135 Bacch. 1, 8-9: 30 7, 58: 95, n. 100 26, 11-12: 116, n. 37 Cer. 2, 17: 29, n. 34 2, 188-189: 77, n. 47 2, 279: 90 2, 333: 95, n. 100 2, 494: 156, n. 65 Dian. 27, 16: 78, n. 55 Herc. 15, 1-3: 143, n. 19 Jun. 12, 1: 143, n. 19 Merc. 4, 1-3: 143, n. 19 18, 1-3: 143, n. 19 Pan. 19, 2: 43 19, 6-7: 26 19, 22: 44 19, 22-23: 50, n. 98 19, 28-31: 26 19, 37: 43 19, 45-46: 30 19, 47: 53 19, 48: 52 Ven. 5, 198-199: 54, n. 108

Index locorum

HYMNUS CURETUM IC III II, 2: 34, n. 50; 57, n. 119; 112, n. 20 IAMBLICHUS Myst. 3, 10: 47 IBYCUS PMG fr. 286: 151, n. 47 PMGF S151, 10-12: 70

8: 32, n. 45 8, 1-3: 36 8, 2: 42 8, 8-10: 36 16: 58 22: 37, n. 60 63: 84, n. 73 73: 96 83-84: 47, n. 89 [PS.-LUCIANUS] Dem.Enc. 27, 8-11: 127, n. 69

INSCHRIFTEN VON EPHESOS, DIE (IEPH) IV 1217: 42, n. 77 IV 1218: 42, n. 77 INSCRIPTIONES GRAECAE (IG) II2 3025: 85, n. 76 II2 III 4510: 115 IV2 I 129: 23, n. 13 IV2 I 130: 23 IV2 I 131: 23, n. 13 XII 5, 444: 31 ION CHIUS PMG fr. 745: 110 fr. 84, 3 Leurini: 110 ISAEUS 5, 36: 85, n. 74 ISOCRATES Ep. 4, 11, 2: 74, n. 38 ISYLLUS Pai. 40, 58 Käppel: 117, n. 41; 156, n. 65 LIMENIUS Pai. 46, 3 Käppel: 154, n. 58 Pai. 46, 38 Käppel: 162, n. 84 LUCIANUS Bis Acc. 9, 15-16: 30 10: 43 Salt. 7, 7-14: 36

LUCRETIUS CARUS, TITUS II 629-640: 36 LYCOPHRON Alex. 102: 99, n. 110 schol. Tzetz., II, p. 2, 19-20 Scheer: 81, n. 63 schol. Tzetz. 1170, II, p. 339, 15-17 Scheer: 34, n. 51 LYSIAS 21, 4: 85, n. 74 MACEDONIUS Pai. 41 Käppel: 119, n. 46 MACROBIUS Sat. I 17, 17: 136, n. 92 MAGNES fr. 5 K.-A.: 42, n. 79 MENANDER Dysc. 407-408: 49 fr. 54 K.-A.: 43, n. 79 fr. 153 K.-A.: 43, n. 79 fr. 658 K.-A.: 43, n. 79 PSI XV, 1480 (= ?Men. Theophorumene CGFP fr. *145), col. I, 8-25: 40 PSI XV, 1480 (= ?Men. Theophorumene CGFP fr. *145), col. I, 24: 41

187

Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

MENANDER RHETOR 404, 7: 98, n. 108 408, 15: 98, n. 108 408, 32: 98, n. 108 410, 23-25: 164, n. 92 MOSCHUS Europa 48-49: 88, n. 80 NONNUS D. 3, 62-63: 41 13, 149: 41 13, 149-157: 41 14, 23-35: 41 21, 100: 71, n. 27 21, 155: 71, n. 27 43, 214: 24, n. 18 OPPIANUS ANAZARBENSIS H. 3, 15-25: 27, n. 27 4, 582: 24, n. 18 ORPHICA fr. 16 Bernabé: 170 fr. 16, 2 Bernabé: 171; 172; 174 fr. 16, 3 Bernabé: 174 fr. 16, 3-4 Bernabé: 171 fr. 16, 4 Bernabé: 171 e n. 11 fr. 154 Bernabé: 171 ORPHICORUM HYMNI 6, 1: 25, n. 20 7, 8: 25, n. 20 11, 9: 51, n. 98 11, 11: 49, n. 94 21, 1: 25, n. 20 34, 6: 45, n. 84 72, 5: 25, n. 20 73, 3: 25, n. 20 PAIANES Pai. 35, 3 Käppel: 49 Pai. 36a, 37-39 Käppel: 49 Pai. 37, 4 Käppel: 117, n. 38 Pai. 37, 19-23 Käppel: 117

188

PANYASIS fr. 28 Matthews: 171 PAUSANIAS I 28, 4: 27, n. 27 I 32, 5: 127, n. 68 I 36, 1: 126, n. 68 I 36, 2: 27 VI 19, 12: 80, n. 60 VI 26, 1: 147, n. 35 VIII 10, 8: 126 VIII 17, 1: 26 VIII 38, 10: 170, n. 6 P.DERV. col. XXIII, 3: 174 col. XXIII, 3-6: 174 col. XXIII, 3-7: 170 col. XXIII, 5: 174 col. XXIII, 6: 172; 174 col. XXIII, 11: 170; 174 col. XXIII, 12: 171 PHILEMO COMICUS fr. 80 K.-A.: 43, n. 79 PHILODAMUS SCARPHEUS Pai. 39 Käppel: 143 Pai. 39, 6-7 Käppel: 143 Pai. 39, 11 Käppel: 122, n. 58 Pai. 39, 13 Käppel: 149, n. 40 Pai. 39, 144-149 Käppel: 155 Pai. 39, 145 Käppel: 155, n. 64 PHILODEMUS Piet. B 5818 Obbink: 33, n. 49 Po. I, col. 77, 15-22 Janko: 12, n. 14 IV, col. 120, 2-3 Janko: 12, n. 14 PHILOSTRATUS VA 3, 17, 13-15: 127, n. 69 PHILOSTRATUS JUNIOR Im. 4: 74, n. 35 13: 127, n. 69

Index locorum

PHILOXENUS CYTHERIUS PMG fr. 826: 38, n. 66 PHORONÍS fr. 3 Bernabé: 33, n. 49 PHOTIUS 320b, 33-37 Bekker: 59 PHRYNICHUS TRAGICUS TrGF I 3 F 13: 151, n. 47 PINDARUS I. 1, 7: 154, n. 61 1, 14: 94 1, 18: 75, n. 40 1, 29: 113 1, 32: 94 4, 16: 114, n. 28 4, 53-55: 77, n. 51 5, 7: 75, n. 40 5, 39-42: 73, n. 33 6, 19: 116, n. 35 6, 35: 77, n. 51 7, 1-15: 73, n. 33 7, 16: 114, n. 28 7, 49: 93, n. 96 8, 20: 116 8, 49-51: 37 9, 8: 75, n. 40

1, 7: 75 1, 25-42: 71, n. 26 1, 52: 83, n. 65; 95 1, 55: 114, n. 28 1, 100: 94 3, 19: 116, n. 35 3, 37: 116, n. 35 6, 4: 93, n. 93 6, 53-54: 114, n. 28 6, 79: 75, n. 40 6, 91: 87 8, 54: 94 9, 21: 94 9, 35-41: 71, n. 25 9, 72-73: 37 10, 34: 77, n. 51 10, 60-63: 73, n. 33 10, 74: 95, n. 100 10, 97: 94 11, 1-6: 69, n. 19 13, 18-22: 73, n. 33 13, 47: 67, n. 14

N. 1, 33: 94 3, 6-8: 69, n. 19 3, 42: 74, n. 38 3, 64: 93, n. 93 5, 16: 83, n. 65 5, 22-25: 87 5, 25-26: 96 6, 11-13: 75, n. 40 7, 30: 114, n. 28 7, 52: 114, n. 28 7, 93: 76, n. 45 8, 19: 83, n. 65 9, 52: 91, n. 84 10, 22-24: 75, n. 40 11, 11: 95

P. 1, 30: 105 1, 30-33: 77 1, 42: 95 2, 6: 93, n. 93 3, 75: 93, n. 93 3, 77-79: 31; 164, n. 92 4, 4: 129, n. 75 4, 14: 24, n. 19 4, 19-23: 51, n. 101 4, 32: 114, n. 28 4, 34-37: 51, n. 101 4, 70-71: 73 4, 79: 74 4, 87: 116, n. 35 4, 144: 110 5, 9: 116, n. 35 5, 30: 116, n. 35 8, 78: 74, n. 38 10, 51-52: 83, n. 65 10, 65: 76, n. 45 11, 49: 74, n. 38 12, 17: 77, n. 51 arg. a Drachmann: 50; 83, n. 68 schol. 2, 127 Drachmann: 36; 58, n. 122 schol. 3, 139a Drachmann: 23 schol. 3, 139a-b Drachmann: 32, n. 44 schol. 3, 139b Drachmann: 46, n. 86

O. 1, 1-2: 67 1, 1-7: 69, n. 19 1, 3: 75

fr. 29 Sn.-M.: 73, n. 33 fr. 29, 4 Sn.-M.: 168 fr. 52b, 34 Sn.-M.: 74, n. 38

189

Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

fr. 52b, 99-100 Sn.-M.: 136, n. 93 fr. 52d, 52 Sn.-M.: 95 fr. 52e Sn.-M.: 49 fr. 52e, 1 Sn.-M.: 119 fr. 52f Sn.-M.: 154, n. 59 fr. 52f, 15-18 Sn.-M.: 135 fr. 52f, 54 Sn.-M.: 114, n. 28 fr. 52f, 60 Sn.-M.: 74, n. 38 fr. 52g, 12 Sn.-M.: 93, n. 93 fr. 52h Sn.-M.: 154, n. 59 fr. 52k Sn.-M.: 60, n. 128; 141 fr. 52k, 1-3 Sn.-M.: 110 fr. 52k, 1-7 Sn.-M.: 109 fr. 52k, 5-7 Sn.-M.: 110 fr. 52k, 13-20 Sn.-M.: 109 fr. 52k, 15 Sn.-M.: 109 fr. 60a, 11 Sn.-M.: 114, n. 28 fr. 70b, 1-11 Sn.-M.: 33, n. 48 fr. 70b, 8 Sn.-M.: 90 fr. 70b, 8-9 Sn.-M.: 90 fr. 70b, 8-11 Sn.-M.: 32, n. 44 fr. 70b, 8-18 Sn.-M.: 90 fr. 70b 10 Sn.-M: 90 fr. 70b, 12 Sn.-M: 90 fr. 70b, 12-13 Sn.-M.: 90 fr. 70b, 13 Sn.-M.: 90 fr. 70b, 15 Sn.-M.: 90 fr. 70b, 22-23 Sn.-M.: 83, n. 68 fr. 70b, 26 Sn.-M.: 116 fr. 75, 16-17 Sn.-M.: 90 fr. 75, 18 Sn.-M.: 90 fr. 75, 19 Sn.-M.: 90 fr. 78, 2-3 Sn.-M.: 90 fr. 80 Sn.-M.: 31, n. 41 fr. 81 Sn.-M.: 71, n. 25 fr. 89a Sn.-M.: 110 fr. 95 Sn.-M.: 23; 44, n. 82; 54, n. 110; 55, n. 110 fr. 95, 1-3 Sn.-M.: 31 fr. 96 Sn.-M.: 31, n. 42; 53 fr. 98 Sn.-M.: 27, n. 27 fr. 99 Sn.-M.: 44 fr. 100 Sn.-M.: 50, n. 95 fr. 106 Sn.-M.: 69, n. 19 fr. 107b Sn.-M.: 59 fr. 107b, 2 Sn.-M.: 59 fr. 129, 1 Sn.-M.: 110 fr. 195, 1 Sn.-M.: 116 fr. 249a Sn.-M.: 90 fr. 325, 1 Sn.-M.: 76, n. 45 V. Pi. Ambr., I, p. 2, 2-4 Drachmann: 50, n. 95

190

V. Pi. Ambr., I, p. 2, 5-6 Drachmann: 23 PLATO Cra. 409b-c: 65 Euthd. 277d: 46, n. 86 Ion 533e, 8-534a, 1: 46, n. 86 534c: 57, n. 118 Leg. 700a-e: 11, n. 10 790d-e: 46, n. 86 790e: 46 796b 4-5: 36, n. 58 815a: 85, n. 74 815c-d: 31 834c 6: 74, n. 38 Menex. 240d: 127, n. 68 245a: 126, n. 68 Phaedr. 251a: 20 Prot. 322d 4-5: 156, n. 68 338a 8: 80, n. 60 Resp. 399a-c: 38, n. 64 Theaet. 209b: 43, n. 79 schol. 209b Cufalo: 43, n. 79 PLITGOODSPEED 2, fr. f, 13-14 Meliadò: 122, n. 58 PLUTARCHUS Mor. 208 D 9-E 1: 44, n. 83 293 C: 83, n. 68 299 B 2-7: 147 306 B, 5-6: 126 645 D-E: 37 747 B: 84, n. 70 748 A-C: 59 758 E-F: 30; 46, n. 86 759 A-B: 30, n. 39 Arist. 9, 4: 126, n. 68 Lyc. 22: 124 Per. 38, 3: 126, n. 66

Index locorum

[PLUTARCHUS] de mus. 1134 B-C: 58 1136 D: 11, n. 10 1137 D: 38, n. 64 POETAE MELICI GRAECI (PMG) fr. 737(a): 127, n. 69 fr. 848, 1-3: 112, n. 20 fr. 867, 3: 49 fr. 871: 117; 147; 162, n. 84 fr. 871, 1: 156, n. 65 fr. 871, 5: 147, n. 35 fr. 878: 39, n. 69 fr. 887: 44, n. 82; 55, n. 110 fr. 887, 1: 23 fr. 887, 2: 44 fr. 887, 3: 23 fr. 933: 49 fr. 933, 1: 49 fr. 934, 4: 117, n. 38 fr. 934, 19-23: 117 fr. 935: 23, n. 13 fr. 936, 3: 44 fr. 936, 5: 56, n. 115 fr. 936, 8: 56, n. 115 fr. 936, 9: 53 fr. 936, 10: 44; 56, n. 115 fr. 936, 13: 53 fr. 936, 16: 53 fr. 936, 18: 53 fr. 936, 19: 23; 49; 55, n. 110 fr. 937: 23, n. 13 fr. 937, 7: 56, n. 115 fr. 937, 8: 56, n. 115 fr. 937, 13: 56, n. 115 fr. 1027(d): 163 POLLUX, JULIUS IV 84: 83, n. 68 IV 105: 89 IV 106: 44 IV 108, 5-109, 4: 81, n. 63 IV 109: 87 PORPHYRIUS TYRIUS 408 F Smith: 16, n. 31 P.OXY. 221 col. IX, 1-3: 171 221 col. IX, 5-8: 170, n. 6

221 col. IX, 8-11: 171 1615: 29; 35; 37; 55, n. 110 2624, fr. 1: 25, n. 22 2624, fr. 1, 4: 25, n. 22 3686: 105; 113, n. 24 PRATINAS PMG fr. 708, 3: 48, n. 91 PROCLUS Chrest. 55-56, p. 47 Severyns: 59 PROPERTIUS, SEXTUS AURELIUS II 26, 46: 71, n. 26 PSI 1287, 6: 16, n. 31 QUINTUS SMYRNAEUS 1, 508: 169 1, 607: 169 4, 99a: 169 6, 286: 169 6, 584: 169 8, 7: 169 8, 25: 169 14, 127: 169 SAPPHO fr. 1, 25 V.: 111; 155 fr. 2 V.: 90 fr. 16 V.: 69, n. 19 fr. 44 V.: 98, n. 108 fr. 44, 7 V.: 96 fr. 44A, 3 V.: 114; 115, n. 32 fr. 104a V.: 97 fr. 105a-b V.: 98, n. 108 fr. 108 V.: 96, n. 100 fr. 111 V.: 98, n. 108 fr. 112, 3-4 V.: 96, n. 100 fr. 115 V.: 98, n. 108 fr. 128 V.: 96 fr. 141 V.: 98, n. 108 T 218 V.: 98, n. 108 SEMONIDES fr. 37 W.2: 43, n. 79

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

SIMONIDES PMG fr. 543, 21-22: 149 fr. 255 Poltera: 59, n. 124 SOPHOCLES Ai. 81: 21 134-136: 150 147: 54 e n. 108 165-166: 150 170: 150 172-173: 149, n. 39 172-181: 46, n. 86; 149, n. 41 173-174: 149, n. 41 175: 157, n. 69 205: 48 210: 42 332: 21 396: 54, n. 109 414: 54, n. 109 430-432: 133, n. 87 432: 48 488: 42 565: 36 575: 21 596: 95; 142 596-598: 146 597: 24 e n. 19 600: 95 609-611: 47 625-626: 47 635-640: 47 646-647: 19, n. 1 646-649: 19, n. 1 648: 19, n. 1 655: 56, n. 115 666-667: 56, n. 115 667: 19, n. 1; 56, n. 115 672-673: 19, n. 1 676: 19, n. 1 686: 20 687-689: 20 691: 20 692: 47, n. 89 692ss.: 158, n. 76 693: 21; 43; 45; 50, n. 96; 53; 60; 161, n. 81 693ss.: 25, n. 22; 158, nn. 75-76 693-694: 22, n. 9; 54 693-701: 145; 161 693-718: 19; 36, n. 60; 157; 158 e n. 78; 160 694: 22; 163, n. 89 695: 24, n. 19; 25

192

695-697: 55, n. 110 697: 55 698: 28; 50; 55 e n. 111 699: 29 e n. 34; 32, n. 45 699-701: 55 700: 28; 44, n. 81; 56, n. 115 700b: 55 701: 31; 47; 51; 55 e n. 111; 60; 146 702: 52, n. 103 702-703: 113 703-705: 25, n. 21 704: 30; 55 e n. 112 704-705: 56 705: 52; 53 706: 19, n. 1; 21; 45; 53 706-707: 22, n. 9 706-710: 111, n. 17; 160 707: 22; 56, n. 115; 163, n. 89 707-708: 54 708: 56 708-709: 19, n. 1 710: 54, n. 108; 55 711: 55 e n. 111; 56, n. 115 712: 53 712-714: 55 713: 19, n. 1; 56 e n. 115 713b: 55 714: 19, n. 1; 53; 55 e n. 111 715: 56, n. 115 715-716: 19, n. 1 717: 55 719: 29 720: 30, n. 35 720-721: 32 730: 21 828: 21 844: 157, n. 69 892: 56, n. 113; 130, n. 81 896: 21 938: 56, n. 113; 130, n. 81 1033: 21 1054: 42 1185: 130, n. 78 1186: 25, nn. 19-20 1203-1206: 21 1292: 21; 42 schol. 134a Christodoulou: 26 schol. 693a Christodoulou: 19, n. 1 schol. 694 Christodoulou: 27, n. 27 schol. 698a Christodoulou: 44, n. 81 schol. 699a Christodoulou: 34; 35 scholl. 699a-g Christodoulou: 34 schol. 699b Christodoulou: 34; 35 schol. 699c Christodoulou: 34; 35 e n. 55

Index locorum

schol. 699h Christodoulou: 44, n. 81 schol. 699i Christodoulou: 44, n. 81 scholl. 706c-d Christodoulou: 45 schol. 714-718 Christodoulou: 19, n. 1 schol. rec. 694 Christodoulou: 22 schol. rec. 707 Christodoulou: 22 Ant. 7-8: 157 e n. 69 16: 106 18: 106 97: 106 100-102: 110; 113; 129 100-104: 109 100-147: 61, n. 4 100-161: 106; 141 101: 130; 131 101-102: 130 101-104: 130, n. 80 102: 106; 132 103: 120; 129; 162 104: 132 104-105: 52, n. 103; 113; 164 105: 113; 116, n. 36; 132, n. 86 106: 130, n. 78; 131 106-107: 108 106-109: 129 107: 129; 130, nn. 78, 80 107-109: 118, n. 43 108: 108; 110; 129; 130, n. 80; 131; 132 109: 108; 113; 118, n. 43; 129; 130, n. 80 110: 105; 113 e n. 24; 120, n. 47; 132; 135; 140 110-111: 133, n. 87; 134; 152, n. 52 110-113: 105 110-116: 105; 129, n. 77 111: 131, n. 82; 133 112: 105; 113, n. 24; 131; 132; 137 112-113: 135 113: 105; 132; 135 113-114: 131 114: 105; 110; 132 116: 131 117: 132, n. 86 117-118: 108 117-123: 136, n. 91 117-126: 133, n. 89 118: 133 118-121: 130, n. 80 119: 130; 131 119-120: 130 119-122: 132 120: 120, n. 47; 129; 130, n. 78; 132; 140

120ss.: 129, n. 77 121: 108 122: 116, n. 36; 133, n. 88 122-126: 133, n. 89 123: 130, n. 78 123-126: 129 124: 130, n. 80; 133 124-126: 118, n. 43; 133, n. 89 125: 108; 129; 130, n. 80; 133; 137 125-126: 133, n. 88 126: 118, n. 43; 130, n. 80; 131, n. 82 127: 133 127-128: 122 127-130: 113, n. 24 128: 132 129: 108 130: 123, n. 61; 132 e n. 86; 137 131: 137 131-137: 122 134: 133; 134; 135; 137 134-135: 114 e n. 29 134-140: 123, n. 61 135-136: 163, n. 90 135-137: 123 136: 114, n. 29; 134 137: 114, n. 29; 117 138-139: 124 139: 134; 137 139-140: 130 140: 118, n. 43 141: 108; 132; 133 141-147: 113; 124 147: 132; 134 148: 111, n. 14; 116; 120; 123; 133 148-149: 114 e n. 29 148-151: 113 149: 106; 115; 116; 133 150: 114, n. 29 150-151: 123, n. 61 150-154: 71, n. 25 151: 114, n. 29; 117; 156, n. 65 152: 118, n. 43; 119, n. 47; 163 152-154: 27; 48; 118 e n. 43; 120; 156; 161; 163 153: 106 153-154: 134; 137 154: 118, n. 43; 134 155: 113; 114, n. 28; 120; 133 155-161: 104 159-160: 140 159-161: 120 161: 105; 134 162-163: 141, n. 11 200: 130, n. 78

193

Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

250: 91, n. 84 332: 67 332ss.: 142 332-341: 69, n. 19 334-336: 164 415-416: 106, n. 5 582-625: 61, n. 4 603: 157, n. 70 615: 25, n. 20 623: 157, n. 70 648: 157, n. 70 672: 139, n. 4 676: 139, n. 4 682-683: 157, n. 70 707: 157, n. 70 727: 157, n. 70 754-755: 157, n. 70 765: 164, n. 95 766: 165, n. 95 766-883: 164, n. 95 780: 164, n. 95 781: 24, n. 16; 68; 69; 151 781ss.: 98, n. 105 781-785: 146 781-786: 68 781-800: 68 e n. 17; 141; 150 782: 151; 154 783: 154 784: 151; 152; 163 785: 25; 164 786: 154, n. 59 787: 151; 154 e n. 59 789: 154, n. 60 790: 151 791: 154 792: 157, n. 70 793: 154 793-794: 152 795: 151 796: 65; 69 796-797: 152 799: 151 799-800: 68; 69; 151 801: 164, n. 95 804ss.: 98, n. 105 804-805: 152 806: 164, n. 95 806-882: 16, n. 30 807: 106, n. 5 810-816: 152, n. 53 844-845: 116 883: 164, n. 95; 165, n. 95 940: 140 944-987: 61, n. 4

194

963-965: 163 997: 20, n. 3 1015: 157 1114: 164, n. 95 1115: 115 1115ss.: 98, n. 105; 158, n. 76; 159 1115-1123: 146 1115-1154: 57, n. 116; 113; 141; 152; 158 e n. 76 1121: 147 1122-1125: 157 1123: 154 1123-1124: 164 1125: 154, n. 59 1126: 154 e n. 59 1131: 29, n. 34; 154 1131-1133: 30; 147 1134-1136: 155 1135-1136: 157 1140: 120; 146; 155 1140-1141: 120; 157 1141: 157 1142: 77, n. 47; 156 1142-1143: 117; 120; 148; 162 1144-1145: 145 1145: 164 1146-1154: 160; 163 1147: 120 1148: 155 1149: 28; 120; 146; 156 1150-1151: 147, n. 35 1151-1154: 120; 164, n. 92 1152-1154: 154 1154: 147 1155: 29; 140 1155ss.: 120 1183: 140 1283: 91, n. 84 1307: 20; 22, n. 11 1350-1353: 122 schol. 110 Papageorgiou: 113, n. 24 schol. 114 Papageorgiou: 131, n. 82 schol. 126 Papageorgiou: 133, n. 88 schol. 133 Papageorgiou: 123, n. 63 schol. 134 Papageorgiou: 123, n. 60 schol. 140 Papageorgiou: 130, n. 79 schol. 940 Papageorgiou: 140, n. 5 schol. 1146 Papageorgiou: 162, n. 83 El. 17-18: 129 86: 110 86-250: 16, n. 30 121: 103, n. 1

Index locorum

223: 113 472: 20, n. 2 472-515: 61, n. 4; 160 693-708: 77 721-722: 130 788: 48, n. 92 794: 48, n. 92 837: 125, n. 65 982: 157, n. 69 1066: 149, n. 41 1235: 21, n. 8 1397: 21, n. 7 1398-1406: 21, n. 7 1398-1441: 21, n. 7 1407: 20, n. 3 OC 117: 103, n. 1 129: 55, n. 111 130: 55, n. 111 138-148: 104, n. 4 161: 55, n. 111 170-175: 104, n. 4 188-191: 104, n. 4 684: 133, n. 88 694-703: 26, n. 26 715: 155, n. 64 1062: 116, n. 35 1085-1095: 150, n. 42 1313ss.: 125, n. 65 1318-1319: 123, n. 62 1466: 22, n. 11 1484-1485: 56, n. 113 1491-1495: 150 1496: 150 1498-1499: 56, n. 113 1549: 110 1556-1578: 150, n. 42 1558: 71 1559: 23 1670-1750: 16, n. 30 schol. 1049 De Marco: 20, n. 4 OT 27: 159, n. 79 151: 142 152-153: 130 153: 146, n. 30 154: 49; 119 157: 129, n. 75 158: 149, n. 41 158-167: 112, n. 21 159-163: 144 163: 28; 119 164-167: 119; 144; 155 167: 155, n. 63

186: 119 188: 129, n. 75 190-192: 145 194-196: 145 203-215: 118 209: 119 209-215: 162 213-215: 162 274-275: 52 312-313: 91, n. 86 487: 20, n. 5 489-511: 61, n. 4 896: 48; 162, n. 83 1032-1036: 133, n. 87 1086ss.: 158, n. 76 1086-1087: 20, n. 2 1086-1095: 48, n. 91 1086-1109: 158 e n. 76; 160 1089-1095: 164, n. 92 1092-1093: 154, n. 61 1092-1095: 161 1093: 119, n. 47 1096: 49; 161 1100: 26 1104: 26 1186: 142 1197-1222: 61, n. 4 1306: 20, n. 3 Phil. 135: 21 169: 103, n. 2 391ss.: 158, n. 75 391-395: 154 391-402: 68, n. 17; 154 400: 22, n. 10 676: 21 759: 22 827: 23; 119, n. 46; 142; 148 827ss.: 158, n. 75 827-829: 25, n. 21 827-831: 91, n. 86 827-832: 68, n. 17; 119, n. 46; 147, n. 35; 148 832: 119, n. 46 843: 119, n. 46 1469: 88 Trach. 1-25: 90 9: 173 11: 73, n. 35 13-14: 173 15: 61, n. 3 19: 61, n. 3; 173 20: 75

195

Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

20-25: 61 24: 61, n. 3 27-28: 94, n. 99 50: 74, n. 36 94: 76, n. 43; 142; 143 94-102: 68, n. 17; 143 95: 76, n. 43 96: 144 100: 145 102: 110 103: 144 104: 92 e n. 91 106: 76, n. 43 132-133: 76, n. 43 133: 100, n. 111 133-134: 100 141-149: 96, n. 101 202-203: 161, n. 81 205: 159, n. 78 205ss.: 158, nn. 75-76 205-224: 48; 60, n. 128; 64; 96, n. 101; 118 e n. 44; 136, n. 91; 146; 157; 158 e n. 78; 159 209-221: 50, n. 96 210-211: 118 216-220: 48; 161 220-221: 161, n. 81 221: 22; 50; 118; 136, n. 91 335: 94, n. 99 339-340: 129 359-360: 99, n. 109 441-448: 61 492-493: 72 496: 72, n. 29; 151, n. 46 497: 67; 68; 69; 71; 72; 173 e n. 19; 174 e n. 19 497ss.: 98, n. 105 497-500: 83 497-507: 63, n. 9 497-530: 62; 173 499-500: 70 500: 71 500-501: 78; 83 501: 71; 83 502: 79 503: 72 503-504: 51, n. 101; 88 504: 73; 74, n. 38; 92; 94; 98, n. 107 505: 74 506: 63; 76, n. 44 507: 67; 76; 173; 174 507-508: 90 507ss.: 92, n. 91 507-509: 67; 174

196

507-510: 83 508: 76, n. 44 509: 174 510: 77; 78 510-511: 61, n. 3 510-512: 67; 78; 173, n. 18 511: 78; 79; 83 512: 71; 78 513: 77; 88 513-514: 51, n. 101; 88 513-516: 88, n. 80 514: 74; 79; 86; 94 e n. 99 515: 68; 69; 80; 86; 151, n. 46; 152, n. 54 516: 63; 65 517: 75, n. 39 517-518: 62 519-522: 63 520: 89; 90; 92 522: 92 523: 72; 92 e n. 88; 94; 96 523-525: 51, n. 101; 94 524: 92, n. 88 525: 61, n. 3; 71; 92 e n. 89; 94 525-527: 92, n. 89 526: 62, n. 5; 72; 92, n. 89; 93; 94 e n. 99; 99 527: 72; 76, n. 44; 92 e n. 89; 94 527-528: 51, n. 101; 61, n. 3; 94 528: 62, n. 5; 92, n. 89; 94 e n. 99 529: 92, n. 89; 100, n. 111 529-530: 63; 92, n. 87 530: 92, n. 89 531: 92 536: 98 539: 94, n. 99 633: 142 633-662: 158; 160 640-643: 161 647: 143 647-662: 63, n. 7 648: 94, n. 99 652: 74, n. 36 653-654: 53 654: 53, n. 106 660: 74, n. 36 661: 74, n. 36 662: 53, n. 106 770-771: 41, n. 73 771: 41, n. 73 821: 100, n. 111 842: 76, n. 43 849-850: 76, n. 43 861: 80

Index locorum

893-895: 76, n. 43 947-948: 76, n. 43 947-952: 16, n. 30 950-951: 76, n. 43 958: 100, n. 111 1044: 20, n. 3 1086: 110 1147-1148: 91, n. 86 schol. 497c Xenis: 67, n. 14 schol. 501 Xenis: 71 schol. 504 Xenis: 73 schol. 506 Xenis: 74; 75, n. 39 schol. 508 Xenis: 76, n. 45 schol. 513 Xenis: 88 schol. 515-516 Xenis: 80, n. 60 schol. 520c Xenis: 91, n. 84 schol. 527 Xenis: 96, n. 100 schol. 529 Xenis: 97, n. 103 TrGF IV F 355: 20, n. 5 TrGF IV F 364: 33, n. 49 TrGF IV F 371: 146; 154 TrGF IV F 409-418: 37 TrGF IV F 450: 38, n. 67 TrGF IV F 583, 8: 97, n. 102 TrGF IV F 583, 11: 99 TrGF IV F 644: 38, n. 67 TrGF IV F 648-669: 71, n. 26 TrGF IV F 658: 133, n. 87 TrGF IV F 684: 68, n. 16 TrGF IV F 684, 3: 164, n. 93 TrGF IV F 773, 1: 132 TrGF IV F 862: 30 TrGF IV F 941: 164, n. 93 TrGF IV F 941, 13: 68, n. 16 TrGF IV F 941, 15-16: 68, n. 16 TrGF IV F 959: 30, n. 36 TrGF IV F 959, 1-3: 147 TrGF IV F 965: 133, n. 87 TrGF IV F 1133, 51, 1: 24, n. 18 TrGF IV T 1, 17-19: 127, n. 70 TrGF IV T 1, 22-23: 87 TrGF IV T 1, 95-97: 38, n. 66; 63, n. 8 TrGF IV T 2, 3-5: 87 TrGF IV T 2, 6-7: 127, n. 69 TrGF IV T 2, 7: 17, n. 32 TrGF IV T 28: 84, n. 71 TrGF IV T 28, 3-4: 127, n. 70 TrGF IV T 67-69: 115 TrGF IV T 73: 115 TrGF IV T 73a: 127, n. 69 TrGF IV T 73b: 127, n. 69 TrGF IV T 99a, 4-6: 38, n. 66; 63, n. 8 TrGF IV T 154a: 16, n. 31

TrGF IV T 154b: 16, n. 31 TrGF IV T 174, 12-14: 127, n. 69 TrGF IV T 175a-b: 16, n. 31 PMG fr. 737(b): 115; 127, n. 69 PMG fr. 737(b), 6: 115 STESICHORUS PMGF fr. 210: 118, n. 42 STRABO IX 3, 10: 83, n. 68 X 3, 7: 30, n. 35; 33; 41, n. 76 X 3, 7 – 22: 33 X 3, 11-15: 34 X 3, 12: 38, n. 63 X 3, 13: 34, n. 50 X 3, 19: 33, n. 49; 41 e nn. 74, 76 X 4, 16: 36, n. 58 XV 1, 7: 147, n. 33 STRATTIS fr. 36 K.-A.: 43, n. 79 SUDA a 1241 Adler, s.v. aJlivplagkto~: 27, n. 27 a 4488 Adler, s.v. aujtodah`: 44, n. 81 e 3967 Adler, s.v. e[frixa: 45, n. 85 n 619 Adler, s.v. Nuvsia: 29; 35 p 1617 Adler, s.v. Pivndaro~: 47, n. 87 s 815 Adler, s.v. Sofoklh`~: 17, n. 32; 87; 127, n. 69 SUPPLEMENTUM EPIGRAPHICUM (SEG) XXVIII 225: 115

GRAECUM

SUPPLEMENTUM LYRICIS GRAECIS (SLG) S 387: 25, n. 22 S 387, 4: 25, n. 22 TELESTES PMG fr. 810: 38, n. 64 THEMISTIUS Or. 26, 316d: 112

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Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle

THEOCRITUS 1, 123-124: 23; 145 15, 149: 116, n. 37 18, 1-8: 100, n. 112 18, 13: 97 18, 19: 98, n. 105 18, 26-31: 98, n. 108 18, 38: 96, n. 100 18, 41-42: 97 18, 50-53: 24, n. 17 22, 183: 79, n. 59 24, 7-9: 149 schol. 5, 14-16b Wendel: 27, n. 27 THEOGNIS 712: 110 776-779: 135, n. 91 1345-1350: 71, n. 26 THUCYDIDES I 54, 2: 125 II 91, 2: 124; 126 II 92, 5: 125 V 50, 4: 80, n. 60 VII 44, 6: 124 VII 54: 125 schol. I 50, 5 Hude: 124

198

TIMOTHEUS PMG fr. 791, 100-106: 40 PMG fr. 791, 116-117: 40 PMG fr. 791, 123-129: 40 PMG fr. 791, 196-201: 126 PMG fr. 791, 197-198: 136, n. 91 PMG fr. 791, 199-201: 136 TZETZES, JOANNES de trag. 114-116, p. 105 Koster: 57, n. 117 XENOPHANES fr. B 1, 21-23 W.2: 70 XENOPHON Ages. II 17, 7: 44 An. IV 8, 27: 74, n. 38 V 4, 12: 89, n. 82 VI 1, 11: 126, n. 67 Cyr. IV 1, 6: 124 Hell. VII 2, 15: 125

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DRAMA

Neue Serie · Band 12

Studien zum antiken Drama und zu seiner Rezeption Herausgegeben von Bernhard Zimmermann

Quale rapporto esiste tra i generi lirici e le tragedie di Sofocle? Per quali vie si innestano nelle sezioni cantate dei suoi drammi le forme e gli stili dell’inno, dei peani, dei ditirambi, degli iporchemi, e come vengono rese certe ‘atmosfere da epinicio’? Il fine dell’indagine che qui si propone è quello di gettare luce sulla stretta relazione che intercorre tra la produzione lirica di età arcaica e classica e le sezioni corali della tragedia sofoclea (parodoi e stasimi); i capitoli che compongono il volume mirano a chiarire il dialogo e il legame di appartenenza che il poeta stabilisce con la tradizione, attraverso l’utilizzo di stilemi noti e condivisi (lessico dedicato, formulae, elementi sintattici, vocabolario specifico), ma anche la sua autonomia nel trasformare materiali tipicamente di genere in nuove forme di poesia. Andrea Rodighiero insegna Lingua e Letteratura greca all’Università di Verona. Ha pubblicato versioni commentate dell’Edipo a Colono (1998) e delle Trachinie di Sofocle (2004). Tra i suoi ultimi lavori: una monografia dedicata alla fortuna dell’Edipo a Colono (Una serata a Colono. Fortuna del secondo Edipo, Verona 2007) e la traduzione del Ritorno di Rutilio Namaziano (Torino 2011).