Studi americani. Modi di produzione a Hollywood dalle origini all'era televisiva 8831761374, 9788831761376

In occasione del centenario del cinema, La Rassegna Internazionale Retrospettiva ripercorre le tappe americane della sua

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Studi americani. Modi di produzione a Hollywood dalle origini all'era televisiva
 8831761374, 9788831761376

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Nuovocinema

Studi Americani Modi di produzione a Holly wood dalle origini all 'era televisiva .1 cura di Viro Zagarrio

Saggi Marsilio

© 1994 BY MARSILIO EDITORI *

S.P.A. IN VENEZIA

Il presente volume è edito in occasione della XIII Rassegna Internazionale Retrospettiva: “100% CINEMA", Pesaro, 10-15 dicembre 1994

Si ringraziano Riccardo Redi, Luigi Panichelli e Steven Ricci

ISBN 88-317-6137-4

Prima edizione: dicembre 1994

INDICE

VII

Introduzione di Vito Zagarrio LE ORIGINI DI HOLLYWOOD, LA PARAMOUNT E DeMILLE

3

II modo di produzione della “Early Hollywood” e le alternative europee di Kristin Thompson

27

La produzione Paramount a New York di Richard Koszarski

35

DeMille: l’alibi letterario e il pretesto storico di Philip Rosen

61

The King of Kings: la “proprietà” della storia di Cristo di Richard Maltby

LA COLUMBIA E CAPRA 87

Columbia Pictures: la creazione di una major di Tino Balio

107

Capra, “King Cohn” e la Columbia di Thomas Schatz

133

Un salto nel vuoto: l’apprendistato di Frank Capra all’ideologia di Robert Sklar

V

INDICE

153

Accadde una notte: la “ri-creazione” del patriarca di Richard Maltby

183

Capra e il Codice di Lea Jacobs

LA METRO-GOLDWYN-MAYER 195

La “Tiffany” degli Studios: la MGM negli anni Trenta di Tino Balio

229

MGM inedita di William K. Everson

WARNER, RKO, MONOGRAM: I B MOVIES

237

Figli della Depressione: la nascita dei B movies a Hollywood di Tino Balio

249

Lo sconosciuto del terzo piano: come prendere i B movies sul serio di Kristin Thompson

263

I B movies e il discorso di Hollywood sul pubblico di Janet Staiger

271

Il B movie e il problema della distinzione culturale di Lea Jacobs

285

I B movies della Warner Bros, di Robert Sklar

295

I B movies della RKO di Richard Jewell

HOLLYWOOD AL TEMPO DELLA TELEVISIONE 311

Hollywood contro la televisione: “rinascimenti” stilistici di Jean-Loup Bourget

319

L’utopia ovvero i mondi possibili di Annette Michelson

333

L’analisi e l’immagine: alla ricerca di una pratica radicale di Michael Renov

345

Melodramma e “temporalità” di Thomas Elsaesser VI

INTRODUZIONE

U cinema compie cent’anni. E la Rassegna Internazionale Retrospettiva con questo volume paga il suo tributo al centenario, ripercorrendo le tappe americane della sua ricerca da tredici anni ormai dedicata — con una fissazione forse maniacale, ma che ha consentito di guardare in mo­ do diverso al cinema, anche in Italia — ai “modi di produzione”. Modi di produzione — è bene ribadirlo — non soltanto nel senso della storia dell’industria cinematografica, e certo non in una contrapposizione tra “strutture” economiche e ipotetiche “sovrastrutture” estetiche; ma piuttosto nel senso del rapporto di feed back, di interscambio che esiste tra apparati finanziari, sistemi produttivi, organizzazione del lavoro, specializzazione dei ruoli, sviluppo delle professionalità, e risultato fi­ nale del film, “opera”, “poetica”, “stile”. Gli “studi americani” d’altronde hanno rappresentato in questi anni il filo rosso della Retrospettiva; un filo dipanato in rassegne, convegni, volumi: la Warner Bros, (libro corrispondente: Hollywood: lo studio sy­ stem), il passaggio dalla golden age della Hollywood classica alla golden age della televisione americana (Hollywood verso la televisione), la crisi di Hollywood e la nascita del telefilm (Hollywood in progress), la Para­ mount delle origini e Cecil B. DeMille (Il piti grande spettacolo del mon­ do), la Columbia della Depressione e Frank Capra (Accadde una notte), gli anni Cinquanta tra pratiche alte e pratiche basse, con il fenomeno del B movie (B Dreams). Una serie di convegni e di seminari, poi, hanno avvicinato la ricerca statunitense a quella italiana, facendo della Rasse­ gna (nei suoi vari luoghi di peregrinazione: Ancona, Siena, Pesaro) un VII

INTRODUZIONE

punto d’incontro della cultura cinematografica sulle due sponde dell’Atlantico; tanto che, in una delle tavole rotonde, gli invitati americani sono intervenuti per dare il loro punto di vista sul cinema italiano (“lo sguardo degli altri’’). A questi studiosi americani, divenuti ormai ospiti fissi, in una sorta di “compagnia di giro” convegnistica, si rende soprattutto omaggio in questo volume, anche se numerosi, ovviamente, sono stati gli italiani intervenuti ai vari appuntamenti di dibattito (alcune relazioni sono già pubblicate in Italia, altre speriamo di raccoglierle in seguito). Così che questo libro, nel mettere insieme gli atti dei convegni sul cinema ameri­ cano organizzati negli ultimi anni — rimontandoli in ordine cronologi­ co e non nella sequenza con cui sono avvenuti —, finisce col raccogliere .il fior fiore della ricerca statunitense (o anglosassone) sul cinema. Stori­ ci tradotti anche in Italia, come Robert Sklar, autore del noto Cinemamerica e del recentissimo Film. An International History of the Medium. Teorici del “modo di produzione”, come Janet Staiger e Kristin Thompson, coautrici, insieme a David Bordwell, del fondamentale The Classical Hollywood Cinema: Film Style and Mode of Production to 1960. Esperti dello studio system, come Tino Balio (The American Film Indu­ stry) o Thomas Schatz (Hollywood Genres, The Genius of the System). Specialisti della storia di una major come Richard Jewell (la RKO), cine­ fili e collezionisti ultranoti, come William K. Everson, raffinati teorici (Annette Michelson, Thomas Elsaesser), esponenti di una nuova onda di studiosi sospesi tra teoria e storia (Philip Rosen, Richard Maltby, Lea Jacobs). E infine, accanto ad americani e britannici, un francese espertissi­ mo, però, di cose americane come Jean-Loup Bourget (Il cinema ameri­ cano. Da David W. Griffith a Francis F. Coppola). Da. questa formazione di studiosi viene anche il gioco di parole che è contenuto nel titolo di questo volume: “Studi Americani” nel senso di Studios — le Case hollywoodiane majors e minors qui esaurientemen­ te rivisitate —, ma anche di studies, di ricerca, di analisi, di lavoro storico-critico, di elaborazione teorica.

Nell’ambito, dunque, del concetto di “modo di produzione” sopra chiarito, il discorso sugli Studios si intreccia con quello sui percorsi in­ dividuali, sui “talenti” (i registi, ma anche gli attori, gli sceneggiatori, il personale creativo), sulle dinamiche d’autore. Vili

INTRODUZIONE

Così la storia della Paramount si incrocia necessariamente con quella di DeMille — che a sua volta incontra la MGM. Così la storia della Co­ lumbia non può prescindere da quella del suo emblematico director Ca­ pra. E la Metro-Goldwyn-Mayer (che celebra nel 1994 il suo settantesi­ mo anniversario e a cui la Rassegna Intemazionale Retrospettiva dedica uno speciale omaggio) si incarna, sì, nei maestri della mise en scène — i Vidor i Cukor, i Minnelli —, ma anche nei maestri della produzione — i Mayer, i Thalberg, i Goldwyn. Come nelle favole che si rispettano — e quella di Hollywood è la fa­ vola per eccellenza —, nella storia troneggiano alcuni “re”: “King” Cohn (il despota della Columbia che fa assonanza con King Kong), King Vidor (U regista di Alleujahty, The King of Kings (il film di DeMil­ le), e anche il “Re buono” incarnato in alcuni eroi (Clark Gable in It Happened One Night, ad esempio, secondo Maltby, è il Good King delle favole, “King” Gable, re del popolo). Ma se ci sono re ed eroi, stelle e dei, in questa storia americana ci sono anche protagonisti più anonimi, come i registi e gli attori, i mestie­ ranti dei B movies, cui questo libro dà ampio risalto spiegando le ragioni produttive di queste cosiddette “pratiche basse”, prendendo questo fe­ nomeno — come suggerisce di fare Kristin Thompson — “sul serio”. Strutturazione dei generi, organizzazione dello star system, rapporto tra produttore dello Studio e house director, spesso in cerca di una sua indipendenza: il libro ripercorre lo sviluppo di Hollywood, che si evolve all’insegna della continuità ma a volte anche della rottura. Si prendano i conflitti all’interno dello studio system, evidenziati dai saggi di Sklar e di Schatz, oppure i “mondi possibili”, quelli dell’avanguardia o delle alternative produttive potenziali, fatti balenare dai saggi di Annette Michelson e di Renov. Insomma, Studi americani ripercorre la storia dell’industria cinema­ tografica americana dalle origini sino all’era televisiva, quando cioè il nuovo medium modifica profondamente le coordinate su cui il “siste­ ma” era fondato. La storia di Hollywood, dunque, finisce con l’identi­ ficarsi e col confondersi con quella del Novecento, che questo volume ripercorre attraverso il leit motiv filmico, dal cinema “primitivo” a quello adulto degli anni Sessanta. Il libro si ferma volutamente in quel­ l’epoca di “transizione” e di “rinascite”, come dice Bourget nel suo saggio. Anche Bordwell-Staiger-Thompson, del resto, si fermano agli anni Sessanta; ma la ragione è pure che sul cinema americano degli anni Settanta e Ottanta i volumi della Mostra Internazionale del Nuovo Ci­ IX

INTRODUZIONE

nema di Pesaro (di cui la Rassegna Internazionale Retrospettiva è parte integrante) sono intervenuti in abbondanza (si vedano, ad esempio, Hollywood 1969-1979, 3 voli., e Off Hollywood!. Dunque, il libro copre un periodo ancora mancante al progetto edi­ toriale della Rassegna, completa il panorama degli Studios iniziato nel 1982 con la riscoperta della Warner Bros., ma spera anche di reimpo­ stare un discorso teorico, una strategia analitica. Ad esempio, si può dire che le relazioni raccolte nel volume (e ov­ viamente la maniera con cui sono state a suo tempo commissionate) disegnano un’“area” di elaborazione teorica, un territorio, uno spazio di ricerca che potremmo idealmente identificare in un quadrato: ai quattro vertici, quattro ‘‘angolazioni”, quattro punti di vista, diversi ma complementari, per una indagine sulla storia del cinema: a) autoria­ lità; b) modo di produzione; c) studio system; d) storia e ideologia; que­ sto è il frame che può inquadrare, nelle sue “dissolvenze incrociate”, nei suoi intrecci, nelle sue connessioni, il piano di lavoro dei saggi qui contenuti. Si prenda il contributo di Richard Maltby che, nel ricostruire la storia produttiva del film di DeMille, The King of Kings, ridisegna an­ che uno spaccato storico dell’America anni Venti, tra ideologia e reli­ gione, dove il cinema diventa strumento di educazione e di propagan­ da; ma, insieme, Io studio affronta il tema teorico dei rapporti tra let­ teratura e cinema (il film viene da un testo di Barton), tra film e studio system (il modo in cui viene ingaggiato DeMille, il ruolo della star Ai­ mee Semple McPherson, ecc.), tra autorialità e rete di rapporti ideolo­ gici. Si prenda ancora il taglio con cui Robert Sklar affronta 1’“apprendi­ stato all’ideologia” di Capra; non solo il regista italoamericano è visto nel contesto dell’emigrazione e della Depressione, ma è posto anche al centro di un intreccio che vede muoversi “attori sociali” importanti, come i fratelli Giannini della Bank of America, o David Belasco, grande impresario e “committente”, veicolatore di visioni sceniche e di ideolo­ gia sottesa. Sempre su Capra, si veda il pezzo di Thomas Schatz, che coniuga stu­ dio system e authorship, dimostrando come le fortune del regista siano legate a quelle dello Studio, e fotografando, attraverso la storia della Columbia, anche un pezzo di storia degli Stati Uniti. Dietro un film, del resto, si può cogliere sempre l’indizio di uno X

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spaccato storico e di un immaginario collettivo: da It Happened One Night, ad esempio, Maltby ricava la suggestione, sospesa tra storia e psi­ canalisi, di un desiderio di “paterno” espresso dall’America post-Depressione. Nella “ricreazione” del “patriarca” (il gioco tra “creazione” e “ricreazione” è voluto) si incarna non solo il burbero re padre delle favole, ma anche la figura carismatica di Roosevelt. E dietro il semplice plot di Ladies of Leisure c’è in realtà una comples­ sa trama di rapporti ideologici: lo Studio Relations Committee, il Codi­ ce di produzione, l’autocensura, lo stereotipo delle fallen women (le donne perdute) che Lea Jacobs analizza mescolando storia istituzionale, femminismo e psicanalisi. Tra storia e teoria sono strutturati gli studi di Philip Rosen e di Kri­ stin Thompson. Rosen ricostruisce la standardizzazione del lungome­ traggio come prodotto di punta dell’industria cinematografica, e insie­ me analizza i rapporti tra cinema e letteratura (“l’alibi letterario e il pretesto storico”). La Thompson studia l’evoluzione della “macchinacinema” nel cinema americano delle origini (gli americani lo chiamano early cinema e i francesi cinéma primitif), che si struttura e si organizza come industria: analizza i ruoli dei mestieri cinematografici (interessan­ te, ad esempio, l’evoluzione dei cutters, i “tagliatori di pellicola”, che diventano man mano editors, cioè montatori “creativi”), e, soprattutto, mette in relazione il “modo di produzione” statunitense con le alterna­ tive europee. Dal confronto emergono due diverse organizzazioni del lavoro, due filosofie del cinema differenti: quella “Studio-centrica” americana e quella “Autore-centrica” europea, scelte che sottendono anche due opposte ipotesi di sviluppo del cinema avvenire. “Prodotto merceologico” e “opera”; studio system e metteur en scè­ ne. Questi sono i poli tra cui oscilla l’ago analitico dei vari saggi. Tino Balio fornisce informazioni essenziali a una completa ricostru­ zione storica dell’industria americana, dei suoi generi, dei suoi appara­ ti, dei suoi impianti economico-politici (la formazione della Columbia, la strutturazione della MGM, ecc.). Ma persino la tradizionale storia dell’industria hollywoodiana viene, nel volume, rivisitata. Se ne colgo­ no aspetti inediti come la storia della Paramount nella East Coast trac­ ciata da Richard Koszarski. Oppure angolazioni nuove, come quella data da William K. Everson nel suo inusuale panorama di una MGM sconosciuta, fatta, oltre che dal glamour dei grandi Autori e dei grandi Divi, anche da un sottobosco di personaggi, di prodotti e di toni “miXI

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nori” che fanno, però, anche la complessità e la ricchezza del tessuto storico. Perché la storia del cinema è come la storia della letteratura, dell’arte visiva, della poesia: per scoprire i grandi “talenti”, per disegnare una politique des auteurs, bisogna identificare, analizzare, storicizzare, an­ che una mappa dei “minori”; solo da questo — a volte anonimo, appa­ rentemente indegno — tessuto di relazioni e di lavoro, emergono poi i “maggiori”, gli autori più rappresentativi ed originali. Da qui, anche, l’insistenza sul B movie (affrontato nei saggi di Ever­ son, Balio, Sklar, Thompson, Staiger, Jacobs, Jewell); vuoi per dare il polso di un recupero storico che se ne è fatto negli ultimi anni, vuoi per indicare uno spazio di nuove riflessioni sul complesso intrecciarsi degli elementi che citavamo sopra: identificazione di autori possibili, indivi­ duazione di meccanismi industriali tradizionali o alternativi, riscrittura di un contesto di apparati delle Case cinematografiche e delle istituzio­ ni statali e sociali. Insomma, la possibilità di una riformulazione — che è l’ambizione di questo libro — di un universo di “storie” e di “Storia”. «Lo studio dell’industria cinematografica è appena cominciato», scri­ veva Ed Buscombe in un famoso saggio sulla Columbia (Notes on Co­ lumbia Pictures Corporation, 1926-1941), apparso su «Screen» nel 1975. L’osservazione è ancora valida, nonostante siano passati molti anni e siano state fatte molte ricerche, e può essere letta come un invito a un metodo eclettico-e sinergico. Si cercano volontari per continuare l’av­ ventura della ricerca, tra studi e Studios americani. Vito Zagarrio

XII

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Nota bibliografica Jacques Aumont, Michel Marie, Lfanalyse des film, Paris, Nathan Université, 1992 A. Scott Berg, Goldwyn, A Biography, New York, Ballantine Books, 1989 David Bordwcll, Making Meaning, Cambridge (Mass.) - London, Harvard University Press, 1989 David Borwell, Janet Staiger, Kristin Thompson, The Classical Hollywood Cinema: Film Style and Mode of Production to I960, London, Routledge & Kcgan Paul, 1985. Giuliana Bruno, Streetwalking on a Ruined Map, Princeton (NJ.), Princeton University Press, 1993 John Douglas Eames, The MGM Story, London, Octopus Books Ltd., 1975, 1979 Joel W. Finler, The Hollywood Story, London, Octopus Books Ltd., 1988 Douglas Gomery, The Hollywood Studio System, New York, St. Martin's Press, 1986 Peter Hay, MGM. When the Lion Roars, Atlanta (GA), Turner Publishing Inc., 1991 Stuart M. Kaminsky, Generi cinematografici americani, Parma, Pratiche Editrice, 1994 Paul Kerr, The Hollywood Film Industry, London, Routledge & Kcgan Paul/British Film Insti­ tute, 1986 Franco La Polla, Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood, Bari, Laterza, 1987 Ethan Mordden, The Hollywood Studios, New York, Fireside, 1988 Robert B. Ray, A Certain Tendency of the Hollywood Cinema, 1930-1980, Princeton (N.J.), Princeton University Press, 1985 Thomas Schatz, The Genius of the System: Hollywood Filmakking in the Studios Era, New York, Pantheon Books, 1988 Robert Sklar, City Boys. Cagney, Bogprt, Garfield, Princeton (N.J.), Princeton University Press, 1992 Robert Sklar, Film. An International History of the Medium, New York, Harry N. Abrams, Inc. Publishers, 1993

xni

LE ORIGINI DI HOLLYWOOD, LA PARAMOUNT E DeMILLE

KRISTIN THOMPSON v

IL MODO DI PRODUZIONE DELLA “EARLY HOLLYWOOD” E LE ALTERNATIVE EUROPEE

Il concetto di modo di produzione si è rivelato utile nello studio del rap­ porto fra stile filmico e industria cinematografica. L’importante studio di Janet Staiger sulla storia del modo di produzione di Hollywood rap­ presenta un modello di come uno storico possa spiegare la produzione cinematografica hollywoodiana a livello di sistema e non semplicemente in modo descrittivo. Nella seconda parte di The Classical Hollywood Ci­ nema l’autrice analizza quell’era nella storia hollywoodiana che riveste una maggiore rilevanza rispetto al nostro contesto: la fine del primo de­ cennio del secolo e gli anni Venti. Il mio intento è quello di offrire una prospettiva diversa sul sistema che la Staiger descrive in dettaglio, met­ tendolo brevemente in rapporto con alcuni aspetti che hanno caratteriz­ zato il modo di produzione di altri paesi importanti a livello cinemato­ grafico nella stessa epoca: la Francia, la Germania e l’Unione Sovietica. Ciascun paese utilizza metodi di produzione che differiscono significa­ tivamente da quello hollywoodiano. Tali differenze chiariranno, alme­ no spero, la produzione dei tre paesi suddetti; in particolare rappresen­ teranno un contributo alla comprensione del perché importanti movi­ menti di avanguardia stilistica riuscirono ad affermarsi brevemente in tutti e tre i paesi mentre le possibilità lasciate alla sperimentazione ri­ sultarono molto più limitate ad Hollywood. Vorrei soffermarmi su due aspetti della produzione hollywoodiana. Innanzitutto la Staiger sottolinea il ruolo del continuity script (cioè della sceneggiatura articolata in funzione della produzione e delle riprese) co­ me “memoria scritta”, fondamentale in quanto consentiva ai produtto­ 3

KRISTIN THOMPSON

ri di prevedere i costi e di controllare le singole fasi della produzione. Secondariamente, e in stretto nesso con quanto appena ésposto, va con * siderato il fatto che l’introduzione del continuity script rese possibile la ripartizione dei singoli compiti all’interno degli studios hollywoodiani. Si poterono assegnare compiti diversi a specialisti non più obbligati a lavorare in stretta collaborazione, nella misura in cui apprendevano dal­ la lettura del continuity le modalità del proprio intervento. Nella fase successiva alle riprese, ad esempio, un montatore era in grado di monta­ re centinaia di riprese numerate fino ad ottenere un film, spesso rice­ vendo indicazioni minime da parte del regista,, grazie al fatto che aveva accesso alla memoria scritta completa dell’intera produzione. Il conti­ nuity divenne uno standard a partire dal 1914. Secondo il resoconto della Staiger, l’inizio del secolo fu caratterizza­ to dalla grande enfasi posta sull’efficienza degli studios americani. Tale enfasi si diffuse a partire dal 1914, anno della standardizzazione del si­ stema di produzione incentrato sulla figura del produttore. In tale siste­ ma il regista non era più responsabile della supervisione dell’intera pro­ duzione (della scelta del soggetto e del casting, delle riprese, del montag­ gio e così via). Era invece il produttore a supervisionare il film dall’ini­ zio alla fine. Il regista aveva una qualche voce in capitolo nelle fasi di pianificazione e montaggio anche se era responsabile soprattutto della fase delle riprese. (Come sostiene giustamente la Staiger, alcuni registi, grazie al proprio potere, mantennero il controllo su tutte le fasi della produzione e il sistema hollywoodiano fu spesso sufficientemente flessi­ bile da accontentarli. A questo riguardo è d’obbligo ricordare i nomi di D.W. Griffith, Charles Chaplin e Cecil B. DeMille) *. La tendenza verso l’efficienza e il controllo comportò una maggiore ripartizione dei diversi compiti fra i rispettivi professionisti. All’inizio del secolo, gli studios americani non disponevano soltanto di diparti­ menti specializzati nella sceneggiatura. Questi ultimi, a loro volta, era­ no articolati secondo competenze specifiche. Alcuni scrittori si occupa­ vano precipuamente della trascrizione in continuity dei soggetti o dei trattamenti. Precedentemente il regista era stato il responsabile dello shooting script, l’edizione finale della sceneggiatura numerata scena per scena. La tesi della Staiger è che «un processo di standardizzazione di tale portata rappresentò, al di là di ogni dubbio, un argine all’innova­ zione e contribuì all’affermazione generalizzata dello stile classico hol­ lywoodiano». Anche all’altro estremo del processo produttivo, nella fase del mon4

IL MODO DI PRODUZIONE DELLA "EARLY HOLLYWOOD"

taggio, si andava affermando una sempre più dettagliata divisione dei compiti. All’inizio del secolo, i cutters (vale a dire i primi, non specializ * zati, montatori) assemblavano la copia lavoro in base a un semplice con­ tinuity. Nel giro di pochi anni, comunque, la sempre maggiore comples­ sità delle direttive dettate dal continuity e la crescente lunghezza dei film richiese una maggiore specializzazione nel montaggio. Alla metà del primo decennio, c’erano montatori e cutters in grado di lavorare in base al continuity e alle annotazioni dell’addetto alla sceneggiatura rela­ tive a quanto era accaduto durante le riprese. Talvolta il regista era coinvolto da vicino nel processo del montaggio ma in altre occasioni po­ teva limitarsi a prendere alcune decisioni o affidare completamente il compito al personale specializzato2. Se paragoniamo questa modalità alla situazione dell’industria cine­ matografica in Francia, Germania e Unione Sovietica, molte similitù­ dini saltano agli occhi. Non ci sorprende il fatto che fossero tutte ca­ ratterizzate da un certo livello di divisione del lavoro che interessava i registi, gli scenografi, gli operatori e così via. Un’interessante diffe­ renza è però immediatamente evidente. Sembra che non ci fossero quasi montatori in senso hollywoodiano, persone che avrebbero dovu­ to seguire la sceneggiatura e prendere decisioni in merito al taglio del materiale girato. C’era di solito una sorta di assistente, o cutter, che si occupava della giuntura delle scene girate nella giornata e affiancava la persona incaricata del montaggio, il regista. Perché questa carenza di montatori? Se cerchiamo una risposta a tale questione nei brani che la Staiger dedica ad Hollywood, risulta subito chiaro come in tutti e tre i paesi europei il regista mantenesse in ogni fase della produzione un maggior controllo rispetto alla consuetudine hollywoodiana. In realtà, il conti­ nuity o sceneggiatura non era utilizzato nello stesso modo che a Holly­ wood, sebbene ciascun paese fosse caratterizzato da un approccio diver­ so. In generale, mi sembra che il sistema incentrato sulla figura del pro­ duttore non avesse ancora preso piede in nessuno dei tre paesi europei all’indomani della guerra. I registi continuavano ad essere i responsabili di numerose decisioni a livello di sceneggiatura. La sceneggiatura stessa rappresentava una limitazione minore all’iniziativa del regista durante la fase delle riprese. Inoltre, i registi erano praticamente i soli responsa­ bili del montaggio. Come è ovvio, profonde sono le differenze esistenti fra paese e paese; il sistema tedesco era più vicino al modo di produzio­ ne hollywoodiano di quanto non lo fossero quello francese o sovietico. 5

KRISTIN THOMPSON

Ancora, le fonti dell’epoca rivelano come in tutti e tre i paesi la diffe­ renza con Hollywood fosse consapevole e che quel sistema rappresen­ tasse un modello per tutti. Francia

Alla fine della prima guerra mondiale, la produzione francese sembra essere in gran parte organizzata secondo il modello hollywoodiano, de­ finito dalla Staiger director unit system, un sistema che aveva conosciuto la massima diffusione all’incirca fra il 1909 e il 1914. Una società di produzione francese disponeva di diverse unità produttive, ognuna del­ le quali era diretta da un regista che si assumeva i compiti ritenuti oggi tipici del produttore. Inoltre, molte società di produzione francesi di modeste dimensioni erano costituite da singoli registi che svolgevano anche la funzione di produttori. Nel 1917 Charles Pathé pubblicò un saggio fondamentale, La crise du cinema, in cui attribuiva la responsabilità dei problemi che affligge­ vano l’industria francese alla «crisi delle sceneggiature». Un’idea che potrebbe essere facilmente accantonata come un errore di valutazione da parte di Pathé, il concetto lapalissiano che a sceneggiature migliori corrispondano film migliori3. Eppure è chiaro come Pathé stesse in ef­ fetti parlando a favore del continuity in stile americano che avrebbe mi­ gliorato l’efficienza produttiva. La maggior parte delle sceneggiature da lui lette, sosteneva, «erano, a mio avviso, insufficientemente sviluppa­ te. Niente dovrebbe essere lasciato all’improvvisazione. Secondo i miei calcoli, la quantità di lavoro necessaria a sviluppare una sceneggiatura adatta ad un film di quattro o cinque rulli corrisponde a un libro di 200-250 pagine». Pathé sosteneva che sceneggiature di questo tipo ri­ chiederebbero tempi di scrittura più lunghi, ma comporterebbero tempi ridotti di lavoro sul set, esattamente quello che la Staiger considera uno degli obiettivi del continuity americano. Secondo Pathé, ogni scena do­ vrebbe essere descritta in dettaglio, mentre la distanza della macchina da presa, gli esterni, l’illuminazione ecc. dovrebbero essere stabiliti pre­ liminarmente. Un sistema di questo tipo, sosteneva Pathé, aiuterebbe il regista a realizzare più film, addirittura quattro o cinque all’anno. Raccomandava inoltre che la figura del regista non coincidesse con quella dell’autore del soggetto, come accadeva di sovente in Francia4. Nel 1918 Pathé scrisse un altro articolo in cui esaminava il ruolo del­ l’operatore cinematografico, suggerendo che questi dovesse redigere 6

IL MODO DI PRODUZIONE DELLA “EARLY HOLLYWOOD”

una meticolosa memoria scritta: «Infine non deve dipendere interamen­ te dalla propria memoria ma annotare, in un memorandum, tutte le sin­ gole circostanze, soprattutto l’illuminazione, che si sono realizzate du­ rante ogni ripresa»5. Henri Diamant-Berger, un regista tradizionale che produceva i pro­ pri’ film, che venivano poi distribuiti dalla società di proprietà di Pathé, divenne un fautore di questa concezione. Nel 1918 descrisse un incon­ tro organizzato dalla Ligue Fran$aise du Cinématographe, a cui parteci­ parono i migliori sceneggiatori francesi e i funzionari delle principali so­ cietà di produzione: «Era opinione generale che, in gran parte dei casi, fosse improbabile nonché materialmente impossibile che i metteurs en scène continuassero ad improvvisare. Questi ultimi avevano operato fi­ no ad allora in completa libertà, con ovvi risultati. Le sceneggiature so­ no imprescindibili»6. Al suo ritorno da un viaggio negli USA nel 1918, Diamant-Berger descrisse la divisione dei compiti negli studios mettendola a confronto con il sistema francese; in Francia, affermò, il regista continua ad essere «il jolly in tutte le situazioni»7. Un altro importante regista francese, Jacques de Baroncelli, confer­ mò l’opinione secondo cui nel 1920 esisteva una differenza profonda fra il sistema francese e quello americano. Commentando una recente visita agli studios di New York, descriveva

l’atmosfera “corale” che regna all’interno delle società americane. Ognuno ha la sua posizione precisa, gioca il proprio ruolo con il massimo dell’efficienza, velocità e coscienza e tutto il gruppo può affidarsi a lui senza preoccupazione alcuna. Lo sforzo umano, intelligente, flessibile, cordiale e puntuale, come una macchina perfetta, è all’opera fino al rag­ giungimento del compito assegnato. E questo è il segreto della sorpren­ dente rapidità con cui si girano i film in America. Commettiamo un gra­ ve errore in Francia ritenendo che sia necessario lavorare lentamente per ottenere i risultati migliori8.

In generale, le raccomandazioni nel senso di una maggiore elabora­ zione delle sceneggiature e di una ripartizione più accurata dei compiti sul modello hollywoodiano non furono raccolte. All’inizio degli anni Venti, Louis Delluc commentava il fatto che i registi francesi erano di solito i responsabili della redazione della sceneggiatura a partire dal sog­ getto; la conseguenza era che le sceneggiature avevano buone idee di base, ma erano scritte male: «Guardate all’importanza che riveste in 7

KRISTIN THOMPSON

America o in Germania il continuity writer. È tempo che comprendiamo che Videa di una sceneggiatura, per quanto buona, non è ancora la see * neggiatura»9. Più o meno nella stessa epoca, Robert Florey rapportò l’efficienza della produzione americana con quella francese: «Venti o trenta persone sono lì solo per assistere il regista, una figura onnipoten * te, i cui minimi desideri sono eseguiti con una velocità straordinaria; la progressione in avanti non si interrompe mai per uno stupido dettaglio come accade spesso in Francia»10. In tutta l’epoca del cinema muto il regista francese conservò gran parte della responsabilità — e del controllo — sulla redazione della see * neggiatura. Praticamente in tutti i casi continuò ad essere il responsabi * le del montaggio del film. La sorprendente filmografia di Raymond Chirat risalente al periodo compreso fra il 1919 e il 1929 annovera 973 film, di cui solo per 42 il nome del montatore compare nei titoli di coda. Di questi, 18 furono montati o videro la partecipazione al montaggio dei rispettivi registi (fra cui Cavalcanti, Renoir, Epstein e Gance). Due registi — entrambi in situazioni tradizionali e commerciali — sembrano aver fatto impiego coerente di montatori. In dodici casi il montaggio dei film di Louis Feuillade è attribuito a Maurice Champreux (che par­ tecipò in qualità di operatore e/o aiuto regista in tutti e dodici). Anche Henry Fescourt utilizzò abitualmente un montatore, Jean-Louis Bou­ quet, in sette film. (Tutti i film Feuillade/Champreux furono realizzati per la Gaumont, tutti e sette i film Fescourt/Bouquet per la Cinéromans). Nel caso di altri cinque film il montaggio fu attribuito a persone diverse dal regista n. È possibile che alcuni montatori avessero lavora­ to senza che apparisse il loro nome, ma nella maggior parte dei casi la divisione del lavoro non includeva il montaggio. Il sistema francese prevedeva un’assistente, la monteuse. La figura sembra fosse invariabilmente femminile ed aveva il compito di assem­ blare i giornalieri, tagliare i negativi e talvolta eseguire il montaggio se­ guendo le istruzioni impartite dal regista. Come sottolinea la descrizio­ ne del 1925 del critico Juan Arroy, i suoi compiti erano altri rispetto a quelli di un montatore di Hollywood:

Nello studio la dipendente incaricata di tale compito (cioè la selezione dei ciak) è la monteuse. II suo lavoro non è assolutamente automatico; deve dimostrare un certo livello di iniziativa e di senso critico. In Ameri­ ca deve fare ancora di più, in quanto la produzione è così articolata: si acquistano i diritti di una certa opera letteraria che viene consegnata per 8

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l’adattamento ad uno sceneggiatore professionista. Il decoupage viene af­ fidato ad un "continuity write?' [in inglese nel testo] professionista, quindi consegnato al regista per le riprese e, finalmente, il film arriva nelle mani della monteuse. Tutte le funzioni sono assolutamente distinte e non c’è punto di contatto che consenta a ciascun professionista la pos­ sibilità di rivedere il lavoro di chi lo ha preceduto, di far valere il proprio senso critico o di correggere gli erróri. Personalmente non credo assolu­ tamente in questo metodo, che non può creare che film prodotti in serie in quanto viene ad essere soppressa l’unità dell’atto creativo. E un dato di fatto che la monteuse negli USA disponga di un’autorità e di una libertà che non le sono consentite in Francia. [...] In Francia la monteuse ha una certa autorità solo sotto la supervisione del regista12. Un resoconto del 1929, ad opera dello storico G.-Michel Coissac, suggerisce come, in un’epoca tanto tardiva, il regista non facesse che ricevere tutto il materiale girato, che doveva poi selezionare da solo; an­ cora una volta l’enfasi è posta sulla creazione artistica che si realizza es­ senzialmente a livello di montaggio: Chi non abbia mai preso parte al montaggio di un film non può avere idea dell’inestricabile enigma che il montaggio del materiale comporta; anche solo la classificazione delle migliaia di strisce di varia lunghezza è oscura, dal momento che sembrano essere state esposte senza un ordine apparente: le si sceglie casualmente dato che, a prima vista, sembrano es­ sere state pescate da un marasma inintelligibile. Il metteuren scène, comunque, è profondamente coinvolto nella fatica erculea, analogamente ad un fotografo che osservi lo sviluppo di un nega­ tivo. Valuta e armonizza la propria opera. Dall’apparente cacofonia, crea il ritmo e gli accostamenti perfetti; è nella fase dell’orchestrazione del movimento e della vita; cfea per la seconda volta, mentre attende di ve­ dere la propria opera compiuta. Il montaggio è la gestazione finale o, per essere più poetici, l’apertura del fiore, petalo dopo petalo.

Secondo Coissac, il regista continua il processo passando attraverso numerosi controlli e revisioni; rivede il tutto per posizionare i sottotito­ li e ritocca il tutto ancora una volta13. La divisione relativamente ridotta dei compiti potrebbe essere una conseguenza della dipendenza dalle piccole società di produzione che caratterizzava l’industria francese e dal fatto che i registi-produttori la­ vorassero per conto di società più grandi. In misura considerevole, la 9

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capacità degli studios hollywoodiani di collaborare su base continuativa con un folto numero di professionisti specializzati derivava da econo­ mie di scala che le società francesi non sarebbero mai state in grado di riprodurre. E comunque chiaro che molti filmmakers e critici francesi considera­ vano rilevante dal punto di vista artistico che il regista mantenesse un livello considerevole di controllo sul film nella fase preliminare, di ri­ presa e di post-produzione: Esistono due fasi nell’esecuzione tecnica di un film che in molti conside­ rano secondarie ma che sono invece d’importanza cruciale e fondamen­ tale. Queste due fasi, che si realizzano cronologicamente prima e dopo la vera e propria regia, sono il "decoupage" della sceneggiatura e il "mon­ tage" del materiale impressionato [...]. In una qualsiasi opera d’arte — libro, quadro, sinfonia, film — il te­ ma riveste un’importanza minore rispetto al suo trattamento: lo stile. E i registi possiedono tutti uno stile personale esattamente come i pittori, i compositori e gli scrittori. Lo stile cinematografico si manifesta nel mo­ do in cui il regista utilizza gli strumenti tecnici a sua disposizione, nel modo in cui presenta le situazioni, in cui realizza le scene e infine nell’or­ chestrazione e nella limatura visiva delle immagini nel montaggio finale, durante il quale crea le diverse sezioni in cui si articola l’opera e che in quel momento vengono ad esistere esclusivamente come parti del tutto l4. Analizzando le modalità con cui il regista può controllare il film a livello di decoupage e montaggio, Conrad evidenzia il legame esistente fra le due fasi:

Il montaggio sembra essere dettagliatamente previsto, a priori, nella re­ dazione della sceneggiatura. Dopo tutto, Marcel L’Herbier specifica nei suoi decoupages la lunghezza di ciascuna ripresa, che deve essere teoreti­ camente rispettata con il massimo scrupolo durante le riprese. In realtà ciò non accade in quanto praticamente impossibile 15. E poi sembrerebbe che L’Herbier tentasse di utilizzare le proprie sceneggiature come un mezzo di comporre il film come unità: un pro­ cesso che avrebbe supervisionato e rifinito in ciascuno stadio della lavo­ razione fino alla fine del montaggio. Conrad ricorda anche che «Ger­ maine Dulac assegna un’importanza cruciale al montaggio dei propri io

IL MODO DI PRODUZIONE DELLA “EARLY HOLLYWOOD’

film. È la parte, afferma, più emotiva della creazione di un film ed an­ che la più delicata»16. Qualunque sia la causa all’origine dell’approccio francese alla divisione dei compiti, è evidente che il mantenere una re­ sponsabilità così grande lungo tutte le fasi della produzione ben si adat­ tava alle metodologie creative dei registi impressionisti.

Germania

L’industria cinematografica e il modo di produzione tedeschi erano profondamente diversi da quelli francesi. Anche se esistevano molte piccole società di produzione in Germania, l’industria era dominata da imprese quali la Universumfilm Aktien-Gesellschaft (Ufa), l’Emelka e simili. Le società di (pesto tipo erano caratterizzate da una dettagliata ripartizione dei compiti e utilizzavano le sceneggiature come strumento di controllo sulla produzione. Permangono comunque differenze con il sistema hollywoodiano e, ancora una volta, esse sono un segnale di co­ me, almeno in parte, i registi detenessero una responsabilità maggiore a livello di controllo della produzione. Dalle fonti contemporanee si deduce che anche i tedeschi paragona­ vano il proprio sistema con quello hollywoodiano e trovavano che que­ st’ultimo fosse più efficiente. Nel 1920 il corrispondente da New York del «Lichtbildbuhne» descriveva.il modo di produzione degli studios americani. Secondo l’articolo, la divisione dei compiti è più sistematica negli USA che in Germania. Si mette in rilievo, in particolare, come negli USA tutti ricevessero una copia della sceneggiatura e sapessero quindi con precisione cosa fare: «Sistema ed organizzazione! Nei nostri studi ci sono spesso troppe persone che vagano ostacolandosi reciproca­ mente o una carenza di personale a tutti i livelli. Sotto questo punto di vista potremmo imparare molto dagli americani»17. Nel 1921 la stessa rivista pubblicò un articolo su come valutare in anticipo le spese inutili ed eliminare, quindi lo spreco quotidiano di denaro. L’autore so­ stiene che gli americani dovrebbero essere presi a modello e la parte centrale dell’articolo verte sulla descrizione dello stile americano, ac­ compagnata da schemi con cui calcolare tutte le categorie dei costi18. Nella forma, tra l’altro, il sistema è molto simile allo schema tipico uti­ lizzato all’inizio del secolo per calcolare i costi, impiegato da Thomas Ince e riportato dalla Staiger. Il metodo tedesco di elaborazione delle sceneggiature, sebbene simi­ le a quello americano sotto molti punti di vista, presentava alcune diffe-

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renze sostanziali. Lo shooting script, 1’edizione finale della sceneggiatu­ ra, non prevedeva in maniera altrettanto particolareggiata la divisione in scene delle riprese. Ancora nel 1926 E. A. Dupont paragonava i siste­ mi dei due paesi e sottolineava la differenza esistente a livello di mon­ taggio: La sceneggiatura americana non è numerata semplicemente in base a sce­ ne appena accennate come si verifica comunemente in Germania, per cui il regista realizza i primi piani e i cambiamenti di angolazione che deside­ ra; la sceneggiatura comprende invece, per quanto possibile, annotazioni relative ai primi piani e ciascun primo piano o altro movimento è con­ traddistinto da un numero preciso. Così, ad esempio, se una scena pre­ senta secondo la sceneggiatura venticinque cambi di inquadratura, una volta che il regista abbia realizzato venticinque ciak, questi saranno tutti esattamente numerati» >9.

Alcune sceneggiature dello stesso Dupont, pubblicate nel suo ma­ nuale di sceneggiatura del 1919, confermano la descrizione della prassi tedesca. I numeri compaiono soltanto quando si verifica un cambio di ambiente e l’intera azione che si svolge all’interno di un certo luogo è descritta senza indicare in dettaglio la parte visiva. Dupont opera una distinzione solo fra inquadrature normali e ravvicinate. Le annotazioni occasionali relative ai primi piani in mezzo alle scene non sono numera­ te; in realtà, anche se una scena girata all’interno di una sala giudiziaria è composta da una ripresa di presentazione, cinque primi piani e tre ti­ toli, all’insieme delle riprese è attribuito un unico numero20. Altri due manuali di sceneggiatura, risalenti allo stesso periodo, non si sofferma­ no sulla descrizione di come uno sceneggiatore potrebbe scomporre una scena in riprese separate o descrivere i movimenti della macchina da presa; i consigli sul formato della sceneggiatura si limitano alle modalità da seguire per descrivere gli ambienti, la gestualità degli attori ed altri aspetti dell’azione scenica21. Da altre descrizioni contemporanee sul modo dj produzione tedesco della fine degli anni Venti si deduce che il regista lavorava spesso all’e­ dizione finale della sceneggiatura ed era comunque in grado di modifi­ carla durante la fase delle riprese. Nel 1927 il dott. Kurt Mùhsam de­ scriveva la divisione del lavoro negli studios: In generale il lavoro del regista inizia ancor prima delle riprese; questo accade in quanto la società di produzione, prima di decidere dell’acqui­ 12

IL MODO DI PRODUZIONE DELLA “EARLY HOLLYWOOD"

sto di una sceneggiatura, consulta un regista di fiducia sulla realizzazione del soggetto in questione, l’affidamento dei ruoli e la valutazione dei co­ sti aggiuntivi. Se il soggetto verrà acquistato, il regista dovrà prenderse­ ne cura, assicurandosi che le varie scene siano realmente pronte per le riprese [KarMieisJ: un compito a cui dovrà sovrintendere personalmen­ te, dal momento che la società in questione dispone solo di una manciata di sceneggiatori22.

In molti casi il soggetto, sotto forma di sinossi, era affidato a un’al­ tra società. Il Filmdramaturg, uno sceneggiatore specializzato, ne ricava­ va una sceneggiatura, anche se il compito poteva essere affidato allo stesso regista. Un articolo pubblicato nel 1928 da una rivista del settore, relativo alla varietà dei percorsi possibili a partire “dalla sceneggiatura fino allo schermo”, ipotizza che il regista potesse agevolmente aggiungere alcune riprese: Prima che inizino le riprese in studio, il regista ha già fatto propria la visione dell’autore espressa nella sceneggiatura. Nello studio, comunque, il contatto con la tridimensionalità della decorazione scenica, con la vita­ lità degli attori e le luci stimola la sua fantasia ed altera il corso degli eventi: in parte volontariamente, in parte contro la sua stessa volontà. Non era previsto che il protagonista rifiutasse una parte ridotta, benché importante, della reazione psicologica necessaria. La fantasia all’opera del regista comprende istantaneamente il problema e vi pone rimedio modificando leggermente il tema, spostando qualche pausa qui, una pic­ cola domanda là, aggiungendo qualche primo piano in più e, pur con qualche digressione, raggiùngendo l’obiettivo originario23.

L'articolo di Dupont del 1926 sulla produzione americana descrive come l’addetto alla sceneggiatura, una sorta di segretario di edizione, comunichi al viceoperatoré quale sia l’inquadratura numerata che deve essere filmata e come questi la segni sulla lavagna accanto al numero della ripresa. Ne risulta, secondo Dupont, che quando il montatore e il regista montano il film, il regista dispone già di un elenco delle inqua­ drature buone che facilita la localizzazione delle riprese da utilizzare. In Germania, il regista si appresta al montaggio del materiale filmato non ancora selezionato; cerca lungo 40.000-50.000 metri di pellicola le riprese desiderate prima di iniziare con il vero e proprio montaggio 24. E evidente come in Germania fosse il regista a detenere la responsa­ 13

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bilità del montaggio. La dettagliata filmografia di Gerhard Lamprecht di film muti tedeschi presenta estesi titoli di coda che includono gli ad­ detti al trucco e anche i fotografi, ma mai i montatori25. Analogamen­ te, lo studio di Miihsam sui ruoli coinvolti nella produzione tedesca illu­ stra il bilancio tipico di un film che include il salario dell’aiuto regista, del parrucchiere, della costumista e anche del fotografo; per il montato­ re, invece, non sono previste spese26. La divisione dei compiti era limitata anche neUa fase del montaggio, in cui interveniva anche die Kleberin. Il sostantivo femminile, se tradot­ to letteralmente, significa “incollatrice”. Die Kleberin è paragonabile al joiner degli studios americani e alla monteuse del sistema francese: erano donne responsabili del montaggio delle riprese del giorno e delle copie. In un saggio del 1916 sul lavoro di post-produzione il celebre regista tedesco Max Mack descriveva in tal senso i compiti affidati alla Klebe­ rin, la cui posizione non sembra essere cambiata in questo resoconto del 1928: In una stanzetta ignifuga siede la Kleberin e visiona le migliaia di metri di negativi e positivi. Mentre il regista gira nuove scene in studio, lei or­ dina quelle vecchie, riduce i rulli originari di migliaia di metri in bobine utilizzabili; conserva nelle apposite scatole ciascun rullo a cui ha applica­ to un’etichetta, collegando le varie parti secondo quello che dovrebbe es­ sere il film finito 21.

La Kleberin, poi, svolgeva la funzione di aiuto nel rintracciare il ma­ teriale filmato. Presumibilmente applicava etichette ai ciak seguendo i numeri indicati nella sceneggiatura, anche se non è ancora chiaro se ogni ripresa avesse un proprio numero. Le stesse fonti indicano come, dall’inizio del secolo fino alla fine de­ gli anni Venti, il montaggio del film fosse sotto la responsabilità del re­ gista. In un saggio del 1916 Mack commentava:

I registi esperti sanno che la fase più difficile della realizzazione di un film è il montaggio. In quanto la ripresa nel suo complesso non può esse­ re utilizzata nel film esattamente come è stata girata. Si conserverà solo quella parte che crea realmente una progressione significativa nell’azio­ ne. Questo lavoro necessita di un occhio sicuro, di esperienza artistica e di un buon senso dell’effetto drammatico. I registi mediocri tagliano poco. Cosa che rallenta il ritmo del film, il susseguirsi degli avvenimenti, il dinamismo interno, e lo rende uno spettacolo vuoto 28. 14

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Nel 1928 il regista prendeva ancora i rulli di pellicola catalogati dalla Kleberin e li montava fino ad ottenere un film: Una volta terminate le riprese in studio e in esterni, il regista rimane in completo isolamento per settimane nella camera di montaggio. Monta il film. Correzione dopo correzione, una scena dopo l’altra viene saldata, proiettata, montata di nuovo, riproiettata, corretta di nuovo, fino a quando il film non si sviluppa in grandi bobine rotonde tra i due e i quat­ trocento metri29. Quindi la divisione dei compiti secondo il modello tedesco attribui­ va al regista una grande responsabilità in ogni fase della produzione del film. In effetti il sistema'incentrato sulla figura del produttore non sembra aver avuto importanza nella produzione tedesca fino al 1927 quando la crisi che segui la stabilizzazione alla metà degli anni Venti e il quasi fal­ limento dell’Ufa imposero l’applicazione di rigorose misure economi­ che. Alla fine del 1927, l’Ufa annunciò di aver riorganizzato il proprio sistema di produzione introducendo numerosi. Produktionsleiter o “re­ sponsabili di produzione”. Erich Pommer aveva diretto lo studio prima di essere costretto a presentare le dimissioni all’inizio del 1926; dopo un anno di insuccessi ad Hollywood, rientrò in Germania per diventare uno fra i tanti Produktionsleiter. Il «Lichbildbùhne» commentava: «Ri­ sulta evidente che saranno rispettati i progetti organizzativi originari e che i nuovi film — fra cui troviamo quattro “Erich-Pommer-Produktion" — saranno destinati a vari responsabili di produzione, sul modello dei supervisori americani»,0. Il progetto ebbe presumibilmente successo; fra tutti i film muti, nessuno assomiglia più coerentemente a quelli di Hollywood dei film prodotti dalla Ufa alla fine degli anni Venti. Anche a quell’epoca, comunque, il sistema basato su unità dirette dai registi sembra essere rimasto in essere accanto al nuovo sistema in­ centrato sulla figura del produttore, almeno per qualche tempo. Il reso­ conto del 1927 di Miihsam descriveva la posizione del regista:

L’importanza della funzione di un regista nella produzione di un film, comunque, si riflette anche nel fatto che il regista si assume nei confronti del funzionario della società l’intera responsabilità del successo o dell’in­ successo di un film, nella misura in cui il cosiddetto responsabile di pro­ duzione {Produktionsleiter} non lo solleva da tale responsabilità. Di nor­ ma, comunque, solo una grande casa di produzione può permettersi un 15

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responsabile di produzione. È quindi il regista che si occupa dell'ottimiz­ zazione del capitale sotto forma di denaro, personale e beni messi a sua disposizione

Tali responsabilità implicano un livello elevato di controllo da parte del regista. Nel 1972 chiesi a Fritz Lang di quanta libertà avesse dispo­ sto nella scelta e nello sviluppo dei propri progetti. Lang rispose:

A quei tempi non esisteva ancora la figura del produttore e il regista era la persona più importante. Avevo tutta la libertà che volevo nello sceglie­ re quali film volevo fare, con chi volevo scrivere la sceneggiatura, quali attori volevo e così via [...] e sono sicuro che lo stesso valesse per Murnau e altri registi che lavoravano sotto Pommer J2. Da tutto quanto affermato finora è lecito concludere che molti regi­ sti tedeschi, inclusi i registi che operarono all’interno della corrente espressionista, disposero di un livello superiore di controllo sul proprio lavoro rispetto ai loro contemporanei di Hollywood.

Unione Sovietica In Unione Sovietica il tema della sceneggiatura e della divisione dei com­ piti fu cruciale per l’industria militante degli anni Venti. Nel 1917 e 1918 si perse gran parte del personale esperto che aveva lavorato nel periodo pre-rivoluzionario e l’industria cinematografica dovette fare spesso ri­ corso a scrittori che non avevano familiarità alcuna con il formato delle sceneggiature e gli altri aspetti della produzione cinematografica. Nel 1926 scoppiò un acceso dibattito sull’applicazione delle misure che avreb­ bero dovuto incrementare l’efficienza degli studi cinematografici. De­ nise Youngblood afferma che una delle critiche più diffuse in tema di inefficienza consistesse nel rimproverare ai registi di allontanarsi trop­ po spesso o addirittura di abbandonare le sceneggiature durante la fase delle riprese; gli estesi cambiamenti apportati da Ejzenstejn durante le riprese della Potemkin erano citati come esempio negativo53. Dal punto di vista dei funzionari delle società produttrici, il proble­ ma consisteva nel fatto che l’elaborazione delle sceneggiature offrisse loro un controllo troppo limitato sul regista. Dato che molti film si ba­ savano su soggetti ad opera di autori non abituati a lavorare per il cine­ 16

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ma, il regista riceveva di solito quello che era chiamato un libretto. Era spesso compito del regista ridurre la sinossi in prosa in una sceneggiatu­ ra adatta alle riprese. Paul Babitsky, che lavorò come sceneggiatore in Unione Sovietica durante gli anni Venti e Trenta, descriveva così la si­ tuazione:

Spesso il regista, considerandosi l’autore del film, preferiva rivedere la sceneggiatura da solo e consentire allo sceneggiatore di vedere il film solo al momento della prima, durante la quale gran parte degli autori non riu­ scivano a riconoscere il proprio lavoro. [...] Negli studi sovietici non esisteva un sistema di redazione delle sce­ neggiature a più mani in cui il lavoro fosse ripartito fra gli specialisti di dialogo, trama, effetti e così via. L’intera sceneggiatura dipendeva dal­ l’atto creativo di un unico scrittore. [...] Anche negli studi di Mosca e di Leningrado la revisione delle sceneg­ giature divenne uno dei compiti di routine del regista. Sceneggiature pur eccellenti erano riviste e rielaborate dal regista o dallo sceneggiatore al fine di soddisfare i gusti e le metodologie del regista stesso34. Quindi in Unione Sovietica il regista disponeva di un livello di con­ trollo elevato sull’elaborazione della sceneggiatura. Inoltre i registi erano soliti realizzare il montaggio dei propri film. Nel 1924 il corrispondente da Hollywood della «Kino-Gazette» elencò le varie posizioni coinvolte nella produzione esistenti negli studios ame­ ricani. L’elenco includeva due termini riportati nella versione originale inglese, presumibilmente perché non esisteva l’equivalente in russo: art director e editor”. Un libro pubblicato nel 1928 in Unione Sovietica sul modo di produzione dei film descrive una posizione definita montageur anche se, come per la monteuse e la Kleberin, i compiti assomigliano a quelli di un assistente al montaggio o a quelli di un cutter degli studios hollywoodiani: selezionare le riprese, assemblare i giornalieri ed even­ tualmente tagliare il negativo. U regista esegue il primo taglio e rifinisce la copia finale}6. Nel dibattito sull’efficienza e la divisione dei compiti gli artisti, cosa che non dovrebbe sorprenderci, erano favorevoli ad affidare al regista il massimo controllo possibile sulla sceneggiatura. Nel libro del 1926 sulla produzione il regista S. TimoSenko dichiarava:

Si paleserà quanto sia errato il metodo americano in cui una persona diri­ ge le riprese di un film e un’altra lo monta. Sarebbe come se un artista 17

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disegnasse le parti di un quadro e un altro le componesse, stabilendo l’or­ ganizzazione dell’insieme, riarrangiando ed eliminando le varie parti di­ pinte dall’artista ,7.

Nel 1926 lo sceneggiatore e critico Osip Brik scrisse un articolo che proponeva un sistema radicalmente opposto a quello di Hollywood: La sceneggiatura non dovrebbe essere scritta prima, bensì dopo le ripre­ se. La sceneggiatura non è l’ordine in cui girare, ma piuttosto un metodo di organizzazione di quanto è stato già girato. Non dovremmo pertanto domandarci come dovrebbe essere una sceneggiatura, ma che cosa do­ vrebbe essere filmato. La rielaborazione del materiale girato nella sce­ neggiatura è l’ultima fase del lavoro38.

La sceneggiatura di Brik per L’erede di Chengis Khan di Pudovkin riempiva solo diciannove pagine dattiloscritte. L’operatore che girò il film ricorda come «ciascuna scena fosse descritta con al massimo quat­ tro parole. In altri termini, una vera sceneggiatura per un film muto, alla vecchia maniera pur ammirevole delle sceneggiature “di montaggio”». Le sequenze venivano aggiunte durante la fase delle riprese; la famosa scena della cerimonia nel tempio non appariva nell’originale39. Come riassunto da Leon Moussinac nel suo libro del 1927 sul cinema sovieti­ co, «in qualsiasi fase, il regista resta padrone dell’opera d’arte»40. I non-artisti, invece, trovavano che il sistema sovietico fosse meno efficiente di quello americano ed erano a favore di una riduzione del controllo da parte del regista. A partire dalla metà degli anni Venti, si scatenò un acceso dibattito nella letteratura specialistica sulla sceneg­ giatura “di ferro”, una sceneggiatura cioè che descriveva il film nel mi­ nimo dettaglio e da cui il regista non poteva allontanarsi. Era numerata ripresa per ripresa, prevedeva persino una stima della lunghezza di cia­ scuna ripresa; seguendola con esattezza, un regista girava materiale di cui erano previsti i costi e tutti gli altri aspetti. Sostanzialmente, la “sceneggiatura di ferro” era paragonabile al continuity script americano. Nel suo libro del 1926 sulla produzione Ilya Rentz sottolineava come il regista in Unione Sovietica fosse sovraccarico di compiti in rapporto alla controparte hollywoodiana; in Unione Sovietica i registi dovevano esaminare i set, trovare gli esterni, supervisionare la disposizione delle luci e così via. Ad Hollywood la divisione del lavoro implicava che altre persone fossero incaricate di questi compiti. Il regista, concludeva Rentz, «dovrebbe assumere il comando soltanto durante le riprese»41. 18

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Un manuale di sceneggiatura di Ippolit Sokolov, pubblicato nel 1926 in Unione Sovietica, sottolineava die nelle sceneggiature americane e tedesche il montaggio era pensato in anticipo:

Lo sceneggiatore, in modo puramente registico, elabora le riprese e il montaggio del film. Stabilisce con precisione la lunghezza e la sequenza delle riprese. Lo sceneggiatore è in pratica il regista 42. Sokolov era favorevole alla “sceneggiatura di ferro”, di cui attribui­ va la paternità agli sceneggiatori americani e tedeschi: Una “sceneggiatura di ferro” è l’elaborazione preliminare di tutti i det­ tagli della produzione e del montaggio del film. Niente è extra, niente è lasciato al caso. Il film deve essere del tutto montato preliminarmente all’inizio delle riprese. Non si dovrebbe girare neanche un fotogramma fino a quando l’intero film non sia stato montato mentalmente.

Notando che gli sceneggiatori sovietici non sapevano come scompor­ re le trame in prosa in singole riprese, aggiungeva che era necessario che imparassero a farlo: «Le scene e le riprese dovrebbero essere numera­ te»4’. La nozione di “sceneggiatura di ferro” fu ripresa ripetutamen­ te, sebbene sembra che sia rimasta in gran misura un obiettivo ideale invece di trasformarsi in prassi, almeno fino agli anni Trenta. Quando il primo piano quinquennale fu applicato al cinema all’inizio del 1928, uno degli obiettivi principali consisteva nel migliorare l’effi­ cienza degli studi sovietici ed aumentare la produzione di film. Alla fine degli anni Venti, si pensava che i registi girassero troppi pochi film. Se­ condo il responsabile dell’Amkino, la filiale newyorkese della Sovkino, nel secondo anno di applicazione del piano i registi avrebbero dovuto produrre in media un film e mezzo; nel quinto anno di applicazione del piano la media da raggiungere avrebbe dovuto essere di due film all’an­ no44. Un’analisi del modo di produzione pubblicata in quel periodo menzionava un “rappresentante dell’amministrazione dello studio” che supervisionava la produzione del film, manteneva la tabella di marcia prevista, controllava la sceneggiatura e i progetti per il set, coordinava le divisioni tecniche e gli uffici finanziari. Questa persona controllava il bilancio e prendeva nota del consumo di elettricità. H suo lavoro con­ sisteva nel tenere bassi i costi45. È evidente come già nel 1928 i sovie­ tici tentassero di istituire un equivalente del sistema incentrato sul pro­ duttore come parte del piano quinquennale. 19

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Al fine di migliorare l’efficienza dei registi, i funzionari del governo tentarono di privarli del controllo che detenevano sulle fasi della sce­ neggiatura e del montaggio dei film. In un importante libro, scritto nel 1930 e pubblicato nei 1932, Vladimir Sutyrin, direttore di produzione della nuova società centralizzata Soyuzkino (e braccio destro del presi­ dente Boris Shumyatski), enunciava la posizione ufficiale. Sutyrin fa riferimento all’idea di ridurre il tempo delle riprese. Fino ad oggi, sostiene, il tempo di produzione medio per un film è di 10-12 mesi. Spera di ridurlo a 5 mesi e mezzo suddividendo ulteriormente il lavorò, creando “brigate” di produzione permanenti, ognuna con un proprio sceneggiatore. Il regista non verrebbe coinvolto nella fase della sceneggiatura . Sutyrin analizza anche il montaggio come fase in cui è possibile ri­ durre il tempo di produzione. Vale la pena citare al completo l’analisi, dal momento che dimostra il legame esistente fra i cambiamenti appor­ tati a livello di divisione dei compiti e i tentativi di controllare i registi che si occupavano di montaggio: Ma cerchiamo di compiere un passo ulteriore nella direzione della divi­ sione dei compiti. Immaginiamo il caso seguente [...] (mi scuso in antici­ po con i registi per l’esempio stupido nonché in qualche misura blasfe­ mo!). Supponiamo che il regista non sia esonerato soltanto dal. compito di redigere la sceneggiatura, ma anche [...] dal montaggio. So che questa idea è stupida, pazzesca. Ciononostante, è indiscutibile che la quantità di tempo che il regista impiega per realizzare un film sarebbe ridotta se eliminassimo il tempo necessario per il montaggio. Ci vorrebbe come mi­ nimo un mese e, in media, un mese e mezzo. [...] L’idea di esonerare il regista dal lavoro di montaggio è così risibile, orribile e blasfema? Sappiamo che all’interno dell’industria americana la stragrande mag­ gioranza dei film non è montata dai registi bensì da operatori specializza­ ti. Ho domandato a Joe Kaufman alcuni dettagli sulla questione. Egli non si è limitato a confermare l’esistenza di una divisione dei compiti, ma ha espresso anche il pensiero piuttosto originale, condiviso dagli ad­ detti ai lavori in America che ritengono che le qualità di un registaproduttore siano incompatibili con quelle di un montatore [montagera]. Il regista, ha sostenuto, deve avere fantasia, temperamento, vivacità, tensione. H montatore, invece, deve possedere una natura tranquilla; do­ vrebbe avere un modo di lavorare metodico ed essere in grado di sedere alla scrivania per lunghi periodi di tempo. Molti registi non sono adatti al lavoro che implica il montaggio: un lavoro meticoloso e, in certa misu20

IL MODO DI PRODUZIONE DELLA “EARLY HOLLYWOOD”

ra, sfibrante. Il commento di Kaufman merita una certa attenzione. Le qualità che egli attribuisce alla psicologia di un regista e di un montatore possono essere discutibili. La cosa importante in questo contesto è che le varie specialità cinematografiche richiedono persone che possiedano qualità speciali. [...] Ci siamo abituati a considerare il montaggio come la cosa fondamen­ tale, come l’aspetto sostanziale del lavoro creativo. Dobbiamo guardare criticamente a questo modo di pensare. Non dovremmo dimenticare che la teoria del montaggio ci è stata insegnata sia dai formalisti puri (ad esempio, Sklovskij e KuleSov) sia dai teorici che provenivano dal forma­ lismo ma senza il suo pesante bagaglio (ad esempio, EjzenStejn autóre della teoria del “montaggio delle attrazioni”). Rinfreschiamoci la memoria sui ragionamenti in merito all’arte dei formalisti o semi-formalisti (di sinistra)47.

Dopo aver illustrato le teorie dei registi del “montaggio” sovietico, Sutyrin li attacca in quanto rifiuta l’idea secondo cui il montaggio sia la fase decisiva nella realizzazione di un film e che il contenuto si crei dopo le riprese:

Nella produzione di un film, quando il montatore, parlando in senso stretto, non è in grado di modificare la composizione del materiale filma­ to, cioè di aggiungere e così via, ovviamente il buon risultato del mon­ taggio è determinato dalla fase delle riprese, e quanto più complesso è il montaggio — e non nel senso della sua raffinatezza — tanto più il montatore dipenderà dal regista che ha filmato le riprese. Credo che l’esperienza ci costringa ad ammettere l’indiscutibilità di quanto segue: un film non è montato dopo le riprese e nemmeno duran­ te, ma prima di esse, nel periodo cosiddetto preparatorio. Nel periodo preparatorio si realizza anche il montaggio. Le riprese e il montaggio so­ no solo le fasi di realizzazione del film, creato nel periodo preparatorio. Se questa è l’interpretazione valida del processo di creazione di un film, la libertà del montatore, la possibilità cioè di variare la composizione del­ le scene, non è che la conseguenza delle imperfezioni del regista. Il regi­ sta ideale non ha niente da fare nella camera di montaggio. Nelle condi­ zioni ideali, il materiale filmato è già materiale montato. Basta solo in­ collarlo 48. Sutyrin deride il desiderio dei registi di lavorare nella camera di montaggio, considerandolo alla stregua di un’immagine romantica: 21

KRISTIN THOMPSON

Ricordo la copertina di alcuni dépliant che pubblicavamo al “Teakinopechat”: Pudovkin al tavolo di montaggio — una figura esotica, avvolta in un lussuoso boa di infiniti frammenti di materiale filmato arricciati in tutte le direzioni («Ecco, il regista santo fra i santi!»)49.

Sutyrin continua su questo tono. Ovviamente, il suo scopo non con * sisteva soltanto nel proporre una nuova divisione dei compiti, bensì di associare i registi-montatori al vecchio sistema inefficiente che aveva fatto dipendere la creazione artistica dal controllo sul montaggio da par­ te del regista. In realtà, nel 1936 Shumyatsky introdusse finalmente i metodi ame­ ricani nella produzione sovietica al fine di migliorarne l’efficienza. I metodi si basavano sui gruppi di lavoro. Babitsky li così ha descritti: «Ad ognuno era assegnato un responsabile di produzione, simile al pro­ duttore americano, responsabile del film nel suo complesso. Questa mossa semplificò il lavoro del regista»50. Presumibilmente, il nuovo ap­ proccio era paragonabile al sistema incentrato sul produttore di stampo hollywoodiano. Anche in una data tanto tardiva, il sistema fallì in Unione Sovietica, come suggeriscono i bassi livelli produttivi caratteri­ stici degli ultimi anni di controllo di Shumyatsky. Le implicazioni per la produzione d'avanguardia Le differenze fra i modi di produzione dei tre paesi europei e degli USA possono contribuire a spiegare perché i registi europei furono in grado di realizzare quelli che oggi consideriamo film d’avanguardia. Holly­ wood realizzò numerosi film straordinari, molti dei quali sono attribui­ bili a quelli che oggi definiamo auteurs: DeMille, Griffith, Lubitsch ed altri. Tuttavia, come ipotizzato dalla Staiger, il modo di produzione di Hollywood lasciò spazio solo ad un livello limitato di sperimentazione. I sistemi francese, tedesco e sovietico, a mio avviso, concessero qual­ cosa di più, anche se solo per un breve periodo. Una maggiore libertà ad appannaggio dei registi non spiega completamente perché fra il 1918 e il 1933 furono in grado di affermarsi movimenti come l’espressioni­ smo, l’impressionismo e il montaggio sovietico. Comunque, il fatto che i registi sembrano aver disposto spesso di un inusitato livello di control­ lo sulle fasi della sceneggiatura e del montaggio suggerisce per lo meno una condizione che può aver favorito la nascita e lo sviluppo dei succita­ ti movimenti stilistici. 22

IL MODO DI PRODUZIONE DELLA “EARLY HOLLYWOOD'

Lo studio dei modi di produzione europei rappresenta solo uno sguardo preliminare ai possibili rapporti fra l’industria cinematografica e i movimenti artistici dell’epoca. Starebbe ad indicare, comunque, che dobbiamo guardare a questo aspetto della produzione filmica solo quan­ do ci interessiamo della produzione cinematografica cosiddetta com­ merciale. Anche i movimenti d’avanguardia hanno modi di produzione e il lavoro di analisi del sistema hollywoodiano già svolto potrebbe esse­ re un contributo al loro studio. (traduzione di Mariella Minna)

(1) David Bordwell, Janet Staiger, Kristin Thompson, The Classical Hollywood Cinema: Film Style and Mode of Production to 1960, London, Routledge & Kegan Paul, 1985, pp. 134-136, 139-140, 147.

(2) Ivi, pp. 146, 152. (3) La maggior parte degli storici non parla dell’argomentazione presentata da Pathé sullal’cri­ si della sceneggiatura”. Sadoul sintetizza l’argomentazione di Pathé ma la considera semplicemente un tentativo di miglioramento legato alla riorganizzazione della Pathé-Frères nella Pathé-Cinéma nel 1918 (vedi la sua Histoire générale du cinéma, voi. 2, Parigi, Denoel, 1952, pp. 44-45). Richard Abel congeda la questione con un’unica frase: «Per Pathé, astutamente, l’unica crisi che l’industria cinematografica francese doveva affrontare era la “crisi della sce­ *neggiatura ’», sottintendendo presumibilmente che Pathé utilizzasse l’argomentazione per lanciare fumo negli occhi e nascondere le sue vere preoccupazioni (vedi il suo French Cinema: The First Wave 1915-1929, Princeton, Princeton University Press, 1985, p. 12). Se non mi sba­ glio nel sostenere che Pathé considerava le modifiche da apportare alla sceneggiatura come uno strumento per alterare il modo di produzione, l’argomentazione sulla “crisi della sceneggiatu­ ra” fa parte dei tentativi più ampi di Pathé di riorganizzare l’industria francese.

(4) Charles Pathé, La crise du cinéma, in «Le Film», n. 102, 25 febbraio 1918, pp. 7-8. La citazione è tratta, tra l’altro, dalla ristampa di un articolo del 1917 di Pathé; l’originale era tanto richiesto che le copie si esaurirono presto e «Le Film» dovette ripubblicarlo. (5) Charles Pathé, Étude sur revolution de {’industrie cinémato&aphique francasse, Parte 2, in «Le Film», n. 120, 1° luglio 1918, p. 10.

(6) Henry Diamant-Berger, Lespoètes et le cinéma, in «Le Film», n. 112, 6 maggio 1918, p. 5. (7) Henry Diamant-Berger: Pour sauver le film frangais, in «Le Film», n. 152, 9 febbraio 1919, p. 5. (8) Jacques de Baroncelli, Dans la féerie des studios américains, in «Le Journal du Ciné-Club», 1, n. 8, 2 marzo 1920, p. 2.

(9) Louis Delluc, Scénarii, in «Comoedia», n. 3763, aprile 1923, p. 4.

(10) Robert Florey, Filmland, Parigi, Éditions de cinémagazine, 1923, p. 258.

(11) Raymond Chirat, Catalogue des films *francai de long métrage: Films de fiction 1919-1929, Cinémathìque de Toulouse, 1984. (12) Juan Arroy, La monteuse, in «Cinémagazine», 5, n. 39, 25 settembre 1925, p. 519.

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KRISTIN THOMPSON

(13) G.-Michel Coissac, Les coulisses du cinéma, Parigi, Les Édiuons Pittoresques, 1929, pp. 183, 185. (14)

Conrad, Le montage des films, p. 123.

(15)

Ivi, pp. 123-124.

(16)

Ivi, p. 125.

(17) Organisation in amerikaniscben Filmbetrieb, in «Lichtbildbuhne», 13» n. 45, 6 novembre 1920, p. 26. (18) Sparsamkeit bei der Filmherstellung, in «Lichtbildbuhne», 14, n. 38» 17 settembre 1921, p. 31.

(19) Ewald André Dupont, Hollywood • das Filmparadies, IX: Das Schneiden des Films, in «Lichtbildbuhne», 20, n. 50, 28 febbraio 1927.

(20) Ewald André Dupont, Wie ein Film geschrieben wird und wie man ihn verwertet, Berlino, Reinhold Kuhn, 1919, p. 76. (21) Vedi Frank Testor, Film Ideen: wie man sie schreibt und erfolgyeicb verwertet!, Magdebur» go, Burg Verlag, 1919; Felix K. Bernhardt, Wie schreibt und verwertet man einen Film?, Berli­ no, Bauer-Verlag, 1926.

(22)

Dr. Kurt Muhsam, Film und Kino, Dessau, Dunnharpt Verlag, 1927, p. 36.

(23) William H. Horwald, Der Weg des Films: vom Glashaus bis zur Leinwand, in «Wester­ manns Monatshefte», n. 144, giugno 1928, p. 382. (24)

Dupont, Hollywood - das Filmparadies.

(25)

Vedi Gerhard Lamprecht, Deutsche Stummfilme, Berlino, Deutsche Kinemathek, s.d.

(26)

Muhsam, Film und Kino, p. 40.

(27) Max Mack, Die Toilette des Films, in Max Mack (a cura di), Die zappelnde Leinwand, Ber­ lino, Dr. Ensler & Co., 1916, p. 126; Horwald, Der Weg des Films, pp. 386-387.

(28)

Mack, in Mach, Die zappelnde Leinwand, p. 123.

(29)

Horwald, in «Westermanns Monashefte», pp. 386-387.

(30)

Die Organisation der Ufa-Produktion, in «Lichtbildbuhne» 20, n. 290, 5 dicembre 1927.

(31)

Muhsam, Film und Kino, p. 37.

(32)

Lettera di Fritz Lang a Kristin Thompson (Beverly Hills), 14 ottobre 1972.

(33) Denise J. Youngblood, Soviet Cinema in the Silent Era, 1918-1935, Ann Arbor, UMI Re­ search Press, 1985, p 65.

(34) Paul Babitsky, John Rimberg, The Soviet Film Industry, New York, Praeger, 1955, pp. 96-97, 102. (35) Nikolai Lebedev, Kino: Ego krataia istoria; egp voz mozhnosti; ego stroitel'stvo v sovtskom gosudarstve, Mosca, Edizioni di stato» 1924» pp. 55-56. (36) V.A. Schneiderov, Tekhnika i organizatsiia kinosemocbnoi raboty, Mosca, Tea-Kinopechat, 1928, pp. 86-88.

(37) S. Timoienko, Art of the Cinema and the Montage of Films, Leningrado, Academia, 1926, pp. 74-75. (38) Citazione tratta da Richard Taylor, The Politics of the Soviet Cinema 1917-1929, Cambrid­ ge, Cambridge University Press, 1979, p. 34.

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IL MODO DI PRODUZIONE DELLA “EARLY HOLLYWOOD*’

(39) Anatoli Golvnya, Broken Cudgels, in Luck e Jean Schnitzer (a cura di), Cinema in Revolu­ tion, New York, Hill & Wang, 1973, p. 148. (40)

Léon Moussinac, Le ànima soviitìque, Parigi, Librarie Gallimard, 1928, p. 60.

(41)

Hya Rentz, Na *semke,

(42)

Ippolit Sokolov, Kino-stsenarii: Toriia i tekniki, Mosca, Kinopechat, 1926, p. 69.

(43)

Ivi, pp. 68-69.

Mosca, Kinopechat, 1926, p. 23.

(44) L.I. Monosson, The Soviet Cinematography, in «Journal of theSociety of Motion Picture Engineers» 15, n. 4, ottobre 1930, p. 521. (45)

V.A. Schneiderov, Tekhnika i or&mizatsiia kino-s'emochnoi raboti, p. 9.

(46)

Ivi, pp. 58-59.

(47) V. Sutyrin, Prolemy sotialistischeskoi rekonstruktsii sovetskoi kinopromyshlennosti, Mosca, G.I. Kh. L., 1932, pp. 59-60.

(48)

Ivi, pp. 61-63.

(49) Ivi, p. 64. Teakinopechat era il principale editore di stato specializzato in tematiche cine­ matografiche. (50)

Babitsky, Rimberg» The Soviet Film Industry, pp. 86-87.

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RICHARD KOSZARSKI

LA PRODUZIONE PARAMOUNT A NEW YORK *

L’ubicazione degli Studi della Paramount a New York può servire a chiarire alcuni dei motivi che avevano indotto la casa cinematografica a restare nella East Coast. Prima del 1920, la Paramount aveva tre piccoli Studi a Manhattan e uno Studio a Fort Lee, nel New Jersey. Fort Lee si trova ad ovest di Manhattan, oltre il fiume Hudson. Gli Studi di Manhattan erano sovraffollati e le condizioni di lavoro difficili. Gli Studi erano stati ricavati da alcuni edifici già esistenti. In­ fatti, il principale Studio della Paramount a Manhattan, nella 56 * stra­ da, era una Writing Academy ricavata da alcune stalle; e non era certo uno Studio molto sofisticato come quello di Fort Lee, e la Paramount aveva gli stessi problemi delle altre case cinematografiche. Nel 1919 non esistevano né il ponte sullo Hudson River né le strade e, per andare da Manhattan allo Studio di Fort Lee, era necessario uti­ lizzare il traghetto. Se conoscete questa zona del New Jersey sapete anche che il fiume ha rive altissime, le Palisades. Superare le Palisades era molto difficile; soprattutto in inverno. Se, in passato, Fort Lee era stato uno Studio più che adeguato, ormai non era più in grado di soddisfare le esigenze. La Paramount aveva bisogno di uno Studio molto più comodo e vicino agli uffici * della direzione di Manhattan. Quando Fox aveva costruito lo Studio di New York, l’edificio non conteneva soltanto le attrezzature dei teatri di posa, ma anche l’ufficio di William Fox ad ovest di Manhattan. 27

RICHARD KOSZARSKI

Non dobbiamo dimenticare che, all’epoca, percorrere in treno gli Stati Uniti richiedeva molti giorni. Il costo delle telefonate interurbane era altissimo. Le comunicazioni tra lo Studio di Manhattan e gli Studi californiani passavano attraverso questi lunghissimi pali telegrafici che oggi sono molto utili agli storici per studiare le modalità di trasmissione degli órdini da costa a costa ma, all’epoca, non consentivano di control­ lare efficacemente la produzione. Per supervisionare, almeno in parte, l’attività dello stabilimento era preferibile che i teatri di posa fossero il più possibile vicini alla direzione centrale. Non si è mai cercato di trasferire ad Est tutti gli stabilimenti cinema­ tografici, ma case come la Paramount non volevano che i teatri di posa fossero troppo lontani dalla direzione. Quindi la Paramount costruì uno Studio a New York — ma non nel­ la zona Ovest dove, antecedentemente alla prima guerra mondiale, ne esisteva già uno. Il nuovo Studio, costruito nel 1920, era situato nel quartiere perife­ rico di Queens, al di là dell’East River. Uno dei motivi che indussero a costruire lo Studio a Queens fu l’a­ pertura del Queensboro Bridge, noto come il ponte della 59a, che colle­ ga la zona orientale di Manhattan a Queens. Fu inaugurato nel 1909 e aveva una linea tranviaria. Un motivo ancora più importante della costruzione del ponte fu il collegamento di questa zona di New York City al troncone principale della metropolitana. Nel 1917 venne inaugurata la ferrovia sopraelevata che attraversava il fiume e arrivava fino a questa zona dell’Astoria. Ap­ pena la ferrovia fu operativa, aumentarono le attività commerciali e il numero di edifici residenziali. Dai giornali degli anni Venti risulta che a Queens era prevista la co­ struzione di molti altri Studi cinematografici. Ma, a causa del crollo del­ l’industria negli anni successivi, i progetti non furono mai realizzati. Sembrava che Queens dovesse divenire un grande centro cinematogra­ fico, invece nella zona rimase un solo teatro di posa importante. La Paramount inaugurò il suo Studio nel settembre 1920. Si tratta di un tipico Studio “verticale” dell’East Coast, con palcoscenici, gene­ ratori in cantina e tre piani con Studi di ripresa, camerini, uffici, labo­ ratori, che racchiudevano, come in un anello, un’ampia zona aperta. L’edificio sembra più una stazione ferroviaria che uno Studio come quello di Fort Lee con la tradizionale struttura “a serra”. Il progetto 28

LA PRODUZIONE PARAMOUNT A NEW YORK

originale prevedeva una copertura in vetro del tetto, come quella delle tradizionali pensiline, ma la soluzione non risultò fattibile. Parlo dello “Studio della Paramount” anche se, ovviamente, è ne­ cessario fare una distinzione tra “Famous Player Lasky” e '‘Para­ mount”. La stampa comunque parlava in generale dello “Studio della Paramount” e anche io continuerò a chiamarlo così. Zukor, direttore della Lasky Features Play e della Famous Player La­ sky, era in grado di controllare tutto quello che accadeva nel suo Studio — era sufficiente che attraversasse il ponte sulla 59 “. La prima cosa che Zukor vedeva era un gran numero di registi, attori e sceneggiatori di New York. Comunque lo Studio ebbe il merito di mettere alla prova talenti tea­ trali come Claudette Colbert, Fredric March e altri noti attori. Lo Stu­ dio di New York servì da banco di prova anche per registi teatrali di Broadway come Rouben Mamoulian, George Cukor, George Abbott e per scrittori come Preston Sturges, ma l'elenco delle personalità “im­ portate” da Broadway potrebbe essere esteso all’infinito. Lo Studio di New York offriva a Zukor anche altri vantaggi. La zo­ na attorno all’Astoria, infatti, era utile per girare in ambienti particolari poiché ricordava l’East e il Midwest, difficilmente reperibili nella regio­ ne californiana. Quindi lo Studio si prestava benissimo alla produzione di questo tipo di film. È un ambiente che si trovava appena dietro l’an­ golo: bastava scendere in strada con una macchina da presa e riprendere un edificio a pochi isolati di distanza. Ma New York non offriva solo vantaggi. Non mancavano certo le difficoltà; il prezzo dei terreni, ad esempio, era elevato, anche a Queens, e la Paramount aveva molto spazio disponibile per costruire grandi ambienti in esterno. Si prenda la città di Parigi in The Battle of Paris di Robert Florey: fu ricostruita in teatro di posa e poi modificata e riutilizzata per altri film. Dopo uno o due mesi, il set veniva smantellato e ne veniva costruito un altro. Nella sua autobiografia, Jesse Lasky afferma che a New York gli esterni venivano spesso distrutti dalle tempeste e dal maltempo. Non so cosa intendesse per “spesso”; personalmente sono riuscito a do­ cumentare un solo caso, ma è ovvio che avere un set permanente sulla East Coast era più difficile che in California. Nello Studio di New York non esistevano ricostruzioni permanenti di strade di New York. Se osserviamo i prodotti, i film girati negli Studios Astoria negli anni 29

RICHARD KOSZARSKI

Venti, vediamo emergere chiaramente alcune caratteristiche. Innanzi­ tutto, i film avevano una valenza più letteraria che scenica, non erano film di azione o di intrattenimento, ma esprimevano alcune idee. Non è certo il tipico profilo del cinema americano! I film prodotti in questo Studio sono quindi molto diversi dai tipici prodotti del cinema holly­ woodiano. Come era prevedibile, lo Studio si popolò immediatamente di gente che non era disposta a lavorare a Hollywood: eccentrici, scontenti, pro­ vocatori, persone che, per motivi personali, volevano restare il più lon­ tano possibile dalla grande fabbrica di Hollywood e lavorare in questo piccolo stabilimento. Robert Florey, regista del film The Battle of Paris e di A Hole in the Wall, ne è un esempio. Robert Florey aveva diretto due brevi film spe­ rimentali sulla West Coast, Life and Death of 9413, an Hollywood extra e The Loves of Zero-, dopo questi, due brevi film “espressionisti” andò a New York per dirigere lungometraggi con i fratelli Marx e Claudette Colbert. Negli Studi della West Coast non sarebbe stato possibile. Flo­ rey arrivò a New York perché un suo amico, responsabile dello Studio, Monta Bell, arrivato nell’East Coast chiamò i suoi amici da Hollywood. Erano tutte persone che aveva conosciuto verso la metà degli anni Ven­ ti quando lavorava con Chaplin. Con l’avvento del sonoro, molti assi­ stenti di Chaplin finirono nell’East Coast: Monta Bell, Robert Florey, Jean de Limur, Harry d’Arrast diressero così qualche film a New York. Ma non erano i grandi cineasti di Hollywood. Lo Studio era strutturato diversamente ed anche le persone erano diverse dai cineasti della West Coast. Ovviamente, nello Studio dell’East Coast lavorarono anche alcune personalità di rilievo ed è interessante capire il perché. Si prenda Gloria Swanson, che era la diva meglio pagata degli anni Venti. Lei stessa affermava che dopo molti film girati con B.P. Schulberg come direttore di produzione della West Coast era fuggita letteral­ mente da Hollywood dicendo (e se lo poteva permettere): «Voglio resta­ re qui per tutta la durata del contratto e lavorare nello Studio di New York». Ma la Swanson non fu l’unica a trasferirsi a New York. H suo regista Allan Dwan'non amava le interferenze di persone come P.B. Schulberg e se ne andò anche lui a New York. Nella metà degli anni Venti, appena fu loro possibile, se ne andarono anche Herbert Brenon e giovani registi come Frank Tuttle, che era considerato un innovatore e fece il possibile 30

LA PRODUZIONE PARAMOUNT A NEW YORK

per restare nell’East Coast dove, a suo avviso, le condizioni di lavoro favorivano la creatività. E poi, naturalmente, Rodolfo Valentino. La famosa lite di Valentino con la Paramount, come nel caso della Swanson era dovuta al fatto che B.P. Schulberg aveva costretto Valentino a girare alcuni film che, se­ condo i suoi consulenti (tra cui la moglie Natasha Rambova), non ave­ vano giovato alla sua carriera. Valentino se ne andò per un anno e acconsentì a tornare soltanto a condizione di poter lavorare nell’East Coast e non a Hollywood. A New York, Rodolfo Valentino girò due film, incluso Monsieur Beucaire, sotto la stretta supervisione di sua moglie Natasha Rambova. D.W. Griffith è forse il caso più interessante. Con Birth of a Nation e Intolerance, Griffith aveva dato indubbiamente un grande contributo all’affermazione di Hollywood come il principale centro di produzione cinematografica degli Stati Uniti. Ma nel 1919 anche Griffith lasciò Hollywood per tornare nell’East Coast, affermando che i soldi e i “cer­ velli” erano lì. Evidentemente, in California aveva qualche difficoltà a trovare i finanziamenti per i suoi film, ma anche i “talenti”. Griffith si costruì uno Studio a nord di New York City. E vi risparmio i suoi problemi. Quando perse lo Studio tornò da Zukor e. dalla Paramount, ma solo a condizione di poter lavorare nell’East Coast. Griffith era ter­ rorizzato di doversi sottomettere alla rigida disciplina di Schulberg e degli altri dirigenti della West Coast. Il modo in cui i singoli progetti venivano distribuiti tra la West Coast e l’East Coast non avveniva in modo arbitrario. Jesse Lasky, direttore della produzione, si riuniva con i responsabili della West Coast (in genere Schulberg) e dell’East Coast (William LeBaron negli anni Venti e Monta Bell successivamente). I dirigenti conducevano le trattative per l’assegnazione dei progetti e la politica interna giocava sicuramente una parte importante. Si cercava comunque di trarre van­ taggio da alcune caratteristiche che lo Studio dell’East Coast offriva. Nelle trattative sicuramente Schulberg faceva la parte del leone: il suo Studio produceva gran parte dei film e aveva sotto contratto la mag­ gior parte dei divi della Paramount. Ma anche lo Studio dell’East Coast aveva voce in capitolo e girava una notevole quantità di film. Negli anni Venti lo Studio produsse il 30% circa dei film della Para­ mount (nel 1924 addirittura il 40%), un risultato piuttosto brillante. Quindi, nelle trattative, il rappresentante dello Studio dell’East Coast aveva molto da dire. 31

RICHARD KOSZARSKI

E Cecil B. DeMille? Come direttore generale della Lasky Feature Company, non dirigeva soltanto i propri film, ma controllava anche quelli di suo fratello William e di George Malford. I giornali del 1924 riportarono la notizia che C.B. DeMille era all’A * storia per dirigere The Golden Bed, ma all’improvviso, la settimana do­ po, si lesse che se ne era andato senza dare spiegazioni. Forse lo fece perché suo fratello William si era installato all’Astoria Studio. E vero che William e Cecil avevano potuto lavorare insieme nel grande Studio californiano, ma rinchiuderli nello stesso Studio di New York non era forse una soluzione soddisfacente per Cecil. Oggi i film di William DeMille sono quasi dimenticati, ma ai critici di quegli anni piacevano più dei film del fratello Cecil. Cecil se ne era sicuramente reso conto, anche se i suoi film incassavano di più. Speria­ mo che la ricerca storica ci porti altre informazioni sui rapporti tra due registi così interessanti. Comunque, è un fatto che C.B. DeMille se ne tornò nella West Coast. Tra le altre personalità che lavoravano nello Studio dell’East Coast c’era la diva delle Ziegfeld Tollies, Louise Brooks, che all’Astoria Studio girò i suoi primi sei film. Verso la fine degli anni Venti, Louise andò in California a lavorare per Schulberg e affermò che era un grande sfruttatore che controllava tutti i set. A Hollywood non c’era altro che il cinema, non c’erano night, non c’erano ristoranti. La Brooks preferi­ va l’ambiente di New York, dove i registi si erano laureati alla Prince­ ton University e la trattavano di conseguenza. Con l’avvento del sonoro, la sede dell’East Coast, ormai chiusa, eb­ be un revival. Schulberg era riuscito a ottenere il controllo su tutta la produzione della Paramount, ma nel 1927 la realtà era cambiata. Nell’e­ poca del sonoro, uno Studio a due passi da Broadway diventava eviden­ temente un patrimonio prezioso. Dopo aver chiuso lo Studio per un anno, dunque, la Paramount lo riaprì. Da Broadway arrivarono i fratelli Marx, che di giorno giravano film come The Cocoanuts all’Astoria e la sera se ne tornavano in teatro a recitare Animai Crackers. Era un andirivieni continuo, e il principale problema era quello di avere tutti i fratelli Marx contemporaneamente sul set ed evitare che Groucho confondesse le battute delle due comme­ die. Guardando The Cocoanuts, ci si accorge di qualche problema con il dialogo, dovuto sicuramente a questi motivi. Nel periodo del sonoro, lo Studio dell’East Coast divenne anche il centro della produzione di film in lingua straniera. Gran parte dei film 32

LA PRODUZIONE PARAMOUNT A NEW YORK

in lingua straniera della Paramount venivano girati in Europa, a Parigi, ma molti film in francese e spagnolo furono girati a New York, soprat­ tutto perché erano disponibili attori come Claudette Colbert, nata in Francia, e altri artisti importati, come Maurice ^Chevalier, che in origi­ ne lavoravano a New York. Film come The Big Hunt sono stati girati in diverse lingue; The Smiling Lieutenant di Lubitsch è stato girato in Europa in versioni diverse. Successivamente, la Paramount fallì e nel 1941 fu costretta ad inter­ rompere la produzione. Lo Studio non venne svenduto ma fu noleggia­ to ai produttori Indipendenti. Questi produttori erano ancora più estre­ misti ed anticonformisti di quanto non fossero stati Florey e Monta Bell alcuni anni prima. Ben Hecht e Charles MacArthur, ad esempio, girarono quattro film non tradizionali, incluso The Scoundrel con Noel Coward. H film The Emperor Jones non era neanche un film della Paramount ma una produzione degli indipendenti Cochrane e Krimsky, diretto da Dudley Murphy e distribuito dalla United Artists. Emperor Jones era una proprietà privata che, e Hollywood, nessuno si sarebbe mai sognato di toccare e lì nessuno avrebbe scelto Paul Robeson come protagonista. Questo poteva accadere solo a New York. Dopo un inizio travagliato, negli anni Trenta, gli Indipendenti gira­ rono commedie, cinegiornali, ecc. Poi l’esercito statunitense acquistò lo Studio nel 1941 e lo utilizzò come centro di produzione dei film di ad­ destramento. Qui Frank Capra realizzò molti dei suoi film durante la guerra. C’e­ rano anche Studi in California ovviamente, ma Capta andava avanti e indietro. In effetti qui si concludevano i rapporti tra la Paramount e lo Studio. E oggi? Lo Studio è sopravvissuto e ha ora le stesse funzioni che ave­ va negli anni Venti e Trenta. È un rifugio per cineasti come Woody Al­ ien, che non vuole lavorare a Hollywood. È accessibile a registi come Sydney Lumet che amano ambientare i film a New York. L’ultimo film girato qui è Presumed Innocent di Alan Pakula con Harrison Ford e Greta Scacchi, e naturalmente lo Studio serve anche per le produzioni televisive. (traduzione di Maria Laura Petrelli)(*) (*) Il presente pezzo è la trascrizione di un intervento a braccio. Ci scusiamo dunque per i possibili problemi di stile o di spelling.

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PHILIP ROSEN

DeMILLE: L’ALIBI LETTERARIO E IL PRETESTO STORICO

In questo saggio mi occupo di costruzioni di storicità, un aspetto del cinema tradizionale americano {mainstream cinema) più diffuso di quan­ to comunemente si crede. Per dimostrare questo mio convincimento, pren­ derò le mosse dagli anni che hanno visto nascere il cinema classico negli Stati Uniti, e porrò in luce uno dei suoi risultati più duraturi, la standar­ dizzazione del lungometraggio come prodotto di punta dell’industria ci­ nematografica. La Paramount e uno dei suoi registi e produttori di mag­ gior spicco, Cecil B. DeMille, sono stati due dei protagonisti che hanno portato al culmine questo processo di standardizzazione. DeMille è sta­ to un illustre regista di lungometraggi praticamente per tutto il periodo del classicismo degli studios hollywoodiani, e negli ultimi anni spesso si è voluto affermare come un maestro dei kolossal biblici e storici. Anche elementi apparentemente caratteristici della sua carriera possono essere analizzati come elementi chiave rivelatori dell’industrializzazione cine­ matografica della testualità. Per questo motivo, inizierò mettendo in lu­ ce un meccanismo presente in alcuni film ben noti, che praticamente coincidono con l’emergere di DeMille nella storia del cinema. In The Wishing Ring, un adattamento teatrale del 1914 diretto da Mauri­ ce Tourneur, molte scene sono girate in esterni. Ma il film inizia con quattro giovani vergini (che ricompariranno nel corso della vicenda come un gruppo di personaggi marginali, con un ruolo di commento) che apro­ no il sipario, e termina con le fanciulle che chiudono il sipario sul palco­ scenico. 35

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The Italian, un film del 1915 diretto da Reginald Barker su una sce­ neggiatura originale di C. Gardner Sullivan, è stato apprezzato per la de­ scrizione quasi-neorealista dell'ambiente e delle condizioni di vita degli immigrati nel Lower East Side. Eppure, il film inizia con un uomo ine­ quivocabilmente upper class, in un lussuoso studio, che apre un libro di lettura, un romanzo, The Italian, per l'appunto; e allorché la vicenda fil­ mata dell’immigrato italiano si conclude col protagonista davanti alla tomba del figlioletto, vediamo lo stesso lettore che chiude il libro. Nel suo lungometraggio del 1914 The Avenging Conscience la trama originale di D.W. Griffith attinge ampiamente da The Tell-Tale Heart, un protagonista che legge proprio quella storia e — qualora ci sfuggisse l’influenza di Poe — citazioni da Annabel Lee intercalate nell’intreccio amoroso. E come se molti dei nostri primi lungometraggi più prestigiosi si sen­ tissero tenuti a dichiarare le condizioni della propria esistenza. Perché il lungometraggio è stato inventato in un periodo in cui gli adattamenti di testi teatrali e letterari abbondavano ed erano verosimilmente il pro­ dotto più importante del cinema commerciale USA. (In questo saggio, con le parole letterario e letteratura, intenderò sia la narrativa che i te­ sti teatrali). Ma come si evince da questi esempi, chi attingeva alla lette­ ratura non si limitava a un adattamento tout court. The Avenging Conscience è una rielaborazione esplicita di temi e si­ tuazioni derivanti da E.A. Poe, in un film che si muove ancora entro i confini delle convenzioni e prassi appena instaurate nel cinema tradi­ zionale. The Wishing Ring e The Italian (un adattamento e un soggetto originale) inquadrano la loro narrativa in significanti di situazioni di estrazione letteraria. Anzi, un’analisi dei film a soggetto di questo pe­ riodo rivelerebbe un gran numero di riferimenti analoghi. In questa specifica congiuntura storica, si può argomentare che il trionfo di quello che noi attualmente chiamiamo film tradizionali era assolutamente inconcepibile al di fuori di questi legami letterari. U ro­ manzo, il teatro e il racconto breve all’inizio del secolo hanno tutti avu­ to un impatto cruciale sui parametri narrativi impliciti che sarebbero di­ venuti i cardini del sistema hollywoodiano. Gli autori di Classical Holly­ wood Cinema hanno dimostrato che, nello sviluppo del classicismo dopo gli anni 1907-1908, le versioni di tali forme letterarie hanno fornito modelli utili a definire quel che valeva come “qualità” filmica, ivi com­ presi i concetti selettivi di costruzione narrativa, verosimiglianza e coe­ renza psicologica che consentivano al nuovo mass medium di evitare gli 36

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estremi sia della volgarità popolare che della sperimentazióne moderni­ sta spinta all’estremo. È rivelatore il fatto che gli sceneggiatori più ri­ chiesti in questo periodo provenissero molto spesso dal giornalismo e dalle riviste di.fiction che puntavano ad un mercato delle classi medie, e che i criteri di “qualità” filmica e narrativa siano riconducibili a quel genere di scrittural. ■ Eppure, durante la standardizzazione del lungometraggio, la lettera­ tura ha fatto sentire un impatto anche esplicito, come risulta da tutta una serie di elementi, dagli adattamenti spesso pubblicizzati come tali, fino a più specifici intertesti e riferimenti a successi letterari che ritro­ viamo in film quali The Wishing Ring, The Italian e The Avenging Con­ science. In ultima analisi, è impossibile scindere completamente l’espli­ cito dall’implicito, anche se in questa sede tenterò di porre in luce, sin­ teticamente, i collegamenti letterari espliciti. Intertesti e adattamenti letterari non erano una novità, ma di certo sono stati standardizzati con decisione proprio nel periodo che inventò il lungometraggio a soggetto. Per rimanere nell’ambito dell’industria cinematografica americana, è vero che le norme letterarie hanno fornito modelli fondamentali che im­ plicitamente hanno dato forma al cinema tradizionale, tuttavia il carat­ tere esplicito della presenza letteraria aveva forti determinazioni socio­ ideologiche ed economiche.. Sul piano economico, la motivazione chiave ricorrente nella storia del cinema USA è stata il consolidamento e l’accentramento, con il co­ rollario di voler controllare un’intera industria limitando la concorren­ za. A partire dal 1897, allorché la Edison provò ad eliminare i rivali in­ tentando una serie di cause sui brevetti, manovre tipicamente capitaliste quali le vertenze giudiziarie, le fusioni, le scalate ostili sono state frequenti nell’industria cinematografica. Il lungometraggio, i cui inizi sono legati à filo doppio all’intertesto letterario, è stato un elemento chiave nelle strategie di consolidamento degli anni Dieci, quando le so­ cietà emergenti si combattevano per mettere le mani su quell’autentica miniera d’oro che era l’intrattenimento popolare. E quindi l’integrazione verticale, l’oligopolio, i sogni di controllare tutta l’industria cinematografica — solitamente identificati con l’era classica dello studio system — in realtà nascono e si affermano nel perio­ do in cui è stato inventato il lungometraggio 2. Adolph Zukor è spesso considerato una figura emblematica di quel tempo: è stato un pioniere della produzione americana di lungometraggi, fondando la Famous Players Company, che importò programmi cinematografici europei a 37

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partire dal 1912 con Queen Elizabeth, protagonista Sarah Bernhardt. La Famous Players quasi immediatamente decise di produrre i propri film, per lo più adattamenti. Nel 1917, con una complicata serie di ma­ novre finanziarie e operazioni di Borsa, Zukor aveva fuso la sua società con un grosso concorrente sul mercato, la Jesse Lasky Feature Plays Company e, con una mossa meno amichevole, aveva acquisito anche la più vecchia casa di distribuzione nazionale, la Paramount Pictures. Questo fa di Zukor un antesignano dell’ideale dell’integrazione vertica­ le, ed egli dovrebbe essere considerato un personaggio tipico del suo tempo, per questa sua capacità di coagulare e portare al successo aspira­ zioni largamente diffuse. Ad esempio, anche i fondatori della Triangle, un’altra grande casa di produzione e distribuzione, sembravano aver in mente già nel 1915 un analogo processo d’integrazione verticale. Giganti di tali dimensioni sarebbero stati semplicemente inconcepi­ bili senza la rapida espansione del mercato cinematografico verificatasi nei due decenni successivi all’inizio dello sfruttamento commerciale del cinema. Nel 1895 una casa di produzione e distribuzione cinematogra­ fica era semplicemente inesistente, e non vi era neppure una sala dedi­ cata esclusivamente alle proiezioni di film. Vent’anni dopo, nasceva la Triangle, con un progetto, poi realizzato, di produrre e distribuire 100 lungometraggi e 100 cortometraggi di Mack Sennett all’anno. Nel 1913 la Famous Players progettava di produrre un lungometraggio al mese; appena 5 anni dopo, la Paramount distribuiva 220 programmi in un an­ no, il record per una casa cinematografica. Era palesemente difficile soddisfare la domanda di un mercato di massa: questa concezione su lar­ ga scala dell’industria cinematografica che puntava su un mercato di massa, stabile o in espansione costante, richiedeva la circolazione di una grande quantità di prodotti redditizi attraverso il sistema di distri­ butori-esercenti. Con il lungometraggio a soggetto come prodotto di punta, era indispensabile un apporto ininterrotto di storie più lunghe. Da dove sarebbero venute? In generale, nel periodo in questione le fonti abituali erano le pieces teatrali, la prosa letteraria e le sceneggiature originali. Sembra che il teatro fosse una fonte particolarmente fertile, in parte forse per la pos­ sibilità d’importare anche gli attori teatrali, ed in parte per la tendenza ad aumentare i prezzi al botteghino per avvicinarsi ai prezzi del teatro. Inoltre, anche gli adattamenti cinematografici dei romanzi, quali The Virginian, spesso si rifacevano alla versione teatrale. Comunque sia, vi­ gevano stretti legami tra il mondo teatrale e quello cinematografico, le­ 38

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gami che avrebbero dato un apporto significativo alla rapida crescita della nuova industria. Nel 1914 Zukor aveva stipulato un accordo con produttori teatrali importanti quali Charles Frohman (il fratello di un suo socio) che gli riconosceva i diritti di trasposizione cinematografica di tutte le sue pièces teatrali; sempre nel 1914 Lasky otteneva diritti analoghi da David Belasco. La tendenza ad attingere alla letteratura come fonte precipua di un gran numero di soggetti è comunque inscindibile dalle determinazioni socio-ideologiche. Limitiamoci a considerare un evento emblematico: il giorno di Natale del 1908 tutte le sale cinematografiche di New York vennero chiuse in base a un’ordinanza del sindaco, George B. McLel­ lan. Il giorno di Santo Stefano si ottenne un’ingiunzione che bloccò l’a­ zione del sindaco (e da allora gli abitanti di New York non sono più sta­ ti a corto di film). Ma l’episodio illustra qualcosa di significativo: il pe­ ricolo incombente non era solo la censura dei testi, che l’industria pote­ va gestire con successo, ad esempio tramite il National Board of Re­ view, fondato nel 1909. Piuttosto, l’intero business cinematografico era un bersaglio vulnerabile. Molti autori di storia sociale sembrano convenire ancora adesso che gli attacchi più vigorosi contro il cinema vennero sferrati dai riformato­ ri sociali e dai tutori della moralità della classe media; il contesto di clas­ se comunque era complicato, dato che almeno alcune istituzioni della classe lavoratrice (ad esempio le chiese dei quartieri di immigrati) si op­ posero alla nuova forma di divertimento. A preoccuparle non era solo il contenuto dei film, ma anche l’ambiente di fruizione — folla, sporci­ zia, promiscuità e, come sempre, il timore che bambini non controllati dai genitori fossero esposti a stimoli che li spingessero alla delinquen­ za3. Tuttavia, un pubblico abituale delle dimensioni richieste dalla concentrazione dell’industria cinematografica doveva essere necessaria­ mente un pubblico di massa, interclassista per antonomasia. Non si po­ teva tollerare alcuna interruzione nel flusso dei consumatori, in base a considerazioni morali e/o ideologiche: in sintesi, il prodotto doveva es­ sere in sintonia con le pratiche culturali egemoniche. Il lungometraggio soddisfaceva questo bisogno. Fin dagli inizi, il ter­ mine feature film venne usato dall’industria per indicare film dotati di caratteristiche particolarmente adatte a “vendere”. Inizialmente, la lunghezza del programma superiore alla norma era solo uno degli ele­ menti possibili quando si parlava ài feature, il che di per sé era una ri­ sposta possibile al problema industriale di distinguere il proprio prodot39

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to. H problema non si è risolto in un batter d’occhio, visto che si sono continuati ad elaborare altri modi atti ad identificare e progettare film con qualità di marketing particolari. (Ad esempio, negli anni Venti vi * geva una distinzione comune tra i tipi di lungometraggio nei piani di produzione: program pictures, specials, roadshows o super-specials). Ma, con un’inversione di tendenza molto interessante, il lungometraggio di * venne la norma, il prodotto trainante dell’industria cinematografica. Pare chiaro che ciò avvenne in parte perché veniva incontro su un piano testuale alle esigenze socio ideologiche * dell’industria. È significativo, ad esempio, che i primi feature films fossero compatibili con lo sviluppo di luoghi di proiezione diversi dalle primitive sale che si aprivano diret­ tamente sulla strada (storefront theater), proprio perché si riteneva che tali film giustificassero un ambiente più simile a quello dei teatri tradi­ zionali. Non deve sorprendere quindi che nel prodotto che si pone al culmine dello sviluppo economico del cinema classico, i feature films, si infiltrassero ideali e modelli narrativi presi da media “rispettabili” con un pubblico delle classi medie. Quel che più importa, a questo punto, è far notare che l’ascesa del lungometraggio ha esercitato un impatto implicito e duraturo sulle strutture testuali, che ci riconduce ai segni espliciti del testo letterario in tanti film dei primi anni. Visti come una strategia culturale, i segni espliciti della presenza della letterarietà in ta­ li esempi non sono soltanto segni distintivi della consapevolezza dei re­ gisti di un’industria nascente con legami con istituzioni connotate come “letterarie”; sono nel contempo pubblicità culturali, che fanno valere le norme di qualità e correttezza nell’ambito di aggregazioni culturali egemoniche. L’autorità degli intertesti serviva ad acquisire una legitti­ mità culturale4. I processi economici e socio-ideologici implicati nell’istituzionalizza­ zione del lungometraggio ci consentono di definire l’infusione massiccia di conoscenze letterarie nel cinema classico un alibi: l’alibi letterario,' per l’appunto. La letteratura non offriva soltanto modelli strutturali, ma anche pretesti: palesemente, pre-testi nel senso di testualizzazione narrativa precedente; ma anche pretesti nel senso di finzione, esca, co­ pertura fittizia per strategie economiche molto ambiziose e per la legit­ timazione sociale da cui non si può prescindere. E il discorso ci porta quindi al grande affabulatore di pretesti nelle relazioni pubbliche di Hollywood: Cecil B. DeMille. In termini meramente numerici di film diretti, gli anni più prolifici della carriera di DeMille dietro la macchina da presa sono appunto quel­ 40

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li che videro la standardizzazione del lungometraggio come prodotto te­ stuale di punta del cinema commerciale. Dalla presentazione della sua opera prima nel 1914 fino a tutto il 1918, DeMille figura come regista di 33 film, tutti lungometraggi. (Nel 1914 erano abitualmente film di 4 rulli, ma alla fine del periodo erano già passati a 5 o 6 rulli). Di questi 33 film, 12 erano sceneggiature originali e gli altri 21 si rifacevano a fonti letterarie, e due terzi delle fonti letterarie erano lavori teatrali5. Questa preponderanza di fonti letterarie e lavori teatrali non deve sor­ prenderci. DeMille aveva alle spalle un’esperienza in teatro, e inoltre era una figura di spicco nel realizzare il tipo di sensibilità estetica che risponde ai prerequisiti economici e socio-culturali di una produzione cinematografica razionalizzata, adatta ad un mercato di massa. È stato uno degli autori creativi più importanti nelTinstaurare norme testuali che si sono legate al duraturo successo dell'industria in generale. Eppure, notiamo una divisione particolare: 15 dei 21 film di origine letteraria sono stati realizzati nei primi due anni del periodo, cioè nel 1914 e 1915. Sono gli stessi anni in cui DeMille attinse più copiosa­ mente dalle fonti teatrali: 11 dei suoi 15 adattamenti letterari del 1914-1915 si basavano su pièces teatrali (anzi, 12 se si considera Car­ men di origine musicale-teatrale anziché tratto dalla vicenda narrata da Merimée). In realtà, nei primi due anni della sua carriera, DeMille curò la regia di più adattamenti da testi teatrali che non nei 40 anni successi­ vi. L'elemento particolare è che nei due anni immediatamente successi­ vi, 1916 e 1917, DeMille girò soltanto due adattamenti letterari (en­ trambi di matrice teatrale), mentre gli altri 8 film diretti in quei due anni si basavano su sceneggiature originali. Anche in una prospettiva autoriale, è uno spostamento quanto mai sorprendente, perché la spro­ porzione fra sceneggiature originali e adattamenti non sarebbe durata a lungo. Dal 1919 al 1929 le fonti dei suoi film si sono divise equamen­ te: 10 a testa. Questo ci pone un interrogativo solo apparentemente banale: perché DeMille, un uomo di teatro che lavorava con case di produzione strettamente legate al mondo teatrale americano, nel 1916-17 si è praticamen­ te astenuto dagli adattamenti teatrali? Poteva entrare in gioco una serie complessa di cause, negli anni in cui il lungometraggio aumentava anco­ ra di lunghezza, passando da 5 a 6 rulli: ad esempio, la drastica riduzio­ ne del numero di film girati da DeMille, man mano che le case cinema­ tografiche si espandevano ed assumevano altri registi; la complessità del trattare con fonti teatrali; e la percezione dei gusti del mercato. Anche 41

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il rapido cambiamento dell'organizzazione dell’industria cinematografi­ ca avrebbe potuto influire indirettamente su tali decisioni (ricordiamo che il 1916 è l’anno in cui Zukor acquisì la distribuzione Paramount e fuse la sua Famous Players con la Lasky). Uno storico smaliziato potreb­ be discettare sulla pertinenza relativa di tali meccanismi, facendo riferi­ mento a documenti del tempo, operando un raffronto con l’opera di al­ tri registi e le prassi di altre case di produzione. Comunque sia, invece di focalizzare l’attenzione sull’aspetto negativo e ristretto di decisioni specifiche effettuate nel 1915-16 (perché DeMille non diresse un mag­ gior numero di adattamenti?), intendo procedere in una direzione al­ quanto diversa, chiedendomi in generale, che cosa ha fatto, invece degli adattamenti teatrali. L’interrogativo può essere riformulato in modo tale da ampliare la lettura socioculturale della fonte letteraria nei primi lungometraggi. Vi era all’epoca qualcos’altro che contasse quanto un intertesto autorevole nell’opera di DeMille, un protagonista nel consolidamento industriale basata su una rapida espansione dell’offerta di lungometraggi? Sottolineando lo stretto legame degli ideali professionali di prestigio e “qualità” nella standardizzazione del lungometraggio di origine lette­ raria, Staiger cita W. Stephen Bush, che avrebbe detto nel 1911 che non era mai stato girato nessun feature basato su una sceneggiatura originale 6. Eppure, appena 5 anni dopo, DeMille, con tutti i suoi rap­ porti con gli ambienti teatrali, con una casa di produzione legata al tea­ tro e al feature film, utilizzava in prevalenza sceneggiature originali. Se l’adattamento letterario abbinava qualità professionale e autorevolezza culturale, com’era possibile conservare tali qualità quando il testo del film non poteva vantare ascendenti letterari? Naturalmente, l’opera giovanile di DeMille può corroborare la tesi di Kristin Thompson sul­ l’internazionalizzazione industriale degli ideali della struttura narrativa comune alla cultura letteraria middle class di fine Ottocento. Ma vorrei far notare qualcos’altro. Basta una rapida occhiata alla sintesi delle tra­ me dei film che DeMille ha girato in questi anni su sceneggiature origi­ nali per riconoscere una tendenza ad interessarsi comunque alle funzio­ ni e rappresentazioni della storia. E questo è particolarmente evidente per tutta una serie di produzioni dalla metà del 1916 in poi7. Per tali film, sembrerebbe che l’intertesto legittimante sia di matrice storica anziché letteraria: ma è importante evitare dietrologie teleologi­ che. Se DeMille è spesso considerato un auteur dell’epica storica, è pur vero che si è guadagnato tale reputazione soprattutto nel periodo del 42

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sonoro. Naturalmente, taluni film degli anni Venti — precipuamente King