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Italian Pages 242 [248] Year 2009
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COLLANA STUDI
TEOLOGICI
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BEN F. MEYER
Realismo critico e Nuovo Testamento Presentazione di Valter Danna Traduzione a cura di Dionisio Candido
ISTITUTO SUPERIORE DI SCIENZE RELIGIOSE SAN LORENZO GIUSTINIANI
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Copyright © 1989 di Ben F. Meyer Titolo originale: “Critical Realism and the New Testament”, Pickwick Publications, Oregon 1989, U.S.A. Tutti i diritti riservati. © 2009, Marcianum Press, Venezia. Traduzione a cura di Dionisio Candido.
L’autore è grato ai seguenti editori per il permesso di stampa: “Conversion and the Hermeneutics of Consent”, Ex Auditu 1 (1985) 36-46. “Good Will Comes First, But Suspicion Has Its Uses”, pubblicato con il titolo “The Primacy of Consent and the Uses of Suspicion”, Ex Auditu 2 (1986) 7-18. “Did Paul’s View of the Resurrecion of Dead Undergo Development?”, Theological Studies 47 (1986) 363-87. “Objectivity and Subjectivity in Historical Criticism of the Gospels”, commissionato dall’International Institute for the Renewal of the Gospel Studies per il Symposium on the Interrelation of the Gospels, tenutosi a Gerusalemme nell’aprile 1984. “The ‘Inside’ of the Jesus Event”, in M.L. LAMB (a cura di), Creativity and Method: Essay in Honor of Bernard Lonergan, S.J., (Milwaukee: Marquette University Press, 1981) 197-210. “The World Mission and the Emergent Realization of Christian Identity”, in E.P. SANDERS (a cura di), Jesus, the Gospels, and the Church: Essay in Honor of William R. Farmer, (Macon: Mercer University Press, 1987) 243-63. “Critical Realism and Biblical Theology”, Religious Studies and Theology 6 (1986) 39-51. “The Primacy of the Intended Sense of Texts”, commissionato dalla Conference on the Development and Application of Lonerganian Hermeneutics, per essere pubbicato in S.E. MCEVENUE – B.F. MEYER (a cura di), Lonergan’s Hermeneutics, (Washington: Catholic University Press).
Impaginazione e grafica: Linotipia Antoniana, Padova
ISBN 978-88-89736-67-8
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A Mag, Dor, Ginny, Snook, Nan e Imp
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Presentazione
Molto volentieri presento il noto volume di Ben F. Meyer Realismo critico e Nuovo Testamento che esce finalmente in traduzione italiana a trent’anni dalla sua pubblicazione nell’originale inglese. Benché non sia uno specialista in scienze bibliche, ho accettato l’invito rivoltomi dal traduttore, prof. Dionisio Candido, per il rilevante legame che emerge in questo volume tra il biblista Meyer e il filosofo, teologo e metodologo gesuita Bernard J. F. Lonergan che ha occupato la mia mente in appassionanti studi filosofici. Meyer frequentò l’Università Gregoriana in Roma negli anni in cui Lonergan vi insegnava e discusse il suo dottorato proprio nel 1965, anno in cui Lonergan terminava il suo servizio di insegnamento e ritornava in Canada a causa di una grave malattia che fortunatamente si risolse positivamente consentendogli di portare a termine la sua impresa metodologica con la pubblicazione di Method in Theology1 a cui Meyer fa ampiamente riferimento nel volume qui presentato. Leggendo il libro di Meyer, è immediato notare e apprezzare la conoscenza approfondita e l’uso appropriato che questi fa dei capisaldi del pensiero epistemologico e metodologico di Lonergan, soprattutto la sua competente applicazione nel campo degli studi biblici e, in particolare, nell’analisi e nella comprensione del Nuovo Testamento. Lo stesso Meyer afferma (cf. prefazione a questo testo): «Si tratta dell’impatto trasformante che la sua [di Lonergan] fenomenologia della coscienza e la sua teoria dell’oggettività hanno avuto sui miei sforzi di dare senso al modo con cui diamo senso alle cose». Ciò comportò un rifiuto del concettualismo conoscitivo e del realismo ingenuo (tipico di una certa scolastica) e la scelta pienamente consapevole del realismo critico che il pensatore canadese aveva formulato con lucidità e chiarezza impareggiabile. Nei sette tratti con cui, nella sua prefazione, sintetizza il realismo critico applicati poi nei vari saggi del volume, Meyer dimostra di
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Edizione italiana a cura di N. Spaccapelo e S. Muratore: B.J.F. LONERGAN, Il metodo in teologia (Roma: Città Nuova, 2001).
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aver acutamente afferrato (ecco il famoso insight lonerganiano, che traduce il noein di Aristotele e l’intelligere di san Tommaso d’Aquino) tutto lo sforzo metodologico profuso da Lonergan di porre prima le operazioni cognitive e l’epistemologia e poi l’ermeneutica. Il progresso conoscitivo non si fonda sulla centralità dei prodotti conoscitivi di un pensatore o di una scuola, perché si tratta di concetti e formulazioni inevitabilmente segnati dalla storicità e dal grado di differenziazione di coscienza relativo all’autore e al suo ambiente culturale; bensì tale progresso è sostenuto dal dinamismo conoscitivo della coscienza intenzionale che incentrandosi sulla comprensione corretta ed esaustiva (nella misura in cui ciò è possibile) dei dati e dell’evidenza sufficiente giunge alla formulazione motivata e ragionevole di giudizi veri, i soli che permettono l’accesso alla realtà, che non è ciò che noi troviamo “già là fuori ora reale” (il mondo immediato dell’infante) bensì l’universo dell’essere, mondo mediato dal significato e dal valore. Contro un approccio puramente positivistico che enfatizza il lato meramente fattuale (come se dati e fatti non necessitassero di teorie per essere compresi), Lonergan elabora le categorie di un’ermeneutica scientifica (cap. XVII di Insight 2 e Method in Theology). In una tale ermeneutica bisogna partire dal fatto che tutti i testi, i documenti e i monumenti del passato sono solo segni sensibili che mostrano un ordine spaziale. Ogni intelligibilità che si può dare a quei segni si trova solo nell’interprete e dipende dalla sua capacità di interpretare: il «là fuori» fornisce solo un criterio per pubblicare testi, documenti o fotografie di iscrizioni su monumenti e sarcofagi. Non è dunque comprendendo il meno possibile che si arriva a comprendere correttamente i pensatori e i protagonisti del passato, ma questo fine è raggiunto nella misura in cui si comprende quanto più si può. Non dobbiamo aver paure di idee preconcepite: «Chiunque sia cresciuto oltre l’infanzia – afferma Lonergan – ha un qualche sviluppo del comprendere e l’unico modo per eliminare quelle idee è il ritorno all’infanzia». Il modo corretto di considerare l’interpretazione è di sviluppare il più possibile l’intelligenza: «L’interpretazione del passato è il recupero del punto di vista del passato e questo recupero, in quanto opposto a mere proiezioni soggettive, può essere
2 Edizione italiana a cura di S. Muratore e N. Spaccapelo: B.J.F. LONERGAN, Insight. Uno studio del comprendere umano (Roma: Città Nuova, 2007).
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Presentazione
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raggiunto solo afferrando esattamente che cosa sia un punto di vista, come i punti di vista si sviluppino, quali leggi dialettiche governino il loro dispiegarsi storico» (Insight). Accrescendo la comprensione della dialettica insita nel nostro stesso essere e la comprensione di noi stessi (premesse per la realizzazione della triplice conversione di cui Lonergan parla in Method), noi abbiamo maggiori possibilità di comprendere gli altri e di situarci dal presente nel passato raggiungendone la comprensione di testi, filosofie e culture. Tutto ciò implica che, senza la comprensione delle differenze tra il realismo critico e altre posizioni epistemologiche (realismo ingenuo, empirismo, positivismo, idealismo ecc.), non ci si rende conto che tali differenze epistemologiche si ripercuotono anche su coloro che utilizzano l’ermeneutica e la critica storica. Nella risposta a un Questionario sulla filosofia, Lonergan scrive: «Esistono delle tecniche scientifiche da seguire nei lavori di interpretazione e negli scritti di storia; però queste tecniche non precludono il sorgere di differenze in base alle prospettive filosofiche, morali e religiose di coloro che le utilizzano; perciò l’interpretazione e la storia si devono considerare delle specializzazioni funzionali che devono essere completate da ulteriori specializzazioni quali la dialettica e la fondazione in cui le differenze radicali possono essere trattate non in modo automatico ma almeno apertamente e lucidamente». La specializzazione funzionale dialettica cerca di comprendere il contrasto tra le varie interpretazioni sui dati, e tra le varie prospettive storiche diverse (contesti mentali differenziati, pregiudizi). È lo studio dei diversi orizzonti che costituiscono la fonte nei ricercatori, negli interpreti e negli storici delle differenze nei dati che cerchiamo, nei significati che attribuiamo loro e nei tipi di storia che scriviamo. Nella dialettica, lo studio degli orizzonti porta direttamente al problema dell’orizzonte di chi fa teologia. La fondazione utilizza la tematizzazione della triplice conversione (religiosa, morale, intellettuale) e chiama in causa il teologo e il suo orizzonte esistenziale come elemento determinante per fare un serio lavoro scientifico: la possibilità di costruire il discorso teologico mette in gioco il teologo stesso e la sua autenticità (conversione). Detto in forma epistemologica, ciò significa che solo una soggettività autentica è la condizione di una piena oggettività. Anche se il contesto della precedente citazione si riferisce all’applicazione del metodo generale di Lonergan al lavoro teologico, è abbastanza chiaro il senso per quanto riguarda lo studio biblico: l’ermeneutica e
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il metodo storico-critico sono accettati da Lonergan ma non senza una previa e solida analisi e critica epistemologica. Questa impostazione mette al riparo anche da eventuali accuse di relativismo e storicismo che sono semplicemente il frutto di una inadeguatezza epistemologica. Il realismo critico, come ben coglie Meyer nel suo testo, aiuta a uscire da un’ermeneutica dell’innocenza che ritiene “già là fuori adesso” il significato di un testo e riconosce la struttura triadica fra lettore, testo e referente (ciò di cui parla il testo) come un circolo ermeneutico fecondo nella misura in cui ci si ponga, appunto, nella prospettiva del realismo critico. L’opportunità di far conoscere un libro come questo anche al pubblico italiano è dunque fuori discussione, non solo perché in sé offre una prospettiva di studio biblico in un ampio orizzonte, ma anche perché esso dimostra in concreto come il metodo lonerganiano possa essere applicato in un campo così cruciale come quello biblico-esegetico e produca certamente un esito fecondo nella direzione di un’appropriazione esistenziale del testo biblico e non solo una conoscenza tecnico-scientifica. VALTER DANNA* Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale Sezione parallela di Torino
* Valter Danna, sacerdote di Torino, laureato in Fisica e in Filosofia presso l'Università degli Studi di Torino, ha studiato Teologia presso la sezione di Torino della Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale. Insegna Filosofia Teoretica presso l'ISSR e la Sezione di Torino della Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale di cui è attualmente Direttore di Sezione. È membro dell'Istituto di Promozione delle Scienze Umane di Perugia.
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Prefazione
L’impulso a scrivere questi saggi aveva due origini. La prima era la tradizione biblica. Quanto più se ne rivelavano le rotture, le deviazioni, le continuità stranamente spigolose e quanto più pensavo alla sbalorditiva forma che ha preso la realizzazione delle sue speranze, tanto più diventavano forti la coerente affermazione biblica di quanto ci ha preceduto e il trionfale successo dei legami con il passato. Il notevole sforzo degli autori biblici di tracciare e affermare questi legami era un marchio tipico della tradizione. Il risultato per il Nuovo Testamento è stato quello di rilanciare alcuni orizzonti che hanno permesso agli elementi di una storia ricca e lunga di essere introdotti in un quadro profondamente coerente – condizione questa della possibilità di una vera teologia “biblica”. La seconda fonte erano le conquiste filosofiche di Bernard Lonergan: più concretamente, si tratta dell’impatto trasformante che la sua fenomenologia della conoscenza e la teoria dell’oggettività hanno avuto sui miei sforzi di dare senso al modo in cui diamo senso alle cose. Sono cresciuto nell’era della nuova critica: un’affermazione della natura “organica” dell’arte e della letteratura e uno sforzo di andare oltre l’interpretazione impressionistica attraverso l’attenzione ai dettagli centrata sul testo. Il punto era di rispondere “adeguatamente” ad opere di una sensibilità matura (Valéry, Rilke, Yeats, Pound…). Le forze che hanno riformato la mia idea di “sensibilità matura” sono state la letteratura biblica e la critica (von Rad e Jeremias); l’Aquinate e Dante; Kierkegaard, Newman e Lonergan; e gli spietati realisti morali da Waugh a Solzhenitsyn. Dal punto di vista filosofico, sono cresciuto all’interno del Tomismo, una tradizione concettuale che non ero in grado di distinguere dall’opera dell’Aquinate stesso. Ma quanto più sono entrato nella critica biblica, tanto meno mi è stato di aiuto l’aspetto concettualistico della conoscenza. All’interno del mio campo di interesse ho fatto successivamente esperienza di qualcosa che somiglia alla tensione che Collingwood percepì tra il realismo di Oxford e la pratica dell’archeologia e della storia intellettuale. Collingwood ruppe con il realismo sotto l’influenza di Croce. Ho imparato da Lonergan che accanto al realismo dottrinale di
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gran parte della Scolastica c’era un realismo che condivideva con gli idealisti tutte le ambizioni dell’intelligenza, ma che, correggendo le concessioni e le sviste della critica idealista, andava decisamente al di là dell’idealismo stesso. Molti studenti di letteratura biblica, tra cui anche i migliori, sono stati contenti di compiere il proprio lavoro senza doverne dare un senso filosofico. Ma noi non scegliamo le nostre ossessioni. Se si è fanatici dello sforzo di dare un senso filosofico all’opera letteraria e storica di qualcuno, che sia così. I miei sforzi in questa direzione non hanno avuto una storia di grandi successi. Ma in qualunque misura abbiano avuto successo, sono stato aiutato a rispettare le diverse esigenze di quest’opera e a liberarmi da incombenze esterne, specialmente delle proibizioni, incoraggiatovi dall’ermeneutica contemporanea. Il realismo critico di Lonergan mi sembrava venire incontro e fornire il rimedio ad ognuno di questi difetti ermeneutici. I tratti salienti di questo realismo emergono nel corso dei saggi che seguono, ma è bene raccogliere insieme qui questi tratti e darne una breve descrizione. Un primo aspetto del relismo critico, dunque, è il suo mettere a fuoco le strutture concrete delle operazioni umane. L’“esistenza” del soggetto umano consiste nel suo “star fuori” (ex-sistere) dal circolo chiuso della routine naturale; si muove dal reale al possibile, dal passato familiare ad un nuovo futuro, dal visto al non-visto e dal finito all’infinito. Alla radice di questa capacità di trascendersi risiede una dimensione interiore – il mondo dell’interiorità o della soggettività – in cui il soggetto trova se stesso. Questo mondo, in realtà, è costituito dalla presenza del soggetto a se stesso nell’atto di essere un soggetto. Qui egli vive le esperienze della meraviglia e della domanda, della confusione e della scoperta, dell’auto-orientamento ora indirizzato verso il compimento, ora verso l’auto-distruzione. Questa esperienza è spesso sconcertante o misteriosa, ma non è caotica. Al contrario, è spontaneamente auto-strutturante: il primo tratto del realismo critico è l’importante premio posto nelle strutture dell’intenzionalità conscia. Il soggetto umano nel suo funzionare conscio (ma non ancora oggettivato) – la sua attenzione, intelligenza, ragionevolezza e responsabilità – è la norma vivente su cui sono misurate tutte le teorie che lo riguardano. Il realismo critico, in breve, è fortemente empirico. Riconosce il primato dell’operare quale istanza particolare dell’autorità del fatto. I fatti dell’operare umano sono, di conseguenza, il primo oggetto della ricerca e l’ultima corte d’ap-
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Prefazione
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pello. È una tecnica tipica del realismo la riduzione di visioni in conflitto fra loro, rispettando ad esempio oggettività e soggettività nella coerenza o incoerenza con il fatto cognitivo. Pertanto, rifiutare una posizione mostrando che è operativamente contraria a se stessa è lo stratagemma preferito dal realista critico. Un secondo aspetto è la correlazione nella definizione di “vero” e di “reale”. Il realismo critico colloca la questione di reale/irreale a livello di senso, soltanto perché la conoscenza in quanto senso fornisce i dati utili al livello più elevato di operazioni, che terminano nel giudizio. È assolutamente vero ciò che è percepito, ma questo viene accertato non attraverso i sensi soltanto, ma grazie alla conoscenza e al giudizio che prendono in considerazione i dati dei sensi. Contrariamente a quanto sostiene Samuel Johnson, il criterio del reale non è la sua concretezza, ma la sua suscettibilità ad essere conosciuto mediante proposizioni vere. Come affermava l’adagio scolastico, ens per verum innotescit: la realtà diventa conosciuta grazie al (l’atto di scoprire ciò che è) vero. Terzo aspetto: l’ermeneutica del realismo critico accorda un primato alla comprensione del significato individuale rispetto alla generalizzazione e all’universale, dal momento che ciò che l’interpretazione immagina non è l’analisi scientifica ma l’insight che penetra quel significato del testo che, per quanto sia rappresentativo o allusivo, è contestualmente unico. Per capire Euclide ci vuole uno sforzo, ma si tratta di uno sforzo matematico, non interpretativo1. I testi che esigono uno sforzo interpretativo non trattano di cose in sé chiare, come le idee matematiche, ma del significato umano e, in particolare, del modo decisamente individuale di affrontare quelle grandi questioni che creano sempre delle divisioni. Più il testo è importante, più è pronunciata la sua singolarità; da qui deriva la relativa irrilevanza della generalizzazione per la formazione e l’apprezzamento di testi letterari. «C’è una sola Divina Commedia, soltanto un Amleto di Shakespeare, soltanto un Faust di Goethe in due parti»2. Si capisce l’individuale attraverso l’attenzione non solo ai “codici” ma, al di là di ogni codice, ai particolari collegati in modo non sistematico. L’alto grado di individualità
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B. LONERGAN, Method in Theology (London: Darton, Longman and Todd, 1972) 153-54. Ibid., 209.
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Realismo critico e Nuovo Testamento
che si riscontra in artisti, pensatori, scrittori, benché sia al di là della portata di regole generali o di principi universali, è facilmente alla portata dell’intelligenza. Infatti ciò che in primo luogo è capito è ciò che è dato al senso o alla coscienza o, ancora, ciò che è rappresentato in immagini, parole, simboli, segni. Ciò che è così dato o rappresentato è individuale. Ciò che è colto con l’atto di capire è l’intellegibilità dell’individuo3.
Quarto aspetto: il testo, di primo acchito, ha una pretesa sul lettore, quella cioè di essere costruito in accordo con il suo senso inteso. Il senso inteso è ciò che fonda la differenza tra linguaggio in generale (langue) ed espressione particolare (parole), dal momento che permette a quest’ultimo di essere ciò che è. Allo stesso modo, il senso inteso differenzia il “discorso”, rendendolo determinato. Numerosi teorici contemporanei, spinti da scopi e motivazioni diversi, hanno recentemente sperimentato la prospettiva contraria: il linguaggio genera il significato autonomamente e i testi sono tutti intrinsecamente indeterminati. Prospettive di questo tipo, tuttavia, possono essere mantenute soltanto a condizione che il teorico non distingua affatto la differenza qualitativa tra un sonetto di Keats o Hopkins e un sonetto prodotto da un computer con un programma basilare. Questa è un’astrazione riduzionistica arbitraria e rigida. Segna l’epilogo di un lungo sviluppo della filosofia occidentale nei confronti della scomparsa della coscienza, della soggettività, del soggetto responsabile, dell’anima immortale4. «Rilassatevi – afferma Denis Donoghue – è solo una teoria»5. Ma la visione di Donoghue della teoria come irrilevante per la vita umana rappresenta un ritorno agli ultimi giorni dell’età dell’innocenza. (Derivava da Ralph Barton Perry, che scriveva nel 1912). La teoria qui in questione esiste primariamente nella superstruttura culturale, ma non è ad essa confinata. Semplificata e volgarizzata, trasposta da affermazione tecnica a metafora e immagine, a frase fatta e slogan, penetra la cultura, sovvertendo il buon senso e la fiducia nel buon senso6. Quinto aspetto: il realismo critico distingue tra conoscenza e giudizio e integra il giudizio nel compito dell’interpretazione. Il contenuto 3
Ibid. Vedi W. BARRETT, Death of the Soul (Oxford: Oxford University Press, 1986). 5 D. DONOGHUE, “Relax, It’s Only a Theory”, New York Times Book Review, 1 marzo, 1987. 6 B. LONERGAN, “The Absence of God in Modern Culture”, in W.F.J. RYAN – B.J. TYRREL (a cura di), A Second Collection (London: Darton, Longman and Todd, 1974), 101-116, in 112. 4
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Prefazione
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della conoscenza è intrinsecamente ipotetico; il passo dentro la “conoscenza” (di solito non più di una conoscenza probabile) avviene nel momento in cui si coglie una prova come “sufficiente” e si formula un giudizio di conseguenza ragionevole. Il realismo critico è pertanto una rottura con l’ermeneutica dell’innocenza. Non suppone che il significato del testo sia “già là fuori adesso”, come fosse qualcosa che si legge senza una pagina. Ma se l’interprete evoca il significato del testo senza le sue proprie risorse, egli non solo lo rispetta, ma avanza verso quel tipo di riflessione critica (“È questo il significato a cui il testo sta tendendo? Quali garanzie testuali rendono probabile questo significato? Con quale grado di sicurezza?”) che contribuisce ad un giudizio ragionevole e probabile. Sesto aspetto: il realismo critico riconosce la struttura triangolare di lettore, testo e referente. Il referente (die Sache) è ciò di cui parla il testo. Le cose (il referente) e le parole (il testo) sono elementi di un circolo ermeneutico che si illuminano reciprocamente. (Un esempio: l’attenzione che Lonergan ha riservato allo sviluppo del mondo come rivelato dalla scienza moderna gli ha fornito un evidente vantaggio sugli altri interpreti dei testi dell’Aquinate sullo sviluppo del mondo7. Al contrario, un esempio negativo è questo: il ritiro moderno dall’apocalittica ha condotto gli interpreti moderni al fraintendimento dei testi apocalittici di Paolo)8. Infine, il realismo critico tiene sobriamente in conto la necessità dell’interprete di misurarsi e di essere in sintonia con il testo. Quando la letteratura da interpretare è elevata, può facilmente richiedere una conoscenza del mondo e un’auto-coscienza da parte dell’interprete che in quel momento è semplicemente al di là della sua portata. Inoltre, la grande letteratura genera una tradizione di interpretazioni. La tradizione può essere autentica, rappresentando una notevole ricchezza e un accumulo costante di perfezionamenti conoscitivi e di reinterpretazioni. D’altro canto, la tradizione può essere inautentica, rappresentando un errore, una caduta di tono, un abbassamento del testo fino alla mediocrità dei suoi lettori. Il compito dell’interpretazione è essenzialmente
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Vedi B. LONERGAN, The Grace and Freedom, in J.P. BURNS (a cura di) (London: Darton, Longman and Todd, 1971) 72-76. 8 Vedi la conclusione del saggio “La visione paolina della risurrezione dei morti ha subito uno sviluppo?”.
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Realismo critico e Nuovo Testamento
modesto, ma le esigenze che esso impone rimangono decisamente rilevanti. I critici letterari spesso sembrano ostentare una sicurezza inattacabile nel loro modo di affrontare poeti e filosofi; e, sebbene gli esegeti biblici debbano in qualche modo confrontarsi con testi sorprendenti, dalle forti correnti della fede isaiana all’agonia di Giobbe, dagli atti simbolici di Gesù all’audace teologia di Paolo, raramente essi confessano la sensazione di essere impreparati di fronte ad un tale compito, o di esserne scoraggiati. Ma la maggior parte dei testi, come ha obiettato Lonergan, «non solo è oltre l’orizzonte iniziale dei suoi interpreti, ma può anche richiedere una conversione intellettuale, morale, religiosa», prima che l’interprete possa misurarsi con il suo compito9. Questi sette tratti – l’autorità del fatto, la correlazione tra “vero” e “reale”, il primato della conoscenza del testo come individuale, il “senso inteso” come costitutivo del discorso, l’indispensabilità del giudizio, il circolo tra cose e parole, e il requisito che l’interprete si misuri con il testo – mostrano che l’ermeneutica del realismo critico è sana, rigorosa e produttiva. Questo è ben diverso dalle teorie attuali: in primo luogo dal gioco, che si rivela però uno sforzo inutile, di rendere la linguistica la risorsa principale dell’interprete, e in secondo luogo dall’ermeneutica biblica ancora strettamente legata ai “sensi della scrittura”. In entrambi i casi si sono del tutto trascurati il soggetto e la soggettività. L’ermeneutica superficiale dà per scontata l’autenticità intellettuale, morale e religiosa dell’interprete e si concentra su risorse e procedure oggettive. Un’ermeneutica approfondita non dà nulla per scontato e in definitiva si concentra sulla suddetta triplice autenticità, dal momento che questa costituisce la chiave sia delle grandi differenze, come per esempio quelle tra le visioni di Gesù proposte rispettivamente da Joachim Jeremias e dall’editore di Der Spiegel, sia delle differenze più sfumate, come per esempio quelle tra la teologia di Paolo, la visione fideistica della teologia paolina di Barth, la visione esistenzialista di Bultmann e la visione teologicamente più aperta e criticamente meglio calibrata di Stuhlmacher. Dei dieci saggi qui presentati, sei sono apparsi altrove, uno sta per apparire altrove e tre sono pubblicati solo qui. Gran parte di loro sono elaborati su richiesta e una delle richieste merita una particolare men-
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B. LONERGAN, Method in Theology (London: Darton, Longman and Todd, 1972) 161.
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Prefazione
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zione. Sotto la guida del Prof. David Dungan (dell’Università del Tennessee) un gruppo di studio ecumenico di Madison, nel Wisconsin, dopo aver trascorso mesi nello studio del mio libro The Aims of Jesus (Londra: SCM, 1979), mi ha chiesto di rispondere alle loro domande in un testo per una conferenza sulla ricerca del Gesù storico (tenuta a Madison, il 14-16 ottobre 1983). Questo è stato il retroterra di “La ‘svolta’ di Lonergan e The Aims of Jesus”. Tutti i saggi sono stati scelti per il loro esplicito riferimento all’interpretazione o al metodo storico. Tutti sono datati agli anni ’80, diversi portano la data del mio anno sabbatico che l’amministrazione dell’Università McMaster mi ha consentito di dividere tra il 1983 e il 1984, e che il Social Sciences and Humanities Research Council del Canada ha generosamente sovvenzionato. Tutti sono stati scritti nella cittadina di Les Verrières, nei pressi di Neuchâtel, in Svizzera. L’attenzione richiamata da Peter Stuhlmacher sulla mia opera ermeneutica (nella seconda edizione del suo Vom Verstehen des Neuen Testaments, 198610) è stato uno degli incoraggiamenti a realizzare questo libro. È dedicato, con amore, alle mie sorelle.
Burlington, Ontario Giugno 1988
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P. STUHLMACHER, Vom Verstehen des Neues Testaments (Göttingen: Vandenhoeck & Ruprecht, 1986).
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PARTE I
Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
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La collocazione dell’ermeneutica lonerganiana Nel 1958 la filosofia in Inghilterra subì la critica severa di un hegeliano di Oxford, G.R.G. Mure, autore di Retreat from Truth1. La triste analisi di Mure metteva a fuoco gli orizzonti e il campo prospettico ereditato dall’empirismo inglese e condiviso, sia pur in modi diversi, dai filosofi cresciuti in Inghilterra allora come oggi: marxismo, atomismo logico e, soprattutto, analisi del linguaggio. Che fossero i discendenti dell’empirismo classico o meno, essi condividevano un assunto empiristico sul mondo: non esisteva alcun mondo se non quello inteso dall’uomo concreto come condizione della sua attività. Contro questo schema di cose – senza valore, e privo in se stesso di raison d’être – Mure affermava la verità (come genuinità nell’auto-trascendenza) e un universo di valore. Il libro si concludeva, tuttavia, non con un’affermazione serena e gioiosa, ma con una profonda depressione di fronte allo spettacolo della filosofia alle prese con le sue ultime traversie. Venti anni dopo, nel libro Idealist Epilogue2, Mure recuperava la chiarezza e l’incisività di Retreat from Truth, affermando nuovamente un universo carico di valore e approfondendo ulteriormente, se possibile, lo stato d’animo della disperazione filosofica. Che alleato restava alla verità in un mondo segnato dalla violenza e ancora rivolto alle sue premesse empiriste? Per Mure – rigoroso e sobrio oppositore del mito – l’alleato della verità era... il Weltgeist! Ma il Weltgeist non ha mai fretta. C’era una speranza, senza dubbio, a lungo termine, una speranza lontana, troppo lontana per apparire più grande di un puntino nell’orizzonte di un uomo anziano. Mure era un contemporaneo di Lonergan e di lui un po’ più vecchio, e l’esempio del pensiero di Mure potrebbe essere utile come punto di riferimento per permetterci di collocare Lonergan sulla scena della filo-
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G.R.G. MURE, Retreat from Truth (Oxford: Blackwell, 1958). G.R.G. MURE, Idealist Epilogue (Oxford: Clarendon, 1978).
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
sofia. Apparve sulla scena nel 1957 – come dal nulla, per così dire – con Insight3, un’indagine centrata sulla conoscenza della conoscenza: una fenomenologia degli atti cognitivi (che includeva la descrizione dello sviluppo del mondo), una epistemologia del realismo critico, una metafisica non necessitativa, una ermeneutica delineata brevemente ma in modo denso, un’etica della libertà, una descrizione positiva della conoscenza trascendente generale (l’affermazione razionale di Dio) e della conoscenza trascendente speciale (l’anticipazione della religione che emerge dall’antitesi tra Dio e male). Come Mure, Lonergan era particolarmente consapevole della débâcle attuale della filosofia. Come Mure, egli coglieva quanto fosse stata deleteria l’eredità dell’empirismo. Era profondamente legato alla critica idealista dell’empirismo, all’aspirazione idealista all’auto-trascendenza, e all’affermazione idealista del valore. Tuttavia, il realismo di Lonergan differiva profondamente e considerevolmente da tutte le forme di idealismo, compresa quella di Hegel e dei suoi eredi, poiché «ogni affermazione fatta da un realista denota un oggetto in un mondo realista; ogni affermazione fatta da un idealista denota un oggetto in un mondo idealista; le due serie di affermazioni sono distinte…»4. La differenza di orizzonte implicava non soltanto una differente serie di oggetti, ma un soggetto profondamente diverso. Qui anche la differenza di stato d’animo tra Mure e Lonergan – profonda depressione contro serena affermazione – era un indice non riducibile al temperamento. Il realista critico trovava alleati decisivi della verità nell’orientamento radicalmente disinteressato dell’uomo verso la conoscenza, nella fuga radicale dal vuoto esistenziale della mancanza di senso, nel desiderio del compimento che l’uomo non può sradicare. L’affermazione di Dio esorcizzava il Weltgeist. Riaffermava la divinità come Atto e il governo divino del mondo che raccoglieva una positiva attesa di salvezza, la soluzione divina di un declino a lungo termine e altrimenti irreversibile. Dato questo governo del mondo razionalmente affermato, ne seguiva che l’orientamento verso la conoscenza, la fuga dalla mancanza di senso, il desiderio del compimento fossero dei veri alleati della verità. La chiave di questo movimento di riflessione non era “l’intuizione dell’esistenza” posta dalla forma neo-scolastica del realismo, né la riso3 4
B. LONERGAN, Insight, A Study of Human Understanding (New York: Longmans, 1957). B. LONERGAN, in E. CROWE (a cura di), Collection (New York: Herder & Herder, 1967) 214.
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luta rimozione operata dagli empiristi dal mondo reale di tutto ciò che non è dato tramite un’esperienza immediata, né l’aggiunta di comprensione, ragione e valore che gli idealisti apportavano al mondo delle apparenze. Si trattò del “disagio di crisi e conversione”5, dipendente dalla rottura decisa con il realismo della percezione sensoriale e dall’affermazione dell’accesso al reale attraverso una sequenza di atti cognitivi che culminavano soltanto nel giudizio vero. Il primo gruppo di filosofi a cui Lonergan raccomandava la strategia che ha nella fenomenologia della conoscenza il primo momento del compito filosofico era quello dei tomisti classici, fortemente legati al primato della metafisica. Contro il tradizionalismo dei tomisti, Lonergan argomenta in quest’ordine: anzitutto le operazioni cognitive e l’epistemologia, poi la metafisica. Contro la modernità degli ermeneuti europei e i loro alleati, egli argomenta – in Insight e in opere successive – in quest’ordine: anzitutto le operazioni cognitive e l’epistemologia, poi l’ermeneutica. Sul primo fronte, le argomentazioni di Lonergan mettevano in evidenza una struttura di base legata al pensiero di Aristotele e dell’Aquinate: la distinzione tra priorità quoad se (cause ontologiche) e priorità quoad nos (ragioni cognitive). Egli rilevava come non si potessero assegnare cause ontologiche senza avere ragioni cognitive. A questo aggiungeva l’osservazione secondo cui lo “sviluppo”, nel senso di progresso nel pensiero umano, «deve venir fuori da ragioni cognitive»6. La dimostrazione convincente riguardava gli sviluppi specificamente associati ad Aristotele e all’Aquinate. «Ciò che ebbe inizio con Aristotele non fu la forma, ma la conoscenza della forma», e «ciò che ebbe inizio con l’Aquinate non fu l’esistenza, ma la conoscenza dell’esistenza»7. L’ordine strategico “conoscenza prima di metafisica” emerse proprio nell’ultima analisi come appartenente alle eredità di Aristotele e dell’Aquinate, poiché, sebbene non ricalcasse l’ordine esatto dei loro scritti, assumeva come punto di partenza i loro principi e il valore storico delle loro conquiste. Sul secondo fronte, l’argomentazione di Lonergan prendeva in considerazione i modi della conoscenza resi distinti dalla diversità degli og-
5 W.F.J. RYAN – B.J. TYRREL (a cura di), A Second Collection. Papers by Bernard J.F. Lonergan (London: Darton, Longman & Todd, 1974) 30. 6 Collection, 154. 7 Collection, 154.
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getti, ma ricollocava questi modi all’interno di una indagine globale rivolta alla conoscenza della conoscenza. Come il successo nella conoscenza della conoscenza conduceva al successo in casi particolari (quale la conoscenza della conoscenza di testi), così il fallimento nell’uno portava al fallimento nell’altro8. Di nuovo, una critica epistemologica più profondamente e solidamente basata non andava desunta dall’indagine su questo o quel particolare modo di conoscere. Tuttavia, senza una critica epistemologica l’ermeneutica poteva facilmente portare, come di fatto fece, allo storicismo troeltschiano9. Infine, l’emergere della consapevolezza storica e delle scienze umane, in cui il “significato” era la categoria fondamentale, aveva complicato l’ermeneutica fino al punto da richiedere proprio quella chiarezza metodologica sulle strutture cognitive che era contenuta in Insight. Per esempio, la confusione cui si era assistito per un centinaio di anni nel dibattito tra erklären e verstehen veniva risolta puntando l’attenzione non sui modi particolari della conoscenza, ma sulla conoscenza della conoscenza. Il risultato fu di trovare “qualcosa di artificiale” nella distinzione tra erklären e verstehen10. Sia gli scienziati che gli storici capivano (verstehen); entrambi comunicavano l’intellegibilità che avevano colto (erklären). La differenza risiede non nel soggetto che conosce, ma nell’intellegibilità che è stata conosciuta. L’intellegibilità scientifica era tale da essere indirizzata verso una struttura coerente, valida in ogni gruppo di istanze specifiche11. L’intellegibilità storica era una estensione sofisticata della conoscenza del senso comune, indirizzata verso una ricostruzione del passato12. L’“insight” o la “conoscenza” erano entrambi più precisi nel significato e avevano un raggio di referenze più ampio del verstehen13. L’“insight” si presentava come la risposta all’indagine rispettando le presentazioni sensibili (cioè i dati di senso) o le rappresentazioni (cioè le immagini assemblate spontaneamente o deliberatamente organizzate). Consisteva nella conoscenza dell’unità intellegibile, o della relazione tra i dati di senso, o dell’immagine naturale, o del simbolo linguistico o di altro tipo.
8 B. LONERGAN, Method in Theology (London: Darton, Longman & Todd, 1972) 154 sul terzo fattore che accresce il problema dell’interpretazione nella modernità. 9 Second Collection, 207. 10 Method, 229. 11 Method, 229. 12 Method, 230. 13 Method, 212.
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Se l’“insight” era il momento cardine, il giudizio era il momento decisivo della conoscenza umana. Un giudizio vero era un’affermazione che segue l’atto di cogliere l’evidenza sufficiente di una proposizione o, nella formulazione tecnica di Lonergan, che segue l’atto di cogliere “il virtualmente incondizionato”, cioè una condizione le cui condizioni erano conosciute e conosciute per essere compiute14. Se un giudizio era vero, il suo contenuto era incondizionato. Sebbene ontologicamente a proprio agio solo nel soggetto giudicante, il giudizio era intenzionalmente indipendente da quel soggetto. Il giudizio vero, di conseguenza, era un’istanza dell’auto-trascendenza. Questa auto-trascendenza è stata tuttavia smarrita non appena la sua unica e sola casa, cioè la mente del soggetto giudicante, è stata dimenicata e al “linguaggio” è stato consentito di prenderne il posto. Infatti, la verità non è una questione di linguaggio: è un prodotto della conoscenza riflessiva15. Se questo prodotto viene espresso in parole, ancora le parole sono meramente “adeguate” o “inadeguate” in riferimento a ciò che esiste esclusivamente nella mente giudicante. Nell’ermeneutica contemporanea, una decisa posizione contraria propende per ritenere che la verità e la falsità risiedano non nel giudizio, ma nell’espressione16 e che, conseguentemente, il terreno comune o pubblico attraverso il quale si può comunicare non è assoluto, indipendente da ogni soggetto in quanto conseguito attraverso il virtualmente incondizionato, ma è semplicemente l’atmosfera che respiriamo insieme, così come anche la facciamo vibrare in vario modo sì da portare le nostre parole dall’uno all’altro17.
Quando questo accade, ed è accaduto con effetti culturali e politici disastrosi per il nostro mondo, la comunità è privata delle sue fondamenta. La comunità esiste sulla base di una esperienza comune e di una conoscenza comune e complementare. Inoltre, non può darsi senza giudizi comuni fondati su evidenze accessibili a tutti, e senza i valori comuni che presuppongono quei giudizi. Una volta che alla “atmosfera”, sia
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Insight, 208-209 e 343-345; Method, 102. Insight, 271-78. 16 Insight, 557. 17 Insight, 557. 15
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essa nel senso letterale o in quello figurativo di un terreno comune creato dal linguaggio, è permesso di rimpiazzare il terreno comune raggiunto grazie al virtualmente incondizionato, la comunità è minata ad ogni livello e comincia a ripiegarsi e a collassare. Il suo fondamento non è meramente linguistico. Il fondamento della comunità risiede nel fatto che “noi sosteniamo queste verità…”. Insight è stato un atto creativo di recupero. Ha recuperato le condizioni di possibilità del senso reale e del valore reale. Tale recupero prometteva di produrre un beneficio alla singola persona, ma soprattutto alle comunità umane. La sua intenzione ultima è stata di chiarire la strada al servizio della comunità ecclesiale, senza dimenticare affatto la subordinazione della causa cristiana alla “causa dell’umanità”18. Più specificamente, Insight ha voluto significare il chiarimento della via per un rinnovamento critico del metodo in teologia. Il trattato posteriore di Lonergan, Method in Theology19, diede la forma ultima a questo compito fondamentale della sua vita. Tra Insight e Method in Theology, lo sviluppo più significativo nel pensiero di Lonergan nacque dal fallimento dell’ermeneutica nella sequenza delle quattro specializzazioni funzionali: interpretazione, storia, dialettica e fondazioni20. È difficile dire se in prima istanza in quanto filosofo o in quanto teologo Lonergan abbia accentuato la fondamentale distinzione tra coscienza e intenzionalità. La definizione di coscienza è basilare per la teoria cognitiva; non è meno cruciale per la cristologia (la parte della teologia che tratta di Cristo e include la questione della sua dimensione psicologica). In ogni caso, Lonergan ragionava così: gli atti del sentire, immaginare e ricordare; del meravigliarsi, del domandare e rispondere alle domande; del soppesare le risposte e del pronunciarsi su di esse; del deliberare, valutare e decidere sono tutti transitivi non soltanto nel senso grammaticale, che cioè sono denotati da verbi transitivi, ma nel senso psicologico, che cioè per ogni operazione si è coscienti di un oggetto. In ogni caso, cioè, la presenza dell’oggetto al soggetto è un evento psicologico. “Intenzionalità” e “coscienza” denotano aspetti distinti ma inseparabili dell’evento. «Proprio come le operazioni attraver-
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Second Collection, 158. Vedi sopra, la nota 8. 20 Second Collection, 275. 19
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so la loro intenzionalità rendono gli oggetti presenti al soggetto, così anche attraverso la coscienza rendono il soggetto operante presente a se stesso»21. Qui l’intuizione centrale risiede nel riconoscere che, mentre gli atti consci hanno una dimensione di orientamento verso l’oggetto (intenzionalità), manifestano una dimensione ulteriore, e cioè la presenza del soggetto a se stesso (coscienza). Questa presenza vivente, familiare e variabile, ma tacita e non articolata è in realtà ciò che rende il soggetto un soggetto. La coscienza è variabile, dal momento che varia in base ai diversi livelli di intenzionalità. Lonergan ne distingueva quattro. Il primo livello è quello empirico delle presentazioni: consapevolezza dei dati di senso (colori, forme, suoni, odori, ecc.) e dei dati della coscienza (gli atti consci del sentire, dell’essere attenti, del meravigliarsi, del domandare, del comporre, del soppesare, del giudicare, ecc.: in breve, l’esperienza categoriale del soggetto consapevole). A questo livello empirico noi sentiamo, avvertiamo, immaginiamo, percepiamo, parliamo, ci muoviamo. Il secondo livello è quello dell’intelligenza: meravigliarsi, domandare, ipotizzare, comprendere, concepire. A questo livello intellettuale indaghiamo, arriviamo a capire, esprimiamo ciò che abbiamo capito e ne elaboriamo il significato. Il terzo livello è quello della ragione: ordinamento dei dati, ponderazione, riflessione, giudizio. A questo livello razionale distinguiamo il vero dal falso e il certo dal probabile. Il quarto livello è quello della decisione: deliberazione, valutazione, scelta, decisione. A questo livello di responsabilità ci occupiamo di noi stessi, dei nostri fini e mezzi, dei nostri amori e odii, dei campi d’azione a noi aperti e dei loro probabili risultati; a questo livello, inoltre, portiamo a termine le nostre decisioni o manchiamo di farlo. Questa differenziazione è un recupero dell’intenzionalità umana, ed anche un recupero relativamente immune da revisioni. Infatti, ogni revisione dovrebbe fare appello ai dati: pertanto, ogni revisione dovrebbe presupporre un livello empirico di operazioni. Inoltre, la revisione dovrebbe offrire una migliore spiegazione dei dati: pertanto, ogni revisione deve presupporre un livello intellettuale di operazioni. Ancora, la revisione presuppone l’affermazione secondo la quale la migliore spie-
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Method, 8.
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gazione è la più probabile: pertanto, la revisione presupporrebbe un livello razionale di operazioni. Infine, nessuno affronta l’impegno di una revisione senza che lo ritenga degno: pertanto, la revisione presuppone un livello responsabile delle operazioni22. Cos’è esattamente ciò che questo schema sta ordinando? Lonergan la chiamava “la roccia”. Si tratta delle operazioni conscie e intenzionali proprie dell’essere umano, e di queste operazioni così come sono date nella coscienza. In altre parole, “la roccia” è il soggetto stesso «nelle sue attenzione, intelligenza, ragionevolezza, responsabilità conscie e non oggettivate»23. La conquista fondamentale di Lonergan sta nell’aver portato alla luce questa “roccia”. Un tale compito comportava la collocazione dell’“operatore” che ha causato la promozione dell’intenzionalità umana dal livello empirico, attraverso quello intellettuale, fino a quello razionale. Questo operatore era “la nozione di essere”. In termini di sviluppo era una guida verso l’intellegibile (livello intellettuale) e il vero (livello razionale); ma, poiché – come detta l’adagio della Scolastica – “la realtà è conosciuta attraverso la conoscenza del vero” (ens per verum innotescit), questa stessa guida porta all’essere, al reale. I sensi intendono il sensibile e l’intelligenza l’intellegibile, ma poiché il desiderio di conoscenza non si arresta nella conoscenza soltanto, concludiamo sulla base di questa osservazione empirica che il nostro vero fine è la realtà e che tutti gli esseri umani sono naturalmente e spontaneamente realisti. Comporta una non piccola teorizzazione tagliar fuori l’intenzionalità conscia a livello empirico, o supporre, concedendo all’empirista la sua monca concezione del “reale”, che il dominio del senso trascendente delle operazioni sia meramente “ideale”. In Insight, l’“ermeneutica” era la teoria di Lonergan comprensiva del significato. La sua prospettiva era dominata da un paradigma preciso: un’interpretazione dei filosofi per nulla limitata a cogliere il loro significato nei loro termini propri. Egli ammetteva che ci fossero dei vantaggi nell’interpretazione di Platone da parte di Platone, dell’Aquinate da parte dell’Aquinate, di Kant da parte di Kant24. Ma un’interpretazione di
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Method, 19. Method, 19. 24 Insight, 583-584. 23
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questo tipo era non-esplicativa, ed è chiaro che il vero scopo di Lonergan in qualità di ermeneuta era quella di una descrizione esplicativa del perché Platone fosse Platone e niente più; del perché l’Aquinate fosse l’Aquinate e niente più; del perché Kant fosse Kant e niente più. Del resto era interessato anche al perché Platone, l’Aquinate e Kant fossero assolutamente indispensabili al processo dialettico attraverso cui la filosofia propriamente e con profitto riusciva ad andare al di là di tutti loro verso un fine che li sublimasse tutti25. A proposito di questa dialettica, potrebbe essere appropriato riconsiderare la nostra collocazione di Lonergan, ora non più solo nel quadro della seconda parte del sec. XX e in relazione e contrasto con un idealista contemporaneo come G.R.G. Mure, ma in un contesto ben più ampio. L’ultima volta che un pensiero sistematico originale aveva trovato espressione in una sintesi globale era stato con Kant ed Hegel. La Scolastica, senza dubbio, aveva mantenuto qualcosa del vasto orizzonte dell’Aquinate. Ma se misurata sulla sua espressione originaria del sec. XIII o sui movimenti contemporanei come l’Idealismo tedesco, la Scolastica durante le epoche dell’Illuminismo e del post-Illuminismo si ritaglia uno spazio per molti versi povero. Le mancava l’élan vital della sintesi medievale e lo spirito critico del pensiero kantiano e post-kantiano. Lonergan, dapprima in qualità di storico esperto di alcune vette filosofiche e teologiche dell’Aquinate26, operò una straordinaria trasposizione dell’eredità scolastica nell’ambito del pensiero moderno. La chiave di questa trasposizione era la fenomenologia della conoscenza. Affrontò la questione fenomenologica ponendo delle differenze tra l’intendere quella specifica conoscenza elementare (per esempio, il vedere o l’udire) e l’intendere quella specifica conoscenza pienamente umana (capire in modo intelligente e affermare in modo ragionevole). Il tipo di metafisica che emergeva sulla base di questa fenomenologia ed epistemologia sembrava incolore e limitata in rapporto con la metafisica che strutturava la teologia dell’Aquinate, poiché non aveva un equivalente per
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Insight, 389. B. LONERGAN, Verbum: Word and Idea in Aquinas, in D. BURRELL (a cura di) (Notre Dame: Notre Dame University Press, 1967) e Grace and Freedom: Operative Grace in the Thought of St. Thomas Aquinas (New York: Herder & Herder, 1971). 26
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
l’essere. Lonergan affermò che intendere cosa fosse il meravigliarsi e il dubitare metteva colui che si meraviglia o colui che dubita in relazione con l’essere. Ma la metafisica di Lonergan era limitata all’oggetto proprio della conoscenza umana, cioè all’“essere proporzionato alla conoscenza umana”. D’altro canto, questa metafisica conquistava lo statuto di “critica” grazie all’isomorfismo delle strutture della conoscenza umana con le strutture dell’essere ad essa proporzionate. Né i limiti di questa metafisica critica precludevano la possibilità di una conoscenza trascendente, cioè l’affermazione razionale di Dio e l’anticipazione di una religione che emergesse dall’antitesi tra bene e male. Così, a metà del sec. XX, sorprendentemente fece la sua comparsa una filosofia critica, sistematica e comprensiva. Era caratterizzata da una critica che correlava, correggeva e sublimava quella di Kant, e da un sistema le cui categorie euristiche lo rendevano più aperto e più chiaramente ampio e comprensivo di quello di Hegel. Se l’ermeneutica di Insight si occupava seriamente della dialettica della filosofia, bisogna notare che dopo Insight Lonergan trovò che c’era qualcosa da guadagnare nel riconoscere un compito limitato, integrale, interpretativo: l’atto di chiarire, senza cambiare, il senso inteso dei testi. Questo certamente non significava l’abbandono di un ideale esplicativo. Infatti, Lonergan aveva chiarito più che mai la sua utilità. Principalmente, apparteneva alla specializzazione funzionale della “dialettica”27, ma aveva un altro uso, potenzialmente di grande valore per l’interpretazione ordinaria. Muovendo dalla descrizione del senso comune di un’epoca passata verso una comprensione esplicativa, indicando con precisione per quell’epoca le acquisizioni e le omissioni, i valori e i pregiudizi, l’interprete non sarebbe più rimasto sorpreso delle sue stesse scoperte, dal momento che sarebbe entrato con maggiore coscienza e sicurezza di quanto pensasse che fosse possibile nel mondo del significato dello scrittore. Gli interpreti di solito riconoscono che quelli ai quali stanno esponendo un’interpretazione non hanno difficoltà nel comprendere “x” (una determinata parte o aspetto del significato del testo), ma grande difficoltà nel comprendere “y”. L’interpretazione, dunque, si concentra su “y”. La situazione sarà differente per un destinatario diverso, con fonti
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Method, 235-266.
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I. La collocazione dell’ermeneutica lonerganiana
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diverse. Un’interpretazione esplicativa, d’altro canto, non si occupa di parti o aspetti del significato del testo nella loro relazione ad un destinatario particolare; se ne occupa nella loro relazione (a) reciproca e (b) verso la totalità dei significati. Questo tipo di interpretazione suppone un destinatario che possa capire e trarne profitto. Cosa hanno in comune l’interpretazione esplicativa e il suo destinatario? La risposta di Lonergan è: un punto di vista comprensivo o universale. Questa è una struttura euristica. Ne consegue (a) un metodo empirico generalizzato, cioè l’oggettivazione dell’intenzionalità conscia, i suoi livelli e l’“operatore” principale, la nozione di essere o dirigersi verso la realtà. (Questo “metodo empirico generalizzato” è anche chiamato “metodo trascendentale” poiché, come forma normativa delle operazioni dell’intelletto, fonda e pervade tutti i metodi particolari, mentre ne trascende i limiti). Ne consegue (b) una serie di modi per recuperare “la roccia” e una serie di apprezzamenti dell’oggettività: realismo ed empirismo ingenui, idealismo ingenuo e critico, e infine realismo critico. Ne consegue (c) la conoscenza del soggetto al quale il senso comune collega ogni cosa. Basilari per questo soggetto sono le forme dell’esperienza: biologica, estetica, intellettuale, drammatica (soggetti a pregiudizi, punti neri, repressioni e inibizioni, spinti all’autenticità e ostacolati da una storia di disordine variamente radicata)28. Inoltre, ne consegue la conoscenza del senso comune stesso, insieme con i pregiudizi a cui il senso comune è inevitabilmente soggetto29. Ne conseguono (d) le differenziazioni di base della coscienza. Queste differenziazioni rispondono ad alcune esigenze30. La scienza risponde alle esigenze della spiegazione. La filosofia risponde all’esigenza “critica”. Stabilita nella sfera dell’interiorità o della soggettività, è in grado, sulla base del metodo empirico generalizzato, di comprendere le procedure del senso comune o della scienza matematicizzata, della religione, della filosofia e della teologia. La struttura euristica così organizzata fa presa sugli elementi del significato, sulle loro possibili combinazioni e differenziazioni. Fa anche presa sull’oggettività e sul modo in cui le differenze che rispettano l’obbiettività sono riducibili a descrizioni diverse del fatto cognitivo. Tutti i
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Insight, 173-181. Insight, 207-244. 30 Method, 83-85. 29
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
possibili punti di vista e tutte le loro possibili relazioni sono potenzialmente poggiati sugli elementi del significato, e sono tutti soggetti a critica. A chi scrive sembra che virtualmente tutti i seguaci di Lonergan siano stati punti dall’insetto dell’idea esplicativa. Ma è più facile compredere l’ideale come principio che metterlo in pratica. Non è poi così sorprendente il fatto che non abbiamo ancora una descrizione esplicativa della filosofia che Lonergan abbozzò31, lasciandola tuttavia incompleta in Insight. Non abbiamo ancora una descrizione – leggermente abbozzata nell’epilogo di Insight – di come, storicamente, la teologia abbia operato32. Non abbiamo ancora una descrizione esplicativa del senso comune di tutte le epoce, sebbene la procedura di come se ne sia sviluppata una è sufficientemente indicata in Method in Theology33. Il solo esempio di ideale esplicativo realizzato in una descrizione storica è stato fornito da Lonergan stesso. Si tratta del suo studio sullo sviluppo dialettico della riflessione trinitaria in The Way to Nicea34. Al contempo, al posto di ulteriori sviluppi lonerganiani degli schemi solidi ed originali offerti da Ernst Cassirer e Bruno Snell35, vengono offerti oggi schemi di sviluppo culturale semplicistici e inevitabilmente fuorvianti, come quello mutuato in parte da Roman Jakobson e sostenuto da Northrop Frye in The Great Code36. Chiaramente, c’è qui spazio per i tentativi di venire incontro alle necessità contemporanee in molti campi attraverso lo sviluppo dei contributi di Lonergan, delle sue indicazioni e del suo esempio nell’ermeneutica esplicativa. Questo tentativo introduttivo di collocare Lonergan nell’ambito dell’ermeneutica potrebbe concludersi specificando alcune delle funzioni dell’ermeneutica lonerganiana per nostri giorni. In primo luogo, potrebbe fornire dei solidi fondamenti fenomenologici ed epistemologici alla “ermeneutica del consenso”37. Questa erme31
Insight, 389. Insight, 739-742. 33 Method, 90-99, 172-173. 34 B. LONERGAN, The Way to Nicea (Philadelphia: Westminster, 1976). 35 E. CASSIRER, The Philosophy of Symbolic Forms (New Haven: Yale University Press, 1953-57); B. SNELL, The Discoveryof the Mind (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1953; ristampa New York: Harper & Row [Harper Torchbook], 1960). 36 N. FRYE, The Great Code (New York: Harcourt Brace Jovanovich, 1982). 37 Vedi P. STUHLMACHER, Historical Criticism and Theological Interpretation of Scripture. Toward a Hermeneutics of Consent (Philadelphia: Fortress, 1977). 32
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I. La collocazione dell’ermeneutica lonerganiana
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neutica attesta con eloquenza la diffusa fame odierna di un’esegesi teologica delle opere bibliche che, distinguendosi dai difettosi programmi esegetici proposti dai teologi liberali e dai teologi del kerygma almeno negli ultimi cento anni, aspiri a farsi carico senza un arrière-pensée delle affermazioni, delle celebrazioni, delle promesse e delle speranze del testo biblico38. In secondo luogo, l’ermeneutica lonerganiana potrebbe offrire una chiarificazione ben più necessaria. Arnold Toynbee pensava di aver prodotto nel suo capolavoro di vari volumi una poderosa opera di storia empirica. La chiarificazione di Lonergan consisteva nel ridefinire la conquista di Toynbee come un’opera base di tipi ideali su grande scala, utile per molte imprese, compresa quella della storia empirica39. Ci sono interpreti, da Kierkegaard attraverso Freud fino a Frye, le cui opere sulla Bibbia richiedono di essere riclassificate sotto voci diverse da quella dell’interpretazione biblica. In terzo luogo, una funzione critica oggi necessaria è quella della separazione del frumento dalla massa orrenda di pula, all’interno della teoria letteraria contemporanea. Questo includerà inevitabilmente il dissodamento di tutti quei modi di sofisticazione pretenziosa spacciati per conoscenza: langue senza parole e Sprache senza Sache40, segno senza significato41, testo senza autore42, ed erudizione che rifugge “coerenza” e “validità”43. In quarto luogo, è proprio dell’ermeneutica di Lonergan (tra le altre scuole di un pensiero sobrio) di differenziare tra attacchi confusi e indiscriminati al “metodo storico-critico” e i limiti e le perversioni reali che
38
Vedi il saggio “Conversione ed ermeneutica del consenso”. Method, 228; B. LONERGAN, in F.E. CROWE (a cura di), A Third Collection. Papers by Bernard J.F. Lonergan (New York–Mahwah: Paulist, 1985) 103-106, 214. 40 Mostrano una forte resistenza a queste tendenze Paul Ricoeur, riguardo al “discorso”, in Interpretation Theory and Surplus of Meaning (Forth Worth: Texas Christian University Press, 1976) ed Emerith Coreth, riguardo alla dialettica tra Sache e Sprache, in Grundfragen der Hermeneutik (Freiburg: Herder, 1969) 64-65, 116-117, 123-124. 41 Su questa fallacia, vedi V. CUNNIGHAM, “Renoving That Bible: The Absolute Text of (Post) Modernist”, in F. GLOVERSMITH (a cura di), The Theory of Reading (Sussex: Harvester, 1984) 151, specialmente 1-13. 42 V. CUNNIGHAM, “Renoving That Bible”, 13-17, su Roland Barthes, Hillis Miller, Jacques Derrida. Vedi anche D. LODGEM, Language of Fiction (London: Routledge & Kegan Paul, 1966) specialmente la “postfazione” alla seconda edizione del 1984. 43 Derrida (nel 1967, almeno) relativizzerebbe la coerenza in nome del “gioco”. Di nuovo, la validità è tra gli scopi del suo assalto al “logocentrismo”. Vedi CUNNINGHAM, 6, 16. 39
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
sono emerse nella pratica di tale metodo. Non è colpa del metodo se coloro che lo applicano non sono attenti nel porre le domande. Quando le domande sono appropriate – come in opere quali Canaanite Myth and Hebrew Epic di F.M. Cross (1973), Paul and Palestinian Judaism di E.P. Sanders (1977), The Birth of the Messiah di Raymond E. Brown (1977), Das Abendmahl und Jesu Todesverständnis di Rudolph Pesch (1978), Gospel According to Luke di Joseph Fitzmyer (1981-85), Reconciliation, Law and Righteousness di Peter Stuhlmacher (1981 e 1986), Bandits, Prophets, and Messiahs di Richard A. Horsley e J.S. Hanson (1985), per menzionare solo alcune tra le numerose eccellenti opere – il metodo storico-critico funziona con lucidità ed incisività. Infine, in quinto luogo, l’ermeneutica lonerganiana sembra essere particolarmente ben attrezzata per il compito di trovare la verità nell’eresia, dal momento che in modo esemplare lo stesso Lonergan ha ripetutamente trovato non (o non solo) quanto vi è di errato, ma soprattutto quanto vi è di corretto in Barth e Bultmann, in Freud e Frye, in Gadamer e Habermas, in Parsons e Piaget, in Ranke e Ricoeur, in Scheler e Simmel, in Teilhard de Chardin e Voegelin.
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– II –
Il primato del senso inteso dei testi
Parte prima: 95 tesi sull’ermeneutica generale e biblica Lo scopo delle seguenti tesi è di definire un solido fondamento logico alla seguente proposizione ermeneutica: il testo ha uno scopo principale nei confronti del lettore e cioè di essere costruito in accordo con il suo senso inteso. Lo sforzo di stabilire un solido fondamento logico di questa proposizione mi sembra particolarmente opportuno in un tempo in cui l’interpretazione – elemento costitutivo del senso inteso – è ampiamente rifiutata in teoria (per esempio, con la controtesi secondo cui il senso “inteso” non è né lo scopo primario né quello possibile dell’interpretazione); è anche abbandonato in pratica dalla critica letteraria, dagli studiosi classici e dagli esegeti biblici a favore di studi analitici alternativi all’interpretazione (per esempio, l’analisi strutturalista) o che presuppongono logicamente l’interpretazione (analisi scientifico-sociale, psicologica, storica). Ma la definizione, espressa in forma di tesi per brevità, vuole anche servire come base per lo studio successivo – la seconda parte del presente studio – che offre ulteriori dettagli sull’“intenzione”, la “coscienza storica”, e le possibilità attuali dell’interpretazione teologica della Scrittura.
1. Comunicazioni 1.1. Privare del tutto o quasi del tutto un adulto di ogni comunicazione significa sottoporlo ad una dura prova; privare un bambino in questo modo significa fondamentalmente rovinarlo. La capacità e la voglia di comunicazione è radicata nella natura razionale e sociale dell’uomo. Egli è un essere significante, con una propensione naturale per la mediazione del significato verso e dagli esseri umani suoi compagni. 1.2. Tra le risorse dell’uomo per la mediazione del significato, il linguaggio è primario e senza pari. Per analogia, le altre risorse sono come molti linguaggi (l’alfabeto dei simboli, il linguaggio del corpo, i linguaggi dell’arte e dell’architettura, ecc.).
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
1.2.1. Il linguaggio è una risorsa codificante condivisa da una comunità. Da questa risorsa noi scegliamo parole e frasi che, in base alla convenzione fornita dall’uso ordinario, sono più o meno adatte a codificare i significati che desideriamo esprimere. 1.2.2. Il linguaggio è così convenzionale e strumentale: convenzionale, in quanto l’ordinaria pienezza del suo significato è stabilita dall’uso comune, e doppiamente strumentale, in quanto è usato per esprimere un significato mentre l’espressione del significato stesso serve per ulteriori scopi umani. 1.2.3. Sia la visione classica del linguaggio (quella cioè secondo cui il linguaggio è veicolo del pensiero) che quella leibniziana (quella cioè secondo cui il linguaggio è il mezzo che determina il pensiero) sono vere come affermazioni e false in quanto l’una era costruita per negare l’altra. Queste visioni vengono riconciliate in un punto di vista più alto, che permette la distinzione tra significato linguistico ordinario e significato linguistico originario. «Tutti gli uomini godono di flash d’intellezione che vanno al di là del significato già stabilizzato nell’etimologia e nella grammatica»1. 1.3. Il processo del comunicare è complesso quanto l’intera dimensione sociale della vita dell’uomo. Ma c’è una nota comune che attraversa i suoi numerosi modi performativi (richiedere, informarsi, persuadere, comandare, intrattenere, ecc.) e le altre modalità (spontaneo/deliberato, privato/pubblico, orale/scritto, ecc.): la volontà di trasmettere il senso inteso. 1.3.1. La trasmissione prevede una ricezione e normalmente prevede una qualche risposta da parte del ricevente. La risposta produce un ribaltamento dei ruoli: il ricevente diventa trasmittente e l’originario trasmittente a questo punto riceve. 1.3.2. Attraverso la sua risposta il ricevente indica come ha costruito (= decodificato) la trasmissione originaria. Nel momento in cui questa non corrisponde a ciò che il trasmittente intendeva, ci sono motivi per distinguere tra “trasmissione intesa” e “trasmissione effettiva”. 1.3.3. Ci sono due possibili ragioni dello scarto esistente tra i due: che la trasmissione originaria non sia riuscita ad esprimere adeguatamente il senso che il trasmittente intendeva; che il ricevente non sia riu-
1
A.N. WHITEHEAD, Adventures of Ideas [1933] (Harmondsworth: Penguin, 1942) 263.
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II. Il primato del senso inteso dei testi
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scito ad elaborare la trasmissione in modo accurato. Attraverso i ripetuti sforzi dello scambio, i difetti nelle due fonti vengono eliminati in entrambe o almeno ridotti.
2. Scrittura e lettura 2.1. La scrittura richiede un uso più deliberato del linguaggio di quanto non avvenga di solito nel linguaggio ordinario. Questa deliberazione riflette il riconoscimento che, nello scrivere, si può trasmettere senza essere personalmente presenti e senza così poter entrare in uno scambio con il ricevente facendo tesoro degli errori della comunicazione. La deliberazione a scrivere, dunque, consiste prima di tutto negli sforzi speciali da parte dello scrittore di assicurare che la trasmissione includa in modo adeguato il suo senso inteso e che, nell’essere costruita, tenga presenti in anticipo i prevedibili problemi del ricevente previsto. 2.1.1. Quando si scrive, la trasmissione consiste in un “testo”, cioè una sequenza scritta di parole che codifica il messaggio di colui che scrive. Il “messaggio” è tutto ciò che colui che scrive intende codificare e riesce a codificare. Colui che scrive, quindi, esprime un messaggio in un testo e il lettore elabora un testo con lo scopo di ricevere il suo messaggio. (Il “messaggio”, così definito, è un termine tecnico distinto da “lezione” o “morale” di una storia, oppure dai nobili sentimenti che molti nell’epoca vittoriana cercavano nella poesia). 2.1.2. L’“intenzione” o “significato inteso” non è pertanto solamente in colui che scrive: è anche intrinseco al testo, poichè il testo oggettiva, incorpora, codifica o esprime il messaggio di colui che scrive. 2.1.3. Ne deriva che il congedo della mens auctoris in quanto irrilevante all’interpretazione (Gadamer)2 e il rifiuto della cosiddetta “fallacia intenzionale” (Wimsatt e Beardsley)3 sono essi stessi frutto di una svista: il significato inteso non è soltanto in colui che scrive ed estrinseco al testo; esso costituisce precisamente il principale elemento intrinseco che determina il testo.
2 H.-G. GADAMER, Warheit und Methode (Tübingen: Mohr, 31972) xix, 276ss; e Truth and Method, (New York: Seabury, 1975) xix, 259ss. 3 W.K. WIMSATT – M.D. BEARDSLEY, “The Intentional Fallacy” [1954], The Verbal Icon (New York: Noonday, 1958) 3-18.
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2.1.4. L’oggetto primo dell’interpretazione è quel senso, che è la causa formale (causa essendi) della singolare configurazione del testo, e del quale questa singolare configurazione, a sua volta, è indice (causa cognoscendi). Dal momento che questo non è altro che il senso che colui che scrive ha cercato di codificare o oggettivare nel testo, l’ermenuetica è “basata sull’autore”4. 2.1.5. Da ciò non deriva che il senso inteso sia a priori più profondo, più vero, umanamente più interessante o importante dei sensi che maturano nel testo nel corso del suo viaggio nel tempo. Ciò che ne deriva è la necessità di distinguere questi diversi sensi così come di fare giustizia rispettivamente del testo, della storia dei suoi effetti (Wirkungsgeschichte: Gadamer)5, e dei legami – siano essi fragili e fortuiti, saldi, intrinseci e complessi – esistenti tra i due. 2.1.6. Dovremmo distinguere, con Ferdinand de Saussure, tra “linguaggio” (le risorse linguistiche condivise da una comunità linguistica) ed “espressioni” (le istanze della reale espressione linguistica)6; con E.D. Hirsch, tra “senso” (cioè il senso originariamente inteso) e “significanza” (sensi nuovi, aggiunti)7; e con Gottlieb Frege, tra “significato” (il contenuto intellegibile di un’espressione) e “referenza” (oggetto/i a cui l’espressione si riferisce o si applica)8. 2.1.7. Dal punto di vista dell’interprete, lo studio del “linguaggio” è rivolto verso lo studio delle “espressioni”; la preoccupazione primaria è per il “senso”, sebbene il “significato” sia una risorsa per la domanda di senso come anche una preoccupazione distinta nella sua legittimità; infine, entrambe le preoccupazioni sfociano nello sforzo di cogliere il “significato” e la “referenza”.
4
E.D. Hirsch ha coniato questa espressione e ne ha dato spiegazione in “Carnal Knowledge. Review of Frank Kermode The Genesis of Secrecy”, New York Review of Books 29 (14 giugno 1979) 18. 5 H.-G. GADAMER, Warheit und Methode, 285 e passim da qui in poi; e Truth and Method, 267 e passim da qui in poi. 6 F. DE SAUSSURE, Course in General Linguistics (New York: Philosophical Library, 1959) 17-20. 7 E.D. HIRSCH, Validity in Interpretation (New Haven: Yale University Press, 1967) 210ss, attribuisce questa distinzione a August Boeckh; ma dal momento che Boeckh non la delinea con chiarezza, bisogna ritenere che sia stato Hirsch ad inventarla. 8 Vedi A. QUINTON, “Connotation and Denotation”, in A. BULLOCK – O. STALLYBRASS (a cura di), The Fontana Dictionary of Modern Thought (London: Fontana Books, 1977). Questa voce mette in relazione la distinzione di Frege con quelle di John Stuart Mill (connotazione e denotazione) e di Adolf Carnap (intenzione ed estensione).
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2.2. Leggere significa, anzitutto, elaborare un testo nella prospettiva di cogliere il suo messaggio o il senso inteso. 2.2.1. Si elabora un testo progressivamente e cumulativamente, in un cammino a spirale verso il suo senso, cioè considerando gli opposti che fanno reciprocamente da mediatori, i quali definiscono i circoli ermeneutici quali per esempio “il tutto e le parti”, “le cose e le parole”, “il lettore e il testo”. 2.2.2. Il circolo del tutto e delle parti: “Capisco il tutto soltanto in funzione della comprensione delle parti; capisco le parti soltanto in funzione della comprensione del tutto”. Dal punto di vista logico, è un circolo vizioso: in realtà, è aperto agli atti di conoscenza che, alternandosi reciprocamente tra il tutto e le parti, fanno da mediatori per una comprensione sempre più stabile dell’opera in entrambi gli aspetti. 2.2.3. Il circolo delle cose e delle parole: “Capisco le parole mentre capisco le cose a cui si riferiscono; capisco le cose mentre capisco le parole a cui riferiscono”. La prima parte afferma una conoscenza fondamentale: «Chi non capisce le cose non è in grado di afferrare il senso delle parole» (Lutero)9. La seconda parte afferma come ci si muova attraverso la conoscenza delle parole verso una conoscenza più stabile delle cose: il lettore capisce le cose con colui che scrive, attraverso le sue parole. 2.2.4. Se è un fatto che i lettori regolarmente capiscono le cose attraverso la mediazione delle parole di colui che scrive, il cosiddetto “mito della trasparenza” (Kermode)10 è in se stesso mitico, cioè errato e fuorviante. Al contrario, i lettori sono rivolti, e lo sono sempre stati, in modo spontaneo e con attenzione, alle realtà evocate dal testo e così come sono evocate dal testo. 2.2.5. Il circolo del lettore e del testo: “Capisco me stesso in virtù della conoscenza del testo; capisco il testo in virtù della conoscenza di me stesso”. Questa è una semplice specificazione del circolo esistente tra le cose e le parole, che mette a fuoco uno dei suoi aspetti fondamentali: le limitazioni nella conoscenza imposte dai limiti della conoscenza di sé. Suggerisce inoltre la possibilità di modificare la conoscenza di sé sotto lo stimolo di una intellezione anche frammentaria del significato dell’altro.
9
Citato da H.-G. GADAMER, Warheit und Methode, 162; e Truth and Method, 151. F. KERMODE, The Genesis of Secrecy. On the Interpretation of Narrative (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1979) 118ss.
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2.3. Come le figure geometriche sono funzionali alle idee geometriche, così in certi tipi di linguaggio scritto è estremamente funzionale astrarre il significato. Così, il suono delle parole è irrilevante; altre parole con altri suoni potrebbero farlo ugualmente. Ma nella poesia il mezzo è parte integrante del messaggio, cioè il testo materiale è incluso nel senso inteso. Le parole nel loro risuonare (e spesso nel loro essere viste stampate sulla pagina) appartengono sia a ciò che lo scrittore intende comunicare sia al modo in cui intende comunicare. Come il significato di una statua è inseparabile dalla sua forma concreta di statua, così il significato di un poema è assolutamente inseparabile dal suo materiale testuale unico. 2.3.1. L’interpretazione tiene conto di aspetti inadeguatamente distinti dal messaggio, cioè le intenzioni illocutive del testo (come le modalità performative quali attestare, arguire, promettere, minacciare, ecc.) e le sue intenzioni perlocutive (per esempio, l’intenzione di ottenere effetti come far vergognare, suscitare l’orgoglio, far emergere la meraviglia, provocare la riflessione, incitare all’entusiasmo)11. 2.3.2. La posizione intrinsecamente appropriata dell’interprete non è né il dubbio né lo scetticismo né il sospetto, ma la benevolenza, l’empatia, la prontezza a trovare la verità, il senso comune, l’accordo (Newman, Gadamer, Ebeling, Stuhlmacher)12. 2.3.3. Per cogliere il significato dell’altro non devo soltanto possedere una pre-comprensione (Vorverständnis) di e una vera relazione vitale (Lebensverhältnis)13 con ciò a cui egli si riferisce: devo anche proiettare orizzonti che si avvicinino a quelli del suo messaggio e devo trovare in
11
Sui termini “illocuzionale” e “perlocuzionale”, vedi J.L. AUSTIN, How to Do Things With Words (Oxford: Clarendon, 1962). 12 J.H. NEWMAN, Essay on the Development of Christian Doctrine [1878], cap. 3, sez. 1, paragg. 1 e 2 (Garden City: Doubleday, 1960) 115-117; H.-G. GADAMER, Warheit und Methode, 276-281; 529; Truth and Method, 259-265; G. EBELING, “Dogmatik und Exegese”, Zeitschrift für Theologie und Kirche 77 (1980) 269-285, spec. 274-276; P. STUHLMACHER, Historical Criticism and Theological Interpretation of Scripture (Philadelphia: Fortress, 1977) 83-87. 13 Sulla “pre-comprensione”, vedi R. BULTMANN, “The Problem of Hermeneutics” [1950], in Essays Philosophical and Theological (London: SCM, 1955), 234-261, vedi 239, 252ss; “Is Exegesis Without Presuppositions Possible?” [1957], in Existence and Faith. Shorter Writings of Rudolf Bultmann (Cleveland: World [Meridian], 1960), 289-296; Jesus Christ and Mithology (New York: Scribner, 1958) 49ss. Sulla “relazione vitale”, vedi “The Problem of Hermeneutics”, 241-243, 252ss, 255ss; “Is Exegesis Without Presuppositions Possible?”; Jesus Christ and Mithology, 50-52.
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me stesso una gamma di risorse simili a quelle realizzate e richieste dal suo messaggio. Questo è di difficile realizzazione senza una posizione previa di apertura, ricettività, empatia di fronte alla sua parola. 2.3.4. Questa posizione iniziale non esclude la critica. Suppone una distinzione tra la conoscenza e la critica, tra i loro rispettivi obiettivi e requisiti, e quindi tra le posizioni proprie di entrambe. Infine, questa prospettiva riconosce nella conoscenza accurata una conditio sine qua non per una critica valida. 2.3.5. Il dinamismo dell’interpretazione è rivolto verso l’incontro, cioè verso il contatto vitale con il senso inteso dell’altro. «Ogni vita vera è incontro» (Buber)14: lo stesso vale per l’interpretazione vera. 2.3.6. I circoli esistenti tra cose e parole e tra lettore e testo sottolineano l’orientamento dell’interpretazione verso l’incontro. Lo sforzo di costruire un testo eminente spinge al contatto vitale con il nuovo mondo così messo in luce. Nella comprensione che uno ha di Osea o Eraclito, di Dante o Rilke, possono subentrare cambiamenti sia di orizzonte che di autocomprensione da parte dell’interprete. (Dall’altro lato, alcuni cambiamenti di questo tipo possono – in accordo con i limiti di prospettiva dell’interprete – essere richiesti in partenza per la sua comprensione di Osea o Eraclito, di Dante o Rilke). 2.3.7. L’incontro è il nesso tra interpretazione e critica, e la critica è soprattutto una cronaca dell’incontro. 2.3.8. Tra gli oggetti specifici della critica c’è il testo come opera d’arte, come rappresentazione della realtà, come richiesta di verità, come qualitativamente paragonabile ad altre opere. Qui la distanza critica e “l’ermeneutica del sospetto” nel senso di un’attenzione ai pregiudizi, all’ideologia, alle spiegazioni razionalizzanti, ai meccanismi che fanno da schermo, ecc., non solo nel testo ma anche nel critico stesso, sono indispensabili alla critica (Lonergan)15.
14
M. BUBER, I and You [1923] (New York: Scribner, 21958) 11. Sulla “ermeneutica del sospetto”, vedi P. RICOEUR, Freud and Philosophy (New Haven: Yale University Press, 1970) 32-36. Su come utilizzare l’ermeneutica del sospetto in modo proficuo anziché sovversivo, vedi B. LONERGAN, “The Ongoing Genesis of Methods”, Studies in Religion/Sciences Religieuses 6 (1976-77) 341-355; le pagine 349-353; ristampato in F.E. CROWE (a cura di), A Third Collection. Papers by Bernard J.F. Lonergan (New York–Mahwah: Paulist, 1985) 146-165, spec. 156-163. 15
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2.4. Direttamente e variamente collegata con la critica (benché, diversamente dall’interpretazione, non sia limitata all’accordo con l’intenzione dell’autore) è la collocazione del testo nella storia della tradizione precedente e successiva ad essa. 2.4.1. Il testo genera una tradizione di interpretazione e di critica che poi condiziona l’accesso ad esso. Idealmente, la coscienza dell’interprete non è informata solo dalla tradizione che il testo da interpretare ha generato (il wirkungsgeschichtliches Bewusstsein di Gadamer16), ma anche dalla storia criticamente illuminata della tradizione. La tradizione costituisce un’unità contestuale di intellegibilità letteraria, un’intellegibilità accresciuta dalla storia critica. 2.5. La lettura riguarda primariamente il senso inteso. Tuttavia, i lettori possono leggere con altri scopi particolari. Sono di questo tipo la lettura di una richiesta di riscatto da parte di un detective della polizia o la lettura di un encomio antico da parte di uno storico della società. Questi scopi particolari, tuttavia, suppongono il primato di una lettura per il senso inteso piuttosto che escluderlo. Se il detective non riconosce quella come una richiesta di riscatto, non si preoccuperà di procedere a sottoporla ad ulteriore analisi. Se lo storico della società non riconosce l’encomio come encomio, questo non gli servirà agli scopi della sua ulteriore ricerca specializzata. 2.5.1. Riservando il termine “interpretazione” alla lettura nel senso primario, useremo “analisi” per tutti i tipi di lettura secondari e specializzati (analisi strutturale, analisi psicologica, analisi socio-economica, ecc.). Alcuni modi di analisi (critico-testuale, critico-formale, ecc.) preparano la strada verso l’interpretazione; altri, invece, rendono l’interpretazione un punto di partenza per scopi ulteriori. 2.5.2. Se il dinamismo dell’interpretazione è rivolto verso “l’incontro”, il dinamismo dell’analisi è rivolto verso la soluzione del problema. Una definizione soddisfacente del fenomeno del mito, per esempio, è una soluzione analitica di un problema. Benché rilevante all’interpretazione di testi mitologici, non costituisce in sé un’interpretazione. L’analisi direttamente centrata sui testi può degenerare fin troppo facilmente nella pura applicazione o illustrazione di ciò che colui che com-
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pie l’analisi sapeva già prima di aver analizzato il testo (per esempio, che ogni coscienza è socialmente determinata; che la motivazione umana opera come Freud l’ha descritta, ecc.). 2.5.3. Nella misura in cui un ricercatore compie un’indagine guardando un significato evidente – assodato o passato – alla ricerca del significato nascosto, la sua posizione appropriata è quella di una distanza critica, dello scetticismo e del “sospetto” (Ricoeur)17. 2.5.4. Proprio come la psicoanalisi è un tipo di analisi, non un tipo di critica letteraria, così ci sono modi di analisi, ugualmente distinti dalla critica letteraria, appropriati ai testi consapevolmente o inconsapevolmente distorti da pregiudizi psichici, pregiudizi individuali, pregiudizi di gruppo, pregiudizi generali18. In quanto riguardanti il senso latente o non-inteso, tali modi di analisi instaurano un’ermeneutica del sospetto, come fa la psicoanalisi.
3. La coscienza storica 3.1. La coscienza storica – la tendenza a vedere tutte le cose umane in un contesto globale di cambiamento storico – ha pervaso sempre più l’Occidente nei due secoli passati e il mondo intero nel corso del secolo presente. 3.1.1. Questa coscienza storica è stata gradualmente introdotta grazie a conoscenze complementari nel potente ma limitato impatto degli atti umani di significato. In primo luogo, mediante i suoi atti di significato l’uomo è ugualmente costruttore di se stesso e del mondo in cui egli vive e si muove. In secondo luogo, ogni atto di significato è inserito in un contesto e questi contesti inesorabilmente cambiano. 3.1.2. L’uomo fa di sé ciò che egli è in accordo con un processo per cui, che lo sappia o no, tutti i suoi atti di significato intervengono nella formazione della sua personalità. Sebbene l’uomo sia stato sempre costruttore di se stesso e del suo proprio mondo di significato, soltanto
17 P. RICOEUR, “Philosophical Hermeneutics and Theological Hermeneutics”, Studies in Religion/Sciences Religieuses 5 (1975-76) 14-33, vedi 31ss. 18 Sui pregiudizi individuali, di gruppo o generali, vedi B. LONERGAN, Insight. A Study of Human Understanding (London: Longman, 1957; ristampa London: Darton, Longman & Todd, 1983) 218-242; sui pregiudizi psichici, vedi R.M. DORAN, Psychic Conversion and Theological Foundations (Chico: Scholars Press, 1981) 149-154. Un esempio di modo di analisi a cui si fa riferimento in questa tesi è quello della “ideologia critica”.
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l’uomo storicamente conscio è consapevole di questo. Ha scoperto l’autonomia: la possibilità di attivarsi deliberatamente per rifare se stesso e il suo mondo. 3.1.3. Se ogni atto di significato è inserito in un contesto soggetto ad inesorabile cambiamento, l’uomo nello stesso momento non è mai del tutto unico e medesimo. Non è ciò che era; non sarà ciò che è. 3.2. Queste nuove coscienze e le intellezioni che le hanno generate sono in trasformazione, ma non sono né fondative né complete. Sono in trasformazione: tra il vasto pubblico la coscienza storica ha demistificato enormemente la tradizione, la cultura, la società, la ricchezza, il potere. Non sono fondative: la coscienza storica ha differenziato la coscienza di razionalisti, idealisti, empiristi, materialisti, esistenzialisti, ecc., ma non ha introdotto né una revisione dei principi né una riconciliazione delle loro differenze in una sintesi più alta. Non sono complete: le teorie della conoscenza e della realtà, dell’uomo e della storia, danno forma concreta alla coscienza storica come essa realmente esiste nei gruppi e negli individui. 3.2.1. Così, l’autonomia che è implicata nella formazione di sé è aperta all’interpretazione e alla realizzazione in quanto assoluto o in quanto “sotto Dio”. La comprensione del rapporto con il contesto può essere accompagnata dall’affermazione o dalla negazione di costanti transcontestuali e dalla possibilità di una trasposizione del significato da contesto a contesto. 3.2.2. Una teoria guida, che ha preso forme successive nell’Illuminismo, nei secc. XIX e XX, propone la libertà come scopo dell’uomo. Se una delle espressioni principali che ne sono derivate è stata l’emancipazione da un passato normativo e una secolarizzazione sempre più sviluppata, una delle variazioni sul tema prodotte dal sec. XX ha celebrato il ritorno dell’uomo allo stadio di “figlio” (Gal 4,5) e di “erede del mondo” (Rm 4,13) (Gogarten)19, dimostrando così che la coscienza storica ed anche la secolarizzazione in sé sono aperte ad una ridefinizione potenzialmente decisiva.
19 L. SHINER, The Secularization of History. An Introduction to the Theology of Friedrich Gogarten (Nashville-New York: Abingdon, 1966) 25-35 offre una sintesi eccellente del pensiero maturo di Gogarten su questo argomento.
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3.2.3. Anticipando la nascita della coscienza storica ed in un’epoca che si fonde ampiamente con essa, emerse il rifiuto di Cartesio di ogni affermazione che non fosse indubitabile. La prima della quattro regole di Descartes era nei giudizi evitare la precipitazione e i pregiudizi, e accettare in essi niente più di ciò che è presentato alla mia mente così chiaramente e distintamente che io non possa avere alcuna occasione di dubitarne20.
3.2.4. L’impostazione mentale derivata da questo principio divenne il “pregiudizio contro il pregiudizio” dell’Illuminismo (Gadamer)21; smentì la credenza e la tradizione; definì “critica” l’intelligenza in quanto metodicamente scettica. Un elemento potenzialmente anti-storico, quindi, entrava nella coscienza storica. 3.2.5. Per Descartes, i dati immediati della coscienza erano una roccia di certezza in un mare di dubbio. Per Marx e Freud, “maestri del sospetto” (Ricoeur)22, i dati immediati della coscienza erano fonti d’illusione. 3.2.6. Nella sua modalità del senso comune, la coscienza storica contemporanea dell’Occidente è cartesiana e marxista, vichiana e nietzschiana, hegeliana e freudiana: in breve, è segnata da una latente contraddizione. 3.2.7. Se la cultura occidentale moderna è coscientemente sperimentale e in evoluzione, e anche pervasa da una coscienza storica carica di tendenze in competizione ed incompatibili, nondimeno una certa unità è derivata da un’idea centrale, capace di controllare in teoria e almeno significativa nella pratica, che i Nord-Europei e i NordAmericani stabilirono nel tardo Illuminismo: la dignità dell’uomo, concepita in termini di auto-determinazione politica e di diritti umani individuali. 3.3. La tesi della più o meno radicale inconoscibilità del passato (linea dura del relativismo storico) è doppiamente fondata: primo, nella difficoltà pratica di ricostruire il senso comune di un’altra epoca e
20
R. DESCARTES, Discourse on Method, L.J. LAFLEUR (a cura di) (New York: Liberal Arts, 1950) 12. H.-G. GADAMER, Warheit und Methode, 256-261; e Truth and Method, 241-245. 22 P. RICOEUR, Freud and Philosophy, 32-36. 21
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
luogo; secondo, più in profondità, in una o in un’altra erronea teoria della conoscenza (per esempio, per conoscere qualcosa, bisogna conoscere tutto; il soggetto umano, dal momento che non mostra alcuna costante transcontestuale, è categoricamente discontinuo sia rispetto ai progenitori che alle generazioni successive; ecc…). 3.3.1. Mentre la coscienza storica ha intensificato la ricognizione delle difficoltà (per esempio, la diversità del senso comune condizionata storicamente) nell’interpretazione dei testi dal di fuori degli orizzonti e delle prospettive abituali per l’interprete, ha anche messo a disposizione di quest’ultimo una serie in precedenza inimmaginabile di risorse interpretative, approntate per fronteggiare e risolvere queste difficoltà. 3.3.2. La possibilità radicale della comprensione dei testi, inclusi anche i testi provenienti da un altro ambito temporale e linguistico, da un’altra cultura e civilizzazione, è fondata sulle strutture invariabili dell’intenzionalità umana (per esempio, esperienza-conoscenza-giudizio)23. 3.3.3. Il giudizio vero condotto sul passato è basato, come ogni istanza di giudizio vero, su una conoscenza dell’incondizionato virtuale (per esempio, di un condizionato le cui condizioni sono conosciute e conosciute per essere compiute)24. Dal momento che queste condizioni e il loro compimento sono finiti e conoscibili per principio, le interpretazioni valide dei testi provenienti dal passato e il giudizio vero portato su una realtà passata sono possibili ed infatti avvengono. 3.4. La storia studia la realtà storica, cioè l’uomo per com’era, o l’uomo per come ha operato su se stesso e sul suo mondo perché fossero ciò che sono stati. La ricerca alterna gli sforzi di conoscere (a) chi ha voluto qualcosa, e (b) quali possibilità hanno veramente trovato compimento e perché. 3.4.1. Per “critica storica” si intende globalmente le risorse, le tecniche e le norme prossime della ricerca storica. Una tale critica presuppone non soltanto una coscienza storica, ma una certa visione di ciò che,
23 B. LONERGAN, Insight, 271-278; “Cognitional Structure”, in Collection. Papers by Bernard Lonergan (New York: Herder & Herder, 1967) 221-239, spec. 222-227. 24 B. LONERGAN, Insight, 280-287; “Insight Revisited”, in W.F.J. RYAN – J. TYRREL (a cura di), A Second Collection. Papers by Bernard J.F. Lonergan (London: Darton, Longman & Todd, 1974) 263-278, spec. 273-275.
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in principio, è conoscibile, di ciò che è proprio e ciò che è estraneo alla ricerca storica, di ciò che merita di essere conosciuto e di ciò che lo merita particolarmente, ecc… 3.5. L’insorgere della coscienza storica, la sua determinazione ad opera di teorie differenti e in parte in conflitto circa la conoscenza, l’uomo e la storia, la diffusa coltivazione della curiosità e della conoscenza storica e la sofisticazione della critica storica hanno avuto un impatto irresistibile sul pensiero, la scrittura e la lettura contemporanei. 3.5.1. Tra i risultati più noti: il lettore oggi non presume più di essere in un continuum storico, senza soluzione di continuità con gli scrittori di altre epoche e altri luoghi. Inoltre, è ampiamente riconosciuto il fatto che la lettura di un testo eminente richieda una descrizione del suo contesto storico come anche di una introduzione al suo idioma concettuale e linguistico. 3.5.2. Tra i risultati di cui si è meno consapevoli: senza il minimo sforzo nella direzione di una teoria, i lettori contemporanei dotati di senso comune hanno raccolto i cocci e i pezzi delle teorie in conflitto e degli ideali – cartesiano, vichiano, kantiano, hegeliano, marxista, freudiano, ecc… La chiarezza culturale si è pertanto impantanata nella confusione culturale, aggiungendo all’amalgama del senso comune il nonsenso comune. 3.5.3. Nell’era moderna, l’ideale di produrre una conoscenza del senso inteso di un testo, che giudichi quanto accurata sia questa conoscenza, e che esprima ciò che si ritiene essere una conoscenza accurata del senso inteso del testo25 è stato spesso realizzato da interpreti professionisti più ampiamente e con più efficacia di quanto non fosse stato fatto nel passato, grazie all’utilizzo di risorse più precise ed elaborate (critica testuale, lessicografia, linguistica, storia sociale, culturale e letteraria) rispetto a quelle che erano precedentemente a disposizione degli interpreti. 3.5.4. Gli interpreti professionisti sembrano differire marcatamente dai lettori comuni e dal punto di vista tecnico dell’interpretazione (uso delle risorse linguistiche, filologiche, storiche) lo sono. Per altri aspetti, tuttavia, cioè nell’incontro con il testo, nella presentazione dell’incon-
25
B. LONERGAN, Method in Theology (New York: Herder & Herder, 1972) 155-173.
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
tro, nella critica della verità e del valore, la superiorità degli esperti è casuale ed inaffidabile. 3.6. I testi eminenti sono tali in virtù della loro capacità di ricondurre “elementi contrari, originali, in esubero, strani” ad una coerenza di fondo. Così, il vero segreto della loro ampiezza e unità sfida la definizione: «Un classico è uno scritto che non è mai compreso pienamente» (Friedrich Schlegel)26. 3.6.1. La difficoltà nell’interpretazione, tuttavia, non spiega la fuga contemporanea dall’interpretazione (cioè dall’interpretazione di e dall’incontro con il senso inteso): la limitazione dell’interpretazione ad una delucidazione del dettaglio; la formulazione di congetture storiche senza una direzione27; la preferenza per l’analisi (sociologica, strutturalista, marxista, freudiana, ecc…) rispetto all’interpretazione, insieme con l’addomesticamento del senso inteso sia attraverso la sua traduzione sistematicamente in termini più congeniali sia talora attraverso un giudizio sul senso inteso sulla base di un qualche standard convenzionale o di un qualche sistema chiuso. 3.6.2. I testi eminenti e lo sforzo di interpretarli hanno messo in luce la confusione culturale dell’interprete. Il rifuggire dalla dissonanza cognitiva è, di conseguenza, un fattore chiave nella fuga contemporanea dall’interpretazione. 3.6.3. Poiché l’incontro con i testi eminenti illumina, corregge e raffina, la perseveranza nell’interpretazione è la prima palestra dell’interprete. 3.6.4. Una soluzione più radicale e approfondita suppone la scoperta di una descrizione adeguata dell’intenzionalità umana28 e della sua appropriazione personale. Procede verso una dialettica delle teorie della conoscenza, dell’uomo e della storia che sono in competizione. Consiste nell’atto di discernere tra queste teorie quelle vere e quelle false, quelle reali e quelle illusorie.
26
Citato da H.-G. GADAMER, Warheit und Methode, 273, nota 2; e Truth and Method, 524, nota 194. 27 Vedi D.J. MCCARTHY, “Exod 3:14: History, Philosophy and Theology”, Catholic Biblical Quarterly 40 (1978) 311-322, spec. 319-322. 28 L’espressione “una descizione adeguata dell’intenzionalià umana” si riferisce a Insight di Lonergan: per questo problema, vedi “Cognitional Structure” (cfr. la nota 23, sopra) e i capitoli “Method”, “The Human Good” e “Meaning” in Method in Theology, 3-99.
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4. La teologia e la Bibbia 4.1. La letteratura biblica vanta una duplice pretesa di eminenza: letteraria e religiosa. Sebbene distinti, questi sono due aspetti inseparabili della stessa questione. L’eccellenza letteraria della Bibbia si intreccia con la qualità della risposta a Dio da parte del popolo di Dio. Questa è una risposta comunitaria e pubblica, che esige un’espressione linguistica e successivamente letteraria. 4.2. In virtù della risurrezione di Cristo, il cristianesimo è legato alle Scritture d’Israele, dal momento che la risurrezione comprova l’elezione di Gesù, la sua missione storica che supponeva e portava al culmine la storia dell’elezione dell’Israele biblico. 4.2.1 I primi cristiani compresero la salvezza in Cristo come compimento: la raggiunta realizzazione di ciò che era stato preannunziato (1Cor 10,6; Rm 8,32), promesso (Gal 3,8; 4,28ss; Rm 4,13-25; 15,8; At 2,16-21.33), e profetizzato (Lc 24,26ss.46ss; At 2,23.34ss; 3,18.22); il raggiunto perfezionamento di ciò che è stato provvisorio (Mt 5,17); il raggiunto completamento, per esempio, della misura escatologica preordinata, di tempo (Mc 1,15), di peccato (Mt 23,32; 1Ts 2,16; Rm 1,29), di sofferenza (Col 1,24), e dell’intero dramma della storia (Ef 1,9ss; cfr. 2Cor 1,20). Pertanto, le Scritture d’Israele erano sia parola di Dio che una fonte indispensabile per la comprensione della salvezza in Cristo. 4.2.2. Gesù stesso ha avviato l’interpretazione della sua carriera come compimento del tipo biblico (per esempio, i motivi del “Figlio dell’uomo” in Mt 10,23 e Lc 17,24-30; del Servo in Mc 9,31; 10,45 e i passi paralleli; 14,24 e i passi paralleli; dell’alleanza in Mc 14,24 e i passi paralleli), della promessa (per esempio, Mt 5,3ss; cfr. Is 61,1ss) e della profezia (per esempio, Mt 11,5 e i passi paralleli; cfr. Is 35,5-7; 29,18ss; 61,1ss), come perfezionamento del provvisorio (Mt 5,17) e come completamento della misura escatologica (Mt 5,21ss.33ss.38ss.43ss; cfr. Lc 14,22-24). 4.2.3. Se le Scritture d’Israele per il cristianesimo primitivo erano parola di Dio, lo stesso poteva dirsi della proclamazione del loro compimento (1Ts 2,13; 2Cor 2,17; 5,19ss; cfr. 1Cor 9,16ss) 4.2.4. Il rifiuto marcionita dell’Antico Testamento e l’interpretazione gnostica dei testi biblici e liturgici fecero emergere le risposte ortodosse, che riaffermarono l’Antico Testamento come parola dell’unico e solo Dio e che si appellavano alla “regola della fede” (cfr. Gal 6,16; Rm 12,6) quale norma dell’interpretazione scritturistica.
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
4.2.5. La formazione di un canone autoritativo delle Scritture del Nuovo Testamento attesta la preoccupazione del primo cristianesimo per l’unità della fede; il contenuto concreto del canone (cfr. specialmente il mantenimento di Vangeli distinti) attesta la preoccupazione per la particolarità, varietà e completezza del testimone normativo della fede. 4.3. La pratica degli interpreti cristiani nei primi secoli attesta probabilmente la loro preoccupazione sia per la particolarità dei singoli testi sia, in accordo con l’analogia o regola della fede, per la loro coerenza con l’eredità di fede attestata dalle Scritture globalmente prese. 4.3.1. Il loro trattamento del senso letterale dei testi biblici mostrava entrambi gli aspetti; il loro trattamento del senso “spirituale” – secondo cui, per esempio, l’Antico Testamento indicava Cristo e i sacramenti del battesimo e dell’eucaristia – metteva in luce il secondo aspetto. 4.3.2. Radicato nella pratica del Nuovo Testamento e sviluppato dagli autori dei secc. II-IV, il metodo preferito dai Padri nell’esposizione del senso spirituale della Scrittura era l’interpretazione allegorica. La funzione positiva di questa interpretazione è stata di testimoniare ripetutamente e creativamente la fede come un’unità comprensiva. 4.3.3. Gli strumenti concettuali mutuati (in parte attraverso la mediazione degli Arabi) dalla filosofia greca trasformarono le risorse interpretative dei teologi dell’alto Medioevo. Tra i risultati si ebbe uno stile interpretativo penetrante ed analitico e un’elegante sistematizzazione del “senso della Scrittura”29. 4.3.4. Dalla fine del sec. XIV sino ad oggi, i cambiamenti più significativi nell’interpretazione teologica, come nell’interpretazione in generale, sono connessi alla nascita della coscienza storica. Gli umanisti del Rinascimento introdussero un uso rudimentale dei metodi filologici. Il richiamo della Riforma alla “Scrittura” contro la “Chiesa” diede avvio alla rottura con l’allegoria. 4.3.5. L’ermeneutica cattolica da Ireneo ad oggi si appella all’eredità di fede della Chiesa apostolica quale criterio teologico (la “analogia” o “regola” di fede). L’ermeneutica protestante dalla Riforma ad oggi ha rivisto il ruolo della tradizione nell’interpretazione, ponendo la massima attenzione al senso letterale e richiamandosi alla claritas interna ed
29 Vedi H. DE LUBAC, Exégèse médiévale. Les quatre sens de l’Ecriture, 4 voll. (Paris: Aubier, 19591963) vol. I, 11-39, 110-118.
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externa del testo scritturistico come anche all’illuminazione immediata dello Spirito che ne deriva30. 4.3.6. Determinare quali siano le esatte differenze che attualmente controllano le posizioni di queste due ermeneutiche è un compito indefinito sinché le differenze non siano non soltanto localizzate, ma anche rifinite e risolte. 4.3.7. Di gran lunga più significativo delle differenze storiche tra protestanti e cattolici era il fatto stesso della frantumazione dell’unità della Chiesa. «Niente poteva rendere la fede della Chiesa meno credibile, all’alba dell’età moderna, della divisione della Chiesa» (H.U. von Balthasar)31. 4.3.8. Per quanto fosse profondo, vero e rilevante il messaggio delle Scritture ad un “mondo diviso” (Solzhenitsyn)32, una Chiesa divisa testimonia non solo a favore, ma anche contro la credibilità di quel messaggio. 4.4. Una volta che la tendenza degli studi biblici nella modalità della critica storica ebbe fatto la sua comparsa sotto improbabili auspici (Baruch Spinoza e Richard Simon, seguiti dai deisti inglesi), venne assorbita dai protestanti europei che ne patrocinarono le proposte più clamorose. 4.4.1. I metodi storico-critici sono stati storicamente associati ai numerosi movimenti intellettuali (razionalismo, idealismo, positivismo, relativismo storico, esistenzialismo, ecc…), dando così l’impressione che i metodi non fossero di per sé ideologicamente neutri, ma che fossero circoscritti in questa o quella teoria della conoscenza, dell’uomo, della storia, ecc. Ma, poiché questi metodi sono stati faticosamente distinti da un’ideologia dopo l’altra, adesso sembra che, in realtà, siano in sé ideologicamente neutri, in grado di servire per qualunque teoria di controllo che l’interprete abbia adottato. I problemi teologici sono di conseguenza rintracciabili non nei metodi, ma nelle teorie con cui sono stati fusi in casi particolari.
30
P. STUHLMACHER, Vom Verstehen des Neuen Testaments. Eine Hermeneutic (Göttingen: Vandenhoeck & Ruprecht, 1979) 92-95; vedi 93 sulla prontezza di Lutero nel citare il Credo degli Apostoli e altri simboli e dogmi della Chiesa come “validi cartelli indicatori” per la sua teologia. 31 H.U. VON BALTHASAR, Glaubhaft ist nur Liebe (Einsiedeln: Johannes Verlag, 1963) 12. 32 A. SOLZHENITSYN, “A World Split Apart”, in East and West (New York: Harper & Row [Perennial], 1980) 39-71.
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
4.5. A prescindere dalle dispute confessionali, i problemi teologici in questione derivano da tutte le fonti di dissonanza culturale nell’Occidente moderno, come per esempio la concezione cartesiana dell’intelligenza critica, il rifiuto razionalista della trascendenza e della tradizione, l’avversione kantiana per la fiducia nella conoscenza del reale, il relativismo storico indifferenziato di Ernst Troelsch, i sistemi ermeneutici che eliminano “i falsi scandali” eliminando qualunque cosa ecceda i limiti della ragione (demitologizzazione, ecc..). 4.5.1. Tre radici teologiche dell’interpretazione allegorica dalla Chiesa primitiva sino a quella medievale indicano, al contrario, ciò che spesso manca nell’interpretazione moderna del Nuovo Testamento: un senso della profonda dimensione teologica del testo, una comprensione del suo contesto religioso globale, e una reazione alla nota del compimento definitivo. 4.5.2. Se “Antiochia” ha significato il primato del senso letterale (cioè, inteso) del testo, e “Alessandria” l’affermazione (per esempio grazie all’allegoria) dello scopo pieno e dell’unità della rivelazione divina, l’ascesa di Alessandria nell’epoca precedente la nascita della coscienza storica è stata una necessità teologica. La mancanza di senso storico, di cambiamento storico, di sviluppo e modificazione, della imprevedibile e ampia diversità che lo sviluppo umano comporta, e la corrispondente mancanza di risorse interpretative orientate storicamente, hanno reso impossibile affermare simultaneamente l’unità e la coerenza della rivelazione divina e mantenere nella pratica il primato del senso letterale della Scrittura. 4.5.3. Quando Antiochia e Alessandria non vengono affiancate entrambe in una sintesi, Antiochia significa un’ermeneutica chiusa alla trascendenza o – come sostiene Newman a proposito della scuola storica di Antiochia – ristretta al principio secondo cui «non vi è mistero in teologia»33. Sotto questa costrizione, la devozione al senso letterale non è affatto all’altezza dell’incontro con il Nuovo Testamento. 4.5.4. L’esigenza più pressante dell’ermeneutica biblica odierna è rivolta alla sintesi critica tra Antiochia e Alessandria, cioè alla proiezio-
33 J.H. NEWMAN, An Essay on the Development of Christian Doctrine [1878] cap. 5, sez. 2, parag. 3 (Garden City: Doubleday, 1960) 186.
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II. Il primato del senso inteso dei testi
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ne di orizzonti al contempo pienamente differenziati da una coscienza storica e pienamente aperti al mistero trascendente della salvezza. 4.5.5. Poiché la Scrittura fa sentire la sua forza se è garantito il mistero, il soddisfacimento di tali esigenze teologiche deriva anzitutto da una ricerca perseverante del senso inteso delle Scritture. 4.5.6. L’apertura al mistero trascendente della salvezza, sebbene realizzata in misura significativa grazie al contatto vitale con le Scritture, precede le Scritture come una domanda precede una risposta, dal momento che il terreno di questa apertura è la domanda radicale che l’uomo non soltanto ha ma è, mentre le Scritture si presentano come la risposta a questa domanda34. 4.5.7. La comunione nella fede con la Chiesa dell’epoca apostolica è difficilmente più che un’illusione se manca di includere le preoccupazioni confessionali nella stessa rivelazione. Così, il mantenimento di un’identità cristiana autentica è la ragione teologica ultima dell’insistenza sul senso inteso dei testi. La comunione nella fede con la Chiesa di tutti i tempi impone una uguale preoccupazione nei confronti del senso inteso dei testi confessionali, liturgici e dottrinali. 4.5.8. Un problema teologico particolare al momento presente è la diffusa incapacità tra gli interpreti della Bibbia e specialmente del Nuovo Testamento di distinguere tra testi che sono davvero contraddittori e testi che sono concettualmente diversi e non armonizzabili, ma i cui significati non sono né contraddittori né incompatibili. 4.5.9. La soluzione radicale e globale dei problemi teologici che assalgono gli interpreti della Bibbia risiede nella pratica delle tre specializzazioni funzionali: dialettica, fondazioni e dottrine (Lonergan)35.
34
K. RAHNER, Foundations of Christian Faith. An Introduction to the Idea of Christianity (New York: Seabury, 1978) 17-43 e passim da qui in poi. Confronta con l’atto immediato di auto-comprensione di Agostino, sotto l’influsso della morte di un amico: “Factus eram ipse mihi magna quaestio”. 35 Su queste specializzazioni funzionali, vedi B. LONERGAN, Method in Theology, 235-333.
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
Sommario della parte prima Il primato ermeneutico del senso inteso dei testi è basato sul carattere sociale delle comunicazioni (1.1; 1.3-1.3.3), particolarmente sull’uso del linguaggio (1.2-2.2.2), e ancora più particolarmente sugli atti correlativi dello scrivere e del leggere (2.1-2.3.3). La nascita della coscienza storica (3.1-3.1.3) ha differenziato le ermeneutiche, facilitando una comprensione più effettiva del senso inteso (3.5.3), ma sottolineando anche e in un certo senso aumentando le sue difficoltà (3.3ss, 3.6). La teologia aggiunge le sue proprie ragioni (4.5.3-4.5.8) per insistere sul primato del senso inteso dei testi biblici, confessionali, liturgici e dottrinali. L’attuale fuga dall’interpretazione da parte dei critici letterari (3.6.1), la loro preferenza per l’analisi (cfr. 2.5-2.5.3) e il carattere sempre più ideologico della critica (cfr. 2.3.9 e 3.6.1) sono indici di crisi e confusione culturali (3.2.3-3.2.7, 3.5.2, 3.5.4, 3.6.1ss). I risultati in parte simili nell’ambito delle scuole di studio biblico sono il risultato di un’ermeneutica chiusa alla trascendenza (4.5.3). La sfida oggi è di conseguenza quella di articolare un’ermeneutica criticamente fondata, aperta e impegnata da un lato verso la storia e il senso inteso del testo, e dall’altro lato verso l’intellegibilità trascendente e l’unità del mistero della salvezza (4.5.2-4.5.6). In quanto “auto-correttiva”, l’interpretazione offre un elemento di speranza per il progresso interpretativo (3.6.3, 4.5.5). Ma sarebbe troppo ottimistico presumere che l’attenzione al senso inteso delle Scritture sia in sé sufficiente a fronteggiare la complessa situazione culturale riflessa nei difetti dell’attuale interpretazione biblica (3.6.4, 4.5.9). Questa situazione richiede piuttosto la realizzazione vitale delle specializzazioni funzionali: dialettica, fondazioni e dottrine (4.5.9).
Parte seconda: intenzione, storia e teologia La prima parte di questo articolo ha molti fini ed usi, ma per ora preferisco soppesarli in vista di due scopi. Il primo è quello di restituire l’intellegibilità del senso inteso del testo come oggetto dell’interpretazione. Il secondo è quello di integrare questa visione dell’oggetto dell’interpretazione in un programma di interpretazione biblica aperto alla rivelazione divina, in quanto trascendente e coerente con il mysterium Christi.
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II. Il primato del senso inteso dei testi
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Se gli scopi sono due, i titoli sottostanti saranno tre: il dibattito contemporaneo costante sul senso inteso, l’impatto della coscienza storica sulla problematica e l’applicazione all’interpretazione biblica. La forma della tesi adottata in precedenza aveva il vantaggio di essere concisa e la concisione permetteva di delineare un ampio contesto in poche pagine. Ma tra gli svantaggi di una tale forma c’è quello di lasciare inarticolato molto di quanto attiene alla persuasione: la spiegazione serena e la considerazione delle obiezioni. Vorrei offrire proprio queste spiegazioni e considerazioni nella seconda parte di questo saggio. Infine, mi preoccupo in particolare dell’interpretazione in quanto indispensabile per la vita del cristiano e, all’interno di questa ampia sfera, dell’interpretazione in quanto indispensabile all’impresa della teologia cristiana contemporanea. In quanto indispensabile alla vita cristiana in generale, l’interpretazione rientra sotto la specializzazione funzionale delle “comunicazioni”36; ma, in quanto indispensabile all’impresa collaborativa che è la teologia, l’interpretazione è una specializzazione funzionale in sé37. La specializzazione “comunicazioni” richiede tanti modi e stili di interpretazione quanti sono gli uditori legati all’eredità cristiana. In questa sede, il mio interesse primario è tuttavia rivolto alla specializzazione funzionale “interpretazione”. L’interpretazione, in questo senso, è considerata soprattutto in favore della precisione, e l’eccellenza tra gli interpreti e la loro opera mostra una tendenza verso la convergenza.
Un dibattito insoddisfacente, ma istruttivo Nel 1967 E.D. Hirsch cercò di considerare il senso inteso del testo come oggetto di interpretazione38. La sua posizione, tuttavia, come gli argomenti che la supportavano, era debole in diversi punti. In primo luogo, non distinse coerentemente tra intenzione dell’autore come è nell’autore ed estrinseca al testo e intenzione dell’autore in quanto è intrinseca a, o codificata in, o espressa dal testo. Così Hirsch, sin dal primo capitolo del suo libro, ha potuto affrontare il caso marginale in
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Vedi “Communications” in Method in Theology, 355-368. Vedi “Interpretation” in Method in Theology, 153-173. 38 E.D. HIRSCH, Validity in Interpretation (New Haven: Yale University Press, 1967). 37
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
cui l’autore stesso decideva: «Con queste parole [cioè il suo testo] intendevo così e così, ma insisto che d’ora in poi significheranno qualcosa di differente». Un evento di questo tipo, dice Hirsch, è “improbabile”, ma “potrebbe accadere”. In quel caso il singolo testo, secondo Hirsch, non ha cambiato di significato; ha ora due significati, e dipende dall’interprete «decidere di quale dei due significati dell’autore si stia per occupare»39. Qui Hirsch è davvero rimasto vittima di un errore intenzionale. Ha trasformato il testo in un indice della storia dell’autore, che è quindi diventato il vero oggetto dell’interpretazione. In un determinato momento l’autore intendeva questo e questo nel testo; poi, ha inteso qualcos’altro. Dovremmo soffermarci su questo esempio. Hirsch non fornisce alcun dettaglio, forse perché troppo rischioso per la sua tesi. Non dice, ad esempio, se il secondo significato dell’autore sia anche supportato dal testo come il suo primo significato. Perché no? Qui, come altrove, Hirsch ha insistito così unilateralmente sul significato come atto della “volontà dell’autore” da sorvolare, senza farne menzione, sulla serie di conoscenze pratiche – che conducono, per esempio, alla scelta e alla distribuzione delle parole – attraverso le quali l’autore realizza o effettua la sua volontà di comunicare qualcosa a un qualche destinatario. Possiamo colmare l’assenza di dettagli di Hirsch supponendo, anzitutto, che il secondo atto di volontà dell’autore offra come plausibile un senso del testo al suo primo significato. Ma, in secondo luogo, dobbiamo insistere sul fatto che l’oggetto dell’interpretazione sia non la storia dell’autore, ma il senso del testo stesso. Ne consegue, allora, che non ci stiamo occupando di ciò che è veramente conosciuto, di significati successivi di un testo che è chiaro, ma di significati possibili di un testo che è ambiguo. L’interprete sarebbe saggio a non iniziare a cogliere la parola dell’autore nei significati successivi del testo, né a collocarla semplicemente su uno dei significati presunti, nemmeno a considerarli entrambi isolatamente. Il suo compito è quello di costruire il testo come si presenta, determinando se è realizzato nel testo più di un possibile significato e, se ciò accade, come i significati sono collegati tra di loro – preferibilmente non alla testimonianza dell’autore, ma ai particolari del testo. Altrimenti, ciò-
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Validity, 9.
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che-va-interpretato non è più il testo. (In relazione al compito senz’altro legittimo, ma – per il nostro contesto – irrilevante di studiare l’autore, la testimonianza dell’autore sul suo cambiamento di idea circa il significato del testo costituisce, ovviamente, un dato utile e interessante). Un altro esempio di Hirsch: in un poema di quattro righe, un poeta intende comunicare un senso di desolazione. Realizza, tuttavia, che persino il lettore più competente non riesce a cogliere questo aspetto. «Ovviamente – dice Hirsch – l’intenzione del poeta di comunicare la desolazione non è identica con la sua realizzazione stilistica». La mancanza di realizzazione da parte del poeta fa qualche differenza? Per Hirsch, no. L’unico significato universalmente valido del poema è il senso di desolazione40. Che imbarazzo. L’unica interpretazione universalmente valida del poema è quella che – a causa dell’incompetenza dell’autore – i lettori non possono in alcun modo cogliere se non interrogando il poeta o i suoi diari. Oltre che imbarazzante, la conclusione è sbagliata. Il senso di desolazione che il poeta non è riuscito ad esprimere concretamente è eo ipso estrinseco al testo, un’intenzione semplicemente non realizzata che appartiene alla storia personale del poeta. In assenza di un’espressione riuscita, la volontà dell’autore è inutile. Così, dalla prima pagina del suo libro del 1967, Hirsch ha ribaltato in partenza lo sforzo prolungato, impegnativo, e per molti versi ammirabile ed efficace di stabilire il senso inteso come oggetto dell’interpretazione. Dall’altro lato, i suoi critici lo hanno superato nell’oscurare i problemi, associando facilmente alla confusione di Hirsch le loro stesse critiche poco fondate e sofisticate. Monroe C. Beardsley ha portato un attacco alla “tesi dell’identità” di Hirsch (il significato del testo è il significato dell’autore) immediatamente dopo la comparsa del libro di quest’ultimo41. La tesi dell’identità – sostiene Beardsley – può essere “definitivamente confutata” in base a tre argomenti42. Il primo argomento: alcuni testi, sia pur creati senza un significato dell’autore, nondimeno hanno un significato e questo può essere interpretato. Il primo esempio è fornito dal New Yorker, quando cita il Portland Oregonian: 40
Validity, 12. M.C. BEARDSLEY, “Textual Meaning and Authorial Meaning”, Genre 1 (1968) 169-181. 42 “Textual Meaning”, 174. 41
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«Si è evinto che vi fosse almeno un ufficiale della forza di polizia di Portland che non avesse visto l’Ufficiale Olsen ubriaco», osservò tranquillamente Apley. A differenza di Apley, Jensen ragionava come un uomo animato da una giusta indigestione.
L’analisi della frase da parte di Beardsley è: «Qui non c’è nessuna “volontà dell’autore”, dal momento che la frase finale non è voluta»43. Ma questa analisi è erronea. È vero che la volontà dell’autore da parte del reporter non ha trovato una espressione adatta (o per un proprio errore o per un errore di stampa). Tuttavia, ci troviamo su un terreno solido nella ricostruzione a partire dal testo della volontà dell’autore da parte del reporter se richiamiamo “la giusta indignazione” di Jansen. Inoltre, l’effetto comico del testo così com’è dipende dalla frase finale, a cui Beardsley nega una volontà dell’autore; ma la frase finale insieme con l’effetto comico sono del tutto voluti dal New Yorker. Conclusione: il primo esempio di Beardsley non è riuscito ad illustrare il “significato” senza il “significato dell’autore”. Il secondo esempio di Beardsley: Quando Hart Crane scrisse Thy Nazarene and tender eyes, un errore di stampa lo ha trasformato in Thy Nazarene and tinder eyes; ma Crane lasciò che la versione erronea rimanesse come la migliore44.
Non se ne fa alcuna analisi. Si presume che l’esempio esprima, per un’evidenza intrinseca, un significato senza il significato dell’autore. Ma è davvero così? Difficilmente. L’unica ragione per cui la seconda versione non è un vero errore di stampa è che Crane «lasciò che la versione erronea rimanesse come la migliore». Si entra così nel senso inteso del testo di Crane. Il terzo esempio di Beardsley è una poesia fatta al computer:
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“Textual Meaning”, 174ss. “Textual Meaning”, 175.
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Mentre la vita arrivava malignamente attraverso i visi vuoti mentre lo spazio fluiva lentamente su ossa pigre e le stelle fluivano malignamente su grandi uomini nessuna passione sorrideva.
Qui Beardsley anticipa l’obiezione per cui «c’è qualcosa come una “volontà dell’autore” nell’aria, espressa nelle istruzioni del programmatore». D’accordo. Si risponde all’obiezione dicendo che, mentre le istruzioni sono generali, il poema è «una nuova composizione particolare di parole», e che «ha un significato, ma niente che fosse inteso da alcuno»45? Difficilmente. Che ci sia un “significato” in queste sciocchezze non è un mistero: il programmatore ha usato parole, specialmente termini “poetici”, anche in base ad una sintassi intellegibile, e ha fornito anche delle divisioni delle righe. Ma, in accordo con la generalità delle istruzioni, il significato è sospeso da qualche parte nella terra di nessuno tra la langue e la parole. Considerata come parole, manca di significato. Confuso ed evanescente, il prodotto del computer non riesce a far fronte alla specificazione del significato reale senza un’autorità reale. Ciò di cui Beardsley ha veramente bisogno è una eccezione al principio di causalità. Al computer difficilmente se ne può accreditare una. Se si aggiungessero altre dieci o dodici righe di poesia del computer a queste quattro, il testo avrebbe ancora meno significato. La questione teoretica, d’altro canto, sarebbe molto più chiara: il testo migliora soltanto nella misura in cui le istruzioni del programmatore sono sotto continuo controllo. Beardsley non ha fatto altro che comprovare il dato indubitabile secondo cui le parole e la sintassi sono elementi del significato e che la ragione delle combinazioni più o meno “felici” di parole aumenterà in base alla riduzione della casualità e diminuirà in base all’aumento della casualità. Sin qui gli esempi presentati per rendere convincente il primo argomento di Beardsley. Il suo secondo argomento è che il significato di un testo può cambiare dopo che il suo autore è morto. Il caso addotto come prova è quello del poema Mark Akenside The Pleasures of Imagination, II, 311-313 (metà del sec. XVIII), dedicato allo “Spirito Sovrano del mondo”:
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“Textual Meaning”, 175.
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Ma d’immensa bontà incline per diffondere su di lui quella gioia primordiale che riempiva lui stesso, alzò il suo braccio plastico…
“Braccio plastico” – dice Beardsley – ha acquisito un nuovo significato nel sec. XX. Questo ci “spinge” a distinguere tra ciò che queste righe hanno significato e ciò che esse significano oggi46. Direi, piuttosto, che questo ci spinge a controllare “plastic” nell’Oxford English Dictionary, dal momento che il senso principale nel sec. XX non è evidentemente appropriato qui, ma causa solo disturbo, un effetto comico stonato e inutile. La “prova” di Beardsley è pertanto controproducente. Il suo terzo ed ultimo argomento è che un testo può avere un significato di cui il suo autore non è consapevole. Hirsch ne ha offerto un esempio: un critico fa osservare ad un autore che ha enfatizzato una similitudine intesa attraverso una costruzione parallela. “Quanto sono stato bravo!”, osserva l’autore, accogliendo l’osservazione, ma ammettendo di non essersi accorto in precedenza di questo espediente retorico47. Ma Hirsch, come notava Beardsley, non sapeva come inserire l’esempio nella sua teoria, e così lo considerava in termini di distinzioni solo in parte rilevanti (questione del significato contro questione del soggetto, coscienza contro autocoscienza)48. Questo, mi pare, è dovuto al fatto che Hirsch trascura o sottovaluta la distinzione fondamentale tra intenzione e realizzazione testuale dell’intenzione. Proprio come un poeta incapace può mancare di realizzare nel testo una sua intenzione, così un poeta competente può in alcuni casi particolari realizzarla meglio di quanto avesse pensato. Questo ci dice una verità, anche se una verità minore: la realizzazione testuale di una intenzione talora causa degli effetti non precisamente intesi, e non tutti sono cattivi. Beardsley e molti altri pensano che questo ci dica una grande verità, ermeneuticamente basilare: il testo è semplicemente autonomo rispetto al suo autore. Ma un giudizio simile non è affatto accurato. Sarebbe necessario
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“Textual Meaning”, 175. Validity, 21. 48 “Textual Meaning”, 176ss. 47
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molto di più dell’esempio di Hirsch per provare la tesi di Beardsley, sebbene Beardsley e molti che concordano con lui sembrano esserne invincibilmente inconsapevoli49. Ciò che emerge da questa breve rassegna di un dibattito insoddisfacente è, in primo luogo, l’incapacità di Hirsch di rendere il senso inteso del testo esplicitamente intrinseco al testo. Hirsch avrebbe fronteggiato con successo tutte le obiezioni se avesse definito l’oggetto dell’interpretazione sia come il senso che l’autore ha inteso, sia come il senso che l’autore ha cercato di codificare o espimere nel testo. In secondo luogo, Beardsley, l’inventore (insieme con William K. Wimsatt jr.) dell’“errore intenzionale”, offre una critica non atipica di Hirsch. Egli intende il proprio rifiuto di Hirsch come “definitivo”. Tuttavia, una volta messo sotto esame, questo rifiuto si mostra scadente e facilmente confutabile. Infine, al di là dell’enorme influsso della teoria francese e tedesca sulla critica letteraria nord-americana a partire dall’epoca del dibattito sull’opera Validity in Interpretation di Hirsch, possiamo fornire non più di un commento: quello relativo alla tendenza di molti movimenti, ma specialmente del movimento chiamato “teoria della ricezione del lettore”. La rottura abbastanza ingiustificata con la nozione del “senso inteso del testo” ha preparato la strada all’abbandono della vecchia idea espressa da Max Weber con i termini correlativi Sinnsetzung (espressione del significato) e Sinndeutung (interpretazione del significato), in favore del solo Sinndeutung. La nascita della teoria della ricezione del lettore, di conseguenza, non è stata una sorpresa. Se è qualificata, sotto influenze estranee, da una visione esagerata dell’“intertestualità” e dalla negazione di un “riferimento” alla realtà extratestuale, diventa manifestamente indifendibile. Normalmente, tuttavia, assume la forma familiare del tentativo di convertire i significati e i riferimenti sconosciuti del testo in cose conosciute. In casi particolari, allora, l’interpre-
49
Nella “Postfazione” del 1984 al suo Language of Fiction (London: Routledge & Kegan Paul, 1966, 21984), David Lodge giustamente respinge sulla base della sua “pratica”, cioè quella di novellista, la visione critica letteraria ampiamente diffusa del testo “senza autore”. E lo fa – va detto – mentre considera se stesso come un anti-intenzionalista “nel senso Wimsattiano”. (Difatti, Lodge ha attribuito a Wimsatt e Beardsley le sue intuizioni e formulazioni più equilibrate e più puntuali sul tema della intenzione).
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tazione reale può finire per differire solo marginalmente dall’applicazione della teoria qui difesa50. C’è un senso in cui il correlativo attivo, Sinnsetzung, è un elemento costitutivo della teoria dell’interpretazione, poiché è necessariamente implicato nell’oggetto dell’interpretazione, cioè nel senso inteso del testo. Nondimeno, c’è un’osservazione fatta dagli antichi e sporadicamente ripetuta lungo i secoli: a differenza del linguaggio vivente, i testi sono impotenti. Essi interrogano il lettore solo metaforicamente; non possono letteralmente “entrare in dialogo” con lui, richiamando l’attenzione, per esempio, sul passaggio precedente ma ormai dimenticato, su di un dettaglio significativo ma trascurato. Per quanto lo scrittore possa essere attento, in definitiva egli si trova alla mercé del lettore. La fruizione da parte dei lettori determina l’impatto reale che un libro dovrà avere, ciò che veramente significherà per il mondo. Dovremmo concludere che il lettore è un re? Non esattamente, dal momento che egli deve ancora misurarsi con il testo. Così, ci sono due risvolti della questione. Da una parte, “un libro è uno specchio”, come osservava G.C. Lichtenberg: «Se è un asino a guardare dentro, non ci si può aspettare che vi si rifletta un apostolo»51. Dall’altra parte, l’interpretazione consiste nel trovare un lettore che sappia raccogliere la sfida del testo, nel mandare un ladro a catturare un altro ladro: e se la storia dell’esegesi moderna ci ha detto qualcosa, questo qualcosa è che gli asini non catturano gli apostoli.
Aspetti dell’impatto della coscienza storica sull’interpretazione L’interpretazione è lo sforzo di fronteggiare le domande che sono emerse dal testo. Le domande alle quali l’interpretazione (in quanto distinta dall’analisi e dalla critica) cerca di rispondere sono specificazio-
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Tuttavia, c’è una serie numerosa di differenze tra le mentalità caratteristiche riconducibili alle due teorie. Per Joachim Jeremias, uno straordinario ricercatore del senso inteso del testo, «Exegese ist Sache des Gehorsams!» (Die Abendmahlsworte Jesu, [Göttingen: Vandenhoeck & Ruprecht, 31960] 6), mentre Stanley Fish, esponente della teoria della ricezione-del-lettore, annuncia: «Il critico non è più l’umile servo dei testi...» (citato in Encounter 65 [luglio-agosto, 1985] 21). Questo vivaci proclami di autonomia costituiscono un luogo comune nella letteratura del movimento. 51 Wystam Hugh Auden ha citato questo testo, senza purtroppo fornirne la citazione.
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ni della domanda principale: “Che cosa significa il testo?”. Del resto, le domande poste da un’epoca, e addirittura da una generazione, sul testo differiscono da quelle poste da un’altra epoca. Con poche eccezioni, i commentari del sec. XIX sono fin troppo datati ed oggi illeggibili. Il problema non è tanto che le risorse – cioè le risorse filologiche – degli interpreti sono obsolete. Spesso sono più ricche della media dell’esegesi odierna. La difficoltà risiede piuttosto nel cambiamento di interesse che ha avuto luogo. Non siamo affatto interessati, per esempio, a quelle che una volta erano le questioni scottanti della teologia liberale. Dagli ultimi due secoli difficilmente è avvenuto un cambiamento di interesse paragonabile alla nascita della coscienza storica. La filologia e la storia hanno generato nuove straordinarie possibilità per l’interpretazione biblica. La loro messa in opera è stata un successo continuo dell’interpretazione “storico-critica” specialmente dell’Antico Testamento, ma anche abbastanza significativamente del Nuovo. Il Deuteronomio è diventato, per la prima volta in due millenni di interpretazione cristiana, il libro biblico per eccellenza dell’agapê. Grazie all’analisi delle nuove scoperte linguistiche, i testi dei Salmi, di Giobbe, di Qoelet e di altre opere, che erano stati mal compresi per ben oltre due millenni di tentativi di tirare ad indovinare santificati dalla tradizione, adesso offrivano un senso originale chiaro e solidamente fondato. Passaggi molto lunghi e tematicamente unificati, come Rm 9-11, che per quasi tutta l’era cristiana erano stati ampiamente e disastrosamente fraintesi, venivano adesso riscoperti nella loro primitiva passione e lucidità. Non si è più concepita erroneamente la dakaiosynê theou in Paolo sul modello della justitia della legge romana. Passo poi sotto ciceroniano silenzio la rivoluzione nell’emendazione testuale, nella lessicografia, nella morfologia e nella sintassi, nell’analisi dei generi e delle forme, nella cronologia e nella geografia. Possiamo soffermarci, tuttavia, sulla nuova possibilità della storia critica delle tradizioni inaugurata dall’interpretazione storica. Questo tipo di interpretazione insiste sul senso originale del testo non soltanto per amore dello stesso, ma come condizione e punto di partenza di tale storia. Alcuni hanno supposto che questa insistenza sul senso originale comportasse la sua massimalizzazione come unico senso che conta o comunque come il senso più vero o più significativo. Se fosse così, la nuova possibilità della storia critica delle tradizioni avrebbe perduto molto delle sue caratteristiche prima di scomparire. La supposizione
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esclusivista, tuttavia, è un mero pregiudizio ed è facilmente separabile dall’interpretazione storica stessa (cfr. la tesi 2.1.5). A partire dal declino della ricerca condotta dalla storia della recezione del testo (Wirkungsgeschichte), l’interpretazione storica ha reso possibile una storia della tradizione ancora più completa, esatta ed istruttiva. Basti pensare agli studi su Is 53 di Dalman, Billerbeck, Zimmerli e Jeremias e i suoi discepoli52, che insieme hanno tracciato un itinerario di questo testo attraverso il tempo, la sua influenza sulla formazione dei testi chiave di Zaccaria, Daniele e Sapienza, sulle tradizioni della sinagoga greca ed aramaica, sulla nascita del cristianesimo e rispettivamente sul cristianesimo e sull’ebraismo lungo le varie epoche. Questa indagine ermeneuticamente razionale ha soppiantato buona parte delle teorie del “senso multiplo” di epoca patristica e medievale. L’idea del senso inteso è di vecchia data ma, mentre la possibilità di ritrovarlo ha subìto una trasformazione radicale in Europa nell’impatto con la coscienza storica, sono emersi nuovi risorse e strumenti di ricerca che hanno permesso di recuperare il senso inteso in modo più pieno e preciso di quanto non fosse stato possibile in precedenza. Mentre i teorici del sec. XX stavano rendendo il “senso inteso” oggetto di un profondo sospetto – spesso fraintendendolo alla luce di una teoria povera e di una pratica peggiore da parte di coloro i quali avevano reso la ricerca biografica la chiave interpretativa dei testi – i pratici del sec. XX sono riusciti più volte con successo a recuperare il senso inteso sia pure di testi abbastanza brevi e contenuti. Qui, a dire il vero, gli esperti non sono tutti in accordo. Ma come esempi rappresentativi negli ultimi cinquant’anni di una riscoperta particolarmente interessante di testi brevi ma ricchi del Nuovo Testamento proporrei le formule di fede pre-paoline contenute nelle lettere agli Efesini e ai Romani (per esempio, 1,3ss;
52 Al di là dell’ampio numero di opere (raccolte in varie bibliografie su Is 53, come ad esempio quella preparata da Joachim Jeremias per l’articolo “pais theou” del Theological Dictionary of the New Testament, vol. V, 654-656) desidero segnalare i seguenti: S.R. DRIVER – A. NEUGEBAUNER, The Fifty-Third Chapter of Isaiah According to the Jewish Interpreters [1887-1877] (ristampa New York: KTAV, 1969); G. DALMAN, “Der Leidende und der sterbende Messias der Synagoge im ersten nachchristlichen Jahrtausend”, Schriften des Institutum Judaicum Berlin (1988); P. BILLERBECK, “Hat die Synagoge einen präexistenten Messias gekannt?”, Nathaniel 21 (1905) 89-150; W. ZIMMERLI – J. JEREMIAS, The Servant of God (London: SCM, 1957, 21965); H. HEGERMANN, Jesaja 53 in Hexapla, Targum und Peschitta (Gütersloh: Bertelsmann, 1954).
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3,25ss; 4,25ss; 8,34ss; 10,9ss) e l’opera di Karl Georg Kuhn53, Joachim Jeremias54 ed altri55 sul “Padre nostro” come parola di Gesù e come testo liturgico diversamente strutturato. La nascita del metodo storico-critico, ovviamente, non ha preservato l’interpretazione biblica dall’errore e dalla grossolanità, mentre la società e la cultura occidentali abbandonavano le loro eredità religiose e filosofiche. Gli interpreti della Bibbia non sono stati esenti da queste correnti e dall’interpretazione biblica che da Spinoza sino ai nostri giorni ha spesso tradito un malsano estraneamento dal testo biblico. I limiti metodologici dell’interpretazione storica l’hanno portata ad essere relegata al servizio anzitutto della neutralità religiosa, e poi in una posizione di vantaggio alienata e ostile. Come Screwtape spiegava a Wormwood, «“punto di vista storico”, in breve, significa che quando un uomo dotto si pone di fronte ad un’affermazione di un autore antico, una domanda che egli non pone mai è se quell’affermazione sia vera o meno»56. Il relativismo storico, assunto dai moderni insieme con il latte materno, ha portato a rendere implicitamente controverso l’intero insieme di pretese di verità che derivano dal mondo antico. Senza fare distinzioni, i critici della religione hanno pensato che il metodo storico in sé fosse per questo da biasimare. Gli spiriti capaci di fare distinzioni più accurate hanno distinto il metodo storico dagli assunti filosofici che con esso venivano spesso gratuitamente associati. A dispetto delle apparenze, l’ideologia dell’Illuminismo è stata spesso gratuita, sebbene le figure guida da Strauss attraverso Troeltsch fino a Bultmann non si siano liberate dall’identificare aspetti precisi di questa ideologia con le tecniche che costituivano il metodo storico. Oggi la domanda è perché si debba continuare a prolungare questa tradizione filosofica sempre più chiaramente in bancarotta.
53
K.G. KUHN, Achtzehngebet und Vaterunser und der Reim (Tübingen: Mohr, 1950). J. JEREMIAS, “The Lord’s Prayer in the Light of Recent Research”, in The Prayers of Jesus (London: SCM, 1974) 82-107 [originale tedesco del 1962]. 55 R.E. BROWN, “The Pater Noster as an Eschatological Prayer”, in New Testament Essays (New York-Ramsay: Paulist, 1965) 217-253; P.B. HARNER, Understanding the Lord’s Prayer (Philadelphia: Fortress, 1975). 56 C.S. LEWIS, The Screwtape Letters and Screwtape Proposes a Toast (London: Bles, 241966) 121. 54
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Esistono, infatti, delle alternative. Collingwood è stato a lungo letto e ammirato, ma troppo poco è stato riconosciuto che la sua opera Idea of History era un lavoro di demolizione e di liberazione57. Su di un fronte ancora più ampio, Lonergan ha realizzato un compito simile, delienando il collasso del culto della necessità, a partire dalla critica rinascimentale di Aristotele fino ai nostri giorni. Filosofie erronee possono mescolarsi con la scienza ma, come le teorie dei primi sociologi della religione quali Tylor e Spencer, le opinioni fantasiose e mal orientate alla fine vengono scoperte e, una volta scoperte, vengono dimenticate. Dimenticate come la struttura euclidea dello spazio esorcizzata da Einstein e Minkowski, come la necessità che regolava il processo fisico fino alla teoria dei quanti, come le leggi ferree dell’economia erette su piattaforme politiche sino alla depressione dei primi anni Trenta58.
Gradualmente purificati dai parassiti ideologici, i processi dell’interpretazione storica sono oggi più che mai uno strumento ineguagliabile (sebbene certamente non sia l’unico) a disposizione degli studiosi della Bibbia. Ma sono propriamente uno strumento. Uno strumento non deve essere accusato per l’uso che se ne fa nella ricerca di oggetti sbagliati o insignificanti. Gli strumenti possono essere fatti funzionare al servizio della ricerca della verità come anche a servizio di un’ideologia esplicita o nascosta o per il fascino della banalità (fascinatio nugacitatis). Nella sua trattazione dell’interpretazione come specializzazione funzionale in teologia, Lonergan ha rilevato le condizioni della possibilità dell’interpretazione e ha lasciato la questione a quel punto. «Chiunque può… interpretare» – dice Lonergan – e «la conversione non è un requisito»59. Ma, natu-
57
R.G. COLLINGWOOD, The Idea of History (Oxford: Oxford University Press, 1946). Una anomalia che colpisce: la teoria chiara e coerente di Collingwood ribalta in anticipo il pensiero di circa la metà di quanti lo citano favorevolmente. Un esempio: J.M. ROBINSON, A New Quest of the Historical Jesus (London: SCM, 1959). 58 B. LONERGAN, “Method: Trend and Variations”, in F.E. CROWE (a cura di), A Third Collection. Papers by Bernard J.F. Lonergan (New York–Mahwah: Paulist, 1985) 13-22, a pag. 20. 59 Method in Theology, 268. In “An Interview with Fr. Bernard Lonergan” (in W.F.J. RYAN – B.J. TYRREL [a cura di], A Second Collection. Papers by Bernard J.F. Lonergan [London: Darton, Longman & Todd, 1974] 217), Lonergan chiarisce che la parola “può” nella frase «chiunque può fare ricerca, interpretazione, storia» sta per “è il benvenuto a”. Le specializzazioni funzionali non costituiscono le condizioni dell’appartenenza: chiunque è il benvenuto a provarci.
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ralmente, non tutti possono compiere una buona interpretazione. Interpretare bene e specialmente interpretare bene la letteratura biblica esige senz’altro l’autenticità che dipende da una complessa conversione60. Una volta che si va oltre le condizioni di possibilità di eccellenza nell’interpretazione, l’attenzione principale dell’ermeneutica si concentra sull’autenticità dell’interprete. Data questa autenticità, è spesso venuta alla luce, ancora emerge e senza dubbio continuerà ad emergere la bellezza pura delle risorse tecniche dell’interpretazione storico-critica. Come ho sottolineato in precedenza, questo non è l’unico strumento a disposizione dei biblisti. Ci sono a disposizione altri strumenti integrativi come l’interpretazione strutturalista61. Con il passare del tempo il metodo storico si è sviluppato da sé e sarà integrato da altri strumenti secondo modalità che non possiamo prevedere. Ma la nostra attenzione è sul presente. La mia intenzione è di illustrare come le risorse principali di oggi possano essere messe al servizio dei bisogni religiosi e teologici di oggi. Il contesto preciso è la specializzazione funzionale della “interpretazione”. (Non intendo trattare la questione di come questa entri in relazione con la specializzazione funzionale delle “comunicazioni”).
Una sintesi tra Antiochia e Alessandria Alcuni anni fa, prendendo spunto dalle riflessioni di Newman sulle scuole antiche di Antiochia e Alessandria (Antiochia, diceva, è stata «la sorgente del razionalismo primigenio»62 e «la vera metropoli dell’ere-
Ma Lonergan non si aspetta che tutti facciano queste cose bene, dal momento che una coscienza indifferenziata «trova ogni messaggio proveniente dai mondi della teoria, dell’interiorità, della trascendenza estranei ed incomprensibili» (Method, 287). La diversità nell’autodefinizione (cfr. B.F. MEYER, “Sull’auto-definizione” in The Early Christians: Their World and Self-Discovery [Wilmington: Glazier, 1986] 23-31) rende conto del fatto che, mentre un uomo comprende e accoglie un messaggio dal mondo della trascendenza, un altro uomo o lo fraintende, o lo ignora, o lo disprezza. La sfaccettata “conversione” tematizzata da Lonergan è pensata per produrre questo tipo di cambiamenti nell’auto-definizione, aprendo così il soggetto al campo sconfinato dell’intellegibile, del vero, del reale, del bene, del bello, del santo. 60 Vedi B.F. MEYER, “Conversion and the Hermeneutics of Consent”, Ex Auditu 1 (1985) 36-46 (ristampato in questo volume). 61 Vedi J.J. COLLINS, “The Meaning of Sacrifice: A Contrast of Methods”, Biblical Research 22 (1977) 19-34. 62 J.H. NEWMAN, Essay on the Development of Christian Doctrine, cap. 4, sez. 2, parag. 10 (Garden City: Doubleday, 1960) 155.
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
sia»63, in accordo con il principio in base al quale «non c’è mistero in teologia»64), ho pensato che la questione su cui i teologi cristiani fondamentalmente definivano se stessi fosse quella di intendere o meno la salvezza come un mistero trascendente, cioè quel tipo di mistero che può essere definito – seguendo Filippo il Cancelliere nel sec. XIII – come “soprannaturale”. Quelli che rispondono di sì li ho chiamati “Alessandrini”, e “Antiocheni” quelli che rispondono di no. Degli Antiocheni contemporanei ritengo che Bultmann, quando era ancora vivo, fosse il facile princeps65. Per gli Alessandrini, il vangelo è un invito ed un’iniziazione al segreto (to mistêrion) che è Cristo (vedi 1Cor 2,1.7; Col 1,24-29; Ef 1,3-10; 3,1-13; cfr. Rm 16,25ss). Questa descrizione soddisferebbe anche la maggior parte degli Antiocheni, a condizione che la si intenda in termini concreti umani e, di conseguenza, che tutte le oggettivazioni – incarnazione ed espiazione, redentore e redenzione, lo schema del futuro, cioè parousia (1Cor 15,23), la trasformazione della vita e la risurrezione dei morti (1Cor 15,50ss), la consegna finale del “regno” a Dio Padre (1Cor 15,24)66 – siano così ricondotte al soggetto, per sbarazzarsi in un sol colpo di ogni scoria mitica nel cristianesimo e per mettere a nudo la sua spinta esistenziale. In questo senso, era l’autenticità ad essere in gioco: la proclamazione autentica, la risposta autentica, l’esistenza autentica (l’obbedienza radicale simbolizzata dalla croce) in cui si muove colui che risponde. L’autenticità, infatti, è il cuore della questione in entrambe le sfere di discussione antiochena ed alessandrina. Sebbene entrambi siano intenti alla duplice autenticità della soggettività umana e dell’eredità cristiana, sarebbe facile dire che mentre gli Antiocheni di oggi vedono una priorità in ciò che è autenticamente umano, la loro controparte alessandrina la pone su ciò che è autenticamente cristiano. Nel millennio e mezzo che ha preceduto la nascita della coscienza storica, questi due modi di fissare delle priorità non sono riusciti a trovare una sintesi più
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J.H. NEWMAN, Essay on the Development of Christian Doctrine, cap. 7, sez. 4, parag. 5 (Garden City: Doubleday, 1960) 327. 64 Vedi sopra, la nota 33. 65 B.F. MEYER, The Church in Three Tenses (Garden City: Doubleday, 1971) 171ss, cfr. 151-154. 66 Vedi J.M. ROBINSON, “Hermeneutic Since Barth”, in J.M. ROBINSON – J.C. COBB jr., The New Hermeneutic (New York: Harper & Row, 1964) 31-33.
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alta (tesi 4.5.2). Oggi, tuttavia, queste scelte cardine invitano alla domanda se sia per noi possibile trovare un terzo punto di osservazione e un terreno di osservazione in cui non ci si trovi più costretti a scegliere una serie di esigenze dovendo scartare l’altra. Una tale soluzione ideale inciderebbe con decisione sulla pratica dell’interpretazione. Nel cristianesimo d’epoca patristica, la preoccupazione per la coerenza stava dietro al ricorso degli antichi Alessandrini all’interpretazione allegorica; il rifiuto dell’arbitrarietà guidava l’insistenza degli antichi Antiocheni sulla lettera del testo. Questo tipo di tensione è rimasto sino all’epoca moderna. Ronald Clements, per esempio, ha recentemente delineato il laborioso ritiro, sotto la pressione dell’impegno verso il senso inteso del testo, dagli schemi classici della profezia e del compimento messianici verso la posizione – che costituisce un passo indietro – di una generica storia della speranza messianica67. Così, ci saranno almeno tre elementi all’interno di una ermeneutica biblica responsabile: in primo luogo, la pretesa nei confronti del testo biblico, cioè il primato del senso inteso; in secondo luogo, la pretesa nei confronti dell’autenticità umana, cioè il rifiuto antiocheno di soluzioni interpretative premature e artificiali; in terzo luogo, la pretesa nei confronti dell’autenticità cristiana, cioè l’insistenza alessandrina sulla intellegibilità e coerenza della salvezza e delle Scritture che si attestano nella speranza e nella celebrazione. Antiochia e Alessandria indicano errori ermeneutici opposti. Così, “antiocheno” significa non solo l’attenzione dell’interprete al senso letterale, ma anche il rifiuto razionalistico del mistero. La “Antiochia storica”68 coglieva il punto debole di Alessandria, il ricorso ad un artificio
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R. CLEMENTS, “Messianic Prophecy or Messianic History?”, Horizons in Biblical Theology 1 (1979) 87-104. 68 Parlando della “Antiochia storica”, mi riferisco, in primo luogo, ad un periodo che va da metà del IV sec. a metà del V sec. (e specificamente a Diodoro, che divenne vescovo di Tarso nel 378, a Teodoro, che divenne vescovo di Mopsuestia nel 392, e a Nestorio, che divenne vescovo di Costantinopoli nel 428); in secondo luogo, mi riferisco ad una tendenza nell’interpretazione (l’accento su ciò che è letterale e storico, il sospetto verso l’allegoria); in terzo luogo, mi riferisco ad uno stile nella teorizzazione cristologica che premeva maggiormente sulla dualità che sull’unità, consentendo una communicatio idiomatum nella predicazione cristologica. Parlando di “Alessandria storica”, mi riferisco alla tradizione che va da Clemente e Origene, attraverso Atanasio, fino a Cirillo, una tradizione abbastanza a proprio agio con l’allegoria, incline a porre l’accento sul mistero, e specialmente a dare vita ad una cristologia alta contrapposta alla cristologia “dell’uomo ispirato” di Antiochia.
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
esegetico per affermare il mistero della salvezza. Sino a questo punto, tutto bene; ma al cospetto dei testi neotestamentari, lo stile antiocheno in ogni epoca è prossimo al fallimento. Il testo è una iniziazione al mistero. Il razionalismo è un rifiuto del mistero. Il difetto fatale dell’esegesi antiochena è stato un salto conseguente a partire da un significato non voluto. Questo è ciò che ha reso l’ermeneutica così importante nella corrente bultmanniana. Il suo tentativo è stato quello di giustificare il salto a partire dal senso inteso dovunque il testo richiedesse la fede in ciò che «sinceramente non possiamo considerare vero»69. Per Bultmann il mistero era una contraddizione. Il Nuovo Testamento davvero pensava ad un mistero per la volontà, cioè alla contraddizione per l’inclinazione umana. Ad un livello più profondo del suo pensiero, tuttavia, non intendeva affermare un mistero per la mente, cioè una contraddizione per l’intellegibilità. “Il livello più profondo dell’intenzione” poneva una dualità nell’intenzione stessa: il livello superficiale del testo attestava un’intenzione palese; il suo livello profondo, un’intenzione autentica. Per esempio, in 1Cor 15 Paolo intendeva e non intendeva “una storia delle cose finali”70. Il risultato è stato la rottura tra l’atto del significato e il suo termine interno prodotto coscientemente, ovvero ciò che viene significato. Ad un certo livello, l’interprete bultmanniano era consapevole che in 1Cor 15,21-28 “una storia delle cose finali” fosse esattamente ciò che era significato. Ma, oltre ad essere inaccettabile in sé, questo non riusciva a corrispondere alla comprensione dell’interprete di ciò che era più genuinamente paolino. Come avrebbe potuto Paolo essere così non-paolino e anti-paolino? Questo tipo di domanda ha torturato in Germania l’esegesi senza-dogma per oltre un secolo71. L’unica vera risposta che ha costituito un passo avanti è stata quella di Bultmann, che qui è ricorso alla teoria cognitiva. L’esperienza ha prodotto dei simboli espressivi; il significato era questo atto di espressione; e l’interpretazione riscopriva l’atto di significato. Il punto cruciale è stato che la riscoperta ha trovato spazio, non fissando l’attenzione sui simboli oggettivati generati dall’atto di cognizione, ma
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R. BULTMANN, Jesus Christ and Mythology (New York: Scribner, 1958) 17. Vedi sopra, la nota 66 per il richiamo alla visione di Bultmann. 71 Per questo aspetto particolare, vedi il mio “Did Paul’s View of the Resurrection of the Dead Undergo Development?”, Theological Studies 41 (1986) 363-387 (presente in questo volume con il titolo “La visione paolina della risurrezione dei morti ha subito uno sviluppo?”). 70
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piuttosto trovando nella propria vita l’esperienza che li generava. La domanda interpretativa, dunque, non riguardava cosa simbolizzassero i simboli di Paolo; che cosa significasse che tutti sono morti in virtù della solidarietà con Adamo e che sarebbero stati ricondotti alla vita in virtù della solidarietà con Cristo; che Cristo debba regnare finché tutti i nemici non saranno stati posti “sotto i suoi piedi”, ma che una volta che ciò sarà avvenuto, egli riconsegnerà il regno al Padre suo. La domanda principale, piuttosto, era: qual era la direzione vitale e l’esperienza che hanno prodotto questo insieme di simboli stravaganti? Così, emerge il Paolo autentico, non dogmatico, esistenziale – ma a prezzo del fatto che l’esegesi ha fratturato la corrispondenza tra significante e significato72. Gli esegeti e i teologi alessandrini, attenti per definizione al mysterium salutis, interpretano l’eredità cristiana in termini trascendenti. Ma c’è anche un errore ermeneutico che è tipicamente alessandrino. Anche questo è un salto selettivo dal senso inteso del testo, ma per ragioni diametralmente opposte a quelle degli Antiocheni. L’Alessandrino è infatti uno dalla mente adattabile. In nome dei postulati teologici, come per esempio l’unità interna della divina rivelazione, l’Alessandrino benda se stesso di fronte alla visione dei problemi concreti ed è tentato di affermare delle armonie ermeneutiche premature e non verificabili. Non c’è alcun bisogno di provare le istanze grossolanamente non critiche della sindrome alessandrina. Un esempio interessante tra i tanti è il tenace rifiuto di molti studiosi del Nuovo Testamento di riconoscere che lo schema del futuro supposto da Gesù non corrisponde a nessuno degli schemi proposti dal cristianesimo primitivo. Il tipo di unità indiretta e di coerenza che gli
72 L’oggettivazione è un aspetto dell’intenzionalità, cioè degli atti di senso. Noi oggettiviamo il sé dando senso al sé, e oggettiviamo il mondo dando senso al mondo. Per sua natura, questo senso è legato ad un significato, e ciò che viene significato può essere così o può non esserlo. Il cortocircuito in cui cadde la teorizzazione di Hans Jonas e Rudolf Bultmann, prima alla Seconda Guerra Mondiale, è stato il mancato riconoscimento di questa intrinseca corrispondenza. Così, ciò a cui 1Cor 15 si riferiva non era, secondo Bultmann, una Schlussgeschichte (storia delle cose ultime) – cosa che era una mera oggettivazione. Ciò a cui si riferiva era la dipendenza di ogni speranza dal legame al Cristo della fede. Non ho niente contro questa tesi della speranza, nella misura in cui funziona. Ma, dal monento che il senso proietta un significato, dal momento che sciogliere questo legame significa fare una operazione impossibile, direi che ciò a cui 1Cor 15,21-28 si riferiva era esattamente una Schlussgeschichte, uno scenario di salvezza meta-storica, il trionfo di Cristo sull’ultimo nemico, la morte, e la realizzazione del regno di Dio nella sua pienezza; inoltre metterei in connessione l’espressione appassionata di speranza di Paolo con questo preciso scenario.
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
Alessandrini hanno formalmente sostenuto dietro la maschera dell’interpretazione deve essere adesso riconcepito come un oggetto di anticipazione capace al massimo di trovare una verifica laboriosa, discontinua e frammentaria. Questo sobrio senso del limite tarpa le ali dell’“interpretazione” alessandrina. Questo è l’indispensabile passaggio contemporaneo da un’esegesi trionfante al riconoscimento esplicito che il compito dell’esegesi è perennemente incompleto e che vi sono problemi esegetici permanentemente o almeno attualmente irrisolvibili. Dove gli Alessandrini un tempo avevano fatto ricorso ad un artificio interpretativo e ad astute evasioni, i loro successori contemporanei includeranno tra i loro risultati i frutti della docta ignorantia: sono le istanze, imbarazzanti per numero, di incertezze ed impasse riconosciute. Mi sembra importante che il compito qui espresso sia distinto, da un lato, dall’interpretazione nel contesto dell’università laica, dove la letteratura biblica è trattata sotto la voce “storia delle religioni”, e, dall’altro lato, dall’interpretazione come compito delle “comunicazioni” della Chiesa. In quanto specializzazione funzionale all’interno della teologia, l’interpretazione non può semplicemente sottrarsi a questioni e prospettive come la teologia biblica e la correlazione di Antico e Nuovo Testamento. In quest’ambito, i centri caratteristici d’interesse nella moderna storia laica delle religioni non raccolgono abbastanza la sfida di una specializzazione funzionale in teologia. In altri termini, in rapporto alla diversità negli interessi, nell’ethos e nella pratica della storia delle religioni contemporanee, l’interpretazione quale specializzazione funzionale è una sorta di kirchliche Schriftauslegung (interpretazione ecclesiale della Scrittura), ma è davvero molto differente dalla kirchliche Schriftauslegung recentemente proposta da Heinz Schürmann73. Schürmann, che non fa distinzione tra l’interpretazione come specializzazione funzionale in teologia e l’interpretazione come risorsa immediata per il predicatore e il catechista, spinge per una kirchliche Schriftauslegung secondo quello che chiamerei il modo alessandrino. Le categorie
73
Sullo scenario escatologico completamente distinto di Gesù (riscoperto dalla brillante e acuta opera di C.H. Dodd Parables of the Kingdom [London: Nisbet, 1935] e portata ad una notevole limpidezza di formulazione in un saggio di Joachim Jeremias [Theologische Blätter 20 (1941) coll. 216-222]), vedi B.F. MEYER, The Aims of Jesus (London: SCM, 1979) 202-209. Sebbene l’opera di Dodd e Jeremias non sia stata rifiutata, non è stata nemmeno accettata; né si è aiutati dal sospetto che la spiegazione risieda in una semplice ritrosia verso un significato indesiderato da parte degli studiosi contemporanei.
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II. Il primato del senso inteso dei testi
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della profezia dell’Antico Testamento e il compimento del Nuovo Testamento sono decisamente riabilitate alla luce della “fede”. In quanto elementi della “Scrittura”, ogni singola affermazione è “de-storicizzata” e trasferita al “tempo della Chiesa”, “relativizzata” attraverso la sua messa in relazione d’un tratto con il “centro” della Scrittura e con il suo complesso generale, e “attualizzata” per applicarla al presente. Il Nuovo Testamento è concepito sul modello di una ellisse con due poli: il kerygma della risurrezione di Gesù e la proclamazione da parte di Gesù dell’avvento del regno del Padre suo. L’uno rende intellegibile l’altro, e il risultato è di evitare sia una pura teologia kerygmatica, sia una pura teologia gesuana. Il mio obiettivo nell’evocare il tenore delle proposte di Schürmann non è quello di contestare singoli punti nel quadro delle “comunicazioni” (sebbene trovi molto qui che richiederebbe una discussione ulteriore). È semplicemente quello di chiarire, nel contrasto con le “comunicazioni”, i tratti dell’interpretazione intesa come specializzazione funzionale in teologia. Qui, idealmente, l’interprete sublima e sintetizza Antiochia (quale recupero più preciso possibile del senso inteso dei testi) e Alessandria (quale recupero più ravvicinato possibile di una dimensione profonda del testo e del contesto storico salvifico; vedi la tesi 4.5.1). L’interpretazione concepita in questi termini non assolve ad ogni compito. Non delinea o valuta la canonizzazione delle Scritture; non offre una teoria dell’ispirazione; non presenta una risorsa a portata di mano per predicatori e catechisti. Non cerca di coprire tutta la teologia, ma si limita ad una sola domanda: qual è il senso inteso del testo?74
74
H. SCHÜRMANN, “Thesen zur kirchlichen Schriftauslegung”, Theologie und Glaube 72 (1982) 330ss.
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– III –
Conversione ed ermeneutica del consenso Nel 1977 apparve in inglese il saggio di Peter Stuhlmacher sulla critica storica e l’esegesi teologica1, e ci si rese conto, d’un tratto, che una nuova voce era entrata nella discussione sviluppatasi in Nord America su dove stessero andando gli studi del Nuovo Testamento. Sino ad allora, l’epoca post-bultmanniana era giunta ad una definizione di sé poco più che negativa: non solo post-bultmanniana, ma non-bultmanniana. Gli studiosi nord-americani di Nuovo Testamento avevano già spostato ogni loro impegno dal contesto teologico a quello più ampio e secolare della storia delle religioni, una storia da sviluppare mediante la descrizione sociale2 e l’applicazione di una teoria sociologica e antropologica3. Un’altra parte della comunità di studiosi si era dedicata allo studio letterario, spostandosi dalla “history” alla “story” e attingendo alla teoria linguistica e letteraria4. Sebbene questo lavoro fosse stato teologicamente più promettente della contemporanea ricerca della storia delle religioni5, l’analisi letteraria tecnica sin ora ha avuto la meglio sulla teologia esistenzialista o di altro genere. Del resto, la teologia non veniva negata. Come giustamente afferma il saggio di Stuhlmacher, in una forma o nell’altra la teologia è costretta
1
P. STUHLMACHER, Historical Criticism and Theological Interpretation of Scripture. Toward a Hermeneutics of Consent, R.A. HARRISVILLE (a cura di) (Philadelphia: Fortress, 1977; con una introduzione di James Barr, London: SPCK, 1979). 2 Vedi J.Z. SMITH, “Social Descrption of Early Christianity”, Religious Studies Review 1 (1975) 1925; R.M. GRANT, Early Christianity and Society (San Francisco: Haroer & Row, 1977); A.J. MALHERBE, Social Aspects of Early Christianity (Baton Rouge: Louisiana State University Press, 1977). 3 G. THEISSEN, The Sociology of Early Palestinian Christianity (Philadelphia: Fortress, 1978); H.C. KEE, Christian Origins in Sociological Perspective (Philadelphia: Westminster, 1980); vedi anche la recensione all’articolo di J.G. Gager in Religious Studies Review 5 (1979) 174-180; R. SCROGGS, “The Sociological Interpretation of the New Testament: The Present State of Research”, New Testament Studies 26 (1980) 164-179; D.J. HARRINGTON, “Sociological Concepts and the Early Church: A Decade of Research”, Theological Studies 41 (1980) 180-190; B.J. MALINA, The New Testament World. Insights from Cultural Anthropology (Atlanta: Knox, 1981). 4 Vedi J.J. COLLINS, “Rediscovery of Biblical Narrative”, Chicago Studies 21 (1982) 45-58. 5 Vedi J. NAVONE – T. COOPER, Tellers of the Word (New York: Le Jacq, 1981).
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
ad assumere un ruolo di controllo dovunque gli studiosi di Nuovo Testamento siano rivolti al senso inteso e siano fedeli ai testi del Nuovo Testamento. Mentre Bultmann (morto nel 1976) era ancora vivo, ci fu un momento in cui i nuovi portatori della torcia sembravano proprio i suoi discepoli. Così, Ernst Käsemann chiese un ritorno riveduto al Gesù storico (1954)6, Günther Bornkamm lo mise in opera (1956)7, James M. Robinson lo analizzò e pubblicizzò nell’area anglofona (1959)8, e la “nuova ricerca” divenne subito una categoria della ricerca e un tema di discussione senza fine. Nel frattempo, Ernst Fuchs9 e Gerhard Ebeling10 proponevano un programma ermeneutico basato su di una variazione tardo-heideggeriana della teoria cognitiva neo-kantiana, destinata ad assicurare il ritiro dalla “conoscenza oggettivante” (cfr. lo “schema soggetto-oggetto” cartesiano), e presentata sotto lo slogan di “nuova ermeneutica”, che l’infaticabile Robinson introdusse in Nord America con un saggio minuziosamente dettagliato ed aggiornato sull’ermeneutica protestante dal commentario sulla Lettera ai Romani di Karl Barth (1918) alla pubblicazione (1964) dei saggi sulla “nuova ermeneutica” discussi all’incontro sull’ermeneutica svolto alla Drew University11. Poi, nel 1961 Käsemann diede una nuova espressione caratteristicamente vigorosa al tema della “giustizia di Dio” (Rm 1,17; 3,21ss.25ss; 10,3)12, rilanciando così una discussione che per diversi anni gli studi paolini in Germania hanno sviluppato13.
6
E. KÄSEMANN, “The Problem of Historical Jesus”, in Essays on New Testament Themes (London: SCM, 1964) 15-47 [originale tedesco del 1954]. 7 G. BORNKAMM, Jesus of Nazareth (tr. ingl. di I. e F. McLuskey con J.M. Robinson, New York: Harper & Row, 1969; originale tedesco del 1956). 8 J.M. ROBINSON, A New Quest of the Historical Jesus (London: SCM, 1959). 9 E. FUCHS, Hermeneutik (Bad Canstatt: Müllerschön, 1954, 21958); Zum hermeneutischen Problem in der Theologie. Die existentiale Interpretation (Tübingen: Mohr, 1959). 10 G. EBELING, The Nature of Faith (London: Collins, 1961); Theologie und Verkündigung (Tübingen: Mohr, 1962); Word and Faith (Philadelphia: Fortress, 1963). 11 J.M. ROBINSON, “Hermeneutic Since Barth”, in J.M. ROBINSON – J.B. COBB jr. (a cura di), The New Testament Hermeneutic (New York: Harper & Row, 1964) 1-77. 12 E. KÄSEMANN, “The Righteousness of God in Paul”, in The New Testament Questions of Today (London: SCM, 1969) [originale tedesco del 1961]. 13 Vedi C. MÜLLER, Gottes Gerechtigkeit und Gottes Volk (Göttingen: Vandenhoeck & Ruprecht, 1964); R. BULTMANN, “DIKAIOSYNE THEOU”, Journal of Biblical Literature 83 (1964) 12-16; P. STUHLMACHER, Gerechtigkeit Gottes bei Paulus (Göttingen: Vandenhoeck & Ruprecht, 1965); K. KERTELGE, “Rechtfertigung” bei Paulus (Münster: Aschendorff, 21967); H.H. SCHMID, Gerechtigkeit als Weltordnung (Tübingen: Mohr, 1968); H. CONZELMANN, “Die Rechtfertigunglehre des Paulus: Theologie oder Anthropologie?” (1968) in Theologie als Schriftauslegung (Munich: Kaiser, 1974) 191-206.
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III. Conversione ed ermeneutica del consenso
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In retrospettiva, la carriera teologica decisamente esplorativa di Bultmann ha costituito una implementazione ponderata di un’ampia riforma teologica. I momenti salienti erano stati l’“Introduzione” al suo libro del 1926 su Gesù14, il saggio del 1941 sulla demitologizzazione del Nuovo Testamento15, la teologia progressiva del Nuovo Testamento (1948-53)16, e la definita affermazione dei suoi presupposti di storia delle religioni (1940)17. Rispetto alla teologia liberale di cui prendeva il posto, la teologia kerygmatica di Bultmann costituiva un notevole passo avanti. Insisteva, come la teologia liberale, sul voler gettare luce sulla perenne rilevanza del Nuovo Testamento per l’uomo moderno, ma spostava “l’essenza del cristianesimo” – il regno di Dio e la sua venuta; Dio Padre e l’infinito valore dell’anima umana; la giustizia superiore e il comandamento dell’amore18 – verso il centro di gravità del Nuovo Testamento stesso: il vangelo della morte e risurrezione di Cristo. Inoltre, tutti i suddetti contributi dei seguaci di Bultmann – la nuova ricerca, la nuova ermeneutica, la nuova prospettiva della teologia di Paolo – costituivano dei traguardi positivi, a dispetto della presa di distanze da tutti questi da parte di Bultmann stesso. La nuova ricerca, mentre manteneva sia lo status privilegiato del kerygma sia l’essenza della critica di Bultmann alla ricerca così come era stata praticata dalla teologia liberale, non andò molto distante – soprattutto nell’opera di Ernst Fuchs19 – dal rilevare il pericolo di docetismo presente nella teologia del kerygma. La nuova ermeneutica, traendo profitto da una parziale fusione di orizzonti con il pensiero di Hans-Georg Gadamer, portò a livello tematico un’idea soltanto adombrata da Bultmann: il critico permetteva e invitava consapevolmente il testo a mettere in questione la sua autocomprensione e a correggerla20. Infine, l’apprezzamento di Käsemann
14
R. BULTMANN, “Introduction”, in Jesus and the Word (New York: Scribner’s 1934, 21958) [originale tedesco del 1926]. 15 R. BULTMANN, “New Testament and Mythology”, in H.W. BARTSCH (a cura di), Kerygma and Myth (London: SPCK, 21964) 1-44 [originale tedesco del 1941]. 16 R. BULTMANN, Theology of the New Testament, 2 voll. (New York: Scribner’s, 1951-1955) [originale tedesco del 1948-1950]. 17 R. BULTMANN, Primitive Christianity in its Contemporary Setting (New York: World, Meridian, 1956) [originale tedesco del 1949]. 18 Vedi A. VON HARNACK, What is Christianity? (London: Williams & Norgate, 1901) 51. 19 Vedi, ad esempio, E. FUCHS, Jesus, Wort and Tat (Tübingen: Mohr, 1971). 20 E. FUCHS, Hermeneutik, 21958 (vedi la nota 9, sopra); Engänzungheft.
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
per la “giustizia di Dio” ristabilì l’equilibrio della soteriologia di Bultmann eccessivamente antropologica e individualistica. Alla luce di tutto questo, come è potuto accadere che il programma bultmanniano, specialmente in America, sua seconda casa, sia morto con Bultmann? Prima di proporre una nostra risposta, dovremo richiamare alcune osservazioni che altri hanno fatto. In parte, dunque, il progetto bultmanniano è semplicemente sfumato. Heinz Schürman sottolineava nel 1973 i risultati molto ristretti della “nuova ricerca”21, ed in seguito il New Testament Abstract smise di riservargli un titolo particolare. Di nuovo, la forte attenzione tedesca alla “giustizia di Dio” ha trovato scarsa eco nell’esegesi americana. In parte, il successo fu accompagnato da una perdita di profilo originale. Così, gli impulsi provenienti da Fuchs ed Ebeling vennero accolti, assorbiti e trasformati, ma la nuova ermeneutica nella forma che aveva assunto in Europa trovò nel Nord America al più un debole radicamento. Ma c’erano delle ragioni più profonde per il collasso del programma bultmanniano. Il saggio di Stuhlmacher ne fornisce tre. In primo luogo, la base biblica visibile nell’interpretazione di Bultmann (la predicazione paolina e proto-giovannea) era troppo ristretta. In secondo luogo, questa interpretazione, che accordava priorità ontologica alla possibilità (per esempio, l’individuale “apertura al futuro”) sulla realtà, venne alla fine messa fuori gioco; temi ampi, non esistenzialisti, quali la storia come processo globale, la sua teologia e il suo significato, «sono imperiosamente riapparsi». Infine, il «rifiuto di Bultmann di ogni dogmatica» non era «più attuabile, se la Chiesa non avesse abbandonato ogni testimonianza missionaria, catechetica e apologetica, e la spiegazione della sua fede»22. In una parola, il programma di Bultmann è collassato in virtù proprio di quei tratti che costituivano il suo profilo e il suo marchio di fabbrica, cioè le sue esclusioni e i suoi rifiuti spietati. Tra questi rifiuti, quale sarebbe potuto essere più fondamentale e fatale del rifiuto del mistero? Bultmann, a dire il vero, riconobbe un “mistero della volontà”, cioè la contraddizione evangelica verso le tendenze che riguardano l’uomo come tale; ma mise sullo stesso piano il 21
H. SCHÜRMANN, “Zur aktuellen Situation der Leben-Jesu-Forschung”, Geist und Leben 46 (1973) 300-310, spec. 304ss. 22 P. STUHLMACHER, Historical Criticism, 61ss.
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riconoscimento del mistero della mente con il sacrificium intellectus, facendo sì che questo termine qualificasse la fede in ciò che francamente non può essere ritenuto per vero23. Se distinguiamo tra teologi “alessandrini” e “antiocheni” – riferendo il primo termine a coloro i quali ritengono l’oggetto della fede e della teologia come mistero (cioè la scuola di Alessandria, Agostino, Tommaso), e riferendo il secondo termine a coloro i quali ritengono che “non ci sia mistero in teologia”24 (cioè la scuola di Antiochia, Abelardo, la corrente senza-dogma del Protestantesimo) – difficilmente si può dubitare che Bultmann sia stato il facile princeps degli Antiocheni del sec. XX25. La sua semplice riduzione del mistero a contraddizione e nonintellegibilità lo ha contrassegnato come razionalista, non nel senso proprio all’a-priorismo di Cartesio e dell’Illuminismo, né nel senso di quella scuola della critica biblica del sec. XVIII e degli inizi del sec. XIX che Friedrich Strauss mirava a distruggere, ma nel senso generico dei pensatori che riducono l’intellegibilità in quanto tale all’intellegibilità proporzionata all’intelligenza umana. Questo è il tipo di razionalismo che potremmo definire “antiocheno”. Profondamente congeniale a gran parte della modernità occidentale, non si accorda affatto con il mondo del significato del Nuovo Testamento. Nell’ambito dell’esegesi, di conseguenza, l’Antiocheno o deve offrire interpretazioni che velatamente o chiaramente sovvertono il senso inteso del testo, o deve produrre un’ermeneutica che sistematicamente richieda la trasposizione di questo senso in termini diversi. I razionalisti che Strauss ridicolizzava hanno abbracciato il primo approccio; da Strauss a Bultmann, i loro critici hanno abbracciato il secondo. Né l’hegeliano Strauss né l’esistenzialista Bultmann hanno tentato minimamente di seguire i razionalisti illuministi nel mescolare, piegare e ridurre i testi del Nuovo Testamento che fossero contrari a quello che per loro costituiva evidentemente il senso inteso. Strauss riconobbe un senso originariamente inteso, che egli rifiutò di riformulare perché fosse in accordo con le proprie vedute. Ciò non vuol sicuramente dire che egli lo abbia accettato solo nominalmente. «I fatti narrati nei libri biblici –
23
R. BULTMANN, Jesus Christ and Mythology (New York: Scribner’s, 1958) 17. J.H. NEWMANN, An Essay on the Development of Christian Doctrine, 2a ed. rivista del 1878, (Garden City: Doubleday, 1960) 186. 25 B.F. MEYER, The Church in Three Tenses (Garden City: Doubleday, 1971) 151-155. 24
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
diceva – devono esser visti in una luce del tutto differente rispetto a quella con cui sono stati considerati dagli autori stessi»26. I testi, per esempio, che chiamano Gesù “Messia” o “Figlio di Dio” mostravano un modo di pensare mitologico che, per quanto appropriato all’antichità, doveva condurre nell’attuale nuovo e crescente livello di sviluppo spirituale storico ad un modo di pensare superiore, filosofico. I testi non erano falsi, tutt’altro. Essi semplicemente richiedevano un’altra operazione ermeneutica: la trasposizione in categorie nuove, che Strauss concepì sotto l’influsso di Hegel27. In Bultmann, sebbene gli elementi materiali fossero tutti cambiati, la forma era rimasta la stessa. Per esempio, in base al senso inteso di “la Parola si è fatta carne”, un essere celeste pre-esistente è divenuto uomo28. Ma questo era un precipitato di pensiero mitico (definito tecnicamente come la presentazione di qualcosa di estraneo al mondo secondo una modalità di questo mondo), che blocca l’accesso dell’uomo moderno al testo. Il testo non era falso, ma richiedeva un’operazione ermeneutica: la trasposizione in termini esistenziali. Era passato lo stile metafisico della mitologizzazione di Strauss ed era passata la pseudoescatologia che identificava la filosofia di Hegel con lo scopo del progresso mondiale. Al posto delle categorie hegeliane c’erano le categorie esistenzialiste; al posto dello schema hegeliano della transizione dalla rappresentazione (Vorstellung) all’idea (Begriff) c’era una descrizione dell’origine del mito nella funzione o momento oggettivante del processo cognitivo29. Bultmann e Strauss, dunque, avevano molto in comune; e sebbene ci fossero delle differenze significative tra il razionalismo illuminista, l’idealismo di Strauss e l’esistenzialismo di Bultmann, non è possibile nascondere il terreno comune (cioè il rifiuto del mistero come intellegibile) che spiega in ultima istanza il loro comune allontanamento dal senso inteso dei testi del Nuovo Testamento. Non sarebbe corretto dire che la contemporanea comunità di studiosi del Nuovo Testamento si sia immediatamente mossa per concentrarsi sulla dimensione del mistero nel Nuovo Testamento, o che il pro26
D.F. STRAUSS, The Life of Jesus Critically Examined (Philadelphia: Fortress, 1972) 40. D.F. STRAUSS, Life of Jesus, 757-784. 28 R. BULTMANN, Jesus Christ and Mythology, 17. 29 James M. Robinson cita i passaggi rilevanti di Hans Jonas e ne indica il valore per la teoria della demitologizzazione di Bultmann in due saggi: “Hermeneutic Since Barth” (vedi la nota 11, sopra), 37, e “The Pre-history of Demythologization”, Interpretation 20 (1966) 65-77. 27
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gramma bultmanniano sia stato ampiamente abbandonato proprio a motivo del suo generico razionalismo. Tuttavia ciò che si può dire è, in primo luogo, che gli studiosi del Nuovo Testamento hanno dimostrato in genere di avere dei dubbi o di essere francamente scettici sulle possibilità di trasferire il significato inteso in categorie presunte superiori, ed in ogni caso hanno rifiutato di essere sistematici in questa operazione; in secondo luogo, si può dire che l’impegno serio verso il senso inteso dei testi del Nuovo Testamento inevitabilmente si traduce nella comprensione di eventi e situazioni che trascendono l’intellegibilità proporzionata all’intelligenza umana: l’incarnazione della Parola di Dio (Gv 1,14), la sua morte e la sua risurrezione salvifiche (Rm 3,25ss; 4,25), una Chiesa che, sia pure molteplice, è un corpo solo «poiché tutti noi partecipiamo dell’unico pane» che è Cristo (1Cor 10,17). È significativo che l’inizio dell’epoca post- e non-bultmanniana sia stata annunciata da riserve diffuse (per esempio, di Pannenberg, Stuhlmacher, Roloff, Hengel, Schürmann, Goppelt) sul relativismo storico di Troeltsch30. L’attacco a Troeltsch, tuttavia, era basato meno su di una teoria cognitiva pienamente sviluppata che sull’osservazione pragmatica secondo cui la critica troeltschiana, elaborata in opposizione esplicita al “dogma”, costituiva essa stessa un mero positivismo dogmatico. Il suo postulato centrale, “la somiglianza per principio di ogni evento storico” (die prinzipielle Gleichartigkeit alles historischen Geschehens), fornì l’accesso anche alla più confusa realtà storica a disposizione di tutti31, grazie alla forza dell’analogia “capace di livellare tutto”, una espressione perfetta di ciò che Troeltsch ritenne essere l’emancipazione illuminista dal pregiudizio dogmatico. Stuhlmacher si riferisce alla descrizione di Troeltsch della critica storica come “finora insuperata”32. Ma accostata a The Idea of History di 30 E. TROELTSCH, “Über historische und dogmatische Methode in der Theologie”, in Gesammelte Schriften. II. Zur religiosen Lage, Religionsphilosophie und Etik (Tübingen: Mohr, 1922) 729-753, spec. 730-733; W. PANNENBERG, Jesus – God and Man (Philadelphia: Westminster, 1968) 109; P. STUHLMACHER, “Neues Testament und Hermeneutic – Versuch einer Bestandsaufnahme”, in Schriftauslegung auf dem Wege zur biblischen Theologie (Göttingen: Vandenhoeck & Ruorecht, 1975) 9-49; J. ROLOFF, “Auf der Suche nach einem neuen Jesusbild”, Theologische Literaturzeitung 98 (1973) 561-572, spec. col. 565-570; M. HENGEL, “Historical Methods and the Theological Interpretation of the New Testament”, in Acts and the History of Earliest Christianity (London: SCM, 1979) 129-136; H. SCHÜRMANN, “Zur aktuellen Situation”, spec. 307; L. GOPPELT, Theology of the New Testament. I. The Ministry of Jesus in its Theological Significance, J. ROLOFF (a cura di) (Grand Rapids: Eerdmans, 1981), Appendice. 31 M. HENGEL, “Historical Methods”, 129 (proposizione 1.2.4). 32 P. STUHLMACHER, Historical Criticism, 44ss.
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
Collingwood33, dà l’impressione di un’ideologia datata, poiché le sue astrazioni fanno pochi accenni all’autonomia distintiva del pensiero storico di fronte a tutte le forme della scienza, incluse la psicologia e la sociologia. Il ruolo cardine delle stesse domande dello storico liberamente formulate è del tutto trascurato, né si riscontra una controparte troeltschiana a quello che per Collingwood è lo scopo della ricerca storica, cioè la penetrazione “nel cuore degli eventi”, l’intenzionalità che promuove un fatto storico allo status di azione storica e che gli fornisce la sua densità caratteristica. In contrasto con la descrizione intellettualistica di Collingwood della conoscenza storica, la visione di Troletsch includeva un razionalismo ristretto portato a ripiegare sulla storia delle religioni come ad un principio inibente. L’attuale insoddisfazione verso l’ideologia troeltschiana può dunque essere solo accolta favorevolmente, sia pure nella consapevolezza che deve ancora assumere la forma di un smantellamento accurato dei suoi postulati filosofici. Un commento finale sugli studi biblici di quest’epoca che viene trascurato porta, nuovamente, all’ermeneutica. Come Troeltsch, Bultmann concepiva il processo storico nella forma classica dell’Illuminismo, come un continuum chiuso di causa ed effetto; ma, a differenza di Troeltsch, egli faceva a meno dei particolari concreti che riempivano questo continuum dal Nuovo Testamento ad oggi. A suo tempo, Troeltsch era intensamente impegnato con le mediazioni storiche del significato, che avevano insieme aumentato e cercato di colmare gli spazi esistenti tra il Nuovo Testamento e i suoi interpreti. Bultmann si appellava a Lutero, sebbene il suo fosse un recupero post-illuminista dei temi di Lutero. In altri termini, Bultmann agiva come il giocatore di scacchi che, non avendo alcun bisogno di sapere in base a quale successione di mosse si fosse giunti all’attuale situazione sulla scacchiera, semplicemente la prende per quella che è e decide quale mossa fare. Con l’astrazione dalla storia non si vuol dire, tuttavia, che Bultmann abbia illuminato il compito dell’interprete. Tutto il contrario. Dal momento che la storia non fa nulla, è l’interprete che deve fare tutto. Egli è divenuto un eroe solitario, gravato del peso di dover tradurre tutta l’eredità biblica nel complesso della teologia attuale.
33
R.G. COLLINGWOOD, The Idea of History (Oxford: Oxford University Press, 1946).
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III. Conversione ed ermeneutica del consenso
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I seguaci di Bultmann hanno continuato a raccomandare questa impresa ermeneutica solitaria, come testimonia il saggio di James M. Robinson sul futuro della teologia del Nuovo Testamento34. Alla maniera di Bultmann, Robinson concepisce la teologia biblica come una operazione che si auto-sostiene. Non suppone né richiede alcuna mediazione al di fuori di sé: per esempio, la miriade di legami che già legano i cristiani alla loro eredità scritturistica. Si richiama l’“ermeneutica” per supplire a tutto ciò di cui c’è di bisogno. Di conseguenza, Robinson non tiene in conto, più di quanto faccia Bultmann, della sopravvivenza dei testi del Nuovo Testamento nella vita della Chiesa (Wirkungsgeschichte). E perché dovrebbe? Il significato che conta non è in ogni caso il significato inteso consapevolmente dallo scrittore biblico. È piuttosto il significato “latente dietro il testo”, cioè una comprensione dell’esistenza inerente al linguaggio del Nuovo Testamento, che sia espresso tematicamente o meno nei testi del Nuovo Testamento – in realtà, che sia o meno contraddetto dai testi del Nuovo Testamento35. Qui va notato che il senso inteso è misurato in base alla “comprensione dell’esistenza latente dietro il testo”, e non il contrario. Anche i migliori scrittori del Nuovo Testamento, Paolo e Giovanni, sono entrati ripetutamente ed inevitabilmente in contraddizione con se stessi, parlando – contro le loro intenzioni più profonde, che rimasero “latenti dietro il testo”– di incarnazione (Gv 1,14), di attestazione di Gesù risorto da parte dei testimoni (1Cor 15,3-8), del subentrare di una “storia delle cose ultime” che includerà la parusia e il regno di Dio, la trasformazione dei vivi e la risurrezione dei morti (1Cor 15,22-28.50-57). Grazie alla sua idea della comprensione dell’esistenza latente dietro il testo, l’interprete bultmanniano sa che tutti questi tipi di testi richiedono una critica del contenuto (Sachkritik), che il significato dogmatico e mitologico non deve essere solo decodificato, ma – come afferma con franchezza Robinson – “eliminato” nell’interesse della fissazione “più adeguata” della verità autentica del testo36. L’interprete capisce Paolo e Giovanni molto meglio di quanto essi non abbiano capito se stessi, poiché egli capisce – cosa che essi non poterono fare – quando il loro linguaggio è appropriato
34
J.M. ROBINSON, “The Future of the New Testament Theology”, Religious Studies Review 2 (1976) 17-22. 35 J.M. ROBINSON, “The Future of the New Testament Theology”, 20. 36 J.M. ROBINSON, “Hermeneutic Since Barth”, 34.
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
all’oggetto in esame e quando non lo è, e in definitiva quanto una cosa sia comunque appropriata all’oggetto in esame. Robinson sottolinea diversi possibili modi di espandere questo “fronte aperto da Bultmann”37. Presumibilmente, sono modi che hanno un altissimo valore ermeneutico per la Chiesa; la Chiesa, tuttavia, non ha nessun valore ermeneutico per loro. Traspare come non ci sia nessun bisogno reale di altri che di teologi biblici, e per l’opera di questi teologi biblici il dramma e l’eredità di due millenni di esperienza cristiana – i passaggi simultanei e quelli successivi del cristianesimo nelle varie culture, il precipitato nel dogma cristiano delle grandi battaglie per il mantenimento dell’identità cristiana, il tesoro della spiritualità e della riflessione cristiane, l’eredità della divisione tra Oriente e Occidente e in Occidente tra cattolici e protestanti – non richiedono nessun riconoscimento o commento, e sono così ridotti all’irrilevanza nella problematica in questione. I presupposti e le procedure raccomandate da Stuhlmacher sono in molti punti direttamente antitetici a tutto questo. In primo luogo, Stuhlmacher definisce il proprio punto di osservazione («al confine tra teologia kerygmatica, Pietismo e Luteranesimo biblicamente orientato»38) e il suo scopo («chiarire le possibilità e i limiti dell’esegesi storico-critica nell’ambito dell’odierna teologia protestante»39). In secondo luogo, egli pone le sue riflessioni ermeneutiche nel contesto della storia dell’interpretazione biblica dalla Chiesa antica ad oggi. In terzo luogo, dà grande rilevanza alla coscienza esegetica informata dalla tradizione che i testi da interpretare hanno generato (wirkungsgeschichtliches Bewusstsein)40. In quarto luogo, attribuisce alla dogmatica – una dogmatica, cioè, che non si esaurisce nelle analisi storico-teologiche, ma che arriva sino ad affermazioni proprie – un ruolo indispensabile, quello «di correggere e guidare» l’esegesi protestante41. È qui evidente un sobrio realismo sui limiti del singolo studioso e sugli studi biblici in generale. Questi studi non sono affatto anonimi. Non essendo né a-storici né non-ecclesiali, non possono operare senza
37
J.M. ROBINSON, “The Future of the New Testament Theology”, 20-22. P. STUHLMACHER, Historical Criticism, 21. 39 P. STUHLMACHER, Historical Criticism, 21. 40 P. STUHLMACHER, Historical Criticism, 83, 87. 41 P. STUHLMACHER, Historical Criticism, 76ss. 38
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III. Conversione ed ermeneutica del consenso
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il passato cristiano. Non promuovono nessuna particolare ortodossia filosofica e sono lontani dalla concezione antiochena. La visione di Stuhlmacher degli “stravaganti risultati sperimentali” della critica radicale del Nuovo Testamento42 costituisce, senza dubbio, un’accusa della prassi attuale, ma – ad un livello più profondo – è una ricognizione «nel vuoto e nell’incertezza esegetica in cui ci troviamo»43. Egli passa in rassegna diverse risposte teologiche a questa situazione, risposte che raccomandano l’abbandono dell’esegesi in favore di una teologia politica che preveda di generare le sue proprie verità o l’abbandono dell’esegesi storico-critica in favore della «esposizione auto-evidente della Bibbia all’interno della cerchia dei rinati»44. Infine, avanza la sua proposta, dal titolo “l’ermeneutica del consenso”. Questa è una “nuova apertura al mondo”, che fa irruzione nella «buona volontà ad aprire noi stessi, rinnovati, alle richieste della tradizione, del presente e della trascendenza»45. Apertura, consenso e quello che Stuhlmacher chiama “il principio dell’ascolto” richiamano tutti l’osservazione di Gadamer secondo cui i lettori sono e sempre sono stati anzitutto intenti alle realtà evocate e immaginate dal testo, e secondo cui l’attenzione del lettore si rivolge alle intenzioni e ai limiti dello scrittore soltanto nel momento in cui subentra una qualche perdita di attenzione verso die Sache, la realtà che il testo intende. La posizione iniziale e primaria di apertura, ascolto e consenso capovolge quel “pregiudizio contro ogni pregiudizio” che l’Occidente aveva adottato durante l’Illuminismo. Prepara la strada alla riscoperta della tradizione per principio e di fatto. D’altra parte, non esclude un dialogo critico con la tradizione. Stuhlmacher introduce un principio critico con la sua insistenza che l’esegesi tenti di considerare non solo die Sache, ma anche il testo nella sua particolarità e che le operazioni esegetiche siano minuziosamente «fatte oggetto di riflessione nel rispetto del metodo»46. Ciò che apertura, ascolto e consenso escludono è una «posizione assolutistica nei confronti dell’emancipazione», l’“attitudine insolente” che considera ogni pretesa sull’individuo come alienante47. 42
P. STUHLMACHER, Historical P. STUHLMACHER, Historical 44 P. STUHLMACHER, Historical 45 P. STUHLMACHER, Historical 46 P. STUHLMACHER, Historical 47 P. STUHLMACHER, Historical 43
Criticism, 71-74. Criticism, 75. Criticism, 70. Criticism, 84ss. Criticism, 86. Criticism, 84.
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
L’ermeneutica del consenso, dunque, è la riscoperta di un’attitudine che rende ancora una volta possibile che l’uomo e la donna siano ascoltatori della parola e della parola nella sua completa integrità.
II Tra le risposte alla proposta di Stuhlmacher un’importanza particolare riveste l’annuario Ex Auditu, pubblicato dalla Pickwick Pubblications, che include articoli a rappresentanza di varie discipline e confessioni, su di un singolo tema legato all’interpretazione teologica della Scrittura. Infatti, le risposte date alla proposta iniziale di Stuhlmacher provenienti da diversi di punti di vista ermeneutici possono soltanto promuovere la riflessione sulle problematiche e così aiutare la causa di trovare presto una forma strutturata istituzionale, ma aperta e dialogica. Le pagine che seguono presentano una di queste risposte. Il saggio di Stuhlmacher era concepito per essere a diretto servizio della causa del Protestantesimo tedesco; di conseguenza, le sue prospettive e le sue fonti – come ha osservato James Barr nella Introduzione alla edizione del saggio presentata in Gran Bretagna – erano esclusivamente tedesche e protestanti. Ma la sostanza della proposta – una specificazione delle condizioni che consentirebbero alla “critica storica” di diventare “interpretazione teologica della Scrittura” – travalica i confini nazionali e confessionali. Allo stesso modo, le riflessioni che seguono non sono – io credo – ermeneuticamente sigillate e confinate al contesto cattolico o nord-americano. Non poggiano su ciò che differenzia le posizioni ermeneutiche tra “cattolici” e “protestanti”, e non hanno un ordine del giorno nascosto. Sono piuttosto animate dalla simpatia per le affermazioni critiche di Stuhlmacher e per le sue proposte positive. Riguardano il modo in cui portare a compimento le condizioni che egli ha individuato per un’interpretazione teologica della Scrittura più soddisfacente. Iniziamo con una conclusione: l’immagine finale di Dover Beach di Matthew Arnold. E noi siamo qui come su di una pianura buia sbattuti da allarmi confusi di battaglia e fuga, dove le armi ignoranti si scontrano nella notte.
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III. Conversione ed ermeneutica del consenso
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Questa immagine – ci assicura Nicholas Lash48 – fu ispirata da un passaggio tratto da uno dei Sermoni universitari di John Henry Newman: metà delle controversie del mondo sono verbali; e se potessero essere riportate ad un elemento semplice, verrebbero presto condotte a soluzione. Le parti coinvolte in esse capirebbero allora sia che nella sostanza erano d’accordo, sia che la loro differenza era uno dei primi principi. Questo è un grande traguardo da raggiungere nell’epoca presente, sebbene bisogna ammettere che è molto arduo… La controversia, almeno in quest’epoca, non è tra le schiere celesti, Michele e i suoi angeli da una parte, e le potenze del male dall’altra; ma è una sorta di battaglia notturna, dove ciascuno combatte per sé, e amici e nemici stanno insieme. Quando gli uomini capiscono il significato dell’altro, per lo più vedono che la controversia è superflua e inutile49.
Nella nostra epoca, inoltre, “il grande traguardo da raggiungere” è di far emergere quali siano le controversie non verbali, ma sostanziali, non superficiali, ma fondamentali, non riconciliabili in un punto di vista più alto, ma semplicemente irriducibili. Il raggiungimento di questo traguardo “grande”, ma “molto arduo” consentirebbe un formidabile chiarimento. Il suo risultato sarebbe un nuovo allineamento, nel momento in cui le parti, inserite nelle controversie oramai chiarite, scoprissero chi in realtà sono gli avversari e chi gli alleati. Quello che abbiamo bisogno di capire nell’ambito degli studi biblici e della riflessione ermeneutica è anzitutto il “significato dell’altro”. Ma da questo punto di partenza, abbiamo bisogno ancora di sapere quali siano le questioni ultimamente significative, e che cosa possiamo fare per tracciare la nostra via verso la verità riguardo a queste questioni. Il disaccordo deve diventare un affare quotidiano. Poiché il nostro tempo e le nostre energie sono limitati, mettere fine alle controversie “superflue” non sarà che un vantaggio. Sarà un vantaggio ugualmente benvenuto quello di trovare una qualche luce riguardo alle controversie che sono “inutili”. Il problema può esser posto più concretamente e la discussione può procedere un passo più avanti se si riconsidera la situazione attuale degli
48 49
N. LASH, Theology on Dover Beach (London: Darton, Longman & Todd, 1979) 5, nota 7. J.H. NEWMAN, Newman’s University Sermons (London: SPCK, 1970) 200-201.
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
studi del Nuovo Testamento. È opinione comune che ci sia molto dell’epoca dell’esistenzialismo che dovrebbe essere ereditato e che non bisognerebbe permettere che si perda. Ma nell’ambito dello spirito umano, l’ereditare qualcosa non avviene in modo passivo: è un’opera di discernimento e di appropriazione. Come possiamo discernere e appropriarci dell’eredità autentica dell’epoca esistenzialista? Consideriamo il programma della demitologizzazione. Quanti lo hanno proposto non si sono posti il semplice compito di disinnescare e mettere in evidenza la spinta esistenziale dei testi del Nuovo Testamento. Piuttosto, si sono dedicati alla traduzione, a tradurre il significato mitico in termini esistenziali. Troppo spesso – lamentava l’osservatore – il senso inteso (per esempio, l’incarnazione della Parola) veniva perso nella traduzione. L’esistenzialista avrebbe risposto: volutamente perduto, poiché ignoto allo scrittore biblico, un’oggettivizzazione come l’incarnazione della Parola oscurava e sovvertiva l’intenzione autentica in opera nella reale produzione dell’oggettivizzazione. Nella visione esistenzialista, il compito appropriato era quello di ri-soggettivizzare l’oggettivizzazione, ed era lo sforzo ermeneutico che gli rivelava la spinta esistenzialista del testo. Ora, il saggio di Stuhlmacher permette di mantenere le acquisizioni dell’esistenzialismo senza incappare nelle sue deficienze. Ma non trovo nel saggio le proposte su come lo si potrebbe fare. Sia pur pienamente giustificato nel suo contesto immediato, il congedo dato al programma di Bultmann, in quanto esauritosi e non più utile, non affronta la sfida del discernimento e dell’appropriazione della sua genuina eredità. Il dibattito con gli esistenzialisti diventa molto significativo nel momento in cui vengono risolti in modo soddisfacente casi emblematici come l’interpretazione del Prologo giovanneo. Ma questo ci immette in questioni che il saggio di Stuhlmacher sembra difficilmente aver affrontato, per esempio la questione della teoria cognitiva. L’esegesi si muoveva in un circolo di cose e parole, in accordo con il lapidario principio che Gadamer aveva mutuato da Lutero: «Chi non capisce le cose non può cogliere il senso delle parole» (Qui non intelligit res non potest ex verbis sensum elicere)50. Ma cosa sono “le cose”? Questa domanda divide l’esistenzialista che effettua la demitologizzazione dal
50
H.-G. GADAMER, Truth and Method (New York: Seabury, 1975) 151.
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suo collega esegeta. Infatti, sebbene riconosca che è attraverso le parole che determiniamo cosa siano le cose, egli aggiungerebbe due chiarimenti. In primo luogo, per “parole” egli intende principalmente il “linguaggio” (Sprache/langue), e soltanto secondariamente “espressioni verbali” (Worte/paroles), e per “cose” egli intende il contenuto (Sache). In secondo luogo, nel caso del prologo giovanneo, il linguaggio oggettivante di Giovanni ha deformato il contenuto, contrariamente alle profonde intenzioni stesse di Giovanni. Ora, chi dovesse distinguere ciò che è vero da ciò che è falso nel tipo di interpretazione che si conforma a questi principi deve occuparsi, tra le altre cose, della “oggettivazione”. Questo è il problema cardine, non solamente storico o letterario o filologico, ma un problema di teoria cognitiva. La mia idea, in primo luogo, è che un’ermeneutica del consenso che si misuri veramente con la sua vocazione deve affrontare questo problema e, in realtà, tutti questi problemi; in secondo luogo, che una ermeneutica del consenso può affrontare questi problemi a condizione che impari a sfruttare le risorse che ha già a disposizione. Ci sono infatti risorse a disposizione per un chiarimento di problemi radicali, che includono particolarmente quelli legati alla teoria cognitiva, per una comprensione costruttiva dei conflitti basilari e irriducibili, e per mettere fine alle controversie superflue ed anche per gettare luce su di una possibile via d’uscita dalle controversie che sono comunque inutili. In definitiva, le risorse in questione possono soltanto essere l’esercizio collettivo del nostro meravigliarci, del domandare, dell’immaginazione, dell’intellezione, della riflessione, del giudizio, della decisione. Ma queste risorse trovano il loro pieno potenziale nel momento in cui le loro strutture normative ed essenzialmente spontanee vengono portate ad una consapevolezza tematica. Questo è il significato e l’attrattiva del “metodo trascendentale”. Le affermazioni suddette, avanzate nel rispetto di un chiarimento di problemi radicali e di una comprensione di conflitti irriducibili, suppongono che il metodo trascendentale – che include questo chiarimento e questa comprensione tra le sue funzioni51 – abbia successo, cioè che abbia già trovato una tematizzazione effettivamente riuscita. Questa supposizione è basata su di una prestazione
51
Vedi B. LONERGAN, Method in Theology (New York: Seabury, 21979) 20ss.
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filosofica straordinaria52. Il metodo trascendentale, senza dubbio, è in se stesso meramente umano e non ancora teologico. Ma può fornire alla teologia la sua componente antropologica fondamentale. È di conseguenza estremamente promettente per il rinnovamento della teologia, compresa “l’interpretazione teologica della Scrittura”. Niente caratterizza il metodo trascendentale tanto quanto la sua irriducibilità al “metodo” nel senso che Gadamer dà al termine, cioè per significare gli sforzi tecnici concepiti per assicurare un circuito chiuso di controllo. Il metodo trascendentale si riferisce primariamente alla struttura spontanea auto-assemblante dell’intenzionalità umana; secondariamente, all’oggettivazione53 dettagliata di questa struttura. Nel primo senso, dunque, questo “metodo” – lungi dall’essere in tensione con la “verità” – è una condizione di possibilità della verità. Allo stesso tempo, è chiamato giustamente “metodo”, poiché non è soltanto metodico in se stesso nel senso che produce risultati progressivi e cumulativi, ma è anche il cuore di ogni particolare metodo efficace. Anche chi può storcere il naso di fronte all’espressione “metodo trascendentale” lo pratica ogni volta che il suo lavoro procede intelligentemente e concretamente. Sino a questo punto, è chiaro che il metodo trascendentale non introduce niente di nuovo, cioè nessun tipo di atto in precedenza inattivo. Si tratta piuttosto di un accrescimento della coscienza, una nuova attenzione a e comprensione di atti che sono sempre stati all’opera. Ma gli effetti di questo accrescimento di coscienza non devono essere trascurati. Includono una nuova certezza e una nuova precisione nell’affrontare, per esempio, le questioni ermeneutiche. La sfida, quindi, è di appropriarsi in modo pienamente cosciente della sequenza di meraviglia, ricerca, conoscenza, giudizio, decisione che già sono concretamente a lavoro in noi stessi. È una sfida non facile da sostenere, per due ragioni: la sua difficoltà intrinseca (David Hume osservava erroneamente che ogni volta che le operazioni della mente diventano oggetto di indagine sembrano avvol-
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Vedi B. LONERGAN, Insight. A Study of Human Understanding (New York: Longmans, 1958). Vedi Insight, 250-254 e Method, 262-265, 341-343, sui diversi significati assunti dal termine “oggetto” e sui suoi derivati a seconda che le parole siano messe in relazione rispettivamente con “il mondo dell’immediatezza” (reso presente da atti di percezione) o con “il mondo mediato del significato” (reso presente da atti di appropriazione di parole o frasi, costumi, convinzioni, valori, etc., di altri), una distinzione questa empiricamente fondata che è cruciale per il “realismo critico” di Lonergan. 53
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te dall’oscurità) e il suo essere soggetta a intrusioni esterne (paure, contrasti e cortocircuiti fondati su usi culturali diffusi, preferenze sedimentate, tendenze personali). Un realismo che rispettasse le difficoltà che coinvolgono sia un recupero descrittivo soddisfacente dell’intenzionalità umana e sia la sua introduzione in qualità di componente critica all’interno della riflessione teologica ha condotto Bernard Lonergan ad inserire l’“orizzonte” e la “conversione” nel cuore della discussione54. L’orizzonte, letteralmente, è il limite di ciò che si può vedere da un dato punto d’osservazione. Metaforicamente, è il limite di ciò che si conosce e di cui ci si cura. La conversione è una transizione rivoluzionaria da un orizzonte ad un altro. La conversione intellettuale è una transizione dall’orizzonte del mito cognitivo (conoscere è qualcosa di simile al vedere) a quello del metodo trascendentale reso completamente tematico e affermato. La conversione morale è una transizione dall’orizzonte del soddisfacimento al primato esistenziale dei valori. La conversione religiosa è una transizione dall’orizzonte dell’impegno intra-mondano al primato dell’amore di Dio nella vita di ciascuno. Internamente collegate come modalità di un’unica direttrice verso l’auto-trascendenza, queste conversioni possono essere concepite – allorché tutte e tre accadono all’interno del medesimo soggetto – in termini di sublimazione, cioè di trascendimento che include, preserva e approfondisce ciò che è stato trasceso. La conversione intellettuale conduce il soggetto che si scontra con problemi che destano confusione, con l’immaginazione e con il mito del passato, con la supposizione e con la congettura, con pensieri che sembrano realtà e con pensieri che si accavallano, all’atto di affermare ciò che veramente è. La conversione morale lo pone su di un livello di coscienza che va al di là del significato, della verità, dei valori tutti. Ma questo soddisfa soltanto l’attaccamento alla verità. La conversione religiosa va al di là della sfera dei valori sino al terreno dei valori in cui il soggetto è «capito, preso, posseduto mediante un amore totale e che supera quello del mondo»55. Queste sublimazioni, tuttavia, non seguono un ordine genetico: prima la conversione intellettuale, poi quella morale e infine quella religiosa. Di solito l’ordine è esattamente opposto. All’inizio c’è il dono che
54 55
B. LONERGAN, Method, 235-244. B. LONERGAN, Method, 242.
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Dio fa del suo amore. L’osservazione di questo amore rivela il mondo dei valori. Questi valori includono quello della fede nelle verità insegnate dalla tradizione religiosa, e in questa fede e in questa tradizione risiedono i semi della conversione intellettuale56. Per lo studioso delle Scritture il carattere di dono che hanno la conversione religiosa e morale e l’emergere di una morale a partire dall’impegno religioso non sono idee nuove, ma temi della tradizione deuteronomistica e profetica e delle teologie paolina e giovannea. Non è nemmeno un’idea nuova quella secondo cui il teologo che manchi di una conversione religiosa e morale non riesca nel suo compito. Queste conversioni stanno al pensiero religioso come la prassi sta al pensiero sociale. Ciò che potrebbe risultare nuovo per gli studiosi della Bibbia è la suddetta rilevanza della conversione intellettuale come definita sopra per la teoria e la pratica dell’interpretazione. Infatti, la conversione intellettuale come definita sopra suppone la scoperta di una descrizione adeguata dell’intenzionalità umana; consiste nell’affermazione interiormente generata di questa descrizione come vera, e nella sua appropriazione come risorsa euristica e critica. Il momento fondativo di questa risorsa è la descrizione del fatto cognitivo, cioè una descrizione di certi dati della coscienza, tutti aperti all’introspezione. La distinzione all’interno delle descrizioni conflittuali del fatto cognitivo (l’accettazione delle posizioni e il rifiuto delle contrapposizioni) fonda la distinzione tra vero e falso, reale e illusorio: si può fare un preciso riferimento a tali problematiche come sono state sollevate da Stuhlmacher, per esempio quella della dipendenza inevitabile della critica storica da alcune visioni guida della storia e della realtà, e la diversità e incompatibilità tra le visioni disponibili (razionalista, idealista, esistenzialista, materialista, ecc)57. Lo studioso della Bibbia che suppone che la sua visione apparentemente non-teoretica della storia sia semplice e sufficiente può anche essere inconsapevole delle componenti ideologiche interne ad essa, derivate da una filosofia non riconosciuta, non criticata e insoddisfacente. Il senso comune «non è comunemente consapevole della commistione di non-senso comune all’interno delle sue convinzioni e dei suoi slogan più amati»58. Ad ogni modo, la 56
B. LONERGAN, Method, 243. P. STUHLMACHER, Historical Criticism, 62. 58 B. LONERGAN, Method, 53. 57
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dipendenza funzionale della critica storica da alcune visioni della realtà, che comprendono la realtà storica, illustrano puntualmente la rilevanza della conversione intellettuale per lo studioso della Bibbia. Lonergan riconobbe la prova di una conversione religiosa e morale nell’opera di Barth e Bultmann, ma osservò che la loro opera, sia pur in modi diversi, rivelava pure la necessità di una conversione intellettuale, anche per la sua tematizzazione nel metodo: Soltanto la conversione intellettuale può rimediare al fideismo di Barth. Soltanto la conversione intellettuale può rimuovere la nozione secolare di esegesi scientifica ripresentata da Bultmann. Del resto, la sola conversione intellettuale non basta. Bisogna che sia resa esplicita in un metodo filosofico e teologico, e un tale metodo esplicito deve includere una critica sia al metodo della scienza che al metodo degli studiosi59.
All’esegeta servono troppi anni per assemblare gli strumenti del suo lavoro. Nondimeno, se vuole andare al cuore della questione, che è là dove lo indirizza l’ermeneutica del consenso, egli – volente o nolente – si deve preparare a imprese che richiedono tempo per andare ancora oltre. Queste nascono dall’orientamento verso l’autenticità umana, che è semplicemente il dinamismo dell’auto-trascendenza. Sia pur molto laboriosa e poco gratificante, questa situazione non è diversa da quella di uno sport in cui la vita dell’atleta sia messa a rischio. La “dialettica”, nel senso lonerganiano, riguarda le visioni contraddittorie, e mira a scoprire quali di esse sono radicate su orizzonti opposti in modo irriducibile. In sé questo è un esercizio di chiarimento, ma il suo fine ulteriore è la verità. Infatti, la dialettica sollecita inevitabilmente l’ulteriore questione dell’autenticità umana (conversione intellettuale, morale, religiosa) e la questione della sua presenza o assenza in se stessi come negli altri. Queste due questioni generano quella luce – in riferimento a quanto detto sopra – che può essere gettata sulle controversie senza speranza. E la conversione in sé è “la via d’uscita di controversie che altrimenti sono senza speranza”. Questa conversione è rara, ma accade (come abbiamo visto, per esempio, anche in quel paradigma pubblico di controversia senza speranza che è il dibattito sull’aborto). Il
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B. LONERGAN, Method, 318.
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metodo dialettico, quindi, è programmato per rendere acuta la questione dell’autenticità. «Non è un metodo infallibile, poiché gli uomini facilmente sono inautentici, ma è un metodo forte, poiché il bisogno più profondo dell’uomo e la conquista più preziosa dell’uomo è l’autenticità»60. La mia proposta, in breve, è che l’ermeneutica del consenso trovi qui uno spazio. Inviterei quanti hanno già percepito la correttezza della critica di Stuhlmacher e l’attrattiva delle sue indicazioni, a considerare se vi sia una qualche base migliore di questa che serva meglio la causa che egli ha sostenuto: l’appropriazione del metodo trascendentale e la sua utilizzazione in un’ermeneutica governata dall’autenticità umana stessa, concepita come una triplice conversione.
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B. LONERGAN, Method, 254.
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– IV –
La benevolenza viene prima, ma il sospetto ha la sua funzione Questo saggio propone un insieme di proposizioni sul soggetto e la soggettività dell’interpretazione: sulla centralità ermeneutica della soggettività, sulle condizioni della soggettività autentica e sulla soggettività autentica quale condizione di o chiave per l’interpretazione oggettiva. Iniziamo (prima parte) con il superamento dell’età dell’innocenza, quando le problematiche della soggettivtà erano trascurate o sottovalutate o soppresse o puramente presupposte. Segue (seconda parte) una descrizione del tipo di soggettività che va intesa per misurarsi a pieno con il compito dell’interpretazione. Qui l’accento cade sul ruolo del realismo critico nella formazione di un’ermeneutica dalle radici profonde e solide. Infine (terza parte), discutiamo dell’interpretazione biblica, distinguendo le condizioni di possibilità e le condizioni di eccellenza. L’orientamento verso il consenso è l’atteggiamento appropriato all’interpretazione in senso stretto, ma al “sospetto” è assegnato un duplice ruolo: anzitutto nell’“analisi” precedente o conseguente all’interpretazione e poi nella critica condotta non solo sul testo, ma sull’interprete stesso.
I …più gli studi umani si distolgono dagli universali astratti e si dedicano agli esseri umani concreti, più diventa evidente che l’età scientifica dell’innocenza è giunta alla fine; l’autenticità umana non può più essere data per scontata. Bernard Lonergan1
1 B. LONERGAN, “The Ongoing Genesis of Methods”, in F.E. CROWE (a cura di), A Third Collection. Papers by Bernard J.F. Lonergan (New York–Mahwah: Paulist, 1985) 146-165, pagina 147.
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
L’età dell’innocenza era oggettivistica: era il tempo in cui i problemi e le soluzioni erano discussi esclusivamente in termini di “dati oggettivi” o, al massimo, di “dati oggettivi e argomenti oggettivi”. Un’opera tardiva chiaramente emblematica di questo oggettivismo era Decline of the West di Oswald Spengler, secondo cui la vita e la morte della civiltà occidentale, come di ogni altra civiltà, è pre-determinata come l’evoluzione e l’arco vitale di una farfalla2. In questa prospettiva, tutto ciò che noi – protagonisti della civiltà occidentale – pensiamo, decidiamo o facciamo non fa alcuna differenza. Il superamento dell’età dell’innocenza è stato indicato dall’emergere del tema del soggetto: è il pensare, decidere ed agire del soggetto che fa tutta la differenza. Il soggetto, celebrata la nube della non-conoscenza da parte del movimento romantico, venne tematizzato in modo diverso nelle opere di Schopenhauer e Nietzsche, di Kierkegaard e Newman, e il tema si avviò verso la maturità nel nostro secolo con Heidegger, Jaspers, Marcel e Maritain. Forse il passo avanti più decisivo sul fronte filosofico ed ermeneutico è stato quello della comprensione dell’oggettività non come assenza di soggettività, ma come frutto di una soggettività autentica3. Sebbene l’età dell’innocenza sia trascorsa, è difficile che passi giorno senza sentire la voce di ieri. Non molto tempo fa, il filosofo Sidney Hook rispondeva delicatamente ad una domanda sul suo ateismo: una volta morto, potrei presentarmi alla presenza dell’Onnipotente e, se mi dovesse chiedere perché non ho professato la mia fede in lui, risponderei: “Signore, Tu non mi hai dato una prova sufficiente”4.
Ad essere trascurata, in questa simpatica replica, è la possibilità che ciò che è mancato non sia una prova, ma le condizioni soggettive che avrebbero permesso all’intervistato di cogliere la prova come “sufficiente”. 2
O. SPENGLER, The Decline of the West. Vol. I: Form and Actuality; Vol. II: Perspectives of World History (London: George Allen & Unwin, 1926-1928). Vedi la recensione di R.G. Collingwood in Antiquity 1 (1927) 311-325. 3 R. BULTMANN, “The Problem of Hermeneutics”, in Essays Philosophical and Theological (London: SCM, 1958) 234-161, pagina 239. Aggiunge il cruciale modificatore “autentico” a “soggettività” B. LONERGAN, Method in Theology (London: Darton, Longman & Todd, 1972) 162165. 4 Vedi N. GLICK, “Sidney Hook, Embattled Philosopher”, Encounter 75 (giugno 1985) 28-32, pagina 30, nota 6.
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IV. La benevolenza viene prima, ma il sospetto ha la sua funzione
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Nel racconto poliziesco ideale, benché al lettore vengano forniti tutti gli indizi, egli non riesce a scoprire il colpevole. Può tornare su ogni indizio come è emerso. Non ha bisogno di indizi ulteriori per risolvere il mistero. Ma può restare nel buio per la semplice ragione che afferrare la soluzione non consiste nella mera acquisizione di tutti gli indizi, né nella pura memoria di tutti loro, ma in un’attività ben distinta dell’intelligenza organizzatrice che colloca tutta la serie di indizi in un’unica prospettiva esplicativa5.
In una parola, non è la prova che manca, ma l’atto d’intelligenza del porre la prova nella sua costellazione propria. Quando si fa questo, la conoscenza in precedenza mancante segue come il giorno la notte. Se un turista è incapace di realizzare un segno scritto in una lingua a lui sconosciuta, non possiamo dire che ci dev’essere qualcosa di sbagliato nel segnale, né che l’incapacità di una persona inesperta in letteratura a scrivere una poesia – pur avendo un certo controllo su ogni singola parola e su molte combinazioni di parole – sia un segnale sicuro che il poema è un fallimento. Molti poeti saluterebbero le formule di fisica matematica comprendendole ancor meno. Ad essere regolarmente trascurata tra le condizioni soggettive della nostra comprensione dei linguaggi, dei testi, dei manufatti, dei calcoli, è la padronanza del “codice”. Il codice è la chiave. Concretamente, tuttavia, il referente della metafora del “codice” può rivelarsi essere meno una parola chiave magica che una paurosa richiesta di sviluppo personale a lungo termine. Si potrebbe dover scalare una montagna a molti piani prima di raggiungere il punto in cui iniziano ad essere intellegibili Stravinsky e Shostakovich, o Rilke e Valéry, o Einstein e Hiesenberg, o Russell e Whitehead. Di solito, questo lo sappiamo bene. In modo selettivo, lo dimentichiamo in continuazione, poiché pochi di noi hanno abbandonato la loro eredità oggettivistica pre-ermeneutica. Recentemente ho riletto un articolo particolarmente valido, concepito per introdurre i lettori di lingua inglese all’opera di Rudolf Pesch sulle parole dell’Eucaristia e sul modo in cui possono essere considerate in rapporto alla proclamazione pubblica del regno di Dio da parte di Gesù. Lo scrittore, Robert Daly, del Boston College, concludeva, tuttavia, la sua esposizione con un’atteggiamento di estrema cautela, offrendo una lista breve ma formidabile di 5
B. LONERGAN, Insight. A Study of Human Understanding (New York: Longmans, 1958) ix.
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
punti rilevanti per l’argomento di Pesch e sfortunatamente impossibili da conoscere: «(1) Non c’è alcun modo attualmente noto di essere sicuri della genuinità… del lungo testo di Lc 22,19-20. (2) Che l’Ultima Cena fosse un pasto di Pasqua non può essere provato con strumenti storico-critici…». (3) Che l’Eucaristia del cristianesimo primitivo fosse una celebrazione di un pasto unico resta non dimostrato. (4) «L’analisi della critica dei generi condotta da Pesch, secondo cui quello di Marco è un racconto storico e non un testo liturgico, non contiene una forza probante sufficiente a convincere una mente scettica»6. Queste osservazioni negative, ovviamente, rivelano l’idea che l’argomento di Pesch – secondo Daly – viene “demolito” solo se lo si prende in termini di “tutto o niente”: la conseguenza è che questi termini sono irragionevoli. Si potrebbe aggiungere a questo che i quattro punti in questione sono conoscibili per principio, e il fatto che siano tutti discussi non è garanzia della loro inconoscibilità. Abbiamo profondi disaccordi che non sappiamo come trattare su questioni cruciali in ogni ambito degli studi umani senza eccezione. Ma ciò non vuol dire che tutte queste questioni sono categoricamente inaccessibili. Inoltre, andrebbero notate le indicazioni stesse di Daly, secondo cui i quattro punti non conosciuti potrebbero non essere del tutto inconoscibili. In riferimento al lungo testo di Luca, non vi è “attualmente nessun modo” per stabilirne la genuinità. Che l’Ultima Cena fosse un pasto di Pasqua non può essere dimostrano “con strumenti storico-critici”. Che l’Eucaristia del cristianesimo primitivo fosse una celebrazione di un pasto unico rimane non dimostrato, non necessariamente non dimostrabile. Gli argomenti di Pesch secondo le sue conclusioni della critica dei generi non convincerebbero “una mente scettica”. Sebbene i giudizi siano leggeri o sottaciuti, essi effettivamente debordano verso l’idea secondo cui le soluzioni giuste di queste questioni siano inconoscibili. Tuttavia, l’ultimo punto, quello riguardante ciò che “convincerebbe o non convincerebbe una mente scettica”, è suggestivo. Lascia trasparire la concezione dello scrittore circa ciò che è richiesto per la conoscenza: una prova che convinca lo scettico. Questa assume le sembianze di un’assicurazione epistemologica. Ciò che dovesse convincere lo scettico sarebbe facilmente valido per tutti noi. 6
R.J. DALY, “The Eucharist and Redemption: The Last Supper and Jesus’ Understanding of His Death”, Biblical Theology Bulletin 11 (1981) 21-27, pagina 26.
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A questo punto, tuttavia, farei due osservazioni. La prima è che il requisito implicito per la conoscenza è un eccesso cartesiano. La seconda è che questo eccesso è un requisito per (e forse una compensazione per) il prolungamento dell’età dell’innocenza. In altri termini, c’è qui in opera una strategia: si rende il test della conoscenza eccessivamente rigoroso per salvaguardare l’assunto in base al quale ogni proposta che supera il test sarà accettata da tutti. Per riformulare l’assunto: tutte le parti interessate sono uomini e donne ragionevoli, intenti alla conoscenza, equipaggiati a conoscere con accuratezza, e pronti a giudicare in accordo preciso con le prove. È corretto, tuttavia, notare che anche se Rudolf Pesch avesse dimostrato tutti e quattro i punti individuati al di là di ogni cavillo, ci sarebbero stati ancora molti esegeti di molti paesi, lingue, comunità culturali, credi confessionali che avrebbero strutturato i dati in modo diverso, che avrebbero contestato i suoi argomenti e che avrebbero rigettato le sue conclusioni. Infatti, nessuna comunità di studiosi, nemmeno la comunità degli scienziati della natura, per non parlare dei sociologi, degli storici, dei critici letterari e degli esegeti, è guidata semplicemente dalla valutazione ordinata e rigorosa di una prova. Quando parliamo di “prova sufficiente”, non intendiamo una prova sufficiente ad ottenere l’assenso di ciascuno senza eccezione; non intendiamo una prova che ottenga l’assenso della maggioranza dei due terzi. Intendiamo una prova sufficiente ad ottenere l’assenso di una persona dal giudizio buono, che rispetti i punti in questione, cioè di una persona capace, pronta e desiderosa di percorrere il suo cammino verso la verità. Pensare all’universalità di queste condizioni era un segno tipico dell’età dell’innocenza. Da allora siamo arrivati a capire che questa generosità era poco riflessa, fuorviante e sbagliata. Un buon giudizio non è né un universale né un luogo comune. Abbiamo capito, infatti, che il cuore del problema ermeneutico risiede esattamente qui, nella necessità categoriale di identificare e condurre a realizzazione quei fattori dentro di noi che facilitano la conoscenza e promuovono un buon giudizio. Inoltre, quando trattiamo dell’ermeneutica in rapporto alla Bibbia – l’interpretazione della quale ha generato comunità religioso-culturali distinte, separate, talora in forte contrasto tra loro – è folle supporre che la questione di ciò che permetta a qualcuno, o positivamente induca qualcuno a cogliere una prova come sufficiente (insieme con tutte le questioni di significato e valore che questo pone o, al limite, influenza
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e rende verosimile) sia direttamente legata a considerazioni oggettive sui “dati” e sugli “argomenti”. È folle, in altre parole, supporre che non ci sia alcun bisogno di tenere in considerazione la soggettività, in una gamma che va dalla soggettività abitualmente perversa a quella abitualmente attenta, intelligente, ragionevole e responsabile7. La radice delle nostre divisioni più profonde non è la mancanza di prove: è il dato di fatto di orizzonti opposti e, soprattutto, di orizzonti opposti in modo irriducibile, come suggerirà una veloce riflessione sulle controversie pubbliche e come confermerà la riflessione prolungata. Gli orizzonti opposti in modo irriducibile costituiscono una vasta realtà umana labirintica nelle sue conseguenze, dal momento che portano alcuni ad accogliere sinceramente come vero e buono ciò che altri, con altrettanta sincerità, rigettano come falso e cattivo. Alla luce di questo stato di cose confuso, ma comune, che cosa bisogna fare? La domanda che del resto ultimamente ne deriva è: “Cosa dobbiamo fare di noi stessi?”. Sorge la questione fondamentale dell’autenticità umana.
II La conclusione più illuminante che emerge dall’attuale analisi dell’intenzionalità è quella secondo cui, in virtù delle strutture dell’intenzionalità, la persona umana è in modi diversi auto-trascendente e trova la sua pienezza nel conseguimento di un’auto-trascendenza di vario genere. Come la conoscenza è auto-trascendenza intenzionale, così l’amore è auto-trascendenza affettiva, e il culmine dell’auto-trascendenza è il primato dell’amore di Dio nella vita di una persona. L’amore, nella sua forma migliore, fa uscire l’amante fuori dal riferimento a sé relativizzante e distorto e lo proietta verso la libertà di disporre generosamente della propria vita. L’amore di Dio tende verso la più radicale e profonda autotrascendenza. Allo stesso tempo, questa tendenza accresce spontaneamente l’auto-trascendenza morale, affettiva e cognitiva. Più di ogni altro impulso umano, l’amore di Dio potenzia la timida ma istintiva insoddisfazione umana per tutto ciò che è sciatto, superficiale, vuoto e distruttivo. Nutre il desiderio, incostante ma profondamente radicato, dell’au7 Sui precetti trascendentali (“sii attento”, “sii intelligente”, “sii ragionevole”, “sii responsabile”), che corrispondono ai quattro livelli dell’intenzionalità umana (esperienza = dati, comprensione, giudizio, decisione), vedi Method in Theology, 52-55, 231ss.
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tenticità umana. Infine, la religione, per quanto alleata del successo, è forte in modo peculiare nel fallimento, e così guarisce ed anche appaga. Come l’insopprimibile desiderio umano di autenticità e appagamento è ancora soggetto alle sovrapposizioni di illusioni e distorsioni, così questo orientamento verso la forma più radicale e profonda dell’auto-trascendenza è passibile di alterazioni e perversioni, forme difettose che tuttavia presuppongono e parimenti attestano i valori che distorcono. Di conseguenza, sebbene la religione offra terreno fertile per l’inasprimento di prospettive, convinzioni e impegni opposti, essa offre anche e più in profondità grandi risorse per la cura di atti e disposizioni – auto-accusa e pentimento, speranza e amore – che, se lasciati a briglia sciolta, spazzerebbero via l’interpretazione erronea e il risentimento, e svelerebbero le opposizioni sovradimensionate per ciò che sono veramente, e metterebbero nel frattempo a fuoco le opposizioni veramente radicali. L’auto-trascendenza morale trasforma in modo sottile ma profondo uomini e donne ordinari, rendendoli buoni. La più alta e migliore forma di amicizia non è comune – secondo Aristotele – poiché presuppone che uomini buoni e donne buone siano rari. Ma l’eccellenza morale non solo rende possibile la forma più alta di amicizia; essa mantiene anche il tessuto sociale. Il suo contributo alla sensibilità, alle maniere, al gusto degli uomini è personalmente e socialmente indispensabile. Quando il libero flusso dell’auto-trascendenza morale è ridotto ad un rivolo, la cultura diventa come una catapecchia. La conversione morale che la conoscenza umana e l’amore di Dio sollecitano e richiedono è una precisa preoccupazione per i valori nel momento in cui valori e soddisfazioni entrano in conflitto. Una situazione morale di questo tipo certamente non abolisce gli orizzonti opposti e i conflitti umani; ma, come l’auto-trascendenza che è l’amore di Dio, ha una doppia faccia per cui dissipa le false opposizioni ed anche rileva le opposizioni cruciali per la causa della società. La dimensione intellettuale della soggettività, sebbene sia improbabile che raggiunga la piena fruizione della verità filosofica senza la spinta magnetica della vitalità religiosa e morale, nondimeno possiede un suo proprio carattere e una sua integrità. Il suo campo d’azione è la dialettica del senso e dell’intelligenza. Il senso fonda il realismo del bambino, l’intelligenza quello dell’adulto. Molte vite sono una simbiosi dei due, poiché le migliaia di adattamenti conoscitivi che realizziamo nell’infanzia spesso dimostrano di avere la forza di durare per tutta la vita.
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
Russell Baker, autobiografo e umorista americano, ne offre un’illustrazione, una spiegazione. “Romeo, Romeo! Perché sei tu Romeo?”, significa, ovviamente, “perché sei tu Romeo, anziché Silvio o Giorgio?”. Ma molti adulti istruiti – dice Baker – diranno che significa “Romeo, dove sei?”. Questa semplificazione non ha scuse, ma non è senza spiegazione: La spiegazione dell’errore ha a che fare con la persistenza per tutta la vita di fraintendimenti che sono sorti nella prima fanciullezza. Le parole iniziali di Giulietta nella scena del balcone sono alcune tra le prime righe di Shakespeare incontrate in fanciullezza. Per una mente non formata, incapace di cogliere le sottigliezze della irrilevanza dei nomi, “Perché sei tu Romeo?” può soltanto suonare come un richiamo rivolto a Romeo per dire dove egli si sia nascosto… Questa tendenza della mente a rigettare i frutti della sua educazione e a ricadere nella felice ignoranza della fanciullezza può spiegare la difficoltà di estirpare i gravi pregiudizi irrazionali8.
Così, il bambino mina alla base l’uomo. Il “realismo infantile”, di cui si diceva sopra, fa chiaramente riferimento ad una esperienza umana universale. Il primato della vita di senso, iniziato nell’infanzia, definisce il senso del reale del bambino. Questo si riflette nel suo ricorso spontaneo alle risorse di senso per distinguere i suoi sogni dalle sue ore di veglia, per mantenere le storie che ascolta in un limbo magico al contempo tenute insieme e distinte dal mondo di tutti i giorni, e per capire gli scherzi, le bugie e i sotterfugi dei suoi compagni di gioco. Per il bambino il reale è la vita, il movimento, il mondo vario che è visto, udito, toccato, assaggiato, odorato. Questo realismo ha una capacità di resistenza sufficiente per sconfiggere gli sforzi di molti adulti che si sottopongono a considerare il reale dal punto di vista filosofico. Così, Samuel Johnson – quando Boswell faceva notare che l’idealismo di Berkeley, sebbene non fosse vero, non poteva essere rifiutato – gridava «sbattendo i piedi con grande energia contro una grossa pietra, finché non rimbalzava via: “Io lo rifiuto così”»9. Dal momento che il reale è qualcosa che può vedere e toccare, il bambino è un realista, e l’uomo cresciuto può affermare, come Johnson, il
8 9
R. BAKER, “Why Art Thou Romeo?”, International Herald Tribune, 18 maggio 1984. J. BOSWELL, The Life of Samuel Johnson (London: Macmillan, 1922) 162.
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IV. La benevolenza viene prima, ma il sospetto ha la sua funzione
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realismo della fanciullezza oppure, come Berkeley, può apparentemente tirarsene fuori appellandosi all’indipendenza delle qualità primarie sulle secondarie e delle qualità secondarie sulla percezione. In entrambi i casi la percezione la fa da padrone, proprio come nell’infanzia. Un’alternativa fondamentale al percezionismo dei realisti, degli empiristi e degli idealisti grossolani emerge anche dalla riflessione sulla meraviglia umana; infatti, la meraviglia, subentrando alla percezione, si rivela in e attraverso le domande che rendono tematica la meraviglia. Diversamente dalla percezione, non c’è limite al tipo di oggetti che il porre domande può affrontare. Qualunque limite sia posto, lo si può trascendere rendendolo oggetto di domande, chiedendo se esso esista, o cosa sia, e se ci sia qualche cosa al di sopra e, se sì, che cosa. La ricchezza della meraviglia e, di conseguenza, la ricchezza del porre le domande che la tematizzano non possono essere affatto ristrette. Il porre domande è qualcosa di aperto ad infinitum. Le domande sono rivolte non al nulla, ma al tutto; non a ciò che non c’è, ma a ciò che c’è; non ad alcuni modi e alcune sfere dell’essere, ma a tutti i suoi modi e tutte le sue sfere. Nel porre domande, pertanto, c’è la possibilità di una certa auto-trascendenza, e ogni volta in cui ad una domanda si dà una risposta soddisfacente (cioè vera), questa possibilità si realizza. Senza qualcuno che ponga le domande certamente non c’è alcuna domanda; ma la verità di una domanda a cui si sia risposto veramente ha una sua autonomia10. Le domande sono rivolte al reale e le risposte vere lo riguardano. Questo ci mette sulla pista della conoscenza pienamente umana. Come il realismo della fanciullezza identifica il reale con gli oggetti della percezione, così un realismo pienamente umano identifica il reale con l’oggetto di un giudizio vero. Come si entra nel mondo del bambino attraverso i sensi, si entra nel mondo pienamente umano attraverso la meraviglia, ponendo domande, rispondendo alle domande e verificando le risposte: un processo che inizia nella fanciullezza, che assume dapprima la forma abituale della fede e, con il passare del tempo, assume sempre più la forma di una valutazione indipendente e di una approva-
10 B. LONERGAN, “The Subject”, in W.F.J. RYAN – J. TYRREL (a cura di), A Second Collection. Papers by Bernard J.F. Lonergan (London: Darton, Longman & Todd, 1974) 69-86, pagina 70, sul modo in cui la verità risiede ontologicamente solo nel soggetto, ma è intenzionalmente indipendente dal soggetto.
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
zione selettiva di risposte specifiche. Pian piano, la fede è confermata o corretta, la dimostrazione guadagna in importanza e a questo punto emergono i lineamenti di un mondo conosciuto come reale. Ci viene qui indicata una dualità nella nostra conoscenza: la conoscenza elementare che è previa alle domande e la conoscenza pienamente umana che segue le domande, include la ricerca delle risposte e culmina nell’accertamento che quelle determinate risposte siano esatte. L’errore classico nella teoria della conoscenza è stato di rendere la conoscenza elementare il paradigma della conoscenza pienamente umana, come se – per esempio – la conoscenza umana fosse un tipo di visione di livello superiore11. Questa analogia fuorviante produce deduzioni errate: per esempio, quella secondo cui l’oggetto della conoscenza si può capire grazie al caso evidente dell’oggetto di una visione oculare. Proprio come un oggetto illuminato colorato è un elemento determinato concreto sufficiente di per sé a realizzare una visione (supponendo che l’occhio sia in grado di funzionare), così la cosa da capire può essere concepita come un elemento determinato concreto sufficiente di per sé a realizzare una comprensione. Ma se fosse così, sarebbe difficile spiegare perché qualcuno dovrebbe non riuscire ad arrivare ad una data conoscenza o perché persone che si pongono la stessa domanda, in realtà, non sempre pervengono alla stessa risposta. Di conseguenza, la giustapposizione di visione e conoscenza finisce per offrire una spiegazione non per comparazione, ma per contrasto. Ciòche-si-vede è semplicemente là; ciò-che-si-conosce, dall’altro lato, emerge soltanto se è definito da una domanda. Inoltre, ciò-che-si-vede è semplicemente visto, mentre ciò-che-si-conosce è ponderato, chiarito attraverso illustrazione ed esperimento, riadattato alla domanda e riesaminato. Infine, quando ciò-che-si-vede è visto, la visione è pienamente realizzata; ma quando ciò-che-si-conosce è conosciuto, manca ancora qualcosa alla conoscenza pienamente umana, cioè una risposta alla domanda successiva: “Questa determinata conoscenza è corretta?”. 11 Vedi Insight, 252ss, sulla distinzione tra il conoscere elementare e il conoscere pienamente umano; 422ss sul modo in cui la mancanza nel fare e nel mantere la distinzione (una mancanza compendiata dal motto “conoscere è come vedere”) produce una componente di aberrazione nello sviluppo dialettico della filosofia. Come Lonergan afferma altrove, le nozioni di conoscenza e realtà che sono formate nella fanciullezza (cioè la riduzione della conoscenza ad una analogia con il vedere e del reale a ciò che è lì per essere visto), «trascinatesi nei secoli, hanno costituito le fondamenta incrollabili del materialismo, dell’empirismo, del positivismo, del sensismo, del fenomenologismo, del comportamentismo, del pragmatismo...», Method in Theology, 213ss.
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IV. La benevolenza viene prima, ma il sospetto ha la sua funzione
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Il “realismo critico” è una teoria descrittiva e analitica della conoscenza, concepita per distinguere e mettere in correlazione la conoscenza elementare e quella pienamente umana. I paragrafi precedenti illustrano la funzione descrittiva della teoria: dall’indagine si scopre che i tratti della conoscenza pienamente umana non si possono trovare nella conoscenza elementare. La conoscenza sensibile non produce né “realtà” né “apparenza”, ma solo “dati”12. Il tratto saliente della meraviglia, da un lato, come anche delle domande che la specificano, è l’apertura sconfinata attraverso cui colui che “si meraviglia/pone domande” entra in relazione non propriamente con i dati, ma con la realtà e, per principio, con la realtà nella sua interezza. Il capire è una relazione immediata tra colui che capisce e ciò che egli capisce. Non c’è niente che lo trattenga dal capire il reale. Non potrebbe trattenere se stesso da una simile comprensione. La differenziazione tra la conoscenza elementare e quella pienamente umana non implica alcun vuoto tra le due, poiché sono i dati che fanno sorgere la meraviglia; la meraviglia viene oggettivata nelle domande; le domande fanno emergere risposte; le risposte sollecitano la riflessione; la riflessione culmina nel giudizio che una data risposta sia certamente o probabilmente vera o falsa. Non è nemmeno possibile che si dia il caso che la conoscenza pienamente umana possa intendere o aspirare al reale senza raggiungerlo, poiché è un ragionamento che si rivolge su se stesso. Se si desse il caso che un giudizio vero non si realizzi, allora almeno questo giudizio vero si sarebbe realizzato. Inoltre, non si può negare che gli accertamenti veri di dati di fatto siano ricorrenti nelle nostre vite, poiché negarlo sarebbe contraddetto dall’eperienza abituale di ciò che è negato e, di conseguenza, è categoricamente privo di plausibilità13. Tenendo in considerazione il fatto dei giudizi veri, il momento analitico nel realismo critico affronta il problema dell’oggettività in virtù della quale questi giudizi accadono. Ancora una volta, è indispensabile una comprensione della dualità della conoscenza elementare e della conoscenza pienamente umana. “Oggetto”, nel contesto della cono-
12 Vedi B. LONERGAN, “Cognitional Structure”, in F.E. CROWE (a cura di), Collection. Papers by Bernard Lonergan (New York: Herder & Herder, 1967) 221-239, pagina 235. 13 Vedi Insight, 281-283, sul carattere e l’innegabilità di accertamenti veri dei dati di fatto concreti.
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
scenza elementare, è semplicemente il termine della coscienza estroversa: qualunque cosa sia vista, udita, toccata, assaggiata, odorata. La condizione dell’oggettività di una tale conoscenza è il funzionamento appropriato dei sensi. Ma l’“oggetto”, nel contesto della conoscenza pienamente umana, è qualunque cosa sia intesa con le domande e conosciuta allorché le domande abbiano ricevuto una risposta soddisfacente. L’oggettività di questo tipo di conoscenza, di conseguenza, è complessa. Il fattore esperienziale risiede nel darsi dei dati; il fattore intelligente risiede nella richiesta espressa attraverso una domanda e soddisfatta da una risposta; il fattore razionale risiede nell’ulteriore richiesta che la risposta sia vera, soddisfatta dall’accostamento dei dati e dalla comprensione riflessa di questo come sufficiente. Possiamo migliorare questa descrizione alla luce della formulazione che con abile tecnica Bernard Lonergan fa della “prova sufficiente” quale “virtualmente incondizionato” – una conoscenza delle condizioni la cui verità è conosciuta, e lo è per essere completata14. Data dunque questa definizione, il secondo e il terzo componente dell’oggettività possono essere più elegantemente concettualizzati come segue. L’oggettività normativa nasce nel momento in cui vengono soddisfatte le esigenze dell’intelligenza (cioè per l’insight in risposta ad una domanda) e della ragionevolezza (cioè per la logica che mette in relazione l’insight con le condizioni della sua verità). L’oggettività terminale o assoluta risulta dalla combinazione normativa con l’oggettività esperienziale (il darsi dei dati), proprio come, per analogia, un sillogismo (se “x”, allora “y”; ma “x”; dunque “y”) si conclude in funzione della combinazione delle premesse maggiore e minore15. Come l’errore epistemologico classico risiede in una confusa amalgamazione che in parte riduce l’oggetto e l’oggettività della conoscenza pienamente umana all’oggetto e all’oggettività della conoscenza elementare, così l’eccellenza epistemologica del realismo critico risiede nell’analisi dell’oggettività resa possibile da una chiara e consistente differenziazione tra le due.
14
Insight, 280ss, 343-345; Method in Theology, 102. Insight, 280ss; “Insight Revisited”, in W.F.J. RYAN – J. TYRREL (a cura di), A Second Collection. Papers by Bernard J.F. Lonergan (London: Darton, Longman & Todd, 1974) 263-278, pagina 275.
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IV. La benevolenza viene prima, ma il sospetto ha la sua funzione
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Ciò che conta per l’autenticità, secondo Nietzsche, non è la verità, ma la vita. In precedenza abbiamo abbozzato una serie di riflessioni filosofiche nella convinzione contraria che la vita senza un’attenzione alla verità è dirottata lontano dall’autenticità, verso la rovina. E proprio per il fatto che la verità e l’ostinata insistenza sulla verità appartengono, in modo fondante, all’autenticità umana, abbiamo tentato di mettere in evidenza un’opzione – il realismo critico – che afferma il nostro bisogno di verità e giustifica il nostro accesso ad essa. Senza dubbio, l’espressione della verità – per esempio nella generosità dell’amicizia senza un tornaconto personale, nella lealtà, nell’amore – risplende con una chiarezza e immediatezza che nessuna conoscenza umana può eguagliare. Ma escludere la conoscenza oggettiva dal mondo del valore significa assicurare il definitivo collasso del mondo del valore. L’autenticità è intrinsecamente integra. È un’unità dinamica che, sebbene forse mai perfetta, non cessa di raccogliere e ordinare insieme i suoi elementi, diversi ma nelle loro funzioni armoniosi: intellettuale, estetico, morale e religioso; individuale, personale e intersoggettivo; sociale, culturale, economico e politico. L’interpretazione valida e l’autenticità umana appartengono l’una all’altra e contribuiscono l’una all’altra. Senza un’interpretazione valida, l’autenticità umana diminuisce socialmente e culturalmente. Senza l’autenticità umana, l’interpretazione sconfina nel capriccio, contrastata dall’attrazione per la banalità con e senza pretese (fascinatio nugacitatis). Questo procura, da parte degli studiosi di letteratura che per una qualunque ragione si trovano senza nulla di impellente o di ben definito da fare, un desiderio fuori luogo di evadere verso la creatività e l’inventività. Ne seguono dichiarazioni di indipendenza dalla tirannia della filologia e della storia, dal puro senso inteso del testo, e infine dal testo stesso. Ma il capriccio, soprattutto quello che dipende da forme di alienazione, è notoriamente una terapia occupazionale inefficace. Quale compito onorevole per coloro che mettono al di sopra di tutto il testo da interpretare, l’interpretazione è il triplice processo di formazione di una comprensione del testo, di una riflessione e un giudizio su quanto sia accurata questa comprensione, e di presentazione di ciò che si ritiene essere una comprensione accurata del testo16. Così
16
Method in Theology, 155.
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
intesa, l’interpretazione non è sempre necessaria, poiché non ogni testo pone problemi di comprensione. (Se fosse così, allora ogni interpretazione avrebbe a sua volta bisogno di un’interpretazione, e così via ad infinitum). Anche laddove l’interpretazione è adeguata, è necessario che ci sia un’ermeneutica. Se l’oggetto dell’interpretazione è la comprensione del testo, oggetto dell’ermeneutica è la comprensione della comprensione del testo. Quando l’interpretazione è luminosa, l’ermeneutica è superflua. Ma proprio come l’interpretazione diventa necessaria allorché il testo da capire è in qualche modo oscuro, così l’ermeneutica diventa necessaria allorché entrano in competizione interpretazioni fondamentalmente diverse dello stesso testo, e specialmente allorché la competizione minaccia di diventare caotica. Allora la situazione richiede un passo indietro nella riflessione, nel tentativo di scoprire che cosa è andato male nell’interpretazione. Stiamo considerando il tipo di interpretazione che si misura con i testi religiosi classici, che indubbiamente esigono un’interpretazione. Nella civiltà occidentale non è stato mai prodotto uno sforzo interpretativo qualitativamente paragonabile all’interpretazione della tradizione biblica. Per ben oltre un secolo questa tradizione è stata coltivata nella modalità filologica e storica, e per gran parte di questo periodo gli interpreti protestanti tedeschi hanno giocato un ruolo di guida. Due scuole dell’interpretazione teologica (specialmente del Nuovo Testamento) sono state successivamente predominanti in Germania: dapprima la teologia liberale, che si è spenta all’inizio della prima Guerra Mondiale, e poi la teologia del kerygma, che ha perduto il suo ascendente solo nell’ultima o nelle ultime due decadi. Una virtù di rilievo di entrambe le scuole era il loro rigore filologico e storico. Entrambe, tuttavia, mostravano dei difetti di fondo, come le loro interpretazioni dei temi centrali del Nuovo Testamento hanno messo in evidenza. Per la teologia liberale, il tema escatologico della basileia tou theou (il regno di Dio) era profondamente moralizzato, diventando un regno interiore di penitenza (ein innerliches Reich der Sinnesänderung, Albrecht Ritschl). Contro i teologi liberali, i teologi del kerygma riaffermarono la centralità del vangelo, ma non riuscirono a trovare un modo chiaro per affermare i suoi elementi costitutivi – la morte espiatrice di Gesù e la sua risurrezione dai morti – nel loro valore pieno e nel loro senso inteso.
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IV. La benevolenza viene prima, ma il sospetto ha la sua funzione
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L’espressione “senso inteso” evoca a questo punto un tema della più alta rilevanza: l’ideale interpretativo. Il test della teologia del kerygma fu il test “mitologico”, che da una parte era centrale per il Cristianesimo, dall’altra era incompatibile con la modernità scientifica. La soluzione fu quella di compiere una trasposizione del contenuto mitico del testo in termini esistenziali. Questa procedura, senza dubbio, era passibile dell’obiezione di rendere intellegibile il testo soltanto eliminando il suo senso inteso. Ma i teologi del kerygma potevano rispondere che, se la procedura eliminava un senso inteso di superficie, lo faceva solo per riscoprire in questo modo il senso inteso del testo in profondità e autenticamente17. Questa risposta dipendeva da una tesi previa che aveva un aspetto filosofico e uno letterario. Dal punto di vista filosofico, la tesi descriveva la conoscenza come una proiezione simbolica a partire da una matrice esperienziale. Qualunque fosse il prodotto di questa proiezione – forse un labirinto di simbolo o di mito – l’atto del proiettare era un’auto-espressione responsabile. Tra le conseguenze dirette di questa prospettiva c’erano un’ipotesi sul mito e la conseguente strategia interpretativa. L’ipotesi definiva il mito come un’espressione oggettivata della conoscenza di sé; così, la propensione di ogni mito era antropologica. La strategia interpretativa era quella di decifrare il mito non – direi – nei suoi stessi termini, ma piuttosto mediante il riferimento all’atto esistenzialmente fondato, auto-rivelante e auto-definitorio che lo ha prodotto. L’interpretazione diventava così lo sforzo di collocare nell’esperienza personale l’elemento originante che aveva prodotto in un soggetto le idee e le immagini, i simboli, i miti ed altre oggettivazioni. In questo modo, Hans Jonas poté trovare l’unità al di là della diversità delle oggettivazioni gnostiche, e Rudolf Bultmann poté delineare il programma dell’escatologia salvifica del Nuovo Testamento scoprendone le sorgenti esistenziali. Gli inconvenienti della “tesi previa”, tuttavia, sono sempre più implacabilmente evidenti. Sotto il profilo filosofico, il gratuito immanentismo neo-kantiano di questa descrizione della conoscenza è stato
17
J.M. ROBINSON, “Hermeneutic Since Barth”, in J.M. ROBINSON – J.C. COBB jr. (a cura di), The New Hermeneutic (New York: Harper & Row, 1964) 1-77, pagina 34: «[...] La demitologizzazione “elimina” davvero la concettualizzazione mitica inappropriata con lo scopo di stabilire più adeguatamente il significato del mito: questi arabeschi privi di senso non vanno “eliminati”».
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
sottoposto alla critica del realismo critico18 e, sotto il profilo letterario, la descrizione sistematica del mito come conoscenza oggettivata di sé ha perduto di consistenza alla luce di un’analisi del mito meglio fondata empiricamente19. Gli errori interpretativi successivi dell’esegesi che ne sono derivati per un secolo e più – in primo luogo della teologia liberale, poi della teologia del kerygma –, insieme con l’immagine caotica dell’esegesi che questi errori hanno chiaramente contribuito a creare, attestano il profondo bisogno attuale di un rinnovamento ermeneutico, se il tipo di interpretazione più adatta al testo, l’interpretazione teologica, vorrà rifiorire. Nel frattempo, la fallita “tesi previa” della teologia del kerygma sulla conoscenza e la natura del mito suggerisce pressantemente che l’ideale interpretativo torni ad essere laddove era stato e dovrebbe essere: è il compito modesto, sia pur talora arduo, di chiarificare senza cambiare il senso inteso del testo20.
III La nostra domanda è: cosa comporta realizzare bene questo compito, quando il testo da chiarire è il testo biblico? Sinora abbiamo risposto in termini molto generali, affrontando il tema dell’autenticità umana e, nell’ambito dei suoi componenti intellettuali, asserendo il diritto pienamente filosofico di parlare di validità, verità e realtà e di insistere sulla loro rilevanza ermeneutica. Una volta espletata questa preparazione, speriamo adesso, con uno sguardo sull’oggettività dell’interpretazione, di poterci dedicare ai particolari della soggettività dell’interprete. Per quanto bene abbia organizzato le sue risorse, l’interprete è veramente equipaggiato per questo compito solo se è “sintonizzato” con esso. Normalmente questo significa essere in sintonia con i testi da
18
F. LAURENCE, “Method and Theology as Hermeneutical”, in M.L. LAMB, Creativity and Method. Essays in Honor of Bernard Lonergan (Milwaukee: Marquette University Press, 1981) 79-104, vedi le pagine 86-89, 96-100. 19 W. BURKERT, Structure and History in Greek Mythology and Ritual (Berkeley: University of California Press, 1979) 1-34, 143-158. 20 L’espressione “senso inteso” – lungo tutto il presente articolo – si riferisce all’intenzione dell’autore soltanto in quanto è intrinseca al testo, cioè espressa o codificata o oggettivata nel testo. (Il “senso inteso” cadrebbe sotto le strettezze evocate dalla frase ad effetto “fallacia intenzionale”, soltanto se concepito come estrinseco al testo).
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IV. La benevolenza viene prima, ma il sospetto ha la sua funzione
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interpretare. Alla luce delle devastanti alienazioni del nostro tempo, questo essere in sintonia non può ritenersi presupposto come dotazione normale degli interpreti. Le scuole superiori non si impegnano a conferirlo o a svilupparlo, e non possono far altro che menzionarlo. Possiamo chiarire questo dato di fatto in verità non sorprendente segnalando due distinzioni: in primo luogo, tra le condizioni di possibilità (quelle senza cui l’interpretazione non può aver luogo) e le condizioni d’eccellenza (quelle senza cui l’interpretazione eccellente non può aver luogo); in secondo luogo, tra tipi e aspetti dell’eccellenza. Per il momento vogliamo considerare un aspetto particolare dell’eccellenza – non l’aspetto filologico né storico, ma quello religioso e teologico – dell’eccellenza interpretativa. In questo contesto specifico ma ampio, l’essere in sintonia con il testo è parte dell’essere in sintonia con il mondo e il suo creatore. Nella sua ampia fenomenologia dei festival e delle festività, Josef Pieper rendeva l’essere in sintonia con il mondo la condizione della “celebrazione”21. Si tratta della stessa condizione di eccellenza nell’interpretazione religiosa e teologica, dal momento che i testi da interpretare – da Genesi ad Apocalisse – sono essi stessi una festa mobile, una straordinaria celebrazione in corso che culmina nella testimonianza dell’opera di Dio in Cristo, riconciliando il mondo a sé. La testimonianza idiosincratica di Nietzsche è ancora una volta pertinente. «Il trucco non sta nel preparare una festa, ma nel trovare la gente che ne possa godere»22 e «per gioire di qualcosa, bisogna accettare tutto»23. Nietzsche percepiva, come pochi hanno fatto, l’assenza di quel festeggiamento comprensivo e permanente che egli sapeva essere in qualche misura profondamente giusto. I Greci della classicità a loro modo24 e i Padri della Chiesa per loro conto lo attestano. «Tutta la nostra vita è un giorno di festa» (Clemente d’Alessandria)25. «Abbiamo un giorno di festa senza fine» (Giovanni Crisostomo)26. «Nella casa di
21
J. PIEPER, In Tune With the World. A Theory of Festivity (New York: Harcourt, Brace & World, 1965). 22 Citato da J. PIEPER, In Tune, 10. 23 Citato da J. PIEPER, In Tune, 20. 24 J. PIEPER, In Tune, 38, cita Pitagora sul tema della vita come festa e le Leggi di Platone sul tema di ogni giorno una festa. 25 CLEMENTE ALESSANDRINO, Miscellanee, 7, 35, 5. 26 GIOVANNI CRISOSTOMO, “De Sancta Pentecoste”, Patrologia Graeca (Migne), 50, 454.
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Realismo critico:Realismo critico 11/09/09 09:08 Pagina 112
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
Dio la festa è senza fine» (Agostino)27. «Il nostro è un festeggiamento eterno» (Girolamo)28. Tutti costoro hanno posto la croce nel cuore della vita cristiana, fatto questo che elimina il sospetto di un vuoto ottimismo dalle loro affermazioni. In più, ciò rivela il segreto della loro gioia. La “croce” non è propriamente dolore, ma dolore redento, e la loro è una «gioia che può resistere a dispetto della sofferenza del fallimento, dell’umiliazione, della privazione, del dolore, dell’abbandono»29. Nietzsche colse questo splendido paradosso soltanto attraverso il risvolto della sua veste. Egli ne rifuggì e lo interpretò in modo completamente errato, non immaginando nemmeno che fosse nella forma del Servo isaiano e del kerygma cristiano che si sarebbero trovate persone pronte alla festa in ogni epoca. Il “festeggiamento” si presenta come un candidato credibile per lo status dell’autenticità specificamente cristiana. In quanto tale, appartiene in modo speciale alla lista delle condizioni di un’eccellente interpretazione teologica. Gli orientamenti contrari sovvertono l’interpretazione. Senza dover considerare esempi evidenti, quasi enormi, di estraneamento dal testo biblico (la profonda ambivalenza di Hegel e Schleiermacher, di Friedrich Delitzsch e Adolf von Harnack di fronte all’Antico Testamento; l’alienazione di Bruno Bauer o Robert Eisler o Arthur Drews di fronte al Nuovo Testamento), basta addurre la prova di una separazione limitata o selettiva. Gli studiosi del Nuovo Testamento, per esempio, hanno avuto spesso la tendenza a perdere la loro compostezza e il loro tatto di fronte ai temi specificamente apocalittici. Da Otto Pfleiderer ad oggi, gli sforzi di comprendere il tema paolino della risurrezione futura dei morti hanno fornito tanti esempi. Che Paolo nutrisse idee apocalittiche, come la salvezza dei vivi e dei morti alla parusia, era un fatto troppo ben attestato per essere negato (per esempio, 1Ts 4,13-17; 1Cor 15,22-28.5157). Ma gli esegeti ben disposti verso Paolo e mal disposti verso l’apocalittica hanno ripetutamente cercato di salvarlo dalla sua stessa inferiorità e dalla sua immersione in residui apocalittici derivanti del
27
AGOSTINO, “Enarrationes in Psalmos”, 41, 9, Patrologia Latina (Migne), 36, 470. GIROLAMO, Lettera ad Algasia 121, cap. 10, Patrologia Latina (Migne), 22, 1031. I testi patristici sono citati in J. PIEPER, In Tune, 38. 29 B. LONERGAN, “Theology and Man’s Future”, in W.F.J. RYAN – J. TYRREL (a cura di), A Second Collection. Papers by Bernard J.F. Lonergan (London: Darton, Longman & Todd, 1974) 135-148, pagina 145. 28
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IV. La benevolenza viene prima, ma il sospetto ha la sua funzione
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Giudaismo come nel caso di temi quali la parusia e il giudizio30. Sebbene Paolo si sia stranamente aggrappato ad immagini convenzionali come la discesa del redentore nella parusia, il suo vero pensiero sarebbe rappresentato meglio dall’immagine di un’ascesa mistica nel mondo celeste31. Ci volle del tempo perché lasciasse cadere la sua idea intrinsecamente contraddittoria di risurrezione, ma alla fine questo avvenne32. Mentre un tempo egli aveva l’idea dei salvati come di un piccolo resto, in seguito abbandonò il dualismo fanatico e intollerante che stava dietro quest’idea, in favore delle riconciliazione con l’“esperienza”33. L’organizzazione missionaria lo portò ad una “completa revisione” della sua escatologia apocalittica, sebbene egli tenesse fermi alcuni temi come il giudizio anche dopo che «avevano cessato di avere un qualche significato reale»34. Questa complessiva linea di pensiero, ben rappresentata per un periodo di oltre cento anni, dipendeva da una lettura manifestamente falsa di 2Cor 5,1-10, ma – cosa ancora più importante – era sostenuta dal mal celato rifiuto degli interpreti nei confronti dell’apocalittica. Questo esempio particolare e limitato si adatta ad altri fronti. Per molto tempo siamo cresciuti avendo familiarità con il razionalismo generico che ritiene la profezia e i miracoli impensabili e impossibili su basi aprioristiche, senza considerare il problema nella sua dimensione teoretico-cognitiva attuale né nei particolari dei singoli casi35. Questa posizione che in modo ideologico non fa alcuna distinzione ha avuto un impatto profondamente negativo sull’appropriazione esegetica e storica del Nuovo Testamento. Nondimeno, non vorrei rendere il problema della “benevolenza” o “orientamento al consenso” da parte dell’interprete dipendente dalla soluzione di questioni più complesse dell’ordinario quali la profezia e i miracoli.
30
O. PFLEIDERER, Paulinism, 2 voll. (London: Williams and Norgate, 1877), vol. I, 261-276. E. TEICHMANN, Die paulinische Vorstellungen von Auferstehung und Gericht (Freiburg-Leipzig: Mohr, 1896) 72-74. 32 R.H. CHARLES, A Critical History of the Doctrine of the Future Life in Israel, in Judaism, and in Christianity (London: Black, 1899) 394ss. 33 C.H. DODD, “The Mind of Paul: II” (1934) in C.H. DODD, New Testament Studies (Manchester: Cambridge University Press, 1953, ristampa 1967) 83-128, pagine 121, 126, 108. 34 W.L. KNOX, St. Paul and the Church of the Gentiles (Cambridge: Cambridge University Press, 1939) 128, 141. 35 Vedi B.F. MEYER, The Aims of Jesus (London: SCM, 1979) 99-102. 31
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
La benevolenza è una disposizione antecedente di apertura all’orizzonte, al messaggio e al tono del testo. La curiosità impersonale del fisicista non basta all’interprete. Non si confronta con una natura morta: egli entra in dialogo, pone e si fa porre domande. In anticipo sa soltanto che senza attenzione e simpatia non può “ascoltare” il testo. L’orientamento al consenso è una condizione di questo ascolto, come Hans-Georg Gadamer ha insistito nel sostenere, insieme con molti altri da John Henry Newman fino ad oggi36. L’apertura al consenso è idealmente l’apertura dell’“orizzonte di base”, l’orizzonte dell’uomo profondamente umano. Come l’ermeneutica del consenso riflette un riconoscimento previo secondo cui l’intenzionalità umana oggettivata nel testo è per principio aperta all’interezza della realtà, così l’ermeneutica del sospetto trova il suo proprio oggetto non nell’auto-trascendenza dello spirito umano, ma negli schemi ricorrenti e nei modelli della natura37. Il “consenso” va con l’interpretazione, il “sospetto” con l’analisi. L’interpretazione affronta il testo in quanto testo (parole, espressione particolare); l’analisi affronta il testo in quanto linguaggio (langue, risorsa del discorso). Poiché il testo è una comunicazione (parole), l’interpretazione è per natura previa all’analisi. Ma, se anche il sospetto non gioca alcun ruolo nell’interpretazione presa in senso stretto, come lo sforzo di capire e mediare ciò che l’autore ha voluto codificare e cercato di codificare nel testo, tuttavia il sospetto ha un suo posto nello studio letterario. In primo luogo, è una disposizione adatta all’analisi, se non in tutte le sue modalità almeno in molte: quelle che in un certo senso precedono l’interpretazione (analisi di critica testuale, analisi di critica delle forme, ecc…) e quelle che evitano o vengono dopo l’interpretazione (analisi strutturalista, psicologica, storica, socio-economica, e molti altri tipi di analisi). In secondo luogo, il sospetto appartiene alla critica: appartiene cioè al tentativo di dire non ciò che il testo significa (che è il compito dell’interpretazione), ma quanto adeguatamente e autenticamente il testo significa ciò che vuole significare. In questo senso, la critica include la tematizzazione dell’incontro personale dell’interprete con il testo. 36
H.-G. GADAMER, Truth and Method (New York: Seabury, 1975) 245-274. J.C. ROBERTSON jr., “Hermeneutics of Suspicion vs. Hermeneutics of Goodwill”, Studies in Religion/Sciences Religieuses 8 (1979) 365-379. 37
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IV. La benevolenza viene prima, ma il sospetto ha la sua funzione
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Trasferendo queste osservazioni generali nell’impegno dello sforzo concreto di leggere anche i testi biblici, il primo problema è di elevare al massimo in se stessi quello che Peter Stuhlmacher chiamava “il principio dell’ascolto”38. Questo – direi – è anzitutto un orientamento al consenso previamente sensibilizzato da ogni forma di autenticità intellettuale, morale, affettiva, estetica, religiosa e specificamente cristiana che si possa conseguire. In secondo luogo, è un insieme acquisito di particolari competenze che appartengono all’ambito degli studiosi di storia e di letteratura. In altre parole, mettersi in sintonia con il testo biblico significa portare a realizzazione il tipo di soggettività che, misurandosi con il testo, rende possibile l’oggettività: una sfida enorme. D’altro canto, il sospetto, che è molto più facile da utilizzare come un rasoio, è chiaramente una questione secondaria. Nell’epoca che è iniziata con Baruch Spinoza e Richard Simon, il sospetto è venuto decisamente alla luce. Dal momento che include il forte scetticismo che è parte integrante dell’attrezzatura dello storico, ha aiutato a recuperare il senso comune delle società in cambiamento per i mille e più anni del periodo biblico. Il sospetto, inoltre, risponde alla necessità di individuare i tratti della letteratura di propaganda, sia che venga dalla corte di Salomone sia dai centri missionari cristiani nella diaspora greca. Tuttavia, il lettore deve fare attenzione alle distorsioni dovute ai pregiudizi presenti non soltanto nel testo, ma in lui stesso. È una conquista dei maestri del sospetto quella di aver messo una serie di strumenti chirurgici a sua disposizione: le analisi del risentimento, dei mezzi di schermatura e dei meccanismi di difesa delle legittimazioni razionali; egli può rivolgere questi strumenti verso il testo per distinguerne i pregiudizi e verso se stesso per smontare quei pregiudizi che bloccherebbero, devierebbero o rovinerebbero il suo rispondere in modo appropriato al testo. Questo situa propriamente il sospetto nell’analisi in una posizione subordinata rispetto all’interpretazione e rispetto alla critica che ne segue. Come il sospetto freudiano ha generato la psicoanalisi e il sospetto marxiano la critica dell’ideologia, così i sospetti di Reimarus hanno ge-
38
P. STUHLMACHER, Historical Criticism and Theological Interpretation of Scripture (Philadelphia: Fortress, 1977) 85-87.
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Parte I. Introduzione all’ermeneutica del realismo critico
nerato la ricerca del Gesù storico e quello di Strauss e Baur hanno generato le indagini sulla natura della letteratura evangelica e sul dramma dello sviluppo del cristianesimo primitivo. Del resto, tutti questi adepti del sospetto – Freud e Marx, Reimarus, Strauss e Baur – furono riduzionisti il cui lavoro ha dovuto essere selettivamente salvato da una correzione che veniva dal di fuori dei loro stessi sospetti. Per contrasto, il valore dei grandi interpreti della passata generazione – per menzionarne due, Gerhard von Rad e Joachim Jeremias – risiede nell’acume che informava la loro capacità di ascoltare e di udire. Era una grandezza ex auditu.
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PARTE II
Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
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–V–
La visione paolina della risurrezione dei morti ha subito uno sviluppo? «Non è forse significativo che da te sia partita l’idea – e la parola – di “sviluppo” quale chiave della storia della dottrina ecclesiale, e che sin da quel momento sia divenuta l’idea dominante di tutta la storia, la biologia, la fisica, e che in poco tempo si sia trasformata la nostra visione di tutte le scienze e di ogni conoscenza?». Così scriveva Mark Pattison a John Henry Newman nel 18781, trentatré anni dopo la pubblicazione del “Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana” di Newman2. Raramente una singola idea ha trasformato così rapidamente e profondamente l’intera visione di una cultura. Questo implica, in realtà, che Newman abbia avuto dei predecessori e degli alleati così come anche dei successori a lui più o meno affini. Tra i predecessori c’era G.W.F. Hegel, la cui triade “tesi, antitesi e sintesi” si era inserita prepotentemente nella storia e nell’esegesi bibliche, soprattutto attraverso l’opera di Ferdinand Christian Baur3. A partire dalla fine del secolo, lo “sviluppo” si era posto all’interno degli studi biblici come una risorsa euristica indispensabile. Parimenti, dalla fine del secolo Richard Kabisch e Johannes Weiss avevano scoperto l’“escatologia” come la forma migliore della consapevolezza, delle aspirazioni e delle riflessioni del cristianesimo primitivo4. Albert Schweitzer avrebbe presto tematizzato la questione dell’escatologia con tale incisività da
1
Vedi O. CHADWICK, From Bossuet to Newman. The Idea of Doctrinal Development (Cambridge: Cambridge University Press, 1957) x. 2 J.H. NEWMAN, An Essay on the Development of Christian Doctrine (Garden City: Doubleday, 1960). Quest’opera apparve dapprima nel 1845; una edizione rivista apparve poi nel 1878. 3 Ciò non vuol dire che Baur fu soprattutto e nient’altro che un hegeliano, né che l’hegelismo di Baur fu puro Hegel. Ciò vuol dire che il modello dell’evoluzionismo hegeliano ebbe un impatto sugli studi del cristianesimo primitivo e che ciò avvenne grazie a Baur più che a qualunque altro biblista del XIX secolo (come D.F. Strauss, B. Bauer ed altri). 4 R. KABISCH, Die Eschatologie des Paulus in ihren Zusammenhängen mit dem Gesamtbegriff des Paulinismus (Göttingen: Vandenhoeck & Ruprecht, 1893); J. WEISS, Jesus’ Proclamation of the Kingdom of God (Philadelphia: Fortress, 1971) [originale tedesco del 1892; versione rivista ed ampliata del 1900].
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
renderla fondamentale per l’esegesi del Nuovo Testamento, per la storia delle religioni (in ambito giudeo-cristiano) e per la teologia del Nuovo Testamento. Inoltre, queste due forme di pensiero – “sviluppo” ed “escatologia” – inevitabilmente si intrecciarono. Fu Kabish il primo a servirsi dello sviluppo per supportare l’escatologia intesa come principio di controllo, e Schweitzer offrì il primo vero apprezzamento di questo tentativo come anche la critica più puntuale dei suoi difetti5. Divenne subito chiaro che l’escatologia – pervasiva nei testi, ma a lungo nei secoli trascurata dai loro lettori – e lo sviluppo – soffocato nei testi, ma chiaro nella consapevolezza degli studiosi del sec. XIX successivi a Bauer – costituivano delle scoperte non solo importanti, ma anche inquinanti. Proprio perché la coscienza escatologica era stata un’esperienza vitale nel primissimo cristianesimo ma tagliava fuori l’esperienza della modernità, e proprio perché la coscienza dello sviluppo era stata un progresso sbalorditivo sin dalla metà del sec. XIX ma era del tutto estraneo al complesso della tarda antichà, la combinazione dei due generò le ipotesi più disinibite e le ricostruzioni più spinte e confuse sul pensiero cristiano primitivo. A questo punto propongo, anzitutto, di richiamare le linee principali della discussione sullo sviluppo in un ambito specifico dell’escatologia paolina, e cioè il tema della futura risurrezione dai morti. In secondo luogo, propongo che ci si chieda se i testi paolini (1Ts 4; 1Cor 15; 2Cor 5; Fil 1) supportino i minimalisti o i massimalisti nel dibattito circa la visione che Paolo aveva dello “sviluppo”. I massimalisti sostengono che egli abbia proceduto da un’affermazione della risurrezione relativamente grezza e convenzionale ad una concezione più raffinata della sopravvivenza, e l’hanno caratterizzata spesso come una transizione dalle categorie giudaiche alle categorie greche. I minimalisti mettono in dubbio o negano un cambiamento nelle categorie, ma di frequente hanno riconosciuto l’apparizione di elementi dottrinali nuovi, sia pur minori, nei testi più tardivi, o al limite alcune variazioni nella propensione personale di Paolo verso la prospettiva della morte e della risurrezione. In terzo luogo, propongo di riflettere sul contesto nel quale questo dibattito trova un significato al di là di una curiosità da antiquariato, o semplicemente storica. Pertanto, la prima parte riguarda la storia, la seconda l’esegesi, la terza l’ermeneutica.
5
A. SCHWEITZER, Paul and His Interpreters. A Critical History (London: Black, 1912) 58-63 [originale tedesco del 1911].
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V. La visione paolina della risurrezione dei morti ha subito uno sviluppo?
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I È stato Baur ad avviare questo tipo di ricerca ed è stato Otto Pfleiderer che, ancor prima che si comprendesse che l’escatologia non era semplicemente un aspetto ma l’orizzonte stesso della coscienza cristiana primitiva, ha delineato la prima influente ipotesi sullo sviluppo nel pensiero escatologico di Paolo6. Il modello della visione di Pfleiderer su Paolo si affiancava bene alla trama dominante della teologia della liberazione. Supportato come molti teologi liberali prima da Baur e poi dallo studio di Hermann Lüdemann sull’antropologia paolina, Pfleiderer ravvisò “rami” distinti, giudaico ed ellenistico, nel “sistema dottrinale” paolino7. Paolo, inoltre, avrebbe compiuto un salto dall’uno all’altro. Se il primo ramo emerse dalla morte espiatrice di Cristo e formò “la parte negativa del vangelo paolino in opposizione agli Ebrei o ai GiudeoCristiani”, il secondo ramo emerse dalla vita del Cristo risorto nel radiante elemento dello pneuma, ben oltre “la passeggera ed impura sarx”8. La “vita” qui era escatologica, ma “l’idea escatologica trascendente divenne per necessità un’idea etica immanente”, dal momento che la partecipazione futura del cristiano alla “vita della risurrezione” dipendeva dal suo essere morto con Cristo nel battesimo e dunque dal suo avere già preso parte alla “vita dello pneuma” di Cristo. Il battesimo, di conseguenza, segnava il momento dell’ingresso «nella comunione mistica con Cristo e della recezione del suo pneuma»9. Il grande sviluppo in Paolo avvenne, dunque, lontano dalla sfera dell’escatologia in quella della mistica. La zôê messianica fu così “sganciata dal suo carattere unilaterale, sovranaturale, apocalittico” e divenne etica e spirituale. Questa transizione seguì “una delle leggi più profonde nella storia della religione”: i misteri reconditi sono nascosti e protetti nel calice dell’immaginario apocalittico «sinché non sono in grado di emergerne da soli...»10. Basti questo schizzo a delineare il tenore e lo stile del pensiero di Pfleiderer sul pensiero di Paolo. Sebbene nel dettaglio differisca da Baur
6
O. PFLEIDERER, Paulinism. A Contribution to the History of Primitive Christian Theology, 2 voll. (London: Williams and Norgate, 1877) [originale tedesco, 1873]. 7 H LÜDEMANN, Die Anthropologie des Apostels Paulus und ihre Stellung innerhalb seiner Heilslehre (Kiel: Universitätsbuchhandlung, 1872); O. PFLEIDERER, Paulinism, 1, 18. 8 Ibid., 1,18. 9 Ibid., 1,19. 10 Ibid., 1,20.
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
e Lüdemann, Pfleiderer era il riflesso delle idee di entrambi e in particolare rifletteva la tendenza a ridurre una fede complessa in una storia delle idee abbastaza semplice – un difetto abituale del movimento liberale11. Lo schizzo serve anche a fornire un po’ la misura del contesto del recupero dell’escatologia paolina da parte di Pfleiderer. Lo “sviluppo”, nell’ottica di Pfleiderer, non escludeva le incoerenze e le antinomie irrisolte: piuttosto, dipendeva da queste. Lungo tutto “l’insegnamento dogmatico dell’Apostolo” si rivelava una dualità, che rifletteva la traiettoria della carriera stessa di Paolo: «da fariseo e zelante sostenitore della legge», egli era diventato «uno strumento prescelto del vangelo della grazia di Dio in Cristo»12. Alle due fasi, divise da questa svolta, appartenevano le due categorie del pensiero paolino: “i residui del giudaismo” e “il vangelo cristiano”. Inseriti sotto la voce “residui giudaici” c’erano: l’idea del giudizio finale, che distingue per sempre il salvato e il dannato sulla base di ciò che gli è “giustamente dovuto”; la parusia, quale momento decisivo della risurrezione e redenzione del corpo; il regno messianico, che ha inizio con la parusia e la risurrezione di quanti sono in Cristo e che ha termine con la riduzione all’impotenza dell’ultimo nemico, la morte (= la risurrezione di tutti) e con l’instaurazione del regno del Padre (1Cor 15,24-26). Inseriti specificamente sotto la voce “vangelo cristiano” c’erano: la salvezza per sola charis di Dio, l’inabitazione dello pneuma, la formazione nel credente dell’immagine della morte e risurrezione di Cristo e, per quanti sono in Cristo, l’unione immediata con il Signore, con un corpo celeste, subito dopo la morte (2Cor 5,1-10; Fil 1,23). Pfleiderer si astenne da ogni sforzo di conciliare questi due blocchi di idee quasi “incompatibili”; dal momento che – pensava – lo si potrebbe fare solo ricorrendo a “criteri arbitrari”13. Pfleiderer era convinto della evidente impossibilità di trovare significative analogie greche per (per non parlare dell’attestazione greca di) ogni parte o aspetto del vangelo specificamente cristiano, fosse esso il puro dono della giustificazione per fede, o lo pneuma di Dio/Cristo che inabita, energizza, modella, o l’ingresso nell’immortalità con un rag-
11 Vedi F. SCHNABEL, Deutsche Geschichte im neunzehnten Jahrundert. 4. Die religiöse Kräfte (Freiburg: Herder, 1936, 31955). 12 O. PFLEIDERER, Paulinism, 1, 276. 13 Ibid., 1, 259; vedi anche 260-271.
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V. La visione paolina della risurrezione dei morti ha subito uno sviluppo?
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giante corpo di doxa preparato in cielo. Nel 1887, quattordici anni dopo la sua opera in due volumi sul paolinismo, egli tornò sul tema dell’escatologia ellenizzata di Paolo in Primitive Christianity14. Qui lo sviluppo di Paolo, lontano dal pensiero ebraico e rivolto al platonismo alessandrino, era attestato da 2Cor 5,1-10 ed integrato da Fil 1,21ss e 3,8ss. Paolo, in sintesi, attinse a fonti ellenistiche per spiritualizzare la speranza cristiana di salvezza e per offrire, nel frattempo, un’azzeccata via di uscita al dilemma della parusia ritardata. Come Albert Schweitzer notò a proposito di questa visione solida e comprensiva, Pfleiderer ritiene anche di poter mostrare il corso dello sviluppo a partire dal quale la nuova concezione era arrivata sin là. In 1 Tessalonicesi – egli pensa – l’Apostolo è ancora fermo senza problematizzazioni a quella nozione di risurrezione corporea che il cristianesimo primitivo condivideva con il Giudaismo. Ma nelle spiegazioni di 1Cor 15 l’influenza delle idee greche è divenuta visibile, mentre in 2 Corinzi e in Filippesi è divenuta dominante15.
Il Paolo di Pfleiderer – che andava avanti e indietro tra la risurrezione giudaica e l’immortalità greca, senza essere consapevole delle divergenze tra i due sistemi di idee, ma senza nemmeno mai mischiarli – fu smascherato come una illusione esegetica dalla sintesi più avanzata (sia pure certamente fallibile) di Richard Kabisch16. In opposizione a Kabisch, Ernst Teichmann scrisse nel 1896 una monografia nella forma di un doppio saggio sulle concezioni paoline di risurrezione e giudizio17. Secondo la ricostruzione di Teichmann, il pensiero di Paolo sulla risurrezione dei morti registrava un movimento dalla spiritualità apocalittica ebraica alla spiritualità sapienziale ellenistica. Come Pfleiderer, Teichmann riteneva che questa evoluzione potesse essere descritta in tre tappe. Nella prima tappa (1Ts 4,13-17) Paolo affermò una risurrezione dai morti nel senso di una risurrezione dei corpi dei credenti, evento questo che avrebbe avuto luogo nella parusia. Nella seconda tappa
14
O. PFLEIDERER, Das Urchristentum, seine Schriften und Lehre in geschichtlichem Zusammenhang (Berlin: Reimer, 1887). 15 A. SCHWEITZER, Paul and His Interpreters, 71. 16 Vedi nota 4, sopra. Per un riassunto vedi A. SCHWEITZER, Paul and His Interpreters, 58-63. 17 E. TEICHMANN, Die paulinische Vorstellungen von Auferstehung und Gericht (Frieburg-Leipzig: Mohr, 1896).
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
(1Cor 15,50ss), quella mediana, egli affermò l’annientamento di tutto ciò che fosse terreno, compreso il corpo terreno, e l’appropriazione di un corpo nuovo, spirituale – che sarebbe, tuttavia, accaduto nella parusia. In una terza ed ultima fase, rappresentata da 2Cor 5,1ss e, ancora meglio, da Fil 1,21ss, la risurrezione è stata abbandonata, ovvero abbandonata del tutto eccetto che per il nome, a favore del dono di un corpo nuovo al momento della morte18. Questo schema di sviluppo attrasse l’attenzione sulla fase intermedia rappresentata da 1Cor 15,50ss. In questo passaggio Paolo avrebbe introdotto la nozione di “trasformazione”. In 1Ts 4 la risurrezione non aveva implicato una trasformazione più di quanto, ad esempio, non lo avesse fatto la storia di Elia trasferito in cielo su un carro di fuoco. Ma ora la trasformazione doveva fare la sua comparsa quale conseguenza dell’antitesi paolina di sarx e pneuma. Inoltre, per Teichmann “trasformazione” significava davvero “totale annientamento”19. La sarx sarebbe stata annientata e l’uomo creato di nuovo. Pertanto, il mantenimento da parte di Paolo dell’idea di risurrezione era incoerente con la vera natura del suo pensiero. All’epoca di 2Cor 5, quell’idea avrebbe dovuto essere abbandonata. Qui infatti il nuovo sôma, che esisteva in cielo sin dalla creazione, è stato “rimpiazzato” dal corpo terreno20. Sul testo di 2Cor 5,1-10 Teichmann fece cinque osservazioni: 1) il corpo terreno, destinato al decadimento, è un ostacolo alla nostra unione con il Signore; 2) ma per ogni singolo credente Dio ha preparato un corpo celeste che egli rivestirà al momento della sua morte; 3) la “nudità” lascia immaginare lo pneuma spogliato del suo corpo terreno e separato da Cristo; 4) questo destino, tuttavia, non riguarderà il credente; 5) il soggetto della vita vecchia e nuova è lo pneuma, che compare di fronte al tribunale di Cristo subito dopo la morte. Di conseguenza abbiamo qui un netto cambiamento rispetto al pensiero orientato alla parusia di 1Cor 15. La risurrezione, come afferma Teichmann, non è diventata “assolutamente non necessaria”21. Inoltre, egli trova “interessante” che, nonostante questo sbalorditivo sviluppo, Paolo mantenga il termine tradizionale (2Cor 1,9; 4,14; Fil 3,11)22.
18
Ibid., 33-62. Ibid., (“Die völlige Vernichtung”) 53. 20 Ibid., 62. 21 Ibid., 65-67. 22 Ibid., 67. 19
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V. La visione paolina della risurrezione dei morti ha subito uno sviluppo?
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L’idea fondamentale di Teichmann derivava da Pfleiderer: lo “Spirito” di Dio conferito nel battesimo era il seme della sopravvivenza personale. Allo stesso tempo, il pensiero escatologico dell’Apostolo era stato ben rappresentato nell’immagine del glorioso ritorno di Cristo in terra; ma, senza mai abbandonare questa immagine ormai vuota, Paolo arrivò infine ad una escatologia rappresentata meglio dall’ascesa del credente al mondo celeste. Invero, Paolo non riuscì mai ad abbandonare la speranza di essere unito a Cristo senza dover morire. Ma questo indicava semplicemente l’inevitabilità dei limiti biografici: il sincretismo giudeo-greco era pane quotidiano dell’Apostolo23. La linea di Pfleiderer-Teichmann ha avuto in Inghilterra un improbabile successo. R.H. Charles, nel suo studio del 1899 sulla “vita futura” in Israele, nel giudaismo e nel cristianesimo24, ritenne che 1Cor 15 sostenesse senza coerenza (a) la continuità corporea tra morti e risorti, e (b) il rinvio della risurrezione alla parusia. Scrivendo 1Cor 15, Paolo “non sembra conscio” della contraddizione, ma all’epoca in cui scrisse 2Cor 5 era «divenuto consapevole delle incongruenze interne della sua visione precedente» e l’aveva abbandonata a favore della risurrezione del giusto immediatamente dopo la morte25. H.A.A. Kennedy osservò nel 190426 che le idee escatologiche di Paolo, sebbene non funzionassero affatto all’interno di un quadro sistematico de novissimis, avevano tra di loro una coerenza ben maggiore di quanto alcuni studiosi recenti non abbiano voluto riconoscere. Ma in un’epoca in cui la nozione di sviluppo è considerata come la chiave di ogni problema, è forse naturale che studiosi possano servirsene per spiegare certi fenomeni delle epistole paoline che sembrano antinomie. Questa visione è stata portata alle sue estreme conseguenze da Sabatier, Pleiderer, Teichmann ed altri27.
23
Ibid., 74. R.H. CHARLES, A Critical History of the Doctrine of the Future Life in Israel, in Judaism, and in Christianity (London: Black, 1899). 25 Ibid., 394ss. 26 H.A.A. KENNEDY, St Paul’s Conceptions of the Last Things (London: Hodder and Stoughton, 1904). 27 Ibid., 24 (i corsivi sono miei). 24
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Kennedy rimase di quest’idea. In primo luogo, offrì una descrizione di 1Cor 15 che era degna di nota per la sua trattazione dei vv. 50ss. Egli formulò qui la domanda alla quale il testo costituiva la risposta, nel modo seguente: una volta che i suoi lettori poterono farsi un’idea dell’esperienza dei loro amici che erano morti, che cosa ne sarebbe stato di loro stessi? I sopravvissuti, i viventi, come sarebbero passati al regno ultimo di Dio?28 La risposta era, «noi saremo tutti trasformati» (v. 51b), cioè «i morti risorgeranno senza corruzione, e noi [i viventi] verremo trasformati» (v. 52c). In secondo luogo, egli tornò a 2Cor 4-5. Nei primi versetti del cap. 5 Kennedy affrontò la questione come aveva fatto per la sopravvivenza nella parusia (stenazomen nei vv. 2 e 4 trova in Rm 8,23 un singolare parallelo). Ma il suo passo indietro, rispetto all’opinione secondo cui tra 1Cor e 2Cor Paolo avesse cambiato idea sulla risurrezione, non gli consentì di riconoscere che Paolo potesse avere inteso ciò che aveva detto in rapporto al morire e all’“abitare con il Signore” (vv. 6-9). Kennedy non andò oltre un risultato negativo: per Paolo, la morte non poteva portare il credente alla separazione dal suo Signore29. Il desiderio di Paolo (vv. 28) era rivolto, come in precedenza, «all’immortalità del sôma pneumatikon» nella parusia30. Di conseguenza, Kennedy riferì i due stati contrari tra loro in 2Cor 5,6-9 – “abitare nel corpo ed essere staccati dal Signore”/“essere staccati dal corpo e abitare con il Signore” – alla vita nel corpo naturale o carnale e alla vita nel corpo spirituale alla parusia. Ora, non c’è obiezione sul senso del primo elemento di questo binomio: ma, mentre lì sembra non esserci alcun chiaro sostegno in favore della lettura che Kennedy fa del secondo elemento (“essere staccati dal corpo e abitare con il Signore” = parusia), il parallelo di Fil 1,23 depone esplicitamente contro. Rispettando quest’ultimo testo, Kennedy citava l’interpretazione di Paul Wernle, senza renderla peraltro più convincente: «Il desiderio (di Paolo) passa attraverso la morte e la risurrezione, e ha come suo obbiettivo il congiungimento con Gesù»31. Lo studio di Albert Schweitzer Paul and His Interpreters (1911 e 1912) descriveva la visione di Paolo a partire specialmente da F.C. Baur sino all’epoca dello stesso Schweitzer. Sulla questione dello sviluppo egli
28
Ibid., 261. Ibid., 269. 30 Ibid., 270. 31 Ibid., 272. 29
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notava che Auguste Sabatier era stato il primo a differenziare le fasi all’interno dello sviluppo di Paolo32; che Pfleiderer, ispirato forse dallo studio di Lüdemann sull’uso di sarx in Paolo, aveva puntato sull’escatologia paolina quale sfera privilegiata dello sviluppo33; che quanto Teichmann aveva aggiunto a Pfleiderer era solamente un estremismo troppo pretenzioso. Nemmeno uno dei “risultati” [di Teichmann] può essere provato a partire dalle lettere dell’Apostolo. ...Egli asserisce, ad esempio, che in Tessalonicesi coloro che risorgono dai morti entrano nel regno di Dio con i loro corpi terreni. Ma in base all’Apocalittica giudaica e all’insegnamento di Gesù è evidente che la risurrezione includeva al suo interno una trasformazione di questa corporeità creaturale in una corporeità glorificata34.
Molti fattori si sono combinati perché la critica puntuale e devastante di Schweitzer non sferrasse il coup de grâce alla linea di PfeidererTeichmann. In primo luogo, Schweitzer non riuscì ad affiancare alla sua critica un plausibile recupero positivo dell’escatologia paolina35. In secondo luogo, la fregola moderna di trasformare le variazioni in “sviluppi” si mescolava con il rifiuto moderno dell’escatologia apocalittica. Mentre gli studiosi cedevano ad entrambi gli impulsi, Paolo divenne sempre più dinamico e razionale. Nella descrizione della “mente di Paolo” operata da C.H. Dodd il dinamismo e la razionalità erano attestati da una sfaccettata evoluzione di attitudini36. Il Paolo maturo – il Paolo che era maturato tra 1Cor e 2Cor – «si è riconciliato con l’esperienza»37. Ha trovato un nuovo valore nelle istituzioni umane, in particolare nello stato e nei suoi magistrati, e di conseguenza una nuova distanza dall’apocalittica e le sue paru-
32
A. SABATIER, L’Apôtre Paul, esquisse d’une histoire de sa pensée (Paris: Fischbacher, 1870). Vedi O. PFLEIDERER, Paulinism, 1, 259, 265ss; A. SCHWEITZER, Paul and His Interpreters, 69-72. 34 A. SCHWEITZER, Paul and His Interpreters, 76. 35 Per la sua attribuzione a Paolo di una escatologia elaboratamente dettagliata, vedi A. SCHWEITZER, The Mysticism of Paul the Apostle (New York: Holt, 1931) spec. 65-68. Le prime righe di questa soluzione appaiono come schema euristico in Paul and His Interpreters, 240245. 36 C.H. DODD, “The Mind of Paul: I” (1933) e “The Mind of Paul: II” (1934), in C.H. DODD, New Testament Studies (Manchester: Manchester University Press, 1953, ristampa 1967) 6782, 83-128. 37 C.H. DODD, “The Mind of Paul: II”, 108. 33
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sie. Nella visione di Dodd, l’apocalittica era «una forma di compensazione fantastica al senso di futilità e di sconfitta»38, il suo marchio distintivo era «una svalutazione radicale dell’attuale ordine del mondo in tutti i suoi aspetti»39. Il Paolo nuovamente maturo ha rotto con tutto questo. Mentre in precedenza aveva pensato ai salvati come ad un piccolo resto40, adesso prevedeva la vittoria di “tutto Israele” e, in realtà, la redenzione di tutta l’umanità41 e di tutta la creazione materiale42. Che cosa produsse il “cambiamento decisivo”43 a motivo del quale a Paolo improvvisamente “stette stretto” il suo “rigido dualismo”?44. Oltre che definirla “seconda conversione”, in cui «scompaiono le tracce di fanatismo e intolleranza»45, Dodd non disse nulla. Ciò lascia ad altri lo spazio di farsi avanti per rispondere. Secondo Wilfred L. Knox la risposta non risiede in una seconda conversione, ma nella strategia missionaria di Paolo di adattamento alla cultura ellenistica46. Knox osservava che «il concetto di una nuova, era che fosse già cominciata e che in breve tempo si sarebbe compiuta con la comparsa del Signore, era abbastanza evidente nella predicazione cristiana»47. Paolo ne trattò in 1Cor 15, ma lo fece con un certo spirito di adattamento al lettore ellenistico. Per esempio, la risurrezione dei morti non riguardava più il corpo materiale, ma quello spirituale48. Questo, 38
Ibid., 126. Ibid., 113. 40 Ibid., 121. 41 Ibid., 123ss. 42 Ibid., 124. 43 Ibid., 125. 44 Ibid., 126. 45 C.H. DODD, “The Mind of Paul: I”, 81. 46 W.L. KNOX, St Paul and the Church of the Gentiles (Cambridge: Cambridge University Press, 1939) 1-26. Da qui in poi, Paul and Gentiles. 47 W.L. KNOX, Paul and Gentiles, 126. L’espressione di Knox “abbastanza evidente” sottovaluta la questione. La forma concreta dell’escatologia realizzata nel Cristianesimo primitivo era il kerygma della risurrezione di Cristo, a cui la supposizione di una “imminente parusia” restò a lungo saldamente legata. C.H. Dodd, nei capitoli 2 e 3 del suo Parables of the Kingdom (London: Nisbet, 1935), presentò una brillante porzione del suo lavoro d’indagine nella spiegazione delle origini di questo schema. Una versione rapidamente corretta dell’ipotesi di Dodd apparve in un saggio recensionale di Joachim Jeremias, “Eine neue Schau der Zukunftsaussagen Jesu”, Theologische Blätter 20 (1941) 216-222. Questa riscoperta dell’escatologia stessa di Gesù e della sua trasformazione nel cristianesimo primitivo era stata presagita da W. WEIFFENBACH, Der Wiederkunfsgedanke Jesu nach den Synoptikern kritisch untersucht und dargestellt (Leipzig: Breitkopf und Härtel, 1873). Per un riassunto del tutto, vedi B.F. MEYER, The Aims of Jesus (London: SCM, 1979) 202-209. 48 W.L. KNOX, Paul and Gentiles, 127. 39
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tuttavia, non era abbastanza per far fronte alle difficoltà dei Corinzi, radicate nella loro accettazione della filosofia ellenistica popolare. Così, in 2Cor 5 Paolo sviluppò un adattamento missionario alle categorie greche, fino alla “completa revisione” della sua escatologia49. Fece del corpo la veste che l’anima «era ansiosa di deporre, il fardello da cui bramava d’essere liberata»50. L’essere attualmente posseduti dallo Spirito (2Cor 5,5) poteva essere equiparato al «divino afflato del credo ellenistico»51. Paolo adottò l’idea secondo cui l’anima non avrebbe semplicemente svestito il corpo, ma ne avrebbe indossato uno nuovo e glorioso. Nell’immaginario derivato da Babilonia ma familiare ai misteri ed invero dappertutto nel sincretismo ellenistico, Paolo convertì l’escatologia «nella condivisa visione ellenistica della vita futura» (2Cor 5,1-5)52. Sebbene avesse sostituito l’immortalità dell’anima con la risurrezione del corpo e la graduale spiritualizzazione dell’anima con la grande assise alla fine dei tempi, non riuscì stranamente ad abbandonare ogni discorso sul giudizio (2Cor 5,10), benché questo avesse «perduto ogni reale significato...»53. W.D. Davies ha offerto un’analisi dettagliata dell’indagine di 2Cor 5 da parte di Knox, ma, benché accettasse la visione raccomandata sin da Pfeiderer che l’escatologia paolina avesse subìto un evidente sviluppo tra 1Cor 15 e 2Cor 5, rifiutò di accettare la risposta di Knox alla domanda sulla natura di tale cambiamento su cosa lo avesse causato54. Davies si concentrò su tre fattori. In primo luogo, il cambiamento consistette nel rivedere la collocazione dell’acquisizione di un corpo celeste dal momento della parusia a quello della morte del singolo credente. In secondo luogo, l’occasione di questo sviluppo dottrinale fu in parte psicologica («egli stesso si era trovato alle porte della morte»55) e in parte pastorale («il problema dei cristiani che erano morti era divenuto pressante»56). In terzo luogo, la condizione della possibilità del cam-
49
Ibid., 128. Ibid., 137. 51 Ibid., 140. 52 Ibid., 136. 53 Ibid., 141. 54 W.D. DAVIES, Paul and Rabbinic Judaism. Some Rabbinic Elements in Pauline Theology (Philadelphia: Fortress, 1948, 41980) 311-320. 55 Ibid., 311. 56 Ibid. 50
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biamento risiedette nella coscienza del cristianesimo primitivo e di Paolo circa l’escatologia realizzata: il «concetto di “era futura” che aveva già fatto capolino»57. In 1Cor 15 la mente di Paolo si era «concentrata sul ‘ôlâm habâ’ come la fine di tutta la storia». In 2Cor 5,1ss, invece, «non è la risurrezione quale caratteristica della ‘Fine’ che lo preoccupa»; la sua mente, piuttosto, si rivolge a ciò che si trova immediatamente al di là della morte58. In breve, 1Cor 15 corrispondeva alla nozione giudaica dell’era futura in quanto riservata alla risurrezione escatologica dei morti che segue l’era messianica; 2Cor 5 corrispondeva alla nozione giudaica di epoca futura in quanto eternamente esistente: «Essa è sempre nei cieli e noi ci svegliamo in essa al momento della morte»59. Nel 1955 Joachim Jeremias accolse e sviluppò un’indicazione rimasta non sviluppata nell’esegesi di 1Cor 15,50 di Adolf Schlatter60. Né i vivi (sarx kai haima) né i morti (hê phthora) potevano ereditare il regno di Dio (cioè l’esistenza propria della salvezza nell’era futura) così come erano; piuttosto, la condizione per l’ingresso nell’era futura, sia per i vivi che per i morti, era la trasformazione operata da Dio che si sarebbe realizzata nella parusia: «Non tutti ci addormenteremo, ma tutti ci trasformeremo»61. Jeremias non solo sostenne questa esegesi contro l’interpretazione che aveva assunto 1Cor 15,50 ad indicare la netta incompatibilità della salvezza terrena e corporea con quella finale; egli inoltre collegò esplicitamente la sua lettura del testo alla ricostruzione del pensiero di Paolo sulla risurrezione dei morti fatta da Teichmann. Se in questa ricostruzione di 1Cor 15,50ss ci fosse stato un legame con la supposta transizione dalle nozioni apocalittiche giudaiche alle nozioni sapienziali greche, Jeremias avrebbe potuto sostenere che con la perdita di questo legame l’intera costruzione sarebbe crollata. Nel suo punto fondamentale l’interpretazione di Jeremias è stata non solo influente, ma decisiva. Alcuni anni fa Joachim Gnilka riferì che la ricostruzione di Teichmann, che poneva l’immortalità in opposizione
57
Ibid., 314. Ibid., 317. 59 Ibid., 316. 60 J. JEREMIAS, “‘Flesh and Blood Cannot Inherit the Kingdom of God’ (1 Cor. XV. 50)”, in Abba. Studien zur neutestamentlichen Theologie und Zeitgeschichte (Göttingen: Vandenhoeck & Ruprecht, 1966) 298-307. 61 Ibid., 298-302. 58
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alla risurrezione, «è rimasta oramai giustamente senza sostenitori»62. Nondimeno, Gerd Luedemann ha recentemente ribadito la visione di Teichmann a tre livelli. In primo luogo, all’epoca in cui Paolo fondò la comunità cristiana di Tessalonica, egli concepiva la salvezza al momento della parusia senza riferimento alla risurrezione dei cristiani defunti. In secondo luogo, proprio quando Paolo integrò la risurrezione dei morti con la salvezza dei vivi al momento della parusia (1Ts 4), egli concepì la risurrezione come una mera rivivificazione dei morti. In terzo luogo, il dualismo paolino (spirito contro carne) si fondava sulla visione di Paolo secondo cui la sfera di “carne e sangue” sarà “distrutta” al momento della parusia63. Da qui sembrerebbe che per qualcuno, al limite, la questione della visione di Paolo della risurrezione dei morti sia stata riportata indietro, cioè laddove si trovava circa cento anni fa. Nel frattempo, i versi di apertura di 2Cor 5,1-10 continuano ad essere una crux interpretum. Mentre Jaques Dupont ha trovato indizi della speranza nella parusia in questi primi versetti, Paul Hoffmann ha avanzato un’opposizione precisa all’esegesi di Rudolf Bultmann: ha cioè interpretato il testo come uno scritto speculare, in base alla supposizione che esso rifletta, per opposizione, l’escatologia degli avversari gnostici64.
62 J. GNILKA, “Contemporary Exegetical Understanding of the Resurrection of the Body”, in P. BENOIT – R. MURPHY, Immortality and Resurrection (New York: Herder & Herder, 1970) 129-141; vedi 131 sulla tesi di Teichmann, secondo cui la speranza di immortalità minò la fede nella risurrezione. 63 Sul primo aspetto di accordo con Teichmann, vedi G. LUEDEMANN, Paul Apostle to the Gentiles: Studies in Chronology (Philadelphia: Fortress, 1984) 212; su tutti e tre gli aspetti di accordo, vedi G. LUEDEMANN, “The Hope of the Early Paul: From the Foundation-Preaching at Thessalonika to 1 Cor 15:51-57”, Perspectives in Religious Studies 7 (1980) 195-201; cfr. 195ss sul primo punto, 197 sul secondo, 200 sul terzo. Ad essere abbastanza diversa dall’opera di Luedemann è la proposta di J. PLEVNIK, “The Taking Up of the Faithful and the Resurrection of the Dead in 1 Thessalonians 4:13-18”, Catholic Biblical Quarterly 46 (1984) 274-283. Plevnik afferma che il momento in cui avviene la trasformazione sia quello presente in 1Ts 4, ma collocato nel “sollevarsi” di quanti sono ancora vivi e dei morti risorti “per incontrare il Signore”. Se Plevnik ha ragione, ne consegue che c’è uno sviluppo tra 1Ts 4 e 1Cor 15: la trasformazione è da collocarsi precisamente nella risurrezione dei morti e nel simultaneo e parallelo cambiamento dei viventi. Questo mi sembra possibile, ma in qualche misura meno probabile della visione che ho proposto: Paolo ha sempre concepito la risurrezione come operante una trasformazione, ma in 1Cor 15 aggiunse il “segreto” secondo cui i viventi pure sarebbero stati trasformati. 64 J. DUPONT, SYN CHRISTOI. L’union avec le Christ selon saint Paul (Lovain: Nauwelaerts; Paris: Desclée, 1952) 135-153; R. BULTMANN, The Second Letter to the Corinthians, E. DINKLER (a cura di) (Minneapolis: Augsburg, 1985); P. HOFFMANN, Die Toten in Christus (Münster: Aschendorff, 1966, 31978).
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Friedrich Lang ha delineato un quadro generale della varietà degli studi recenti su 2Cor 5,1-1065. Se l’assicurazione di Gnilka secondo cui la linea di Teichmann “è rimasta ormai... senza sostenitori” non è più del tutto esatta, quel particolare filone è ancor oggi lettera morta per la stragrande maggioranza. L’influenza della teologia del kerygma, tuttavia, non è del tutto così passée. Sebbene sia notoriamente difficile dire che cosa in ultima istanza potrà provare che nei nostri tempi le cose siano progredite, si è nondimeno tentati di azzardare un commento sul ricco raccolto di opere che trattano di 1Cor 15 a partire dal 1970, e cioè che attribuiscono particolare importanza all’analisi dei paralleli di 1Cor 15 con i testi giudaici sulla risurrezione dei morti. L’indagine di tale materiale parallelo era di interesse chiaramente secondario per Barth, Bultmann, Schniewind, e la loro generazione. Tuttavia, una parte non esigua della letteratura erudita, intenzionata a consolidare o risolvere le questioni confezionate da questi pensatori ed esegeti, è divenuta adesso tutt’altro che obsoleta proprio grazie a questo lavoro analitico. Ne è un esempio la serie di articoli recenti, che richiamano una dissertazione presentata a Strasburgo, che Rodolphe Morissette ha pubblicato nel 197266. L’opinione corrente sui testi importanti fa a meno del consenso. Tuttavia, mi sembra possibile che un contributo per un ordine maggiore possa derivare dall’individuare ed affrontare le questioni esegetiche strategiche che generano opinioni diverse sullo “sviluppo” nell’escatologia di Paolo.
II Per il nostro scopo attuale non è necessario esporre (in realtà, entro i limiti di un singolo saggio non ci sarebbe alcun motivo per farlo)
65
F. LANG, 2 Korinther 5, 1-10 in der neueren Forschung (Tübingen: Mohr, 1973). R. MORISSETTE, “L’expression SOMA en 1 Cor 15 et dans la littérature paulinienne”, Revue des sciences philosophiques et théologiques 56 (1972) 223-239; “La condition de ressuscité, 1 Corinthiens 15:35-49. Structure littéraire de la péricope”, Biblica 53 (1972) 208-228; “L’antithèse entre le ‘psychique’ et le ‘pneumatique’ en 1 Corinthiens, XV, 44 à 46”, Revue des sciences religieuses 46 (1972) 97-143; “Un midrash sur la mort (I Cor., XV, 54c à 75)”, Revue biblique 79 (1972) 161-188. Forse l’utilizzo più interessante di paralleli con il giudaismo antico lo si trova nell’articolo pubblicato da Biblica. Un risultato è l’improbabilità che gli oppositori di Paolo a Corinto sostenessero la risurrezione come già avvenuta. 66
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un’esegesi estremamente accurata dei testi paolini. Lascerò che le forme principali dell’ipotesi dello sviluppo definiscano i punti cruciali e limiterò i miei sforzi interpretativi a questi ultimi. L’ipotesi può essere esposta in tre proposizioni fondamentali. 1. In 1Ts 4 Paolo ha affermato la salvezza, al momento della parusia, non solo dei vivi, ma anche dei morti. Lì egli ha concepito la salvezza in termini giudaici basilari: i morti ritornano nelle condizioni della loro vita; mentre i vivi “saranno portati insieme con loro in cielo sulle nuvole per incontrare il Signore” (Pfleiderer, Teichmann, Jeremias, G. Luedemann, ed altri). Domanda cruciale: Paolo pensa forse che i morti ritornino con la risurrezione alle condizioni della vita presente? 2. In 1Cor 15 Paolo ha affermato la salvezza al momento della parusia sia dei vivi che dei morti, ma a quell’epoca era giunto alla convinzione che sarx kai haima basileian theou klêronomêsai ou dynatai oude hê phthora tên aphtharsian klêronomei (v. 50)
ciò significa che l’affermazione di Paolo sulla “risurrezione” – che supponeva una certa continuità tra “carne e sangue/ciò che perisce” da un lato e “regno di Dio/ciò che non perisce” dall’altro – era incoerente con il suo pensiero soteriologico più profondo (Pfleiderer, Teichmann, Charles, Dodd, W.L. Knox, ed altri). Domande cruciali: a) 1Cor 15,50 esclude la partecipazione corporea alla salvezza finale? b) a cosa si riferisce il mystêrion (segreto) di 1Cor 15,51? 3. In 2Cor 5,2-4 Paolo ha ridotto questa incoerenza, affermando che un corpo celeste precostituito avrebbe rivestito il credente immediatamente dopo la morte. Questa fu una adozione di categorie greche (Pfleiderer, Teichmann, Knox, ed altri) o un dispiegamento di categorie giudaiche (W.D. Davies). Infine, in Fil 1,21-23 ha sostenuto questa revisione, stabilendo un certo primato del tema greco dell’immortalità (Pfleiderer, Teichmann, Knox, ed altri). Domanda cruciale: a) 2Cor 5,24 si riferisce alla parusia o all’acquisizione di un corpo risorto immediatamente dopo la morte? b) 2Cor 5,6-9 riguarda la parusia o uno stato intermedio dopo la morte? c) che luce getta Fil 1,23 sulla questione? Il saggio di Jeremias del 1955 fece tutt’altro che mettere fine all’idea che “carne e sangue” (intesi come principio corporeo in sé) non avessero parte alla salvezza. Dopo il 1955 quella particolare lettura del testo di
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1Cor 15,50 fu sostanzialmente abbandonata, ed oggi in pochi sono pronti a seguire Teichmann nel sopprimere il senso immediato di “cambiamento” (“saremo trasformati”) per lasciare invece che significhi annientamento e nuova creazione67. Messo da parte 1Cor 15,50, l’ipotesi pienamente sbocciata dello “sviluppo” – un’ampia traiettoria in cui erano visibili il punto di partenza (1Ts 4), il culmine (1Cor 15) e l’approdo in una nuova escatologia (2Cor 5) – collassò del tutto. Tuttavia, alcuni sviluppi minori potrebbero essere mantenuti. Jeremias stesso mantenne l’idea del passo in avanti compiuto a partire da 1Ts 4 sino al Paolo maturo della corrispondenza successiva. In 1Ts 4, secondo Jeremias, mancava qualcosa: l’idea della trasformazione. In questo punto particolare egli era d’accordo con Teichmann e, insieme con Teichmann, ragionava in base al... silenzio68. Ma la nozione secondo cui la trasformazione da una corporeità terrena ad una celeste non sia affatto supposta dal tema della risurrezione in 1Ts 4 è gravida di conseguenze improbabili. In primo luogo, ciò non si concilia con la testimonianza dei testi dell’Antico Testamento e della letteratura giudaica non-canonica. Dn 12,2ss è un passaggio chiave, dal momento che attualizza il destino del Servo di Is 52-53 quale risurrezione del giusto (v. 3) e che assimila il giusto risorto agli angeli (cfr. l’equivalenza di “stelle” e angeli in Dn 8,10). Vedi anche Is 26,19; 1QH 11,1014; Salmi di Salomone 3,16; 2Baruch 49-51; 61-63. La trasformazione appartiene alla risurrezione anche quando, come in 2Baruch 50,1-3, evidenti considerazioni apologetiche spingevano verso una breve dissocia-
67 G. LUEDEMANN – come abbiamo già notato (vedi la nota 63, sopra) – si colloca tra le eccezioni. 68 J. JEREMIAS, “Flesh and Blood”, 307. Questo faux pas fu occasionato – mi sembra chiaro – dalla impropria specificazione di Jeremias del referente del “segreto” in 1Cor 15,51ss. Dopo aver delineato una precisa distinzione tra “risurrezione” e “trasformazione”, Jeremias mise in relazione il “segreto” con la collocazione temporale di quest’ultima. Ma – come vedremo – non vi è alcuna prova che Paolo stesso abbia mai distinto tra la risurrezione e la trasformazione che era un aspetto e parte integrante della risurrezione. Se in 1Cor 15,35-49 aveva già tematizzato la risurrezione precisamente come trasformativa, Paolo deve aver riferito il “segreto” del v. 51 non (come sostiene Jeremias) all’idea che il cambiamento dei viventi dei morti avrebbe avuto luogo immediatamente al momento della parusia (piuttosto che dopo il giudizio, come in 2 Baruch 51), ma semplicemente alla trasformazione dei viventi al momento della parusia (come controparte della risurrezione trasformativa dei morti). G. BORNKAMM, “mysterion, myeo”, Theological Dictionary of the New Testament 4, 802-828, in 823: il segreto in questione è “ciò che Paolo dice ai Corinti a proposito del cambiamento che riguarderà i cristiani ancora vivi al momento della parusia”. Questo ritengo che sia esatto.
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zione temporanea dei due. In secondo luogo, questa visione non sarebbe coerente con l’indissolubile legame tra trasformazione e risurrezione nella tradizione delle parole di Gesù (Mc 12,24ss e i passi paralleli di Mt 22,29ss e Lc 20,34-36) ed anche nei racconti della risurrezione (per esempio, Lc 24,31.36-53; Gv 20,19-23; Mc 16,12). In terzo luogo, è difficile credere che Paolo o qualunque altro cristiano degli inizi potesse concepire la risurrezione dei morti senza alcun rapporto con la risurrezione di Cristo, la quale, alla luce di tutte le testimonianze disponibili, fu essa stessa concepita sempre in termini di unicità assoluta rispetto al lo stato passato e come prototipica per il futuro (cfr. le formule pre-paoline che mettevano insieme la risurrezione di Gesù con l’esaltazione del Servo di Isaia, come 1Cor 15,3-5; Rm 4,25; 8,34; e le formule paoline e pseudo-paoline, come 1Cor 15,20.45; Rm 8,29ss; At 26,23). Tutto il materiale sulla risurrezione di Gesù, presto o tardi, fece supporre abbastanza certamente una corporeità trasformata da cui, ad esempio, la prospettiva della morte era definitivamente bandita. In breve, niente favorisce espressamente la visione secondo cui in 1Ts 4 la risurrezione significasse meramente la ricostituzione del corpo terreno, mentre diverse considerazioni depongono decisamente contro di essa. Torniamo, dunque, a 1Cor 15, il punto fondamentale dell’ipotesi dello sviluppo. La prima parte del testo è strutturata come segue: vv. 111: fondazione kerygmatica; vv. 12-34 risposta all’affermazione anastasis nekrôn ouk estin (“non esiste risurrezione dei morti”). La domanda su come il resto del testo sia strutturato trova risposte diverse. Johannes Weiss ha proposto che i vv. 35-37 siano rubricati in relazione alla domanda pôs (“come?”)69. Jeremias ha modificato questa ipotesi attribuendo una figura chiastica al testo70. Egli ha prima distinto due domande nel versetto 35: pôs egeirontai hoi nekroi (“Come risorgono i morti?”) concerne l’evento della risurrezione; poiô de sômati erchontai (“Con che corpo vengono [dalla tomba]?”) concerne la nuova corporeità dei risorti. Nella lettura di Jeremias, alle domande si dava risposta in ordine inverso. I vv. 36-49 offrivano una risposta alla domanda “che tipo di corpo?” e i vv. 50-57 rispondevano alla domanda “come?”.
69 70
J. WEISS, Der erste Korintherbrief (Göttingen: Vandenhoeck & Ruprecht, 1910) 345, 353, 380. “Flesh and Blood”, 304ss.
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
Questa visione ingannevole avrebbe potuto imporsi tranquillamente, se nei vv. 50-57 avessimo trovato un qualche particolare, per quanto piccolo, che la verificasse, mostrando che il testo era stato consapevolmente concepito in relazione al pôs (“come?”) del v. 35. Ma nel testo non figura alcun particolare che la verifichi. Inoltre il pôs del v. 35 riguarda esplicitamente “i morti”, mentre il passaggio iniziale del v. 50 riguarda i vivi e i morti; in realtà, mette in evidenza i vivi (“non tutti ci addormenteremo, ma saremo trasformati”). Inoltre, la frase del v. 50 – touto de phêmi, adelphoi, (“questo vi dico, fratelli”) – sembra inaugurare un nuovo argomento, sia pur collegato (cfr. 1Cor 7,29). Sembra probabile, dunque, che nel v. 35 le parole poiô de sômati (“con che tipo di corpo?”) non pongano una questione distinta dal pôs, ma specifichino semplicemente la spinta intesa dal pôs. (Questo, infatti, è il modo in cui è considerato dalla maggioranza degli interpreti). Con il v. 49 si conclude la risposta di Paolo al pôs e al poiô de sômati. Ma questo genera una nuova domanda: come sono collegati i vv. 50-57 a quanto li precede? Andando alla ricerca di una risposta, potremmo chiederci a cosa si riferisca il mystêrion (“segreto”) del v. 51. Il testo fornisce una risposta immediata: non ci addormenteremo, ma saremo trasformati. Abbastanza chiaro: ma che cosa in queste parole sino a questo punto è ancora segreto, cioè che cosa Paolo non ha trattato in precedenza? Procederò per eliminazione. In primo luogo, non era certo un segreto tra i cristiani contemporanei di Paolo (dal momento che non era un segreto nell’insegnamento escatologico sia di Paolo che di altri maestri del cristianesimo primitivo71) che non tutti sarebbero morti. Sebbene alcuni fossero già morti ed altri, compreso Paolo stesso, potessero ancora morire, nondimeno i credenti cristiani (e Paolo sperava di essere tra costoro) sarebbero rimasti in vita per vedere la parusia. Il segreto, di conseguenza, non consisteva nella futura preservazione dei cristiani dalla morte, né in una differenziazione delle due classi, vivi e morti, al momento della parusia72. 71
Solitamente si ritiene che in Mt, Mc e Lc vi sia una tesi secondo cui il Figlio dell’uomo verrà per radunare i suoi prima che siano sterminati nella prova escatologica. Due esempi tra i tanti: «Ma quando vi perseguiteranno in una città, fuggite in un’altra; in verità vi dico: non avrete finito di percorrere le città d’Israele, prima che venga il Figlio dell’uomo» (Mt 10,23); «Vi sono alcuni qui presenti, che non morranno prima che il Figlio dell’uomo sia venuto» (Mt 16,28 e i passi paralleli di Mc 9,1 e Lc 9,27). 72 Andrebbe ricordato che, scrivendo ai Tessalonicesi, l’idea di Paolo non era che quelli ancora viventi non sarebbero morti (che era un dato scontato), ma che i morti non avrebbero mancato di unirsi a loro nella salvezza al momento della parusia.
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Dunque, il segreto consisteva nel fatto della trasformazione dei risorti dai morti? Difficilmente. In precedenza, Paolo aveva già detto: speretai speretai speretai speretai
en phtora, / egeiratai en aphtharsia; en atimia, / egeiretai en doxê; en astheneia, / egeiretai en dynamei; sôma psychikon, / egeiretai sôma pneumatikon.
La semina ha luogo nella corruzione, la risurrezione nell’immunità dalla corruzione; la semina nella umiliazione, la risurrezione nella gloria; la semina nella debolezza, la risurrezione nella forza; si semina un corpo naturale, risorge un corpo spirituale (1Cor 15,42b-44a).
Il segreto, quindi, consisteva forse nel fatto che (diversamente da 2Baruch 50,1-3) la trasformazione dei risorti rinnovati avesse luogo in contemporanea con la loro risurrezione, cioè al momento della parusia? Probabilmente no. Per Paolo la risurrezione era sempre una risurrezione che trasforma (vv. 42-49) ed egli l’aveva già attribuita a quel momento nel v. 23 (en tê parousia autou, “al suo ritorno”). Il segreto, allora, deve essere questo: sebbene quanti ancora sono in vita al momento della parusia non muoiano, anche loro – come quelli che sono risorti dai morti – sarebbero trasformati in quello stesso momento. Il significato del brano nel suo insieme si chiarisce alla luce di questa scelta interpretativa. I vivi non passerebbero affatto attraverso la morte, ma, come i morti e allo stesso momento dei morti, sarebbero “trasformati”. La vittoria di Cristo sull’ultimo nemico, la morte, avrà come effetto la trasformazione di tutti. Né sarx kai haima né hê phthora potrebbero entrare nella vita senza essere trasformati. Dovremmo qui sottolineare che Archibald Robertson e Alfred Plummer73, Adolf Schlatter74 e Joachim Jeremias75 avevano totalmente ragione quando osservavano che hê phthora nella seconda parte del disti-
73 A. ROBERTSON – A. PLUMMER, A Critical and Exegetical Commentary on the First Epistle of St. Paul to the Corinthians (Edinburgh: Clark, 21914) 375ss. 74 A. SCHLATTER, Paulus der Bote Jesu. Eine Deutung seiner Briefe an die Korinther (Stuttgart: Calwer, 1934) 441ss. 75 “Flesh and Blood”, 299-301.
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co del v. 50 non è sinonimo di sarx kai haima; infatti, contrariamente alla RSV e alla NEB, hê phthora non significa “ciò che perisce”76; significa “corruzione” (NAB) e “decadimento” (Goodspeed). Nel contesto, questo deve essere un abstractum pro concreto riguardante “i morti”. Il distico, dunque, fa un’affermazione: né i vivi né i morti possono entrare nel regno di Dio così come sono. Ma con l’annuncio trionfale “saremo trasformati”, il “segreto” che segue il distico affronta e risolve questa affermazione. I vivi così come i morti saranno trasformati. Di conseguenza, i vv. 53ss celebrano l’ingresso nel regno di Dio rispettivamente dei morti (to phtharton, questo essere corruttibile) e dei vivi (to thnêton, questo essere mortale). L’intero passaggio (vv. 50-57) fu occasionato (come H.A.A. Kennedy aveva detto già nel 190477) da una risposta implicita e dalla domanda finale dei destinatari: “Ora possiamo farci un’idea della risurrezione dei nostri amici defunti, ma che ne sarà di noi? Come entrano nella vita quelli che vivranno sino a vedere la parusia?”. Proprio come Paolo aveva insistito (in 1Cor 15,35-49) che i morti non sarebbero ritornati dalla tomba in corpi terreni, così pensava adesso (1Cor 15,50-57) che nemmeno coloro che sarebbero stati vivi al momento della parusia sarebbero rimasti nei loro corpo terreni. “Saremo trasformati”. Pertanto la dualità di vivi e morti al momento della parusia esige la conclusione trionfale di 1Cor 15, proprio come aveva richiesto il testo di 1Ts 4. In realtà, questa dualità è anche la chiave di 2Cor 5. A proposito di questo passaggio, W.D. Davies ha affermato che «non c’è niente nel testo che indichi la speranza da parte di Paolo di una sopravvivenza al momento della parusia»78. Nondimeno, ci sono nel testo due classi di indici specifici di quella precisa speranza. La prima è una classe di indici linguistici, che collega 2Cor 5,2-5 con due passaggi sulla salvezza finale al momento della parusia: Rm 8,18-27 e 1Cor 15,50-55. a) Il motivo dello stenazein (“sospirare” o “gemere”) di 2Cor 5,2-4 trova un parallelo nel sospirare o gemere di Rm 8,22ss, che
76
In Paolo, il senso di “phthora” come “decadimento/corruzione” è solitamente abbastanza chiaro; quando si richiede un senso che si avvicina a “peribilità”, lo si esprime combinando phthora con qualche altro termine; vedi, per esempio, in Rm 8,21, “la schiavitù della corruzione” (hê douleia tês phthoras). 77 Last Things, 259. 78 Paul and Rabbinic Judaism, 311.
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conduce alla “redenzione dei nostri corpi” al momento della parusia. b) Il motivo dello pneuma-arrabôn (la promessa dello Spirito) di 2Cor 5,5 trova un parallelo nel passaggio dello pneuma-arrabôn di Rm 8,23 (cfr. Rm 8,26ss). Nel passaggio di Rm, la presenza dello Spirito quale anticipazione o prima presenza interiore guarda avanti verso la redenzione corporea finale e il completamento della figliolanza al momento della parusia: 2Cor 5,5 è strutturalmente simile. c) I motivi combinati di thnêton endysasthai e katapothenai in 2Cor 5,4 trovano un parallelo nel passaggio sulla parusia di 1Cor 15,53ss.: questo essere corruttibile [i morti] deve essere rivestito (endysasthai) di immunità dalla corruzione e questo essere mortale (thnêton: i viventi) deve essere rivestito (endysasthai) di immortalità e quando questo essere corruttibile rivestirà l’immunità dalla corruzione e questo essere mortale rivestirà l’immortalità, allora si verificherà la parola della Scrittura: “La morte è stata ingoiata (katepothê) nella vittoria...”.
Non c’è proprio nulla nel testo che suggerisca la speranza di Paolo di essere tra i sopravvissuti al momento della parusia? In 2Cor 5,4abc Paolo esprime il rifiuto di essere strappato (dal suo corpo terreno) e il desiderio di poter “indossare (il suo corpo celeste) sul” (ependysasthai) suo corpo terreno. Questo “indossare su” evoca il segreto di 1Cor 15,51: non tutti moriremo, ma tutti – i vivi come i morti – saremo trasformati al momento della parusia. La trasformazione dei vivi, cioè, non comporterà una sottrazione del corpo. In 2Cor 5,4d, inoltre, Paolo prosegue con frasi che ricordano inevitabilmente 1Cor 15,53ss: «sicché questo essere mortale [to thnêton: l’espressione è applicata, in 1Cor 15,53ss, alla categoria di quanti ancora saranno vivi al momento della parusia] verrà ingoiato (katepothê) dalla vita». La seconda classe di indici della speranza di sopravvivenza al momento della parusia in 2Cor 5,2-5 non è tanto linguistica, quanto concettuale. Le idee chiave sono antitetiche: l’essere “rivestito” (=assumendo un corpo) contro l’essere “nudo” (=dismettendo un corpo), stati questi che corrispondono rispettivamente ai vivi e ai morti; al momento della parusia, quelli ancora vivi “indosseranno” un rivestimento corporeo celeste “sul” loro rivestimento corporeo terreno. Questo è stato sostanzialmente sostenuto da J.N. Sevenster in un saggio del 1953 che, sebbene a volte inappropriato ed infelice, costituì una significativa con-
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quista esegetica79. Sevenster non solo stabilì il probabile significato di gymnos (nudo=privo del corpo), ma si spinse fino a tracciare la via in cui il testo, supponendo tre stati (questa vita, lo stato dei defunti privi di corpo e l’evento finale della risurrezione/trasformazione al momento della parusia), esprimeva due paragoni. In 2Cor 5,1-4 la prospettiva del terzo stato è ben più desiderabile della prospettiva del secondo; in 2Cor 5,6-9 il secondo stato, in quanto significa “essere con il Signore”, è semplicemente superiore al primo. Il secondo stato, quando viene posto in contrasto con il terzo, è tutt’altro che desiderabile (vv. 2-4); ma, se paragonato al primo, è oggettivamente e soggettivamente preferibile (vv. 6-9). Aggiungerei due osservazioni a queste di Sevenster. In primo luogo, l’oggetto del motivo dello stenazein (e del baroumenos) è duplice: il rifiuto della nudità e il desiderio della parusia. Ma il secondo di questi oggetti non deve essere trascurato, dal momento che potrebbe essere il più importante dei due (cfr. Rm 8,22ss). In secondo luogo, i tre stati sono successivi, ma non in modo universalmente stabilito, poiché i vivi al momento della parusia mancheranno del secondo stato. Dal punto di vista personale di Paolo la possibilità migliore di tutte sarebbe, di conseguenza, una parusia immediata (2Cor 5,1-4), che procura uno stato che supera tutti gli altri. A fronte di questo, il testo di Fil 1,23 semplicemente conferma che Paolo nutriva l’idea di uno stato intermedio tra la vita presente e la parusia, subentrato per via della morte e ben caratterizzato come l’essere “con il Signore”. Quanti negano che Paolo nutrisse un’idea simile generalmente si trovano costretti a scoprire qui il motivo della parusia. Ma in questo testo, in realtà, non c’è un’indicazione chiara che ci si stia riferendo alla parusia80. Mi sia consentito riassumere i nostri risultati riprendendo e rispondendo alle “domande cruciali”. Riguardo a 1Ts 4, Paolo intese la risurrezione come il ritorno dei morti alle condizioni della vita presente? No. Niente nel testo o nel contesto conforta questa lettura, mentre numerose considerazioni depongono contro e la escludono.
79
J.N. SEVENSTER, “Some Remarks on the GYMNOS in II Cor V 3”, in J.N. SEVENSTER – W.C. VAN UNNIK (a cura di), Studia Paulina in honorem Johannis de Zwaan septuagenarii (Haarlem: Bohn, 1953) 202-214. 80 Così la trattazione di J. DUPONT, SYN CHRISTOI. L’union avec le Christ selon saint Paul (Lovain: Nauwelaerts; Paris: Desclée, 1952) 171-184.
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Riguardo a 1Cor 15,50-57, il v. 50 esclude la nozione di partecipazione corporea alla salvezza finale? No. La questione non è “corpo contro spirito”, ma “corpo nel tempo presente – sia esso la carne e il sangue dei vivi o il corpo dei morti che ha subìto la corruzione – contro corpo trasfigurato e immortale nel regno di Dio”. In secondo luogo, a cosa si riferisce il mystêrion (“segreto”) dei vv. 51ss? Si riferisce al destino dei vivi al momento della parusia: anch’essi, come i risorti dai morti, saranno trasformati al momento della parusia. Riguardo a 2Cor 5, i vv. 2-4 si riferiscono alla parusia o all’acquisizione di un corpo risorto immediatamente dopo la morte? Indici linguistici e concettuali indicano la parusia. I vv. 6-9 riguardano la parusia o uno stato intermedio dopo la morte? Depongono per uno stato intermedio, proprio come fa Fil 1,23ss. Risultato finale: c’è una mancanza totale di prove convincenti che l’insegnamento di Paolo sulla risurrezione dei morti abbia subìto uno sviluppo significativo sia tra 1Ts 4 e 1Cor 15, che tra 1Cor 15 e 2Cor 5. L’allusione allo “stato intermedio” ricorre al limite in 2Cor 5 e Fil 1, apparentemente senza comportare alcun cambiamento nell’idea di Paolo della risurrezione dei morti e della trasformazione dei vivi nella parusia.
III Chiunque tratti le pregnanti espressioni incontrate nella storia della cultura esclusivamente dal “punto di vista storico” è proprio in quella misura incapace di una interpretazione genuina. Josef Pieper81
In precedenza ho esposto una rapida panoramica del dibattito che ha coinvolto generazioni, tra massimalisti e minimalisti, concernente il fatto che la visione paolina della risurrezione dei morti abbia subito o meno uno sviluppo significativo. Ho concluso che la posizione dei minimalisti è ben più forte di quella dei loro avversari, da Pfleiderer ai nostri giorni. Ma qual è il significato del dibattito in sé e della conseguente so-
81 J. PIEPER, Was heisst Interpretation? Rheinisch-Westfälische Akademie der Wissenschaften, Vorträge G 234 (Opladen: Westdeutscher Verlag, 1979) 21.
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luzione sommariamente delineata – lo ammetto – che ho appena esposto? Il dibattito ha un significato ermeneutico e può forse servire per ricavarne una lezione ermeneutica. L’ermeneutica è rilevante per la comprensione dei testi. Un modello basilare di tale comprensione è la struttura triangolare di lettore-testoreferente82. Il lettore comprende il testo comprendendo ciò a cui si riferisce, e comprende ciò a cui il testo si riferisce comprendendo il testo. Se nella forma questo circolo è vizioso, nei fatti viene spezzato da atti di intellezione che, alternandosi tra testo e referente, procede a spirale verso una comprensione sempre più chiara e salda di entrambi. Hans-Georg Gadamer richiamava l’affermazione di Lutero su questo argomento: «Chi non capisce le cose non può ricavare il senso dalle parole» (qui non intelligit res non potest ex verbis sensum elicere)83. Ci sono altre formulazioni positive di ciò che essenzialmente è lo stesso principio: (a) una “pre-comprensione” del testo avviene attraverso un accesso indipendente al suo referente (die Sache: non “il dato del soggetto”, ma il referente nella sua rilevante realtà integrale), e (b) un’apprezzabile comprensione del testo suppone una “relazione vitale” con il referente e di conseguenza con il testo84. Ne deriva che non c’è niente di così insoddisfacente dell’oggettivismo positivistico, con il suo “principio della testa vuota”85, in base al quale meno l’interprete ha in mente e più probabilmente riuscirà ad evitare di “leggere nel testo” le sue opinioni e i suoi pregiudizi. Per comprendere una lezione sui colori, non serve essere liberi da pregiudizi essendo nati ciechi. Al contrario, il cieco trova oscura la discussione sui colori proprio perché manca di un accesso indipendente al referente, cioè al colore.
82
Vedi E. CORETH, Grundfragen der Hermeneutik. Ein philosophischer Beitrag (Freiburg: Herder, 1969) 64ss, 11ss, 123-127. 83 Vedi H.-G. GADAMER, Truth and Method (New York: Seabury, 1975) 151. 84 Negli studi biblici, l’uso diffuso del termine “precomprensione” è da attribuire all’influenza di R. BULTMANN, “The Problem of Hermeneutics” [1950], in Essays Philosophical and Theological (London: SCM, 1958) 234-261, pagina 239. Nel senso di Die Sache, cfr. E. CORETH, Grundfragen der Hermeneutik. Ein philosophischer Beitrag (Freiburg: Herder, 1969) le pagine indicate nella nota 82; sulla “relazione vitale” vedi R. BULTMANN, “The Problem of Hermeneutics”, 241-243, 252ss, 255ss. 85 Vedi l’analisi di B. LONERGAN, Method in Theology (London: Darton, Longmann & Todd, 1972) 157.
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Può essere dunque opportuno da parte nostra sostare sul referente o die Sache. Nel caso presente di cosa si tratta? Della risurrezione dei morti, un evento concepito come appartenente ad un tempo futuro, quando il Cristo risorto e glorificato annienterà l’ultimo nemico, la morte. Quale può essere il nostro accesso ad un simile evento non ancora esistente? Non è empirico nello stesso senso in cui lo è il nostro accesso agli eventi quotidiani. Né è ben esemplificato dall’accesso alla storia, sebbene anche la storia si curi di eventi non esistenti nel nostro specifico presente. L’accesso alla storia avviene attraverso un’attività ricostruttiva dell’intelligenza che lavora su dati a noi variamente mediati: ma non possiamo costruire il futuro così come ricostruiamo il passato. Tuttavia, il passato non è qui irrilevante, poiché nei testi sulla risurrezione dei morti l’evento passato della risurrezione di Gesù si basa su un futuro escatologico: Ora la verità è che Dio ha fatto risorgere Cristo dai morti, primizia di coloro che si sono addormentati; poiché, proprio come attraverso un uomo venne la morte, così più sicuramente attraverso un uomo verrà la risurrezione dei morti; ...proprio come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di polvere, così più sicuramente porteremo anche l’immagine dell’uomo celeste (1Cor 15,20ss.49).
Qual è qui il percorso del significato, ovvero quello degli elementi correlati promessa e speranza? Alla luce dell’elezione e della missione storica di Gesù, la promessa si fonde con la sua vittoria sulla morte: di conseguenza, egli è il fondamento della speranza. Così, i testi sono espressione di speranza, permeati di speranza, una speranza intelligente che insiste su pretese coerenti con la verità (1Cor 15,12-34). Ora, gli antichi osservavano che l’interpretazione appartiene alle arti che non comunicano sapienza, poiché l’oggetto dell’interpretazione non è ciò che è vero, ma solo ciò che è detto86. Formalmente, questo è
86
Epinomio 975c (dialogo platonico di dubbia autenticità).
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senz’altro corretto, ma è una verità ambigua e si può trasformare in una trappola. Infatti, se l’interprete che lotta con la verità del testo può facilmente trovarsi a trarne esattamente ciò che egli pensa essere vero, l’interprete che si sottrae alla battaglia sulla verità può altrettanto facilmente, e forse anche più fatalmente, banalizzare il testo, perdendo il dramma delle sue profondità. Questo è il punto dell’epigrafe suddetta, presa da Josef Pieper. L’evasione più totale di tutte – sembra dire Pieper – è l’assunzione di un “punto di vista dell’osservatore” chiuso ed impermeabile, da cui si può spendere tutto il proprio sforzo interpretativo segnalando con impegno “influenze” e “derivazioni”, “sviluppi” nello scrittore e sue tracce nella recezione futura (Wirkungsgeschichte)87. A mio parere, risiede qui la lezione ermeneutica degli ultimi cento anni proveniente da un’interpretazione del pensiero di Paolo sulla risurrezione dei morti così superficiale da lasciare sconcertati. Trattando i testi paolini, Teichmann, Dodd e Knox (ad esempio) hanno seguito la via del metodo critico. Ciascuno ha delineato una traiettoria di tipo differente, ma dietro tutte e tre le ipotesi c’è un comune disprezzo per l’apocalittica in quanto intrinsecamente perversa ed illusoria. Nessuno dei tre si è spinto oltre questa barriera verso die Sache che ciascuno si è auto-imposta. Il risultato è stato per tutti la perdita casuale dello scenario che Paolo presentò quale messaggio centrale della speranza cristiana. L’errore comune sulla scia che ebbe inizio con Pfleiderer non risiedeva semplicemente nell’assunzione del “punto di vista dell’osservatore” e di una concezione esclusivamente storica del compito dell’interprete, né risiedeva semplicemente nell’appello fin troppo superficiale alla categoria di “sviluppo”. I semi principali dell’errore erano stati disseminati nell’estraneamento dalle particolarità del testo e, soprattutto, dal referente stesso (die Sache). Questo estraneamento controllato – vizio cronico di un’ampia frangia di biblisti a partire da Spinoza – ha trasformato il punto di vista dell’osservatore in un punto di vista alienato e il compito storico in una costruzione di percorsi chimerici, dalle fantasie giudai-
87 J. PIEPER, Was heisst Interpretation?, 21ss. Pieper si riferisce alla brillante evocazione del tema da parte di C.S. Lewis in The Screwtape Letters. Vedi The Screwtape Letters and Screwtape Proposes a Toast (Londo: Bles, 241966) 121: «Il punto di vista storico, per dirla in breve, significa che quando in un autore antico un uomo dotto viene presentato con una qualche affermazione, l’unica domanda che non si pone è se sia vero».
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che sovrannaturali alla ragionevole sapienza ellenistica (Teichmann), dal dualismo rigido e fanatico alla maturità dell’esperienza (Dodd), dagli sforzi goffi a quelli ben riusciti di adattamento al pensiero dei Gentili (Knox). Mentre die Sache scompariva dalla vista, lo “sviluppo” dominava l’interpretazione. Procedendo in una direzione diametralmente opposta, mi sia permesso di concludere con alcune considerazioni positive sul recupero della Sache. Peter Stuhlmacher ha puntualizzato che, in quanto tema pre-cristiano, la risurrezione dei morti era ben più saldamente radicata nella vita dell’Israele post-esilico e post-biblico di quanto non si sia generalmente riconosciuto88. Con il vangelo cristiano, tuttavia, era sorta nel mondo una speranza nuova ed unica. Risiede nel cuore del movimento cristiano, indissolubilmente legato al Cristo risorto, un aspetto fondamentale dell’evento Cristo. «Ogni evento storico – scrisse Heinrich Schlier in uno dei suoi ultimi saggi – preme verso il suo testo e ha un suo testo. Altrimenti, non è un “evento” nel senso pieno del termine. Il testo completo dell’evento che noi stiamo considerando – la risurrezione di Gesù – è il Nuovo Testamento»89. Se il testo che corrisponde alla risurrezione di Gesù è il Nuovo Testamento, questo testo ha alcuni passaggi culminanti, nei quali la speranza fondata sul Cristo risorto trova un’espressione forte ed eloquente. Tra di essi vi è il capitolo 15 della prima lettera di Paolo ai Corinzi. Sebbene alcune generazioni passate abbiano mostrato un forte interesse nel recupero dell’escatologia cristiana, questo testo particolare si è ripetutamente dimostrato tra i più vessati e opachi, per via di quelle ragioni soggettive che ho appena evocato90. Per altro verso, a partire dalla Seconda Guerra Mondiale l’Occidente è stato testimone della fioritura di una letteratura ricca sia pur estremamente diversificata – psicologica, fenomenologica, filosofica e teologica – sulla speranza umana: il suo ruolo nella strutturazione della personalità, nel segnare la transizione dall’acquisizione dell’“avere” alla comunione dell’“essere”, il suo riferimen-
88
P. STUHLMACHER, “Das Bekenntnis zur Auferstehung Jesu von den Toten und die biblische Theologie”, Zeitschrift für Theologie und Kirche 70 (1973) 365-403; vedi 383-389. 89 H. SCHLIER, Über die Auferstehung Jesu Christi (Einsiedeln: Johannesverlag, 1968, 41975) 6. 90 Per avere una prova del notevole disagio che questo capitolo ha causato a Rudolf Bultmann, vedi le citazioni in J.M. ROBINSON, “Hermeneutic Since Barth”, in J.M. ROBINSON – J.C. COBB jr., The New Hermeneutic (New York: Harper & Row, 1964) 1-77, spec. 31-33.
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
to al compimento personale, la sua irriducibilità alla dimensione di questo mondo, il suo riferimento ultimo al trascendente91. Questa letteratura è una risorsa per trovare l’accesso alla Sache, il referente dei grandi passaggi sulla speranza del Nuovo Testamento, che includono in prima linea quelli sulla risurrezione dei morti. Tra le acquisizioni che colpiscono, emergenti dalle ricerche contemporanee sulla speranza, c’è la distinzione linguistica tra “sperare di”, “sperare che” e semplicemente “sperare”92. Paolo, ad esempio, dice ai Corinzi: «Spero di trascorrere del tempo con voi, se il Signore lo permette» (1Cor 16,7). Qui c’è la speranza che appartiene all’ampia categoria delle speranze umane (espoirs); non si tratta di una speranza semplice e assoluta (espérance), come nelle parole «se abbiamo sperato in Cristo solo per questa vita, siamo la gente più misera di tutte» (1Cor 15,19). In una delle sue indagini più penetranti sulla speranza, Pieper alluse agli studi fenomenologici di Herbert Plügge, un fisico clinico che aveva osservato tra i suoi pazienti come queste due classi di speranza – la speranza quotidiana e la speranza fondamentale – stavano tra loro in una relazione paradossale. La speranza fondamentale – non diretta verso niente che si potesse “avere”, ma rivolta verso l’“essere” e “se stessi”, verso la “salvezza della persona” – emergeva nel preciso momento in cui le speranze quotidiane venivano meno. «Dalla perdita della speranza comune, quotidiana, viene fuori la vera speranza»93. Nella visione di Pieper, il test emblematico era la situazione del martire, per il quale è finito l’ultimo filo di speranza umana: «Difficilmente possiamo parlare di speranza, se non esiste nessuno per il martire»94. In realtà, questo è esattamente il livello al quale Paolo lanciava le sue appassionate esposizioni ed espressioni di speranza. Egli trattava della speranza fondamentale, quella che ha a che fare con l’essere, con la salvez-
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Alcune opere rappresentative, nelle quali questi temi sono arrivati ad esprimersi: J. PIEPER, One Hope (San Francisco: Ignatius, 1986) [originale tedesco del 1953]; G. MARCEL, Homo Viator. Introduction to a Metaphysics of Hope (Chicago: Regnery, 1951); E. BLOCH, Das Prinzip Hoffnung (Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1959, revisione del 1970); H. PLÜGGE, Wohlbefinden und Missbefinden. Beiträge zu einer medizinischen Anthropologie (Tübingen: Niemeyer, 1962); R.O. JOHANN, “The Meaning of Hope”, The Theologian 8 (1952) 21-30; P. TEILHARD DE CHARDIN, The Future of Man (London: Collins [Fontana], 1959); J. MOLTMANN, The Theology of Hope. On the Ground and Implications of a Christian Eschatology (London: SCM, 1967). 92 Vedi, per esempio, J. PIEPER, Hope and History (New York: Herder & Herder, 1969) 21-25. 93 Vedi la descrizione in J. PIEPER, Hope and History, 24-26; l’ultima citazione è di pagina 26. 94 Ibid., 32.
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V. La visione paolina della risurrezione dei morti ha subito uno sviluppo?
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za della persona. Ciò che Paolo aggiunse al misterioso fenomeno umano di questa speranza è stato il riferimento al vangelo, cioè alla notizia dell’azione di Dio a vantaggio di ogni essere umano nella morte e risurrezione di Gesù, reso Cristo e Signore. Questo ha fornito una base unica alla “speranza fondamentale” e, aggiungendovi certe dimensioni attraverso il riferimento alla specifica risurrezione di Gesù, ha dato a questa speranza la forma profonda e permanente che ha nelle lettere paoline. In precedenza, mi ero domandato perché il riconoscimento della Sache (che possiamo ora caratterizzare, in modo succinto, come la speranza fondamentale trasformata dal vangelo) sia stato così saltuario e vago nella tradizione che ebbe il suo inizio con le gratuite congetture di Otto Pfleiderer. Ho risposto in primo luogo che difficilmente qualcosa mina l’interpretazione più pesantemente della stretta limitazione della posizione dell’osservatore esterno. Nell’istanza che abbiamo considerato, questo invitava ad un ricorso fin troppo facile alla categoria euristica di “sviluppo”. Ho aggiunto che un fattore più profondo ed incisivo è stato l’alienazione nei confronti di alcuni aspetti del testo e del suo referente. Infine, sottolineerei che la speranza fondamentale di 1Ts 4, 1Cor 15 e 2Cor 5 è fra quelle “cose di Dio” che per Paolo nessuno comprende se non grazie allo Spirito di Dio (1Cor 2,11; cfr. Mc 4,11 e i passi paralleli di Mt 13,11 e Lc 8,10; Mt 16,17; 11,25-27 e il passo parallelo di Lc 10,21-22; Gv 6,44; 15,5; ecc.). Questa è più che una verità lampante ripetutamente verificata dall’esperienza. È un vero e proprio realismo ermeneutico, fondato sulla relazione richiesta tra colui che conosce e la cosa conosciuta95.
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In questo contesto, “proporzione” significa anzitutto un ampio isomorfismo tra le strutture della conoscenza e le strutture dell’essere: vedi B. LONERGAN, Insight. A Study of Human Understanding (New York: Longmans, 1958) 115, 499-502; in secondo luogo, una correlazione alquanto stretta tra conoscere ed essere, che evoca i temi connessi di orizzonti, conversioni, connaturalità: vedi B. LONERGAN, Method in Theology 235-293. Come la rottura con il mito cognitivo (o, in altre parole, la conversione intellettuale) è il requisito per una adeguata descrizione della cognitività, così «la conoscenza morale è il possesso proprio soltanto dell’uomo moralmente buono» (Method, 240) e la conoscenza vera delle “cose di Dio” suppone una conversione religiosa. Come ha affermato Pieper in Was heisst Interpretation?, 29: So wenig ein amusischer Mensch ein Gedicht zu verstehen und zu interpretieren vermag, so wenig kann es einen ungläubigen Theologen geben – wofern man... unter Theologie den Versuch versteht, Offenbarung gültig zu interpretieren».
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– VI –
Oggettività e soggettività nella critica storica dei vangeli Per tutto lo scorso decennio non sono mancate pubblicazioni riguardanti i criteri per giudicare la storicità delle tradizioni evangeliche1. Questo non vuol dire che si sia cominciato ad intravedere un solido consenso. La situazione attuale è caratterizzata piuttosto da confusione e disaccordo. La confusione è stata l’eredità della battaglia oscura, oramai esauritasi, tra biblisti e scettici metodici. Il disaccordo si basa in parte su quali criteri siano i più cogenti e quali i più regolarmente appropriati2, e in parte se alcuni dei criteri siano di fatto all’altezza del compito per il quale sono stati concepiti3. Lo scopo del presente studio è, in primo luogo, di offrire un quadro delle basi su cui i giudizi sulla storicità e non-storicità sono propriamen1 Una selezione della discussione a partire dal 1971: C.F.D. MOULE, “The Techniques of New Testament Research. A Critical Survey”, in D.G. MILLER – D.Y. HADIDIAN (a cura di), Jesus and Man’s Hope II (Pittsburgh: Pittsburgh Theological Seminary, 1971) 29-45; D.G.A. CALVERT, “An Examination of the Criteria for Distinguishing the Authentic Words of Jesus”, New Testament Studies 18 (1971-1972) 209-218. R.S. BARBOUR, Traditio-Historical Criticism of the Gospels (London: SPCK, 1972); D. LÜHRMANN, “Die Frage nach Kriterien für ursprüngliche Jesusworte – eine Problemskizze”, in J. DUPONT (a cura di), Jésus aux origines de la christologie (Gembloux: Duculot, 1975) 59-72; R.H. STEIN, “The ‘Criteria’ for Authenticity”, in R.T. FRANCE – D. WENHAM (a cura di), Gospel Perspectives. Studies of History and Tradition in the Four Gospels (Sheffield: JSOT Press, 1980) 225-263; H. SCHÜRMANN, “Kritische Jesuserkenntnis. Zur kritischen Handhabung des ‘Unähnlichkeit-kriteriums’”, Bibel und Liturgie 54 (1981) 17-26; E.E. ELLIS, “Gospels Criticism. A Perspective on the State of the Art”, in P. STUHLMACHER, Das Evangelium und die Evangelien. Vorträge vom Tuubinger Symposium 1982 (Tübingen: Mohr, 1983) 27-54. 2 Esposto come “il più cogente” e a volte proposto come “l’unico cogente” è il criterio di dissimilarità, formulato tra le righe tracciate da Ernst Käsemann. L’“unico caso” – secondo Käsemann – in cui abbiamo “qualcosa di saldamente fondato sotto i nostri piedi” è quando una tradizione, per una qualsiasi ragione, non può essere attribuita né al giudaismo né al cristianesimo: vedi “Das Problem des historischen Jesus” (1954), in Exegetische Versuche und Besinnungen I (Göttingen, Vandehoeck & Ruprecht, 1969), 187-214, pagina 205. Che altri criteri siano “più propriamente adatti”, tuttavia, è stato proposto in varie occasioni: cfr., ad esempio, il “recupero dell’ambiente storico” (M. TRAUTMANN, Zeichenhafte Handlungen Jesu [Würtzburg: Ecther Verlag, 1980] 115ss) o anche l’“attestazione multipla” (H.K. MACARTHUR, “Basic Issues. A Survey of Recent Gospel Research”, Interpretation 18 [1964] 39-55, cfr. 47). 3 Vedi soprattutto gli articoli di M.D. Hooker citati sotto (nota 19).
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
te formulati; in secondo luogo, di considerare un’obiezione, cioè che, alla luce della soggettività con cui gli indici vengono applicati alla storicità, sembra derivarne che essi siano inefficaci; in terzo luogo, di offrire una risposta a questa obiezione, che prenda in considerazione la soggettività quale componente e condizione dell’oggettività.
I Nel complesso, l’utilizzo dei criteri per stabilire la storicità delle parole di Gesù si è limitato a passare sotto silenzio alcune questioni: quanto esattamente i criteri si adattano al processo globale di conduzione di un’investigazione storica; se i criteri abbiano un oggetto limitato o si suppone che siano rilevanti per ogni atto di giudizio storico; come i criteri di storicità si pongono di fronte alla distinzione tra tradizioni letterarie antiche e tardive. Pur avendo sin ora utilizzato più volte il termine “criteri”, d’ora in avanti lo abbandonerò in favore del più modesto “indici”. Nessuno dei cosiddetti criteri di storicità è norma in senso stretto o standard invariabilmente rilevante e richiesto per inferire la storicità. Che Gesù avesse dei discepoli, che egli affermasse l’autorità delle Scritture, che condividesse la vita della sinagoga e del tempio, che intendesse Dio (che egli chiamava Padre) come il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, di Mosè, di Davide e di Isaia, tutto questo è storico, sebbene tutto concordi con il giudaismo di quel tempo. Inoltre, che egli proclamasse il regno di Dio, che spesso insegnasse in parabole, che si rivolgesse a Dio come Abba, che abbia “purificato” il tempio, che abbia sofferto la crocifissione sotto Ponzio Pilato, tutto questo è storico, sebbene tutto concordi con la fede della Chiesa primitiva. Dal momento che questi dati, nonostante il loro accordo con il giudaismo e il cristianesimo, sono per consenso unanime storici, possiamo tranquillamente varcare la soglia linguistica dei “criteri” così come il sofisma dottrinale dello “scetticismo metodico” (i dati devono essere ritenuti non storici sinché non venga provato diversamente attraverso l’accertamento della simultanea discontinuità con il giudaismo ed il cristianesimo primitivo). Questo è falso rigore, che non regge ai fatti. Al contrario, nei casi sopra menzionati la storicità regge – anche se non è universalmente riconosciuto che regga – nonostante la mancanza di discontinuità con la Chiesa post-pasquale o l’assenza di originalità nei confronti del giudaismo.
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VI. Oggettività e soggettività nella critica storica dei vangeli
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L’errore risiedeva nell’intendere erroneamente due distinti indici di storicità come una singola prova del fuoco, fallendo la quale ogni dato deve essere metodicamente marchiato come non storico. In altre parole, la questione di questi due indici è stata oggetto di una forte confusione, anzitutto perché sono stati erroneamente compresi in termini di criteri in senso stretto; in secondo luogo, perché sono stati erroneamente mescolati (da Ernst Käsemann)4 così da formare un singolo criterio; in terzo luogo, perché sono stati erroneamente rappresentati (sotto l’espressione “scetticismo metodico”) come l’unico test efficace di storicità. Naturalmente è vero che la discontinuità con la Chiesa postpasquale di varie tradizioni su Gesù o l’originalità di varie tradizioni rispetto al giudaismo siano preziosi indizi di storicità. In realtà, la discontinuità con la Chiesa post-pasquale, in sé e senza la necessità di una simultanea originalità rispetto al giudaismo, è un indice particolarmente solido per la storicità dei dati. Ma entrambi gli indici funzionano in sensu aiente e non in sensu neganti: la loro presenza parla espressamente in favore della storicità, mentre la loro assenza non parla espressamente contro la storicità. Negando che l’assenza di questi indici parli espressamente contro la storicità, o che giustifichi la collocazione metodica dei dati nella colonna della non-storicità, si termina chiaramente di fondare i giudizi storici su una mera assunzione. Assegnando un ruolo ampio all’assunzione, la scuola dello scetticismo metodico è stata affiancata da quella della credulità metodica. Se il primo gruppo assumeva la non-storicità sinché non fosse provato il contrario, la seconda, dietro il motto in dubio pro tradito, assumeva la storicità a meno che essa non fosse governata da dati ampiamente contraddittori o da dati così contrari e non armonizzabili da infrangersi contro la presunzione dell’unità psicologica di Gesù. Questo bell’atteggiamento verso l’assunzione ha molte radici, e nelle due scuole summenzionate senza dubbio ne ha parecchie: tuttavia, non si dovrebbe trascurare la radice comune, e cioè il rifuggire del critico dal riconoscere che egli non sa. Del tutto umana, questa fuga è comprensibile, ma difficilmente giustificabile. Perché si dovrebbe consentire all’assunzione di sbarazzarsi degli elementi residui, travestendo l’attuale stato di conoscenza del critico? Il biblista naïf, sebbene creda volentieri che i
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Vedi nota 2, sopra.
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
doppioni letterari riflettano regolarmente eventi storici ripetuti, difficilmente può sostenere di conoscere questo fatto: egli semplicemente lo crede. Parimenti, lo scettico metodico non può non essere consapevole che, se autentici materiali contrari alle tendenze della Chiesa furono conservati nella tradizione evangelica, autentici materiali a favore delle tendenze della Chiesa furono a fortiori conservati. Ciò significa che ci sono tradizioni che di fatto sono storiche ma che, non superando la prova del fuoco della discontinuità con la Chiesa primitiva, non possono essere identificate come storiche. E sebbene lo scettico metodico collochi rispettosamente nella colonna della non-storicità tutte le tradizioni in continuità con il cristianesimo primitivo (per esempio, i racconti dell’Ultima Cena), egli sa di non sapere quali di esse sono storiche e quali non lo sono. In breve, egli davvero sa di non sapere se ci fu un’Ultima Cena. Perché allora colloca sistematicamente i racconti dell’Ultima Cena nella colonna della non-storicità, piuttosto che riconoscere che nei termini della sua reale conoscenza la questione storica rimane dubbia? Formalmente, la sua conclusione negativa è una finta conoscenza. Aggiunge qualcosa non alla vera conoscenza, ma alla fanghiglia delle procedure gratuitamente opache o fuorvianti. Nel contesto dell’investigazione storica è necessario distinguere tra dati e conclusioni: i dati appartengono alle premesse, le conclusioni ai risultati di tale investigazione. Entrambi comportano giudizi sulla storicità. Se i giudizi sui dati sono più fondamentali, quelli che formano le conclusioni sono più significativi, poiché il punto dell’impresa storica è la ricostruzione. Le nuove domande, soprattutto se ricevono risposte soddisfacenti, muovono in avanti la ricerca storica. L’allusione alle “nuove domande” implica uno scontro con l’assunzione secondo cui si debba in qualche modo trovare le legittime domande storiche pre-confezionate, se non bell’e pronte, nelle fonti. Gli uomini intelligenti – osservava R.G. Collingwood – non si pongono domande alle quali pensano di non poter rispondere5, ma dato per scontato questo limite sensibile, tutte le domande costituiscono un gioco divertente. Tra i numerosi critici del Nuovo Testamento, tuttavia, sembra permanere una certa fobìa nei confronti di tali “nuove domande”, come una nevrosi, sin dall’era del Positivismo. I teologi del kerygma, ad esem-
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R.G. COLLINGWOOD, The Idea of History (Oxford: Oxford University Press, 1946) 281.
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VI. Oggettività e soggettività nella critica storica dei vangeli
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pio, trasalivano non solo di fronte al significato religioso che i loro predecessori liberali attribuivano alla “personalità” di Gesù, ma anche alla precisa idea di porre domande (cioè riguardo la personalità di Gesù) che andassero oltre la preoccupazione delle fonti. La coerenza, fortunatamente, non ha impedito a questi stessi critici di porre essi stessi nuove domande. La storicità è una delle dimensioni della risposta soddisfacente ad una nuova domanda storica, ma qui il giudizio sulla storicità è immediatamente guidato non da indici di storicità dei dati, ma dall’argomentazione che organizza e illumina i dati fornendo risposte soddisfacenti a domande riguardanti la comprensione dei dati. Inoltre, la rete di relazioni che viene alla luce nel corso di un’investigazione probabilmente modificherà alcuni dei giudizi iniziali del ricercatore, fornendo nuove basi per confermarli o sovvertirli. Così, Svetonio fornì una notizia sull’effetto che Nerone intendeva ottenere con l’evacuazione contemporanea della Britannia da parte dei Romani; Collingwood la respinse, non perché una qualche autorità superiore la contraddicesse, ma perché la sua ricostruzione della politica di Nerone, basata su Tacito, non gli consentiva di ritenere che Svetonio avesse ragione. E se mi è stato detto che questo significa semplicemente dire che preferisco Tacito a Svetonio, confesso che è così; ma lo faccio perché mi ritengo in grado di inserire ciò che mi dice Tacito in un mio quadro coerente e continuo, mentre non riesco a farlo con Svetonio6.
Consideriamo un testimone dalla letteratura del Nuovo Testamento che, diversamente dalla notizia su Svetonio, trova conferma altrove nelle fonti. La formula con “apo” usata da Paolo in 1Cor 11,23 indica l’intenzione di specificare che è Gesù colui che ha dato origine alla tradizione eucaristica7. Se, in aggiunta a questo, si può pensare che si possa conoscere Paolo sulla questione specifica e senza il sospetto dell’inganno, si potrebbe ricavare la storicità. Sebbene questo modello di inferenza sia raro, per via dell’indicazione raramente concreta secondo cui la storicità è compresa specificamente all’interno dell’intenzione del testo, nondimeno esso mostra che i modelli obliqui di inferenza (indici quali di6 7
Ibid., 245. Vedi J. JEREMIAS, The Eucharistic Words of Jesus (London: SCM, 1966) 202ss.
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
scontinuità e originalità, che non fanno alcun appello alla prova dell’intenzione storica) non hanno il monopolio nello stabilire la storicità dei dati. Infine, dovremmo compilare la descrizione degli indici che pertengono ai modelli obliqui di inferenza. Nessuno di questi indici è di per sé decisivo, cioè decisivo per principio e dunque invariabilmente decisivo. La loro utilità, tuttavia, è evidente: o, piuttosto, la loro utilità è evidente allorché si è soddisfatti che la descrizione della tradizione evangelica offerta dai primi critici delle forme sia semplicemente inadeguata e fuorviante. Infatti, si dovrebbe riconoscere che, se le prime comunità cristiane elaborarono la tradizione evangelica prevalentemente con un riferimento alle loro preoccupazioni e prevalentemente senza una preoccupazione per la vera memoria di Gesù, allora la discussione di questi indici è superflua. Sarebbe bene, dunque, soffermarsi almeno brevemente sulla questione prioritaria: la tradizione evangelica ci fornisce dati, e dati abbondanti, su Gesù? Le formule di fede della Chiesa primitiva (formule pre-paoline conservate da Paolo, come 1Cor 11,23-25; 15,3-5, e motivi antichi come quello che ricorre in At 10,34-40) illuminano la struttura della primitiva fede cristiana come una fede che intende come veri gli eventi storici8. Le primitive formule di fede, di conseguenza, forniscono una guida euristica per un giudizio sull’ipotesi che, come penetrato dalla fede della Chiesa primitiva, le tradizioni evangeliche avrebbero fatto a meno della memoria di Gesù, o l’avrebbero modificata liberamente e radicalmente affinché servisse a nuovi scopi comunitari. Dal momento che le primitive formule di fede cristiane orientano verso una direzione del tutto differente, cioè verso una fede che intende gli eventi storici e verso la testimonianza collettiva della comunità di Gerusalemme riunita intorno a “Cefa e... ai Dodici” (1Cor 15,5), dovremmo positivamente aspettarci che le tradizioni evangeliche siano piene della memoria di Gesù. Questa aspettativa dipende da una generica continuità tra due tradizioni liturgiche e catechetiche: le primitive formule di fede e la loro contemporanea controparte narrativa, cioè la tradizione evangelica. Supporre il contrario significa, inoltre, trascurare i dati maggiori: in primo luogo, che i discepoli di Gesù difficilmente potevano aver intrapreso una missione
8
Vedi B.F. MEYER, The Aims of Jesus (London: SCM, 1979) 60-69.
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VI. Oggettività e soggettività nella critica storica dei vangeli
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verso Israele a meno che non potessero plausibilmente sostenere di stare presentando, alla luce delle Scritture, il racconto di Gesù da testimoni oculari9; in secondo luogo, che il riferimento indietro a Gesù – la descrizione della tradizione evangelica implicitamente offerta dalla tradizione evangelica – ci è decisamente raccomandato dall’indole tipica del mondo antico, che include in particolare il mondo del Giudaismo palestinese, orientata verso tradizione10. Sotto questa luce e soltanto sotto questa luce, la discussione sulla molteplice e multiforme attestazione e sugli indici linguistici della storicità può assumere un senso positivo. La molteplice attestazione figura nella discussione in quanto “molteplice” indica “primitivo” e “primitivo” indica “storico”. Si dovrebbe intendere che entrambi i legami stanno all’interno di una generalità statistica, non essendo garantiti in singoli casi; quindi, la molteplice attestazione funziona come un indice efficace soltanto in collegamento con altri indici. Lo stesso avviene per l’attestazione multiforme di una tradizione (per esempio, nel materiale narrativo e nel materiale dei detti, o in quanto parabole o in quanto detti, etc.). Le assunzioni operative, in primo luogo, dicono che un dato della tradizione primitiva avrà trovato attestazione in linee e forme indipendenti della tradizione più probabilmente di quanto non abbia fatto un dato della tradizione tardiva; in secondo luogo, un dato della tradizione primitiva ha una maggiore probabilità di storicità di uno della tradizione tardiva. La cautela è naturalmente d’obbligo: la molteplice attestazione di se stesso non può garantire una data tradizione per quanto primitiva, né è garantito che una tradizione primitiva in quanto tale sia storica. Dal momento che i testimoni più autorevoli della vicenda di Gesù non scomparvero subito dalla scena della storia e dalla vita della Chiesa nascente, sarebbero potute sorgere tradizioni successive, e senza dubbio ne sorsero, per correggere o chiarire tradizioni precedenti in modo storicamente valido. Non possiamo escludere la possibilità che una tradizione successiva possa essere storicamente migliore di una più antica. Infine, niente impedisce che la forma più antica di una tradizione possa apparire in una redazione tardiva, persino nell’ultima.
9 10
Vedi B. GERHADSSON, Memory and Manuscript (Lund: Gleerup, 1961) 330. Ibid., 19-32, 324-335.
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
Alcuni indici linguistici pionieristici nel secolo passato sono stati significativamente definiti nella critica evangelica di Joachim Jeremias e hanno la loro quintessenza nel primo capitolo della sua Teologia del Nuovo Testamento11. Includono “i modi di esprimersi preferiti da Gesù” (uso del passivo divino, parallelismo antitetico, modelli ritmici a due, tre o quattro battute, il metro della qînah, allitterazione, assonanza, paronomasia, uso dell’iperbole e del paradosso) e – di particolare valore come indici di storicità – idiomi esclusivamente personali (forma e contenuto distintivi dell’indovinello e delle parabole, neologismi sul “regno di Dio”, un uso distintivo di ’amen, l’uso di Abba rivolgendosi a Dio). Poiché l’onere della prova ricade – come sosteneva Willi Marxsen alcuni anni fa12 – non sulla storicità né sulla non-storicità, ma su chiunque voglia pronunciarsi in entrambi gli ambiti, ci dovrebbero essere tre colonne per i giudizi sulla storicità (storicità, non-storicità e punto interrogativo), e un trattamento completo degli indici dovrebbe includere gli indici della non-storicità. David Friedrich Strauss ha proposto una prima trattazione di questa problematica. Sebbene i suoi criteri fossero in parte ideologici (per esempio, “l’impossibilità” di disturbare la “catena delle cause seconde”), e sebbene l’ideologia in definitiva dominasse tutto il suo sforzo storico, Strauss avviò le sue osservazioni metodiche dalla “plausibile successione storica” e dalla “credibilità psicologica”13. Era poco interessato, tuttavia, alla ricostruzione della storia positiva: perciò, il tentativo di recuperare gli orizzonti, le prospettive e gli obiettivi di Gesù, e proprio alla luce di questo recupero di sollevare la questione della storicità rispettando le tradizioni evangeliche non in armonia con quelli, rimase al di fuori dell’ambito d’interesse di Strauss. Né egli si preoccupò della storia delle prime comunità cristiane, che gli avrebbe consentito non solo di sospettare (come spesso fece), ma anche di stabilire realmente la correlazione tra preoccupazioni specifiche post-pasquali e particolari tradizioni evangeliche. Gli sforzi contemporanei di fare proprio queste due cose hanno sin ora fornito il modo più sicuro di disporre le tradizioni evangeliche nella colonna della non-storicità senza una dipendenza metodica dall’assun11
J. JEREMIAS, New Testament Theology I. The Proclamation of Jesus (London: SCM, 1971) 1-37. W. MARXEN, The Beginnings of Christology (Philadelphia: Fortress, 1969) 8. 13 D.F. STRAUSS, The Life of Jesus Critically Examined (London: SCM, 1972) 87-91. 12
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VI. Oggettività e soggettività nella critica storica dei vangeli
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zione. Se, per esempio, fosse possibile recuperare lo schema escatologico supposto dalle parole di Gesù e se, in base a questo schema, ci fosse una coincidenza materiale del giorno del Figlio dell’uomo (risurrezione, esaltazione e parusia) con il giudizio finale e il regno di Dio14, allora i testi evangelici, nella misura in cui riflettono l’attesa di un tempo di mezzo tra, diremmo, la glorificazione di Gesù e il giudizio finale (in accordo con l’intera escatologia cristiana post-pasquale), sarebbero nonstorici. Strettamente legata a questo è la distanza tra due concezioni dell’ingresso dei Gentili nella salvezza: attraverso il pellegrinaggio escatologico e attraverso la missione nel mondo15. I testi evangelici, nella misura in cui riflettono l’attesa di una missione nel mondo, sono non-storici. Una ricostruzione positiva delle origini della missione nel mondo conduce di conseguenza allo stesso risultato. Nonostante la molteplice e multiforme attestazione, sia la supposizione della missione nel mondo che il mandato missionario esplicitamente universalistico del Cristo risorto sono non-storici16. Gli indici linguistici di non-storicità sono disponibili per lo studio specialmente nella ricerca sulle parabole e, in particolare, nelle “spiegazioni” di Gesù delle sue parabole17. Se può essere realmente fondata, piuttosto che semplicemente posta, l’ipotesi secondo cui i profeti del cristianesimo primitivo che parlavano in nome del Cristo esaltato hanno fornito alla Chiesa dei detti che vennero successivamente assimilati nella tradizione sinottica, anche questo potrebbe fornire alcuni indici concreti di non-storicità18. Ad ogni modo, la critica evangelica di immediata rilevanza per la ricerca storica farebbe grossi progressi con una notevole riduzione del ruolo della assunzione e una corrispondente insistenza a che il critico offra una seria descrizione di tutti i giudizi sulla storicità, lasciando da parte l’intero argomento per le sue conclusioni storiche, e specificando gli indici a cui si appella per rispettare la storicità e la non-storicità dei dati. 14
Vedi B.F. MEYER, The Aims of Jesus, 202-209. Vedi J. JEREMIAS, Jesus’ Promise to Nations (London: SCM, 1958). 16 Vedi specialmente A. VÖGTLE, “Die ekklesiologische Auftragsworte des Auferstandenen”, in Das Evangelium und die Evangelien. Beiträge zur Evangelienforschung (Düsseldorf: Patmos, 1971) 243-252. 17 Vedi, per esempio, J. JEREMIAS, The Parables of Jesus (London: SCM, 1963) 77-79. 18 Sin ora, tuttavia, il caso non si è dato. Vedi D. HILL, “On the Evidence for the Creative Role of Christian Prophets”, New Testament Studies 20 (1974) 262-274. Vedi anche il verdetto di non constat in D.E. AUNE, Prophecy in Early Christianity and the Ancient Mediterranean World (Grand Rapids: Eerdmans, 1983) 142-145. 15
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
II Il quadro generale delle questioni offerto in precedenza è stato rapido e schematico, ma abbiamo ora tempo per riflettere sulle obiezioni e, alla luce di queste, per riconsiderare se gli indici per la storicità dei dati evangelici siano di fatto all’altezza del compito per il quale sono stati concepiti. In due saggi ampiamente conosciuti, M.D. Hooker ha offerto una serie di osservazioni acute su questo argomento19. Quanto segue è una sintesi del primo saggio. La conoscenza a cui tende l’indagine storica su Gesù è rivolta a ciò che gli è caratteristico, mentre “il metodo storico della tradizione” (discontinuità con il cristianesimo primitivo e originalità rispetto al Giudaismo) presenta solo ciò che è esclusivo di Gesù. Il metodo è efficace, inoltre, soltanto a condizione di una “conoscenza abbastanza sicura in entrambi i campi” (cristianesimo primitivo e giudaismo ad esso contemporaneo), una condizione questa che si realizza in modo abbastanza imperfetto. Dire che non vi è alcun parallelo conosciuto tra giudaismo e cristianesimo per alcun dato della tradizione evangelica è un argomento ex silentio e dovrebbe essere considerato come tale. Inoltre, il metodo detta le sue proprie conclusioni, dando inevitabilmente vita ad una figura (per esempio, un Gesù non messianico) in accordo con l’assunzione della dissomiglianza. L’applicazione del metodo è inevitabilmente soggettiva, specialmente quando si lega alla dissomiglianza un’ulteriore precisazione, quella cioè che un dato, per essere storico, deve non solo differire da giudaismo e cristianesimo, ma deve anche essere “a casa” nella Palestina del sec. I. L’aggiunta del principio di “coerenza” (i dati coerenti con il materiale autentico possono essi stessi essere accettati come autentici) a quello di “dissomiglianza” invita ad un ulteriore esercizio della soggettività: può darsi che i nostri giudizi di coerenza e incoerenza non riescano a riflettere accuratamente la mentalità della Palestina del sec. I, che è ciò che qui conta. Nuovamente, ogni errore nei risultati ottenuti dal principio di “dissomiglianza” è soggetto ad essere ingigantito dal principio di “coerenza”. Infine, quanti praticano questi metodi li applicano in modo
19 M.D. HOOKER, “Christology and Methodology”, New Testament Studies 17 (1970-1971) 480487; “On Using the Wrong Tool”, Theology 75 (1972) 570-581.
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VI. Oggettività e soggettività nella critica storica dei vangeli
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selettivo, cosicché il vero criterio di giudizio è il modo particolare del critico di interpretare i dati in questione. Il dibattito circa “l’onere della prova” è appropriato soltanto per le supposizioni estremiste (per esempio, che i vangeli ci forniscano cronache storiche dirette delle parole di Gesù, o che Gesù stesso non abbia detto nulla di sufficientemente degno di memoria da arrivare sino a noi). Più propriamente, l’onere della prova è di ogni studioso che esprima un giudizio su qualsiasi parte del materiale. La conclusione dell’articolo è un grido contro il “dogmatismo”. È anche un argomento, in primo luogo, a favore della conoscenza di altri principi in aggiunta a quelli di dissomiglianza e coerenza (attestazione molteplice e ciò che in precedenza abbiamo chiamato “indici linguistici”); in secondo luogo, a favore dell’applicazione di criteri in positivo e non in negativo (mentre la presenza di un indice depone a favore della storicità, la sua assenza di per sé non depone contro); in terzo luogo, a favore della valorizzazione della convergenza; in quarto luogo, a favore dell’insistenza su un ragionevole “pedigree” per il materiale evangelico (una descrizione storicamente plausibile della sua origine), sia che venga considerato storico o meno. L’articolo termina con un’affermazione che propone che Gesù stesso abbia usato l’espressione “Figlio dell’uomo” e che mette in dubbio l’assunzione secondo cui Gesù non avrebbe fatto alcuna diretta rivendicazione messianica. Il secondo saggio, sebbene affronti successivamente gli stessi argomenti e fissi gli stessi punti, inizia in modo differente e soprattutto termina in modo differente. Inizia mettendo a fuoco l’incapacità di osservare quanto la critica delle forme sia estremamente limitata come strumento di ricerca sull’origine e l’attendibilità storica dei materiali evangelici; e termina mettendo a fuoco l’incapacità degli studiosi di Nuovo Testamento di “trarre la conclusione logica” dalla “inadeguatezza dei loro strumenti”. Qual è questa conclusione logica? È la seguente: le risposte che il critico del Nuovo Testamento dà alle sue domande storiche su Gesù sono prevalentemente il risultato dei suoi presupposti e pregiudizi personali. Se si accosta al materiale con la credenza che esso sia prevalentemente la creazione delle primitive comunità cristiane, allora lo interpreterà in quel modo. Se assume che le parole del Signore siano state regi-
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
strate e tramandate fedelmente, allora riuscirà a trovare i criteri che lo sostengano20.
Indubbiamente, abbiamo bisogno di ipotesi di lavoro, ma esse “sono solo ipotesi”, e per quanto riguarda i “risultati assicurati”, “non ce ne sono”. Di recente, E.E. Ellis ha accertato che gli indici di storicità non possono produrre “risultati assicurati”, come “ha mostrato la devastante critica di M. Hooker”21. Alcuni anni prima, J.B. Muddiman fece un commento più preciso: «Non è chiaro se la critica del Dr. Hooker sia rivolta al criterio di dissomiglianza in quanto tale, o contro la sua errata applicazione»22. In realtà, questa ambiguità pervade entrambi gli articoli, ed anche se sembra essere risolta dalle conclusioni incomprensibilmente negative del secondo articolo (gli strumenti dello studioso sono “inadeguati” ai suoi obiettivi e non ci sono “risultati assicurati”), non scompare del tutto nemmeno qui, poiché il rifiuto teoretico totale dei “risultati assicurati” non ha affatto condotto lo scrittore ad abbandonare le valutazioni personali («Se la mia valutazione tende ad essere più tradizionale...»23). E c’è, se non ambiguità, almeno una semplice svista come anche una retorica eccessiva nella conclusione finale: infatti, benché sia vero che il giudizio storico del critico sia fissato non per via di un’obbedienza ad un qualche “criterio” ma per via della “sua propria comprensione della situazione” e, soprattutto, benché le conclusioni circa il Gesù storico siano costrette ad essere coerenti con le premesse sull’origine e il carattere della tradizione evangelica, non è ovviamente vero che il fatto che uno abbia “la propria comprensione della situazione” significhi inevitabilmente indulgere al pregiudizio o al pio desiderio né che ogni insieme di premesse sull’origine e sul carattere della tradizione evangelica sia una mera assunzione, dal momento che un insieme di premesse non è né migliore né peggiore di un altro. Le buone osservazioni in entrambi gli articoli restano tali, ma il loro effetto è in qualche misura oscurato dall’aver trascurato le verità basilari appena menzionate.
20
“On Using the Wrong Tool”, 581. E.E. ELLIS, “Gospels Criticism”, 31 (vedi nota 1, sopra). 22 J.B. MUDDIMAN, “Jesus and Fasting. Mark ii. 18-22”, in J. DUPONT (a cura di), Jésus aux origines de la christologie (Gembloux: Duculot, 1975) 271-281, pagina 271. 23 “On Using the Wrong Tool”, 580. 21
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VI. Oggettività e soggettività nella critica storica dei vangeli
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Il risultato, dunque, è ambiguo. Alcune valutazioni critiche sono proposte come preferibili ad altre; d’altro canto, tutte sono considerate alla fine come “altamente speculative” ed ipotetiche. Le opinioni caoticamente divergenti nella comunità di studiosi «non possono tutte essere corrette – sebbene possano tutte essere sbagliate»24. Alla base di una coscienza inquieta, travestita appena da conclusione tetramente negativa, risiede l’onnipresente e non chiarita questione della “soggettività”, uno dei pochi argomenti su cui gli studiosi di Nuovo Testamento si trovano quasi del tutto concordi. Ciascuno mette in guardia dalla soggettività. La difficoltà con il “metodo storico della tradizione” è che «la sua applicazione è necessariamente soggettiva»25, e quando ci volgiamo al principio di coerenza «la soggettività è ben più di un pericolo»26. Dovremmo provare, per via di tentativi, ad individuare il Sitz im Leben più plausibile per ciascun testo, ma «ricordando sempre il pericolo della soggettività»27. Nuovamente, la “soggettività” è il difetto della proposta di Bultmann, secondo cui «l’autentico insegnamento può essere garantito dalla presenza del “distintivo carattere escatologico che caratterizza la predicazione di Gesù”»28. Sebbene Muddiman abbia colto l’ambiguità che attraversa la critica della dissomiglianza, tuttavia raccomanda calorosamente le note di avvertenza frequentemente risuonate contro «il pericolo pratico del soggettivismo»29. La situazione, pertanto, appare questa: per oltre cento anni gli studiosi di Nuovo Testamento, consapevoli del bisogno di giudizi storici obiettivi, hanno escogitato dei “criteri” storici e hanno cercato di produrre giudizi in accordo con quelli. Alcuni critici hanno acutamente osservato quanto sia risultata imperfetta, se non futile, questa vistosa fuga dalla soggettività. Hanno concluso che, almeno in teoria e spesso contro il migliore giudizio testimoniato nella loro pratica, l’impresa critica è minata nelle sue fondamenta dal pregiudizio e dall’incapacità di produrre risultati solidi. Se gli strumenti persino dei critici più rigorosi non sono in grado di eliminare la soggettività, quale altra conclusione può esserci?
24
“On Using the Wrong Tool”, 581. “Christology and Methodology”, 482; “On Using the Wrong Tool”, 576. 26 “Christology and Methodology”, 483; “On Using the Wrong Tool”, 576. 27 “Christology and Methodology”, 487. 28 “On Using the Wrong Tool”, 576. 29 J.B. MUDDIMAN, “Jesus and Fasting”, 271. 25
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
III Un’altra conclusione diventa non solo possibile, ma necessaria nel momento in cui l’oggettività è messa in relazione con le sue condizioni. Tra queste condizioni, è centrale quella di un soggetto capace di autotrascendenza cognitiva: capace, cioè, di andare al di là dell’immagine e del simbolo, della supposizione e della congettura, magari con un gruppo che condivide lo stesso pensiero, sino all’atto di affermare che le cose stanno così. Bisogna pur riconoscere che una volta raggiunta la verità, quest’ultima è intenzionalmente indipendente dal soggetto che l’ha raggiunta: questa è l’autotrascendenza e l’obiettivo della ricerca. Ma la sede ontologica della verità è il soggetto. L’obiettivo non è raggiunto indipendentemente dal processo di indagine, come l’orientamento verso la verità si rivela nella meraviglia, trasforma la meraviglia in domanda e la domanda in risposta alla domanda, sollecita la riflessione sulle risposte, e raggiunge il suo vertice nell’atto di giudicarli come certamente o probabilmente veri o falsi. Tutte queste sono attività del soggetto e non vi è oggettività al di fuori di esse. La verità, infine, matura sull’albero della soggettività, e l’oggettività è il frutto di una soggettività al suo massimo livello di intensità e persistenza. Perché abbiamo sempre pensato che le cose stessero diversamente? Senza dubbio perché l’oggettività è relativa al concreto processo di conoscenza, e per il mondo quotidiano del senso comune questo processo è lungi dall’essere trasparente. Tuttavia, l’intelligenza non è limitata alle prospettive e alle procedure del senso comune. Con un aiuto30 possiamo imparare a cogliere noi stessi nell’atto della conoscenza, e arrivare così a capire che la conoscenza è un’articolazione strutturata che ha una componente empirica (i dati), una componente intellettuale (domandare, interpretare, definire), e una componente razionale (ordinare le prove, riflettere, giudicare). Se il processo del conseguimento della conoscenza è variegato, lo è corrispondentemente anche l’oggettività. La sua componente empirica è la presentazione dei dati; la sua componente intelligente è l’insight, o piuttosto la richiesta espressa da una domanda e la risposta che viene dall’insight; la sua componente razionale è l’ulteriore richiesta di una prova sufficiente che la risposta sia vera, ottenu-
30
B.J.F. LONERGAN, Insight. A Study of Human Understanding (New York: Longmans, 1958); Method in Theology (New York: Herder & Herder, 1972) 3-25, 57-99.
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VI. Oggettività e soggettività nella critica storica dei vangeli
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ta attraverso una quantità sufficiente di accostamenti di prove e di intuizioni riflesse su di esse. Se le supposizioni circa la conoscenza corrispondono alle visioni degli empiristi o dei positivisti, l’oggettività verrà ridotta alla sua componente empirica. Allora il grande pericolo sarà la “soggettività”; e se, malgrado sforzi eroici, non si riuscirà ad eliminare la soggettività, sembrerà che i grandi progetti (la critica storica, ad esempio) debbano purtroppo abbandonare le loro rivendicazioni. Se le supposizioni circa la conoscenza corrispondono alle visioni degli idealisti, l’oggettività verrà ridotta alla sua componente intellettuale (ad esempio, la coerenza interna dell’insight). Soltanto se la visione corrisponde con quella del realismo critico l’oggettività sarà riconosciuta come il conseguimento di una soggettività piena e ordinata, una soggettività che si occupa dei dati ma va oltre i dati sino alle domande, che ha caro l’insight ma va oltre l’insight sino alla verità. Se il passaggio del termine “soggettività” da parola aborrita a parola apprezzata costituisce un fatto nuovo nella critica del Nuovo Testamento, questo fatto tradisce esclusivamente il duraturo sotterraneo attaccamento degli studi neotestamentari al Positivismo. Ma le supposizioni della teoria positivista e la pratica della critica storica non si amalgamano. Per quanto le intuizioni teoretiche possano restare nell’ombra del suo subconscio, il critico praticante mostra attraverso le sue prestazioni quanto bene egli sappia che il successo dipende non tanto dai dati, ma dalla “sua propria comprensione della situazione”. Egli è in qualche misura consapevole, anche se non riesce ad esprimerlo con un’articolazione tematica, che tutto ciò che conosce – l’intero suo bagaglio di esperienze, il ventaglio di conoscenze e l’equilibrio del giudizio ottenuto a fatica – è fondamentalmente dipendente dai suoi sforzi critici. Gli indici di storicità dei dati non modificano questo fatto: lo illustrano, poiché questi indici sono propriamente delle risorse euristiche che incarnano modelli di osservazione e inferenza distinti e più o meno utili. Funzionano nello studio critico esattamente come funzionano i proverbi nel senso comune. Trovandosi di fronte ad un problema che va risolto in fretta in un modo o in un altro, ci si potrebbe chiedere quale dei due proverbi si adatta alla situazione: “Chi si ferma è perduto” o “Guarda prima di saltare”? Se è necessario un insight aggiuntivo per sapere quale frammento di sapienza sia significativo qui ed ora, allo stesso modo nello studio critico dei dati storici, quando gli indici pre-
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
sentano segnali misti, si richiede un insight aggiuntivo per sapere quali fattori pesano di più sulla bilancia. Tale insight aggiuntivo non è un’intrusione illegittima della soggettività: è ciò senza cui un vero giudizio è semplicemente impossibile. E poiché non è un difetto degli indici di storicità che talora essi offrano segnali misti, così non è un difetto del critico che egli debba rifiutare di trattare gli indici come regole alle quali obbedire. Il difetto risiede piuttosto nella teorizzazione che istituisce questo illusorio dilemma: o il fardello della oggettività deve essere portato dai “criteri” dai quali ci si aspetta che eliminino il compito in qualche misura gravoso della “soggettività” dello storico, oppure dobbiamo stoicamente ammettere che le risposte sono solo prodotti di presupposizioni e pregiudizi, che i risultati assicurati sono fittizi e che tutti i partecipanti al dibattito critico possano sbagliarsi. Il Positivismo di un centinaio di anni or sono puntava sulle “fonti” per svelare l’inganno. La brama delle “fonti oggettive”, nutrita dell’illusione che l’accesso alla storia dovesse essere mediato non dall’intelligenza dello storico, ma dalle fonti che erano attrezzate per realizzare il lavoro al suo posto, dominò la questione del Gesù storico dagli anni ’60 del sec. XIX sino alla Prima Guerra Mondiale. La disillusione che ne seguì fu in seguito sostituita con una nuova fede nel “metodo”; e, sebbene la reazione critica precedente (“la colpa è delle fonti”) si sia cambiata in una nuova reazione critica (“la colpa è dei metodi”), di fatto il problema di fondo è rimasto non nelle fonti del Nuovo Testamento né nei metodi storico-critici, ma in alcune ingombranti zavorre filosofiche – un miscuglio di visioni di conoscenza e di oggettività inadeguate e fuorvianti. Bernard Lonergan ha individuato il nocciolo del problema, e cioè un mito eccessivamente ostinato e fuorviante concernente la realtà, l’oggettività e la conoscenza umana. Il mito prevede che conoscere sia come vedere, che l’oggettività consista nel vedere ciò che è lì per essere visto e nel non vedere ciò lì non c’è, e che il reale sia ciò che è fuori lì adesso per essere guardato31.
Ma, dal momento che conoscere non è vedere, i criteri della conoscenza oggettiva non sono quelli di una visione riuscita. L’oggettività non consiste nell’impedire alla “soggettività” di interferire nella visione 31
B.J.F. LONERGAN, Method in Theology, 241-243.
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VI. Oggettività e soggettività nella critica storica dei vangeli
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di ciò che c’è e nella non-visione di ciò che non c’è. Si tratta, piuttosto, di portare la soggettività alla completa fioritura, cioè fino al punto dell’auto-trascendenza cognitiva. Questa, senza dubbio, è una sfida. L’oggettività è frutto non semplicemente della soggettività, ma di una soggettività autentica. Essendo debitrice all’eredità dei preconcetti umani – motivazioni inconsce, egoismi individuali o di gruppo, illusoria onnicompetenza del senso comune – facilmente la soggettività è inautentica. Ma, mentre la teoria positivista si trova qui in gravi ambasce e può solo invitarci tutti ad evitare il dogmatismo, il realismo critico ha qualcosa di profondo e di utile da dirci. È profondo, perché l’analisi intenzionale al cuore del realismo critico mette in luce l’unità dello spirito umano, cioè il suo amore per l’auto-trascendenza. Le diverse dimensioni dell’auto-trascendenza – intellettuale, morale e religiosa – sono così connesse tra loro che quando si presentano in un singolo soggetto, la dimensione morale sublima quella intellettuale e la dimensione religiosa sublima quella morale32. Per altro verso, l’ordine genetico sarà spesso esattamente contrario: l’autotrascendenza che è l’amore di Dio schiude l’intera sfera dei valori; questi includono il valore della fede nelle verità religiose; e in tale fede risiedono gli impulsi non soltanto per la vita morale, ma anche per la rottura con i miti cognitivi. È utile, perché la medesima analisi dell’intenzionalità fonda un’efficace ermeneutica del sospetto che rispetta i preconcetti, le evasioni, gli elementi che fanno da schermo e le razionalizzazioni ideologiche delle alienazioni – non solo negli altri, ma in noi stessi33. Questo non bandirà le prospettive parziali della storia, ma è l’inizio di una risposta costruttiva alla sotterranea inautenticità nell’ambito degli studi storici.
32
Vedi B.J.F. LONERGAN, Method in Theology, 241-243. B.J.F. LONERGAN, “On the Ongoing Genesis of Methods”, Studies in Religion/Sciences Religieuses 6 (1976-1977) 341-355, cfr. 349-353.
33
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– VII –
La “svolta” di Lonergan e The Aims of Jesus Lo scopo immediato di The Aims of Jesus era «di capire il Gesù della Palestina antica»1. Perché questo scopo, così ovviamente e del tutto storico, ha comportato o sollecitato che si affiancassero delle considerazioni filosofiche e teologiche? La sua storia è così strana da non riuscire ad arrivare a destinazione senza l’aiuto di altre discipline? Secondo The Aims of Jesus, la risposta fondamentale è no. Il libro affermava la spontaneità e l’autonomia non solo dell’interesse storico occasionale, ma anche della ricerca e della ricostruzione storiche specialistiche. Tuttavia, subentra qui un’importante osservazione, che solleverà una nuova questione. La teoria cognitiva ha una rilevanza generica per la storia in quanto teoria volta alla pratica, e in alcuni casi particolari questa teoria della storia può essere indispensabile per la soluzione di intricati problemi pratici. Offre così un servizio essenziale che può essere reso bene con l’espressione removens prohibens (“rimuovendo ciò che è di ostacolo”). L’obiettivo della teoria è di scoprire nella pratica storica le intrusioni che sono estranee alla storia e di eliminarle. La “nuova questione” che questo solleva è se e come la teologia (che, come la fede stessa, punta molto sulla storia) possa avere ripercussioni sulla ricerca storica senza alterarla.
La filosofia e la storia di Gesù R.G. Collingwood (1889-1943) ha assolto brillantemente il compito di investigare ed eliminare le intrusioni estranee alla storia. In realtà, è stato Collingwood a costituire il caso classico dell’autonomia del pensiero storico. In The Idea of History ha tracciato il lungo percorso storico dello sviluppo della storia fino alla maturità e quindi fino alla piena consapevolezza 1
B.F. MEYER, The Aims of Jesus (London: SCM, 1979) 19.
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
della sua autonomia2. L’errore che Collingwood trovò nel Positivismo, per esempio, era la sua deferenza indiscriminata nei confronti della scienza. Se la scienza definisse la conoscenza, la storia dovrebbe essere una sorta di scienza, e se non è una scienza elegante, esatta e di altissimo valore, allora è un’imitazione prosaica, inesatta e di scarso valore. Ma la storia – riteneva Collingwood – era un originale di prima qualità e non una mediocre imitazione. Richiamando il carattere indipendente del pensiero storico sia sotto il profilo storico che sotto quello analitico, Collingwood rese il servizio di “rimuovere ciò che ostacola”. Svelò ripetutamente gli impedimenti estranei nel pensiero storico e ne sostenne l’eliminazione. Così, affermò che la storia non fosse affatto questione di scoprire le leggi in azione all’interno degli eventi umani. La storia si era concentrata piuttosto sull’intenzionalità, la prospettiva e l’obiettivo dell’uomo – cosa che Collingwood chiamava “il pensiero dell’agente”. Questo è quello che dava all’evento umano la sua densità caratteristica e che costituiva – come egli spiegava – “l’interno dell’evento”, il vero obiettivo della ricerca storica. Molti citano Collingwood, ma pochi lo seguono nello sforzo di liberare la storia dalla zavorra ingombrante. È un peccato, dal momento che l’opera di purificazione andrebbe portata avanti con il massimo impegno a vantaggio soprattutto della storia delle religioni, dove la zavorra ideologica è particolarmente evidente e controproducente. Sin dall’apogeo della scuola tedesca della storia delle religioni (1890-1920) e sotto la sua diretta influenza, gli storici del cristianesimo primitivo in particolare si sono caricati delle inibizioni e delle proibizioni che tacitamente minano l’autonomia della storia. Consideriamo adesso la “New Quest” post-bultmanniana sul Gesù storico. È stato questo un movimento che si è sviluppato dagli anni ’50 agli anni ’70 con il supporto dei teologi esistenzialisti (per esempio, Ernst Käsemann, Günther Bornkamm, Ernst Fuchs), i quali giustamente temevano che il loro esistenzialismo, benché avesse fatto un qualche spazio alla realtà storica di Gesù, potesse degenerare in un disastroso docetismo, dissolvendo l’identità terrena e divina del Signore3. Ma la storia che essi malvolentieri praticarono era minata da limitazioni artificiali. 2
R.G. COLLINGWOOD, The Idea of History (Oxford: Oxford University Press, 1946) 14-204. E. KÄSEMANN, “The Problem of the Historical Jesus”, in Essays on the New Testament Themes (London: SCM, 1964) 33-34, 45-47; anche il saggio di Käsemann “Die neue Jesus-Frage”, in J. DUPONT (a cura di), Jésus aux origines de la christologie (Gembloux: Duculot, 1975) 45-57, spec. 55-57. 3
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VII. La “svolta” di Lonergan e The Aims of Jesus
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In primo luogo, i protagonisti della “New Quest” condividevano con Bultmann e i maestri della sua scuola della storia delle religioni la concezione illuministica della storia quale continuum chiuso di causa-edeffetto (ein geschlossener Wirkungs-Zusammenhang)4. Questa prospettiva, che fu sistematizzata dai principi troeltschiani di “critica, analogia e correlazione”5, non soltanto rimuoveva dalla sfera della realtà intellegibile una serie intera di dottrine cristiane centrali (ad esempio, l’incarnazione del Verbo, il dono dello Spirito), ma emetteva anche – su di una base aprioristica non storica – un verdetto storico negativo, ad esempio, sui miracoli riguardanti la dimensione corporea nelle apparizioni pasquali, che non trovano oggi un’analogia (specialmente i miracoli della natura). In secondo luogo, in accordo con lo stile dello scetticismo metodico di Bultmann di utilizzare la critica delle forme sui materiali evangelici, i promotori della “New Quest” adottarono il principio della critica evangelica di Ernst Käsemann: una tradizione evangelica che riportasse parole o gesti di Gesù poteva essere ritenuta storica solo se priva di paralleli con il giudaismo e con il cristianesimo primitivo6. Pertanto, poiché la pratica eucaristica della Chiesa primitiva aveva un parallelo con i racconti dell’Ultima Cena (e dunque potevano essere presumibilmente serviti come fonte dei racconti dell’Ultima Cena), l’Ultima Cena veniva metodicamente classificata come non-storica7. In terzo luogo, i protagonisti della “New Quest” si preclusero qualunque indagine che potesse essere intesa come un desiderio di supporto storico al kerygma. La determinazione di mantenere intatta la purezza della fede fu scartata come teologicamente irrilevante e indesiderata, per quanto le verifiche storiche potessero rendere credibile un’affermazione storica. Su tale argomento i promotori della “New Quest” svolsero il ruolo di una vigile Inquisizione, mantenendo ciascuno uno sguardo ostile sull’ortodossia esistenzialista dell’altro, con ripetute correzioni e richiami all’ordine. 4
R. BULTMANN, “Is Exegesis Without Presuppositions Possible?”, in S.M. OGDEN (a cura di), New Testament and Mythology and Other Basic Writings (Philadelphia: Fortress, 1984) 145-153, spec. 147-148. 5 Vedi E. TROELTSCH, “Über historische und dogmatische Methode in der Theologie”, in Gesammelte Schriften. II. Zur religiosen Lage, Religionsphilosophie und Etik (Tübingen: Mohr, 1922) 729-753, specialmente 730-735. Vedi anche l’articolo di Troeltsch, “Historiography”, nella Encyclopedia of Religion and Ethics di Hasting (New York: Scribner’s, 1914) 716, 720. 6 E. KÄSEMANN, “The Problem of the Historical Jesus”, 37. 7 B.F. MEYER, The Aims of Jesus, 84.
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
Si presentò così un gruppo di esistenzialisti che decisero che per ragioni teologiche erano costretti ad inoltrarsi nello studio e nella ricerca su Gesù. Ma cosa avvenne, nella loro pratica storica, all’autonomia della storia? In primo luogo, il processo storico fu ridotto alla dimensione razionale, quando all’“universo chiuso” della propaganda illuministica venne consentito di porre le domande sulla storicità su di una base non storica. In secondo luogo, un postulato non plausibile sulla creatività di anonime comunità cristiane potè dettare il criterio (il principio di Käsemann), sulla base del quale gran parte della tradizione evangelica fu metodicamente ridotta alla non-storicità. In terzo luogo, l’illusoria paura che troppa storia potesse – secondo le parole di Gerhard Ebeling – «rendere superflua la decisione di fede»8, allontanò l’aspirante storico da qualunque dato, indagine o conclusione storica che potessero illuminare storicamente la verità del vangelo. È questa la storia? Qui, direi, la storia ha perduto la libertà di essere se stessa, cioè una forma autonoma di conoscenza. Per anni Bultmann e i suoi discepoli hanno continuato nell’uso di citare Collingwood a proposito della storia. Questo fatto ha dell’ironico, dal momento che niente dell’impulso di Collingwood per una storia scevra da inibizioni e proibizioni è filtrato nella loro pratica. Su questa falsariga, sono pronto a rispondere alla domanda di cui mi è stato chiesto di occuparmi nelle pagine precedenti: qual è il legame tra “svolta” di Lonergan nella teoria cognitiva e nell’epistemologia e i miei tentativi di ricostruzione storica in The Aims of Jesus? La risposta è che Lonergan mi ha decisamente confermato nella considerazione della storia-come-conoscenza, che mi ha permesso di affrontare storicamente le questioni storiche. Non ho visto alcuna ragione per appropriarmi e ho visto diverse ragioni (alle quali Lonergan ha dato una cogenza definitiva) per non appropriarmi della concezione illuminista della storia come continuum chiuso. Ho rifiutato lo scetticismo metodico quale presupposto gratuito9 e ho elaborato quattro revisioni del principio di Käsemann10. Non ho rinunciato alla ricerca storica rilevante per il kerygma e, infatti, non ho trovato alcuna tradizione evangelica teologicamente non adatta, tanto meno pericolosa. Di conse8
G. EBELING, Word and Faith (Philadelphia: Fortress, 1963) 56. B.F. MEYER, The Aims of Jesus, 82-83. 10 B.F. MEYER, The Aims of Jesus, 85-86. 9
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VII. La “svolta” di Lonergan e The Aims of Jesus
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guenza, mi sono trovato nella posizione di ritenere tutte le tradizioni evangeliche quali potenziali dati storici e di considerare tutti i veri dati storici come aperti, senza riserva per un trattamento storico. Lonergan – mi è parso – ha esposto l’indagine contemporanea più acuta su Collingwood. Negli ultimi anni della sua vita, Collingwood stesso ha dimostrato certo di essere un teorico cognitivo, ma non si può dire che egli abbia mai elaborato una teoria della conoscenza pienamente soddisfacente. Lonergan lo ha fatto, nel suo capolavoro: Insight11; e sebbene Insight non abbia fatto della storia un tema portante, ha affrontato le questioni cruciali per la comprensione della storia-comeconoscenza. In primo luogo – e questa è una questione di rilevanza generale e remota per la storia – Insight ha demistificato le epistemologie in conflitto dell’era moderna (realismo naïf, empirismo, idealismo), riconducendole ad una radice comune, cioè l’errore di ritenere che conoscere sia come vedere, che conoscere il reale è, o sia, simile al vederlo. L’alternativa offerta da Lonergan si è rivolta anzitutto all’osservazione negativa secondo cui, così come comprendere non è né percepire né come percepire, così l’oggetto del comprendere non è un oggetto della percezione né come un oggetto della percezione. Non è come una sorta di nuovo dato aggiunto ai dati dei sensi e della coscienza. L’intellegibilità non è “come” un dato più di quanto meravigliarsi, porre domandare, rispondere alle domande e verificare le risposte siano “come” vedere, udire, o toccare. Nella concezione di Lonergan, la conoscenza è ugualmente irriducibile alla pseudo-oggettività del “vedere ciò che è là per essere visto” e alla debole soggettività ovvero alla proiezione di un ordine meramente pragmatico nel caos del reale. In secondo luogo, Insight offriva una significativa trattazione della trasformazione del mondo come “probabilità emergente”. Questo ruppe chiaramente sia con le cosmologie classiche delle origini secondo Aristotele, sia con le cosmologie moderne che iniziano con Galileo. La caratteristica più sorprendente della “probabilità emergente” fu la sua trasposizione delle leggi scientifiche del modello classico dallo stato di necessità a quello della possibilità verificata, e la sua offerta di un contesto dinamico (cioè di schemi di ricorrenza operativi in base a frequen-
11
B.J.F. LONERGAN, Insight. A Study of Human Understanding (New York: Longmans, 1958).
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
ze statistiche) per il concreto funzionamento delle leggi del modello classico. La “probabilità emergente” segnò così la fine del culto della necessità, caratteristica della cosmologia moderna come di quella greca. La tesi duratura dell’“universo chiuso” può essere considerata bene come l’ultimo rantolo di questa cosmologia della necessità divenuta oramai chiaramente obsoleta. In terzo luogo, Insight fornì una trattazione abbastanza completa della conoscenza basata sul buon senso, di cui la storia è una sofisticata specializzazione. Inoltre, l’opera successiva di Lonergan, Method in Theology, la seguì sino ad una esplicita descrizione della storia-comeconoscenza, che culminava in una trattazione brillante e incalzante delle strutture euristiche proprie della indagine storica12. L’impatto di una teoria adeguata è di rinforzare l’autonomia del pensiero storico. Per quanto eccellente, una teoria non può garantire una pratica che abbia successo. Poiché la risorsa immediata e l’ispirazione della mia pratica era il solco dell’opera storica che andava da Gustaf Dalman (1855-1941) a Joachim Jeremias (1900-1979), le domande sulla mia pratica si legano in parte alle domande sulle loro pratiche (verranno poste più avanti, nel paragrafo dal titolo “La teologia e la storia di Gesù”). Comunque, la teoria cognitiva di Lonergan non mi ha fornito alcuno strumento che fosse convertibile in una scorciatoia della pratica. Al contrario, più lo storico è libero da intrusioni estranee, più esigente diventa il suo compito. Non può liquidare facilmente l’intero complesso di materiale come non-storico a priori, né può iniziare con la supposizione che la non-storicità vada mantenuta sinché non se ne provi il contario13. La questione dei miracoli è una pietra miliare. In The Aims of Jesus la trattazione dei miracoli è prudente, dal momento che non ero in grado di elaborare una maniera soddisfacente di considerare la storicità delle singole narrazioni dei miracoli14. Ma appena ho visto che il legame tra esorcismi ed escatologia apocalittica era unico per Gesù15, ho potuto trovare il modo di accostarmi ai miracoli attraverso il materiale dei
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B.J.F. LONERGAN, Method in Theology (New York: Herder & Herder, 1972) spec. 224-233. B.F. MEYER, The Aims of Jesus, 81-85. 14 B.F. MEYER, The Aims of Jesus, 158. 15 Cfr. G; THEISSEN, The Miracle Stories of the Early Gospel Tradition (Philadelphia: Fortress, 1983) 277-286. 13
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VII. La “svolta” di Lonergan e The Aims of Jesus
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detti16. Il punto è che per me la questione dei miracoli di Gesù era rimasta strettamente storica. Anche laddove ero incapace di risolvere le questioni della storicità (ovvero in scene quali la tempesta sedata o le varie risurrezioni di morti), ritenni la storicità di tali eventi una questione aperta – cosa su cui si impegnarono due miei recensori, Dennis Nineham e Michael Goulder17.
La teologia e la storia di Gesù La teologia ha un fondamento inalienabile nella storia e trae profitto dai rilevanti progressi storici. Ma può la teologia inserirsi nell’indagine storica senza distorcerla? Van Harvey ha risposto con una negazione non molto accurata18. Lonergan ha risposto con una distinzione19. Da un lato, c’era la storia pre-critica, che poteva avere, anche oggi, un posto di rilievo nella vita di una nazione o di una Chiesa o di una corporazione e così via: ma poiché questo tipo di storia era artistica e popolare, apologetica ed etica, soffrì facilmente delle “conseguenze evangeliche” del servire a due padroni20. Dall’altro lato, c’era la storia critica, che da sola poteva servire come specializzazione funzionale in teologia. I suoi obiettivi erano austeri. Non includevano di per sé il rifiuto delle calunnie (l’apologetica) o la distribuzione di elogi e biasimi (l’etica). Piuttosto, premevano per un recupero del passato “come era veramente” (wie es eigentlich gewesen)21. Orbene – come Collingwood sostenne insistentemente – le domande dello storico, per quanto la sua storia sia sempre tanto critica, sono assolutamente una sua scelta. Dal momento che a questo punto è completamente libero, ne consegue che egli può scegliere le domande che riflettono interessi religiosi e teologici, e la teologia – fornendo domande penetranti all’indagine storica – può in tal modo giocare un ruolo creativo piuttosto che ostruttivo nella storia. Ma per quanto io abbia voluto riconoscere questo dato ed insistere su di esso, confesso di aver
16
B.F. MEYER, The Aims of Jesus, 154-158. D. NINEHAM, Epworth Review 7 (1980) 91-93; M. GOULDER, Theology 83 (1980) 57-60. 18 V.A. HARVEY, The Historian and the Believer (New York: Macmillan, 1966). 19 B.J.F. LONERGAN, Method in Theology, 185-196. 20 B.J.F. LONERGAN, Method in Theology, 185. 21 L. VON RANKE, dalla prefazione alla sua History of the Romanic and Germanic Peoples from 1492 to 1535 (1824). 17
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
scoperto che le domande storiche direttamente ed immediatamente desunte dalla teologia hanno la ripetuta tendenza a distorcere la valutazione dei dati22. Niente, tuttavia, promuove la causa della teologia meglio dello slancio verso la verità, e questo slancio può essere alimentato dai valori, dagli interessi e dai motivi religiosi e teologici. Consideriamo Dalman e Jeremias. Entrambi hanno fatto nuove scoperte nella ricerca filologica ed ambientalistica e nella stilistica. Come per ogni storico senza eccezione, la loro pratica ha mostrato anche dei limiti, delle lacune e degli errori. Tale pratica non fu accompagnata da adeguate conquiste teoriche né da un’attenta descrizione di ciò che si stava facendo. In entrambi i casi i motivi teologici diedero forza alle conquiste storiche, che sarebbero state difficilmente pensabili senza una relazione vitale con l’orizzonte di senso del Nuovo Testamento. (Questa era l’amara verità ermeneutica che il libro di Harvey non vide). Dalman, allevato dalla fanciullezza nel Pietismo, si era dedicato alla conversione degli Ebrei. Jeremias aveva risolutamente cercato di riscoprire l’unica voce che «può investire il nostro messaggio di una piena autorità»23. Per quanto mi riguarda, non mi ritrovo né nel Pietismo dal quale sorsero le ambizioni missionarie di Dalman, né nella riduzione, operata da Jeremias, della “autorità” alla voce del Gesù storico; invece, per quanto mi è dato di giudicare, né nel caso di Dalman né in quello di Jeremias la coscienza storica ha ceduto alla pressione teologica e tanto meno è collassata sotto la pressione teologica. In conclusione, il motivo teologico è stato cruciale per la loro pratica storica e, ben lungi dal corromperla, l’ha elevata ad un eccellente livello. La questione riguardante gli obiettivi di Gesù non è formalmente teologica24. Ma come l’incontro con Cesare e i suoi obiettivi costituisce un invito alla politica, e l’incontro con Socrate e i suoi obiettivi costituisce un invito alla ricerca, alla dotta ignoranza e all’abilità di razionalizzare e di credere in se stessi, così l’incontro con gli obiettivi di Gesù costituisce un invito alla fede, alla speranza e alla carità. La domanda riguardante gli obiettivi di Gesù è neutra, ma la risposta alla domanda ha
22
Vedi B.F. MEYER, The Aims of Jesus, 19 sulla teologia liberale; 52 sulla differenza esatta tra il controllo dell’ideologia nella pratica di Jeremias e gli abusi che se ne sono fatti da parte dei nuovi ricercatori; 175 sugli apologisti cristiani dell’inizio del XX secolo. 23 J. JEREMIAS, The Parables of Jesus (London: SCM e New York: Scribner’s, 1954) 9. 24 B.F. MEYER, The Aims of Jesus, 111, 174-175.
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VII. La “svolta” di Lonergan e The Aims of Jesus
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una pregnanza teologica, e questo, naturalmente, era prevedibile. Jeremias riteneva che proprio perché Gesù pensava che la fine era prossima, «dovette essere suo obiettivo di raccogliere il popolo di Dio nel tempo della salvezza... In realtà, dobbiamo indicare ancora più precisamente quale sia il punto: l’unica significatività dell’intera attività di Gesù risiede nel radunare il popolo escatologico di Dio»25. Ritengo che questa sia una grande intuizione, per quanto nel libro di Jeremias sia rimasta isolata, senza spiegazione e senza prove. Un modo per spiegare la preoccupazione teologica di The Aims of Jesus è quello di dire che ha cercato di fornire prove utili ovvero di rendere l’intuizione di Jeremias storicamente stringente o almeno storicamente plausibile. Con la sua volontà di dar vita al popolo escatologico di Dio, Gesù stesso pose le fondamenta della cristologia che lo ha definito come la pietra angolare del nuovo santuario (Mc 12,10 e i passi paralleli di Mt 21,42 e Lc 20,17; Ef 2,20ss; 1Pt 2,6ss) e il primogenito di molti fratelli (Rm 8,29; Col 1,18; Ap 1,5; Eb 2,10-18). In conclusione: l’ampio sguardo sulla ricerca del Gesù storico sembra di per sé non stabilire se, come pensava Albert Schweitzer, l’odio sia un fattore positivo nella ricerca storica26 o se, come pensa Van Harvey, la fede produca inevitabilmente un effetto di distorsione sull’indagine storica27. Ma per le ragioni che Lonergan ha finalmente fornito28, ritengo la sua prospettiva incommensurabilmente più convincente delle loro: la fede è l’occhio dell’amore, e rivela il valore del credere; nel credo religioso risiedono i semi della conversione intellettuale; la maggior parte di ciò che conosciamo non è immanentemente generato, ma intelligentemente creduto. Data per scontata l’importanza capitale della fede, c’è spazio nella vita di fede per i giudizi di credibilità immanentemente generati. Se la storia critica, ad esempio, mostra che Gesù ha in realtà trascorso la sua carriera nella convinzione di ricoprire un preciso ruolo messianico, che riguardava il destino di Israele e delle nazioni, diventa più credibile di quanto non lo sarebbe il fatto che egli sia veramente il Messia, come la fede cristiana ha sempre sostenuto. Sebbene i giudizi di credibilità pos-
25
J. JEREMIAS, New Testament Theology I. The Proclamation of Jesus (London: SCM, 1971) 170. B.F. MEYER, The Aims of Jesus, 258, nota 12. 27 V.A. HARVEY, The Historian and the Believer (New York: Macmillan, 1966), passim. 28 Vedi B. LONERGAN, Insight, 703-718; 115-124; 243; 283-284. 26
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
sano sembrare privi di senso ad un fideista, il quale gioisce solo di una fede che – egli crede – non è supportata da alcun tipo di ragione, essi sono in realtà assai significativi per quanti affermano una simbiosi di fede e ragione (che di fatto consegue, che lo sappia o no, che gli piaccia o no) e sono quindi impegnati a vivere la vita di fede in modo pienamente responsabile e pienamente umano. Come il giorno segue la notte, così per loro consegue che la storia, fatta con competenza ed onestà, gioca un ruolo importante nella vita dei cristiani; e questo fatto non è mai stato così chiaro e cruciale come oggi, mentre la vita della ragione subisce un assalto senza precedenti da parte di sostenitori di ideologie ed assurdità, ed è inconsapevolmente schiacciata tra i due estremi dello spettro, dai fideisti da una parte e dagli empiristi, i positivisti e i comportamentisti dall’altra.
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– VIII –
L’“interno” dell’evento Gesù Cosa può fare la storia per la cristologia? O, piuttosto, in riferimento alla cristologia, cosa può fare la storia per noi? Una risposta significativa dovrebbe tenere conto del passato e del presente, del vecchio e del nuovo. La storia fatta con competenza ed onestà offre il tipo di entrée nella tradizione che concorda con la coscienza criticamente differenziata dell’Occidente contemporaneo. Siamo divenuti consapevoli che proprio l’atto dell’ereditare richiede che l’eredità di ciascuno sia trasferita nel suo linguaggio culturale: e forse è questo che più di qualunque altra cosa ha prodotto uno sviluppo della dottrina. Molto tempo prima del sorgere della coscienza storica, questo processo di trasferimento è avvenuto velocemente. Ha generato i mondi del senso cristologico che hanno trovato espressione nel cristianesimo primitivo, per esempio quando la fede pasquale della Chiesa di Gerusalemme si trasferì nella tematizzazione della pre-esistenza di Cristo uguale a Dio (cfr. l’inno di Fil 2,6-11). Questo fu un trasferimento sorprendente, ma – come ha riconosciuto Gregory Dix1 – fu ancora un trasferimento soltanto accettabile della fede pasquale originaria in un altro ambito di meraviglia e domanda, in un nuovo idioma concettuale e in un nuovo modello estetico. Per secoli questo processo di trasferimento o trasposizione si è perpetuato non solo senza il beneficio di essere affiancato da una teoria dello sviluppo, ma anche senza un accenno che qualcosa di nuovo stesse prendendo piede e senza che ne fosse messa in conto una sua qualche descrizione. Ricollocando con cura gli aspetti più innovativi della loro personale esperienza storica nell’atto divino originario della rivelazione, i cristiani antichi e medievali trascurarono o rinnegarono la novità regolarmente emergente nelle trasposizioni, che consentiva a ogni cultura e epoca di appropriarsi della sua eredità religiosa. 1 D.G. DIX, Jew and Greek. A Study in the Primitive Church (Wetsminster: Dacre Press, 1952) 7781.
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
Nella mutata situzione in cui ci troviamo, è la storia a consentire a chiunque tra noi sia capace di ampliare ed arricchire il vecchio con il nuovo (vetera novis augere et perficere) di discernere cosa il vecchio sia stato veramente, di modo che il nuovo possa ampliarlo ed arricchirlo piuttosto che semplicemente rimpiazzarlo, sminuirlo o eliminarlo. Bernard Lonergan ha convintamente raccomandato questo principio, realizzandolo nella pratica2. Sebbene le sue parole sui vetera ed i nova abbiano l’aura di una formula consapevolmente e serenamente tradizionale, hanno fatto spazio ad un problema solo appena preso in considerazione e ad una soluzione solo appena accennata nella tradizione cattolica classica. La questione è riassumibile nello stato di condizionamento degli atti di senso ad opera dei contesti storici di senso. In realtà, san Tommaso «è stato abbastanza preciso sulla questione delle verità eterne. Esse esistono, ma soltanto nella mente eterna e immutabile di Dio»3 (S. Th. I, q. 16, a. 7). Tuttavia, né Tommaso né ancor meno la Scolastica rinascimentale che è arrivata sino a noi attraverso i manuali hanno tratto la conclusione che la teologia, per rendere la nostra eredità religiosa a noi del tutto comprensibile, dovrebbe assumersi il vasto compito storico di riscoprire i contesti in cui le formulazioni religiose in origine si radicarono, di tracciare le trasposizioni di temi religiosi da un contesto ad un altro attraverso centri di gravità semantici delicatamente mobili, e di conseguenza di aiutare a soddisfare le condizioni per distinguere tra le trasposizioni ben riuscite e quelle errate nel passato ed anche per realizzare trasposizioni ben riuscite nel presente, con i nuovi sviluppi che essi comportano e la concomitante liberazione dalla “spazzatura dell’epoca”4 non trasponibile. Improvvisamente priva della protezione delle sue premesse concettuali, dell’illusione del senso senza contesto, dell’oggettività senza soggetto, della verità senza mente quindi senza tempo, la teologia cattolica
2
Insight and Method in Theology sono gli esempi più lampanti, ma non gli unici. Per l’affermazione di Lonergan di ciò che è ideale, vedi la fine degli articoli sul Verbum (Verbum. Word and Idea in Aquinas, 220) e la fine di Insight (Insight. A Study of Human Understanding, 748). 3 B.J.F. LONERGAN, “Philosophy and Theology”, in W.F.J. RYAN – J. TYRREL (a cura di), A Second Collection. Papers by Bernard J.F. Lonergan (London: Darton, Longman & Todd, 1974) 193-208, pagina 193. 4 L’espressione tra virgolette è desunta da A. FARRER, Finite and Infinite. A Philosophical Essay (Westminster: Dacre Press, 1943; ristampa del 1964) ix.
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VIII. L’“interno” dell’evento Gesù
si è nuovamente e finalmente posta a trarre profitto dalla scoperta che, lungi dall’essere nemica delle verità della filosofia e della religione, l’alta marea della conoscenza storica è una condizione della loro trasferibilità da un contesto ad un altro e quindi della loro permanente validità. Ciò che la storia può fare per noi in rapporto alla cristologia altro non è che permetterci di penetrare nella nostra legittima eredità cristologica, nel riconoscimento che questo preciso atto di ricevere tale eredità richiede frequentemente un ampliamento ed un arricchimento del vecchio con il nuovo. Il presente saggio – aggiungo subito – non ha di per sé alcuna ambizione così grande. Rimane al livello di voler determinare ciò che il vecchio sia stato veramente. Si tratta di un tentativo di riscoprire un momento singolo ma preciso nell’emergenza del senso cristologico. Si impegna a considerare Cristo come soggetto, non su quella soglia dove si è condotti dalla ricerca su “soggetto” e “coscienza” (e dove Lonergan ha compiuto in modo davvero sorprendente l’ideale di ampliamento ed arricchimento del vecchio con il nuovo)5, ma al di là di quella soglia nella sfera propriamente storica, dove Cristo è il soggetto degli orizzonti, delle prospettive, degli scopi, delle parole e degli atti risoluti.
II L’atto fondamentale della Chiesa di Gerusalemme fu quello di interpretare l’accreditamento pasquale di Gesù come un’intronizzazione messianica. Ma come si è legata questa interpretazione alla carriera storica di Gesù? La dimensione messianica è stata appiccicata alla figura di Gesù dopo questo evento? Oppure era inevitabile, alla luce delle sue parole e dei suoi gesti storici, che l’accreditamento fosse interpretato in questo modo? In nessuno dei due casi lo storico delle religioni per quanto ingegnoso può rendere storicamente comprensibile l’atto interpretativo della Chiesa di Gerusalemme. Ma non si può permettere che questo nasconda l’abisso che c’è tra l’intronizzazione messianica quale opzione interpretativa tra le tante, e l’intronizzazione messianica come
5 B.J.F. LONERGAN, De constitutione Christi ontologica et psychologica (Rome: Gregorian University Press, 1964) 83-148. Vedi anche “Christ as Subject”: A Reply”, in Collection. Papers by Bernard Lonergan (New York: Herder & Herder, 1967) 164-197.
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
l’unica interpretazione dell’accreditamento di Gesù appropriata, quella “inevitabile”. Per una tale questione (la cui soluzione non può che determinare in larga parte il modo in cui si dovrà intendere Gesù e la Chiesa di Gerusalemme) è chiaramente rilevante la domanda su dove collocare gli inizi di una cristologia tematizzata. Su questo punto, tra gli studiosi contemporanei ci sono due posizioni: l’una che colloca questi inizi nell’esperienza della Pasqua fatta dai discepoli, l’altra che assume la storicità della confessione pre-pasquale dei discepoli di Gesù come Messia (cfr. specialmente Mc 8,27; Mt 16,16; Lc 9,20; Gv 6,68ss; 1,41ss) e, ancora più a fondo, l’auto-comprensione messianica di Gesù stesso (Mc 8,27c.29; Mt 16,13c.15; Lc 9,18c.20; Mc 14,62; Mt 26,64; cfr. Mc 15,2; Mt 27,14; Lc 23,3; Gv 18,37). Questi due punti di vista mostrano una netta alternativa: la cristologia tematica è nata o non è nata prima della Pasqua. Tra queste due alternative contraddittorie non ci può essere alcuna via di mezzo né una terza posizione. Nils Alstrup Dahl, nel suo famoso saggio The Crucified Messiah6, ha presentato ciò che di primo acchito sembra essere una terza posizione. Ma di fatto si tratta di una combinazione in cui il messianismo tematico pre-pasquale è affermato ma in un senso così debole da essere lasciato virtualmente non sostenuto. Durante il processo di Gesù di fronte al sinedrio (se davvero ci fu un processo di fronte al sinedrio) e durante il suo processo di fronte a Pilato, il termine “Messia” (o “re”) ricorreva in una domanda dell’accusa. Al di là della propensione ad adattarsi alle categorie di colui che poneva la domanda (poiché «non poteva negare l’accusa di essere Messia senza porre di conseguenza in questione la validità escatologica finale di tutto il suo messaggio e del suo ministero»7), Gesù riconobbe, in base al termine a lui “estorto” o al limite in base al suo silenzio, di essere il Messia8. Dahl – va notato – non si chiese perché Gesù pensasse che tutto il suo ministero sarebbe stato messo in dubbio a meno che non avesse accettato un titolo che egli tuttavia non trovò appropriato. Inoltre, non ci si può che meravigliare che questo supposto dilemma di Gesù sia coe-
6
N.A. DAHL, “The Crucified Messiah”, in The Crucified Messiah and Other Essays (Minneapolis: Augsburg, 1974) 10-36. 7 Ibid., 33. 8 Ibid.
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VIII. L’“interno” dell’evento Gesù
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rente con la prospettiva secondo cui quella del “Messia” nel giudaismo del tempo di Gesù fosse soltanto una tra le tante figure parallele e che non fosse affatto «la necessaria espressione dell’epoca» per indicare «il personaggio escatologico che avrebbe portato la salvezza»9. La prospettiva di Dahl aveva il merito di insistere ancora una volta sul grande significato del titulus della croce, attestando che c’era stata un’indubbia tematizzazione di Gesù nel periodo pre-pasquale, a prescindere da chi l’avesse avviata e da chi fosse stata sostenuta, che aveva giocato un ruolo chiave nella condanna di Gesù e che questo stesso titulus assunse un significato permanente per la Chiesa post-pasquale. Ciò nonostante, la sua prospettiva così com’è non rappresenta una vera terza posizione tra le due che abbiamo distinto né mostra la coerenza interna di una descrizione storicamente plausibile. Prescindendo da questo, dunque, considereremo soltanto le alternative chiaramente stabilite: la cristologia tematica ha avuto origine o no prima della Pasqua? Per entrambe queste prospettive il peso della loro probabilità risiede nel concedere senso ed importanza ai dati sui quali si basa la prospettiva opposta. Infatti, se anche si dovesse riconoscere come plausibile che prima dell’evento pasquale lo stesso Gesù abbia deliberatamente indotto nei suoi discepoli il suo riconoscimento come “il Messia” (meshîha = ho christos) o che egli si stesse riferendo al proprio futuro destino e al suo ruolo evocando “l’Uomo” (bar ’enasha = ho huios tou anthropou) predestinato a condurre a termine la prova escatologica (cfr. per esempio Lc 17,22-30), resta tuttavia non plausibile che la presentazione evangelica dell’uso di questi titoli, così com’è, sia una trascrizione letterale del passato pre-pasquale. Ci sono evidenti usi non storici dei titoli (su “Messia” o “Cristo” cfr. Mc 9,41; Mt 23,10; su “Figlio dell’Uomo” cfr. per esempio Mc 2,10; Mt 9,6; Lc 5,24; Mc 2,28; Mt 12,8; Lc 6,5; Mt 8,20; Lc 9,58); ci sono ancora altre istanze nelle quali la storicità resta dubbia; e, comunque, quelli che trovano gli inizi della cristologia tematica nel tempo del ministero di Gesù devono ancora riconoscere che la Pasqua ha provocato un’ulteriore esplosione cristologica. Al contrario, anche se dovesse essere plausibilmente sostenuto che la cristologia tematica del titulus è databile soltanto a partire dall’esperienza pasquale dei discepoli, resta
9
Ibid., 26.
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
ancora del tutto non plausibile che la drammatica emergenza di tale cristologia manchi di solide radici nella carriera pre-pasquale di Gesù. Ciò non vuol dire minimizzare il significato del dibattito o la differenza tra i due filoni che sono stati messi in luce. In termini di storia delle religioni, il dibattito è significativo sia come storia che come storia della religione. È la funzione della storia a stabilire i dati di fatto, e la condizione per la conquista storica è la passione di portare avanti le cose. Tuttavia, la questione di chi e di che cosa stia agli inizi della cristologia tematica non riguarda soltanto un dato di fatto, ma un fattore portante di grande significato per la cristianità come religione. Infatti, la storia del cristianesimo è la storia di un popolo unito non dal sangue, ma dal senso, che lotta per conseguire il proprio “sé” unificante attraverso la ricerca della via verso il centro del senso. La relazione della confessione cristologica con il Cristo della storia e, in verità, con la sua autocomprensione appartiene inalienabilmente a quel centro. Come disse una volta Franz Mussner, questa è una Schicksalsfrage per il Cristianesimo. Se la cristologia non ha affatto radici nella coscienza del Gesù storico, in definitiva come potrebbe rendere ragione della sua pretesa di essere altro e più che una mera ideologia?10. Dietro il mito – esorta una scuola di pensiero – c’è il rituale. Ma dietro il mito di Cristo – cioè dietro l’affermazione di Gesù come Signore messianico – c’è non proprio il rituale, ma una destabilizzante figura in carne e ossa, un uomo con una carriera pubblica e una precisa missione, un eroe carismatico per gli elementi depressi della società che egli incontrò, un imputato accusato di un crimine politico e messo a morte da un noto ufficiale. Il modo in cui si risponde alla domanda se l’interpretazione che la Chiesa di Gerusalemme ha dato di lui come Messia rifletta la comprensione che Gesù stesso aveva della propria missione o sia una concezione della sua persona e della sua opera totalmente indipendente tende ad influenzare le ulteriori domande come quella se il cristianesimo sia sorto con Gesù o con i suoi discepoli, se gli eventi pubblici nella storia d’Israele riguardino le sue fondamenta, se le categorie appropriate alla comprensione del cristianesimo nelle sue origini e nelle sue strutture basilari siano derivate dalla Torah e dai Profeti (Messia,
10 F. MUSSNER, “Wege zum Selbstbewusstsein Jesu. Ein Versuch”, Biblische Zeitschrift 12 (1968) 161-172, pagina 161.
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VIII. L’“interno” dell’evento Gesù
alleanza, resto, ecc.) oppure dalla gnosi o dai misteri o da altri culti dell’Egitto ellenistico, della Grecia e di Roma. Se queste sono questioni legate all’epoca, sottolineano soltanto l’importanza di collocare con precisione gli inizi della cristologia tematica. Naturalmente, questo progetto è troppo vasto per essere esaurito qui in tutta la sua portata. Nel prosieguo non potremo fare altro che indicare in forma sommaria certi elementi per collocare questi inizi in Gesù stesso. Con particolare riferimento al quesito sul tempio (Mc 14,58 e i passi paralleli), metteremo in rapporto gli aspetti di salvezza (Heil) e rovina (Unheil) nella concezione che Gesù aveva della sua missione. Infine, torneremo alla questione se vi sia o no un rapporto intrinseco tra cristologia tematica e la concreta carriera di Gesù.
III La complessità della domanda “il Gesù storico considerò se stesso come Messia?” deriva, ironicamente, dalla proclamazione pasquale della sua messianicità da parte dei discepoli, poiché questa proclamazione fonda la possibilità che la Chiesa pasquale possa aver semplicemente retrocesso la messianicità e la coscienza messianica ai giorni della vita pubblica di Gesù. Lo scettico metodico (cioè il critico che sostiene che delle parole e dei gesti di Gesù siano storici solo quelli che contraddicono le pratiche e le convinzioni sia del giudaismo che del cristianesimo primitivo) dalla continuità tra la proclamazione pasquale e i testi messianici dei vangeli deduce immediatamente l’impossibilità di mostrare storicamente che Gesù considerò se stesso come il Messia. L’aspetto restrittivo o negativo del principio dello scettico metodico (“è storico soltanto ciò che...”) è arbitrario e non valido11, e qualunque saggio critico storico che lo applichi sino in fondo non potrebbe che essere autodistruttivo12. Nel suo aspetto positivo, invece, e nella seguente formulazione, il principio resta valido: quelle parole o gesti attribuiti a Gesù che non sono in continuità con le pratiche e le convinzioni della Chiesa primitiva derivano di certo da lui. Ne consegue che il critico interessato alla questione di Gesù e del messianismo dovrebbe prestare particolare
11 12
Vedi B.F. MEYER, The Aims of Jesus (London: SCM, 1979) 81-84; pagina 277 nota 8. Vedi M.D. HOOKER, “On Using the Wrong Tool”, Theology 75 (1972) 570-581.
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
attenzione alle tradizioni che hanno una relazione con il messianismo, ma che mancano di un rapporto con i medesimi temi messianici caratteristici della Chiesa primitiva. Il candidato migliore per un simile status potrebbe essere la frase enigmatica apparentemente desunta dalla tradizione gesuana da parte di Stefano e degli hellenistai e che ebbe un effetto tragico (cfr. At 6,14). Accostandoci alla formula che si ricava dal racconto dello stesso processo di Gesù, abbiamo: Distruggete (o Io distruggerò) questo santuario e in tre giorni ne edificherò un altro13.
Questioni di spazio impediscono qui un’indagine esaustiva degli studi su questo detto, da Dalman ai nostri giorni. Basti dare tre annotazioni su questa storia esegetica e farle seguire da poche ulteriori osservazioni sulla relazione tra i temi della salvezza e della rovina. In primo luogo, è un fatto straordinario che l’opinione degli studiosi a partire da Dalman sia di fatto unanimemente a favore della sua storicità. Una volta data questa o quella qualifica alle singole parole, i critici sono pressoché convergenti nell’attribuire il detto a Gesù stesso. In secondo luogo, lo sforzo di collocare nella storia delle religioni l’area di senso a cui il detto si rapporta ha avuto, almeno in parte, successo. Ma la speranza di trovare un modello pre-gesuano in cui i motivi della distruzione e riedificazione del tempio fossero già uniti è stata vana. Non è risultata dimostrata né la proposta di Reitzenstein14, accettata da Bultmann15 e Goguel16, sullo sfondo del mito escatologico dell’uomo primordiale (= “Figlio dell’uomo”), né la proposta di J.G.H.
13
Per le varie forme testuali vedi Mc 14,58; Mt 26,61; Mc 15,29; Mt 27,40; Gv 2,19; cfr. la retroversione aramaica di At 6,14, leggermente ritoccata, in G. DALMAN, Orte und Wege Jesu (Gütersloh: Mohn, 41924; ristampa Darmstadt: Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1967) 324. ‘anâ’ sâtar hêkelˆhâden ûlitelâtâ yômîn nibnê chôrânâ. 14 R. REITZENSTEIN, Das Mandäische Buch des Herrn der Grosse und die Evangelienüberlieferung (Heidelberg: Winter, 1919) 63-70. 15 R. BULTMANN, The History of the Synoptic Tradition (Oxford: Blackwell, 1968) 120ss, pagina 401. 16 M. GOGUEL, “La parole de Jésus sur la destruction et la reconstruction du Temple”, in P.L. COUCHOUD, Congrès d’histoire du christianisme I (a cura di) (Paris: Rieder and Amsterdam: Van Holkema & Warendorf, 1928) 117-136, pagine 135ss.
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VIII. L’“interno” dell’evento Gesù
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Hoffmann17, sulla scia degli studi di Engnell sulla regalità divina18, sullo sfondo dei riti cananaici (e quindi sul messianismo regale della Bibbia). In entrambi i casi manca qualcosa nei dati o nell’argomentazione, oppure in entrambi19. Il messianismo classico, per altro verso, offre uno sfondo importante: il motivo della edificazione del tempio, infatti, è stato spesso messo in evidenza, a cominciare dalle osservazioni di Dalman per finire a quelle di Otto Betz. Dalman avanza la fondamentale osservazione che Gesù «parlava di edificazione del tempio (cfr. Mt 26,61; Mc 14,58) nello stesso senso in cui il Messia è costruttore del tempio in Zc 6,12.13»20. L’edificazione del tempio era compito del figlio di Davide (cioè Salomone), secondo l’oracolo di Natan (2Sam 7,13ss, ripetuto in 1Cr 17,12ss) e questo motivo fu attualizzato dai profeti (Ag 1,1ss; 2,20-23; Zc 6,12ss) impegnati nella riedificazione post-esilica del tempio. Ma l’adozione da parte di Gesù del motivo della edificazione del tempio era intesa “nello stesso senso” di quella di Zc 6? Stava forse per edificare un tempio fisico? Dalman lasciò quest’ultima domanda senza una risposta: ma mostrò senz’altro che il quesito di Gesù poteva aver avuto un significato messianico scritturisticamente fondato21. Betz puntò sul fatto che il testo dell’oracolo di Natan fosse stato interpretato messianicamente dagli Esseni (4QFlor 1-13), chiaramente senza un’interpretazione messianica delle precise parole «egli edificherà una casa al mio nome» di 2Sam 7,1322. Egli articolava le correlazioni 17
J.G.H. HOFFMANN, “Jésus messie juif”, in Aux sources de la tradition chrétienne (M. Goguel Festschrift) (Neuchâtel/Paris: Delachaux & Niestlé, 1950) 103-111, pagina 105. 18 I. ENGNELL, Studies in Divine Kingship in the Ancient Near East (Oxford: Blackwell, 31967; originale Uppsala, 1943) 150. 19 M. LIDZBARSKI, Das Johannesbuch der Mandäer (Geissen: Töppelmann, 1915) 242 nota 4, aveva probabilmente ragione in primo luogo nel ritenere che il testo mandeo è dipendente dal detto di Gesù. La parola chiave hêkelâ’ differisce, tuttavia, nel significato nei due testi. Nel detto di Gesù è il santo del tempio di Gerusalemme; nella parola di Enosh si tratta del “palazzo” quale simbolo del mondo. Ancora, Engnell ha provato a ricostruire il modello cananaico per la festa di Sukkot. Ma anche se la ricostruzione fosse più certa di quanto non sia, la sua rilevanza per la parola di Gesù resta dubbia. Così, Hoffmann può appellarsi ad un vago ed incerto parallelo, ma non ne può offrire alcun supporto testuale. 20 G. DALMAN, The Words of Jesus (Edinburgh: Clark, 1902) 307. 21 Dalman annota anche l’identificazione scritturisticamente fondata (Salmi 2 e 110) del “Messia” con il “Figlio di Dio”, ibid. 22 O. BETZ, “Die Frage nach dem messianischen Bewusstsein Jesu”, Novum Testamentum 6 (1963) 20-48; anche, What Do We Know About Jesus? (Philadelphia: Westminster, 1968) 83-112. Da un lato, la comunità essena era già il santuario di Dio precedente alla venuta del messia davidico (cfr., per esempio, 1QS 8,5-9; 1QH 6,25-28); dall’altro lato, Dio stesso avrebbe edificato un nuovo tempio “al tempo della benedizione” (11Q Tempio 29,8-10; cfr. 5Q13 2-6).
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
nella lettura cristiana dell’oracolo tra i motivi del Messia davidico, del Figlio di Dio, della risurrezione, dell’intronizzazione e il motivo dell’edificazione del tempio. Radicò il legame fondamentale tra messianismo ed edificazione del tempio nella stessa attualizzazione simbolica della tradizione biblica operata dal Gesù storico. Betz riuscì così a riconoscere il significato della vecchia tradizione biblica per la comprensione sia della scena marciana del processo di fronte al sinedrio (specialmente Mc 14,58-62) sia della celebre pericope del “Tu sei Pietro” (specialmente Mt 16,16-19). In terzo luogo, lo sforzo di spiegare come i motivi della distruzione di “questo santuario” e dell’edificazione di un altro fossero compatibili con altri dati sulla visione di Gesù circa il futuro fu coronato da successo – un successo ampiamente trascurato dagli studiosi successivi – nell’opera di C.H. Dodd e Joachim Jeremias. Dodd trovò che poteva facilmente inserire la frase sulla distruzione del santuario nella cornice della visione di Gesù degli eventi destinati a prendere piede nella storia (tutti appartenenti alla “escatologia della rovina”); ma, non riuscendo ad adattare nella medesima cornice storica la frase sulla riedificazione di un altro santuario, stabilì una cornice complementare di eventi “apocalittici” post-storici (la “escatologia della beatitudine” di Gesù), alla quale ci si doveva esser voluti riferire23. Questi eventi sarebbero stati scoperti nel giorno del Figlio dell’uomo: risurrezione, intronizzazione e parusia tutt’insieme. Il risultato di Dodd fu così di porre il detto del tempio nel contesto del tutto coerente di una visione del futuro a due fasi: dapprima rovina, radicata nella risposta del ministero di Gesù e compendiata nella distruzione del tempio; poi la gioia, inaugurata nel giorno in cui il Figlio dell’uomo viene rivelato (Lc 17,30) e compendiata nel nuovo tempio. Jeremias avanzò un apprezzamento critico di questa analisi24. L’aspetto critico era evidente nel suo sganciare la ricostruzione dal sistema unilaterale della “escatologia realizzata” di Dodd. Invece, l’aspetto di apprezzamento positivo emergeva dal modo in cui Jeremias aggiunse l’importante glossa della precisione tecnica all’illuminante ricostruzione di Dodd. 23
C.H. DODD, The Parables of the Kingdom (London: Nisbet, 1935), vedi i capp. 2 e 3. J. JEREMIAS, “Eine Neue Schau der Zukunftaussagen Jesu”, Theologische Blätter 20 (1941) 216222.
24
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VIII. L’“interno” dell’evento Gesù
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Lo schema escatologico del cristianesimo primitivo poneva un’inevitabile distinzione tra risurrezione e parusia, dal momento che la fine della storia non aveva avuto luogo con la risurrezione. I detti dei “tre giorni”, d’altro canto, supponevano uno schema escatologico in cui il “terzo giorno”, la grande svolta, costituiva una unità globale indifferenziata. Questo, insieme con il motivo di Gesù distruttore del tempio, rese problematico per la primitiva comunità cristiana il detto sul tempio. Dal momento che il trionfo espresso nel nuovo tempio non si era realizzato con la risurrezione di Gesù, la promessa di riedificarlo in tre giorni sembrò una profezia non realizzata. (Il Quarto Vangelo risolse il problema reinterpretando il nuovo tempio come il corpo del Cristo risorto; cfr. Gv 2,19-21). Jeremias non mise mai in dubbio il senso messianico del detto sul tempio o la sua prospettiva trascendente e simbolica25. E trent’anni dopo il suo articolo sulla ricostruzione operata da Dodd della visione del futuro che aveva Gesù, completò l’analisi offrendo una trattazione convincente del motivo dei tre giorni quale designazione dell’intervallo tra il climax della dura prova escatologica e la sua soluzione con la venuta del regno di Dio26. Il risultato della ricerca e della riflessione sull’affermazione enigmatica sul tempio, a partire da Dalman sino ai nostri giorni, è di aver reso ragione della sua storicità; di aver localizzato almeno un elemento del suo sfondo nella storia delle religioni, cioè nei testi biblici che identificano il Messia come figlio di Davide/Figlio di Dio (2Sam 7,13ss; 1Cr 17,12ss; Sall 2,7; 89,27; 110,3; cfr. 4QFlor 11) che è stabilito per edificare la casa di Dio (2Sam 7,13ss; 1Cr 17,12ss; Ag 1,1ss; 2,20-23; Zc 6,12ss); e, infine, di aver posto questo detto nel contesto della visione, propria del Gesù storico, del futuro diviso tra il dramma escatologico (qui espresso con la distruzione del tempio) e la sua soluzione (qui espressa con l’edificazione di un nuovo tempio, cioè la comunità trasfigurata dei discepoli di Gesù) immediatamente seguente (“in tre giorni”).
25
J. JEREMIAS, Jesus als Weltvollender (Gütersloh: Bertelsmann, 1930) 35-40. J. JEREMIAS, “Die Drei-Tage-Worte der Evangelien”, in J. JEREMIAS-H.W. KUHN-H. STEGEMANN (a cura di), Tradition und Glaube. Das frühe Christentum in seiner Umwelt (K.G. Kuhn Festschrift) (Göttingen: Vandenhoeck & Ruprecht, 1971) 221-229. 26
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
Questo detto costituisce una rivelazione volutamente enigmatica della missione di Gesù che include insieme salvezza e rovina. L’enigma risiede nell’antitesi “distruggere/edificare”, che corrisponde alla risposta diversificata di Israele nei confronti di Gesù, considerato ora come insediato. La struttura antitetica richiama due immagini della tradizione profetica classica. La prima è quella di Gerusalemme, la città del tempio posta sull’alta montagna, soggetta all’attacco delle nazioni, ma inviolabile grazie alla protezione di Yahweh (Is 8,9ss; 17,12-14; 14,26ss; Gl 2,1-20; Zc 12,2-4). La seconda è quella di Yahweh che fa salire le nazioni contro Gerusalemme (Zc 14,2; Ez 38,14-17) o lui stesso che mette la città sotto assedio (Is 29,2ss; Sof 3,8b)27. Il tema di fondo è che Yahweh protegge Gerusalemme; Yahweh contro Gerusalemme è un capovolgimento tematico fondato sulla convinzione dei profeti che l’inviolabilità della città fosse condizionata al suo legame con Dio (per esempio, Is 7,9b; 14,32; 28,16). Questa è soltanto una variazione sul tema fondamentale del capovolgimento, espresso da tutto il movimento profetico: lungi dall’essere una garanzia incondizionata di sicurezza, il giorno di Yahweh vedrebbe il giudizio divino ritorcersi contro Israele stesso. L’affermazione enigmatica di Gesù impresse una nuova forma a quest’eredità tematica. Nella dura prova che stava per esplodere, l’incredula Gerusalemme sarebbe perita. Ma al centro dell’escatologia di Gesù stava il resto messianico, unico beneficiario dell’azione salvifica di Dio. Questa è certamente la chiave dell’importante fenomeno della coerente applicazione ai discepoli, operata da Gesù, dell’immaginario della città sul monte (Mt 5,1428; cfr. Vangelo di Tommaso, 32), della roccia cosmica (Mt 16,18; cfr. Gv 1,42) e del nuovo santuario (Mc 14,58; Mt 26,61). Qui c’era la città inviolabile, che diffondeva luce sul mondo; qui c’era il tempio costruito sulla roccia, al sicuro dagli assalti non delle nazioni, ma della morte; qui c’era il santuario che sarebbe stato edificato da un re nuovamente intronizzato.
27
Vedi H.-M. LUTZ, Jahwe, Jerusalem und die Völker. Zur Vorgeschichte von Sach 12,1-8 und 14,15 (Neukirchen/Vluyn: Neukirchener Verlag, 1968) per una trattazione critico-testuale, esegetica e di storia della tradizione dei testi. 28 Vedi K.M. CAMPBELL, “The New Jerusalem in Matthew 5.14”, Scottish Journal of Theology 31 (1978) 335-363.
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VIII. L’“interno” dell’evento Gesù
IV R.G. Collingwood distingueva tra l’“esterno” e l’“interno” di un evento29. L’esterno è ciò che può essere descritto in termini di tempo, spazio e movimento. L’esterno dell’evento Gesù è facilmente riassumibile: figura pubblica poco più che trentenne, Gesù fu itinerante nelle regioni della Galilea e della Giudea nei giorni del prefetto romano Ponzio Pilato (26-36 d.C.), per ordine del quale egli fu messo a morte per crocifissione con l’accusa di pretendere di essere re. Questo sunto non costituisce una conoscenza storica in senso proprio, ma alcuni dati per la conoscenza storica. La conoscenza aggiunge ai dati lo sforzo di capire i dati e lo sforzo di assicurare che tale conoscenza sia corretta. Questi sforzi implicano la necessità di dati sempre più completi, di una conoscenza sempre più approfondita, di controlli incrociati sempre più dettagliati e circostanziati. Il risultato, inevitabilmente, è quello di scoprire qualcosa dell’“interno” dell’evento sotto indagine; cioè, di coglierlo come in qualche modo motivato, che porta da qualche parte, che è significativo in qualche contesto. Questo fattore interno, che imprime all’evento la sua densità umana e storica, può essere descritto solo in termini di senso. Il senso dell’evento – il senso ad esso intrinseco e di esso costitutivo – ha due fonti: l’intenzione del suo autore (o dei suoi autori) e il contesto della sua attualizzazione. Prescindendo dalle loro differenze, le azioni sono tutte uguali. Ma considerando le azioni non astrattamente nella loro realtà materiale soltanto, ma concretamente nella loro integrità propriamente umana, anch’esse sono tutte uniche. Questo approccio concreto all’azione, tipico della storia in quanto distinta dalla scienza, è ugualmente la chiave per capire lo scetticismo dello storico nei confronti delle “leggi” che pretendono di spiegare una data azione e per capire il suo interesse a scoprire le prospettive e gli obiettivi particolari che rendono conto della comparsa di una azione e del suo specifico contorno. Così, lo storico è positivamente concentrato sull’azione non solo perché ha luogo in un determinato contesto e vi produce un preciso impatto, ma anche perché è rivelativa di un agente. L’azione, infatti, è simbolica. Il suo significato è irriducibile al suo effetto pratico – ciò che Michael Novak chiamava “valore
29
R.G. COLLINGWOOD, The Idea of History (Oxford: Oxford University Press, 1946) 213-215.
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
contante”, riecheggiando William James. Ogni azione – sosteneva Novak – «significa anche ciò che l’agente intende significare, cioè ciò che egli simbolizza tramite essa... L’azione è come la parola: ogni vita pronuncia una parola unica»30. Questo corrisponde alla categoria di “significato incarnato” ed è ovviamente centrale per l’“interno” dell’evento. A questo punto potremmo richiamare, a scopo illustrativo, la novità dell’iniziativa di Gesù nei confronti dei peccatori notori (hamartôloi; cfr., per esempio, Mc 2,14; Mt 9,9; Lc 5,27; cfr. 19,5). A parte la purificazione del tempio, nessun’altra caratteristica della sua carriera pubblica impressionò tanto i suoi contemporanei. Per i peccatori stessi la sua libertà nell’entrare in relazione e in comunione (cfr. “il pasto” di Mc 2,15ss; Mt 9,10ss; Lc 5,29ss; cfr. 5,2) con loro fu irrestibile (cfr. “l’amico” di Mt 11,19; Lc 7,34; cfr. Mc 2,14c; Mt 9,9d; Lc 5,27c; 7,37ss), ma per i giusti (dikaioi) fu insopportabile (per esempio, Mc 2,16; Mt 9,11; Lc 5,30; Mt 11,19; Lc 7,34; 7,36-50; 15,1ss). Orbene, Gesù non intendeva abbandonare i giusti più di quanto non facesse con i peccatori; da qui deriva un insieme di parole memorabili – parecchie delle quali si trovavano nei detti introdotti da “sono venuto per” – rivolte ai giusti e tese a spiegare, giustificare e legittimare la sua iniziativa verso i peccatori. Questi testi presentano il comportamento di Gesù verso i peccatori attraverso alcune immagini come, in primo luogo, quella del medico: Non sono i sani ma i malati che hanno bisogno del medico (Mc 2,17a; Mt 9,12; Lc 5,31).
In secondo luogo, quella del messaggero (cfr. Lc 14,16ss) che ha ricevuto dal suo padrone il compito di dire agli ospiti invitati che il banchetto è pronto: Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori (Mc 2,17b; Mt 9,13; Lc 5,32).
E in terzo luogo, quella del pastore che, avendo contato le sue pecore e avendone trovata una mancante, si mette alla ricerca di quella perduta: 30
N. NOVAK, “The Christian and the Atheist”, Christianity and Crisis 31 (1966) 51-55, pagina 52.
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VIII. L’“interno” dell’evento Gesù
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Il Figlio dell’uomo è venuto per cercare e salvare chi è perduto (Lc 19,10).
Ora, l’obiettivo delle immagini del medico, del messaggero e del pastore è quello di rendere intellegibile l’“interno” delle azioni di Gesù: rivelare gli scopi che le riguardano e presentarle in un quadro parabolico delineato agilmente per illuminarle e legittimarle. Come il medico va dai malati perché hanno bisogno di lui, come il messaggero chiama gli ospiti secondo l’invito del padrone, come il pastore per il quale ogni pecora è importante si mette alla ricerca di quella perduta, così io mi rivolgo ai peccatori. Le immagini chiariscono l’enigma: non resta alcun enigma nel comportamento di Gesù verso i peccatori se si considera il bisogno dei peccatori (Mc 2,17a; Mt 9,12; Lc 5,31), l’aspettativa su Dio da parte di ogni figlio di Abramo (Lc 19,9ss; cfr. 13,16) e, infine, la stessa volontà di Dio, la sua benevolenza e il suo favore (Mc 2,17b; Mt 9,13; Lc 5,32; cfr. Lc 15,11-32; thelein in Mt 12,7; 20,14ss; thelêma in Mt 18,14; chara in Lc 15,7.10). Le immagini sono tese ad offrire le prospettive esplicative in cui il comportamento sorprendente ed enigmatico di Gesù verso i peccatori diviene all’improvviso trasparente, un’epifania luminosa dell’amore divino. Se permettiamo a queste immagini di funzionare come modelli mediante i quali capire il termine “Messia”, sorge la domanda: quale azione di Gesù intendeva spiegare il termine “Messia”? La risposta rimane in parte nascosta in quelle tradizioni alle quali abbiamo già alluso: la confessione di Cesarea di Filippi (Mt 16,13-20; Gv 1,41ss; cfr. Gv 6,68ss; Mc 8,27-30; Lc 9,18-21) e il processo di fronte al sinedrio (Mc 14,57-62; Mt 26,60-64). Infatti, queste tradizioni – come abbiamo notato – suggeriscono che il “Messia” debba essere definito, in accordo con il messianismo biblico più classico, come quel figlio di Davide e Figlio di Dio che è costituito per edificare la casa di Dio; secondariamente, queste tradizioni suggeriscono che si debba intendere l’intera missione di Gesù, divisa tra una fase terrena presente ed una celeste futura, come l’edificazione del nuovo santuario o (per traslare la metafora) l’istituzione dell’alleanza escatologica e del popolo di Dio. Il punto nel quale convergono tutte le parole e i gesti della carriera pubblica di Gesù era la restaurazione escatologica di Israele. Il termine “Messia”, nel senso dei testi suddetti, non aggiunge nulla a questo se non una sua specificazione, dietro l’immagine del nuovo santuario,
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
quale compito prefissato del figlio di Davide/Figlio di Dio messianico. In breve, “Messia” è esplicativo. Mentre “medico”, “messaggero” o “pastore” spiegano l’iniziativa di Gesù verso i peccatori, “Messia” spiega la totalità delle sue parole e dei suoi gesti e afferma la loro interrelazione in quanto aspetti dello stesso obiettivo. Predicare l’essere “Messia” di Gesù, nel senso che egli stesso intendeva, significa cogliere l’“interno” dell’evento Gesù come compito specifico di ri-creare Israele – e le nazioni attraverso una loro assimilazione ad Israele – nel compimento delle Scritture. A questa missione messianica apparteneva, soprattutto, la morte di Gesù come “riscatto” (Mc 10,45; Mt 20,28; cfr. Is 43,3ss), offerta espiatoria (Mc 14,24c; Mt 26,28b; Lc 22,20c; Gv 6,51; cfr. Is 53,10), sacrificio di comunione (Mc 14,24b; Mt 26,28a; Lc 22,20b; cfr. Es 24,8; Ger 31,31-34), non solo per Israele, ma per le nazioni (Mc 10,45; Mt 20,28; Mc 14,24; Mt 26,28b; cfr. Gv 6,51; Is 52,13-53,12). Se Gesù stesso fece in modo che il suo messianismo fosse definito dal suo destino, una simile intenzione si impose da sola nelle confessioni della Chiesa post-pasquale. Il concetto di “Messia” aveva fornito in origine agli eredi della tradizione biblica un orizzonte di senso che Israele aveva acquisito dalla “regalità sacra” e dall’intronizzazione tematizzata, dalla restaurazione del tempio e dal culto, dal giudizio e dal regno universale di giustizia e di pace. La messianicità non perse la sua aura sacrale e regale nel Cristianesimo primitivo: i vangeli lo testimoniano. Ma la morte e risurrezione di Gesù fece nascere un nuovo modello soteriologico che presto definì la messianicità di Gesù e lo fece in modo così deciso che il predicato “Cristo” divenne piuttosto il soggetto della predicazione, un cognome, un nome. All’origine di questo sviluppo, tuttavia, stava la figura storica il cui vero compito, nonostante l’apparenza, era espresso parabolicamente e in modo pressoché esaustivo nelle immagini regali dell’esperto costruttore e del tempio (Mt 16,18; Mc 14,58; Mt 26,61; Gv 2,19).
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IX. La missione nel mondo e la progressiva realizzazione dell’identità cristiana Questo studio tratta della relazione tra l’auto-coscienza del cristianesimo primitivo e l’avvio della missione cristiana primitiva nel mondo pagano. Dal punto di vista dell’auto-coscienza del cristianesimo primitivo, la domanda è: che cosa rese possibile nella mente e nel cuore del cristianesimo primitivo l’avvio della missione e ridusse la possibilità di agire? Dal punto di vista della storia della missione, la domanda è: quale impatto ebbe la missione sull’auto-coscienza della Chiesa cristiana primitiva? Prima di affrontare ordinatamente queste due questioni (nelle parti due e tre del presente studio), delineeremo brevemente lo sfondo storico e lo sviluppo dell’avvio della missione, concentrandoci meno sui dettagli dei vari episodi e più sulle condizioni della sua possibilità. La prima parte, dunque, è un profilo storico, che inizierà con Gesù. La seconda parte pone una serie di “perché?”. Perché inizialmente non vi fu alcuna missione verso i pagani da parte della comunità riunita intorno a “Cefa e... i Dodici” (1Cor 15,5)? Come spiegare, d’altro canto, la propensione degli hellênistai cristiani (ebrei cristiani che parlavano greco) di rivolgere la parola di salvezza ai Samaritani (At 8) e ai Gentili (At 11)? Cosa indusse la comunità cristiana di Antiochia a sostenere una missione verso le sinagoghe di Cipro e le zone centro-meridionali dell’Asia Minore (At 13-14)? Come spiegare il fondamentale accordo dei capi della Chiesa di Gerusalemme con la missione senza Torah di Barnaba e Paolo (Gal 2,1-10; At 15)? Cosa indusse Paolo a lanciarsi liberamente da solo, rivendicando un mandato per la missione ai Gentili di tutto il mondo? La terza parte solleverà la questione: in definitiva, quale fu il vero impatto della missione sull’auto-coscienza dei primi cristiani?
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
I Gesù ritenne che la sua missione comprendesse la salvezza del mondo (Mc 14,24 e il passo parallelo di Mt 26,281; cfr. Mc 10,45 e il passo parallelo di Mt 20,282; Mt 8,11 e il passo parallelo di Lc 13,293; Mc 4,3032 e i passi paralleli di Mt 13,31-32 e Lc 13,18-194). Ma come dobbiamo intendere l’espressione “salvezza del mondo”? Quali furono i termini precisi, storici, nei quali Gesù e i suoi primi discepoli concepirono la salvezza del mondo? Il punto giusto da cui iniziare è quello dell’idea di salvezza dell’Antico Testamento. Nella coscienza d’Israele, Yahweh aveva preso l’iniziativa di scegliersi un popolo tra i tanti popoli del mondo (Gen 11-12; Es 19,5ss). Scelse Israele e lo salvò. Stabilì un’alleanza con Israele. Da quel momento Israele fu parte di una economia di benedizioni e maledizioni, di interventi salvifici e giudizi di condanna, come nell’oracolo Soltanto voi ho eletto tra tutte le stirpi della terra; perciò io vi farò scontare tutte le vostre iniquità (Am 3,2).
Israele concepì la buona e la cattiva sorte come giudizi di alleanza di Dio. Ma l’alleanza non era una semplice intesa basata sul quid pro quo. Esprimeva l’amore elettivo di Yahweh. Le trasgressioni del patto di alleanza da parte d’Israele non riuscivano ad eliminare questo amore. Se per un verso l’applicazione della dinamica dell’alleanza per Israele significava “perciò vi farò scontare tutte le vostre iniquità”, per altro verso la medesima alleanza fondava la speranza che, sebbene il giudizio fosse terri-
1 Vedi J. JEREMIAS, The Eucharistic Words of Jesus (Philadelphia: Fortress, 1977) 179-182; R. PESCH, Das Abendmahl und Jesu Todesverständnis (Freiburg: Herder, 1978) 90-125. 2 Vedi P. STUHLMACHER, “Vicariously Giving His Life for Many, Mark 10:45 (Matt. 20:28)”, in Reconciliation, Law and Righteousness (Philadeplhia: Fortress, 1986) 16-29. 3 Vedi J. JEREMIAS, Jesus’ Promise to the Nations (London: SCM, 1958) 55ss; J. DUPONT, “‘Beaucoup viendront du levant et du couchant...’ (Matthieu 8,11-12; Luc 13,28-29)”, Sciences Ecclésiastiques 9 (1967) 153-167. Per quanto io ne sappia, nessuno ha avuto successo nel tentativo di verificare l’accertamento storico prodotto da queste parole di Gesù, e cioè che egli prevedesse il pellegrinaggio escatologico delle nazioni alla fine dei tempi. Un esempio è D. ZELLER, “Das Logion Mt 8,11f/Lk 13,18f und das Motiv der ‘Völkerwallfahrt’”, Biblische Zeitschrift 15 (1971) 227-237; 16 (1972) 18-95. 4 Vedi B.F. MEYER, The Aims of Jesus (London: SCM, 1979) 163ss, 214ss.
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IX. La missione nel mondo e la progressiva realizzazione dell’identità cristiana
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bile, qualcuno sarebbe scampato dalla bocca del leone (Am 5,15). E questi pochi – dicevano Amos, Isaia, Michea, Sofonia e gli ultimi capitoli di Zaccaria – erano i nuovi beneficiari dell’elezione e il seme dell’Israele che sarebbe stato restaurato5. Così, non fu il timore della punizione ad avere la meglio, ma le promesse della restaurazione. Io infatti conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo, dice il Signore. Sono progetti di pace e non di sventura, e vi daranno un futuro e una speranza (’acharît wetiqwah); voi mi invocherete e ricorrerete a me ed io vi esaudirò; mi cercherete e quando mi cercherete con tutto il vostro cuore mi troverete... ed io cambierò il corso del vostro destino (weshabtî et shebutekem) (Ger 29,11-14a).
Il senso dell’ultima frase è “io restaurerò le vostre fortune”, ovvero “io causerò la vostra restaurazione”6. Questo esprime bene la speranza d’Israele. Ora, speranza significa sperare che e sperare in. In quanto “sperare che”, la speranza d’Israele era centrata sulla restaurazione d’Israele; in quanto “sperare in”, era centrata su Yahweh, che era in grado di causare questa restaurazione poiché era il Signore della terra e il Signore d’Israele. Egli voleva realizzare questo progetto perché per Israele era padre (Ger 3,31; Is 63; 64) e marito (Os), vendicatore e redentore (Is 4055), come un sovrano preoccupato della sua gente (Es 19-26; Dt 6; Gs 24) e come una madre legata ai suoi figli, dal momento che egli aveva rachamîm – la tenerezza compassionevole della madre – per il suo popolo (per esempio, Sall 25,6; 79,8). Ma Yahweh era anche il Creatore e Signore delle nazioni (Gen 1-12). Nelle parole rivolte ad Israele, fece delle promesse per le nazioni, confermando che esse avrebbero preso parte alle benedizioni su Israele 5
Ibid., 224-235, spec. 225-229. Vedi E.L. DIETRICH, SWB SWBT. Die endzeitliche Wiederherstellung bei den Propheten (Giessen: Töppelmann, 1925). Sull’escatologia contenuta nelle parole “la restaurazione di Israele”, vedi E.P. SANDERS, Jesus and Judaism (London: SCM, 1985) 77-119.
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
(Gen 12,3)7 e, soprattutto, alla fondamentale benedizione della permanente restaurazione d’Israele (cfr. Is 14,1; 56,3-7; Zc 2,15; Sall 47,10; 96,710). Il regno di Yahweh, celebrato nella grande festa di autunno8, segnò così fortemente la speranza di restaurazione del profetismo classico da far in seguito ritenere che avrebbe raccolto insieme non soltanto Israele, ma anche le nazioni stesse. Forse si pensa ad entrambi nel versetto del Salmo che recita: «Si dirà di Sion: “L’uno e l’altro è nato in essa”» (Sal 87,5), dal momento che ciascuno, a prescindere da dove sia nato, riconoscerebbe in Sion la sua vera casa (Sal 87,7). Sion era la santa montagna e l’ombelico del mondo (Ez 5,5; 38,12)9. Era la fonte delle acque, e quindi della vita, per tutto il mondo (cfr. Gen 2,10-14; Ez 47; Gl 4,18; Zc 14,8; Sal 46,5). Sion era la porta che divideva questo mondo dal mondo degli inferi (Sal 9,14ss). Era il luogo del santuario del mondo (Is 56,7) e meta di pellegrinaggio del mondo alla fine dei giorni (Is 2,2-4; 18,7; 25,6; 60,1-22; 66,1823; Ger 3,17; Ag 2,7; Zc 8,20-23; 14,16-19; cfr. Is 14,1ss; 19,23; Sal 68,30). Da Sion quel Yahweh che apparteneva al futuro e alla speranza d’Israele avrebbe chiamato a raccolta la terra intera “dal sorgere del sole al suo tramonto” (Sal 50,1) e il motivo del regno di Yahweh evocava l’immagine dei principi dei popoli riuniti insieme con il popolo del Dio di Abramo (Sal 47,10). Le nazioni avrebbero portato i loro tesori come sacrifici nel cortile del tempio (Sal 96,8-10; cfr. Sal 68,30). Gesù di Nazaret si presentava all’Israele dell’epoca di Tiberio come accreditato di una missione duratura sino alla fine dei tempi. Annunciava non una rivoluzione né una riforma, ma un compimento. Annunciava il regno di Dio, che l’Israele del suo tempo giustamente riteneva significasse la restaurazione di Israele divinamente promessa e a lungo sperata10. Inoltre, con una serie di atti simbolici eclatanti – guarigioni ed 7
Vedi l’acuta indagine su questo testo di G. VON RAD, Genesis. A Commentary (Philadelphia: Westminster, 1972) 159-161. 8 Vedi J. GRAY, The Biblical Doctrine of the Reign of God (Edinburgh: Clark, 1979). 9 S. TALMON, “har gibh’ah”, Theological Dictionary of the Old Testament (Grand Rapids: Eerdmans, 1974-), vol. III, 427-447, vedi pagine 437ss. Talmon ha sostenuto che il motivo dell’ombelico è assente dalla Bibbia ebraica. Se questo dovesse rivelarsi vero, la complessa tematica dell’”ombelico del mondo” avrebbe fatto il suo ingresso nella tradizione d’Israele in epoca intertestamentaria (vedi, per esempio, Ez 38,12 secondo la LXX), fornendo un complemento al complesso dei temi già datati legati a Sion. Nel Nuovo Testamento, l’intero complesso tematico è attestato da Mt 16,17-19; vedi B.F. MEYER, Aims of Jesus, 185-197. 10 Vedi B.F. MEYER, Aims of Jesus, 133-135, 171-173, 220-222. Per una prova diretta di come l’Israele dei tempi di Gesù mettesse in relazione “regno” e “restaurazione”, vedi le parti rilevanti di Qaddis e Tephilla; Aims of Jesus, 138, 289 nota 34.
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IX. La missione nel mondo e la progressiva realizzazione dell’identità cristiana
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esorcismi, iniziative ripetute nei confronti di peccatori notorî e condivisione amicale della mensa con loro, scelta di dodici discepoli (un numero simbolico) ed invio dei dodici in tutta la Galilea con la medesima proclamazione del compimento, e infine una processione verso il tempio come il “re” umile e pacifico di Zc 9, e il gesto dai tanti significati della purificazione del cortile dei Gentili dai mercanti – Gesù si presentò come colui che realizzava il compimento (cfr. Zc 14,21), oltre che come colui che annunciava tale compimento (cfr. Is 52,7-9). In breve, c’era qui in corso di realizzazione una restaurazione d’Israele che confondeva e sbalordiva le aspettative medie in Israele. Strappava del tutto il tessuto dell’autorità degli scribi. Violava i tabù fondati sulla Torah. Con la purificazione del tempio, questa restaurazione impressionante e sconcertante mise con decisione le mani su ciò che era intoccabile. Per tutto questo e, soprattutto, per la rivendicazione di un’autorità trascendente che lo riguardava, Gesù avrebbe pagato con la sua vita. A differenza dell’Israele a lui contemporaneo, Gesù rinunciò ad ogni riferimento alla vendetta nei confronti dei Gentili11. Sebbene avesse incluso i Gentili tra i beneficiari della salvezza ultima e definitiva (della quale egli stesso era l’attore fondamentale)12, non comandò né incoraggiò una missione verso i Gentili. In continuità con la tradizione biblica, alluse alla salvezza dei Gentili secondo l’immaginario del pellegrinaggio post-storico dei popoli verso Sion restaurata (Mt 8,11 e il passo parallelo di Lc 13,29)13. Tale era l’eredità dei discepoli di Gesù di lingua aramaica (chiamati hebraioi in At) che erano riuniti nella comunità pasquale intorno a Cefa e ai Dodici. Secondo Paolo, in un testo che fornisce la prova più antica dell’auto-coscienza di questa comunità di Gerusalemme, Cefa, Giacomo e Giovanni erano “le colonne” (Gal 2,9) – colonne, cioè, del tempio messianico dei credenti14. Nella medesima ottica, questo santuario escatologico, insieme con la Sion su cui era stabilito, costituiva il nucleo del compimento delle antiche speranze. Questo santuario vivente attende-
11
J. JEREMIAS, Jesus’ Promise to the Nations (London: SCM, 1958), 40-46. Vedi B.F. MEYER, Aims of Jesus, 164, 167ss, 171, 184, 247, 298 nota 130. 13 Vedi la nota 3, sopra. 14 Vedi U. WILKENS, “stylos”, Theological Dictionary of the New Testament (Grand Rapids: Eerdmans, 1964-1974), vol. VII, 732-736, vedi 734ss; anche C.K. BARRETT, “Paul and the ‘Pillar’ Apostles”, in J.N. SEVENSTER – W.C. VAN UNNIK, Studia Paulina (J. de Zwann Festschrift) (Haarlem: Bohm, 1953) 1-19, vedi 12-16. 12
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
va gli eventi finali della storia: l’ingresso di tutto Israele nella restaurazione designata, il ritorno dei dispersi da tutti i paesi nei quali il Signore li aveva esiliati (cfr. Ger 32,37-40), la consacrazione definitiva del nome di Dio, mentre le nazioni avrebbero riconosciuto la restaurazione d’Israele (Ez 36,23) e, infine, il pellegrinaggio dei popoli, allorché Sion avesse realizzato il suo destino di cima dei monti (Is 2,2) e santuario (Is 56,7) del mondo. Gli hebraioi cristiani di Gerusalemme, di conseguenza, si ritenevano come quel santuario che Gesù avrebbe edificato “in tre giorni” (Mc 14,58 e il passo parallelo di Mt 26,61; Mc 15,29 e i passi paralleli di Mt 27,40 e Gv 2,19; cfr. At 6,14). Troviamo così la salvezza del mondo nell’ambito della visione della Chiesa di lingua aramaica di Gerusalemme, ma non vi troviamo le condizioni che permettono una missione nel mondo. Nella realtà della storia, tuttavia, i Gentili non entrerebbero nell’eredità della Chiesa di Gerusalemme attraverso un pellegrinaggio di massa. Di fatto, quelli che entrarono in tale eredità lo fecero grazie all’energico movimento missionario che si rivolse al mondo dei Gentili. Secondo At, questo fenomeno prese piede per la mediazione degli Ebrei cristiani di lingua greca, probabilmente convertiti con il primo kerygma, i cui orizzonti specifici resero possibile la missione ai non-Ebrei, e la cui iniziativa e il cui slancio trasformò la possibilità in azione. At offre alcuni dati germinali su questo elemento dinamico del Cristianesimo primitivo. Tra di essi vi sono la storia di Stefano e la sua morte per lapidazione (At 6-7); la storia di Filippo in Samaria (At 8); la storia di Saul/Paolo: la sua persecuzione (At 8), la sua conversione (At 9), e la proclamazione di Gesù nelle sinagoghe di lingua greca (At 9,19-21.29); l’arrivo ad Antiochia dei rifugiati di lingua greca provenienti da Gerusalemme e la loro predicazione ai Gentili su Gesù come Signore (At 11,19ss). Questi dati derivano, senza dubbio, dagli stessi hellênistai, attraverso le fonti letterarie antiochene15. Nonostante il loro carattere lacunoso ed episodico, le fonti chiariscono che gli hellênistai di Antiochia erano gli iniziatori di una missione nelle terre dei Gentili. Ciò che le fonti di At
15
Vedi A. VON HARNACK, Die Apostelgeschichte (Leipzig: Henrichs, 1908) 169-173; J. JEREMIAS, “Untersuchungen zum Quellenproblem der Apostelgeschichte”, Zeitschirft für die neutestamentliche Wissenschaft 36 (1937) 205-221, ristampato in Abba (Göttingen: Vandenhoeck & Ruprecht, 1966) 238-255; con riserve, M. HENGEL, “Between Jesus and Paul”, in Between Jesus and Paul (London: SCM, 1983) 1-29, vedi pagina 4.
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IX. La missione nel mondo e la progressiva realizzazione dell’identità cristiana
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non ci dicono è come avvenne che una missione rivolta alla diaspora fosse poco significativa per un’ala del cristianesimo primitivo e assai significativa per l’altra. Tra le questioni nelle quali entreremo adesso, nella seconda parte, vi è appunto ciò che questa situazione suggerisce a proposito della diversità all’interno del cristianesimo primitivo. Paolo di Tarso guardò indietro all’esperienza della sua conversione sulla via di Damasco come preordinata sin dall’inizio perché diventasse apostolo dei Gentili (Gal 1,16). Se – come è possibile, ma non certo – Paolo intese che proprio sin dall’inizio questa “rivelazione” fosse come un mandato missionario da spendere verso i Gentili, forse egli inaugurò la sua carriera subito (Gal 1,17; cfr. 2Cor 11,32ss), in Arabia, cioè nel regno nabateo (nella Transgiordania meridionale, presso il Neghev, e nella penisola del Sinai). Ma se veramente andò così, fu una esperienza fallimentare. Paolo ne avrebbe imparato che la vera realizzazione della carriera per lui stabilita non dipendeva dalla sua iniziativa personale, ma dalla linea della Chiesa. Paolo potrebbe aver avuto qualcosa a che fare con l’iniziativa della Chiesa di Antiochia sommariamente descritta nei versi iniziali di At 13. In questa impresa, Barnaba e Paolo erano partner. Il loro operato subì l’attacco dell’ala di destra degli hebraioi di Gerusalemme (Gal 2,4; At 15,1.5), ma fu confermato dalle colonne della comunità: Cefa, Giacomo e Giovanni (Gal 2,6-9; cfr. At 15,7-19). Può darsi che la distanza tra il ritratto che At offre di Paolo e quello che Paolo offre di sé si debba al cosiddetto “incidente di Antiochia” (Gal 2,11-21) e all’eredità lucana sulle idee della comunità di Antiochia. La vera vocazione di Paolo – la sua missione indipendente rivolta ai Gentili (Gal 1,15ss; cfr. 1Ts 2,3ss; Gal 2,2.7-9; Rm 1,5.14; 11,13; 15,15-28) – spiccò il volo solo dopo la disputa con Cefa e Barnaba (Gal 2,11-21), che costituì probabilmente anche la fine dei suoi particolari legami con Antiochia. In seguito, egli potè porre se stesso e la sua carriera senza ambiguità all’interno dello scenario missionario delineato in Rm 9-11, che adesso accordava la priorità alla predicazione ai Gentili. Questo reinterpretava, senza sacrificarlo, il principio storico-salvifico che si rifaceva alla logica di Antiochia e che, ben più tardi, trovò un’espressione lapidaria in Rm 1,16: «Il Giudeo prima e il Greco poi». Paolo applicava adesso il principio al piano divino nella sua globalità. Il momento presente era concentrato sulla salvezza dei Gentili. L’Apostolo dei Gentili aveva tirato fuori tutte le sue doti. Con la figura di Paolo impegnato
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
nella missione ai Gentili, siamo giunti al termine di questo quadro sommario.
II Cosa può rendere ragione del fatto che i cristiani ebrei di lingua greca mostrarono sin dall’inizio un’apertura così singolare verso i Samaritani e i Gentili? Le accuse rivolte a Stefano (At 6,13ss) offrono un primo indizio. Stefano era contrario al tempio e alla Torah, sostenendo «che Gesù il Nazareno distruggerà questo posto e sovvertirà i costumi tramandatici da Mosè» (At 6,14). La prima parte dell’accusa sembra riflettere la parola citata contro Gesù nel processo di fronte al sinedrio (Mc 14,58 e il passo parallelo di Mt 26,61; cfr. Gv 2,19). Il riferimento della seconda parte dell’accusa è meno preciso, ma probabilmente richiama in modo confuso alcune parole di Gesù come la sua affermazione di voler portare la Torah al suo compimento fissato (Mt 5,17); oppure le sue critiche (Mc 10,6-9 e il passo parallelo di Mt 19,8-9; cfr. Mt 5,32; Lc 16,18) all’inadeguatezza della legislazione deuteronomica sul divorzio (Dt 24,14) in favore di un ritorno a quello che egli considerava l’ideale originario del matrimonio (Gen 2,24); oppure la sua ostilità alla halakha corrente circa il sabato (cfr. Mc 2,27) ed altri argomenti (per esempio, Mc 7,15 e il passo parallelo di Mt 15,11). Il punto è che l’accusa rivolta contro Stefano attesta indirettamente la sua appropriazione delle tradizioni evangeliche. Considerato in riferimento all’enfasi in positivo, all’umore fiducioso, al tono, allo stile, ai preconcetti di Cefa e dei Dodici così come vengono dipinti nei primi capitoli di At, il recupero dell’interpretazione di Stefano e l’applicazione delle parole di Gesù ne emergono come indipendenti e distintive. Mentre gli hebraioi cristiani furono sostenuti da un ottimismo al quale erano sostanzialmente estranei sia l’eredità dei conflitti di Gesù con i suoi contemporanei, sia le sue dure parole sul giudizio imminente e sulla prova, la rovina della nazione, della capitale e del tempio, gli hellênistai sembrano stranamente non essere stati influenzati da questo umore positivo. Dietro le accuse contro Stefano c’era probabilmente la mal celata appropriazione da parte degli hellênistai greci di tutte le cupe profezie di Gesù. Gli hellênistai erano venuti in possesso di queste tradizioni attraverso gli hebraioi, ma ne diedero una loro interpretazione. Se le cose avvennero così, che spiegazione possiamo darne?
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IX. La missione nel mondo e la progressiva realizzazione dell’identità cristiana
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La sfida consiste nello spiegare non solo un insieme di interpretazioni precise, ma anche l’orizzonte in cui questi movimenti trovano spazio. Come descrivere e spiegare questo orizzonte? Un primo insieme di indici si lega alla rottura con il passato da parte di quelle parole storiche di Gesù che gli eventi pasquali hanno realizzato. In contrasto con la stessa visione profetica di Gesù, la sua risurrezione divergeva ex eventu dal futuro sereno e dalla cruciale venuta del regno di Dio. Ciò che non dovette essere previsto era la risurrezione dai morti singola ed isolata di Gesù, un evento distinto nel tempo dalla risurrezione generale e dal giudizio. Lo schema escatologico che informò i detti autentici di Gesù sul futuro16 aveva fissato due momenti successivi: il momento della prova (nisyônâ’ in aramaico; ho peirasmos in greco) che sarebbe stata introdotta dalla sua stessa sofferenza e dalla sua morte e che avrebbe incluso una serie di spaventosi disastri, e il momento della immediatamente successiva risoluzione della prova (“in tre giorni”)17 attraverso la rivelazione dell’“Uomo” (bar ’enashah’; ho hyios tou anthrôpou), il pellegrinaggio delle nazioni, il giudizio, il nuovo santuario nel suo splendore, il banchetto con i patriarchi. In questo schema, la vita storica del resto o dell’assemblea messianica (‘edta’; hê ekklêsia) era coestensivo alla prova; la sua preghiera dell’Abbâ’ sarebbe diventata una preghiera nella prova18; il suo caratteristico pasto cultuale non avrebbe solo commemorato la morte di Gesù, ma l’avrebbe anche evocata nella richiesta rivolta al Padre di mettere fine alla prova19. Non c’era posto in questo schema per una risurrezione singola che avvenisse nel corso del tempo storico né, di conseguenza, per un interim tra la risurrezione di Gesù e la sua manifestazione pubblica alla venuta del regno di Dio (“il giorno del [Figlio dell’] Uomo”20). L’evento pasquale frantumò 16
Vedi J. JEREMIAS, “Eine neue Schau der Zukunftaussagen Jesu”, Theologische Blätter 20 (1941) 216-222; la sostanza di questo articolo non facilmente accessibile si trova in B.F. MEYER, Aims of Jesus, 202-209. 17 Sul senso dei “tre giorni” in Mc 14,58 e nel passo parallelo di Mt 26,61, vedi l’intero saggio di J. JEREMIAS, “Die Drei-Tage-Worte der Evangelien”, in J. JEREMIAS-H.W. KUHN-H. STEGEMANN, Tradition und Glaube (Göttingen: Vandenhoeck & Ruprecht, 1971) 221-229. 18 Vedi B.F. MEYER, Aims of Jesus, 208. Per maggiori dettagli sia sulla preghiera che la prova, come anche sul contesto, vedi J. JEREMIAS,”The Lord’s Prayer in the Light of Recent Research”, in The Prayers of Jesus (London: SCM, 1967) 82-107. 19 O. HOFIUS, “‘Bis dass er kommt’: I Kor xi. 26”, New testament Studies 14 (1968) 439-441 ha mostrato che la frase temporale “achri hou elthê” in 1Cor 11,26 mostra la sfumatura di una frase finale. Questo attesta la celebrazione eucaristica come una invocazione alla parusia e al regno di Dio, in parallelo tematico con il Padre nostro. 20 In aggiunta alle citazioni della nota 16, sopra, vedi C.H. DODD, The Parables of the Kingdom (London: Nisbet, 1935; ristampa London-Glasgow: Collins [Fontana] 1961) 63.
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
questo scenario escatologico e richiese che si ricostituisse il tutto per ammettere un segmento indeterminato di tempo tra la risurrezione di Cristo e la sua manifestazione pubblica. Gli hebraioi ricostituirono la scenario, per quanto possibile, lungo le direttrici che erano state tracciate da Gesù stesso. Israele era giunto alla sua restaurazione a lungo desiderata nei discepoli, i quali celebrarono la risurrezione di Gesù e adesso costituivano la comunità messianica in Sion. Mentre si attendeva il compimento del tempo e il convenire delle nazioni, questa comunità avrebbe raccolto i suoi fratelli con la forza del kerigma pasquale. Le categorie dell’auto-comprensione della comunità erano fondate sulla tradizione di Gesù: il santuario escatologico, il resto degli ultimi giorni, l’assemblea della nuova alleanza21. Ma cosa fecero della loro eredità di temi riguardanti la prova, come quello della distruzione del tempio? I capitoli iniziali di At – come abbiamo notato – suggeriscono un’idea del tempo presente rispetto alla quale una profezia funesta era aliena ed irrilevante. La Pasqua aveva inaspettatamente inserito nel quadro escatologico un tempo ultimo di durata indeterminata (ma certamente breve!), che accorderebbe ad Israele un appello finale (e certamente irresistibile!) ad entrare nella sua eredità delle benedizioni messianiche (At 2,38; 5,31ss). Gli hellênistai cristiani non condivisero questa visione delle cose. Chiaramente, fu la loro comprensione del significato dell’evento pasquale che generò le condizioni per la loro posizione negativa nei confronti della Torah e del tempio e per la loro apertura positiva ai Samaritani e ai Gentili. Al contrario degli hebraioi, per i quali la Pasqua aveva ridotto ad uno stato provvisorio le profezie funeste di Gesù, gli hellênistai interpretarono la Pasqua precisamente come l’atto che convalidava le previsioni funeste di Gesù su Israele, sulla sua capitale e sul suo tempio. L’aspetto positivo di questa visione era la concezione della Pasqua come evento che trascende radicalmente “questa era”. Il suo impatto su coloro che la condivisero grazie alla fede e al battesimo fu dirompente. Da quel momento in poi, la vita sarebbe stata vissuta alla luce dell’“era che verrà”. Il tempio e il sacerdozio, la Torah e la halakha, oramai erano tutti obsoleti.
21
Vedi B.F. MEYER, The Church in Three Tenses (Garden City: Doubleday, 1971) 4-12.
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Inoltre, gli indici testuali della cristologia degli hellênistai illuminano la loro iniziativa missionaria. Il racconto del processo a Stefano ci fornisce un riferimento al tema del Figlio dell’uomo (At 7,56), e nella storia di Filippo ci troviamo di fronte ad un’interpretazione profetica del grande passaggio isaiano sul Servo sofferente (At 8,32-35). Entrambe queste allusioni alle fonti bibliche sono significative, perché entrambe le fonti battono sul tasto dell’universalismo. La salvezza dei “molti” (= le nazioni) in cui culmina il grande testo del Servo (Is 53,11 secondo la LXX; cfr. 52,13) ha come suo unico presupposto la sofferenza obbediente del Servo. E il dominio universale di “uno come un figlio d’uomo” (“tutte le nazioni, tribù, lingue” di Dn 7,14 secondo la LXX) segue immediatamente la sua ascesa alla corte del Vegliardo (Dn 7,13 secondo la LXX). Agli hellênistai fu necessario soltanto l’aver identificato l’evento pasquale con il rovesciamento della sorte del Servo (Is 53,10b-12 secondo la LXX) e con l’ascesa di “uno come un figlio d’uomo” (Dn 7,13 secondo la LXX) per comprendere questo evento come il fondamento scritturistico di un esplicito universalismo nel tempo presente. Ci sono poi delle composizioni liturgiche prodotte dagli hellênistai e conservate da Paolo che vanno nella stessa direzione. A mio avviso, una soddisfacente critica letteraria consente di isolare un distico pre-paolino in Rm 3,25ss22. Lo si potrebbe rendere nel modo seguente: Dio lo ha prestabilito come lo strumento (vero) di propiziazione nel suo stesso sangue / per la remissione dei peccati commessi nella (nel tempo della) pazienza di Dio.
L’effetto primario del testo è quello di presentare la morte cruenta di Cristo come un evento escatologico divinamente stabilito. Il suo significato era stato descritto in anticipo dal rito più solenne del Giorno dell’Espiazione, l’aspersione del sangue sul propiziatorio (Lv 16,14). Il coperchio d’oro sull’arca dell’alleanza aveva significato la presenza di Dio, il luogo della rivelazione, il perdono dei peccati: adesso questi significati erano esaltati per trasposizione nel Golgota dove – come tutti 22
Vedi B.F. MEYER, “The pre-Pauline Formula in Rom. 3:25-26a”, New Testament Studies 29 (1983) 198-208.
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
possono vedere – Dio attua quel compimento, il cui “tipo” era stato nascosto nel recesso più interno del tempio. Ma c’è un secondo aspetto del testo che qui cattura la nostra attenzione. Il propiziatorio – e, di conseguenza, l’intera economia della Torah rituale e del tempio – è ridotto al ruolo di “tipo”. Il “vero” propiziatorio era il Crocifisso. Nella prospettiva di questo testo il perdono dei peccati aveva atteso il cruciale, definitivo, irripetibile yôm kippur del Golgota. Una volta data questa realtà, il tempio e la Torah non potevano vantare alcun significato indipendente. Questo senso del testo converge in forma approssimativa nell’accusa contro Stefano. L’inno della lettera ai Filippesi (Fil 2,6-11) è parimenti rilevante per il recupero della soteriologia degli hellênistai. L’intento essenziale dell’inno è quello di fissare la confessione del kyrios Iêsous (“Gesù è il Signore!” di 1Cor 12,3; cfr. Rm 10,9ss) in un contesto storico-salvifico. Risurrezione, esaltazione, insediamento come Signore erano tutti aspetti dello stesso evento. L’inno fornisce una ragione divina sul perché (cfr. v. 9, “per questo” o “questo è il motivo per cui”) di questo evento: è stata una ricompensa dell’obbedienza. In risposta alla sottomissione disinteressata e totale a Dio, Dio gli ha dato il “nome” in base al quale egli è acclamato come Signore divino. Il nostro interesse attuale riguarda un aspetto secondario del testo: il riconoscimento del kyrios esaltato per acclamazione universale. Otfried Hofius ha probabilmente ragione quando ritiene che la piena realizzazione del riconoscimento universale del kyrios debba essere riservata alla fine dei tempi23. Del resto, il momento decisivo, il punto di svolta delle ere, ha già avuto luogo. Nella visione degli hellênistai che composero questo inno24, la Pasqua aveva avviato l’epoca della missione al mondo. Hebraioi ed hellênistai erano entrambi convinti che le nazioni fossero legittime beneficiarie della salvezza escatologica. La differenza tra i gruppi era costituita da un insieme di concezioni da parte degli hebraioi che gli hellênistai non condividevano: che l’accreditamento e la glorificazione inaspettatamente isolati di Gesù creassero una situazione nuova, riducendo ad uno stato provvisorio le sue cupe profezie sulla prova; che il regime della Torah rimanesse intatto come nel giorno di Gesù e con la radicaliz23
Vedi O. HOFIUS, Der Christushymnus Philipper 2,6-11 (Tübingen: Mohr, 1976) 41-55. Vedi R. DEICHGRÄBER, Gotteshymnus und Christushymnus in der frühen Christenheit (Göttingen: Vandenhoeck & Ruprecht, 1967) 128-131. 24
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zazione che egli vi portò; che (per quanto si sapesse del “quando?”) l’accesso dei Gentili alla salvezza fosse segnalato dal “giorno dell’Uomo” (cfr. Lc 17,22.26.30), secondo la visione stessa di Gesù; che (per quanto si sapesse del “come?”) questo evento avesse luogo con il pellegrinaggio escatologico descritto nelle Scritture, nuovamente in accordo con Gesù; che la missione dei suoi discepoli fosse di conseguenza limitata alla casa d’Israele, come era stato durante la vita di Gesù. Date queste concezioni, la divergenza tra l’inclusione dei Gentili nell’atto salvifico di Dio e, dall’altro lato, il loro presente isolamento dalla salvezza messianica non fu sentita come enigmatica né contraddittoria. Ma in assenza di questo insieme di concezioni e a dispetto di convinzioni contrarie – che l’accreditamento di Gesù confermasse la distruzione del tempio; che la sua morte espiatrice rendesse superfluo il culto nel tempio; che la glorificazione di Gesù avesse già rivendicato un riconoscimento ed una celebrazione universali – il mancato ingresso del mondo nella salvezza messianica fu esattamente una contraddizione che richiedeva una soluzione. Così, gli orizzonti distinti prospettati dagli hellênistai comprendevano un universalismo esplicito, non sul tipo dell’umanesimo ellenista, ma su quello dell’escatologia realizzata. Il Servo, ora glorificato, veniva considerato come colui che ha ben servito “i molti” (Is 53,11 secondo la LXX; cfr. le “molte nazioni” di Is 52,15); ora “tutte le nazioni, tribù e lingue” (Dn 7,14 secondo la LXX) venivano chiamate a servire lui, il Figlio dell’uomo assiso alla destra del Padre (At 7,56; cfr. Sal 110,1). La storia del peccato dell’uomo e della pazienza di Dio – il debito sempre maggiore e la resa dei conti sempre pazientemente posposta – si era conclusa sul Golgota (Rm 3,25ss). L’orizzonte millenario evocato dal tema di Yahweh e il suo popolo adesso cedeva il passo ad un orizzonte evocato dal tema di Dio, Cristo e l’intera razza umana. Paolo domanderebbe: «Dio lo è forse dei soli Ebrei? Egli non è anche Dio dei Gentili?» (Rm 3,29). Dio ha riconciliato a sé per mezzo di Cristo (cfr. 2Cor 5,19) non soltanto Israele, ma “i molti” (Mc 10,45 e il passo parallelo di Mt 20,28; cfr. Mc 14,24 e il passo parallelo di Mt 26,28). Ora “ogni ginocchio” e “ogni lingua” (Fil 2,10ss) stava per riconoscere Dio riconoscendo Gesù come Signore (Fil 2,11). Se gli hebraioi furono il legame della primitiva comunità con il passato di Gesù, gli hellênistai grazie alla loro auto-comprensione fecero di se stessi il legame con il futuro: non come l’avanguardia d’Israele, ma come l’avanguardia di un’umanità purificata.
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
III Abbiamo iniziato descrivendo sommariamente gli inizi della missione cristiana nel mondo pagano. Quindi, nel tentativo di rendere questi inizi storicamente intellegibili, abbiamo offerto una descrizione delle convinzioni interpretative che hanno condotto gli hellênistai cristiani dapprima ad accogliere i Samaritani e i Gentili nella salvezza e poi a sostenere un’iniziativa missionaria nella diaspora di lingua greca. Abbiamo evocato due fasi nella carriera missionaria di Paolo. Insieme con Barnaba, egli ha prima lavorato come incaricato della comunità di Antiochia. Presto, tuttavia, – e forse sotto l’impatto dell’“incidente antiocheno” – ha fatto dipendere la sua opera esclusivamente da un diretto mandato divino per una missione ai Gentili nel mondo intero25. Il Paolo delle lettere si trova già collocato in questa seconda fase della sua carriera missionaria. Ritorniamo adesso alla domanda: che impatto ebbe la missione sull’auto-coscienza dei primi cristiani? Ovviamente, una risposta esaustiva sarebbe troppo ampia, troppo complessa e troppo difficile da tentare in questa sede. Lo sarebbe ancor di più, inoltre, se si volesse focalizzare il cuore della questione, e cioè la soluzione delle questioni politiche che resero urgente l’avvio della missione. Ciò richiederà che si ritorni brevemente sulla conseguenza degli eventi storici, poiché parlare di “questioni politiche” suggerisce una certa unità conscia da parte dei cristiani insieme con una capacità conscia di affrontare autoritativamente i problemi pratici, e la storicità di entrambe queste implicazioni è stata contestata. Entrambe, per altro verso, trovano un cogente supporto storico in Paolo e in At. Paolo, per esempio, sosteneva l’unità della Chiesa attraverso la stesura delle sue lettere, che era uno sforzo di conseguire la koinônia e una pratica di koinônia realizzata, come “la colletta” per i poveri tra i santi di Gerusalemme. Inoltre, egli rese l’unità all’interno di ciascuna Chiesa (per esempio, 1Cor 1-4; 12,4-6.12-31; Fil 2,1-18) e tra le Chiese (per esempio, Rm 16,25-27; cfr. 1Cor 16,1-4) non soltanto una
25 D.G. DIX, Jew and Greek (Westminster: Dacre, 1953) 31-32, 48-50 ha avuto il merito di aver tentato di ricostruire il modo in cui la vocazione di Paolo come apostolo delle genti abbia concretamente influenzato la storia della politica missionaria. Non è chiaro se Paolo abbia iniziato presto una carriera missionaria tra i Gentili. Se così fu, egli imparò subito – come indica la lettara ai Galati – ad armonizzarla con le politiche e gli interessi ecclesiali.
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supposizione vitale (Gal 1,6-9; 2,2; 1Cor 9,19-21; 10,32), ma anche un tema pienamente articolato (1Cor 10,16ss; 12,12-31; 13,1-13). Egli sottolineò che la base ultima dell’unità è l’unico Spirito, l’unico Signore, l’unico Dio (1Cor 12,4-6), proclamato nell’unico vangelo (1Cor 12,4-6; 15,1-11; Gal 1,6-9; Rm 1,16ss), nella ri-creazione dell’umanità mediante il battesimo (1Cor 12,13; Rm 6,3ss; cfr. 2Cor 5,16-21) e l’eucaristia (1Cor 10,16ss), e nel sorgere da questa nuova creazione e dall’Israele di Dio (Gal 6,15ss) una vita comunitaria vissuta nell’amore (1Cor 13,113). Se Paolo fece della sua carriera un costante impegno per l’unità ecclesiale, questo si intreccia profondamente e facilmente con i dati ereditati in At e con i medesimi temi redazionali di Luca in At. Né Paolo né At fecero sì che la preoccupazione per l’unità inibisse, men che meno paralizzasse, l’iniziativa. I primi quindici capitoli di At delineano un movimento dinamico, pneumatico, con i suoi membri che si avventurano in un’iniziativa dietro l’altra. Ma il modello ricorrente fu quello di far seguire queste iniziative da uno sforzo di discernimento, verificandole nella loro coerenza con le esperienze, le convinzioni e gli impegni che la comunità ecclesiale considerava normativi. Un esempio di questo modello di azioni supplementari è l’invio da parte della comunità di Gerusalemme di Pietro e Giovanni in Samaria, a seguito del battesimo di Samaritani ad opera di hellênistai cristiani: fu così che i Samaritani “ricevettero lo Spirito Santo” (At 8,17). Ancora, una volta che Pietro ebbe battezzato il pagano Cornelio e la sua famiglia, fu obbligato dagli “avvocati della circoncisione” (At 11,2) a presentare la ragione di questo gesto alla comunità di Gerusalemme, cosa che egli fece con successo (At 11,4-18). Inoltre, tra coloro che sfuggirono alla persecuzione a Gerusalemme c’erano “alcuni uomini di Cipro e Cirene” che evangelizzarono i Gentili ad Antiochia. La comunità di Gerusalemme inviò Barnaba ad Antiochia per verificare la legittimità di questa iniziativa (At 11,22-24). Probabilmente a seguito di questo mandato, Barnaba a sua volta chiamò Saulo/Paolo (At 11,25) a prendere parte alla leadership antiochena di “profeti e maestri” (At 13,1). Infine ed emblematicamente, l’iniziativa di un viaggio missionario senza Torah (At 13-14) fu contestata dagli avvocati della circoncisione di Gerusalemme, ma fu legittimata dai leader della comunità di Gerusalemme (At 15; cfr. Gal 2,1-10). L’azione combinata di tre fattori nel cristianesimo primitivo – le iniziative missionarie spontanee, la preoccupazione per l’unità ecclesiale e il riconoscimento dell’autorità apostolica – generò il fenomeno dello svi-
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
luppo della coscienza cristiana. La “coscienza” in questione si riferisce non alle visioni di una particolare ala o di una fazione o di un partito all’interno del cristianesimo, ma piuttosto ad uno sviluppo da parte del cristianesimo nel suo insieme tra il 30 e il 60 d.C. In questo movimento trentennio ci fu all’interno della massa di cristiani, siano essi Ebrei o Greci, un significativo mutamento di orizzonte, di auto-comprensione e di consapevole strutturazione di sé26. Infatti, l’impatto di questo cambiamento che attraversò tutti i gruppi (ad esempio, la dialettica dell’autodefinizione di “gerosolimitano” e di “antiocheno”) fu ben più significativo del cambiamento di auto-definizione di gruppi particolari (ad esempio degli hellênistai). È in definitiva inevitabile che il peculiare intreccio di iniziative missionarie, di preoccupazione per l’unità e di riconoscimento dell’autorità potenziassero e guidassero un’evoluzione generale della coscienza cristiana. L’ultimo e principale obiettivo di questo saggio è di stabilire il fatto di questo cambiamento e di definirne il carattere. La convinzione che l’unità ecclesiale fosse un imperativo divino significò che la comunità di Gerusalemme riunita intorno a Cefa, i Dodici e Giacomo, “il fratello del Signore”, non potè considerare con indifferenza l’opera di evangelizzazione – che essi stessi non poterono avviare né poterono in corso d’opera aver visto chiaramente come avviare a loro volta – rivolta ai Samaritani e ai Gentili. La stessa convinzione dell’unità quale imperativo divino significò che, quando le innovazioni degli hellênistai cristiani spintisi da Gerusalemme a Damasco o Antiochia furono messe in dubbio e non furono ammesse dai critici presenti tra gli hebraioi cristiani di Gerusalemme, gli innovatori non si sentirono liberi di mantenere la loro via di azione nella convinzione intoccabile di avere ragione. Piuttosto, cercarono di ricondurre il conflitto ad una soluzione autoritativa. Paolo rimase all’interno di questa tradizione. Senza dubbio, non dubitò mai dell’autenticità della sua vocazione: ma non pensò di prendere la propria strada, senza fare riferimento ai santi osservanti della Torah di Gerusalemme (Gal 2,2)27. 26
Sono questi i tre momenti che costituiscono insieme “l’auto-definizione”, nel mio uso del termine; vedi B.F. MEYER, Self-Definition and Early Christianity, I. LAWRENCE (a cura di) (Berkeley: Center for Hermeneutic Studies in Hellenistic and Modern Culture, 1980) spec. 6-9. 27 Questo è esplicito in Paolo (per esempio, Gal 2,2); è anche una delle supposizioni vitali, senza le quali i dati che provengono da Paolo e da At per ricostruire ciò che veramente avvenne perderebbero la loro intellegibilità. L’identificazione di supposizioni indispensabili come questa era una tecnica basilare e di particolare successo nella descrizione di Dix del passaggio del cristianesimo verso il mondo pagano. Vedi Jew and Greek, 29-51.
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Quanto è stata influenzata la coscienza religiosa ed ecclesiale di questi Gerosolimitani dai successi dei missionari cristiani di Antiochia nella diaspora dei Greci? Alcuni studiosi hanno voluto rispondere: per niente28. I Gerosolimitani (a dispetto dell’esplicita testimonianza contraria di Paolo, che rispettò le “colonne”) non hanno mai approvato la missione senza Torah; i “due fronti rimasero tali” e furono d’accordo “nel restare differenti”29. Ma ci si può domandare della plausibilità storica di questa visione. Infatti, mentre la vita di coloro che osservavano la Torah tra i cristiani di Gerusalemme differiva dalla vita senza Torah dei loro fratelli pagani nelle comunità paoline ed in altre comunità della diaspora di lingua greca, e mentre entrambe le frange della Chiesa primitiva erano d’accordo nell’essere diversi in questo aspetto, non interpretarono le differenze come divisioni che infrangessero la comunione ecclesiale. A differenza di una minoranza di dissidenti reazionari tra gli hebraioi, Cefa, Giacomo e Giovanni potevano affermare – e di fatto lo fecero – sia la diversità che l’unità, come fecero Paolo e Barnaba. Non chiesero che i Gentili convertiti al comune kerygma cristiano (1Cor 15,11) fossero circoncisi. Tra gli Ebrei cristiani e i Greci cristiani l’uniformità non era imperativa; di conseguenza, c’era unità all’interno della diversità. Da parte dei Gentili convertiti nel bacino del Mediterraneo questo è ampiamente attestato e storicamente certo. Da parte degli hebraioi cristiani di Gerusalemme, sebbene meno compiutamente attestato, è ancora solidamente probabile, e sicuramente più probabile dell’ipotesi contraria (per esempio, che la Chiesa di Gerusalemme abbia completamente rifiutato la collezione di testi paolini, implicando così una frattura ecclesiale). In realtà, si schiuse un nuovo capitolo nella storia cristiana grazie agli eventi avvenuti nella decade in cui Cefa, Paolo e Giacomo furono giustiziati, e tra gli Ebrei di Palestina scoppiò la rivolta contro l’impero: da quel momento in poi, il centro di gravità del cristianesimo si sarebbe spostato da Gerusalemme ad Antiochia ed Efeso e, successivamente, a Roma. Tali sviluppi, tuttavia, vanno oltre il limite che abbiamo posto per questo saggio (il 60 d.C.).
28
Per esempio, R. MEYER, “peritemnô”, Theological Dictionary of the New Testament, vol. VI, 7284, vedi 83: «Gl 2,7 ci mostra, di sicuro, che fondamentalmente la libertà dal Ioudaismos era semplicemente nota a Gerusalemme...». Questa idea è seguita da Eduard Meyer, Hans Lietzmann e altri. 29 R. MEYER, “peritemnô”, 83.
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
Come dobbiamo spiegare la volontà di unità tra i leader degli hellênistai e l’apertura alle nuove iniziative tra i leader degli hebraioi? La risposta qui proposta è che per entrambi tutto derivò dall’esperienza cardine della salvezza, cioè da ciò che i teologi del kerygma nel nostro secolo hanno chiamato “l’esperienza pasquale dei discepoli” (das Ostererlebnis der Jünger). Questa esperienza è stata “cardine” nel senso che su di essa, secondo Paolo, si è basata la divina rivelazione del vangelo e il mandato di proclamarlo (cfr., ad esempio, 2Cor 5,18ss). Fu su questa base – mi pare di poter dire – che Paolo potè elaborare un appello ragionato per gli hebraioi (rappresentati da Cefa in un particolare momento ad Antiochia): «Noi [cioè, tu tanto quanto io]... siamo venuti a sapere [cioè, in virtù del nostro incontro con il Cristo risorto] che l’uomo è giustificato non per le opere della legge, ma per la fede in Cristo...» (Gal 2,15ss). L’esperienza della Pasqua, che ha prodotto il vangelo e di conseguenza un indice normativo per il vangelo, ha completamente evitato la Torah, né inglobandola né implicandola. L’appello di Paolo a Cefa ebbe la sua controparte nel suo appello ai Galati (Gal 3,25). Anche loro avevano avuto un’esperienza della salvezza, un’esperienza carismatica dei doni dello Spirito di Dio. Quale ruolo aveva giocato la Torah in questa esperienza? Nessuno. Cadde così al di fuori della sfera di ciò che è normativo. Inoltre, l’appello all’esperienza della salvezza come principio di discernimento fece da perno dell’apologia di Pietro sul fatto di aver battezzato Cornelio e la sua famiglia senza esigere la circoncisione (At 11,15-17). In una parola, l’esperienza della salvezza fu un’indice dell’identità cristiana. L’ “identità” è ciò che ciascuno diventa essenzialmente grazie alla sua fedeltà. La fedeltà propria dei cristiani è ricapitolata (per usare un termine paolino) nel “vangelo” (euaggelion). Sono i cristiani che si affidano al vangelo, e l’identità cristiana è ciò che questo affidamento al vangelo produce in quelli che si affidano. “Identità cristiana” e “vangelo” sono termini esattamente correlativi. Nella concretezza della storia, tuttavia, l’identità si realizza in un contesto culturale. I cristiani hellênistai differivano culturalmente dai cristiani hebraioi presenti a Gerusalemme già agli inizi degli anni Trenta. Quando si considera l’identità non astraendola dal contesto culturale, ma esattamente all’interno di esso, la chiamerei “auto-definizione”. L’auto-definizione, in altre parole, è l’identità incarnata culturalmente. Poiché la religiosità della Torah era parte integrante degli orizzonti degli hebraioi di
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Gerusalemme, essi assimilarono l’esperienza della salvezza in un modo che lasciò intatta la fedeltà alla Torah. Questo è il punto nel quale dobbiamo badare all’appello paolino che differenziava tra religiosità della Torah e cuore dell’esperienza cristiana: «Noi [voi ed io] siamo venuti a sapere [attraverso il nostro incontro con il Cristo risorto] che l’uomo è stato giustificato non per le opere della legge, ma per la fede in Cristo» (Gal 2,15ss). Abbiamo detto che “l’esperienza pasquale dei discepoli” fu l’esperienza cristiana portante, poiché il vangelo e la sua proclamazione si sono legati ad essa (2Cor 5,19; cfr. 1Cor 2,10-16; 9,1ss; 15,1-11). Fu un’esperienza determinante: non soltanto una rivelazione, ma anche una riconciliazione – riconciliazione con Dio, attraverso la comunione offerta dal suo Figlio risorto e glorificato, degli uomini che avevano in precedenza rifiutato la chiamata di questo stesso Figlio (Giacomo), o che lo avevano abbandonato (i discepoli in genere), o “rinnegato” (Pietro), o “perseguitato” (Paolo)30. Né le prescrizioni della Torah, né i suoi rimedi per la trasgressione avevano avuto alcun ruolo in questo dramma di assoluzione e riconciliazione. Non aveva né identificato né condannato le trasgressioni, né, ancor meno, aveva mediato per la loro cancellazione. L’esperienza della Pasqua – in modo esclusivo, integrale e normativo – era stata una rivelazione, una riconciliazione ed un mandato. Aveva generato il contenuto del vangelo e l’incarico di proclamarlo. In quanto atto fondativo, l’esperienza della Pasqua non fu soltanto un’esperienza primaria presto lasciata alle spalle. Fu una risorsa costante, il cui senso pieno poteva giungere ad una coscienza tematizzata solo dopo un certo tempo e sotto la pressione dell’esperienza. Nel secolo scorso, Carl von Weizsäcker sostenne che la persecuzione del movimento di Gesù da parte del giudaismo (At 8,1) costituì l’esperienza che “liberò la fede cristiana”. La persecuzione, cioè, funzionò da strumento a causa del quale il cristianesimo «giunse ad una conoscenza di sé»31. Un aspetto di questa osservazione è certamente giusto: la matrice della realtà sociale che è il “significato” è, come ha sostenuto Georg Herbert
30
Vedi P. STUHLMACHER, “Jesus’ Resurrection and the View of Righteousness in the Pre-Pauline Mission Congregations”, in Reconciliation, Law and Righteousness (Philadelphia: Fortress, 1986) 54. 31 C. VON WEIZSÄCKER, The Apostolic Age of the Christian Church, 2 voll. (New York: Putnam, 1897), vol. 1, 75. 32 Sul paradigma di Mead, vedi G. WINTER, Elements for a Social Ethic (New York: Macmillan, 1966) 17-29, 88-104.
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
Mead, la dialettica tra chi dà un impulso e chi risponde32. Chi dà l’impulso impara il significato del suo gesto tenendo conto della risposta di colui che risponde. Così, gli hellênistai furono solo una delle due frange che costituirono la comunità cristiana. La persecuzione degli hellênistai33, piuttosto, consentì il passaggio da un’auto-definizione concreta ad una tematizzata degli hellênistai. Del resto, abbiamo sottolineato come la dialettica intercorsa tra il gruppo degli hebraioi e quello degli hellênistai, di Gerusalemme e di Antiochia, produsse qualcosa come una comune consapevolezza cristiana. Inoltre, abbiamo già collocato l’atto che intensificò quella dialettica. Si trattò dell’avvio della missione senza Torah. Questo fu ciò che “liberò la fede cristiana”. Qui si trovano i mezzi attraverso i quali la fede cristiana conobbe se stessa. La missione portò la Chiesa primitiva a scoprire, con fatica, un’identità irriducibile a qualunque contesto culturale. L’identità cristiana era culturalmente incarnata, e questo significa che era incarnata in modi diversi. Ma non si esauriva, né veniva fagocitata né si cristallizzava in alcuna delle sue incarnazioni culturali. Come sosteneva Paolo, «non hanno alcuna importanza né la circoncisione né la non circoncisione» (Gal 6,15; cfr. 1Cor 7,19). Questo dramma interno al cristianesimo, messo in moto dalla missione senza Torah, fu un dramma di identità. Al di là della crisi delle auto-definizioni in conflitto, se gerosolimitana o antiochena, un’unica identità – il soggetto legato all’unico vangelo – venne alla luce per l’auto-conoscenza tematizzata. Un adagio greco, basato su un verso di Pindaro, recita: «Divieni ciò che sei!». Attraverso la crisi provocata dalla missione verso il mondo, il cristianesimo divenne ciò che già era: l’Israele restaurato; ma anche ben oltre questo, dal momento che l’Israele di Dio era una nuova creazione. La figura che diede fuoco a questo momento di auto-realizzazione fu, naturalmente, Paolo di Tarso. Pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti, per guadagnare il maggior numero: mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei; con coloro che sono sotto la legge sono diventato come uno che è sotto la legge, 33 Su questo argomento e sulle sinagoghe in questione, vedi M. HENGEL, “Between Jesus and Paul”, 17-25, con le note su 148-154.
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IX. La missione nel mondo e la progressiva realizzazione dell’identità cristiana
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(pur non essendo sotto la legge) allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la legge. Con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza la legge, (pur non essendo senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo) per guadagnare coloro che sono senza legge (1Cor 9,19-21).
Questa significativa flessibilità, che rispetta le culture religiose o le auto-definizioni, non costituisce un dato isolato in Paolo. Quando era in gioco il vangelo, né la circoncisione né il prepuzio avevano la minima importanza (Gal 6,15; 1Cor 7,19). Avendo condotto l’identità cristiana alla piena consapevolezza, Paolo potè relativizzare ogni auto-definizione. Per esempio, riuscì ad anteporre il vangelo all’auto-definizione, in sé pienamente legittima, del “forte” a Corinto e a Roma. Questo gli consentì di distinguere tra unità e uniformità. Infatti, come abbiamo già notato, c’erano due insiemi di opposti: unità contro divisione e uniformità contro diversità. Se la divisione era incompatibile con l’unità e la diversità lo era con l’uniformità, tuttavia non c’era incompatibilità tra unità e diversità. Paolo le affermò entrambe, ma a questa condizione: allorché la diversità cominciava a costituire una minaccia per l’unità, egli affermava la priorità dell’unità34. Un unico vangelo significava un’unica Chiesa identica a se stessa, e alle pluralità di auto-definizioni, per quanto legittime, non sarebbe stato consentito di sovvertire l’unicità del vangelo e la corrispondente unicità della Chiesa. A partire dall’esperienza della Pasqua, i discepoli divennero consapevoli di una nuova identità ecclesiale, storico-elettiva. Ma si mossero da una coscienza dell’identità alla conoscenza dell’identità soltanto sotto la pressione dell’inizio della missione ai Gentili. La pressione fu generata da conflitti teologici, e i conflitti erano radicati nelle differenze culturali. Il passaggio dalla mera coscienza dell’identità alla conoscenza tematica dell’identità consistette concretamente in ciò che Gregory Dix chia-
34 B. HOLMBERG, Paul and Power (Lund: Gleerup, 1978) 25, cita con apparente approvazione la visione di Traugott Holtz secondo cui il valore supremo per Paolo non era l’unità della Chiesa, ma la verità del vangelo. Il problema, tuttavia, è se Paolo abbia separato i due aspetti. Si sarebbe potuto dire che “i forti” a Roma avessero avuto i migliori argomenti con “i deboli”, per ciò che concerne la verità; ma Paolo, invocando il Regno di Dio, li invita a sollevare i deboli con lo scopo di una “perfetta armonia” reciproca, “un solo cuore e una sola voce” nel glorificare Dio (Rm 14,13-15,6).
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
mava «la “de-giudaizzazione”... del cristianesimo»35. La speranza escatologica di Israele nella restaurazione definitiva fu la crisalide dell’universalismo escatologico, quando queste speranze trovarono compimento. Pubblicamente, Gesù proclamava il regno di Dio e la restaurazione d’Israele. Privatamente, insegnava ai suoi discepoli che cosa questo significasse per lui: la sua morte per il mondo e la sua glorificazione – per accreditare il senso e il valore della morte ed anche per annullare i suoi effetti fisici. Se la morte e glorificazione di Gesù definirono il vangelo, lo slancio universalista di quella morte e glorificazione in qualche misura appartenevano alla definizione. In che modo? La missione al mondo lo mostrò. Infatti, la missione espose alla luce del giorno ciò che era rimasto nell’oscurità, un po’ sotto la superficie delle speranze d’Israele, un po’ sotto la superficie anche dell’esperienza pasquale. Questa missione, in modo graduale ma drammatico, mise a nudo non solo di fronte al mondo ma anche ai cristiani stessi ciò che il vangelo era: la potenza della salvezza per chiunque crede. Era una notizia per la nuova creazione e per una nuova umanità. Il vangelo era una terza forza, irriducibile al giudaismo e all’Ellenismo36. L’identità correlativa al vangelo, di conseguenza, trascendeva Giudei e Greci, schiavi e liberi, uomini e donne. Questa missione consentì al cristianesimo di conoscersi come umanità resa nuova dalla solidarietà con un nuovo Adamo alla fine risorto dai morti (1Cor 15,45).
35
G. DIX, Jew and Greek (Westminster: Dacre, 1953), 109. Dix chiude la discussione: il processo per il quale il cristianesimo smise di essere giudaico non lo rese per questo greco. «Esso divenne cristianesimo in sé». O, «se vogliamo volgerla in positivo, allora [non l’‘ellenizzazione del cristianesimo’, ma] la ‘cattolicizzazione del cristianesimo’ deve servire», 109. Quando lo scrittore della lettera agli Efesini (Ef 3,1-21), Paolo, vide per dono divino dell’insight entro “il segreto” della salvezza in Cristo, egli divenne mediatore di questo processo. 36
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X. Il realismo critico e la teologia biblica Socrate scoprì la differenza tra cogliere il senso delle cose e cogliere il senso del modo in cui la gente coglie il senso delle cose. La gente coglie il senso delle cose anzitutto in base ai significati e ai valori che fondano, costituiscono e animano il loro modo di vivere. Socrate qualificò questi significati e valori vitali con alcuni nomi quali eccellenza, giustizia, bellezza, pietà, coraggio, auto-controllo, gioia. Ma la storia del tentativo di Socrate di definirli rivelò che c’erano due livelli di significato: un livello primario, spontaneo, nel quale gli uomini erano soliti usare il linguaggio quotidiano, ed un livello secondario, riflesso, nel quale possono provare a dire esattamente in che modo intendono il linguaggio. Abituati al primo livello, gli Ateniesi furono sorpresi di ritrovarsi così all’improvviso disorientati e confusi nel secondo livello. Inoltre, non riconoscevano alcuna precisa necessità di agire bene in questo secondo livello e, come sappiamo dalla cicuta al termine della storia, finirono per risentirsi del curioso miscuglio di modestia e presunzione con cui Socrate vi aveva insistito. Ma quanta ragione aveva Socrate! Negli affari pratici della vita, gli uomini primitivi, sia nell’antichità che nell’era moderna, sono intelligenti e ragionevoli come tutti gli altri. Ma – come ha osservato Lonergan – resta il fatto che le loro attività sono «penetrate, circondate e dominate dal mito e dalla magia»1. Inoltre, ciò che vale per i primitivi, vale anche per le civiltà antiche più evolute. Il mito e la magia penetravano e dominavano «sia le attività ordinarie della vita quotidiana, sia le aspirazioni segrete del cuore umano»2. Entrambi, il mito e la magia, avevano un significato, ma era un significato che era andato smarrito. Da qui, l’importanza dell’impresa socratica. «La mediazione [critica] del significato non è un discorso inutile, ma una tecnica che mette fine al discor-
1 B. LONERGAN, “Dimensions of Meaning”, in F.E. CROWE (a cura di), Collection. Papers by Bernard Lonergan (New York: Herder & Herder, 1967) 252-267, pagina 257. 2 B. LONERGAN, “Dimensions of Meaning”, 257.
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
so inutile»3. Ad un livello più profondo di tutti i suoi sistemi politici ed economici e di tutte le sue guerre e rivoluzioni che li hanno introdotti o eliminati, la storia della civiltà occidentale è un registro di significati e valori mantenuti o abbandonati, adottati o rigettati; ed è anche una descrizione del ruolo giocato in questo dramma dallo sforzo critico di cogliere il senso di questi significati e valori e di ottenerne un qualche controllo. Come un sogno prima che il terapista lo abbia interpretato, i significati e i valori spontaneamente vissuti generano una misteriosa forza primitiva. In una cultura pre-critica questa forza è mitigata solo dal buon senso, le cui risorse – essendo limitate alla quotidianità – non sono all’altezza del compito di tenere sotto controllo le straripanti energie dell’immaginazione e della fantasia, della passione e dell’affettività. Ma, nel momento in cui subentra la mediazione del significato di Socrate – la critica che coglie il senso del modo in cui gli uomini colgono il senso delle loro vite – la vita pre-critica viene ricordata come l’ombra proiettata contro il muro della caverna. La teologia biblica è una mediazione critica del significato. In quanto tale, costituisce una rottura con una vita non-riflessa e specificamente con un’appropriazione di proverbi, canti e storie che non sappia dubitare di sé. J.H. Plumb si riferiva a questo tipo di appropriazione come “il passato” nella frase “la morte del passato”: una tradizione popolare al servizio degli interessi di un partito, di una classe, di una Chiesa o di una nazione4. Quando si cerca di purificare le concezioni popolari del passato, è costante la tentazione di evitare il difficile compito di trovare le verità in mezzo alle illusioni. È ben più esaltante la gioia di aggredire e di smascherare le bugie degli antichi. La critica può essere eccitante: può degenerare in un’onestà demoniaca che si accanisce sulle vittime. Si faccia giustizia, anche se il cielo cade e il mondo perisce. Inoltre, la critica che prova gusto a mettere a nudo l’illusione si mescola facilmente con la critica rafforzata dall’alienazione e che si autodefinisce come liberazione. In questo non c’è niente di nuovo per la ricerca biblica. Sulla scia di Richard Simon (1638-1712) e Baruch Spinoza (1632-1677), gli studi biblici moderni hanno assunto la forma di due rivoli gemelli, l’uno in 3
Ibid. J.H. PLUMB, The Death of the Past (London: Macmillan, 1969), spec. “The Sanction of the Past”, 19-61. 4
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X. Il realismo critico e la teologia biblica
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continuità e l’altro in discontinuità con la religione biblica. Simon e Spinoza ne possono essere rispettivamente considerati gli eponimi. Per quanto concerne le materie tecniche (lessicografia, critica testuale, ricerca ambientale, ecc.) i due corsi d’acqua hanno proceduto in parallelo, ma quanto allo spirito e all’obiettivo hanno preso direzioni divergenti: gli ortodossi e i pietisti si sono misurati con i neologisti e i razionalisti nel Settecento, i conservatori con i liberali nell’Ottocento, i Protestanti conservatori e la corrente principale cattolica contro i demitologizzatori e gli storici ideologicamente secolari della religione biblica nel Novecento. I due rivoli, o ali, tra i biblisti hanno offerto contributi tangibili al progresso tecnico. Le differenze tra di loro sono state sempre di natura ermeneutica. Il punto forte della tradizione della discontinuità (gli studiosi senza dogma) è stato il suo atteggiamento risolutamente critico; la sua debolezza risiedeva nell’alienazione talora latente, talaltra palese, che pervadeva la sua distanza critica dal testo biblico. Al contrario, il punto forte del filone della continuità (conservatorismo religioso e teologico) è stato la sua connaturalità con il testo; la sua debolezza è stata la propensione ad armonizzare le divergenze e a sottovalutare le discontinuità tra passato e presente. L’ideale interpretativo in qualche modo comprende questi due estremi ed occupa lo spazio tra di essi, per mitigare il calore della connaturalità con la frescura della distanza critica. La teologia biblica è un progetto storico, ma è anche ben più di un progetto storico. In quanto ricostruzione di istituzioni religiose e legami nell’Israele antico e nel cristianesimo primitivo, appartiene alla storia delle religioni. Di conseguenza si basa sulle acquisizioni della scuola della Storia delle religioni (1890-1920), cioè sulla scoperta dei contesti che condizionavano l’antico Israele, il giudaismo primitivo, e il cristianesimo ai suoi inizi in seno al giudaismo e durante il suo primo sviluppo in Occidente, in Egitto e sulla costa settentrionale del bacino del Mediterraneo. Ma una teologia biblica degna di questo nome si distinguerà dalla scuola della Storia delle religioni e dagli attuali successori di quella scuola dal momento che costoro hanno inserito l’impresa storica nella causa di emancipazione dal cristianesimo classico o storico o dogmatico. Il dilemma ermeneutico di questa scuola – il suo spontaneo e ricercato tirarsi indietro di fronte proprio a quei fenomeni che aveva dichiarato di voler comprendere – fa tutt’uno con questo orientamento di base. La genuina teologia biblica appartiene piuttosto al filone di
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
Simon, quello della continuità con la tradizione biblica. A differenza della scuola della Storia delle religioni, questo filone concepisce il cristianesimo primitivo non come un’alternativa liberante per il cristianesimo classico, ma come la sua fondazione radicalmente omogenea. Inoltre, concepisce lo spirito critico non come la fine della fedeltà religiosa in favore dell’obiettività del positivismo, ma come un servizio a tale fedeltà in accordo con l’oggettività del realismo critico. Qui l’aggettivo “critico” (da krisis, “giudizio”) implica una completa valorizzazione dell’adagio scolastico “ens per verum innotescit” (“si conosce l’essere attraverso il vero”). La realtà, in altri termini, viene alla luce non attraverso atti come il guardare un albero e il calciare una pietra, ma attraverso l’atto del giudizio vero, con il quale l’intelligenza riflessiva porta a maturazione il processo discorsivo e spesso laborioso di cercare di scoprire ciò che è vero. Il termine “realismo” significa che, in quanto intimamente correlativa alla verità, la realtà è lo scopo del cammino di conoscenza. La grande tradizione epistemologica trova così una nuova affermazione ma, distinguendosi dalla semplicistica affermazione del buon senso (il calcio ad una pietra di Samuel Johnson nella confutazione di Berkeley), l’affermazione critica si fonda su di un ponderato esame dei dati cognitivi. Quando Lonergan affrontò l’argomento, questo esame aveva un obiettivo apparentemente modesto: quello di indicare i dati di fatto5. I fatti cognitivi emergevano dall’attenzione ai dati cognitivi, dallo sforzo di comprendere questi dati e di assicurarsi che tale comprensione fosse corretta. Ma l’accertamento del fatto cognitivo ebbe delle importanti conseguenze negative e positive. In negativo, ruppe l’incantesimo del “mito cognitivo”6, o del “pensare come vedere”7, o delle “nozioni di conoscenza e realtà... formate in età infantile”8: in altri termini, venne meno l’idea secondo cui conoscere è come vedere e che la realtà sia qualcosa da vedere. Queste erano nozioni che lungo i secoli avevano fornito «le incrollabili fondamenta del materialismo, dell’empirismo,
5
B. LONERGAN, Insight. A Study of Human Understanding (London e New York: Longmans, 1957; ristampa London: Darton, Longman & Todd, 1983) 3-374. 6 B. LONERGAN, Method in Theology (New York: Herder & Herder, 1972) 239ss. 7 B. LONERGAN, “The Subject”, in W.F.J. RYAN – J. TYRREL (a cura di), A Second Collection. Papers by Bernard J.F. Lonergan (London: Darton, Longman & Todd, 1974) 76-78. 8 B. LONERGAN, Method in Theology, 213.
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X. Il realismo critico e la teologia biblica
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del positivismo, del sensismo, del fenomenologismo, del behaviorismo, del pragmatismo...»9. In positivo, l’accertamento del fatto cognitivo portò al riconoscimento della critica idealista di queste nozioni primitive (si trascurava il ruolo essenziale degli atti dell’intelligenza) ma, fatto altrettanto importante, portò anche al superamento dell’idealismo. Mentre Kant aveva posto una relazione diretta tra il soggetto e l’oggetto esclusivamente attraverso la percezione sensoriale10, Lonergan sostenne (in base all’impossibilità assoluta di ridurre l’intenzionalità umana, che in casi particolari approda a giudizi veri) che le attività cognitive umane avevano l’essere come loro oggetto; che l’attività immediatamente collegata a questo oggetto fosse il domandare; che tutte le altre attività cognitive, inclusa la conoscenza del senso come anche la comprensione ed il giudizio, fossero collegate all’oggetto, l’essere, in modo mediato – dal momento che erano mezzi per arrivare alle risposte nelle quali e attraverso le quali si raggiungeva lo scopo inteso dal domandare11. Avendo rotto sia con l’ostinata illusione che la conoscenza del senso debba cedere alla realtà sia con la correzione idealista altrettanto illusoria secondo cui è la realtà a dover cedere all’apparenza12, Lonergan potè ricostituire il mondo che precedeva le domande e le risposte, il “mondo dell’immediatezza”, il mondo puramente dato, in cui ancora non ci si meraviglia, non si pongono domande, non si fanno interpretazioni, reso presente dagli atti del sentire; a partire da questo, Lonergan riuscì a distinguere “il mondo mediato da un significato”, reso presente in prima istanza dal fare attenzione, dal capire, dall’adottare parole e frasi, costumi e convinzioni, preferenze e valori di un determinato ambiente umano. Oggetto ed oggettività differivano in base alle differenze tra questi due mondi. Nel mondo mediato dal significato, l’“oggetto” era ciò che era inteso dalle domande ed era conosciuto quando alle domande si dava una risposta soddisfacente. Nel mondo dell’immediatezza, l’“oggetto” era solamente il terminale di una coscienza aperta all’ester-
9
Ibid. I. KANT, Kritik der reinen Vernunft, A. 19, B. 33. 11 B. LONERGAN, “The Subject”, 78ss. Vedi anche Method in Theology, 262ss: le risposte si riferiscono ad oggetti in modo mediato, cioè nella misura in cui esse si legano ad oggetti soltanto attraverso le domande che si riferiscono a quegli oggetti. 12 La conoscenza sensibile da sola non produce né realtà, né apparenza, ma dati. Vedi Insight, 252ss, sulla dualità tra conoscenza “elementare” e “pienamente umana”. 10
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no, qualunque cosa venga vista, udita, toccata, assaggiata, odorata. In corrispondenza con questi due significati di “oggetto”, c’erano due significati di “oggettività”. Nel mondo dell’immediatezza, la condizione di oggettività era «l’essere un animale perfettamente funzionante»13. Ma nel mondo mediato dal significato, l’oggettività aveva parecchie componenti. L’oggettività esperienziale consisteva nel darsi dei dati. L’oggettività normativa sorgeva quando si incontravano le esigenze dell’intelligenza (cioè, nel caso dell’insight nelle risposte alle domande) e della ragionevolezza (cioè, nel caso della logica che collega l’insight alle condizioni della sua verità). L’oggettività terminale o assoluta risultava dalla combinazione dell’oggettività normativa ed esperienziale, proprio come la conclusione del sillogismo “se x, allora y; ma x, dunque y” risultava dalla combinazione delle proposizioni maggiore e minore14. Questa gnoseologia assai precisa si apriva ad una metafisica non oscurantista, ad un’etica della libertà e della responsabilità, ad una descrizione positiva della conoscenza trascendente generale (l’affermazione razionale di Dio) e della conoscenza trascendente speciale (l’anticipazione della religione che emerge dalle antitesi di Dio e male)15. Per i biblisti, una base filosofica di questo tipo avrebbe reso l’inestimabile servizio di “rimuovere ciò che proibisce” (removens prohibens), cioè di liberare l’esegeta, lo storico e il teologo da inibizioni e proibizioni come quelle legate alla cosiddetta “visione scientifica del mondo”: questa era fondata su alcune obsolete nozioni di scienza (una legge inalterabile) e natura (un determinismo meccanicistico) e su di una descrizione della scienza non solo quale modello di ogni conoscenza, ma anche quale norma negativa delle risposte alle domande non-scientifiche. La mancanza di una base filosofica solida e liberante risulta evidente lungo tutta la storia degli studi biblici moderni. Insieme con altri fattori, l’inadeguatezza filosofica concernente la storia umana faceva da sfondo alla forte corrente del Marcionismo, già emersa all’interno della Riforma, che offuscò il rilancio di una teologia biblica soddisfacente sin dai gior13
B. LONERGAN, Method in Theology, 263. B. LONERGAN, “Insight Revisited”, in W.F.J. RYAN – J. TYRREL (a cura di), A Second Collection. Papers by Bernard J.F. Lonergan (London: Darton, Longman & Todd, 1974) 275. 15 Vedi B. LONERGAN, Insight. A Study of Human Understanding, 385-549 sulla metafisica; 595633 sull’etica; 634-686 sulla conoscenza trascendente generale; 687-730 sulla conoscenza trascendente speciale. 14
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ni di Hegel (la religione d’Israele era inferiore ai culti greci e romani) e Schleiermacher (non c’era alcuna speciale rivelazione divina nella religione legalistica dell’Antico Testamento), passando per l’epoca di Friedrich Delitzsch (l’Antico Testamento, nel suo contenuto e nella sua storia, non aveva legami con il Nuovo; Gesù non era un ebreo) e Harnack (non c’è più alcuna scusa per mantenere l’Antico Testamento come parte del canone), per arrivare all’epoca di Hirsch (l’Antico Testamento è sgradevole e teologicamente superfluo) e Bultmann (la funzione dell’Antico Testamento nel canone è di rappresentare il proprio fallimento come via verso Dio)16. Le opzioni filosofiche di fatto operanti tra i biblisti, lungi dal riuscire a neutralizzare le forti proibizioni di tali pregiudizi, costituivano un ulteriore impedimento all’appropriazione soprattutto delle Scritture dell’Antico Testamento (Spinoza ne offre un primo drammatico esempio). Dapprima il razionalismo, poi l’idealismo cosmopolita e, in Germania, le rigide forme della dialettica “legge”-“vangelo” che potrebbero ricomparire in ogni epoca, contribuirono all’antipatia della teologia verso l’Antico Testamento sino ai nostri giorni. Quali erano le opzioni filosofiche che hanno di fatto controllato gli studi biblici moderni? Durante l’Illuminismo regnava il razionalismo. Questo cedette il passo, nella prima metà del sec. XIX, agli schemi hegeliani dello sviluppo (Vatke per l’Antico Testamento, Baur e il primo Strauss per il Nuovo Testamento). Nella seconda metà del sec. XIX questi cedettero a loro volta al positivismo e al neo-kantismo, che con modalità differenti avrebbero dominato sin da allora. Una concezione positivista dell’oggettività è in particolare filtrata in modo inaspettato nella critica biblica, tranne che laddove una riflessione filosofica esplicita ha raccomandato un’ermeneutica più sofisticata, neo-kantiana (per esempio, Bultmann e Hans Jonas) o una “filosofia riflessiva” affine (per esempio, Paul Ricoeur)17. Se a questo si aggiunge la forte preoccupazione del fideismo – il punto d’incontro di Karl Barth e dei suoi seguaci con un numero elevatissimo di non-Barthiani – si avranno i nomi dei pochi
16
Vedi A.H.J. GUNNEWEG, Understanding the Old Testament (London: SCM, 1978) 116-118 su Lutero e Agricola; 152 su Hegel; 119, 152ss su Schleiermacher; 153-156 su Delitzsch; 39, 119 su Harnack; 155-157 su Hirsch; 158ss, 224ss su Bultmann. 17 Sul terreno comune tra le teorie cognitive di Jonas, Bultmann e Ricoeur, vedi F. LAWRENCE, “Method and Theology as Hermeneutical”, in M.L. LAMB (a cura di), Creativity and Method. Essays in Honor of Bernard Lonergan (Milwaukee: Marquette University Press, 1981) 86-89.
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insiemi di idee che hanno esercitato da lontano un controllo sull’esegesi biblica, sulla storia e la teologia durante gli ultimi due secoli. Tuttavia, non c’è dubbio che l’autorità di tutte queste tradizioni abbia collassato o sia diminuita “quando è filtrata al di fuori di questi”, secondo l’espressione di Eric Voegelin18. A dire il vero, un positivismo a-tematico si è mantenuto, anche se come un pesce fuor d’acqua, protetto dalla superficialità con cui i suoi adepti negano ogni interesse per la teoria. Il Bultmannismo, dall’altro lato, ha perduto il suo ascendente in modo incredibilmente repentino, specialmente in Nord America, a favore dello strutturalismo, della teoria letteraria e dell’applicazione della sociologia e dell’antropologia alla Bibbia. Alcuni di questi sviluppi hanno già avuto un impatto nell’intero campo degli studi biblici. Piuttosto che riesaminarli nei loro possibili contributi, tuttavia, vorrei offrire un solo esempio, particolarmente rilevante per gli scopi presenti, di come la critica letteraria, essa stessa supportata da concezioni bibliche, possa a sua volta offrire un contributo alla teologia biblica. Frank Kermode ha collocato le sue lezioni sul “senso della fine” sotto la rubrica specifica del dare senso ai modi in cui cerchiamo di dare senso alla nostra vita19. La storia ha un senso a condizione che stia andando da qualche parte, che abbia un punto, uno scopo, un fine. Il nostro orientamento a dare senso alla nostra vita dice perché cresciamo durante le epoche, ciascuna delle quali è definita da un inizio e da una fine. Infatti, nasciamo e moriamo in mediis rebus: la nostra nascita non è contemporanea con alcun inizio né la nostra morte con alcuna fine che non sia la nostra. Per dare senso alla nostra vita, tuttavia, abbiamo bisogno di “finzioni” di inizio e fine. Non abbiamo bisogno di essere inseriti in una vuota durata del chronos (“tempo”), ma in un lasso di tempo segnato da kairoi (“stagioni”) con la prospettiva e la speranza di una fine densa di senso. Da qui il nostro insaziabile interesse per il futuro: è ciò che può redimere il tempo20.
18
E. VOGELIN, Order and History. I: Israel and Revelation (Baton Rouge: Louisiana State University Press, 1956) xiii. 19 F. KERMODE, The Sense of an Ending. Studies in the Theory of Fiction (Oxford: Oxford University Press, 1966; ristampa 1981) 3. 20 Ibid., 47-52.
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Ciò che Suzanne Langer chiamava il tempo “virtuale” dei libri è un modello fittizio di tempo del mondo21. La trama di una novella o di un dramma consente all’azione di evitare la mera cronaca. Ogni trama esige che una fine dia senso all’intera sequenza. Tale è il tempo del novellista: il rapporto con la nostra esistenza immersa nel tempo – il rapporto tra finzione e realtà – rende le osservazioni di Kermode sugli inizi e sulle conclusioni fittizie e sulle corrispondenze fittizie tra loro particolarmente interessanti. Gli espedienti della finzione diventano indicatori dei nostri sforzi di dare senso alla vita e ci aiutano a fissare l’attenzione sul modo in cui le risorse funzionano per consentirci di ottenere questo scopo. Questa linea di riflessione, splendidamente illustrata dalla finzione, solleva però per il lettore un problema, anticipato da Kermode. Il problema risiede sul fittizio in quanto fittizio, cioè in quanto “consapevolmente falso”. Un’intelligenza genuinamente critica finirà per cozzare con la visione nietzschiana secondo cui la falsità di una opinione non costituisce un’obiezione contro di essa, dal momento che è rilevante solo la questione di quanto sia capace di prolungare la vita. Il pericolo di queste discutibili astrazioni è stato fin troppo chiaramente illustrato dall’accordo dei Nazisti sulla irrilevanza di vero e falso e dalla loro convinzione che la morte su larga scala fosse un elemento estremamente utile al prolungamento della vita. Tali approdi spaventosi sembrerebbero rendere più urgente la domanda se “vero e falso” siano indifferenti proprio in relazione a ciò che presumibilmente è “ciò che prolunga la vita”. La soluzione di Kermode, tuttavia, non è così diretta. Affronta il problema della verità solo in modo tangente, distinguendo tra finzioni e miti. Le finzioni possono degenerare in miti allorché non si mantiene la consapevolezza del loro essere fittizie. I miti differiscono dalle finzioni dal momento che presuppongono delle spiegazioni generali ed adeguate delle cose ed esigono un assenso assoluto. Le finzioni, d’altro canto, servono a far scoprire le cose. Sono pragmatiche: non ipotesi ma modelli, non soggetti a confutazione ma soltanto a diventar obsoleti una volta che siano negletti22.
21 S.K. LANGER, Feeling and Form. A Theory of Art (New York: Scribner, 1953) 109-119. La visione di Langer è citata in The Sense of an Ending, 52. 22 The Sense of an Ending, 39.
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
Questo è sufficiente? In realtà, la più importante delle finzioni in questione non funziona esclusivamente o primariamente come espediente per scoprire le cose. Per Kermode, la nostra imposizione di una trama al tempo del mondo (essenziale per collocare un significato nella storia) è una finzione. Ma mentre questo significato può servire come strumento o risorsa al servizio di un’ulteriore ricerca, prima di costituire uno strumento di questo tipo esso è ben più che uno strumento. Le fonti dell’intellegibilità, in relazione al tempo altrimenti privo di senso, non sono riducibili alla categoria di espediente euristico. Inoltre, la necessità che aveva posto in essere questa “finzione” costituisce una necessità di significato vero o fittizio? Kermode stesso finì per soccombere di fronte al pericoloso fascino del lugubre pragmatismo di Wallace Stevens. Una finzione, per definizione “coscientemente falsa”, è l’oggetto dell’“atto di trovare / ciò che basterà”23. Ma così si fa dell’ironia, non si mostra la plausibilità. Proprio come per Platone l’opera dell’artista si pone su di un piano diverso dalla realtà, così per il realismo critico un significato fittizio della storia si pone su di un piano diverso da ciò che è sufficiente. In primo luogo, il mito, essendo per definizione non “coscientemente falso”, servirà sicuramente meglio della finzione a livello pragmatico. Per oltre mezzo millennio il mito stoico ha consentito agli antichi di ordinare le proprie vite e soprattutto di affrontare con coraggio la tribolazione e la morte. Se gli Stoici avessero pensato che la loro visione del mondo era fittizia, si sarebbe potuto ottenere questo dato così imponente per seicento anni? Difficilmente. Quel falso consapevole – cioè la finzione – non sarebbe bastato. In secondo luogo, nemmeno il falso inconsapevole – cioè il mito – basta. Infatti, c’è sufficienza e sufficienza. Abbiamo certamente ragione di trovare qualcosa di insufficiente nella dimostrazione elaborata e scaltra che uno schizofrenico paranoide produce su dati apparentemente innocenti quale prova di una cospirazione o di una persecuzione. La descrizione soddisfa lui, ma non noi. Noi rifiutiamo di pensare che proprio per il fatto che egli ne è soddisfatto, la sua descrizione sia buona quanto altre; rifiutiamo di pensare che la sua soddisfazione sia auto-sufficiente, e che questo sia ciò che conti; rifiutiamo che sia stato in grado di realizzare “l’atto di trovare / ciò che basterà”. A questo livello più profondo di quello pragmati-
23
Ibid.
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co, anche lo Stoicismo – nella misura in cui si è arenato in un monismo rinchiuso nel mito – non è riuscito a fare abbastanza, anche quando diede il massimo. In realtà, sotto il profilo pragmatico lo Stoicismo era sufficiente: in un senso limitato, funzionava. Ma non raggiungeva il suo obiettivo di accesso al reale e di armonia con il reale. Il suo realismo era imperfetto e frammentario. Il bisogno dell’uomo, invece, non è rivolto soltanto ad un significato, ma ad un significato valido. Né un mito nobile né la finzione completamente inventata possono venire adeguatamente incontro a questo bisogno. Questa osservazione, senza dubbio, non risolve il problema delle finzioni né nega l’utilità della categoria. Le “concordanze” a cui allude Kermode e che giocano un ruolo così importante nei due Testamenti (per esempio, attraverso gli schemi di profezia e compimento o di tipo e anti-tipo) sono spesso innegabilmente artificiali: sono cioè delle finzioni. Ma sono consapevolmente false? Sembra che la teoria delle finzioni, che Stevens e Kermode hanno preso in prestito da Hans Vaihinger, fondatore della filosofia del “come se”, abbia bisogno di revisioni e miglioramenti. Quando Paolo interpretava allegoricamente la storia di Sara e Agar e dei loro figli (Gal 4,22-31), operava da esegeta esperto e ingegnoso, senz’altro pienamente consapevole di avere posto in essere per la prima volta il loro passaggio di significato. Quella storia è figurata: ha una dimensione fittizia. Difficilmente ne consegue che Paolo la concepisse come consapevolmente falsa, o che egli sia inconsapevolmente scivolato verso il mito dal momento che non la considera sotto questa luce. Come in una storia si dà una revisione categoriale che distingue tra un significato reale e uno meramente fittizio, così chiaramente si dà una descrizione più differenziata delle finzioni interpretative. In nessuno dei due casi ci possiamo permettere di pagare il prezzo di un’immersione così consapevole ed erudita nella contemporaneità come quella di Kermode. Non è accettabile che ogni significato o valore che cada al di fuori della sfera d’interesse di una colta sensibilità contemporanea debba in qualche modo senza argomenti uscire dall’ambito della realtà per fluttuare nell’evanescenza della finzione. Se il cambiamento di sensibilità aveva il potere di ridurre alla finzione qualunque cosa non fosse più oggetto del suo rispetto o della sua fiducia, l’imposizione di una trama sul tempo – per gran parte del mondo contemporaneo – non sarebbe altro che una finzione. Ma il cambiamento di sensibilità –
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
anche se cambia davvero molto – non ha una tale forza. Assicurare ai nostri contemporanei che, quando diciamo di non credere più a questo o quello, intendiamo che alcune delle nostre vecchie finzioni sono ormai obsolete e che, di conseguenza, abbiamo bisogno di nuove finzioni con cui rimpiazzarle, significa offrire loro un serpente al posto del pesce e una pietra al posto di un pane. Due cose mancano in questo caso: un criterio per distinguere tra fittizio e reale e la volontà di insistere su questa distinzione. Una volta che la distinzione è nuovamente rispettata, tuttavia, l’esplorazione di Kermode sulle condizioni d’intellegibilità nella finzione possono essere usate per gettare una luce forte sulle strutture del significato umano. Il senso della fine nella finzione è chiaramente una risorsa euristica per cogliere il senso della fine nella storia: questo fatto ha caratterizzato e pervaso la tradizione biblica ed ha sostenuto sino al nostro secolo la civiltà occidentale, in cui non a caso hanno prosperato arte, teatro, letteratura e filosofia dell’assurdo. L’efficace mediazione del significato biblico è precisamente condizionata dal recupero del magnetismo della fine. Storicamente, questo magnetismo è apparso dapprima come (pre-esilica) speranza di un anno nuovo all’interno della storia, poi come (esilica e post-esilica) speranza di un sabato finale e di un ottavo giorno dell’universo sotto cieli nuovi e terra nuova. Possiamo dare un senso vero a questo modo di dare senso alla vita umana? Che cosa in esso, non essendo trasferibile, appartiene semplicemente a quello specifico periodo? E se in esso qualcosa appartiene di diritto alla nostra verità ed eredità, come possiamo appropriarcene? Nella sfera dello spirito umano, l’ereditare è un atto di fede, una scelta e un recupero. “Fede” qui ha un senso più debole di quello biblico: è una mera apertura iniziale ed una provvisoria disponibilità ad assentire, l’atteggiamento che normalmente il lettore ha verso un libro. “Scelta” ha un senso forte: è una decisione libera e discriminante. Il “recupero” è un atto di appropriazione: integra in un contesto presente qualcosa scelto da un contesto passato. Dai primi giorni, i cristiani hanno ereditato in questo modo. Intenti alle Scritture, hanno scoperto lì la loro eredità. L’hanno scelta e indagata, mettendo in rapporto il presente – il compimento che era la Pasqua – con il passato: la promessa ad Abramo (Gen 12,2ss) e i “tipi” di Isacco preservato (Gen 22,12), del servo glorificato (Is 53,10-12), di “uno simile ad uomo” fatto re (Dn 7,13ss)...
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La teologia biblica avanza una critica agli atti di appropriazione. Non si tratta semplicemente di mero esame della letteratura biblica con la prospettiva di presentare i suoi contenuti teologici. William Wrede24 ha giustamente riconosciuto che la teologia biblica concepita in questo modo si poneva senza volerlo sulla strada per diventare una storia della religione e una letteratura religiosa, un genere per il quale le concezioni teologiche erano irrilevanti tranne che come oggetto di critica. Wrede propose che questo processo venisse spinto sino alla sua logica conclusione. Tuttavia si sbagliava ad aspettarsi che la teologia biblica finisse conseguentemente di esistere. Ciò che in realtà è avvenuto, sulla scia della chiarificazione di Wrede, è che la teologia biblica è stata aiutata a trovare la sua vocazione. Ciò che Wrede vide, lo vide chiaramente; e ciò che non vide chiaramente, non lo vide affatto. Alcuni dei suoi successori, avendo riconosciuto come lui la futilità di una teologia che si sbagliasse nelle semplici attività ricognitive e ricostruttive dell’esegesi e della storia, conclusero (poiché Wrede, impreparato sotto il profilo religioso e teologico, non ci riuscì) che la differenza specifica della teologia biblica risiedesse esattamente nel punto in cui il significato del testo biblico veniva sganciato dalla sua matrice originaria. Il passato in quanto passato era morto, ma è il ricorrente miracolo dell’intenzionalità storica, sia essa pre-critica o critica, che stimola il passato riportandolo in vita nella conoscenza presente e stimola il presente offrendogli carboni caldi presi tra le ceneri, nuove possibilità desunte dalle ricchezze del passato. La storia è anzitutto ricostruzione, ma una ricostruzione riuscita porta al massimo grado una nuova possibilità: quella di trasporre significati e valori dai contesti passati al contesto presente. È questo atto vitale di trasposizione che rende proficuo il grande sforzo dell’esegesi e della storia. Sotto questo profilo, l’interpretazione e la storia sono sullo stesso piano. A conclusione della sua teologia del Nuovo Testamento, Rudolf Bultmann ha osservato che, sebbene l’interpretazione e la storia siano reciprocamente determinanti, ci si potrebbe chiedere quale in definitiva sia a servizio dell’altra. La sua risposta riconosceva il primato dell’interpretazione, supponendo «che [gli scritti del Nuovo Testamen24 W. WREDE, “The Tasks and Methods of New Testament Theology”, in R. MORGAN (a cura di), The Nature of New Testament Theology. The Contribution of William Wrede and Adolf Schlatter (London: SCM, 1973) 68-116, spec. 84-95.
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
to] hanno qualcosa da dire al presente»25. Questa è una supposizione valida. Tuttavia, non esclude la possibilità che anche la storia abbia qualcosa da dire al presente e che abbia da dire qualcosa che non è stata detta da alcun autore del Nuovo Testamento. Per i cristiani questo dovrebbe risultare immediatamente ovvio alla riflessione, poiché accanto al significato linguistico con cui Gesù e gli evangelisti suoi interpreti annunciano la novella della salvezza c’è il significato incarnato che attiene alla vita, alla morte e alla risurrezione di Gesù, incidendo le sue parole e quelle degli evangelisti, come nient’altro potrebbe fare, nella memoria e nel cuore degli uomini. Questo significato incarnato splende negli atti simbolici di Gesù (la chiamata e l’invio dei Dodici, gli esorcismi e le guarigioni, i mancati digiuni, i pasti con peccatori notori, la purificazione del tempio), nella sua passione quasi del tutto silenziosa, nella sua morte e nella sua risurrezione dai morti. Se due millenni di esegesi cristiana non hanno ancora toccato le profondità del significato linguistico dei vangeli, due millenni di contemplazione cristiana non sono ugualmente riusciti ad esaurire il significato incarnato di questa storia vissuta. Entrambe continuano ad avere “qualcosa da dire al presente”. Di conseguenza, il cosiddetto mito della trasparenza26 è in sé illusorio: i testi biblici evocano ed attestano delle realtà extra-testuali senza riferimento alle quali i testi stessi perdono la loro forza. Come ha sinteticamente detto Lutero, «chi non capisce le cose non può cogliere il senso delle parole» (qui non intelligit res non potest ex verbis sensum elicere)27. La conclusione secondo cui la storia, come anche l’interpretazione, appartiene alla teologia biblica vivente trova così almeno un supporto indiretto. Le principali domande previe della teologia biblica (concepita in riferimento all’intera Bibbia cristiana) sono due: in primo luogo, cosa lega
25 R. BULTMANN, Theology of the New Testament, 2 voll. (New York: Scribner, 1951-1955), vol. II, 251. 26 F. KERMODE, The Genesis of Secrecy. On the Interpretation of Narrative (Cambridge: Harvard University Press, 1979) 118ss. 27 Citato da H.-G. GADAMER, Truth and Method (New York: Seabury, 1975) 151. V. CUNNINGAM, “Renoving That Bible: The Absolute Text of Post-Modernism”, in F. GLOVERSMITH (a cura di), The Theory of Reading (New Jersey: Barnes & Noble, 1984) 1-51, offre una brillante esposizione circa l’impossibilità di mantenere il senso del testo se non si fa riferimento alla realtà extratestuale.
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l’Antico Testamento al Nuovo come campo di questa ricerca? In secondo luogo, esiste un qualche criterio di autenticità per la teologia biblica? Non c’è una risposta univoca alla prima domanda, ma c’è un fondamento unico per tutte le risposte rilevanti. L’Antico Testamento è legato al Nuovo per via della elezione-missione storica di Gesù, accreditata dalla risurrezione dei morti. La missione di Gesù supponeva, prolungava e portava al culmine la storia dell’elezione dell’Israele biblico; e il Dio d’Israele, mettendo da parte i giudizi dei Giudei (Mc 14,64 e il passo parallelo di Mt 26,66; Gv 19,7), dei Gentili (Mc 15,15 e i passi paralleli di Mt 27,26, Lc 23,25 e Gv 19,16) e annullando i loro effetti letali, confermò l’autenticità della pretesa di suo Figlio risuscitandolo dai morti. In base alla pretesa di Gesù, la risposta alla sua proclamazione decise il destino di individui (Mc 8,38 e il passo parallelo di Mt 10,33; Lc 12,8ss; 9,26), di città (Mc 6,11 e i passi paralleli di Mt 10,14 e Lc 9,5; 10,11; Mt 11,21-24 e il passo parallelo di Lc 10,12-15), della capitale (Mt 23,37ss e il passo parallelo di Lc 13,34ss), della nazione d’Israele (Mc 9,50 e il passo parallelo di Lc 14,34; Mt 24,37-39 e il passo parallelo di Lc 17,26-30; Lc 12,39ss; 13,6-9; 21,34ss). La risurrezione di Gesù, lungi dal trascurare queste domande, diede loro una definizione ultimativa. Da allora in poi, la restaurazione messianica di Israele venne realizzata nella comunità dei discepoli di Gesù, e contemporaneamente anche i Gentili avrebbero partecipato alla costituzione dell’“Israele di Dio” (Gal 6,16). Così, si creò un legame permanente con la storia e le Scritture d’Israele sin dal primo momento della vita del cristianesimo e si mantenne mentre il cristianesimo andava crescendo nel tempo. Gli scrittori del Nuovo Testamento, riflettendo in parte su Gesù stesso, potevano concepire questo legame – e di fatto lo fecero – in primo luogo come il compimento della promessa (Gal 3,8; 4,28ss; Rm 4,13-25; At 2,16-21), della profezia (Lc 24,26ss.46ss; At 2,23.34ss) e del simbolo (1Cor 10,6; Rm 8,32); in secondo luogo, lo concepirono come il completamento di ciò che era incompleto, in accordo con le misure escatologiche di tempo divinamente preordinate (Mc 1,15), con la rivelazione (Mt 5,17), con il peccato (Mt 23,32; 1Ts 2,16; Rm 1,29), con la sofferenza (Col 1,24), e con l’intero dramma della storia (Ef 1,9ss); in terzo luogo, come il dinamismo contrario della promessa e della Legge (Gal 3,6-29; Rm 4,1-5,21). La discussione contemporanea ha condotto una critica variamente motivata in rapporto a tutte
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queste concezioni28 ed ha aggiunto nuovi temi al dibattito: la continuità tra Antico Testamento e Nuovo nella storia, nella concettualità, nel linguaggio29. (Anche questa discussione appartiene al nostro compito). Esiste un qualche criterio di autenticità in teologia biblica? Senza dubbio ve ne sono parecchi: ma basti qui menzionare solo un fattore, necessario sebbene non sufficiente in teologia biblica. Si tratta dell’affermazione di Dio quale Signore della natura e Signore degli eventi umani, Signore del suo popolo e Signore di tutto il genere umano. Una teologia biblica che limiti la signoria di Dio alla sfera naturale (il razionalismo del Settecento) o a quella della conversione morale (il liberalismo dell’Ottocento) o a quella della conversione religiosa del singolo individuo (l’esistenzialismo del Novecento) attinge troppo poco all’eredità biblica per soddisfare la pretesa di autenticità. Ma possiamo noi oggi affermare la signoria di Dio in armonia con l’attestazione e la celebrazione della sua signoria nella tradizione biblica? Possiamo affermarla nel senso di prolungarla e condividerla nel modo in cui l’antico Israele ed il cristianesimo apostolico diedero senso alle cose? Possiamo non soltanto dare senso a questo modo di dare senso, ma anche adottarlo come nostro? È questa infatti la condizione offertaci per evitare la mera descrittività, la condizione perché possiamo avere un nostro futuro capace di redimere il tempo? Sembra proprio così, e così è sembrato nel nostro secolo a tanti, che hanno ponderato queste domande e hanno dato al fondo del loro pensiero una risposta affermativa: ad esempio, tra i biblisti, Gerhard von Rad30
28 Per una breve discussione sulla storia della salvezza, la storia della promessa, l’argomento derivante dalla profezia e la tipologia, vedi A.H.J. GUNNEWEG, Understanding the Old Testament (London: SCM, 1978) 179-212. Sulla lenta transizione all’interno degli studi anticotestamentari dalla categoria di “profezia e compimento” a quella di “sviluppo storico”, vedi R.E. CLEMENTS, “Messianic Prophecy or Messianic History?”, Horizons in Biblical Theology 1 (1979) 87-104. 29 Sul tema della continuità della rivelazione e delle tradizioni letterarie come giustificazione teologica per il fatto storico del canone cristiano, vedi H. GESE, “Erwagungen zur Einheit biblischer Theologie”, in Vom Sinai zum Zion. Alttestamentliche Beitrage zur biblischen Theologie (Munnich: Kaiser, 1974) 11-30. Sulla continuità di dottrina, concettualizzazione e linguaggio, vedi A.H.J. GUNNEWEG, Understanding the Old Testament, 223-236. 30 G. VON RAD, Old Testament Theology. I: The Theology of Israel’s Historical Traditions (New York: Harper & Row, 1962) 50-56, 105-115, 127ss, 316-318.
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e Oscar Cullmann31; tra i teologi, Pierre Teilhard de Chardin32 e Wolfhart Pannenberg33; tra i filosofi, Karl Löwith34 e Josef Pieper35. Senza dubbio, la categoria di storia della salvezza e il ruolo giocato al suo interno dalla storia delle tradizioni bibliche e dalle moderne concezioni della storia sono state a ragione oggetto di critiche e di miglioramenti, ma in una forma sempre più raffinata è rimasto il cuore del problema. La teologia biblica non è un’essenza platonica immutabile, ma è per buona parte ciò che il teologo biblico la fa essere. In conclusione, dunque, mi sia permesso di offrire una sintesi delle specificazioni per una teologia biblica degne di impegnare gli sforzi migliori della nostra generazione. Non è divisa in teologia dell’Antico Testamento e teologia del Nuovo Testamento, ma li abbraccia entrambi (così come utilizza la letteratura non-canonica, laddove è necessario) in un’unica teologia “biblica”. Non è soltanto un’interpretazione, ma interpretazione e storia. Non è puramente descrittiva, ma è intenta alla trasposizione di significato al presente. Di conseguenza, non si guarda al passato come ad un irrimediabile discontinuo con il presente, ma come aperto ad un recupero critico; i significati da recuperare non sono fittizi, ma reali; lo sforzo di recuperarli è centrato sia, ad un primo livello, sul “significato” che dà senso alle cose, sia, ad un secondo livello, al “significato del significato” che dà senso al modo in cui gli uomini e le donne della tradizione biblica hanno dato senso alle cose. Questo compito, dunque, lo si affronta non con le limitazioni positivistiche o neo-kantiane, ma con il realismo critico; non da una piattaforma senza dogma, ma da un coinvolgimento interno al cristianesimo storico. Queste sono le specificazioni che contano per una teologia biblica. Esse troncano di netto sia con le consuete semplificazioni in cui i bibli-
31 O. CULLMANN, Salvation in History (London: SCM and New York: Harper & Row, 1967) spec. 48-64. 32 P. TEILHARD DE CHARDIN, The Future of Man (London: Collins [Fontana] 1964). 33 W. PANNENBERG, “The Revelation in God of Jesus of Nazareth”, in J.M. ROBINSON-J.B. COBB JR. (a cura di), Theology and History (New York: Harper & Row, 1967) 101-123; “Die Auferstehung Jesu und die Zukunft des Menschen”, Kerygma and Dogma 24 (1978) 104-117. 34 K. LÖWITH, Meaning in History (Chicago: University of Chicago Press, 1949); Nature, History and Existentialism and Other Essays in the Philosophy of History (Evanston: Northwestern University Press, 1966). 35 J. PIEPER, The End of Time. A Meditation on the Philosophy of History (London: Faber and Faber, 1954); anche Hope and History (New York: Herder & Herder, 1969) 29-44.
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Parte II. Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia
sti conservatori sono rimasti impantanati, sia con i modi patologici della sofisticazione che hanno lentamente aperto nuove vie alla banalizzazione del Nuovo Testamento. Lo scopo ultimo include un recupero delle fondamenta personali e sociali, anzitutto tra i cristiani, quindi in tutto l’Occidente una volta cristiano – un mondo materialmente ricco e sempre più privo di un significato basilare, valido e coerente. Il tipo di teologia biblica qui specificato non è facilmente raggiungibile. Ovviamente, suppone un forte impegno alla collaborazione tra gli studiosi. Meno ovvio, ma senz’altro più cruciale è il fatto che questa teologia biblica suppone una comunità di studiosi fatta di uomini e donne autentici – e il costo dell’essere discepoli è più alto del costo dell’essere studiosi. Il realismo puro indusse Lonergan a fare della questione dell’autenticità umana e cristiana la pietra angolare di un’efficace collaborazione teologica36. Ma il realismo tiene molto in conto le forze che favoriscono i grandi progetti come anche le forze che li frustrano, e a proposito del grande progetto brevemente tracciato in queste pagine, una forza straordinaria a favore è il fatto che l’autenticità è il bisogno più profondo, il dono più alto e la conquista più preziosa dell’essere umano37.
36 37
B. LONERGAN, Method in Theology, 235-293. Ibid., 254.
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Indice dei passi biblici
ANTICO TESTAMENTO Genesi 1,12 2,10-14 2,24 11-12 12,2ss 12,3 22,12
195 196 200 194, 195 226 196 226
Esodo 19-5ss 19-26 24,8
194 195 192
Levitico 16,14
203
Deuteronomio 6 24,1-4
63 195 200
Giosuè 24
195
2 Samuele 7,13 7,13ss
185 185, 187
1 Cronache 17,12ss
185, 187
Giobbe
16, 63
Salmi 2 2,7 9,14 25,6 46,5 47,10
63 185 187 196 195 196 196
50,1 68,30 79,8 87,5 87,7 89,27 96,7-10 96,8-10 110 110,1 110,3
196 196 195 196 196 187 196 196 185 205 187
Qoelet
64
Sapienza
64
Isaia 2,2 2,2-4 7,9 8,9ss 14,1 14,1ss 14,26ss 14,32 17,12-14 18,7 19,23 25,6 26,19 28,16 29,2ss 29,18ss 35,5-7 40-55 43,3ss 52-53 52,7-9 52,13 52,13-53,12 52,15 53 53,10 53,10-12 53,11 56,3-7 56,7 60,1-22
198 196 188 188 196 196 188 188 188 196 196 196 134 188 188 49 49 195 192 134 197 203 192 205 64 192 203, 226 203, 205 196 196, 198 196
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234
Realismo critico e Nuovo Testamento
61,1ss 63 64 66,18-23
49 195 195 196
Geremia 3 3,17 29,11-14 31 31,31-34 32,37-40
195 196 195 195 192 198
Ezechiele 5,5 36,23 38,12 38,14-17 47
196 198 196 188 196
Daniele 7,13 7,13ss 7,14 8,10 12,2ss 12,3
64 203 226 203 134 134 134
Osea
41, 195
6 6,12 6,12ss 6,13 8,20-23 9 12,2-4 14,2 14,8 14,16-19 14,21
185 185 185, 187 185 196 197 188 188 196 196 197
Testi non canonici 1Q S 8,5-9 1Q H 6,25-28 1Q H 11,10-14 4Q Flor 1-13 4Q Flor 11 5Q 13 2-6 11Q Tempio 29,8-10 Sal di Salome 3,16 2Bar 2Bar 50,1-3 2Bar 61-63
185 185 134 185 187 185 185 134 49-51, 134 134, 137 134
NUOVO TESTAMENTO
Gioele 2,1-20 4,18
188 196
Amos 3,2 5,15
194 195
Sofonia 3,8
188
Aggeo 1,1ss 2,7 2,20-23
185, 187 196 185, 187
Zaccaria 2,15
64 196
Matteo 5,3ss 5,14 5,17 5,21ss 5,32 5,33ss 5,38ss 5,43ss 8,11 8,20 9,6 9,9 9,10ss 9,11 9,12 9,13 10,14 10,23
136 49 188 49, 200, 229 49 200 49 49 49 194 181 181 190 190 190 190, 191 190, 191 229 49, 136
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235
Indice di passi biblici
10,33 11,5 11,19 11,21-24 11,25-27 12,7 12,8 13,11 13,31-32 15,11 16,13 16,13-20 16,15 16,16 16,16-19 16,17 16,17-19 16,18 16,28 18,14 19,8-9 20,14ss 20,28 21,42 22,29ss 23,10 23,32 23,37ss 24,37-39 26,28 26,60-64 26,61 26,64 26,66 27,14 27,26 27,40
229 49 190 229 147 191 181 147 194 200 180 191 180 180 186 147 196 188, 192 136 191 200 191 192, 194, 205 175 135 181 49, 229 229 229 192, 194, 205 191 184, 185, 188, 192, 198, 200, 201 180 229 180 229 184, 198
Marco 1,15 2,10 2,14 2,15ss 2,16 2,17 2,27 2,28
136 49, 229 181 190 190 190 190, 191 200 181
4,11 4,30-32 6,11 7,15 8,27 8,27-30 8,29 8,38 9,1 9,31 9,41 9,50 10,6-9 10,45 12,10 12,24ss 14,24 14,57-62 14,58 14,58-62 14,62 14,64 15,2 15,15 15,29 16,12
147 194 229 200 180 191 180 229 136 49 181 229 200 49, 192, 194, 205 175 135 49, 192, 194, 205 191 183, 184, 185, 188, 192, 198, 200, 201 186 180 229 180 229 184, 198 135
Luca 5,2 5,24 5,27 5,29ss 5,30 5,31 5,32 6,5 7,34 7,36-50 7,37ss 8,10 9,5 9,18 9,18-21 9,20 9,26 9,27 9,58
136 190 181 190 190 190 190, 191 190, 191 181 190 190 190 147 229 180 191 180 229 136 181
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236
Realismo critico e Nuovo Testamento
10,11 10,12-15 10,21-22 12,8ss 12,39ss 13,6-9 13,16 13,18-19 13,29 13,34ss 14,16ss 14,22-24 14,34 15,1ss 15,7 15,10 15,11-32 16,18 17,22 17,22-30 17,24-30 17,26 17,26-30 17,30 19,5 19,9ss 19,10 20,17 20,34-36 21,34ss 22,19-20 22,20 23,3 23,25 24,26ss 24,31 24,36-53 24,46ss
229 229 147 229 229 229 191 194 194, 197 229 190 49 229 190 191 191 191 200 205 181 49 205 229 186, 205 190 191 191 175 135 229 98 192 180 229 49, 229 135 135 49, 229
Giovanni 1,14 1,41ss 1,42 2,19 2,19-21 6,44 6,51 6,68ss
81, 83 180, 191 188 184, 192, 198, 200 187 147 192 180, 191
15,5 18,37 19,7 19,16 20,19-23
147 180 229 229 135
Atti 2,16-21 2,23 2,33 2,34ss 2,38 3,18 3,22 5,31ss 6-7 6,13ss 6,14 7,56 8 8,1 8,17 8,32-35 9 9,19-21 9,29 10,34-40 11 11,2 11,4-18 11,15-17 11,19ss 11,22-24 11,25 13 13-14 13,1 15 15,1 15,5 15,7-19 26,23
49, 229 49, 229 49 49, 229 202 49 49 202 198 200 184, 198, 200 203, 205 193, 198 211 207 203 198 198 198 154 193 207 207 210 198 207 207 199 193, 207 207 193, 207 199 199 199 135
Romani 1,3ss 1,5 1,14 1,16
64 199 199 199
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Realismo critico:Realismo critico 11/09/09 09:08 Pagina 237
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Indice di passi biblici
1,16ss 1,17 1,29 3,21ss 3,25ss 3,29 4,1-5,21 4,13 4,13-25 4,25 6,3ss 8,18-27 8,21 8,22ss 8,23 8,26ss 8,29 8,29ss 8,32 8,34 9-11 10,3 10,9ss 11,13 12,6 14,13-15,6 15,8 15,15-28 16,25ss 16,25-27
207 76 49, 229 76 64, 76, 81, 203, 205 205 229 44 49, 229 64, 81, 135 207 138 138 138, 139, 140 126, 139 139 175 135 49, 229 65, 135 63, 199 76 65, 204 199 49 213 49 199 68 206
1 Corinzi 1-4 2,1 2,7 2,10-16 2,11 7,19 7,29 9,1ss 9,16ss 9,19-21 10,6 10,16ss 10,17 10,32 11,23 11,23-25
126, 127 206 68 68 211 147 212, 213 136 211 49 207, 213 49, 229 207 81 207 153 154
11,26 12,3 12,4-6 12,12-31 12,13 13,1-13 15
15,50ss 15,50-55 15,50-57 15,51 15,51ss 15,52 15,53ss 16,1-4 16,7
201 204 206, 207 206, 207 207 207 70, 120, 123, 124, 125, 126, 128, 129, 130, 131, 132, 133, 134, 135, 138, 141, 145, 147 135, 207, 211 135, 154 83 154, 193 209 135, 143 146 135 143 72 83, 112 67, 137 68 122 135, 136 135 134, 135, 138 137 137 135, 214 136, 143 130, 133, 134, 136, 138, 141 68, 124, 130 138 81, 135, 136, 138, 141 126, 133, 134, 136, 139 134, 141 126 138, 139 206 146
2 Corinzi 1,9 1,20 2,17 4-5
123, 126, 127 124 49 49 126
15,1-11 15,3-5 15,3-8 15,5 15,11 15,12-34 15,19 15,20 15,20ss 15,21-28 15,22-28 15,23 15,24 15,24-26 15,35 15,35-37 15,35-49 15,42-44 15,42-49 15,45 15,49 15,50
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Realismo critico:Realismo critico 11/09/09 09:08 Pagina 238
238
4,14 5 5,1ss 5,1-4 5,1-5 5,1-10 5,2 5,2-4 5,2-5 5,2-8 5,4 5,5 5,6-9 5,10 5,16-21 5,18ss 5,19 5,19ss 11,32ss Galati 1,6-9 1,15ss 1,16 1,17 2,1-10 2,2 2,4 2,6-9 2,7-9 2,9 2,11-21 2,15ss 3,2-5 3,6-29 3,8 4,5 4,22-31 4,28ss 6,15 6,15ss 6,16
Realismo critico e Nuovo Testamento
124 120, 124, 125, 129, 130, 134, 138, 139, 141, 147 124, 130 140 129 113, 122, 123, 124, 131, 132 126 133, 138, 140, 141 138, 139 126 126, 139 129, 139 126, 133, 140, 141 129 207 210 205, 211 49 199
207 199 199 199 193, 207 199, 207, 208 199 199 199 197 199 207, 210, 211 210 229 49, 229 44 225 49, 229 212, 213 207 49, 229
Efesini 1,3-10 1,9ss 2,20ss 3,1-13 3,1-21
68 49, 229 175 68 214
Filippesi 1 1,21ss 1,21-23 1,23 2,1-18 2,6-11 2,9 2,10ss 2,11 3,8ss 3,11
123 120, 123, 133 122, 206 177, 204 205 205 123 124
Colossesi 1,18 1,24 1,24-29
175 49, 229 68
1 Tessalonicesi 2,3ss 2,13 2,16 4
141 124 126, 133, 140, 141 204
4,13-17
199 49 49, 229 120, 124, 131, 133, 134, 135, 140, 141, 147 112, 123
Ebrei 2,10-18
175
1 Pietro 2,6ss
175
Apocalisse 1,5
175
Testi non canonici Vangelo di Tommaso 32
188
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Indice dei nomi
Abelardo, 79 Agostino, 79, 112 Agricola G., 221 Akenside M., 59 Alighieri D., 11, 41 Aristotele, 23, 65, 101 Arnold M., 86 Atanasio, 69 Auden W.H., 62 Aune D.E., 157 Austin J.L., 40 Baker R., 102 Balthasar H.U. von, 51 Barbour R.S., 149 Barr J., 86 Barrett C.K., 197 Barrett W., 14 Barth K., 34, 76, 93, 132, 221 Barthes R., 33 Bartsch H.W., 75 Bauer B., 112, 120 Baur F.C., 116, 119, 121, 126, 221 Beardsley M.C., 37, 57, 58, 59, 60 Benoit P., 131 Berkely G., 102, 103, 218 Betz Otto, 185, 186 Billerbeck P., 64 Bloch E., 146 Boeckh A., 38 Bornkamm G., 76, 134, 168 Boswell J., 102 Brown R.E., 34, 64 Buber M., 40 Bullock A., 38 Bultmann R., 16, 34, 40, 65, 70, 71, 76, 77, 78, 79, 80, 81, 83, 84, 93, 96, 109, 131, 132, 142, 161, 169, 170, 184, 221, 227 Burkert W., 110 Burns J.P., 15 Burrell D., 29
Calvert D.G.A., 149 Campbell K.M., 188 Carnap Adolf, 38 Cassirer E., 32 Cesare Giulio, 174 Chadwick O., 119 Charles R.H., 113, 125, 133 Cirillo Alessandrino, 69 Clemente Alessandrino, 69, 111 Clements R., 69, 229 Cobb J.B. jr., 68, 76, 109, 145, 231 Collingwood R.G., 66, 82, 152, 167, 168, 170, 171, 173, 189 Collins J.J., 67, 75 Conzelmann H., 76 Cooper T., 75 Coreth E., 33, 142 Crane H., 58 Crisostomo G., 111 Croce B., 11 Cross F.M., 34 Crowe E., 22, 32, 41, 65, 95, 105, 215 Cullmann O., 230 Cunningham V., 33
Dahl N.A., 180 Dalman G., 64, 172, 174, 184, 185 Daly R., 97, 98 Davies W.D., 129, 133, 138 Deichgräber R., 204 Delitzsch F., 112, 221 de Lubac H., 50 Derrida J., 33 de Saussure F., 38 Descartes R., 44, 45, 79 Dietrich E.L., 195 Dinkler E., 131 Diodoro di Tarso, 69 Dix D.G., 177, 206, 208, 213, 214 Dodd C.H., 72, 113, 127, 128, 133, 144, 145, 186, 187, 201 Donoghue D., 14 Doran R., 43 Drews A., 112 Driver S.R., 64 Dungan D., 16 Dupont J., 131, 140, 149, 160, 168
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240
Ebeling G., 40, 76, 78, 170 Einstein A., 65, 97 Eisler R., 112 Ellis E.E., 149, 160 Engnell I., 185 Eraclito, 41 Euclide, 13 Farrer A., 178 Filippo Cancelliere 68 Fish S., 62 Fitzmyer J., 34 France R.T., 149 Frege G., 38 Freud S., 33, 34, 43, 114 Frye N., 32, 33, 34 Fuchs E., 76, 77, 78, 168
Realismo critico e Nuovo Testamento
Heidegger M., 96 Heisenberg W., 97 Hengel M., 81, 198, 212 Hill D., 157 Hirsch E.D., 38, 55, 56, 57, 59, 60, 61, 221 Hofius O., 201, 204 Hoffmann P., 131 Hoffmann J.G.H., 185 Holmberg B., 213 Holtz T., 213 Hook S., 96 Hooker M.D., 149, 158, 160, 183 Hopkins G.M., 14 Horsley R.A., 34 Hume D., 90 Ireneo, 50
Gadamer H.-G., 37, 38, 39, 40, 42, 45, 48, 77, 85, 88, 90, 114, 142, 228 Gager, J., 75 Galilei G., 171 Gerhardsson B., 155 Gese H., 230 Girolamo, 112 Glick N., 96 Gloversmith F., 33, 228 Gnilka J., 131, 132 Goethe J.F., 13 Gogarten F., 44 Goguel M., 184 Goodspeed E.J., 138 Goppelt L., 81 Goulder M., 173 Grant, R.M., 75 Gray J., 196 Gunneweg A.H.J., 221, 229, 230 Habermas J., 34 Hadidian D.Y., 149 Hanson J.S., 34 Harnack A. von, 77, 112, 198, 221 Harner P.B., 65 Harrington D.J., 75 Harrisville R.A., 75 Harvey V.A., 173, 174, 175 Hegel G.W.F., 22, 29, 30, 80, 112, 119 Hegermann H., 64
Jakobson R., 32 James W., 190 Jaspers K., 96 Jeremias J., 11, 16, 61, 64, 65, 130, 133, 134, 135, 153, 156, 157, 172, 174, 175, 186, 187, 194, 197, 198, 201 Johann R.O., 146 Johnson S., 13, 102 Jonas H., 71, 80, 109, 221 Kabisch R., 119, 120, 122 Kant I., 28, 29, 30, 219 Käsemann E., 74, 149, 151, 168, 169, 170 Keats John, 14 Kee H.C., 73 Kennedy H.A.A., 125, 126, 138 Kermode F., 39, 222, 223 224, 225, 226, 228 Kertelge K., 76 Kierkegaard S., 11, 33, 96 Knox W.L., 113, 128, 129, 133, 144, 145 Kuhn K.G., 65 Kuhn H.W., 187, 201 Lamb M.L., 110, 221 Lang F., 132 Langer S., 222 Lash N., 87 Lawrence F., 110, 208, 221
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241
Indice dei nomi
Lewis C.S., 65, 144 Lichtenberg G.C., 61 Lidzbarski M., 185 Lietzmann H., 209 Lodge D., 61 Lodgem D., 33 Lonergan B.J.F., 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 22, 24, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 41, 46, 47, 53, 65, 66, 89, 90, 91, 92, 93, 94, 95, 96, 97, 103, 104, 105, 106, 112, 142, 147, 162, 164, 165, 170, 171, 172, 173, 175, 178, 179, 215, 218, 219, 220, 232 Löwith K., 231 Lüdemann H., 121 Luedemann G., 131, 133, 134 Lührmann D., 149 Lutero M., 39, 88, 228 Lutz H.-M., 188 MacArthur H.K., 149 Malherbe A.J., 75 Malina B.J., 75 Marcel G., 96, 146 Maritain J., 96 Marx K., 45, 116 Marxsen W., 156 McCarthy D.J., 48 Mead G.H., 211 Meyer B.F., 66, 68, 72, 79, 113, 154, 157, 167, 169, 170, 172, 173, 174, 175, 183, 194, 196, 197, 201, 202, 203, 208 Meyer E., 209 Meyer R., 209 Mill J.S., 38 Miller D.G., 149 Miller H., 33 Minkowski H., 65 Moltmann J., 146 Morgan R., 226 Morissette R., 132 Moule G.R.G., 149 Muddiman J.B., 160, 161 Müller C., 76 Mure G.R.G., 21, 22, 29 Murphy R., 131 Mussner F., 182
Navone J., 75 Nerone, 153 Nestorio, 69 Neugebauer A., 64 Newman J.H., 11, 40, 52, 68, 79, 87, 96, 114, 119 Nietzsche F., 96, 107, 111, 112 Nineham D., 173 Novak M., 189, 190 Ogden S.M., 169 Origene, 69 Pannenberg W., 81, 231 Parson T., 34 Pattison M., 119 Perry R.B., 014 Pesch R., 34, 97, 98, 99 Pfleiderer O., 112, 113, 121, 122, 125, 127, 129, 133, 141, 147 Pieper J., 111, 141, 144, 146, 147, 231 Pilato Ponzio, 189 Pindaro, 212 Pitagora, 111 Platone, 28, 29 Plevnik J., 131 Plügge H., 146 Plumb J.H., 216 Plummer A., 137 Pound E., 11 Quinton A., 38 Rahner, K., 53 Ranke L. von, 34, 173 Reimarus H.S., 115, 116 Reitzenstein R., 184 Ricoeur P., 33, 34, 41, 43, 45, 221 Rilke R.M., 11, 41, 97 Ritschl A., 108 Robertson A., 137 Robertson J.C. jr., 114 Robinson J.M., 65, 68, 76, 80, 83, 84, 109, 145, 231 Roloff J., 81 Russell B., 97 Ryan W.F.J., 14, 23, 46, 66, 103, 106, 112, 178, 218, 220
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Sabatier A., 125, 127 Sanders E.P. , 34, 195 Scheler M., 34 Schlatter A., 130, 137 Schlegel F., 48 Schleiermacher F., 112, 221 Schlier H., 145 Schmid H.H., 76 Schnabel F., 122 Schniewind J., 132 Schopenhauer A., 96 Schürmann H., 72, 73, 78, 81, 149 Schweitzer A., 119, 120, 122, 126, 127, 175 Scroggs R., 75 Sevenster J.N., 139, 140, 197 Shakespeare W., 13, 102 Shiner L., 44 Shostakovich D., 97 Simmel G., 34 Simon R., 51, 115, 216, 218 Smith J.Z., 75 Snell B., 32 Socrate, 215 Solzhenitsyn A., 11, 51 Spencer H., 65 Spengler O., 96 Spinoza B., 51, 65, 115, 216, 221 Stallybrass O., 38 Stegemann H., 187, 201 Stein R.H., 149 Stevens W., 224, 225 Strauss D.F., 65, 79, 80, 116, 156 Stravinsky I., 97 Stuhlmacher P., 16, 17, 32, 34, 40, 50, 75, 76, 78, 81, 84, 85, 86, 88, 92, 114, 145, 149, 194, 211 Svetonio, 153 Tacito, 153 Talmon S., 196
Realismo critico e Nuovo Testamento
Teichmann E., 113, 123, 124, 125, 127, 130, 132, 133, 144, 145 Teilhard de Chardin P., 34, 146, 230 Teodoro di Mopsuestia, 69 Theissen G., 75, 172 Tiberio Cesare, 196 Tommaso Aquinate, 11, 15, 23, 28, 29, 79, 178 Toynbee A., 33 Trautmann M., 149 Troeltsch E., 51, 65, 81, 82, 169 Tylor E.B., 65 Tyrrel B.J., 14, 23, 46, 66, 103, 106, 112, 178, 218, 220 Vaihinger H., 225 Valéry P., 011, 97 Vatke W., 221 van Unnik W.C., 140, 197 Voegelin E., 34, 222 Vögtle A., 157 von Rad G., 11, 196, 230 Waugh E., 11 Weber M., 61 Weiffenbach W., 128 Weiss J., 119, 135 Weizsäcker C. von, 211 Wenham D., 149 Wernle P., 126 Whitehead A.N., 36, 97 Wilkens U., 197 Wimsatt W.K. jr., 37, 61 Winter G., 211 Wrede W., 226, 227 Yeats W.B., 11 Zeller D., 194 Zimmerli W., 64
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Indice generale Presentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7
Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1
Parte I: Introduzione all’ermeneutica del realismo critico 1. La collocazione dell’ermeneutica lonerganiana . . . . . . . . . . 2. Il primato del senso inteso dei testi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. Conversione ed ermeneutica del consenso . . . . . . . . . . . . . 4. La benevolenza viene prima, 4. ma il sospetto ha la sua funzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
21 35 75
Parte II: Applicazione all’esegesi, alla storia e alla teologia 5. La visione paolina della risurrezione dei morti 5. ha subito uno sviluppo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6. Oggettività e soggettività nella critica storica dei vangeli . . 7. La “svolta” di Lonergan e The Aims of Jesus . . . . . . . . . . . . . 8. L’ “interno” dell’evento Gesù . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9. La missione nel mondo e la progressiva realizzazione 5. dell’identità cristiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10. Il realismo critico e la teologia biblica . . . . . . . . . . . . . . . . .
119 149 167 177
Indice dei passi biblici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
233
Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
239
Indice generale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
243
95
193 215
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STUDI TEOLOGICI 1. “Congregati ad Unitatem”. Il “Concilio Carthaginense sub Grato”. Indagine storica, linguistica e teologica, Luigi Vitturi, 2006. 2. Per una cultura della famiglia: il linguaggio dell’amore, Livio Melina, 2006. 3. Il Dio della fede e il Dio dei filosofi, Joseph Ratzinger, 2007. 4. Vangelo Catechesi Catechismo, Joseph Ratzinger, 2007. 5. Amarsi per donarsi, Alain Mattheeuws, 2008. 6. Realismo critico e Nuovo Testamento, Ben F. Meyer, 2009.
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MARCIANUM PRESS s.r.l. Dorsoduro, 1 - 30123 Venezia Tel. +39-041-29.60.608 - Fax +39-041-24.19.658 e.mail: [email protected] www.marcianumpress.it Stampa: MEDIAGRAF SpA - Noventa Pad. (PD)
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