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Italian Pages 142 [155] Year 2015
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Titolo | Dieci meno Autore | Francesco Ventura, Luigi Sardiello ISBN | 978-88-941291-1-3 © Tutti i diritti riservati all’Autore Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il Preventivo assenso dell’Autore. Youcanprint Self-Publishing Via Roma, 73 – 73039 Tricase (LE) – Italy www.youcanprint.it [email protected] Facebook: facebook.com/youcanprint.it Twitter: twitter.com/youcanprintit
Foto di copertina: Toni Cappello
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MINIMALIA 1 Collana diretta da Arnaldo Miglino
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Francesco Ventura - Luigi Sardiello
Dieci meno Un’avventura cinematografica
LICOSIA EDIZIONI
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© 2015 Licosia Edizioni 84061 Ogliastro cilento Via Garibaldi 169 www.licosia.com [email protected]
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PROEMIO
Dove ci si domanda del valore di un meno un po’ sbiadito e poco riconoscibile Un’avvenente signora scandinava – una Bo Derek più alta, più europea, più chic e ancora più fredda – mentre fumavamo, l’altra sera, fuori da un ristorante vicino a Piazza Navona dove stavamo cenando con mogli, mariti e amici, mi ha chiesto perché volessi continuare a scrivere. Aveva saputo che avevo pubblicato un libro di poesie e che ne stavo scrivendo uno nuovo. Non ho fatto in tempo a risponderle per un improvviso scroscio di pioggia che ci ha costretto a rientrare tra i commensali. Provo adesso a dare una risposta alla domanda della signora del nord – di cui avevo visto poco prima, a casa sua, grandi enigmatici dipinti alle pareti – nella speranza che riceva il mio messaggio. Tutto cominciò per colpa della professoressa Anna Pierini che in quarto o quinto ginnasio – era il 1955 o 1956 – ci assegnò un tema in classe intitolato “Il biondo Tevere racconta…”. All’epoca, i problemi ecologici non erano all’ordine del giorno. L’aggettivo scelto dalla professoressa, 7
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per qualificare il fiume che attraversa Roma, era evocativo di supposte mitiche età dell’oro o pauroso riflesso della discesa di vichinghi lungo criniti? Di certo non era ispirato dall’origine incerta dell’attuale colore. A me il tema non creò problemi di sorta perché già mi adoperavo in quello che a Roma il volgo chiama “cazzeggio” ma che io preferisco considerare come nobile pratica di libera conversazione. Non ricordo più cosa inventai per compiacere la Pierini, materna e seducente come la Bergman di Eliana e gli uomini, fatto sta che riuscii a riempire le otto facciate di due fogli protocollo, sull’ultimo dei quali la professoressa scrisse con la matita blu un bel 10. Grazie alle mie ardite divagazioni orali qualche settimana prima ero riuscito a strappare un immeritato 8 in un’interrogazione su In morte del fratello Giovanni di Ugo Foscolo che non avevo neanche letto… ma 10! Era un voto che non avevo mai visto prima e che non avrei mai più visto dopo. Fu come un marchio a fuoco sulla mia anima. Era chiaro che a uno così la Pierini assegnava il compito nella vita di fare lo scrittore. Tanto più che l’investitura fu certificata con la “ceralacca” da mia madre – anche lei professoressa di lettere al ginnasio e collega della beneamata – quando tornai a casa portando la notizia del voto eccellente. Alla sera, dopo l’ennesima incredula rilettura della mia prodezza, scoprii una cosa della quale non mi ero accorto. Accanto al 10, un po’ sbiadito e poco riconoscibile, ma inequivocabile, la professoressa aveva aggiunto un meno. Forse per un veniale errore di punteggiatura, forse per un inciampo sintattico che aveva intaccato la purezza del testo complessivo. Non lo seppi mai, ma il meno c’era. Non diedi peso alla scoperta e preferii dimenticarmene, gratificato 8
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com’ero dall’evento e dalla conferma materna. Feci male. Quel meno, col senno di poi, avrebbe dovuto mettermi in guardia fin d’allora sulle infinite difficoltà che avrebbero costellato il mio cammino di aspirante scrittore. Un paio di anni dopo mi arrivò un monito irrevocabile dalla seconda autorità parentale di casa. Don Giandonato – ovvero “nonno” Nino, secondo i miei figli – durante il tradizionale pranzo domenicale tranese, mezzi ziti al ragù e involtini di carne – che noi pugliesi, stravolgendo sconsideratamente l’espressione toscana della carne alla griglia, chiamiamo “brasciole” – espresse il suo scetticismo sul tempo eccessivo che sembrava dedicassi al contino di Recanati dalla gobba pronunciata e dal pessimismo cosmico. Al monito fece seguito, poco tempo dopo, il divieto solenne di iscrivermi a Lettere, facoltà se mai destinata alle figlie femmine, e l’imperativo, con il viatico di uno schiaffone (l’unico del nostro rapporto padre-figlio), di immatricolazione a Giurisprudenza. Divieto doloroso ma utile, bisogna dargliene atto, per una serie di vittorie in non so quanti concorsi pubblici cui regolarmente mi iscrissi dopo la laurea, a seguito della presentazione continuata, da parte del signor padre, delle gazzette ufficiali che ne riportavano termini e modulistiche. È grazie a questo che sono riuscito a mantenere me e la mia famiglia nella vita. Anziché proseguire la tradizione mercantile del mio bisnonno – di cui conservo un severissimo ritratto a olio che lascia intravedere un piratesco orecchino – e di mio nonno Francesco che oltre a fare il piccolo cabotaggio con il trabucco di famiglia tra Ancona e Trani, coltivava vigneti e alberi da frutta. È ancora grazie a questo che invece che tra marinai, mercanti e contadini, la maggior parte della mia vita 9
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l’ho trascorsa al Ministero per i Beni e le Attività Culturali alle prese con gente di cinema. Ma arriva un giorno in cui bisogna mettere a tacere il senso di colpa e trovare il coraggio di esaudire una profezia scolastica e un’aspettativa materna. Ed eccomi qui, a settanta anni, pronto a onorare una promessa. Una volta presa la penna in mano, non fidandomi fino in fondo di me e su suggerimento di una cara amica, ho deciso di farmi aiutare da qualcuno, e scrivere questo libro a quattro mani. Una piccola astuzia, nel tentativo di cancellare, per sempre, quello sbiadito “meno”.
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Renée Falconetti in La passione di Giovanna d’Arco di C.T. Dreyer (1928) 12
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CAPITOLO I
Dove si racconta di un Ministero di serie B, anzi di quarta serie come quello del Cinema Mio padre, dunque, mi aveva spinto a partecipare a una serie di concorsi statali consegnandomi quotidianamente, dopo la laurea, una gazzetta ufficiale con i format delle domande. Riuscii a vincerli tutti, tranne uno: quello in magistratura. Forse, in fondo in fondo, il giudice – memore del dettato evangelico del non giudicare – non lo volevo fare o, più probabilmente, non ero all’altezza. Però mi sono sempre chiesto perché agli orali non fui ammesso mentre lo fu un mio collega cui, nei gabinetti del palazzo degli esami di via Induno, avevo passato il tema di diritto civile, che non sapeva fare. Di lui non ricordo il nome, ma ricordo bene il cognome del padre che all’epoca rivestiva la carica di Presidente della Corte Suprema di Cassazione o di qualcosa del genere. Tra i vari concorsi vinti non ho dimenticato quello per il Ministero dell’Interno, il cui incarico l’augusto genitore non mi fece accettare perché secondo lui il mio carattere non era adatto ai compiti poliziotteschi che temeva mi sarebbero stati affidati, ma quella vittoria gli fece fare una bellissima figura – di cui mi 13
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ringraziò – con il prefetto capo del personale, che era il suo diretto superiore. Non sono diventato, dunque, prefetto anche perché avevo nel frattempo superato le prove del Ministero del Turismo e dello Spettacolo, che in quel periodo amministrava musica, teatro, circhi equestri e cinema. Come si premurò di avvertirmi il solito babbo, si trattava di un ministero di serie B: non si facevano straordinari, non c’erano superminimi, non aveva dopolavoro con piscina sul Tevere, né accessi agli stabilimenti marini di Ostia e Fregene connessi con autobus. Presentava, però, un vantaggio: un’unica sede a Roma. E poiché avevo deciso di sposare una ricercatrice di chimica biologica che non poteva allontanarsi dalla capitale, accettai ob torto collo il secondo invito a presentarmi, dopo aver ignorato gaglioffamente il primo, giacché già dirigevo una specie di Asl a Pisa dove guadagnavo molto di più. È così che ho cominciato a scrivere ricorsi, discettare di giostre e circhi equestri, esaminare teatrini off e compagnie grandi e piccine. Ricordo un permesso concesso agli Inti Illimani che sulla copertina di un vinile che avevo prontamente comprato, mi ringraziarono con una dedica che ahimè ho perso, come il disco, e forse – meno male – il mio entusiasmo rivoluzionario: “Al compañero Ventura!”. Infine, nonostante i tentativi di dissuasione terroristici da parte di alcuni funzionari del ramo (ce ne fu uno in particolare, in seguito coinvolto nel processo Occorsio come presunto terrorista nero o aspirante tale, che mi preannunciò percorsi accidentati per la mia carriera) approdai all’ufficio del cinema. All’epoca non frequentavo molto il cinema italiano sebbene i miei amici mi avessero convinto a guardare L’eclisse al Vascello, il vecchio cinema di Monteverde (dove abitavo), che 14
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mi aveva incantato, anche se io avevo poi maggiormente apprezzato Professione Reporter perché il buon Antonioni, come nel racconto pirandelliano del treno che fischia, mi aveva suggerito un metodo efficace per fuggirmene da Roma, dall’Italia, dal mondo, tentazione che riaffiora periodicamente. In verità preferivo i film americani, che avevo visto nei cinema di provincia di Brindisi dove prima vivevo. E avevo così eletto padre putativo, dopo aver lasciato il fratello maggiore George Montgomery, Randolph Scott con la sua faccia di pietra nei suoi corruschi film in bianco e nero, per passare più tardi a John Wayne, maestoso ricercatore in Sentieri Selvaggi e, infine, a Gary Cooper, maturo winner in Mezzogiorno di fuoco. Ma erano le attrici, in verità, a occupare un posto d’onore nel mio cuore: ricordo in particolare l’apparizione androgina di Renée Falconetti in Giovanna D’Arco, l’unica capace di competere in sensualità con la Nascita di Venere di Botticelli e Le tre Grazie di Canova tutte insieme. Forse perché, nell’inconscio di una sana lettura illuministica, è “lei” Justine, la vittima del divin marchese. Alla fine in quel posto ci sono rimasto quarant’anni. Quarant’anni di incontri: artisti affermati, farabutti, mestieranti mediocri usciti alla ribalta e grandi talenti mai esplosi. Tutta roba degna di finire in un testo biografico, tentazione cui alla fine cedono tutti e alla quale non sono riuscito a sottrarmi. Per questo avevo dato un appuntamento a Luigi Sardiello – consigliatomi da Donatella Pascucci, di origine pugliese come me, e che aveva scritto un racconto su Garrincha, l’ala destra del grande Brasile del ’58, uno dei miei miti di adolescente al quale avevo dedicato alcuni versi del mio primo libretto di poesie, per dare insieme nobiltà a questi personaggi in cerca di un testimone ministeriale. 15
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Luigi si presenta nel mio ufficio mentre sto finendo di raccogliere i miei stracci di neopensionato. Lo faccio accomodare e, mentre si siede, accade l’impensabile. Uno sferragliare di chiavi, una sirena, il buio. Mi era già successo una volta, in passato, di restare chiuso dentro il Ministero nella vecchia sede di via della Ferratella. Era quasi mezzanotte e con l’allora direttore generale, Carmelo Rocca, rimanevamo spesso a lavorare fino a tardi, forse non avendo di meglio da fare. Quella volta me la cavai attraverso un’uscita secondaria della dependance dell’edificio civile con cui il Ministero comunicava. Ma stavolta vie d’uscita non ce ne sono: telefoni ed elettricità sono staccati. Del resto, il FUS Cinema si è esaurito e l’operatività del Ministero è di fatto sospesa. Siamo prigionieri per l’intero fine settimana. Uniche risorse le ultime riserve gastronomiche nel mio piccolo frigorifero e il quaderno di appunti di Luigi. Davanti a me il patrimonio di un ex funzionario dell’ufficio cinema: uno scatolone di libri, manifesti, lettere, vecchie cassette vhs, dvd, fotografie. La prima cosa che mi capita sott’occhio è la locandina di Diario di un vizio di Marco Ferreri. Decidiamo di partire da lì.
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CAPITOLO II
Dove si ricorda la mia amicizia con Marco Ferreri, alcune delle sue bizzarrie e le cene più belle della mia vita C’è stato un periodo della mia vita in cui io e mia moglie facevamo molte cene per una specie di campionato gastronomico con gli amici. Le più belle, però, furono quelle – fuori gara - con Marco Ferreri. Marco aveva dei modi un po’ bruschi ma due occhi azzurri di straordinaria dolcezza e una barba importante, quella del marinaio del pacchetto di sigarette Cutty Sark. Aveva scelto di farsela crescere perché era convinto che avrebbe regalato “un po’ di fascino a un viso troppo ordinario”. Era uno di quegli autori che non disdegnavano di sporcarsi le mani con la produzione e tanto meno di venire a parlare al Ministero. Gli altri autori del suo livello, i maestri, li avevo visti solo alle presentazioni dei loro film nelle commissioni di censura, di cui ero segretario. Come Vittorio De Sica, il più grande, che incontrai per un attimo, con venerazione, in occasione della proiezione di Una breve vacanza, il suo film con Florinda Bolkan – un anno prima di morire – quando, capovolgendo l’onere della prova, da uditore si trasformò in bonario inquisitore, chiedendo con un sorriso ai giudici se il 17
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film fosse piaciuto o meno e se per caso avessero l’intenzione di vietarlo ai minori. Non osarono. Marco affacciò i suoi occhi beffardi e la sua barbaccia sulla soglia della mia stanza, con la sua segretaria storica Tina Lengua, per chiedermi informazioni su come fare una coproduzione con l’estero. Aveva già diretto film come Dillinger è morto, La grande abbuffata, La cagna e stava montando Ciao maschio. Oltre ai critici e ai cultori, lo conosceva anche il popolino perché, nella trasmissione Bontà loro di Maurizio Costanzo, mentre non era intervistato, era solito accarezzare un’arancia. Scoprii che quella per le arance era per lui una vera passione. Ogni volta che veniva a trovarmi me ne portava qualcuna, per mostrarmi la sua stima e ringraziarmi dei consigli che gli davo sulle procedure ministeriali. Un giorno che il mio consiglio era risultato particolarmente prezioso, decise di andare oltre: “Mi chieda quello che vuole, una cosa che la farebbe felice”. Risposi schiettamente: “Mi farebbe felice averla a cena a casa mia”. Lui mi guardò e replicò: “Perché invece lei e sua moglie non venite a cena da me?”. Mi faceva piacere fargli conoscere mia moglie, peccato che lei non gradisse molto di essere coinvolta nelle mie faccende di lavoro, specialmente quando tornavo dalle riunioni di censura. Le sedute finivano alle undici di sera e io, pieno di immagini in testa, pretendevo di raccontargliele mentre lei, che era ricercatrice e aveva alle spalle dodici ore di lavoro a contatto col sangue e altre amenità, aveva appena messo a letto i bambini e mi guardava con gli occhi di chi ha come unica ambizione quella di andare a dormire. Mi aggrappai al ricordo 18
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di una volta che aveva apprezzato di essere coinvolta: avevo fatto una piccolissima cortesia a Checco Durante, uno degli ultimi grandi attori del teatro dialettale tradizionale romano, e lui da vecchio gentiluomo le aveva mandato dei fiori. Puntavo su questo precedente di cui era rimasta felice e sul fatto che a lei, come a me, il cinema piaceva, anche se non ci capiva niente. Le riferii l’invito di Marco. Lei mi chiese: “Ma che film ha fatto questo signor Ferreri?”. Io le risposi: “Il più famoso è L’ape regina”. Lei mi guardò, ci pensò qualche secondo e poi emise il verdetto: “Va bene”. Dopo aver abitato più o meno dentro al Teatro Marcello, Marco viveva a piazza Mattei, in pieno ghetto ebraico, di fronte alla sorridente Fontana delle tartarughe. Io ero molto intimidito, avrò avuto 35 anni e lui una cinquantina. Non avevamo la minima idea di cosa portargli. Era il periodo in cui si cominciavano a usare i cibi biologici. Io e mia moglie andammo nel più famoso di questi negozi, “Castroni” in via Cola di Rienzo. Optai, su abile suggerimento della signora, memore del film di cui sopra, per una meravigliosa confezione in vetro di miele biologico. Ci aprirono Marco e sua moglie Jacqueline, una donna molto bella di origine canadese e di lingua madre francese. Né maggiordomi né camerieri. Una casa molto piccola. Nell’ingresso c’era una bicicletta come quella di Jacqueline Bisset in Rich and famous. Poi una camera da letto, una cucina e un grande soggiorno con una piccola finestra in un angolo e nell’altro un bellissimo tavolo rotondo di un legno molto chiaro. Lungo la parete un grandissimo divano a elle, in quella opposta una credenza lunga. Nient’altro, salvo una scala di 19
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legno al centro verso il soffitto altissimo su cui Mario Ceroli aveva scolpito Ferreri che saliva al cielo. Ci accomodammo tutti sul divano. Mia moglie gli diede il nostro prezioso pacchetto che conteneva il vasetto di miele, lui lo aprì. In un primo momento leggemmo nei suoi occhi un’espressione di approvazione, lo appoggiò sulla credenza e assunse un’espressione curiosa che non riuscivo a decifrare. Noi stavamo seduti. Lui era rimasto in piedi. Cominciò a passeggiare su e giù con le mani dietro la schiena, senza dire una parola, guardando di tanto in tanto il vasetto di vetro. Non capivamo cosa stesse succedendo. Poi ci comunicò che non avremmo cenato a casa ma “Al Comparone”, un ristorante di Trastevere che raggiungemmo a piedi. Prima di iniziare la cena Marco si alzò e capimmo finalmente il suo strano comportamento: andava in bagno a iniettarsi l’insulina. Era diabetico e al tempo stesso goloso da morire. La condanna di non poter mangiare le cose che gli piacevano lo faceva soffrire. Gli avevamo fatto il peggior regalo possibile. Da quella sera ho mangiato spesso con Marco. A pranzo, ogni due o tre mesi, nell’osteria “Tarallucci e vino”, in via dell’Amba Aradam, dove potete trovare un suo autografo su un tovagliolo di carta che lasciò alla giovane ostessa, che gli piaceva, poco prima di morire. Altre volte abbiamo cenato a casa mia: veniva da solo, o con Jacqueline, o con Tina. Una sera, per far contenti i miei ragazzi, mi portò anche Jerry Calà, che all’epoca era un vero divo televisivo grazie a I Gatti di vicolo Miracoli, e che con Marco aveva appena girato Diario di un vizio, insieme a Sabrina Ferilli. Marco amava le donne e per questo non le imbruttiva mai. Sabrina Ferilli, l’attrice che anni dopo si spoglierà, ma non del 20
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tutto, per lo scudetto della Roma, esordì con una scena di nudo per Marco, davanti a una chiesa. Era bellissima. Soltanto sei mesi dopo, in un altro film, sembrava avesse la cellulite. A tutti i registi che incontro per lavoro, chiedo sempre di seguire l’esempio di Marco: amate le vostre attrici, non imbruttitele. Fatemi questa cortesia. Tengo molto a Diario di un vizio anche per un altro motivo. Nel 1990 Marco mi regalò questo film (e la sua presenza) per un Festival di arti, cinema, musica e poesia che organizzai al Teatro Colosseo. Era un festival etnico e Diario di un vizio anticipava di vent’anni alcuni temi dell’attualità sociopolitica del nostro Paese, quelli del melting pot e dell’integrazione degli extracomunitari. In cambio Marco mi chiese di organizzargli uno spettacolo di danza del ventre. Facemmo di più: presentazione di Marco, proiezione del film, quattro ore di dibattito, danza del ventre. Poi aprimmo la porta del cinema: da lontano si sentivano echi di foresta, ritmi tribali, rullare di tamburi. Erano i percussionisti senegalesi che entravano in sala con i loro abiti da festa coloratissimi, e poi tutti a cena in uno dei primi ristoranti africani aperti a Roma, dove si mangiava con le mani. Fu una serata indimenticabile. Ricordo bene l’ultima cena con Marco. Era un’occasione pubblica, al festival di Venezia, c’erano i miei figli, Giovanni e Antonella, che lui aveva invitato, c’erano attori famosi oltre a Roberto Cicutto e Tilde Corsi, che avevano prodotto il suo ultimo film: Nitrato d’argento. Un film sulla morte del cinema. Un film funerario, presago. Marco stava già male, da lì a poco sarebbe morto. C’è stato un periodo della mia vita in cui io e mia moglie facevamo molte cene. Le più belle furono quelle con Marco Ferreri. 21
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CAPITOLO III
Dove si fa una breve cronistoria del mio amore con il famigerato articolo 28 e si disquisisce di alcuni registi che quella legge ha fatto esordire Come tutte le storie d’amore, la mia con l’articolo 28 nasce in maniera tumultuosa. Questo comma era uno dei cardini della famosa legge 1213 del 1965, meglio nota come Legge Corona, ministro socialista firmatario, che dopo gli interventi mussoliniani nel ventennio fascista sul cinema (Cinecittà, Centro Sperimentale di Cinematografia ecc.) e quelli andreottiani e democristiani del dopoguerra (tassa doppiaggio ecc.) diede un riordino complessivo e sistematico alla legislazione cinematografica italiana. La bozza della legge era stata opera, tra gli altri, del braccio destro del ministro, Claudio Zanchi, intellettuale fiorentino morto prematuramente, figura centrale nella vita culturale e istituzionale del cinema italiano degli anni sessanta, impegnato nel sostegno al cinema d’essai e ai giovani autori e che ispirò proprio l’articolo 28. A me, giovane funzionario del ministero da poco arrivato, venne messa in mano questa patata calda. I primi risultati della legge furono più che incoraggianti. Venivano fuori cineasti dirompenti, come i fratelli Taviani, e produttori coraggiosi, 23
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come Giuliani De Negri. I film si facevano, molti erano importanti, anche se il limite dell’opera prima era un po’ lasco, tanto che qualche regista ne ha fatti sette otto, come Silvano Agosti, autore di tutto rispetto, ma ahimè troppi per personaggi come Luigi Pastore e altri. I finanziamenti erano vincolati, con contratti di mutuo della Banca Nazionale del Lavoro. E proprio la BNL, nel 1974, mentre tutti noi eravamo in piena euforia produttiva, tira fuori il bubbone: “Così non funziona! Non c’è un produttore che ripaghi un mutuo! Ora li facciamo fallire tutti!”. Al ministero ero in prima linea, così si rivolsero a me. La situazione era critica, la minaccia reale. Pensai: “Chi è il personaggio cinematografico italiano che ha più carisma e più credibilità?”. De Sica era morto. Pensai a Cesare Zavattini, che tra l’altro mi sembra avesse una specie di incarico istituzionale: presidente della lega delle cooperative cinematografiche. Pensai: “Bisogna che Zavattini scriva al Presidente della Repubblica”, che al tempo, se non ricordo male, era Giovanni Leone, mio professore di procedura penale. Partì un telegramma di fuoco, in perfetto stile nazional-romagnolo. Successe un casino. Il ministro ci chiamò. Io e il mio capo, Carmelo Rocca, scrivemmo una leggina che diceva, in sintesi, che la garanzia del mutuo diventava il film stesso. Il produttore doveva ripagare il mutuo. A chi? Allo Stato, che gli aveva dato il contributo. Se non aveva i soldi per pagare il mutuo, qual era la garanzia? Il film. Semplice: in caso di insolvenza per mancanza di incassi, lo Stato diventava proprietario del film: “…io te do una cosa a te, tu me dai una cosa a me”. In questo modo furono salvate una cinquantina di cooperative e di produttori indipendenti. E io, per la prima volta, sentii che la mia laurea in legge era servita a qualcosa. 24
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L’idea che avevamo avuto noi era un po’ diversa da come fu poi approvata e modificata in Parlamento. La gestione economica dell’articolo 28 fu affidata al Centro Sperimentale di Cinematografia, che era una scuola. Era un errore logico in partenza ma, al contempo, non era il massimo che venisse affidata a un soggetto esclusivamente economico come la banca, come prima si era pensato. Adesso quella legge è stata abolita e dalle sue ceneri è nata l’attuale decreto Urbani, elaborato dal giovane direttore generale Gaetano Blandini, col quale pure avevamo collaborato. La laurea in legge e l’origine levantina della mia famiglia mi aiutarono ad elaborare qualche altra “ideuzza”, come il processo di cartolarizzazione e la vendita degli art. 28 tornati allo Stato. Tutte proposte che in seguito sono diventate operative anche se con scarsi risultati economici. La verità è che il vecchio brocardo salveminiano “profitti ai privati e perdite allo Stato” temo sia ancora attuale. Insomma alla fine, nonostante la mia preferenza per le materie umanistiche, il diritto ha cominciato a piacermi e, dagli e dagli, sono diventato esperto per lo meno di quello cinematografico. Così nel 1989, ormai alla soglia dei cinquant’anni e dopo una lunga serie di disavventure, il mio capo Carmelo Rocca mi comunicò che ero stato promosso dirigente. La mia lunga storia d’amore con l’articolo 28 finiva lì. Da quel momento avrei avuto un ufficio più grande e non mi sarei più occupato di produzione ma di promozione: festival, cinema d’essai, eventi, progetti speciali e altre varie ed eventuali, come l’Istituto Luce e il Centro Sperimentale. Organizzai una serata d’addio al Politecnico, un noto cinema d’essai romano, dove ero stato già quattro volte: la prima, tristissima, quando dopo aver ascoltato un monologo 25
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“femminista” di Peter Handke recitato da Marilù Prati, celebrai con una cena nel vicino bistrot l’addio alla mia cara Manuelita; la seconda in occasione della preparazione di un risotto molto sessantottino da parte di Amedeo Fago con la complicità di un suo compagno di università; la terza quando avevo assistito ai conati di ribellione del gruppo della Maddalena con Roberto Faenza, Elda Ferri e compagnia bella, un’anticipazione degli attuali “cento autori”; l’ultima, non certo per importanza, quando litigai con Sergio Leone facendogli presente che con i trenta miliardi di lire che stava cercando di mettere insieme per Stalingrado noi con l’articolo 28 riuscivamo a realizzare almeno un centinaio di film di altrettanti esordienti, qualcuno dei quali magari non malvagio e comunque dando una chance a tanta gente. In realtà trattai bruscamente, più che Sergio Leone, Oreste De Fornari, che presiedeva l’incontro. Anni dopo chiesi scusa ad Oreste, raffinatissimo cinefilo, che è stato uno dei migliori componenti della commissione ministeriale per il cinema negli anni 90. Di quell’ultima serata al Politecnico, ricordo soprattutto Chantal Lenoble Bergamo, bellissima signora di Deauville, giovane vedova di Bitti Bergamo, il gran signore del nostro tennis, e produttrice cinematografica indipendente di giovani autori, alla quale dedicai Forever Young di Bob Dylan, improvvisando con la mia vecchia chitarra di rockettaro ventenne. La ballata del maestro mi è sempre sembrata perfetta per ricordare un numero che fa pensare ad una bella gioventù. In ogni caso, quella con l’articolo 28 è stata una vera storia d’amore, e come tutte le storie d’amore ha avuto anche i suoi momenti di crisi e i suoi litigi. Uno su tutti quello con Silvano Agosti, prima della proiezione al “Giulio Cesare” dell’Uomo 26
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Tigre, che per fortuna non interpretai dopo un provino disastroso. Silvano ebbe il coraggio di negare, lui grande montatore che aveva studiato a Mosca dagli eredi di Eisestein e Pudovkin, che il montaggio fosse uno degli elementi costitutivi dello specifico filmico, sostenendo la tesi, a mio parere improbabile, che il cinema come atto rivoluzionario doveva prescinderne. Mi ricordo, poi, un silenzio imbarazzante con Salvatore Piscicelli dopo la proiezione di Regina, alla fine della quale non riuscii a complimentarmi come avrei dovuto e come farei probabilmente oggi rivedendolo. E pensare che Salvatore, con Immacolata e Concetta, è stato uno dei fiori all’occhiello dell’articolo 28, che riuscì ad essere finanziato anche perché nella mia relazione, più che descrivere la sensuale passione tra Ida Di Benedetto e Marcella Michelangeli, raccontai di una bella amicizia tra donne. Ida, comunque, vinse un Nastro d’Argento e il film fece il giro del mondo vincendo svariati premi. Infine, ricordo la conclusione del rapporto con l’interprete del prete spretato (Antonio) de La messa è finita di Nanni Moretti, Eugenio Masciari, al quale riportai indietro un paio di tortorelle bianche che mi aveva regalato e dalle quali mi sentivo controllato. E pensare che ero stato appena aspramente criticato da un importante capo di gabinetto per aver educatamente difeso le sue ragioni di sceneggiatore. Sono finite in maniera triste le mie amicizie con due bravi ventottisti di cui non dirò il nome, né il motivo della nostra separazione. Sono storie lunghe e tempestose, e anche un po’ private, magari in un altro mondo ci rincontreremo. Per la verità uno di loro l’ho già rivisto e le cose vanno meglio, visto 27
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che gli è nata una figlia e con dei cordiali sms ci siamo scambiati auguri e nome della bimba. Impossibile, invece, litigare con Massimo Troisi, uno dei pochissimi esordienti, insieme con Maurizio Nichetti di Ratataplan, che non hanno avuto bisogno dell’articolo 28. Il primo ha esordito grazie a Fulvio Lucisano e Mauro Berardi, che poi si sono dati battaglia per capire a chi spettava il merito maggiore. Sono rimasti in causa per anni. Il merito della produzione di Ratataplan spetta, invece, tutto a Franco Cristaldi, che con questo giocoso esordio del nostro Charlot nazionale fece uno dei più grandi colpi della sua straordinaria carriera di tycoon internazionale. Infatti con un piccolissimo investimento (la leggenda dice centocinquanta milioni di lire) ottenne incassi cento volte tanto. Colpi da maestro come questo di Cristaldi o quello di Italo Zingarelli con Lo chiamavano Trinità, sono uno dei motivi determinanti che spingono tutta una serie di sciagurati gentiluomini a improvvisarsi produttori cinematografici. E così qualcuno ha approfittato anche dell’articolo 28 e ci sono ancora giornalisti e magistrati che ce lo rimproverano. Ma da quella stessa legge, da quello stesso Ministero, sono usciti tanti nomi di autori e film di cui andare orgogliosi. Io li sento tutti “figli miei” e non voglio fare preferenze (sono tutti in appendice). Con qualcuno di loro, però, il rapporto è stato speciale.
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CAPITOLO IV
Dove si racconta dell’esordio cinematografico di Nanni Moretti e dell’invenzione della denuncia postuma di inizio lavorazione Nanni è stato un mio amico. L’ho amato, poi odiato, poi amato, poi odiato. Mi è stato antipatico, simpatico, di nuovo antipatico, nemico e infine amico, forse. L’ho conosciuto in occasione del suo primo film, Io sono un autarchico. Girato in super 8 e in modo quasi amatoriale, aveva avuto un successo inaspettato e, anche grazie a una recensione favorevole di Alberto Moravia su l’Espresso, era rimasto per cinque mesi al Filmstudio di Roma. Grazie al successo del film, Nanni aveva incontrato Mario Gallo, un intellettuale vero, elegante, calabrese. Io ho avuto un’amante calabrese, con la quale non mi sono trovato bene. Sono cose che segnano. Per questo ai calabresi preferisco i siciliani e i pugliesi. Ma Mario Gallo era veramente un calabrese di prim’ordine, raffinato, illuminato e anche attivo in politica. Ex critico cinematografico dell’Avanti!, aveva un occhio e un cuore particolarmente sensibili per il cosiddetto cinema italiano d’autore, beh… anche grandi autori giacché produsse Luchino Visconti. Aveva deciso di produrre il secondo film di Moretti, Ecce bombo, 29
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lasciandogli totale libertà d’azione e spingendolo a comportarsi con la stessa spregiudicatezza dimostrata in Io sono un autarchico. In questo modo, sosteneva Gallo, Moretti avrebbe potuto aprire un varco nel nostro mercato per un ipotetico cinema indipendente italiano, sulle orme di quello “newyorkese” già fiorente negli States. Se Mario Gallo credeva in un giovane, a quel giovane era bene dare fiducia. E poi quel film che piaceva a mezza Roma aveva divertito molto anche me. Così salvai Io sono un autarchico, legalmente si intende. Per la sua genesi non professionale il film non disponeva dell’obbligatoria, preventiva, denuncia di inizio lavorazione, condizione indispensabile per ottenere la nazionalità italiana e accedere ai benefici della legge sul cinema. Consigliai, perciò, all’avvocato Giorgio Moscon, gentiluomo veneto di altri tempi che accompagnò un Nanni pieno di tic al Ministero, di farla lo stesso, sia pure tardiva, la denuncia di lavorazione. Un artificio legale che è passato alla storia, ben al di là dei miei meriti, come denuncia di inizio lavorazione “postuma” o “post mortem”. Fu il mio braccio destro Bruno Izzi a teorizzarla così, nei suoi appunti. Io l’ho scoperto successivamente e ho autorizzato l’appellativo che, anche se sembra un po’ iettatorio, in realtà ha sempre portato bene. Il film, così, poté ottenere il visto di censura e un certificato di origine che, pur senza fargli avere soldi pubblici, gli consentì di non restare figlio di ignoti ma di andarsene in giro per la Francia e nel resto dell’Europa come un prodotto italiano, diventando anche lì un “cult” come in Italia. Anche Ecce Bombo fu un evento. Mi ricordo che andai alla prima con mia moglie Gabriella al Cinema Corso (poi Etoile, poi Ferrari e ahimé… ora Louis Vuitton) al primo spettacolo 30
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alle tre del pomeriggio. Nanni si aggirava fuori del cinema, passeggiando su e giù, come una belva in gabbia. Mi ricordava Ferreri davanti al vasetto di miele a casa sua. Alla fine andò bene: gli spettatori, pur a quell’ora antelucana, ridevano insieme con noi. Fu un grande successo. Da allora io e Nanni siamo stati insieme a cena, più di una volta, da un amico comune (Eugenio Masciari, l’autore di Azzurri). Lui arrivava con i pasticcini e con un bel maglione girocollo, sempre diverso. Io arrivavo ogni volta con una fidanzata diversa, cosa che lo infastidiva. Così come lo infastidiva che io parlassi un po’ sboccato a tavola e che i miei commenti cinematografici fossero un po’ apocalittici o fin troppo salvifici. Mi conosce bene Nanni, che forse ha sempre un po’ sospettato di me. Da una parte perché probabilmente aveva saputo che mi chiamavano il Nanni Moretti del Ministero (solo per i miei capelli un po’ lunghi?). Dall’altra, perché oltre alla rispettabile figura istituzionale al servizio del giovane cinema italiano intravedeva una componente epicurea che non lo convinceva. Da parte mia, sono sempre stato affascinato dalla sua straordinaria intelligenza. Ha una capacità di leggere e comprendere la realtà superiore a tutti gli altri registi che ho conosciuto. Eppure qualcuno sostiene che non è un grande autore di cinema. Si dice: l’intelligenza aiuta, ma non basta. C’è il cinema intelligente e il cinema “tout court”, che è, tanto per dire, quello del señor Luis Buñuel e di monsieur Robert Bresson, che non volevano musica nei loro film, la consideravano una forma di corruzione dell’immagine. Poi c’era quel pazzo di Jean-Luc Godard che diceva che lo zoom è fascista e che l’inquadratura è una scelta etica. Quante cavolate. Godard, secondo me, imbrogliava un sacco di gente col fatto 31
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che era intelligente, anche se ha fatto dei bei film come A bout de souffle, Pierrot le fou e Alphaville. Nanni sa scegliere grande musica per il suo cinema: basti per tutte “I’m on fire” di Springsteen in Palombella Rossa e “The Köln Concert” di Keith Jarrett, andando a Ostia in vespa, in Caro Diario. Qualche volta, forse, ha esagerato: nel Caimano, impersona Berlusconi cercando di fare quello che aveva fatto il grande Orson Welles con William Randolfh Hearst, magnate dell’editoria americana. Un’intuizione potente, quella di Welles. Anche se per me ancora più potente in quel film è l’intuizione del nome Rosebud. Rosebud nel film è il nome dello slittino del piccolo Hearst e fa pensare alla Svizzera, alla neve e a pacifiche baite in legno. Ma in un libro scandalistico su Hollywood ho letto che la parola Rosebud in realtà è il nome in codice del clitoride della figlia di Hearst. Non so se Welles ci abbia avuto una storia, sicuramente gli sarebbe piaciuto. In ogni caso l’intuizione è strepitosa. O forse sono io che ho la mente un po’ deviata su certi argomenti. Orson Welles comunque è geniale nell’impersonare l’uomo contro cui, è rivolto il film, anche perché così gli conferisce un po’ di umanità. Nanni riconosce quella genialità, prova a ripeterla, ma non ha la stessa potenza, forse perché lui è di Monteverde e non un ciccione statunitense. Allo stesso modo, in Sogni d’oro, Nanni mette in mezzo Sigmund Freud. Un giovane critico letterario francese, Michel Onfray, ha scritto un pamphlet contro Sigmund Freud, dicendo cose terribili contro il padre della psicanalisi: che era una testa di minchia, che si era inventato un sacco di cose, che in realtà si scopava le sue pazienti, che aveva un rapporto incestuoso con la figlia e rubava i soldi alla madre. Tutto assolutamente vero dice Onfray. Nanni fa lo stesso, ma con meno 32
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determinazione, mescolando un po’ di Fellini e un po’ di Truffaut. Lo salva, il fatto che come attore, sceglie Remo Remotti, un personaggio divertente. Remotti ha fatto delle belle cose. È l’unico ad aver scritto un pezzo alla Gioacchino Belli su Roma: una lunghissima bestemmia di amore e odio, che dura circa venti minuti, in cui sbertuccia il “generone” romano ma si commuove sulla sua città di “mmerda”. Nanni è stato un mio amico. O almeno lo ritenevo tale. Poi una mattina capii che le cose non stavano proprio così: d’altra parte perché sarebbe dovuto essere un amico? Lui era un cittadino “romano” e pure artista mentre io ero un cittadino italiano di origine pugliese, servitore dello Stato, tenuto all’applicazione della legge sul cinema e, quindi, anche al suo servizio. Insomma era gennaio, forse febbraio del ’96. Da pochi mesi Veltroni era stato nominato ministro e io ero molto contento: gli ero stato presentato a Massenzio da Daniela Poggi come l’esperto di cinema del Ministero e il buon Walter per tutta risposta mi aveva festosamente annunciato l’arrivo di un ambasciatore come nuovo Direttore Generale. Tirava aria nuova al Ministero e l’ambasciatore, sia pure con un pizzico di diffidenza, mi aveva dato carta bianca nei rapporti internazionali, in particolare con Cuba. Grazie alla intraprendenza di una dottoressa di Viterbo mia assistente, e al sostegno di Paola Surdi, la signorile segretaria di un business man cubano che nominai sul campo interprete ufficiale per mettere ordine tra il mio inglese maccheronico e il mio spagnolo ancora più improbabile, riuscii a concludere felicemente una commissione mista con la delegazione cubana. In tempo di record preparai l’accordo di co-produzione italocubana che, testimone illustre Gillo Pontecorvo, Veltroni firmò 33
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al Ministero insieme con il ministro della cultura di Cuba Guevara (solo un omonimo… ma v’immaginate Veltroni?). Dopo la firma, il nostro ministro mi mise una mano sulla spalla e sentenziò: “Caro Ventura lavoriamo, lavoriamo!”. Ero raggiante: mi lanciai alla guida della mia macchinetta su viale Aventino pieno di speranze per il mio futuro quando vidi Angelo Barbagallo entrare in un bar. Parcheggiai, entrai anch’io di slancio. C’era Nanni appoggiato al bancone. Quanto avrei voluto condividere con lui quel momento! Fu un attimo: feci un passo verso di lui, lui fece un passo indietro. E non successe più nulla. È passato tanto tempo: io sono in pensione, Nanni è ormai universalmente riconosciuto come un grande regista. Ho visto due volte Habemus Papam e l’ho molto amato, perché ho avuto l’impressione che finalmente anche lui abbia capito che rinunciare al papato può renderci tutti più umani.
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CAPITOLO V
Dove si narra la storia di Gianluca Di Re e ci si interroga, senza venirne a capo, sull’amaro fascino dell’outsider Non tutti ce l’hanno fatta. Gianluca Di Re è uno di questi. Un milanese con la faccia di un arabo. Strano. Magro. Timido. Rigoroso. Introverso. Difficile. Difficilissimo. Quando l’ho conosciuto avevo 45 anni e lui 25. Amavo quelli di Milano o di Torino che venivano a Roma senza sapere dove sbattere la testa. Io cercavo di aiutarli. Il cinema a Milano non si faceva. A Torino poco di più. Adesso le cose sono cambiate e ci sono le Film Commission, grazie ad una adeguata imitazione di quelle americane. Fu così che mi venne presentato Gianluca, da un bravo produttore indipendente, Giovanni Saulini. Con molto pudore mi fece vedere un cortometraggio in bianco e nero intitolato Viva gli sposi. Il film non me lo ricordo bene ed è difficile verificarne il contenuto perché è praticamente introvabile. Quello che mi ricordo è che era un piccolo capolavoro. Era Orson Welles in miniatura. E, infatti, vinse il premio dei cortometraggi. Si dice che l’inizio di un film debba essere forte. Se non prendi subito lo spettatore, rischi che quello ti abbandoni. Nel 37
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film di Gianluca l’inizio era semplicemente pazzesco. Una fulminante inquadratura espressionistica che sembrava uscita, pari pari, da Quarto Potere: un piccolo viaggio di nozze, uno sposalizio, due sposi su una macchina, l’automobile del matrimonio. Gli sposi partono da un paese vicino a Milano, direttamente dalla chiesa. Probabilmente vanno verso quella che allora era la Jugoslavia, o l’Albania, al di là dell’Adriatico. Arrivano al delta del Po, dalle parti di Comacchio, in un posto incredibile. E lì le cose cambiano. Il film ha una virata noir. Un’emozione fortissima. Immagini straordinarie. La storia diventa un pretesto, quasi esoterico, per fare cinema. Un quarto d’ora di estasi visiva. Era Orson Welles, ho detto. Era il Visconti di Ossessione, però girato nella zona di Comacchio. Ossessione, con la chicca di Massimo Girotti che fa sesso con Clara Calamai, era tratto, così come il film di Bob Rafelson (dove invece è Jack Nicholson che fa sesso con Jessica Lang) da un romanzo del 1934 di James Cain, Il postino suona sempre due volte. Un romanzo molto bello, brevissimo, novanta pagine. Rispetto ai due film, il romanzo aveva un’asciuttezza sublime. Hemingway che si misura col noir. Gianluca Di Re, nella memoria deformata di uno che fu folgorato e non ha mai più potuto verificare la propria folgorazione, rende a quel romanzo un servizio ancora più sorprendente e più autentico dei film di Visconti e Rafelson. Da buon meridionale cresciuto con un’educazione cattolica grazie a mia madre, che mi ha fatto apprezzare, non tanto i poveri e gli umili, dai quali pure sono attratto, ma soprattutto gli outsider, i giovani, quelli che non hanno una famiglia alle spalle, che non hanno un potere per nascita, fui subito curioso 38
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di conoscere meglio l’autore. Ero affascinato da Gianluca che si comportava come uno di loro. In effetti, il cognome Di Re, per il Nord, è come Esposito per Napoli. E invece dopo molti anni scoprii che il padre era uno dei più grandi chirurghi di Milano e la madre, una nobildonna. E lui, Gianluca, era un incredibile cinefilo. Andava molto oltre il non volere padrini e appoggi. Era geloso del proprio lavoro in maniera ossessiva. Dietro mia insistenza mi fece vedere, in segreto, un paio di sceneggiature. Non entro nel merito perché lui me l’ha sempre espressamente vietato. Dico solo che voleva realizzare il suo primo lungometraggio e sono certo che sarebbe stato un film straordinario. Era un film corale sul melting pot. Soul Kitchen trent’anni prima. Lo doveva produrre Cecchi Gori. Ma Gianluca era geloso delle sue idee, inadatto costituzionalmente ai compromessi, timorosissimo di veder corrotta la propria storia. E il film non si fece mai. Voglio molto bene a Gianluca anche per un altro motivo: perché mi ha consentito di superare il mio problema con gli Stati Uniti, dove mio figlio e mia figlia volevano assolutamente andare, Giovanni perché voleva comprare delle speciali sneakers e Antonella per conoscere Madonna. Io avevo lasciato dei debiti negli Stati Uniti, e ricordi dolorosi legati alla vicenda della malattia di mia moglie. I debiti, infatti, riguardavano il suo ricovero in ospedale nel Mississippi, dove da malata terminale aveva ricevuto un trattamento estremo e dove, pur avendo pagato una somma enorme (frutto di collette varie) non avevo saldato tutta la degenza. Temevo perciò di essere arrestato non appena avessi messo piede al Kennedy o di essere rimandato in Italia lasciando soli i miei bambini in America. Gianluca mi prestò il suo loft a Broadway e ci aspettò all’aeroporto. Andò tutto bene. 39
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Quel viaggio, l’unico che ho fatto con i miei figli, è stato una delle esperienze più belle della mia vita. Gianluca ci fece anche da Cicerone, e così provammo il primo sushi della nostra vita, hamburger seri e pomodori veraci che “manco a Napule”. Lui viveva a New York e questo aveva un senso, per uno che sogna di diventare regista, ma è tornato in Italia, perché vivere lì, credo, costasse troppo. L’ho rivisto a Roma, l’ho sentito per telefono da Milano. In tutti questi anni ha fatto spot e videoclip musicali, anche per gruppi famosi. Tra i tanti talenti che ho conosciuto da giovani, che hanno esordito attraverso il solito articolo 28, Gianluca era quello più puro. Ma non è mai riuscito a fare il suo film. Chissà se ci riuscirà domani...
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CAPITOLO VI
Dove si racconta di Gianni Manera, del suo “Cappotto di legno” e dell’arte tutta italiana del “chiagne e fotte” Un giorno del 1982, mentre ero in sala riunioni con alcuni colleghi, mi chiamano spaventatissimi i miei impiegati. Dottor Ventura, c’è uno nel suo ufficio che si vuole suicidare. Accorro. C’era un tipo che non conoscevo. Un tipo enorme, che già faceva paura di suo e ancor più perché, fuori di sé, minacciava di buttarsi giù dalla finestra del mio ufficio, se non avesse ottenuto il “riconoscimento”. Il tipo si chiamava Gianni Manera ed era il fratello di Enrico, un artista romano formatosi negli anni 70 alla cosiddetta “Scuola di Piazza del Popolo”, con Mario Schifano, Franco Angeli e Tano Festa. Un personaggio dal temperamento onnivoro, Enrico, portato verso la contaminazione, i colori, le continue rielaborazioni. Gianni pure aveva temperamento, ma il suo era sanguigno, irascibile, da fascista vero, anche se da buon italiano “alle vongole”, come ebbe subito a dichiararsi. Questo signore enorme e incazzoso era pronto, diceva, a suicidarsi, perché non era stata concessa la nazionalità italiana al suo primo film, 41
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giacché i miei collaboratori gli avevano contestato la mancata presentazione della denuncia di inizio lavorazione. Il film si intitolava Cappotto di legno e dubito che i più coriacei lettori l’abbiano mai visto, perché si tratta di un C movie che non ha avuto particolare attenzione né dal pubblico né dalla critica, pur avendo un protagonista cult come Michel Constantin. Una volta soltanto l’onorevole Maceratini, che ricorda un po’ la grinta dell’attore francese, ne organizzò una proiezione a Rieti o a Terni, e il regista fiero me ne portò la locandina. Per un classico paradosso del destino, la situazione giuridica di un film “di destra” come Cappotto di legno era analoga a quella di Io sono un autarchico, film di opposta ideologia politica ma accomunato all’altro dalla scarsa conoscenza della legge sul cinema. Per entrambi applicai l’artificio legale della denuncia di lavorazione “postuma”. Così, alla fine, Cappotto di legno ottenne il riconoscimento della nazionalità e Manera non si suicidò. Del resto, non si sarebbe suicidato comunque, perché in quell’occasione si comportò da tipico rappresentante dell’arte nostrana del “chiagne e fotte”, ben rappresentata nella sublime scena de L’oro di Napoli, diretto nel 1954 da Vittorio De Sica, nell’episodio Pizze a credito, in cui il fresco vedovo Paolo Stoppa vuole gettarsi dal balcone per la disperazione. Solleva la gamba per scavalcare la ringhiera ma poi si ferma, gettando un rapido sguardo all’indietro per essere sicuro che qualcuno lo trattenga. Nel mondo cinematografaro romano, l’escamotage del minacciare il suicidio non è raro tra produttori che prima combinano guai e poi si affidano alla compassione del burocrate di turno per rimediare. 42
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Non pagò della malefatta, Gianni Manera tentò dopo circa dieci anni di fare Cappotto di legno 2. Stavolta cercava un finanziamento dallo Stato perché i soldi, che forse aveva di famiglia, se li era giocati tutti per fare il primo. Ma questo è un mio sospetto tutto da verificare. Gianni, comunque, non riuscì ad ottenere il finanziamento. Due anni dopo, in seguito alla vittoria della destra nel ’94, Manera si presentò ancora alla mia porta battendo i tacchi e facendo il saluto fascista. Si era illuso di avere le spalle coperte per, diciamo così, tornare in auge. E, in effetti, mi arrivarono un paio di lettere da parte di influenti esponenti del partito di governo. Stavolta aveva in mente uno strano film: un progetto su un inventore di una cura miracolosa per il cancro, credo ispirato a Di Bella, ma ambientato nel Nord Africa. Venne da me per avere il permesso di soggiorno per una quindicina di egiziani, vagamente equivoci. Di fatto il film non è stato mai ultimato per quanto ne so. Pensavo che Cappotto di Legno fosse la sua opera prima e unica mentre poi mi sono accorto che aveva già girato due film: La lunga ombra del lupo del ‘71 e Ordine firmato in bianco del ‘74, usando due nomi d’arte: Joseph Logan e John Manera, nato ad Asmara, Eritrea, nel 1940. Altro che naif esordiente! Piuttosto un vero collezionista di action/gangster movie. Come spesso succede, le cose sono sempre un po’ diverse da come appaiono e finirà che Quentin Tarantino riscoprirà Manera. Io non l’ho più visto. So che ha avuto un infarto. Di quell’omone che faceva paura e minacciava il suicidio, alla fine mi è rimasta un po’ di nostalgia perché, sotto sotto, era un bonaccione sentimentale. E non dimenticherò il gesto amorevole con cui tirò fuori dal portafoglio la fotografia di sua 43
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figlia, una biondina celestiale che mi ricordava vagamente la Madonna di Medyugorie. Qualche giorno fa, però, pare si sia rifatto vivo al Ministero e abbia cercato di me: “…è l’unico amico che mi è rimasto”, mi hanno riferito che abbia detto. Forse un giorno ci rivedremo.
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CAPITOLO VII
Dove si racconta come è nato il mio rapporto con quell’arte modesta che è il cinema “Tutto interessante, ma a te del cinema, te ne frega veramente?” mi chiede a bruciapelo il mio amico Luigi Sardiello dopo tre giorni di chiacchiera in libertà e tre agendine fitte di appunti. Lo guardo e ridacchio. Per rispondere con lealtà è necessario fare un bel passo indietro. Tiro un lungo sospiro. Lui capisce e si sistema meglio sulla poltroncina. Si è trattato di una formazione un po’ grossolana. Io il cinema l’ho scoperto leggendo Il tesoro del ragazzo italiano, un’enciclopedia rilegata in rosso con caratteri dorati che andava di moda negli anni 50. Nell’ottavo volume, verso la fine, si cominciava a parlare di storia del cinema. Venivano presentati i film muti, con, una breve legenda sulle differenze tra film e immagine fotografica. Si parlava prevalentemente di film per ragazzi. Così nasce la mia cultura cinematografica. Come un esame universitario studiato sul Bignami. Come i classici della 47
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letteratura conosciuti attraverso le sintesi. Questo per quanto riguarda la cosiddetta teoria. Quanto ai film veri e propri, la mia preparazione si fonda prevalentemente su pellicole di serie B, quelle che arrivavano nelle sale di provincia e che sceglievo di vedere soprattutto in base ai manifesti, non conoscendo né il nome dei registi né quello degli attori. Ancora oggi ricordo l’immagine del manifesto che più mi ha impressionato: si trattava di un cowboy crocefisso su due tavole a X, aveva dei colori sgargianti. Il cowboy mi ricordava “Pecos Bill”, che insieme con “Topolino” erano gli unici fumetti degli anni 50 che mi era concesso leggere. Il film si intitolava L’avamposto degli uomini perduti, ma non mi fu permesso di vederlo proprio per la crudeltà della tortura che il manifesto evocava. Quando sceglievo io, andavo a vedere per lo più film di avventura e solo grazie all’intervento di uno strano bisnonno massone e valdese ho conosciuto una bella serie di film opera, da Verdi a Puccini. Con la famiglia ci scappavano i melodrammi dell’epoca, da Due soldi di speranza di Renato Castellari a I figli di nessuno di Raffaello Matarazzo, a Non c’è pace tra gli ulivi di Giuseppe De Santis. Poi, il colpo di scena: arrivati a Roma, ad abitare nel quartiere San Giovanni, mio padre mi portò a vedere, al cinema “Appio”, Ladri di biciclette. Il nodo alla gola che mi strinse alla fine del film – altro che Hitchcock – mi prende ancora adesso dopo sessanta anni quando alla televisione mi capita di rivedere la scena all’uscita dallo stadio “Torino” con il piccolo Enzo Staiola che stringe la mano a papà Lamberto Maggiorani. Nonostante questi limiti di partenza, al cinema è legata una delle tappe più importanti della mia iniziazione alla vita. 48
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Un giorno mia madre mi proibì di andare al cinema. Non era una punizione legata allo studio o a qualche mancanza ma al fatto che non ci si poteva divertire troppo. Mia madre era una cattolica giansenista, devota al principio del sacrificio e del dovere che deve venire sempre prima del piacere. In nome di questo principio mi fu impedito di andare a vedere un film. Avevo dieci anni. Fu uno dei dolori più forti della mia vita. Non mi spiegavo la ragione di questo divieto: mi veniva negata una cosa senza che avessi fatto nulla di male. Quella sofferenza mostruosa, nella notte, provocò pianti e singhiozzi. Il giorno dopo, però, constatai che alla fine mi ero addormentato e che stavo bene. Nonostante tutto, ero sopravvissuto. Al mattino andai a scuola e al pomeriggio... al cinema. Fu quel giorno che elaborai la teoria de “l’attenzione all’obiettivo futuro”. Che cos’è il futuro? Il contrario del vivere nel presente. Se ricevi una sofferenza molto forte e te la vivi nel presente, ti ammazzi. Se sei consapevole che ci sarà un giorno dopo con nuove opportunità, sopravvivi. La considero una teoria accettabile, nella sua apparente banalità. È difficile che un dolore, per quanto profondo, possa durare tanto a lungo. Alla fine nessuna sofferenza vale la pena. Dirò di più: niente vale la pena. Non nego che una teoria di questo tipo, per quanto affascinante, contenga dei rischi. Primo fra tutti quello di addivenire a una totale atarassia. Perché cercare di fare la corte a una ragazza viste le pene che questa azione, prima o poi, riserverà? Non cominci neanche. A questo punto non cominci nulla. Siamo in pieno “nichilismo”, come commenterebbe qualche pensatore amico che stimo molto. Ma queste riflessioni ci portano troppo lontano. Quello che è importante è che la mia prima teorizzazione sulla vita la feci grazie al cinema. E credo anche di sapere perché. Per la mia 49
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generazione, a dieci anni, più del piacere del sesso, che non si conosceva bene (almeno, io non lo conoscevo), più del piacere della gola (io non lo percepivo), più del potere (che non rimandava a nessun piacere concreto), più di tutto era il cinema. Il cinema concretizzava il concetto del piacere più di ogni altro. Era il piacere percepibile e fruibile senza particolari difficoltà, che ti lasciava anche un segno positivo. Faccio un esempio: il segno positivo non sempre lo lascia un rapporto sessuale. Come dice Bassani nel Giardino dei Finzi Contini, “post coitum animal triste”. Dopo il film, invece, noi riuscivamo ad andare oltre il piacere contingente dell’avventura o della storia nella quale ci eravamo identificati. Uscendo dal cinema io camminavo come un cowboy, con le mani lungo i fianchi, pronto a neutralizzare l’attacco o ad aggredire il nemico. Questo mi faceva star bene, mi dava pace, forza ed equilibrio anche nelle ore, nei giorni successivi. Devo confessare che in quegli anni, oltre a vedere una caterva di western, amavo passare la maggior parte del tempo a leggere di tutto, da Goldoni a Pirandello, da Tolstoj a Kormendi, seduto per terra in un angoletto della mia piccola casa di Brindisi. Per fortuna c’era mia nonna che mi costringeva anche a studiare. Altrimenti come avrei potuto bruciare le elementari in tre anni? In quel periodo, il western che mi piacque di più fu Mezzogiorno di Fuoco, diretto da Fred Zinnemann, film modernissimo sul dissidio dell’intellettuale moderno, scisso tra pensiero e azione, come direbbe un mio amico critico sapientone. Oltre a questo, come ebbi a verificare studiando al liceo Aristotele, è l’opera cinematografica, dove ho visto meglio realizzarsi il principio di unità di tempo e spazio. Alla fine, però, quello che più mi affascinava era il melanconico Gary Cooper, bello quasi come mio padre, e che – 50
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one man only – persegue la giustizia mentre lo aspetta niente popò di meno che una sposina come Grace Kelly. O almeno lo dovrebbe aspettare, forse un po’ riluttante per la scelta calvinista del marito e, infatti, la canzone di Ned Washington e Dimitri Tiomkin la invoca: Do not forsake me, oh my darlin’... Poi arrivò Sir Alfred Hitchcock e il sublime Vertigo, ovvero La donna che visse due volte, un film decisivo. Ho avuto la fortuna di vederlo al cinema, prima che venisse tolto per trenta anni dalle sale per gabole ereditarie. Se ci penso, mi vengono ancora i brividi. Anche lì c’è un dissidio, quello magico della donna: Kim Novak, la donna più bella del mondo, la donna più donna del mondo, puttana e vergine, volgare e sublime, angelo e diavolo, morta e viva. Rappresenta l’eternità. E la parola “vertigine”, che è anche una patologia, la paura del vuoto, è la sintesi perfetta per spiegare il concetto. Il fatto è che tutte le volte che cerco di condividere queste riflessioni con i miei amici autori o cultori di cinema, per il solo fatto che ci arrivo attraverso Gary Cooper e Kim Novak, nel migliore dei casi fanno spallucce se non addirittura mi sbeffeggiano. Questo mi fa incazzare. Se poi, contraddicendomi, azzardo la convinzione – non soltanto mia – che il cinema è un’arte modesta, sono loro a incazzarsi. Una volta, all’apice di una discussione con un critico che difendeva un film inguardabile, tagliai corto dicendo: “Tenga conto che si sta accalorando tanto per un film, che in fin dei conti è l’espressione di un’arte modesta, un’arte di serie B”. A momenti mi metteva le mani addosso. E però, aver lavorato per questa arte “modesta” è stato un privilegio del quale mi sento onorato e per il quale ringrazio ancora il Padreterno e la mia dea Fortuna. Mi basta pensare che oltre che conoscere le speciali persone di cui racconto, sono 51
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stato ammesso – grazie al cinema – nel luogo più importante della nostra Democrazia: il Parlamento. Per esattezza in quello, sino a qualche tempo fa, ancora più sacro, se non altro per l’età che dovrebbe essere veneranda dei suoi componenti, e adesso in estinzione: il Senato. Non è proprio che fui ammesso: in realtà ci fui spedito piuttosto bruscamente dal mio grande capo Carmelo Rocca. Successe così: c’era una bozza, di una delle tante proposte di legge sul cinema, con le quali i vari ministri cercavano di “rinnovare” quella storica del 1965. Sarà stato il 1987 o 1988. Io non ero ancora dirigente e avevo l’abitudine di andare in giro in jeans, giacca di velluto e camicia senza cravatta. Più tardi, da dirigente, avrei dato fondo alla collezione di cravatte classiche del mio babbo, per concludere trionfalmente con una di Bomba. Insomma, ero senza cravatta quando mi chiamò il direttore generale siciliano e mi disse: “Sbrigati, dài una letta al disegno di legge e corri al Senato, dove se ne discute oggi pomeriggio in Commissione Cultura; è prevista l’audizione di un funzionario del Ministero e siccome io ciò da fa’ ce devi anna’ te”, col suo romano fortemente marcato dall’accento di Scicli. Annaspai. Conoscevo pochissimo la legge e mi sentivo impreparato al compito che mi attendeva. Dissi: “Ma non ciò la cravatta!”. Niente da fare, Rocca mi prestò una sua orribile cravatta giallina con dei disegni indefiniti e pure spiegazzata. Così dopo un rapidissimo studio, munito dei vari lasciapassare mi presentai al portone di Palazzo Madama. All’inizio andò tutto bene e risposi a tono e con competenza alle domande che mi venivano fatte. Poi qualcosa non funzionò: forse perché avevo i capelli lunghi e disordinati e la mia cravatta era veramente improbabile accostata alla giacca 52
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sportiva, non so, fatto sta che un Senatore – credo di centro – cominciò, un po’ per scherzo un po’ perché non aveva niente di meglio da fare, a sfottermi con domande maliziose e insidiose che oltre che alla legge facevano riferimento al mio aspetto un po’ casual che mi costarono un’accusa, più o meno velata, di “terrorista”. Rimasi pietrificato e non riuscii a trovare le parole per replicare. Per fortuna intervenne a mia difesa, con molto slancio, un signore autorevole che zittì il diffamatore, evidenziando il mio ruolo di funzionario pubblico e la professionalità delle mie risposte. Lo guardai grato e sollevato, anche se ero piuttosto sbalordito dal vedere in lui il nasone e i grandi occhi del mitico Marty Feldman, il grottesco servitore di Frankenstein nel celebre film di Mel Brooks. Passata la sorpresa, riconobbi finalmente le fattezze di Edoardo Sanguineti, il celebre poeta e scrittore del Gruppo 63 – una neoavanguardia letteraria che non ho mai amato preferendo a loro Ungaretti e Montale –, verso il quale, d’allora, manifestai sempre in ogni circostanza grande rispetto, deferenza e ammirazione. Come è buffa la vita che ti fa passare dal piano medio/basso dell’arte cinematografica a quello nobile dell’ars poetica. Resta comunque complicata l’amicizia tra me e la gente del cinema. Quando è nata, poi spesso è finita, perché alcuni hanno esagerato nel disporre della mia pazienza, nell’estendere infinitamente la loro autoreferenzialità e autocompiacimento. Hanno esagerato e per questo grandi amicizie si sono spezzate. In definitiva la mia formazione cinematografica è abbastanza amatoriale: questa è, prendere o lasciare. Non sono uno scienziato. Ma di film ne ho visti tanti e me li ricordo: sono 53
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un buon venditore di fumo e so infilare la citazione quando serve.
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CAPITOLO VIII
Dove si cerca di ricostruire, con un pizzico di nostalgia e molte divagazioni, la vita, la morte e qualche piccolo miracolo dei cineclub italiani Dopo che è nato il cinema, e prima della sua “scomparsa”, ci sono stati i cineclub. E non sto parlando di quelli degli anni 70 che ispirarono Massenzio e l’estate romana di nicoliniana memoria, ma di quelli militanti del dopoguerra, di cui parla Stefano Satta Flores in C’eravamo tanto amati, e a proposito dei quali è celebre l’ironia, un po’ grossier, di Paolo Villaggio sui dibattiti per la Corazzata Potemkin definita dal suo Fantozzi “…una cagata pazzesca”. “Cagata” poi mica tanto, visto che la scena della scalinata hanno provato a rifarla in diecimila, come Brian De Palma ne Gli intoccabili alla stazione di Chicago e vi si è ispirato un video artista polacco come Rybczynski nello scintillante caleidoscopio di Steps. Di quei cineclub personalmente posso dirvi ben poco, perché da fanciullo frequentavo solo il cinema Verdi e il cinema Impero di Brindisi, dove grazie a mio padre, segretario del Prefetto, entravo senza pagare. Una vecchia maschera mi dava uno scappellotto e sotto il suo controllo un pomeriggio alla settimana condividevo film d’avventura di serie B con 57
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pochi poppiti, come erano chiamati i contadini pugliesi in pensione. Il primo a parlarmi di cineclub, con grande passione, fu Riccardo Napolitano, documentarista di valore, Presidente della Federazione Italiana Cineclub, che raccoglieva i circoli di ispirazione comunista. Con il loro testimone in C’eravamo tanto amati, Satta Flores, ebbi un incontro occasionale nella magione della moglie di un diplomatico messicano che su speciali lettini praticava terapie del dolore per malati terminali, tra pranoterapia e meditazione yoga. Su quei lettini ricevevano cure il giovane Stefano e mia moglie Gabriella – meno di quarant’anni entrambi – morti poco dopo. Morì anche, alla stessa età, una giovane collega del Ministero, Vera Viganò, che amava i cineclub e l’avanguardia teatrale italiana, e che riuscì a indurre i vertici della Direzione Generale dello Spettacolo a sostenerne l’attività. Al suo commovente funerale, in una chiesa periferica sulla Portuense, tra le navate e il piazzale esterno c’era tutta la scuola romana a salutarla, da Giuliano Vasilicò a Giancarlo Nanni, da Ulisse Benedetti a Giancarlo Sepe a Memè Pellini. Diversi anni dopo, ebbi anche un breve incontro con il fratello di Riccardo, Giorgio, divenuto nel frattempo Presidente della Repubblica, ma con lui si parlò principalmente della nipote Silvia. Silvia Napolitano è la brava sceneggiatrice del primo film italiano in alta definizione Giulia e Giulia, con Kathleen Turner, filmata in una Trieste fantasmatica da Peter del Monte. Fu fantastica una lunga serata con lei a cena in via Cavour durante la quale, con l’aiuto delle sugosissime polpette di Annamaria Granatiello, con Fabrizio Mosca, e non mi ricordo se c’erano anche Claudio Fava e Marco Tullio 58
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Giordana, “concepimmo” il progetto produttivo finanziario de I cento passi. Dei cineclub dagli anni 60 in poi, quando cioè cominciarono a chiudere bottega, posso dirvi qualcosa di più. A cominciare dal fatto che rispecchiavano fedelmente la ripartizione dell’egemonia culturale tra cattolici, socialisti e comunisti: c’erano l’Arci e la Fic; le sale parrocchiali del Vaticano e quelle dei cattolici di Zambetti, che erano un po’ più a sinistra; l’Aiace; c’era anche un’associazione di area liberale, che contava pochissimo; c’era il Cinit a Venezia, di destra; e poi c’erano i cani sciolti come il “San Leone Magno” a Roma, un cineclub con un numero di soci ancora oggi imponente, un piccolo miracolo. Erano tanti e già in crisi. Il legislatore decise allora di intervenire per riconoscerli e raggrupparli. Così la legge cinema creò la bellezza di otto federazioni con uno statuto complicatissimo, solo che come al solito ci misero tanto di quel tempo che quando la legge venne varata (era il ’65) la maggior parte di queste sale erano scomparse. Negli anni 70 la moria dei cineclub proseguì. E prosegue tuttora, con qualche eccezione come quella dei cineforum nel Friuli Venezia Giulia e quella delle sale cattoliche che recensisce il mio caro amico Lorenzo Natta, un colto critico anticonformista con il quale ho condiviso biciclettate a Prima Porta a salutare i nostri giovani defunti e tante Commissioni cinema. Ma, come l’araba fenice, ci fu una loro momentanea rinascita con i Filmclub degli anni 70 dal ‘Filmstudio’ a ‘L’occhio, l’orecchio e la bocca’ al ‘Labirinto’. Il ‘Labirinto’ me lo ricordo bene perché con un mio grande amico milanese – perso volontariamente di vista per motivi 59
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indicibili – riuscimmo a convincere persino Alberto Moravia a vedere insieme il suo film d’esordio Come dire, che piacque a Ferzetti ma non a Moravia che a metà film se ne andò. Fu allora che conobbi Fabio Fefè. Lui era riuscito con il ‘Labirinto’ a trasformare una sala parrocchiale in un Filmclub, un cinema d’essai per cinefili. Ma il suo sogno era prendere in gestione una sala parrocchiale a Testaccio. L’idea era giusta: a Roma il cinema stava rinascendo, a Testaccio non c’era niente, mentre al di là del Tevere Nanni Moretti con il Nuovo Sacher stava rilanciando la cinefilia a Trastevere. Non fu facile perché gli si mise di traverso anche un avvocato del cinema dalla multiforme cultura politica. Nel mio piccolo cercai di aiutarlo. Ma l’aiuto del quale sono più orgoglioso è quello di avergli suggerito il nome del cinema: ‘Greenwich’. Dal Greenwich è nata la fortuna di Fabio Fefè, che è diventato un vero boss dell’esercizio cinematografico, un tempo definito “alternativo”, mettendo su, sala dopo sala, il famoso Circuito Cinema, non so più con quante sale in tutta Italia. Come spesso succede, il cinefilo rivoluzionario è dunque diventato un avveduto manager di un piccolo impero cinematografico. Tutto cambia, amici miei, e i cinema continuano a sparire uno dopo l’altro, per dare spazio a supermercati e grandi magazzini, figurarsi i cineclub che sono diventati specie protetta. Il ‘Labirinto’ ci ha lasciati qualche anno fa. Tanti hanno seguito la sua sorte, tanti altri la seguiranno. Il ‘Greenwich’, però, resiste.
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CAPITOLO IX
Dove si racconta la storia della strana amicizia tra un funzionario ministeriale e il più rivoluzionario fra gli autori rivoluzionari del cinema italiano Il 23 aprile del 2007 c’erano tutte a salutarlo per l’ultima volta, a Santa Maria in Trastevere: moglie, amanti, amiche, vecchie fidanzate fra cui una ex barbona che, come nel ’68, continuava a suonare Blowing in the Wind. Alberto è morto come è sempre vissuto: povero e con tante donne. Ha avuto accanto anche molti amici sinceri che lo hanno aiutato fino all’ultimo. Non si è mai allineato, nel bene e nel male. È sempre stato un cineasta militante e rivoluzionario. È stata la sua forza e la sua disgrazia. Con molto orgoglio, anche per il suo carattere schivo, si è sempre autoprodotto e non c’è stato verso di sostenerlo attraverso i finanziamenti pubblici, di cui pure all’epoca ero il centro di riferimento al Ministero. Svestendomi dalla divisa di funzionario statale provai anche a convincere uno dei più importanti e intelligenti produttori di mia conoscenza, Roberto Cicutto, il comunista più ricco d’Italia. Invitai a cena tutti quanti: Alberto, Paola Pannicelli, che me lo aveva presentato, qualcun altro che non ricordo e, 61
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appunto, Roberto in un ristorante a piazza Campitelli. La cena fu ottima e il clima positivo. Roberto – da ex indiano metropolitano o “uccelli” - sapeva bene chi era Alberto Grifi e lo ammirava. Ahimè, non se ne fece nulla. Quel bel ristorante, purtroppo, non mi porta fortuna. Ricordo nello stesso posto una cena con Piero De Bernardi e due signorine molto graziose, una mora e una bionda, di cui eravamo infatuati, che finì senza alcun esito, nonostante arrivasse in rinforzo delle nostre ragioni Marco Müller, uno dei migliori intenditori di vino che conosca, che aveva provato a suggerirci le pozioni giuste. Non ho mai capito come riuscisse a campare Alberto. Probabilmente facendo cose diverse, legate alla sperimentazione tecnica o alla sua capacità documentaristica. Era figlio di un artigiano di Cinecittà che costruiva truke (per quelli che allora erano gli “effetti speciali”), macchine da presa particolari e aggeggi cinematografici in genere. Aveva un talento infinito. È stato regista, cameraman, fonico, attore, pittore, fotografo pubblicitario e inventore di macchine. Enrico Ghezzi acquistò una parte della sua opera per Rai3, un’altra parte andò alla Cineteca di Bologna. Ma non saprei quantificare, in denaro, i ricavi di questi acquisti, sicuramente non molto. Viveva così, alla giornata. Aveva pochissime esigenze. Portava un paio di pantaloni di cotone, una camicia e quando faceva freddo un giubbotto o un maglione. Era magrissimo, scavato, un viso grifagno, come suggeriva il suo cognome. A casa sua, in via Carso, viveva circondato dalle apparecchiature che aveva inventato e che continuava a costruire. Col tempo la casa era diventata un gran bordello di macchine, moviole, chilometri di pellicola e altri supporti. 62
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Mi ricordo una notte in bianco, con una decina di aficionados, col solo sostentamento di un piatto di spaghetti “aglio e olio” e un po’ di bottiglie di vino bianco, estasiati da una sterminata intervista a Zavattini, che Alberto ci commentò ad alta voce in diretta, mentre le sue immagini in bianco e nero scorrevano su un piccolo schermo per quattro, cinque ore di fila. Alla fine l’hanno sfrattato. Secondo me erano le sue bellissime donne a ospitarlo nei momenti più difficili. Quando l’ho conosciuto di persona era più o meno fidanzato con la sorella di Barbara Bouchet, la bellissima Karin, giornalista della Reuter, che diventò anche mia amica e che incontro ancora. Un’altra storia importante fu quella con Annabella Miscuglio, un’icona del femminismo italiano, pugliese come me, grande scrittrice e documentarista. Insomma, Alberto era un donnaiolo pazzesco. Possedeva un grande fascino. Io lo conobbi perché frequentavo il gruppo di Mimmo Calopresti. Avevamo un’amica in comune, Paola Pannicelli, che ci fece conoscere. Da allora iniziammo a frequentarci sempre più spesso. Un funzionario ministeriale e il più rivoluzionario tra gli autori rivoluzionari del cinema italiano… che strana coppia, eravamo una contraddizione vivente. Folle e divertente. Esiste un filmato di circa venti minuti, ora nelle mani di Gian Luca Farinelli, direttore della cineteca di Bologna, che ogni tanto minaccia di divulgare, in cui sulla soglia della sua storica casa di via Carso, Alberto ed io chiacchieriamo del cinema italiano, ripresi da Paola, che oltre che brava documentarista è anche una attenta montatrice. Fuori pioveva a dirotto. Alberto, come spesso gli accadeva, era vestito in maniera approssimativa, con degli short al ginocchio; io, con la 63
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mia solita grisaglia ministeriale, di cui avevo tirato su i pantaloni, alla zuava, per non bagnarmeli. Sembravamo due comici d’altri tempi tipo Stanlio e… Stanlio! Grifi ed io facevamo a gara a sparare la puttanata più grossa: sulle attrici italiane, belle e brave, sui loro partner artisti e non, sui produttori noti “prenditori” secondo Aurelio De Laurentiis… È uno sketch esilarante! Alla presentazione del mio libro di poesie c’era anche lui. Io non potevo crederci: il più grande regista underground italiano, secondo l’enciclopedia americana più accreditata, voleva una copia del libro con il mio autografo. Fu una cosa indimenticabile anche perché, come alcuni amici comuni mi hanno raccontato, lui lo aveva conservato gelosamente portandolo con sé nei diversi traslochi che dovette fare nell’ultimo periodo della sua vita. Ci sono diecimila leggende metropolitane che si raccontano su Alberto. Una di queste narra che sia stato il primo a costruire e usare il vidigrafo. Io il vidigrafo non so neanche bene cosa sia, ma di certo, se l’ha usato Alberto, era un’innovazione. Gli servì per trascrivere su pellicola quello che è diventato un cult della cultura alternativa post sessantottina. Sto parlando di Anna, che Alberto aveva girato con Massimo Sarchielli. Erano undici ore di film, poi ridotte a tre ore e quarantacinque minuti, in cui veniva ripresa una sedicenne hippy incinta e drogata che girovagava per Piazza Navona. Le riprese durarono per circa sei mesi, tra il ‘72 e il ‘73, quattro anni dopo il fatidico ‘68. Il film fu presentato al Festival di Berlino e alla Biennale di Venezia nel ’75 e a Cannes nel ‘76, sempre con appassionata accoglienza dei cinefili, ma senza che – neanche questo – gli abbia mai fatto guadagnare molti soldi. Più o meno allo stesso modo gli andò con il durissimo 64
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documentario Carcere in Italia del ‘73 che gli procurò infinite grane con la giustizia italiana e prima ancora con il film che lo rese famoso, La verifica incerta del 1964, considerato il manifesto del cinema underground italiano, con Grifi e Baruchello che si divertono a sbeffeggiare la sintassi hollywoodiana, sezionando circa centocinquantamila metri di pellicola americana degli anni cinquanta e sessanta destinata al macero e ricostruendo, attraverso un particolare montaggio, bizzarre storie a incastro. Il signor Gianfranco Baruchello, che io non conoscevo, mi fu presentato da Alberto come uno dei protagonisti dell’arte “contemporanea” durante una singolare performance di luci sugli spalti delle mura di una cittadina laziale. In quel periodo ci muovevamo in carovana con amici, mogli e parenti e quella volta si unirono al gruppo Rita Rognoni e Gianni Zanasi, di cui ero riuscito a far proiettare il suo ‘Le belle prove’, su altri spalti di altre mura, nel castello michelangiolesco di Civitavecchia. Dopo quell’incontro Alberto mi consegnò, da parte di Baruchello, una specie di diploma d’artista, di cui fui molto fiero, che non so dove sia andato a finire, anche perché la compunta ironia con cui mi fu consegnato finì per convincermi che fosse solo uno scherzo. Durante il festival che organizzai con la Pannicelli, al Teatro Colosseo, che mi fu affittato, con lo sconto, da Ulisse Benedetti, il patron del “Beat 72”, oltre al film di Marco Ferreri proiettammo un’altra opera di Grifi: Parco Lambro. Un documentario del ‘77 che raccoglie le immagini dello storico raduno giovanile di Milano dove successe di tutto: ci sono scene di botte, di danze, di amore libero, di concerti, di scontri fra pubblico e organizzatori. Un ritratto della generazione anni settanta. Ricordo la bella accoglienza che il pubblico gli 65
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riservò, e in particolare una sequenza iniziale, durissima, che descriveva la crisi d’astinenza di una giovane tossicodipendente. Un travelling senza pari. Alla fine entrava in scena un medico che, dopo un lunghissimo straziante tentativo di rianimazione che sembrava non avere mai fine né successo, riusciva a riportare alla vita la ragazza, con grande sollievo di noi spettatori. C’era anche una grande festa dionisiaca nella quale spiccava, con il suo viso spiritoso e il suo perfetto seno adolescenziale, la figura di “Paperina”, così come Alberto chiamava Stefania Maggio a cavalcioni del suo fidanzato. Altro che le tette di Clara Calamai nella Cena delle beffe! Anche Stefania è diventata una mia amica, di quelle vere, grazie anche al comune fair play col quale fu respinto un mio maldestro approccio. Anche lei era presente alla proiezione di Parco Lambro, di cui era una quasi “star”, insieme a Bifo, il Francesco Berardi di Radio Alice, venuto apposta da Bologna per rivedere il film. Con Stefania, il giorno del funerale di Alberto, ci promettemmo di organizzare incontri per ricordare il nostro amico scomparso. Ma sono cose che si dicono ai funerali, e difficilmente diventano realtà. Peccato, perché sarebbe un’ottima occasione per convincerla a tornare a cantare, lei che dai tempi di Trombe Rosse al Palladium non si esibisce più, nonostante fosse una delle migliori voci italiane. Così come mi piacerebbe riascoltare un’altra cantante del gruppo, Elena Sansonetti, all’epoca fidanzata di Calopresti. A quel festival che organizzammo al “Colosseo” c’era anche Miriam Megnagi, la più nota vocalist ebrea, il cui ingaggio fu una delle spese importanti del festival a carico delle mie povere tasche di funzionario ministeriale. La mia esposizione debitoria per l’iniziativa mi apparve meno pesante – diminuendo così il 66
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mio senso di colpa verso i figli – grazie all’associazione culturale “Liberamente”, di matrice rifondarola, che aveva patrocinato l’evento, che mi propose come contributo un dipinto, non di Fabio Mauri che pure aveva partecipato alla manifestazione, ma di Mario Schifano o, se proprio volevo, di Pablo Echaurren. Io scelsi il figlio di Sebastian Matta, perché i colori vivaci del suo quadro ben potevano assolvere il compito di rallegrare la mia vecchia casa di Monteverde. Purtroppo il quadro è andato perduto durante il mio trasloco a piazza Vittorio, insieme a una bellissima litografia di Costantini con Garibaldi e Bakunin che si incontrano a Caprera, che mi ero regalata per il mio matrimonio. Che ci possiamo fare? Se ci sarà un’altra vita, rivedrò amici, amiche, parenti e quadri. Intanto li sogno di notte. Alberto è stato una di quelle persone a cui ho voluto più bene. Non ho mai conosciuto nella mia vita un uomo così rigoroso e coerente. Abbiamo anche litigato, qualche volta. Mi faceva incazzare la sua naturale predisposizione rivoluzionaria. Anche lui mi attaccava ferocemente per il mio lavoro di burocrate del cinema italiano. A me, però, il lavoro “nell’istituzione borghese” dava da mangiare, era inutile che m’insultasse. Mi criticava perché non poteva non farlo, però, spesso, dopo le discussioni si finiva a cena insieme e si faceva pace davanti a un bicchiere di vino. Quel suo ruolo di intellettuale critico, sempre alieno da qualsiasi compromesso con le strutture industriali di produzione, sinora lo ha relegato nei territori della dimenticanza. Una sera a Bologna, dove tenevo un seminario alla sala grande della Cineteca, stavo per cominciare quando mi fermai perché lo avevo intravisto poco prima. Gli avevano restaurato 67
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non so quale vecchio lavoro. Con un trucco lo chiamai e lo feci entrare nella sala, scandii il suo nome davanti a trecento giovani spettatori che gli tributarono una lunghissima standing ovation: lo vidi sorridere. Non tutti, quindi, si erano dimenticati di lui. La sua generosità, il suo sguardo ironico e spiritoso, la forza pulsante del suo cinema, restano intatte. Un cinema che, esattamente come la sua vita, correva e disorientava. E coglieva impreparati. Sapevo della malattia di Alberto e del ricovero d’urgenza nel pomeriggio di quel venerdì del 2007, e delle sue condizioni disperate. Il dolore per la sua morte è proprio come i suoi film: non ci sta dentro le poche righe di un capitolo. Forse, non rimane che cantare come la barbona a Santa Maria: “How many roads must a man walk down, before you call him a man?”
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Alberto Grifi: restauro di Anna (foto: associazione culturale Alberto Grifi)
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CAPITOLO X
Dove si fanno confessioni sulla Venere toscana, le amiche, la fidanzata, le donne amate e quelle vagheggiate. E la primera mujer Le donne non hanno circondato solo Alberto Grifi. Le donne sono centrali in tutta questa storia. Lo sono in tutte le storie del mondo: cinema o non cinema. Sono le nostre coinquiline in questa vita. La mia storia con loro ha molti punti di partenza. Uno di questi è la prima signora nuda che ho visto in vita mia: la Venere di Botticelli. Questa immagine mi ha accompagnato per tutta l’adolescenza e molto oltre, di notte e di giorno, nella buona e nella cattiva sorte. Finché, nel buio del cinema “Quirinetta” di Roma, non l’ho incontrata. Era una sera buia e tempestosa. O forse solo una sera come tante altre, non ricordo bene. Ero con mia figlia Antonella che, dopo aver condiviso con entusiasmo Flashdance, portai (allora il doppio film era pratica consolidata, per i cinefili) a vedere un’opera più impegnativa: Camera con vista. Di quel film, però, ricordo solo lei: l’incarnazione dell’immagine della mia vita, la Venere di Botticelli. 71
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Me la ritrovai nella fila davanti, di spalle: capelli biondi lisci, seduta tra mamma e papà. Poi, di colpo, si girò: il viso era quello, gli occhi erano quelli, il naso era quello. La incrociai di nuovo, stavolta a figura intera, all’uscita del cinema. Ed ebbi la conferma che era proprio lei. Corrispondevano anche le forme: Venere toscana su bocca romana, come dice Papini di sua nipote Ilaria, la più bella d’Italia. Cosa c’entra col cinema tutto ciò? Tutto. Dopo circa sei mesi rividi la creatura, stavolta al quinto piano del vecchio Ministero. - Ma lei che ci fa qui? - Voglio produrre un film. - E da chi va? Mi fece il nome di un funzionario bollito e infingardo. - Ma non è da lui che deve andare, signorina. - E da chi? - Da me. Sono io il nuovo responsabile della produzione cinematografica italiana. La Venere toscana entrò nella mia tana e ne uscì con un patto vergato col sangue (almeno così credevo io): insieme avremmo raggiunto il piano attico: Penthouse. Sono passati molti anni. La Venere toscana ha prodotto un po’ di film; io ho pubblicato il mio primo libro di poesie il 18 aprile del 2005, presentandolo alla Casa della Letteratura costruita dal Borromini, mentre veniva nominato il nuovo Papa. La Venere toscana si è comprata un’altra casa e continua a telefonarmi chiedendomi consigli e lamentandosi che non voglio più uscire con lei; neanche a dirlo che per un lustro è stata lei a nicchiare ai miei inviti con avarizia scoraggiante per tutti ma non per me. Io le proporrei un incontro di “solo sesso” 72
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o, in subordine, uno spogliarello, mentre come Marcello Mastroianni la guardo e ululo alla luna. Tanto per buttarla un po’ in ‘caciara’, ma possono finire qui vent’anni d’amore? La tintura castana ai capelli d’oro, no, per favore! L’ultima volta che la abbracciai aveva dei fianchi arrotondati. Mi dicono che stia facendo una cura dimagrante. Io non l’aspetto più. Spero di comprarmi un attico al mare da solo. E poi mica c’era solo Botticelli a dipingere nudi: avete presente la meravigliosa morbida odalisca di La source di Ingres? Io sì, ma la sua incarnazione riguarda il presente e la mia privacy e quindi non dirò una parola di più. Di molte donne sono stato innamorato. Una di queste è Luisa Maneri, dolce compagna di Piero Natoli, il Belmondo di noi italiani, che mi era stato presentato da Renzo Rossellini e per il quale scrissi la sua prima domanda di finanziamento per un art. 28, che si intitolava Con…fusione e che non venne neanche male. Con Rossellini, su direttiva del mio boss dell’epoca – il solito Rocca – c’era stato una specie di accordo strategico non scritto per promuovere i giovani autori che ha portato – grazie al cielo – qualche buon risultato, come i film di Luchetti ed altri. Piero Natoli, dopo un altro paio di film, morì troppo giovane. Di lui conservo gelosamente un distintivo con la sua faccia da schiaffi e un ricordo affettuoso. Luisa invece vive a Parigi ed è sempre piena di grazia. Forse mi innamorai di lei perché mi ricordava Gabriella, la mia prima amata moglie, la madre dei miei figli. Del resto anche Mariella Valentini ricordava Gabriella. Anche lei era biondina, esile, occhi azzurri ma, molto più della Gabri, sexy come una Colombina veneziana e con il cuore di ghiaccio, almeno con me. Mariella si beccò, in scena, uno schiaffone memorabile da Nanni Moretti in Palombella Rossa, 73
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a causa del suo frasario anglofono, anche se ho il sospetto fondato che piacesse anche a lui. Ma al tempo lei preferiva un signore bello come un Dio dell’Olimpo - chiamato infatti Zeus - con il quale non potevamo competere. Mi incontravo con la Mariella in luoghi piuttosto bohémien, come una caffetteria alle Colonne di Milano, dove bivaccava Valpreda, o nel fascinoso decadente hotel “Victoria” di Torino, dove incontrai la Rossanda e dove lei mi invitò per farsi poi trovare, con mio disappunto, in compagnia di un’intera troupe teatrale con cui stava recitando. Poi ci sono le amiche. Stefania Casini, per esempio, un’icona, famosa per le tante cose legate alla sua femminilità: la scena indimenticabile di Novecento, tra Robert De Niro e Gerard Depardieu; la prima fotografia di nudo italiano di spalle, su Playboy; la relazione sospetta con uno degli uomini più belli di New York, dove girò Lontano da dove con la mia amica Francesca Marciano. Sto parlando di Joe D’Alessandro, già rampollo della scuderia di Andy Warhol. Stefania è stata un’ottima amica: molto intelligente, molto educata, molto civile, molto milanese. Un giorno o l’altro tornerò a fare “Taj chi” con lei. Anche con Domiziana Giordano non sono mai riuscito ad andare oltre l’amicizia. Anche se poi lei andava oltre l’amicizia con alcuni miei amici, non ho mai capito perché. Ma succede così con le donne, non c’è niente da fare. In ogni caso devo ammettere che camminare per Roma o stare in macchina con Domiziana Giordano, che guidava contromano, nel suo periodo di splendore, fu un’esperienza unica e la conferma concreta del grande filosofo sostenitore della supremazia della bellezza. A Domiziana tutto era permesso senza che nessuno le dicesse 74
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niente. Poi, con gli anni, si è immalinconita, ma anche questa è una cosa che succede e non solo alle donne. Si dice che Don Giovanni ne abbia avute mille e tre. Io sono arrivato al massimo a tredici che è pure troppo, ma per tutte le mie fidanzate conservo un piccolo spazio di gratitudine nel mio cuore. Tra loro l’unica morosa riconosciuta ufficialmente è stata l’Adriana. L’unica che è venuta a casa mia, nella vecchia casa, l’unica che ha dormito (una volta sola) nel letto matrimoniale. Lei, come dice un famoso cantautore per la sua amica Giovanna, è sempre stata la migliore. Una Gentile Signora, titolo da me proposto per il suo primo film, che mi lasciò quando mi inventai la scusa della distruzione contro un pino marittimo della mia prima Fiat Uno, ad opera di mio figlio. L’incidente era vero, la scusa credibile, e tuttavia avrei lo stesso potuto raggiungerla a Lipsy, nel Dodecanneso o giù di lì. La verità è che non avevo voglia di partire. Lei, che è sempre stata la migliore, non la bevve e mi mollò. Le donne sono strane e per contrappasso, tempo dopo, una devota amante mi buttò fuori dalla macchina perché, invece che con il suo, l’avevo chiamata col nome di Adriana. Fui io, invece, a buttarmi fuori dalla seicento di mio cugino quella volta, nel ‘58, che a sedici anni voleva farmi conoscere una delle ragazze di viale Regina Elena a Napoli. Non volevo altre delusioni da femmine semivestite, come quando dal buco della serratura della mia cameretta di bambino avevo intravisto Carmelina, sana domestica di famiglia pugliese, di San Vito dei Normanni, che mi scoprì e mi rimproverò facendomi arrossire. Grazie al cielo non mi fece arrossire Suso Cecchi D’Amico quando fu costretta a svestirsi nella mia stanza all’Hotel Martinez di Cannes perché la sua non era ancora pronta. Io mi ero chiuso a cambiarmi in bagno! Fu bello, dopo quel casto 75
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incontro ravvicinato, dare il braccio alla grande madre del cinema per la serata di gala del film di Gianni Amelio Ladro di bambini, che vinse la Palma d’oro. In realtà, dopo Gabriella, l’unica ragazza alla quale chiesi di sposarmi, offrendole una pietra nera di una gioielleria della Maddalena, sull’aereo di ritorno dalla Sardegna a Roma, non era una donna di cinema: Raffaela era la commessa dell’ultimo spaccio ministeriale, quando la Direzione Generale del Cinema era ancora in via della Ferratella. Aveva accettato di uscire con me che intendevo scusarmi per un sospeso di cassa non onorato. Assomigliava a Vanessa Redgrave nel pieno del suo fulgore e aveva il fisico dei maschi di Mapperton, con il particolare che era femmina, bianca e sembrava figlia – da buona marchigiana – del Duca di Urbino. Insomma, era troppo giovane e troppo bella. Sua madre mi guardava con sospetto e in una cerimonia dei David di Donatello un cinematografaro invidioso la prese per mia figlia. Quand’è così, un gentiluomo deve ritirarsi in buon ordine, facendo buon viso (si fa per dire) ai dubbi già da lei spiattellati alla consegna del gioiello. Anni dopo, non mi ritirai in buon ordine, ma ricevetti con tutti gli onori la meravigliosa Zeudi Araya. Mi ricordavo vagamente di lei sia perché aveva appena fatto un film di successo che si chiamava La ragazza con la pelle di luna sia perché era stata sposata con un signore importante del cinema con il quale fumai la mia ultima sigaretta senza filtro all’Hotel de Ville a Parigi, il caro Franco Cristaldi. Zeudi Araya mi aveva chiesto un appuntamento per avere informazioni sui contributi ministeriali alle produzioni. Arrivò vestita di azzurro e oro, non era una principessa ma una vera regina che entrava nel mio stanzone pieno di cartacce. Fu una grande emozione. Come si può immaginare, mi fece guadagnare molti punti fra 76
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gli impiegati del Ministero, che facevano capolino dai sei piani delle loro stanze per guardarla. Più ancora della folla di curiosi che invase il mio corridoio quando mi venne a trovare Roberto Benigni con uno stuolo di avvocati, per una faccenda complicatissima. Ma questa è un’altra storia. Ed eccomi tornato a Gabriella. Gabriella se ne andò a quarant’anni, in un giorno d’autunno, a Jacksonville, Mississippi. Dopo il niet del “clan Veronesi” sulla possibilità di una cura, avevamo affrontato un volo transoceanico per raggiungere un piccolo ospedale sulla riva del grande fiume americano, dove si favoleggiava della terapia sperimentale chiamata “ipertermia” che, unico al mondo, il dottor Parks praticava total body. Di quella esperienza ricordo i racconti vagamente bukowskiani che il dottor Parks (fratello gemello di Sterling Hayden) mi faceva per tirarmi su, mentre sfrecciava a velocità pazzesca fuori dall’ospedale sulla sua Mustang rossa. Fu commovente la prova di solidarietà umana dei miei colleghi del Ministero, che insieme ai miei parenti, ai buoni uffici del ministro dell’epoca e dell’Alitalia consentirono a me e Gabriella di intraprendere quel vano meraviglioso viaggio della speranza.
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CAPITOLO XI
Dove si ricordano i gloriosi tempi della Commissione Censura e alcuni casi singolari, come quelli dei film di Paul Morrissey e di Ciprì e Maresco Al Ministero c’era un posto dove tutti avrebbero voluto andare: una specie di luogo dei desideri. Sono le sale cinematografiche nei sotterranei di via della Ferratella dove, circondati dalle automobili degli impiegati, per una trentina d’anni si sono svolte le proiezioni per le Commissioni di Censura. Poi, finalmente, grazie a una provvidenziale “spiata”, sono arrivati i vigili del fuoco che imponendo la costruzione di muri ben spessi hanno isolato il garage dalle sale, diminuendo drasticamente lo spazio per le automobili da posteggiare e anche il numero delle poltrone della sala grande, dove col cattivo tempo ci pioveva allegramente. È dai tempi, ormai lontani, di Ultimo tango a Parigi (con il taglietto imposto di una trentina di secondi “ad adiuvandum”) che il posto ha comunque conservato una sua aria peccaminosa che attira come il miele, i fuchi ministeriali. Unico cambiamento: lo stile contro-riformistico della vecchia legge 79
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del ’62 non usa più la parola “censura” ma, molto più pudicamente, quella di “revisione cinematografica”. Io cominciai a frequentare quella sala molto giovane perché il Direttore Generale, per premiare i miei primi successi professionali di funzionario addetto ai circhi equestri, mi chiese quale incarico desiderassi. Naturalmente chiesi quello della “censura”, non tanto perché grazie alle cinquemila lire a seduta nel ‘72 era l’incarico più retribuito, quanto perché speravo di vedere dei film “interessanti”. Avevo ragione, ma “interessanti”, ben più dei film erotici, si rivelarono i personaggi che vi giravano intorno: dallo storico fondatore della psicologia italiana, il liberale Luigi Volpicelli, al suo collega progressista Raffaele De Grada, a magistrati dalla straordinaria cultura giuridica e dall’aureo equilibrio. Questo sembra quasi incredibile a fronte dei comportamenti di certi attuali procuratori della Repubblica, che ho in qualche modo sfiorato e che mi sono sembrati tanti ‘Javert’, il poliziotto de I Miserabili che perseguitava il povero Jean Valejant. Invece i magistrati che ho conosciuto in censura erano un vero esempio di saggezza: l’abruzzese Marco Boschi, procuratore generale della Repubblica di Roma, che quando lasciò l’incarico mi scrisse una bellissima lettera di encomio che, naturalmente, ho perduto (come feci con una lettera autografa, piena di commoventi ed eleganti parole di elogio, che Giorgio Strehler mi inviò, quando lasciai la presidenza dei revisori dei conti del Piccolo di Milano). E poi i due magistrati siciliani purosangue, Filippo Mancuso e Corrado Carnevale. Il primo, come si sa, diventò ministro della giustizia di un governo di centro-destra e fu oggetto di orribili, maligne polemiche da parte di suoi colleghi, di faziosi giornalisti, di 80
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politici radical-chic. Corrado Carnevale, a sua volta, fu vittima di accuse infamanti, solo perché con la sua sapienza giuridica cassava sentenze scritte coi piedi da qualche collega ignorante o fanatico. Carnevale è stato assolto e riabilitato, mentre continuo a pensare che a causa di quelle calunnie Filippo Mancuso abbia visto diminuire drasticamente il tempo concessoci per campare. Ho lavorato vicino a questi due giudici per più di tre anni ammirandone la fortezza d’animo nonostante le avverse fortune, mantenendo pur nella stramba materia cinematografica una rara misura. Vallo a spiegare a certa stampa. Ricordo anche il simpatico gigante: il dottor Del Grosso (di nome e di fatto), un magistrato di Cassazione che presiedeva, oltre che con sapienza giuridica, anche con una non comune cultura liberale. Il suo prestigio nell’ambiente era talmente elevato che, anche per il modo brillante con cui aveva risolto le polemiche di alcuni censori codini contro i “nudi espressionistici” di Jodorowsky in una seduta cui avevo partecipato, aveva acquisito il soprannome “La Montagna Sacra”. Facendovi grazia del cotée pasoliniano in materia e lasciando, così, da parte i piselli mosci dei soldati morti di Le mille e una notte o le deliranti immagini di coprofilia e di sadomasochismo dell’ultimo film, del maestro friulano, di quel periodo mi sono rimasti particolarmente impressi due episodi. Il primo è una vecchia storia che riguarda l’incontro cinematografico di Carlo Ponti con la Factory di Andy Warhol. Non ho idea di come il più grande produttore italiano dell’epoca (prima che arrivasse il mio amico Italo Zingarelli) arrivò a produrre ben due film diretti da Paul Morrissey, il braccio destro cinematografico dell’inventore della pop art: Il 81
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mostro è in tavola… Barone Frankestein (1973) e Dracula cerca sangue di vergine… e morì di sete!!! (1974) con niente di meno che Vittorio De Sica. Non ricordo i titoli originali né il dettaglio delle scene “scabrose” e dei dialoghi “incestuosi” ma ben ricordo come in un primo momento i due film furono sonoramente bocciati dalla Commissione di Censura. La mia fama di “risolutore di problemi” (problem solver, si dice oggi) stava crescendo all’epoca e il commendator Ponti volle incontrarmi. Conclusione: forse qualche scena fu tagliata; i nudi della bellissima Dalila Di Lazzaro, scoperta dal produttore milanese, un po’ oscurati; l’amore tra parenti scomparso, giacché le parole inglesi tra madre e figlio e/o fratelli e sorelle furono sostituite da altre parole italiane che coprirono i rapporti di parentela. Furono cambiati anche i titoli e in particolare il secondo ebbe un’aggiunta grottesca in spregio alla consecutio temporum: “…cerca sangue… e morì di sete!!!”. I due film, con la formula tecnica della seconda edizione, ottennero il nulla osta della revisione cinematografica sia pure con il divieto ai minori di 18 anni. Il commendator Ponti mi ringraziò con molto calore, anche perché avevo avuto l’ispirazione, oltre che di suggerirgli i cambiamenti di cui sopra (tranne il titolo), di indicargli come adattatore di dialoghi quel grande giocoliere di parole che era Alberto Piferi, artista del doppiaggio italiano che mi era stato presentato casualmente qualche giorno prima dal mio caro fratello Paolo, che ne stava per sposare la bellissima nipote: “la Paoletta”. E così si chiude una delle storie di cui ancora ridiamo con Guendalina Ponti, avvocato di cinema, figlia di tanto padre. Il secondo è legato a uno degli ultimi “scandali” sui quali i giornali impazzarono, prima del declino della famigerata Censura: la tormentata vicenda di Totò che visse due volte di 82
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Daniele Ciprì e Franco Maresco. Il film, diretto dai due autori cult di Rai Tre, lanciati da Angelo Guglielmi, aveva ottenuto la qualifica di film di interesse culturale dalla commissione di veltroniana nomina, nella quale brillavano personaggi di prima grandezza come la scrittrice Dacia Maraini e lo storico del cinema Gian Piero Brunetta. In primo grado anche Totò fu sonoramente bocciato e ne fu vietata l’uscita. In questo caso però il suo produttore, il gentiluomo siciliano Rean Mazzone, non mi chiese consiglio perché è vero che ero il dirigente del cinema ma non mi occupavo di censura da molto tempo. D’altra parte non ce ne sarebbe stato bisogno. Si scatenò, infatti, una grande campagna di stampa ostile alla decisione, reazionaria e liberticida, della Commissione Censura. In loro favore intervenne anche il Codacons. Veltroni, a sua volta ferito nei suoi principi progressisti, sull’onda delle polemiche dichiarò che la censura sarebbe stata abolita e presentò un disegno di legge in proposito. Sfortunatamente, come talvolta succede ai politici, i loro annunci trionfanti non sempre vanno a buon fine: la Commissione Censura è tuttora viva e vegeta. Il film ottenne il nulla osta in appello e uscì nelle sale con l’handicap del divieto ai minori di 18 anni. Ma i guai per i registi, per gli sceneggiatori e per il produttore non erano finiti e grazie all’intervento fattivo di “Militia Christi”, di un’altra ventina di associazioni assistite da altrettanti legali e di un congruo numero di cittadini “ben pensanti”, partì una serie di denunce: per vilipendio alla religione, offesa al culto dei morti, non ricordo se anche per blasfemia (ma c’è ancora ’sto reato?) e pure per truffa aggravata nei confronti dello Stato. Un solerte Procuratore della Repubblica ottenne il rinvio a giudizio del produttore e degli autori. Come avvocati della difesa si 83
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prestarono alla causa, su consiglio di Laura Betti, il senatore Guido Calvi e Paola Parise. Io insieme al Direttore Generale, l’Ambasciatore Bova, anch’egli di veltroniano patronage, fummo convocati dal tribunale a palazzo Clodio per testimoniare, quali persone informate dei fatti. Quel bel tipo di Tatti Sanguinetti, che negli anni 80 aveva compitato alla radio il mio nome e numero di telefono per gli aspiranti all’articolo 28 – all’epoca non c’era Internet e tutto era più complicato – ebbe la bella idea di chiedere al Presidente del Tribunale di filmare l’evento. Insomma, se a qualcuno interessa c’è anche un documentario di un’ora sull’evento, in cui il Direttore Generale – come è logico – mantiene un prudente e istituzionale contegno, mentre io faccio il maestrino per una ventina di minuti. Grazie al cielo finì tutto in un nulla di fatto: il reato di vilipendio fu derubricato in reato minore e gli imputati furono assolti; la truffa, poi, proprio non esisteva, giacché Rean Mazzone, che pure aveva ottenuto un modesto finanziamento ministeriale, rinunciò a incassarlo viste le complicate e costose procedure burocratiche che avrebbe dovuto mettere in cantiere per monetizzarlo. La censura nel frattempo, come diceva il Presidente Mao dei suoi avversari fasulli, è diventata una tigre di carta. O, come direbbe Totò – quello napoletano, non il messia siciliano del nostro episodio – “un guappo di cartone”. Altro che bei tempi degli anni cinquanta quando la tutt’altro che conturbante danza dei sette veli di Rita Hayworth aveva imposto, alla sua Salomé, il divieto ai minori di 16 anni, costringendo il sottoscritto quattordicenne e i suoi compagni di scuola a mentire sulla propria età per godersi lo spettacolo proibito. I tempi cambiano e i diritti civili avanzano. Nudi frontali e lati B maschili e 84
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femminili impazzano ma non sono vietati a nessuno, così come gli amori inter, infra e pan sessuali. Sono ben più severe delle Commissioni di Censura le Tv a pagamento che, con segnalazioni ad hoc, senza vietarli, suggeriscono ai genitori per certi film di far compagnia ai loro bimbi. A proposito di fallimenti legislativi, ricordo con un pizzico di nostalgia un disegno di legge che scrissi con Vittorio Giacci (il critico cinematografico che con gli altri milanesi “primi della classe” tra i quali Martelli e Escobar, furono lanciati nell’agone cultural-politico da Bettino Craxi). Grazie a un’intuizione, forse un po’ utopistica, di Giacci, scrivemmo negli anni settanta una legge che anziché dare soldi ai cinematografari prevedeva servizi per autori e produttori: pellicola, trasporti, teatri di posa, troupe, ecc. che lo Stato metteva a disposizione a determinate condizioni. Non se ne fece nulla. Dopo un po’ il partito socialista, praticamente sparì e il palazzo di via del Corso dove io, ignaro simpatizzante, ero stato invitato da Vittorio a lavorare in una stanza che più incasinate non ne ho mai viste, non ospita ora il partito del garofano ma un “Ferrari Store” o qualcosa di simile.
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CAPITOLO XII
Dove si affronta il melanconico ma necessario capitolo delle occasioni perdute e degli amici scomparsi prematuramente. E si finisce con un raggio di speranza, pensando ai figli d’arte Raquel Welch è scomparsa dalla mia vita prima ancora di apparire, perché chi doveva presentarmela per andarci a cena insieme, il caro Francesco Laudadio, ci ha lasciato troppo presto in questa valle di lacrime. Francesco, insieme al fratello Felice, è uno di quei pugliesi autoctoni che, senza far parte di consorterie di magliari ma con sane radici ideologiche, ha attraversato il cinema italiano con diversi meriti, tra cui quello di aver vinto il David di Donatello come regista esordiente con il suo Grog e l’altro, non di poco conto, di averci mostrato per la prima volta desnuda l’umbra meravigliosa Monica Bellucci ne La riffa. Francesco, trovando in me un omonimo compaesano tranese, mi aveva magnanimamente promesso, dal suo scranno di cittadino barese, di farmi conoscere la sex symbol hollywoodiana. Pare che la Welch fosse disponibile a venire in Italia per fare la protagonista di un suo film, ambientato sul Tirreno tra Toscana e Liguria, che si sarebbe intitolato La torre. 87
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Io, che fino ad allora avevo spasimato cinematograficamente per la Bo Derek di 10, la Jacqueline Bisset di Effetto Notte e la Ursula Andress de La decima vittima, avevo un ricordo fantasmatico di “Rachele”, forse intravista a casa di un mio amico seminuda sulle pagine di Playboy o, sempre poco vestita, sul pressbook di Viaggio allucinante. Promisi a Francesco che l’avrei aiutato in tutti i modi, ovviamente leciti, a realizzare il suo progetto e lui mi assicurò che saremmo stati insieme a cena con la Welch. Non vedevo l’ora. Francesco purtroppo ci ha lasciati nel 1995, a soli cinquantaquattro anni, e ho perso un amico caro e un incontro che nella mia mente già prefiguravo come “muy hot”. Nello stesso anno se n’è andato Mario Costa. E’ una storia melanconica di cui conservo ancora un ricordo angoscioso. Con lui avevo un’amicizia “telefonica” perché, oltre ad essere diventato cieco, aveva un problema motorio. Con una determinazione cocciuta e con una passione che sentivo ribollirgli dentro, Mario, che probabilmente aveva avuto il mio numero da suo figlio Massimo (uno dei cinquecento ventottisti elencati in appendice), mi chiamò con regolarità per un anno per parlarmi del suo ultimo progetto: un film sul Caravaggio. Attraverso un suo emissario, forse suo genero, mi fece arrivare un meticoloso storyboard da lui disegnato, quando ancora era padrone della vista, accompagnato dalle foto di tutte le opere e dei luoghi del pittore, con corredo di note personali e aneddoti. Dopo poco Costa morì, a 91 anni, e io conservai gelosamente per una decina d’anni il suo prezioso documento che però ora non ho più. Nel 2005, infatti, lo prestai ad Antonio Veneziani con cui ne avevo parlato. Antonio è il grande poeta – 88
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presentatomi dall’amica Mazzarella – che mi ha aiutato a pubblicare la prima raccolta di poesie nell’annuario poetico dell’editore Porta. Quando mi chiese in prestito il prezioso storyboard non riuscii a dirgli di no. D’altra parte Antonio, come tanti artisti, è un “senza fissa dimora” difficile da rintracciare. Sono certo che un giorno lo rivedrò e potrò recuperare le fotografie, le parole e i disegni di uno dei tre moschettieri (con Gallone e Mastrocinque) del film opera italiano. Troppo presto, purtroppo, morì anche suo figlio Massimo, di cui ricorderò il “celiniano”, Vuoti a perdere, la sua storia con Stefania Maggio, la Paperina di Parco Lambro di Grifi e il contatto che mi dette con suo padre e i suoi commoventi appunti caravaggeschi. Troppo presto ci ha lasciato Piero Natoli, il Belmondo “de noantri”, come vi ho raccontato qualche capitolo fa a proposito del patto siglato con Rossellini al vecchio Fiammetta con una stretta di mano per incoraggiare gli esordi al cinema. L’avveniristica alleanza tra pubblico e privato dopo qualche anno svanì perché la Gaumont italiana di Renzo (c’era pure di mezzo Sandrone Silvestri – La Rivoluzione in diretta -), dopo diversi film strepitosi di Fellini, Losey ed Herzog a un certo punto andò a carte quarantotto. Il film d’esordio di Natoli Armonica a bocca fu perciò prodotto grazie all’articolo 28. Fu così che conobbi Luisa Maneri, la sua attrice feticcio, di cui mi invaghii, perché anche lei – come la biondina di Palombella Rossa – mi ricordava la mia prima moglie Gabriella. Luisa, come sapete, se n’è andata a Parigi e il buon Piero ci ha lasciati, proprio quando cominciava a ottenere un po’ di popolarità grazie alle commedie all’italiana di Virzì. Per fortuna la bandiera della famiglia Natoli la tiene su alta la 89
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brillante Natoli junior. Se Piero è stato il Belmondo del cinema italiano, lei è senza tema di smentita la nostra Charlotte Gainsbourg. Non per nulla l’hanno chiamata Carlotta. A quando un film con Lars Von Triers?
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CAPITOLO XIII
Dove si racconta, tra il serio e il faceto, di tre tentativi di “corruption”. Dei quali due materiali e uno immateriale Tira nel nostro paese un vento strano: è una vigorosa caccia alle streghe, dal vago sapore inquisitorio verso un bel manipolo di corrotti, o un fantastico generoso risveglio di etica repubblicana per ripulire, una volta per tutte, le stalle del paese? Francamente sono un po’ indeciso su quale dei due sentieri percorrere. Tempo fa, un novello Murat, su un grande quotidiano virtuoso, ha scritto:“Io mi tolgo la camicia e mostro il petto: intercettateci tutti!”. Mi pare matto francamente. Io non voglio essere intercettato. Vorrei conservare la mia riservatezza, libero in privato di dire quello che voglio e a chi voglio, e magari pure in pubblico senza invadere la libertà e la dignità altrui. Vorrei, al tempo stesso, che fosse considerata normale la mia personale honestas senza esserne ossessionato. Anch’io, nel mio piccolo, ho subito qualche attentato alla mia integrità morale e professionale, non tantissimi per la verità: non so se lamentarmene o vantarmene. “La tragedia del mondo, e della vita, è che tutti hanno una qualche ragione.” Questo principio goethiano lo riferiva anche Jean Renoir ne La 93
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regola del gioco: “Tutte le persone viste da vicino hanno le loro buone ragioni”. Mi sembra un principio importante che, anche se laico, può essere condiviso dai miei amici cattolici cui stia a cuore più l’attenzione alla misericordia divina che al peccato. Mi è venuta in mente questa “regola” proprio per le mie tre piccole storie in cui la cosa buffa o quanto meno interessante è che tutti i protagonisti, i corruptores, ne sono usciti appunto con la convinzione di avere ragione e di essere stati, quindi, in qualche modo, maltrattati. Naturalmente, anche se è una mancanza, mi asterrò dal fare i loro nomi, come si può ben comprendere. Primo episodio: me ne stavo tranquillo nella mia stanza a contemplare quello che, ancora oggi, è il mio manifesto cinematografico preferito (quello del film Quanto è bello lu moriri accisu, di Ennio Lorenzini) quando entrò, restando in piedi rispettosamente davanti a me, benché in jeans e giacca di velluto (ma per lui ero il ministero!) un produttore regista, specializzato in sceneggiati melodrammatici. Allora c’era il fondo agevolato dello Stato (al 5% invece del 15% delle banche). Concederlo era praticamente automatico, giacché ne erano esclusi solo i film porno. Ma il questuante, in pieno timore reverenziale verso il potere, pensava che fosse necessario ungere le ruote. Mi chiese se avremmo portato la sua pratica in commissione; gli dissi di sì e lui per ringraziarmi tirò fuori un ferma-soldi con delle banconote, ne prese cinque da 100.000 lire (metà del mio stipendio di allora) e me le mise nel taschino. Io restai allibito per la volgarità del gesto e perché era una cifra folle. Basti pensare che agli uscieri venivano date 5.000 lire per cercare i fascicoli che non si trovavano (ora questa pratica è estinta anche se ci sono ancora fascicoli 94
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introvabili). Avrei potuto mandarlo in galera, invece glieli ridiedi e lui ci rimase malissimo. Arrossì, abbassò la testa e fece dietrofront, mortificato ma almeno impunito. Il secondo episodio ha a che fare con la mia infatuazione per la Venere toscana. Tra quelli che sospettavo se la facessero con lei, c’era un produttore ebreo, piuttosto belloccio, che aveva fatto un cortometraggio grazioso in bianco e nero. Resomi conto che era assolutamente innocente circa i suoi rapporti con la Venere, per vincere il mio senso di colpa per avere sospettato falsamente di lui, decisi di aiutarlo. Lui voleva realizzare un piccolo film per bambini in cui il protagonista doveva essere prima Pavarotti e poi Tony Curtis. Alla fine di un percorso durato tre anni e particolarmente tortuoso con le banche, il film fu girato ma Tony Curtis non c’era più. Io avevo faticato moltissimo per difendere questo progetto e questo signore, e mi sentii tradito. Non so se questo produttore mi aveva ingannato scientemente dall’inizio oppure no, ma in ogni caso gli dissi di non farsi più vedere. Lui, prima di andarsene, tirò fuori una busta che chiaramente conteneva soldi. Gliela ridiedi ancora più piccato. Non ho mai capito quanti ce ne fossero. A occhio immagino una cifra tra i 1.000 e i 2.000 euro. Comprendo e apprezzo il gesto di gratitudine ma, diamine, fatto con un po’ più di eleganza e, magari, con un po’ più di “sghei”! Pure non andò a buon fine, e terminò in modo grottesco, il tentativo di un avvocato di “addolcire” me e la pratica complicata relativa a un suo film, che aveva subito molte traversie e che si era impantanato. Mi mandò un bel tartufo perché sapeva che mi piacevano. Il tartufo era enorme, del valore di circa un milione di vecchie lire. Io cercai subito di rimandarlo indietro, ma ci misi qualche giorno per trovare il 95
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domicilio romano del mittente. Infine glielo feci recapitare – se non mi ricordo male – coinvolgendo il mio paziente figliolo. Sospetto che con il caldo dell’estate il suo legittimo proprietario ne rientrò in possesso che era ormai “andato”. Un bel danno economico. L’avvocato non la prese molto bene. Un giorno, anni dopo, ci siamo rincontrati e abbiamo fatto pace. L’ultimo tentativo di prevaricazione fu fatto da un mio amico farmacista, con il quale condividevamo chiacchiere di vicinato e il jogging domenicale a Villa Pamphili. Durante una di queste corse, dopo una lunga premessa circa l’ingiustizia regnante al mondo, il mio amico tentò di convincermi che meritassi un premio per i miei meriti a fronte dello scarso salario che lo Stato mi attribuiva. Mi propose una percentuale su un nuovo finanziamento per un film di un suo amico. In cambio mi sarei dovuto impegnare a fare accettare un miglioramento del cast e quindi un maggiore contributo. Non volevo dispiacergli e così, dopo averlo ringraziato per la stima che esprimeva nei miei confronti, gli risposi che il film in questione era interessante, ma che il produttore era un vero incapace. Non se ne è più parlato. L’integrazione non ci fu, il film ebbe anche dei buoni attori e, forse, non era venuto neanche male, ma per colpa di quel produttore cialtrone non è mai uscito in sala. Anche se voglio ancora bene a questo mio amico coetaneo, con cui ho trascorso momenti lieti, i nostri rapporti sono rimasti formali e corretti e ormai ci vediamo poco o niente, come con altri amici di un tempo. Con loro, per cancellare i rimpianti, come per l’Eucharren e per il Costantini smarriti e per gli amori perduti, spero in nuovi appuntamenti nei cieli di un’altra vita.
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CAPITOLO XIV
Dove si narra di un’affollata fotografia in bianco e nero, di un “blocco” stile basket a fin di bene e di un piccolo grande premio che non dimenticherò mai Ci sono premi immeritati, che nascono da un’azione non proprio corretta e ci sono premi che ci piace considerare meritati, perché provengono dal giudizio di persone disinteressate, riunite in consessi di valutazione creati ad hoc, non so se mi spiego. La fotografia in bianco e nero che ho di fronte estratta dallo scatolone della memoria, immortala uno dei pochi premi vinti nella mia carriera. È stata scattata nel 1989: al centro della foto ci sono io e ai miei lati quattro impiegati e funzionari del vecchio Dipartimento dello Spettacolo; alle mie spalle c’è il giornalista Lello Bersani e, belli impettiti, l’allora ministro Carraro (dai personalissimi sopracciglioni scuri), l’allora presidente dell’Anica Cianfarani – sanguigno abruzzese dal soprannome agreste (li pecuri) – e l’allora signora Cecchi Gori, al secolo Rita Rusic, nelle vesti di valletta di rango. Siamo all’Hotel Sheraton di Roma insieme (dovete fare un atto di fiducia, nella foto non si vedono) a un vero e proprio parterre de roi: da Nino Manfredi ad Alberto Sordi, da Monica Vitti a 97
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Vittorio Gassman, da Mario Monicelli a Franco Zeffirelli, e ancora Andreotti e Letta (padre, naturalmente), per finire con un allora produttore di fresco successo, Silvio Berlusconi, ancora lontano dalla discesa in campo. Il premio si intitolava “Una vita per il cinema” ed era famoso per essere, all’epoca, l’unico che oltre a premiare le star prevedeva riconoscimenti anche a coloro che lavoravano dietro le quinte: dirigenti, impiegati, segretarie, tecnici del settore. Era stato creato da Alessandro Ferraù, un anziano gentiluomo, giornalista economico, che ha avuto il merito per primo, credo, di analizzare i risultati economici dei film sul mercato italiano. Per l’occasione mi ero comprato – con un piccolo sacrificio economico considerato il mio misero stipendio di allora – una cravatta regimental in uno dei pochi negozi “inglesi” di Roma, quello dei fratelli Viganò, non conoscendo allora le cravatte tres chic di Bomba, di cui ora sono testimonial privilegiato. Ero emozionatissimo. Il destino mi aveva preso alle spalle, incatenandomi per così tanto tempo nella stessa posizione all’interno della Direzione Generale del Cinema, nonostante una compagna della CGIL mi avesse severamente vietato di restare troppo a lungo nello stesso settore: avrei finito per farmi corrompere e, cercando di risolvere i problemi, anziché far esplodere marxisticamente le contraddizioni del sistema, avrei favorito la sconfitta della classe operaia! Io le opposi timidamente che forse così riuscivo un po’ a specializzarmi, ma lei non cambiò idea. Fui io ad abbandonare la sua compagnia quando mi fece una ancora più severa proibizione: quella di accompagnarmi sentimentalmente con una giovane impiegata molto carina e ‘rivoluzionaria’ che, per lo meno all’inizio, non disdegnava le mie avances. Disse che non era politicamente 98
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corretto che facessi sesso con una “subordinata” che per altro non lavorava nel mio ufficio. Mi arrabbiai molto e lasciai perdere la compagna della CGIL, che purtroppo ha poi avuto una vita infelicissima grazie alla sua rigidità umana ed ideologica. Tuttavia, la ricordo ancora con affetto, dopo che è scomparsa troppo presto, perché era veramente la migliore di tutti noi per la sua straordinaria serietà e preparazione, tanto è vero che era stata la prima in graduatoria del nostro concorso pubblico per il ministero. In quel posto alla fine ci sono rimasto più di trentacinque anni, accumulando effettivamente un’esperienza unica nell’affrontare i continui diabolici cambiamenti delle leggi sul cinema, grazie anche all’aiuto delle meravigliose persone che hanno lavorato con me per tutto quel periodo. Quel giorno – a metà della mia carriera – a causa anche della mia recente e faticosissima nomina a dirigente, mi fu dunque consentito – sospetto per un’indicazione riservata del mio boss Rocca – salire su un palcoscenico, insieme ai veri protagonisti del cinema italiano. Lo feci col batticuore, portandomi dietro (ero il più alto in grado) l’altrettanto emozionato e smarrito drappello dei colleghi. Appena sul palco, però, mi resi conto che, a differenza delle star che erano state premiate fino ad allora, a noi ministeriali non avrebbero consentito di salutare dal microfono. Fu un attimo: scattai verso Bersani che presentava, e memore di alcuni “blocchi” fatti durante le partite scolastiche di basket, mi misi tra il microfono e lo stesso Bersani, al quale forse mollai pure una gomitata in pancia, lasciando sfilare davanti a me, uno per uno, gli altri ministeriali: su tutti Leda Serrani, l’anziana signora dagli occhi blu, fata turchina dei cortometraggi e dei documentari italiani dei quali conosceva vita morte e miracoli 99
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da quaranta anni. La presentai al pubblico, come si fa per i componenti di una banda rock alla fine di un concerto, così come feci col mio amico Pino Ferrazza, futuro presidente dell’ETI, col quale quello stesso anno feci il mio esordio a Cannes (quella volta dello “spogliarello” di Suso Cecchi D’Amico al Martinez) e poi ancora con il mio collega Fabio Pietra, il più grande esperto di sale cinematografiche italiane e mio rivale “macho” nelle conquiste intra moenia e infine Carlo Giombi, una specie di redivivo Rugantino, esperto di censura e coproduzioni, dal viso aguzzo e dall’intelligenza tagliente. Di lui mi ricorderò per sempre per una sua minacciosa predizione in caso fosse andato all’altro mondo prima di me e del direttore generale Rocca: se si fosse risolta positivamente la più complicata pratica amministrativa della storia che era la coproduzione con la Russia di Oci ciornie di Mikhalkov, per la quale ricevetti anche una telefonata un po’ intimidatoria di Mario Monicelli, Giombi ci promise che dall’al di là ci avrebbe fatto pagare il fio di tutti i nostri peccati amministrativi. Sono passati molti anni, il povero Giombi effettivamente ci ha lasciato in anticipo, ma neanche sotto tortura vi dirò mai come fu risolta l’inenarrabile pratica Oci ciornie. Sul palco, con quel pizzico di retorica e di gigioneria che mi piace usare in certe occasioni, sostenni la tesi che anche gli impiegati hanno un’anima e una personalità creativa, forse stregati per osmosi dalla “artisticità” della gente del cinema con cui trattano. Alla fine, dopo aver fatto applaudire i miei collaboratori uno per uno, rimediai anch’io un bell’applauso finale. Tornato al tavolo, zuppo di sudore, tracannai subito un bel bicchiere di whisky scozzese, anche in onore della mia cravatta british e mi rilassai. 100
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Tra le foto in verità mai scattate ce n’è una che avrei tanto voluto avere: quella accanto all’allora ministro della cultura greca, la conturbante Melina Mercuri, quella di Mai di domenica, ma soltanto quando diceva lei. È una fotografia che stava per essere scattata a Strasburgo, dove accompagnai l’allora ministro Carraro al quale avevo scritto un breve intervento per una riunione dei ministri della cultura europei. Dopo aver letto il mio discorso, Carraro si avvicinò alla madonna greca che presiedeva e, io lo seguii insieme a un codazzo di fotografi. Ma proprio quando questi stavano per scattare, la divina Melina preferì dedicare le sue attenzioni, anziché al mio ministro e al suo funzionario, a Jack Lang, evidentemente più glamour di noi. A parte “Una vita per il cinema”, non ho avuto molti altri premi. E dunque non mi viene difficile ricordarmene, anche in assenza di altre foto. Un altro lo ricevetti a Frosinone dall’avvocato Luciano Sovena con la consegna di una geometrica riproduzione di Totò, ma in quell’occasione il ricordo più forte della nottata va al folle ritorno a Roma con un macchinone non ricordo di chi, durante il quale chiesi di fare una piccola deviazione per Santa Severa, dove ebbi l’infelice idea di lasciare un criptico biglietto d’amore sul cancello della villa di una bellissima signora, di cui mi ero innamorato, ma che stava preferendo un altro. Un altro premio (e qui è davvero difficile tenere a bada il mio narcisismo) riguarda non la mia carriera nel settore cinematografico ma quella “letteraria”. Mi riferisco al mio libro di poesie Meno male che la rivoluzione non c’è stata, che fu premiato a Poggio Mirteto, complice la buona impressione che avevo fatto su Sara Maestri, dolcissima protagonista di Notte prima degli esami. Avevo conosciuto Sara tramite Gianandrea 101
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Pecorelli, brillante produttore e più o meno mio alunno al Centro Sperimentale, che avevo aiutato a realizzare quel film, al quale anch’io sono legato, visto che col suo enorme successo di pubblico rappresentava una tangibile smentita alla continua giaculatoria dei soldi pubblici buttati al vento. In quell’incontro con Sara, scoprimmo di condividere lo stesso editore, che a lei aveva pubblicato un racconto autobiografico di grande successo. Lei volle leggere le mie poesie, le piacquero e le propose al direttore artistico, Massimo Iaboni. Mi trovai così onorato del “Mirto d’Oro” insieme con, Giovanni Veronesi, Valeria Solarino, Giuseppe Piccioni, Marco Risi e molti altri. All’inizio della mia carriera ministeriale, come ho già accennato, mi sono occupato anche di teatro, di circhi equestri e di spettacoli viaggianti. Fu quello il periodo in cui conobbi numerosi rappresentanti della popolazione nomade italiana, in particolare della Romagna, di cui ricordo un pittoresco esponente sindacale, di nome Tamaxia, che con alate parole difendeva le buone ragioni dei suoi giostrai sinti. A uno di questi signori, un giovanissimo zingarello di cui ho dimenticato il nome, pensai bene di autorizzare i suoi giri con asinello per bambini a Villa Fiorelli, nonostante il suo certificato penale non fosse proprio immacolato. Il ragazzo mi aveva confessato che se non avesse avuto il permesso sarebbe andato a rubare e io gli credetti sulla parola. Applicando la fattispecie dello “stato di necessità” prevista dai nostri codici nonché, dall’articolo della nostra Costituzione Repubblicana, che obbliga lo Stato a rimuovere gli ostacoli per l’iniziativa economica, feci firmare l’autorizzazione al Direttore Generale. Un’azione della quale tuttora vado orgoglioso. Il bello è che non feci in tempo a congratularmi con me stesso per il mio “coraggio” che, uscito dalla stanza lo 102
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zingarello, entrò da me il signor De Angelis. Un prestigiatore di mezza età di origine napoletana. Anche lui aveva bisogno della cosiddetta agibilità per tenere nelle fiere i suoi spettacolini di arte varia. Ma lui non aveva alcun problema e io, sulle ali dell’entusiasmo per l’incontro appena concluso, gli rilasciai seduta stante il permesso. Il signor De Angelis, evidentemente stremato da una vita di angherie burocratiche, non credeva ai suoi occhi. Si emozionò fino alle lacrime per una cosa che gli spettava di diritto e cercava con ansia un modo per ringraziarmi adeguatamente. Alla fine tirò fuori dalla tasca del cappotto un libretto pubblicato a proprie spese, che conteneva i segreti di tutti i suoi trucchi e vi appose, con calligrafia fanciullesca, una dedica. Poi guadagnò il centro della stanza e iniziò, solo per me, un piccolo spettacolo con i numeri migliori del suo repertorio. È forse questo il premio più emozionante della mia carriera di funzionario dello Stato. E ancora oggi, a quarant’anni di distanza, come dicono i titoli delle famose biografie del Reader’s Digest, il signor De Angelis resta “una persona che non dimenticherò mai”.
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CAPITOLO XV
Dove si parla della mia amicizia con Bernardo Bertolucci, di un giornale scolastico e del destino che con una mano toglie e con l’altra dà Era il ‘58, frequentavo il terzo liceo al Manara a Monteverde Vecchio ed ero il secondo della classe dopo una moltitudine di primi a pari merito. Il nome di Luciano Manara, eroe del Risorgimento, era stato conferito alla mia scuola proprio quell’anno e, per dare più lustro all’evento, il preside aveva progettato un “giornale parlato” che aveva intitolato Il Chirone, leggendario centauro maestro di Achille che certo aveva poco a che fare con il Risorgimento, ma un po’ di più con la mitologia greca, come è giusto per un liceo classico. Furono scelti 12 responsabili di redazione, uno per ogni sezione del giornale: mi ricordo in particolare il mio compagno di banco Giampiero Iacobelli, al quale fu affidata la scienza; al compagno di sezione Bernardo Bertolucci, figlio di tanto padre, fu affidata la poesia; a me la più residuale delle materie, il jazz, nella quale però avrei potuto sfruttare la mia amicizia con Giancarlo Schiaffini, di cui oltre ad ascoltare il trombone, campione d’Europa, avevo seguito all’YMCA un seminario su New Orleans. 105
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Fu stabilito per la fine dell’anno scolastico una specie di talk show ante litteram del numero unico del Chirone, cui avrebbe partecipato la crema dei futuri intellettuali del quartiere. E lì cambiò la mia vita. O meglio non cambiò. Lo stesso sabato in cui sarei stato spalla a spalla con Giampiero, Bernardo e altri dieci primi della classe, fu organizzata per il pomeriggio, come si usava allora, una festa da ballo a casa di Francesca, vicino al bar dei vitelloni del quartiere. Ero stato invitato direttamente dalla padrona di casa, che aveva un’amica emiliana, alla quale piacevo perché come tifoso del Bologna leggevo il verde giornale sportivo di quella città nell’intervallo delle lezioni. Io non avevo capito il vero motivo dell’invito, così come non avevo capito che non avevo speranze nei confronti di Renata – cappotto rosso – un’altra compagna di Francesca, che mi sembrava una Raquel Welch a portata di mano. Era il mio primo invito a una festa da ballo e, insomma, preferii la festa al Chirone. Fu una scelta di vita, forse dettata dalla paura del confronto. E fu un grande errore, al quale ho ripensato per tanti anni. Perso il treno del Chirone, non vidi Bernardo per un secolo. In quel lasso di tempo lui, dopo aver vinto a vent’anni – con mia grande invidia – il premio Viareggio per l’opera prima di poesia, era diventato un regista famoso, Io un funzionario del Ministero dei Beni Culturali. L’occasione per rivederci fu la proiezione in Commissione Censura del suo film La luna. Il film non mi piacque molto. Mi ricordo di un rapporto semiincestuoso tra madre e figlio. Anche se non proprio evidente, si intuisce che la madre aiuta il figlio a drogarsi infilandogli l’ago nella vena, mentre sono seduti per terra accanto a uno schermo. Almeno così mi ricordo: una scena forte, forse eccessiva. Io ero il segretario della commissione, senza diritto di voto. Lui non 106
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mi riconobbe. Il film fu vietato ai minori. Bernardo era furibondo. Insultò tutti, me compreso. Ci rimasi male, perché fu davvero esagerato. Dopo un po’ rimasi di nuovo di stucco quando fui accusato, senza alcun fondamento, dal solito Direttore Generale Rocca di pratiche “comuniste” per aver, come era giusto, regolarizzato un altro film di Bertolucci: La tragedia di un uomo ridicolo. Anni dopo, senza che Bernardo lo sapesse, gli feci il regalo più grande che potesse ricevere: riuscii a far ottenere la nazionalità italiana a L’ultimo imperatore. Fu un capolavoro amministrativo. Il film aveva vinto nove Oscar come film inglese, in quanto prodotto da Jeremy Thomas. In realtà, il progetto era partito dall’organizzatore italiano Franco Giovalè, che era un mio amico e che aveva seguito tutta la parte cinese. Gli suggerii di costruire una co-produzione con l’Inghilterra e l’Italia da una parte e una compartecipazione con l’Italia e Hong Kong dall’altra, anche perché all’epoca un trattato ufficiale di coproduzione con la Cina non c’era ancora. La soluzione aveva le sue motivazioni giuridiche anche perché, oltre al regista e autore, importanti componenti della squadra organizzativo-produttiva erano italiani. Fu una tale “genialata” tecnico-amministrativo-giuridica che successivamente trovò una serie di padri che se ne vantarono, tra cui Gianmario Feletti, allora direttore generale della sezione cinema della Banca Nazionale del Lavoro, un intellettuale raffinato, immortalato da Antonello Sarno con me nella sua ultima intervista. La questione andò avanti tra Corte dei Conti, Consiglio di Stato e addirittura Cassazione. Alla fine la spuntammo e fu riconosciuta la legittimità del comportamento dell’ufficio cinema del Ministero, che riconobbe al film anche il premio di qualità su decisione della commissione delegata. 107
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Non incontrai Bernardo in quell’occasione e solo successivamente – attraverso Franco – mi arrivò un elegante biglietto di ringraziamento, che conservo (una volta tanto) gelosamente. Come ogni storia, quella del nostro rapporto incompiuto attendeva una conclusione. Di fatto io e Bernardo ci eravamo solo sfiorati, persino scontrati, mai incontrati veramente. Ne parlai con Fiorella Infascelli, che era mia amica e sua assistente. Le dissi che sentivo la necessità di un incontro con Bernardo per dare una sistemata al nostro passato, presente e forse futuro. Lei organizzò una cena a Villa Riccio, a casa sua, alla quale, oltre a me, lei e Bernardo, partecipò anche suo fratello Giuseppe. Fu una cena piacevole. Mi ricordo poche cose: io avevo un vestito sportivo e Bernardo un bel giaccone di cuoio nero. Come al solito era molto più “figo” di me. Ci abbracciammo, ricordammo e chiarimmo più o meno tutto, e diventammo quasi amici. Cinque anni dopo, con il mio libro di poesie a cui tenevo tanto, avevo deciso di capitalizzare anni di rapporti con la gente del cinema per farlo conoscere e avere qualche riscontro sincero. Così vinsi la mia timidezza, chiamai Bernardo e gli portai il libro a casa. Era la prima volta che andavo a casa sua, a via della Lungara, alla “Casbah”, in un palazzo che pure conoscevo bene, perché ci vive tanta gente del cinema. Bernardo fu molto sorpreso che io avessi scritto un libro di poesie, non ci poteva credere. Lo prese, mi pare, con affetto sincero. Poi, dopo un paio di giorni, mi richiamò. Era entusiasta. Le poesie gli erano piaciute moltissimo, soprattutto quelle erotiche, la cui trasgressività lo aveva positivamente sorpreso sia per la loro audacia sia per l’idea che si era fatto di me. Mezz’ora di complimenti puntuali e approfonditi. Peccato 108
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non aver registrato la telefonata. Fu il compimento del nostro rapporto, La riparazione all’errore di quel sabato del 1958. Perché più che l’amico, più che il regista, più che il poeta, era il critico di poesia del Chirone che mi parlava.
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CAPITOLO XVI
Dove si racconta del mio fugace incontro con Carmelo Bene, di alcune leggende, mai verificate, che lo riguardano, di una lezione memorabile e del mio taj chi a Villa Pamphili A differenza di Pietrangeli, che la Sandrelli “la conosceva bene”, e di mia suocera che, in quanto professoressa al De Santis di Monte Mario, conosceva bene sua figlia Amanda di lei alunna, e pure a differenza di mia madre che del vicino di casa di Pietrangeli a Monteverde, Gianni Puccini, conosceva la figlia a sua volta sua alunna, al tempo io Carmelo Bene mica lo conoscevo tanto bene. Avevo sentito delle leggende metropolitane sul suo conto. Come quando aveva fatto la pipì sul pubblico presente in sala dal palcoscenico del Teatro Laboratorio, o del Beat 72 (ma sarà vero?). O quando, a uno spettatore che l’accusava di essersi imborghesito, aveva risposto: “Borghese io? Semmai grande bourgeois... anche se aspirerei al titolo di aristocratico, anzi di Aristos, direttamente, così come lo intendeva Platone”. Alla fine lo incontrai in carne e ossa. Era una giornata come un’altra al Ministero quando si sentì un gran trambusto: porte che si aprivano e si chiudevano, voci concitate, grida muliebri. Uscii fuori dalla mia stanza, mi 111
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affacciai alla tromba delle scale e lo vidi: caschetto nero alla Bruto, occhi di bragia e una pistola in mano. Carmelo era fuori di sé, o almeno quello era il personaggio che stava interpretando. Cercava i signori della Commissione che aveva osato negargli il premio di qualità per Nostra Signora dei Turchi. Segretarie, impiegati e uscieri, sia pure a debita distanza gli erano intorno. Presumendo che la pistola fosse un attrezzo di scena, gli andai impavidamente incontro e dopo avergli espresso la mia ammirazione lo accompagnai dal Direttore Generale. La storia finì bene e il ricorso della Ditta Carmelo Bene fu accolto. L’esimente dello stato di necessità e della creazione artistica, che in Italia funziona sempre, cancellò la rilevanza penale del comportamento dell’attore, forse. Incontrai ancora Carmelo nel sottoscala dell’orrido palazzo ministeriale di via della Ferratella dove erano state costruite, con disdoro dei vigili del fuoco, che come detto dopo una ventina d’anni le chiusero, le due sale cinematografiche per le visioni della Commissione Censura. Era in corso la visione del suo film Un Amleto di meno, di cui ricordo i colori sgargianti e i seni nudi di qualche madamoiselle in costumi rinascimentali. Questa volta non ci furono problemi: il film fu ammesso a tutti. Io e Carmelo ci scambiammo un breve saluto prendendo semplicemente atto della nostra comune origine pugliese, lui di Otranto, io di Trani. Da allora non lo rividi più, mentre ebbi brevi incontri con la sua compagna storica Lydia Mancinelli, protagonista dei suoi film più importanti, e altre sue compagne o assistenti “about his heritage”. 112
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Il ricordo più forte di lui, in effetti, fu una visione di Nostra Signora dei Turchi al Centro Sperimentale di Cinematografia insieme agli alunni del biennio 1998/2000, cui dovevo tenere un seminario di legislazione cinematografica. Io al Centro Sperimentale ci sono spesso stato di casa: mi chiamò per la prima volta Italo Zingarelli, il creatore di Trinità, nonché di un corretto Chianti da esportazione che ancora si produce e si vende: quello di Rocca delle Macie. Con Italo avevo avuto, anni prima, un litigio furibondo durante l’esame del testo dell’accordo di coproduzione italo-ungherese. Lui insisteva per l’inserimento della lingua inglese al posto dell’italiano nel trattato; io ero decisamente contrario spiegandogli come fosse inconcepibile la sua richiesta e lo feci molto arrabbiare perché riteneva che col mio formalismo perdevamo l’occasione di commercializzare i nostri film all’estero. Mi ricordo che Franco Cristaldi, presente alla riunione insieme a Luigi De Laurentiis, signore napoletano papà del ragazzaccio Aurelio, si divertiva molto, pur nel suo aplombe piemontese, per la nostra disputa, sorridendo come un gatto soriano. Ciononostante, Italo mi stimava e mi voleva bene e, soprattutto, era convinto che io fossi il più adatto a insegnare la legge sul cinema ai produttori in erba. Col senno di poi, credo che non avesse tutti i torti circa l’esigenza di internazionalizzare i nostri prodotti ma dal punto di vista giuridico la sua proposta era tecnicamente infattibile. Comunque mi chiamò al Centro e alla fine dell’anno scolastico il “grande produttore” offrì a tutti noi una cena fastosa nel ristorante di fronte a Cinecittà. I miei rapporti con gli alunni del Centro sono stati contrassegnati da forti simpatie e vere e proprie amicizie. La più importante è stata con la Leonilda, grazie al cui aiuto ho 113
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pubblicato il mio primo libro di poesie. Con altri ragazzi che a fine corso invitai a cena a casa mia, ne combinammo pure una buona. Li avevo invitati a casa da una parte perché, essendo vedovo da poco meno di tre anni, non uscivo quasi mai la sera per stare con i miei figli e dall’altra perché mi è sempre piaciuto cucinare per parenti e conoscenti. Quella sera, forse anche incoraggiati da qualche brindisi di troppo, tre o quattro di loro accettarono una mia richiesta quasi oscena. E così la notte dopo andarono al quartiere Appio, nella via del “Cinestar”, che come tante altre sale del centro non c’è più, e sull’asfalto davanti alla casa di una mia innamorata scrissero, con il gesso o qualche spray bianco, una frase d’amore un po’ cretina che diceva: “I love you my witch”. Peccato che la bella impresa non ebbe un gran risultato: sfortuna volle che la notte piovve e la scritta scomparve. Io portai sul luogo la mia amata che purtroppo, come dice Jannacci, non fece un plisset. Un altro alunno, invece, che avevo cacciato bruscamente con urla dal corridoio del Ministero perché aveva confuso Il rosso e il nero di Stendhal, di cui gli chiedevo notizie, con i colori di una nota squadra di calcio milanese, si ripresentò un paio d’anni dopo il diploma e, ringraziandomi per la mia ira, mi confessò di aver molto studiato e letto e di essere pronto questa volta a fare un film. Devo dire, onore alle armi, che c’è riuscito e ha prodotto un film grazioso su un mondiale misterioso in Patagonia, ispirato se non alla narrativa ottocentesca a quella moderna sudamericana di un esperto di calcio come Osvaldo Soriano. I miei alunni migliori? Francesca Cima e Nicola Giuliano, ormai produttori affermati da coppia scoppiata a coppia vincente. 114
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Ma la mia lezione più bella al centro sperimentale fu, senza dubbio, quella tenuta dopo la proiezione di Nostra Signora dei Turchi, alla quale avevo assistito perché ero arrivato in anticipo sull’orario previsto per il mio seminario. La ratatouille tra la visione di una commovente Madonna, capelli d’oro e occhi celestiali (Lydia Mancinelli of course), gli spaghetti con salsa di pomodoro a piovere e le parole ammaliatrici di Bene, mi aveva esaltato talmente che quando si accesero le luci ero come in trance: parlai per un’ora e mezzo di fila mischiando a mia volta la legge sul cinema, la 1213 del 1965, lo Stato Mecenate, il principio della libera concorrenza, l’articolo 3 della Costituzione italiana, l’American dream e il neorealismo, naturalmente. A distanza di anni, molti studenti ricordano ancora quella lezione e ne parlano come di un evento memorabile. La mia performance fu addirittura ripresa dalla telecamera del valente documentarista Alessandro De Palo, una specie di mio nipote, sotto la direzione di una talentuosa regista come Wilma Labate. Per la verità, io la cassetta della lezione non l’ho mai vista e non so dove sia finita. E forse è meglio così, magari la tirano fuori al mio funerale, con la preghiera da parte mia che si aggiunga come commento musicale la New Orleans Function di Louis Armstrong e, sempre di Satchmo, Blueberry Hill, visto che dovrebbero piazzarmi su una collinetta a Prima Porta. Molti anni dopo ero alla fine della mia settimanale pratica di Taj Chi Ciuan a Villa Pamphili, con il mio maestro, di Gravina di Puglia, Gianvittorio Ardito – nomen omen. Era appena passato vicino al nostro gruppo il neomonteverdino Nanni Moretti che ci aveva lanciato uno sguardo perplesso. Durante la pratica del radicamento ero in piena meditazione, quando mi sentii chiamare da una vibrante voce femminile. Era Mela 115
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Dellerba, una grafica che mi aveva aiutato a scegliere il grembo fiorito di una Venere botticelliana per il mio libro di poesie. Mela disse: “Sto andando al Casino dell’Algardi: c’è una mostra su Carmelo Bene alla quale ho contribuito. Mi accompagni?”. Ci andai: c’erano fotografie, film, memorie varie ma non c’era lui. Davanti alla locandina di Nostra Signora dei Turchi, mi inchinai come fosse un tabernacolo sacro. Salutai Bene nel mio cuore e lo ringraziai silenziosamente per la lezione ispirata dal suo film e per tutte le altre emozioni che mi aveva regalato. Penso ancora a Carmelo quando sfoglio un grande libro di poesie da lui raccolte e meravigliosamente illustrate con l’arte italiana del Rinascimento, che mi aveva regalato mio figlio Giovanni e mi sembra di sentire bofonchiare alle mie spalle la voce nasale del divin pugliese.
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Carmelo Bene
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EPILOGO
Dove si chiude il cerchio tornando alle origini e accadono diverse cose strane, ultima delle quali la riaccensione delle luci del Ministero e, speriamo, del cinema italiano Carmelo Bene era nato a Campi Salentina, in provincia di Lecce. La Puglia torna sempre, nella mia vita. Dalla Puglia viene la mia famiglia, gli amici di una vita e i seicento martiri cristiani di Otranto, evocati da Bene, che per tanti anni si sono risvegliati nei miei sogni accompagnandomi fino al termine della notte. Oggi non più. Oggi ho imparato a indirizzare i miei sogni. Alla sera mi scelgo accuratamente il libro da leggere prima di andare a dormire e il gioco è fatto. Uno deve preparare lo spazio per i sogni. In Puglia ho conosciuto i pomodori essiccati, i lampascioni e le cartellate. L’ultima volta che ho mangiato le cartellate è stato grazie a Nico Cirasola, che mi ha mandato quelle fatte da sua nonna. Nico è uno sgangherato, simpatico, vitale regista pugliese, il cui film meno traballante, Focaccia Blues, racconta di come la focaccia di Altamura sia riuscita a divorarsi l’hamburger di MacDonald’s: Davide che batte Golia. Nico mi invitò nella sua masseria, a Ostuni, nel 1988. Una parte della masseria era affittata, l’altra parte inabitabile. Andai giù con la 119
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mia piccola Fiat. Arrivai e Nico mi piazzò nella sua camera da letto, nel suo letto matrimoniale. Un’ora dopo mi sfrattò, perché era arrivata Mita Medici con il suo fidanzato dell’epoca e il letto matrimoniale doveva darlo a lei. Io fui spedito in una specie di ripostiglio nell’ingresso. Non c’era luce, non c’era nulla. Non riuscii a dormire. Allora Nico, che è considerato il fedayn del cinema italiano, mi portò sul terrazzo, dove c’erano i pomodori a essiccare. Eravamo lì, la notte del 10 agosto, buttati per terra, a mangiare pomodori e guardare le stelle più belle del mondo. Mangiare e guardare qualcosa di bello lo considero uno dei grandi privilegi della vita. Io so cucinare. Essendo rimasto vedovo a 39 anni, ho cucinato per i miei figli per 25 anni. Cucinavo a pranzo e a cena. Tuttora la sera cucino io per la mia signora. A pranzo non ci siamo. Il problema è che la mia cucina è mediterranea, un po’ sapida, mentre lei preferisce cose meno lavorate. Quando invito degli amici, lei vuole che faccia il mio risotto allo champagne, che è uno dei piatti che mi riescono meglio. Un piatto di Ugo Tognazzi, di cui so a memoria la ricetta. Lei vuole che io faccia quello. Io invece preferisco fare la pasta al forno. Però ora anche lei si sta convertendo ai miei schiaffoni al sugo e io naturalmente le voglio più bene. In Puglia ho imparato a dire le preghiere, grazie a mio padre, che mi portava in chiesa la domenica e non solo pretendeva che recitassi le preghiere, ma anche che cantassi. “Benedetto sia divina… Agnus Dei… Kyrie Eleison…”. Una settimana fa è venuto un prete a benedire la casa. Un signore molto simpatico. Non accadeva da trent’anni. A messa non vado quasi mai, salvo che a funerali e matrimoni, e di solito non sono in casa per le benedizioni. Questa volta sì. E lì mi sono accorto che non sapevo più dire l’Ave Maria. Non 120
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riuscivo a ricordarmi l’Ave Maria, sembra impossibile. Il Padre Nostro invece me lo ricordo, perché mi è rimasta per sempre impressa nella memoria la recita di Jean Valjean nei Miserabili, guidato dalla voce del vescovo che lo ospita. Ve lo ricordate? Jean Valjean in fuga, disperato, viene ricevuto da un prete. Il prete lo accoglie, lo accudisce, lo fa lavare, gli dà da mangiare e lo mette a dormire in fresche lenzuola. Addirittura lo fa servire con il candelabro d’argento e le posate buone. Al mattino dopo il prete si alza e Jean Valjean non c’è più. Non solo: non ci sono più neanche il candelabro d’argento e le posate. Rubate da Jean Valjean. Poi però, dopo cinquecento pagine, Jean Valjean si converte, non dimentica il gesto straordinario del prete e, alla fine, lo rivede e gli restituisce quello che gli aveva rubato, forse pronunciando di nuovo il Pater Noster. Quando sono solo e con l’anima leggera anch’io provo come il vecchio prete a non mettere il chiavistello alla porta. Quello che mi secca di sicuro è di non ricordarmi bene l’Ave Maria! Un’altra cosa sicura è che in Puglia non avrò sepoltura. L’imponente tomba gentilizia a foggia di piramide con scritto sopra “Francesco Ventura” che mio nonno Francesco aveva fatto edificare per la dinastia Ventura, alla fine purtroppo è stata venduta affinché la carriera di imprenditore di un Ventura si concludesse senza debiti. È assai più probabile che riposerò in cima alla collina di Prima Porta, a Roma, dove mi aspettano parenti vari. E rinnovo la mia preghiera che all’atto della sepoltura Louis Armstrong esegua i pezzi già indicati o se non lui lo faccia Giancarlo Schiaffini e, se proprio vogliamo esagerare, magari tutti insieme cantiamo “When the Saints go marching in”. 121
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*** Vi chiederete: dov’è l’happy end? Facile: eccolo qui. Stiamo ancora chiacchierando di Puglia e di cinema, io e Luigi, quando, come alla fine di un film, all’improvviso si riaccendono le luci del ministero. È lunedì mattina. I tecnici hanno riattivato la corrente ed è anche suonata la campanella dell’entrata. Io e Luigi, facendo gli indifferenti davanti a tutti gli impiegati che salgono le scale per iniziare la settimana di lavoro e che ci guardano sospettosi, usciamo dal ministero andando incontro a Roma. Abbiamo un piccolo prezioso (almeno per noi) testimone di questo fine settimana di complice e involontaria clausura: un’agendina ‘moleskine’ scritta piccolo piccolo e fitto fitto. C’è il sole. La giornata rinasce, la vita prosegue. Il cinema italiano chissà.
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GLI ARTICOLI 28
In questi lunghi anni non ho conosciuto solo registi affermati. Anzi, quasi tutti quelli che ho conosciuto, talentuosi o mediocri, artisti o mestieranti, li ho incontrati quando erano sconosciuti. Li ricordo tutti. Tutti quelli che sono stati finanziati dal famigerato articolo 28. E se non credete alla mia elefantiaca memoria, eccoli qui di seguito i loro film, uno per uno, in ordine alfabetico (per titolo), più o meno… Filippo Altadonna che, con Corinne Clery e Luigi Diberti, fece A Dio piacendo; Gianluca Fumagalli che, con Mariella Valentini e Claudio Bisio, fece A fior di Pelle; Ivo Barnabò Micheli che, con Luigi Verga, fece A futura Memoria: Pier Paolo Pasolini; Stefano De Stefani che, con altri compagni fece A proposito dell’Angola; Francesco Ranieri Martinotti che con Enrico Salimbeni, Mario Adorf, Grazyna Szopolowska, fece Abissinia; Lucio Gaudino che con Agnese Nano, Andrea Prodan ed Helmut Berger fece Adelaide; Rocco Mortelliti che con Pietro Bontempo e Rina Franchetti fece Adelmo; Felice Farina che con Anita Zagaria, Sabrina Guzzanti e Piero Natoli fece Affetti Speciali; Giampaolo Santini che con Martin Brochard e con Warner Bentivegna fece Un’affollata solitudine; Giorgio Milanetti che con Valeria Bruni Tedeschi e 125
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Piero Nicosia fece Agnes; Diego Febbraro che con Monica Guerritore e Agnieszka Dryczec fece Agnieszka (sola); Massimo Spano che con Roberto Citran e Sabrina Guzzanti fece Agosto; Alessandro Lucidi che con Daniela Poggi e Paolo Lorimer fece Al calar della sera; Franco Rossetti che con Anna Bruna Cazzato e Carlo De Megljo fece Al limite, cioè, non glielo dico; Bruno Bozzetto che con Maurizio Nichetti e Maria Luisa Giovannini fece Allegro non troppo; Paolo e Vittorio Taviani che con Laura Betti, Claudio Cassinelli, Bruno Cirino, Renato De Carmine, Mimsy Farmer, Benjamin Lev, Lea Massari, Marcello Mastroianni e Stanco Molnar fecero Allonsanfan; Tonino Zangardi che con Isabella Ferrari e Francesco Casale fece Allullo Drom; Elio Bartolini che con Paolo Bonetti e Gianni Pulone fece L’altro Dio; Enzo Balestrieri che con Duilio Del Prete e Simona Proietti fece Altrove; Gerardo Fontana che con Claudio Botosto e Valeria Cavalli fece L’amante senza volto; Wilma Labate che con Francesca Antonelli e Roberto Citran fece Ambrogio; Fabrizio Ruggirello che con Angelo Orlando e Julian Sands fece America; Giorgio Trentin che con Patrizia Adiutori e Mario Bardella fece Amiche: andiamo alla festa; Carmine Fornari che con Luca Barbareschi e Alì fece L’amico arabo; Carmelo Bene che con Sé Stesso e Lydia Mancinelli fece Un Ambleto di meno; Alessandro Ninchi che con Stefania Garello e François Guetary fece Amore di bambola; Attilio Concari che con Pier Paolo Capponi e Valeria Dobici fece L’amore dopo; Sergio Pastore che con Linda Cristian e Jeannette Len fece Amore inquieto di Maria ; Pietro Nardi che con Emy Valentino e Milly D’Abbraccio fece Amore, non uccidermi; Alessandro Di Robilant che con Maurizio Donadoni e Marietta Mehes fece Anche lei fumava il sigaro; Anna Brasi che con Barbara De 126
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Rossi e Antonella Ponziani fece Angela come te ; Massimo Scaglione che con Nathalie Caldonazzo e Matteo Gazzolo fece Angeli a sud; Pasquale Misuraca che con Maruska Budakowea e Massimo Checconi fece Angelus Novus; Davide Ferrario che con Giuseppe Cederna e Maria Amelia Monti fece Anime fiammeggianti; Egidio Eronico che con Renato Carpentieri e Christo Shopov fece Annata di pregio, Rosalia Polizzi che con Massimo Dapporto e Alessandra Acciai fece Anni ribelli; Enrico Maria Salerno che con Tony Musante e Florinda Bolkan fece Anonimo Veneziano; Antonio Falduto che con Elisabetta Cavallotti e Franco Trevisi fece Antelope Cobbler, Giancarlo Nanni che con A. Iacono e B. Conti fece Anteprima al terzo abbraccio; Lino Del Fra che con Lea Massari e Franco Graziosi fece Antonio Gramsci – i giorni del carcere; Sergio Pastore che con Giorgio Ardisson e Stella Carnacina fece Apocalisse di un terremoto; Gianfranco Mingozzi che con Piera Degli Esposti e Nicola Farron fece L’appassionata; Giovanni Dall’Oglio che con Massimiliano Buoninsegni e Pietro Dall’Oglio fece Apurimac – l’abisso; Elisabetta Valgiusti che con Maria Cumani Quasimodo e Giovanni Materassi fece Aquero; Emanuela Piovano che con Dice Bezzi e Francesca Fago fece L’aria in testa; Silvio Soldini che con Fabrizio Bentivoglio e Antonella Fattori fece L’aria serena dell’ovest; Piero Natoli che con Luisa Maneri e Antonio Ballerio fece Armonica a bocca; Emidio Greco che con Emilio Bestetti fece L’arte e la società; Maurizio Zaccaro che con Mohamed Miftah e Fabio Bussotti fece L’articolo 2; Piero Natoli che con Massimo Bonetti e Paola Pitagora fece Gli assassini vanno in coppia; Fabrizio Borelli che con Norma Martelli e Marco Cavalli fece L’attesa; Mario Gariazzo che con Florence Guerin e Marino Masé fece L’attrazione; Mario 127
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Toniato che con Andrea Occhipinti e Cochi Ponzoni fece Augh! Augh! (L’indiano ritorna); Giorgio Molteni che con Maddalena Crippa e Fabio Sartor fece Aurelia; Eugenio Masciari che con Sabrina Vannucchi e Giuliano Ferrara fece Azzurri; Salvatore Piscicelli che con Iaia Forte e Gennaro Cannavacciuolo fece Baby gang; Antonio Barone che con Michel Cordeiro e Rosanna Tacconi fece Baby slum – gli anni di latta; Gilberto Visintin che con Cinzia Leone e William Berger fece Bachi di seta; Paolo Benvenuti che con Carlo Bache e Pio Gianelli fece Il bacio di giuda; Max Semprebene che con Sauro Marinelli e Berry Stephen Kamen fece Un bacio non uccide; Francesco Longo che con Concetta Barra e Maria Luisa Santella fece La ballata di Eva (Eva come Eva); Maurizio Angeloni che con Marina Lorenzi e Pino Misiti fece La ballata di Ren-ham; Stefano Mignucci che con Ben Gazarra e Mirka Viola fece Banditi; Fabrizio Lori che con Raffaella Baracchi e Saverio Vallone fece Bangkok... solo andata; Hermann Villi che con Bruno Ganz e Francesca Neri fece Bankomatt; Antonio Bido che con Giancarlo Bullo e Patrizia Dalla Chiesa fece Barcamenandoci; Mario Brenta che con Carlo Caserotti e Antonio Vecellio fece Barnabo delle montagne; Claudio Sestieri che con Massimo Venturiello e Ottavia Piccolo fece Barocco; Luciano Emmer che con Carlo Marino e Martina Fiorentino fece Basta! Ci faccio un film (Basta! Adesso tocca a noi); Bruno Fontana che con Angelo Infanti e Laura Gemser fece La belva dalla calda pelle; Aurelio Chiesa che con Claudio Bigagli e Cristina Donadio fece Bim bum bam; Gianfranco Fiore Donati che con Anna Buonaiuto e Enrico Ghezzi fece Blu cobalto; Giorgio Serafini che con Marco Guglielmi e Anna Orso fece Blu notte; Antonino Lakshen Sucameli che con Maddalena Fellini e Filippo 128
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Malatesta fece Blue line; Vito Zagarrio che con Gigio Alberti e Athina Cenci fece Bonus Malus; Andrea Marfori che con Diego Ribon ed Elena Cantarone fece Il bosco 1; Giacinto Bonacquisti che con Al Cliver e Maria Fiore fece Briganti; Pierfrancesco Campanella che con Gioia Scola e Gianfranco Iannuzzo fece Bugie rosse; Aurelio Grimaldi che con Guia Jelo e Marco Leonardi fece Le buttane; Angelo Longoni che con Giulia Fossà e Daniela Scarlatti fece Caccia alle mosche; Bruno Modugno che con Carmen Onorati e Claudio Carfoli fece Cacciatore d’ombre; Gianluca Fumagalli che con Dario D’ Ambrosi e Raul Manso fece Café la mama; Massimo Pirri che con Lino Capolicchio e Valeria Moriconi fece Calamo; Franco Scepi che con Massimo De Rossi e Andrea De Micheli fece Can Cannes; Giuseppe Maria Scotese che con Luis Miguel Cintra e Diego Doria fece Cannibali domani; Elda Tattoli che con Leopoldo Mastelloni e Adriana Russo fece Canto d’amore; Ciriaco Tiso che con Lou Castel e Isabelle Weingarten fece Carillon; Enrico Caria che con Alessandro Haber e Carlotta Natoli fece Carogne (Ciro and me); Memé Perlini che con Genievieve Page e Lindasy Kemp fece Cartoline Italiane; Beppe Cino che con Fiammetta Carena e Stefano Cabrini fece La casa del buon ritorno; Antonietta De Lillo e Giorgio Magliulo che con Riccardo Cucciolla e Marina Vladiny fecero Una casa in bilico; Vanna Paoli che con Giulia Boschi e Stefano Davanzati fece La casa rosa; Roberto Locci che con Emanuela Cau e William Borden fece Una casa sotto il cielo; Guido Chiesa che con Valeria Cavalli e Alberto Gimignani fece Il caso Martello; Maurizio Ponzi che con Delia Boccardo, Antonio Pierfederici e Alida Valli fece Il caso Raoul; Giorgio Losego e Lidia Montanari che con Loro Stessi fecero Castighi; Alex Carmeno che con Cinzia Monreale e 129
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Roberto Accornero fece Cat’s; Michele Sordillo che con Giulio Brogi e Enrica Maria Modugno fece La cattedra; Marina Ripa di Meana che con Eva Grimaldi e Burt Young fece Cattive Ragazze; Beppe Cino che con Paolo Bonacelli e Mirella D’Angelo fece Il cavaliere, la morte e il diavolo; Franco Rossetti che con Barbara Bouchet e Don Backy fece Una cavalla tutta nuda; Giancarlo Planta che con Vincenzo Salemme e Antonio Casagrande fece C’è posto per tutti; Paolo Breccia che con Ilaria Borrelli e Valerio Andrei fece Cena alle nove; Piero Natoli che con Paola Nazzaro e Nicola Pistoia fece Chi c’è c’è; Valerio Zecca che con Geppi Geijeses e Marilù Prati fece Chi mi aiuta?; Leone Mancini che con Marco Minetti e Lucilla Luppaioli fece Ci sono anch’io; Carlo Tuzii che con Lucia Bosé e Antonello Campodifiori fece Ciao, Gulliver; Vincenzo Badolisani che con Corso Sarani e Amanda Sandrelli fece Cinecittà Cinecittà; Paolo Bonora che con Gianmarco Tognazzi e Cecilia Dazzi fece La città dei sogni (Alberto e Lilly); Giancarlo Nanni che con Stefano Santospago e Renzo Rinaldi fece Il clandestino; Giorgio Treves che con Isabelle Pasco e Robin Renucci fece La coda del diavolo; Gianluca Fumagalli che con Mariella Valentini e Claudio Bisio fece Come dire... (Nanni e Carolina); Giacomo Campiotti che con Giancarlo Giannini e Valeria Golino fece Come due coccodrilli; Sandro Cecca che con Marina Giulia Cavalli e Alessio Orano fece Complicazioni nella notte; Emanuela Piovano che con Antonella Fattori e Anna Rita Sidoti fece Le Complici; Paola Douglas Scotti e Nerina Scelba che con Grazia Castagno e Mariella La Terza fecero Con che passo la frontiera?; Folco Quilici che con Riccardo Grassemi fece Con Folco Quilici in una avventura nel tempo; Vincenzo Verdecchi che con Remo Remotti e Ida Galli fece Con i piedi per aria; 130
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Piero Natoli che con Piero Natoli e Luisa Maneri fece Con…fusione; Felice Farina che con Ciccio Ingrassia e Ottavia Piccolo fece Condominio; Paolo Benvenuti che con Franco Pistoni e Stefano Bambini fece Confortorio; Antonio Domenici che con Massimo Wertmuller e Franco Interlenghi fece Copenhagen fox-trot; Stefano Calanchi che con Isa Danieli e Nello Mascia fece Core mio; Fabio Carpi che con Mimsy Farmer e Lino Capolicchio fece Corpo d’amore; Corrado Franco che con Evelina Cristilin e Roberto Cicutto fece Corsa in discesa; Giulio Base che con Pietro Genuardi e Nadia Rinaldi fece Crack; Fulvio Ottaviano che con Daniele Liotti e Valerio Mastandrea fece Cresceranno i carciofi a Mimongo; Marco Antonio Andolfi che con Gordon Mitchell e Zaira Zoccheddu fece La croce delle sette pietre; Nico Cirasola che con Totò Onnis e Gilla Novak fece Da do da; Arnaldo Catinari che con Marina Berti e Massimo Girotti fece Dall’altra parte del mondo; Paolo Quaregna che con Noah Aragutak ed Eric Atagotaaluk fece Dancing north; Valentino Orsini che con Carlo Cecchi e Marina Malfatti fece I dannati della terra; Stelio Fiorenza che con Marina Suma e Barbara Cupisti fece Dark bar; Giovanna Lenzi e Sergio Pastore che con Laura Troschel e Gianni Dei fecero Delitti; Mario Sabatini che con Pierpaolo Capponi e Sylva Koscina fece Delitto d’autore; Sergio Capogna che con Silvano Tranquilli e Mara Venier fece Diario di un italiano; Antonio Monda che con Pino Colizzi e Mattias Bragia fece Dicembre; Beppe Cino che con Franco Nero e Lucrezia Lante Della Rovere fece Diceria dell’untore; Lina Mangiacapre che con Daniela Silverio e Mauro Conciano fece Didone non è morta; Gerardo Fontana e Paolo Girelli che con Remo Girone e Vanessa Gravina fecero Dietro la pianura; Umberto Silva che con Mario Adolf e Giuliana 131
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Calandra fece Difficile morire; Sibilla Damiani che con Angela Goodyin e Edmund Purdom fece Dio ce ne scampi e liberi; Stefano Arquilla che con Maria Grazia Nazzari e Antonella Lualdi fece Diritto di vivere; Gianfranco Cabiddu che con Massimo Dapporto e Maria Carta fece Disamistade; Aurelio Grimaldi che con Francesco Cusimano e Luigi Maria Burruano fece La discesa di Aclà e Floristella; Ivan Angeli che con Edoardo Torricella e Claudio Gora fece Don Milani; Paolo Quaregna che con Stefania Sandrelli e Marzio Onorato fece Una donna allo specchio; Giuseppe Gori Savellini che con Alberto Chentres fece La donna del mare; Sergio Pastore che con fece Giorgio Ardisson e Giovanna Lenzi Sea’s woman; Amedeo Fago che con Alessandro Haber e Teresa Ann Savoy fece La donna del traghetto; Vito Zagarrio che con Greta Scacchi e Luca Orlandini fece La donna della luna; Lina Mangiacapre e Luciano Crovato che con Corinne Clery e Luciano Provato fecero Donna di cuori; Luigi Faccini che con Anna Bonaiuto e Antonio Cantafora fece Donna d’ombra; Luigi Russo che con Beatrice Palme e Gigi Reder fece Una donna senza nome (fantasia omicida); Salvatore Maira che con Sabrina Ferilli e Daniela Giordano fece Donne in un giorno di festa; Florestano Vancini che con Dalila Di Lazzaro e Franco Nero fece Un dramma borghese; Toni Di Gregorio che con Ingrid Tulin e Sergio Fantoni fece ...E cominciò il viaggio nella vertigine; Francesco Longo che con Vittorio Mezzogiorno e Mara Venier fece ...E noi non faremo karakiri; Lucio Gaudino che con Elena Sofia Ricci e Luca Zingaretti fece E quando lei morì fu lutto nazionale; Vittorio Sindoni che con Pamela Tiffin e Virgilio Gazzolo fece ...E se per caso una mattina; Nanni Moretti che con sé stesso, Luisa Rossi e Fabio Traversa fece Ecce bombo; Pietro Nardi che con Rosa Ferraiolo e Giuliano 132
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Santi fece Eclisse totale; Luigi Regoni che con Loredana Romito e Cristiano Bussi fece Edizione Straordinaria; Emidio Greco che con Jean Pierre Cassel e Lea Padovani fece Ehrengard; Francesco Longo che con Mara Venier e Luca Bonicalzi fece Un’emozione in più; Ennio Marzocchini che con Emidio La Vella e Mario Modeo fece Empoli 1921: film in rosso e nero; Ivo Barnabò Micheli che con F. Murray Abraham e Valentina Emeri fece Eppur si muove!; Angiola Janigro che con Milena Kaneva e Mike Hentz fece L’equivoco della luna; Alessandra Scaramuzza che con Giuseppe Battiston e Andrea Orel fece Era meglio morire da piccoli; Giacinto Bonacquisti che con Antonella Sperati e Marco Prosperini fece Escurial; Paolo Spinola che con Mita Medici e Carlo Hintermann fece L’estate; Fabio Carpi che con Georges Wilson e Macha Meril fece L’età della pace; Luciano Lunerti che con Alberto Di Stasio e Vittorio Duse fece L’età della ragione; Massimo Becattini e Andrea Granchi che con Giovanni Maria Rossi fecero Gli etruschi e il mare (il primato dei Tirreni tra l’Arno e il Tevere); Francisco José Fernandez che con Renato Scarpa e Brigitte Christens fece Gli extra...; Liliana Ginanneschi che con Annie Girardot e Franco Branciarori fece Faccia di lepre; Mario Chiari che con Bruno Corazzari e Gea Lionello fece Fade out (dissolvenza al nero); Lina Mangiacapre che con Marco Di Stefano e Teresa De Blasio fece Faust Fausta; Claudio Pappalardo che con Bruno Pagni e Graziella Galvani fece Favola contaminata; Salvatore Maira che con Lorella Morlotti e Loris Bazzocchi fece Favoriti e vincenti; Memé Perlini che con Alessandra Acciai e Ida Di Benedetto fece Ferdinando uomo d’amore; Giancarlo Cobelli che con Lando Buzzanca e Barbara Steele fece Fermate il mondo... voglio scendere; Pier Giuseppe Murgia che con Fabrizio Bentivoglio e 133
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Cristina Donadio fece La festa perduta; Ghigo Alberani che con Carlo Monni e Marino Masé fece La fiera dei 7 dolori; Ezio Passadore che con Alessandro Doria e Arthur Kennedy fece I figli del vento; Elisabetta Valgiusti che con Franco Cortese ed Elisabetta Valgiusti fece Finalmente morta; Davide Ferrario che con Claudio Bigagli e Dario Parisini fece La fine della notte; Stefano Roncoroni che con Pino Collizzi e Barbara Scoppa fece Fine dell’intervista; Stefano Pomilia che con Isa Barzizza e Massimo Ciavarro fece Fiori di zucca; Roberto Faenza che con Silvano Agosti fece Forza Italia; Enzo D’Alò che con Dario Fo e Lella Costa fece La freccia azzurra; Giannandrea Pecorelli che con Anna Melato e Massimo Bonetti fece Fuga senza fine; Gian Vittorio Baldi che con Mario Bagnato e Lidia Biondi fece Fuoco!; Luciano Manuzzi che con Laura Fabbri e Giorgio Marra fece Fuori stagione; Luigi Faccini che con Elsa Martinelli e Miguel Bosé fece Garofano rosso; Andrea Frezza che con Juliette Mayniel e Feruccio De Ceresa fece Il gatto selvaggio; Adriana Monti che con Marina Confalone e Anna Bonaiuto fece Gentili Signore; Stefano Roncoroni che con Marcel Bozuffi e Daniela Poggi fece Giallo alla regola; Ferruccio Casacci che con Anna Caravaggi e Cesare Benini fece Il giardino degli inganni; Antonello Aglioti che con Susan Strasberg e Dado Ruspoli fece Il giardino dei ciliegi; Silvano Agosti che con Lea Massari e Maurice Ronet fece Il giardino delle delizie; Cinzia Th Torrini che con Piera Degli Esposti e Remo Girone fece Giocare d’azzardo; Dario Micheli che con Roberto Posse e Michela Miti fece Il gioco della notte; Stefano Gabrini che con Fiammetta Carena e Remo Remotti fece Il gioco delle ombre; Toni Occhiello che con Marco Di Stefano e Irene Grazioli fece Il gioiello di Arturo; Stelio Passacantando che con Giuseppe 134
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Trentin fece Il giornalino di Giamburrasca; Paolo Spinola che con Al Cliver e Annie Belle fece Un giorno alla fine di ottobre; Mario Gariazzo che con Rossano Brazzi e Rosalba Neri fece Il giorno del giudizio; Pasquale Scimeca che con Franco Scaldati e Nino Busacca fece Il giorno di San Sebastiano; Giuseppe M. Gaudino che con Antonio Pennarella e Angelica Ippolito fece Giro di lune tra terra e mare; Pupi Avati che con Carlo Delle Piane e Lidia Broccolino fece Una gita scolastica; Giuseppe Piccioni che con Francesca Neri e Sergio Rubini fece Il grande blek; Stefano Pomilia che con Enzo De Caro ed Emy Valentino fece Grazie al cielo c’è Totò; Francesco Laudadio che con Claudio Cassinelli e Sandra Milo fece Grog; Tommaso Mottola che con Delia Boccardo e William James fece L’ile flottante – l’isola alla deriva; Alex Carmeno che con Cinzia Monreale e Roberto Accornero fece Illusione; Salvatore Piscicelli che con Ida Di Benedetto e Marcella Michelangeli fece Immacolata e Concetta – l’altra gelosia; Nico D’Alessandria che con Gerardo Sperandini e Agnese De Donato fece L’imperatore di Roma; Luciano Martino che con Kim Rossi Stuart e Vittoria Belvedere fece In camera mia; Giampiero Mele che con Sergio Ammirata e Valeria Ciangottini fece In punta di piedi (street dance); Beppe Cino che con Massimo Venturiello e Ernestina Chinova fece In viaggio verso est; Pier Francesco Boscaro Degli Ambrosi che con Flavio Bucci e Alexandra Delli Colli fece L’inceneritore; Donatello Alunni Pierucci che con Tomas Arana e Philippe Leroy fece Incidente di percorso; Antonio Carella che con Emanuela Amato e Rudy Riele fece Incontro ai giorni; Mario Gianni che con Luca Santini fece L’indipendente; Antonio Racioppi che con Walter Toschi e Stefania Barca fece Infinito; Luigi Faccini che con Olga Karlatos e Bruno Zanin fece Inganni; Emidio Greco che con 135
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Anna Karina e John Steiner fece L’invenzione di Morel; Enzo De Caro che con Angela Finocchiaro e Jacques Sernas fece Io, Peter Pan; Peter Del Monte che con Francesco Cannelutti e Alain Cuny fece Irene Irene; Maurizio Fiume che con Rosa Di Brigida e Luigi Di Berti fece Isotta; Giancarlo Planta che con Milena Vukotic e Leopoldo Triste fece Italia Village; Carlo Carlei, Valerio Jalongo, Sandro De Santis, Enzo Civitareale, Antonello Grimaldi, Michele Scura, Daniele Lucchetti che con Marcello Mastroianni e Franco Interlenghi fecero Juke box; Carlo Giuliano Betti che con Franco Citti e Loredano Romito fece Kafka la colonia penale; Francesco Brancato che con Gisella Longo e Francesco Brancato fece Le lacrime di Eros; Enzo Decaro che con Tosca D’Aquino e Angelo Orlando fece Ladri di futuro; Ugo Fabrizio Giordani che con Stefano Dionisi e Irene Papas fece Lettera da Parigi; José Quaglio che con Anna Lelio e Tony Ucci fece Lia, rispondi; Pappi Corsicato che con Iaia Forte e Vincenzo Peluso fece Libera; Pier Giovanni Anchisi e Marco Toniato che con Claudia Cavalcanti e Carlo Mucari fecero La lingua; Bruno Bigoni e Kiko Stella che con Flavio Bonacci e Sabrina Vannucchi fecero Live; Vincenzo De Carolis che con Marco Minetti e Deborah Cocco fece Lorenzo va in letargo; Aurelio Chiesa che con Tomas Miliam e Laura Morante fece Luci Lontane; Sergio Rossi che con Lina Sastri e Fiorenza Marchegiani fece Luisa, Carla, Lorenza e... le affettuose lontananze; Vanna Paoli che con Carmen Scarpitta e Victor Cavallo fece Lungo il fiume; Ivo Barnabò Micheli che con Luca Barbareschi e Giuseppe Cederna fece Il lungo inverno; Maurizio Ponzi che con Francecso Nuti e Edy Angelillo fece Madonna che silenzio c’è stasera; Stefano Pomilia che con Claudia Gerini e Marco Angioni fece Madre Padrona; Toni Occhiello che con 136
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Angelika Boeck e Pietro Bontempo fece Majidas; Leandro Lucchetti che con Cristina Donadio e Pierluigi D’Orazio fece Maledetta Euridice; Marco Tullio Giordana che con Flavio Bucci e Agnes De Nobecourt fece Maledetti vi amerò; Angelo Cannavacciuolo che con Marina Suma e Emilio Bonucci fece Malesh – non fa niente; Daniele Segre che con Lou Castel e Carlo Colnaghi fece Manila paloma blanca; Franco Villa che con Teresa Gatto e Renzo Rossi fece Marco, Nicola e batticuore; Gabriele Salvatores che con Diego Abatantuono e Fabrizio Bentivoglio fece Marrakech Express; Fiorella Infascelli che con Michael Maloney e Helena Bonham Carter fece La maschera; Antonietta De Lillo e Giorgio Magliulo che con Vanna Polverosi e Tino Schirinzi fecero Matilda; Silvio Amadio che con Martin Brochard e Vincent Mannari J.R. fece Il medium; Marco Poma che con Silvia Cohen e Alessandro Ferrara fece Mefistofunk; Franco Fratto che con Filippo Dionisi e Teresa Pascarelli fece Memoria; Gabriele Tanferna che con Orso Maria Guerrini e Simona Borioni fece Memsaab; Luigi Valenzano che con Patrizio Ballanti e Floriana Torpedine fece Le meravigliose avventure di Zorro; Sergio Pastore che con Alberto Farnese e Laura Troschel fece I mercenari raccontano...; Fabrizio Lori che con Emilio La Vella e Beatrice Palme fece Un metrò all’alba; Mario Franco che con Ferdinando Di Lena e Rossana Benvenuto fece Metropoli; Daniele Costantini che con Alessandro Haber e Mirella Banti fece Mezzaestate; Renata Amato che con Duilio Del Prete e Valentina Forte fece Mi manca Marcella; Adriana Zanese che con Maria Rosaria Omaggio e Cosimo Cinieri fece Mia dolce Gertrude; Maurizio Angeloni che con Mario Fortunato e Maria Tonà fece La mia musica; Francesca Archibugi che con Stefania Sandrelli e Francesca Antonelli fece Mignon è partita; 137
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Leone Pompucci che con Stefano Dionisi e Carla Benedetti fece Mille bolle blu; Michelangelo Iurlaro che con Isabella Biagini e Saverio Vallone fece Un mistero etrusco; Isabella Sandri che con Remo Girotti e Marcello Ferrari fece Il mondo alla rovescia; Marcello Spoletini che con Claudia Muzii e Corrado Monteforte fece Monitor (Area Gialla); Piero Panza che con Susanna Iavicoli e Enzo Spaltro fece Monitors (I ragazzi miracolo); Gianfarnco Mingozzi che con Mimsy Farmer e Giulio Brogi fece Morire a Roma; Mario Martone che con Carlo Cecchi e Licia Maglietta fece Morte di un matematico napoletano; Maria Daria Menozzi e Gabriella Morandi che con Bruno Venturi ed Elviro Enni fecero Le mosche in testa; Silvano Agosti che con Edy Biagetti e Vincenzo Giancola fece N.P. Il segreto; Marco Colli che con Sabrina Ferilli e Tony Palazzo fece Naufraghi sotto costa; Alexis També che con Lorenzo Flaherty e Beatrice Macola fece Neizvestnij - Lo sconosciuto; Silvano Agosti che con Gisella Burinato e Livio Barbo fece Nel più alto dei cieli; Giorgio Trentin che con Iolanda Modio e Nino Segurini fece Nel raggio del mio braccio; Piero Vivarelli che con Duilio Del Prete ed Elide Melli fece Nella misura in cui; Michele Saponaro che con Andreina Einard e Michele Saponaro fece Nero Sentimentale; Francesco Calogero che con Sergio Castellitto e Roberto De Francesco fece Nessuno; Anna Carlucci che con Isabella Ferrari e Maurizio De Razza fece Nessuno mi crede; Ennio De Dominicis che con Edoardo Sanguineti e Nicoletta Della Corte fece Niente stasera; Franco Rossetti che con Adriana Asti e Romolo Valli fece Nipoti miei diletti; Mario Orfini che con Cristiana Mancinelli e Pierpaolo Benigni fece Noccioline a colazione; Pasquale Misuraca che con Mario Buonafede e Luciano Cianti fece Non ho parole; 138
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Mariano Laurenti che con Alessandra Mussolini ed Eva Grimaldi fece Non scommettere... mai con il cielo; Raffaele Maiello che con Flavio Buonacci e Stefania Casini fece Non si scrive sui muri a Milano; Franco Piavoli che con Luigi Mezzanotte e Paola Agosti fece Nostos – il ritorno; Gianfranco Bullo che con Olga Beaumont e Massimo Venturiello fece Una notte che piove; Antonio Farina che con Simona Bonaiuto e Hossein Taheri fece La notte del solstizio d’estate; Luigi Faccini che con Claudio Angelini e Fabio Bussotti fece Notte di stelle; Massimo Manuelli che con Sergio Rubini e Claire Nebout fece Una notte, un sogno; Ernesto Gastaldi e Vittorio Salerno che con Gerardo Amato e Gioia Scola fecero Notturno con grida; Antonello Grimaldi che con Margherita Buy e Maurizio Donadoni fece Nulla ci può fermare; Fulvio Accialini e Lucia Coluccelli che con Luis Molteni e Shamira fecero Le nuvole sotto il cuscino; Daniele Cesarano che con Kim Rossi Stuart e Sonia Petrovna fece Obbligo di Giocare (zugzwang); Salvatore Piscicelli che con Marina Suma e Sergio Boccalatte fece Le occasioni di Rosa; Diego D’Innocenzo che con Luca Santini fece Gli occhi sulla sabbia; Nico Cirasola che con Renzo Arbore e Totò Onnis fece Odore di pioggia; Amasi Damiani che con Silvano tranquilli e Franca Gonella fece Odore di spigo; Enzo Doria che con Marisa Berenson e Derek De Lint fece Ogni scimmia ha il suo ramo; Rosario Montesanti che con Anna Mazzotti e Stenao Madia fece Oltre la notte; Emiliano Di Meo che con Fiorella Pierobon e Paolo Lorimer fece Oltre la quarta dimensione; Alessandro Ninchi che con Gerardo Amato e Federica Mastroianni fece Ombre d’amore; Carlo Giuliano Betti che da solo fece Orlando Furioso; Dante Majorana che con Moni Ovadia e Claudia Koll fece Orlando sei; Fabio Bonzi che con Vittoria Belvedere e 139
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Franco Nero fece Oro; Adolfo Lippi che con Marilda Donà e John Savage fece Ottobre rosa all’arbat (vacanze a Mosca); Amasi Damiani che con Laura Efrikian e Carlo Simoni fece Overdose (Silenzio si muore); Marco Parodi che con Maria Carta e Marcello Cesena fece Padroni dell’estate; Paolo Piffarerio che con Enzo Costa fece La pagina mancante; Giorgio Fabris che con Antonella Elia e Carlo Boso fece Parco Valentino; Stelio Fiorenza che con Giovanni Lombardo Radice e Remo Remotti fece La parola segreta; Bernardo Bertolucci che con Tina Aumont e Romano Costa fece Partner; Claudio Antonini che con Agnese Nano e Stephane Ferrara fece Passi sulla luna; Luciano Manuzzi che con Benedetta Buccellato e Vincenzo Crivello fece I pavoni; Mario Sabatini che con Ines Pellegrini e Philippe Leroy fece Peccato Originale; Piero Livi che con Giuliano Disperati e Ugo Cardea fece Pelle di Bandito; Maurizio Angeloni che con Pino Misiti e Andrea Cagliesi fece Pensieri invadenti... a Cesare Pavese; Egidio Termine che con Francesca Romana Coluzzi e Pino Caruso fece Per quel viaggio in Sicilia; Andrea Marfori che con Lidia Broccolino e Franco Columbu fece Perduta; Adriana Lamacchia che con Concita Basquez e Daniele Giuliani fece Petalo di Rosa; Barbara Barni che con Adtriana Russo e Cristina Liberati fece Il piacere delle carni; Piero Vida che con Manuela Torri e Daniela Caccia fece Piacevole confronto; Franco Piavoli che con Neria Poli fece Il pianeta azzurro; Nicola di Francescantonio che con Claudio Gora e Nanni Loy fece Piccole stelle; Peter Del Monte che con Valeria Golino e Giancarlo Caponera fece Piccoli fuochi; Paolo Ricagno che con Nadia Ferraro e Paolo Ricagno fece Pirata! (cult movie); Giuliano Santi che con Marina Giulia Cavalli e Pietro Genuardi fece Plastificati; Gerardo Fontana e Maurizio Targhetta che 140
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con Cristina Borgogni e Leonardo Treviglio fecero Polar; Gianna Maria Garbelli che con Fiorenza Marchegiani e Gianna Maria Garbelli fece Portagli i miei saluti (avanzi di galera); Adriana Zanese che con Valeria Fabrizi e Fabiola Toledo fece Portaritratto con signora; Mario Chiari che con Renata Zamengo e Andrea Lala fece Prete, fai un miracolo; Federica Martino che con Stefania Orsola Garello e Luisa Maneri fece Prima le donne e i bambini; Cristina Costantini che con Orsetta De Rossi e Renato Cestiè fece La primavera negli occhi; Paolo Gobetti che con Federico Bruno fece Le prime bande; Gabriele Lavia che con Monica Guerritore e Massimo Foschi fece Il principe di Homburg; Salvatore Cava e Domenico Astuti che con Alessandra Acciaia e Andrea Cavatorta fecero Profili; Fabio Carpi che con Marie Christine Barrault e Jean Rochefort fece La prossima volta il fuoco; Marcello Aliprandi che con Karin Gierich e Venantino Venantini fece Prova di memoria; Pierluigi Ciriaci e Francesco Pizzo che con Franca Mirabella e Mauro Festa fecero Il pulpito; Claudio Del Punta che con Grazyna Szapolowska e Jed Curtis fece Punto di fuga; Pietro Sagliocco che con Angela Goodwin e Leopoldo Trieste fece Quadro d’autore; Giorgio Pandolfi che con Flora Mastroianni Carabella e Riccardo Maranzana fece Quando finiranno le zanzare; Ennio Lorenzini che con Stefano Satta Flores e Giulio Brogi fece Quant’è bello lu morire acciso; Silvano Agosti che con Valeria Sabel e Sergio Bini fece Quartiere; Fulvio Wetzl che con Ginevra Colonna e Roberto Citran fece Quattro figli unici; Osvaldo Civirani che con Anna Miserocchi e Ivano Staccioli fece Quel giorno Dio non c’era; Giorgio Trentin che con Lucia Vasilicò e Nino Segulini fece Una questione privata; Maurizio Vanni che con Isabella Russinova e Lorenzo Flaherty 141
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fece La ragazza di Cortina; Marcello Aliprandi che con Olga Gherardi e Massimo Antonelli fece La ragazza di latta; Gianni Minello che con Stefano Sabelli e Luigi Gallo fece I ragazzi della periferia sud; Vincenzo Badolisani che con Cristina Giachino e Luciano Dario fece I ragazzi di Torino sognano Tokyo e vanno a Berlino; Anselmo Sebastiani che con Enrico Loverso e Domiziano Arcangeli fece I ragazzi nervosi; Gianni Minello che con Edy Biagetti e Stefano Maria Mioni fece Un ragazzo come tanti; Giuseppe Schito che con Teresa Ann Savoy e Saverio Maroni fece Il ragazzo di Ebalus; Lionello Massobrio che con Isabel Ruth e Ivan Della Mea fece Il rapporto; Bruno Modugno che con Valeria Sabel e Roberto Alpi fece Re di macchia; Salvatore Piscicelli che con Ida Di Benedetto e Fabrizio Bentivoglio fece Regina; Ansano Giannarelli che con Daniela Morelli e Enrico Bertorelli fece Remake; Roberto Serrani che con Lucia Prato e Mark Rendel fece Il respiro della valle; Claudio Bondi che con Lorenza Indovina e Marco Beeretta fece Il richiamo; Michele Saponaro che con Bianca O’Feeney e Thomas Wu fece Il risveglio di Paul; Andrea Marfori che con Nicoletta Boris e Randi Ingerman fece Il ritmo del silenzio; Aldo Lado che con Natalia Brizzi e Francesco Casale fece Il rito d’amore; Maurizio Rasio che con Valeria Cavalli e Alberto Rossi fece Ritorno a Parigi; Giorgio Molteni che con Mirella D’Angelo e Giulio Base fece Il ritorno del grande amico; Giulio Petroni che con Michel Rocher e Nancy Mulliken fece Rivale in amore; Paolo Grassini e Italo Spinelli che con Enrica Origo e Giulio Scarpati fecero Roma – Paris – Barcelona; Massimo Mazzucco che con Patrizia Fachini e Walter Chiari fece Romance; Fulvio Wetzl che con Anna Galiena e Deborah Ker fece Rorret; Beppe Cino che con Cristiana Borghi e Franco Citti fece Rosso di sera; 142
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Carmelo Bene che con Donyale Luna e Lidia Mancinelli fece Salomé; Gianni Da Campo che con Alba Mottura e Lorenzo Lena fece Il sapore del grano; Sergio Nasca che con Jeanette Agren e Giancarlo Badessi fece Il sapròfita; Giuseppe Ferrara che con Franca Sciutto e Giuseppe Di Bella fece Il sasso in bocca; Michelangelo Pepe che con Tiziana Deodato e Arnaldo Ninchi fece Schiaffi alla luna; Ennio Marzocchini che con Patrizia Ducci e Piero Lotti fece Scoop; Nino Bizzarri che con Margherita Buy e Maurice Garrel fece La seconda notte; Nino Bizzarri che con Viktor Lazlo e Chiara Caselli fece Segno di fuoco; Ernesto Guida che con Nada e Giulio Bosetti fece Il segreto dell’uomo solitario; Felice Farina che con Marina Confalone e Sergio Castellitto fece Sembra morto... ma è solo svenuto; Paolo Bologna che con Rosella Testa e Duccio Camerini fece Il senso della vertigine; Daniele Costantini che con Marcella Michelangeli e Carlo Verdone fece Una settimana come un’altra; Roberto Faenza che con Claudia Cardinale e Gastone Muschin fece Si salvi chi vuole; Ansano Giannarelli che con Carla Gravina e Antonio Salines fece Sierra Maestra; Anna Brasi che con Noemie Kocher e Jean Yanne fece La signora del gioco; Roberto Marafante che con Isa Danieli e Andrea Occhipinti fece Signorina Giulia; Carlo U. Quinterio che con Marisa Solinas e David Brandon fece Sindrome Veneziana; Alberto Chimenz che con Aldo Mafera fece I sogni proibiti di Tommy; Francesco Maselli che con Annie Girardot e Gian Maria Volonté fece Il sospetto di Francesco Maselli; Paolo e Vittorio Taviani che con Lucia Bosé e Gian Maria Volonté fecero Sotto il segno dello scorpione; Gianfranco Bernabei che con Claudia Capodarte e Scipio Silvi fece Sotto la croce del sud; Paolo e Vittorio Taviani che con Giorgio Arlorio e Lucio Dalla fecero 143
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Sovversivi; Stelio Passacantando che con Luca Spagnoletti fece Lo specchio delle meraviglie; Leone Creti che con Gabriella Saitta e Giangiacomo Colli fece Spiaccichiccicaticelo; Ignazio Dolce che con France Demoulin e Gabriele Gori fece La spina del papavero; Stefano Petruzzellis che con Renato Scarpa e Pierpaolo Capponi fece Standard; Michelangelo Pepe che con Cristina Grado e Mauro Serio fece Stasera in quel palazzo; Sergio Rubini che con Margherita Buy e Sergio Rubini fece La stazione; Francesco Anzalone che con Francesca De Rose e Daniele Formica fece Stelle di cartone; Lidia Montanari e Giorgio Lòsego che con Loro Stessi fecero Le stelle fredde; Vanna Paoli che con Nanda Primavera e Jean Grey fece Stelle, stellacce, stelline...; Sandro Cecco e Egidio Eronico che con Paola Agosti e Gianfranco Amoroso fecero Stesso sangue; Amasi Damiani che con Valeria Ciangottini e Christian Fassetta fece Una storia importante; Pupi Avati che con Gianni Cavina e Lino Capolicchio fece Le strelle nel fosso; Pierfrancesco Campanella che con Dalila Di Lazzaro e Urbano Barberini fece Strepitosamente... flop; Antonio Baiocco che con Silvia Mocci e Luigi Leoni fece Sulle ali della follia; Vincenzo Verdecchi che con Fulvio Falzarano e Massimo Sangermano fece Supplì; Enrico Coletti che con Daniela Poggi e Alessandra Acciai fece Supysaua; Gabriella Rosaleva che con Francesca Prandi e Paco Reconti fece Tarantula (la sposa di San Paolo); Francesco Ranieri Martinotti, Rocco Martelliti e Fulvio Ottaviano che con Athina Cenci e Enrico Loverso fecero I taràssachi; Massimo Antonelli che con Carla Gravina e Ivan Angeli fece Il tema di Marco (frammenti d’amore); Giovanna Lenzi che con Marisa Mell e Gianni Dei fece La tempesta; Luigi Di Gianni che con Rada Rassimov e Edoardo Torricella fece Il tempo dell’Inizio; Lamberto Benvenuti che 144
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con Stefania Careddu e Mark Damon fece Temptation; Veronica Perugini che con Michela Cescon e Paolo Fagiolo fece Il teppista; Paolo Breccia che con Giuliana Calandra e William Berger fece Terminal; Ugo Novello che con Marina Malfatti e Corrado Pani fece Testa in giù gambe in aria; Anna Carlucci che con Giannina Facio e Gianmarco Tognazzi fece Torta di mele; Mario Gianni che con Maurizio Bonanni e Giulio Sviti fece Toscani brava gente; Amedeo Fago che con Silvia Cohen e Ivano Marescotti fece Tra due risvegli; Furio Angiolella che con Alessia Marcuzzi e Richard Berry fece Tra noi due tutto è finito; Fabrizio Rampelli che con Rosanna Banfi e Pierfrancesco Campanella fece La trasgressione; Gianfranco Mingozzi che con Piera Degli Esposti e Cyrus Elias fece Trio; Francesco Crescimone che con Lorena Benatti e Pino Ammendola fece Il trittico di Antonello; Massimo Martella che con Carlotta Natoli e Vincenzo Salemme fece Il tuffo; Massimo Pìrri che con Corinne Clery e Giorgio Ardisson fece Tunnel (eroina); Gianfarnco Bullo che con Ana Obregon e Gianfranco Bullo fece Tutta colpa della Sip; Claudio Racca che con Salvatore Frasca e Alfredo Biondi fece Tutti gli uomini del parlamento; Daniela Bortignoni e Edi Liccioli che con Michela Manfredi e Daniele Ianni fecero Tutti i giorni sì; Ghigo Alberani che con Nina Francis e Fabrizio Capucci fece Tutto in comune; Nino Russo che con Serena Bennato e Vittorio Caprioli fece L’ultima scena; Gianfranco Piccioli che con Sidney Rome e Don Bachi fece Le ultime ore di una vergine; Gian Vittorio Baldi che con Macha Meril e Lou Castel fece L’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale; Amasi Damiani che con Susan Doyle e Calo Giudice fece L’ultimo giorno; Michele Saponaro che con Oriana Baciardi e Franco Avram fece L’ultimo graffio; Pietro Nardi che con 145
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Milly D’Abbraccio e Giuliano Santi fece L’ultimo innocente; Paolo Marussig che con Brigitte Christiansen e Marco Di Stefanno fece L’uomo del sogno; Romeo Costantini che con Adriana Falco e Paolo Cesar Perego fece L’uomo della guerra possibile; Silvano Agosti che con Paola Agosti e Dario Ballantini fece L’uomo proiettile; Silvano Agosti che con Lucia Gafà e Alain Cuny fece Uova di garofano; Ernesto Gastaldi che con Maria Luisa Longo e Vassily Karamesignis fece L’uovo del cuculo; Stelvio Massi che con Antonella Lualdi e Domiziano Arcangeli fece L’urlo della verità; Marco Leto che con Almerica Schiavo e Piero D’Onofrio fece L’uscita; Tinto Brass che con Vanessa Redgrave e Franco Nero fece La vacanza; Bruno Bigoni che con Marina Confalone e Carlo Colnaghi fece Veleno; Elisabetta Lodoli che con Iaia Forte ed Emilio Bonucci fece La venere di Willendorf; Hirtia Solaro che con Alessandra Acciai e Luciano Bartoli fece Venere paura; Memè Perlini che con Irene Grazioli e Raul Bova fece Il ventre di Maria; Stefano Incerti che con Antonino Iuorio e Roberto De Francesco fece Il verificatore; Pasquale Pozzessere che con Antonella Ponziani e Stefano Dionisi fece Verso sud; Eugenio Donadoni e Paolo Ippolito che con Isa Gallinelli e Ciccio Ingrassia fecero La via del cibo; Franco Brocani che con Sybilla Sedat e Stanco Molnar fece La via del silenzio; Michelangelo Iurlaro che con Moira Orfei e Massimo Serato fece Viaggio di nozze in giallo; Giamapaolo Santini che con Dalila Caccia e Paolo Giusti fece Un viaggio di paura; Rocco Cesareo che con Adriana Innocenti e Piero Nuti fece Le vigne di Meylan; Marco Leto che con Adalberto Maria Merli e Adolfo Celi fece La villeggiatura; Maurizio Ponzi che con Adriana Asti e Pierluigi Aprà fece I visionari; Ninni Bruschetta , Francesco Calogero e Donald Ranvaud che con Lella Costa e 146
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Antonio Caldarella fecero Visioni Private; Piero Vida che con Manuela Torri e Bruno Corazzari fece La vita di scorta; Edoardo Torricella che con Viviana Chiari e Lombardo Fornaro fece La vita nova; Antonio Capuano che con Nando Triola e Giovanni Bruno fece Vito e gli altri; Antonio Cucca che con Cristina Giani e David Brandon fece Vivien; Franco Piavoli che con Cecilia Ermini e Freda Dowie fece Voci nel tempo; Massimo Costa che con Prisca Dindo e Robert Egon fece Voglia di rock; Walter Santesso che con Anna Maria Petrova e Massimo Talone fece Il volo di Teo; Lamberto Lambertini che con Goutam Ghose e Enzo De Caro fece Vrindavan film studios; Ennio Marzocchini che con Daniela Cenciotti e Pietro Bontempo fece W verde; Pupi Avati che con Anne Canovas e Gabriele Lavia fece Zeder; Gian Vittorio Baldi che con Serena Barone e Valentina Barresi fece Zen Zona espansione nord; Antonio Salines che con Marian Giulia Cavalli e Antonio Salines fece Zio Vania di Anton Cechov; Enrico Caria, che con Beppe Barra e Armando Nannuzzi, fece 17, ovvero l’incredibile storia di Rudy Caino; Leone Creti che con Michele Margotto e Silvio Basilavecchio fece 17° piano; Paolo Frajoli che con Corinne Clery e Marzio Onorato fece 28° minuto; Attilio Concari che con Valeria D’Obici e Enzo Robutti fece 45° parallelo; Dido Castelli, Luca Manfredi, Luca D’Ascanio, Cecilia Calvi e Ignazio Agosta che con Isabella Ferrari e Amanda Sandrelli fecero 80 mq / Ottantametriquadri; Gabriella Gabrielli che con Silvia Cohen e Massimo Foschi fece 18.000 giorni fa.
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INDICE
PROEMIO
7
Dove ci si domanda del valore di un meno un po’ sbiadito e poco riconoscibile
CAPITOLO I
13
Dove si racconta di un Ministero di serie B, anzi di quarta serie come quello del Cinema
CAPITOLO II
17
Dove si ricorda la mia amicizia con Marco Ferreri, alcune delle sue bizzarrie e le cene più belle della mia vita
CAPITOLO III
23
Dove si fa una breve cronistoria del mio amore con il famigerato articolo 28 e si disquisisce di alcuni registi che quella legge ha fatto esordire
CAPITOLO IV
29
Dove si racconta dell’esordio cinematografico di Nanni Moretti e dell’invenzione della denuncia postuma di inizio lavorazione
CAPITOLO V
37
Dove si narra la storia di Gianluca Di Re e ci si interroga, senza venirne a capo, sull’amaro fascino dell’outsider
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CAPITOLO VI
41
Dove si racconta di Gianni Manera, del suo “cappotto di legno” e dell’arte tutta italiana del chiagne e fotte
CAPITOLO VII
47
Dove si racconta come è nato il mio rapporto con quell’arte modesta che è il cinema
CAPITOLO VIII
57
Dove si cerca di ricostruire, con un pizzico di nostalgia e molte divagazioni, la vita, la morte e qualche piccolo miracolo dei cineclub italiani
CAPITOLO IX
61
Dove si racconta la storia della strana amicizia tra un funzionario ministeriale e il più rivoluzionario fra gli autori rivoluzionari del cinema italiano
CAPITOLO X
71
Dove si fanno confessioni sulla Venere toscana, le amiche, la fidanzata, le donne amate e quelle vagheggiate. E la primera mujer
CAPITOLO XI
79
Dove si ricordano i gloriosi tempi della Commissione Censura e alcuni casi singolari, come quelli dei film di Paul Morrissey e di Ciprì e Maresco
CAPITOLO XII
87
Dove si affronta il melanconico ma necessario capitolo delle occasioni perdute e degli amici scomparsi prematuramente. E si finisce con un raggio di speranza, pensando ai figli d’arte
150
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CAPITOLO XIII
93
Dove si racconta, tra il serio e il faceto, di tre tentativi di “corruption”. Dei quali due materiali e uno immateriale
CAPITOLO XIV
97
Dove si narra di un’affollata fotografia in bianco e nero, di un “blocco” stile basket a fin di bene e di un piccolo grande premio che non dimenticherò mai
CAPITOLO XV
105
Dove si parla della mia amicizia con Bernardo Bertolucci, di un giornale scolastico e del destino che con una mano toglie e con l’altra dà
CAPITOLO XVI
111
Dove si racconta del mio fugace incontro con Carmelo Bene, di alcune leggende, mai verificate, che lo riguardano, di una lezione memorabile e del mio taj-chi a Villa Pamphili.
EPILOGO
119
Dove si chiude il cerchio tornando alle origini e accadono diverse cose strane, ultima delle quali la riaccensione delle luci del Ministero e, speriamo, del cinema italiano.
GLI ARTICOLI 28
125
151
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STAMPATO IN ITALIA Nel mese di novembre 2015 Da youcanprint per conto di Licosia Edizioni 84061 Ogliastro Cilento (Salerno) www.licosia.com [email protected]
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