Divorare gli dei. Un'interpretazione della tragedia greca 8842496723, 9788842496724

Un'interpretazione dei capolavori del teatro greco, da parte di un grande intellettuale del Novecento, armato delle

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Italian Pages 320 [322] Year 2005

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Divorare gli dei. Un'interpretazione della tragedia greca
 8842496723, 9788842496724

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Bruno Mondadori

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Jan Kott

Divorare gli dei Un’interpretazione della tragedia greca

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Bruno Mondadori

Titolo originale: The Eating of Gods © Lidia Teresa Berger, Michael Hugo Kott Traduzione dall’inglese di Ettore Capriolo L’editore, esperite le pratiche per l’acquisizione dei diritti di riproduzione, resta a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire. Tutti i diritti riservati © 2005, Paravia Bruno Mondadori Editori

È vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso interno o didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzata. Le riproduzioni ad uso differente da quello personale, potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15 % del presente volume, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, via delle Erbe n. 2, 20121 Milano, posta elettronica [email protected] Progetto grafico: Massa & Marti, Milano La scheda catalografica è riportata nell’ultima pagina del libro.

www.brunomondadori.com

\

Indice

17 59 100 134 218

273 279 306

Prefazione Introduzione

L’'asse verticale o le ambiguità di Prometeo Aliace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo Alcesti velata “Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

Divorare dio, o Le baccanti

Appendici

Medea a Pescara Oreste, Elettra, Amleto Luciano in Cimbelino

Prefazione

Ho

cominciato

a scrivere

questo

libro

a

Varsavia

nel

1966;

l’ho continuato a Yale e a Berkeley. e l'ho terminato a Stony Brook. Ne ho discusso durante i seminari e devo molto agli stimoli e alle critiche dei miei allievi. Ancor maggiore è il debito che ho contratto con colleghi e amici che non mi hanno mai risparmiato commenti severi o incoraggiamenti calorosi. Il compianto Irving Ribner, un caro e intimo amico, ha sempre messo

a mia disposizione la sua infallibile erudizione.

La sua

perdita è per me irreparabile. Ho trascorso un gran numero di mattine e di serate con Ruby Cohn e Rose Zimbardo a parlare. dei capitoli scritti e non scritti di questo libro. Kenneth Cavander e Leif Sjòberg hanno rivisto il manoscritto, e io devo loro gratitudine per avermi aiutato a evitare numerosi errori nella mia lettura dei testi greci. Ma voglio soprattutto esprime-

re la mia gratitudine a Bernard M.W. Knox che ha rivisto gran parte del libro, mi ha fatto eliminare sviste ed errori e mi ha dato consigli e suggerimenti di inestimabile utilità. Sin dal progetto iniziale del libro, Anne Freedgood se n’è accupata con calore e sollecitudine e ha atteso pazientemente che venisse completato; è grazie alle sue fatiche editoriali che Divorare gli dei ha raggiunto questa forma definitiva. Il primo e più fedele lettore del libro, dal primo all’ultimo ca-

pitolo, è stato mio genero, Karol Berger; ho trovato in lui un

amico che mi ha aiutato a formulare le mie idee e a renderle più chiare e precise. Voglio anche esprimere la mia gratitudine al Council e al Committee

di New

della Research

Foundation

della State

University

York per l’aiuto concesso, che mi ha permesso di scri-

vere una parte del libro nell’estate del 1970. Ho scritto questo libro in polacco, ma è difficile dire quando

e dove uscirà nella mia lingua. La versione inglese è la prima

edizione autorizzata.

Stony Brook, giugno 1972 Jan Kott

* La prima edizione in lingua polacca: Zjadanie bogéw. Szkice o tragedii greckiej, WL, Krakéw 1986. 2

Introduzione

“Il campo ospita duecentocinquantamila dei milioni di profu-

ghi in file è file di tende...” Il “New York Times” pubblicò il

29 dicembre 1971 un articolo del suo inviato speciale a Rangpur, nel Pakistan orientale (l’attuale Bangladesh), su un campo per i profughi che, terminate le ostilità, erano tornati nei loro luoghi natii. “Il signor Jodder”, scriveva il giornalista, “è andato a casa della zia materna, una vedova tornata dopo aver perso due figlie e un figlio per il colera. ’Siete venuti, figli miei,

per

spartire

la miseria? ‘ ha

domandato

lei.

‘Non credo

che Rangpur sarà mai più la stessa. Dicono che le persone che muoiono prematuramente diventano fantasmi. To credo che il

villaggio sia pieno di fantasmi“”. La vedova bengalese, che aveva perso tre figli, sembra aver formulato, in quel campo profughi, il principio generale della tragedia. Nel mondo tragico i morti ritornano. L’eroe tragico è solo tra la gente, forse perché vive, come Antigone, nel mondo dei morti. Nel mondo di quelli che sono stati assassinati o che lui stesso ha assassinato. 1 morti chiedono per prima cosa di essere seppelliti, ma poi chiedono anche riparazione. L’apparizione dello spettro di Banco al banchetto è la più sconvolgente esperienza di Macbeth. Soltanto allora capisce, per la prima volta, che ammazzare non basta. I morti ritornano. Soltanto tre fantasmi compaiono nella tragedia greca: Clitennestra, ‘“la madre serpe”, cerca invano nelle Eumenidi di sve‘gliare le Furie addormentate; Dario nei Persiani torna per apprendere la disfatta subita dal figlio e se ne va predicendo altre catastrofi; Polidoro, assassinato e incompianto, chiede nell’Ecuba di Euripide di essere sepolto dalla madre e predice

Divorare gli dei

la morte degli ultimi figli di Priamo. Spettri e cadaveri invocano vendetta. L’altare al centro dell’orchestra, spesso trasformato in tomba, o i cadaveri degli uccisi, stesi al proscenio, svolgono nelle tragedie greche la stessa funzione dei fantasmi. La tomba di Agamennone è in scena nelle Coefore e, come lo spettro del padre di Amleto, chiede che la sua morte sita vendicata. L’enorme cadavere di Aiace, dalle cui narici sgorga ancora sangue, continua a minacciare i vivi nella seconda parte della tragedia di Sofoctle. Il ritorno dei morti e le loro caparbie richieste sono la forma più evidente del destino nella tragedia greca come in quella elisabettiana. Sino alla fine si rifiutano di morire; i vivi sono ancora

il loro supremo

nutrimento.

Le generazioni successive

devono soddisfare le richieste dei morti, dare un significato alla loro sconfitta, ristabilire la giustizia nel mondo. Ma questa mediazione attraverso il tempoe la storia può finire solo in tragedia, con nuovi cadaveri a riempire la scena. I morti man-

giano i vivi.

Un viaggiatore che arrivi a Troia da Pergamo all’inizio vede soltanto il mare. Solo più tardi scopre i primi blocchi di pietra sbozzata in un avvallamento coperto di vinchi tra due collinette. E° possibile percorrere a piedi le rovine di Troia, da un capo all’altro, in mezz’ora. Non c’è molto da vedere: frammenti

di

mura,

fondamenta

di

cadute

e un piccolo anfiteatro

case

che

assomigliano

a una

scacchiera in pietra di straordinaria bellezza, fusti di colonne

con non più di dieci file di se-

dili di pietra, dove i soli spettatori sono tre ulivi cresciuti tra i massi. Anche con una carta, bisogna avere l’immaginazione e l’esperienza di un archeologo per trovare i siti delle sette porte e del palazzo di Priamo. La poesia romana e rinascimentale ci ha lasciato due tipi di riflessione

sulla

distruzione

di

Troia.

Îl primo,

verso, sembra la più concisa sintesi dell’Eneide:

limitato

a un

“Troia cadde

Introduzione

perché Roma potesse nascere”. La formula racchiude una fede imperturbata nella funzione della storia: la storia come mediazione.e come riparazione sufficiente per coloro che sono stati uccisi. Nel secondo tipo di riflessione, comune da Orazio ai poeti barocchi, Troia — cancellata dalla superficie della terra — è un esempio della vanità di tutte le cose. Îl tempo non è più storia, ma un immenso paio di mascelle che tutto divora. Il secondo tipo di riflessione sembra più vicino alla nostra espertenza. Ma non è ancora il più crudele. Un viaggiatore moderno che visiti gli scavi di Troia scopre che di Troie ce ne sono state sette, forse anche nove, sovrapposte l’una sull’altra. Le migliata di pietre sbozzate estratte da un bacino che ha il raggio di un miglio appartenevano a sette o nove città che non

esistono. più. Di queste sei o otto Troie, anteriori e posteriori a quella di Omero, non sono stati tramandati neanche i nomi: né del figlio del re, il cui corpo venne legato al carro e trascinato sul campo di battaglia, né dell’eroe che lo aveva ucciso e lo aveva fatto cosi trascinare, né del vecchio re che, andato a riscattare il'corpo del figlio, mangiò e bevve con il suo uccisore perché prima era troppo affranto per mangiare o per bere, e poi, rassicurato, si sdraiò a dormire in un angolo della tenda, mentre in un altro angolo una prigioniera dalle guance rosa attendeva l’eroe su un letto di pelli di pecora. La terza riflessione, che non ci è stata trasmessa dai poeti romani

o

rinascimentali,

riguarda

appunto

queste

Troie

senza

nome. Un viaggiatore che visiti le rovine resta colpito più dai papaveri che dalle pietre, perché i papaveri vi crescono numerosi, patono -più grandi che altrovee hanno petali di un rosso

talmente scuro da sembrar quasi neri. 1 papaveri sono arsi dal sole in questa Troia eterna “che brucia cosia lungo” (Il ratto di Lucrezia, 1468).

La moschea di Omar a Gerusalemme, chiamata anche la Cupola della roccia, è il terzo luogo santo dei musulmani dopo la

Divorare gli dei

Ka’ba

della Mecca

e la tomba

del Profeta a Medina.

È’ un va-

sto edificio a forma di ottagono regolare, con muri smaltati a disegni blu e verdi, ed è coperta da una cupola dorata. Al centro del suo

buio interno, proprio

sotto la cupola,

c’è una nuda

roccia incrinata che sale a un’altezza di circa un metro e ottanta da sotto il pavimento coperto da un tappeto. E° la cima del monte Moria. È’ la montagna dove, obbedendo a dio, Abramo condusse Isacco per sacrificarlo. E dalla vetta della stes-

sa montagna Maometto

ascese al settimo

cielo sul suo cavallo

alato. Sulla sua scia sorse una montagna, ma l’arcangelo Gabriele, che accompagnava il profeta, la fermò con una mano. Si può ancora vedere sulla roccia l’impronta di questa mano. Dalla sommità del monte Moria passa l’asse verticale; l’axis mundi, sul quale la terra è tenuta sospesa per il suo centro come un piatto. Una leggenda musulmana dice che ai tempi di Salomone venne qui calata dal cielo una catena che potevano afferrare soltanto i giusti. Qui si ergeva, per quasi quattrocento anni, Ùl primo tempio costruito da Salomone e raso al suolo da Nabucodonosor e dai caldei. Il secondo tempio, che era più

piccolo, venne ricostruito sulla stessa area da re Erode il Gran-

de che lo fece due volte più vasto di quello di Salomone. Fu qui che

il diavolo

tentò Cristo, nella galleria di sud-est, chia-

mata galleria dei Re, che si eleva a un’altezza di circa novanta metri sopra la valle di Kidron: “E lo pose sul culmine del tempio e gli disse: ’Se sei il figlio di dio, gettati giu ‘’ {Vange-

lo di Matteo, 4, 5). All’alba, un attimo prima che sorga il sole,

la valle di Kidron, e anche il monte degli Olivi, risplendono di una luce rosa come le rose di Sion. Del secondo tempio, è ancora in piedi soltanto una parte del muro occidentale fortificato, il muro del Pianto. Per secoli è rimasto quasi completamente coperto da polvere e rifiuti. Lo hanno dissepolto e ripulito soltanto dopo la guerra dei sei giorni. 1 dieci strati inferiori sono di pietra, tagliata a grandissimi blocchi prismatici detti di Erode. La vetta del monte Moria, sotto la cupola do-

Introduzione

rata della moschea

di Omar,

quattrocentocinguanta

meîtri

civiltà,

e nella

non dista in linea retta più di

da

una

piccola

e piatta

altura

verso nord-est che in passaio aveva forse la forma di un cranio e per questo era stata chiamata Golgota. Era il luogo delle esecuzioni capitali, e fu li che si eressero le tre croci su cui vennero -inchiodati Gesu e i due ladroni. Nella chiesa del Santo Sepolcro si può vedere la nuda e incrinata roccia del Golgota come si vede la cima del monte Moria nella moschea di Omar. Un viaggiatore può facilmente girare Roma in ordine cronologico: la Roma della repubblica, dell’impero, delle catacombe cristiane, del rinascimento, del barocco e degli ultimi due secoli. L’ordine degli stili segue lo schema storico e il viaggiatore è portato a credere nella continuità e nella permanenza della nella

necessità

razionalità del cambiamento



anche se a volte è forse un po’ troppo drastico — e nella generale significanza della storia. A Gerusalemme invece tutti i tempi storici sono fuori del tempo: in questa perfetta sincronia

esiste soltanto un tempo supremo nel quale dio manda suo figlio alla passione e sottopone i profeti a prove continue. Un viaggiatore che percorra a piedi la via crucis sente le campane che richiamano la gente alla messa nella vicina chiesa della Flagellazione, la nenia monotona che invita dai minareti alla preghiera di mezzogiorno e, più lontano, il gemito gutturale di uomini e donne sotto il muro del Pianto. I luoghi più sacri di tre religioni sono raggruppati, l’uno intorno all’altro, in un cerchio

dal diametro

di un chilometro

e mezzo,

come

se dio

non avesse saputo trovare sulla terra altro luogo che la città vecchia di Gerusalemme. Tombe e reliquie sono state profanate e dissacrate da tutta una serie di conquistatori, perché una serie di profeti potesse distendersi a riposare esattamente nello

stesso punto. E° solo grazie alle successive profanazioni e consacrazioni dei medesimi luoghi che gli archeologi possono stabilire con tanta sicurezza la topografia di avvenimenti svoltisi duemila anni fa.

Divorare gli dei

Tutti i luoghi santi di Gerusalemme sono fatti della stessa pietra luminosa. Se Gerusalemme è un luogo particolare della mediazione divina, sono soltanto le pietre che lo attestano. Ogni anno, nell’anniversario della fondazione dello stato di Îsraele, gli ebrei ortodossi della setta dei naturae krata si cospargono

il capo di cenere e si strappano i vestiti di dosso. E’

detto nella Cabala che lo stato di Israele risorgerà soltanto con l’avvento del Messia. 1 naturae krata attendono ancora il Mes-

sia. A dorata.

Roma A

al tramonto,

Gerusalemme,

sul Pincio e sull’Aventino, sulla

collina

biblica

la luce è

del “caitivo con-

siglio”’, la luce al tramonto è rossa, i raggi sono divisi e si concentrano,

come

un’aureola,

intorno a una testa invisibile.

Tra i protagonisti della tragedia greca, tre sono i figli di dio,

Prometeo,

Eracle

e Dioniso.

Îl Prometeo

di Eschilo

è un tita-

no nato dalla Terra; Eracle e Dioniso sono figli che Zeus ha avuto da donne mortali. Sono tuiti e tre, nell’accezione più consueta, personificazioni e strumenti di mediazione in un universo scisso tra un sopra e un sotto. Prometeo ha offerto il fuoco agli uomini e fornito loro una cieca speranza, creando cosi l’uomo razionale e inculcandogli la dolorosa consapevolezza della scissione. Eracle doveva porre riparo agli errori della prima creazione e liberare la terra dai mostri. Dioniso, fatto a pezzi che poi miracolosamente si nicomponevano, assicurava la continuità del ciclo biologico e il germogliare in primavera dei semi piantati in autunno. Ma nel teatro tragico, in Prometeo incatenato, il titano che è arrivato ad amare troppo gli uomini,

viene

scaraventato

in fondo

al Tartaro

con l’accompa-

gnamento di una celeste orchestra di tuoni e fulmini. Nelle Trachinie di Sofocle, Eracle, che ha ucciso l’Idra, ne porta per il mondo il veleno sulle proprie frecce e muore, fra atroci tormenti, di questo stesso veleno. Il mediatore, il figlio di dio, è insieme infettivo e infettato. L’Eracle di Euripide, al suo ritor-

no dall’Ade, uccide la moglie e i figli in un-attacco di follia. ‘ Dopo di che accetta il proprio destino di uomo, rinuncia al

Introduzione

padre divino e sa soltanto una cosa: che deve seppellire i propri figli. Nelle Baccanti di Euripide, Dioniso arriva a Tebe per istituirviil proprio culto. Ha assunto forma umana e porta una maschera dorata sulla quale è impresso un sorriso dolceamaro.

co”,

Lo

stesso

sconcertante

sorriso,

chiamato

anche

‘‘arcai-

è arrivato sino a noi sulle statue di Apollo del VI secolo

a.C., dell’epoca in cui gli artisti greci imitavano ancora gli egiziani.

Dioniso

chiede

alle donne

di lasciare la città, di salire

sulle montagne e, in una danza sacra, di mangiare la sua carne e bere il suo sangue. Promette in cambio di liberarle dalla pau-

ra e di far loro conoscere un’estasi mistica, l’unità tra dio, na-

tura e uomo. D’ora in avanti gli uomini saranno innocenti come animali. 1 fedeli conosceranno la teodicea. Ma quando, nell’estasi, una madre

ha fatto a pezzi il corpo del figlio, Dio-

niso se ne va con lo stesso sorriso dolce-amaro. Rimane in scena il corpo di Penteo, lentamente ricomposto da vari piccoli pezzi, capro espiatorio e insieme segno di dio. E’ il solo cadavere della tragedia greca che non venga portato via e che resti insepolto. Dio, madre, padre e l’unico figlio che sarà sacrificato: è probabilmente uno degli archetipi più ricorrenti della tragedia. Le riflessioni di Kierkegaard sul sacrificio di Abramo, in ‘Timore e tremore, sono tra le più sorprendenti che siano mai state scritte sulla tragedia e sulla fede. Abramo, in quanto eroe tragico,

può dire ché non e perdere Abramo

chiaramente a Isacco di aver deciso di ucciderlo perdubiti di dio. O può compiere ciecamente il sacrificio per sempre la fede. per Kierkegaard non è però un eroe tragico, ‘“ma

qualcosa di molto diverso, un assassino o un credente”. L’eroe

tragico rinuncia alla propria volontà per svolgere il suo compito. Per il cavaliere della fede, volontà e dovere coincidono, ma gli si chiede di rinunciare a entrambi. L’Abramo di Kierke-

gaard,

surdo,

“il padre della fede”, testardo e cieco, impavido e as-

rinuncia alla ragionee alla certezza e si lascia dietro

Divorare gli dei

tutto ciò che è soltanio etica umana. “Non si può piangere su Abramo”, scrive Kierkegaard in.'Timore e tremore. “Lo si accosta con un horror religiosus come Israele s’accostò al monte Sinai’”’. All’ultimo momento dio fermò la mano di Abramo levata con il coltello. Ma se non lo avesse fatto? Nel mondo tragico Abramo uccide. Ifigenia fu offerta in sacrificio ad Artemide perché le navi potessero salpare e Troia essere distrutta. Agamennone sacrificò

la figlia e Ifigenia fu uccisa davanti all’altare. In Ifigenia in Aulide di Euripide, la vittima viene portata via e sull’altare scorre soltanto il sangue di una cerva. E° la più shakespeariana delle tragedie antiche: l’uccisione non è sufficiente, ciò che si richiede è un’uccisione politica accompagnata da un miracolo, al quale possano credere sia la madre sia l’esercito. Il finale dî Ifigenia in Aulide è spurio. E° possibile che nel testo perduto apparisse Artemide in persona, ex machina, per spiegare il volere divino. Freud diede repressi dalla Jung scopri mus e anima.

i nomi degli eroi della coscienza, a quelli che nell’inconscio collettivo Euripide diede i nomi

tragedia greca ai desideri non si possono rivelare. gli archetipi divini, anidegli dèi all’eros deprava-

to, alle passioni contraddittorie che dilaniano i cuori umani e

alle trappole crudeli del fato. Questi dèL calano in una macchina scenica e tfentano di spiegare l’inesplicabile. Euripide non era un razionalista: la macchina con i suoi dèi.assurdi era per lui... il nostro destino, il mondo nel quale viviamo. Ho sperato a lungo di scoprire la più piccola unità strutturale dell’opposizione tragica: il tragema, modellato, come il mitema di Lévi-Strauss, sul fonema e sul morfema della linguistica. Questo atomo del tragico sembra essere l’uccisione della madre per vendicare il padre assassinato, la sepoltura di un fratel lo al prezzo della propria morte, un delitto involontario “imposto dal fato”, del quale ci si deve assumere la piena respon10

iIniroduzione

sabilità.

To cercavo

la linea

di demarcazione,

le situazioni-mo-

dello che si ripetono nel mondo della tragedia. Jaspers le definiva lotta, rimorso, sofferenza e morte. Ma sembra che queste

situazioni

siano

assai più

concrete:

una

madre

uccide

i suoi

figli, un figlio uccide sua madre, un padre uccide suo figlio, una

moglie

uccide

suo

marito,

un fratello

uccide suo fratello,

un figlio va a letto con sua madre. Il re è il padre e l’unto del Signore; il regicidio è insieme parricidio e deicidio. Sono delitti che gridano vendetta al cielo. Ma nel mondo tragico è il cielo che li ordisce o semplicemente li impone. Non è tragico Abramo che uccide Isacco, ma Abramo che sacrifica Isacco per ordine di dio. Agamennone deve percorrere il tappeto rosso prima di essere assassinato. Îl rigore tragico non è che omicidio trasformato in rituale. Argo, Tebe e Troia sono, come Gerusalemme, il laboratorio della giustizia divina. ‘“Spada di giustizia per altre vendette ancora, su altre coti, la Moira affila” (Agamennone, 1535). Piùu tragica di Antigone è Tebe punita dalla maledizione degli dèi. I cadaveri dei due }figli di Edipo, morti in una contesa fratricida, giacciono alle porte della città. E’ nel terribile silenzio del popolo che Antigone percorre le strade cittadine diretta al “sepolcro di roccia”” dove s’impiccherà con la sua cintura. La moglie di Creon-

te si uccide con una spada.

cadavere

Creonte

stesso porta in scena il

di suo figlio che si è ammazzato

accanto al corpo di

Antigone. Non è tragico Edipo che ha ucciso suo padre ed è andato a letto con sua madre. E° tragico il mondo nel quale gli déèi hanno disposto che un padre venga ucciso dal proprio figlio,

il quale

andrà poi a letto

con

sua

madre.

La

storia

di

Edipo è tragica dal principio alla fine: Edipo che risolve l’enigma della Sfinge ed Edipo che si scopre parricida e figlio incestuoso. E° tragica la conoscenza della condizione umana. È il più tragico di tutti è Edipo, il vecchio tormentato, scacciato dalle dimore

umane

come

un cane rabbioso,

che s’avvicina len-

tamente alla tomba, la quale diverrà per Atene un luogo sacro. 11

Divorare gli dei

L’eroe tragico è un capro espiatorio. E il capro espiatorio è un segno, un simbolo e una figura di mediazione. L’opposizione tragica è tra la sofferenza che non giustifica nulla e il mito

che giustifica tutto. In questa teofania mitica avviene una tra-

sformazione del dio crudele nel dio giusto e del tempo che tutto divora nella storia che raggiunge i propri scopi. Nell’antropologia tragica continuano a cambiare soltanto i nomi dei

capri espiatori: il mito della mediazione rimane identico. La

strada dall’esilio dal paradiso al nuovo paradiso, che è stato promesso, è cosparsa di cadaveri. La tragedia è l’esibizione spettacolare di questi cadaveri. Non esiste tragedia senza mito, ma la tragedia ne è anche, contemporaneamente, la distruzione. E° un appello alla mediazione, e insieme una dimostrazione dell’impossibilità della mediazione. E’ questo il momento di lucidità dell’eroe tragico. Atiace si getta sulla spada in pieno sole, a mezzogiorno. Filottete si identifica con la propria ferita, che non si rimarginerà mai e continua a secernere pus. Edipo s’accieca per rendere visibile il proprio destino. L’Erodione è una montagna simile a un grande cono dal. quale sia stata rescissa la cima. Ciò venne fatto per ordine. di Erode il grande che fece poi scavare la montagna per trasformarla in fortezza. Un viaggiatore che ritorni dall’Erodione a Gerusalemme per la strada di Betlemme passa davanti a un villaggio be-

duino. Il governo israeliano è riuscito, dopo molti sforzi, a in-

sediare un gruppo di nomadi ai margini del deserto. Le case sono pulite e spaziose, con tende multicolori alle finestre, e su quasi tutii i tetti si vede un’antenna televisiva. Ma davanti a ogni casa, nel giardinetto sabbioso, sotto una palma, un fico o un arancio, è piantata una tenda di pelle di pecora biancae nera. La tenda è li per ogni eventualità. Davanti a una di queste tende c’erano dei bambini. Un ragazzetto dalla pelle scura — non poteva avere più di otto anni — dormiva per la prima volta in vita sua in una casa di pietra. “Non sono riusci12

Introduzione

to ad addormentarmi”, disse. “Come si può dormire in una casa dove le pareti non si muovono?” Il piccolo beduino aveva scoperto uno degli opposti del mondo tragico. Noi dormiamo in case dove le pareti si muovono. Stony Brook, novembre 1973

Jan Kott

13

A Jerzy Stempowski

in memoriam

L’asse verticale

o le ambiguità di Prometeo

Gli dèi sono sopra, gli uomini sotto. Nella sua trilogia, Eschilo colloca il supplizio di Prometeo su uno dei tetti del mondo, una cima solitarìa e deserta sulle montagne del Caucaso. Prometeo venne incatenato a una roccia e poi gettato nel fondo

del Tartaro, l’abisso sotto l’Ade. La caduta di Prometeo fu fi-

sica e spettacolare, tra rombi di tuono e bagliori di fulmini! . Le rappresentazioni cominciavano alle prime luci dell’alba e gli spettatori dovevano ancora rabbrividire dal freddo sui loro sedili quando, nel primo episodio, il dio Efesto annunciava che per diecimila anni Prometeo avrebbe dovuto aspettare che il sole del mattino sciogliesse il gelo sul suo corpo. Al dramma di Eschilo partecipa l’intero cosmo: gli déi, gli uomini e gli elementi. Questo cosmo ha una struttura verticale: sopra, la sede degli dèi e del potere; sotto, il luogo dell’esilio e

del castigo. In mezzo il cerchio piatto della terra e il cerchio

piatto dell’orchestra, intorno al quale si snoda l’azione. Questa struttura verticale del mondo,

con le sue funzioni ben defini-

te, i suoi simboli, il suo destino, con il sopra e il sotto è uno degli archetipi più universali e perenni. “L’inferno, il centro della terra e la ’porta‘ del cielo si trovano quindi sul medesimo asse e per mezzo di quest’asse si effettuava il passaggio da una regione cosmica a un’altra”, scrive Eliade in Il mito dell’ eterno ritorno?. Il Genesi si apre con la divisione tra il sopra e il sotto: “Nel principio Dio creò il cielo e la terra” (Genesi, 1, 1). @ dio dell’Antico Testamento parla ai profeti dall’alto e quando de17

Divorare gli dei

ve chieder loro un sacrificio o comunicare la sua volontà preferisce convocarli in cima a un monte. “Dopo queste cose Dio

mise alla prova Abramo e gli disse: ’Abramo! ‘ Ed egli disse: ’Eccomi! ‘’ (Genesi, 22, 1). 1 dieci comandamenti vengono dati da dio a Mosè sulla cima di una montagna: “E il Signore monte

scese sul

Sinai,

in

cima

alla montagna;

e il Signore

chiamò Mosè in cima alla montagna, e Mosè vi sali” (Esodo, 19, 20). Il pilastro cosmico, l’axis mundi, compare con particolare chiarezza nel sogno di Giacobbe: Ed egli sognò che c’era una scala rizzata in terra la cui cima arrivava al cielo; ed ecco che gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa. Ed ecco il Signore stava al disopra di essa. Ed egli disse: “Io sono il Signore...” '

(Genesi, 28, 12-13)

] successivi ca;iitoli del dramma cosmico, nella tradizione giudaico-cristiana, si svolgono

sull’asse verticale del mondo:

dalla

creazione dell’uomo e dal precipitare degli angeli ribelli nell abisso sino all’ascensione di Cristo e all’assunzione della Vergine®. Su questo stesso axis mundi si svolgerà anche il capitolo finale che comprenderà la resurrezione dei morti e il giudizio universale.

Anche

nelle cosmogonie

greche, all’inizio il caos primigenio

era diviso in un sopra e in un sotto. Nel mito pelasgico, la

Grande Madre di tutte le cose divideva i cieli dalle acque e si librava nuda sopra i mari come lo Spirito di Dio nel Genesi. Nella Teogonia diì Esiodo, la Madre Terra è la prima a emergere dal Caos e nel sonno partorisce iîl Cielo: Terra, da parte sua, generò dapprima un essere uguale a se stessa. Cielo stellato, che la coprisse tutta quanta e fosse agli dèi felici sicura dimora per sempre”. L’Olimpo e il Tartaro, l’asse verticale di tutti i miti, premio, punizione e mediazione, esistevano sin dall’inizio del mondo”. Zeus, nell’Iiade, ammonisce gli dèi che, se gli disubbidiranno, 18

L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

verranno gettati ‘“tanto al disotto dell’Ade quanto la terra dista dal cielo” (VIII, 16)5. Di conseguenza l’axis mundi è diviso in tre settori uguali e la distanza dalla terra al fondo dell’ inferno è due volte superiore a quella tra la terra e il cielo. Lo stesso topocosmo, termine introdotto da Theodore H. Gaster in Thespis e usato da Northrop Frye per la sua analisi delle strutture spaziali archetipe in poesia”, è presente nel finale della Repubblica, nell’Eneide, nella Divina commedia e nel Paradiso perduto. Ma compare nella sua forma più pura in pittura. Dal tardo medioevo alla fine del periodo barocco, dio viene invariabilmente collocato nella parte alta del quadro. Sotto ci sono la sacra famiglia e i cori discendenti dei serafini e degli arcangeli.

Nella parte centrale gli angeli aprono le tom-

bhe e aiutano coloro che sì sono salvati a salire. I diavoli spingono in basso i dannati e l’ultimo dei nove cerchi dell’inferno è sempre in fondo al quadro. _ La contrapposizione tra “sopra” e “sotto” è. passata dalla cosmologia e dalla metafisica® al linguaggio della sociologia e della retorica politica (classe superiore, media, inferiore), nonché della psicologia e della psicoanalisi (superego, ego e id). La caduta ha due significati, uno letterale e uno simbolico. Sono entrambi presenti nel resoconto biblico della caduta degli angeli superbi nonché nella Caduta di Camus. L’archetipo permane, ma i valori del segno (positivi quelli che appartengono al “sopra”; negativi quellì che appartengono al “sotto”) possono essere capovolti. Freud mise in epigrafe alla sua Interpretazione dei sogni questi versi di Virgilio: “Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo”. La lotta del sotto contro il sopra è un’immagine di rivolta. Marx vide nella Comune di Parigi ‘“un assalto ai cieli”. La giustizia rivoluzionaria utilizza spesso l’immagine spaziale del “livellamento” e non fu per caso che i puritani di Cromwell, educati dalla Bibbia, che volevano imporre rapidamente e totalmente la giustizia, si chiamarono ‘“livellatori”’. 19

Divorare gli dei

Prometeo viene crocifisso dagli emissari degli dèi, venuti da sopra a punirlo del suo eccessivo amore per gli uomini che stanno sotto. Zeus non si vede, ma è a lui che Prometeo rivol-

ge i suoi rimproveri e le sue minacce, a lui e agli uomini che costituiscono il pubblico. Dio e l’uomo partecipano entrambi al dramma.

Prometeo

è l’accusato, ma l’accusato

si trasforma

in accusatore, mentre nell’Edipo di Sofocle è l’accusatore che diventa l’accusato. Sopra, si svolge un dramma politico e cambiano ì sovrani. Sotto, gli uomini sono emersi dalla loro condîìzione animale primigenia. Gli uomini cambiano, ma anche le forze della natura e gli dèi. Col tempo il cosmo intero si muove, ma conserva sempre la sua struttura verticale con l’Olimpo, il Tartaro e in mezzo il cerchio piatto (simile all’orchestra) della terra. Col. tempo, un topocosmo si muove, ma è un tem-

po che scorre a velocità differenti per gli dèi e per gli uomini. GH dèi sono immortali, gli uomini mortali, brotoi che muoio-

no solo una volta. Gli emissari degli dèi li chiamano sprezzantemente “‘“efemeri”: per un efemero, una libellula, un giorno è tutto il tempo.

Prometeo afferma due volte che i suoi tormenti dureranno diecimila anni. Il tempo reale della rappresentazione, dall’incatenamento di Prometeo alle rocce del Caucaso al momento in cui viene scaraventato nell’abisso, non era probabilmente superiore a un’ora. Îl presente — diecimila anni per Prometeo, un’

ora per gli spettatori — sta tra il passato e il futuro. A livello degli dèi, il passato cominciò con la divisione del cosmo in un sopra e in un sotto; a livello degli uomini è antropologia e storia della civiltà. Îl presente in Prometeo è il terzo capitolo della teogonia, l’inizio del regno di Zeus:

20

L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

Ho sentito cadere due sovrani. Il terzo lo vedrò crollare presto e con più obbrobrio, (Prometeo, 957-59)?

1 due tiranni precedenti sono Urano e Crono. Crono, che aveva castrato suo padre UÙUrano, era stato a sua volta gettato nel Tartaro dal figlio Zeus. Le teogonie di Esiodo e di Eschilo non sembrano tanto diverse da una tragedia elisabettiana sui re. Northrop Frye la chiama ‘“tragedia della caduta del principe” o “tragedia dell’ordine”. Tre sono gli attori: il re o padre, l’usurpatore che lo uccide e il vendicatore che svolge la funzione del fato. Il personaggio-nemesi è in parte un vendicatore e în rparte un rivendicatore. La sua ossessione prima è quella di uccidere il personaggio-ribelle, ma ha anche la funzione secondaria di ri-

stabilire qualcosa dell’ordine precedente'°.

Le analogie sono però ingannevoli. Il concetto di ordine primigenio e di armonia della natura, le cui immagini medioevali e rinascimentali erano il firmamento celeste e la musica delle sfere, non esiste nella teogonia di Eschilo. Qui il crogiolo cambia contemporaneamente ai suoi contenuti. La teogonia è anche cosmogonia. I data della natura e i facta della fortuna, per citare le giustapposizioni di Frye, sono la medesima cosa. Il cosmo non è ancora a posto, non è pronto; le forze della natura sono progenie dei primi dèi e intervengono nelle loro lot-

te. Nella genealogia divina Prometeo era figlio di Gea e uno dei Titani. Dalla madre Terra aveva ricevuto il dono di prevedere 1l futuro. Nel conflitto tra Zeus e Crono, si era dapprima schierato con gli dèi della generazione più vecchia. Ma sua madre gli disse che il tempo in cui si poteva vincere con la violenza era finito e che il futuro apparteneva a chi imparava a servirsi della scaltrezza: ' Non

di forza e potenza c’è bisogno,

ma il primo per astuzia sarà il re.

(Prometeo, 215-17) 21

Divorare gli det

La teogonia

di Eschilo

è anche,

e contemporaneamen*ìe

una

storia, piuttosto amara, del potere. Il cosmo si perfeziona at-

traverso una successione di catastrofi, ma i tiranni continuano a governare.

Cronoè

stato troppo

stupido

per seguire

il con-

siglio di Prometeo; Zeus invece ha compreso la “necessità storica”, ma, appena conquistato il potere, ha regnato con cru-

deltà ancor maggiore. Potere e Forza, gli emissari di Zeus —

l’ironico alto funzionario dei servizi di sicurezza e il poliziotto taciturno — osservano l’artigiano Efesto che svolge coscienziosamente

il compito

di

incatenare

Prometeo

trono celeste si è impadronito il terzo tiranno.

alla

roccia.

Del

Se dunque qui non vale lo schema dell’ordine perduto e ristabilito, può forse applicarsi lo schema opposto, quella che Frye chiama la tragedia della società malata. Le parti principali so-

no affidate agli stessi attori, solo che svolgono funzioni differenti. Îl re padre è il padre tiranno. Padre e tiranno sono le due più frequenti definizioni di Zeus in Prometeo incatenato. Non esiste un personaggio-ordine: il capo dello stato è malvagio come tutti gli altri, e l’unica azione con la quale siamo decisamente portati a solidarizzare è quella della vendetta:

vendetta su di lui, di solito. In una società malvagia, crudele, malata

o repressiva,

l’eroe

rischia

di essere

schiacciato per il

solo fatto che è un eroe. Nelle tragedie dell’ordine, l’azione s’accentra su un ribelle la cui fortuna è troppo grande per la natura. Nelle tragedie di una società malata, il personaggio

centrale è spesso una vittima, e la natura della vittima è troppo grande per la sua fortuna. Il ribelle è anche una vittima: muore per lasciare il posto

a un

vendicatore che esegue la volontà del destino. Ma il destino è

beffardo: Frye parla di “nemesi del malgoverno”!!,

Le strutture “pure” della tragedia dell’ordine e di quella della corruzione sono essenzialmente identiche. L’impiego di uno schema o dell’altro, persino nel caso di Shakespeare, sembra

dipendere soltanto dall’interpretazione. Per diventare re, biso22

L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

gna uccidere il re, o almeno i pretendenti al trono. Ma uccidere il re o i pretendenti al trono significa farsi poi ueccidere dai loro figli o dai loro amici. In Re Giovanni, Riccardo II e Riccardo III, il comportamento e il destino dei sovrani legittimi non sono molto diversi da quelli degli usurpatori. ÎI loro suc-

cessori — Enrico II, Enrico IV e persino Richmond, il futuro

Enrico VII — sono ironici strumenti del “fato”” non meno del pavido Edoardo II di Marlowe. La ruota della fortuna è azionata dal vento della guerra civile. Se è la natura che fa girare la giostra dei re, è solo la natura del potere e della forza. A volte l’impiego del modello della tragedia dell’ordine,o di quella dell’anarchia, dipende dalla scelta del momento iniziale. Amleto è una tragedia dell’ordine, se riteniamo che l’avvelenamento di re Amleto da parte di Claudio sia il primo anello della catena degli eventi. Il vecchio Amleto sarà allora il buon re e il buon padre, Claudio l’usurpatore, il principe Amleto lo strumento del destino. Se vediamo invece il primo anello della

catena nel duello tra il vecchio Amleto e il vecchio Fortebrac-

cio, l’ordine originario non è mai esistito. Claudio diviene allora il signore “del malgoverno”, Amleto il ribelle-vittima, il giovane Fortebraccio il personaggio-nemesi. Per Ofelia e Laerte, Amleto è l’assassino del loro padre; per Fortebraccio il figlio di chi ha ucciso il suo. Di Fortebraccio non sappiamo quasi nulla. Nemesi cammina sui cadaveri, è ambigua e beffarda. Zeus è un tiranno, Prometeo un ribelle-vittima, mentre la figura del destino è il figlio, non ancora nato, di Zeus. Viene predetto il futuro, ma si fanno due previsioni contraddittorie. Non si parla di un unico figlio di Zeus non ancora nato, ma di due. Il primo è la Nemesi dell’ordine ristabilito, il secondo la Nemesi della vendetta. Nel prologo, Efesto dice a Prometeo: “ ...e ti consumerà la pena onnipresente. Chi ti darà pace non è nato” (25-27). Il figlio-liberatore fistabilirf_1 l’alleanza, ora spezzata, tra Zeus e Prometeo; la sua venuta porrà fine all’era del terrore. Il tiranno ridiventerà padre. 23

Divorare gli dei [...] verrà incontro

ansioso. alla mia ansia,

vorrà con me legarsi d’amicizia.

(Prometeo, 193-95)

La prima predizione annuncia la soluzione del conflitto; l’altra Ja ripetizione di un ciclo iniziato con il rovesciamento di Urano da parte del figlio Crono. Unendosi a una donna, Zeus genererà un ‘“figlio più forte del padre”. La ruota del potere riprenderà a girare. Zeus sarà gettato nel Tartaro dal proprio figlio, come già suo padre e 1il padre di suo padre. Il tiranno imparerà a conoscere la differenza tra potere e schiavità. Corifea — Certo lo speri, e perciò ingiuri Zeus. Prometeo — Questo sarà, se anche è grato dirlo.

Corifea — Uno verrà, signore sopra ZeusP? Prometeo — Che avrà pene più gravi anche di queste. '

(Prometeo, 928-31)

Rimane però irrisolto il futuro del cosmo. L’azione drammatica consiste nel rifiuto di Prometeo di rivelare a Zeus il nome della donna che gli darà il figlio-vendicatore. La cosmogonia di Eschilo è intensamente drammatica, come

teatro e come filo-

sofia. Zeus è onnipotente, ma Prometeo conosce il futuro. Dipende dal prigioniero il futuro del tiranno. Questa opposizione mette in azione il cosmo. La forza è limitata dalla mancanza di conoscenza, la conoscenza dalla forza'? .

Chi è libero? Solo chi non ha nessun altro sopra di sé, dice Potere, l’alto funzionario di polizia che assiste alla tortura di Prometeo: “Tutto fu consumato, tranne il regno sugli dèi. E soltanto Zeus è libero” (49 sgg.). Ma Zeus non ha potere sul

futuro. La necessità è più forte del più forte. “Bisogna che sopporti la mia sorte, pazienti, riconosca che la forza del non si vince” (101-3). La necessità è più forte sìa di colui reprime la ribellione sia di chi si ribella. “L’arte è troppo debole del fato” (3513), confessa Prometeo con amarezza.

fato che più Te-

chne: vale sia arte sia tecnica, attività pratica, impronta della 24

L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

mente sulla materia e quindi sul cambiamento del mondo. La

necessità è più forte dell’uomo che cambia il mondo come di quello che sìi oppone al cambiamento, più forte di chi cambia e della materia

Corifea — Prometeo Corifea — Prometeo

cambiata.

Cos’è, allora, la necessità eschilea?

E chi regge il timone del destino? — Le Motre triplici, le Erinni memori. Dunque Zeus è più debole di loro? — Non potrà mai sfuggire al fato, mai.

(Prometeo, 515-18)

Le tre Moire e le Erinni sembrano essere qualcosa di più che mere figure mitologiche tradizionali. Nel cosmo eschileo, divi-

so in un sopra e in un sotto, un cosmo in flusso continuo, è

antitetico persino il destino. Le Moire tessono il filo del tempo; le Erinni sono la memoria, implacabile e inflessibile. Nel topocosmo greco, le Moire erano situate al culmine della struttura celeste; le Erinni erano le divinità degli Inferi. Moire ed Erinni sembrano immagini di due ‘“necessità” differenti. Le Erinni

erano

divinità

della vendetta,

dell’occhio

per occhio,

del morte per morte, e quindì si preoccupavano che il ciclo sì ripetesse. Le bianche Moire sono misure del tempo — moira significa infatti “porzione”, “fase”. Esse non sono vincolate né dalla memoria né dal dovere della vendetta. Sono conseguentemente libere dall’obbligo di ripetere il passato. “Il tempo invecchia, il tempo

insegna

tutto”, dice Prometeo

(981).

Ma sembra che Moire ed Erinni rappresentino, per cosi dire, due diverse concezioni del tempo: il tempo storico, che è unidimensionale, e quello mitico, che è ciclieo. Nel Prometeo di

Eschilo coesistono entrambi!° ,

In questa cosmogonia realistica è incorporato, diciamo cosî, il destino.

All’interno della struttura, il movimento

deriva dalla

scissione del cosmo in un sopra e in un sotto. La necessità non è al disopra di Zeus e di Prometeo; è piuttosto, come avrebbe detto Hegel, nella loro opposizione. E’ una necessità paradossale, in quanto uno dei suoi elementi è la consapevo25

Divorare gli dei

lezza. La consapevolezza della necessità modifica la necessità. La scelta della necessità dipende da Prometeo, ed è la sua scel-

ta tragica. Îl tempo terrestre e il tempo degli dèi sono diversi e scorrono a velocità differenti. Ma quando un dio siì unisce in un amples-

so a una donna e genera un figlio, i due tempi s’incrociano in primo piano come su un teleschermo. Il figlio-liberatore dovrà nascere dall’unione di Zeus con una donna della tredicesima generazione della progenie di lo. Le tredici generazioni sono

misurate secondo il tempo umano. Ma prima che nasca il figlio, tempo divino e tempo umano torneranno a incrociarsi. Prometeo racconta a Oceano le crudeli vendette di Zeus suli Titani sconfitti. Atlante è stato condannato a reggere sulle spalle il firmamento celeste. Îl gigante Tifeo dalle cento teste, dalle

quali

emetteva

fuoco,

e

pietre

è stato

schiacciato

sui

pendii dell’Etna. L’indomito titano tornerà però a ribellarsi e,

in collera con Zeus, erutterà torrenti di lava. I commentatori

hanno in genere affermato che la storia di Tifeo è un’esibizione superflua di virtuosismò poetico e un’interpolazione mitoSembra

logica.

tuttavia

abbia

Eschilo

che

voluto

deliberata-

mente mescolare il tempo terrestre a quello degli dèi. La fadell’Etna era avvenuta

mosa

eruzione

dopo

la battaglia di Salamina

e meno

nel 479

a.C., un anno

di venticinque anni pri-

ma che venisse rappresentato Prometeo. Eschilo insomma avvicinava il tempo cosmico al presente degli spettatori. ll ciclo di Prometeo, come l’Orestea di Eschilo, si conelude alla soglia della storia ateniese. Nelle Eumenidi, l’ultima parte dell’Orestea, tutti i conflitti sono risolti: tra dèi del cielo e dèi degli Inferi, tra patriarcato e matriarcato, tra legge e vendetta, tra polis e vincoli familiari.

cazione ‘“tragedia

del tribunale ottimistica”.

L’Orestea

all’Areopago Ma

nella

sì chiude

e, tutto parte

finale

con la convo-

sommato, delle

è una

Eumenidi

non esiste più un dramma umano; la discussione è svolta da

idee vestite in costume. Forse è per questo che la tragedia pia26

L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

ceva tanto a Hegel. La trilogia prometeica si chiudeva probabilmente con la riconciliazione dei protagonisti e con l’istituzione ad Atene del culto di Prometeo e di Eracle. Ma la prima e la terza parte della trilogia sono andate perse. Il presente della tortura di Prometeo è ancora il nostro tempo. l futuro continua a essere bicorne come la mezzaluna turca. Sopra, prosegue

il tempo

del terrore senza limiti; sotto, ancora, “l’ar-

te è troppo più debole del fato”’. 3.

Non esiste paradiso perduto a nessun livello del topocosmo eschileo o di qualsiasi altro della stessa epoca. Prometeo era stato stimolato ad agire dalla pietà per la miseria degli uomini: lì paragonava a formiche che strisciano nelle fessure della terra. Zeus, arrivato al potere, non fece niente per gli uomini; progettò persino di sopprimerli, per sostituirli con una nuova specie. Fu allora che Prometeo rubò il fuoco agli dèi, portando i tizzoni ardenti in un gambo cavo di finocchio per non bruciarsi le mani. Nelle isole greche ancora oggi i contadini portano il fuoco nel midollo di un finocchio gigante. C’è una cosa che val la pena sottolineare in questa rudimentale antropologia progressista: l’emergere dallo stato naturale comincia con la sollecitazione del latente pensiero razionale. “Ma udite la miseria

dei mortali, prima indifesi e muti come infanti, e a

cui diedi il pensiero e la coscienza” (442 sgg.). O meglio, in una traduzione più precisa, “li trasforma in esseri razionali”, distinguendo ennous (in grado di controllare le proprie facoltà) da eike {con riferimento al caos antecedente alla civiltà). Prima ‘“perduravano un tempo lungo e vago e confuso”, ‘“‘operavano sempre e non sapevano” (447, 453)!*. La civiltà ha le sue origini nell’analisi delle percezioni, nella scoperta di un codice auricolare e visivo. All’inizio gli uomini 27

Divorare gli dei ‘“avevano

occhi

e non

vedevano,

avevano

le orecchie

e non

udivano” (4435). Soltanto ora per- la prima volta sono in grado di prevedere e scoprire il tempo delle stelle: erano infatti “‘ignari di certi segni dell’inverno o della primavera che fioriva © dell’estate che portava i frutti [...] Finché indicai come sottilmente si conoscono il sorgere e il calare degli astri” (451 sgg.). L’astronomia è la prima consapevolezza del topocosmo in movimento ciclico. Ma più sorprendente è la fase successiva dell’educazione dell’ uomo. Prometeo insegnò agli uomini le cifre e le lettere‘5 : “E

inoltre scoprii il numerò, la più rilevante delle invenzioni ingegnose, è la combinazione delle lettere, la memoria di tutte

le

cose,

lo

strumento

della

mente

creativa”

(Prometeo,

459-61). Ciò che qui colpisce è la lucidissima consapevolezza della funzione strumentale, operativa, dei numeri e delle lettere'®. Sophismata sono mezzi e strumenti, trucchi ingegnosi ed espedienti; grammaton syntheseis indica una sorta di teoria delle combinazioni, l’arte di combinare parole partendo dalle singole lettere. Prometeo inventa dunque il segno simbolico, o in altri termini distingue il significante dal significato. Il sistema numerico e l’alfabeto simbolico sono mneme hapanton, memoria di tutte le cose, che permette di ripetere il mondo e di metterlo intellettualmente in ordine. Il discorso di Prometeo sulle origini della civiltà appare sorprendentemente simile al Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes (1776), pubblicato ventidue secoli dopo e definito da Lévi-Strauss ‘“‘indubbiamente il primo trattato antropologico della letteratura francese”!7. Per Rousseau come per Eschilo, il passaggio da natura a cultura, dallo stato animale a quello umano,

è la nascita dell’intelletto. Lo stato della società è ‘“lo

stato del raziocinio”. Nel suo famoso Discours egli scrive: Questa ripetuta applicazione dei diversi esseri a se stessi e degli uni agli altri, deve aver naturalmente generato nella mente 28

L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

dell’uomo la percezione di certi rapporti. Questi rapporti, che noi esprimiamo con le parole grande e piccolo, forte e debole,

veloce e lento, pauroso e audace e altre idee simili che mettia-

mo a confronto quando è necessario e quasi senza pensarci, produssero in lui col tempo una sorta di riflessione, o meglio una prudenza meccanica che gli additava necessarie alla sua sicurezza!®.

le precauzioni più _

Nell’antropologia del Prometeo di Eschilo, l’osservazione degli astri ha preceduto l’invenzione del sistema dei numeri naturali e dell’alfabeto. Vengono

soltanto in un secondo tempo

le ca-

pacità pratiche e gli inizi della storia della cultura materiale: l’allevamento e l’addestramento delle bestie da soma come i buoi da giogo, l’attaccare ì cavalli a un carro, il varare navi per

solcare 1l mare. I carri dovevano essere preceduti dall’invenzio-

ne della ruota, la navigazione a vela da uno studio della direzione dei venti; gli elementi dell’astronomia e della geometria

hanno, dunque, necessariamente origini più antiche dei carri e

delle navi. Nel capitolo successivo della storia della civiltà, la medicina si sarebbe associata all’arte della divinazione. Il Prometeo di Eschilo insegna agli uomini a preparare farmaci con ‘benefiche misture che tengono lontani tutti i morbi” e a predire il futuro scrutando il colore delle viscere degli animali sacrificati. ““Svelai le oscure voci dei presagi, i profetici incontri sui cammini, Distinsi chiaro i voli dei rapaci, quelli fausti e quelli dell’augurio, il nutrimento di ciascuno, gli odi, il loro amare, il

loro dimorare” (488 sgg.). La divinazione era conoscenza pratica, una sistematica basata sull’esperienza, una sorta di storia naturale prescientifica. Prometeo (il cui nome significa letteral-

mente “colui che conosce in anticipo”, ‘“preveggenza”) insegnò agli uomini a prevedere le cose. La medicina e la divinazione erano parte integrante di una stessa arte della preveggenza, nel senso, quasi, delle moderne previsiponi meteorologiche!? . La storia del progresso è completata dalla scoperta del29

Divorare gli dei

la tecnologia dei metalli, della lavorazione del rame, del ferro, dell’argento e dell’oro: “tutto ciò che gli uomini conoscono, proviene

da Prometeo”

(506).

Ma

fuoco, “maestro d’ogni arte” (111)?°. Una domanda

che viene in mente

all’origine di tutto

è perché

era il

Eschilo, in questa

esposizione antropologica, non abbia accennato al fatto che Prometeo dovette insegnare agli uomini anche a cucinare. Prima della scoperta del fuoco, gli uomini conoscevano soltanto cibi crudi. Dopo la grande mitologia culturale di Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto, non sì può non essere colpiti dalla grande somiglianza tra il mito di Prometeo e i miti culinari conservati dal “’pensiero selvaggio”: “D’une certaine manière, les mythes se pensent entre eux” (nei miti i processi razionali avvenivano nei loro riflessi su se stessi e nel loro reciproco rapporto), sceri-

ve Lévi-Strauss nella sua “Ouverture”?! , Nei miti sulla prepa-

razione del cibo degli indios del Sud America, particolarmente

in quelli dei gé e dei bororo, il giaguaro è presente come cognato e amico dell’uomo al quale ha portato il fuoco. Anche. qui, come nel mito prometeico, si collega al fuoco il passaggio dalla natura alla cultura. Come Prometeo, 1il giaguaro è “colui

che dona le arti della civiltà”. Nella coscienza mitologica, preparare un piatto è un’attività di “mediazione’”’. Nel senso letterale, perché la cottura richiede la mediazione tra acqua e utensile, mentre

affumicare il cibo esige la mediazione

dell’aria.

Nel senso simbolico, perché preparare piatti è ‘“un’attività di

mediazione tra cielo e terra, vita e morte, natura e società”. La morte è putrefazione, ma la mediazione del fuoco salva il

cibo dalla putrefazione. 1 miti culinari gé e sherenté del Sud

America sono in realtà miti cosmologici, Questo metamito di-

ce: se il sole si allontanasse troppo dalla terra, il mondo intero

andrebbe in putrefazione; se si avvicinasse troppo brucerebbe.

Il mito culinario del giaguaro donatore del fuoco finisce per essere un mito sui rapporti tra il sopra e il sotto nel topocosmo.

30

L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

“Les mythes se pensent entre eux”. È’ possibile che le miste-

riose parole di Prometeo, ‘“cercai la scaturigine segreta del fuoco” (109), ricordino un frammento di uno strato perduto del mito, a recuperare il quale può aiutarci il buon cognato dell’ uomo, cioè il giaguaro sudamericano. Nella Teogonia di Esiodo c’è un anello del mito prometeico rifiutato da Eschilo. Prometeo viene infatti punito non perché abbia rubato il fuoco agli dèi per darlo agli uomini, ma per un diverso insulto fatto a Zeus. Quando venne il momento di offrire un sacrificio, egli infatti uccise un bue e lo divise in due parti. Poi mise le ossa insieme e le copri abilmente con uno strato di bianchissimo grasso. Infine staccò le parti migliori della carne che copri con la membrana dello stomaco. Invitò poi Zeus a scegliere. E il signore del cielo sì lasciò trarre in inganno: attratto. dal grasso, sì prese le ossa. “Da allora agli immortali le generazioni degli uomini sopra la terra bruciano bianche ossa sugli odorosi altari” (3556-57). Zeus adirato sottrasse il fuoco agli uomini. “Che mangino la loro carne cruda! ” grida Zeus nell’ironico Drialoghi degli dèi?°. Forse era giusta l’interpretazione di Luciano del senso

culinario

del mito. Se, per punire gli uomini,

Zeus lî

costringeva a mangiare carne cruda, significa che prima dovevano arrostirla o affumicarla. Questa parte del mito pareva verosimilmente superflua, o forse anche incomprensibile, a Eschilo. Ne rimane solo una traccia. Nel discorso sulla medicina e la divinazione, Prometeo dice anche di aver insegnato agli uomini a riconoscere i colori delle viscere graditi agli dèi e “la forma fausta e varia della bile e del lobo” (494). Il Prometeo di Eschilo non solo insegna agli uomini come sì sacrifichi agli dèi, ma introduce i sacrifici animali. Questa tradizione persiste, con grande evidenza, anche in versionì suecessive del mito: “Prometheus bovem primus occìdii”, scrive Plinio nella Storia naturale (VII, 209). Prometeo,

il primo a uccidere il bue, insegnò agli uomini a mangiare la

carne?® . E quindi anche a prepararla. 31

Divorare gli dei

Come il giaguaro dei miti gé e bororo, Prometeo coinvolto

è dunque

in operazioni culinarie. E, ancora come nella mitolo-

gia degli indios sudamericani, si mescolano qui tre elementi: il dono

del fuoco, la mediazione tra uomini

e dèi, l’offerta dei

che

per Lévi-Strauss è

sacrifici e la cottura del cibo. E’ possibile che nella versione perduta del mito ci fosse anche la contrapposizione tra crudo e cotto, tra l’arrostire e l’affumicare,

fondamentale. Prometeo bruciò le ossa per sacrificarle agli dèi, ma cosa fece della carne che diede agli uomini? Îl giaguaro insegnò agli uomini anche ad affumicare la carne. È quando poi venne a sua volta bruciato nel fuoco, il fumo

servi a dìs-

seccare le foglie di tabacco. Nelle Opere e i giorni di Esiodo, gli uomini avevano il fuoco sin dagli inizi, ma Zeus glielo portò via per costringerli a lavorare (42 spgg.). All’inizio era il paradiso. È il paradiso è una dispensa piena’*. In questo poema realistico sulla vita e sulle occupazioni dell’agricoltore e dell’allevatore di bestiame, poema ricco di insegnamenti assennati e pratici che norn lasciano molto spazio all’immaginazione, c’è la strana immagine di un remo appeso sopra un focolare fumante. Nell’Odissea agli ospi- una brocca d’acqua e un catino, poi ti si offrono dapprima pane, formaggi di pecora affumicati e piatti pieni di earne, il

tutto portato dalla dispensa. La carne viene affumicata su lunghi bastoni sospesi sopra il focolare. Si direbbe che nelle Opere e i giorni sopravviva anche un altro frammento dell’originario mito culinario di Prometeo che, come il giaguaro sudamericano, insegnò agli uomini ad affumicare la carne:

Presto avresti potuto appendere il tuo remo nel fumo del caminetto e sarebbe stato abolito il lavoro che fanno

muli pazienti.

i buoi e i

(Le opere e i giorni, 45-46)

‘“Les mythes se pensent entre eux”: “Perciò il Signore Iddio mandò via l’uomo dal giardino dell’Eden per lavorare la terra dalla quale era stato tolto. Egli cacciò dunque l’uomo; e a 32

L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

oriente del giardino dell’Eden pose i cherubini con una spada fiammeggiante che veniva rivolta in ogni direzione per sorvegliare l’accesso all’albero della vita” (Genesi, 3, 23-24). Espellere dal paradiso equivale al portar via il fuoco che impedisce al cibo di andare a male. Nelle Opere e i giorni, Prometeo porta via il fuoco a Zeus e lo restituisce agli uomini. Ma, come nella Bibbia, anche in Esiodo il paradiso è già stato perduto, e per sempre. La versione di Esiodo del mito prometeico sembra, almeno all’apparenza, in contraddizione con quella di E-

schilo. Nelle Opere e i giorni, il fatto che gli sia stato sottratto

il fuoco è all’origine delle fatiche dell’uomo, che da allora coltiverà sempre il suolo con il sudore della fronte. In Prometeo tutte le invenzioni e i progressi della civiltà derivano dal dono

del fuoco. Come osserva Lévi-Strauss, i miti, anche quando so-

no apparentemente in contraddizione, si spiegano e si completano a vicenda; sono una stessa fondamentale esperienza umana raccontata in maniere diverse e trasmessa a livelli differenti di coscienza

storica.

In Esiodo

come

in Eschilo,

il mito

del

fuoco, rubato o donato, è collegato alla fine dello stato di na-

tura e all’inizio della cultura.

Soltanto a questo punto possia-

mo porci la domanda più importante: che specie di civiltà de-

scrivono 1 miti?

L’antropologia distingue tra civiltà “fredde” e “calde”. Le ci-

viltà “fredde”

non hanno

storia o0, come

scrive Lévi-Strauss,

sono ‘“storia senza storia”. In loro il tempo, che resiste a ogni mutamento, è ciclico e sì misura con la successione del giorno

e della notte, con le stagioni e con ì movimenti delle stelle. In Esiodo, come nei miti degli indios sudamericani, la costellazio-

ne delle Pleiadi preannuncia l’arrivo della siccità’* . Le civiltà ‘“calde” sono invece antagonistiche, divise tra governanti e governati; gli avvenimenti che in esse si verificano sono irreversibili; il tempo è unidirezionale, “ammassa scoperte e invenzioni per costruire grandi civiltà”°5 , 1 miti agisc@no, per cosi dire, sull’asse verticale

del topocosmo;

33

sono

una mediazione

ciclica

Divorare gli dei

tra il sopra e il sotto, tra il cielo e la terra. Îl topocosmo di Eschilo ha il suo sopra e il suo sotto, che agiscono però in un tempo

unidirezionale. Îl mito

originario del ladro e del dona-

tore del fuoco continua ad agire sull’asse verticale del topocosmo, ma svolge contemporaneamente una funzione nuova ed è immerso nella storia “calda”. Il Prometeo di Eschilo è ancora un mito, ma è già una tragedia. “Nella tragedia greca”, scrive Northrop Frye, “funzione degli dèi è far rispettare quello che abbiamo chiamato il contratto primario tra uomo e natura. Gli dèi sono per la società umana ciò che nella società umana stessa è l’aristocrazia guerriera rispetto ai lavoratori”. Gli dèi sono sopra, gli uomini sotto. Ma contemporaneamente, nel topocosmo di Prometeo, il sopra è l’ordine del potere, il sotto quello della civiltà. Sopra, i figli privano i padri del trono e si dànno continuamente il cambio nuovi tiranni. Sotto, un’invenzione segue all’altra e il progresso della civiltà è costante e ininterrotto. È’ un punto di vista ragionevole e realistico: la techne, lo sviluppo delle capacità umane,

è cumulativa,

unidirezionale

e in evoluzione.

Tuttii

sovrani sono simili e ogni potere contiene in sé il pericolo potenziale della tirannide. Esiste progresso sotto, non sopra.

Nell’antropologia di Eschilo è un aspetto particolarmente interessante la caratteristica accelerazione (o meglio approssima-

zione) del tempo su entrambi i livelli, sopra e sotto, rispetto al tempo presente del pubblico che assiste alla tragedia. Il tempo mitologico diventa insomma tempo storico. Nella storia della civiltà, come Prometeo la racconta al coro, sì

dà particolare rilievo al calcolo intelligente, nel quale si riconosce in genere l’attributo particolare degli ateniesi. Gnome, la capacità razionale di distinguere e di scegliere, era considerata dalla maggior parte dei filosofi greci la qualità che distingue l’uomo dall’animale. “Operavano sempre senza intelligenza” (ater gnomes) (456), dice Prometeo delle formiche umane prima della scoperta del fuoco. E’ possibile che Aristotele pensas34

L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

se a Prometeo quando propose di definire l’uomo “Ila creatura che sa contare”*’, Il Prometeo di Eschilo ha l’acutezza e la perfidia intellettuale dei filosofi della nuova generazione. Non stupisce che, verso la fine della tragedia, Ermete lo rimproveri di essere un sofista: “Tu, il primo dei sapienti, tu il più amaro dei cuori amari, il peccatore” (944-46). Il “sopra” era ancor più vicino ai greci del presente. Il ricordo dei tiranni passati doveva essere ancor più vivo che ai tempi di Furipide e gli ateniesi non cessarono mai di temere un ritorno della tirannide. Lo stesso Eschilo del resto la conosceva per esperienza personale, avendo trascorso quindici anni a Siracusa, alla corte del tiranno siculo: Nuovi signori regnano l’Olimpo, Zeus domina con nuovi costumi, oltre ogni legge:

e i prodigi di un tempo rende nulla. (Prometeo, 148-51)

L’ormai classico studio su Prometeo di Thomson e quello più

recente

di Podlecki

hanno

mostrato

con precisione in quale

misura Eschilo presentasse l’Olimpo secondo le categorie e i termini del pensiero politico del V secolo a.C.°3 ‘“Violenza e orgoglio”, dice 1l coro di Edipo, re, “generano i tiranni”. Krato e Bia, il controllore e il funzionario, come li chiama Havelock?? ,l assistono alla erocifissione di Prometeo. ‘“Potere e

Forza, l’ordine di Zeus per voi si compie”, dice loro Efesto. Ma l’autorità di Zeus è recente: ha conquistato da poco il tro-

no di Crono. Ed Efesto aggiunge: “Ogni nuova potenza è sempre dura” (35). Eschiîlo credeva che il tempo attutisse la severità del tiranno. Le nostre esperienze sono meno ottimistiche: sappiamo benissimo che in vecchiaia egli diventa ancor più

sospettoso e crudele. Zeus era crudele e sospettoso fin da quando assunse il potere. Si comportava seguendo i consigli che Machiavelli avrebbe dato al principe quasi venti secoli dopo. Zeus per prima cosa annientò i nemici, poi si rivolse con35

Divorare gli dei

tro gli amici che lo avevano aiutato ad abbattere il suo predeCESsSoTeE:

Perché è malanno d’ogni signoria non essere fedeli a chi si amava.

(Prometeo, 224-26)

Îl tiranno si pone al disopra delle leggi e degli usì tradizionali. Zeus governava mediante decreti emessi ad hoc, decreti che Eschilo definisce ‘“legge personale”. Accusando i tiranni, il coro parla come Erodoto: E° questo il non invidiabile regno di Zeus, signore nella sua legge, che contro i vecchi dèi mostra la lancia del suo trionfo.

(Prometeo, 402-5)

Sotto, c’è il popolo, sopra la corte del tiranno; nella fortezza celestiale (“la rocca in cui abitate”’, 956)°° sono tutti parenti

tra loro, per nascita o per matrimonio. ÎI rapporti sono in par-

te familiari e in parte feudali. C’è il re padre, con i suoi figlì, i suoi bastardi e i principi. Oceano è il suocero di Prometeo, Efesto suo cugino. “Tremendo è il sangue e il vivere in comune” (39), spiega a Potere. In questa lettura “sociologica”, Prometeo è un rappresentante ribelle dell’antica aristocrazia e come tale viene annientato dal nuovo sovrano. L’aristocrazia della polis greca costituiva l’opposizione più tenace ai tiranni e gli aristocratici erano le loro prime vittime. La forza di Eschilo è nel modo incomparabilmente concreto in cui rappresenta la tirannide. L’atmosfera su quella desolata roccia del Caucaso battuta dai venti è soffocante come in una cella. E non mi sorprende che Jonathan Miller, mettendo in scena Prometeo

abbia cortile no la tue di

a Yale

nella riduzione

di Robert

Lowell, lo

ambientato nel cortile di un palazzo rinascimentale, un profondo come un pozzo. I muri del palazzo chiudevascena da dietro e sopra c’era un colonnato pieno di stadèi. In questo regno del terrore, la paura paralizza tutti, 36

L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

tranne Prometeo e il coro. Distrugge i legami di sangue e d’ amicizia. Î giovani principi come Ermete sono i fattorini e i lacchè del sovrano. I vecchi principi come Oceano hanno rinunciato da tempo a ogni forma di resistenza: cercano solo di far credere a se stessi che, pur avendo perso ogni residuo di dignità, hanno almeno conservato il loro ingegno; come politici screditati, credono

nel compromesso,

ma

hanno

paura

di

tutto e sono-pronti a qualunque cosa pur di compiacere il tiranno. Non è sufficiente obbedirgli: bisogna amarlo, anche quando si è in prigione. Potere, l’alto funzionario di polizia, lo spiega in termini pratici. Prometeo, dice, ‘“impari ad amare la sovranità di Zeus” (10). E non basta punire i nemici del sovrano, bisogna anche odiare chiungue egli odii. Stavolta la lezione è per ÉEfesto: ‘“Non odii un dio che gli dèi maledicono? ” (36). E ancora, poco più avanti: “Ma la disobbedienza a un padre che è per te? ”” (40). 1 funzionari di polizia preferiscono chiamare “padre” il tiranno. 1Il gran capo non si vede mai, ma si può sentire fisicamente la sua presenza dall’inizio alla fine. Ogni parola pronunciata sulla roccia solitaria viene riferita al padre, ogni parola è debitamente ascoltata. Sopra, una serie di tiranni assume a turno il potere, e prosegue ininterrotto il tempo della. “tortura illimitata”. Sotto, le formiche hanno imparato a cucinare, a scrivere e a contare, a costruire case, a varare navi, a fondere metalli. In

questa antropologia rudimentale, politica e techne — la storia del potere e quella della cultura materiale — sono rigidamente separate l’una dall’altra. Il progresso è irrevocabile, ma anche

la forza è inalterabile. l mito agisce sull’asse verticale del topocosmo. Îl mito è la mediazione tra cielo e terra. In Prometeo incatenato, la mediazione non avviene. La tragedia finisce con un terremoto.

37

Divorare gli dei

4.

Gli uomini hanno avuto il fuoco da Prometeo. Nel primo stasimo del coro di Antigone hanno invece imparato tutto da solì: “La parola, il pensiero come il vento veloce, l’indole civile apprese da solo”°!, Gli dèi, tranne la Terra, madre di ogni cosa, non vengono nemmeno nominati. Qui invece la terra vie-

ne coltivata, anno dopo anno, dall’uomo che ha attaccato i cavalli all’aratro: ‘“L’uomo passa e la Terra, santa madre, con

l’aratro affatica d’anno in anno e con la stirpe equina la rovescia” {(335 sgg.).

Sì è spesso insistito su un’opposizione tra le teogonie di Esiodo e di Eschilo e. sul carattere antropocentrico dell’apologia sofoclea dell’uomo. Qui l’uomo è solo, non ci sono dè: ed egli deve tutto a se stesso: “La tenue prole degli uccelli o quella selvaggia delle fiere o la progenie dei marini abissi con intrico di reti a sé trascina insidioso l’uomo” (342 sgg.). Ma non è

l’antropocentrismo

che

qui sembra importante. In questo

ro, che precede il momento in cui verrà trascinata in Antigone, rea di aver gettato un pugno di terra sul nudo vere del fratello, all’esaltazione della grandezza dell’uomo compagna l’angoscia: “L’esistere del mondo è stupore e viglia, ma nulla è più stupendo e terribile dell’uomo”

eo-

scena cadas’acmera(332

sgg.)- Deina è un fenomeno meraviglioso e terribile (“‘stupore” e “meraviglia” hanno entrambi questi significati); l’uomo è

deinotaton, straniero , estraneo, alienato. Essendo la più ingegnosa e la più forte delle creature, può essere ‘“alienato” dalla natura che ha domato,

persino

e anche dalla città che ha costruito, e

da se stesso. Hypsipolis

città’” e ‘“senza patria”.

e apolis:

“grande nella sua

La sua patria è terra di nessuno.

La

sua rapacità è sconfinata: può cambiare il futuro.. Solo alla morte non ha trovato un rimedio (efr. 355). Martin -Heidegger fu il primo ad analizzare questa ansia dell’esistenza umana del coro di Antigone come parte integrante della condizione dell’ uomo: 38

L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

Fatto esperto di tutto, audace corre

al rischio del futuro, ma riparo non avrà dalla morte, pur vincendo l’assalto d’ogni morbo inaspettato®? . Come assomiglia al monologo di Amleto: Che capolavoro è l’uomo! Com’è nobile nell’intelletto! Illimitato nelle capacità! preciso e ammirevole nella forma e nei movimenti!?: Come assomiglia a un angelo nell’azione! a un dio nell’intelligenza! E’ la bellezza del mondo! il più perfetto degli animali!

di polvere?

E tuittavia per me cos’è se non quintessenza

L’uomo non mi garba...

(Amleto, II, 2, 299-304) 33

Se la consapevolezza è ‘““una pecca dell’essere”, nel teatro della crudeltà sofocleo la pecca distrugge sia l’essere sia se stessa. Molte sono le cose strane, ma nulla è più strano dell’uomo.

L’antropologia realistica e storica, della cultura materiale e del regno della forza, che vediamo in Prometeo, sembra estremamente lontana dalla visione esistenziale della condizione umana espressa nel primo stasimo di Antigone. Ma il fuoco era solo 1l secondo dei doni di Prometeo agli uomini: il primo era assal più misterioso.

Prometeo — Spensi all’uomo la vista della morte. Corifea-— Che farmaco trovasti a questo male? Prometeo — Seminai la speranza che non vede.

'

Corifea — E molto li aiutasti col tuo dono. '

Nella prefazione

alla sua traduzione

(Prometeo, 250-53)

di Prometeo

incatenato,

David Greene collega questa ‘“speranza che non vede” al mito citato da Platone in Gorgia”* . Nei primi tempi del dominio di Zeus, gli uomini conoscevano in anticipo il giorno della loro

morte,

e quando

si presentavano ai giudici erano ancora vivi,

interamente vestiti e in possesso di tutti i loro beni. Ma l’usanza conduceva a troppi abusi e Zeus l’aboli. Eschilo si serve di 39

Divorare gli dei

questo mito per 1 suoi fini. Gli animali conoscono l’ora della dalla situazione anima-

loro morte. Prometeo ha tolto l’uomo

le; gli ha sottratto la ragione animale per dargli la ragione umana. Lo ha liberato dalla paura e gli ba dato la “speranza che non vede”. L’incertezza

della morte è preferibile alla sua certezza. Lo san-

no tutti coloro cui è stato detto che hanno una malattia mortale. L’interpretazione di Greene è umana e sottile, ma il Prosameteo eschileo, “quello che guarda avanti”, sapeva e voleva pere:

Tutto il futuro conosco esatto e chiaro.

(Prometeo, 100-1)

Ha insegnato agli uomini a non aver paura, ma non al prezzo

dell’ignoranza.

Quando

lo

lo, l’unico

avvicina

personaggio

mortale della tragedia, le rivela tutto ciò che le accadrà sino al termine

del suo itinerario

terreno.

Ha

solo un attimo

zione, perché questa conoscenza gli pare lora interviene la corifea: ‘“Parla, svela. malato sapere chiaro il male che rimane” riprende e completa la storia dei futuri

di esita-

troppo crudele, e alE° conforto a chi è (699 spgg.). Prometeo tormenti di lo. Dopo

è Îo il personaggio più importante della tragedia. che la riguarda ne occupa la parte centrale e la ‘“‘speranza che non vede” sembra particolarmente adatta al suo

Prometeo, L’episodio

destino.

lo era figlia di Inaco, un pietroso

ruscello

nei pressi di Argo.

Questi dèi fluviali erano progenie di Oceano. Io era dunque la nipote di Oceano, e Prometeo lo dice esplicitamente al coro.

Nel mito originario poteva essere un particolare importante: l’acqua è l’archetipo della nascita e del sesso. Su un altro piano, lo era la luna®° . La luna nuova era infatti collegata al sor-

gere delle acque e di tutti i liquidi. Io _ divenne l’amante di Zeus, ma quando Era venne a saperlo tramutò la bella ragazza in vacca e l’affidò alla custodia di Argo, il mostro dai cento occhi. Zeus mandò allora ÉErmete- perché addormentasse il 40

L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

mostro con il suo flauto e lo uccidesse liberando cosi lo. Ma Era mandò un molesto tafano a perseguitarla e a punzecchiar-

la sino a farla morire dissanguata. I vagabondaggi di lo si con-

clusero in Egitto, dove Zeus le restitui la sua forma umana e lei gli diede un figlio. Eschilo

purifica l’antico mito lunare e la- leggenda locale, eli-

minando l’elemento aneddotico. Nella sua versione, Argo viene appena nominato in tutto il delirio di Io. La quale è perseguitata da Era, ma anche da una divina implacabilità per lei incomprensibile. Non è stata però Era a tramutarla in vacca; è stato Zeus. În nessun’altra tragedia greca, prima delle Baccanti di Euripide, si sono mostrate con tanta violenza e brutalità la libidine e la forza cieca degli istinti. Io racconta di quando ogniìi notte,

nella sua

casta

cameretta, sognava di unirsi al dio:

Visioni mi apparivano la notte

vaganti nella stanza di fanciulla, voci leggere, possenti parole: “O beata tra tutte le fanciulle, perché ti serbi così a lungo vergine? Nozze grandi la sorte ti prepara: desiderio di te ha ferito Zeus,

arde d’amore e vuole da te amore. Non disprezzare il talamo di Zeus: vai, esci ai prati profondi di Lerna, ai pascoli, agli stazzi di tuo padre,

perche l’occhio di Zeus si sazi in te”’

Infelice ogni notte questi sogni mi prendevano.

(Prometeo, 645-57)

lo sente la volontà del dio. È’ stata toccata dal dito, o meglio dal membro,

del dio.

Ma

non

si unisce

a Zeus.

La sacra g10-

venca, la fanciulla con le corna, è inseguita dal tafano invisibi-

le, ii cui pungolo le fa girare la testa. Si precipita in scena mugghiando e gemendo. Nel Prometeo allestito a Yale, Irene 41

Divorare gli dei

Worth non portava una maschera con corna di vacca. Faceva a volte con la mano sinistra il gesto di allontanare l’invisibile insetto, come se agitasse una coda. Spostava con impazienza il suo peso da un piede all’altro; un paio di volte scalciò con un piede sul pavimento. Îl suo costume non aveva niente di stilizzato, era soltanto un vestito lungo. Ma i suoi occhi erano gli occhi grandi e immoti di una vacca. Ne avevo visto di simili una volta, in Cina, a qualche migliaio di chilometri dal confine tibetano. Avevano catturato nelle montagne una ragazza proveniente da una tribù di aborigeni che si diceva ignorassero l uso dei metalli. È la portarono a scuola. Non dimenticherò mai i suoi occhi. Non c’era paura in loro. Non c’era niente. FErano occhi blu scuro, umidiì e del tutto trasparenti. Come due laghi. Occhi non contaminati dal pensiero. Gli occhi di una vacca sacra. Prometeo

ligenza; incatenato

è tutto consapevolezza, tutto intel-

a una roccia, rimane

immobile

dalla prima

all’ultima scena. lo è tutta corpo; inseguita e sanguinante per

le punture del tafano invisibile, non riesce a star ferma un momento. Nei suoi vagabondaggi, ha già attraversato correndo un quarto del mondo allora conosciuto. Si è accusato Prometeo di essere un dramma intellettuale, privo di movimento e di azione. Ma Eschilo è sempre il più teatrale dei tragici greci. “Îl mio cuore è una danza di paura”, dice il coro delle Coefore. E danza la sua danza di paura. Il ‘“nonverbale”, come il tappeto rosso sul quale Agamennone s° avvia alla morte, è parte inscindibile di questo teatro e assume quasi invariabilmente carattere di segno simbolico o di imma-

gine archetipa. Il cerchio piatto

dell’orchestra raffigurava il

cerchio della terra circondata dall’oceano. Qui ‘“la fanciulla con le corna di vacca” compiva il suo viaggio. “Quando andrai oltre le onde che dividono due. continenti [Europa e Asia], inòltrati all’oriente dietro il cammino fulgido del sole, varca

un mare sonoro e giungerai alle pianure gorgonee” (791 sgg.). Nell’antropologia della civiltà e della tirannide, il tempo mito42

L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

logico di Prometeo diviene tempo storico. Ora il topocosmo mitologico diventa a sua volta la carta geografica del mondo. I vagabondaggi di lIo, scrive Havelock, sembrano frammenti di una guida turistica greca del V secolo a.C. Il percorso di lo si basa sulla mappa circolare originaria del mondo, divisa da un diametro d’acqua orizzontale in due continenti eguali e scissa verticalmente da un meridiano che coiîncide con il Nilo e con il suo presunto prolungamento verso sud. Îl mar Egeo costituisce, grosso modo, il centro della ruota; la circonferenza è formata dalle acque dell’Okeanos omerico, collegate al sistema fluviale interno. Queste acque traspor-

tano lo dall’India alla foce del fiume “Etiope”’ e al remoto sud dell’Africa {...] Compie dunque il periplo del quadrante sudorientale e finisce di nuovo sul meridiano, che poi ripercorre per via d’acqua sino a tornare al delta del Nilo, esattamente di fronte al luogo da cui era partita?® . lTo, la ‘“sventurata, errabonda fanciulla”, correva probabilmente intorno al semicerchio dell’orchestra rivolto a oriente. Nella parte successiva della trilogia, lo spazio scenico era organizzato nella stessa maniera, e nello stesso luogo Prometeo, incatenato alla roccia, aspettava il suo salvatore. Eracle, se possiamo fidarciì

della

ricostruzione

di

Thomson,

avrebbe

raccontato

a

Prometeo il suo viaggio sino ai limiti occidentali del mondo e il suo ritorno in Europa dall’Africa passando per le Colonne d’Ercole di Gibilterra. 1l cerchio piatto dell’orchestra-terra, con i suoi perimetri orientale e occidentale, avrebbe illustrato i suoi drammatici vagabondaggi, come già quelli della perseguitata lo.

lo esce di scena come vi era entrata, gemendo e piangendo. Il tafano invisibile la pungola sempre più dolorosamente, il suo cervello

è annebbiato,

ormai

è soltanto

un

animale

che sof-

fre... come gli uomini prima che ricevessero in dono il fuoco.

‘“Somigliavano “perduravano

a immagini

un tempo

di sogno”, li descrive Prometeo,

lungo e vago e confuso” (446 sgg.). 43

Divorare gli dei

Io non vede più niente, non sente niente; non fa che correre

inseguita dal tafano invisibile, è un mero corpo, punto sino a dissanguarsi:

La vista si stravolge l’ira, l’assurdo mi ruba via

la lingua non è più mia

la parola è melma che urta

le onde della mia maledizione.

(Prometeo, 884-87) Le sofferenze di Îo sono immeritate. Come Pasifae, in una tra-

gedia perduta di cui abbiamo solo un frammento, potrebbe di‘“Dio mi ha colpito con la follia, e benché io soffra, il mio peccato non era nato dal mio libero volere [...] Cosa avrò visto in un toro che potesse dare al mio cuore tanta sofferenza

e tanta vergogna? ” Îo, “la fanciulla con le corna di vacca”, è

stata scaraventata, come direbbe Camus, in un mondo in cui il

corpo desidera e viene desiderato. Non è più in grado di distinguere se stessa dal suo desiderio. Dio desidera la sua carne di vacca o forseè la sua carne di vacca che desidera dio. Ma lei non ama se stessa. Verso se stessa, il suo corpo e il mondo, la vacca umana prova solo disgusto, ribrezzo, nausée sartriana; il tafano invisibile la terrorizza. L’indifesa lIo, la giovenca punzecchiata, è l’immagine perfetta della cieca volontà cosmica di Schopenhauer. Eros e Thanatos, la procreazione e la morte, non sono scelte nostre: cì vengono scaraventate addosso. Rincorsa

dal cieco

istinto per mari e per continenti, lo rappresen-

ta il nero Eros del desiderio. “Ha ali e non oecchi, è il modello

della fretta scervellata”: l’Elena del Sogno di una notte di mezza estate è punta dallo stesso tafano invisibile. Ma è agli uomini,

con la loro cieca volontà, che Prometeo ha

offerto “la speranza che non vede”. Eschilo è il solo dei grandi tragici che sappia conciliare la base razionale del mito con la sua universalità, il suo significato terreno con la sua irrazionale speranza cosmica. Alla fine dei suoi vagabondaggi, lo si 4,

L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

unirà a Zeus e gli darà un figlio. 1 mito agisce sull’asse verticale del cosmo come mediazione tra cielo e terra. Io è stata scelta da dio; il tafano invisibile che non le dà requie è “il flagelo mandato da dio”. Nell’immaginazione dei greci, realistica o surrealistica, il rapporto con dio è sempre fisico. Per unirsi a dio, bisogna per prima cosa essere un animale. ““Abétissez-vous”,

scriveva

Pascal.

Diventare

come

un

animale

è stata una delle più antiche esperienze mistiche, ed è ancora una delle più ricorrenti. La “fanciulla con le corna di vacca” è la sposa mistica di dio. Dall’unione di Zeus con lo nascerà, alla tredicesima generazione, una donna con la quale Zeus tornerà a unirsi. È questa donna gli darà un figlio, l’archetipo della riconciliazione. Questo figlio, il cui nome non viene citato nel Prometeo incatenato,

è

Eracle.

Alla

fine

della

trilogia

abbatterà

con una

freccia scoccata dal suo arco l’aquila che, quando Prometeo sarà di nuovo sottoposto a tortura, gli mangerà ogni mattina il fegato che intanto si è rigenerato. Eracle, l’atteso, è nella trilogia prometeica la figura della speranza. Ma il prezzo della ri-

conciliazione è stato fissato sin dall’inizio. Lo preannuncia a Prometeo l’emissario di Zeus, Ermete: E questa pena non avrà mai fine,

se non appaia un dio che ti succeda nei tuoi dolori e che vorrà discendere nell’Ade senza luci, nell’abisso del Tartaro, ove è tenebra. Questo

dio, anch’esso

non

nominato,

(Prometeo, 1026 sgg.) è il centauro Chirone,

una delle figure più misteriose della mitologia greca. Apparte-

neva alla vecchia generazione degli dèi ed era forse figlio di

Crono. Era un sapiente e un pedagogo e fu il primo dei medici. Insegnò l’arte della medicina ad Asclepio, allevò Achille e fu amico di Eracle. Venne accidentalmente ferito a una gamba dalla sua freccia avvelenata. Era capace di curare chiunque e 45

Divorare gli dei

di risanare le ferite più gravi, ma non di guarire se stesso.

Stanco

di una sofferenza interminabile,

per Prometeo”? .

acconsenti

a morire

I figli dégli dèi scendono sulla terra, soffrono, muoiono, scen-

dono all’inferno, ma poi risorgono. Chirone è il solo dio della

mitologia greca, e forse di tutte le mitologie, che sia sceso all’.

inferno, volontariamente

e definitivamente.

La riconciliazione

e il prezzo che viene per essa pagato avvengono sullo stesso

asse verticale del topocosmo. Dio il tiranno può ora diventare dio il padre; Zeus il vendicatore si tramuta in Zeus il giusto. Ma il prezzo del nuovo patto è la morte di un altro dio. La

‘“‘speranza ché non vede” è teofania, la conciliazione definitiva tra il “sopra” e il “sotto”, ma il cosmo rimane per sempre diviso tra Olimpo e Tartaro. Nell’economia divina, la somma

delle sofferenze del mondo rimane invariata, e la ferita incurabile di Chirone è il simbolo di una sofferenza che non ha fine e non sarà mai ricompensata.

9. Marx defini Prometeo “il più nobile santo e martire del calendario filosofico”®® . “Il santo patrono del proletariato”, è invece un giudizio contemporaneo citato da Thomson®’ . În nessun’altra tragedia greca “il sopra”, nel duplice senso e significato simbolico di dèi e di forza bruta, è stato attaccato con tanta ferocia: “Odio tutti gli dèi cui feci bene e che mi han

reso male” (975). lo, la povera giovenca, odia il proprio perse-

cutore con tutto il suo corpo sanguinante. Entrambe le predizioni la concernono, ma la sua sola speranza è colui che farà

cadere Zeus dal trono: il figlio come redentore è per lei il figlio come vendicatore. lo — Il potere di Zeus potrà cadere?

Prometeo — Gioiresti, credo, a questo grande evento. 46

l’asse verticale o le ambiguità di Prometeo /

Io — Certo: non è per Zeus che soffro tanto? Prometeo — E dunque puoi saperlo: avverrà questo. Tutti

odiano

Zeus:

Prometeo,

(Prometeo, 775-78) Îo e le forze maltrattate della

natura. Tutti tranne i funzionari di polizia, l’intrigante politico Oceano

e 1l giovane fattorino Ermete. In Eschilo il coro non è

mai un semplice testimone e commentatore degli avvenimenti, e Prometeo incatenato è l’unica tragedia in cuiì esso perisca insieme con l’eroe. Il coro delle Oceanine, che rappresentano gli elementi dell’acqua e dell’aria, è venuto per esprimere a Prometeo la propria compassione. Terrorizzato all’inizio dalla sua ribellione, apprende a poco a poco la dolorosa storia del mon-

do. Prometeo, che ha già insegnato il coraggio agli uomini, ri-

pete la stessa operazione tramite questo gruppo di ragazze e di uccelli. Ha rivoluzionato il coro.

Ermete — Ma voi, che soffrite con le sue sventure,

subito fuggite via da questo luogo, che non vi sperda la mente il.muggito brutale del tuono.

Coro — {...] Perché ci inviti a essere vili?

Insieme a lui si deve patir tutto. Imparammo a odiare chi tradisce.

.

(Prometeo, 1058 sgg.)

Nella prospettiva cosmica, si può scegliere tra due figli di Zeus non ancora nati: il figlio del nuovo patto e quello “piuà forte del padre”. Nella prospettiva drammatica di Prometeo incate-

nato, la scelta è tra la fedeltà a se stessi e il tradimento, tra il

coraggio e la viltà, tra la determinazione inflessibile e la rassegnazione. Nelle categorie politiche la scelta è tra un programma rivoluzionario e il compromesso“’ , “E’ importante la ribellione”, scrive Mao nel Libro delle guardie rosse. Le scelte possibili per Prometeo sono quelle che si offrono a un prigioniero. “Tu hai amato gli uomini”, gli dice Efesto, “e questoè il frutto. O dio che non ti pieghi all’ira degli dèi, hai onorato 47

Divorare gli dei gli uomini

come

dèi contro la legge” (28 sgg.; lett. “più del

giusto”). Ma qual è la bilancia che ci permette di stabilire cosa sia giusto e cosa sia abuso del giusto; cosa sia “dovuto” e cosa più che dovuto nei rapporti tra guardia e prigioniero, tra 1i sopra e il sotto? Prometeo, scriveva Marx, non voleva essere ‘“lo schiavo del tiranno, l’accolito del carnefice”. E nella stessa introduzione alla sua tesi di laurea, datata “marzo 1841”, dice

ancora: La

confessione

di Prometeo,

‘“lo sono

il nemico

di tutti gli

dèi”’, è una dichiarazione di fede nella filosofia, e la sua ideologia è rivolta contro tutti gli dèi del cielo e della terra che non riconoscono nella coscienza umana la divinità suprema, Questa divinità non tollera rivali.

Questo manifesto marxiano del prometeismo sembra assai più vicino agli scatenati e romantici Prometei di Goethe e di Shelley che all’austera e realistica antropologia di Eschilo“’. Nel

mondo reale, scisso tra il sopra e il sotto, Eschilo dice che la sola scelta è tra la riconciliazione e una nuova tirannide, tra il

compromesso

e un nuovo figlio “più forte del padre”. Ma

‘“ogni nuova potenza è sempre dura”., A quanto pare, Eschilo sapeva benissimo che il cielo non rimane mai a lungo vuoto e che un nuovo dio occupa il posto di quello che è caduto. I Prometei di Goethe, Byron

e Shelley erano fratelli di Sata-

na*2 , Ma gli angeli sono caduti dal cielo per un peccato d’orgoglio. Lucifero è il principe della ragione. L’ultima di tutte le divinità, quella che ‘“non tollera rivali” e che sembra ancor più crudele delle precedenti: è l’arroganza della ragione. Questa divinità è convinta di aver domato il destino e di poterlo mutare e ‘guidare. “La libertà è il riconoscimento della necessità”’, seri-

veva Marx. La realizzazione hegeliana del regno della ragione e la ‘“necessità storica” di Marx sono tra le “speranze che non vedono” offerte da Prometeo agli uomini“° . ‘“Cos’è la libertà di un uomo”, dice un prigioniero torturato in Le temps du mépris di Malraux, “se non la coscienza e l’orga48

L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

nizzazione dei suoi destini? ° ‘“Io liberai i mortali dall’essere dispersi nella morte” (235), dice Prometeo nel primo episodio della tragedia. E verso la fine, un attimo prima che lo gettino nel Tartaro, proclama in tono di sfida: “Per me non c’è la morte; di che tremo? ” (933). I martiri di tutte le fedi si sono sempre proclamati immortali; i rivoluzionari sono sempre andati a morire affermando che sarebbero stati loro a vincere oltre la tomba. Nelle interpretazioni ottocentesche, Prometeo è stato san Satana, san Carbonaro, san Proletario. Ha liberato lo

spirito o l’umanità. Fato, destino, necessità storica: ognuno ha

contribuito in maniera diversa al passaggio del tempo, all’elaborazione di una moralità, di una razionalità, di un sigpificat'o.

La teogonia si trasforma in teodicea. La conquista del paradi-

so, o della storia, avrebbe

se fossero dal tafano Corifea — Prometeo Corifea —

compensato

tutte le sofferenze. Ma

speranze che non vedono anche quelle di Io punta invisibile e di Prometeo gettato nel Tartaro? Che è per Zeus il fato, se non regnare sempre? — Non puoi saperlo mai, non domandarlo. Dunque è mistero sacro che tu celi, ' (Prometeo, 519-21)

Poco prima della fine, Prometeo dice: “Il tempo invecchia, il

tempo insegna tutto” (981). Qualcosa di .molto simile dice anche il libro sacro iraniano Bundahisn: “Îl tempo è più potente

di due creazioni”44 , Ma che cosa insegna esattamente il tem-

po?

L’ambiguità del Prometeo eschileo è nella coesistenza di

due tipi di tempo. C’è il tempo didattico della teofania, nel

quale cosmogonia e storia approderanno ad Atene e alla grande conciliazione, come le tesi hegeliane allo stato prussiano; e c’è un tempo senza speranza, nel quale Prometeo viene gettato, una volta per tutte, nel Tartaro, con accompagnamento di fuochi d’artificio celesti. Per gli ottimisti poeti e filosofi dell’ ottocento, Prometeo alla fine avrebbe trionfatò e la sofferenza era il prezzo del progresso. La tragedia di Prometeo era di essere arrivato troppo presto. Ma più vicina alla nostra esperien490

Divorare gli dei

za è l’amara interpretazione di Camus: la grandezza di Prometeo è nella sua rivolta senza speranza: Una rivoluzione si compie sempre coniro gli dèi, cominciando da quella di Prometeo, il primo dei conquistatori moderni. Si

tratta di una rivendicazione dell’uomo contro il proprio desti-

no; la rivendicazione del povero è soltanto un pretesto [...] Sr,

l’uomo è fine a se stesso. Ed è anche il suo solo fine. Se vuol

essere qualche cosa, deve esserlo in questa vita [...] I conqui-

statori, a volte, parlano di vincere, di superare, ma è sempre

“superarsi’’ che essi intendono ri a un dio, in certi momenti. questo deriva dal fatto che, in cente grandezza dello spirito

[...] Ogni uomo si è sentito paE° così, almeno, che si dice. Ma un lampo, ha sentito la stupefaumano. Conquistatori sono sol-

tanto quegli uomini che sono abbastanza coscienti della loro forza per essere sicuri di vivere costantemente a tale altezza e in piena

coscienza

creatura mutilata,

della loro grandezza

{[...] Qui

trovano

la

ma incontrano anche i soli valori che amano

e ammirano: l’uomo e il suo silenzio*5 . Sì può esprimere lo stesso concetto anche in un altro modo. La grandezza di Prometeo è disperazione speranzosa o speran-

za disperata. “Essere privati della speranza”, conclude Camus,

‘“non significa disperare”“ , Ma non è ancora l’interpretazione

più amara del destino di Prometeo. Nel trattato di Cicerone che contiene uno dei pochi frammentì rimastici delle due parti perdute della trilogia, Prometeo viene descritto come uomo talmente incapace di sopportare oltre i suoi interminabili tormenti, da desiderare soltanto una morte umana: ‘“amore mortis terminum anquirens mali” (cercando appassionatamente la morte come fine delle sofferenze)’”, Il tempo di durata di una vita umana è tempo di sofferenza e di attesa della nostra morte. C’è però anche un’altra conclusione per la tragedia del “ribelle assurdo”., În una delle odi di Pindaro, collegata forse con-la fine della tragedia di Prometeo, la guardia che sorveglia il tuoo0

L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

no di Zeus sì addormenta al canto delle Muse accompagnate dalla lira di Apollo. E’ l’aquila che ogni mattina vola alle roc-

ce del Caucaso per nutrirsi col fegato di Prometeo“® , [...] addormesi

sullo scettro di Zeus l’aquila; stanchi piovono i vanni degli augelli al principe ugualmente dai fianchi?° . L’aquila s’addormenta al dolce suono della musica e la collera si allontana dagli olimpici. E° la quarta e ultima forma di tempo, quello dell’oblio e del dissolversi nel nulla. Kafka doveva conoscere

sia il trattato di Cicerone sia l’ode di

Pindaro, perché annotò. nel suo taccuino le quattro leggende di Prometeo”® : Secondo la prima, fu inchiodato alla roccia perché aveva tradito gli dèi a vantaggio degli uomini, e gli dèi mandarono aquile a divorargli il fegato sempre ricrescente. La seconda vuole che Prometeo, per il dolore procuratogli dai colpi di becco, si sia addossato sempre più alla roccia sino a diventare con essa una cosa sola. La terza asserisce che nei millenni il suo tradimento fu dimenticato; tutti dimenticarono: gli dèi, le aquile,

egli stesso.

Secondo la gquarta, ci si stancò di lui che non aveva più moti-

vo di essere. Gli dèi si stancarono, la ferita — stanca — si chiu-

se. Rimase l’inspiegabile montagna rocciosa — la leggenda tenta di spiegare l’inspiegabile. Siccome proviene da un fondo di verità, deve terminare nell’inspiegabilè. Kafka, con la sua incomparabile intelligenza, aveva capito che, quando il topocosmo ha perso il suo significato, tutto ciò che può rimanerne sono le desolate montagne tra cielo e terra. Ma

il mito prometeico non finisce qui. Nell’intera storìa del dramma, sono soltanto due le opere nelle quali il protagonista non può mai abbandonare il suo posto, dall’inizio alla fine*!, La prima è Prometeo incatenato. Nell’altra l’eroina è sepolta nella terra, prima sino alla vita, poi sino al collo. Non esiste coro. Sl

Divorare gli dei

C’è solo

un

uomo

paralizzato

che

non

può

avvicinarsi.

Del

mondo esterno degli oggetti rimangono soltanto un parasole e una grande borsetta nera contenente oggetti da toilette e una

rivoltella. La donna bacia la rivoltella e la mette da parte; dopo un po’ è troppo tardi: essa è ormai sepolta sino al collo,

con le mani sotto terra. Deve quindi vivere fin quando non morrà. Îl tempo è scandito dalle campane. Il sopra e il sotto continuano a esistere, ma la terra è solo un mucchio di sabbia e 1il cielo

è ‘vuoto,

senza

neanche

una

nube.

La

sola

azione

consiste nell’immergersi nella terra, sempre più in profondîità. E° questa la quinta forma del tempo:

sprofondare nella terra,

che significa nient’altro che sprofondare nella terra. Non c’è più bisogno di Zeus.

Giorni felici di Beckett è la ver-

sione conclusiva del mito prometeico.

32

Note

1. La data di composizione del Prometeo incatenato è ancora tema di discussioni, ma ora si dà generalmente per scontato che sia stata una delle ultime tragedie di Eschilo, posteriore forse anche all’Orestea (458 a.C.). Alla rappresentazione prendevano parte tre attori: la vecchia ipote-

si, secondo la quale nel prologo e nell’epilogo il titano era raffigurato da un fantoccio, è ora respinta. La roccia sulla cima del Caucaso, scerive Pe-

ter Arnott, era “simboleggiata da un palo diritto al quale veniva legato l’attore” (Greek Scenic Conventions in the Fifth Century. B.C., Oxford,

Clarendon Press, 1962; Appendix Î: “Prometheus Bond: The Final Sce-

ne”’, pp. 123 sgg.). Sembra dubbio che ci si servisse di una machina per far scendere dall’alto il coro delle Oceanine. Ma il punto più discusso è la soluzione scenica dell’epilogo. Tuoni e fulmini, naturalmente, erano soltanto descritti a parole e illustrati con Ja musica. Îl terremoto veniva

visualizzato con i gesti del coro. Anche lo scaraventare Prometeo negli abissi doveva avvenire — in quel teatro di gesti stilizzati — in maniera simbolica. Arnott avanza l’ipotesi che il titano e il coro sì appiattissero

al suolo. Una caduta spettacolare sarebbe stata possibile solo se Prome-

teo si fosse trovato sul theologeion, cioè sul tetto della skene. În tal caso

l’attore poteva fare un salto di un paio di metri per finire dietro la vecchia orchestra. Il theologeion era riservato agli dè, ma Prometeo era un titano e lo colpiva un fulmine scagliato direttamente dall’Olimpo. 2. Mircea Eliade, Îl mito dell’eterno ritorno, trad. di Giovanni Cantoni,

Torino, Borla, 1968, p. 28. Cfr. anche dello stesso, Îl sacro e il profano,

trad. di Edoardo Fadini, Torino, Boringhieri, 1967. 3. Eliade, Îl mito dell’eterno ritorno, cit., p. 29: “Per i cristiani, il Gol-

gota si trovava al centro del mondo, poiché era la cima della montagna cosmica, e contemporaneamente il luogo in cui Adamo era stato creato e sepolto”. 4. Esiodo, Teogonia, 126-8; traduzione di Carlo F. Russo, in Quando gli

uomini creavano gli dèi, Barì, Laterza, 1954, p. 163. 5. Sia la genesi greca sia quella biblica hanno carattere di operazione strutturale. Creare il mondo significava mettere ordine nel caos secondo le opposizioni fondamentali:

luce-tenebra, solido-fluido, freddo-caldo, a-

sciutto-bagnato. La più fondamentale è, però, l’opposizione spaziale tra 53

Divorare gli dei

“sopra” e “sotto”, “E dio fece il firmamento e separo le acque che sono È cosi fu. E dio sotto il firmamento da quelle che sono sopra di esso.

chiamò il firmamento cielo” (Genesi, 1, 7-8).

6. Tutti i brani citati dell’fliadepono nella traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, Torino, Éinaudi, 19683. 7. Northrop Frye, Fables and Identity: Studies in Poetic Mythology,

New York, Harcourt, 1963, pp. 58-66.

8, Erwin Panofsky, Studies in Jconology: Humanistic Themes in the Art “{...] i of Renaissance, New York, Harper Torchbooks, 1962, p. 203: sotmondo l materia neoplatonici fiorentini chiamavano il regno della terraneo e paragonavano l’esistenza dell’anima umana,

fin quando

è im-

prigionata nel corpo, a una vita apud inferos”’, di E. 9, Tutte le citazioni di Prometeo incatenato sono nella traduzione

Diano, Mandruzzato, in Îl teatro greco. Tutte le tragedie, a cura di Carlo Firenze, Sausoni, 1970. 10. Northrop Frye, Fovls of Time: Studies in Shakespearian 17. Toronto, University of Toronto Press, 1967, p.

Tragedy,

11. Ibid., pp. 44 e 55.

in Greek 12. Cfr. Walljam Chase Greene, Moira: Fate, Good and Evil

Thought, Cambridge, Harvard University Press, 1944, p. 123: “All'inizio

ma 7eus aveva la forza, ma non l’intelligenza; Prometeo l’intelligenza, coaliuna solo cose: due delle nessuna aveva non non la forza. L’uomo zione tra forza € intelligenza poteva portare al bene”. Zeus diede la 13. Nella Teogonia di Esiodo: “[...] le Moire, alle quali ai morposizione suprema: sono Cloto, Lachesi e Atropo: distribuiscono

Furie nactali ciò che essi hanno, nel bene e nel male” (903 sog.). Le il padre castrò Crono quero dal sangue 0 dallo sperma di Urano, quando primo il Fu sgg.). (182 Terra la e ne gettò via 1 penitali, che fecondarono

dei “trii”” esempio di fecondazione artificiale (e postuma). La divisione

al passagdel destino in Moire e Furie (o Erinni) è probabilmente legata

gio dal matriarcato al patriarcato. Nell’Orestea le Erinni provvedono alla

vendetta per l’uccisione

della madre.

Le Moire,

custodi

del destino

e

apenti dell’inevitabilità, sono verosimilmente d’origine più tarda. In Esiodo la divisione tra Moire e Furie non è ancora del tutto chiara.

Uni14. Cf. Bernard M.W. Knox, Oedipus at Thebes, New Haven, Yale

versity Press, 1957, pp. 125 e 145.

un’idea originale ]5. L’attribuire a Prometeo la scoperta dell’alfabeto fu intelletun’antropologia per di Eschilo, che la riteneva forse necessaria

scoperta dell’altuale del progresso. Le fonti mitologiche attribuiscono la lo è la luna: il contesto questo In Îo. fabeto alle tre Moire, a Ermete e a o

L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

primo alfabeto era legato al calendario lunare ed era un mistero religioso delle sacerdotesse di Îo-luna; cfr. Robert Graves, 1 miti greci, trad. di Elisa Morpurgo, Milano, Longanesi, 1963, pp. 225-8. 16. Per Prometeo, lettere e numeri erano media. Egli era cioè quasi un

precursore di Marshall MeLuhan, per il quale l’alfabeto simbolicoè stato

un mezzo decisivo per l’uniformazione dello spazio e del tempo, vale a

dire per il concetto visivo di “topocosmo”. 17. Claude Lévi-Strauss, Totemism, trad. ingl. di Rodney Needham, Boston, Beacon Press, 1963, p. 99.

18. Rousseau, Oeuvres choisies, Parigi, Garnier, 1962, pp. 67-8. 19. Knox, op. cit., p. 144: “Pronoia, ‘’prescienza‘, °’preveggenza‘, non è

soltanto la base delle profezie divine, ma anche la qualità che il medice, negli scritti ippocratici, è sollecitato a coltivare più di ogni altra”, 20. In un brano di una tragedia perduta di Eschilo (A. Nauck, Tragico-

rum Graecorum fragmenta, Il ed., Hildesheim, G. Olms, 1964, frammen-

to 205), che potrebbe anche essere la prima parte della trilogia su Prometeo, troviamo una specie di lezione sull’arte di accendere il fuoco: “E sta bene attento a non farti colpire al viso da una scintilla; perché è assai dolorosa, e scottano mortalmente

i suoi vapori”. Carl Kerényi, in Pro-

metheus: Archetipal Image of Human Existence, New Yeork, Pantheon, 1963, pp. 70-1, avanza l’ipotesi che si tratti di istruzioni per far funmonare una primitiva fornace per la fusione del ferro. 21. Claude Lévi-Strauss, Mythologiques: I: Le cru et le cuit, Parigi, Plon, 1964, p. 20; e per i brani successivi, pp. 73 e 200 e l’intero capitolo “Cantate de la sarigue”. 22. Graves, op. cit., p. 178.

23. Con il suo straordinario intuito, Hegel fu il primo a cogliere nel mi-

to di Prometeo una combinazione tra la scoperta del fuoco, il primo sacrificio animale e la cottura della carne. Cfr. Hegel, Estetica, trad. di Ni-

colao Merker e Nicola Vaccaro, Torino, Einaudi, 1967, pp. 518 sgg. 24. Eliade, Îl mito dell’eterno ritorno, p. 120: “Infatti ì miti di numerosì popoli fanno allusione a un’epoca lontamssxma in cui gli uomini non

conoscevano né morte né lavoro né sofferenza e trovavano a portata di

mano un abbondante nutrimento [...] In seguito a una colpa rituale, le comunicazioni tra cielo e terra sono state interrotte e gli dèi sì ritirarono

nei cieli più alti. Da allora gli uomini devono lavorare per nutrirsi e non

sono più immortali””.

LA I

25. Esiodo, Le opere e i giorni, 383-84: “Quando appaiono le Pleiadi, figlie di Atlante, comincia il tuo raccolto e torna ad arare quando esse scompaiono”’,

Divorare gli dei

26. Claude Lévi-Strauss, Race et histoire, Parigi 1952, p. 19. 27. Knox, op. cit., p. 148.

28. George Thomson, Aeschylus, Prometheus Bound, New York, Mac-

millan,

1932;

Anthony

J.

Podlecki,

The

Political

Background

of Ae-

schylean Tragedy, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1966, cap. VI, “Prometheus Bound”. 29, Eric A. Havelock, Prometheus, Seattle, University of Washington Press, 1968, p. 96. 30. Vale la pena paragonare la rocca eschilea dove dimorano gli déèi all’ immagine

del cielo di bronzo e della cittadella divina di Pindaro (Nemee,

VI, 1-5): Uno dei numi, un dei mortali è il genere; ambi una madre crebbect,

ma parti di valor diverse forma,

che l’uno è nulla e immobile sede in eterno il ciel di branzo sta.

Da Le odi e i frammenti, trad. di Giuseppe Fraccaroli, Milano, Istituto Editoriale Italiano, s.a., II, p. 263.

31. Îl primo stasimo del coro (353 sgg.) di Antigone, nella traduzione di

E. Cetrangolo in Îl teatro greco..., cit. 32. Martin Heidegger, “The Ode on Man in Sophocles’ Antigone”, in An

Introduction to Metaphysics, trad. di Ralph Manheim, New Haven, Yale University Press, 1959, p. 147. 33. Tutte le citazioni da drammi di Shakespeare sono nella traduzione di Cesare Vico Lodovici, in Shakespeare, Teatro, Torino, Einaudi, 1960.

34. In The Complete Greek Tragedies, Aeschylus, Il, Chicago, University of Chicago Press, 1956.

35. Jo è anche una mutazione dell’egiziana Iside. Luciano era un esperto

mitografo. Nei suoi Dialoghi degli dèi {III), Zeus ordina a Ermete:

“Vola

giù nella selva Nemea dove è Argo bifolco e uccidilo; mena lo per mare

in Egitto e falla Iside; e d’ora in poi essa sia dea a quelle genti, e faccia crescere il Nilo, e mandi i venti, e salvi 1 naviganti’. In 1 dialoghi e gli

epigrammi, trad. di Luigi Settembrini, a cura di Danilo Baccini, Roma, Casini, 1962, p. 66. 36. Havelock, op. cit., pp. 60-1. 37. Cfr. Kerényi, op. cit., pp. 120-2, e dello stesso, Asklepios: Archet-

ypal Image

of the Healers

Existence,

New

York,

95-100.

Pantheon,

1955,

pp.

38. Nell’introduzione alla sua dissertazione di laurea: Marx-Engels, Wer-

ke, Berlino, Dietz-Verlag, 1968, vol. I, pp. 262 sgg. 96

L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

39. George Thomson, Aeschylus and Athens: A Study in the Social Origins of Drama, Londra, Lawrence & Wishart, 1941, p. 316. 40. Tipica è la prefazione di Shelley al suo Prometheus Unbound: “Ma

in realtà non mi piaceva una soluzione debole quale la riconciliazione tra

il campione e l’oppressore dell’umanità. L’interesse morale della favola, vigorosamente rafforzato dalle sofferenze e dalla resistenza di Prometeo,

verrebbe meno se potessimo immaginarlo nell’atto di ritrattare le sue nobili parole e di umiliarsi davanti al suo vittorioso e perfido nemico”. Shelley, Prometheus Unbound, a cura di Lawrence J. Zillman, Seattle,

University of Washington Press,:1969, p. 35. 41. Cfr. Kerényi, Prometheus, p. 17: “Hl Prometeo di Goethe non è un

dio, né un titano, né un uomo, ma lìimmortale prototipo dell’uomo, co-

me primo dei ribelli e assertore del proprio destino: l’abitante originario della terra, visto come antidio, come signore della terra stessa”. Goethe

scriveva di sé: “Mi sono isolato dagli dèi come Prometeo”. Ed ecco co-

me finiva la sua celebre ode a Prometeo, scritta nel 1774: Qui fermo io sto, formo a mia immagine uomini, una stirpe a me simile, destinata a soffrire, piangere, godere e gioire, e a non curarsi di te come faccio io. '

Marx, ovviamente, sapeva a memoria l’ode di Goethe. 42. Nella citata prefazione di Shelley: “Îl solo essere immaginario che assomigli in qualche modo a Prometeo è Satana; ma Prometeo, a mio

parere, è più poetico di Satana, perché, a parte il coraggio, la maestà e una salda e paziente opposizione a una forza onnipotente, può anche

essere descritto come esente dalle macchie dell’ambizione, dell’invidia,

dello spirito di vendetta e di un desiderio di esaltazione personale, che rendono meno interessante l’eroe del Paradiso perduto”. Shelley, Pro-

metheus Unbound, pp. 35-7. 43. Cfr. Eliade, Il sacro e il profano, p. 159: “L’uomo areligioso moder-

no assume

una situazione esistenziale nuova: egli si considera esclusiva-

mente il soggetto e l’operatore della storia, rifiutando qualsiasi richiamo alla trascendenza [...] L’uomo si fa da sé e si fa tanto più completamente in proporzione alla sua desacralizzazione e alla desacralizzazione del mondo. Il sacro costituisce l’unico ostacolo alla sua libertà. Diverra se stesso solo nel momento in cui sarà riuscito a demistificarsi completamente. La sua libertà sarà completa nel momento in cui sarà riuscito a uccidere l’ultimo dio”’.

44. Eliade, Îl mito dell’eterno ritorno, p. 161.

45. Camus, Îl mito di Sisifo, trad. di Attilio Borelli, Milano, Bompiani, 1949, p. 120.

97

DNivorare gli dei 46. Sorprendentemente vicina a Camus è l'interpretazione che del mito

prometeico

diedero i neoplatonici

con Marsilio Ficino

e con

i famosi

pannelli di Piero di Cosimo. Panofsky, Studies in Îconology, pp. 50-1: “I

mitografi successivi, soprattutto Boccaccio, hanno sempre sostenuto che, mentre Vulcano impersona l’ignis elementatus, cioè il fuoco fisico che

permette all’uomo di risolvere i suoi problemi pratici, la fiaccola di Prometeo, accesa alle ruote del carro del sole — rota solis, id est de gremio

dei — porta il fuoco celeste che rappresenta la lucidità della conoscenza infusa nel cuore dell’ipnorante‘ e che questa lucidità può essere raggiunta solo a scapito della felicità e della pace dello spirito [...] Nei pannelli strasburghesi di Piero, questa idea è mirabilmente espressa dal gesto trionfale della statua, in netto contrasto con la torturata posizione di Prometeo. La punizione di quest’ultimo simboleggia il prezzo che l’umanità deve pagare per il proprio risveglio intellettuale, vale a dire {...] l’essere tormentati dalla nostra meditazione profonda e riprenderci solo per farci tormentare ancora”. È’ già un’interpretazione pre-esistenzialistica: la tortura di Prometeo è “consapevolezza infelice”. 47. Cicerone, Tusculanae disputationes, ÎI, 10.

48. Cfr. John H. Finley jr, Pindar and Aeschylus, Martin Classical Lectures, XIV, Cambridge, Harvard University Press, 1955, p. 231. 49, Pitiache, 1, 6-7. In Le odi e i frammenti, cit., II, p. 90. 50. Franz Kafka, in Racconti, trad. di Ervino Pocar, Milano, Mondadori,

1970, p. 430. 51. “Oppure si prenda Giorni felici di Beckett: c’era mai stata dopo il Prometeo una stasi paragonabile, un paragonabile tipo d’azione? ”” George -Steiner, in risposta a un’inchiesta su ‘“The Classics and the Man of Letters”, “Arion”, IM, inverno 1964, p. 82.

98

Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

“Îl mio nome è Aiace: sofferenza è il suo significato”!, In tutte le tragedie di Sofocle, eccetto l’ultima nella quale Edipo vecchio sceglie il luogo della propria morte, gli eroi vengono precipitati al livello più basso della condizione umana: li osserviamo in una situazione in cui sono divenuti estranei agli uo-

mini e al mondo.

l’uccisione

L’ultimo agone

della madre

è l’agonia dell’eroe. Dopo

e del suo amante, non arriveranno Îe

Frinni, non cì saranno né giudizio né purificazione. Il coro, pronunciata la sua trita morale, si disperde. Oreste ed Elettra restano solì con il loro delitto. Sono superflui per gli dèi, stranierì nella propria città, estranei persino l’uno all’altra. Non pronunceranno neanche una parola. Hanno vissuto per vendicare il padre. Dovere e odio sono due cadaveri. Mentre sgorga lento il sangue dai corpi di Clitennestra e di Egisto, Oreste ed Elettra perdono la propria ragione d’essere. Nelle sue tragedie, Sofocle tende a preparare questo momento

fondamentale, nel quale il protagonista si rende finalmente

conto che gli hanno tolto il terreno di sotto i piedi e che gli dèi tacciono. Soltanto allora, nella consapevolezza piena della condizione

umana,

è possibile una

scelta eroica: suicidarsi ©

continuare a vivere e, come Edipo dopo che si è cavato gli occhi di sua mano, sfidare cosi l’assurdo del mondo. Nelle set-

te tragedie superstiti di Sofocle, cìi sono sei suicidi, un tentato

suicidio e due richieste di affrettare la morte?. Ma solo in Aia-

ce il protagonista si ammazza sotto gli occhi degli spettatori, in pieno giorno. È solo in Aiace il cadavere rimane sulla scena, D9

Divorare gli dei

per tutta la lunga seconda parte della rappresentazione, sino al termine della tragedia. Sangue nero sgorga dalle narici di Aiace e la principessa prigioniera Tecmessa ne copre il cadavere con un manto. Ma Teucro, il fratellastro di Aiace, scopre presto il corpo. Che rimarrà sino alla fine il personaggio più importante della tragedia. Aiace morto continua a odiare e a essere odiato. Dopo la morte

di. Achille, quando la sua armatura doveva essere data al più

valoroso dei greci, Aiace è stato ingannato. O l’elezione era truccata o i giudici sì sono lasciati corrompere; fatto è che l° armatura, forgiata dal dio fabbro Efesto, è stata assegnata a Odisseo. L’indomani, all’alba, Aiace esce dalla sua tenda per ammazzare i generali greci. Viene ingannato di nuovo. Atena lo ha accecato con una nebbiolina rosso sangue®

ed egli, an-

ziché uccidere Odisseo e i figli di Atreo, ha fatto strage di buoi e di arieti. Non può sopravvivere a tanta vergogna. La tragedia dovrebbe finire dopo il suicidio di Aiace. Ajiace si è ammazzato, ma il mondo non ha cessato di esistere. Ma qual è il mondo che Aiace è arrivatoa odiare?. Il suicidio di Aiace può essere misurato soltanto sul metro del mondo reale. Ma

anche il mondo reale può essere misurato sul metro del suicidio di Aijace. La seconda parte della tragedia è un processo ad Aiace. In esso il cadavere è anche l’accusatore’. Il crudele rapporto con il mondo della prima metà sfocia qui in un rendimento di conti politico e nell’ingiuria. 11 cadavere è ancora troppo ingombrante. Paragonati a lui, tutti gli altri, amici e nemici, persino Odisseo grazie al quale alla fine Aiace verrà sepolto, appaiono piccoli e insipidi. Aiace è generalmente considerata la più omerica delle tragedie di Sofocle; ma nel confronto inesorabile tra la leggenda di Omero e un mondo privo di eroismo, gli eroi dell’Iliade vengono degradati ancor più crudelmente che in Euripide. Bisogna che Aiace sia spogliato di ogni grandezza ed eroismo, prima 60

Atiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

che Sofocle gli conceda un momento di fredda lucidità e gli

restituisca una nera grandezza, tanto diversa da quella omerica, e un altro tipo di eroismo, assai più amaro.

L’enorme cadavere giace ancora sulla scena. Menelao, Agamennone e Odisseo se ne sono andati. Îl coro dei marinai e Teu-

cro rendono ad Aiace l’ultimo omaggio. Poi il cadavere viene cerimoniosamente portato via in un corteo funebre. Ma quale Aiace hannoe sepolto nella tragedia di Sofocle? 2.

Achille monta su tutte le furie quando apprende, al consiglio di guerra, che Agamennone ha deciso di sottrargli Briseide, sua prigioniera. Ha già sfilato la spada dal fodero e si accinge ad

aggredire il re, quando all’improvviso compare. dietro di lui

Atena e “per la chioma bionda prese il Pelide, a lui solo visibile; degli altri nessuno la vide. Restò senza fiato Achille, si volse, conobbe subito Pallade Atena: terribilmente gli lampeggiarono gli occhi e volgendosi a lei parlò parole fugaci: ‘°Perché sei venuta, figlia di Zeus egioco, forse a veder la violenza d° Agamennone Atride? Ma io ti dichiaro, e so che questo avrà compimento: per i suoi atti arroganti perderà presto la vita‘. E gli parlò la dea Atena occhio azzurro: ’lo venni a calmar la tua ira, se tu mi obbedisci, dal cielo [...] Su, smetti il litigio,

non tirar con la mano la spada: ma ingiuria con parole [...]°” (Iiade, 1, 197 sgg.). Dopo che l’armatura di Achille è stata data a Odisseo, Aiace infuriato si dirige in piena notte verso le tende dei figli di Atreo. Atena gli sta dietro, come nell’Iliade. Ma Atena gli toglie la ragione e gli confonde i sensi. Con la sua spada Aiace non assale i generali, ma un armento di buoi e di arieti. Briseide era ‘“guancia graziosa” e Achille dormiva con lei tutte 1è notti. L’armatura di Achille è stata forgiata da Efesto. Sia 61

DNivorare gli dei

Briseide sia l’armatura sono simboli. Briseide era bottino di guerra di Achille; l’armatura, dopo la morte di Achille, doveva

essere data al più valoroso dei greci. Sono entrambi trofei, em-

blemi di coraggio, di una condizione di eroe®,

“Canta, o dea, l’ira d’Achille...” L’Achille di Omero e l’Aiace di Sofocle sono posti in situazioni analoghe®. L’ordine eroico

è minacciato. Achille torna alla sua nave e aspetta. Ma dopo la

morte dell’amico Patroclo, torna in battaglia e uccide Ettore, principe di Troia. La sua scelta è tra la gloria e una lunga vita.

Ha scelto la gloria. L’ordine eroico è salvo. În Aiace invece è totalmente distrutto. “Il guerriero migliore era Aiace Telamonio, fin che Achille fu irato...” (Itade, II, 768). “Li inzupperò

tutti nella merda”, scriveva Flaubert dei suoi personaggi. Sofocle immerge il più valoroso dei greci dopo Achille nel sangue di animali macellati. “Si trova dentro con la fronte sudata e con le mani insanguinate” (Aiace 9). Anche nell’Iliade Aiace suda moltissimo: “Sempre era in preda a un affanno terribile, continuo il sudore colava abbondante da tutte le parti del corpo” (XVI, 108). Ma questo avveniva in battaglia, quando al-

lontanava i troiani dalle navi greche. In Sofocle il sudore di

Aiace è quello di un macellaio. Atena mostrarlo allo spaventato Odisseo. Atena — E del figlio di Laerte che cosa sorte versa? O forse ti è sfuggito? Aiace — Vuoi sapere dov’è quella volpe Atena — Appunto. Parlo di Odisseo, del

lo chiama in scena per ne hai fatto? In quale maledetta? tuo nemico.

Aiace — Lo tengo dentro incatenato per mia gioia, o regina. Ancora non voglio che muota.

Atena

gioia?

— Ma prima di ucciderlo, che cosa vuoi farne a tua

Aiace — Prima legato alla colonna della mia tenda... Atena — Quale pena darai a quell’infelice? Aiace — Sotto i colpi di frusta alla schiena perisca nel san-

gue!

(AiGCB,

62

].0].

Sgg.)

Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

Atena tortura Aiace che ha portato alla pazzia, come Aiace

tortura il bianco ariete cui ha legato le zampe con una fune. Sino a epoca abbastanza recente i filologi classici consideravano le opere di Sofocle un esempio di teatro statuario, austero e pio. Nel vero Sofocle, Eracle ulula dal dolore mentre lo bruciano vivo, ulula Filottete per la sua ferita suppurante e ulula Aiace”. Aiace è quello che ulula più forte. Il prologo di Aiace, con Atena che istiga l’eroe, con lo spaventato Odisseo e coni giganteschi arieti macellati fa venire in mente il dramma satiresco® o le parodie di Aristofane; lo spettatore moderno pensa anche

a Brecht. Il non ovvio diventa ovvio, l’ovvio non ovvio.

Uccidere ì propri nemici è eroico, torturare animali innocenti, anziché uomini, non è eroico.

[...] e una parte di animali sgozzava a terra nella tenda; un’al{ra parte tagliava sui fianchi, li spaccava in due; e poi, sollevati due arieti dai bianchi piedi, di uno

troncò

la testa e recise la

punta della lingua, e testa e lingua gettò via a terra; legato l’altro presso una colonna, in alto, lo colpiva con doppia correggia di cuoio, grande, sonora, sibilante e scagliava parole o traggiose,

va.

sconce,

che

un demone,

non un mortale, gli suggert-



(Aiace, 234 s3gg.)

Odisseo parla dell’assassinio dei pastori che custodivano gli armenti

dell’esercito;

Atena

racconta

del

massacro

dei

buoi

e

delle pecore; la prigioniera di Aiace, Tecmessa, riferisce come ha tagliato la gola ai tori e spezzato la schiena ai cani da pastore, Le descrizioni sadiche e fastidiose degli animali torturati si prolungano per tutto il prologo e per metà del primo episodjo. Durante questa lunga scena, mentre Tecmessa racconta della follia di Aiace e si sentono le sue grida dalla tenda, il coro descrive ‘“non verbalmente”, attraverso i gesti e i movimenti del corpo; la sua pazzia, la sua umiliazione e il suo tor-

mento. ‘“Se oggi siamo cosf incapaci di dare di Eschilo, di So-

focle, di Shakespeare un’idea degna di loro”, seriveva Artaud, 63

Divorare gli dei

“lo si deve molto verosimilmente

all’aver smarrito

co del loro teatro”®. Se al posto della danza coro

vestito

di chitoni,

immaginiamo

attori

addestrati

nel teatro di Grotowski, certo ci avvicineremo al teatro crudele di Sofoctle. Ora i lembi

della

sua

tenda

sono

aperti.

il senso fisi-

stilizzata di un

Aiace

come

maggiormente siede

su una

catasta di animali massacrati, come un macellaio nella sua bottega. Sofocle, come Shakespeare e i grandi elisabettiani, non

aveva paura della vista del sangue e delle teste tagliate. L’es-

senziale per lui era la degradazione, fisica e spettacolare, dell’ eroe, Atena fa di Aiace l’oggetto

di una

lezione

da impartire

sulla scena1° . “Ora ti mostro chiara la sua follia”, dice a Odis-

se0, “perché tu possa annunciare a tutti gli argivi di averla veduta” (66 sg.).

Nell’Iliade i greci sono crudeli e il loro odio non conosce limiti. Agamennone

avverte che nessun troiano verrà lasciato in vi-

ta e che persino i nascituri saranno strappati dal ventre delle loro madri; Achille trascina il cadavere di Ettore con i propri

cavalli e uccide dodici prigionieri troiani davanti al rogo funebre di Patroclo. Ma nel mondo di Omero non esiste tortura.

Uccidere è una cosa seria, da descrivere in modo oggettivo, asciutto, preciso, come una difficile operazione chirurgica:

“[...] colse con esso [un masso] Enea sull’anca, dove la coscia si curva a formar l’anca: lo chiamano cotilo. Gli fracassò il

cotilo e gli spezzò due tendini, la pietra scheggiata stracciò la pelle; e l’eroe cadde e rimase in ginocchio puntando la mano forte contro la terra; un’ombra buia gli copri gli occhi” (Ilia-

de, V, 305 sgg.). Uccidere richiede una conoscenza dell’anato-

mia umana; descrivere un’uccisione significa trasmettere questa conoscenza. “D’asta Merione lo colse {...] tra le vergogne e il bellico a metà, dov’è molto doloroso Ares per i mortali infelicì” (Ikiade, XIII, 567 sgg.).

Il narratore è sempre imparziale e si mostra correttamente ri-

spettoso sia di chi uccide sia di chi viene ucciso. “Tutta copri64

Atiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo van la pelle l’armi bronzee, bellissime, ch’Ettore aveva rapito,

uccisa la forza di Patroclo; là solo appariva, dove le clavicole dividon le spalle dalla gola e dal collo, e là è rapidissimo uccider la vita. Qui Achille glorioso lo colse con l’asta mentre in-

furiava;

dritta

corse la punta traverso al morbido

collo; però il

faggio greve non gli tagliò la strozza, cosf che poteva parlare, scambiando parole” (Iliade, XXII, 321 sgg.). Omero fa sempre morire i suoi eroi con dignità. La morte è parte integrante dell’ordine eroico: “[...] se noi ora, fuggendo a questa battaglia, dovessimo vivere sempre, senza vecchiezza

né morte, 10 certo allora non lotterei fra i campioni, non spin-

gerei te alla guerra, gloria dei forti; ma di continuo ci stanno intorno Chere di morte innumerevoli, né può fuggirle o evitarle i1 mortale” (Jkade, XII, 322 spg.). E poiché bisogna comunque morire, è meglio essere un eroe. Sia il vincitore sia il vinto sanno che moriranno!!. Forse per questo a Omero interessava più la descrizione tecnica del col-

po che

venutogli

le sensazioni

dei

suoi

eroi.

a tiro, lo colse nel capo,

“Il Fileide buona lancia,

alla nuca con l’asta puntu-

ta. Dritto fino ai denti la lingua il bronzo troncò; lui piombò nella

polvere, strinse il bronzo freddo coìi denti” (Iiade, V, 72 sgg.). L’uomo non si divide in anima e corpo!? e non c’è neanche una divisione tra nobile e volgare. La morte è parte dell’ordine naturale come il pasto abbondante prima della battaglia e la prigioniera che aspetta nella tenda dopo la battaglia. Persino l’implacabile punzecchiatura di una mosca ostinata ha un suo giusto posto in questo mondo eroico. “[...] gio{ la dea Atena occhio azzurro che [Menelao] l’avesse invocata per prima di tutti gli dèi; infuse forza nelle sue spalle, nelle ginocchia, gli

ispirò in cuore l’ardire della mosca, che, pur cacciata, molto alla pelle dell’uomo s’attacca, per morderla” (Iiade, XVII,

067 sgg.). Nel libro- XII Atena e Apollo assumono l’aspetto di avvoltoi e si godono lo spettacolo della battaglia dalla cima di una quercia!3 ,

Divorare gli dei

La morte incombe a ogni svolta; e cosi gli deviare la freccia scoccata dal migliore degli che colpisca il punto dove s’incrociano spesse senza trafiggere il corpo. Gli dèi omerici sono

dèi. Un arcieri cinghie il caso,

dio può in modo di cuoio la buona

o la cattiva fortuna che fa scivolare una spada lungo l’armatura o un piede in una pozza di viscido sangue. ‘“[...] sempre il

volere di Zeus val più di quello di un uomo; egli anche un

uomo gagliardo può mettere in fuga, e vittoria gli nega facilmente; a volte, invece, lo sprona egli stesso a combattere” (Niade, XVI, 688 sgg.). A volte gli dèi, come Ate, sono sangue

resso che scorre sugli occhi nell’ira. Come la milza e il fegato, gli dèi sono a volte soltanto un nome, una sede e una fonte di

passioni.

.

Gli dèi sono vicini, coinvolti nelle vicende umane, ma tra gli dèi, come tra gli uomini, ci sono i più deboli e i più forti. Quando

lIride si presenta

ad

Achille,

il greco,

prudente,

le

chiede per prima cosa quale dio l’abbia inviata con un messaggio. Gli dèi sono coinvolti nelle vicende umane e proprio per questo prendono partito. Atena suggeriscea Diomede di non contare troppo sul suo aiuto: c’è il rischio che “un altro dio [...] ridesti anche i teucri” (Iiade, X, 511). Gli dèi di Omero hanno raramente compassione degli uomini, ma

non li trattano

mai con

disprezzo.

Sono

immortali

e dalla

loro prospettiva li paragonano a foglie che un forte vento può in un attimo scrollar via dall’albero. E’ difficile provare invidia per foglie spinte dal vento e non c’è motivo di umiliarle o disprezzarle. L’Atena dell’Aiace di Sofocle appartiene a un mondo ben diverso da quello omerico. Fa pensare ogni tanto a una vecchia e invidiosa vivandiera di reggimento che, a forza d’aggirarsi per l’accampamento, abbia finalmente trovato l’occasione per strillare: “Io so oscurare anche la più brillante del-

le visioni” (85). E sibila di gioia al pensiero di poter umiliare

e denigrare Aiace: “C’è cosa più bella che ridere dei nemici? ” (78)!4. 66

Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

Gli dè: di Omero non dànno lezioni di moralità agli uomini. L’Atena di Sofocle fa parte di una cultura diversa, nella quale la grandezza, o anche soltanto il successo, degli uomini appare sospetta aglì occhi degli dèi.

A noi, per quanto brevi i giorni cadano,

sia nel presente che nel più loniano futuro, come fu già nel passato, una legge permane: alla grandezza umana si accompagna la sventura. L’umiliazione ticolarmente

divina:

(Antigone, 603 spg.)!5

inflitta ad Aiace da Atena è una lezione parcrudele;

quasi

grottesca,

della

nuova

didattica

Vedi, Odisseo, la potenza degli dèi come è grande? C’era a tuo giudizio un uomo più di lui prudente, più assennato, © pari a lui nelle azioni virili, a tempo giusto? (Aiace, 118 sgg.)

Gli dèì di Omero vigilavano attentamente perché gli uomini offrissero loro i sacrifici prescritti. Ma l’Atena di Sofocle non bada più alle offerte. Quando lei lo chiama, Aiace, pur nella sua follia, si ricorda di promettere doni d’oro massiccio per il suo altare. Ma a questa Atena non interessano le offerte, sol-

tanto i principi. Atena che tormenta Aiace è una dea della teologia.

E un’altra volta,

mentre la divina Atena lo esortava nel mezzo

di una mischia a rivolgere il micidiale suo braccio contro i nemici, rispose alla dea con parole terribili ed empie: “Regina, avvicinati piuttosto agli altri argivi: qui dove son io schierato col miei l’urto nemico s’infrangerà”. '

(Aiace, 774 sgg.)

Omero paragona Aiace a un asino caparbio. Non meno testardo è l’Aiace di Sofocle. Al padre che gli raccomanda di invocare sempre l’aiuto degli dèi, risponde infatti: “Padre, con l aiuto divino potrebbe vincere anche un uomo da nulla. Îo so67

Divorare gli dei

no sicuro

di riportare la gloria anche senza l’aiuto degli dèi”

attribuito

dubbi

(767 sgg.). E° significativo che, tra tutti gli eroi dell’Iltade, Sofocle abbia metafisici

al solo

Aiace.

Su

un vaso

attico

della seconda metà del VI secolo a.C., Aiace, che sta giocando

a dadi con Achille, ha spalle due volte più larghe ed è parec-

chio più alto!$. l gigante omerico, ‘““alto sopra gli argivi della

testa e delle larghe

spalle” (Iiade, II, 226), che butta già i

troiani da una nave brandendo ‘“in pugno una pertica enorme, da lotta navale, di ventidue cubiti” (XV, 677), non pareva incline alle riflessioni intellettuali. Aiace conosceva la propria forza

e voleva

essere forte

non

solo

‘“in sé”, ma

“per

sé”.

Questo gigante che vuole improvvisamente essere responsabile

della propria vita dall’inizio alla fine e combatte in prima persona il mondo, sembra il primo eroe moderno della tragedia greca. E' l’Aiace che Sofocle ha trovato nell’Itade, ma leggendo, come sempre, Omero in modo virulento con assoluta coerenza, si potrebbe dire.

e drammatico,

Quando, battendosi per il corpo di Patroclo, i greci non riescono a contenere l’attacco dei troiani, “prese a parlare tra lo_r0'iì grande Aiace Telamonio:

’Ohimè,

anche

chi fosse molto

sciocco ormai capirebbe che il padre Zeus aituta i troiani; i loro dardi colgono tutti, chiunque li lanci, vile o gagliardo; Zeus continuamente li drizza. È invece a noi tutti cadono in terra, cosf{, inutilmente.

Ma

su, pensiamo

anche noi piano migliore

[...|‘” (Hiade, XVII, 628 sgg.). Aiace non è arrogante: è raro che gli atleti lo siano. Non disprezza gli dèi. E' solo che può fare a meno del loro aiuto. Ha in sé, come dirà J.H. Finley, “la tacita forza della terra”!? .

Gli dèi di Omero rispettavano la torva ferocia di Aiace. L’

umiltà non era contemplata nel codice eroico degli dèi o degli uomini. Solo l’Atena di Sofocle chiede umiltà ai mortali. Mon-

ta su tutte le furie perché — dice il messaggero riportando Îe parole dell’indovino Calcante — le idee di Aiace ‘“escono dai 68

Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

limiti umani”. F° lo stesso Calcante che aveva ordinato di sacrificare Ifigenia sull’altare di Artemide e che in tutta la tradi-

zione postomerica rappresenta la nuova “civiltà della colpa” come la chiama Dodds, la cupa invidia degli dèi!® . Tutte le opposizioni fondamentali sono già presenti nel prologo. “Sempre ti scorgo intento”, dice Atena a Odisseo nel primo verso di Aiace, “a tramare insidie contro i nemici”. L’ani-

male non ha più via di scampo; tra poco la dea mostrerà a Odisseo Aiace impazzito. Atena è spietata, mentre Odisseo ha compassione

di Aiace.

ll pio

politico

Ma

la sua compassione non

fa riferi-

mento alla collera di Atena. È’ la compassione di un pio: “Tutto può accadere se un dio usa le sue arti” (86). Il pio uomo politico sa che, se gli dèi lo vogliono, si può fare a un uomo qualsiasi cosa. Lo sa e lo accetta. “Vedo che noi tutti che viviamo non siamo nient’altro che larve di sogni, ombre vuote” (125 sgg.)!°. uomo

sa che

polvere nelle mani di esseri essere tolta con facilità. H dèl. Per lui gli dèi arrivano ad Atena: Tu giungi opportuna, e mi

pre fatto e farò.

Fra quanti hanno scritto ad aver capito che Atena litica e la stessa morale. ne della vita che Odisseo

l’uomo

è niente; una manciata

di

più forti di lui; e la polvere può pio uomo politico obbedisce agli sempre in tempo?° , Odisseo dice lascio guidare da te, come ho sem(Aiace, 34 sg.)

su Aiace, C. Whitman è forse il solo e Odisseo rappresentano la stessa poAtena, egli scrive, “esprime una visioaccetta, ma che Aiace ha sempre ri-

fiutato e continua a rifiutare’”?! , L’eroico Aiace, il folle Aiace, l’umiliato Aiace non vuole ammettere che l’uomo non è

altro che ombra. Noi siam d’un giorno: che cos’è? che cosa

non è? Sogno d’un’ombra è l’uom. Ma dove baglior divin gli piove,

69

?

Divorare gli dei

dolce è la vita e nella luce ei posa. (Pitiche, VIII)?2

Sofocle precede Pindaro solo di una generazione, ma nelle sue

tragedie, quando appare un dio, non c’è luce e la vita non di-

venta dolce. Quando appare un dio, l’uomo è braccato a mor-.

te. Uscito dalla sua follia, Aiace grida: “La forte figlia di Zeus fa strazio di me, rovinoso” (401). 3.

“O tenebre, che più del sole a me risplendete! ” (394), Come Edipo dopo che sì è cavato gli occhi, Aiace, uscendo dalla fol lia, vede per la prima volta il mondo qual è e se stesso nel

mondo. E’ caduto in una doppia trappola. Per i greci è l’Aiace che voleva assassinare i capi della spedizione. Per se stesso è

l’Aiace che ha perso il suo prestigio di eroe. Nel mondo non eroico morirebbe lapidato come un traditore. In guello eroico si è reso ridicolo per sempre. Guarda il coraggioso, il forte nei pericoli, l’uomo che in bat-

taglia non trema in faccia al nemico!

Guarda come il braccio

è gagliardo, terribile contro bestie mansuete! mi oltraggeranno!

Quali risa adesso

(Aiace, 364 Sgg.)

Aiace è stato scaraventato nel fondo dell’abisso, è stato posto

nella situazione che è, secondo Sofocle, la sola vera condizio-

ne umana. Aiace, ingannato dagli dèi e dagli uomini, è stranie-

ro nel mondo;

ma è straniero persino

di fronte

a se stesso,

perché l’Aiace che ha cessato di essere un eroe è un Aiace di-

verso.

Questo

nuovo Aiace è deinotaton, lo straniero, l’estra-

neo; l’estraniato.

E adesso che cosa devo fare? Visibilmente gli dèi mi odiano, mi odia l’armata dell’Ellade, mi odia tutta la Troade, mi odiano questi campi intorno. (Aiace, 457 Sgg.)

70

Atiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

Dal momento

in cui esce dalla follia a quello in cui sìi ammaz-

za, l’intera azione

consisterà,

come

nelle tragedie

di Racine,

nel processo attraverso il quale l’eroe giungerà alla decisione

suprema. Quest’ultimo rendimento di conti con il mondo deve avvenire nella piena consapevolezza. La morte sembra inevitabile. Ma ci sono diversi modi di morire. Ajace cerca disperatamente una morte eroica. Ma non c’è più spazio per essa. Il mondo non è più diviso tra greci e troiani. O forse devo correre all’assalto delle mura di Troia, azzuffandomi

da solo a solo contro

tutti e, dopo

cosi bella e utile

impresa, finalmente morire? Potrei farlo, ma colmerei gli Atridi di gioia, come credo. Neppur questo è possibile.

(Aiace, 466 sgg.)

Offeso da Agamennone, Achille torna sulla sua nave a suonare la lira e a guardare Patroclo. Aspetta. Ha persino annunciato l’intenzione di salpare e di tornarsene nella nativa Ftia. Ma Achille non è stato messo in ridicolo. Aiace non può andare da nessuna parte. Ovunque vada sarà sempre l’Aiace che ha fatto strage di animali. Il mondo eroico è come una trappola: impossibile fuggirne. Egli sarà ovunque nudo come un verme perché ha perso l’onore. E quale viso mostrerò a mio padre, a Telamone, comparendo-

gli davanti nella luce? Come resisterà a fissarmi negli occhi, presentandomi a lui senza nulla, senza il premio del mio valore {...]?

(Aiace, 463 sgg.)

Se non è possibile morire da eroe e se non esiste luogo nel quale fuggire, non rimane che il suicidio. “Il tentativo di Aiace di formulare un’alternativa al suicidio eroico”, serive Knox, “lo convince della sua impossibilità”°3 . Ma il suicidio “eroico” non è contemplato nel codice eroico. È’ un’invenzione di epoche non eroiche. Îl mondo dell’Hiade non conosceva il suicidio. Gli eroi potevano scegliere tra la viltà e ‘il coraggio e avevano sempre a portata di mano la spada di qualcun altro. Il. 71

Divorare gli dei

suicidio di Aiace compare Uno

solo nel ciclo epico postomerico.

scolio di un solo verso

che

ci è stato conservato dice:

‘““Secondo l’autore dell’Etiopide Aiace si uccise verso l’alba” 24 L’Aiace

di

Sofocle

esamina

le

ragioni

del

suicidio

morte

eroica,

in

un

mondo dove improvvisamente non esiste più sistema di valori. Ci sono molte maniere di morire. Anche il suicidio può essere facile o difficile. Un uomo può gettarsi sulla propria spada, continuando a illudersi di salvare il mondo dei valori eroici. Ò vivere nobilmente o nobilmente morire: è questo il dovere dei forti. Aiace

era

pronto

sin dall’inizio

a una

(Aiace, 479 sg.)

Sino

a

questa scena, il mondo con ìl quale lottava e al quale si scopriva improvvisamente estraneo, il mondo della dea vendicati-

va, del subdolo

Odisseo

e degli odiosi

figli di Atreo,

era il

mondo di quelli che uccidono. Ma accanto a esso c’era un al-

tro mondo, quello di chi viene ammazzato,. Atace, mio signore, non esiste per gli uomini male più grande

di una sventura imposta dal destino. lo nacqui da un padre libero, potente per ricchezza come nessun altro mai dei frigi. Ora sono schiava.

(Aiace, 485 sgg.)

Tecmessa era la prigioniera di Aiace e la madre di suo figlio. “O vivere nobilmente o nobilmente morire” significa qualcosa di ben diverso per i vincitori e per i vinti. L’eroica disfatta di Aiace appare improvvisamente un’illusione orgogliosa e crudele

se messa a confronto con la vera sofferenza umana.

Tu distruggesti la mia patria in guerra e la fortuna avversa mi

strappò

Chi altro

la madre

potrebbe,

altro la ricchezza? siero.

e il padre,

divenuti

ora abitatori dell’Ade.

all’infuori di te, sostituire

la patria?

Chi

In te io vivo tutta. Abbi anche di me pen-

(Aiace 515 sgg.)

Tecmessa ripete le parole che Andromaca, la moglie di Ettore, 72

Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

pronuncia

dicendogli addio:

‘“Ettore, tu sei per me

nobile madre e fratello, tu sei il mio

padre e

sposo fiorente; ah, dun-

que, abbi pietà, rimani qui sulla torre; non fare orfano il figlio, vedova la sposa” (Miade, VI, 429 sgg.). Ma ancora una volta Sofocle legge Omero amaramente e drammaticamente?® . Andromaca ha perduto, uccisi, il padre e sette fratelli, ma è diventata la moglie di Ettore, il figlio del re di Troia. Tecmessa è soltanto una prigioniera, ottenuta come bottino: “Quando tu morirai e mi abbandonerai, io da quel giorno stesso, rapita con violenza dagli argivi, insieme col figlio tuo dovrò per sempre vivere da serva” (496 sgg.). I] mondo eroico spicca come un’isola nel mare della sofferenza umana. În nessun’altra tragedia di Sofocle è cosi netto il contrasto tra umano e inumano. Appena Aiace smette di ululare, le sue prime parole umane, nel tornare in senno, sono: “O figlio, o figlio! ” Tecmessa gli porta il ragazzo. Aiace, che ha vissuto l’esperienza di Achille offeso, dovrà ora, come Ettore, dire addio al bambino. naturale;

per

Ettore

un

Per Achille l’eroismo era un fatto

dovere

che

sì era imposto.

Come

se si

fosse costretto a un atteggiamento eroico cercando nello stesso tempo di sottrarglisi. Ettore conoscerà la paura e la solitudine del morituro quando, fuggendo da Achille, farà quattro volte di corsa il giro delle mura di Troia prima di fermarsi e accettare la battaglia. Ma l’Ettore che diceva addio ad Astianatte era ancora un Ettore prima della prova finale. Zeus e voi numi tutti, fate che cresca questo mio figlio, cosi come io sono, distinto fra i teucri; cosi gagliardo di forze, e regni su llio sovrano; e un giorno dica qualcuno: “E° molto più forte del paudre”.

(Hiade, VI, 476 seg.)

L’Ajace di Sofocle è già stato sottoposto alla prova; ha vissuto l’umiliazione; è arrivato al fondo. Sa che l’infanzia è assenza di consapevolezza e di maturità, che è solo disperazione. Vuo-

le che il figlio sia come lui, odii come lui, ma sia più felice di 73

Divorare gli dei

lui. Vuole ancora l’impossibile. Ma la felicità non è più un precetto eroico. Già fin da ora ti ammiro con invidia, per questo almeno: che

non hai coscienza, che nulla sai di queste sciagure. La vita più dolce infatti è quella che non sente nulla. Non sentir nulla è un male privo di dolore, finché non saprai che cosa sia la gioia e il dolore. Ma quando lo sapraîi un giorno, allora dovrai mostrare al nemico quello che tu sei e da quale padre sei nato.

(Aiace, 992 sgg.)

Nel famoso primo capitolo di Mimesis, Auerbach contrappone al mondo omerico, che si crogiola in una luce uniforme,

le storie del Vecchio Testamento, dove è netta la divisione tra le sfere della luce e dell’ombra. Il mondo di Omero è

come un bassorilievo dove ogni particolare è stato trattato con

eguale attenzione, cura e rispetto: un bassorilievo non ha pro-

fondità. 1 personaggi sono invariabilmente in primo piano ed esistono ‘“sempre e soltanto al presente”. Sempre uguali, “si svegliano ogni mattina come se fosse il primo giorno della loro vita”. Odisseo torna a Itaca dopo venti anni, come se fosse stato via solo una notte. Per Auerbach i poemi omerici e il Genesi rappresentano due diverse visioni del mondo e dell’uomo. ‘“La molteplicità della vita psichica appare in Omero soltanto nel succedersi e nell’alternarsi delle passioni, mentre agli

scrittori ebraici riesce di esprimere contemporaneamente strati della coscienza sovrapposti l’uno

essi”.

Abramo,

Isacco

e Giacobbe

all’altro e in conflitto fra di emergono

per un poco

dall’

ombra, “luogo e tempo sono indefiniti e bisognosi di chiarimento; i pensieri e i sentimenti restano inespressi, vengono suggeriti

soltanto

dal tacere e dal frammentario

insieme [...] rimane enigmatico e nello sfondo”’® ,

discorrere; l

Forse una simile scia d’ombra segue anche Achille o, più ancora, Ettore. Ma è solo con Sofocle che il mondo e gli uomini

emergono dall’oscurità e-inevitabilmente vi fanno ritorno. Il tempo, grande e infinito, porta alla luce tutte le cose dall? 74

Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

oscuro e nasconde quelle manifeste. (Aiace, 646-8)

Aiace torna sulla scena. È’ uscito dalla tenda con una spada. E° un Aiace che ha visto squarciarsi l mondo per un terremoto. Aveva fatto una volta un giuramento di fedeltà. Che cosa ne è rimasto?

Anche il giuramento più terribile, l’animo più fermo, vacilla. Îo stesso che prima duro resistevo, come ferro forgiato, nella mia decisione, mi sono lasciato ammansire dalle parole di questa donna. La pietà mi vieta di abbandonarla vedova îtra nemici e orfano mio figlio. (Aiace, 650 sgg.)

Îl mondo eroico è cerollato,. Aiace ha finalmente capito che non riuscirà né a vivere né a morire eroicamente. Dovrebbe allora venire a patti con il mondo? Ma che razza di mondo è quello dove un eroe può diventare un macellaio? “Il tempo, grande e infinito, porta alla luce tutte le cose dall’oscuro e nasconde quelle manifeste; niente dungque c’è. d’inatteso” (646-8).

Non sì è al sicuro da nulla; l’instabilità è insita nelle

cose e dal mondo ci si può aspettare di tutto. Vivere significa accettare il fatto che non c’è nulla di stabile. “Deve esistere qualcosa di certo, deve esserciì! ” esclama nella Condizione umana di Malraux il terrorista Chen, che uccide per un folle bisogno d’affermazione e di certezza. Ma se non c’è nulla che sì riesca ad afferrare, c’è pur sempre la terra: si può almeno lasciare una buca nel terreno. Poi cercherò un luogo solitario, senza orma umana, e là scaverò la terra e vi occulterò questa mia spada, affinché nessuno

la veda, odiosa arma: la guardino sotterra la notte e l’Ade.

(Aiace, 660 sgg.)

Davanti al coro sbalordito, che non capisce più nulla, Aiace continua il suo sconcertante monologo sulle condizioni della grande resa?’?,

În avvenire, dunque, cederemo agli dèi e impareremo a venera-

Divorare gli dei

re gli Atridi: essi comandano [...}

(Aiace, 665 sgg.)

Lo scoliasta era stupefatto di questa inattesa inversione stilistica. Aiace ha finalmente compreso che bisogna sempre arrendersi agli dèi senza condizioni. Nel monologo, ritorna, come unm’eco, il tema di Atena che ha trasformato Aiace in un personaggio ridicolo. “Vedi la potenza degli dèi come è grande? ” aveva detto a Odisseo. Ciò che conta alla fine è una sciocchezza: la rassegnazione al potere, a tutti i poteri: degli dèi, dei sovrani, della natura. Sono loro i più forti, ma questa rassegnazione deve essere imposta.

[...] e pertanto bisogna piegarsi: perché non dovrei? Anche le potenze della natura, le più terribili, si piegano ai diritti giusti e riconosciuti: l’inverno che cammina nella neve lascia il passo all’estate piena di frutti; fugge lo stanco giro della notte davanti al giorno che sorge coi suoi bianchi cavalli, perché rifulga la luce; il vento impetuoso

cede al vento più mite e il mare

gemente si placa. Similmente il sonno ci lega e ci scioglie, né

sempre ci tiene in suo potere. E noi come non impareremo a esser saggi? (Aiace, 668 sgg.)”®

Îl tempo, “il grande divoratore”, sbriciola tutte le cose grandi,

e ì suoi cambiamenti si lumtano a una opposizione inesorabile.

tra forza e debolezza. Le nevi compatte dell’inverno devono cedere il posto alla fertile estate, la notte ostinata è segufta

dal giorno luminoso, e cosi via. Le montagne sono state erose,

il mondo è divenuto piatto. Come si può vivere in un mondo piatto? ‘‘Perché non dovrei piegarmi? Anche le più terribili potenze della natura...

Uscito dalla sua follia, Aiace ruggisce come un toro ferito. l toro viene condotto in una piatta arena. “Come non impareremo a essere saggi? ” Aiace non vuole imparare la saggezza del mondo piatto. Tutti i conti sono stati saldati. Ha ormai preso la sua decisione. 76

Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

Io vado dove devo andare. Fate quello che vi ho detto. Forse presto saprete che mi sarò liberato, anche se ora sono infelice. (Aiace, 690 sgg.) Aiace e Tecmessa escono, rimane solo il coro. I morbidi cotur-

ni battono sempre più in fretta sul suolo, il coro corre intorno all’orchestra. “Intreccia in mezzo

a noi le danze! ‘’ (698). La

tragedia di Ajìace si svolge in un mondo non eroico. Gli amici

più fedeli, i marinai di Salamina, fanno salti di gioia tra la sce-

na dell’ultimo rendimento dei conti di Aiace con il mondo e quella del suo suicidio. La danza frenetica del coro, piena di allegria e di grida gioiose, non è soltanto una stupefacente trovata teatrale: porta un soffio improvviso di assurdo. “Intreccia in mezzo a noi le danze! ’’2® Poi l’orchestra finalmente si svuota. Per la prima volta Aiace è solo. Ha piantato in profondità nel suolo la sua spada, con la lama in alto. “La solida immobile spada”, come osserva Knox,

‘’sulla quale si uccide, è l’unico punto fisso in un mondo dove mutamento e movimento sono i soli modì d’esistenza”., l suolo sul quale cadrà il grosso corpo di Aiace è troiano; la spada sulla quale si getta era un regalo di Ettore. La spada è là, piantata diritta, salda, acuta,

nel modo

più ta-

gliente. Se posso indugiare a riflettere, a ricordare, essa è un dono di kttore; il più aborrito dei miei ospiti, il più odioso alla mia vista; ed è piantata in questo suolo di Troia, suolo nemico [...]

(Aiace, 815 sgg.)

Aiace nomina due volte la spada riceévuta da Ettore e sul suo cadavere Teucro ne racconta la storia. Dopo un duello rimasto senza esito, Aiace ed Ettore si erano scambiati doni:

Proprio con quella cintura ricevuta in dono da Atiace, Ettore, legato al carro, fu trascinato spietatamente sino a esalare la vita; Aiace, che teneva questa spada, dono di Ettore, proprio con questa si è ucciso, su questa è precipitato. Che forse questo ferro non lo forgiò una Erinni? 77

E non fu Ade, feroce ar-

Divorare gli dei

tefice, a fabbricare quella cintura? lo affermo dunque: gli dè

tramano sempre tutte le sciagure a danno degli uomini [...] (Aiace, 1029 sgg.)

Nell’Iiade Ettore deve essere stato trascinato dalla stessa cin-

turà che aveva avuto da Aiace nel libro VII, ma Omero non lo

ritiene evidentemente un particolare rilevante e non ne fa alcun cenno. Îl mondo omerico non è manicheo: non ci sono maledizioni che si estendono sino alla decima generazione, né rossi tappeti che basta calpestare per attirare la collera. degli dèi invidiosi. Il mondo non ha ancora assunto le sembianze di una gigantesca trappola per topi, preparata per gli uomini sin dagli inizi. Gli dèi, anche quando intervengono nelle faccende umane, lo fanno casualmente, Zeus pone i destini sulla bilancia o li getta, senza neanche guardarli, in due urne che conten-

gono il bene e il male. La spada di Ettore e la cintura di Aiace, che portano sfortuna a chi le cinge, ricordano il nero simbolismo di Eschilo e sono tra gli esempi più evidenti della “cìviltà della colpa” postomerica. Ma nell’Aiace di Sofocle il dono fatale della spada sembra svolgere anche un’altra funzione. Nel mondo descritto da Omero, lo scambio di doni accompagna la promessa e la conclusione di un matrimonio, l’elezione del comandante di una spedizione bellica e la cerimoniosa stipulazione di un trattato di pace. Assume spesso la' forma di uno scambio di metallo: scambio, perché gli eroi non commerciano. L’“‘amicizia per l’ospite’” era un sistema di legami sociali che assicurava un punto d’appoggio nei viaggi, sempre avventurosi,

oltre le frontiere

dell’oikos,

cioè

della famiglia

e del

clan°° , Nel mondo dì Aiace lo scambio di doni è infausto e foriero di morte. Il mondo eroico è crollato e tutte le sue istituzioni sono diventate improvvisamente assurde. “Nell’Aiace di Sofocle””, osserva Arrowsmith, “ci viene mostrato [...] un simbolo dell’antico ethos aristocratico, colto in cir-

costanze diverse, e antieroiche, che lo degradano e lo rendono ridicolo. Aiace, coerentemetite, preferisce il suicidio a una vita 78

Atiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

assurda in un’epoca che gli è estranea”°*. Prometeo era quello che “guardava avanti””; Aiace è in certo qual modo il suo mitico fratello che “guarda indietro”. Prometeo è arrivato troppo presto; Aiace, come un animale antidiluviano

smarrito in un mondo a luì estraneo, è arrivato trop-

po tardi. Sono entrambi schiacciati da un’epoca che è loro ostile. “L’assurdo”, scrive Camus in Il mito di Sisifo, “dipende

tanto dall’uomo quanto dal mondo.” E ancora: ‘“L’assurdo è

essenzialmente un divorzio che non consiste nell’uno o nell’altro degli elementi comparati, ma nasce dal loro confronto”° , ‘“Si può vivere nell’assurdo”, dice Garine in ] conquistatori di Malraux,

‘““ma

non

vivere

accettando

l’assurdo”.

Aiace

non

vuole accettare l’assurdo.

Che cosa gli rimane se non l’odio? Aliace era un eroe. Aiace reso ridicolo non è più Aiace. Per riconquistare la sua condizione di eroe, deve morire:

O vivere nobilmente o nobilmente morire: è questo il dovere dei forti. Ma non esiste più la dignità eroica e non si può più tornare al mondo omerico. La spada è di Ettore, il suolo è troiano. Nel mondo assurdo il suicidio è una parodia. Non si può più salvare nulla. “Nel mondo assurdo”’, scrive Camus, ‘“il valore di una nozione o di una vita viene misurato in base alla sua infecondità”. La scena è deserta e il mondo è divenuto disperatamen: te vuoto. Rimane soltanto l’odio. E invoco soccorritrici le vergini eterne che sempre vedonoî

fati dei mortali, le venerande Erinni dai lunghi passi [...] An-

date, o punitrici, rapide Erinni, alla vendetta!

miate il loro popolo, tutto il loro popolo! _

E non rispar-

(Aiace, 834 sgg.)

In La malattia mortale, Kierkegaard distingue due tipi di disperazione. Îl primo, che chiama della femminilità o terreno, è la disperazione su se stessi, sul fatto che non si riesce ad accettare se stessi, che si è “estranei” a se stessi. È’ la dispera79

Divorare gli dei

zione

del non

poter

essere differenti e per Kierkegaard

è un

segno di debolezza. Ma c’è anche una disperazione di tipo diverso, che Kierkegaard chiama della virilità. È’ la disperazione perché non si può diventare se stessi. E’ quella che Camus ha imparato da Kierkegaard. Il mondo vuole che io sia differente, e quindi per rimanere me

stesso, devo rifiutare il mondo. De-

vo presumere che il tempo non esista. È’ una disperazione priva di speranze, nella totale solitudine, una disperazione che non ha rimedio: “[...] piuttosto che chiedere aiuto, preferireb-

be, se dovesse essere cosf, essere se stesso con tutti i tormenti dell’inferno””®3 , 1 grandi odiatori di Malraux

conoscono

bene

questa disperazione. “Colui che si uccide”, scrive in La voie royale, “insegue un’immagine idealizzata che si è fatto di se stesso: ci si ammazza solo per esistere”. Aiace è passato per la prima disperazione ed è arrivato alla seconda. Si è allora accorto che la resa dei conti definitiva dovrà avvenire tra lui stesso e il mondo. Ha ormai accettato tutti gli Aiace: Aiace l’eroe, Aiace il torturatore, Aiace ridicolizzato, Aiace cui è negata la morte eroica e che non avrà il tempo di vendicarsi, Aiace che farà del figlio un orfano, Aiace che degraderà Tecmessa a puttana per i generali greci. Kierkegaard scrive: “[...] ora vuole infuriare contro tutto, vuol essere colui che è maltrattato da tutto il mondo, dall’esistenza; ora

l’essenziale per lui è badare di aver sempre a portata di mano il suo tormento, l’essenziale è che nessuno glielo tolga — per-

ché altrimenti non può dimostrare, né convincere se stesso, di

aver ragione [...] Vuol essere se stesso, se stesso nel suo tormento,

per

potere,

con

questo

tormento,

protestare

contro

tutta l’esistenza’’* .

Kierkegaard sa che il suicidio non è soltanto disperazione, ma rivolta. “Non sai che verso gli dèi non ho più doveri? ” (589). Aiace ha chiuso con gli dè;, perché questo è il loro mondo, il loro ordine, perché sono loro a volere che gli uomini siano le loro

ombre.

Questa estrema rivolta ha come 80

unico testimone

Atitace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

l’eternità:

l’inalterabile.

sono inalterabili.

Il ‘“sopra”

e il “sotto”, Zeus e Ade,

Tu, Zeus, tu, primo [...]} (Aiace, 825)

In Aiace, come in ogni vera tragedia, i miti e gli archetipi sono ancora vivi. “Le tenebre sono la mia luce”. Il bisnonno dell’Aiace

del mito

era Zeus

e suo nonno

Éaco, uno dei tre

giudici infetnali con Radamanto e Minosse. Come la Fedra di Racine®® , “la fille de Minos et de Pasiphaé”, dilaniata tra luce e tenebre (“Soleil, je te viens voir pour la dernière fois”, I, 3, 172), Aiace dice addio alla luce ?$ , Ed ora te, splendore del giorno [...] saluto per l’ultima volta; ché non piui potrò farlo {...] (Aiace, 857 sgg.)

Si uccide a mezzogiorno, quando più breve è l’ombra della spada piantata nel terreno??. Emerge dalle tenebre e torna nelle tenebre. “Il resto lo dirò nell’Ade, ai morti” (865). Rimane inflessibile sino alla fine, come il suo infernale nonno:

“L’Ade solo è implacabile e indomito, e per questo ai mortali fra tutti ì numi è il più odioso” (Iliade, IX, 158-59). Nel mondo assurdo l’unico eroismo ancora possibile è rifiutarsi di accettarlo. Aiace rifiuta di accettare il mondo nel quale tutto va perduto. 4. La famosa frase di Malraux, “La morte cambia la vita in desti-

no”, può essere letta come

norma

un credo filosofico o come una

poetica.

L’esistenza

diviene

essenza:

estetica,

la formula

di Malraux

Aiace

non

esiste

più ‘““per sé”; l’Aiace che poteva giudicare Aiace ha cessato di esistere. Ora esiste solo “per gli altri””, è divenuto un oggetto e di un oggetto si può fare qualsiasi cosa. Nella sua interpretazione

831

s_enibra avvicinarsi

ad

Divorare gli det

Aristotele: la morte

dell’eroe è la fine della tragedi'a. Viste nel-

la prospettiva del passato, vita e morte acquistano il marchio della necessità. Una morte tragica avviene sempre per qualcosa: comporta

una

scelta e una riaffermazione dell’ordine dei

valori. La morte di Ettore e la scelta di una vita breve da parte di Achille confermano l’ordine eroico. Ma la morte di Aiace non salva nulla. È’ un gesto eroico in un vuoto

sterile, come

quello descritto da Camus. Aiace si uccide perché non vuole

accettare un mondo in cui tutto si è logorato; ma in un mondo dove tutto si è logorato, anche l’Aiace che si è ucciso. La

seconda parte della tragedia è un giudizio sul cadavere. ‘ Tutti quanti, dai primì scoliasti ai eritici dell’ultimo decennio, hanno considerato la seconda parte di Aiace noliosa e insipida

o perlomeno artisticamente fallita. Questo ostinato non voler riconoscere la funzione innovatrice di Sofocle non è dovuto

soltanto a un pregiudizio estetico per le unità tragiche. I filo-

logi perbene avevano paura del Sofocle nero, come gli studiosi shakespeariani

sì sono

a lungo

rifiutati di accettare

uno

Sha-

kespeare senza speranze, dove la morte di Cordelia e le sofferenze

di Lear non

ricevono

alcuna remunerazione.

Corneille,

uno dei pochi che abbiano capito Atiace sino in fondo, scrive-

va nel 1660 nel Discours sur le poème dramatique: “[...] quel-

le grdce a eu chez les Athéniens la contestation de Méndélas et de Teucer pour la sépulture

d’Ajax,

que Sophocle fatt mourir

au quatrième acte”. Corneille non aveva gusti ‘“classicistici” sapeva cosa significhi lottare per il potere. Assisteva con i propri occhi alla fine di un’epoca. eroica. In una tragedia che si chiudesse con il suicidio di Aiace sì potrebbero ancora leggere hybris e dike. Ma gli dè non partecipano alle liti davanti al cadavere e non esistono né pietà né paura. Le liti non sfociano in una catarsi. Non è un caso che

l’amarezza di Aiace sia stata compresa solo nelle epoche in cui la gente conosce per esperienza diretta 1 cadaveri gettatì su cumuli d’immondizia, le eliminazioni frettolose e le riabilitazioni 32

Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

invariabilmente tardive, collegate al culto di nuovi capi. Questa discussione sulla sepoltura di un cadavere è una delle più sconcertanti innovazioni drammatiche di Sofocle. Teucro e i marinai di Salamina vogliono rendere ad Aiace gli ultimi omaggi dovuti a un capo. Menelao e Agamennone vogliono abbandonare 1il corpo del traditore ai cani e agli avvoltoi. Non potendo vendicarsi su di lui, vogliono farlo sul suo cadavere. I due generali, presuntuosi, codardi e arroganti, coprono d’insulti Teucro, semplice arciere e figlio di una schiava. [...] se un nulla come sei ti sollevi contro di noi a difesa di chi

è nulla ormai anch’esso. Non

si sa di preciso quando

(Aiace, 1231 sgg.)

sia stato sceritto Aiace, e sono

molte le interpretazioni possibili del clima della seconda parte. E° comunque

indubbia la sua attualità. Glì anacronismi sono

voluti e il loro tono fa pensare a Euripide’® . Agamennone e

Menelao impersonano probabilmente non solo la spietatezza degli autocrati spartani e il loro culto per la disciplina (“Le leggi di uno stato non avrebbero mai efficacia se non fossero protette dalla paura e dal rispetto”, 1073), ma anche la superbia e l’arroganza di Atene che offriva graziosamente ai suoi alleati una scelta tra lo sterminio e la sottomissione totale. Ecco Menelao davanti al cadavere di Aiace: [...]

noi,

convinti

di

condurre

qui

a Troia

quest’uomo

come

amico e alleato degli achei, lo abbiamo scoperto alla prova nemico nostro, più dei troiani. .

(Aiace, 1052 sgg.)

La guerra di Troia è sempre stata, da Omero a Giraudoux, l eterno prototipo della guerra, di qualunque guerra. In Aiace la guerra è arrivata al suo decimo anno. La parola “troiani”” è pronunciata per la prima volta da Menelao quando dice che Aiace è più pericoloso dei nemici. Al comando supremo, gli,

intrighi e le ambizioni dei generali e degli ammiragli sono più importanti della sorte della spedizione. A pagare interamente 83

Divorare gli dei

il prezzo della guerra sono soltanto i soldati, condotti in bran-

e afose paludi sulla costa

co da tutta la Grecia ale umide dell’Asia. Nell’ultimo

canto

del coro risuona ancora un Jlamen-

to euripideo. I marinai di Salamina non si fanno illusioni:

Quale sarà degli anni interminabili l’ultimo che allontani la perpetua sciagura della guerra su quest’ampio fido di Troia, infamia degli achei?

Oh, scomparso nell’etere profondo o nell’Ade, dimora a tutti aperta,

fosse colui che primo apprese agli elleni il flagello dell’armi [...] E dormo sotto il cielo coi capelli bagnati dalla brina, e cosi devo

sempre fissare la mia mente a questa terra di Troia che mi spinge al pianto.

(Aiace, 1189 sgg.)

La seconda parte di Aiace viene improvvisamente proiettata nei tempi moderni. Diventa contemporanea degli spettatori. Di tutti gli spettatori, non solo dei greci. ’ contemporanea di un mondo non eroico. L’eroe positivo è Odisseo. Nel prologo ha braccato Aiace come un animale. Ora sì è precipitato in scena, instancabile e, come sempre, proprio al momento giusto. Ancora lontano, già grida:

Che cosa accade, amici miei?

Ho udito da lontano la voce al

ta degli Atridi presso il corpo morto di questo valoroso.

(Aiace, 1316 sgg.)

Nell’IHiade Aiace, “gigante, la rocca degli achei”, che avanza ‘shignando con viso tremendo” (VII, 211 sgg.), si contrappone a Odisseo, ‘“abilissimo” e ‘“pari a Zeus per saggezza”. Éraclito

scriveva

può anche

dell’armatura

che

carattere

equivalere

equivale

a ideologia.

di Achille,

osserva

a destino.

84

carattere

a Odisseo

Knox,

è la fine

aumenta

di prezzo

acutamente

dell’epoca eroica; si svaluta la forza mentre

l’astuzia”° .

Ma

L’assegnazione

Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

E cieco ha il cuore il popolo dei più. Poiché se il ver potean discernere, per l’armi irato non avria l’acciar confitto entro i precordi. (Nemee, VII, 24-7)°

l nobile e taciturno Aiace di Pindaro finisce vittima della cecità della folla. I segni sono capovolti: Aiace viene associato alla luce, mentre il fatto che le armi siano assegnate a Odisseo è accompagnato dalle tenebre di una nuova epoca. Pindaro esalta le virtà aristocratiche e il suo Odisseo è un homo novus della democrazia ateniese, dove soltanto l’astuzia garantisce il SUCCESSO. Invidia di chiacchiere si pasce e ai buoni apprendesi e a° rei da lungi sta. Essa consunse il figlio di Telamone intorno al brando inflittosi. Cosi è: l’uom non facondo ma gagliardo di cuore, oblio nell’empia lite lo coglie; e premio sommo è proposto al lubrico mentir. (Nemee, VIII, 22-9)41

Nella seconda metà del V secolo a.C. Odisseo è divenuto quasi esclusivamente l’immagine del politico realistico, per il quale il fine giustifica i mezzi e non esistono scrupoli. Tale è l’Odisseo che Sofocle presenta in Filottete. Tale è l’Odisseo visto da Aiace, ‘“quella volpe maledetta”, quello ‘“strumento di mali abominevoli [...] il più abietto intrigante dell’esercito”; tale è. l’Odisseo visto dal coro: ‘“nel suo animo nero quest’uomo duro certo insolentisce”; persino per Agamennone è un esempio della ‘“incostanza degli uomini”. Ma l’Odisseo del prologo e

dell’epilogo

è un personaggio

disegnato con assai maggiore

profondità. Sofocle conserva tutti gli opposti preesistenti: quello fisico tra pesantezza e agilità; quello morale tra forza e astuzia;

_quèl.lo

caratteriale

tra inflessibilità

80

e duttilità; quello

Divorare gli dei

storico tra epoca eroica e tempi non eroici; ma li mostra nella prospettiva di una opposizione tragica tra chi rifiuta l’assurdità

della condizione umana e chi l’accetta. “Noi tutti che viviamo

non siamo nient’altro che larve di sogni, ombre vuote’”. Odis-

seo lo sa. Ma per lui è motivo di prudenza, non di disperazione.

Agamennone — Tu dunque mi esorti a seppellire quel morto? Odisseo — Si, io: ché anch'io arriverò alla morte un giorno.

(Aiace, 1364 sgg.)

Per

Teucro,

per Menelao

e per Agamennone,

il cadavere

di

Aiace è ancora Aiace-vivo. Soltanto Odisseo capisce che Aiace non esiste più. Ajace fu.

Il corpo di Tersite vale quello di Aiace, quando non han più vita né l’uno né l’altro. (Cimbelino, 1V, 2, 252-3)“?

Tra il cadavere di un pazzo eroico che sfida il sistema e quello di un pazzo cinico che lo deride non c’è differenza. Anche Shakespeare vedeva il mondo dal punto di vista di Odisseo.

I cadaveri devono essere sepolti. Tutti, È quanto più un cadavere è grande, tanto più rapidamente ciò dovrebbe avvenire. I

cadaveri insepolti sono sempre forieri di guai. I marinai di Sa-

lamina si sono già stretti in cerchio intorno al corpo di Aiace.

E altri ne stanno arrivando. Un uomo politico pio sa chei cadaveri insepolti sono un insulto agli dèi; un uomo politico realistico sa che i cadaveri insepoltiì portano

epidemie; un uo-

mo politico lungimirante sa che i cadaveri insepolti suggerisco-

no alla gente idee pezricolose. Perciò bisogna dare ai quanto è loro dovuto; anche gli onori. ““Non è giusto tare un prode morto, anche se lo odii nel modo più (1344)*3 . In tutta la tragedia Sofocle resta vicinissimo a Omero. volta

Odisseo

vivo

aveva

incontrato

Aitace

Odisseo scende nell’Ade, viene circondato eroi ansiosi di notizie dalla terra. 86

morto.

cadaveri maltratferoce” Già una Quando

dalle ombre

degli

Aiuce tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

Soltanto l’anima di Aiace Telamonide restava in disparte [...] A lui con parole di miele tentai di parlare. (Odissea, XI, 543 sgg.)*

Odisseo è persino disposto a cedere all’ombra le armi di Achil-

le; sa perfettamente

che lui solo

è vivo, che lui solo lascerà

l’Ade® . ‘““Aiace, figlio di Telamone perfetto, nemmeno morto potevi perdonarmi il rancore per l’armi funeste? [...] No, nessuno

n’ebbe colpa: Zeus, il campo dei danai armati di lancia

paurosamente odiava e t’avventò la Moira. Ma vieni, signore, ascolta la mia parola, il mio dire [...}”?

Dicevo così, ma nulla rispose, fuggi via nell’Erebo.

(Odissea, XI, 553 sgg.)

Aiace si uccide perché non vuol essere uno spettro vivente,

un’ombra di Aiace. Ora è soltanto un’ombra, ma continua a odiare. Ostinato come un mulo, Aiace rimane se stesso. Un uomo morto, un’ombra {...] (Aiace, 1257)

L’Aiace di Sofocle giace sulla sua bara“°. Forse, dopotutto,

aveva ragione

Agamennone.

Questo

cadavere gigantesco, que-

sta ombra possente puzza ancora di odio. Bisogna seppellirlo. Odisseo, come sempre, ha fretta. Vuole scavargli la tomba con le proprie mani. [...] lo aituterò a seppellire questo morto

[...]

(Aiace, 1377)

Cosi Aiace viene sepolto grazie alla pietà di Odisseo. E viene

ingannato

per la terza volta. Dopo

aver finalmente capito che

in un mondoe assurdo è assurdo anche l’eroismo, è stato proclamato eroe e la sua tomba è divenuta un santuario. Non poteva sapere che solo in epoche non eroiche sì erigono monumenti per il culto dell’eroe. Nell’ultimo libro della Repubblica, Platone racconta la storia 07

Divorare gli dei

di Er, figlio di Armenio, e del luogo isolato e meraviglioso ai

confini della terra, dove vengono a incontrarsi le anime dei morti che scendono dal cielo e quelle che salgono dagli inferi, per iniziare “un altro periodo di generazione mortale, preludio a nuova

morte”.

C’erano,

continua

Er, ‘“vari tipi di vita, in

numero molto maggiore dei presenti. Ce n’erano d’ogni gene-

re: vite di qualunque animale e anche ogni forma di vita umana”. Le scelte di queste anime erano spesso sorprendenti: “La

maggior parte delle anime permutava mali con beni e beni con mali” perché ‘“la maggioranza sceglieva secondo le abitudini

contratte nella vita precedente”’. Tra gli uomini invitati a sce-

gliersi una vita futura ci sono Aiace e Odisseo. L’anima che era stata designata ventesima dalla sorte aveva scelto la vita di un leone: era quella di Aiace Telamonto che rifuggiva dal diventare uomo, ricordandosi del giudizio relativo

alle armi [...] per ostilità verso il genere umano, dovuta alle sofferenze patite [...] S’era avanzata poi a scegliere l’anima di Odisseo, cui il caso aveva riservato l’ultima sorte; ridotta senza

ambizioni dal ricordo dei precedenti travagli, se n’era andata a lungo in giro cercando la vita di un privato individuo, schivo d’ogni seccatura. E non senza pena l’aveva trovata, gettata in un canto e negletta dalle altre anime; e al vederla aveva detto che si sarebbe comportato nel medesimo modo anche se la sorte l’avesse designata per prima, e se l’era presa tutta contenta?? Questo è il giudizio più acuto che sia mai stato dato su Aiace

e su Odisseo. Nell’odierna “valle della trasformazione” quali

forme sceglierebbero? ‘$

88

Note

1. Tutte le citazioni da Aiace sono nella traduzione di È. Cetrangolo, in

Îl teatro greco. Tutte le tragedie, cit.

2. Cfr. Bernard Knox, The Heroic Temper: Studies on Sophoclean Tra-

gedy, Berkeley, University of California Press, 1964, p. 42: “IÎn tutte le sette tragedie di Eschilo che ci sono rimaste, non ce n’è neanche uno

(anche se le Supplici minacciano il suicidio e se Aiace, in un’opera perduta, sicuramente si ammazzava); in tutte le tragedie superstiti di Euripi-

de ce ne sono soltanto quattro; ma nelle sette tragedie di Sofocle sono

non meno di sei — Aiace, Antigone, Emone, Euridice, Deianira e Giocasta — e in più anche Filottete tenta il suicidio in scena, Edipo Tte‘ invoca una spada per uccidersi ed Edipo ’a Colono‘ invoca la morte nella scena

iniziale della tragedia”. Anche Eracle supplica che si accorcino i suoi tormenti e chiede al figlio di bruciarlo vivo sul rogo.

3. Podalirio, figlio di Asclepio e medico al campo greco, “notò per primo gli occhi sfavillanti e la mente annebbiata di Aiace quando era in collera”. Hesiod, The Homeric Hymns and Homerica, trad. di Hugh G. Evelyn-White, Loeb Classical Library, Cambridge, Harvard University Press, 1967, p. 525. 4. Northrop Frye, Fools of Time, pp. 81-2: “Il cadavere insepolto, ’bot-

tino dei cani e di tutti gli uccelli', per citare Omero, viene lasciato a dissolversi nel fluire del tempo; l’inumazione è, almeno simbolicamente,

morte reale o liberazione dal tempo. Questa dimensione del tema compa-

re, in maniera discreta ma palese, in Antigone. Ma naturalmente c’era ancora un’ombra che sopravviveva nel mondo sotterraneo, e quest’ombra provava ancora tutte le emozioni tragiche dell’ostilità e della vendetta”. 5. William Sale, Achilles and Heroic Values, in “Arion”, IL n. 3, autunno 1963, p. 89: “Il concetto principale è geras, la remunerazione dell’onore,' un oggetto — materiale o umano — che la società donava a certi suoi membri come prova della loro areté, che nel mondo eroico

significava eccellenza nel combattere con spada, lanciae scudo. Briseide,

l’amante di Achille, è anche il suo geras, concessogli come simbolo di valore [...] E poiché il geras viene dato dalla società come segno di areté [...] ha anche funzioni di status symbol [...] di segno di timé, di onore.

Quando Agamennone

s’impadroni del geras di Achille, Briseide, fece la 89

Divorare gli dei

peggior cosa che avrebbe potuto fare: distrusse cioè il sistema di valori eroico”. Cfr. anche M.I. Finley, The World of Odysseus, New York, Vi-

king, 1954, pp. 125-29.

6. Cedric H. Whitman, Sophocles: A Study of Heroic Humanism, Cambridge, Harvard University Press, 1951, p. 64: “Ajace è il primo ritratto a figura intera di un eroe tragico nella letteratura occidentale, e non è certo mera coincidenza che sia lui, sia Achille, il primo eroe epico, vengano a trovarsi in situazioni identiche. Entrambi infatti sì 1is0lano nella

lotta con il proprio onore offeso”,

7, Walter Kaufmann, Tragedy and Philosophy, New York, Doubleday, 1968, p. 218: “Nelle Trachinie e in Filottete abbiamo non solo poetici resoconti delle sofferenze di Filottete e di Eracle, ma il loro intollerabile

urlare. Il risultato è ben lungi da quanto ci si aspetterebbe dopo aver letto Matthew Arnold, Nietzsche o Bradley”. 8. Cfr. J.C. Kamerbeck, The Plays of Sophocles, ], Commentaries, The

Ajax, Leida, 1963, p. 20: “Nl linguaggio e la scena ricordano il coro dei satiri alla caccia negli Ichneutai”. Kamerbeck, ovviamente, parla soltanto

del linguaggio e dell’azione, non del tono, 9, Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, trad. di Ettore Capriolo,

Torino, Einaudi, 1968, p. 182. 10, Una parte delle rare informazioni di come veniva rappresentato Aiace nell’antichità la dobbiamo a Luciano. In uno spettacolo, che doveva essere più un balletto mimato che una rappresentazione recitata o cantata — ma non è per niente certo — l’attore giunse a un autentico delirio

(Del ballo, 83): “Rappresentando una volta Aiace che, vinto nella gara, impazzisce, esagerò tanto che parve a taluno non già di rappresentare una pazzia, ma d’impazzire egli stesso. Ché a uno di quelli che battono

le nacchere col piede egli lacerò la veste; a uno dei flautisti che l’accom-

pagnavano, strappò di mano il flauto; e spaccò il capo a Odisseo, che gli stava vicino tutto gonfio e pettoruto per la vittoria [...] Intanto tutto il teatro era impazzito con Aiace, battevano i piedi, gridavano, sì stracciavano le vesti [...] Coi loro applausi anch’essi nascondevano la stoltezza dello spettacolo, benché vedessero benissimo che quella non era la pazzia di Aiace, ma dell’attore”. Luciano, ! dialoghi e gli epigrammi, p. 453, Luciano era contrario agli eccessi espressivi nella danza e nel mimo, ma ci ha lasciato anche un’osservazione importante: nelle rappresentazioni tragiche del suo tempo, i membri del coro, quando dovevano mostrare

qualcosa di “virile, lo portano fino al selvatico e al feroce” (ibid.). 11. Frye, Fools of Time, p. 8: “[...] poiché è un uomo, la sua vita [di

Sarpedonte] è morte, e non c’è luogo nella vita che non sia un campo di battaglia”. 90

Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

12. Cfr. E.R. Dodds, I greci e l’irrazionale, trad. di Virginia Vacca De Bosis, Firenze, La Nuova lItalia, 1959, pp. 165-78. Cfr. anche Eric A. Havelock, Preface

to Plato, Cambridge, Harvard University Press, 1967,

pp- 197-99, e Kaufmann, ngedy and Philosophy,

P- 150-51.

13. Kaufmann, 7Tragedy and Philosophy, p. 145: “In vaste regioni del mondo occidentale oggi non si vedono più avvoltoi, e la morte, la malat-

tia e la vecchiaia vengono tenute nascoste. A Calcutta, gli avvoltoi stanno ancora appollaiati sugli alberi delle città ad aspettare quelli che morranno per le strade; e le malattie, le sofferenze e la disgregazione prodotta dalla vecchiaia aggrediscono ovunque i sensi dell’osservatore. Ma è so-

lo in Omero che, mentre la morte è sempre avvoltoi sull’albero sono visti come Atena e bello spettacolo di un mare di scudi, elmi e morte non ha perso la sua forza, né la vita ha

presente nelle coscienze, Apollo, intenti a godersi lance. In guesta visione perduto la sua bellezza;

gli il la gli

avvoltoi stessi non sono un rimprovero al mondo”. Sul “New York Times” del 20 giugno 1970 ho letto questo resoconto di un’azione militare

in Cambogia: “Le mosche che sciamano nelle barcollanti baracche sembrano padrone della guarnigione militare in disgregazione di questa citta-

dina nel nordovest della Cambogia”. Neanche le mosche sono un rimpro-

vero al mondo.

14. Una tradizione che risale a Omero (Odissea, XI, 547) attribuiva ad

Atena

una

partecipazione

attiva

nel giudizio

che avrebbe

assegnato

Odisseo le armi di Achille, Nei Dialoghi dei morti (XXIX) di Luciano, Aiace vi allude esplicitamente: “Ricordo che giudicò contro di me, ma non bisogna sparlare degli dèi. Rappaciarmi con Odisseo, no, o Agamennone, non potrei mai; neppure se me lo comandasse la stessa Atena”,

a

Luciano, 1 dialoghi e gli epigrammai, cit., p. 151.

15. l coro di Antigone nella traduzione citata di E. Cetrangolo. 16. E° opera di Exekias, un maestro nello stile a figure nere, pittore e

fabbricante

di vasi. J.D. Beazley, Attic Black-Figure, New York, Oxford

University Press, 1928, pp. 20-1: “Non è per coincidenza che ci sono almeno cinque immagini di Aiace nelle opere superstiti di Exekias. Egli aveva infatti qualcosa di Aiace, e poteva quindi ammirare e comprendere l’eroe lento, forte e, in fondo, tenero”, Cfr. anche nota 37. 17. Finley, Pindar and Aeschylus, p. 171.

18. Nel capitolo: “Dalla civiltà di vergogna alla civiltà di colpa”, p. 36, Dodds (1 greci e l’irrazionale) cita Teognide che parla come Atena in Aiace: “Nessuno, o Cirno, è responsabile della propria rovina o del proprio successo: di ambedue sono datori gli dèi”. È commenta: ‘“La dottrina della completa dipendenza dell’uomo da una potenza arbitraria non è i

Divorare gli dei nuova, ma qui c’è un accento nuovo € disperato, un insistere, nuovo e amaro, sulla futilità dei propositi umani. Siamo più vicini al mondo dell’ Edipo re che a quello dell’Miade. È’ pressappoco il caso del divino phthònos, gelosia [...] Soltanto nel tardo periodo arcaico e nel primo periodo classico, l’idea del phthonos diventa una minaccia opprimente, fonte (o espressione) di angoscia religiosa”.

19. Verso chiave per la comprensione di Aiace. În greco, il verso 126

dice: “eidola hosoiper zomen e kouphen skian” — letteralmente “come fantasmi noi viviamo o come ombre vuote”. Eidolon è una “figura di sogno”, una “immagine”, un “fantasma”; skia un’““ombra””, un’“‘immagine riflessa nell’acqua”, uno “spettro”. Lo spettro di re Amleto sarebbe skia. În Omero sia eidola sia skiai vengono spesso usati per descrivere le figure sfumate delle anime dei morti. La madre di Odisseo fugge da lui come una skia. Atena chiede agli uomini di riconoscere se stessi come eidola e skiai anche quando sono ancora vivi. {“Noi siamo della stoffa di

cui son fatti i sogni, e la nostra piccola vita è cinta di sonno”, La tempesta, IV, 1, 156-58). In Pindaro, Pitiche, VINI, citata più avanti, l’espressione è la stessa: skias onar, “sogno di un’ombra”. Cfr. Kamerbeck, op. cit., pp. 44 e 238; Dodds, op. cit., pp. 104 e 122. 20. Cfr. Filottete (133): “E ci sia buona guida Erme insidioso e la Poliade, dea delle vittorie, nostra salvezza in ogni tempo, Atena”. 21. Whitman, Sophocles, p. 70. 22, Pitiche, VIII, 95-9. Tn Pindaro, Le odi e i frammenti, cit., vol. IL, p. 149. 23, Bernard L.W. Knox, The Ajax of Sophocles, Harvard Studies in Classical Philology, LXV, Cambridge, Harvard University Press. 24, Scolio a Pindaro, Istmiche, III, 53. In Hesiod, the Homeric Hymns

and Homerica, p. 509.

95, Cr. G.M. Kirkwood, Homer and Sophocles’ Ajax, Ithaca, Cornell University Press, 1958, p. 57: “Come in Omero ÉEttore tende le braccia verso il figlio (466), cosi chiede suo figlio l’Aiace di Sofocle (530). l figlo di Ettore indietreggia vedendo ondeggiare il pennacchio dell’elmo

paterno (467-70). Il figlio di Aiace è stato allontanato dal pericolo della follia paterna (531-33). Ettore prega che suo figlio sia gioia per il euore

della madre (481). Aiace ordina a Eurisace di dar gioia alla madre (559).

Infine, come Ettore conclude invitando Andromaca a tornarsene a casa e al lavoro (490), cosi Aiace termina ordinando a Tecmessa di riportare il bambino nella capanna (578-79). Abbiamo dunque non soltanto una generica somiglianza con l’episodio omerico, ma una scena che ne trae un certo

numero

di parl:icolarj e di locuzioni,

92

il che significa,

fuor d’ogni

Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

dubbio, che il drammaturgo vuole attirare l’attenzione su questo fatto, intende cioè che i suoi spettatori abbiano bene in mente il brano di Omero come base per intendere il significato del suo”’, 26. Eric Auerbach, Mimesis: Îl realismo nella letteratura occidentale, trad. di Alberto Romagnoli e Hans Hinterhauser, Torino, Einaudi, 1958,

“La cicatrice di- ‘Odisséèo” ; pp. 5-14.. Cfr. . George Steiner, “Homer and the Scholars”, in Language and Silence, New York, Atheneum, 1970, p. 179:

“Il poeta dell’Itade guarda il mondo con quegli occhi assenti e im-

passibili che ci fissano dalle feritoie degli elmi negli antichi vasi greci. La

sua visione è terrificante nella sua sobrietà, fredda come il sole d’inverno”. 27. Questa scena è tra le più discusse del teatro di Sofocle. La sua funzione drammatica è dare l’illusione di un lieto fine, ma che cosa dice realmente

Aiace?

Una delle due interpretazioni tradizionali è che si trat-

ti di “Trugrede””, che cioè Aiace inganni deliberatamente il coro e Tecmessa;

l’altra

che Aiace

abbia

rinunciato al suicidio.

Entrambe

le inter-

pretazioni sono ingenue e ricordano molto le ipotesi ottocentesche su ciò che aveva in mente Amleto nel monologo “Essere o non essere”, In-

vece di discutere se Aiace dice quello che intendeva dire, è assai più ragionevole

presumere

che intendesse

dire ciò che

dice. Molti eminenti fi-

lologi sono come ì marinai di Salamina, che di quello che dice Aiace non capiscono niente. Gli argomenti addotti da C.M. Bowra, in Sophoclean

Tragedy, New York, Oxford University Press, 1944, sono decisivi per quanto concerne i fautori della “Trugrede”, e in fondo ha ragione Knox

quando sostiene che è il monologo di Aiace. Aiace ‘parla a se stesso””, o meglio parla al pubblico. Gli spettatori non si lasciano ingannare: sanno benissimo che Aiace non si arrende, ma vuole solo prendere in considerazione le condizioni e le conseguenze di una resa. Aiace ha imparato l’iro-

nia. 28. Cfr. Edipo a Colono, 609 sgg.: “Le altre cose confonde il tempo. Languisce la fiducia, sorge la perfidia. Un sentimento non dura fermo né tra uomini amici, né tra una gente e l’altra”. Trad. di E. Cetrangolo, in

Îl teatro greco. Tutte le tragedie, cit.

'

29, Cfr. Georges Méautis, Sophocle: Essai sur le héros tragique, Parigi,

Albin Michel, 1957, p. 41: ‘“Le choeur [...] se lance en une danse frénétique de joie, un hyporchème, dont l’effet de contraste avec les pa-

roles sinistres d’Ajax devait fatre passer un frisson dans l’auditoire”’. Analogamente la gioiosa danza del coro precede nelle Trachinie l ritorno del figlio con l’annuncio che Éracle sta morendo e in Edipo re la tragica rivelazione del segreto della nascita del sovrano.. 93

Divorare gli dei 30. M.I. Finley, The World of Odysseus, p. 103: “In un ambiente cosi

persistentemente ostile, si permetteva agli eroi di cercarsi degli alleati: il loro codice d’onore nòn esigeva che si ergessero da soli contro il mondo. Ma nel sistema sociale non c’era nulla che permettesse di stipulare un’alleanza tra due comunità. Erano possibili soltanto soluzioni personali, attraverso i canali della famiglia e della parentela”. È a p. 107: “B forestiero che aveva uno xenos in un paese straniero [...] disponeva di qualcosa che poteva efficacemente sostituire 1 parenti, un protettore, un rappresentante, un alleato. Aveva un rifugio se era costretto a fuggire da pcasa sua, un magazzino al quale attingere se era obbligato a viaggiare e una fonte di uomini e di armi se chiamato a combattere”’, 31. William Arrowsmith, “A Greek Theatre of Ideas”, in Ideas in the Drama, a cura di John Gassner, New York, Columbia University Press,

1964.

32. Camus, Il mito di Sisifo, p. 16; e, più avanti, pp. 37 e 100. 38. Sdren Kierkegaard, La malattia mortale, a cura di Meta Corssen, Milano, Edizioni di Comunità, 1947, p. 79; e, più avanti, pp. 80-2. 34, In La malattia mortale risuona un tono di confessione personale, come strappata di gola. Kierkegaard non cita esempi letterari, ma dice:

‘“Questa specie di disperazione si vede di rado nel mondo; tali forme si

trovano veramente soltanto nei poeti, cioè nei veri poeti, i quali danno

sempre alle loro creazioni l’idealità ‘demoniaca', se si intende questa pa-

rola nell’originale senso greco” (p. 81). 35. Anche in Ippolito, naturalmente (178), ma la Fedra di Euripide è trattata in maniera assai più realistica. 36. Un’altra interpretazione tragica dell’Iiade. Quando, durante la lotta intorno al cadavere di Patroclo, Zeus sembra favorire i troiani e una fitta

nebbia limita la visibilità, Aiace esclama:

“Zeus padre, libera tu dalla

nebbia i figli de_gli achei, sereno fa’ il cielo, fa’ che vediamo con gli oc-

chi; in piena luce, poi perdici, poiché ti piace cosi’’ (XVIÎI, 645-47). 37. Non sappiamo come venisse rappresentata la scena del suicidio. Se-

condo alcuni commentatori, una volta allontanatosi il coro, i1 pinti che raffiguravano la tenda di Aiace venivano sostituiti mostravano cespugli in un luogo “isolato”. Ma la cosa non è ta, almeno per le rappresentazioni ai tempi di Sofocle. La

pannelli dida altri che affatto cerscenografia

dipinta in maniera realistica non venne probabilmente introdotta prima

del IV secolo a.C. In ogni caso, ìl momento culminante della tragedia —

Aiace che si getta sulla propria spada — doveva essere a vista. A partire

dal VI secolo a.C. questo episodio era stato spesso raffigurato nella scultura e sui vasi, ed è più che probabile che questa immagine visiva abbia 94

Atiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo influito sull’immaginazione di Sofocle. Beazley, dAttic Black-Figure, p. 20: “Un

altro capolavoro

di Exekias,

questo però non firmato, è un’anfora attualmente a Boulogne. Il tema è

la morte di Aiace [...] La morte di Aiace è un tema frequente dell’arte

arcaiìca: Aiace che si squarcia il petto con la spada o a terra vicino alla

spada stessa. Exekias, lui solo, non mostra l’eroe morto, e neanche il momento della morte, ma la preparazione dell’atto finale: Aiace, presa la

sua decisione, conficca metodicamente la spada nel terreno. Ha dietro

una palma, davanti le armi: l’elmo, le lance, lo scudo famoso. Îl viso è

segnato dalla sofferenza”, Ancor più caratteristica è una statuetta in bronzo del primo periodo classico, ora al Museo archeologico di Firenze. Cfr. Gisela M.A. Richter, The Sculpture and Sculptors of the Greeks, New Haven, Yale University

Press, 1970, p. 43 e figg. 133 e 134. Aiace è rappresentato nell’atto di gettarsi sulla propria spada. La tiene con la mano sinistra sopra l’elsa, posata al suolo. La spada è corta e rivolta verso il lato sinistro del suo

basso ventre. La gamba sinistra è piegata al ginocchio, il corpo è arcuato.

La spada sta per trafiggere la carne. Aiace tiene la mano destra alzata a

palmo aperto, come in un gesto d’addio. Guarda nello spazio. E° nudo. Soltanto la testa è coperta da un pesante elmo chiodato. Nella tragedia di Sofocle Tecmessa coprira più avanti il suo corpo nudo (915). Interessante è anche il commento di uno scoliasta al verso 864: “Dobbiamo prestumere che cada sulla sua spada; e occorre un attore possente per trascinare il pubblico sino alla rivelazione di Aiace, come sembra facesse Timoteo di Zacinto. Egli trascino gli spettatori e li eccitò talmente con la sua interpretazione che venne soprannominato tagliagola”. Peter Arnott, dal cui Greek Scenic Conventions ho tratto la citazione

dello scoliasta, nega che si utilizzasse l’enkyklema per portar via il cada-

vere di Aiace. Avanza l’ipotesi che il suicidio avvenisse in scena, con Aia-

ce inquadrato nella cornice della porta (pp. 131-33). Ma neanche questa soluzione sembra probabile. L’attore avrebbe dovuto afferrare la spada all’ultimo momento e nascondersi oltre la porta che si sarebbe chiusa

dietro di lui. Ciò avrebbe distrutto la tensione, con un effetto verosimil-

mente ridicolo. La principale obiezione contro il suicidio commesso davanti al pubblico, quella che insiste sulla difficoltà di portar via il cadavere, si fonda sul principio dei tre attori. Secondo Gilbert Norwood — in Greek Tragedy, Londra, 1920 e 1928, p. 136 — Aiace e Teucro erano interpretati dallo

stesso attore; il deuteragonista faceva Odisseo e Tecmessa; il tritagonista Atena, il messaggero, Menelao e Agamennone. Nella scena del giudizio 95

Divorare gli dei

Aiace doveva essere un fantoccio portato sul palcoscenico. Edipo a Colo-

no — a giudizio generale — è l’unica tragedia la cui messinscena richiedesse quattro attori. Può darsi che anche Aiace facesse eccezione alla regola. In fondo,

l’intera scena del suicidio è eccezionale in una tragedia

greca. Osservava lo scoliasta: “Queste sono cose rare negli antichi poeti:

di solito riferiscono quanto è accaduto per bocca dei messaggeri”. Perso-

nalmente, tendo a credere che la scena in cui Aiace si getta sulla spada

venisse recitata nell’orchestra, alla luce del sole, e che il cadavere rimanesse in vista,

Non è chiara neanche la presenza di Tecmessa nell’epilogo. Teucro la marnda a prendere 1il figlio (985). Lei rientra con Eurisace (1168) e rima-

ne con lui sino alla fine. UÙUna sua partenza improvvisa sarebbe immotivata, perché non potrebbe lasciare li il bambino. Sarebbe l’unico altro esempio di tutte le tragedie che conosciamo — il primo è in Alcesti — in cui uno stesso personaggio veniva interpretato da un attore e da una comparsa. 38. Aiace è quasi da tutti ritenuta Îa più antica delle tragedie superstiti di Sofocle e si pensa che egli l’abbia scritta tra ì quaranta e i cinquanta annì, cioè tra la morte di Cimone (449 a.C.) e Antigone (442 o 441 a.C.). Si adducono queste prove: la metrica delle odi del coro, e in parti-

colare la struttura arcaica del parodo; le immagini e le soluzioni che ricordano quelle di Eschilo (‘“effetti sorprendenti e un che leo”, secondo Richard Claverhouse Jebb); la funzione attiva del motivo. del cadavere insepolto, che ricorda Antigone. Ma già Kitto faceva notare quanto è ingannevole basare una cronolegia

sceniche di eschicoro e il nel 1939 sulle sta-

tistiche metriche. Questi metodi vennero radicalmente revocati in dubbio

quando nel 1951 la pubblicazione di un papiro spostò in avanti la data

delle Supplici,

da tutti ritenuta la più antica delle

tragedie di Eschilo

superstiti, di almeno un quarto di secolo, cioè a dopo il 468 a.C. Se ci fossero rimasti soltanto quattro drammi di Shakespeare, uno di Marlowe,

uno di Webster, più un centinaio di pagine degli scritti critici di Samuel Johnson, la cronologia e le linee di sviluppo del dramma elisabettiano sarebbero

un grosso enigma. Le supplici era ritenuta la più antica delle

scontato

che, con l’evolversi della tragedia, la sua funzione diminuisse,

tragedie per l’importanza che aveva in essa il coro, in quanto si dava per Se non conoscessimo la data delle Baccanti, con lo stesso ragionamento la considereremmo una delle prime tragedie di Euripide, perché ci sono

anche qui “un che di eschileo” ed “effetti sorprendenti”’. Le teorie estetiche e le idee preconcette influiscono sulla datazione delle

opere d’arte assai più di quanto non appaia dalle argomentazioni presen96

Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

tate. Aiace era considerata un’opera mancata, o almeno un’epera con

gravi pecche strutturali, e quindi doveva essere stata scritta da un autore immaturo. Ésistono tuttavia argomenti altrettanto serì per spostare la da-

ta di Aiace a dopo il 430 a.C., cioè a dopo Edipo re, o forse a un periodo ancora successivo, quello che precede la stesura di Filottete. Si sono

spesso notate le somiglianze tra Aiace e Le trachinie. Ora, quest’ultima è.

considerata da alcuni la prima delle tragedie di Sofocle (nel 1958 Kirkwood la riteneva precedente ad Antigone, e nel 1962 Mazon e Dain la dicevano anterioré ad Aiace), da altri una delle ultime (Kitto la datava agli anni tra il 430 e il 420 a.C., Perrotta all’ultimo periodo della vita di Sofocle). Il coro di Aiace, trattato “realisticamente”’, è il più vicino al coro dei mariìnai di Filottete. Ancor più importante è l’affinità dei contenuti: in entrambe le tragedie, la visione antieroica del mondo omerico e un tono parecchio diverso da quello di Antigone, assai più euripideo. Nel prolo-

go, afferma Kaufmann, Atena ha “qualcosa di euripideo”. Le allusioni sprezzanti all’autocrazia spartana erano una delle ragioni che inducevano

a ritenere Aiace

anteriore al 446 a.C., anno in cui venne stipulato con

Sparta un trattato di pace trentennale; ma Reinhardt (1933) aggiungeva prudentemente: ‘“se si esclude la guerra del Peloponneso”, Ma non c’è motivo di escludere la possibilità che Aiace sia stato scritto durante la guerra del Peloponneso. E solo se lo si colloca nel clima politico degli

anni immediatamente precedenti il 420 a.C., Aiace diventa totalmente intelligibile. Cfr. John Jones, “The Matter of a Date”, in On Aristotle and Greek Tragedy, New York, Oxford University Press, 1962, pp. 65-72; Whitman, Sophocles, pp. 42-46; Kamerbeck, The Ajax, pp. 15-7.

39. Cfr. anche Knox, Heroic Temper, pp. 121-23: “I personaggi contrapposti di Odisseo e Achille erano divenuti, per gli ateniesi del V secolo a.C., prototipi mitici e letterari di due mondi di pensiero e di sentimento interamente diversi [...] Nella letteratura greca il punto di vista aristocratico (soprattutto in Pindaro, che non sa che farsene di O disseo) è achilleo: un ideale di generosità guerriera, di un rigido codice d’onore, di insistenza sulla timé, sul rispetto del mondo, il tutto accompagnato

all’ascetismo e alla bellezza fisica dell’atleta e ai suoi limiti intellettuali sin troppo frequenti. Î} punto di vista democratico [...] è odisseico: un ideale di versatilità, di adattabilità, di abilità diplomatica e di curiosità intellettuale, e un'insistenza sul successo accompagnato alla gloria anziché a essa sacrificato”’. . 40. Pindaro, Nemee, VII, 24-7, in Le odi e i frammenti, cit., II, p. 293. 41. Nemee, VIII, 22-9, ibid., p. 292.

97

Divorare gli dei

42. Qui Shakespeare parafrasa Luciano.

Cimbelino”.

Cfr. Appendice:

“Luciano in

43. Antigone (1030): “Quale prodezza. è uccidere una seconda volta un

morto? ” 44. Tutte le citazioni dall’Odissea sono nella traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, Torino, Finaudi, 1963. 45. Cfr. Cedric H. Whitman, Homer and the Heroic Tradition, Cambridge, Harvard University Press, 1958, pp. 179-80. A proposito dell’incontro tra Odisseo e Achille nell’Ade: “Achille insiste sul costo della grandezza, sulla pena insanabile di essere Achille. Sta dicendo: lo ho sofferto il peggio e con esso mi sono identificato; tu non hai fatto che sopravvivere. È Odisseo, da parte sua, dice: Tu sei molto onorato, è vero, ma sei morto; sono io che sto facendo qualcosa di veramente grande e difficile”. L’incontro con Aiace ha un impatto incomparabilmente maggiore. 46. Cfr. nota 19. Ajace è un cadavere; Agamennone, riferendosi a lui,

usa la parola skia, Aiace è già una skia nell’Ade. È’ indubbio che per il pubblico greco, che conosceva perfettamente Omero, questa era un'introduzione alla scena successiva: l’incontro tra Odisseo e la skia di Aiace nell’A de. 47. Traduzione di Franco Sartori, in Opere complete Bari, Laterza, 1951, vol. VI, pp. 345-53. Il fatto che nella storia di Platone Aiace scek-

ga la vita di un leone è certamente legato ai rapporti di Aiace con Éra-

cle. Lo scoliasta a Pindaro, Jstmiche, V, 53 (in Hesiod, p. 257): “La storia è tratta dalle Grandi Eee: li infatti troviamo Eracle, ospite di Telamone, che prega vestito con la pelle di leone, e troviamo anche l’aquila

mandata da Zeus, dalla quale Aiace trae il nome (Aietos)”. Finley, Pin-

dar and Aeschylus, p. 103, su Istemiche IV: “L’Aiace offeso dell’inizio è divenuto il trionfante Eracle della fine”.

48. Di tutti gli eroì della guerra di Troia, Aiace è quello che è stato maggiormente ridicolizzato nel colarmente crudele gli venne Troilo e Cressida, è soltanto orso, lento come un elefante”, lo di gallina”, “tutto muscoli

tardo rinascimento. Un trattamento partiriservato nell’Inghilterra elisabettiana. In “un ciuco recalcitrante”’, “goffo come un e “una montagna di carne con un cervele niente ingegno”, “tutto acchi e niente

vista”, E’ anche oggetto di giochi di parole scatologici:

“Ajax” viene

pronunciato infatti “A-jakes” [una latrina]. È lo stesso Shakespeare non si risparmia questa battuta piuttosto volgare: “Il vostro leone che regge

una scure da battaglia seduto sulla seggetta lo daremo ad Aiace”, giocando

sulla medesima

assonanza

(Pene

d’amor perdute,

V, 2, 580).

Per

questo il detersivo probabilmente più reclamizzato negli Stati Uniti [e 98

Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

altrove] si chiama Ajax. Sino a poco tempo fa il suo contenitore in plastica aveva forma di cavaliere e portava seritto lo slogan ‘“pulisce a fondo

e dappertutto”. E’ proprio vero che il carattere è destino. În un mondo dove tutto finisce su un mucchio

di rifiuti, l’unico. ruolo eroico che an-

cora rimanga è quello di essere il detersivo più potente.

99

Alcesti velata La puoi

dire viva e che

è morta

anche.

(Alcesti, 141)

Alcesti

è morta

per Admeto:

Apollo,

che aveva scontato

un

anno di lavori forzati occupandosi del gregge di Admeto, re della Tessaglia, gli aveva procurato, in segno di gratitudine per

il buon trattamento ricevuto, un privilegio eccezionale. Adme-

to sarebbe stato risparmiato nell’ora della morte, a patto di trovare qualcuno disposto a morire per lui. Amici, padre e madre hanno rifiutato. Ha accettato solo la moglie..È prima di morire ha chiesto una sola cosa: che Admeto giurasse solenne-

mente di non più risposarsi.

Prima ancora che il cadavere venga sepolto, Eracle viene a tro-

vare Admeto. 1l quale, famoso

in tutta la Grecia per la sua

ospitalità, nasconde all’amico il segreto della morte

della mo-

glie, temendo che egli non voglia fermarsi in una casa in lutto. Eracle viene accompagnato nelle stanze degli ospiti. Admeto

va al funerale. Eracle si ubriaca e si mette a cantare canzoni

allegre. Un vecchio servo del re, sdegnato, gli svela la triste

verità. Eracle, che è una brava persona, vergognandosi del suo

comportamento scorretto, decide allora di restituire Alcesti ad Admeto. Il padrone di casa ha fatto appena in tempo a rientrare dal funerale che già Eracle è di ritorno, accompagnato da una taciturna donna velata. Racconta ad Admeto di averla vinta in una gara atletica e di avergliela portata per consolarlo. Il fresco vedovo è estremamente restio ad accogliere una donna giovane in casa propria. Ma Eracle, inflessibile, si richiama alle leggi dell’ospitalità. L’ospitale Admeto cede. E nella muta straniera riconosce Alcesti: “La fortuna mi arride e non lo nego” 100

Alcesti velata

(1158)!.

Sono le ultime parole che pronuncia nella tragedia.

La fortuna

tre giorni:

gli arride veramente. Alcesti non può parlare per

deve prima

saranno spiegazioni.

compiere i riti purificatori. E non ci ‘

E° una strana opera. Sembra a prima vista che si morda la coda. Tutto in essa — la sequenza degli avvenimenti, la descerizione dei personaggi, il dialogo, i miti evocati e soprattutto gli effetti scenici — viene usato in modo da presentare come parodia crudele la resurrezione di Alcesti. Se è una tragedia, si autoconsuma. Restano dunque solo due possibilità: o considerare Alcesti un’opera mancata o giudicarla un dramma scandaloso, insolitamente ricco di veleni e di perfidia. Alcesti venne rappresentata alle Dionisie come quarto testo, il posto solitamente occupato dal dramma satiresco. Ma-è radicalmente diversa dai drammi satireschi che conosciamo. Nel prologo, Apollo si scontra con la morte; nell’epilogo si scopre che la bella sconosciuta, velata e taciturna, è Alcesti miracolosamente sottratta alla tomba. Ma in mezzo abbiamo un testo dalla struttura sorprendentemente realistica. Alcesti muore iìn scena e, come sì è da tempo osservato, è l’unica morte naturale in tutta la tragedia greca. Non viene ammazzata e non si uccide; si prepara alla morte con cura, in modo pacato e sistematico.

Quando il giorno senti ch’era venuto, il corpo bianco lavò con l’acqua che le fu portata dal fiume, e dalle sue arche di cedro tolse una veste [...]

(Alcesti, 158 sgg.) “Il legno di cedro”, annota A.M. Dale nella sua edizione critica di Alcesti, “proteggeva gli abiti dall’umidità E° un’annotazione 'I:ipiòamente femminile,

esatta.

e dalle tarme”?. ma sicuramente

Alcesti è soprattutto una buona massaia.

Quando

Ad-

meto rientra dal funerale, ciò che più lo turba non è tanto la 101

Divorare gli dei

vista del letto nuziale vuoto, ma ‘i mucchi della polvere per le

stanze”

(946-47)?.

Nelle tragedie

greche i pavimenti sono

spesso macchiati di sangue, ma non era mai accaduto che fossero sporchi perché non lavati. i - Il realismo di Alcesti non è solo. psicologico, ma impregnato di particolari concreti. Forse la definizione migliore è quella di realismo ‘““domestico”. Questo termine, inventato da Bernard Knox, s’addice ad Alcesti più ancora che al prologo dell’Elettra dello stesso Euripide“. L’azione si svolge, ovviamente, davanti al palazzo di Admeto, come vuole la convenzione, ma in nessun altro testo greco sino a Menandro abbiamo una cosi netta sensazione di trovarci all’interno della casa. Ne conosciamo quasi la disposizione dei locali: [...] Tu conducilo

dall’altra parte, dove son le stanze

dei forestieri. Aprile e ai servi “che ne han la custodia da’ ordine di provvederlo senza far risparmio d’ogni vivanda. Voi andate a chiudere all’interno le porte dei cortili. (Alcesti, 546 sgg.)

Il fatto che Admeto ordini ai servi di-accompagnare Eracle nelle stanze per gli ospiti, è una delle prove più spesso citate

da chi sostiene che nella parete anteriore della skene, oltre P apertura centrale, ce n’erano altre due più piccole, a sinistra e a destra. L’azione essenziale della tragedia si svolge però in ca-

mera da letto. Nella casa di Alcesti e di Admeto, loro dramma, è il letto il mobile più importante. O letto [...] dove

come

nel

del mio vergine corpo, e una fanciulla

ero, quest’uomo per cui do la vita disciolse un giorno la cintura [...]

(Alcesti, 176 sgg.)

Alcesti non è ancora in scena. Il coro degli anziani è venuto 102

Alcesti velata

dalla città per sapere se la regina è già morta. In questo dramma domestico l’ancella ha il ruolo che nella tragedia ha di soli-

to il messaggero.

E’ lei che

racconta al coro gli avvenimenti

della giornata, a cominciare dal mattino. E cade sui ginocchi

e lo bacia {il letto] e dell’onda che di dentro

sale e l’urge la coltrice ne bagna. k& pianse a lurigo. E quando ne fu sianca, e prona il viso dal giaciglio in terra s’era abbattuta, s’alza, va e più di una

volta all’uscir dal talamo si gira e guarda e indietro ritorna e sul letto

si getta ancora.

Finalmente si aprono le porte del palazzo e tata fuori in lettiga. Dice addio per l’ultima ai figli. In questa lunga scena di commiato, alla sua eroica decisione o all’insolito patto dobbiamo

prendere il racconto

(Alcesti, 183 sgg.)

Alcesti viene porvolta al marito e nessuno accenna con la morte. Se

alla lettera, questi avvenimenti

devono essere abbastanza recenti, poiché Apollo ha appena Jasciato la casa di Admeto dopo un anno di servizio®. In tutto il dramma l’unica scelta tragica è la decisione di Alcesti. Ma a Euripide non serve la scena nella quale una moglie si sacrifica per il marito. Sta scrivendo un’altra cosa. Il patto con la morte è stato stipulato nel passato, in un periodo talmente

lontano

che Admeto

lo ha persino dimenticato.

Alcesti

deve addirittura ricordargli, nei suoi ultimi istanti, che sta morendo per lui.

Admeto

— Con te prendimi, portami

per gli dèi, sotto terra!

con te,

Alcesti — La mia vita

basta. Io muoio per te. (Alcesti, 382 sgg.)

Kuripide è spietato: una morte eroica si trasforma in una mor103

Divorare

gli dei

te qualsiasi; una morte deliberatamente

scelta appate

come na-

domani,

verrà

male,

turale. La povera Alcesti deve convincere il marito che sta effettivamente per morire, qui e ora: “Io devo morire. È non non

al terzo

giorno

del mese

questo

ma

ancora un poco e non avrò più nome se non tra quelli che non sono” (320 sgg.). Admeto preferisce però rifiutarsi sino alla fine di credere che Alcesti stia morendo. Ancora all’ultimo istante chiede: ‘“Che fai? Mi lasci? ” (391). Critici e studiosi sono molto severi con Admeto: quasi senza eccezione tacciano il suo comportamento di codardia®., Ci sono buoni motivi per sostenerlo. Ogni parola di Admeto è stonata, o una nota troppo alta o troppo bassa. Ma in realtà l’ironia di Euripide è assai più spietata. Dopotutto, qualunque cosa si dice a un moribondo è stonata. Morire adesso e dover morire in futuro sono due cose diverse. Si può sopravvivere alla morte di un altro, non alla propria.

Bisogna che la morte di Alcesti sia il più possibile reale se sì vuole che possa essere il più possibile irreale la sua resurrezione. In tutta l’Alcesti c’è solo una scena da opera seria, tutte le altre hanno

un tono

di opera

buffa,

Tanato

(la morte)

che,

armata di spadone, discute con Apollo nel prologo, è una figura grottesca, ma Alcesti vede davanti a sé un’altra morte, una che non vuole aspettare: “Nei suoi occhi di nero acciaio ha notte [...] alato”

(261). Si pronuncia la parola Ade, sussurran-

dola sempre con paura. Soltanto Racine è riuscito a rendere la fredda poesia di questi versi: Je vois déjà la rame

et la barque fatale;

j’entends le vieux nocher sur la rive infernale.

Impatient, il crie: “On t’attend ici-bas;

tout est prét, descends, viens, ne me retarde pas””. Alcesti è un’eroina di tragedia, ma ha un marito che viene dalla commedia. Medea è in una posizione analoga e in entrambi ì drammi c’è uno stesso tipo di dissonanza derivato da una mescolanza ‘“diìi allegro e di tragico, di conciso e di prolisso”. 104

Alcesti velata

Prima ancora che entrino in scena marito e moglie, l’ancella esprime abbastanza chiaramente l’ambiguità del rapporto tra Admetoe la sposa morente: “Oh, se piange! E la moglie tra

le braccia tiene e la prega e dice che lasciarlo non deve, non

lo deve ora tradire” (201)5. Admeto implora Alcesti di non

tradirlo.

Tradirlo con chi? Con la morte? “Non t’abbattere, su,

povera anima. E non tradirmi” (250). Admeto fa continui lapsus linguae e sta già pensando al tradimento. “L'’idea di tradimento e il problema di che cosa sia tradire”, mente Wesley D. Smith, ‘“diventano un tema saranno al centro della scena finale’”®, 1l mistero della morte e della miracolosa resurrezione di

osserva giustadel dramma e del sacrificio, Alcesti si tra-

sforma nella commedia della moglie fedele e del marito incostante. Alcesti, benché Admeto le abbia solennemente promesso di non pià risposarsi, si fa poche illusioni: [...] io muoio. E un’altra donna

avrà ora, una che più fortunata forse sarà di me, non più fedele.

(Alcesti, 181 sgg.)

E ancora poco prima di morire, cosf risponde ai giuramenti di fedeltà:

Il tempo

ii darà pace: chi è morto è nulla.

(Alcesti, 381)

Sinora sono tutti straordinariamente discreti. La morte di AL-

cestì sembra naturale. Îl suo sacrificio non suscita né sorpresa né ammirazione; è considerato un fatto normale sia dal coro, sia da lei stessa, sia, ovviamente, da Admeto. Solo all’ancella,

Alcesti sembra eroica. Nei suoi lamenti, moglie di aspettarlo, ma non gli viene mai be potuto aspettarla lui nella tomba. Ma ora, dopo che il cadavere di Alcesti è marito che aveva autorizzato la moglie a

Admeto supplica Îa in mente che avrebstato portato via, il morire per lui s’in-

contra con il padre che non ha voluto morire per 1l figlio. Da 105

Divorare gli dei

Plauto alla commedia dell’arte e a Molière, nella migliore tradizione

comica,

quando

che viene svergognato

s’incontrano

padîe

e figlio

è il padre

e ridicolizzato, Lo si smaschera e lo si

castiga perché ha corteggiato una ragazza o perché ha proibito al figlio ciò che ha concesso a se stesso. Euripide è molto più cattivo.

Ferete — L’errore era anche più grande se io fossi morto per te.

Admeto — E non c’è differenza tra la morte di un giovane e di un vecchio? Ferete — Una è la vita, e noi con una sola

siamo in debito al mondo è non con due.

(Alcesti, 710 sgg.)

E’ dunque il figlio che viene deriso. Questo inatteso capovolgimento sembra quasi una trovata brechtiana: il figlio è vigliacco

ed

egoista,

come il padre;

nessuno

dei due vuole

morire.

‘“La morte di Alcesti”’, scrive Kitto, ““è posta fra una presentazione insolente della tetra figura di Tanato e una scena fra Admeto e Ferete che non è mai lontana dalla commedia o dalla satira”!° . l patto con la morte appare improvvisamente moderno e irriverente. Tutto è d’un tratto capovolto. Îl sacri-

ficio di Alcesti, che pareva eroico e naturale, è ora assurdo e

sciocco. Il veechio Ferete dice chiaramente quello che pensa, ma dobbiamo ammettere che ha ragione: “Lei lo aveva il pudore. Era una pazza” (728)!* , l colloquio finisce a insulti e la scena è, Aristofane a parte, la più brutale di tutto il teatro greco. Lo schema comico viene capovolto: non è più il padre che disereda il figliol prodigo, è il figlio che rinuncia al padre e alla madre e dichiara che non farà loro neanche il funerale. Ma prima che la scena finisca, 1l vecchio Ferete ha avuto modo di dire la sua: “Cercane molte [donne] per farne morire quante più puoi” (721). I morti li si dimentica in fretta. Alcesti fa appena in tempo a 106

Alcesti velata

chiudere gli occhi e già Admeto la ripudia. In un discorso am-

biguo e complesso, dice a Eracle, ed è una mezza verità, che

la morte non gli era “stretta di sangue”. E, vedendo che Eracle ha ancora qualche dubbio, aggiunge con disinvolta bruta-

hità: “Î morti soro morti. Entra” (541).

Prima che cada la notte e che termini il dramma, bisogna che tutti 1 giuramenti di fedeltà vengano violati. Anziché restituire Alcesti,

salvata dalla tomba,

al suo migliore amico, Eracle vuol

fargli uno scherzo. Il buon gigantesi comporta nell’epilogo co-

me un agente provocatore e mette Admeto alla prova: Eracle — Una nobile donna hai perduta! Chi potrà negarlo? Admeto — Al punto ormai che l’uomo che iu vedi non avrà gioia più d’essere al mondo. Eracle — Il tempo addolcirà la pena. Ora troppo giovane è il male. '

(Alcesti, 1083 sgg.)

Come se fosse stato presente all’ultimo colloguio di Alcesti con Admeto, Eracle ripete le parole da lei pronunciate allora: “Il tempo ti darà pace. Chi è morto è nulla” (381). Bisogna compromettere Admeto sino in fondo. E’ ancora il letto il mobtile principale. Eracle — Ed hai deciso di non sposarti più? Lascerai vuoto. il tuo letto di vedovo? Admeto — Non c’è donna che possa stendersi al mio fianco. kracle — E tu credi cosiì che la tua morta se ne giovi di nulla? Admeto — Îl mio dovere è di renderle onore ovunque sia. Eracle — Ed io ti lodo, ma non c’è nessuno che non ti dica folle.

(Alcesti, 1089 sgg.)

107

Divorare gli dei

Non si tace nulla in questa perfida scena. La donna, con il viso nascosto

da uno spesso velo, se ne sta ad aspettare davan-

ti alla casa tra Eracle e Admeto. Admeto s’accorge subito che è giovane e le sue curve gli ricordano Alcesti. Spiega a Eracle che non può ospitarla negli alloggi degli uomini, sarebbe in pericolo. Rimane dungue una soluzione soltanto: portarla nel letto vuoto di Alcesti. Ma in tal caso: Due volte

ne verrei condannato e n’ho paura: prima dalla mia gente, ove qualcuno mi accusi — ed io non mi potrò difendere — che tradendo la mia benefattrice mi son precipitato sul giaciglio di un’altra donna, e giovane l’ho scelta, e lei poi, di lei devo nel mio cuore aver riguardo [...] Il coro

degli anziani,

che

a mezzogiorno,

(Alcesti, 1057 sgg.) appena

morta

Alce-

sti, aveva minaccjato Admeto di dannazione eterna ‘“se un nuovo letto volesse egli cercare, oh si che in orrore io lo a-

vrei” (464), diventa verso sera molto più filosofo. Dio ha tolto e dio ha dato: Quale bene si possa dir di questa nuova ventura, 10 per me non saprei, Ma tu sei tu'e devi essere forte

ed accettare quanto il dio ti dona.

(Alcesti, 1070 sg.)

Alcesti può essere interpretata come un dramma che esalta l ospitalità. Per compensare l’ospitalità ricevuta, Apollo grato ha ottenuto dalle Moire un salvacondotto per Admeto nell’ora della sua morte. Essendo uomo ospitale, Admeto costringe Eracle ad alloggiare da lui il giorno della morte di Alcesti. Essen-

do molto ospitale, accoglie in casa propria la straniera muta e

velata, e la conseguenza è che riottiene la moglie. L’ospitalità 108

Alcesti velata

di Admeto è come il “carattere” dei personaggi di Plauto e di Molière. Admeto è ospitale come Arpagone è avaro, Arnolfo geloso e Argante ipocondriaco. Ma nella commedia di ‘“carattere’’, 1 maniaci alla fine vengono sempre puniti. Admeto è invece premiato per la sua ospitalità. Alcesti gli aveva chiesto fedeltà coniugale in cambio del suo sacrificio. Admeto la riacquista con l’esserle infedele !? . Agli eroi tragici, nel momento della loro scelta definitiva, è concessa un’assoluta lucidità di visione. Gli eroi della comme-

dia di ‘““carattere” non solo vengono puniti, ma a volte li si

guarisce oppure

— come

Argante

— rinsaviscono, sia pure per

breve tempo. Ma è guarito Admeto? ‘“Ora comprendo” (940), dice tornando nella casa vuota dopo il funerale. Ma che cosa ha capito? Che la casa è sporca, che i bambini piangono, che lui non può risposarsi, che tutti lo considerano un codardo. E allora, che vantaggio ho di vivere, o amici, se il mio nome

sarà segno d’infamia e nello stato in cui mi trovo sono un infelice?

(Alcesti, 960 sgg.)

Sì scopre che la sconosciuta è Alcesti. Admeto ha riottenuto la moglie. Ma non è guarito e non è neanche rinato moralmente. Alcesti fa venire in mente il prologo di una delle “commedie sgradevoli” di G.B. Shaw: la commedia comincerà fra tre giorni, quando Alcesti riacquisterà la parola. Solo il miracolo mette in difficoltà. Nella commedia di carattere, in quelle di costume e in quelle psicologiche, non siamo abituati ai miracoli. Forse il miracolo non c’è stato. Arthur W. Verrall, un razionalista e un positivista del teatro naturalistico e del melodrama

cresciuto alla scuola vittoriano, sosteneva

che Euripide aveva scritto le sue tragedie in due modi: con ironia per gli amici sofisti, e fingendo di credere negli dèi e nei miracoli per accontentare la folla ateniese!° . Alcesti non è realmente morta; Eracle l’ha solo svegliata dal letargo. Ha ra109

Divorare gli dei

gione Arrowsmith quando rall!* , La resurrezione di colo c’è e non c’è. Ma non potrebbe esistere buon amico, troppo forse. meto

dice che non bisogna ignorare VerAlcesti è carica d’ambiguità: il mirauna terza possibilità? Eracle è un Ha fatto di tutto per consolare Ad-

nella sua sofferenza. Mettiamo che, una volta sollevato il

velo, la bella sconosciuta non sia la moglie di Admeto. Cosa può fare a questo punto il povero marito?

E'° stato messo con

le spalle al muro, è caduto nella sua stessa trappola. Proprio quel mattino ha giurato ad Alcesti morente: “Lo dico ora e quello che dico lo farò” (374). Ancora poco fa ha dichiarato al coro dei cittadini di Fere: “Io muoia prima di tradirla, se anche non è più” (1096). Ma già ha preso per mano la sconosciuta per condurla in casa propria. La donna è giovane e bella: “Sappi che d’Alcesti hai la statura e in tutto le assomigli” (1063). L’ospitale Admeto non può non riconoscere con Éracle che questa è Alcesti. Le seconde mogli, pur essendo di solito più giovani, assomigliano spesso alle prime. O viso, o corpo di te che amo, o donna mia; ti ho

che non t’avrei sperata, io che credevo di non vederti più. (Alcesti, 1132 sgg.)

La bella straniera tace e tacerà almeno per altri tre giorni. Q per sempre. Alcesti è un’opera piena di enigmi che non vogliono svelare il loro segreto. La si è definita una commedia romantica, un melodrama, una tragicommedia, la figlia bastarda della tragedia e del dramma satiresco, una romance, un grottesco, un burlesque. Îl coro dei cittadini sapeva sin dall’inizio che tutto era in dubbio: E tu puoi dirlo? Parole a tanto io non ho. La fiducia di dove la prendi al tuo cuore?

(Alcesti, 95)

110

Alcesti velata

2.

La giovinezza di Alcesti è legata alla storia di Giasone e Medea. Era ‘“una donna divina, Alcesti bellissima tra le figliuole di Pelia” (Iliade, II, 714-15).

La perfida Medea decise di ucci-

dere Pelia in maniera estremamente crudele. Promise di restituirgli la gioventà purché si lasciasse fare a pezzi dalle proprie figlie e gettare in un calderone dove lei avrebbe messo a bollire delle erbe magiche. Allora due delle figlie tagliarono a pezzi il padre mentre dormiva, ma Alcesti rifiutò, essendo pia sin dalla fanciullezza. Non è però la pietà che è importante, ma il fatto che una delle sue prime esperienze concerne un delitto, non una resurrezione.

In un altro gruppo di miti, probabilmente molto più antico, Admeto, re di Fere, è parente di Apollo che è stato al suo

servizio per un anno a custodirgli armenti scontando cosi l’uc-

cisione dei Ciclopi. Apollo sì era vendicato su di loro, perché avevano forgiato i fulmini con i quali Zeus aveva ucciso suo figlio Asclepio. Il quale Asclepio era stato un miracoloso guaritore che restituiva la vita ai morti. Per questo Zeus lo aveva ridotto in cenere. Di Asclepio Esiodo diceva: “E il padre degli uomini e degli. dèi montò in collera e dall’Olimpo colpi il figlio di Latona con un fulmine fiammeggiante, suscitando l’ira di Febo”!® . Il coro di Alcesti racconta la storia del castigo di Asclepio cui dà una conclusione disperata: E ora per la sua vita a quale speranza do ascolto? (Alcesti, 130-31)

Cosi, in un altro resoconto delle precedenti vicendedi Alcesti e Admeto, tutti i tentativi di restituire vita ai morti vengono immediatamente puniti. La mistica Alcesti torna dall’Ade soltanto una volta nel Simposio. Per Platone è un modello di sa-

crificio. Solo gli innamorati, serive, possono morire l’uno per 111

Divorare gli dei

l’altra. “Compiuto

questo atto, esso parve così nobile, non so-

lo agli uomini ma anche agli dèi, che, mentre a pochissimi fra i tanti che compiono atti stupendi gli dèi concessero il privilegio che l’anima risalisse dall’Ade, l’anima di costei, invece, fecero ritornare alla luce, compiaciuti del suo gesto”!° . Per Apollodoro, a differenza di Platone, la morale della storia non ha niente di sentimentale: gli dèì non erano per nulla contenti dell’atto di Alcesti. Persefone pensava che una moglie non dovesse morire per il marito. Alcesti aveva agito male e 1il suo esempio poteva essere dannoso: per questo venne rimandata sulla terra!7. Ha ragione Kitto quando dice che l’Alcesti di Euripide ‘“trae personalità dall’evidente sfiducia nel marito”18, l sacrificio d’Alcesti diviene ripugnante con l’introduzione

di un Admeto

e la sua resurrezione grottesca

infedele

con la sostituzione agli dèi degli inferi di Eracle ubriaco. In Alcesti Eracle viene ad alloggiare da Admeto mentre sta andando a rubar cavalli. Per ordine di Euristeo di Tirinto, di cui è al servizio, gli tocca catturare le famose cavalle di Diomede,

re della Tracia. ’ la sua ottava fatica. La discesa nell’Ade e la

presa per il collo di Cerbero sarà la dodicesima, ma nessuna

delle versioni canoniche del mito la collega alla liberazione di Alcesti. Le cavalle di Diomede avevano fama di sputare fuoco e di nutrirsi di carne umana. E’ raro che i ladri di cavalli credano nei miracoli; la loro professione richiede piuttosto abilità e astuzia. Coro — Non è tanto facile mettere loro il morso. Eracle — Se non soffiano il fuoco dalle froge [...} Coro — Basta solo

che un uomo le avvicini e lo maciullano coi denti in un baleno.

Eracle — Non è certo mangiare da cavalle, ma da fiere 112

Alcesti velata

della montagna. (Alcesti, 492 sgg.) l vecchio servo di Admeto non ha mai visto uno zotico simile

a palazzo reale. L’ospite non s’accontenta di quel che gli han-

no dato, ma continua a chiedere da mangiare e da bere. E una

volta ubriaco si mette a cantare e a ballare. Un Eracle ebbro è

raffigurato in una statuetta di bronzo venuta da Smirne e ora al' Metropolitan Museum di New York. Eracle spinge in avanti la gamba destra ed è piegato indietro con le mani sui fianchi. Î suoi occhi guardano in basso, ma sembra che non vedano nulla. L’Eracle della tradizione popolare però teneva più a mangiare che a bere. Il suo piatto favorito — una passione che aveva in comune con tutti i soldati — era la zuppa di piselli.

Ma, come eroe dorico, amava anche ‘le ciambelle d’orzo e ne divorava tante [...] da indurre uno dei suoi mandriani a bor-

bottare ’basta! ‘’’19, Eracle si comporta sempre come un soldato al bivacco. Ciò che importa è l’oggi, nessuno sa cosa accadrà domani: mangiamo dunque, beviamo e stiamo allegri. L’evento non è cosa che si mostri alla vista e non lo sai quale via prenda. E non solo la scienza non te lo insegna, ma

neanche

un’arte

abbiamo che riesca a premunircene. Ora che mi hai sentito e io ti ho detto questo e lo sai, pensa di stare allegro. Bevi e fa’ questo conto, che la vita è tua solo quel tanto che ne hai giorno per giorno, il resto è dell’evento. Tra le divinità rendi anche onore a quella che di tutte è la più dolce per gli uomini, a Cipride. E° una dea

che ci vuole bene.

(Alcesti, 785 sgg.)

Questo Eracle campagnolo che caracolla allegramente (rappre113

Divorare gli dei

sentato spesso nella scultura, soprattutto nel cosiddetto “tipo Farnese” con orecchie appiattite e gonfie alle estremità, tipiche degli atleti)*° e che il servo chiama ‘““un predone forse, un ladro, uno ch’è capace di tutto” (766), proviene dal dramma satiresco e i suoi precetti assomigliano

molto

ai discorsi. che

Sileno fa a Odisseo nel Ciclope?!. Carpe diem e “domani moriremo” costituiscono una medesima filosofia, espressa con parole differenti. Gli eroi delle leggende popolari, i soldati e i ladri sanno benissimo che nessuno sfuggirà alla morte e che sì muore una volta sola.

] mortali hanno un debito,

ed è questo, che devono morire tutti quanti, E nessuno dei mortali può saperlo se il giorno di domani sarà vivO.

L...]

se vuoi prendermi a giudice, la vita non è vita davvero ma sciagura.

(Alcesti, 782-4, 801-82)

Non c’è niente che possa spaventare Eracle: il ladro di cavalli è un buon amico ed è pronto persino a seguire Alcesti nell’ Ade per restituirla ad Admeto. Essendo uno a cui piace bere, suppone che anche Tanato sia un ubriacone e che lo troverà certamente “nei pressi della tomba, cheil sangue delle vittime sarà venuto a bere” (845). In questa mitologia da beoni, Apollo offrendo loro da bere piega persino le Moire implacabili “con arte di frode” per riscattare Admeto dalla morte. La storia era nota a tutti. Già nelle Eumenidi di Eschilo le Erinni rimproveravano Apollo: Cosi facesti anche nella casa di Ferete, persuadendo le Moire a rendere immortali i mortali”? . I miracoli in Alcesti avvengono in uno stato di ebbrezza. Anche quando Furipide rinuncia temporaneamente. al tono di opera buffa, le sue allusioni al mito restano ironiche. In un 114

Alcesti velata

momento

particolarmente solenne, poco prima della morte di

Alcesti, Admeto

le assicura

che se avesse la voce e la lira di

Orfeo non esiterebbe a scendere all’Ade con Îei: [...} e non varrebbero a tenermi

né il cane di Plutone né Caronte

che sta al remo e le anime

trasporta

prima che la tua vita io non l’avessi ricondotta alla luce.

(Alcesti, 360 sgg.)

Anche il più ignorante degli spettatori di Alcesti doveva sapere che Orfeo non era riuscito a portare Euridice fuori degli Inferi. Ade aveva accettato di lasciarla partire, a patto che Orfeo non si voltasse a guardarla se non dopo aver visto la luce del sole. Ma all’ultimo momento, proprio mentre stavano per lasciare le regioni sotterranee, Orfeo si era girato verso di lei; non era sicuro che gli dèi non lo avessero ingannato e cosiî la perdette. Nel Simposio Platone racconta come Alcesti venne liberata dal regno dei morti come premio per il suo sacrificio e come fall{ Orfeo, punito dagli dèi per la sua pusillanimità. Ma Orfeo, figlio di Eagro, lo rimandarono dall’Ade a mani vuote; gli mostrarono l’ombra della donna per la quale era disceso, senza dargliela, perché parve loro un debole, proprio co-

me un citaredo, e che non avesse l’animo, come Alcesti, di morire per amore, ma che escogitasse ogni via per penetrare vivo nell’A de.

All’amore egoistico di Orfeo, un semplice musico preoccupato di salvarsi la pelle in questa pericolosa spedizione, si contrappone l’amore eroico di Alcesti. Noi non sappiamo se questa

versione

didattica

del mito

sia stata inventata

da Platone o se

esistesse anche prima. În questo secondo caso, Euripide è sta-

to straordinariamente perfido. Admeto, che vuol essere come Orfeo, non soltanto dimentica che il cantore trace non è riu-

scito a ricuperare la moglie, ma non gli viene affatto in mente di assomigliargli solo per la sua codardia”°. 115

Divorare gli dei

] miti in Alcesti si autodistruggono o si autoscherniscono. Nei cataloghi greci dei morti tornati dall’Ade, accanto ad Alcesti si

cita sempre Protesilao°* . Era costui il primo greco morto sul suolo

troiano.

Sua

moglie,

Laodamia,

spinta

dalla

disperazio-

ne, mise sul proprio letto l’immagine del marito, in bronzo o,

secondo

alcuni,

in

cera.

vorrebbe

Admeto

comportarsi

come

Laodamia. Promette ad Alcesti morente che ordinerà un suo simulacro ai più valenti artigiani: [...] nel mio letto

poserà steso, e prono sui ginocchi lo avvolgerò con le braccia, e il tuo nome

io chiamerò, e mi parrà di averla con me al mio petto la donna che amo,

anche se nòn l’avrò più. E di gelo mi saprà quel piacere, ma più lieve farà il peso dell’anima. L’opera di Euripide ta, e non sappiamo le ‘“semicommedie” agli studiosi della

su Protesilao e neanche se era rivoluzionarie cultura classica.

(Alcesti, 349 sgg.)

su Laodamia non ci è giununa tragedia o una di quelche pongono tanti problemi Di Protesilao restano solo

pochi frammenti che, nel tono e nell’atmosfera, sembrano ab-

bastanza vicini ad Alcesti. “Non posso tradire colui che amo, anche se è morto” (frammento 657). Un altro frammento

dice

che i morti non tornano: “I} suo destino è lo stesso che aspet-

ta voi: voi e tutti” (frammento

651). Il terzo frammento

è il

più stupefacente: “Le relazioni con le donne dovrebbero essere in comune” (frammento 655)°5. Conosciamo la storia di Protesilao e di Laodamia .da molte fonti. Luciano, grande dileggiatore di miti, ricostruisce le trattative tra Protesilao e Plutone nei Dialoghi dei morti. É’ un

brano estremamente interessante, poiché attesta non solo la sua profonda conoscenza di Alcesti, ma il fatto che la conside-

ra una commedia. Protesilao discute con Plutone come Apollo 116

Alcesti velata

con

Tanato,

e propone,

in

maniera

molto

condizioni per la propria liberazione dall’Ade.

simile, ragionevoli

Protesilao — lo la persuaderei a venirsene con me; e fu, invece di uno, riavresti due morti.

Plutone — Non è lecita questa cosa, non è mai avvenuto. Protesilao — Ricordati bene, o Plutone. A Orfeo per la stessa cagione voi concedeste Euridice e deste la mia congiunta AL cesti a Eracle molto graziosamente ? . Protesilao

viene liberato

dall’Ade

per tre ore. Compare

nella

camera da letto di Laodamia e le parla dalle labbra di una statua. Quando scade il tempo concessogli, Laodamia si accoltella e sì unisce al marito. In un’altra versione, essa trascorre con la

statua una serie di notti. Il suo entusiasmo doveva essere superiore a quello di Admeto che dall’immagine di Alcesti si riprometteva soltanto ‘“un piacere di gelo”. Ma accadde che, un

mattino

di. buon’ora,

un servo vide Laodamia

a letto e, con-

vinto che vi nascondesse un amante, lo dicesse a suo padre. Il

padre trovò la statua e ordinò che venisse bruciata. Laodamia si gettò allora tra le fiamme e mori.

Questa seconda versione ci sembra più moderna, e se non fosse stata annotata da Igino, ci sarebbe facile attribuirla a Giraudoux. Ma la prima versione è più drammatica e, come modello di resurrezione teatrale, verrà poi riproposta più volte. Nel

teatro barocco, che ha assorbito in maniera indipendente e approfondita le tradizioni antiche, i morti ritornano e le statue

parlano. In Don Giovanni, la statua del commendatore preannuncia al traditore il castigo divino. In Racconto d’inverno, Ermione ricompare come statua al marito che, sedici anni pri-

ma, l’ha accusata d’infedeltà e l’ha condannata tempo non tocca la bellezza della statua.

a morire.

Il

E° difficile dire che cosa sarebbe accaduto mettendo nella camera da letto un’immagine di Alcesti morta. Euripide, probabilmente, non vuole ripetere Protesilao. L’aver rinunciato a questa idea dimostra tuttavia che egli cercava una soluzione 147

Divorare gli dei

teatrale del ritorno di Alcesti dalla tomba. Come osserva Kitto, “la semplice restituzione di Alcesti da parte di Eracle [...] sarebbe stata evidentemente piatta e anche (per mancanza d° armonia) fastidiosa. In circostanze analoghe, Shakespeare manterrebbe l’atmosfera della tragicommedia fingendo che l’eroina risorta sia una statua. Euripide è più abile. Aleesti è velata e, per una

ragione

convenzionale

(1144

sgg.), deve rimanere in

silenzio. Ciò permette a FEuripide di presentarci una delle sue poche scene a tre personaggi [...}”°7, TIl coro dei cittadini, nella sua ultima ode che precede di poco lo scioglimento, ricorda ancora una volta che neppure Asclepio guariva la gente dalla morte e che di fronte a essa erano impotenti anche i seguaci dell’orfismo. Alla morte non c’è rimedio: Tanato è l’unico dio che non abbia altari e non possa essere placato da un sacrificio o da un’offerta. Il coro di AL cesti ripete, come Megara nell’Eracle dello stesso Euripide: “Il nostro destino è di morire

[...] E chi, una volta morto, è mai

tornato dall’Ade? ” (284 é 296). ÉEsattamente a questo punto, appena il coro ha concluso la sua ultima ode sull’inevitabilità della morte, compare Eracle con la straniera

velata.

Lui

sa benissimo

di essere

considerato

un la-

dro e comincia subito dicendo che non l’ha rubata: “Ho faticato molto per averla nelle mani” (1035-36). Soltanto alla fine, racconta di essere riuscito ad arrivare in tempo e di essersi battuto con Tanato: ‘“Mi fu campo il luogo dov’era la sua tomba. Iv stetti all’agguato e lo afferrai con le mie mani” (1141-42). Tanato, talmente pesante da non poter correre lontano dalla tomba, lo conosciamo dal prologo. Apollo lo incontra quando viene a casa d’Admeto a cercare la sua vittima. “Tanato è un vero personaggio”, serive W.D. Smith, “un nervoso gradasso che ha paura di battersi, un grottesco spauracchio che pare uscito da una fiaba”?® , Il suo dialogo con Apollo in Alcesti è unico nell’intero corpus del teatro greco e molti studiosi lo fanno derivare dalla tradizione della narrativa po118

Alcesti velata

polare. Il tema di un pattòo inteso a rinviare la morte, degli scontri con la morte e dei tentativi d’ingannarla è frequente nella narrativa popolare di molti paesi, ma la morte è inflessibile e alla fine è sempre lei che vince’” . Le analogie dunque non ci portano molto lontano. Assai più notevole è la sorprendente somiglianza di questa prima morte, personaggio dì un dramma, con tutti i suoi successivi duplicati del teatro medioevale e della commedia del primo rinascimento. La morte è stata rappresentata come uno scheletro armato di falcetto o, più spesso, di falce. La falce o il falcetto, sostituiti in seguito anche da una clessidra, erano stati attribuiti alla morte medioevale come parte di un retaggio classico derivante

da Saturno®° . Nel prologo di Alcesti, Tanato porta una spada,

ma la usa per lo stesso scopo con il quale le mortiì medioevali usavano la falce. “Io vado da lei per dare inizio al sacrificio con la spada [...]” (73-4). Jan Kochanowski,

nella prima tra-

duzione in volgare di Alcesti, fatta verso la metà del cinquecento, sostituisce ovviamente la falce alla spada e fonde mirabilmente la tradizione classica e la cristiana. E quella donna ora andrà sotto terra e i0 andrò a cancellarla con la mia falce. Come posso infatti tagliare un capello dal suo capo agli dèi della terra ora votato? ! Nell’“‘opera dei pupi” siciliana, che tra i teatri per marionette è quello che conserva più antiche tradizioni e che rappresenta tuttora storie cavalleresche assai simili alla Mélusine medioevale, la morte

è ancora uno

scheletro

di legno armato

di falce.

Dedica molto tempo e molta attenzione al tagliare la testa ai peccatori; dopo di che la testa cade dalla scena con un gran baccano e rotola sino alla prima fila di platea. In una rappresentazione polacca sulla Natività, la morte replica ridendo alle invocazioni di pietà di re Erode e gli taglia la testa. Questa testa è fatta con una rapa e la morte la taglia con una vera

falce, come una spiga matura nei campi°° . 119

Divorare gli dei

La morte è impudente e sicura di sé solo di fronte ai più deboli. Nel prologo di Alcesti, Tanato, arrogante all’inizio, cambia presto tono quando Apollo, che l’ha sempre trattato con disprezzo, lo prende scherzosamente di mira con il suo arco. Apollo — Tu non temere. Ché se fai questione di giustizia, essa è dalla mia parte e ne ho di ragioni, e sono nobili.

Tanato — Dalla tua parte? E che ne fai dell’arco?

Tanato in Alcesti,

come

la morte

nella

(Alcesti, 38 sgg.) danza di morte me-

dioevale e poi nelle “moralità”, è egualitario. Non ha rispetto per la giovinezza, i meriti personali, le ricchezze o la condizione sociale. Tanato — Quando muoiono giovani, la parte ch’io ne traggo è più grande. Apollo — Anche se muore vecchia, il funerale sarà sontuoso.

Tanato — La tua legge, o Febo, fa il vantaggio dei ricchi.

(Alcesti, 95 sgg.)

In Everyman la morte si comporta praticamente nella stessa maniera. È’ ancora un’accanita sostenitrice dell’egualitarismo. Quando Ognuno cerca di corromperla, si sdegna: Ognuno, ciò non può essere in nessun modo. Non mi curo d’ oro, d’argento o di ricchezze, né di papa, imperatore, re, duca

o principe. Giacché se accettassi ricchi doni, tutto il mondo potrei avere. Al tutto contrario è il mio costume ?? In Alcesti, come

in tutto

il teatro europeo

successivo, la mor-

te è ingrata e spietata, completamente priva di chartis. In ogni

testo medioevale si parla della sua “bruttezza”. E’ potente, ma anche goffa e ridicola; assume arie di superiorità, ma è volgare e non molto astuta. Apollo deride apertamente Tanato: “Anche sapiente? E io non lo sapevo” (58). Kitto traduce spiritosamente: “Ma come? Sei anche tu un intellettuale? °°34 120

Alcesti velata

Cosa ancor più importante, Tanato, in questa prima fase, è un personaggio

comico.

Molti

studiosi

non

se ne sono

accorti.

Con un profondo rispetto per l’establishment vittoriano (in fondo, Tanato è un dio), ma con assoluta indifferenza per lo

stile teatrale

di Alcesti,

Alexander

J. Tate

scriveva:

“Non



può che rammaricarsi del fatto che due personaggi cosi austeri s’abbassino ai meschini giochi di parole e ai sofismi che Euripide qui ci preseènta”°5 , Apollo predice a Tanato che incontrerà un’altra volta un essere più forte di lui e sarà costretto a restituire le sue spoglie e ad andarsene come era venuto con le sue maniere ‘“nemiche agli uomini e abbominate dagli déèi” (62). Ma il prologo non si limita a preannunciare lo scioglimento; nella struttura impeccabile di Alcesti il suo stile e la sua forma teatrale sìi ripeteranno nell’epilogo. L’opera inizia con una grande risata. La scenetta nella quale Apollo finge di puntare l’arco contro Tanato che agita con arroganza una grossa spada assomiglia, per il suo

rozzo umorismo e per i gesti caricaturali, ad Aristofane. Nei testi drammatici greci non esistono didascalie, ma nell’epilogo ci sono due versi che sembrano quasi delle note di regia. Eracle — Non aver paura, tendi la mano, tocca la straniera.

Admeto — E sia! La tendo. È’ come se tagliassi il capo alla Gorgone.

(Alcesti, 1117 sgg.)

Il gesto doveva essere molto noto, essendoci pervenuto anche sui vasi greci’° . Poiché le Gorgoni uccidevano con lo sguardo, Perseo

volse la testa

altrove

e levò lo scudo; su di esso vedeva

l’immagine riflessa di Medea e poté cosi colpirla con la spada. T gesti d’Admeto in questo particolare momento sono talmente fuorì luogo che paiono venire da un’altra opera. Alcesti finisce come è cominciata: con una grande risata. Ma quando Admeto riconosce nella straniera sua moglie, la risata cessa. Sarebbe ora sbagliata come lo erano poco prima i gesti di Ad121

Divorare gli dei

meto. Tutto del resto è sbagliato. Noi non ci spaventiamo perché non possiamo credere nel miracolo e perché non c’è nessuno su cui impietosircti. 1Il finale è sgradevole per tre ragioni: il sacrificio di Alcesti, l’ospitalità di Admeto e il miracolo appena avvenuto sono stati oggetto di derisione. Kurt von Fritz lo definisce “dolce-amaro”,

John

R. Wilson, più icasticamente, dice che “Admeto

e

gli altri possono avere la botte piena e la moglie ubriaca”°”, Il modo nel quale gli specialisti in letterature classiche affrontano l’enigma di Alcesti ricorda da vicino le insistenti domande di Eracle e le risposte evasive di Admeto quando l’ospite si presenta al palazzo di Fere nel momento più inopportuno. Eracle — Non sarà morta Alcesti! Admeto — Due discorsi io posso fare su di lei. Eracle — Di lei morta, vuoi dire?

O è ancora viva?

Admeto — E° e non è più, e questo è il mio dolore. {...] Eracle — L’è e il nonè si è soliti distinguerli.

(Alcestì, 518 sgg. e 528)

Îl semidio ha sicuramente ragione. Alla fine bisogna pur rispondere alla domanda imbarazzante: Alcesti è realmente mor-

ta? Ed è realmente tornata?

Ma cosa significa “realmente”?

3. Anche il Don Giovanni di Molière supera sioni classiche e si è tentato di definirlo Nell’epilogo, il miscredente viene colpito gliato dal cielo e sotto di lui si spalanca la 122

i confini delle diviuna tragicommedia. da un fulmine scaterra. Il peccatore è

Alcesti velata

stato punito da dio, ma il miracolo è un trucco scenico: il tuono è prodotto da una macchina e Don Giovanni non sprofonda

sotto

terra,

ma

scende

lentamente

in una

botola. Alce-

sti, come Don Giovanni è sorprendentemente moderna per la sua mescolanza di stili. A volta lo sembra al punto che siamo tentati di definirla un’antitragedia. Ma è un’antitragedia pensata per gli strumenti di cui disponeva il teatro greco, ed è solo entro le convenzioni di questo teatro che si può capire e valutare l’apporto innovatore di Euripide. Alcesti — costruita come un dramma satiresco — consta di sei agoni. Per recitarla bastavano due attori. Îl primo, come risulta chiaramente dalla composizione delle scene, interpretava successivamente Apollo, Admeto

e il servo; il secondo Tanato,

l’ancella, Alcesti, Ferete ed Eracle. Nell’epilogo Admeto ed Eracle sono contemporaneamente in scena. Chi recitava allora la parte della bella straniera? Nel teatro greco la persona e la maschera sono una cosa sola. L’identificazione teatrale, cioè il segno della dramatis persona, è nella maschera e nel costume. Una volta sollevato il velo,

Admeto vede la maschera d’Alcesti. Ma nell’epilogo la maschera viene portata da una comparsa. Altro segno teatrale di un personaggio è la voce, benché nel teatro greco l’articolazione fosse con ogni probabilità artificiosa e gutturale come nel né giapponese e nell’opera cinese. Comunque la bella straniera rimane muta sino alla fine. A parte l’epilogo di Alcesti, non c’è in tutto il teatro greco un altro caso nel quale, almeno per quanto concerne le parti principali, la maschera di un personaggio venga portata da un altro

attore®® , La straniera è Alcesti perché porta la sua maschera, ma è Alcesti in un altro corpo. L’ambiguità dell’icona di questa seconda Alcesti muta è un altro degli enigmi dell’opera. Non sembra possibile rappresentare in un teatro moderno ’ ambiguità dell’Alcesti di Euripide. Se nell’epilogo compare Îa stessa attrice che interpretava la prima Alcesti, il finale non è 123

Divorare gli dei

più ambiguo. Se la seconda viene impersonata da un’altra attrice, sparisce la conturbante ambiguità della moglie risorta; l° opera può sembrare più moderna, ma è anche più piatta. Rappresentata alla maniera greca, da due attori mascherati, Alcesti può essere soltanto una ricostruzione e, come tutte le ricostru-

zioni archeologiche, una cosa morta. Ma nel teatro contemporaneo, dopo Mejerch’old, Antonin Artaud e Brecht, la maschera è di nuovo diventata un segno semantico. Mettiamo che Îa straniera portata dal semidio sia interpretata da una bella ragazza e che essa porti una maschera bianca con i lineamenti di Alcesti. Alcesti è tornata e non è tornata, la bella straniera è lei e non è let. Parlando di Alcesti, l’ancella all’inizio del dramma dice-

va: ‘“La puoi dire viva e che è morta anche” (141)°° , L’ambiguità è il cardine di Alcesti: il tessuto linguistico e la struttura teatrale sono a essa soggetti; l’azione è ambigua e si rievocano ironicamente 1 miti che negano la resurrezione. Ma cosa significa ambiguità? Nel rapporto tra significante e significato, la superficie del segno — la sua ‘““icona”, la sua “forma” — oppure il suo signifi-

cato, la sua sostanza, possono essere ambigui. La maschera di Alcesti è ambigua se portata da un attore diverso da quello che la portava prima, come quando, nella commedia dell’arte e nelle commedie di Shakespeare, un ragazzo fa la parte di una ragazza la quale si traveste da ragazzo. Ambiguo in maniera diversa — a livello di significato — è il tappeto rosso sul quale cammina Agamennone nell’Orestea. Questo tappeto è un

vero tappeto, tessuto di lana di pecora e colorato con succo di

porpora, ma nello stesso tempo è il segno del sangue che Agamennone ha fatto sgorgare e che dovrà ora versare a sua volta. Il percorso sul tappeto rosso è un sacrificio blasfemo che offende gli dèi, e diventa contemporaneamente una reale cerimonia sacrificale non appena il celebrante sì trasforma in vittima. Il tappeto rosso di Agamennone è il più vivo e il più ambiguo dei segni teatrali. 124

Alcesti velata

L’Alcesti di Furipide sembra contenere ambedue i tipi di ambiguità, Sembra a volte l’uniéo capolavoro manieristico di tutta la storia del teatro. Come il quadro di un maestro italiano nel quale il ritratto di un cavaliere o di una dama, quando ci avviciniamo alla tela, si rivela all’improvviso un curioso ammasso

di mele, pere e uva o un gruppo, altrettanto ammassa-

to, ma disegnato con precisione, di navi con le vele spiegate, i cannoni e i mortai. ' La tragedia e la commedia sono strutture significanti. Una tragedia che potrebbe anche essere interpretata e rappresentata come commedia e una commedia che potrebbe essere interpretata e rappresentata

tragicamente, hanno

entrambe

guesta am-

biguità interna in termini di struttura. Nel prologo dell’Anfitrione di Plauto, Mercurio cosf si rivolge al pubblico: Come?

Avete corrugato la fronte al sentir dire che questa saraà

una tragedia? Sono un dio e, se volete, io la trasformo subito da tragedia in commedia, senza bisogno di toccare un solo verso., Ne farò una miscela: sarà una tragicommedia.

(Anfitrione, 52 sgg.)“°

In questo brano, nel quale s’impiega per la prima volta, per quanto se ne sappia, la parola “tragicommedia”, coesistono due definizioni diverse. La prima è che la tragedia può essere trasformata in commedia senza cambiare neanche una parola. Mercurio è un dio, e per di più il dio dell’ingegnosità, e quindi conosce

ovviamente

le operazioni

strutturali:

gli hbasta mutare

il codice per attribuire un diverso ‘“significato” al “significante”

(icona).

Nella

seconda definizione,

“Faciam

ut conmista

sitt tragicomoedia”, è fondamentale la mescolanza e l’unione di dèi, re e schiavi in un’unica storia.

Dovremmo forse seguire Mercurio e la sua prima sorprendente

definizione e tentare una lettura conclusiva di Alcesti veden-

dola prima come tragedia, poi come commedia. À parte Le baccanti (ed esiste una notevole affinità, anche se non è facile indicarla con precisione, tra il primo e l’ultimo dei capolavori 125

Divorare gli dei

di Euripide), Alcesti è il solo dramma riconoscere

la struttura

greco

del rituale che, secondo

in cui si possa la secuola

an-

tropologica di Cambridge (Jane Harrison, Gilbert Murray), è anche la “forma profonda” della tragedia“! . I sei agoni di AL cesti corrispondono quasi esattamente ai sei elementi successivi di questa “metaforma”: il primo, una contesa tra un dio e il suo avversario (Apollo e Tanato nel prologo); il secondo, pathos o sofferenza (l’addio di Alcesti al letto nuziale, aì figli e ad Admeto e il suò terrore quando sente che Ade la chiama); il terzo, un messaggero annunciatore di morte (il vecchio servo che comunica a Eracle la dolorosa notizia); il quarto, il treno (il lamento di Admeto al ritorno dal funerale); il quinto, l’anagnorisis o capovolgimento (il riconoscimento di Alcesti nella figura della straniera); il sesto, la teofania (il ritorno a casa della moglie risorta). T.S. Eliot, che subi forse l’influenza degli antropologi di Cambridge, interpretava cosi Alcesti in The Cocktail Party:

[...] è cosa molto seria portare alcuno qua dalla morte [...] Ah, ma moriamo uno all’altro ogni giorno“” .

Ma nell’Alcesti di Euripide uno soltanto dei sei elementi della “forma rituale’’ — la sofferenza e la morte dell’eroina — conserva la sua serietà tragica. Îl lamento di Admeto è trattato con ironia, e altri due — l’agone di Apollo con Tanato e l’episodio nel quale il semidio ubriaco smaltisce la sbornia — sono palesemente farseschi. Inoltre il prezzo del riconoscimento è il tradimento e l’epilogo è soltanto una teofania beffarda. La tragedia si muta in commedia e l’ultima scena ha di nuovo il tono e i gesti del dramma satiresco. Îl paradosso di Maurice Regnault si applica ad Alcesti come a nessun altro dramma: “La commedia nasce dall’assenza della tragedia in un mondo

tragico ”.

_

Mercurio ha già trasformato Alcesti, Leggiamola dunque come commedia. Seguendo Northrop Frye, possiamo mostrare il suo 126

Alcesti velata

modello come la successione di tre periodi: il momento del lutto e della separazione; il momento della confusione e della temporanea perdita d’identità, “rappresentato di solito con il trito espediente del travestimento impenetrabile”“3 ; e infine, il momento del riconoscimento nel quale gli eroi trovano se stessi e il loro nuovo posto nella rinata comunità. “Man mano che l’eroe s’avvicina all’eroina e l’opposizione viene superata”, scerive ancora Frye in The Argument of Comedy, “tutti i ben pensanti si schierano dalla sua parte. Si forma cosi sulla scena una nuova unità sociale, e il momento che cristallizza questa unità sociale è il momento dello scioglimento comico”44 , Nella prima fase, che in termini liturgici corrisponde alla Quaresima, gli amanti sono separati e l’eroe e l’eroina subiscono una morte “rituale”. Questa, fase è spesso dominata da leggi crudeli, come la condizione inumana che impone ad Admeto

di trovarsi un sostituto disposto a morire per lui, Nella secon-

da fase, quella dell’identità perduta, non è soltanto Alcesti ad aver assunto

il “travestimento

impenetrabile’’;

anche Admeto,

tornato nella casa deserta dopo il funerale, ha perduto la sua posizione sociale, e quindi se stesso. La terza fase, quella della riconciliazione e del riprnistino, coincide, nella commedia,

con

il ritrovarsi degli amanti e si conclude con le nozze. Nella cerimonia nuziale greca, il momento più solenne era quello in cui la sposa sollevava il suo velo, presenti il futuro marito e gli invitati. Questo momento, l’anakalypteria, è rappresentato in modo particolarmente espressivo nelle sculture delle metope di Selinunte: la sposa si toglie il velo con un gesto cerimonioso.

Nell’epilogo di Alcesti, Eracle porta in scena una donna velata. Poi il velo viene sollevato. Ma da chi? A questo punto Admeto tiene la straniera per mano, ma volge la testa altrove come per evitare la vista di un’orribile Gorgone. È’ molto improbabile che avrebbe osato scoprirla. Si presume di solito che sia Eracle a sollevare il velo. Ma se questa scena è davvero una 127

Divorare gli dei

ripetizione della cerimonia dell’anakalypteria, è la bella straniera che deve togliersi il velo“*. In tal modo Alcesti sposa di nuovo Admeto, ma come sua seconda moglie. L’error in persona, nel quale la moglie sostituisce l’amante, diverrà in seguito un'’abituale situazione di commedia.

L’errore

di Admeto verrà ripetuto dal conte d’Almaviva nel Matrimonio di Figaro. Ma in Alcesti, in questa situazione di commedia, c’è un elemento

di terrore. È’il momento

in cui la risata

sì spegne sulle nostre labbra. È a esso non segue né la riconciliazione né il rinnovamento. Îl matrimonio è infetto. Leggendo

Alcesti come una commedia, l’anagnorisis, ìl riconoscimento, è

quasi tragico. Nel prologo Tanato viene in cerca di Alcesti; nell’epilogo Alcesti, risorta dalla tomba, viene in cerca di Admeto. Si ripresenta in Alcesti il tema di Protesilao tornato a prendere Laodamia. La muta donna velata è l’immagine della morte. Ora soltanto possiamo capire perché Admeto era terrorizzato quando prese per mano la straniera. La sua mano era gelata*6. Letta come tragedia, Alcesti si chiude con una beffarda resurrezione; letta come commedia, con un matrimonio mortale. ‘“Non ho mai capito, per parte mia, la differenza che si ravvisa

tra il comico e il tragico”, serive lenesco in Expérience du thédtre. “Îl comico [...] mi sembra più disperato del tragico. H comico non offre vie d’uscita’’“7 . Il velo che viene sollevato è un’allegoria della verità. “Nl tempo che svela la verità” era, seguendo l’antico modello, un tema frequente della scultura e della pittura nel rinascimento e nel barocco, oltre che un adagio retorico: “[...] smascherare la fal-

sitàe portare Îa verità alla luce”, scrive Shakespeare (Il ratto di Lucrezia, 940). Anche in Alcesti il velo che si solleva è il momento della verità. Ma il gesto è ambiguo. Si è svelata la straniera, ma è rimasta velata l’Alcesti.

128

Note

1.

Tuttc

le citazioni

da Alcesti

sono

Il teatro greco. Tutte le tragedie, cit.

nella traduzione

di Carlo Diano in

2. Euripides’ Alcestis, a cura e con introduzione e note di A.M. Dale, New York, Oxford University Press, 1954. 3. John Jones, On Aristotle and Greek Tragedy, New York, Oxford University Press, 1962, p. 25.

4. Bernard

M.W.

Knox,

‘“Euripideen Comedy”, in Alan Cheuse e Ri-

chard Koffler, The Raver Action: Essays in Honor of Francis Fergusson, New PBrunswick, Rutgers University Press, 1971, pp. 71 sgg. In questo.

lucido e acutissimo saggio, Knox

analizza Elena, Ifigenia in Tauride e

soprattutto Jone come commedie che anticipano direttamente Menandro

e Plauto. Val la pena paragonare il pavimento sporco di Alcesti con i

capelli sporchi dell’Elettra euripidea: “Guarda i miei capelli, la polvere ne ha fatto crosta, e cade a pezzi il mio peplo, guarda e dimmi se questo è degno della figlia di un re, di Agamennone” (184 sgg.). 5. Îl tempo e le circostanze del patto con la morte non sono importanti

per Éuripide. Eracle sa da qualche tempo della decisione di Alcesti. Nelle

versioni del mito che noi conosciamo (di Apollodoro e di altri) è successo tutto durante la notte di nozze. Admeto ha trascurato di offrire un sacrificio ad Artemide; la dea gli predice una morte imminente; Apollo

fa un patto con le Moire e Alcesti accetta di morire per il marito il gior-

no fissato. Cfr. D.J. Conacher, Euripidean Drama: Myth, Theme and Structure, Toronto, University of Toronto Press, 1967, pp. 327 sgg. 6. “{...] un uomo egocentrico, codardo e miope”: Wesley Smith, The lIronic Structure in Alcestis, “The Phoenix”, XIV, 1960, p. 129; “Admeto si comporta, senza dubbio, come un mascalzone’”: Thomas G. Rosenmeyer, The Masks of Tragedy: Essays on Six Greek Dramas, Austin, University of Texas Press, 1963, p. 238. La sola difesa moderna di Ad-

meto

è nel saggio di Anne Pippin Burnett, The Virtues of Admetus,

‘““Classical Philology”’, LX, 1965, pp. 240-55.

7. Nella prefazione a Iphigénie in Thédtre complet de Racine, a cura di

Maurice Rat, Parigi, Classigues Garnier, 1960, p. 477. Racine voleva scrivere una sua Alcesti, e forse anche la cominciò e distrusse poi il testo. E”

tuttavia interessante che in questa prefazione egli abbia difeso Admeto 129

Divorare gli dei

contro Pierre Perrault, il quale lo considerava non soltanto un codardo

ma uno che aspettava con impazienza la morte della moglie. Per Racine,

Admeto era un eroe tragico. 8. Smith, op. cit., p. 130., Contiene anche pagine di grande interesse sul tema del tradimento in quest’opera.

9. Ibid., p. 131.

10. Humphrey D.F. Kitto, Greek

Tragedy, I1 ed., New York, Barnes &

Noble, 1961, p. 31. 11. Rosenmeyer, The Masks of Tragedy, p. 239.

12. Cfr. Smith, The Ironic Structure in Alcestis, p. 156: “Gli spettatori

sono indotti ad aspettarsi che la restituzione di Alcesti debba dipendere da una dimostrazione di virtu da parte di Admeto. Ma con una bella

invenzione, Euripide fa s1 che la prova sia la restituzione stessa. Nel momento cruciale Admeto fallisce. Tende le mani alla cieca verso la sconosciuta e, nell’atto stesso con cui tradisce la moglie, la riottiene”. 13, A.W. Verrall, Euripides, the Rationalist, Cambridge, Cambridge University Press, 1895, pp. 120 sgg.

14. William Arrowsmith, “The Comedy of T.S. Eliot”, in English Stage Comedy, New York 1955, pp. 148 sgg.

15. Esiodo, Cataloghi, 90, in Hesiod, p. 213. Secondo le fonti più atten-

dibili, Asclepio era figlio di Apollo e di Coronide, e quindi nipote, non figlio, di Latona. ' 16. Trad. di Piero Pueci, in Platone, Opere complete, vol. HI, pp. 161

spgo

17g. 18. 19., 20.

.

.

Apollodoro, Biblioteca, 1, 9, 15. Kitto, Greek Tragedy, cit. p. 328. Graves, I miti greci, cit., p. 568. Richter, The Sculpture and Sculptors of the Greeks, p. 139.

21. Ciclope, 336 sgg. Cfr. Knox, “Euripidean Comedy”, cit., p. 74. 22. Eumenidi, 723 sgg. Trad. di Manara Valgimigli, in Îl teatro greco.

Tutte le tragedie, cit. 23. Ivan M. Linforth, The Art of Orpheus, Berkeley, University of California Press, 1941, pp. 16 sgg., avanza l’ipotesi che esistesse una versione

del mito nella quale Orfeo ricuperava Euridice. Le prove sono assai fragi-

li e si basano su un'interpretazione piuttosto discutibile del famoso bas-

sorilievo di Napoli che raffigura Érmete, Euridice e Orfeo. Comunque il paragone, ironico, che Admeto fa tra se stesso e Orfeo in Alcesti non può in alcun modo essere considerato una conferma di questa versione ottimistica del mito,

24, “[...] coloro che tornarono di laggiù. Alcesti e Protesilao di l'essa130

Alcesti velata

glia, Teseo figliolo di Egeo e l’Odisseo di Omero”. Luciano, “Del lutto”, 5, in ] dialoghi e gli epigrammi, cit., p. 712.

25. Nauck, Tragoediae di Euripide, 1902, HI. 26. 27. 28. 29.

“Dialoghi dei morti””, 23, in I dialoghi e gli epigrammi, cit., p. 144, Kitto, Greek Tragedy, cit., p. 322. Smith, “The Ironic Structure in Alcestis”’, cit., p. 140. Cfr. Conacher, Euripidean Drama, p. 333: “Nella narrativa popolare,

nessuna

esce mai vincitore dalla lotta con la morte; e la conclusione mo-

ralistica e un po’ troppo sentimentale scelta da Platone non corrisponde al sinistro personaggio di Tanato nel dramma di Euripide”’. Cfr. anche' Albin Lesky, Alkestis, der Myikus und das Drama, SB Wiener Ak., ph.-hist. KI, CCHI, 2, Vienna 1925.

30. Le più antiche fonti iconografiche risalgono all’inizio dell’XI secolo. Cfr. Erwin Panofsky, Studies in Iconology, pp. 77 e 115. Anche uno scrittore relativamente recente come Lessing, in Come gli antichi rappre-

sentavano la morte (1769), contrappone la morte dolce, indolore e dignitosa dell’antichità con le immagini che ne furono date nel medioevo e nel periodo barocco. Schiller, seguendo Lessing, scrisse nel suo poema

famoso: Poi.nessun

macabro spettro al moribondo

orripilante apparve. Ma l’ultimo respiro

fu preso con un bacio da labbra appena tremule, una fiaccola spenta dal dio della morte. Cir. Eliza Marian Butler, The Tyranny of Greece over Germany, Iì ed., Boston, Beacon, 1958, p. 70. La visione winckelmanniana di una Grecia monumentale, conosciuta soltanto. attraverso calchi in gesso, nascondeva il vero Euripide. Dimenticarono tutti il grottesco Tanato bevitore di sangue di Alcesti.

o

31. “Alcestis meza od $mierci zastapila”, 73 sgg., in Jan Kochanowski, Dziela Polskie, vol. ÎII, Varsavia 1953, p. 200. Purtroppo Kochanowski tradusse soltanto il prologo.

32. L’autore vuole esprimere i propri sinceri ringraziamenti a Zbigniew Raszewski per le informazioni sulla morte nel teatro religioso. 33. La chiamata di ognuno, trad. di Stanislaus Joyce, in Teatro religioso

dal Medio Evo fuori d’Italia, a cura di Gianfranco Contini, Milano, Bompiani, 1949.

34. Kitto, Greek Tragedy, cit., p. 315.

35. Alexander J. Tate, The Alcestis of Euripides, Londra 1903, p. 54. 36. “Pan pittore”*, tav. 5 in Beazley, Attic Black-Figure. Cfr. anche il commento di A.M. Dale al verso 1118 nella sua citata edizione di Alce131

Divorare gli dei

sti, oltre a Euripide, Troiane, 564, e Reso, 606. Pure l’interpretazione freudiana della “testa della Gorgone” può aiutarci a comprendere questa scena; sembra corrispondere in misura sorprendente alla situazione di

Admeto: “Il terrore della Medusa è quindi paura della castrazione, paura legata alla vista di qualcosa [...] 1 capelli della testa della Medusa sono

spesso rappresentati, nelle opere d’arte, sotto forma di serpenti; e quest’ ultimi, ancora una volta, derivano dal complesso di castrazione. È’ notevole che, per quanto spaventevoli essi siano di per se stessi, in effetti servono tuttavia a calmare l’orrore, poiché sostituiscono il pene la cui

assenza è causa della paura [...] La vista della Medusa terrorizza lo spettatore, lo pietrifica [...]”” (da The Standard Edition al of S. Freud, Lon-

dra, Hogarth Press, 1964, p. 273).

37. Kurt von Fritz, “The Happy Ending of Alkestis”, in £uripides’ AL

cestis: Collection of Critical Essays, a cura di John R. Wilson, Englewood-Cliffs, Prentice-Hall, 1968, p. 81. Vedi anche l’introduzione di John R.. Wilson, p. 11. 38. Euripides’ Alcestis, a cura di Dale, nota al v. 1146: “L’Alcesti muta

era ovviamente interpretata da una comparsa, perché il suo interprete

precedente era adesso in scena come Éracle; ma non è necessario insiste-

re sulla perfetta funzionalità delle ragioni qui inventate e sul vantaggio

tratto, in termini drammatici, poetici e di buon gusto, da questa limitazione”, . |

39. Pippin Burnett, “The Virtues of Admetus”, cit., p. 250.

40. Anfitrione, trad. di Carlo Carena, in Plauto, Le commedie,

Torino,

Einaudi, 1975, pp. 10-11. È’ interessante osservare che Hegel, nell’Esteti-

ca, riporta questa stessa citazione dopo aver parlato di Alcesti.

41. Vedi più avanti la nota 38 al saggio sulle Baccanti.

42. Eliot, The Cocktail Party, trad. di Salvatore Rosati, in Teatro, Milano, Bompiani, 1958, pp. 75-6. 43. Northrop Frye, A Natural Perspective: The Development of Shake—

spearean Comedy and Romance, New York, Harcourt, 1965, pp. 76 sgg. 44. Northrop Frye, “The Argument of Comedy”, in English Institutional Essays, a cura di D.A. Robertson jr, New York, Columbia University

Press, 1944, p. 59.

A5. L’autore vuole esprimere i propri ringraziamenti più sinceri a Ber-

nard M.W. Knox che gli ha suggerito la possibilità di un collegamento tra

la scena in cui Alcesti si toglie il velo e la cerimonia dell’anakalypteria. L’interpretazione di questa scena segue, quasi letteralmente, la lettera di Knox all’autore.

46. E° anche possibile un’interpretazione freudiana. Alcesti può essere 132

Alcesti velata

un ‘“sogno” nel quale la stessa Alcesti realizza i propri desideri inconsci. Infelice nella sua vita coniugale con Admeto, lo vorrebbe morto. Ma re-

prime questo suo desiderio. Sogna cosi di essersi sacrificata per Admeto

sino a morire per lui. Dopo di che torna dalla tomba in un “travestimento impenetrabile”” e lo risposa come una ragazza. Ma questo matrimo-

nio-tradimento è la morte di Admeto. Assomiglierebbe, sul piano drammatico come su quello psicoanalitico, al ritorno di Donna Elvira in Don

Giovanni, anche lei velata, come messaggera di morte. Nel più antico Îi-

bro dei sogni greco che ci sia rimasto, scritto da Artemidoro nel II secolo a.C., troviamo scritto (cito da Rosenmeyer, The Masks of Tragedy, p. 246): “Un matrimonio e una morte hanno il medesimo significato, per-

ché le cose che li accompagnano sono le medesime”. È’ strano che anche

Nietzsche, in La nascita della tragedia, interpretando Alcesti tormata come una maschera di Dioniso, la veda come un’immagine di morte: Figuriamoci Admeto in preda al profondo sentimento della sposa Alcesti, troppo precocemente perduta, consumarsi nel rievocarla in ispirito; quando all’improvviso gli si fa innanzi una figura di donna che ha la stessa statura e lo stesso portamento: figuriamoci il suo tremito repentino e la sua perplessità, l’impetuoso confronto e la sua istintiva persuasione; e abbiamo così qualcosa di analogo all’animo con cui lo spettatore, dionisiacamente eccitato, vedeva comparire sulla scena il dio, con le passioni del quale era già divenuto tutt’uno. Egli involontariamente trasferiva su quella. figura mascherata l’immagine del dio che, col suo incanto magico, gli teneva l’anima tutta tremante, e risolveva, per così dire, in un'irrealtà immaginativa la sua realtà. Trad. di E. Ruta, riveduta da Paolo Chiarini, Bari, Laterza, 1967, p. 91. 47. Eugène lonesco, Note e contronote, trad. di Gian Renzo Morteo,

Torino, Einaudi, 1965, p. 30.

133

“Dov’è adesso quel famoso Eracle? ”

1. Le facce di Eracle

Nell’X1 libro dell’Odissea, in letteratura il primo viaggio nella terra dei morti, l’episodio più stupefacente è l’incontro fra Odisseo ed Eracle. Tutti i defunti — comuni mortali come la madre di Odisseo, eroi come

Achille .e Aiace,

assassini e vitti-

me, canaglie e amanti terrene di Zeus — sono ombre confinate nell’Ade per l’eternità. Soltanto Eracle fa caso a sé, risiedendo contemporaneamente al verticee nel fondo del cosmo greco, sull’Olimpo un immortale in compagnia degl dèi, nell’Ade un

fantasma. Odisseo, vedendolo, non nasconde il suo stupore:

E poi conobbi la grande forza d’Eracle,

ma la parvenza sola; lui tra i numi immortali

gode il banchetto, possiede Ebe caviglia bella, figlia del grande Zeus e d’Era sandali d’oro. (Odissea, XI, 601 sgg.)

Eracle è il solo uomo che sia divenuto immortale, ma ai tempi

omerici era difficile accettare la sua deificazione. Anche se la

strana teologia dell’Eracle diviso, quale appare nell’Odissea, fosse un’interpolazione successiva, è comunque importante che per Omero la vita terrena di Eracle si sia conclusa nella desolazione. L’inferno omerico assomiglia per un aspetto a tutti gli inferni successivi:

non

vi esiste tempo, o ne esiste solo uno,

plusquam perfectum. Per i vivi, i morti sono fissi e immobili, come un’impronta nel guscio calcificato di un insetto antidiluviano. Ma per i morti, nell’Ade di Omero, l’intero passato è il loro presente: vivono in stasis, in se stessi e insieme fuori di se stessi; possono anche vedere le loro vite. Nel passato raggelato 134

“Dov'’è adesso quel famoso Eracle?”

dell’Ade, tutti gli onori e le glorie terrene sono vanità. Achille, confortato da Odisseo con la notizia che la Grecia tutta lo ve-nera come un dio, risponde: Non lodarmi la morte, splendido Odisseo. Vorrei esere bifolco, servire un padrone, un diseredato

che non avesse

ricchezza,

piuttosto che dominare su tutte l’ombre consunte. (Odissea, X1, 487 sgg.)

Nell’Ade di Omero i morti hanno conservato il proprio corpo, gli strumenti che adoperavano, le armature e i vestiti che indossavano.

Sono duplicati di se stessi, come le immagini di un

museo di statue di cera. In questo cimitero omerico degli eroi, Eracle è l’immagine di un potere inutile e sprecato. S’aggira per l’Ade come un pazzo in manicomio, dominato dalla passione di uccidere. Porta l’arco, tende la freccia, cerca qualcuno da ammazzare. Ma ammazzare i morti è impossibile. Intorno a lui stridio di morti come d’uccelli dappertutto fuggenti; simili a notte buta, nudo

l’arco teneva,

e il dardo sul nervo,.

terribilmente girando gli occhi, sempre pronto a scoccare. (Odissea, XI, 605 sgg.)

Nel breve colloquio con Odisseo, Eracle ricorda la più ardua delle sue fatiche, quando portò Cerbero fuori dell’Ade. Ma ora domatore e cane da guardia sono nell’Ade per sempre La parola greca ponos ha due significati, ‘“fatica” e “sofferenza”!. Scendere all’inferno quando si è ancora vivi, è sofferenza inutile se poi si deve morire: [...}a un uomo

molto

inferiore

dovevo servire, e m’ordinava penose fatiche. Un giorno quaggiù mi mandò a prendergli il Cane; niente pensava sarebbe mai stato più grave di questa fatica! ma glielo portai, lo tirai fuori dell’Ade; Ermete mi fu guida, e Atena occhio azzurro. (Odissea, XI, 621 sgg.) 135

Divorare gli dei

A Omero interessano i momenti di scoramento.di Eracle, ‘‘sfinito [...] dalle fatiche d’Euristeo” (IHiade, VIHI, 363). Eracle

alle porte dell’inferno urla a squarciagola, e Zeus deve affret-

tarsi a mandare Atena in suo aiuto. Hl divino Eracle è per Zeus

motivo di “un dolore incessante” (HMiade, XV, 24). I progetti

divini vengono sventati; Zeus, ingannato, deve stare in guardia

mentre l’amatissimo figlio, anziché regnare “su tutti 1 vicini”, è costretto a “soffrire indegno travaglio sotto le prove di Euristeo” (IHiade, XIX, 133). Per Omero, Eracle è un eroe fallito; la sua potenza è troppo.

debole o troppo forte: “sciagurato assassino, che non tremava

di compiere delitti” (Iiade, V, 403). E questo sinistro Eracle, eroe delle fatiche più sgradevoli, che tutto distrugge intorno a sé e viene a sua volta distrutto dalla propria forza, per Omero

è un personaggio tragico. Non è un caso che Achille citì l° esempio di Eracle, quando Tetide cerca dìi dissuaderlo dal tor-

nare alla guerra e gli predice che pagherà la gloria con la morte:

[...] la Chera io pure l’accoglierò, quando Zeus vorrà comprierla, e gli altri numi immortali.

Nemmeno la forza d’Eracle poté sfuggire la Chera, eppure era carissimo al sire Zeus Cronide; ma lo domò il destino [...]

(Iliade, XVIII, 115 sgg.) Anche Eracle, il più forte tra gli uomini, dovette morire. Era

il figlio amatissimo di dio, ma eiò non lo salvò dalla distruzione: ‘“Pianto senza mai fine avevo”,

dice

a Odisseo

nell’Ade

(Odissea, S1, 620). Nella Teogonia di Esiodo, Eracle ripulisce la terra dai mostri. L’elenco è monotono: uccide il gigante tricorpore Gerione (289); uccide l’idra di Lerna “con la spada spietata” (317); e uccide l’aquila “dal fiato lungo” che divorava il “fegato immortale” di Prometeo (523)?. Ma la Teogontia si conclude con un’apoteosi universale, con la concordia tra cielo e terra e con 136

“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

un lungo elenco di dèi e dee che abbracciano affettuosamente i loro amanti terreni. I figli di Zeus salgono sull’Olimpo e anche Eracle viene divinizzato. “Lui felice. Perché ha compiuto la sua grande opera e vive fra gli dèi immortali tutti 1 suoi giorni,

senza

preoccupazioni

e senza

invecchiare”

(Teogonia,

953 sgg.). Ma l’immagine di Eracle è piena di contraddizioni. Nei Cataloghi appare ancora come un assassino: “Uecise i nobilissimi figli -deî forte Neleo, undici di loro”. La sua vita si chiude disastrosamente. “Essa {Deianira] fece una cosa terribile [...] la veste avvelenata che apportava nera sciagura [...}”? Termina qui, bruscamente, il manoscritto ritrovato. La contrapposizione drammatica tra distruzione e apoteosi, tra

la vita in cui dominano sofferenze e atrocità e l’eterna beatitudine

del

delle

belle

cielo,

è soprattutto

evidente

nell’inno

omerico

A

Eracle cuor di leone: lo voglio cantare Eracle, il figlio di Zeus e di gran lunga il più possente uomo della terra. Alemena lo partori a Tebe, la città danze, dopo

che il figlio di Zeus, avvolto in cupe

nubi, si fu giaciuto con lei. Vagava un tempo per tratti inesplorati di terra e di mare per ordine di re Euristeo e compi molte

imprese

violente

e molto

sopportò,

ma ora vive felice

nella gloriosa casa dell’Olimpo nevoso e ha come moglie Ebe dalla bella caviglia. Ave, o signore, figlio di Zeus! Concedimi successo e prosperità.

Il mito di Eracle rimase scisso alla fine del periodo classico e non venne più ricomposto nella sua interezza. Il tardo medioevo e il rinascimento riscoprono le sue molte facce. Mille anni dopo l’Ercole dei bassorilievi romani, che doma il cinghiale o l’idra, egli diventa il modello di san Michele e di san Giorgio che uccidono il drago“. Eracle il salvatore, che ha ripulito la terra dai mostri saliti dagli inferi nei primi giorni della creazione, assomiglia sorprendentemente agli arcangeli che assaltano

le porte dell’inferno. I miti eraclei vengono incorporati nella

Bibbia: l’Eracle allegorico rappresenta Davide e Sansone. Ver-. 137

Divorare gli dei

so la fine del rinascimento, quando, sotto l’influenza del neoplatonismo, i miti greci vengono adattati al simbolismo cristiano, Eracle, che scese nell’Ade e ne tornò vivo, diventa un’im-

magine di Cristo. Cristo viene addirittura chiamato “l’Ercole cristiano”. În pittura Ercole viene raffigurato pressappoco co-

me Cristoforo, il gigante che portò Gesù bambino di là da un

fiume. Anche la filosofia lo cristianizza. Per i neoplatonici del circolo di Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, impersonava

la virtus heroica, il potere dello spirito che soggioga la bestialità della natura, doma le passioni e rinuncia al piacere. Persino la clava di Ercole divenne un simbolo di ragione e di moderazione come nell’Iconologia di Cesare Ripa (1593)°. Dopo tutto era fatta di legno d’ulivo. , Nella repubblica fiorentina, Ercole domava non soltanto 1 mostri, ma i tiranni. E, dopo il rinascimento, i primi romantici fecero proprio questo Ercole. L’eroe che abbatté l’aquila nutrita col fegato di Prometeo,

divenne a sua volta prometeico.

Adam Mickiewiez nella sua Ode alla giovinezza (1820), seritta nello spirito di Schiller, diceva: Infante nella sua culla tagliò la testa all’Idra, questo giovane strangolerà centauri, strapperà vittime all’inferno, andrà in cielo per ottenere allori! ® L’Ercole romantico non guida il carceriere ma i prigionieri, e li porta fuori dall’inferno ad assaltare i cieli. Ma anche la tradizione postelassica non dimentica mai l’Ercole ‘“nero”, insieme carnefice e vittima. Questo eroe del potere distruttivo è l’Ercole furens. Ippocrate, che fu il primo, in Le malattie femminili, a descrivere particolareggiatamente e con esattezza 1 sintomi dell’epilessia, la chiama ‘“il morbo erculeo”. Il termine ricompare nei dizionari e nelle enciclopedie rinascimentali e diventa popolare: “Perché tutti gli uomini che eccellono nella filosofia, nella poesia o nelle arti sono melanconici, e alcuni in

misura tale da essere colpiti dalle malattie derivanti dalla nera 138

“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

bile, come attesta, tra quelle degli eroi, la storia di Eracle? Eracle infatti sembra avere avuto questa natura, e perciò gli antichi chiamarono in suo onore l’epilessia ’malattia sacra‘”?. Nel medioevo, l’epilessia era considerata sia uno stigma, sia un dono profetico. Contrassegnava gli eletti del diavolo o di dio. Nel periodo rinascimentale, quando all’espressione ‘‘sacra follia” si attribuiva un significato vicino a quello dei neoplatonici, erano i ‘sintomi fisici dell’epilessia a suscitare il maggiore interesse. La melanconia era uno dei quattro umori. Îl “melanconico estatico” nel quale ardeva la bile nera, divenne l’eroe

della ‘“tragedia di vendetta” elisabettiana. Il vendicatore nerosi paragonava spesso a Ercole®.

Nello splendido sincretismo shakespeariano sono rappresentate tutte le facce di Ercole. Quando, nel Sogno di una notte di mezza

estate, Quince raduna la sua compagnia

di zotici e co-

mincia a distribuire le parti, Bottom vorrebbe soprattutto interpretare la parte del tiranno comico che fracassa e distrugge tutto

quello che gli sta attorno:

“[...] però la mia vera voca-

zione è il tiranno. Vi rifaccio un Ercole che è una specialità. Mi ci vorrebbe nella parte un gatto da sbranare, da fare uno sconquasso” {I, 2, 22 sgg.)°. Nel Mercante di Venezia, Porzia paragona Bassanio, che per conquistare la sua mano deve scegliere lo serigno giusto, a Ercole il salvatore, che libera le vittime innocenti dalle grinfie dei mostri:

E quello procede èon non minore baldanza forse, ma con mol-

to più slancio amoroso del giovane Ercole quando mosse a liberare la vergine offerta da Troia, con grandi ululi, in olocau-

sto al mostro del mare. Ecco: io sono la vittima; e quelle gio-' vani donne, li in disparte, sono le donne di Dardano che, tutte in lacrime,

anch’io viva.

assistono

all’esito

del rito.

Va”’, Ercole.

Vivo

tu,

(Il mercante di Venezia, ÎII, 2, 52 sgg.) L’Antonio di Shakespeare, che porta sull’armatura una pelle di leone, si considera un discendente di Ercole, al quale è pari

139

Divorare gli dei

per valore e vigore. La notte precedente la battaglia che si concluderà con la sua disfatta, i soldati lo vedono aggirarsi come un Ercole per l’accampamento. Terzo soldato — Zitti, perdio! Che cosa vorrà dire? Secondo

soldato

ora lo abbandona.

— E’ il dio Ercole,

l’idolo di Antonio,

che

(Antonio e Cleopatra, IV, 3, 14 sgg.)

Antonio trova l’immagine di se stesso in Ercole dominatore.

Ma, nel momento della disperazione, quando Cleopatra lo abbandona e la disfatta s’avvicina, si paragona a un altro Ercole, che è forse la più straordinaria immagine shakespeariana del semidio. Ercole diventa cioè un modello di autodistruzione e nello stesso tempo distrugge il mondo, o almeno quella parte di esso che può essere distrutta. Antonio desidera morire come Ercole furens:

Mi avo, con gere

sento nella camicia di Nesso: insegnami tu, Ercole, mio la tua collera; voglio scagliare Lica ai corni della luna e queste mie mani esperte della clave pesantissima, disirugla mia sostanza semidivina.

Thomas

Heywood,

(Antonio e Cleopatra, IV, 12, 43 sgg.)

un contemporaneo

di Shakespeare, rico-

struisce la genealogia di Giulio Cesare sino a Ercole. Teseo

imitò Ercole, Achille Teseo, Alessandro Achille e Cesare Alessandro: “Vedere, come io ho visto, Ercole cacciare il cinghia-

le, abbattere il toro, domare la cerva, battersi con l’Îdra, ucecidere Gerione, ammazzare Diomede, ferire le Stinfalidi, stermi-

nare i centauri, strangolareil leone, strozzare il drago, trascinare Cerbero in catene e scrivere infine sulle sue alte Piramidi

Nihil ultra, oh, erano visioni tali da fare di un uomo un Ales-

sandro”!° , Ma anche in questo modello erculeo sono presenti due segni opposti: la grandezza e la debolezza. Il Giulio Cesare di Shakespeare, che pochi minuti prima della sua caduta sì paragonava all’Olimpo incrollabile e alla stella polare, soffriva di “mal caduco”, in altre parole di Herculanus morbus. 140

“Dov'’è adesso quel famoso Eracle?”

l rinascimento riscoprf questo Ercole in Seneca. Nelle due tragedie che Seneca gli dedica, Furens e Oetaeus, Ercole è soprattutto un tiranno che con le sue malefatte, le sue pose e la sua retorica sembra destare nel drammaturgo un particolare interesse. Le crisì di follia dell’omicida sono descritte con profonda competenza, come se Seneca ne avesse studiato il modello in un’autopsia. In Furens Ercole rotea gli occhi e danza come un isterico; in Oetaeus “riempie l’aria di urla spaventose’ (797)!!. Agli occhi di Deianira è uno stupratore le cui voglie

amorose

non

hanno

misura

né limite:

“Va

a cercare

prede d’amore: vergini da trascinare al suo talamo”. Ercole si vanta di aver liberato la specie umana dalla paura, ma semina

terrore intorno a sé. L’uomo

che ha assassinato la moglie e 1

figli, incolpa gli dèi dei propri delitti. Deianira si fa poche illusioni: “Cosi Alcide si sbarazza delle sue spose e questi sono i suoi ripudi, e non c’è modo di farlo apparire colpevole: è arrivato a far credere al mondo che la matrigna era la causa dei suoi delitti” (432 sgg.). Octavia, che è uno dei testi teatrali più curiosi dell’antichità e

la prima tragedia storica, assomiglia a tratti in maniera sorprendente alle Histories shakespeariane. 1 personaggi principali sono

Seneca

e Nerone.

H filosofo,

che

di Nerone

è stato 1l

precettore, lo mette in guardia contro la collera degli dèi, do-

vesse egli uccidere i senatori contrari al suo nuovo matrimonio. La risposta di Nerone è semplice:

Nerone — Sarei uno stolto ad aver paura degli dèi, to che ne creo. Seneca — Tanto più devi rispettarli, dato che ti è concesso anche questo.

Nerone — E’ la mia fortuna a permettermi tutto. (Octavia, 450 sgg.)}? Octavia, a lungo attribuita a Seneca, è stata evidentemente scritta quando entrambi i personaggi erano morti. La cosa più interessante è l’evidente somiglianza del Nerone di questo 141

Divorare gli dei

dramma con il mitologico Ercole senechiano. Nel prologo dell’Oetaeus, non avendo trovato sulla terra nessuno che gli sia

pari, egli chiede a Giove una delle costellazioni: “E intanto, padre, mi è ancora negato il cielo? [...] Tutti i mali che la

terra, il mare, il cielo e l’inferno possono generare, hanno ceduto di fronte a me” (12 sgg.). Questo Ercole, come 1 Cesari romani, è pronto a deificarsi e a penetrare di forza nell’Olimpo: “Prendimi per uno dei Giganti: non meno di loro, del resto, avrei potuto reclamare il cielo per me” (1303). Quasi tutti gli studiosi sostengono che in Seneca la retorica prende il posto dell’azione tragica. Ma proclamarsi' dio è sempre un atto retorico: di una retorica clamorosa, ma tuttavia tradizionale. Quando. Filippo mosse guerra ai persiani, Îsocrate

gli scrisse: “Una volta che avrai costretto i barbari a servire la Grecia [...] e chiesto al re dei re di obbedire ai tuoi ordini,

non ti resterà altro che diventare un dio”. Il primo dei greci che divenne un dio fu Alessandro, figlio di Filippo. L’opposizione alla divinizzazione di un sovrano nel periodo ellenistico è chiaramente espressa in Plutarco che cita la risposta dell’oracolo quando Alessandro a esso si rivolge per ottenere la massima consacrazione:

‘“Poiché

Alessandro

vuol

essere

un dio, }°

oracolo risponde, sia pure un dio”. Alessandro diventa cosi dio su richiesta. A Roma, il primo Augusto viene annoverato fra gli dèì per decisione del senato. “Deus nobis haec otia fecit”, scrive Virgilio (Egloghe, I, 6); Augusto che ayeva assicurato la pace fu divinizzato per questo' , ma la sua canonizzazione avvenne dopo la morte. Î Cesari successivi chiesero invece di essere divinizzati in vita. Domiziano voleva essere chiamato dominus ac deus noster. La retorica

dell’Ercole

senechiano

è la retorica

dei Cesari; il

Nerone storico non si limitava a identificarsi con dèi e semidei, fi interpretava persino in teatro. “Cantò anche”, scrive Svetonio, ‘“brani di tragedie, personificando eroi e dèi e anche eroine e dee, e servendosi di maschere che riproducevano le 142

“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

sue fattezze o quelle delle donne che in quel momento erano le sue amanti. Cantò tra il resto Il parto di Canace, Oreste matricida, Edipo cieco ed Ercole furioso”. Ercole doveva essere il suo personaggio prediletto, dal momento che Svetonio torna

a citarlo:

“Si afferma inoltre che fosse stato preparato

un leone che egli, standosene nudo in mezzo all’arena, in presenza del popolo, avrebbe dovuto uccidere a colpi di clava o soffocandolo nella stretta delle sue braccia” !,

Hercules

QOetaeus,

cosa

che

non

accade in Sofoele, si chiude

con un’apoteosi. Come nell’Odissea, Ercole viene diviso dopo la morte. Ma gli opposti sono assai diversi. Compare nell’epilogo sua madre, stringendosi al seno un’urna con le ceneri dell eroe. L’epitaffio che essa gli dedica sarà ripetuto da Shakespeare quasi parola per parola: Cosi poca cenere è quello che rimane di Ercole. Fino a questo,

a questo

enorme,

nulla, s°è rimpicciolito quel gigante!

o Sole, è svanita!

Che

mole

(1777 sgg.)

A questo punto le risponde dal cielo la voce di Ercole o, in caso di rappresentazione, compare in machina la sua ombra: ‘“Tutto ciò che v’era in me di mortale se l’è portato via il fuoco che ho soggiogato; la parte che era tua è stata data alle

fiamme; la parte che derivava da mio padre è stata assunta in

cielo” (1966 sgg.). Alcmena, che ha partorito il figlio di Giove, è la prefigurazione della Pietà, la madre del figlio che è asceso al cielo. Le immagini e la poetica fanno pensare a un mistero

cristiano:

le ceneri

restano

sulla terra

e l’anima

im-

mortale ritorna al padre, ma la vera opposizione è ancora stolca: vacuità e fama: ma quando verrà l’ora estrema al finir dei nostri di vi schiuderdà la gloria a dio la via.

(1487 sgg.)

L’epifania di Ercoleè profana. Alcmena si comporta come la 143

Divorare gli dei

madre

di Cesare:

sufficiente per te?

“Quale sepolcro, o figlio, quale tumulo

è

Tutto questo mondo sarà titolo di gloria

per te’’ (1826). La scissione postuma di Eracle nell’Odisseàa non poteva ovviamente sfuggire all’ironia di Luciano. Nei Dialoghi dei morti, Diogene è piuttosto stupito d’incontrare Eracle nell’Ade: “E’

proprio lui: l’arco, la clava, la pelle del leone, la persona, tut-

to d’Eracle. Ed è morto lui figliuolo di Zeus? vincitore, sei tu un morto?

Dimmi, o gran

Îo t’offrivo sacrifici sulla terra co-

me a un dio”!5 , Invano Eracle tenta di convincere Diogene di essere solo un’ ombra, perché il vero Eracle si gode la beatitudine eterna sull’ Olimpo. Diogene, implacabile, pensa che possa anche non essere cosi: “Ma bada che non sia il contrario, che tu sei Eracle e che l’ombra tua sposò Ebe fra gli dèi””. L’Eracle di Luciano, dopo la sua morte, è stato diviso in tre:

Diogene — Ora tu sei un’ombra incorporea; onde tu corri pertcolo d’aver fatto tre Eract.

Eracle — Come,

tre?

.

Diogene — Ecco qui: uno è in cielo, tu ombra fra noi, e il corpo che già diventò polvere sull’Oeta. Ma bada di trovarti un terzo padre per il corpo. Nella fredda passionalità della tragedia senechiana e nel beffardo

cabaret

intellettuale

di

Luciano,

il mito

di Eracle

viene

scisso definitivamente e completamente. Rimangono due metà dissimili, due Eracli differenti in luogo di un Eracle con due facce. Il mito era già scisso sin dagli inizi; ma il suo aspetto

più palese è proprio la scissione, il' viluppo dei contrasti: la sofferenza nelle fatiche, &l fallimento nella vittoria. Ha due

padri, un dio e un uomo; è luce e tenebre, tiranno e schiavo, figlicida e redentore, l’eroe più esaltato e più umiliato. Nelle speculazioni mistiche degli gnostici, quando la tradizione greca sì mescola all’ebraica, all’orientale e a quella dei cristiani primitivi, si citano tre grandi profeti, Mosè, Ercole e Gesùà. Ma 144

“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

Ercole è un profeta mancato, che sventa i piani di dio. Uecide gli angel ribelli, ma finisce ‘a sua volta vinto avendo scambiato la sua tunica con gquella della donna-serpente. I mostri nati da Gea e da Urano sono trasformati in angeli ribelli. Onfale diventa il serpente biblico. Ma anche l’Ercole cabalistico è un eroe della disfatta!° . Scisso il cosmo tra un sopra e un sotto, Ercole venne inviato per rimediare agli errori della prima genesi, ma

non

riùsci

a compiere

la sua missione.

1 mostri

si di-

mostrarono più forti e non avvenne la mediazione. Nell’immagine mistica di Eracle si ripresentano tutti i segni archetipi del mediatore tra cielo e inferno. Eracle è figlio di dio padre e di una mortale, scende all’inferno e dopo la morte sale al cielo. “Di norma”, serive Northrop Frye, “l’eroe tragico è in cima alla ruota della fortuna, a metà strada tra la società

umana sulla terra Adamo e Cristo mondo di libertà paesaggio umano

e qualcosa di più grande nei cieli. Prometeo, sono sospesi tra il cielo e la terra, tra un paradisiaca e un mondo di schiavità. Nel gli eroì tragici sono le punte più alte, che

diventano inevitabilmente 1i conduttori delle forze e delle ener-

gie vicine a loro, come grandi alberi che sono più facilmente colpiti dal fulmine che non mucchietti d’erba’”!7 . Frye non cita Eracle, forse perché nel teatro greco era soprattutto eroe di drammi satireschi e di commedie. L’Eracle dorico era rozzo, ma nelle leggende tessaliche egli appare come un eroe popolare. Per sedurre Alemena, sua madre, Zeus assume le sembianze del marito, Anfitrione, dopo averlo appositamente mandato alla guerra. Per godersela a letto, turba l’intero ordine naturale, fermando il sole e triplicando per l’occasione la lunghezza della notte. Tutti in questa storia vengono presi in giro: Anfitrione, Zeus e persino la pia e fedele Alemena; e da Plauto a Giraudoux!8 , il concepimento

di Eracle è stato uno

dei temi di commedia più duraturi. Neanche Kleist è riuscito a dare al suo Anfitrione un’impronta tragica. Nelle leggende tes-

saliche, come in Omero, la nascita di Eracle è un’interminabile 145

Divorare gli dei

commedia degli errori. La levatrice mandata da Era s’accovaccia a gambe incrociate davanti alla casa di Alemena, con i lembi della veste annodati, per ritardare l’arrivo sulla terra del figlio di Zeus. L’Eracle delle dodici fatiche appartiene quasi comple-

tamente alla commedia, da Aristofane a Plauto!”

e all’Ercole

e le stalle d’Augia di Diirrenmatt. Le ultime fatiche di Eracle furono spedizioni in paradiso e all’inferno. L’albero dai frutti d’oro era un dono di nozze del-

la madre terra a Era, che lo piantò nel suo celebre frutteto

all’estremità occidentale del mondo, dove la notte s’incontra con il giorno e Atlante porta sulle spalle la cupola celeste. OL tre il monte Atlante, passa uno degli assi verticali del cosmo. Il viaggio al vertice della terra è una prefigurazione dell’ascensione. Ma Eracle va in paradiso per rubare le mele d’oro, come

poi entra all’inferno per impadronirsi di Cerbero. L’eroe delle

due spedizioni, nelle quali Atlante viene ingannato e Ade feri-

to, è l’Eracle dei drammi satireschi e delle pitture vascolari, un gigante con la barba nera che agita freneticamente la clava, Aristofane ricorda nelle Rane il grande urlo che scosse tutto l’Ade: “Io, Eracle, il forte! ” I drammaìi satireschi e la comme-

(dia aristofanea deridono gli dèi, ed è forse per questo che il comico Eracle compare nelle situazioni archetipe del figlio di dio: dalla nascita ritardata e dai segni delle sue origini divine, al viaggio sulla sommità della terra e alla discesa all’inferno. Il tragico Eracle compare sulla scena greca dopo aver completato le sue dodici fatiche, al termine della vita e al punto più basso della condizione umana. Nelle Trachinie di Sofocle brucia vivo; nell’Eracle di Euripide si sveglia fra i cadaveri della moglie e dei figli. La mediazione sfocia nella distruzione totale. In Sofocle non c’è una parola che preannunci Ja sua apoteosi postuma. In Euripide Eracle rifiuta il suo ruolo di mediatore e rinuncia al padre divino. Îl mondo è lacerato da cima a fondo, ma il cielo non è il regno della “Hibertà paradisiaca” di cui parla Frye; e non c’è speranza né in terra né in cielo. H 146

“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

mondo

umano

possiamo

è immerso in una crudeltà impenetrabile che N

chiamare ““dèi”’, l’etere o l vuoto 20

In Filottete, Eracle compare per l’ultima volta ex machina per convincere il testardo Filottete a partire per Troia. In questa tragedia del rifiuto, l’Eracle della “gloria immortale” è già uno strumento della storia che deve essere compiuta. Ma la vera storia umana rivelata e predetta in Filottete è orribile e *sinistra.

“Con la tragedia il mito viene al suo contenuto più profondo,

alla sua forma

della

più espressiva’’, scrive Nietzsche in La nascita

tragedia. ‘“Esso si risolleva ancora una volta, come

un

eroe ferito, e tutto il sopravanzo di forza, insieme con la paca-

tezza piena di sapienza del moribondo, gli accende negli occhi il lume estremo, potente”?* . Il duplice mito di Eracle diventa per Sofocle ed Euripide la tragedia di un mondo che non ha più speranza in una mediazione”? . 2. Sofocle nero, o la circolazione dei veleni

a)

La tragedia di Sofocle Le trachinie sì svolge nel corso di una lunga giornata al termine degli ultimi quindici mesi di assenza di Eracle durante i suoi dodici anni di viaggi. È' l momento in cui sinistre profezie prevedono una svolta nel suo destino. All’alba Deianira manda il figlio a scoprire che cosa sia capitato a suo padre. Nella tarda mattinata l’araldo porta in scena le donne prese prigioniere da Eracle dopo la conquista di Ecalia. Deianira apprende cosi che tra loro c’è lole, la nuova donna di suo marito. Eracle ha saccheggiato la città, massacrando tutti gli uomini, quando il padre si era opposto a che lole andasse a letto con lui. Nel tardo pomeriggio, Deianira invia al marito, tramite lo stesso araldo, una tunica inzuppata nel sangue del centauro Nesso. Nelle prime ore della sera il figlio ri147

Divorare gli dei

torna e maledice la madre. Il filtro d’amore si è rivelato un veleno mortale. Eracle sta morendo; la tunica nella quale è avvolto versa veleno

nelle sue viscere. Vive ancora, ma è in ago-

nia. A tarda sera Eracle viene riportato a Trachine. La notte sembra appartenere a un’altra epoca, a un altro giorno, a una séttimana santa nella quale il “figlio di dio’” sta morendo sulla terra. Torturato da sofferenze insopportabili, il figlio di Zeus giace su una portantina, Îl coro delle donne grida terrorizzato: “Dolorante, in pene che mai non s’allontanano da lui, ora, dicono, passa davanti alla sua casa. Indicibile og-

getto d’ansia attonita”” (953 sgg.)°3 . Appena riprende i sensi, Eracle rivolge le sue prime parole al padre: ‘“Zeus! Presso quali umani giaccio affaticato in continue doglie? Ahi, come posso io sostenerle ancora? ” (966). In questo “El, El, lama sabachthani” eracleo, il lamento e il

rimprovero sono ancora più aspri: “Su quella pietra mai questi

occhi miei sì fossero posati, per abbassarsi poi sul fiorente vi-. gore di quest’insania mia che non s’addorme” (996 sgg.). l veleno gli è già penetrato nelle viscere e lo ha divorato sino all’osso. Il figlio di Zeus urla di dolore ed è uno degli urli più spaventosi di tutta la tragedia greca. Solo il Filottete di Sofocle griderà piùà a lungo e in modo ancor più orribile. Eracle invoca Zeus perché accorci le sue sofferenze con i fulmini e Ade perché lo conduca insensibilmente al sonno eterno. Il suo corpo, gonfio di dolore e consumato da un fuoco interno, è ora il suo nemico peggiore. În questo teatro della crudeltà, Eracle, dopo aver invocato gli dèi, si rivolge ora agli uomini e fi prega di tagliargli la testa dal corpo torturato. Le sue suppliche sono vane. L’uomo che ha salvato il mondo muore nello spaventoso silenzio dei cieli, solo tra gli uomini! Voi dove siete ancora, iniqgui fra tutti gli elleni, voi che per rendere liberi sopra una terra pura,

molto sul mare soffersi, molto per tutte le selve, me logorando: e non sarà uno che a questo malato 148

“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

ora fuoco accosti né ferro risanatore? Sino a questo momento

(Le trachinie, 1011 sgg.)

non è stata citata neanche una delle

dodici fatiche. Sofocle conosce Omero a memoria, ma, come in Aiace, lo ilumina di una luce sinistra. Odisseo ricordava be-

ne il balteo d’oro che Eracle portava nell’Ade “dov’eran scolpite gesta tremende: orsi selvaggi e cinghiali, leoni occhi di bragia,

e mischie

e battaglie

e massacri d’eroi” (Odissea, AI,

610 sgg.). Ogni volta che nel dramma siì descrivono le sue azioni, il “famoso” Eracle, “il più nobile degli uomini’”, ha assassinato, ha stuprato o ha applicato la politica della terra bruciata. Al servizio di orribili padroni, ha svolto per loro compiti ancor più orrendi. Re FEuristeo, quando Eracle osa proporre ai suoi figli una gara di tiro all’arco, lo tratta da “prostrato”, da ‘“schiavo”. Poi lo deride, si ubriaca e lo caccia dal suo palazzo. Per vendicarsi Eracle attira lontano uno dei suoi figh e ‘‘dal sommo della spianata lo spinge già” (273) a sangue freddo. Come

penitenza,

viene venduto

alla regina lida Onfale ed ese-

gue per lei servizi talmente infami che l’araldo, nel colloquio

con Deianira, preferisce passarli sotto silenzio ® .

Lo stesso araldo, che ignaro gli ha portato un dono di Deianira, viene poi ucciso da Eracle in modo particolarmente orribile: “l’afferra per un piede, nel punto pitù flessibile dell’arto” — Sofocle è sempre preciso nelle descrizioni anatomiche: soltanto da esse può prendere slancio — “e te lo scaglia contro un masso cinto di flutti che sorge dal mare; e fa sprizzare la bian-

ca midolla [...] tra i frantumi sparsi del cranio e il sangue. E levò un urlo — uno — la folla tutta: un alto gemito e per l’uo-

mo ammorbato e per il morto” (779 sgg.). Soltanto ora vengono ricordate le famose fatiche, quando Eracle urla dal dolore sdraiato su una portantina e il veleno dell’idra gli scorre nelle vene. I mostri che ha ucciso sono entrati nel suo ecorpo. Sono il suo corpo: grandi braccia, collo robusto, petto ampio, stomaco con muscoli nodosi. “Chi com149

Divorare gli dei

batte contro i draghi”, scriveva Nietzsche, ‘“diventa a sua volta un drago”. La discesa nell’Ade e il viaggio ai confini della terra, sono

ora soltanto le braccia

che

hanno

rubato

il cane e

domato il mostro: O mani, o mani! O dorso, o petto, o braccia

mie!

Vi riconoscete voi, le stesse

che domarono un giorno con la forza il leone, tormento dei pastori,

il mostro di Nemea,

l’inaccessibile

e chiuso a ogni amica voce, e l’idra di Lerna ed il biforme, inconciliabile

esercito a cavallo dei centaurn, delle fiere di buia violenza,

senza legge, di grande possa bruta;

la belva d’Erimanto, il cane d’Ade

che non si sfida, tricipite, nato

dall’Echidna tremenda, sotterraneo, e quel drago sugli ultimi conftni

della terra, custode agli aurei pomti?

(Le trachinie, 1089 sgg.)

l mediatore, il salvatore è ridotto a mera

carne, insieme mo-

struosa e impotente. Come il Lear di Shakespeare, l’amato f1glio di Zeus è ora “rudere di un capolavoro della natura”: “È ora, cosi lacere le membra, le giunture spezzate [...] ora battu-

to, devastato vedermi” (1103). E’ “questa cosa a pezzi”: “Îo sono un nulla”, ma in questo nulla “‘nemmeno buono da trascinarmi un passo solo”?% (1107), rimane ancora l’odio. Alla fine della tragedia si può dire di Eracle come di Macbeth che “ogni cosa che si trova in lui si fa una colpa di essere dove si trova” (V, 2, 24-25). Ordina al figlio di portargli sua madre: vuole che lui guardi mentre la tortura. Îl mediatore distrutto dal veleno vuol vedere con i propri occhi se il figlio sarà più colpito dalle sofferenze del padre o dalle urla della madre torturata. Vuole metterlo alla prova. Ma Deianira si è già uccisa di sua mano.

150

“Dov'è adesso quel famoso Eracle?”

b)

În questa tragedia Eracle e Deianira non s’incontrano mai. Sembra che non possano incontrarsi: appartengono a due tempi diversi

e a due

mondi

În questo

primo

nuamente

1il timore,

differenti.

Eracle

è mitico e arcaico;

Deianira è contemporanea degli spettatori e assomiglia a tutte le donne di Trachine che all’alba sono arrivate dal villaggio per udire 1 suoi lamenti. Fracle percorre la terra da un capo all’altro; Deianira‘è quella che aspetta sempre, quella che si prende e si abbandona. E figli avemmo: e li rivide ancora, come colui che prese un campo arato fuorimano, e lo visita soltanto nell’ora che lo semina e lo miete. lungo monologo la paura,

(Le trachinie, 31 sgg.)

di Deianira tornano conti-

il terrore.

La prima

cosa che ri-

corda è “una dolorosa ripugnanza di nozze” (7), quando i primi corteggiatori venivano a casa di suo padre. Poi ci furono la paura del marito e la paura per 1l marito, la paura quando lui

c’erae la paura quando lui non c’era. La paura per la sua casa, la paura di fronte agli esuli, la paura per i figli e per la loro sorte se dovessero rimanere soli. “Noi, che siamo salvi, lui salvo, o ci perdiamo insieme” (85). Quando Eracle è assente, la sorte di Deianira è triste, ma le

sue paure e i suoi timori appaiono normali, comuni. E’ figlia di re, ma si lamenta della propria sorte come

una contadina.

La litania delle sue pene non è diversa da quelle che si trovano nei canti popolari di tutte le nazioni: {...] ma come

si consumi

un cuore

solo soffrendo impareresti. Oh, sempre resta ignara così. La creatura

nuova cresce in recinti suoi lontani,

dove a turbarla né calor di sole

penetra mai, né pioggia o vento muove; 151

Divorare gli dei

ma tra le gioie intatta sempre innalza

la vita lieve, fin che un nome muta: non più vergine,

è donna; e tutta accoglie

in una notte la sua parte grave

di pensieri incessanti e di paure [...]

(Le trachinie, 142 sgg.)

Le notti di Deianira sono lunghe e piene di paure: “E notte porta, notte rimuove il peso di quest’ansia” (30). Le sue notti sono vuote. Nel parodo le donne di Trachine parlano delle sue notti insonni e del suo letto vuoto: “Nel profondo dell’animo fissa l’immagine del talamo deserto, s’estenua nell’attesa di mala sorte” (104 sgg.). La storia d’amore ha un lento sviluppo. Eracle non è fedele; Deianira lo sa da tempo: “Forse non so che Eracle, mio unico uomo, ne amò moltissime già prima? ”” (459) Ma ora, per la prima volta, ha mandato a casa in pieno giorno la sua nuova sposa. “E ora, come vedi, l’eroe ritorna

a questa

casa, e prima, non senza cure vigili, signora”,

ammette spietatamente l’araldo, “affidò ad altri e volle accompagnata, non come schiava, fino alla sua casa lei che schiava non è” (365 sgg.). La ragazza che lei stessa accompagna sotto il proprio tetto e che non risponde mai alle sue domande, è giovane e graziosa: “Vedo una gioventà che sale ancora ed una che dilegua; ama quel fiore l’occhio dell’uomo e coglierlo veloce” (547 sg.). Deianira non si fa illusioni: sa cosa l’aspetta: “Ed oramai siamo due donne sotto ad una coltre sola, in attesa dell’amplesso” (539). Soltanto la Clitennestra di Euripide ripeterà la spudorata violenza di questa immagine per il ritorno di Agamennone da Troia: “Ed egli tornò ad Argo, conducendo al suo fianco una baccante folle e invasata, e sotto gli occhi miei se la portò nel letto. Ed eravamo due spose ormai a dover convivere in una stessa casa” (Elettra, 1032 sgg.)°‘. Il letto non sarà più vuoto, ma d’ora in avanti lo occuperanno due donne e un uomo:

“Cosi

dunque

di me sarà domani [...]} solo di no152

“Dov'’è adesso quel famoso Eracle?”

me EÉracle sposo, e sarà veramente l’uomo della più giovane” (350 sg.). Un

marito, una moglie che invecchia, una ragazza giovane:

il

dramma di Deianira è comune e banale. “Potete vedere Eracle e Deianira”, scrive Gilbert Murray in Greek Studies, ‘“quasi tutti 1 lunedi mattina in un qualunque tribunale, come potete vedere nel manicomio di Broadmoor Medee che hanno ammazzato 1 propri figli”?”7 , Professore a Oxford ed educato al teatro naturalistico, Murray incontrava molti esempi di Medee, di Eracli e di Deianire nelle cronache dei giornali. Una madre getta i figli nel fuoco; un filtro d’amore preparato da una zingara si rivela un veleno; una moglie versa dell’acido sul marito

infedele: il momento, in fondo, non è “sfavorevole”’.

Eracle sì sta avvicinando. Sta offrendo a Zeus il primo frutto della terra sulle macerie della città distrutta. Ma la crudeltà è ancora relativamente moderata. Il nunzio ha già raccontato tutto a Delanira, ma perché lei continua a interrogarlo: “Dimmi tutto

il vero”

(453)? Che

non

sapere,

cosa

c’è d’orrendo? ” (458).

questa

è la mia

cosa

pena

vuole

[...]

Deianira

ma

ancora

invece

è della

sapere?

“Il

sapere,

che

stessa razza di

Edipo, che si è avviato alla propria perdita risolvendo l’indovinello della Sfinge e che vuole, lui pure, disperatamente sapere. “Se di me temi, non ha senso la tua trepidazione” (457). In margine a una traduzione latina di Sofocle, Racine scrisse a questo punto: “Admirable discours d’une jalouse qui veut apprendre son malheur”?® . 1 veleni che lentamente s’accumulano nel cuore non sono meno mortali del sangue essiccato del centauro conservato in un cofano d’ottone. fatto la sua scelta, ma non lo sa ancora.

Deianira

ha già

Per la prima volta la scena si svuota. Rimane soltanto il coro,

nell’orchestra. Ora le donne di Trachine, che avevano ascoltato in silenzio, dànno inizio alla danza e al canto sui mostri: il

fiume-dio e il figlio di Zeus si battono per la ragazza. Il primo lamento

di

Deianira

era

cominciato 153

con

l’orrore

per il suo

Divorare gli dei

mostruoso corteggiatore. Nelle isole greche e nell’Italia meridionale, i pozzi dei villaggi hanno ancora teste di tritoni, di leoni o .di vecchi; l’acqua sgorga dalle nere profondità passando per grosse labbra e scorre su una lingua libidinosa per scendere su una folta e ispida barba e su un torso dì pietra. [...] Un fiume, intendi,

era mio pretendente: l’Acheloo, e in tre aspetti mi chiedeva al padre. Era quando veniva un toro nitido oppure drago variegato, attorto,

oppure ancora sopra tronco umano

fronte bovina [...]

(Le trachinie, 9 sgg.) Nei sogni erotici della ragazza gli uomini sono bagnati e sgorga

acqua dalle loro teste mostruose: [...] sopra tronco umano fronte bovina; e dalla folta barba rivi fluivan d’acqua di sorgente.

(Le trachinie, 12 sgg.)

Î mostri nascono sempre da traumi, ma ora vengono rappre-

sentati sulla scena come

se fossero

divenuti

carne

e sangue.

Come nell’opera cinese, la danza frenetica del coro si muta d’ un tratto in pantomima’”. Due mostri si battono fra loro. Hanno quattordici teste, quattordici ventri sporgenti, quattor-

dici paia di braccia gettate in aria con violenza, quattordici

paia di gambe aggrovigliate. Il ritmo diventa sempre più frenetico: “Allora di mani, d’archi tesi si leva fragore, e il cozzare. taurino commisto e il ripetuto alterno gravare, sentirsi gravare, allacciati, e il pulsare delle fronti, mortale, e l’alto rantolo

che

li accomuna” (515 sgg.). Una delle ragazze si allontana dal coro. Ha smesso di cantare. Il ritmo improvvisamente si allenta. E il coro canta ora su di lei: “Intanto la delicata dai limpidi occhi restava seduta discosto su poggio di largo orizzonte ed aspettava, ferma, il proprio sposo” (323).

“Dov'’è adesso quel famoso Eracle?”

Deianira, che allora attendeva il futuro marito, inzuppa adesso la sua tunica nel sangue nero del mostro. La tiene in mano. Racconta alle donne del suo incontro con questo terzo mostro. Quando Eracle la prese, “come una giovenca sottratta alla madre”, il fiume sìi pose sulla loro strada®° . Nella tragedia i simboli

sono

sempre

primordiali:

luce e tenebra, fuoco

e ac-

qua. Nesso, il centauro-traghettatore, sìi è offerto di portare in braccio Deianira sull’altra riva. Ma in mezzo al fiume l’ha toccata con libidine. Eracle sente un grido e, scoccata la freccia che aveva avvelenato intingendola nel sangue dell’idra, trafigge il petto del mostro. 1l centauro, prima di morire, ha appena il tempo di dire a Deianira che estragga sangue dalla sua ferita: ‘“avrai l’incantamento per il cuore di Eracle {...}” (575).

Deianira consegna la tunica all’araldo, che se ne va con il dono nascosto in fondo a un cofano, perché la luce non possa toccarlo nemmeno per un momento. Eracle continua ad avvicinarsi. Adesso è al tempio di di Zeus sul Ceneo e prepara una solenne ecatombe in onore del padre. Macellerà dodici giovani

tori

e un altro

centinaio

di animali sotto gli ultimi raggi del

sole. Esteriormente, il mondo è ancora quello di sempre. Dalle ceneri delle città decimate, dal sangue animale offerto a un dio arcaico, dai mostri-traghettatori che violentano le donne, dai veleni nei cuori e nei cofani, dall’amore che coincide con

l’odio, da tutte queste cose ci si può ancora rifugiare sulla liscia superficie materiale del mondo, che appare sicuro e razionale nella sua immutabilità. Un gomitolo di lana è sempre un gomitolo di lana. Cosa può esserci di minaccioso in un gomitolo di lana? “Quel pugno di lana [...] si è disciolto, cancellato; né dentro lo divora intimo male delle proprie fibre. È tuttavia si macera che pare masticato e svapora dalle pietre” (676 sgg.). Deianira racconta alle donne del villaggio la scomparsa del gomitolo di lana come se stesse descrivendo una reazione chimica. Il gomitolo è stato consumato dalla luce. Il mondo è stato leso nella 155

Divorare gli dei

sua stessa struttura. ‘““Mi si scopre qualcosa che non può ragione umana spiegare, o almeno concepire’”’ (693). In Macbeth le macchie di sangue che non si possono lavare

sono più spaventose dell’assassinio notturno del re. L’essenza della storia non è il susseguirsi dei re, ma uno sconosciuto sol-

dato, insanguinato e seminudo (‘““Chi è quell’uomo coperto di

sangue? ”: Macbeth, 1, 2, 1), che appare solo per un attimo è,

come l’araldo greco, porta notizie dal campo di battaglia. Cibo e sonno sono egualmente avvelenati. Le cose della terra sono vischiose, viscide e incoerenti

sogno:

in un

come

“Nell’aria,

come fiato nel vento, si sono sfatte quelle che sembravano d’ impasto corporeo” (Macbeth, 1, 3, 81-2). In quest’incubo si rivela la vera natura del mondo: “Ma dalla terra dove rimaneva

per un tempo

alla luce,

gonfie

spume

Ti-

bollono grumose: e tu ripensi a quando si diffonde sul terreno il pingue succo della glauca uva colta al tralcio di Bacco” (701

sgg.).

Le sorelle fatali e il portiere infernale, che all’alba apre le porte del castello, sono in Macbeth creature reali come nelle

Trachinie i mostri e il veleno dell’idra. Îl mondo di Macbeth è inquinato dal sangue come quello delle Trachinie è impregnato di veleno: Se attingerai con le tue mani il sangue

che si rapprende agli orli della piaga, dove fondo s’immerse il dardo, nero di fiele, dell’idra [...]}

Il contagio

(Le trachinie, 572 sgg.)

è transitivo: l’infetto è anche colui che infetta.

Nelle Trachinie il contagio

è la struttura

e

la teologia

della

tragedia. Eracle il salvatore ha salvato Deianira dall’aggressione

della bestia, ma le sue frecce erano avvelenate. Il mediatore, 1l

figlio di Zeus, ha salvato il mondo dai mostri. Ma uccide i mostri con il veleno di un mostro. La mediazione è dunque una rinnovata infezione del mondo. Il portatore del contagio 156

“Dov'’è adesso quel famoso Eracle?”

viene contagiato: ‘“Si macera [...] insieme con l’incubo enorme

dell’idra” (836).

În questa

batteriologia cosmica, il veleno primigenio

dell’idra

ctonia viene trasmesso attraverso il sangue, come gli spirocheti della sifilide. La magia è passaggio delle proprietà da una divinità, da una persona o da un oggetto a un oggetto, una persona o una divinità differenti. Le operazioni magiche esigono una somiglianza simbolica o un contatto fisico: o l’identificazione o una contiguità spaziale e temporale. Queste due operazioni magiche corrispondono in linguistica, come ha osservato Roman Jakobson, al principio della metafora o metonimia?° . 1l passaggio può avvenire su un fantoccio

che simula una per-

sona o una divinità oppure mediante la raffigurazione della persona o della divinità. Frazer definiva “imitativa” la prima magia, ‘“contattuale”” la seconda. Tutti gli oggetti con il quale il corpo è entrato in contatto — abiti, capelli o sangue — ne sono parte integrante. L’operazione magica è un contagio. “Di li vederlo venire, tutto desiderio, vinte le membra dal suaden-

te crisma come ci presagi l’uomo ferino” (680 sgg.)°° . Nelle Trachinie si compiono tutte le operazioni della magia ‘“contattuale’”. Îl sangue del centauro è stato raccolto da Delianira nel punto dell’infezione, ‘“dove s’immerse il dardo nero di fiele d’Idra”; la tunica vi viene inzuppata; l’araldo la porta; Eracle l’indossa sulla pelle nuda. In ognuna di queste operazioni la struttura base del contagio rimane la stessa: l’infetto dìventa colui che infetta. Il cerchio si chiude e tutti i portatori d’infezione finiscono col cedere alla distruzione: nira, l’araldo e alla fine anche Eracle.

Nesso, Deta-

Ma nelle Trachinie c’è anche un altro condotto nel quale circolano ì veleni. lole, distrutta da Eracle e chiamata a distrugvere tutti quelli che le stanno attorno, è la muta portatrice di questo secondo veleno: “La giovinetta dal triste destino, pur non volendo, ha reso la sua patria distrutta e schiava” (465).

La ragazza incinta entra silenziosa nella casa di Deianira come

Divorare gli dei

un messaggero

tutto:

di sventura. Le donne

di Trachine

sanno già

“E’ nata, è nata alla casa nostra l’ha partorita la novella

sposa, grande: un’Erinni”” (893 sgg.). Questo condotto ‘‘realistico”, attraverso il quale circola il veleno della passione, è parallelo e simmetrico a quello mitico, do-

ve il veleno dell’idra passa per il sangue. La circolazione dei veleni nelle Trachinie può essere rappresentata da un rombo

(con una linea verticale tracciata nel senso della lunghezza), i

cui quattro

a turno,

vertici rappresentano,

Eracile, il centauro

Nesso, Deianira e Îole:

è DEIANIRA

Il veleno

dell’Idra passa da Eracle a Deianira tramite Nesso.

Eracle avvelena Deianira con l’eros nero tramite lole. Eracle e

Deianira comunicano soltanto tramite l’araldo e il figlio. L’ araldo ha portato lole e si porta via il filtro fatale. “A mani vuote,

non

è giusto

che ci ritorni,

dopo

che venisti

con

una

scorta di doni magnifica” (495 sg.). Il figho reca alla madre Ja

notizia delle atroci sofferenze paterne e al padre quella del suicidio materno. Il filtro d’amore e il sangue contaminato del

centauro sono, strutturalmente medesimo veleno:

e teologicamente, un unico è

158

“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

J’ai revu l’ennemi que j’avais éloigné: ma blessure trop vive aussitòt a saigne. Ce n’est plus une ardeur dans mes veines cachée: c’est Vénus tout entière èà sa proie attachée.

(Phèdre, 1, 3)

Racine è stato il primo a scorgere l’unità dei veleni nelle Trachinie: la sua Fedra viene distrutta dall’implacabile Venere-A-

frodite, e nelle sue vene scorre il veleno dell’idra°* .

Afrodite è citata per la prima volta nelle Trachinie come unica arbitra della battaglia tra i mostri. È’ citata per la seconda volta quando la tunica avvelenata s’appiccica alla carne di Eracle,

e lo assiste in silenzio, come l’aiutante di un carnefice: “E in-

torno a tutti la Venere muta [...] che si scopre in fragranza di delitto” (859 sgg.).

Entrambi i veleni restano a lungo celati. “Il morbo che mi rode implacabile, mai sazio” (1104), dice Eracle. “EÉ quale por-

tatrice occulta di dolore ho ricevuto sotto il mio tetto? ” si domanda Deianira (375). Come nella Fedra, la tragedia comincia quando i veleni vengono portati dalle tenebre alla luce e chiamati per nome: “Voglio raccontarvi d’un certo lavoro, fatto da me, con le mie stesse mani” (533). Le mani di Deianira

non hanno commesso sbaglio. Hanno scelto ciò che lei voleva scegliere. Quando torna il figlio con l’atroce notizia, Deianira esce senza dire una parola. E’ già stato detto tutto.

Nelle sette tragedie di Sofocle che ci sono rimaste, sei sono ì

suicidi, ma due soltanto, quelli di Aiace e di Deianira, sono descritti con minuzia di particolari, come in un verbale giudiziario. Di Antigone sappiamo solo che si è impiccata con una cintura nel buio di una grotta, di Emone che si è gettato su una spada, di Euridice che si è uccisa anch’essa con una spada e di Giocasta che si è impiccata. Ma Aiace si getta su una spada in pieno giorno sotto il sole splendente, davanti agli spettatori. Sì uccide perché disprezza il mondo, dove non valeé la pena vivere. Deianira, che il mondo ha schiacciato, si ammazza 159

Divorare gli dei

fuori scena, nel so passo come con l’occhio di altari, li pianse lunque oggetto sgg.).

buio della casa. Ma la sua nutrice la segue pasuna cinepresa: “nascosta nell’ombra, la seguivo continuo” (914). “Gettandosi in un grido sugli abbandonati; e avvilita gemeva nel toccare quadi quelli che prima usava sempre [...]” (904. }

Deianira, come l’Alcesti di Euripide, dice addio al letto che ha diviso con il marito. Îl letto è l’altare sul quale sacrificherà la propria carne: “Vedo la donna gettare le coltri sopra il talamo d’Eracle, salirvi d’un balzo, e poi sedervisi, nel mezzo

[...]”

(914 sgg.). La biancheria da letto, alla quale tanto tenevano le donne greche, Deianira l’accatasta al centro del letto, poi vi s’inginocchia sopra, come su una pira. Stacca la spilla d’oro, affibbiata al suo peplo, e lascia cadere l’indumento dal braccio sinistro, scoprendosi il seno e lo stomaco. La competenza di Sofocle in fatto di ferite è profonda come quella di Omero: Deianira tiene la lama nella mano destra e si squarcia lo stomaco, facendo partire il colpo dal fianco sinistro. “Trafitto il fianco da lama vibrata due volte, sotto il cuore e sotto il fegato” (930 sg.). Deianira sì apre lo stomaco seduta sulle lenzuola e con le gambe incrociate (altrimenti non sarebbe possibile), secondo le re-

gole del harakiri. La spada è a doppio taglio: perché il seppu-

ku sia mortale sono necessari due tagli in diagonale, da sinistra a destra e poi di nuovo verso sinistra in basso. Il suicidio, che è un sacrificio, deve essere compiuto come un rituale. Ora la tragedia s’avvicina alla conelusione. Sulla spiaggia davanti alla casa di Deianira, dove l’araldo aveva portato lole e le prigioniere,

Eracle,

sdraiato

su una portantina, urla il suo

strazio. Dalla casa arriva il figlio Ilo, ancora una volta messaggero di sventura tra la madre e il padre. Illo — Parlo. Non vive più, da poco. Uccisa. [...] Da sé sola

mentre sul posto non c’era nessuno. 160

“Dov'è adesso quel famoso Eracle?”

Eracle — Ah, prima d’esser morta di mia mano, com’era santo dovesse morire! (Le trachinie, 1132 sgg.)

Eracle ha gettato via le lenzuola che lo ricoprivano. mostrare 1il suo corpo consumato dal veleno:

Vuole

[...] e guarda il male che mi fa patire, l’avvilimento. Mostrare lo devo tutto scoperto — vedilo, guardate,

o tutti voi — questo povero corpo [...]” (Le trachinie, 1077 sgg.)

Deianira nuda, con lo stomaco squarciato, giace in casa sul let-

to nuziale. Anche Eracle è nudo.

c) In Edipo re, quando per un attimo sembra che le profezie possano sbagliarsi e che le maledizioni degli dèi non si conceretino, il coro sì ribella e non vuol più assistere alla cerimonia: ‘“Perché dovrei partecipare alla danza sacra? ” Il coro di Edipo capisce l’essenza della tragedia. Se parricidio e incesto non sono annunciati in anticipo, se non costituiscono il misterioso ordine metafisico dell’universo, se non sono parti integranti della giustizia divina, allora non sono altro che caso, uno dei tanti accidenti negli annali delle vicende comuni. Camus scriveva nel Mito di Sisifo:

In un’opera tragica il destino risalta sempre di più sotto l’aspetto della logica e del naturale [...] Tutto lo sforzo del dramma sta nel mostrare il sistema logico che, di deduzione in deduzione, porrà in atto la sciagura dell’eroe. Darci soltanto l’annuncio di questo insolito destino non è orribile, in quanto è inverosimile, ma se la necessità ci viene dimostrata dall’insie-

me della vita quotidiana, della società, dello stato, delle agita-

zioni familiari,

allora

l’orrore

agita l’uomo e gli fa dire:

è consacrato.

Nella rivolta che

“Questo non è possibile”, si trova

già una disperata certezza che “questo” invece lo è°5. 161

Divorare gli dei

Forse Camus non ha ragione. Forse la crudeltà accidentale è assurda. Ma la crudeltà arricchita del rigore divino dell’inevitabilità è intollerabile. Nelle Trachinie ci sono tre profezie sulla sorte di Eracle. Le prime due sembrano predizioni di una zingara: “Egli tornerà o non tornerà”; “Tutto finirà bene o peggio”. Sono pronostici che s’avverano sempre, solo che nelle Trachinie si fissa loro una scadenza, “dopo dodici anni”, “dopo quindici mesi”. La tragedia deve essere rappresentata in un tempo determinato. Nella terza profezia c’è invece un elemento di consapevole perfidia. Come in Macbeth, sembra annunciare l’impossibile” . “A me da lungo tempo era predetto dal padre questo: il non dover morire per l’opera d’un vivo che respiri tra i vivi, ma di un morto [...}” (1159 sgg.). Un mondo

nel quale il più forte tra gli uomini, l’eroe di tutta

la Grecia, muore a causa di una donna, è stupido. Un mondo nel quale il figlio di dio muore avvelenato da un mostro da lui stesso ucciso

è assurdo.

Ma

se è stato

prestabilito

che

media-

zione e mediatore siano contaminati, la crudeltà diviene la legge del cosmo e l’assurdo ritrova la sua logica scandalosa. Éracle cessa di urlare dal dolore. Le profezie si sono avverate: [...] what

SPLENDOUR,

IT ALL CORERES.

(1174 sg.)?? Nello spazio simbolico delle Trachinie, sopra il teatro e sopra il mondo, sorge il sacro monte Eta, che mai aratro ha solcato e le cui balze sono percosse dai fulmini. Aiace, cosiì simile a Eracle per la forza brutale e la cupa ostinazione, disprezzava il

mondo, che si sbriciola come una montagna, e gli dèi, che an-

ch’essi si sbriciolano. Nelle Trachinie il monte Eta rimane saldo ed' ’ Eracle accetta la crudeltà immutabile del mondo. Il tempo della mediazione è finito, non ci saranno nuove fatiche di Eracle: “I morti la fatica non li raggiunge” (1173). L’idra è 162

“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

stata

uccisa,

ma

la sua

ombra

spaventosa

tiene

Eracle

nelle

proprie grinfie. Cala sulla scena, che è il mondo intero, l’ombra nera dell’idra. Dio è una montagna silenziosa, ma le profezie si stanno avverando. Contaminato dal veleno, il figlio di Zeus è. pronto ad accettare “la teologia dell’inganno, della perfidia, della gioia sinistra’’°® , “quale splendore, tutto diventa logico”. Le profezie

sì avverano; si può quindi trovare diritto e ragione nell’ingiu-

stizia e nell’assurdità del cosmo.

‘“Ciò che costituisce la vo-

luttà della tragedia è la crudeltà”, scriveva Nietzsche in Di là

dal bene e dal male®° , Eracle scopre ora il fascino sinistro della crudeltà. Se non si può essere il figlio umano di dio, si può sempre essere un superuomo. Se la mediazione non esiste, non è mai esistita e non esisterà mai, se la crudeltà è la regola dell’universo, lo si può confermare anche con la propria sofferenza. Se dio non è altro che una montagna muta, sembra fin troppo giusto accendere un rogo sulla sua vetta e bruciare vivi. Ma la distruzione deve essere portata sino in fondo. Come in Macbeth (V, 8, 2-3): “Fino a che vedo vivi, gli sgarri, meglio sulla loro pelle”. Eracle chiede che il figlio lo porti sulla vetta rocciosa del monte Eta, prepari un rogo e appicchi il fuoco con le sue stesse mani.

Illo — [...] a quali atti mi chiami: a farmi l’uccisore

tuo, dalla morte tua contaminato. Eracle — Non a questo, non io; ma a te soltanto

affidando la cura dei miei mali, ad essere mio solo guaritore.

(Le trachinie, 1206 sgg.)

Nella logica dell’assurdo, si capovolgono tutti i valori: la mor-

te è una

cura, l’assassinio

un rimedio. Îl miasma

era la cosa

che più spaventava i greci: chi ne era infetto veniva messo al bando della comunità. Ma ora tutte le leggi divinee umane 163

Divorare gli dei

devono essere violate.

Rimane intatto soltanto il più arcaico degli obblighi, la cieca devozione al padre. Nei progetti del padre divino, come attestano le profezie, era inclusa la contaminazione di Eracle; a sua volta Eracle deve ora infettare 1il proprio figlio. Hlo ha giurato sugli dèi di essere pronto a fare tutto quello che suo padre comanda, tranne che toccare il rogo con le proprie mani. Ma Eracle insiste su questo “piccolo favore”” (1217). Nelle pa-

role “piccolo

favore”

ci sono “la perfidia e la gioia sinistra”

degli dèi. Illo deve prendere in moglie lIole. Liberamente e di

sua volontà, senza ricorrere a sinistre profezie, Eracle grava 1l

figlio dei delitti di Edipo, parricidio e incesto“°. L’incesto non è solo formale — Eracle ha mandato a casa Iole come sua sposa — e non è solo simbolico — il figlio che lole avrà da Eracle sarà, come in Edipo, insieme figlio e fratello di Illo. Due soli rimangono vivi, Illo e Iole. Bisogna quindi che vengano rovinati entrambi. La portantina sulla quale giace Eracle viene sollevata; tra poco

il corteo si metterà in cammino per la montagna: Or con l’Egioco del supremo piacer godendo egli abita, ed onorato egli è dai numi, e d’Era poscia ch’Ebe ottenne

ei genero divenne

nell’auree case e re.

.

-

Nelle

Trachinie

(Pindaro, Istmiche III 75 sgg.)°!

non c’è ascensione e non ci sarà teofania.

L’

Eracle di Sofoele ha offerto sacrifici a Zeus sulle macerie delle

città saccheggiate;

ora

deve sacrificare

se stesso.

Ma

a chi?

Sacrificio significa mediazione: la ripetizione del martirio dei

figli di dio, tormentati a morte sulla terra, o la richiesta perché scendano nuovamente sulla terra stessa; il sacrificio è una

maniera di placare o di ringraziare; un pagamento o una forma

di corruzione, ma dall’altra parte deve esserci sempre qualcuno 164

“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

o qualcosa. Nelle tragedie di Sofocle, a eccezione dell’ultima,

Edipo a Colono, la mediazione non esiste: dio non è inumano,

è al di là dell’umano, come la montagna incolta che appartiene a Zeus. Il sacrificio è offerto alla montagna silenziosa. Eracle rimane muto

morso

sino alla fine: “O

d’acciaio, saldato

sgg.). Il saerificio

finale

dura anima mia, metti alla mia bocca

di pietra

e contieni l’urlo”

di Eracle è soltanto

(12359

autodistruzione.

Come una pietra è solo una pietra: non c’è differenza fra il significante e il significato. Il rituale è soltanto forma. Ma questa forma è vuota. Quando un rito deve permanere come

forma pura, bisogna che tutte le norme vengano rigorosamente

applicate. L’olocausto avverrà sul roccioso pendio di una montagna, 1l rogo sarà fatto di legni consacrati a Zeus — quercia e

ulivo selvatico — il fuoco verrà appiccato di notte. Come nel suicidio di Deianira, il rigore è crudeltà trasformata in cerimonia.

_

Il fuoco non è purificazione. Nel rigido simbolismo della tragedia, significa soltanto distruzione. Quando il fuoco del veleno -bruciò 1l gomitolo di lana, dalla polvere che cadde al suolo rimase soltanto una sporca schiuma, come una muffa.

Portano via Eracle. Alla fine della tragedia, gli dèi vengono finalmente giudicati dagli uomini. E' il figlio a formulare il mes-

saggio: [...] ché impassibili ai nostri accadimenti voi sapete invece

gli esseri divini

i quali generarono e si dissero padri e cosi ancora vogliono chiamarsi mentre immoti guardano

tanto soffrire. Pure, nessuno sguardo i giorni da venire

165

Divorare gli dei penetra; ma sì vive

l’oggi, per noi tristezza,

per essi disonore.

(Le trachinie, 1266 sgg.)

Di tutte le tragedie di Sofocle, Le trachinie contiene la più disperata interpretazione possibile del destino umano. Eracle,

che ha salvato

Deianira,

è stato da lei distrutto. Ma è stato

distrutto anche da lole, causa prima di tutte le sventure. E°

morto

per il veleno

contenuto

nel sangue

del centauro, ma

quel veleno era il veleno dell’idra. L’idra ha ucciso Eracle, che aveva ucciso l’idra. Eros è veleno ed è veleno il filtro d’amore. La carne degli uomini, e persino degli dèi, è infettata da eros e dal veleno. Era ha nutrito al seno l’idra mitologica, sorella di

Cerbero

e zia

della

Sfinge,

nata

dall’unione

incestuosa

tra

madre e figlio: le frecce di Eracle, inzuppate nel suo veleno, hanno inflitto a Era una ferita incurabile. E non c’è “nulla di

questo in cui non si conosca Zeus” (1278).

Da lontano

si riescono a vedere soltanto gli spasmi dei corpi

nella libidine e nella sofferenza,

avvelenati

da eros e dal vele-

no. I corpi sono tutti simili. Quello di Deianira eccita la lussuria dei mostri, ed è questo il suo destino. Quello di lole eccita la lussuria di Eracle, e anche per lei è questa la sorte. “La mia bellezza mi portava dolore” (25), dice Deianira all’inizio della tragedia. “La sua bellezza ha rovinato la sua vita” (464), dice più avanti di lole. Il corpo di Eracle, il più forte degli uomini, s’indebolisce:

“Tanto

soffrendo,

mi

ritrovo

femmina”

(1075)“° . Uno stesso attore interpretava Eracle e Deianira. La maschera nel teatro greco rappresentava la persona, ma nel labirinto di simboli e permutazioni delle Trachinie, si direbbe che l’aver affidato due personaggi, Deianira ed Eracle, a un solo attore,

sia stato un segno intenzionale‘?, E non c’è ‘“nulla di questo in cui non sìi conosca Zeus”. Sopra l’orchestra e sopra il monte Eta, continua a girare in 166

“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

tondo l’Orsa maggiore, portando di volta in volta letizia e angoscia. Questa obligua rotazione dell’Orsa maggiore, che nel suo ciclo annuale s’alza e s’abbassa sopra la terra, viene paragonata alla ruota della fortuna, dove lo zenit annuncia il nadir, il nuovo inizio°* . Ma nelle Trachinie la ruota della fortu-

na assomiglia

spezza Lear.

piuttosto

alla ‘“ruota di fuoco” sulla quale si

Eracle definisce il dono di Deianira “un tessuto che le Erinni ordirono in rete”” (1052). Hl coro paragona lole, che entra nella casa di Deianira con un figlio di Eracle in grembo, a una Furia. L’immagine e lo stile vengono da Eschilo. Ma nell’Orestea, le Erinni, affamate di sangue e persecutrici implacabili degli assassini, diventano i cani da guardia della città. Da Micene e da Tebe, torturate per tre generazioni da matricidi, parri-

cidi e fratricidi, sorge alla fine Atene, in alleanza con la figlia di Zeus. Ma in Sofocle non c’è mediazione tra umano e sovrumano., né tra la crudeltà del caso e la necessità divina. La vita umana viene vissuta una volta soltanto e la redenzione non esiste.

La teologia di Sofocle, nella quale gli dèi restano muti e le profezie s’avverano, appare sorprendentemente (e angosciosamente) simile al gioco del caso e della necessità, recentemente descritto dai più brillanti biologi contemporanei. Dai miliardi di giri della roulette cosmica, emerse una volta la vita di eui

noi siamo parte. 1 campi magnetici o termici cambiarono e, in seguito a una nuova situazione biochimica, avvenne una mutazione, e una goccia di vita, che deve sempre ripetersi, ripeterà all’infinito questo stesso cambiamento, finché non si avrà una nuova mutazione. Nel cosmo non c’è nulla di intenzionale.

Dai miliardi di mutazioni, emerse imprevedibilmente la strana spirale Dna che può essere paragonata all’antica idra dalle mille teste*° e che è il codice del gene umano. Il gene sì ripete e dai miliardi di giri ciechi della roulette, si rigenerano, secondo le legge della probabilità, i mostri. Tutte le profezie che s’av167

Divorare gli dei

verano provengono dal Dna. Tanto tempo divenne

fa il macrocosmo

‘‘eterno silenzio di spazi infiniti oltre l’umano”. An-

che il nuovo microcosmo della biologia è oltre l’umano. Le mutazioni delle particelle vitali non hanno né direzione né scopo. Cosi parlò Zarathustra: “Per caso”: è questa la più antica nobiltà del mondo, e questa

i0 ho restituito a tutte le cose; le ho liberate dalla loro schia-

vitùu al fine. Questa libertà e questa gaiezza paradisiaca le ho poste al disopra di tutte le cose, come un azzurro inferno, quando ho insegnato che su di loro e attraverso di loro nulla può nessuna ‘“volontà eterna”. Ho messo questa beffarda follia al posto di quella volontà, quando ho insegnato: “In ogni cosa una sola cosa è impossibile: la razionalità’’% .

Questa strana spirale brulicante di noduli è l’unica in tutto il microcosmo e il macrocosmo che sia pienamente conscia della

propria esistenza e cosciente del suo soffrire. E tu non t’accasciare, fanciulla, nella casa, tu che vedesti le recenti morti,

le grandi pene mai prima sofferte: nulla di questo, in cui non sì conosca Zeus.

(Le trachinie, 1275 sgg.)*7

Il corteo segue la portantina. lole, uscita di casa, sì è unita al coro.

Eracle le ha ammazzato

il padre e i fratelli, l’ha messa

incinta e ha ordinato al figlio di prendersela in moglie. Lei non ha detto una parola in tutta la tragedia’® . Non sappiamo nulla di lei. Nemmeno se ha cominciato a odiare o ad amare

Eracle quando lui se l’è portata nella propria tenda, un’ora dopo aver raso al suolo la città. Iole attraversa la scena soltanto

‘ due volte. La prima volta sì stacca dal gruppo delle prigioniere e Deianira capisce che è diversa dalle altre. Soltanto Iole sopporta il suo destino con dignità. Iole affronta nel silenzio la crudeltà umana

e sovrumana.

E’ la sola scelta

168

eroica

che le

“Dov'’è adesso quel famoso Eracle?”

rimanga: è il personaggio più sofocleo delle Trachinte. L’étoile a pleuré rose au coeur de tes oreilles, l’infini roulé blanc de ta nugue à tes reins;

la mer a perlé rousse à tes mammes vermetilles, et l’homme saigné noir èà ton flanc souverain. (Rimbaud, Quatrain)

Rosa la stella ha pianto al cuore del tuo orecchio, bianco l’infinito è sceso dalla tua nuca ai reni; rossastro il mare imperlò i tuoi vermigli seni, nero l’uomo sanguinò al tuo sovrano fianco“? .

3.

“Ah, cambiarmi qui in sasso! ”

Come agnelli condotti al macello, i bambini portano corone sulle spalle: Megara li ha vestiti di lenzuoli funebri. Tra qualche istante i carnefici del tiranno trascineranno lei, i figli di Eracle

e il vecchio Anfitrione

nel luogo

delle esecuzioni. An-

fitrione ha già levato le mani al cielo per invocare da Zeus un aiuto immediato. Ma dice a Megara di rivolgere le sue preghiere non ‘“in alto”, ma ‘““in basso”, all’Ade. E° l{ che è sceso

Fracle. Ma ora è tornato. Nell’Eracle di Euripide, l’eroe torna due volte dalle tenebre e saluta la luce splendente: “Che gioia rivedervi tornato alla luce! ” (524)°° . E, dopo il suo secondo ritorno: “Vedo le cose che mi circondano, la terra e il cielo e i dardi scintillanti del

sole”, La prima volta torna dall’Ade, la seconda da un altro inferno e da altre tenebre. Dopo il primo ritorno salva 1i fighi, la moglie Megara e 1il padre da morte imminente. Îl secondo è invece un ritorno dalla follia, durante la quale ha ucciso la moglie e i figli. Nel primo ritorno porta i consueti arnesi mitologici, arco, clava e faretra. Ma quando ricompare è seminudo e legato con funi a una colonna in rovina del palazzo.

În questo straordinario dramma, apparentemente commedia e 169

Divorare gli dei

tragedia insieme,i due ritorni di Eracle hanno significati diversì e differiscono anche per stile e intensità drammatica. Gli studiosi in genere considerano la prima parte piatta, convenzionale, noiosa

e ineguale,

mentre

sono

altrettanto

unanimi

nel giudicare la seconda un capolavoro°!, Ma se il dramma sembra spezzato in due è perché si era spezzato il mito. Con testarda consapevolezza, Euripide assegna alle due metà del

mito una comune esperienza umana, valendosi di tutti gli strumenti del teatro greco. L’Eracle delle dodici fatiche, salvatore

e mediatore, torna dall’Ade mentre infuria la guerra del Peloponneso. Eracle, figlio di Zeus e di Anfitrione, perseguitato da Era, semidio

e martire, abbattuto

dalla sofferenza, accetta la

sua condizione umana e dei due padri sceglie il mortale. Eracle è una “moralità” in due “atti”. Il primo è ironico e didattico. Vi si mescolano due tempi, il mitico e lo storico. IL passato mitico è divenuto l presente. Da questa diacronia balziamo improvvisamente a una sincronia.

Chi non conosce quest’uomo che divise con Zeus il letto co-

niugale? Sono l’argivo Anfitrione [...] .

(Eracle, 1 sgg.)

Anfitrione, cacciato da Argo per aver ucciso il suocero, ha trovato rifugio a Tebe. Per riscattarlo e per permettergli di tornare ad Argo, Eracle si era messo al servizio di Euristeo. Il suo

compito era di civilizzare il mondo. Ma a Tebe scoppia una rivoluzione, seguita da una guerra civile. Creonte, sovrano di Tebe e discendente dalla generazione degli uomini nati 1à dove erano stati seminati 1 denti del drago, è morto ammazzato Îa sera precedente l’inizio del dramma. Anfitrione, che un tempo spartiva la moglie con Zeus, è stato buttato giù dal letto dal nuovo tiranno ancor prima dell’alba. La famiglia di Eracle è

fuggita terrorizzata dal palazzo reale e si è rifugiata presso l’altare di Zeus. All’inizio del dramma sono tutti seduti, Anfitrio-

ne, Megara e i bambini, “mancando di tutto, di cibo d’acqua di panni” (51 sg.). 170

“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

La rivolta, avvenuta

è sorprendentemente

nella mitica

simile

Tebe

nel corso di una notte,

alle rivoluzioni

e alle sommosse

della guerra del Peloponneso. Accadeva spesso che nel corso di una notte, quando avanzava l’esercito spartano, cadessero i governi democratici delle colonie greche, 0, quando s’avvicinava la flotta ateniese, venissero abbattuti i governi oligarchici. Hl massacro di Corcira era avvenuto almeno tre anni prima della data più antica che si può proporre per Eracle5’ , Tucidide lo descrive nel suo solito stile scarno, ma rendendosi perfettamente conto che esso preannuncia la fine della civiltà ellenica: Per sette giorni, quanto durò la permanenza di Eurimedonte [il comandante della flotta ateniese], che era venuto con sessanta navi, i corciresi si sbarazzarono di quelli che ritenevano

nemici: Îi accusavano di voler abbattere il regime democratico; ma alcuni furono anche soppressi per privati rancori e altri uc-

cisi, per

denari

loro

dovuti,

da

quelli che

li avevano ricevuti.

Ogni genere di morte fu escogitato e tutto ciò che suole succedere in tali frangenti e anche peggio. Poiché il padre uccide-

va il figlio, e dai templi venivano a forza strappati i supplici, che presso i templi stessi venivano sgozzati; alcuni, anzi, furo-

no addirittura murati vivi nel sacro recinto di Dioniso. L’azione

(La guerra del Peloponneso, II, 81)°?

del primo “atto” di Eracle è tracciata a larghe pen-

nellate. AÌl momento

opportuno, il tiranno schizza fuori come

da una scatola a sorpresa, ma semplicità e schematismo sono voluti e. la' parabola mitica, come in Brecht e in Dirrenmatt, ha radici evidenti nella realtà. Tutti i particolari sono tipici. dei disordini di Tebe, doma Lico, lo straniero, approfittando

la folla, si schiera con gli aristocratici rovinati, uccide Creonte e sì proclama re. Decide anche di ammazzare Megara, Anfitrione e i figlioletti di Eracle. Ha paura che, una volta cresciuti,

vogliano vendicare la morte del nonno. Inoltre, è sempre pid prudente ammazzare tutti in una volta. Egli però rispetta la tradizione e non vuole trascinare via i fuggiaschi dall’altare di 171

Divorare gli dei

Zeus. Ordina ai soldati di portare legna e di preparare roghi. Se i profughi non lasceranno volontariamente il sacro asilo, Éi brucerà vivi: “Voi siete schiavi del mio potere” (252). Eracle è ancora nell’Ade. Ma nel dramma ci sono due Adi differenti, come ci sono due differenti tempi, il mitico e lo storico. Uno è l’Ade dal quale nessun mortale ritorna. “S’è mai veduto un estinto risalire dall’Ade? ” domanda Megara (297). l secondo è il luogo dove è sceso Eracle per catturare il cane a tre teste, 1 ragionamenti di Verrall e dei razionalisti sono sorprendentemente simili a quelli del tiranno Lico, quando chiede a Megara: ‘“Credete che il padre di questi bambini, sepolto nell’Ade, ritorni? ” (145

sg.). Persino Anfitrione, invec-

chiato e rimbambito, ha qualche dubbio, e consiglia a Megara di tener quieti i figli raccontando loro. delle fiabe: “Confortali e, se pure ti costa, ingannali con qualche fola” (99 sg.). 1 figli di Eracle non crederanno mai che il loro padre è sceso nell’ Ade per prendere un cane. E dopo il ritorno di Eracle, Anfi-

trione vuole ancora assicurarsene:

Anfitrione

— Sei davvero giunto sino alle case dell’Ade, fiî-

glio? Eracle — Si, e ne trassi alla luce la fiera con tre teste.

Anfitrione — Vi riuscisti con la lotta o per grazia della dea?

Eracle — Con la lotta. Fortuna però che avevo visto i misteri. (Eracle, 610 sgg.)

Questo breve dialogo ’preannuncia i sovversivi Dialoghi degli dèi di Luciano. L’ironia non è soltanto verbale. I drammi di Euripide devono essere visti come fatti teatrali. Questa è una moralità, con canzoni, danze e pantomime. E, come in Brecht,

tutti .gli strumenti teatrali sono controllati dal cervello del

drammaturgo e adoperati per dimostrare una tesi. ÎI vecchi di ‘Tebe sono il coro. Soltanto i vecchi sono rimasti fedeli a Eracle quando il tiranno ha preso il potere. Ora salgono le scale

che portano all’altare di Zeus:

Non stancate anzitempo

172

“Dov’è adesso quel famoso Eracle?” il piede e il grave fianco,

come spingendo a un’erta un puledro aggiogato

che regga il peso di corrente cocchio.

Prendi la mano e il peplo di chi malfermo indugia.

(Eracle, 119 sgg.)

La prima ode del coro sull’inefficienza della vecchiaia è piena di note di regia. I vecchi cadono allungando la mano per tirarsi a vicenda su per la scala. Il coro delle donne di Trachine danza la battaglia dei due mostruosi corteggiatori della giovane Deianira. Il coro dei vecchi danza le dodici fatiche di Eracle. I vecchi tremanti con lunghe barbe bianche s’appoggiano ai bastoni perché fanno fatica a camminare. Ma corrono come Eracle

dietro

la cerva

veloce,

spezzano

il collo a un leone, ta-

gliano le teste dell’idra e inseguono le cavalle che si nutrono di carne umana. La pantomima più ridicola è quella di Eracle che sorregge la volta celeste®? _ ] vecchi alzano le mani tremule, allargano le dita irrigidite e tendono le spalle. Eracle voleva civilizzare il mondo. Ha combattuto i draghi. “Poi scese. in fondo agli abissi del mare”, canta il coro, “e quietò l’onde ai remi dei mortali” (401). I mostri sono da tempo scomparsi. “Sono io il vostro padrone”, dice il tiranno Lico (142) e ride delle leggendarie fatiche di Eracle. Come i nostri leader contemporanei, disprezza l’eroismo. Le grandi fatiche di Eracle sono ridicole come il balletto dei veechi. Eracle che ritorna nella. Tebe contemporanea dopo essere sceso nell’ Ade è insieme tragico e comico. În questo nuovo “splendido” mondo il suo eroismo antidiluviano è inutile. “Chi ha più diritto al mio aiuto che la moglie, i figli e il vecchio padre? Addio fatiche, compiute inutilmente prima di queste! ” (574 Sg.).

L’Eracle d’Euripide viene d’un tratto ad assomigliare in maniera sorprendente a un mercenario rinascimentale che sì congeda 173

Divorare

gli dei

per sempre dal mondo dell’avventura e della cavalleria: Addio, schiere piumate, addio, grandi battaglie che fanno

dell’ambizione un merito! Oh, addio! Addio, cavalli nitrenti e trombe squillanti e tamburi incitanti e laceranti pifferi, alti stendardi, ricchezza, pompa, orgoglio, riti, gloria della guerra, addio; e voi, macchine della morte che con le vostre ruvide

gole emulate i fragori spaventosi dell’immortale la giornata d’Otello finisce qui..

Giove, addio:

(Otello, IIL, 3, 3853-61)

I ragazzi corrono dal padre, s’avvinghiano alle sue gambe, s’agprappano alla pelle di leone. L’eroe abbraccia ì figli: ha messo

da parte arco, clava e faretra; la sua attrezzatura mitologica è posata a terra.

O quale scusa mi darò se, venuto alle prese con l’idra e il leone per mandato di Euristeo, non cerco di scongiurare la morte dei miei bambini?

Eracle il vittorioso.

Nessuno mi chiamerà più, come in passato,

(Eracle, 978 sgg.)

La prima parte di Eracle potrebbe avere come titolo “Îl ritorno del padre”. L’Eracle dorico che purificò la terra dai mostri, il popolare gigante tessalico, il viaggiatore instancabile, si trasforma in figlio affettuoso, marito fedele e padre preoccupato. Îl mutamento avviene anche a livello linguistico: Anfitrione viene ora chiamato padre, Megara moglie, Eracle figlio, padre e marito. La parabola mitica si chiude nei toni di una tragicommedia domestica: Eracle torna dall’Ade agli abbracci dei familiari: “Tutti amano 1 figli”” (636).

Îl tirannq ricompare, solo per farsi uccidere: il suo ultimo grido d’aiuto giunge da fuori scena. Finisce il primo atto. In questo momento un cocchio sul quale viaggiano Iride e Lissa

(Pazzia), mandate da Era, scende sul tetto del palazzo. Îl se-

condo atto inizia con Eracle che uccide moglie e figli. La strage avviene fuori scena. Le buie potenze della tragedia, scriveva Hegel, attaccano all’improvviso. L’ignoto è il nemico e 174

“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

proprio per questo è terrificante. E 1l nemico è in noi e insieme fuori di noi. Nel teatro di Euripide ci sono due tempi, due Adi

e due follie. La prima follia è una donna, con maschera

da Gorgone e serpenti tra i capelli, che tiene in mano una frusta. La seconda è in Eracle. Può sembrare a prima vista che Euripide usi il metodo omerico della doppia motivazione. Alle spalle dell’eroe c’è un dio che guida la freccia verso il bersaglio e devia la lancia scagliata dalla sua rotta. Ate copre gli occhi dell’eroe di una nebbiolina di sangue; Apollo rafforza 1 suoi languidi arti; Atena gli restituisce chiarezza di visione. Ma in Euripide i due emissari celesti che arrivano su un cocchio nero hanno una funzione diversa: Îride e Lissa s’imbarcano in una discussione intellettuale nella quale viene formulata la teologia di un dio invidioso, ‘“dell’imbroglio, della perfidia e della gioia sinistra”. Iride dice: “Conosca la collera di Era e anche la mia impari. O, lasciato lui impunito, gli dèij non saranno più nulla e grande, invece, la stirpe dei mortali”* (840 sgg.). Le mansioni delle emissarie divine di Era sono chiaramente divise: come quelle dei funzionari della polizia segreta: Iride è la propagandista e il controllore; Lissa svolge l’ingrata fatica. A volte 1 carnefici hanno ancora qualche scrupolo. Sanno che ì superiori lì disprezzano e, a modo loro, amano le proprie vittime. ‘“Io adempio uffici ingrati, né mi dà gioia visitare gli uomini che mì sono cari” (845 sg.). Lissa vorrebbe salvare Eracle da una sorte palesemente ingiusta. Iride la richiama all’ordine: “Ch’io sappia, la moglie di Zeus non ti spedi qua a sfoggiare saggezza”” {(857). Qui l’ironia è spietata. Lissa, figlia della notte, invoca il sole: “Chiamo il sole a testimone che agisco mio malgrado” (838). I carnefici hanno qualche scrupolo, ma sono obbedienti. Lissa è già saltata dal tetto su Eracle. Le dee hanno esposto la teologia della follia; ora il messaggero ne descrive la fisiologia. L’accurata precisione del suo rapporto ha sorpreso gli psichiatri: “Eracle non era più lui: sfigurato, 1735

Divorare gli dei

aveva gli occhi stravolti, sbarrati, rossi di strie sanguigne; e bava gli colava giù dalla barba folta. Parlò con riso demente” (931 sgg.). Il ‘“distruttore invisibile”’ di Sofocle, che s’apposta nelle tenebre e attacca all’improvviso, è in Eracle e contemporaneamen-

te fuori di lui. Îl “nemico

sovrumano”,

munito

di maschera

terrificante, balza ex machina sugli uomini, accompagnato da un gemito

di flauti.

Îl nemico

interno, che diventa invisibile

come una scheggia conficcatasi nella pelle, viene descritto con precisione assoluta. Aiace impazzito faceva a pezzi le pecore a mani nude e torturava i suoi cani scambiandoli per comandanti greci. Eracle impazzito uccide i suoi figli con le frecce e spacca loro la testa con la clava perché li scambia per i figli di Furisteo: Eracle — Chi li ha trucidati? Anfitrione — Tu e il tuo arco e il nume che n’è la causa. (Eracle, 1134 sg.)

Per Goethe e per Hegel, come per Marx, Nietzsche e Freud, Prometeo ed Edipo erano nella tragedia greca la raffigurazione più pura della condizione umana®®. La stupefacente modernità di Euripide è il tentativo di rivalutare il mitico Eracle impazzito mettendolo a confronto con la situazione di Prometeo e di Edipo. Egli ricorre, volutamente, agli stessi effetti scenici. Eracle compare legato con funi a una colonna del palazzo, come Prometeo alla rupe. Lissa e Iride, scese ex machina in un cocchio nero, assomigliano a Potere, Forza ed Efesto, mandati da Zeus a torturare Prometeo., e simile è la divisione dei loro

ruoli: il fabbro Efesto, lavoratore manuale, ha pietà del titano; Potere, un-apparatchik d’alto rango, difende il capo. Prometeo viene punito perché ama sfrenatamente l’umanità. Teseo definisce Eracle ‘“il benefattore degli uomini, il loro grande amico” (1252). Le sue grandi fatiche vengono ridicolizzate nella prima parte del dramma: non sono riuscite a civilizzare il mondo. Ma hanno suscitato l’invidia degli dèi. Eracle, come 176

“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

Prometeo, è un salvatore per volontà propria e contro il volere degli dèi. Ha superato i limiti dell’umano, ed è proprio per questo che deve essere umiliato. In fin dei conti ciò che gli dèi chiedono è un atto di contrizione. “Odio tutti gli dèi, cui feci bene e mi hanno reso male”, dice il Prometeo di Eschilo (975 sg.). Se l’inferno esiste, è ragione sufficiente per odiare il cielo. L’Eracle d’Euripide, che ha assassinato moglie e figli ed è sceso due volte all’inferno, lancia agli dèi la seconda sfida della tragedia greca: Teseo — La tua infelicità giunge sino al ctielo.

Eracle — Ebbene,

sono preparato

alla morte.

Teseo — Credi che agli dèi importi della tua sfida? Eracle — Gli dèi sono sprezzanti con me e io lo sono con lorO. (Eracle, 1240 sgg.)

C’è in Eracle una duplice critica della teologia, dai punti di vista della ragion pura e della ragion pratica: “Io non credo che gli dèiî approvino unioni illecite, e neanche s’addice loro gettarsi in catene

persuadermene. passione”” (1341 ste, deve essere me dice Eracle,

e prevalere

l’uno

sull’altro: non saprò mai

Il dio, se è veramente tale, va esente da ogni sgg.). Alla luce della ragion pura, se dio esiperfetto”‘ , Gli dèi in forma umana sono, cobugie di poeti. Ma alla luce della ragion prati-

ca, dio, se esiste, è responsabile dei mali del mondo. Un dio giusto è in contraddizione con l’intera esperienza umana. Il

dio, che ha inquinato sia la mediazione sia il mediatore e che

tortura l’umanità con continue epidemie, è crudele e invidioso. “Pianto senza mai fine avevo”, dice Eracle a Odisseo nell’ Ade. Euripide conosceva Omero a memoria: “Ti spiegherò co-

me la vita per me è intollerabile ora e lo era anche prima”. Eracle è la pietra di paragone dell’ingiustizia degli dè: e della crudeltà del mondo: ‘“Innanzi tutto nacqui da quest’uomo che

uceìse il vecchio padre di mia madre e, macchiato di quel sangue,

sposò

Alcmena,

la quale

mi

177

diede

alla luce

[...] Zeus,

Divorare gli dei

chiunque esso sia, mi generò esponendomi all’odio di Era” (1256 sgg.)°’ . Il destino è “il nemico”., O è questo o è una necessità dell’ignoto. “Stimolato da Era o alla mercé del proprio destino”, dice Anfitrionedi Eracle all’inizio del dramma. Euripide non è un nominalista. “Era” e “destino” sono soltanto nomi del ‘“’nemico invisibile”. Il fato è non consapevolezza. Eracle, senza saperlo, ha ucciso i propri figli, come Edipo, senza saperlo, ha ucciso suo padre. Il “nemico’” ha aspettato a lungo e la trappola era pronta ancor prima.che Edipo nascesse. Solo una volta si è trovato a un incrocio: arrivavano carri da Tebe ed egli rifiutò di lasciarli passare, alzò la mano e uccise suo padre. Fu cosf che cadde nella trappola.

La trappola è preparata dagli dèi o è dentro di noi. Nati da una madre e da un padre, siamo condannati a desiderare la nostra madre e a sognare la morte di nostro padre. “Ciò che è fatale nessuno mai potrà fare che fatale non sia” (311). Ancora una volta Euripide ripete le parole del Prometeo eschileo: “Bisogna che [...] riconosca che la forza del fato non si vince”

(105 sgg.). Ma lo stesso Edipo che uecise suo padre e andò a letto con sua madre, risolse l’enigma della Sfinge”® . Prometeo impara a conoscere il futuro. Edipo impara a conoscere il proprio

passato. Îl “nemico”

è sopra

o sotto

il livello della

consapevolezza umana. Prometeo ed Edipo fanno conoscere l°

ignoto.

Nella parabola di Er, figlio di Armenio, che chiude la Repubblica di Platone, Lachesi accoglie le anime dei morti scese nella “valle della trasformazione” per scegliersi una nuova vita: “La responsabilità è di chi sceglie, il dio non è responsabile”. Lachesi,

una

delle tre Moire, è figlia della necessità. Il libero

arbitrio è consapevolezza della necessità. L’Edipo di Sofocle si svolge nell’ora della scelta. Era stato predetto che Edipo avrebbe ucciso suo padre e sarebbe andato a letto con sua madre. Ma ora egli è davanti al coro, nella città 178

“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

dove infuria una epidemia micidiale. Tutto è già accaduto ed egli deve. solo emettere il verdetto. È’ insieme giudice, accusatore e imputato nel processo al proprio destino. Il giudice emette la sentenza, l’aceusatore la esegue: Ediposi strappa gli occhi con le proprie mani. La scelta suprema dell’imputato è proclamarsi colpevole o non colpevole. Edipo non si dichiara colpevole, ma accetta la responsabilità del proprio destino; fa suo il destino che gli è stato imposto. “Il fato è come la consapevolezza del proprio io, ma di se stesso in quanto nemico”, scriveva Hegel. Ora il difensore accusa l’accusatore. Edipo, che si è cavato gli occhi, rende visibile il proprio destino. “Forse il buon re Edipo aveva un occhio di troppo” °° , Edipo, che non si è dichiarato colpevole, decide di vivere per essere testimone della condizione umana‘° , ' “Dal momento

in cui lo sa”, scrive Camus

nel Mito di Sisifo,

‘“ha inizio la sua tragedia, ma, nello stesso istante, cieco e disperato, egli capisce che il solo legame che lo tiene avvinto al mondo, è la fresca mano di una giovinetta”‘! , S{, ma questo è Edipo a Colono, andato in scena solo dopo la morte di Euripide. Edipo è fuggito da Tebe, che ha finalmente salvato dalla peste, dopo essersi a sua volta infettato. S’aggira, monito e insieme minaccia, per strade lontane da ogni abitato umano. Quando Eracle si sveglia tra i cadaveri assassinati dei figli e .della moglie, un amico gli porge una mano: Eracle — Temo di lasciare macchie di sangue sul tuo mantello. Teseo — Asciuga quanto vuoi quel sangue: non mi ripugna. {Eracle, 1399 sg,)

Nei raggi del sole al tramonto che cadono sull’arena, Teseo di-

ce a Eracle di stare eretto:

“QOh, non contaminerai tu, morta-

le, gli dèi! ” (1232). L’amicizia e la luce del giorno sono più

forti del contagio. “La stella del mattino”, scriveva Eluard in

una delle sue più belle poesie, “disperde i mostri.” Eracle, nel-

le Trachinie, contaminato

dal veleno dell’idra, vorrebbe infet179

Divorare gli dei

tare il figlio e tutti quelli che ancora vivono. Sia lui sia Deiani-

ra sono alla disperàta ricerca di un ultimo gesto che possa da-

re un senso alla loro distruzione. Questo gesto è il suicidio cerimoniale di Deianira, ed è il rogo sul monte Eta, sul quale

Eracle vuole bruciare vivo. Il rituale è la mediazione estrema tra un dio crudele e la disfatta umana. Nell’Eracle di Euripide il .rituale viene rifiutato. La follia di Eracle inizia con un lavaggio di. mani ritualistico dopo l’uccisione del tiranno Lico. E' un momento che per Euripide dove-' va essere particolarmente importante: è citato infatti due volte, prima dal messaggero, poi quando Eracle riprende conoscenza: Eracle — Dove mi colse, dove mi perdé il furore?

Anfitrione — Presso l’altare mentre purificavi al fuoco le mani.

(Eracle, 1144 sg.)

l rituale è per Euripide, ricorrendo ancora una volta alla terminologia hegeliana, un’alienazione, una pseudosoluzione della contraddizione tra umano e non umano, tra conoscenza e non conoscenza,

tra oggetto

e soggetto,

tra natura e libertà, tra 1il

- interno. L’unica vera fine delnemico fuori di noi e il nemico

la follia è la libertà dalla paura del contagio magico. “Nessuna maledizione viene dagli amici agli amici” (1234). Eracle torna nel mondo umano, dove, benché non ci sia speranza, la disperazione deve essere controllata dalla ragione. “Un mondo come quello di questo romanzo”, scrive Malraux nella prefazione a Temps du mépris, “un mondo di tragedia, è sempre un mondo antico: uomo, folla, elementi, donna, destino. Lo si può ridurre a due forze attive: l’eroe e il significato

che egli dà alla propria vita”. Per i personaggi di Sofocle, la vita è un disastro e la significato alla propria ce: “Non nascere,è Deianira e Giocasta si ta sulla propria spada

loro scelta eroica consiste nel dare un disfatta. Îl coro di Edipo a Colono diil mio pensiero più dolce”. Antigone, uccidono per disperazione; Aiace sì getin segno di disprezzo per il mondo. Ma 180

“Dov'è adesso quel famoso Eracle?”

Edipo sceglie di vivere per dare un significato alla propria disfatta. Nello stesso modo Teseo dice a Eracle: “L’Ellade non ti permetterebbe una morte inconsulta” (1254). ‘“Non è importante”, serive Sartre, “quello

che ci viene fatto;

so! ”

Eracle

è importante solo ciò che abbiamo fatto noi di ciò che ci viene fatto”. La scelta eroica di Eracle e di Edipo consiste nel vivere dopo essere stati distrutti‘?. “Ah, cambiarmi qui in sas(1397).

Il sasso

è essenza

pura.

Ma

sa già che

all’uomo non è permesso cambiarsi in sasso. Sa che l’assassino dei figli e della moglie è lo stesso Eracle che ha liberato la terra dai mostri. Riprende la clava, l’arco e le frecce. “Ma ora devo sottostare al destino” (1357). Questo nuovo ‘“destino” è però diverso dalla danza di Era invidiosa che usa “battere il piede sul pavimento divino dell’Olimpo” (1304). Eracle accetta se stesso e la sua condizione umana: Teseo — Dov’è adesso quel famoso Eracle? Eracle — E tu, dimmi, com’eri laggiùu quando soffrivi? Teseo — Come coraggio, inferiore a chiunque altro. (Eracle, 1414 sgg.)

In-questo dialogo finale, il regno sotterraneo dell’Ade è soltanto un ‘‘sentiero d’ombra” che ogni umano deve percorrere per

poter crescere. Eracle accetta la sua condizione umana con gli

occhi pieni di lacrime. “Sciagure tali che anche un dio ne piangerebbe” (1115)°° , osserva Anfitrione. Ma Eracle sa che solo gli uomini piangono, non gli dèi. Accetta la condizione umana con ragionevole disperazione. Sa che anche il più forte può essere spezzato e che follia e vergogna sono comuni all’intera umanità.

L’uomo deve aspettare con pazienza il suo momento d’andarsene dal mondo come aspetta l momento per entrarci. Maturazione è tutto.

(Re Lear, V, 2, 9-11)

Eracle andrà con Teseo ad Atene per attendervi la morte, Ma seppellire 1 nostri cari che sono morti prima di noi è un altro 181

Divorare gli dei

aspetto della condizione umana. “1 figlioli sono cari a tutti”. Îl rogo aspetta. È’ stato preparato dai carnefici del tiranno per bruciare vivi i figli di Eracle. Aspetta sempre le sue vittime e non aspetta mai invano.

Eracle — Seppellisci, come ho detto, i bambini. Anfitrione — E a me chi darà sepoltura? Eracle — lÎo.

Anfitrione — Quando verrai? Eracle — Quando avrai sepolto i miei figli.

(Eracle, 1419 sgg.)

Rispondendo all’enigma della Sfinge, Edipo aveva detto: “L’ uomo”. In Eracle il tema dei due padri ritorna ben sei vol-

te‘ _ Due volte lo tocca Anfitrione, una Lico, tre il coro. Per

conoscere il proprio destino, Edipo ha dovuto scoprire chi era suo padre‘”. Al termine della tragedia, Eracle sceglie deliberatamente suo padre: “Îo reputo te, non Zeus, mio padre” (1265). Accettare la condizione umana comporta scegliersi un

padre umano. Ma questa scelta è anche un ripudio del padre celeste. Nell’Eracle di Euripide, Prometeo ed Edipo finalmente si congiungono. 4. Filottete o il rifiuto

a). Nel Filottete di Sofocle, come nella Tempesta, il pubblico è un mare e la scena un’isola. Pochi istanti prima che inizi la tragedia, Odisseoe Neottolemo, figlio di Achille, sono sbarcati

sulla rocciosa spiaggia di Lemno. Odisseo era già stato a Lem-

-no: dieci anni prima, quando la flotta greca, diretta a Troia, vi aveva gettato l’ancora e aveva abbandonato sull’isola Filottete, che dormiva in una grotta, perché, morso da un serpe nell’iso-

la di Crise, dava molto fastidio ai compagni di bordo. La sua ferita puzzava e i suoi gemiti erano talmente forti da disturba182

“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

re 1 compagni nelle preghiere. Odisseo ricorda che dalla spiaggia si giunge a un ripido e roccioso precipizio sul quale si apre una grotta con due uscite. Neottolemo attraversa il cerchio piatto dell’orchestra e giunge alla scala che porta alla skene: Neottolemo — [...] ecco mi pare scorgere un antro come tu dicevi. _ Odisseo — Soapra o sotto di te? Non vedo chiaro. Neottolemo — În alto. Questo. Eco di passi tace. Odisseo — Guarda se là non sia, nel sonno quieto. Neottolemo — E’ una casa deserta, in abbandono,

(Filottete, 27 sgg.) °$

La scenografia immaginaria viene creata sin dai primi versi: il mare, la costa piatta, il muro di montagne che cinge la spiaggia. La scena corrisponde con precisione all’architettura dei

teatri’ greci.

L’antro

“con due bocche”

(16) è la struttura in

legno della skene, con una porta centrale chiusa da una tenda e due porte laterali aperte: “Vedi la casa dalla doppia soglia, giaciglio nella pietra” (159 sgg.). Ma verso la fine del dramma le due aperture della grotta vengono chiamate più semplicemente porte: “Caverna dalla duplice porta {...}” (952). L’isola con la grotta tra le roece è ormai ben presente nell’immaginazione. ‘“Non aver paura. L’isola è piena di rumori [...|” (La tempesta, 1II, 2, 129). l coro dei marinai, in piedi sulla piatta orchestra-spiaggia, guarda con'spavento la grotta deserta: “[...]} straniero su terra straniera {...]” (136). Poi dalle profondità dell’ isola, rimbalzato dalle rocee e ripetuto dagli echi, arriva un gemito: “Proruppe un suono pulsante d’umano [...] la voce di chi la fatica d’un triste cammino trascina [...] il grido che gema da membra corrose’” (205 spgg.). 1 marinai hanno l’orecchio fino; si odono sempre più chiaramente dei passi. Ma fanno uno strano suono: l’uomo che s’avvicina trascina un piede. Sono 1 passi di uno zoppo. 183

Divorare gli dei [...] guidava Filottete, esperto dell’arco, sette navi [...]

Ma quello giaceva in un'’isola, soffrendo violenti dolori in Lemno divina, dove lo lasciarono i figli degli achei,

che spasimava per piaga maligna di serpe funesto. [...] ma presto dovevano ricordarsi gli argivi, presso le navi, del sire Filottete.

(Iiade, ÎL, 718 sgg.)

Î tre segni simbolici delle successive tragedie su Filottete esistono già tutti in questi sette versi di Omero: l’isola, la ferita

e l’arco. Ma solo Sofocle, fra i tre tragici, fa di Lemno un’isola deserta: “Lido di terra [...] inabitata da mortali”” (3). Su quest’isola desolata, sì svolgerà un capitolo della storia del mondo nel quale sono coinvolti gli dèi. Sul monte Eta, Filot-

tete ha dato fuoco al rogo sul quale è bruciato vivo ÉEracle. In compenso, ha ereditato l’arco e le frecce di Eracle. Abbando-

nato su Lemno, ha tenuto ben stretto in pugno l’arco. E’ l’arco dal quale verrà scoccata la freccia che ucciderà Paride e porrà fine alla guerra di Troia. Nell’epilogo Eracle in persona scenderà ex machina per convincere il testardo Filottete a par-

tire per Troia:

“Non

mai i luoghi veri”’ ?. Lemno

è segnata su nessuna carta; non lo sono

_

è segnata su tutte le carte e, con il vento a favore, è a

un solo giorno Neottolemo.

da Sciro dove Odisseo è andato

Gli archeologi

hanno

persino

a prendere

individuato la grot-

ta di Filottete sulla costa nordorientale di un’isola dove il dirupo sale direttamente dalla spiaggia rocciosa del monte Ermeo, che è la fonte dei riverberi dei gemiti dell’esule® e il luogo dove più tardi, conquistata Troia, s’accenderà un faro per mandare dal monte Ida ad Argo l’annuncio della vittoria°, Ma Lemno è anche uno dei “luoghi veri” dove, secondo Melville, si svolge la storia mitica del mondo. Efesto era stato scaraventato su Lemno dall’Olimpo e aveva installato la sua fucina nel cratere di Mosiclo, 1 cui brulli versanti sono ora visibili sulla costa occidentale dell’isola, a sud del monte Ermeo. 184

“Dov'è adesso quel famoso Eracle?”

Filottete, sentendo avvicinarsi un nuovo attacco del suo insopportabile male, cosi supplica Neottolemo: “Tu, creatura generosa, prendimi: sul gran rogo vulcanico di Lemno ardimi” (800). Quando Prometeo rubò il fuoco all’Olimpo, lo portò a Lemno, oppure, secondo un’altra versione del mito, lo sottrasse, sempre a Lemno, alla fucina di Efesto ° . Filottete, come i primi uomini che .avevano imparato da Prometeo, fa scaturire il fuoco dalle pietre: “E poi mancava il fuoco. Pure schiudevo, con lunga fatica, la chiusa fiamma, da pietra su pietra confricata e percossa” (294 sgg.). Su questa Lemno, mitica e reale, la prima isola disabitata nella storia della letteratura, l’esule ha trascorso nove anni di vita.

Nella grotta, che lo ripara dal freddo della notte e dal calore implacabile del giorno, Neottolemo trova “un giaciglio di fron-

de” (33) e ‘“una ciotola in legno, d’inesperto lavoro” (35 sg.).

Il primo

Robinson

Crusoe non ha cominciato

a coltivare la

terra della sua isola deserta e non si è neanche messo ad allevare. bestiame.

Ha

placato

la sete

con

l’acqua

della sorgente

che è ancor oggi, proprio come la ricordava Odisseo, a sinistra della grotta; ha placato la fame con uccelli e piccola selvaggina abbattuti con l’arco. Nell’Elettra di Sofocle, Oreste, che arriva

ad Argo alle prime luci dell’alba, ode il canto degli uccelli. Sull’isola di Filottete essi non cantano mai. Fiori e alberi non dànno profumi. C’è soltanto un odore: il fetore della sua ferita: ‘“tesi ad asciugare dei cenci intrisi d’un putrido umore” (38 sg.). ' L’odore nauseante del pus, che chiunque abbia trascorso anche un breve periodo in un ospedale militare durante una guerra non dimenticherà mai, accompagna Filottete dal primo all’ultimo verso della tragedia. “Lo zoppo fetido” si definisce egli stesso (1032). La ferita, che ogni tanto cola sangue e pus, viene descritta in tutta la sua repellenza: si parla del “rauco grido della triste piaga cruenta edace” e del “caldo flusso delle ferite stillanti d’un crudele arto” (699 sg.). 185

Divorare gli dei

In Aiace colano sangue e bava dalle narici del cadavere. In Edipo re, il messaggero racconta al coro il modo esatto in cui Edipo ha tagliato il cappio dal quale penzolava Giocasta e poi, quando il cadavere è caduto al suolo, ha strappato le spille d’oro che lei portava sul peplo e si è cavato gli occhi. L’Edipo di Edipo a Colono, nonostante le cure affettuose di Antigone, è un vecchio sporco e ripugnante:

‘“Una veste logora, squalli-

da, invecchiata con lui. Îl volto senza sguardo. ÎI capelli, un groviglio ventilato. E il suo cibo è come la sua veste” (1258 sgg.). Sofocle, il più crudele dei tragici greci, non ha mai paura dell’immagine fisica della sofferenza”! ; i suoi eroi sono co-

me statue, ma queste statue spargono sangue vero e per di più

stillano nero pus. “Il corpo è madido, nera dal piede sanguinosa vena fluisce aperta” (Filottete, 823 sgg.).

Filottete è stato morso da un serpe a Crise, mentre andava a Troia. Crise era un’isoletta a ovest di Lemno, sparita sotto il mare come l’Atlantide. “E’ stata inghiottita dal mare”, scrive Pausania. La sua sparizione era stata predetta, se dobbiamo credere a Erodoto, da una profezia di Onomacrito. Su Crise, isola insieme reale e mitica come Lemno, Giasone offri sacrifi-

ci quando gli Argonauti cercavano il vello d’oro, e lo stesso fece Eracle mentre andava a Troia. Filottete ha attraversato il sacro recinto di Crise e, come Edipo a Colono, si è fermato nel santuario dedicato agli dèi dell’A de. Una scena, raffigurata su un vaso del V secolo a.C., ci mostra

Filottete morso da un serpe che è il guardiano del santuario. Una sacerdotessa alza le braccia, come se fosse spaventata o stesse impartendo

una benedizione.

Sul suo abito ci sono due

file di cerchi, che simboleggiano una scala; e sul suo capo, un cappello a strisce, calathos, che ha la forma di un piccolo cilindro e sembra indicare un legame con il mondo sotterraneo ”? . Filottete, morso da un serpe, strascicherà d’ora innanzi il piede come uno zoppo. Edipo ha le orbite trafitte; Laio, suo padre, una gamba inferma; Labdaco, suo nonno, zoppica186

“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

va. Glì studiosi di religioni e gli antropologi considerano una

ferita alla gamba e le difficoltà di ambulazione rapporto con le divinità ctonie 3 . Naturalmente

per un serpente mordere

un uomo

segni di un

alla gambaè

più facile. Ma la ferita che non sì risana è una figura e un segno. În un’altra versione del mito, forse la più antica, Filot-

tete si ferisce

con una freccia avvelenata, ereditata da Eracle

insieme con.l’arco. E’ la sua punizione per aver rivelato il segreto della tomba di Eracle. La freccia è schizzata dalla faretra e gli ha trapassato il piede”* , Anche il centauro Chirone è stato ferito a un piede dalle frecce di Eracle immerse nel veleno dell’idra. Chirone, il maestro di Asclepio, che risanava uomini e.dèi, non ha saputo guarire se stesso. Torturato da sofferenze

insopportabili, ha preferito morire, benché fosse immortale, e

ha accettato di scendere nel Tartaro come riscatto per il perdono di Prometeo. Come dice Kerényi, “questo guaritore è strisciato con il proprio dolore nel buio della sua grotta come un animale malato e ha desiderato morire” ” . Il Chirone di Kerényi è un’immagine non intenzionale del Filottete di Sofocle. Sofocle

cita Chirone

una

volta

soltanto,

nelle

Trachinie:

“IHl

Pelio, nella valle di Peletronio, dove Chirone, tormentato

dal

dardo che colpi Nesso nel fianco, un giorno so che fece anche soffrire molto Chirone, ed era pure un dio” (714 sgg.). In Fi lottete sì nomina tre volte un’erba miracolosa che allevia il dolore. Quando Neottolemo trova vuota la grotta, suppone che lo zoppo sia andato a cercare l’erba analgesica (44). Quando Filottete si prepara a lasciare Lemno, vuol portare con sé soltanto “’un’erba che addormenta la mia piaga” (650). Il coro ha compassione di Filottete perché non aveva nessuno che “‘al caldo flusso delle ferite stillanti d’un crudele arto con miti erbe donasse quiete; che, ad ogni assalto nuovo, dalla terra ferace gliene cogliesse ancora” (699 sgg.). Sui pendii del monte dolore, sì era rifugiato in una grotta, cresceva un’erba capace 187

Divorare gli dei

di risanare le ferite prodotte da morsi di serpenti o da frecce avvelenate. Plinio la chiama kentaureion o chironion’°. A Lemno Filottete applica l’erba di Chirone sulle proprie ferite. Questa ferita incurabile è anche una ferita sacra ”7 . l serpente

è un archetipo dell’invisibile divenuto visibile. Filottete diven-

ta per la gente una specie di lebbroso perché è stato scelto

dagli dèi a svolgere una determinata funzione: “[...] dall’alto muovono [...] i dolori antichi che dall’aspra Crise su di lui di-

scesero. E la sua fatica d’oggi, il suo soffrire d’ogni cura privo, senza il disegno d’un Iddio non vedo: impedire che vibri egli

quei divini- dardi inevitabili contro HMio, prima che per Troia il

tempo già fissato venga d’essere soggiogata da sue frecce” (193 sgg.). Il giovane Neottolemo non . ha il minimo. dubbio che Filottete sia stato morso da un serpente per uno speciale volere degli dèi. Ma a Filottete gli dèi non ne hanno parlato. Il serpente che ha fatto di lui uno zoppo è per lui “il mio peggior nemico” (631). Se lo hanno mandato gli dèi, è perché lo disprezzavano:

“Sono un nulla, ormai [...] il più odiato da-

gli dèi tra gli uomini” (1030 sg.).

Iì Filottete di Sofocle, come il suo Eracle, è uno strumento in

mano a dè distruttori. “Ecco, sopporto”, dice ÉEracle nelle Trachinie, “da cieco colpo d’Ate, ora battuto devastato vedermi” (1104). Eracle viene bruciato vivo, distrutto dal veleno dell’idra, dopo aver compiuto le dodici fatiche. Molto tempo fa, il serpente ha morso Filottete perché un giorno egli potesse andare a Troia e compiere la sua missione. Nella teologia di Sofocle essere scelti dagli dèiì è una tragedia; il mediatore è per gli altri un reietto. Lo stigma è una fetida ferita. La ferita di Chirone era insanabile. “Dal grave morbo tregua tu certo non avrai”, dice Neottolemo

a Filottete alla fine del

dramma umano, poco prima dell’apparizione di Eracle ex machina. Îl mondo tragico è insanabile’”® . La coscienza, per gli esistenzialisti, è un buco nell’essere. La coscienza tragica è come una piaga ulcerosa che non si risana più. “Dal grave morbo 188

“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

tregua tu certo non avrai”, sembra una battuta di Camus. La ferita insanabile è un segno duplice: degli uomini scelti dagli dèi come mediatori e di quelli che rifiutano di sottomettersi agli dèi, alla storia e all’ordine. La guarigione è sempre un compenso della sottomissione. Il serpente che morde Filottete è l’emblema di Asclepio, i cui figli dovranno risanare Filottete. I figli del dio sono medici militari nel campo greco. Ma l’ostinato Filottete è un mediatore che non vuol essere curato. ‘“Si{ ch’io m’induca a veder Troia? Mai” (1392).

b) Filottete

è stato bandito

dalla comunità umana,

che lo ha ab-

bandonato con un mucchio di cenci e una manciata di cibo. Î marinai, sbarcati a Lemno in questi nove lunghi anni, gli hanno lasciato altri mucchi di stracci e brandelli di provviste. Ci sono soltanto l’ancoraggio deserto e il mare vuoto. Le urla echeggiate dalle rocce raggiungono solo le onde che si rifrangono sulla spiaggia deserta. “Qui senza moto attese, solitario, ! escluso, senza un compagno di dolore a lato” (691 sgg.). Filottete viene scaraventato al fondo della condizione umana: ‘““giace nel deserto senza doni d’una vita senza umani solo”, dice il coro, “[...] nei congiunti spasimi del morbo e della fame” (182 sgg.). Come i paralitici di Beckett, è tormentato dalla fame, dalla sete e dalle sofferenze. “Tutto scrutare, né presenza

alcuna, se non quella d’angoscia, mai discernere; ma d’

angoscia una facile ricchezza [...]” (283 sg.).

Questo

straccio umano,

guesto

“morto

tra i vivi”’, è ancora il

proprietario dell’arco invincibile. Odisseo, che si è scelto come compagno il giovane figlio di Achille, deve portare Filottete a Troia. Senza quest’arco e senza quest’uomo è impossibile vincere la guerra. Ancora una volta c’è bisogno di lui. E bisogna consegnarlo vivo: con l’inganno, con la forza o con la persuasione. Îl paria deve diventare il salvatore, il lebbroso un eroe 189

Divorare gli dei

nazionale. Gli dèi, l’assemblea dei greci, persino la storia, che

deve essere compiuta, invocano il ritorno di Filottete. À questa triplice pressione, egli può opporre soltanto la sua ferita,

testimone dell’ingiustizia divina e umana. “Ogni altro tranne me solo a ricevere negli occhi tutto questo anche a guardare non avrebbe durato” (636 sg.). Filottete è una ferita non sanata. La ferita è la sua forza. Sull’isola deserta sìi svolge ora un brutale dramma potitico. Il Filottete di Sofocle è opera amaramente e sorprendentemente realistica per chi conosce,

per

esperienza

propria

o altrui, co-

me si possano far crollare prigionieri politici 1 cui nomi siano di nuovo sfruttabili, o come si trattino i deportati le cui capacità possano essere ancora utili o come si prema sugli emigrati

divenuti improvvisamente necessari in patria. Neottolemo — Che cos’altro comandi,

oltre al mentire?

Odisseo — Prendere Filottete con la frode.

Neottolemo — Perché l’inganno e non la persuasione? Odisseo — Non si convince; e a forza non lo domi.

(Filottete, 100 sgg.)

L’inganno è il metodo più semplice. E° un vecchio trucco de-

gli inquirenti promettere

ai prigionieri di far loro rivedere la

propria famiglia. Neottolemo dà la sua parola a Filottete che

lo riporterà alla sua casa di Eta e gli farà rivedere il vecchio

padre. Filottete gli crede e gli cede l’arco. Ora l’arco di Eracle è nelle mani di Odisseo. Ma proprio allora, il giovane figlio di Achille, che per la prima

ipocerisia, viene turbato

volta in vita

dall’immagine

sua ha conosciuto



della sventura umana.

Svela la verità a Filottete: lo porteranno al campo greco. Già 1

‘marinai lo hanno preso per le braccia. Ma il cadavere vivente preferirebbe fracassarsi sulle rocce. Mauai! Se ogni male dovessi patire, mai, finché avrò su questa terra il margine alto di questo baratro scosceso.

(Filottete, 099 sgg,.)

190

“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

Î marinai si sono staccati da Filottete. Odisseo, vecchio pragmatista, ha capito sin dall’inizio che l’arco infallibile è più importante del suo fetido proprietario, improvvisamente favorito dagli dèi; e trasformato da loro in salvatore della nazione. Se insiste, rimanga pure l{, ma senza l’arco. Filottete sa che cosa

significa. L’isola è piena d’uccelli. “‘Morendo, offrirò io misera-

mente pasto a quelli stessi di cui mi nutrivo” (956 sg.). Ritroveremo la. medesima aspra ironia nelle parole di Amleto, quando

Claudio

gli chiede dov’è. Polonio:

“A cena [...] Non

dove

mangia, ma dove è mangiato” (IV, 3, 18-20). L’immagine di Filottete divorato dagli uccelli verrà ripetuta più avanti: [...] Da chi da dove un alimento di speranza mai

riceverò dolente? Scendessero dall’etere

col penetrante sibilo del vento

gli uccelli a divorarmi!

In alto, il cielo nascosto

zoppo

lo non resisto. dalle nubi;

(Filottete, 1090 sgg.) sotto, il mare deserto: lo

diverrà cibo per gli uccelli, come Prometeo incatenato

alla rupe del Caucaso. Lemno è l’isola di tutti i miti.

La frode e la forza falliscono: Neottolemo restituisce l’arco a

Filottete. Non resta che la persuasione. I delegati dell’autorità cominciano sempre parlando delle necessità supreme:

Neottolemo — L’impone, sai, necessità fatale:

e tu solo ad udirla non sdegnarti. Filottete — E’ la mia triste fine [...] è il tradimento.

(Filottete, 92 sgg.)

Se un prigioniero crede nella necessità suprema, è definitivamente perduto ”° . Filottete è perfettamente consapevole che esistono due necessità diverse, quella degli oppressori e quella degli oppressi: “Ed io, costretto fra tristi cose, anche ad amarle appresi’” (538). Si dice che questa necessità suprema sia dettata dagli dè:. Ma gli dèi sono sempre dalla parte degli oppres191

Divorare gli det

sori. In nessun’altra tragedia di Sofocle sì nominano cosiì spesso gli dèi. Come in Aiace, anche in Filottete Odisseo è un pio uomo politico il quale sa benissimo che il nome di dio non viene mai nominato invano. Gli dèi aiutano chi li aiuta. L’ultimo anno della guerra di Troia, che per Sofocle è un’immagine

della guerra del Peloponneso, ha mutato il nuovo Odisseo in

un cinico politicante. Adesso è pronto