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Italian Pages 167 Year 2008
Premessa di Giampiero Moretti
Con una limpida, profonda Introduzione al testo di Walter Friedrich Otto del 1942, qui riproposto in una veste rinnovata che quell'Introduzione significativamente però conserva, Gianni Carchia presentava al lettore italiano, nel 1991, uno dei testi più belli e riusciti del filologo tedesco, scomparso nel 1958. Nel frattempo, abbiamo imparato ad apprezzare e a conoscere a fondo, anche grazie a un validissimo lavoro molteplice e interdisciplinare, per tanti versi fortunato, l'opera di Otto. 1 Se dunque non è qui necessario ricostruire, per il lettore di queste pagine così inquietantemente affascinanti di Otto, l' orizzonte di pensiero che le sostiene e le alimenta (è questo il tema, tra l'altro, anche dell'Introduzione di Carchia), non sarà tuttavia fuor di luogo evidenziare almeno un punto tra i molti che si ritrovano in discussione appena ci si solleva dalla lettura del volume: la questione del rapporto di Otto con Holderlin, con la sua poesia, che è di per sé esperienza poetico-esistenziale, in un ambito in cui tale rapporto non può non evocare il nome dell' altro grande interlocutore dell'epoca, Martin Heidegger. Infatti, proprio a partire dalla fine degli anni ottanta del secolo scorso, in coincidenza cioè con la pubblicazione nella Gesamtausgabe heideggeriana dei Beitriige, recentemente tradotti anche in italiano, 2 nell'ambito della ricezione dell'opera di Heidegger un approfondimento "oggettivo" che non è affatto privo di ripercussioni pro1 Mi permetto di rimandare alla mia Premessa a W.F. Otto, Il mito, il melangolo, Genova 2007 2, pp. 5-6. 2
M. Heidegger, Beitriige zur Philosophie (Vom Ereignis), a cura di Fr.-W. von Herrmann, Klostermann, Frankfurt a.M. 1989; trad. it. Contributi alla filosofia (Dall'evento), a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2007.
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Il poeta e gli antichi dèi
prio per il punto teorico da noi appena evocato. Per comprendere appieno ciò di cui si sta qui parlando, occorre fare un brevissimo passo indietro. Tanto Heidegger quanto Otto decisero di rimanere in Germania durante il periodo nazionalsocialista. Su entrambi ha variamente pesato, a molteplici livelli, e ancora talvolta si sente incombere - in particolare su Heidegger, com'è naturale -, il sospetto di eccessiva vicinanza, se non di vera e propria "compromissione", con quel che il nazismo ha significato per la cultura dell'epoca. Tuttavia, nella misura in cui la rilettura del pensiero di Nietzsche, operata a partire dagli anni sessanta del secolo scorso in poi, specialmente in Francia e in Italia, è consistita soprattutto nella sottolineatura dei tratti libertari, anarchici, in breve "antipolitici", se non perfino teologici, dell'opera dello stesso Nietzsche, tutti coloro che, come Heidegger, avevano fatto dell'opera di Nietzsche un perno essenziale della loro interpretazione complessiva della contemporaneità, sono stati "restituiti" al piano della discussione filosofica eccellente, anche in virtù dell'importanza da loro ascritta al pensiero di Nietzsche, visto appunto come intrinsecamente contrario a ogni posizione totalitaria. Ciò non è di per sé "errato", tuttavia è apparso gradualmente parziale e riduttivo alla luce di un'analisi più approfondita e per così dire "ordinata" del pensiero di Heidegger nel corso degli anni trenta e quaranta del Novecento. In particolare, lo studio sia delle lezioni espressamente dedicate a Nietzsche, sia di quelle temporalmente coeve, ha messo in luce come Heidegger, senz'ombra di dubbio, abbia non tanto inserito in una linea ermeneutica unitaria quanto invece esplicitamente contrapposto Nietzsche a Holderlin. Sulla radicalità di tale contrapposizione, e sulla sua estrema importanza, ci siamo variamente soffermati, e non è qui il caso di ripetere quanto detto altrove. 3 Se però, ed è questo il punto, Nietzsche e Holderlin non costituiscono per Heidegger un percorso unitario della cul3
Si vedano, in particolare, G. Moretti, Il poeta ferito. Holderlin, Heidegger e la "storia dell'essere", La Mandragora, Imola 1999; Id., 1st (die) Philosophie (eine) Stimmung? Erwiigungen zu Heideggers Erbe, in "Studi Germanici", 3, 2006, pp. 451-456.
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Premessa
tura europea-occidentale, ma sono piuttosto un bivio, dinanzi al quale l'Occidente si è drammaticamente trovato impreparato (volontà di potenza dell'esserci sull'ente contra esperienza poetica dell'esserci dell'ente), ecco che non tanto l'opera, quanto l'esistere holderliniano come opera-incontro con il divino, si è rivelato il vero tema del rapporto di Heidegger con Otto. O!iesta ricostruzione, sia pur brevissima, di problemi teorici davvero ricchi di aperture e conseguenze interpretative, fa agevolmente comprendere la complessità dei nodi di pensiero presenti e sottesi nelle pagine di Otto su Goethe e Holderlin. Nessuno di questi due grandi, per Otto - ed è qui la vera differenza con lo Heidegger di quegli stessi anni -, può rappresentare un'alternativa alla crisi e al declino dell'Occidente, e ciò per motivi che si intrecciano con l'interpretazione del loro universo poetico fornita dallo stesso Otto, come vedrà il lettore. Profondamente nietzscheano, se così possiamo esprimerci, è comunque il motivo dell'eccezionalità del Greco nei confronti dell'uomo antico e poi moderno-contemporaneo, un motivo che Otto fa risaltare con grande partecipazione proprio nella sua lettura di alcune fondamentali pagine di Holderlin, così che Nietzsche è variamente presente, nell'interpretazione di Otto, ora a fianco di Goethe ora accanto a Holderlin, e però sempre e inevitabilmente sullo sfondo. Il silenzio del mito e del culto è per Otto il tragico silenzio del divino nell'età del mondo che è la nostra, un ritrarsi degli dèi che non possiede, in quanto comporta ormai l'impossibilità dell'eccezione, quel carattere di promessa di possibile, eventuale presenza, che invece Heidegger, in quel tempo, gli attribuiva, e precisamente in virtù della sua stessa lettura di Holderlin, un "particolare" questo sul quale, riteniamo, non si è ancora riflettuto a sufficienza. Restano le pagine di Otto, capaci di ricostruire con nettezza senza pari l'orizzonte di un'antichità mitico-cultuale il cui tratto eroico è in grado di accettare (ancora una volta: nietzscheanamente, poiché l'eroe è l'eccezione per antonomasia) anche l'inabissarsi di quell'antico mai più presente.
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Introduzione di Gianni Carchia
Raccolte nello spazio di un piccolo libro, agile e nervoso, denso di scorci improvvisi e di suggestive meditazioni, queste pagine di Walter F. Otto, pubblicate nel 1942, si situano al culmine della maturazione spirituale dell'autore che, all'epoca, aveva già lasciato dietro di sé i suoi capolavori, Die Gotter Griechenlands del 1929 e il Dionysos del 1933.1 In conformità con la scansione stessa dei capitoli che le costituiscono, possiamo scorgervi tre ambiti tematici fondamentali che, sebbene reciprocamente autonomi, pure si richiamano fra loro, convergendo tutti intorno a un'unica idea. Come è evidente fin dal titolo, il libro di Otto si qualifica innanzitutto come un'importante discussione intorno a Griechentum und Goethezeit, per riprendere il tema posto dal celebre saggio di Walter Rehm. 2 Il capitolo iniziale, mettendo a confronto Goethe e Holderlin, si chiede quale sia l'orizzonte mitico-religioso legittimo, al quale ancora possa rifarsi come al suo fondamento la poesia in seno alla modernità. Qyi, per Otto, non v'è dubbio che, a fronte del naturalismo in qualche modo astorico di Goethe, che finisce con lo scavalcare la stessa opposizione fra antico e moderno, una riscoperta reale, non allegorica, degli antichi dèi si profili piuttosto nell'espe--------
! Walter Friedrich Otto è stato definito da Karoly Kerényi «colui che ha riscoperto la religione greca• (K. Kerényi, Humanistische Seelenforschung, Langer Miiller, Miinchen-Wien 1966, p. 274). Per una presentazione in italiano della sua opera, ricca di indicazioni critiche e bibliografiche, si veda la Prefazione di Alberto Caracciolo a W.F. Otto, 1heophania (1956), il melangolo, Genova 1983, pp. 5-18.
2 W. Rehm, Griechentum und Goethezeit, Francke, Miinchen-Bern 1969 4 Sul tema si veda • anche la bella sintesi di J. Taminiaux, La nostalgie de la Grèce à l'aube de l'idéalisme a/lemand, Nijhoff, La Haye 1967.
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Il poeta e gli antichi dèi
rienza umana e poetica di Holderlin. Il secondo capitolo del libro, quello più ampio e in ogni senso centrale, si determina così come un momento essenziale di quella storia della critica hè:ilderliniana, 3 che tanto rilievo ha avuto nel Novecento in rapporto a una più generale comprensione del valore e del significato della poesia nell'epoca moderna. La ricostruzione sensibile e partecipe di alcuni momenti decisivi della poesia e della riflessione holderliniane consente a Otto di farne il paradigma del tentativo più alto e più religiosamente ispirato di riafferrare l'antico in seno alla modernità ma, al tempo stesso, il paradigma anche del suo ineluttabile fallimento. La definizione di ciò che è il "tragico" dell'esperienza holderliniana, dietro la quale s'intravede l'ombra lunga dello scacco per molti versi analogo di Nietzsche, è la premessa dell'ultima mossa dell'indagine di Otto. Essa consiste nella riproduzione, dinanzi al fallimento del naturalismo goethiano con il suo anarchico individualismo così come dinanzi al fallimento della mistica cultualità hè:ilderliniana, della religiosità olimpica come autentica, eterna creazione del genio greco, nell'ambito di una Kulturkritik radicale, senza nostalgia né utopie. Se tale è dunque la linea ispiratrice del libro, che si risolve nella constatazione dell'incapacità della poesia moderna di rivivere l'esperienza della grecità olimpica, di rifarsi epos eroico, si tratta ora di osservare più da vicino la struttura argomentativa che la sostiene. Non si può intendere il senso effettivo dell'atteggiamento di Otto, finché non sia chiaro chi sono e che significato abbiano per lui "gli antichi dèi". Da questo punto di vista, è subito evidente che la sua posizione è, nell'ambito degli indirizzi che dominano gli studi storico-religiosi novecenteschi, del tutto eccentrica; è il percorso di un isolato e di un solitario. Con la sua vigorosa reinterpretazione della religione greca come religione, innanzitutto, degli dèi olimpici cantati da Omero e da Esiodo, 3 Cfr. A. Pellegrini, Hiilderlin. Storia della critica, Sansoni, Fìrenze 1956, in particolare pp. 206-218. Una più recente rassegna si trova in R. Ruschi, Hiilderlin "filosofa" dell'idealismo tedesco. Un tema ricorrente nella storia della critica, in "Cultura e scuola", nn. 107-108, 1988, rispettivamente pp. 131-144 e pp. 116-128.
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Introduzione
Otto si è situato, infatti, agli antipodi di tutta quella tradizione interpretativa che, muovendo dalla mitologia romantica e da Nietzsche, giunge a gran parte della scienza del mito contemporanea. In lui si ribalta la tavola dei valori imposta, quanto alla comprensione della grecità, dal Romanticismo. Lo sforzo romantico era stato infatti volto, sui presupposti della spiritualità cristiana, a evidenziare in seno alla religione greca quei momenti per così dire "eretici", capaci di contraddire l'immagine ottimisticamente superficiale, di calmo e composto equilibrio, suggerita dalla religione olimpica, con la sua risoluta separazione di mondo umano e mondo divino. Nasceva da qui la riscoperta romantica di una linea profonda, al di sotto della bella apparenza olimpica, capace di collegare non senza contraddizioni l'antico strato cultuale della religione preellenica alle religioni misteriche della tarda grecità, per il tramite soprattutto dell'esperienza supposta eccentrica del dionisismo, religione "democratica" e sovversiva dell'ebbrezza opposta alla religione "aristocratica" dell'ordine olimpico. Di tutto ciò, importanti furono soprattutto le implicazioni sul piano estetico dove l'esperienza del "tragico", fenomeno peculiarmente "dionisiaco", finì con il diventare il paradigma stesso dell'opera d'arte della classicità in tutta la riflessione che prende le mosse dall'estetica dell'idealismo tedesco. Qyanto abbia pesato e quanto continui a pesare una simile tradizione esegetica, si può scorgere da numerosi indizi; uno dei più notevoli è, per esempio, la lettura in chiave "borghese" del mondo omerico proposta dalla Dialettica dell'illuminismo di Horkheimer e Adorno. 4 È qui evidente, allora, il ruolo fondamentale che, nella prospettiva di Otto, ha svolto la sua ricerca su Dioniso. Nel libro del 1933, contestando il tentativo esemplarmente realizzato da Erwin Rohde di vedere in Dioniso un dio straniero, alternativo in origine alla cerchia degli dèi olimpici, Otto smantellava implicitamente la proposta nietzscheana, che riassume e conclude il tragitto ro4 Fra le poche eccezioni vi è, come è noto,L'Iliade ou le poème de lafarce (1939-41) di Simone Weil (cfr. S. Weil, La Grecia e le intuizioni precristiane, trad. it. di C. Campo, Boria, Roma 1984, pp. 11-41).
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Il poeta e gli antichi dèi
mantico, di opporre alla trasfigurata e illusoria apparenza della religione olimpica il crudele fondamento dionisiaco dell'esistere. In parallelo con questa messa a distanza di ogni contegno romantico - ciò che in Otto equivale a un più o meno sfumato rigetto del mondo "cristiano" ovvero "moderno"5 - si situa, però, una non meno salda volontà di difendersi dalla tradizione del neoclassicismo d'impronta letteraria e umanistica. Per Otto, il mondo degli Olimpici non è un mondo di sublime apparenza, non si riassume nell'esclusivo dominio del dio della distanza, di Apollo; olimpicità non significa per lui, semplicisticamente, un dominio di forme emancipatesi dal reale. Al contrario, la bella apparenza del mondo classico non si pone come oblio, come allontanamento esclusivo dalla religione ctonia delle origini. Anziché scorgere nella religione olimpica una repressione o una rimozione dello strato cultuale originario preellenico, Otto vi ha sempre letto un suo inveramento, una sublimazione capace di accogliere tutta la forza dell'origine in seno a un rischiarato ordine della forma e del rigore spirituali. Il mondo degli dèi olimpici è, in questo modo, un dominio religioso egualmente lontano dagli estremi dell'irrazionalismo romantico come del formalismo classicistico. Solo se si muove da una ricognizione esatta dei contrassegni attribuiti da Otto alla genuina religione olimpica, da lui assunta come pietra di paragone, emergerà allora il significato dell'ambivalenza che sembra guidare il suo giudizio nei confronti dell'esperienza holderliniana. Non c'è dubbio, innanzitutto, che, secondo Otto, non meno che al titanismo soggettivo di Goethe e alla nostalgia classicistica di Schiller, la comprensione del carattere di realtà degli dèi olimpici dovesse restare preclusa anche a Holderlin. Nella condizione lacerata della modernità, infatti, là dove la ragione è asservita alla natura disincantata e meccanica che pure crede di dominare, l'aspirazione holderliniana a una riconciliazione fra spirito e natura non può non -------- - - -
Su questo punto è importante soprattutto il libro del 1923, Der Geist der Antike und die christliche Welt (cfr. W.F. Otto, Spirito classico e mondo cristiano, trad. it. di C. Calabresi, La Nuova Italia, Fìrenze 1973).
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Introduzione
nutrirsi dell'immagine di un passato che antecede il mondo olimpico. Lo stato di scissione moderno non è, infatti, se non una sinistra parodia dell'ordine cosmico imposta dal governo di Zeus, all'indomani dell'arcaica fusione culturale fra uomo e natura, con l'irrimediabile separazione fra il divino e l'umano. Non già quest'ultimo equilibrio, quello classico-olimpico, bensì un'armonia più originaria, la riunificazione dell'umano e del divino, pur nell'ammissione della loro differenza, è la meta della pia religiosità di Holderlin. Ora, il carattere assolutamente originale della lettura che Otto ha tentato di questa esperienza holderliniana consiste nella dimostrazione dell'identità esistente fra la sua idea della poesia e la primitiva, preellenica unità di culto e mito. L'esito "tragico", quella drammatica conflittualità di ogni arcaica aspirazione mistica all'unità che solo la nuova chiarezza spirituale della religione olimpica fu capace di trascendere, si ripete come in miniatura nell'esperienza poetica di Holderlin. Al centro dell'interpretazione di Otto si situa una lettura in chiave tragica dell' Empedocle holderliniano, sorretta da un'analisi minuta del testo teorico che lo giustifica, il Fondamento dell'Empedocle [Grund zum Empedokles], giustamente riconosciuto nella sua densità speculativa come uno dei testi decisivi dell'idealismo tedesco. 6 In sintesi, la tesi di Otto è che la dialettica holderliniana dell"'organico" - il particolare, il limitato, l'ordine, la forma - e dell"'aorgico" - l'universale, l'illimitato, l'infinito, l'informe -, quella divinizzazione dell'uomo (culto) e umanizzazione del divino (mito), poterono realizzarsi solo nell'inconsapevolezza originaria, nella dimensione arcaica della comunità e della festa. Lo spazio della vita "pura", l'armonia originaria dei distinti lasciano invece il posto alla tragedia, allorché si presentano non più realmente, ma riflessivamente "in figura", come mediazione sacrificale di un singolo (Empedocle, ma in fondo anche Cristo), come volon6
Per una ricostruzione storico-filosofica dell'impostazione holderliniana, si veda l'importante Introduzione di Remo Bodei a F. Holderlin, Sul tragico, Feltrinelli, Milano 19892, in particolare pp. 30 ss. Un'interpretazione differente del Grund zum Empedokles, centrata sulla figura del Gegner, è quella che ho proposto nel mio O,jismo e tragedia, Celuc, Milano 1979, pp. 63 ss.
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Il poeta e gli antichi dèi
tà individuale di riconciliazione, che arriva unilateralmente, troppo in fretta al divino, e così fallisce. La figura tragica di Empedocle, con la cui morte si realizza e naufraga al tempo stesso il progetto della riconciliazione, è allora la figura del destino stesso della poesia moderna, che vorrebbe tornare a riunire comunitariamente, nell'unità del proprio canto, gli umani e i divini. Lo scacco di Empedocle è, per Otto, come in un circolo, l'immagine dello stesso tragico destino di Holderlin. È sul valore che si debba accordare a questa costitutiva tragicità della poesia religiosamente ispirata - in quanto utopia di una rinnovata, consapevole armonia fra l'umano e il divino capace di rinnovare l'antica solidarietà fra mito e culto - che, alla fine, più oscillante diviene il giudizio di Otto. Nelle pagine che concludono il secondo capitolo, la nascita con Holderlin di un nuovo mito della poesia, sottratta alla profanità, resa "pura" e "pia", viene considerata il segno, proprio nella sua tragica impossibilità, dell'avvento di una nuova comunità umana, la profezia del possibile ritorno degli antichi dèi del culto, della libera natura del regno di Saturno. 7 Qyi Otto sembra caricare la poesia di valenze salvifiche e fare del moderno un tragico in attesa della sua catarsi. È questo il punto dove, per un attimo, la sua posizione sembra incontrarsi con l'escatologia negativa che, intorno al tema dell'"assenza degli dèi" dopo l'estrema apparizione di Cristo (Brod un Wein), Heidegger ha creduto di poter trarre da Holderlin. 8 Se si persegue, però, fino in fondo il dettato più originale e più caratteristico della lettura di Otto, diventa in ultimo chiaro che il "tragico", il fondo cultuale evocato dalla poesia, la profezia della comunità a venire sono soltanto un'altra testimonianza dello stato di scissione della modernità, la prova romanticamente evidente della sua "peccaminosità". Davanti a ciò, per Otto, propriamente non c'è I.:interpretazione di Otto si rifà soprattutto a Natura e arte ovvero Saturno e Giove (cfr. F. Holderlin, Poesie, a cura di Giorgio Vigolo, Einaudi, Torino 1963, pp. 64-65).
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8 Un interessante apprezzamento di Heidegger nei confronti di Die Gotter Griechenlands si trova in M. Heidegger, Parmenides, Klostermann, Frankfurt a.M. 1982 (voi. LIV della Gesamtausgabe) p. 181; trad. it. Parmenide, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1999, p. 222.
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Introduzione
scampo, non c'è futuro. Stoicamente non resta che il disincanto, disincanto anche rispetto a ciò che - come la poesia - tragicamente si oppone al moderno ma, pure, intimamente ne fa parte. Un'ascesi antitragica e antimoderna, antitragica perché antimoderna, vuole così alla fine sottrarre per sempre al tempo le figure, nate storicamente ma spiritualmente immortali, degli dèi olimpici. Non più soltanto figure, esse divengono allora gli archetipi, i simboli di un eterno presente.
XVII
Il poeta e gli antichi dèi
Parte prima
Goethe e Holderlin
Capitolo primo Se scocca la scintilla e la cenere arde, ai nostri vecchi dèi andremo incontro.
J.W. Goethe, La fidanzata di Corinto
I La fanciulla che, per assecondare la madre fattasi cristiana, aveva preso il velo e rinunciato alle nozze, non trova pace nella tomba. Il desiderio inappagato la spinge tra le braccia dell'amato che, ora, deve morire con lei; rivolta alla madre è la sua estrema volontà: essere cremata con lui secondo l'antica usanza e far così ritorno agli dèi dei padri. All'origine della ballata di Goethe c'è, a quanto pare, una storia vera, narrata da un contemporaneo dell'imperatore Adriano. Goethe per primo, però, ne ha fatto la toccante immagine della lotta tra la Croce e gli antichi dèi. Gli antichi dèi! Un bagliore del loro spirito, sia pure soltanto fuggevolmente, tocca anche noi, come un raggio di sole che per un istante incanti il mondo. I tempi di questa lotta sono finiti da un pezzo. Gli antichi dèi sopraggiungono senza un nome e non c'è quasi più nessuno che sappia ancora cos'è ciò che passa così gioioso attraverso la sua vita dissolvendosi come in sogno. Essi, così afferma Holderlin, ci risparmiano e ci sollevano dalla pena di doverci decidere. Soltanto i più grandi sono abbastanza chiaroveggenti da scorgere gli antichi dèi anche nel loro nascondimento e, come Schiller, da sopportarne a malincuore la rinuncia, o, come Holderlin, da aver fede in loro, con devota innocenza. Goethe, però, ha osato dichiararsi espressamente a loro favore. Egli era
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Il poeta e gli antichi dèi
talmente certo della sua esperienza da permettersi di trattare con superiorità, e talora anche con asprezza, i fanatici religiosi. In tal senso scrive a Jacobi (6 gennaio 1813) che le cose celesti e quelle terrene costituiscono un così vasto regno che solo gli organi di tutti quanti insieme gli esseri riescono ad afferrarlo; aggiunge che egli stesso non può valersi, nella molteplice varietà di orientamenti che gli è propria, di un solo indirizzo di pensiero; dice dunque di essere politeista come poeta e artista, e panteista, invece, come filosofo della natura: risoluto tanto nell'uno come nell'altro orientamento. Anche al Cristianesimo concede una sua sfera d'influenza, e cioè l'esistenza dell'uomo come personalità morale. Limitazione che, rispetto alla validità incondizionata del Cristianesimo, non è molto lontana da un rifiuto. Che cos'altro è il politeismo del poeta e dell'artista in Goethe se non una professione di fede nei confronti degli dèi della Grecia, sebbene il panteismo proprio del filosofo della natura esiga la stessa importanza? Di fronte alla versatilità spirituale di Goethe il mondo si dischiude indubbiamente in più di una forma. Egli era certo legato nel modo più passionale alle figure degli dèi, tanto vicine alla vita universale della natura che in esse le visioni dell'artista e del filosofo naturalista quasi si compensavano. Vedere disprezzata una tale rappresentazione degli dèi poteva suscitare la sua ira e talora, contro il predicatore del puro spirito, un insulto beffardo. Dopo la lettura del libricino di Jacobi Van den gottlichen Dingen [Delle cose divine] si rammentò degli orefici di Efeso negli Atti degli Apostoli (19,18) e fece proprie le loro ragioni. Essi si erano ribellati alla predicazione di Paolo, poiché questa minacciava di danneggiare la reputazione del tempio di Artemide e, di conseguenza, il loro stesso mestiere. Orbene io sono uno degli orefici efesini che ha trascorso l'intera sua vita nella contemplazione, nell'ammirazione e nella venerazione del tempio stupendo della dea e nell'imitazione delle sue forme piene di mistero, ed è impossibile che a costui possa fare una buona impressione quell'apo-
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Goethe e Holder!in
stola che pretende di imporre ai suoi concittadini un altro dio e per giunta senza forma. 1
Lo stesso stato d'animo esprime in modo ancor più aspro la poesia Grande è la Diana d'Efeso: In Efeso sedeva in sua bottega un orafo picchiando ... A un tratto lo percuote il turbinìo d'una plebe in rivolta come fosse dell'uomo nella mutevole mente sbocciato un Dio più splendido dell'essere nel quale del Divino leggiam l'immensità. Solleva il vecchio artista appena gli occhi, lascia i garzoni accorrere al mercato, e lima e lima i cervi e gli animali che della Diva instoriano i ginocchi e spera la ventura anca gli tocchi che, degno, il volto ne modellerà. 2
«Il Dio sbocciato dalla mutevole mente dell'uomo»: un'espressione dura, con la quale Goethe deve essersi sfogato entro la cerchia dei suoi amici. «Mai- scrive a Humboldt nell'inviargli la poesia (31 agosto 1812) - mi intrometto volentieri nei commerci del giorno, non posso però impedirmi di giocarvi, nella calma, il mio tiro.» Alla salace impertinenza è tuttavia sottesa una serietà più elevata: il raccoglimento al cospetto della grande Artemide, la dea della natura, la cui essenza racchiude in sé ogni vita, la forza degli animali e delle piante, quella degli stessi elementi, fino allo splendore delle stelle sopra di noi. L'orefice efesino è consapevole dell'ampiezza della divinità. Egli sta in un mondo pieno di dèi in cui anche quanto è al di là dell'umano possiede 1
Lettera aJacobi del 10 maggio 1812.
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Trad. it. di R. Gnoli, in J.W. Goethe, Opere, Sansoni, Fìrenze 1970, p. 1328.
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un senso sacro e infinito. La sua arte è al servizio della verità del divino quando egli vi associa le forme degli animali e vuole dare espressione in una forma vivente alla sua eccellenza. Il poeta dunque riconosce nei pagani devoti i suoi veri fratelli. La dea della natura parla anche a lui. Non però alla maniera del Salmista (19,2): «I cieli narrano la gloria di Dio, e l'opera delle sue mani annunzia il firmamento». Essa gli è sacra non in quanto creazione dell'Onnipotente, per la gloria sua e il godimento degli uomini, ma come quell'inesauribile vita che conserva l'essere in eterno, rinnovato divenire; e contemplare le sue forme originarie è, al tempo stesso, conoscenza e venerazione. In veste di studioso Goethe ha ricercato nella natura, con osservazioni instancabili e metodi d'indagine accuratamente saggiati, le forme e i fenomeni originari; all'artista, le forme naturali dell'esistere e dell'accadere mondano si presentavano come essenze eterne. Il politeismo del poeta è questo. Non c'è più per lui alcun soffio di vita nel mondo svuotato di dèi proprio della nuova fede, mondo nel quale la natura viene sacrificata all'intelletto astratto. O!iesto il giovane Schiller ha avvertito come un brivido freddo, allorché compose la poesia Gli dèi della Grecia. Davanti a sé vide un mondo in cui era morto il soffio sacro che un tempo pervadeva il tutto: Tutti quei fiori giacciono riversi sotto il terribile vento del Nord: per favorirne uno solo fra tutti dové svanire questo mondo divino, mesto ti cerco nella volta stellata, o Selene, ma là più non ti trovo; t'invoco nei boschi, tra i flutti, ma essi risuonano invano! 3
Scandalosi apparvero questi accorati lamenti di Schiller e, in una stesura più tarda, egli stesso molto li moderò volgendoli 3
In F. Schiller, Poesie.filosofiche, trad. ir. di G. Moretti, SE, Milano 1990, p. 17.
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in tono consolatorio. Non aveva la forza spirituale di Goethe, che seppe respingere, quale atto di presunzione della mente umana, la dottrina profana della natura. La scienza doveva avere la meglio. Egli, però, inorridiva di fronte al meccanismo senz'anima di una natura consegnata alla tecnica e all'esperimento. In questa nuova immagine del mondo riconobbe l'altra faccia della nuova fede in un unico signore oltremondano; e fu per lui una stretta al cuore, poiché avvertì l'alito mortale del nichilismo.
II Lo spirito degli antichi dèi non sopravvive però soltanto nella tristezza per l'allontanamento degli dèi dalla natura: anche l'amor proprio del poeta e dell'artista si difende dal nuovo genere di umiltà che invece è richiesta all'uomo come tale. Del nulla e della caducità dell'uomo parlano abbastanza seriamente i più grandi testimoni della grecità. Qyando Apollo a colui che visita il suo tempio a Delfi si rivolge dicendo: «Conosci te stesso!», ciò significa: considera che sei un uomo e non dimenticare i limiti imposti all'essere umano! È la stessa esortazione di Goethe a rispettare i confini dell'umanità (Grenzen der Menschheit). La nuova religione, al contrario, esige che l'uomo si senta creatura. Può ben credere allora di essere chiamato a un'eterna beatitudine, anzi, addirittura a una grandezza oltremondana. «O non sapete - dice Paolo - che i santi giudicheranno il mondo? Non sapete che giudicheranno gli angeli?» (1 Cor. 6,2). Apollo avrebbe giudicato questa pretesa come l'estremo abbaglio e oltrepassamento dei limiti umani. Pretesa che ha, d'altro canto, il suo rovescio in un altrettanto estremo e non greco rifiuto di sé. All'uomo come creatura non resta altro che il sentimento di una dipendenza assoluta. Ogni moto ispirato dalla sicurezza di sé, e orgoglioso, lo rende bugiardo di fronte a se stesso e peccatore di fronte a Dio.
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I custodi di questa dottrina non si potevano ingannare circa il luogo in cui si dovesse cercare la forza che a essa si contrappone: l'innata, calma resistenza, tanto più pericolosa in quanto non riposa sulla necessità della ragione, ma nella natura, e inoltre compare nella coscienza in modo spesso affatto chiaro. Gli artisti nati, gli spiriti creatori sono coloro contro i quali si è da sempre rivolto il sospetto di una terrestrità inestirpabile, anche quando confessavano la vera fede. Costoro, per quanto riservata possa essere la loro personale condotta, appaiono affini alle nature dispotiche, accattivanti, amanti del piacere. Tutto il loro modo di comportarsi dimostra come siano ben disposti verso il mondo naturale: divinizzano le passioni e possiedono nell'intimo un'alterigia che non può accordarsi con l'umiltà propria dell'assoluta dipendenza creaturale. Anche se non offrono sacrifici ad alcun dio, sembra che nel segreto del loro cuore abbiano edificato templi e altari, e restino legati al paganesimo antico. Consapevolmente o inconsapevolmente, apertamente o di nascosto, il loro intimo si difende dal sentimento creaturale e le loro opere testimoniano a favore della fede antica, anche quando sembrano servire la nuova. Finché si consideri l'arte non più che un gioco della fantasia o dell'amore per le belle forme e le sensazioni intense, riuscirà incomprensibile che in essa debba trovarsi una decisione di così vasta portata. E anche i molti che, in ogni epoca, ripetono, con minore o maggiore talento personale, quanto è già stato inventato, e cercano un'espressione lungo vie da tempo battute per un sentimento loro proprio, non offrono alcun buon motivo di prendere l'arte tanto sul serio. Ma ai creatori nel vero senso della parola è affidato un compito superiore. Colui che, spinto dallo spirito, scende alle Madri per trarre la forma (die Gestalt) dalle profondità dell'essere, questi con l'essenza delle cose intrattiene un rapporto suo proprio. Egli è troppo vicino alle origini per diffidare, in tutta serietà, dell'esistenza. Avendo parte ai segreti del divenire, ha a che fare con ciò che Schelling chiama «l'essere immemorabile», con ciò che quindi precede ogni pura possibilità dell'essere e del non essere.
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Goethe e Holderlin
All'obiezione secondo cui non ci si potrebbe mai rappresentare una realtà tale da precedere ogni possibilità, Schelling risponde: Qyalche volta un tale essere dobbiamo pur rappresentarcelo; per esempio nel caso di produzioni, azioni e attività la cui possibilità diventa comprensibile soltanto a partire dalla loro realtà. [...]Originario (Origina() è ciò di cui si dà possibilità solo se si ha davanti agli occhi la realtà
[dove però queste parole appartengono a un altro ordine di pensieri]. 4
Il giovane Goethe vede i veri artisti come coloro i quali sono intimi ai suoni primordiali che tutti gli esseri formano e muovono; e la sua testimonianza, visto che egli parla per esperienza diretta, è di incomparabile valore. Che l'artista entri nella bottega di un calzolaio o in una stalla, che guardi il volto dell'amata, i suoi stivali o l'antichità, ovunque scorgerà le sacre vibrazioni, i suoni impercettibili con cui la natura collega tutti gli oggetti. A ogni passo gli si spalancherà il magico mondo che circondava interiormente e costantemente quei grandi maestri. [... ] Ogni uomo ha più volte avvertito, nel corso della vita, il potere di questo incantamento che, onnipresente, afferra l'artista e gli ravviva il mondo circostante. Chi, penetrato in un bosco sacro, non è stato colto almeno una volta dal brivido? Chi la notte avvolgente non ha mai scosso di un sinistro terrore? A chi il mondo non è apparso risplendente d'oro in presenza della fidanzata? Chi non ha sentito, tra le sue braccia, fluire insieme cielo e terra in un'armonia piena di gioia? L'artista dunque non è l'unico a percepirne l'effetto, è tuttavia fino alle cause che lo producono che egli penetra. Il mondo, si potrebbe dire, sta dinanzi a lui come dinanzi al suo creatore, che, nell'istante in cui gioisce della sua creazione, gode anche di tutte le armonie dalle quali lo ha suscitato e delle quali esso consiste. 5
' F.W.J. Schelling, Altra deduzione dei princìpi della filosofia positiva, a cura di A. Bausola, Zanichelli, Bologna 1972, voi. Il, p. 423. 5
J.W. Goethe, Nach Falcone! und iiher Falcone/ (1776), in Berliner Ausgahe. Kunsttheoretische Schriften und Uhersetzungen, Aufbau, Weimas-Berlin 1960, voi. XIX, pp. 65-70.
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Il poeta e gli antichi dèi
È l'essenza del mondo, dal quale tutte le realtà scaturiscono e nel quale autenticamente consistono, a essere un accordo divino; il suo prodigio commuove e incanta, in un'ora felice, ogni uomo, senza ch'egli sappia quale potenza lo ha sfiorato. L'artista invece comprende l'accordo fondamentale dell'essere che produce ogni incanto: egli contempla la realtà nel segreto della sua originaria armonia. Il soffio della vita, che da queste profondità spira verso di lui, che lo solleva al di sopra della caducità, e ne fa un essere che crea e che irradia vita, testimonia di un'entità originaria della realtà che per se stessa esige un nome divino e non quello umile di semplice creatura. Certo, qui Goethe parla proprio del creatore del mondo. Egli però si serve in tal modo soltanto di un simbolo per l'artista che sia partecipe della conoscenza delle armonie segrete delle quali e nelle quali il mondo sussiste. Si può parlare dell'uomo con più superbia? L'immagine del creatore non affiora qui per rammentargli che è una creatura, bensì per renderlo cosciente della sua dignità infinita, lui, che comprende e può parlare il linguaggio del mondo primigenio. Come potrebbe un uomo simile non sentirsi saldamente legato alla terra? In che modo avrebbe potuto dar ragione alla dottrina della radicale dipendenza dell'esistenza?
III Da questo orgoglioso sentimento di sé provengono due differenti atteggiamenti spirituali, uno dei quali è molto vicino a quello proprio degli antichi Greci. Gli dèi, così come li hanno pensati i Greci dell'epoca migliore, sono rimasti quasi estranei al Settecento e all'Ottocento tedeschi. I loro nomi si presentano, per così dire, da sé, a ogni sublime ispirazione, come testimoniano le poesie di Schiller, senza però avere maggior significato di un'allegoria o di un'immagine di sogno. Li si conosce soprattutto dai poemi dei romani e, con le denominazioni romane, ci si allontana già troppo dallo spirito greco. Certo, nelle poesie di Goethe il sen-
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Goethe e Holderlin
so delle forme (Gestalten) greche è molto più originario che in Schiller. Esse non compaiono senza recare con sé il soffio della vita più nuova. Anche qui, però, in generale, non sono gli dèi dell'Olimpo quelli che si vogliono mostrare. Nella Notte classica di Valpurga del secondo Faust, terra, acqua e aria sono popolate di geni greci. Cielo e mare parlano di nuovo la lingua sapiente del mito e l'allietante splendore di ogni cosa sembra annunciare la vicinanza di Elena. L'eterna bellezza non si rivela però come Afrodite, bensì come Galatea. Qyi non ci sono dèi, ma spiriti della natura. Il poeta attinge dal mondo spirituale della tarda grecità, anzi da quella romano-ovidiana, dove però certo la sua conoscenza della natura carpisce alle figure demoniche i loro più profondi segreti. E questi versi sono, dopo l'.!figenia, l'opera più greca della modernità. Soltanto durante la sua giovinezza Goethe ha incontrato gli dèi olimpici in persona e li ha visti come nessun altro tra tutti i nostri poeti e artisti. Essi gli si fanno visibili quando egli è al culmine del suo sentimento vitale e li guarda negli occhi con l'orgogliosa coscienza della sua forza creatrice. Solo qualora si estingua in lui la fiamma creativa, egli ha da temere che il loro sguardo si raffreddi e, incurante, vada oltre. Conoscere coloro che sono infiniti vuol dire essere in se stessi infiniti. Dagli impeti di genio degli anni giovanili di Goethe risuonano ancora alle nostre orecchie le melodie portate dal vento, allorché ascoltiamo Il canto del viandante nella tempesta, uno di quegli «strani inni e ditirambi» a cui Goethe si richiama nel ventiduesimo libro della sua autobiografia. Qyi il Genio leva il suo capo fino agli dèi e quando plaude agli elementi suscitati sa che anche un dio deve tributare attenzione ai figli dei giganti della natura e alla loro caparbietà: Chi tu non abbandoni, Genio, né tempesta né pioggia lo faranno tremare. Chi tu non abbandoni, Genio, la nube tempestosa
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Il poeta e gli antichi dèi
e la bufera della grandine affronterà cantando come l'allodola, o tu lassù! Chi tu non abbandoni, Genio, l'innalzerai oltre il sentiero di melma con le tue ali di fuoco. Camminerà, come sulla marea di fango di Deucalione passò, leggero e grande, per uccidere Pitone, Apollo Pizio.
E poi l'incontro con Apollo: Ma, ahimè! Intimo calore, calore dell'anima, centro dell'anima, rivolgi il tuo ardore a Febo Apollo, ché il suo sguardo regale freddo altrimenti passerà su di te, colpito d'invidia, indugerà sul vigore del cedro che non l'attende per verdeggiare. 6
È con tale passione che il giovane Goethe canta tra sé e sé nell'andare incontro al temporale. Oliale meraviglia, nel mezzo dell'infuriare degli elementi, l'apparizione di Apollo, il cui sguardo regale passa freddo oltre l'uomo, se questi non gli risponde con il calore del suo animo infiammato! Uomo e dio, tanto distanti l'uno dall'altro, e pure, attraverso il Genio, quasi 6
lnJ.W. Goethe,Inni, trad. it. di G. Baioni, Einaudi, Torino 1967, pp. 63-65.
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Goethe e Holderlin
fratelli. Non c'è qui alcuna presunzione, poiché questo Sé possiede il suo più alto sentire non nell'amor proprio della persona, ma nella fiamma di vita della creazione. Il polo positivo della sua esistenza è il mondo di figure (Gestalten) di cui si circonda, al cui interno viene a conoscenza della sua verità e della sua nobiltà. Che esca fuori di sé nell'obiettività della creazione, è l'autenticità certa della sua condizione, della sua eternità, della sua divinità. Anche Schelling ne ha avuto esperienza, allorché la sua riflessione sull'essenza di Dio lo persuase della somiglianza essenziale col produrre umano. Nel produrre l'uomo non è occupato con se stesso, bensì con qualcosa al di fuori di sé, e proprio per questo motivo Dio è, come lo chiama Pindaro, il grande beato, poiché tutti i suoi pensieri sono costantemente in ciò che è fuori di lui, nella creazione. Egli soltanto non ha nulla da fare con sé, perché il suo essere è certo e sicuro a priori. 7
L'uomo creatore, secondo le parole di Goethe, non viene soltanto toccato, al pari degli altri, dalle meraviglie del mondo, ma penetra fino alle cause dell'incanto, godendo, in tal modo, le armonie da cui è sorta e dove risiede ogni cosa che susciti meraviglia. Egli, nella sovranità del suo fare, produce ciò che è. Il suo sentimento di sé e il suo creare sono tutt'uno con l' esistenza delle forme originarie. Egli risiede in un mondo divino con la cui vita è legato in modo mirabile, al punto che parla al mondo e il mondo a lui, ed entrambi sono una sola voce. Con toccante bellezza e verità, ciò balza in primo piano in una scena del Prometeo goethiano. Lo spirito del mondo dell'operosità, che il grande demiurgo implora, si rivela come figura vivente. Atena, la dea della prossimità celeste, sta accanto al suo Prometeo come, in Omero, ad Achille o ad Odisseo. E come per gli eroi omerici, così ella è anche per lui ciò che egli stesso, nel senso più alto, è e può fare: 7
F.W.J. Schelling, Altra deduzione dei principi della filosofia positiva, cit., voi. Il, pp. 432433.
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[Prometeo] E tu sei pel mio spirito ciò che egli è per se stesso: Fin da principio state son celeste luce a me le tue parole! Sempre: come se l'anima parlasse con se stessa, dischiudersi volesse, e armonie assieme innate da sé medesimo in essa risonassero. O!lell' eran tue parole.
lo stesso non ero io, ma una deità parlava, s'io dir credea qualcosa; e s'io credea che una deità parlasse, ero io che parlavo. E così con te e con me tanto unito, tanto intima mente eterno è il mio amor per te! [Minerva] E io eterna a te e presente! 8
IV
È in modo tanto vivo, dunque, che lo spirito del giovane Goethe riconosce la forza divina che afferra colui che crea e che pure, al tempo stesso, in maniera stupefacente, è anche sua proprietà. In questo punto egli giunge straordinariamente vicino alla divinità dell'antica Grecia. E tuttavia qui c'è un chiaro limite. Il dio olimpico non è soltanto il celeste fratello dello spirito creatore dell'uomo: è l'essere del mondo, la verità di ogni realtà. Egli non è soltanto il mediatore che congiunge l'uomo con le eterne armonie che sono al fondo di tutte le cose: queste stesse armonie egli le reca in sé, ne è la visibile, umana sembianza. Qyesto è ciò che distingue la Minerva goethiana dall'Atena dell'antica 8
Trad. it. di G.E. Villani, in J.W. Goethe, Opere, cit., pp. 400-401.
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Goethe e Holderlin
Grecia. Atena è una dea nel senso pieno e alto della parola, e quindi, come ogni autentica divinità, è un mondo. Eppure all'uomo è consentito atteggiarsi rispetto a lei come fa il Prometeo goethiano: anzi, egli non può fare altrimenti. Non ha alcun motivo di sottomettersi a lei senza condizioni, ma non può neppure separarsene. Là dove si pretende, e con trasporto si esercita, una assoluta sottomissione, non mancano nemmeno la ribellione, il distacco, l'indifferenza. Entrambi gli atteggiamenti sono per natura estranei al carattere greco. Il suo senso dell' esistenza testimonia di una divinità alla quale l'uomo vivamente partecipa con tutto il valore di cui è capace, così che non potrà mai venirgli in mente di opporsi a essa o di distaccarsene, quantunque essa risieda, quale figura di maestà, al di là dell'uomo, nell'eternità, e spesso muova contro la vita umana con la negazione più dolorosa. Dove una critica viene mossa, questa si volge contro rappresentazioni che appaiono troppo umane; e se tra i filosofi compaiono i cosiddetti atei, manca loro innanzitutto il motivo che contraddistingue gli uomini moderni rispetto agli antichi Greci: la volontà di appartenere a se stessi e di essere di se stessi responsabili. Il Greco non intende essere una persona alla stregua dell'uomo moderno, che anche nell'amicizia del dio avverte la spina di un'autosufficienza minacciata. Il rivolgersi dell'uomo a se stesso è l'atto decisivo che segna i confini dell'autentico mondo greco. Tale atto ha suscitato nuovi valori, creazioni grandiose; ma chi comprenda che questo ritrarsi in se stesso è il sintomo di una perduta prossimità del dio può misurare la grandezza di quel che è andato perduto. L'uomo è rimasto solo da quando la natura si è svuotata degli dèi e il divino, un tempo così intimo a ogni moto del suo essere, tanto fisico che spirituale, al punto che egli poteva dimenticare se stesso, è fuggito nell'inafferrabile. Ora non gli sembra rimanga altra scelta se non l'asservirsi della natura che pure non fa che vendicarsi di lui, fino a renderlo suo schiavo; o, d'altro canto, tentare il quasi disperato assalto alla divinità spinta così lontano, una divinità che si palesa nella dottrina della grazia e della giustificazione a mezzo della sola fede.
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Il poeta e gli antichi dèi
A questo spirito Goethe, nel corso della sua vita, si è opposto nel modo più appassionato. Egli, come studioso metodico della natura, poteva anche dirsi, con convinzione, un panteista: cosa che in effetti fa nella lettera a Jacobi. Eppure anche in lui compare quel ripiegamento dell'uomo su se stesso che, a sua volta, gli fa assumere un atteggiamento molto diverso da quello di un Greco antico. L'orgoglio di colui che crea, che negli anni della giovinezza lo avvicinava agli dèi greci, lo ha al tempo stesso da loro parecchio allontanato. Lo spirito greco non può affatto pensare l'uomo senza la divinità: esso non sa di nessuna necessità dell'uomo che nello stesso tempo non abbia avuto origine dall'essere degli dèi. Là dove però l'uomo sia divenuto conscio di se stesso come persona, ha anche già respinto il divino in lontananze e altitudini pericolose. E ora si arriva alla resistenza e alla lotta di tanti spiriti autocoscienti, che a uno sguardo superficiale appaiono provocate soltanto dalla costrizione e dal dogma ecclesiastico. I grandi avversari, gli angeli caduti e il loro principe, Satana, diverranno figure tragiche e susciteranno una simpatia che nel mondo greco sarebbe impensabile. E il Prometeo greco, un dio primitivo che non si volle piegare alla nuova stirpe di dèi, si trasforma in un simbolo: quello dell'uomo che si leva contro Dio. A questa disposizione titanica Goethe ha dato l'espressione più autentica e alta. Egli sapeva di forze eterne che sono da temere perché fanno violenza all'uomo e, incuranti, gli passano sopra: Essi hanno nel pugno l'eterna potenza, e come a loro piace la possono usare. 9
Non è questo il luogo per indagare dove e in che senso si sia già espressa, nella grecità, una tale indignazione. Goethe pone, 9
J.W. Goethe, Ifigenia, atto IV, scena V, trad. it. di D. Valeri, in Opere, cit., p. 196.
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Goethe e Holderlin
con parole toccanti, sulle labbra della sua Ifigenia l'atroce contraddizione del cuore umano straziato: Oh non avvenga che mi germini in cuore un sentimento di rivolta! Non sia che l'odio fondo degli antichi Titani contro voi, dèi dell'Olimpo, afferri anche il mio petto tenero con artigli d'avvoltoio! Salvatemi, e salvate il vostro volto Dentro l'anima mia. 10
Non è questa un'accusa diretta a dèi o dogmi che è il poeta stesso a non riconoscere affatto: è la ribellione dell'uomo alla divinità che si intromette nella sua vita con violenza e oppressione. Tale ribellione è impensabile, nonostante tutto il dolore e tutte le incomprensioni che possono sopravvenire all'uomo, fino a quando egli non abbia reciso il sentimento di sé dal sentimento del divino, come comporta il modo di vivere dell'uomo moderno. In Goethe, però, troviamo anche un'altra contraddizione, radicata molto più profondamente, la quale spesso si manifesta in una forma che potremmo chiamare "titanica". Attraverso l'intero suo mondo spirituale, quello della creazione come quello della scienza, si può seguire la traccia di un'autosufficienza grandiosa e ritrovarla anche, non da ultimo, nel suo avvicinamento alla dottrina leibniziana della monade, o meglio, nell'interpretazione che egli le ha dato e che non può non richiamare alla memoria del lettore attento determinati principi della Volontà di potenza di Nietzsche. È a partire da questo atteggiamento spirituale che si comprende l'orgogliosa autosufficienza delle parole sulla religiosità nelle Massime e riflessioni: «Religiosità non è un fine, ma un mezzo col quale raggiungere, attraverso la più pura pace spirituale, le più alte vette
IO
[bid.
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Il poeta egli antichi dèi
della civiltà».11 La volontà titanica entra in scena, al massimo grado, all'apogeo della sua genialità giovanile, allorché compone il Werther e il Prometeo. Nessun poeta al mondo ha dato espressione alla protesta dell'uomo consapevole della propria forza con una tale straordinaria fierezza: Non hai tutto compiuto tu, sacro ardente cuore? E giovane e buono, ingannato, il tuo fervore di gratitudine rivolgevi a colui che dormiva lassù?...
lo sto qui e creo uomini a mia immagine e somiglianza, una stirpe simile a me, fatta per soffrire e per piangere, per godere e gioire e non curarsi di te, come me.12
Sembra che si sia avuta paura di comprendere fino in fondo questo terribile grido di guerra. Poco prima di morire Lessing venne a conoscenza attraverso Jacobi del monologo di Prometeo e, con sorpresa di quello, ne ebbe un'impressione favorevole. «Il punto di vista dal quale è colta la poesia - egli disse - è il punto di vista mio proprio [...] I concetti ortodossi della divinità non sono più nulla per me; non posso goderli.» E ne seguì la famosa adesione al panteismo di Spinoza. E allora perché questa sfida immane, questo gigantesco orgoglio per un dogma che non riscuote più alcuna fede, per un concetto riconosciuto falso, per un nulla? Per il Prometeo del mito questo Zeus, al quale non intendeva manifestare alcuna riconoscenza, era una 11
J.W. Goethe, Massime e riflessioni, a cura di S. Seidel, Teoria, Roma 1990, p. 67.
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In J.W. Goethe, Inni, cit., p. 79.
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Goethe e Holder/in
grandezza assai reale. E può Goethe avergli prestato l'anelito incandescente della sua giovinezza solo per maledire un potere che esisteva ormai unicamente per la teologia invecchiata e per i suoi adepti? Per fortuna è Goethe stesso a darcene la spiegazione più esatta, dato che i motivi nascosti del suo ardito poetare li ha chiariti nel quindicesimo libro della sua autobiografia. In tempi recenti, però, si è avuta la pretesa di saperne di più. Il vecchio Goethe si sarebbe sbagliato, dimenticando completamente che lo straordinario pathos del suo Prometeo intendeva rendere gloria soltanto alla forza creativa del poeta e, incidentalmente, farsi beffe della fede canonica. Come se il Genio, a proposito degli eventi decisivi della sua vita spirituale, potesse ingannarsi in modo così grossolano! Goethe, però, dice - e noi dobbiamo ascoltare tutto il suo resoconto poiché esso illumina un mondo interiore per il quale veramente non è sprecato l'appellativo di titanico - quanto segue: Il destino comune degli uomini, al quale noi tutti dobbiamo sottostare, deve incombere con maggior peso su coloro le cui forze spirituali si sviluppano più presto e con maggiore ampiezza. Anche se ci facciamo strada sotto la protezione dei genitori, se ci appoggiamo a fratelli e amici, se siamo aiutati da conoscenti e resi felici da persone amate, la conclusione è sempre la stessa: l'uomo viene respinto a se stesso e sembra che persino la divinità abbia preso nei suoi riguardi una posizione per cui non sempre, o per lo meno non proprio nel momento dell'urgenza, può ricambiare la di lui venerazione, fiducia e amore. Già nella prima giovinezza avevo sperimentato spesso che nei momenti in cui siamo più bisognosi d'aiuto ci vien gridato: «Medico, cura te stesso!», e quante volte avevo dovuto sospirare dolorosamente: «lo pigio il mosto da solo». Così cercando in me la conferma dell'autonomia trovai che la base più sicura per essa era il mio talento creativo. Da alcuni anni esso non mi abbandonava un solo momento; quel che di giorno percepivo stando sveglio, mi si raffigurava anche molto spesso di notte dopo sogni regolari, e quando aprivo gli occhi appariva un nuovo meraviglioso insieme oppure una parte di qualcosa già esistente. [...] Ora, come mi misi a riflettere su questo mio dono della natura e trovai che mi apparteneva completamente e non
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Il poeta e gli antichi dèi
poteva essere né favorito né impedito da nulla di estraneo, mi piacque fondarvi nei miei pensieri tutta la mia esistenza. 01iesta concezione si trasformò in un'immagine e mi apparve la vecchia figura mitologica di Prometeo che, segregato dagli dèi, popolava tutto un mondo dalla sua officina. Sentivo chiaramente che si poteva produrre qualcosa di significativo solo isolandosi [...]. Dovendo dunque in queste cose respingere, anzi escludere l'aiuto degli uomini, mi appartai alla maniera di Prometeo anche dagli dèi, cosa che mi riuscì tanto più naturalmente in quanto con il mio carattere e la mia mentalità ogni volta un'idea inghiottiva e scacciava le altre [...].Tuttavia il senso titanico-gigantesco di lotta contro il cielo non diede materia al mio genere di poesia. A me si conveniva piuttosto rappresentare quella resistenza pacifica, tenace, tollerante che riconosce la potenza superiore ma vorrebbe uguagliarsi a essa. Eppure anche i più temerari di quella stirpe mi erano sacri: Tantalo, Issione, Sisifo. Accolti nella società degli dèi non si erano probabilmente sentiti abbastanza subordinati, come ospiti arroganti avevano meritato l'ira del loro ospite benefattore e si erano attirati un triste bando. lo li compassionavo, la loro condizione era stata riconosciuta già dagli antichi come veramente tragica, e avendoli io presentati come i membri di una gigantesca opposizione sullo sfondo della mia Ifigenia sono loro debitore di una parte dell'effetto che quest'opera ebbe la fortuna di suscitare.°
Qyando Goethe osserva, a proposito di Prometeo, che «su questo soggetto si possano fare considerazioni filosofiche, anzi religiose». E che tuttavia esso appartiene «in modo del tutto genuino alla poesia», è facile capire allora quale parte egli stesso, come persona, vi abbia preso: «Qyanto, allora, è tuo?» chiede il fratello Prometeo, e ottiene questa risposta: Tutto ciò ch'è compreso dentro al cerchio della mia attività! E nulla fuor di esso ... 01ial diritto han le stelle su di me, da starmi lì in alto a guardare?
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J.W. Goethe, Poesia e verità, trad. it. di A. Cori, Utet, Torino 1966, voi. Il, pp. 843-847.
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Goethe e Holderlin
E poi soltanto fra sé: O!Ji è il mio mondo, il mio tutto! O!Ji sento che sono io; qui i miei desideri, tutti, in corporee figure: il mio spirito, in mille forme diviso, e intero, ne' miei cari figli. 14
Così parla l'orgoglioso sentimento di gioia del creatore appagato dell'opera sua. Il senso del «gigantesco e del titanico, dell'assalto al cielo» si è, dice Goethe, tenuto lontano dalla sua poesia. Qyanto però questo atteggiamento gli fosse vicino, lo testimonial' osservazione che «anche i più audaci di quella stirpe» sono stati suoi «santi» e che egli ha simpatizzato con la loro «immane rivolta». Nella finzione poetica lo spirito che si fonda su se stesso si ribella quando un aldilà sovrano pretende di toccare il cerchio sigillato del suo mondo. Minerva ritiene ingiustificata la riluttanza di Prometeo: Agli dèi toccò in sorte essere durevoli, avere potestà, sapienza e amore.
Qyi è l'orgoglio della forza primordiale a ribellarsi: Sì, tutto ciò, ma ad averlo non sono i soli!
lo durabil son quanto essi, noi tutti siamo eterni! [...] D'aver io avuto inizio non ricordo, né son chiamato ad aver fine mai, e non ne vedo ima: eterno dunque io sono, e in quanto io sono! 15
14
Trad. it. di G.E. Villani, in J.W. Goethe, Opere, cit., pp. 399-400.
15
lvi, pp. 402-403.
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Il poeta e gli antichi dèi
V Neppure a Holderlin sono stati estranei simili toni e pensieri. Li ha posti sulle labbra di Alabanda in un passo memorabile dell'Iperione: Sai - mi disse fra l'altro - perché non ho mai temuto la morte? lo sento in me una vita, che nessun dio ha creata e nessun mortale ha generata.
lo credo che noi siamo per noi stessi, e che soltanto per libero piacere siamo sì intimamente fusi col tutto. E per questo, perché mi sento libero nel più profondo senso, perché mi sento senza inizio, per questo credo di essere senza fine, di essere immortale. 16
In Holderlin, tuttavia, manca completamente la contraddizione titanica, nonostante il suo Iperione sia cosciente dell'«immane anelito di essere tutto, che, come il titano dell'Etna, ribolle dalle profondità del nostro essere». Di fronte al congedo di Alabanda stanno le parole di Diotima in punto di morte: Noi moriamo per vivere. Non domandare che cosa io diventi. Essere, vivere è abbastanza, è l'onore degli dèi ...
Il sentimento religioso della vita proprio di Holderlin non gli permise mai di opporsi alla divinità. Dice Diotima morente: Durata è il retaggio degli astri, in calma pienezza di vita errano eterni e non conoscono vecchiaia. Noi rappresentiamo nel mutamento ciò che è perfetto; dividiamo in vaganti melodie i grandi accordi della gioia. Come suonatori di arpa intorno ai troni degli antichissimi, viviamo, divini noi stessi, intorno a sereni dèi del mondo, addolcendo col fuggevole canto di vita la beata austerità del dio solare e degli altri dèi.17
16 F. Holderlin, Iperione, trad. it. di G.A. Alfero (con qualche modifica), Utet, Torino 1960, p.179.
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lvi, p. 187.
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Goethe e Hiilderlin
Siamo già entrati, a questo punto, nel santuario della "natura", a cui Holderlin consacra il proprio canto. Il suo nome abbraccia tutto quanto del divino egli sa e ha appreso. Essa è per lui non soltanto l'oggetto più alto di una conoscenza che aspira a elevarsi, bensì la divinità totale e originaria da cui la sua vita dipende; ed è in quanto gli dèi dei Greci disvelano il santo essere della natura che egli a essi pienamente si accorda. Anche Goethe ha sempre professato con passione la sua fede nella natura; e per una buona metà della vita, come studioso e come filosofo, ha indagato il segreto evidente delle sue formazioni. Tra la sua venerazione e quella di Holderlin c'è tuttavia una differenza che rivela una profonda antitesi di modi di essere. Basta un solo segno della sua comprensione della natura a darne testimonianza: il prezioso frammento La natura che il giovane Goethe ha abbozzato intorno al 1780 e che il vecchio Goethe, quasi cinquant'anni più tardi, ha apprezzato e, nello stesso tempo, criticato. Non si sarebbe dovuto dubitare della sua autenticità; la recente, e condivisa, attribuzione a un altro, e per giunta a una mente mediocre, non può essere ritenuta che un fraintendimento. Qyi si collegano la visione artistica della natura e quella filosofica; e nell'autocritica tarda compare, accompagnato da un riflessivo distacco, lo spirito dello studioso. Natura è per Goethe la genialità creatrice che tutto muove e che non a caso porta un nome femminile. Non si tratta però della grande Madre che, dal suo grembo, manda tutti i viventi nella luce per poi riprenderseli in cuore con il sonno della morte; non si tratta neppure della notte santa in cui il mistero della vita e della morte sono l'uno all'altro intrecciati, bensì: «La vita è la sua invenzione più bella e la morte il suo artificio per avere molta vita». 18 Essa è la grande artista che produce incessantemente forme nuove, e pure sempre le stesse; che è presente in piena intimità entro ogni essere singolo e individuale, e, al tempo stesso, indifferente nei confronti dell'indivi'" J.W. Goethe, La natura, in Teoria della natura, trad. it. di M. Montinari, Boringhieri, Torino 1958, p. 140.
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Il poeta e gli antichi dèi
duo come tale; sempre aperta, ma senza tradire il suo segreto; sempre nell'atto di giocare, eppure della massima serietà; pura superficie eppure di una profondità incommensurabile: così, con l'occhio del creatore e dell'artista, Goethe vede la natura. E anche in seguito la sua visione conserva questo carattere, se è in esso che lo studioso della natura ha trovato la sua via e, quasi ottantenne, a proposito di questo scritto risalente a mezzo secolo prima, dichiara che manca a esso il coronamento, vale a dire «l'intuizione dei due grandi impulsi di tutta la natura: il concetto della polarità e dell'accrescimento graduale». 19 Come l'artista scompare nella sua opera, così l'osservatore scompare completamente nella creazione. L'atteggiamento religioso, però, è di altro genere. Qyi, invece di scomparire nella contemplazione e nella creazione, il soggetto umano compare immediatamente, nell'atto di afferrare e di essere afferrato, al cospetto del divino. Uomo e dio: in questo incontro si esprime l'essenza della religione. Nel rapporto di Goethe con la natura c'è qualcosa anche di questo, se egli si affida amorevole alla sua divina onnipotenza. Essa non limita quelle libertà e volontà a lui connaturate, poiché ciò a cui egli aspira e ciò di cui egli è capace rappresentano la natura stessa. Conclude il frammento La natura: Ho fiducia in lei, può fare di me quello che vuole. Non odierà la sua opera. Non sono stato io a parlare di lei, essa ha già detto ciò che è vero e ciò che è falso. Tutto è colpa sua, tutto è merito suo. 20
Qyi, davanti all'infinito, a cui anche l'individuo più orgoglioso si inchina di buon grado, infinito che in ognuno risveglia la più libera indipendenza, pur non portando a compimento altro che se stesso, infinito rispetto al quale non v'è contrasto alcuno, poiché esso non rivendica alcuna supremazia, ogni protesta deve tacere. Da questo sentimento infinito fino a un incontro senza mediazioni la distanza, tuttavia, non è breve. " lvi, p. 142. 20
lvi, p. 141.
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Goethe e Hiilderlin
È noto l'entusiasmo con il quale i più illustri spiriti del Settecento hanno onorato la natura. Da molte inneggianti parole di quest'epoca trapela la commozione di un'anima toccata dalla divinità. Una delle testimonianze più nobili è la grande invocazione alla natura ne I moralisti di Shaftesbury, dirompente e inarrestabile preghiera di un sapiente. Niente, però, è paragonabile a ciò che ha provato Holderlin. A lui la divinità è venuta incontro dalla natura con una tale potenza e immediatezza che ne fu colpito come dal fulmine e per non morirne fu costretto a chiedere di essere risparmiato. Siamo qui di fronte al mistero originario stesso. I simboli sono divenuti improvvisamente realtà e verità. «L'Inattuabile si compie qua. Qyi l'Ineffabile è Realtà.»21 La natura di cui Holderlin esalta la divinità è più che spirito, sempre vicino, creante e formante, al quale l'anima dell'uomo ha semplicemente bisogno di aprirsi. Talora essa si nasconde agli uomini lasciandoli a lungo nel buio, per poi uscire a suo tempo nuovamente all'aperto con tutto il suo splendore. Proprio ora, annuncia Holderlin, scocca questo grande momento: Ma ora aggiorna! Ho atteso e l'ho visto venire e ciò che ho veduto, il Sacro, sarà mia parola. Ella, ella stessa, ch'è più antica del tempo e sugli dèi d'Occidente e d'Oriente sta, la Natura in clangore d'armi ora s'è desta, e dall'alto etere fino al fondo d'abisso per ferma legge e antica, gènito dal sacro Caos, l'entusiasmo ora torna a fremere, che di tutto è il creatore. 22
Essa è dunque una divinità vivente nel senso pieno della parola, che ha le sue stagioni di manifestazione e con giubilo viene 21
J.W. Goethe, Faust Il, atto V, Chorus Mysticus, trad. it. di V. Errante, in Opere, cit. p. 1195.
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F. Holderlin, Come il giorno di festa ... , in Poesie, trad. it. di G. Vigolo, Einaudi, Torino 1958, p.115.
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accolta dal cuore degli uomini. Tale esperienza sembra essere molto diversa dall'antica fede greca: eppure si può sentire in Holderlin un fratello dei Greci. È come se l'intero mondo degli dèi greci fosse assunto in quest'unica forma incommensurabile senza per nulla perdervi il suo carattere particolare. A Holderlin, come a tutto il Settecento, sono in fondo rimaste estranee le singole figure degli dèi olimpici; anzi, egli respinge nella maniera più decisa, come vedremo, la loro pretesa dì dominio. Anche in Grecia, però, a partire da un determinato periodo, incontriamo un simile atteggiamento; parimenti, è nella poesia classica che le sue invocazioni alla divina natura trovano le loro inconfondibili sorelle. Ci torna alla mente il Prometeo eschileo che, straziato dagli Olimpici, nella solitudine, rompe il lungo silenzio con l'invocazione: Cielo divino, aliti di vento, rapide ali di vento, sorgenti di fiumi, sorriso interminabile del mare, terra madre di tutto, e tu occhio del sole onniveggente io v'invoco ... 23
Il pensiero va a Sofocle, dove il morente Aiace per l'ultima volta si rivolge alla luce del giorno, al sole, al sacro suolo della terra natia, alle sorgenti e ai fiumi di Troia. Una voce affine udiamo quando l'uomo della tragedia leva lo sguardo al cielo e rende partecipe delle sue pene ciò che è divino dalle origini, la luce del cielo. Qyante volte e quanto spesso udiamo queste voci accorate! Esse rivolgono la preghiera a qualcosa di più antico e di più sacro degli dèi dalle sembianze umane. Eppure esse non potrebbero rivolgere preghiere così luminose se la luce delle figure olimpiche non fosse passata attraverso il loro mondo. 23
Trad. it. di E. Mandruzzato, in C. Diano (a c. di), Il teatro greco, Sansoni, Firenze 1970,
p. 88.
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Goethe e Holderlin
Per giungere alla forma, nel loro essere, la forza elementare fu soggiogata dopo dura lotta. Tale forza, tuttavia, rimase, come essenza originaria, al fondo di ogni cosa e a essa restò fedele anche chi adorava gli dèi olimpici, anzi, le consacrò la sua invocazione più solenne. Essa, però, era divenuta un'altra: guardava agli uomini con gli occhi dello spirito e rispondeva al loro caldo pulsare con una confidenza silenziosa e piena di mistero. Soltanto dall'apparizione dell'elemento celeste nelle limpide figure dalle sembianze umane la sacralità della divina natura fu rivelata. Se, ciò nonostante, Holderlin si tenne lontano dai grandi dèi della Grecia, dagli Olimpici, la ragione non fu solo in una convinzione che troviamo anche fra i Greci, ma nella sua esperienza, del tutto personale.
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Capitolo secondo
Greci, a parte Cristo, sono gli dèi ricordati da Holderlin. Per nome chiama Eracle (Ercole), Dioniso (Bacco), Zeus (Giove), Apollo o Helio (il dio del sole). E sono stranamente pochi, se li confrontiamo con il gran numero di nomi di dèi greci che sono di casa, per esempio, nelle poesie di Schiller; e di questi pochi compaiono più spesso soltanto Apollo, o Helio, Eracle e Dioniso; e cioè il dio del sole (poiché tale è sempre, in Holderlin, Apollo) e i figli di madre mortale, dei quali soltanto Dioniso appartiene al mondo degli elementi. Sono proprio queste, però, le figure che non vengono degnate d'attenzione dalla religione omerica, cioè olimpica. Educato dallo spirito di questa religione, il Greco rifiuta, fino al momento della decadenza, il culto di dèi cosmici, respingendoli come non greci; ed effettivamente questo culto ha le sue radici in credenze che sono preelleniche, o preolimpiche. Se Dioniso ha conquistato già in epoca arcaica uno straordinario potere, ciò è il segno di una irruzione della religione preolimpica, connessa al declino dell'antica aristocrazia e all'ascesa della democrazia. Vediamo allora che Holderlin si è deciso in favore degli dèi preolimpici, e non invece a favore di quegli dèi che, da Omero in poi, hanno indicato la via alla creatività e al pensiero greci, e che sono da considerarsi rappresentanti della cultura greca nel senso più alto. L'originaria manifestazione di questi dèi olimpici risale all'età eroica. Il suo spirito, come è noto, in Grecia è durato più a lungo che presso altri popoli, e così gli dèi degli eroi sono rimasti sempre dominanti, non importa quanto contro di loro abbiano giocato mutate condizioni di vita e nuove temperie
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spirituali. La sfera vitale di Holderlin fu tuttavia tanto rapita da quel mondo eroico, che egli poté entrare in rapporto con gli dèi olimpici, i celesti fratelli del suo spirito, altrettanto poco quanto tutti i suoi contemporanei. Il suo conflitto nei confronti degli Olimpici sembra quello stesso che sempre si ripete dai tempi antichi fino ai nostri giorni. È tuttavia più profondo e merita un esame più serio di ogni altra critica. Nell'importante poesia Natura e arte ovvero Saturno e Giove, Holderlin assume una posizione che è addirittura opposta a quella di Esiodo. Nella Teogonia di Esiodo il mondo degli dèi, sul quale si fonda l'esistenza dell'uomo omerico, è rappresentato nel suo divenire e nel suo compimento. Essa è l'alto canto della supremazia di Zeus, che ha scacciato nella profondità Crono e le potenze primordiali. Non abbiamo alcuna prova che Holderlin abbia preso in considerazione a fondo quest'opera. Egli fu trasportato nel centro spirituale della grecità come da un prodigio della natura. Per Esiodo, e per ogni considerazione della vita religiosa fino ai tragici, ci sono due mondi, l'uno più giovane e vittorioso, l'altro, l'eterno regno della madre primordiale, che dopo dure lotte, nel corso delle quali il suo elemento più ribelle fu domato, fu riconciliato e condotto all'armonia. Il regno di Zeus è spirito e potenza, legge e gerarchia, figurazione universale. Al di sotto di esso, però, riposa il mondo più antico, eterno, che, nonostante molti aspetti di rozzezza e mostruosità, nonostante periodici sconvolgimenti, può tuttavia chiamarsi un regno della pace, della calma, della libertà d'agire, della sospensione del tempo e del destino. È il caso delle feste del re dell'antico regno, Crono, che tennero salda fino a epoche successive la memoria della felicità delle origini, e dello stesso Crono, che fu pensato come il signore delle isole dei beati. Sono proprio questi i due mondi e le due divinità che anche Holderlin distingue. Mentre però per Omero ed Esiodo il regno di Zeus è il più grande e glorioso, e ciò che essi evocano è il sole, la cui fulgida ascesa fa impallidire ogni altra luce, Holderlin dedica la sua più profonda meditazione all'originario mondo di Urano e di Crono. Tuttavia, per quanto degna di venera-
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zione sia per lui la cosciente volontà di chiarezza, di analisi, di ordine, la volontà di forma e di potenza, congiunti alla volontà sono l'inquietudine e il destino. Tanto al di sopra degli uomini può stare questo Zeus, pure è vicino, in un punto decisivo, alla loro natura: Zeus appartiene al mondo della vita cosciente e il suo agire è ricondotto da Holderlin sotto il medesimo concetto universale di "arte", come l'operare dell'uomo, anzi come l'uomo stesso. L'uomo è colui che molto va tentando, che tutto va tentando, che con arte crea. O!iesti instaura dunque, nonostante la sua debolezza e inconsistenza, una grandiosa analogia e una contraddizione infinita nel sacro spazio degli dèi. I sublimi mediatori tra lui e l'eterno devono tuttavia ricorrere alla divinità primordiale, e ciò che essi disvelano è pure soltanto il segreto di un più antico ed eterno essere, del quale anch'essi sono debitori. A questo essere Holderlin leva, orante, le mani, e sempre ancora lo chiama col nome che già nell'infanzia era per lui il più sacro: Natura. Così, con sacra collera, egli invita il signore olimpico della potenza e della legge a scendere dal trono, se non vuole che il poeta tributi alle divinità più antiche un colpevole onore: Ma si dicono i cantori che nell'abisso
il sacro padre, una volta, il tuo proprio, tu sbandisti e che si lamenta laggiù, dove i ribelli puniti stanno prima di te, l'innocente dio dell'età dell'oro, da tanto; esente da cure, una volta, e di te più grande, anche se mai nessuno comando espresse, né lo chiamò con nomi alcun mortale. Giù, dunque! o non vergognarti di ringraziare! E se vuoi rimanere, ossequia il più antico, accordagli che prima di tutti, dèi e uomini, il cantore lo nomini!
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Ché come dalla nuvola il tuo fulmine, viene da lui ciò ch'è tuo, guarda! di lui testimonia ciò che legiferi, e dalla pace di Saturno qualunque potenza è cresciuta. E non appena in cuore un che di vivente sento e l'albore di ciò che creasti, non appena nella sua culla l'instabile tempo cede a un voluttuoso sopore, io t'odo allora, o Cronio! E in te conosco il savio maestro che come noi, figli del tempo, dài leggi e quanto il santo crepuscolo asconde, annunzi. 24
Qyi "Natura" non è soltanto, come in altri poeti, un nome per la vita del mondo, la cui toccante bellezza e maestà risveglia canti di adorazione nelle loro anime. La divinità suprema, l' essenza di ogni essere, si erge davanti al poeta ed esige il suo canto, il suo pensiero, anzi, la sua intera esistenza. Egli la riconosce nel re degli dèi della religione preolimpica e la sua detronizzazione a opera di Zeus non può non suscitare in lui quella stessa indignazione che suscita nelle potenze primordiali della tragedia di Eschilo, poiché è nella tragedia più antica che il contrasto è così vivo, come se il mondo stesse ancora nel cuore della lotta. Per Eschilo, tuttavia, Zeus sta, con il suo potere e la sua saggezza, al grado più alto del divino. Holderlin invece, al di sopra di Zeus e al di sopra di tutti gli dèi dell'Olimpo in sembianze umane, vede l'Infinito, quel che in tanti canti chiama "Natura", o "Cielo" (Etere), o ancora Padre. Egli ammette la loro divinità, ma essi per lui non sono che messaggeri o figli dell'altissimo e, come tali, figure per nulla autonome. Ciò certamente rimanda alla dipendenza degli Olimpici da Zeus, del quale essi sono figli ed emissari. A questo punto, però, anche 24
F. Héilderlin, Natura e arte ovvero Saturno e Giove, in Poesie, cit., pp. 64-65.
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Zeus, e dunque l'intero suo regno, perde valore; e la sembianza umana cala, simile a una pesante ombra, anche sull'ordinamento di leggi e sul potere, tanto lodati dai Greci più illustri; sulle forme del tempo, in contrasto con la sovratemporalità della divinità originaria. Non può esservi alcun dubbio che nella scelta di Holderlin non si esprima la logica dell'intelletto, bensì una certezza ed esperienza immediate. È lui così - chi altri potrebbe essere? - a chiamarci in questo luogo e, quale vero iniziato ai Misteri, a guidarci attraverso il labirinto dei miti più venerandi. È con Holderlin, dunque, che si deve chiarire nel suo vero significato l'antichissimo culto degli dèi che, per vie molteplici, ha fatto ritorno nella moderna Europa. Holderlin deve anche insegnarci a capire dove sia da ricercarsi il limite dell'approssimazione all'autentica grecità. Egli infatti, che solo l'estremo compimento della forma appaga, non meno di ogni altro intende incantare con una bella apparenza. Privo di qualsiasi traccia di pedanteria, tutto il suo poetare è un annuncio. La perfezione della forma e la grandezza del contenuto sono in lui, nella santità della vocazione poetica che fa del canto il mediatore tra Dio e uomo, una cosa sola.
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Parte seconda
Holderlin e l'origine di culto e mito
I "Divini" chiama Holderlin gli elementi, le forme grandiose e i fenomeni del cosmo, e la devozione con la quale pronuncia questa parola indica che la si deve intendere nel senso autentico. Una preghiera è dunque il suo rivolgersi alla Madre Terra, al Dio del Mare, al Padre Cielo, al Dio del Sole: ma al di sopra di queste e di molte altre essenze divine, al di sopra di tutto, c'è la divina Natura, «il mistero glorioso dello spirito del mondo». 1 Sole, etere ed elementi sono i messaggeri «della grande Natura che da lontano colpisce»; della cui vita infinita parla Empedocle al discepolo, prima di accomiatarsi: Oh ingenua creatura! dorme o s'arresta forse in qualche luogo lo spirito divino della vita, che tu vorresti incatenarlo, il puro? E mai il sempre gioioso ti si strugge nell'angustia d'un carcere e s'attarda senza speranza ! E vuoi sapere dove? Tutte le voluttà deve d'un mondo peregrinare e non avrà mai fine. 2
1
Le citazioni da Hiilderlin seguono la seconda edizione "storico-critica" di Norbert von Hellingrath (F. Hiilderlin, Siimtliche itérke. Historisch-kritische Ausgabe, a cura di N. von Hellingrath, F. Seebass, L. von Pigenot, Propylaen Verlag, Berlin 19232, 5 voll.). [N.d.A.] 2
F. Hiilderlin, Empedocle, trad. it. di F. Borio, Boringhieri, Torino 1961, p. 99.
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In questo ongmario essere divino tutto perviene all'unità: amore e odio, approvazione e diniego, piacere e dolore. ~i
il filosofo Vanini, arso vivo come eretico, sta al fianco del suo carnefice, in un'infinita pace: Eppure, quella che vivo amasti e ti accolse morente, la sacra Natura si scorda l'agire degli uomini, e i tuoi nemici tornarono come te nell'antica pace. 3
Neppure lo spirito di terribilità e di sopraffazione può turbare questa pace, [...] il tremendo, l'occulto spirito di turbolenza, che in petto alla terra e agli uomini fomenta iroso, l'incoercibile, l'antico eversore, che le città come agnelli fa a brani, che una volta l'Olimpo assalì, che ferve nei monti e fiamme ne scaglia, che sradica le foreste e attraverso l'oceano inoltra mandando in frantumi le navi, eppure nell'ordine eterno mai ti sommuove, o natura, né muta una sillaba sola alle tavole di tue leggi; perché anch'esso è tuo figlio, con lo spirito della quiete nato da un unico grembo. 4
Ci sono istanti nei quali essa ci è sorprendentemente vicina e al cospetto degli astri divini può accadere che il suo soffio eterno improvvisamente ci sfiori; è questo a spingere Empedocle sulla cima della montagna: Poiché gli dèi son più presenti sulle altezze. là innanzi sera con quest'occhi voglio vedere i fiumi e l'isole e il mare. Là indugiando sull' auree correnti
' F. Hiilderlin, Vanini, in Poesie, cit., p. 32. ' Id., Gli ozi, ivi, pp. 17-18.
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mi benedica nel partire, splendida di giovinezza, la celeste luce che prima ho amata un giorno. E allora splende l'astro eterno tacendo intorno a noi, dagli abissi del monte sgorga intanto la fiamma della terra, e dolcemente lo spirito ci sfiora, la potenza che il tutto muove, oh allora! 5
Ma chi può incontrare proprio lei, la «regina senza nome»? Empedocle l'ha cercata dalla prima giovinezza. «Oh luce celeste!» esclama invocando il Sole, [...] non l'avevo appreso dagli uomini - è gran tempo ormai che il cuore desideroso non sapendo scorgere l'Onnivivente, mi rivolsi a te, a lungo, come pianta a te affidandomi, ti seguii ciecamente in pia letizia. Poiché a fatica riconosce i puri
il mortale. 6
Con la confessione di una nostalgia senza pace s1 chiude la prima versione di Iperione: Era una tranquilla giornata d'autunno. Meravigliosamente godevo dell'aria mite, quando risparmiava le foglie appassite perché restassero ancora un istante sul materno albero. Si era già fatta sera e non un rumore s'alzava dintorno. Divenni qui ciò che ora sono. Dal folto del bosco sembrava giungermi un ammonimento, chiedendomi dalla profondità della terra e del mare: perché non mi ami? D'allora in poi non riuscii più a pensare ciò che prima avevo pensato: il mondo mi era divenuto più sacro, ma insieme pieno di mistero. Nuovi pensieri che scuotevano il
5
F. Hiilderlin, Empedocle, cit., p. 73.
' lvi, p. 39.
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mio intimo si accesero attraverso l'anima. Era impossibile tenerli fermi, continuare con calma a pensarli.
E poi: Ancora cerco senza trovare. Chiedo alle stelle ed esse tacciono; chiedo al giorno e alla notte, ma essi non rispondono. Da me stesso, quando mi interrogo, salgono sentenze mistiche, sogni senza significato. Sta bene in questo crepuscolo il mio cuore. Non so cosa mi accade quando la guardo, questa insondabile natura, ma sono lacrime sante di gioia quelle che verso dinanzi all'amata velata. [... ] Ed ecco, vidi, che non è molto, un bambino giacere sulla strada. Premurosa la madre, che su di lui vegliava, aveva teso una cortina sul suo capo, perché egli nell'ombra potesse dolcemente assopirsi, e il sole non lo abbagliasse. Il fanciullo però non volle restare buono e strappò via la cortina, e io lo vidi mentre tentava di fissare lo sguardo alla luce amica, mentre sempre di nuovo tentava, fino a che gli occhi non gli fecero male ed egli, piangendo, non volse a terra il viso. Povero bambino! - pensai, agli altri non andrà certo meglio - e mi ero quasi proposto di abbandonare questa curiosità audace. Ma non posso! Non devo! Deve pur svelarsi il grande mistero che mi darà la vita, o la morte. 7
II A volte, in Holderlin, le parole del poeta sulla natura sembrano contraddirsi, o almeno lasciare un certo gioco all'interpretazione. Non una, tuttavia, delle numerose espressioni tradisce un'ispirazione momentanea oppure si trastulla con fantasie e felici immagini oniriche. A seconda di come l'orecchio vi si accosti si ode, dietro il canto, il pulsare di una vita scossa fin nel profondo da un'esperienza d'eccezione, dal prodigio dell'incontro che non ammette contraddizione alcuna e costringe colui che 7
F. Hi:ilderlin, Frammento di Iperione, tTad. it. di M.T. Bizzarri e C. Angelino, il melangolo, Genova 1989, p. 89.
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ha colpito, come poeta, a sempre nuove forme, e, come filosofo, a una incessante elaborazione del pensiero. E Holderlin non fu soltanto poeta, ma anche filosofo; come tale cercò di dare, di ciò che lo aveva così potentemente animato, un resoconto rigoroso: ciò che possono testimoniare molte sue lettere, ma, soprattutto, certi abbozzi in prosa non destinati alla pubblicazione e risalenti al periodo di composizione dell'Empedocfe. Si tratta principalmente degli scritti Sulla religione, Sul procedimento dello spirito poetico, Fondamento dell'Empedocfe. 8 Ciò che Holderlin intende con il termine "fondamento" di un'opera poetica, egli lo ha spiegato nel secondo dei saggi citati. Tutti questi saggi, per quanto il loro tema, almeno nel primo caso rispetto agli altri due, possa sembrare diverso, hanno a che fare con lo stesso oggetto: con l'esistenza del mondo divino, che per lui non è nient'altro che il mondo poetico. Ciò ha il significato non di una profanazione della religione, bensì di una santificazione della vocazione poetica. Il poeta è, per Holderlin, il tramite fra Dio e uomo. «Poeticamente abita/ L'uomo su questa terra», afferma in una delle poesie tarde. L'elemento poetico insito nell'uomo è ciò che lo porta a toccare - e con la realtà più alta - la divinità. Il poeta nato è tuttavia così intimo all'essere del mondo che, come colpito da un fulmine divino, genera il canto dell'infinito. I saggi filosofici potranno dunque illuminarci sul fondamento naturale del dono poetico, sull' essere dell'uomo che, come testimonia la poesia di Holderlin, tanta grandezza può sentire. Per quanto forte fosse stata l'impressione che Kant aveva una volta esercitato sul giovane Holderlin, per quanto vicino, per provenienza, educazione e amicizia, egli sia stato ai grandi continuatori e riformatori della filosofia kantiana, Hegel e Schelling, i suoi pensieri non si allineano a nessuno dei loro sistemi. Essi hanno tutt'altro punto di partenza, non interrogano l'essere del mondo su come questo si offra all'esperienza universale degli uomini e su come possa venir compreso da un 8
Cfr. F. Holderlin, Scritti di estetica, a cura di R. Ruschi, SE, Milano 1996 [2004].
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pensiero che lo penetri. Essi chiedono quel che l'uomo stesso può essere se, seguendo la sua originaria natura, supera se stesso - ogni vero essere deve elevarsi oltre se stesso - e ricercano l'esperienza del mondo alla quale deve necessariamente condurre questa ascesa dell'umanità. Anch'egli dunque anela a un sapere: ma è il sapere dell'uomo che si è elevato, che riceve un'investitura di grandezza; dell'uomo che dall'angustia delle valli è capace di salire sulle montagne e, di là, sollevarsi fin dove la vista si estende in ciò che non ha confini. L'uomo del quale egli parla non è solamente soggetto, non è solo un uomo che pensa, che sente, che agisce: è, innanzitutto, un'esistenza, un essere; e come tale il mondo è per lui non soltanto oggetto del pensiero, della sensazione e dell'azione, ma il suo contrario specifico, l'opposto della sua natura propria e originaria. I contrasti dell'essere non si risolvono però in quell'unità di cui la filosofia va così ardentemente in cerca, bensì nell'armonia, in cui essi, come contrasti, insieme risuonano. Dimenticare la differenza, oppure volerla sopprimere con un atto rischioso e temerario: questo è il pericolo più grande per l'uomo, che in tal modo s'inganna e nel delirio si distrugge. Così potentemente e con tanta maestà l'essere delle cose ha parlato a Holderlin, che l'unità di uomo e natura, l'ideale dei filosofi, fu per lui un pensiero empio. Qyi l'uomo è l'essere individuale, capace di creare con coscienza, sentimento e arte. Holderlin lo chiama l"'organico", oppure designa la sua indole con il nome di "arte". La natura invece, che egli chiama "aorgica", è l'universale, l'infinito, ciò che non sente e non pensa, ciò che è privo di arbitrio, che percorre le vie della necessità secondo le eterne leggi del suo essere. L'uomo vede se stesso al cospetto di questo essere e di questo potere tranquilli e imperturbabili, in contrasto con la condizione sua propria: a essi egli non può sottrarsi, comunque si atteggi. Qyesto essere lo circonda con la potenza degli elementi e il mondo delle forme corporee dalla terra fin su alle stelle; egli lo incontra come situazione del mondo ed evento temporale; anzi, questo essere abita in lui, nell'essenza del suo corpo e
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della sua anima, come ciò che persevera, secondo un suo silenzioso proprio modo, nel muoversi e nell'agire; che contrappone alla lingua dei suoi pensieri il silenzio dell'inconscio, alla sua libertà la necessità; che non soltanto impone un ostacolo alla sua libertà, ma, oltre a ciò, lo impiglia nell'inesorabilità della propria coerenza. Da questa natura scaturiscono per lui gioie e dolori, successi e delusioni. La può maledire e contro di lei armarsi, come l'asceta, che sempre intorno a sé deve avere un deserto per distinguere le voci del suo mondo spirituale. Eppure, neanche allora la natura smette di testimoniare di una beatitudine senza pari, che deve ancora servire almeno da specchio e immagine della perfezione celeste. I contrasti, tuttavia, la cui tensione non può mai risolversi del tutto, non si escludono in maniera ostile: essi sono subordinati l'uno all'altro per costruire un'armonia del contrasto. Ciò accade «nella vita pura», come dice Holderlin; e "puro" ha per lui il significato di ciò che è fedele alla sua origine e né sopravanza la sua indole in presuntuoso delirio, né la fa intristire nella debolezza. Per questo motivo tale aggettivo appartiene, in primo luogo, agli elementi e al divino. La tragedia dell'uomo è che la sua appassionata ambizione, il suo impulso a espandersi nell'incommensurabile fanno sì che non rimanga nella purezza. È quel che accade a Empedocle: la sua indole magnanima «non poteva agire e rimanere nella sua propria sfera; egli non poteva agire secondo il modo, la misura, la limitatezza e la purezza a lui propri». 9 L'uomo puro, tuttavia, sta con la natura in una tensione che è armonica e in questa armonia accade il prodigio che a ogni vita dispensa il suo splendore e la sua energia creativa: il divino è qui. Per trovare la perfezione di cui Holderlin ha conoscenza non è concesso all'uomo cercare, davanti alla natura, riparo in se stesso. Egli deve uscire all'aperto e andarle incontro, poiché manca alla sua individualità e capacità di sentire e di volere l'elemento di universalità e infinità che è la natura a offrir9
F. Hi:ilderlin, Scritti di estetica, cit., p. 89.
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gli. Egli non ne entra in possesso in questo incontro, ma la ricchezza che, attraverso questo incontro, al suo sentimento si aggiunge, rende perfetto il mondo e presente il divino. «Se ciascuno dei due momenti è esattamente ciò che può essere» afferma Holderlin «e l'uno si unisce all'altro, compensando la mancanza di questo, mancanza che esso deve necessariamente avere per essere esattamente ciò che può essere nella sua particolarità, allora si ha il compimento e il divino sta in mezzo a entrambi.»10 All'uomo, nella misura in cui non è puro soggetto del conoscere e dell'agire, bensì un essere vivente, non solo si rivela il reale come reale, ma ancora qualcosa che ne è al di là, una realtà più profonda. Sono gli istanti sublimi di una tale rivelazione a esigere l'intera meditazione di Holderlin: a renderlo filosofo è lo stupore per ciò che ha vissuto. Il centro intorno al quale gravita tutto il suo pensiero è l'istante divino, un levarsi del sole dell' esistenza, una pace santa dell'uomo e del mondo, in cui ogni essere sussiste, innalzato e santificato, nella trasparenza luminosa della beatitudine. Olianto egli cerca concettualmente di chiarire, nient'altro è che l'esperienza di un accordo naturale tra uomo e mondo, che deve condurre con necessità all'istante divino. Non occorre dunque alcun evento straordinario: la distinzione di ciò che è regolare e quotidiano da ciò che è sorprendente e inaspettato fa appunto parte degli elementi fondamentali dell'esistere. Solo però nell'impoverimento della vita essa si trasforma nella distinzione di insignificante e significativo, di naturale e sovrannaturale. Solo da questo impoverimento, in cui anche la ricerca scientifica è rinchiusa, nasce l'opinione secondo cui a dare il primo impulso a sentimenti e immagini di devozione sarebbe stato ciò che è spaventoso e straordinario, e che la religione abbia bisogno del miracolo nel senso comune del termine. «Il miracolo è il più caro rampollo della fede» dice Faust, e c'è gente che pensa che la frase, per essere vera, debba essere rovesciata. Il fondamento originario della fede nell'infi10
Ivi, pp. 85-86.
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nito non è il trasalimento, il turbamento che lascia senza parole, bensì il calmo stupore per ciò che è: sono la profondità di sentimento e la commozione ad aprire le labbra dell'uomo. Non sarebbe mai sorto un linguaggio, l'espressione della voce umana sarebbe rimasta limitata al verso degli animali, se ciò che è naturale e durevole non fosse stato dotato di questa toccante potenza: e allora eccoci di nuovo all'elemento poetico nell'uomo, visto che è il linguaggio la sua prima e universale testimonianza. A questo semplice incontro con il mondo, in cui l'elemento naturale e quanto eternamente ritorna non cessano di essere lo straordinario, pensa Holderlin quando parla dell'istante divino. Egli sa che a esso si oppone la costrizione dei bisogni che provengono dall'uomo, i quali pretenderebbero di ridurre tutte le cose al valore di meri strumenti. Egli però sa anche che nell'essenza dell'uomo puro riposa la possibilità, anzi la necessità di liberarsi della servitù degli scopi e accedere a una condizione di libertà. Soltanto in questa condizione egli è completamente se stesso e insediato nella sua nobiltà originaria, che è ancora scritta nella mente del fanciullo e che l'agitazione e le contrarietà della vita futura così in fretta cancellano. Soltanto se l'uomo è se stesso ciò che lo circonda svela la sua essenza, ed è come se uno splendore di santa sincerità fosse tra loro. La cadaverica rigidità di rapporti puramente meccanici e superficiali ha abbandonato gli esseri, e un alito di vita spira attraverso ogni fare e patire, un «più alto destino», come dice Holderlin, sussiste tra l'uomo e il suo mondo. Non si pensi che con questa libertà vada intesa la cosiddetta "contemplazione disinteressata" con la quale Kant e Schopenhauer credettero di comprendere il fenomeno artistico. Holderlin non pensa a una contemplazione, ma a un essere più elevato. «L'uomo è certo un dio non appena è un uomo»11 aveva fatto dire una volta a Iperione. In seguito si esprimerà in maniera più moderata. Tuttavia egli non dubita, e ne ha avuto esperienza, 11
F. Héilderun, Frammento di Iperione, cit., p. 30.
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che intorno all'uomo, il quale in se stesso si elevi, spiri un soffio divino. Egli non è per nulla un osservatore disinteressato del mondo: un nuovo, intimo legame, un nuovo destino, gli si è schiuso. L'istante divino non è dunque un'intuizione estetica: è l'incanto che la liberazione dalla schiavitù dei bisogni segue da presso; istante divino vuol dire presenza e certezza del mondo divino. La verità del divino non è oggetto di dimostrazione, non è un fatto di cui ci si possa convincere mediante dottrine o per autorità. Esso può anche non rivelarsi nell'anima o nello spirito dell'uomo, e natura e mondo possono non recarne immediatamente il segno. Ma eccolo apparire non appena l'uomo si sia innalzato alla sua propria libertà. E non può assolutamente trarre in inganno. Se uomo e natura si toccano «in una vita pura», eccolo risplendere in mezzo a essi. L'esperienza dell'uomo puro è la sua prova. È quel che esprimono le parole del breve saggio Sulla religione: gli uomini, «elevandosi al di sopra dei bisogni materiali e morali, vivono sempre una vita umanamente più alta, così che tra di essi e il loro mondo vi sia una connessione superiore, più che meccanica, un destino superiore» e in questa connessione superiore essi possiedano «la cosa per loro più sacra».12 Alla dimostrazione del divino, così si dice nel corso dello stesso saggio, occorrono «poche parole. Non da solo, né unicamente dagli oggetti che lo circondano l'uomo può esperire che nel mondo esiste un qualcosa di più che un moto meccanico, che esiste uno spirito, un Dio; lo può esperire in un rapporto più vitale, liberato dal bisogno, in cui egli abbia a che fare con quanto lo circonda».13 A quanto circonda l'uomo non appartengono solo gli esseri e i rapporti con i quali egli ha a che fare nel corso della sua vita personale, ma anche, al tempo stesso, le forme e i fenomeni che chiamiamo propriamente natura, gli elementi, le piante, gli 12
F. Holderlin, Scritti di estetica, cit., p. 57.
13
lvi, p. 59.
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animali, l'aria, la luce, il cielo e le stelle. L'uomo puro, che si è innalzato alla sua libertà, sta anche con essi in una connessione superiore. Non è una considerazione puramente estetica a farlo godere della loro vista: tra loro e lui c'è un destino santo, una vita stupenda. Egli non entra con prepotenza nel loro essere, non attira orgogliosamente il loro essere nel proprio: il loro essere rimane l'altro e l'opposto. Ma nell'armonia dell'incontro puro il divino è presente. «La natura più aorgica - dice Holderlin - una volta puramente percepita dall'uomo puramente organizzato, puramente formato nel suo genere, conferisce a questi il sentimento del compimento.»14
III Che la coscienza religiosa scaturisca con intima necessità dalla semplice esistenza, «dalla pura vita», come dice Holderlin, e che debba essere cercata una ragione specifica soltanto per il formarsi di rappresentazioni plastiche e non, invece, per il sentimento religioso del sacro, in quanto è lo stesso autentico esistere a doverlo risvegliare nei suoi rapporti naturali, questa convinzione del poeta non può che essere confermata dalla storia e con la storia si è imposta anche ad altri. Oliesto dice anche Schelling, che in ogni storia dell'umanità debba essere discusso il problema di «come la coscienza umana si sia potuta occupare fin dagli albori e prima di ogni altra cosa, di rappresentazioni di natura religiosa, e, anzi, ne sia stata conquistata». 15 E dichiara fondamentalmente falsa la domanda: «In che modo la coscienza giunge a Dio?», poiché la coscienza non è arrivata a Dio, ma si è da Lui soltanto allontanata, perché fu presso di Lui nel primigenio legame di natura. Il pensiero di Schelling è certo molto diverso da quello di Holderlin, così come altro è tutto il 14
lvi, p. 86.
15
F.W.J. Schelling, Filosefia della mitologia. Introduzione storico-critica, a cura di T. Griffero, Guerini, Milano 1998, p. 297.
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suo rapporto al mondo: eppure essi, in questo punto cruciale, si incontrano. Per quanto paradossale possa suonare l'affermazione di Schelling, essa è confortata dall'esperienza storica. La religione è talmente intessuta nell'esistenza dell'umanità più semplice e antica da non determinarne nessuna componente particolare. Come spirito di vita, essa abita nell'intimo di tutte le sue forme. Nel procedere della civiltà dello spirito essa si dispiega nella chiarezza e magniloquenza delle figure (Formen). La tensione all'indipendenza insita in tale processo porta però a una distinzione tra sacro e profano che, alla fine, si trasforma in un'opposizione assoluta. Con ciò la religione perde la sua originaria forza persuasiva e si fa sempre più esplicita la domanda se le sue pretese abbiano in sostanza il diritto di esistere. Purtuttavia, essa non si lascia mai del tutto mettere in disparte: davanti all'intelletto fugge nei sogni, accoglie ogni sorta di forme estranee e, dal canto suo, mette in questione l'intelletto non con argomenti contrari, ma con il sentimento dell'infelicità, che è sempre legato, nonostante tutte le apologie del progresso, all'espandersi della vita profana. Il divenir profano della vita altro non è che la distruzione della «connessione armonica» tra uomo e natura, sulla quale Holderlin fonda ogni religione. Nel passaggio alla civiltà della tecnica, nel suo progressivo dominio sugli animi, nel suo decisivo influsso sulla posizione dell'uomo nel cosmo si deve riconoscere nel modo più chiaro lo spirito della profanazione. L'uomo ora non è in grado di sopportare intorno a sé e in sé l'essenza della natura. Egli consegna se stesso a una seconda natura, morta e artificiale, di cui si rende servo, che non lo lega, come egli si ostina a credere, con quella sua opposizione originaria un tempo armonica, ma erige invece tra sé e lei un muro. Progressi del pensiero tecnico e meccanizzazione pratica di ogni tipo rendono il muro sempre più impenetrabile. È vero che si crede di abbatterlo con evasioni periodiche nell'elemento naturale: questi avvicinamenti forzati hanno tuttavia ben poco a che fare con quella confidenza silenziosa che un tempo legava l'uno all'altra uomo e natura. E l'uomo, allorché si premunisce,
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di fronte alla silente potenza della natura, di difese artificiali, ha cessato di sviluppare se stesso. A quale misera fiammella si è ridotto, nell'uomo tecnico, il sentimento di essere uomo! Qyanto poco gli è rimasto della dignità dell'essere! L'"uomo divino" in noi, di cui non solo Holderlin, ma anche Kant ha parlato, intorno a sé deve avere un mondo e non un mero congegno prevedibile. Un mondo non solo nello spazio che intorno a lui si apre: anche quel che egli chiama l'elemento suo proprio e intimo - ciò di cui consiste, in modo involontario e necessario, la vita del corpo e dell'anima-, deve circondarlo come un mondo. E un mondo diventa quel che non è solo e non è più il suo mondo proprio, ma comprende in sé l'intera umanità, che racchiude i morti e i viventi, che appartiene al passato nella stessa misura in cui appartiene al presente e al futuro, anzi, si radica proprio nella durata della terra e trapassa nell'essere delle piante, degli animali, degli elementi. A tal punto la natura si è protesa nell'uomo: e soltanto se, in tale prossimità, essa, come mondo, gli parla, l'incontro armonioso diventa perfetto. L'uomo della preistoria, che noi chiamiamo "primitivo", era insediato e ben raccolto, in questo cosmo degno di venerazione. A tutti gli eventi decisivi della sua esistenza prendevano parte i consanguinei e i compagni, e i morti non meno dei vivi; e quelle forme ricche di significato in cui ciò accadeva facevano sì che la vita singola entrasse in possesso, nella collettività, di ogni sua dimensione. L'occhio non doveva chiudersi convulso dinanzi all'emozione del trapasso, poiché un sapere ereditato dai padri faceva strada. Con usi e costumi resi sacri l'esistenza si apriva fino al regno delle piante, degli animali, degli elementi. Certo la vita non era, come ci si augura oggi, tutelata contro il destino, ma era a esso familiare; là dove poi l'uomo moderno si trova a dover combattere da solo con il cieco caso, l'uomo primitivo poteva rendere proprio, nella totalità dell'esistenza formata già dagli antenati, anche quanto vi era di più pericoloso. Resti di questa semplice perfezione dell'esistenza si trovano ancor oggi nelle comunità di campagna, specialmente del
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Sud. Si possono riconoscere in uno sguardo silente, nella tacita eloquenza di un gesto, di un tratto; e l'indescrivibile pace di questo sentirsi al sicuro, sia esso gioia o dolore, ci fa capire cosa Holderlin intendesse definendo «quieti» gli uomini dei nobili tempi antichi. Oliesta espressione non la si incontra soltanto nei punti più significativi delle sue poesie. Una lettera, che egli scrisse a Bohlendorff il 2 dicembre 1802, dopo il ritorno dalla Francia meridionale, poco prima del crollo mentale, racconta un'esperienza personale: «L'elemento potente, il fuoco del cielo e la quiete degli uomini, la loro vita nella natura, la loro limitatezza e soddisfazione, mi ha continuamente commosso e, come si dice degli eroi, posso ben dire che Apollo mi ha colpito». 16 Per lui come essere giunto troppo vicino alla divinità. L'armonia di cui parla Holderlin non è stata distrutta dalla civiltà greca. Anche gli dèi olimpici, che inaugurarono un nuovo regno dello spirito e del potere, ne dovettero attestare la presenza. Depone a favore del suo durevole sussistere la netta distinzione e demarcazione tra uomo e natura, che a ogni incontro conferisce il carattere della santità e in pensieri e opere vigila su ogni genere di invadenza. È sorprendente vedere come molte di quelle cose a cui l'uomo moderno crede di avere diritto nello scambio con la natura, di cui, anzi, va orgoglioso, fossero per il paganesimo antico, finché questo rimase vivo, motivo di esitazione, tanto era il rispetto che gli elementi, la luce e l'oscurità, la terra e il cielo esigevano, e tanta era l'attenzione al cospetto della necessità eterna, nell'essere e nell'accadere. Oliesto atteggiamento degli Antichi che, da tutto quanto dell'uomo e del mondo è naturale, riceve conoscenze divine come fossero sacri suoni in nessun luogo tornò vivo e autentico come in Holderlin. Così egli come nessun altro sa anche ciò che è possibile alla purezza originaria e ciò che davvero accade se uomo e natura, ciascuno nel mondo che gli è proprio, stanno l'uno di fronte ali' altra. L'esperienza del divino, della cui naturalezza e semplicità si è prima parlato, è presente soltanto nel sentimento. Su questo 16
F. Holderlin, Siimtliche Werke, cit., voi. V, p. 323.
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Holderlin pone espressamente l'accento all'inizio del saggio sul Fondamento dell'Empedocle. L'elemento poetico nell'uomo estende i suoi effetti fino a questo punto dunque solo nella vita affettiva: Holderlin, però, aggiunge immediatamente che il procedere alla volta della conoscenza è possibile e necessario. Esso si compie in due gradi: il primo resta ancora del tutto all'interno della semplice naturalità; con il secondo invece l'elemento poetico ascende a un'altezza che si può conquistare solo con dolorose lotte e un'inaudita elevazione della natura umana. Del primo grado tratta il Saggio sulla religione, del secondo il Fondamento dell'Empedocle.
Perché mai, domanda il primo saggio, gli uomini non si accontentano di questo grande sentimento? Perché mai «debbono avvertire il bisogno di rappresentarsi un'idea o un'immagine di quel superiore destino che poi, a ben guardare, non può essere concepito e neppure cade sotto i sensi»?17 La risposta che egli dà diventa un'involontaria descrizione della sua esperienza poetica e già solo per questo esige la nostra attenzione: una riflessione preliminare può renderne più agevole la comprensione. In che modo ci è dato spiegare il salto dalla pienezza della sensazione alla rappresentazione? Forse con l'impulso a conoscere, con l'ispirazione a sciogliere il mistero di quel sentimento sublime arrivando a una causa, a una paternità della meraviglia? È quel che sembra, ed è sempre sembrato, un pensiero ovvio e immediatamente evidente. Il sentimento tuttavia non presenta alcun mistero che debba esser svelato: è esso stesso la garanzia del rivelarsi dell'essere. Con tale vitalità come potrebbe testimoniare del divino, se questo non gli fosse presente in senso pieno, se avesse ancora bisogno di una qualche assicurazione o chiarimento? Soltanto il sentimento insicuro, soltanto il dubbio possesso necessitano, per divenire certi di se stessi, di un sostegno nel concetto o nell'immagine. Anche l'esigenza di conservare l'esperienza vissuta nel ricordo non può essere il vero motivo. Come potrebbe un grande sentimento dileguarsi 17
F. Hiilderlin, Scritti di estetica, cit., p. 57.
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dalla memoria, e i pensieri che cosa potrebbero fare per aiutarlo, se non recasse in se stesso la forza della vita? Il processo di cui Holderlin ha chiara coscienza non muove dall'intelletto, ma dall'elemento creatore insito nell'uomo. Il poeta è in grado di parlare di un appagamento profondo, di cui l'uomo ha esperienza in quella meravigliosa connessione con gli elementi del suo mondo. Essa conduce a una quiete momentanea, simile a quella del corpo quando siano state calmate le sue necessità animali. La vita reale perviene a uno stato di quiete. Il cerchio si è chiuso: mondo ed esistenza si sono inarcati fino a giungere alla forma perfetta, e perfetto, fino all'eternità, è divenuto l'istante. L'istante di perfezione, di fronte al quale la vita tace, è però l'istante dello spirito e del linguaggio. La vita reale che dà origine, dice Holderlin, a quel mirabile appagamento, a quell'istante di pace nell'eterno, deve essere ripetuta nello spirito. Oliesto, però, non è compito dell'intelletto raziocinante. Il concetto, le regole astratte, sono incapaci di far procedere la fiaccola della vita. Oliando Holderlin dice che l'uomo, nella vita spirituale, «ripete in certo qual modo la sua vita reale», con ciò non intende per nulla una debole ripetizione nelle forme del pensiero, ma un atto attraverso il quale scaturisce nuovamente della vita. Egli si richiama ai Greci che, in contrasto con i nostri «ferrei concetti», con i quali noi ci riteniamo più progrediti di loro, «consideravano religiosi quei delicati rapporti», come quelli cioè che non si devono comprendere in sé e per sé, in una formula concettuale, ma soltanto in una forma vivente che renda percettibile, e al tempo stesso di validità universale, lo spirito di tutta quella sfera in cui tali rapporti sono dominanti. Di un essere perfetto offrono testimonianza soltanto la pienezza e la totalità della vita stessa. Mentre l'intelletto osserva, giudica e deduce, restando pur sempre rinchiuso in se stesso, nello spirito si genera, dal prodigio della vita vissuta, l'analogo prodigio della forma (Gestalt). E non si tratta di un paragone, di una personificazione o di un'allegoria: è la vita stessa, una pura nascita ripiena di una forza propria, un essere immediatamente presente e, nello stesso tempo, un
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significato infinito. Così l'istante divino non soltanto si ripete come incontro vivente, ma è rinato. «Ogni religione» conclude Holderlin «sarebbe per sua essenza poetica». 18 Egli, però, qui non pensa a una personalità poetica individuale, ma comprende il fenomeno come universalmente umano: dell'elemento poetico in senso proprio si parlerà solo al grado successivo. Dicendo che quella rinascita non è nient'altro che l'origine del linguaggio, seguiamo la direzione del suo pensiero. La commovente esperienza di perfezione di cui parla Holderlin ha aperto le labbra dell'uomo, affinché egli non emetta soltanto, come l'animale, urla di piacere, di dolore, di brama, di avvertimento e così via, ma produca il discorso, rinata meraviglia del mondo in forma di parola. Il linguaggio! Ognuno lo parla, ma da tempo è scaduto, nella vita di tutti i giorni, a mero strumento per intendersi, e si è svuotato d'anima. Non c'è che il poeta a parlarlo ancora con l'antico calore vitale. Per questo, quando lo ascoltiamo, le cose del mondo si risvegliano a nuova vita, e l'istante divino, dal quale il linguaggio ha tratto origine, ci sfiora. Ciascuno tuttavia, la cui vita individuale possa avvicinarsi all'istante divino, possiede ancora qualcosa di quella forza plastica, benché essa rimanga apparentemente muta oppure produca solo qualche frammento. E anche per il poeta vale quanto dice Holderlin: che egli debba sempre di nuovo abbandonare il regno delle sue forme, poiché «la maggiore o minore compiutezza propria di questa ripetizione spirituale lo spingono nuovamente nella vita reale». 19 Solo se la forza poetica coglie nell'uomo l'uomo originario e chiama la sua vita a una competizione sublime con l'essere del mondo, ha luogo un incontro nuziale la cui nascita può tenere fermo l'istante divino con la completa pienezza e verità. Holderlin, come vedremo, ne offre un esempio che si mantiene ancora interamente entro i confini dell'autentica poesia, ma dal 18
lvi,p.61.
19
lvi, p. 57.
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suo pensiero si sviluppa per noi una conoscenza, come vedremo, di quel che c'è di più grande, che è possibile all' elemento poetico - anche se noi non lo chiamiamo più così - insito nell'uomo.
V Come potrebbe il cuore dell'essere aprirsi a colui che gli porga soltanto pensieri e sensazioni, ma non la sua propria esistenza? Ora accediamo a un nuovo grado. Soltanto rispetto al problema dell' Empedocle Holderlin si è completamente chiarito circa le possibilità più alte. Nell'immagine di quest'uomo meraviglioso egli vide e comprese i punti estremi della sua propria esperienza, e scorse al tempo stesso il pericolo che, dalla tempestosa prossimità al divino, minacciava anche lui. Dai tempi del suo interesse per il destino di Empedocle la sua vita diventa sempre più ardente, sempre più chiara la sua conoscenza dei misteri in cui l'elemento divino s'unisce a quello umano. Si fa nella stessa misura però sempre più urgente anche il monito alla distinzione e al riserbo. Ora, nei brani in prosa sul senso della poesia di Empedocle, compare nel punto cruciale il santo nome che in ogni periodo della vita e dell'opera di Holderlin detiene il rango più elevato: Natura! Ora si dispiega la sconfinata vastità di tutto quanto è visibile, udibile, percepibile, di quanto è animato e di quanto è inanimato, dalle altezze dei cieli fino alle profondità della terra. L'uomo con la sua essenza ha fatto ritorno al tutto. L'aria è il soffio della sua vita. E cosa mai sarebbero i suoi pensieri se la luce interiore non incontrasse quella celeste? La comunanza con ciò che gli è pari si estende al destino di tutta quanta l'umanità e ciò che accadde un tempo non è meno ricco di significato dell'istante presente. Così annuncia uno degli inni tardi: La Natura in clangore d'armi ora s'è desta, [...] ciò che innanzi accadeva, avvertito appena,
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è ora la prima volta manifestato: e quelle che ci lavoravano il campo in figura di schiavi sorridenti, noi le riconosciamo, le forze degli dèi, le tutte vive. 20
Il poeta chiamato a questo incontro gode sì del più alto favore, ma è anche esposto a un pericolo infinito. L'eccessiva intimità con ciò che gli accade minaccia quell'accecamento e quella follia che dovranno abbatterlo. Se il suo essere cade completamente nelle fiamme dell'infinito, avviene un'ingiustizia nella sfera divina e in quella umana, un'ingiustizia che fa della verità divina un'illusione e dell'uomo un nulla. Il vero poetare è l' oltrepassamento dell'assenza di confini in ciò che non ha confini, un mettersi al sicuro di fronte al trapassare. Attribuendovi grande importanza Holderlin parla di un nefas, di una presunzione di ciò che è impossibile, di una colpa contro l'eterno che il poeta evita se segue la sua autentica vocazione. L'immagine dell'interiorità, dice Holderlin, deve negare quanto più è possibile il suo fondamento ultimo: «Olianto più l'interiorità è infinita, inesprimibile, dunque più vicina al nefas; quanto più l'immagine deve con rigore e freddezza distinguere l'uomo dall'elemento che costui sente per mantenere il sentimento entro i suoi propri confini». 21 Il poetare è il meraviglioso svolgersi di un incontro con l'elemento del fuoco, in cui i confini e le differenze dell'uomo si conservano puri. Non c'è teoria estetica che possa corrispondere a questo accadimento, poiché è un accadimento della vita e dell'essere. L'essere stesso si fa strada verso un'esistenza più pura, nella quale possa, senza bruciarvisi, stare vicino al fuoco celeste. Il poeta resta sempre uomo, spirito e coscienza, nell'innocente conservazione del carattere originario: per questo Holderlin chiama la poesia, in una lettera alla madre proprio di questo periodo, «l'occupazione tra tutte la più innocente». 22 Anche nella più ardente prossimità 20
F. Holderlin, Come ilgiomodifesta ... , cit.,pp.115-116.
21
Id., Scritti di estetica, cit., p. 84.
22
Id., Siimtliche Werke, cit., voi. Ili, p. 377.
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il divino resta sempre ciò che sta di fronte e l'umanità pura riceve l'eterno dal suo fulmine per darlo alla luce, visibile a tutti, come figura (Gestalt) e mito; ciò che Holderlin mostra con l'immagine di Semele che ricevette Dioniso dal dio dei fulmini: Ché, subito colpita, essendo nota da sempre all'Infinito, balza al ricordo: e a lei da sacro fulmine arsa viene alla luce importato d'amore, l'opera degli dèi e degli uomini, il canto, che entrambi deve testimoniare. così cadde, narran poeti, quando Semele volle vedere il dio in figura, la folgore sulla sua casa e dal nume colpita partorì
il frutto della tempesta, Bacco santo. Di lì bevono adesso fuoco celeste i figli della terra senza pericolo. ma a noi spetta ora, fra le tempeste d'lddio, stare, o poeti, a denudata fronte, e con la mano afferrare la folgore, la folgore del Padre e al popolo il dono celeste porgere, avvolto nel canto. poiché se sono puri i nostri cuori come di pargoli e innocenti le mani,
il fulmine del Padre, il puro, non brucia; e nel profondo scosso, dividendo i dolori d'un dio, resta pure saldo l'eterno cuore. 23
Sulla trasformazione che deve precedere questo grande avvenimento Holderlin si è chiaramente pronunciato nel Fondamento dell'Empedocle. II suo Empedocle è una natura poetica: è a partire da ciò che vanno compresi il suo splendore e la sua caduta. Egli ha provato qualcosa di più grande degli altri e Holderlin, 23
F. Holderlin, Come il giorno di festa ... , cit., p. 115.
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che gli fu in questo fratello, al quale la natura ha parlato in modo che gli antichi dèi sembrano tornati alla vita, ci ammaestra sulla strada che a tale rivelazione conduce, sulle sue meraviglie e sui suoi pericoli. Non viene qui descritto alcun processo del pensiero, alcuna lacerazione del sentimento, alcun dramma della commozione, ma una lotta di potenze, una battaglia delle forze primordiali, un'autoelevazione dell'essere. A un primo sguardo, l'immagine che si snoda dinanzi a noi può anche apparire fantastica, ma a un'osservazione più attenta compare la semplice verità in cui la vita più alta impara a comprendere se stessa: improvvisamente l'esperienza del poeta si trasforma in esperienza dell'umanità; improvvisamente stanno in piena luce le più nobili tradizioni dei popoli.
VI Siamo venuti a conoscenza dell'essere umano "puro" nell'incontro armonico con la natura da lui dissimile; della perfezione del mondo e della presenza del divino: lo spirito silente dell'amore ha unito i contrari senza sopprimerli. Ora, invece, veniamo a conoscenza di un moto ardente, che scaturisce dall'amore e conduce, attraverso contraddizione e dissidio, a una nuova, molto più armoniosa perfezione e unità. «Qyesto sentimento appartiene forse a quanto di più alto possa essere sentito»24 conclude il poeta. Un cerchio si è chiuso: quale orbita ha tracciato? L'amore per la natura, per quell'elemento universale, involontario-necessario, imperturbabile, per l'"aorgico" nel linguaggio di Holderlin, che circonda l'uomo e anzi lo abita, questo amore non può avere pace. Con quanta più forza l'essere umano avverte il suo carattere e l'alterità dell'altro, più impetuoso e irruente diventa lo sforzo per giungere a una prossimità che si possa avvertire più intensamente. Con un tale ardore il poeta " F. Hiilderlin, Samtliche Werke, cit., voi. III, p. 322.
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ha espresso, nella figura di Iperione, questo anelito, allorché una voce lo chiama dalle profondità del bosco, della terra, del mare chiedendogli: «Perché non mi ami?». L'amore, che prima riposava in un tranquillo senso di unità e perfezione, diventa ora una fiamma struggente. Più non gli basta l'armonia: vuole l'unione. Essere uno però vuol dire far dono di sé. Svaniscono, nella sensazione senza nome dello scorrere l'uno nell'altro, ciò che è proprio e ciò che è estraneo. Ma solo per un attimo! Il sentimento della voluttà non può fondere gli esseri. Essi escono dal suo abbraccio ancora come sono. E ora quel sentimento si volge contro se stesso. Alla tensione massima fa seguito la lacerazione, l'improvviso risveglio come da un sogno, lo spavento per l'orribile baratro che separa l'uno dall'altra uomo e natura. Si è raffreddato il sentimento della più beata unità e nulla resta se non profondo malumore e avversione. Il solitario ora si tira indietro con la stessa veemenza con la quale prima si era gettato al seno della natura per sciogliere al fuoco dell'amore tutti i contrasti. Tanto fiducioso prima era stato nel perseguire l'intimità e l'unione, tanto ostinato è ora nel ritrarsi nell'estraneità, spingendo il contrasto nel suo essere fino all'estremo. «L'organico - parola con la quale l'uomo, nella terminologia holderliniana, si distingue dalla natura "aorgica" - si trasferisce nell'estremo dell'attività autonoma, nell'arte e nella riflessione»: dal contrasto armonico nasce un dissidio incomponibile. Si acutizza di pari passo per l'uomo il suo contrapporsi alla natura, che ora «si trasferisce nell'estremo dell'aorgico, in ciò che è incomprensibile, non percepibile, illimitato». 25 Anche divenuti nemici, i due termini, correlati sin dall'inizio l'uno all'altro, non possono però realmente dividersi e dimenticarsi. Cosa sarebbe infatti l'uomo, tutta la sua arte e riflessione, senza la natura? Anche nel suo orgoglio essa è presente, nella forma della negazione, e lo minaccia nella misura in cui egli le si contrappone. Il distacco apparente diventa un abbraccio più forte, diventa la lotta di un essere contro l'altro. 25
F. Hiilderlin, Scritti di estetica, cit., p. 86.
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Holderlin chiama ciò «realtà di una lotta suprema», 26 mentre gli opposti, prima, allorché si incontravano armonicamente, erano uniti «in una ideale mescolanza». E ora accade qualcosa di straordinario: il miracolo di tutte quelle relazioni antitetiche i cui termini non si possono lasciare, eppure, proprio per questo, nella lotta spingono all'estremo la loro particolarità. Al grado massimo di estraneità gli estremi si capovolgono. L'essere si trasforma, natura e uomo si scambiano i ruoli: una nuova unità, del tutto diversa dalla precedente, si è realizzata. L'elemento umano è trapassato, con tutto l'essere suo, nella sfera dell'universale e dell'infinito, e con sua sorpresa trova la vita animata e cosciente, che era la sua, nella muta natura. Olianto vi è di più perfetto è reale: l'uomo, per un istante, è divenuto divino. Holderlin ha descritto molte volte e molto chiaramente la scalata a questa cima. Egli mostra come, nella reazione all'universalità della natura, anche l'elemento di individualità dell'umano «si universalizzi sempre più attivamente e debba strapparsi con forza sempre maggiore dal suo centro», e proprio nella misura in cui questo accade, «l' aorgico - la natura deve, al contrario, sempre di più concentrarsi verso l'estremo del particolare, guadagnare un punto centrale e diventare il particolare». 27 Accade così che l'elemento organico dell'essere umano, che ha accentuato la sua specificità, giunto ad abbracciare, nella lotta con la silente natura, l'elemento superumano, l'aorgico, smarrisce il centro dell'individualità e diventa elemento naturale-universale. E proprio per questo la natura si trasforma per lui dall'estremo dell' aorgico nell'organico e appare il momento dell'incanto, in cui essa sapiente lo guarda, quasi con occhi umani. Essi tuttavia non soltanto scambiano le loro essenze: diventano in modo mirabile la stessa e unica cosa. Divenuta dunque universale, l'individualità dell'uomo trova e riconosce se stessa nella nuova vita individuale alla quale l'universalità della natura sembra essersi risvegliata: nell'essenza 26
Ibid.
27
Ibid.
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universalizzata dell'uomo la natura coglie al tempo stesso il suo essere proprio e originario. È questa la straordinaria trasformazione in cui, per usare le parole di Holderlin, !'«organico divenuto aorgico sembra ritrovare se stesso e ritornare a se stesso, mentre si attiene all'individualità dell' aorgico, e l'oggetto, l'aorgico, sembra a sua volta ritrovare se stesso, mentre nello stesso momento in cui assume individualità trova anche l' organico all'estremo supremo dell'aorgico, e così in questo momento, in questa nascita dell'estrema ostilità sembra realizzarsi la riconciliazione suprema». 28 Con grande serietà, Holderlin assicura che il compimento che a questo punto si presenta, la divinità dell'uomo stesso, è soltanto un'apparenza. «L'individualità di questo momento non è che un prodotto del conflitto, la sua universalità non è che un prodotto del supremo conflitto»29 ed essi, dovendosi vicendevolmente superare, non hanno alcuna durata. Ma ciò che non ha durata - ed è per questo denominato apparenza - è pur esistito. La divinità momentanea del soggetto umano è un fenomeno originario, il cui significato potrà essere rettamente compreso solo allorché lo riconosceremo come il fenomeno originario della religione cultuale. Se quell'istante fosse in realtà soltanto un'apparenza, come potrebbe avere da esso origine ciò che Holderlin chiama il sentimento più alto cui l'uomo possa accedere? Poiché, quando l'apparenza meravigliosa dopo breve tempo svanisce, la situazione precedente non ritorna immutata. Natura e uomo, universale e particolare, aorgico e organico riprendono sì il posto di prima e di nuovo si schierano l'uno di fronte all'altro: ma è chiaro che l'uomo è diventato un altro. Lo scambio d'essenza, la trasformazione nell'elemento naturale, per quanto poco siano potuti durare, lo hanno reso più lungimirante e magnanimo; nel suo essere, malgrado l'individualità, è rimasto qualcosa dell'universalità e infinità, dell'imperturbabilità e calma della " F. Holderlin, Scritti di estetica, cit., pp. 86-87. 29
lvi, p. 87.
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natura; e anche la natura, allo stesso modo, si è trasformata nei suoi confronti: la quieta grandezza di cui essa lo circonda gli parla sapiente e piena d'anima, e gli elementi inconsci e involontari del suo esistere sono come toccati da un soffio di vita individuale. E ora, se gli opposti passati attraverso il fuoco sono nuovamente in sintonia, ecco il miracolo di quell'armonia che Holderlin reputa la più alta. Q!iesto sentimento è forse uno dei più alti che sia dato provare quando i due opposti si incontrano: da una parte l'uomo universalizzato, spiritualmente vivo, reso puramente aorgico in modo artificiale, e dall'altra la natura ben formata. Q!iesto è forse uno dei sentimenti più sublimi che l'uomo possa esperire, poiché l'armonia attuale gli ricorda il precedente rapporto, puro e inverso, ed egli sente se stesso e la natura duplicemente, e la loro unione è più infinita. 30
VII Ciò che di più alto l'uomo può dunque raggiungere con il dispiegarsi e l'elevarsi del suo essere è un'unità in cui rimane desta la coscienza della differenza. L'istante in cui la tensione degli opposti uomo e mondo, il cui sfiorarsi armonico è perfezione e presenza divina, sembra risolversi in un'unità assoluta, non è che un passaggio, e deve quanto prima svanire di nuovo per offrire all'uomo il compimento più autentico e più bello; «e in virtù della sua morte tale momento concilia e unifica meglio di quanto facesse in vita quegli estremi in lotta». 31 Se l'istante durasse più a lungo non potrebbe che provocare l'annientamento, poiché sarebbe un oltraggio nei confronti dell'essere e una follia da parte dell'umanità, che pretenderebbe di abbassare la divinità che domina universalmente a ciò che accade una sola volta, e di inchiodarla al singolo. Bisogna che l'istan]O
/bid
" lvi, p. 89.
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te irripetibile muoia, «perché altrimenti l'universale si perderebbe nell'individuo e la vita di un mondo svanirebbe in una singolarità». 32 A tal punto l'uomo può dunque avvicinarsi a ciò che è straordinario! Egli non soltanto può azzardarsi ad attraversare senza parole il chiarore balenante dell'unione, e trovar così pace in un'interiorità che è «più universale, più contenuta, più distintiva, più chiara», 33 ma può anche azzardarsi a trattenere l'inaudito e addirittura a essere dio. Ma solo per precipitare negli abissi dalle altezze celesti. Che questa possibilità dell'uomo non fosse una vuota illusione, Holderlin lo capì dalla sua propria esperienza, e per spiegarsela, insieme al pericolo a essa connesso, usò la figura di Empedocle. Qyanto prossimo e terribile egli avvertisse il pericolo è testimoniato dalle liriche tarde. Qyesta possibilità è radicata proprio nell'essenza dell'uomo: a recarla in sé è l'elemento poetico a cui tale essenza può elevarsi. Essere nato poeta altro non significa per Holderlin che possedere un'essenza in cui l'elemento spirituale si avvicini a tal punto a quello naturale, e il naturale allo spirituale, che il loro vicendevole rapporto sia già in origine un preludio alla grande e rischiosa trasformazione. È quanto spiega a proposito del suo Empedocle: Tutto in lui sembra testimoniare che era nato per essere poeta. Egli sembra possedere già nella sua più attiva natura soggettiva quella rara inclinazione all'universalità che in altre circostanze, o qualora si comprenda e si eviti la loro eccessiva influenza, diventa quella serena contemplazione, quella completezza e assoluta determinatezza della coscienza con cui il poeta guarda alla totalità; analogamente nella sua natura oggettiva, nella sua passività, sembra essere presente quel felice dono che, sia pur nell'assenza di un intenzionale e consapevole ordinare, pensare e plasmare, ugualmente tende all'ordine, al pensiero e alla creazione, quella plasmabilità dei sensi e dell'animo che con rapidità e agilità assume
12
Ibid
)) lvi, p. 87.
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vivamente tutto questo nella sua totalità e spinge l'attività artistica più verso la parola che verso l' azione.34
Come questa disposizione, nel caso di Empedocle, dovesse oltrepassare i limiti e andare incontro a un tragico destino, Holderlin lo spiegherà in seguito. E noi vediamo che la tensione verso la vetta sublime, dove l'uomo corre il rischio di penetrare nella divinità, è inscritta proprio nella natura umana: l'ammonimento, tante volte ripetuto dagli antichi Greci, di non tentare di raggiungere la grandezza divina, non suona più così esagerato. Su questa stessa via, ma evitando il pericolo, il poeta incontra le Muse. Innocenti è necessario siano il suo essere e il suo fare. A proposito di questa esigenza, Holderlin sa tuttavia molto bene che l'irruzione nel mondo divino, che tanto facilmente può trasformarsi in un sacrilegio, è la premessa della grande quiete e della purezza. La via alla santa sobrietà conduce su quella vetta ove dio e uomo si trasformano contemporaneamente l'uno nell'altro. L'elemento superumano, anche solo come fuggevole istante, è necessario a che l'umano possa essere umano, e cioè sappia riconoscere con spirito accorto la grandezza e la divinità dell'essere, e a tale grandezza e divinità sappia rispondere con la forma vivente della propria vita: questo è l'insegnamento che tutti i veri grandi ci offrono, ma nessuno in modo più chiaro di Holderlin. Qyi si rivela l'origine della religione, qui il suo significato infinito per l'esistenza dell'uomo, che deve a essa tutte le sue creazioni. Il poeta legittima la sua esperienza con il miracolo che ne scaturisce: la nascita della forma vivente. Della grandezza e della sublimità di cui è capace la forza poetica dell'uomo, della divinizzazione, che è più che un istante fuggevole e un mero passaggio, la vita umana da millenni testimonia attraverso una creazione in cui immediatamente si manifesta la trasformazione dell'essere. Si tratta del culto e di quel che inseparabilmente lo accompagna, il mito. 34
lvi, pp. 88-89.
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VIII Stabilire in quale rapporto stiano le forme della pratica cultuale con le forme della fede, se sia la rappresentazione mitica a dare origine all'atto di culto o piuttosto, al contrario, se quella dipenda da questo e lo abbia accompagnato come sua interpretazione e legittimazione, è un vecchio problema. O!ieste posizioni sono entrambe false. Non c'è culto senza mito; ciò che si pretende di far valere in cambio non è che una trovata arbitraria con la quale si gira a vuoto. Del pari non c'è mito originario che non abbia nel culto il suo corrispondente. Entrambe sono, ciascuna a suo modo, forme di manifestazione di quello stesso processo che ha luogo tra finito e infinito, tra uomo e dio. Ed è proprio questo il processo che Holderlin descrive. Il mito porta più vicino all'uomo l'infinito, che non perde la sua veneranda grandezza, ma si trasforma, mostra all'uomo un volto umano, gli parla con un linguaggio più umano. Come ciò sia divenuto possibile, non è dal mito che lo sappiamo. Le teorie razionalistiche, con le quali la scienza ama fare di ciò che desta la massima meraviglia la cosa più abituale, si limitano a sfiorare la peculiarità del fenomeno. Legato e congiunto al mito, il culto tuttavia ce ne lascia presagire qualcosa, pur senza sopprimere completamente la distanza tra l'eterno e l'umano. L'eternità rimane nella sua grandezza, l'uomo, invece, si trasforma: le si presenta con un aspetto simile a quello divino e le parla nella lingua degli dèi. In un unico atto, che ora incomincia a svelarsi a noi, si congiungono l'umanizzazione del divino nel mito e la divinizzazione dell'umano nel culto. L'affermazione secondo cui il culto ha il significato di una divinizzazione dell'uomo può sulle prime suonare strana. Non è forse l'adorazione l'atto che, più innalza la divinità, più costituisce la prova della distanza e piccolezza dell'uomo? Stando però a quel che risponde la scienza della religione contemporanea, le forme del culto non sarebbero state altro, fin dagli albori, che azioni interessate: un dare per riceverne un contraccambio, un prendere per avere parte alla forza del più forte, un agire per
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assicurarsi risultati vincenti, e dietro tutto questo la volontà umana di soddisfare, mediante una costrizione magica, tutto quanto essa ha desiderato. Il culto sarebbe dunque soltanto una forma di universale conformità a fini, e la disposizione d'animo dalla quale esso nasce e il fine al quale esso tende non sarebbero in nulla diversi dalle disposizioni d'animo e dai fini della vita pratica. All'uomo moderno, orientato verso la tecnica, ciò può apparire ovvio. Egli però dimentica a questo proposito che ogni culto ha i suoi tempi e che questo tempo è la festa. Già solo la disposizione alla festa contraddice il giudizio materialistico: testimonia di ciò che è straordinario. La festa ha sempre il significato del ritorno di un'età del mondo grazie alla quale sono di nuovo presenti gli aspetti più antichi, venerandi e gloriosi: un ritorno dell'età dell'oro, quando gli antenati trattavano familiarmente dèi e spiriti. Il senso dell'esaltazione festiva consiste proprio nel fatto che sempre, dove c'era una vera festa, essa è diversa da ogni altra cosa seria e da ogni altra gioia. Per questo motivo lo stile delle forme festive del culto autentico, volte alla grandiosità, non può appartenere alla sfera dei fini pratici. Esso è testimone di quella sacra pienezza, di quella estasiata genialità dell'anima cui appartiene ciò che è inconsueto, originario ed eterno, ciò che è divino. L'uomo ha varcato una soglia elevata: l'età del mondo che è ritornata lo ha tratto verso l'alto. L'infinito gli è prossimo e gli si offre in modo umano. Sono gli inni a testimoniare di questa meravigliosa presenza. Basta uno dei poeti più tardi come l'alessandrino Callimaco a strapparci la commozione e farci partecipare a ciò che le antiche generazioni, che ancora vissero con gli dèi, hanno tenuto nascosto. Anche il donare, in quanto alle forme originarie del culto è connesso un donare, si comprende a partire dalla pienezza del tempo. Non ci dovremmo lasciar tanto facilmente convincere del fatto che ai fondatori e legislatori del tempo antico, nel loro costante rapporto con l'infinito, stessero soprattutto a cuore scopi di calcolo commerciale, che non godono di particolare aeprezzamento neppure nei vicendevoli scambi fra gli uomini. E invece proprio il no-
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stro cuore a istruirci quando, secondo l'antica usanza, facciamo regali in occasione delle festività, poiché non si regala per guadagnare qualcosa - nemmeno affinché chi riceve il dono ne abbia, poniamo, qualche buon augurio per il futuro - bensì perché qualcosa è realmente guadagnato, poiché il cuore è ricco e lo spirito è elevato. Il razionalismo moderno ha ritenuto suo compito cancellare le forme fondamentali del comportamento umano e sostituire la vendita al dono, il lucro all'onore, la magia alla religione. Esso può perfino richiamarsi a testimonianze relativamente antiche: ma il famoso adagio del do ut des, dovunque e ogni volta che lo incontriamo, non può che tradire il raffreddarsi del sentimento e la povertà dei tempi. La presenza del sublime è comunque soltanto una faccia dell'evento festivo. L'altra è che l'uomo lo tocca con mano. Egli non si fa da parte intimidito o atterrito, come per un fulmine o un lampo, che pure testimoniano del sublime. Infatti ora, nel tempo adempiuto, il sublime non è più soltanto potenza e grandezza, sola e inavvicinabile: il sublime viene come ospite, lascia che gli si offrano doni, che lo si accolga. Ma questo significa che anche l'uomo si è trasformato: la sua natura si è, per così dire, innalzata d'un balzo sul piano del divino, ed egli, per quanto è umanamente possibile, gli si è assimilato. Rivolgergli la parola sarà il passo successivo. Anche della preghiera si è potuto affermare che abbia le sue radici nella magia, come se preghiera e formula magica non appartenessero a due modi di pensare differenti, anzi, contrari. Certo, quella che è stata originariamente una preghiera può, nel corso del tempo, irrigidirsi in una formula e venir compresa ormai soltanto come un modo di dire efficace. E non c'è neppure da stupirsi se un'antica formula magica, per via del suo tono solenne, si intreccia a una preghiera. Qyesto fatto non sopprime la differenza sostanziale, e persiste come esempio di moderna superstizione la convinzione che l'una sia potuta nascere dall'altra. Che la preghiera dovesse avere un'origine indiscutibilmente più recente non è nient'altro che un pregiu-
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dizio della mentalità razionale e meccanicistica, alla quale il pensiero magico appare più comprensibile e naturale. La teoria dell'origine magica non si affaccerebbe qui in modo tanto disinvolto, se non partisse dal presupposto che la preghiera sia, per sua natura, una supplica, e non invece un saluto e una lode. Essa sarebbe stata dunque da sempre più una figlia della necessità che dell'ora festiva e della vicinanza degli dèi. Come sarebbero potute nascere le dimensioni della festa e lo stile alto della preghiera se non in occasione dell'estasiante presenza del divino che trae a sé la comunità degli uomini e risveglia in loro la lingua sublime? Se seguiamo questo pensiero, appare allora giustificata anche la constatazione che l'istanza più nobile della preghiera, in ogni tempo, non è l'esternazione di un desiderio, bensì il contatto e il legame con l'essenza divina. La preghiera, nel suo fondamento ultimo, è un rivolgere la parola. Qyale audacia, però, rivolgersi apertamente alla divinità presente! È qui che si rivela l'uomo trasformato ed elevato: la sua nobiltà è provata dalla grandiosità del linguaggio. L'uomo a colloquio con la divinità si è elevato al di sopra di se stesso e respira aria divina. Una forma ongmaria dell'operare umano in occasione del grande incontro è l'atto, mai del tutto abbandonato, ma già ben presto divenuto ambiguo, del sacrificio di animali. Esso, se prescindiamo da alcune peculiarità, ha il significato di un dono alla divinità, di un banchetto in sua compagnia, ma al contempo - visto che l'offerta è un prediletto della divinità, a essa essenzialmente congiunto, anzi, in un certo senso è la divinità stessa - di un misterioso incorporarsi la sua sostanza. Qyesti differenti significati del sacrificio di animali, apparentemente contraddittori, hanno dato luogo ad altrettante teorie sulla sua origine. A una considerazione più attenta, però, tutte concordano con la stessa idea originaria dell'essenza del superumano. È il sacro della natura a rivelarsi in ogni specie animale, presente in ogni singolo essere; esso pure, al tempo stesso, proprio per questo in modo eminente si dispiega nell'universale
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come lo spirito che abbraccia ogni nascita e vita, forma, nutre e protegge; come il genio della terra, delle piante, dell'aria e del cielo; come il signore o il padre degli animali che tutti ama e conserva, e pure ogni singolo sacrifica, poiché non può perderne realmente alcuno. Così egli consente all'uomo di uccidere: solo però se ciò accade nella giusta maniera, e cioè con la dovuta attenzione per ciò che nella vita vi è di più sacro. La macellazione diventa allora un banchetto della comunità con questo spirito. Nell'animale egli stesso è presente, ma è anche, al contempo, infinitamente di più. Gli si offrono quelle parti che a epoche illuminate dovevano apparire insignificanti, come se lo si volesse accontentare con cose di nessun valore, mentre per la visione antica proprio in queste risiede la vita e il suo rinnovarsi. Nel banchetto sacrificale si gustava dunque una sostanza sacra e, contemporaneamente, si assimilava la divinità stessa nell' organismo umano. Alle origini, nell'età dell'oro, come racconta il mito greco, prima ancora che stanchezza e necessità avessero fatto dell'esistenza una condizione propriamente umana, dèi e uomini vivevano in un rapporto di confidenza, sedevano a mensa insieme. In occasione di ogni banchetto sacrificale, questa età fa ritorno nella forma della festa. L'uomo accede di nuovo, per un istante, a una posizione più elevata, e sfiora il divino. Ciò che forme adombrate, come il sacrificio di animali, lasciano tuttavia ancora indovinare, lo mostrano con più esatta evidenza le danze e i cori di coloro che partecipano alla festa. Imitano con la veste e il movimento l'animale sacro, ne portano il nome per indicare che sono lui; assomigliano, in questo modo, nella figura e nelle movenze, alla divinità, così come le baccanti assomigliano al loro dio Bacco, con il quale hanno in comune anche il nome, simbolo dell'essenza. E come le danzatrici e cacciatrici dionisiache si rendono simili al dio e con lui si misurano, allo stesso modo i cori si dispongono, secondo un uso antichissimo e diffuso, al saluto del dio del sole, trattengono il suo calore quale elemento affine e muovendosi in cerchio, in un certo senso, insieme alla di-
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vinità, la accompagnano nel suo celeste procedere imitandone il corso dal suo sorgere fino al suo tramontare. Nel comportamento cultuale proprio dell'uomo non appare soltanto l'essere del divino: anche il suo agire e patire - un eterno accadere - diventa, mediante un'azione drammatica, l'evento immediato capace di elevare all'elemento superumano coloro che ne sono gli attori. Non è però necessaria solo la rappresentazione - e cioè l'attualizzazione - di determinati eventi divini per dimostrare che la comunità cultuale è cresciuta nel divino. Misura e tempo delle posizioni e dei loro movimenti sono segni del fatto che l'uomo è entrato in una dimensione più impersonale, più universale, più grave e più santa, in uno spazio più ampio, in un equilibrio delle forme naturali, in un ritmo spontaneo degli elementi. Non v'è qui alcun gioco, alcun "come se" (Als-ob), ma seria realtà. Qyi non sono le forme umane a essere trasferite nel divino, ma accade il contrario: è stato l'uomo a prendere parte all'infinito. Ciò che vi è di più alto si fa presente nell'autotrasformazione dell'uomo. Così, dal lato opposto, il culto incontra il mito, il quale fa apparire il divino in forma umana. Corrispondendosi e rafforzandosi essi sono una sola cosa. Non ci si solleva a una tale altezza senza impegnare l'intera natura umana in un'impresa straordinaria. Essa deve vincere e superare se stessa in un'intima contesa, in una vera lotta per la sopravvivenza con l'elemento sovrumano, deve diventare sovrumana essa stessa per un istante, onde costringere il divino a rivelarsi in tratti umani. Nella danza in cerchio, che trasformava i danzatori nell'elemento solare, l'astro eterno si è rivelato come personalità divina. Il divino non si sarebbe mai offerto all'uomo in una forma a lui familiare, in modo che egli lo potesse conoscere, se l'uomo non fosse stato in grado, incontrandolo, di diventare anch'egli divino. Il culto ci mostra soltanto la trasformazione compiuta: tace la tradizione a proposito della sua origine e delle sue fasi. Ma Holderlin, senza volerlo, svela il mistero. Il processo che egli descrive partendo dall'esperienza sua propria è infatti chiaramente quello stesso a coronamento del quale sta la trasfor-
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mazione cultuale. Anche qui il movimento può essersi prodotto soltanto dall'interiorità del soggetto umano con l'obiettiva realtà dell'elemento superumano e solo con una sproporzione, con una lotta, con uno scambio di essenze può avere causato lo straordinario istante dell'unità, la realizzazione del divino nell'uomo stesso. Per un istante, l'uomo è divenuto oggettivo. Il particolare è tramontato nell'universale-divino e proprio in grazia di questo l'universale-divino è divenuto immediatamente presente come qualcosa di particolare e di simile all'uomo. È questa la meraviglia della danza. Anche nelle forme non legate al culto essa è sempre la più naturale espressione della perfetta unità dell'uomo con il suo piccolo mondo, il superamento della differenza tra soggetto e oggetto in un modo di essere semidivino. I danzatori cultuali si sono tuttavia a tal punto trasformati nella superumana grandezza delle potenze del mondo e hanno scambiato con esse la loro natura, che il divino è divenuto loro del tutto proprio, ed essi più non si muovono secondo l'umano arbitrio, ma al modo grande e libero degli dèi.
IX Le feste cultuali sono i cardini dell'anno. La luce del mondo primigenio e dell'età degli dèi, che in esse erompe, certo a sua volta tramonta con loro, ma ancora nel silenzio riluce, come nella notte il cielo stellato. Il divino, che era stato presente immediatamente nell'essenziale congiunzione dell'uomo, resta ancora visibile con un riflesso del suo splendore, dopo che il legame si è sciolto e uomo e natura hanno fatto ritorno a se stessi. Il mondo, attraverso il quale passarono un tempo gli dèi, non può perdere del tutto le loro tracce: deve darne testimonianza tutto ciò che è e che accade. Il mito resta e si decanta fino alla limpidezza. È certo ben diversa la vitalità e la forza dell'elemento poetico insito nell'uomo, un elemento che antecede ciò che di solito definiamo tale, il poetico in quanto fenomeno originario dell' essere: si tratta dell'affinità essenziale della sfera spirituale con la
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natura, la forza capace della trasformazione suprema, senza che però si perda la coscienza della differenza. Sono questa lucidità nell'ebbrezza, questa calma nella tempesta dell'unione, questa chiarezza degli opposti anche nella meraviglia dell'istante che li dissolve, a preparare la strada al mito, e cioè alla figura (Gesta!!) meravigliosa dell'avvicinamento, non dell'umano verso il divino, ma del divino verso l'umano, attraverso cui esso si rende conoscibile. Nessun popolo ha accolto questa rivelazione nella misura, con la chiarezza e lo splendore dei Greci. Presso nessun popolo l'immagine speculare del culto è comparsa così vivace, plastica e molteplice come tra loro. Per questo hanno potuto dare alla luce, anche per il saluto e la venerazione del divino, le opere più eccelse. Severamente onorare egli vuole ora gli dèi beati, tutto nel reale e nel vero annunzi la loro lode, niente guardi la luce, se non piace ai superni, dinnanzi all'etere vana ricerca sconviene. Perciò a stare degnamente in presenza dei celesti con magnifici ordini i popoli si dispongono emulandosi, innalzano i bei templi, e le nobili salde città sulle rive vengono in auge. 35
X Alla meraviglia del grandioso mondo del culto e del mito, che sono i veri moventi nella storia dell'umanità, corrisponde la meraviglia del mondo individuale nel suo carattere e nel suo graduale procedere. E anche qui la creazione si pone al suo seguito. Il mondo individuale tuttavia si distingue da quello grande e universale in un punto importante. L'uomo nel culto può credere alla trasformazione suprema e in essa mantenersi, 35
F. Holderlin, Pane e vino, in Opere, cit., p. 104.
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anche soltanto per il breve tratto del momento festivo: la festa, come tempo adempiuto, gli concede lo sconfinato. Egli non è un singolo, egli festeggia nella comunità; e tutto il passato, fino ai primogenitori, ritornata età delle origini, festeggia con lui. Qyi non compare l'individuo, ma l'umanità, l'uomo che segue il suo cammino perché ha vicino il sole. Il passaggio alla sfera divina non è dunque un atto di presunzione, ma lo scoccare di un'ora del mondo che afferra uno e tutti, e va incontro al loro agire con una condiscendenza infinita. La religione cultuale ha il suo incomparabile significato grazie all'autorità e alla condizione di appagamento che competono all'elemento sovraindividuale. Per questo motivo, ciò non può certo venir compreso in tempi che sono in grado di capire l'universale ormai come somma di quanto avviene nel singolo, come se a partire dal singolo l'umano ricevesse la sua più alta consacrazione. L'esperienza parla in modo chiaro a favore del contrario. Solo mediante il culto universale il singolo si eleva alla certezza e alla gloria cui egli, come individuo, non può e non deve aspirare. Qyi, infatti, il divino è umano e l'umano divino, senza l'empietà che abbassa all'individuo l'infinito e l'eterno. Da questa empietà Holderlin mette in guardia quando parla della meravigliosa esperienza dell'uomo singolo, che è analoga al passaggio graduale nel regno del culto e del mito. Qyi, infatti, l'uomo non può pretendere di afferrare e tener ferma come una realtà la suprema trasformazione. Qyesta è per lui soltanto un'apparenza, poiché soltanto di sfuggita gli è concesso di sfiorarla. Altrimenti, essa non può non mostrarsi come inganno e spingere alla distruzione la presunzione ingannata. Se essa però passa come un baleno e fa sì che uomo e mondo dal divino sogno di unità ritornino al loro proprio essere, ecco che, nel suo dileguarsi, la trasformazione suprema inaugura tra i due un'armonia che è più bella e più vera della contesa passionale. È questo ciò che Holderlin intende quando dice che in virtù della sua morte tale momento concilia e unifica meglio di quanto facesse in vita quegli estremi in lotta, da cui si era originato, poiché
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l'unificazione non appare più come qualcosa di individuale e quindi non è troppo interiore, e l'elemento divino non appare più sotto forma sensibile e la felice illusione dell'unificazione svanisce nella misura in cui era un qualcosa di troppo interiore e unico; sicché dei due estremi l'uno, l'organico, arretrando impaurito di fronte al momento fuggente, viene elevato a una universalità più pura, mentre l' aorgico, trapassando in esso, deve diventare per l'organico un oggetto di più serena contemplazione, e l'interiorità del momento trascorso appare ora in modo più universale, più contenuto, più distintivo, più chiaro. 36
«Qyesto è forse uno dei sentimenti più sublimi che l'uomo possa esprimere»37 aveva detto poco prima: l'uomo, nella misura in cui esiste come individuo. E come attraverso il grande processo, in cui riconoscemmo lo sfondo del culto e del mito, vengono alla luce le figure (Gestalten) degli dèi che muovono il mondo, così, da questo compiersi della propria vita - «quando i due opposti si incontrano: da una parte l'uomo universalizzato, spiritualmente vivo, reso puramente aorgico in modo artificiale, e dall'altra la natura ben formata>> 38 - è nato il regno delle forme della poesia, della poesia di Holderlin.
XI Prossimità agli dèi e caduta del grande uomo nato per essere poeta: questo è lo straordinario mistero che avvince i pensieri del poeta dell'Empedocle. Anch'egli stava in prodigiosa vicinanza col divino. Ed era proprio il suo sentimento a rivelargli ciò che minaccia colui che, oltrepassata la misura, non si tenga, con timore e reverenza, a debita distanza da ciò che è divino. Egli stesso ebbe paura del fulmine e delle tenebre con cui gli dèi perseguitano colui che vuole essere loro pari. 36 37
'
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F. Holderlin, Scritti di estetica, cit., p. 87. lvi, p. 86. Ibid.
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Una distanza infinita separa l'essenza degli dèi da quella degli uomini. Nella loro straordinaria vastità e universalità, per la natura dell'uomo non c'è aria respirabile; e neppure per l'interiorità e delicatezza del suo cuore, per la fiamma della sua volontà, per l'inquietudine dei suoi pensieri. Gli dèi, tuttavia, si avvicinano all'uomo toccato dalla poesia perché egli li senta e dia nella sua lingua espressione alla loro infinità: Ché ai celesti è caro posare su un cuore che senta. 39 Sempre abbisognano come eroi di ghirlanda per aver gloria i consacrati elementi del cuore dell'uomo che sente. 40 E inesprimibile sarebbe e solitario nel suo buio invano, quegli che pure assai segni e fiamme di tempesta e marosi ha in sua potenza come pensieri, il Padre sacro, e in niun luogo si ritroverebbe vero fra i viventi, se per il canto la comunità non avesse un cuore. 41 Hanno però della loro immortalità gli dèi assai, e se mancano i celesti di una cosa, è di eroi e di uomini o altrimenti mortali. Ché mentre i beatissimi nulla sentono da sé soli, bisogna pure, se dirlo è lecito, in nome degli dèi che un altro senta partecipando. Ne han bisogno. 42
39
F. Holderlin, L'arcipelago, in Poesie, cit., p. 90.
40
lvi, p. 84.
" F. Holderlin, Alla madre terra, in Poesie, cit., p. 118. 42 Id., Il Reno, in Poesie, cit., p. 145.
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Oliando però l'uomo vuole trascinare nella sua propria vita questo istante divino della vicinanza, quando, nell'ebbrezza del sentimento divino, dimentica la sfera dell'umano e nell'eterno crede di essere a casa, egli allora cade come Fetonte dal carro del sole; l'infinità lo irride, e proprio mentre è ancora convinto di essere nella sovrabbondanza, si ritrova nella desolazione più amara. L'inno così continua: Ma è loro sentenza che la sua casa quegli schianti e quanto ha più caro ingiurii come nemico, e padre e prole seppellisca sotto macerie, se vuol essere come loro e non sopportare la disparità, l'esaltato. 43
L'inno Come il giorno di ftsta ... alla fine accenna appena alla maledizione: Poiché se sono puri i nostri cuori come di pargoli innocenti le mani,
il fulmine del Padre, il puro, non brucia: e nel profondo scosso, dividendo i dolori d'un dio, resta pure saldo l'eterno cuore.
L'abbozzo rimastoci, però, è più chiaro: La sfera che più alta è dell'umana, questa è il Dio [...] ed ecco io dico: sia io avvicinato con l'occhio ai Celesti, essi spingono giù al di sotto dei vivi me, il falso sacerdote, nella tenebra, ché io il canto ammonitore ai docili renda.
43
[bid.
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Se maledizione e annientamento colpiscono la natura umana, essa non recherà più i fiori con cui il divino parla allo spirito dell'uomo: più nulla trova l'impoverito di ciò che poteva cogliere per onorare gli dèi. Erompe così, alla fine dell'abbozzo, improvvisamente, il lamento: Ahimè! Dove prenderò, quando è inverno, i fiori per intrecciare ghirlande ai Celesti? Sarà allora come se del Divino non sapessi più nulla e si fosse separato da me lo spirito della vita; se per i celesti segni d'amore, i fiori nei campi gelati cerco e te non trovo. 44
E da qui nasce quella poesia a se stante che con il titolo Metà della vita esprime l'angoscia tremenda del poeta, ché egli stesso ora potrebbe stare alle soglie di un simile inverno, privo di fiori e di raggi di sole, e senza dèi! Con gialle pere pende e folta di rose selvatiche la campagna sul lago. O cigni soavi ed ebbri di baci tuffate il capo nella sacra sobrietà dell'acqua. Ahimè, dove li prenderò io quando è inverno, i fiori e dove il solatio e il rezzo della terra? Le mura si levano mute
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F. Holderlin, Come il giorno di festa ... , cit., p. 117.
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e fredde, nel vento stridono le banderuole. 45
Holderlin presentì le tenebre. Presagì di essersi troppo avvicinato all'infinito, di aver veduto troppo. Nell' Empedocle egli tracciò il suo proprio destino nelle forme di una titanica figura umana.
XII Nella figura dell'antico Empedocle, del filosofo regale e del profeta-poeta, del naturalista e del taumaturgo, che provò cose tanto grandi da aver la fama, di fronte al popolo, di un dio e, con il balzo nel cratere dell'Etna, lasciò dietro di sé un ricordo immenso, nell'immagine di quest'essere potente Holderlin trovò elevate all'inverosimile le possibilità sue proprie. L'elemento poetico qui non veniva più rivolto soltanto alla solitudine, quasi silenzioso messaggio per anime consonanti. Erano in suo possesso forza e voce sufficienti per passare all'azione. Gli si aprirono un vasto campo e un effetto potente. Un popolo, con le sue necessità consce e inconsce, con tutta la nostalgia della sua sovrabbondante, e pure inappagata, esistenza, era in attesa della sua parola, della sua mano atta a infondergli forma e direzione. E anche qui, in questo popolo, Holderlin vide un'immagine speculare della vita universale in cui era anch'egli inserito. Tra questi concittadini di Empedocle gli parve che il problema del suo tempo si ripresentasse in maggior misura e con un tale incremento di opposizioni, da dover immediatamente giungere a un riequilibrio o a una catastrofe: la lacerazione dell'esistenza che, come dissidio senza Dio, lo spaventò, l'allontanamento dell'uomo da se stesso e dall'ordine eterno dell'essere, l' arbitrio dispotico dell'inventare, del costruire, dell'amministrare; e la stolta mancanza di rispetto per la sacra natura. Il contrasto 45
F. Hiilderlin, Metà della vita, in Poesie, cit., p. 175.
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tra uomo e natura, che tanto dà da pensare a Holderlin, ha assunto qui la sua forma più rischiosa. L'armonia originaria, che così facilmente può portare a un eccesso di interiorità, in cui l'uomo dimentica completamente se stesso e si aliena, si è qui trasformata in una violenta inimicizia che si ripercuote in modo tanto più distruttivo, quanto meno è consapevole di se stessa. L'uomo, nel suo spirito inventivo, intraprendente, di fondatore «che tutto tenta», non si sente più nemico della natura. La sua presunzione lo spinge a credersi tanto superiore da ignorarla. I concetti che egli ne ha e che, nella vita materiale, lo conducono di successo in successo, colmano tutto il suo pensiero. L'essere della natura, la sua vicinanza nell'estasi, la sua profonda divinità non lo toccano. «Una libera audacia di spirito» definisce Holderlin questo atteggiamento, «sempre più contrapposto all'ignoto, a ciò che è estraneo alla coscienza e all'azione dell'uomo [...] questo negativo modo di ragionare, di non concepire l'ignoto, tanto naturale in un popolo protervo». 46 Non concepire l'ignoto, così Holderlin si esprime, significa che la natura tace, e a ciò corrisponde, da parte dell'uomo, quella mancanza di misura che è propria del calcolare, del sistematizzare, del rivoluzionare: ambiti in cui l'intelletto fa valere la sua volontà di potenza. Oliesta autocertezza, questa indifferenza verso il vivente porta tuttavia abbastanza chiaramente in sé il segno della debolezza. In un punto successivo, Holderlin osserva come la mancanza di rispetto, la libera audacia di spirito nei confronti della natura abbia sempre il suo rovescio «nell'estremo asservimento agli influssi della natura». 47 L'epoca sua gli diede in proposito prove esaurienti. E anche noi, che molto in là siamo andati in questo senso, potremmo esser minacciati in modo ancora più forte dalla stessa esperienza. Chi si rifiuta di riconoscere il divino nella natura, il suo sussistere calmo e sacro, chi, in una vana sicurezza di sé, si pone al di 46
F. Holderlin, Scritti di estetica, cit., p. 91.
47
I vi, p. 92.
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sopra del suo ordine eterno, questi viene sorpreso da una costrizione demoniaca che lo rende schiavo proprio mentre si credeva padrone. Possiamo essere spregiudicati quanto vogliamo di fronte al divino, la nostra esistenza di lui non si libera: non ci minaccia più, ma si trasforma e ritorna a noi in forma demoniaca, ci rende ciechi e schiavi privi di volontà. Ciò vale nel senso più ampio tanto per la vita materiale quanto per la vita morale. Il presunto padrone della natura diventa improvvisamente un cieco servo e strumento del suo demonismo. Presso gli Agrigentini di Empedocle l'influsso della natura, come Holderlin osserva, doveva essere tanto più potente, poiché essi vivevano nella calda e ricca sovrabbondanza del cielo del Sud. Se ora però la necessità inconsapevole propria di tale epoca è salita al grado supremo, se la contrapposizione di uomo (o di arte, come dice Holderlin) e natura si è talmente acuita che una confusa e sempre più indigente nostalgia esige un qualche compenso, allora è giunto il momento del sacrificio. I tempi lo esigono e cercano senza saperlo, finché riescono ad afferrare una vittima. In una grande personalità ciò che è diviso deve ritrovarsi, ciò che è opposto reciprocamente rispecchiarsi, così che il divino diventi visibile, corporeo, presente - ma solo per un istante! Chi per una volta è salito alla gloria celeste, non può rimanervi a lungo: Deve quando è tempo passare colui attraverso il quale lo spirito ha parlato. 48
Egli, quale vittima, cade, e la sua azione è incommensurabile. Se ne parlerà più avanti. Le stesse parole di Holderlin sul salvatore e sul suo necessario trapasso suonano così: Qyanto più il destino, le opposizioni fra arte e natura erano forti, tanto più tentavano di individualizzarsi, di assumere un punto fermo, un sostegno. Un'epoca siffatta coinvolge profondamente tutti gli individui, 48
F. Holderlin, Siimtliche Werke, cit., voi. III, p. 154.
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esigendo da loro una soluzione, finché ne trova uno in cui il suo bisogno inconscio e la sua segreta tendenza si rappresentano in modo evidente e compiuto; solo da questo momento in poi la soluzione trovata deve trapassare nell'universale. Così in Empedocle si individualizza la sua epoca; e quanto più essa si individualizza in lui e l'enigma appare in lui risolto in modo splendido e reale e visibile, tanto più la sua caduta diventa necessaria. 49
Oliesto è il destino di Empedocle. «Sembra testimoniare che era nato per essere poeta»50 dice Holderlin, e noi sappiamo che cosa ciò significasse per lui. Nel poeta le opposizioni dell'esistenza sono così avvicinate le une alle altre che è come se volessero scambiarsi i ruoli. La coscienza e il pensiero in lui si sforzano di allontanarsi dal centro individuale per espandersi nell'elemento naturale, mentre la sua natura inconscia - e con essa la vita della natura cosmica sembra sul punto di spiritualizzarsi. Egli vive, così, in un mondo in cui l'essere è superiore, dove gli elementi e le forze sembrano risvegliarsi al senso e al linguaggio, mentre i pensieri, quasi scevri di ogni intenzione, sedimentano e si accumulano, simili a concrezioni rocciose. Oliesto straordinario, reciproco afferrarsi degli opposti fa dell'esistenza poetica una similitudine della suprema unione, in cui il divino è immediata realtà. In un tempo, in un popolo, in un clima in cui la contrapposizione si esasperò fino all'estremo, anche il moto verso l'unità doveva comparire, nella grande anima del poeta, tanto più ardente, così che l'innocente preludio si spingesse fino a toccare i pericolosi confini dell'assoluta realizzazione. Lo spirito artistico, vivace e versatile del suo popolo doveva certo già riprodursi in lui in modo più aorgico, più audace, più illimitato e ingegnoso, come d'altra parte il clima ardente e la natura rigogliosa della Sicilia dovevano esprimersi in lui e per lui in modo più sensibile e più
49
F. Holderlin, Scritti di estetica, cit., p. 90.
50
lvi, p. 88.
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eloquente; e stretto così tra i due lati, l'uno, la forza più attiva del suo essere, finiva sempre per rafforzare l'altro come reazione, mentre lo spirito artistico doveva nutrirsi della parte sensibile del suo animo, imprimendole un continuo impulso. 51
Accade così che gli opposti, che lacerano l'esistenza degli altri, in lui, nel poeta, non solo si avvicinano l'uno all'altro, ma cercano di diventare una cosa sola, in un modo speciale, trapassando ciascuna delle due parti nel ruolo dell'altra, e ritrovando così, nell'altra, se stessa. L'elemento soggettivo e individuale proprio della sua essenza, cui sono connessi il pensiero cosciente e la capacità di dar forma e ordine, diventano, nella competizione con le forze naturali e universali, naturali e universali essi stessi. [Egli], per dirla con il maggior vigore possibile, maggiormente distingue, pensa, confronta, crea, organizza ed è organizzato, nel momento in cui è meno presente a sé e nella misura in cui è meno cosciente di sé, [mentre egli] è meno riflesso nel suo operare [... ] più aorgico e disorganico nel momento in cui è più presente a sé [...] in lui e per lui ciò che si esprime diventa inesprimibile o non può essere espresso [...] ciò che è particolare e più cosciente assume la forma dell'inconsapevole e dell'universale [...] e così queste due opposizioni divengono in lui unità, poiché in lui esse invertono la loro forma distintiva e si unificano nella misura in cui sono diverse nel sentimento originario. 52
Oliesto essere unico, nella cui esistenza trovano a tal punto equilibrio spirito e natura, non poteva stare in rapporto alla grande natura del Tutto nello stesso modo dei suoi contemporanei. Mentre questi, nella loro umana presunzione, non erano che degli indifferenti senza pensieri, e proprio per questo, senza avvedersene, erano asserviti, egli doveva «tentare di abbracciare la natura soverchiante, di comprenderla sino in fondo, SI
Ivi, p. 90.
52
Ivi, pp. 87-88.
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divenendone consapevole, come poteva essere consapevole e certo di se stesso, e lottare per divenire a essa identico». 53 E fu questa lotta la prova più convincente della sua capacità di trasformarsi. Anche il suo spirito, per penetrare la natura, doveva farsi elemento. [Doveva] assumere una forma aorgica nel senso più alto, staccarsi da se stesso e dal suo punto centrale, penetrare sempre più il suo oggetto in modo così eccessivo da perdersi in esso come in un abisso, laddove viceversa l'intiera vita dell'oggetto doveva impadronirsi dell'animo abbandonato, divenuto solo più infinitamente ricettivo in virtù dell'esuberante attività dello spirito, e in esso divenire individualità [...] ed esso appariva ora in lui sotto forma soggettiva, così come egli aveva preso la forma oggettiva dell'oggetto. Lo spirito si poneva come l'universale e l'ignoto, l'oggetto come il particolare. In tal modo l'antagonismo tra l'arte, il pensiero, la capacità ordinatrice propria del carattere creativo dell'uomo, da una parte, e la natura priva di coscienza dall'altra, sembrava risolto, ricondotto a unità negli estremi ultimi, finché questi si scambiavano l'un l'altro la loro forma distintiva. 54
L'uomo, che si rapporta all'essere del mondo così che questo si chini verso di lui in modo umano e con lui parli, mentre egli va incontro a esso con il fare grandioso del superuomo: quest'uomo, a cui tanto è concesso di quanto culto e mito offrono alla comunità, raggiunge, con la sua esistenza, il divino. Così l'uomo straordinario stava davanti agli Agrigentini. A questo punto la rappresentazione di Holderlin diventa inno: Fu questo l'incanto con cui Empedocle apparve nel suo universo. La natura, che con il suo potere e il suo fascino dominava i suoi spregiudicati contemporanei tanto più velocemente quanto maggiore era l'ingratitudine con cui si estraniavano da essa, apparve con tutti i suoi echi nello spirito e nella parola di quest'uomo in modo così profondo, caloroso e
53
F. Hiilderlin, Scritti di estetica, cit., p. 91.
54
lbid.
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personale, come se il suo cuore fosse quello della natura e lo spirito degli elementi abitasse in forma umana tra i mortali. A questo si deve la sua grazia, la sua terribilità, la sua divinità. Tutti gli animi scossi dal moto del destino, tutti gli spiriti vaganti irrequieti e senza guida nella notte enigmatica del tempo, accorsero a lui; e quanto più umanamente si univa a loro, quanto più si avvicinava al loro essere, quanto più, con questo spirito, faceva sua la loro causa - e questa, dopo essere apparsa nella forma divina a lui propria, veniva nuovamente restituita loro nel modo a esso più appropriato-, tanto più egli era l'uomo da venerare. 55
Se questa intonazione sublime, questa elevazione sostanziale dello spirito poetico avessero potuto trovare un'espressione, con la parola e con l'azione, nella sua propria sfera vitale, ne sarebbe derivato sul Tutto un effetto calmo e universalmente formativo. 56 La mancanza di quiete propria dell'epoca afferrò, tuttavia, anche lui. L'entusiasmo e l'amore del suo popolo lo allettarono a un'assoluta grandezza e potenza, e ciecamente lo trascinarono oltre quei confini imposti all'uomo, ancorché nella posizione più elevata. La volontà di impadronirsi dell'intero popolo, di essere presente in tutto con la forza del suo carattere, di afferrare l'umano non soltanto con sentimento e coscienza, ma con l'azione, lo gettarono, fuori dalla via naturale, in quella del rischio infinito, strada che doveva condurlo a un'altezza ingannevole e, improvvisamente, farlo precipitare nell'abisso. Così come era divenuto profondo conoscitore della natura, essendosi il suo spirito trasformato nella sua inconscia vastità e universalità, allo stesso modo egli doveva, per dominare completamente la moltitudine del popolo, accogliere in se stesso le forze elementari proprie della sua essenza, prive di pensiero e universali. Lo spirito, capace di infondere forma e ordine nella calma del suo luogo naturale, doveva divenire «uno spirito riformatore generalizzato» e, in certo qual modo, cieco e incosciente. 55
lvi, pp. 91-92.
56
Cfr. ivi, pp. 88-89.
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Con il suo spirito doveva cercare di impadronirsi dell'elemento umano e di tutti i suoi impulsi e le sue inclinazioni, della sua anima, di tutto ciò che in esso è incomprensibile, incosciente, involontario, e proprio per questo la sua volontà, la sua coscienza, il suo spirito, dovevano perdersi e diventare oggettivi nella misura in cui egli oltrepassava l'abituale confine umano del sapere e dell'agire. 57
Sembrava così dipanato il destino del mondo umano e divenutone reale il compimento. Natura e spirito sembravano riconciliati in duplice maniera e nel divino riuniti. Le potenze eterne erano tornate tra gli uomini in modo umano ed erano divenute familiari alla loro esistenza. Esse parlavano dalla bocca del grande maestro, la cui stessa essenza pareva immersa nella loro infinità. E questo maestro teneva al contempo racchiuso in sé l'intero essere del vasto popolo. Era lo spirito di questo popolo a parlare dall'universalità ed egli stesso rispondeva con il peso e la forza della sua essenza elementare, al punto che ogni differenza e opposizione sembrava risolta e conservata in un'unica figura. Appare però chiaro che il destino è più potente: esso lo trascina via, poiché esige una vittima. La fede che il popolo ripone in lui, la sua autorità sulle anime, gli si mutano in sventura. Ora non può più restare immobile. Deve passare con superbia all'azione, espugnare con la forza il divino che gli si è tanto avvicinato, e farsi nella propria persona rivelazione dell'infinito. Infatti la moltitudine del popolo, con la quale egli è divenuto, in certo qual modo, una cosa sola, esercita in lui la sua volontà. Egli deve agire in base all'intenzione della folla, come se non fosse egli stesso. Il suo cuore lo mette segretamente in guardia dalla presunzione e gli predice la disfatta. Essi, i suoi concittadini, nulla però presagiscono a proposito dei limiti di un essere: pronunciano la parola "Dio" e ne provano timore, ma non hanno il sentimento della differenza infinita. Essi vogliono vedere e toccare con mano il fatto che spirito e natura 57
lvi, pp. 92-93.
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non sono più gli opposti, che si sono riuniti e riconciliati in un essere unico, nel loro maestro. E pretendono allora una prova, vogliono il miracolo. «Egli compie la sua opera con amore e riluttanza, fornendo le sue prove, e allora essi credono che tutto sia compiuto.»58 L'apparente soddisfazione fu, in verità, la catastrofe. L'inaudito riuscì, ma la riuscita si rivoltò contro colui che l'aveva attuata. Al grado estremo dell'avvicinamento, nell'assimilazione tentata attraverso l'azione, l'apparenza dell'unità doveva improvvisamente lacerarsi. Dapprima l'apparenza dell'unità con la moltitudine del popolo. Essi credono ora che tutto sia compiuto ed è questo ad aprire loro gli occhi sulla propria sorte. Mentre cadono con credulità in suo potere, l'orrore per la loro estraneità lo afferra. «Cade allora l'illusione in cui egli viveva credendosi tutt'uno con loro. Egli si ritrae, e anch'essi si raffreddano con lui.»59 E a questa disillusione fa seguito quella assai più temibile: la grande natura respinge con scherno l' esaltato, colui che credeva di prender parte alla sua vita divina. È spinto a viva forza fino alla soglia dove le fiamme dell'eterno lo hanno inghiottito. Ciò deve annientarlo come individuo, poiché è come individuo che ha osato avvicinarsi a quei confini in cui cessano di valere le leggi dell'uomo e incominciano quelle del divino. Per questo motivo non c'è più dimora per lui. Ecco ciò che sta a fondamento dalla tragedia di Empedocle. Noi vediamo colui che fu toccato dalla sacra natura e dagli dèi, nell'amore dei quali egli visse; vediamo l'abbandonato; vediamo colui che si dispera in una solitudine infinita; colui che, nella risoluzione di darsi la morte, si riconcilia con i suoi dèi e, sereno come può esserlo il loro prediletto, con tutti gli incanti della loro vicinanza, precipita nelle fiamme. La sua vita, però, questo corso straordinario con il suo trionfo e la sua caduta, non fu vana. La sua eredità per tutto il popolo è una pace san58
lvi, p. 93.
59
lbid.
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ta, una nuova giovinezza e armonia con la natura, una nuova amicizia con gli dèi. Egli, infatti, è caduto come una vittima sacrificale, e il destino del suo tempo esigeva una vittima in cui l'uomo intiero diviene realmente e visibilmente ciò in cui sembra risolversi il destino del suo tempo, in cui gli estremi sembrano riconciliarsi realmente e visibilmente in una unità, e però sono troppo intimamente unificati, e l'individuo perisce e deve perire in un'azione ideale perché in lui si è prematuramente mostrata l'unificazione sensibile, sorta dalla necessità e dal dissidio ed essa ha risolto il problema del destino, che a sua volta però non può mai risolversi in modo visibile e individuale, poiché altrimenti[...] la vita di un mondo svanirebbe in una singolarità. 60
Come il grande momento in cui l'uomo nato poeta scambia, in certo qual modo, il suo essere con Dio e natura, e la sua propria esistenza passa attraverso il fuoco dell'eterno, come questo momento dell'unione non possa essere altro che un passaggio e debba subito trascorrere, «ma in questo modo e in virtù della sua morte» come dice Holderlin «concilia e unifica meglio di quanto facesse in vita quegli estremi in lotta, da cui si era originato», 61 così Empedocle, per il quale il divino non fu solo sogno, ma si è fatto realtà, con la sua caduta e la sua riconciliazione, diffonde su tutto il popolo la più grande benedizione. Ora che l'impossibile è stato espiato con la morte, a tutti si trasmette, da ciò che egli è stato, uno spirito di unità e perfezione. Essi avvertono una nuova vita, poiché è in lui che «il loro bisogno inconscio e la loro segreta tendenza si rappresentano in modo evidente e compiuto», e solo da questo momento in poi «la soluzione trovata deve trapassare nell'universale». 62
60
F. Holderlin, Scritti di eJtetica, cit., p. 89.
61
lvi, p. 87.
62
lvi, p. 90.
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XIII Le parole di benedizione lasciate in eredità alla fine della tragedia di Empedocle rendono comprensibile questo effetto. La poesia, però, che è accessibile a tutti, può parlare per sé. Dobbiamo solo ancora prestare attenzione ai pensieri di Holderlin sull'essenza della tragedia e al problema del rapporto tra la sua poesia e i modelli greci. Ciò che l'opera d'arte tragica deve esporre è, secondo Holderlin, il disperato eppure inevitabile tentativo di risolvere il contrasto tra uomo e natura, umanità e divinità. È da questo contrasto che scaturiscono quei problemi del destino dei quali parla il poeta a proposito di Empedocle: I problemi del destino in mezzo ai quali era cresciuto dovevano trovare in lui una soluzione apparente, e questa risoluzione doveva rivelarsi apparente e temporanea, come più o meno avviene in tutti i personaggi tragici, che nel loro carattere e nelle loro manifestazioni rappresentano, in misura maggiore o minore, tentativi di risolvere i problemi del destino, e tutti si negano nella misura e nel grado in cui non sono universalmente validi, a meno che il loro ruolo, il loro carattere e le loro manifestazioni non si rappresentino già di per sé come un qualcosa di effimero e momentaneo; così colui che apparentemente risolve più compiutamente il destino si rappresenta insieme nel modo più appariscente come vittima soprattutto nella caducità e nel progredire dei suoi tentativi. 63
Una lettera di questo periodo, in cui Holderlin dichiara di aver raggiunto i suoi princìpi poetici in un'appassionata frequentazione delle opere dei Greci, dà persino una definizione della tragedia, che il lettore non può fare a meno di riferire all' Empedocle. I Greci, egli dice, rappresentavano il divino in forma umana, ma sapevano che l'arte poetica
63
lvi, pp. 89-90
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Il poeta e gli antichi dèi
non poteva mai far diventare dèi gli uomini e uomini gli dèi [...] bensì avvicinarli gli uni agli altri. La tragedia lo dimostra per contrarium. Il dio e l'uomo sembrano una unità, e in questo vi è un destino, che suscita tutta la sottomissione e l'orgoglio dell'uomo, lasciando come conseguenza una venerazione per i Celesti da un lato, un animo purificato come umana proprietà dall'altro. 64
La conclusione di questa definizione rimanda alle famose parole di Aristotele sulla "catarsi" attuata dalla tragedia: parole di cui Goethe era notoriamente poco soddisfatto; 65 e delle quali anche la scienza filologica non ha mai potuto pienamente contentarsi. In Holderlin l'effetto catartico viene fuori da sé, del tutto naturalmente, come conclusione finale di una via che, da una perfezione apparente, passando per gli abissi della commozione, conduce alla venerazione dei celesti. È il protagonista, nel quale si compie il destino, a mantenere in cambio «un animo purificato come umana proprietà». Se però l'eroe, nella sua elevazione, caduta, riconciliazione e santificazione, è in certa misura divenuto colui che rappresenta l'umanità, l'effetto dell'animo purificato si trasmette allora alla collettività e, come beneficio per lo spettatore, deve appartenere anche all'essenza dell'opera d'arte tragica. Holderlin non era propenso, come Goethe, a considerare la tragedia soltanto da un punto di vista artistico, ed era in ciò completamente d'accordo con i Greci. Per lui, nella tragedia non si compie un destino umano qualunque, bensì il destino dell' esistenza umana in quanto tale; e il suo finale non costituisce quel «conciliante arrotondamento» che, secondo Goethe, «propriamente si esige da ogni dramma, anzi, da ogni opera poetica in genere», bensì la verità del divino e dell'umano. Egli non poteva dimenticare che la tragedia greca faceva parte del culto degli 64 F. Hiilderlin, Siimtliche Werke und Briefa, a cura di G. Mieth, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1989, voi. Il.
Cfr. J.W. Goethe, Nachlese zu Aristoteles Poetik (1826), in Berliner Ausgabe. Kunsttheoretische Schriften und Obersetzungen, cit., voi. XVIII; trad. it. Rilettura sulla poetica di Aristotele, Appendice a B. Maj, Elementi di metaforologia aristotelica, Corbo, Ferrara 1987.
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dèi e che fin dall'inizio richiedeva una comunità, di cui bisognava tenere conto per determinarne l'essenza. «Si è spesso e volentieri» afferma nella lettera citata «misconosciuto il rigore con il quale i grandi antichi distinguevano i diversi generi della loro poesia, oppure ci si è soffermati soltanto sull'aspetto esteriore di esso, prendendo in genere la loro arte per un piacere ben calcolato, piuttosto che per una santa disposizione, con la quale gli uomini dovevano procedere nelle cose divine». E quanto alla loro arte poetica, egli loda il fatto che essa sia stata «in tutta la sua essenza, nel suo entusiasmo comune alla sua riservatezza e sobrietà, un sereno ufficio divino». L'effetto che la rappresentazione tragica doveva produrre sulla comunità risultava dunque necessariamente dal suo contenuto. Se e quanto egli si sia a questo proposito allontanato dal vero pensiero di Aristotele, è cosa che qui non ci preoccupa. È già abbastanza vicino al Greco quando riconosce alla tragedia uno specifico ruolo tra i generi poetici. Un'opera il cui compito grandioso è quello di mettere davanti a Dio l'uomo in quanto uomo non può essere misurata con lo stesso metro di altri generi artistici, sebbene Holderlin, come si vede, abbia anche in essi osservato lo sfondo e il contenuto religiosi. In una tale affinità di sentire non ci si può non aspettare che l'opera di Holderlin, anche nella sua configurazione, sia toccata, più di altre tragedie della modernità, dallo spirito della tragedia greca. A un primo sguardo, certo, il suo Empedoc!e è del tutto diverso da una tragedia greca. Qyanto greco, quanto sofocleo possa essere, nella forma esteriore e in quella interiore, un drammaturgo tedesco, è dimostrato da Heinrich von Kleist, che studiò Sofocle in modo altrettanto appassionato. 66 Di fronte al suo Roberto il Guiscardo, il nostro Empedocle può apparire molto poco greco. Dalla forma fenomenica poco greca traluce però, come un lontano fondo oro, in maniera veramente greca,
66
Cfr. K. Reinhardt, Deutsches und antikes Drama. Vom Schicksal des griechischen Geistes (1934), in Tradition und Geist. Gesammelte Essays zur Dichtung, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 1960.
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il mondo divino. Tutto ciò che è umano sussiste e si muove in un cosmo divino, in un modo sconosciuto ormai anche all'.ijìgenia di Goethe. Di tutti i moderni, eccezion fatta per Holderlin, soltanto lo spagnolo Calder6n è riuscito a dispiegare l'evento tragico in uno spazio divino. 67 In Holderlin, però, esso non è il cielo cattolico, steso su tutto l'agire e il patire umani, bensì il cielo greco. Per quanto gli dèi olimpici possano essere lontani, lo spirito della religione originaria, nel quale Holderlin, nella poesia Natura e arte ovvero Saturno e Giove, 68 si è riconosciuto, seppure senza nome e in una forma nuova, ha fatto ritorno. Qii l'uomo non lotta con un cieco destino: tutto ciò che egli è e sente lo è e lo sente nell'incontro con gli dèi, la cui infinità racchiude la sua esistenza. E come la tragedia greca più antica, così anche questa conduce il suo eroe, attraverso tenebre e terrore, verso la verità dell'uomo nel disvelarsi del divino. È molto significativo che l' Empedocle concordi completamente almeno in un punto con la forma intrinseca della tragedia greca. Holderlin giunge qui, senza avvedersene, più vicino ai modelli greci di chiunque altro tra coloro che si sono attenuti, con maggiore o minore fedeltà, allo stile greco. Tutti costoro lasciano che gli eventi si svolgano fino a che non trovano la loro conclusione in una catastrofe: e sembra che così proceda anche la tragedia greca. Ma è soltanto un'apparenza. Nella tragedia greca più antica l'evento decisivo è sempre già accaduto prima che incominci ciò che noi chiamiamo "azione". Essa prende l'avvio da una situazione terribile, in cui tutto il destino è già deciso, e quel che accade sulla scena non serve che a far sì che la verità terribile, già da lungo tempo presente, dell'umano e del divino si manifesti e conduca la vittima designata a quella fine che la grandezza umana e divina pretendono da essa. La tragedia sfocia dunque non tanto in catastrofe, quanto piuttosto nel compimento e nel disvelamento di una catastrofe. Applicare a essa il nostro concetto di dramma porterebbe quindi soltanto a 67 68
Cfr. F.W.J. Schelling, Filosofia dell'arte, a cura cli A. Klein, Prismi, Napoli 1986, p. 130. In F. Hiilderlin, Poesie, cit., pp. 64-65.
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Holderlin e l'origine di culto e mito
un fraintendimento. Nulla mostra la potenza del divino, sotto la quale sta la tragedia greca, più chiaramente di tale struttura formale. Ed è proprio questa che noi vediamo in Holderlin. Come nell'Aiace di Sofocle, anche Empedocle entra in scena nella veste della vittima designata e del condannato; e solo nella decisione per una libera morte riconquista la sua grandezza. Ciò che lo ha separato dagli dèi è già accaduto prima che la tragedia incominci. Per questo era importante conoscere più esattamente le premesse della sua catastrofe, proprio come lo stesso Holderlin le vide.
XIV Se a questo punto ci volgiamo ancora una volta indietro e abbracciamo con lo sguardo il mondo di Holderlin, tutto teso verso il divino, non possiamo non sentire che su di esso, nonostante l'apparente chiarezza, vi è come un velo. Vi passano degli dèi, come il dio del sole, il dio del mare, il dio del vino e altri - ma chi sono veramente costoro? Le loro figure svaniscono non appena le vogliamo guardare negli occhi. Tace il loro mito, se lo interroghiamo. Eppure ci commuove. Finché udiamo la voce di Holderlin noi viviamo in compagnia degli dèi. Aleggia, però, su questi dèi, uno spirito di tristezza che li chiude in se stessi. Un tempo sono stati più potenti, più luminosi e fiorenti. È questa la tristezza che noi avvertiamo in loro, che non possano rivelarsi a noi in forma più chiara, che non possano comparirci dinanzi nella luce tersa e abbagliante del mito. Anche la conformità all'origine rispetto all'essere del mondo, che Holderlin chiama "Natura", è come oscurata da una nuvola. Sulla verità non ci possiamo ingannare, ma nemmeno sulla sua segreta malinconia. Rimanda a qualcosa che essa fu un tempo, un tempo che sembra andato irrimediabilmente perduto. Certo, essa non è una mera risonanza di ciò che è sta-
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to, ma il confronto con ciò che muoveva un'umanità precedente mostra l'offuscamento della sua fiamma di vita. Gli antichi popoli seppero certo di dèi viventi, e lo spazio vitale in cui esseri così eccelsi si manifestavano doveva essere più sacro di quel che un devoto sentimento della natura riesce solo a esperire nella sua indeterminatezza. Così, il mondo di Holderlin è un mondo tragico. Il sublime che egli conosce, e per il quale combatte, non vi compare mai completamente e non vi compare mai disvelato. E se appare una volta all'improvviso, come un lampo attraverso le nuvole, è per minacciare l'uomo di distruzione, poiché la sua esistenza è troppo debole per sopportarlo. Pure, questa esistenza non può cessare di rivolgersi al sublime, e può vivere solo dove avverte la sua vicinanza. La sua rinuncia, dettata dalla necessità, è però, al tempo stesso, la grandezza di Holderlin. Egli fu dinanzi al mondo come poeta nato, come spirito creatore, e non poteva considerare l' essere del mondo l'atto di volontà di un Signore ultramondano, così come non riusciva a considerare il proprio essere qualcosa di incerto e alla mercé della grazia. Sole, terra ed elementi, vita e morte, storia e destino gli parlavano ancora con la lingua delle essenze originarie, come se egli fosse realmente appartenente alla stirpe di quei popoli devoti che non avevano ancora soffocato questa lingua a opera di dottrine salvifiche o nel rumore dell'Illuminismo e delle macchine. Così, il vivo pulsare del suo cuore doveva risvegliare lo spirito dei padri e fare della sua vita di poesia la festa di un passato ritornato, paragonabile alle feste cultuali degli Antichi, nelle quali era di nuovo presente il tempo divino dell'origine. Niente è più insensato che scorgere, in tale volgersi indietro, un romanticismo sognatore. Sono state le generazioni più forti e audaci quelle che si sono rifatte al passato più remoto con il sentimento genuino della vita, consapevoli che in questo ritorno non si invecchia, ma, al contrario, si ringiovanisce. Anche l'uomo poetico ha i suoi predecessori. Essi sono del tutto prossimi, di ieri e dell'altro ieri, fin tanto che il presente
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per lui non è altro che il movimentato proscenio di tempo e mondo. Se il presente, però, si inabissa fino alle forme originarie dell'essere, allora, come in occasione di un concepimento e di una nascita regale, sono anche gli avi più antichi a dover essere presenti. Soltanto i Greci possono essere gli avi di un poeta come Holderlin. Tra tutte, la loro religione è stata l'unica capace di farsi spirituale e sublime senza perdere la profondità e la vastità della vivente natura. Unica la loro divinità ad aver risolto, per usare le parole di Holderlin, il destino, e questo perché la sua forma è tanto perfetta natura quanto perfetto spirito. Dove, se non qui, Holderlin, che aveva l'innata conoscenza della sacra natura, avrebbe potuto conoscere la sua origine, quell'origine che è una presenza in ogni rinnovamento di vita? I momenti festivi del suo spirito, però, potevano restituire l'originario soltanto in una forma (Gestalt) più povera. L' aspetto tragico della modernità è, infatti, l'isolamento e la solitudine dell'uomo. Certo, le parentele di sangue accolgono l'uomo in una cerchia più o meno ampia; inoltre egli ha compagni di fede, amici del cuore, colleghi nel lavoro e nello svago, ed è legato alla collettività da tradizioni e doveri, e, non da ultimo, dalle importanti affinità che si chiamano "visioni del mondo", così come da quelle forme, possibilità e bisogni nei quali tale collettività ha trovato la sua espressione pratica. In tutti questi legami egli, però, non è che uno dei molti, che soltanto in base a un maggiore o minore grado di uniformità non sono ancora diventati unità. La vera comunità, infatti, non nasce da ciò che allontana il singolo da se stesso attirandolo nella generalità e che lo svaluta proprio mentre ne determina il valore, se questo elemento unificante non conduce nel medesimo tempo il singolo a se stesso e non riconosce il valore della sua personale esistenza. Solo là dove ogni singolo deve e può essere compiutamente se stesso, c'è una vita degna. Per questo, però, è necessaria una realtà più alta, che sia in grado di sciogliere l'opposizione di sé e mancanza di sé. Occorre un terzo elemento, un centro verso cui tutti convergano,
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dal quale tutti dipendano, e non solo con tutte le loro convinzioni e i loro doveri, bensì con la loro natura; un fondo originario dell'essere attraverso il quale soltanto il singolo pervenga in primo luogo completamente a se stesso e, possedendo qui l'infinita rispondenza della sua essenza, la sua suprema libertà e necessità, vi trovi riuniti, al contempo, anche tutti gli altri. Non è un'idea, una legge o un obbligo, ma solo ciò che è da sé e nella misura più alta l'essenziale ad avere il potere di unire gli esseri. Dove, però, c'è vita originaria, qui essa tende da sé verso la potenza superiore, poiché è come vita primordiale che essa vuole conoscersi. Così l'individuo si tende verso l'acme di se stesso e, finché non gusta il fatale frutto della conoscenza, si spinge sempre più in alto, fino a ritrovarsi nel modo più sublime in un essere di dimensione sovraindividuale, in una forma delle forme, in cui egli vede anche gli altri riconosciuti insieme a lui e abbracciati come fratelli. O!iesto è il divino che tutti i grandi popoli hanno guardato negli occhi come l'infinito Altro nel quale l'essere Superiore era manifestamente di Uno e di Tutti. O!iesto movimento non parte mai solo da un singolo. Esso è lo slancio di una comunità che è legata da un'affinità, da un bisogno comune e da comuni speranze, e che pure è sempre di nuovo pronta a sciogliersi, finché non viene condotta alla coscienza di se stessa mediante la più elevata esistenza divina nella quale i molti si possano unire, poiché in essa il legame è al tempo stesso perfetta libertà e autonomo sviluppo individuale. O!iesta comunità non ha bisogno di alcun nome, né di essere contemplata in una qualche particolare forma fenomenica: essa però è. Lo spirito della comunità testimonia del suo essere, poiché non è nient'altro che la necessaria relazione a essa. Per questo ne scaturiscono la spinta e la forza per le grandi creazioni, il cui centro vivente sono le celebrazioni cultuali con le quali la comunità risponde alla sacra grandezza della natura. Il cuore in cui battono tutti i cuori non può infatti essere altro che il cuore del mondo. E qui, ora, prende avvio, come movimento della comunità, quel grandioso processo che Holderlin mostra soltanto nella stretta cornice della vita individuale: la rivela-
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zio ne della forma (Gestalt) del divino nel mito e nel culto. Ciò che mai può riuscire all'individuo, costituisce il diritto della comunità, anzi, essa realizza completamente la propria essenza e la propria grandezza solo in questa capacità di afferrare e trattenere. L'uomo moderno ha smarrito questa vastità, e con essa l'infinita forza creativa. Egli ha mangiato dall'albero della conoscenza e gli occhi gli si sono aperti sul fatto di essere nudo, di essere un io solitario senza mondo, un intelletto e una volontà infelici, i quali, strappati dalla vita del tutto, sono obbligati a girare intorno a se stessi. Qyesto nichilismo, di cui Nietzsche ha annunciato il compimento, Holderlin lo ha previsto e vissuto in anticipo, interpretandolo come una separazione dalla natura a causa della quale anche gli uomini si disgregano nell'isolamento. Egli si vide solo e sentì che ognuno, più è ricco di spirito e di carattere, più è costretto a essere solo. Mentre un tempo egli avrebbe potuto creare attingendo a una ricchezza che apparteneva a tutti, così che le scoperte e la forme (Gestalten) sue più proprie fossero, contemporaneamente, l'opera dell'universalità, ora egli deve espugnare da solo il suo cielo. Conseguenza di ciò è che la sua opera sia soltanto un vestibolo del cielo; e anche l'apparire degli dèi ormai solo una sacra favola o una profezia per il futuro. Le sue visioni di uno splendore a venire guardano sempre all'universalità come grembo che riceve la grande rivelazione: poiché soltanto l'umanità sorretta dalla comunità può contemplare il divino. E saremo ombre, fin quando il padre Etere, riconosciuto, a ognuno e a tutti non appartenga. 69
Holderlin, però, non avrebbe potuto essere profeta se non avesse lottato in prima persona per il superamento del nichilismo. Lo spirito, in lui, era troppo potente per sopportare un'inetta rassegnazione. Come Faust discese alle Madri, così egli è 69
F. Holderlin, Pane e vino, cit., p. 106.
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sceso agli avi e ha giurato fedeltà all'immane spirito dell'età primigenia per poter giungere, alleandosi con esso, come essere singolo, fino ai più lontani confini imposti all'individuo. E da questi confini egli non solo ha gettato uno sguardo di beatitudine alla terra promessa: ci ha mostrato con il suo esempio quale meraviglia stia ancora aperta dinanzi a noi e che cosa dobbiamo fare, ciascuno con la sua vita, per preparare un futuro più felice. Egli, se prescindiamo dalle testimonianze tarde, già connesse al sopravvenire del suo essere avvolto nella notte della follia, rifiutò la devozione alla Persona divina della religione cristiana, poiché la sfera morale e l'idea di peccato e redenzione di gran lunga non colmavano quel mondo che per lui era sacro. Si tenne però anche lontano, nonostante la sua adorazione sconfinata per lo spirito greco, dalle divine personalità dei Greci, il cui valore non andava molto al di là, per lui, dei loro nomi. Egli sentiva che l'apparizione di quelle originarie figure faceva parte di un'età del mondo che non era più la sua. Se pure era in loro che giungeva a perfezione quel mondo spirituale a cui egli stesso era attaccato con tutta l'anima e con tutto l'essere suoi, se anche poteva sembrare che esse stessero in certo qual modo davanti alla porta in attesa del momento giusto per entrare, per la vita presente esse non potevano essere che una santa reliquia. E il suo genio sopportava solamente quanto c'era di più vivo: solo l'avanzare dell'essere teso a concepimenti e nascite sempre nuovi. Siccome, però, la vita non può mai incominciare del tutto da capo, ma deve sempre essere eredità, dal momento che essa cerca la sua terra natia anche oltre il mare dell'oblio, egli, con il sentimento certo di un'affinità originaria, strinse nella Grecia antica un legame con i padri del nostro spirito. Nel loro mondo ritrovò se stesso nel modo più vero. La creazione originaria ci è sempre più vicina, anche se ci precede di secoli. Qyando l'uomo europeo si risvegliò alla sua libertà, è nei Greci che trovò, in questo risveglio, i suoi padri tutelari. Il secolo di Holderlin trabocca d'entusiasmo per questo riconoscimento: ma proprio in lui questa età primigenia ha fatto ritorno
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nel modo più vivo. Certo, se ci limitiamo ai nomi e alle forme, Holderlin è, tra tutti, il meno greco. La sua connaturata affinità spirituale ai Greci non si dimostrava nell'artificiosa ripetizione di quanto era già avvenuto, bensì nel riconoscimento dell'essenza eterna del carattere del mondo greco. Ciò che agli Antichi era dato perché furono un popolo e una comunità - il vivo contatto con il divino, la forma meravigliosa di mito e culto uniti insieme - egli doveva lasciare che arretrasse nel mistero. Tuttavia il mondo divino, la sacertà della natura gli parlarono come millenni prima. E con essi egli lottò, nell'inevitabile, tragica situazione nella quale era nato, fino alle possibilità estreme concesse a chi rimane solo. Anche questo fu un compimento. Un nuovo mito era nato: il suo poetare fu infatti un nuovo culto. Tuttavia egli ha sempre tenuto fede al fatto che gli antichi dèi un giorno dovranno pur tornare; anzi, egli annunciava come imminente il loro ritorno. Possiamo credergli, anche se quel giorno non sarà domani, ma un giorno che deve venire? Il destino non risponde alle nostre domande. Deve bastarci imparare quel che dobbiamo fare al nostro posto. Nel frattempo, però, questa preveggenza, come ogni autentica profezia, ha un significato anche per il presente. La grandezza del passato, infatti, diventa in un istante possesso vivente là dove sta dinanzi a noi come un essere che è sul punto di manifestarsi, e che realmente può farlo, di nuovo, anche senza un ritorno vero e proprio, in un modo nuovo, misterioso. In questo modo erigiamo agli antichi dèi templi invisibili; e anche di fronte a divine figure soltanto presagite, che recano in sé il mondo, la nostra natura umana può nuovamente aprirsi al mondo e scorgere dinanzi a sé, nel baluginare del futuro, quella vera comunità umana a cui il sublime è divenuto visibile.
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I È per esperienza sua propria che Holderlin divenne un iniziato alla religione originaria: e fu questa esperienza a impedirgli di avvicinarsi al divino nel solo modo che è concesso al mito e al culto autentici. Egli è giunto così a un vivente contatto con lo spirito greco. La religione originaria, infatti, ha agito profondamente sull'esistenza spirituale del popolo greco, in tutte le epoche, anche dopo la vittoria di quella olimpica. Eppure, la grandezza che soltanto a questo popolo fu riservata è costituita dalla rivelazione delle olimpiche figure (Gestalten) degli dèi. È con la loro comparsa che la grecità s'avvia al suo corso, è in esse che riconosce per la prima volta, e in una grandezza ineguagliabile, se stessa. Furono queste figure di dèi le sue guide attraverso i regni della vita, del pensiero, delle forme. E anche in seguito, allorché si insinuarono critica e dubbio, quando esse incominciavano a scomparire dalla vista e il culto più devoto era rivolto a una divinità che non era più simile all'uomo, con il loro spirito esse erano presenti in tutte le opere greche. Zeus, Apollo, Atena e i loro fratelli sono i divini garanti e gli eterni testimoni dell'essere greco. Occorre chiarire questo significato degli dèi olimpici per cogliere il peso della domanda sul perché Holderlin proprio da loro dovesse tenersi lontano. È vero che egli si rivolge ad alcuni dèi con parole di devozione e nostalgia, ma vi scorge quel che non erano né intendevano essere: spiriti originari del mondo elementare, circondati dal grande padre Etere e dalla grande
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madre Natura. Di tal genere essi erano stati durante l'età dei primordi, prima di trasformarsi nella pura forma (Gestalt) e diventare dèi greci. E fu questa trasformazione a escludere dal regno della divinità suprema la sfera del naturale e dell'illimitato. Nella volontà di forma e misura, nella bellezza e spiritualità della perfetta forma umana, una nuova forza divina celebrava il suo trionfo sull'oscuro caos delle potenze primordiali. Il re e rappresentante di questo nuovo regno è Zeus. Ed è contro Zeus che, con piena risolutezza, si è espresso Holderlin nella poesia Natura e arte ovvero Saturno e Giove. Zeus, la cui vittoria e sovrana potenza l'antica poesia greca annuncia con giubilo, deve piegarsi di fronte a chi è più grande, al padre Crono, che egli ha deposto dal trono: deve cioè piegarsi di fronte a quella divinità originaria che Holderlin venera con il nome di "Natura". Il poeta vuole rendergli onore nella stessa misura che si deve agli dèi: egli però ne vede l'essere troppo vicino alla sfera temporale e umana, perché meriti il rango che gli ha conferito lo spirito greco. Qyanto più questo vale per quegli dèi che stanno sotto di lui, i luminosi geni della religione greca, Apollo, Atena, Artemide, Afrodite, o comunque si chiamino! Per questo nel mondo spirituale di Holderlin non incontriamo nessuno di loro preso singolarmente; e sono in genere altrettanto lontani dai nostri grandi poeti, per quanto frequentemente i loro nomi - e quasi sempre nella forma latina - ricorrano sulle loro labbra. Soltanto il giovane Goethe costituisce un'indubbia eccezione. Nella stessa filosofia greca, e già dai suoi albori, è divenuta manifesta la critica rivolta alla somiglianza umana degli dèi olimpici. A partire dalla comparsa del Cristianesimo, essa fa parte di quei giudizi che si danno per scontati. Qyalunque sia il valore che si voglia dare alle immagini di un'eterna bellezza della gioventù, sembra contraddire ogni ragionevolezza il fatto che la loro umanità possa essere compresa come un'autentica rivelazione del divino. Ogni ragionamento finisce infatti con l'affermare che l'uomo abbia impresso la sua propria immagine sulla divinità e l'abbia perciò abbassata, dall'infinito, alla limi-
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tatezza e all'incertezza di ciò che è terreno. Con compiacimento ci si richiama al greco Senofane (fr. 15), che disse: Se i buoi, i cavalli e i leoni avessero mani, o con le mani potessero dipingere e creare opere al pari degli uomini, i buoi dipingerebbero figure di dèi simili a buoi, i cavalli simili a cavalli: raffigurerebbero i corpi degli dèi a seconda del modo di vedere loro proprio.
Ma non si è per caso dimenticato di quale umanità qui si parli? Non era forse quella l'umanità più magnanima e piena di spirito che si conosca? Il suo testimone è Omero. E ciò che egli ha portato alla luce è niente meno che la forma originaria (Urgestalt) della civiltà greca. Chi può qui parlare di primitivi, come si tenderebbe comunemente a fare pensando a un inizio che preceda un superiore sviluppo? Soltanto pochi hanno guardato in profondità. Goethe, primo fra tutti, risponde al superficiale giudizio con parole di più alta saggezza: «Il senso e lo sforzo dei Greci - egli dice - è quello di rendere divino l'uomo, e non di umanizzare la divinità. Non c'è qui alcun antropomorfismo, bensì un teomorfismo». 1 Certo, Holderlin non si è espresso così, ma la sua poesia è interamente pervasa di questo pensiero. Nietzsche lo esprime a suo modo quando dice: «L'uomo pensa nobilmente di sé, quando si dà simili dèi [...] Dove gli dèi olimpici arretravano, anche la vita greca era più fosca e piena di paura». 2 Anche qui, certo, gli dèi appaiono come riflesso dell'uomo. Nietzsche però sa bene quanto grande dovette essere l'uomo per vedere simili dèi sopra di sé. E la grandezza, che contempla il suo ideale nell'infinito, non è forse essa stessa un riflesso del divino? Se è vero che gli dèi olimpici arretravano dove la vita era più fosca e piena di paura, non è altrettanto vero che la vita divenne più fosca e piena di paura dove gli dèi olimpici arretravano? La vita aveva bisogno di loro. 1 J.W. Goethe, Myrons Kuh (1818), in Berliner Ausgabe. Kunsttheoretische Schriften und Obersetzungen, cit., voi. XX, pp. 22-29. 2
F. Nietzsche, Umano troppo umano, trad. it. di S. Giametta, Mondadori, Milano 1978, voi. I, p. 91.
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Essi rappresentavano un valore infinito per l'essere e il creare greci, proprio in quanto si trattava di un essere e un creare greci ed essi erano le forme di un'umanità divina. Non dobbiamo certo sminuire il significato della somiglianza umana e, alla maniera di molti difensori della grecità, mettere in risalto le rappresentazioni, supposte più pure e profonde, di determinate cerchie ed epoche. Significherebbe rinnegare quel che pure sappiamo, e cioè che agli dèi in forma umana era connessa la fede della cultura più forte e vitale, più geniale e, per le epoche che sarebbero venute dopo, decisiva: quella insomma dalla quale era nata la poesia omerica. Ed è proprio nella figura umana (Menschengestalt) che dobbiamo ricercare il segreto di quello spirito che ha condotto i Greci alle vette dell'essere.
II L'arte greca ha elevato (aufgerichtet) l'immagine dell'uomo. Grandi modelli di quest'arte non furono il legame dell'uomo con la natura, la sua missione nella vita, la sua venerazione della divinità; furono invece la sua forma originaria e la sua forma finale. I regni della natura quasi scompaiono di fronte allo splendore del suo apparire, e il dio stesso non è troppo grande per trovarvi posto. E chi non avvertiva, nelle figure umane della poesia e della scultura, l'eternità, chi non sentiva il soffio di un mondo più alto, la vicinanza e la presenza della divinità? L'occhio greco ha scorto nella naturale costituzione dell'uomo il senso e la misura del mondo superiore. Esso gli risplendeva nel mistero dell'origine e del compimento, era la forma vittoriosa grazie alla quale i regni dell'essere si rischiaravano e, come figure viventi, si rivelavano, recando tutta la loro pienezza e molteplicità. Tutta questa umanità trasparente e compenetrata di luce, quando l'autentico spirito greco perse il ruolo di guida, dovette sembrare una contraddizione. Nel mondo che si è reso estraneo alla grecità, l'uomo soffre di se stesso: come potrebbe com-
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prendere l'orgoglio dei Greci? Egli soffre della propria essenza ed esistenza, e testimonia proprio del fatto che il divino non gli è più così vicino come lo era a coloro che veneravano quelle forme (Gestalten), la cui divinità egli non può che accogliere con un sorriso di superiorità. Eppure, c'è qualcosa di più divino di creazione e grandezza? Al cospetto dei loro dèi i Greci hanno dispiegato una forza creativa che non ha eguali e l'uomo ha elevato se stesso a un'altezza di cui le generazioni successive possono ancora soltanto sognare: «Poiché gli dèi ancora erano più umani / Più divini erano gli uomini» (Schiller). In questo modo nasce la contraddizione della quale soffrono tutti i giudizi sulle antiche figure (Gestalten) degli dèi greci. L'uomo che credeva in esse e che esse hanno educato è per noi, con la sua natura e il suo creare, oggetto di stupore e venerazione. Qyelle figure di dèi, però, non ci sembrano essere degne del valore che fu loro tributato. Certo, il loro sguardo solleva per un istante anche noi a un regno divino della grandezza e della bellezza: ma la riflessione ci avverte che veramente divino non può essere ciò che si rappresenta così umanamente.
III Holderlin non ha negato la divinità di geni vicini all'uomo; essi, però, erano per lui soltanto servitori e rappresentanti dell'essere supremo. Costringere proprio questo, lo spirito della Natura, con una temeraria ascesa dell'uomo, nei limiti dell'umanità, per Holderlin equivaleva a un sacrilegio. Nel mondo greco ciò da cui Holderlin, per via della sua esperienza, mette in guardia è accaduto senza lotta, con la geniale necessità di un essere superiore. Nessuna volontà tesa a dare l'assalto al cielo trasse con violenza la divinità nell'immediata vicinanza dell'uomo. Fu essa a venire da sé incontro all'uomo con la chiarezza della forma (Gestalt) perfetta. È vero che il mito teogonico narra di una battaglia conclusasi con la vittoria degli Olimpici: questa battaglia ebbe però luogo soltanto tra dèi, e
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cioè in un accadere primordiale che precedette ogni pensiero e volontà umani. Qyando il suo esito fu deciso, anche un nuovo uomo era nato: l'uomo greco. Egli aprì gli occhi e, simile al sole, la figura (Gestalt) divina gli stava dinanzi nel fulgore della giovinezza. Essa non pretese che lui rinnegasse la primigenia e santa natura. Qyesta figura divina, infatti, recava in sé, in una celeste trasformazione, ogni ampiezza e profondità, ogni mistero e meraviglia. Essa dunque gli offrì una libertà senza pari. Egli non doveva compiere il salto nel buio, né combattere con i misteri dell'origine, poiché ciò che v'era di più santo si rivelava nella luce e gli si rivolgeva con un volto luminoso, spirituale, umano. Il divino, che altri debbono cercare nel prodigio degli elementi o degli astri, oppure al di là di ogni fenomeno, era qui di casa nella chiarezza della forma e si avvicinava all'uomo come a un amico. Ben lungi dal pretenderne la vita in sacrificio, il divino gratificava e giustificava l'uomo con lo spettacolo di questa vita nella perfezione, come fosse una vita divina. Di una tale magnificenza fu capace il pensiero umano. Come è potuto accadere questo prodigio che non ha eguali nella storia dell'umanità?
IV Il quesito si avvicina alla sua soluzione se seguiamo gli dèi olimpici fino ai loro eletti, a quegli uomini che ne diedero testimonianza con la loro vita e le loro azioni. Atena è la dea di un Ercole, di un Achille, di un Odisseo: visibile o invisibile sta loro al fianco, infonde loro coraggio, forza, vittoria. Inoltre, il suo spirito divino è, come apprendiamo da Omero, così strettamente legato alla vita dei suoi prediletti, che le loro azioni e i loro pensieri umani sono in un senso superiore pensieri e azioni della dea stessa. E ciò è insito anche nell'essenza degli altri Olimpici così che essi sono gli dèi di quella stirpe di uomini di cui narra l'epos eroico. A essa per prima gli dèi si sono rivelati: le si sono avvicinati più che a qualsiasi altra. Da questa stirpe
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coloro che vennero dopo hanno ricevuto l'immagine degli dèi. In una vita che necessariamente si allontanava dalla grandezza eroica, gli dèi degli eroi continuarono a conservare ancora per secoli la supremazia rispetto alla fede. Tanto era stato potente il loro apparire, altrettanto viva era la conoscenza che la poesia aveva di loro. E il loro effetto non fu forse incalcolabile? Non furono forse essi gli educatori e le guide a cui l'essere, il pensare e il creare propri dei Greci dovettero la loro incomparabile grandezza e libertà? È come dèi dell'età eroica che noi dobbiamo considerare gli dèi in sembianze umane dell'Olimpo. Qyi abbiamo la forma di quell'umanità conscia della propria grandezza e nobiltà cui fu concesso di credere a dèi che le fossero simili. È vero che l'età eroica non è prerogativa solo dei Greci: la troviamo anche nella giovinezza di altri popoli e presso alcune popolazioni si è conservata fino ai nostri giorni. L'età eroica greca, però, ha una grandezza unica, che risiede nel fatto che sapeva di essere legata a dèi quali gli Olimpici. Dovunque è presente una cultura eroica nel vero senso della parola, l'esistenza trabocca di uno spirito meraviglioso, che si manifesta in innumerevoli modi: il più bello è la creazione del canto. Come forma libera, il canto ha infatti la sua origine nell'eroismo. Della poesia eroica si potrebbero dire quelle stesse cose che Aristotele dice della filosofia (Met., I, 982b): come l'uomo libero vive solo per se stesso, così soltanto la filosofia è libera, essa esiste infatti solo per se stessa. Da epoche antichissime piacere e dolore e, prime fra tutte, le gioie e le pene d'amore si sono riversati in suoni: in questo la natura umana non si differenzia essenzialmente da quella degli animali che, presi da languore amoroso, si effondono in melodie e lamenti seducenti e incantevoli. I canti di lavoro, di raccolta, i canti dei cacciatori e dei pescatori, e simili appartengono alla sfera dei legami demoniaci e dei vincoli magici. Inni, lamenti funebri, profezie e simili sono al servizio di potenze ineluttabili e di imperiose necessità dell'esistenza ovvero sono completamente
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prese e irretite da quell'altro mondo. Soltanto la vita eroica è abbastanza grande e sovrana da passare da sé nel canto, trasmutando in questa forma sublime il proprio essere. Soltanto l'uomo eroico possiede quella libertà che ritrova se stessa nella libertà del canto. È la sua esistenza a invocarlo come un fratello, come la forma in cui gli è consono durare, poiché lo spirito meraviglioso di questa forma vive e opera in lui stesso. Oliesto alto senso della vita eroica dev'essere stato di incomparabile grandezza e potenza nell'età degli eroi della civiltà greca. Ne è testimone ciò che è rimasto, la cui vitalità e durata non trovano eguali presso alcun popolo. Nessun altro popolo ha custodito con tanta fedeltà le immagini della sua età eroica, ne ha fatto, in tutte le stagioni della sua produzione poetica e plastica, monumenti supremi, erigendoli a vivente ideale della propria esistenza. Oliando gli Spartani, nel VII secolo, mossero la grande guerra contro i Messeni, fu la fama dell'Achille omerico a infiammare gli animi, come mostrano i canti di battaglia di Tirteo. Ancora in epoca successiva, quando Alessandro Magno annientò i regni d'Asia e dal legame dell'Oriente con l'Occidente nacque una nuova epoca, fu quella stessa figura di eroe a precedere il vincitore. E non è tutto! Di nessun altro popolo come di quello greco si può dire che si sia innalzato alle vette della civiltà spirituale recando con sé la visione eroica. E a quali vette! Nella particolare passione per l'agone, che per secoli occupò tutti gli ambiti ove si dimostrava la bravura umana, Jacob Burckhardt ha giustamente ravvisato un'eredità del passato eroico. Anche poetare era una contesa per ottenere l'appellativo di migliore: le tragedie di Eschilo, Sofocle, Euripide sono entrate in competizione sul palcoscenico ateniese per disputarsi il premio della vittoria: Nietzsche riteneva che mediante quest'universale competizione si fosse nobilitata e resa feconda la volontà di annientamento e sopraffazione reciproca: che sbocciasse nell'orribile deserto dell'odio e della distruzione il fiore prodigioso della creazione spirituale. Tuttavia è difficile sostenere la teoria della nascita del bello da notte e terrore. Nella contesa degli spiriti eletti sopravvive la
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nobiltà della forza eroica. Anche il pensatore e il poeta mettono in certo qual modo in gioco la propria esistenza per l'onore del proprio nome. Si espongono e si avventurano non soltanto mentre creano, ma presentando la loro opera in pubblico, dove si misurano i migliori, combattendo per la vittoria, per la corona dell'unicità. Così, più che sognatori di sogni divini, sono eroi e la loro impresa è come una lotta fino all'ultimo respiro. Della forza dell'antico spirito eroico testimonia però anche la geniale fecondità con la quale esso, a suo tempo, si è dispiegato nella vita. Stupefacente è infatti il numero delle stirpi di eroi e famiglie di re, tutte così nobili da poter vantare origini divine. La loro memoria non poteva tramontare. Le loro figure e i loro destini sono rimasti il contenuto di ogni grande poesia fino alle epoche successive, e ancora oggi i loro nomi non hanno perduto lustro. E non è forse la stessa poesia ad attestare la magnificenza dell'umanità eroica? È da essa che sorse la più grande opera dello spirito poetico, ancora giovane, fiorente e vittoriosa dopo millenni: il canto di Omero! L'umanità eroica si irradia grazie a lui nell'arte greca, dalle cui nobili forme si riconosce il passaggio del suo spirito. La testimonianza più eloquente della sua unicità sono però i suoi dèi. Il rapporto di uomo e dio, così come Omero lo raffigura in numerose immagini di azioni ed eventi, indica un sentimento della vita che ovunque accoglie l'infinito e l'eterno, e non solo ne è afferrato, bensì eleva se stesso a quelle altezze spirituali dove diventano visibili le forme divine. L'idea di questo tipo di vita non può essere certo scaturita da un genio poetico o da una tradizione, per quanto elevata; ancor meno può essere stato un poeta a creare le figure del re, del santo, del saggio. Per quanto alto si possa stimare il merito della poesia, essa presuppone, come sua propria possibilità, che nel mondo sia esistita un'umanità vissuta con sentimenti tanto elevati e in tale vicinanza agli dèi. È possibile che sia stato un poeta a creare quel tipo d'uomo al quale sembrava credibile che l'amico o l'ospite che gli parlava fosse in verità un dio sotto mentite spoglie? A ogni lettore di Omero questi insoliti incontri sono stati resi familiari da molti
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esempi. E chi non si è accorto della dignità e grandezza che in questa figura (Gestalt) umana dovevano essere state di casa? È da questa altezza che vogliono essere guardati gli dèi della Grecia: essi, che incantano anche noi, furono un tempo i simboli di una grande esperienza vitale. La poesia omerica non solo li fa apparire in singoli accadimenti: essi sono lo sfondo luminoso della realtà, la verità viva dell'evento, cosa che per l'uomo moderno risulterebbe comprensibile anche senza di essi, ma che qui viene sentita e compresa da cuori più grandi. «Grazie a Omero - scrive Goethe a Schiller - si viene pur sempre sollevati, proprio come su una mongolfiera, al di sopra di tutto ciò che è terreno, e ci si trova davvero in quell'interregno in cui spaziavano gli dèi.»3 Non è stato il poeta a creare questo spazio sublime: esso è lo spazio dove hanno respirato gli eroi. Onorandoli come fratelli degli dèi, l'epoca successiva ha conservato ancora un chiaro ricordo della loro grandezza. In un punto anche l'Iliade li chiama «una stirpe di semidèi» (Il., XXII, 23). Nel poema di Esiodo sulle età del mondo l'umanità che precedette la sua epoca, che combatté sotto le mura di Tebe e di Troia, i cui discendenti ancora vivevano, si chiama «la stirpe di eroi, stirpe divina, che son detti semidèi» (Opere e giorni, 159).
È questa regione della vita la vera patria dell'idea di gloria. Anch'essa dovette, come la fede negli dèi, essere messa in discussione a misura che la vita discendeva dalla sua altezza, e un'utilità oggetto di dimostrazione determinava il valore di ogni azione. L'idea di gloria scaturisce da un sentimento della vita per il quale non c'è alcuna esagerazione nel chiamare "divina" la forza degli eroi. Tale forza non solo merita l'immortalità: essa si sa portata da uno spirito che è sollevato al di sopra del transeunte. Irride il criterio dell'utilità comune e non ha bisogno di alcuna comunità, comunque la si voglia chiamare, a cui essere debitrice del suo persistere nella memoria. È 3
Lettera del 12 maggio 1798, in S. Seidel (a c. di), Der Briefwechsel zwischen Schiller und Goethe, Beck, Miinchen 1984, voi. III, p. 97.
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essa, infatti, a suscitare i testimoni, grazie a ciò che è, grazie all'immediata certezza di appartenere a un più elevato ordine dell'essere, la certezza che con essa il divino fa irruzione nel mondo umano, la certezza di dover essere cantata e narrata per amore della divinità della propria essenza e che, se pure una bocca ammutolisce, ce ne sarà sempre un'altra pronta a essere risvegliata al canto dal suo spirito vitale. Qyest'ordine più elevato, di cui aveva un sentimento vivo anche il mondo eroico di altri popoli, è pervenuto, nel mondo greco, a una chiara coscienza attraverso i suoi dèi. Qyest'ordine non abbraccia soltanto la grande impresa, ma anche la grande passione; non solo la vittoria, ma anche la disfatta e il tramonto. Anche qui spira il soffio divino che è e promette immortalità. Nella prossimità degli dèi tutto ciò che accade all'uomo si innalza alla sublimità del destino. Dove altro ritroviamo infatti quella gioia segreta, quell'orgoglio di eternità che erompe dalle profondità della passione, come, per esempio, quando Elena, in Omero, piange la sorte sua e di Paride (Il., VI, 357): Ai quali diede Zeus la mala sorte. E anche in futuro noi saremo cantati fra gli uomini che verranno.
Qyesto solenne tono dell'epos eroico continuerà a germinare nella tragedia del V secolo portando con sé tutta l'eco dell'età degli eroi. Può servire da esempio una scena grandiosa che si trova verso la fine delle Troiane di Euripide (Tr., 1240): Troia è distrutta, gli uomini uccisi, donne e fanciulle aspettano di essere condotte come schiave lontano dalla patria, e tra loro la regina, derelitta. È davanti ai suoi occhi che viene incendiata l'antica città del re. Ella si precipita, vuole baciare le mura, gettarsi tra le fiamme, ma i soldati, che stanno per trascinar via le donne, la trattengono. E qui la regina cade in ginocchio; e in ginocchio cadono tutte le donne, che chiamano gli sposi morti, i figli e i fratelli che sotto terra riposano. È questo l'ultimo istante in patria: ma cosa dice la regina tra i lamenti?
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La mia fine, non altro avevano in mente gli dèi, come si vede. Troia essi odiavano più di ogni altra città. Fu inutile pregarli. Eppure, se gli dèi non avessero distrutte e travolte queste cose con noi nella rovina profonda, le Muse tacerebbero e nulla saprebbero di noi i morti futuri.
L'uomo eroico, con la sua felicità e il suo dolore, non deve aspettarsi un mero epilogo, se pure da ammiratori ancora così numerosi. La sua esistenza è in attesa della voce festiva del canto, che viene risvegliata soltanto da ciò che ha parte al divino. Ma anche questa voce è di origine divina ed è chiamata a dare testimonianza del fatto che non è follia la grandezza né illusione la fama. La Grecia ha coniato nel modo più chiaro questo alto concetto del canto. A custodire la memoria di ciò che ha significato è una divinità: la Musa. A lei si appella tutto quanto è grande, che essa raccoglie e strappa alla caducità. Se diciamo che il sentimento eroico produce il canto per virtù propria, che trapassa nella forma d'esistenza affine del canto per perpetuarsi in esso, in greco questo suona così: sono state le Muse, le divine, a prendersi cura di quanto è vicino agli dèi. O!Jesta meraviglia, cui la vita, con il suo agire e sopportare, aspira, ha per lungo tempo mantenuto l'uomo greco a quell'altezza spirituale che nulla sa dei malinconici sogni dell'anima sofferente. O!Ji la sfera terrena è liberata e trasfigurata senza essere rinnegata; infelicità e dolore, colpa ed espiazione, caducità e caduta, tutto quel che sotto un altro cielo è ritenuto triste e aspira a consolazione e redenzione, si trasforma qui in tragedia: dal suo dolore eromperà la splendente luce della gioia divina. Un mondo festivo! Il mondo del canto, che si perpetua nella poesia e nell'arte plastica dei secoli a venire e sempre - arrivando con i suoi echi fino alla modernità - reca testimonianza degli dèi greci. La critica superficiale che rimprovera ai Greci di aver scambiato l'arte con la religione, nulla ha presagito di un mondo festivo, di una devozione che sapeva invitare l'uomo ad avvicinarsi il più possibile agli dèi con gioia, festa e musi-
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ca (Posidonio, in Strabone, 467). Nell'apparire degli dèi greci viene alla luce tutto lo splendore festivo che abita l'esistenza eroica. Essi mostrano quale significato abbiano, anche al loro tramonto, questa nobiltà, quest'orgoglio, quest'esultanza per la vittoria. Il sentimento eroico vive, come il canto, suo fratello, in segreta simpatia con il corso sublime del mondo, e prende parte al ritmo eterno che, nelle sue profondità e altezze, lo muove. Non sono piacere e dolore a dare alla luce questo canto, bensì la commozione nel suo fondamento festivo, che tiene unito lo spirito con la grande festa delle originarie potenze del Tutto. È questo il significato della parola "entusiasmo". Lo spirito ha smesso di essere calcolante e soggettivo. Afferrato dal ritmo dell'essere, è tornato d'un balzo alla sua forma primigenia, e ora ogni cosa gli risponde con il suo volto d'eternità. Improvvisamente grande, spirituale e festoso è divenuto il mondo, e compaiono le forme (Gestalten), le misure eterne, il ritmo creatore. La poesia, la forma dell'arte, appare così accanto al divino come un'essenza che gli è affine. Il canto accompagna, dunque, l'elemento eroico e la sua festiva grandezza come quella forza spirituale che vi è cresciuta e che sa rendere visibile lo spazio in cui divino e umano si sfiorano e si fondono insieme.
VI Lo spirito dell'alto canto non soltanto ha accompagnato l' esistenza eroica, non soltanto l'ha seguita, diffondendo la fama della sua grandezza: prima di ogni versificazione, questo spirito la abitava già come spirito della vita che conferisce forma alla sua sensibilità e alla sua condotta, alla sua volontà e alla sua fede. Esso pervase la vita greca finché il senso eroico vi rimase desto, anche dopo la fine dell'età eroica vera e propria, e cioè attraverso tutti i secoli della grande creazione, dalla cui gigantesca eredità l'umanità successiva, più debole e meno dotata, poté ancora trarre un qualche valore. O!iesto spirito ha innal-
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zato la grecità a quell'altezza più serena che, da tutto quanto i millenni ne risparmiarono, ci saluta con un sorriso divino dalla regione della libertà. Cos'altro è infatti la libertà se non la forza spirituale della vista, che toglie pesantezza a tutto ciò che è terreno poiché afferra la forma in cui il terreno è eterno e avvolto dalla luce del divino? Ovunque possiamo riconoscere, nella loro peculiarità, la condotta di vita e il sentimento dell'antica grecità, essi ci parlano di questo spirito di libertà. Non c'è qui alcuna lotta tra finito e infinito, tra uomo e divinità: nel segno del divino è la vita stessa, con il suo fare e pensare, non soltanto l'atto creativo del poeta e dello scultore. Nessuno può stabilire dove finisce l'apporto dell'uomo e incomincia quello divino: allo stesso modo non c'è alcun confine tra volere e dovere. Manca al volere l'oscura passionalità sprofondata in se stessa, poiché non si ribella contro alcuna volontà superiore, ma ovunque il suo sguardo è nella chiara luce di una verità rivelata. Certo, l'uomo è un io individuale che desidera, progetta, spera, realizza di sua propria iniziativa, ma sempre, al tempo stesso, sul punto di trapassare all'universale, al sovrumano, a una realtà più alta della sua povera umanità. Egli non soggiace alla maledizione di dover salvaguardare il diritto a se stesso, alla sua volontà e alla sua colpa: è dunque libero di vagare sulle vette e, in un dialogo vivo con le forme dell'essere, scorgere persino gli dèi. Oliesto rapporto meraviglioso con l'essenza del mondo si forma già nel linguaggio, che non possiede alcuna parola per "volontà", divenuta invece un concetto così importante per l'uomo moderno, al punto che su di esso vorrebbe fondare tutta la sua comprensione dell'uomo e del suo stare al mondo. Dove noi diciamo "volontà" il Greco dice "pensiero", o "giudizio" (yvcl>t,tYJ). La "conoscenza" di ciò che è buono e di ciò che è cattivo, non già volere l'uno o l'altro, è quel che distingue il nobile dall'ignobile (oilTe xrxxwv yvwt,trxç eÌÒOTeç oilT' ayrx9wv, Teognide, 60). Dove, secondo il nostro sentimento morale, una volontà o una decisione vacillano, i Greci dicono che il pensiero s'inceppa ('rxTCrxt,t~Àuv9~creTrxt yvcl>t,tYJV, Eschilo, Prom., 866). Oliesta pe-
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culiarità espressiva ci introduce al fatto che qui l'uomo, nel suo fare e disfare, deve misurarsi non tanto con delle pretese, quanto piuttosto con delle realtà e verità: che egli le veda e le comprenda, è questo l'importante. Dice perciò Omero, a proposito dell'amabile, retto, ragionevole comportamento di un uomo, che questi possiede una conoscenza di ciò che è amabile, retto e ragionevole. Anziché il sentimento e la volontà dell'uomo, si onora una realtà che sia pronta a dischiudersi all'uomo - e dunque non l'intelletto comune ma quello spirito illuminato capace di elevarsi al di sopra dell'angustia del sentire e del volere soggettivi per guardare alle forme dell'essere. Le forme dell'essere (Seinsgestalten) a cui qui si allude appartengono, come tali, al regno del divino e possono persino rivelarsi come persone divine. Non soltanto, però, l'uomo le conosce: a esse egli è unito da un legame vitale. Senza di esse, egli non è affatto. Se il suo essere fosse considerato per sé solo, sprofonderebbe nel nulla: esse invece sono tutto. Pure, egli non sta dinanzi a loro povero e mortificato. Qyi infatti l'ordine dell'essere tra individuo e mondo, tra umano e divino, è altro da come siamo soliti comprenderlo. La vita individuale conosce la realtà superiore sua propria in un universale e, con un'interiore necessità, sfocia nell'essere divino. L'uomo non è affatto pensabile separato dal divino - ma non in quanto il divino lo governa e lo mantiene nell'esistenza come una forza assoluta, bensì perché egli è, in un certo senso, il divino stesso. Il suo essere proprio, il suo se stesso è, per così dire, soltanto un polo di un Tutto più alto che ha, dall'altro, la sfera dell'oggettività e del divino. Gli impulsi della sua interiorità, siano essi sentimenti, desideri o pensieri, non appartengono a lui soltanto: hanno il loro potente polo opposto (Gegenpol) nell'essenza del mondo. E in tale esteriorità essi sono molto di più di quanto non fossero se soltanto connessi all'interiorit:1: recano un mondo, e sempre un mondo intero. Essi trapassano con necessità e senza lacerazioni nella sfera dell'oltrc11111:1110, nell'eterno e nel divino, comunque lo si voglia chiamarl': Imo no o cattivo, funesto o felice.
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L'umano, qui, è così vicino al divino che entrambi sono legati l'uno all'altro. Essi stanno, come si è detto, nel rapporto di reciproca tensione fra due poli, che nell'opposizione si determinano e si completano: il polo dell'unicità, della caducità e della soggettività; e il polo della durata, dell'essere compiuto, dell'oggettività. Ciò è già significativo di quanto insufficiente sia un polo in sé e per sé e di quanto infinitamente ricco e grande sia l'altro. Qyel che dice Pindaro in un passo (Nemee, VI, 6, 1 ss.) vale, anche se non nella medesima forma, per l'intera coscienza dell'esistenza greca dall'inizio in poi: Una è dei mortali, una la stirpe degli dèi; da una madre respirano entrambe, ma distinte per forza in ogni via ché nulla noi siamo, e il cielo di bronzo resiste immobile sede in eterno.
Qyesta coscienza, però, non ha nulla di svilente. L'unità dell' origine non è infatti una vuota favoletta. Qyi nulla si sa ancora della separazione, della frattura tra uomo e mondo, soggetto e oggetto, da cui l'umanità successiva è stata così profondamente scossa, e che è in fondo una frattura tra uomo e dio. L'io autonomo, che risponde di se stesso, diviso dall'essenza delle cose, tanto pieno di pretese quanto bisognoso d'aiuto, con tutti i suoi labirintici e tempestosi problemi, non vi può certo comparire, poiché l'esperienza e il pensiero umani, nonostante la loro limitatezza e fugacità, stanno come un'ondata nel movimento dell'essenza e dell'essere universale. Esperienza e pensiero non provano soggezione davanti all'eterna durata e alla divinità, poiché queste ne sono la stessa verità e l'uomo non può immaginarsene separato, contrapposto: con tutto il suo sentimento di vita ne dipende come da ciò che è suo. Qyesta vitale compenetrazione e unità dell'elemento soggettivo con quello oggettivo, della singolarità con !'universali-
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tà, dell'umano con il divino, distingue il tipo greco da tutti gli altri che conosciamo. Fu questo carattere a conferire all'arte greca quell'impronta stupefacente che in altre epoche e culture risvegliò sempre una nuova vita e pure non poté essere ripetuta da nessuna, poiché tutte avevano subìto in sé quella lacerazione. Qyi fissiamo lo sguardo in una sfera temporale che, senza perdere l'immediatezza sensibile, è anche eterna; qui forma e movimento respirano quella vita che riconosciamo loro sorella e che pure sembra essere sorta come un parto celeste dal grembo della terra. Se non fosse rimasto nient'altro tranne le opere d'arte plastica, esse sole dovrebbero bastarci a parlare di un'umanità che più di altre ha conosciuto la presenza del divino. E qui torniamo con la mente a Holderlin. È proprio quella stupefacente armonia con l'essenza, che al pensiero e alla sensibilità comunica qualcosa del carattere di obiettività e vastità del mondo, mentre la realtà degli oggetti sembra spirituale e piena d'anima, e parla un linguaggio divino, ciò che Holderlin ha conosciuto quale esperienza dello spirito poetico e ha descritto in modo così persuasivo. Egli definisce tutto questo ciò che di più alto l'uomo è in grado di esperire senza cadere in una dismisura che rischia di distruggerlo. Dunque non ci sbagliamo quando in ultima analisi diciamo che fu lo spirito del canto a dare alla luce una tale meraviglia. Qyi tuttavia c'è più di quanto grazie a Holderlin possiamo esperire. Qyi lo spirito del canto ha nutrito ed educato un tipo umano nuovo, conducendone i migliori ad altezze di cui Holderlin dovette aver paura. Le figure della fede religiosa ne sono la prova più convincente.
VII Tra queste ve ne sono alcune che permettono di riconoscere chiaramente quella polarità propria delle forze etiche dell' essere umano.
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Con la parola a.1òwç si indica uno dei moti più nobili e puri dell'anima greca. Nessuna parola tedesca è in grado di renderla, poiché essa esprime il riguardo nel senso più ampio, non solo negativamente come riserbo, timidezza e vergogna, bensì anche positivamente come delicatezza del sentimento e dei modi, come attenzione e venerazione. La parola dai molti significati non indica tuttavia soltanto un sentimento, ma un'essenza che l'uomo abbraccia con forza e che al suo occhio spirituale appare come una forma vivente. «Venerando pudore» esclama, colpito, Achille in Euripide (ljigenia in Aulide, 821) quando vede improvvisamente dinanzi a sé una fanciulla regale. In quell'istante gli urge sulle labbra il nome di una dea, della dea che accende nel cuore degli uomini il sacro fuoco del rispetto e del timore. Essa siede in trono accanto a Zeus e con lui domina su tutte le opere, come dice Sofocle (Edipo a Colono, 1268). Ad Atene essa aveva un altare accanto all'antico tempio dell'Acropoli (Pausania, I, 17, 1), quale nutrice dell'Atena fanciulla (Scolii al Prometeo di Eschilo, 12). Come essenza divina essa però non ha a che fare soltanto con gli uomini: agisce anche come spirito della natura, nel casto rigoglio della terra. Sul prato intatto, che sogna di Artemide fanciulla, si muove intorno ai fiori con il vento del mattino, irrorandoli di gocce di rugiada (Euripide, Ippolito, 78). Vediamo così come un impulso morale proprio del cuore umano estende il suo dominio al di là della sfera personale e umana nella natura e nel mondo, e vi abbia, come figura libera e divina, la sua realtà vivente. Non meno ricco e profondo è il concetto (Begrijf) di ciò che in greco si chiama xa.ptç. Essa è ciò che è gioioso e porta la gioia, è la grazia, la leggiadria e del pari il favore, il dono. Dell'immaturità impubere, non ancora dischiusa all'amore e al suo compimento, si dice che è senza charis (axrx.ptç). Come essa offre al corpo e all'anima dell'uomo il fascino che gli apre i cuori, allo stesso modo nobilita lo spirito e conferisce ai pensieri e alle parole quella bellezza che li rende immortali. Dice Pindaro (Nemee, IV, 6):
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Vive la parola più lunga età delle gesta se, arridendo le Grazie, la lingua la trae dall'animo profondo.
Qyesta charis, però, è molto più di una qualità che si possa semplicemente acquisire, di una condotta amante e amabile, di una bellezza spirituale dell'uomo. Essa è una dea e si rivela nella natura, in tutto quel che fiorisce, si apre e matura. Anzi, è proprio qui il suo vero regno, un riverbero del quale cade anche nel cuore, negli occhi e nei tratti dell'uomo. Insieme con le sue sorelle ella possiede, nella beotica Orcomeno, un antichissimo luogo di culto, le cui regine si chiamano, in Pindaro, Cariti (Olimpiche, XIV). La Teogonia di Esiodo le chiama figlie di Zeus e della Oceanina Eurinome, sua seconda sposa (Teog., 907). L'amore invece le contempla al seguito della sposa celeste Era. Se fin dagli albori Aidos e Charis, come insegnano i loro nomi, corrispondevano a un moto dell'anima umana, Afrodite fu, originariamente, una grande dea cosmica, il cui culto i Greci avevano tratto dalla civiltà preellenica. Ancor più degno di nota è il fatto che la figura della dea, così come si presenta allo spirito greco, sia in una relazione del tutto simile all'essere dell'uomo. Anche in Afrodite si rispecchiano movimenti e impulsi dell'animo umano, anzi, in questo caso sono passioni potenti, che per l'uomo possono trasformarsi in destino. E proprio qui, dove il cuore sembra seguire soltanto se stesso, l'elemento soggettivo appare, di fronte all'oggettività divina, completamente in ombra. Afrodite non è tanto la potenza del desiderio erotico, quanto piuttosto l'incanto vivente della bellezza, l'affascinante seduzione che emana dalle apparenze e le abita. Il suo regno è il mondo intero nel riverbero di un divino sorriso. Anche pensieri e conoscenze le appartengono, se sono immersi nello splendore e nella perfezione della sua grazia. Il canto del poeta, anche se celebra una vittoria sportiva, è un frutto del giardino di Afrodite (Pindaro, Pitiche, VI, 1; Peana, VI, 4). A tal punto lontano, oltre il cerchio del desiderio, si
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estende il suo potere. Ella si rivela nello splendore dei fiori, nei giardini, nel luccicare del mare, nella felicità di ogni essere e cosa che siano colti da un istante divino. Attraverso di lei l'uomo è così legato all'infinito. Invece di venir ricondotto a se stesso attraverso il suo proprio sentire, egli si apre alla vita universale, scoprendo che quel che lo muove è più grande e più vero nell'essere del mondo. Afrodite ci ha già condotto agli dèi olimpici, a quelle figure perfette che, dalle forme antichissime delle essenze divine preelleniche, si sono via via schiarite dinanzi allo spirito greco. Torniamo però ancora una volta alle rappresentazioni in cui questo spirito greco, senza collegarsi alla tradizione, dà a conoscere la propria natura. Gli è innato accogliere tutto quel che è giusto, buono, conveniente, e non come esigenza astratta o imperativo di una autorità assoluta, ma come una verità che si rivela in una forma d'essere sovrumana, da guardare in volto con la stessa determinazione che si ascrive alla volontà. In questo senso Dike, per comprendere la quale il nostro concetto di giustizia è di gran lunga insufficiente, è una dea; il suo nome abbraccia l'intero ordine naturale dimostrando la propria potenza non soltanto nella vita umana, ma anche nella vastità del mondo, nel movimento del cosmo. Eraclito chiama le Erinni «ministre della giustizia» (fr. 94), le quali anche al sole chiederebbero ragione se questo andasse oltre la sua misura. Dike è annoverata tra le Ore, le figure divine che si succedono nel volgere dell'anno, generate da Zeus e dalla sua prima sposa Temi (Esiodo, Teog., 902). Cìliesta Temi è lo spirito divino della ragione e del consiglio, la dea «d'alto senno» (Pindaro, fr. 30), «che ispira il giusto» (Eschilo, Prom., 18). In Omero (Il., XV, 87), durante la riunione degli dèi, essa si fa incontro a Era per salutarla e rivolgerle una domanda; chiama i numi a raccolta per ordine di Zeus (Il., XX, 4); riunisce e scioglie anche i consigli degli uomini (Od., II, 68). A Tebe, infatti, il suo santuario è legato a quello delle Moire e di Zeus Agoraios (Zeus "consigliere": Pausania, IX, 25, 4; così come in Esichio si fa riferimento a 'Ayopctla 8Ef!tç). Anche i diritti dell'ospitalità e
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l'obbligo nei confronti di coloro che chiedono protezione hanno in lei, oltre che in Zeus, il loro fondamento divino (Pindaro, Olimpica, VIII, 21; Eschilo, Supplici, 360). I Ciclopi, di cui l'Odissea racconta che non riconoscevano, nella loro condizione selvaggia, alcun vincolo giuridico, rappresentano il tipo di esistenza estranea a Temi (à9Ef,tLCHoç, Od., IX, 106). Del suo essere e della sua opera non testimonia soltanto la sfera della decisione ponderata, ma tutto ciò che per l'uomo è naturale, conveniente, consueto (Il., IX, 134). Le sue parole svelano i nessi degli eventi, il necessario avvicendarsi delle cose future; e non c'è alcun confine tra verdetti e regole: è proprio lei la divinità preposta a ogni ordinamento. Per questo Temi è simile all'antica Madre Terra (Eschilo, Prom., 209) e le è tributato un culto come Gaia Temi. A Delfi, dove le sentenze oracolari si chiamano 9!lf,ttTEç, si dice abbia pronunciato oracoli come dea della terra prima di Apollo. Al pari di Afrodite, anche Nemesi proviene dal mondo preellenico. In essa, però, già il nome indica la trasformazione in una forma greca. È uno spirito oscuro, lo spirito del risentimento, quello che in questa forma rivela la sua origine divina. Esiodo, in un punto importante, la nomina tra le Figlie della Notte (Teog., 223). Un antico mito scorge in Nemesi, al pari di altri popoli, l'elemento femminile primigenio nel suo aspetto pericoloso e portatore di sventura. Essa, in sembianze d'oca, l'animale della femminilità, genera da Zeus, che ha assunto le sembianze di cigno, l'uovo originario dal quale uscirà Elena, la bellezza che arreca sventura. Al mondo intero è estesa la sua essenza: essa assomiglia alla dea della terra, alla Grande Madre, all'antica Afrodite, all'Artemide asiatica, cosa che in questa sede non può ulteriormente essere trattata. L'animo umano, però, le rende al tempo stesso testimonianza con il sacro rigore dell'indignazione e dello scrupolo morale, indispensabili a una vita superiore. Essa è la Nemesi quale spirito divino di ogni nobile indignazione che, secondo Esiodo, insieme con la dea Aidos, alla fine dei tempi abbandonerà completamente il genere umano in preda all'abbrutimento.
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In una forma divina hanno la loro fonte di vita e la loro vera realtà non soltanto sensazioni, risoluzioni e pensieri, ma ogni capacità e ogni riuscita, per quanto orgoglioso possa sentirsi l'uomo delle sue forze, poiché la virtù di cui egli si vanta non è in fondo nient'altro che l'immediata vicinanza a una realtà divina. È quel che, in Omero, ci mostra ogni rappresentazione di gesta ed eventi.
VIII Potremmo considerare ancora, in questo senso, numerose altre nature divine, ma apprenderemmo, sia pure in modi sempre nuovi, la stessa cosa, e cioè che dell'esperienza e del pensiero greci è propria un'oggettività della cui forza e determinazione noi soltanto a fatica riusciamo a farci un'idea, poiché religione, filosofia e scienza ci hanno educato a tutt'altro atteggiamento nei confronti del mondo. Certo, alcuni - pochi a dir la verità anche nell'epoca moderna si sono avvicinati con la propria esperienza a questo modo di pensare. L'esempio massimo a questo proposito ci viene da Goethe. Egli sapeva bene di essere diverso dagli altri e ha lasciato, in relazione al suo studio della natura, alcune illuminanti osservazioni sul modo di vedere che gli era peculiare. Così, infatti, egli è divenuto il creatore di una teoria della natura che mostra innegabili affinità con la visione antica; ma già molto prima aveva posto sulle labbra del suo Prometeo parole che rimandano alla coscienza religiosa della Grecia antica. 4 La propensione per l'elemento oggettivo, che è, in fondo, un elemento divino, nella lingua della poesia greca si rende chiaramente manifesta, il che la distingue da quel modo d'espressione di tipo logico e psicologico che ci è più vicino. Certo anche qui, come da noi, relazioni e condizioni significative vengono indicate mediante parole e nessi verbali astratti, ma nello stes4
Cfr. supra, p. 16.
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so tempo, senza che si muti l'espressione, esse appaiono come entità viventi, come potenze divine. È questo a renderci la loro lingua, in molti casi, del tutto intraducibile. Il nostro linguaggio, infatti, non ci consente di parlare, come fa per esempio Pindaro {Olimpiche, VIII, 22), dell'ordinamento giuridico {Temi) come di una dea e consigliera del dio supremo e, nello stesso istante, di dire come esso sia coltivato ed esercitato con zelo dagli abitanti della città. Soltanto con descrizioni complicate possiamo restituire il pensiero del poeta quando questi, per offrire un altro esempio, nel bel rigoglio della gioventù, ravvisa la dea Ebe, figlia di Zeus e di Era, che sull'Olimpo versa nettare agli dèi; e della dea Ilitia, che presiede alle nascite, racconta come nessuno, senza di lei, veda il giorno e la notte e possa godere di sua sorella, Ebe, la gioventù che plasma le membra {Pindaro, inizio della VII Nemea). In Euripide (Elena, 560) Elena, che riconosce all'improvviso, nello straniero che le sta dinanzi, lo sposo creduto morto, grida sopraffatta dal senso della presenza divina: Oh dèi! ché un dio è, anche, ritrovare i propri cari.
La schiera di creature divine quali Diritto, Leggiadria, Pudore e così via, che compaiono nel culto, prosegue con stile linguistico alto in numerose figure che non sono meno divine per il fatto di non possedere alcun culto pubblico e di divenire visibili spesso soltanto nell'illuminazione di un istante. Che la maggior parte delle divinità, in Esiodo così numerose, i cui nomi rimandano a condizioni e destini determinati e propri dell'esistenza umana, ancora non compaia in Omero, mentre sempre di nuove se ne presentano nei poeti successivi, non ha il minimo significato per l'antichità e l'originarietà di questa intuizione religiosa. Anche i grandi dèi di Omero, qualunque cosa siano stati in tempi più antichi - in quanto essi hanno per lo più nomi preellenici -, sono manifestazioni
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viventi del regno dell'essere, rivelazioni multiformi del mondo tali da rispecchiarsi nella vita umana nel modo più puro e spirituale. O!iesto, e non altro, è l'elemento greco presente nelle grandi nature divine tramandate dall'oscurità dell'era primordiale. In questi nuovi volti olimpici propri della divinità che abbraccia il mondo, lo spirito greco ha celebrato il suo trionfo più luminoso. Furono una saggezza e una prossimità al divino ancestrali a fare qui il loro ingresso nel prodigio della luce, rinate al giorno della forma dal mistero della notte. È questo il significato della vittoria di Zeus sulle potenze primigenie. O!iesto medesimo spirito greco, però, al quale le grandi divinità si rivelarono nuovamente in tal modo, non ha cessato di salutare l'essenza, ovunque esso l'incontrasse, come una forma e una manifestazione divine. Le forme dell'esperienza e del comportamento umani, che sempre di nuovo vengono alla luce, si offrirono alla conoscenza di questo spirito come forme dell'essere che estendono la loro validità ben oltre l'uomo, nella natura e nel mondo; e quand'anche esse non racchiudano quella ricchezza che è propria unicamente delle figure olimpiche, chiedono tuttavia di venir considerate, senza eccezione, come aspetti divini del mondo. Sono queste le divinità che traggono il loro nome dalle condizioni e disposizioni in cui esse si rivelano e che nella scienza vengono molto superficialmente designate come "personificazioni". Ne incontriamo alcune già in Omero; in gran numero, però, compaiono solo nel dotto filosofo-poeta della Teogonia. Nella poesia successiva ne vengono create, corrispondentemente alla multiformità dell'esperienza vitale, sempre di nuove; e il numero delle occasioni, che per la prima e spesso per l'unica volta, appaiono in una luce divina, è sconfinato. Se le si considerasse per questo segni di un modo di pensare immaturo, non si sarebbe nel giusto. Il loro carattere fa complessivamente parte, al contrario, dell'autentica esperienza greca antica, e solo l'autorità dell'epos omerico le tiene, per così dire, un po' da parte, tanto che nella poesia solo a poco a poco riescono a dispiegarsi più liberamente.
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Il modo di pensare proprio della grecità si manifesta senz'altro là dove esso, per esempio, nella struttura stessa del nome, ha trovato la propria espressione, come nel caso delle dee Charis, Temi e così via, familiari anche a Omero. In altre dal nome preellenico, come, per esempio, Afrodite, se solo poniamo mente alla vastità del loro regno, ravvisiamo la forza originaria della visione greca, e con stupore ci accorgiamo di come l'immagine di una divinità primordiale si sia mutata, nello spirito greco, in umanità e prossimità alla vita. In umanità! Proprio questo è stato da sempre rimproverato ai Greci, di aver costretto qui, nella divinità, la pesante caligine di ciò che è terreno e di averne oscurato la sovrumana luce. Ciò che il nostro intelletto non comprende, sono gli occhi a insegnarcelo: non è stata infatti la divinità a oscurarsi, bensì l'uomo a illuminarsi, affinché attraverso la sua immagine rilucesse qualcosa di superiore, in grado di respirare l'infinità. La forma umana del dio elaborata dai greci rimanda a una forma divina dell'uomo di fronte alla quale non ci resta che sostare estasiati, prima di osar levare lo sguardo ai loro dèi. O!iesto prodigio dell'umana natura, questa divina apparizione dell'uomo, al cui fianco procede l'umana apparizione del dio, fu, un tempo, realtà. Fu l'uomo eroico colui che visse in un tale accordo con l'infinito da far sì che dio e uomo potessero incontrarsi in una forma eterna e specchiarsi l'uno nell'altro. Egli è la testimonianza veritiera degli dèi olimpici.
IX Però il tuo nome non si spense teco: anzi la gloria tua pel mondo tutto rifiorirà, Pelìde, ognor più bella.
Con tali parole Agamennone, nel regno dei morti, si rivolge al più illustre degli eroi (Od., XXIV, 94). Se la stirpe degli eroi greci credette al perdurare della gloria da essa ambita, la storia,
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certo, le ha dato ragione. Il più geniale dei popoli non celebrò i suoi eroi soltanto nell'epos antico: anche in seguito essi furono oggetto di grande poesia. La tragedia viveva tutta del loro ricordo. «Briciole dalla grande tavola di Omero» chiamava Eschilo le sue tragedie (Ateneo, 8, 347e). E ancora oggi, dopo tre millenni, non impallidisce lo splendore di queste forme. Qyale genere di uomini sarebbe più degno della nostra attenzione? I caratteri eroici che compaiono nell'epos di altri popoli si distinguono da quello greco in più di un punto. E più di tutti balza agli occhi la differenza se consideriamo la relazione esistente tra l'eroe e l'elemento sovrumano. Se presso altri popoli gli dèi possono rivestire un ruolo molto importante, qui essi sono tutto. Tutta l'esistenza dell'eroe, il suo pensiero, la sua volontà, la sua azione, in breve tutto ciò che è, e di cui è capace, risulta così saldamente legato all'esistenza degli dèi, che soltanto grazie a loro sembra ottenere la propria realtà. Ciò nonostante egli non si sente creatura, servitore o ministro della divinità. Il suo contegno è orgoglioso e indocile, come se fossero proprio gli dèi a renderlo cosciente di se stesso e della propria grandezza. Siamo qui di fronte a una delle più stupefacenti esperienze religiose: quelle tipiche scene di Omero, in cui è una divinità a guidare il lancio e il colpo messi a segno dall'eroe, ed è ancora una divinità a suscitare quell'idea decisiva che gli passa come un lampo nella mente, mostrano l'uomo in una grandezza e sicurezza di sé così abbaglianti da farci dimenticare del tutto la sua dipendenza. Qyesta dipendenza non può che essere dunque di specie diversa da quella che altri popoli hanno provato. Nonostante l'immane distanza, sembra sussistere tra uomo e dio una misteriosa affinità e unità: e noi comprendiamo perché coloro che appartengono alla stirpe degli eroi greci vengono detti "divini". È questo che i Greci delle epoche seguenti hanno avvertito. L'età degli eroi non era, nel loro ricordo, la più antica. Secondo il poema di Esiodo che tratta delle età del mondo altre tre l'avevano preceduta: l'età "dell'oro", che non conosceva né fatica né dolore, l'età "dell'argento" e quella "del ferro",
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nella quale vivevano gigantesche creature selvagge che si annientavano a vicenda; finché ne apparve finalmente una quarta «più giusta e migliore, / di eroi, stirpe divina, che sono detti semidèi» (itvòpwv ~pwwv 6efov yhoç, o'ì xaleovmL ~fL[SeoL). Sono questi gli eroi della guerra di Tebe e di Troia, di cui alcuni eletti continuano a vivere sull'Isola dei Beati. Anche l'Iliade li chiama una volta «semidèi» (~fL[Seot, Il., XXII, 23). Per Esiodo essi rappresentano la preistoria (7rpoTEPYJ yeve~), il passato grande e glorioso al quale egli, appartenente alla quinta generazione, improntata a una completa decadenza, guarda con dolente rassegnazione (Opere e giorni, 109 ss.). È dalla poesia greca e dall'arte, e soprattutto da Omero e dalla tragedia, che conosciamo questa stirpe di eroi. Ma quale mondo fu mai quello che ha riempito per tanti secoli con la sua vita, la riflessione e la fantasia dei Greci? «Un mondo senza utilità» dice Jacob Burckhardt nella sua Storia della civiltà greca, un'esistenza «che non contiene nient'altro che battaglie, tragedie dinastiche e, in mezzo a tutto questo, gli dèi». 5 Il profitto e il vantaggio a cui le battaglie e le fatiche umane comunemente servono, o almeno fingono di servire, sembrano qui del tutto esclusi. Ammettiamo pure che alla memoria greca sia sfuggito qualcosa di ciò che i realisti della storiografia ritengono essenziale, dobbiamo però star certi che essa ha conservato fedelmente ciò che vi era di più significativo. 01iesta memoria sa di battaglie e di vittorie, di splendore e di declino; tuttavia, per quanto grande possa essere l'impresa, scopo dell'appassionata contesa non è né potenza né piacere, ma la grandezza e la fama dell'eroe dalla nobiltà innata. Non si combatte per fondare un regno o per espanderlo, non si aspira a una supremazia che unisca i popoli sotto una volontà dominante, o a istituire nuovi ordinamenti e ad estendere legalità e benessere. Troia viene saccheggiata e bruciata, tutti gli uomini cadono in battaglia, le donne vengono condotte via in catene insieme con il bottino predato, ma non si pensa a impadronirsi della terra e non si 5
J. Burckhardt, Storia della civiltà greca, Sansoni, Fìrenze 1955.
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trae, dalla caduta di un potente regno, nessun altro guadagno se non l'eroica soddisfazione di aver vendicato l'offesa subita. Che impresa! A causa del rapimento della donna più bella, affondano nella polvere gli eroi più nobili e innumerevoli loro guerrieri, finché la città del principe rapitore non è distrutta! Solo follia può ravvisarvi l'asiatico (Erodoto, I, 4). 6 E nessuna passione romantica, nessun amore cortese si mischia alla serietà che celebra quest'eroismo. Per Troia, tuttavia, sullo sfondo di ogni avvenimento, stava la tragica necessità di dover soccombere, poiché Paride, il figlio del re, aveva preferito il favore di Afrodite alla grandezza eroica e regale che gli era stata promessa da Era e da Atena. La vita quotidiana degli eroi, anche se vengono chiamati re, è così semplice che le preoccupazioni materiali rimangono entro confini assai modesti. Si pensi solo ai banchetti, che Omero non dimentica mai, e che quasi sempre non sono che occasioni in cui si placano la fame e la sete. Si conoscono solo le pietanze più semplici, sempre le stesse: mai una volta che si parli di un vino più nobile. E questa naturale assenza d'esigenze non vale soltanto per cibo e bevande. È estranea a questo stile di vita l'avidità di piaceri, in ogni sua forma; e con essa il desiderio senza limiti, la dispotica volontà di tenere in propria incondizionata balìa individui e popoli. Vale certo la pena conservare il regno o impadronirsene con la forza. Il re, però, non è un sovrano assoluto, è un padre, un pastore del popolo. Le sue facoltà non vanno molto oltre l'amministrazione della giustizia e del comando militare. Può anche partire alla volta d'avventure di guerra, vincere città nemiche, portarsi via donne in catene e tesori, ma i suo desideri di grandezza hanno i loro confini entro la stretta cerchia del regno avito. Non sono comunque desideri meno sconfinati. O!ii si lotta per un regno da cui non si ricava nessun guadagno materiale e che non soddisfa l'ambizione con l'ubbidienza di chi è sotCfr. K. Reinhardt, Herodots Persergeschichten, in E. Grassi (a c. di), Geistige Uberlieferung. Ein]ahrbuch, Kiipper, Berlin 1940, p. 159.
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tomesso. Anche di questo regno si potrebbe dire che non è di questo mondo, per quanto non appartenga a un aldilà ultraterreno. Esso non finisce con la morte; anzi, è soprattutto in seguito che rivela il colmo del suo splendore. È il regno della grandezza eroica e, come tale, il regno della gloria e del canto. Non è ciò che dipende dall'uomo, ciò di cui l'uomo è capace attraverso il seguito e la subordinazione di molti, a determinarne il valore, ma ciò che l'uomo stesso è e ciò di cui può dar prova, nell'unità e totalità originarie di tutte le virtù, fisiche e spirituali. Qyelle a cui pensa il poeta Simonide, quando parla della «vera eccellenza» (àÀrx9Ewç àyrx96ç), «della perfezione di mani, piedi e intelletto» (xepo-[v TE xrx[ 1!00-L xrx[ v6~ TETpa.ywvoç, fr. 4). Ciò presuppone nascita illustre, nobiltà di discendenza, riprodursi di forze e virtù, di ideali e doveri. «Essere sempre il primo e distinto fra gli altri» queste sono le parole che Peleo consegna in eredità al figlio Achille (Il., XI, 783); e un altro padre, Ippoloco, aggiunge lo stesso consiglio a suo figlio Glauco: «Che sempre fossi fra gli altri il migliore e il più bravo, / non facessi vergogna alla stirpe dei padri, che furono fortissimi a Efira e nella vasta Licia» (Il., VI, 309). Diomede ferito pensa, nella stretta della battaglia, al suo grande padre Tideo, e la dea Atena gli pone davanti agli occhi, come monito, l'immagine della forza vittoriosa (Il., V, 793). Narra Plutarco del re Pirro, il quale si vantava di discendere dalla stirpe d'Achille, che nell'assalto alla fortificata città di Erice, in Sicilia, dopo aver pregato Ercole di fare in modo che potesse onorare la sua stirpe, aveva assaltato per primo le mura compiendovi veri prodigi di forza eroica (Pyrrhus, 22). Mediante gli onori che il nobile eroe acquisisce, la divinità della stirpe deve emergere sempre di nuovo in modo convincente. Non è però soltanto il valore a meritare la corona, e ancor meno il gusto di mettersi in gioco per spirito d'avventura, o l'insensato furore che, nella sopraffazione di vittime innocenti, dà solo prova della sua gigantesca forza demoniaca. Accanto all'eroe sta Atena, la dea della forza ragionevole. È lei a richiamare alla ragione e ad un più nobile contegno Achille, che, in preda a un'ira furiosa, vuole
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scagliarsi contro coloro che lo hanno offeso (Il., I, 194). Indignata volge le spalle a Tideo, al quale aveva destinato la corona dell'immortalità, nell'istante in cui, in un accesso d'ira, questi fa torto alla dignità umana (Apollodoro, 3, 76; Stazio, Tebaide, VIII, 759). Contro Achille, che nel lutto per l'amico caduto si comporta in modo tanto disumano con il cadavere di Ettore, si leva, con altri dèi, Apollo, mostrando come il nobile, anche in occasione delle perdite più dolorose, debba mantenere contegno e misura (Il., XXIV, 46). Le virtù e i doveri cavallereschi esigono, fin dalla più tenera età, un'educazione accurata. Per questo ci vengono fatti i nomi di educatori e maestri di famosi eroi, che sono talvolta figure semidivine come Chirone; ed è caratteristico dello spirito greco che anche la musica facesse parte dell'educazione dei fanciulli di stirpe nobile. Non è forse l'eroe stesso a suonare la lira e a cantare «le gesta gloriose degli uomini»? E così nell'Iliade, che non conosce alcun musico di professione, i messi di Agamennone trovano Achille che canta e suona davanti alla sua tenda, mentre l'amico Patroclo lo ascolta in silenzio, per prendere poi, dopo di lui, lo strumento a corde (Il., IX, 136). Uno dei più importanti doveri della nobiltà era l'amichevole ospitalità, di cui Omero tante cosa sa dirci. Essa appare nel modo più lampante nella storia del re Admeto, così come l'ha rappresentata Euripide nel suo A/cesti. Admeto godeva dell'amicizia di Apollo, il quale gli aveva confidato i princìpi della saggezza di vita (Bacchilide, 3,78; cfr. Ateneo, 15,695c). Nel giorno della morte e sepoltura della sua amata sposa sopraggiunse in casa, inaspettato, Ercole: Admeto, cortese, padroneggiò se stesso mostrando al nobile ospite un volto sereno. Ne ebbe in cambio il ringraziamento più bello. Qyando il semidio venne a sapere con sgomento quale lutto aveva disturbato, riconquistò la defunta dalla morte e si avverarono quelle parole che il coro tragico aveva intonato nel momento di più profondo dolore: «l'uomo che onora gli dèi» sarebbe stato certamente di nuovo felice (Euripide, A/cesti, 604). È ciò che lo storico è solito trascurare come favole senza importanza a darci l'immagine più chiara della grandezza
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propria del sentimento dell'essere di questa che i Greci hanno chiamato "stirpe divina" (9r:fov yhoç). Essi guardavano al sommo dio celeste come al progenitore del loro regno. «Da Zeus hanno origine i re» (Esiodo, Teogonia, 96; Callimaco, Hymni, 1,79). Per questo i principi vengono chiamati «parenti di Zeus» (9r:pcbroVTEç ~t6ç, Od., XI, 255), come pure di frequente li si dice «allevati da Zeus» (òtoTpE