Ermeneutica del Nuovo Testamento 8839920269, 9788839920263

Uno studio storico e sistematico per distinguere e coniugare esegesi storica e applicazione contemporanea.

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Italian Pages 264 [261] Year 2001

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Ermeneutica del Nuovo Testamento
 8839920269, 9788839920263

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In questo volume, ormai col­ laudato nell'edizione originale tedesca, Klaus Berger cerca di stabilire i criteri per l'interpre­ tazione del contenuto della Scrittura. Oltre a una riflessio­ ne sistematica di fondo su ciò che avviene nell'esegesi, egli propone regole concrete per una trasposizione e applicazio­

Dal Sommario Introduzione: problemi di un'ermeneutica l. Posizioni importanti della

storia della ricerca 2. Schema di un'ermeneutica

del Nuovo Testamento 3. Sulla prassi dell'applicazione

ne della Scrittura oggi. A questi due aspetti dell'esegesi e del­ l'applicazione l'autore dà rispo­ sta in primo luogo pragmatica. Egli abbandona l'orizzonte del­ la filosofia idealistica tedesca e, al suo posto, mostra che è pos­

KLAUS BERGER, 1940, ha studiato filosofia, teologia e orientalistica a Miinchen, Ber lin e Ham burg; dal

1970 è stato docente alla Rijksuniver­

sibile imparare proprio da filo­

si tei t di Leiden (Paesi Bassi); dal

sofi ebrei come potrebbero og­

1974 è docente di teologia neotesta­

gi essere i criteri cercati.

mentaria all'università di Heidelberg

n tentativo di tenere distinte l'interpretazione storica e l' ap­

ed è uno dei più noti esegeti di lingua tedesca.

plicazione attuale insegna so­ prattutto a riflettere di più sul metodo e a guadagnare chiarez­ za espositiva.

In copertina: Pagina della Bibbia di Gutenberg (1452-55), Prologo del vangelo di Giovanni, Museo Gutenberg, Mainz.

L. 45.000- Euro 23,24 (i. i.)

Klaus Berger

ERMENEUTICA DEL NUOVO TESTAMENTO

Editrice Queriniana

Titolo originale

Hermeneutik des Neuen Testaments © 1999 by A. Francke Verlag, Ttibingen und Basel 2001 by Editrice Queriniana, Brescia via Ferri, 75 - 25123 Brescia (Italia) tel. 030 2306925 -fax 030 2306932

©

internet: www.queriniana.it e-mail: [email protected]

Tutti i diritti sono riservati. È pertanto vietata la riproduzione, l'archiviazione o la trasmissione, in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo, comprese la fotocopia e la digitalizzazione, senza l'autorizzazione scritta dell'Editrice Queriniana. ISBN 88-399-2026-9 Traduzione dal tedesco di

CARLO DANNA Stampat o dalla Tipolitografia

Q ue rini ana

,

Brescia

PREFAZIONE

Dopo che il mio libro Hermeneutik des Neuen Testaments [Ermeneutica del Nuovo Testamento] (Giitersloh 1 988) fu esaurito, si poneva il compito di una revisione fondamentale della sua concezione e del testo. Accolsi le sol­ lecitazioni che mi venivano dal gruppo dei parroci e in particolare dal colle­ gio pastorale e feci tesoro del risultato ermeneutico scaturito dalla discussio­ ne portata avanti nei miei «libri col punto interrogativo», in specie in Wer

war Jesus wirklich? [Chi era realmente Gesù?] ( 1 995), Daif man an Wun­ der glauben? [Possiamo credere nei miracoli?] ( 1 997), Wozu ist der Teufel da? [Che ci sta a fare il diavolo?] ( 1 998). Ho rifatto completamente la parte conclusiva del libro sulla base della situazione attuale della discussione e concepisco in essa la mia posizione come alternativa alla spiegazione demi­ tizzante, come 'terza via' tra fondamentalismo e razionalismo. Poiché l' Ermeneutica doveva diventare un libro di studio accattivante per gli studenti, ebbi occasione di esporre e confrontare in anticipo le singole posizioni della ricerca. Ho reso più conciso il testo principale e ho rinuncia­ to a portare alcuni esempi. Per quanto riguarda singole più ampie fondazioni teoretiche a proposito di temi come ' situazione' , 'etica' e 'estetica' occorre continuare a far riferimento al primo libro. Quanto alla tematica, l'Ermeneutica rientra propriamente nella serie dei miei libri sul metodo, libri che, per quanto concerne l' esegesi, hanno trovato la loro conclusione nel volumetto Einfiihrung in die Formgeschichte [Intro­ duzione alla storia delle forme] (Tiibingen 1 987). La dedica del primo libro («Alle mie uditrici e ai miei uditori di Heidel­ berg dal 1 974 in poi») fu indovinata, perché molti di essi si fecero sentire, commentarono il mio lavoro e mi diedero dei suggerimenti, cosa di cui sono loro cordialmente grato. L' istanza fondamentale dell'Ermeneutica non è cambiata e - di fronte al crescente sconcerto, da un lato , e ali ' irrigidimento dogmatico, dali' altro lato

6

Prefazione

- mi sembra più pressante di prima: separazione tra esegesi e applicazione, un'ermeneutica dell'estraneità a favore della grande ricchezza spirituale dei testi e di ciò che essi testimoniano. Lo stato delle chiese

è

diventato drammaticamente chiaro negli ultimi

dieci anni. Due cose riguardano direttamente il tema 'ermeneutica', anzitut­ to il riconoscimento che il modo in cui l'esegesi fu concepita e proposta

è

in

parte responsabile di tale stato, in secondo luogo la sensazione che gli esodi dalle chiese sono la prova del fatto che 'le chiese' già da generazioni hanno perso il cuore degli uomini, per cui

è

necessario ricordare loro la forza in

esse nascosta. Ringrazio di cuore il mio laureando Markus Richter per l'attenta corre­ zione delle bozze e la revisione di tutto il libro. Klaus Berger

Introduzione

PROBLEMI DI UN'ERMENEUTICA

L'Antico e il Nuovo Testamento sono la Bibbia dei cristiani, valida parola di Dio sotto forma di parole umane. I problemi che ne risultano, se si dichia­ ra superflua un'ermeneutica, sono noti: le donne dovrebbero portare il velo durante le celebrazioni liturgiche giare sanguinaccio

(At 15,20),

(l Cor 11 ) ,

potrebbero sposare persone non battezzate bero insegnare religione e meno che mai

2,11-15).

i cristiani non potrebbero man­

(Mt 5 ,34-37) e non (At 15,20). Le donne non potreb­ predicare (l Cor 14,33-36; l Tm

non potrebbero giurare

E cosa non insignificante: i cristiani sarebbero tenuti a osservare il

sabato. Il divorzio sarebbe impossibile. Anzi bisognerebbe addirittura pren­ dere in considerazione la possibilità che

Ap 14,4

esiga il celibato per tutti i

cristiani. Proibito sarebbe in ogni caso l'assassinio del tiranno e il problema che l'attentato contro Hitler del

20

luglio

1944

(Rom 13,1-7 costituì per i

cristiani fedeli alla Bibbia). Tali problemi non sono eliminabili con un'esegesi superficiale e contorta. Questi testi hanno un loro senso onestamente non eludibile. Inoltre i loro autori non distinguono tra importante e meno importante. Se l'avessero fat­ to, avrebbero vanificato le loro esortazioni e le loro direttive. Chi infatti dice che non

è

poi 'tanto importante' seguire la sua direttiva, non può sperare di

essere obbedito. Né ha senso voler distinguere, nel singolo caso, tra parola di Dio e parola umana, tra storicamente condizionato e eterno. Troppo facilmente una cosa del genere può essere smascherata come una manovra per autoingannarsi. è fatta per rendere più facili e per stemperare simili questioni.

L'esegesi non

Per risolverle ci vuole un'ermeneutica approfondita. E proprio anche a proposito delle realtà 'soprannaturali', come ad esem­ pio gli angeli, l'ascensione, la nascita verginale e la descrizione dell'inferno ci sentiamo in continuazione rispondere che si tratta di «concezioni storica­ mente condizionate» e che possiamo confidare nel fatto che i teologi riesca-

8

Introduzione

no a individuare ciò che in esse è realmente importante. Possiamo realmente confidare in una cosa del genere? Al riguardo sono molto scettico, perché vedo di continuo all' opera solo dei pii desideri e il tentativo di modemizzare la Bibbia per, in qualche modo, 'salvarla' . Notiamo, per inciso, che di un' ermeneutica c'è bisogno non solo per il Nuovo Testamento, bensì ovviamente anche a proposito di varie fasi della storia della chiesa. Così recentemente E. Jiingel (EvKomm 8 [1998] 457s.) ha sostenuto la necessità di un' ermeneutica degli scritti confessionali e delle condanne dottrinali del secolo XVI. E lo ha fatto perfettamente a ragione, perché prima di domandarci che cosa sia 'oggi' valido, dobbiamo chiarire come possiamo oggi concepirlo, per cui dobbiamo guardarci dalla semplice ripetizione di formule. Il problema, che qui mi sta a cuore, è stato riconosciuto molto bene da G. Kegel nella sua replica al parere espresso da professoresse e professori della facoltà di Tubinga a proposito della teologia femminista1• Egli ha individua­ to perlomeno il problema, perché pone là la questione dei criteri della sele­ zione legittima in seno all' Antico e al Nuovo Testamento, e afferma: non è mai stato dimostrato che si possa utilizzare in maniera inoppugnabile il prin­ cipio della Scrittura. Egli si domanda: esiste l' unico messaggio dell' Antico e del Nuovo Testamento? E crede di poter rispondere: il principio della Scrittu­ ra è soprattutto una professione di fede puramente formale, esso non è soste­ nibile quando si tenta di utilizzarlo, e conclude: «Non esiste alcun contenuto a proposito del quale si possa dimostrare, con un metodo inoppugnabile e universalmente riconosciuto, che esso costituisce il contenuto principale del­ la Scrittura» . Qualsiasi 'contenuto' teologico della Scrittura poggia su una decisione reale , e tale decisione sarebbe indipendente da fonti testuali.

Rinuncia ad una armonizzazione delle affermazioni bibliche

Prendiamo l'esempio di Mc 11,12: Gesù maledice il fico, perché non gli ha dato niente da mangiare. Non era il tempo dei fichi, tuttavia l' albero avrebbe

' E. MOLTMANN-WENDEL - G. KEGEL (edd.), Feministische Theologie im Kreuzefeuer. Der Streit und das 'Tiibinger Gutachten '. Dokumente, Analysen, Kritiken, Giitersloh 1992. Qui: G. KEGEL, Wie Man(n) mit der Feministischen Theologie nicht umgehen solite. Analyse und Kritik eines 'Gutachtens 71-154. ',

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Introduzione

dovuto ugualmente darli. Un vero schiavo deve star pronto giorno e notte. Gesù è il Signore, per cui il fico avrebbe dovuto esser sempre pronto. - Nes­ suna traccia del fatto che qui si tratti di una maledizione d' Israele. Che senso avrebbe allora l' annotazione che non era il tempo dei fichi, visto che bisogna compiere in ogni tempo delle opere, o la frase: «Nessuno possa mai più man­ giare i tuoi frutti»? No, poiché il fico non ha servito Gesù, il suo unico Signo­ re, non dovrà mai più poter servire alcun altro. In modo inverso, ma simile al caso del puledro, che nessuno doveva ancora aver cavalcato. Chi parla così, è matto oppure Dio. - Quel che Gesù poi promette a coloro che credono non è meno spettacolare: basta che essi non dubitino, quando credono di aver già ricevuto quel che chiedono, ed esso sarà loro concesso. Allora potranno spo­ s tare montagne e alberi. Cose quindi che solo il Creatore può fare. Tale fede non è però diretta o non solo diretta verso Dio, ma si tratta prevalentemente della sua propria qualità. Essa consiste nel fatto di non dubitare e di essere una forza immaginifica. Qui è in discussione la propria divinizzazione. Gli uomini come portatori della potenza creatrice specifica di Dio. Chi crede ha ricevuto la stessa potenza creatrice, può parlare e le cose avvengono, come nel caso del Creatore secondo Gen 1 . Se uno è una cosa sola con se stesso e non dubita, se è una cosa sola con altri mentre perdona loro, ed è una cosa sola con Dio nella fede, allora Dio è presente come il Creatore. Una presenza dinamica di Dio. Dio è presente mentre viene riprodotto e realizzat� nel signi­ ficato più vero del termine mediante l' unione con lui. Marco parla di questo anche quando dice: abbiate sale in voi. Sale come immagine della presenza preziosa e insostituibile di Dio (Mc 9,49s.). Un messaggio emozionante e del tutto impossibile. Compito dell' esegesi e dell' ermeneutica non è quello di rendere più com­ prensibile, di rendere più accettabile e di portare in qualche modo più vicino all' uomo moderno questo messaggio impossibile e semplicemente scandalo­ so. Non esiste qui alcuna costante antropologica al di fuori dell ' unico bilan­ cio negativo che questo è un messaggio insopprimibilmente scandaloso. A seconda delle epoche la concezione dell' inerranza della Scrittura ha assunto forme diverse. Nel corso dei secoli è stata la cronologia biblica quella che doveva essere sincronizzata con la cronologia profana. Poi fu la volta del rifiuto delle contraddizioni con le scienze naturali e dell' equipara­ zione della Bibbia a diverse scienze umane (antropologia, sociologia, psico­ logia) e ai moderni movimenti di emancipazione (teologia della liberazione, femminismo). Di qui vediamo che da sempre la dottrina dell ' infallibilità della Scrittura ha avuto il suo Sitz im Leben in manovre apologetiche. E qua­ si di regola la moderna teologia ( 'progressista') è parte di una simile apolo­ getica. -

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Introduzione

A ben riflettere una strana situazione è già il fatto che una gran parte dell' acume teologico venga speso per 'salvare' in qualche modo la Bibbia, per mostrare che essa ha sempre 'comunque' ragione e che potrebbe aver qualcosa da dire . Questi tentativi sono di regola effettuati ·sulla base dell' armonizzazione con le correnti e i movimenti moderni. lo ritengo che qui siamo di fronte a dei fraintendimenti a proposito del concetto di verità. Se la Scrittura non deve contenere in primo luogo una verità dottrinale e intellettuale, ma contiene vari 'modelli di vita' , progetti diversi incarnati in singole persone, i quali mostrano come il primo comandamento possa sedi­ mentarsi in uno stile di vita, allora essa non ha bisogno di essere armonizza­ ta, bensì il suo carattere provocatorio consiste allora nel fatto che Gesù Cri­ sto, gli apostoli e i profeti vanno presi pienamente sul serio, in seno a questo unico popolo di Dio, come autorità in tutta la loro vera scandalosità e impossibilità, due cose che non possono appunto essere apologeticamente appianabili. In verità infatti lo stile di vita e la fiducia in Dio del profeta Amos e di Gesù di Nazaret non corrispondevano neppure all' immagine del mondo di quel tempo e sono in ogni tempo impossibili. È compito dell'esegesi elaborare i campi di queste impossibilità. Sarebbe troppo comodo trattare dell ' ispirazione e dell ' inerranza nei campi della conoscenza e liberarsi così di esse. Il vero problema sta nel domandarsi se sia possibile vivere così. E al riguardo non è possibile dare alcuna risposta dottrinale e metatemporale. Tutte le nostre professioni di fede sono soprattutto troppo ammodo di fronte al messaggio provocatorio di Gesù. E una delle illusioni di molti cosiddetti uomini di sinistra è che la B ibbia sarebbe un libro dei diritti dell'uomo. Ciò non è vero, e l' onestà viene qui in soccorso. Né il libero svi­ luppo della personalità, né l' emancipazione, né l' autorealizzazione, né la libera decisione pro o contro la fede, né l ' umanitarismo universale, né l' esclusione della vendetta o altre cose simili sono anche solo lontanamente ciò che la Bibbia si propone di dire. No, l' uomo è un vaso d' argilla o uno schiavo, egli è chiamato o colto di sorpresa, la vendetta non è proibita ma rimessa a Dio, non l' umanità universale è eletta, bensì Israele e l'ulivo unico di Dio, la santità si diffonde per contagio, i tabù sono virulenti, e la suddivi­ sione dei poteri è molto lontana. L'uomo di cui parlano le parabole è colui che punta follemente tutto su un' unica carta, non la personalità completa­ mente formata. La fede in Gesù è piena di magia, possiamo parlare di mes­ sianismo magico. Applicazione: non esiste solo un biblicismo evangelicale, ne esiste anche uno di sinistra. La verità della Bibbia non consiste nel fatto che essa è moderna. La Bibbia è un libro estraneo e provocatorio.

I.

POSIZIONI IMPORTANTI DELLA STORIA DELLA RICERCA

In linea con il carattere di un manuale esporremo brevemente e valutere­ mo criticamente anzitutto alcune importanti posizioni del passato.

OSSERVAZIONI SULL'ERMENEUTICA DELLO STESSO NUOVO TESTAMENTO

I primi scrittori cristiani concepiscono sostanzialmente quel che espongo­ no come il risultato di una preistoria e lo esprimono utilizzando attentamen­ te la Scrittura secondo le regole rabbiniche allora in vigore. At 1 3 ,3 4s. ne è una prova. Come è possibile dimostrare, in base alla Scrittura, la risurrezio­ ne di Gesù, si domanda l' autore. E risponde: l. Secondo fs 55,3 Dio « Vi» ha promesso, ha cioè promesso ad Israele di dare (in futuro) quanto aveva promesso sotto giuramento a Davide. 2. Il Sal 16 è opera di Dav ide (così come tutti i Salmi secondo la conce­ zione di allora). 3. In Sal 1 6, 1 0 l' orante (Davide) dice a Dio: «Non permetterai che il tuo santo subisca la corruzione». Che significa questo? È chiaro: Dio preserverà Davide, il santo e l' eletto, dalla morte. 4. Problema: ma Davide è morto. 5. Lo possiamo documentare: secondo l Re 2, 10 Davide «fu unito ai suoi padri», per cui il Sa/1 6 , 1 0 non si è in ogni caso adempiuto nei suoi confron­ ti . 6. Ma se secondo il punto l Dio agirà, quant o è stato promesso a Davide deve ancora avverarsi. Dio lo ha ade mpiuto in Gesù, figlio di Davide. A lui si riferiva infatti, secondo 1 3 ,33, anche il Sal2,7. Caratteristiche d i questa ermeneutica: la Scrittura è interpretata come un documento unitario. L' inte rprete è paragonabile soprattutto a un giurista che

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prima parte

deve dare esecuzione a un difficile processo di successione e che legge deci­ samente il documento in favore del proprio assistito. - Sotto il profilo erme­ neutico ciò significa: qui non si tratta di associazioni letterarie, ma di legitti­ mità e di diritto. La Scrittura è una testimonianza. Qui valgono i seguenti principi: l. La ' Scrittura' , l' Antico Testamento (non esiste ancora un' altra 'Scrittu­ ra' ), è in ogni caso-vera e valida. 2. La parola non è per questo slegata dal tempo, però essa svolge la pro­ pria funzione su più piani temporali. Dio è infatti colui che era, che è e che viene. Ciò è qualcosa di diverso da un' eternità atemporale; esistono tre piani temporali individuabili con precisione. 3. La Scrittura è segno, annuncio e prova della fedeltà di Dio. La sua parola illumina sempre. 4. Ma non si tratta di affermazioni generali sull'uomo e sul mondo, bensì la parola di Dio si riferisce sempre a eventi concreti ben determinati della storia della salvezza. Essa è come una freccia diretta al suo bersaglio. Se la parola è come un uccello, allora il volo di questo uccello è sempre un allon­ tanamento tra due luoghi di permanenza, tra la promessa e l' adempimento, tra adempimento terrestre e quello celeste della promessa. 5. Questo Dio non è un Dio del passato. Da lui ci dobbiamo attendere ancora qualcosa. Quale Dio vivo egli non è elevato al di sopra del tempo, ma è sempre al centro del tempo. 6. La parola della Scrittura sta in una cornice di fondo che potremmo chia­ mare promessa. Per la comprensione di singoli passi tale cornice è molto più determinante che non il suono letterale delle parole. Anche gli autori neote­ stamentari, che citano la Scrittura, osservano spesso che le parole di un passo non danno ancora quello di cui essi hanno bisogno, per cui citano numerosi passi al fine di presentare, mediante una catena di citazioni, per così dire più testimoni che si completano a vicenda. Ma essi si sottopongono a questa fati­ ca e a un dispendio spesso 'geniale' di energie perché sanno dalla cornice che la parola di Dio non rimarrà vana. A suo tempo (e non solo alla fine dei tem­ pi) essa trova compimento. La 'Scrittura' documenta perciò per i primi scrit­ tori cristiani soprattutto la dimensione della 'promessa' .

Risultato: il Nuovo Testamento non conosce alcuna interpretazi one antro­ pologica, bensì solo un' interpretazione 'kairologica' , riferita al kair6s (ora della salvezza) . D ue altri punti dell' ermeneutica neotestamentaria dell' Antico Testamento sono importanti:

Posizioni importanti della storia della ricerca

13

l. Notiamo una chiara tendenza a esige re una connaturalità tra autore del testo e interprete. Ciò significa: poiché lo Spirito Santo è l ' auto re della Scrittura, si può avere un' interpretazione attuale giusta di questa solo nella virtù del medesimo Spirito Santo. Esempio: I Pt l, lls., secondo la quale lo Spirito Santo fece annunciare dai profeti a proposito di Cristo quel che ades­ so viene annunciato come vangelo mediante la forza del medesimo Spi rito Santo. Così pu re la Lette ra di Barnaba: i profeti parlarono nello Spi rito - i cristiani, che adesso comprendono la Scrittu ra, lo possono fare mediante lo Spi rito ( 1 ,3). Significato : c'è una sola rivelazione . Non si presuppone che si possa comprendere l ' interpretazione cristologica della Scrittura con la semplice ragione (esempio : Filippo e il funzionario etiope secondo At 8. Filippo è ripieno di Spirito: 8, 29.39) . . 2. Specialmente Luca e l' auto re del vangelo di Giovanni conservano il ricordo che l' interpretazione cristologica della Scrittura da parte dei disce­ poli è un dono del tempo postpasquale. Secondo il vangelo di Giovanni è il Paraclito a ri cordare tutto e a introdurre in tutto. - Secondo Luca è lo stesso Risorto a introdurre nella Scrittu ra, cioè a spiegame il significato cristologi­ co. Ambedue le concezioni hanno la loro preistoria ellenistica nella cornice della mantica. Che ci fosse bisogno dello Spirito o di una potenza particolare per ricorda­ re era un problema riguardante la fedele trasmissione di rivelazioni. Quando infatti il ricettore di una rivelazione era di nuovo tornato alla normalità, doveva poter ricordare e comprendere quanto gli era stato rivelato (documentazione in Jub 32,25 e in K. BERGER, Die Auferstehung des Propheten, in StUNT 13 [1976] 492, nota 212). E per quanto riguarda l ' insegnamento impartito dal Risorto: secondo molte testimonianze dell'antichità deve comparire l' autore di un testo (Omero, Mosè, un profeta) per spiegare il proprio testo (documentazione in K. BERGER, Auferstehung, 575s., nota 427 e lo., Visionsberichte, in TANZ 7, 205-207, Lehrvisionen).

Da tali testimonianze risulta che la spiegazione 'traslata' non è evidente, ma è possibile solo a colui che ha ricevuto una rivelazione aggiuntiva. Il ruolo dell' 'angelus interpres' stava a indicare già nelle visioni che una rive­ lazione non basta; pure la spiegazione va rivelata. Se i cristiani avesse ro conse rvato queste antiche sapienze, si sarebbero verificati meno ci rcoli viziosi e corrispondenti dolorose polemiche sulla Scrittu ra.

14

prima parte

ERMENEUTICA MEDIEVALE Bibliografia: H. DE LUBAC, Exégèse médiévale. Les quatre sens de l'Ecriture, 2 voli., 1959 [trad. it. , Esegesi medievale. l quattro sensi della Scrittura, 2 voli., Edizio­ ni Pao1ine, Roma 1 972]; H. MERCKER, Schriftauslegung als Weltauslegung. Untersu­ chungen zur Stellung der Schrift in der Theologie Bonaventuras, Miinchen 1 97 1 .

La base dell ' interpretazione medievale della Scrittura fu posta dal filo­ sofo ebreo Filone di Alessandria, che attraverso la scuola alessandrina influì sull' occidente. Fondamentale è la sua distinzione (platoneggiante) tra senso letterale e senso allegorico. Nel secolo XIII vide la luce questa formulazione: littera gesta docet quid credas allegoria moralis quid agas quid speres (quo tendas) anagogia

(il senso letterale insegna gli eventi, il senso allegorico quel che devi cre­ dere, il senso morale quel che devi fare e il senso anagogico quel che devi sperare [la meta a cui devi tende re], il compimento escatologico). I tre ulti­ mi 'sensi' furono collegati alla triade fede, carità e speranza. Il più delle volte si distinsero solo due sensi, quell o letterale e quello 'spi­ rituale' (mistico, allegorico). Questa distinzione permise di interpretare in maniera 'figurata' tutti i passi difficili in base al loro senso letterale. La dottrina del quadruplice senso della Scrittura è anche diventata, in molteplici varianti, la base della suddivisione intrateologica in discipline.

l. Ermeneutiche confessionali

PRINCIPI DELLA RIFORMA

L'interpretazione come opera dello Spirito Santo Secondo M. Lutero lo Spirito, che ci viene incontro nel la parola, suscita la fede. Lo Spirito Santo adopera la parola este rna (lettera, legge) per opera­ re sotto forma di luce interiore come vangelo nei cuori umani (TRE 1 2, 208 con riferimento a WA 55 /1, 1 7 1 s . 248). Lo Spirito è la presenza creatrice di

Posizioni importanti della storia della ricerca

15

Dio nella parola della Scrittura, presenza che reali zza la fede e quindi una nuova esistenza. Stando a quanto dice il Grande Catechismo a proposito dell' Articolo 3 (WA 30/1 , 1 87s.), lo Spirito, quale forza mediatrice, ci avvi­ cina a Cristo mediante la comprensione e l' accoglimento del vangelo. Egli opera solo indirettamente mediante la parola della Scrittura e la predicazio­ ne quali suoi strumenti (TRE 1 2, 209) . Perciò la chiesa guidata dallo Spirito è l' assemblea sotto la parola. Lo Spirito non opera accanto ad essa in qual­ che modo immediatamente e direttamente. Critica: i teologi si chiedono in continuazione se lo Spirito Santo non sia appunto importante per i temi dell ' interpretazione e dell' applicazione trattati in una erme neutica. Alla luce di M. Lutero possiamo dire: sì, lo Spirito San­ to è importante, però in Lutero si tratta in tutto e per tutto solo di una teoria dogmatica. Dietro tale teoria non c'è una qualche esperie nza, una qualche percezione, foss' anche solo quella di una liberazione. «Lo Spirito Santo non opera per Lutero direttamente, unendosi in modo carismatico, e ntusiastico, mistico, speculativo o sacramentale con lo spirito umano. L' i nteresse per una simile unione, tipico della pneumatologia della chiesa antica e di quella medievale, non è condiviso da Lutero» '.

Scriptura sui ipsius interpres «La Scrittura possiede la chiarezza necessaria per conferire certezza alla fede e alla dottrina. Lutero distinse la chiarezza intrinseca della cosa, comu­ nicata solo dallo Spirito Santo, dalla chiarezza esteriore, che la semplice let­ tera mostra quasi ovunque, cosicché la Scrittura si spiega da sola e può da sola correggere la falsa comprensione ed essere pietra di paragone per la verità. La sua autorità e la sua interpretazione non posso no perciò dipendere dalle decisioni della chiesa, dei suoi dottori o del papa» (H. KARPP, Bibel IV, in TRE 6,7 1 ) .

JOHANN J AKOB R AMBACH ( 1 693- 1735) Nelle sue lnstitutiones hermeneuticae sacrae (Jena 1 7 24, 17648) Ramba­ ch compie tre passi pratici : ' W. D. ( 1984)

HAUSCHILD,

209.

Geist/Heiliger Geist/Geistesgaben IV. Dogmengeschichtlich, in TRE 1 2

16

prima parte

la subtilitas intelligendi - la comprensione per evitare fraintendimenti, la subtilitas explicandi la spiegazione chiarificatrice, la subtilitas applicandi - l' applicazione agli uditori. -

Da quest' ultimo passo, che si occupa dell' attualizzazione, del carattere vincolante e della ricezione ecclesiale, deriva anche il termine di 'Applika­ tion' (applicazione) adoperato in questo libro.

LA POSIZIONE EVANGELICALE Bibliografia: G. MAIER, Biblische Henneneutik, Ttibingen 1 988; Io. , Das Ende der historisch-kritischen Methode, Wuppertall9753•

L' unitarietà e la compattezza della propria posizione (sistematica) la tro­ viamo di nuovo nell' affermazione dell'unitarietà della testimonianza bibli­ ca. Alla luce della professione di fede si nega qualsiasi differenza sostanzia­ le tra i singoli scritti. Si ammettono solo cosiddetti 'passi oscuri' . Per questa 'ermeneutica' non esiste in partenza tutta una serie di problemi: l. La differenza culturale tra la situazione delle prime comunità cristiane e la situazione odierna viene ignorata affermando che l' obbedienza della fede è richiesta all'una e all' altra. Ciò riguarda sia il modo di concepire le cose che il linguaggio. La verità è infatti questa: i miracoli erano poco pen­ sabili allora come oggi. E il linguaggio formula allora come oggi qualcosa che è accessibile solo nell' obbedienza della fede. Cercare di andare incontro usando un linguaggio particolare non facilita in fondo nulla. 2. Si coprono le differenze tra le teologie neotestamentarie dichiarandole non sostanziali. È infatti possibile dire che si tratta solo di aspetti di versi. Le eventuali distanze (tra le teologie bibliche e tra l' allora e l ' adesso) sono quindi 'ritenute piccole' , cosicché in tali distanze non può penetrare nulla di estraneo, né alcun cambiamento allora (nella cornice della storia della teolo­ gia del cristianesimo primitivo), né alcun cambiamento nel periodo interme­ dio. Da questo punto di vista la teologia sistematica può perciò consistere solo e sempre nel comporre a modo di mosaico i singoli passi biblici 'importan­ ti' . Il senso non può essere altro che quello di 'allora' , e. appunto in questo si manifestano la fedeltà e l' obbedienza verso la Scrittura. Si negano la differenza legge/vangelo e la 'critica reale' (Sachkritik), per­ ché la Bibbia è considerata una fonte della rivelazione che «sta al di sopra di qualsiasi critica umana» . Né si distingue tra elementi centrali e elementi

Posizioni importanti della storia della ricerca

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meno importanti e s i concepisce questo tipo di lavoro come «metodo stori­ co-critico». Qui dobbiamo criticamente osservare: questo modo di appianare tutte le differenze temporali e oggettive facilita solo in apparenza la questione dell' applicazione e solleva più problemi di quanti ne risolva. Infatti: 3 . Prendendo le distanze dalla corrente evangelicale dobbiamo richiamare l' attenzione sul problema della traduzione, perché qui i problemi della lealtà insorgono già quando si tratta di rendere il testo biblico in una lingua moderna, cosa per la quale non basta come criterio il solo 'lessico' . Piutto­ sto: riconoscere il problema della traduzione non significa ancora attenuare o facilitare l' obbedienza della fede. Significa solo cercare l' obbedienza ai passi realmente importanti e non a numerosi altri che sarebbero presunta­ mente di uguale importanza. Chi vede tutti i gatti bigi potrebbe chiedere troppo alla capacità di comprensione. Così potremmo domandare se l' obbe­ dienza della fede consista primariamente nel fatto che le donne devono por­ tare il velo in chiesa (vedi altri esempi sopra) o nel fatto che bisogna affida­ re la propria vita a Dio. Questo significa: pure per la posizione evangelicale indispensabile è l' indicazione di criteri. 4. Potrebbe essere che l' uniformità renda la fede cristiana molto più pic­ cola di quanto essa abbisogni. - Il problema posto dalla multiformità degli scritti neotestamentari non può essere sicuramente risolto come ha proposto di fare E. Kasemann: il canone non fonda l' unità della chiesa, bensì la diver­ sità delle confessioni. Potremmo riflettere se non sia il caso di risolvere que­ sto problema storicamente, come sviluppo di teologie diverse sulla base di un tronco unitario di elementi comuni (cfr. K. BERGER, Theologiegeschichte des Urchristentums, 1 9952) .

L' 'ERMENEUTICA BIBLICA' Bibliografia: J. CHR. K. VON HOFMANN, Biblische Hermeneutik, Nordlingen l 880; P. STUHLMACHER, Schriftauslegung auf dem Weg zur biblischen Theologie, Gottingen 1975; lo. , Vom Verstehen des Neuen Testaments. Eine Hermeneutik (NTD.E 6), Gottingen 1979; W. ScHENK, Hermeneutik III. Neues Testament, in TRE 15,144-150; I. BALDERMANN (ed.), Biblische Hermeneutik (JBTh 12), Neukirchen 1998.

Secondo von Hofmann ( 1 880) una certezza della fede e della salvezza, che «soltanto il cristiano evangelico ha» e che egli deve sviluppare in una

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teologia sistematica, è il presupposto di ogni lettura della Scrittura. Von Hofmann si scaglia sì contro ogni «falsa armonistica)), però l' ecclesialità confessionale è qui il presupposto della comprensione della Bibbia. In modo del tutto simile l'interprete deve, secondo P. Stuhlmacher, «fon­ dere l' orizzonte della propria comprensione e l' orizzonte storico dei testi nella luce della tradizione (confessionale) ecclesiale )) (p. 22 1 ) . Qui, così potremmo dire, la concezione di vo ii Hofmann è stata congiunta con quella di H . - G . G adamer (vedi più avanti ) . L' elemento comune c o n s i ste nell ' accentuazio Ne della tradizione (in Gadamer non ancora specificamente ecclesiale !). In modo simile a Gadamer, anche per P. Stuhlmacher l' accordo è sostanzialmente un accordo con la tradizione della propria chiesa. Critica: come nel caso di Gadamer, così anche qui dobbiamo domandare dove mai debba esistere una possibilità di innovazione. Esiste qualcosa che, condizionato dalla situazione o da una maturata o mutata comprensione oggettiva o forse addirittura da altri uomini ( ! ), possa e debba essere pensato e concepito in modo nuovo? - Pure io sostengo un' ermeneutica di tipo ecclesiale, e secondo il modello delle gambe della sedia, che esporrò più avanti, tengo conto della tradizione ecclesiale. Ma una sedia ha, a mio modo di vedere, quattro gambe e non solo due. Inoltre io mi schiero a favore di una differenza metodica tra esegesi e applicazione proprio per amore della ricchezza della Scrittura. Perciò non mi spavento e non mi turbo se qualche volta le tradizioni ecclesiali (incluse le liturgie) non sono letteralmente conformi alla Scrittura. Finché non si abbandona l' orizzonte della verità pri­ maria ( discepolato ), possiamo stare qui tranquilli.

LA POSIZIONE 'CENTRO DELLA SCRITTURA' Bibliografia: E. HERMS, Was haben wir an der Bibel? Versuch einer Theologie des christlichen Kanons, in JBTh 112 (1997); Io., Biblische Henneneutik, Neukìr­ chen 1998, 99- 152.

Secondo M. Lutero il centro della Scrittura sta nella dialettica tra legge e vangelo (lettera della legge che uccide - promessa della grazia) . Tale centro si trova in ambedue i Testamenti e soltanto esso rende la Bibbia la 'vera Scrittura' . In altre parole: soltanto questo elemento essenziale è propriamen­ te Scrittura ne lla sua funzione normativa (H. KARPP, Bibel IV, in TRE 6, 7 1 ). Critica: molti teologi faticano assai a riconoscere che il Nuovo Testa­ mento contiene differenti teologie. Così non riescono a immaginare e non

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vogliono di consegu enza neppure ammettere che il vangelo di Giovanni non tramandi alcuna parola di spiegazione sul pane e sul vino adoperati nell ' ultima cena e che in tale vangelo la morte di Gesù in croce non sareb­ be avvenuta - diversamente da quanto affermano Paolo e la lettera agli Ebrei - in rappresentanza per la remissione dei peccati, bensì piuttosto nel senso dei crocifissi romani , il cui messaggio non è la sofferenza espiatrice, bensì la vittoria del martire perseverante. Tutto ciò viene respinto con gran­ de ansietà. Oppure il fatto che, al di fuori della l Corinzi, nessun' altra lette­ ra neotestamentaria sembra conoscere la cena del Signore e il fatto che l ' escatologia dell ' Ap ocalisse di Giovanni è tanto diversa da quella della lettera agli Efesini e della lettera ai Colossesi. Essi cercano di minimizzare queste differenze, perché i dati essenziali della loro dogmatica (cena del Signore, morte espiatrice) devono comparire il più possibile ovunque. A ciò si aggiungono le direttive bibliche in fatto di condotta che ora sem­ brano realmente in parte superate, come in particolare le esortazioni secon­ do le quali le donne e i bambini dovrebbero sottomettersi come schiavi. For­ se esiste infatti la possibilità - questa la speranza quasi disperata - di rico­ noscere in base alla stessa Scrittura che cosa è essenziale e che cosa secon­ dario. In tal caso il principio della Riforma, secondo il quale la Scrittura sarebbe interprete di se stessa, potrebbe essere confermato per via esegetica. Il problema non è però quello di far sì che la Riforma abbia 'ragione' . Se infatti non è possibile riconoscere in base alla stessa Scrittura che cosa è importante e che cosa no, allora ci vogliono dei criteri aggiuntivi. Ma da dove dovremmo attingerli? La 'parola di Dio ' è in fondo insostituibile. Il problema ermeneutico nasce dunque quando si adotta il principio riformato­ rio dell' identità tra Scrittura e parola di Dio. Pure il 'kerygma' di R. Bultmann aveva di fatto una funzione simile, con il risultato che H. Conzelmann cercò poi di trovare tale kerygma in determi­ nate formule. Poiché uno può o vuole, come protestante, essere sicuro di non dover ricorrere alla 'chiesa' nell 'interpretazione della Bibbia, finisce per muoversi, a quanto pare, in circoli viziosi. Un tentativo di individuare gli elementi colleganti teologie cristiane pri­ mitive, effettuato sulla scorta di elementi comuni filologicamente dimostra­ bili (per esempio Dio come Padre, Gesù come Figlio di Dio, discorso del regno di Dio, dello Spirito Santo e del giudizio; cfr. K. B ERGER, Theologie­ geschichte des Urchristentums, Ttibingen- Basel 1 9952), fu chiaramente per i rappresentanti di questa corrente piuttosto un ulteriore ostacolo. Non dove­ vano infatti essere singoli elementi a svolgere questa . funzione collegante, benslla dottrina della giustificazione.

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Ma qui è di nuovo l' esegesi a ribellarsi. Infatti, pur con tutta la buona volontà, né la morte espiatrice, né la giustificazione del peccatore sono dap­ pertutto dimostrabili. E come potrebbero dunque essere qui il centro della Scrittura? Critica: il problema del 'centro della Scrittura' come norma ermeneutica è un problema dottrinale unilateralmente protestante, originato dalla proble­ matica più antica dei concetti dottrinali di singoli autori (in termini critici al riguardo si era espresso già W. WREDE, Uber Aufgabe und Methode der sogenannten Neutestamentlichen Theologie, Gottingen 1 897), che si tra­ sformò poi qui nel concetto dottrinale dell' intera Scrittura. Forse possiamo trovare una soluzione, se teniamo saldamente davanti agli occhi due cose: a) la rivelazione cristiana primaria è lo stesso Gesù Cristo, e poiché si tratta di una persona, anche l' accesso a tale rivelazione è di tipo personale, passa cioè attraverso il discepolato, e b) la Scrittura è nata in seno alla chiesa e testimonia i suoi inizi. Con questo non diciamo chi occupi qui una posizione di preminenza, ma piuttosto che la chiesa può diventare certa della propria base solo attraverso la Scrittura. In altre parole: l' interpretazione autoritativa della Scrittura non può avve­ nire mediante un concetto dottrinale liberamente fluttuante e individuabile in primo luogo da professori di teologia (o da essi conosciuto), ma deve avvenire in qualche modo in forma ecclesiale. Solo chi dubita di una auto­ rità dottrinale vinc olante della chiesa ha bisogno di un centro della Scrittura. Al riguardo è fuori discussione che questa autorità ecclesiale è pervenuta in tutti i tempi a formulare i propri giudizi per vie differenziate. Non è escluso che anche la chiesa abbia potuto o dovuto ricorrere qui a dei criteri. In pri­ mo luogo e in linea di principio una cosa dovrebbe esser certa: l' interpreta­ zione vincolante della Scrittura può avvenire solo all' interno di un processo vivo (discepolato vivo) della stessa chiesa, perché tale interpretazione non è un evento in linea di principio distinguibile da questo processo vivo. Il crite­ rio dell' 'oikodom i ' , di cui ancora parleremo, possiede perciò una preminen­ za qualitativa rispetto a tutti gli altri criteri. - La preminenza qualitativa del­

la verità, che consiste nella persona di Gesù e nella stretta unione con lui, condiziona una preminenza della verità vissuta e attuata della chiesa rispet­ to a qualsiasi verità dottrinale. Al riguardo deve però esser chiaro che la Scrittura non è morta e che viene ascoltata in seno alla verità della chiesa vissuta in ogni funzione liturgica. Questa affermazione è diretta solo contro dottrine autonomizzatesi. In un saggio importante H. Herms ha recentemente ( 1 998) constatato: secondo la concezione veteroprotestante il contenuto dottrinale unitario del-

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la Scrittura avrebbe in effetti il proprio centro nella proclamazione di Gesù come Cristo (p. 1 28). Ma l 'esegesi storico-critica avrebbe mostrato che «la cristologia del dogma della chiesa antica non è l ' unità sostanziale . . . della testimonianza contenuta negli scritti della stessa graphi)> (p. 1 29). La visua­ le veteroprotestante della sintesi reale del canone sarebbe perciò fallita. Né si sarebbe potuto chiarire con un consenso pos itivo se la concezione dell ' esistenza sia unitaria (contributo dell' ermeneutica esistenziale) . - Risul­ tato: la sintesi reale della Scrittura non si troverebbe né in un singolo scritto, né in qualche testo derivante da utenti della Scrittura, né in alcuna testimo­ nianza personale della fede, né nel documento di un magistero. - La propo­ sta avanzata da E. Herms : la sintesi reale sta nell' oggetto delle Scritture, in · quel che esse testimoniano, cioè nell' «autocoscienza della vita in seno alla comunione della fede nel Dio d' Israele )), in seno al movimento vivo della fede nel Dio d' Israele, in seno al «movimento storico della vita nella fede nel Dio d' Israele)) (p. 1 35). Il fatto che questo Dio avrebbe rivelato la pro­ pria identità (Es 3 , 15) mostrerebbe che appunto l ' identità di Dio sarebbe il luogo della sintesi. Se i nfatti Dio stesso dice di essere colui che è, allora questo significa anche: io sono già da sempre presso di voi. - Non si tratta perciò tanto del ricettore della rivelazione quanto piuttosto del soggetto del­ la rivelazione. Reale sarebbe in ogni caso il movimento coerente della fede in Jahvé. Il canone, proprio perché rappresenta solo una sintesi formale, lascerebbe libero lo sguardo di concentrarsi sullo sfondo trascendente dell' identità. Inoltre ciò diventerebbe un evento nel culto cristiano, nello Sitz im Leben della Scrittura. Critica: E. Herms è molto vicino alla posizione qui sostenuta. Ma il suo modo contorto di parlare del movimento vivo della fede nel Dio d'Israele può essere, a mio avviso, semplificato: si tratta della storia del popolo di Dio con il proprio Dio e al cospetto del proprio Dio. Quando parleremo del concetto di verità parleremo di 'discepolato' . Anziché solo di 'fede in' , si tratta già da sempre di un intreccio drammatico. Molto spesso infatti Israele non ha creduto. - Non nell' identità di Dio sta, a mio giudizio, la sintesi pure altri dèi sono permanentemente identici con se stessi -, ma nella sua fedeltà. E così siamo esattamente giunti al concetto biblico di verità. L' ambientazione nel culto, ammessa da E. Herms, va decisamente sottoli­ neata.

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2. Ermeneutiche liberali

F. D. E.

SCHLEIERMACHER ( 1 768- 1 834)

Bibliografia: Sch1eiennacher non ha mai pubblicato un"ermeneutica' . Lo scritto Hermeneutik und Kritik (a cura di M. Frank, Frankfurt 19935) è una nuova edizione rielaborata delle precedenti edizioni di Friedrick Liicke ( 1 838) e Heinz Kimmerle ( 1 959). Costoro avevano cercato di comporre un testo unitario servendosi di spunti e di appunti di Schleiennacher per le lezioni. Il testo si presenta perciò come una serie di aforismi. Schleiennacher si era occupato del problema dell'enneneutica a partire all ' incirca dal 1 805 . - Cfr. W. G. JEANROND, The lmpact of Schleierma­ cher 's Hermeneutics on Contenporary lnterpretation Theory, in D. JASPER (ed.), The lnterpretation of Belief Coleridge, Schleiermacher and Romanticism, London 1 986, 8 1 -96.

Per Schleiermacher l' ermeneutica è l' «arte di comprendere nel modo giu­ sto il discorso di un altro», e questo è l' anello di congiunzione tra il porgere nel modo giusto e il comunicare qualcosa ad altri (a un terzo).

l. Parte e tutto Un principio che ritorna di continuo nell' ermeneutica di Schleiermacher è la complementarietà tra la parte e il tutto. La parte viene compresa antici­ pando il tutto, e il tutto viene compreso solo se sono state comprese tutte le parti. Schleiermacher applica questo principio sia a ogni singola opera sia anche al confronto di tutte le opere fra di loro, nonché all ' ambientazione biografica di un' opera: a) a ogni singola opera: le parti arrivano ad occupare mediante la ricostru­ zione il loro posto nel tutto, b) al confronto con altre opere: qui si tratta di una infinità mai completa­ mente esaurita. Ma l'importanza di un' opera dipende dal suo valore posizio­ nale in seno a una somma pensata, c) in rapporto alla biografia di un autore : l' opera va ambientata nel tutto della vita, e la vita risulta nel suo complesso dalla successione delle opere.

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2. Confrontare La metodica, con cui egli compie questi passi, è quella tcomparativa. Sempre infatti si tratta di confrontare la parte con il tutto e di: individu arne così l' importanza. Accanto a questa metodica comparativa Schleiermacher menziona anche quella divinatoria, una comprensione piuttosto intuitiva mediante il confronto con se stesso. Anche qui si tratta quindi di confronta­ re ! 3. Due metodi

Schleiermacher distingue quindi la metodica divinatoria e quella compa­ rativa, che si completano a vicenda: a) Metodo divinatorio: uno si immedesima per così dire con l' autore del testo e cerca di cogliere direttamente 'l'individuale' . Ogni uomo possiede­ rebbe «una ricettività nei confronti di tutti gli altri», ciascuno porta un mini­ mo di ogni altro in sé e lo paragona 'divinatoriamente' (intuendo, vaticinan­ do) co il se stesso. Il fatto che ognuno porti qualcosa dell' altro in sé ricorda la monade senza finestre di Leibniz. Sulla base della semplice divinazione questo metodo è insicuro e ha bisogno del confronto. b) Metodo comparativo: uno stabilisce dei paragoni con altre testimonian­ ze dello stesso genere. Stabilisce dei paragoni mediante la comparazione, che poi però dovrebbe procedere all' infinito, o di nuovo mediante la divina­ zione (intuendo, vaticinando). 4 . L'opera

Schleiermacher riserva una particolare attenzione all' 'opera' di un autore, precisamente sotto questi due aspetti: a) L' opera è una realtà nella vita di un autore. Perciò la domanda: che relazione ha essa con la sua vita, come si colloca nel complesso della sua vita? L'opera fa parte della professione dell' autore - e allora come è egli giunto alla sua professione? La questione si complica se l ' opera appare casuale. b) Importante è la decisione dell' autore, a volte detta anche decisione ger­ minale. Occorre domandarsi che cosa significhi il germe intimo nella vita dell' autore. - La questione delle circostanze esteriori della composizione conduce invece facilmente all' 'anedottica' . e

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prinuJ pane

5. Contesto

Accanto all' inquadramento nella vita (biografia) si colloca l ' inquadra­ mento nella storia, nella storia della religione e nella storia della società. Se la biografia dell' autore indica la verticale, la storia indica l' orizzontale. Le due si incrociano nell' opera e ne sono il c_ontesto. Schleiermacher ha antici­ pato con grande lungimiranza la categoria moderna della contestualità, importante per l' ermeneutica.

WILHELM DILTHEY (1833-1911) Bibliografia: W. DILTHEY, Gesammelte Schriften (GS), Leipzig und Stuttgartl Gottingen 1 9 1 4ss. (Dilthey) (volumi citati con numeri romani); Io., Die Entstehung der Henneneutik, 1 900; O. F. BOLLNOW, Dilthey. Eine Einfiihrung in seine Philo­ sophie, Stuttgart 1 98()4; R. E. PALMER, Henneneutics. lnterpretation Theory in Sch­ leiennacher, Dilthey, Heidegger, and Gadamer, Evanston 1 969; M. RIEDEL, Ver­ stehen oder Erkliiren ? Zur Theorie und Geschichte der hermeneutischen Wissen­ schaft, Stuttgart 1 97 8 ; eu. ZòCKLER, Dilthey und die Hermeneutik. Diltheys BegrUndung der Hermeneutik und die Geschichte ihrer Rezeption, Stuttgart 1 975.

Punto di partenza è per Dilthey la psicologia, mediante cui egli cerca di comprendere la multiformità della vita psichica umana. Concetto centrale diventa per lui la comprensione, e precisamente la comprensione di tutto l' individuo . Meta è la comprensione della storia, ovviamente non nel senso della semplice cronaca. 'Tipi' di con cezioni del mondo determinano via via le epoche e si esprimono nella religione, nella cultura e nella costituzione statale . Fondamento comune di tutta la storia è la vita, che compare nella storia in guise multiformi. «La vita non si esaurisce mai nella sua rappresen­ tazione . L' esperienza religiosa rimane piuttosto sempre l' eternamente inti­ mo; in nessun mito e in nessuna rappresentazione di un dio essa trova perciò un' espressione adeguata . . . La vita . . . è ciò che si conosce dall' intimo; essa è quella cosa al di là della quale non possiamo retrocedere. La vita non può ' essere portata dav anti al tribunale della ragione» ( GS [ 1883] 141; VII [verso il 1910] 359). Attraverso la comprensione delle «forme espressive e vive dell'esperienza religiosa lo studio scientifico e culturale della religione scopre il senso e l' importanza pratica della religione» (U. HERRMANN, Dilthey, W., in TRE 8, 761), mentre l' «esperienza religiosa acquista vitalità e forma in un atteggia­ mento (interiore) religiosamente prezioso (pace, contentezza, beatitudine) e

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in una pras si esteriore ad esso collegata» (ibid. ) . Per l ' ultimo Dilthey determinante è la domanda: «Come possiamo promuovere una conoscenza storica del cristianesimo contro il dottrinarismo teologico, che vive solo in scuole e in catene concettuali dogmatiche, lontano dai motivi che determina­ no la vita morale degli uomini, senza legame tra le sue formule monotone e i cuori agitati degli uomini? L' intrinseca mancanza di verità della teologia, sempre intenta a redigere nuovi compendi dogmatici, è la sua più grande sventura e la sua più grande colpa» . Significato: la religione cristiana non viene posta in relazione soltanto con la razionalità dell' uomo, bensì con tutto il campo delle sue percezioni ed esperienze. Se comprendo bene Dilthey, si tratta per lui anche di una religio­ sità popolare radicata nella vita quotidi-ana, in ogni caso di ciò di cui gli uomini per davvero 'psichicamente' vivono se sono cristiani, della religio­ sità vissuta. All' esperienza individuale, di cui uno «prende coscienza» , si contrappongono in un modo carico di tensione forme dello spirito oggettivo, in cui la vita si realizza (religione, arte ecc.). Critica: Dilthey smarrisce cammin facendo la specificità dell'esperienza religiosà. Essa comprende, per esempio, il lato mistico della religione, che si riferisce a un Dio sperimentato «come una persona» . Così egli dice di se stesso: «Io non sono una natura religiosa» (Der junge Dilthey [Briefe ] , 1870, 279). Tuttavia dall' esterno Dilthey ha osservato delle cose importanti, che in parte non sono state sino ad oggi assimilate.

RUDOLF BULTMANN (1884-1976) Bibliografia: B. JASPERT, Sackgassen im Streit um Rudo/f Bultmann, S t Ottilien 1 985; W. SCHMITHALS, Bultmann, in TRE 7, 387-396; ID., Die Theologie Rudo/f Bultmanns, Tiibingen 1 9672; K. BERGER, Exegese und Philosophie, Stuttgart 1 986, cap. VI: «R. Bultmann und M. Heidegger>), 1 27 - 1 76 con bibl.; tra gli scritti di R. Bultmann d'importanza fondamentale è qui Das Problem der Hermeneutik ( 1 950), in Glauben und Versteben II, Tiibingen 1 965, 2 1 1 -235 [trad. it. Il problema dell 'ermeneutica, in Credere e comprendere, Queriniana, Brescia 1977, 565-588]. .

Il problema ermeneutico di R. Bultmann fu, come dice bene W. Sch­ mithals (TRE 7, 395), la «problematica indubbiamente aperta della possibi­ lità della fede cristiana nella condizione della concezione scientifica del mondo tipica dell ' evo moderno» . Importanti sono a questo riguardo i seguenti elementi:

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l. La teologia, se vuole essere una scienza credibile, deve servirsi di una

concettualità chiarificata («più precisa»). Essa non può approntare tali con­ cetti con i propri mezzi, ma si serve a questo scopo della filosofia, più preci­ samente dell' antropologia filosofica di M. Heidegger. R. Bultmann conside­ ra questa antropologia come effettivamente scientifica, e ciò non da ultimo sotto l ' influsso del neokantismo di Marburgo, che si concepiva in parte come metascienza per scienze della natura e dello spirito. 2. Chi ora vuole còmprendere il Nuovo Testamento in questo modo deve proiettarlo sul piano di una antropologia filosofica. 3. Di ostacolo per il procedimento descritto nel punto 2 sono soprattutto gli elementi mitologici del Nuovo Testamento, che derivano da un' epoca prescientifica. Essi non vanno certo eliminati, però se li si interpreta nel sen­ so dei punti l e 2, li si può rendere accettabili anche all' uomo moderno. Del resto questo è pure un comandamento dell' onestà e corrisponde pertanto alla provenienza liberale di Bultmann (J. Weiss, W. Heitmiiller, A. Jiilicher). 4. Per Bultmann l' antropologia di Heidegger è utile soprattutto quando si tratta di chiarire la concettualità antropologica paolina. Così il corpo viene da lui inteso come l' essere storico non disponibile dell' uomo, e sempre così egli ricorre a termini come autenticità e inautenticità, 'si ' , 'mondo' , colpa, autocomprensione, essere-per, chiamata, esistenza, cura, decisione, storicità, importanza, temporalità e molti altri ancora. Specialmente l' idea fondamen­ tale di Essere e tempo, cioè la struttura temporale dell ' esistenza umana diventa per lui il punto di aggancio per interpretare in termini attuali l' esca­ tologia cristiana primitiva. Il suo maestro Johannes Weiss aveva riscoperto nel 189 1 , nel proprio scritto Jesu Predigt vom Reich Gottes [Predicazione del regno di Dio da parte di Gesù] , l' escatologia cristiana primitiva quale entità trascendente (così come parallelamente a lui aveva fatto A. Schweit­ zer). Questo lascito della teologia liberale ebbe però in un primo momento un carattere piuttosto deludente per qualsiasi genere di predicazione e si sot­ trasse (con cura) ad ogni applicazione. Bultmann, collegandolo con la con­ cezione heideggeriana del tempo, riesce invece ora a rendere teologicamente fruttuoso per uomini odierni questo importante aspetto della predicazione cristiana primitiva. 5. L' adozione dell ' antropologia filosofica è per Bultmann una via per superare lo storicismo. Egli ritiene in questo senso che la filosofia sia capa­ ce di fare delle affermazioni permanentemente valide sull' essenza perma­ nente dell' uomo. Qui non si tratta infatti soltanto di 'cose' permanenti, ma di possibilità dell' esistenza umana in generale. Pertanto egli scrive in Crede­ re e comprendere che gli imperativi di Gesù e dei profeti andrebbero inter­ pretati come scaturenti «da rapporti di reciprocità fra gli uomini in generale

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e non solo da una forma storica concreta di tale reciprocità» (1, 320 [trad. it. , 340]). 6. Nel recepire Heidegger, Bultmann non è coerente: del resto, perché dovrebbe esserlo? L' analisi filosofica dell 'esistenza è, secondo Bultmann, abolita, elevata e conservata (aufgehoben) nel nuovo. Le strutture dell'esi­ stenza permangono, perché il credente è pur sempre un uomo: egli è appun­ to simultaneamente 'peccatore ' (uomo ordinario) e 'giustificato' (figlio di Dio), perché la fede non è una nuova qualità essenziale. Soprattutto un atei­ smo ermeticamente chiuso non è più un presupposto. Qui la concezione di Heidegger viene fatta radicalmente saltare. - Così la chiamata/interpellanza, che porta l' uomo all' autenticità, viene estesa da Bultmann fino a compren­ dere il kerygma, cosa mediante la quale sembra essere anche subito stabilito che cosa la parola di Dio è. 7. Ma Bultmann non va interpretato solo partendo da Heidegger, perché egli è pure un 'teologo dialettico' e un compagno di viaggio di K. Barth. Non dovremmo dimenticare che Bultmann, Barth e Heidegger sono insieme neokantiani di Marburgo. - Alla luce delle origini di questa teologia non a caso il punto di partenza, secondo il quale occorre superare la divisione del soggetto, si incontra con l ' istanza di Heidegger. Ciò significa in concreto: non possiamo disporre di Dio, non possiamo parlare di lui in una concettua­ lità oggettivate, bensì solo in una concettualità esistenziale e 'personale ' . Ciò significa anche: non può esistere un agire di Dio nel mondo che sarebbe oggettivamente afferrabile. I miracoli sono perciò tutti quanti esclusi. L' uni­ co miracolo, che di conseguenza rimane, è la riconciliazione. A questo pun­ to il cerchio si chiude: se inizialmente sembrava essere lo scandalo provato dagli uomini moderni per il miracolo a costituire un ostacolo per l' onestà scientifica, adesso si mostra anche perché le cose stanno così: tutti i cosid­ detti testi mitologici della Bibbia non parlano «in modo adeguato» di Dio, perché interpretano l' agire di Dio come qualcosa di esistente nel mondo. Ma questo non può essere, perché Dio e il suo agire non sono un oggetto del mondo. Qui valgono solo le relazioni personali sul piano di affermazioni esistenziali. Il principio del superamento della separazione soggetto-oggetto è di una portata molto vasta per il neoprotestantesimo degli ultimi trent' anni del secolo XX, special­ mente per quel che riguarda le sue forme 'di sinistra' e le sue forme secolarizzate. Se infatti tutto l ' autentico è di tipo mondano, cadono di conseguenza 'in crisi ' le entità fatto storico, diritto, istituzione, tecnica, metodo e anche 'atteggiamento eti­ co' . Tutto il mondano, il visibile e l' apparentemente solido - anzi soprattutto questo - sono infatti profondamente problematici. In corrispondenza già Bultmann non

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conosce più alcuna etica dettagliatamente formulata. A ciò corrisponde, nella cor­ rente di sinistra della scuola bultmanniana, divenuta politica, la sostituzione almeno tendenziale dell' azione mediante la commozione. - Molte singole posizioni dell 'ecopacifismo si spiegano facilmente come eredità culturale della scuola bult­ manniana divenuta politica. Pure l' infelice doppia combinazione 'indicativo e imperativo' e 'già e non anco­ ra' , risalente a R. Bultmann, corrisponde alla posizione tardoideali-stica che dissol­ ve ogni certezza al di fuori dell' autocomprensione.

8. Per il resto Bultmann collega in modo addirittura geniale la dottrina luterana della giustificazione con la ricerca critica liberale su Gesù. Se quest' ultima aveva concluso che neppure un evento tramandato nei vangeli andrebbe ritenuto come un evento storico, da parte sua Bultmann dichiara, applicando la dottrina della giustificazione, che tale storicità non è affatto necessaria e che essa non andrebbe neppure nel senso della dottrina della giustificazione. Infatti se l' unica cosa importante è la fede, un sostegno for­ nito alla fede da fatti sarebbe del tutto fuori luogo e distruggerebbe addirit­ tura la fede; anzi il richiamo a fatti assumerebbe il carattere di un' opera. E tutto l' appoggiarsi sul visibile, sul mondano, sul preesistente sarebbe contra­ rio alla fede quale pura fiducia; così il problema più grande del modo di considerare la Scrittura, la distruzione della base storica, divenne sottobanco addirittura una virtù. Il radicalismo critico e il luteranesimo strinsero qui un' alleanza felice-infelice. Così in Kerygma und Mythos [Kerygma e mito] leggiamo che la demitizzazione radicale sarebbe «il caso parallelo alla dot­ trina paolina-luterana della giustificazione senza l' opera della legge e unica­ mente mediante la fede. O piuttosto: essa è la sua applicazione coerente nel campo della conoscenza» (Il, 207). 9. Problematica diventa tutta là dimensione della storia. Alla non oggetti­ vabilità di Dio corrisponde infatti la non oggettivabilità dell' uomo. Questa non riguarda solo gli elementi mitologici del Nuovo Testamento, bensì anche il rifiuto della perspicuità storica e psicologica dell' esperienza religio­ sa. Perciò completamente degradato viene anche il valore di analogie stori­ co-religiose, un processo questo portato coerentemente a termine solo dai discepoli di Bultmann: «Il criterio è la cosa e non l' analogia temporale stori­ ca», così potremmo riassumere la convinzione fondamentale qui imperante. Ma la cosa è la fede da denominare antropologicamente e teologicamente. Questa cosa non sarebbe appunto afferrabile con strumenti storici, · anzi que­ sti sarebbero appunto controproducenti. Viene così posta la base per l' elimi­ nazione vera e propria della storia. Ciò non è tanto triste per gli storici della chiesa, quanto piuttosto per qualcos ' altro: la salvezza non può essere colta

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in modo positivo. Chi infatti volesse così coglierla, dovrebbe ricorrere a concetti oggettivanti. La conseguenza pratica di tutto ciò è la continua interpretazione dei testi del Nuovo Testamento , ritenuti mitologici, nel senso di affermazioni sull' uomo e sui suoi atti esistenziali. Che così insorgano dei problemi parti­ colari per quanto riguarda l' Antico Testamento e la sua valutazione, è cosa che non abbiamo bisogno di menzionare in modo specifico. - Il compito dell'esegesi consiste sostanzialmente solo in una trasposizione in una con­ cettualità scientifico-teologica adeguata. Quanto alla valutazione della posizione di R. Bultmann dobbiamo dire: per una o anche due generazioni questa ermeneutica è stata o è una possibi­ lità di conciliare in modo scientificamente onesto le affermazioni della fede con il pensiero moderno . Le correnti evangelicali o fondamentalistiche opposte non erano in grado di rispondere perlomeno alle questioni concer­ nenti una relazione positiva tra pensiero e fede. Bultmann ha almeno tentato ancora una volta di porre la moderna scienza umana in dialogo con la fede, cosa che nella sua scia fu poi portata avanti nel campo della psicologia e della sociologia. Per molti teologi e laici l' opera di Bultmann fu una vera liberazione. Essi non dovevano infatti più depositare l ' intelletto alla porta della chiesa. Si sentivano presi sul serio come uomini moderni e non più costretti ad accet­ tare il soprannaturalismo. Quanto alla difesa di Bultmann dobbiamo dire in partenza: egli non vuole cancellare, ma solo interpretare i racconti mitici del Nuovo Testamento. Noi cioè non dovremmo cominciare a stupirei nel punto sbagliato. Non il miracolo visibile - per le concezioni di allora - sarebbe il motivo dello stu­ pore, bensì la salvezza dell ' uomo mediante la grazia. - E inoltre: il fatto che Bultmann si sia riferito precisamente ad Heidegger non dovrebbe significare che solo Heidegger e nessun altro sarebbe adatto a spiegare il Nuovo Testa­ mento. La demitizzazione è piuttosto un compito permanente, cioè: ogni generazione dovrebbe di bel nuovo dissolvere tutte le posizioni solidificate inadeguate, che bloccano 'dogmaticamente' le vie di accesso personali e una comprensione degna dell' uomo. Quanto alla critica di Bultmann dobbiamo dire: l. Dobbiamo domandarci se la demitizzazione sia in linea generale possi­ bile. La più recente scienza del testo ha reso problematica la divisione tra affermazione del testo e tutto ciò che starebbe 'dietro' al testo. In base a che cosa infatti conosceremmo con precisione la cosa, che può essere presunta-

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mente separata dalla forma (Bultmann adopera l' immagine del nocciolo e del guscio)? 2. Dobbiamo domandarci se la demitizzazione è necessaria. Se infatti rinunciamo a una immagine uniforme del mondo, possiamo ritenere reali tutti i racconti mitici senza contrapporli a fatti scientifici naturali. In questo libro batteremo più avanti questa via. 3. Dobbiamo domandarci se l' astinenza dall 'esperienza storica, praticata con coerenza da Bultmann, sia del tutto irrealistica e presenti una tendenza fatalmente deleteria. Se il contenuto della salvezza non può essere descritto in modo positivo e tutto l' autentico è personale e invisibile (e da ritrattare in continuazione subito), per i cristiani non ci possono essere né una continuità storica, né una patria spirituale. Noi non solo dipendiamo dal l ' una e dall' altra, ma togliere l'una e l' altra all'uomo è cosa che non può significare alcunché di buono per la figura della chiesa. Non abbiamo certamente motivo di 'ergerci' al di sopra di Bultmann. Egli fece parte della chiesa confessante, tenne regolarmente prediche e soleva tra l ' altro anche - a quanto si dice - pregare a tavola. La questione sta solo nel sapere fino a che punto tutto ciò sia anche una conseguenza diretta della sua teologia. Ciò riguar­ da, ad esempio, proprio la dimensione della preghiera, che in Bultmann e nei suoi discepoli non pare svolgere alcun ruolo.

4. La storia viene in R. Bultmann eliminata in favore di una semplice illu­ strazione di possibilità umane (diversamente in E. Klisemann: la storia come luogo concreto dell' incontro con il Dio esigente). Pure per questo motivo viene a mancare l' etica. 5. Uno sguardo al Nuovo Testamento e agli studi successivi su di esso effettuati mostra che molte posizioni, le quali sembravano essere in modo singolarmente liscio conformi all ' impostazione sistematica di Bultmann, non affermano in ogni caso in maniera tanto indiscutibile quanto Bultmann avrebbe volentieri voluto e che esse inducono spesso piuttosto a pensare il contrario. Ciò riguarda anzitutto il rapporto tra vedere e credere e il signifi­ cato dei racconti di miracoli nel vangelo di Giovanni e, inoltre, la presunta demitizzazione che già lo stesso Nuovo Testamento avrebbe intrapreso. 6. Con la limitazione della certezza al campo dell ' autocomprensione, del personale e della relazione, Bultmann si mostra discepolo dell' idealismo tedesco nella versione datane da Kant e da Fichte (in fondo già a partire da Descartes, che trovò l ' unica certezza nel cogito). Il Nuovo Testamento è molto ricalcitrante nei confronti di questi presupposti fondamentali. Con Th. Sundermeier dobbiamo constatare: le religioni dell' Africa nera sono molto più vicine al pensiero biblico che non le tradizioni filosofiche del secolo

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XIX 2 •

Tenendo presente in modo particolare l' ermeneutica ebraica cerchere­ mo di seguire ulteriormente questa linea critica.

Questo potrebbe significare : al posto della suddivisione in personale e storicamente cosale e fattuale dovrebbe subentrare una fraternità dell' essere. Bisognerebbe mettere in discussione la riduzione del concetto occidentale di persona ali 'uomo consapevole di sé. Bisognerebbe rivedere la suddivisione cartesiana in res cogitans e res extensa, perché qui si tratta di un ultimo baluardo del neoplatonismo. Tutto quel che vive è infatti nello stesso tempo materiale e sotto un certo aspetto psichico (cosicché la suddivisione tomista in anima vegetativa, anima sensitiva e anima rationalis avrebbe la sua rela­ tiva ragion d' essere) .

HANS WEDER (n. 1 946) Bibliografia: H. WEDER, Einblicke ins Evangelium. Exegetische Beitriige zur neutestamentichen Hermeneutik, Gottingen 1 992; Io., Autoritiit und Auslegung der Schrift. Neutestamentliche Uberlegungen zur Problematik ausgelegter Wahrheit, in H. F. GEISSER H. WEDER (edd.), Wahrheit der Schrift - Wahrheit der Auslegung. Vorlesungsreihe zum 80. Geburtstag von Gerhard Ebeling, Ziirich 1 993. -

H. Weder parla di ermeneutica, ma non come di una dottrina del metodo e neppure nel senso di una sua descrizione fenomenologica. Quel che egli ha pubblicato sotto il titolo di 'ermeneutica' è - secondo il mio punto di vista - né più né meno che una riflessione teologica sistematica sulla parola di Dio e sul modo in cui essa opera nei confronti dell'uomo. Se teniamo presente questo, vediamo che lo scopo è del tutto diverso da quello perseguito, ad esempio, in questo libro. Le coincidenze tematiche sono perciò piuttosto casuali. Weder ha proposto le proprie riflessioni attenendosi rigorosamente alla dottrina della giustificazione di tipo protestante, anzi le sue riflessioni sono propriamente una applicazione di tale dottrina al problema dell' ascolto della parola. Perciò egli non procede in modo empirico (ad esempio nell' analisi della comprensione), bensì in modo sistematico deduttivo, e precisamente usando il linguaggio della Bibbia. I seguenti aspetti sono per lui importanti: l . '.Grazia' è il termine guida di un' ermeneutica neotestamentaria. ' T H . SUNDERMEIER, Nur gemeinsam konnen wir leben. Das Menschenbild schwarzafrikanischer Rl•ligionen, GUtersloh 1988.

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L' uomo sperimenta tale grazia come una grazia creativa e non come una grazia commisurata al merito. 2. Il termine appare perciò estraneo, perché la grazia è estranea. L' «erme­ neutica scopre nella parola estranea che essa vale per me» (H. Weder). Allo­ ra comprendiamo il testo come parola di Dio, come linguaggio della grazia. 3 . Questa realtà della grazia condiziona la distanza reale dalle nostre costruzioni della realtà. Compito della teologia è quello di far conoscere all ' uomo la realtà e la presenza di Dio, cioè di parlare dell' amore come dell' unica cosa vera. 4. Alla comprensione guarita dall' ermeneutica si oppone il peccato nella comprensione. Peccato nella comprensione significa legge, non vangelo, significa un unico Dio che compare come comandante supremo. 5. Nella percezione del testo non bisogna distinguere tra testo e applica­ zione. Né il testo aiuta in una situazione, ma crea (per esempio come pro­ messa) una nuova situazione. Perciò esso ha anche autorità (non a motivo del suo autore). 6. L' ermeneutica rende manifesto: il testo incide sull' uomo. Questd lavo­ ro del testo sull'uomo è l 'evento propriamente importante. Possiamo parlare anche della parola sempre preveniente. 7. La teologia è in questo senso commossa e commovente. 8. Weder attinge anche alla teologia della parola di Dio di Ebeling: così le parabole sono eventi della bontà di Dio. I testi non parlano di qualcosa, ma sono interpellanze rivolte a uomini. L'uomo è coinvolto in un dialogo con i testi e così redento dal dialogo con se stesso.

Critica: queste tesi non vanno propriamente criticate, perché esse sono convinzioni di fede formulate in modo teologico sistematico e si sottraggo­ no, come tali, a ogni superverifica empirica. Chiara è anche una concezione della teologia diversa da quella qui proposta. Quanto alla prassi dobbiamo però domandare due cose: a) la concezione di H. Weder ha una qualche rile­ vanza per l ' applicazione pratica quotidiana del vangelo? La deve mai avere? Oppure si tratta solo di un accertamento 'interiore' ? b) Weder, quando dice che solo il testo crea la situazione, si dispensa con ciò da qualsiasi approfon­ dimento della situa�ione esistente. Evidentemente non dobbiamo neppure domandare in modo concreto che cosa una determinata situazione esige, quali sono le cose di cui gli uomini si interessano o di cui hanno bisogno. La 'parola' del messaggio manda in ogni caso a monte tutto? La particolare fissazione della parola creativa di Dio (evento) su determi­ nati generi (parabole) è già stata criticata in antecedenza e da altri. Proposizioni come: «Dio è amore. Questa frase è semplicemente vera al

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tempo del Nuovo Testamento così come oggi»3 ci dicono che qui viene sacrificato qualsiasi senso della dogmatica per differenze linguistiche o cul­ turali.

HANS-GEORG GADAMER (n. 1 900) Bibliografia: H.-G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Tiibingen 19754 [trad. it., Verità e metodo, Bompiani, Milano 1 9885] . - Commento e critica: W. G. JEANROND, Text und Interpretation als Kategorien theologischen Denkens (HUTh 23), Tiibin­ gen 1 986; B . J. HILBERATH, Theologie zwischen Tradition und Kritik. Die philo­ sophische Hermeneutik Hans-Georg Gadamers als Herausforderung des theologi­ schen Selbstverstiindnisses, Diisseldorf 1 97 8 ; T. 0Rozco, Platonische Gewalt. Gadamers politische Hermeneutik der NS-Zeit, Hamburg - Berlin 1 99 5 ; H.-G. STOBBE, Hermeneutik - ein okonomisches Problem. Eine Kritik der katholischen Gadamer-Rezeption (OTh 8), Giitersloh 1 98 1 .

H.-G. Gadamer ha influito come nessun altro sull' ermeneutica teologica conservatrice degli ultimi trent' anni di questo secolo. Com'è potuto succe­ dere? Gadamer vuole descrivere la comprensione e farlo in modo del tutto neu­ trale, senza procedere ad alcuna valutazione. La comprensione è per lui un intendersi-su-qualcosa, un intendimento a proposito della cosa. Quando comprendiamo qualcosa di una cosa, ci inseriamo nel complesso della tradi­ zione della cosa. Tali termini stanno a indicare questo: nel corso della storia gli uomini si sono in continuazione intesi sulla cosa. Una tradizione del modo di agire e di comprendere non esiste solo in seno alle corporazioni d' arti e mestieri. Una volta raggiunta tale comprensione, la cosa 'va da sé' , si comprende e si agisce in modo adeguato. Gadamer chiama tale buona riuscita con l ' espressione un po ' misteriosa di 'fusione di orizzonti' . Detto in termini più semplici: se leggo attentamen­ te le istruzioni per l' uso di una macchina, se le assimilo in modo tale che la macchina funzioni, allora l' orizzonte dell' istruzione per l' uso (del funziona­ mento della macchina) combacia con la mia intenzione (di avere una mac­ china che funzioni). Questo è la fusione di orizzonti, un modo di agire oggettivamente adeguato e coronato da successo nel senso della cosa. L' argomentazione preferita di Gadamer è su questo punto giuridica: se si ' H. WEDER ( 1 986), a senso 284s.

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applica una legge al caso per cui essa è pensata, siamo di fronte a una com­ prensione della legge. Gadamer non si perita di menzionare in simili conte­ sti anche la Bibbia: la predica sarebbe un caso di applicazione della Bibbia. In questo modo il singolo si inserisce in un grande processo fatto di tra­ smissione e tradizione. Quel che qui viene tramandato è meno importante del fatto che esso sia tramandato. L'individuo è descritto a lettere minuscole, egli è solo un barlume. Pure l' autore di un testo estraneo ha poca importanza per Gadamer. L' importante non sono le persone e i soggetti. I testi o i settori oggettivi si sono autonomizzati nei loro confronti. Il testo poté autonomiz­ zarsi perché l ' uso ha levigato, attraverso il contatto con il 'ferro caldo' della cosa, gli elementi personali e individuali, che erano una volta propri dell' autore e che egli può anche aver avuto di mira. - P. Stuhlmacher ha salutato con favore, nella sua ermeneutica dell' intendimento, questo inten­ dersi in seno a tradizioni. - Tuttavia Gadamer ha preso le distanze dal fatto di volere, con i suoi mezzi, legittimare tradizioni o dogmatiche ben determi­ nate. Questa è certamente la forza e la debolezza della sua concezione. Egli vuole infatti solo descrivere quello che chiamiamo così comprensione. In questo egli è in tutto e per tutto un fenomenologo. Ma questa epoch i (sospensione) può essere sfruttata bene da ogni genere di conservatori. In fondo in Gadamer il classico arriva a occupare una posizione di particolare prestigio, perché sopravvive nel processo della tradizione. Il classico è forte quanto basta per poter ricomparire in continuazione. Così, malgrado tutta la neutralità, proprio il forte diventa sempre più forte. Ma così è appunto fatto il mondo, risponderebbe presumibilmente Gadamer.

Sui singoli punti della critica: l . Essenziale è per Gadamer la separazione tra interpretazione (metodo, per es. critica testuale; scienze naturali) e comprensione (verità; scienze del­ lo spirito). Tale separazione è sempre stata criticata, e a ragione (W. G. Jean­ rond 1 986; M. Frank 1 977). Gadamer fonda la propria posizione dicendo che non la storia (quindi l' oggetto delle scienze dello spirito) appartiene a noi, bensì noi alla storia. Invece il lavoro dell' accostamento storico-critico consiste a mio avviso pro­ prio nel fatto di rappresentare l' altro come altro e non nel fatto di seque­ strarlo. In questo modo la semplice appartenenza alla storia è interrotta. Riconosciamo che sono due mondi quelli che si incontrano. Questo è allora alterità compresa e estraneità capita. In questo modo viene resa possibile una convivenza accompagnata dal rispetto delle peculiarità individuabili non sequestrabili. Né si tratta di immedesimarsi negli altri. Questa sarebbe la falsa alternativa.

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Il tema è quindi il sequestro. L' altro non vuole precisamente solo lasciarsi sequestrare? In veste di esegeti osserviamo spesso come Paolo sia esposto inerme in balia dei suoi interpreti, che in parte hanno introdotto nel mondo varie interpretazioni sbagliate oltremodo coronate da successo. Nessuno può giustificare l' ottimismo, secondo il quale le interpretazioni sbagliate si cor­ reggerebbero da sole già a motivo della cosa. La comunicazione è quindi fine a se stessa? Quel che Gadamer chiama complesso della tradizione non è troppo disomogeneo anche in se stesso perché si possa dire che qui starebbe la chiave della comprensione? 2. Ma la controparte storica non viene dichiarata (contro Gadamer) l' uni­ versale, essa rimane individualità. Tra le due individualità può allora esiste­ re un punto di paragone (il tertium comparationis). Non si tratta quindi di una verità universalmente valida, bensì di accordi consensuali e compromis­ sori. L' estraneità dell' altro significa possibilità di gettare degli sguardi nella ricchezza del suo essere (sull' ermeneutica dell' estraneità, cfr. più avanti). 3 . Gadamer vuoi descrivere in modo 'neutrale' la conoscenza. Ma in realtà descrive quel che si impone ( 'classico'). E: «Il successo tardivo e per­ durante dell' ermeneutica di Gadamer sta non da ultimo nella sua promessa di una comprensione innocente e pura e di una scienza dello spirito presun­ tamente apolitica» (R. Suchsland, in FRu qel 20.9.96, 9). Sottobanco Gada­ mer trasmette il criterio del successo, dell' effettivo imporsi (immagine spe­ culare del sistema educativo borghese e liberale). 4. Il problema se una comprensione possa essere realmente criticata dalla cosa non si pone per Gadamer. Tra cosa e comprensione non esiste per lui alcuna differenza critica. 5. Gadamer parla del necessario rapporto vivo con una cosa come della condizione della possibilità di comprendere. Questo punto è notoriamente accolto con favore da teologi, e l' autocomprensione credente fu dichiarata il presupposto della comprensione di testi biblici. Ma la necessaria, oltre a ciò, capacità di una distanza critica - se deve trattarsi di scienza - fa difetto in Gadamer. Qui si tratta, nel mezzo di un rapporto vivo, della capacità di maneggiare in maniera autocritica la ragione critica. Perché solo con questa capacità sarò in grado di lasciar sussistere anche altre realtà. In questo senso la ragione storica è anche orientata socialmente. La presa di distanza impedisce un inserimento solo docile nell' evento della tradizione. Essa fa diventare visibile proprio anche la peculiarità indi­ viduale, e in questo modo non si tratta solo di riguadagnare il soggetto dalla parte del conosciuto, bensì si riguadagna anche il soggetto del conoscente. 6. Invece secondo Gadamer «l' autoriflessione dell' individuo non è che un barl ume nel compatto fluire della vita storica» ( 1 975, 3 1 5 .266 [trad. it. ,

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325]), e nella ricezione del testo si tratterebbe solo dell ' universale (op. cit. , 323 [trad. it., 333]): il testo tramandato non viene concepito come manife­ stazione vitale di un tu ed è disgiunto da ogni legame con un io e con un tu

(op. cit. , 340 [trad. it. , 350]). Infatti solo il senso avrebbe una storia, solo disgiunto dal proprio autore il testo diventerebbe universale. Scopo dell 'ermeneutica che esporremo in queste pagine è anche la riabili­ tazione del soggetto. Infatti con M. Frank dovremmo rivendicare il fatto, già alla luce della fusione di orizzonti di Gadamer, che qui comunicano tra di loro realmente due soggetti (M. Frank 1 977, 34). Che ogni testo possa avanzare di per se stesso una pretesa di essere vero è cosa che comunque non si può dire a proposito del canone della Bibbia, per­ ché a essere ispirati sono gli autori e non la lettera. E nei confronti di chi dovrebbe valere la virtù ermeneutica della lealtà se non nei confronti dell ' autore di un testo? Per il gusto ecclesiale i testi non furono mai autono­ mi . E appunto per questo essi non possono neppure essere sequestrati in modo non distaccato. 7. Riconosciamo fino a che punto gli esegeti, che videro in costanti antro­ pologiche la via dell' ermeneutica biblica, si sentirono strettamente affini a Gadamer. Si trattava infatti dell ' atemporalmente universale, e quindi in ulti­ ma analisi di una problematica dell' idealismo tedesco. - Invece qui faccia­ mo il tentativo di lasciar parlare anzitutto gli individui e poi di trovare dei ponti limitati e provvisori tra di loro. Perciò nella prassi etica non esiste nep­ pure alcuna ossessione biblicistica di trarre conclusioni da norme della Bib­ bia (legalismo biblicistico ). Nel fare così cerchiamo perciò non da ultimo di conferire, prima e al di là di ogni universalità, il necessario peso ermeneutico alla non sequestrabilità di Gesù. Questa è la premessa ermeneutica del mio libro Wer war Jesus wirklich ? [Chi era realmente Gesù ?] ( 1 995, 1 9984), in cui rinuncio a deli­ neare un' immagine di Gesù facile da maneggiare e applicabile in modo definitivo.

Risultato: l. L' accentuazione dell'individualità del testo e del processo dell' applica­

zione corrisponde, da un lato, alla distinzione tra esegesi e applicazione, ma, dall' altro lato, anche alla affinità dei mezzi per questo adoperati (analisi) . 2. La comprensione proclamata da Gadamer è una cattiva comprensione, perché le spigolosità del testo vengono smussate e livellate e non si tiene conto delle sue peculiarità. Gadamer canonizza il puro consumo del testo. Io invece potrei chiamare con questo nome solo una comprensione più sen­ sibile, una comprensione a cui partecipa una ragione differenziante. Gada-

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mer, per risolvere la crisi delle scienze dello spirito, propone qualcosa che abbandonato inerme in balia delle ideologie - somiglia troppo al comporta­ mento consumistico, che tali scienze vogliono invece contrastare. 3. La libertà è decisamente importante per l' esegesi e l' applicazione, per­ ché essa ha la propria origine nella pari originarietà dell' essere dei vari sog­ getti. Solo così la ragione stòrica e nello stesso tempo sociale, nonché la tol­ leranza ermeneutica acquistano un senso e sono necessarie. 4. L'individualità dell' autore è riscoperta come l'estraneità provocatoria, come l' altro termine del paragone. L'opinione dell' autore e l' applicazione sono qui tenute il più possibile distinte, affinché tale tensione possa dimo­ strarsi fruttuosa per sempre nuove applicazioni. L' autore va accostato con la ragione storica. - Il nesso con l' impostazione etica di fondo dell' ermeneuti­ ca sta in questo: non la continuità, bensì solo la diversità sarà di aiuto e potrà far registrare dei progressi . La mia concezione è diametralmente opposta a quella di Gadamer, secon­ do la quale non l' intenzione dell' autore, bensì l ' intelligenza oggettiva è importante, non la tensione tra il ricostruito storico e l' applicazione sempre nuova, bensì la continuità dei classici e la comprensione oggettiva come modo di conoscenza della verità.

GLI ASSIOMI IMPLICITI Bibliografia: D. RITSCHL, Zur Logik der Theologie. Kurze Zusammenstellung der Zusammenhiinge theologischer Grundgedanken, Mtinchen 1 984; Io., Gott wohl in der Zeit. Auf der Suche nach dem verlorenen Gott, in Gottes Zukunft - Zukunft der Welt (FS J. Moltmann), Mtinchen 1 986, 250-26 1 .

Secondo la proposta di D. Ritschl gli 'assiomi impliciti ' vanno caratteriz­ zati in questo modo: essi sono criteri di tutto ciò che promuove la comunica­ zione, cioè la comprensione e la convivenza umana razionale; di essi fanno perciò parte anche le regole del dialogo ; quanto al contenuto, essi sono orientati al successo, perché corrispondono all' intuizione «Sì, così va bene», «Così si vive bene». La base empirica scientifica di tali criteri sta nel fatto che essi adottano l' associazione statisticamente prevalente. Ad essi corri­ sponde «ciò che viene preferibilmente visto dal prossimo», e questa cosa di preferenza vista è la sostanza di esperienze utili. Ritschl non riesce propria­ mente a decidersi in favore di assiomi impliciti stabili e dal contenuto sem-

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prima parte

pre uguale4; qui si porrebbe anche il dilemma di tutte le 'costanti metatem­ porali'.

Critica: contro questa concezione di tipo formale dobbiamo sollevare obiezioni simili a quelle sollevate nei confronti della concezione di H.-G. Gadamer. Ancora più fortemente che non in Gadamer sospetta è la chiara derivazione del criterio dall'esterno: se è vero ciò che serve alla maggioran­ za per comunicare, pressante diventa la questione del potenziale critico e innovativo della verità. Che ne è di quelli che non possono partecipare a tali verità (secondo l'esempio addotto da Ritschl: per es. di tutte le chiese cri­ stiane non calcedonensi)? Dove va a finire la capacità di anticipare le conse­ guenze dell'azione che non sono state verificate prima? Che ne è dei settori dell'uomo, che non sono capaci di una comunicazione razionale? Amore e comunicazione sono realmente identici? Che ne è dei comportamenti non comunicativi come il silenzio, il rintanarsi in un cantuccio, l'indecisione permanente? I criteri di Ritschl non si risolvono in modo preoccupante in una dittatura della maggioranza? I conflitti storicamente necessari non pos­ sono essere semplicemente risolti in favore della capacità di comunicazione. Di fronte al criterio formale «Così si vive bene» dobbiamo domandare: la voglia di vivere non conosce né limiti né misure. La vita in quanto tale non può perciò essere un criterio sufficiente. I criteri di Ritschl (comunicazione, vita) sono metaetici. Ma il 'successo della vita' è un criterio sufficiente?

È stato sempre

soprattutto il lavoro filologico e storico quotidiano attorno

a testi antichi a dovermi eventualmente comunicare come esegeta un senti­ mento dell'esistenza completamente diverso da quello che il sistematico D. Ritschl può avere.

È

il confronto quotidiano con le resistenze, le chiusure e

le spigolosità dei testi, è l'esperienza esegetica di continuo 'sofferta' della distanza ad aver indubbiamente forgiato in modo diverso nel corso del tem­ po i presupposti del pensiero. Tale esperienza rende difficile anche una com­ prensione, cosa che non mi permette di accettare in modo più facile il rim­ provero, che certamente devo attendermi, di non aver del tutto compreso D. Ritschl. Varie osservazioni rendono ora per me problematica in tanti punti la pro­ posta di Ritschl:

l. Gli assiomi espliciti hanno il senso e lo Sitz im Leben di sommari. Gli assiomi espliciti sono regole fondamentali verbalmente formulate in

4

D. RITSCHL

(1986), 163.

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modo completo in un testo. Invece gli assiomi impliciti sono strutture comu­ ni, che sono potenzialmente presenti in più testi. Gli assiomi espliciti sono senza dubbio in un certo senso necessari per la comunità ecclesiale, cioè ai suoi confini. Perciò queste formulazioni si trova­ no nei catechismi e nei dogmi, due strumenti che hanno la funzione di traccia­ re dei confini: i catechismi accompagnano alla soglia del cristianesimo, e i dogmi tracciano i confini nei confronti di coloro che non appartengono alla comunità ecclesiale. Perciò gli assiomi espliciti costituiscono solo un settore molto limitato anche rispetto alla 'doctrina'. Essi sono come i paletti che deli­ mitano un pascolo: ma chi può mai pretendere che il bestiame si occupi sem­ pre di tali paletti anziché pascolare nel prato?

2. Gli assiomi espliciti sono utili solo in misura estremamente limitata e sono determinazioni possibilmente da evitare. La religione non vive di essi e non è primariamente e inizialmente da essi neppure trasmessa. Tale trasmissione avviene senza dubbio in primo luogo attraverso la persona di testimoni (Cirillo di Gerusalemme: se qualcuno vuo­ le diventare cristiano, deve vivere un anno con me), solo in misura assai limitàta attraverso l'insegnamento e in misura ancora sostanzialmente più piccola per mezzo di assiomi. Come ognuno. sa, neppure i dogmi hanno in primo luogo il carattere di assiomi, bensì il carattere di confessioni di lode, e brani come il decalogo, per esempio, non sono affatto originariamente dei principi generali, bensì furono pensati come una serie di casi concreti di un tipo determinato. Essi servono senza dubbio soprattutto alla regolazione nel senso razionalistico del termine (amministrazione). Non è certamente un caso che fenomeni come il presunto «piccolo Credo storico-salvifico» dell'Antico Testamento abbia dovuto essere ascritto più ai sogni sistematici moderni che non ai testi veterotestamentari5• Perché l'ebraismo non ha sviluppato alcuna dogmatica? Perché non è possibile racchiuder!o neppure in simboli? Perché qui vale solo una cosa: la vita con e in seno a questo popolo lungo il suo cammino. Solo una volta l'antico ebraismo compose una specie di somma della Torah, allorché rabbi Hillel si sentì domandare che cosa fosse possibile insegnare a un proselito e proporglielo come il contenuto più importante della Torah, stando su una gamba sola: Lv 19,18. Di qui risulta chiara una cosa: gli assiomi espliciti

' Cfr. W.

RICHTER, Beobachtungen zur theologischen Systembildung in der alttestamentlichen

in L. SCHEFFCZYK (ed.), Miinchen- Paderborn- Wien 1967, I, 175-212.

Literatur anhand des 'kleinen geschichtlichen Credo', VerkiJndigung, FS M. Schmaus,

Wahrheit und

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prima parte

vanno bene come dottrina scolare, ma l' elogio della dottrina più astratta non ha nel caso di noi insegnanti la funzione di una fogli� di fico, non distoglie lo sguardo dalla vera e autentica trasmissione attraverso di noi come uomini, trasmissione che non è di per sé traducibile in assiomi? Già secondo la con­ cezione del Nuovo Testamento l ' influsso dell' individuo trasmittente è la cosa decisiva. Perciò qui dovevamo solo richiamare l' attenzione sulla funzione didattica limitata degli assiomi espliciti. 3. Il problema fondamentale degli assiomi impliciti consiste nella possibi­ lità o meno di formularli verbalmente. A me non sembra sia facilmente possibile erigere in modo non arbitrario strutture (nel senso di N. Chomsky) o centri di guida dietro testi esistenti o addirittura dietro persone e definirli verbalmente. 4. Quanto agli assiomi impliciti verbalmente formulati dobbiamo distin­ guere tra assiomi formulati da noi stessi e assiomi formulati da altri. Gli assiomi formulati sono il risultato di processi cognitivi concernenti substrati di esperienze fatte. Quando a proposito di altri uomini sostengo che alla base delle loro affermazioni ci sono determinati assiomi (caso quindi di eteroformulazione), assiomi che io esplicito verbalmente, il mio modo di procedere non è soltanto assai soggettivo, bensì anche in notevole misura violento e categorico. Quando ascrivo così in modo perentorio a qualcuno le sue convinzioni fondamentali, questo mio modo di ordinare le cose è un modo di procedere razionalistico. Pure nel caso di una terapia ciò è problematico. Il principio basilare di alcuni trattamenti terapeutici consiste nell' arrivare a esplicitare verbalmente i presupposti (assiomi) del paziente nel senso di un procedimento salutare. Questo è un rischio perché ogni ordine viene comprato con perdite e perché ogni concentrazione su assiomi è esposta al pericolo di una intrusione domi­ nativa. Diverso è il caso quando uno parla dei propri principi. Qui esiste una diversità qualitativa rispetto all' ordine stabilito da altri. In questo senso pos­ so vedere qualsiasi terapia solo come un aiuto a rappresentare se stessi, così come esattamente solo allo stesso modo posso vedere qualsiasi esegesi. Il compito principale di ogni interpretazione consisterebbe allora nel procurare alla controparte la possibilità di mos_trarsi a se stessa. Perché uno sia così è cosa che forse posso esplorare, ma come egli è è cosa che egli deve prima mostrarmi. Analogamente dovrebbe valere per l' esegesi il fatto che la cosa importante sarebbe quella di permettere a Paolo stesso di parlare, anziché legarlo a degli assiomi. Questo io lo chiamerei allora estetica nel senso ampio del termine, percezione di una totalità.

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Non riesco perciò a capire chi, a proposito del Nuovo Testamento, formu­ la degli assiomi impliciti invece di lasciar agire in maggior misura lo stesso testo. In ciò io vedo un 'influsso' nel senso dell' estetica della ricezione. Il dissenso con D. Ritschl riguarda perciò verosimilmente una discussione tra estetica della ricezione e strutturalismo. E qui occorre in primo luogo com­ battere contro una svalutazione dell' estetica e della retorica (inclusa la mes­ sa in scena liturgica di testi). Sempre più dubito che gli assiomi espliciti siano realmente solo l' altra faccia della moneta di assiomi impliciti. Nel caso di assiomi espliciti si trat­ ta di regole e formule, invece nel caso di assiomi impliciti si tratta del mistero dell' individualità e soggettività, del campo della storia e non dell' astratto. È realmente possibile dibattere dell 'una e dell' altra cosa con­ temporaneamente? Sta qui la causa delle nostre difficoltà? Quando per que­ stione degli assiomi . impliciti di uomini intendo questa domanda: «Perché uno agisce e pensa così, e l' altro agisce e pensa diversamente?», ogni tenta­ tivo di ricostruire una serie di regole non diventa per il teologo sistematico una tentazione che lo spinge a supporre senza riguardo nella controparte una dogmatica coerente (così come quando si parla della dogmatica di Pao­ lo, cosa giustamente bollata da E. Kasemann come un pio desiderio sbaglia­ to)? 5. Difficoltà nell' individuare forze guida implicite. Gli assiomi impliciti sono, nel caso di testi, chiaramente qualcosa di diverso da quello che sono nel caso di uomini. l testi sono prodotti intenzionali: ogni sommario di un testo ha bisogno che si individui un' assiomatica implicita di tale testo. Nes­ sun riassunto è possibile senza l' astrazione che va nella direzione dei princi­ pi e delle decisioni fondamentali realizzate in tale testo. Pertanto nel caso di qualsiasi comunicazione verbale la richiesta avanzata da D. Ritschl è una necessità comunicativa ermeneutica. Tutto ciò lo ammettiamo espressamen­ te. Ma: a) Un 'sommario' non può essere l' unica forma di ricezione di un testo (cosa che anche D. Ritschl può senza dubbio ammettere). Esistono infatti molti modi estetici di ricezione di un testo, il cui buon diritto e la cui funzione ermeneutica non posso­ no essere contestati. E possiamo benissimo dire: proprio nel caso della Bibpia que­ sti sono i modi abituali. b) Ogni cosiddetto sommario è in realtà una produzione di un nuovo testo a par­ tire da quello 'vecchio' , da quello percepito. Così proprio anche la rappresentazione dell'ossatura o dei principi di un testo o addirittura di più testi costituisce appunto un testo nuovo e ulteriore. Questo significa: per colui che deve formulare tale som­ mario, sussistono allora sempre e poi sempre l' impresa e la specificità e, rispettiva­ mente, la diversità di un nuovo testo.

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c) Ma questo significa: a seconda del punto di vista dell' interprete risulteranno delle presupposizioni diverse circa gli assiomi impliciti di un testo preesistente. Per quanto quindi nel senso di una comunicazione di un' immagine un riassunto sia necessario («Che cosa ha lui, che cosa ha lei 'propriamente detto' ?»), altrettanto individuale sarà il modo in cui tale sommario viene stilato.

Quale esempio menzioniamo semplicemente i diversi tentativi delle cosiddette teologie bibliche di trovare un denominatore comune per scritti biblici. Tali tentativi spaziano, come è noto, dalla dottrina della giustifica­ zione all' idea dell 'espiazione e fino alla risurrezione. Esistono delle tradi­ zioni locali molto chiaramente riconoscibili nella ricerca. - Anche qui dob­ biamo ripetere la domanda critica rivolta da P. Stuhlmacher alla teologia di R. Bultmann: con quale diritto si afferma che proprio questo e nient' altro è l' assioma implicito di un testo o di un gruppo di testi? È necessaria l' astra­ zione, ma appunto un' astrazione soggettiva. E la stessa cosa vale anche per le professioni di fede che un gruppo eccle­ siale compone sulla scorta della Scrittura e della tradizione: esse sono sem­ pre e poi sempre ermeneuticamente necessarie, ma dicono relativamente poco sul contenuto del canone biblico. D. Ritschl ha chiaramente riconosciuto questo problema della legittimità di assiomi esplicitati e ricorre spesso alla 'saggezza' (quindi alla saggezza dell'esperienza) quale ultimo criterio. Ora tale criterio mi sembra assai poco affidabile. Nel processo dell' astrazione due elementi sono infatti il portone forzato della soggettività: ciò che viene precisamente lasciato e il contesto che uno sceglie o limita. Forse - non lo so però con sicurezza - agli assiomi impliciti si accompagna una specie di desiderio di realtà tangibili regolari, che posso­ no anche essere fornite da riferimenti a dati delle scienze naturali (cfr. al riguardo pure il punto 1 2). Così, ad esempio, quando nel corso della discus­ sione si dice che gli assiomi impliciti sarebbero una introduzione a riassu­ mere non arbitrariamente, bensì legittimamente. Ma proprio qui occorre domandare: proprio quello che ascriviamo a testi come assiomi impliciti, non va considerato in modo estremamente critico sotto il profilo della critica delle ideologie? La formazione di assiomi impliciti avviene «in modo inno­ cente»? Non cediamo spesso alla tentazione di ritenere che la specie di sem­ plicità e razionalità irradiata dagli assiomi sia qualcosa come un criterio del­ la verità? Ma se nel caso dell' individuazione degli assiomi impliciti si tratta di un' astrazione responsabile, allora bisogna in modo particolare domandarsi chi sia competente a effettuare tale individuazione.

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6. Non esiste alcuna istanza capace di stabilire assiorni impliciti univer­ salmente validi. A mio giudizio si può arrivare a formulare delle affermazioni vincolanti solo in seno a una continua diatriba tra l' autorità e una minoranza critica. Ma tali affermazioni vincolanti sono tutt' altro che affermazioni essenziali valide. Compito della minoranza critica potrebbe infatti essere sempre quel­ lo di immettere nella discussione altri assiomi. Il distintivo dell' odierno cri­ stianesimo di tutte le confessioni sta oggi piuttosto nel fatto che, proprio di fronte alla relatività della verità, si rimane e si vuole rimanere nello stesso tempo attaccati ad affermazioni vincolanti. In realtà infatti solo un soggetto metastorico potrebbe formulare degli assiomi perenni, e anche allora dovremmo domandarci se ciò sarebbe 'bello' . S e ammettiamo che è cosa necessaria formulare per un gruppo proposi­ zioni centrali e avvianti la comprensione, tali 'affermazioni essenziali' sono tuttavia sempre pericolose e minacciate. Esse, per quanto siano necessarie, possono avere solo un valore limitato. Risultato : per un processo attuale di comprensione la supposizione dell' esistenza di presupposti 'dietro' un dato testo è un aspetto necessario. Ma anche tale supposizione di presupposti è soggettivamente e storicamente condizionata. Ciò vale anche a proposito di affermazioni circa la 'dottrina' del canone della Scrittura. Esse sono in continuazione necessarie, ma non vanno scambiate con la Scrittura. Chi postula di realizzare realmente un' armonia prestabilita tra gli assiomi (supposti) interpretativamente formati e il testo, supera indebitamente lo spazio del legame con la storia e corre il pericolo di distruggere i testi in quanto testi. 7. Dubbi circa la fondazione pragmatica. Secondo D. Ritschl gli assiomi acquisirebbero la loro validità perché potremmo dire: «Sì, così va bene», oppure come regole del dialogo. Se alle spalle di questa concezione ci fosse semplicemente il criterio «buona riusci­ ta della prassi», tale criterio sarebbe utilizzabile soltanto nel caso noi avessi­ mo realmente una piena conoscenza dei costi eccezionali di una vita ben riu­ scita, costi distribuiti in maniera universale e non ricadenti solo su un singo­ lo individuo. La stessa cosa vale anche per le regole del dialogo; qui lo sfon­ do potrebbe essere costituito per Ritschl dalla comunità universale e non violenta della comunicazione, per la quale il dialogo è fine a se stesso. Ma neppure questo è possibile in qualsiasi stadio pre-definitivamente valido, in qualsiasi stadio pre-escatologico. La comunicazione non è un valore in sé quando e fin quando essa può essere, tramite l ' ideologia, strumento di inte­ ressi molto partigiani, egoistici e ipocriti. Solo se tutti sono 'giusti ' , se han-

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no interessi immacolati, questo può essere un criterio. D. Ritschl ha osserva­ to a proposito di questo punto che non è questo quel che la teologia sistema­ tica odierna intende per dialogo; ciò malgrado occorre domandare se, fin quando la vita riesce solo a spese di altri, fin quando quindi gli assiomi impliciti della controparte o della minoranza sconfitta non sono accettati, si possa parlare di comunicazione riuscita o di vita riuscita. La vita riuscita così come la comunicazione riuscita sono - utilizzati come criteri - frammenti di una escatologia presente secolarizzata. lo penso invece che proprio il cristianesimo come religione abbia appunto la funzione di gettare mediante criteri specificamente religiosi dei ponti verso l' essere­ non-ancora-presente di stati escatologici ideali. Proprio perché non abbiamo stati utopico-presenti c ' è bisogno della religione e la religione svolge a modo suo un ruolo essenziale come luogotenente dell' Assoluto. Così, ad esempio, nell ' esortazione alla disponibilità al martirio (martirio come modo di por fine alla comunicazione) o sotto forma di quella disponibilità alla lot­ ta e non alla pace, di cui parlano i vangeli. La fondazione di assiomi impliciti di questo tipo risente perciò della riser­ va escatologica. 8. Razionalismo e platonismo calvinistico. Il collegamento tra questi due elementi ci è noto dalla storia culturale dell'Inghilterra, però esso suscita tra i luterani e i cattolici continentali qual­ che apprensione. Astrarre significa infatti: tralasciare dei distintivi può esse­ re cosa necessaria, ma con questo non si è ancora detto da dove tale omis­ sione attinga il suo buon diritto e se questa astrazione debba avvenire secon­ do principi che sono essenzialmente metastorici o sono addirittura già dati come contenuti spirituali con la costituzione biologica dell' uomo. I più sim­ patici per me sono perciò quegli assiomi di Ritschl, a proposito dei quali egli dice che essi hanno una scadenza temporale e che passano, perché met­ tersi d' accordo su delle validità universali limitate è cosa possibile. A questo punto dobbiamo menzionare anche gli elementi comuni e universali della storia della tradizione e distinguerli dalla questione degli assiomi. Non ci sarebbe bisogno di alcuna controversia se si trattasse solo di accettare pre­ supposti storico-culturali comuni (per es., la fede nella creazione) o modelli di stile (per es., antitesi) tra testi o testi e ricettori. Tali elementi comuni fan­ no parte di ciò che è filologicamente dimostrabile (campi semantici, sintas­ si). Invece io potrei considerare come assiomi solo quegli elementi comuni che si trovano più in profondità sotto la superficie del momento e che pre­ sentano un più alto grado di astrazione. Naturalmente Ritschl, a differenza dei razionalismi tradizionali, vuole pensare gli assiomi impliciti soltanto insieme alle forme contingenti in cui

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noi li troviamo. A differenza della riduzione agli esistenziali, intrapresa da Bultmann, il vantaggio di questa soluzione sta anche nel fatto che essa mette in conto una molteplicità, non fissabile in partenza, di assiomi dalla più diversa durata. 9. Riduzione strutturalistica o: come la dogmatica non dovrebbe essere. L' arringa di Ritschl in favore della semplicità del messaggio biblico mi riesce tanto sospetta (come può il teologo dogmatico dire che il messaggio biblico sarebbe semplice, se la critica testuale non è neppure riuscita a darci un testo sicuro della maggior parte dei Salmi? Inoltre: la religione è realmen­ te una semplificazione o non piuttosto una percezione più complessa e diffe­ renziata del reale?) quanto la notizia che anche la teologia di Paolo poggereb­ be in fondo forse solo su dieci assiomi e che la peculiarità dell' autore consi­ sterebbe soltanto nella concatenazione di questi assiomi. Il teologo dogmatico si affaccenderà con la 'simplicitas Dei' e con la 'perspicuitas scripturae' , ma l ' esegeta obietterà precisamente come storico che ciò non corrisponde né alla filologia né alla pluristratificazione della religiosità vissuta e che qui si tratta di un problema pronunciatamente filo­ sofico, di un problema di quegli elementi ereditari che risalgono a Filone di Alessandria (per il resto da me molto stimato) . Circa il problema della semplicità: il comportamento religioso è certa­ mente ' semplice ' , o non dovremmo piuttosto dire 'integrale' ? E anche la lode di Dio è 'semplice' . E soprattutto ci vogliono determinati criteri, secon­ do i quali poter dire: qui si è abbandonata l' immagine biblica di Dio. Quindi di nuovo il fenomeno della delimitazione dei confini. Astrazion fatta da que­ st'ultimo compito, mi sembra che, per il compito della teologia, la sempli­ cità del suo oggetto sia un postulato ingiustificato. Il procedimento descritti­ vo deve infatti spesso affrontare cose molto complicate, che tuttavia in actu sono sperimentate come semplici, come lascia chiaramente trasparire l' esempio dell' 'amore' . Se si separa la teologia dell' atto religioso, la sempli­ cità di quest' ultimo non vale più per la prima. Lo vediamo nel modo più facile osservando le professioni di fede, che sono recitate o cantate con devozione e che possono essere piene di stratagemmi dogmatici per la scienza. E circa le regole fondamentali degli autori biblici: dovremmo qui ripetere tutto ciò che è stato detto contro ogni strutturalismo e in particolare contro strutture profonde: che non è possibile tenere, con questi mezzi, conto nel debito modo di un testo come di una totalità; che la moderna estetica ricetti­ va ha sollevato delle obiezioni di fondo contro tutti i tentativi di trovare qualcosa 'dietro' un testo. Già l' impresa della demitizzazione ha richiamato la nostra attenzione sul fatto che così si distrugge il fascino di un testo e che

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questi elementi universali sono relativamente insignificanti per la sua capa­ cità di influire. Ma in particolare tutta l' esperienza professionale di un ese­ geta va contro la tesi che nella Bibbia e nella rivelazione cristiana si tratti propriamente di cose del tutto semplici, che potremmo riassumere in una proposizione fatta di elementi fondamentali. In ogni caso: non deve trattarsi semplicemente di modelli, ma di sempre nuove ramificazioni. Tuttavia: il filologo tende spontaneamente a dimostrare il contrario, quando sente dire che le cose seguenti sarebbero assiomi impliciti del messaggio neotestamen­ tario: «Gesù è nello stesso tempo Signore e servo>> (così formulato ciò non vale neppure per la lettera agli Ebrei), o: «Diveniamo giusti per mezzo di Dio, non per mezzo di noi stessi»; questo non è, ad esempio, affatto un assioma del vangelo di Matteo, dove gli uomini sono piuttosto esortati a divenire giusti con il loro fare secondo il discorso della montagna e ad entrare così nel regno di Dio. Né Matteo ha pensato di leggere quell' assio­ ma contropelo, bensì non l ' ha piuttosto semplicemente pensato. Egli confida piuttosto nella volontà decisa dell' uomo di volere, una volta rettamente ammaestrato da Gesù, divenir giusto. - E chi vorrebbe invece riconoscere il contrario, come spesso fa l' esegesi confessionalmente protestante a proposi­ to di Matteo, adotta una posizione filologicamente e storicamente sbagliata e interpreta Matteo alla luce di Paolo o della Riforma. E questo è semplice­ mente inammissibile nei confronti del soggetto Matteo. - Ora la proposta di Ritschl è naturalmente superiore al razionalismo tradizionale per il fatto che essa non afferma che questi assiomi sarebbero dappertutto presenti, ma afferma soltanto che essi non sarebbero falsi. E perciò appunto impliciti. Ciò ha un suono seducente, ma ha determinati presupposti che vanno discussi: esso presuppone, per quanto riguarda il Nuovo Testamento, un quadro complessivo piuttosto armonicistico, e inoltre o contemporaneamen­ te questa tesi è un allettamento a compiere delle acrobazie esegetiche senza fine. Ad esempio, è tutto implicito quello a proposito del quale Matteo non afferma il contrario? La proposizione: «Diveniamo giusti per mezzo di Dio, non per mezzo di noi stessi» è realmente sbagliata per lui? Matteo la pensa diversamente, ma rinnegherebbe questa proposizione? Con i 'teologi biblici' siamo spesso costretti a discutere di simili questioni. Tutte le teologie cri­ stiane antiche sono tasselli di un grande mosaico che si completano fra loro, così da non escludersi a vicenda, ma da integrarsi? A simili operazioni ten­ tatrici io ho sempre opposto il no dello storico e lo faccio anche adesso. Né la domanda, né la risposta sarebbero note a Matteo. Parlare qui ·di assiomi impliciti significa parlare in maniera astorica (perché Matteo sarebbe costretto a dare una risposta a proposito di qualcosa di cui non si è mai occupato, un po' come se in base al suo vangelo si volesse stabilire a quale

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partito egli sarebbe oggi più vicino), oppure tentare di giudicarlo da un pun­ to di vista extrastorico. Proprio l' 'implicito ' è la continua tentazione ad abbandonare il terreno della storia nell' uno o nell' altro senso. Che le teolo­ gie cristiane primitive siano un mosaico che' si completa lo può dire solo qualcuno il quale conosce la verità e sa con tutta sicurezza che essa è una. Dobbiamo addirittura dire: gli assiomi impliciti, quando intendiamo fare delle affermazioni sulla Scrittura, non dovrebbero mai e poi mai andare a spese dell' evidenza filologica e storico-teologica chiara e dovrebbero rinun­ ciare all'argumentum e silentio. Ma proprio per questo essi sono possibili solo come assiomi limitatamente validi. Proprio per questo esistono soltanto delle intese circa unità testuali limitate o (per quanto riguarda l' applicazio­ ne) soltanto intese a tempo. Io rabbrividisco di fronte al termine assioma perché esso, rispetto agli scritti occasionali biblici, ha il peso di una massa di ferro, sotto cui i testi e la loro ricezione vanno in frantumi. E al teologo dogmatico chiediamo di non fare, circa testi biblici, alcuna affermazione che induca automaticamente l' esegeta a opporsi ad essa e a dire seccato che tale affermazione dogmatica è esegeticamente tanto arbitra­ ria e tanto labile che sarebbe con facilità possibile affermare anche il contra­ rio. Nel caso degli schematismi provo sempre molto fastidio per l' arbitra­ rietà dell' ordinamento . Non sarebbe possibile fare delle affermazioni responsabili che sfuggano a questa trappola? Che non inducano l' esegeta a voler subito affermare semplicemente il contrario di simili enunciazioni sommarie? Per l' esegesi gli assiomi formulati sono tutt' al più delle semplificazioni provvisorie utili. Invece per quanto riguarda l' applicazione occorre doman­ darsi se gli assiomi esplicitati siano strumenti della comprensione ermeneu­ tica: lO. Gli assiomi impliciti sono ermeneuticamente necessari e la base per

tertia comparationis ? Qui non si tratta di ciò che la teologia dialettica chiama 'la cosa' del cri­ stianesimo? Forse potremmo descrivere il rapporto dell' ermeneutica di Ritschl con le mie concezioni nel modo seguente: al centro c'è un consenso circa il fatto che in singoli testi esistono strutture e assiomi impliciti. Ritschl si allontana quindi subito nella direzione che va verso l' alto, dal momento che si dirige verso assiomi universali anche biologicamente fondati. lo invece procederei dal centro comune piuttosto verso il basso e considererei le strutture e gli assiomi individuali già come quelli più astratti tra le dimensioni degli effetti o influssi. Inoltre importante per la mia concezione dell' ermeneutica non è soltanto la struttura razion ale bensì altrettanto importanti sono pure le con,

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dizioni dell' influsso emotivo, di cui fa parte pure la forma del testo. A qual­ siasi ermeneutica razionalistica rimprovererei una disposizione d' animo antiretorica. Nel caso dell' ermeneutica io metto decisamente in conto l' ana­ logia dell' influsso, e questo avviene per così dire 'davanti' a un testo, non sulla base dei suoi assiomi. Forse potremmo dire nel senso di D. Ritschl: il senso ermeneutico della questione degli assiomi impliciti è racchiuso in questa domanda: che cosa è propriamente 'detto' nel ·testo (assiomi impliciti del messaggio) rispetto ai motivi per i quali io credo (assiomi impliciti del soggetto)? Oppure: oggi, di fronte ai miei assiomi impliciti, in quale altro modo Matteo formulerebbe il proprio messaggio? - Viceversa: come io affermo la necessità di un con­ fronto tra le esperienze odierne e il testo, così mi pare problematico il tenta­ tivo di ricorrere a una assiomatica comune o a qualcosa di simile per ambe­ due. 1 1 . Il pericolo dell' astoricità. Alla fin fine: quale immagine della storia sta dietro l' illusione di poter racchiudere qualcosa in assiomi? La rivelazione e la storia del popolo di Dio non sono qualcosa di molto più vivo? Questa è una domanda che riguarda anche le presupposizioni antropologiche fondamentali. Gli assiomi sono realmente adeguati al carattere della rivelazione come storia, alla peculiarità della teologia paolina quale teologia sempre provocata dalla situazione, con un Paolo in grado di compiere sempre nuove inversioni di marcia e di ricor­ rere a elementi sempre nuovi del suo armamentario giudaico? Gli assiomi tengono conto in modo adeguato del carattere storico del giudaismo e del cristianesimo? O sono solo tentazioni pedagogico-didattiche non dissimili da quelle di sant' Antonio? 1 2. Il rapporto della dimensione 'chiesa' con gli assiomi impliciti e espli­ citi ci permette di cogliere la loro utilità e problematicità. a) La chiesa ha bisogno di assiomi espliciti e esplicitati per motivi pedagogici (catechismo) e allo scopo di delimitare se stessa nei confronti di altri. b) Nell' applicazione della Scrittura la chiesa deve in continuazione dire che cosa è per lei di volta in volta essenziale. In questo modo essa costituisce - in parte attra­ verso la fonnulazione di assiomi - un sempre «nuovo canone nel canone>>, e questo è un processo enneneuticamente senza dubbio necessario. Ma, cosa interessante, la norma normans della chiesa non è una raccolta di assiomi, bensì il canone. Un canone che fa apparire tutti i tentativi di cogliere gli assiomi in esso contenuti come uh ; attività umana necessaria e nello stesso tempo caduca. c) Gli assiomi sono la 'doctrina' della chiesa. Il loro valore posizionate per quel­ lo che costituisce la vita ecclesiale è limitato.

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d) Molte cose nella chiesa si oppongono alla ricerca di assiomi, perché esse non sono sommabili. Non sommabile è tutto ciò che esiste come superficie o non esiste affatto, come ad esempio la retorica di un testo, il rito della sua messinscena e, in generale, tutta la realtà attinente l' azione. Sommabili invece sono molti testi, però di gran lunga non tutti (testi fortemente concomitanti l' azione, come, ad esempio, in un altro campo della vita umana, le lettere d' amore). e) È forse relativamente superfluo cercare il 'tema' del 'cristianesimo' , quando la chiesa è intensamente percepita, sperimentata e fatta oggetto di riflessione come una entità sociale e come una realtà viva in tutta la sua multiformità. Perciò la que­ stione dell'essenza, astrazion fatta da quanto menzionato sotto il punto a), presup­ pone una presa di distanza accademica o borghese dalla chiesa, in modo da potersi poi occupare del 'cristianesimo' . Di conseguenza sarebbe forse possibile prendere questo fatto come uno stimolo a considerare il cristianesimo non primariamente come una entità culturale, ma come una entità sociale•. f) La questione degli assiomi è esposta al sospetto di voler rendere superfluo e voler sostituire una volta per tutte, mediante una specie di collana di perle di vetro, un 'magistero' vivo della chiesa. Si tratta di una forma di metadottrina dalla quale, in caso di dubbio, occorre solo dedurre?

Il gioco della riduzione e della deduzione apparirà all' esegeta come la tentazione per eccellenza del teologo sistematico, e se egli dovesse dipinge­ re qui un diavolo sulla parete, tale diavolo si chiamerebbe 'fattibilità perfe­ zionata' , 'dominabilità' . L' esegeta non opta qui per la bellezza strutturale del sistema, ma per la forma individuale di ogni testo e quindi per la sua specifica bellezza. Perciò la mia preoccupazione nei confronti dell' impresa di D. Ritschl non è solo quella di salvaguardare i testi, bensì anche quella di salvaguardare tutti i lati del cristianesimo che non sono dottrina e didattici, e difendo il diritto della vasta complessità della realtà chiesa di fronte al tentativo di ricondurre il 'cristianesimo' a qualcosa di più semplice. 1 3 . Il rapporto tra scienze dello spirito e scienze naturali. Quasi tutte le teorie ermeneutiche di questo secolo divenute importanti sono nate in seno alla discussione con le scienze naturali e si concepiscono come una risposta a tale sfida. In questo contesto, di fronte alle difficoltà di ogni ermeneutica di poter coordinare fra di loro l' individualità contingente e l ' universalità, un fascino per eccellenza esercita in particolare l' universalità

'' A questa tesi corrisponde l'osservazione, espressa nel corso del dibattito, che la questione dell "essenza del cristianesimo' e, corrispondentemente, degli assiomi impliciti fu guardata decisa­ mente con sfavore da pensatori di stampo cattolico, mentre fu studiata soprattutto da calvinisti.

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della legge delle scienze naturali. In Gadamer, ad esempio, il testo è l' uni­ versale che viene applicato come una legge; in R. Bultmann la precisione e soprattutto la scientificità della fisica sono considerate come il modello dell' interpretazione esistenziale, e D. Ritschl si spinge su questa linea più lontano di tutti, dal momento che non va solo alla ricerca dell' analogia, ben­ sì dell ' identità. L'uomo è inalveato nella natura anche per quanto riguarda la sua ricerca della verità. In questo senso il contributo di Ritschl è il più radi­ cale a proposito di questa questione. Ora il principio menzionato per ultimo non va contestato. Ma si tratta di vedere con quale metodo lo si verifica. Infatti anche gli assiomi di Ritschl non sono altro che leggi naturali nel cam­ po del culturale. Ma proprio qui bisogna forse, a mio giudizio, procedere diversamente. C ome storico io trovo una pretesa esagerata quella secondo la quale dovremmo adottare il discorso delle leggi universali delle scienze naturali, foss' anche nel senso di una loro esistenza implicita. Al riguardo io ritengo opportuno invertire il modo di pensare: che succederebbe se facessimo una buona volta il tentativo di fare delle scienze storiche, protese a rilevare e a descrivere individui, il punto di partenza della ricerca scientifica in genera­ le? Il tentativo di porre la ricerca schleiermachiana dell' individuo al posto dell' ermeneutica rovinata a partire dall' Aristotele cultore delle scienze naturali? Non ha la sua storia anche la natura? Il presupposto della legge universalmente valida non fa essenzialmente parte della cosiddetta fisica classica anteriore a Einstein? Visto che pure per le scienze naturali vale il circolo ermeneutico, potremmo piuttosto partire dalla circostanza che anche la natura va letta come un testo: secondo i principi della struttura individua­ le e del contesto. Certo, la natura non è verbale, non vuole dire alcunché. Ma se vediamo i singoli suoi capitoli, primo, come parte di un contesto gra­ duato, secondo, come risultato del divenire e, terzo, sotto l' aspetto della responsabilità dell ' uomo per lo Sitz im Leben nel tutto (precisamente in questo senso la natura fa parte della storia di questa terra), Sitz im Leben che proprio un determinato capitolo deve occupare, allora di qui risultano anche spunti etici che non sono più apposti solo dall' esterno alle scienze naturali. La natura fa parte della storia di questa terra. Non potrebbe forse significare un cambiamento necessario dell ' autocoscienza delle scienze del­ lo spirito, se tentassimo almeno di occuparci della loro problematica (storia, contesto, struttura) , anziché !asciarle vivacchiare all' ombra delle scienze naturali? Nella mia concezione io peroro la priorità della questione storica rispetto a tutte le altre. Comune con il tentativo di D. Ritschl sarebbe il fatto che non dovrebbe

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più esistere una semplice coesistenza tra scienze naturali e scienze dello spi­ rito.

3. Ermeneutiche emancipatrici

TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE B ibliografia: CL. BoFF, Theologie und Praxis. Die Erkenntnistheoretischen Grundlagen der Theologie der Befreiung (FfhS 7), Mtinchen - Mainz 1 983 [ed. or. , Teologia e pratica, Petropolis 1 978].

Qui non dobbiamo esporre in modo completo la teologia della liberazio­ ne, ma solo alcune sue tesi ermeneutiche particolarmente caratteristiche. Quella principale, il riferimento dell' applicazione alla situazione, viene ripresa - su un alto grado di astrazione - nella esposizione della mia posi­ zione. Tale tesi rappresenta una acquisizione permanente della teologia della liberazione, che va già impallidendo nelle sue forme ideologizzanti. Già U. Luz7 lamenta - rifacendosi a J. Miguez-Bonino - «l' anteposizione praticamente dominante» nell' esegesi occidentale «della 'verità' (metastori­ ca) di testi biblici e della sua applicazione (successiva, storica, imperfetta)»: «La verità esiste quindi prima della sua efficacia storica ed è da essa indi­ pendente. La sua legittimità va verificata in base alla relazione con questo 'cielo ' astratto 'della verità' ». - Queste parole indicano la questione che interessa anche a noi. Le considerazioni seguenti si ispirano a questi punti di vista, e in esse vorrei adottare positivamente e sviluppare alcuni spunti della teologia della liberazione: l . L' applicazione non parte in primo luogo dalla questione del modo in cui un testo dovrebbe essere reso oggi complessivamente comprensibile o andrebbe tradotto. L' applicazione non è una chiarificazione accademica del messaggio (trasposizione di 'rappresentazioni' nel 'presente' ), ma una com­ prensione attinente l' azione. Essa stessa è già un' azione altamente carica di responsabilità.

' U. Luz ( 1 982), 501

nota 30.

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2. Il modello del modo di procedere non consiste nel partire dal «diritto della parola di Dio» adesso, bensì la teologia 'dal basso' comincia piuttosto dall' esperienza del bisogno e non ha il proprio criterio in una adeguatezza presunta o reale con il testo biblico, bensì nella funzione pratica efficace e 'liberante' . Qui la teologia non si concepisce primariamente come avvocato della «parola sovrana di Dio», ma si ispira piuttosto al modello d�l ministe­ ro terreno di Gesù. 3. L' inizio dell ' applicazione è l' evidenza dell' appello che scaturisce dalla situazione, allorché insorge un bisogno di agire cui non è lecito chiudersi e che non va ideologicamente rimosso. 4. Le conseguenze pratiche derivanti da questa impostazione sono : l' interprete sa di operare delle scelte nella Scrittura e lo ammette apertamen­ te. D' importanza decisiva diventano il fine e l' effetto del testo applicativo da allestire. Il predicatore si interroga su ciò che l'ha colpito e su ciò che può indurre poi altri a sentirsi consolati o all' azione. La liberazione - nel senso ampio del termine - è lo scopo dell' azione applicativa. 5. Questo principio è comune con la teologia della liberazione: il mondo non va interpretato alla luce del vangelo, esso non va considerato un caso cui applicare una norma universale conservata nella Scrittura, bensì bisogna capire il vangelo partendo dalla situazione (tra l' altro anche dalla situazione sociale), scoprire di nuovo il vangelo partendo da questa base e lasciare che esso si manifesti così di nuovo. Quel che un programma di questo tipo praticamente significa lo possiamo vedere considerando un esempio opposto: il commento di R. Bultmann al vangelo di Giovanni fu pubblicato nel 1 94 1 ( ! ) . Esso, stando a quanto si propone di fare, è una miscela particolare di affermazioni esegetiche e di affermazioni teologiche. Bultmann raggiunge questo scopo fondendo tra di loro le affermazioni del vangelo di Giovanni e la filosofia di M. Heidegger e mostrando così l' attualità di quelle affermazioni e applicandole. L' attualiz­ zazione viene qui cercata ad altissimo livello rifacendosi a una moderna antropologia filosofica. Inoltre non si distingue tra esegesi e questo tipo di applicazione.

Sollecitazioni: In Cl. Boff ( 1 983), un classico della teologia della liberazione, leggiamo: «L' esperienza effettiva e molto intima di una determinata situazione permette di capire e di percepire sensibilmente che cosa in quella situazione è 'rilevan­ te' . I 'punti salienti' della storia sono percepibili con le mani. Questa perce-

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zione trova nella maggior parte dei casi la sua espressione nel discorso dell' esperienza vissuta, che manifesta le reazioni dello sdegno, della critica, dell' accusa, dell' invito pressante al cambiamento, della mobilitazione dello spirito ecc. Di ciò fa parte anche il giudizio etico, l'espressione della coscien­ za morale, che conferisce a tutto questo una grande importanza. Questo pri­ mo momento potremmo chiamarlo un momento etico o, meglio ancora, un momento profetico»8• Dobbiamo però riflettere: la coscienza morale è un'entità relativa e bisognosa di ulteriori criteri. Importante è il fatto che, nel contesto, Boff nomina due elementi che strutturano questa esperienza: la percezione sensibile (l' «esperienza vissu­ ta») e l' analisi (razionalità). Al riguardo egli osserva anche che questa espe­ rienza fondante non si lascia costituire nella forma di una teoria chiara o nella forma di una teologia9• Pure a proposito dell'elemento 'profetico' dob­ biamo convenire con Boff, perché qui si tratta di un elemento dell' efficacia storica del cristianesimo. Secondo J. B . Metz d' importanza decisiva per una nuova ermeneutica non è più il rapporto tra teologia sistematica e teologia storica, bensì il rap­ porto tra teoria e prassi. Per lui «il cosiddetto problema ermeneutico fonda­ mentale della teologia non è propriamente quello del rapporto tra teologia sistematica e teologia storica, tra dogma e storia, bensì quello tra teoria e prassi, tra intelligenza della fede e prassi sociale», cosa che comporterebbe anche una nuova definizione del rapporto tra dogmatica e etica10• Di qui poi anche la richiesta: «I metodi ermeneutici sono metodi che hanno a che fare anche con la prassi, in quanto non cercano solo di chiarire le condizioni e gli orizzonti della comprensione in seno a un determinato contesto operati­ vo, ma si occupano anche del cambiamento di tali condizioni e di tali oriz­ zonti» ; la teoria non andrebbe esclusa, solo che essa «andrebbe posta in rap­ porto con l ' azione molto più decisamente di quanto permettano di fare i modi a noi noti e nella teologia abituali di filosofare» 1 1 • Importante è l ' osservazione di J. B . Metz, secondo la quale questo significherebbe anche un «nuovo rapporto con l' informazione non teologica» 12• Finora la discus­ sione ermeneutica si è occupata il più delle volte del rapporto tra teologia storica e· teologia sistematica, si è interrogata sul permanente «contenuto di verità» di eventi passati e storicamente unici e irripetibili, si è occupata del «brutto largo fossato» esistente tra la verità storica casuale e la verità razio' Cfr. CL. BoFF ( 1 983), 289. CL. BoFF, op. cit. , 290. "' J. B. METZ ( 1 969), in H. PEUKERT ( 1 969), 267-30 1 . " J . B . METZ, op. cit. , 238. " J. B. METZ, op. cit.



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naie assoluta13• Queste questioni - così dobbiamo obiettare al 'non'/'ma' di J . B. Metz - sono sicuramente di un' importanza permanente, però esse sono 'inquadrate' dai problemi che risultano dalla necessità di padroneggiare la situazione. Di conseguenza non possiamo che convenire in linea di principio con lui, allorché egli dice che il compito principale dell' ermeneutica è quel­ lo di riflettere sul rapporto tra teoria e prassi e non soltanto su quello tra Bibbia e dogmatica. Ciò significa una percezione completamente diversa e nuova di ciò che nella situazione mi trovo di fronte e che va qui padroneg­ giato. Anziché di 'teoria' e 'prassi' noi avevamo finora parlato di tradiziona­ le idea della verità e della necessità di corrispondere alla situazione tenendo conto dei fattori più importanti che la costituiscono. E qui io concepisco anche la scoperta di una nuova verità come azione/lavoro. Già nel 1 967 Y. -M. Congar scriveva: «Anziché partire dalla rivelazio­ ne e dalla tradizione, come ha fatto la teologia classica, essa [cioè la nuo­ va teologia] deve ora partire da fatti e da problemi desunti dal mondo e dalla storia, cosa che è molto più dispendiosa . . . Dobbiamo partire dalle idee e rappresentazioni odierne come da un nuovo 'dato ' , che va natural­ mente spiegato in base al 'dato ' del vangelo, senza che al riguardo ci rifacciamo alle elaborazioni già acquisite e assimilate di una tradizione sicura» . Importante è qui che il nuovo 'dato' non venga scambiato con la 'rivela­ zione' , ma sia concepito come una domanda cui occorre cercare di risponde­ re con l' aiuto della Scrittura. Assolutamente giusta trovo qui anche la conce­ zione del processo ermeneutico come di una correlazione tra realtà. Nell' ermeneutica della neoortodossia luterana la 'situazione' non compa� re . Dobbiamo certo condividere il discorso della Scrittura come «norma pneumatica», ma problematica diventa una simile impostazione a motivo di ciò che in essa non compare: chi riduce il problema dell' applicazione alla questione della fede e della mancanza di fede, della comprensione e dell' indurimento, dell' obbedienza e della disobbedienza, nonché al tema della legge e del vangelo14 e non trova in tutto ciò necessario dire qualcosa sull' importanza teologica della situazione, costui è così fissato sulla dottrina da non riuscire a scorgere il mondo, al quale tuttavia la dottrina è destinata, o, cosa che è forse ancora peggiore, una simile teologia 'segna il passo ' , perché i l fenomeno 'situazione' andrebbe infatti discusso soprattutto in una concezione storico-teologica, che qui manca. - La situazione non è presa sul " Cfr. al riguado anche K. BERGER, Exegese und Philosophie, Stuttgart 1 986. Cfr. R. SLENCZKA, Die Krise des Schriftprinzips und das okumenische Gesprach, in TH. BER (ed.), Grenziiberschreitende Diakonie (FS P. Philippi), Stuttgart 1 984, 40-52. 14

SCHO­

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serio dove si parla soltanto dello Spirito Santo e dove per il resto non si nota alcuna consapevolezza della possibile problematica dell' applicazione. Non conviene nascondere - come succede spesso anche nell' ermeneutica neoor­ todossa - tutti i problemi con un richiamo all' entità 'Pneuma' . Tale richia­ mo conduce in particolare a un concetto quietistico della comprensione15. Un esempio opposto a R. Slenczka è il progetto avanzato da D. Tracy

(The Analogica/ Imagination. Christian Theology and the Culture of Plura­ lism, New York 1 98 1), che sviluppa uno schema 'dialettico' , secondo il qua­ le una reciproca interpretazione tra testo e situazione mantiene in vita la teo­ logia, cosicché nel processo ermeneutico nessuna delle due entità rimane non interpretata. Nel corso di tale processo la teologia deve naturalmente prendere parte a tutte le interpretazioni della situazione presente16. Dalla concezione di Tracy risulta che ci vogliono quindi due specie di criteri: cri­ teri che descrivono in modo pertinente la situazione, e criteri che interpreta­ no in modo adeguato il testo17. Tracy chiama questo fatto «revisionist theo­ logy», cioè teologia aperta alla revisione. Naturalmente l' indicazione dei criteri, per quel che finora conosco dei lavori di Tracy, è per il momento sta­ ta ancora troppo scarsa. In ogni caso egli tiene conto della necessità, come facciamo anche noi qui, di una cernita tra i testi della Scrittura nella situa­ zione18. Secondo la nostra concezione valgono soprattutto i punti seguenti: l. L'analisi della situazione ha nel processo ermeneutico la stessa impor­ tanza dell' analisi del t�sto biblico. In ambedue i casi lo scopo è quello di individuare sia nel testo sia nella situazione il maggior numero possibile di aspetti, per accrescere così il numero dei possibili punti di contatto. In altre parole: quanti più aspetti di un testo mi sono noti e quanto più, dall' altra parte, conosco la situazione, tanto maggiore è la probabilità che trovi su ambedue le sponde dei punti che «quadrano fra di loro», cosicché il testo può agire criticamente o influire positivamente. Pertanto vale la regola: quanto maggiore è l' analisi, tanto più numerosi sono i punti di contatto a disposizione.

" Il richiamo al Pneuma serve cioè regolarmente a indicare il puro carattere di dono della com­ prensione ermeneutica (applicazione della dottrina della giustificazione), come se appunto ogni conoscenza fosse frutto dell'opera dello Spirito. Ora non è solo la più recente antropologia a mostrare che anche la conoscenza è azione e che perciò valgono per la conoscenza le stesse condi­ �.ioni che valgono per l' azione. Ciò significa: qui come altrove lo Spirito Santo non escluderebbe l ' azione umana, bensi la provocherebbe, la fonderebbe e l'accompagnerebbe. ,. Cfr. W. G. JEANROND ( 1986), 146. " D. TRACY, Blessed Rage for Order. The New Pluralism in Theology, New York 1 975, 71 ss. " D. Tracy chiama questo il «Working canom> (Analogical lmagination, 264).

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2. L' analisi della situazione non è fine a se stessa (questo sarebbe un pro­ cesso infinito), ma viene fatta al cospetto del testo e in ordine ad esso. Esaminiamo ora quest' ultimo punto per scoprire alcune importanti singo­ le questioni in esso racchiuse.

Analisi della situazione ed esegesi In modo simile a come avviene nell'esegesi storico-critica, non è possibi­ le analizzare anche solo approssimativamente una situazione mediante una semplice statistica, perché la statistica è sì necessaria, ma può di per sé sola risultare assai poco eloquente. La cosa decisiva per l' analisi della situazione - tanto per dirlo subito in modo sommario e provvisorio - può essere colta solo mediante una grande sensibilità per 'umori ' . Pertanto ci imbattiamo qui nella medesima entità particolarmente importante · e nello stesso tempo difficilmente afferrabile, che era importante anche per la reazione morale e etica in generale. Diversamente da altre concezioni ermeneutiche (per esempio da quella di H. Weder) non vengono prese come punto di partenza della riflessione ermeneutica la rivelazione o la fede. In termini più chiari ancora: il proble­ ma dell'ermeneutica teologica non sta nel fatto che esiste una B ibbia che andrebbe tradotta, bensì nel fatto che davanti a Dio esistono degli uomini che hanno bisogno di una redenzione completa. Non si tratta per così dire del tentativo di aiutare la 'parola di Dio' a imporsi adesso, perché essa non riuscirebbe a farlo da sola. L' applicazione non significa dover essere anzi­ tutto avvocati della parola sovrana di Dio, suoi precursori e antesignani, ren­ derle giustizia e «aiutarla a camminare».

Grande sensibilità e plausibilità Il problema può essere illustrato dal fatto che sia l' attentato contro Hitler del 20 luglio 1 944 sia quello contro H. M. Schleyer del 1 977 furono com­ piuti da pochi uomini, senza la copertura del consenso della maggioranza e «solo sulla base di una decisione di coscienza» secondo il modello del tiran­ nicidio. In ambedue i casi gli attentatori si consideravano come l' élite a ciò chiamata, così come i piloti della RAF pensavano di liberare gli uomini dal­ la sventura e dalla schiavitù. - Dove sta la differenza? Cosa mancava ai tei:"-' roristi? La difficoltà della risposta non va minimizzata19• Furono la 'plausibi" Infatti: come la penserebbero oggi gli uomini e le donne del 20 luglio, se per caso Hitler aves-

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lità' e una 'grande sensibilità' a mancare ai terroristi e alla loro azione? Qui non possiamo chiaramente indicare alcun criterio astratto (perché essi sareb­ bero indicabili solo a posteriori). l. La percezione delle situazioni non avviene di fatto 'senza preparazio­ ne' , ma presuppone un' educazione alla sensibilità, quale in parte può essere stata trasmessa nella cornice dell' influsso storico del cristianesimo20• Con tale educazione sono nello stesso tempo trasmessi anche determinati ideali, un ethos molto generale, una specie di sensibilità generica per ciò che sareb­ be 'propriamente' umano. - La situazione della reazione a un bisogno ele­ mentare, descritta da H. Jonas, non esiste perciò di fatto mai dalla parte del reagente in maniera così pura, bensì esiste tra di noi forse nella cornice di influssi generali del cristianesimo. Per la precisione si tratta qui di due punti: uno è il fenomeno del circolo (influsso della storia e educazione come presupposto, quindi anche norme, impressioni, elementi che incidono), l' altro è la capacità individuale di impa­ rare e la sensibilità attuale (quindi un comportamento personale, non deter­ minate 'rappresentazioni' come nel caso del circolo della comprensione). Nella teologia della liberazione spesso non si vede la formazione imparti­ ta in precedenza dall' influsso storico del cristianesimo. Questo fenomeno viene chiaramente individuato nel modo giusto solo là dove esso comincia a diventare problematico, come avviene nell 'Europa occidentale. Importante è in ogni caso il fatto che non la lettura della Scrittura produce da sola l' applicazione, bensì che l' applicazione presuppone una percezione sensibile della situazione. Questa specie di percezione potrebbe molto spes­ so essere già stata comunicata dal cristianesimo sotto forma di senso di umanità e di libertà. Questa specie di 'precomprensione sensibile' non ha affatto bisogno di essere semplicemente già identica con la 'fede' o con la «decisione in favore di Gesù Cristo». Si tratta piuttosto di un fenomeno assai diffuso nella comi­ ce di una chiesa di popolo. L' importante non è perciò che «il credente pro­ clami la parola di Dio» in una situazione, la immetta in essa, ma che il cri­ stianesimo faccia sentire, secondo il nostro modello, il proprio influsso mol­ to mediatarnente e solo indirettamente. Questa forma di influsso del cristia­ nesimo va considerata più da vicino.

se vinto? Una riflessione approfondita è particolarmente necessaria se non vogliamo che sia etica semplicemente ciò che è in vigore. '" L'accento cade sul 'può', e questa osservazione non intende fare l' apologia del cristianesimo, ma evidenziare piuttosto un intreccio di relazioni. Inoltre le percezioni vigili delle situazioni non necessariamente devono essere trasmesse o provocate cristianamente.

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La formazione molto 'tenue' , sommaria, impartita dal cristianesimo costi­ tuisce infatti gran parte della sua 'realtà' in seno alla nostra società (dalla svolta costantiniana in poi). Il cristianesimo diventa realtà e applicazione non tanto consapevolmente o per una decisione di fede (e meno che mai come ricordo di Gesù Cristo), bensì mediante una reazione diretta (sulla base di un 'habitus' inculcato, per quanto molto superficiale), che spesso avviene quasi automaticamente e non viene ulteriormente fatta oggetto di una riflessione etica. Sotto il profilo teologico questo tipo di influsso eserci­ tato dal cristianesimo è importante, perché si tratta della conseguenza di un' esistenza in seno alla storia. 2. L' importante è non soffocare la sensibilità spontanea con pretesti (ideo­ logici) secondari, che di fronte al dovere spontaneamente sentito di essere umani rappresentano la tentazione di «tirarsi fuori dalla faccenda>> . Cfr. la frase: «Chi sente quel che vede, dà quel che può». 3. Ma la semplice 'sensibilità' non basta; per un' applicazione realmente ben riuscita ci vuole piuttosto un'analisi (storico-critica) precisa e una conoscenza oggettiva approfondita, così come ci vuole un 'senso di responsabilità' . Questo spiega il ruolo che già J. B . Metz assegna al sapere 'mondano' . 4 . Una volta effettuata con attenzione questa percezione, ci s i domanda quale aiuto la Scrittura possa fornire nella situazione (come appello, come promessa, come consolazione o critica: qui andrebbero menzionati tutti i generi della storia delle forme) . Precisamente questo è il campo dell' innova­ zione. Innovazione che avviene nel modo seguente: l'interprete porta nel proces­ so di applicazione il ricordo fresco o latente del bisogno attuale (presente in sé o nei suoi destinatari) ; questo ricordo viene attivato nell ' incontro con il testo e assume così un nuovo significato, che tiene conto della controparte rappresentata dal testo. Non possiamo certo dire che la situazione di miseria e necessità sia stata riconosciuta solo grazie al testo, tuttavia l' immagine della situazione assume adesso nuovi tratti. E viceversa, alla luce di quel che è stato percepito nella situazione, si sceglie nel testo ciò che si confà (criti­ camente, sotto forma di conferma ecc.) a questa situazione. I due processi ­ messa a punto della situazione e selezione di importanti elementi del testo si svolgono in seno a un reciproco rapporto, e tale evento è il proprio e vero atto della libertà nell' interpretazione. A questo punto vediamo con chiarezza quale funzione l' esegesi critica può avere per l' applicazione. L' esegesi può infatti notevolmente moltiplica­ re il numero degli aspetti contenutistici di un dato testo e evidenziarli. Inol­ tre può fare questo anche mediante l' analisi dell' efficacia storica del testo. In questo modo essa evidenzia un maggior numero di possibili punti di con-

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tatto (analoga con un tertium comparationis) con la situazione. - Grazie all' esegesi storico-critica diventa per così dire visibile nel testo esistente un gran numero di superfici cristalline, il testo guadagna in spazialità e guada­ gna di conseguenza tutta una dimensione. Ma un' opera simile per il campo dell' innovazione deve svolgere anche l' analisi della situazione, qualora essa venga parimenti effettuata in modo quasi storico-critico (analisi storica, sociologica ecc.). Perciò possiamo dire che sia l' analisi del testo sia quella della situazione contribuiscono a far riconoscere un maggior numero di possibili punti di contatto. Inoltre l' evidenziazione della ricchezza del testo è anche un possibile ethos dell' esegeta, un ethos che compare accanto a quell' altro, similmente tradizionale, secondo il quale l' esegesi ha una funzione critica nei confronti delle ideologie e della chiesa ed è quindi rivolta contro l'esercizio del potere ecclesiale. Ma il criterio per la selezione da operare nel testo e per la corrispondenza tra la situazione e aspetti del testo non è la pura corrispondenza stessa, bensì il fine dell' applicazione, un fine che si spinge al di là di queste analogie. Il criterio per tutte le 'combinazioni' di questo genere è l' effetto perseguito21 • E a questo scopo occorre, tra l' altro, anche approntare u n testo applicativo. 5. Se la reazione deve corrispondere realmente alla situazione non biso­ gna tener conto solo della domanda Perché?, bensì anche della domanda Per chi ? Cioè, nel rispondere alla situazione, bisogna tener conto anche del destinatario dell' azione. Esiste perciò il dovere di una critica preventiva del­ la ricezione. Ciò esige che si tenga conto della dimensione dell' efficacia già anche nei testi biblici stessi. Similmente, quando si formula il testo applica­ tivo, occorre interrogarsi sullo scopo perseguito. L' importante non sarebbe perciò «proclamare la parola di Dio» nella buona e nella cattiva sorte e abbandonare il resto a se stesso, bensì piuttosto riflettere in antecedenza sugli effetti del testo applicativo. Proprio collegando quanto detto sotto il punto l e sotto il punto 4 è possi­ bile cogliere tutto il processo: attraverso l' influsso storico del cristianesimo, tradotto in rappresentazioni e sedimentatosi nella propria persona, un uomo si lascia impressionare in una situazione, è capace di accogliere la Scrittura e fa attenzione a che la risposta, che trova, possa essere accolta dal destina­ tario. Il predicatore si interroga su ciò che l'ha impressionato e su ciò che può poi anche impressionare altri. Si tratta perciò di un complesso processo di ricezione verificantesi in più fasi, di un processo che non equivale sem-

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Cfr. al riguardo T. RENDTORFF, Ethik l, Stuttgart 1 980, 65s.

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plicemente a entrare nell' alveo di una tradizione. La partenza dalle condi­ zioni e possibilità della ricezione è legata a un' anali�i accurata. Pertanto tut­ to il comportamento è qui l' opposto di un trionfalismo missionario ed è nel­ lo stesso tempo in larga misura un «congedo dai principi» e un orientamento verso le fondazioni più prossime (0. Marquard). 6. Per rendere un modo di agire plausibile (agli occhi della 'pubblica opi­ nione ' ) non basta richiamarsi alla propria coscienza o dedurre tale modo di agire da norme tradizionali, così come non bastano una votazione o un richiamo a un ' sentimento collettivo della giustizia' , ma occorrono piutto­ sto: a) Una articolazione: occorre scoprire una situazione catastrofica insopportabile, la cui insopportabilità sta anche ad altri «sulla punta della lingua>>, ma che viene spesso rimossa per assuefazione o per rassegnazione. b) Una anticipazione: bisogna voler prevedere e calcolare tutte le conseguenze con l' aiuto di una fantasia prospettica. c) Una valutazione: i mezzi devono essere proporzionati e bisogna cercare di contenere i sacrifici e l' impegno entro un certo limite. È questa la «passione per il possibile» di cui parla S. Kierkegaard. d) Un'educazione della sensibilità quale importante fine etico della pedagogia, al fine di suscitare un sentimento per la giustizia e per la proporzione, coraggio e pas­ sione. e) Attenzione e vigilanza quale riflessione incessante sul rapporto tra realtà, azio­ ne e quel che potrebbe essere via via necessario fare («Volontà di Dio nella situazio­ ne»). f) Altri uomini e una solidarietà critica con essi; un criterio importante per un consenso potenzialmente 'pubblico' lo si ha chiaramente quando uomini molto diversi, provenienti da situazioni molto diverse, possono assentire.

Spiritualità Per poter essere vigili e molto sensibili occorre essere stati influenzati dal cristianesimo e dalla dottrina cristiana, che non alterano la realtà, bensì aiu­ tano a vederla. A questo scopo i contenuti della fede e la tradizione cristiana devono già essere stati così 'elaborati' e 'integrati' da non essere giustappo­ sti, bensì da essere diventati una seconda natura. Questo significa vivere cri­ stianamente, senza sciorinare in continuazione 'contenuti dottrinali' o 'pie affermazioni ' . Con ciò intendiamo parlare di tutt' altro che di un' apertura verso il mondo fine a se stessa, intendiamo parlare di autenticità (e non di divaricazione tra linguaggio religioso e comportamento quotidiano ad esso contrario). In Meister Eckhart troviamo molti testi che lasciano già intravve-

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dere l a spiritualità postmoderna22• Una simile integrazione di contenuti cri­ stiani in un modo libero e gioioso di vivere è una parte dell' identità persona­ le. Se essa si verifica, poniamo, in Meister Eckhart al termine di una vita monastica, il teologo odierno, per esempio, la acquisisce mediante il lavoro (attorno alla tradizione e nel confronto con essa) e la sofferenza, e chiara­ mente non in maniera più semplice. Malgrado tutte le differenze, tale spiri­ tualità mostrerà poi alcune somiglianze con la 'spiritualità' postecclesiale dei laici (cioè del 90% di non frequentatori della chiesa)2\ cosicché esistono delle possibilità di contatto con essa.

FEMMINISMO

Bibliografia: E. SCHUSSLER FIORENZA, But She said. Feminist Practices of bibli­ ca/ Interpretation, Boston 1 992; L. ScHOTIROFF - M.-TH. WACKER, Kompendium feministischer Bibelauslegung, Gtitersloh 19992•

L' ermeneutica femminista fa parte di quelle concezioni ermeneutiche che rifiutano una separazione tra esegesi e applicazione (e fin qui niente di spe­ ciale). Al contrario: la presunta neutralità dell' esegesi è considerata una pro­ prietà truffaldina della concezione dominante della scienza. Nei confronti di questa scienza e, in linea generale, di tutta l' applicazione della Bibbia vige un' «ermeneutica del sospetto». Anche su questo punto l' ermeneutica fem­ minista si colloca perfettamente nella tradizione europea (K. Marx, F. Nietz­ sche, S. Freud), desume anzi da essa il sospetto centrale stesso, e cioè il sospetto che l ' interpretazione della Bibbia serva a legittimare il potere.

22 Ricordo temi noti come «Dio per amor di Dio>>, o , o >. 4 ST. FisH, ls there a text in this class ? The authority of interpretative communities, Cambridge (Mass.) - London 1 980 [trad. it., C'è un testo in questa classe ? L 'interpretazione nella critica let­ teraria e nell 'insegnamento, Einaudi, Torino 1 987]. ' W. G. JEANROND ( 1986), l l l s., obietta a Fish che la sua proposta escluderebbe la possibilità della critica. Ma che cosa impedisce di criticare le convenzioni sociali preesistenti al testo? E anche la necessaria armonizzazione degli interessi all' interno della comunità dei lettori non inclu­ de forse la critica? Occorre pure domandarsi se un testo non possegga di per sé un potenziale criti­ co. Qui si tratta infatti di stabilire i principi e gli accordi comuni a proposito del comportamento verso il testo nella comunità concreta dei lettori. Inoltre nulla vieta di supporre che, lungo i secoli, siano esistite, accanto a forme relativamente compatte di tali comunità, anche forme meno compat­ te.

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cie di universalità limitata. Infatti la chiesa, non la Scrittura, è la sposa di Cristo, come giustamente afferma Cl. Boff6• 4. E. StOve ha avanzato la tesi che non è possibile superare il relativismo storico nel quadro dello studio teologico della storia e che esso va piuttosto solo adeguatamente formulato7• Egli ricorda giustamente il fatto che tentati­ vi frettolosi di superare il relativismo hanno sempre il difetto di non tener conto di vasti settori della storia empirica, e propone di mettere al posto di schemi sistematici della verità dei campi a forma di mosaico, che poggiano su una raccolta di aspetti di possibili interpretazioni, al fine di far emergere una immagine più complessa e non univoca della realtà passata8• Egli propo­ ne l' idea di un ammasso prospettico (presenza simultanea di vari aspetti autonomi indissolubili)9 e si ispira non tanto a sistemi, quanto piuttosto a modelli spaziali : parla di spazi di comunicazione e di campi di relazioni, in cui al centro dell' attenzione non sta una unità del mondo e della storia, bensì una realtà multicentrica. L' arbitrarietà è limitata da regolazioni della scarsità10, il che in altre parole significa: lo spazio, in cui si muove un perso­ naggio storico, è costituito da limitazioni e confinamenti ovunque sperimen­ tati, cioè dalla costellazione sempre specifica di finitudini. Se applichiamo questa concezione del «fraintendimento produttivo» - qui solo brevemente illustrata - all' ermeneutica neotestamentaria, abbiamo que­ sto risultato: lo spazio gigantesco di quasi duemila anni, in cui si svolgono l' interpretazione e l' applicazione del Nuovo Testamento, non ha come pro­ prio centro una cosa unitaria, in base a cui tutto bisognerebbe misurare, ben­ sì presenta diversi punti di cristallizzazione, attorno ai quali si raggruppano tentativi caratteristici di trovare in modo sempre nuovo il centro vivibile della Scrittura (la verità). Naturalmente il risultato non è una quantità illimitata di nuove interpreta­ zioni, bensì si costituisce uno spazio, in linea di principio controllabile, con più centri («tipi di applicazione»): il principio quot capita tot sententiae non vale, bensì esiste il fenomeno delle 'universalità litnitate' , esistono cioè per un tempo limitato e uno spazio limitato una specie di consenso, un accordo possibile e una universalità riconosciuta come vincolante. Il tipo di verità qui proposto rende piuttosto possibile, nella sua qualità di

6 CL. BoFF ( 1 983), 246. E. STOVE ( 1 980), 283 . ' Cfr. E. STOVE ( 1 980), 1 86. 9 Cfr. E. STOVE ( 1 980), 1 88. 10 Cfr. E. STOVE ( 1 980), 2 1 3ss. Viene espressamente sottolineato che di ciò fa parte anche una scarsità materiale. 7

Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento

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consensus limitato, proprio l'obbligatorietà, a cui uno non riesce facilmente a sottrarsi a motivo della sua concretezza, e precisamente all' interno di una comunità che così si mette d' accordo. Ecclesiale è al riguardo in ogni caso la chiarezza con cui si mette qualcosa in discussione. 5. J. Miguez-Bonino critica l' esegesi occidentale: «La verità esiste quindi prima della sua efficacia storica ed è da essa indipendente. La sua legittimità va verificata in base alla relazione con questo astratto 'cielo della verità' » n . Queste parole attaccano i l modo abituale di procedere, secondo i l quale ogni applicazione deve dimostrare di essere valida perché concorda con la verità metastorica sovraordinata. - Si tratta quindi di liberarsi delle obiezioni dell' esegeta o del teologo dogmatico per abbracciare una verità situazionale 'relativa' . 6. I tentativi di eliminare la concezione della storicità radicale della verità, postulando una 'cosa' cristiana che esisterebbe dietro i testi e che sarebbe ad essi comune, fallisce di fronte all' obiezione dell' esegesi storico­ critica. Ciò vale anche per l' affermazione che importante per l' applicazione sarebbe solo ciò che una determinata situazione ha in comune con tutte le altre'2• Al riguardo dobbiamo osservare che le posizioni di K. Barth e R. Bultmann, le quali trattano del lemma 'cosa' , concepiscono questo fatto come superamento dei problemi dello storicismo. 7. La 'verità' esiste, a mio giudizio, sempre come consenso di una comu­ nità in una fase limitata della storia. Essa è sentita come vincolante per una generazione o un' epoca. Perciò essa è una universalità limitata. Io parto per­ ciò dalla possibilità di una pluralità orizzontale e verticale di verità, perché esistono le une accanto alle altre e le une dopo le altre situazioni diverse e comunità diverse. Diverso è ciò di cui i cristiani vivono e il modo in cui essi possono essere cristiani. Se una comunione abbraccia diverse 'Chiese, allora la reciproca comunione delle chiese parziali autonome è tanto stretta quanto è stretta la verità comune che le unisce. 8. La posizione di S chleiermacher nei confronti dell ' illuminismo e dell' idealismo poggia sul fatto che la ragione non consiste per lui in una verità metatemporale e che perciò essa non è universale. La ragione diventa " J. MIGUEZ-BONINO, Theologie im Kontext der Befreiung, Gottingen 1 977, 80s. - Cfr. anche CL. BoFF ( 1 983), 229, il quale parte naturalmente dalla posizione fondata da Gadamer e Ricoeur, secondo la quale il senso di un testo non sarebbe stabilito, ma si realizzarebbe soltanto mediante la risposta ad esso data nella vita concreta. In questo modo la dialettica tra libertà e legame scompare qui di vista. 12 Cfr. J. ROTHERMUND ( 1 984), 80 (qualsiasi testo si adatterebbe a qualsiasi situazione, l' impor­ tante nella situazione del momento sarebbe soltanto quel che essa avrebbe in comune con tutte le altre situazioni).

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seconda parte

piuttosto storica a motivo del suo legame con il linguaggio. Il linguaggio o la lingua è una convenzione storica, è una istituzione limitata e un risultato generalizzante dell' autosuperamento storico dei soggetti 13• Inoltre ogni lin­ guaggio è specifico, perché implica una determinata visione del mondo e non è di conseguenza qualcosa di universale, bensì un qualcosa di determi­ nato. M. Frank arriva perciò a concludere che - a motivo della relazione tra linguaggio e verità - la verità sarebbe per Schleiermacher un universale individuale (op. cit., 1 85). Con ciò non possiamo che dirci in linea di principio d' accordo. Anziché parlare di 'linguaggio' bisognerebbe solo parlare in termini più generali (con P. Ricoeur) del mondo dei segni (simboli), che sono sempre espressio­ ne di una cultura (di cui, secondo questa più ampia definizione, farebbero parte anche le opere d' arte). A ciò corrisponde il fatto che, nel caso della verità, non si tratta solo della ragione, bensì anche del campo dell' emotività dell'uomo. Né nel caso di questa universalità limitata si tratta sicuramente solo di una 'convenzione' (questa sarebbe una concezione troppo razionali­ stica), bensì si tratta dell ' inveramento di campi culturali sempre diversP4• A differenza di M. Frank io non parlo dell' «universale individuale», al fine di far intendere che non si tratta di qualcosa di paradossale, che sarebbe fonda­ bile solo in modo speculativo, bensì piuttosto di una universalità con limiti e limitazioni. L' aspetto etico di questa concezione sta nel fatto che essa rinuncia a siste­ mi universali di verità e alla loro pretesa di dominio, mentre l' aspetto esteti­ co consiste nel fatto che, nel quadro di verità limitate, la pretesa di validità della ratio diminuisce e il valore posizionate delle emozioni aumenta. 9. Ho potuto trovare cose molto simili anche per quanto riguarda il suono letterale delle parole - ovviamente solo dopo aver approntato il mio schema - nell' impostazione di E. Troeltsch, la qual cosa non mi assolve certo anco­ ra dall' accusa di insensatezza, ma mi pone in buona compagnia. Egli si occupa della dimensione ecclesiale della verità via via trovata (nel senso dell' ebraica emet); questa è infatti sì essenzialmente legata alla situazione, tuttavia non 'sempre mia' , bensì sempre nostra. Essa è una risposta storica­ mente condizionata e tuttavia non priva di un carattere vincolante15• Il valore gnoseologico di questo modello delle universalità limitate sta nel

13 M. FRANK ( 1 977), 1 57. " La situazione sociale e economica non fa parte delle 'universalità limitate' nel senso di segni, mediante cui gli uomini si intendono sulla verità. 1' Cfr. E. TROELTSCH, Der Historismus und seine Probleme (Ges. Schriften III), Tiibingen 1 922, l, 2, 2: spec. 1 1 6- 1 20. ,

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fatto che è possibile . introdurre una osservazione storicamente verificabile (consenso relativo di una determinata epoca) contro l ' aut-aut filosofico astratto di una verità metatemporale o di una verità strettamente individuali­ stica. 1 0. Spunti sistematico-critici importanti trovo in F. Rosenzweig16 (sogget­ tività e autoaffermazione come condizione, non come ostacolo nella ricerca della verità; il soggetto non può mai 'risolversi' in un sistema, perché il «soggetto privato comune» continua semplicemente a sussistere) e in M. Merleau-Ponty l\ che in Le visible et l 'invisible [Il visibile e l 'invisibile] ( 1 964) delinea un nuovo concetto di verità che abbraccia anche la sua asso­ luta storicità: il senso non è costituito in una coscienza autonoma, ma in concreti campi esperienziali che sono collegati con la dimensione della intercorporeità (cioè dell ' esistenza corporea comune con altri). Ma nella corporeità noi assumiamo la preistoria e presumiamo la storia futura. In que­ sto campo l' uomo è vulnerabile, può far esperienze e riconoscere i propri limiti. 1 1 . Con le due 'universalità limitate' della sfera di azione e del contesto (letterario) lo storico potrebbe sfuggire alle due astrazioni radicali del meta­ fisico, all' astrazione dell' individuo isolato e all' astrazione dell' universalità universale. Le conseguenze di questa riflessione dello storico sulle proprie possibilità limitate potrebbero essere notevoli, in particolare di fronte alla constatabile invasione della storia da parte della metafisica a motivo di una carente voglia o disponibilità dello storico a occuparsi di riflessioni sistema­ tiche. - Si potrebbero scorgere altre universalità limitate, come le epoche della storia della chiesa, il fenomeno dell' 'opinione pubblica' (del pubblico ogni volta limitato al posto degli individui o della totalità indifferenziata) . Si potrebbero evitare una riduzione individualistica o una pura etica della situazione per l' applicazione, così come una pretesa globale e metatempora­ le. Oltre a ciò una universalità limitata permette sia una maggior concretiz­ zazione sia anche un carattere vincolante maggiore di quel che l' autointelli­ genza abituale del discorso ecclesiale pubblico si riconosce. Rispetto a W. Benj amin non rimarrebbe solo l' attimo come opposizione al continuo della storia, bensì esisterebbe anche una universalità limitata sotto il profilo tem­ porale. L' applicazione non si trova più allora di fronte al compito irrealizzabile di tradurre una verità presuntamente atemporale in un punto della storia, bensì

,. Cfr. al riguardo S. MosES ( 1 985), 2 1 -35. " Cfr. al riguardo K. MEYER-DRAWE ( 1 985).

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è, a motivo del suo coinvolgimento, più fortemente impegnata a conoscere le ulteriori circostanze della situazione e quindi a procurarsi una cognizione di causa. L'universalità limitata permette di cogliere gli accordi storici (con­ venzioni) 18 e le istituzioni storiche, soprattutto il consenso sociale da non pensare né solo come puntuale né come valido per l' eternità. Infine anche i criteri di verità si collocano nello spazio di questa universalità storica limita­ ta controllabile e quindi ancora feconda per una simile problematica. Delle universalità limitate fanno parte anche le comunità interpretative descritte da St. Fish ( 1 980), che si oppongono sia a una verità atemporale sia a una lettura puramente individualistica e del tutto non mediata del testo. La realtà non è in linea generale data solo nel senso di universalità limitate, in conso­ ciazioni e 'sistemi' di media durata? La riflessione filosofica non dovrebbe far maggiormente riferimento a queste 'entità intermedie' ? Le universalità limitate potrebbero essere così molto importanti per comprendere la dimen­ sione della storia. La storia sta perciò in continuazione nel mirino di questa ermeneutica, perché nella storia si tratta degli accadimenti e della tangibilità (della sofferenza e della liberazione), dell' influsso dali' esterno e dell' espe­ rienza dal basso (non di deducibilità).

VERITÀ DOTIRINALE COME CONSENSO

Le universalità limitate posseggono una realtà storica nel punto di incro­ cio tra sfera di azione e contesto. Una serie di fattori svolge qui un ruolo particolare: l' identità, la sicurezza nella storia e la realizzazione dell' appar­ tenenza alla storia mediante segni.

Identità Nel grosso volume di raccolta di saggi della collana Poetik und Herme­ neutik (VIII) O. Marquard definisce giustamente l' identità come la «grande superstite della storia della filosofia» 19. L' identità sarebbe sempre più pensa­ ta come l' identità di gruppi, «perché gli uomini sono costretti - sopratutto adesso - a collegare l'identità universale con l' identità particolare nel tenta­ tivo di esser in qualche modo 'appartenenti' e in qualche modo 'ininter" Cfr. al riguardo M. FRANK ( 1 977), 1 57.

19 o. MARQUARD ( 1 979), 36 1 .

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scambiabili' : in qualche modo»20. Inoltre l' identità ha a che fare per due motivi con la storia: da un lato si tratta in effetti dell' ininterscambiabilità nel corso del tempo21 , e dall' altra parte esiste un' identità personale «nel punto di incrocio tra corpo, coscienza e società» . L' identità non si sviluppa dall' inter­ no verso l' esterno, ma dall' esterno verso l' interno. L' uomo infatti non si sperimenta direttamente, bensì solo tramite altri uomini, che con il loro cor­ po sono dati direttamente e che gli impongono delle responsabilità22. - Nella cornice dell' ermeneutica qui proposta l' identità è un concetto chiave. l . L' identità nel senso di ininterscambiabilità acquisita non può essere 'eliminata' o ignorata da alcun tipo di universalità. Diversamente da H. G. Gadamer, non penso che la verità trovi posto solo e sempre in seno a una universalità superiore, per la quale l' individualità -sarebbe piuttosto di osta' colo23. 2. Il valore posizionate dell' identità individuale nell' atto del conoscere è di regola sottovalutato: già secondo l' interpretazione volgare di Schleierma­ cher si rinuncia superficialmente all ' identità nell i:atto del conoscere, dal momento che, grosso modo, si dice che il so g g'etto della comprensione dovrebbe identificarsi con la cosa da comprendere fino al punto di rinuncia­ re a se stesso24. Qui, per amore di una migliore comprensione, si perde il let­ tore come soggetto. E anche H. G. Gadamer si preoccupa sempre, nel caso della comprensione, della cosa secondo il modello del colloquio degli esa­ mi. Ma il colloquio degli esami è un modello per i colloqui umani? Non si tratta molto più spesso, e precisamente anche in verifiche moderne, del fatto che uno deve imparare a conoscere l' altro? Non risulta proprio qui come il discorso della verità universale e atemporale e di altre simili costanti antro­ pologiche si occupi troppo velocemente dell ' universale, senza farsi carico della fatica dello studio del particolare? Infatti tra un rapido passaggio all 'universale e l' esercizio di un discutibile potere esistono forse delle con­ nessionF5.

20

O. MARQUARD, op. cit. , 362. Cfr. al riguardo D. HEINRICH ( 1 979), 1 8 1 . 22 Cfr. TH. LucKMANN ( 1 979), 297.299. Cfr. al riguardo il concetto biblico di corpo, secondo il quale il corpo è primariamente un organo di contatto nella convivenza sociale. 23 Per H. G. GADAMER ( 1 975) la comprensione della verità consiste essenzialmente nell' assimila­ re una cultura quale contesto complessivo e universale, mentre l'individuale possiamo secondo lui tutt' al più 'spiegarcelo'. 24 Cfr. al riguardo M . FRANK ( 1 985), 3 1 4s. e, sulla questione, qui p. 9 1 . " Il livellamento dei 'sudditi' h a infatti sempre facilitato l' esercizio del potere, e l a stessa fun­ zione ha la catalogazione in base a leggi psicologiche. Il compito dello storico non consiste in pri21

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seconda parte

3 . Applicato all' escatologia, da quanto abbiamo detto risulta anche che non l"unità' può essere di per sé il fine, bensì soltanto l' unità nella diver­ sità, quindi un equilibrio tra le due. Soltanto questo equilibrio è giusto. 4. L' identità è anche (nel senso dell' evitare l' autocontraddizione) il crite­ rio dell' applicazione della Scrittura (vedi più avanti). In tutto questo l ' identità, l' essere-diventato-così, non appare come ciò che va superato o dimenticato ad ogni costo, ma appare piuttosto, in termini teo­ logici, come testimonianza (quasi come 'prodotto' ) del peccato e della gra­ zia e del loro contrasto sempre inconfondibile. E poiché l' identità non si costituisce senza una storia specifica, la valutazione dell 'una e dell' altra sta e cade insieme26•

2. Verità razionali e il brutto largo fossato

Su G. E. LESS ING E R. BULTMANN Non solo, a partire da G. E. Lessing, ci siamo abituati a considerare le verità di fede come eterne e anche come razionali. Lessing applica solo sino in fondo il concetto aristotelico di verità nella teologia, allorché (Die

Erziehung des Menschengeschlechtes, § 4) [L'educazione del genere umano] dice che la rivelazione di Dio tramandata dalla chiesa non comunicherebbe

mo luogo nel coltivare una scienza regolatrice di questo tipo, bensì soprattutto nel rilevare il singo­ lo tipo (e la sua biografia individuale). 26 La mancanza spesso 'tipicamente' protestante del senso per la storia ha comunque il suo cor­ relato positivo nella capacità di cogliere e di amare l ' immediatamente dato; ciò però corrisponde sostanzialmente a una dottrina della giustificazione interpretata in modo assai individualistico e, inoltre, anche alla posizione della comunicazione diretta della salvezza. La storia della chiesa è qui sperimentata soprattutto come la storia del fallimento e come ciò che va deposto e che ci separa da Gesù. La storia appare come un peso e come un qualcosa di inquietante (parallelamente a ciò si spiega lo scarso favore di cui la disciplina della storia della chiesa gode nell'insegnamento della religione e nello studio della teologia). Questa valutazione della storia viene fatta anche a spese del rapporto con l'Antico Testamento e con il giudaismo. Il rapporto con essi dipende infatti diretta­ mente dall'importanza della dimensione 'storia' per il pensiero teologico in generale. Particolar­ mente chiaro ciò diventa nella valutazione di queste entità data dalla scuola di Bultmann (storia del fallimento e, rispettivamente, indifferenziazione della storia ebraica della salvezza e della storia deli' elezione), secondo la quale il cristianesimo è la «fine della storia». Contro di ciò prendiamo posizione in quel che segue.

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all ' uomo nulla a cui la ragione umana, lasciata a se stessa, sarebbe pervenu­ ta, ma ha dato e dà agli uomini soltanto in modo più veloce le più importanti di queste cose. Gesù Cristo, essendo il maestro divino, il «miglior pedago­ go», si rende superfluo educando a pensare da se stessi . Le verità religiose da lui comunicate vanno perciò tradotte in «verità razionali», se vogliamo con esse aiutare il genere umano (§ 76). In questa luce possiamo vedere anche un' affermazione di R. Bultmann sul rapporto tra rivelazione e filoso­ fia: «La questione non è se si possa scoprire la natura dell'uomo senza il Nuovo Testamento: perché di fatto essa non è stata ovviamente scoperta senza il Nuovo Testamento; la filosofia moderna infatti non esisterebbe senza il Nuovo Testamen­ to, senza Lutero, senza Kierkegaard. Con questo indichiamo però solo un nesso cul­ turale storico, e la concezione dell' esistenza proposta dalla filosofia moderna non trova la propria fondazione oggettiva attraverso la sua origine storica. Viceversa il fatto che il concetto neotestamentario di fede può essere secolarizzato dimostra che l' esistenza cristiana non è qualcosa di misterioso e di soprannaturale» (KuM l, 1518.35). - Secondo altre affermazioni una analisi formale dell'esistenza è possibile anche senza il vangelo (cfr. K. BERGER, Exegese und Philosophie, 145).

Bultmann prescinde dallà storia effettiva, e nella teologia antropologica si tratta di realtà razionali. Per Lessing e Bultmann, tra questo contenuto razionale e la storia con­ creta verificatasi nell ' antica Palestina esiste un «largo brutto fossato», un fossato che si spalanca tra la contingenza storica dei racconti biblici e le verità razionali, che di là devono essere dedotte e che invece non possono essere di là propriamente dedotte. Il problema sta nel fatto che ciò che si ritiene essere una verità razionale appartiene alla tradizione cristiana contin­ gente e si riferisce a qualcosa di contingente. Mentre Lessing riconosce ancora che il fossato è doloroso e non valicabi­ le, Bultmann lascia semplicemente fuori la «storia cruda», dichiarando che dopo tutto essa non è affatto necessaria per la fede. Lessing è quindi costret­ to, come mostra la sua parabola di Nathan, a fallire con il suo concetto ari­ stotelico di verità di fronte al fenomeno delle religioni abramitiche. L' espe­ diente da lui raccomandato (senso di umanità) non è un superamento del concetto aristotelico di verità. Il confronto religioso fra le tre religioni abramitiche non perviene ad una soluzio­ ne apologeticamente descrivibile . . . «Sotto il profilo logico soltanto una delle tre potrebbe essere vera. Questo è il problema. Si tratta di un problema molto serio. Perché proprio qui, dove si tratterebbe realmente della verità, questa non può essere

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dimostrata. Ma questo è fatale: nel caso della questione della verità più profonda e autentica fallisce il principio elementare che la verità può essere soltanto una. La ragione capitola di fronte al suo compito ultimo e più alto, non riesce a distinguere. Lessing tira di qui questa conclusione: dove la ragione e la sua esigenza di chiarez­ za sono evidentemente impotenti, lì ci devono essere altri criteri: mitezza, tolleran­ za . . . , amore». Ma: «>. 48 Dovremmo riflettere e domandarci se l' accentuazione della 'cosa' e del contatto precorritore con la cosa non contrasti addirittura con la concezione della Scrittura quale norma critica. Qui l' importanza della fede e del rapporto diretto non si è per caso autonomizzata?

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l' incontro con l' esegesi mette in crisi la fede. E ciò non avviene perché l' esegesi negherebbe Dio, sarebbe atea o praticherebbe con la «ragione pec­ catrice» una critica oggettiva della Scrittura, bensì semplicemente perché, accanto al modo religioso abituale di considerare la Scrittura, ne compari­ rebbe un altro che non rimane senza conseguenze per il modo religioso. E queste conseguenze subentrano quando l' esegesi non si limita a informare, ma va in senso contrario alla direzione della percezione religiosa della Scrit­ tura, cioè quando essa, anziché comunicare un' esperienza sensibile capace di fondare l' unità, mostra soprattutto che nel documento centrale della fede esistono delle diversità (quattro vangeli; diverse teologie; prove scritturisti­ che prob�ematiche sia nel Nuovo Testamento che nella storia dei dogmi; relativizzazione del canone; tensioni tra Paolo e Lutero, tra autorità religiose in genere ecc.). Questa crisi significa perciò per lo studente di esegesi una crisi di identità, perché il suo interesse religioso personale di partenza è disturbato dall' incontro diretto con la Scrittura. Anziché una conferma egli sperimenta una contraddizione, e precisamente non una contraddizione morale (ciò avrebbe dovuto verificarsi già prima; chi riduce il problema a questo se lo semplifica), ma religiosa. In effetti vengono distrutte delle espe­ rienze religiose di sicurezza, e io penso che giudica in modo troppo superfi­ ciale colui il quale considera lo studio della teologia solo come comunica­ zione di capacità di dare una veste moderna alla cosa antica e identica.

SOGGETIO E STORIA La conseguenza della nostra impostazione è che il rapporto del singolo soggetto con la storia va pensato in modo diverso da come avviene in Gada­ mer: non si tratta dell' autoconferma (in fondo priva di soggetto) dell'insieme della tradizione, bensì del rapporto dialettico reciproco tra ricordo e libertà. Con M. Frank posso so_lo citare E. Betti e concordare con lui, quando egli obietta all ' ermeneutica di Bultmann e Gadamer: il dialogo, che dovrebbe stabilirsi tra lo storico e lo spirito oggettivato nelle fonti, verrebbe completa­ mente a mancare e a trasformarsi in un puro monologo; manca infatti del tutto l' interlocutore che dovrebbe esistere nei testi come uno spirito incrolla­ bilmente diverso e senza il quale non è possibile immaginare un processo di interpretazione49• «Due orizzonti comunicano» qui infatti «realmente tra di

•• E. BETII ( 1 962), 30; cfr. M. FRANK ( 1 977), 34 A.27.

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loro, e bisogna che, rispetto a quello dell' interprete, l' orizzonte dell' inter­ pretando possa affermarsi nella sua relativa autonomia»50•

RIABILITAZIONE DEL SOGGETIO

Punto di partenza è l ' osservazione dello storico, secondo la quale gli uomini, i gruppi, le lingue e le culture sono contraddistinti da peculiarità irriducibili. Lo storico ha perciò a che fare, su tutti i piani della realtà, con un' autenticità non sostituibile con alcuna astrazione. Se un testo è. concepi­ to come espressione di un uomo, esso acquista una unicità e irripetibilità concreta e induce proprio per questo la libertà e la creatività del soggetto odierno a concretizzarsi a sua volta. Solo attraverso la categoria del sogget­ to è possibile cogliere l' autorità dell' autore, e solo a questa condizione diventa possibile cogliere e ammettere onestamente come tali anche suc­ cessivi scostamenti dal significato che il testo aveva nella situazione origi­ naria. Non si tratta certo di risalire isolatamente all' «opinione dell' autore bibli­ co», ma solo di riabilitare ciò che egli intendeva dire nella sua situazione. Diversamente da H. G. Gadamer noi non pensiamo perciò alla restaurazione dell' autorità (testi classici) e della tradizione, bensì pensiamo a questo: l' individualità del testo (compreso l' autore) esige sempre l' individualità del lettore e viceversa. La storia degli effetti o influssi comincia a diventare una faccenda importante solo se si riesce a vedere che dal testo preesistente e sulla sua scorta nascono di volta in volta nuovi testi. La libertà quale signum della storia degli influssi non significa solo che si concede una individualità della lettura, bensì che, dal momento che questa va per motivi etici necessa­ riamente plasmata e riempita, la si incoraggia anche positivamente. Trova qui conferma la vecchia osservazione, secondo la quale chi si occu­ pa anche solo della controparte rappresentata da un testo individuale trova anche quasi automaticamente i rapporti che tale testo ha con il proprio pre­ sente e un' applicazione: contrariamente alla critica corrente mossa all' erme­ neutica di Schleiermacher, il soggetto del ricercatore che si occupa intensa­ mente di un testo non viene 'annientato' , ma al contrario 'provocato' . Man mano che egli penetra il testo e lo comprende (cosa che non può avvenire in maniera solo positivistica), la sua lingua si scioglie come da sola, perché

50 M. FRANK, op. cii., 34.

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adesso e solo adesso egli ha messo in luce i lineamenti del testo in misura tale che questo può diventare un interlocutore. Ciò va concepito nel modo seguente: il profilo di un testo antico non può certamente essere individuato riassumendo il suo significato in una frase (contro la teoria, proposta da Ad. Jiilicher, delle «verità proposizionali» qua­ le somma delle parabole, qui riferita a testi antichi in generale), ma d' altra parte neppure sommando delle conoscenze a suo riguardo. Una approfondìta e reale comprensione del testo collegherà invece i molteplici dati scoperti tramite i metodi scientifici, in modo tale da far emergere delle connessioni chiare tra di loro. Questa coerenza costituisce il senso di un testo nella cor­ nice della ricerca storica (senso storico), senso che scaturisce di regola solo di fronte a una molteplicità di dati. - Questo, se è vero, ha anche una sua importanza per le associazioni così suscitate, che riguardano il soggetto del ricercatore e una possibile applicazione del testo: le analogie e le diversità diventano tanto più .�convincenti' quanto meno isolatamente esse vengono presentate e quanto più numerosi sono i dati che vengono tra di loro collega­ ti in modo «evidentemente dotato di senso». Per la ricerca del soggetto, che constata analogie o diversità, vale perciò lo stesso principio: il senso risulta dalla coerenza del maggior numero possibile di punti. Ma poiché la coerenza può essere solo e sempre frutto di una scelta (ogni volta diversa a seconda dell'osservatore), ci vuole un numero di dati di gran lunga maggiore di quello che può poi essere utilizzato per la ricerca del sen­ so. Perciò possiamo dire: la ricerca storica del senso (del testo antico nella sua situazione) e la ricerca applicativa del senso (del sòggetto nel proprio presente) mediante analogie o dissomiglianze si condizionano in un certo modo a vicenda. Presupposto fondamentale è cioè una somma più grande possibile di dati storici a proposito del testo. Che le due ricerche del senso faranno forse riferimento a punti diversi del medesimo materiale è cosa piuttosto probabile. Date le capacità umane di stabilire delle associazioni e di stabilire una coerenza, la ricerca effettuata a proposito del soggetto stori­ co, delle sue intenzioni, delle sue condizioni e del senso da lui inteso (nella misura in cui esso è constatabile) non esclude perciò, bensì include la costi­ tuzione del soggetto del ricercatore e dell' applica�te. Invece in H. G. Gadamer e nelt6 'strlttturitlism'd;ifft6dettiou io · vedo piutto­ sto una rinuncia più o meno completa alla categoria del soggetto. Secondo Gadamer la comprensione di un testo non è appunto la comprensione dell' esternazione di un tu ( 1 975, 340 [trad. it. , 350]), e anche secondo H.

" Sull 'eliminazione del concetto di soggetto in J. Derrida, cfr. M. FRANK ( 1 977), 58.

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Weder l' interpretazione non è l' interpretazione dell' opinione di un autore, bensì la comprensione consiste piuttosto secondo l' uno e l' altro in un com­ plesso dotato di senso e privo di soggetto. I metodi interpretativi sociologici e marxisti condividono con la filosofia della riflessione questa negazione metodica della categoria dell' autore di un testo. Chi perciò si schiera a favo­ re dei diritti di quest' ultimo, si pone con ciò contro tutta la recente ermeneu­ tica 'di destra' e 'di sinistra' . E proprio per questo siamo costretti a doman­ darci: quale dogmatica filosofica costrinse propriamente a non tener conto di questo dato quanto mai ovvio? In Gadamer la mancata pres a in considerazione della soggettività dell' autore si manifesta nel fatto che alla fine permane solo l' insieme della tradizione. Secondo M. Frank «l' evento della tradizione diventa» così «l'unico soggetto della storia ... In effetti al soggetto-come-storia degli effetti viene così attribuito ciò che è stato disconosciuto al soggetto-come-indivi­ duo-progettantesi-attivamente: la costituzione (motivata dalla tradizione, ma non priva di libertà) del senso come interiorizzazione attiva e superamento del discorso storicamente dato»52• E a proposito della fusione di orizzonti possiamo dire: «L' essere dell' altro in quanto altro rimane per strada. La manifestazione del soggetto viene fatta scomparire nel soggettivismo senza soggetto della storia degli effetti» (op. cit. , 33). Invece chi perora la causa della riabilitazione dei soggetti dell' autore e dell' interprete dovrebbe lasciarsi dare qualche suggerimento dalla concezio­ ne di Schleiermacher, come al di fuori della discussione teologica fa anche M. Frank ( 1 977). Schleiermacher fonda la soggettività (dell' autore e del let­ tore) dicendo che il soggetto può cogliere, mediante il sentimento, qualcosa che non è stato da lui operato e che egli non può cogliere con la conoscenza. Il «sentimento della dipendenza pura e semplice» così costituito riflette «la crisi del soggetto senza eliminarlo» (M. Frank, op. cit. , 1 1 1 ). La dipendenza e la libertà stanno perciò qui tra di loro in un rapporto dialettico dotato di senso. Infatti «la coscienza più alta possibile dell'uomo è la coscienza di un limite insuperabile, di fronte al quale egli sente di essere preso in appalto dall' altro da sé, anzi dall' altro della ipseità in generale» (op. cit. , 1 1 5). Chi riesce a rinunciare a fondare filosoficamente la soggettività dell' uomo53, si orienta verso ciò che in primo luogo lo storico constata. Così egli può ricordare come la filosofia della riflessione e lo strutturalismo non sono in grado di spiegare «il così-e-non-diversamente della figura superfi52 M. FRANK, op. cit. , 23s. " Cfr. anche H. G. VESTER, Die Thematisierung des Selbst in der postmodernen Gesellsclulft, Bonn 1 984.

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ciale del senso messo in circolazione»54• Al centro sta la questione del modo in cui il singolo e l 'universale possono in generale tra loro coesistere. L' aspetto etico sta qui nel fatto che il potere esistente tende a spegnere la soggettività e a non farla neppure emergere. Esiste perciò una connessione tra la negazione della soggettività del singolo e la repressione degli uomini nei sistemi dispotici, da un lato, e tra la soggettività e «la capacità di essere chiesa», dall' altro lato. Il messaggio della remissione dei peccati e della giu­ stificazione significa in fondo che gli uomini solo così sono guariti e messi nella condizione di diventare soggetti e di imparare a essere liberi. Qui sus­ siste una stretta relazione oggettiva con la nostra concezione della 'minoran­ za critica' . L' aspetto estetico consiste nel fatto che viene riconosciuta la libertà crea­ tiva dell' interprete nella sua situazione. Inoltre solo soggetti sono capaci di emozioni.

5. Storia degli effetti

La storia degli effetti ha nella concezione proposta il significato di sosti­ tuire positivamente verità universalmente valide. L' effetto o influsso è infat­ ti un' entità mediatrice attraverso la storia, che lascia nello stesso tempo spa­ zio all' individualità e alla particolarità. Evitiamo così il discorso della 'cosa' identica e lasciamo ciò malgrado esistere un nesso ali' interno della storia, cosicché i singoli elementi non si scollano fra di loro . Per la questione dell' effetto d'importanza decisiva sono l' impulso e i mezzi della trasmissio­ ne. Diversamente dalla presunta identità della cosa, l ' effetto può essere scientificamente descritto. Inoltre l' impulso non è una strada a senso unico, bensì di regola gli uomini vogliono retroriferirsi a qualcuno o a qualèosa. Da un lato i cristiani si retroriferiscono a Gesù. In questo modo l' impulso che continua ancor sempre a partire dagli inizi del cristianesimo può rag­ giungerli. Dall' altro lato Gesù Cristo appare in una luce diversa e assume un diverso significato a seconda della problematica e del punto di partenza. In questo modo l ' unità può essere colta come storicamente trasmessa, cioè come complesso di effetti o come retroriferimento.

,. M. FRANK ( 1 977), 289.

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All' interno di questa storia il ricordo ha una funzione liberante, perché libera dal peso del passato. Con D. Ritschl ( 1 986, 26 1 ) adopero volentieri l' immagine dell' 'inserimento' , con il «rabbi Gesù, nella stretta storia che va da Abramo fino ad oggi». Qui il ricordo non è soltanto libertà di proseguire, bensì anche sicurezza nella lode degli antichP5• Invece il modello della fusione di orizzonti è troppo fortemente segnato dall ' ideale problematico ­ della contemporaneità di tutta la verità. Chi prende seriamente l' universalità 'limitata' riesce a comprendere anche l' opzione in favore della penultima realtà e verità e non conosce il tutto o niente dei filosofi metafisici. Le rappresentazioni astratte e assolute del fine sono quelle veramente disumane.

6. Lealtà e libertà

Ci orientiamo in base alla Scrittura perché alla fine non riusciamo ad aiu­ tarci da soli. Ma affinché la rivelazione possa diventare un fattore capace di aiutare, occorre anzitutto lasciare alla Scrittura la possibilità di diventare efficace così come essa è, senza essere da noi 'preorientata' . Il suo influsso capace di aiutare è infatti essenzialmente un influsso critico, oltre che un influsso incoraggiante e consolante, solo che lo vogliamo scoprire e ascolta­ re. Tutto questo però non può avvenire, se la Scrittura diventa soltanto la conferma del nostro bisogno. Ora dovrebbe essere chiaro che una posizione biblicistica è un autoingan­ no ermeneutico e che anche una selezione arbitraria di ciò che 'va bene'

" Cfr. al riguardo F. STEFFENSKY ( 1 984), 20: «>; 34: «Preziosa è per me la lingua, anche se essa non è mia, perché nella sua forma così tanti uomini hanno prima di me fugato le loro ansie, formulato le loro sofferenze e espresso i loro desideri. La vecchia lingua mi collega con i desideri inappagati e con i sogni ancora non adempiutisi dei defunti. Proprio la forma antica e non propriamente 11.1ia della lingua mi aiuta nella fede>>; 35: . - Secondo quanto egli afferma a p. 36 la lotta contro l' eterodeterminazione da parte della tradizione non sarà in futuro la lotta principale. 37: .

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sarebbe un 'consumo' ideologico della Scrittura. Chi vuole evitare queste due vie (che spesso sono di fatto identiche, cioè nella forma del pio monolo­ go), deve fare il possibile per conservare alla Scrittura sia la sua propria voce sia anche la sua efficacia critica. Con questo formuliamo due istanze, che vanno attuate in modo diverso. Io concepisco tali due istanze come 'lealtà ' , intendendo con questo una fedeltà libera verso la Scrittura. Vedo infatti la lealtà come opposta al 'lega­ lismo' , a una applicazione soltanto 'obbediente' della Scrittura senza tener conto della situazione, come se si trattasse di applicare un codice generale a determinati casi come si fa con la Costituzione. La fedeltà alla Scrittura può solo essere libera, perché il cristianesimo non è una religione del libro e per­ ché ogni situazione è unica. E qui è pienamente chiaro che la 'libertà' è un rischio. Ma non sono gli interpreti a prendersi la libertà nei confronti del testo biblico, bensì si tratta piuttosto di impiegare e definire la libertà dell' interpretazione già da sempre praticata in modo tale che gli interpreti facciano delle affermazioni cristiane plausibili, senza far violenza alla Scrit­ tura56. Che in questo la Scrittura possa conservare la propria voce critica è anzi­ tutto un' istanza dell' esegesi storico-critica stessa. Io considero come compi­ to principale dell'esegesi quello di porre davanti agli occhi fino al limite del possibile la ricchezza propria della Scrittura, prima di procedere a qualsiasi suo uso e applicazione. Per questo motivo ritengo sia una cosa ideale sepa­ rare l'esegesi dall' applicazione. Lasciamo da parte la questione se questo riesca o possa in linea generale riuscire. In ogni caso ritengo il tentativo57 di una simile separazione necessario e tutto il resto dichiaratamente funesto. Il miscuglio programmatico di esegesi e applicazione, praticato sia nella scuo­ la bultmanniana di sinistra sia in quella di destra, è per me inammissibile. D ' altra parte, se mi schiero in favore di una separazione programmatica, non lo faccio per il semplice amore di tale separazione, bensì perché solo 56 D' importanza decisiva è che si percepisca e che si ammetta francamente un conflitto di lealtà tra testo e situazione; forse così l' atto religioso va poi paragonato piuttosto a un'ellisse con due punti focali (testo biblico e situazione) e non solo con uno. Questo modello mi sembra adatto a eludere i tentativi ripetutamente fatti nell'ermeneutica cristiana per sottrarsi al peso del pensiero storico. Il pensiero autonomistico dell'evo moderno fuoriesce a modo suo dalla tensione di questa ellisse, in quanto lascia di nuovo un solo centro, il nostro presente. - Cfr. al riguardo anche il mio saggio Loyalitiit als Problem neutestamentlicher Hermeneutik, in CH. ELSAS e altri (edd.), Loya­ litiitskonflikte in der Religionsgeschichte (FS C. Colpe), Wiirzburg 1990, 1 2 1 - 1 3 1 . 57 Verosimilmente i l 'tentativo' d i una rinuncia alla nostra tendenza a rinchiuderei i n un monolo­ go e a inserire le nostre pie opinioni nel testo giova meno delle crisi personali, dei confronti bio­ grafici con la 'chiesa' e con il suo modo di utilizzare la Scrittura e i lavori storici nel campo della religione.

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così diventa possibile un dialogo al posto del solito monologo. Perciò spe­ cialmente la proposizione «l' estraneità di un testo biblico è il presupposto del suo influsso oggi» va considerata come compito dell'esegesi, che deve riacquisire e illustrare l'estraneità di un testo. Con questo non penso natural­ mente a una estraneità museale (come scostante accumulazione di sapere filologico), bensì a una estraneità capita. In altre parole: l' esegesi deve trac­ ciare un quadro plastico degli atti vitali che si manifestano in un testo e, nel farlo, deve partire dal fatto che questi atti differiscono singolarmente e nel loro complesso in misura molto notevole dal nostro modo di pensare e valu­ tare le cose. L' estraneità compresa rende il testo trasparente e ci permette di cogliere le esperienze religiose in esso implicite. L' esegesi, lasciandosi guidare dalla presupposizione che il testo abbia qualcosa di estraneo da dire, fa spazio nello stesso tempo alla possibilità che esso abbia qualcosa di nuovo, di stimolante e da . noi non visto da annuncia­ re. Perciò la lealtà verso il testo della Bibbia è, a motivo della funzione del canone, necessaria per la rivelazione cristiana. La lealtà significa di fatto che sono possibili degli scostamenti, ma che essi devono essere motivati. Appunto questo, non di più, ma neppure di meno, io intendo per «pretesa o diritto del testo» : anzitutto il fatto che esso vuole essere sentito e percepito così come è, senza che mi sia lecito inserire apertamente o di soppiatto in esso qualcosa. Questo significa che devo cercare di comportarmi onesta­ mente nei suoi confronti, e precisamente anche quando la mia posizione è forse necessariamente - diversa. In secondo luogo, specialmente per il testo biblico: esso, dal momento che è canonico, ha il carattere di un 'modello autentico' per ciò che il cristianesimo può essere. Ma naturalmente la lealtà verso il testo biblico non può essere l' unico cri­ terio quando si tratta di passare all' applicazione. Per lealtà io intendo un determinato modo di ascoltare la Scrittura, un tipo di obbedienza verso la parola di Dio. Il termine 'lealtà' descrive qui, a mio parere, un atteggiamento molto complesso, che racchiude libertà e obbliga­ torietà, equivalenza della traduzione e capacità di evitare un biblicismo sen­ za senso. Per lealtà intendo un rapporto del traduttore di un testo verso l' autore o l' autrice del testo di partenza. Lealtà significa: nel tradurre non bisogna mai perdere di vista l' intenzione del testo di partenza. Tale intenzione va ricerca­ ta con i mezzi dell' esegesi storica. Parlo di 'intenzione ' , perché si tratta dell' intenzione dell' autore (o del redattore finale) del testo divenuta forma. Nel caso di una interpretazione responsabile di un testo constatiamo infat­ ti con facilità l' esistenza di due movimenti: l' uno in direzione del consumo, in direzione d'una libera interpretazione a seconda del bisogno, l' altro in

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direzione dell' opinione dell' autore. Il secondo movimento è necessario, se considero il contatto sociale con questo autore come un valore, per esempio nella cornice della chiesa. Perciò la questione dell' opinione dell' autore non è solo una questione riguardante la verità filologica (la dimostrabilità aristo­ telica) , bensì anche e soprattutto una questione riguardante una 'verità comunicativa' , riguardante una comprensione storica e nello stesso tempo sociale. - Tali due movimenti costituiscono il conflitto della lealtà ermeneu­ tica, che è indubbiamente anche un conflitto sociale tra gli interessi degli uomini, per i quali io traduco, e l' intenzione dell ' autore. La lealtà così da noi intesa ha i seguenti compiti: l. Essa prende forma nell' esegesi e interrompe la tendenza del lettore a adoperare i testi come articoli spirituali di consumo. L' esegesi si concepisct( come interruzione, come interruzione salutare di utilizzazioni pie o ideologi­ che di testi. Ciò vale anche nel caso che, alla fine, essa dovesse confermare un uso (affermazione) . L' utilizzazione 'interessata' è il caso normale e a lungo andare non impedibile. L' interruzione ha però la possibilità di tratte­ nere per un momento, per sfociare in un modo di agire contro corrente. L' interruzione produce un frutto leale, quando il punto principale del testo storico e il punto principale del testo tradotto sono tra loro perlomeno analoghi. 2. Sempre si tratta della nostra capacità di percepire e di non mettere a tacere l'estraneo della Bibbia in quanto tale, anche andando contro le nostre sante convinzioni. Ciò presuppone naturalmente che la verità - adesso intesa come verità che, in qualità di programma di vita, trova forma in parole - non è data in partenza nella B ibbia, bensì nasce solo dalla tensione o anche dalla somi­ glianza tra la provocazione che scaturisce dalla Scrittura e ciò che oggi risulta utile e conveniente. Gli errori più frequenti degli uomini di destra e di sinistra impegnati derivano dal fatto di pensare che la scelta di volta in volta più o meno arbitraria fatta in seno alla Bibbia sia direttamente di aiuto. Per questo l'esegesi e l' applicazione vanno distinte. Alle domande di Giinter Kegel, riportate all' inizio, possiamo perciò così trovare anche una risposta: non si tratta di un processo tecnico, bensì in ogni caso di un complicato processo ecclesiologico. In tale processo non ha valo­ re soltanto la Scrittura, ma hanno un loro valore anche la competenza, le regole della ricezione e dell' efficacia, l' interpretazione ecclesiale definibile come modello delle gambe della sedia (vedi più avanti), in cui la Scrittura rappresenta la gamba di ferro. La lealtà significa infatti che gli scostamenti vanno motivati. 3. D ' importanza decisiva è percepire e ammettere l'esistenza di un con-

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flitto di lealtà. Il più delle volte sembra infatti solo trattarsi di una questione di applicazione e di obbedienza. Sotto questo aspetto della lealtà ogni testo tradotto e applicato ha un carattere di compromesso. La percezione del conflitto ermeneutico di lealtà presuppone un ricono� scimento del diritto sia del momento presente sia del tempo del canone. Un conflitto di lealtà non esiste né nella posizione clericale (obbedienza alla Bibbia), né nella posizione laicista (diritto esclusivo del presente). Qui come altrove più adatta è l' immagine dell'ellisse bipolare che non quella del cer­ chio. Tra la semplicità dell' atto religioso e la semplicità dell'universale filoso­ fico esiste chiaramente un' affinità naturale; in ambedue i casi si tratta della purezza cristallina e quasi sovraterrena come programma. La stessa storia del cristianesimo è anche una storia di tentativi di sottrarsi al peso del pen­ siero storico. Ciò è vero in modo particolare dell ' Antico Testamento e del giudaismo intertestamentario. Tuttavia il giudaismo e il cristianesimo hanno sviluppato potenti forze contro l' unidimensionalità dell' atto religioso, e ciò già per il semplice fatto che il popolo di Dio è diviso e noi dobbiamo rico­ noscere ad Israele il privilegio del primo amore, inoltre per esempio per il fatto che permane il conflitto tra culto e etica, che sussiste una molteplicità di teologie canoniche ecc. 4. Dobbiamo menzionare la lealtà soprattutto perché essa risulta oggetti­ vamente dal criterio supremo di ogni applicazione: dall'esistenza del popolo di Dio stesso. Se questo popolo è il fine della storia58 e se la Scrittura e la sua interpretazione sono inalveate solo in esso, allora una delle regole ele­ mentari di vita di questo popolo è che nessuno sia ingiustificatamente passa­ to sotto silenzio, in particolare non i primi testimoni. La lealtà è correttezza e permettere-di-parlare. In questo senso è un comportamento orientato a valori. Ed è per me incomprensibile come si possa negare al processo di comprensione e interpretazione della Scrittura il carattere di azione. Tradur­ re è agire ed è, in quanto tale, legato a categorie etiche. E qui la lealtà si riferisce sempre e soprattutto alle rappresentazioni di valori che le persone hanno. Essa non riguarda testi, bensì concittadini in seno al popolo di Dio. - La posizione opposta consiste qui nel dire che i 58 Questa affermazione non intende rimuovere quella dogmaticamente più giusta, secondo la quale il fine della storia consisterebbe nella lode/gloria di Dio, ma ha piuttosto un significato feno­ menologico e pragmatico. Già la formula dell' alleanza rappresenta in questo senso una alternativa alla pura teologia cultuale innica. La Bibbia stessa conosce questo tipo di considerazione, che a volte rappresenta un necessario e completo capovolgimento. Anziché affaticarmi a citare una serie di passi biblici, ricordo semplicemente Did 10,5: .

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testi sarebbero dei messaggi autonomizzati subito dopo la loro nascita. A me questa posizione non pare sostenibile, tuttavia nella teologia essa ha trovato molti sostenitori, perché la concezione del kerygma della scuola di Bult­ mann, più vecchia di qualche decennio, era similmente strutturata e ha orientato le opinioni dei teologi in questa direzione. La lealtà consiste nel lasciar sussistere e valere l' alterità dell' altro nella situazione della traduzione. All 'utilità viene preferita la società comunicati­ va dialettica. Ma l' alterità dell' altro dev' essere un' alterità comprensibile e compresa perlomeno a grandi linee e perlomeno nella sua portata. Scopo: anche cristiani che sono molto diversi da noi trovarono addirittura posto e voce nel canone, e questo è per molti uomini una liberazione dalla pressione dogmatica. Perciò la realizzazione della concordantia discordantium nel testo tradot­ to è la realizzazione di un frammento di pace viva. Non vorrei dimenticare di rilevare subito che, così dicendo, abbiamo solo posto i paletti dei processi che sono oggetto dell' ermeneutica. Qualcosa di diverso sono le dimensioni della percezione o dimensioni estetiche, di cui fa parte anche il cristianesimo come movimento mistico59• Se una delle istanze dell' ermeneutica può essere considerata quella di evitare il dogmatismo, allora la lealtà è doppiamente idonea a questo scopo. Essa può aiutare a evitare il dogmatismo della visuale del mond� dell' età moderna nei confronti dei testi biblici, perché essa consiglia di adottare 'metodi rispettosi ' che non distruggono l' estraneo. Ed essa può evitare che anche professioni di fede ben intenzionate e necessarie blocchino la via che conduce alla vitalità della Scrittura. Infatti, quando tali professioni di fede, per esempio sotto forma di dottrina della giustificazione, diventano la gri­ glia che serve alla critica oggettiva della Bibbia, si ottiene il contrario della serenità ermeneutica. La storia stessa della Riforma mostra che cosa signifi­ ca lasciar parlare la Scrittura viva al posto del dogmatismo. In altre parole: può essere che la dottrina della giustificazione diventi così rigida da condur­ re a ignorare letteralmente più della metà della Scrittura. Al processo fondamentale della vita della chiesa, la cui vitalità consiste appunto nell ' evitare una cosa del genere, la questione della lealtà intende portare solo un contributo piccolo e modesto. 'Tradurre' indica nelle pagine seguenti l' applicazione.

" Cfr.

K. BERGER, Theologiegeschichte des Urchristentums, Tiibingen - Basel l 9952, § 14.

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TESI l : Tradurre significa agire ed è come tale legato a categorie etiche,

che sono sottratte all 'arbitrio individuale. Spiegazione: il tradurre ha una funzione sociale e 'comunitaria' da non sopravvalutare, in particolare sotto forma di un' azione interculturale. Scopo di tale azione è l' edificazione di una comunità, in quanto al recipiente della cultura finale viene trasmesso qualcosa attinto dal mondo culturale del testo di partenza e a proposito di tale mondo. Ma la comunità, anzi proprio essa, ha bisogno delle regole di un' etica; già Agostino constatò che pure una banda di ladri e i suoi vari membri hanno bisogno di una serie di regole vincolanti. TESI 2: La lealtà nei confronti dell 'autore di un testo non ha per oggetto particolarità arbitrarie, bensì le sue rappresentazioni di valori. Spiegazione: a differenza del concetto di cultura, a questo punto della discussione sinonimico, io scelgo qui il concetto di valore per i seguenti motivi: l. Questo concetto non è solo descrittivo ( 'etnologico'), bensì normativo ed è quindi in linea con l' orizzonte etico del tradurre illustrato nella Tesi l . Qui si tratta però, beninteso, delle rappresentazioni di valori dell' autore di un testo, non di quelle del traduttore. 2. Si presuppone che l' autore abbia o abbia avuto rappresentazioni di valori diverse da quelle dei traduttori e dei destinatari della traduzione. Il traduttore, quando traduce, deve per prima cosa ricostruire queste rappre­ sentazioni di valori (qualora tale ricostruzione non esista già) . 3. Le rappresentazioni di valori sono di regola articolate gerarchicamente. Ciò significa: lo stesso autore ci fornisce mediante ricorrenti segnali testuali dei criteri, grazie ai quali possiamo intuire quali sono le sue linee guida. La lealtà può muoversi lungo queste rappresentazioni di valori dell' autore. Tut­ tavia in caso di dubbio il traduttore deve partire dal fatto che la sua ricostru­ zione rimane insicura e che è perciò pericoloso dichiarare frettolosamente che qualcosa è privo di valore. TESI 3: La lealtà come comportamento del traduttore è necessaria nel senso descritto nella Tesi l . Spiegazione : tra i presupposti qui decisamente sostenuti c ' è anche il seguente: i testi vanno visti come esternazioni di persone. Solo nei confronti di persone, e non nei confronti di 'mondi testuali' o di 'testi ' autonomizzati, può e deve esserci lealtà. Ciò significa: io leggo testi come testimonianze di uomini . Così facendo però opto in favore di un tipo radicalmente storico di considerazione. La posizione opposta, dominante nell ' odierna ermeneutica filosofica,

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consiste notoriamente nell' affermare che i testi sono 'messaggi ' indipenden­ ti e autonomizzatisi direttamente dopo la loro nascita, messaggi che, essen­ do stati licenziati dai loro autori, contengono poi una quantità pressoché illi­ mitata di possibili significati. A me questa posizione non sembra sostenibile60• La concezione del keryg­ ma della scuola di R. Bultmann, di qualche decennio più vecchia, era molto simile e ha qui svolto un lavoro di preparazione61 • Questo significa: la lealtà va alla persona dell' autore di un testo e alla sua intenzione. Questa tesi è l' altra faccia della posizione ermeneutica, secondo la quale un testo va senza riserve storicamente spiegato, cioè senza un resto di una qualche 'universalità antropologica' o di altre strutture atemporali . Chi infatti parte da costanti antropologiche o strutture può continuamente fare di queste il centro del testo e dichiarare che le caratteristiche individuali di un testo (riferentisi specificamente al suo autore) sono 'ghiribizzi' trascu­ rabili. Ma appunto questo non va bene, perché non è possibile distinguere in modo argomentativamente dimostrabile tra caratteristiche 'universali' e caratteristiche 'solo individuali' di un testo. E questo significa anche: ogni successiva situazione in cui un testo viene immesso, in cui viene tradotto e interpretato, è altrettanto importante. Il problema ermeneutico di fronte a questo fatto non è più quello dell ' individuale e dell ' universale (che presun­ tamente sonnecchia nella 'profondità' del testo e che ha solo bisogno di essere svegliato dal traduttore), bensì appunto il problema della relazione tra due persone poste in situazioni diverse, tra l' autore e il traduttore, con il tra­ duttore debitore del testo ali' autore, cosicché la loro posizione è disuguale. Il fatto che non si tratti più della relazione universale/individuale costitui­ sce naturalmente una chiara differenza rispetto a tradizioni antiche della metafisica occidentale, che ha senza dubbio influenzato nella teoria e nella "" Malgrado tutte le affermazioni in contrario questo tipo di considerazione diventa alla fine asto­ rico: un testo non va infatti sganciato dalla situazione complessiva in cui esso è nato, situazione di cui fanno parte la biografia dell'autore e tutto il contesto culturale e sociale. Sono questi elementi a imprimere a un testo la sua forma concreta. Tale forma concreta non è ora affatto superflua o soltan­ to una possibilità rispetto alla poli valenza di posteriori possibili interpretazioni. Né la forma concre­ ta può essere sostituita da potenziali contenutistici universalmente umani. Contenuto e forma non sono piuttosto separabili. È la sua forma unica e irripetibile a 'costituire' un testo. Soltanto colui che prende radicalmente sul serio la situazione in cui un testo è nato e le sue conseguenze può poi real­ mente valutare anche il peso di ogni situazione successiva e la sua importanza decisiva per la diver­ sa e nuova interpretazione del testo. In fondo la teoria dell' autonomizzazione dei testi vela le inter­ pretazioni radicalmente diverse di fatto subentranti. Maggiori dettagli al riguardo più avanti. ., Pure il 'kerygma' in ogni caso dei discepoli di Bultmann (cfr. ad esempio i lavori di H. Con­ zelmann), è una entità costante rispetto alle molte sue formulazioni, un contenuto indipendente da tutte le sue forme. Non è perciò un caso che proprio alcuni discepoli e nipoti di Bultmann poterono aderire alla teoria del mondo dei testi isolato da ogni storia concreta.

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prassi anche il tradurre. Appunto questo viene messo in luce nella concezio­ ne dell' 'universalità limitata' . TESI 4: La lealtà è possibile. Motivazione: esiste tutto un arsenale di metodi storico-critici, i quali per­ mettono di individuare approssimativamente l' opinione di un autore perlo­ meno fino al punto che, per una determinata generazione di interpreti, esiste un 'consenso critico' da difendere argomentativamente. Qui non dobbiamo risolvere il problema se sia mai possibile pervenire a conoscere la vera opi­ nione di un �tore, e tale problema è perciò in una certa misura d'importan­ za secondari a. Di primaria importanza è un' altra cosa, e cioè quella di ammettere l' esistenza di una differenza rispetto alla pura funzionalità della traduzione e di ammetterla precisamente nella forma della lealtà verso l' autore di un testo. Si tratta perciò di stabilire se sia in linea generale possibile una cosa come questa: percepire e rendere visibile in qualsiasi orientamento di una tradu­ zione o in qualsiasi interpretazione in ordine alla situazione esistente l' alte­ rità della persona e dell' intenzione dell' autore del testo. La lealtà consiste perciò nel lasciar parzialmente valere l ' alterità del­ l' altro (dell' autore) in una situazione di traduzione. Questo lasciar valere non è statico, bensì consiste anche nel fare spazio all' autore di un testo pure nel testo finale, e precisamente in modo tale che il traduttore abbia il coraggio di esporre il testo finale, durante la fase della sua nascita, all' influsso da parte dell' autore del testo. Io penso perciò che la lealtà sia possibile finché è possibile che un uomo si sforzi di prestar attentamente ascolto a un altro. Non il fatto che egli com­ prenda qualcosa è la cosa da dimostrare, bensì la sua intenzione di ascoltare, a differenza dell' autodecisione nel senso che soltanto una determinata com­ prensione 'funziona' . TESI 5 : Il problema della lealtà ha per oggetto il modello «utilità contro società comunicativa». Il punto di vista della pura utilità e quindi della adeguatezza tecnica, sen­ za dover necessariamente tener conto della lealtà, vale senza dubbio per la traduzione di testi non letterari (ricette culinarie, istruzioni per l' uso). Que­ sta formulazione è intenzionalmente prudente, perché uno potrebbe natural­ mente dire: la lealtà verso l' autore, ad esempio nella traduzione di testi rela­ tivi alla fabbricazione di determinati prodotti chimici, riguarda il fatto che l' autore non aveva, ad esempio, pensato ad un loro impiego bellico. Ma la differenza rispetto a testi letterari consiste tuttavia senza dubbio nel fatto che

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il 'funzionamento' o 'scorrimento liscio' di un processo tecnico è di un' evi­ denza palmare e, viceversa, che un' intenzione etica dell' autore, che si spin­ ge al di là del processo tecnico come tale, non è di regola dimostrabilmente rilevabile in testi tecnici e non disturba il funzionamento, qualora di essa non si tenga conto. Ciò significa: il processo tecnico e eventuali intenzioni dell' autore che · vanno al di là di esso sono due cose notevolmente tra loro differenti nel caso di testi non letterari. Invece nel caso di testi letterari essi sono strettamente tra loro intrecciati. Per il nostro tema questo significa una precisazione della lealtà: rispetto alla pura utilità nella cornice di una rigida funzionalità, nel caso di testi let­ terari la lealtà vale come un elemento all' interno di una società comunicati­ va. Appunto la società comunicativa esige anche il rispetto dell' autonomia e dell' alterità dell' autore estraneo di un testo, e ciò precisamente quando si tratta del suo testo. Lealtà significa perciò non procedere, nei confronti di un testo, soltanto secondo la ratio della convenienza o delle esigenze della situazione. Occorre procedere in questo modo, perché questo rispetto dell' autore di un testo è un frammento di 'pace' . E a questo riguardo vale il principio: pax utillima ratio, per cui si tratta di un ultimo orizzonte di utilità. TESI 6: Il dibattito sulla lealtà si colloca anche nel contesto di altre pre­

cisazioni circa la nonnatività che regola il tradurre (ethos della traduzio­ ne).

Uno dei problemi centrali della scienza della traduzione è chiaramente quello delle norme e dei criteri che devono regolarla. La 'lealtà' entra nella discussione come una di tali norme. L' ideale dell'equivalenza va in proposi­ to considerato come antiquato. Rivaleggiante in qualche modo con la lealtà sembra essere a prima vista l' «incarico di effettuare la traduzione» (teoria dello scopo). Le due cose pos­ sono infatti nel caso concreto confliggere tra di loro. Esse però si collocano su piani diversi, per cui è indubbiamente possibile una chiarificazione di fondo perlomeno teoretica del loro rapporto. Anzitutto: l' incarico di effettuare la traduzione (scopo) non parte di rego­ la dal traduttore, ma da un terzo. Tuttavia la soluzione del problema non sta ora nel dire che la lealtà verso la controparte sarebbe unilateralmente una virtù del traduttore. Qui vale piuttosto quanto segue: l . L' incarico di effettuare la traduzione non è il criterio supremo. Quale azione sociale (vedi Tesi l ) anch' esso sottostà piuttosto a determinati criteri etici. Neppure l' incarico se ne sta solitario su un' ampia distesa, ma è sogget­ to alle regole fondamentali della società comunicativa.

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2. La lealtà vale perciò sia per colui che conferisce l' incarico di effettuare la traduzione sia per il traduttore: essa è una norma comune che governa in modo diverso il diverso agire dei due. TESI 7: Sotto l 'aspetto della lealtà ogni testo tradotto presenta un carat­

tere di compromesso. Spiegazione: il compromesso viene effettuato tra le intenzioni dell' autore del testo, lo scopo della traduzione e le attese dei futuri lettori. Si tratta per­ ciò di un cammino su un filo di lana, il cui risultato è il testo tradotto. Le questioni sopra discusse nella Tesi 3 tornano qui in altra forma: se si trattasse solo di rendere un messaggio per raggiungere uno scopo, allora sol­ tanto questo scopo sarebbe normativo. Allora la funzione del testo nell ' oriz­ zonte delle convenzioni in vigore tra i destinatari della traduzione sarebbe l' unico criterio oggettivo. L' intenzione dell' autore avrebbe infatti allora sol­ tanto una funzione puramente antiquaria. Ma poiché non si tratta di un messaggio isolato, bensì di un evento socia­ le e comunicativo, non può trattarsi solo di un funzionamento oggettivo, cui andrebbe sacrificata qualsiasi inattualità del testo. Allora ci vuole piuttosto una fondamentale capacità sociale: la capacità di compromesso. Rispetto a qualsiasi radicalità sia nel senso del puro funzionalismo, sia nel senso di una 'traduzione esoterizzante ' , questa esigenza risulta meno attraente e più differenziata. Essa pone anche il problema dell'utilità: che ne viene all' autore di un testo, se io lo rendo in modo leale o meno? se nel tra­ durre tengo costantemente conto delle sue rappresentazioni dei valori? - Ma appunto qui possiamo ben dire : la cultura estranea, appunto la cultura dell' autore di un testo, e le sue rappresentazioni dei valori vanno di per sé rispettate come un valore umano, e qualsiasi 'stravolgimento' di tale 'cultu­ ra' è problematico. Il fatto di definire qualsiasi testo letterario tradotto un compromesso e di redigerlo soprattutto anche sotto questo aspetto non va sicuramente esente da problemi. Lo svantaggio sta nel fatto che il testo tradotto viene eventual­ mente privato di una parte della sua efficacia62• La possibilità del carattere di compromesso sta invece nel fatto che un testo tradotto può svolgere una par­ te del necessario dialogo interculturale e evidenziare e far comprendere l' altra cultura come diversa. 62

Proprio nel caso delle traduzioni della Bibbia e di tutto il processo della traduzione attualiz­ zante del cristianesimo questo risulta chiaro: l' esigenza di attualità contrasta tradizionalmente in misura non insignificante con la necessità politico-ecclesiale di essere un partner interpellabile da generazioni e rappresentazioni di valori diverse.

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Al posto di 'compromesso' possiamo anche dire 'equilibrio' . Un testo tra­ dotto crea un equilibrio - forse labile - tra persone e culture assai diverse e rappresenta così uno spazio di una possibile comunicazione. La comunica­ zione è qui pluristratificata: in una prima fase essa è attuata dal traduttore per se stesso; in una specie di gioco interiore delle parti egli deve far parlare e far entrare in comunicazione davanti a sé la cultura di partenza e quella di arrivo. Il risultato di questo dialogo è il testo tradotto. La lealtà significa che in questo processo si tratta realmente di un dialogo. La comunicazione comincia poi di nuovo con il lettore della traduzione: la traduzione gli ha avvicinato la cultura estranea, ma a motivo della lealtà non l'ha fatta diven­ tare identica a lui, cosicché egli deve confrontarsi in certo qual modo con un nuovo scostamento o con una nuova multiformità instauratasi nell' orizzonte della propria cultura, in cui la traduzione ha immesso il testo. La creazione qui sottolineata di un equilibrio, oltre che per il modo di operare del traduttore, ha oggi senza dubbio un' importanza generale di fron­ te al pericolo ( ! ) di una cultura mondiale unitaria e livellante, da un lato, e di fronte ai nazionalismi purtroppo di nuovo risorgenti, dall' altro lato. A lungo andare la soluzione può consistere soltanto in una concordantia discordan­ tium. Con questa espressione io intendo - nella scia di Nicola Cusano - la riconciliazione degli opposti mediante un' azione 'politica' di unificazione. Appunto di questo si tratta anche nel caso di una traduzione. La traduzione, quale creazione di un equilibrio tra persone, stabilisce anche un pezzo di unità del diverso. TESI 8: L'alterità dell 'autore, il cui diritto è protetto dalla lealtà, deve essere un 'alterità compresa dal traduttore e comprensibile da/ lettore. Spiegazione: il traduttore non può limitarsi ad essere leale in senso giuri­ dico (perché allora la sua è solo una fedeltà priva di senso), né può non offrire a sua volta alcuna possibilità al lettore di comprendere l ' alterità dell' autore (che a motivo della lealtà egli ha 'salvaguardato' ) . Ma per fare questo non può neppure limitarsi ad attualizzare in ordine alla cultura di arrivo, bensì deve stabilire dei paragoni, menzionare delle analogie o indica­ re elementi più antichi o marginali presenti nell ' orizzonte della propria cul­ tura. Anche il lavoro attorno alla propria tradizione (alla tradizione del ricet­ tore) rende possibile la comprensione. TESI 9: Nella cornice della lealtà il ruolo del traduttore e quello del ricettore sono in modo caratteristico diversi. Spiegazione: l . Proprio nei confronti di una traduzione 'leale' il comportamento del

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ricettore non è soltanto passivo. Egli collega secondo le istruzioni, riempie gli spazi vuoti e crea delle associazioni con elementi sconosciuti. 2. Nei confronti del ricettore (dei destinatari viventi nella cultura di arri ­ vo) il traduttore ha, con la categoria della lealtà, una funzione pedagogica, che consiste nell' indurlo ad essere attivamente tollerante verso l' alterità rap­ presentata. Per 'tolleranza attiva' io intendo qualcosa di diverso da una sem­ plice accettazione e da un semplice riconoscimento dell' altrui validità, intendo cioè una determinata approvazione dell' estraneo, naturalmente sen­ za curiositas e senza l' adattamento scimmiottante ad esso. 3. D' importanza decisiva è questo: la tolleranza attiva descritta nel punto 2 è piuttosto un elemento ritardante nel processo di comprensione del ricet­ tore, elemento che va per sua natura strettamente in senso contrario al desi­ derio di lealtà. Perlomeno il lettore vuole infatti potersi realmente identifica­ re con quanto viene offerto nel testo, vuole l' inserimento del testo nella pro­ pria cultura, vuole una conferma e si attende a breve termine una qualche utilìtà dal testo letto. Il ricettore tende (questa è esattamente la fusione di orizzonti nel senso di H. G. Gadamer) a stabilire un' unità e una perfetta cor­ rispondenza, il che significa: il ricettore non è tendenzialmente leale, bensì tendenzialmente 'applicativo' . Ma se il ricettore reagisce così, a che serve la lealtà del traduttore, per quale scopo essa era buona? Essa sarebbe certamente priva di senso se non perseguisse uno · scopo nel ricettore. Evidentemente essa ha lo scopo di ser­ vire, mediante la rappresentazione della ricchezza e delle molteplici possibi­ lità del testo tradotto, al livello e al formato dell' unità applicativa stabilita dal ricettore. Infatti tutta la 'pace' della comunicazione interculturale non serve a niente, se per il singolo ricettore essa ha solo il sapore di una fatica. Piuttosto per lui il guadagno sta come minimo nella possibilità di poter 'scorgere' una grande ricchezza di possibilità di essere. Perciò la lealtà del traduttore significa per il ricettore un ampliamento dell' 'offerta' di possibi­ lità di esistenza (foss' anche solo allo scopo di percepirle mediante la visio­ ne) e, quindi, di una multiforme ricezione. Questo lascia però a mio avviso intravvedere una funzione fondamentale della lealtà del traduttore: la lealtà consiste di fatto nel non anticipare la pre­ stazione del ricettore. Il traduttore leale rimanda di una fase questa operazio­ ne. Tale dilazione ha il senso di permettere ai lettori di collegarsi in molte­ plici modi al testo tradotto e di }asciarli quindi liberi. Il traduttore rinuncia perciò a esercitare un' azione di tutela sul lettore, perché egli non può tra­ sportaretutte le possibilità di comprendere o rappresentarsele anticipandole. Di qui segue: la lealtà equivale a un arresto nel processo di attualizzazione. Dove questo riesce particolarmente difficile e dispendioso, lì ci vuole un tra-

Schema di un 'enneneutica del Nuovo Testamento

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dottore e un 'testo intermedio' , finché il ricettore crea il proprio testo appli­ cato (perlomeno in modo inespresso). Pure tutta la problematica del rapporto tra esegesi scientifica di un testo e applicazione va risolta secondo questo modello: l' esegeta di un testo o il tra­ duttore leale non fa qualcosa che fanno poi gli ulteriori ricettori, non stabili­ sce cioè una perfetta corrispondenza con la situazione concreta. In altre parole: l' esegeta o il traduttore leale si contiene in certo qual modo nel pro­ cesso dell' attualizzazione del testo in questione, interrompe quel che egli stesso ha avviato. Risparmia qualcosa e lo riserva agli ulteriori ricettori. Egli è infatti come un costruttore di ponti, debitore verso ambedue le sponde. Ed è di conseguenza anche lui stesso un ricettore, così come ogni ricettore è un traduttore. La lealtà verso l' autore del testo ha perciò la sua altra faccia nel fatto che al ricettore (lettore) del testo non viene fornita un' applicazione completa e già 'bell' e pronta' , bensì viene fornito solo un 'testo intermedio' con 'spazi vuoti' e conseguenze lasciate aperte. E questo modo di agire ha un suo sen­ so non solo per la società comunicativa interculturale con l' autore del testo, bensì anche per la società dei ricettori. Infatti la relativa apertura del testo intermedio significa nientemeno che proprio una società pluralistica di ricet­ tori può far riferimento ad esso: la mancanza di una attualità diretta, frutto della lealtà verso l' autore, significa per i ricettori che essi possono rifarsi in molteplici modi al testo tradotto, appunto perché questo non 'indottrina' o lega in un solo senso. Per una società dai tratti pluralistici questo è importante, perché solo in una simile lettura complementare del testo il grande bisogno di libertà di una molteplicità di comunità di lettori può essere soddisfatto63• Il ricettore non è più «obbligato verso ambedue le sponde», ma deve vedere come può 'sopravvivere' , e si domanda come un testo può a ciò cçmtribuire. Il traduttore leale è in questo processo il legame con gli altri ed ha quindi una funzione unica, irripetibile e sociale oltremodo importan­ te .

•, Qui si potrebbe obiettare (dal punto di vista di una teoria della traduzione radicalmente funzio­ nale): a seconda della comunità dei lettori ci vuole di conseguenza una traduzione solo e sempre funzionale, quindi una Bibbia per adulti e una Bibbia per le elementari e le medie. - Questo si può fare, ma cosi agendo si terrebbe conto soltanto di una 'metà' della lealtà, cioè dell'apertura alla pluralità. L'istanza dell' altro aspetto, che vieta di perdere di vista l' autore, rimarrebbe cosi ancor sempre un desiderato. Ciò significa: la lealtà ha due aspetti, e se essa viene attuata in modo coeren­ te, allora tali due aspetti stanno fra di loro anche in un reciproco rapporto.

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TESI 10: Per la ricezione da parte dei lettori la lealtà ha anche questo

significato: essa limita detenninate fonne di ricezione e ne favorisce altre. Spiegazione: con la «ricchezza di possibilità di collegamento» offerta dal traduttore leale non è ancor detta l' ultima parola, perché la rice�ione viene pilotata anche in altro modo. Limitati vengono: il consumo puramente affermativo, l' adattamento sen­ za riserve a qualsiasi convenzione, l' 'abuso' di un testo per ottenere da esso una conferma, senza riguardo alla sua natura e in particolare senza tener conto della sua funzione critica, il che significa alla fine interscambiabilità dei testi (i testi, quali che essi siano, confermano tutti la stessa cosa). Favorite vengono: la percezione differenziata, la tolleranza e la curiosi­ tà64. Possiamo perciò dire : la lealtà e, quindi, l' attualizzazione ininterrotta sono una precondizione di una multiforme ricezione. Detto in termini un po' iperbolici: proprio l' individualità non adattata65 del testo tradotto rende pos­ sibile una pluralità di ricezioni. TES I 1 1 : La lea ltà ha de i confini. Il ·confine inferiore è stabilito dall 'autore, il confine superiore è stabilito dalla capacità di ricezione del ricettore. Spiegazione: la riflessione sui limiti della lealtà ci costringe a trattare ancora una volta tutta la tematica sotto questo aspetto: la libertà è il «tema centrale occulto» di ogni ermeneutica. È di una evidenza palmare che queste questioni sono assai importanti per qualsiasi tipo di discorso interculturale. Il confine inferiore della lealtà (cioè una misura minima, al di sotto della quale secondo me non bisognerebbe scendere) è violato, se il traduttore per­ de completamente di vista e non indica più, con alcun segnale, il fatto che si tratta di un testo di origine estranea. Già sopra (Tesi 2) abbiamo visto che la lealtà si riferisce alla compagine dei valori dell' autore di un testo, alle con­ vinzioni di fondo che costituiscono la sua identità biografica. Per identità biografica io intendo: chi la disprezza non riesce più a com­ prendere periodi essenziali della vita dell' autore, in particolare i periodi col­ legati con il testo prodotto. Lo scopo della lealtà era infatti quello di entrare personalmente in colloquio con l' autore di un testo e di non permettere che

64 «La santa curiosità della ricerca, questa piantina delicata ha bisogno, oltre che dello stimolo, soprattutto della libertà; senza di questa essa deperisce inevitabilmente>> (A. EINSTEIN, Autobio­ graphische Notizen, in P. A. SCHLIPP, Albert Einstein, Stuttgart 1 95 1 , 7) . •, Grazie al riferimento ali' autore, salvaguardato dalla lealtà del traduttore, il testo tradotto rima­ ne infatti sino ad un certo grado un corpo estraneo nella cultura di arrivo.

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egli scomparisse di vista. Pertanto il traduttore che trasforma uno scrittore di guerra antifrancese in un francofilo pacifista ha con ciò violato la lealtà nel senso del superamento del confine inferiore. In fondo possiamo definire questa regola in base al nostro principio teore­ tico circa la comunicazione: se ignoriamo l' autore come partner del dialogo, se non ne teniamo regolarmente conto e non gli permettiamo 'più di compa­ rire' , allora abbiamo superato il confine inferiore. Per quanto riguarda il confine superiore: lo superiamo se il lettore non comprende più quello che gli offriamo (cfr. la Tesi 8), cioè se egli non è più in grado di stabilire delle associazioni, di ricordare e/o di stabilire dei para­ goni. Ciò significa: il confine superiore è grosso modo stabilito dalla base delle associazioni da parte dei ricettori nella cultura di arrivo. Tanto per fare un esempio: il lettore non deve certo poter penetrare tutto nel senso della chiarezza razionale; la comprensione in questo senso non può essere un criterio, perché proprio il mistero e il misterioso fanno costi­ tutivamente parte dei mondi dei testi letterari. Il lettore deve però essere per­ lomeno capace di fare delle associazioni. Non è perciò certo assolutamente necessario tradurre la giaculatoria tibetana «om mani padme hum», perché il lettore conosce testi in lingua straniera esistenti anche nel proprio mondo culturale, testi attinenti precisamente la magia e la prassi della preghiera, appunto i cosiddetti Rhesis barbarike. Invece non sarebbe possibile offrire, senza tradurlo, un testo più lungo, che vada al di là della dimensione di una formula. Pertanto possiamo dire: il minimo della lealtà esige che si continui a tener conto dell' autore come partner del dialogo; la lealtà diventa una pretesa eccessiva, se i lettori non riescono più a collegare alcunché con quanto vie­ ne loro offerto. Proprio a questo punto diventa ancora una volta chiaro che l' esigenza del­ la lealtà è definita nel singolo caso dal conflitto: dove la comunità dei lettori condivide senza fatica i valori dell' autore, lì non c'è bisogno di lealtà. Essa è in fondo già presente. Di lealtà c ' è bisogno quando insorge un conflitto di lealtà, per cui possiamo dire: sotto il profilo contenutistico la misura della lealtà è stabilita dalla differenza tra l' ordine dei valori dell' autore e l' ordine dei valori dei lettori. Essa dipende pertanto da tale differenza. Non l' autore di per sé preso, bensì la situazione effettiva tra i lettori della traduzione deci­ de se c'è bisogno di lealtà verso l' autore. TESI 12: Per quanto riguarda la concretizzazione della lealtà: un tradut­ tore è indubbiamente leale in primo luogo là dove esiste o potrebbe esistere un conflitto di lealtà.

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Spiegazione: di grandissima importanza è che il traduttore sia sufficiente­ mente sensibile da percepire il conflitto di lealtà, cosa questa che esige_ la relativizzazione autocritica del proprio punto di vista. - Ma allora la lealtà consiste nel posporre i propri interessi, le proprie necessità e le proprie ovvietà per salvaguardare i diritti dell' autore contro di esse. La lealtà è per­ ciò la capacità di far valere gli interessi, le rappresentazioni dei valori e le intenzioni dell' autore contro gli evidenti interessi ecc. del traduttore e dei destinatari. Perciò per un traduttore del Nuovo Testamento la lealtà verso gli autori neotestamentari consisterebbe nel non smussare passi dogmaticamente diffi­ cili come Eb 3,2 (Dio ha 'fatto' Gesù, Gesù è una creatura di Dio), Mc 3,21 (i familiari di Gesù pensano che egli sia impazzito) o Gv 1 0,34 (degli uomi­ ni sono apostrofati come 'dèi ' ) nell' interesse di una conformità o conve­ nienza ecclesiale-autoritaria moderna. Qui l' evidenziazione di queste scon­ venienze non è fine a se stessa, ma ha un' importante funzione sociale e di politica ecclesiale: a) diventa perlomeno chiaro che anche cristiani con rap­ presentazioni assai diverse dalle nostre trovano posto e hanno voce addirit­ tura nel canone neotestamentario; b) nell' odierna situazione esistente, ad esempio, in Germania ci sono molte persone per le quali le affermazioni di questo tipo potrebbero significare una liberazione dalla pressione dogmati­ ca. In que sto modo si potrebbe ampliare la serie dei destinatari a cui il testo ha qualcosa da dire (pluralismo). Così diventa, in conclusione, ancora una volta chiaro che la lealtà, quale comportamento del traduttore, ha proprio, come espressione della. sua sensi­ bilità filologico-storica sia verso l' autore sia verso i ricettori, una sua impor­ tanza nel campo del sociale. Perciò la realizzazione (}ella concordantia discordantium nel testo tradot­ to equivale a stabilire un pezzo di pace viva.

7. Esegesi - Applicazione - Ermeneutica

DISTINZIONI

L'esegesi è l' accesso descrittivo scientifico al testo. I criteri sono costitui­ ti dalla totalità dei metodi filologici e storici e dalla verificabilità intersog­ gettiva ad essi collegata.

Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento

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L' applicazione consiste nel mettere un testo in relazione con il presente (con la situazione del momento), nel «raccontare ad altri il messaggio» ecc. L'ermeneutica è il tentativo di descrivere i due modi di accesso al testo in sé e nel loro reciproco rapporto e di inquadrarli in modo teoretico scientifi­ co. Questa operazione comprende anche la questione della buona o cattiva riuscita dell ' applicazione. Si tratta di individuare tutti i fattori che sono importanti per l' applicazione. L'ermeneutica, nonostante il suo carattere teoretico, non procede (in que­ sto saggio) in modo deduttivo, bensì il più possibile in modo fenomenologi­ co-induttivo66. - L'ermeneutica non è lo stesso procedimento dell' applica­ zione, ma la descrizione scientifica dell' applicazione (l' illustrazione della sua coerenza e delle sue motivazioni). Essa assegna all 'esegesi e all ' applica­ zione il loro posto.

SEPARAZIONE TRA ESEGESI E APPLICAZIONE

Fondazione della separazione Un fenomeno non proprio raro : certi teologi fanno esegesi e 'critica oggettiva' insieme e, nel farlo, pensano di essere teologi critici e nello stesso tempo impegnati. L' esempio della recente storia dell' interpretazione di l Cor 1 4,3 3b-36 lo mostra bene : contrariamente ad ogni evidenza critica testuale si cerca di 'dimostrare'67 che il passo sarebbe un' aggiunta successi­ va non paolina (la stessa cosa si tenta di fare con Rom 1 3 , 1 -7)68, perché non si può e non si vuole ascrivere a Paolo queste affermazioni così spiacevoli, inoltre perché per i teologi non esiste chiaramente la possibilità di ascrivere a un autore canonico come Paolo qualcosa di completamente diverso da ciò che da lui ci si attende e di continuare nello stesso tempo a ritenerlo un' autorità biblica. Se si seguisse infatti questa logica occorrerebbe effetti­ vamente domandarsi: su che cosa possiamo fare ancora affidamento, se Pao-

66 Qui e nelle pagine che seguono 'fenomenologico' significa: descrizione con l' aiuto del lin­ guaggio quotidiano. Esso non significa: adesione alle vie in parte astoriche e astraenti della feno­ menologia e della storia delle religioni anni addietro in auge (questione dell' 'essenza' ) . •, Così ad esempio G. DAUTZENBERG, Urchristliche Prophetie, Stuttgart 1 975, 257-273. 68 E. Schweizer, in ID. (ed.), Dimensions de la vie chrétienne Rom 12-13 (St Paul), Ziirich 1979, 1 33: «lo spero sempre nell' intimo del cuore che Paolo non abbia scritto Rom 1 3 , 1 -7», e teologi cal vinisti (per es., Bamikol e Eggenberger).

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lo si esprime forse qui in un modo diverso da come fa in Gal 3,27s.? - In breve, non esiste solo un' apologetica dei conservatori interessati, ma esiste anche un' apologetica dei progressisti interessati, la quale tenta ciò che è sot­ to il profilo filologico difficilmente possibile, per poter scagionare l' autore canonico e per poterlo poi tanto più disinvoltamente mettere sotto sequestro con il resto dei suoi testi da lui derivanti. Un modo di procedere apologetico di questo tipo è perciò molto 'più pericoloso ' , perché il progressismo suole ammantarsi dei panni della ragione e perché certe operazioni esegetiche (come la spiegazione che parla di aggiunta o di glossa, quest' ultima un modo di procedere particolarmente ricorrente in R. Bultmann) appaiono già di per sé assai più ragionevoli e critiche di una semplice accettazione del testo. Inoltre ancora ci si appella poi di solito sfacciatamente, per questo tipo di 'esegesi interessata' , al «circolo della comprensione» ripetuto a mo' di professione di fede, circolo che appunto non solo permetterebbe un simile impegno, ma lo renderebbe addirittura inevitabile. - Nel frattempo si pratica spesso questo tipo di miscela di esegesi e di interesse morale anche a propo­ sito di affermazioni neotestamentarie concernenti Israele, nel tentativo di scagionare autori neotestamentari da affermazioni antigiudaiche69• Il collegamento apologetico da noi descritto tra esegesi e applicazione è sempre frutto del desiderio di essere, precisamente come esegeta storico-cri­ tico, anche teologo (applicativo). Si vorrebbe dimostrare di essere teologi salvaguardando nello stesso tempo i metodi storico-critici . Così facendo non solo si pretende troppo in una sola volta (l' esegeta appare nello stesso tempo come il maestro normativo puro e semplice della chiesa, maestro che deve poter tutto e fare tutto), bensì soprattutto siamo qui a mio giudizio di fronte a una falsa concezione della natura della teologia come funzione della chie­ sa. In questo modo non si vede la funzione 'ecclesiale' dell' analisi di testi e situazioni. Noi invece separiamo l' applicazione dall 'esegesi, perché altrimenti non è

69 Cfr. la recente esegesi di l Ts 2, 1 5- 1 6. - Due cose lasciano spesso a desiderare tra gli interpre­ ti : l ' una è I' antigiudaismo realmente deplorevole di esegeti, i quali cercano di isolare artificiosa­ mente il cristianesimo primitivo del secolo I dal giudaismo e di considerare cristiano soltanto ciò che è presuntamente non giudaico. - Potremmo chiamare questo modo di procedere una falsa apo­ logetica conservatrice. - Qualcosa di diverso è invece cercare di inserire in autori cristiani primiti­ vi propri pii desideri e non ammettere che tali autori possano aver fatto delle affermazioni antigiu­ daiche, perché nella loro qualità di autorità canoniche debbono aver detto la 'verità' valida. Qui tocchiamo con mano le perplessità in cui si dibatte la situazione ermeneutica. lrrisolta rimane qui la questione del tipo di normatività del canone. Se si afferma ingenuamente tale normatività, si è poi di continuo tentati di piegare certe affermazioni neotestamentarie in favore delle istanze attuali spesso indubbiamente giustificate. E questa è un' apologetica progressista.

Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento

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più possibile alcuna esegesi onesta e perché altrimenti subentrano conse­ guenze di vasta portata sotto forma di ideologizzazione e di consumo dei testi. Alla base di questa separazione c'è una distinzione tra comprensione storica e comprensione applicativa.

CHE RIMANE ALL' ESEGESI?

L' applicazione avviene nella chiesa da sempre senza esegesi storico-criti­ ca e indipendentemente da essa, e le cose continueranno a rimanere così anche in futuro. In particolare a proposito dell' applicazione per molti versi ben riuscita possiamo dire: qui l'esegesi non deve interferire, né dovrebbe, per semplice amore della propria autoconferma, giocare la carta della pro­ pria saccenteria storica contro un' applicazione 'senza esegesi' . L' esegesi ha perciò molto chiaramente solo una funzione limitata. La chiesa vive di rego­ la alla luce della Scrittura in modo più diretto, più semplice, più spontaneo e in un certo senso forse anche più docile.

Nessun carattere vincolante dell 'esegesi L' esegesi non può fare alcuna affermazione vincolante per gruppi cristia­ ni. Le sue ricostruzioni storiche non possono infatti essere oggi di per sé vincolanti. Questo significa anche: l' esegeta non è come esegeta già anche una guida ecclesiale.

L'esegesi non sostituisce l 'applicazione L' esegesi non può e non deve perciò sostituire l' applicazione viva. I gran­ di movimenti all' interno della storia della chiesa scaturiscono sì sempre dal­ la lettura della Scrittura, ma non dali' esegesi storico-critica. L' esegesi non ha forse mai indotto qualcuno a 'convertirsi' . Naturalmente rimproverarle questo come una 'mancanza' sarebbe cosa non oggettivamente giusta, per­ ché essa vuole essere giudicata in base alle sue intenzioni. Il suo servizio è essenzialmente più semplice. Se lo si riconosce, non ci si attenderà neppure troppo da lei e non la si potrà neppure ritenere responsabile di tante cose infruttuose. Solo se vediamo che l ' esegesi non può sostituire il servizio vitalmente

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necessario dell ' applicazione, eviteremo anche lo scambio spesso constata­ bile tra predicazione e esegesi.

Nessun dominio dell 'esegesi sulla Scrittura L' esegesi non vuole e non può perciò neppure ergersi a 'padrona della Scrittura' (come suona una critica spesso mossale), perché essa non può dire che cosa oggi 'sia valido' e che cosa no. Né essa è sicuramente l' unica via possibile per rispondere alla questione del significato del testo biblico come testo antico. Non si può infatti semplicemente escludere che qualcuno che comprende mediante l' intuizione un testo o che lo segue docilmente nella sua prassi colga anche il senso storico di tale testo meglio dell' esegeta. Spesso una simile intuizione può successivamente essere resa plausibile anche con argomenti esegetici, benché non sia stata appunto acquisita esege­ ticamente.

L'esegesi non critica la concezione biblica della realtà L' esegesi descrive e ricostruisce affermazioni su Dio. Non è assolutamen­ te suo compito prendere delle decisioni pro o contro tali affermazioni. Que­ sto è compito della fede. L' esegesi insegna a capire che ciò che spesso appare come una supersti­ zione antica poggia in verità su una diversa concezione delle categorie fon­ damentali del tempo, dell' identità, della persona e della fattualità. E così diventa possibile ricostruire non solo nei particolari, bensì anche nel suo insieme quel che i cristiani del secolo 1 hanno concretamente pensato nel caso di determinate affermazioni. Da questa concretizzazione dipende semplicemente tutto. E proprio su questo punto non esiste un interesse solo antiquario. Perché l' interesse per la concretezza nel secolo 1 d.C. corrisponde nel senso stretto del termine all' interesse per la concretizzazione adesso. Questo significa: se l' esegeta insiste nel voler sapere con molta precisione come certe affermazioni sono state 'pensate' , lo fa perché vorrebbe sapere una cosa: gli uomini come sono arrivati a pensare proprio così? Quali esperienze (umane e quindi perlomeno in linea di principio nonché parzialmente ricostruibili) stanno alla base delle affermazioni? Quali conseguenze vennero nel singolo caso da determinate affermazioni per la vita quotidiana? Quali effetti storici ha avuto il testo? Solo se l' esegeta riesce a ragguagliare in modo così concreto a proposito delle implicazioni e delle conseguenze possibili e effettive del testo, balena-

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Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento

no anche oggi nell' orizzonte del campo visivo delle concretizzazioni quoti­ diane . Solo così si impedisce infatti che il testo sia concepito come una 'verità' globale o come una dottrina universalmente valida. La ricostruzione della concretizzazione storica si avvale in modo particolare (a mio giudizio primariamente) delle problematiche storico-religiose e (anche) storico­ sociali, nonché della fenomenologia della storia delle religionF0•

Risultato:

l' esegesi storico-critica mostra che la verità non esiste al di

fuori della realtà storica e che essa è inevitabilmente sempre e poi sempre legata alla storia concreta e in essa inserita.

L'esegesi indica alcune alternative false e deleterie L'esegesi non concepisce le proposizioni teologiche del passato nel senso di verità immutabili, bensì individua le domande ' storiche ' a cui il testo risponde. Così facendo essa mostra che la sistematizzazione effettuata nel posto sbagliato nel corso della ricezione ha portato ad alternative deleterie (perché insolubili). Queste alternative sono soprattutto:

l . l' alternativa tra opera o grazia (con opzione in favore di quest' ultima) ;

70 L' esempio

del racconto della trasfigurazione di

Mc 9,2-8

cendosi ad alcune analogie della storia delle religioni (cfr.

permette di mostrare che solo rifa­

BERGER-COLPE [ 1 987] 59-6 1 ) si com­

prende, anche se in maniera sempre molto insufficiente, il possibile fondamento esperienziale dell'episodio raccontato. lo penso infatti che compito dell' esegeta sia quello di stabilire, per esem­ pio nel caso della trasfigurazione di Gesù, che cosa potrebbe stare alla base del racconto, cioè di ricostruire le stesse esperienze senza cadere in un piatto razionalismo. Occorre interrogarsi sui pre­ supposti che soli fecero apparire plausibile a lettori antichi un racconto come quello di

Mc 9,3.

Se

infatti facciamo come se una trasfigurazione sia la cosa più ovvia del mondo e come se essa non avesse bisogno di alcun commento, oppure come se essa fosse appunto uno dei molti 'miracoli' a noi non più accessibili, ambedue queste concezioni sarebbero sicuramente e in egual modo proble­ matiche. In questo caso ciò significa: la via di accesso va a) cercata attraverso la metaforica storica dell' immagine di Dio: nella sua qualità di Dio del cielo Jahvé

è essenzialmente sperimentato come

luce, cosa da cui deriva anche il discorso dello splendore della sua gloria. Chi appartiene a Jahvé partecipa a questa luce. Perciò il messaggero di Jahvé, che lo rappresenta direttamente in qualità di Figlio, può essere sperimentato nel suo splendore. Inoltre b) va evidentemente presupposta l' espe­ rienza - e qui sono di aiuto analogie della storia delle religioni, che partono dalla sola trasfigura­ zione del 'volto' - che vengono cambiati in modo particolare il volto e gli occhi (che rappresenta­ no soprattutto il volto) dell' estatico. Nel campo della tradizione giudeo-cristiana vediamo dagli occhi che gli estatici sono afferrati dalla 'presenza di Dio' . Questo co e storico-religioso, che

è un argomento fenomenologi­ è avallato da casi paralleli della storia delle religioni. Risultato: la trasfi­

gurazione di Gesù

è sperimentata come presenza della luce di Dio, da un lato (nella tradizione è in continuazione sperimentato così), e come trasformazione della sua espressione, dall' altro lato, trasformazione che qui - e questa è l' accentuazione particolare rispetto ai casi paral­

ebraica Dio

leli - non riguarda soltanto il volto, ma tutta la persona di Gesù. Questo non spiega l ' evento in se stesso, però precisa ciò in cui esso consiste e perché sia stato sperimentato proprio così.

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2. l' alternativa tra colpa personale o condizione universale (con opzione in favore di quest' ultima); 3. l' alternativa tra un Dio che ama o un Dio che castiga (con opzione in favore del primo) ; 4. l' alternativa tra predestinazione da parte di Dio o libertà umana (i Riformatori optarono spesso per la prima) ; 5. l' alternativa tra un Dio che è presente per tutti gli uomini e ama tutti o un Dio che ne ha eletti alcuni in modo particolare (Israele/chiesa). Proprio queste alternative hanno dato infinitamente da fare alla teologia sistematica e tormentano ancor oggi ogni studente di teologia. - Per ogni alternativa parziale è possibile addurre di volta in volta citazioni bibliche, e il tentativo di armonizzazione battendo vie intermedie è spesso fallito71 • Ma non potrebbe essere che i metodi della successiva sistematizzazione siano nel loro complesso e già come metodi inadeguati ai dati biblici? Non potreb­ be essere che ciò che per uomini antichi nel campo del giudaismo viene spe­ rimentato, per esempio, in modo processuale e successivo, sia escluso sol­ tanto sotto l' aspetto della contemporaneità, aspetto introdotto artificiosa­ mente da una successiva sistematizzazione? Un problema particolare nel caso delle menzionate alternative sta chiara­ mente nella teologia dell' onnipotenza, che da parte sua costituisce un peri­ colo di assorbire nella teologia un pensiero realmente storico72•

L'esegesi serve alla necessaria riflessione sull 'inizio Per la chiesa cristiana il richiamo alla Scrittura è d'una necessità vitale. Questo la distingue da una 'visuale' filosofica 'del mondo' . La chiesa cri­ stiana è infatti legata alla unicità, irripetibilità e insostituibilità di Gesù Cri­ sto, e l' orientamento a Gesù può essere verificato soltanto attraverso la Scrittura. Questo richiamo alla Scrittura può avvenire in modo 'ingenuo' mediante una relecture e viene effettuato in ogni nuova applicazione. - L' esegesi non può dimostrare la legittimità dei vari modi di applicazione. Il suo compito

71 Cfr. al riguardo l'excursus in O. Kuss ( 1 978) sulla problematica della 'predestinazione' (828935). 72 Se Dio è pensato come il semplicemente onnipotente e si comporta di conseguenza, non rima­ ne àlcuno spazio per la libertà dell' uomo. Ma è giusto parlare teologicamente di Dio sempre in modo tale da partire da lui come dall' «ens peifectissimum>>? L'esperienza asistematica dei testimo­ ni biblici non è diversa e in fondo più complessa? Cfr. al riguardo K. BERGER, Wie kann Gott Leid und Katastrophen zulassen ?, Stuttgart 1 996, 1 9982, ed. economica 1 999.

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consiste solo nel far parlare e nel far valere la Scrittura (anche e proprio nel­ la molteplicità delle sue teologie) di fronte a qualsiasi applicazione. Essa può fare questo criticamente e correggendo, senza però poter o dover di vol­ ta in volta dimostrare positivamente il buon diritto di un' applicazione, ma anche senza voler mai assumersi il compito di effettuare la stessa applica­ zione. È infatti in partenza chiaro che il senso storico della Scrittura non sarà mai identico (come vedremo) all' applicazione e al senso adesso valido per l' applicazione. Mai infatti una situazione sarà uguale all ' altra, e il 'senso' o 'significato' risulta sempre dal confronto tra testo (lettera) e situazione. Nella concezione qui esposta l' occasione o la motivazione dello sforzo per arrivare alla conoscenza è in più punti eticamente determinata. l . Si fa esegesi con l ' intenzione di rendere giustizia al testo di fronte all ' abuso che di esso viene fatto dall' autorità e dall' abitudine ecclesiale. A proposito di questo ethos, cfr. H. Thyen ( 1 983), 1 0: «A somiglianza di sua madre, l ' illuminismo, la critica storica cerca la verità come la cosa giusta e stabile, in quanto niente affatto per amore della maggior età, libertà, uguaglianza e frater­ nità già esistenti di tutti gli uomini, bensì solo per amore della maggior età, libertà, uguaglianza e fraternità ancora da stabilire di tutti gli uomini spodesta tutte le auto­ rità contrarie a tale fine e smaschera i loro sistemi ideologici di legittimazione per quel che essi sono: i pensieri dominanti come i pensieri dei dominanti. La coscienza critica deve continuamente rivedere il proprio essere oggettivatosi nella cultura esi­ stente in ordine al suo fine costituito dalla libertà e dalla giustizia per tutti...>>. - La critica storica rimanda così in quanto tale alla critica che la stessa rivelazione è.

2. Si vuole l' applicazione perché si desidera eliminare il bisogno concre­ to.

3. Si fa esegesi e applicazione richiamandosi all' inizio della chiesa in Gesù Cristo, al fine di stabilire una 'comunione' con lui. Questa estensione della comunione al di là del gruppo ecclesiale di volta in volta esistente equivale nello stesso tempo a perseguire la comunione con tutti coloro che similmente appartengono a questo Cristo. Anche indipendentemente dalla conoscenza teologica, lo sforzo per comprendere un qualsiasi testo estraneo è un contributo all' unità degli uomini e dell' umanità. Se perciò nel caso di questi sforzi per conoscere si tratta sempre in primo luogo di una convivenza tra gli uomini, questo spiega anche automatica­ mente i criteri più importanti (vedi più avanti) per l' applicazione: il criterio centrale dell' 'edificazione della comunità' , ad esempio, si riferisce alla sem­ plice esistenza di una comunità 'viva' di Cristo. E pure altri criteri derivano dall'esistenza del 'popolo di Dio' o della sua vita.

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L'applicazione come un 'impresa rischiosa Dal punto di vista dell' esegeta, dalla sua prospettiva limitata, la storia dell' applicazione della Scrittura è una storia di fraintendimenti. Se il teologo fosse solo esegeta dovrebbe continuamente dire: «così non va» ; «questo non corrisponde alla lettera» . Nessuna applicazione successiva può infatti corri­ spondere al senso letterale; la medesima parola, detta in una mutata situazio­ ne, significa sempre qualcosa di nuovo e di diverso, e già la prima applica­ zione da parte degli uditori al tempo del Nuovo Testamento fu, sotto il profi­ lo esegetico, un' impresa rischiosa. Che la medesima parola, ripetuta successivamente, non sia più la stessa cosa risulta in modo evidente proprio dalle affermazioni antigiudaiche del Nuovo Testamento. Una cosa è che Paolo parli dell' indurimento e della disobbedienza dei giudei non cristiani (Rom 9, 1 8 ; 1 0,2 1 ), e un' altra cosa è che noi ripetiamo oggi, come cristiani provenienti dal paganesimo e dopo una storia disgraziata, tali affermazioni. Una cosa è che parlino così mino­ ranze perseguitate, profondamente preoccupate per il loro popolo e piene di amore per esso (Rom 1 1 , 1 s.), e un' altra cosa è che a ripetere le stesse affer­ mazioni sia la chiesa esistente come vincitrice (e persecutrice) dopo Costan­ tino. - Ma appunto perché le cose stanno così, appunto per questa diversità di situazioni e di locutori pur nella identità delle parole, l' esegesi e l' appli­ cazione vanno distinte, e la ricostruzione del senso storico va, nei limiti del possibile e ovunque ciò è possibile, tenuta al riparo da influssi provenienti dalla situazione dell' applicazione. Se il senso storico è irripetibile, allora l ' applicazione è appunto un rischio. Chi ricorrendo al metodo storico-critico pensa di ovviare a questo rischio cerca false sicurezze. La precisione esegetica non dispensa dalla necessità di avvalersi di una fantasia concreta nell' applicazione. Però dobbiamo domandarci: qual è il ruolo dell' esegeta (dell' esegesi) in questo rischio, se a rigor di termini nessuna applicazione può 'soddisfare' l' esegesi? Con la separazione tra esegesi e applicazione non è infatti già risolta la questione del rapporto tra di loro esistente, bensì proprio solo così tale questione viene posta nel modo più chiaro.

L'esegesi evidenzia il rischio dell 'applicazione L' esegesi ha la funzione di rendere visibile il rischio dell' applicazione e di far apparire l' applicazione come un' opera umana relativa e provvisoria (contro il pericolo di scambiare l' interpretazione ecclesiale per la 'parola di

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Dio'). L' esegesi relativizza ogni applicazione. Essa non può mai dimostrare la giustezza o legittimità di un' applicazione, bensì evidenzia piuttosto - se effettuata come esegesi o come storia degli effetti (o anche come storia dell'interpretazione) - la differenza esistente tra il significato storico e ogni altro significato che compare nella cornice della storia successiva. Qui importante è naturalmente il grado della divaricazione, e un ruolo importan­ te svolge la lealtà verso il testo73•

Funzione critica dell 'esegesi nei confronti dell 'ideologia Fin dalle sue origini storiche l' esegesi non viene praticata per amore dell' esegesi, ma in un confronto critico con ciò che la chiesa ha via via «fat­ to della Scrittura» . Perciò il senso storico va posto accanto all' applicazione, affinché da questo confronto diventi visibile di che tipo è ciò che la chiesa ha aggiunto o cambiato. E qui nessuno contesterà che qualcosa dovette per forza di cose essere cambiato e aggiunto; però diventa visibile il modo del cambiamento, e questo è particolarmente importante per i casi seguenti: l . L' esegesi può richiamare l' attenzione sulla problematicità di una 'sem­ plice' trasposizione dal Nuovo Testamento nel presente; in questo modo essa evidenzia l' illusione di una fedeltà alla Bibbia, che con un cambiamen­ to pressoché nullo del testo biblico è presuntamente legata nell' applicazione. Ciò risulta particolarmente chiaro nei tentativi sempre ricorrenti di tra­ sporre senza discernimento a una condizione di chiesa di popolo affermazio­ ni neotestamentarie, che storicamente valevano per comunità minoritarie missionarie (e in parte perseguitate). Interessati da questo fatto sono: il valo­ re esperienziale del 'battesimo' , il valore dell' appartenenza al gruppo eccle­ siale in generale, meccanismi di delimitazione (indicazione di quelli che ' sono fuori' ) e soprattutto la chiamata missionaria alla conversione (la prima missione è qualcosa di diverso dalla seconda missione nella cornice di una esistente chiesa di popolo). 2. L' esegesi può richiamare l' attenzione sul fatto che un' applicazione va contro regole e punti di vista fondamentali diffusi nella Scrittura. In questo caso colui che effettua l ' applicazione deve impegnarsi molto di più nel dimostrarne la validità. L' esegesi può almeno costringere a fare questo. 3. L' esegesi può avere una funzione critica nei confronti dell' ideologia in

73 Uno scostamento notevole fa ogni volta diventare particolarmente acuta la questione di una applicazione critica e accurata dei criteri. - Uno scostamento è di per sé necessario e va spesso presentato senza commenti.

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quanto può contribuire a mostrare come l' 'opinione' di volta in volta 'domi­ nante' è l' opinione dei 'dominanti' . Naturalmente anche l' esegesi storico­ critica è diventata da lungo tempo - in ogni caso nei suoi metodi conserva­ tori - uno strumento sottile della regolazione ecclesiale, con conseguente resistenza contro 'nuovi ' metodi (particolarmente temuti sono i nuovi aspet­ ti inquietanti che ripullulano come teste di drago dietro gli aspetti inquietan­ ti addomesticati). - Ma se vale la regola che la ragione e gli argomenti (autocritici) non sono universalmente validi o non lo sono affatto, allora tut­ to ciò che è fondato in questo modo (e anche i metodi così fondati) possono in continuazione generare nuove funzioni ( ' sociali ' ) critiche nei confronti dell' ideologia. L' esegesi viene così senza dubbio effettuata con un"intenzione etica' . Inoltre l' esegeta, proprio perché dispone di un efficace strumento critico, può in caso di necessità essere più di altri obbligato a scendere in campo contro un' ideologia nemica della vita (per i criteri, cfr. più avanti).

Sul compito positivo dell 'esegesi per l 'applicazione Mentre fin qui stava in primo piano il ruolo critico e differenziante dell' esegesi (cosa che corrisponde anche alla successione storica), adesso dobbiamo accennare alle sue possibilità produttive evidenziate in modo par­ ticolare nel corso degli ultimi anni. La riacquisizione dell' estraneità del testo significa una riscoperta della sua ricchezza critica. Testi che «sembravano dire più niente» sono recuperati per l' applicazione. Pensiamo ad esempio alle 'parabole scandalose' e al pro­ blema ad esse collegato dell' «ingiustizia di Dio», al «demoniaco presente in Dio» secondo alcuni testi biblici, la qual cosa poté - dopo esser stata risco­ perta - fornire un contributo per la soluzione del problema del male e dell' esistenza del diavolo. La funzione dell ' esegesi per la teologia e per la prassi ecclesiale può essere sommariamente descritta così: l . Compito dell' esegesi è quello di dare criticamente la parola all ' inizio non sequestrabile del cristianesimo. A ciò corrisponde l' ethos della veridi­ cità senza compromessi da parte dell' esegeta. 2. L' esegesi è sinonimo di impegno esemplare nella comprensione della controparte e di comportamento dialogico, un impegno e un comportamento che non 'fanno violenza' al partner. Questo ethos è importante anche per la professione dei futuri parroci e pedagoghi. 3. L' esegesi è lo strumento adatto per illustrare criticamente l ' influsso storico esercitato dalla Scrittura in tutte le altre discipline teologiche.

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4. Compito dell ' esegesi è quello di relativizzare, mediante l' ostensione della problematicità di ogni applicazione, la polemica (in parte confessiona­ le )14 circa la giusta applicazione. 5. Compito dell'esegesi è quello di evidenziare la ricchezza della Scrittu­ ra contro ogni livellamento effettuato dall' uso e dal sequestro ecclesiale. Da quanto abbiamo detto risulta chiaro che la Scrittura, e non l ' esegesi, è il punto su cui la chiesa torna continuamente a riflettere. L' esegesi ha infatti una portata limitata: essa mette in luce la distanza che ci separa dalla Scrit­ tura, smaschera, dischiude di nuovo la ricchezza della Scrittura, senza però voler o poter fornire lei stessa un' applicazione. Se tutto va bene, tra l' esegesi e l' applicazione esiste una tensione perma­ nente. Chi effettua un' applicazione in base a questo presupposto, sa che la ricchezza del testo biblico75 supera la sua applicazione limitata. Egli sa che un fraintendimento del testo nell' applicazione può essere benissimo produt­ tivo e fruttuoso, e ha il coraggio di fraintendere il testo in modo così produt­ tivo. Egli sa infatti che il testo biblico non può pienamente valere per tutte le situazioni e che proprio anche l' audacia e la disponibilità al rischio di effet­ tuare un' applicazione libera possono essere una forma particolare di obbe­ dienza. Poiché non è possibile fare alcuno sconto all"onestà' dell' esegeta (in quanto esegeta), proprio per questo l' applicazione viene ad essere una faccenda della libertà umana76• Proprio anche la libertà, che risulta dalla ten­ sione tra esegesi e applicazione - cioè dalla loro pura coesistenza - ha una funzione importante per gli uomini viventi nella chiesa77• 74 L'esegesi non può fondare nella sua qualità di disciplina paniale l' unità della chiesa. Essa può solo relativizzare alla luce della Scrittura tutte le posizioni di tutte le confessioni, cosicché esse potrebbero imparare una cosa, e cioè che con il richiamo a citazioni bibliche non è possibile porta­ re avanti alcun dialogo ecumenico. 75 Con questo non penso all'eccedenza di senso nel significato di P. Ricoeur (cosicché soltanto tutte le interpretazioni prese insieme riprodurrebbero il senso del testo), bensì penso alla ricchezza di possibilità di aggancio e di aspetti che il significato storico del testo biblico offre. 76 Infatti se l'esegeta cerca di presentare il senso storico di un testo senza mischiarlo con ciò che nella situazione dell' applicazione sarebbe opportuno o piacerebbe ascoltare, e se in particolare egli non sgrava autori biblici da opinioni che adesso appaiono non moderne o non progressiste (per es., l Cor 1 4,34-36 come testo paolino!), allora la conseguenza per l' applicazione non è la trasposizio­ ne pura e semplice dell' opinione biblica come opinione valida nel presente, bensì corrisponde all' onestà dell'esegeta, da un lato, e alla libertà dell' applicazione, dall' altro lato. 77 L'esegesi storico-critica ha infatti anche a che fare con la curiosità, col semplice bisogno di informazione, che insorge in modo particolare perché molti uomini arrivano di continuo a pensare che la chiesa nasconda loro risultati scientifici importanti, ma per lei sfavorevoli. L'esegesi non ha ancora finito di svolgere il proprio compito, se e fintanto che degli uomini soffrono ancora a moti­ vo della nebulosità della loro fede (che è spesso anche fin dalla prima giovinezza una fede sempli­ cemente uniformata) e a motivo delle loro ansie. Già la stimolazione della semplice curiosità può avere un effetto liberante.

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CHE COS'È LA TEOLOGIA?

Definizione La teologia è una descrizione dell' esperienza religiosa e della prassi reli­ giosa. In quanto teologia scientifica essa è una · descrizione accurata della religione. D' importanza decisiva sono qui, come in ogni scienza, colui che fa questo e lo scopo per cui egli lo fa. Ma la teologia non è come azione (scientifica) identica con ciò che essa descrive. La teologia è qualcosa di diverso dall' esperienza e dalla prassi religiosa. È un altro modo di agire. Noi poniamo le seguenti domande : che significa 'descrizione ' ? qual è esattamente l' oggetto della descrizione? mediante che cosa e perché la teo­ logia è scienza? perché è importante colui che fa teologia e lo scopo per cui egli la fa? in che rapporto sta questo agire con la prassi religiosa? La teologia come descrizione

Descrivere significa rappresentare e riprodurre con l' aiuto della lingua. La teologia è un' azione esclusivamente linguistica. Descrivere significa ten­ tare di rendere giustizia a un oggetto affrontandolo dal maggior numero pos­ sibile di lati. Chi descrive cerca di vedere il proprio oggetto sotto molti aspetti. L' oggetto deve infatti diventare visibile così com'è. Tali aspetti non rimangono comunque l' uno accanto all' altro, perché la teologia scientifica cerca di dare una spiegazione coerente della menzionata e sperienza religiosa78• E la coerenza esige che la descrizione non sia superficiale, ma cerchi essenzialmente anche di indicare le cause e le implicazioni. La descrizione riguarda sia il passato che il presente. Infatti non solo la Bibbia o la storia della chiesa e la storia dei dogmi, bensì pure la prassi ecclesiale attuale può essere oggetto della teologia. L'oggetto della teologia non è però Dio. Essa porta questo nome perché parla dell' esperienza di Dio, ma non perché sia essa stessa esperienza di Dio. Il suo oggetto consiste perciò in affermazioni umane su Dio e nel com­ portamento umano verso Dio. Dio in quanto tale non è invece oggetto di una scienza79• 78 Qui notiamo - per quanto riguarda l'aspetto formale - una concordanza con la filosofia, cfr. M. FRANK ( 1 988), col. 3. Gli oggetti sono però diversi. 19 Su questo punto posso esser certo anche del consenso della teologia dialettica, nella misura in

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La descrizione non va scambiata con l ' astrazione o con la pura riflessio­ ne. La descrizione non va infatti subito alla ricerca del contenuto spirituale o ideale del proprio oggetto, ma guarda anzitutto alla sua manifestazione con­ creta e corporea. Essa si interessa perciò in primo luogo del fenomeno stori­ co individuale. La ricerca della coerenza, che viene contemporaneamente effettuata e che poi traccia anche le linee di collegamento con i contesti cir­ costanti, non fa violenza al singolo fenomeno. Se descrivere significa stabilire una connessione, allora la descrizione vuoi rendere qualcosa plausibile: essa vuole penetrare ciò che descrive, ren­ derlo comprensibile come un fenomeno unitario e vederlo nell' intreccio del­ le sue condizioni. Ma come scienza descrittiva la teologia non viene solo dopo, limitandosi a concedere a tutto il fattuale la benedizione della propria descrizione rispet­ tosa; la teologia come descrizione non significa che essa sia solo una presa di coscienza dell' esistente o una statistica, incapaci di fare delle proposte. Essa, come scienza descrittiva, può piuttosto presentare esempi ben riusciti e mal riusciti di prassi religiosa. Infatti proprio presentando fenomeni nel loro complesso, con le loro condizioni e i loro esiti (anche se essi sono solo ipotetici, perché le ipotesi fanno parte della scienza), la teologia opera nor­ mativamente. Se qualcosa riesca bene o riesca male è cosa che si può nega­ tivamente stabilire «dal numero dei morti», che un sistema lascia sul campo oltre la media che ci si poteva aspettare, e positivamente in base a tutti i fenomeni dello shalom ebraico. È anche possibile cercare di cogliere stati­ sticamente le due cose. Quel che la teologia non fa è però questo: essa non fornisce criteri come una predicatrice profetica. La teologia non è predica­ zione. Quel che essa descrive lo può anche dimostrare con il tipo di certezza usuale tra gli storici (può per esempio dimostrare che ci furono molti disce­ poli i quali credettero d' aver visto il Signore risorto). Quel che essa non può dimostrare non è neppure suo compito (per esempio la dimostrazione che colui che i discepoli a Pasqua ritennero di vedere era realmente il Signore corporalmente risuscitato). Più avanti ci domanderemo come una descrizio­ ne del genere sia possibile e se l' interesse per l' oggetto, necessario per tale descrizione, sia sinonimo di assenso della fede. Perciò, secondo la mia conce.;z:ione, la teologia non è U1l discorso com-

cui si tratta della non-oggettivabilità. Quel che segue vuoi anche essere un contributo alla discus­ sione tra H. Scholz e K. Barth, cfr. al riguardo H. ScHOLZ, Wie ist eine evangelische Theologie als Wissenschaft moglich ?, in G. SAUTER (ed.), Theologie als Wissenschaft. Aufsiitze und Thesen (ThB 43), MUnchen 1 97 1 , 22 1 -264.

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mosso e commovente, bensì un discorso che analizza spassionatamente e che pensa sino in fondo il proprio oggetto. Con questo non peroro affatto la causa dell' illusione di una teologia priva di un proprio punto di vista. Con la distinzione tra teologia e pietà (o in termini più ampi: tra teologia e religione praticata) intendo raggiungere solo questo scopo: bisogna scoprire e non coprire una tensione esistente tra la mia forma di religione e altre forme pre­ senti nel campo del cristianesimo, che come teologo descrivo. O qualora rifletta teologicamente sulla mia religione: vorrei imparare a vedere critica­ mente anche la mia religione e a prendere le distanze da essa (a vederla con gli occhi di altri). L' importante è permettere a tale tensione di esistere e non dissolverla apologeticamente in modo precipitoso. Infatti il dialogo con altre chiese, in particolare con quelle che incontro nel Nuovo Testamento, non è un dialogo reale, se non imparo perlomeno a pensare queste altre possibilità come possibilità esistenti anche per me. Accanto alla unilinearità dell' atto religioso (al sursum corda o all' ascolto del discorso di Dio) si collocano la riflessione teologica e l' acquisizione di una distanza critica nei confronti di me stesso e della mia convinzione. La teologia è all 'altezza del proprio oggetto ?

Possiamo domandarci: la teologia, in quanto scienza, può realmente cogliere l ' esperienza religiosa? Sotto le mani di una scienza descrittiva l'esperienza religiosa non diventa qualcosa di completamente diverso e di deformato? La religione non degenera necessariamente in una faccenda del­ la ragione, se viene descritta razionalmente? Le regole della descrizione: verifica rispettosa e approfondimento dell ' oggetto, suo lumeggiamento in base ai diversi contesti esistenti. Ma la ragione descrive anche di regola altrimenti realtà irrazionali e munita di autocritica - è assieme ali' amore l' intervento più rispettoso sulla realtà che noi conosciamo. Essa ha tuttavia un presupposto: vale universal­ mente oppure non vale affatto. Chi le pone dall ' esterno dei limiti non trovati da lei stessa, la distrugge completamente. La ragione critica80 è in grado di stabilire da sola dove cessa la sua com­ petenza e di riconoscere i propri confini81 • La critica delle proprie vie è una

La ragione critica non è semplice competenza, né è in quanto critica istituzionalizzabile. Non si può rimproverare sommariamente alla scienza moderna di non conoscere i confini di ciò che essa potrebbe conoscere. Solo di questo qui si tratta. Ogni scienza vive del fatto di dire ciò che essa non conosce. (Esistono numerosi scienziati, i quali non affrontano questa esigenza; tutta80 81

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faccenda che spetta a ogni scienza e non può essere dettata dalla fede nella rivelazione. Ciò vale per ogni scienza e quindi anche per la teologia. Perciò la teologia potrà dire qualcosa sull' immagine di Dio di Isaia, Ezechiele e Gesù, non però sugli attributi stessi di Dio. Come limite autoimpostosi dalla ragione questo non sarebbe naturalmente una regola atemporale. Il permanentemente misterioso è invece il punto di riferimento del com­ portamento religioso; il mistero in quanto tale non è oggetto della teologia. La teologia descrive le affermazioni fatte sul mistero, non lo stesso mistero. Perciò la nostra separazione tra teologia e fede non nega il mistero, bensì gli assegna solo il suo giusto posto. I mezzi con cui la teologia vuole descrivere e rappresentare l'esperienza religiosa non sono spesso di certo sufficientemente adeguati . Da un lato questo spinge a usare anche metodi nuovi. Dall' altro lato esistono sicura­ mente anche metodi diversi dai metodi scientifici per comprendere l' espe­ rienza religiosa; l ' unico vantaggio delle vie scientifiche sta nel fatto che esse sono praticabili intersoggettivamente. Il carente successo dei metodi scientifici non è sicuramente un motivo per indulgere, al loro posto, ai dog­ mi ecclesiali. Ogni cosa ha il suo tempo e il suo 'Sitz im Leben' . Risultato: la teologia come scienza dispone di metodi limitati ed è legata alla verificabilità intersoggettiva dei propri risultati. I suoi confini oggettivi affiorano al più tardi, appunto in base al criterio menzionato per ultimo, nel dialogo scientifico e non possono essere dettati dali' esterno.

Grazie a che cosa la teologia è scienza ? Dopo l' avvento delle scienze naturali alla fine del secolo xvm, i teologi dibattono in modo particolare (come già avevano fatto dopo l' avvento dell' aristotelismo nel secolo XIII) la questione del carattere scientifico della loro attività teologica. Modelli classici di soluzione, qui solo brevemente delineati, sono i seguenti: l. La risposta idealistica del secolo XIX: riduzione82•

via ciò è sempre una questione di qualità nel senso stretto dell'espressione). - Qualcosa di diverso e da accuratamente distinguere è la questione della responsabilità etica della ricerca scientifica. Pure qui si tratta di limiti, ma non di limiti della conoscenza, bensì di limiti dell'azione responsabi­ le. " La teologia è scienza, perché è - in modo simile alla filosofia - rappresentazione di un' idea. Tutto ciò che non si confà allo schema di questa idea è presentato come un suo rivestimento. Per­ ciò, ad esempio, questa teologia speculativa prescinde dalla fede della Bibbia nei miracoli. Conse­ guentemente questa impostazione si trova, ad esempio, in D. F. Strauss (idea del cristianesimo:

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2. La risposta teologica esistenzialista di R. Bultmann: continuità e rottu­

ras3. 3. La risposta teologica dialettica di K. Barth: la teologia come tipo auto­ nomo di scienza84• Problematico in questa concezione della teologia appare il fatto che già il metodo è plausibile solo per il credente e che esso contra­ sta con ogni sua trasmissione argomentativa. Già l' ammissione della teolo­ gia come facoltà all' università significò, in base a queste premesse, una decisione in favore della sua pretesa incontrollabile. Potremmo infatti natu­ ralmente dire: l ' intersoggettività ha ora, secondo K. Barth, un' altra base di appoggio, la rivelazione. 4. La concezione storico-fenomenologica, sostenuta anche qui: la teologia è scienza precisamente a differenza della fede. Essa adopera metodi storico­ fenomenologici come fanno anche altre scienze dello spirito e scienze socia­ li. Questi metodi e il loro uso implicano sì determinate predecisioni (vedi più avanti), che però non si collocano sul piano della fede o della mancanza di fede. Tutto quel che la teologia dice come scienza deve risultare dimo­ strabile in base al fenomeno da essa descritto. Tuttavia specialmente la storia delle scienze (naturali) del secolo xx mostra una cosa: con i loro metodi le scienze si collocano già in determinati contesti, nei quali la cosa importante è sapere chi adopera tali metodi e per quale scopo li adopera. Ciò vale in misura particolare anche per la teologia, e qui essa assume il suo proprio carattere.

Chi fa teologia e a quale scopo la fa ? La teologia è qualcosa di diverso dalla scienza della religione. Ciò va ribadito con forza proprio a proposito di quei molti casi in cui i metodi scientifici delle due discipline non si distinguono. Quel che però un agire 'è' non si decide in base ai suoi metodi o in base a singoli punti di vista isolati, bensì in base alla sua funzione nel più grande contesto della realtà circostan-

l' incarnazione di Dio nell'umanità). Parlo di 'riduzione' , perché tutto ciò che è al di fuori dell' idea viene respinto come zavorra storicamente condizionata. " La continuità con l' antropologia filosofica moderna consiste nel fatto che questa fornisce i concetti scientificamente affidabili. La rottura consiste nel fatto che le molteplici possibilità di autenticità, fomite dall' antropologia, sono ridotte nella teologia a una sola (la fede). Perciò alla fine la scienza moderna rimane solo nell' anticamera. Cfr. al riguardo K. BERGER ( 1 986), 1 35- 1 4 1 . 84 La teologia cerca in modo particolare la verità e la comunica anche (cfr. al riguardo K. BARTH, KD 11 1 , 6s.): nessun concetto di scienza proveniente dall'esterno può danneggiare la teologia. Piut­ tosto la rivelazione fa della teologia un tipo autonomo di scienza.

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te. Nessuna scienza viene coltivata per pura necessità, e ognuna è collegata a determinati interessi pratici (siano essi morali o pedagogici o dettati da interessi vitali di determinati gruppi). - La storia delle facoltà teologiche dell'Europa occidentale mostra che ognuna di esse deve se stessa, ora in un modo ora nell' altro, al gioco delle forze tra stato e chiesa, per esempio al fatto che lo stato aveva mostrato un interesse anche per una certa istruzione dei membri della gerarchia ecclesiale85• A differenza della scienza della reli­ gione la teologia coltivata in modo scientifico dipende perciò anche in ogni caso, come facoltà universitaria, dal fenomeno chiesa. La teologia non si distingue perciò dalla scienza della religione e da altre scienze umane per i suoi metodi, bensì per la sua funzione 'sociale' e quindi anche per la sua realtà socialmente descrivibile. La teologia è infatti un atto della riflessione della chiesa su se stessa. E questo vale per i teologi operanti al di fuori dell' università così come per quelli operanti all' interno dell' uni­ versità. E se, come abbiamo detto, lo stato ha un particolare interesse per tale riflessione, occorre anche che questa avvenga proprio nelle università. La teologia è un atto di riflessione della chiesa su se stessa. I metodi con cui tale atto è compiuto non sono specificamente teologici, e i loro risultati devono essere comunicabili. L' elemento specificamente teologico è piutto­ sto la funzione di questo atto in ordine alla chiesa. Tuttavia voler praticare la teologia come scienza non significa (a motivo di un atteggiamento critico di fondo) che i suoi risultati devono essere 'utili' per la chiesa nel senso superficiale del termine o che essi possano essere controllati. Dal punto di vista della chiesa la teologia scientifica si presenta perciò spesso come un azzardo. La chiesa, se desidera o permette la teolo­ gia, si prepara con ciò ad essere messa a confronto con ciò che è dimostrabi­ le e a dover 'vivere' con ciò che viene così messo in luce. E dall' altra parte questa concezione significa: la teologia diventa priva di senso se non vuole più raggiungere nulla in relazione al fenomeno chiesa, se perde di vista questa realtà86• Tuttavia la scienza vuole 'aiutare' a modo suo la chiesa e vuole farlo a modo proprio. E ogni chiesa farebbe bene a permet­ tersi questa libertà. Ci vuole una grande tranquillità per non esigere che dap85 È pensabile che un giorno in Europa uno stato possa essere interessato a far formare anche ministri religiosi islamici in facoltà teologiche. Allora la stessa comunità religiosa interessata potrebbe mettere in atto qualcosa di simile alla teologia scientifica del cristianesimo. E a questa 'attuazione' potrebbero essere interessate anche chiese cristiane. "" Secondo K. BARTH, Der Romerbrief, Ziirich 1 922', XI (Prefazione), l'interpretazione è cosa che riguarda il «futuro ecclesiale degli studenti>>, e pure secondo altre affermazioni la teologia è per luf una funzione della chiesa. La differenza rispetto al nostro programma sta nel fatto che K. Barth non distingue tra esegesi e applicazione.

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pertutto si 'predichi' ; ci vuole una grande schiettezza per 'fare' teologia scientifica. Infatti la predicazione non è l' unica cosa che la chiesa deve fare. Essa ha piuttosto bisogno dell' atto della riflessione descrittiva e penetrante su se stessa, atto liberato dai bisogni attuali della predicazione. La cosa deci­ siva è questa: la chiesa può concedersi la libertà di riflettere illimitatamente e scientificamente su se stessa? si sente sufficientemente forte per permet­ terlo? Questo atto libero della riflessione su se stessa87 è in parte effettuato in una unione personale in seno alla chiesa (membri della gerarchia sono nello stesso tempo teologi), in parte in rappresentanza per lei (per es., da teologi universitari o da persone cui la chiesa ha demandato il compito della ricer­ ca) . In altre parole: non dappertutto la chiesa deve compiere lei stessa in modo esclusivo tutte le proprie funzioni. D' altro canto non sarebbe neppure una . cosa buona se soltanto altri si assumessero questo compito dell' autori­ flessione, di fare teologia, e dispensassero così la chiesa dal farlo (cosa che purtroppo avviene invece in modo sempre più frequente) . È infatti essen­ zialmente un compito suo quello di rendersi trasparente. È pertanto chiaro che la teologia vuole stare in rapporto con la chiesa, ma a modo suo. Essa denomina quindi la sua realtà, fa proprie le sue domande, la pone criticamente a confronto con essa, con i suoi inizi e con la sua storia, forma i suoi parroci e i suoi insegnanti di religione e aiuta molti suoi mem­ bri ad informarsi, il tutto sempre a proprio modo. - In altri termini: il lavoro della teologia scientifica svolto in modo distaccato (sotto vari aspetti nei confronti della chiesa) può tuttavia portare per la chiesa almeno il frutto di teologi critici (se e nella misura in cui essa è realmente interessata a tale frutto). Questo significa: ciò che rende la teologia scienza sono i suoi metodi; ciò che la rende teologia, e precisamente a differenza della scienza della religio­ ne, è il suo orientamento alla chiesa. La teologia è infatti un atto libero di riflessione della chiesa su se stessa. E viceversa possiamo dire: dove viene a mancare questo aspetto sociale, foss' anche solo nella sua finalità critica, lì ciò che i teologi fanno è solo una specie di antropologia e serve, per esem­ pio, all' interesse di gruppi che vedono appunto il proprio scopo nel com­ prendere in maniera completa l' uomo, per permettergli di divenire un buon cittadino o un buon cosmopolita. Non ha perciò alcun senso formulare delle affermazioni univers ali "' 'Libero' significa: a) senza riguardo al fatto che il risultato sia gradito o meno alla chiesa; b) con distacco critico. Per 'riflessione su di sé' non intendo l' autoriflessione, ma il retroriferimento alle proprie fondamenta.

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sull"essenza' della 'teologia' , senza vedere concretamente quale servizio essa svolge e di quale libertà essa ha bisogno per questo. Perciò l' orienta­ mento alla chiesa visibile rimarrà un elemento importante di questa erme­ neutica.

La ricerca teologica in che rapporto sta con la prassi religiosa ? Questa domanda riguarda un settore centrale della discussione ermeneuti­ ca, settore che a questo punto non viene ancora del tutto chiarito. Qui cer­ chiamo solo di indicarlo a grandi linee. La prassi teologica e quella religiosa spesso non sono suddivise tra uomi­ ni diversi, bensì la stessa persona può, ad esempio, studiare come teologo il significato e il valore del Padre nostro e subito dopo recitarlo con devozione assieme ad altri in un atto liturgico. Ciò è possibile perché gli uomini non sono unidimensionali, ma mostrano di essere capaci di agire su diversi piani. La questione di sapere come, ad esempio in questo caso, i diversi piani di azione stanno in rapporto fra di loro, è ermeneuticamente importante88• Qua­ li possibilità offre una relazione del genere? Tali possibilità non possono essere stabilite a priori, ma vanno desunte da un' analisi critica di casi esami­ nabili. Così non è possibile stabilire in partenza un' identità dei due settori di azione (ad esempio a motivo della coerenza della fede). Per 'fede ' o per 'fede religiosa' intendiamo nelle pagine che seguono un' esperienza religiosa concreta, non però come un complesso di afferma­ zioni e dogmi sistematici, a proposito dei quali ci si interroga tutt'al più sul­ la loro applicabilità. Dall' altra parte la sistematica teologica e i dogmi non stanno affatto in un rapporto concorrenziale con le problematiche sperimen­ tate in modo personale, sociale e storico89• La teologia è chiaramente qualcosa di di verso dali' atto religioso della fede. La fede non si esaurisce infatti - malgrado una serie di atti cognitivi ­ in una descrizione della realtà. Essa è piuttosto un progetto ardito, dotato di senso e completo90, il quale - pur potendo essere fatto oggetto di analisi e di " A questo punto si riferisce la discussione tradizionale sulla precomprensione e sui limiti sog­ gettivi come possibilità della conoscenza. " Religione/fede religiosa sono nelle pagine che seguono intese come interpretazione, approfon­ dimento e trasformazione di esperienze, che riguardano le fondamenta dell'esistenza individuale, sociale e storica dell'uomo e che, in quanto esperienze religiose, costituiscono soprattutto l' intrin­ seca coesione di tale esistenza. L' agire religioso è qui il tentativo dell'uomo di percorrere attiva­ mente la via che l'ha condotto alla conoscenza del senso fondante l' unità. '"' Su pretese simili della filosofia moderna, cfr. M. FRANK ( 1 988), col. 4 (esperienze interpretate coerentemente).

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critica - abbraccia qualcosa di più di ciò che può essere dimostrato, abbrac­ cia cioè ad esempio l ' azione. Invece, secondo la nostra definizione, la ragio­ ne scientifica non può essere nella teologia diversa da quello che essa è anche altrimenti nella scienza modema91• A questo punto insorge una serie di domande classiche, che riguardano il rapporto tra la decisione di credere e la teologia come scienza. La più importante di esse è quella che si chiede se le affermazioni teologiche pos­ sono essere fatte in modo adeguato solo da colui che si sa personalmente obbligato a credere. La conoscenza del circolo ermeneutico nella filosofia si ripercuote nella teologia come circolo della fede?

9'

Con E. HERMS

cher (cfr. E. HERMS,

( 1 978) io vedo la teologia come una scienza dell' esperienza, con Schleienna­ op. cit. , 72) la vedo come una scienza positiva, che si occupa del settore eccle­

siale della prassi sociale (sulla base del mondo sperimentabile del cristianesimo del momento). Tuttavia a differenza di E. Henns non riesco a vedere la teologia soprattutto come teologia pratica («scienza professionale>>).

III.

SULLA PRASSI DELL'APPLICAZIONE

l. Fondazione sistematica

Un' ermeneutica neotestamentaria ha, da un lato, aspetti pratici, mentre contiene, dali' altro lato, almeno a partire dalla questione dei criteri, giudizi teologici. Nell' affrontare quindi la questione dell' interpretazione e applica­ zione della Scrittura dobbiamo domandarci che cosa tale Scrittura significa per la chiesa (che è infatti l' orizzonte dell' applicazione) e, inoltre, se da questo significato risultino già delle indicazioni per l' applicazione. Noi cerchiamo perciò di chiarire noti topoi dogmatici sulla Scrittura e di valutare in modo sistematico, a partire da qui, il processo ermeneutico stes­ so.

LA SCRITIURA COME PAROLA DI DIO ISPIRATA

È opportuno partire dai pochissimi passi del Nuovo Testamento, secondo i quali le cose udite sono realmente la parola stessa di Dio. Gesù ode Dio dire : «Tu sei il mio Figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Mc l , l l s.). Inoltre Dio dice in modo del tutto simile: «Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo» (Mc 9,7). Nel passo corrispondente di Gv 1 2,28 Dio dice: «L' ho glorificato e di nuovo lo glorificherò». Infine Dio dice: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose ... Scrivi, perché queste parole sono certe e vera­ ci . . . Io sono l' Alfa e l' Omega, il Principio e la Fine. A colui che ha sete darò gratuitamente acqua della fonte della vita» (Ap 2 1 ,5-6). Importante è in ogni caso il fatto che in tutti e quattro i vangeli e nell' Apocalisse di Giovanni le parole e le situazioni assolutamente impor-

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terza parte

tanti sono caratterizzate come parola diretta di Dio. Il problema non è qui quello di sapere se possiamo condividere una cosa del genere. L' importante è sapere che una cosa del genere fu ritenuta possibile e che si percepirono gli eventi così. Il fatto che il Nuovo Testamento stesso conosca, accanto a parole di Gesù e degli apostoli e da esse distinte, anche parole dirette di Dio è utile nell' argomentazione contro ogni fondamentalismo. 'Parola di Dio' in senso stretto sono appunto soltanto le parole menzionate. Tutto il resto che noi non la Bibbia - abbiamo successivamente così chiamato è 'parola di Dio' in un senso tutt' al più metaforico. Qui prescindiamo da esternazioni verbali di Dio o dello Spirito Santo (come quelle di At 1 3 ,2 ; Ap 14, 1 3b) riportate nella cornice di racconti, quindi dalla voce raccontata di Dio, perché in tal caso la parola di Dio è solo udibile, ma non è riferita alla Scrittura, e cerchiamo per­ tanto solo di stabilire in quale senso traslato possiamo adesso parlare della Scrittura come parola di Dio. Ripetutamente la Scrittura (per i primi cristiani l' Antico Testamento) è citata come parola diretta di Dio. Secondo Mc 1 , 1 Dio dice al proprio Figlio (Gesù) : «Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te». In modo simile anche per Eb la Scrittura è parola diretta di Dio per il presente. La formula «Così dice il Signore» introduce nell ' Antico Testamento, sot­ to forma di cosiddetta formula dei messaggeri, le sentenze dei profeti. Ana­ loghe sono formulazioni come la seguente: «Ecco, ti metto le mie parole sulla bocca» (Ger 1 ,9). Le più antiche tracce della formazione del canone veterotestamentario ricorrono sotto la formulazione «Mosè e i profeti». Pure Mosè è considerato un profeta (Dt 1 8 , 1 5), e precisamente in modo qualificato. Data la concezio­ ne della parola profetica, pure la Scrittura acquista il carattere di parola su mandato di Dio. Nel Nuovo Testamento le lettere degli apostoli sono fatte risalire a Dio come al loro vero mittente mediante la formula introduttiva: «Grazia e pace a voi da Dio Padre». L'apostolo, promettendo grazia e pace in nome di Dio, fa di Dio il proprio mandante. L' apostolo concepisce senza dubbio la parola della propria predicazione come una parola autorizzata. Le analogie tra let­ tere degli apostoli e discorso profetico come pure lettere di profeti sono state spesso evidenziate. Io penso quindi che la risposta alla domanda se la Bibbia sia parola di Dio dipenda dalla valutazione e dal riconoscimento della potestà della paro­ la dei profeti 'storici' e del Gesù 'storico' , nonché degli apostoli. Questo significa: la questione di cui ci occupiamo dipende dalla legitti­ mità degli autori biblici e non può essere risolta in modo astratto in base alla

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semplice parola. La semplice parola della Scrittura va chiarita e spiegata esclusivamente in modo filologico e storico. Ma per questa via storico-filo­ logica non è possibile dimostrare che essa è divina, per cui non possiamo che respingere una 'philologia sacra ' . Ciò vale anche per la storia della reli­ gione. Chi intendesse dimostrare attraverso un confronto storico-religioso l' assolutezza del cristianesimo - qui nel senso di una sua vicinanza diretta a Dio -, imboccherebbe una strada sbagliata. Diversa è la questione di sapere chi parla o scrive per chi e in nome di chi ciò avviene. In questo modo possiamo stabilire una prima tesi : essere parola di Dio non è una qualità del semplice testo. La parola di un profeta biblico non è come tale ispirata, bensì ispirato è (semmai) colui che la pronuncia. Se infatti Gesù è il Cristo e il Figlio dell'uomo, se Isaia è un profeta chia­ mato da Dio e Paolo un apostolo chiamato da Dio, allora le loro parole sono vincolanti per coloro che vogliono avere qualcosa a che fare con questo Dio. Questo significa allora che è la chiesa a stabilire che cosa è parola di Dio? Certamente no. Però la chiesa (e un gruppo all ' interno di essa) dovette rico­ noscere in Paolo e mediante Paolo l' azione di Dio, affinché la vocazione di Paolo potesse divenire storicamente efficace. Naturalmente viene da domandarsi: chi legittima la chiesa? Di solito si risponde a questa domanda chiamando in causa lo Spirito Santo. Sarebbe appunto l' azione dello Spirito Santo a garantire che tutto si sia così svolto nel modo giusto, per esempio che Paolo sia stato riconosciuto e abbia intro­ dotto il vangelo pagano-cristiano. Esiste tra i teologi una diffusa tendenza ad ascrivere allo Spirito Santo le cose più difficili, che non si possono dimostrare bene e che hanno qualcosa a che fare con la conoscenza e con la comprensione. La conseguenza è la nota sottoesposizione del terzo articolo e l' altrettanto noto svuotamento del­ la festa di Pentecoste. Particolare interessante, mancano quasi completamente le prove bibliche in favore di questa concezione. Infatti secondo il Nuovo Testamento lo Spi­ rito Santo fa sì saltare i confini, per esempio nella questione della missione tra i pagani. E il Paraclito del vangelo di Giovanni ricorda tutte le parole di Gesù (Gv 1 4,26) . Ma che, ad esempio, sia stato lo Spirito di Dio a provoca­ re l ' adesione a Paolo, non è chiaramente la concezione del Nuovo Testa­ mento. Il cristianesimo di Paolo per i pagani senza l'obbligo della circoncisione è nuovo e propriamente non legittimato da nulla. Possiamo perciò domandarci che cosa ne sarebbe stato di Paolo e del suo cristianesimo, se non ci fosse stato il concilio degli apostoli. In quel concilio fu riconosciuta l ' azione di Dio in Paolo e mediante Paolo. La parola di Paolo è perciò la parola di un

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apostolo legittimo, e le sue parole possono stare nel canone accanto alle parole di Gesù. Durante la vita di Paolo questo era però chiaramente controverso e, se il nostro modo di leggere i testi giudeocristiani della chiesa primitiva è giusto, tale rimase per lungo tempo anche dopo. Paolo, quando si richiama ai segni del vero apostolo, sa benissimo quanto debole sia il suo argomento (2 Cor 1 2, 1 2). La sua legittimità, per divenire storicamente efficace, ebbe bisogno dell' assenso di altri apostoli e discepoli importanti della chiesa. Ora però 2 Tm 3 , 1 6 afferma che i passi della Scrittura sono «ispirati dallo Spirito di Dio». Tutte le analogie (per es., Ger 36,4), anche quelle relative alla parola 'ispirata da Dio' (per es., nel poema didascalico dello Pseudo­ Focilide V, 1 29: «La parola della sapienza ispirata da Dio è la migliore») permettono di riconoscere che si tratta dell' idea di autori ispirati (come Eb 3,7; 9,8). Ma che cosa dobbiamo pensare, quando Gesù dice: «Non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi» (Mt 1 0,20)? Mentre l'ebreo ellenista Filone di Alessandria pensa che l'intelletto umano 'tramonti' (come il sole tramonta nel tardo meriggio), allorché lo Spirito di Dio entra in azione (in modo simile anche nella mantica antica, per es. nella Pizia di Delfo ), Paolo la pensa in modo chiaramente diverso: secondo l Cor 14, 1 4 l ' intelletto dell' uomo non viene messo fuori causa, allorché lo Spirito di Dio prega «con il dono delle lingue» ; solo che esso non ne trae vantaggio. Qui dobbiamo distinguere: lo Spirito concede, secondo Paolo, doni diver­ si, alcuni in lingua umana (profezie, preghiere, insegnamenti ecc.) e alcuni nella lingua degli angeli ( 'lingue' , anche il pregare in lingue), che compren­ diamo solo con l' aiuto di interpreti. La parola dell' apostolo fa parte del pri­ mo gruppo (cfr. l Cor 7 ,40b ). Come la parola dei cristiani davanti al tribu­ nale essa è un discorso umano: ma fino a che punto Paolo ci tiene a che que­ sto discorso sia opera dello Spirito? Nel caso degli uomini davanti al tribu­ nale non c'è infatti una determinata esperienza a ciò congiunta? Qui dobbiamo richiamare un' importante categoria, che vale sia per la situazione davanti al tribunale sia per la preghiera davanti a Dio: la fran­ chezza (greco: parrhesia). Sicuramente si tratta qui di un' importante espe­ rienza: mancanza di paura, eliminazione delle barriere tra l'umile condizio­ ne del locutore e l'elevata posizione del destinatario del suo discorso. Qui come anche altrove lo Spirito elimina i confini. Ma la forma delle parole non cambia. Questo significa qualcosa per 2 Tm 3 , 1 6 e per passi affini? Io suppongo che significhi questo: tra Dio e la Scrittura non esiste alcuna differenza di rango quanto all ' autorità del locutore, nessuna separazione. Esattamente

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come Gesù, secondo il vangelo di Giovanni, non fu mai separato da Dio e mai lo sarà. Pure l' autore dell' Apocalisse di Giovanni si considera un profeta. Proprio la discussione attorno a questo libro ha mostrato che qui non è possibile contrapporre la tradizione della dotta conoscenza della Scrittura e la cono­ scenza apocalittica del mondo ali' esperienza visionaria. Da un lato consta­ tiamo infatti numerose allusioni alla Scrittura, che fanno pensare a un dotto lavoro effettuato a tavolino, e la stessa cosa possiamo dire dei molti riferi­ menti alla tradizione apocalittica (per es. a libri sibillini). D' altro canto però sarebbe cosa del tutto stolta negare il carattere visionario dell'esperienza del profeta Giovanni . Si tratta di una rivelazione visionaria, che gli è stata mostrata da un angelo e in ultima istanza da Gesù (Ap 1 , 1 s.), e nello stesso tempo tutto ciò è molto dotto. Questo non sarebbe un esempio concreto particolare e di conseguenza un modello per rappresentazioni dell ' ispirazione anche altrove? Qui non si trat­ ta solo di un compito e di una missione, ma di un dono. Ciò che è formulato con mezzi umani e con diligenza umana è peraltro considerato come un dono che è stato concesso al veggente. Ciò vale anche per l ' ispirazione davanti al tribunale, che Mc 1 3 , 1 1 (cfr. Le 1 2 1 2) formula così: «Non siete voi a parlare, ma lo Spirito Santo». Pure qui è evidente il carattere di dono. L' autore 'nota' che gli è dato e donato qualcosa, che la verità gli si svela? Verosimilmente bisognerà rispondere a questa domanda con un sì limitato: sì, un autore ispirato sa che quanto egli scrive va molto al di là di ciò che egli potrebbe desiderare, costruire ( 'proiettare ' ) e anche molto al di là di ciò di cui potrebbe assumersi la responsabilità: egli sperimenta la verità come qualcosa che gli si disvela. Egli si vede posto davanti a qualcosa di sempli­ cemente dato, davanti a qualcosa che gli viene donato. Quando la chiesa dice che è l' 'apostolicità' a costituire il canone neotestamentario, forse pos­ siamo intendere questo concetto nel senso di quanto abbiamo sopra esposto. Un ap6stolos è infatti un inviato, che non escogita lui stesso quanto dice. Ma come si arrivò a riconoscere Paolo come legittimo e i suoi avversari come non legittimi? Si tratta del problema degli eretici, che qui va discusso nel contesto della formazione del canone. Verrebbe addirittura voglia di sup­ porre a questo punto un canone nel canone, un centro della Scrittura o un Credo primitivo come criterio, mediante il quale Paolo avrebbe potuto dimostrare di essere legittimo. Paolo dice in Ga/ 2,9: «Essi riconobbero la grazia a me conferita». Si trat­ ta perciò di conoscere e di riconoscere, di percepire e di approvare. La 'gra­ zia' conferita a Paolo - in altre parole: ciò che Paolo faceva e diceva - era da Dio. Come lo sappiamo? Forse possiamo dire così: nell' agire di Paolo si ,

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riconoscono presentimenti, esperienze, ricordi, il modo di vivere con il Dio dei padri. E a riconoscerlo sono precisamente uomini che sono a loro volta riconosciuti e credibili sotto questo aspetto. I ricordi si riferiscono sicura­ mente anche al modo in cui allora si leggeva la Scrittura (l' Antico Testa­ mento) e si lodava Dio in inni. Nel caso di Paolo si aggiunge soprattutto questo: l' esistenza di comunità vive, che gioiscono della loro fede, è anche una conferma della sua legittimità. Il riconoscimento (di Dio), la liberazione nel nome di Gesù e la gioia sarebbero perciò esperienze indubbiamente intramondane, che poterono ser­ vire da criteri per la legittimità di altri apostoli e di potenziali autori di un canone cristiano (cosa che nel secolo 1 era ancora anacronistica). Per il resto possiamo dire: le madri e i padri della chiesa ebbero verso il 200 d.C. motivi concreti per la scelta del canone. Tali motivi possiamo ancora oggi condivi­ derli quasi tutti e quindi difenderli argomentativamente. A mio giudizio non ha senso partire, anziché di qui, dal criterio formale della visione di Cristo e dire: chi ha una visione di Cristo è un apostolo legittimo. Molti ebbero visioni del genere e non furono tuttavia apostoli.

Modelli di rappresentazione Se vogliamo conservare l' espressione 'parola di Dio' o 'ispirazione' dob­ biamo poter dire come una simile affermazione sia immaginabile e fondabi­ le. Dobbiamo esaminare vari modelli: sicuramente non può qui trattarsi di una contrapposizione tra Dio e l ' uomo, perché il fatto che la Bibbia sia anche parola umana dovrebbe essere indubitabile. Una cosa non esclude l' altra. In questo modo cade anche il modello del Corano. Parliamo di coranizza­ zione della B ibbia qualora essa sia considerata addirittura come manifesta­ zione fisica propria di Dio e come libro celeste, che si sottrarrebbe a ogni presa, anche alla traduzione. Il testo sarebbe considerato in quanto tale come 'la rivelazione' . E tuttavia: il canone è 'anche' una raccolta fatta da uomini. La Scrittura rispecchia l' unica reale rivelazione in Gesù Cristo? Secondo il vangelo di Giovanni la vera rivelazione risiede nella persona stessa di Gesù, e tutto il resto, le sue parole e le sue azioni, sarebbero da essa dedotte. In Gesù abita la parola creatrice di Dio, e ciò va concepito come una super­ ispirazione. Le sue parole non sono altro che un discorso su se stesso. Gesù stesso ha predicato parole con potestà, come mostrano i suoi miracoli (che già per questo motivo fanno parte della sostanza del vangelo di Giovanni). Qui si tratta della presenza sperimentabile della parola creatrice di Dio nella

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persona di Gesù. Il vangelo è solo un ricordo di questo fatto (grazie al Para­ dito: Gv 14,26). Così però l'ispirazione va spiegata sullo sfondo della 'mis­ sione ' . Qui, come altrove nel Nuovo Testamento , non si tratta tanto dell' ispirazione come evento psichico, quanto piuttosto di una questione di autorità e di legittimazione. Ma non esiste l ' evento speciale e distinguibile dell' ispirazione? Paolo non ne parla quando parla della profezia? Egli sottolinea comunque il fatto che l' intelletto dell'uomo non viene messo qui tra parentesi, perché si tratta di linguaggio umano secondo le regole della grammatica (l Cor 14, 1 4- 1 9). E anche il Gesù giovanneo non va pensato secondo il modello della missio­ ne dei profeti, anche se in modo radicalizzato e incentrato sull 'unica parola creatrice? Tuttavia anche in questi casi l'ispirazione dipende dall' autorità e dali' autorizzazione. Risultato: le rappresentazioni dell' ispirazione, nella misura in cui sono importanti per la comprensione della Scrittura, dicono qualcosa sulla que­ stione dell' autorità, sul carattere della parola da non separare dalla maestà di Dio. Si tratta perciò di un caso simile a quello della missione.

Parola di testimoni La parola di Dio non può essere individuata sottraendola dal complesso delle parole umane. La parola di Dio, per quanto riguarda il Nuovo Testa­ mento, è la parola di testimoni, la cui testimonianza, il cui martirio (di rego­ la), la cui personalità e predicazione, la cui attività, il cui legame con Gesù e la cui importanza spirituale-liturgica poterono essere ampiamente accettati. Non possiamo dimostrare che si tratta di parola di Dio in base a singole parole, bensì solo in base ai suoi portatori e alla sua funzione. Questa fun­ zione ha qualcosa a che fare con il 'canone' dei due Testamenti. La sua fun­ zione consiste nel fatto di rendere possibile l' accesso ai padri e ai profeti del popolo di Dio Israele e a Gesù. Il canone dell' Antico Testamento la chiesa l 'ha semplicemente preso dal giudaismo sia nella sua versione ebraica sia nella versione greca dei LXX. Questo è - all' inizio del secolo n ! - un even­ to importante e significativo. Qui non si tratta di un qualsiasi accesso storico, bensì la Scrittura immette nel rapporto di questi testimoni con Dio. Questo accesso storico è d' impor­ tanza vitale per la chiesa, perché esso dice a chiare lettere che l' inizio non è sequestrabile.

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Testimonianza dell 'inizio

In questo inizio non sequestrabile cristiani e ebrei vedono la parola di Dio. I testimoni, che si esprimono nella Scrittura, vanno perciò di continuo ascoltati, perché questa immagine di Dio comporta che l' inizio e la fine sia­ no fasi speciali della rivelazione. All' inizio la rivelazione 'irrompe' contro tutto l' abituale. Alla fine tutto diventa 'visibile' in corrispondenza a tutto il nascosto. L'entità 'canone' testimonia incessantemente l' inizio ed è alla fine l' entità, grazie alla quale è possibile mostrare l' adempimento della promessa di Dio. Per questo la Scrittura è importante. La parola di Dio si contrappone perciò soltanto sotto pochi aspetti alla parola umana. Essa non è vana, 'rimane' ed è per noi reperibile soltanto negli inizi storici. Per il resto però anch' essa è sempre e solo accessibile come parola umana. Dove troviamo la parola di Dio ?

Troviamo la parola di Dio nelle esperienze mistiche dei profeti veterote­ stamentari e della persona inafferrabile di Gesù Cristo. Essa è testimoniata nel canone. Quindi possiamo domandarci : essa è realmente reperibile nella Scrittura o non piuttosto in continuazione nella confessione della chiesa, che vive della comunione con i profeti e con Gesù? Qui di seguito chiameremo questo fatto «riconoscimento nella fede». Di fondamentale importanza per la valutazione dell ' ispirazione e della parola di Dio sono perciò due elementi: l'autorità apostolica e/o carismatica degli autori e il fatto che verso il 200 la chiesa riconobbe in questi scritti la propria religiosità, la propria fede viva e quella dei suoi padri. Il riconosci­ mento è, dal punto di vista teologico, un elemento importante della verità biblica primaria fondamentale, cioè della verità che la realtà di Dio è la sua fedeltà alle sue promesse. Riconoscere significa quindi percepire un fram­ mento della donata fedeltà di Dio.

APPLICARE LA PAROLA DI D IO ?

p

Anche qualsiasi interpre�azione (i��esa nel senso di ap licazione) dovreb­ be poi naturalmente ispirarsi a: qudta concezione del canone biblico. Ciò significherebbe: l . Determinante per la legittimità dell' interpretazione è che la chiesa par-

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ziale di volta i n volta interpellata riconosca appunto l a propria fede anche in tale interpretazione, riconosca cioè in essa i propri ricordi concernenti la propria storia 'con Dio' , le proprie speranze e le proprie aspirazioni. Questo significa: l' interpretazione deve essere ecclesiale in quanto corrisponde alla storia religiosa particolare e alla cultura religiosa di una chiesa parziale, cri­ tica eventualmente tale storia e tale cultura, ma non la distrugge nel senso di una rivoluzione culturale. E qui non bisogna distinguere tra 'profezia' e 'pastorale' . Un esempio desunto da una predica: «Non abbiamo alcuna patria? Anche nella chiesa possiamo, eccome possiamo, avere la tranquillità a proposito di qualcosa che nessuno può più toglierei. Essere qui a casa significa infatti qualcosa di più che abitare semplicemente in una strada. Conosciamo infatti la chiesa in cui siamo stati battezzati, confermati e sposati, conosciamo le croci davanti alle quali abbiamo pregato quando fummo confermati, quando nostro figlio era malato o la mamma morì. Forse ricordate anche una croce che solo voi conoscete, che ha per voi il significato di una patria spirituale. Oppure un battistero o i gradini dell' altare su cui avete ricevuto la benedizione nuziale o la benedizione della madre dopo la nascita del primo figlio» (K. BERGER, Wozu ist Jesus am Kreuz gestorben ?, 1 998, 1 34s.).

2. Potrebbe così diventare chiaro che nella storia della chiesa esistono una accanto all' altra e una nell' altra due cose: la storia della colpa e della grazia e la gioia per la propria fede. Dove manca una delle due non può più cresce­ re nulla. 3. Non esiste alcuna pura ripetizione. Pure ciò che ritorna (l' anno liturgi­ co) è tuttavia sempre completamente nuovo e diverso. Precisamente la ripe­ tizione spezza il corso del tempo. 4. La comunità interpellata o interpellabile è sempre limitata. Poiché solo e sempre una parte della comunità può riconoscersi, comprendiamo anche che l'interprete o la chiesa non possono e non sono mai tenuti ad 'acconten­ tare tutti' . Sia nel caso dell' ispirazione sia quando occorre constatare che qualcosa è ispirato, si tratta perciò della questione della legittimità e dell' autorità; il riconoscimento fonda l' autorità. L' elemento dell' autorità significa: non bisognerebbe affos�are l' autorità del predicatore facendolo cadere nella trappola della credibilità. Tale trappo­ la consiste soprattutto in una esagerata moralizzazione del messaggio, che poi genera una pletora di giudici morali. Non il perfetto nel senso della cor­ rectness può avere autorità, bensì colui che può parlare con tranquillità anche dei propri dubbi, ma parla appunto allora di religione e non di morale.

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IL RUOLO PERMANENTE DELLA SCRITfURA

La rivelazione primaria avviene in eventi al cospetto di persone, per esempio nel roveto ardente o sul Sinai al cospetto di Mosè. Nel Nuovo Testamento la rivelazione avviene - secondo l' opinione di tutti gli scritti nella persona e con la persona stessa di Gesù Cristo. - Dal che consegue: L' autorità della Scrittura è solo un' autorità derivata, perché sotto il profi­ lo puramente formale essa deriva la propria autorità dal prestigio di coloro che nelle sue pagine parlano. Questo non rappresenta un circolo vizioso. Infatti, tanto per fare un esempio, l' autorità di Gesù esisteva già da lungo tempo prima della composizione dei vangeli, e l' autorità di Paolo fu il pre­ supposto che gli permise di comporre delle lettere e il motivo per cui queste vennero poi raccolte insieme. Inoltre l' autorità e il prestigio sono una que­ stione che riguarda la rispettiva comunità, in cui e per cui essi sussistono. Perciò l' autorità è qualcosa di vivo, e i lunghi processi della formazione del canone vanno visti anche sotto questo aspetto. Essi rispecchiano gli alti e bassi del prestigio delle diverse autorità e delle loro posizioni . Pure quest'ultimo fatto è importante, perché qualcosa può acquisire una nuova autorità solo se esso risulta evidente a una generazione. Il ricorso al presti­ gio esistente serve qui poco in caso di dubbio. Ciò vale anche dopo la con­ clusione del canone e si manifesta nei tentativi sempre ricorrenti di dichiara­ re determinati testi il 'canone nel canone ' e di spiegare tutti i rimanenti testi canonici alla luce di questo 'centro della Scrittura' . Questo non basta a legit­ timare tali tentativi, ma spiega soltanto la loro origine. È sì evidente che in determinati tempi singoli testi possono diventare particolarmente importanti. Ed è perciò sempre un diritto della predicazione pastorale accentuare deter­ minati punti e scoprire il 'kair6s' di un testo. Ma data la normatività fonda­ mentale dell' inizio non è cosa legittima valutare arbitrariamente le testimo­ nianze dell' inizio e dichiarare alcuni scritti 'meno importanti' . L' autorità dei posteri non si spinge sino a tanto. Uno dei motivi di ciò sta nel pericolo che si abusi ideologicamente della Scrittura e che si mettano a tacere delle sue voci scomode. In caso di dubbio nella ricerca della verità un' orchestra è infatti più importante di un solista. Ma l' autorità della Scrittura, astrazion fatta dai difficili e controversi ten­ tativi di trovare un 'centro della Scrittura' , è soprattutto un' autorità critica. Perché, dato il carattere normativo della unicità e irripetibilità escatologica di Gesù, ogni tradizione successiva va messa criticamente a confronto con l' inizio. In questo senso la funzione della Scrittura diventa autonoma, per­ ché essa esiste ed è sì tramandata nella chiesa, però è anche un' istanza criti­ ca nei suoi confronti.

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La Scrittura deriva in ultima analisi la propria funzione critica dal fatto che nella storia del popolo di Dio esistono autorità elette come Mosè e i pro­ feti, nonché dal fatto che soprattutto Gesù Cristo è il rappresentante insupe­ rabile di Dio. Tali autorità hanno il valore di pilastri e sono perciò una nor­ ma critica. La Scrittura rappresenta, grazie al suo carattere scritto, l' unica via di accesso ancora possibile a tali autorità. Per l ' interpretazione della Scrittura l' origine di quest'ultima significa: Da un lato la Scrittura è una parte della chiesa, nata in essa come testimo­ nianza della sua vita, per lei raccolta e da lei conservata. Perciò la Scrittura ha una funzione 'nella' chiesa e non contro di essa. Ad esser precisi essa 'serve' , perché non è fine a se stessa; l' ultimo criterio della sua interpreta­ zione può essere soltanto la vita di questo organismo, il 'popolo di Dio' . In questa luce vanno visti l ' uso 'religioso ' pratico della Scrittura, che serve sostanzialmente alla conferma, nonché la sua interpretazione da parte del magistero. Dall' altro lato la Scrittura è anche autonoma rispetto alla chiesa, perché la funzione critica degli inizi e in particolare di Gesù Cristo è insostituibile e non può essere scalzata da alcun uso ideologico della Scrittura. Un' esegesi storico-critica è - se ben intesa - l' avvocato di questa autonomia della Scrit­ tura rispetto a tutto ciò che la chiesa ne fa o ne vorrebbe fare. Un avvocato non produce ciò che rappresenta, ma cerca solo di affermare nella maniera più corretta possibile il diritto della Scrittura contro ogni suo sequestro. Come avvocato egli deve, così agendo, ritirarsi il più possibile in secondo piano. Egli non è il giudice della Scrittura, né è autorizzato a criticare la Scrittura. E non i metodi fanno dell' esegesi una scienza teologica, bensì il suo destinatario, cioè la 'chiesa' . Inoltre possono sì darsi nuove rivelazioni, perché nessuno può «mettere la museruola a Dio». Ma data la legge biblica dell ' inizio, nessuno può costrin­ gere la chiesa a dichiarare tali nuove rivelazioni normative.

2. Criteri dell'applicazione

fONDAZIONE

Sotto il profilo puramente storico lo studio esegetico del testo biblico fu soltanto la reazione critica a un' applicazione già esistente . Perciò noi

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terza pane

cominciamo il nostro lavoro nel bel mezzo dell' atto dell' applicazione e ci domandiamo per quale interesse la si attui. Lo studio del testo della Scrittura allo scopo di applicarlo ( ! ) non viene effettuato per pura curiosità e meno che mai per curiosità scientifica, ma per­ ché dal testo ci si attende un 'aiuto' . Cioè: noi cerchiamo consiglio o conso­ lazione nella Scrittura, perché qui ci viene offerta una salvezza di fronte a una realtà deficitaria, bisognosa di aiuto e di sostegno. La base è perciò costituita da una multiforme miseria umana, materiale e spirituale. Per cui la nostra tesi di partenza suona: base dell' applicazione della Scrittura è la pro­ messa di fronte all 'imperfezione e al bisogno. In questa situazione l ' applica­ zione aiuta o critica, in ogni caso essa deve «soddisfare un bisogno» . In concreto non intendiamo dire che l'interprete, che compie l' applicazio­ ne, diverrebbe sensibile al bisogno via via esistente soltanto sulla scorta del­ la lettura della Scrittura, bensì che egli se ne ricorda o cerca di ricordarsene (ricordo attivo) allorché si accinge all' interpretazione. Egli si domanda: qua­ le elemento del testo può essere critico e utile nel bisogno presente e nelle sue singole situazioni?

Sul problema dei criteri dell 'interpretazione della Scrittura

Riflettere sui criteri dell' interpretazione della Scrittura e indicarli è cosa in linea di principio necessaria, perché bisognerebbe perlomeno a grandi linee dire: come possiamo rispondere all' esigenza della lealtà e assecondar­ la? Il filo conduttore dell' argomentazione che segue può essere così riassun­ to: il modo di salvaguardare la lealtà risulta soprattutto dalla funzione della Scrittura nel suo complesso. Questa necessità emerge già dalla pluralità delle posizioni sostenute e (soprattutto ! ) ammesse nella Scrittura. E dobbiamo ammettere che un ricor­ so ingenuo alla Scrittura «a seconda del bisogno» avviene e avverrà di con­ tinuo, ma che esso è appunto solo un lato della vita con la Scrittura. L' altro lato è precisamente la funzione critica della Scrittura, che non comprendere­ mo mai a fondo e in misura completa. Onde evitare dei fraintendimenti diciamo subito: qui non parliamo di metodi esegetici, ma dei criteri momentanei dell' applicazione, vale a dire della questione di sapere che cosa è di volta in volta 'valido' e perché l'una cosa deve valere, mentre l' altra non lo può altrettanto bene. I criteri dell' applicazione risultano qui dalla funzione della Scrittura in seno al popolo di Dio. Se la Scrittura non è fine a se stessa, ma serve come conferma e critica alla vita di questo popolo di Dio, allora l ' applicazione è

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nel senso stretto del termine l a messa a confronto della chiesa con i suoi ini­ zi nei profeti e in Gesù, una messa a confronto per lei vitalmente necessaria. In questo lavoro ciò che è di necessità vitale (Paolo parla dell' edificazione, oikodomi, come del metacriterio puro e semplice) non è esattamente preve­ dibile, bensì la stessa messa a confronto con il proprio inizio è un processo vitale che è sì guidato da intenzioni, ma il cui risultato non è calcolabile. Si tratta perciò, specie quando si pratica l ' esegesi estraniante, di un rischio dall ' esito imprevedibile. (La Riforma del secolo XVI testimonia proprio que­ sto sia in modo positivo sia in modo negativo). Ogni chiesa fa bene ad ammettere questo confronto vivo, e fruttuosa va detta l' esegesi che non teme questo estraniamento critico. Se il criterio è l' edificazione, allora il risultato non può e non deve essere in nessuna circostanza una divisione del­ la chiesa (l Cor 3 , 1 7). Pertanto ogni scisma cristiano è uno scandalo teolo­ gico, che tocca realmente la sostanza fondamentale stessa del cristianesimo. E la superficialità con cui nell' età moderna si accettano le divisioni della chiesa è assolutamente insopportabile sia sotto il profilo religioso che sotto il profilo teologico. Il popolo di Dio è pensabile solo come un unico popolo (con l' unità e la pace sempre tra loro strettamente connesse), oppure esso si è già ridotto ad absurdum, e nessuna autorità ecclesiale ha poi più bisogno di aprire la bocca. Il superamento della divisione del popolo di Dio è perciò in certo qual modo il criterio ultimo e più importante dell' applicazione della Scrittura. Tutti gli altri criteri sono di secondaria importanza. Essi dovrebbero a mio avviso tener conto del fatto che interpretare significa agire. L' interpretazio­ ne non è un evento naturale né un automatismo, ma è un' azione responsabi­ le. Essa è perciò una forma particolare di responsabilità e non una serie di processi che si svolgerebbero per mezzo di noi e di cui noi saremmo più o meno gli zimbelli. Naturalmente esiste una diffusa neo-ortodossia, che non presta più orec­ chio non appena risuonano le parole 'agire' , 'etica' o 'responsabilità' . Chi vede qui sempre e subito messa in gioco tutta la dottrina della giustificazio­ ne, trae delle conseguenze a buon mercato allo scopo di produrre in massa berretti da eretici. Se la comprensione e l ' interpretazione sono una forma di azione, allora per questa così come per ogni altra azione bisogna indicare dei criteri. Que­ sti criteri sono diversi a seconda che si tratti dell ' azione esegetica o dell' azione applicativa. Nel caso dell' azione esegetica (e applicativa) si trat­ ta di stabilire fino a che punto teniamo conto dell' autore biblico, per cui val­ gono la correttezza, la libertà, l' uguaglianza e la fraternità, perché queste e nient' altro sono le cose importanti.

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Fondazione religiosa dei criteri

I cristiani non concepiscono il loro agire in maniera disgiunta dal loro Credo, qualunque questo sia. Nel campo del giudaismo e del cristianesimo le esortazioni scaturiscono spesso da realtà e ragioni preetiche e in connes­ sione con l'esperienza via via fatta di Dio. Gli uomini non agiscono infatti «in uno spazio vuoto», bensì in base a premesse sociali, filosofiche o reli­ giose.

AUTOCONTRADDIZIONE RELIGIOSA

Importante è il fatto che quello da denominare qui il criterio fondamenta­ le è il criterio dell' autocontraddizione, un criterio funzionante quindi sulla base della logica. Criterio fondamentale dei singoli aspetti in seguito da menzionare è la domanda: dove una singola decisione etica distrugge l' iden­ tità religiosa esistente e fungente da cornice? Dove viene distrutta la base, su cui poggiamo? Dove, mediante le conseguenze etiche o dogmatiche che traiamo, viene «segato il ramo su cui poggiamo»? Dove esistono campi su cui la religione e l 'etica sono così strettamente unite che, trascurando l ' uno o l' altro aspetto, insorge un' autocontraddizione? Quali sono le cinghie di trasmissione (d' importanza decisiva) tra l' essere cristiano e l' agire cristia­ no? I criteri qui ricercati dovrebbero avere qualcosa a che fare con aspetti che sono chiaramente molto importanti nella religione cristiana. Il criterio sareb­ be allora la contraddizione con la propria religione su elementi decisivi e costitutivi della sua realtà (stabilire i quali non è solo una faccenda del senti­ mento, bensì soprattutto della ricerca storico-fenomenologica). La ricerca dei criteri non si propone perciò qui semplicemente di indivi­ duare delle metanorme etiche, bensì le articolazioni esistenti tra la religione e l ' etica, gli anelli di collegamento tra le due, anelli così importanti che l' una e l' altra dipendono da essi e che non è possibile avere l' una senza l' altra. Si tratta perciò di criteri per norme discutibili «nella cornice della religione cristiana» . Se teniamo conto di questo, allora diventa anche evidente il motivo . per cui l' 'amore' e la 'riconciliazione' non fanno parte dei criteri da cercare, nonostante ambedue svolgano un grande ruolo sia sotto il profilo religioso che sotto il profilo etico (per es. , sotto forma di ricezione e di trasmissione). Queste due entità non sono chiaramente in primo luogo religiose, bensì sono

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per il campo religioso metafore che hanno nel comportamento il loro campo fungente da metafora. Non si tratta tuttavia di rapporti 'metaforici' di questo genere, ma di punti di collegamento tra i due campi, che in quanto tali sono un oggetto e una realtà. Se ciò che potrebbe essere distrutto è la religione cristiana come realtà (per es., come comunità) nelle sue parti costitutive essenziali, allora in un certo senso un effetto dell' impulso di Gesù e la sua permanenza diventano il criterio di molteplici singole parole. Che questo non significhi affatto che 'la chiesa' o addirittura la sua tradizione dogmatica prese in se stesse starebbe­ ro al di sopra della 'Scrittura' è cosa che diventerà subito chiara. Si tratta piuttosto della vita cristiana o dell'esistenza viva di cristiani, che rappresen­ tano una specie di 'norma viva' . Rispetto all ' antichità e al medioevo il criterio della verità si è chiaramen­ te spostato nel cristianesimo. Se prima il criterio era costituito dall ' unità della professione di fede e dalla verità dogmatica della chiesa in quanto tali, dall ' illuminismo in poi (e rispettivamente dalla fine del secolo xvn) l' accento viene posto molto più fortemente sul carattere vincolante delle posizioni etiche e sull' unità in esse necessarie (anche il pietismo contribuì a questo fatto). Un sintomo di questo spostamento è il rapporto tra pluralismo e carattere vincolante. Mentre prima l' accento cadeva sul carattere vinco­ lante della dogmatica, da lungo tempo si nota in questo campo piuttosto un pluralismo; mentre prima l' etica e la teologia morale conducevano una vita piuttosto grama (esse furono sviluppate soprattutto in connessione con gli specchietti di esame di coscienza per la confessione), oggi ci si attendono dalla chiesa parole vincolanti proprio in questo campo. - Noi cerchiamo di vedere strettamente assieme, astraendo da queste tendenze, ambedue gli aspetti. Criteri sono perciò ritenuti nelle pagine seguenti non contenuti 'positivi' scelti arbitrariamente, non rappresentazioni contenutistiche stabilite seman­ ticamente, che costituirebbero ad esempio 'il carattere' del cristianesimo. E meno ancora si tratta di un canone occulto nel canone o di pallini esegetici nel senso di temi, che uno potrebbe poi trovare particolarmente importanti nel Nuovo Testamento. Piuttosto ci domandiamo: dove gli stessi autori neo­ testamentari potrebbero esserci oggi di aiuto nella ricerca di criteri? Non con ciò che essi dicono, bensì con il modo in cui essi pervennero ai loro risultati e con le metanorme del tipo di quelle che qui cerchiamo di indivi­ duare e che essi chiaramente presuppongono. Se la Scrittura è un 'modello autentico' , allora non dobbiamo !imitarci di continuo a verificare le sue singole affermazioni per vedere se esse ci posso­ no aiutare sotto forma di stimolo o di critica (in quale direzione, dovremmo

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poi domandarci). Da orientamento potrebbero piuttosto servirei i suoi stessi procedimenti ermeneutici, le metanorme che potremmo desumere da essa stessa e che, nella loro qualità di decisioni prese in maniera più indipendente dalla situazione di quanto lo siano le singole decisioni, potrebbero appunto indi c arei, a mo ' di modello , la direzione da seguire. Perciò dobbiamo domandarci: esistono metanorme religiosamente fondate che svolgono un ruolo nella stessa Scrittura? Questi metodi di ricerca delle norme sono ancor oggi evidenti o hanno di nuovo una possibile evidenza? Può la stessa Scrit­ tura essere un modello ermeneutico? Questa problematica è particolarmente promettente nel caso del Nuovo Testamento, perché al tempo della composizione degli scritti neotestamenta­ ri non esisteva alcun canone cristiano al di fuori dei LXX, per cui mancava un modo biblicistico di procedere nei confronti di documenti cristiani. Fu giocoforza stabilire di bel nuovo norme per i molteplici nuovi problemi o svilupparle abilmente partendo dali' Antico Testamento . Di particolare importanza sono naturalmente i testi in cui si trattava di rispondere a domande realmente concrete, in cui occorreva fornire contemporaneamente la legittimazione di fondo, cosa che si verifica in modo speciale nelle lettere di Paolo. Interrogarsi nel senso indicato è cosa giustificata anche perché gli autori neotestamentari desumono spesso i contenuti concreti delle loro norme dall ' esterno (dal campo del giudaismo ellenistico, dell ' apocalittica o dell'ellenismo pagano). La cosa importante non era perciò se le singole nor­ me fossero o meno di origine cristiana, piuttosto si desunsero addirittura correntemente modelli etici dall' ambiente circostante• . Né mai si pretese che questi contenuti fossero cristiani; una cosa del genere fu in parte riservata solo all' apologetica moderna. Tanto più importante è perciò esaminare i cri­ teri secondo i quali gli autori neotestamentari adottarono la tradizione. Il modo di procedere degli autori neotestamentari significa di per sé anzi­ tutto questo: la tradizione (cioè per questi autori i LXX e i documenti cri­ stiani primitivi orali o scritti) non ha in quanto tale alcun peso formale obbligante assoluto (nel senso dell ' essere-pienamente-sufficiente). Per que­ sti autori esistettero chiaramente situazioni in cui nessuna tradizione di tipo biblico o cristiano-primitivo era di aiuto, come nel caso di molte parenesi neotestamentarie (per es., le tavole domestiche) 2 • Tali parenesi potettero

' Ciò è vero sia sotto il profilo contenutistico che sotto il profilo della storia delle forme. Proprio qui possiamo piuttosto dimostrare lo stretto legame esistente tra storia delle forme e storia della religione. ' Cfr. K. BERGER,

Formgeschichte des Neuen Testaments, Heidelberg 1984, 135- 1 4 1 .

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benissimo essere desunte da schemi non cristiani. D i qui possiamo dedurre : una determinata tradizione non è vincolante già in base alla sua semplice origine3• Si tratta solo e sempre di possibilità, che un interprete responsabile dovrebbe naturalmente conoscere, che vanno" messe a confronto con i criteri seguenti e che vanno almeno in parte anche criticate in base a tali criteri. Solo questi criteri guidano la scelta allora come oggi.

IDENTITÀ

Se l ' autocontraddizione è il criterio, allora dobbiamo domandarci mediante che cosa si costituisce il Sé, e per rispondere a questa domanda seguiamo due esempi desunti dalla storia della chiesa. l . Possiamo tentare di seguire Meister Eckhart quando afferma: «Gli uomini non dovrebbero riflettere tanto su ciò che dovrebbero fare, ma piut­ tosto su ciò che sarebbero»4• «In questa concezione etica il potere viene quindi prima del dovere. Le qualità morali sono pienamente presenti lì dove esse compaiono con facilità e gioia in virtù di un esercizio. Il potere morale appare come trasparenza della realtà verso Dio»5• Giustamente D. Mieth riconosce qui un apriorismo dell ' esistenza, la vera liberazione da ogni preoccupazione (tranquillità), con l'essere che è esso stesso dovere e fonda­ mento delle opere, cosicché il potere non si riconosce in primo luogo dalla produzione, bensì dalla figura umana6• Questa concezione supera una distin­ zione tra ontologia e etica, perché in essa l' importante è il ritrovamento dell ' identità umana. 2. Il cosiddetto inno clementino7 afferma che la comunità osannante sarebbe composta da agnelli appartenenti al re, da bambini innocenti, da un «gregge perfettamente santo», da bambini illibati, da un coro della pace, da un popolo saggio. La comunità è perciò concepita - di certo contrariamente alla sua condizione visibile - come assemblea di santi, in modo simile a come avviene nelle lettere neotestamentarie. Proprio la sua identità è la cosa incomprensibile, che si esprime nell' inno. La comunità non va solo faticosa­ mente difesa dal presente maligno, bensì è semplicemente concepita - in

' Ciò risulta già dal non raro carattere contraddittorio delle stesse direttive bibliche. 4 MEISTER ECKHART, Reden der Unterscheidung, 1 97 ,6[ - 1 98,9] (Quint DW 5, 1 963). ' D. MIETH ( 1 982), 1 08. " D. MIETH, op. cit. , 92.95s. l 2 l . ' Cfr. al riguardo ANRW II, 25,2, 1 1 53s.

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modo del tutto controfattuale - come l' assemblea dei santi. La pura utopia è l' indicativo. Con l ' aiuto di Meister Eckhart, dell' inno clementino e dell' apostrofe neo­ testamentaria di ' santi' noi cerchiamo di rappresentare una forma di pensie­ ro che sta alla base della concezione ermeneutica dell' autocontraddizione religiosa e che ha alle sue spalle anche una tradizione cristiana8• Il vantaggio particolare di questa forma di pensiero è l' unità indissolubile tra essere e dovere, cosa che riguarda anche l' effetto retorico e esortativo. Di fronte a tutte le difficoltà delle 'teologie neotestamentarie' di tipo kantiano, caratte­ rizzate dai due concetti dell' indicativo e dell' imperativo, qui il punto di par­ tenza va piuttosto presentato come uno status9• In altre parole: il fare di Dio vuoi essere completo e non può fermarsi a metà dell' opera. Qui domandarsi quale sia la parte divina e quale la parte umana nell' azione è cosa sbagliata in linea di principio. Forse può esserci di aiuto l' immagine della recita tea­ trale10. Naturalmente dobbiamo ancora avanzare di un passo dietro quanto abbia­ mo detto. Il circolo dell 'identità nell 'etica moderna Ampiamente noto è il problema centrale dell' etica moderna, che si chiede che cosa occorra fare affinché gli uomini siano capaci di essere responsabili. Non è infatti il dovere a cambiare l' uomo, bensì dobbiamo piuttosto dire: «Come può l' uomo essere soggetto responsabile delle proprie azioni?». Pure secondo J. B . Metz non dobbiamo lottare solo affinché gli uomini rimanga­ no soggetti di fronte alle crescenti coercizioni collettive, bensì anche affin­ ché essi possano diventare soggetti1 1 • O in altre parole: il contributo decisivo di un' etica teologica sta in primo luogo nelle sue componenti soteriologiche:

' Non si tratta di dimostrare o fondare una proposizione di fede, ma di descrivere anche storica­ mente una categoria qui adoperata, al fine di mostrare l'affinità che questa forma di pensiero ha con contenuti cristiani. Per il resto essa mi sembra essere meno problematica del modello moderno del rapporto tra indicativo e imperativo. • Cfr. al riguardo anche O. HANSSEN, Heilig, tesi di laurea, Heidelberg 1 985. 10 Punto di partenza di quanto segue è l'osservazione che riusciamo a padroneggiare più facil­ mente la realtà umana quando la rappresentiamo in teatro o in altro modo che non quando cerchia­ mo di farlo nella realtà. L' attore ha un ruolo, che svolge con facilità e come giocando. L' identità cristiana equivale ad essere immessi in un ruolo da parte dello stesso Dio che ha scritto anche il copione. La cosa importante è quella di non uscire da questo ruolo. Il ruolo è il nostro status. I l J. B. METZ ( 1 977), 56.

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come può l' uomo essere liberato e messo in grado di volere cambiamenti salutari? La prima cosa qui importante è quella di riconoscere il ruolo dell' identità per l' etica e di considerare l' identità come un dono benefico. Questo signifi­ ca: anche se una identità capace di assumersi responsabilità è solo il fine dell' azione, tuttavia essa ha anche il valore di un suo criterio. E appunto di questo si tratta qui e nelle pagine che seguono.

3. I singoli criteri

I criteri seguenti si ispirano tutti quanti alla logica dell' autocontraddizio­ ne religiosa. - Per il resto essi si correggono a vicenda, in modo tale da costituire una specie di ' setaccio' .

EDIFICAZIONE DELLA COMUNITÀ

Questo criterio riprende affermazioni esplicite di Paolo, secondo le quali l' utilità e l' edificazione della comunità sono il fine delle sue direttive, e pre­ cisamente sia delle direttive che riguardano l' unità della comunità1 2 sia delle direttive che riguardano l' uso del potere nei confronti della comunità13• Qui }"edificazione' non è, come risulta dal variegato uso del termine, una norma riempita di contenuti, bensì un principio formale che bada all' effetto. Parti­ colarmente sorprendente è la posizione di principio sovraordinato assegnata all ' edificazione della comunità in l Cor 14,26-33, dove perfino i doni cele­ sti devono sottoporsi a questo principio; perfino alle 'rivelazioni' e allo spi­ rito che parla nei profeti, è possibile in questo senso comandare (gli spiriti dei profeti sono soggetti ai profeti) e imporre loro un ordine. Paolo regola con questo principio il propriamente non regolabile, per salvaguardare la comunità dal caos e dalla disgregazione. In modo simile egli usa la metafora del corpo in l Cor 1 2 : la comunità, costituita come corpo di Cristo dallo

" Pensiamo al problema dei forti e dei deboli (l Cor 8, 1 . 10; 10,23) e a quello dei carismi (l Cor 1 4,3-5. 12. 17.26). " 2 Cor 10,8; 1 3 , I O.

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Spirito, è una realtà religiosa preetica che non va distrutta, e nello stesso tempo da questa struttura a forma di corpo derivano conseguenze concrete per il comportamento 14• Ef 4, 1 2 parlerà quindi dell' edificazione del corpo. Accanto al principio dell' edificazione si colloca quello dell' utilità, riferito sia al singolo (l Cor 1 3 ,3) sia alla comunità (l Cor 14,6). Oltre all' edificazione e all' utilità dobbiamo qui menzionare come terzo criterio anche l' esistenza stessa della comunità: in 2 Cor 3 , 1 -3 Paolo, che non può esibire lettere di raccomandazione davanti alla comunità, chiama la comunità stessa la propria lettera. In altre parole: la stessa comunità, così come essa esiste, è il criterio della legittimità dell' apostolo e del suo mes­ saggio. Con questo argumentum ad hominem la comunità interpellata viene rimandata alla sua propria esistenza di comunità cristiana. I cristiani di Corinto non vorranno certamente negare che essa esiste, e di conseguenza non vorranno neppure negare la legittimità in questo modo palese del van­ gelo paolino. Le menzionate affermazioni neotestamentarie sull' esistenza della comu­ nità come base e criterio sono ermeneuticamente importanti, perché sono aperte sotto il profilo del contenuto e vanno messe in rapporto con la conti­ nuità della storia dell' elezione. Quest'ultimo punto va spiegato: ciò che inte­ ressa a Paolo non è l' esistenza contingente di una qualche associazione reli­ giosa, la cui esistenza o scomparsa non meriterebbe di servire da criterio per direttive etiche. Ciò che gli sta a cuore sono piuttosto i santi e eletti di Dio (l Cor 1 ,2; 6 , 1 s. ; 2 Cor 1 , 1 ), l " ekkles{a di Dio' e quindi la storia di Dio con il suo popolo. Chi distrugge la comunità distrugge perciò l' opera di Dio (l Cor 3 , 1 7). Chi con la propria azione distrugge la comunità cade in contraddizione con se stesso, perché «sega il ramo su cui sta seduto». Non si tratta perciò solo di disturbi superficiali della comunicazione15, bensì Dio ha posto la sua opera nel mondo come popolo, come tempio dello Spirito Santo. Chi la distrugge, distrugge la sostanza dell' azione di Dio. Per questo motivo la divisione della chiesa è condannata con tanta veemenza in l Cor 3 , 1 7 . Un criterio è pertanto il seguente : l' esistenza stessa della comunità è

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Pure in l Cor 6, 1 2-20 la tesi giuridica secondo la quale il corpo sarebbe, in base al proprio sta­

tus, il tempio dello Spirito Santo è il fondamento dell' argomentazione. " L'edificazione non ha in Paolo qualcosa a che fare né con il rapporto da uomo a uomo (indivi­ dui), né con il rapporto tra uomo e Dio (il singolo e la sua conversione); il concetto di (S. Kierkegaard), già in partenza di tipo filosofico, non coglie la realtà filologico-storica dell' 'edificazione' in Paolo e meno ancora il problema ermeneutico. La limitazione al modello del rapporto con Dio e con il prossimo non permette di scorgere la comu­ nità.

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un' opera preetica di Dio, che non va assolutamente distrutta. Nell' adottare questo criterio nell' ermeneutica moderna occorre cercare di ovviare a possi­ bili fraintendimenti: l . Non si tratta del principio: «È bene ciò che giova alla comunità» . Si tratta piuttosto dell' unità della comunità, e precisamente sotto il profilo del­ la teologia dell' elezione. Questo significa concretamente : la divisione volontaria della comunità cristiana è un delitto spaventoso, che va in ogni caso impedito. Perché, per dirla in termini paolini, è il tempio santo di Dio ad essere altrimenti distrutto. Naturalmente nelle condizioni attuali, caratterizzate da una chiesa di popolo, questa affermazione non va adottata senza riflettere, soprattutto per­ ché non è plausibile la base della teologia dell' elezione, secondo la quale l' unità della comunità è effetto e segno dell' unità e dell' unicità di Dio. Tut­ tavia tale affermazione conserva anche oggi il suo peso critico: l' esistenza di ogni comunità di battezzati è di per sé un valore, nonché opera e segno di Dio nel mondo. Di conseguenza essa non va posta a cuor leggero in perico­ lo. E ciò riguarda - questa è la punta ermeneutica della nostra tesi - qualsia­ si applicazione della Scrittura in essa. Sotto il profilo positivo questo signifi­ ca: il fine dell' interpretazione della Scrittura è la stessa esistenza viva della comunità di Dio16 e la sua unità. 2. Il criterio sorprendentemente realistico dell' utilità è un buon correttivo contro la spiritualizzazione e un falso idealismo altruistico. Già nello stesso Nuovo Testamento osserviamo infatti che al singolo viene chiesto moltissi­ mo (perdonare 70 volte 7), mentre bisogna impedire che singoli disprezzino la comunità o la facciano cadere in discredito (Mt 1 8, 1 5-30 e l Cor 5). La misericordia pura e semplice e il perdono ad ogni costo non valgono per la comunità. 3. L'unità della comunità significa (cfr. l Cor 1 2) l' unità viva del diverso. In altre parole il compromesso e il dialogo occupano qui sicuramente una posizione di onore.

" Dato che qui si tratta della storia dell' elezione di Dio, vi è pienamente implicato nel senso di Paolo anche il rapporto con l ' Israele non cristiano.

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SANTITÀ Paolo fonda spesso la propria etica con l' aiuto del motivo della santità, perché la santità fonda per lui l' unità tra soteriologia e etica, come ad esem­ pio in 1 Ts 4,3 .7-8. L'etica della santità è perciò un' alternativa intrapaolina al collegamento, altrimenti usuale nella teologia protestante, tra giustifica­ zione e etica secondo Rom e Gal. Da l Ts 4,3ss. risulta chiaro che la 'san­ tità' è una cerniera tra lo status religioso della comunità e le esigenze che di qui vengono. La santità è perciò esattamente uno di quei criteri che noi cer­ chiamo. Essa ha le seguenti importanti implicazioni teologiche: l . La santità significa orientamento teocentrico. Non ci si domanda che cosa 'ne viene' all' uomo o che cosa egli se ne fa. Si tratta piuttosto di una · proprietà corporea di Dio, donde la sua importanza per il corpo (l Cor 7,34) o per la discendenza corporea (Rom 1 1 , 1 6) e tutte le conseguenze nel campo del visibile (santità dello spazio e del tempo). 2. La santità implica sempre un taglio, un restringimento e una limitazio­ ne della libertà delle manifestazioni vitali umane. Le tradizioni dell' ascesi sacra e del lutto cultuale limitano in linea di principio la vita17• Esse ci dico­ no perciò che la benedizione, la vita, la sessualità e la gioia sono cose che non dipendono solo dall' uomo e alludono simbolicamente al fatto che l' uomo non è il loro ultimo autore e che esse ci devono essere donate da Dio. Esse rendono Dio visibile come origine e come padrone della vita. La santità e le rappresentazioni tabuistiche vogliono nel loro insieme marcare la vita come un dono. 3. La santità significa perciò che la vita comporta necessariamente sotto l' aspetto religioso qualcosa che a prima vista sembra contraddirla: l' ascesi, la rinuncia ecc., qualcosa che è tuttavia strettamente necessario. 4. La categoria della santità18 equivale perciò a una critica della fame di vita di per sé illimitata dell' uomo. La fame di vita è infatti di per sé insazia­ bile e quindi anche senza criterio. La santità è perciò rinuncia a una volontà illimitata di vivere e di conseguenza una critica dei bisogni dell'uomo. Di qui scaturiscono delle domande importanti:

17 Queste limitazioni (per es., divieto dei rapporti sessuali in tempi sacri o in luoghi sacri nel giu­ daismo del tempo di Gesù) hanno, nella loro qualità di interruzioni del decorso normale della vita, una importante funzione simbolica (anche magicamente concepita): esse stanno a indicare che la benedizione e la vita (per esempio nel caso della continenza cultuale) o la gioia (nel caso del lutto cultuale) devono essere di nuovo donate da Dio nel luogo sacro o nel tempo sacro. " Su questo punto ho tratto preziosi suggerimenti dalla tesi di laurea di O. HANSSEN, Heilig, Hei delberg 1 985 . ­

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a) Quali sono veramente i bisogni fondamentali innegabili dell' uomo? b) Un' esistenza completamente libera dal dolore (cosa che la vita di per sé appunto vuole) è un fine realmente auspicabile? c) Non esiste un nesso chiaro tra una volontà illimitata di godere (di vivere) e la crisi ecologica? d) Non esiste una felicità completa, che consiste sostanzialmente nella rinuncia al consumo? e) Nel singolo caso la tutela dei 'miei' diritti umani e l' attaccamento alla 'mia' vita sono realmente l'ultima realtà? Il godimento della vita è il fine ultimo? f) La dimensione della santità potrebbe avere la conseguenza che noi ci limitia­ mo a uno stile di vita, che rende necessario solo un minimo di responsabilità ecolo­ gica e politica (0. Hanssen). Se infatti la santità ci dice che non l 'uomo è il Signore, bensì Dio, allora neppure tutta la creazione rientra nel campo di ciò di cui l 'uomo potrebbe avere l 'ardire di assumersi la responsabilità. Se egli non ha potere su tutta la vita, non deve neppure agire come se tutta la vita stesse 'a sua disposizione' e ne potesse usare illimitatamente. La santità è perciò un freno posto alla tendenza di 'usare' tutto e tutti e di pensare quindi che tutto dipenda da noi.

Risultato: se la santità significa in ogni caso e perlomeno che dobbiamo trarre la conseguenza che la vita ci è donata, questo significa in pratica che dobbiamo costantemente cercare di riconoscere che Dio è il Signore e di limitare la capacità dell'uomo di disporre. Invece la volontà illimitata di vivere equivale a un' autocontraddizione. Nel senso di J. B . Metz possiamo aggiungere: qui non pensiamo alla santità come a «un ideale strettamente privato verso cui si aspira e che potrebbe dunque facilmente indurci al conformismo nei confronti dei rapporti esisten­ ti», bensì a una «santità che si afferma nel legame tra mistica e amore com­ battente, capace di assumersi le altrui sofferenze» 19• La possibile obiezione, secondo la quale l' ascesi necessariamente collegata alla santità sarebbe stata adoperata per reprimere creature umane (in particolare le donne), va presa in considerazione, ma non coglie nel segno20• Connessi tra di loro potrebbero piuttosto essere l' ascesi e lo sviluppo della soggettività.

19 J. B. METZ ( 1 980), 22. 211 Ogni fine è pervertibile e abusabile da parte del potere. - Sempre le donne hanno svolto fin dall' inizio nella chiesa un grande ruolo proprio nelle comunità ascetiche.

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RADICALITÀ

Come l'edificazione e la santità, così anche la radicalità è un criterio per evitare l' autocontraddizione. Essa è infatti un fenomeno nello stesso tempo religioso e etico. La religione ebraico-cristiana, quale esperienza di un progetto completo dotato di senso, è radicale e non superficiale. Essa non abbraccia infatti solo situazioni limite, bensì ogni istante. Di conseguenza tutta la vita ne viene coinvolta e precisamente al cospetto della pretesa di dominio da parte dell' unico Dio (una pretesa che, trattandosi dell' unico Dio, è di per sé radi­ cale e che esige di conseguenza una risposta altrettanto radicale). Va perciò da sé che l' agire nel campo della religione sottostà ali' esigenza di essere attuato «con tutto il cuore e con tutte le forze» (Dt 6,4s.). Di conseguenza sia il messaggio di Gesù (cfr. il discorso della montagna) che l'etica paolina (lo Spirito come adempimento senza riserve della legge) sono una risposta al messaggio della vicinanza insuperabile di Dio agli uomini. Perciò esistono anche oggi «una gioventù chiamabile alla sequela, un desiderio di un' esistenza cristiana radicale e di alternative alla religione bor­ ghese», con la chiesa che deve lasciarsi qui dire: «Se essa fosse più evange­ licamente 'radicale' , probabilmente non avrebbe bisogno di essere tanto 'rigorosa' sul piano della legge»21 • Un modo di agire di tipo religioso è perciò nel campo dell' ebraismo e del cristianesimo un agire radicale. Chi non tiene conto di questo e pensa di potersela cavare con un' etica adattata, distrugge il fondamento su cui poggia e cade in contraddizione con se stesso. - In concreto questo significa: quan­ do si tratta di stabilire delle norme, occorre prestare particolare attenzione al carattere e alla natura dei compromessi. Perciò di fronte a qualsiasi compro­ messo raggiunto occorre domandarsi se si è realmente sfruttato sino in fon­ do il margine di azione in direzione della radicalità.

RISPETTO

Il timore e il rispetto di fronte al numinoso e al suo strapotere, ovunque essi si manifestino, sono comportamenti religiosi e fenomeni religiosi di fondo noti ben al di là del mondo ebraico-cristiano. Questo significa nello 21

J. B. METZ ( 1 980), 16. 1 8.

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Sulla prassi dell 'applicazione

stesso tempo: il rispetto come criterio e misura non è solo un comportamen­ to etico, ma ha qualcosa a che fare con il comportamento verso una potenza religiosamente sperimentata. Quando perciò qui di seguito parleremo del rispetto come criterio, intendiamo ancora una volta con tale termine un fenomeno ad un tempo religioso e etico, che è religiosamente fondato. A questa concezione l' antichità greca fornisce un contributo particolare, che però si era già fuso nel campo del giudaismo ellenistico, prima del Nuovo Testamento, con la concezione veterotestamentaria-ebraica della creazio­ nezz. Perciò il cosmo rappresenta, in qualità di sua opera, Dio, cosicché anche nel rapporto con il cosmo abbiamo a che fare con Dio; nel pensiero greco più antico il cosmo aveva perciò anche un carattere personale. La conse­ guenza di questa presenza di Dio nel cosmo e di questa sua rappresentazione da parte del cosmo, di questo collegamento dei vari campi dell' esistenza con le divinità che nel cosmo «ci vengono incontro», fu in particolare quella che tali divinità andavano di continuo onorate. In linea generale il timore di fronte al carattere religioso della realtà equivale ad evitare la superbia uma­ na. Gli interventi umani nei vari campi dell ' essere e l ' uso della potenza umana nei loro confronti furono visti sotto questo aspetto. Il modo adeguato di incontrare lo strapotere di Dio o degli dèi rappresen­ tato nei campi dell' essere era perciò il seguente: riconoscere rispettosamente la competenza divina e cercare di non superare i confini della capacità uma­ na di disporre. Questa concezione, recepita nella cornice della religione ebraico-cristiana, suona: la creazione del mondo da parte di Dio ci dice che quanto è stato disposto da Dio va rispettato e che ad esso bisogna riconosce­ re una stretta priorità rispetto a tutto ciò che l' uomo ne può fare. (Questa struttura di pensiero ritorna del resto notoriamente anche nella dottrina della giustificazione). Questo significa una preminenza dell' etica del rispetto nei confronti di qualsiasi etica utilitaristica. Per etica del rispetto io intendo perciò la somma dei comportamenti che tendono ad incontrare Dio nel mondo creato e che considerano la creazione come la sua rappresentanza personale. L'etica utilitaristica è invece un com­ portamento che cerca di cambiare e trasformare la realtà e precisamente in modo esclusivo per scopi stabiliti e pianificati dall ' uomo. Se l' etica del

" Cfr. al riguardo K. BERGER, «Der Kosmos ist der heiligste Tempel . >> . Zur unterschiedlichen Wertung des Kosmos in der paganen und der christlich-gnostischen Antike, in G. RAU - A. M. RITIER - H. TIMM (edd.), Frieden in der SchOpfung. Das Naturverstiindnis protestantischer Theo­ logie, Giitersloh 1 987, 58-72. . .

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terza parte

rispetto23 deve avere, per motivi desunti dalla teologia della creazione, una priorità e una preminenza rispetto all' etica utilitaristica, tale priorità e pre­ minenza comportano le seguenti cose: l . L'etica utilitaristica non va accantonata, però ha nell'etica del rispetto una cornice che le fornisce delle norme. 2. Se tale cornice è valida, ciò significa: gli interventi dell' uomo, che cambiano stabilmente i campi della creazione e della vita, vanno ridotti al minimo, perché la superbia umana viola il dovuto rispetto davanti a Dio. Ciò vale, per esempio, per le uccisioni non necessarie in generale. Si tratta di una vera e propria ritrosia di fronte all' uso di questo potere, perché la realtà ha un carattere personale. 3. Tutto il 'fare' e ogni manipolazione d' una certa entità non sono di per sé giustificati, ma vanno adeguatamente motivati e va dimostrata la loro rea­ le necessità. La riscoperta del mito e del pensiero mitico è senza dubbio collegata nel nostro tempo con la percezione della crisi ecologica ed è una reazione reli­ giosa spontanea a tale crisi. Il timore numinoso di fronte alla divinità pre­ sente nella creazione è infatti tipico dell' immagine mitica del mondo. In questo senso la . discussione sul mito va salutata. con favore, a patto che si veda che il mito non è una faccenda 'pagana' , ma un tipo di esperienza pos­ sibile e reale anche nell' ebraismo e nel cristianesimo24• Risultato: l . L' evitare interventi d' una certa entità e soprattutto non necessari nella creazione (natura e uomo) è una conseguenza necessaria e diretta del rico­ noscimento della creazione come opera di Dio antecedente qualsiasi opera umana. Il rispetto religioso di Dio ha perciò come conseguenza diretta il rispetto di tutto il creato (e non solo dell' uomo). Se infatti diciamo che la creazione è 'opera' di Dio, qui il termine 'opera' non viene inteso nel senso di un oggetto estraniato dal proprio autore, bensì nel senso di un oggetto che rappresenta l' autore25• Contro l' etica del rispetto va anche una morale ses­ suale nemica della vita. 2. L'etica del rispetto non dice che il mondo sia buono (pericolo questo

23 Cfr. A. SCHWEITZER, Kultur und Ethik (GW 2, 1 974, 95ss.), spec. XXI: «Die Ethik der Ehifur­ cht vor dem Leben» (375-402) [cfr. A. SCHWEITZER, Rispetto per la vita, Claudiana, Torino 1 9834] . 24 Cfr. al riguardo K. BERGER, Daifman an Wunder glauben ?, Stuttgart 1996, 70-9 1 . 25 Sulla critica al concetto teologico abituale d i valore, cfr. K . BERGER, «Der Kosmos ist der hei­ ligste Tempel... >>, 65s. e R. HEILIGENTHAL, Werke als Zeichen, Tiibingen 1 983.

Sulla prassi dell 'applicazione

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presente nel pensiero mitico), bensì dice che l' agire dell'uomo è pericoloso. Perciò il 'rispetto della vita' non si identifica neppure con una affermazione della validità del diritto naturale. 3 . Poiché un noto pericolo del pensiero cristiano è quello di considerare il mondo attuale solo come un mondo provvisorio e di trattarlo di conseguenza, la funzione ermeneutica dell'etica del rispetto tende a privilegiare determina­ te tradizioni e determinati effetti del Nuovo Testamento rispetto ad altri26•

GIOIA

La gioia carismatica è in parte di origine estatica, è un dono dello Spirito, un bene escatologico, una partecipazione al mondo celeste, e la salvezza celeste o escatologica è in parte semplicemente descritta come gioia27• Poi­ ché è anche possibile esortare a gioire (un' esortazione questa difficile da assecondare per noi uomini odierni), come avviene in l Ts 5 , 16; 2 Cor 1 3 , 1 1 , la gioia è nello stesso tempo riconoscibile come comportamento uni­ tario, complesso e ricco di valori, in ogni caso essa comporta in parte gli aspetti della perfezione e dell' eliminazione dell' adesso e del poi . Possiamo anche dire che la gioia è il lato soggettivo del discorso della 'gloria' . La 'gioia' è perciò adatta come nessun altro criterio a cogliere i lati psi­ chici, dal momento che nel suo caso si tratta del rapporto tra condizione redenta e agire, dell' eliminazione dell' estraniamento tra dovere e fare28• La gioia non significa solo l' unità della giustificazione e dell' etica (oppure: le affermazioni teologiche del Nuovo Testamento sulla gioia sono una base genuina per la soluzione di questo problema) , bensì significa oltre a ciò anche qualcosa di sperimentabile, una forza e una motivazione sperimenta­ bili. È perciò comprensibile che in 2 Cor 1 ,24; 1 3 , 1 1 essa sia detta la somma dell' esistenza cristiana. Inoltre con la gioia . scompare ogni sospetto di etero­ nomia.

,. Per esempio: prima della tradizione della scomparsa della vecchia creazione alla fine (Ap 2 1 ) o della consumazione degli elementi tra le fiamme (2 Pt 3), bisognerebbe, quando s i tratta di assu­ mere come conseguenza un determinato comportamento verso la creazione, porre l' accento su quelle affermazioni che non prevedono una catastrofe cosmica finale (per es., sull'escatologia come processo di Ef e Col; dove Gesù Cristo è il mediatore della creazione, non si parla mai di una catastrofe finale annientante il mondo, neppure in Eb). 27 Cfr. al riguardo K. BERGER, chdiro, in EWNT III, 1 079- 1083; chdra, ibid., 1087- 1090. " Cfr. ad esempio Le 15,6.9.32; Gv 14,28; Mt 5 , 1 2; l Pt 4, 1 3 ; Fil 3, 1 ; 4,4. 10; l Ts 5 , 1 6; 2 Cor

1 3, 1 1 .

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terza parte

Essa può perciò assumere una particolare importanza come criterio erme­ neutico: l . La gioia è un 'interruttore' religiosamente (estaticamente, escatologica­ mente, carismaticamente) fondato e posto tra il fondamento salvifico e l' agi­ re. Essa esprime il fatto che la salvezza concessa può e deve significare non solo «sotto l' aspetto teologico», bensì anche in base all'esperienza una libe­ razione che rende capaci di agire con gioia (in tedesco qualcosa di simile esprime il termine Gebefreudigkeit, gioia di dare, generosità) . 2. In concreto questo criterio rappresenta una domanda rivolta ad ogni applicazione: nell' effettuare un' applicazione si tiene conto del fatto che il cristianesimo è possibile e teologicamente legittimo soltanto come supera­ mento del contrasto tra essere e dovere, come fare gioioso? I comandamenti cristiani non sono infatti delle norme che impongono un dovere, ma sono aspetti della stessa realtà posti con la religione cristiana. 3. Perciò l' applicazione effettuata nella predicazione cristiana è legittima soltanto se essa possiede una affinità con la facilità, con la spontaneità, con la liberazione (anche dalla tendenza ossessiva ad adottare quelle rispettabili abitudini di vita, che sono naturalmente capaci di venire a patti con qualsiasi sistema) , con il gioco, con l' entusiasmo e con l' eliminazione della noia. Contrari a ciò sono pertanto la costrizione e la minaccia come contenuto prevalente della predicazione. 4. La gioia come criterio non significa ricevere solo cose piacevoli da ascoltare o procedere solo con comodità, bensì è finalizzata alla radicalità ed è con essa apparentata. E l' opzione in favore di elementi carismatici come quello della 'gioia' non significa promozione di qualsiasi 'movimento cari­ smatico' .

4. Reperimento di norme concrete

NECESSITÀ DI NORME

Le norme sono direttive in fatto di comportamento per determinati grup­ pi, direttive che presentano uno specifico contenuto o che sono anche detta­ gliate e che hanno un carattere vincolante. Il problema ermeneutico sta in questo: poiché la lettera della Scrittura vale solo per l' ambiente e per la situazione ristretta in cui essa fu anticamente recepita, occorre via via trova-

Sulla prassi dell 'applicazione

1 73

re nuove norme vincolanti per i gruppi ecclesiali. Alcuni rappresentanti classici della teologia protestante rifiutano nettamente l' elaborazione di simili norme (al di là della Scrittura), come fa ad esempio M. Lutero nel Sermone sulle buone opere del 1520, dove egli ammette come unico criterio etico la 'fiducia' 29• Già E. Troeltsch criticò in modo pertinente questo orien­ tamento, e la sua critica è stata portata avanti da M. Horkheime�0• Diversa è la posizione di R. Bultmann. Di fronte a una eteronomia della legge e a una autonomizzazione di norme, egli riconosce solo la validità del comandamento dell' amore e respinge qualsiasi etica che stabilisca norme concrete3' . Unico tema dell' etica è in lui la libertà dell' essere se stesso dona­ to nella fede, e ciò a debita distanza da tutte le dipendenze naturali e sociali. H. E. Todt parla qui di paure del contatto di R. Bultmann nei confronti di tutti i contesti naturali e sociali; l' essere se stesso sottolineato da Bultmann non verrebbe in ogni caso posto in relazione con il campo delle norme pub­ blicamente in vigore, e Bultmann difenderebbe in continuazione la trascen-

"' Secondo questo scritto di Lutero 'tutte le opere' diventano 'uguali' nella fede (WA 6,206). Infatti il modo in cui uno deve comportarsi lo insegna soltanto la fiducia, perché tutto l'essenziale avviene tra l'uomo e Dio (WA 6,207). - Questo significa: l' agire viene liberato dall'osservanza del comandamento e trasformato in spontaneità. Il timore della giustizia delle opere conduce qui a rinunciare a qualsiasi contenuto concreto. In questo modo però la tensione esistente tra etica indi­ viduale e riferimento alla comunità non viene dissolta in misura sufficiente. Ognuno viene lasciato solo con la decisione della propria coscienza (come dicono con frequenza anche nel presente cri­ stiani evangelici disorientati). In questo modo si prepara però il distacco dell'etica dalla religione, che caratterizza in larga misura il protestantesimo moderno nell' Europa occidentale. E questo tipo di scomparsa dell'etica nella religione, come quella praticata in Lutero, comporta necessariamente come contraccolpo una eticizzazione della religione quale quella attualmente diffusa. Di fronte alla problematica di Lutero (che era nella sua epoca giustificata) dobbiamo dire: d'importanza essen­ ziale dal nostro punto di vista non è solo il rapporto tra Dio e l' uomo, bensì anche la fantasia con­ creta che costruisce su questa base. 30 E. TROELTSCH, Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen l, Ttibingen 1 96 1 , 1 74: «Per i teologi evangelici l' idea di un contenuto determinato dell'ethos cristiano è andata così smar­ rita che tutto questo ethos si risolve per essi nel rifiuto delle buone opere e nella giusta definizione della grazia comunicante le energie morali, mentre dal lato del contenuto esso degenera in una totale mancanza di determinatezza>>. Cfr. al riguardo M. HoRKHEIMER, Kritische Theorie l, 1968, 27 1 [trad. it., Teorica critica, Einaudi, Torino] : « .. .infatti la religione fu così a lungo privata di un contenuto chiaro e determinato, formalizzata, adattata, spiritualizzata, relegata nella interiorità più intima del soggetto, fino a che essa venne a patti con ogni modo di agire e con ogni prassi pubblica che era corrente in questa realtà ateistica». " Cfr. R. B ULTMANN , GuV l, 239: «Il comandamento dell' amore dà fiducia all'uomo, presume che nella concreta situazione della vita egli veda il suo prossimo o sappia cosa fare. (Nota: cfr. l' di Agostino). Non esiste pertanto un'etica cristiana, intesa come una intel­ ligente teoria circa quello che il cristiano ha da fare e da omettere>> [trad. it. , Il comandamento cri­ stiano dell 'amore del prossimo, in Credere e comprendere, Queriniana, Brescia 1 977, 256-257]. Il cristiano dovrebbe sempre decidere se vuole amare o no.

1 74

terza parte

denza dell' essere se stesso credente contro ogni sua immersione nel relati­ vo32. Anche qui vediamo come l ' ermeneutica di Bultmann, così come l' ermeneutica di Gadamer e della filosofia della riflessione, si riferiséano soprattutto alla comprensione. Esse guardano, come diventa qui particolar­ mente riconoscibile, alla comprensione del singolo33• La posizione di Bultmann permette di riconoscere bene che la posizione assunta verso il fenomeno della 'sfera pubblica' dà qualche indicazione cir­ ca l' importanza etica di un' ermeneutica. Mentre in Lutero (cosa che non stupisce più di tanto) e in Bultmann questo fenomeno non compare, nel nostro schema esso ha una duplice funzione: l . La sfera pubblica è l' orizzonte della plausibilità di decisioni non garan­ tite da norme. Esiste una specie di 'coscienza pubblica' , che è oltremodo importante per lo sviluppo di un'etica concreta e che non mira affatto solo ad attenuare esigenze radicali. Vero è piuttosto che un determinato stato del­ la coscienza pubblica non può di regola essere più semplicemente revocato. 2. La sfera pubblica è in linea generale il campo dell' agire (anche di quel­ lo più privato) ed è perciò anche il campo della validità delle norme e della loro obbligatorietà. E in essa esistono dei cerchi concentrici e sovrapponen­ tisi. Di qui deriva la necessità di norme anzitutto generali, desunte da qualsia-. si antropologia che prenda sul serio la natura sociale dell'uomo, poi di nor­ me particolari, atteso il fatto che la realtà del cristianesimo è una realtà ecclesiologica34• Proprio qui sta la carenza perlomeno in R. Bultmann. Inol­ tre io vedo le norme come accordi limitati, per cui il problema del legalismo nella misura temuta da Lutero e Bultmann si fa meno pressante. Quanto poi alla prassi del reperimento delle norme come problema erme­ neutico dell' interpretazione della Scrittura, io considero i punti menzionati qui di seguito come particolarmente importanti.

" H. E. TbDT, Rudolf Bultmanns Ethik der Existenztheologie, Giitersloh 1978, 1 0 1 - 1 03 . " Cfr. R . BULTMANN, GuV II, 27 1 : «L' uomo trova s e stesso unicamente nella solitudine radica­ le . . . comunione nel trascendente ... comunione in Dio» [trad. it., in Credere e comprendere, Queri­ niana, Brescia 1 977, 624] . Questo essere se stesso è naturalmente trascendente rispetto alla natura e alla società. 34 Cfr. al riguardo la mia voce Kirche l, Il, in TRE XVIII, 1 98-2 1 8.

Sulla prassi dell 'applicazione

1 75

IL NUOVO TESTAMENTO: UN MODELLO

Nel senso della concezione ermeneutica, qui determinante, del carattere di immagine e di parabola della Scrittura, dobbiamo dire a proposito dell' applicazione: la Scrittura non è il principio generale da applicare (come una legge), ma è il concreto paragonabile. Questa concezione è diametral­ mente opposta a quella di H. G. Gadamer, perché secondo Gadamer il testo rappresenta nell ' applicazione la generalità ( classica)35• La categoria del modello etico non era sconosciuta neppure agli autori del Nuovo Testamento (cfr. la ' sequela' nei vangeli e !"imitazione' in Paolo; i generi letterari dei racconti di esempP6 e degli esempi) . Questa concezione ha le sue radici nella teoria antica dell' exemplum e, quindi, nell' importanza ermeneutica dell' affettività, perché il «verba docent, exempla trahunt», qua­ le una delle proposizioni chiave della pedagogia retorica antica, si riferisce espressamente alla commozione e all ' affettività. «L' esigenza di essere vin­ colati senza sistema è l' esigenza di modelli di pensiero . . . Il modello coglie lo specifico e più dello specifico, senza vanificarlo nel suo concetto più generale sovraordinato»37• Un modello non fornisce alcunché di astratto, ma opera piuttosto sulla base del collegamento tra riferimento all ' affettività e riferimento al mondo. I modelli, poiché hanno di regola a motivo della loro compattezza una struttu­ ra drammatica, 'operano' mediante il 'contagio' e si rivolgono direttamente all ' istinto di imitazione. La traslazione ermeneuticamente importante avvie­ ne quindi in modo preconcettuale, così come avviene anche nel caso dei segni. La sua normatività non nasce quindi attraverso la via dell' astrazione extrastorica. Né i modelli operano pertanto come consigli isolati, bensì in quanto influenzano l' uditore. Questo influsso rende poi possibile un nuovo agire. Inoltre essi, in quanto simboli, si riferiscono in modo fondamentale alla società (carattere ecclesiologico: la chiesa come un mondo di exempla). Il vantaggio di un orientamento ermeneutico ai modelli sta soprattutto nei punti seguenti:

" H. G. GADAMER ( 1 975), per es. 295 [trad. it., 358] (tradizione e applicazione come rapporto tra universale e particolare). " Per esempio, in Le 1 0,25-37 alla domanda di tipo casistica viene data una risposta mediante un racconto, che come tale non va imitato alla lettera, ma è un modello di come nasce una relazio­ ne tra 'prossimi' . Luca risponde con un exemplum, che nel suo tempo poteva essere capito e accet­ tato anche dai pagani. " TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, Frankfurt/M. 1966, 37 [trad. it. , Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1 970, 28).

1 76

terza parte

l . Diversamente da come avviene nel caso della semplice applicazione di

un principio generale, il carattere di modello della Scrittura salvaguarda la libertà dell' applicazione, anzi solo così si capisce che la libertà è un dato centrale dell ' applicazione. In questo modo si evita l' eteronomia. Invece H. G. Gadamer nega espressamente il legame tra applicazione e libertà. Pertan­ to la concezione del carattere di modello etico della Scrittura si accompagna alla rivalutazione proposta in questa ermeneutica della soggettività e dell ' individualità. Infatti se le affermazioni della Scrittura sono un modello, non si lede né l' individualità storica della Scrittura né quella dell'interprete. Lo scopo è quello di non eliminare la dimensione della storia (qui dello sto­ ricamente individuale) . Il modello tipico è l' analogo. 2. La libertà dell' applicazione non è salvaguardata solo perché la concre­ tezza del modello impedisce che esso sia direttamente imitato, bensì anche perché il modello non è accessibile astrattamente, ma mediante un' esperien­ za e una conoscenza dei valori che non sono limitate al solo- morale e soprattutto al solo-razionale (parola d' ordine: grande sensibilità). 3. L' importanza pratica dell'etica del modello sta nel fatto che essa forni­ sce aiuti mediante analogie e una motivazione mediante l' influsso. 4. I testi neotestamentari, presi come immagini nell' applicazione, non sono da parte loro semplici illustrazioni di norme concettuali. Con W. Iser io sono dell' opinione che bisogna respingere la questione del messaggio che sta 'dietro' il testo, come se tale messaggio fosse un kerygma da concepire concettualmente38• 5. L' orientamento a testi come modelli non significa rinuncia a norme in generale, ma è una risposta alla questione della validità di norme passate. Ciò corrisponde pertanto al nostro concetto di norma, che avevamo concepi­ to come universalità limitata nel senso di convenzioni valide temporalmente e spazialmente limitate. 6. La nostra concezione non mira perciò a cancellare le norme, bensì a salvaguardare la libertà nella elaborazione di nuove norme: le affermazioni etiche e le 'scenette' della Scrittura non sono, così come esse là suonano, nello stesso tempo norme oggi valide. Occorre piuttosto formulare nuova­ mente delle norme - qualora esse siano concepite come accordi limitati per questo tempo e per le sue necessità.

38 W. ISER, Der Akt des Lesens (UTB 636}, Miinchen 1 976, 1 4.

Sulla prassi dell 'applicazione

1 77

C OMPROMESSI D' importanza centrale per il reperimento di norme di fronte alla Scrittura è il problema del compromesso nei confronti delle affermazioni bibliche radicali e delle esigenze esagerate che da esse derivano. Noi cerchiamo di affrontare questo problema presupponendo vari piani, su cui le norme etiche svolgono un ruolo.

l. La norma fondamentale sovraordinata Norme del genere si trovano spesso nella Bibbia sotto forma di serie di norme e hanno spesso un carattere protrettico39, come ad esempio comanda­ menti del decalogo quale quello di «Non uccidere» o «Non resistere al male», «Amate i vostri nemici...» (rinuncia alla violenza come ideale del discorso della montagna) . Nella loro qualità di norme protrettiche queste brevi formulazioni sono di regola generali (perciò formulate negativamente) e 'radicali ' .

2 . La norma di fatto in vigore Queste norme rappresentano già dei compromessi rispetto a quelle men­ zionate sotto il punto l . Così, per esempio, il divieto di uccidere non vale più in caso di legittima difesa o di tirannicidio, così come non vale più il comandamento di rinunciare alla violenza qualora sia necessario difendere il prossimo da una aggressione ecc. - In ogni caso le norme di fatto vigenti limitano fortemente la portata della validità delle norme fondamentali sovraordinate. Già lo stesso Nuovo Testamento presenta in questo senso soprattutto in Paolo (l Cor) e nelle lettere pastorali - un' etica compromisso­ ria. - Con questo pensiamo a quella morale che tiene conto della situazione e che rende possibile la convivenza nella comunità e nella società.

'" Cfr. al riguardo K. BERGER, Formgeschichte des Neuen Testaments, Heidelberg 1984, § 62, 2 1 7-220. Protrettiche sono le norme centrali che riguardano sempre l' orientamento di fondo. Inve­ ce le norme casistiche entrano nei dettagli.

178

terza parte

3. La

norma giuridicamente in vigore

Le leggi statali (o in parte anche ecclesiali) limitano ulteriormente la por­ tata delle norme vincolanti e la riducono al minimo socialmente necessario e esigibile. 4. La

norma realizzata di fatto nell'azione

Ciò che di fatto viene realizzato si colloca spesso al di sotto delle norme menzionate nel punto 2 e 3. I quattro gradi diventano chiaramente via via meno radicali. Il divario esistente tra l'esigenza radicale (l) e la morale che tiene conto della situa­ zione (2) si ripropone ancora una volta tra la morale che tiene conto della situazione e il fare effettivo (4). Perciò si fanno regolarmente sempre perlo­ meno due compromessi, quello tra il punto l e il punto 2 e quello tra il pun­ to 2 e il punto 4. È perciò cosa problematica se si possa presentare il com­ promesso effettuato nel punto 2 già come la massima attenuazione possibile, perché poi si stabiliscono automaticamente ulteriori compromessi. Un com­ promesso effettuato totalmente verso il basso nel punto 2 va contro il crite­ rio sopra illustrato della radicalità di principio. Una applicazione leale della Scrittura non può essere effettuata dichiaran­ do semplicemente 'non valide' le norme menzionate nel punto l; occorre piuttosto tener fede alla loro validità incondizionata in modo tale che ogni compromesso escogitato (quanto menzionato nei punti 2, 3 e 4) possa essere in continuazione da tali norme criticato. Con questo intendiamo dire: nel caso di ogni compromesso occorre domandarsi se si è realmente sfruttato in modo completo nella direzione della radicalità il margine esistente di azione40•

40

Due esempi possono chiarire come esigenze bibliche, che sono condizionate dal bisogno della

situazione, possano in questo senso pervenire nuovamente a una rinnovata radicalità: se una volta il comandamento dell'amore dei nemici di

Mt 5,44

era riferito soprattutto all'inimicizia personale

e alle liti tra vicini (cfr. gli specchietti dell'esame di coscienza), adesso grazie alla peculiarità della situazione e nello stesso tempo grazie a un rinnovato ricorso alla Scrittura diventa di nuovo visibi­ le un tratto della radicalità originaria, in quanto quella proposizione viene riferita soprattutto ai gruppi di nemici (valutazione di più vasti conflitti sociali con conseguenze importanti per ognu­ no). La stessa cosa avviene con i comandamenti biblici relativi all'elemosina. Se fino al secolo

XIX essi erano spesso interpretati, nel senso del pauperismo, soltanto come un invito a donare volentieri, una loro applicazione aggiornata è sicuramente tenuta a imporre a ognuno dei sensibili oneri sociali.

-

l'applicazione.

I due esempi mostrano qualcosa dell'importanza della 'coscienza pubblica' per

179

Sulla prassi del!' applicazione

lo presuppongo perciò un movimento critico dal punto l al punto 4, e precisamente in modo tale che ogni punto superiore critica via via quello inferiore. Questo movimento critico è necessario a motivo del principio che impone di evitare l'autocontraddizione religiosa. Si tratta infatti dell'impor­ tanza pratica del criterio della radicalità. Detto in termini della storia delle forme: i testi protrettici non vanno letti in senso legalistico, però vanno letti come testi vincolanti e precisamente nel senso di un principio critico. In questo modo salvaguardiamo la norma di volta in volta più radicale e la sua funzione di segno, e fortunatamente nella storia del cristianesimo ci sono sempre stati uomini che con la loro stessa esistenza esteriore ricordaro­ no in modo simbolico la validità delle norme radicali4'. Già la morale che tiene conto della situazione (punto 2) è legittimata solo come il massimo del via via possibile. Dall'altro lato essa significa, rispetto alla radicalità astratta delle esigenze menzionate nel punto l, la possibilità di una concreta fanta­ sia, creatività e scansamento dell'ipocrisia e, soprattutto, del radicalismo verbale. Invece l'orientamento alle esigenze radicali sottostà al principio dell'autocontraddizione religiosa anche perché il cristianesimo si richiama di per sé al proprio inizio, in cui si trovano le esigenze radicali. Dall'altro canto esiste anche un movimento dal punto 4 al punto 2, perché la plausibilità delle norme trovate in modo compromissorio può anche deri­ vare dalla prassi. Il fare pratico può svilupparsi in modo più o meno esigen­ te. Poiché gli uomini non esistono per le norme ma viceversa, anche la realtà del momento, in cui gli uomini devono vivere con norme e mediante norme, possiede un'importante funzione critica. Il problema sta perciò sem­ pre nel sapere se gli uomini possono vivere con le norme e mediante le nor­ me. Mentre nel movimento critico sopra descritto si tratta della ripercussio­ ne della radicalità religiosamente fondata, qui si tratta piuttosto di 'umanità'. Tuttavia non può naturalmente essere il bisogno a stabilire che cosa occorre­ rebbe fare, bensì dobbiamo piuttosto dire: in ogni caso, per arrivare a trova­ re norme concrete, ci vuole la collaborazione di ambedue i movimenti. Una delle conseguenze concrete di questa concezione è la seguente: pure le stesse affermazioni bibliche assumono, in una applicazione leale, un valo­ re diverso a seconda del loro genere letterario, e qui vediamo che la storia delle forme può avere una rilevanza ermeneutica: ad esempio, le affermazio-

., Così io interpreto l'affermazione di J. Blank: «Ogni traduzione in pratica del testo deve mostrare che l'uso della violenza è un segno del mondo irredento, che ha urgentemente bisogno di redenzione e quindi... dei segni della non violenza»

Orient. 46 (1982) 157-163.213-216.220-223,

qui

161).

(Gewaltlosigkeit - Krieg - Militiirdienst,

in

1 80

terza parte

ni protrettiche vanno eventualmente42 trattate in modo diverso (cioè come norme critiche supreme) dalle affermazioni molto condizionate storicamente e situazionalmente (come, ad esempio, le affermazioni di l Cor l l , l ss.; l Tm 2). Neppure gli stessi compromessi concreti e il loro contenuto possono essere il più delle volte adottati a scatola chiusa; solo il modo e la via forma­ le della ricerca e della definizione del compromesso possono servire da modello. Detto in altre parole : i compromessi già testimoniati nel Nuovo Testamento sono qualcosa di diverso dalle norme supreme; essi vanno valu­ tati e relativizzati come una morale storicamente43 e situazionalmente condi­ zionata e vanno considerati come un possibile modello storico della traspo­ sizione della radicalità iniziale. I testi protrettici individuati dalla storia delle forme non devono natural­ mente impartire delle direttive concrete per l' applicazione.

LA CASISTICA È NECESSARIA ?

Mentre per M. Lutero e per R. Bultmann non solo le norme, bensì in par­ ticolare le norme casistiche sono il compendio del legalismo da evitare ad ogni costo, una ermeneutica orientata alla concretizzazione della prassi etica e a norme di portata limitata non può rinunciare alla casistica. Uno sguardo spassionato al Nuovo Testamento mostra infatti che il modo di procedere vi è simile. E. Kasemann ha detto al riguardo il necessario44• Come ho già accennato sopra, io non penso che la casistica neotestamentaria vada adotta­ ta come là suona, bensì che la via, lungo la quale gli autori neotestamentari

42 Questa limitazione è importante, perché non bisogna introdurre surrettiziamente l' idea che i testi biblici porrebbero di per sé delle 'esigenze' anche ai lettori odierni dei testi. 43 Con questo non intendiamo naturalmente dire che le esigenze radicali menzionate nel punto l non siano storicamente condizionate. Esse rispecchiano solo l' intenzione del testo in altro modo; sulla soluzione di questo problema cfr. quanto abbiamo sopra detto a proposito della lealtà. 44 E. KAsEMANN, Gruruisiitzliches zur lnterpretation von Rom 13, in Id., Exegetische Versuche und Besinnungen II, Gottingen 1 964, 205 : il Nuovo Testamento porrebbe «incessantemente in modo quasi casistico singole esigenze». «Nel Nuovo Testamento>> la grazia «farebbe valere il pro­ prio diritto mediante un gran numero di singole esigenze, la qual cosa significa che essa ci prende a proprio servizio in tutti i nostri rapporti e con tutto il nostro patrimonio, quindi con il nostro mondo e il nostro mondo con noi>>. Sullo sfondo si delinea una concezione dell'importanza teolo­ gica del mondo chiaramente diversa da quella di R. Bultrnann: mentre in R. Bultmann la fede è 'demondanizzazione' (decisiva è la libertà nei confronti del mondo), in Kiisemann vengono sottoli­ neate la responsabilità del credente nel mondo e le pretese che la fede avanza nei confronti del mondo e del servizio dei cristiani nel mondo.

Sulla prassi dell 'applicazione

181

sono arrivati a fare tali affermazioni, possiede un carattere di esempio e di modello.

C RmCA DELLE RAPPRESENTAZIONI DEL FINE

Nella discussione teologica ci si rende chiaramente troppo poco conto delle rappresentazioni del fine che fungono da guida nella formazione delle singole norme. Le rappresentazioni del fine sono strettamente collegate con specifici temi religiosi (attese escatologiche e utopie circa il futuro). Il nesso per noi importante tra religione e etica è rilevante anche qui. Nel caso delle metafore bibliche occorre per prima cosa vedere se esse evocano oggi delle associazioni che sono problematiche; ciò riguarda, ad esempio, l' uso della metafora del dominio per descrivere il fine escatologico, come ad esempio Le 1 9, 1 7 . 1 9 par; Ap 20,6; 22,545• Una serie di rappresentazioni del fine sino ad ora indiscusse sembra del tutto problematica46• La maggior parte di queste rappresentazioni del fine parte dal fatto che il dolore fisico e psichico e la morte vadano evitati o pro­ crastinati ad ogni costo. L' immagine ideale è l' ozio e il riguardo per l' indi­ viduo. Viceversa alcuni tratti dell ' immagine biblica dell'uomo, di tipo reli­ gioso, potrebbero avere un' utile funzione correttiva. Qui non si tratta solo della critica mossa dalla santità alla illimitata volontà di vivere, bensì anche della dialettica tra dono di sé e recupero di sé, nonché della preminenza del cuore rispetto ad ogni benessere puramente esteriore. - In una diversa ma simile direzione va la domanda posta da D. Ritschl: la rappresentazione cri-

., Per il tempo del Nuovo Testamento il 'dominio' , la sovranità, il regnare, sono chiaramente

l 'unica possibilità di descrivere la libertà. Gli oppressi di oggi sono pensabili solo come i regnanti

di domani. Oggi la pensiamo diversamente al riguardo (influsso della rivoluzione francese sul nostro modo di pensare?). Qui, nell' applicazione, occorre perciò badare all'effetto che questo tipo di linguaggio produce sull' ascoltatore. - La base metodica di queste osservazioni non è il - vano ­ tentativo di esercitare una critica oggettiva, bensì la critica della ricezione. - Per quanto riguarda Luca possiamo dire: egli approva la 'pulsione del dominio' così come approva la 'pulsione del possesso' e si attende da Dio solo un' altra ripartizione dell' uno e dell' altro. In questo modo egli interpella sì gli uomini e i loro interessi, però Dio è e rimane il Signore. "" Di ciò fa parte una serie di ideali del Paese della Cuccagna, come lo scansamento ad ogni costo del dolore (conseguenza concreta: iniezioni contro il dolore ad ogni intervento del dentista; l' ideale del parto indolore reso possibile da iniezioni; il prolungamento della vita secondo criteri di possibilità puramente cliniche; deprezzamento del lavoro per avere il maggior tempo libero possi­ bile; riposo e cura ansiosa della salute ad ogni costo; uso illimitato della tecnologia come fine dell'esistenza dell 'uomo).

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terza parte

stiana del fine è «l'uomo perfetto», pienamente autosviluppatosi e piena­ mente capace di adattarsi47, oppure l' amore non è piuttosto necessariamente e permanentemente diretto verso ciò che è imperfetto? I nostri ideali si ispi­ rano troppo alla perfezione e troppo poco all' individualità e originalità? La critica di diffu se rappre sentazioni del fi ne comprende anche qualcos ' altro : il più delle volte l ' applicazione etica della Scrittura dà l' impressione che l' etica cristiana sia concepita in modo puramente altruisti­ co e che si tratti solo e sempre di dare via tutto, senza voler ricevere qualco­ sa in cambio. Questa etica di ispirazione kantiana più che biblica ha come presupposto la perdita dell' escatologia e come conseguenza la perdita della motivazione. Invece la teologia lucana mostra l' importanza del sano egoi­ smo: sia il figliol prodigo che l' amministratore infedele agiscono per il loro ben calcolato e futuro tornaconto. Luca ritiene anche in linea generale che gli uomini aspirino al possesso e al potere. Radicali sono tuttavia qui la disponibilità con cui dobbiamo attenderci da Dio l' appagamento di questi desideri e la ferma decisione di affidarci a una ridistribuzione divina. Per­ tanto il bene non viene fatto «per amore del bene» come nell' etica filosofi­ ca, bensì si colloca in una prospettiva strettamente collegata con il dominio di Dio sulla storia. Pertanto la conseguenza etica comporta indubbiamente la 'radicalità' , però la motivazione non è altruistica. - Se si fosse tenuto mag­ giormente conto di questi tratti della teologia lucana, non si sarebbe arrivati a deformare in modo deleterio l' immagine biblica dell' uomo. Tale deforma­ zione consiste in uno spostamento dell' aspetto della radicalità: secondo Luca 'radicale' è la capacità di essere nel mondo liberi per la volontà di Dio, di . essere sempre schiavi di Dio malgrado le mansioni da svolgere nel mon­ do. Nella rappresentazione deformata del fine radicali sono invece solo il dare via in quanto tale e la sopportazione della mancanza di prospettive ad esso collegata. Come c'è da aspettarsi, questo nessuno lo può a lungo andare sopportare, perché non è una cosa plausibile in se stessa. Il dilemma teologi­ co sta poi naturalmente nell' applicazione quasi non più possibile delle affer­ mazioni escatologiche.

47 D. RITSCHL ( 1 986), 1 60.

Sulla prassi dell 'applicazione

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C OERCIZIONI OGGETIIVE

Nell ' odierna discussione teologica una maggiore attenzione viene riser­ vata al fenomeno dell' 'autonomia' di ordinamenti umani di fatto esistenti e delle coercizioni oggettive che da essi risultano48• - Siamo di fronte a una 'coercizione oggettiva' quando coloro che sono chiamati ad agire non rie­ scono più a vedere, a motivo della situazione e della materia, alcun margi­ ne decisionale per soluzioni alternative. Spesso questa necessità di agire è sul punto di essere istituzionalizzata (come, per esempio, nel caso della ossessione dei regali a Natale). Spesso si tratta perciò di binari nel modo di agire, che non possono più essere semplicemente cancellati, di binari in gran parte moralmente accettati in modo rigoroso e che sono perciò 'più sacri ' di leggi. Poiché spesso si adducono a pretesto 'coercizioni oggetti­ ve' , mentre in realtà si preferisce semplicemente ciò che è più comodo, occorre qui accennare alle possibilità dell ' «applicazione come libertà» . Non di rado però si instaura anche un circolo vizioso: lo stato non può dan­ neggiare rami dell' economia ecologicamente pregiudizievoli, perché vive in modo determinante di essi. Oppure: il lobbismo, l' opinione pubblica e gli strumenti di comunicazione sociale bloccano" misure ragionevoli, ma impopolari, che possono risolvere i problemi. In questo senso valgono le seguenti regole: l . Sfruttare l' anticamera: durante la discussione, prima della fissazione, i margini di azione sono di regola ancora più grandi. 2. Autorità mediante la competenza: una maggiore conoscenza della materia significa una maggior libertà di azione. 3. Rispetto diversificato di coazioni oggettive: occorre distinguere tra ciò che risulta da leggi e ciò che sembra essere predettato solo dalla situazione finanziaria. In ogni caso l ' importante sta nel non rendersi la decisione facile mediante asserite coercizioni oggettive. Regola 1: c'è responsabilità solo là dove si conoscono i dati oggettivi. Per questo motivo esistono ruoli diversi nella società. I cristiani non sono per natura responsabili di tutto. Esiste però una responsabilità sussidiaria, se vengono toccati gli interessi di tutti. Tuttavia anche la percezione di questa sussidiarietà presuppone una competenza. Regola II: le strutture e le istituzioni non sono più rigide degli uomini che le maneggiano. - Dappertutto si tratta di uomini che amministrano e maneg­ giano qualcosa. Pure i detentori di un ufficio hanno bisogno di riposo (Le 4' Cfr. A. HAKAMIES ( 1 97 1 ).

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terza parte

1 8, 1 -8). E viceversa, nella lotta per conquistare margini di azione di fronte ad as serite coercizioni oggettive, moltissimo dipende da coloro che vogliono raggiungere qualcosa, dalla loro credibilità, dalla loro convinzione, dalla loro esperienza del dolore, dalla loro sincerità e non da ultimo anche dal loro desiderio di assumersi personalmente delle responsabilità. Regola III: con la crescente autorità sociale cresce anche la libertà di spezzare coercizioni oggettive. Questa regola, facilmente fraintendibile, è da un lato una conseguenza del principio personale (l' autorità poggia sulla capacità e sul prestigio) ed è dali' altro lato diretta contro l' affermazione spesso fatta dai detentori dell' autorità, secondo la quale essi sarebbero espo­ sti in modo particolarmente intenso a coercizioni oggettive. Con questo intendiamo dire che la libertà di spezzare delle coercizioni oggettive dipen­ de in una società dalla capacità di influire e dal prestigio. Da qui risulta la sicuramente per molti scandalosa Regola IV: la gerarchia ecclesiastica è necessaria per aumentare la possi­ bilità di infrangere coercizioni oggettive intraecclesiali e soprattutto extraec­ clesiali, e proprio nel senso di polene credibili.

M ODELLO DELLE GAMBE DELLA SEDIA

D. Ritschl49 ha dimostrato in modo convincente che, per prendere delle decisioni etiche, non bastano argomenti puramente teologici o addirittura puramente biblici: «In questo modo noi facciamo spesso un buco nell' acqua o pretendiamo dalla Bibbia e dall' argomentazione teologica una forza pro­ bativa che esse non possono fornire. Dobbiamo distinguere tra fondazioni e deduzioni bibliche possibili e necessarie: la maggior parte sono 'possibili' e tollerano una serie di varianti, solo pochissime sono necessarie e unilineari . . . I o ritengo invece che i l 'modello delle gambe della sedia' sia più indovina­ to, quando si tratta di fondazioni nell' etica teologica: come una sedia poggia su più gambe, così anche le posizioni etiche possono tollerare fondazioni multiple e poggiare su più catene probative. La struttura complessa di certi problemi esige addirittura con molta insistenza simili fondazioni multiple . . . Che fondazioni unipolari dirette i n base alla Bibbia e alla dottrina cristiana siano difficili e possibili in modo relativamente raro, è una cosa che vale soprattutto per le richieste positive» (op. cit. , col. 1). Anche altrimenti risul-

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D. RtTSCHL, Urteile, in Unispiegel Heidelberg

l ( 1 998) 7.

Sulla prassi dell 'applicazione

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terebbe che le regole etiche sono più facilmente formulabili in modo negati­ vo che non in modo positivo-prescrittivo. Le conseguenze derivanti da que­ sta concezione sono le seguenti: l . Nella ricerca delle norme, quanto più complessi sono i contesti, tanto meno la Scrittura e la sua applicazione possono da sole fornire argomenti. Più spesso si tratterà di combinazioni di fondazioni. 2. La sola distinzione astratta tra bene e male e tra giusto e sbagliato è spesso insoddisfacente. Questo significa: si tratta di casistica e quindi di un modello che, come si può dimostrare, è più vicino al pensiero biblico che non la suddivisione in bene e male. 3. «< criteri etici negativi (argomenti di rifiuto, criteri di contraddizione) sono spesso fondabili in modo più chiaro che non le richieste. I cataloghi etici negativi non dovrebbero essere respinti dai teologi come 'legalistici' » (D. RITSCHL, op. cit. , col. 3). La trattazione così conclusa dei criteri dell' applicazione e della conèreta ricerca di norme rimanda chiaramente, sotto il profilo contenutistico, al di là di una ermeneutica immanente al testo e/o alla coscienza. Ciò vale in mag­ gior misura quando ora ci occupiamo degli artefici concreti dell' applicazio­ ne della Scrittura.

5. Gli artefici dell 'applicazione

I L PRINCIPIO GNOSEOLOGICO

La comprensione e l' applicazione non vanno descritti come atti cognìtivi che sarebbero isolabili dalla realtà circostante. Piuttosto bisogna domandar­ si, a motivo della validità universale del principio del contesto, chi com­ prenda e applichi e a quale scopo ciò avvenga. L' importanza del contesto sociale e etico costituisce perciò un tema dell' ermeneutica. Rispetto ali ' impostazione idealistica, la questione del soggetto dell' applicazione vie­ ne così posta ancora una volta in modo nuovo. Nelle pagine che seguono effettueremo una riflessione socio-epistemologica sulle condizioni in cui avviene l' innovazione nel campo dell ' applicazione della Scrittura. In questo modo descriveremo quel che io chiamo il tentativo di spezzare il circolo ermeneutico dal lato dell' esperienza del soggetto, quindi in certo qual modo «dal di dentro».

1 86

terza pane

In questa questione qualificata, concernente il soggetto dell' applicazione, punto centrale della riflessione ermeneutica non sono soltanto l' individuo conoscente e la sua autointelligenza, bensì consideriamo tale riflessione piuttosto come un processo sociale. Formulato in relazione alla chiesa que­ sto significa: l' applicazione è sempre un processo dalla dimensione eccle­ siologica. Di essa fanno perciò parte entità come il dialogo, la discussione, le associazioni, i sinodi e i concili, così come la questione di obbligatorietà ecclesiali specifiche per determinati gruppi. Già nel Nuovo Testamento questo risulta del tutto chiaro, allorché la comunità viene sempre esortata nel suo complesso a verificare e cercare quale sia la volontà di Dio (gr. dokimdzein, così in Rom 1 2,2; Ef 5 , 1 0; Fil 1 , 1 9)5°. Queste sollecitazioni hanno un' importanza fondamentale, perché ricorrono spesso nella cornice di esortazioni rivolte a convertitP1 • Perciò possiamo dire che esse occupano il posto dell ' obbligo usuale di osservare la legge nel caso della conversione al giudaismo. Nel caso di queste sollecitazioni si tratta perciò di primi esempi dello sconcerto cristiano di fronte al fatto di non poter adottare nor­ me, ma di doverle sviluppare autonomamente e, precisamente, in modo collettivo. La via principale per trovare collettivamente le norme è senza dubbio la discussione52, anche se non è di sicuro sempre possibile trovarle mediante votazioni a maggioranza. Qui per discussione intendiamo lo scambio di argomenti, e discutere bisogna anziché richiamarsi a un immaginario senso collettivo della giustizia. La ricerca collettiva delle norme non è una faccen­ da estremamente precaria solo nella chiesa, bensì pure in tutti gli altri gruppi (famiglia, stato), perché qui di fatto (dal tempo del giudaismo ellenistico con il principio degli 'anziani' ) la soluzione è stata cercata non di rado per via aristocratica e non mediante una votazione a maggioranza tra la massa. Ciò corrisponde a un fenomeno sempre ricorrente nella società umana, cioè al fatto che esistono e devono chiaramente esistere delle autorità (dottrinali). Proprio anche le democrazie mostrano che la formazione critica della volontà è sorretta da minoranze. Le norme non sono infatti spesso concilia­ bili con gli interessi oscillanti e di breve durata di semplici maggioranze. E nel caso di una ricerca a maggioranza delle norme non avrebbero alcuna

"' Cfr. al riguardo K. WENGST ( 1 970). 51 Cfr. al riguardo K. BERGER, Formgeschichte des Neuen Testaments, Heidelberg 1 984, 40. " Cfr. al riguardo, per esempio, M. FR.ANK ( 1 988), coiJ. 4 e 6, che sostiene la necessità deiJa formazione del consenso con questa tesi: occorre «elevare l'intersoggettività neiia vita e nel mondo ad ultima istanza, quando si tratta di dichiarare che qualcosa è valido e vincolante, ed elevare quin­ di ad ultima istanza il valore stesso de Ila socialità>>.

Sulla prassi dell 'applicazione

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possibilità in particolare gli elementi critici del messaggio biblico. Già quando abbiamo parlato della necessità di compromessi, abbiamo accennato ai gruppi che richiamano simbolicamente alla memoria la validità perma­ nente delle norme supreme e radicali. Questa costellazione vale in ogni caso per una situazione di chiesa di popolo.

PERCEZIONE DEL DOLORE

Seguiamo alcune proposizioni di F. Steffenskys3: «Esiste solo un gruppo di persone che può pretendere la particolare protezione da parte di Dio, la sua particolare verità, la sua particolare approvazione. Sono le vittime. La verità è presso le vittime ... Dio elegge ciò che è minacciato ... Il criterio della verità sono le vittime. Nessun grande inquisitore possiede la verità, nessun papa l' amministra, nessun concilio la definisce eccezion fatta per il concilio delle vittime o per il concilio che parla a nome delle vittime, perché esse non hanno più voce». La verità è dunque presso le vittime, perché soltanto le vittime - quelle vere e anche solo quelle possibili - possono scoprire senza mezzi termini quale via non conduce alla vita. Il «concilio delle vittime», che parla per coloro che non hanno più voce, è una metafora indicante i gruppi di uomini che almeno in parte corrispondono a quelle che qui di seguito descriveremo come le 'minoranze critiche' . Per 'vittime' io non intendo qui tutti coloro a cui qualcosa non va bene, tutti coloro che vorrebbero semplicemente avere di più (tempo libero, dena­ ro, prestigio)54, tutti coloro che desiderano semplicemente qualcosa di diver­ so. Per vittime intendo tutti coloro che sono sproporzionatamente troppo svantaggiati nella vita, che sono costretti a vivere tra gli affanni o sono tor­ mentati, che pagano unilateralmente quanto altri godono. Importanti sono perciò le categorie della proporzione e della corrispondenza tra lavoro/fatica

" F. STEFFENSKY ( 1 9 8 1 ), 1 1 1 . " Cfr. al riguardo S. LENZ, Gescprache mit Manès Sperber und Leszek Kolakowski, Hamburg 1 980; i vi L. Kolakowski: