Gli dei dei germani. Saggio sulla formazione della religione scandinava 8845901734, 9788845901737


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Italian Pages 154 [157] Year 1974

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Gli dei dei germani. Saggio sulla formazione della religione scandinava
 8845901734, 9788845901737

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DELLO STESSO AUTORE:

«...Il monaco nero in grigio dentro Varennes» Le sorti del guerriero Matrimoni indoeuropei A CURA DELLO STESSO AUTORE:

Il libro degli Eroi

Georges Dumézil

GLI DÈI DEI GERMANI SAGGIO SULLA

FORMAZIONE

DELLA RELIGIONE SCANDINAVA

ADELPHI

EDIZIONI

T I T O L O ORIGINALE

Les dieux des Germains

Traduzione di Bianca Candian

La traduzione è stata condotta sulla seconda edizione francese dell'opera, appositamente riveduta dall'autore per l'edizione italiana.

Quinta edizione: giugno

©

1991

1 9 5 9 PRESSES UNIVERSITAIRES DE FRANCE ©

1 9 7 4 A D E L P H I E D I Z I O N I S.P.A. ISBN 8 8 - 4 5 9 - 0 1 7 3 - 4

PARIS

MILANO

INDICE

Prefazione

11

1. Dèi Asi e dèi Vani

13

2. La magia, la guerra e il diritto

53

Odhinn,

Tyr

3. Il dramma del mondo

93

Baldr, Hòrf/ir, Loki

4. Dalla tempesta al piacere

121

T/iòrr, Njòrd/ir, Frcyr, Frcyja

Note bibliografiche

143

GLI DÈI DEI GERMANI

PREFAZIONE

f^'f

A Marcel Schneider La prima edizione del presente libro, risale all'inizio del periodo valido, o almeno attuale, della mia ricerca comparativa. Nella primavera del 1938, dopo tre lustri di penose incertezze, avevo individuato le grandi corrispondenze che inducono ad attribuire agli Indoeuropei, prima della loro dispersione, una teologia complessa, imperniata sulla struttura delle tre funzioni di sovranità, forza e fecondità. Preparato durante l'autunno del 1938, e pubblicato nel 1939, il libro si conformò quindi a quella divisione tripartita, ma, per rendere intelligibile questo primo saggio di una lunga serie, dovetti presupporre ' mature ' sia la documentazione germanica ripensata nel nuovo schema, sia la documentazione comparativa che la illumina. La data e la fretta spiegano a sufficienza, spero, le disuguaglianze di una trattazione ben presto sorpassata. Dopo vent'anni ci è sembrato opportuno fornire con un titolo non dissimile, una dimostrazione più sicura e più serrata, basata sul mio lavoro successivo e su quello di colleghi - penso prima di tutto a Jan de Vries, di Leyda, e a Werner Betz, di Bonn - che hanno fatto nel medesimo senso e con lo stesso spirito, indagini e precisazioni molto importanti. Per quanto riguarda il

primo, rimando lo studioso, una volta per tutte, alla nuova edizione dell'A Ugermanisc he Religionsgeschichte (I, 1956; II, 1957), Parte XII del Grundriss der germanischen Philologie, fondato all'inizio del secolo da Hermann Paul; per quanto riguarda il secondo, rinvio alla trattazione «Die altgermanische Religion » (1957), che occupa le colonne 2467-2556 della grande raccolta Deutsche Philologie im Aufriss, di W. Stammler. I primi tre capitoli sono lo sviluppo di altrettante conferenze tenute a Oxford nel maggio 1956, su cortese invito di G. Turville-Petre. Il terzo, tuttavia, è stato considerevolmente ritoccato: propone una soluzione del ' problema di Baldr ' alla quale sono giunto solo nel 1957. Il quarto completa in grandi linee la descrizione della forma che ha preso, nei paesi scandinavi, la teologia delle tre funzioni. Il resto, che non è poco, delle rappresentazioni religiose, in particolare un dio ingombrante come Heimdallr e, tranne Freyja, tutto il coro delle dee, non poteva trovar posto in questa stretta imbarcazione. Né ho rinnovato la riabilitazione delle fonti che spero di aver spinto abbastanza avanti, per quanto riguarda Snorri, in Loki (1948) di cui deve uscire una edizione tedesca, rimaneggiata, proprio quest'anno (Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt); e per quanto riguarda Saxo, in La saga de Hadingus (Bibliothèque de l'École des Hautes Études, Section des Sciences religieuses, LXVI, 1953). Parigi, ottobre 1958.

G. D.

DÈI ASI E DÈI VANI

Nella mitologia scandinava - la meglio descritta, o piuttosto la sola descritta tra le mitologie germaniche - i ruoli principali sono ripartiti fra due gruppi, gli Asi (aesir, sg. dss)1 e i Vani (vanir, sg. vanr). Sono menzionate alcune altre specie divine, quali gli Elfi (alfar, sg. alfr), ma queste non comprendono nessuno dei grandi dèi, né degli dèi di cui è conosciuto il nome. Il significato da attribuire alla coesistenza degli dèi Asi e degli dèi Vani, costituisce il problema fondamentale. T u t t o cambia, nelle trattazioni di Altnordische e, per conseguenza, di Altgermanische Religionsgeschichte, secondo che ad esso venga data questa o quella tra le soluzioni proposte, e davanti ad esso si arresta, senz'altro, ogni nuovo tentativo di interpretazione, anzi di impostazione della mitologia. I. Nelle parole scandinave, ' th ' e ' d h ' in tondo nelle parole in corsivo (e viceversa) r e n d o n o il ' th ' sordo e il ' th ' sonoro dell'inglese. Il medesimo artificio, per la trascrizione di diverse lingue, indica dei particolari di articolazione privi di importanza per il lettore. L'accento circonflesso rende sempre le vocali lunghe, tranne per l'iniziale (maiuscole), dove sono stampate anch'esse in tondo nelle parole in corsivo (e viceversa). Scand. / = fr. y.

Non esiste alcun testo che ci dia, in modo didattico, la definizione generale e differenziale dei due gruppi divini. Si può tuttavia caratterizzarli facilmente mediante l'esame dei loro rappresentanti principali. La distinzione è così netta che, almeno in linea di massima, gli esegeti di tutte le scuole si trovano d'accordo. Insieme a Tyr, notevolmente più sbiadito, i due Asi più ragguardevoli sono Odftinn e Thòrr, e i tre Vani più tipici sono Njòrei/ir, Freyr e Freyja. Anche se accade loro, eccezionalmente, di fare altre cose, questi ultimi tre sono, prima di tutto, dei ricchi e dei dispensatori di ricchezze, patroni della fecondità e del piacere (Freyr e Freyja), della pace anche (Freyr), e sono legati, topograficamente e economicamente, alla terra che produce le messi (Njòrd/zr, Freyr), al mare che arricchisce i naviganti (Njòrdftr). Odhinn e Thò rr hanno altre cure. Nessuno dei due, certo, si disinteressa della ricchezza o dei prodotti del suolo, ma, al momento in cui la religione scandinava ci è nota, i centri di gravità della loro azione sono altrove: l'uno è il mago sublime, signore delle rune, capo di tutta la società divina, patrono degli eroi vivi e morti; l'altro è il dio dal martello, il nemico dei giganti a cui il suo furore, talvolta, lo rende simile; il suo nome lo designa come il « dio che tuona », e, se aiuta il contadino nel lavoro della terra, la sua azione, anche secondo il folklore moderno, è violenta, quasi un sottoprodotto della sua battaglia atmosferica. Nei capitoli seguenti, esploreremo nei particolari queste brevi notizie, sufficienti però a mostrare in che cosa consista

l'opposizione dei Vani, molto omogenei, e degli Asi, più vari nelle loro vocazioni. Quanto ai loro rapporti, sono di due tipi, secondo che si prendano in considerazione la pratica cultuale con l'insieme divino che la sostiene, o le tradizioni riguardanti le origini lontane di tale insieme, ossia ciò che si può definire la preistoria divina. Nella realtà religiosa, Asi e Vani vivono in perfetto accordo, senza dispute né gelosie, e questa intesa permette agli uomini di associarli senza precauzione nelle preghiere e, in generale, nel culto; permette inoltre ai poeti di dimenticare che i Vani sono Vani e di designare con il nome di Asi una comunità divina di cui si apprezza prima di tutto l'unità. Questa associazione viene frequentemente espressa da una enumerazione a tre termini che mette in risalto una evidente gerarchia in cui prevalgono gli Asi come superiori ai Vani: Odhinn, Thòrr e Freyr (talvolta, al terzo posto, Freyr e Njòrd/zr; più raramente il dio Freyr cede il posto alla dea Freyja) riassumono così frequentemente i bisogni e le immaginazioni degli uomini, e in circostanze così varie, e in parti così diverse del mondo scandinavo, che bisogna pensare veramente che la formula sia significante. Eccone gli esempi principali: Quando Adamo di Brema, negli ultimi tempi del paganesimo, venne a conoscenza della religione praticata nel tempio di Upsala dagli abitanti dell'Upland svedese, questa si riassumeva visibilmente nei tre idoli che, fianco a fianco, si trovavano nell'edificio offrendo ai credenti una varietà

di devozioni (Gesta Hammaburgensis Pontificum, IV, 26-27):

Ecclesiae

In quel tempio, tutto ornato d'oro, scrive il viaggiatore tedesco, il popolo adora tre statue di dèi; Thor, il più potente, che siede nel mezzo con Wodan alla sua destra e Fricco alla sua sinistra. Questi dèi hanno i seguenti significati: Thor, si dice, è il sigiiore dell'atmosfera e governa il tuono e il fulmine, i venti e le piogge, il bel tempo e le messi; Wodan, cioè il Furore, conduce le guerre e fornisce all'uomo il valore contro i nemici; il terzo è Fricco, che procura ai mortali la pace e la voluttà, e il cui idolo è munito di un membro enorme. Essi hanno dei sacerdoti adibiti a tutti i loro dèi, che presentano i sacrifìci del popolo. Se vi è pericolo di peste o di carestia, fanno un'offerta all'idolo Thor; per la guerra, a Wodan; e se vi son delle nozze da celebrare, a Fricco. Queste indicazioni pongono dei problemi, circa i particolari, che esamineremo più tardi, sia rispetto ai limiti delle specialità divine, sia rispetto al posto d'onore riconosciuto a Thòrr. Quel che importa, in questa sede, è che descrivono in modo eccellente la struttura teologica a tre termini. Siamo ben poco informati sulle forme dei culti, sulle liturgie scandinave, ma due particolari concordanti mostrano che la stessa triade presiedeva per lo meno alle maledizioni più solenni. Nella saga che porta il suo nome, Egill, figlio di Skallagrimr, al momento di abbandonare la Norvegia per l'Islanda, maledice il re che lo ha spogliato

dei suoi beni e costretto a questo esilio (cap. 56); dopo un appello collettivo agli dèi sotto i nomi di bònd e godh, egli continua: ... Che gli dèi (rògn) e Odhinn si irritino! Freyr e Njòràhr, fate che l'oppressore del popolo fugga le sue terre! Che l'Ase del Paese (= .Thórrj odii il nemico degli uomini che viola i santuari! Nel suo commento (Altnord. Sagabibliothek, 1894, p. 180), Finnur Jónsson analizza accuratamente il movimento di questa strofa che, del resto, egli costruisce altrimenti: il poeta invoca dapprima gli dèi in generale, e, nominatamente, l'onnipotente Odhinn; Freyr e Njòrd/zr, dèi della fecondità, e Thòrr il vigoroso « Ase del Paese ». Ma già in un poema eddico, gli Sktrnismdl, il servitore di Freyr, rinunciando a convincere la gigantessa Gerdhr, oggetto degli amori del suo padrone, l'aveva minacciata in questi termini (33): Odhinn è irritato con te; il più ragguardevole degli Asi [= Thorr] è irritato con te, Freyr ti odierà, te, malvagia, che hai meritato la grande collera degli dèi! Si noterà che, in tutti e due i casi, Thòrr è designato con una perifrasi, forse perché la menzione esplicita del suo nome rischierebbe, se si tien conto di certi miti eddici, di provocare l'apparizione immediata del dio. All'inizio dell'XI secolo, nel poema sulla sua conversione, prima di affidarsi al Cristo, al Padre e a « Dio », Hallfraed/zr VandraecZ/zarskald sfida que-

ste stesse divinità (str. 9 : E.-A. Kock, Den norskisl. Skaldediktningen, I, 1946, p. 86): Contro di me siano irritati Freyr e Freyja (io abbandono il figlio di Njórdhr! Si alleino i demoni con Grimnir [= Odhinn]!), - irritato sia anche il vigoroso Thórr! La magia ha forse conservato a lungo simili formule trinitarie contro malattie o malefici: « Nel nome di Odino, di Thor e di Frigga » vi si alterna (Norvegia) con la trinità cristiana (A. Bang, Norske Hexenformularer og magiske Opskrifter, 1901, nn. 40, 127; pp. 21, 127). Infine, la mitologia associa frequentemente in triadi i medesimi personaggi. T r a loro soltanto sono distribuiti i tre gioielli divini appositamente forgiati dai nani per una sfida del malvagio Loki: l'anello magico tocca a Odhinn, Thòrr riceve il martello che sarà lo strumento delle sue battaglie e Freyr il cinghiale dalle setole d'oro (Skdldskaparmàl, cap. 44: Sn. E., p. 123).1 È di loro, e di loro soltanto, congiuntamente, che la Vòluspà (str. 53-56) descrive i duelli supremi e la morte nella battaglia escatologica. Più in generale, sono loro - e la dea Freyja strettamente associata a Freyr e a Njòrd/zr - che dominano, che si accaparrano, persino, quasi tutto il materiale mitologico. E non è privo di significato il fatto che le divinità che si spartiscono la proprietà dei morti - in condizioni oscu1. I riferimenti ali 'Edda in prosa sono accompagnati dal n u m e r o della pagina dell'edizione di FINNUR JÒNSSON, Edda Snorra Sturlusonar, Copenhagen,

1931 [= Sn. E.].

re per i due ultimi - siano Odhinn, che si attribuisce gli uomini nobili o « la metà degli uccisi » sul campo di battaglia, Thòrr, a cui spettano i « servitori » (senza dubbio, più correttamente, i non nobili), e Freyja che, secondo un testo, si prende l'altra metà degli uomini uccisi in guerra (Grimnismàl, 14), e, secondo un altro, le donne (Egilssaga, 78, 19). Questi gli elementi principali. Ma questa unione e questa concordia, fondate su una lucida analisi dei desideri umani, non sono esistite da sempre, dice la leggenda. In un passato lontano, i due gruppi divini erano vissuti separati e vicini, avevano sostenuto una dura guerra a conclusione della quale i più ragguardevoli tra i Vani erano stati associati agli Asi, mentre il resto del loro « popolo » sussisteva da qualche parte, al di fuori dell'obbligo e delle cure ,del culto. Quattro strofe affannose della Vòluspà, in cui la veggente percorre in modo allusivo tutta la storia degli dèi, due testi dell'erudito Snorri, e un rifacimento poco abile del suo contemporaneo Saxo Grammaticus ci informano su tale crisi iniziale, che è sottintesa anche in numerosi passi degli altri poemi eddici. Questi documenti non sono omogenei: due di essi presentano l'avvenimento in termini mitologici, due lo traspongono in termini storici e geografici. Il primo gruppo comprende le strofe 21-24 della Vòluspà e un passo del manuale di mitologia composto da Snorri ad uso dei poeti, gli Skdldskaparmàl (cap. 4); il secondo comprende i capitoli 1, 2, 4 e 5 della Storia degli Ynglingar, ipotetici discendenti di Freyr, e

il capitolo 7 del primo libro dei Gesta Danorum di Saxo,' frammento della « saga o di Hadingus o » che occupa i capitoli 5-8 di questo libro. a) Vòluspd, 21-24. Ho studiato a lungo in altra sede (Tarpeia, 1947, pp. 249-291), questo passo che l'ipercritica di Eugen Mogk (« FFC », 58, 1924) aveva preteso di sottrarre all'insieme dei documenti sugli Asi e sui Vani. L'ordine degli avvenimenti, qualificati come « prima guerra di eserciti nel mondo », a meno che non sia semplicemente l'ordine delle strofe, sembra un po' confuso in quei passaggi rapidi e discontinui, che non raccontano, ma si accontentano di evocare episodi già noti agli ascoltatori. Vi si parla lungamente (21-22) di un essere femminile chiamato Gullveig, «Ebbrezza dell'Oro», inviato dai Vani presso gli Asi i quali, nonostante un trattamento metallurgico, non possono disfarsene; questa strega semina la corruzione, soprattutto tra le donne. Vi si parla inoltre (24) di un giavellotto, apparentemente magico, lanciato da Odhinn contro l'esercito nemico, il che non impedisce che « rotta fosse la cinta del castello degli Asi » e che « i Vani bellicosi (?) potessero percorrere liberamente le pianure ». Ma da questi opposti movimenti non risulta niente di decisivo, poiché (23) gli dèi tengono un congresso di pace dove discutono di eventuali compensazioni. b) Skdldskaparmdl (cap. 4: Sn. E., p. 82, risposta di Bragi alla domanda: « Donde viene l'arte chiamata Poesia? »): Ne è causa il fatto che gli dèi (godhin: sono gli

Asi) ebbero ima guerra col popolo dei Vani. Ma convocarono ima conferenza di pace e fecero una tregua nel modo seguente: si accostarono entrambi a un medesimo vaso e vi sputarono il loro sputo. Qiiando si separarono, gli dèi lo presero e non vollero lasciar perdere questo segno di pace: così ne formarono l'uomo che si chiama Kvasir. Egli è cosi saggio che non vi è domanda al mondo alla quale non trovi risposta. Parti per il vasto mondo per insegnare agli uomini la saggezza. Ma un giorno andò a trovare i nani Fjalarr e Galarr che l'avevano invitato. Essi lo attirarono in disparte e lo uccisero. Fecero colare il suo sangue in due vasi e in un paiolo; il paiolo si chiama Oàhrcerir e i due vasi Són e Boàhn. Mescolarono al sangue del miele e si formò un idromele tale che chiunque ne beve diviene poeta e uomo di scienza. I nani dissero agli Asi che Kvasir era soffocato nella propria intelligenza perché non vi era nessuno abbastanza abile per esaurire il suo sapere per mezzo di domande. (Segue il racconto della conquista del prezioso idromele da parte di Odhinn che ne sarà il grande beneficiario). c) Ynglin^asaga (inizio della Heimskringla, 1, 2, 4, 5):

capp.

1. DOVE S I T R A T T A D E L L A D I V I S I O N E D E L L E T E R R E . -

II cerchio di mondo che l'umanità abita è diviso da golfi; grandi mari provenienti dall'oceano esterno lo penetrano. Si sa che un mare si estende dal Passo Stretto [lo stretto di Gibilterra} fino al paese di Jàrsala [Gerusalemme]. Da questo mare, un profondo golfo marino si spinge verso il nord; è chiamato il mar Nero, e separa due terzi della

terra. Quello a Est è detto Asia, quello a Ovest è detto Europa dagli uni, £neà dagli altri. Ma a nord del mar Nero si stende la Grande Svezia, o Fredda Svezia [.Russia]. Alcuni dicono che la Grande Svezia non è inferiore al Grande Serkland [l'Africa del Nord]; altri la uguagliano al Grande Blàland [l'Africa]. La parte settentrionale della Grande Svezia è disabitata a causa del freddo e del gelo, così come la parte meridionale del Blàland è deserta a causa dell'ardore del sole. Vi sono, nella Grande Svezia, numerose e vaste province, e popoli di varie razze e di varie lingue. Vi sono giganti e nani e anche dei negri, popoli sorprendenti di varie specie, e anche animali e draghi di dimensioni spaventose. Dall'estremo nord, dalle montagne che sono al di là di ogni luogo abitato, scende un fiume che attraversa la Grande Svezia; il suo vero nome è Tanai [il Don], ma anticamente era chiamato Tanakvisl [kvisl = braccio di fiume] o Vanakvisl; esso giunge all'acqua libera nel mar Nero. Nei Vanakvisl si trovava il paese chiamato Vanaland o Vanaheimr [paese, patria dei Vani], Questo fiume separa i due terzi della terra: a est, quello chiamato Asìà, a ovest /'Europa. 2. O D H I N N . - A est del Tanakvisl si trovava quello che si chiamava Z'/isaland o /isaheimr [paese, patria degli Asi], e il castello-capitale che era nel paese veniva chiamato Asgardhr. E in questo castello viveva un capo chiamato Odhinn. Era quello un grande luogo di sacrifìcio. L'usanza era che laggiù vi fossero dodici hoEgod/iar [sacerdoti dei templi]. Essi dovevano regolare i sacrifìci e i giu-

dizi tra gli uomini; venivano chiamati dìar [nome irlandese degli dèi!] o drótnar [re]. Tutto il popolo doveva loro servigi e riverenza. Odhinn era un grande uomo di guerra, andava molto in giro e si impossessava di molti regni. Era talmente vittorioso che vinceva tutte le battaglie. Per questo i suoi uomini credevano che avesse, come dono naturale, la vittoria in ogni battaglia. Era sua abitudine, prima di mandare i suoi uomini in battaglia o in qualche altra missione, di imporre loro le mani sul capo e dare la sua benedizione; essi credevano allora che sarebbero stati sulla buona strada. Tra i suoi uomini vi era anche l'abitudine, ogni volta che erano in pericolo in mare o in terra, di invocare il suo nome, e credevano di riceverne sempre conforto; pensavano di godere di ogni protezione là dove egli si trovava. Andava così spesso lontano, fuori del suo paese, che restava in viaggio per lunghi anni [...]. 4. LA GUERRA CONTRO i VANI. - Odhznrc marciò con la sua armata contro i Vani, ma essi resistettero validamente e difesero il loro paese e le vittorie furono alterne. Ognuna delle parti devastò il paese dell'altra e vi fece danni. E quando da una parte e dall'altra ne ebbero abbastanza, tennero una conferenza, conclusero la pace e scambiarono ostaggi. I Vani diedero i loro uomini più ragguardevoli, Njórdhr il ricco e suo figlio Freyr; e gli Asi, in cambio, quello che si chiamava Hcenir e dissero che era perfettamente adatto a fare il capo. Era un uomo grande e molto bello. Assieme a lui, gli Asi mandarono quello che si chiamava Mìmir, un uomo molto saggio. E i Vani

diedero in cambio quello che tra loro era il pili intelligente; si chiamava Kvasir. Quando arrivò a Vanaheimr, Hcenir fu subito eletto capo. Mimir gli indicava tutte le decisioni cioè gli diceva tutto quello che bisognava dire o fare e, quando Hcenir era ai thing o alle assemblee senza che Mimir gli fosse accanto, e gli veniva presentato un caso difficile, rispondeva sempre la stessa cosa: « Che decidano altri! », diceva. Allora i Vani sospettarono che gli Asi li avessero ingannati al momento dello scambio degli uomini. Presero Mimir, lo decapitarono e inviarono la sua testa agli Asi. Odhinn prese la testa, la unse con erbe perché non imputridisse, pronunciò su di essa dei canti magici e le diede il potere di parlare e di dirgli molte cose segrete. Odhinn stabilì Njórdhr e Freyr come sacerdoti sacrificanti e essi furono dìar presso gli Asi. La figlia di Njórdhr era Freyja, e fu sacerdotessa sacrificante. Fu lei a insegnare per la prima volta agli Asi la forma di magia detta seidhr, che era in uso presso i Vani. Mentre Njórdhr si trovava presso i Vani, aveva avuto per moglie la propria sorella, perché questa era la legge presso di loro; e Freyr e Freyja erano i loro figli. Ma presso gli Asi era proibito sposarsi con una parentela così prossima. 5. C E F J O N . - Da nord-est a sud-ovest si estende un grande contrafforte di montagne che separa la Grande Svezia dagli altri regni. Non lontano, a sud di questa montagna, vi è il Tyrkland [Turkestan!]. Là Odhinn aveva grandi possedimenti. A quel tempo, gli imperatori di Roma facevano delle campagne lontano per il mondo e sottomet-

tevano tutti i popoli, e molti capi fuggivano dai loro territori a causa di queste guerre. Ma, poiché era veggente e mago, Odhinn sapeva che la sua discendenza avrebbe abitato la metà settentrionale del mondo. Così pose i suoi fratelli Vé e Vili a capo di Asgardhr e si mise in cammino, e tutti i diar con lui e una gran moltitudine di uomini. Partì dapprima verso l'est, a Garàhariki [Russia dell'Est, paese dei Vareghi], poi, di lì, verso il sud, nel Saxland [Germania del Nord-Ovest, Niedersachsen]. Aveva molti figli. Si appropriò vasti regni attraverso il Saxland e vi mise i suoi figli a sorvegliare il paese. Quindi partì verso il nord fino al mare e si stabilì in un'isola. Quel luogo si chiama oggi Odhinsey, in Fionia [Danimarca]. Allora inviò Gefjon al di là dello stretto, in cerca di un nuovo paese [in Svezia]. Essa si recò presso Gylfi che le accordò eitt plògsland, cioè tanta terra quanto poteva sollevarne un aratro. Allora essa andò nel paese dei Giganti e, da un certo gigante, ebbe quattro figli. Diede loro la forma di buoi, li attaccò all'aratro e strappò un pezzo di terra che portò nel mare, a ovest, di fronte a Odh insey, ed essa fu chiamata Selund [Seeland, l'altra grande isola danese]: e lì abitò in seguito. Fu sposata da Skjòldr, figlio di Odhinn, e vissero a Hleidhra [capitale dei re danesi]. Ma, nel punto in cui aveva strappato la terra, si formò un lago: è quello che viene chiamato il Lògr [il lago Màlar, nelle vicinanze di Stoccolma], e i golfi del Lògr sono disposti come i promontori di Selund.

Quando Odhinn seppe che a est vi erano terre di buona qualità, presso Gylfi, vi si recò e conclusero la pace, lui e Gylfi., perché Gylfi sentiva di non avere la forza di opporsi agli Asi. Più volte Odhinn e Gylfi furono rivali nell'arte delle magie e dell'illusionismo e gli Asi furono sempre i più forti. Odhinn stabilì la sua dimora sul Lógr, nel luogo che oggi è chiamato « Vecchio Sigtùnir » [Sigtuna], vi costruì un gran tempio e vi sacrificò secondo il costume degli Asi. Si appropriò là un territorio molto vasto che fece chiamare Sigtunir. Fornì di abitazioni gli hofgod/iar: Njòrdhr abitò a Nóatùn, Freyr a Upsalir, Heimdallr a Himinbjòrg, Thórr a Trudhvangr, Baldr a Breidhablik. A tutti diede buoni soggiorni. (Segue la descrizione dei talenti meravigliosi di Odhinn, delle sue istituzioni, poi della sua morte, perché Odhinn, in questo racconto pseudostorico, non è che un uomo; Njórdhr gli succede come re, poi, alla morte di Njòrdhr, comincia il regno di Freyr, « Yngvi Freyr », che apre propriamente la dinastia degli « Ynglingar »). d) Saxo Grammaticus, I, 7.1 Questo breve passo che si spiega mediante i testi della Vòluspà e di Snorri, ma che non li spiega, raccoglie a casaccio e altera profondamente molti particolari della leggenda della guerra e della riconciliazione degli Asi e dei Vani, ad esempio la statua d'oro (Voi.), la testa tagliata (Yngl.-s.), e l'assassinio di 1. I Gesta Danorum sono citati secondo le suddivisioni dell'edizione di j . OLRIK. e H. RAEDER, Copenhagen, 1931.

Kvasir (Gylf.). « Othinus », anche qui, è un re che ha per capitale « Bysantium », ma che soggiorna volentieri apud Upsalam (vedi La saga de Hadingus, 1953, pp. 100-113). Ho citato ampiamente questi testi prima di tutto per far sentire al lettore, mediante un esempio preciso, in quale stato, o piuttosto in quali differenti stati ci è stata trasmessa la mitologia scandinava, ma anche perché egli vi faccia costantemente riferimento nel corso della discussione che seguirà. #

*

*

Negli Studier offerti a Oscar Montelius nel 1903, un grande uomo parimenti dotto e modesto e al quale lo stupendo Museo Nordico di Stoccolma deve molto, Bernhard Salin (1861-1931), propose un'interpretazione letterale de « l'invasione degli Asi » quale è descritta nell'Ynglingasaga, e tale interpretazione, ripresa, variata, alleggerita in molti modi, è rimasta il modello di quanto viene accettato - o veniva ancor recentemente accettato - dalla maggior parte degli storici della religione scandinava. Il racconto di Snorri, ivi compreso l'episodio della guerra degli Asi e dei Vani e della loro riconciliazione, conserverebbe, molto deformato, il ricordo di grandi avvenimenti storici, autentici: della lunga migrazione di un popolo secondo un itinerario preciso, dal nord del mar Nero alla Scandinavia, e, insieme, di una lotta tra due popoli che adoravano l'uno gli Asi

e l'altro i Vani, la quale lotta, come dice la tradizione trasponendo la cosa dagli uomini agli dèi, o, piuttosto, confondendo gli dèi e i loro adoratori, si era poi conclusa con un compromesso, una fusione. Certi autori, come H. Schùck e E. Mogk hanno pensato, cosa già in sé poco probabile, a una guerra di religione. La maggior parte, come H. Gùntert e, più di recente, E.A. Philippson, pensano a una guerra puramente etnica e politica, a una guerra di conquista, di un tipo più spesso attestato nella storia antica dell'Europa. D'altra parte, secondo certuni - che seguono molto da vicino B. Salin - tali avvenimenti sarebbero da situare intorno al IV secolo; secondo altri, si tratterebbe addirittura dell'invasione degli Indoeuropei nei territori germanici decisamente più antica. Sembra che questa seconda indicazione goda di maggiori favori. In lingua archeologica, poiché soprattuto all'archeologia si fa appello in una simile disputa, i protagonisti di questo grande duello, dapprima storico, poi leggendario e mitico, sarebbero i rappresentanti di due culture che gli scavi dell'Europa del Nord permettono di identificare: « Megalithenvòlker » e « Streitaxtvòlker » (o « Schnurkeramiker »). Ecco, ad esempio, come si esprime E.A. Philippson (Die Genealogie der Gòtter, 1953, p. 19): « La differenza tra la religione dei Vani e la religione degli Asi è fondamentale. La religione dei Vani era la più antica, autoctona, prodotto della civiltà agricola. La religione degli Asi era la più recente, espressione di un'epoca più virile, guerriera, ma anche più spirituale. Agli osservatori

romani era sfuggito l'abisso che vi è tra queste due rappresentazioni, ma il paganesimo ne era conscio: la leggenda dei Germani del Nord relativa alla guerra dei Vani ne è la prova ». Altri esegeti, pochi per ora, ma in numero sempre crescente, quali O. Hòfler, J. de Vries, W. Betz e io stesso, si oppongono a questa visione storicizzante, a questa idea di una trascrizione, in linguaggio mitico, di avvenimenti storici. Non intendiamo negare, certamente, i cambiamenti materiali, le invasioni, le fusioni di popoli, la dualità di civiltà che si osserva, archeologicamente, in suolo germanico tra quel che vi era prima degli Indoeuropei e quel che è venuto dopo la loro invasione. Né contestiamo che le religioni germaniche, e in particolare scandinave, si siano evolute nel corso dei secoli. Ma noi pensiamo che la dualità degli Asi e dei Vani non sia un riflesso di tali avvenimenti, né un effetto di quella evoluzione; pensiamo che si tratti qui dei due termini complementari di una struttura religiosa e ideologica unitaria, di due termini di cui l'uno presuppone l'altro e che sono stati portati entrambi, già articolati, da quegli Indoeuropei che sono divenuti poi i Germani; che la guerra iniziale degli Asi e dei Vani non faccia che rendere manifesta, in modo spettacolare, come è funzione del mito, e in forma di conflitto violento, la distinzione, e per certi riguardi l'opposizione concettuale, che giustifica la loro coesistenza; insomma, che l'indefettibile associazione succeduta alla guerra, e che la guerra non fa che preparare, significhi che l'opposizione è anche complemen-

tarità, solidarietà, e che gli Asi e i Vani si accordano e si equilibrano per il maggior bene di una società umana che prova un egual bisogno di protettori di un tipo e dell'altro. Io mi propongo di mostrare brevemente la fragilità e le contraddizioni interne della tesi storicizzante, poi di indicare le principali ragioni positive che sostengono la tesi strutturalista. 1. La tesi storicizzante si fonda solo sul terzo dei tre documenti principali relativi alla guerra degli Asi e dei Vani citati più sopra (quello di Saxo è, in questa sede, privo di interesse). Né la Vòluspà, né gli Skàldskaparmàl, dove Snorri non ha altra preoccupazione che il narrare liberamente le storie divine, localizzano geograficamente i due gruppi di avversari; nemmeno presuppongono delle migrazioni; al contrario, presentano gli esseri e i loro atti col medesimo tono, nella medesima prospettiva che, ad esempio, i combattimenti di dèi e di giganti, cioè nel tempo e nello spazio imprecisi del mito. Solo all'inizio della sua seconda opera Snorri si esprime in termini di geografia e di storia, moltiplicando le indicazioni, arrivando sino a fornire un sincronismo romano. Ma questi stessi termini, e indicazioni, sono sospetti: Snorri, questa volta, si vuole far passare per storico, genealogista, e fa come i monaci irlandesi dell'alto Medio Evo che storicizzavano a briglia sciolta gli insegnamenti ereditati dai druidi e dai filid pagani, li inserivano nella propria erudizione latina, traendo i loro argomenti principali da giochi di parole, dalla assonanza di nomi propri indigeni con nomi bi-

blici o classici, facendo provenire, ad esempio, gli Scoti dalla Scizia, supponendo una grande migrazione dei Pitti con una sosta, naturalmente, in Francia - a Poitiers, capitale dei Pictaui. Snorri non procede diversamente. Non solo riduce gli dèi a re che sono morti, che si sono succeduti, che, da vivi, hanno messo il mondo a soqquadro, sono emigrati, hanno compiuto invasioni, ma anche localizza sulla carta del mondo conosciuto le razze divine così umanizzate e, per far questo, si affida a bisticci di parole, alcuni eccellenti (come Asi-Asia), altri poco riusciti (Vani*Vana-kvisl-Tanai). Se, agli inizi, colloca gli Asi e i Vani sulle coste del mar Nero, allo sbocco del Tanai, non è dunque per l'oscuro ricordo di qualche migrazione, gotica o altra, e nemmeno per la conoscenza di una grande strada commerciale dalla Crimea alla Scandinavia, ma semplicemente per l'effetto di assonanze, in un'epoca in cui le assonanze, i pressappoco etimologici, erano degli argomenti storici apprezzati. 2. Coloro che, nonostante questa inverosimiglianza a priori, vogliono utilizzare i capitoli dell' Ynglingasaga per dar fondamento a una interpretazione storica della guerra degli Asi e dei Vani, cadono, sono caduti, sia nella contraddizione sia nell'arbitrio. Snorri infatti localizza la guerra prima di ogni migrazione, nel luogo stesso dell'habitat primitivo che attribuisce ai due popoli, cioè alla frontiera dell'« Asia », alle foci del Don, e solo dopo la riconciliazione che segue a questa guerra Odhinn, portando con sé i suoi nuovi sudditi, i tre grandi Vani, con un grado pari a quello degli Asi, si mette in cammi-

no per la spedizione che lo condurrà alla fine nell'Upland svedese. Qualora si dia credito a questo testo, la formazione della religione unitaria avrebbe avuto luogo lontano dalla Scandinavia, lontano dai territori germanici, prima di qualsiasi incontro su tali territori tra una cultura agricola e una cultura più virile, più guerriera e anche più spirituale, come dice generosamente E.A. Philippson. Ma solo in Scandinavia e nella Germania del Nord si possono trovare tracce archeologiche di una dualità e di una successione di cultura, e, volendo giustificare la dualità dei tipi divini mediante la dualità delle culture, è su queste terre germaniche che si deve pensare si siano prodotti il contatto, l'urto, la fusione dei due popoli che ne erano i portatori, e non da un lato e dall'altro delle bocche del Don. Se, per sfuggire alla contraddizione, di Snorri si conserva, come d'uso, soltanto l'idea del conflitto e della riconciliazione, riservandosi il diritto di non situare tutto questo dove lo situa Snorri, sul mar Nero, nel soggiorno iniziale, ma al contrario verso il luogo terminale, in un punto della Germania del Nord, si cade in pieno nell'arbitrio; qual è, infatti, il criterio obiettivo che permette di decidere che una data indicazione del testo è un ricordo, un documento utile allo storico, mentre un'altra è fantasia? 3. Una terza critica delle tesi storicizzanti ci mette direttamente di fronte al nostro compito. Anche in questo testo dell' Ynglingasaga che si pretende storico, e a maggior ragione negli altri due, puramente mitologici, che non contengono alcun tentativo di localizzazione spaziale o tempo-

rale, si è colpiti dall'abbondanza di particolari di un altro ordine, particolari concernenti sia le fasi della guerra (Vòluspà), sia le clausole della pace (Skàldsk., Ynglingas.), e specialmente gli dèi scambiati in pegno, il loro carattere e le loro avventure. Queste indicazioni minuziose e pittoresche non sono certo storia, sia pure molto deformata, né potrebbero ricordare certe caratteristiche di costume dei popoli supposti in conflitto. Gli storicisti dunque, li trascurano completamente considerandoli abbellimenti secondari. Eppure, sono proprio queste indicazioni l'essenziale dei racconti, sono esse, evidentemente, che interessavano di più, quando non si abbandonava ai giochi di parole, lo scrittore indigeno Snorri, come pure il poeta della Vòluspà e, senza dubbio, gli ascoltatori o i lettori dell'uno e dell'altro. Qui si pone una grave questione di principio: è salutare, quando si utilizza un documento mitologico, fare astrazione in tal modo da tutta la ricchezza di particolari del suo contenuto? A mio parere, certamente no. Come ogni storico, lo storico delle religioni deve essere docile nei riguardi dei documenti. Prima di chiedersi quale elemento, grande o piccolo, possa ricavarne per appoggiare una tesi, egli deve leggerli e rileggerli, compenetrarsene passivamente, ricettivamente, avendo cura di lasciare là dove sono, ciascuno al suo posto, tutti gli elementi, sia quelli che gli obbediscono sia quelli che gli resistono. Se si segue una simile igiene, si impara ben presto che c'è di meglio da fare, con questo tipo di testi, che distruggerli per inserire poi in altre costruzioni alcuni frammenti strappati alle loro

rovine: c'è, prima di tutto, da capirne la struttura, la ragione che giustifica l'insieme dei loro elementi, compresi i più peculiari, i più bizzarri. Allora quello che si perde in ciò che aveva l'apparenza di storia, si riguadagna in teologia, in comprensione del pensiero religioso soggiacente ai documenti. A tale visione strutturalista si oppone talvolta il fatto che essa porta all'arbitrio o al miraggio. Ciò che viene raccontato da Snorri, suggerito dalle allusioni della Vóluspd, è effettivamente pittoresco, strano, ma non sembra, a prima vista, contenere, voler esprimere, un peijsiero religioso. Rifiutarsi di credere a una collocazione degli Asi alle soglie dell'Asia, come fanno certi storicisti, o di ammettere « l'idea » di un conflitto di popoli, come fanno i più moderati, sia pure. Ma non è forse una uguale credulità quella che spinge a cercare, dunque a trovare, un senso a una congerie di particolari che, dopo tutto, possono essere altrettanto artificiali, letterari, tardivi, inutili in una parola, quanto i giochi di parole onomastici? È qui che intervengono le considerazioni comparative a garantire che i racconti che noi consideriamo hanno effettivamente un senso, e a spiegare questo senso. Precisiamo bene: considerazioni comparative indoeuropee implicanti una filiazione comune, e non semplicemente tipologiche, universali. Che non sono certo trascurabili: accade che un particolare o un insieme di particolari che sembrano assolutamente privi di significato in Snorri si ritrovi nel folklore di popoli molto lontani da quelli Scandinavi, e vi si ritrovi

capito, commentato, giustificato dagli indigeni in termini che valgono anche per il documento islandese. Ma i nostri sforzi non sono volti in questa direzione: noi possediamo uno strumento di paragone più preciso. Gli Scandinavi, i Germani, parlavano lingue indoeuropee, curiosamente deformate nella loro fonetica, ma il cui residuo non indoeuropeo del vocabolario è poca cosa rispetto a quello che si osserva in certe lingue più meridionali della stessa famiglia. Se le nozioni di lingua, di nazione, di razza, di civiltà perfino, non sono sovrapponibili, non è men vero che, soprattutto in queste epoche molto antiche, la comunanza di lingua implica un minimum abbastanza esteso di comunanza nelle rappresentazioni e nel modo in cui si organizzano, insomma nell" ideologia di cui la religione è rimasta per molto tempo l'espressione principale. Davanti a un teologema o a un mito degli Scandinavi, è dunque legittimo, anzi metodologicamente necessario, prima di negare ad esso significato e antichità, considerare se le religioni dei popoli più conservatori parlanti lingue indoeuropee, gli Indiani, gli Italici, i Celti, non presentino una credenza o un racconto omologhi. Talvolta è addirittura opportuno, e accade che, ad esempio nella sua versione indiana, attestata più anticamente e in libri scritti dai depositari del sapere sacro, la struttura di una data formula o l'intenzione di un dato racconto sembri più chiara, più evidentemente legata alla vita religiosa e sociale che non negli scritti letterari del cristiano Snorri. E se questo tipo di osservazione comparativa è applicato a una tradizione

complessa, che articola cioè un numero abbastanza grande di elementi dell'ideologia, e, meglio ancora, a una tradizione rara al mondo e veramente singolare, diventa poco probabile che l'incontro scandinavo-indiano sia fortuito e che non si riesca a spiegarlo mediante la comune eredità preistorica. I problemi concernenti gli Asi e i Vani sono appunto di quelli che si prestano a un metodo di questo genere. •

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Nella religione vedica, e già in quella prevedica - lo sappiamo grazie all'elenco degli dèi arya di Mitani, conservato in documenti epigrafici del XIV secolo a.C. -, e già nella religione indoiranica - lo sappiamo grazie alla trasposizione che ne ha fatto lo zoroastrismo nella gerarchia dei suoi Arcangeli -, un piccolo numero di divinità era volentieri raggruppato, nelle invocazioni e nei rituali, in un elenco ordinato gerarchicamente, per riassumere l'insieme della società invisibile. Tali divinità si distribuivano, secondo le funzioni, fra i tre livelli di una struttura ben nota: la stessa che più tardi, nell'India classica, doveva dar luogo alla rigida classificazione sociale dei vama, cioè brahmano, o sacerdoti, kshatriya o guerrieri, vaigya o allevatori-agricoltori - così parallela a ciò che l'antica Irlanda presentava meno rigidamente col suo corpo druidico, la sua classe militare o flaith, e i suoi uomini liberi possessori di buoi, bó airig. La forma più breve di tale elenco, quello che si osserva a Mitani, enu-

mera prima di tutto due dèi sovrani, Mitra e Varuna, poi il dio per essenza forte e guerriero Ind(a)ra, poi due dèi gemelli dispensatori di salute, di giovinezza, di fecondità, di felicità, i Nàsatya o Avviti. La trasposizione zoroastriana si basa sullo stesso elenco aumentato però di un termine, conosciuto anche in India: una dea aggiunta ai gemelli del terzo livello. Nella mitologia, non più dei Veda, ma dell'epopea indiana, gli dèi del primo livello sono molto sbiaditi e, se anche non scompaiono, è Indra che figura come re degli dèi, certamente per riflesso di evoluzioni sociali favorevoli alla classe militare. Nel 1938, è stato possibile dimostrare che la triade precapitolina, quella che presiedeva alla religione della Roma più antica, si basava sulla medesima analisi dei bisogni dell'uomo e dei servizi divini: lo Juppiter del fìamen dialis, così strettamente associato al rex, apporta a Roma tutte le forme della protezione sovrana e celeste; Mars le dà la forza fisica, e la vittoria mediante combattimento contro i nemici visibili e invisibili; Qnirinus, a giudicare dagli uffici del suo flamine, dal rituale della sua festa, dagli dèi che volentieri gli vengono associati, dal suo stesso nome, e infine dalle definizioni conservate persino in un tardivo commento dell'Eneide, presiede alla buona riuscita e alla conservazione dei cereali, alla massa sociale che è la sostanza di Roma, alla vita civile (cfr. qnirites) in una vigile pace. Le ipotesi storicizzanti che hanno cercato di spiegare questa triade come secondaria, come effetto di accadimenti storici, di associazioni di popoli alle origini di Roma, sono condannate a priori, poiché

presso altri Italici, presso gli Umbri di Iguvium, e in un'epoca in cui ogni influenza romana è da considerarsi fuori causa, il rituale delle famose Tavole mette in onore, nella medesima gerarchia, una triade del tutto simile formata da un Juu-, da un Mari- e da un Vofiono-. La coincidenza dei fatti indoiranici e italici garantisce che la teologia tripartita e l'usanza di riassumerla in un breve elenco di dèi caratteristici di ogni livello, risalgono al tempo della comunità indoeuropea. L'esatto parallelo offertone dalla teologia scandinava che si esprime mediante la formula Odhinn-Thórr-Freyr ha perciò delle probabilità di essere non una innovazione, ma un arcaismo fedelmente conservato. Non più di quella di Juppiter, Mars e Quirinus, la riunione dei tre dèi scandinavi richiede una spiegazione attraverso casi o compromessi della storia più antica della grande penisola o della Germania del Nord; sia l'una sia l'altra hanno un senso, il medesimo senso, e, sia nell'una sia nell'altra, ciascuno dei tre termini esige i propri complementi. Se si ricordano, inoltre, le analogie precise già da tempo messe in rilievo fra Thórr e Indra (pelo rosso, martello e vajra, ecc.); se si tien conto che il terzo livello è talvolta occupato, in Scandinavia, non dal solo Freyr, ma dalla coppia Njòrd/ir e Freyr i quali, pur non essendo gemelli, ma padre e figlio, non per questo sono meno strettamente associati dei due Nàsatya; e che, a questo stesso terzo livello, la dea Freyja è spesso in onore accanto ai due dèi Njord/ir e Freyr, così come una dea è volentieri unita ai Nàsatya indoiranici, si cominciano a scoprire non

solo il parallelismo della struttura d'assieme, ma importanti corrispondenze termine a termine che difficilmente il caso avrebbe potuto accumulare. Infine, l'ideologia vedica - e vi sono ragioni per dire ormai: indoiranica - metteva in risalto volentieri una stretta solidarietà tra i due primi livelli in opposizione al terzo, come più tardi, nella società degli uomini, tra i brahmani e i ks/jatriya, qualificati come « le due forze », ubhe virye, in opposizione ai vai^ya: parallelo a questo, in Scandinavia, è l'accostamento di Odhinn e di Thòrr in seno a una medesima specie divina superiore, gli Asi, in opposizione ai Vani, Njòrdhr, Freyr e Freyja. A tale operazione comparativa si è obiettato che essa tiene conto, tra le religioni germaniche, solo di quella nordica, e nello stato relativamente tardo in cui ci è nota; che niente prova che questo quadro tripartito sia stato quello di altri popoli dell'insieme, quei popoli che parlavano gotico o germanico occidentale; che, del resto, se il nome degli Asi si ritrova o ha lasciato tracce dappertutto, quello dei Vani non ha corrispondenti fuori della Scandinavia; infine, che il più antico materiale archeologico della Scandinavia, quello pre-indoeuropeo, fa pensare che il dio dal martello e il dio itifallico siano anteriori, in questi luoghi, all'invasione indoeuropea. Queste obiezioni non sono così importanti come sembrò in un primo tempo. Riguardo all'ultima, non si ha nessuna difficoltà a ammettere che gli dèi indoeuropei del secondo e del terzo livello, Thò rr e Freyr, si siano attribuite, in Scandinavia, certe rappresentazioni di altra origine, già popo-

lari presso gli indigeni vinti; né bisogna interpretare con troppa generosità le famose incisioni rupestri della Svezia, nelle quali gli archeologi sono propensi a chiamare Thórr tutte le figure armate di un martello e Freyr tutte le figure oscene. Riguardo all'obiezione dei nomi, essa si basa, credo, su una esigenza ingiustificata: i nomi propri non sono poi di così grande importanza; quello dei Vani, di etimologia oscura (tra le otto che sono state proposte la migliore resta quella che lo avvicina al gruppo del lat. Venus, uenerari, ecc.), può ben essere proprio dell'antico scandinavo, e tuttavia il tipo, la classe di dèi che designa, può essere esistito altrove sotto un nome diverso, o senza nome di genere: il Njòrd/ir ('Nerthu-) scandinavo, uno dei Vani principali, non è forse già segnalato da Tacito sotto il nome di Nerthus, con sesso femminile e chiari caratteri di terza funzione (fecondità, pace), in un punto della Germania del nord? Infine, non è esatto che la triade o certe triadi molto vicine non siano attestate in altre province antiche del mondo germanico. Non si arguisca, su questo punto, dal silenzio dei Goti: della loro teologia, non sappiamo quasi nulla. Quanto ai Germani occidentali la nostra testimonianza esplicita più antica, quella di Tacito (Germania, cap. 9), enumera, al contrario, e in termini che provano che lì esiste una struttura, divinità che si ripartiscono chiaramente, e secondo l'ordine gerarchico previsto, nei tre livelli: il dio più onorato, che egli chiama Mercurius, è certo l'equivalente di Odhinn; vengono poi Hercules e Mars, cioè i due dèi guerrieri che sono certo il Thó rr e il Tyr scandinavi (ritroveremo il secondo

nel prossimo capitolo); infine, almeno per una parte degli Svevi, a questi dèi viene associata una dea che egli chiama Isis e che non vi è ragione, e specialmente non quella che fornisce lui (il battello cultuale), di considerare di origine straniera, aduectam religionem. Può darsi persino che, prima di Tacito, Cesare, nella sua breve e approssimativa nota sugli dèi dei Germani (De bello gallico, VI, 2L, 2), abbia sommariamente cercato di interpretare una triade simile: « Nel numero degli dèi » egli dice « essi ammettono solo quelli che vedono e di cui risentono chiaramente i benefici, il Sole, e Vulcano, e la Luna; degli altri, non hanno neppure sentito parlare». Se il termine « Sole » è invero inadeguato a designare un dio sovrano del tipo di Odhinn, in compenso Vulcano, dio dal martello, può essere una traduzione, impropria da un punto di vista funzionale, ma certamente spiegabile, del corrispondente continentale di Thòrr; e, per una dea della fecondità vista da un Romano, l'etichetta lunare non sarebbe più bizzarra che per tante dee madri o nutrici del mondo mediterraneo che la ricevono, dalle orientali Iside e Semele, fino alla romana Anna Perenna, in certe speculazioni menzionate da Ovidio. Più tardi, infine, presso i Sassoni convertiti da Carlomagno prima che, nel Nord, fosse stato composto alcuno dei poemi eddici che noi leggiamo, è attestata una triade che deve corrispondere, termine a termine, a quella degli Scandinavi; la formula di abiura loro imposta e conservata in Vaticano in un manoscritto del IX secolo, contiene infatti queste parole: « Rinuncio a tutte le opere e parole del diavolo,

a Thunar e a Uuóten e a Saxnót e a tutti i demoni che sono loro compagni (hira genótas) ». Di questi tre protagonisti divini, i primi due sono gli omonimi di T/iórr e di Odhinn; quanto al terzo nome, il cui secondo elemento corrisponde al tedesco moderno (Gejnoss, «compagno», è probabile che, trattandosi di un dio sassone che si ritrova solo in anglosassone sotto la forma Seaxneat, esso non significhi altro che « Compagno dei Sassoni » : quindi, come a Roma Quirinus (senza dubbio *co-uiri-no-) è il dio della collettività quiritaria, così il Freyr scandinavo è tra gli dèi, il folkvaldi, « il signore del popolo, della massa» (Skirnismàl, 3: folkvaldi godha), e anche, cultualmente, il veraldar godh, cioè il dio di quella complessa nozione germanica (tedesco Welt, inglese world, svedese vàrld, ecc.), che designa etimologicamente l'insieme degli uomini (ver-) per generazioni (old). Queste indicazioni dovrebbero indurci, rispetto alle altre province germaniche dove la nostra informazione è ancor più lacunosa, a non trarre la conclusione che il silenzio riguardo alla triade ne implichi l'assenza. #

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I paralleli indoeuropei non chiariscono soltanto la formula secondo la quale è composta la triade, ma anche, nei suoi dettagli principali, la leggenda della separazione e della guerra iniziali, poi della riconciliazione e fusione degli Asi e dei principali tra i Vani. Di fatto, se gli inni vedici

non ne fanno menzione, orientati come sono verso la lode e la preghiera e poco appropriati a registrare gli episodi delicati della storia divina, alla letteratura ulteriore, all'epopea, è noto che gli dèi Indra e i Nàsatya, la cui associazione è così necessaria e stretta, non sono stati sempre congiunti in una società unitaria; e si dà il caso di una leggenda iranica che conferma, per alcuni tratti essenziali, che la materia di questo racconto, proveniente di certo dal « quinto Veda », dal corpus orale delle leggende, era già prevedica, indoiranica. Originariamente, gli dèi dell'ultimo livello, i Nàsatya dispensatori di salute e di prosperità stavano in disparte rispetto agli altri dèi: questi ultimi, con alla testa Indra, loro capo (perché tale è lo stato della gerarchia divina nell'epopea), Indra armato della folgore, rifiutavano loro quello che è il privilegio e quasi il brevetto della divinità, la partecipazione al beneficio delle oblazioni, col pretesto che essi non erano dèi « come si deve », ma una sorta di artigiani, di guaritori, troppo mescolati agli uomini. Il giorno in cui i Nàsatya avanzarono la pretesa di entrare nella cooperativa divina, ne seguì un conflitto acuto. Questo tipo di approccio, come si vede, corrisponde alla separazione iniziale degli Asi superiori - il mago, il folgorante - dai Vani inferiori - i dispensatori di ricchezza e di fecondità. In India, notiamolo subito, l'eterogeneità dei due gruppi di dèi non potrebbe spiegarsi mediante il contatto e il conflitto di religioni, di popoli diversi, come si vuol fare in Scandinavia per gli Asi e i Vani: Mitra-Varuna, Indra da una parte,

i Nàsatya dall'altra, sono stati importati allo stesso titolo, nello stesso tempo e nello stesso ordine gerarchico, dai conquistatori indoiranici sia nell'ansa dell'Eufrate nel XIV secolo a.C. sia sull'altipiano iranico e nel bacino dell'Indo. Ma le concordanze tra Snorri e il Mahàbhàrata non si limitano a questo. Esse si estendono a un insieme di caratteristiche, complesso e raro, che permette al comparatista di essere più affermativo. Ricordiamo, negli Skdldskaparmàl, la genesi e il destino di Kvasir (vedi sopra, p. 21): nel momento in cui si conclude la pace tra gli avversari divini, essi sputano gli uni e gli altri in uno stesso recipiente. Di questo « pegno di pace » gli dèi fanno un uomo chiamato Kvasir la cui saggezza è straordinaria, immensa. Egli circola per il mondo, ma due nani lo uccidono, distribuiscono il suo sangue in tre recipienti, vi mescolano del miele e fabbricano cosi « l'idromele di poesia e di saggezza ». Poi dicono agli dèi che Kvasir è soffocato nella propria saggezza, non essendovi stato nessuno in grado di esaurirla con delle domande. Il nome di Kvasir, in questa leggenda, è stato da molto tempo oggetto di interpretazioni; fin dal 1864 K. Simrock, poi R. Heinzel (1889), poi E. Mogk (1923), hanno dimostrato che si tratta, onomasticamente, della personificazione di una bevanda inebriante che ricorda il kvas dei popoli slavi: è normale che la preziosa ebbrezza conferita dall'idromele di poesia e saggezza abbia « questo » come ingrediente; è naturale inoltre che una bevanda fermentata a base di vegetali

spremuti (danese e norvegese kvas: « frutti spremuti, mosto di tali frutti ») sia portata a fermentazione dallo sputo: questa tecnica è largamente attestata; è concepibile anche, se si tratta di una bevanda cerimoniale, di comunione, sanzionante l'intesa tra due gruppi sociali, che tale fermentazione sia provocata dagli sputi di tutti: E. Mogk ha raccolto, a questo riguardo, paralleli etnografici sufficienti. Quello che è meno comune è che la bevanda inebriante preparata mediante lo sputo e destinata a entrare quale componente nell'altra bevanda inebriante, l'idromele di poesia, rivesta, tra questi suoi due stadi di bevanda, un'altra forma, quella di un uomo, di un superuomo, e ciò per volontà degli dèi. Ma v'è di più: il tema non solo è raro (« il re Soma », Dionysos-Zagreus sono un'altra cosa), ma si inserisce in un insieme complesso e preciso, che non bisogna scompaginare: quest'uomo-bevanda non è stato creato in una circostanza qualunque, né senza scopo; è stato così creato a conclusione della guerra degli Asi e dei Vani, per sigillare la pace, poi messo a morte, e il suo sangue, distribuito in tre recipienti, è servito a fabbricare un'altra bevanda, di uso più durevole, poiché essa inebria ancora, al seguito di Odhinn, i poeti e i veggenti. Torniamo ora dalla Scandinavia all'India, dove abbiamo lasciato gli dèi superiori e i Nàsatya in gran conflitto, mentre Indra già brandiva la sua folgore contro questi ultimi. Come si risolve la crisi? Un asceta alleato dei Nàsatya a cui essi, con uno dei loro servigi usuali, hanno reso la giovinezza, fabbrica con la forza della sua ascesi - la

grande arma dei penitenti dell'India - un uomo gigantesco che minaccia di inghiottire il mondo, compresi gli dèi recalcitranti. Questo mostro enorme ha nome « Ebbrezza », Mada: è l'ebbrezza personificata. Subito Indra cede, la pace è fatta, i Násatya sono definitivamente associati alla comunità divina e mai sarà fatta alcuna allusione alla distinzione e al conflitto originari. Soltanto, che fare di questo personaggio, Ebbrezza, che ha esaurito il suo compito e che ormai è solo dannoso? Colui che l'ha suscitato, e questa volta d'accordo con gli dèi, lo taglia in quattro pezzi e la sua essenza unitaria si distribuisce nelle quattro cose che, in senso letterale e figurato, effettivamente inebriano: la bevanda, le donne, il gioco, la caccia. Questo il racconto che si legge nel III libro del Mahàbhàrata, sezioni 123-125, e una leggenda iranica che ho ricordato alla fine di Naissance d'Archanges (1945, pp. 158-170) e che P. Jean de Menasce ha poi approfondito (« Revue de la Société Suisse d'Études Asiatiques », 1947, pp. 1018), quella di Hàrùt-Màrùt, conferma che l'ebbrezza, fin dalla mitologia indoiranica, era molto legata a questa storia. Il lettore avrà certo avvertito, tra le fabbricazioni e liquidazioni di Kvasir e di Mada, una analogia che è facile delimitare e precisare. Ecco in quali termini è redatto il bilancio comparativo nel mio Loki (1948, pp. 102105): « Sono certo molto evidenti le differenze tra il mito germanico e il mito indiano, ma anche l'analogia delle situazioni fondamentali e dei ri-

sultati. Queste le differenze: presso i Germani, il personaggio " Kvas " è fabbricato dopo che la pace è conclusa, come simbolo di questa pace, ed è fabbricato secondo una tecnica precisa, reale, di fermentazione mediante lo sputo, mentre il personaggio " Ebbrezza " è fabbricato come arma, per costringere gli dèi alla pace, ed è fabbricato misticamente (siamo in India), mediante la forza dell'ascesi, senza riferimento a una tecnica di fermentazione. Inoltre, quando " Kvas " viene ucciso e il suo sangue diviso in tre parti, ciò non viene fatto dagli dèi che l'hanno fabbricato, ma da due nani, mentre in India è il suo stesso artefice, per conto degli dèi, che divide " Ebbrezza " in quattro. E ancora, il frazionamento di " Kvas " è semplicemente quantitativo, si fa in parti omogenee (tre recipienti di sangue dello stesso valore, di cui uno è però più grande degli altri due), mentre quello di " Ebbrezza " è qualitativo, si fa in parti differenziate (quattro tipi di ebbrezza). Nella leggenda germanica, solo nella spiegazione menzognera che i nani danno agli dèi dopo il colpo è menzionato l'eccesso di forza intollerabile (una forza del resto puramente intellettuale) sproporzionata rispetto al mondo umano, che avrebbe portato alla soffocazione " Kvas ", mentre, nella leggenda indiana, l'eccesso di forza (fisica, brutale) di Ebbrezza è autenticamente intollerabile, incompatibile con la vita del mondo e porta autenticamente al suo frazionamento. Infine, la leggenda germanica presenta " Kvas " come benefico fin dall'inizio, ben disposto verso gli uomini - una sorta di martire - e il suo sangue, adeguatamente trattato, produce la cosa pre-

ziosa fra tutte, l'idromele di poesia e di saggezza, mentre in India " Ebbrezza " è malefico fin dall'inizio e le sue quattro frazioni sono ancora il flagello dell'umanità. « Tutto questo è vero, ma proverebbe soltanto, se ve ne fosse bisogno, che l'India non è l'Islanda e che le due storie si raccontavano in due civiltà che si erano evolute in sensi e ambienti estremamente diversi, e per le quali le ideologie dell'ebbrezza in particolare erano diventate quasi inverse. Vi è tuttavia uno schema comune: proprio nel momento in cui si costituisce con difficoltà e definitivamente la società divina con l'aggiunta dei rappresentanti della fecondità e della prosperità a quelli della sovranità e della forza, al momento dunque in cui i rappresentanti dei due gruppi antagonisti fanno la pace, viene suscitato artificialmente un personaggio che incarna la forza della bevanda inebriante o dell'ebbrezza, e che da essa trae il suo nome. Poiché questa forza si dimostra troppo grande rispetto alle condizioni del nostro mondo - per il bene o per il male - il personaggio così fabbricato è poi ucciso e frazionato in tre o quattro parti inebrianti di cui beneficiano o patiscono gli uomini. « Questo schema è originale. In tutto il mondo, lo si incontra solo in questi due casi. Anzi, lo si capisce bene, nel suo stesso principio, se si pone mente alle condizioni e concezioni sociali che dovevano essere proprie degli Indoeuropei; in particolare, l'ebbrezza interessa in modi diversi le tre funzioni: essa è, da una parte, una delle risorse fondamentali della vita del sacerdote-stregone e del guerriero-belva di questa civiltà e, d'altra par-

te, è procurata da piante che bisognava coltivare e cucinare. È dunque naturale che la ' nascita ' dell'ebbrezza con tutto quello che segue sia situata nel momento della storia mitica in cui la società si costituisce mediante la riconciliazione e l'associazione dei sacerdoti e dei guerrieri da una parte, degli agricoltori e dei depositari di tutte le potenze fecondanti e nutritizie dall'altra. Vi è così, tra questo avvenimento sociale mitico e la comparsa dell'ebbrezza, una concordanza profonda, e non è superfluo notare in questa sede che né i poeti del Mahàbhàrata né Snorri potevano essere consapevoli ormai di tale concordanza, per cui i loro racconti hanno un'aria strana: per i poeti del Mahàbhàrata, i Nàsatya non sono più quello che erano al tempo della compilazione vedica, i rappresentanti tipici, canonici, della terza funzione; e Snorri, anche se mette bene in valore nei suoi vari trattati i caratteri differenziali di Odhixm, di Thòrr e di Freyr, non è certamente più in grado di intendere la riconciliazione degli Asi e dei Vani come il mito che sta alla base della collaborazione armoniosa delle diverse funzioni sociali ». Questa corrispondenza non è unica. Insieme con una tradizione romana, questa volta, lo schema degli avvenimenti stessi della guerra degli Asi e dei Vani datoci dalla veggente della Vòluspd ne presenta altre, che confermano il senso di tutto il racconto. A Roma, è noto, non vi è più mitologia, e solo nell'epopea delle origini sopravvivono i racconti che conservano il patrimonio della più antica saggezza. D'altra parte, la « so-

cietà completa » la cui costituzione interessava i Romani, molto positivi, non poteva essere che la loro, e infatti è proprio la tradizione sulla nascita della Città che offre al germanista il parallelo di cui parliamo. Roma, dice la leggenda, è stata costituita dall'unione di due gruppi di uomini, i compagni puramente maschili del semidio Romolo, depositari delle promesse di Juppiter e forti del loro valore militare, e i Sabini di Tito Tazio, ricchi pastori e, attraverso le loro donne, i soli capaci di dare alla società nascente il mezzo della fecondità e la durata. Ma la felice fusione di questi due gruppi complementari è stata, come quella degli Asi e dei Vani, solo la conclusione di una guerra diffìcile, a lungo incerta, nel corso della quale ciascuno dei due avversari ha riportato a turno un successo, in una situazione e con un mezzo che mettono bene in evidenza la sua ' specialità funzionale '. I Sabini, i ' ricchi ', per poco non hanno avuto il sopravvento occupando il Campidoglio; ma come l'hanno occupato? Corrompendo Tarpeia, una donna, a prezzo d'oro - o mediante l'amore, secondo un'altra versione. Più tardi, nella battaglia del Foro, quando la sua armata fuggiva in disordine, Romolo non solo ha preso in mano la situazione, ma ha respinto l'armata dei Sabini nel loro ridotto del Campidoglio; come ha raggiunto questo risultato? Levati al cielo gli occhi e le mani, egli si è rivolto al sovrano Juppiter, ricordandogli le sue promesse, implorando un capovolgimento miracoloso del panico, e Juppiter lo ha esaudito. È degno di nota che i due episodi della guerra dei due clan divini menzionati dalla Vòluspà

corrispondano a questi, con le medesime caratteristiche funzionali: i ricchi e voluttuosi Vani inviano presso gli Asi, come flagello, la donna detta Ebbrezza dell'Oro, che corrompe i cuori, soprattutto quelli delle donne; d'altra parte Odhirrn lancia il suo spiedo con un gesto ben noto nelle saghe dove, regolarmente, ha per effetto di gettare il panico fatale nell'esercito avversario. Nel conflitto tra Indra e i Nàsatya di cui si è parlato a lungo più sopra e che non riveste l'ampiezza di una guerra di popoli, la condotta delle due parti non è meno chiaramente significativa del loro livello funzionale: i Nàsatya hanno a loro vantaggio l'alleanza dell'asceta Cyavana, ottenuta restituendogli giovinezza e bellezza e permettendogli di tenere con sé la sua donna che in un primo tempo avevano pensato di portarsi via; ed è per mezzo del fulmine brandito che Indra risponde alla loro audacia. Anche se non tutti i dettagli pittoreschi dei racconti di Snorri hanno trovato fuori della Scandinavia corrispondenze così straordinarie (penso all'episodio di Hoenir e della decapitazione di Mimir), quelle che abbiamo appena letto bastano a stabilire che la guerra degli Asi e dei Vani è veramente un mito anteriore ai Germani, anteriore alla dispersione degli antenati dei Germani, degli Italici, degli Indoiranici, ecc.; un mito le cui stranezze apparenti conservano ancora uniti, se non pienamente capiti dai narratori, gli elementi complessi e sfumati di una ' lezione ' sulla struttura delle società indoeuropee.

LA MAGIA, LA GUERRA E IL D I R I T T O Odhtnn, Tyr

Fare l'inventario puro e semplice di tutto ciò che la tradizione letteraria riporta su Odhinn sarebbe già un lungo compito. Ci limiteremo quindi ad aprire sufficienti suddivisioni perché nulla di essenziale sfugga e a fissare, in ciascuna, i dati più caratteristici. È importante notare che non vi è differenza sensibile, in ogni caso non vi è contraddizione, tra le immagini di Odhinn fornite dalla lettura dei diversi poemi eddici e di Snorri, e che l'Od/iinn di Saxo e delle saghe, sia storiche sia romanzesche, si spiega facilmente a partire da quello. Odhinn è il capo degli dèi: il loro primo re, come si è visto nelle narrazioni storicizzanti che lo fanno vivere e morire su questa terra; il loro unico re fino alla fine dei tempi nella mitologia e, di conseguenza, il dio particolare dei re umani e il protettore della loro potenza, anche se essi si gloriano di discendere da qualcun altro; è anche il dio che richiede, talvolta, il loro sangue in sacrificio, perché è a lui, quasi esclusivamente, che si vedono ' offrire ' i re la cui virtù non è più sufficiente a far prosperare le messi. Nella sua qualità di capo degli dèi, è lui che patisce più profondamente il grande dramma della sto-

ria divina, l'uccisione di suo figlio Baldr, che egli ha previsto, che non ha potuto impedire, che deplora come padre e come signore del mondo; da parte sua, tale uccisione dà luogo nell'orecchio del morto, a una confidenza di cui i testi hanno rispettato il mistero. Infine, egli è il padre di tutti gli dèi, mentre la sua ascendenza lo collega ai giganti primordiali. Egli è il veggente. Questo dono gli è stato garantito e si esprime simbolicamente mediante una mutilazione, volontaria pare: è monocolo, avendo dato in pagamento uno degli occhi nella sorgente melata di ogni sapere. « Io so » dice la strega della Vòluspà (str. 28-29) ... io so esattamente,

Odhinn, dove è immerso il tuo occhio! Io so che l'occhio di Odhinn è nascosto nella celebre fonte di Mimir. Mimir beve l'idromele, ogni mattina, sul pegno di Odhtnn... Più genericamente, egli è il grande mago. Si è sottoposto a una dura iniziazione, a una « quasi morte », che è stata interpretata in modo plausibile (R. Pipping, 1927) alla luce di pratiche sciamaniche siberiane: « Io so » dice Odh'mn negli Hdvamàl (str. 138-140), Io so che sono stato impiccato all'albero nove notti complete, ferito dallo spiedo e sacrificato a - io a me stesso! Non fui gratificato di pane né di

battuto dai venti

Odhtnn, idromele,

ho spiato al disotto di me. Feci salire le rune, lo feci chiamandole, e allora caddi dall'albero. Presi nove canti possenti... Le rune, magia delle lettere e dei segreti più potenti, sono infatti proprietà di Odhinn. Per mezzo di esse, egli conosce più cose di ogni altro essere al mondo - tranne qualche gigante che l'età più avanzata ancora della sua ha reso carico di esperienze e con il quale, secondo un poema eddico, egli un giorno metterà a confronto la propria scienza (Vafthrùdhnismàl). Ma, oltre alle rune, Odhinn dispone di ogni forma di magia. Vale la pena di ricordare qui, nella narrazione storicizzante dell'Ynglingasaga (capp. 6-7), l'idea che la gente si faceva dei suoi talenti, verso la fine del paganesimo : 6. Quando l'Odhinn degli Asi venne con i Diar nei paesi del nord, è certo che furono loro che vi portarono e insegnarono le arti che gli uomini in seguito esercitarono. Odhinn era il più ragguardevole di tutti e fu da lui che essi impararono tutte le arti e mestieri, perché egli era il primo ad averli conosciuti, e meglio di tutti gli altri. Bisogna anche dire che, se era così altamente onorato, è per la seguente ragione: era così bello, così nobile in viso quando sedeva tra i suoi amici, che a ognuno rideva il cuore in petto. Ma se era in spedizione di guerra, allora appariva terribile ai suoi nemici. Perché aveva l'arte di cambiar aspetto e forma a volontà. Inoltre parlava così bene e bellamente che tutti coloro che l'ascoltavano pensavano che solo la sua parola fosse quel-

la vera. Esprimeva tutto in ve% cor oggi nell'arte che si chiarri Odhinn aveva il potere di renr. ciechi e sordi nella battaglia, ^ dalla paura, e le loro armi noni ^" i che dei bastoni. In compenso, * davano senza corazza, selvaggi ^ u Mordevano i loro scudi e erah^ 1 o tori. Uccidevano gli uomini y\i l'acciaio potevano nulla contro j' chiamava « berserksgangr ». ^. 7. Quando Oòhinn voleva can^ ( ' bandonava a terra il suo corpo tato o morto, e diventava un u^ * le selvatico, un pesce o un serpi \ affari o per quelli degli altri, p»V \\ batter d'occhio nei paesi più teva, con la sola parola, spegn^-V mare il mare e far soffiare i vey che desiderava. Aveva ini f' Skìd/iblad/mir, col quale solca^\\ che poteva piegare come un fa^ Aveva sempre presso di sé la ty.\\\ gli comunicava molte notizie \ '' Talvolta evocava dei morti de^ | o si sedeva sotto gli impiccati. ^ chiamato il capo degli Spiriti piccati. Aveva due corvi ai qu^ i a parlare. Volavano lontano su * \\ tavano molte informazioni. ^ i Grazie a tutto questo, divenne te saggio. Tutte quelle arti, e\ mezzo delle rime o dei canti \\ v*

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la vera. Esprimeva tutto in versi, come si fa ancor oggi nell'arte che si chiama poesia... Odhinn aveva il potere di rendere i suoi nemici ciechi e sordi nella battaglia, o come paralizzati dalla paura, e le loro armi non tagliavano meglio che dei bastoni. In compenso, i suoi uomini andavano senza corazza, selvaggi come lupi o cani. Mordevano i loro scudi e erano forti come orsi o tori. Uccidevano gli uomini e né il fuoco né l'acciaio potevano nulla contro di loro. Questo si chiamava « berserksgangr ». 7. Quando Odhinn voleva cambiare aspetto, abbandonava a terra il suo corpo, come addormentato o morto, e diventava un uccello o un animale selvatico, un pesce o un serpente. Per i propri affari o per quelli degli altri, poteva recarsi in un batter d'occhio nei paesi più lontani. Inoltre poteva, con la sola parola, spegnere il fuoco e calmare il mare e far soffiare i venti nella direzione che desiderava. Aveva un battello, chiamato Skid/zblad/mir, col quale solcava il vasto mare e che poteva piegare come un fazzoletto. Aveva sempre presso di sé la testa di Mimir che gli comunicava molte notizie sugli altri mondi. Talvolta evocava dei morti dal seno della terra o si sedeva sotto gli impiccati. Per questo veniva chiamato il capo degli Spiriti e il capo degli Impiccati. Aveva due corvi ai quali aveva insegnato a parlare. Volavano lontano sui paesi e gli riportavano molte informazioni. Grazie a tutto questo, divenne straordinariamente saggio. Tutte quelle arti, egli le insegnò per mezzo delle rune o dei canti che oggi vengono

chiamati galdrar, « canti magici ». Per questo gli Asi erano chiamati « forgiatori di galdrar ». Odhi'rm era esperto in un'arte che conferiva la più grande potenza, e che si chiama seidhr. La esercitava egli stesso e ciò gli permetteva di profetare il destino degli uomini e gli avvenimenti futuri, e di dispensare agli uomini morte, disgrazia o malattie. Infine, grazie ad essa, poteva togliere a un uomo la sua intelligenza e la sua forza e darla a un altro. Ma questa forma di magia si accompagna a una tale effeminatezza, che gli uomini (uiri, Männer) si vergognavano di praticarla. Veniva insegnata alle sacerdotesse. Odhinn sapeva dove erano sepolti tutti i tesori. Conosceva i canti per mezzo dei quali si aprivano davanti a lui la terra, le montagne, le rocce, i tumuli funerari e, usando nient'altro che formule, sapeva scacciare tutto quello che abita dentro; allora egli entrava e prendeva quello che voleva. Questa sapienza misteriosa di Odhinn, come si vede, è inseparabile dalla non meno misteriosa ispirazione poetica: nel capitolo precedente, abbiamo letto come fu prodotto l'idromele di saggezza e di poesia che alla fine, grazie alle astuzie che il suo potere di metamorfosi gli permette, cade in suo esclusivo possesso. Di fatto, il genio poetico dipende da lui : ed è lui, ad esempio, che in una cupa storia lo conferisce all'eroe Starkad/jr (Saxo, VI, 5, 6), assieme all'energia dell'anima: Starcatherum... non solum animi fortitudinem, sed etiam condendorum carminum peritia illustrauit.

Una parte dei talenti che Snorri enumera, si riferiscono in particolare alla guerra: paralisi del combattente nemico, « furore » che decuplica i mezzi normali del combattente amico. Le saghe lo mostrano spesso, inoltre, come arbitro dei combattimenti, mentre strappa con un gesto la vittoria a chi crede di possederla, condannando a morte il guerriero di cui tocca l'arma con la propria; lo mostrano anche mentre lancia sull'esercito che sarà sconfitto un giavellotto che ne segna il destino. Più tardi, certe saghe gli attribuiranno ordigni sorprendenti, una specie di artiglieria a corde, dai proiettili molteplici, con la quale egli si installa discretamente dietro i battaglioni che favorisce. I « suoi uomini » si dividono in due rappresentazioni : da una parte le bande di guerrieri berserkir, che sembrano partecipi dei suoi doni di metamorfosi, della sua magia, e che, degenerati, nelle saghe saranno ormai soltanto compagnie di briganti senza morale né vergogna, terrore dei contadini e delle contadine, terrore anche dei poveri Lapponi che ne hanno fissato l'immagine in un tipo di geni tra i più temuti del loro folklore, gli stalo (gli « uomini d'acciaio »); d'altra parte, nobili, cavallereschi, seducenti, gli eroi detti « odinici », di cui il Sigurd/zr del ciclo scandinavo dei Nibelunghi è l'esempio più celebre. Tali eroi, egli non li abbandona nell'ora della morte. Innanzitutto sovente è lui stesso che, sul campo di battaglia, sceglie quelli che cadranno - e figurare in quella messe è il contrario di una disgrazia. I suoi emissari femminili, le Valkyrie (•valkyrjor, quelle che scelgono, kjósa, i morti del

combattimento, il vai) li raccolgono poi e li trasportano in un soggiorno che non è sotterraneo, dove essi conducono per l'eternità la sola vita che valga ai loro occhi, la vita dei combattimenti. I Grimnismàl (str. 21-23) descrivono il soggiorno del dio e dei suoi favoriti, che sono d'ora in poi gli einherjar, « i combattenti unici, per eccellenza ». Si accede a questa Valhòll dopo aver attraversato un fiume e superato il « cancello del Val », il vecchio cancello di cui pochi uomini sanno maneggiare la serratura: Cinquecento porte e quattro decine vi sono nella Valhòll, io credo; ottocento usciranno da ogni porta quando partiranno per lottare col Lupo. Aspettando questa disperata battaglia della fine del mondo, gli eroi si dedicano costantemente, tra di loro, a duelli senza conseguenze, poiché le ferite non uccidono più ed essi li interrompono solo per abbandonarsi a succulenti banchetti. Certo queste rappresentazioni dell'ai di là e anche quella di Odhinn che monta la sua cavalcatura a otto zampe, il demoniaco Sleipnir, sono all'origine delle credenze moderne, attestate soprattutto in Danimarca e nel Sud della Svezia, dove « Oden » è il capo della Caccia fantastica. Nei tempi che Snorri ci descrive, la speranza nella Valhòll ha dato luogo a una usanza rituale che con poca spesa la fa ottenere, perché, all'ultimo momento, può fare un eroe del più casalingo degli uomini: per « andare a Odhinn » nell'ai di là, basta farsi segnare, prima della morte, col segno di Odhinn, ricevere cioè un taglio di punta

da una lancia. Altrettanto efficace, e più meritoria, è un'altra via: a immagine del maestro, basta impiccarsi. Così fece, tra gli altri, l'eroe Hadingus. Il carattere di Odhinn è complesso e poco rassicurante. Il viso nascosto sotto il cappuccio, nel suo mantello azzurro scuro, egli circola per il mondo, padrone e spia a un tempo. Gli accade di tradire i suoi fedeli, i suoi protetti, e sembra talvolta provar piacere, come all'inizio della saga dei Volsungar, a seminare i germi di discordie fatali. Nelle saghe, sia che si tratti di Ynglingar sfortunato, o, più gratuitamente, del re Vikarr, egli è per eccellenza il dio che riceve, che esige il sacrificio di uomini innocenti, e questa caratteristica è antica, poiché Tacito nota che i Germani riservano le vittime umane a Mercurius*Wói/janaz e placano gli altri due grandi dèi, Hercules e Mars, con vittime animali. Infine, quei poemi dialogati dell'Edda in cui sono d'obbligo i sarcasmi, gli Hàrbardhsljódh che l'oppongono a Thòrr e la Lohasenna dove subisce, come tutti gli dèi, le biliose allusioni di Loki, lasciano intravedere altri aspetti poco gloriosi o ambigui del dio, specialmente in fatto di lascivia. Bisogna arrivare fino al folklore moderno per trovare il fantasma di Odhinn collegato sicuramente a pratiche o credenze concernenti la vita rurale e agricola, nelle usanze e nei nomi, per esempio, dell'« ultimo fascio ». Anticamente, si trova solo qualche soprannome del dio, di interpretazione incerta, qualche toponimo dove il suo nome è composto con quello del « campo », i re sacrificati - ma sono dei re - in caso di cattivo

raccolto, infine un'unica menzione di un sacrificio til gródhrar, « per la crescita », per ottenere un buon raccolto. Nella Heimskringla (Vita di Hakon il Buono, cap. 14), Snorri dice formalmente che, durante le libagioni solenni, i pagani facevano ai diversi dèi brindisi con intenzioni diverse : bevevano la coppa di Odhinn « affinché accordasse al re vittoria e potenza », poi la coppa di Njòrd/ir e la coppa di Freyr per ottenere « buon raccolto e pace » : la distinzione delle funzioni era dunque netta e si è confusa solo dopo la dissoluzione del paganesimo. •

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Fino all'ultimo quarto dell'ultimo secolo, né l'insieme né alcun elemento del dossier di Odhinn avevano dato luogo a una critica seria: i manuali si limitavano a prendere nota della sua posizione eminente e delle sue molteplici attività. Nel 1876, un breve scritto di 139 pagine, la tesi di dottorato del giovane danese Karl Nikolaj Henry Petersen (1849-1896), Om Nordboernes Gudedyrkelse og Gudetro i Hedenold, en antikvarisk undersògelse, aprì una crisi che si è fatta in seguito sempre più ampia. Petersen era archeologo; e se fu abbastanza saggio da consacrare il resto della sua carriera all'esplorazione di castelli e di chiese in rovina e a studiare sigilli del Medioevo, all'inizio aveva avuto un'intuizione rivoluzionaria che aveva saputo sostenere con argomenti abbondanti e notevoli: Odhinn era, egli pensava, un ultimo venuto nelle religioni del

nord. Da un punto di vista diverso da quello di Bernhard Salin, egli riteneva inoltre (p. 107, n. 1) che « le leggende sulla migrazione di Odhinn verso il nord, possono contenere un nucleo di verità ». Questa tesi fece una profonda impressione nel mondo degli specialisti, « scholars being » dice argutamente Jan de Vries « particularly inclined to any hypothesis which attacked the originality of heathen deities ».' Da allora, con molte varianti, la ' riduzione ' di Odhinn è divenuta negli studi germanici un tema abituale di esercitazione che, nel 1946, è sfociato nel libro di Karl Helm, Wodan, Ausbreitung itnd Wanderung seines Kultes. Alcuni, radicali, continuano a sostenere che Odhinn non era indigeno della Scandinavia, dove era penetrato tardivamente, provenendo dal sud. Altri ammettono che possa trattarsi di un dio sia scandinavo sia tedesco, ma sostengono che le sue origini su questi due territori sarebbero state umili, quasi insignificanti; solo più tardi egli avrebbe, in qualche luogo, beneficiato di una straordinaria promozione che si sarebbe rapidamente ectesa alla maggior parte del mondo germanico. Nessun elemento di questa tesi sembra solidamente fondato. È inverosimile, si dice o si lascia intendere, che i Germani, presso i quali la regalità non aveva importanza e che vivevano frazionati in un gran numero di tribù, avessero concepito essi stessi un 1. « ...essendo gli studiosi particolarmente ben disposti verso qualsiasi ipotesi che attacchi l'originalità delle divinità pagane ».

dio-re sovrano universale; una cosa simile non ha potuto verificarsi se non a immagine dei signori dei grandi Imperi vicini, di Roma o anche di Bisanzio. Se è vero, si aggiunge, che tale evoluzione era già cominciata ai tempi di Tacito, come indicano, al capitolo 9 della Germania, il Mercurius-*Wó£/ianaz, presentato come il più onorato tra gli dèi e, al capitolo 39, il regnator omnium deus dei Semnoni, si trattava senz'altro di fatti strettamente localizzati, sul Reno e tra l'Elba e l'Oder, cioè in prossimità dell'Impero romano. Niente di tutto ciò è solidamente fondato. Sono numerosi gli esempi di popoli arretrati o molto esigui i quali tuttavia concepiscono uno o più dèi molto potenti e di competenza universale : frequente è la sproporzione tra la realtà politica, il potere limitato del capo locale, e la sua trasposizione mitica, il potere illimitato del capo cosmico; le tribù vediche, ad esempio, che concepivano il sovrano universale Varuna e lo celebravano in termini che hanno fatto pensare al Dio dei Salmi, non erano meno frazionate dei Germani né attribuivano maggiore importanza ai loro re. Del resto Odh'mn non ha affatto né i caratteri né il modo di agire di un Cesare o di un Basileus, ma è un tipo sui generis, è un re stregone. Parimenti, nonostante l'ingegnoso raffronto suggerito da Magnus Olsen, la Valhòll e i suoi einherjar non hanno molto in comune - tranne la molteplicità delle porte e la sanguinosa destinazione dell'edificio - con il Colosseo e i suoi gladiatori. Si fa valere il fatto che il nome di Odhìnn, *Wó\hanaz, non è germanico comune, ma soltan-

to germanico occidentale e nordico. Se questo dio fosse esistito anche presso i Goti e avesse goduto presso di loro della medesima posizione eminente che ha nei poemi eddici e presso quei Germani occidentali dove Tacito lo segnala, non è strano, si dice, che nessuno degli autori che hanno parlato dei Goti l'abbia menzionato? E, se i Goti lo ignoravano o non gli davano rilievo, non è forse questo l'indizio che esso non apparteneva, almeno col suo rango, alla struttura prima de ' l a ' religione germanica? - Questo argomento esagera l'importanza dei nomi negli studi religiosi. Odhinn, che in Scandinavia ha innumerevoli appellativi secondari, alcuni chiari altri oscuri, molto probabilmente è stato designato correntemente presso i Goti con un vocabolo diverso da questo, derivato dalla « W u t » ; in realtà, uno di questi appellativi scandinavi, Gautr, e la localizzazione nei due « Gòtland » della maggior parte dei toponimi contenenti il suo nome, rivelano che l'Od/iinn scandinavo era, invece, particolarmente collegato con i Goti; infine, è certamente questo Gautr, cioè Odhinn, che bisogna riconoscere nel Gapt che, secondo Jordanes, apriva la genealogia mitica degli Amali, famiglia regale dei Goti, come Odhinn in Scandinavia e Woden in Inghilterra sono all'origine di numerose dinastie. Contro il dio si trae partito, inoltre, da tre dati negativi: la relativa rarità sul suolo scandinavo o addirittura l'assenza totale (in Islanda) di toponimi formati col suo nome; l'assenza parallela, quasi totale, di antroponomi ' odinici '; l'assenza, infine, di un corrispondente accertato di Odhinn (poiché la spiegazione di Rota mediante Odhinn,

proposta nel 1911 da W. von Unwerth, non fa testo) nella mitologia che i Lapponi hanno preso dagli Scandinavi e che mette in onore soltanto Thòrr, Freyr e Njòrd/jr. Questi fatti notevoli sono esatti, ma ammettono altre spiegazioni plausibili che non il carattere tardo sia del dio sia del posto che occupa nel panteon nordico. Anche se da sempre era stato il dio dei capi, della funzione di capo e il grande stregone scandinavo, Odhìim non aveva alcuna probabilità di venire adottato dai Lapponi che, pur dominati e colonizzati, custodivano la loro magia, diversa, in origine, da quella dei loro intraprendenti vicini: invece, il benefico dio del tuono, il dio della fecondità animale e vegetale, il dio del vento e della navigazione - arte che avevano appreso dagli Scandinavi - li toccavano nei loro interessi immediati. Anche in Scandinavia si può concepire che fattorie, agglomerati, santuari di contadini e di marinai abbiano ricevuto più spesso il nome da uno degli dèi patroni della prosperità rurale, della navigazione, del temporale e delle sue benefiche conseguenze, che non dal grande dio capo e stregone: poiché riguardava il vertice della società, cioè, in volume, poca cosa, quest'ultimo comportava una iscrizione meno densa nella toponomastica; il fatto islandese conferma questa opinione: è naturale che degli emigrati, fuggiti dall'Europa e fondatori nel loro nuovo insediamento di una vera e propria repubblica di ricchi contadini, non avessero occasione di dare il nome del dio-re a neppur uno dei nuovi siti. Infine, l'estrema rarità dei nomi di uomo contenenti quello di Odhinn si può spiegare col carattere del dio, sot-

to certi aspetti inquietante e terribile: un riserbo analogo è all'origine del fatto che gli archivi dei vari popoli indoiranici ci hanno trasmesso antroponimi contenenti i nomi divini di Mitra(Mithra-) e Indra-, ma non contenenti quello di Varuna. All'illustre archeologo svedese Oscar Montelius spetta la paternità di un altro argomento, più volte ripreso. Odhinn, come si è detto, è il grande dio delle rune, della magia delle rune. Ora, la scrittura runica è cosa relativamente recente, nessuna iscrizione essendo anteriore all'èra cristiana; essa è stata importata dal sud-est secondo alcuni, dal sud secondo l'opinione più accreditata. Da questo fatto risulterebbe, per il « dio delle rune », un terminus a quo posteriore all'èra cristiana e all'influenza massiccia del mondo romano su quello germanico. Neanche questa però è una ragione coattiva. Se Odhinn già da prima, anzi da sempre, è stato il mago sublime, si capisce bene, al contrario, che le rune, per quanto recenti si suppongano, siano state riconosciute di sua proprietà : strumento nuovo e particolarmente efficace delle opere magiche, per definizione esse rientravano, incontestabilmente, nel dominio del dio. Inoltre, runar è un'antica parola germanica (*rùnó-) e celtica che designava dapprima i segreti magici, che in gotico (runa) ha ancora il solo significato di « segreto, decisione segreta », come per l'antico irlandese (run) quello di « segreto, mistero, intenzione segreta » e che nell'equivalente finlandese importato (runo) si riferisce sempre solo ai canti epici o magici: Odhinn ha quindi potuto essere il patrono, il

possessore per eccellenza di quella potenza temibile che è il segreto, la scienza segreta, prima ancora che il nome di questa scienza divenisse tecnicamente, ma senza perdere il suo antico valore più ampio, l'appellativo dei segni fonetici e magici insieme che arrivavano dalle Alpi o da altri luoghi. Contro l'antichità di Odhinn o della sua funzione, i critici non avrebbero certo dato credito a questi loro argomenti precisi ma fragili, se non li avessero fondati, più o meno esplicitamente, su due ragioni molto più generali. La prima consiste nell'ampiezza stessa e nella varietà dei campi in cui opera Odhinn, ampiezza e varietà che sembrano testimoniare di uno sviluppo, di una crescita: re degli dèi e grande mago, dio dei guerrieri e dio di una parte dei morti, senza parlare della componente agricola tratta qualche volta dagli usi folklorici della grande festa d'inverno. Non è forse troppo per un solo dio, soprattutto se si tien conto del fatto che nessun altro Ase o Vane dispone di una simile varietà d'azione? Non potrebbe essere questo l'effetto di estensioni, di annessioni, che deve essere possibile esplorare risalendo il corso del tempo e della civiltà, fino ad arrivare, sullo stesso suolo scandinavo, o in qualche luogo a ovest della Germania continentale, a un punto di partenza più umile, da cui tutto il resto sarebbe derivato progressivamente oppure cui si sarebbe aggiunto? Sono stati proposti numerosi modelli di un simile sviluppo: secondo alcuni il dio sarebbe stato dapprima solo un piccolo dio domestico, o un

piccolo dio stregone; secondo altri, un d i o dei morti; secondo altri ancora, un dio della f e c o n dità. L'altra ragione, complementare, deriva da c o n s i derazioni indoeuropee. Nel momento di m a s s i m a disgrazia in cui gli studi di ' mitologia c o m p a r a ta ' erano caduti per reazione alle illusioni generose e agli eccessi intelligenti della s c u o i 3 di Max Mùller, una corrispondenza onomastica, una sola, è stata tuttavia rispettata - e t a n t o più rispettata in quanto il suo stesso isolamento permetteva di dichiarare che essa costituiva, i n materia di persone divine, la totalità del retaggio indoeuropeo, lasciando libero il campo a l l e imprese delle ' mitologie separate '. Questa corrispondenza onomastica è quella in cui si incontrano il dio vedico del Cielo, Dyauh (gen. Divah)> lo Zeus greco (gen. Divos), lo Jup-piter l a t i n o (gen. Jouis) e il personaggio germanico i l CU1 nome è divenuto in antico nordico Tyr e in antico-alto-tedesco Zio. Ecco ' i l ' dio s i c u r a m e n te più antico, poiché già indoeuropeo, e ' grande dio ', si ribadisce, com'è provato se non d a l suo erede vedico, un po' sbiadito, almeno dalla posizione eminente dei suoi due eredi m e d i t e r r a _ nei. Ora, se presso gli Scandinavi come presso 1 Germani sussiste questo grande dio, esso n o n ha - dunque non ha « più » - l'importanza, il primo posto assoluto, che ci si crede autorizzati ad attribuire al suo prototipo: pallido, senza molte avventure, subordinato a Oef/zinn al m e d e s i m o titolo che tutti gli altri dèi, all'epoca cui si riferiscono i nostri documenti, egli si trova visibilmente al termine di un lungo regresso. E non è forse

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piccolo dio stregone; secondo altri, un dio dei morti; secondo altri ancora, un dio della fecondità. L'altra ragione, complementare, deriva da considerazioni indoeuropee. Nel momento di massima disgrazia in cui gli studi di ' mitologia comparata ' erano caduti per reazione alle illusioni generose e agli eccessi intelligenti della scuola di Max Mùller, una corrispondenza onomastica, una sola, è stata tuttavia rispettata - e tanto più rispettata in quanto il suo stesso isolamento permetteva di dichiarare che essa costituiva, in materia di persone divine, la totalità del retaggio indoeuropeo, lasciando libero il campo alle imprese delle ' mitologie separate '. Questa corrispondenza onomastica è quella in cui si incontrano il dio vedico del Cielo, Dyauh (gen. Divah), lo Zeus greco (gen. Divos), lo Jup-piter latino (gen. Jouis) e il personaggio germanico il cui nome è divenuto in antico nordico Tyr e in antico-alto-tedesco Zio. Ecco ' il ' dio sicuramente più antico, poiché già indoeuropeo, e ' grande dio si ribadisce, com'è provato se non dal suo erede vedico, un po' sbiadito, almeno dalla posizione eminente dei suoi due eredi mediterranei. Ora, se presso gli Scandinavi come presso i Germani sussiste questo grande dio, esso non ha - dunque non ha « più » - l'importanza, il primo posto assoluto, che ci si crede autorizzati ad attribuire al suo prototipo: pallido, senza molte avventure, subordinato a Odh'mn al medesimo titolo che tutti gli altri dèi, all'epoca cui si riferiscono i nostri documenti, egli si trova visibilmente al termine di un lungo regresso. E non è forse

un'indicazione preziosa circa il luogo dove questa sostituzione è cominciata - la frontiera renana della Gallia romana - il fatto di incontrarlo, nel cap. 9 della Germania di Tacito, sotto il nome di Mars, ancora molto onorevolmente al secondo rango, a livello di Hercules-*Thunraz, essendo il primo rango già occupato da Mecurius* Wóthanazì Queste due ' evidenze ' sono al centro del problema. Ma si tratta di evidenze o di pregiudizi? La prima è già di per sé sospetta per la molteplicità dei punti di partenza e degli itinerari ipotetici nei quali si è cercato di precisarne l'immagine: queste tappe successive, queste ' stratificazioni ' possono anche presentarsi col linguaggio rassicurante della storia, ma sono soltanto frutto di riflessioni che si contraddicono radicalmente l'una con l'altra, provando così che nessuna è soddisfacente. Certo si può anche supporre, sulla carta, che un dio dei morti, o un dio della fecondità, o un piccolo stregone sia stato promosso a ranghi superiori e infine a quello supremo; ma, nella realtà, come ci si può Tappresentare questo progredire e soprattutto questo punto di arrivo, questo coronamento? Si è sempre ridotti, in fin dei conti, ad ammettere un'influenza straniera, lo scatenarsi delle immaginazioni, sul Reno o nei fiordi, davanti allo spettacolo o alla risonanza del potere imperiale di Roma o di Bisanzio - ma questo, come si è detto sopra, è poco probabile, perché il re degli Asi non ha nulla di un Traiano o di un Costantino, e nemmeno di un Nerone, e tutto il suo potere è di altra forma. Invece, se ci

si rassegna a pensare che la sommità di questa piramide di funzioni è esistita alla propria altezza fin dall'inizio, se si ammette che i valori solidali di capo degli dèi e del mondo e di grande mago sono fondamentali e originali nel dio, se ne può dedurre il resto senza artificio, tutti gli sviluppi e le precisazioni sono plausibili poiché, in verità, la ' funzione di sovranità ' è la sola a contenere virtualmente le altre e può facilmente attualizzare tali virtualità. I re terrestri, umili corrispondenti di Odhinn, non devono forse, in quanto re, essere sigrsall e anche àrsali, « fortunati nella vittoria » e « fortunati nel raccolto »? Lo Juppiter romano non è forse, sia nella pratica capitolina sia nelle leggende romulee - Stator, Feretrius - dispensatore di vittoria in quanto sovrano? E i moribondi vedici non sperano forse di raggiungere non soltanto Yama, lo specialista, se così si può dire, della vita post mortem, ma anche il dio sovrano Varuna? « Avanza » dice al defunto una strofa del rituale funerario (Rg Veda, X, 14, 7), avanza, avanza per gli antichi sentieri là dove sono passati i nostri padri, che ci hanno preceduto! I due re che gioiscono in piena libertà, tu li vedrai - Yama e il dio Varuna! Nessuno ha pensato di dedurre, per un processo di evoluzione, tutta l'attività di Juppiter dal suo ruolo nelle guerre, né dal patronato che egli ha sulle feste della vigna. E nessuno ha preteso di spiegare il personaggio di Varuna basandosi sulla speranza dei morenti. E così anche per il loro

omologo delle religioni germaniche, questo genere di operazioni non è certo raccomandabile. Aggiungiamo, come ha fatto giustamente notare J. de Vries (Contributions to the Study of Othin, Especially in bis Relation to Agricultural Practices in Modem Popular Lore, in « FFC », voi. 94, 1931, p. 45), che il nome stesso di Odh'mn, che non è oscuro, induce a mettere al centro del suo essere una nozione spirituale che dà fondamento alla più efficace delle sue azioni: la parola antico nordico da cui deriva, ódhr, e che Adamo di Brema traduce eccellentemente con « furor », corrisponde al tedesco Wut « furore » e al gotico wóds « posseduto »; come sostantivo, designa sia l'ebbrezza, l'eccitazione, il genio poetico (cfr. l'anglosassone wóth « canto ») sia il movimento terribile del mare, del fuoco, del temporale; come aggettivo, significa sia « violento », « furioso », sia « rapido »; a parte il germanico, le parole indoeuropee imparentate alludono alla violenta ispirazione poetica e profetica: latino uates, ant.-irl. faith. Dunque questo nome era destinato a designare, fondamentalmente, un dio ragguardevole, del « primo livello ». Quanto alle conseguenze di cronologia relativa che si deducono dall'equazione Dyauh = Zeus = Juppiter = germanico *Tiuz (supponendo esatta l'equazione : vi sono ragioni per derivare piuttosto Tyr, Zio, da *deiwo-, nome generico degli dèi in indoeuropeo), esse si fondano su una interpretazione semplicistica ed erronea di tale equazione, e generalmente su una concezione falsa del ruolo e dei diritti della linguistica in questa materia. Di fatto, in diverse province dell'in-

sieme indoeuropeo, può essere attribuita una medesima funzione divina, possono essere riferiti miti che illustrano tale funzione, a dèi molto diversi, e, inversamente, dèi che portano in luoghi diversi nomi apparentati o identici possono, per effetto di evoluzioni particolari che non implicano grandi cambiamenti nella struttura delle religioni, essere addetti a funzioni diverse. La gradevole conformità fonetica di Zeus, Juppiter e Dyauh, preziosa per il linguista, non fa progredire il mitologo, perché è subito evidente, al confronto, che i due primi dèi e il terzo non sono affatto la stessa cosa: quello vedico non sorpassa la materialità del cielo luminoso che, preso come appellativo, il suo nome indica; Juppiter e Zeus, al contrario, non sono il cielo divinizzato (come lo è, onomasticamente, l'avo di Zeus, Urano), ma il re attualissimo, personalissimo degli dèi e degli uomini e il dio folgorante. Se dunque li si vuole paragonare, quanto alla funzione, a certe figure del panteon vedico, si penserà ai sovrani Varuna o Mitra da una parte, al folgorante Indra dall'altra. In altri termini - per non parlare più di Zeus, poiché la mitologia greca sfugge alle categorie indoeuropee - se si fa riferimento allo schema delle ' tre funzioni ' definito nel capitolo precedente, si vede che Juppiter, in tale schema, occupa il primo livello, quello della sovranità, mentre, in India, Dyau/z rimane al di fuori dello schema e il primo livello è occupato da Varuna e da Mitra. In condizioni analoghe, può darsi dunque che il vecchio nome indoeuropeo *Dyéu-, in quella che si suppone la sua forma germanica *Tiuz, non si applichi al dio omologo, per fun-

zione, di Dyau/i, né forse di Zeus e di Juppiter, e che le funzioni di questi ultimi siano garantite, presso i Germani, da un dio che porti un altro nome, un nome nuovo, propriamente germanico; e può anche darsi che *Tiuz, se esiste un *Tiuz, sia sempre coesistito con un altro dio, *Wói/ianaz, indoeuropeo quanto alla funzione e alla collocazione nella struttura tripartita, ma non quanto al nome. *

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Per queste pseudodifficoltà è stata proposta una soluzione nella prima redazione del presente libro, nel 1939, e gli studi ulteriori l'hanno confermata. Tale soluzione è stata fornita dalla considerazione della coppia di dèi vedici già due volte menzionati, Varuna e Mitra, ma con una differenza che definisce un aspetto caratteristico dell'evoluzione germanica. Nel documento di Mitani del secolo XIV a.C. e nella mitologia del Rg Veda come nella lista degli dèi funzionali che lo zoroastrismo ha trasposti in Arcangeli, il primo livello, quello della sovranità, non è occupato da un personaggio unico come avviene per il secondo livello (Indra) e neppure, come per il terzo, da una coppia di dèi gemelli appena distinguibili (i Nàsatya), ma da due personaggi aventi nome e caratteri diversi, complementari : Varuna e Mitra. La dottrina è esposta chiaramente in numerose formule nei trattati rituali vedici, ma un certo numero di passi degli inni la presuppone già espressamente, benché,

nella maggior parte dei casi, il carattere e la destinazione di quei poemi impegnino i poeti a confondere i due dèi in una lode comune, attribuendo indistintamente le virtù di ciascuno dei due termini alla coppia che essi formano e talvolta persino all'altro termine. Per essere complementari nei loro servizi, Varuna e Mitra sono antitetici, comportando ogni specificazione dell'uno una specificazione contraria dell'altro, al punto che in un testo si legge: « Ciò che è di Mitra non è di Varuna » (Satapatha-bràhmana, III, 2, 4, 18). Queste opposizioni molteplici hanno tutte lo stesso senso ed è facile, se si è familiarizzati con qualcuna, prevedere a colpo sicuro quale termine, in questa o in quella formula, sarà di Varuna e quale di Mitra. Mitra « è questo mondo », e Varuna « l'altro mondo » (già un inno vedico avvicina il primo alla terra, il secondo al cielo e altri assimilano a Mitra le forme visibili e usuali del fuoco o del soma, le loro forme invisibili e mitiche a Varuna); Mitra è il giorno e Varuna la notte (a questo allude già, certamente, un inno); appartiene a Mitra ciò che si rompe da sé, ciò che è cotto a vapore, ciò che è ben sacrificato, il latte, ecc., e a Varuna ciò che è tagliato con l'ascia, che è « preso » al fuoco, ciò che è mal sacrificato, il soma inebriante, ecc. Al di là di queste espressioni minori prodotte secondo le circostanze, le nature profonde degli dèi, quali le definiscono sia il loro stesso nome (per Mitra), sia (per Varuna) i loro attributi distintivi e alcuni miti celebri, si situano chiaramente l'una in rapporto all'altra: la parola Mitra, formata dal suffisso dei nomi di strumento su una

radice che significa « scambiare regolarmente, pacificamente, amichevolmente » (quella del latino munus, communis, come quella dell'ant.-slavo ména « scambio » e miru « pace, ordine »), non ha altro significato che « contratto » ; si tratta, come diceva A. Meillet in un articolo che ha fatto epoca (1907), non di un fenomeno naturale, ma di un fenomeno sociale divinizzato; più precisamente è, divinizzato, un tipo di atto giuridico insieme con gli effetti che produce, lo stato d'animo e di fatto che instaura tra gli uomini. Il nome di Varuna manca di una etimologia sicura, ma il suo carattere è sufficientemente definito dai mezzi comuni della sua azione: da una parte è, per eccellenza, il signore della maya, cioè della magia illusionistica, creatrice di forme (cfr. « Rev. des Ét. latines», XXXII, 1954, pp. 134160); dall'altra, materialmente e simbolicamente, fin dal Rg Veda e anche nell'epopea, ha per arma i nodi, i lacci, con i quali afferra il peccatore - fosse anche suo figlio Bhrgu - istantaneamente e senza possibilità di resistenza; sia che si accosti o che si separi il suo nome da quello di Vrtra, vi sono in lui delle affinità demoniache. A rischio di irrigidirli o di impoverirli, ho proposto di riassumere questi insegnamenti nelle formule: Mitra « dio sovrano giurista », Varuna « dio sovrano mago ». La teologia romana sembra aver conosciuto una simile ripartizione dei compiti sovrani, con un Dius Fidius che porta la fides nel suo nome, dapprima distinto da Juppiter, ma assorbito in seguito dall'imperiosa persona del dio capitolino. Tuttavia è l'epopea, la storia leggendaria delle

origini della Città che, nelle figure dei due fondatori, il semidio Romolo, accompagnato dal suo corteo di « legatori », beneficiario degli auspici e degli interventi spettacolari di Juppiter, poi Numa, del tutto umano, istitutore delle leggi e devoto in special modo alla dea Fides, esprime meglio l'opposizione e la complementarità dei due modi, egualmente necessari, della sovranità. Questo parallelismo tra la teologia indoiranica e l'epopea romana, che si può seguire fin nei particolari, garantisce che la ' bipartizione della sovranità ' faceva parte del capitale di idee di cui vivevano gli Indoeuropei. Vi è ragione di pensare che la medesima struttura a due termini, distorta in un senso molto interessante, sia all'origine della dualità di OdhinnTyr: dal punto di vista germanico, né l'uno né l'altro è « il più antico »; entrambi sono l'estensione di due divinità indoeuropee. La corrispondenza tra Odhinn e Varuna è sorprendente. Entrambi sono fondamentalmente dei maghi e, se la magia nordica presenta caratteri propri di cui sarebbe vano cercare l'equivalente in India, il dono della metamorfosi così caratteristico del primo coincide con la maya di cui fa uso abbondante il secondo. L'afferrare istantaneo e irresistibile di Varuna espresso dai suoi lacci e dai suoi nodi, è anche la modalità dell'azione di Odhinn che, sul campo di battaglia, ha il dono non solo di accecare, assordare, intorpidire i suoi avversari, ma letteralmente di legarli con un laccio invisibile. E questo è il procedimento che evoca Brynhildr nel sogno-maledizione che racconta a Gunnar dopo l'uccisione di Sigurd/zr

(Brot af Sigurdharkvid.hu, 16): Mi sembrava, dice, che tu, principe, cavalcassi, spoglio di gioia, avvinto da un laccio, nell'esercito nemico. Quel laccio è lo her-fjòturr, « il laccio d'esercito », l'incantesimo che paralizza il combattente. I poeti hanno personificato tale nozione nel nome di una delle Valchirie, cioè di una delle dee minori che assistono direttamente Odh'mn: Herfjòtur (Grimnismàl, 36). Agli aspetti ambigui, inquietanti, quasi demoniaci di Varuna corrispondono quelli di Odh'mn, alcuni dei quali sono stati ricordati sopra: gli antenati giganti, la sua amicizia particolare per il demoniaco Loki, col quale ha concluso un patto di fraternità. E Varuna, in alcune leggende celebri, non è meno avido di sacrifici umani di quanto lo siano Odhinn e il Mercurius-*Wó//ianaz di Tacito. Come il màyin Varuna è re, ràjan, e perfino samràj, il mago Odfcinn è il re degli dèi e il protettore della regalità. Come Varuna, dice il Satapatha-bràhmana, è lo &shatra, potere temporale e principio della classe guerriera (mentre Mitra è il brahman), o, nel linguaggio degli inni, ha una affinità con l'élite, i nobili, l'ari (mentre Mitra è più vicino al jana, alla massa: L. Renou, Études védiques et pàninéennes, II, 1956, p. 110), e anche un testo celebre degli Hàrbardhsljódh (str. 24) fa dire al dio stesso: Odhinn possiede i jarlar [nobili] che cadono in combattimento, e Thórr ha la razza dei i/zraelar [servitori].

Se infine gli eroi caduti in combattimento appartengono a Odhinn e continuano nella Valhòll una vita di banchetti inesauribili e di duelli che ormai non sono altro che giocai, e se questo destino felice, a ogni buon conto, si estende a chiunque prima di morire si faccia marcare col segno di Odhinn, abbiamo visto il rituale funerario indiano promettere anch'esso ai morti arya - a tutti i morti arya, sembra -, al termine del loro viaggio, il luogo dove vedranno i due re, Varuna e Yama, « assaporare il piacere a volontà ». T r a i vasti domìni dell'uno e dell'altro, vi sono, naturalmente, numerose differenze, in maggior parte di poca importanza, che si spiegano facilmente considerando gli ambienti, le diverse collocazioni geografiche e le condizioni di vita in cui sono state praticate le due religioni: Varuna non è il poeta, il patrono dei poeti, come lo è il « uates » Odhinn; non ha per ausiliari animali che ricordino i lupi e i corvi che circondano Odhinn, né la simpatia del dio nordico per gli impiccati (fondata certo su pratiche sciamaniche). Queste differenze sono dell'ordine di grandezza previsto. Ma ve ne è una molto più considerevole che rivela un aspetto originale delle antiche civiltà germaniche. Se può anche accadere che Varuna sia invocato nella guerra e per la vittoria, questa non è però una delle sue funzioni comuni, ma una estensione della sua posizione sovrana. Il dio combattente è Indra, e molti testi rgvedici fanno una esatta suddivisione dei compiti. Un gruppo di inni del VII libro che è loro dedicato congiuntamen-

te (82-85) contiene eccellenti definizioni differenziali : Uno di voi [Indra\ uccide i « intra » nei combattimenti, l'altro [Varuna] veglia costantemente sulle leggi. (83, 9) Uno \Varunà\ mantiene nell'ordine i popoli spaventati, l'altro \Indrà\ batte i vrtra invincibili. (85, 3) E, con una sfumatura: Possa la collera di Varuna risparmiarci! Che Indra ci procuri un vasto regno! (84, 2) Si è immediatamente colpiti, al contrario, dall'ampiezza dei rapporti di Odfann con le battaglie e i combattenti, in questo mondo e nell'altro. Di rado è combattente personalmente, tranne che nella storicizzazione dell' Ynglingasaga (citata sopra a pp. 22 sg.), dove è definito her-madhr mikill, « grande uomo di guerra », e marcia di conquista in conquista; ma è presente nelle mischie, decide sul posto in merito alla vittoria, esprime il suo verdetto mediante gesti precisi e lancia sul nemico armato - su lui solo, sembra il « laccio » paralizzante che ha in comune con Varuna; siano del tipo forsennato dei berserkir o del tipo elegante di un Sigurd/zr, quelli che si distinguono nel combattimento gli appartengono, sono partecipi delle sue diverse nature; infine, egli accoglie nella sua Valhòll soltanto i morti sul campo di battaglia, o quelli che una ferita

simbolica assimila loro. In breve, anche se in tutto questo egli agisce in maniera conforme alla sua definizione di sovrano, di signore dei destini, e spesso per azione puramente magica o interiore, resta il fatto che di tale azione la guerra è una delle principali circostanze; e, d'altra parte, se lascia a Thòrr il compito di maneggiare la folgore di Indra, arricchisce il proprio tipo ' varunico ' di numerose qualità che l'India vedica riserva al dio folgorante e insieme guerriero, al dio del secondo livello: le Valkirie hanno fatto pensare, con ragione, ai Marut, compagni di Indra, e gli eroi odinici dell'Edda e delle saghe richiamano Arjuna, figlio di Indra, nel quale l'epopea ha trasposto la mitologia del padre. La spiegazione di questa peculiarità di OdMnn è evidente: nell'ideologia e nella pratica dei Germani, la guerra ha invaso tutto, colorato tutto. Quando non si battono, coloro di cui Cesare ha fornito il primo e affascinante abbozzo, non pensano che ai combattimenti futuri : uita omnis in uenationibus atque in studiis rei militaris consistit, e questo fin dalla più tenera età, a paruis labori ac duritiae student (VI, 21, 3); se disdegnano l'agricoltura, se respingono la distribuzione permanente del suolo, è, in primo luogo, ne assidua consuetudine capti studium belli gerendi agricultura commutent (22, 3). Come poteva il dio sovrano - che l'assenza di un corpo sacerdotale e lo stato rudimentale del culto già notati da Cesare (21, 1) privavano di una parte della base sociale su cui posava il suo omologo vedico - come poteva *Wói/zanaz non subire, nel suo equilibrio interno, l'effetto di questa ipertro-

fia della preoccupazione guerresca? In base alla nostra informazione, dunque, il quadro varia soltanto nelle sfumature: al medesimo titolo che a « Mars », è a Mercurius, cioè a *WóiAanaz, che gli Hermunduri votano in anticipo l'esercito che stanno per affrontare, quo noto equi uiri cuncta uicta occidioni dantur (Tacito, Annales, XIII, 57); a Upsala, nell'XI secolo, Wodan, secondo Adamo di Brema, bella gerit hominique ministrai uirtutem contra inimicos. •

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Proprio questo carattere delle società germaniche spiega l'evoluzione, lo sfasamento, altrimenti considerevole, dell'equivalente germanico dell'altro termine della coppia Mitra-Varuna. Può darsi, certo - e la questione resta controversa -, che il * Mitra indoiranico, benché dio dei contratti, abbia avuto per la guerra maggior interesse di quanto ne mostri il suo erede vedico: quelli che pensano così si basano soprattutto sull'Avesta postgàthico dove Mii/nra è ' il ' vero dio guerriero, di cui Verei/zragna, genio della vittoria, è solo l'ausiliario. Personalmente, vedo piuttosto in questa promozione un effetto della riforma zoroastriana che, dopo aver condannato quella specie di guerrieri troppo autonomi che Indra proteggeva e degradato questo grande dio a arcidemone, ha affidato la sua temibile funzione al dio stesso del diritto perché il guerriero non doveva essere ormai che l'ausiliario sottomesso e disciplinato di Ahura Mazdà e della sua chiesa.

È a tale opinione che mi atterrò in questa sede; è chiaro che se si adotta l'altra, la spiegazione del « Mars » germanico da me proposta sarà ancora più facile da difendere. La difficoltà si riassume, di fatto, in queste poche parole: è con « Mars» che Tacito e numerose iscrizioni rendono il nome del dio che, presso i Germani continentali, dovrebbe essere la controparte di Mercurius-*Wó