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STUDIA PHILOLOGICA 23
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S T U D I A
P H I L O L O G I C A
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LUCA TONIN
ESILIO E UMANESIMO IN ANDREA ALCIATO FONTI, TRADIZIONE, FILOLOGIA
«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER Roma - Bristol
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Luca Tonin Esilio e umanesimo in Andrea Alciato Fonti, tradizione, filologia
© 2021 «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER Via Marianna Dionigi 57 00193, Roma - Italy www.lerma.it
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Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione di testi e illustrazioni senza il permesso scritto dell’Editore
Luca Tonin, Esilio e umanesimo in Andrea Alciato. Fonti, tradizione, filologia - «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER, 2021 - 292 pp. ; 24 cm. (Studia Philologica 23) ISSN 0081-6817 ISBN 978-88-913-1983-8 (brossura) ISBN 978-88-913-1985-2 (pdf ) CDD 170 1. Andrea Alciato
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Volume pubblicato con il contributo del Progetto PaRoS – Palingenesie der Römischen Senatsbeschlüsse (509 v. Chr. – 284 n. Chr.), finanziato dalla Alexander von Humbolt Stiftung presso la Westfälische Wilhelms-Universität Münster
Il presente studio è nato dai risultati di un percorso dottorale svolto in cotutela fra l’Università degli Studi di Trento (Facoltà di Giurisprudenza, XXX Ciclo di Dottorato) e la Westfälische Wilhelms-Universität Münster (Rechtswissenschaftliche Fakultät). La tesi dottorale è stata approvata dai seguenti valutatori: Prof. Dr. Annalisa Belloni (referee, Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano) Prof. Dr. Xavier Prévost (referee, Université de Bordeaux) Prof. Dr. Luisa Brunori (reviewer, Université de Lille) Prof. Dr. Josep Capdeferro (reviewer, Universitat Pompeu Fabra – Barcelona) La disputatio ha avuto luogo il 10 maggio 2019 presso l’Università degli Studi di Trento, alla presenza della seguente commissione esaminatrice: Prof. Dr. Massimo Miglietta (Università degli Studi di Trento) Prof. Dr. Christian Zendri (Università degli Studi di Trento) Prof. Dr. Pierangelo Buongiorno (Westfälische Wilhelms-Universität Münster) Prof. Dr. Sebastian Lohsse (Westfälische Wilhelms-Universität Münster) Preside della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Trento: Prof. Dr. Fulvio Cortese Dekan della Rechtswissenschaftliche Fakultät della Westfälische Wilhelms-Universität Münster: Prof. Dr. Klaus Boers
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a mia madre
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INDICE GENERALE
PREMESSA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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ABBREVIAZIONI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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PARTE I. INTRODUZIONE STORICO-METODOLOGICA CAPITOLO I. BREVI NOTE SUL BANNUM ................. I.1. La riflessione sul bannum dalla Glossa a Bartolo . . . . . . . I.2. Tipi di bannum . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I.3. Gli effetti del bannum. Alcune questioni inerenti allo status e alle capacità del bannitus . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I.4. La riflessione sul bannum dopo Bartolo . . . . . . . . . . . . . I.5. Alcune osservazioni in tema di cittadinanza medievale . . . NELLA TRADIZIONE DI IUS COMMUNE
19 19 24 25 32 36
CAPITOLO II. IL CONTRIBUTO DI ANDREA ALCIATO ...............
43
II.1. L’umanesimo giuridico e la filologia umanistica alciatea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . II.2. Le fonti. Sulla ricerca e sul metodo . . . . . . . . . . . . . . . .
43 55
NEL CONTESTO UMANISTICO EUROPEO
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PARTE II. L’ESILIO IN ALCIATO CAPITOLO III. LA RECEZIONE DELLE DOTTRINE MEDIEVALI SUL BANDO. LO STATUS DELL’ESULE . . . . . . . . . . . . . . . . . . III.1. Considerazioni preliminari ai capitoli III e IV . . . . . . . III.2. Il temperamento del rigor iuris civilis . . . . . . . . . . . . . . III.3. Mors civilis e mors naturalis a confronto . . . . . . . . . . . . III.4. Sulla restitutio del deportato/esule . . . . . . . . . . . . . . . .
61 61 63 70 76
CAPITOLO IV. LA RECEZIONE DELLE DOTTRINE MEDIEVALI SUL BANDO. GLI ISTITUTI DELLA DEPORTATIO ................................... IV.1. Sulla deportatio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . IV.2. Bannum, una vox vulgaris . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
E DEL BANNUM
CAPITOLO V. INVOLONTARIETÀ DELL’OMICIDIO E VOLONTARIETÀ DELL’ESILIO, FRA TRADIZIONE GRECA E ROMANA . . . . . . . . V.1. Oὐκ ἐθέλων – invitus . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . V.2. Ἀπενιαυτισμός, quasi abannatio dicitur . . . . . . . . . . . . . .
87 87 94
111 111 116
CAPITOLO VI. LA GIURISDIZIONE CRIMINALE ROMANA E L’ESILIO. ΤΌΠΟΙ RICORRENTI ED ESEMPI PARADIGMATICI . . . . . . . . .
123
PARTE III. IN DIALOGO CON BUDÉ E ZASIUS CAPITOLO VII. L’ESEMPIO DI BUDÉ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . VII.1. Considerazioni preliminari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . VII.2. Civitas romana ed exilium . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . VII.3. Esilio volontario apud Graecos . . . . . . . . . . . . . . . . . . . VII.4. L’exilium nella lingua greca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
139 139 141 152 165
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CAPITOLO VIII. L’ESEMPIO DI ZASIUS . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . VIII.1. Considerazioni preliminari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . VIII.2. Bando/deportazione e scomunica. L’endiadi dell’esclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . VIII.3. Su alcune questioni inerenti al bando . . . . . . . . . . . . VIII.4. An hosti sit fides servanda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
171 171 172 178 187
CONCLUSIONI. LA SENSIBILITÀ DEL FILOLOGO E DELLO STORICO, NEL DIALOGO UMANISTICO CON LE FONTI E LA TRADIZIONE.
UNA NUOVA ESPERIENZA GIURIDICA? . . . . . . . . . . . . . . . . .
195
BIBLIOGRAFIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . INDEX LOCORUM . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . INDEX NOMINUM . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . INDEX RERUM NOTABILIUM . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
203 237 261 271
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PREMESSA L’istituto del bando statutario, oggetto di dibattito intenso nella dottrina di ius commune dei secoli XIII-XV, rivela alle soglie dell’età moderna un carattere ancora attualissimo, in un contesto storico in cui l’appartenenza del singolo a una comunità (civile o religiosa che sia) riveste, a sua volta, un’importanza ancora centrale. In un mondo, quello del primo Cinquecento, profondamente diverso rispetto all’Europa due-trecentesca, il bando si presenta alla nuova generazione di intellettuali, umanisti e giuristi, nella veste attribuitagli da secoli d’interpretazione, qualificato e sistematizzato dai contributi di Accursio, Iacopo d’Arena, Alberto Gandino, Bartolo da Sassoferrato e Nello da San Gimignano. Dai prodromi italiani tre-quattrocenteschi, la temperie culturale umanistica del primo XVI secolo ha ormai assunto una dimensione europea comune e diffusa. Quest’ultima si anima dell’attività di personaggi il cui sapere enciclopedico è indirizzato a un’indagine sul mondo antico che è funzionale a una migliore comprensione della realtà loro contemporanea. In particolare, l’unione di competenze filologiche, storiche e giuridiche in personalità uniche si rivela determinante per il sorgere di un nuovo metodo di studio e comprensione della tradizione giuridica romana. La compilazione giustinianea, testimonianza principe di quella tradizione, subisce così un processo di storicizzazione e reinterpretazione da parte dei nuovi doctores (giuristi e umanisti), guidati da quel sapere pluridisciplinare che è in fondo l’aspetto più importante dell’umanesimo giuridico. Sulla base di queste premesse, è nato uno studio che indaga i caratteri del dialogo fra l’esilio1 e la cultura umanistica della prima generazione di giuristi-umanisti, nell’assenza, ad oggi, di studi specifici sul tema. Andrea Alciato, figura centrale del Rinascimento europeo, è stato eletto a rappresentante primo di quella generazione, pur se in unione e confronto con Guil-
1
A fini espositivi (e se non diversamente specificato), si utilizzerà il vocabolo ‘esilio’ nell’accezione ampia di ‘pena comportante l’esclusione del soggetto dalla comunità di appartenenza’, rinviando dunque all’istituto del bannum medievale, o exilium secondo la dizione umanistica (e non, s’intende, all’exilium di diritto romano propriamente inteso).
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laume Budé e Ulrich Zasius, in omaggio, s’intende, all’idea tradizionale del triumvirato umanistico2. Sullo sfondo della lettura e del commento delle riflessioni più significative elaborate dai tre su esilio e modalità dell’esclusione latamente intese, si propone una ricerca che ha l’intento di fornire un contributo nuovo allo studio delle dottrine di ius commune sul bando, nella valutazione dei profili di continuità e novità della dottrina umanistica in rapporto alla tradizione d’età medievale. Oggetto di ricerca duplice e complementare, l’esilio e l’umanesimo giuridico (primariamente alciateo) saranno presi in esame alla luce di tre elementi fondamentali: a) le fonti, sempre poste a base imprescindibile dello studio del pensiero umanistico sull’esilio; b) la tradizione, metro di giudizio e termine di confronto nella valutazione del contributo umanistico alle dottrine medievali sul bando; c) la filologia, chiave dell’originalità del metodo umanistico. Triplice è anche la struttura dello studio: a una prima parte costituita dall’introduzione generale ai temi cardine della ricerca (appunto, il bando-esilio e l’umanesimo di Andrea Alciato), ne seguirà una seconda dedicata alla presentazione delle argomentazioni alciatee più significative in tema di esilio, e una terza riportante i contributi su quello stesso problema elaborati da Guillaume Budé e da Ulrich Zasius, presentati in dialogo con il pensiero alciateo. Così, si auspica di dare all’incontro fra esilio e umanesimo una chiave di lettura nuova, cercando d’individuare le linee guida dell’elaborazione dottrinale umanistica su uno dei problemi centrali del vivere civile d’ogni tempo: l’esclusione del soggetto dalla comunità di appartenenza. Dando alle stampe questo volume desidero innanzitutto ringraziare Christian Zendri, Massimo Miglietta, Pierangelo Buongiorno e Sebastian Lohsse, per il loro magistero, la loro guida e il loro sostegno in questi ultimi anni. Ringrazio poi Tobias Leuker, per la sua amicizia e per gli utili suggerimenti in fase di correzione del testo. Inoltre, vorrei ringraziare Alessia Francescangeli ed Elena Montani, per la cura e la precisione che hanno dedicato all’allestimento editoriale del volume. A Riccardo Gasperina Geroni, Nunzia Ciano, Francesco Verrico, Anna Giulia Casciello, Salvatore Marino, Donatella Violante, Julia-Katharina Horn e Niklas Gasse rivolgo un ringraziamento particolare, per l’aiuto, il sostegno e il confronto mai mancati. Infine, un ulteriore pensiero affettuoso va ai miei cari e ai molti altri amici che, vicini e lontani, sono sempre stati al mio fianco nel corso di quest’esperienza. L. T.
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Vd. infra, par. I.4, e cap. II.
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ABBREVIAZIONI Auth. C. Ca. … q. … c. Clem. CTh. D. de cons. Dis. … c. Frid. 2 Gl. I. Lib. Feud. N. sc. VI. X.
Authentica Codex Iustiniani Causa … quaestio … canon Constitutiones Clementis V seu Clementinae Codex Theodosianus Digesta De consecratione Distinctio … canon Constitutio Friderici II Glossa Institutiones Iustiniani Libri Feudorum Novella Constitutio Iustiniani Senatus consultum Liber Sextus Decretalium Bonifacii VIII Decretales Gregorii IX seu Liber Extra
TLG TLL
Thesaurus Linguae Graecae Thesaurus Linguae Latinae
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PARTE I INTRODUZIONE STORICO-METODOLOGICA
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CAPITOLO I BREVI NOTE SUL BANNUM NELLA TRADIZIONE DI IUS COMMUNE I.1. LA RIFLESSIONE SUL BANNUM DALLA GLOSSA A BARTOLO Il contrasto fra l’assenza di qualsiasi riferimento al bannum3 nelle fonti giustinianee e la sua diffusa presenza nelle norme statutarie delle città italiane aveva catturato presto l’attenzione dei giuristi medievali. Infatti, a partire dalla metà del secolo XIII, i doctores avevano iniziato a studiare il bando di ius proprium con maggior interesse, in ragione del consolidarsi del diritto statutario4 e dello sviluppo dello studio di quest’ultimo. I controversi e all’epoca attuali problemi legati all’interpretazione degli statuti contenenti disposizioni sul bando, e dunque dello status dei banditi, rendevano sempre più necessaria una qualificazione giuridica dell’istituto precisa e soddisfacente. Così, dalla Glossa accursiana in avanti5, i giuristi cercarono di trovare una soluzione facendo innanzitutto ricorso agli schemi offerti
3
Fra i vari, possibili significati del termine ‘bando’ viene e verrà qui preso in considerazione esclusivamente quello di ‘espulsione’ da una comunità civile. Sulle diverse accezioni del vocabolo vd. MOR 1964, pp. 271A-272A; KAUFMANN 1971a; KASTL 2008. Inoltre, si suggerisce la lettura della voce Bannum redatta da Alberico da Rosciate nel suo Dictionarium iuris, e di quanto similmente riportato nell’esordio del libro IV delle sue Quaestiones statutorum (cfr. rispettivamente ALBERICUS 1581, s.v. Bannum, e ALBERICUS 1606, IV, q. I, ff. 254A-256A. Sulle origini romano-germaniche dell’istituto si rinvia a CAVALCA 1978, pp. 17-42, ma naturalmente anche a GHISALBERTI 1960, pp. 3-12. Sul punto e sul bando più in generale, si segnala anche SIUTS 1959. 4 Espressione, questa, certamente da non intendersi nel senso di ‘sistema normativo statutario unico e organico’. Infatti, pur nella similitudine delle soluzioni proposte (spesso sia formale sia sostanziale), la realtà degli statuti italiani fu estremamente varia e mutevole (cfr. GUALAZZINI 1958, pp. 117-120; BENEDETTO 1971, p. 386A-B; GROSSI 2001, p. 231). 5 Infatti, i glossatori preaccursiani si erano limitati a studiare le forme di exilium disciplinate nel Corpus iuris civilis (vd. CAVALCA 1978, pp. 79-83).
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dagli istituti romanistici della relegazione e della deportazione6. In particolare, alla base delle elaborazioni dottrinali che si succedettero fino a Bartolo si pose il testo della glossa Retinent a I. 1, 12, 2, punto di riferimento costante del dibattito intorno al bando: Nota differentiam inter deportatum et relegatum, quo ad familiam […]. Item hic bona retinet, ille non […]. Item hic civitatem retinet, ille non […]. Item quod hic ad tempus, vel in perpetuum, ille autem tantum in perpetuum deportatur […]. Sed in libertate non est differentia, nam uterque liber remanet […]. Sed bannitos nostri temporis quibus comparabimus? Respond(e): si tantum est maleficium, ut etiam cum civitate bona sua publicentur, vel de iure, vel de consuetudine civitatum, tunc deportato comparabo, alias relegato7.
Il tentativo di comparazione fra il nuovo bando e la relegazione/deportazione suggeriva di considerare il bandito alla stregua del deportato se condannato per un crimine comportante la perdita della cittadinanza e dei beni, alla stregua del relegato negli altri casi. La comparazione fu ripresa da Alberto Gandino nell’esordio della sezione del suo Tractatus de maleficiis dedicata ai banditi per maleficio. Rinviando
6
CAVALCA 1978, pp. 83-86. L’operazione attuata dai doctores, nel tentativo di armonizzare le esigenze del loro presente e il rispetto della tradizione, s’inquadra perfettamente nelle note dinamiche d’interazione fra ius commune romano-canonico e ius proprium: due poli in costante dialettica l’uno con l’altro, nella visione calassiana concepiti come elementi di un unico sistema giuridico governato dalla ratio iuris communis, che vincola i diritti concorrenti in un rapporto fondamentale (vd. CALASSO 1970, p. 117). Come evidenziato da Caravale, i testi giustinianei offrivano ai giureconsulti medievali un insieme di categorie giuridiche che, attraverso una reinterpretazione innovativa, permisero alla dottrina di «conferire certezza giuridica e difendibilità giudiziaria a tutti i casi concreti sorti dalla vita pratica che nelle stesse categorie riuscivano ad essere inseriti […]. Una volta ottenuto l’inquadramento del caso concreto nella categoria astratta tratta dal diritto romano, il caso in questione non soltanto diventava giuridicamente legittimo, ma la sua disciplina non era lasciata al solo diritto particolare, consuetudinario o statutario, in cui era sorto: questa, infatti, veniva completata dall’interpretazione che di quella categoria astratta aveva dato la scienza giuridica sin dai tempi della glossa, interpretazione che si alimentava di nuovi contributi ad ogni generazione di giuristi» (vd. CARAVALE 2009, p. 22). Similmente, Solmi aveva ben prima affermato che il «valore dalla giurisprudenza [medievale] attribuito al diritto statutario meglio si saggiava nell’esame di quegli istituti che intrinsecamente rappresentavano un prodotto delle forme pubbliche nuove, e che, non trovando nel diritto romano una corrispondenza immediata, costringevano i giuristi a cercare per essi un fondamento proprio, e a darne una trattazione personale [come appunto avvenne nel caso delle dottrine sul bando]» (vd. SOLMI 1937b, p. 397). Per una ricostruzione delle teorie sulla deportatio nella tradizione civilistica medievale si segnala il recente RIETHDORF 2016, pp. 33-91. 7 Gl. Retinent, ad I. 1, 12, 2, in Volumen 1558, col. 58 (e cfr. Corpus iuris civilis 1627, V, Institutiones Iustiniani, col. 66). Sulla figura di Accursio e sulla sua Magna Glossa vd. FIORELLI 1960; MORELLI 2013; JAKOBS 2006.
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espressamente alla Glossa accursiana, Gandino equiparò quei banditi ai relegati nel caso in cui fossero stati rei di crimini puniti con la pena della relegazione, ai deportati se rei di crimini puniti con la pena della deportazione8. Tuttavia, nello stesso trattato le soluzioni proposte da Gandino in riferimento alla possibilità o meno di offendere o uccidere il bandito catturato dal Comune, e dunque non più contumace, rivelavano già l’aderenza alla tesi che sarebbe prevalsa a partire dalla fine del secolo XIII: l’assimilazione del bando all’antica aquae et ignis interdictio9 e conseguentemente del bandito all’hostis publicus o transfuga. Ribelle e nemico della sua città in quanto sottrattosi alla giustizia pubblica, il bandito contumace poteva in tal senso essere ucciso da chiunque. Ma in caso di cattura, trovandosi nuovamente sotto la manus della giustizia, sarebbe stato punito secondo la pena prevista dagli statuti10. Nella stessa direzione si mosse Iacopo d’Arena11, autore della prima trattazione monografica e organica sul bando, il Tractatus de bannitis. In quella sede, egli evidenziò l’infondatezza dell’assimilazione originaria fra il bando e le pene della relegazione/deportazione, in ragione dei diversi limiti spaziali di efficacia delle singole misure di esclusione12. Inoltre, esponendo le diverse rationes contrarie all’ipotesi di eleggibilità del bandito alla carica consolare, giunse sostanzialmente alla stessa conclusione di Gandino: il bandito contumace è hostis, reo di ribellione in quanto sottrattosi alla giustizia13. Dunque, se nel formarsi progressivo di un’opinio communis intorno al bando si riscontra un uso ‘casistico’ dell’analogia fra bannitus e hostis (e dunque fra bando e
8
GANDINUS 1926, De bannitis pro mal., 1, p. 130. Su Alberto Gandino e sulle sue opere vd. QUAGLIONI 2013a, pp. 942B-944A, e ID. 1999a, pp. 147B-152A. 9 Sull’aquae et ignis interdictio, sulla relegatio e sulla deportatio quali forme di exilium in diritto romano si rinvia alle riflessioni esposte infra, par. IV.1, e par. VIII.3. 10 CAVALCA 1978, p. 92. 11 Seguendo la proposta di Riethdorf, peraltro aderente a quella che era già stata l’opinione di Savigny, si esclude in questa sede la possibilità, a suo tempo suggerita da Cavalca, che le abbreviazioni ‘Iac. de Are.’ e ‘Iac. de Aret.’ rinviino a due giuristi diversi, rispettivamente Iacopo d’Arena e Iacopo d’Arezzo, e si ritiene che entrambe siano riconducibili al medesimo giurista pavese (vd. e cfr. RIETHDORF 2016, p. 200 – e ivi, nota 90 – e p. 234, e CAVALCA 1978, pp. 13-15). Il riferimento a Savigny è SAVIGNY 1850, p. 407. Su Iacopo d’Arena e sulle sue opere vd. QUAGLIONI 2013b, pp. 1099B-1101A, e ID. 1989a, pp. 243A-250A. 12 «[…] deportato vel relegato totus mundus interdicitur, excepta insula in quam deportatur vel relegatur, sed in bannito est contra, quia ubique potest stare et habitare, excepta civitate ex qua exbannitur», in DE ARENA 1584, f. 355vA, 1-2. 13 «Secundo obstat rei publicae offensio. Nam per magistratum ipsa res publica repraesentatur […]. Sed constat, quod non faciendo, idest non parendo ipsi magistratui, videtur contra eum facere, et offendere […], et contra faciendo videtur eum offendere, ergo et ipsam rem publicam offendit […]. At offendens rem publicam, ab illa honorem adipisci non debet […]. Item propter hanc offensam fit debitor rei publicae […]. Ergo in illa sortiri honorem non debet», ivi, f. 356vA, 38.
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interdictio) già nel secolo XIII (sull’esempio di Gandino e d’Arena), la definizione generale e compiuta di quell’analogia sarà merito di Bartolo da Sassoferrato, nel pieno superamento della comparazione accursiana fra bando e relegazione/deportazione 14. Nel suo Tractatus bannitorum15, egli chiarì gli aspetti salienti della disciplina del bando statutario, con risultati pressoché insuperati dai giuristi posteriori, per i quali l’opera bartoliana costituì un punto di riferimento imprescindibile almeno fino al secolo XVI16. Dopo aver preliminarmente sancito l’impossibilità di equiparare il bandito al condannato a morte17, Bartolo espone le argomentazioni a sostegno della non equiparabilità del bandito al deportato. Innanzitutto, il giurista sottolinea il difetto di competenza della magistratura podestarile a pronunciare una condanna alla deportazione (difetto gravante, ancor prima che sul podestà, anche sui praesides provinciae e sui magistratus municipales18), e il presupposto della contumacia per l’emissione del bando (differentemente dalla deportazione, che non può essere inflitta in contumacia). Ciò posto, Bartolo prosegue evidenziando che a differenza del deportato, che perde gli iura civilia Romanorum, il bandito li mantiene, così come mantiene la cittadinanza di diritto romano, e inoltre, se non de facto, non è considerato infame come il deportato. Aggiunge che il bandito ex forma statutorum, a differenza del deportato, può essere impunemente ucciso ed è di per sé contumace e disobbediente nei confronti del Comune; il deportato, invece, ha mostrato la sua obbedienza all’autorità, sottoponendosi tanto al giudizio quanto alla condanna. Il giurista conclude ricordando che nessuno può assolvere il deportato, mentre è prassi comune che i banditi siano riammessi nella comunità da cui erano stati espulsi19.
14
RIETHDORF 2016, p. 209, ma già CAVALCA 1978, pp. 88-100. Per un’edizione moderna del Tractatus bannitorum vd. FEDRIZZI 1992. In particolare, il contributo presenta interessanti riflessioni sull’autonomia del Tractatus rispetto a un’altra opera di Bartolo, la Quaestio I, Lucanae civitatis, dove, secondo Fedrizzi, il Tractatus sarebbe stato inserito successivamente (ivi, pp. 59-72), di contro all’opinione di altri, che più semplicemente ritengono il Tractatus un estratto della suddetta Quaestio. Sul punto vd. ZENDRI 2016a, pp. 107-108, nota 11, e RIETHDORF 2016, p. 165, nota 254, e pp. 253-254. Su Bartolo e sulle sue opere vd. CALASSO 1964, pp. 640A-669B, e LEPSIUS 2013, pp. 177A-180A. 16 ZENDRI 2016a, pp. 107-109. 17 Sul punto, ivi, pp. 109-110, e già ID. 2002a, pp. 33-49, dove l’autore sintetizza il ragionamento di Bartolo, sostenendo che «l’assimilation du bannitus au condamné à mort pourrait se fonder sur le fait que le banni, en cas de capture, doit être exécuté, ce qui impliquerait la servitus poenae, à savoir l’esclavage à cause d’une condamnation à la peine capitale. Toutefois, la thèse contraire semble plus convaincante : une sentence de condamnation à la peine capitale qui reste soumise à des conditions, comme cela advient dans le bannum, ne cause pas de capitis diminutio, c’est-à-dire une dégradation du status juridique personnel, et donc pas davantage de servitus» (ivi, pp. 35-36). 18 Sul punto si rinvia alle riflessioni esposte infra, par. IV.2, e par. VIII.3. 19 BARTOLUS 1588, Tractatus bannitorum, f. 355A-B, 3-5. 15
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Consecutivamente, Bartolo espone le ragioni per le quali il bandito non può essere equiparato al relegato: il bandito è tale per il solo fatto della contumacia, non essendo richiesta una preventiva cognitio criminis, come invece per la sentenza di relegazione e, similmente a quanto detto a proposito della deportazione, a differenza del relegato non è considerato infame e può essere riabilitato dal Comune20. Esclusa l’ulteriore, eventuale equiparazione fra bando e scomunica21, e riprendendo quella che sostanzialmente era già stata l’opinione di Gandino, Bartolo chiude il dibattito sulla qualificazione dello status del bandito di diritto statutario, affermando che questi può essere correttamente definito transfuga e hostis civitatis suae. Come il ribelle passato dalla parte del nemico della patria può essere impunemente ucciso, così è lecito uccidere il bandito, considerato ribelle della sua città, e dunque nemico contro il quale la città stessa ha indetto guerra22. Dunque, il bando si colora delle sfumature del tradimento e della ribellione proprie dell’aquae et ignis interdictio romana (per certi versi, l’istituto romanistico cui il bando statutario può essere più facilmente ricondotto23) e insite nella contumacia stessa, quale forma di disobbedienza all’autorità giudiziaria del Comune. Ma soprattutto emerge la conseguenza prima della condanna al bando: la perdita della cittadinanza24. Come i transfugae e gli hostes populi Romani perdono la citta-
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BARTOLUS 1588, Tractatus bannitorum, f. 356A, 6. Quello fra il bannitus ex forma statutorum e l’excommunicatus ex iure canonico era, come ricorda Ghisalberti, uno «dei più interessanti e, peraltro, dei più comuni raffronti compiuti dai giureconsulti medievali» (GHISALBERTI 1960, pp. 37-42). Nel suo Tractatus de bannitis Iacopo d’Arena aveva evidenziato la similitudine relativa alla capacità processuale del bandito, dell’eretico e dello scomunicato (a tutti, infatti, era negata l’azione, ma era loro consentito di difendersi se convenuti, vd. DE ARENA 1584, f. 356rA, 20-21). Bartolo chiarisce la questione: eccezion fatta per il caso dell’excommunicatus incorrigibilis, che, come il bandito, può essere impunemente ucciso, ogni analogia fra le due figure di esclusi dev’essere respinta. Infatti, lo scomunicato, se non incorrigibilis, non può essere impunemente ucciso e può essere assolto nel caso in cui si sottometta al giudizio (mentre il bandito, scaduto il termine previsto per comparire in giudizio, è considerato reo confesso). Inoltre, la sentenza di scomunica è efficace apud omnes (mentre il bando è valido solo in relazione alla città che lo ha emesso) e di per sé la scomunica comporta l’esclusione dai sacramenti e dalla comunione dei fedeli (che invece non interviene in caso di bando). Sul punto, vd. BARTOLUS 1588, Tractatus bannitorum, f. 356A, 7. Dunque, due misure di espulsione di un soggetto da una comunità, aventi tuttavia natura e presupposti differenti (ZENDRI 2002a, pp. 39-41, e ID. 2016a, pp. 114-116). 22 «Dico talem bannitum ex forma statuti impune occidi posse, et recte, et proprie dici transfuga civitatis suae […]. Hostes sunt, quibus populus Romanus bella indixit, vel ipsi populo […]. Alio modo loquendo videtur, quod civitas possit habere hostes suos, si ipsis bellum indixerit […], sed talibus exbannitis indixit civitas bellum permittendo, quod possint occidi, et statuendo officiales ad eos capiendo, ergo sunt hostes civitatis», in BARTOLUS 1588, Tractatus bannitorum, f. 356A-B, 8. 23 In tal senso, vd. CAVALCA 1978, p. 96. 24 Per una sintesi sul concetto di cittadinanza nel Medioevo, si rinvia alle riflessioni esposte infra, par. I.5. 21
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dinanza romana e lo ius gentium, similmente può dirsi del bandito, che, nemico della sua città, perde tutti i diritti e i privilegi legati al diritto della città che lo ha bandito, e soltanto quelli: il bando dalla città, provvedimento di ius proprium, non priva il bandito degli iura communia25.
I.2. TIPI DI BANNUM Chiarito il significato attribuito al bando dai principali esponenti della dottrina di diritto comune26, sarà opportuno ricordare brevemente le principali forme di manifestazione del bando stesso, ovvero i principali tipi di bando, sulla scorta della storiografia. Si è già fatto riferimento alla distinzione fondamentale fra bando dal Comune e bando dall’Impero, ricavabile dall’assimilazione bartoliana del bandito al transfuga-hostis populi Romani. Il bando dal Comune determinava la perdita del solo diritto della città che emetteva il bando; il bandito manteneva dunque la titolarità dello ius civile, come anche lo status di suddito dell’Impero, cosa che gli consentiva di poter risiedere altrove e di acquisire la cittadinanza di un altro Comune. Di contro, il bando dall’Impero comportava la perdita della cittadinanza e della residenza in tutto l’Impero, dello ius civile e dunque della titolarità di tutti i rapporti giuridici a quello riconducibili27. Ma il bando dal Comune, così come emergeva dalla statutaria, si manifestava a sua volta in plurime forme. Seguendo lo studio di Cavalca, una prima distinzione individua le sotto-categorie del bando inflitto per reati comuni e di quello disposto per ragioni politiche. Il primo seguiva la contumacia del delinquente, equiparata
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«[…] transfugae et hostes populi Romani ultra alias civitates perdunt civitatem Romanam et omnia iura gentium […]. Sic itaque dico de tali bannito. Nam cum ipse proprie sit transfuga, et hostis populi civitatis, ubi est exbannitus, ut supra probavi, dico quod exbannitus perdit illam civitatem, et omnia iura, et privilegia illius civitatis. Iura autem gentium, item iura communia civitatis Romanae sunt imperii Romani. Ideo non perdit ea. Nam non est transfuga Romani imperii, sed illius civitatis tantum, ubi est exbannitus […]. Patet ergo, quod iura suae civitatis perdit, seu a qua est exbannitus, sed iura communia retinet, ut dictum est», in BARTOLUS 1588, Tractatus bannitorum, f. 356B, 10-11. Sul punto, cfr. RIETHDORF 2016, pp. 175 e 179. 26 Qui, per il momento, fino a Bartolo. 27 CAVALCA 1978, pp. 51-52. L’autore ricorda l’opinio Bartoli: la condizione giuridica del bandito dall’Impero dovrà essere valutata caso per caso, facendo riferimento ai singoli provvedimenti di bando (BARTOLUS 1588, Tractatus bannitorum, f. 357B, 17). Sul bando dall’Impero si rinvia al contributo di Riethdorf (RIETHDORF 2016, pp. 93-174), le cui ampie riflessioni si sviluppano proprio intorno alla nota connotazione del bannitus quale hostis publicus interno, e dunque ribelle (transfuga/perduellis). Sul concetto di ribellione, e dunque di laesa maiestas, è d’obbligo il rinvio a GHISALBERTI 1955, pp. 100-177, e a SBRICCOLI 1974.
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alla confessione del reato imputato e considerata un’aggravante della pena prevista per il reato stesso. Non essendo possibile applicare la pena principale, l’espulsione costituiva il mezzo sussidiario per perseguire il reo sottrattosi alla giustizia. Il bando politico, invece, era il principale strumento di eliminazione degli oppositori sconfitti, nell’ambito delle lotte tra fazioni caratterizzanti la società comunale tipicamente bassomedievale. Ora legato alla contumacia, ora indipendente da questa, nel secondo caso aveva natura di pena vera e propria e veniva per questo definito bando propter delictum, in quanto avente causa non nella contumacia, ma nel delitto commesso dal soggetto (e certo strumentalizzato a scopo politico)28. Ne deriva dunque una seconda possibile distinzione: da un lato il bando propter delictum, sanzione tipica prevista per certi reati indipendentemente dalla contumacia; dall’altro il bando propter contumaciam, sanzione sussidiaria cui ricorrere in caso di contumacia. Tuttavia, sullo sfondo della varietà statutaria si pose l’opinione di Bartolo, che ritenne che causa del bando fosse sempre la contumacia, tanto in presenza (bando pro maleficio) quanto in assenza (bando propter contumaciam) di maleficio, come nell’ipotesi delle cause pecuniarie29.
I.3. GLI EFFETTI DEL BANNUM. ALCUNE QUESTIONI INERENTI ALLO STATUS E ALLE CAPACITÀ DEL BANNITUS Posta la già ricordata varietà delle disposizioni statutarie proprie di ogni Comune30, si presenteranno qui le principali posizioni dottrinali relative ad alcune conseguenze della condanna al bando. Il primo e fondamentale effetto del bando era l’espulsione fisica dalla città derivante dalla perdita della cittadinanza (nella forma dello ius proprium a questa le-
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Gli studi sul bando politico, quale fenomeno storico tipico dell’Italia dei Comuni, sono numerosi. Pur se spesso dedicati all’analisi delle procedure di proscrizione specifiche di una determinata realtà locale, forniscono il quadro sostanzialmente unitario di una tendenza: la strumentalizzazione della funzione giurisdizionale a vantaggio della fazione politica comunale detentrice del potere (così protetta dalle minacce degli avversari). Fra i contributi più significativi, si segnalano CAVALCA 1978, pp. 101-157; STARN 1982; HEERS 1997; ID. 1983; MILANI 1997; ID. 2003 (soprattutto pp. 1-26 e 445-462); ID. 2007; ID. 2009; SHAW 2000; BLANSHEI 2010. 29 Per tutto, CAVALCA 1978, pp. 102-103. Inoltre, alle pp. 175-187 l’autore riporta il dibattito relativo alla natura, attribuibile al bando, di provvedimento interlocutorio o piuttosto di condanna definitiva, e dunque alla possibilità di emanare sentenze definitive contro i contumaci considerati come rei confessi (peraltro ampiamente riconosciuta dagli statuti). Sul punto cfr. RIETHDORF 2016, pp. 198-199. 30 Per un interessante esempio delle procedure concretamente seguite nell’ipotesi di bando criminale, si segnala lo studio condotto da Pazzaglini sul caso senese (vd. PAZZAGLINI 1979, con un’edizione di documenti in appendice). Per una recensione dell’opera vd. ASCHERI 1991b, pp. 319-323.
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gato). Più precisamente, come evidenziato da Bartolo sullo sfondo dell’analogia con il transfuga-hostis populi Romani, il bandito perdeva tutti i commoda legati alla condizione di civis, ma manteneva tutti gli incommoda, potendo così subire gli effetti della condanna31. Sembrerebbe generalmente riconosciuto che nella perdita dei commoda non rientrasse la perdita della patria potestas. Secondo Ghisalberti, dall’assimilazione proposta da Alberto Gandino fra bandito e deportato (per l’ipotesi di bando inflitto per un crimine comportante la deportazione) deriverebbe per il bandito la perdita della patria potestas (caratterizzante appunto la deportazione). Tuttavia, nel Tractatus di Iacopo d’Arena si legge espressamente che bannitus filios in potestate retinet, quia certi sunt modi, quibus patria potestas solvitur, inter quos bannum non numeratur32, e la stessa opinione si ritrova in Bartolo, Baldo e Nello da San Gimignano33. In relazione alla testamenti factio e all’haeredis institutio, in Bartolo si ritrovano le opinioni di Dino del Mugello e di Guillaume Durand: nel caso in cui abbia subito la confisca dei beni, il bandito dev’essere equiparato al deportato, e dunque non può fare testamento. Ma Bartolo si pone contro tale equiparazione, riconoscendo al bandito la facoltà di fare testamento secondo lo ius commune (nell’impossibilità di farlo secondo lo ius proprium della città che lo ha bandito). Similmente, Bartolo nega al bandito la possibilità di essere istituito erede in un testamento redatto secondo lo ius proprium della città del bando, come anche di poter succedere ab intestato (facoltà però mantenute de iure communi)34. In relazione alla perdita dei diritti patrimoniali e dei beni, Cavalca evidenzia come la confisca del patrimonio (legittima nella condanna per i reati puniti con pena superiore alla relegazione) fosse regolarmente prevista dagli statuti di diversi Comuni e, soprattutto nel caso del bando politico, inflitta quasi fosse conseguenza automatica del bando (così come la frequente distruzione dei beni appartenenti e appartenuti al bandito)35. Ben più problematico fu però il dibattito intorno alla possibilità o meno di offendere e uccidere il bandito impunemente. Ponendosi contro le norme statutarie che prevedevano l’impune offesa a danno del bandito (e che gli negavano il diritto di agire in giudizio per ottenere la ripara-
31 BARTOLUS 1588, Tractatus bannitorum, f. 356B, 10. Cfr. ZENDRI 2016a, pp. 118-119, e RIETHDORF 2016, pp. 257-259. 32 DE ARENA 1584, f. 355vA, 3. Cfr. RIETHDORF 2016, p. 237. 33 GHISALBERTI 1960, pp. 47-48. 34 BARTOLUS 1588, Tractatus bannitorum, ff. 356B-357A, 12-14. Sul punto vd. e cfr. GHISALBERTI 1960, pp. 51-54, e CAVALCA 1978, pp. 235-238. Come ricordato da Cavalca (ivi, pp. 237238), l’opinione è ripetuta da Bartolo nel suo commento a D. 28, 1, 8, 1 (vd. BARTOLUS 1562, II, In Infortiatum, ff. 242B-243A). Cfr. ZENDRI 2016a, pp. 119-120. 35 CAVALCA 1978, pp. 197-203.
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zione delle offese subite), nel suo Tractatus Iacopo d’Arena evidenziò l’invalidità, de iure communi, di tali previsioni. Infatti, egli scrive che il relegato e il deportato, ai quali il bandito è regolarmente assimilato nella risoluzione dei casi pratici, non possono essere impunemente uccisi. Similmente, sarebbe scorretto ammettere l’impunità per l’uccisore del bandito derivandola dall’assimilazione dello stesso all’apostata, privo di cittadinanza e di capacità processuale (opinione questa già di Guido da Suzzara). Inoltre, suggerendo un criterio interpretativo ispirato a ragioni di equità, Iacopo d’Arena evidenzia come la disposizione statutaria che neghi genericamente al bandito la difesa debba essere mitigata, e conseguentemente interpretata secondo la reale intenzione del legislatore, in quanto non est de mente legis municipalis, quod saltem in suis defensionibus [banniti] non audiantur. Odia enim sunt restringenda36. Dunque, se il bandito non poteva intentare la lite, tuttavia poteva difendersi in giudizio qualora fosse stato convenuto o vittima di offese (così come l’eretico e lo scomunicato)37. Tale opinione rimase però sostanzialmente isolata, e prevalse fra i giuristi la tesi favorevole alla legittimità delle norme statutarie che avessero previsto l’impunità per quanti avessero leso il bandito nella persona. Alberto Gandino affrontò ampiamente il problema nel suo Tractatus de maleficiis. A giustificazione della non perseguibilità dell’uccisore del bandito al pari del suo offensore (posta la riconducibilità dell’uccisione alla più generica categoria delle offese38), egli evidenzia la duplicità della possibile soluzione al quesito an bannitus impune occidi possit. Da un lato, per viam rigoris, la consuetudine di non perseguire l’uccisore dovrebbe essere sempre seguita. Dall’altro, per viam aequitatis, sarebbe più opportuno distinguere a seconda della pena prevista per il delitto per il quale il bandito è stato condannato: qualora sia la pena di morte, il bandito potrà essere impunemente ucciso, diversamente invece no39. Nella stessa sede, in esordio alla sezione rubricata De bannitis pro maleficio, Gandino approfondisce le tesi negativa e positiva sulla legittimità dello statuto prescrivente l’uccisione. La prima deriva dalla contrarietà di una simile previsione sia allo
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DE ARENA 1584, f. 356rA, 19. Cfr. GHISALBERTI 1960, pp. 62-63. DE ARENA 1584, f. 356rA, 19-21. Cfr. CAVALCA 1978, pp. 212-213, e RIETHDORF 2016, pp. 200-203. 38 GANDINUS 1926, De multis quaest., 26, pp. 416-417. A sostegno della non perseguibilità dell’uccisore del bandito, come appunto del semplice offensore, Alberto Gandino adduce una quarta ratio: «negari non potest, quin et occisus dicatur ‘offendi’; sic ex verbo ‘offendere’, tam generaliter a lege prolata, licuit occidere. Sufficit generaliter quid mandari, ac omnia continet […], et verbum generaliter prolatum generaliter est intelligendum, et postquam lex offendentem reddit immunem, ab omni pena cum eximisse videtur, quocumque modo offendat […], et ubi lex non distinguit, nec nos», ibid. 39 Ivi, p. 417. 37
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ius divinum sia allo ius gentium; la seconda si basa invece sulla sussistenza della potestas condendi statuta in capo ai Comuni. Proprio tale potestas, pur nell’astratta subordinazione dello ius proprium allo ius divinum e allo ius gentium, induce Gandino a concludere per la validità di quello statuto40. Poco più avanti, Gandino aggiunge che è da considerarsi lecita anche l’uccisione del bandito avvenuta in pendenza dell’eventuale causa di accertamento della nullità del bando, ma a condizione che sopraggiunga la conferma della regolarità di quello. Nel caso in cui, invece, si accertasse la nullità del provvedimento, l’uccisione sarà sanzionata. E ancora, se è ammessa l’uccisione del bandito avvenuta in pendenza del termine per proporre appello, Gandino afferma con chiarezza la perseguibilità di chi abbia offeso o ucciso il bandito in pendenza del giudizio di appello41. L’opinio Bartoli sul tema segue e conferma la tesi dominante. Nel suggerire l’assimilazione del bandito ex forma statutorum al transfuga vel hostis (civitatis suae), Bartolo afferma che il bandito può essere impunemente ucciso, così come il ribelle-nemico pubblico42. Tuttavia, il suo ragionamento si spinge oltre, e rivela come da questo tipo di bando di maggiore gravità debba essere distinto un secondo tipo di bando meno grave. Il bandito che non possa essere ucciso impunemente (il cui omicida sia sottoposto a una pena inferiore a quella prevista per l’omicidio) non va considerato alla stregua del transfuga-hostis civitatis: egli non perde né i diritti di ius commune, né tantomeno quelli di ius proprium, ma soltanto quanto espressamente il bando prevede egli debba perdere. Ciò si giustifica in ragione del fatto che, diversamente, considerare ogni contumace un ribelle, nemico della città, sarebbe iniquissimum. Inoltre, nel caso in cui nulla sia previsto dagli statuti riguardo al bandito, è possibile configurare un bando ex iure communi, consistente in una sorta di ammenda inflitta al contumace che non abbia ottemperato all’ordine del giudice di presentarsi in giudizio, analogamente all’antica adnotatio bonorum di diritto romano43, che, scrive Bartolo, erat quoddam bannum, una sorta di bando-multa inflitto al contumace. Le conseguenze del bando ex iure communi saranno quelle espressamente previste nel singolo provvedimento di bando: questo coinvolgerà i beni del bandito, che sarà considerato infamis de facto nel caso di condanna per un crimine infamante, ma non reo confesso come il bandito ex forma statuti. Infine, Bartolo affronta ancora una questione. Nel caso del bando-ammenda, è consentito al giudice di stabilire che il bandito, scaduto il termine fissato
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GANDINUS 1926, De bannitis pro mal., 2, pp. 131-132. Cfr. RIETHDORF 2016, p. 205. GANDINUS 1926, De bannitis pro mal., 4-6, pp. 132-133. 42 Vd. supra, nota 22. 43 Riguardo al bando in causa civile e alla procedura di missio in possessionem (la c.d. tenuta, vale a dire, il sequestro dei beni del debitore insolvente, contumace, in vista del loro pignoramento), si rinvia alle riflessioni esposte infra, par. IV.2, e ivi, nota 354, ma anche a infra, par. VIII.3. 41
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per la sua comparizione in giudizio, possa essere impunemente ucciso? Salvo espressa previsione negli statuti, Bartolo afferma che ciò non è possibile. Infatti, si tratterebbe di una conversione del bando-ammenda, pena pecuniaria, in pena corporale, cosa inammissibile44. Ma la questione an bannitus impune occidi possit si articola a sua volta in un ulteriore interrogativo: quid iuris in caso di uccisione del bandito catturato? Al riguardo è di grande interesse il ragionamento svolto da Gandino, che lega la questione della liceità dell’uccisione del bandito catturato a quella dell’uccisione del bandito che abbia soddisfatto o prestato idonee garanzie di soddisfazione del bando, ma il cui bando non sia stato ancora cancellato dai registri (i c.d. libri bannitorum, o mortuorum, tenuti dai Comuni45). Per quanto riguarda la prima questione, a sostegno della liceità dell’uccisione Gandino ricorda come le norme statutarie, per quanto rigide, debbano essere osservate, e poiché non distinguono fra uccisione del bandito catturato e del non catturato, egli afferma che è superfluo proporre la distinzione in sede teorica. La cattura non interrompe il bando e non elimina il rischio che il bandito possa fuggire. Inoltre, è lecito uccidere chi sia stato colto in flagranza di reato. Ciononostante, Gandino afferma che deve prevalere la tesi contraria, attribuita a Iacopo d’Arena. La liceità dell’uccisione del bandito che, contumace, si sia sottratto alla giustizia si lega all’impossibilità per l’autorità di applicare la pena, liceità che viene meno nel momento in cui il bandito, catturato, ritorni in potestate rei publice, in custodia publica, appunto quia cessat causa, quare ille bannitus impune poterat occidi, que erat propter defectum publice vindicte, que in eum irrogari non poterat, et ideo debet cessare illa facultas occidendi46. E sempre in senso negativo, rinviando nuovamente a Iacopo d’Arena, Gandino risolve la seconda questione affermando che il bandito che abbia soddisfatto o prestato idonee garanzie di soddisfazione del bando non può più essere considerato un bandito e ha azione per la cancellazione del bando, come anche eccezione contro il bando47. Si è già più volte fatto riferimento agli aspetti riguardanti la capacità processuale del bandito, tanto attiva quanto passiva. Una sintesi dei punti salienti della que-
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Per tutto, ZENDRI 2016a, pp. 120-123, e già ID. 2002a, pp. 45-47, con riferimento a BAR1588, Tractatus bannitorum, f. 357A-B, 15-19. 45 Così CAVALCA 1978, p. 50. 46 GANDINUS 1926, De bannitis pro mal., 17, p. 145. Cfr. RIETHDORF 2016, pp. 206-208. 47 «[…] iste bannitus occidi non potuit sine pena, cum post satisdationem vel satisfactionem evanuerit virtus banni et bannitum accipere debemus cum effectu […]. Nam non potest dici bannitus, qui ad cancellationem banni habet actionem et contra vires banni habet exceptionem, nam cui damus actionem, multo fortius damus exceptionem […]. Cum ergo non liceat resisti bannito post satisdationem vel satisfationem, ergo non licet offendi», in GANDINUS 1926, De bannitis pro mal., 18, p. 150. TOLUS
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stione emerge da un’altra opera convenzionalmente attribuita a Bartolo: il Tractatus exbannitorum48. Innanzitutto, Bartolo si chiede se l’exbannitus possa agire giudizialmente contro un suo debitore o detentore di un suo bene: se il paragone con il relegato, che non perde i propri beni, dovrebbe suggerire una risposta positiva, egli afferma che l’azione è negata all’exbannitus de iure civili, così come all’interdetto aqua et igni, allo scomunicato e all’eretico. In tal caso, infatti, il riconoscimento dell’azione renderebbe il bando più un premio che una pena, cosa contraria alla volontà della legge49. Bartolo nega al bandito la facoltà di cedere le proprie azioni, e l’eventuale cessionario non potrebbe intentarle, così come non avrebbe potuto il bandito. Infatti, quelle azioni sarebbero trasferite con tutti i vizi a esse legati (appunto riconducibili al bando) e sarebbe contrario alla legge riconoscere al cessionario l’azione50. Bartolo prosegue sostenendo che il bandito non può agire in giudizio per mezzo di procuratore: sarebbe come se agisse il bandito stesso, in frode alla legge51. Al contrario, il bandito può difendersi per mezzo di procuratore se convenuto in giudizio (sull’esempio dello scomunicato), ma non può provare le sue eccezioni né riconvenire l’attore. Inoltre, può proporre appello52.
48 Aggiunto dal Diplovatazio (nell’edizione veneziana del 1521) alla prima raccolta (risalente al 1472) dei tractatus attribuiti a Bartolo, è citato dallo stesso Bartolo nel suo Tractatus super constitutione Qui sint rebelles. Pur essendo stati sollevati dei dubbi in relazione all’autenticità dell’opera, questi non risultano attualmente decisivi (così CALASSO 1964, pp. 652A-653A e p. 655A). Tuttavia, non può certo trascurarsi la profonda differenza di questo trattato rispetto al Tractatus bannitorum, che si sostanza in una riflessione matura sulla condizione giuridica del bandito, e sulla natura dell’istituto del bando. Il Tractatus exbannitorum, invece, è una sintesi di quaestiones specifiche, presentate secondo una struttura casistica che sembrerebbe alludere a una dottrina ancora in formazione (vd. ZENDRI 2016a, pp. 124-125 e 126-127, e sulla legislazione pisana di Enrico VII vd. ID. 2016b). 49 BARTOLUS 1588, Tractatus exbannitorum, f. 357A-B, 1. 50 Ivi, ff. 357B-358A, 2. Bartolo evidenzia la necessità di distinguere: se la cessione è avvenuta ex lucrativa causa, il cessionario potrà vedersi opposta l’eccezione opponibile al cedente (vale a dire, l’exceptio banni); se la cessione è avvenuta per altra causa, invece, ciò non può aver luogo. In tal senso, Bartolo riprende l’opinione già espressa da Iacopo d’Arena (vd. DE ARENA 1584, f. 356rB, 29-32). Sul tema della validità o meno degli atti di cessione del patrimonio del bandito (in relazione al dibattito sui profili del consilium fraudis dei contraenti e dell’onerosità o meno della cessione) vd. CAVALCA 1978, pp. 230-235, e cfr. RIETHDORF 2016, p. 234. 51 BARTOLUS 1588, Tractatus exbannitorum, f. 358A, 3. 52 «Sed tutius puto dicendum, ut si conveniatur, per procuratorem se defendat, ad exemplum excommunicati, cui bannitum supra aequiparavimus [...]. Et multa alia dici et notari possent super hac materia, scilicet utrum exbannitus possit excipere, si conveniatur? Et utrum possit exceptiones suas probare? Et utrum si exbannitus conveniatur, possit ipse actorem reconvenire? Et dicamus, quod non, ut notatur de exceptionibus, cap. cum inter., quae brevitatis causa omitto. Quinto quaero, utrum exbannitus possit appellare? Et videtur, quod non, quia contumax non appellat [...]. Sed certe dicendum est, quod appellare potest, ut dicitur manifeste, C. si pendente appellatione mors intervenerit, l. iii, et dic, ut ibi notatur in d. l. properandum, § illo, et § sin autem reus», ivi, f. 358B, 4-5.
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Bartolo conclude con un’ultima questione: il bandito attore contro un altro bandito può vedersi opporre dal bandito convenuto l’exceptio banni, ed eventualmente può replicare a questi la stessa eccezione? Era questo un interrogativo ampiamente discusso in dottrina. In base a quanto detto precedentemente, l’azione del bandito era sicuramente nulla, mentre varie erano le opinioni relative alla possibilità per il bandito convenuto di rilevare tale nullità, e dunque proporre l’exceptio banni. Secondo Alberto Gandino l’eccezione avrebbe paralizzato l’azione. Similmente si era espresso Iacopo d’Arena, secondo il quale l’attore non avrebbe potuto replicare all’eccezione del reo (essendo al bandito concessa la difesa). In sede di commento al Digesto (cui rinvia in chiusura del Tractatus exbannitorum53), Bartolo afferma che il bandito accusato da un altro bandito può opporsi con l’exceptio banni, e non può vedersi replicato il fatto di essere egli stesso un bandito54. Ancora qualche considerazione. Sulla base dello studio della statutaria dei principali Comuni dell’Italia centrosettentrionale, Cavalca ricorda che i bandi si estinguevano generalmente nel momento in cui il bandito condannato avesse scontato la pena inflittagli, e talora era previsto che a questa dovesse aggiungersi anche la pace ottenuta dall’offeso o dai suoi eredi, di per sé non sufficiente ai fini della cancellazione. Tuttavia, le disposizioni variavano da Comune a Comune, e nell’ambito dei bandi inflitti per motivi politici venivano arbitrariamente applicate: tanto la condanna al bando quanto la sua cancellazione erano strettamente legate al gioco politico proprio delle lotte di parte55. È curioso notare come talvolta certi statuti prevedessero la cancellazione automatica del bando, senza alcun pagamento e talora con premi in denaro, a favore del bandito che avesse catturato e consegnato alla giustizia un altro bandito56. Lo stesso Alberto Gandino affermò che in questo caso la cancellazione era valida in quanto in hoc vertitur publica utilitas, que prefertur private57: il bandito che avesse collaborato con la giustizia, rendendo un servizio alla comunità, avrebbe dunque meritato la cancellazione del bando. Se teoricamente potrebbe affermarsi che con la cancellazione del bando il condannato avrebbe dovuto riacquistare lo stato giuridico di cui era titolare anterior-
53 Si allude qui al commento di Bartolo a D. 24, 3, 47, per il quale vd. BARTOLUS 1562, II, In Infortiatum, ff. 79B-80A, 4 e 6 (l’edizione presenta un refuso, numerando la lex XLVII come XLIX). 54 Si tratta di considerazioni presenti in CAVALCA 1978, p. 224, con rinvio al commento di Bartolo a D. 48, 2, 5: «Et ex hoc sequitur, si exbannitus accusaretur ab alio exbannito, potest dicere, non potes me accusare, quia es exbannitus, nec ille potest replicare contra accusatum, tu es exbannitus», in BARTOLUS 1562, III, In Digestum novum, f. 805A, 2. 55 CAVALCA 1978, pp. 238-240. 56 Ivi, pp. 246-249. 57 GANDINUS 1926, De multis quaest., 25, p. 414.
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mente al bando, in verità i singoli statuti e provvedimenti di cancellazione stabilivano espressamente quanti e quali diritti il bandito reintegrato avrebbe potuto recuperare. La dottrina tentò di elaborare dei criteri-guida cui ricorrere in caso di mancanza di un’espressa previsione statutaria: dalla possibilità per il bandito reintegrato di esigere i propri crediti a quella di agire per la riparazione delle offese subite, tanto nella persona quanto nel patrimonio, e all’interpretare la rebannitio come semplice indulgentia (remissione della pena senza recupero della precedente condizione giuridica), o piuttosto come piena restitutio (recupero del precedente status). Restava comunque indispensabile attenersi quanto più possibile alla lettera dell’atto di remissione58. Così, nel complesso, appare evidente il merito dei giuristi di diritto comune, che cercarono di mitigare la durezza delle disposizioni statutarie: ispirandosi a criteri di giustizia ed equità, rivelarono spesso di aderire a soluzioni meno severe nel trattamento giuridico riservato ai banditi, nel tentativo di «temperare ciò che la crudezza del costume dell’epoca riteneva equo e lecito per la pubblica autorità»59.
I.4. LA RIFLESSIONE SUL BANNUM DOPO BARTOLO Posta la sistematizzazione data all’istituto del bando da Bartolo, Ghisalberti ricorda che i contributi dottrinali successivi al secolo XIV non arricchirono la materia di spunti veramente originali, pur essendo apprezzabili per la loro struttura sistematica e per il livello di approfondimento delle varie, specifiche questioni trattate. Ciò vale soprattutto per le c.d. practicae, opere di sintesi destinate alle esigenze della pratica forense, eredi della dottrina penalistica sviluppatasi con i primi tractatus de maleficiis, da Alberto Gandino ad Angelo Gambiglioni e oltre60. Ciononostante, nel secolo XV la dottrina sul bando gode di un ulteriore sviluppo grazie a Nello da San Gimignano, il cui Tractatus de bannitis si so-
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CAVALCA 1978, pp. 249-251. GHISALBERTI 1960, p. 74. 60 Ivi, pp. 26-27, e CAVALCA 1978, p. 100. Sulla trattatistica criminale si vedano, fra gli altri, QUAGLIONI 1999b, pp. 49-63; MINNUCCI 2003, pp. 581-608; SOLMI 1937b, pp. 341-413. Sul diritto criminale, e sulla dottrina criminalistica (di età intermedia) più in generale, si segnalano inoltre KANTOROWICZ 1907; FIORELLI 1953; ID. 1954; MARONGIU 1977; ALESSI PALAZZOLO 1979; EAD. 1987; EAD. 2005; BLANSHEI 1982; EAD. 2010; EAD. 2018; DÜLMEN 2014; MECCARELLI 1998; MINNUCCI 2000; BLAUERT, SCHWERHOFF 2000. Sulla figura di Tiberio Deciani e sulla sua opera (fondamentale per la nascita della moderna scienza penalistica) si vedano i seguenti contributi, tutti presenti in CAVINA 2004: MARTINAGE 2004; SBRICCOLI 2004; CASSI 2004; DEZZA 2004; PIFFERI 2004; SCHMOECKEL 2004. Infine, si segnalano GELTNER 2008; SBRICCOLI 2009; PIFFERI 2012; DEZZA 2013. 59
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stanzia in un nuovo tentativo di ricostruzione della nozione di bannum e della sua disciplina61. Strutturato in tre parti principali (tempora), corrispondenti ai diversi momenti della condanna al bando, a loro volta suddivise in sottoparti62, il Tractatus si presenta nella veste di un utile, breve ed esaustivo volume di sintesi delle delicate quaestiones sul bando sparse nelle opere di civilisti e canonisti63. Tuttavia, l’originalità delle riflessioni ivi esposte non è affatto trascurabile, e per certi versi si affianca al contributo bartoliano, guardando al bando da una prospettiva nuova64. Innanzitutto, posta l’esistenza di numerosi tipi di bando, Nello delimita l’oggetto delle proprie riflessioni alla sola species dei banditi in cause criminali contumaciali. Non essendo comparsi dopo la rituale citazione, e per questo considerati rei confessi e processati in contumacia, questi banditi sono tali in quanto hanno subito una condanna penale definitiva. In tal senso, essi rappresentavano l’interrogativo in tema di bando di più stringente dibattito e attualità65. Come di recente ha evidenziato Zendri, questa scelta rivela l’intenzione di Nello di fondare la dottrina sul bando sulla validità degli statuti cittadini, in virtù della lex Omnes populi (D. 1, 1, 9), che giustifica le previsioni statutarie, e fra queste, quella dell’equivalenza della contumacia alla confessione66. Inoltre, il fatto che il
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Così ZENDRI 2016a, p. 129, e già GHISALBERTI 1960, pp. 28-29, e CAVALCA 1978, p. 100. Oltre alle monografie citate, si ricordi anche MOONEY 1976 (soprattutto pp. 194-237). Su Nello da San Gimignano e sulle sue opere si vedano anche BASSANI 2013 e EAD. 2017 (con specifico riferimento al Tractatus de bannitis). 62 Appunto: 1) la condanna e i problemi a quella inerenti (chi – e perché – può essere bandito? quali magistrati hanno competenza a pronunciare il bando? con quali formalità devono farlo? può il bandito proporre appello?); 2) la condizione del bandito dopo la condanna, vale a dire, gli effetti di questa nei suoi confronti; 3) le conseguenze dell’estinzione della condanna, sia in caso di morte del bannitus sia negli altri casi in cui il bando venga meno (vd. GHISALBERTI 1960, p. 28, ma anche MOONEY 1976, pp. 200-204, e ZENDRI 2016a, pp. 131-132). 63 ZENDRI 2016a, pp. 132-133. Simile al Tractatus di Nello per la destinazione pratica, ma diverso nella modalità di trattazione della materia, è anche il Tractatus bannitorum di Ippolito Marsili. Infatti, se Nello prende in considerazione l’applicazione del bando nelle varie, principali città italiane, Marsili si addentra nell’indagine sul bando a Bologna, attraverso un’esposizione in forma di repertorio per differenti voci di richiamo (vd. GHISALBERTI 1960, pp. 29-30, e per un’edizione dei due Tractatus qui richiamati si vedano, rispettivamente, NELLUS 1550 – qui, peraltro, di riferimento – e DE MARSILIIS 1574). Sulla figura e sulle opere di Marsili vd. CAVINA 2013a e PALLOTTI 2008. 64 Cfr. ZENDRI 2016a, p. 129. 65 Ivi, pp. 133-135. 66 Bartolo, invece, aveva individuato la base autoritativa delle dottrine sul bando sostanzialmente nella nozione di transfuga vel hostis civitatis suae (per tutto, ZENDRI 2016a, pp. 135-136). Sulla questione della qualificazione giuridica del bando da parte dei doctores si rinvia a quanto esposto supra, par. I.1. Sul complesso tema della potestas condendi statuta e delle c.d. ‘giustificazioni teoriche a posteriori’ a quella relative (permissio, iurisdictio e ius gentium – inteso come diritto naturale – indivi-
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bando (nella forma qui considerata) possa essere inflitto ai soli soggetti passibili di condanna penale definitiva qualifica l’istituto stesso come una pena, vincolandolo così alla necessità dell’accertamento della responsabilità penale, e dunque del giudizio criminale67. Tutto ciò si pone senz’altro in linea con quella che, in fondo, era sempre stata la tendenza della dottrina di ius commune: limitare il più possibile l’applicazione e gli effetti del bando. E in Nello se ne ricava un’ulteriore conferma anche nell’individuazione precisa delle autorità titolari del potere di bandire, che per il giurista sono quelle che esercitano la giurisdizione nel distretto di competenza. Peraltro, i confini di questo delimitano a loro volta l’estensione territoriale del bando stesso68. Vi è però di più. Nello critica l’assimilazione bartoliana del bannitus (qui impune occidi possit) al transfuga vel hostis civitatis suae, sostanzialmente perché il bando è inflitto sulla base della contumacia, che è equiparata alla confessione e non a una generica forma d’insubordinazione all’autorità giurisdizionale. Inoltre, la possibilità che il bandito sia ucciso impunemente non è peculiare del bando in sé, ma sussiste soltanto in caso di espressa previsione statutaria69. Dunque, conclude Nello: Nulli ergo praedictorum aequiparantur […]. Et ideo restat quod sit quoddam genus de per se sub nomine bannitorum. Et ita ut dixi supra quaestione proxima, vulgariter appellantur. Et est tale genus stricti iuris, adeo quod quicquid expresse in statutis, quorum virtute banniti sunt, non dicitur, illud intelligatur omissum70.
Il bando è un istituto giuridico sui generis, che in virtù dei suoi caratteri peculiari non può essere ricondotto a nessun antecedente romanistico. È un istituto stricti iuris, esclusivamente determinato dallo ius proprium, e dunque non assoggettabile a interpretazione estensiva71. Riguardo allo status banniti, Nello ricorda come il bando imperiale o papale determini la perdita dello ius civile e dunque anche dei beni, cosa che rende i relativi
duato, appunto, nella lex Omnes populi, richiamata nel noto ‘sublime sillogismo’ di Baldo degli Ubaldi) si rinvia soprattutto a CALASSO 1954, pp. 499-501; SBRICCOLI 1969, pp. 27-47; QUAGLIONI 1989c; STORTI STORCHI 1991. Inoltre, si vedano anche WOOLF 1913 (soprattutto pp. 112-207); GUALAZZINI 1958, pp. 89-94 e 99-100; BRESCHI 1962. Sulla iurisdictio in particolare si vedano CALASSO 1965; COSTA 1969 (soprattutto pp. 95-184 e 192-262); VACCARI 1962; QUAGLIONI 2004a; ID. 2011; ROSSI 2016. 67 ZENDRI 2016a, p. 136. 68 Ivi, p. 140. 69 ZENDRI 2016a, pp. 140-143. 70 NELLUS 1550, f. 31vA-B, 23. Sulla qualificazione di vulgaris attribuita alla voce bannum si rinvia alle riflessioni esposte infra, par. IV.2. 71 ZENDRI 2016a, pp. 143-144.
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banditi assimilabili ai deportati. Di contro, il bando inflitto da un’autorità subordinata a quelle universali non può privare i relativi banditi dei benefici di ius civile, e anche qualora intervenga la confisca dei beni, a suo parere tali banditi non possono essere assimilati né agli hostes Romani Imperii né ai deportati72. Infine, in relazione agli effetti della condanna, Nello aderisce sostanzialmente all’opinione di Bartolo, comune e consolidata: il bando statutario non può privare il bandito dello ius commune, ovvero del suo status di civis Romani Imperii. Tale condizione giuridica di base sarà comunque garantita anche qualora le norme statutarie, che prevalgono sullo ius commune nel territorio in cui sono vigenti, siano in contrasto con disposizioni favorevoli di quello. Tuttavia, lo ius commune prevarrà sempre e ovunque per quanto concerne gli incommoda, e sempre garantito sarà anche lo ius gentium73. Così, in linea con lo sforzo dei doctores di mitigare e limitare applicazione ed effetti del bando, Nello conferisce all’istituto un nuovo assetto, che nella seconda metà del secolo XV sarà ulteriormente arricchito dai contributi di carattere pratico cui si era accennato in esordio74, in un contesto storico-politico europeo ormai sempre più caratterizzato dalla progressiva affermazione degli Stati moderni e da dinamiche dell’esclusione sempre più legate ai concetti di sovranità75 e obbedienza, e dunque alla lesa maestà76, oltre che alla ben nota strumentalizzazione politica dell’esilio in sé77. Ma nei secoli XV e XVI è la stessa dottrina di ius commune (se non l’esperienza giuridica occidentale complessivamente intesa) a subire cambiamenti profondi, tradizionalmente attribuiti al fenomeno noto come ‘umanesimo giuridico’, cui è dedicato il capitolo seguente. Sono proprio queste le premesse che hanno generato l’interrogativo alla base di questo studio: qual è stato, se vi è stato, il contributo che alle soglie della prima età
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ZENDRI 2016a, pp. 144-145. Ivi, pp. 145-146. 74 Soprattutto il Tractatus bannitorum di Ippolito Marsili (vd. supra, nota 63), ma anche trattati di ambito penalistico come il Tractatus de maleficiis di Angelo Gambiglioni, o i Consilia di Alessandro Tartagni (vd. supra, nota 60). Per un’edizione delle opere suddette si vedano, rispettivamente, DE GAMBILIONIBUS 1558 e TARTAGNUS 1549. Sulla figura e sulle opere di Gambiglioni si vedano MAFFEI, MAFFEI 1994; MAFFEI 1999; EAD. 2013a. Sulla figura e sulle opere di Tartagni vd. PADOVANI 2013. 75 Sul tema è d’obbligo il rinvio a CALASSO 1957; CORTESE 1966; ID. 1990; QUAGLIONI 2004b; ID. 2011; ZENDRI 2007. 76 Sul tema, oltre alle riflessioni esposte infra, par. III.4, si rinvia ai già citati GHISALBERTI 1955 e SBRICCOLI 1974, ma anche a KINTZINGER, ROGGE 2004. 77 Cfr. ZENDRI 2016a, pp. 151-152, dove l’autore sottolinea come nei secoli XV e XVI, in ragione dell’affermarsi degli Stati nazionali a svantaggio dell’importanza degli ordinamenti universali, la condizione degli esiliati tenderà a peggiorare, trovandosi questi privi sia dello status giuridico tutelato dallo ius proprium, sia delle garanzie riconosciute dalla condizione di civis Romani Imperii, percepita come sempre meno ‘attuale’ (ibid., ma anche p. 124). 73
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moderna i c.d. ‘giuristi-umanisti’ (più avanti, anche semplicemente ‘umanisti’) hanno dato alle dottrine sul bando elaborate fra i secoli XIII-XV? Quali gli elementi di novità e/o fedeltà rispetto alla lunga e consolidata tradizione? Le riflessioni sul tema saranno esposte nella Parte II, eleggendo fra gli umanisti quello che ancor oggi è considerato il rappresentante più significativo della nuova generazione di doctores: Andrea Alciato. Ciononostante, il contributo alciateo sarà presentato alla luce di un confronto dialogico con altre due fondamentali figure della nuova cultura europea, appunto, Guillaume Budé e Ulrich Zasius (Parte III), in omaggio a quell’idea del ‘triumvirato umanistico’, tradizionalmente proposta dalla storiografia di settore78.
I.5. ALCUNE OSSERVAZIONI IN TEMA DI CITTADINANZA MEDIEVALE A conclusione di questa sintesi sui principali aspetti caratterizzanti il processo di elaborazione dottrinale intorno al bando, sarà utile soffermarsi su un concetto cui si è qui più volte fatto riferimento: la cittadinanza79. È, quello della cittadinanza, un problema intimamente legato al bando. Sullo sfondo della dicotomia fra un ‘dentro’ e un ‘fuori’ che, come evidenziato da Costa, è propria del relazionarsi di ogni gruppo politico con il mondo che lo circonda, e che spinge il gruppo a costruire determinate ‘strategie di riconoscimento e disconoscimento’ dei soggetti in esso operanti80, il bando, nella sua natura di ‘dispositivo di esclusione’ del soggetto dalla comunità, rappresenta la dimensione speculare della cittadinanza, che è invece, sostanzialmente, estrinsecazione dell’appartenenza di un soggetto a una comunità civile81, appunto a una civitas. Proprio della tradizione romanistica, il concetto di civitas permea di sé l’esperienza medievale successiva. Ricchissimo a livello semantico, «può indicare un luogo fisico, un agglomerato umano [... o] la condivisione di un comune patrimonio giuridico»82. Dunque, e intimamente, è espressione della comunità dei cittadini, del loro diritto e della loro natura di organizzazione politica, del loro essere ‘città’; e
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Per tutto, si rinvia al cap. II e alla Parte II. Ci si riferirà al concetto di cittadinanza elaborato dalla dottrina medievale fra i secoli XIIXIV, e alla realtà dei Comuni italiani centro-settentrionali. Sul concetto di cittadinanza proprio del diritto romano classico è d’obbligo il rinvio a SHERWIN-WHITE 1973, ma anche ai seguenti contributi: COLI 1957; CRIFÒ 1960; ID. 2000; GAUDEMET 1984; NICOLET 1984 (soprattutto pp. 164171). 80 COSTA 2007, pp. 141-142. 81 ID. 1999, pp. 42-48. 82 Ivi, p. 4. 79
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città «implica cittadinanza, [che è l’insieme] degli abitanti della città [e la] condizione del cittadino come membro della comunità»83. Riecheggiando le riflessioni che erano già state di Cicerone84, Isidoro di Siviglia, nelle sue Etymologiae, aveva affermato che la civitas est hominum multitudo societatis vinculo adunata, dicta a civibus, id est ab ipsis incolis urbis [pro eo quod plurimorum consciscat et contineat vitas]. Nam urbs ipsa moenia sunt, civitas autem non saxa, sed habitatores vocantur85,
evidenziando così lo stretto legame intercorrente fra i singoli soggetti e la comunità politica. Nella cultura medievale, dove il singolo trova la propria ragion d’essere nell’appartenenza al gruppo sociale organizzato, le forme e le dinamiche di realizzazione di questa appartenenza sono varie: nutrita delle idee di ordine e gerarchia, sempre tesa a ricondurre il molteplice all’unità, la società medievale, corpus e universitas a un tempo, policentrica e pluralista (tanto politicamente quanto giuridicamente), compone in sé la fitta trama delle disuguaglianze dei suoi elementi86. Questa, in particolare, l’opinione di Costa, che insiste molto sull’idea che per la città medievale italiana non si possa parlare di ‘una cittadinanza’, ma di «una pluralità di condizioni soggettive differenziate e gerarchizzate»87, cui ricondurre volta a volta diversi contenuti e status. Si dovrebbe forse parlare di plurime ‘cittadinanze’? Cortese sostiene che nel Comune medievale italiano la base contrattuale che ne era stata il fondamento costitutivo si riflette sulla fisionomia dello status civitatis. Infatti, è «l’attiva aderenza a tale patto, e non la passiva appartenenza all’urbs, che
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COSTA 2007, p. 4. Sul concetto di civitas si veda anche COLI 1957. Inoltre, si vedano anche PROSDOCIMI 1984 e BREZZI 1984. 84 Il riferimento è a CIC. rep. 1, 39 e 49: (39) «Est igitur, inquit Africanus, res publica res populi, populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus. Eius autem prima causa coeundi est non tam inbecillitas quam naturalis quaedam hominum quasi congregatio»; (49): «Quid est enim civitas nisi iuris societas civium?». È l’idea che nel XII secolo sarà espressa nel principio civitas est hominum multitudo seu collectio ad iure vivendum, di non chiara attribuzione (cfr. KIRSHNER 1973, p. 700, nota 23). 85 ISID. orig. 15, 2, 1. Si vedano anche le definizioni di cives e di populus presenti nel libro IX delle Etymologiae: «Cives vocati, quod in unum coeuntes vivant, ut vita communis et ornatior fiat et tutior»; «Populus est humanae multitudinis, iuris consensu et concordi communione sociatus. Populus autem eo distat a plebibus, quod populus universi cives sunt, connumeratis senioribus civitatis. [Plebs autem reliquum vulgus sine senioribus civitatis]. Populus ergo tota civitas est; vulgus vero plebs est» (vd. ISID. orig. 9, 4, rispettivamente 2 e 5-6). 86 COSTA 1999, pp. 3-14. 87 Ivi, p. 15.
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definisce originariamente il civis genuino»88, così come coloro che, prestando in seguito lo stesso giuramento nei confronti del Comune già esistente, a questo si sarebbero uniti, vedendosi determinati, su base pattizia, i diritti e i doveri delineanti il loro personale status di cittadini89. Dallo studio degli statuti (di là dalle differenze di dettaglio), Bizzarri aveva evidenziato lo schema, ivi individuabile, di un’articolazione della cittadinanza in due fondamentali categorie: quella originaria (iure sanguinis o iure loci) e quella acquisitiva (per concessione). Inoltre, enfatizzando il carattere contrattuale del rapporto di cittadinanza, Bizzarri aveva individuato i tipi di cives presenti all’interno delle mura cittadine, alquanto numerosi: i cittadini originari (nati in città da padre cittadino, o nati in città e lì abitanti, o semplicemente nati in città) e quelli a questi parificati in virtù della loro lunga residenza in città (i veteres o antiqui); i cittadini naturalizzati, che acquistavano la cittadinanza mediante apposito atto, e dunque detti cives ex privilegio o de gratia; i cittadini che dividevano la loro residenza fra il Comune e i propri possedimenti nelle campagne circostanti (i silvestres, poi spesso divenuti assidui); i c.d. habitatores, non cives, ma rientranti nella protezione del diritto cittadino90. Dunque, tanti possibili status civitatis91 nell’assenza di una cittadinanza riconducibile a un profilo giuridico-formale unico e uniforme92?
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CORTESE 1960, p. 137A. COSTA 1999, pp. 14-15. Come ricorda Cortese, tendenzialmente gli obblighi erano «sia di natura negativa – obbedienza agli ufficiali, divieto di insidiare o di lasciar che altri insidi l’esistenza, la pace, l’onore, i possedimenti della repubblica –, sia di carattere positivo, come la custodia delle mura, la milizia, le fazioni, le collette […], il dovere dell’acquisto e del mantenimento di qualche bene immobile, per lo più di una casa, [simbolo della] necessaria presenza dell’individuo entro la cerchia urbana»; i diritti, invece, se in ambito pubblicistico si sostanziavano nel riconoscere al cittadino optimo iure «la partecipazione alla vita comunale, ossia il potere d’intervenire alle assemblee e conseguentemente di approvar le leggi e di giurare i brevi, di eleggere e di venire eletto alle cariche ufficiali», in ambito privatistico spettava agli stessi «d’ottener giustizia, di possedere immobili in tutto il territorio, d’iscriversi alle Arti, d’usufruire delle leggi protettive nel settore economico, d’essere esent[i] dai gravosi servizi rusticani, di avvantaggiarsi d’una più rigida tutela nel campo penale, e di godere in genere dei molti benefici derivanti da quella solidarietà comunale che per mille strade [tendeva] a difendere le persone e i beni di tutti gli associati» (CORTESE 1960, p. 137A-B). 90 BIZZARRI 1937b, pp. 82-90. 91 Si tenga presente quanto evidenziato da Cortese. La cittadinanza originaria, in virtù della sua natura contrattuale, interessava un gruppo di persone ristretto (le più agiate e politicamente forti), escludendo il resto della popolazione. Nei Comuni caratterizzati dalla preminenza politica dell’aristocrazia feudale o cittadina, costituente fino al secolo XIII una vera oligarchia, la cittadinanza si configurava diversamente per i nobiles (o milites) e per il populus; in quelli dove invece il rigoglio industriale e mercantile aveva condotto alla formazione di una ricca borghesia, si contrapponevano più classi a seconda dei criteri economici propri dell’estimo, distinguendo così generalmente le tre categorie di cives maiores, mediocres (talora) e minores (CORTESE 1960, p. 137B). 92 COSTA 1999, p. 17. 89
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Le differenze di status sotto il profilo sociale e politico, innegabilmente sussistenti nel contesto cittadino medievale, non devono essere confuse con lo status di civis, che nel suo esprimere, come si è detto, l’appartenenza ‘ontologica’ (e lo si intenda in senso politico e naturalmente giuridico) del soggetto alla comunità di appartenenza, non può che essere unico. La cittadinanza può subire limitazioni, o venir meno del tutto (si pensi, appunto, al bando), ma ciò non giustifica l’ipotesi delle molteplici cittadinanze. In tal senso si è espresso chiaramente Ascheri in un suo contributo93. Ricollegandosi alle riflessioni di Bizzarri e di Costa, egli ha evidenziato i limiti della visione della cittadinanza medievale da quelli suggerita. Innanzitutto, presentare il tema del giuramento, quale base costituente del Comune, in modo così generalizzato e apodittico rischia di essere riduttivo: come non vi è stato un momento preciso di nascita del Comune, così pure non è possibile individuare «un momento preciso costitutivo della cittadinanza, che implicava la cultura necessaria per ri-conoscere, cioè per qualificare giuridicamente in quel modo una situazione materiale già definitasi. C’è stato, [piuttosto], un processo storico che [ha progressivamente condotto] all’emersione di una specifica cittadinanza [urbana]»94. In secondo luogo, Ascheri evidenzia la necessità di considerare l’incidenza dei rapporti extraurbani, verticali e orizzontali (ovvero fra la città e i poteri superiori, universali o intermedi, e fra la città e le altre città) sui contenuti della cittadinanza di ogni singola realtà locale, e naturalmente (e soprattutto) il fatto che nei rapporti extraurbani «la città si presentava come un soggetto grosso modo unitario [tenendo certo presente il problema dei banniti e degli atti pattizi o unilaterali …]. In questi rapporti il corpo dei cittadini era considerato come unitario»95; il cittadino all’estero rivendicava la titolarità di una cittadinanza «che prescindeva dal possesso dei diritti politici concreti di un ordinamento in un momento specifico»96, e in tal senso non può negarsi che la cittadinanza avesse in sé un carattere unificante. In linea con questa teoria si è di recente espresso Riethdorf. Criticando la visione di Costa, egli ha a sua volta affermato il carattere unico della cittadinanza medievale. Che i giuristi concordassero sulla sussistenza di livelli di partecipazione politica
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Vd. ASCHERI 2011, dal quale si prende qui in prestito il termine-concetto di ‘cittadinanze’. Ivi, p. 305. L’autore aggiunge che determinare a quando far risalire «il momento iniziale di questa identità locale “forte” è problema da definire in modo specifico per ogni singola situazione, naturalmente, perché un forte potere centrale sovra-urbano non bastava ovviamente ad escludere un’identità locale. Forse, in generale si può solo dire che, indebolendosi un potere sovracittadino, le autonomie locali si siano rafforzate, e così pure le identità locali e quindi il profilo di una cittadinanza locale, differenziata da quella delle altre realtà urbane vicine» (ibid.). A tal proposito, si veda anche ASCHERI 2009b. 95 ASCHERI 2011, pp. 302-303. 96 Ivi, p. 303. 94
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differenti, oltre che sulla riconducibilità ai diversi tipi di cittadini di diritti e doveri differenti, è indubbio. Ma altrettanto indubbio è il fatto che tutti i cittadini condividessero uno status giuridico di base, che conferiva loro un insieme di diritti che li differenziava dagli stranieri97. Chiare, dunque, le difficoltà insite nella ricostruzione di una precisa storia della cittadinanza nel Medioevo. Ma a queste si associa inevitabilmente un ulteriore, importante interrogativo: quale fu il tentativo della dottrina di elaborare una definizione giuridica della cittadinanza? Come ricordato da Quaglioni, la giurisprudenza tardo-romana, essenzialmente casistica e diffidente verso i procedimenti definitori, non aveva trasmesso all’età medievale una teoria organica dell’istituto, e le stesse fonti romane facenti riferimento alla cittadinanza riguardavano sostanzialmente questioni relative alle manumissioni, allo status libertatis o alla perdita della cittadinanza come conseguenza di una pena98. La tendenza contraria, propria della dottrina giuridica medievale, ad apprezzare e formulare definizioni di concetti-base, porterà i doctores a fondare le proprie riflessioni sulla principale sedes materiae, il titolo Ad municipalem et de incolis del Digestum novum99, e l’istituto raggiungerà una fisionomia abbastanza uniforme intorno al secolo XIV, grazie alla letteratura consiliare e commentariale sul tema100. Posta l’equivalenza, sancita da Accursio in riferimento alla cittadinanza originaria, fra ius loci e ius sanguinis101, è a Bartolo che si deve il maggior contributo. Il riconoscimento della potestas statuendi alla civitas sibi princeps costituì il fondamento logico e giuridico per attribuire alla stessa la facoltà di ‘creare’ nuovi cittadini attraverso il proprio diritto; in virtù di questo, non poteva non derivarne che omnes sunt cives civiliter, con piena parificazione della cittadinanza acquisitiva a quella
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E che era perduto in caso di bando (RIETHDORF 2016, pp. 265-266). Proprio lo studio del bando ha condotto Riethdorf a criticare la natura di contratto tradizionalmente attribuita alla cittadinanza comunale, e a concepire quest’ultima come uno status giuridico soggettivo interamente derivante dallo ius civile, e associato a un certo numero di facoltà di diritto privato (soprattutto ereditario e di famiglia) inaccessibili agli stranieri (ivi, p. 87, pp. 179-180 e p. 264). Inoltre, l’autore ha evidenziato come la teoria del bando nella dottrina civilistica (almeno riguardo ai giuristi posteriori alla metà del secolo XIII, quando il bando diviene oggetto di analisi giuridica sostenuta) riveli un concetto di cittadinanza medievale conferente diritti (come detto, principalmente nella sfera privata) piuttosto che doveri (ivi, p. 17). 98 Così in QUAGLIONI 1989d, pp. 131-133 (per una versione in lingua inglese vd. QUAGLIONI 1991), con riferimento a GORIA 1984 (soprattutto pp. 285-286). 99 D. 50, 1, ma certo anche il titolo De incolis del Codex (C. 10, 40). 100 QUAGLIONI 1989d, pp. 133 e 127, ma vd. anche KIRSHNER 1973, pp. 694-696. 101 CORTESE 1960, p. 139A, con riferimento a Gl. Nativitas, ad D. 50, 1, 1, in Corpus iuris civilis 1627, III, col. 1700: «Nativitas. Propria, vel paterna».
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originaria in ragione di una fictio iuris102. A questa parificazione contribuirà anche Baldo nei suoi Consilia, definendo la cittadinanza come un quid factibile che può derivare tanto da fatto naturale quanto da fatto artificiale103. E oltre ad aver chiarito che le articolazioni amministrative interne al Comune (vale a dire, la divisione in distretti per ragioni fiscali e giurisdizionali) non giustificano l’esistenza, per riprendere le parole di Kirshner, di una «sectional citizenship within the civitas», in quanto la cittadinanza è unica e uniforme in tutta la civitas104, nel suo Tractatus represaliarum Bartolo affermò la possibilità del cumulo di due cittadinanze in capo a uno stesso soggetto105. Gli sviluppi successivi, connessi all’affermarsi delle signorie e dei principati, e alla progressiva concentrazione dei diritti politici nella figura del princeps, ricondurranno il singolo allo status meramente passivo di suddito106. Tuttavia, la strada per il riconoscimento di quello che diventerà il preciso status giuridico di chi fa parte di uno Stato era ormai stata segnata107. La lunga esperienza della cittadinanza manterrà costante il proprio denominatore: il legame identitario fra il singolo e la dimensione comunitaria di appartenenza108.
102 Per tutto, si rinvia ai già citati QUAGLIONI 1989d, pp. 141-144, e KIRSHNER 1973, pp. 696713. Il contributo di Kirshner è particolarmente apprezzabile per l’ampio e puntuale studio condotto dall’autore sui contributi bartoliani in tema di cittadinanza – contenuti soprattutto nel suo commento a D. 50, 1, 1 (vd. BARTOLUS 1562, III, In Digestum novum, ff. 989B-992A) – e per l’edizione critica del consilium in cui Bartolo sintetizzò le proprie riflessioni intorno all’equiparazione fra la cittadinanza originaria e quella acquisitiva (per il testo del consilium vd. KIRSHNER 1973, pp. 711-713). 103 CORTESE 1960, p. 139A, con riferimento a BALDUS 1580, Consilium 408, f. 107vB, 1: «[...] civilitas est quid factibile, et non solum nascitur, sed creatur». Si veda anche KIRSHNER 1974. 104 KIRSHNER 1973, pp. 705-707, con rinvio al commento di Bartolo a D. 50, 1, 1: «Quaero, civitas ista distinguitur per portas et per parochias, utrum natus in aliqua porta, vel parochia, debeat dici de illa porta, vel parochia, ratione originis? Videte, cives civitatis sunt uniformes, et civilitas, quae per originem contrahitur, est uniformis toti civitati», in BARTOLUS 1562, III, In Digestum novum, f. 990B, 6. 105 KIRSHNER 1973, pp. 709-710. Per un’edizione del Tractatus represaliarum vd. BARTOLUS 1588, ff. 327A-340B. 106 CORTESE 1960, p. 139A. 107 QUAGLIONI 1989d, p. 144. 108 Cfr. RIETHDORF 2016, pp. 38-39 e p. 88. Per ulteriori riflessioni si segnalano anche i seguenti contributi: RIESENBERG 1969; ID. 1972; ID. 1974; ID. 1992; MENZINGER 2005; EAD. 2012a; EAD. 2012b; EAD. 2013; VALLERANI 2013. Per uno sguardo su alcune esperienze particolari (Venezia, Firenze, Torino) si veda anche PULT QUAGLIA 2006.
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CAPITOLO II IL CONTRIBUTO DI ANDREA ALCIATO NEL CONTESTO UMANISTICO EUROPEO II.1. L’UMANESIMO GIURIDICO E LA FILOLOGIA UMANISTICA ALCIATEA Alle soglie della prima età moderna, fra XV e XVI secolo, l’umanesimo giuridico si diffuse progressivamente, nella veste di un nuovo metodo di studio delle fonti giuridiche antiche, ispirato a criteri di analisi storico-filologica e supportato da una mentalità nuova, arricchitasi della consapevolezza della storicità del diritto e delle sue fonti109. Come evidenziato da Cortese, il fenomeno si delineò in stretta connessione con il secolare successo dell’attività creativa dei commentatori. La ricerca delle rationes sottese alle norme, al fine di adattare queste ultime alle nuove esigenze della società del tempo, aveva favorito una libera interpretazione delle fonti, provocando un inevitabile allontanamento dalla lettera del testo. In tal senso, la formazione di un diritto giurisprudenziale, ovvero dottrinale, aveva determinato la diffusione del c.d. argumentum ex auctoritate, forma di ragionamento/argomentazione in cui il valore di una tesi deriva dall’autorevolezza di una precedente opinione dottrinale. Così, l’auctoritas di un’opinio doctoris, soprattutto se e quando condivisa da un certo numero di giureconsulti di fama, e dunque se e quando opinio communis, aveva cominciato a essere presa in considerazione molto più delle norme stesse, sia nelle università sia nella pratica forense110.
109
Il tema è stato ampiamente studiato. Oltre che al noto e fondamentale MAFFEI 1972, è d’obbligo il rinvio a CALASSO 1970, pp. 181-205; ID. 1954, pp. 597-606; ORESTANO 1966; ID. 1987 (soprattutto pp. 68-72, 151-162, 193-202, 211-212, 579-581 e 591-642); TROJE 1971; ID. 1993; CORTESE 1995, pp. 453-483; CORTESE 2001, pp. 398-411; BERMAN 2003, pp. 100-108; GILLI 2014 (soprattutto pp. 21-145, 395-421); DU PLESSIS, CAIRNS 2016. 110 Per tutto, CORTESE 1995, pp. 453-461, e ID. 2001, pp. 398-400. Sull’argumentum ex auctoritate si veda anche PIANO MORTARI 1976, pp. 75-91.
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Parallelamente, già a partire dal secolo XIV, l’emergere e l’affermarsi della cultura umanistica, nella nota forma di un rinato interesse per i classici latini e greci e per la ricostruzione filologica dei testi tramandati dalla tradizione111, diffusero fra i letterati un atteggiamento di critica nei confronti di glossatori e commentatori, soprattutto in una primissima fase. Giudicandoli illetterati, gli umanisti tacciarono i doctores d’incapacità e di superficialità nella comprensione e conseguente interpretazione delle fonti antiche112. Le critiche non risparmiarono neppure Giustiniano e Triboniano, accusati di aver viziato la presunta armonia dell’antico sapere giuridico romano nella grande compilazione del secolo VI113. Quando gli umanisti evidenziarono i numerosi errori testuali presenti nella Vulgata del Digesto, regolarmente usata sia nelle università sia nella pratica legale, gli ambienti giuridici più sensibili alla nuova cultura umanistica114 percepirono l’importanza di ripristinare (in una visione evidentemente idealizzata) la ‘purezza’ del testo originale delle antiche norme giuridiche, così che tornasse scevro delle alterazioni provocate dalla secolare interpretazione dei giureconsulti medievali115. A catturare l’attenzione della sensibilità giuridico-umanistica fu proprio il più antico manoscritto superstite del Digesto, la famosa Littera Pisana, divenuta Florentina dopo la conquista di Pisa da parte dei Fiorentini nell’ottobre del 1406116. Non più considerata alla stregua di una reliquia da custodire con venerazione, la Littera cominciò a essere consultata e studiata criticamente e sistematicamente, con un nuovo intento ecdotico. Da Angelo Poliziano, Ludovico Bolognini e altri, l’idea di un’edizione critica del Digesto si diffuse rapidamente fra i giuristi-umanisti, intellettuali istruiti nel diritto, nella filologia e in una profonda erudizione antiquaria. Proprio la combinazione di plurime competenze (giuridico-umanistiche) in una
111 Si allude qui ai fenomeni storico-culturali convenzionalmente individuati nella civiltà umanistico-rinascimentale italiana e nella filologia umanistica, propri dei secoli XIV-XV. Nell’impossibilità di citare l’amplissima bibliografia di settore, ci si limiterà a segnalare i seguenti contributi: SABBADINI 1967a; ID. 1967b; GARIN 2019; ID. 2018; ID. 2017; CHIARINI 1995a; ID. 1995b; KENNEY 1995; LANZA 1995; ALESSIO, VILLA 1999; FERA 1999; SPALLONE 1999; RADDING, CIARALLI 2007; STOCK 2015 (soprattutto pp. 139-194); REYNOLDS, WILSON 2013 (soprattutto pp. 123-171). 112 MAFFEI 1972, pp. 34-35; CORTESE 1995, pp. 464-466; ID. 2001, pp. 401-402. 113 MAFFEI 1972, pp. 38, 42 e 60-65, dove l’autore sviluppa le critiche rivolte da umanisti e culti alla compilazione giustinianea e a Triboniano, ma precisa anche il ‘buon senso storico’ di altri umanisti (Poliziano, Budé e soprattutto Alciato e Zasius), che si espressero con toni ben più moderati e complessivamente positivi sull’opera dei giuristi di età intermedia (ivi, pp. 45-48 e 52-55). 114 Appunto, quel rinnovato interesse per le arti liberali, soprattutto per la grammatica quale studio filologico dei classici latini e greci, che interessò i circoli letterari europei dal secolo XIV in avanti (vd. le indicazioni bibliografiche presentate supra, nota 111). 115 Vd. supra, note 112 e 113. 116 CORTESE 2001, p. 402, e ivi, nota 601.
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stessa personalità dimostrò di essere l’elemento chiave del nuovo studio delle fonti117. Infatti, il problema della Littera Florentina e le relative preoccupazioni per il suo testo nascondevano ulteriori, complesse questioni interessanti la sostanza giuridica sottesa alla lettera delle norme, e conseguentemente l’intero sistema e i fondamentali principi di certezza giuridica118. Se inizialmente, seguendo l’interpretazione ancor oggi diffusa, critiche e suggerimenti per un nuovo metodo provenirono da uomini di lettere, privi di una formazione giuridica o quanto meno poco esperti di diritto, nel momento in cui l’unione di competenze storico-filologiche e giuridiche iniziò a diffondersi, trovando massima valorizzazione in intellettuali particolarmente brillanti, le prime manifestazioni di una nuova esperienza nella storia del diritto poterono emergere e svilupparsi progressivamente119. Competenze filologiche e storiche, erudizione e scienza giuridica si rivelarono strumenti per una migliore, più consapevole interpretazione della tradizione giuridica romana. L’interesse per la ricostruzione critica della lettera dei testi stimolò un processo di storicizzazione delle antiche istituzioni giuridiche romane, la cui validità cominciò a essere indagata attraverso la filologia e sullo sfondo di una concezione globale del diritto ormai nuova120. È convenzione individuare i massimi esponenti della prima fase di questa nuova esperienza storico-giuridica nelle tre celebri personalità di Andrea Alciato, Guillaume Budé e Ulrich Zasius, secondo l’immagine del triumvirato umanistico già all’epoca proposta dal Cantiuncula121. I tre umanisti accolsero l’eredità scientifica dell’Umanesimo italiano quattrocentesco, sviluppandola e perfezionandola in opere che rivelano la convergenza dei plurimi interessi e della formazione culturale enciclopedica dei loro autori nel diritto, oggetto di studio privilegiato, inserito nella dimensione storica sua propria 122.
117
CORTESE 1995, pp. 466-469. Sull’interesse degli umanisti per il Digesto (e dunque per la Littera Florentina) e per un suo rinnovato studio filologicamente condotto, con particolare riguardo per le figure di Lorenzo Valla (primo vero sostenitore dell’importanza del Digesto quale testimonianza fondamentale della civiltà romana, soprattutto da una prospettiva linguistico-lessicale) e di Angelo Poliziano (primo ideatore di un progetto di ricostruzione filologica del testo ‘originario’ del Digesto), vd. ROSSI 2014, non dimenticando le riflessioni esposte in CAPRIOLI 1986 (e complessivamente in Le Pandette 1986). Sul problema dello studio e della correzione-ricostruzione del Digesto negli ambienti umanistico-giuridici della prima età moderna vd. anche MILETTI 2014. Per uno sguardo sul manoscritto della Littera Florentina vd. BALDI 2010. 118 Ivi, pp. 468-469; ID. 2001, p. 403, e MAFFEI 1972, p. 98. 119 CORTESE 1995, p. 470. 120 MAFFEI 1972, pp. 98, 101, 154-158, ma naturalmente anche ORESTANO 1966, e ID. 1987, pp. 579-581, 591-642. 121 ORESTANO 1987, p. 211, nota 95. 122 MAFFEI 1972, p. 128.
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Rinviando alla Parte II per le dovute riflessioni su Budé e Zasius, l’attenzione sarà qui posta sulla complessa figura e sul rilevante contributo culturale di Andrea Alciato (1492-1550), indubbiamente e universalmente considerato quale primo vero giurista-umanista e, come già evidenziato, autore di riferimento per le indagini di questo studio. È noto che l’educazione umanistica di Alciato presso la scuola di Aulo Giano Parrasio, Demetrio Calcondila, e (occasionalmente) Giano Lascaris fu sensibilmente accurata. La sua conoscenza delle lingue latina e greca antica e la sua tecnica filologica erano salde e raffinate, sebbene egli fosse ancora molto giovane123. Ben istruito nelle humanae litterae, Alciato si avviò agli studi giuridici a Pavia e a Bologna, avendo come maestri Giason del Maino, Filippo Decio e (probabilmente) Carlo Ruini. Nel 1516 si addottorò in utroque a Ferrara e in seguito intraprese la professione legale124. Ciononostante, non smise mai di interessarsi di temi letterari, come alcune delle sue opere più importanti dimostrano chiaramente125, e tutta la sua opera risulta caratterizzata dalla poliedrica, armonica combinazione di competenze letterarie e giuridiche126. La sua carriera d’insegnante fu l’ulteriore espressione di tale unicità, sebbene le sue lezioni ufficiali non si allontanassero mai dal tradizionale metodo della scuola italiana dei commentatori127. Come evidenziato da Belloni, proprio riguardo al metodo d’insegnamento alciateo è opportuno tenere a mente alcune considerazioni128.
123 ABBONDANZA 1960, p. 69A, e BELLONI, CORTESE 2013, p. 29B. Sulla vita e sulle opere di Andrea Alciato si vedano i seguenti contributi: VIARD 1926; CALLAHAN 1985; OTTO 2004; ID. 2014; ROLET, ROLET 2013; BELLONI 2016b. 124 BELLONI, CORTESE 2013, p. 29B. 125 Si pensi ai famosi Collectanea di epigrafi milanesi (pubblicati postumi con il titolo di Rerum patriae libri), alle Annotationes in P. Cornelium Tacitum (corredanti l’edizione dell’opera di Tacito curata da Alessandro Minuziano nel 1517, e introdotte dall’epistola – poi nota come Encomium historiae – cui si deve l’importante rivalutazione di Tacito), ai celeberrimi Emblemata, a una traduzione delle Nubes di Aristofane, alla commedia Philargyrus (ivi, pp. 30A e 31B). Più in particolare, sui Rerum patriae libri si vedano BELLONI 2002 e EAD. 2016a. Sull’Encomium historiae e sulle Annotationes a Tacito più in generale si veda ROSSI 2020. Sugli Emblemata si veda ALCIATUS 2009. Sulla commedia Philargyrus si vedano ROSSI 2011 e NOGARA 2016. 126 Per esempio, le sue Dispunctiones sono un prezioso lavoro di restituzione dei testi greci precedentemente esclusi dal Corpus iuris civilis, ma anche i Paradoxa, i Praetermissa, i Parerga e, soprattutto, il notevole commentario al De verborum significatione (D. 50, 16) mostrano una conoscenza accurata in ambito linguistico, filologico, storico e giuridico (vd. ABBONDANZA 1960, pp. 70A, 70B, 71B; MAFFEI 1972, pp. 134-135; BELLONI, CORTESE 2013, pp. 30A e 31A). Sulle opere di Alciato si rinvia a quanto esposto infra, Parte II, sulla base di BELLONI 2016b, pp. 759928. 127 CORTESE 1995, p. 473. 128 Sul metodo d’insegnamento di Alciato si rinvia sin d’ora a BELLONI 1995 e a EAD. 2016b, pp. 525-573.
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Innanzitutto, l’idea che l’umanista dovette trasferirsi in Francia per poter insegnare secondo il suo metodo d’impronta storico-filologica è da considerarsi falsa, così come la convinzione che nella Francia della prima età moderna il diritto fosse insegnato secondo l’umanistico mos gallicus (il metodo storico-filologico), e non secondo il mos italicus, appunto, il metodo tradizionale seguito in Italia e fondato sul successo del bartolismo nel secolo XV129. Indubbiamente, se la sensibilità giuridico-umanistica, nata in Italia, si diffuse ampiamente in Francia e condusse ivi allo sviluppo del nuovo metodo storico-filologico130, quest’ultimo non era seguito durante le lezioni ordinarie131. Così, quando Alciato si trasferì ad Avignone nell’autunno del 1518 (e non si trattò, come si diceva, di un’emigrazione132), il metodo d’insegnamento lì seguito fu quello della scuola italiana133. Ad Avignone Alciato insegnò due volte, fra il 1518 e il 1522, e poi fra il 1527 e il 1529 (dopo un periodo trascorso a Milano, lontano dall’insegnamento), per sei anni accademici complessivi. Le sue lezioni ebbero come oggetto l’Infortiatum e il Digestum novum, quelle parti del Corpus iuris civilis che in Italia erano ordinariamente insegnate di pomeriggio134.
129
BELLONI 1995, pp. 137-138, e EAD. 2016b, pp. 575-579. Per un contributo su umanesimo giuridico e bartolismo vd. QUAGLIONI 1999c. 130 Si veda, fra gli altri, MAFFEI 1972 (in particolare pp. 11-125). 131 BELLONI 1995, p. 138. Ivi Belloni fa riferimento anche a Calasso, al fine di evidenziare che sebbene il nuovo metodo condusse spesso a una critica severa della scuola giuridica medievale italiana, questa non smise mai di essere considerata il grande fondamento della scienza giuridica moderna (vd. CALASSO 1954, p. 603). Si veda anche BELLONI 2016b, pp. 568-573. 132 In quegli anni l’Università di Pavia era stata chiusa a causa della guerra e dell’instabilità politico-economica del Ducato di Milano. L’Università di Padova era stata riaperta nel 1517, dopo otto anni di chiusura. Le altre tre importanti università dell’Italia settentrionale (Torino, Bologna e Ferrara) erano solite nominare professori stranieri affermati (e nell’autunno del 1518 Alciato aveva soltanto 25 anni). Conseguentemente, il trasferimento in Francia fu un’opportunità decisamente favorevole per Alciato, quasi naturale. Inoltre, negli stessi anni Milano si trovava sotto dominazione francese, e sebbene l’Università di Avignone fosse legata al Papato, spettava al Comune di Avignone pagare gli onorari dei professori. Si aggiunga anche che Alciato fu quasi sempre un sostenitore dei Francesi, e la sua nomina per l’incarico ad Avignone fu oggetto di negoziazione fra personalità di rilievo del governo francese presenti a Milano (vd. BELLONI 1995, pp. 140-141, e EAD. 2016b, pp. 575-618). 133 Più in dettaglio, il Corpus iuris civilis era insegnato nel modo seguente: al mattino (ordinarie) il Codex e il Digestum vetus erano commentati alternatamente; il pomeriggio, invece, era dedicato, sempre alternatamente, al Digestum novum e all’Infortiatum. Inoltre, avevano luogo lezioni extra sulle Institutiones, sulle Novellae, sui Tres libri, e su quelle parti del Codex, del Digestum vetus, del Digestum novum e dell’Infortiatum che non erano oggetto di spiegazione nelle lezioni ordinarie. I Libri Feudorum, invece, venivano completamente trascurati (vd. BELLONI 1995, p. 142, e EAD. 2016b, pp. 527-529). Per uno studio sui professori di diritto e sulle cattedre universitarie di diritto nell’Italia del secolo XV (sull’esempio dell’Università di Padova) vd. EAD. 1986. 134 BELLONI 1995, p. 143, e EAD. 2016b, pp. 527-529.
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Nella primavera del 1529, in seguito all’offerta di un onorario più alto, Alciato si trasferì a Bourges, e fra il 1529 e il 1533 insegnò lì secondo il metodo tradizionale135. Ma durante il suo secondo anno presso quella università (l’anno accademico 1529-1530) egli iniziò a spiegare il Codex secondo intenti e metodi nuovi. In primo luogo, abbandonò la prolissità caratterizzante le lezioni dei suoi contemporanei, eliminando qualsiasi inezia nell’esegesi dei testi. Concentrandosi sulla spiegazione del communiter traditum (e non di tutte le possibili opinioni su una data questione giuridica), Alciato constatò la possibilità di commentare molte più norme, e d’indirizzare l’attenzione più specificamente alla receptioris sententiae ratio136, intesa quale significato essenziale dello spirito delle antiche leggi, e dunque vera chiave per la soluzione dei casi137. Inoltre, abbandonando il vocabolario e lo stile espositivo di Bartolo (a eccezione, s’intende, della terminologia tecnico-giuridica), Alciato ricorse a un latino elegante e raffinato, libero da barbarismi e modellato sul latino classico e chiaro della giurisprudenza romana138. Ciò si rivelò particolarmente utile per gli studenti transalpini, che avevano difficoltà a comprendere il vocabolario giuridico latino d’uso in Italia, particolarmente denso di volgarismi locali. Peraltro, la scelta linguistica fu mantenuta dall’Alciato anche dopo il suo rientro in Italia, proprio in ragione del gran numero di studenti transalpini che si recavano nella Penisola per frequentare le sue lezioni139.
135
In ragione della programmazione annuale dei corsi accademici, Alciato aveva tenuto lezioni sulla seconda parte del Digestum novum. Così, decise di iniziare dal titolo più importante, il De verborum obligationibus, i cui frammenti erano stati accuratamente commentati da Bartolo e dai suoi predecessori. Alciato stesso affermò ciò nella sua Ad lectorem epistola, posta quale prefazione nell’edizione dei suoi Commentarii ad rescripta principum (contenenti i suoi commentari ai titoli De summa Trinitate et fide catholica e De sacrosanctis ecclesiis del Codex): «Cum superiore anno accersitus in Biturigum academiam venissem, tumque tertius Pandectarum tomus pro lege gymnasii explicaretur, ego de verborum obligationibus ea responsa interpretanda suscepi, quae a Bartolo et recentioribus copiosius acutiusque, ob materiae subtilitatem, explanata fuerant» (vd. ALCIATUS 1582, III, Ad lectorem, f. 1). Per tutto vd. BELLONI 1995, p. 143, e EAD. 2016b, pp. 539-557. 136 ALCIATUS 1582, III, Ad lectorem, f. 2. 137 BELLONI 1995, p. 144, e ivi, nota 39. 138 Il suo interesse umanistico per la lingua latina classica era già emerso nelle sue opere filologiche (non connesse all’insegnamento), quali appunto i Paradoxa, le Dispunctiones, i Praetermissa e il commento ai Tres libri Codicis (vd. BELLONI 1995, pp. 147-148, e ivi, nota 51, e EAD. 2016b, pp. 539-557). 139 BELLONI 1995, p. 147. Belloni evidenzia anche come questa scelta linguistica possa essere stata una delle probabili ragioni per le quali gli studenti italiani non apprezzarono le lezioni di Alciato. Erano spesso indisciplinati, e lo stesso umanista non li amava granché. Inoltre, per esempio, molti degli studenti addottoratisi presso l’Università di Ferrara (avendo scelto Alciato come tutor) non erano italiani. Presumibilmente, gli studenti italiani preferivano seguire le lezioni alternative di altri professori, che insegnavano gli stessi argomenti di Alciato, ma secondo il competitivo sistema d’insegnamento italiano (ivi, p. 148 e ivi, nota 51, e EAD. 2016b, pp. 549-557).
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Sulla base di tali argomenti, Belloni ha suggerito l’opportunità di respingere anche l’idea che le lezioni dell’umanista fossero più complesse proprio a causa dell’approccio storico-filologico ai testi giuridici. Infatti, scopo dell’insegnamento alciateo fu sempre quello di preparare al meglio gli studenti ad affrontare la stimata e ben remunerata professione legale. In considerazione dell’innegabile valore formativo riconosciutogli in tutta Europa, lo ius commune romano-canonico costituiva pur sempre l’oggetto delle lezioni, quale solida base per una corretta preparazione giuridica. In tal senso, la sussistenza di programmi di studio accademici identici stimolava il carattere internazionale delle università, agevolando gli studenti pronti a viaggiare da un’ateneo all’altro al fine di migliorare i propri curricula140. Ciò posto, e pur sempre in connessione con la precedente tradizione giuridica medievale, la novità del metodo alciateo fu indubbia, e risiedette fondamentalmente nelle abilità didattiche e nella formazione culturale dell’umanista. L’interesse di Alciato per la ricostruzione delle fonti giustinianee (e per una rinnovata interpretazione e comprensione delle stesse) visse una fase particolarmente feconda in corrispondenza del periodo trascorso presso l’Università di Bourges141, che in quegli anni si stava riformando ed era profondamente influenzata dai circoli umanistici parigini. Proprio a Parigi le lingue classiche e l’antichità in senso lato avevano guadagnato importanza e interesse, ed erano state fondate nuove istituzioni culturali, come un collegio trilingue dove erano insegnate le lingue latina, greca antica ed ebraica (la base dell’odierno Collège de France)142, su suggerimento e guida di Budé. Infatti, l’umanista francese era stato introdotto da Fra Giocondo da Verona (architetto e umanista, esperto filologo, cercatore di manoscritti ed epigrafista) a una cultura storico-antiquaria simile a quella di Alciato143. In linea con la temperie umanistica, sia Alciato sia Budé intesero restaurare i testi di diritto romano con l’ausilio di competenze linguistiche e storiche. Al fine di perfezionare l’interpretazione delle norme giustinianee, furono appunto l’uso di fonti antiche eterogenee, letterarie e giuridiche (per quanto sia possibile delineare una simile classificazione) e il loro reciproco confronto a determinare il successo del nuovo metodo di studio dei testi144. Questo mos storico-filologico di approccio alle fonti giustinianee era già stato utilizzato dall’Alciato a Milano, ancor prima del suo trasferimento ad Avignone, ma non si trattò mai di un mos docendi. Non era seguito nei
140
BELLONI 1995, pp. 149-150. BELLONI 1995, pp. 150-151. Inoltre, il periodo trascorso a Bourges fu caratterizzato dalla pubblicazione di molte opere di rilievo (vd. ABBONDANZA 1960, p. 71B, e BELLONI 2016b, pp. 860-894, 895-896). 142 BELLONI 1995, p. 152. 143 Ivi, p. 153. 144 Ibid., e BELLONI, CORTESE 2013, p. 31A. 141
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corsi giuridici ordinari, che (come accenato poco sopra) erano condotti secondo l’affermato metodo tradizionale145. Effettivamente, ad Avignone, durante l’anno accademico 1520-1521, Alciato impartì lezioni sul De verborum significatione, complesso titolo del Digestum novum che richiede vaste competenze storiche e linguistiche per essere propriamente compreso. Ma questo non era inserito nei programmi d’insegnamento ordinario, e l’umanista lo commentò nell’ambito di lezioni supplementari (tenute extraordinarie), facendo lo stesso a Bourges riguardo a fonti differenti146. Di conseguenza, nonostante Alciato credesse che il metodo storico-filologico fosse un prezioso strumento per raggiungere una precisa mentalità giuridica, certamente non pretese mai che i suoi studenti fossero esperti filologi, linguisti e storici. Fu sempre molto attento all’utile connesione fra lo studio delle antiche istituzioni e norme romane da un alto e le necessità del mondo a lui contemporaneo dall’altro, e il nuovo metodo migliorò complessivamente l’interpretazione del diritto e del sistema giuridico nato con i glossatori. Ma il metodo storico-filologico di approccio alle fonti caratterizzò l’attività dell’umanista solo privatamente, e in ambito universitario coinvolse soltanto i pochi, colti e interessati studenti disposti a frequentare le sue lezioni filologiche supplementari e opzionali147. Dunque, si trattò più propriamente di un mos studendi, pur se di fortuna tutt’altro che limitata ai confini dello studio privato. Infatti, com’era avvenuto ad Avignone (riguardo alle suddette lezioni sul De verborum significatione, impartite extraordinarie148), così anche a Bourges e nelle università italiane che ebbero Alciato come docente (soprattutto quelle di Bologna e di Ferrara) l’insegnamento dell’umanista si tradusse nella nascita di piccole scuole filologiche, animate dall’attività di allievi e assistenti internazionali149.
145 BELLONI 1995, p. 153, e EAD. 2016b, pp. 525-573. In realtà, Budé non insegnò mai e le sue Annotationes in Pandectas sono un’opera di studio privato, come quelle storico-filologico-giuridiche di Alciato (EAD. 1995, p. 153, e vd. supra, note 125 e 126). 146 BELLONI 1995, pp. 153-154. In quell’anno accademico, secondo gli statuti dell’Università di Avignone, Alciato dovette tenere lezione sulla seconda parte del Digestum novum. Così, egli commentò ordinarie il De verborum obligationibus ed extraordinarie il De verborum significatione, come detto supra, note 133 e 135. Ciò potrebbe sembrare anomalo, dal momento che il sistema d’insegnamento tradizionale non consentiva a un professore ordinarius di essere extraordinarius allo stesso tempo. Ma in questo caso gli avverbi ordinarie ed extraordinarie non corrispondono più a de mane e a de sero (appunto, rispettivamente, lezioni mattutine e pomeridiane), o a lezioni fondamentali e secondarie, ma piuttosto a lezioni obbligatorie e opzionali/supplementari. Presumibilmente, le lezioni supplementari tenute dall’Alciato erano frequentate da pochissimi studenti (ivi, p. 154, con ulteriori riferimenti bibliografici alla nota 81). Si veda anche EAD. 2016b, pp. 525-538. 147 BELLONI 1995, p. 155-156, e EAD. 2016b, pp. 568-573. 148 Vd. e cfr. supra, note 133 e 146. 149 Verosimilmente, ciò non accadde a Pavia, dal momento che lì l’instabilità politico-economica legata alla costante paura di una nuova guerra non era certo favorevole a studi filologici (supplementari) accurati (vd. BELLONI 1995, p. 156, e EAD. 2016b, p. 634 e pp. 645-653).
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Ad Avignone Alciato fu particolarmente stimato da Bonifacius Amerbach, suo amico sincero e affezionato, oltre che editore fidato a Basilea150, ma anche dal francese Jean Montaigne e dal figlio di Alessandro Minuziano, Vincenzo151. A Bourges fu seguito dai futuri rappresentanti della c.d. giurisprudenza culta152 (appunto, l’affermata scuola dei giuristi-umanisti), ma anche dall’olandese Viglius Zuichemus e da molti altri personaggi illustri provenienti da tutta Europa (fra gli altri, François Connan, Johannes Secundus, e persino Francesco I, re di Francia). A Bologna, dove insegnò fra il 1537 e il 1541, le sue lezioni furono seguite da Goro Gualteruzzi (lì inviato da Pietro Bembo), dallo spagnolo Antonio Augustín e dal francese Jean Matal153. Si tratta di un insieme di personalità il cui rilievo e la cui internazionalità impediscono di ricondurre il metodo umanistico alla sola Francia154, unitamente sia all’uso del metodo storico-filologico da parte di altri intellettuali dell’epoca (quali Ulrich Zasius, Gregor Haloander e Niccolò Belloni), sia al ritorno di Alciato in Italia, dove l’umanista, lasciata Bourges nel 1533, continuò a insegnare fra Pavia, Bologna e Ferrara155. Conseguentemente, come evidenziato dalla storiografia (in generale e con particolare riguardo per l’epoca di Alciato), non è corretto delineare un’assoluta contrapposizione fra mos gallicus e mos italicus iura docendi, soprattutto nell’esaltazione del carattere storico-filologico del primo. L’approccio storico-filologico alle fonti fu solo una delle peculiarità del mos gallicus, ed è indubbio che i culti, al pari dei bartolisti, non furono soltanto intellettuali dediti alla pura speculazione, ma appunto anche perfettamente consapevoli delle esigenze della pratica legale156. Il me-
150
BELLONI, CORTESE 2013, p. 30B, ma anche WELTI 1985. Sull’amicizia fra Alciato e Amerbach e sulle loro relazioni vd. HARTMANN, JENNY 1942 – ; BARNI 1953; BELLONI 2016b. 151 BELLONI 1995, p. 156. 152 Fra i celebri accademici e studiosi dell’Università di Bourges il più importante e famoso fu senz’altro Jacques Cujas (Toulouse, 1522 – Bourges, 1590), illustre giurista, erudito, storico, filologo, esegeta ed editore di fonti giuridiche antiche (vd. CORTESE 1995, pp. 475-476, e ivi, note 41 e 42, ma anche WINKEL 2007). Su Cujas è d’obbligo il rinvio a PRÉVOST 2015. 153 BELLONI 1995, p. 156, e ABBONDANZA 1960, p. 71B. 154 BELLONI 1995, p. 157, e EAD. 2016b, pp. 575-653. 155 A Pavia egli terminò la sua prestigiosa carriera, ivi morendo nel 1550 (vd. BELLONI, CORTESE 2013, pp. 31B-32A). Complessivamente, Alciato insegnò per dieci anni accademici in Francia (1518-1522, 1527-1533), ma per ben 17 in Italia (1533-1550). Le università italiane più prestigiose furono in costante competizione per lui. Infatti, essendo estremamente ambizioso e opportunista, cercò sempre di ottenere vantaggi per un onorario più elevato (vd. BELLONI 1995, p. 158). Sull’opportunismo politico di Alciato si vedano EAD. 2000; EAD. 2005; EAD. 2016b, pp. 575-657. 156 MAFFEI 1972, pp. 168-176; CORTESE 1995, p. 477, e ivi, nota 46; BELLONI 1995, pp. 137 e 157. Belloni evidenzia nuovamente come i culti conoscessero la scrupolosa attività interpretativa dei commentatori e come l’avessero presa in seria considerazione. In realtà, attraverso il secolo XVI i commentaria degli accademici italiani (di Bartolo, Baldo, ma anche di accademici del secolo XV e oltre) furono frequentemente pubblicati anche in Francia, soprattutto a Lione e a Parigi (ivi, p. 157).
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todo umanistico si diffuse ampiamente in tutta la Francia (e ciò giustifica l’uso della nozione di mos gallicus per qualificare il metodo d’insegnamento proprio di quel Paese, dal secolo XVI in avanti)157, ma i culti non provocarono una separazione fra teoria e pratica, né respinsero del tutto la tradizione del mos italicus. Senza dubbio si manifestò un cambiamento nei metodi e negli approcci al sistema giuridico stesso, e una rinnovata tendenza teorico-pratica, per così dire, rappresentò l’evoluzione della precedente tradizione giuridica medievale. La diffusione del metodo umanistico in Paesi come la Francia, e la sopravvivenza del tradizionale scolasticismo in altri, soprattutto in Italia, dipesero senz’altro dai differenti contesti storici di riferimento, e come Maffei ha a suo tempo affermato, è proprio in relazione a quei contesti che mos gallicus e mos italicus devono essere studiati. Lo scolasticismo giuridico sopravvisse lì dove le condizioni politiche, sociali ed economiche erano ancora connesse a quelle medievali più che altrove (il persistente pluralismo politico dei territori italiani ne è l’esempio più rappresentativo). Di contro, il metodo umanistico ebbe successo in quei Paesi dove nuove istituzioni politico-giuridiche stavano emergendo (come nel caso della Francia, Stato nazionale per eccellenza). Ne deriva che per i sostenitori del mos italicus fu semplice e naturale utilizzare il diritto romano e applicarlo quale legge vigente (certamente considerando l’evoluzione e l’adattamento ai tempi dovuti all’attività di glossatori e commentatori). Gli umanisti sostenitori del mos gallicus, invece, attribuirono una differente validità al diritto romano, spesso inconsciamente, ritenendo che dovesse essere storicizzato e così reinterpretato e reinserito in una nuova mentalità giuridica, non più universalistica, ma appunto nazionale158. Il metodo storico-filologico consentì di attribuire un valore nuovo ai testi giustinianei, in ragione dei caratteri delle moderne monarchie transalpine. In particolare, la Francia cercò di respingere ogni possibile soggezione al Sacro Romano Impero, e dunque al suo diritto, il romano, quale espressione di quella possibile subalternità, e in quanto regno ben centralizzato aspirava ad avere un proprio diritto. In tal senso, le norme consuetudinarie si rivelarono essenziali sia per le politiche nazionalistiche del sovrano sia per il pensiero giuridico dei culti, che più tardi diventeranno cruciali nella fondazione di un droit commun francese. Ma il diritto romano rimase a sua volta fondamentale. I culti francesi considerarono le leggi giustinianee nella consapevolezza del carattere ‘umano’ di quelle, vale a dire della loro imperfezione e criticabilità sia in senso storico sia filologico. Proprio la storicizzazione del diritto romano consentì di utilizzare quello stesso diritto in un
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CORTESE 1995, p. 476. Sull’umanesimo giuridico francese, oltre che ai contributi già segnalati supra, nota 109, si rinvia anche a REULOS 1977 e a ZENDRI 2007 (soprattutto pp. 1-21). 158 Per tutto vd. MAFFEI 1972, pp. 22, 174-176. Si vedano anche QUAGLIONI 1999c (pp. 188190, 203-212) e gli ulteriori contributi segnalati supra, nota 109.
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contesto storico ormai nuovo, quale ratio scripta, ideale base teorico-dogmatica del diritto nazionale che nella Francia del secolo XVI nasceva progressivamente159. Così, come chiarito da Maffei, la vera grande differenza fra la giurisprudenza medievale e quella culta risiederebbe nei diversi ‘atteggiamenti spirituali’ verso i monumenti giuridici romani (e dunque non soltanto nelle diverse tecniche interpretative delle fonti, rispettivamente riconducibili alle due scuole). La giurisprudenza medievale si elesse a discendente di quei momumenti, elogiandone e rispettandone l’unità logico-sistematica. La giurisprudenza culta, invece, frantumò quell’unità, nella consapevolezza piena della storicità del diritto giustinianeo e della fondamentale esigenza del mondo giuridico rinascimentale di forgiare i differenti diritti nazionali, sullo sfondo della dissoluzione dei sistemi giuridico-politici di età intermedia. A questo scopo si pose come essenziale il rimodellamento dell’intera tradizione giuridica antica, conferendo nuova validità e nuovi limiti al diritto romano, nel nuovo contesto delle varie società nazionali. In tal senso, proprio la filologia potè giocare un ruolo davvero rilevante nelle dinamiche politiche160. Concludendo, l’umanesimo giuridico può correttamente essere definito quale una delle fasi più importanti e cruciali nella storia della tradizione giuridica occidentale, fra Medioevo ed età moderna. Le nuove tendenze umanistiche proprie del mondo letterario influenzarono inevitabilmente la sensibilità di certi ambienti giuridici. La combinazione di competenze letterarie e giuridiche in alcune, uniche personalità stimolò la nascita e lo sviluppo di un nuovo approccio allo studio delle fonti antiche e di una nuova mentalità giuridica complessivamente intesa. Il metodo storico-filologico, quale nuovo studio critico del dato testuale e più corretta esegesi e storicizzazione dello stesso, rappresentò il primo passo verso un nuovo percorso per la scienza giuridica. Tuttavia, il contrasto con la precedente tradizione medievale è più apparente che reale, e si avrà occasione di dimostrarlo ulteriormente nel corso della trattazione161. Se ebbe luogo un’indiscutibile, considerevole innovazione nell’analisi delle fonti e nei metodi di studio delle stesse, i giuristi-umanisti operarono sempre nella consapevolezza del valore dell’opera dei loro predecessori. Fra i secoli XI-XII, i glossatori avevano acutamente ‘riscoperto’ la compilazione giustinianea; in un certo senso, le loro note esplicative (appunto, le glosse) possono essere considerate un primo studio filologico delle antiche fonti giuridiche. A loro volta, i commentatori avevano proseguito l’opera d’interpretazione, estrapolando
159 CORTESE 1995, pp. 478-483. Inoltre, nel tardo XVI secolo fu l’umanista François Hotman ad auspicare per primo la codificazione di un diritto nazionale francese (ivi, p. 483). Per tutto si vedano anche MAFFEI 1972 (pp. 177-187) e quanto segnalato supra, nota 109. 160 MAFFEI 1972, pp. 160, 162-163, e ancora una volta supra, nota 109. 161 Vd. infra, Parte II e Conclusioni.
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attentamente le rationes sottese alle norme. Glossatori e commentatori avevano entrambi reinterpretato le istituzioni giuridiche romane, nell’obiettivo di modernizzarle, o meglio di adattarle alle esigenze del mondo medievale loro contemporaneo. Similmente, nella prima età moderna, nuovi contesti storici e nuove tendenze culturali resero necessaria una nuova eleborazione dell’antica eredità giuridica, nella prospettiva di un processo evolutivo costante, dall’antichità al mondo giuridico moderno, attraverso i secoli medievali. Così, lungi da una netta contrapposizione fra mos italicus e mos gallicus, entrambe le scuole contribuirono in modo fondamentale alla formazione di un nuovo sistema giuridico, dove vecchi e nuovi metodi si fusero in un’unità rinnovata. E in ragione di un intento sistematico, la razionalità sottesa alla tradizione giuridica romana rappresentò l’omogenea base istituzionale degli eterogenei diritti nazionali allora emergenti162. Andrea Alciato, personalità unica nell’Europa della prima età moderna, diede il primo e più significativo contributo all’umanesimo giuridico. Grazie alla ricchezza pluridisciplinare della sua istruzione, fu perfettamente in grado di combinare abilmente le sue competenze storiche, filologiche e giuridiche nello studio della compilazione giustinianea. La sua scrupolosa attenzione filologica per i testi, dall’analisi critica di alcuni vocaboli fondamentali alla conseguente, più precisa interpretazione dei concetti ivi custoditi, fu ed è tutt’oggi estremamente lodevole. Naturalmente, è quasi superfluo ricordarlo, la filologia umanistica, di Alciato e in generale, si caratterizzò per qualità e difetti suoi propri, nell’inevitabile differenza dalla filologia contemporanea. I principi filologici del secolo XIX, quali appunto «the exactitude of the apparatus criticus, the minutely accurate collation of manuscripts, the meticulous notation of their variants, changes of scribal hand, variations in ink colour, erasures, the precise dating of script, and so on»163 erano ben lontani dal trovare la loro espressione. Effettivamente, non può negarsi che la filologia umanistica tese molto alla retorica e alla pura erudizione. Le congetture sulle possibili lezioni proposte erano spesso avulse dal riferimento preciso alla testimonianza manoscritta di riferimento, con la conseguente imprecisione e inaccuratezza delle citazioni di manoscritti e fonti dei passaggi testuali oggetto di analisi164.
162
CORTESE 1995, p. 483; QUAGLIONI 1999c, pp. 185-212; BERMAN 2003, pp. 102-108. OSLER 2001, p. 7. 164 Sul punto vd. OSLER 2001, pp. 1-7 (in particolare pp. 6-7). Secondo Osler, infatti, «[it] was manifestly a matter of complete indifference to Alciatus whether, first, he cited any source whatsoever for a reading he was advancing; secondly, whether a reading was presented as a conjecture or a manuscript reading; thirdly, when a reading was given as that of a manuscript, whether it was specifically stated to derive from the Florentine [appunto, il manoscritto del VI-VII secolo del Digesto, conservato a Firenze] or from some anonymous antiquus codex; or finally, whether an anonymous manuscript was cited as antiquus, antiquior, or antiquissimus, or whatever» (ivi, p. 6). Per 163
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Ciononostante, l’attività erudita degli umanisti (e così dei giuristi-umanisti) fu indubitabilmente preziosa. Essi furono in grado di avviare una nuova tendenza di studi, quali diretti seguaci dei glossatori, che avevano già mostrato una certa sensibilità filologica, e certamente quali pionieri di un fenomeno giuridico nuovo165. In questo contesto, Alciato ebbe un ruolo centrale. Grazie alla sua peculiare cultura, alla sua abilità didattica e al suo brillante intelletto, il metodo storico-filologico si sviluppò progressivamente, diffondendosi nei Paesi europei particolarmente ricettivi nei confronti delle innovazioni umanistiche e delle mutate esigenze della prima età moderna (soprattutto la Francia). Il contemporaneo sviluppo e la conseguente diffusione della stampa furono fattori decisivi ulteriori, sia in quanto condussero alla circolazione di testi fino ad allora rari, quali soprattutto quelli in lingua greca antica (fondamentali per lo sviluppo del movimento umanistico stesso), sia perché essenziali per la circolazione delle opere umanistiche166. Per citare ancora una volta Maffei, la filologia umanistica non fu una mera attività grammaticale, ma piuttosto l’esercizio delle facoltà intellettive della mente umana. Essa fu propriamente una filosofia, capace di penetrare la sostanza delle cose attraverso le parole167, e fu innegabilmente questa l’essenza più intima dell’umanesimo giuridico stesso.
II.2. LE FONTI. SULLA RICERCA E SUL METODO Posto al centro dell’intenso dibattito dottrinale avviato da Accursio, alle soglie del secolo XVI il bando si presenta agli umanisti fondamentalmente secondo i profili consolidati da Bartolo nel secolo XIV. Tenendo a mente il successivo apporto di Nello, si può forse parlare di una dottrina propriamente ‘umanistica’ sul bando? Si riscontra in Alciato un contributo alle dottrine sul bando elaborate fra i secoli XIII-XV? E se sì, qual è la natura, quali sono i caratteri di quel contributo?
ulteriori riflessioni si vedano anche ID. 1992a; ID. 1992b, dove Osler evidenzia nuovamente il fatto che «[the] phrase vetusti codices [o simili] is a tipically vague humanist usage which may refer to manuscripts, or whatever antiquity, or even to early printed editions [o può anche significare scritti/scritture antichi/e]» (ivi, p. 226); ID. 2016. Per quanto le riflessioni di Osler evidenzino gli innegabili limiti dell’attività dei giuristi-umanisti, resta altrettanto indubbio il valore ‘pionieristico’ della stessa. Sulla filologia umanistica si rinvia nuovamente ai contributi segnalati supra, nota 111. 165 Sul punto si discuterà meglio infra, Parte II e Conclusioni. 166 BELLONI 2006, pp. 116-117, 158-160. Riguardo al caso di Alciato, come già esposto supra (p. 51, e ivi, nota 150), la tipografia di Amerbach a Basilea fu di particolare importanza per la pubblicazione delle sue opere fondamentali. Sull’importanza della stampa per la filologia umanistica si rinvia almeno a STOCK 2015 (pp. 174-177), non dimenticando i contributi segnalati supra, nota 111. 167 MAFFEI 1972, p. 151.
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A questi interrogativi le pagine seguenti cercheranno di dare risposta, attraverso la presentazione delle riflessioni alciatee più significative in tema di bando e, più in generale, di dinamiche dell’esclusione di un soggetto dalla comunità di appartenenza. Come già anticipato, non saranno trascurati i contributi di Budé e di Zasius, anch’essi opportunamente selezionati e presentati, quando possibile, in chiave dialogica con le argomentazioni alciatee, nel tentativo di dar luce alle novità, o piuttosto ai segni di fedeltà degli umanisti rispetto a una tradizione di ius commune lunga e consolidata168. Più in particolare, in relazione al metodo seguito nello studio delle fonti umanistiche oggetto d’indagine, la selezione dei loci alciatei più significativi in tema di bando/esilio è stata condotta sulla base dell’edizione degli Opera omnia del 1582, pubblicata a Basilea in quattro tomi. A questa si farà dunque riferimento per tutte le citazioni presenti in questo studio169. Sull’esempio di Belloni, l’uso di questa edizione è stato giustificato dalla sua grande diffusione, ma anche dal fatto che essa si giova dei miglioramenti e ampliamenti che Francesco Alciato (figlio adottivo dell’umanista) apportò all’edizione da lui curata nel 1571, sulla base dell’edizione curata da Alciato stesso nel 1547170. Il riferimento saldo agli Opera omnia ha tuttavia posto un problema, vale a dire il rischio di trascurare l’evoluzione delle numerose opere alciatee. Come evidenziato da Belloni, tale evoluzione fu trascurata dallo stesso Viard171 (almeno per quanto concerne l’opera dell’umanista legata all’esegesi del Corpus iuris civilis)172. In tal senso, si è ritenuto opportuno e utile guidare il lettore nella presentazione dei passi scelti fornendo le indicazioni cronologiche essenziali riguardanti l’opera di volta in volta presa in esame. Il tentativo è stato quello di suggerire una riflessione sullo sviluppo del pensiero alciateo, se e ove possibile, e naturalmente di fornire una migliore comprensione del contesto di formazione, sviluppo, pubblicazione ed eventuale successiva revisione delle opere d’interesse ai fini di questo studio173.
168
Vd. supra, Premessa e parr. I.1-I.4. Si tratta appunto di ALCIATUS 1582. 170 BELLONI 2016b, p. 760 (e ivi, nota 13), e pp. 920-925. L’edizione del 1547 è stata consultata nella sua versione migliorata del 1557, disponibile in ristampa anastatica del 2004, con una preziosa rassegna di tutte le edizioni delle opere di Alciato (ivi, p. 924). Si tratta di ALCIATUS 15571558, con prefazione di J. Otto (per la quale vd. OTTO 2004, consultabile anche in OTTO 2014, I, pp. 5-50). Tanto a Belloni quanto alla suddetta prefazione di Otto si rinvia per un approfondimento sull’evoluzione che ha caratterizzato la progressiva edizione e pubblicazione delle opere alciatee. Sui problemi legati alla filologia dei testi a stampa si rinvia almeno a KENNEY 1995, non dimenticando la bibliografia suggerita supra, nota 111. 171 A lui si deve il noto e fondamentale studio biografico su Alciato (VIARD 1926). 172 BELLONI 2016a, p. 15. 173 Fondamentale, e qui di costante riferimento, è stata e sarà dunque la cronologia delle opere alciatee curata da Belloni in BELLONI 2016b, pp. 759-928. 169
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Riguardo alla selezione dei passi, il metodo seguito si è articolato in una prima fase di consultazione integrale degli Opera omnia e di analisi degli indici presenti nell’edizione cinquecentesca di riferimento. Attraverso il filtro di un ampio gruppo di nozioni chiave, individuate sulla base dei legami diretti o indiretti con il tema centrale della pena dell’esilio (con un sistema di ricerche, per così dire, incrociate, a garanzia di una maggiore precisione), è stato possibile individuare le voci rappresentanti un possibile rinvio all’esilio, e più in generale al concetto e alle forme di esclusione di un soggetto dalla comunità di appartenenza174. Dunque, sono seguite l’individuazione, l’analisi e l’ulteriore selezione dei passi d’interesse, così da giungere alla composizione della rassegna dei loci alciatei più significativi in tema di esilio qui presentata. Come si vedrà, si è proceduto in ugual modo nello studio dei contributi di Budé e di Zasius175. Inoltre, lo studio attento dei singoli passi ha suggerito l’individuazione di nuclei tematici ben precisi, che hanno ispirato una struttura espositiva bipartita nella presentazione dei loci alciatei: da un lato, quelli più propriamente inseriti all’interno di argomentazioni giuridiche o di commenti ai Digesta, al Codex o alle Decretales (capitoli III e IV); dall’altro, quelli più peculiari e rilevanti riguardo alla sensibilità storico-filologica propria di Alciato (capitoli V e VI)176. Si badi che nuclei tematici e bipartizione suddetti non rispecchiano né la struttura né, per così dire, gli orientamenti dell’opera alciatea intesa nel suo complesso, ma rispondono più semplicemente all’esigenza di coordinare i passi, cercando di ricomporne l’eterogeneità e di guidare così il lettore nell’analisi degli stessi. Infatti, la selezione e lo studio dei loci privilegiati hanno rivelato la presenza di profili comuni e ricorrenti in tema di esilio, spesso veri e propri τόποι alciatei, pur se emergenti in modo frammentario dalle varie opere dell’umanista.
174 Oltre alle voci bannum, bannitus, exbannitus, exilium, exul e derivati, sono state prese in considerazione anche le voci deportatio, deportatus, relegatio, relegatus, aquae et ignis/aqua et igni interdictio, aqua et igni interdictus, contumacia, contumax, ma anche hostis, perduellis, rebellis, civitas, civis, capitis deminutio, mors, poena capitis/capitalis, fuga, statutum (in ragione dello strettissimo legame fra bannum e ius proprium statutario di cui si è detto supra, parr. I.1-I.4), per citare almeno le principali (e non trascurandone i rispettivi derivati). È stata presa in considerazione anche la voce excommunicatio (e derivati). Tuttavia, l’istituto dell’excommunicatio, in quanto proprio del diritto canonico e, nonostante l’insito concetto di esclusione, profondamente diverso da quello dell’esilio, non è stato oggetto di questo studio se non di riflesso a possibili parallelismi con l’esilio stesso (o con altri istituti comportanti l’esclusione di un soggetto dalla comunità di appartenenza, sia quest’ultima spirituale o civile). Alle riflessioni su tali parallelismi si rinvierà, di volta in volta, nel corso della trattazione. 175 Si prescinde dunque da qualsiasi pretesa di completezza, dal momento che la selezione si è ispirata a un criterio di qualità dei contenuti individuati. 176 La bipartizione delle opere alciatee in opere di natura storico-filologica e opere esegetiche del Corpus iuris civilis e del Corpus iuris canonici (legate all’attività d’insegnamento universitario) proposta da Belloni è stata qui naturalmente presa in considerazione (vd. BELLONI 2016b, p. 760).
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Nel tentativo di dare risposta agli interrogativi alla base di questo studio177, l’obiettivo che qui ci si pone è dunque quello di proporre non la ricostruzione della trattazione unitaria in tema di esilio che Alciato non ha prodotto, ma appunto l’individuazione delle ‘linee guida’ del pensiero alciateo su quel tema, attraverso una chiave di lettura delle fonti di duplice natura: l’esilio, quale finestra sul metodo, il pensiero e gli interessi alciatei; il metodo, quale espressione del pensiero e degli interessi alciatei e strumento d’indagine sull’esilio, problema di pieno e attualissimo interesse ancora agli inizi del secolo XVI e oltre. Non sarà superfluo accennare ai criteri seguiti nella trascrizione dei passi che si è scelto di citare per esteso, in nota o nel corpo del testo, tratti dall’edizione cinquecentesca di riferimento. Le abbreviature sono state regolarmente sciolte (con poche, opportune eccezioni) e la punteggiatura uniformata allo stile contemporaneo. Si è ritenuto opportuno rendere tutte le e cedigliate nel corrispettivo dittongo ae, e uniformare l’alternanza u/v all’uso odierno. Delle note o allegazioni talora poste a margine dei testi si è deciso di presentare soltanto quelle più rilevanti in termini di comprensione del ragionamento alciateo, e le si è adeguatamente segnalate (mediante note esplicative in corsivo, poste fra parentesi quadre). Tre puntini di sospensione posti fra parentesi quadre indicano espunzioni del testo originale, ritenute opportune da chi scrive. Eventuali correzioni di refusi presenti nell’edizione adottata sono state segnalate fra parentesi uncinate singole. Infine, le citazioni letterali dei classici inserite da Alciato nello sviluppo delle sue argomentazioni sono state mantenute nella medesima forma riscontrata nell’edizione a stampa di riferimento, e salvo pochi casi isolati sono state riportate in corsivo nel corpo del testo178.
177
Vd. supra, Premessa e par. I.4. Anche in questo caso, i medesimi criteri hanno guidato la trascrizione e la presentazione dei passi scelti di Budé e di Zasius. 178
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PARTE II L’ESILIO IN ALCIATO
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CAPITOLO III LA RECEZIONE DELLE DOTTRINE MEDIEVALI SUL BANDO. LO STATUS DELL’ESULE III.1. CONSIDERAZIONI PRELIMINARI AI CAPITOLI III E IV Le riflessioni alciatee in tema di esilio emerse dalle opere di commento ai Corpora iuris (opere, come visto, strettamente legate all’insegnamento universitario179) forniscono indizi preziosi per valutare il legame di Alciato con la tradizione di diritto comune180. D’altra parte, ragioni di coerenza tematica hanno giustificato l’inserimento in questa sede di passi tratti da due opere di natura storico-filologica, quali il commentario al De verborum significatione e i Parerga181. Lo studio dei passi rientranti in questo primo gruppo ha suggerito alcune osservazioni preliminari, di carattere generale, valide per il presente capitolo III e per il successivo IV. Innanzitutto, non è presente nell’opera alciatea una trattazione unitaria e ben compiuta in tema di esilio, ma i riferimenti agli esuli (denominati exules o banniti182) emergono diffusamente e frammentariamente, spesso in forma molto sintetica o, se più estesa, arricchita da digressioni rinvianti ad altro argomento. L’intento di Alciato è sostanzialmente sempre quello di chiedersi come si debba agire in relazione agli esuli alla luce di un problema giuridico dato, spesso comparandoli o equiparandoli ad altre categorie di esclusi (per lo più, ai deportati, ai relegati e agli interdetti aqua et igni). In secondo luogo, il riferimento esplicito al vero e proprio bannum e ai banniti sembra seguire una formulazione, per così dire, standard (per esempio, pur nelle varianti presenti, Sed quid de exulibus, quos hodie vocamus bannitos, respondebimus?),
179
Vd. supra, par. II.1. Cfr. BELLONI 2016b, pp. 760, 767-769. 181 Ivi, pp. 759-769. Vd. anche supra, par. II.2, nota 176. 182 Vd. supra, Premessa, nota 1. 180
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con identificazione delle voci bannum/bannitus in vocaboli di registro comune, in lingua volgare, di contro a exilium/exul, che sembrerebbero invece essere considerati e utilizzati quali termini tecnico-giuridici, pur se lungi da un’identificazione con l’exilium e con gli exules di diritto romano classico183. Inoltre, è interessante notare la frequenza del rinvio diretto a problemi legati alla deportazione, spesso (verosimilmente) intesa quale sinonimo di esilio184. In terzo luogo, un aspetto di notevolissimo interesse è senz’altro il legame con la tradizione di diritto comune, indubbio e ispirato all’adesione alle principali opiniones doctorum (se non alla communis opinio) in tema di esilio, con poche eccezioni. In tal senso, l’interlocutore privilegiato risulta essere Bartolo, nella piena adesione di Alciato al suo contributo (soprattutto attraverso richiami espressi alla Quaestio I, Lucanae civitatis). È questo un primo e fondamentale risultato dello studio condotto, che ragioni espositive hanno imposto di anticipare185. Infine, l’importanza riservata alla proprietas sermonis risulta costante in tutte le opere alciatee, e ne rappresenta un vero e proprio τόπος, in perfetta sintonia con la sensibilità linguistico-filologica dell’umanista186. Come già specificato, l’esigenza di guidare il lettore nell’eterogeneità dei passi selezionati, non trascurando il loro contesto di appartenenza e la relativa cronologia, ha suggerito l’individuazione dei seguenti nuclei tematici di coordinamento187: a) la tendenza costante a proporre un temperamento del rigor iuris civilis (nel ricorso alla nozione di equità naturale, se non proprio di diritto naturale); b) le nozioni di mors civilis e mors naturalis poste a confronto; c) il problema della restitutio del deportato/esule (e questioni connesse); d) i riferimenti espliciti alla deportatio e ai deportati (e questioni connesse); e) i riferimenti espliciti al bannum e ai banniti (e questioni connesse)188. Al fine di una più chiara esposizione dei contenuti, si è ritenuto opportuno presentare i suddetti nuclei tematici in trattazioni distinte, in ragione della possibilità di ricondurre le riflessioni alciatee sull’esilio a due macrotemi fondamentali. Da un lato, lo status dell’esule, latamente inteso (punti a, b, c, oggetto del presente ca-
183
Vd. supra, Premessa, nota 1. Sul punto si rinvia alle considerazioni e alle precisazioni esposte infra, par. IV.1. 185 Sul punto si ritornerà ancora nel corso della trattazione e in sede di Conclusioni. 186 Cfr. supra, par. II.1. 187 Vd. e cfr. supra, par. II.2. 188 Soprattutto nel rinvio costante alla bartoliana Quaestio I, Lucanae civitatis, agli statuti (lex municipalis) e alla loro lettera (la forma legis municipalis), e alla possibilità da quelli prevista di offendere il bandito impunemente, nella nota equiparazione del bannitus all’hostis publicus. I rinvii emergono diffusamente (vd. infra, par. IV.2). 184
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pitolo III). Dall’altro, l’istituto del bando, declinato nelle sue due principali manifestazioni: la deportatio, forma di exilium di diritto romano documentata nelle fonti giustinianee e antecedente, insieme alla relegatio e all’aquae et ignis interdictio, del bando medievale; il bannum, istituto nuovo, emergente dalle fonti di ius proprium (punti d ed e, presentati nel successivo capitolo IV). Così, si propone al lettore uno sguardo sull’opera alciatea che individui i profili della riflessione del giurista-umanista sull’esilio, nel rispetto della frammentarietà della stessa e lungi da qualsiasi intento di sistematizzazione anacronistica189.
III.2. IL TEMPERAMENTO DEL RIGOR IURIS CIVILIS Le opiniones doctorum che, prima di Alciato, avevano suggerito il riconoscimento di una certa tutela giuridica ai banditi erano state indubbiamente numerose190. Come già sostenuto da Ghisalberti, la dottrina di diritto comune non aveva esitato a porsi in netto contrasto con «ciò che la crudezza del costume dell’epoca riteneva equo e lecito per la pubblica autorità»191, vale a dire, con le norme statutarie particolarmente severe nel perseguire i banniti. Fra queste, quelle che ne legittimavano l’impune uccisione avevano stimolato un dibattito dottrinale particolarmente intenso, nel quale i doctores si erano confrontati su posizioni opposte, ora contrarie (come nel caso di Iacopo d’Arena), ora favorevoli alla rigorosissima previsione192. Eppure, un aspetto del quesito an bannitus impune occidi possit sembrò destare una tendenza comune. Quid iuris, infatti, se il bannitus a rischio d’impune uccisione fosse già stato catturato? Al riguardo, come già esposto, il ragionamento svolto da Alberto Gandino nel suo Tractatus de maleficiis era stato particolarmente interessante. Ponendosi in linea con l’opinione di Iacopo d’Arena, Gandino aveva affermato che la liceità dell’uccisione del bandito (contumace sottrattosi alla giustizia) derivava dall’impossibilità per l’autorità di applicare la pena, liceità che sarebbe venuta meno nel momento in cui il bandito, catturato, fosse ritornato in potestate rei publicae193. Un chiaro segno della suddetta tendenza alla mitigazione del rigor iuris. Sarà interessante notare la fortissima similitudine fra questa argomentazione e quella elaborata da Alciato in sede di commento a D. 50, 16, 239, 1. È il titolo De
189 Il medesimo criterio guiderà la presentazione dei contributi di Budé e di Zasius (vd. rispettivamente i capp. VII e VIII). 190 Si ricordi quanto esposto supra, parr. I.1-I.4. 191 GHISALBERTI 1960, p. 74. 192 Vd. supra, par. I.3. 193 Ivi, pp. 32-33, e ivi, nota 46 (con rinvio a GANDINUS 1926, De bannitis pro mal., 17, p. 145).
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verborum significatione, oggetto privilegiato dell’insegnamento e dello studio dell’umanista194. Facendo riferimento ai prigionieri di guerra e alla prescrizione degli imperatori romani di non ucciderli, ma piuttosto di ridurli in schiavitù195, Alciato sposa l’opinione diffusa fra i doctores e afferma che non è lecito uccidere il nemico dopo che sia stato fatto prigioniero e incarcerato, soprattutto se si sia consegnato volontariamente, e sia dunque meritevole di quell’umanità che ogni uomo deve al suo simile196. Conseguentemente, se secondo lo statuto gli esuli sono considerati nemici pubblici, e possono essere impunemente uccisi, colui che, già fatto prigioniero, sia condotto dal magistrato preposto alle cause capitali non potrà essere ucciso impunemente. Infatti, dal momento che è già stato catturato, deve essere posto in custodia, non ucciso, soprattutto in considerazione del fatto che non sarebbe difficile trovare chi voglia ucciderlo, così che non possa essere interrogato o che non sia liberato dall’ignominia e dalla pena197.
194 Belloni ricorda che Alciato commentò il titolo De verborum significatione del Digesto nel terzo anno di docenza ad Avignone (1520-1521), extraordinarie, appunto, in ore supplementari a quelle dedicate al corso ufficiale. Subito dopo si dedicò alla preparazione del testo per la stampa (per un’edizione a sé stante da quella degli altri commentari al Corpus iuris civilis), peraltro sollecitata dall’amico Amerbach e verosimilmente terminata già nel 1522. L’indecisione legata alla scelta di una tipografia che soddisfacesse le aspettative di Alciato si risolse nella prima edizione del commentario curata dal Gryphius, apparsa a Lione nel 1530, poi seguita da una nuova edizione nel 1535 (sempre a cura del Gryphius). L’edizione basileense sarà curata dall’Insegrin nell’ambito degli Opera omnia del 1547 (per tutto e per ulteriori approfondimenti vd. BELLONI 2016b, pp. 557-568 e pp. 809-810, 812, 815-816, 820-823, 832-836, 860-870, 903). L’opera è considerata uno dei capolavori di Alciato, sintesi armoniosa delle competenze e degli interessi filologico-giuridici dello stesso ed «esposizione organica, di grande valore teorico-pratico, dei principi e delle regole dell’interpretazione» (vd. ABBONDANZA 1960, pp. 69A-77A). Si rinvia anche a quanto esposto supra, cap. II. 195 Donde la loro denominazione di servi, derivante dal fatto che non devono essere uccisi, ma appunto ‘preservati’: «§ SERVORUM. Iure gentium introductum est, ut capti in bello efficiantur capientium, ceterum quoniam multi hostili odio in captivos desaeviebant, eosque trucidabant, Romani Imperatores id prohibuerunt, iusseruntque vendi, non autem occidi, unde servi dicti sunt, quasi servarentur», in ALCIATUS 1582, II, Commentaria, ad D. 50, 16, 239, 1, col. 1326, 6-8. 196 «Hincque apparet non licere nobis hostem nostrum, postquam captus est, interficere. Quod intelligunt doctores esse observandum, cum intra praesidia nostra iam deductus est, ante vero quam deductus sit, occidi iure poterit, cum multa interim possent accidere, quid enim si fugam capesseret? Vel cum hostibus rursus congregaretur? Sed nobis videtur in ipsa acie solum id licere, idque adversus eos qui dedere se nolunt. Nam dedititium hominem occidere, crudelissimum est, nec boni Imperatores hoc patiuntur, ab ea quippe humanitate abhorret, quam naturaliter homo homini debet», ivi, coll. 1326-1327, 8-10. 197 «His illud quoque consentaneum est, ut si lege municipali exules pro hostibus publicis habeantur, impuneque occidi possint, eum qui captus iam a familia ad quaestorem rerum capitalium ducatur, occidi impune non posse. Cum enim captivus iam sit, debet servari, non occidi, alioquin haud difficulter reperirentur, qui eum obtruncarent, ne de consciis interrogari posset, vel ut maturius ignominiae poenaeque eximeretur», ivi, col. 1327, 10.
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Fra le riflessioni alciatee sull’esilio questa è indubbiamente una delle più significative, dal momento che l’adesione alla dottrina di ius commune (in un richiamo implicito, ma evidente, almeno a Gandino) si rivela qui piena. L’intento di moderare il rigore normativo, a vantaggio di un’applicazione delle norme più equa e onesta, per così dire, pro bannito, emerge anche da un secondo passo, nel commento a D. 45, 1 (De verborum obligationibus)198, 123. Posto il fatto che lo statuto che prescrive un premio per chi commette un delitto debba essere considerato nullo, così come la legge che prevede una pena troppo mite per un delitto grave199, Alciato ricorda come sia opinione unanime che ciò che la legge permette non sia ritenuto un delitto. Ne è un esempio la possibilità riconosciuta di uccidere impunemente chi sia considerato nemico pubblico, come appunto gli esuli, comunemente chiamati banniti, o i mercenari, i pirati, i briganti, i disertori dell’esercito, i saccheggiatori notturni e altri soggetti simili a questi200. Dunque, è valido lo statuto con cui sia garantito che qualsiasi esule che abbia ucciso un altro esule sia riabilitato di fronte alla comunità, e consegua l’assoluzione (dall’esilio) come premio, indipendentemente da come abbia commesso l’omicidio201. Se in questa prima parte dell’argomentazione è nuovamente rilevabile la recezione di un’opinio consolidata (sia sull’impune uccisione del bandito, sia sul premio da riconoscere al bandito che collabori con la giustizia uccidendo un altro ban-
198
La Lectura in secundam partem Digesti novi, con il consueto commento del titolo De verborum obligationibus, fu tenuta da Alciato nel corso del suo primo anno d’insegnamento ad Avignone (ottobre 1518 – 30 luglio 1519). Il testo del corso fu subito edito e apparve all’inizio dell’anno 1520. Verosimilmente, Alciato lesse questa parte del Digesto anche nell’anno accademico 1528-1529, almeno fino alla sua partenza per Bourges nel marzo del 1529, dove peraltro commentò nuovamente il medesimo titolo seguendo il metodo tradizionale e servendosi delle lezioni già tenute ad Avignone, all’epoca non ancora pubblicate. Alciato avviò la stesura del commento secondo il nuovo metodo probabilmente già nel 1529. A questa continuerà a lavorare negli anni successivi, senza tuttavia mai giungere alla pubblicazione, che avverrà postuma all’interno degli Opera omnia curati da Francesco Alciato e stampati a Basilea nel 1571 (per tutto e per ulteriori approfondimenti vd. BELLONI 2016b, pp. 557-568 e pp. 791-794, 837-838, 886-887, 895-898, 908-909, 911-912, 917). Si rinvia anche alle riflessioni esposte supra, cap. II. 199 «Sed quid in lege municipali respondebimus? Et traditum est, non valere statutum, quo praemium indiceretur alicui pro delicto iam commisso. Nec enim praemiis, sed poenis adficiendi sunt delinquentes, adeo ut nec valeat lex, quae gravi delicto parvam poenam imponit. Nec enim tam facinorosorum animos absterret, quam provocat», in ALCIATUS 1582, II, Commentaria, ad D. 45, 1, 123, coll. 886-887, 16. 200 Ivi, col. 887, 17. Si noti il rinvio alla Quaestio I, Lucanae civitatis di Bartolo («Bart. q. sua, i, Lucanae», ivi, col. 887, nota d). 201 «Unde receptum est valere statutum, quo cautum sit, ut quisquis exul alium exulem occiderit civitati restituatur, et liberationem pro praemio consequatur. Nec distinguendum est, quomodo occiderit, proditorie, per insidias, an alio modo. Verba enim generalia sunt, licet alias soleat distingui», ivi, col. 887, 18.
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dito202), quanto segue rimanda più propriamente all’intento di temperare il dettato normativo secondo criteri di equità e giustizia, che, come già ricordato, non erano stati estranei all’attività dei doctores203. Infatti, introducendo un quesito di natura morale, Alciato si chiede se chi abbia ucciso un esule o un brigante su disposizione di legge sia da considerarsi senza peccato. Posta la mancanza di un’opinione unanime in dottrina, dal momento che Tartagni si esprime favorevolmente, mentre Giason del Maino, concordando con altri giuristi, si pone in senso contrario, Alciato espone il proprio parere. Egli suggerisce l’opportunità di valutare se la ratio della legge sia conforme al diritto naturale o al divino, e se colui che abbia applicato la legge lo abbia fatto non per vendetta, ma per ‘zelo di giustizia’. In tal caso sarà preferibile l’opinione di Tartagni, diversamente, invece, quella di Giason del Maino, come nel caso di chi uccida un esule per debiti (che senza dubbio pecca)204. Il problema è di notevole rilievo, e s’inserisce nel complesso dibattito intorno al rapporto tra il foro della coscienza e il foro esterno, sullo sfondo della concorrenza tra i fori ecclesiastico e civile che anima il processo di formazione dello Stato moderno, nei secoli XV e XVI. Fra i quesiti fondamentali del dibattito si pone proprio quello dell’obbligatorietà in coscienza della legge civile, in un contesto in cui lecito/illecito morale e lecito/illecito giuridico non sono ancora perfettamente distinguibili205. Se la proposta di una separazione netta tra quei fori, e dunque fra peccato e reato, si farà gradualmente strada, già in Alciato (e prima di lui in Giason del Maino) si scorgono i segni di una tendenza diversa, che appunto giustifica l’inosservanza di leggi civili che violino l’ordine morale, suggerendo di valutare le
202
Si ricordi quanto esposto supra, pp. 26-31. Vd. supra, parr. I.1-I.4. Sull’interpretazione dello statuto secondo il criterio dell’aequitas vd. SBRICCOLI 1969, pp. 90-101. Più in generale, sul complesso e multiforme concetto dell’aequitas, quale principio fondamentale e canone di valutazione, intepretazione e applicazione del diritto nella tradizione di ius commune, vd. CALASSO 1970, pp. 166-175; ID. 1954, pp. 331-337, 476-485; CORTESE 1964, pp. 295-362; ID. 1989, pp. 95-119; PIANO MORTARI 1956, pp. 1738; ID. 1976, pp. 238-246; HORN 1968 (per uno sguardo specifico sul tema nella dottrina di Baldo); PADOVANI 1997; PADOA SCHIOPPA 2017 (soprattutto pp. 61-82, 97-103). Sullo stesso tema nel pensiero giuridico umanistico e moderno in particolare vd. anche ibid., pp. 90-97; PIANO MORTARI 1997, soprattutto pp. 143-167 e 171-173; KISCH 1960 (soprattutto pp. 1-54, 177-226, 304-343). Infine, per una sintesi sull’aequitas nel mondo antico vd. MANTOVANI 2017 e SOLIDORO 2013. 204 ALCIATUS 1582, II, cit., col. 887, 19. 205 Sul punto (e per i relativi approfondimenti) si vedano MINNUCCI 2011 (pp. 55-56, 66-73) e PRODI 2000 (pp. 129-132, 169-171, 193-217). Si vedano anche QUAGLIONI 2007, pp. 191210 (ma soprattutto pp. 191-192); ID. 2008, p. XXXIII; ID. 2004c. Inoltre, si rinvia alle considerazioni che saranno esposte infra, par. IV.2, sempre in tema di concorrenza tra i fori interno ed esterno. 203
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ragioni (o forse, e meglio, l’animus) alla base del fatto controverso (nel caso di specie, l’omicidio del bannitus)206. Proseguendo nell’argomentazione, Alciato evidenzia un ulteriore aspetto, rinviando al caso in cui l’esule sia stato espulso a seguito di contumacia. Per quanto questa non sia una colpa lieve, tuttavia non è così grave da dover essere punita con la confisca dell’intero patrimonio, né tantomeno con la pena di morte. Lo stesso dovrebbe valere per il caso di chi uccida un traditore. Dunque, la questione resta ‘aperta’, dal momento che nel foro della coscienza l’equità naturale e l’onestà (che ogni uomo deve al suo simile) si pongono spesso in contraddizione (infatti, il figlio che uccidesse il padre, per quanto esecrabile quello possa essere, peccherebbe)207. Il rinvio all’aequitas naturalis e al diritto canonico è presente anche in un altro passo, tratto dal commento a D. 16, 3 (Depositi, vel contra)208, 31, dove Alciato si chiede se la moglie del marito esiliato debba seguirlo nell’esilio stesso.
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MINNUCCI 2011, pp. 66-73, dove l’autore sintetizza il dibattito cinquecentesco sul rapporto tra foro della coscienza e foro esterno, e dunque fra peccato e reato, alla luce del pensiero di Covarrubias e di Claro (che peraltro affronta il problema dell’omicidio commesso a danno di un bandito – ivi, pp. 6970), arrivando all’elaborazione di Gentili, che Minnucci ritiene convinto sostenitore di una netta separazione tra i due fori, così come fra le leggi civili e quelle morali (ivi, pp. 70-73). In particolare, a sostegno dell’argomentazione esposta nel libro I del suo De nuptiis, Gentili cita proprio Alciato, che in sede di commento a C. 2, 3 scrive: «His accedat, quod vulgo traditum est, eum, qui auctoritatem legis sequitur, in foro conscientiae tutum esse, nisi contrariae veritatis eum certum esse is probaverit, qui Evangelicam denuntiationem proposuerit», in ALCIATUS 1582, III, Commentaria, ad C. 2, 3, col. 118, 22-23, citato appunto da Gentili in GENTILIS 1601, I, 2, f. 11, dove si legge: «Alioqui solus ipse Deus obligat, et solvit conscientias [con nota a margine di rinvio a Alc. rubr. C. de pact.]», e ivi, I, 12, f. 63, dove si legge: «Respondi, in ultimo mandato inesse ius divinum, in reliquis humanum [con nota a margine di rinvio a Alc. orat. Aven. – vale a dire all’ Oratio in laudem iuris civilis principio studii habita cum Avenione profiteretur]. Ut humana dirigit lex scilicet ad actus externos, ad internos divina. Ut iurisprudentia est manifesti vindex, theologia etiam occulti. Quae Alciatus noster» (vd. e cfr. MINNUCCI 2011, pp. 72-73, nota 49 – e nota 48 sull’opinione di Giason del Maino – e p. 77). Per il testo dell’Oratio in laudem iuris civilis vd. ALCIATUS 1582, IV, Oratio in laudem iuris civilis, coll. 1021-1032; sull’opera vd. BELLONI 2016b, pp. 580, 759, 766, 808-809, 924. Sulla figura e sull’opera di Alberico Gentili, oltre che DE BENEDICTIS 2000 e MINNUCCI 2013, si vedano ID. 2002; ID. 2007; ID. 2011; ASTUTI 1937; Alberico 1991; WIJFFELS 1992; GENTILIS 2008; KINGSBURY, STRAUMANN 2010. Inoltre, in tema di bando/esilio e di tradizione bartoliana nell’opera e nel pensiero di Alberico Gentili si veda anche ZENDRI 2014. 207 «Idem si propter contumaciam fuerit eiectus. Quamvis enim contumacia non leve crimen sit, non tamen adeo est grave, ut omnibus bonis multari debeat, tantum abest, ut supremo supplicio coerceri possit. Idem arbitror, si quis proditorem occidat. Naturalis enim aequitas et fides, quam homo homini debet, hoc in foro stant contra. Unde peccaret filius, qui patrem, quamvis sacerrimum, occideret», in ALCIATUS 1582, II, Commentaria, ad D. 45, 1, 123, col. 887, 20. 208 Alla Lectura in secundam partem Digesti veteris Alciato dedicò a Bourges le lezioni dell’anno accademico 1530-1531. È qui interessante notare come proprio a D. 16, 3, 31 Alciato dedicò un brevissimo commento al di fuori del corso d’insegnamento ufficiale (per tutto e per ulteriori approfondimenti vd. BELLONI 2016b, pp. 557-568 e pp. 892-893, 907-908). Inoltre, si rinvia alle riflessioni esposte supra, cap. II.
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Preliminarmente, l’umanista ricorda come nelle questioni fra consanguinei l’aequitas assuma un valore tale da poter prevalere sui precetti civili. Un caso esemplificativo è quello della norma prescrivente l’uccisione di chi sia stato giudicato nemico pubblico. Il figlio di quel soggetto è forse vincolato a uccidere il padre? Il rigore dello ius civile imporrebbe una risposta affermativa, ma l’equità naturale si pone in senso contrario e suggerisce una soluzione più ‘umana’: il figlio non dovrà ritenersi vincolato a una legge tanto crudele, ma se deciderà di rispettarla e ucciderà il padre, nemico pubblico, non incorrerà in nessuna pena secondo quella legge civile209. A questo punto, Alciato introduce il quesito di cui si era detto in esordio. La moglie è forse tenuta a seguire il marito in esilio? Ex rigore iuris, chi sia stato esiliato a causa di un delitto non dovrebbe ricevere una simile concessione. Ma, nel caso di specie, l’aequitas suggerisce di agire diversamente e dunque, secondo il diritto canonico, la moglie potrà seguire il marito in esilio, essendo lodevole il suo proposito di non abbandonare il coniuge nella sorte avversa. Conseguentemente, l’eventuale divieto normativo (lex principis) di prestare qualsiasi forma di soccorso all’esule nemico pubblico, con previsione di pena per i trasgressori, non si estenderà alla moglie che segua il marito in esilio. Infatti, ogniqualvolta il rigor iuris civilis impartisca una pena crudele, l’aequitas naturalis suggerirà un’applicazione più mite di quella pena. E ciò, conclude Alciato, vale anche per l’ipotesi di chi offra ricetto a un congiunto/parente (verosimilmente anche se bannitus), che per le ragioni suddette non meriterà una pena severa210. È curioso notare come in tutt’altra sede, nel commento a D. 50, 16 (De verborum significatione)211, 195, sempre riguardo alla moglie dell’esule Alciato esprima
209 «Sed et propter coniunctionem sanguinis quandoque insurgit adeo vehemens aequitas, ut civilem rationem superet. Verbi gratia, pater hostis publicus iudicatus est, mandatumque est, ut quisquis possit, eum occidat, an filius ipse occidere debet? Si rigor iuris civilis spectetur, hac lege videretur etiam filium teneri. Si naturalis aequitas, secus est. Unde humanius est, ut existimemus hac lege filium non teneri, licet si executus fuerit, patremque occiderit, lege civili poenam non patiatur», in ALCIATUS 1582, I, Commentaria, ad D. 16, 3, 31, col. 471, 11. 210 «Sed quid in uxore, an sequi maritum exulem debeat? Et non videretur ex rigore iuris id ei indulgendum, si ex delicto exul ille sit. Sed tamen tantae necessitudinis aequitas aliud dictat, iureque pontificum constat, sequi debere. Nam et lex laudabile eius propositum appellat, quae tali in fortuna maritum non negligat. Et ideo putarim, si lege principis caveatur, ne exuli hosti publico quisquam ullam opem praestet, idque sub certa poena, uxorem ea poena coercendum non esse, quae maritum sequuta sit. Nam et generaliter constituendum videtur, ut quoties rigor civilis atrocem poenam infert, aequitas vero naturalis stat contra, propter eam aequitatem de poena aliquid remittendum esse. Quod exemplo receptatoris induci potest, qui si cognatum, vel affinem conservaverit, severe puniendus non est», ivi, 12-13. Sull’aequitas naturalis e (nel caso di specie) canonica vd. nuovamente CALASSO 1954, pp. 331-337, e PADOA SCHIOPPA 2017, pp. 73-77 (e per ulteriori indicazioni bigliografiche vd. supra, nota 203). Si vedano anche CARON 1971 e ID. 1989. 211 Sull’opera vd. supra, nota 194.
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una riflessione che sembra porsi in contrasto con quella appena esaminata, almeno apparentemente. È noto che la moglie fa parte della famiglia del marito e che è soggetta al dominium di quello, e la stessa vedova continua a far parte della famiglia del coniuge defunto. Tuttavia, nei casi di natura penale (in odiosis), si deve giudicare diversamente, e qualora qualcuno sia esiliato con la famiglia, la moglie non sarà tenuta a seguire il coniuge (come sostenuto da Oldrado da Ponte e da Alberico da Rosciate)212. L’apparente contrarietà a quanto evidenziato nel passo precedente sembra risolversi nella libera scelta riconosciuta alla moglie di seguire il marito in esilio per assisterlo nella sorte avversa, onorando così il vincolo coniugale. D’altra parte, la moglie potrà comunque decidere di non farlo, in ragione della peculiare gravità della condanna all’esilio. Il criterio da rispettare nella valutazione del singolo caso sarà dunque quello di un’interpretazione guidata dall’aequitas naturalis, che è in fondo espressione di umanità, come Alciato più volte ricorda213. L’esigenza di mitigare la severità delle norme emerge ancora da due brevissimi incisi, entrambi contenuti in passi di commento al medesimo titolo De verborum significatione (D. 50, 16). Nel primo, tratto dal commento a D. 50, 16, 161, Alciato ricorda semplicemente che qualora sia esiliata una donna incinta, il figlio nato in esilio non sarà esule a sua volta214. Il secondo passo, invece, è tratto dal commento a D. 50, 16, 24, e rinvia al noto problema della publicatio bonorum, vale a dire, la confisca dei beni, strettamente legata alle procedure di esilio215. Infatti, Alciato ricorda che gli alimenti non rientrano nella confisca dei beni e dunque devono essere accordati al deportato216. Non sarà superfluo precisare che il riferimento esplicito al deportatus rientra in quell’uso sinonimico che Alciato fa dei termini exul, bannitus e deportatus, quali categorie di esclusi dalla civitas, in più occasioni217. Inoltre, non si dimentichi il tradizionale confronto fra deportatio e bannum, attuato dai doctores sin dalle origini
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ALCIATUS 1582, II, Commentaria, ad D. 50, 16, 195, col. 1258, 11-13. Cfr. quanto evidenziato supra, pp. 67-68, e vd. nuovamente SBRICCOLI 1969, pp. 90-101. 214 ALCIATUS 1582, II, Commentaria, ad D. 50, 16, 161, col. 1221, 5 (l’edizione presenta un refuso, numerando la lex CLXI come CLXII). 215 Sulla confisca dei beni conseguente al bando vd. supra, p. 26. 216 ALCIATUS 1582, II, Commentaria, ad D. 50, 16, 24, col. 1059, 18. 217 Cosa che induce a ipotizzare un implicito assorbimento delle questioni legate alla deportazione in quelle proprie dell’esilio/bando, posta la differenza sussistente fra i due istituti e l’estrema attenzione lessicale sempre propria di Alciato (cfr. supra, par. III.1). Tuttavia, questi ultimi aspetti suggeriscono una teoria diversa, come si vedrà opportunamente infra, par. IV.1. 213
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del dibattito sulla natura del bannum stesso, e il fatto che proprio la deportatio era la forma di exilium romano che comportava la confisca dei beni (differentemente dalla relegatio)218.
III.3. MORS CIVILIS E MORS NATURALIS A CONFRONTO Che il bando fosse considerato una mors civilis, per analogia con la deportatio e in ragione dell’esclusione totale del soggetto dalla civitas di appartenenza e dal relativo ius proprium, non era certo una novità, e nelle argomentazioni alciatee ricorre con costanza la qualificazione dell’esilio/bannum e (sinonimicamente) della deportatio come forme di mors civilis, poste a confronto con il concetto di mors naturalis219. Un primo passo caratterizzato da questo profilo è contenuto nel commento a D. 28, 2 (De liberis et postumis)220, 29, 5. Si tratta di un testo molto complesso, che si compone di un intreccio fittissimo di argomentazioni, dove i concetti di mors naturalis e di mors civilis sono posti in relazione con gli istituti giuridici più vari (dalla sostituzione, condizione e dilazione in diritto successorio all’azione di dote), al fine d’indagare gli effetti di volta in volta esplicati dai due tipi di mors nei casi progressivamente affrontati. Si propone in questa sede una lettura semplificata del testo, evidenziando i soli, brevi passaggi significativi per il tema di studio221. Innanzitutto, Alciato cita il parere di Socini sulla conditio de morte, che secondo il giurista si verifica anche con la morte civile, che è una sorta di morte per analogia (appellatione mortis venit mors civilis). Peraltro, sia Socini sia altri prospettano comunemente due possibilità: se la morte civile è causata dalla perdita della cittadi-
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Vd. e cfr. supra, par. I.1, e infra, par. IV.1. Sull’elaborazione dottrinale del concetto di mors civilis, dai glossatori in avanti, si vedano le indicazioni presenti in CRIFÒ 1985, pp. 63-64, nota 187 (con particolare riguardo per il rinvio a KANTOROWICZ 1907, pp. 146-161); SIUTS 1959; WEITHASE 1966, pp. 3-42; BORGMANN 1973, pp. 81-132; MAYALI 1982. Sulla qualificazione della deportatio come mors civilis (posto quanto precisato appena supra, nota 217), si vedano anche RIETHDORF 2016, pp. 33-91 (soprattutto p. 63, e ivi, nota 109, e p. 66), e le riflessioni esposte infra, par. IV.1. 220 La Lectura in primam partem Infortiati fu tenuta dall’Alciato durante il secondo anno di docenza di diritto civile ad Avignone (1519-1520, ma poi anche nell’anno accademico 1527-1528), e successivamente anche a Bourges, Pavia, Bologna, Ferrara e nuovamente a Pavia. L’edizione abusiva della lettura fu seguita dall’edizione ufficiale curata da Francesco Alciato all’interno degli Opera omnia basileensi del 1571 (per tutto e per ulteriori approfondimenti vd. BELLONI 2016b, pp. 557568 e pp. 802, 837, 895, 898, 909-910, 915, 925-926). Inoltre, si rinvia alle riflessioni esposte supra, cap. II. 221 Per una lettura integrale del passo vd. ALCIATUS 1582, I, Commentaria, ad D. 28, 2, 29, 5, coll. 643-647, 1-9. 219
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nanza e della libertà, la conditio de morte si verifica (con rinvio a D. 36, 1, 18 (17), 4 e a C. 5, 16, 24); se invece è causata dalla sola perdita della cittadinanza, quella condizione non si verifica (con rinvio a D. 49, 14, 48, 1 e a D. 45, 1, 121, 2)222. Si desume così un principio di base: la perdita della cittadinanza determina la mors civilis del soggetto che ne è colpito. Alciato prosegue presentando una serie di ipotesi sulla possibilità di derivare un’analogia fra mors civilis e mors naturalis, con identità di effetti in ambito giuridico, ma anche ribadendo l’opportunità di evidenziare come la mors civilis sia diversa da quella naturalis223. D’altra parte, precisa l’umanista, a sostegno della differenza fra mors civilis e mors naturalis potrebbero individuarsi migliaia di testi, che tuttavia non aiuterebbero a valutare se la mors civilis, e così la deportazione (che è a quella equiparata), possano derivarsi analogicamente dalla morte224. Proprio questa qualificazione espressa della deportatio come mors civilis è degna di nota, dal momento che si pone in linea con l’opinione consolidata in dottrina225. Sulla differenza sussistente fra deportatio e mors naturalis, invece, merita attenzione un secondo passo, tratto dal commento a D. 45, 1 (De verborum obligationibus)226, 121, 2. Alciato cita la condizione Cum morieris, dari apposta a una stipulatio, e precisa come quella si verifichi in caso di mors naturalis, non di deportatio. Ciò vale anche in relazione ai testamenti, dal momento che la condizione Cum haeres morietur apposta a un fedecommesso si verifica anch’essa in caso di morte naturale (e dunque il fedecommesso non sarà ancora dovuto dall’erede deportato). Parimenti, la donazione fra coniugi, che si considera confermata alla premorienza del donante (sulla base dell’oratio divi Marci, sottolinea Alciato con riferimento implicito a D. 24, 1, 32 pr.), non trova conferma qualora il donante sia deportato (e dunque muoia civilmente, come si deduce da D. 24, 1, 13). Inoltre, dai rescritti dei principi risulta chiaro che la disposizione che parla della morte non debba estendersi al caso della deportazione (lo si evince da VI. 1, 3, 6)227. La ratio sottesa a questo
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ALCIATUS 1582, I, Commentaria, ad D. 28, 2, 29, 5, col. 644, 5-6. Su Socini vd. e cfr. infra, nota 327. 223 Ivi, coll. 644-645, 6-7. 224 Ivi, col. 645, 7. 225 Sulla deportatio quale mors civilis vd. supra, nota 219. 226 Sull’opera vd. supra, nota 198. 227 «§ IN INSULAM. Conditio ergo Cum morieris, stipulationi adiecta, de morte naturali intelligitur, non de deportatione. Quod et in testamentis procedit. Unde fideicommissum relictum, Cum haeres morietur, eo deportato adhuc non debetur. Sic et donatio inter coniuges, quae ex oratione divi Marci donatore praemoriente confirmatur, non tamen censetur confirmata eo deportato [con nota a margine di rinvio a l. sed si mors, in prin. de don. inter vir.]. Quod et in rescriptis principum observandum videtur, ut dispositio de morte loquens, ad deportationem non extendatur
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principio risiede nella necessità di curare l’appropriatezza del linguaggio (monito che Alciato non manca mai di formulare)228, cosa che rende ancora più evidente la differenza fra la deportazione e la morte. Infatti, per quanto la deportazione sia stata introdotta dalla lex Porcia in sostituzione della pena di morte, ciò non è avvenuto propriamente, ma ἀντεμβαλλομένως, vale a dire, in virtù di una fictio legis. In tal senso, soprattutto di fronte ad ambiguità non ci si deve mai allontanare dalla proprietà del linguaggio, e il significato ‘naturale’ delle parole dev’essere preferito a quello civile, tecnico. Di conseguenza, è corretto affermare come regola vera e propria che la deportazione non è qualificabile come una mors (se non civilis)229. Ciò, precisa ulteriormente Alciato, vale naturalmente anche in relazione ai deportati: per quanto gli effetti prodotti dalla perdita della cittadinanza indu-
[con nota a margine di rinvio a c. susceptum, de resc. lib. 6]», in ALCIATUS 1582, II, Commentaria, ad D. 45, 1, 121, 2, col. 831, 1. Non è chiaro perché Alciato rinvii a un’oratio divi Marci, dal momento che in tema di convalescenza della donazione fra coniugi, in ragione della premorienza del donante, si esprime l’oratio divi Severi citata in D. 24, 1, 32 pr. (attribuita a Settimio Severo, ma pronunciata in senato dal figlio Caracalla, vale a dire Marcus Aurelius Severus Antoninus Pius Augustus), oggetto di problemi interpretativi complessi, per i quali si rinvia almeno a DUMONT 1928, pp. 211-291; SIBER 1933; ARU 1938, pp. 163-170 e 254-365; ARCHI 1960, pp. 209-224; BUONGIORNO 2018, pp. 131-152, e ivi, pp. 150-151, nota 82. Si veda anche VOLTERRA 1969, p. 104106 (pur se con opinioni parzialmente differenti), ora consultabile anche in ID. 2017, pp. 182-184. Sugli effetti della deportatio sulla donazione vd. RÜGER 2011, pp. 132-138, e sul presupposto della premorienza del donante vd. GAUDEMET 1963. Posto che in D. 24, 1, 32 pr. si legge: «Cum hic status esset donationum inter virum et uxorem, quem antea rettulimus, imperator noster Antoninus Augustus ante excessum divi Severi patris sui oratione in senatu habita auctor fuit senatui censendi Fulvio Aemiliano et Nummio Albino consulibus, ut aliquid laxaret ex iuris rigore», forse che Alciato abbia utilizzato il solo prenome Marcus per indicare, correttamente, Caracalla (Marcus Aurelius Severus Antoninus Pius Augustus), figlio di Settimio Severo? O viceversa, è forse ipotizzabile che abbia inavvertitamente attribuito quell’Antoninus Augustus all’imperatore Marco Aurelio (anch’egli Antoninus, appunto, Marcus Aurelius Antoninus Augustus, e peraltro anche Divus), commettendo un’imprecisione? Ad ogni modo, sulle titolature di Caracalla e di Marco Aurelio si veda KIENAST, ECK, HEIL 2017 (rispettivamente pp. 156-159 e 131-134). 228 «Cuius rei illa est ratio, quia a proprietate verborum recedendum non est», in ALCIATUS 1582, II, cit., col. 831, 3. La costante esortazione al rispetto della proprietas sermonis emerge diffusamente e rappresenta un tratto distintivo della dottrina alciatea (vd. supra, par. II.2, e infra, par. IV.2). 229 «Constat autem deportationem proprie mortem non esse. Licet enim lege Porcia loco mortis in civibus Romanis deportatio sit inducta, non tamen proprie, sed (ut ita dicam ἀντεμβαλλομένως, seu legis fictione hoc procedit), et ideo in ambiguis a proprietate non est recedendum, naturalisque sensus civili praeferendus [...]. Merito ergo constituendum pro regula est, appellatione mortis non videri deportationem intelligendam», in ALCIATUS 1582, II, cit., coll. 831-832, 3. Il riferimento generico alla lex Porcia (vale a dire, al portato delle tre leges Porciae complessivamente intese) ricorre nel descrivere in modo esemplificativo (e per certi versi idealizzato) un momento rilevante dello sviluppo della costituzione romana. Se ne parlerà approfonditamente infra, nota 396, cui si rinvia anche per le relative indicazioni bibliografiche.
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cano a considerarli morti, la deportazione è comunque cosa diversa dalla morte. Infatti, se la vendita al pubblico incanto estingue la società, così come la morte, ciò non significa che la vendita al pubblico incanto sia essa stessa una morte; la società si estingue a causa della perdita dei beni (o di povertà), perdita che colpisce tanto il morto quanto il deportato. Similmente, la legge che attribuisce la successione al più vicino nel grado di parentela esclude sia il deportato sia il morto, dal momento che entrambi hanno perso il diritto di succedere, e non perché il deportato sia considerato morto230. Dunque, la deportatio è una mors civilis, non naturalis. Ma, si chiede Alciato, cosa dire riguardo agli esuli del suo tempo, che sono chiamati banniti? Se secondo la lettera degli statuti gli esuli/banniti possono essere impunemente offesi, come se fossero nemici pubblici, dovranno essere considerati come i condannati alle miniere. Diversamente, dovranno essere equiparati ai deportati, e ai fini dell’avverarsi della condizione di cui si parlava in esordio (Cum morieris, dari), si dovrà attendere la morte naturale, come può evincersi dall’amplissima trattazione di Bartolo dedicata al tema del bannum231. Il debito nei confronti di Bartolo è qui evidente e massimo232, e dall’equiparazione bannum – deportatio si ricava la qualificazione dello stesso bando/esilio come mors civilis. Questa qualificazione si presenta anche in un brevissimo passo contenuto nel commento a D. 28, 2 (De liberis et postumis)233, 7, dove Alciato riporta le opinioni di Baldo e di Giason del Maino. Nel caso in cui un padre abbia un figlio proscritto o, come si dice comunemente, bannitus, quest’ultimo, essendo come morto, potrà essere a buon diritto escluso dal testamento. Inoltre, Alciato aggiunge che è necessario distinguere se il bannitus in questione abbia mantenuto soltanto gli iura naturalia e gentium e se, essendo un nemico pubblico, possa anche essere impunemente offeso, o se invece non abbia perso gli iura civilia, caso nel quale non interverrebbe la sua esclusione
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ALCIATUS 1582, II, cit., col. 832, 4-6. «Quid rursus censebimus de nostri temporis exulibus, quos bannitos vocant? Et si ex forma legis municipalis possunt impune offendi, tanquam sint hostes publici, pro damnatis in metallum habentur, alioquin deportatis aequiparantur, morsque naturalis erit expectanda, qua de re diffusissima extat Bartoli disputatio», ivi, coll. 832-833, 7. Il rinvio alla Quaestio I, Lucanae civitatis di Bartolo è espresso anche a margine, in corrispondenza della nota a («Doct. l. i C. de haer. inst. Bar., q. i, Lucanae civitatis», ibid.), e occorre diffusamente (vd. infra, par. IV.2). Si noti che il quesito introducente la riflessione sui banniti è formulato secondo il modello tipico della tradizione di ius commune, e si presenta ripetutamente nella trattazione alciatea (vd. supra, par. II.2, e infra, par. IV.2). 232 Dall’equivalenza bannitus – hostis publicus all’equiparazione con il condannato alle miniere o con il deportatus in certi casi (cfr. supra, par. I.1). 233 Sull’opera vd. supra, nota 220. 231
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dal testamento, come anche Bartolo ha sostenuto nella sua Quaestio I, Lucanae civitatis234. Nel commento a D. 28, 2 (è il medesimo titolo De liberis et postumis), 29, 5 Alciato torna sulla qualificazione del bannum come mors civilis, ponendo un quesito: riguardo ai banniti del suo tempo, che sono gravati dall’obbligo di restituire il fedecommesso alla loro morte, si può forse sostenere che la morte si verifichi con il bando? Il testo di D. 49, 14, 48, 1 suggerisce una risposta negativa e dunque i beni oggetto del fedecommesso resteranno in possesso del fisco fino alla morte naturale del bannitus235. Qualora invece il bannitus abbia restituito il fedecommesso prima del bando, a parole o di fatto, tale restituzione sembrerebbe non aver valore in quanto considerata in frode al fisco (lo si evince da D. 39, 5, 15 e dal relativo commento di Bartolo). Sulla base di D. 42, 8, 19 Alciato manifesta un’opinione contraria: dal momento che i creditori sono preferiti al fisco, se non vi è rischio di frode ai creditori, tanto meno ve ne è a danno del fisco (come si evince anche da D. 49, 14, 48, 1 e da C. 10, 7, 1). Inoltre, le ragioni poste alla base di D. 49, 14, 48, 1 riguardano l’interesse privato dello stesso soggetto gravato dal fedecommesso, che a quell’interesse può rinunciare (lo si ricava da C. 2, 3, 29 pr. e da D. 42, 8, 19)236. Dunque, la restituzione del fedecommesso prima del bannum può essere considerata valida. Ulteriori, significative riflessioni, sia sulla differenza fra deportatio e mors naturalis, sia sulla qualificazione della deportatio (e dunque del bannum) come mors civilis, emergono frammentariamente dal lungo commento a D. 37, 4 (De bonorum possessione contra tabulas)237, 1, 8. Innanzitutto, similmente al morto il deportato non ostacola il successore in grado, appunto perché è considerato come se fosse morto238. Tuttavia, evidenzia Alciato, questa opinione presenta molte difficoltà, e il deportato non può essere così semplicemente equiparato al morto. In questo caso, per esempio, il fedecommesso mortis causa sarebbe dovuto subito dal deportato, e non dovrebbe attendersi
234 ALCIATUS 1582, I, Commentaria, ad D. 28, 2, 7, coll. 527-528, 34. Si legga anche la nota e («In tractatus Quaestionum»), ivi presente, di rinvio alla raccolta di Quaestiones bartoliane. Sul problema degli iura mantenuti e perduti dal bannitus si rinvia alle osservazioni esposte supra, parr. I.1 e I.3. 235 ALCIATUS 1582, I, Commentaria, ad D. 28, 2, 29, 5, col. 710, 10. 236 Ibid. Per il commento di Bartolo a D. 39, 5, 15 vd. BARTOLUS 1562, III, In Digestum novum, ff. 148B-151A. Per uno sguardo sul fedecommesso in età medievale e moderna si rinvia a CARAVALE 1968; ROMANO 1994 (soprattutto pp. 73-83); ROSSI 2009. 237 Sull’opera vd. infra, par. III.4, nota 282. Si tratta di considerazioni dedicate più in generale al problema della restitutio dell’esule/bannitus, come si vedrà più approfonditamente infra, par. III.4. 238 «§ Deportatus perinde, ac mortuus, non obstat sequenti in gradu» e poco oltre «[...] deportatum non obstare sequenti, quia pro mortuo habetur», in ALCIATUS 1582, I, Commentaria, ad D. 37, 4, 1, 8, col. 1265, rispettivamente 1 e 3.
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la morte naturale. Ma ciò è falso, sostiene l’umanista, che peraltro riprende quanto già esposto altrove (lo si è visto poco sopra239) e riporta le stesse argomentazioni già esaminate: se la deportatio coincidesse con la mors naturalis, la donazione fra coniugi, che è confermata dalla morte, dovrebbe esserlo anche dalla deportazione, e invece si sa che in quel caso è necessario attendere la morte naturale. Tuttavia, posto che la deportazione è diversa dalla morte (in ragione della proprietà del linguaggio e della natura stessa della cosa), riguardo al diritto di accesso all’eredità dovrà ritenersi diversamente. Infatti, lo ius adeundi è di ius civile, e quanto attiene allo ius civile si perde tanto a causa della deportazione quanto a causa della morte240. A causa di tale equiparazione dei deportati ai morti, quel diritto di accesso all’eredità non si trasferisce dalla loro persona al fisco, bensì al successivo nel grado241. Dunque, l’equiparazione fra deportatio e mors (civilis o naturalis che sia) in relazione ai problemi legati allo ius adeundi rappresenta l’eccezione alla regola (consolidata) della differenza fra deportatio e mors naturalis. Ma cosa dire degli esuli, comunemente chiamati banniti? Riproponendo il consueto interrogativo, Alciato ricorda che gli esuli/banniti sono come morti per lo ius civile, e rientrando lo ius adeundi nello ius civile, vale per essi quanto appena espresso in relazione ai deportati242. In particolare, riguardo ai beni di cui l’esule era proprietario (appunto, quelli presenti nel territorio dal quale è stato esiliato), Alciato evidenzia come l’esule debba essere considerato assolutamente incapace, e non di ostacolo ai successivi nel grado. D’altra parte, al di fuori del territorio dell’esilio l’esule manterrà lo ius commune (e questa è opinione di Bartolo), e dal momento che è considerato come un nemico pubblico potrà essere impunemente offeso tanto nella persona quanto nei beni, come peraltro altrove, conclude Alciato, i doctores discutono diffusamente243.
239
Si vedano le pp. 71 e 74. ALCIATUS 1582, I, cit., col. 1265, 3-4. Inotre, si confrontino nuovamente le riflessioni esposte supra, pp. 71-74, e in tema di convalescenza della donazione fra coniugi (in ragione della premorienza del donante) vd. supra, nota 227. 241 ALCIATUS 1582, I, cit., col. 1265, 7. Sul punto vd. e cfr. CAVALCA 1978, pp. 235-236. 242 «Sed quid de exulibus, quos hodie vocamus bannitos, respondebimus? […]. Habentur ergo pro mortuis, quod ad ea attinet, quae iuris civilis sunt, quale est ius adeundi, ut supra diximus», in ALCIATUS 1582, I, cit., col. 1266, 8. Sulle conseguenze del bando sulla testamenti factio passiva (e più in generale sulla capacità di succedere) del bannitus si ricordi quanto esposto supra, p. 26 (e vd. e cfr. GHISALBERTI 1960, pp. 51-54, e CAVALCA 1978, pp. 235-238). 243 ALCIATUS 1582, I, cit., col. 1266, 8. Si noti anche il brevissimo richiamo all’equiparabilità ai morti di deportati, diseredati e banniti (lì definiti quali ‘esclusi dallo statuto’), presente poco oltre: «Diximus deportatos, item exhaeredatos, item exclusos a statuto pro mortuis haberi», ivi, col. 1273, 30. Sui profili espressamente legati al tema del bannum si rinvia alle osservazioni esposte infra, par. IV.2. Sulla dottrina di Bartolo sul bando si rinvia a supra, par. I.1. Infine, si confronti il debito nei confronti di Bartolo qui evidenziato con quanto già visto supra, p. 73. 240
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Ritornando all’eccezione di cui si diceva, vale a dire, all’equiparazione indistinta fra deportatio e mors (civilis o naturalis che sia), merita ancora attenzione un ultimo passo, tratto dal commento a D. 50, 16 (De verborum significatione)244, 239 pr. Alciato espone in esordio un’interessante considerazione di carattere linguistico: pupillus è voce diminutiva del sostantivo pupo, che significa appunto ‘fanciullo’, e che nel poeta Catullo occorre anche nella variante pupulum. Conseguentemente, dall’etimo è possibile affermare che colui che si trovi nella potestà del padre potrà esser detto pupillus, come anche il servo impubere245. Tuttavia, precisa l’umanista, il significato del sostantivo è amplissimo, e i giureconsulti tendono più frequentemente ad attribuirgli un’accezione diversa, definendo pupillus colui che, impubere, abbia cessato di essere in potestà del padre o per morte o per emancipazione. L’ipotesi della morte può verificarsi sia nel caso di morte naturale del padre che di sua condanna all’esilio. Inoltre, nel libro I delle Institutiones Gaio ricorda come l’uomo che sia stato ridotto in condizione peregrina non possa avere in potestà un cittadino romano. Dunque, in un caso come questo l’esilio può sortire il medesimo effetto della morte naturale246, pur se in via d’eccezione alla regola della qualificazione della deportatio e dell’esilio/bannum come forme di mors civilis.
III.4. SULLA RESTITUTIO DEL DEPORTATO/ESULE Il problema della restitutio del bannitus era stato uno dei profili più dibattuti in dottrina, soprattutto riguardo alle sue conseguenze sullo status del soggetto riabilitato nella comunità247. Su quelle conseguenze (in relazione alla duplice figura del deportato/esule248), Alciato formula alcune, interessanti riflessioni, a cominciare da quelle sugli effetti della restitutio del deportato sulle dinamiche di subentro in linea successoria, nel caso in cui uno dei successori sia stato deportato e poi, appunto, riabilitato. Si prenda in considerazione un primo passo, tratto dal commento a D. 28, 2 (De liberis et postumis, titolo già più volte menzionato)249, 29, 5.
244
Sull’opera vd. supra, nota 194. «PUPILLUS. Pupillus diminutiva vox est a pupo, quae dictio puerum significat, quem Catullus poeta etiam pupulum dixit, unde ex etymo, qui in patris potestate est, pupillus dici poterit. Servus quoque impubes, hoc nomine appellabitur», in ALCIATUS 1582, II, Commentaria, ad D. 50, 16, 239 pr., col. 1326, 1-2. Il riferimento a Catullo è CATULL. 56, 5: «Deprendi modo pupulum puellae». 246 ALCIATUS 1582, II, cit., col. 1326, 1-4. 247 Vd. supra, par. I.3. 248 Si ricordi quanto esposto supra, nota 217, sul rapporto fra i concetti di deportatio ed esilio/bannum. 249 Sull’opera vd. supra, nota 220. 245
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Sulla base della glossa Emancipatus esset a D. 28, 2, 29, 5, Alciato ricorda che se il figlio deportato è riabilitato, lo è nello stesso status che lo caratterizzava prima della deportazione, e ciò avviene anche a danno del nipote (che pur essendo divenuto sui iuris, quale conseguenza della deportatio dell’avo, cessa di esserlo proprio a causa della riabilitazione di quello)250. Tuttavia, contro questa glossa si pone Bartolo, che in molteplici loci afferma che il nipote non succede in luogo del figlio, né rappresenta la persona di quello: essendo divenuto sui iuris in seguito alla deportatio dell’avo, il nipote succede ex persona propria (e questa è opinione condivisa da Francesco Accolti d’Arezzo e da altri)251. Ciò posto, sulla base di D. 35, 1, 59 e del commento di Bartolo a D. 26, 4, 1, 2, Alciato suggerisce un’interpretazione delle soluzioni allegate diversa a seconda che la morte del figlio sia avvenuta vere (per natura) o tantum civiliter (come a seguito di deportazione): in questa seconda ipotesi, infatti, Alciato ritiene che sussistendo la speranza della riabilitazione il nipote non subentri in luogo dell’avo deportato ex persona propria, ma ex persona patris252. A questo problema di diritto successorio si aggiungono le questioni legate al recupero da parte del soggetto riabilitato dei beni di cui era stato proprietario prima di divenire exbannitus, alle sorti della garanzia per l’evizione nell’ipotesi del recupero di beni frattanto acquisiti da terzi, e ai doveri di restituzione facenti capo al fisco253. Innanzitutto, fra i passaggi più interessanti delle argomentazioni esposte da Alciato254, si noti un breve riferimento all’opinione di Ruini, secondo il quale con la
250
ALCIATUS 1582, I, Commentaria, ad D. 28, 2, 29, 5, col. 691, 112. Qui Alciato rinvia all’ultimo paragrafo della suddetta glossa Emancipatus esset a D. 28, 2, 29, 5, per il quale vd. Corpus iuris civilis 1627, II, coll. 422-423. 251 ALCIATUS 1582, I, cit. col. 691, 112. I commenti di Bartolo cui Alciato fa riferimento sono i seguenti: il commento a D. 50, 1, 15, dove Bartolo formula una nota di rinvio ad altri loci da lui commentati e a Cino da Pistoia (vd. BARTOLUS 1562, III, In Digestum novum, f. 994A); il commento a C. 6, 28, 2 (vd. BARTOLUS 1562, IV, In duodecim libros Codicis, f. 569B); il commento a D. 37, 7, 1, 2 (vd. BARTOLUS 1562, II, In Infortiatum, f. 924A-B); il commento a D. 37, 8, 1, 16 (vd. ivi, f. 931A, dove l’edizione presenta un refuso, numerando il titolo VIII come IX); il commento a D. 29, 2, 18 e 94 (vd. ivi, rispettivamente ff. 417A-421A e ff. 453B-454A, dove l’edizione presenta un refuso, numerando la lex XCIV come XCIII). Il rinvio a Francesco Accolti d’Arezzo corrisponde al suo commento a D. 29, 2, per il quale vd. DE ACCOLTIS 1538, ff. 109vB-174rA. 252 ALCIATUS 1582, I, cit. col. 691, 113. Per il commento di Bartolo a D. 26, 4, 1, 2 vd. BARTOLUS 1562, II, In Infortiatum, f. 134B. In tema di linee e gradi di successione in diritto romano e intermedio si vedano TALAMANCA 1990 (soprattutto pp. 680-685, 706-716); DILIBERTO 1990; GIARDINA 1971; PADOVANI 1990. 253 Sono tutti temi ricorrenti nelle argomentazioni alciatee sulla restitutio dell’esule, come si vedrà progressivamente in questo paragrafo. 254 Per una lettura integrale vd. ALCIATUS 1582, I, cit., coll. 691-693, 113-120.
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riabilitazione dev’essere sempre restituito quanto sia stato (frattanto e di diritto) trasferito a terzi; si tratta di una communis opinio, di cui si parlerà ancora, nella medesima trattazione255. Successivamente, Alciato prende in considerazione il soggetto exbannitus e sempre in rapporto alla glossa Emancipatus esset a D. 28, 2, 29, 5256 riporta il quesito posto da Bartolo nel suo commento a C. 9, 51, 13: l’exbannitus integralmente riabilitato dal princeps recupera forse i beni che gli erano stati confiscati? Secondo Bartolo il riabilitato non recupera i beni trasferiti dal fisco a terzi, ma recupera soltanto quelli rimasti presso il fisco. Si tratta di un’opinione condivisa, e per quanto siano molte le decisiones dei doctores (soprattuto di Giason del Maino) espresse sulla questione, tutti concordano sul fatto che quanto è stato alienato dal fisco non possa essere revocato in pregiudizio del terzo, poiché qualsiasi bene il fisco alieni non è più soggetto all’evizione (lo si evince peraltro da C. 7, 37, 3 pr. e da C. 10, 5, 1-2)257. Tuttavia, aggiunge Alciato, è necessario comprendere se il fisco debba rifondere il denaro ricevuto per i beni venduti o donati, come affermativamente sostengono Bartolo (sempre nel suo commento a C. 9, 51, 13) e Alberico da Rosciate (nel suo commento a D. 42, 8, 7). Infatti, il fisco è paragonabile all’erede e al possessore di buona fede (lo si ricava da C. 9, 12, 2), e come colui che compra dal possessore di buona fede non è obbligato a restituire quanto ha acquistato, diversamente da colui che vende (D. 5, 3, 25, 17), allo stesso modo
255
«Sed certe Ruin. dicit contra tex. allegatum hic in glo. […]. Ipse tamen tertio modo solvit, quod per restitutionem semper restituuntur ea, quae ipso iure transierunt in alium, l. sive libertus, sive patronus in princ., infra de iure patro., et est communis conclusio, ut infra videbimus», in ALCIATUS 1582, I, cit., col. 691, 113. Il riferimento a Ruini riguarda presumibilmente Carlo Ruini, professore giurista a Bologna, del quale Alciato ascoltò alcune lezioni, criticandolo poi espressamente in più di un’occasione (vd. BELLONI 2016b, p. 526, nota 5, p. 535, e ivi, nota 50, p. 537, p. 544; EAD. 1986, pp. 180-182; CASANOVA 2017; CAVINA 2013b), piuttosto che Paolo Ruini da Montepico, professore giurista a Pavia, ricordato dallo stesso Alciato come suo maestro (vd. BELLONI 2016b, pp. 534-536, e ivi, nota 45, e DI RENZO VILLATA 2013b). Si ricordi quanto sostenuto da Riethdorf in tema di definizione generale di iura per mezzo del neutro plurale ea (quae), in RIETHDORF 2016, pp. 37-46. Inoltre, si segnala in questa sede che nello stesso passo alciateo, poco oltre, è presente un rinvio al Tractatus de bannitis di Nello da San Gimignano, citato in riferimento agli eretici (vd. ALCIATUS 1582, I, cit., col. 692, 115-116). Sull’opera di Nello si rinvia a quanto esposto supra, par. I.4, e in particolare a ZENDRI 2016a, pp. 129-152. 256 Vd. supra, nota 250. 257 «Ex ista glo. infert Bart. ad quaestionem, an quando aliquis est exbannitus publicatis bonis, et per principem restitutus in integrum, utrum recuperet bona? Et determinat, quod non recuperat bona translata per fiscum in alios, secus ea, quae remanserunt penes fiscum, ut hic per eum, et opinio Bart. est communis [...]. Adverte, quia Doctores hac quaestione, praesertim Ias. allegant multas decisiones et non tangunt fundamenta. Nam quod alienata per fiscum non revocentur in praeiudicium tertii, istud videtur indubitabile, quia quaecunque fiscus alienat, amplius non sunt subiecta evictioni, text. est in l. bene a Zenone, C. de quad. praescrip., et l. i et seq., C. ne fisc. rem, quam vend. evinc. lib. x, firmat Bart. in l. fi., C. de senten. pas.», in ALCIATUS 1582, I, cit., col. 693, 121-122.
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dovrà giudicarsi nel caso in esame: il fisco dovrà dunque rifondere il denaro ricevuto a seguito delle alienazioni effettuate258. A questo punto, dopo aver esposto ulteriori opiniones e adlegationes contrarie alla teoria suddetta, Alciato ricorda come nella pratica forense si riscontri la mancata restituzione dei beni alienati dal fisco259, ma ribadisce la sua adesione all’opinio Bartoli: nei confronti del restitutus il fisco è tenuto a restituire il valore di quanto venduto o donato. In effetti, aggiunge l’umanista, a sostegno dell’opinio communis contraria all’obbligo di restituzione da parte del fisco è possibile citare lo stesso Bartolo, che nei suoi commenti a D. 50, 2, 2 e a C. 10, 61, 1 afferma che i doctores espulsi dal collegio non recuperano lo status precedente in caso di riabilitazione (e dunque non hanno diritto ad alcuna restituzione o forma di risarcimento)260. Nonostante quest’ultima opinione di Bartolo sia la più condivisa, Alciato evidenzia come dallo stesso frammento oggetto del commento bartoliano (appunto, D. 50, 2, 2) sia possibile ricavare una differenza importante fra il relegato e l’escluso a tempo da un lato, e il restitutus dall’altro. Infatti, se nei primi due casi non può aver luogo una riabilitazione che comporti il pieno recupero dello status precedente, nel caso del restitutus vero e proprio invece sì. Inoltre, Alciato ritiene che sia errato interpretare quella norma come se si riferisse al riabilitato ipso iure, giacché la ratio legis risiede nel fatto che il restitutus non è considerato un uomo nuovo, diverso da quello beneficiato dalla restitutio stessa. Ciò vale anche nell’ipotesi di restitutio disposta dal princeps (come peraltro si ricava dal commento di Bartolo a D. 22, 6, 9, 5), dal momento che il termine restitutus presente nel testo della norma è da intendersi in senso generale261.
258 ALCIATUS 1582, I, cit., coll. 693-694, 122. Sul punto vd. e cfr. CAVALCA 1978, pp. 249-250, e RIETHDORF 2016, pp. 58-59. Per il commento di Bartolo a C. 9, 51, 13 (riguardo alla restitutio del bannitus e al connesso recupero del valore dei beni frattanto alienati dal fisco) vd. BARTOLUS 1562, IV, In duodecim libros Codicis, f. 834A, 7. Sul fisco in diritto romano e intermedio si vedano BURDESE 1968 e CORTESE 1968. Sulla garanzia riconosciuta al terzo contro l’evizione vd. GUARINO 2001, pp. 892-893 (con relativa bibliografia). Per il commento di Alberico da Rosciate a D. 42, 8, 7 vd. ALBERICUS 1585b, ff. 119vB-120rA. 259 «Unde etiam hodie in practica vidi bona alienata per fiscum non restitui», in ALCIATUS 1582, I, cit., col. 694, 124 (122-124 per una lettura integrale delle argomentazioni). 260 Ivi, col. 694, 124. Per il commento di Bartolo a D. 50, 2, 2, contenente un riferimento alla figura di Romeo Pepoli e a un episodio della storia del Comune di Bologna, vd. BARTOLUS 1562, III, In Digestum novum, f. 1002A. Per il commento bartoliano a C. 10, 61, 1 vd. BARTOLUS 1562, IV, In duodecim libros Codicis, f. 888A (l’edizione presenta un refuso, numerando il titolo LXI come LIX). 261 «Verum licet non reperiam contradicentem Bart. in hoc teneo contrarium, per tex. in d. l. ii, ubi fit differentia inter relegatum, et exclusum ad tempus, et eum qui sit restitutus. Nam in primis duobus casibus non restituitur ad primum locum, in hoc ultimo sic. Et intelligere illum tex. de restituto ipso iure, istud est falsum, quia ratio illius legis est, quia restitutus non censetur novus homo, ex quo est restitutus. Ista ratio habet locum etiam in restituto a principe, ergo et dispositio, arg. not. per Bar. in l. regula, § si quis ius, per illum tex., ff. de iur. et fact. ignor. Item quia text. dicit Restitutus, et sic generaliter loquitur», in ALCIATUS 1582, I, cit., col. 694, 124-125. Per il commento di Bartolo a D. 22, 6, 9, 5 vd. BARTOLUS 1562, I, In Digestum vetus, f. 851B. Sulla restitutio disposta dal princeps vd. infra, pp. 80-86.
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In linea con questa precisazione, come ulteriore argomento contrario alla prevalente opinione di Bartolo (e communis, negante qualsiasi obbligo di restituzione in capo al fisco), Alciato rinvia a C. 9, 51, 1, testo dal quale si ricava il significato preciso del verbo restituere, vale a dire ‘riabilitare il soggetto negli onori, nell’ordine e caeteris omnibus’262. Se l’espressione caeteris omnibus sembrerebbe consentire (propter vim geminationis) l’estensione dei possibili contenuti della restitutio (anche nel caso in esame, della restitutio dell’exbannitus)263, tuttavia non viene meno la validità di quanto sostenuto da Bartolo nel suo commento a C. 9, 51, 13: i beni acquistati dal terzo attraverso il fisco non potranno essere revocati, giacchè il terzo, in virtù del privilegium fisci (e non in ragione della restitutio dell’exbannitus) ha piena garanzia contro l’evizione (C. 7, 37, 3 pr.). Dunque, il termine restitutus presente in D. 50, 2, 2 dev’essere interpretato alla luce di queste considerazioni264. Diversamente, invece, dovrà giudicarsi in relazione al soggetto allontanato a tempo o al relegato, che secondo l’interpretazione di Alciato (come visto sopra) non godono di una piena riabilitazione nello status precedente. Infatti, il testo di D. 50, 2, 2 si pone in pregiudizio di quanti subentrino ipso iure al decurione esiliato, che con la riabilitazione riacquista lo status precedente all’esilio265. Ma il caso in esame fa riferimento a chi abbia acquisito diritti non ipso iure. Infatti, secondo i doctores, quando il diritto altrui è acquisito immediatamente, per disposizione di legge o in ragione della stessa condanna, senza che intervenga alcun provvedimento del princeps, il riabilitato recupera quel diritto acquisito dal terzo anche in pregiudizio di quest’ultimo266. Tuttavia, non deve trascurarsi una precisazione di carattere limitativo (segnalata da Raffaele Fulgosio, Giason del Maino e altri): la restitutio non comporta sempre il recupero dei beni alienati in pregiudizio del terzo, ma è necessario distinguere se essa abbia avuto luogo per viam iustitiae o per viam gratiae (sulla base di D. 4, 4, 24, 2). Secondo Bartolo (lo si evince dal suo commento a D. 46, 3, 38, 4), la restitutio per modum iustitiae è più favorevole di quella per modum gratiae, poiché quanto è disposto dal princeps è considerato sufficientemente giusto:
262
«Secundo contra Bart. induco tex. in l. i, C. de sent. pass., ubi imperator definiens quid sit Restituere, est, inquit, honoribus, et ordini et caeteris omnibus restituere», in ALCIATUS 1582, I, cit., col. 694, 125. 263 Lo si ricava dalla complessa argomentazione alciatea di rinvio a varie possibili autorità testuali (ivi, 125-126). 264 «Et hoc tenendo non obstat decisio Bar. hic, quia ideo non revocatur in praeiudicium tertii, quia illi tertii habent privilegium, ne res empta a fisco evincatur, d. l. bene a Zenone. Hoc igitur est ratione privilegii fisci, non propter restitutionem, et ratio illius l. ii est propter verbum Restitutus, quod sic interpretatur», ivi, 126. Per il commento di Bartolo a C. 9, 51, 13 vd. supra, nota 258. 265 ALCIATUS 1582, I, cit., col. 695, 127. 266 Ibid.
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in quanto titolare di potestà ordinaria, il princeps può sia rimettere un delitto sia rendere grazia267. Dalla compresenza di interpretazioni diverse del valore e dell’estensione attribuibili al gratiam facere Alciato deriva la possibilità di considerare il provvedimento del princeps come una restitutio vera e propria, e non come una semplice indulgentia (lo si può evincere da D. 48, 18, 1, 27). Inoltre, posto quanto affermato da Bartolo sulla possibilità di recuperare quanto sia rimasto presso il fisco (nel già noto commento a C. 9, 51, 13), Alciato ritiene che una formula quale restituo te ad omnia bona debba essere soggetta a un’interpretazione estensiva, e dunque intesa come includente tutti i beni, compresi quelli frattanto ed eventualmente alienati (con rinvio a C. 5, 34, 8)268. Sulla base di questa interpretazione e delle glosse a C. 9, 51, 6 e 9, Alciato presenta un ulteriore argomento. Qualora un padre sia deportato, i figli diventano sui iuris, iniziano a possederne i beni iure proprio e in caso di adizione dell’eredità di un terzo acquisiscono anche questa iure proprio. Se però sopraggiunge la restitutio del padre ad bona, questa comporta il recupero di tutti i beni che erano di proprietà di quello, anche in pregiudizio dei figli e del terzo, e sempre in pregiudizio dei figli il padre restitutus può recuperare l’eventuale eredità da quelli frattanto adita. Diversamente dovrà invece giudicarsi qualora la restitutio derivi da un’abolizione generale della pena269. Dopo ulteriori considerazioni Alciato pone ancora un quesito, qui meritevole di attenzione: il restitutus può forse adire l’eredità che lo avrebbe riguardato se non fosse stato deportato? Innanzitutto, Alciato rinvia al commento di Francesco Accolti d’Arezzo a D. 29, 2, 25, 1, e afferma che a una tale adizione non sarebbe di ostacolo il fatto che il princeps non possa sopprimere il diritto acquisito dal terzo, come dominium (quantomeno in via generale, come visto). Infatti, si tratta di un nodo interpretativo non ancora sciolto, e fra le numerose opinioni contrarie (a partire da quella espressa da Angelo degli Ubaldi e altri sulla base di X. 1, 2, 7) Alciato rinvia a Felino Sandeo, che nel suo commento
267 ALCIATUS 1582, I, cit., col. 695, 127-128. In effetti, oltre che a Raffaele Fulgosio, come qui si è proposto, il troncamento Raph. potrebbe alludere anche a Raffaele Raimondi (cfr. BELLONI 2016b, pp. 535-536). Per il commento di Bartolo a D. 46, 3, 38, 4 (riguardo alla differenza fra la restitutio ex mera iustitia e quella ex quadam mera misericordia) vd. BARTOLUS 1562, III, In Digestum novum, f. 643B, 2. 268 «Item sicut in restitutione facta per principem, ista verba, Facio gratiam, intelliguntur de restitutione, non de indulgentia, l. i, § fi., ff. de quaest., not. Bart. in d. l. fi. in fi., C. de senten. pas., quanto magis ista verba, Restituo te ad omnia bona, debent intelligi etiam ad alienata, ex vi verborum, cum in primo casu illa interpretatio fit potius per extensionem, arg. not. in auth. minoris debitor, C. qui dare tut.», in ALCIATUS 1582, I, cit., col. 695, 130. 269 Ivi, col. 695, 129-130. Le glosse citate sono le glosse In insulam e Non videtur a C. 9, 51, 6, e la glossa Si pater a C. 9. 51, 9, per le quali vd. Corpus iuris civilis 1627, IV, rispettivamente coll. 2460-2461 e 2462.
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a X. 1, 34 evidenzia come il princeps possa revocare il dominium rei quantomeno occasionaliter270. Inoltre, la riabilitazione disposta dal princeps sembrerebbe costituire di per sé una bona causa, essendo una facoltà che gli è riconosciuta iuridice. Sulla base di queste premesse, Alciato afferma che quanto non rientra più nelle capacità del deportato dovrebbe essergli nuovamente riconosciuto a seguito della riabilitazione271. L’umanista aggiunge ancora una riflessione. Se l’opinione favorevole al recupero di tutti i beni da parte del restitutus (fondata sulla suddetta glossa a C. 9, 51 6 e 9) è quella più condivisa, nel suo commento a C. 9, 51, 13 Bartolo presenta una posizione contraria, ritenendo che il riabilitato possa adire l’eredità cui avrebbe avuto diritto in assenza di deportazione limitatamente ai beni mai sopraggiunti al figlio. Diverso sarà invece il caso di eventuali beni avventizi o profettizi, che sarebbero stati del nipote prima di un’eventuale deportazione del figlio, e che potranno essere recuperati. In tal senso, Alciato evidenzia come l’opinione di Bartolo (espressa nel suo commento a D. 2, 14, 27, 2) sembri essere più fondata, e conclude ricordando ciò che i doctores segnalano riguardo al caso di Lazzaro, che, tornato in vita, poté recuperare tutti i beni che un tempo erano stati suoi272. La lunga argomentazione alciatea, qui sintetizzata nei suoi passaggi più significativi in tema di restitutio del deportato/esule, consente di trarre preziose considerazioni sul metodo dell’umanista e su alcuni profili essenziali della sua dottrina. L’articolarsi delle riflessioni, nell’intreccio di opiniones favorevoli e contrarie a un dato quesito giuridico, è in piena sintonia con lo stile proprio della tradizione scolastica di diritto comune. Inoltre, come si sarà notato, nel dialogo con le fonti l’interlocutore privilegiato risulta sempre essere Bartolo, in linea con l’autorevolezza unanimamente riconosciutagli e in ragione del suo contributo fondamentale in tema di bannum273. I contenuti dell’argomentazione rivelano la difficoltà di dare risposta ai complessi problemi derivanti dalla riabilitazione dell’escluso sul versante patrimoniale, alla luce dell’esigenza di armonizzare principi fondamentali quali la garanzia rinosciuta al terzo contro l’evizione e la pienezza d’efficacia della restitutio stessa, in particolare se e quando disposta dal princeps. La mancanza di risposte univoche motiva la giustapposizione di opiniones contrarie, che talora trovano un coordinamento alla luce di quella fra di esse che, intorno a un nodo interpretativo, è quantomeno communis.
270
ALCIATUS 1582, I, cit., col. 696, 131-133. Per il commento di Francesco Accolti d’Arezzo a D. 29, 2, 25, 1 vd. DE ACCOLTIS 1538, ff. 130rB-131rB. Per il commento di Felino Sandeo a X. 1, 34 vd. SANDEUS 1567, coll. 1367-1396. 271 ALCIATUS 1582, I, cit., col. 696, 133. 272 Ibid. Per il commento di Bartolo a D. 2, 14, 27, 2 vd. BARTOLUS 1562, I, In Digestum vetus, ff. 205B-210B. 273 Vd. supra, par. I.1.
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Come si sarà notato, i riferimenti alla restitutio attuata dal princeps sono numerosi e meritano un’attenzione particolare, dal momento che offrono uno sguardo sulla realtà contemporanea di Alciato. In una dimensione politico-giuridica europea che sullo sfondo dell’Impero e del Papato è sempre più animata dalle monarchie nazionali e, soprattutto nel caso della penisola italiana, dagli Stati regionali, il princeps, monarca che si avvia a diventare assoluto, acquista un rilievo nuovo nei rapporti fra i poteri e nell’esercizio del potere. In tal senso, la restitutio da lui operata a vantaggio dell’escluso dalla comunità assume un’importanza fondamentale274. Sui profili di questo tipo di restitutio, e sulle sue conseguenze sui diritti acquisiti dai terzi, si propone la lettura di un passo alciateo tratto dalla Praesumptio XI della Regula III del De praesumptionibus tractatus275. Innanzitutto, Alciato cita Baldo, che nel suo commento a C. 6, 37, 14 ricorda come nelle lettere del princeps sia sempre compresa la clausola salvo iure alterius, opinione peraltro condivisa da Francesco Corti iunior, dal Panormitano e dal Sannazari della Ripa. Tuttavia, secondo quest’ultimo il rescritto sopprimente il diritto del terzo deve ritenersi sospetto di falso, dal momento che il princeps non è solito concedere rescritti di questo tipo. Dunque, qualora contenga disposizioni ordinarie (consueta) in unione alla soppressione del diritto altrui, il rescritto dovrà essere giudicato sospetto di falso (cosa che Alciato ricorda di aver già evidenziato nella Praesumptio XXX della Regula II del suo Tractatus)276.
274 Per i profili politico-giuridici inerenti al tema della sovranità (e all’evoluzione del concetto stesso) si rinvia almeno a QUAGLIONI 2004b. Per i profili legati alla maiestas e alla sua tutela vd. GHISALBERTI 1955 e SBRICCOLI 1974. 275 L’opera corrisponde a una parte delle lezioni che Alciato aveva tenuto ad Avignone sulle Decretales, appunto su X. 2, 23. La stampa del commentario, legata alla speranza pluriennale di ottenere un beneficio ecclesiastico, avvenne a Lione nel 1538, a cura di Vincentius de Portonariis (per tutto e per ulteriori approfondimenti vd. BELLONI 2016b, pp. 529-531, 557-568, 590, e pp. 819820, 909, 916-917). Inoltre, si rinvia alle riflessioni esposte supra, par. II.1. 276 ALCIATUS 1582, IV, De praesumptionibus, Reg. III, Praes. XI, col. 825, 3. Nel commento di Baldo a C. 6, 37, 14 si legge: «Praesertim quia in principe semper intelligitur clausula salvo iure alterius, ar. ff. de vulg. subst., l. ex facto, in prin.», in BALDUS 1556c, f. 126rB. Per quanto riguarda il rinvio interno alla Praesumptio XXX della Regula II, si noti soprattutto la chiusa del testo, dove Alciato evidenzia il valore positivo dell’opinione espressa dal Panormitano, da Felino Sandeo e comunemente anche da altri, nei loro commenti a X. 1, 2, 2: il rescritto del princeps che devii dallo stile consueto della sua Cancelleria e che contenga clausole nuove e insolite deve presumersi falso e non dev’essere applicato. L’opinione è ulteriormente avallata da Sandeo con moltissimi argomenti simili e concordanti, che arricchiscono la praesumptio suddetta e rendono sufficiente rinviare a lui e al Sannazari della Ripa per i dettagli della questione, come sottolinea Alciato stesso (vd. ALCIATUS 1582, IV, De praesumptionibus, Regula II, Praes. XXX, coll. 798-799, 4). Sul De praesumptionibus tractatus vd. supra, nota 275. Per il commento del Panormitano a X. 1, 2, 2 vd. PANORMITANUS 1588, I, In primum librum Decretalium, ff. 38B-42B. Per il commento di Felino Sandeo a X. 1, 2, 2 vd. SANDEUS 1567, coll. 67-78. Per il commento di Gianfrancesco Sannazari della Ripa a X. 1, 2, 2 si segnala l’edizione RIPAE 1569.
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A sostegno di tutto ciò, posto che le lettere del princeps devono sempre essere interpretate secondo lo ius commune, Alciato rinvia a Bartolo, che nel suo commento a D. 28, 2, 29, 5 afferma che la restitutio del deportato disposta dal princeps lo riabilita e reintegra nello status precedente, tanto negli onori quanto nei beni. Ciononostante, il restitutus non recupera i beni frattanto trasferiti a terzi: si tratta di diritti acquisiti, e non sarebbe corretto presumere che il principe volesse estinguerli attraverso la riabilitazione. Questo parere è proprio anche di Giason del Maino e di molti altri: la regola della garanzia del diritto acquisito dal terzo è dunque opinio communis277. Alciato conclude affermando che il soggetto riabilitato dal princeps dev’essere considerato propriamente ‘legittimo’, potendo in tal senso succedere al padre e acquistarne i beni. Tuttavia, se la riabilitazione avrà avuto luogo dopo la morte del padre, il restitutus sarà escluso dalla successione e i beni saranno regolarmente acquistati dai successori legittimi, ab intestato. Infatti, a questi ultimi la restitutio disposta dal princeps non sottrae lo ius succedendi, né tantomeno i beni acquistati in seguito alla morte del padre mediante regolare adizione dell’eredità. Dunque, anche in questo caso non può presumersi che il principe volesse estinguere il diritto acquisito dal terzo per mezzo della restitutio 278. Sul problema della riabilitazione dell’esule e sulle sue conseguenze sul versante fiscale, Alciato espone una breve riflessione nel suo commento a D. 50, 16 (De verborum significatione)279, 21. Il caso posto è quello della confisca dei beni dell’esule, seguita dall’indizione ed esazione di una pecuniaria collectio, vale a dire, verosimilmente, di un’imposizione fiscale. A seguito di riabilitazione dell’esule e connesso recupero dei beni confiscati (salvi, evidentemente, i diritti acquisiti da terzi), sarà forse necessario dedurre dalla restituzione dei beni quanto l’esule avrebbe dovuto corrispondere al fisco se non fosse stato esiliato? Alciato rinvia al parere positivo di Alberico da Rosciate, e ag-
277 «Et facit, quia literae principis semper interpretantur secundum ius commune […]. Adiice praedictis quod generaliter concludunt Doct. post gloss. et Bartol. in l. Gallus, § et quid si tantum, de liber. et posthu., quod licet restitutio deportati facta a principe restituat et reponat eum in statum pristinum tam ad honores quam bona, l. i, ii, iii, et fin., C. de sent. pass. Tamen restitutus non recuperat bona medio tempore in alium translata, quia illi est ius acquisitum, quod non praesumitur princeps tollere voluisse per restitutionem. Et istud etiam refert Iason in d. l. fina., de constitut. princip. Et ultra haec, et in locis hic allegatis deducta, pro hac regula facit communis conclusio Bart., Bal., Alex., Ias., Ruin., Gallian. et aliorum omnium moder. in d. l. Gallus, § et quid si tantum», in ALCIATUS 1582, IV, De praesumptionibus, Reg. III, Praes. XI, col. 825, 3. Per il commento di Bartolo a D. 28, 2, 29, 5, sintesi della communis opinio sulla garanzia dei diritti acquisiti dai terzi, vd. BARTOLUS 1562, II, In Infortiatum, f. 271B, 12-13. 278 ALCIATUS 1582, IV, cit., col. 825, 3. 279 Sull’opera vd. supra, nota 194.
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giunge che la medesima deduzione dovrà essere applicata anche qualora qualcuno sia riabilitato al recupero dei frutti eventualmente percepiti nel periodo intermedio. L’eventuale, mancata restituzione dei frutti, invece, sarà giustificata dalla loro percezione da parte del fisco. Si tratta di un’interpretazione favorevole all’interesse pubblico (qui rappresentato dal fisco), alla cui base Alciato pone il consueto monito a non allontanarsi mai dalla proprietà del linguaggio, quale garanzia di una corretta esegesi e di una precisa applicazione delle norme280. Infine, sarà interessante proporre la lettura di un passo già richiamato sopra (in tema di deportatio e mors)281, tratto dal commento a D. 37, 4 (De bonorum possessione contra tabulas)282, 1, 8, in relazione ai punti in cui Alciato si interroga sulle conseguenze della restitutio del deportato sullo ius adeundi haereditatis. Innanzitutto, come già osservato, il deportato e il morto non ostacolano il successivo nel grado della linea successoria, cosa che invece fa il riabilitato qualora la sua restitutio abbia avuto luogo prima della morte dell’avo. Diversamente, infatti, la riabilitazione non opererebbe in pregiudizio del diritto già trasmesso al terzo, come sostiene Bartolo nel suo commento a D. 28, 2, 29, 5. In modo analogo dovrà giudicarsi qualora il soggetto sia riabilitato e autorizzato a conservare i suoi diritti di parentela, perché in caso contrario risulterebbe un uomo ‘nuovo’, e non sarebbe più ammesso all’eredità. Ciò è sostenuto sempre da Bartolo, secondo il quale colui che è liberato dalla servitus poenae per semplice indulgenza non può beneficiare di quanto positivamente disposto dalla legge, e dunque non avrà accesso al legato convenzionale a lui frattanto (ed eventualmente) lasciato, dal momento che, nonostante la riabilitazione, il legato ormai estintosi è irrecuperabile283. Poco oltre, Alciato pone il deportato in connessione con il prigioniero, che può tornare in patria in virtù dello ius postliminii e prevalere così sui successivi nel grado: infatti, egli partecipa alla successione e ha speranza di esservi ammesso. Come si
280
ALCIATUS 1582, II, Commentaria, ad D. 50, 16, 21, coll. 1054-1055, 4. Vd. supra, pp. 74-75. 282 La Lectura in secundam partem Infortiati fu tenuta da Alciato ad Avignone (o meglio, a causa della peste, nella vicina sede di Noves) nell’anno accademico 1521-1522, e successivamente anche a Pavia, Bologna, Ferrara e nuovamente a Pavia. Il rinvio al cap. XV del libro VIII dei Parerga, presente nel commento a D. 30, 1, 55, consente di collocare la redazione del commentario alla seconda parte dell’Infortiatum successivamente all’edizione dei libri IV-X dei Parerga stessi. Alle edizioni abusive della lettura seguì l’edizione ufficiale curata da Francesco Alciato all’interno degli Opera omnia basileensi del 1571 (per tutto e per ulteriori approfondimenti vd. BELLONI 2016b, pp. 557-568 e pp. 814-815, 899, 910-911, 916, 926). Inoltre, si rinvia alle riflessioni esposte supra, par. II.1. 283 ALCIATUS 1582, I, Commentaria, ad D. 37, 4, 1, 8, col. 1265, 1-2. Per il commento di Bartolo a D. 28, 2, 29, 5 vd. e cfr. supra, nota 277. Per uno sguardo sulla servitus poenae si vedano MCCLINTOCK 2010 e BEGGIO 2020. 281
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sa, anche il deportato può essere riabilitato, ma come sottolinea Bartolo, la speranza di questa restitutio non è probabile, perché potrebbe aver luogo soltanto per grazia speciale, e dunque dipende dalla sola volontà del princeps o del senatus (ipotesi la cui realizzazione è da ritenersi impossibile). Inoltre, anche nel caso in cui una simile restitutio abbia luogo, il diritto già acquisito dal terzo non potrà più essere recuperato (come Bartolo ricorda nel suddetto commento a D. 28, 2, 29, 5). Diversa è invece l’ipotesi dello ius postliminii, che rientra nello ius commune e comporta il recupero di tutti i diritti (anche in pregiudizio di eventuali terzi), come se l’ex prigioniero fosse sempre rimasto nella comunità. Inoltre, anche il legato condizionale sarà dovuto una volta che sia avvenuta la restitutio e prima che la condizione si avveri, nell’ipotesi in cui la speranza di riabilitazione per il deportato si riveli probabile, e fin tanto che il legato sia conservato. Diverso sarà invece il caso del servus poenae, che a quel legato non avrà più diritto (sulla base di D. 35, 1, 59)284. Infine, non sarà superfluo ricordare l’ipotesi della restitutio dell’esule che abbia ucciso un altro esule (prevista dagli statuti quale premio per l’escluso che abbia in tal modo collaborato con la giustizia), per la quale si rinvia a quanto già esposto sopra285.
284
ALCIATUS 1582, I, cit., col. 1266, 9-10. Sul postliminium vd. infra, nota 430. Sulla disciplina del legato si vedano VOCI 1973 e TALAMANCA 1990, pp. 734-749 (ma anche le indicazioni bibliografiche presentate supra, nota 252). 285 Vd. supra, parr. I.3 e III.2.
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CAPITOLO IV LA RECEZIONE DELLE DOTTRINE MEDIEVALI SUL BANDO. GLI ISTITUTI DELLA DEPORTATIO E DEL BANNUM IV.1. SULLA DEPORTATIO I richiami espressi alla deportatio e alle questioni inerenti allo status deportati sono presenti nell’opera alciatea in modo diffuso, e l’istituto sembrerebbe essere preso in considerazione come sinonimo di esilio286. Tuttavia, non può certo trascurarsi l’attenzione costante di Alciato per la proprietas sermonis, che piuttosto indurrebbe a ritenere che l’umanista parli di deportatio e di deportati autonomamente, giustapponendo l’istituto all’esilio/bannum vero e proprio, nella consapevolezza della tradizionale comparazione fra i due istituti e del ruolo della deportatio in diritto romano, quale forma più grave di exilium287. In tal senso, la sensibilità storica di Alciato e il senso ‘romanistico’ delle sue ricerche trovano nei testi una valorizzazione estremamente chiara288. Una prima riflessione meritevole d’interesse, tratta dal commento a D. 28, 2 (De liberis et postumis), 29, 5, già più volte citato289, è dedicata dall’umanista alla differenza fra l’aquae et ignis interdictio e la deportatio, e alla presunta sostituzione della prima da parte della seconda. Sulla base della glossa aquae et ignis a D. 28, 2, 29, 5 e di D. 28, 1, 8, 1, Alciato si pone contro l’opinio communis, affermando che, posta l’ovvia differenza fra i due istituti, la deportazione non emerse in sostituzione di quell’interdictio. Infatti, nel testo di D. 28, 1, 8, 1 la deportatio è espressamente menzionata quale pena diversa
286
Lo si è affermato più volte supra, par. III.2, e ivi, nota 217. Si ricordi quanto esposto supra, par. I.1. Per uno studio sulla teoria della deportatio nella tradizione civilistica medievale si rinvia nuovamente a RIETHDORF 2016, pp. 33-91. 288 Lo si vedrà approfonditamente anche infra, capp. V e VI. 289 Sull’opera vd. supra, nota 220. 287
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dall’interdictio, così come in I. 1, 16, 2, dove i due istituti sono citati in disgiunzione attraverso un vel, che certamente suole essere posto fra nozioni diverse (come anche in D. 34, 5, 13, 3 e in C. 6, 31, 1, in relazione ad altri casi). Di ciò è possibile ricavare conferma anche da altre norme, dove in riferimento a ipotesi date la deportatio compare come pena sostitutiva dell’interdictio aquae et ignis (per esempio, in D. 48. 13, 3, in D. 48, 19, 2, 1 e in Nov. 22, 13). Ciononostante, non è provato in nessun luogo che tale sostituzione intervenga in qualsiasi caso. Piuttosto, sempre secondo le allegazioni presentate, dovrebbe sostenersi il contrario, non allontanandosi dalla proprietà dei vocaboli. Infatti, precisa Alciato, la congiunzione vel si sostanzia talvolta in un id est (come per esempio nel testo di C. 2, 3, 29 pr.)290. L’affermazione di una posizione contraria a quella communis (Ego sum in nova opinione contra omnes) merita particolare attenzione, sia perché accompagnata da considerazioni di carattere linguistico sul valore grammaticale della congiunzione vel, sia perché espressione dell’interesse storico di Alciato per il rapporto fra i due istituti di diritto romano291, soprattutto in riferimento al problema della sopravvivenza (o meno) dell’aquae et ignis interdictio. A quest’ultimo aspetto Alciato dedica subito dopo un breve approfondimento, dove ad assumere rilievo è un’altra forma di esclusione dalla comunità: la scomunica. Innanzitutto, l’umanista riporta l’opinione condivisa da Angelo degli Ubaldi, Alessandro Tartagni e Filippo Decio, secondo i quali la pena dell’aquae et ignis interdictio sopravvive ancora al loro tempo nel caso degli scomunicati (vale a dire, i giuristi ritengono che la scomunica abbia preso il posto dell’interdictio in ambito spirituale, come la deportazione lo ha fatto in quello civile), e ciò può dedursi da Ca. 11, q. 3, cc. 16-19 e dalla glossa a I. 1, 16, 2292. Di contro, nel suo commento a D. 48, 1, 2 Bartolo afferma che l’aquae et ignis interdictio è una pena capitale, e dunque è cosa diversa dalla scomunica, che è piuttosto una ‘cura’ (una poena medicinalis, come emerge da VI. 5, 11, 1). Sarà forse possibile equiparare le due pene in relazione a certi aspetti, ma nulla di più, e non potrà certo parlarsi di subentro della scomunica in luogo dell’interdictio (come visto sopra, in base alla
290 ALCIATUS 1582, I, Commentaria, ad D. 28, 2, 29, 5, col. 649, 16. Per la glossa aquae et ignis a D. 28, 2, 29, 5 vd. Corpus iuris civilis 1627, II, col. 422. 291 Non sarà superfluo ricordare che la deportatio si sostituì effettivamente all’aquae et ignis interdictio a partire dall’età di Traiano (vd. SANTALUCIA 1998, p. 251, e ID. 2013, pp. 108-109). 292 ALCIATUS 1582, I, cit., col. 649, 16. Il divieto di rapportarsi con lo scomunicato in qualsiasi possibile modo (espresso in Ca. 11, q. 3, cc. 16-19) è in tutto simile a quello previsto contro l’antico aqua et igni interdictus, e dunque contro il bannitus di età intermedia (vd. e cfr. infra, pp. 95-99). La glossa citata è la glossa Interdictum a I. 1, 16, 2, per la quale vd. Corpus iuris civilis 1627, V, Institutiones Iustiniani, col. 82.
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glossa a I. 1, 16, 2)293. Infatti, prosegue Alciato citando l’opinione di Giovanni da Imola, allo scomunicato non possono essere concessi né aqua né ignis, vale a dire, non gli si può prestare alcuna forma di soccorso, salvo si trovi in una condizione di necessità estrema (come può dedursi da Dis. 86, c. 21, ed è opinione sostenuta da Tartagni). Tuttavia, sembrerebbe che la legge e il canone non possano interdire qualcuno aqua et igni, poiché l’acqua e il fuoco sono per diritto naturale comuni a tutti (lo si ricava da I. 2, 1, 1), e ciò che è naturale non può essere eliminato per mezzo della legge, come si deduce da I. 1, 2, 11 e da Bartolo, che ricorda il principio nei suoi commenti a D. 48, 19, 17 e a D. 28, 1, 8, 1, oltre che nella sua Quaestio I, Lucanae civitatis. Ciononostante, Alciato suggerisce di seguire l’opinione di Jean Favre (Faber), che sulla base dello stesso testo di I. 1, 2, 11 ritiene che la legge possa proibire ciò che è di diritto naturale al fine di punire i vizi294.
293
«Tu adde, quod eam gl. in specie reprobat Bart. in l. ii, infra de publ. iud. Nam talis iurisdictio fit ad poenam, et est capitale, excommunicatio vero non est poena capitalis, et non fit ad poenam, sed ad medicinam, c. cum medicinalis, de sent. excom., lib. vi. Potes dicere, quod aequiparantur, quo ad aliqua», in ALCIATUS 1582, I, cit., col. 649, 16. Per il commento di Bartolo a D. 48, 1, 2 (riguardo alla natura della scomunica) vd. BARTOLUS 1562, III, In Digestum novum, f. 785A, 7-9. Dunque, la scomunica è una poena medicinalis, che a differenza della poena capitalis non è perpetua. Infatti, è volta a dissuadere l’excommunicatus dal peccare ancora e a correggerlo, affinché possa redimersi. Lo si evince da VI. 5, 11, 1 (fonte su cui Bartolo stesso fonda la sua argomentazione), dove si legge: «Quum medicinalis sit excommunicatio, non mortalis, disciplinans, non eradicans, dum tamen is, in quem lata fuerit, non contemnat: caute provideat iudex ecclesiasticus, ut in ea ferenda ostendat se prosequi quod corrigentis fuerit et medentis». 294 «Nam excommunicato non potest dari aqua, et ignis, per d. c. sicut cum similibus. Quod tamen fallit, secundum Imo. hic, quando talis excommunicatus esset in extrema necessitate. Quia tunc illi licitum est subvenire, c. pasce. lxxxvi, dist. quem etiam sequitur Alex. Sed videtur, quod lex et canon non possint interdicere aliquem aqua et igni. Nam aqua et ignis de iure naturali est communis omnibus, § et quidem naturali iure, Instit. de rerum divis. Sed naturalia per leges non tolluntur, § sed naturalia, Instit. de iure naturali, gen. et civil. facit, quod not. Bart. in l. quidam sunt servi poenae, primo, de poenis. Item Bar. in d. l. eius qui, § i supra tit. i, et in quaest. sua incipiente, statuto Lucanae civitatis. Solve ex not. per Ioan. Fab. in d. § sed naturalia. Potest enim lex ex causa, ut puniantur vitia, ea quae sunt iuris naturalis, prohibere», in ALCIATUS 1582, I, cit., coll. 649-650, 16. Nel suo commento a D. 48, 19, 17 Bartolo ricorda come i deportati non perdano ciò che rientra nello ius gentium, ma ciò che rientra nello ius civile, e riguardo ai banniti il giureconsulto rinvia alla sua Quaestio I, Lucanae civitatis (vd. BARTOLUS 1562, III, In Digestum novum, f. 915A). Nel suo commento a D. 28, 1, 8, 1, invece, Bartolo evidenzia come l’exbannitus non perda la testamenti factio di ius commune, ma solo lo ius proprium della città che lo ha bandito, e nel far ciò il giureconsulto rinvia nuovamente alla nota Quaestio I (vd. BARTOLUS 1562, II, In Infortiatum, ff. 242B-243A). Sulla Quaestio I vd. supra, par. I.1, e ivi, nota 15. Sull’opinione di Jean Favre in tema di modificabilità dello ius naturale (esposta nel suo commento a I. 1, 2, 11) vd. FABER 1557, f. 10vA, 2. Sull’acqua e sul fuoco quali elementi naturali essenziali per la vita umana vd. e cfr. le osservazioni esposte da Budé (infra, par. VII.1). Infine, sulla deportatio e sulle sue conseguenze su ea quae sunt iuris naturalis si rinvia nuovamente a RIETHDORF 2016, pp. 37-46.
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Alla suddetta glossa a I. 1, 16, 2 Alciato rinvia anche in sede di commento al capitolo X del titolo De officio iudicis ordinarii del Liber Extra295, elaborando più sinteticamente le medesime considerazioni appena esposte: dal testo della glossa si desume l’equiparazione della scomunica all’aquae et ignis interdictio, e conseguentemente anche alla deportazione. Le fonti allegate sono ancora una volta Angelo degli Ubaldi e Alessandro Tartagni (in relazione ai rispettivi commenti a D. 28, 2, 29), e il testo di Ca. 11, q. 3, cc. 16, 17, 18 e 19. Altrove, aggiunge Alciato, la glossa a X. 2, 28, 53 suggerisce invece l’equiparazione della scomunica alla relegazione296. Così, richiamandosi al diritto naturale (come già in tema di aequitas e di temperamento del rigor iuris297) e al diritto canonico, Alciato introduce digressioni sulla scomunica che rivelano l’importanza attribuita all’istituto nel più ampio dibattito sulla natura della deportatio e sui rapporti di questa con l’aquae et ignis interdictio. Come si vedrà, nella consapevolezza delle differenze di sostanza fra gli istituti, lo schema di argomentazioni parallele caratterizza anche i commenti di Zasius, quale espressione di un’analisi dialogica delle dinamiche dell’esclusione dalla comunità, civile o dei fedeli che sia298. Rinviando a quanto esposto sopra sulla relazione fra i concetti di deportatio e di mors (naturalis e civilis) e sulle loro conseguenze riguardo allo ius civile, allo ius gentium e allo ius naturale299, si propone la lettura di due ulteriori passi significativi, dove ad assumere rilievo sono le conseguenze della deportatio sull’arbitrato.
295 Nel corso del secondo anno d’insegnamento ad Avignone (1519-1520), quando era titolare della cattedra pomeridiana di diritto civile, Alciato tenne lezioni anche di diritto canonico. Le recollectae di queste lezioni comprendevano anche il commento al De praesumptionibus (X. 2, 23). È qui interessante evidenziare come proprio la rubrica e il capitolo X del De officio iudicis ordinarii (X. 1, 31), e così anche la rubrica e alcuni capitoli del De iudiciis (X. 2, 1), furono commentati nella prima parte dell’anno accademico 1519-1520. L’edizione delle Lecturae in Decretales fu pubblicata a Lione nel 1542 (per tutto e per ulteriori approfondimenti vd. BELLONI 2016b, pp. 529-531, 557-568 e pp. 802-804, 815, 837, 838). Inoltre, si rinvia alle riflessioni esposte supra, par. II.1. 296 ALCIATUS 1582, III, Commentaria, ad X. 1, 31, 10, coll. 700-701, 96. Per il commento di Angelo degli Ubaldi a D. 28, 2, 29 vd. DE UBALDIS 1580, ff. 25rB-30rA. Per il commento di Alessandro Tartagni a D. 28, 2, 29 vd. TARTAGNUS 1576, ff. 75rA-87rA. La glossa citata è la glossa Subtrahuntur a X. 2, 28, 53, per la quale (in tema di equiparabilità dell’excommunicatus al relegatus) vd. Decretales 1582, col. 950. 297 Vd. supra, par. III.2. 298 Vd. infra, par. VIII.2. 299 Vd. supra, par. III.3. Per quanto riguarda lo ius civile, si segnala la presenza di un altro passo d’interesse, tratto dal commento a D. 45, 1, 1. Lì Alciato afferma che il deportato non è capace di acquisire tramite legato, poiché perde quanto è di ius civile, e l’acquisizione tramite legato è di ius civile, come si deduce dai commenti di Bartolo a D. 49, 17, 17, e a D. 29, 2, oltre che da Dis. 1, c. 12 (vd. ALCIATUS 1582, II, Commentaria, ad D. 45, 1, 1, col. 32, 13). Per i commenti bartoliani allegati vd. rispettivamente BARTOLUS 1562, III, In Digestum novum, ff. 988B-989A, e BARTOLUS 1562, II, In Infortiatum, ff. 406A-458A.
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Il primo è tratto dal commento a D. 45, 1 (De verborum obligationibus)300, 44. Innanzitutto, Alciato pone un quesito: se l’arbitratore fosse deportato su un’isola, il compromesso da lui curato verrebbe forse meno? Sembrerebbe di sì, come d’altra parte verrebbe meno anche il mandato. Diverse saranno invece le conseguenze in relazione alle ultime volontà (per le quali Alciato rinvia implicitamente al suo commento a D. 50, 16, 68, come si vedrà poco più avanti, in queste pagine) e nell’ipotesi di scomunica. Infatti, la scomunica non determina il venir meno del compromesso, dal momento che agli scomunicati è riconosciuta una certa capacità contrattuale, soprattutto nell’interesse e per l’utilità altrui. Ugualmente deve giudicarsi in relazione agli esuli, chiamati banniti: essendo questi equiparati ai deportati, l’esilio dell’arbitratore non determina l’estinzione del compromesso. Ma qualora si tratti di esuli che possono essere impunemente offesi, in quanto considerati nemici pubblici, Alciato ritiene che il compromesso si estingua, dal momento che non è consentito avere rapporti con i nemici, né con i loro liberti301. A questo punto Alciato introduce una seconda quaestio: quid iuris nel caso in cui uno degli stessi partecipanti al compromesso sia allontanato in esilio? Bartolo ritiene che il compromesso debba venir meno e che il fisco, cui pervengono i beni degli esuli, non sia vincolato al giudizio dell’arbitratore (cosa che, peraltro, è opinio communis)302. Inoltre, in caso di morte di una delle parti del compromesso, l’erede di quest’ultima non sarà vincolato al compromesso stesso, e così neppure il fisco. Nonostante alcuni sostengano che all’atto della confisca dei beni del debitore qualunque obbligazione condizionale debba essere trasmessa al fisco, Alciato evidenzia come l’obbligazione di cui si tratta non sia soltanto condizionale, ma come sia anche legata alla persona. Infatti, il compromesso ha luogo in virtù di un diritto di amicizia, di gran fiducia, per così dire. Infine, sebbene Bartolo ritenga che le obbligazioni perfezionate si trasmettano al fisco, Alciato precisa che l’obbligazione in esame, cui l’esule è vincolato, non si trasmette al fisco proprio perché a causa dell’esilio non si era ancora perfezionata303. Dunque, allorché qualcuno debba qualcosa soltanto sotto condizione e con animus novandi si obblighi onestamente, e prima dell’avveramento della condizione sia deportato, la novazione dell’obbligazione
300
Sull’opera vd. supra, nota 198. ALCIATUS 1582, II, Commentaria, ad D. 45, 1, 44, col. 531, 9-10. Se la nota equiparazione degli esuli ai deportati mantiene la sua utilità nella soluzione di un problema giuridico dato, il riferimento esplicito ai banniti nemici pubblici rivela ancora una volta l’adesione piena alla teoria bartoliana sul bannum (vd. supra, par. I.1). Sui riferimenti espliciti al bannum e ai banniti vd. infra, par. IV.2. Per il commento di Alciato a D. 50, 16, 68, oggetto di rinvio interno da parte dell’umanista, vd. infra, p. 92. 302 ALCIATUS 1582, II, cit., col. 531, 11. 303 Ivi, col. 531, 11-12. 301
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non avrà luogo e lo stesso contratto, come se imperfetto, non si trasmetterà al fisco. Secondo Alciato ciò deriva dal fatto che il fisco, impossessandosi dei beni dei delinquenti, non succede come fosse un erede, né rappresenta la persona del condannato, ma ottiene solamente e semplicemente i beni (come si ricava dal commento di Bartolo a D. 49, 14, 1, 1). Inoltre, prima del perfezionamento del contratto quell’obbligazione è una sorta di facoltà personale e non rientra nel novero dei beni (lo si deduce dal consilium 157 di Bartolo e dal commento di Francesco Accolti d’Arezzo a D. 29, 2). Non appena la condizione avrà avuto luogo, in virtù della semplice promessa l’obbligazione verrà meno per diritto di novazione. Dunque, si trasmetterà certamente all’erede, ma non al fisco304. Il secondo passo dedicato ai rapporti fra deportatio e arbitrato è tratto dal commento a D. 50, 16 (De verborum significatione)305, 68. Anche in questo caso Alciato esordisce con un quesito: può forse compiersi qualcosa su arbitrato del deportato? Tutti ritengono sia possibile, salvo il mandato sia stato conferito prima della deportazione: in tal caso, infatti, si presume che le parti abbiano revocato il mandato in ragione del mutamento dello status dell’arbitratore. Tuttavia, ciò non ha luogo nell’ipotesi del testatore che abbia stabilito che una qualche decisione sia presa su arbitrato di Tizio. Infatti, dal momento che il testatore è morto, non può certo immaginarsi che egli avrebbe revocato il mandato a causa della deportazione di Tizio306. Peraltro, è opinione comune che quanto detto in relazione al deportato riguardi anche lo scomunicato, che appunto può essere arbitratore, salvo gli statuti prevedano che gli arbitrati abbiano un carattere giudiziale: infatti, esclusa la difesa, lo scomunicato è interdetto da qualsiasi atto giudiziario. Ciò vale anche per l’ipotesi di arbitrati giudiziali di ‘pronta esecuzione’, che hanno valore di sentenze307. Ancora una volta, il riferimento allo scomunicato arricchisce la riflessione alciatea, in linea con quella tendenza comune e consolidata ad associare l’excommunicatus al deportatus (e all’exul) in relazione a certe questioni giuridiche308.
304
ALCIATUS 1582, II, cit., col. 531, 12-13. Per il commento di Bartolo a D. 49, 14, 1, 1, dal quale risulta chiaro come nell’ipotesi di publicatio bonorum conseguente a un delitto (ipso iure o disposta da una sentenza) l’acquisizione dei beni da parte del fisco abbia luogo immediatamente, vd. BARTOLUS 1562, III, In Digestum novum, f. 967A. Per la lettura del consilium 157 di Bartolo vd. BARTOLUS 1562, V, Consilia, ff. 363A-364A (sopprattutto f. 363B, 2-3). Per il commento di Francesco Accolti d’Arezzo a D. 29, 2 vd. supra, nota 251. Sulla condizione (quale elemento accidentale del negozio giuridico) vd. ARCHI 1961; MAFFEI 1961; TALAMANCA 1990, pp. 248-261. Sulla novazione vd. ivi, pp. 647-653, e LAMBRINI 2006, ma anche GIARDINA 1978. 305 Sull’opera vd. supra, nota 194. 306 ALCIATUS 1582, II, Commentaria, ad D. 50, 16, 68, col. 1121, 5. 307 Ivi, col. 1121, 6-7. 308 Vd. supra, pp. 88-90, e infra, par. VIII.2 (per il contributo di Zasius).
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In tema di deportatio merita attenzione un ultimo passo, tratto dal commento a C. 2, 4 (De transactionibus)309, 18. Nell’ambito di considerazioni sul ratto, Alciato ricorda come la legge punisca con la pena della deportazione i genitori della donna rapita, qualora abbiano dimostrato tolleranza e non abbiano manifestato il dolore adeguato al caso, affinché non appaia che l’accusa al rapitore sia stata lasciata cadere gratuitamente o, peggio ancora, dietro pagamento. Inoltre, quanti ritengono che quei genitori siano puniti secondo il sc. Turpillianum o in ragione di presunto lenocinio si perdono in facezie, dal momento che la deportazione non è la pena prevista dal sc. Turpillianum, e nel caso suddetto non si presume neppure il lenocinio, che dovrà comunque essere punito con una pena altrettanto severa310. Dunque, nonostante altrove si legga della possibilità che il padre della donna rapita, in qualche modo persuaso, abbia perdonato l’offesa subita, o che il delitto sia stato tollerato (transmissum) in virtù di un accordo, Alciato precisa che non può sostenersi che il perdono o l’accordo abbiano avuto valore, certamente non per questa ragione. Inoltre, quel transmissum riferito al delitto significa più propriamente ‘trascurato’ (in ogni caso e di fatto). Se ne ha un esempio in Suetonio, nel capitolo X della Vita di Caligola, dove appunto si legge: Quae ipse pateretur incredibili dissimulatione transmittens311. Ad ar-
309
La lettura del libro I del Codex (in particolare del titolo De summa Trinitate et fide catholica) fu tenuta da Alciato verosimilmente nell’ambito delle lezioni canonistiche impartite ad Avignone nell’anno 1520. Infatti, il sistema universitario dell’epoca non prevedeva, fra le letture civilistiche, quella del libro I del Codex, e per il diritto civile Alciato era titolare della cattedra riservata alla lettura dell’Infortiatum e del Digestum novum. Il commento a C. 1, 1 (appunto, De summa Trinitate et fide catholica), cui Alciato aggiunse anche quello a C. 1, 2 (De sacrosanctis ecclesiis), era stato progettato al fine di ottenere un beneficio ecclesiastico grazie al sostegno e all’influenza di Francesco Calvo, che ne avrebbe curato l’edizione. Non essendo riuscito a ottenerlo, Alciato propose all’Amerbach di pubblicarlo insieme ad altre opere. Il libro II del Codex, invece, fu oggetto di lettura a Bourges, nell’anno accademico 1529-1530 (cattedra mattutina dedicata alla pars prima del Codex), in relazione ai titoli De edendo (C. 2, 1), De in ius vocando (C. 2, 2), De pactis – ‘bona pars’ (C. 2, 3) e De transactionibus (C. 2, 4). Alciato pensò subito di pubblicarne il commento, sia in considerazione dello stile personale inaugurato ad Avignone, con cui aveva condotto le suddette Lecturae, sia, con l’aggiunta dei commenti a C. 1, 1 e a C. 1, 2, nella speranza di conseguire il beneficio ecclesiastico da tempo agognato. La pubblicazione fu infine curata dal Gryphius a Lione, dove apparve nel 1530, con il titolo Ad rescripta principum Commentarii (per tutto e per ulteriori approfondimenti vd. BELLONI 2016b, pp. 557-568, 590, e pp. 808, 810-812, 818-819, 836-837, 889-892). Inoltre, si rinvia alle riflessioni esposte supra, par. II.1. 310 ALCIATUS 1582, III, Commentaria, ad C. 2, 4, 18, col. 312, 25. Sul sc. Turpillianum (i cui contenuti emergono da D. 48, 16) e sui senatus consulta più in generale si rinvia a VOLTERRA 1969, passim (pp. 78-79 in particolare per il sc. Turpillianum), e a ID. 2017. Si veda anche BUONGIORNO 2010. 311 ALCIATUS 1582, III, cit., col. 312, 25. La citazione di Suetonio corrisponde a SUET. Cal. 10, 2.
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ricchire il ragionamento alciateo sulla deportatio è in questo caso la citazione testuale di un autore classico, che consente all’umanista di fondare la propria interpretazione su un’analisi e un confronto testuali di natura diretta e accurata. È quell’attenzione per la proprietas sermonis cui si è già più volte accennato, e di cui si parlerà più approfonditamente nelle pagine che seguono312.
IV.2. BANNUM, UNA VOX VULGARIS L’attenzione per la proprietas sermonis è una delle caratteristiche più significative dello stile argomentativo di Alciato, che esorta costantemente il lettore a non allontanarsene mai313, e dalla cura per il dato testuale deriva una migliore comprensione e interpretazione delle fonti (come la citazione di Suetonio ha appena mostrato314). In tal senso, un ampio gruppo di passi alciatei, direttamente ed espressamente dedicati al bannum di ius proprium, offre numerosi esempi di come argomentazioni giuridiche e riflessioni linguistiche possano fondersi in un insieme armonico e peculiare. Il vocabolo bannum occorre nell’opera alciatea nella forma di una vox vulgaris, vale a dire, la variante in lingua volgare e di registro comune del vocabolo exilium, che sembra invece essere assunto a voce latina, tecnico-giuridica, indicante la pena dell’esclusione di un soggetto dalla civitas di appartenenza. Alla luce di questa premessa, il richiamo all’exilium non sembra derivare dall’identificazione dell’istituto medievale con quello classico (e viceversa), ma piuttosto dalla scelta ponderata (e tipicamente umanistica) di recuperare un latino chiaro ed elegante, quale appunto quello dei giuristi classici, assunto dall’umanista a modello di riferimento del suo stile espositivo315. Dunque, salvo esponga riflessioni di carattere spiccatamente storico sulla storia di Roma e sul suo diritto316, nell’interrogarsi sulle questioni legate agli exules Alciato ha sempre in mente i banniti del suo tempo, oggetto di un dibattito secolare ancora attualissimo nel primo XVI secolo317.
312
Oltre che al par. IV.2, si rinvia anche ai capp. V e VI. Lo si è già visto più volte supra, fra gli altri, par. IV.1. 314 Vd. supra, p. 93, e ivi, nota 311. 315 BELLONI 2016b, pp. 548-557. Sul punto è d’obbligo il rinvio a FIORELLI 2008, che cita i termini bannum e bando come esempi di vocaboli nuovi, propri dell’età medievale, nati quasi contemporaneamente in lingua latina e volgare (ivi, p. 31, e complessivamente, sulle influenze reciproche fra latino e volgare, pp. 28-33). Inoltre, l’autore richiama il gusto squisitamente umanistico del ritorno alla classicità, esprimentesi nella tendenza dei giuristi-umanisti a «rivestire d’una patina classica istituzioni del loro tempo» (ivi, p. 39, e complessivamente pp. 33-39). 316 Lo si vedrà soprattutto infra, cap. VI. 317 Vd. supra, parr. I.1 e I.4, oltre che le riflessioni esposte infra, in sede di Conclusioni. 313
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I riferimenti espliciti al bannum medievale presenti nell’opera alciatea si caratterizzano per una formulazione stereotipata, che allude sia all’attualità dei problemi connessi allo status banniti (occorre l’uso dell’avverbio hodie), sia al legame di Alciato con la tradizione dottrinale sul bando (già chiaro in ragione dei debiti nei confronti di Bartolo, e non solo, più volte evidenziati), oltre che al legame del bannum stesso con gli statuti comunali (ripetutamente citati). Schematizzando, gli elementi più tipici e rilevanti di questa formulazione possono essere ricondotti ai seguenti punti: a) la qualificazione dei vocaboli bannum e bannitus come voces vulgares rispettivamente di exilium e di exul; b) il riferimento agli statuti comunali (quale fonte principale del bannum) e alla lettera di quegli statuti; c) il riferimento all’equiparazione bartoliana del bannitus all’hostis publicus (civitatis suae) e alla possibilità che sia ucciso impunemente; d) la citazione costante della trattazione principe in tema di bannum: la Quaestio I, Lucanae civitatis di Bartolo. Gli esempi già incontrati sono molti, per lo più consistenti in brevi incisi di rinvio ai banniti dell’epoca (e nella comparazione di quelli con altri soggetti, come i deportati, in relazione a un problema giuridico dato)318. Tuttavia, altrettanto numerosi sono anche i passi in cui la riflessione di Alciato sullo status banniti e su certi profili della pena del bannum assume una manifestazione più articolata. Ciò posto, si propone la lettura di un primo passo, tratto dal commento a D. 45 (De verborum obligationibus)319, 1, 1. Propriamente, ‘parlare’ e ‘scrivere’ sono due cose diverse (lo si può notare nel testo di D. 31, 75 pr.). Tuttavia, si chiede Alciato, qualora lo statuto proibisca di parlare con il bannitus, il divieto dovrà forse essere esteso anche a colui che cerchi di comunicare con il bannitus per iscritto? Sulla base di D. 31, 75 pr. Baldo e altri rispondono comunemente in negativo. Infatti, se davvero la ratio del parlare e dello scrivere fosse la stessa, in forza di un’interpretazione estensiva quanto disposto dagli statuti potrebbe sempre essere inteso diversamente, soprattutto nell’ipotesi in cui, per altre ragioni, lo statuto possa essere facilmente eluso. Lo si evince dalla glossa a VI. 5, 5, 2 e dal commento di Tartagni a D. 45, 1, 1 (la cui opinione è peraltro condivisa)320. Tuttavia, lo stesso Tartagni riporta anche il caso dello statuto che,
318
A titolo esemplificativo, si ricordino i passi citati supra, note 200, 231, 242, 243 e 301. Sull’opera vd. supra, nota 198. 320 ALCIATUS 1582, II, Commentaria, ad D. 45, 1, 1, col. 34, 20. Per la glossa a VI. 5, 5, 2 vd. Liber Sextus… 1582, coll. 659A-663A. Per il commento di Alessandro Tartagni a D. 45, 1, 1 vd. TARTAGNUS 1552, ff. 1vB-3rB (soprattutto 19-25). 319
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punendo chi commette un delitto, punisce anche chi commette il delitto tramite un altro, in virtù della seguente ratio: chi agisce per iscritto (per esempio, per mezzo di un’epistola) è equiparabile a chi agisce ricorrendo a qualcun altro o a un nunzio, come sostiene Baldo nel suo commento a C. 4, 50, 6. Ciò posto, Alciato afferma che qualora lo statuto proibisca di ‘parlare’, nel divieto dovrà essere compreso anche lo ‘scrivere’: si tratta di un’interpretazione estensiva della legge penale. Infatti, la legge penale disposta contro chi agisce o contrae personalmente si estende anche a chi agisce o contrae tramite un nunzio, dal momento che, in quel caso, il dominus agisce proprie: le parole esprimenti la sua volontà sono concepite nella sua persona, e il nunzio è come una pica (vale a dire, una gazza, o donna pettegola), che si limita a riferire quelle parole. Diversamente, il procuratore concepisce la volontà in persona propria, come Bartolo afferma nel suo commento a D. 41, 3, 15 (peraltro seguito da Giovanni da Imola, nel suo commento al medesimo locus del Digesto, e da Tartagni, nel suo commento a D. 2, 2, 3, 1)321. Dunque, se la communis opinio ritiene che lo statuto possa comprendere nel significato di ‘parlare’ anche il ‘comunicare per mezzo di un nunzio’ (appunto, in ragione di un’interpretazione estensiva), Alciato evidenzia come nel caso in esame (lo scrivere a un bannitus) sia senz’altro e sempre compresa l’ipotesi del comunicare per mezzo di un nunzio. Infatti, anche nelle questioni penali il significato più ristretto di un vocabolo dev’essere esteso alla sua accezione più ampia322. Conseguentemente, Alciato ritiene debba essere condivisa l’opinione di Baldo, dal cui commento a C. 2, 4, 18 si evince come nell’interpretare gli statuti sia sempre necessario estenderne la previsione al caso caratterizzato da una maior ratio, pur se ciò comporti una comprensione impropria di quella previsione nella fattispecie considerata. Per esempio, lo statuto che punisce un ladro dev’essere esteso anche al rapinatore, che è ben più riprovevole del ladro; similmente, il mandante è più riprovevole del nunzio stesso, dal momento che delinque e fa delinquere l’altro contemporaneamente. Dunque, è corretto ritenere che lo statuto che si riferisce a chi parla con un bannitus debba
321
ALCIATUS 1582, II, cit., col. 34, 20-21. Per il commento di Baldo a C. 4, 50, 6 (in relazione all’equiparabilità fra l’agire personalmente e l’agire per iscritto o tramite un nunzio) vd. BALDUS 1556b, f. 133rA, 11. Per il commento di Bartolo a D. 41, 3, 15 (riguardo alla differenza fra nunzio e procuratore e all’agire, o al delinquere, per mezzo dell’uno o dell’altro) vd. BARTOLUS 1562, III, In Digestum novum, f. 246A-B, 57-62. Per il commento di Giovanni da Imola a D. 41, 3, 15 vd. IOANNES 1517, ff. 73vB-77rB. Per il commento di Alessandro Tartagni a D. 2, 2, 3, 1 vd. TARTAGNUS 1567, ff. 54vB-55vA. 322 «Secundo adverte, quia data communi opinione pro vera, quod statutum non compraehendat loquentem per nuncium nisi per extensionem, certe in casu nostro alloquens per nuncium semper compraehenderetur, quia etiam in poenalibus semper sit extensio de stricta significatione vocabuli ad latam», in ALCIATUS 1582, II, cit., coll. 34-35, 22.
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estendersi anche a chi col bannitus comunica per iscritto o per mezzo di un nunzio, in ragione del fatto che, in senso lato, ‘scrivente’ deriva dalla dizione ‘parlante’, e ‘facente per mezzo di un nunzio’ dalla dizione ‘facente’323. Infatti, la ratio è quella di ostacolare chiunque trami contro la res publica (come appunto colui che comunichi in qualsiasi modo con il bannitus, hostis publicus), cosa che giustifica sempre l’interpretazione estensiva dello statuto stesso, come argomentano Bartolo (nel suo commento a C. 11, 48 (47), 7), Baldo e Iacopo d’Arena (nei loro commenti a D. 28, 2, 29, 6). Ciononostante, la questione è molto controversa ed esula dal tema affrontato. Di conseguenza, Alciato avverte il lettore che non se ne occuperà in quella sede, e procede nell’argomentazione324 evidenziando un ulteriore aspetto. La norma oggetto di commento (appunto, D. 45, 1, 1) non conferma quanto sostenuto dai doctores sul problema d’interpretazione dello statuto in esame. Infatti, in tema di stipulatio il testo di D. 45, 1, 1 prescrive la necessità di un consenso simultaneo (mediante l’espressione utroque loquente), e allo stesso modo che le parti si ascoltino vicendevolmente: due requisiti che non possono essere soddisfatti dal solo scrivente. Inoltre, a sostegno di quell’opinione non può addursi neppure quanto espresso in D. 31, 75 pr., in tema di legato disposto dal miles a vantaggio della sorella, nella forma di un fedecommesso, dal momento che l’espressione ac si defunctus cum ea loquatur, ivi contenuta, si riferisce al fatto che l’epistola era stata consegnata quando il soldato era ancora in vita, ed era stata aperta dopo la morte di quello, cosa che rende improprio l’uso del verbo ‘parlare’. E qualora s’interpreti quell’espressione come riferentesi all’erede (come suggerisce la Glossa), il caso apparirebbe molto più chiaro, poiché quell’ipotesi potrebbe aver luogo soltanto in
323 «Et ita puto intelligendum quod not. Bal. licet non firmet, in l. transigere, in v. col., C. de trans., ubi in statutis semper sit extensio ad casum in quo est maior ratio, etiam si improprie compraehendatur, unde statutum puniens furem, extenditur ad raptorem, qui est improbior fure […]. In simili ergo improbior est mandans ipso nuncio, quia et ipse delinquit, et facit alium delinquere […]. Ibi, iustius est eum tenere […], unde semper statutum de loquente trahetur ad scribentem et mittentem nuncium, cum largo modo appellatione loquentis veniat scribens, ut infra dicam, et appellatione facientis veniat faciens per nuncium», in ALCIATUS 1582, II, cit., col. 35, 22. Per il commento di Baldo a C. 2, 4, 18 vd. BALDUS 1556a, ff. 113rA-114vA. 324 «Et istud tanto magis procedit in casu praedicti statuti, cuius ratio est ne aliquid machinetur contra rem publicam. Unde cum militet favor rei publicae videretur statutum illud semper extendendum, ut dicit Bar. in l. quemadmodum, C. de agric. et censi., lib. xi, et Bal. in l. Gallus, § quid si is, ff. de lib. et posth., de quo vide per Are. in d. § quid si is. Non attingo hic, quia est valde dubia quaestio, et non est suus locus», in ALCIATUS 1582, II, cit., col. 35, 22. Per il commento di Bartolo a C. 11, 48 (47), 7 (in tema d’interpretazione estensiva dello statuto a favore dell’interesse della res publica) vd. BARTOLUS 1562, IV, In duodecim libros Codicis, f. 921B, 4. Per il commento di Baldo a D. 28, 2, 29, 6 vd. BALDUS 1572b, f. 63vA, 3-6. Per il commento di Iacopo d’Arena a D. 28, 2, 29, 6 (che peraltro si sostanzia in una breve nota di rinvio) vd. DE ARENA 1541, f. 102vB.
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ragione di una fictio: la lex parla infatti di ‘discorso sostenuto con il fedecommissario, come se avesse avuto luogo con l’erede’325. Posto tutto ciò, Alciato riprende l’assunto iniziale e in linea con la communis opinio ritiene che il comunicare per iscritto non possa propriamente equipararsi al comunicare a voce, come si ricava da D. 33, 10, 7, 2, dove si legge nam et vocis ministerio utimur e, subito dopo, nemo existimandus est dixisse. Naturalmente, chi scrive non ha bisogno di utilizzare la voce: in tal senso, è possibile equiparare lo scrivere al parlare (lo si ricava da Clem. 1, 1, § Haec est, e da I. 2, 5, 6) ricorrendo a un’interpretazione particolarmente ampia del verbo ‘scrivere’, come avviene anche per il verbo audio in D. 1, 16, 6, 3, dove si legge audi quid sentiamus (espressione presente in una costituzione di Settimio Severo e Caracalla in tema di accettazione di doni da parte del proconsul), e così anche in Dis. 1, c. 73, de cons.326. A questo punto, Alciato introduce un’ultima riflessione. Contro la communis opinio sulla similitudine fra lo scrivere e il parlare con il bannitus si pone Socini, secondo il quale nel comunicare per iscritto o tramite un nunzio non sussiste la stessa ratio propria del comunicare oralmente. Infatti, sono molte le informazioni che non si osano trasmettere per iscritto o affidandosi a un nunzio. Dunque, non trattandosi della stessa ratio, bisognerà distinguere, e la disposizione dello statuto non dovrà essere interpretata estensivamente (e ciò sulla base di D. 18, 7, 5, di D. 4, 4, 20, di VI. 1, 6, 3, § Nulli, e di C. 3, 36, 2, dove l’attenzione dev’essere posta sulla congiunzione etiam, che, evidenzia Alciato, introduce un caso molto più dubbio)327. Questa opinione, conclude l’umanista, trova conferma nel fatto che a un giudizio (inteso come decisione) si perviene in modo ben più efficace attraverso parole espresse oralmente, piuttosto che per mezzo di un’epistola o di un nunzio (lo si evince da D. 4, 8, 27, 6 e da C. 1, 33, 5). Conseguentemente, è ipotizzabile che l’intenzione dello statuto in esame fosse appunto quella di punire una fattispecie molto pericolosa per la res publica, cosa che vieta l’estensione della norma al caso caratterizzato da una minor ratio. Tuttavia, dovrà seguirsi l’opinio communis fondata su D. 45, 1, 2, 2, testo dal quale Socini ricava la seguente regola: qualora sia introdotta una disposizione sulla base di una certa ratio, dovrà sempre ammettersene
325
ALCIATUS 1582, II, cit., col. 35, 22. In tema di fedecommesso vd. supra, nota 236. ALCIATUS 1582, II, cit., col. 35, 23. Se il rinvio a Clem. 1, 1, § Haec est si giustifica in ragione del valore delle Sacre Scritture (con riferimento specifico al Vangelo di Giovanni), non è del tutto chiaro il rinvio a I. 2, 5, 6, dove in realtà non compare il verbo scribo, né alcun riferimento all’equiparazione fra lo scrivere e il parlare. In Dis. 1, c. 73, de cons. non è presente il verbo audio, ma è probabile che Alciato volesse alludere all’oralità delle fasi caratterizzanti la liturgia. 327 ALCIATUS 1582, II, cit., col. 35, 24. Non è chiaro se il troncamento Soc. (presente nel passo citato) identifichi Mariano Socini maior, Mariano Socini iunior o Bartolomeo Socini (vd. e cfr. SELLA 1935, p. 174). 326
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l’estensione al caso simile, pur se questo si caratterizzi per una ratio di minor rilievo328. La lunga argomentazione sul bannum statutario, in relazione ai pericoli per la sicurezza pubblico-istituzionale derivanti dalle possibili forme di comunicazione con il bannitus-hostis, rivela così i profili di una sottile analisi del problema dell’interpretazione dello statuto, declinata secondo criteri restrittivi o estensivi329. Ulteriori riflessioni significative in tema di bannum, contumacia e legislazione statutaria (dove peraltro può apprezzarsi nuovamente quella tendenza a mitigare il rigor iuris delle norme statutarie di cui si è detto sopra330) sono contenute nella Praesumptio XXII della Regula III del De praesumptionibus tractatus331. Innanzitutto, Alciato pone una presunzione legata alla contumacia. La sentenza emanata contro l’assente deve presumersi emanata in ragione della contumacia stessa, e dunque non deve ritenersi che essa contenga una mala causa, vale a dire, una motivazione necessariamente negativa nel merito (appunto, per il solo fatto di essere una sentenza contumaciale), come Bartolo e altri sostengono nei loro commenti a D. 5, 2, 8, 14. In particolare, sulla base di D. 21, 2, 21, 2, nel suo commento a D. 45, 1, 49 Bartolo afferma che lo statuto che prevede una certa pena pecuniaria a carico della parte avente un figlio omicida non troverà applicazione nell’ipotesi di condanna contumaciale del figlio (per quell’omicidio), se e quando tale condanna derivi dal fatto che secondo la lettera dello statuto i contumaci devono essere considerati quali rei confessi e colpevoli (come per esempio può leggersi nella disposizione III posta nell’esordio dello statuto della Città di Perugia). L’opinione è diffusa, e in linea con essa si pongono Giason del Maino (nel
328
«Confirmatur ista opinio quia longe efficacius quis trahitur in sententiam per verba, quam per epistolam vel nuncium, arg. l. si quis praesens, ff. de arbit., et facit text. in l. uni., C. de offic. com. sac. pal. Unde videtur intentio statuti fuisse, ut puniret casum magis periculosum rei publicae. Ergo non est trahendum ad eum in quo est minor ratio. Tu tenendo communem, responde per text. in l. ii, § ex his igitur, infra eod., ubi Soc. not. quod quando aliquid introducitur ex aliqua ratione, semper sit extensio in simili casu, licet in eo non militet tanta ratio, de quo ibi dicam», in ALCIATUS 1582, II, cit., coll. 35-36, 24. 329 In particolare, ricorrendo alle categorie individuate da Calasso e da Sbriccoli sulla base della teorizzazione di Bartolo, a entrare in gioco è in questo caso la cosiddetta interpretazione ‘estensiva passiva’ dello statuto (ai casi contemplati dallo statuto si estendono altre norme), secondo ‘l’opzione per la lacuna’ (individuata la lacuna normativa, l’interprete interviene direttamente, suggerendo l’integrazione più opportuna). Sul punto vd. CALASSO 1970, p. 72 (con rinvio al commento di Bartolo alla lex Omnes populi (D. 1, 1, 9), per il quale vd. BARTOLUS 1562, I, In Digestum vetus, ff. 16A-25A), e SBRICCOLI 1969, soprattutto pp. 149-160 (in tema d’interpretazione dello statuto secondo l’opzione per la lacuna), pp. 209-322 (in tema di extensio e restrictio nell’interpretazione dello statuto), e pp. 422-442 (in tema d’interpretazione estensiva, attiva e passiva, dello statuto e del suo rapporto con lo ius commune). 330 Si ricordino le riflessioni esposte supra, par. III.2. 331 Sull’opera vd. supra, nota 275.
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suo consilium 189) e Pier Filippo della Cornia (nel suo consilium 143)332. In altre parole, Alciato sottolinea la necessità di non attribuire alla contumacia una connotazione negativa, aggravante la condizione dell’imputato, per quanto gli statuti prescrivano l’equiparazione della contumacia stessa alla confessione (in virtù di una fictio, che giustifica l’emanazione di una sentenza di condanna). Sulla base di questa tesi, Alciato procede nel ragionamento e ricorda quanto esposto da Baldo nel suo commento a C. 4, 21, 21. Nell’ipotesi di falsificazione parziale di un instrumentum a opera del notaio, l’intero instrumentum sarà considerato nullo. Ma se sarà inficiato da quella falsificazione in forza di una condanna contumaciale (secondo lo statuto di cui sopra), le restanti parti dell’instrumentum saranno mantenute333. A ciò si aggiunge quanto evidenziato da Alberico da Rosciate nel suo commento a D. 3, 1, 9: qualora un bannitus abbia commesso un delitto comportante infamia, anche quando egli si troverà fuori dal territorio in cui l’ha commesso e dal quale è stato espulso l’infamia lo seguirà sempre, come la lebbra segue sempre il lebbroso. Diversamente, qualora il bannitus sia stato considerato reo di quel delitto in ragione della contumacia (e dell’equiparazione di questa alla confessione), egli non sarà infame neppure nel territorio dal quale è stato bandito, come più ampiamente evidenzia Bartolo nel suo commento a D. 3, 2, 22, oltre che Tartagni nel suo consilium 114334. Ma in riferimento a questo aspetto, sottolinea Alciato, ad assumere rilievo è anche un’ulteriore
332
ALCIATUS 1582, IV, De praesumptionibus, Reg. III, Praes. XXII, coll. 846-847, 1-2. Nel commento di Bartolo a D. 5, 2, 8, 14 si legge «Tertio nota quod sententia quae fertur contra absentem videtur magis lata ratione contumaciae, quam quod malam causam habeat, quod facit ad multa», in BARTOLUS 1562, I, In Digestum vetus, f. 392B, 3. Per il commento di Bartolo a D. 45, 1, 49 vd. BARTOLUS 1562, III, In Digestum novum, ff. 470B-471B, soprattutto 3 e 5. Per il consilium 189 di Giason del Maino vd. MAYNUS 1544, ff. 62vB-63vB. Sulla figura di Giason del Maino vd. DI RENZO VILLATA 2013a e DEZZA, COLLOCA 2020. Per il consilium 143 (del volume II dei Consilia) di Pier Filippo della Cornia vd. CORNEUS 1582, II, f. 170rA-B, 8. Sulla figura di Pier Filippo della Cornia vd. FALASCHI 1988 e PANZANELLI FRATONI 2013. 333 ALCIATUS 1582, IV, cit., col. 847, 3. Non è chiaro a quale giurista Alciato rinvii con il troncamento Rimi. presente nell’allegazione sequitur Rimi. in l. si ex falsis, C. de transa. (C. 2, 4, 42, vd. ibid.). Si potrebbe ipotizzare un riferimento ad Agostino Bonfranceschi (da Rimini), ma di quest’ultimo, almeno allo stato attuale della ricerca, non sono noti commenti al Codex (vd. e cfr. PINI 1971 e MAFFEI 2013b). Per il commento di Baldo a C. 4, 21, 21 vd. BALDUS 1556b, ff. 68rA-68vA. 334 «Tertio facit ad id quod notat Albe. de Rosa. in l. ex ea, ff. de postu., ubi si aliquis bannitus commisit delictum irrogans infamiam, etiam quod tendat extra territorium, tamen semper eum infamia sequitur, sicut lepra leprosum. Si vero non constat de illo delicto nisi per contumaciam, non erit infamis neque in ipso territorio, prout latius firmat Bar. in l. ictus fustium, ff. de his qui no. infa., Alex consi. cxiiii, in ii vol.», in ALCIATUS 1582, IV, cit., col. 847, 3-4. Per il commento di Alberico da Rosciate a D. 3, 1, 9 (riguardo al bando e alla relativa infamia) vd. ALBERICUS 1585a, f. 186vB, 2. Per il commento di Bartolo a D. 3, 2, 22 (sempre riguardo all’infamia che colpisce il bandito) vd. BARTOLUS 1562, I, In Digestum vetus, ff. 247B-248A, 8. Per il consilium 114 (del volume II dei Consilia) di Tartagni vd. TARTAGNUS 1549, II, f. 78rA.
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ratio. Il bannitus è considerato tale in forza dello statuto piuttosto che della sentenza, che è la legge derivante da un giudizio pubblico. In tal senso, tutti gli statuti sono leggi derivanti da giudizi privati (come si ricava dai commenti di Baldo, Angelo degli Ubaldi, Bartolomeo da Saliceto e Ludovico Pontano a C. 6, 22, 2 pr., peraltro concordi con quanto esposto da Pier Filippo della Cornia nel suo consilium 42) e i banditi di questo genere non sono considerati infami e non rientrano nella previsione di D. 3, 2, 1 (legge che interessa i condannati tramite giudizio pubblico)335. Pertanto, il bandito a norma di statuto non è infame, perché lo statuto è norma di carattere, per così dire, privato. Tuttavia, nel caso in cui lo statuto sancisca una pena per un delitto previsto dal diritto comune (che invece è di natura pubblica) anche quella pena sarà pubblica, e dunque infamante. Ne deriva che secondo i doctores i beni di tali condannati (appunto, i banniti a norma di statuto) non devono essere attribuiti al fisco come conseguenza della condanna stessa (lo sostiene anche Angelo degli Ubaldi, nel suo commento a C. 9, 49, 10). In linea con tutto ciò si pone anche Francesco Accolti d’Arezzo, che nel suo commento a D. 28, 1, 8 evidenzia come quand’anche lo statuto imponga una nuova pena per un crimine pubblico, non per questo il relativo giudizio cesserà di essere pubblico (lo si ricava dal commento di Bartolo a D. 48, 1, 1), e lo statuto sostituirà lo ius commune e ne avrà gli stessi effetti. Dunque, è preferibile questa ratio di tutela dei condannati in contumacia, giacché il disposto di D. 3, 2, 1 intende per condannato chi sia veramente tale (e solo una condanna vera e propria può irrogare infamia), e non in forza della fictio regolata dallo statuto che equipara la contumacia alla confessione (sull’esempio di D. 3, 5, 3, 6)336. Proseguendo nell’argomentazione, Alciato pone l’esempio dello statuto che voglia punire un danno, caso nel quale è innanzitutto necessario valutare se si tratti di un danno dato e non fittiziamente derivante dalla contumacia dell’accusato (lo segnala Raniero Arsendi, che nel suo commento a D. 29, 5, 2 riporta e segue l’opinione espressa da Baldo nel suo commento a C. 8, 4, 9). Inoltre, qualora la sentenza sia stata
335 «Et ultra praedictam rationem assignatur alia ratio, quia talis censetur bannitus potius vigore statuti, quam ex lege publici iudicii, ex quo omnia statuta sunt leges privatorum iudiciorum, secundum Bald., Ang., Sal. et Rom. in l. ii, C. qui test. fac. poss., cum concord. per Corn. consi. xlii, in i vol., unde tales non censentur infames, nec continentur in l. i, ff. de his qui not. infam., quae lex loquitur de damnatis ex publico iudicio», in ALCIATUS 1582, IV, cit., col. 847, 3-4. Per i commenti di Baldo, Angelo degli Ubaldi, Bartolomeo da Saliceto e Ludovico Pontano a C. 6, 22, 2 pr. si vedano rispettivamente BALDUS 1556c, f. 55rB-55vB; DE UBALDIS 1579, f. 146rA; BARTHOLOMAEUS 1560, f. 96vB; PONTANUS 1547, f. 56rA-56vA. Per il consilium 42 (del volume I dei Consilia) di Pier Filippo della Cornia vd. CORNEUS 1582, I, f. 49vB, 1-3. 336 ALCIATUS 1582, IV, cit., col. 847, 4. Per il commento di Angelo degli Ubaldi a C. 9, 49, 10 vd. DE UBALDIS 1579, ff. 278rB-278vA. Per il commento di Francesco Accolti d’Arezzo a D. 28, 1, 8 vd. DE ACCOLTIS 1538, ff. 180vB-182rA. Per il commento di Bartolo a D. 48, 1, 1 vd. BARTOLUS 1562, III, In Digestum novum, f. 783A-B, 11-12, e f. 783B, 15.
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emanata in ragione di argomenti giudicati quali confessioni a causa della contumacia, alla parte sarà concesso di provare il contrario. Si dovrà invece procedere diversamente qualora la sentenza sia stata emanata sulla base di una confessione autentica (lo si desume dal commento di Antonio da Budrio a VI. 2, 9, 2, dalla glossa a X. 5, 34, 8, dal commento di Giovanni da Imola a D. 49, 1, 28, 1 e dal consilium 147 di Francesco Accolti d’Arezzo)337. In riferimento alla sentenza emanata a causa della contumacia, Alciato aggiunge che questa non genera alcun pregiudizio in un’altra causa parallela, anche qualora le parti siano le medesime (lo si evince da D. 49, 14, 2, 1 e da D. 49, 14, 29), cosa che invece accade qualora la sentenza sia stata emanata in virtù di una mala causa, come affermano Baldo (nel suo commento a C. 2, 1, 2) e Pier Filippo della Cornia (nel suo consilium 211). Ad ogni modo, anche nell’ipotesi di pregiudizio di altre cause parallele la sentenza non pregiudicherà mai il terzo (lo si desume da D. 5, 2, 17, da D. 21, 2, 21, 2, dalla glossa a I. 4, 8, 7, dal già citato commento di Bartolo a D. 45, 1, 49 e dal commento di Baldo a C. 4, 13, 1)338. A questo punto, Alciato torna all’assunto iniziale, e afferma che se non si deve presumere che la condanna irrogata contro l’assente derivi da una mala causa, ma appunto e semplicemente dalla contumacia, una vera e propria presunzione di mala causa sussiste invece contro chi abbia cercato di evitare il giudizio mediante rinvii339. Inoltre, merita attenzione quanto può dedursi dal commento di Baldo a C. 6, 24, 1: nel caso in cui qualcuno sia stato bandito in contumacia per un dato crimine, anche se in seguito sarà ammesso a nuove difese, su di lui sussisterà comunque una certa suspicio delicti. Dunque, anche in assenza di ulteriori indizi, quel bandito
337
ALCIATUS 1582, IV, cit., col. 847, 5. Non è stato possibile reperire un’edizione delle annotazioni di Raniero Arsendi all’Infortiatum, dal momento che, almeno allo stato attuale della ricerca, sembrerebbero essere ancora inedite (vd. e cfr. ABBONDANZA 1962 e MELLUSI 2013). Per il commento di Baldo a C. 8, 4, 9 vd. BALDUS 1556d, f. 150vB (dove l’edizione presenta un refuso, collocando il commento in corrispondenza del libro VII invece che dell’VIII). Per il commento di Antonio da Budrio a VI. 2, 9, 2 vd. ANTONIUS 1575, ff. 124B-125B. Per la glossa a X. 5, 34, 8 vd. Decretales 1582, coll. 18391840. Per il commento di Giovanni da Imola a D. 49, 1, 28, 1 vd. IOANNES 1518, ff. 176vA-178rB. Per il consilium 147 di Francesco Accolti d’Arezzo vd. DE ACCOLTIS 1546, f. 99rB-99vB. 338 ALCIATUS 1582, IV, cit., coll. 847-848, 6. Per il commento di Baldo a C. 2, 1, 2 vd. BALDUS 1556a, ff. 78rB-79vA. Per il consilium 211 (del volume III dei Consilia) di Pier Filippo della Cornia vd. CORNEUS 1582, III, f. 235rA-B. Per la glossa a I. 4, 8, 7 vd. Corpus iuris civilis 1627, V, Institutiones Iustiniani, coll. 543-544. Per il commento di Bartolo a D. 45, 1, 49 vd. supra, nota 332. Per il commento di Baldo a C. 4, 13, 1 vd. BALDUS 1556b, f. 26rA-26vB. 339 «Declaratur supradicta praesumptio, ut licet talis contumax non praesumatur succubuisse propter malam causam, sed propter contumaciam, habeat tamen contra se etiam aliquam praesumptionem malae causae argu. ca. nullus, infra eod., ubi praesumitur contra eum qui dilationibus quaerit subterfugere iudicium», in ALCIATUS 1582, IV, cit., col. 848, 6. Non è chiaro a cosa faccia riferimento l’allegazione argu. ca. nullus infra eod. (forse al commento di Baldo a C. 4, 13, 1, citato nella nota precedente).
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potrà essere torturato (lo si desume da C. 9, 41, 8 e da D. 48, 17, 2 e 3), e ciò, conclude Alciato, lo si nota comunemente nella pratica340. Nel loro complesso, le suesposte riflessioni sulla contumacia quale causa del bannum, sull’infamia accessoria alla relativa condanna, sulla legislazione statutaria e sui problemi legati alla sua interpretazione danno ulteriore prova del legame di Alciato con la dottrina di ius commune, e così di quella tendenza a tutelare il bannitus già più volte ricordata341. In linea con quel legame si pongono anche argomentazioni in cui Alciato torna a porre la sua attenzione sulla scomunica. Come visto sopra (discorrendo di deportatio e di aquae et ignis interdictio)342, in tema di bannum e di banniti la scomunica acquista un rilievo altrettanto significativo quale termine di confronto del bando (nella consapevolezza dell’impossibilità di una pura equiparazione fra i due istituti, a suo tempo sancita da Bartolo nel suo Tractatus bannitorum)343. In tal senso, una prima, interessante riflessione è quella elaborata da Alciato in sede di commento a X. 2, 1 (De iudiciis)344, 7. Nel suo commento a X. 1, 3, 26 Baldo afferma che per quanto chiunque sia tenuto a militare nell’esercito, tale obbligo non interessa i banniti, dal momento che sono soggetti inabilitati. La validità di questa posizione trova conferma in D. 27, 1, 8, 9, testo sulla base del quale può sostenersi che a essere respinto sia generalmente il bannitus, non lo scomunicato (infatti, è il bannum a determinare l’espulsione dalla civitas), e lo si può dedurre anche dalla glossa a D. 4, 4, 20. Parimenti, ai fini del giudizio, la scomunica non sarà di aiuto allo scomunicato, quasi fosse, per così dire, una forma d’inabilitazione giustificante una tutela privilegiata in sede processuale. Di contro, la formale inabilitazione subita dal bannitus in ragione del bando meriterà in quella sede una considerazione diversa (come può evincersi da D. 27, 1, 44, 3)345.
340 «Et facit illud quod notabiliter dicit Bal. in l. i, C. de haer. inst., ubi si aliquis sit bannitus in contumaciam pro aliquo crimine, deinde admittatur ad novas defensiones, suberit tamen contra eum aliqua suspicio delicti, et propterea, etiam sine alio indicio, poterit torqueri, argu. l. milites, C. de quaest., l. ii et iii, ff. de requir. reis., quod nota in practica», in ALCIATUS 1582, IV, cit., col. 848, 6-7. Per il commento di Baldo a C. 6, 24, 1 vd. BALDUS 1556c, ff. 66vB-68vA (per quanto qui d’interesse, soprattutto f. 67vB, 13). 341 Sul punto vd. le riflessioni esposte supra, parr. I.1-I.4. 342 Vd. supra, par. IV.1. 343 Vd. supra, par. I.1. 344 Sull’opera vd. supra, nota 295. 345 ALCIATUS 1582, III, Commentaria, ad X. 2, 1, 7, col. 767, 26. Nel commento di Baldo a X. 1, 3, 26 si legge: «[...] banniti non teneantur ire in exercitum, quia sunt inhabilitati, cum non liceat eis ingredi civitatem, nec in publico comparere», in BALDUS 1585, f. 41vA. La glossa citata è la glossa Exuli a D. 4, 4, 20, ma il riferimento testuale di Alciato interessa una nota posta a margine, in corrispondenza del sostantivo procuratorem. Ivi, sull’equiparabilità fra bannitus ed excommunicatus nel caso di specie, si legge appunto: «Procuratorem exul dare potest, ut hic. Idem in bannito, et excommunicato quoad defensionem», in Corpus iuris civilis 1627, I, col. 520.
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Un secondo passo meritevole di attenzione, tratto dal commento a X. 1, 31 (De officio ordinarii)346, 1, è invece dedicato al bando e ai rapporti fra le giurisdizioni secolare ed ecclesiastica. Innanzitutto, Alciato afferma che come il giudice secolare è tenuto a collaborare con quello ecclesiastico, così anche quest’ultimo deve collaborare con il primo (come si evince da VI. 2, 12, 2, capitolo sul quale si sono pronunciati diversi doctores), e si tratta di un principio valido anche qualora l’intervento del braccio secolare sia espressamente richiesto. Conseguentemente, nel caso in cui qualcuno sia stato bandito dal giudice secolare dovrà essere considerato bandito anche da parte del giudice ecclesiastico. Infatti, dal momento che le giurisdizioni ecclesiastica e civile sono vicendevolmente legate da un ‘patto di collaborazione’, ciascun giudice deve respingere il proscritto da parte del collega (e viceversa), come può dedursi da D. 49, 15, 7, 2, norma che Bartolo cita specificamente nel suo commento a D. 42, 1, 15347. Peraltro, la Chiesa è indistintamente titolare di giurisdizione nel far sì che i fedeli evitino il peccato (lo di deduce da X. 2, 1, 13), ma banditi e condannati sono espulsi proprio in ragione della loro inobbedienza all’autorità, e dunque del loro peccato (lo si ricava da Ca. 11, q. 3, c. 97 e da X. 1, 33, 2). A sostegno di ciò si pone anche Domenico da San Gimignano, che nel suo commento a VI. 2, 12, 2 evidenzia come il giudice ecclesiastico non debba applicare la sentenza del giudice secolare prima di aver accertato in via pregiudiziale il peccato del reo348. Il passo è estremamente interessante e suggerisce un’ipotesi interpretativa. Fra le righe della riflessione alciatea sembra leggersi il portato di quella mentalità nuova e diffusa che Prodi ascrive all’Europa dei secoli XV-XVI, mentalità nella quale il diritto canonico (ormai secolarizzato e positivizzato) e il diritto secolare tendono a convergere, sullo sfondo di un dialogo tra i fori, ecclesiastico e civile, sempre più intenso, oltre che del dibattito sul rapporto fra la coscienza soggettiva e la legge (e dunque sull’obbligatorietà o meno in quella coscienza di leggi e statuti,
346
Sull’opera vd. supra, nota 295. «Tertia conclusio est: sicut iudex saecularis tenetur adiuvare ecclesiasticum, ita etiam econtra, facit c. fin., infra de except. in vi, per Host., Bal., Abb. et alios hic. Et istud procedit etiam contra casus, in quibus imploratur brachium saeculare. Et ex hoc infertur, quod si aliquis sit exbannitus a iudice saeculari, debet haberi etiam pro exbannito ab ecclesiastico. Confirmo istam opinionem primo, quia cum ecclesiastica et civilis iurisdictiones sint invicem confoederatae, unus iudex debet vitare proscriptum ab alio, ut est text. in l. non dubito, in fin., ff. de capt., quem ad hoc singulariter allegat Bartol. in l. a divo Pio, § i, ff. de re iud., ubi late moderni», in ALCIATUS 1582, III, Commentaria, ad X. 1, 31, 1, col. 663, 121. Per il commento di Bartolo a D. 42, 1, 15 vd. BARTOLUS 1562, III, In Digestum novum, ff. 283A-285A. 348 ALCIATUS 1582, III, cit., col. 663, 122. Per il commento di Domenico da San Gimignano a VI. 2, 12, 2 vd. DOMINICUS 1578, f. 156vB. Su X. 2, 1, 13 vd. PENNINGTON 2003. 347
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ecclesiastici e civili)349. Come evidenziato dallo stesso Prodi, la pluralità degli ordinamenti propria del mondo giuridico-politico europeo di età intermedia si traduce nella loro sovrapposizione nell’esercizio della giurisdizione (sui sudditi/fedeli), in un intreccio fitto tra le dimensioni, per così dire, ‘normative’ che in quella pluralità entrano in gioco: il peccato, il diritto canonico (contenzioso e penale), il diritto secolare (civile e penale). Nel percorso di formazione dello Stato moderno, in un’epoca in cui peccato e reato non sono ancora perfettamente distinguibili, l’autorità centrale tende a ‘criminalizzare il peccato’, facendo sì che la legge (sotto pena di peccato mortale) vincoli i sudditi anche nel foro interno delle loro coscienze, delle quali lo Stato tende così ad assicurarsi il controllo350. Sulla base di questa interpretazione, se la distinzione netta tra i fori (interno ed esterno, e dunque fra legge morale e civile) emergerà solo più tardi e lentamente, dall’opera alciatea sembrano delinearsi i profili di una fase di transizione, nella quale gli elementi propri della mentalità diffusa (nel caso di specie, la convergenza fra peccato e reato, e dunque tra i fori giurisdizionali) si associano agli elementi propri di un pensiero ancora in formazione (che, per esempio, come visto sopra sulle conseguenze in conscienza derivanti dall’uccisione del bandito, tende a giustificare l’inosservanza delle leggi civili lesive dell’ordine morale351), in un contrasto che in realtà è solo apparente. In tal senso, alla luce della selezione di passi qui presentata, il rilievo attribuito da Alciato alle dinamiche di collaborazione fra le due giurisdizioni non sorprende affatto, e acquista una migliore comprensibilità. Proseguendo nell’argomentazione, dopo aver trattato dell’ipotesi di rifiuto di collaborazione di un giudice nei confronti dell’altro352, Alciato si chiede appunto
349 Come già visto supra (p. 66, e ivi, nota 205), si tratta di considerazioni elaborate da Prodi nel suo studio sulla storia della giustizia, al quale è d’obbligo il rinvio per un approfondimento dei temi qui menzionati (vd. PRODI 2000, pp. 193-201 per quanto qui sintetizzato, ma più in generale i capp. III e IV, pp. 107-217). Si vedano anche MINNUCCI 2011 (soprattutto pp. 55-86) e le indicazioni bibliografiche di cui supra, note 205 e 206. 350 PRODI 2000, pp. 107-108, 129-132, 169-171, 202-217. Ivi, p. 202, Prodi evidenzia come sull’obbligatorietà in coscienza della legge, sotto pena di peccato mortale, sia lo stesso Alciato a pronunciarsi. Infatti, in sede di commento a X. 2, 24, 28 Alciato scrive: «Sed in casu nostro non est statutum quod annullet iuramentum, sed lex canonica, imo potius divina, quae vult, quod subditi obediant legi alias peccent, d. c. ii», in ALCIATUS 1582, III, Commentaria, ad X. 2, 24, 28, col. 870, 104 (vd. e cfr. PRODI 2000, p. 200, nota 93). Alla base della nuova mentalità, evidente e costante è il richiamo alle parole di san Paolo (ivi, p. 205). Infatti, in Rom. 13, 1-2 si legge: «Omnis anima potestatibus sublimioribus subdita sit. Non est enim potestas nisi a Deo: quae autem sunt, a Deo ordinatae sunt. Itaque, qui resistit potestati, Dei ordinationi resistit. Qui autem resistunt, ipsi sibi damnationem acquirunt» (vd. Novum Testamentum 1950, p. 511). 351 Vd. supra, note 205 e 206, per le relative indicazioni bibliografiche. 352 Per il testo dell’argomentazione vd. ALCIATUS 1582, III, Commentaria, ad X. 1, 31, 1, col. 663, 123-124.
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quale sia il genere di collaborazione che la giurisdizione ecclesiastica deve garantire nei confronti di quella secolare, e viceversa. Sul punto sussiste l’opinione del Panormitano: il vescovo deve aiutare la giurisdizione secolare mediante la scomunica, e la giurisdizione secolare deve aiutare il vescovo mediante i bandi e le relegazioni353. Più in dettaglio, precisa l’umanista, dal momento che in virtù di questa collaborazione la causa diviene di competenza della giurisdizione adiuvans (vale a dire, di quella che interviene per prima, prestando aiuto all’altra), questa non dovrà esercitare le sue funzioni in modo più severo di quanto farebbe se giudicasse in ragione della sua competenza diretta. Dunque, il vescovo infliggerà la scomunica solo dopo l’accertamento pregiudiziale dell’inobbedienza del reo (come evidenzia Domenico da San Gimignano nel suo commento a VI. 2, 12, 2) e della natura del delitto (vale a dire, se sia tale da giustificare o meno la pena della scomunica), e soltanto dopo aver rivolto un primo ammonimento (come si desume da X. 2, 1, 13, e da quanto sostenuto da Baldo e da altri in relazione a X. 1, 31, 1). Specularmente dovrà procedere la giurisdizione secolare, nell’ipotesi del soggetto dichiarato contumace dinanzi al vescovo. In tal caso, infatti, la giurisdizione secolare relegherà il contumace su richiesta del vescovo, o gli invierà i propri ausiliari affinché possa procedere alla missio in possessionem (la c.d. tenuta) in seguito all’emanazione del primo decreto (vale a dire, al sequestro dei beni del contumace in vista del loro pignoramento e della loro soggezione alla procedura concorsuale a soddisfazione dei creditori, nell’ipotesi di persistenza della contumacia del debitore insolvente, peraltro soggetto al bando civile nell’ipotesi di assenza di beni su cui effettuare la missio in possessionem stessa), come è opinione dei doctores in relazione a D. 2, 1, 12354. Breve, ma significativo, è anche il richiamo alla possibilità di reiterare il bando (menzionata da Bartolo nel suo commento a D. 39, 1, 5, 16), che Alciato formula
353 «Secunda quaestio est, quo genere auxilii debeat alter alterum iuvare. Et Abb. hic sentit, quod episcopus debet adiuvare saecularem per viam excommunicationis, saecularis vero adiuvabit episcopum per banna et relegationes», in ALCIATUS 1582, III, cit., col. 663, 125. 354 Ivi, coll. 663-664, 125. Per il commento di Domenico da San Gimignano a VI. 2, 12, 2 vd. supra, nota 348. Per il commento di Baldo a X. 1, 31, 1 vd. BALDUS 1585, ff. 112vB-113vA. Posto quanto accennato supra, par. I.2, sull’ipotesi di bando in causa civile (propter contumaciam), per una sintesi della procedura di missio in possessionem (ex primo decreto) a danno del debitore insolvente, convenuto e contumace (ed eventualmente bandito) nel processo civile si vedano CAVALCA 1978, pp. 159-168, e PADOA SCHIOPPA 2003, soprattutto pp. 691-695. Più in generale, sulla contumacia, sulle procedure contumaciali e sulla procedura di missio in possessionem ex primo (et secundo) decreto la fonte di riferimento resta pur sempre lo Speculum di Guillaume Durand (vd. DURANDUS 1574, I, Pars prima et secunda, ff. 448A-457B, e ff. 458A-489A). Inoltre, si vedano CORTESE 1962a; ID. 1962b; CAMPITELLI 1987; PASCIUTA 2008; ASCHERI 2009c.
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in sede di commento a X. 2, 1, (De iudiciis)355, 10, tornando peraltro a occuparsi dei rapporti fra giurisdizione ecclesiastica e pena dell’esilio. L’argomentazione presenta in esordio una serie di riflessioni sulla differenza sussistente fra la pena dell’anathema e quella dell’excommunicatio. Innanzitutto, Alciato sottolinea come l’anatema differisca dalla scomunica in quanto pena inflitta ai rei di un delitto gravissimo (e per questo detestabiles e maledicti), per i quali non v’è speranza di pentimento (cosa che giustifica il ricorso a un rimedio così estremo). La scomunica, invece, è irrogata contro chi sia credibile di poter giungere tanto al pentimento quanto alla correzione (lo si ricava da VI. 5, 11, 1). Inoltre, mentre l’anatema ha in sé una certa sfumatura di ‘maledizione’, la scomunica esclude semplicemente dalla comunione dei fedeli, come si legge in Ca. 3, q. 4, c. 12356. Sul punto vi è dibattito in dottrina, e Alciato si sofferma su due argomentazioni critiche formulate dal Panormitano in relazione al testo di X. 2, 1, 4. Di particolare interesse in questa sede è la prima argomentazione, nella quale il Panormitano ricorda come la Chiesa possa applicare anche altre pene (diverse dalla scomunica o dall’anatema), come per esempio l’esilio, cosa che deduce da X. 5, 2, 1 e da Dis. 63, c. 23. Proprio sulla base di quest’ultimo testo, rinviando a controargomentazioni esposte in precedenza, Alciato evidenzia come alla tesi del Panormitano sia da preferire la posizione opposta (sostenuta da altri doctores): la Chiesa non può infliggere l’esilio, ma può rivolgersi alla giurisdizione secolare affiché sia quest’ultima ad allontanare in esilio il chierico reo di aver violato il canone. Infatti, se la Chiesa avesse realmente competenza a irrogare la pena dell’esilio, non dovrebbe di certo rivolgersi alla giurisdizione secolare, se non, appunto, per riceverne l’aiuto (come peraltro evidenzia anche Iacopo Butrigario)357. Fra le righe del ragionamento alciateo si legge la connotazione fondamentalmente civilistica della pena dell’esilio, ascrivibile a quel graduale processo di separazione tra i fori (e così anche fra illecito morale e illecito
355 «Unde infertur ad id quod notat Bar. in l. de pupillo, § si pluribus, ff. de no. oper. nunt., cum concord. ubi vult, quod semel bannitus possit pluries de novo banniri», in ALCIATUS 1582, III, Commentaria, ad X. 2, 1, 10, col. 805, 105-106. Sui commenti alciatei alle Decretales vd. supra, nota 295. Per il commento di Bartolo a D. 39, 1, 5, 16 vd. BARTOLUS 1562, III, In Digestum novum, f. 28B, 3. 356 ALCIATUS 1582, III, cit., col. 806, 109. Per il testo di VI. 5, 11, 1 vd. supra, nota 293. 357 ALCIATUS 1582, III, cit., col. 806, 109-110. Per il commento del Panormitano a X. 2, 1, 4 vd. PANORMITANUS 1588, II, In secundum librum Decretalium, ff. 14rA-21rB. Il riferimento di Alciato alle contro-argomentazioni esposte in precedenza (in tema di pene di competenza della giurisdizione ecclesiastica, di competenza del giudice ecclesiastico e di quello secolare, e di funzione correttiva della pena) è al penultimo dei notabilia premessi alla trattazione, il VII, per il quale vd. ALCIATUS 1582, III, cit., col. 791, 30. Non è chiaro il rinvio a quanto affermato dal Butrigario nei notabilia di cui si diceva. Tuttavia, se ne segnala la citazione da parte di Alciato nel V e nell’VIII dei notabilia (vd. ivi, col. 789, 17; col. 791, 29; col. 792, 35).
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giuridico) di cui si è detto sopra358. Il seguito della trattazione sembra darne ulteriore conferma. Alciato prosegue evidenziando come contro la validità della tesi suesposta (appunto, la possibilità per la Chiesa di ricorrere al giudice secolare per l’irrogazione dell’esilio) alcuni facciano riferimento al dovere della Chiesa di intervenire a favore del chierico degradato condotto dinanzi alla giurisdizione secolare, affinché quest’ultima non applichi una pena troppo severa (lo si ricava da X. 5, 40, 27). Ciò posto, se (secondo l’opinione del Panormitano vista sopra) la Chiesa potesse ricorrere alla pena dell’esilio autonomamente, nel momento in cui non lo fa, e rimette il chierico degradato al giudice secolare, sembrerebbe essa stessa affermare in modo implicito l’inadeguatezza di quella pena, e dunque l’inopportunità d’infliggerla (lo si deduce da X. 2, 10, 2 e dal commento di Bartolo a C. 3, 11, 4359). Si tratta di una tesi poco convincente, che Alciato respinge tornando ad affermare la validità dell’opinio communis, che nega alla Chiesa la facoltà d’infliggere la pena dell’esilio intesa in senso proprio (vale a dire, sul modello proposto da D. 48, 1, 2). Dunque, di esilio inflitto dalla Chiesa potrà parlarsi soltanto in senso lato (come quando, sul modello della relegatio o di una iussio, la Chiesa vieta a qualcuno di allontanarsi da un certo luogo – lo evidenzia l’Arcidiacono nel suo commento a Dis. 45, c. 8), e corretto sarà anche parlare di pena dell’esilio inflitta su ordine della giurisdizione ecclesiastica, ma eseguita mediante il giudice secolare (lo si ricava da X. 5, 27, 2)360. Così, l’esilio rivela la sua natura di pena esclusivamente civilistica, in un contesto di mutua collaborazione fra le giurisdizioni civile ed ecclesiastica: un contesto che (di là dalle convergenze frequenti) si anima già di quel principio di netta separazione tra i fori che si affermerà in modo chiaro a partire dalla fine del secolo XVI361. A questo punto, si propone la lettura di un ultimo passo, tratto dal commento a C. 2, 2 (De in ius vocando)362, 1.
358
Vd. supra, par. III.2, e ivi, note 205 e 206. ALCIATUS 1582, III, cit., coll. 806-807, 110. Per il commento di Bartolo a C. 3, 11, 4 vd. BARTOLUS 1562, IV, In duodecim libros Codicis, f. 288A-B. 360 «Et propterea videtur verior communis conclusio, quod immo Ecclesia non inferat poenam exilii proprie loquendo, de qua in l. ii, ff. de publ. iudi. Et ad contraria respondetur, quod intelliguntur improprie et large, prout ponitur pro relegatione vel pro iussione, ne quis recedat de certo loco, de quo per Archid. xlv distin., c. cum beatus. Potes etiam dicere, quod illa poena exilii licet inferatur iubente ecclesiastico, tamen imponitur per iudicem saecularem, arg. c. ii, infra de cler. excomm., eum non cavillando», in ALCIATUS 1582, III, cit., col. 807, 110. Per il commento di Guido da Baisio, l’Arcidiacono, a Dis. 45, c. 8 si segnala l’edizione ARCHIDIACONUS 1577, f. 58rB-58vA. 361 Vd. supra, par. III.2, e ivi, note 205 e 206. 362 Sull’opera vd. supra, nota 309. 359
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Ricordando come tutele e diritti specialmente riconosciuti alla persona del marito non spettino alla moglie, Alciato afferma che chi percuote la moglie del chierico non è escluso dalla comunione dei fedeli, cosa che invece ha luogo qualora a essere percosso sia il marito, che in quanto chierico gode di uno status privilegiato (aspetto sul quale, precisa Alciato, si è non poco discusso)363. Ciò posto, Alciato richiama il caso dello statuto prescrivente la pena dell’esilio per l’ipotesi di offesa (materiale o verbale) inferta al magistrato del Comune (definito duumvir municipii), e si chiede se la norma debba essere applicata nell’ipotesi di offesa alla moglie del magistrato. Sul punto sussiste l’opinione di Francesco Accolti d’Arezzo (espressa nel suo commento a D. 28, 1, 26), secondo il quale l’offensore della moglie non dev’essere esiliato, dal momento che la suddetta norma penale è posta a tutela della maiestas e della dignitas magistratuale, e dunque di chi sia titolare di quella dignitas ex persona propria (appunto, il magistrato del Comune), non ex aliena (come lo sarebbe la moglie, se godesse della dignitas del marito). Lo stesso Decio si pone in linea con questa interpretazione, e Alciato afferma che la condividerebbe anche lui, se solo lo statuto qualificasse l’offesa come personale (in tal senso, Alciato rinvia a D. 47, 10, 1 e a D. 47, 10, 18, 5). Tuttavia, dal momento che la norma menziona semplicemente e generalmente l’ipotesi dell’offesa, non connotandola, sarà necessario rispettare la lettera dello statuto, come può desumersi dal commento di Bartolo a D. 45, 1, 105. Inoltre, in caso di offesa arrecata alla moglie l’azione spetterà al marito proprio nomine, come se quell’offesa fosse stata subita dal marito stesso, nella sua persona (lo si evince dal commento di Baldo a Lib. Feud. 1, 5, 1, § similiter, da C. 6, 3, 6 e dall’opinione espressa da Bartolo nel suo commento a D. 12, 6, 26, 12, peraltro condivisa dallo stesso Baldo)364. Il passo sembra porsi in contrasto con la nota tendenza alla mitigazione del rigor iuris. Infatti, pur se, per così dire, ‘malvolentieri’ (dal momento che concorderebbe con l’Accolti e con Decio), nel caso in esame Alciato suggerisce un’interpretazione più rigorosa del dettato normativo, evidenziando la necessità di rispettare la lettera dello statuto (cosa che, d’altronde, è opinio Bartoli): in assenza di una qualificazione precisa dell’offesa, questa dovrà essere intesa in senso lato. Di conseguenza, lo statuto non dovrà essere interpretato restrittivamente e la pena dell’esilio dovrà esten-
363
ALCIATUS 1582, III, Commentaria, ad C. 2, 2, 1, col. 107, 24. Ivi, coll. 107-108, 25-26. Sul richiamo umanistico alle istituzioni classiche nel definire quelle contemporanee vd. supra, nota 315. Per il commento di Francesco Accolti d’Arezzo a D. 28, 1, 26 si veda DE ACCOLTIS 1538, ff. 196vB-197rA. Per il commento di Baldo a Lib. Feud. 1, 5, 1, § similiter vd. BALDUS 1578, f. 16rB. Per il commento di Bartolo a D. 12, 6, 26, 12 vd. BARTOLUS 1562, I, In Digestum vetus, ff. 611A-614B. Infine, si ricordi il già citato PASCIUTA 2008. 364
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dersi anche all’ipotesi di offesa indirettamente subita dal magistrato nella persona della moglie. Dunque, l’attenzione per il dato testuale, nel rispetto del senso proprio delle parole, si pone a garanzia di un’equa interpretazione delle norme, ma ciò non esclude la possibilità che, talora, a dover prevalere sia proprio la loro applicazione più rigorosa365.
365 Vd. e cfr. supra, pp. 95-99 (in tema d’interpretazione dello statuto), e par. III.2 (in tema di temperamento del rigor iuris civilis).
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CAPITOLO V INVOLONTARIETÀ DELL’OMICIDIO E VOLONTARIETÀ DELL’ESILIO, FRA TRADIZIONE GRECA E ROMANA V.1. Oὐκ ἐθέλων – INVITUS Nelle opere dove meglio può saggiarsi la sensibilità storico-filologica di Alciato366 ricorre con frequenza quello che l’umanista definisce un costume proprio del mondo greco, vale a dire, la prassi dell’esilio volontario conseguente a un omicidio involontario. A tal riguardo, si propone la lettura di un primo locus di particolare interesse, tratto del cap. XVII del libro I delle Dispunctiones367.
366 Si fa qui riferimento alle note Dispunctiones, ai Praetermissa e ai Parerga, opere per le quali si rinvia rispettivamente alla nota seguente per le prime due, e a infra, nota 382 per i Parerga, oltre che alle considerazioni introduttive esposte supra, par. II.1. 367 L’opera fu edita insieme ai Paradoxa, al De eo quod interest, alle Annotationes in tres posteriores libros Codicis, ai Praetermissa e alla Declamatio una (Disputa) nel volume curato da Alessandro Minuziano e apparso a Milano nel 1518. Nella premessa al lettore inserita nella terza edizione della raccolta suddetta (Basilea 1531), Alciato evidenziò come le due opere principali, i Paradoxa e, appunto, le Dispunctiones, fossero state redatte sulla base di confutazioni fatte da studente intorno agli insegnamenti dei suoi maestri, e che la pubblicazione avesse lo scopo di evidenziare e far comprendere ai giuristi l’importanza degli studi umanistici ai fini di una migliore comprensione dei testi giuridici. Riguardo alle Dispunctiones in particolare, Alciato ne avviò la stesura verosimilmente mentre era studente a Bologna, nell’anno accademico 1511-1512. L’opera consta di un insieme d’innovazioni apportate ad alcuni testi giustinianei, riconducibile alla più generale attività umanistica di emendazione dei testi antichi. Alciato stesso evidenziò come le congetture ivi esposte si fondassero su codici verosimilmente migliori della Vulgata e talora sulle Pandette Fiorentine, e come riguardassero soltanto passi d’interpretazione particolarmente dubbia, proprio in ragione delle divergenze sussistenti fra i codici a disposizione. Dunque, si tratta di una delle opere alciatee che meglio testimonia l’interazione fra le competenze filologico-storiche e le competenze giuridiche dell’autore (per tutto e per ulteriori approfondimenti vd. BELLONI 2016b, pp. 778-781, 781-783, 804-806, 813-814, 816-817, 824-826, 870-876). Inoltre, si rinvia alle riflessioni esposte in sede introduttiva (vd. supra, par. II.1).
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Innanzitutto, Alciato evidenzia come a causa di ignoranza nelle humanae litterae anche i giuristi più esperti siano spesso tratti in errore nella risoluzione delle liti, e a questo proposito rinvia a uno dei frammenti contenuti in D. 48, 19 (De poenis)368 e presenta un caso. Due fanciulli giocano ai dadi, e come spesso accade iniziano a contendersi il tavolo da gioco. La lite degenera nel ferimento e nella conseguente morte di uno dei due, accidentalmente accoltellato dall’altro per mezzo di un temperino. Interrogandosi sul tipo di pena cui dovrebbe essere soggetto il fanciullo reo del fatto, Alciato afferma che non dovrebbe applicarsi una pena più severa dell’esilio, come d’altra parte si ha testimonianza nei versi del canto XXIII dell’Iliade (Il. 23, 8588) citati da Claudio Saturnino in D. 48, 19, 16, 8369. Tuttavia, per manchevolezza o ignoranza dei copisti quei versi non risultano citati in vulgatis codicibus, vale a dire, nell’edizione comunemente accettata del Corpus iuris civilis, cosa che sarebbe invece utile, come sottolinea Alciato stesso, che coglie così l’occasione per proporre la lezione (a suo dire) corretta del passo menzionato (corredandola di una traduzione latina)370. L’episodio mitologico è quello di Patroclo, figlio di Menezio di Opunte, che ancora fanciullo uccise accidentalmente, per impeto d’ira, il compagno Cliso-
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«CAPUT XVII. Decipi in decisionibus litium etiam peritos, ob humaniorum literarum imperitiam; atque ibi instauratum Iurisconsulti responsum, tit. de poenis», in ALCIATUS 1582, IV, Dispunctiones, I, Cap. XVII, col. 174. 369 «Cum duo pueri aleam luderent, atque (ut fieri solet) iurgio orto, quod in regione alvei recte dispositam tabellam alter negaret, paulo iracundior alter, temperatorio cultro, quem secum de ludo literario forte attulerat, collusorem percussit, ita supra pubem, ut statim et evestigio moreretur. Quaesitum est, qua poena puer plectendus esset. Respondi, non ultra exilii ultionem coercendum, atque id ex Homeri carmine Ἰλιάδος .‹xxiii›. quod Claudius [con nota a margine In l. aut facta, § fin.] Saturninus in titulo Digestorum de poenis allegat», ibid. 370 «[…] quamvis in vulgatis codicibus vitio scriptorum nihil legatur, quod ad rem faciat. Verba Iurisconsulti ex antiquis codicibus ita reponenda sunt: Eventus [con nota a margine In l. aut facta, § fin.] spectatur ut in dementissimo [con nota a margine di rinvio alle Pandette Fiorentine, appunto * clementissimo quoque, Pand. Flor.] quoque facta (quanquam non mirum lex eum, qui occidendi hominis causa cum telo fuerit, quam qui occiderit, puniat) et ideo apud Graecos exilio voluntario fortuiti casus luebantur, ut apud praecipuum poetarum scriptum est: Εὖθ’ἐμὲ τυθὸν ἐόντα Μενοίτιος ἐξ Ὀπόεντος / Ἤγαγεν ὑμέτερὸν δῶ ἀνδροκτασίης ὑπὸ λυγροῦ [con nota a margine di rinvio alle Pandette Fiorentine, appunto * λυγρῆς, Pand. Flor.], / Ἤματι τῷ ὅτε παῖδα κατέκτανον Ἀμφιδάμαντος / Νήπιος οὐκ ἐθέλων, ἀμφ’ ἀστραγάλοισι χολωθείς, / In vestras puerum ex Opoente Menoetius aedes / Me duxit, caedem quo fugi propter amaram, / Tempore cum fatuus gentium Amphidamante peremi / Invitus, propter talos cum incanduit ira», ibid. I versi omerici citati (qui come allegazione di Claudio Saturnino) corrispondono a Il. 23, 85-88, per i quali vd. l’edizione di West, appunto, HOMERUS 2000, p. 296. Il richiamo sommario (espresso con formula generica ex antiquis codicibus) ai manoscritti sottesi alla scelta della lezione presentata ricorre frequentemente nelle argomentazioni alciatee (si ricordi quanto esposto supra, par. II.1).
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nimo, figlio di Anfidamante, e per questo fu condotto dal padre in esilio a Ftia, presso il re Peleo, padre di Achille371. Presentandola nella forma di un caso di scuola, Alciato valorizza la citazione omerica presente in Claudio Saturnino secondo una scelta stilistica elegante e dotta, che rivela quella sensibilità filologica su cui si è già più volte insistito372. L’attenzione per il dato testuale si esprime in questo caso in un tentativo di ricostruzione filologica di un locus significativo, dove i versi dell’Iliade ivi citati catturano l’attenzione dell’umanista sia perché in lingua greca, sia perché assunti dal giurista romano a testimonianza di un costume giuridico, se non addirittura a fonte di autorevolezza pari a quella dei testi giuridici classici373. Proprio dalla digressione di carattere filologico si sviluppano ulteriori riflessioni. Posto il richiamo presente in Claudio Saturnino (appunto, D. 48, 19, 16, 8) all’ipotesi dell’esilio volontario convenzionalmente previsto, apud Graecos, quale conseguenza di un delitto commesso non intenzionalmente, Alciato si sofferma sull’espressione οὐκ ἐθέλων, che nei versi omerici ivi citati connota l’uccisione commessa da Patroclo, e che in lingua latina trova una traduzione in invitus (appunto, ‘non avendolo voluto’, ‘non intenzionalmente’). Alciato precisa che quell’espressione non deve sorprendere. Se, indubbiamente, nessuno colpisce qualcun altro senza averne l’intenzione, d’altra parte è necessario interpretare il fatto in esame presumendo che superato l’impeto d’ira il reo (Patroclo) si fosse pentito di quanto fatto, o quantomeno che non avesse ritenuto possibile che a causa di una ferita quale quella inferta il compagno sarebbe morto. Ciò, aggiunge Alciato, risulta particolarmente evidente in questo caso, dal momento che l’arma utilizzata (un temperino) consente di supporre che nel reo mancasse qualsiasi volontà omicida. Infatti, un simile oggetto tagliente non rientra nella categoria delle armi, e gli omicidi di questo tipo sono generalmente imputati al fato (lo si deduce dal consilium 80 di Francesco Accolti d’Arezzo, da C. 9, 16, 1 e da D. 48, 19, 38, 5). Ne deriva che i rei non sono puniti secondo quanto previsto dalla lex Cornelia de sicariis et veneficis (D. 48, 8, 1-17), salvo sussistano ulteriori circostanze aggravanti, che invece giustificherebbero
Si veda la voce Patrocle (Πάτροκλος), in GRIMAL 1982, pp. 350A-351A. Vd. supra, par. II.1. Vd. e cfr. anche VIARD 1926, pp. 279-281. 373 Si tratta del complesso problema dell’auctoritas poetarum, per il quale si rinvia alle considerazioni presenti in VAN DEN BERGH 1974 e in QUAGLIONI 2019. Più in particolare, sulle citazioni omeriche presenti nei testi giustinianei si vedano almeno M ARANCA 1927; FIORENTINI 2013; PLISECKA 2009; M ARTINI 2000; I D . 2001; S CARANO U SSANI 2000. Sull’interesse alciateo (e umanistico in generale) per il recupero dei testi in lingua greca del Corpus iuris civilis si rinvia a quanto evidenziato supra, par. II.1, e alle relative indicazioni bibliografiche. 371 372
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l’irrogazione del sommo supplizio374. Così, sullo sfondo di un’analisi testuale filologicamente condotta, Alciato riflette sul rilievo che ai fini dell’irrogazione della pena dev’essere riconosciuto all’elemento soggettivo, o meglio, alla presenza di un’animus occidendi ai fini dell’applicazione della pena capitale. E sul modello antico, di fronte all’involontarietà del fatto l’esilio trova una sua applicazione375.
«Nec quicquam obest, quod Homerus inquit οὐκ ἐθέλων, id est, invitus, quoniam nemo ita percutit, ut invitus percutiat, sed accipiendum est, vel quod post iracundiae calorem poenituerit, vel quod non existimabat eum ex tali vulnere periturum. Quod maxime in nostro casu fuit, cum ex genere cultelli coniectemur mentem nolentis occidere, is quippe armorum appellatione non continetur, quod et existimavit Aretinus. Sed et huiusmodi homicidia fato plerunque imputantur [con nota a margine di rinvio a Consil. lxxx, l. i., C. de sicariis, l. si quis, § qui abortionis, ff. de poen.], nec Cornelia de sicariis puniuntur, nisi aliis delictis aggravata sint, nam tunc rei summo supplitio afficiuntur», in ALCIATUS 1582, IV, cit., col. 174. Per il consilium 80 di Francesco Accolti d’Arezzo, che si sostanzia in una rifessione sull’elemento soggettivo del reato (con riguardo particolare per la presenza o meno di dolo nel fatto) vd. DE ACCOLTIS 1546, f. 63rB, 4, dove l’Aretino cita l’opinione di Antonio da Budrio sulle ipotesi d’imputabilità del fatto al caso. Lungi da un confronto fuorviante e anacronistico tra le riflessioni alciatee e gli studi moderni di settore, è d’obbligo segnalare che il suddetto passo di Claudio Saturnino (D. 48, 19, 16, 8) è stato ampiamente studiato dalla dottrina romanistica e da quella propriamente giusgrecistica, che si sono soffermate sui problemi legati alla natura del testo (che si presenta come una trattazione in materia penale, insolitamente unitaria e ben strutturata), alla ricostruzione filologica del testo e alla qualificazione dell’involontarietà di un omicidio commesso in modo colposo o preterintenzionale, sull’esempio di quello commesso da Patroclo (vd. BONINI 1959-1962, in particolare pp. 159-168; IMPALLOMENI 1982, soprattutto pp. 197-198; MANNI 2013). Più in dettaglio, proprio sul significato dell’espressione οὐκ ἐθέλων, che qualificherebbe l’omicidio commesso da Patroclo come involontario in quanto commesso in stato d’ira, si rinvia a CANTARELLA 1976, pp. 43-48 (ma complessivamente pp. 15-75, sull’omicidio nei poemi omerici). Ivi, alle pp. 24-32, Cantarella evidenzia come nel complesso e multiforme mondo omerico l’esilio fosse un rimedio di fatto (alternativo al pagamento della ποινή, rimedio di diritto) posto a disposizione dell’omicida che avesse voluto evitare la vendetta dei parenti dell’ucciso. Si veda anche EAD. 1979 (in particolare pp. 231-239, 264-269). Sull’omicidio nel mondo greco in generale, da Omero a Dracone e oltre, in relazione ai relativi concetti di volontarietà e involontarietà del fatto, per la vendetta, l’esilio (prima rimedio di fatto, poi pena vera e propria), la ποινή, ecc., oltre che ai suddetti studi di Cantarella si rinvia anche a MASCHKE 1926 (soprattutto pp. 1-13); STROUD 1968; MACDOWELL 1978 (pp. 109-122); GAGARIN 1981; BISCARDI 1982 (pp. 275-310, dove sono ripresentati gli studi di Cantarella); GERNET 1984; TODD 1993; GAGARIN, COHEN 2005; PEPE 2012; EAD. 2016 (sull’omicidio in particolare pp. 305-309); PELLOSO 2012a; ID. 2012b; GALLIA 2004. Infine, per una riflessione sull’esperienza giuridica del mondo greco antico in generale è d’obbligo il riferimento a BARTA 2010-2014. 375 Cfr. BONINI 1959-1962, pp. 159-160. Sull’elemento soggettivo o ‘intenzionale’ in diritto penale romano si vedano anche LUZZATTO 1960; BRASIELLO 1964; GIOFFREDI 1970 (pp. 63-93). Sul tema nell’ambito dell’esperienza giuridica medievale, invece, si vedano PERTILE 1892 (soprattutto pp. 7-189, di cui pp. 58-72 sull’elemento oggettivo e soggettivo del fatto); ENGELMANN 1922; TALAMANCA 1960; MARONGIU 1960; ID. 1964a; ID. 1964b; BELLOMO 1964; LAINGUI 1970; BIROCCHI, PETRONIO 1988; MASSETTO 1988; ID. 1989. Inoltre, si vedano i contributi presenti in SBRICCOLI 2009. 374
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In stretto collegamento con il passo suesposto si pone un secondo locus, tratto dal libro II dei Praetermissa376, dove Alciato fa nuovamente riferimento a D. 48, 19, 16, 8 e alla relativa previsione, apud Graecos, dell’esilio volontario quale mezzo di espiazione di un delitto accidentale, cosa di cui può trarsi testimonianza dall’Iliade. Evidenziando l’assenza di fonti precise (presumibilmente, di testimonianze manoscritte ben individuate), e appellandosi alla possibilità di formulare delle congetture, Alciato propone una lezione (a suo giudizio corretta) di versi omerici d’interesse in tema di esilio volontario, in modo del tutto analogo a quanto appena visto. Il passo citato (sia nell’originale greco, sia in traduzione latina) corrisponde a Il. 2, 661-665, e narra l’episodio mitologico di Tlepolemo, che s’imbarcò in esilio verso Rodi in quanto reo di aver ucciso erroneamente l’anziano zio Licinnio 377. Ancora una volta, sulla base della nota attenzione per il dato testuale, Alciato attua un’operazione filologica propedeutica a una migliore comprensione dei contenuti del testo stesso, impreziosendo l’attività di studio delle fonti con la citazione di Omero, oltre che con ulteriori esempi di esilio (motivato da un omicidio involontario) tratti dalla letteratura classica. Innanzitutto, l’umanista rinvia al libro I della Tebaide di Stazio, dove si legge di Tideo, esiliatosi in seguito a un omicidio, e poi a Lattanzio Placido, che, evidenzia Alciato, nell’interpretare quel passo della Tebaide cita anch’egli Omero. Segue la menzione delle Metamorfosi di Ovidio, dove si narra che Foco, uno dei figli di Eaco, abbandonò la patria per l’unica ragione di aver ucciso involontariamente il fratello, cosa di cui si ha testimonianza anche nelle Vitae di Plutarco. Infine, ricollegandosi alla citazione omerica iniziale, Alciato ricorda che nella Littera Florentina si ha menzione di versi omerici differenti, come
376 Poste le premesse esposte supra, nota 367, in riferimento alla miscellanea di opere alciatee pubblicata dal Minuziano nel 1518, riguardo ai Praetermissa (editi nella miscellanea medesima) sarà qui sufficiente ricordare che l’opera è dedicata all’analisi di testi giuridici interpretabili, a detta di Alciato stesso, soltanto con l’ausilio degli studi classici, e dunque fino ad allora trascurati o del tutto ignorati dai giuristi (per tutto e per ulteriori approfondimenti vd. BELLONI 2016b, pp. 778781, 786-787, 804-806, 813-814, 816-817, 824-826, 870-876). Inoltre, si rinvia alle riflessioni esposte in sede introduttiva (vd. supra, par. II.1). 377 «DE POENIS. LEGE, Aut facta. Apud Graecos exilio voluntario fortuiti casus luebantur, ut apud praecipuum poetarum scriptum est. Qui locus ex Homero adducatur, quamvis certi aliquid non habeam, tamen si coniecturis locus est, facile eos versus reor hic apponendos ex Iliados .ii.: Τληπόλεμος δ’ἐπεὶ οὖν τράφ’ ἐνὶ μεγάρῳ εὐπήκτῳ, / αὐτίκα πατρὸς ἑοῖο φίλον μήτρῳα κατέκτα, / ᾔδη γηράσκοντα Λικύμνιον, ὄζον Ἄρηος, / αἶψα δὲ νῆας ἔπηξε, πολὺν δὲ ὀγε λαὸν ἀγείρας / βῆ φεύγων ἐπὶ πόντον ἀλώμενος [salto di verso, presumibilmente volontario in quanto strumentale al senso del testo]. / Tlepolemus postquam bene structa per atria crevit, / Illius ceciditque parentis avunculus armis / Iam senior, Martisque Licynius inclitus hasta, / Composuit classem, populoque implevit eunti, / Per mare diffugiens exul», in ALCIATUS 1582, IV, Praetermissa, II, De poenis, col. 278. Per il testo di Il. 2, 661-665 vd. HOMERUS 1998, pp. 76-77. Sull’episodio mitologico citato si veda la voce Tlépolémos (Τληπόλεμος), in GRIMAL 1982, p. 462A-B.
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egli stesso ha evidenziato nelle sue Dispunctiones in riferimento al passo di Claudio Saturnino (D. 48, 19, 16, 8) contenente la citazione di Il. 23, 85-88378. Il rinvio interno effettuato da Alciato merita attenzione e consente d’individuare temi d’interesse ricorrente nella riflessione dell’umanista: l’esilio volontario connesso a un’uccisione involontaria e la restituzione filologica di versi in greco (omerici). La citazione dei classici, come già mostrato, arricchisce la dotta operazione di ricostruzione del testo379, in virtù dell’autorevolezza storico-letteraria loro riconosciuta380.
V.2. Ἀπενιαυτισμός, QUASI ABANNATIO DICITUR Da quanto visto, il riferimento all’antico costume greco dell’esilio volontario conseguente a un omicidio involontario rappresenta un altro vero e proprio τόπος alciateo381, che in ulteriori passi dell’opera dell’umanista si lega all’esposizione di approfondimenti di carattere linguistico-etimologico. In tal senso, un primo esem-
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ALCIATUS 1582, IV, cit., col. 278. La citazione di Stazio corrisponde a STAT. Theb. 1, 401403 e 451-454. Per il relativo commento di Lattanzio Placido vd. LACTANTIUS 1997, pp. 55-56 e 60. Sulla figura di Tideo si veda la voce Tydée (Τυδεύς), in GRIMAL 1982, p. 465A-B. La citazione di Ovidio corrisponde a OV. met. 11, 266-270. Il riferimento all’episodio di Foco, narrato nelle Metamorfosi ovidiane, è errato o quantomeno impreciso, dal momento che fu Peleo a dover andare in esilio in seguito all’omicidio del fratello Foco, omicidio, peraltro, verosimilmente non ascrivibile a involontarietà. Sul punto vd. e cfr. le voci Pélée (Πηλεύς) e Phocos (Φῶκος), entrambe in GRIMAL 1982 (rispettivamente pp. 352A-353B e 371A-B). Un’altra imprecisione sembrerebbe riguardare il rinvio alle Vitae di Plutarco, dove a essere citato è Foco parente di Solone (PLUT. Sol. 14, 8), oltre che Foco figlio di Focione (in plurimi passi della Vita di Focione, per i quali vd. PLUT. Phoc. 20; 30, 2; 36, 4; 38, 2-4). Il riferimento alle Pandette Fiorentine riguarda il noto D. 48, 19, 16, 8, già commentato nelle Dispunctiones (vd. supra, pp. 112-114). 379 Non sarà superfluo segnalare in questa sede un ulteriore passo alciateo (contenuto nei Parerga), anch’esso rappresentativo dell’attività di critica testuale propria dell’umanista. Si tratta dell’emendazione di un passo di Ulpiano (appunto, D. 48, 22, 7, 5), dove è presente un riferimento alla relegatio intesa quale esilio su un’isola. In riferimento a D. 48, 22, 7, 5 e sulla base di antiqui codices (fra i quali, soprattutto, il Codex Hetruscus, vale a dire, le Pandette Fiorentine), Alciato propone la lectio emendatior «in Ouasim relegare», in luogo della comune e corrotta lezione «in novas insulas relegare». A sostegno della correzione Alciato presenta numerosi argomenti, che vedrebbero in Virgilio la fonte più autorevole a sostegno dell’emendazione. Commentando il verso di Virgilio citato (VERG. ecl. 1, 66), Alciato evidenzia come il poeta si lamenti non solo del fatto che i soldati barbari occupino i campi dell’Italia, ma anche che gli Italici, col pretesto della milizia, siano sostanzialmente allontanati in esilio in regioni lontane e sterili (vd. ALCIATUS 1582, IV, Parerga, XII, Cap. IV, col. 572, cui si rinvia per una lettura integrale del passo). Sull’opera vd. infra, nota 382. 380 Cfr. supra, nota 373. Il costume dell’esilio volontario conseguente a un omicidio involontario, apud Graecos, caratterizza anche le riflessioni di Budé (vd. e cfr. infra, par. VII.3). 381 Si ricordi quanto esposto supra, par. V.1.
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pio significativo è offerto dal cap. II del libro II dei Parerga382, dove gli episodi mitologici tramandati da versi omerici ben determinati offrono ad Alciato l’occasione per discutere dell’etimologia del termine bannum (e suoi derivati). Innanzitutto, l’umanista pone l’attenzione sul fatto che nel linguaggio comune vi siano alcuni vocaboli che, nonostante non siano latini, sembrerebbero caratterizzarsi per un’origine antica e oscura, e un esempio è fornito dall’uso di chiamare bannitum chi sia stato esiliato. Presso i Greci, prosegue l’umanista, era previsto che l’autore di un omicidio involontario perdesse i beni e fosse esiliato dalla patria per un anno, e solo dopo essersi purificato dal delitto avrebbe potuto farvi ritorno. Tale esilio è detto ἀπενιαυτισμός, per così dire, in lingua latina, abannatio, e se ne ha un esempio in Omero, nell’ultimo canto dell’Iliade (Il. 24, 480-482, versi che Alciato cita e traduce in latino). Sulla base della testimonianza omerica e di quella che sembrerebbe potersi definire una paretimologia del termine abannatio, che vien fatto derivare da ἀπενιαυτισμός, Alciato ritiene sia possibile derivare da quell’abannatio i banniti stessi. Tuttavia, a questa interpretazione se ne potrebbe accostare un’altra, che preferisce far derivare bannum da tuba, appunto, ‘tromba’, in ragione della riconducibilità del vocabolo bannum alla lingua barbara (germanica). In questo caso, infatti, ne deriverebbe a sua volta il vocabolo bannophorus, appunto, ‘alfiere, portabandiera’ (signifer, presso i Romani), cosa di cui si ha testimonianza in Procopio, nel libro IV del De bello Persico383.
382 La composizione dell’opera (una raccolta di disquisizioni accessorie sulle leggi romane) risale verosimilmente al periodo avignonese compreso fra il 1527 e il 1529, almeno per quanto riguarda i primi tre libri, la cui stesura proseguì a Bourges e che furono pubblicati a Basilea nel 1538. Subito dopo aver licenziato i primi tre libri, fra Milano, Bologna, Pavia e Ferrara Alciato si dedicò verosimilmente alla redazione dei libri IV-X, che furono pubblicati a Lione dal Gryphius nel 1544 (subito dopo la nuova edizione dei libri I-III, apparsa a Basilea nel 1543). I libri XI e XII, costituenti l’ultima parte dell’opera, furono redatti dopo l’estate del 1543 e pubblicati sempre dal Gryphius a Lione nel 1554 (per tutto e per ulteriori approfondimenti vd. BELLONI 2016b, pp. 851-852, 887888, 894, 900-903, 911, 913-915, 918-920, 928). Sui Parerga vd. e cfr. anche ROSSI 2013 e GUERRIER 2013. Inoltre, si rinvia alle riflessioni esposte in sede introduttiva (vd. supra, par. II.1). 383 «CAP. II. Banniti unde dicti, et quae poena fortuiti homicidii apud Graecos esset. HABENT in communi sermone nostrates quaedam vocabula, quae licet Latina non sint, videntur tamen originem ab antiqua aliqua et recondita historia sumpsisse, ut cum eum, qui in exilium missus est, Bannitum vocant, siquidem apud Graecos, qui homicidium non sponte commisisset, is amissis bonis patria per annum exulabat, donec a tali crimine expiatus, deinde reverteretur. Id exilium ἀπενιαυτισμός, quasi abannatio dicitur, cuius exemplum apud Homerum Ἰλιάδος ultimo: ὡς δ’ ὅταν ἀνδρ’ ἄτη πυκινὴ λάβῃ, ὅςτ’ ἐνὶ πάτρῃ / φῶτα κατακτείνας, ἄλλον ἐξίετο δῆμον, / ἀνδρὸς ἐς ἀφνειοῦ. / Ut cum noxa virum gravis urget cive perempto, / Qui patria abscedens aliam divertit in urbem, / Divitis inque hominis stat limine. Igitur ab hac abannatione videri potest bannitos dictos. Nisi forte a tuba quis malit, quam barbaro sermone constat Bannum dici, unde Bannophorum, signiferum a Romanis vulgo appellatum, Procopius libro quarto Persici auctor est», in ALCIATUS 1582, IV, Parerga, II, Cap. II, coll. 319-320. I versi omerici citati (Il. 24, 480-482) narrano l’episodio
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Peraltro, prosegue Alciato, presso gli antichi la sanzione dell’ἀπενιαυτισμός riguardava soltanto l’omicidio involontario. Infatti, qualora l’omicidio fosse stato di altro tipo, per esempio perché scaturito da un impeto d’ira, il tempo dell’esilio non
della supplica di Priamo ad Achille, volta a ottenere la consegna del cadavere di Ettore (vd. HOMERUS 2000, p. 355). Riguardo all’episodio dell’Iliade citato vd. e cfr. le voci Achille (Ἀχιλλεύς), Hector (Ἕκτωρ) e Priam (Πρίαμος), tutte contenute in GRIMAL 1982 (rispettivamente pp. 5A-9A, 176B-177B e 393A394B). Sembrerebbe plausibile ipotizzare una paretimologia derivata dal calco di abannatio da ἀπενιαυτισμός, sulla base della corrispondenza fra i due prefissi ab – ἀπό. Legata alla tendenza umanistica ad attribuire un carattere nobilitante al classico, la paretimologia in questione potrebbe giustificarsi nel tentativo di ricondurre alla lingua greca il termine latino/volgare bannum (appunto tramite abannatio). Il vocabolo abannatio non risulta attestato nelle fonti classiche, almeno sulla base della consultazione del TLL. A nulla ha portato la ricerca del vocabolo nei principali lessici di epoca medievale oggetto di consultazione, vale a dire, l’Elementarium di Papias (vd. e cfr. PAPIAS 1977, pp. 3-4), le Derivationes di Osberno di Gloucester (vd. e cfr. OSBERNUS 1996, I, pp. 5-76, e II, p. 773), le Derivationes di Uguccione da Pisa (vd. e cfr. HUGUTIO 2004, I, p. 3, e II, pp. 5-106), il Catholicon del Balbi (vd. e cfr. BALBUS 1460-1470, f. 62rA-B) e il Dictionarium iuris di Alberico da Rosciate (vd. e cfr. ALBERICUS 1581, Litera A). Sulle Derivationes di Uguccione da Pisa si veda anche RIESSNER 1965. In tema di lessicografia medievale e moderna e di lingua e cultura latina medievale si vedano almeno SIDWELL 1995; HAMESSE 1996; DOLEZALEK 1996; THIERMANN 1996; MANTELLO, RIGG 1996; LINDSAY 1996; HARRINGTON 1997; BLACK 2001. Nel Glossarium di Du Cange è presente la voce abannatio, aggiunta da P. Carpentier nel 1766, in corrispondenza della quale si legge: «Iurisconsultis vertitur ἀπεναυτισμός, Annum exsilium propter voluntariam caedum admissam: ab ab et annus. Ita Martinii Lexicon», in DU CANGE 1883, s.v. Abannatio, p. 8B. In effetti, Carpentier cita la medesima voce presente nel Lexicon philologicum di Mattia Martini, dove si legge: «Abannatio. Iurisconsultis vertitur ἀπενιαυτισμός, annuum exilium, propter voluntariam caedem admissam: ab ab et annus», in MARTINUS 1711, I, s.v. Abannatio, f. 2A. Dunque, oltre che dalla corrispondenza dei prefissi ab – ἀπό, il calco sembrerebbe fondarsi sul significato di ἀπενιαυτισμός, appunto, esilio annuo, da cui, come evidenziato nei lessici suddetti, ab e annus in lingua latina. Ciò posto, a suscitare grande interesse è soprattutto la voce abannatio presente nel Lexicon di Johann Kahl, dal momento che lì a essere citate quale attestazione del vocabolo sono le Annotationes in Pandectas (posteriores) di Budé (più precisamente, il commento di Budé a D. 48, 19, 16, 8, ivi contenuto): «ABANNATIO, ἀπενιαυτισμός Graecis, annuum exilium significat propter voluntariam caedem admissam, G. Budaeo in annot. l. aut facta, 16, § eventus, ff. de poen. Prat.», in CALVINUS 1619, f. 4A. Considerando la precedenza cronologica delle Annotationes posteriores di Budé rispetto alle opere alciatee in cui compare il vocabolo abannatio (appunto, i Parerga e, come si vedrà, il De singulari certamine), è forse ipotizzabile che Alciato abbia ripreso una paretimologia già elaborata da Budé? Sul punto, e in generale sulla corrispondenza ἀπενιαυτισμός – abannatio in Budé, vd. infra, par. VII.3. Sul bannum quale vox vulgaris si è già detto supra, par. IV.2. Sull’etimologia del vocabolo bannum si rinvia a quanto indicato supra, nota 3. È curioso notare come nell’edizione del Dictionarium iuris di Alberico da Rosciate ivi citata, in corrispondenza della voce Bannum sia presente un’additio di Gianfrancesco Deciani iunior (figlio di Tiberio Deciani), che in riferimento all’etimologia di bannum rinvia proprio al passo alciateo qui presentato: «ADDITIO. Bannum unde dicatur, vide Alcia. Parerg. lib. 2, c. 2. Ioan. Fran. Decian.», in ALBERICUS 1581, s.v. Bannum. Per quanto riguarda la citazione di Procopio, non è chiaro a quale passo dei De bellis Alciato faccia riferimento, soprattutto perché sembrerebbe non esistere un quarto libro del De bello Persico (vd. e cfr. PROCOPIUS 1962-1964, I, De bellis, pp. 1-304). Inoltre, non vi è attestazione in Procopio del corrispettivo greco di signifer, appunto, σημειοφόρος, che si pensava potesse essere la chiave per comprendere il rinvio alciateo (vd. e cfr. la voce Σημειοφόρος in TLG, VIII, coll. 189-190).
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sarebbe stato annuale come nel caso qui trattato, ma sarebbe stato stabilito discrezionalmente dal giudice. Ciò è testimoniato dai versi omerici narranti di Patroclo (citati da Claudio Saturnino in D. 48, 19, 16, 8), che Alciato ha altrove restituito basandosi sull’autorità di codici antichi (come lui stesso sottolinea espressamente)384. Ma sempre in Omero, nel canto II dell’Iliade (Il. 2, 661-665), si narra anche dell’episodio di Tlepolemo, che volendo percuotere con un bastone il servo dell’anziano zio materno Licinnio, dal quale quest’ultimo era accompagnato, percosse erroneamente lo zio e lo uccise. Conseguentemente, essendovi costretto si allontanò in esilio, e in seguito partecipò alla guerra di Troia prestando il proprio aiuto ai Greci385. Il passo suggerisce una serie di considerazioni. Innanzitutto, ricorre quell’attenzione per il dato testuale, per la critica filologicamente condotta e per l’autorevolezza delle fonti classiche cui si è già più volte accennato. Lo stile espositivo conciso, ma densissimo di contenuti, fa da sfondo a un’operazione linguistica singolare, che, come detto, sembrerebbe configurare una paretimologia. Quest’ultima consente ad Alciato di presentare un parallelismo fra il bannum e il costume greco dell’ἀπενιαυτισμός, presumibilmente nella consapevolezza dell’ovvia differenza fra i due istituti, accostati in ragione del concetto di allontanamento dalla comunità di appartenenza e del calco abannatio386. In un certo senso, l’operazione sembra confermare quanto era stato accennato sopra, sull’attribuzione dei vocaboli sinonimi exilium e bannum a un registro linguistico diverso: tecnico e dotto il primo, forse anche in virtù della sua attestazione classica, dal carattere nobilitante agli occhi dell’umanista; comune, popolare e dunque in lingua volgare il secondo387. E il richiamo ai versi omerici, assunti a testimonianza dell’antico costume greco dell’esilio volontario conseguente a un omicidio involontario, nella citazione di episodi
«Caeterum apud veteres omnino fortuiti homicidii poena erat ἀπενιαυτισμός, quod si fortuitum non fuisset, sed calore iracundiae, non tamen procedente tractatu, non annus, sed arbitratu iudicis tempus statuebatur, quod ex eiusdem Homeri carminibus de Patroclo apparet, quae Claudius Saturninus adducit, et a nobis alibi ex antiquorum codicum fide restituta sunt [con nota a margine di rinvio a l. aut facta, de poenis]», in ALCIATUS 1582, IV, cit., col. 320. Si tratta di Il. 23, 85-88, di cui si è detto supra, par. V.1, nota 370. Ancora una volta, il rinvio ai codici di riferimento per la restituzione filologica del passo di Claudio Saturnino è vago (vd. ibid.), così come il rinvio interno attuato da Alciato al passo delle Dispunctiones suesposto (vd. supra, pp. 112-114). 385 «Meminit et idem Homerus libro secundo Iliados, Tlepolemi, qui cum Lycimnii avunculi familiarem, a quo senio confectus ille ducebatur, baculo percutere vellet, per errorem ipsum avunculum percussit, exanimavitque, unde coactus in exilium abiit, et operam in bello Troiano Graecis dedit», in ALCIATUS 1582, IV, cit., col. 320. Sull’episodio dell’omicidio commesso da Tlepolemo (narrato in Il. 2, 661-665) vd. supra, par. V.1, nota 377. 386 Si presti attenzione alle osservazioni che saranno esposte infra, par. VII.3, sinteticamente anticipate supra, nota 383. 387 Vd. e cfr. supra, par. IV.2, e ivi, nota 315. 384
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mitologici qualificabili come paradigmatici di quel costume, arricchisce l’argomentazione alciatea dell’eleganza propria della nuova cultura umanistica388. Un secondo esempio della sensibilità storico-filologica di Alciato si riscontra in un altro passo, contenuto nel capitolo XXIII del trattato De singulari certamine389, dove peraltro è presente un ulteriore riferimento al costume dell’ἀπενιαυτισμός. Discorrendo del problema della sfida a duello lanciata al soggetto empio e malfamato, Alciato ritiene che lo sfidante non possa più sottrarsi al duello, e ciò in virtù di una sorta di presunzione di conoscenza dello status dello sfidato. Infatti, chi sfida a duello assume l’onere della propria iniziativa, per così dire. Tuttavia, introducendo una controargomentazione, Alciato richiama il caso di coloro che, pur non potendo testimoniare, se convocati in giudizio sono di diritto ammessi a farlo in virtù di una sorta di presunzione d’ignoranza del loro status di intestabiles, presunzione posta a vantaggio di coloro che li hanno convocati in giudizio. E un esempio di soggetti intestabiles è fornito proprio da coloro che comunemente e in lingua volgare (vulgo) sono definiti banniti, oltre che dagli excommunicati390. Più in dettaglio, Alciato afferma che sono detti abanniti coloro che sono stati allontanati in esilio per un anno in ragione dell’omicidio commesso, fenomeno che in lingua greca è definito ἀπενιαυτισμός (se ne ha attestazione nei commentari di Eustazio a Omero), appunto, per così dire, abannatio in lingua latina (calco, si è detto, verosimilmente dovuto a paretimologia)391. Questi esuli, prosegue Alciato,
388 Vd. e cfr. supra, par. II.1. Lo si vedrà anche in relazione ad altri episodi storico-mitologici, assunti a paradigma d’analisi critica di ulteriori istituti, concetti e fenomeni storico-giuridici (vd. infra, cap. VI). 389 La prima stesura dell’opera risale verosimilmente a non oltre il febbraio 1525, e nel 1528 Alciato si dedicò a una rielaborazione dello scritto. Si tratta di un opuscolo volto a difendere il diritto del re di Francia di non sottomettersi all’imperatore, sulla base di considerazioni di carattere storico-giuridico, e dunque dedicato a Francesco I nel 1529, senza intenzione di divulgarlo. Dopo l’apparizione dell’edizione abusiva di Jacques Kerver, pubblicata a Parigi nel 1541, nel 1543 Alciato ne affidò l’edizione ufficiale a Jean e François Frellon, che la pubblicarono a Lione in quello stesso anno (per tutto e per ulteriori approfondimenti vd. BELLONI 2016b, pp. 826, 847-851, 917-918, ma si ricordino anche le riflessioni esposte in sede introduttiva, par. II.1). Inoltre, si veda anche CAVINA 2003, pp. 105-112. 390 ALCIATUS 1582, IV, De singulari certamine, Cap. XXIII, col. 642. Sul bannum quale vox vulgaris si veda nuovamente supra, par. IV.2, e ivi, nota 315. 391 «Sunt abanniti [con nota a margine di rinvio a l. de pupilo, § servo, de oper. no. nunt., appunto, D. 39, 1, 5, 1] qui in annuum exilium missi sunt caedis perpetratae causa, quod Graecus sermo, ut Homeri interpres Eusthatius auctor est, ἀπενιαυτισμόν, quasi abannitionem dicas, conformi Latinis nomine appellat», in ALCIATUS 1582, IV, cit., col. 642. Sulla presunta paretimologia abannatio si rinvia nuovamente alle riflessioni esposte supra, pp. 117-118, e ivi, nota 383, e a quanto sarà esposto infra, par. VII.3. Il riferimento a Eustazio corrisponde a EUSTATH. Commentarii ad Homeri Odysseam 1384, Vers. 16, r. 1 (vd. EUSTATHIUS 1825, p. 10). Come ricordato da Belloni, l’opera di Eustazio fu studiata da Alciato a Bologna (entro il 1516, anno della sua laurea), ivi trovata manoscritta nella biblioteca dei frati domenicani (vd. BELLONI 2016b, pp. 685-686).
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hanno perso il diritto di cittadinanza, e in ragione di ciò il soldato di fama impregiudicata potrà legittimamente respingerli nell’ipotesi di una sfida a duello. Infatti, per quanto la sentenza contro l’esule possa essere impunemente disattesa fuori dal territorio di appartenenza di quello, e dunque, più in generale, dai confini della giurisdizione competente, dal momento che quella sentenza infligge anche una nota d’infamia e rende la persona incapace di testimoniare (cosa che si ricava dal commento di Bartolo a C. 1, 1, 1), è possibile ritenere che l’esule sia considerato in ogni luogo come un uomo empio e malvagio392. Così, ancora una volta, nel richiamo ai banniti (qui in quanto soggetti intestabiles e infames) Alciato coglie l’occasione per soffermarsi brevemente su una questione lessicale dotta, suggerita dall’ormai nota identificazione paretimologica di abannatio con ἀπενιαυτισμός. La riflessione storico-linguistica (che peraltro rivela l’interesse umanistico per il recupero dell’antica tradizione bilingue greco-latina) si combina con l’analisi di precisi problemi giuridici (dalle presunzioni legate alla sfida a duello alla condizione dei banniti) in un insieme armonico che qualifica l’originalità delle trattazioni alciatee, rappresentative della dottrina umanistica in senso lato393.
392
ALCIATUS 1582, IV, cit., col. 642. Per il commento di Bartolo a C. 1, 1, 1 vd. BARTOLUS 1562, IV, In duodecim libros Codicis, ff. 5A-18A (soprattutto i punti 11 e 12 – f. 7A – dove Bartolo si sofferma sull’incapacità di testimoniare derivante dall’infamia). Sul problema dell’infamia legata al bannum, oltre che dell’estensione territoriale di quello, vd. e cfr. supra, par. IV.2, e ivi, nota 334, contenente il passo del De praesumptionibus tractatus in cui Alciato cita Alberico da Rosciate, che aveva paragonato l’infamia che accompagna il bandito in ogni luogo alla lebbra che affligge il lebbroso (vd. ALCIATUS 1582, IV, De praesumptionibus, Reg. III, Praes. XXII, col. 847, 3). Sul tema del duello, che fa da sfondo all’argomentazione aciatea qui presentata, si rinvia almeno a SANTORO 1960; FIORELLI 1965; MONORCHIO 1998; CAVINA 2003; GENTILIS 2008 (pp. 535-546); ISRAEL, ORTALLI 2009; ISRAEL, JASER 2016. 393 Si ricordino le riflessioni esposte supra, par. II.1.
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CAPITOLO VI LA GIURISDIZIONE CRIMINALE ROMANA E L’ESILIO. ΤΌΠΟΙ RICORRENTI ED ESEMPI PARADIGMATICI La selezione dei passi alciatei più rilevanti in tema di esilio ha rivelato la presenza nelle argomentazioni dell’umanista di τόποι ricorrenti e di esempi paradigmatici. Lo si è già evidenziato più volte in tema di rispetto della proprietas sermonis394 e riguardo al costume dell’esilio volontario conseguente a un omicidio involontario apud Graecos395. Similmente, si riscontra nell’umanista la tendenza a porre l’esilio in connessione con episodi della storia costituzionale romana e dello sviluppo della giurisdizione criminale di età repubblicana, che Alciato percepisce come cruciali. Si tratta fondamentalmente: a) del richiamo costante alla lex Porcia (nella forma di un rinvio generico alla lex Porcia quale portato delle tre leges Porciae complessivamente intese, o specifico alla lex Porcia I, de tergo civium) in contrapposizione al mos maiorum, e al contributo di quella lex nel processo di sviluppo della costituzione romana396;
394
Vd. supra, parr. II.2 e IV.2, ma anche diffusamente, nel corso della trattazione. Vd. supra, cap. V. 396 Si ricordi quanto accennato supra, p. 72, e ivi, nota 229, sul riferimento generico al portato delle leges Porciae. Sarà opportuno ricordare sin d’ora come in età repubblicana la coercitio magistratuale avesse subito un primo contenimento grazie alla legislazione regolante l’istituto della provocatio ad populum. Quest’ultimo riconosceva al cittadino romano perseguito dal magistrato titolare dell’imperium la facoltà di chiedere l’instaurazione di un regolare processo dinanzi all’assemblea del popolo (i comitia), così sottraendosi alla fustigazione e alla conseguente esecuzione capitale. Una successiva e ulteriore limitazione di quella coercitio fu riconosciuta dalle suddette leges Porciae, che secondo le fonti (Cicerone le cita espressamente in rep. 2, 54) sarebbero state tre: la prima, la lex Porcia de tergo civium, ricordata da Livio (LIV. 10, 9, 4) e tendenzialmente attribuita a Catone il Vecchio (console nel 195 a.C.) sulla base della testimonianza fornita da Festo (FEST. s.v. Pro scapulis, pp. 266 e 268), avrebbe concesso la provocatio ad populum contro la fustigazione applicata come misura repressiva autonoma (o, secondo altre interpretazioni, avrebbe sancito il divieto di sottoporre i cittadini romani alla fustigazione); la seconda, che una testimonianza 395
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b) della citazione di passi di Cicerone, Tacito, Ovidio e Sallustio, autori classici prediletti in ragione delle testimonianze di consuetudini e istituti giuridici (propri dell’esperienza giuridica romana) contenute nelle loro opere; c) del noto e costante invito a non trascurare la proprietas sermonis, sempre presente anche in questi casi397. Come si vedrà, l’esilio è essenzialmente preso in considerazione da Alciato nella sua originaria natura di strumento sanzionatorio alternativo alla pena di morte398,
numismatica consente di ricondurre al proponente P. Porcio Leca (tribuno della plebe nel 199 a.C., e pretore nel 195 a.C.), avrebbe riconosciuto la provocatio ad populum, fino ad allora concessa all’interno dei confini di Roma (entro i mille passi dal pomerium), anche ai cittadini che si trovassero fuori dall’Urbs (dunque, in Italia e nelle province) e forse anche ai milites nei confronti del loro comandante; la terza (di data e proponente – forse L. Porcio Licinio, console nel 184 a.C. – ignoti) avrebbe introdotto una sanzione ancora più severa (forse proprio la pena di morte) a danno del magistrato che avesse violato le norme sulla provocatio ad populum stessa (e se ne ha testimonianza sempre in LIV. 10, 9, 4). Per tutto, per ulteriori approfondimenti (soprattutto sul dibattito intorno alle leges Porciae in seno alla scienza romanistica) e per le relative indicazioni bibliografiche si rinvia a SANTALUCIA 1981; ID. 1998 (soprattutto, per quanto qui sintetizzato, pp. 23-46, 52-55 e 69-75); ID. 2009a (soprattutto pp. 7-61, 115-202, 359-370, 407-421 e 497-507); ID. 2009b; ID. 2013 (soprattutto pp. 25-37, 42-44 e 147-148); GIUFFRÈ 1991; VENTURINI 1996; LOVISI 1999; PELLOSO 2013; ID. 2016. Inoltre, per un’ampia rassegna bibliografica in tema di diritto penale romano, si rinvia alle indicazioni fornite nel già citato SANTALUCIA 2013, pp. 145-155. 397 Vd. e cfr. nuovamente supra, capp. III e IV. 398 Il commento dei passi selezionati consentirà di chiarire meglio quanto qui accennato. Ad ogni modo, sarà utile ricordare come l’exilium fosse in origine un atto volontario cui il cittadino poteva ricorrere per evitare la pena (generalmente capitale) prima di essere formalmente condannato (fondamentale è al riguardo la testimonianza di Polibio – POL. 6, 14, 6-8). All’allontanamento dalla comunità di appartenenza seguiva l’emanazione di un decreto di aquae et ignis interdictio a opera del concilium plebis, che sanciva l’esclusione formale del soggetto da quella comunità e il divieto di poter farvi ritorno, ed era spesso seguito dalla confisca dei beni (vd. KELLY 2006, pp. 17-19). In tal senso, Crifò ha ritenuto possibile qualificare l’esilio come un diritto, espressione di libertà civica e della solidarietà gentilizia caratterizzante le dinamiche di accoglienza degli esuli in altre comunità (ivi, pp. 20-25, e cfr. CRIFÒ 1985, pp. 9-10 e 14-19). La natura e i caratteri dell’aquae et ignis interdictio, in relazione ai suoi legami con l’antica sacratio, ma soprattutto alla sua evoluzione in pena vera e propria per certi crimini, sono stati e restano oggetto di ampie discussioni nella dottrina romanistica. La tesi oggi dominante colloca quell’evoluzione all’epoca della legislazione sillana (in particolare alle leges Corneliae dell’82/81 a.C. – D. 48, 10, 33), se non già alla legge graccana di cui si ha testimonianza in Cicerone (come anche delle stesse leges Porciae, vd. CIC. Rab. perd. 12). Certamente divenne la pena prevista per certi crimini negli ultimi anni della repubblica, pur nella persistenza dell’esilio volontario (vd. e cfr. KELLY 2006, pp. 25-45, e CRIFÒ 1985, p. 15). Oggetto di ampio dibattito resta anche il rapporto fra esilio e cittadinanza. Le maggiori testimonianze in tal senso provengono sempre da Cicerone (dom. 77-78, e Caecin. 100) e sulla base di queste (pur se non esclusivamente) Crifò (seguito da Kelly) ha evidenziato come la perdita della cittadinanza non fosse una conseguenza diretta dell’aquae et ignis interdictio successiva all’esilio, ma come appunto potesse aver luogo solo su volontà dell’esiliato, nel momento in cui questi avesse acquisito una cit-
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e assunto a simbolo di civiltà e giustizia dell’antica società romana, umanisticamente idealizzata nella lettura di vicende significative della sua storia. Poste queste premesse, si suggerisce la lettura di un primo passo, tratto dal commento a D. 50, 16 (De verborum significatione)399, 103, particolarmente interessante in ragione del parallelismo, ivi creato da Alciato, fra una Roma repubblicana idealizzata nelle sue garanzie di giustizia e un mondo contemporaneo degradatosi nella crudezza dei suoi costumi. Innanzitutto, Alciato pone l’attenzione sulla differenza sussistente fra i concetti di causa e di pena capitali: in lingua latina l’espressione capitalis causa qualifica la causa coinvolgente la reputazione, mentre l’espressione capitalis poena indica qualsiasi pena comportante la perdita della vita, della libertà o della cittadinanza (come si desume da D. 48, 1, 2 e da D. 48, 19, 2)400. E in effetti, sulle tre possibili forme di manifestazione della pena capitale Alciato si era espresso anche altrove, in sede di commento a D. 2, 1 (De iurisdictione omnium iudicum)401, 3, appunto affermando che poena capitalis est tantum triplex, scilicet mors, amissio civitatis tantum, et amissio libertatis tantum402. Posta questa premessa, e chiarito un problema filologico relativo al testo di D. 50, 16, 103 preso in esame403, Alciato afferma che qualora lo statuto prescriva
tadinanza diversa da quella romana d’origine (vd. e cfr. CRIFÒ 1985, pp. 19-24, e KELLY 2006, pp. 45-47, con riferimento alle varie tesi sostenute in dottrina). Per tutto e per i relativi, ulteriori approfondimenti, oltre che ai due studi citati si rinvia almeno a CRIFÒ 1961; ID. 1984; GRASMÜCK 1978; SANTALUCIA 1998 (pp. 7-14, 181-183 e 251-252); ID. 2013 (pp. 17-22, 50, 67-70, 75, 81-85, 108-110); LEDNEVA 2009; JOŃCA 2009; SCHILLING 2010. Pur se dedicato a una fase storica più tarda, si segnala anche WASHBURN 2013. Sull’esilio di Cicerone in particolare si vedano DE BENEDETTI 1929; CICERO 1996; KELLY 2006 (pp. 110-125, 190-192 e 225-237). Sull’esilio nella letteratura latina si segnalano almeno DOBLHOFER 1987 e WILLIAMS 1994 (per il caso specifico di Ovidio). 399 Sull’opera vd. supra, nota 194. 400 «IDEM LIBRO VIII. Regularum. LEX CIII. Licet capitalis, latine loquentibus, omnis causa existimationis videatur, poenae tamen appellatio capitalis, vel mortis, vel amissionis civitatis, intelligenda est [è la citazione di D. 50, 16, 103]. LEX CIII. LICET. § Capitalis causa quaelibet intelligitur, quae ad existimationem refertur, sed si poenam capitalem dicimus, de ea intelligimus, cum vita, libertas vel civitas perditur [con nota a margine di rinvio a l. ii, de publi. iud., l. ii, de poenis]», in ALCIATUS 1582, II, Commentaria, ad D. 50, 16, 103, col. 1156, 1. 401 Verosimilmente, il commento è da ricondurre a quelle lezioni di Alciato rimaste inedite o edite abusivamente post mortem, inserite da Francesco Alciato nell’edizione basileense degli Opera omnia del 1571 (vd. e cfr. BELLONI 2016b, pp. 557-568, 924-925). 402 ALCIATUS 1582, I, Commentaria, ad D. 2, 1, 3, col. 157, 122. 403 Alciato afferma che il codice consultato è corrotto. Infatti, in alcuni testimoni si legge non tamen, mentre in altri la negazione è assente, e dunque si legge poenae tamen, che è indubbiamente la lezione da preferire: «Corruptus autem est codex. In aliquibus enim legitur, non tamen, in aliis deest negatio, sed omnino legendum est, poenae tamen», in ALCIATUS 1582, II, Commentaria, ad D. 50, 16, 103, col. 1156, 2.
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una poena capitalis (o semplicemente capitis), questa non dovrà intendersi nel senso di ‘pena di morte’. Piuttosto, al fine di applicare pene più miti dovrà essere irrogato l’esilio (lo si ricava dalla glossa Capitali a C. 1, 10, 1)404. Alciato ricorda anche come in passato alcuni abbiano ricondotto la pena suddetta alla sola nota d’infamia, donde l’opinione che il cliente beneficiario, che deve custodire la vita del suo dominus personalmente, secondo i propri mezzi e a pena di essere privato del beneficio ottenuto, debba custodirne anche la reputazione, dal momento che il periculum famae è equiparato al periculum vitae (lo si evince da D. 40, 2, 9). Inoltre, il capitale supplicium inflitto al sacerdote è stato dai più inteso nel senso di scomunica (come si deduce da VI. 5, 4, 1)405. Tuttavia, precisa Alciato, tali opinioni non sono giuridicamente corrette e l’espressione capitalis causa può essere ricondotta all’infamia o alla relegazione soltanto impropriamente, dal momento che anche nell’irrogazione delle pene è sempre necessario osservare la proprietas sermonis (come può dedursi da D. 28, 1, 26). Ne deriva che qualora il delitto commesso sia così atroce da essere punito con l’inflizione del sommo supplizio secondo il diritto comune, non dovrà credersi che gli statutari intendessero con l’espressione capitalis poena qualcosa di diverso dalla morte (e lo si deduce dal commento di Giovanni da Imola a D. 48, 1, 2). Similmente, quell’espressione dovrà essere interpretata nel senso di ‘pena di morte’ ogniqualvolta lo stesso diritto comune non preveda espressamente l’esilio come pena per un delitto (invece che, appunto, la morte). Alciato aggiunge che un’interpretazione diversa non sarebbe verosimile, soprattutto considerando che nel suo tempo il senso e il parlar comune (e in volgare) fanno coincidere la capitalis poena con l’amputazione della testa406. Ancora una volta, il consueto monito al rispetto della proprietas sermonis consente ad Alciato di soffermarsi sul problema dell’interpretazione dello statuto, in un richiamo all’attualità del suo tempo reso ancor più immediato dal riferimento esplicito all’uso linguistico comune a lui contemporaneo. Quest’ultimo sembra quasi essere posto in dialogo con il dettato normativo, antico o attuale che sia, al fine di giungere a un’interpretazione delle norme che, gio-
404 «Hinc argumentum colligitur, si in lege municipali poena capitalis, seu capitis simpliciter constituitur, non omnino de morte intelligendum, sed ut in poenis mitiora sequamur, exilium irrogandum [con nota a margine di rinvio a gl. l. i, C. ne man. christ.]», in ALCIATUS 1582, II, cit., col. 1156, 3. Nella glossa Capitali a C. 1, 10, 1 si legge: «Capitali. Id est, perpetuo exilio. Et concordat supra tit. i l. Iudaei, ii. Nam illa est capitalis poena, ut ff. de poenis, l. rei capitalis, in princ., et ff. de pu. iudi., l. ii, et facit supra de episc. et cler., l. fin.», in Corpus iuris civilis 1627, IV, col. 201. 405 ALCIATUS 1582, II, cit., col. 1156, 3-4. In tema di clientela e patronato vd. GUARINO 2001, pp. 288-293 (con relativa bibliografia). 406 ALCIATUS 1582, II, cit., coll. 1156-1157, 5-6. Per il commento di Giovanni da Imola a D. 48, 1, 2 si veda IOANNES 1518, ff. 137rA-138rB.
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vandosi della varietà di registri propria della lingua, diviene ancora più consapevole e puntuale407. In tal senso, proseguendo nell’argomentazione, Alciato evidenzia come Modestino (il giureconsulto al quale è attribuito il testo di D. 50, 16, 103) interpreti l’espressione capitalis causa secondo il significato più ampio che le deriva dalla lingua latina, e non secondo quello che la gente comune e gli ignoranti normalmente adottano. Qui il contrasto fra registri linguistici appare estremamente chiaro e Alciato vi si sofferma ulteriormente, ponendo un quesito: l’amputazione di un arto (sull’esempio proposto in D. 28, 1, 10) è forse qualificabile come poena capitalis? Alciato afferma di no (alludendo all’opinione generalmente accolta), salvo si attribuisca a quell’espressione un significato, per così dire, più ordinario e impreciso, dal momento che un arto non può essere amputato senza che il reo subisca un danno alla propria reputazione (sul modello di C. 2, 11 (12), 14). E se in base al diritto antico una pena di tal sorta non veniva inflitta (vale a dire, verosimilmente, l’amputazione intesa come poena capitalis), Alciato sottolinea come nel suo tempo quella pena sia prevista dalle costituzioni in alcuni casi (come si ricava da D. 11, 4, 2)408. Si allude qui a quel confronto fra mondo antico e mondo contemporaneo di cui si era detto in esordio, confronto che l’umanista sviluppa introducendo una digressione propriamente storica sul concetto di pena di morte nell’antica Roma. In primo luogo, Alciato ricorda come dalla fondazione dell’Urbs (in un richiamo evidente all’opera liviana) la pena di morte fosse inflitta per i delitti più gravi: i rei erano fustigati dai littori fino alla morte, o soggetti alla suspensio all’arbor infelix (e lì fustigati fino alla morte). Tuttavia, Marco Porcio Catone promosse una legge in virtù della quale nessun cittadino romano avrebbe più potuto essere ucciso a frustate in seguito a un delitto, ma avrebbe piuttosto dovuto essere allontanato in esilio (appunto, la lex Porcia I, de tergo civium, di cui si è detto sopra). Ciononostante, per cause di particolare gravità i senatori erano soliti punire i rei secondo il mos maiorum, vale a dire secondo il costume, o meglio, le consuetudini anteriori alla lex Porcia,
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Sull’interpretazione dello statuto si rinvia alle indicazioni esposte supra, nota 329. Inoltre, in tema di proprietas sermonis e di usi linguistici in generale si rinvia alle considerazioni presentate supra, par. IV.2. 408 «Et ideo Iurisconsultus hic ex latino sermone latam illam significationem causae capitali tribuit, non autem ex eo, quo vulgares et idiotae utuntur. Sed an membri amputatio poena capitalis sit [con nota a margine di rinvio a l. qui manus. supra de testa.]? Et non esse receptum est, nisi forte crassiore significatione id nomen accipiamus, non enim membrum amputari potest, quin reus existimationis suae detrimentum patiatur [con nota a margine di rinvio a l. nullam, C. de infam.]. Iure autem veteri huiusmodi poena non inferebatur, sed hodie in quibusdam casibus ex constitutionibus indicta est [con nota a margine di rinvio a l. ii, de ser. fug.]», in ALCIATUS 1582, II, cit., col. 1157, 6-7.
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come per esempio accadde nei confronti dei catilinari, secondo quanto riporta Sallustio. D’altra parte, in quanto non vincolati alle leggi (legibus soluti), anche agli imperatori era consentito di condannare a morte un cittadino romano, come Cassio Dione tramanda con riferimento ad Augusto. Tuttavia, precisa Alciato, la pena di morte fu prevista raramente contro gli stranieri, ritenendosi sufficiente infliggere loro la damnatio in metallum o la deportatio in insulam. Infatti, era consuetudine degli antichi che gli stranieri rei di un delitto fossero meritatamente puniti mediante la condanna all’esecuzione di opere pubbliche (vale a dire, la damnatio in opus publicum). Ad ogni modo, aggiunge Alciato, la morte non era certo considerata un tormento, se in Sallustio è possibile leggere la seguente affermazione attribuita a Cesare: in luctu et miseriis mors aerumnarum requies, non cruciatus est409. Alciato presenta al lettore quello che potrebbe definirsi un breve excursus storico sullo sviluppo della giurisdizione criminale romana, dove l’introduzione
409 «§ Mortis. A principio urbis conditae, pro delictis gravioribus poena mortis reis ingerebatur, verberibus enim a lictoribus affecti necabantur, vel arbori infelici suspendebantur. Verum M. Porcius Cato legem tulit, ne quis civis Romanus verberibus necaretur, sed ex delicto in exilium mitteretur. Solebant tamen Senatores ex magna causa more maiorum, id est, eorum qui ante legem Porciam vixere, reos punire, ut in L. Catilinae collegas observatum fuisse Sallustius tradit. Imperatoribus quoque, quoniam legibus soluti essent, ad necem civem Romanum condemnare permissum erat, ut in Augusto Dion est auctor. In exteros autem raro quoque poena mortis constituta fuit, sed damnatio in metallum, vel in insulam sufficere visa est, aliquis enim eorum usus erat, cum opus facere compellerentur, et tamen merita poena afficiebantur. Si quidem ut C. Caesar apud Sallustium inquit, in luctu et miseriis mors aerumnarum requies, non cruciatus est», in ALCIATUS 1582, II, cit., col. 1157, 8-10. Fra gli altri, della suspensio all’arbor infelix e della conseguente fustigazione si ha testimonianza in LIV. 1, 26, 6. Sulle pene della fustigazione (verberatio) e della suspensio all’arbor infelix in diritto penale romano vd. CANTARELLA 1996 (pp. 147-154, 171-222); SANTALUCIA 1998 (p. 14); ID. 2013 (pp. 19-22, e pp. 145-146 per le dovute, ulteriori indicazioni bibliografiche). Sulla lex Porcia I, de tergo civium, vd. supra, nota 396. Il riferimento a Sallustio, s’intende, riguarda il De coniuratione Catilinae. È verosimile che Alciato alludesse alle orazioni di Cesare (contrario a un’esecuzione diretta dei catilinari nel mancato rispetto delle garanzie giurisdizionali, fra le quali, appunto, la provocatio ad populum e/o la concessione dell’esilio) e di Catone (favorevole all’esecuzione immediata dei congiurati, in linea con la proposta di Cicerone), ivi riportate da Sallustio (vd. SALL. Catil. 51, 21-24; 52, 36; 55, 3-6, sull’esecuzione di Lentulo). Sulla vicenda della congiura e sull’opera di Sallustio si rinvia almeno alle indicazioni presenti in GABBA, FORABOSCHI, MANTOVANI, LO CASCIO, TROIANI 1999, pp. 132-134, e all’ampia bibliografia suggerita in CAVALLO, FEDELI, GIARDINA 2002, pp. 325-333. Si segnala anche il recente VACANTI 2018. Il riferimento a Cassio Dione riguarda verosimilmente il libro LIII delle Historiae Romanae, dedicato (insieme al libro LII) all’ascesa al potere di Augusto e alle modifiche da lui progressivamente apportate all’ordinamento costituzionale romano. In particolare, sul principio del princeps legibus solutus (espresso da Ulpiano in D. 1, 3, 31) vd. DCASS. 53, 18 e 28. Sulle pene della damnatio in metallum, della deportatio in insulam e della damnatio in opus publicum si rinvia almeno a SANTALUCIA 1998, pp. 249-251, e alle indicazioni bibliografiche presenti in ID. 2013, soprattutto pp. 153-154. L’ulteriore richiamo a Sallustio riguarda proprio l’orazione di Cesare qui menzionata (vd. SALL. Catil. 51, 20).
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della lex Porcia I, de tergo civium, viene assunta a momento cruciale dell’evoluzione costituzionale di Roma, e l’esilio sostituisce la pena di morte, divenendo così simbolo di maggiore giustizia, civiltà e umanità410. Tuttavia, Alciato evidenzia come nel contesto di garanzie giurisdizionali d’età repubblicana la condanna a morte potesse trovare una giustificazione se volta a punire reati particolarmente gravi. Contro questi ultimi, infatti, era ammissibile l’intervento del senato nell’applicazione dell’antico mos maiorum, e successivamente, dall’età del principato in avanti, anche l’intervento del princeps, che in quanto legibus solutus sarebbe potuto intervenire anche con misure eccezionalmente severe, se il caso ne avesse mostrato la necessità411. Il richiamo alla congiura di Catilina, come si vedrà anche più avanti, rappresenta un esempio importante di come Alciato tenda a individuare episodi rappresentativi della storia costituzionale romana: la condanna dei catilinari acquista un valore paradigmatico in quanto eccezione all’orientamento proprio della giustizia antica (vale a dire, d’età repubblicana), che nella ricostruzione alciatea sarebbe stata propensa a evitare la condanna a morte. Proprio sullo sfondo di quest’elogio vagamente idealizzato, Alciato conclude la sua trattazione con un giudizio severissimo sulla realtà a lui contemporanea, ormai degradatasi in una barbarie disumana. Egli afferma che nel suo tempo, in netto contrasto con il costume antico, nella previsione e irrogazione delle pene ha luogo una mera carnificina, e secondo gli statuti i rei sono strangolati, decapitati, arsi o mutilati. Si tratta di pratiche d’efficacia, per così dire, discutibile, dal momento che se quei rei fossero condannati all’esecuzione di un’opera pubblica (sul modello della damnatio in opus publicum menzionata sopra), subendo così una pena perpetua (e in tal senso più severa), sarebbero di maggior esempio per gli altri, e apporterebbero una qualche utilità pubblica. In tal senso, Alciato evidenzia come in quest’ambito (oltre che in molti altri casi) i legislatori moderni siano indubbiamente superati dalla sapienza di quelli antichi412. Dunque, la mera carnificina emergente dalla legislazione statutaria consente ad Alciato di evidenziare il valore della tradizione giuridica romana, pur se attraverso una certa idealizzazione dei classici (non estranea all’Umanesimo). Infatti, quella tradizione si rivela funzionale a una migliore comprensione del mondo a lui contemporaneo, nel recupero di un’uma-
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Si rinvia nuovamente alle riflessioni esposte supra, note 396 e 398. Ibid. 412 «At hodie in poenis mera carnificina est, et per leges municipales, vel strangulantur, vel decollantur, vel exuruntur, vel mutilantur rei, qui si in opus publicum damnarentur, et perpetuam poenam subirent, idcircoque acriorem, et maiori caeteris exemplo essent, publiceque utilitatem aliquam afferent, ut negare non possit, ut in plerisque aliis rebus, sic hac quoque in parte ab antiquis recentiores legumlatores superari», in ALCIATUS 1582, II, cit., col. 1157, 11. 411
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nità che anima lo sforzo dei doctores di temperare norme e pratiche proprie del loro tempo (lo si è già più volte accennato)413. Come si ricorderà, la citazione di classici greci e latini, nel richiamo a determinati episodi di storia romana, ricorre in Alciato con frequenza, quasi assumendo una connotazione topica. Fra gli autori prediletti vi è senz’altro Sallustio, citato riguardo alla congiura di Catilina e alla condanna dei catilinari su intervento del senato anche in un altro passo, tratto dal cap. XXI del libro IV dei Parerga414. Lì Alciato riporta la testimonianza di Sallustio per sottolineare come il senatus consultum con cui fu sancito che i catilinari dovessero essere puniti secondo il mos maiorum intendesse applicare proprio il summum supplicium, vale a dire, la pena di morte. Infatti, ciò è quanto era solito accadere al tempo dei maiores, e dunque prima dell’emanazione della lex Porcia, che garantì che nessun cittadino romano fosse condannato a morte, e che al posto della pena capitale si facesse ricorso alla deportatio in insulam o all’interdictio aquae et ignis415. Emergono tutti i temi ricorrenti cui si è più volte accennato: la citazione di Sallustio in riferimento alla condanna dei catilinari; il riferimento alla lex Porcia I, de tergo civium, nuovamente assunta a simbolo di sviluppo della giurisdizione criminale romana in quanto sostituente la pena di morte con l’esclusione del reo dalla civitas (nelle forme della deportatio in insulam o dell’interdictio aquae et ignis); l’eccezionalità della condanna a morte dei catilinari, inflitta dal senato sulla base dell’antico mos maiorum in ragione della gravità della minaccia alla res publica416, pur se in deroga al nuovo sistema di garanzie giurisdizionali. A questi elementi si aggiunge anche la citazione di un altro classico prediletto, Tacito, che nel libro XIV degli Annales ricorda come Marullo, designato console, stabilì che il reo dovesse essere ucciso secondo il mos maiorum. A ciò si oppose Trasea, che dopo aver ricordato come la pena di morte (carnifex et laqueus) fosse stata abolita ormai da tempo, e come le leggi avessero introdotto pene meno crudeli e infamanti, suggerì piuttosto l’inflizione della deportatio in insulam e della relativa confisca dei
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Si ricordi quanto esposto supra, parr. I.1-I.4, e cap. III (soprattutto par. III.2). Sull’interesse umanistico per i classici si rinvia alle indicazioni bibliografiche presentate supra, nota 111. 414 Sull’opera vd. supra, nota 382. 415 «Sane S.C. quo socios Lucii Catilinae apud Sallustium more maiorum puniendos sancitum est, hanc habet significationem, ut summum supplicium de eis sumeretur, sicut solebat fieri tempore maiorum, id est, ante legem Portiam, qua cautum deinde fuit, ne quis civis Romanus gladio consumeretur, sed loco mortis sufficeret in insulam deportatio, ignisve aut aquae interdictio», in ALCIATUS 1582, IV, Parerga, IV, Cap. XXI, col. 401. Si tratta di argomenti e riferimenti già noti, per i quali si rinvia a supra, note 396, 398 e 409. 416 Appunto, «ut summum supplicium de eis sumeretur», in ALCIATUS 1582, IV, cit., col. 401. Vd. e cfr. nuovamente supra, note 396, 398 e 409.
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beni417. Ancora una volta, Alciato pone l’attenzione sul contrasto fra norme nuove e costumi antichi, attribuendo alle prime un più alto senso di giustizia e di umanità. E in linea con questo stile espositivo si pongono anche le riflessioni in tema di perdita della cittadinanza romana in seguito a un delitto, di interdicti aqua et igni e di deportati esposte da Alciato nel cap. XV del libro I dei Parerga418. Innanzitutto, Alciato ricorda come il cittadino romano non potesse essere privato della cittadinanza contro la sua volontà, ma soltanto sulla base della combinazione di tre elementi: la commissione di un delitto, un fondamento normativo valido (lex lata) e l’essere stato accolto nell’isola di destinazione (vale a dire, l’aver acquisito una nuova cittadinanza, diversa da quella romana). A questo riguardo, la testimonianza offerta da Cicerone nell’orazione De domo sua acquista agli occhi di Alciato un’importanza centrale: Hoc nobis a maioribus traditum est, hoc proprium liberae civitatis, ut nihil de capite civis, aut de bonis, sine iudicio senatus, aut eorum, qui de hac re constituti iudices sint, detrahi possit […]. Civitatem nemo unquam ullo populi iussu amittet invitus. Qui cives Romani in colonias Latinas proficiscebantur, fieri non poterant Latini, qui non erant autores facti, nomenque dederant. Qui erant rerum capitalium condemnati, non prius hanc civitatem amittebant, quam erant in eam recepti, quo vertendi, hoc est, mutandi soli causa venerant. Id autem ut esset faciundum, non ademptione civitatis, sed tecti, aquae et ignis interdictione faciebant. Inoltre, nell’orazione Pro C. Rabirio si legge che Gracchus […] legem tulit, ne de capite civium Romanorum iniussu vestro iudicaretur419. Dunque, Cicerone si aggiunge alla rosa di classici privilegiati dall’umanista, rappresentando una delle fonti principali in tema di esilio nell’antica Roma repubblicana. Tuttavia, dei requisiti necessari per la perdita della cittadinanza si ha testimonianaza anche in altri autori. Nel libro III degli Annales, Tacito scrive: Gratias agenti ob fratris exulis restitutionem Syllano, patribus coram respondit Tyberius, se quoque laetari, quod frater eius ex peregrinatione longinqua revertisset, idque iure licitum, quia non senatus consulto, non
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«Corn. Tacitus libro XIIII. Censuit Marullus Consul designatus reum more maiorum necandum; contra Thrasea disseruit, carnificem et laqueum pridem abolita, et esse poenas legibus constitutas, quibus sine iudicum saevitia et ipsorum infamia, supplicia decernerentur, quin in insulam publicatis bonis iret, et c.», in ALCIATUS 1582, IV, cit., col. 401. La citazione di Tacito (in questo caso sintetizzata da Alciato, e dunque solo in parte letterale) corrisponde a TAC. ann. 14, 48, 2-4. Sul passo e sull’episodio ivi narrato vd. TACITUS 1907, p. 292; ID. 1968, pp. 116-118; ID. 2003, II, pp. 1468-1469. Su Tacito e sugli Annales si rinvia alle indicazioni bibliografiche presenti in CAVALLO, FEDELI, GIARDINA 2002, pp. 455-462. 418 Sull’opera vd. nuovamente supra, nota 382. 419 ALCIATUS 1582, IV, Parerga, I, Cap. XV, col. 292. Le citazioni di Cicerone corrispondono a CIC. dom. 77-78, e a CIC. Rab. perd. 12. Per le relative questioni in tema di esilio e di perdita della cittadinanza vd. supra, nota 398.
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lege puls‹u›s foret. E nel libro II dei Tristia Ovidio afferma: Nec mea decreto damnasti facta senatus, / nec mea selecto iudice iussa fuga est. Così, le fonti sembrano confermare la presenza nel diritto antico di un sistema di garanzie poste a tutela dei cives, e ciò induce Alciato a formulare una riflessione: anche coloro che lo avessero voluto non avrebbero comunque perso la cittadinanza in seguito a un delitto, se non fossero stati espulsi sulla base di una legge valida o eventualmente catturati iure gentium. Una similitudine può cogliersi riguardo al tutore che sia passato ai nemici (sulla base di D. 26, 1, 15): egli mantiene la sua cittadinanza, salvo sia un soldato disertore, trattenuto dai nemici per diritto di guerra (caso nel quale diviene egli stesso nemico pubblico)420. Ciò posto, Alciato sintetizza considerazioni già note. In Cicerone, nell’orazione Pro C. Rabirio, si ha testimonianza della lex Porcia, con la quale fu stabilito che nessun cittadino romano potesse essere ucciso mediante fustigazione o sottoposto al sommo supplizio. In Sallustio si ha menzione del fatto che i catilinari furono puniti con il sommo supplizio sulla base del mos maiorum, vale a dire, il sistema di consuetudini anteriore alla lex Porcia, che proibì l’esecuzione capitale. E in Tacito, nel libro XIV degli Annales, si legge di Giulio Marullo e di Trasea: se il primo ritenne necessario applicare la pena di morte secondo il mos maiorum, il secondo si oppose ricordando come quella pena fosse stata abolita già da tempo, e come attraverso delle leggi fossero state introdotte pene quali la deportatio in insulam associata alla confisca dei beni421. Si tratta degli esempi paradigmatici di cui si era detto sopra, assunti a simbolo di sviluppo della costituzione romana e del suo sistema di giurisdizione criminale. Sullo sfondo del contrasto fra antiche consuetudini e nuove norme, la sostituzione della pena di morte con la più mite e, per così dire, più umana deportatio in insulam acquista un valore fondamentale422.Tuttavia, alle pene qui menzionate se ne aggiungono anche altre, che Alciato presenta attraverso il modello fornito dalle diverse categorie di stranieri. In ragione delle pene previste dallo ius civile, alcuni divengono servi poenae, come coloro che perdono la cittadinanza e la libertà a causa dell’atrocitas della sen-
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ALCIATUS 1582, IV, cit., coll. 292-293. La citazione di Tacito corrisponde a TAC. ann. 3, 24, 3-4. Sul passo e sull’episodio ivi narrato vd. TACITUS 1896, pp. 419-420; ID. 1963, pp. 461462; ID. 2003, II, pp. 1143-1144. Vd. anche supra, nota 417. La citazione di Ovidio corrisponde a OV. trist. 2, 131-132. Su Ovidio e sulla sua opera legata all’esilio si rinvia al già citato WILLIAMS 1994 e alle indicazioni bibliografiche presenti in CAVALLO, FEDELI, GIARDINA 2002, pp. 379-388. 421 ALCIATUS 1582, IV, cit., col. 293. Sulle citazioni di Cicerone (CIC. Rab. perd. 12), Sallustio (SALL. Catil. 51-52, e 55) e Tacito (TAC. ann. 14, 48, 2-4) vd. supra, rispettivamente note 398, 409, 417. Si segnala che l’edizione presenta un refuso, menzionando il libro XV degli Annales di Tacito invece che il XIV. 422 Per tutto, si rinvia nuovamente alle considerazioni esposte supra, note 396, 398, 409, 415 e 417.
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tenza. Ne sono un esempio i condannati alle miniere e coloro che sono gettati in pasto alle bestie, soggetti che subiscono una capitis deminutio maxima (lo si desume da I. 1, 12, 3). Altri, invece, divengono deditizi, come coloro che sono stati interdetti aqua et igni. A questo riguardo Alciato ricorda che come la condizione dei deditizi scomparve con la repubblica e la condizione latina sopravvisse a lungo (lo si deduce da C. 7, 6, 1), così anche l’interdizione aquae et ignis cadde in desuetudine (lo testimonia D. 48, 13, 3) e rimase soltanto la pena della deportatio in insulam. Inoltre, i deportati devono essere considerati di condizione latina, dal momento che se da un lato perdono il diritto di cittadinanza, dall’altro trovano nell’isola di destinazione la loro patria, come Cicerone stesso espone ai pontifices nella predetta orazione (De domo sua)423. L’interesse di Alciato per l’istituto della deportatio e per la sua sostituzione all’interdictio aquae et ignis era già stato evidenziato sopra, in sede di commento ai Corpora iuris424. Qui, tuttavia, la questione viene nuovamente trattata con una sensibilità diversa, manifestantesi in una maggior attenzione per il fenomeno inteso nella sua storicità, sulla base delle testimonianze classiche a disposizione. La storia romana entra in gioco a gran voce, fornendo il suo contributo fondamentale a una migliore comprensione dei problemi storico-giuridici, e fornendo ad Alciato l’occasione per formulare le riflessioni di carattere storico-linguistico tipiche del suo stile argomentativo. In tal senso, Alciato evidenzia come talvolta la legge chiami quei deportati peregrini, appunto ‘stranieri’ (come si ricava da C. 6, 24, 1 e 7, e da D. 2, 4, 10, 5-6), negando loro la testamenti factio passiva nei confronti di un cittadino romano. E in lingua greca li si definirebbe ἀπόλιδες, appunto sine civitas (lo si deduce da D. 1, 3, 1, e da D. 48, 19, 17, 1). Peraltro, se altrove (vale a dire, in altri passi del Digesto) si ritiene che non perdano gli iura gentium, risulta comunque chiaro che perdono lo ius civile (lo si evince da D. 17, 1, 22, 5). Talvolta sono definiti anche relegati, ma solo in senso lato, dal momento che propriamente i relegati sono coloro che non perdono né la libertà né la cittadinanza, come può dedursi da D. 48, 22, 4 e da Ovidio, che nel libro II dei Tristia (già citato sopra) scrive: Quippe relegatus, non exul dicor in illo, / parcaque fortunae sunt tibi verba meae. Inoltre, i relegati sono allontanati soltanto entro confini ben definiti, e per un periodo di tempo determinato, e il giureconsulto Paolo, sulla base del primo significato, vale a dire, quello più ampio attribuibile al sostantivo relegati (sull’esempio di D. 48,
423 ALCIATUS 1582, IV, cit., col. 293. Sui peregrini, sui dedititii e sui Latini si vedano TALAMANCA 1990 (pp. 103-117); VOLTERRA 1991 (pp. 229-256, 257-274, 363-393, 395-416, 479-489); MAROTTA 2009; MATTIANGELI 2010; ANDO 2016b. Sull’aquae et ignis interdictio e sulla deportatio si rinvia alle considerazioni già espresse supra, note 398 e 409, e par. IV.1. Sulla citazione di Cicerone (CIC. dom. 77-78) vd. supra, nota 398. 424 Vd. supra, par. IV.1.
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1, 2), afferma: Hi […] quos senatus hostes iudicavit, vel relegati utique usque eo civitatem amittant (con riferimento a D. 4, 5, 5, 1)425. Emerge fra le righe la consueta attenzione per la proprietà del linguaggio. Nell’evidenziare la varietà lessicale della lingua d’uso, infatti, Alciato sembra implicitamente alludere al rischio d’imprecisione insito in una scelta espressiva poco accorta, come per esempio quella di definire i deportati mediante il vocabolo relegati, cosa che mal si presta a distinguere la deportatio dalla relegatio426. A sostegno delle considerazioni suesposte Alciato ricorre nuovamente ai classici, e ricorda in primo luogo come nel libro IV delle Epistulae di Plinio il Giovane, in riferimento a Valerio Liciniano (che condannato per incesto e deportato divenne retore) si legga: Idem […] cum Graeco pallio amictus intrasset, carent enim togae iure, quibus aqua et igni interdictum est, […]. Putabam nihil aliud te de Liciniano audi‹v›isse, quam relegatum ob incestum. In secondo luogo, un passo di Suetonio, tratto dalla Vita di Vespasiano, suggerisce all’umanista un’interessante riflessione di carattere lessicale: Flaviam Domi‹t›illam duxit uxorem, Statilii Capellae equitis Romani Sabracensis ex Africa delegatam olim, Latinaeque conditionis, sed mox ingenuam, et civem Romanam recuperatorio iudicio pronuntiatam, patre afferente Flavio liberali Ferentini genito. Definendo quella donna delegata, precisa Alciato, Suetonio intende qualificarla come relegata e di condizione latina, e dunque liberta latina di Statilio427. Si tratta di citazioni che pur nella loro brevità si rivelano dense di contenuti. Posto l’uso in Plinio del vocabolo relegatus nel senso generico di esiliato, l’episodio di Liciniano (deportato in seguito all’incesto commesso) testimonia il valore simbolico attribuito a Roma alla toga, segno di appartenenza alla civitas428. La citazione di Suetonio, invece, testimonia una lettura del passo da parte di Alciato
425
ALCIATUS 1582, IV, cit., col. 293. La citazione di Ovidio corrisponde a OV. trist. 2, 137-
138. 426
Sul punto vd. supra, par. I.1. ALCIATUS 1582, IV, cit., col. 293. La citazione di Plinio il Giovane corrisponde a PLIN. epist. 4, 11, 3 e 15. Sul passo e sull’episodio ivi narrato vd. SHERWIN-WHITE 1985, pp. 281-282, 284-285. Posto che in D. 49, 14, 32 si legge: «Sed si accepto usu togae Romanae ut cives Romani semper egerint» (quale formalizzazione del legame fra la toga e la cittadinanza), il passo di Plinio sembrerebbe testimoniare il fatto che l’esilio abbia assunto il carattere di pena solo in epoca posteriore a quella repubblicana, verosimilmente a partire da Tiberio (vd. SHERWIN-WHITE 1985, pp. 281-282 – che si avvale di BRASIELLO 1937 – e vd. e cfr. supra, nota 295). Sulla complessa questione del passaggio dall’esilio volontario all’esilio quale pena vera e propria si rinvia a quanto esposto supra, nota 398, e alla bibliografia di riferimento, ivi indicata. La citazione di Suetonio corrisponde a SUET. Vesp. 3. Come accennato nel corpo del testo, nell’edizione moderna di riferimento la lezione adottata è delicatam (di M1) e non delegatam, lezione tràdita dalla maggioranza dei codici e adottata dallo stesso Alciato (vd. SUETONIUS 1907, p. 308). 428 Sul punto vd. SHERWIN-WHITE 1985, pp. 281-282, 284-285. 427
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basata su una lectio diversa da quella adottata nelle edizioni moderne, dove Domitilla è definita delicata, appunto, ‘favorita’ di Statilio, e non delegata, come riporta l’umanista. Proprio quel delegata suggerisce ad Alciato d’interpretare il vocabolo come alternativo a relegata (forse in ragione di una paronomasia), cosa che con la menzione dello status di latina della stessa Domitilla giustifica l’inserimento del passo nell’insieme delle testimonianze storiche relative all’esilio429. E sulla base di queste testimonianze Alciato formula ulteriori considerazioni. Innanzitutto, egli afferma che deportati quali quelli degli esempi suddetti non perdevano del tutto la speranza della riabilitazione (come si evince da D. 35, 1, 59, 1). Similmente, i possessori della cittadinanza latina non perdevano la speranza di acquisire la cittadinanza romana, salvo il caso in cui fossero stati deportati in quella condizione di latini, dal momento che ciò (come anche la condizione di deditizio) non avrebbe più consentito il postliminium, vale a dire, la possibilità per chi avesse perso la cittadinanza romana (in seguito all’assunzione di una cittadinanza diversa da quella) di recuperare la prima facendo ritorno a Roma. Al riguardo si rivela d’interesse anche il testo di CTh. 3, 16, 2: Deportationis addicenda suppliciis, cui non solum secundi viri copula‹m›, verumetiam postliminii ius negamus430. Da tutto ciò, prosegue Alciato, non può che apparire chiara la ratio sottesa all’incompetenza del praeses provinciae a irrogare la pena della deportatio in insulam. Infatti, i deportati perdevano la cittadinanza romana soltanto sulla base di un senatus consultum o di una lex lata, vale a dire, di un provvedimento o di una norma validi. Dunque, essendo la deportazione una pena irrogabile contro i cittadini romani (come emerge da D. 48, 22, 6), il condannato rimaneva a buon diritto cittadino prima della pronuncia del princeps (lo si deduce da D. 1, 3, 1). Conseguentemente, Alciato ritiene che se il praeses provinciae avesse voluto condannare un non cittadino alla deportatio (su un’isola rientrante nella sua amministrazione), ciò sarebbe stato legittimo anche in assenza di una pronuncia al riguardo da parte del princeps (come si deduce da D. 47, 12, 11)431. Così, nel trattare delle competenze del praeses provinciae in tema di deportazione (su cui peraltro, come si ricorderà, si era pronunciato lo stesso Bartolo432), e alludendo all’autorità del princeps propria del pieno principato (e poi del dominato), Alciato evidenzia ancora una volta le garanzie di giustizia riconosciute dal sistema
429
Vd. nuovamente supra, nota 427. ALCIATUS 1582, IV, cit., col. 293. Sul postliminium vd. KELLY 2006, pp. 26-27, e ivi, nota 40. Sull’interesse di Alciato per il Codex Theodosianus e per il diritto pregiustinianeo in senso lato, soprattutto in ragione dell’utilità di quei testi ai fini di un’auspicata edizione dei Digesta, si rinvia a BELLONI 2016b, pp. 718-758 (di cui pp. 737-752 per il Codex Theodosianus in particolare). 431 ALCIATUS 1582, IV, cit., col. 293. 432 Vd. supra, nota 19. 430
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giuridico romano: il civis avrebbe potuto perdere la cittadinanza soltanto ex senatus consulto vel lege lata, in ragione della gravità sottesa all’esclusione del soggetto dalla sua civitas433. Sullo sfondo della nobilitazione umanistica dei classici, l’antica Roma (repubblicana e imperiale), presentata attraverso episodi paradigmatici della sua storia, si pone in contrasto con una realtà contemporanea che colpisce per l’arbitrio e la severità di norme statutarie e pratiche giurisdizionali diffuse. Quello di Alciato è in fondo un tentativo di ricostruzione storica del fenomeno dell’esclusione latamente inteso, valorizzato da quel gusto per la riflessione filologico-testuale proprio della sensibilità dell’umanista. E questa sensibilità storico-filologica si pone alla base della lettura mitigatrice (nel caso specifico, pro bannito) che Alciato propone del diritto a lui contemporaneo434.
433
L’espressione non nisi ex senatus consulto, vel lege lata riecheggia le parole di Tiberio riportate da Alciato nella citazione di TAC. ann. 3, 24, 4 (vd. supra, pp. 131-132, e ivi, nota 420). 434 Sul punto vd. infra, Conclusioni.
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PARTE III IN DIALOGO CON BUDÉ E ZASIUS
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CAPITOLO VII L’ESEMPIO DI BUDÉ VII.1. CONSIDERAZIONI PRELIMINARI L’indagine sul pensiero alciateo in tema di esilio ha suggerito l’opportunità di porre l’opera dell’umanista in dialogo con la cultura del suo tempo, e in particolare con i giuristi-umanisti a lui contemporanei. In tal senso, e in linea con la tradizione del triumvirato umanistico, ci si propone di volgere lo sguardo alle riflessioni sull’esilio e sulle dinamiche dell’esclusione elaborate da Guillaume Budé e da Ulrich Zasius435. Intellettuale raffinatissimo, filologo, ellenista, giurista e maître des requêtes de l’Hôtel du Roi (vale a dire, ufficiale pubblico regio), Guillaume Budé è figura centrale della cultura umanistica europea (e francese in particolare) del primo Cinquecento, esponente della rivoluzione culturale che caratterizzò la Francia già a partire dal XV secolo (fu, peraltro, l’ispiratore dell’odierno Collège de France) e umanista di spicco della sua epoca436. Le sue osservazioni sull’esilio si sono rivelate estremamente significative, soprattutto nel confronto con quelle presenti nelle opere di Alciato, che sembrerebbe aver attinto in più di un’occasione dal contributo dell’umanista francese437. Similmente a quanto fatto in relazione alle fonti alciatee, lo studio dell’opera di Budé è stato condotto alla luce di una selezione preliminare dei passi più rilevanti
435 Vd. e cfr. supra, par. I.4 e cap. II, ma anche infra, Conclusioni. Al contributo di Guillaume Budé è dedicato il cap. VII, mentre a quello di Zasius il cap. VIII. 436 Per tutto si vedano DE LA GARANDERIE 1997; KRYNEN 2007a; BELLONI 1995, pp. 152-155. Inoltre, posto il fondamentale DELARUELLE 1907, sulla figura e sull’opera di Budé si vedano anche PLATTARD 1923; KELLEY 1967; MCNEIL 1975; OSLER 1985; DE LA GARANDERIE 1988; EAD. 1995; GUEUDET 2004; SANCHI 2006; ID. 2010; ID. 2014; ID. 2015; KATZ 2009. Come suggerisce Belloni, per alcuni cenni sui rapporti fra Alciato e Budé si veda anche VIARD 1926, pp. 53-56, 6971 (vd. e cfr. BELLONI 2016b, p. 599, nota 138). 437 Lo si illustrerà infra, progressivamente, ma si ricordi fin d’ora quanto anticipato supra, pp. 117-118, e ivi, nota 383.
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in tema di esilio, individuati negli Opera omnia del 1557438, e praticamente tutti contenuti nelle Annotationes posteriores (con l’eccezione di un passo, tratto dalle Annotationes in Pandectas, e di alcune brevi riflessioni esposte nei Commentarii Linguae Graecae439). Le Annotationes in Pandectas (Annotationes in XXIV Pandectarum libros) del 1508, poi arricchitesi delle Annotationes posteriores (pubblicate per la prima volta nel 1526), sono una delle opere fondamentali di Budé, dove meglio può saggiarsi l’intento umanistico di studiare i Digesta filologicamente e storicamente, a vantaggio di una migliore ricostruzione del mondo antico greco-romano latamente inteso440. Come evidenziato da Delaruelle, sul modello dell’Umanesimo italiano risalente a Valla e a Poliziano, Budé apporta allo studio e all’interpretazione dei testi giuridici una ‘science immense’, vale a dire, un sapere enciclopedico, che attraverso gli strumenti della filologia, nella lettura delle testimonianze fornite dagli autori greci e latini, tende constantemente a una conoscenza integrale dell’antichità classica, delle sue lingue, delle sue idee, dei suoi costumi e delle sue istituzioni441. Questa science immense si riflette nello stile espositivo di Budé, ricchissimo di approfondimenti storico-filologici e di citazioni letterali di autori latini e greci (ben più estese, queste ultime, di quelle riscontrate in Alciato), ed è espressione di un sostrato culturale comune e diffuso nel dotto ambiente umanistico dell’Europa dell’epoca. La selezione dei passi d’interesse ha reso possibile individuare tre nuclei tematici principali di ripartizione, a vantaggio di un’esposizione più chiara del pensiero dell’umanista sull’esilio (pensiero, si badi, pur sempre unitario). Come si vedrà: a) un primo gruppo di passi contiene ampie riflessioni intorno ai concetti di civitas romana e di exilium, posti in connessione in prospettiva storica diacronica; b) da un secondo gruppo di passi emergono riflessioni intorno al tema dell’esilio volontario quale sanzione prevista apud Graecos per un delitto commesso invo-
438
BUDAEUS 1557. Il metodo seguito è stato il medesimo di quello applicato all’opera alciatea: alla consultazione preliminare degli Opera omnia nel loro complesso è seguita un’indagine più selettiva, condotta mediante gli indici presenti nell’edizione a stampa di riferimento (indici vagliati attraverso il filtro di nozioni chiave presentato supra, par. II.2, e ivi, note 174 e 175). Rinvii diretti e indiretti al tema centrale della pena dell’esilio (desunti da ricerche incrociate) sono stati sottoposti a uno studio attento, che ha condotto alla selezione definitiva dei loci più significativi ai fini della ricerca (vd. e cfr. ibid.). 439 Sul punto e sull’opera in generale vd. infra, par. VII.4. 440 Vd. e cfr. KRYNEN 2007a, pp. 142B-143A. 441 DELARUELLE 1907, p. 103, e complessivamente pp. 93-129 per una riflessione ampia e approfondita sulle Annotationes in Pandectas. Si vedano anche MAFFEI 1972, pp. 128-132; DE LA GARANDERIE 1997, pp. 222A-223A; OSLER 1985.
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lontariamente, in quasi perfetta coincidenza con quanto riscontrato nelle trattazioni alciatee; c) un ultimo gruppo raccoglie i passi estratti dai Commentarii Linguae Graecae riconducibili alla voce exilium (e alle varianti e alle espressioni connesse) e ai suoi corrispettivi greci. Dunque, articolati nei suddetti nuclei tematici, i passi di Budé saranno presentati evidenziando le citazioni classiche letterali da lui inserite nello sviluppo e a supporto delle argomentazioni442, e avendo cura di segnalare gli opportuni confronti (per similitudine o contrasto) con i passi alciatei presentati sopra (Parte II).
VII.2. CIVITAS ROMANA ED EXILIUM La sensibilità filologico-storica di Budé trova in argomentazioni dedicate all’exilium nella Roma repubblicana una delle sue espressioni più rilevanti, articolandosi in un percorso di lettura di autori greci e latini citati scrupolosamente, quali testimonianze d’importanza primaria nello studio e nell’interpretazione dei testi giuridici romani. In tal senso, la riflessione di Budé sul fenomeno dell’esclusione dalla civitas romana si costruisce, per così dire, proprio attraverso le citazioni letterali dei classici e intorno a esse, arricchendosi dell’attenzione minuziosa per il dato linguistico. Quest’ultima ricorre nell’opera dell’umanista diffusamente, soprattutto in relazione a confronti e corrispondenze fra le lingue latina e greca. Un primo passo d’interesse, tratto dal commento a D. 16, 3 (Depositi, vel contra), 7, 2, merita attenzione soprattutto per le citazioni ciceroniane ivi presenti, di cui almeno una coincide con quanto riscontrato nelle argomentazioni alciatee in più di un’occasione443.
442 Similmente a quanto talora visto in Alciato, le citazioni letterali saranno riportate nel corpo del testo (in lingua originale latina e greca, e secondo la forma riscontrata nell’edizione di riferimento, appunto BUDAEUS 1557). 443 Vd. supra, cap. VI, diffusamente, e infra, in questo paragrafo, per riferimenti più specifici. Il passo è contenuto nelle Annotationes in Pandectas del 1508, che Alciato verosimilmente ben conosceva. La precedenza cronologica di quest’opera rispetto all’opera alciatea (il libro I dei Parerga, apparso per la prima volta nel 1538, insieme ai libri II e III) in cui ricorre la medesima citazione di Cicerone (Cic. dom. 78), indurrebbe quantomeno a confermare il fatto che Alciato abbia consultato l’opera di Budé. La questione dei rapporti fra i due umanisti è alquanto complessa. Infatti, posta un’indubbia stima reciproca, le relazioni fra Alciato e Budé furono caratterizzate da momenti di scontro, pur se sempre molto moderato e mai diretto. Per esempio, nel 1520 Budé alluse al fatto che Alciato avesse attinto dalle sue Annotationes (priores) senza citarlo, e viceversa, nel 1527 Alciato lamentò il fatto che Budé avesse ignorato il suo Opusculum (vale a dire, quel primo nucleo di resti-
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Innanzitutto, Budé fa riferimento all’espressione vertere solum (presente al verso 49 della Satira XI di Giovenale), evidenziando come il suo significato sia alio migrare, vale a dire regionem mutare, sive exilii causa, sive ob aes alienum. Di ciò si ha testimonianza in Cicerone, che nella Philippica V afferma: Sunt item lecti iudices, qui forte excusabuntur, habent legitimam excusationem exilii causa solum vertisse, nec esse postea restitutos. Similmente, nell’orazione De domo sua Cicerone afferma: Qui erant […] rerum capitalium condemnati, non prius civitatem amittebant, quam erant in eam recepti, quo vertendi id est mutandi soli causa venerant. E infatti, precisa Budé, gli antichi potevano ricorrere all’esilio per evitare di subire la pena (tendenzialmente capitale) prevista per un delitto, cosa di cui si ha ulteriore testimonianza in alcuni loci liviani e ancora una volta in Cicerone, che nell’orazione Pro A. Caecina richiama il tema della perdita della cittadinanza. Ivi, infatti, si legge: Exilium enim […] non supplicium est, sed perfugium portusque supplicii. Nam qui volunt poenam aliquam subterfugere, aut calamitatem, eo solum vertunt, hoc est sedem et locum mutant. Itaque nulla in lege nostra reperietur, ut apud caeteras civitates, maleficium ullum exilio esse multatum. Sed cum homines vincula, neces, ignominiasque vitant, quae sunt legibus constitutae, confugiunt quasi ad aram in exilium. Qui si in civitate legis vim subire vellent, non prius civitatem
tuzioni di passi greci del Digesto, pubblicato singolarmente nel 1515 e poi confluito nei Praetermissa del 1518) nelle Annotationes posteriores del 1526. A ciò si aggiungano la lunga diatriba relativa a confronti e divergenze fra il De asse di Budé, pubblicato nel 1515, e il De ponderibus et mensuris di Alciato, pubblicato nel 1530, o il fatto che nel 1529 Alciato si preoccupò di espungere dal manoscritto del De verborum significatione (pubblicato nel 1530) qualsiasi riferimentò a Budé (per tutto vd. VIARD 1926, pp. 49, 53-56, 69, 129-131, e BELLONI 2016b, pp. 772, 774778, 813-814, 831-832, 841-842, 860). Sullo sfondo di questo contesto, è opportuno ricordare che se i casi di similitudini più o meno dirette fra le riflessioni alciatee e quelle (antecedenti) di Budé (non espressamente citato) sono vari e diffusi, non mancano tuttavia casi in cui Alciato cita indubbiamente l’umanista francese (vd. VIARD 1926, p. 233, nota 4; p. 234, nota 4; p. 236, nota 1; p. 238, nota 2; p. 246, nota 5; p. 248, nota 3; p. 249, nota 2; p. 272, nota 4; p. 276, nota 10; p. 277, nota 1; p. 307, e ivi, nota 3, e per alcuni casi di citazione espressa di Budé da parte di Alciato vd. ivi, p. 259, nota 1; p. 268, e ivi, nota 7; p. 279, nota 4; p. 281, nota 2). Inoltre, se si prendono in considerazione le restituzioni dei passi greci del Digesto, stando allo studio di Viard quelle presentate da Budé nelle Annotationes del 1508 sono poco meno di venti, di contro alle più numerose presenti nelle Annotationes posteriores del 1526, e quelle presentate da Alciato nelle Dispunctiones e nei Praetermissa risalgono al 1518, anno di pubblicazione delle due opere (ivi, p. 260, nota 1). Dunque, una valutazione corretta dei possibili casi in cui Alciato avrebbe attinto dall’opera di Budé (o viceversa) richiederebbe un controllo scrupoloso sui singoli passi di volta in volta presi in considerazione, alla luce della cronologia generale e particolare delle singole opere consultate. Se ne discuterà nuovamente infra, par. VII.3. Sulla cronologia dei Parerga vd. supra, nota 386. Sull’Opusculum alciateo vd. BELLONI 2016b, p. 772, e OSLER 2001, pp. 1-7. Sulla cronologia delle Dispunctiones e dei Praetermissa vd. supra, par. V.1, note 367 e 376.
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quam vitam amitterent. Quia nolunt, non admittitur iis civitas, sed ab iis relinquitur atque deponitur444. Dalle prime citazioni allegate si evince quel tratto di volontarietà caratterizzante sia l’exilium (di età repubblicana, non ancora divenuto pena vera e propria prevista per un delitto, ma percepito quasi come un ‘rifugio’), sia la conseguente perdita della civitas (derivante dall’acquisizione di una nuova cittadinanza), cui si è più volte accennato sopra445. A testimonianza di ciò Budé cita Livio, che nel suo libro VI, dedicato al bellum Punicum (vale a dire, il libro XXVI degli Ab urbe condita libri CXLII) riguardo a Fulvio, reo di perduellio, scrive: prius quam dies comitiorum aderat, Cn. Fulvius exulatum Tarquinios abiit, e il suo esilio fu riconosciuto come legittimo dalla plebe (che secondo la consuetudine, in seguito all’esilio volontario decretò con plebiscito l’aquae et ignis interdictio di quello). D’altra parte, aggiunge Budé, sempre in Cicerone, nell’orazione In P. Vatinium, si ha testimonianza della possibilità di ritirarsi in casa, e di scontare così l’esilio nella stessa Roma: Cumque […] non maiestate Imperii, non iure legum, sed ianuae praesidio, et parietum custodiis consulis vita tegeretur, quaero, miserisne viatorem qui Marcum Bibulum domo vi extraheret, ut quod in privatis semper est servatum id te tribuno plebis consuli domus exilium esse non posset? 446. Poco oltre, riguardo alle possibili costruzioni del verbo latino cedo, Budé cita nuovamente Cicerone, nella cui orazione Pro T. Annio Milone è attestato l’uso dell’espressione cedere legibus: Sive Milo Clodii morte patriam liberare voluisset, non dubitaturum fortem virum, quin cum suo periculo salutem rei publicae attulisset, cederet aequo animo legibus, secum auferret gloriam sempiternam, nobis haec fruenda relinqueret, quae ipse servasset. Quell’espressione, afferma Budé, è strettamente connessa all’esilio di Milone, che per quanto fosse degno di lode per il delitto commesso (appunto, l’omicidio di Clodio), tuttavia si allontanò in esilio volontario. Proprio in tal modo Milone dimostrò il suo rispetto per le leggi, che avrebbe invece violato se fosse rimasto in città447. Così, la volontarietà dell’esilio di età repubblicana acquista agli occhi di Budé la virtù di un sacrificio lodevole, espressione del senso di giustizia e della nobiltà
444 BUDAEUS 1557, III, Annotationes in Pandectas (priores), ad D. 16, 3, 7, 2, f. 196.d. Le citazioni allegate corrispondono a IUV. 11, 46-51; CIC. Phil. 5, 14; CIC. dom. 78 (citazione presente anche in Alciato – vd. supra, nota 419, ma anche nota 398 – e in un altro passo di Budé – vd. infra, nota 453); CIC. Caecin. 100 (vd. nuovamente supra, nota 398). Nell’edizione moderna di riferimento la lezione adottata in IUV. 11, 49 è ad ostrea, non ad Ostia (vd. IUVENALIS 1997, p. 153). 445 Vd. supra, cap. VI, e ivi, nota 398. 446 BUDAEUS 1557, III, cit., ff. 196.d-197.a. Le citazioni allegate corrispondono a LIV. 26, 3; CIC. Vatin. 22. Sull’aquae et ignis intedictio si rinvia nuovamente a supra, cap. VI, e ivi, nota 398. 447 BUDAEUS 1557, III, cit., f. 198.d. La citazione di Cicerone corrisponde a CIC. Mil. 62.
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d’animo dell’esule volontario. E alla volontà dell’individuo, in relazione alla perdita della libertà o della cittadinanza, Budé fa un ulteriore, brevissimo richiamo in sede di commento a D. 48, 8 (Ad legem Corneliam de sicariis et veneficis), 2. Ivi, infatti, l’umanista cita Cicerone, che nella De domo sua afferma: Sed cum hoc iuris a maioribus proditum sit, ut nemo civis Romanus aut libertatem aut civitatem possit amittere, nisi ipse author factus sit […]. Quid ita? Quia ius a maioribus nostris ita comparatum est, ut civis Romanus libertatem nemo possit invitus amittere448. L’attenzione rivolta da Budé all’elemento della volontarietà è senz’altro degna di nota, non soltanto per lo spirito umanistico, per così dire, sotteso al rilievo riconosciuto all’individuo e all’autonomia del suo pensiero razionale449, ma certo anche per la tendenza (anch’essa umanistica) a idealizzare le libertà e le garanzie costituzionali della Roma repubblicana, come già evidenziato riguardo alle argomentazioni alciatee450. Le riflessioni intorno all’espulsione del soggetto dalla civitas di appartenenza trovano un approfondimento più esteso in sede di commento a D. 48, 19 (De poenis), 2, 1, dove Budé tratta specificamente dell’istituto dell’aquae et ignis interdictio e dell’arcaica sacertas, sanzione giuridico-religiosa d’impatto decisivo sulle dinamiche sociali interne (ed esterne) alla civitas451. Innanzitutto, nell’intento di chiarire il significato dell’espressione aquae et ignis interdictio (menzionata in D. 48, 19, 2, 1), Budé cita Festo, che in relazione all’acqua e al fuoco, alla loro interdizione a danno dei condannati e al loro utilizzo nel rito purificatorio della suffitio scrive: Aqua […] dicitur a qua iuvamur. Aqua autem et igni tam interdici solet damnatis, quam accipiunt novae nuptae, videlicet quia hae duae res humanam vitam maxime continent. Itaque funus prosecuti ignem supergrediebantur aqua aspersi, quod purgationis genus appellabant suffitionem. E sempre riguardo all’acqua e al fuoco, elementi essenziali per la vita umana e rappresentativi del vivere civile, assumono rilievo le considerazioni esposte da Lattanzio nel libro II delle Divinae institutiones. Dopo aver descritto il carattere vivifico dei due elementi, l’autore ricorda come l’interdizione dagli stessi venisse inflitta agli esuli, evitando così il ricorso alla pena capitale (nonostante la gravità della privazione sottesa all’interdictio rendesse quest’ultima equiparabile alla morte): Alterum enim […]
448
BUDAEUS 1557, III, Annotationes in Pandectas (posteriores), ad D. 48, 8, 2, f. 318.c. La citazione di Cicerone corrisponde a CIC. dom. 77 (vd. e cfr. nuovamente supra, cap. VI, e ivi, nota 419). 449 Si allude qui soltanto superficialmente ai complessi profili storico-filosofici attribuiti al fenomeno dell’Umanesimo latamente inteso. Nel vasto panorama bibliografico si rinvia almeno agli studi di Eugenio Garin citati supra, nota 111. 450 Vd. e cfr. supra, cap. VI. 451 Sulla sacertas vd. anche infra, pp. 147-150, e ivi, nota 458.
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quasi masculinum elementum est, alterum quasi foemininum, alterum activum, alterum patibile. Ideoque a veteribus institutum est, ut sacramento ignis et aquae nuptiarum foedera sanciantur, quod foetus animantium calore et humore corporentur, atque animentur ad vitam. Quum enim constet omne animal ex anima et corpore, materia corporis in humore est, animae in calore. Quod ex avium foetibus datur sciri, quos crassi humoris plenos nisi opifex calor foverit, nec humor potest corporari, nec corpus animari. Exulibus quoque aqua et igni interdici solebat, adhuc enim videbatur nefas, quanvis malos, tamen homines supplicio capitis afficere. Interdicto igitur earum rerum usu quibus vita constat hominum perinde habebatur, ac si esset qui eam sententiam acceperit morte mulctatus. Adeo ista elementa prima sunt habita, ut nec ortum hominis, nec sine his vitam crediderint posse constare. Horum alterum nobis commune est cum caeteris animantibus, alterum soli homini datum. Nos enim quoniam coeleste atque immortale animal sumus, igne utimur, qui nobis in argumentum immortalitatis datus est, quoniam ignis e coelo est. Cuius natura quoniam mobilis est, et sursum nititur, vitae continet rationem452. Alla luce di queste testimonianze, utili a ricostruire le origini dell’aquae et ignis interdictio, Budé cita nuovamente Cicerone, che nella De domo sua ricorda come l’interdizione (unita all’acquisto della cittadinanza del luogo dell’esilio) determinasse l’esclusione formale dalla civitas: Qui erant rerum capitalium damnati, non prius hanc civitatem amittebant, quam erant in eam recepti, quo vertendi hoc est mutandi soli causa venerant. Id autem ut esset faciendum, non ademptione civitatis, sed tecti et aquae et ignis interdictione faciebant453. Si tratta di una citazione già osservata sia in Budé (poco sopra), sia in Alciato (nel cap. XV del libro I dei Parerga), d’importanza centrale per l’indagine sulla perdita della cittadinanza secondo il diritto romano454. Proseguendo, Budé ipotizza che i Romani avessero recepito l’aquae et ignis interdictio dalla legge ateniese di cui si ha testimonianza in Demostene, nell’orazione Adversus Leptinem. Lì, infatti, in traduzione latina si legge: In legibus […] quae de caedibus latae sunt, Draco, quo terribile atque atrox quam maxime videretur hominem alterum alterius interemptorem esse, statuit ipse hominem homicidam aqua ablutoria,
452 BUDAEUS 1557, III, Annotationes in Pandectas (posteriores), ad D. 48, 19, 2, 1, ff. 332.d333.a. Le citazioni allegate corrispondono a FEST. s.v. Aqua, p. 2; ID. s.v. Aqua et igni, p. 3; LACT. inst. 2, 9, 21-25. Sul concetto e sui riti di purificazione nel mondo antico si veda ThesCRA 2004, Purificazione, pp. 1-87, diffusamente, e per il mondo romano antico in particolare vd. ivi, pp. 63-87 (per i suffumigi vd. ivi, s.v. Suffumigi, p. 80B). 453 BUDAEUS 1557, III, cit., f. 333.a. La citazione di Cicerone corrisponde a CIC. dom. 78 (peraltro già vista supra, nota 444). 454 Vd. e cfr. supra, p. 144, e p. 131, e ivi, nota 419. Per le argomentazioni alciatee in tema di acqua e fuoco quali elementi naturali essenziali per la vita umana, oltre che per ulteriori riflessioni in tema di aquae et ignis interdictio, vd. anche supra, par. IV.1, pp. 87-90.
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libationibus, crateribus, sacris et foro arceri (‹χέρνιβος› ε‹ἴ›ργεσθαι τὸν ἀνδροφόνον, σπονδῶν, κρατήρων, ἱερῶν, ἀγορᾶς). Dell’interdizione dal fuoco in particolare si legge in Erodoto. Nel libro VII delle sue Historiae, ricordando i trecento (morti con Leonida combattendo contro i Persiani), Erodoto menziona Aristodemo, l’unico di quelli che si salvò fuggendo dalla battaglia, e che a causa del suo disonore subì l’esclusione dalla comunità: Quum autem […] Aristodemus Lacedaemona rediisset, probris est affectus, atque ignominia huiusmodi. Nullus enim ei Spartanorum ignem accendebat, nullus colloquium communicabat (οὔτε οἱ πῦρ οὐδεὶς ἔ‹ν›αυε Σπαρτιητέων οὔτε διελέγετο). Peraltro, prosegue Budé, a questo costume sembra riferirsi (o quantomeno alludere) il vaticinio di cui si legge nel capitolo V delle Lamentationes (o Threni) di Geremia, che dolendosi (con un linguaggio di registro comune) afferma: Aquam […] nostram pecunia bibimus, ligna nostra precio comparavimus. Infatti, precisa Budé, il profeta si duole della mancanza d’acqua e di fuoco quali elementi estremamente necessari per la vita umana. Inoltre, Geremia sembra accusare implicitamente i sacerdoti, che non si vergognano di allestire il mercato nel sacro Tempio, né di mettere in vendita i sacramenti ‘ardenti’ dello spirito. Infatti, non consentono agli indigenti e agli assetati di accedere alle fonti d’acqua se non dietro pagamento455. Un’altra testimonianza rilevante in tema d’interdizione dalla comunità è fornita da Cesare, che nel libro VI dei Commentarii belli Gallici discorrendo dei druidi scrive: Si quis aut privatus aut publicus eorum decreto non stetit sacrificiis interdicunt. Haec poena apud eos est gravissima. Quibus ita est interdictum, ii numero impiorum ac sceleratorum habentur, ‹h›is omnes decedunt, aditum sermonemque defugiunt, ne quid ex contagione incommodi accipiant, neque iis petentibus ius redditur neque locus ullus communicatur. L’espressione his omnes decedunt, aggiunge Budé, corrisponde al greco τούτους ἐκτρέπονται πάντες οἱ ἀπαντῶντες, e presso gli Ebrei questi interdetti erano definiti aposynagogi, vale a dire, quasi synagoga exacti et extorres (‘cacciati dalla comunità ed esuli’). Infatti, secondo l’umanista il vocabolo aposynagogus dovrebbe essere ricondotto all’interdizione dal fuoco e alla partecipazione al fuoco piuttosto che all’interdizione da un territorio (e ciò anche qualora si trattasse di un esule dalla patria)456. Peraltro, Budé ricorda come in Livio (LIV. 7, 4) possa leggersi di varie categorie di esclusi (extorres urbe, domo, penatibus, foro, congressu aequalium), che nel suo tempo sono definiti excommunicati, e ai quali sono negati sia gli
455 BUDAEUS 1557, III, cit., f. 333.a. Le citazioni allegate corrispondono a DEMOSTH. Adversus Leptinem 158; HDT. 7, 231 (Budé commette un’imprecisione, citando il libro VIII invece che il VII); Lam. 5, 4. 456 BUDAEUS 1557, III, cit., f. 333.b. La citazione di Cesare corrisponde a CAES. Gall. 6, 13, 67. Si noti che l’espressione πάντες οἱ ἀπαντῶντες occorre in Epitteto (EPICT. Dissertationes ab Arriano digestae 1, 19, 24, 2).
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iura humanitatis (vale a dire, i diritti per natura propri di ogni uomo) sia qualsiasi forma d’aiuto. Inoltre, quanti siano stati puniti dall’autorità ecclesiastica con una più grave execratio (‘sanzione’, ‘maledizione’) sono definiti anatemi, in ragione del fatto che la loro condanna è pubblicata mediante iscrizione su dei cippi457. La lettura progressiva delle fonti consente a Budé d’introdurre in modo più chiaro e approfondito il tema dell’arcaica sacertas (o consecratio), sanzione giuridico-religiosa comportante l’allontanamento del reo di determinati crimini (lesivi della pax deorum) dalla comunità, e il suo abbandono all’ira e alla vendetta della divinità offesa458. Innanzitutto, Budé ricorda come gli antichi definissero sacri i soggetti da esecrare e da maledire (vale a dire, quanti avessero subito la consecratio), donde deriva l’espressione sacra fames attestata in Virgilio, nel libro III dell’Eneide. Inoltre, i vocaboli sacer e intestabilis sono attestati anche in Orazio (nella Satira III del libro II delle Saturae), e Budé ritiene che siano stati verosimilmente mutuati dalle Dodici Tavole. A ciò aggiunge che secondo Servio il vocabolo sacer dovrebbe essere derivato da un costume dei Galli. Infatti, nel suo commento al libro III dell’Eneide, in merito al rito di consecratio ed espulsione di un membro della comunità (volto ad auspicare la liberazione dei Marsigliesi dalla peste), l’autore scrive: Nam cum Massilienses peste laborarent, unus se ex egentibus offerre solebat annum integrum alendum publicis cibis et purioribus. Postea verbenis vestibusque sacris ornatus circunducebatur per urbem cum execrationibus. Precabantur enim, ut in eum omnia mala civitatis incumberent et inciderent, sicque proiiciebatur. Ulteriori attestazioni di sacer si hanno in Plauto, che nella commedia Bacchides scrive: Mén, criminatus est? Optume est, ego sum malus. / Ego sum sacer, scelestus, e in Macrobio, che nel libro III dei Saturnalia scrive: Hoc loco […] non alienum videtur de conditione eorum hominum referre, quos leges diis sacros esse iubent, quia non ignoro quibusdam mirum videri, quod cum caetera sacra violari nefas sit, hominem sacrum ius fuerit occidi. Cuius rei causa haec est: veteres nullum animal sacrum in finibus suis esset patiebantur, sed abigebant ad fines deorum quibus sacrum esset, animas vero sacratorum hominum diis debitas esse existimabant459. Budé prosegue citando nuovamente Festo, che scrive: Sacer homo est quem populus iudicavit ob maleficium. Neque fas est immolari, sed qui
457
BUDAEUS 1557, III, cit., f. 333.b. Sul punto vd. SANTALUCIA 1998, pp. 7-14, e ID. 2013, pp. 14-22. Sulla sacertas, oltre che alle indicazioni bibliografiche fornite ivi, p. 146, si rimanda a ID. 1981, pp. 39-49; ID. 2009a, pp. 359-370; CANTARELLA 1996, pp. 290-305; FIORI 1996; LOVISI 1999, pp. 13-64; GAROFALO 2005; ID. 2013; PELLOSO 2013. Inoltre, sul concetto e sui riti di maledizione nel mondo antico si veda ThesCRA 2005, Fluch und Verwünschung, pp. 247-270. 459 BUDAEUS 1557, III, cit., ff. 333.b-334.c. Le citazioni allegate corrispondono a VERG. Aen. 3, 57; HOR. sat. 2, 3, 181; SERV. in Aen. 3, 57; PLAUT. Bacch. 783-784; MACR. Sat. 3, 7, 5-6. 458
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occidit parricidii non damnatur. Nam lege Tribunitia prima cavetur, si quis eum qui plebiscito sacer sit occiderit parricida ne sit. Ex quo quivis homo malus atque improbus sacer appellari solet. Si tratta di una testimonianza di rilievo fondamentale in relazione alle leges sacratae (tutelanti l’inviolabilità dei tribuni), che Festo menziona anche altrove, scrivendo: quibus sanctum iubetur esse alicui deorum quicquid adversus eas fecerit, sicut familia pecuniaque. Et sacrosanctum dicitur, quod iureiurando interposito est institutum, si quis id violasset morte poenas penderet. Da ciò Budé deduce l’opportunità d’interpretare il verbo sacro attestato in Livio nel significato di devovere, et detestabile decernere (appunto, ‘esecrare’ e ‘giudicare detestabile’), e in tal senso morti addicere, ut impune occidi et violari possit (appunto, ‘ridurre a morte, così che il soggetto dichiarato sacer possa essere impunemente ucciso e oltraggiato’). Infatti, nel libro II degli Ab urbe condita Livio scrive: Lex de provocatione […] adversus magistratus ad populum lata sacrandoque cum bonis capite eius, qui regni occupandi consilia inisset, e a ciò, precisa Budé, si associa quanto già menzionato in riferimento al vocabolo sacrosanctum, attestato in Festo460. A questo punto, la ricerca storico-linguistica condotta da Budé intorno alla sacertas si arricchisce di riflessioni dedicate ad alcune corrispondenze lessicali fra le lingue latina e greca. In primo luogo, l’umanista evidenzia come i Greci definissero gli uomini sacri (appunto, ‘detestabili ed esecrabili’) mediante numerosi vocaboli, fra i quali si annoverano ἐναγεῖς, ἐξαγίστοι, μιαροί, ἐπάρατοι, φαρμακοί e καθάρματα. Più in dettaglio, del vocabolo καθάρματα si ha attestazione in Aristofane, che nel Plutus scrive: γρύζειν δὲ καὶ τολμᾶτον, ὦ καθάρματε, ἐπ’ αὐτοφώρῳ δεινὰ δρῶντ’εἰλημμένω, e i catharmata, chiarisce Budé, erano i soggetti sacrificati agli dei per placare la peste (o un altro morbo), secondo un rito di purificazione che fu poi recepito dai Romani (come lo stesso Aristofane ricorda). Similmente, καθάρματα è attestato anche in Demostene, che lo usa in relazione a Midia e nel rivolgersi a Eschine (rispettivamente, nelle orazioni In Midiam e De falsa legatione), e nei commediografi latini si ha attestazione dell’uso del vocabolo scelus nel senso di scelestus, così come in Cicerone. Inoltre, prosegue l’umanista, nel libro VII (Polymnia) delle Historiae di Erodoto il vocabolo catharmos, al genere maschile, occorre per definire l’uomo piacularis (vale a dire, espiatorio), che in greco corrisponde a ὁ ἀπεῤῥιμμένος καὶ ἔκβλη‹τ›ος, vale a dire, come già visto sopra, il soggetto dichiarato sacer, consacrato agli dei per la purificazione della patria e per l’espiazione (καθαρμὸν τῆς χώρης
460 BUDAEUS 1557, III, cit., f. 334.c. Le citazioni allegate corrispondono a FEST. s.v. Sacer mons, p. 424, 5-13; ID. s.v. Sacratae leges, p. 422, 25-28; ID. s.v. Sacrosanctum, p. 422, 17-20; LIV. 2, 8. Per una rassegna delle attestazioni della voce sacer si rinvia naturalmente al TLL. Sulle leges sacratae e de provocatione, oltre che a SANTALUCIA 1998, pp. 41-46, si rimanda alle osservazioni e alla bibliografia presentate supra, nota 396.
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ποιευμένων Ἀχαιῶν Ἀθάμαντα τὸν Αἰόλου). Oltre che καθάρματα, i soggetti dichiarati sacri sono definiti in greco anche φαρμακοί, così come οἱ ἐπὶ καθάρσει τῆς πόλεως ἀπεῤῥιμμένοι (secondo quanto può leggersi in Ammonio Grammatico), δημοσία τρεφόμενοι (secondo Strabone), e καὶ καθαίροντες τὰς πόλεις τὰς ἑαυτῶν (come può leggersi in Esichio di Alessandria). Si tratta di parole ed espressioni che, chiarisce Budé, devono essere interpretate alla luce della citazione di Servio allegata sopra (relativa ai riti di consacrazione presso i Galli), e che risultano attestate anche nel lessico Suida e in Eustazio, che ricorda come anche gli espiatori delle città (expiatores urbium) fossero definiti φαρμακοί. In tal senso, sacer è anche il capro emissarius (appunto, ‘espiatorio’) presso gli Ebrei, cosa di cui si ha attestazione nel cap. XVI del Levitico461. Inoltre, un’altra attestazione di καθάρματα si ha nel cap. IV della I Lettera ai Corinzi, dove san Paolo utilizza il vocabolo più accuratamente, scrivendo: ὣσπερ καθάρματα τοῦ κόσμου ἐγενήθημεν, πάντων περίψημα ἕως ἔτι. Budé ritiene che questo passo non sia stato interpretato correttamente dai redattori degli scholia alla Vulgata (a causa della loro ignoranza della lingua greca). Se nell’edizione della Vulgata si legge: Tanquam purgamenta huius mundi facti sumus, omnium peripsema usque adhuc, l’umanista suggerisce che sarebbe stato probabilmente più corretto tradurre il passo utilizzando il vocabolo catharma e non peripsema. Infatti, catharma significa letteralmente purgatio e piamentum (appunto, ‘purificazione’ ed ‘espiazione’), mentre peripsema significa scobis e ramentum (appunto, ‘raschiatura’ e ‘limatura’), e ‘qualcosa che si consuma limando’, significati che nel complesso non si addicono alle parole di san Paolo. A queste, afferma Budé, dovrebbe attribuirsi un significato ben più profondo, soprattutto in ragione delle caratteristiche proprie degli antichi riti di purificazione annuale delle città, che l’umanista descrive sinteticamente. Secondo il costume, dopo aver ricevuto cibo i soggetti dichiarati sacri venivano inghirlandati e successivamente gettati in mare da un precipizio, quali vittime sacrificali offerte al dio Nettuno. All’atto di gettarli in mare, gli antichi erano soliti pronunciare formule solenni, quali ad esempio περίψημα ἡμῶν γενοῦ, appunto, sis pro nobis peripsema, che equivale a Sis pro nobis piaculum, esto luitio nostra, et servatrix urbis victima, come attestato nel lessico Suida. Conseguentemente, Budé ritiene che le parole di san Paolo dovrebbero essere più correttamente
461
BUDAEUS 1557, III, cit., f. 334.c. Le citazioni allegate corrispondono a ARISTOPH. Pl. 454455; DEMOSTH. In Midiam, 185, 5 e 198, 7; DEMOSTH. De falsa legatione, 198, 5; HDT. 7, 197, 16-18; AMM. (GRAMM.) De adfinium vocabulorum differentia 494, 1-2; STRAB. Geogr. 10, 4, 1516; HESYCH. Lexicon, s.v. Φαρμακοί, 181, 1; Lev. 16, 8-10 e 26. Per le occorrenze di scelus/scelestus in Cicerone si rinvia al TLL. Per le numerose occorrenze del vocabolo φαρμακός (e varianti) nel lessico Suida (o Suda) vd. Suida 1935, s.vv. Φὰρμακον; Φαρμακός; Φαρμακούς, pp. 699-700, 103106). Si veda anche il TLG, cui si rinvia anche per le occorrenze del vocabolo φαρμακός (e varianti) in Eustazio di Tessalonica.
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tradotte nel seguente modo: Nos tanquam piacula mundi facti sumus, et succidaneae pro populo victimae, da intendere nel senso di vittime non meno detestabili (presso le genti) di quelli che anticamente, gravati e oppressi da funeste maledizioni (appunto, sacri), venivano gettati in mare per la salvezza pubblica. Questa interpretazione, sottolinea l’umanista, consente di evidenziare come le parole di san Paolo concordino con quanto visto sopra. Infatti, peripsema significa anche ramenta vestigiorum, vale a dire, ‘raschiature d’impronte’, che in quanto sudicie vengono gettate via. Alla luce di tutto ciò, Budé afferma che preferirebbe ricorrere in entrambi i casi a una traduzione più fedele ai vocaboli greci, appunto: Tanquam catharmata mundi facti sumus et peripsema ad hunc diem, quantunque Curzio Rufo utilizzi il vocabolo latino purgamentum. Nel libro VIII delle sue Historiae Alexandri Magni, infatti, si legge: Ag‹i›s quidam Argivus pessimorum carminum post Choerilum conditor, et ex Sicilia Cleo, et caetera urbium suarum purgamenta, e nel libro X: Prohibuere igitur exules finibus, omnia potius toleraturi, quam purgamenta quondam urbis suae, tunc etiam exilii, admitterent462. Prescindendo dalle ulteriori riflessioni poste in calce a quanto esposto463, sarà qui opportuno evidenziare nuovamente come proprio attraverso le testimonianze emergenti dalle fonti citate (autori classici, greci e latini, la Bibbia e il lessico Suida) Budé intraprenda un tentativo di ricostruzione delle dinamiche dell’esclusione nel mondo antico latamente intese. L’umanista sembra dare espressione a una sorta di ricerca intorno alle origini più antiche della pena dell’esilio, conducendo un’indagine storico-giuridica (e, per certi versi, anche antropologica) rigorosamente basata sulle fonti. L’interpretazione delle testimonianze storico-letterarie si ispira a un acume filologico che pone il dato linguistico in primo piano, in un dialogo fra le lingue classiche vivo e costante464. Osservazioni più specifiche in tema di exilium emergono dal breve commento che Budé dedica a D. 48, 19 (De poenis), 28, 13, frammento del Digesto di cui l’umanista fornisce innanzitutto la versione in lingua greca (presente nel Prochiron e nei Basilici): οἱ μὴ πειθαρχοῦντες τῇ ἐξορίᾳ, ἀντὶ μὲν ἐξορίας προσκαίρου διηνεκ‹ῆ› ὑφίστανται, ἀντὶ δὲ διηνεκοῦς ἐξορίας, περιορισμόν, ἀντὶ δὲ περιορισμοῦ, κεφαλικὴν τιμωρίαν. L’analisi linguistica del testo suggerisce a Budé di affermare l’equivalenza della relegatio a una exterminatio, dal momento che la relegatio consiste nell’ordine
462
BUDAEUS 1557, III, cit., f. 334.d. Le citazioni allegate corrispondono a I Cor. 4, 13; CURT. 8, 5, 8 e 10, 2, 7. Per l’espressione περίψημα ἡμῶν γενοῦ, attestata nel lessico Suida, vd. Suida 1935, s.v. Περίψημα, p. 113, 1355), ma si consulti anche il TLG per ulteriori attestazioni. 463 Si tratta di ampie considerazioni intorno ai vocaboli greci e latini, e al loro utilizzo da parte degli autori classici. In particolare, Budé richiama l’esempio di Cicerone, la cui eleganza linguistica non esclude l’uso di vocaboli greci (vd. BUDAEUS 1557, III, cit., ff. 334.d-335.b). 464 Vd. e cfr. quanto esposto supra, capp. V e VI, in relazione ad Alciato.
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di exire fines patriae (appunto, ‘uscire e allontanarsi dai confini della patria’). Se ne trova conferma in Cicerone, che definisce la relegatio mediante l’espressione sedibus expellere (appunto, ‘espellere dalla patria’). La deportatio, invece, può essere considerata una circumfinitio, dal momento che il soggetto deportato è costretto a scontare la pena in un luogo ben delimitato, e proprio da ciò, sottolinea Budé, deriva l’uso odierno (comune e in lingua volgare) di definire i deportati confiniti (appunto, ‘confinati’). Peraltro, prosegue l’umanista, del significato di circumfinitio attribuibile alla deportatio si ha testimonianza nell’Areopagita (vale a dire, lo Pseudo-Dionigi Areopagita). Questi pone in esordio all’epistola (che si credeva) indirizzata a Giovanni Evangelista la seguente inscriptio: Ioanni Theologo, Apostolo et Evangelistae deportato ad Pathmum, e descrive il vocabolo deportatus (ivi presente) nel seguente modo: Τοὺς δὲ ἀδικοῦντας ὑμᾶς, καὶ περιορίζειν οἰομένους τοῦ Εὐαγγελίου τὸν ἥλιον, ἐνδίκως αἰτιώμενος, vale a dire, Merito istos incusans, qui vos iniuria hac afficientes, arbitrantur se solem Evangelii circumscribere, appunto, precisa Budé, ‘coloro che credono che tu, deportatione circumseptus (‘circondato’, ‘delimitato’ dalla deportazione), resterai (per questo) separato dal resto del mondo’465. A queste brevi note di carattere linguistico si aggiungono infine le riflessioni di carattere storico-antropologico elaborate da Budé in sede di commento a D. 49, 14 (De iure fisci), 32. Lì l’umanista volge l’attenzione al valore simbolico e concreto anticamente attribuito alla toga romana, e sulla base del frammento di Marciano (appunto, il suddetto D. 49, 14, 32) evidenzia come il privilegio d’indossare la toga fosse riconosciuto ai soli cives, che ne venivano privati in seguito alla perdita della cittadinanza romana. Di ciò si ha testimonianza in Plinio il Giovane, che nel libro IV delle Epistulae, riportando il caso dell’ex pretore Valerio Liciniano (che dopo la condanna all’esilio si dedicò all’insegnamento della retorica), scrive: Is [...] cum Graeco pallio amictus intrasset, carent enim usu togae, quibus aqua et igni interdictum est, postquam se composuit, circunspexitque habitum suum: ‘Latine’, inquit, ‘declamaturus sum’. Inoltre, in Suetonio, nella Vita di Claudio, si legge: Peregrinitatis reum orta inter advocatos levi contentione, togatumne an palliatum dicere causam oporteret, quasi aequitatem integram ostentans, mutare habitum saepius et prout ac-
465 BUDAEUS 1557, III, Annotationes in Pandectas (posteriores), ad D. 48, 19, 28, 13, f. 348.d. Il testo greco presentato da Budé (quale versione di D. 48, 19, 28, 13) corrisponde a Prochiron 39, 59 (per il quale si rinvia al TLG), e a Basilicorum libri 60, 51, 4. Il riferimento a Cicerone (relativo all’espressione sedibus expellere) sembrerebbe corrispondere (almeno) a CIC. Phil. 2, 54, dove si legge: «rem publicam expulsam atque exterminatam suis sedibus». Per le ulteriori occorrenze del verbo expello (e varianti) in Cicerone si rinvia al TLL. La citazione dello Pseudo-Dionigi Areopagita corrisponde a PSEUDO-DION. epist. 10, 1, 18-19. Il riferimento alla lingua comune e volgare ricorda quanto più volte osservato in Alciato (vd. supra, parr. III.1, IV.2, V.2 e cap. VI), e lo si riscontrerà anche nelle argomentazioni di Zasius (vd. infra, parr. VIII.1 e VIII.4).
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cusaretur defendereturque, iussit466, parole che confermano ulteriormente il valore simbolico e rappresentativo della toga, quale segno distintivo dell’appartenenza alla civitas romana. Così, emerge nuovamente l’importanza attribuita da Budé alle fonti, la cui lettura e analisi minuziose si rivelano strategie metodologiche fondamentali per una ricostruzione più consapevole del mondo antico e – per quanto qui d’interesse – di certi profili legati alla pena dell’esilio e alle dinamiche dell’esclusione generalmente intese.
VII.3. ESILIO VOLONTARIO APUD GRAECOS La prassi dell’esilio volontario (quale sanzione tradizionalmente prevista, apud Graecos, per l’omicidio involontario) rappresenta uno dei temi più ricorrenti nelle riflessioni alciatee467. Come si ricorderà, Alciato tratta dell’argomento nelle opere più rappresentative della sua sensibilità storico-filologica: le Dispunctiones e i Praetermissa, pubblicati per la prima volta nel 1518, e i Parerga, pubblicati per la prima volta nel 1538468. Questi ultimi sono dunque posteriori al 1526, l’anno della prima pubblicazione delle Annotationes posteriores di Budé469, che allo stesso tema dell’esilio volontario apud Graecos dedica in quell’opera approfondimenti significativi (lo si mostrerà nelle pagine seguenti). Si tratta di un dato cronologico tutt’altro che trascurabile, che unito all’analogia, se non alla coincidenza, di alcune osservazioni formulate da Alciato (nei Parerga) con quelle elaborate da Budé (nelle Annotationes posteriores), sembrerebbe confermare l’ipotesi che il primo abbia talora attinto dall’opera del secondo470. Alla luce di questa premessa, si propone la lettura delle riflessioni (in tema di esilio volontario) che Budé elabora in sede di commento a D. 48, 19 (De poenis), 16, 8, passo
466 BUDAEUS 1557, III, Annotationes in Pandectas (posteriores), ad D. 49, 14, 32, f. 354.c. Le citazioni allegate corrispondono a PLIN. epist. 4, 11, 3; SUET. Claud. 15, 2. La medesima citazione di Plinio il Giovane era già stata individuata in Alciato (vd. supra, nota 427, con rinvio a SHERWINWHITE 1985, pp. 281-282, 284-285). 467 Vd. supra, cap. V, diffusamente. 468 Sulle opere citate si veda nuovamente supra, note 367 e 383. Vd. anche supra, nota 126. 469 Sulle Annotationes in Pandectas di Budé si ricordi quanto indicato supra, par. VII.1, e ivi, nota 441. 470 Oltre che supra, par. VII.1, l’ipotesi era già stata avanzata anche supra, par. V.2, e ivi, nota 383, riguardo alla paretimologia abannatio, di cui si parlerà nuovamente infra, pp. 155156. Ad ogni modo, analogie e coincidenze specifiche fra le argomentazioni dei due umanisti saranno evidenziate progressivamente, nel corso della trattazione, nel rispetto delle cautele evidenziate supra, nota 443 (cui si rinvia anche per la questione dei rapporti fra Alciato e Budé).
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del Digesto commentato da Alciato in più di un’occasione471. L’attenzione di Budé è attratta in particolare dall’espressione Et ideo apud Graecos exilio voluntario fortuiti casus luebantur (presente nel suddetto D. 48, 19, 16, 8), che suggerisce all’umanista di soffermarsi preliminarmente sul significato dell’espressione exilium voluntarium. Innanzitutto, Budé ricorda l’opinione di Accursio, secondo il quale l’ammissibilità dell’esilio volontario dovrebbe essere ricondotta al giudizio discrezionale del giudice, posta l’attribuzione all’aggettivo voluntarius del significato di spontaneus, vale a dire, quod sibi quisque consciscit (‘liberamente auto-inflitto’). D’altra parte, l’espressione exilium voluntarium potrebbe intendersi anche nel senso di exilium liberum, vale a dire, non certo loco circumscriptum. L’internamento del reo in un luogo dai confini ben definiti caratterizza invece la deportatio e la relegatio, le pene che determinano l’allontanamento coatto dalla patria (misura punitiva, precisa Budé, al suo tempo ancora comunemente applicata). Al riguardo l’umanista cita alcuni esempi menzionati nella Historia Augusta, nella Vita di Marco Aurelio, dove Giulio Capitolino scrive: Deportatus est Heliodorus filius Cassii. Alii liberum exilium acceperunt cum bonorum parte, mulieres ornamentis adiutae, ita ut filia Cassii et Druncianus gener liberam vagandi potestatem haberent, parole dalle quali emerge la differenza fra le espressioni exilium liberum, che è l’exilium quod unusquisque sibi eligit, e libera vagandi potestas (attestata nella Historia Augusta), da intendersi quasi nel senso di exilium vagum, vale a dire, un esilio in virtù del quale i condannati possono mutare il luogo in cui scontare la pena ripetutamente, con l’unico limite di non poter ritornare nel luogo dal quale sono stati esiliati. Quest’ultima, evidenzia Budé, è proprio la forma di exilium cui corrisponde l’espressione lata fuga usata da Marciano in D. 48, 22, 5, e in lingua greca il vocabolo φυγή (fuga) corrisponde al latino exilium, e il verbo φεύγω (fugio) a exulo. Conseguentemente, Budé ritiene che quel passo del Digesto sia corrotto, o meglio, presumibilmente mutilo nel corpo centrale del testo, dal momento che (a suo giudizio) non è possibile trarre alcun senso dalla triplice distinzione dell’exilium lì proposta da Marciano. Infatti, φυγή (appunto, fuga) è l’esilio cui ricorrono quanti vogliano evitare la pena prevista dalle leggi472, come può dedursi da numerose te-
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Vd. e cfr. supra, parr. V.1 e V.2. BUDAEUS 1557, III, Annotationes in Pandectas (posteriores), ad D. 48, 19, 16, 8, f. 344.c-d. L’edizione presenta un refuso (o un’imprecisione), dal momento che ivi si legge Marcellus e non Marcianus (ibid.). Il riferimento ad Accursio corrisponde alla glossa Voluntario a D. 48, 19, 16, 8, dove si legge: «Voluntario. Id est, arbitrium iudicis», in Corpus iuris civilis 1627, III, col. 1547. Si tratta di un rinvio del tutto isolato, dal momento che le citazioni successive sono praticamente tutte ricoducibili ad autori classici, latini e greci. In particolare, la citazione allegata corrisponde a HIST. AUG. Aur. 26, 11-12. Per una rassegna delle attestazioni delle voci fuga e φυγή si rinvia rispettivamente al TLL e al TLG. 472
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stimonianze. Nell’orazione Pro A. Caecina, per esempio, Cicerone afferma: Nam cum ex nostro iure duarum civitatum nemo civis esse possit, tum amittitur haec civitas denique, cum is qui profugerit receptus est in exilium, hoc est in aliam civitatem, e poco sopra, nello stesso passo: Nam exilium […] non supplicium est, sed profugium, portusque supplicii. Nam qui volunt poenam aliquam subterfugere aut calamitatem eo solum vertunt, hoc est sedem aut locum mutant. Itaque nulla in lege nostra reperietur, nec apud caeteras civitates, maleficium ullum exilio esse mulctatum, sed cum homines vincula, neces, ignominiasque vitant, quae sunt legibus constitutae, confugiunt quasi ad arma in exilium. E qui, precisa Budé, contrariamente alla lezione presente nei codici consultati non dovrebbe leggersi arma, ma aram (appunto, ‘rifugio’)473, rivelando la consueta attenzione per l’analisi (filologicamente condotta) del dato testuale. Proseguendo nell’argomentazione, Budé entra più in dettaglio e ricorda come la facoltà di ricorrere all’esilio (per evitare la pena) fosse concessa ai rei prima che il giudizio fosse compiuto, ed era definita mediante l’espressione exilii causa solum vertere (in greco, μεταναστεύω, μετοικίζομαι). Se ne ha testimonianza in Livio, che in relazione ai decemviri scrive: Bona Claudii Oppiique, qui ante diem iudicii vitam in vinculis finierant, Tribuni publicavere, collegae eorum exilii causa solum verterunt, bona publicata sunt. Peraltro, aggiunge Budé, questa prassi dell’esilio volontario dev’essere ricondotta alle leggi dei Greci (attraverso le quali fu recepita dai Romani), di cui si ha attestazione in Demostene, nell’orazione In Aristocratem, dove si legge: τῷ δὲ φεύγοντι, τὸν πρότερον ἔξεστιν εἰπόντα λόγον μεταστῆναι, καὶ οὔθ’ ὁ διώκων, οὔθ’ οἱ δικάζοντες οὔτ’ ἄλλ‹ος› ἀνθρώπων οὐδεὶς, κύριος κωλ‹ῦ›σαι, vale a dire, in latino, Reo autem […] licet cum primam orationem habuerit solum vertere. Id quod vetare nec accusatoris nec iudicum potestatis est. Attraverso la traduzione latina Budé ricorda come la medesima espressione solum vertere fosse utilizzata anche in riferimento ai decoctores, vale a dire, i bancarottieri, il cui ‘ritirarsi dagli affari’ (in seguito alla dichiarazione di bancarotta) era definito mediante l’espressione foro cedere. Se ne ha attestazione in Giovenale, che scrive: Cedere namque foro iam non est deterius quam / Esquilias a ferventi migrare Suburra, e subito prima: Qui vertere solum, Baias et ad Ostia currunt. E il corrispettivo greco di decoctores (qui foro cedunt) si desume
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BUDAEUS 1557, III, cit., f. 344.d. La citazione di Cicerone corrisponde a CIC. Caecin. 100 (passo già citato da Budé nelle Annotationes del 1508, come visto supra, pp. 142-143, e ivi, nota 444). Sul passo ciceroniano vd. nuovamente supra, nota 398. Nell’edizione moderna di riferimento la lezione profugium è attribuita ai ceteri, e a essere adottata è la lezione perfugium (vd. CICERO 1909, Pro A. Caecina, p. 33B – refuso per 34). Inoltre, l’emendazione ad aram, suggerita da Budé, coincide con l’emendazione dell’Angeli (Pietro degli Angeli da Barga) del tràdito ad arma (vd. ivi, p. 34 – refuso per 35 – e cfr. supra, pp. 134-135, e ivi, nota 427, in relazione ad Alciato e a SUET. Vesp. 3).
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dallo stesso Demostene, che nell’orazione Contra Timotheum fa riferimento a οἱ ἀνεσκευασμένοι τῶν τραπεζιτῶν, e nell’orazione Contra Apaturium parla di οἱ τὰς τραπέζας ἀνασκευασάμενοι474. A questo punto, Budé volge nuovamente l’attenzione al passo del Digesto oggetto di commento (D. 48, 19, 16, 8), che a suo parere risulterebbe più completo se integrato dei versi contenuti nell’ultimo libro dell’Iliade. Lì, infatti, Omero narra di come Priamo si recò da Achille (con la guida di Mercurio), e supplice si prostrò alle sue ginocchia chiedendo di poter riscattare il corpo esanime di Ettore. Si tratta dei versi 480-484 del canto XXIV dell’Iliade, che Budé restituisce evidenziandone la coerenza sostanziale con quanto affermato da Claudio Saturnino in D. 48, 19, 16, 8475. La comprensione di quei versi, sottolinea l’umanista, è soccorsa da quanto testimoniato dagli interpreti di Omero, che fanno menzione del costume antichissimo dell’esilio volontario conseguente a un omicidio involontario. Secondo l’uso, per espiare la colpa l’esule volontario avrebbe dovuto rivolgersi a un personaggio ricco e autorevole, che avrebbe compiuto il rituale di purificazione. Recatosi presso la dimora di quella personalità illustre, il reo avrebbe atteso sulla soglia, coperto e in preghiera, fino all’accoglimento della sua supplica. Questo tipo di esilio, precisa Budé, era definito ἀπενιαυτισμός (τουτέστι φυγὴ ἐπ’ ἐνιαυτὸν ἤ ἐπ’ ἐνιαυτοὺς πολλοὺς διὰ φόνον ἀκούσιον, vale a dire, ‘l’esilio annuale o pluriennale conseguente a un delitto involontario’), che letteralmente potrebbe tradursi con abannatio, appunto, annuum exilium, per così dire. E del vocabolo si ha attestazione in Platone,
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BUDAEUS 1557, III, cit., f. 344.d. Sull’esilio volontario (quale strumento per evitare la pena) vd. nuovamente supra, nota 398. Le citazioni allegate corrispondono a LIV. 3, 58, 9; DEMOSTH. In Aristocratem 69, 7 (vd. e cfr. la citazione simile tratta dall’orazione Adversus Leptinem, osservata supra, pp. 145-146, e ivi, nota 455, nelle Annotationes del 1508); IUV. 11, 49-51 (versi già citati nelle Annotationes del 1508, come visto supra, pp. 142-143, e ivi, nota 444); DEMOSTH. Contra Timotheum 68, 2; ID. Contra Apaturium 9, 3. Sull’espressione cedere foro Budé si era già espresso nelle Annotationes del 1508, dove può leggersi: «Cedere foro vulgus facere bancquam ruptam dicit, hoc est negociationem mensariam abrumpere», in BUDAEUS 1557, III, Annotationes in Pandectas (priores), ad D. 16, 3, 7, 2, f. 196.d. 475 «Locus autem Pandectarum inanis replendus est ex libro Iliados ultimo, nisi fallor. Homerus enim commemorans adventum Priami ad Achillem, deductore Mercurio, supplicemque eum describens, et ad genua Achilli advolutum, ut corpus exanime Hectoris ab se redimi pateretur, hos versus scripsit hic reponendos, dictoque Claudii consentaneos. / Ὡς δ’ ὅταν ἄνδρ’ ἄτη πυκινὴ λάβῃ, ὅς’ ἐνὶ πάτρῃ / Φῶτα κατακτείνας, ἄλλον ἐξίκετο δῆμον, / Ανδρὸς ἐς ἀφνειοῦ, θάμβος δ’ ἔχει εἰσορόωντας, / ῾Ὼς Ἀχιλεὺς θάμβησεν ἰδὼν Πρίαμον θεοειδέα / θάμβησαν δὲ καὶ ἄλλοι, ἐς ἀλλήλους δὲ ἴδοντο. Ac si Latine diceres, / Ac velut is crebis quem sors incommoda noxis / Implicat, externas se contulit exul in urbes, / Utque piet facinus patratae caedis, ad aedes / Divitis accedens, mirantia contrahit ad se / Ora hominum hac specie, Priamo sic supplice, Achillis / Circumfusa cohors comitum stupet, ut stupet ipse», in BUDAEUS 1557, III, Annotationes in Pandectas (posteriores), ad D. 48, 19, 16, 8, ff. 344.d-345.a. La citazione omerica corrisponde a Il. 24, 480-484.
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che ricorre ad ἀπενιαυτισμός (e a sue varianti) in diversi passi del libro IX delle Leges476. Il passo si rivela d’importanza fondamentale, soprattutto alla luce del confronto con le argomentazioni alciatee osservate sopra. Come si ricorderà, Alciato tratta del tema dell’esilio volontario conseguente a un omicidio involontario sia nei Praetermissa sia nelle Dispunctiones (opere pubblicate nel 1518), e in queste ultime restituisce i versi omerici citati da Claudio Saturnino in D. 48, 19, 16, 8 (appunto, Il. 23, 85-88)477. Apparentemente, Budé sembra ignorare tutto ciò, e nel passo appena presentato (tratto dalle Annotationes posteriores del 1526) restituisce i versi 480-484 di Il. 24. Nel realizzare quest’operazione, Budé menziona il vocabolo ἀπενιαυτισμός e il relativo calco (paretimologico) abannatio, di cui Alciato scriverà a sua volta nel libro II dei Parerga (pubblicati nel 1538) e nel De singulari certamine (pubblicato nel 1541 e poi nel 1543, pur se opera giovanile), non menzionando il precedente contributo di Budé. In tal senso, la corrispondenza delle note alciatee con quelle di Budé sembrerebbe in questo caso confermare l’ipotesi di una citazione implicita (se non proprio di un mero plagio) da parte di Alciato nei confronti dell’umanista francese478. Proseguendo nell’argomentazione, Budé evidenzia come le origini dell’esilio volontario (quale forma di espiazione della colpa di un delitto involontario) siano da
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«Ad quorum versuum intelligentiam interpretes Homeri tradunt morem fuisse apud vetustissimos, ut qui non voluntariam caedem admisisset, is exularet patria, ad aedesque locupletis hominis se conferens, ibi opertus sederet in limine, oraretque et postularet ad missae caedis expiamentum. Huiusmodi vero exilium ἀπενιαυτισμὸς appellabatur, τουτέστι φυγὴ ἐπ’ ἐνιαυτὸν ἤ ἐπ’ ἐνιαυτοὺς πολλοὺς διὰ φόνον ἀκούσιον, verbum e verbo ductum abannatio dici potest, quasi annuum exilium. Plato lib. 9 de leg. ἐὰν δὲ ξένος ἄκων ξένον κτείνῃ τῶν ἐν τῇ πόλει, ἐπεξίτω μὲν ὁ βουλόμενος ἐπὶ τοῖς αὐτοῖς νόμοις, μέτοικος δὲ ὢν ἀπενιαυτησάτω. Idem alibi, γυναῖκα δὲ γαμετὴν ἐὰν ἀνὴρ δι’ ὀργὴν κτείνῃ τινά τις, ἢ γυνὴ ἑαυτῆς ἄνδρα ταὐτὸν ὡσαύτως ἐργάσηται, καθαίρεσθαι μὲν τοὺς αὐτοὺς καθαρμούς, τριετεῖς δὲ ἀπενιαυτήσεις διατελεῖν. Alibi, καὶ ἐνιαυτοὺς τρεῖς ἀπενιαυτείτω. Alibi, ἀπενιαυτησάτω», in BUDAEUS 1557, III, cit., f. 345.a. Sul tema della purificazione rituale si ricordi quanto osservato supra, par. VII.2, e ivi, nota 458, e si veda anche infra, note 487 e 497. Sul tema dell’involontarietà del delitto nel mondo greco antico si rinvia a supra, cap. V, e ivi, nota 374, con relativa bibliografia. Le citazioni platoniche allegate corrispondono a PLAT. Leg. 9, 866, b 7-c 2 (passo citato anche nei Commentarii Linguae Graecae del 1529, per i quali vd. infra, pp. 166-167, e ivi, nota 504); 868, d 6-e 3; 868, c 8; 866, c 2. 477 Vd. supra, par. V.1, e ivi, nota 370. 478 Vd. e cfr. le osservazioni che erano già state anticipate supra, par. V.2, e ivi, note 383 e 391, riguardo al contributo alciateo. Sui rapporti fra Alciato e Budé (in relazione alle loro opere) vd. nuovamente supra, nota 443. Sulla cronologia delle Dispunctiones e dei Praetermissa vd. supra, nota 367. Sulla cronologia dei Parerga vd. supra, nota 382. Sulla cronologia del De singulari certamine vd. supra, nota 389. Sulla cronologia delle Annotationes in Pandectas (priores e posteriores) vd. supra, par. VII.1. In tema di imitazione e plagio letterari si vedano almeno COUTON, FERNANDEZ, JÉRÉMIE, VÉNUAT 2006 e CONTE 2014.
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ricondurre a un costume degli antichi, che ritenevano i rei di omicidio impuri e da maledire, e dunque da evitare e avversare. Si tratta di un’allusione all’arcaica sacertas, già menzionata sopra, in più di un’occasione479. Secondo il costume antico, una volta che il giudizio fosse stato compiuto, i rei di omicidio venivano allontanati dai culti e dalla vita pubblica. Se ne ha testimonianza in Giulio Polluce (nel libro VIII del suo Onomasticon), ma anche in molti altri autori. Per esempio, Antifonte, nell’orazione De saltatore, rivolgendosi ai giudici afferma (Budé cita il passo in traduzione latina): Causas […] caedis, ut opinor, vos magnopere contenditis exacte iudicare. Quippe hominem reum sententiis vestris caedis damnatum, in eam fraudem incidere necesse est, ut nec caedis perpetrator, nec perpetratae caedis revera obnoxius, poenas tamen pendat, et legis sanctionem subeat, ut urbe, sacris, sacrificiis, certaminibus arceatur, quae hominibus maxima antiquissimaque censentur. In Lisia, nell’orazione In Agoratum, si legge: ὀυδεὶς γὰρ αὐτῷ διελέγετο ὡς ἀνδροφόνῳ ὄντι, appunto, in latino, Nemo […] eum ut homicidii reum colloquio dignabatur, e nell’orazione In Aristocratem Demostene menziona le parole della legge in cui è sancita la pena per l’omicidio: ἀπέχεσθαι ἀγορᾶς, ἐφορίας, καὶ ἄθλων, καὶ ἱερῶν ἀμφικτυονικῶν, fornendone peraltro un’interpretazione480. Inoltre, Budé ricorda come di questa forma di espiazione dell’omicidio commesso imprudentemente (e dunque, involontariamente) si abbia un esempio in Erodoto, che nel libro I delle Historiae, narrando di Creso (intento a celebrare le nozze del figlio), scrive (Budé cita il passo in traduzione latina): Quum autem […] filii nuptias Croesus in manibus haberet, advenit Sardeis quidam calamitate praeditus, manibusque impuris, natione Phryx. Hic cum ad Croesi aedes accessisset, gentilique instituto rituque patrio postulasset, sibi ut liceret expiamenti optati compotem esse, Croesus eum expiavit. Est autem Lydis Graecisque ritus expiandi similis. Postquam autem Croesus legitima iustaque lustrationis peregit, unde nam ille, et quis esset, percontari institit. E poco oltre: Gordii, inquit ille, filius sum, cui Midas parens fuit. Adrasto mihi nomen est, qui quia imprudens germanum meum interemi ad te accessi. Sum enim et a parente eiectus, et omnibus fortunis exutus. Similmente, dell’esilio conseguente all’omicidio involontario si ha attestazione in Pausania, che nel libro Ι dedicato all’Elide (vale a dire, il libro V della sua Graeciae descriptio) scrive: συνεπεπτώκει δὲ τῷ Ὀξύλῳ φυγάδι ἐξ Αἰτωλίας εἶναι· δισκεύοντα γάρ φασιν ἁμαρτεῖν αὐτὸν, καὶ ἐξεργάσασθαι φόνον ἀκούσιον, τὸν δὲ ἀποθανόντα ὑπὸ τοῦ δίσκου τὸν ἀδελφὸν εἶναι τοῦ Ὀξύλου, e in Euripide, che nella tragedia Orestes, a proposito degli omicidi scrive: καλῶς ἔθεντο ταῦτα πατέρες οἱ πάλαι· εἰς ὀμμάτων γὰρ ὄψιν οὐκ εἴων περᾶν, οὐδ’ εἰς
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Vd. e cfr. supra, pp. 147-150, e ivi, nota 458. BUDAEUS 1557, III, cit., f. 345.b. Posto il riferimento generico a POLL. Onomasticon 8, le citazioni allegate corrispondono a ANTIPHO De saltatore 3-4; LYS. In Agoratum 82; DEMOSTH. In Aristocratem 37. 480
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– 158 – ἀπάντημ’ ὅστις αἷμ’ ἔχων κυρ‹ο›ῖ, φυγαῖσι δ’ ὡσίουν, vale a dire, exiliis expiabant481.
Si tratta di un insieme di testimonianze autorevoli, che suggeriscono a Budé di soffermarsi nuovamente sull’interpretazione del passo del Digesto oggetto di commento (D. 48, 19, 16, 8). Infatti, la lettura delle fonti rende chiaro il significato attribuito da Claudio Saturnino alle espressioni voluntarium exilium e fortuitus casus. Quest’ultima corrisponde al greco ἀκούσιος φόνος, che significa imprudens homicidium, appunto, omicidio involontario. L’espressione imprudens homicidium, invece, è attestata in Valerio Massimo, che la usa in riferimento alla purificazione di Adrasto da parte di Creso (appena osservata in Erodoto)482. Alla luce di queste fonti, Budé presenta una serie di testimonianze in tema di riti di purificazione dalla colpa del delitto involontario. Per esempio, in Erodoto può osservarsi l’espressione καθ‹ά›ρσιος Ζεύς, appunto, Iupiter expiator, che era la divinità preposta al legame sorto fra espiato ed espiatore (vale a dire, fra il colpevole e l’ospite che lo purificava) in seguito al rito di purificazione stesso, e in tal senso quasi disceptator iuris fra i due soggetti. Ciò, aggiunge l’umanista, è paragonabile al ruolo attribuito (in chiave cristiana) a Dio, che è expiator e allo stesso tempo vindex, ‘garante’ del rapporto fra padre spirituale e soggetto assolto dai peccati (mediante i sacramenti del battesimo e della confessione), e dunque ‘giudice’ qualora sia stato commesso (o accordato) qualcosa d’ingiusto483. In secondo luogo, prosegue Budé, è interessante notare la testimonianza di Eustazio, che nei suoi commentari a Omero scrive (Budé cita il passo in traduzione latina): Quod autem […] sanguine lustratio fieret, testis est historia, cuiusmodi est homicidarum lustratio, qui sanguine abluti, lustramenti loco id esse ipsi ducebant. Cuius artis professores Pharmacos Attici vocant, ut urbium quoque expiatores484. Inoltre, come già anticipato, della vicenda di Adrasto si ha menzione anche in Valerio Massimo, che ne tratta nel libro I dei suoi Facta et dicta memorabilia, nel capitolo De somniis, pur se solo succintamente e senza la citazione espressa del nome. Infatti, scrivendo del figlio di Creso (che
481 BUDAEUS 1557, III, cit., f. 345.b. Le citazioni allegate corrispondono a HDT. 1, 35, 1-4; PAUS. Graeciae descriptio 5, 3, 7; EUR. Or. 512-515. Si segnala che la traduzione latina del passo di Erodoto presentata da Budé non coincide con quella di Lorenzo Valla (vd. e cfr. HERODOTUS 1573, f. 16). Sulla nota traduzione latina delle Historiae di Erodoto curata dal Valla vd. ALBERTI 1959. 482 BUDAEUS 1557, III, cit., f. 345.b. Il riferimento a Valerio Massimo corrisponde a VAL. MAX. 1, 7, Ext. 4 (citato nuovamente infra, p. 159, e ivi, nota 485). Sull’omicidio (in particolare involontario) nel mondo greco si rinvia nuovamente alle osservazioni esposte supra, par. V.1, e ivi, nota 374. 483 BUDAEUS 1557, III, cit., ff. 345.b-346.c. La citazione di Erodoto corrisponde a HDT. 1, 44, 2. 484 BUDAEUS 1557, III, cit., f. 346.c. La citazione di Eustazio corrisponde a EUSTATH. Commentarii ad Homeri Odysseam 1935, Vers. 481, rr. 28-30 (vd. EUSTATHIUS 1826, p. 291). La menzione di Eustazio, Homeri interpres, era stata osservata anche in Alciato, pur se in relazione a un passo differente (vd. e cfr. supra, par. V.2, e ivi, nota 391).
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Adrasto aveva accidentalmente trafitto con una lancia, durante la caccia), Valerio Massimo accenna ad Adrasto e alla sua espiazione nel seguente modo: Et quidem […] eam potissimum dexteram casus nefariae caedis crimine voluit aspergi, cui tutela filii a patre mandata erat, quamque Croesus imprudentis homicidii sanguine violatam, hospitales veritus deos, supplicem sacrificio expiaverat485. Un’altra testimonianza dell’espiazione dell’omicidio (in questo caso volontario) emerge da Livio, che in riferimento all’Orazio superstite, reo di aver ucciso la sorella Orazia, scrive: Itaque ut caedes manifesta aliquo tamen piaculo lueretur, imperatum patri ut filium expiaret pecunia publica. La citazione liviana offre a Budé l’occasione per ricordare come l’espressione καθαρὸς τὰς χείρας indicasse (presso i Greci) il soggetto che non si fosse macchiato (letteralmente, le mani) di un omicidio (qui homicidio manus non contaminavit), e così anche gli aggettivi (citati endiadicamente) ὅσιος e εὐαγής. Di significato esattamente contrario è invece l’espressione μὴ καθαροί, indicante appunto οἱ ἐναγεῖς, καὶ οἱ μιάσματί τινι ἐνόχοι, καὶ μὴ καθαρεύοντες φόνου, e i soggetti ‘impuri’ erano definiti anche ἀκάθαρτοι, cosa di cui si ha attestazione in Platone, che nel libro IX delle Leges scrive: ὅστις δ’ ἂν τῶν ἀποκτεινάντων πάντων μὴ πείθηται τῷ νόμῳ, ἀλλ’ ἀκάθαρτος ὢν (vale a dire, nondum expiatus), e subito dopo: ἀγοράν τε καὶ ἆθλα, καὶ τ’ ἄλλα ἱερὰ μιαίνῃ, ὁ βουλόμενος τόντε ἐπιτρέποντα, τῶν προσηκόντων τῷ τελευτήσαντι, καὶ τὸν ἀποκτείναντα εἰς δίκην καταστησάτω486. Le numerose testimonianze citate suggeriscono l’immagine di un mondo antico (greco-romano) concorde nel giudizio intorno agli omicidi, considerati empi e fonte di contaminazione (e dunque di pericolo) per la comunità complessivamente intesa. In tal senso, l’espiazione rituale del delitto di sangue (involontario o volontario) assume agli occhi dell’umanista un valore ancora più profondo, in quanto posta a garanzia del ristabilimento dell’armonia e della pace, nella metafora della purificazione rituale delle mani macchiate dall’omicidio487.
485 BUDAEUS 1557, III, cit., f. 346.c. La citazione di Valerio Massimo (VAL. MAX. 1, 7, Ext. 4) era già stata osservata poco supra, p. 158, e ivi, nota 482. 486 BUDAEUS 1557, III, cit., f. 346.c. La citazione liviana corrisponde a LIV. 1, 26, 12. Sulla vicenda dell’Orazio superstite e sulle questioni connesse all’omicidio della sorella Orazia vd. CANTARELLA 1996, pp. 171-174. Per le attestazioni (numerose) delle espressioni greche citate da Budé in relazione ai concetti di purezza e di contaminazione si rinvia al TLG. Ci si limiterà qui a segnalare che degli aggettivi ὅσιος e εὐαγής, endiadicamente congiunti, si ha attestazione (almeno) in Andocide (AND. De mysteriis 96). Le citazioni platoniche corrispondono a PLAT. Leg. 9, 868, a 6-7; 868, a 7-b 3. 487 Sui caratteri della purificazione dall’omicidio nel mondo antico si rinvia nuovamente a ThesCRA 2004, Purificazione, pp. 1-87, diffusamente, e sull’omicidio e sul conseguente concetto di contaminazione in particolare vd. ivi, s.v. Spargimento di sangue, pp. 13B-17A; s.v. Espulsione, eliminazione, pp. 33A-35A (per il mondo greco); s.v. Morte, pp. 71A-72B; s.v. Eliminazione, pp. 84B85A (per il mondo romano). Si veda nuovamente anche CANTARELLA 1996.
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A questo punto, dall’approfondimento storico dei costumi antichi Budé volge l’attenzione al mondo a lui contemporaneo, e formula un’interessante riflessione sulla realtà giuridica francese del XVI secolo, analizzata criticamente alla luce delle testimonianze citate. Infatti, proprio sull’esempio di queste ultime, l’umanista sottolinea come la consuetudine vigente in Francia (riguardo all’omicidio commesso involontariamente) non si sia certo affermata dal nulla. Benché molti non la ritengano affatto equa e giusta (anche qualora il delitto sia del tutto libero da colpa), quella consuetudine prevede che i rei di un omicidio involontario possano ottenere il perdono o dal sovrano o dalla Cancelleria (che è una sorta di aequitatis officina). A tal proposito, Budé ricorda come egli stesso rivesta una carica magistratuale e lavori attivamente in una sezione di quella Cancelleria, il Pretorio, preposto alla direzione dei libelli (vale a dire, in questo caso, delle procedure relative all’accoglimento delle suppliche)488. Così, delineando un parallelismo fra mondo antico e mondo contemporaneo, l’umanista mette in luce come l’espiazione di un delitto avventato o prodotto da un caso fortuito, al suo tempo attuata grazie all’intervento dei re, sia stata ereditata proprio dagli antichi costumi osservati sopra: la supplica di espiazione del delitto involontario, un tempo rivolta a un personaggio ricco e autorevole, ne è un chiaro esempio. Peraltro, alla luce di quanto emerso dalle fonti risulta ancora più comprensibile il fatto che ai re (consacrati secondo i rituali previsti) sia attribuito un certo carattere divino. In particolare, precisa l’umanista, i sovrani francesi sembrerebbero possedere questa qualità divina più degli altri ed essere in grado di ‘diffonderla’, nel momento in cui impongono la loro mano miracolosa e guaritrice sul capo dei malati di scrofola. In ragione di questo stesso segno di sovranità (sacra e un tempo fondata su buoni auspici), la corte regia è visitata abitualmente da folle di ammalati, che attendono l’arrivo dei
488 «Exemplo huiuscemodi instituti antiquissimi planum fit, non de nihilo institutum illud Franciae invaluisse, quod multis tamen minime consentaneum aequo et bono esse videtur, de homicidio ab imprudentibus admisso, etiam si culpa vacet facinus, tamen ut ii veniam impetrandam habeant, aut a Principe, aut ab illa aequitatis officina, quam Cancellariam dicimus, qua in parte potissimum rei publicae operam ipsi nunc pro potestate navamus, magistratu functitantes, quod magisterium libellorum in Praetorio dicitur», in BUDAEUS 1557, III, cit., f. 346.c. La famiglia di Budé contava almeno tre generazioni di ufficiali della Cancelleria di Francia, e Budé stesso rivestì le cariche di secrétaire du Roi (sotto Carlo VIII e Luigi XII), di maître de la Librairie e di maître des requêtes de l’Hôtel du Roi (a partire dal 1522 fino alla morte) e, a più riprese, di prévôt des marchands (vd. e cfr. DE L A GARANDERIE 1997, p. 221AB; K RYNEN 2007a, p. 142A-B; D ELARUELLE 1907, pp. 58-92; M C N EIL 1975, soprattutto pp. 3-14, 93-108). Sulla Cancelleria di Francia nel secolo XVI si vedano almeno MICHAUD 1967 e MOUSNIER 1970.
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giorni di festa consacrati all’esercizio amorevole dei poteri taumaturgici da parte del sovrano489. La comparazione fra i rituali di purificazione nel mondo antico e i poteri taumaturgici riconosciuti ai sovrani di Francia (in ragione della natura divina attribuita alla loro regalità) suggerisce a Budé un’ulteriore riflessione. Se la Provvidenza avesse conferito questo straordinario diadematicum (vale a dire, questo segno di regalità divina) anche affinché le assemblee di Stato (verosimilmente, gli Stati generali) avessero luogo sulla base di buoni auspici, supportate da una volontà divina propizia e risoluta, senza dubbio e meritatamente (absit invidia verbo, sottolinea Budé) la sovranità della Francia sarebbe dotata di una maestà perfetta e beatissima fra gli uomini, e sarebbe considerata degna di somma fortuna. Sono parole che sembrano rivelare un elogio esplicito della monarchia francese, la cui sacralità sembra essere posta a garanzia del primato del sovrano e della rettezza del suo giudizio490. Chiusa la digressione sul suo tempo, l’umanista prosegue l’indagine sull’espiazione del delitto presso gli antichi, celebrando la loro sollecitudine nella punizione degli omicidi. Innanzitutto, Budé evidenzia come nell’Areopago venissero comunemente eseguiti sacrifici alle Eumenidi, che i Greci definivano anche σεμναὶ θεαί, appunto, ‘dee benevole’, custodi del tribunale in cui venivano giudicati gli assassini (in quanto vindices di questi ultimi e ultrices dei loro omicidi). All’esecuzione dei sacrifici erano preposti tre sacerdoti, gli ἱεροποιοί, cosa di cui si ha attestazione in Demostene, che nell’orazione In Midiam, nel difendersi dall’accusa di omicidio oppostagli dall’avversario, afferma: ὥστε ἐπαιτιασάμενός με φόνου, περιεῖδε ‹δὲ› ταῖς σεμναῖς θεαῖς ἱεροποιὸν αἱρεθέντα ἐξ Ἀθηναίων ἁπάντων τρίτον αὐτὸν, καὶ καταρξάμενον τῶν ἱερῶν, appunto, in traduzione latina: Hic […] qui me caedis crimine reum facere instituit, cum ego a curia sacrificulus tertius designatus sum e numero omni civium, ut sacrum pro populo deabus venerandis facerem (così, precisa infatti
489
«Sic enim a regibus expiari vel facinus inconsultum, vel casum temerarium, moribus comparatum est, ut olim a ditissimo quoque piaculum huiusmodi admissorum postulabatur. Caeterum eo nunc congruentius, luculentioreque cum ratione, quo reges non sine sacris ritualibus inaugurati, vi quadam divina praediti merito existimantur, nostrique eo amplius fortasse, quod instar ipsi quoddam numinis, neque id quodlibet, circumferre eos videmus, cum medicam manum salubremque admovent iis quos strumae male habent. Ob quod ipsum specimen potentatus auspicato olim fundati, comitatus regius aegrotantium gregibus plerunque frequentatur, dies festos expectantium, qui sacrae huiuscemodi functioni piaeque solennes sunt», in BUDAEUS 1557, III, cit., f. 346.c-d. Il riferimento è alla tradizione dei re taumaturghi, per la quale è d’obbligo il rinvio a BLOCH 2016. 490 BUDAEUS 1557, III, cit., f. 346.d. L’interpretazione del passo qui suggerita è solo una proposta. Sulla regalità divina attribuita ai sovrani di Francia si veda nuovamente BLOCH 2016. L’espressione absit invidia verbo è attestata in LIV. 9, 19, 15.
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Budé, erano definite le Eumenidi) nulla intercessione obstitit, quo minus sacrificium auspicarer491. Più in dettaglio, prosegue l’umanista, nell’Areopago venivano giudicati gli omicidi volontari (i φόνοι ἐκ προνοίας), non quelli involontari (ἀκούσιοι), e a essere menzionato nel passo di Claudio Saturnino oggetto di commento (D. 48, 19, 16, 8) è proprio il delitto involontario. A tal riguardo, aggiunge Budé, l’espressione Ut a dementissimo quoque facta (‘come anche i fatti commessi da un folle’), lì contenuta, sebbene non manchi di un certo errore (in quanto non proprio pertinente all’eventus, quale modus nella valutazione del delitto), può essere adeguatamente interpretata sulla base di quanto attestato nel lessico Suida, in relazione alla statua di Nicone Tasio (vale a dire, Teogene di Taso), pugile celebrato. Secondo il racconto riportato nel lessico, uno dei rivali del pugile (che era ormai morto) in preda all’odio percosse con un bastone la statua che era stata eretta in onore dell’atleta, quasi volesse oltraggiare Teogene in persona, ma la statua, ultrix (‘vendicatrice’ della salma del pugile), crollò sul percussore e lo uccise. Gli eredi di quest’ultimo accusarono la statua stessa dell’omicidio, e sulla base della legge di Dracone ne ottennero la condanna dai giudici di Taso, che la fecero gettare in mare. Il racconto della vicenda, precisa Budé, è stato inserito nel lessico sulla base dell’attestazione presente in Pausania, nel libro VI della sua Graeciae descriptio, dedicato all’Elide. La condanna della statua di Teogene trova una spiegazione nel fatto che la legislazione draconiana prevedesse la pena dell’esilio per quanti avessero commesso un omicidio, fossero questi esseri animati (uomini o bestie) o inanimati. Posto che la norma concorda con quanto può leggersi nel cap. IX della Genesi (sulla punizione dell’omicidio), Budé ricorda come gli omicidi commessi da esseri inanimati venissero giudicati nel Pritaneo, cosa di cui si ha attestazione in Demostene, nell’orazione In Aristocratem (già più volte citata)492. Peraltro,
BUDAEUS 1557, III, cit., f. 346.d. Per le attestazioni (numerose) dell’espressione σεμναὶ θεαί (e varianti) si rinvia al TLG. La citazione di Demostene corrisponde a DEMOSTH. In Midiam 114, 4; 115, 2-4. 492 BUDAEUS 1557, III, cit., ff. 346.d-347.a. Budé aggiunge che secondo quanto può leggersi nel libro V della Praeparatio evangelica di Eusebio di Cesarea, la statua avrebbe raffigurato l’atleta Diomede e non Teogene di Taso. Ad ogni modo, il riferimento non è chiaro, dal momento che nel libro V della Praeparatio evangelica sembrerebbe non essere attestata la voce Διομήδης (né vi si riscontrano sue varianti). È probabile che Budé intendesse invece citare EUS. P.E. 4, 16, 2. Per l’attestazione della condanna della statua di Nicone Tasio nel lessico Suida vd. Suida 1933, s.v. Νίκων, pp. 470-471, 410, ma anche Suida 1931, s.v. Θεογένης Θάσιος, p. 692, 133. Su Teogene di Taso si veda DECKER 2002. Il riferimento a Pausania corrisponde a PAUS. Graeciae descriptio 6, 11, 6. Il riferimento alla Genesi corrisponde verosimilmente a Gen. 9, 6; quello a Demostene, invece, a DEMOSTH. In Aristocratem 76. Sui caratteri dell’omicidio nella Grecia antica e sulla legislazione draconiana in tema di omicidio si rinvia nuovamente alle indicazioni esposte supra, nota 374, e alla relativa bibliografia. Sul modus ‘eventus’ nella valutazione del delitto si vedano nuovamente BONINI 1959-1962 (pp. 159-168); IMPALLOMENI 1982 (pp. 197-198); SPOSITO 1999 (pp. 107-109); MANNI 2013 (pp. 219-230, 240-250). 491
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la medesima fonte testimonia un’altra consuetudine antichissima: qualora il reo di un omicidio si fosse allontanato in esilio, sfuggendo così alla pena, a quanti avessero subito un danno da quel delitto (e non avessero potuto ottenere alcuna soddisfazione dal reo esiliatosi) era riconosciuta la facoltà di catturare ostaggi in risarcimento (fino all’instaurazione di un regolare processo per l’omicidio o alla consegna dell’assassino). Questa particolare potestas pignerandi era definita androlepsia (o androlepsium, al genere neutro, sempre traslitterando dal greco), e il testo della norma che ne dettava la disciplina è attestato nella suddetta orazione In Aristocratem, dove si legge (Budé presenta il passo in traduzione latina): Si quis violenta morte obierit, pro hoc gentilibus et cognatis androlepsiae sunto, quoad iudicium caedis poenasque subierint, vel necis autores dediderint. Androlepsia vero ad tres usque nec eo amplius esto. Ulteriori attestazioni dell’androlepsia si hanno anche in Giulio Polluce, che nel suo Onomasticon scrive: ἔστι δὲ ἀνδρολήψιον, ὅταν τις τοὺς ἀνδροφόνους καταφυγόντας ὥς τινας, ἀπαιτῶν μὴ λαμβάνῃ, ἔξεστιν ἐκ τῶν οὐκ ἐκδιδόντων ἄχρι τριῶν ἀπαγαγεῖν, e in Arpocrazione, che nel suo Lexicon in decem oratores in linea con Polluce scrive: ‹ἠ›νεχύραζον […] τὴν ἔχουσαν πόλιν τὸν ἀνδροφόνον, καὶ προιεμένην αὐτὸν εἰς τιμωρίαν. Ciò posto, tornando all’orazione citata Budé illustra come Demostene, forse per esigenze legate alla causa, sostenga che l’androlepsia fosse concessa per legge non contro quanti avessero accolto l’esule, ma soltanto contro quelli presso i quali l’uccisione fosse stata commessa. Tuttavia, precisa l’umanista, l’androlepsia non era un risarcimento spettante di diritto all’attore nel processo, ma era riconosciuta ai soggetti danneggiati dall’omicidio proprio nell’assenza (e nell’attesa) di un regolare giudizio. Dunque, vi si poteva ricorrere privato consilio (appunto, ‘per deliberazione privata’), come testimonia lo stesso Giulio Polluce493. L’umanista aggiunge che questa forma di risarcimento (mutatis mutandis) è definita pigneratio in VI. 5, 8 (De iniuriis et damno dato), ma i doctores (iuris interpretes) preferiscono utilizzare il vocabolo repressalia (che è una voce volgare di registro comune, quasi ‘sgradevole’). Inoltre, il verbo latino pigneror corrisponde al greco ἐνεχυράζω e alle relative espressioni κατενεχυράζειν ἀνθρώπους e ἀνδροληψίας χάριν ἅπτεσθαι τῶν ἀνθρώπων, ed Ermolao Barbaro (vir doctissimus, sottolinea Budé) ricorre al vocabolo clarigatio (appunto, ‘diritto di rappresaglia’), quasi non vi fosse alcun altro vocabolo
493 BUDAEUS 1557, III, cit., f. 347.a. Le citazioni allegate corrispondono a DEMOSTH. In Aristocratem 82; POLL. Onomasticon 8, 50, 5-6 e 8, 51, 1; HARP. Lexicon in decem oratores, s.v. Ἀνδροληψία. Sul passo di Demostene qui preso in considerazione vd. DEMOSTHENES 2000b, pp. 252-255. Sull’androlepsia in particolare vd. SMITH, WAYTE, MARINDIN 1890, s.v. Androlepsia (ἀνδροληψία or ἀνδρολήψιον).
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greco o latino appropriato per indicare ‘ciò che è preso in possesso continuativamente’ (res omni tempore usurpata)494. A questo punto, volgendosi alla conclusione del commento a D. 48, 19, 16, 8, Budé cita nuovamente Omero, che oltre a quanto già osservato sopra, riporta un ulteriore esempio di esilio conseguente a un omicidio involontario. Infatti, nel canto XXIII dell’Iliade l’ombra di Patroclo si rivolge ad Achille ricordando le circostanze all’origine della loro amicizia, sintetizzate dall’umanista in calce alla citazione dei versi (Il. 23, 83-88). Secondo il mito, in occasione di una partita ai dadi Patroclo (ancora fanciullo) fu colto da un improvviso impeto d’ira e uccise il compagno di gioco Clisonimo. A causa del delitto, il padre (Menezio di Opunte) lo condusse in esilio presso la casa di Peleo, che lo educò benevolmente e convenientemente, facendo sì che divenisse compagno e amico del figlio Achille. Questi versi, precisa Budé, non sembrano del tutto appropriati al contesto in cui sono citati (D. 48, 19, 16, 8), ma si rivelano comunque pertinenti in quanto il delitto commesso dal fanciullo involontariamente (poiché d’impeto) risulta sanzionato con l’esilio. Così, aggiunge l’umanista, oltre ai versi omerici citati (appunto, Il. 24, 480-484, suggeriti poco sopra a integrazione di D. 48, 19, 16, 8, e Il. 23, 83-88, appena osservati), dalla lettura complessiva di entrambi i poemi omerici sembrerebbe non esservi nessun’altra testimonianza utile a conferire autorevolezza al frammento di Claudio Saturnino495. Anche in questo caso, Budé sembra ignorare la restituzione di Il. 23,
494 BUDAEUS 1557, III, cit., f. 347.a-b. In esordio a VI. 5, 8 si legge: «Etsi pignorationes, quas vulgaris elocutio repressalias nominat». Posta l’attestazione dell’infinito κατενεχυράζειν in POLL. Onomasticon 8, 148, e dell’espressione χάριν ἅπτεσθαι in PORPH. Abst. 2, 31, nel complesso sembrerebbe che le espressioni citate da Budé (κατενεχυράζειν ἀνθρώπους e ἀνδροληψίας χάριν ἅπτεσθαι τῶν ἀνθρώπων) siano state composte dall’umanista stesso, ai fini dell’argomentazione (vd. e cfr. il TLG). Fra le principali attestazioni del vocabolo clarigatio vi è PLIN. nat. 1, 22, 3. In tal senso, è probabile che la citazione di Ermolao Barbaro (iunior) corrisponda alla menzione che di quel vocabolo l’umanista fa all’interno delle sue Castigationes Plinianae (vd. e cfr. BARBARUS 1973-1979, III, Glossemata, s.v. Clarigatio, p. 1374, 70, e s.v. Talea, p. 1464, 7). 495 «Est etiam apud Homerum aliud exemplum exilii ob caedem inconsulto admissam, Iliados lib. 3 et 20, eo in loco ubi umbra Patrocli ad Achillem ita inquit: Μὴ ἐμὰ σῶν ἀπάνευθε τιθ‹ή›μεναι ὀστέ’ Ἀχιλλεῦ, / Ἀλλ’ ὁμοῦ, ὡς ἐτράφημεν ἐν ὑμετέροισι δόμοισιν, / Εὖτέ με τυτθὸν ἐόντα Μενοίτιος ἐξ Ὀπόεντος / Ἤγαγεν ὑμέτερον δ’ ἀνδροκτασίης ὑπὸ λυγρῆς, / Ἤματι τῷ, ὅτε παῖδα κατέκτανον Ἀμφιδάμαντος / Νήπιος οὐκ ἐθέλων, ἀμφ’ ἀστραγάλοισι χολωθείς. / Historia tradit Patroclum ludo talario ludentem, cum puer esset, subito excanduisse, iraeque impetu puerum collusorem nomine Clisonymum interemisse. Ob quod facinus pater eius Menoetius ex Opunte patria eum exulatum ad Pelei domum deduxit, a quo benigne et liberaliter educatus, Pelei iussu comes Achillis esse coepit et amicus. Haec autem carmina quanquam non perinde conveniunt supplendo verborum contextui, tamen eatenus pertinere possunt, quod delictum puerile tamen exilio mulctatum est, etiam si inconsulto impetu commissum. Ultra hos duos Homeri locos, ut poema utrumque perlegatur, nihil, ut opinor, invenietur, ex quo duci au‹c›toritas convenienter Iurisconsulti dicto possit», in BUDAEUS 1557, III, cit., f. 347.b. Sull’episodio mitologico citato vd. e cfr. supra, par. V.1, e ivi, note 370 e 371.
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85-88 proposta da Alciato nelle Dispunctiones del 1518, ma la sua riflessione su D. 48, 19, 16, 8 si rivela complessivamente più estesa e più approfondita di quella elaborata dall’umanista italiano (nelle Dispunctiones prima, e nei Parerga poi)496. Concludendo, Budé aggiunge che anche presso gli Ebrei gli omicidi involontari (in quanto fortuiti) erano espiati mediante l’esilio, su giudizio dei più anziani della comunità. Per questa ragione, alcune città erano, per così dire, exulibus attributae, vale a dire, ‘specificamente destinate ad accogliere gli esuli’. Infatti, nel cap. XX del Libro di Giosuè si legge: καὶ ἔσονται ‹ὑ›μῖν αἱ πόλεις ταῦται φυγαδευτήριον, καὶ οὐκ ἀποθανεῖται ὁ φονευτὴς ‹ὑ›πὸ τοῦ ἀγχιστεύοντος τὸ αἷμα, ἕως ἄν καταστῇ ἐναντίον τῆς συναγωγῆς εἰς κρίσιν. Inoltre, richiamando nuovamente il tema della purificazione rituale, Budé ricorda un ultimo, antichissimo costume greco, vale a dire, l’abluzione delle mani in acqua lustrale. A questa avrebbe dovuto fare ricorso chi si fosse macchiato le mani del sangue di un essere vivente (uomo o bestia che fosse), per purificarle dalla contaminazione derivante dall’omicidio. Se ne ha attestazione in Sofocle, che ricorda come Aiace (che era stato indotto alla follia dalla dea Atena) avesse massacrato degli armenti. Tuttavia, credendo di aver ucciso degli uomini, disse: ἀλλ’ εἶμι πρός τε λουτρὰ, καὶ παρακτίους λειμῶνας, ὡς ἂν λύμαθ’ ἁγνίσας ἐμὰ, μῆνιν βαρεῖαν ἐξαλεύσωμαι θεᾶς, appunto, τῆς Ἀθηνᾶς497. Così, rivelando un dominio delle fonti sicuro e un’attenzione scrupolosa per il dato testuale, Budé chiude la sua complessa indagine intorno alle forme di esilio nel mondo antico e all’espiazione della connessa colpa. Come detto in esordio, sulle fonti e con le fonti l’umanista costruisce argomentazioni ricchissime di contenuti, alla luce della consapevolezza profonda che è propria della sua singolare conoscenza delle testimonianze classiche. Le brevi note del paragrafo successivo offriranno una sintesi più specifica dei suoi interessi filologico-lessicali.
VII.4. L’EXILIUM NELLA LINGUA GRECA I Commentarii Linguae Graecae (pubblicati per la prima volta nel 1529), erudito studio linguistico della prosa greca classica (e in tal senso opera precorritrice del Thesaurus Graecae Linguae dello Stephanus), rappresentano una raccolta preziosa
496
Vd. e cfr. supra, pp. 155-156, e ivi, nota 478 (per i riferimenti al contributo alciateo), ma anche supra, nota 443 (in tema di rapporti fra Alciato e Budé). 497 BUDAEUS 1557, III, cit., f. 347.b. Le citazioni allegate corrispondono a Ios. 20, 3-6 (ma si veda l’intero cap. XX in relazione al costume menzionato); SOPH. Aj. 654-656. Sulla purificazione rituale, con particolare riguardo per il rito dell’abluzione delle mani (e più in generale per l’uso dell’acqua a scopo lustrale), si veda nuovamente ThesCRA 2004, s.v. Abluzioni e aspersioni, pp. 26A29B (per il mondo greco), e s.v. L’acqua, pp. 51B-55A (per il mondo romano).
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del lessico giuridico greco. Composti da Budé innanzitutto per fornire agli studiosi un ausilio nella comprensione del vocabolario tecnico riscontrabile nella prosa degli oratori e degli storici498, i Commentarii sono caratterizzati da un’attenzione minuziosa per i tecnicismi lessicali. Quest’ultima si rivela strumentale alla successiva ‘esplorazione’ dei concetti sottesi ai lessemi499, sullo sfondo di quel sapere enciclopedico volto allo studio dell’antichità classica di cui si è detto in esordio500. Riguardo al tema dell’esilio (e delle dinamiche dell’esclusione generalmente intese), i pochi passi significativi individuati nell’opera confermano quanto era già stato accennato sopra, vale a dire, la corrispondenza del vocabolo latino exilium con il greco φυγή (che naturalmente traduce anche il latino fuga)501. Un primo esempio interessante è offerto dai verbi φεύγω, φυγαδεύομαι διώκομαι, ἐκδιώκομαι, ἐκπίπτω, ὑπερορίζομαι, ὀστρακίζομαι ed ἐξορίζομαι, che sono tutti utilizzati in relazione agli eiecti, agli extorres e agli exules, sebbene vi sia una certa differenza fra queste forme di esilio. Infatti, il vocabolo ἐξοστρακισμός indica più precisamente la relegatio temporanea in un luogo determinato, non accompagnata dalla confisca dei beni. Φυγή, invece, indica l’exilium comportante la publicatio bonorum e che non è delimitato nel tempo502. Un secondo esempio è rappresentato dalle espressioni φεύγειν τὴν πατρίδα e φεύγειν τὴν πόλιν: la prima corrisponde al latino exulare patria, mentre la seconda indica più specificamente l’esilio dalla propria città. In senso contrario, con l’espressione ἡ τῶν φευγόντων κάθοδος si traduce il latino revocatio exulum o reditus in patriam. Demostene definisce φεύγοντες ἐπὶ φόνῳ gli esuli volontari a causa di un omicidio. In Senofonte, invece, le espressioni Ἠγγέλθη τοῖς στρατηγοῖς ὅτι φεύγοιεν οἴκοθεν ὑπὸ δήμου e Ὅτι ἀδίκως ἅπαντες φεύγοιεν παρὰ τὸν νόμον sono utilizzate in riferimento ai soggetti condannati dal popolo all’esilio503. In Platone, l’espressione φεύγοντες ἀειφυγίαν indica quanti siano stati condannati all’esilio perpetuo. Infatti, nel libro IX delle Leges si legge: γυνὴ δὲ ἄνδρα ἑαυτῆς ἐξ ἐπιβουλῆς τοῦ ἀποκτεῖναι τρώσασα, ἢ ἀνὴρ τὴν ἑαυτοῦ γυναῖκα, φευγέτω ἀειφυγίαν. Lì, aggiunge
498
SANCHI 2014, pp. 67-68, e pp. 67-86 per una riflessione più completa sul tema (vd. e cfr. anche ID. 2015, pp. 487-501). Per uno studio approfondito sulla genesi, sulla redazione e sui caratteri dei Commentarii Linguae Graecae si rinvia a ID. 2006. Sul metodo di Budé si veda anche ID. 2010, pp. 9-18. 499 SANCHI 2014, p. 73. 500 Vd. supra, par. VII.1. 501 Vd. e cfr. supra, p. 153 (e ivi, nota 472). 502 BUDAEUS 1557, IV, Commentarii Linguae Graecae, col. 10, rr. 37-44. Per le diverse, possibili attestazioni dei vocaboli citati si rinvia al TLG. 503 BUDAEUS 1557, IV, cit., col. 11, rr. 6-23. Le citazioni allegate corrispondono a DEMOSTH. In Aristocratem 31; XEN. Hel. 1, 1, 27.
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Budé, si ha attestazione anche del verbo ἀπενιαυτίζω, che significa unico anno extorrem esse, come può evincersi anche da un altro passo dello stesso libro: ‹Ἐὰ›ν δὲ ξένος ἄκων ξένον κτεῖνῃ ἐν τῇ πόλει, ἐπεξίτω μὲν τοῖς αὐτοῖς νόμοις, μέτοικος δὲ ὢν, ἀπενιαυτ‹η›σάτω. Peraltro, precisa ulteriormente l’umanista, φεύγω non significa ‘essere convenuto in giudizio’, ma crimen timere et vitare (appunto, ‘ricorrere all’esilio per sfuggire alla pena’), come può dedursi da Gregorio di Nazianzo, che scrive: Δέδοικα μὴ τῆς ῥᾳθυμίας ἔγκλημα φεύγων, ἀπληστίας περιπέσω γραφῇ, e da Sinesio di Cirene, che scrive: Ἀλλὰ φυγεῖν τῆς δειλίας ἔγκλημα, παρ’ ὑμῖν ᾐσχύνθημεν, appunto, in latino: Sed puduit nos apud vos in suspicionem et culpam vel reprehensionem timiditatis venire. Inoltre, evidenzia Budé, il participio φεύγων indica anche il reus, ma a causa di traduzioni imprecise delle leggi tràdite in lingua greca (segno dell’incompetenza dei loro traduttori), i giuristi di lingua latina hanno recepito il vocabolo nel significato di fugiens. Inoltre, il φεύγων – reus può anche essere definito con i participi διωκόμενος e ἐγκαλούμενος504. Un terzo esempio significativo è rappresentato da quanto può leggersi in Isocrate, che nell’orazione De bigis afferma: �ολὺ γὰρ ἀθλιώτερον παρὰ τοῖς αὑτοῦ πολίταις ἠτιμωμένον οἰκεῖν, ἢ παρ’ ἑτέροις μετοικεῖν, vale a dire, in traduzione latina: Longe miserius est apud suos cives ignominiosum vivere, quam apud exteros exulare, nec ius civitatis habere, concetto che è reso dal verbo μετοικέω. Se ne ha attestazione in diversi autori. In primo luogo, in Isocrate, che nel Panegyricus afferma: Ἔτι δὲ κοινῆς τῆς πατρίδος οὔσης τοὺς μὲν τυραννεῖν, τοὺς δὲ μετοικεῖν, καὶ φύσει πολίτας ὄντας νόμῳ τῆς πολιτείας ἀποστερεῖσθαι. In secondo luogo, in Dionigi di Alicarnasso, che nel De Lysia scrive: Ἐγεννήθη δὲ Ἀθήνησι μετοικοῦντι τῷ πατρί (appunto, patre incola Athenarum), e in Pausania, che nel libro IV della sua Graeciae descriptio scrive: Λυκίσκου μετοικοῦντος ἐν Σπάρτῃ τὴν θυγατέρα ἐπέλαβεν ἀποθανεῖν, essendo Licisco incola Spartae e Messene profugus. Infatti, precisa Budé, con μετοικοῦντες si indicano anche quanti si siano stabiliti altrove, in quanto espulsi dalla patria o in seguito a un semplice trasferimento. Se ne ha ulteriore testimonianza nel già citato Pausania, che nel libro I della sua Graeciae descriptio scrive: Πυνθανόμενος δὲ, οὐδὲν ἄλλο ἐδυνάμην μαθεῖν, ἢ Σικελοὺς ἐξ ἀρχῆς ὄντας, Ακαρνανίαν μετοικῆσαι, e riguardo alla variante medio-passiva μετοικίζομαι: Ἡρακλῆς ἐκ Τίρυνθος φεύγων Εὐρυσθέα, παρὰ Κ‹ήυ›κα φίλον ὄντα μετοικίζεται βασιλεύοντα Τραχίν‹ος›. Inoltre, in Tucidide si legge: Ἐπεὶ καὶ μετὰ τὰ Τρωικὰ ἡ Ἐλλὰς ἔτι μετανίστατό τε καὶ
504 BUDAEUS 1557, IV, cit., col. 11, rr. 23-40. Le citazioni allegate corrispondono a PLAT. Leg. 9, 877, c 2-3; 866, b 7-c 2 (già citato supra, nota 476); GREG. In laudem Basilii Magni 60, 1; SYN. epist. 5. Per le attestazioni dei participi φεύγων, διωκόμενος e ἐγκαλούμενος si rinvia al TLG. Sull’ἀπενιαυτισμός, esilio annuo, si vedano le osservazioni esposte supra, pp. 155-156, e si rinvia anche a supra, par. V.2, per le relative argomentazioni alciatee.
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‹κα›τῳκίζετο (appunto, a profugis habitabatur), e in Luciano: Ὅταν μετοικισθῆναι με δέῃ παρ’ ἑτέρου εἰς ἕτερον. Peraltro, in C. 10, 1 (De iure fisci), 4 il vocabolo μέτοικοι indica quanti siano stati condannati all’esilio in un’altra civitas per ordine del princeps, così subendo la confisca dei beni, e Budé ritiene possa essere utilizzato anche in relazione agli ἀνάσπαστοι (vale a dire, i deportati)505. La corrispondenza exilium – φυγή emerge anche da un quarto esempio, offerto dal vocabolo παράστασις, che fra i vari possibili significati ha anche quelli di exilium e di fuga (di chi sia stato espulso in esilio). Conseguentemente, l’aoristo medio παρεστησάμην significa anche exilium pellere, così come φυγαδεύω. Inoltre, in Aristotele, nel libro V della Politica, riguardo al mantenimento dello status civitatis si legge: Καὶ μάλιστα μὲν πειρᾶσθαι δεῖ τοῖς νόμοις οὕτως ἄγειν, ὥστε μηθένα ἐγγίγνεσθαι πολὺ ὑπερέχοντα δυνάμει μήτε φίλων μήτε χρημάτων· εἰ δὲ μή, ἀποδημητικὰς ποιεῖσθαι τὰς παραστάσεις αὐτῶν, che significa appunto ‘scacciarli in qualche modo lontano dalla città’, analogamente (ritiene Budé) a quelle forme di esilio rappresentate dall’ὀστρακισμός e dalla relegatio506. Infine, un quinto esempio è offerto dal verbo κατακομίζω, che oltre ai significati generici dei verbi defero e deporto (come testimoniano Erodiano e Licurgo), ha anche quello di domum reportare, e nella variante media, κατακομίζομαι, quello di domum redire (come può leggersi in Eschine). Stesso significato ha anche l’aoristo κατῆλθον (peraltro equivalente a ἐπανέρχομαι) attestato in Aristotele, che lo utilizza nel significato più specifico di ‘riabilitazione dall’esilio’. Infatti, nel libro V della Politica si legge: Ἀδικούμενοι γὰρ ὑπὸ τῶν δημαγωγῶν γνώριμοι ἐξέπιπτον, ἔπειτα ἀθροισθέντες οἱ ἐκπίπτοντες, κατελθόντες κατέλυσαν τὸν δῆμον, appunto, ab exilio revocati et redeuntes. In tal senso, nell’espressione κάθοδος τῶν φυγάδων il vocabolo κάθοδος (che equivale a κατάβασις e a ἐπάνοδος) indica più esattamente il ritorno in patria degli esuli (come attestato in Aristotele e in Pausania)507. Così, dagli esempi qui presentati risalta ancora una volta la cura di Budé per il dato testuale e per le attestazioni lessicali più specificamente intese, sullo sfondo dell’interesse dell’umanista per le corrispondenze fra le lingue greca e latina, sempre indagate alla luce delle testimonianze offerte dalle fonti. Ne risulta un contributo
505 BUDAEUS 1557, IV, cit., col. 278, rr. 21-51. Le citazioni allegate corrispondono a ISOCR. De bigis 47; ID. Panegyricus 105; DION. Lys. 1; PAUS. Graeciae descriptio 4, 12, 5; 1, 28, 3; 1, 32, 6; THUC. 1, 12, 1; LUC. Tim. 21. 506 BUDAEUS 1557, IV, cit., coll. 302-303, rr. 45-54 – 1-2. La citazione di Aristotele corrisponde a ARISTOT. Pol. 5, 1308b, 15. 507 BUDAEUS 1557, IV, cit., col. 461, rr. 20-43. Le citazioni allegate corrispondono a HEROD. Ab excessu divi Marci 4, 2, 4; LYCURG. Oratio in Leocratem 16 (Budé commette un’imprecisione, attribuendo il passo di Licurgo ad Antifonte); AESCHN. De falsa legatione 71; ARISTOT. Pol. 5, 1304b, 30; ID. P.A. 4, 690b, 30; PAUS. Graeciae descriptio 2, 19, 8.
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storico-filologico ricchissimo, che (unito alle riflessioni storico-giuridiche osservate sopra) supera i confini della mera erudizione, e si rivela fondamentale per una migliore comprensione del mondo antico508.
508
Cfr. supra, cap. II, e infra, Conclusioni.
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CAPITOLO VIII L’ESEMPIO DI ZASIUS VIII.1. CONSIDERAZIONI PRELIMINARI Civilista tedesco d’importanza e fama europee, Zasius è ancor oggi considerato il primo rappresentante e promotore dell’umanesimo giuridico in area germanica509. Come sostenuto da Maffei, la sua opera sembra caratterizzarsi per un acume filologico inferiore rispetto a quello di Alciato e di Budé, a vantaggio di un maggior conservatorismo dettato da un’attenzione costante per le esigenze della pratica legale. Ciononostante, la sua ascrivibilità al panorama umanistico europeo del primo XVI secolo è innegabile510, e giustifica l’opportunità di porre il suo contributo in tema di esilio (e di dinamiche dell’esclusione in senso lato) in dialogo con quello dei due altri umanisti suoi contemporanei511. In tal senso, lo studio dei passi più significativi presenti negli Opera omnia di Zasius512 ha condotto all’individuazione di tre principali nuclei tematici. Sostanzialmente: a) da un primo gruppo di passi si evince la tendenza a porre in stretta correlazione bando (o deportazione) e scomunica: il rinvio al bando entra in gioco di riflesso
509 PAHLMANN, SCHRÖDER 2017, pp. 486-487. Sulla figura e sull’opera di Zasius, oltre al contributo appena citato e al fondamentale ROWAN 1987, si vedano anche STINTZING 1857; SCHMIDT 1904; WOLF 1963 (pp. 59-101); FRANZ 1975; STURM 1998; OTTO 2001; MÜLLER 2017. Per uno sguardo sulle singole opere di Zasius e sul suo pensiero più in particolare si vedano anche MAFFEI 1972 (pp. 54-55, 126-129, 136-138); KNOCHE 1957; WINTERBERG 1961; KISCH 1961; FLEISCHER 1966; ROWAN 1975; ID. 1977; ID. 1979; GROSSI 1985; MAZZACANE 1999 (pp. 226-228); BERMAN 2003 (pp. 105-111, 159); MEUSSER 2004; DERLEDER 2008; ZENDRI 1999; ID. 2000; ID. 2002b; ID. 2009; ID. 2011a. 510 MAFFEI 1972, pp. 136-138. 511 In linea con l’idea tradizionale del triumvirato umanistico, come già evidenziato supra, par. VII.1, ma anche supra, par. I.4 e cap. II. 512 L’edizione di riferimento qui adottata è ZASIUS 1550. La selezione dei passi è stata condotta secondo il medesimo metodo seguito per gli Opera omnia di Alciato e di Budé (vd. supra, par. II.2, e ivi, note 174 e 175).
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da questioni inerenti alla scomunica, o viceversa, il rinvio alla scomunica segue immediatamente un approfondimento sul bando; b) un secondo gruppo di passi è espressamente dedicato a classiche questioni inerenti al bando: poteri e limiti di estensione territoriale della giurisdizione su bando e banditi; problemi legati alla capacità processuale del bandito, al suo diritto o meno alla difesa, ecc.; il problema dell’impune uccisione del bandito; c) un terzo e ultimo gruppo di passi si pone sullo sfondo di ampie riflessioni dedicate al problema del serbar fede o meno al nemico. Diffusi e costanti sono i riferimenti all’opinio communis (in forma di rinvio generale alla dottrina su un problema giuridico), al concetto di mors civilis contrapposto a quello di mors naturalis, alla lingua ‘barbara’ (vale a dire, volgare-germanica, cui sono ricondotti vocaboli di origine non latina), ad autori classici e a episodi paradigmatici di storia romana, similmente a quanto visto in Alciato e in Budé. Tuttavia, differentemente da quelli Zasius rivela una sensibilità storico-filologica meno accentuata (almeno in relazione ai passi qui selezionati), ma similmente ad Alciato e alla tradizione, come si vedrà, sembra anch’egli tendere a un certo temperamento del rigor iuris a favore dei banniti513.
VIII.2. BANDO/DEPORTAZIONE E SCOMUNICA. L’ENDIADI DELL’ESCLUSIONE La tendenza a porre in stretto rapporto banditi e scomunicati rappresenta una costante delle argomentazioni zasiane qui presentate, similmente a quanto visto sopra, riguardo a un ampio gruppo di passi alciatei514, e certamente in linea con il legame di Zasius con la tradizione canonistica515. In sede di commento a D. 4, 5 (De capite minutis), l’umanista tedesco rinvia al commento di Baldo a D. 4, 5, 5, delineando una prima correlazione fra scomunica e deportazione, con particolare riguardo per l’estensione territoriale della pena: lo scomunicato in un luogo è scomunicato ovunque, così come il deportato516.
513
Lo si evidenzierà progressivamente nel corso della trattazione, e infra, in sede di Conclu-
sioni. 514
Vd. supra, par. IV.1. Vd. e cfr. ZENDRI 2011a, p. 27, con rinvio a KISCH 1961, pp. 40-41. 516 «Nota quod hodie excommunicati gerunt figuram deportatorum, et excommunicatus in uno loco, ubique est excommunicatus, sicut et deportatus, Bal. in l. i, et latius in l. amissione, infra eodem», in ZASIUS 1550, I, Commentaria, ad D. 4, 5, p. 59, col. 114, 6. Per il commento di Baldo a D. 4, 5, 5 (in relazione ai passaggi qui di maggior interesse) vd. BALDUS 1572a, f. 261rB-261vA, 9, e f. 262rA, 6. 515
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Una seconda considerazione di rilievo emerge dal commento a D. 4, 8 (De receptis), dove Zasius rinvia alla disciplina prevista per l’arbitrato condotto dallo scomunicato, disciplina che è di esempio per il caso dell’arbitratore bandito. Se lo scomunicato (o il soggetto che sia servus diaboli, come si ricava dalla glossa Ignominiosus a D. 4, 8, 7) differentemente dall’infame non può rivestire il ruolo di arbitratore, Zasius cita l’opinione di Jacques de Revigny e di Cino da Pistoia, i quali ritengono che il compromesso redatto dallo scomunicato mantenga la sua validità qualora le parti ignorino la condizione dell’arbitratore. Si tratta di una disciplina valida anche per l’ipotesi di bando dell’arbitratore517. Un’argomentazione più articolata è invece quella riscontrabile nel commento a D. 2, 4 (De in ius vocando), 10, 5-12. Qui Zasius cita la deportazione come forma di esilio perpetuo e causa di perdita dei diritti di patronato e della cittadinanza. Infatti, come si ricava da D. 4, 5, 7, 3, chi perde la cittadinanza (e ha dunque subìto la capitis deminutio), è privo dei diritti a quella legati e così nudus exulat518. Conseguentemente, l’umanista sottolinea come il patrono deportato non possa essere citato in giudizio dal liberto (che abbia ottenuto la necessaria autorizzazione a citare), proprio perché persi i diritti di patronato nudus exulat, e dunque non può essere titolare di obbligazione alcuna. Tuttavia, contro questa interpretazione (che è propria della Glossa), Zasius ricorda l’opinione opposta di Bartolo, secondo il quale il liberto può citare in causa il patrono in relazione ai contratti anteriori alla deportazione, anche senza autorizzazione, e appunto perché il patrono ha perduto i suoi diritti di patronato519. Proprio il problema della citazione in giudizio consente a Zasius di evidenziare l’opportunità di equiparare il deportato allo scomunicato, come può evincersi da Bartolo, che nel suo commento a D. 2, 4, 10, 5 allega a proposito X. 2, 1, 7. Infatti, se gli scomunicati non possono agire in giudizio, tuttavia possono senz’altro difendersi, e ciò suggerisce di trascurare sul punto la Glossa (che, come visto, negherebbe al liberto la facoltà di citare in giudizio il patrono deportato). Ciò posto, nel caso di riabilitazione da parte del princeps il patrono deportato recupera tutti i diritti anteriori, soprattutto quelli di patronato sul e contro il liberto, fatti salvi i diritti frattanto acquisiti dal liberto (in primo luogo la sua li-
517 «Nota, infamis potest esse arbiter, sed excommunicatus non potest, ut qui sit servus diaboli, secundum gl. in d. l. Pedius. Putant tamen Iacob. de Rave. et Cyn. quod compromissio in excommunicatum teneat, si partes ignorent. Paria dicito de bannitis, in quibus tamen Bal. hic se remittit», in ZASIUS 1550, I, Commentaria, ad. D. 4, 8, p. 64, col. 124, 29. Per la glossa Ignominiosus a D. 4, 8, 7 vd. Corpus iuris civilis 1627, I, coll. 586-587. 518 ZASIUS 1550, I, Commentaria, ad D. 2, 4, 10, 5-12, p. 267, col. 530, 2-3. 519 ZASIUS 1550, I, cit., p. 267, col. 530, 3-4. Per alcune indicazioni in tema di patroni e liberti (e di relativi diritti di patronato) si vedano almeno TALAMANCA 1990, pp. 98-99, e GUARINO 2001, pp. 288-293 (con relativa bibliografia).
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bertà), come generalmente avviene nel caso di restituzione di un soggetto nel suo status anteriore520. In tema di garanzia dei diritti acquisiti dal terzo (nel corso del bando/deportazione o, appunto, della scomunica) appare chiara la similitudine fra questo passo e quanto osservato sopra in Alciato. Parimenti, risalta la generale adesione di Zasius alla dottrina di ius commune riguardo al diritto di difendersi in giudizio riconosciuto a banditi e scomunicati521. A proposito della difesa giudiziale Zasius pone in correlazione excommunicatus ed exbannitus anche in sede di commento a D. 2, 4 (De in ius vocando), 14-15. Introducendo una digressione su scomunicati e banditi, l’umanista ricorda come lo scomunicato non possa agire in giudizio in qualità di attore, ma qualora si agisca contro di lui potrà difendersi (lo si ricava da X. 2, 25, 5). Ugualmente dovrà ritenersi in relazione al bandito. Infatti, secondo la lettera degli statuti (e così anche qualora la legge lo preveda espressamente), i banditi non possono agire in giudizio. Si tratta di una prescrizione riscontrabile anche in Auth. 1, 5, 4 (in C. = Frid. 2, 8), costituzione di Federico II secondo la quale ai banditi non dev’essere resa giustizia, ma è loro imposto il rispetto dei diritti altrui. Ne deriva che i banditi possono difendersi e sollecitare il giudice affinchè la causa giunga alla sua conclusione, ma non possono costituirsi in giudizio in qualità di attori522. È un’opinione consolidata, che mostra l’aderenza piena di Zasius alla tradizione sul tema523. Proseguendo nell’argomentazione, Zasius pone un quesito: in sede di difesa in giudizio, possono forse il liberto, lo scomunicato e il bandito a loro volta accusare il patrono, o per lo meno chiedere al giudice che egli sia punito per calunnia, nell’ipotesi in cui abbia intentato una lite temeraria (in tal senso, calumniosa)? Sembrerebbe di no, dal momento che accusare il patrono di calunnia è di per sé diffamatorio. Tuttavia, l’umanista ricorda quanto sostenuto sul punto dalla Glossa, e ritiene che il liberto possa difendersi nel modo suddetto, perché nel caso in esame la difesa sorge dalla lite stessa e risulta necessaria, nonostante comporti il disonore del patrono in caso di sua condanna per calunnia. Questa difesa, si badi, è concessa agli scomunicati, ai banditi, ai liberti e ad altri soggetti di tal sorta, così come è loro concessa anche la domanda riconvenzionale, purché sorta dalla medesima lite524.
520 ZASIUS 1550, I, cit., p. 267, col. 530, 4-5. Per il commento di Bartolo a D. 2, 4, 10, 5 vd. BARTOLUS 1562, I, In Digestum vetus, f. 133B. Sulla riabilitazione del deportato e sui diritti acquisiti da terzi vd. supra, par. III.4. 521 Vd. supra, par. IV.2. Lo stesso può dirsi anche per le riflessioni alciatee sulla riabilitazione del deportato (vd. supra, par. III.4), analoghe a quanto qui visto in Zasius. Sul diritto di difendersi in giudizio riconosciuto a banditi e scomunicati si ricordi quanto osservato supra, par. I.3. 522 ZASIUS 1550, I, Commentaria, ad D. 2, 4, 14-15, p. 271, coll. 537-538, 6-8. 523 Vd. nuovamente supra, par. I.3. 524 ZASIUS 1550, I, cit., p. 271, col. 538, 8.
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Dopo un breve cenno alla natura di atti giudiziali propria di bandi e scomuniche525, trattando di azione e di difesa processuale Zasius pone nuovamente in correlazione l’exbannitus e lo scomunicato. In sede di commento a D. 39, 1 (De operis novi nuntiatione), 5, 18, l’umanista cita l’opinione di Iacopo d’Arena (riportata dallo stesso Bartolo). Secondo Iacopo d’Arena, l’exbannitus cui sia stato notificato il primo decreto e così anche lo scomunicato a causa di contumacia non possono agire in giudizio (come si ricava da X. 2, 25, 5 e da X. 2, 25, 12). Tuttavia, se l’exbannitus (o lo scomunicato) chiedesse il ritiro del primo decreto, offrendo garanzie di rispetto del diritto e il risarcimento delle spese legali all’avversario, sarebbe ascoltato in giudizio. Si tratta di un’opinione espressa nello Speculum di Guillaume Durand (nella sezione De dolo et contumacia del libro IV), che Zasius ritiene condivisibile, pur se con l’opportuno temperamento proposto da Bartolo526. Infatti, Bartolo distingue l’ipotesi in cui l’exbannitus (o lo scomunicato) si presenti spontaneamente dinanzi al giudice al fine di esercitare l’azione, da quella in cui, essendo stato citato dall’altra parte, proponga un’eccezione: in quest’ultimo caso egli sarà ascoltato, mentre nel primo no. Dunque, Zasius conclude affermando di condividere anche quanto sostenuto da Giovanni da Imola, che riconosce all’exbannitus (e allo scomunicato) la facoltà di presentarsi volontariamente dinanzi al giudice, e di chiedere il ritiro del primo decreto nel rispetto delle formalità previste (per esempio, la menzione delle richieste in calce alla difesa)527.
525
Si fa qui riferimento a un brevissimo inciso contenuto nel commento a D. 2, 13 (De edendo), 4, dove appunto si legge: «Limita praedicta. Primo, nisi essent acta iudicialia, ut sunt banna, excommunicationes, emancipationes, insinuationes, et omnino quicquid coram iudice agitur», in ZASIUS 1550, I, Commentaria, ad D. 2, 13, 4, p. 283, col. 561, 9. Si segnalano in questa sede anche due ulteriori, rapidissimi cenni a bandi e scomuniche, definiti quali atti giudiziali pubblici dei quali può essere richiesta copia, entrambi formulati in sede di commento a D. 2, 13, 1, 2 (vd. ZASIUS 1550, I, Commentaria, ad D. 2, 13, 1, 2, rispettivamente p. 278, col. 551, 8 – dove Zasius rinvia al commento di Baldo a C. 4, 21 – e p. 280, col. 556, 35). Per il commento di Baldo a C. 4, 21 vd. BALDUS 1556b, ff. 58vB-68vA. 526 ZASIUS 1550, III, Commentaria, ad D. 39, 1, 5, 18, p. 27, col. 50, 5. Sulla procedura di missio in possessionem ex primo decreto nei confronti del bandito in causa civile si rinvia alle considerazioni esposte supra, par. IV.2, e ivi, nota 354. Per la sezione De dolo et contumacia del libro IV dello Speculum di Guillaume Durand vd. DURANDUS 1574, II, Pars tertia et quarta, ff. 165A171B. Tuttavia, il suddetto rinvio allo Speculum sembra essere quantomeno impreciso, dal momento che le argomentazioni del Durand in tema di garanzie fornite dall’excommunicatus pro contumacia ai fini dell’assoluzione (e dunque, su questo modello, dal bannitus pro contumacia stesso) sono contenute nelle sezioni De contumacia e De primo et secundo decreto del libro II dello Speculum (vd. DURANDUS 1574, I, Pars prima et secunda, rispettivamente ff. 456B, 11, e 476A, 35). 527 ZASIUS 1550, III, cit., p. 27, col. 50, 5-6.
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Sempre in tema di azione giudiziale si pone la riflessione esposta in sede di commento a D. 44, 4 (De doli mali et metus exceptione), 4, 28, dove la correlazione fra banditi e scomunicati si arrichisce della figura dell’usuraio528. È noto che l’usuraio non può agire in giudizio per le usure e che né al bandito né allo scomunicato è consentito d’intentare l’azione. Tuttavia, Zasius pone un quesito: quid iuris in caso di cessione dell’azione da parte dello scomunicato a un terzo? Può forse opporsi al terzo, cessionario, l’eccezione di scomunica opponibile allo scomunicato cedente? Soccorre in risposta l’opinione condivisa da Dino del Mugello e da Iacopo d’Arena, che ritengono entrambi che l’eccezione di scomunica non possa essere opposta al cessionario, dal momento che la scomunica non compromette l’azione in sé, ma solo la persona del cedente. Dunque, la cessione è valida ed efficace, e il diritto è regolarmente ceduto al terzo, così tutelato contro l’eccezione. A ciò Zasius aggiunge una precisazione: se la soluzione proposta vale senz’altro per le figure del bandito e dello scomunicato (ancora una volta poste in correlazione), nel caso dell’usuraio dovrà agirsi diversamente. Infatti, l’usura compromette tanto la persona dell’usurario (nell’esempio suddetto, cedente), quanto l’azione stessa, alla quale l’usurario perde qualsiasi diritto529. La connessione fra bando e scomunica assume particolare rilievo in quattro ulteriori passi. In sede di commento a D. 45, 1 (De verborum obligationibus), 18 e a D. 45, 1, 25, Zasius accenna rapidamente alle sentenze di scomunica e di bando, e ricorda la possibilità che la scomunica sia reiterata. Infatti, quest’ultima è articolabile in vari gradi, e analogamente può dirsi della reiterazione del bando, come si ricava dalla glossa Crebra et solemnis in eos excommunicatio a X. 5, 6, 6 (che giustifica la ratio intimidatoria della norma nei confronti degli scomunicati, mediante cumulo della pena), da X. 5, 39, 27, e in ambito civilistico da D. 39, 1, 5, 16530. Similmente, Zasius accenna alla reiterazione di bando e scomunica in sede di commento a D. 39, 1 (De operis novi nuntiatione), 1, 9. Lì l’umanista afferma che se qualcuno è bandito su istanza di un creditore in relazione a un certo debito, su citazione di quel creditore il bandito potrà subire un ulteriore bando, senza autorizzazione da parte del giudice. Questa, sottolinea Zasius, è l’opinione di Bartolo e dei doctores, e l’umanista la condivide soltanto con un certo temperamento. Infatti, Zasius ritiene che il debitore debba senza dubbio soddisfare il suo debito (come si de-
528
Sul tema dell’usura in Zasius si rinvia a ZENDRI 1999 e a ID. 2005. ZASIUS 1550, III, Commentaria, ad D. 44, 4, 4, 28, p. 467, col. 929, 4-6. 530 ZASIUS 1550, IV, Commentaria, ad D. 45, 1, 18 et 25, p. 283, col. 137, 34. Per la glossa Crebra et solemnis in eos excommunicatio a X. 5, 6, 6 vd. Decretales 1582, col. 1658. Sulla reiterazione del bando si rinvia alle considerazioni esposte supra, parr. I.3 e IV.2. 529
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duce da D. 50, 17, 35), e ciò vale anche in relazione alla sentenza di scomunica. Ciò posto, qualora il debitore si trovi in pendenza del termine per l’adempimento (un mese, allo scadere del quale in caso d’inadempimento subirebbe la scomunica o il bando), e qualora sempre in pendenza di quel termine il creditore gli conceda una proroga, in quel caso, secondo l’opinio communis, proprio in ragione della proroga concessagli non subirebbe più né la scomunica né il bando previsti allo scadere del termine originario (come si evince da D. 5, 1, 32)531. Si tratta della nota tendenza a prediligere un’interpretazione moderata, pro bannito (o excommunicato), delle norme disciplinanti la pena dell’esclusione, che sembra ricorrere in Zasius con la stessa frequenza riscontrata in Alciato: una conferma della continuità di pensiero sul tema in seno alla dottrina di ius commune complessivamente intesa532. Se bando e scomunica possono essere reiterati, possono naturalmente anche essere revocati, come Zasius ricorda commentando D. 42, 1 (De re iudicata), 14. L’umanista ritiene che i bandi, in quanto provvedimenti interlocutori, possano essere revocati dal giudice anche contro la volontà dell’altra parte, soprattutto se qualcuno sia stato bandito a causa della contumacia, come si desume dal commento di Baldo a C. 6, 24, 1, e da quello di Iacopo Alvarotti a Auth. 1, 3, 2 (in C. = Frid. 2, 2). Ciò vale anche per la sentenza di scomunica, che è anch’essa interlocutoria e può dunque essere revocata dal giudice impunemente, anche qualora l’avversario sia contrario (come si evince dal commento del Panormitano a X. 5, 39, 48)533. Infine, alla scomunica e al bando è dedicato un breve cenno in sede di commento ai Libri (o Usus) Feudorum (in corrispondenza della parte VII, Ad quid vasallus domino et dominus vasallo teneatur)534. Lì Zasius ricorda che qualora il dominus
531
ZASIUS 1550, III, Commentaria, ad D. 39, 1, 1, 9, p. 11, col. 18, 9. Lo si è evidenziato diffusamente supra, par. III.2, e se ne tratterà ancora infra, in sede di Conclusioni. 533 ZASIUS 1550, III, Commentaria, ad D. 42, 1, 14, p. 207, col. 410, 14-15. Per il commento di Baldo a C. 6, 24, 1 (in relazione alla natura interlocutoria del provvedimento di bando ex contumacia e alla revoca del bando stesso) vd. BALDUS 1556c, f. 67vB, 12-13. Per il commento di Iacopo Alvarotti a Auth. 1, 3, 2 (in C. = Frid. 2, 2) vd. DE ALVAROTTIS 1570, ff. 345rB-345vB (per quanto qui d’interesse, soprattutto f. 345vA-B, pr. e 4). Per il commento del Panormitano a X. 5, 39, 48 si veda PANORMITANUS 1588, IV, In quartum et quintum librum Decretalium, ff. 376vB378rA (per quanto qui d’interesse, soprattutto f. 377rB, 5). Sulla natura interlocutoria (o meno) del provvedimento di bando si ricordi quanto esposto supra, par. I.2, e ivi, nota 29. Sulla revoca del bando vd. GHISALBERTI 1960, pp. 65-69, e CAVALCA 1978, pp. 238-252. 534 Si tratta di una delle opere fondamentali di Zasius, frutto del suo insegnamento all’Università di Friburgo in Brisgovia (vd. ROWAN 1987, pp. 23-43, 86-88). Sull’opera e sul pensiero di Zasius in tema di diritto feudale vd. ZENDRI 2009. In tema di diritto feudale e di dottrina feudistica latamente intesi si vedano LASPEYRES 1830; BERMAN 1983, pp. 295-315; MONTORZI 1991; REYNOLDS 1996; CORTESE 2001, pp. 153-170; ZENDRI 2006; ID. 2008; ID. 2011b; ID. 2015; ID. 2019. Per un’edizione critica dei Libri Feudorum si vedano Consuetudines Feudorum 1892 e LEHMANN 1896 (pp. 81-206). 532
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sia scomunicato, bandito o giudicato ribelle, per tutto il decorrere di tali condanne il vassallo dovrà considerarsi sciolto da ogni dovere nei suoi confronti, come può dedursi dalla glossa Infantia a Lib. Feud. 1, 22 pr. (titolo Quo tempore miles investituram petere debeat), comunemente seguita dai doctores, dal commento di Baldo a Lib. Feud. 2, 28 pr. e da quello di Giovanni d’Andrea a VI. 2, 12, 1535. Così, da questo primo gruppo di passi sembrerebbe che in Zasius la correlazione fra scomunica e bando assuma quasi il carattere di un’endiadi, giustificata dall’effetto dell’esclusione del soggetto dalla comunità di appartenenza (la comunità dei fedeli per lo scomunicato, la civitas per il bandito), caratterizzante entrambe le pene di là dalle profonde differenze concettuali e di dettaglio536.
VIII.3. SU ALCUNE QUESTIONI INERENTI AL BANDO Come anticipato sopra, il secondo gruppo di passi selezionati si caratterizza per il riferimento esplicito e diretto a diverse questioni tradizionalmente inerenti al bando, oltre che a temi collaterali cui si è già più volte accennato nel corso della trattazione. Una prima riflessione è espressa da Zasius in sede di commento a D. 1, 1 (De iustitia et iure), 1, 4 e a D. 1, 1, 3, e richiama uno dei problemi più discussi: il diritto di difesa riconosciuto (o meno) al bandito che possa essere impunemente offeso e ucciso. Innanzitutto, Zasius afferma che i banditi, che possono essere impunemente offesi ex consuetudine Germaniae, non possono né difendersi né opporsi in giudizio. Tuttavia, sul punto l’opinione espressa da Baldo nel suo commento a D. 1, 1, 3 è esattamente contraria, in ragione del fatto che il diritto di difesa è proprio dello ius naturale e dunque non può essere sottratto. Ciò posto, Zasius suggerisce una soluzione differente, e ritiene che di fronte a un’accusa relativa a fatti notori non sia concessa la difesa, e così neppure l’appello, che è comunque una defensio quaedam (come si desume da X. 2, 25, 5, da X. 2, 28, 14 e da X. 2, 28, 24). A tal riguardo, Claude de Seyssel si pone in linea con l’opinione comune, secondo la quale
535
«Idem si dominus esset excommunicatus vel bannitus aut rebellis iudicatus, vasallus huiusmodi censuris durantibus ab omni servitio relaxatur, gl. et Doct. in d. c. infra in tit. quo temp. mil., Bald. in d. c. infra in tit. hic finit. lex., Ioan. And. in c. pia., de excep., lib. vi», in Z ASIUS 1550, IV, Commentaria, ad. Lib. Feud., Pars VII, Ad quid vasallus…, p. 141, col. 276, 40. Per la glossa Infantia a Lib. Feud. 1, 22 pr. vd. Corpus iuris civilis 1627, V, Consuetudines Feudorum, coll. 28-29. Per il commento di Baldo a Lib. Feud. 2, 28 pr. vd. BALDUS 1578, ff. 53vB-54rA, pr. e 7. Per il commento di Giovanni d’Andrea a VI. 2, 12, 1 vd. ANDREAE 1581, f. 76rA, 14. 536 Sul punto si rinvia alle riflessioni esposte supra, par. VIII.1, ma anche supra, parr. IV.1 e IV.2.
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è crudele negare al bandito che abbia subito un’offesa la facoltà di difendersi in giudizio. Infatti, sottolinea Zasius, come può non ammettersi che il bandito vendichi il proprio corpo per i danni subiti, dal momento che ciò è consentito persino alle belve? Conseguentemente, l’umanista ritiene più valida e condivisibile l’opinione di Baldo menzionata sopra, poiché i diritti naturali sono immutabili (lo si evince da D. 2, 14, 34), e a ciò non osta neppure quanto detto a proposito dell’appello. Infatti, l’appello è una forma di difesa che è stata introdotta dallo ius civile. Se quest’ultimo può essere trascurato facilmente e in molti casi, ciò non può avvenire in relazione al diritto di difesa, che è appunto di ius naturale e merita particolare attenzione537. Con ragionamento sottile e puntuale, anche in questo caso Zasius si pone perfettamente in linea con la tradizione giuridica di ius commune, tendente a temperare il rigore delle norme disciplinanti lo status banniti e a proporre un’interpretazione (e conseguente applicazione) più equa delle stesse, e volta a concepire ius civile e ius canonicum come articolazioni di un unico sistema giuridico538. Questo dialogo fra diritto secolare e diritto spirituale caratterizza anche un secondo passo, dedicato al noto e complesso problema dell’impune uccisione del bandito. In sede di commento a D. 1, 1 (De iustitia et iure), 9 (è la nota lex Omnes populi), Zasius rinvia brevemente al rapporto fra ius divinum e ius civile (statutario), ricordando come nelle questioni temporali i precetti di diritto divino possano essere delimitati per mezzo degli statuti, purché ciò non leda la ratio del precetto stesso. Per esempio, prendendo in considerazione il precetto ‘non uccidere’, Zasius menziona la possibilità di statuire (contrariamente a esso) che i malfattori siano uccisi, dal momento che la mens praecipientis (per così dire, del legislatore) non era quella di estendere il precetto ‘non uccidere’ al caso dei malfattori. Infatti, nell’Antico Te-
537 ZASIUS 1550, I, Commentaria, ad D. 1, 1, 1, 4 et D. 1, 1, 3, p. 129, coll. 253-254, 17-19. Non è chiaro se con l’allegazione Ange. l. iii, infra ad l. Iuli. maiest. (vd. ivi, col. 253, 17) Zasius intenda alludere al commento di Angelo degli Ubaldi a D. 48, 4, 3 o a quello a C. 9, 8, 3 (vd. e cfr. rispettivamente DE UBALDIS 1534, f. 109vB, e ID. 1579, f. 257vB). Posto che in nessuno dei suddetti commenti si riscontrano riferimenti ai banniti e alla loro impossibilità di difendersi/opporsi in giudizio, il troncamento Ange. potrebbe forse indicare Angelo Gambiglioni (vd. SELLA 1935, p. 163, e cfr. ID. 1932, p. 6), del quale tuttavia sembrerebbero non essere pervenuti commenti ai suddetti D. 48, 4, 3 e C. 9, 8, 3 (vd. MAFFEI 1999 e EAD. 2013a, e su Angelo degli Ubaldi vd. e cfr. FROVA 2013). Per il commento di Baldo a D. 1, 1, 3 vd. BALDUS 1572a, ff. 10rA11rA (per quanto qui d’interesse, soprattutto f. 10rB-10vA, 4-10). L’identificazione del troncamento Claud. in Claude de Seyssel è solo una proposta. Sulla figura e sull’opera di Claude de Seyssel vd. PETRUCCI 1960; KRYNEN 2007b; GORIA 2010. 538 Si allude qui alla nota interpretazione di Calasso, per la quale si rinvia a supra, par. I.1, e ivi, nota 6.
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stamento ricorre spesso il monito di lapidare e di uccidere coloro che nuociano agli altri, secondo la formula morte moriatur si quis hoc fecerit, e ciò rende perfettamente lecito che i banditi siano uccisi impunemente539. Tuttavia, alla linearità del ragionamento Zasius aggiunge una precisazione. Il bandito dev’essere tale per giusta causa comportante ribellione (sulla base di C. 3, 27), e dunque hostis (sulla base di D. 4, 5, 5 e di D. 48, 8, 3, 6). Conseguentemente, la dottrina giustificante l’impune uccisione del bandito non dev’essere estesa ad ogni genere di bandito, pur se tale estensione sia di fatto e diffusamente applicata in Italia e in altri territori. L’umanista fonda la sua opinione sul carattere proibitorio del precetto ‘non uccidere’, che non può tollerare un’interpretazione contraria, a danno delle anime. Inoltre, se lo ius civile proibisce qualcosa in ragione della sua natura di illecito, contro tale proibizione non sono ammessi statuti direttamente contrari alla mens legislatoris (e dunque alla norma stessa)540. In linea con questa interpretazione pro bannito, a ulteriore conferma della tendenza mitigatrice delle norme sui banditi propria della dottrina di ius commune541, si pongono anche i passi seguenti. Nel suo commento a D. 2, 1 (De iurisdictione), 3, Zasius tratta brevemente del problema della competenza dei magistrati a infliggere l’esilio perpetuo, con un’argomentazione arricchita di cenni di carattere storico. Innanzitutto, richiamando l’exilium perpetuum (sulla base di D. 1, 18, 6, 8), Zasius ricorda come la deportatio in insulam e la damnatio in metallum siano cadute in disuso, e conseguentemente evidenzia come i magistrati minores, che non sono titolari di merum imperium, non possano emettere condanne all’esilio perpetuo. Un limitato merum imperium sussiste solo in relazione all’esilio temporaneo, o relegatio (lo si deduce da D. 48, 1, 2), e a questo imperium è possibile ricondurre anche la pena della verberatio, anticamente eseguita per mezzo di bastoni e fruste
539 «Quarta conclusio. Praecepta iuris divini in temporalibus per statuta limitari possunt, si ea limitatione mens praecipientis non offenditur, ut in praecepto, Non occides. Nam in contrarium statui potest, quod malefactores occidantur. At mens praecipientis erat, ut praeceptum ad hunc casum non extenderetur, cum saepe in veteri testamento iusserit occidi et lapidari nocuos, dicens: Morte moriatur si quis hoc fecerit. Ex hoc patet, statui posse, quod liceat bannitos impune occidi», in ZASIUS 1550, I, Commentaria, ad D. 1, 1, 9, p. 133, col. 262, 19-20. È verosimile che nel rinviare all’Antico Testamento Zasius avesse in mente i precetti del cap. XX del Levitico, dove la formula si quis … morte moriatur ricorre costantemente in diverse varianti (Lev. 20, 2: «si quis dederit [...] morte moriatur»; Lev. 20, 9: «qui maledixerit […] morte moriatur», in Biblia Sacra 1926-1995, II, Exodus et Leviticus, rispettivamente pp. 434A e 435A, per citare solo un paio di esempi, ma vd. complessivamente ivi, pp. 433B-439A). 540 ZASIUS 1550, I, cit., p. 133, col. 262, 20-21. 541 Si rinvia nuovamente alle riflessioni esposte poco sopra, ma anche a supra, parr. I.1, I.4, III.2, e a infra, Conclusioni.
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(lo si evince da D. 48, 2, 6). Inoltre, di rilievo appare anche la pena del confino, che costringe il soggetto a risiedere in certi luoghi, imponendogli il divieto di oltrepassarne i confini (sulla base di D. 48, 19, 4 e di D. 48, 22, 4, appunto in tema di relegatio)542. La menzione della verberatio romana riecheggia il riferimento alla lex Porcia I, de tergo civium, presente in Cicerone (Rab. perd. 12), così come i rinvii al contributo della stessa lex all’evoluzione costituzionale romana, più volte riscontrati nelle riflessioni di Alciato e di Budé viste sopra543. Sempre in tema di competenze delle autorità preposte all’amministrazione della giustizia, Zasius tratta esplicitamente del bando in sede di commento a D. 2, 1 (De iurisdictione), 20. In primo luogo, l’umanista espone due principi fondamentali: 1) obbedire a chi amministra la giustizia al di fuori del territorio di sua competenza non è senza conseguenze; 2) i giudizi emessi dal giudice oltre i limiti della sua giurisdizione sono nulli. In particolare, il primo punto concorda con quanto espresso in VI. 1, 2, 2, e va interpretato estensivamente: al di fuori del territorio della sua giurisdizione il giudice non potrà punire neppure chi abbia commesso un delitto in quel territorio. Tuttavia, aggiunge Zasius, contrariamente a questa norma si pone la prassi statutaria (friburgense), secondo la quale gli abitanti o i cittadini che delinquono al di fuori del territorio di residenza/cittadinanza possono essere puniti qualora vi facciano ritorno. Con chiara interpretazione pro bannito, Zasius ritiene che chi offende il bandito al di fuori del territorio dell’autorità che ha inflitto il bando non debba rimanere impunito, dal momento che in tal caso il bando non ha natura di causa scriminante l’offesa. Lo si ricava dal commento di Giovanni da Imola a
542 ZASIUS 1550, I, Commentaria, ad D. 2, 1, 3, p. 214, col. 423, 31-34. Sull’imperium magistratuale si rinvia almeno alle indicazioni presenti in MOMMSEN 1887 (in particolare pp. 3-27, 116136); BURDESE 1975; MAGDELAIN 1990; KUNKEL, WITTMANN 1995; PROCCHI 2016. Non sarà superfluo segnalare che in tema di confino Zasius si era già espresso in due altri loci, come egli stesso ricorda in calce al passo qui presentato (vd. ZASIUS 1550, I, cit., p. 214, col. 423, 34). Il primo rinvio interno riguarda il commento a D. 45, 1 (De verborum obligationibus), 46, 3, dove Zasius ricorda come il confino (che è termine ‘barbaro’, di lingua volgare) perduri fino all’eventuale revoca espressa da parte del giudice. In assenza di revoca espressa, invece, il confino si configura come pena perpetua. Ciò accade anche nell’ipotesi di morte del giudice, alla quale non segue l’estinzione automatica del confino (che diventa così perpetuo), salvo sia il giudice successore a provvedere alla suddetta revoca espressa (vd. ZASIUS 1550, IV, Commentaria, ad D. 45, 1, 46, 3, pp. 355356, coll. 282-283, 9-10). Il secondo rinvio interno, invece, riguarda il commento a I. 4, 6 (De actionibus), 11, dove è il participio confinatus (in relazione ai limiti interessanti il giuramento) a essere menzionato da Zasius, che lo definisce come un vocabolo ‘barbaro’, nel senso di ‘proprio del linguaggio tecnico-giuridico’ (vd. ZASIUS 1550, IV, Commentaria, ad I. 4, 6, 11, p. 47, col. 89, 18). In tema di lingua e diritto (e di linguaggio tecnico-giuridico) si rinvia nuovamente a FIORELLI 2008 (soprattutto pp. 1-228, 297-308, 423-447). 543 Vd. supra, cap. VI, e ivi, note 396 e 398 (per Alciato), e par. VII.2 (per Budé).
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Clem. 2, 11, 2, e da quello di Baldo a C. 6, 24, 1, secondo il quale la sentenza di bando non ha valore al di fuori del territorio di competenza dell’autorità che ha emesso il bando. Tutto ciò, conclude Zasius, è degno di nota a favore dei banditi su decisione del Tribunale di Rottweil (è un cenno a un caso del suo tempo), e rende chiaro un ultimo principio fondamentale: i collaboratori del giudice non devono perseguire il criminale fuggitivo al di fuori del territorio della giurisdizione per poi presentarlo al giudice (lo si deduce dall’apparato di glosse a D. 21, 1, 17), cosa che a quel tempo, sottolinea l’umanista, accadeva quotidianamente544. La similitudine con quanto affermato da Nello in tema di limiti della competenza giurisdizionale su bando e banditi545 merita attenzione, e unita alla tendenza a moderare il rigor iuris, favorendone un’interpretazione pro bannito, fornisce un ulteriore indizio del legame di Zasius con la tradizione di ius commune sul bando546. In linea con quanto osservato si pongono anche i due passi seguenti. Il primo, tratto dal commento a D. 42, 1 (De re iudicata), 15, 1, si sostanzia in una riflessione sulla competenza giurisdizionale sul bando e sui limiti territoriali di quest’ultimo. Introdotto il tema delle cause criminali, Zasius pone un quesito: qualora uno straniero (o un cittadino) commetta un delitto e sia condannato in contumacia (secondo la prassi comune di bandire gli omicidi e di giudicarli a causa della contumacia), e poi fugga verso altri territori, in che modo sarà redatto il giudizio emanato contro l’exbannitus nel territorio da cui quest’ultimo è stato espulso? Posta la varietà delle opinioni dei doctores, Zasius suggerisce di prendere in considerazione C. 3, 15, 1 e 2 (= N. 69, 1), corrispondente all’Auth. Qua in provincia, norme alla luce delle quali Bartolomeo da Saliceto ritiene che nel caso preso in esame sia necessario rivolgersi al giudice del territorio verso il quale il bandito è fuggito: una procedura volta non a intimare a quest’ultimo giudice di non redigere alcuna sentenza, ma a richiedergli di rimettere il bandito al giudice competente per il delitto commesso, consentendone così una regolare punizione. Ciò posto, il giudice del territorio della fuga seguirà questo procedimento, salvo ritenga più opportuno pu-
544
ZASIUS 1550, I, Commentaria, ad D. 2, 1, 20, p. 242, coll. 479-480, 7-10. Sul contributo di Zasius agli Statuti di Friburgo in Brisgovia (vale a dire, alla nuova codificazione completata nel 1520) vd. KNOCHE 1957 e ROWAN 1987, pp. 123-134. Per il commento di Giovanni da Imola a Clem. 2, 11, 2 vd. IOANNES 1525, f. 69rA, 15, e f. 70rA, 44. Per il commento di Baldo a C. 6, 24, 1 (in tema di limiti spaziali di efficacia della sentenza di bando) vd. BALDUS 1556c, f. 67rA, 6, e f. 68rA, 14. Non è chiaro a quale glossa Zasius faccia qui preciso riferimento, dal momento che nell’apparato di glosse a D. 21, 1, 17 non si riscontrano riferimenti (perlomeno espressi) al tema menzionato, vale a dire, la non perseguibilità del bannitus da parte della familia del giudice al di fuori del territorio della sua giurisdizione (vd. Corpus iuris civilis 1627, I, coll. 1947-1950). 545 Vd. supra, par. I.4. 546 Sul punto si rinvia alle considerazioni esposte infra, in sede di Conclusioni.
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nire il delinquente con propria sentenza (verosimilmente in via eccezionale), dal momento che in astratto può farlo, non essendo infatti obbligato a rimettere il bandito al giudizio del collega territorialmente competente (lo si deduce da C. 7, 62, 29). Così, conclude Zasius, dalle norme suddette derivano gli antichi privilegi delle città, in virtù dei quali esse possono favorire e proteggere gli exbanniti, e ciò, precisa l’umanista, è cosa meritevole di grande attenzione547. Il secondo passo d’interesse è tratto dal commento a D. 42, 4 (Quibus ex causis in possessionem eatur), 13, ed è dedicato al problema specifico dell’appello e della competenza giurisdizionale al giudizio d’appello. Innanzitutto, Zasius sintetizza un principio basilare: chi si appella al princeps non può essere riconvenuto (neppure nella communis patria, vale a dire, presso la corte competente di livello più alto), ma ha diritto a essere difeso davanti al suo giudice (appunto, quello di competenza diretta nel territorio di residenza dell’appellante). Ciò vale anche per il relegato, e se la difesa non è esercitata, ha luogo la missio in possessionem, e dunque la venditio del patrimonio del debitore inadempiente548. All’esposizione di un caso esemplificativo549, segue la presentazione di un quesito fondamentale in relazione agli esuli: se qualcuno è inviato in esilio, relegato o exbannitus che sia, può forse essere citato nel luogo dell’esilio? E se non si difende, può forse essere deliberata la missio in possessionem nel suo patrimonio? Rinviando al responso di un ipotetico giureconsulto (a scopo retorico), Zasius af-
547 ZASIUS 1550, III, Commentaria, ad D. 42, 1, 15, 1, p. 212, col. 419, 10. Per il testo dell’Auth. Qua in provincia (corredato del relativo apparato di glosse) vd. Corpus iuris civilis 1627, IV, coll. 618-620. 548 «Summa. Appellans Caesarem non reconvenitur, etiam in communi patria, sed defendi debet coram suo iudice. Idem et de relegato. Et si non defendantur, fit immissio, et postea venditio», in ZASIUS 1550, III, Commentaria, ad D. 42, 4, 13, p. 306, col. 607, 1. Sulla procedura di missio in possessionem e sull’eventuale conseguente procedura concorsuale a soddisfazione dei creditori si ricordi quanto esposto supra, par. IV.2, e ivi, nota 358. 549 Non sarà superfluo sintetizzarne qui il contenuto. Fra Tizio e Flacco ha luogo una causa. Tizio soccombe e si appella alla Camera dell’Impero, che è communis patria, vale a dire, comune Concistoro di tutto l’Impero. Ottenuti i c.d. apostoli (appunto, le lettere dimissorie di rinvio al tribunale superiore), Tizio intenta la causa d’appello dinanzi all’imperatore. In pendenza della causa un tale Valerio lo cita direttamente dinanzi all’imperatore, ma Tizio obietta il diritto di essere citato dinanzi al proprio giudice, vale a dire, quello direttamente competente in primo grado, per il caso di specie. Quid iuris, dunque? Nella forma di un responso elaborato da un ipotetico giureconsulto (a scopo retorico), Zasius afferma quanto sintetizzato in esordio: chi si è appellato all’imperatore non può essere riconvenuto dinanzi al Concistoro dell’Impero, ma dev’essere citato dinanzi al proprio giudice (direttamente competente in prima istanza), così da potersi difendere in quella sede. Se il soggetto non esercita il diritto di difesa, avrà luogo la missio in possessionem nel suo patrimonio, e successivamente la relativa procedura concorsuale a soddisfazione dei creditori (vd. ZASIUS 1550, III, cit., p. 306, col. 607, 1). Sui suddetti apostoli vd. PADOA SCHIOPPA 2003, soprattutto pp. 690691.
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ferma che anche l’esule dev’essere citato davanti al giudice di diretta competenza, e se non si difende, ed è dunque assente, ha luogo la missio in possessionem nel suo patrimonio, che può essere disposta da quello stesso giudice. Inoltre, se l’esule sarà fraudolentemente latitante dopo la conclusione dell’esilio, anche i beni fino a quel momento non coinvolti nella procedura concorsuale disposta dal secondo decreto saranno venduti all’incanto550. Poco oltre, l’umanista sintetizza nuovamente la questione, e ricorda come i relegati (appunto, coloro che sono puniti con l’esilio temporaneo) possano essere citati dai loro creditori soltanto nel luogo dal quale sono stati esiliati. Tuttavia, dal momento che non possono essere efficacemente citati, proprio perché esuli, qualora non presentino alcuna difesa sarà possibile procedere alla missio in possessionem nel loro patrimonio, che sarà poi soggetto alla consueta procedura concorsuale se il relegato sarà ancora latitante allo scadere del termine dell’esilio. Peraltro, aggiunge Zasius, il riferimento al decorso del periodo dell’esilio si evince dalla glossa Bona veneunt a D. 42, 4, 13, frammento, quest’ultimo, in cui il participio puniti è al tempo passato e dev’essere inteso come relativo a una pena già terminata, cosa che secondo Angelo Gambiglioni è degna di massima considerazione. Secondo quest’ultimo, sottolinea Zasius, tutto ciò si presta ad argomento contro i banditi da Bologna, che per quanto non oserebbero entrare in città, ciononostante possono esservi citati e hanno facoltà di difendersi o meno (in quest’ultimo caso, lasciando che la missio in possessionem nel loro patrimonio abbia corso). Inoltre, i banditi sono equiparati ai relegati (come si legge nella glossa Retinent a I. 1, 12, 2, e come si evince dai commenti di Bartolo e di Angelo Gambiglioni a I. 1, 12, 1), e similmente sono equiparati ai deportati (appunto, coloro che sono puniti con l’esilio perpetuo), tema sul quale, conclude Zasius, molto ha scritto Bartolo nella sua Quaestio I, Lucanae civitatis551.
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«Quid autem de exulibus? Aliquis est missus in exilium, relegatus, exbannitus, an possit conveniri in loco exilii? Et si se non defendat, an possit decerni missio? I.C. respondet etiam exulem coram suo iudice conveniri, et si non defendatur, fit missio in bona absentis exulis, per suum proprium iudicem. Et postquam exilium est finitum, si iste exul postea latitet fraudulenter, tunc etiam bona vendentur ex secundo decreto interea non venduntur», in ZASIUS 1550, III, cit., p. 306, coll. 607608, 1. Sulla missio in possessionem ex primo et secundo decreto e sulla procedura concorsuale a soddisfazione dei creditori si rinvia nuovamente a quanto esposto supra, par. IV.2, e ivi, nota 354. 551 ZASIUS 1550, III, cit., p. 306, col. 608, 4-6. Per l’apparato di glosse a D. 42, 4, 13, che è alla base di tutta l’argomentazione qui presentata da Zasius, vd. Corpus iuris civilis 1627, III, coll. 571572 (in particolare la glossa Bona veneunt, in tema di esilio temporaneo e di decorso del tempo dello stesso – ivi, col. 572). Per la glossa Retinent a I. 1, 12, 2 vd. supra, p. 20, e ivi, nota 7. Per i commenti di Bartolo e di Angelo Gambiglioni a I. 1, 12, 1 vd. rispettivamente BARTOLUS 1562, V, In Institutiones, f. 22A, e DE GAMBILIONIBUS 1585, ff. 35rA-36rB (per quanto qui d’interesse soprattutto f. 36rA-B, 10-16). Per la Quaestio I, Lucanae civitatis di Bartolo si rinvia a quanto esposto supra, par. I.1, e ivi, nota 15.
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Ancora una volta, come già notato in Alciato552, il richiamo di Zasius alla tradizione è qui chiaro e diretto, così come quello all’attualità del suo tempo, dove l’esilio, temporaneo o perpetuo che sia, gioca un ruolo ancora fondamentale. Un altro passo interessante è dedicato alle conseguenze del bando in ambito patrimoniale. In sede di commento a D. 12, 2 (De iureiurando), 13, Zasius menziona il caso di una collazione fra patrimoni intercorsa fra due soggetti, uno dei quali subisce successivamente il bando dall’Impero, e dunque muore civilmente, pur continuando a vivere naturalmente. In relazione a una simile circostanza, l’umanista ritiene che la quota patrimoniale del bandito debba ritornare al princeps (vale a dire, al fisco), e che non accresca quella del socio. Infatti, nel caso suddetto la quota non viene meno ipso iure, ma in virtù di un’eccezione, dal momento che il socio bandito può comunque essere riabilitato e la sua quota, per così dire, non è del tutto venuta meno. Ciò, aggiunge Zasius, ha luogo non soltanto nel caso in cui un conte che abbia proprietà in comune con prìncipi o altri conti sia bandito dall’Impero, ma anche in altre circostanze. Un esempio è fornito dal caso della Città di Offenburg e del Castello di Ortenburg, parte del quale fu di proprietà del vescovo di Strasburgo. Allorchè il conte (socio del vescovo) fu bandito, la sua quota non accrebbe quella del vescovo, ma fu restituita al princeps (appunto, al fisco)553. Sempre in tema di effetti del bando sul patrimonio si rivela interessante un breve inciso presente nel commento a D. 28, 6 (De vulgari et pupillari substitutione), 10, 6, dove Zasius ricorda che nel caso in cui il bandito sia proprietario di beni in molteplici territori, il bando non si estenderà ai beni presenti in territori diversi da quello da cui il bandito è stato espulso (lo si deduce da D. 42, 5, 12, e dal commento di Tartagni a D. 28, 6, 10, 6, che ivi allega appunto D. 42, 5, 12)554. Si tratta nuovamente di una limitazione spaziale degli effetti del bando, in linea con quanto osservato sopra555. Altro breve inciso rilevante è quello presente nel commento a D. 28, 6 (De vulgari et pupillari substitutione), 43, dove Zasius ricorda come nel caso in cui il testatore sia deportato o diversamente privato dei diritti civili, a subirne le conseguenze
552 Oltre che a supra, capp. III e IV (diffusamente), si rinvia anche alle considerazioni esposte infra, in sede di Conclusioni. 553 ZASIUS 1550, I, Commentaria, ad D. 12, 2, 13, p. 445, col. 885, 5. Sul bando come mors civilis si rinvia a quanto esposto supra, par. III.3, e ivi, nota 219. 554 «Quod bannitus si habet bona in diversis territoriis, bannum non extenditur ad bona in alio territorio existentia, ut hic per Alex. fa. l. cum unus, § is cuius, infra de bon. aut. iud. poss., et Alex. hic diffusius», in ZASIUS 1550, II, Commentaria, ad D. 28, 6, 10, 6, p. 72, col. 139, 15. Per il commento di Alessandro Tartagni a D. 28, 6, 10, 6 vd. TARTAGNUS 1576, f. 102rA-102vB (soprattutto 10). 555 Vd. supra, pp. 182-183, e ivi, nota 547.
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saranno sia il suo testamento sia la copia di quello, come può dedursi per similitudine con le tabulae pupillares (vale a dire, le tavolette contenenti le disposizioni testamentarie riguardanti l’impubere), e sulla base di D. 28, 3, 6, 5556. Infine, si propone la lettura delle considerazioni elaborate da Zasius in sede di commento a D. 45, 1 (De verborum obligationibus), 121, 2. L’umanista richiama la condizione Cum morieris apposta a una stipulatio, e in modo analogo a quanto già visto sopra (nel commento alciateo relativo allo stesso locus del Digesto)557 ricorda come quella condizione faccia riferimento alla morte naturale, non a quella civile. Di conseguenza, se il debitore promittente fosse deportato, interdetto aqua et igni o condannato ai lavori forzati (tutti casi di morte civile), la stipulazione non avrebbe luogo, come invece accadrebbe qualora morisse realmente. Proprio su questo testo, aggiunge Zasius, si fonda quanto comunemente affermato dai doctores in tema di fictio iuris, fenomeno che può aver luogo solo nei casi espressamente previsti. Inoltre, per quanto nella glossa Nisi moriente eo a D. 45, 1, 121, 2 siano riscontrabili varie ipotesi in cui la morte civile è equiparata (o equiparabile) a quella naturale, Zasius non si sofferma ulteriormente sulla questione. Conclude invece ricordando che in relazione al contratto pro socio, come la società si estingue per morte naturale, così avviene anche per morte civile, vale a dire, in caso di deportazione del socio stesso, cosa che si desume da D. 17, 2, 65, 9-10 e 12 (frammenti, questi ultimi, allegati in calce alla glossa di cui sopra, come ipotesi di equiparabilità della morte civile a quella naturale, almeno in relazione agli effetti)558. Poste le differenze di dettaglio proprie delle rispettive argomentazioni (il passo alciateo è del resto più esteso e articolato), la comune posizione di Zasius e di Alciato in merito alla condizione Cum morieris, che entrambi ritengono contempli il solo caso della mors naturalis (in riferimento a D. 45, 1, 121, 2), rivela una tendenza dottrinale che interessa anche il fenomeno della fictio iuris. Infatti, alla precisazione di Zasius, che per le ipotesi di mors civilis circoscrive l’uso della fictio ai soli casi in cui ciò sia espressamente previsto, si lega quella formulata da Alciato, che invita a ricorrervi nel rispetto di un’interpretazione fedele al significato ‘naturale’ delle parole, da preferire a quello ‘civile’ (come nel caso della deportazione, che non può essere che una morte in senso esclusivamente civile, e non naturale)559.
556 ZASIUS 1550, II, Commentaria, ad D. 28, 6, 43, p. 130, col. 256, 38. Sulle tabulae pupillares e sulla substitutio pupillaris più in generale, oltre che alle indicazioni presenti in TALAMANCA 1990, pp. 732-734, si rinvia almeno a FINAZZI 1997. 557 Vd. supra, pp. 71-73. 558 ZASIUS 1550, IV, Commentaria, ad D. 45, 1, 121, 2, p. 489, coll. 549-550. Per la glossa Nisi moriente eo a D. 45, 1, 121, 2 vd. Corpus iuris civilis 1627, III, col. 1015. Di mors naturalis e civilis (nella forma della deportatio) in relazione all’estinzione della società si era espresso anche Alciato nel suo commento al medesimo D. 45, 1, 121, 2 (vd. supra, pp. 71-73). 559 Ibid.
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VIII.4. AN HOSTI SIT FIDES SERVANDA L’ultimo gruppo di passi rilevanti in tema di bando (e/o dinamiche dell’esclusione in senso lato) si caratterizza per la sua appartenenza, per così dire, a una cornice comune, rappresentata dal problema del serbar fede (o meno) al nemico in relazione ad alcuni, possibili casi. Un primo passo interessante consta di un breve inciso inserito nel commento a D. 45, 1 (De verborum obligationibus), 96, e richiama il problema dell’impune offesa del bandito. Nell’ipotesi di una pace giurata conclusa fra due soggetti, qualora uno dei due subisca successivamente il bando, l’altro potrà offenderlo impunemente senza incorrere nella rottura della pace stessa. Ciò, precisa Zasius, è quanto fu stabilito a Padova (lo ricorda Giason del Maino nel suo commento a D. 45, 1, 96, seguendo del resto l’opinione espressa da Bartolo nel suo commento a D. 13, 7, 24, 3), mentre a Bologna i doctores suggerirono la soluzione esattamente contraria (lo si evince dallo stesso commento di Giason del Maino). L’opinione di Zasius, espressa nella sua trattazione De baptizandis Iudaeorum pueris (vale a dire, le Quaestiones de parvulis Iudaeorum baptizandis), si pone in linea con la dottrina dominante. Infatti, l’umanista ritiene che sia lecito offendere impunemente il bandito, dal momento che al nemico non dev’essere serbata fede alcuna, e ovunque e in ogni caso s’interpone e prevale l’interesse pubblico (cosa che accade su consenso e deliberazione delle autorità superiori)560. Un secondo passo di rilievo è contenuto nella Quaestio III delle suddette Quaestiones de parvulis Iudaeorum baptizandis, dove Zasius affronta nuovamente
560 «Fingite, ego tecum feci pacem iuratam, tu postea incidis in bannum, iam impune te offendere possum, et non dicor pacem rupisse. Et ita fuit determinatum Paduae, ut hic dicit Ias. et tenet Bar. in l. eleganter, § fin. per illum tex. supra de pig. act. Licet Bononiae fuerit contrarium per Doct. consultum, quem passum hic Ias. late examinat. Ego in tractatu de baptizandis Iudaeorum pueris tenui hanc doctrinam quam iam doceo, quod possit impune offendi, quia hosti non est servanda fides ubicunque intercurrit favor publicus, et ubicunque hoc fit assensu et statuto superiorum», in ZASIUS 1550, IV, Commentaria, ad D. 45, 1, 96, p. 454, col. 479, 5-6. Per il commento di Giason del Maino a D. 45, 1, 96 vd. MAYNUS 1579, ff. 112rB-112vA, 5. Per il commento di Bartolo a D. 13, 7, 24, 3 vd. BARTOLUS 1562, I, In Digestum vetus, f. 695A. Sulla pace (intesa come patto) si vedano almeno KAUFMANN 1971b e WEIMAR 1993. Le Quaestiones de parvulis Iudaeorum baptizandis rappresentano un’altra opera fondamentale di Zasius, per la quale si vedano KISCH 1949; ID. 1961 (soprattutto pp. 1-14, 37-45); ID. 1969; ROWAN 1975; ID. 1987 (pp. 44-67); ZENDRI 2011a. Quest’ultimo studio presenta l’edizione e la traduzione in lingua italiana delle Quaestiones stesse, sulla base dell’edizione a stampa del 1508, l’unica personalmente curata da Zasius (ivi, p. 53). Posta la segnalazione in nota di eventuali, opportuni confronti, per esigenze di uniformità si è ritenuto più opportuno utilizzare qui il testo contenuto in ZASIUS 1550, essendo quest’ultima l’edizione di riferimento per tutte le citazioni zasiane qui riportate (vd. supra, nota 512).
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il problema del serbar fede (o meno) al nemico in relazione al caso concreto, datato al 1504, che gli suggerì la composizione stessa dell’opera. Nel contesto della faida allora intercorrente fra il conte palatino del Reno e l’imperatore Massimiliano I, un suddito ebreo del conte (anch’egli nemico dell’Impero in ragione della suddetta faida) fu catturato dai soldati imperiali, e liberato per raccogliere un riscatto lasciò il figlio di circa sette anni in ostaggio dei soldati stessi. Con questi il padre stipulò un patto, contenente la garanzia che il figlio non sarebbe stato battezzato. La successiva, presunta richiesta da parte del fanciullo di essere battezzato stimolò un intenso dibattito in seno all’Università e alla Città di Friburgo, il cui Consiglio decretò infine il battesimo del fanciullo ebreo561. Proprio a sostegno di tale risultato (peraltro da collocare nel clima antigiudaico diffuso a Friburgo già alla metà del secolo XIV), Zasius compose il suo scritto, affrontando il tema del battesimo dei fanciulli ebrei invitis parentibus, ben noto alla tradizione precedente562. Alla luce di queste premesse, le riflessioni in tema di bando elaborate da Zasius nella Quaestio III dell’opera si rivelano degne della massima considerazione. Innanzitutto, richiamando il caso suddetto (del padre ebreo, nemico dell’Impero in ragione della faida di cui sopra), Zasius evidenzia come sussistano due specie di nemici. Alcuni sono nemici per diritto di guerra, soprattutto nell’ipotesi in cui una delle due parti combattenti non sia soggetta all’altra, come un tempo Romani e Cartaginesi, e come al tempo dell’umanista i popoli non soggetti all’Impero. Altri, invece, sono giudicati nemici mediante decreto del senato romano, per delitto, contumacia, ribellione o altri simili crimini, come un tempo Catilina e Giulio Cesare. Ciò posto, Zasius evidenzia come nel suo tempo gli exbanniti dall’Impero (qui, precisa l’umanista, opportunamente definibili attraverso un vocabolo ‘barbaro’, vale a dire, volgare-germanico) siano considerati transfughi, secondo quanto ampiamente esposto da Bartolo nella sua Quaestio I, Lucanae civitatis. Ne deriva che i transfughi rientrano nella seconda specie di nemici suddetta, come lo stesso Bartolo afferma nei suoi commenti a molte-
561
Per tutto, vd. ZENDRI 2011a, p. 28, ma anche ROWAN 1987, pp. 44-48. ZENDRI 2011a, pp. 28-29, e ROWAN 1987, pp. 47-48. In tema di condizione giuridica degli ebrei (soprattutto in relazione alla suddetta questione del battesimo dei fanciulli ebrei invitis parentibus) e di generale antigiudaismo in età intermedia si vedano KISCH 1949; ROWAN 1987 (pp. 44-67); QUAGLIONI 2009; ZENDRI 2011a (pp. 15-25). Come evidenziato da quest’ultimo, nel contesto europeo del dibattito sugli ebrei non può trascurarsi la vicenda della morte di Simonino da Trento e dei relativi processi agli ebrei trentini, esito di una risoluta propaganda antigiudaica (ivi, pp. 21-22, con rinvio a ESPOSITO, QUAGLIONI 1990; IID. 2008; ESPOSITO 2008). 562
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plici loci del Digesto (vale a dire, D. 4, 5, 5, 1-2; D. 49, 15, 19, 7; D. 49, 16, 3; D. 48, 10)563. Il passo presenta molte analogie con quanto più volte riscontrato in Alciato e in Budé. Pur se brevemente, la riflessione sulle species di nemici è presentata in modo diacronico: dal riferimento implicito alle guerre puniche prima, all’esilio dei catilinari operato dal senato romano564 poi, Zasius giunge alla dottrina trecentesca di Bartolo sui banditi dall’Impero, che è ascritta alla sua contemporaneità, e nei confronti della quale l’adesione dell’umanista è piena. Inoltre (e anche qui l’analogia con Alciato è indiscutibile), non può trascurarsi il breve inciso di carattere linguistico sulla natura di vox barbara, per così dire, attribuibile al verbo exbannio: oltre a essere un vocabolo di lingua volgare e comune, è in fondo anche un termine tecnico-giuridico, di uso appropriato in relazione ai banditi dell’epoca565.
563
«Antequam hanc conclusionem probem, quia constat dicti Iudaei patrem paciscentem fuisse hostem Romani Imperii tempore pacti, incidens quaestiuncula elucidanda venit, An hosti sit fides servanda. In quo dubio primum omnium considerabimus, hostes (quantum ad propositum sufficit) esse in duplici differentia. Quidam sunt hostes iure belli, maxime ubi altera pars alteri non est subiecta, ut olim Romanorum et Carthaginensium, et si hodie pupilli [refuso per populi] sunt, de iure vel facto, non subiecti Romano imperio. Alii sunt qui senatus Romani decreto, ex delicto, contumacia, rebellione, vel caeteris similibus facinoribus hostes iudicantur, ut olim Catilina, Caesar Iulius, et si qui hodie ab Imperio exbanniuntur (lubet hoc loco barbaro uti vocabulo) illi enim numero transfugarum sunt, ut late Bartolus [con nota a margine di rinvio a In quaestione sua incipiente, Lucanae civitatis, verb. quid ergo dicendum] determinat. Transfugae autem hoc secundo genere hostium censentur, quod I.C. eleganter testatur [con nota a margine di rinvio a Arg. l. amissione, § qui deficiunt, cum § seq., ff. de cap. di., not. in l. postlimini‹um›, § transfugae, ff. de ca. et postli. re., in l. desertorem, § is qui, ff. de re mil. Text. est in l. iii, § fi., ff. ad l. Corn. de fal.]», in ZASIUS 1550, V, Quaestiones de parvulis Iudaeorum baptizandis, Quaestio III, pp. 183-184, ff. 346-347. Sui contenuti delle Quaestiones e della Quaestio III in particolare vd. ZENDRI 2011a, pp. 42-46, 124139 (per l’edizione del testo della Quaestio III curata dall’autore), e 207-219 (per una proposta di traduzione della Quaestio III). Per la Quaestio I, Lucanae civitatis di Bartolo vd. supra, par. I.1 (e ivi, nota 15), e per il riferimento specifico qui allegato da Zasius, vale a dire, il paragrafo Quid ergo dicendum? della Quaestio I, vd. BARTOLUS 1562, V, Quaestiones, f. 479A, 25. Per il medesimo testo nella versione presente nel Tractatus bannitorum vd. e cfr. BARTOLUS 1588, f. 356A-B, 8, ricordando quanto evidenziato supra, nota 15, in merito al rapporto fra la Quaestio I e il Tractatus bannitorum stesso. Per il commento di Bartolo a D. 4, 5, 5, 1-2 vd. BARTOLUS 1562, I, In Digestum vetus, f. 343A-B. Per i commenti di Bartolo a D. 48, 10 (non è chiaro cosa indichi l’allegazione Text. est in l. iii, § fi., ff. ad l. Corn. de fal. inserita da Zasius – vd. e cfr. anche ZENDRI 2011a, p. 126, nota a), a D. 49, 15, 19, 7 (sembra non esservi un commento specifico di Bartolo a D. 49, 15, 19, 4, come allegato da Zasius), e a D. 49, 16, 3 (anche in questo caso, sembra non esservi un commento specifico di Bartolo a D. 49, 16, 3, 4, come allegato da Zasius) vd. BARTOLUS 1562, III, In Digestum novum, rispettivamente ff. 857B-870B, 982B e 985B-986B. 564 Come evidenziato supra, l’episodio di storia romana, paradigmatico e fondamentale, è più volte citato anche da Alciato (vd. supra, cap. VI) e da Budé (vd. supra, par. VII.2). 565 Vd. e cfr. supra, parr. IV.2 e VIII.1.
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Nella stessa Quaestio III, poco oltre, Zasius prende nuovamente in considerazione la seconda specie di nemici, quelli giudicati tali per un delitto, che sono appunto transfughi o (in lingua volgare e di registro comune) exbanniti. L’umanista ricorda che nel caso in cui i suddetti siano stati banditi dall’Impero, nei loro confronti non dovranno essere rispettati né eventuali patti di pace, né tantomeno patti di natura privata, che traggono forza dallo ius commune. Infatti, gli iura civilia non tutelano quei soggetti proprio perché giudicati nemici dell’Impero, che di quei diritti era stato la fonte, secondo quanto sostenuto dai più esperti in tema di iura civilia (lo si desume da allegazioni diffusamente tratte dalla già ricordata Quaestio I di Bartolo)566. Su questo aspetto Zasius ricorda di aver già scritto ampiamente (di contro alle sciocchezze affermate da certi ignoranti della scienza giuridica, come l’umanista stesso sottolinea), e propone una soluzione ben argomentata al quesito giuridico iniziale, appunto, l’osservanza o meno del patto stipulato fra il padre ebreo e i soldati imperiali567. Zasius ritiene che il patto suddetto non debba essere osservato. Infatti, ai nemici della prima specie (tali per diritto di guerra) non dev’essere serbata fede alcuna in relazione ai patti privati di natura lucrativa, stipulati senza l’ordine del comandante della guerra intrapresa (cosa che l’umanista ricorda di aver già dimostrato dettagliatamente). Inoltre, sempre alla luce di quanto già esposto nel corso della trattazione, Zasius evidenzia come ai nemici dell’Impero (giudicati tali per delitto) e così anche ai banditi non debba essere serbata fede alcuna, neppure in relazione a un patto di pace. Di conseguenza, dal momento che l’ebreo della suddetta controversia era stato giudicato nemico dell’Impero non tanto sulla base di una guerra dichiarata pubblicamente, quanto in ragione del bando inflitto al conte palatino del Reno (di cui egli era suddito), quell’ebreo riassume in sé entrambe le specie di nemici menzionate sopra. Dunque, non dev’essergli serbata fede alcuna, perché il patto (di natura lucrativa e privata) era stato stipulato in assenza del necessario ordine del comandante e con un exbannitus, soggetto privo di qualsiasi tutela di ius civile568.
566
ZASIUS 1550, V, cit., p. 185, f. 348. Le allegazioni presentate nella nota a margine, tratte dalla Quaestio I di Bartolo, corrispondono a D. 4, 5, 5; D. 27, 1, 6, 6; C. 1, 3, 51 (52); C. 9, 41, 8; C. 10, 71 (49), 2; C. 10, 38, 1; C. 6, 24, 1 (allegazione che Bartolo riprende da Iacopo d’Arena); D. 2, 4, 10, 6 (allegazione che Bartolo riprende nuovamente da Iacopo d’Arena, ma la cui corrispondenza con quanto riportato da Zasius, appunto, l. sed si hac lege, § si perpetuam, ff. de posth., rimane incerta – vd. e cfr. ZENDRI 2011a, p. 130, nota d). 567 ZASIUS 1550, V, cit., p. 185, f. 348. Si noti che in questa breve premessa all’argomentazione successiva Zasius riecheggia Orazio (affermando nescio quid nugarum – vd. e cfr. HOR. sat. 1, 9, 2) e Cicerone (affermando Operae precium enim est – vd. e cfr. CIC. Catil. 4, 16). 568 ZASIUS 1550, V, cit, p. 185, f. 348. Per tutto, vd. e cfr. la traduzione proposta in ZENDRI 2011a, p. 212.
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In strettissima connessione con le riflessioni suesposte, nella sua Apologetica defensio contra Ioannem Eckium Theologum569 Zasius afferma nuovamente come nei confronti dei nemici della seconda specie, maledetti (appunto, resi sacri, con allusione all’antica sacertas) per delitto o contumacia su decreto dell’Impero (vale a dire, parlando comunemente e in lingua volgare, nei confronti degli exbanniti) non debbano essere osservati né patti di pace, né tantomeno patti di natura privata. Tale conclusione trova conferma non soltanto nella Glossa e diffusamente in dottrina, ma in modo chiaro anche in D. 2, 14, 5, nelle consuetudini, nello ius gentium, e in quanto comunemente ammesso secondo l’uso bellico570. Nella stessa sede, poco oltre, Zasius torna a riflettere sulla conclusione suddetta, esponendo un’argomentazione ben più articolata. Come già affermato, ai nemici dell’Impero, exbanniti per delitto, contumacia o ribellione non dev’essere serbata fede alcuna in relazione ai patti di natura privata e a quelli di pace. Rinviando alla dottrina (in particolare a quella di Bartolo, esposta nella Quaestio I, Lucanae civitatis), Zasius formula una critica diretta alle teorie esposte sul tema da Eck, manifestando l’intenzione di dimostrarne l’infondatezza. A tal fine, tratterà separatamente la questione della non osservanza dei patti di natura privata da un lato, e di quelli di pace dall’altro571. Riguardo ai patti di natura privata, l’opinione che non debbano essere osservati se conclusi con soggetti banditi dall’Impero si fonda sulle ampie e accurate argomentazioni esposte da Bartolo nella suddetta Quaestio I. Alla luce di quelle, infatti, Zasius ricorda come l’exbannitus dall’Impero sia considerato un transfuga, e come i transfughi siano coloro che defezionano dall’Impero, comportandosi da ribelli e nemici (lo si deduce da D. 4, 5, 5, 1, e da D. 49, 15, 19, 4 e 7). Come il transfuga,
569 Pubblicata nel 1519, nella forma di un’epistola privata e sarcasticamente amichevole, l’opera s’inserisce nel contesto dello scontro fra Zasius e l’ex allievo Johannes Eck (cui è appunto indirizzata), in risposta alle critiche polemiche sollevate da quest’ultimo (nel suo trattatello De materia iuramenti del 1518) proprio in riferimento alla violabilità dei patti stipulati con il nemico, oggetto della Quaestio III delle zasiane Quaestiones de parvulis Iudaeorum baptizandis. Per i complessi dettagli dell’inimicizia fra Zasius ed Eck (sullo sfondo dei problemi e delle personalità legate alla Riforma luterana, ai circoli umanistici europei – in primo luogo ‘erasmiani’ –, agli interessi politico-economici legati ai territori tedeschi sud-occidentali, nonché all’elezione di Carlo V a imperatore), e per una trattazione approfondita dei contenuti delle opere espressione di quello scontro vd. ROWAN 1987, pp. 109-122, ma anche ID. 1977. Sulla figura e sull’opera di Johannes Eck si rinvia alla bibliografia suggerita nel medesimo ROWAN 1987, p. 109, nota 73 (già in ID. 1977, p. 79, nota 1), ma anche a BÄRSCH, MAIER 2014. Inoltre, si vedano anche WINTERBERG 1961 (pp. 28-30), e Eck 1971. 570 ZASIUS 1550, V, Apologetica defensio contra Ioannem Eckium Theologum, p. 191, coll. 356357, 3. In tema di sacertas si ricordi quanto esposto supra, par. VII.2, e ivi, nota 458, ma anche cap. VI, e ivi, nota 398, per ulteriori indicazioni bibliografiche. Sul diritto di guerra si rinvia nuovamente a Alberico 1991; QUAGLIONI 2007; GENTILIS 2008. 571 ZASIUS 1550, V, cit., p. 197, col. 368, 14.
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anche l’exbannitus per un crimine defeziona dall’obbedienza all’Impero ed è equiparato al ribelle. Dunque, gli exbanniti di tale specie devono essere considerati morti (come si evince dal commento di Baldo a C. 9, 1, 11 e 20), e perdono i diritti propri della cittadinanza romana (lo si deduce dal medesimo D. 4, 5, 5). Inoltre, dal momento che la civitas romana è communis patria di tutto il mondo (vale a dire, l’Impero, con rinvio a D. 50, 1, 33 e a D. 27, 1, 6, 6), perdendo i diritti di quella civitas i banditi perdono conseguentemente anche quanto rientra nel comune ius civile, secondo un’opinio communis ben consolidata (lo si deduce da Auth. 1, 3, 2 – in C. = Frid. 2, 2, dal commento di Bartolo a D. 4, 5, 5, e dai commenti di Baldo a C. 6, 24, 1, parr. Sed hic quaeritur e Item omnis iurisdictio, e a C. 1, 2, 1, par. Quid de exbannito?)572. Sulla base di tutto ciò, Zasius ritiene che l’obbligazione riguardante i vincoli di ius civile non interessi il bandito, che non gode di alcuna tutela giurisdizionale (l’eventuale sentenza emanata in suo favore sarebbe ipso iure nulla, come sostiene Baldo nel suo commento a C. 6, 24, 1). Ne deriva che nessuno è vincolato all’osservanza dei patti stipulati con chi non possa più essere titolare di un’obbligazione di ius civile e non abbia più diritto ad alcuna tutela giurisdizionale (non essendo ammissibile sentenza alcuna), come appunto dimostra finemente Baldo nel suddetto commento a C. 6, 24, 1. Qui, infatti, in corrispondenza del par. Item nec deportati, Baldo afferma che chi sia stato bandito dal princeps (vale a dire, il bandito dall’Impero) perde qualsiasi diritto in qualsiasi luogo. Inoltre, i diritti attivi non si trasmettono al bandito, con la conseguenza che gli exbanniti di questa specie non possono né intentare un processo, né acquisire facoltà o diritti (come Baldo stesso ricorda in sede di commento a D. 4, 5, 5). Zasius conclude richiamando l’incontrastabile ratio di ius civile, in virtù della quale qualora a obbligarsi sia qualcuno che non può essere titolare di alcuna obbligazione civile, la stipulatio sarà inevitabilmente nulla (come si evince da D. 45, 1, 34 e dal relativo commento di Bartolo, oltre che, comunemente, dalla dottrina sul medesimo passo). Dunque, dal momento che l’exbannitus non può essere titolare di un’obbligazione civile, la promessa fattagli sarà nulla573.
572 ZASIUS 1550, V, cit., p. 197, coll. 368-369, 14-15. Per il commento di Baldo a C. 9, 1, 11 e 20 vd. BALDUS 1556d, rispettivamente ff. 220rA, 60, e 221vA, 2. Per il commento di Bartolo a D. 4, 5, 5 vd. l’edizione suggerita supra, nota 563. Per il commento di Baldo a C. 6, 24, 1 (parr. Sed hic quaeritur e Item omnis iurisdictio) vd. BALDUS 1556c, rispettivamente f. 68rA, 19, e 68vA, 30. Per il commento di Baldo a C. 1, 2, 1 (par. Quid de exbannito?) vd. BALDUS 1556a, f. 9vB, 3. 573 ZASIUS 1550, V, cit., p. 197, coll. 368-369, 14-15. Per il commento di Baldo a C. 6, 24, 1 (par. Item nec deportati) vd. BALDUS 1556c, f. 68rA, 20. Per il commento di Baldo a D. 4, 5, 5 (in tema di perdita degli iura civilia da parte dei banniti) vd. BALDUS 1572a, f. 261rB, 1-8; 261vA, 11; 261vB-262rA, 5. Per il commento di Bartolo a D. 45, 1, 34 vd. BARTOLUS 1562, III, In Digestum novum, ff. 456B-457A.
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L’adesione piena alla dottrina tradizionale si riscontra anche nella seconda parte dell’argomentazione, relativa alla pace stipulata con il bandito, che appunto non dev’essere osservata. Infatti, affidandosi ‘all’arma sicura’ delle comuni opinioni dei doctores, Zasius ricorda che chi dopo aver stipulato una pace con un exbannitus lo offende o lo uccide a titolo pubblico, per la pace comune e per la res publica, senza alcun rancore personale né scopo di vendetta, non commette nulla d’ingiusto e non è reo di aver violato la pace. Ciò vale soprattutto se grazie all’intervento del soggetto in questione a non aver avuto esito siano stati eventuali patti (di natura privata) contro la pubblica utilità. Inoltre, precisa l’umanista, anche se il soggetto avesse non soltanto stipulato la pace, ma persino giurato di osservarla, ciononostante, in virtù di una delle possibili motivazioni suesposte violerebbe il giuramento impunemente, e sempre impunemente ucciderebbe il bandito. Del resto, se anche fosse spergiuro, tuttavia non sarebbe colpito da infamia e non peccherebbe mortalmente, dal momento che secondo l’opinione dei doctores il suddetto giuramento non è valido nel caso di specie (appunto, la stipulazione di una pace con un bandito), e se anche lo fosse sarebbe comunque illecito e ingiusto, tanto da non dover esser osservato né in ambito privato né in ambito pubblico. Infatti, i giuramenti contrari alla giustizia non devono essere rispettati (come può dedursi da X. 2, 2, 12). Infine, conclude Zasius, se l’amor patrio vale più di quello per i genitori e del rispetto nei loro confronti, rendendo così degno di lode chi uccide i propri per il bene della patria e per la pace pubblica (lo si evince da D. 11, 7, 35), a maggior ragione sarà lecito uccidere il bandito impunemente. Infatti, nel primo caso si tratta di patti propri di un vincolo naturale, che nel secondo assumono i caratteri di convenzioni civili (come si desume da D. 49, 15, 19, 7)574. Così, pur se contra bannitum (e nel contesto della polemica con Eck menzionata sopra575), anche in questo caso le riflessioni zasiane in tema di bando rivelano il legame del loro autore con la tradizione di ius commune, alla luce dello spirito umanistico che innegabilmente ne pervade l’opera576.
574
ZASIUS 1550, V, cit., p. 197, col. 369, 16-18. Vd. supra, nota 571. 576 Vd. e cfr. ZENDRI 1999 (soprattutto pp. 63-64, 70-73, 76, 80, 85 e 91-92), oltre che le riflessioni esposte infra, in sede di Conclusioni. 575
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CONCLUSIONI LA SENSIBILITÀ DEL FILOLOGO E DELLO STORICO, NEL DIALOGO UMANISTICO CON LE FONTI E LA TRADIZIONE. UNA NUOVA ESPERIENZA GIURIDICA? L’obiettivo posto all’origine di questo studio, come si ricorderà, era stato quello d’indagare la sussistenza di un contributo alle dottrine medievali sul bando da parte della prima generazione di giuristi-umanisti, eleggendo Andrea Alciato a rappresentante fondamentale della nuova cultura, ma senza trascurare il contributo di Guillaume Budé e di Ulrich Zasius, in omaggio all’idea tradizionale del triumvirato umanistico577. La lettura delle fonti ha rivelato un primo dato fondamentale: nell’opera dei tre intellettuali non si riscontra una trattazione autonoma e compiuta in tema di esilio (o, vulgariter, bando578), che è invece assunto come oggetto di commento in modo frammentario (pur se diffusamente), nella forma della digressione o dell’approfondimento, in costante comparazione con le altre pene comportanti l’esclusione (la deportazione e la scomunica). Ciò vale soprattutto per Alciato e per Zasius, le cui argomentazioni mostrano un’aderenza maggiore allo stile scolastico proprio della tradizione di ius commune579, mentre le riflessioni di Budé, guidate dalla citazione costante e diretta delle fonti antiche più diverse (dalla letteratura classica, greca e latina, ai lessici antichi e tardo-antichi, dalle fonti bibliche a quelle patristiche),
577
Vd. supra, parr. I.4 e II.2. Sul bannum quale vox vulgaris (vale a dire, di lingua volgare e di registro comune), in contrapposizione alla voce exilium (latina e di registro più elevato, in quanto derivata dal latino classico, e quasi assunta a termine tecnico-giuridico), vd. supra, par. IV.2. 579 Ne sono espressione la struttura tipica della quaestio articolantesi in pro e contro a un dato quesito giuridico, oltre che i riferimenti alle opiniones doctorum (e talora all’opinio communis su un dato tema, complessivamente intesa) espressi nelle numerose allegazioni (vd. supra, capp. III, IV e VIII). 578
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presentano uno stile più singolare, espressione del sapere enciclopedico del loro autore580. È un sapere che pervade anche le opere alciatee dove meglio può saggiarsi la sensibilità storico-filologica dell’umanista italiano, che rispetto ai suoi contemporanei sintetizza forse al meglio la combinazione armonica di competenze storico-filologiche e scienza giuridica in un’unica personalità, come si è più volte accennato581. Alla luce di queste premesse, il quesito centrale trova la sua risposta nell’adesione pressoché piena di Alciato alle dottrine di ius commune sul bando e al contributo fondamentale dato all’istituto da Bartolo, interlocutore ‘privilegiato’ nei richiami costanti alle opiniones doctorum più consolidate582. Il legame con la tradizione si
580 Sulle fonti e con le fonti Budé costruisce le sue argomentazioni, densissime di un sapere enciclopedico che combina in sé acribia filologica e vaste competenze storiche, antropologiche e giuridiche. Complessivamente intese, le riflessioni dell’umanista francese presentano i caratteri di un’indagine storica diacronica sulle origini dell’esilio e sulle dinamiche dell’esclusione nel mondo antico: dall’arcaica sacertas (connessa a riti di espiazione/purificazione) all’esilio volontario apud Graecos, conseguente a un omicidio involontario (tema, quest’ultimo, presente anche nelle argomentazioni alciatee), e naturalmente all’exilium volontario nella Roma repubblicana e alla perdita della civitas romana a quello connessa, ma subordinata, per così dire, alla volontà del soggetto (vd. supra, cap. VIII). 581 Sul punto vd. supra, cap. II. L’attenzione costante alla proprietas sermonis (nel recupero del latino classico e della tradizione bilingue greco-latina), la restituzione di versi greci (Il. 23, 85-88) testimonianti il costume, apud Graecos, dell’esilio volontario conseguente a un omicidio involontario, le note linguistico-filologiche sull’etimologia del vocabolo bannum o sulla paretimologia ἀπενιαυτισμός > abannatio > bannum (chiaro debito nei confronti di Budé, se non vero e proprio plagio) sono tutte manifestazioni della cultura e del metodo umanistici alciatei (vd. supra, cap. V). 582 Posto il riferimento costante e diffuso alla Quaestio I, Lucanae civitatis di Bartolo, contenente la fondamentale e insuperata sistematizzazione data dal giureconsulto all’istituto del bando, ricorrono in Alciato le questioni tradizionalmente legate al bannum e ai banniti: la qualificazione del bannitus come hostis publicus civitatis suae, la possibilità di uccidere il bannitus impunemente, il problema dell’interpretazione degli statuti prescriventi norme sul bannum e sui banniti, l’equiparazione della contumacia alla confessione, il rapporto fra bannum ed excommunicatio, la qualificazione del bannum (e della deportatio) come una mors civilis, la restitutio dell’esule (bannitus o deportatus), e (in stretta connessione con il recupero dello status quo ante) la garanzia riconosciuta al terzo contro l’evizione (vd. supra, capp. III e IV). Sono tutte questioni ricorrenti anche in Zasius, che – come Alciato – evidenzia diffusamente la sua aderenza alla tradizione di ius commune sul bando, soprattutto in tema di mitigazione del rigor iuris civilis a vantaggio di un’interpretazione pro bannito: dal riconoscimento del diritto di difesa in giudizio ai banniti in quanto principio di ius naturale (in aderenza, peraltro, all’opinione di Baldo), alla definizione dei limiti di competenza giurisdizionale su bando e banditi (in analogia con quanto evidenziato da Nello da San Gimignano), e alla limitazione della facoltà di uccidere impunemente i banditi, che non può estendersi a qualsiasi genere di bannitus (vd. supra, par. VIII.3). Inoltre, le riflessioni che Zasius formula congiuntamente intorno al bando e alla scomunica rivelano una prospettiva civilistico-canonistica che è un’ulteriore manifestazione del legame del giurista-umanista con la tradizione di ius commune, così come il richiamo a Bartolo nella qualificazione dei banniti come transfugae-hostes (vd. supra, parr. VIII.2 e VIII.4).
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esprime soprattutto nella tendenza al temperamento del rigor iuris civilis, vale a dire, a mitigare la crudeltà delle norme statutarie a vantaggio di un’interpretazione pro bannito guidata dai criteri propri dell’aequitas e dello ius naturale583. È un dato estremamente significativo, espressione di continuità con una tradizione che si era costruita progressivamente, nell’esigenza d’inquadrare l’istituto del bando nelle categorie di un sistema giuridico unitariamente inteso, e con l’ambizione sempre rinnovata di limitare la crudeltà di prassi statutarie diffuse584. Allo stesso tempo, la continuità con la tradizione medievale s’inserisce in una consapevolezza nuova (figlia della rinascita umanistica avviatasi fra i secoli XIV e XV), che si manifesta nella storicizzazione delle fonti giuridiche romane585, e nel loro rinnovato studio con l’ausilio della filologia586. La fonte, sia essa letteraria o
583 L’aequitas e lo ius naturale, espressioni di umanità, sono richiamati quali criteri-guida nell’interpretazione delle norme prescriventi pene crudeli per i banniti, a vantaggio di un temperamento del rigor iuris civilis e di un’applicazione più mite di quelle pene. A ciò si aggiunge anche il richiamo al forum coscientiae in relazione ad alcuni casi di uccisione del bannitus. Quest’ultima non esclude necessariamente il peccato, sebbene sia prevista e non punita dallo ius civile. Fra le righe della questione si legge il problema complesso dell’obbligatorietà o meno in coscienza della legge civile (soprattutto se e quando lesiva dell’ordine morale), in un contesto di transizione in cui peccato e reato tendono a convergere, così come i fori giurisdizionali. Tuttavia, allo stesso tempo si avvertono le prime manifestazioni del processo che porterà gradualmente alla netta separazione fra illecito morale e illecito giuridico, e dunque fra le giurisdizioni ecclesiastica e civile. In tal senso, il rilievo attribuito da Alciato alle dinamiche di collaborazione fra quelle giurisdizioni acquista maggiore comprensibilità, soprattutto se unito alla connotazione fondamentalmente civilistica che l’umanista italiano attribuisce alla pena dell’esilio (vd. supra, capp. III e IV). 584 Vd. supra, cap. I. 585 Il senso romanistico delle ricerche alciatee risalta diffusamente. Un esempio è fornito dalla digressione sulla differenza fra l’aquae et ignis interdictio e la deportatio (quest’ultima erroneamente considerata dai più come sostitutiva della prima – vd. supra, par. IV.1), ma certo anche dalla citazione ricorrente di episodi di storia costituzionale romana (perlopiù attestati in Cicerone, Tacito e Sallustio). Infatti, questi ultimi sono assunti a momenti paradigmatici dello sviluppo della giurisdizione criminale d’età repubblicana, e guidano l’indagine alciatea sull’esilio quale strumento sanzionatorio alternativo alla pena di morte. In tal senso, sullo sfondo di una Roma repubblicana idealizzata nelle sue garanzie di giustizia (prima fra tutte, la lex Porcia I, de tergo civium), l’esilio si presenta agli occhi dell’umanista come un simbolo della civiltà, della giustizia e dell’umanità attribuite all’antica società romana, nel contrasto stridente con un mondo a lui contemporaneo degradatosi nella crudezza di prassi punitive diffuse. Similmente, i limiti posti alla perdita della cittadinanza romana (testimoniati da Cicerone) rafforzano l’elogio umanistico delle garanzie poste a tutela dei cives romani, secondo uno schema espositivo che caratterizza anche le argomentazioni di Budé, che all’elemento della volontarietà dell’esilio riconosce un valore fondamentale (vd. supra, cap. VI e par. VII.2). Sul riferimento alla lex Porcia I, de tergo civium, e allo sviluppo storico dell’exilium nelle riflessioni di Zasius, vd. infra, nota 588. 586 Oltre che nella costante attenzione per la proprietas sermonis e per il dato testuale, la sensibilità filologica si manifesta soprattutto nella restituzione di versi in greco (comune ad Alciato e a Budé in relazione ai versi omerici tratti dall’Iliade e al loro legame con D. 48, 19, 16, 8) e nello studio delle corrispondenze fra le lingue greca e latina proprio delle ricerche di Budé (vd. supra, cap. V e par. VII.3).
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giuridica, è al centro dell’attenzione dell’interprete, in quanto testimonianza di un mondo antico che è posto in dialogo con quello della sua epoca587. L’interesse umanistico per una migliore e più consapevole comprensione della propria contemporaneità si esprime attraverso la lettura critica di quelle testimonianze, nella cura per il dato testuale e in prospettiva storica diacronica. È un tratto comune ad Alciato e a Budé, ma certo non assente neppure in Zasius, che (sebbene in misura minore rispetto ai primi due) rivela anch’egli una consapevolezza storica ascrivibile alla cultura umanistica588. In tal senso, dal contributo dei tre umanisti sull’esilio si delinea complessivamente il quadro di un sostrato culturale umanistico europeo comune, dove gli elementi della tradizione si arricchiscono delle manifestazioni proprie della nuova cultura, sullo sfondo di una tradizione giuridica che, rinnovandosi progressivamente, resta pur sempre unica589. Nella dialettica fra continuità e innovazione, quel contributo rivela il suo tratto più peculiare. Alla persistenza delle dottrine medievali sul bando si lega il nuovo spirito critico umanistico d’indagine delle fonti, che si avvale della storicizzazione delle testimonianze del passato (giuridiche e non) e del loro vaglio filologico, al fine di una rinnovata e migliore interpretazione del sapere giuridico antico, e dunque del diritto della propria contemporaneità590. È questo un punto d’importanza
587 I riferimenti alla contemporaneità del secolo XVI ricorrono costantemente nelle argomentazioni di tutti e tre i giuristi-umanisti. A tal proposito, non sarà superfluo ricordare come i richiami che Alciato fa alla restitutio dell’esule da parte del princeps siano ascrivibili al contesto storico dell’Europa della prima età moderna, e alla centralità della figura del sovrano nelle monarchie nazionali, che in quel contesto divengono sempre più dominanti (vd. supra, par. III.4). L’indagine di Budé intorno alle dinamiche dell’esclusione e ai rituali di purificazione dall’omicidio nel mondo antico suggerisce all’umanista francese il rinvio alla tradizione dei re taumaturghi, funzionale a un elogio non troppo velato della monarchia francese (vd. supra, par. VII.3). Infine, il richiamo a questioni giuridiche contemporanee, prima fra tutte, il battesimo del fanciullo ebreo invitis parentibus, fa da sfondo alle digressioni di Zasius sul bando in più di un’occasione (vd. supra, par. VIII.4). 588 Pur se le argomentazioni di Zasius rivelano un acume filologico indubbiamente inferiore rispetto a quello di Alciato e di Budé, la cultura umanistica del civilista tedesco non manca mai di manifestarsi. Ne è un esempio la cura per il dato linguistico, nella segnalazione delle differenze di registro fra voci latine e voci volgari (germaniche) e del carattere tecnico-giuridico di termini diffusi come exbannio. A questa si aggiunge la sensibilità storica che stimola in Zasius riflessioni intorno alle varie forme di exilium romano, diacronicamente vagliate nel riferimento a episodi paradigmatici di storia costituzionale romana. Fra questi ultimi, a risaltare è proprio l’emanazione della lex Porcia I, de tergo civium, riecheggiata in piena analogia con quanto visto in Alciato e in Budé, pur se con uno stile più sobrio e meno ricco di citazioni di autori classici (vd. supra, par. VIII.3). 589 È un’ulteriore conferma dell’opportunità di respingere la vecchia diatriba fra mos italicus e mos gallicus (vd. supra, cap. II). 590 Vd. e cfr. supra, par. II.1.
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centrale, nel quale sembrerebbe potersi individuare l’elemento di sintesi delle tre grandi personalità umanistiche qui prese in esame, e dunque, in senso più generale, di una prima dottrina umanistica sull’esilio. Come già più volte evidenziato, le riflessioni che i tre umanisti formulano in tema di esilio emergono frammentariamente dalle loro opere, secondo stili per certi versi differenti (prettamente storico-filologico quello di Budé, più scolastico-tradizionale quello di Zasius, misto quello di Alciato), sullo sfondo di contesti di formazione a loro volta non poco dissimili591. Tuttavia, uno sguardo più ampio sulle fonti delinea i profili di una dottrina il cui tratto d’unità risiede nell’aspirazione sopraccennata: una più precisa e corretta interpretazione delle testimonianze antiche al fine di una migliore applicazione del diritto, ispirata da criteri di giustizia (l’aequitas e lo ius naturale) volti a mitigare la severità delle norme contro gli esuli. L’aequitas e lo ius naturale pervadono le argomentazioni dei tre umanisti indistintamente, ora in modo implicito, ora esplicito, nel solco della complessa elaborazione canonistico-civilistica subita da quei concetti durante i secoli medievali, che a loro volta li avevano ereditati dal mondo classico592. Inoltre, nelle fonti oggetto d’indagine quei concetti sembrano assumere i caratteri di un’humanitas593, per così dire, tesa alla tutela della vita e dei diritti degli esclusi.
591
Come si ricorderà, Alciato (1492-1550) era stato introdotto agli studi filologico-letterari sin dall’infanzia, e aveva presto proseguito negli studi giuridici, mentre Budé (1468-1540), più vecchio di ventiquattro anni e giurista già formato, aveva intrapreso lo studio della lingua greca praticamente da autodidatta (pur godendo poi della guida, fra gli altri, di Giano Lascaris e di Fra Giocondo, sullo sfondo della ricca temperie culturale della Parigi dell’epoca). Zasius (1461-1535), invece, più vecchio di trentun anni rispetto ad Alciato e di sette rispetto a Budé, aveva ricevuto una formazione prettamente giuridica, dedicandosi alla filologia ben più avanti negli anni, e certo non con la stessa profondità d’interessi storico-antiquari e filologici dei primi due (vd. e cfr. supra, rispettivamente parr. II.1, VII.1, e ivi, nota 436, e VIII.1, e ivi, nota 509). Indubbiamente, le differenze fra i tre intellettuali impongono un ripensamento del forte accento che la storiografia ha posto sull’idea del triumvirato umanistico (vd. e cfr., fra gli altri, TROJE 1993, pp. 138-139). Tuttavia, con le dovute cautele quell’idea resta comunque apprezzabile, e in tal senso è stata adottata ai fini di questo studio. 592 Vd. e cfr. CALASSO 1970, pp. 166-175; ID. 1954, pp. 331-337, 476-485; PIANO MORTARI 1997, pp. 145-158. 593 Sull’antico concetto di humanitas, quale espressione dell’aequitas (insieme alle varianti benignitas, clementia, misericordia, ecc.), nell’esperienza giuridica intermedia si vedano CALASSO 1954, pp. 331-333, 479-480, e PIANO MORTARI 1997, pp. 147, 156-157. Per uno sguardo sul concetto di humanitas nel mondo (letterario e giuridico) antico si vedano almeno RIEKS 1967 e PALMA 1992 (con un’utile sintesi degli studi romanistici specificamente dedicati al tema, pp. 1-18). Si vedano anche i già citati SOLIDORO 2013 e MANTOVANI 2017. Inoltre, sui molteplici caratteri dell’humanitas nel Rinascimento si vedano PAPARELLI 1993 (per quanto qui d’interesse, soprattutto pp. 115-129) e SECCHI TARUGI 2012.
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Nel suo tentativo di ricostruzione storica delle dinamiche dell’esclusione nel mondo antico, Budé non trascura mai di evidenziare l’elemento della volontarietà sottesa all’exilium di età romana repubblicana594, alla luce di una valorizzazione umanistica dell’individuo che è comune ad Alciato, ma certo anche a Zasius595. Più in particolare, e in analogia con Budé, nelle garanzie di giustizia e libertà proprie di una Roma repubblicana idealizzata Alciato individua il segno di una superiore umanità degli antichi. Un’umanità da emulare e recuperare, di contro alla crudezza dei costumi a lui contemporanei. In tal senso, l’exilium volontario, atto a evitare e a sostituire la pena capitale (relegandola alle ipotesi delittuose più gravi), assume agli occhi dei due umanisti il valore di un fondamentale strumento di tutela della vita umana596. Inoltre, il costume dell’esilio volontario conseguente a un omicidio involontario apud Graecos, attestato in fonti primariamente omeriche, suggerisce ad Alciato l’importanza della valutazione dell’elemento soggettivo del reato ai fini dell’irrogazione della pena capitale (legittima in presenza di un animus occidendi, ma da sostituire con l’esilio nell’ipotesi d’involontarietà del fatto)597. Lo studio di quel medesimo costume, unitamente alla valorizzazione dell’elemento soggettivo, suggerisce a Budé ulteriori, significative considerazioni. Indagando gli antichi riti di purificazione dall’omicidio, l’umanista francese individua in essi le origini di quella consuetudine (propria della Francia a lui contemporanea) che riconosce ai rei di un omicidio involontario la facoltà di ottenere il perdono da parte del sovrano. La Cancelleria regia, come si ricorderà, è definita da Budé un’aequitatis officina, dispensatrice di ‘umanità’ qualora il caso concreto giustifichi una mitigazione della pena (se non proprio l’assoluzione da quella)598. A sua volta, in area tedesca, e in linea con Alciato e con la tradizione di ius commune, Zasius ribadisce con costanza quel corollario di tutele da riconoscere agli esuli, banniti o excommunicati che siano, ormai ben noto: il diritto di difesa in giudizio, che è di ius naturale (e per questo inviolabile), i limiti spaziali del bando e quelli della competenza giurisdizionale sul bando e sui banditi599. Tuttavia, lo stesso Zasius attribuisce al bando dall’Impero quella gravità giustificante l’impune offesa
594
Vd. supra, nota 580 e par. VII.2. Si ricordi quanto sintetizzato supra, nota 588. Sul noto tema della rinnovata affermazione (ed esaltazione) dell’uomo e dei suoi valori nel Rinascimento (cui qui si allude), si rinvia, fra gli altri, ai già citati GARIN 2017, pp. 1-12; ID. 2018, soprattutto pp. 127-141; ID. 2019, soprattutto pp. 94-132. 596 Vd. supra, nota 585 e cap. VI. 597 Vd. supra, nota 585 e par. V.1. 598 Il riferimento alla centralità della figura del sovrano è riconducibile al processo di assolutizzazione del potere proprio della Francia cinquecentesca, e si lega all’attenzione che lo stesso Alciato volge alla restitutio dell’esule attuata dal princeps (vd. e cfr. nuovamente supra, nota 587 e par. VII.3, e ivi, nota 488, per Budé, e par. III.4, per Alciato). 599 Vd. supra, note 582 e 583, e parr. VIII.2 e VIII.3. 595
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del bannitus. Hostis publicus e dunque ribelle, il bannitus dall’Impero costituisce una minaccia per il potere sovrano, che proprio nel bando tende sempre più a trovare il suo strumento di tutela e di difesa600. Ne deriva anche la legittimità dell’impune uccisione del bannitus se e quando giustificata da ragioni di utilitas publica601, peraltro riconosciuta dallo stesso Alciato, che in linea con la tradizione condivide il riconoscimento della restitutio al bannitus che abbia ucciso un altro bannitus, così recando un vantaggio all’intera collettività602. Ciononostante, si tratta pur sempre di eccezioni (similmente a quelle testimoniate dalle fonti classiche per le ipotesi di applicazione della pena capitale), in assenza delle quali la linea di mitigazione pro bannito torna ad assumere il consueto rilievo. Tutto ciò trova nelle riflessioni alciatee la sua espressione più completa, tanto nello stile espositivo (sintesi equilibrata dello stile tradizionale-scolastico e di quello storico-filologico) quanto nella frequenza delle digressioni sugli esuli disseminate nella sua opera. Inoltre, il suddetto corollario di tutele tradizionalmente riconosciute agli esuli603 si arricchisce del valore attribuito all’aequitas e allo ius naturale nella comprensione, interpretazione e applicazione delle norme, ancora una volta in linea con una tradizione consolidata604. L’illegittimità dell’uccisione del bandito catturato, il suggerimento di non attribuire una connotazione necessariamente negativa alla contumacia, la facoltà riconosciuta al figlio di non uccidere il padre, nemico pubblico, rifuggendo così il rigor iuris, e la facoltà riconosciuta alla moglie di seguire il marito in esilio sua sponte sono alcuni degli esempi più significativi di quell’humanitas che per natura anima (o dovrebbe animare) i rapporti fra gli uomini, come Alciato stesso sottolinea in più di un’occasione605. Così, l’humanitas sottesa a una valutazione (e interpretazione) equitativa del diritto606 risalta nella sua qualità di tratto caratterizzante della prima dottrina umanistica sull’esilio. Una dottrina che alle soglie della prima età moderna, fatti propri gli indirizzi più consolidati della lunga tradizione precedente, li valorizza attraverso idee, metodi e strumenti nuovi, ponendo le basi per quegli sviluppi futuri che condurranno lentamente al riconoscimento (ancora lontano, ma progressivo) del valore e dei diritti della persona umana607.
600 Parallelamente al formarsi dell’assolutismo regio nel secolo XVI, come più volte ricordato (vd. supra, parr. VIII.3 e VIII.4, e cfr. CAVALCA 1978, pp. 254-257). 601 Vd. supra, nota 582 e par. VIII.4. 602 Vd. supra, par. III.2. 603 Vd. supra, nota 582 e capp. III e IV. 604 Sul punto si rinvia nuovamente a supra, nota 203 (con le relative indicazioni bibliografiche). 605 Vd. supra, par. III.2, e ivi, a titolo esemplificativo, note 196 e 209. 606 Vd. e cfr. PIANO MORTARI 1997, p. 147. 607 Vd. e cfr. GHISALBERTI 1960, p. 75, e CAVALCA 1978, pp. 254-264.
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BIBLIOGRAFIA * ABBREVIAZIONI AGFS DBGI DBI DHJF DLL ED HRG NNDI RIDC
Archivio Giuridico “Filippo Serafini” Dizionario Biografico dei Giuristi Italiani (XII-XX secolo) Dizionario Biografico degli Italiani Dictionnaire historique des juristes français (XIIe- XXe siècle) Deutsches Literatur-Lexikon. Biographisch-Bibliographisches Handbuch Enciclopedia del Diritto Handwörterbuch zur deutschen Rechtsgeschichte Novissimo Digesto Italiano Rivista Internazionale di Diritto Comune
EDIZIONI DELLE FONTI DI ETÀ ANTICA E TARDO-ANTICA Biblia Sacra 1926-1995 CICERO 1909 CICERO 1996 DEMOSTHENES 2000a
DEMOSTHENES 2000b
Biblia Sacra iuxta latinam Vulgatam versionem, I-XVIII, Romae 1926-1995. M. TULLIUS CICERO, Orationes, recognovit et instruxit A. C. Clark, IV, Pro A. Caecina, Oxonii 1909. M. TULLIUS CICERO, Lettere dall’esilio dalle Epistulae ad Atticum, ad Familiares, ad Quintum fratrem, a cura di R. Degl’Innocenti Pierini, Firenze 1996. DEMOSTHENES, Discorsi e lettere di Demostene, a cura di L. Canfora, M. L. Amerio, I. Labriola, A. Natalicchio, M. R. Pierro, P. M. Pinto, G. Russo, II.2, Discorsi in Tribunale, Torino 2000. DEMOSTHENES, ΚΑΤ’ ΑΡΙΣΤΟΚΡΑΤΟΥΣ. Contro Aristocrate, a cura di M. R. Pierro, in DEMOSTHENES 2000a, pp. 199-321.
* I titoli delle opere sono indicati sempre e senza eccezioni in corsivo, comprese eventuali parole o citazioni in lingua latina e/o greca. In relazione alle opere non riconducibili a un autore/curatore preciso (o a un gruppo di autori/curatori), il criterio di citazione abbreviata ‘cognome dell’autore – anno di pubblicazione’ è stato sostituito dal criterio ‘prima parola del titolo dell’opera – anno di pubblicazione’.
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– 204 – HERODOTUS 1573 HOMERUS 1998 HOMERUS 2000 IUVENALIS 1997 LACTANTIUS 1997 Novum Testamentum 1950 PROCOPIUS 1962-1964 SUETONIUS 1907 TACITUS 1896 TACITUS 1907 TACITUS 1963 TACITUS 1968 TACITUS 2003
H ERODOTUS H ALICARNASSEUS , Historiae libri IX, Interprete Laurentio Valla, Ex Officina Henricpetrina, Basileae 1573. HOMERUS, Ilias, recensuit M. L. West, I, Stutgardiae – Lipsiae 1998. HOMERUS, Ilias, recensuit M. L. West, II, Monachii – Lipsiae 2000. D. IUNIUS IUVENALIS, Saturae sedecim, edidit I. Willis, Stutgardiae et Lipsiae 1997. LACTANTIUS PLACIDUS, In Statii Thebaida Commentum, recensuit R. D. Sweeney, I, Stutgardiae et Lipsiae 1997. Novum Testamentum Graece et Latine, recensuit H. J. Vogels, II, Epistulae et Apocalypsis, Friburgi Brisgoviae 1950. PROCOPIUS CAESARIENSIS, Opera omnia, recognovit J. Havry, I-IV, Lipsiae 1962-1964. C. SUETONIUS TRANQUILLUS, Opera, ex recensione M. Ihm, I, De vita Caesarum, Lipsiae 1907. P. CORNELIUS TACITUS, Annalium ab excessu Divi Augusti libri / The Annals of Tacitus, éd. par H. Furneaux, I, Oxford 1896 [in rist. anast. Oxford 1965]. P. CORNELIUS TACITUS, Annalium ab excessu Divi Augusti libri / The Annals of Tacitus, éd. par H. Furneaux, II, Oxford 1907 [in rist. anast. Oxford 1965]. P. CORNELIUS TACITUS, Annalen, hrsg. von E. Koestermann, I, Heidelberg 1963. P. CORNELIUS TACITUS, Annalen, hrsg. von E. Koestermann, IV, Heidelberg 1968. P. CORNELIUS TACITUS, Opera omnia, a cura di R. Oniga, III, Torino 2003.
EDIZIONI DELLE FONTI DI ETÀ MEDIEVALE E UMANISTICA ALBERICUS 1581 ALBERICUS 1585a ALBERICUS 1585b ALBERICUS 1606 ALCIATUS 1557-1558
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– 205 – ALCIATUS 1582 ALCIATUS 2009 ANDREAE 1581 ANTONIUS 1575 ARCHIDIACONUS 1577 BALBUS 1460-1470
BALDUS 1556a BALDUS 1556b BALDUS 1556c BALDUS 1556d BALDUS 1572a BALDUS 1572b BALDUS 1578 BALDUS 1580 BALDUS 1585 BARBARUS 1973-1979 BARTHOLOMAEUS 1560 BARTOLUS 1562 BARTOLUS 1588 BUDAEUS 1557
ANDREAS ALCIATUS, Opera omnia, I-IV, Apud Thomam Guarinum, Basileae 1582. ANDREAS ALCIATUS, Il libro degli emblemi. Secondo le edizioni del 1531 e del 1534, a cura di M. Gabriele, Milano 2009. IOANNES ANDREAE, In Sextum Decretalium librum novella Commentaria, Apud Franciscum Franciscium Senensem, Venetiis 1581. ANTONIUS A BUTRIO, In sextum Decretalium volumen Commentaria, Apud Franciscum Zilettum, Venetiis 1575 [in rist. anast. Torino 1967]. GUIDO DE BAYSIO (ARCHIDIACONUS), Rosarium seu in Decretorum volumen Commentaria, Apud Iuntas, Venetiis 1577. IOHANNES BALBUS IANUENSIS, Catholicon, Ms. Barth. 24, Rhein-Main-Gebiet 1460-1470 [consultabile su http://sammlungen.ub.uni-frankfurt.de/msma/content/titleinfo/35009 03 – link aggiornato al 15.10.2021]. BALDUS DE UBALDIS, In primum [secundum et tertium] Codicis librum Praelectiones, s.n., Lugduni 1556. BALDUS DE UBALDIS, In quartum et quintum Codicis librum Praelectiones, s.n., Lugduni 1556. BALDUS DE UBALDIS, In sextum Codicis librum Praelectiones, s.n., Lugduni 1556. BALDUS DE UBALDIS, In septimum [octavum et nonum] Codicis librum Praelectiones, s.n., Lugduni 1556. BALDUS DE UBALDIS, In primam Digesti veteris partem, Apud Iuntas, Venetiis 1572. BALDUS DE UBALDIS, In primam et secundam Infortiati partem, Apud Iuntas, Venetiis 1572. BALDUS DE UBALDIS, In Usus Feudorum Commentaria, Apud Haeredes Nicolai Bevilaquae, Augustae Taurinorum 1578. BALDUS DE UBALDIS, Consiliorum sive Responsorum…, V, Apud Dominicum Nicolinum et Socios, Venetiis 1580. BALDUS DE UBALDIS, Ad tres priores libros Decretalium Commentaria, s.n., Lugduni 1585 [in rist. anast. Aalen 1970]. HERMOLAUS BARBARUS, Castigationes Plinianae et in Pomponium Melam, edidit G. Pozzi, III, In Plinium Glossemata, Patavii 1973-1979. BARTHOLOMAEUS DE SALICETO, Ad quintum, sextum, septimum, octavum et nonum librum Codicis Commentarii, s.n., Lugduni 1560. BARTOLUS A SAXOFERRATO, Opera omnia, I-V, Froben, Basileae 1562 [in rist. anast. Frankfurt am Main 2007]. BARTOLUS A SAXOFERRATO, Consilia, Quaestiones et Tractatus, Ex Officina Episcopiana, Basileae 1588. GULIELMUS BUDAEUS, Opera omnia, I-IV, Apud Nicolaum Episcopium Iuniorem, Basileae 1557.
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– 206 – IOHANNES CALVINUS, Lexicon iuridicum, Typis Wechelianis, Impensis Danielis et Davidis Aubriorum, et Clementis Schleichii, Hanoviae 1619. Consuetudines Feudorum 1892 Consuetudines Feudorum, edidit C. Lehmann, I, Compilatio Antiqua, Gottingae 1892. PETRUS PHILIPPUS CORNEUS, Consilia sive Responsa, I-IV, Ad CORNEUS 1582 signum Aquilae se renovantis, Venetiis 1582. Corpus iuris civilis 1627 Corpus iuris civilis Iustinianei, I-VI, [Apud Hugonem a Porta], Lugduni 1627. FRANCISCUS DE ACCOLTIS, Super prima et secunda Infortiati, DE ACCOLTIS 1538 Vincentius de Portonariis, Lugduni 1538. FRANCISCUS DE ACCOLTIS, Consilia Domini Francisci de Aretio, DE ACCOLTIS 1546 Iacobus Giunta, Lugduni 1546. IACOBUS DE ALVAROTTIS, Lectura in Usus, Sigismundus FeyraDE ALVAROTTIS 1570 bend, Francofurti ad Moenum 1570. IACOBUS DE ARENA, Commentarii in universum ius civile, s.n., DE ARENA 1541 s.l. 1541 [in rist. anast. Bologna 1971]. IACOBUS DE ARENA, Tractatus de bannitis, in Tractatus 1584, DE ARENA 1584 ff. 355rB-357rA. Decretales 1582 Decretales D. Gregorii Papae IX, suae integritati una cum glossis restitutae, In Aedibus Populi Romani, Romae 1582. ANGELUS DE GAMBILIONIBUS, De maleficiis, Apud Dominicum DE GAMBILIONIBUS 1558 Lilium, Venetiis 1558. ANGELUS DE GAMBILIONIBUS, In quattuor Institutionum Iustiniani DE GAMBILIONIBUS 1585 libros Commentaria, Apud Andream Muschium, Venetiis 1585. HIPPOLYTUS DE MARSILIIS, Tractatus bannitorum, Vincentius DE MARSILIIS 1574 de Portonariis, Apud Societatem Typographiae Bononiensis, Bononiae 1574. ANGELUS DE UBALDIS, Lectura super secunda Digesti novi DE UBALDIS 1534 [parte], Vincentius de Portonariis, Lugduni 1534. ANGELUS DE UBALDIS, In Codicem Commentaria, Ad signum DE UBALDIS 1579 Aquilae se renovantis, Venetiis 1579. ANGELUS DE UBALDIS, In primam atque secundam Infortiati DE UBALDIS 1580 partem Commentaria, Ad signum Aquilae se renovantis, Venetiis 1580. DOMINICUS A SANCTO GEMINIANO, In sextum Decretalium voDOMINICUS 1578 lumen commentaria, Apud Iuntas, Venetiis 1578. CHARLES DU FRESNE, SIEUR DU CANGE, et al., Glossarium meDU CANGE 1883 diae et infimae latinitatis, edidit L. Favre, I, Niort 1883. GULIELMUS DURANDUS, Speculum iudiciale, I-II, Apud AmDURANDUS 1574 brosium et Aurelium Frobenios Fratres, Basileae 1574 [in rist. anast. Aalen 1975]. EUSTATHIUS ARCHIEPISCOPUS THESSALONICENSIS, CommentaEUSTATHIUS 1825 rii ad Homeri Odysseam, I, Lipsiae 1825. EUSTATHIUS ARCHIEPISCOPUS THESSALONICENSIS, CommenEUSTATHIUS 1826 tarii ad Homeri Odysseam, II, Lipsiae 1826. CALVINUS 1619
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– 207 – FABER 1557 GANDINUS 1926 GENTILIS 1601 GENTILIS 2008 HUGUTIO 2004 IOANNES 1517 IOANNES 1518 IOANNES 1525 Liber Sextus… 1582 MARTINUS 1711 MAYNUS 1544 MAYNUS 1579 NELLUS 1550 OSBERNUS 1996 PANORMITANUS 1588 PAPIAS 1977 PONTANUS 1547 RIPAE 1569 SANDEUS 1567 Suida 1931
IOANNES FABER, In Institutiones Commentarii, s.n., Lugduni 1557 [in rist. anast. Frankfurt am Main 1969]. ALBERTUS GANDINUS, Tractatus de maleficiis, in KANTOROWICZ 1926, pp. 1-425. ALBERICUS GENTILIS, De nuptiis, Apud Guilielmum Antonium, Hanoviae 1601. ALBERICUS GENTILIS, Il diritto di guerra (De iure belli libri III, 1598), edizione e traduzione a cura di D. Quaglioni, P. Nencini, G. Marchetto, C. Zendri, Milano 2008. HUGUTIO PISANUS, Derivationes, a cura di E. Cecchini, G. Arbizzoni, S. Lanciotti, G. Nonni, M. G. Sassi, A. Tontini, I-II, SISMEL, Firenze 2004. IOANNES DE IMOLA, Lectura super prima parte Digesti novi, Vincentius de Portonariis, Lugduni 1517. IOANNES DE IMOLA, Lectura super secunda parte Digesti novi, Vincentius de Portonariis, Lugduni 1518. IOANNES DE IMOLA, Super Clementinis, Vincentius de Portonariis, Ludguni 1525. Liber Sextus, Constitutiones Clementinae, Exravagantes Iohannis XXII, Extravagantes Communes, In Aedibus Populi Romani, Romae 1582. MATTHIAS MARTINUS, Lexicon philologicum, I-II, Apud Gulielmum Broedelet, Traiecti Batavorum 1711. IASON MAYNUS, Consilia, Apud Hugonem et haeredes Aemonis a Porta, Lugduni 1544. IASON MAYNUS, In secundam Digesti novi partem Commentaria, s.n., Venetiis 1579. NELLUS A SANCTO GEMINIANO, Tractatus de bannitis, Apud Haeredes Iacobi Giuntae, Lugduni 1550, ff. 2rA-173vB. OSBERNUS, Derivazioni, a cura di P. Busdraghi, M. Chiabò, A. Dessì Fulgheri, P. Gatti, R. Mazzacane, L. Roberti, I-II, CISAM, Spoleto – Firenze 1996. NICOLAUS DE TUDESCHIS (ABBAS PANORMITANUS), Opera omnia, I-VI, Apud Iuntas, Venetiis 1588 [in rist. anast. Frankfurt am Main 2008]. PAPIAS, Elementarium. Littera A, recensuit V. de Angelis, I, Milano 1977. LUDOVICUS PONTANUS (ROMANUS), Lectura super secunda parte Codicis, Apud Hugonem et haeredes Aemonis a Porta, Lugduni 1547. IOANNES FRANCISCUS RIPAE A SANCTO NAZARIO, Responsa in quinque libros Decretalium, Apud Iuntas, Venetiis 1569. FELINUS SANDEUS, Commentaria in quintum librum Decretalium, Pars prima, Ex Officina Frobeniana, Basileae 1567. Suidae Lexicon, edidit A. Adler, II, Stutgardiae 1931 [in rist. anast. Stuttgart 1967].
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– 208 – Suida 1933 Suida 1935 TARTAGNUS 1549 TARTAGNUS 1552 TARTAGNUS 1567 TARTAGNUS 1576 Tractatus 1584 Tractatus 1606 Volumen 1558 ZASIUS 1550
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ROWAN 1977
ROWAN 1979 ROWAN 1987 RÜGER 2011 SABBADINI 1967a
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SANCHI 2006 SANCHI 2010 SANCHI 2014 SANCHI 2015
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SECCHI TARUGI 2020
SEGOLONI 1962 SELLA 1932
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TROJE 1993 VACANTI 2018 VACCARI 1962 VALLERANI 2013
VAN DEN BERGH 1974 VENTURINI 1996 VIARD 1926 VOCI 1973 VOLTERRA 1969 VOLTERRA 1991 VOLTERRA 2017 WASHBURN 2013
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ZENDRI 2000 ZENDRI 2002a ZENDRI 2002b
ZENDRI 2005 ZENDRI 2006 ZENDRI 2007 ZENDRI 2008 ZENDRI 2009
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– 235 – ZENDRI 2011a ZENDRI 2011b ZENDRI 2014 ZENDRI 2015
ZENDRI 2016a ZENDRI 2016b ZENDRI 2019
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INDEX LOCORUM *
FONTI DI ETÀ ANTICA E TARDO-ANTICA
AESCHINES De falsa legatione 71
168507
AMMONIUS (GRAMMATICUS) De adfinium vocabulorum differentia 494, 1-2
149461
ANDOCIDES De mysteriis 96
159486
ANTIPHO De saltatore 3-4
157; 157480
ARISTOPHANES Plutus 454-455
148; 149461
ARISTOTELES De partibus animalium 4, 690b, 30
168507
Politica 5, 1304b, 30 5, 1308b, 15
168; 168507 168; 168506
* I numeri in tondo indicano le pagine, quelli in apice le note.
04_Index locorum_1_COL.qxp_Layout 1 09/12/21 12:26 Pagina 238
– 238 – BIBLIA SACRA Novum Testamentum Epistulae ad Corinthios I, 4, 13 Epistula ad Romanos 13, 1-2
149 105350
Vetus Testamentum Genesis 9, 6
162; 162492
Iosua 20, 3-6
165; 165497
Lamentationes 5, 4
146; 146455
Leviticus 16, 8-10 16, 26 20, 2 20, 9
149; 149461 149; 149461 180; 180539 180; 180539
CAESAR Commentarii belli Gallici 6, 13, 6-7
146; 146456
CASSIUS DIO Historiae Romanae 53, 18 53, 28
128409 128409
CATULLUS Carmina 56, 5
76245
CICERO Opera philosophica De re publica 1, 39 1, 49 2, 54
3784 3784 123396
Orationes De domo sua 77
144; 144448
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– 239 – 77-78 78
124398; 131; 131419; 133423 141443; 142; 143444; 145; 145453
In Catilinam 4, 16
190567
In P. Vatinium 22
143; 143446
Philippicae 2, 54 5, 14
151465 142; 143444
Pro A. Caecina 100
124398; 142-143; 143444; 154; 154473
Pro C. Rabirio perduellionis reo 12
124398; 131; 131419; 132421; 181
Pro T. Annio Milone 62
143; 143447
CODEX THEODOSIANUS 3, 16, 2
135
CORPUS IURIS CIVILIS Codex Iustiniani C. 1, 3, 51 (52) C. 1, 33, 5 C. 2, 3, 29 pr. C. 2, 11 (12), 14 C. 3, 15, 1 C. 3, 15, 2 (= N. 69, 1) C. 3, 27 C. 3, 36, 2 C. 5, 16, 24 C. 5, 34, 8 C. 6, 3, 6 C. 6, 24, 1 C. 6, 24, 7 C. 6, 31, 1 C. 7, 6, 1 C. 7, 37, 3 pr. C. 7, 62, 29 C. 9, 8, 3
190566 98 74; 88 127 182 182 180 98 71 81 109 102; 133 133 88 133 78; 80 183 179537
04_Index locorum_1_COL.qxp_Layout 1 09/12/21 12:26 Pagina 240
– 240 – C. 9, 12, 2 C. 9, 16, 1 C. 9, 41, 8 C. 9, 51, 1 C. 10, 1, 4 C. 10, 5, 1-2 C. 10, 7, 1 C. 10, 38, 1 C. 10, 40 C. 10, 71 (49), 2
78 113 103; 190566 80 168 78 74 190566 4099 190566
Digesta D. 1, 1, 9 D. 1, 3, 1 D. 1, 3, 31 D. 1, 16, 6, 3 D. 1, 18, 6, 8 D. 2, 1, 12 D. 2, 4, 10, 5-6 D. 2, 4, 10, 6 D. 2, 14, 5 D. 2, 14, 34 D. 3, 2, 1 D. 3, 5, 3, 6 D. 4, 4, 20 D. 4, 4, 24, 2 D. 4, 5, 5 D. 4, 5, 5, 1 D. 4, 5, 7, 3 D. 4, 8, 27, 6 D. 5, 1, 32 D. 5, 2, 17 D. 5, 3, 25, 17 D. 11, 4, 2 D. 11, 7, 35 D. 17, 1, 22, 5 D. 17, 2, 65, 9-10 D. 17, 2, 65, 12 D. 18, 7, 5 D. 21, 2, 21, 2 D. 24, 1, 13 D. 24, 1, 32 pr. D. 26, 1, 15 D. 27, 1, 6, 6 D. 27, 1, 8, 9 D. 27, 1, 44, 3
33 133; 135 128409 98 180 106 133 190566 191 179 101 101 98 80 180; 190566; 192 134; 191 173 98 177 102 78 127 193 133 186 186 98 99; 102 71 71; 72227 132 190566; 192 103 103
04_Index locorum_1_COL.qxp_Layout 1 09/12/21 12:26 Pagina 241
– 241 – D. 28, 1, 8, 1 D. 28, 1, 10 D. 28, 1, 26 D. 28, 3, 6, 5 D. 31, 75 pr. D. 33, 10, 7, 2 D. 34, 5, 13, 3 D. 35, 1, 59 D. 35, 1, 59, 1 D. 36, 1, 18 (17), 4 D. 39, 1, 5, 16 D. 39, 5, 15 D. 40, 2, 9 D. 42, 5, 12 D. 42, 8, 19 D. 45, 1, 1 D. 45, 1, 2, 2 D. 45, 1, 34 D. 45, 1, 121, 2 D. 47, 10, 1 D. 47, 10, 18, 5 D. 47, 12, 11 D. 48, 1, 2 D. 48, 2, 6 D. 48, 4, 3 D. 48, 8, 1-17 D. 48, 8, 3, 6 D. 48, 10, 33 D. 48, 13, 3 D. 48, 16 D. 48, 17, 2-3 D. 48, 18, 1, 27 D. 48, 19 D. 48, 19, 2 D. 48, 19, 2, 1 D. 48, 19, 4 D. 48, 19, 16, 8 D. 48, 19, 17, 1 D. 48, 19, 28, 13 D. 48, 19, 38, 5 D. 48, 22, 4 D. 48, 22, 5 D. 48, 22, 6 D. 48, 22, 7, 5
87 127 126 186 95; 97 98 88 77; 86 135 71 176 74 126 185 74 97 98 192 71; 186 109 109 135 88; 108; 125; 180 181 179537 113 180 124398 133 93310 103 81 112; 181 125 88; 144 181 112-113; 114374; 115-116; 116378; 119; 153; 155-156; 158; 162; 164-165; 197586 133 151465 113 133; 181 153 135 116379
04_Index locorum_1_COL.qxp_Layout 1 09/12/21 12:26 Pagina 242
– 242 – D. 49, 14, 2, 1 D. 49, 14, 29 D. 49, 14, 32 D. 49, 14, 48, 1 D. 49, 15, 7, 2 D. 49, 15, 19, 4 D. 49, 15, 19, 7 D. 50, 1 D. 50, 1, 33 D. 50, 2, 2 D. 50, 16, 103 D. 50, 17, 35
102 102 134427; 151 71; 74 104 191 189; 191; 193 40; 4099 192 79-80 125; 125400; 127 177
Institutiones Iustiniani I. 1, 2, 11 I. 1, 12, 3 I. 1, 16, 2 I. 2, 1, 1 I. 2, 5, 6
89 133 88 89 98; 98326
Novellae Nov. 22, 13
88
CURTIUS RUFUS Historiae Alexandri Magni 8, 5, 8 10, 2, 7
150; 150462 150; 150462
DEMOSTHENES Orationes Adversus Leptinem 158
145-146; 146455
Contra Apaturium 9, 3
155; 155474
Contra Timotheum 68, 2
155; 155474
De falsa legatione 198, 5
148; 149461
In Aristocratem 31 37 69, 7
166; 166503 157; 157480 154; 155474
04_Index locorum_1_COL.qxp_Layout 1 09/12/21 12:26 Pagina 243
– 243 – 76 82
162492 163; 163493
In Midiam 114, 4 115, 2-4 185, 5 198, 7
161-162; 162491 161-162; 162491 148; 149461 148; 149461
DIONYSIUS HALICARNASSENSIS De Lysia 1
167; 169505
EPICTETUS Dissertationes ab Arriano digestae 1, 19, 24, 2
146456
EURIPIDES Orestes 512-515
157-158; 158481
EUSEBIUS CAESARIENSIS Praeparatio evangelica 4, 16, 2
162492
FESTUS De verborum significatu (ed. Lindsay, 1913) s.v. Aqua, p. 2 s.v. Aqua et igni, p. 3 s.v. Pro scapulis, pp. 266 et 268 s.v. Sacer mons, p. 424, 5-13 s.v. Sacratae leges, p. 422, 25-28 s.v. Sacrosanctum, p. 422, 17-20
144; 145452 144; 145452 123396 147-148; 148460 147-148; 148460 148; 148460
GREGORIUS NAZIANZENUS Funebris oratio in laudem Basilii Magni Caesareae in Cappadocia episcopi 60, 1
167; 167504
HARPOCRATION (GRAMMATICUS) Lexicon in decem oratores s.v. Ἀνδροληψία
163; 163493
HERODIANUS Ab excessu divi Marci 4, 2, 4
168507
04_Index locorum_1_COL.qxp_Layout 1 09/12/21 12:26 Pagina 244
– 244 – HERODOTUS Historiae 1, 35, 1-4 1, 44, 2 7, 231 7, 197, 16-18
157; 158481 158; 158483 146; 146455 148-149; 149461
HESYCHIUS (LEXICOGRAPHUS) Lexicon s.v. Φαρμακοί, 181, 1
149; 149461
HISTORIA AUGUSTA M. Aurelius Antoninus 26, 11-12
153; 153472
HOMERUS Ilias 2, 661-665 23, 83-88 23, 85-88 24, 480-482 24, 480-484
115; 115377; 119; 119385 164 112; 112370; 116; 119384; 156; 164-165; 196581 117; 117383 155; 155475; 156; 164
HORATIUS Saturae 1, 9, 2 2, 3, 181
190567 147; 147459
ISIDORUS HISPALENSIS Origines 15, 2, 1 9, 4, 2 9, 4, 5-6
37; 3785 3785 3785
ISOCRATES De bigis 47
167; 168505
Panegyricus 105
167; 168505
IUVENALIS Saturae 11, 46-51
142; 143444
04_Index locorum_1_COL.qxp_Layout 1 09/12/21 12:26 Pagina 245
– 245 – 11, 49 11, 49-51
142; 143444 154; 155474
LACTANTIUS, FIRMIANUS Divinae institutiones 2, 9, 21-25
144-145; 145452
LACTANTIUS PLACIDUS In Statii Thebaida Commentum Theb. 1, 401-403 Theb. 1, 451-454
115; 116378 115; 116378
LIVIUS Ab urbe condita 1, 26, 6 1, 26, 12 2, 8 3, 58, 9 7, 4 9, 19, 15 10, 9, 4 26, 3
128409 159; 159486 148; 148460 154; 155474 146 161490 123396; 124396 143; 143446
LUCIANUS Timon 21
168; 168505
LYCURGUS Oratio in Leocratem 16
168507
LYSIAS In Agoratum 82
157; 157480
MACROBIUS Saturnalia 3, 7, 5-6
147; 147459
OVIDIUS Metamorphoses 11, 266-270
115; 116378
Tristia 2, 131-132 2, 137-138
132; 132420 133; 134425
04_Index locorum_1_COL.qxp_Layout 1 09/12/21 12:26 Pagina 246
– 246 – PAUSANIAS (PERIEGETA) Graeciae descriptio 1, 28, 3 1, 32, 6 2, 19, 8 4, 12, 5 5, 3, 7 6, 11, 6
167; 168505 167; 168505 168507 167; 168505 157; 158481 162; 162492
PLATO Leges 9, 866, b 7-c 2 9, 866, c 2 9, 868, c 8 9, 868, a 6-7 9, 868, a 7-b 3 9, 868, d 6-e 3 9, 877, c 2-3
155-156; 156476; 166-167; 167504 155-156; 156476 155-156; 156476 159; 159486 159; 159486 155-156; 156476 166-167; 167504
PLAUTUS Bacchides 783-784
147; 147459
PLINIUS MAIOR Naturalis historia 1, 22, 3
164494
PLINIUS MINOR Epistulae 4, 11, 3 4, 11, 15
134; 134427; 151; 152466 134; 134427
PLUTARCUS Vitae Phocion 20 30, 2 36, 4 38, 2-4
116378 116378 116378 116378
Solon 14, 8
116378
POLYBIUS Historiae 6, 14, 6-8
124398
04_Index locorum_1_COL.qxp_Layout 1 09/12/21 12:26 Pagina 247
– 247 – POLLUX (GRAMMATICUS) Onomasticon 8 8, 50, 5-6 8, 51, 1 8, 148
157; 157480 163; 163493 163; 163493 164494
PORPHYRIUS De abstinentia 2, 31
164494
PSEUDO-DIONYSIUS AREOPAGITA Epistulae 10, 1, 18-19
151; 151465
SALLUSTIUS De coniuratione Catilinae 51 51, 20 51, 21-24 52 52, 36 55 55, 3-6
132421 128; 128409 128409 132421 128409 132421 128409
SERVIUS Commentarius in Aeneidem 3, 57
147; 147459
SOPHOCLES Ajax 654-656
165; 165497
STATIUS Thebais 1, 401-403; 451-454
115; 116378
STRABO Geographica 10, 4, 15-16
149; 149461
SUETONIUS De vita Caesarum Caligula 10, 2
93; 93311
04_Index locorum_1_COL.qxp_Layout 1 09/12/21 12:26 Pagina 248
– 248 – Divus Claudius 15, 2
151-152; 152466
Divus Vespasianus 3
134; 134427; 154473
SYNESIUS Epistulae 5
167; 167504
TACITUS Annales 3, 24, 3-4 3, 24, 4 14, 48, 2-4
131-132; 132420 136433 130-131; 131417; 132; 132421
THUCYDIDES Historiae 1, 12, 1
167-168; 168505
VALERIUS MAXIMUS Facta et dicta memorabilia 1, 7, Ext. 4
158; 158482; 159; 159485
VERGILIUS Aeneis 3, 57
147; 147459
Eclogae 1, 66
116379
XENOPHON Hellenica 1, 1, 27
166; 166503
04_Index locorum_1_COL.qxp_Layout 1 09/12/21 12:26 Pagina 249
– 249 – FONTI DI ETÀ MEDIEVALE E UMANISTICA
*
ALBERICUS A ROSATE Commentaria in Digestum novum D. 42, 8, 7
78; 79258
Commentaria in Digestus vetus D. 3, 1, 9
100; 100334
Dictionarium iuris s.v. Bannum
193; 118383
Quaestiones statutorum IV, q. I
193
ALCIATUS, ANDREAS Ad lectorem epistola f. 1 f. 2
48135 48; 48136
Commentaria in Codicem C. 2, 2, 1 C. 2, 3 C. 2, 4, 18
108; 109363-364 67206 93; 93310-311
Commentaria in Decretales X. 1, 31, 1 X. 1, 31, 10 X. 2, 1, 7 X. 2, 1, 10 X. 2, 24, 28
104; 104347-348; 105352; 106353-354 90; 90296 103; 103345 107; 107355-357; 108359-360 105350
Commentaria in Digestum novum D. 45, 1, 1 D. 45, 1, 44 D. 45, 1, 121, 2 D. 45, 1, 123 D. 50, 16, 21
90299; 95; 95320; 96321-322; 97323-324; 98325-327; 99328 91; 91301-303; 92304 71; 71227; 72227-229; 73230-231; 186; 186558 65; 65199-201; 66204; 67207 84; 85280
* Le citazioni di opere prive di un’edizione critica contemporanea fanno riferimento alle edizioni antiche a stampa indicate in Bibliografia, pp. 204-208.
04_Index locorum_1_COL.qxp_Layout 1 09/12/21 12:26 Pagina 250
– 250 –
D. 50, 16, 161 D. 50, 16, 195 D. 50, 16, 239 pr. D. 50, 16, 239, 1
69; 69216 91301; 92; 92306-307 125; 125 400; 125403; 126404-406; 127408; 128409; 129412 69; 69214 68; 69212 76; 76245-246 63; 64195-197
Commentaria in Digestum vetus D. 2, 1, 3 D. 16, 3, 31
125; 125402 67; 68209-210
D. 50, 16, 24 D. 50, 16, 68 D. 50, 16, 103
Commentaria in Infortiatum D. 28, 2, 7 D. 28, 2, 29, 5
D. 37, 4, 1, 8 De praesumptionibus tractatus Reg. II, Praes. XXX Reg. III, Praes. XI Reg. III, Praes. XXII
73; 74234 70; 70221; 71222-224; 74; 74235-236; 77; 77250-252; 77254; 78255; 78257; 79258-261; 80262-266; 81267-269; 82270-272; 87; 88290; 88292; 89293-294 74; 74238; 75240-243; 85; 85283; 86284 83276 83; 83276; 84277-278 99; 100332-334; 101335-336; 102337-339; 103340; 121392
De singulari certamine Cap. XXIII
120; 120390-391; 121392
Dispunctiones I, Cap. XVII
111; 112368-370; 114374
Parerga I, Cap. XV II, Cap. II IV, Cap. XXI XII, Cap. IV
131; 131419; 132420-421; 133423; 134425; 134427;135430-431; 145 117; 117383; 119384-385 130; 130415-416; 131417 116379
Praetermissa II, De poenis
115; 115377; 116378
ANDREAE, IOANNES Commentaria in sextum Decretalium VI. 2, 12, 1
178; 178535
04_Index locorum_1_COL.qxp_Layout 1 09/12/21 12:26 Pagina 251
– 251 – ANTONIUS A BUTRIO Commentaria in sextum Decretalium VI. 2, 9, 2
102; 102337
ARCHIDIACONUS (GUIDO DE BAYSIO) Commentaria in Decretum (Rosarium) Dis. 45, c. 8
108; 108360
AUTHENTICAE Auth. 1, 3, 2 (in C. = Frid. 2, 2) Auth. 1, 5, 4 (in C. = Frid. 2, 8) Auth. Qua in provincia (= C. 3, 15, 2 = N. 69, 1)
177; 192 174 182; 183547
BALDUS (DE UBALDIS) Commentaria in Codicem C. 1, 2, 1 C. 2, 1, 2 C. 2, 4, 18 C. 4, 13, 1 C. 4, 21 C. 4, 21, 21 C. 4, 50, 6 C. 6, 22, 2 pr. C. 6, 24, 1 C. 6, 37, 14 C. 8, 4, 9 C. 9, 1, 11 C. 9, 1, 20
192; 192572 102; 102338 96; 97323 102; 102338-339 175525 100; 100333 96; 96321 101; 101335 102; 103340; 177; 177533; 182; 182544; 192; 192572-573 83; 83276 101; 102337 192; 192572 192; 192572
Commentaria in Decretales X. 1, 3, 26 X. 1, 31, 1
103; 103345 106; 106354
Commentaria in Digestum vetus D. 1, 1, 3 D. 4, 5, 5
178; 179537 172; 172516
Commentaria in Infortiatum D. 28, 2, 29, 6
97; 97324
Commentaria in Usus Feudorum Lib. Feud. 1, 5, 1, § similiter Lib. Feud. 2, 28 pr.
109; 109364 178; 178535
04_Index locorum_1_COL.qxp_Layout 1 09/12/21 12:26 Pagina 252
– 252 – Consilia 408
41103
BARBARUS, HERMOLAUS (IUNIOR) Castigationes Plinianae et in Pomponium Melam Glossemata s.v. Clarigatio, p. 1374, 70 s.v. Talea, p. 1464, 7
163-164; 164494 164494
BARTHOLOMAEUS DE SALICETO Commentaria in Codicem C. 6, 22, 2 pr.
101; 101335
BARTOLUS A SAXOFERRATO Commentaria in Codicem C. 1, 1, 1 C. 3, 11, 4 C. 6, 28, 2 C. 9, 51, 13 C. 10, 61, 1 C. 11, 48 (47), 7
121; 121392 108; 108359 77251 78; 79258; 80; 80264; 81-82 79; 79260 97; 97324
Commentaria in Digestum novum D. 39, 1, 5, 16 D. 39, 5, 15 D. 41, 3, 15 D. 42, 1, 15 D. 45, 1, 34 D. 45, 1, 49 D. 45, 1, 105 D. 46, 3, 38, 4 D. 48, 1, 1 D. 48, 1, 2 D. 48, 2, 5 D. 48, 10 D. 48, 19, 17 D. 49, 14, 1, 1 D. 49, 15, 19, 4 D. 49, 15, 19, 7 D. 49, 16, 3 D. 49, 16, 3, 4 D. 49, 17, 17 D. 50, 1, 1 D. 50, 1, 15 D. 50, 2, 2
106; 107355 74; 74236 96; 96321 104; 104347 192; 192573 99; 100332; 102; 102338 109 80; 81267 101; 101336 88; 89293 3154 189; 189563 89; 89294 92; 92304 189563 189; 189563 189; 189563 189563 90299 41102; 41104 77251 79; 79260
04_Index locorum_1_COL.qxp_Layout 1 09/12/21 12:26 Pagina 253
– 253 – Commentaria in Digestum vetus D. 1, 1, 9 D. 2, 4, 10, 5 D. 2, 14, 27, 2 D. 3, 2, 22 D. 4, 5, 5 D. 4, 5, 5, 1-2 D. 5, 2, 8, 14 D. 12, 6, 26, 12 D. 13, 7, 24, 3 D. 22, 6, 9, 5 D. 28, 1, 8, 1 D. 28, 2, 29, 5
99329 173; 174520 82; 82272 100; 100334 192; 192572-573 189; 189563 99; 100332 109; 109364 187; 187560 79; 79261 89; 89294 84; 84277; 85; 85283
Commentaria in Infortiatum D. 24, 3, 47 D. 26, 4, 1, 2 D. 28, 1, 8, 1 D. 28, 2, 29, 5 D. 29, 2 D. 29, 2, 18 D. 29, 2, 94 D. 37, 7, 1, 2 D. 37, 8, 1, 16
3153 77; 77252 2634 84; 84277 90299 77251 77251 77251 77251
Commentaria in Institutiones I. 1, 12, 1
184; 184551
Consilia 157
92; 92304
Quaestiones I (Lucanae civitatis) Tractatus bannitorum 3-5 6 7 8 10 10-11 12-14 15-19 17
65200; 73231; 74; 89; 89294; 184; 184551; 188; 189563; 190; 190566; 191 22; 2219 2320 2321 2322 2631 2425 2634 2944 2427
04_Index locorum_1_COL.qxp_Layout 1 09/12/21 12:26 Pagina 254
– 254 – Tractatus exbannitorum 1 2 3 4-5
30; 3049 3050 3051 3052
BASILICORUM LIBRI 60, 51, 4
150; 151465
BUDAEUS, GULIEMUS Annotationes in Pandectas (posteriores) D. 48, 8, 2 D. 48, 19, 16, 8
D. 48, 19, 28, 13 D. 49, 14, 32
144; 144448 118383; 152; 153472; 154473; 155474-475; 156476; 157480; 158481-484; 159485-486; 160488; 161489-490; 162491-492; 163493; 164; 164494-495; 165497 144; 145452-453; 146455-456; 147457; 147459; 148460; 149461; 150462-463 150; 151465 151; 152466
Annotationes in Pandectas (priores) D. 16, 3, 7, 2
141; 143444; 143446-447; 155474
Commentarii Linguae Graecae col. 10, rr. 37-44 col. 11, rr. 6-23 col. 11, rr. 23-40 col. 278, rr. 21-51 coll. 302-303, rr. 45-54 – 1-2 col. 461, rr. 20-43
166; 166502 166; 166503 167; 167504 168; 168505 168; 168506 168; 168507
CALVINUS, IOHANNES Lexicon iuridicum s.v. Abannatio
118383
CORNEUS, PETRUS PHILIPPUS Consilia I, 42 II, 143 III, 211
101; 101335 100; 100332 102; 102338
CORPUS IURIS CANONICI Clementinae Clem. 1, 1, § Haec est
98; 98326
D. 48, 19, 2, 1
04_Index locorum_1_COL.qxp_Layout 1 09/12/21 12:26 Pagina 255
– 255 – Decretum Gratiani Pars I Dis. 1, c. 12 Dis. 63, c. 23 Dis. 86, c. 21
90299 107 89
Pars II Ca. 3, q. 4, c. 12 Ca. 11, q. 3, cc. 16-19 Ca. 11, q. 3, c. 97
107 88; 90 104
Pars III Dis. 1, c. 73, de cons.
98; 98326
Liber Extra X. 1, 2, 7 X. 1, 33, 2 X. 2, 1, 7 X. 2, 1, 13 X. 2, 2, 12 X. 2, 10, 2 X. 2, 25, 5 X. 2, 25, 12 X. 2, 28, 14 X. 2, 28, 24 X. 5, 2, 1 X. 5, 27, 2 X. 5, 39, 27 X. 5, 40, 27
81 104 173 104; 104348; 106 193 108 174-175; 178 175 178 178 107 108 176 108
Liber Sextus VI. 1, 2, 2 VI. 1, 3, 6 VI. 1, 6, 3, § Nulli VI. 2, 12, 2 VI. 5, 4, 1 VI. 5, 8 VI. 5, 11, 1
181 71 98 104 126 163; 164494 88; 89293; 107; 107356
DE ACCOLTIS, FRANCISCUS Commentaria in Infortiatum D. 28, 1, 8 D. 28, 1, 26 D. 29, 2 D. 29, 2, 25, 1
101; 101336 109; 109364 77251; 92; 92304 81; 82270
04_Index locorum_1_COL.qxp_Layout 1 09/12/21 12:26 Pagina 256
– 256 – Consilia 80 147
113; 114374 102; 102337
DE ALVAROTTIS, IACOBUS Lectura in Usus Auth. 1, 3, 2 (in C. = Frid. 2, 2)
177; 177533
DE ARENA, IACOBUS Commentaria in Infortiatum D. 28, 2, 29, 6
97; 97324
Tractatus de bannitis 1-2 3 16-19 19-21 20-21 29-32 38
2112 26; 2632 27; 2736 2737 2321 3050 2113
DE ARSENDIS, RAYNERIUS Additiones super Infortiato D. 29, 5, 2
101
DE GAMBILIONIBUS, ANGELUS Commentaria in Institutiones I. 1, 12, 1
184; 184551
DE UBALDIS, ANGELUS Commentaria in Codicem C. 6, 22, 2 pr. C. 9, 8, 3 C. 9, 49, 10
101; 101335 179537 101; 101336
Commentaria in Digestum novum D. 48, 4, 3
179537
Commentaria in Infortiatum D. 28, 2, 29
90; 90296
DOMINICUS A SANCTO GEMINIANO Commentaria in sextum Decretalium VI. 2, 12, 2
104; 104348; 106; 106354
04_Index locorum_1_COL.qxp_Layout 1 09/12/21 12:26 Pagina 257
– 257 – DU CANGE, SIEUR (CHARLES DU FRESNE) Glossarium mediae et infimae latinitatis s.v. Abannatio (P. Carpentier)
118383
DURANDUS, GULIELMUS Speculum iudiciale II, 1, De contumacia II, 1, De primo et secundo decreto IV, 2, De dolo et contumacia
106354; 175526 106354; 175526 175; 175526
EUSTATHIUS (ARCHIEPISCOPUS THESSALONICENSIS) Commentarii ad Homeri Odysseam 1384, Vers. 16, r. 1 120391 1935, Vers. 481, rr. 28-30 158; 158484 FABER, IOANNES Commentaria in Institutiones I. 1, 2, 11
89; 89294
GANDINUS, ALBERTUS Tractatus de maleficiis De bannitis pro maleficio 1 2 4-6 17 18
218 2840 2841 29; 2946; 63193 2947
De multis quaestionibus maleficiorum 25 26
31; 3157 2738-39
GENTILIS, ALBERICUS De nuptiis I, 2 I, 12
67206 67206
GLOSSA ORDINARIA IN LIBRUM EXTRA Crebra et solemnis in eos excomm., ad X. 5, 6, 6 Gl. ad X. 5, 34, 8
176; 176530 102; 102337
GLOSSA ORDINARIA IN SEXTUM Gl. ad VI. 5, 5, 2
95; 95320
04_Index locorum_1_COL.qxp_Layout 1 09/12/21 12:27 Pagina 258
– 258 – IOANNES DE IMOLA Commentaria in Digestum novum D. 41, 3, 15 D. 48, 1, 2 D. 49, 1, 28, 1
96; 96321 126; 126406 102; 102337
Commentaria super Clementinis Clem. 2, 11, 2
181-182; 182544
MAGNA GLOSSA ACCURSII Aquae et ignis, ad D. 28, 2, 29, 5 Bona veneunt, ad D. 42, 4, 13 Capitali, ad C. 1, 10, 1 Emancipatus esset, ad D. 28, 2, 29, 5 Exuli, ad D. 4, 4, 20 Gl. ad D. 21, 1, 17 Gl. ad D. 42, 4, 13 Gl. ad I. 4, 8, 7 Ignominiosus, ad D. 4, 8, 7 Infantia, ad Lib. Feud. 1, 22 pr. In insulam, ad C. 9, 51, 6 Interdictum, ad I. 1, 16, 2 Nativitas, ad D. 50, 1, 1 Nisi moriente eo, ad D. 45, 1, 121, 2 Non videtur, ad C. 9, 51, 6 Retinent, ad I. 1, 12, 2 Si pater, ad C. 9. 51, 9 Subtrahuntur, ad X. 2, 28, 53 Voluntario, ad D. 48, 19, 16, 8
87; 88290 184; 184551 126; 126404 77; 77250; 78 103; 103345 182; 182544 184; 184551 102; 102338 173; 173517 178; 178535 81; 81269 88; 88292; 89-90 40101 186; 186558 81; 81269 20; 207; 184; 184551 81; 81269 90; 90296 153472
MARTINUS, MATTHIAS Lexicon philologicum s.v. Abannatio
118383
MAYNUS, IASON Commentaria in Digestum novum D. 45, 1, 96
187; 187560
Consilia 189
99-100; 100332
NELLUS A SANCTO GEMINIANO Tractatus de bannitis 23
34; 3470
04_Index locorum_1_COL.qxp_Layout 1 09/12/21 12:27 Pagina 259
– 259 – PANORMITANUS, ABBAS (NICOLAUS DE TUDESCHIS) Commentaria in Decretales X. 1, 2, 2 83276 X. 2, 1, 4 107; 107357 X. 5, 39, 48 177; 177533 PONTANUS, LUDOVICUS (ROMANUS) Commentaria in Codicem C. 6, 22, 2 pr.
101; 101335
PROCHIRON LEGUM 39, 59
150; 151465
RIPAE A SANCTO NAZARIO, IOANNES FRANCISCUS Responsa in Decretales X. 1, 2, 2
83276
SANDEUS, FELINUS Commentaria in qui. lib. Decretalium X. 1, 2, 2 X. 1, 34
83276 81-82; 82270
SUIDA (ed. Adler, 1928-1938) s.v. Θεογένης Θάσιος, II, p. 692, 133 s.v. Νίκων, III, pp. 470-471, 410 s.v. Περίψημα, IV, p. 113, 1355 s.v. Φὰρμακον, IV, pp. 699-700, 103 s.v. Φαρμακός, IV, p. 700, 104-105 s.v. Φαρμακούς, IV, p. 700, 106
162; 162492 162; 162492 149; 150462 149; 149461 149; 149461 149; 149461
TARTAGNUS, ALEXANDER Commentaria in Digestum novum D. 45, 1, 1
95; 95320
Commentaria in Digestum vetus D. 2, 2, 3, 1
96; 96321
Commentaria in Infortiatum D. 28, 2, 29 D. 28, 6, 10, 6
90; 90296 185; 185554
Consilia II, 114
100; 100334
04_Index locorum_1_COL.qxp_Layout 1 09/12/21 12:27 Pagina 260
– 260 – ZASIUS, UDALRICUS Apologetica defensio contra Ioa. Eckium Theol. 3 14 14-15 16-18
191570 191571 192572-573 193574
Commentaria in Digestum novum D. 39, 1, 1, 9 D. 39, 1, 5, 18 D. 42, 1, 14 D. 42, 1, 15, 1 D. 42, 4, 13 D. 44, 4, 4, 28 D. 45, 1, 18 et 25 D. 45, 1, 46, 3 D. 45, 1, 96 D. 45, 1, 121, 2
176; 177531 175; 175526-527 177; 177533 182; 183547 183; 183548-549; 184550-551 176; 176529 176; 176530 181542 187; 187560 186; 186558
Commentaria in Digestum vetus D. 1, 1, 1, 4 et D. 1, 1, 3 D. 1, 1, 9 D. 2, 1, 3 D. 2, 1, 20 D. 2, 4, 10, 5-12 D. 2, 4, 14-15 D. 2, 13, 1, 2 D. 2, 13, 4 D. 4, 5 D. 4, 8 D. 12, 2, 13
178; 179537 179; 180539-540 180; 181542 181; 182544 173; 173518-519; 174520 174; 174522; 174524 175525 175525 172; 172516 173; 173517 185; 185553
Commentaria in Infortiatum D. 28, 6, 10, 6 D. 28, 6, 43
185; 185554 185; 186556
Commentaria in Institutiones I. 4, 6, 11
181542
Commentaria in Usus Feudorum VII, Ad quid vasallus...
177; 178535
Quaestiones de parvulis Iudaeorum baptizandis III
188; 189563; 190566-568
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INDEX NOMINUM *
A Accolti, Francesco (detto l’Aretino) Accursio Achille Adrasto Aeropagita, Pseudo-Dionigi l’ Aiace Alberico da Rosciate Alciato, Francesco Alvarotti, Iacopo Amerbach, Bonifacius Ammonio (grammatico) Andocide Anfidamante Antifonte Antonio da Budrio Arcidiacono (Guido da Baisio) Aristodemo Aristofane Aristotele Arpocrazione (grammatico) Arsendi, Raniero Ascheri, Mario Atena Augustín, Antonio Augusto (imperatore)
77; 77251; 81; 82270; 92; 92304; 101; 101336; 102; 102337; 109; 109364; 113; 114374 13; 207; 40; 55; 153; 153472 113; 118383; 155; 155475; 164; 164495 157-159 151; 151465; 167 165 193; 69; 78; 79258; 84; 100; 100334; 118383; 121392 56; 65198; 70220; 85282; 125401 117; 117533 51; 51150; 55166; 64194; 93309 149 159486 112370; 113 157; 168507 102; 102337; 114374 108; 108360 146 46; 148 168; 168506 163 101; 102337 39 165 51 128; 128409
* I numeri in tondo indicano le pagine, quelli in apice le note. I nomi contenuti in meri rimandi bibliografici non sono stati indicizzati, e per gli stessi si rinvia alla Bibliografia, pp. 203-235. I nomi di Andrea Alciato, Guillaume Budé e Ulrich Zasius sono stati esclusi da quest’indice in ragione della loro altissima frequenza.
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– 262 – B Balbi, Giovanni Baldo (degli Ubaldi)
Barbaro, Ermolao (iunior) Bartolo da Sassoferrato
Bartolomeo da Saliceto Belloni, Annalisa Belloni, Niccolò Bembo, Pietro Bizzarri, Dina Bolognini, Ludovico Bonfranceschi, Agostino Butrigario, Iacopo
118383 26; 3466; 41; 51156; 66203; 73; 83; 83276; 95; 96; 96321; 97; 97323; 97324; 100; 100333; 101; 101335; 102; 102337-339; 103; 103340; 103345; 106; 106353; 109; 109364; 172; 172516; 175525; 177; 177533; 178; 178535; 179; 179537; 182; 182544; 192; 192572-573; 196582 163; 164494 13; 19-20; 22; 2215; 2217; 23; 2321; 2426; 25-26; 2634; 28-30; 3048; 3050; 31; 3153-54; 32; 3366; 35; 40-41; 41102-103; 48; 48135; 51156; 55; 62; 65200; 73; 73231; 74; 74236; 75; 75243; 77; 77251-252; 78-79; 79258; 79260-261; 80; 80264; 81; 81267; 82; 82272; 84; 84277; 85; 85283; 86; 88-89; 89293-294; 90299; 91-92; 92304; 95-96; 96321; 97; 97324; 99; 99329; 100; 100332; 100334; 101; 101335; 102; 102338; 103-104; 104347; 106; 107355; 108; 108359; 109; 109364; 121; 121392; 135; 173; 174520; 175; 176; 184; 184551; 187; 187560; 188-189; 189563; 190; 190566; 191-192; 192572-573; 196; 196582 101; 101335; 182 46; 47131; 48139; 49; 51156; 56; 56170; 56173; 57176; 64194; 120391; 139436 51 51 38-39 44 100 107; 107357
C Calasso, Francesco Calcondila, Demetrio Caligola (imperatore) Calvo, Francesco Cantarella, Eva Cantiuncula (Claude Chansonnet) Capella, Statilio Caracalla (imperatore) Caravale, Mario Carlo V (imperatore) Carlo VIII (re di Francia)
47131; 99329; 179538 46 93 93 114374 45 134-135 72227; 98 206 191569 160488
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– 263 – Carpentier, Pierre Catilina, Lucio Sergio Catone, Marco Porcio (il Vecchio) Catone, Marco Porcio (l’Uticense) Catullo, Gaio Valerio Cavalca, Desiderio Cesare, Gaio Giulio Cicerone, Marco Tullio
Cino da Pistoia Claro, Giulio Claude de Seyssel Claudio (imperatore) Clisonimo Clodio Pulcro, Publio Connan, François Cortese, Ennio Corti, Francesco (iunior) Costa, Pietro Covarrubias y Leyva, Diego de Creso Crifò, Giuliano Cujas, Jacques Curzio Rufo, Quinto
118383 128409; 129; 130; 130415; 188; 189563 123396; 127 128409 76; 76245 2111; 24; 26; 2634; 31 128; 128409; 146; 146456; 188; 189563 37; 123396; 124; 124398; 125398; 128409; 131; 131419; 132; 132421; 133; 133423; 141443; 142-143; 143447; 144; 144448; 145; 145453; 148; 149461; 150463; 151; 151465; 154; 154473; 181; 190567; 197585 77251; 173 67206 178; 179537 151 164 143 51 37; 3889; 3891; 43 83 36-37; 39 67206 157-159 124398 51152 150
D D’Andrea, Giovanni D’Arena, Iacopo Deciani, Gianfrancesco (iunior) Deciani, Tiberio Decio, Filippo Degli Ubaldi, Angelo Delaruelle, Louis Della Cornia, Pier Filippo Del Maino, Giasone Demostene De Portonariis, Vincentius Dino del Mugello Diomede
178; 178535 13; 21; 2111; 22; 2321; 26-27; 29; 3050; 31; 63; 97; 97324; 175-176; 190566 118383 3260; 118383 46; 88; 109 81; 88; 90; 90296; 101; 101335-336; 179537 140 100; 100332; 101; 101335; 102; 102338 46; 66; 67206; 73; 78; 80; 84; 99; 100332; 187; 187560 145; 148; 154-155; 157; 161-162; 162 491-492; 163; 163493; 166 83275 26; 176 162492
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– 264 – Dione, Cassio Dionigi di Alicarnasso Diplovatazio, Tommaso Domenico da San Gimignano Domitilla, Flavia Dracone Du Cange, Sieur (Charles du Fresne) Durand, Guillaume
128; 128409 167 3048 104; 104348; 106; 106354 135 114374; 162 118383 26; 106354; 175; 175526
E Eaco Eck, Johannes Enrico VII (imperatore) Epitteto Erodiano Erodoto Eschine Esichio di Alessandria (lessicografo) Ettore Eumenidi Euripide Eusebio di Cesarea Eustazio di Tessalonica (arcivescovo)
115 191; 191569; 193 3048 146456 168 146; 148; 157-158; 158481; 158483 148; 168 149 118383; 155; 155475 161-162 157 162492 120; 120391; 149; 149461; 158; 158484
F Favre, Jean Fedrizzi, Antonio Festo, Sesto Pompeio Focione Foco (figlio di Eaco e fratello di Peleo, personaggio) Foco (figlio di Focione) Foco (parente di Solone) Francesco I (re di Francia) Frellon, François Frellon, Jean Fulgosio, Raffaele Fulvio Emiliano, Lucio Fulvio Flacco, Gneo
89; 89294 2215 123396; 144; 147-148 116378 115; 116378 116378 116378 51; 120389 120389 120389 80; 81267 72227 143
G Gaio Gambiglioni, Angelo
76 32; 3574; 179537; 184; 184551
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– 265 – Gandino, Alberto Gentili, Alberico Geremia Ghisalberti, Carlo Giocondo, Giovanni (detto Fra Giocondo) Giovanni (evangelista) Giovanni da Imola Giovenale, Decimo Giunio Giulio Capitolino Giustiniano (imperatore) Gregorio di Nazianzio Gryphius, Sebastian Gualteruzzi, Goro Guido da Suzzara
13; 20-21; 218; 22-23; 26-27; 2738; 28-29; 31-32; 63; 65 67206 146 2321; 26; 32; 63 49; 199591 98326; 151 89; 96; 96321; 102; 102337; 126; 126406; 175; 181; 182544 142; 154 153 44 167 64194; 93309; 117382 51 27
H Haloander, Gregor Hotman, François
51 53159
I Iacopo d’Arezzo Isidoro di Siviglia Isocrate
2111 37 167
J Jacques de Revigny
173
K Kahl, Johann Kelly, Gordon P. Kerver, Jacques Kirshner, Julius
118383 124398 120389 41; 41102
L Lascaris, Giano Lattanzio, Firmiano Lattanzio Placido Lazzaro Lentulo Sura, Publio Cornelio
46; 199591 144 115; 116378 82 128409
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– 266 – Leonida Liciniano, Valerio Licinnio Licisco Licurgo Lisia Livio, Tito Luciano Luigi XII (re di Francia)
146 134; 151 115; 119 167 168; 168507 157 123396; 143; 146; 148; 154; 159 168 160488
M Macrobio, Ambrogio Teodosio Maffei, Domenico Marcello, Ulpio Marciano, Elio Marco Aurelio (imperatore) Marsili, Ippolito Martini, Mattia Marullo, Giulio Massimiliano I (imperatore) Matal, Jean Menezio di Opunte Mercurio Midia Milone Minnucci, Giovanni Minuziano, Alessandro Minuziano, Vincenzo Modestino, Erennio Montaigne, Jean
147 52-53; 55; 171 153472 151; 153; 153472 72227; 153 3363; 3574 118383 130; 131417; 132 188 51 112; 164; 164495 155; 155475 148 143 67206 46125; 51; 111367; 115376 51 127 51
N Nello Cetti da San Gimignano Nettuno Nicone Tasio (Teogene di Taso) Nummio Albino, Marco
13; 26; 32-33; 3361; 3363; 34-35; 55; 78255; 182; 196582 149 162; 162492 72227
O Oldrado da Ponte Omero
69 112369; 114374; 115; 115377; 117; 117383; 119; 119384-385; 120; 120391; 155; 155475; 156476; 158; 164; 164495
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– 267 – Orazia, Camilla Orazio (superstite, personaggio) Orazio Flacco, Quinto Osberno di Gloucester Osler, Douglas J. Otto, Jochen Ovidio Nasone, Publio
159; 159486 159; 159486 147; 190567 118383 54164; 55164 56170 115; 116378; 124; 125398; 132; 132420; 133; 134425
P Panormitano, Niccolò de’ Todeschi detto il (abate) Paolo (santo) Paolo, Giulio Papias Parrasio, Aulo Giano Patroclo Pausania (periegeta) Pazzaglini, Peter R. Peleo Pepoli, Romeo Platone Plauto, Tito Maccio Plinio il Giovane Plutarco Polibio Poliziano, Angelo Ambrogini detto il Polluce, Giulio Pontano, Ludovico (detto anche Ludovico Romano) Porcio Leca, Publio Porcio Licinio, Lucio Priamo Procopio di Cesarea Prodi, Paolo
83; 83276; 106-107; 107357; 108; 177; 177533 105350; 149-150 133 118383 46 112-113; 113371; 114374; 119; 119384; 164; 164495 157; 162; 162492; 167-168 2530 113; 116378; 164; 164495 79260 155; 156476; 159; 166 147 134; 134427; 151; 152466 115; 116378 124398 44; 44113; 45117; 140 157; 163 101; 101335 124396 124396 118383; 155; 155475 117; 118383 104-105; 105349-350
Q Quaglioni, Diego
40
R Raimondi, Raffaele Riethdorf, Cornelius M.
81267 2111; 2427; 39; 4097; 78255
04_Index locorum_1_COL.qxp_Layout 1 09/12/21 12:27 Pagina 268
– 268 – Ruini, Carlo Ruini, Paolo
46; 77; 78255 78255
S Sallustio Crispo, Gaio Sandeo, Felino Sannazari della Ripa, Gianfrancesco Saturnino, Claudio Savigny, Friedrich Carl von Sbriccoli, Mario Secundus, Johannes (Jean Second) Senofonte Servio (grammatico) Settimio Severo (imperatore) Simonino da Trento Sinesio di Cirene Socini, Bartolomeo Socini, Mariano (iunior) Socini, Mariano (maior) Sofocle Solmi, Arrigo Solone Stazio, Publio Papinio Stephanus (Henri Estienne) Strabone Suetonio Tranquillo, Gaio
124; 128; 128 409; 130; 130415; 132; 132421; 197585 81; 82270; 83276 83; 83276 112; 112369-370; 113; 114374; 116; 119; 119384; 155-156; 158; 162; 164 2111 99329 51 166 147; 149 72227; 98 188562 167 70; 98; 98327 70; 98; 98327 70; 98; 98327 165 206 116378 115; 116378 165 149 93; 93311; 94; 134; 134427; 151
T Tacito, Publio Cornelio Tartagni, Alessandro Tiberio (imperatore) Tideo Tlepolemo Traiano (imperatore) Trasea Peto, Publio Clodio Triboniano Tucidide
46125; 124; 130-131; 131417; 132; 132420-421; 197585 3574; 66; 88-90; 90296; 95; 95320; 96; 96321; 100; 100334; 185; 185554 134427; 136433 115; 116378 115; 115377; 119; 119385 88291 130; 132 44; 44113 167
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– 269 – U Uguccione da Pisa Ulpiano, Domizio
118383 116379; 128409
V Valerio Massimo Valla, Lorenzo Vespasiano (imperatore) Viard, Paul-Émile Virgilio Marone, Publio
158; 158482; 159; 159485 45117; 140; 158481 134 56; 142443 116379; 147
W West, Martin L.
112370
Z Zendri, Christian Zuichemus, Viglius
33 51
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INDEX RERUM NOTABILIUM *
A abannatio (calco paretimologico) abluzione (vd. acqua lustrale) acqua – elemento – lustrale Ad lectorem epistola Ad municipalem et de incolis (D. 50, 1) adnotatio bonorum aequitas – canonica aequitatis officina (appellativo della Cancelleria di Francia) amputazione anathema ἀνδροληψία
animus occidendi (vd. elemento soggettivo) Annales anno accademico
116; 117; 117383; 118383; 119-120; 120391; 121; 152470; 155-156; 156476; 196581 89; 89294; 144; 145; 145454; 146 145; 165; 165497 48135 40 28 27; 32; 62; 66; 66203; 67; 67207; 68; 68209-210; 69; 90; 151; 197; 197583; 199; 199593; 201 68210 160; 160488; 200 126-127; 127408 107 163; 163493; 164494 131417 47-48; 48135; 49-50; 50146; 51155; 65198; 67208; 70220; 85282; 90295; 93309; 111367
* I numeri in tondo indicano le pagine, quelli in apice le note. Se non diversamente indicato, le voci presentate in lingua latina comprendono sempre le loro traduzioni in lingua italiana e i relativi derivati nominali e verbali (per esempio, la voce ‘deportatio’ comprende anche le voci ‘deportatus/-i’, ‘deportazione’, ‘deportato/-i’, ‘deportare’). Similmente, le voci presentate in lingua italiana comprendono sempre i relativi derivati nominali e verbali (per esempio, la voce ‘arbitrato’ comprende anche la voce ‘arbitratore’; la voce ‘confisca’ comprende anche le voci ‘confiscato/-i’, ‘confiscare’). Il singolare comprende di norma anche il plurale. Le voci presentate in lingua greca sono state indicizzate secondo le regole di traslitterazione dal greco al latino (per esempio, φυγή è consultabile in corrispondenza della lettera F). Le voci ‘bannum’, ‘exilium’, ‘umanesimo’ e quelle relative ai loro derivati (in lingua latina e italiana) sono state escluse da quest’indice in ragione della loro altissima frequenza.
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– 272 – Annotationes in Pandectas – posteriores – priores Annotationes in P. Cornelium Tacitum Annotationes in tres posteriores libros Codicis antichità (classica) antigiudaismo ἀπενιαυτισμός ἀπόλιδες
Apologetica defensio contra Ioa. Eckium Theol. apostoli (lettere dimissorie) aposynagogus appello, giudizio di – pendenza del – pendenza del termine del arbitrato Areopago arma arti liberali – grammatica auctoritas – argumentum ex auctoritate – delle fonti antiche – del princeps – legis – poetarum autorità pubblica Avignone – Città di – Università di azione (giudiziale)
50145; 140441; 152469; 156478 118383; 140; 142443; 152; 156 140; 141443; 142443; 154473; 155474 46125 111367 49; 54; 140; 166 188; 188562 116-117; 117383; 118; 118383; 119; 119384; 120; 121; 155-156; 156476; 167504; 196581 133 191 183549 146 30; 3052; 3362; 178-179; 183; 183548-549 28 28 90-92; 119384; 173 161-162 113; 114374 44114 44114 3366; 43; 43110 80263; 119 135 67206 113373 22; 29; 32; 63; 104-105; 187 47; 47132; 49; 51 47; 47132; 50; 50146; 64194; 65198; 70220; 83275; 85282; 90295; 93309 2321; 29-31; 70; 109; 175-176
B bannophorus bartolismo Basilea, Città di Basilici battesimo beneficio ecclesiastico beni, perdita dei (vd. patrimonio, perdita del) beni alienati – dal fisco – recupero dei
117; 117383 47; 47129 51; 55166; 56; 65198; 111367; 117382 150 158; 188; 188562; 198587 83275; 93309 78; 78257; 79; 79258-259 80-81; 81268
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– 273 – Bibbia – Antico Testamento – Vangelo di Giovanni Bologna – Città di – Università di Bourges – Città di – Università di
98326; 150 180539 98326 3363; 79260; 117382; 120391; 184; 187 46; 47132; 50-51; 70220; 78255; 85282; 111367 48; 49141; 51; 65198; 117382 48-51; 51152; 67208; 70220; 93309
C calunnia capacità processuale (del bannitus) capitis deminutio – maxima – media (vd. cittadinanza, perdita della) Cartaginesi casus fortuitus Catholicon Catilina, congiura di catilinari (congiurati) cattura (del bannitus) causa capitalis cedere foro, espressione cedere legibus, espressione cessione (di diritti) chierico Chiesa – comunione/comunità dei fedeli – istituzione circumfinitio (vd. confino) citazione (in giudizio) città (vd. civitas, comunità dei cives) cittadinanza – iure loci – iure sanguinis – perdita della civitas – comunità dei cives
174 2321; 27; 29; 172 57174 2217; 133 188; 189563 112370; 115377; 153; 158; 160 118383 128409; 129-130; 128; 128409; 129-130; 130415; 132; 189 21; 29; 31; 63-64; 201 125; 125400; 126-127 154; 155474 143 30; 3050; 176 107-109 13; 23; 57174; 88; 90; 107; 109; 178 104; 107-108 33; 173; 175-176; 183; 183549; 184 22; 2324; 24; 36; 3679; 37-38; 3891; 39; 3994; 40; 4097; 41; 41102; 134427; 135; 143; 145; 181 38; 40 38; 40 20; 23-25; 27; 71-72; 121; 124398; 125; 131; 131419; 132-133; 136; 142; 144-145; 151; 173; 192; 197585 13; 131; 14; 193; 21-23; 2321-22; 24-26; 28; 31; 36- 37; 3783-85; 39; 41; 41104; 56-57; 57174; 65; 69; 70; 76; 83; 86; 89294; 90; 94; 103; 119; 124398; 130; 134; 136; 143-147; 152; 159; 166; 168; 178; 183-184
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– 274 – – romana (cittadinanza) – sibi princeps, principio civis
– Romani Imperii clarigatio classici (latini e greci) Codex (Iustiniani) Codex Hetruscus (vd. Littera Florentina) Codex Theodosianus cognitio criminis coercitio (magistratuale) Collectanea Collège de France colpa commentaria Commentarii ad rescripta principum Commentarii Linguae Graecae commentatori commoda, perdita dei communis patria – civitas romana – corte giurisdizionale di livello più alto compromesso (vd. arbitrato) Comune (medievale italiano) comunicazione (con il bannitus), forme di concilium plebis condanna (penale)
conditio de morte confessione – giudiziale – sacramento confino, pena del confisca (dei beni) coniugi consecratio (vd. sacertas) consilia
57174; 125400; 133; 140-141; 143; 154; 192; 196580 40 26; 36; 3785; 38; 3889; 3891; 39-40; 41104; 57174; 76; 123396; 124396; 124398; 127-128; 128409; 130; 130415; 131-133; 134427; 135-136; 144; 151; 154; 167; 181-182; 197585 35; 3577 163; 164494 44; 44114; 58; 116; 124; 129; 130; 130413; 131; 134; 136; 141; 150; 150 463; 153472; 172; 195; 198588 47133; 48; 57; 93309; 100333 135430 23 123396 46125 49; 139 67; 155-156; 158; 160; 165 40; 51156 48135; 93309 140-141; 156476; 165-166; 166498 43-44; 46; 51156; 52-53; 54 26 192 183; 183549 21-24; 37-39; 41; 109 95-96; 98-99 124398 20; 22-23; 25; 2529; 26-28; 31; 33; 3362; 34-35; 69; 76; 80; 92; 99-104; 124398; 134-135; 144; 147; 151; 153; 162; 162492; 166; 168; 174; 182 70-71 25; 33-34; 100-102; 196582 158 151; 181; 181542 20; 26; 28; 30; 34-35; 67; 69; 69215; 70; 73; 78; 84; 91; 124398; 130-132; 166; 168; 185 68-69 40
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– 275 – Consilia – di Alessandro Tartagni – di Baldo (degli Ubaldi) consilium fraudis (dei contraenti) console consuetudini (antiche) contaminazione conte palatino del Reno contumacia
Corpus iuris – canonici – civilis costumi (degli antichi, vd. consuetudini) creditore crimine (vd. reato) culti (vd. mos gallicus) cum haeres morietur, condizione cum morieris, dari, condizione
3574 41 3050 72227; 123396; 124396; 130; 131417; 143 124-125; 127; 131-132; 140; 160; 191; 200 159; 159486-487; 165 188; 190 21-25; 2529; 28; 2843; 29; 3052; 33-34; 57174; 63; 67; 67207; 99-100; 100332; 100334; 101-102; 102339; 103; 103340; 106; 106354; 175; 175526; 177; 177533; 182; 188; 189563; 191; 196582; 201 57176; 61; 133 195; 46126; 47; 47133; 56; 57176; 61; 64194; 112; 113373; 133 32; 74; 106; 176-177; 183548-549; 184; 184550 71; 71227 71; 71227; 73; 186
D dadi, gioco dei damnatio in metallum damnatio in opus publicum danno De asse De bellis – De bello Persico debitore decemviri decoctores De coniuratione Catilinae Decretales dedititii De domo sua, orazione De incolis (C. 10, 40) De iudiciis (X. 2, 1) delegata delitto
112; 112369; 164; 164495 73; 73231-232; 128; 128409; 133; 180 128; 128409; 129; 129412 26; 67206; 77; 101; 103; 106354; 124396; 127; 144; 163; 179-180 142443 118383 117; 118383 2113; 2843; 30; 91; 106; 106354; 176-177; 183; 186 154 154 128409 57; 83275; 107355 64196; 133423 131; 133; 142; 144-145 4099 90295 134; 134427; 135 25; 27; 65; 65199; 68; 68210; 81; 92304; 93; 96; 100; 100334; 101-102; 103340; 106; 107; 114374; 117; 126-128; 128409; 131-132; 142-143; 159;
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– 276 – 161-162; 162492; 163-164; 181-182; 188; 189563; 190-191; 200 – involontario (vd. omicidio involontario) De materia iuramenti De nuptiis De officio iudicis ordinarii (X. 1, 31) De poenis (D. 48, 19) De ponderibus et mensuris deportatio (in insulam)
De praesumptionibus (X. 2, 23) De praesumptionibus tractatus Derivationes – di Osberno di Gloucester – di Uguccione da Pisa De sacrosanctis ecclesiis (C. 1, 2) De singulari certamine De summa Trinitate et fide catholica (C. 1, 1) De verborum obligationibus (D. 45, 1) De verborum significatione (D. 50, 16) – Commento dell’Alciato al diadematicum Dictionarium iuris difesa (giudiziale) Digestum – infortiatum – novum – vetus diritto – acquisito dal terzo, garanzia del – criminale (o penale) – feudale – romano – successorio
191569 67206 90295 112 142443 20; 206; 21; 219; 2112; 22-23; 26-27; 35; 57174; 61-63; 69; 69217; 70219; 71; 71225; 71227; 72; 72227; 72229; 73; 73231-232; 74; 74238; 75; 75243; 76; 76248; 77; 81-82; 84; 84277; 85-87; 87287; 88; 88291; 89294; 90; 90299; 91; 91301; 92-95; 103 128; 128409; 130; 130415; 131; 131417; 132-133; 133423; 134-135; 151; 153; 168; 171-172; 172516; 173-174; 174520-521; 180; 184-186; 186558; 192; 192573; 195; 196582; 197585 90295 83276; 121392 118383 118383 48135; 93309 118383; 156; 156478 48135; 93309 48135; 50146; 65198 50; 50146; 64 46126; 61; 142443 161 193; 118383 27; 31; 92; 103340; 103345; 174-175; 178-179; 183; 183549; 184; 196582; 200 57; 133; 135430; 140 47; 47133; 85282; 93309; 102337 40; 47; 47133; 48135; 50; 50146; 93309 47133 77-78; 79258; 80-84; 84277; 86; 173-174; 174520; 196582 32; 3260; 3574; 3889; 69; 96; 105; 109; 114374-375; 124396; 128409 177534 131; 206; 219; 22; 28; 3679; 49; 52-53; 62-63; 77252; 79258; 87-88; 145 4097; 70; 73-77; 77252; 84-85
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– 277 – Dispunctiones Dodici Tavole dominium (del marito sulla moglie) dominus domum redire, espressione donazione fra coniugi droit commun francese druidi duello
46126; 48138; 111366-367; 116; 116378; 119384; 142443; 152; 156; 156478; 165 147 69 96; 126; 177; 178535 168 71; 72227; 75; 75240 52 146 120-121; 121392
E 146; 149; 165; 188; 188562; 190; 198587 176 118383 114; 114374-375; 200 67; 114; 200 157; 162 46125 46125 147 96-98; 99328 26; 31; 71; 75; 78; 81-82; 84-85; 91-92; 97-98; 162 eretico 2321; 27; 30; 78255 erudizione (antiquaria) 44-45; 54; 169 esclusione (dalla comunità), dinamiche dell’ 131; 14; 21; 2321; 35-36; 56-57; 57174; 70; 88; 90; 94; 124 398; 130; 136; 139; 141; 145-146; 150; 152; 166; 171; 172; 177-178; 187; 195; 196580; 198587; 200 espiazione 115; 148-149; 156-157; 159-161; 165; 196580 estinzione/cancellazione (del bannum) 29; 2947; 31-32; 3362; 166; 168; 181542 età moderna 13; 43; 45117; 47; 53-55; 198587; 201 Eumenidi 161-162 161; 162491 – σεμναὶ θεαί, espressione Europa 13; 35-36; 43; 44114; 49; 51; 54-55; 83; 104-105; 139-140; 171; 188562; 191; 198; 198587 eventus (quale modus delicti) 112370; 162; 162492 evizione, garanzia contro l’ (vd. diritto acquisito) exceptio banni 29; 3050; 31 excommunicatio 23; 2321; 27; 30; 3052; 57174; 88; 88292; 89; 89293-294; 90; 90296; 91-92; 103; 103345; 106; 106353; 107; 120; 126; 146; 171-172; 172516; 173; 173517; Ebrei eccezione di scomunica Elementarium elemento soggettivo (del reato) – animus occidendi Elide Emblemata Encomium historiae Eneide epistola (strumento di comunicazione) eredità
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– 278 –
– excommunicatus incorrigibilis execratio (vd. sacertas) exire fines patriae, espressione expiatores urbium, espressione extorres exulare patria, espressione
174; 174521; 175; 175525-526; 176-178; 178535; 195; 196582; 200 2321 151 149; 158 146; 166-167 156476; 164495; 166
F falsificazione (di documenti) φαρμακοί
fazione politica (del Comune medievale) – strumentalizzazione del bannum a scopo politico fedecommesso Ferrara – Città di – Università di φεύγειν τὴν πατρίδα/τὴν πόλιν, espressione φεύγω
fictio iuris/legis fides figlio filologia – lezione filologica – sensibilità, competenza e attività filologica
fisco φόνος – ἀκούσιος – ἐκ προνοίας
foro – esterno – interno (della coscienza)
83; 83276; 100 148-149; 149461 25; 2528; 31; 3889 24-25; 2528; 26; 31 71; 71227; 74; 74236; 97-98; 98325 117382 46; 47132; 48139; 50-51; 70220; 85282 166 115377; 153; 166-167; 167504 41; 72; 72229; 98; 100-101; 186 172; 187; 187560; 188; 189563; 190-191 26; 67; 67207; 68; 68209; 69; 72-73; 77; 82; 99; 188 112; 112370; 115-116; 116379; 119384; 125; 125403; 134427; 135; 143444; 154; 154473 13-14; 43-44; 44111; 44114; 45; 45117; 46; 46126; 47; 48138; 49-50; 50145; 50149; 51-55; 55164; 55166; 56170; 57; 57176; 61-62; 64194; 111; 111367; 113-114; 114374; 115; 119-120; 136; 140-141; 150; 152; 165; 169; 171-172; 195-196; 196580-581; 197; 197586; 198; 198588; 199; 199591; 201 41; 74-75; 77-78; 78257; 79; 79258-259; 80; 80264; 81; 84-85; 91-92; 92304; 101; 185 159; 161 155; 156476; 157-158 162 66; 66205; 67206; 104-105; 107-108; 197 66; 66205; 67; 67206-207; 104-105; 107-108; 197; 197583
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– 279 – Francesi Francia – Cancelleria di – monarchia francese Friburgo in Brisgovia – Città di – Consiglio di – Statuti di – Università di frode frutti Ftia fuga φυγή
fuoco, elemento fustigazione (vd. verberatio)
47132 47; 47132; 51; 51155-156; 52-53; 55; 120389; 139; 160-161; 161490; 200; 200598 160; 160488; 200 51-52; 120389; 160; 160488; 161; 161490; 198587 188 188 182544 177534; 188 30; 74 85 113 57174; 64196; 132; 153; 153472; 166; 168; 182 153; 153472; 155; 156476; 166 89; 89294; 144-145; 145454; 146
G Galli giudizio
giuramento giurisdizione – competenza/funzione giurisdizionale – criminale romana – ecclesiastica – secolare (o civile) – tutela giurisdizionale Glossa – glossatori Glossarium (di Charles Du Cange) gratiam facere, espressione Greci Grecia antica guerra
147; 149 206; 22; 2321; 26-30; 34; 91-92; 98; 101; 101335; 102; 102339; 103-104; 106; 119384; 120; 131; 134; 153; 153472; 154; 157; 163; 165; 167; 173174; 174521; 175; 175525; 176-179; 179537; 181183; 196582; 200 38-39; 105350; 181542; 193 22; 25; 2528; 34; 41; 89293; 104-107; 107357; 108; 121; 136; 172; 181-182; 182544; 183; 196582; 197583; 200 123; 128; 130; 132; 197585 104; 104347; 105-107; 107357; 108; 147; 197583 22-23; 29; 34-35; 63; 104; 104 347; 105-107; 107357; 108; 197583 128409; 129-130; 192 19; 206-7; 21 195; 44; 50; 52-55; 70219 118383 81; 81268 112370; 113; 115; 115377; 116380; 117; 117383; 118383; 119; 119385; 123; 140; 148; 152-154; 156476; 157; 159; 161; 196580-581; 200 162492 23; 47132; 50149; 64; 119; 132; 188; 190; 191570
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– 280 – H habitatores haeredis institutio Historia Augusta Historiae (di Erodoto) Historiae Romanae homicidium imprudens (vd. omicidio involontario) homo piacularis hostis – publicus – Romani Imperii – -transfuga humanae litterae humanitas
37-38 26 153 158481 128409 148-150 21; 57174 21; 2427; 62188; 68209; 73232; 95; 97; 99; 180; 196582; 201 188; 190-191 21; 23; 2322; 24; 2425; 2427; 26; 28; 3366; 34; 189563; 191; 196 46; 112; 112368 64196; 68209; 199593; 201
I ἱεροποιοί
Iliade illecito – giuridico (vd. reato) – morale (vd. peccato) imperium (magistratuale) Impero, Sacro Romano – Camera dell’ – imperatore impeto d’ira impubere impunità (dell’offesa/uccisione del bannitus) incommoda, mantenimento dei infamia Infortiatum (vd. Digestum) insegnamento universitario – lezione universitaria
161 112-113; 115; 115377; 117; 118383; 119; 119385; 155; 155475; 164; 164495; 197586
123396; 180; 181542 24; 2425; 2427; 35; 3577; 52; 83; 183549; 185; 188-189; 189563; 190-192; 200-201 183549 120; 183549; 188; 191569 112; 112369-370; 113; 114374; 118; 119384; 164; 164495 76; 76245; 186 22-23; 2321-22; 26-29; 34; 62188; 63-64; 64197; 65; 73; 73231; 75; 91; 95; 121; 148; 172; 177-180; 180539; 181; 187; 187560; 193; 196582; 200-201 26; 35 22-23; 28; 100; 100334; 101; 101335; 103; 121; 121392; 126; 130; 131417; 173; 173517; 193 46-47; 47133; 48; 48135; 48139; 49-50; 50146; 51; 54; 61; 65198; 67208; 78255; 83275; 90295; 93309; 125401; 177534
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– 281 – – metodo d’ Institutiones (Iustiniani) instrumentum (notarile) interdictio aquae et ignis
intestabiles invitus (vd. omicidio involontario) Italia Italici Iupiter expiator, espressione ius – adeundi haereditatis – canonicum – civile
– commune
– divinum – gentium – humanitatis – naturale – proprium
46; 46128; 47; 47131; 48; 48138-139; 49; 50; 50146; 51-53; 57176; 64; 65198; 196581 47133; 76 100 21; 219; 2112; 22-23; 30; 57174; 61; 63; 87-88; 88291-292; 89; 89294; 90; 103; 124398; 130; 130415; 131; 133; 133423; 134; 143-145; 145454; 146; 151; 186; 197585 120-121; 147 13; 19; 194; 2528; 31; 3363; 3679; 37; 44111; 45-47; 47131-133; 48; 48139; 50-51; 51155-156; 52; 83; 116379; 124396; 140; 165; 180; 196; 197583 116379 158 75; 75242; 81-82; 85 206; 2321; 49; 57; 57176; 67-68; 68210; 90; 90295; 104-105; 105350; 179 206; 22; 24; 2843; 30; 33-35; 40; 4097; 47; 47133; 56; 57176; 62-63; 64194; 66; 67206; 68; 68209; 68210; 70220; 73; 75; 75242; 87287; 88; 89294; 90; 90295; 90299; 93309; 105; 106; 106354; 107-108; 112; 113373; 132-133; 175526; 176; 179-180; 185-186; 190; 192; 192573; 196582; 197; 197583; 199 13-14; 19; 206; 24; 2425; 26-28; 34-35; 49; 56; 65; 66203; 73231; 75; 84; 84277; 86; 89294; 99329; 101; 103; 174; 177; 179-180; 182; 190; 193; 195-196; 196582; 200 28; 66; 67206; 105350; 179; 180539 24; 2425; 28; 3366; 35; 64195; 73; 89294; 90; 132-133; 191 147; 201 3366; 62; 64196; 66; 73; 89; 89294; 90; 178-179; 196582; 197; 197583; 199-201 19; 206; 24-26; 28; 34; 3577; 57174; 63; 70; 89294; 94
K καθάρματα καθαρὸς τὰς χείρας, espressione καθάρσιος Ζεύς, espressione κάθοδος τῶν φυγάδων, espressione
148-149 159 158 168
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– 282 – L ladro laesa maiestas Latini lebbra Lectura – in Decretales – in primam partem Infortiati – in secundam partem Digesti novi – in secundam partem Digesti veteris – in secundam partem Infortiati legato leges Corneliae leges Porciae – lex Porcia I, de tergo civium leges sacratae legge – ateniese – graccana – legislazione sillana – penale (vd. diritto criminale) lenocinio lex – lata – municipalis (vd. statuti) – Omnes populi (D. 1, 1, 9) libera vagandi potestas, espressione libertà, perdita della liberto libri bannitorum (o mortuorum) Libri Feudorum Lione, Città di lingue classiche – lingua greca – lingua latina
Littera Florentina
96; 97323 2427; 35 131; 133; 133423; 134-135 100; 100334; 121392 90295 70220 65198 67208 85282 85-86; 86284; 90299; 97 124398 72229; 123; 123396; 124396; 124398 72; 72229; 123; 123396; 127-128; 128409; 129-130; 132; 181; 197585; 198588 148; 148460 145 124398; 131 124398 93 131; 135-136; 136433 33; 3466; 99329; 179 153 20; 40; 71; 125; 125400; 132-133; 144 78255; 91; 173; 173519; 174 29 47133; 177534 51156; 64194; 83275; 90295; 93309; 117382; 120389 46; 49; 55; 113; 113373; 115-116; 118383; 120-121; 133; 141; 141442; 146; 148-150; 151465; 153154; 158; 163-168; 196581; 197586; 199591 46; 48; 48138; 49; 94; 94315; 112-113; 115; 117; 117383; 118383; 120; 120391; 121; 125; 125400; 127; 127408; 141; 141442; 143; 145; 148; 150; 150463; 151; 153-154; 155475; 157-158; 158481; 161; 163-164; 166-168; 172; 195578; 196581; 197586; 198588 44-45; 45117; 111367; 112370; 115; 116378-379
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– 283 – M magistratus municipalis/municipii – magistratura podestarile maiores mala causa mandato Marsigliesi Medioevo mens legislatoris mera carnificina, espressione Metamorfosi μέτοικοι
Milano – Città di – Ducato di miles missio in possessionem moglie monarchie nazionali mors – civilis – naturalis
mos – docendi – gallicus – italicus – maiorum – studendi
22; 109 22 130 99; 102 91-92; 96 147 2324; 25; 36; 3679; 37; 39-40; 4097; 44113; 52-54; 74236; 88292; 94315; 105; 114375; 118383; 188562; 199 179-180; 180539 129; 129412 115; 116378 156476; 167-168 47; 47132; 49; 111367; 117382 47132 3891; 97; 124396 2843; 106; 106354; 175526; 183; 183548-549; 184; 184550 67-69; 109-110; 201 52; 83; 198587 57174; 62; 70; 70219; 71; 71225; 72-74; 74238; 75; 75242-243; 76-77; 90; 172; 185553; 186; 186558; 192; 196582 3052; 3362; 57174; 62; 70-71; 71227; 72; 72229; 73; 73231; 74; 74238; 75; 75242-243; 76-77; 84-85; 90-92; 97; 112-113; 146; 162; 172; 181542; 186; 186558; 188 49 44113; 47; 51; 51156; 52-54; 198589 47; 51-52; 54; 198589 123; 127; 128409; 129-130; 130415; 131417; 132 50
N nipote nobiles norme nuove novazione Novellae (Constitutiones)
77; 82 3891 131-132 91-92; 92304 47133
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– 284 – Noves, Città di Nubes nunzio
85282 46125 96; 96321-322; 97; 97323; 98; 99328
O obbedienza/inobbedienza obbligazione – condizionale Offenburg, Città di omicidio – involontario
– volontario opinio communis (doctorum) Opusculum oratio – divi Marci – divi Severi Oratio in laudem iuris civilis Ortenburg, Castello di
22-23; 35; 3889; 104; 106; 192 173; 192 91-92 185 111; 112; 112370; 113-114; 114374; 115-116; 116378; 116380; 117-119; 123; 140; 152; 155156; 156476; 157-158; 158482; 159-160; 162; 164; 164495; 165; 196580-581; 200 114374; 118383; 159; 162 21; 35; 43; 62; 64-66; 71; 78-80; 82; 83276; 84; 84277; 87; 91-92; 95-96; 96322; 98-99; 106; 108; 127; 172; 174; 176-178; 192-193; 195579; 196 141443; 142443 71; 71227; 72227 72227 67206 185
P pace Padova – Città di – Università di padre – spirituale Pandette Fiorentine (vd. Littera Florentina) Papato Paradoxa Parerga Parigi, Città di patria patria potestas – perdita della
31; 3889; 187; 187560; 190-191; 193 187 47132-133 38; 67; 67207; 68; 68209; 76; 76245; 77; 81; 84; 93; 134; 159; 164; 164495; 167; 188; 189563; 190; 201 158 47132; 83 46126; 48138; 111367 46126; 61; 85282; 111366; 116379; 117382; 118383; 141443; 142443; 152; 156478; 165 49; 51156; 120389; 199591 23; 85; 115; 117; 117383; 133; 143; 146; 148; 151; 153; 156476; 164495; 166-168; 193 76; 76245 26
04_Index locorum_1_COL.qxp_Layout 1 09/12/21 12:27 Pagina 285
– 285 – patrimonio – perdita del (vd. confisca) – quota patrimoniale – recupero del patrono patto Pavia – Città di – Università di pax deorum peccato pecuniaria collectio perduellio peregrini (vd. anche stranieri) perfugium (o profugium) περίψημα Persiani Perugia, Città di peste Philargyrus pica pigneratio poena – capitalis/capitis (o di morte)
– medicinalis – pecuniaria – perpetua ποινή pomerium pontifices populus possessore di buona fede postliminium potestas – condendi statuta (o statuendi) – del princeps – pubblica (vd. autorità pubblica) practicae praeses provinciae Praetermissa
185 75; 77-79; 79258; 80-82; 84; 91-92; 92304; 101; 117 126405; 173; 173519; 174 37-39; 104; 187-188; 190-191; 191569; 192-193 50149; 51155; 117382 46; 47132; 51; 51155; 70220; 78255; 85282 147 66; 67206; 104-105; 105350; 158-159; 197583 84 2427; 57174; 143 76; 133; 133423 142-143; 154; 154473 149; 150462 146 99 85282; 147-148 46125 96 2843; 106; 163; 164494 22; 2217; 27; 57174; 67; 72; 72229; 88; 89293; 114; 123396; 124; 124396; 124398; 125; 125400; 126; 126404; 127; 127408; 128; 128409; 129-130; 130415; 131-132; 142; 144-145; 148; 180; 180539; 197585; 200-201 88; 89293 29; 99 20; 89293; 126404; 129; 129412; 166; 173; 180; 181542; 184-185 114374 124396 133 2322; 3784-85; 3891; 147 78 85-86; 86284; 135; 135430; 189563 28; 3366; 40 81; 135 32 22; 135 46126; 48138; 111366-367; 115376; 142443; 152; 156; 156478
04_Index locorum_1_COL.qxp_Layout 1 09/12/21 12:27 Pagina 286
– 286 – preaccursiani, glossatori premio (di collaborazione con la giustizia) pretore Pretorio prigioniero princeps – Cancelleria del – legibus solutus, principio – rescritto del principati Pritaneo procedura concorsuale (a soddisfazione dei creditori) Prochiron (legum) Pro C. Rabirio, orazione procuratore professione legale proprietas sermonis provocatio ad populum Provvidenza publicatio bonorum pupillus purgamentum purificazione
195 65; 86 124396; 151 160; 160488 64; 85-86 41; 68; 68210; 71; 71227; 78; 78257; 79; 79261; 80-81; 81268; 82-83; 83276; 84; 84277; 86; 129; 135; 160488; 168; 173; 183; 185; 192; 198587; 200598 83276 128; 128409; 129 71; 71227; 83; 83276 41 162 106; 183548-549; 184; 184550 150 132 30; 3052; 96; 96321; 103345 46; 49 62; 72; 72228-229; 75; 85; 87; 88; 94; 123-124; 126; 127407; 134; 196581; 197586 123396; 124396; 128409; 148; 148460 161 69; 78257; 92304; 131417; 154; 166 76; 76245 149-150 117; 144; 145452; 148-149; 155; 156476; 158-159; 159487; 161; 165; 165497; 196580; 198587; 200
Q 3048; 33-34; 78257; 91; 97324; 106353; 195579 74234 2215; 62; 62188; 65200; 73231; 74; 89; 89294; 95; 184; 184551; 188; 189563; 190; 190566; 191; 196582 Quaestiones de parvulis Iudaeorum baptizandis 187; 187560; 189563; 191569 – Quaestio III 187; 188; 189563; 190; 191569 Quaestiones statutorum 193 quaestio Quaestiones (di Bartolo da Sassoferrato) – Quaestio I, Lucanae civitatis
R rapinatore ratio (legis) ratto
96; 97323 206; 21; 2738; 43; 48; 53-54; 66; 68209; 71; 79; 79261; 80264; 95-97; 97323-324; 98-99; 99328; 101; 101335; 135; 176; 179; 192 93
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– 287 – reato registri linguistici reiterazione – del bando – della scomunica relegata (vd. delegata) relegatio
reo confesso repressalia Rerum patriae libri res publica (romana) restitutio (del bannitus/esule)
– da parte del princeps revoca – del bando – della scomunica ribelle Riforma luterana rifugio (vd. perfugium) rigor iuris civilis Rinascimento Rodi Roma (antica) Romani
Rottweil, Tribunale di
20-21; 23; 25-26; 28-29; 66; 67206-207; 101-102; 103340; 105; 107; 114374; 117383; 124398; 147; 159; 161; 180; 188; 192; 197583; 200 62; 94; 119; 127; 146; 163; 190; 195578; 198588 106; 176; 176530; 177 176-177 20-21; 219; 2112; 23; 27; 30; 57174; 61; 63; 70; 79; 79261; 80; 90296; 106353; 108; 108360; 116379; 133-135; 150-151; 153; 166; 168; 180-181; 183; 183548; 184; 184550 2321; 28 163; 164494 46125 3784; 98; 124; 130; 133; 143; 151465 23; 32; 62; 65; 65 201; 74237; 76-77; 77253; 78; 78255; 79; 79258-259; 79261; 80; 80262; 80264; 81; 81267; 82; 84-86; 131; 135; 142; 168; 174; 174520-521; 185; 196582; 201 78; 78257; 79; 79261; 80-81; 81268; 82-83; 83276; 84; 84277; 86; 173; 198587; 200598 117; 177533; 181542 117 21; 23; 2427; 28; 57174; 178; 178535; 180; 188; 189563; 191-192; 201 191569 62-63; 65; 68; 68209-210; 72227; 90; 99; 109; 110365; 172; 179; 182; 196582; 197; 197583; 201 13; 44111; 53; 199593; 200595 115 94; 124396; 125; 127; 129; 131; 134-136; 141; 143-144; 196580; 197585; 200 22-23; 2322; 24; 2425; 26; 35; 3577; 64; 64195; 72229; 76; 113; 117; 117383; 123396; 125; 127-128; 128409; 130; 130415; 131-134; 134427; 135; 144145; 148; 154; 188; 189563; 197585 182
S sacertas sacra fames, espressione
124398; 144; 147; 147458; 148; 148460; 149-150; 157; 191; 191570; 196580 147
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– 288 – Sacre Scritture (vd. Bibbia) sacrosanctum salvo iure alterius, clausola scelus/scelestus scholia (alla Vulgata) scolasticismo giuridico (vd. mos italicus) sedibus expellere, espressione senato (romano) senatus consultum – Turpillianum sentenza servitus poenae signifer signorie silvestres società (contratto) sovranità Speculum iudiciale stampa Stati generali (di Francia) Stato – moderno – regionale statuti
– interpretazione degli
stipulatio storia (costituzionale) romana – dominato – età repubblicana – principato storicizzazione stranieri (vd. anche peregrini) studenti successione – ab intestato
148 83; 83276 148; 149461 149 151; 151465 72227; 127; 128409; 129-130; 188-189 93310; 130-131; 135-136; 136433 93; 93310 23; 2321; 92304; 99-102; 104; 121; 177; 182; 182544; 183; 192 2217; 85; 85283; 86; 89294; 132 117; 117383; 118383 41 38 73; 185-186; 186558 35; 52; 83 274; 160-161; 161490; 198587; 200; 200598; 201 106354; 175526 55; 55166; 56; 64194; 65198; 83275 161 66; 105 83 13; 19; 194; 206; 21-23; 2321-22; 24-25; 2529; 26-29; 31-33; 3366; 34-35; 38; 50146; 57174; 62188; 63-65; 65199; 65201; 73; 75243; 86; 89; 92; 95-96; 99-101; 101335; 103-104; 105350; 109; 129; 136; 174; 179-180; 180539; 181; 182544; 187560; 197 19; 206; 27; 32; 34; 66203; 68-69; 95-96; 96322; 97; 97323-324; 98-99; 99328-329; 103; 109-110; 110365; 125-126; 127407; 179-180; 196582; 197; 197583; 201 71; 71227; 97; 186; 192 135 3784; 123; 123396; 124398; 125; 129-131; 133; 134427; 136; 141; 143-144; 151465; 196580; 197585; 200 129; 135 13; 43; 45; 52-53; 133; 197-198 40; 4097; 128; 132-133; 182 48; 48139; 49-50; 50146 26; 84
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– 289 – – grado di suffitio Suida suspensio (all’arbor infelix)
73-74; 74238; 75; 77252; 85 144 149-150; 162 127; 128409
T tabulae pupillares Taso taumaturgo, sovrano temperamento del rigor iuris civilis Tempio (di Gerusalemme) tenuta (vd. missio in possessionem) testamenti factio testatore tipografia (vd. stampa) toga τόπος (alciateo) – episodi mitologici – episodi paradigmatici di storia costituzionale romana Torino, Università di Tractatus – bannitorum (di Bartolo da Sassoferrato) – bannitorum (di Ippolito Marsili) – de bannitis (di Iacopo d’Arena) – de bannitis (di Nello Cetti da San Gimignano) – de maleficiis (di Alberto Gandino) – de maleficiis (di Angelo Gambiglioni) – exbannitorum – represaliarum – super constitutione Qui sint rebelles tradizione giuridica – romana – medievale (o di ius commune) traduzione transfuga (vd. hostis) trecento (Spartani, i)
186; 186556 162; 162492 161; 161489; 198587 27; 32; 35; 62-63; 66; 69; 90; 99; 109; 110365; 130; 136; 172; 175-177; 179-180; 196582; 197; 197583; 199-201 146 26; 75242; 89294; 133 71; 71227; 73-74; 92; 185-186 134; 134427; 151-152 57; 62; 116; 123 112; 115; 115 377; 116378; 117; 117383; 118383; 119-120; 120388; 164; 164495 120388; 123; 129-130; 131417; 132420; 134; 134427; 136; 172; 189564; 197585; 198588 47 22; 2215; 3048; 103; 189563 3363; 3574 21; 2321 32; 3361; 78255 20; 27; 32; 63 32; 3574 30; 3048; 31 41; 41105 3048 13; 36; 45; 50; 53-54; 129; 140 14; 19; 206; 36; 49; 52-53; 56; 61-62; 66203; 73231; 82; 87287; 95; 172; 174; 179; 182; 185; 188; 193; 195-196; 196582; 197-198; 200-201 46125; 112-113; 115; 145; 150; 154; 157-158; 158481; 161; 163; 167; 187560 146
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– 290 – Tres libri (Codicis) tribuno (della plebe) triumvirato umanistico Troia, guerra di tuba
47133; 48138 124396; 143; 148; 154 14; 36; 45; 139; 171511; 195; 199591 119; 119385 117; 117383
U usura utilitas publica
176; 176528 31; 201
V vassallo vendetta vendita al pubblico incanto verberatio, pena della vertere solum, espressione vescovo di Strasburgo volontarietà (dell’esilio) vox vulgaris (o barbara) Vulgata – del Digesto – della Bibbia
178; 178535 66; 114374; 147; 161-162; 179; 193 73; 183; 183548; 184; 184550 123396; 127-128; 128409; 132; 180-181 142; 154 185 111; 112370; 113; 115; 115377; 116; 116380; 119; 123; 124398; 134427; 140; 142-144; 152-155; 155474; 156; 158; 166; 196580-581; 197585; 200 3470; 94-95; 118383; 120390; 163; 189; 195578 44; 111367 149
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Finito di stampare nel mese di dicembre 2021 per conto de «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER da Services4media - Viale Caduti di Nassirya 39, 70124 Bari