Dialoghi. Testo greco a fronte 8817020729, 9788817020725

Nel 367 a.C. Aristotele, diciassettenne, entrò nell'Accademia e vi rimase per vent'anni, allontanandosene solo

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Dialoghi. Testo greco a fronte
 8817020729, 9788817020725

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Aristotele

I DIALOGHI introduzione, traduzione e commento di Marcello Zanatta Testo greco a fronte

CLASSICI GRECI E LATINI

Proprietà letteraria riservata © 2008 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-58-64892-6 Prima edizione digitale 2013

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1. Il soggiorno nell’Accademia Nel 367/366 a.C. Aristotele, diciassettenne, entrò nell’Accademia. La data sembra sufficientemente certa, anche se intorno a essa, così come, in stretto rapporto con questa, sulla data di nascita del filosofo si è sollevata una questione, giacché una fonte discorda con il resto delle altre.1 In effetti, secondo la cronologia di Apollo1 La possibilità di conoscere la vita di Aristotele presenta problemi non indifferenti, data la relativa scarsità delle fonti e la dubbia attendibilità di alcune (Esse sono state meritoriamente raccolte e commentate da Düring 1957. In Italia un’eccellente ricostruzione critica della biografia aristotelica si trova in Berti 1977, pp. 13-44. Un buon lavoro, per l’accurata informazione e l’equilibrio dei giudizi, è quello di Natali 1991. Di entrambi mi sono valso per la redazione di queste pagine). (1) Quelle più sicure sono i documenti. Si tratta del Testamento (tramandato da Diogene Laerzio, V, 11-16 e nelle versioni arabe di alNadim, di al-Qifti e di Usaibia), la cui autenticità è ammessa quasi da tutti gli studiosi, e di due iscrizioni conservate, che danno però notizie di scarso interesse: una, trovata nel 1898 e pubblicata nello stesso anno da Homolle (test. 43 Düring), in cui si dice che gli Amfizioni di Delfi lodano «Aristotele, figlio di Nicomaco, stagirita» per aver compilato, assieme con «Callistene, figlio di Damotino, di Olinto», la lista dei vincitori dei giochi Pitici; e una seconda, quella di Efeso, pubblicata da Heberdey nel 1902 (test. 13 b Düring), che dichiara la concessione dei privilegi della prossenia a «Nicamore, figlio di Aristotele di Stagira». Di una terza, attestante l’onorificenza che Atene conferì ad Aristotele per essersi efficacemente adoperato a favore della città presso il re Filippo, possediamo soltanto il testo che il biografo arabo Usaibia ha riportato nella sua vita di Aristotele (18-19).

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doro, riportata da Diogene Laerzio, Aristotele nacque nel primo anno della XCIX Olimpiade, ossia nel 384/383 a.C., ed entrò nell’Accademia all’età di diciassette anni, ossia nel 367/366, rimanendovi per vent’anni, fino alla morte di Platone, avvenuta nel 348/347. Ma queste date, (2) Molti dubbi sono stati invece sollevati circa l’autenticità di una raccolta di lettere attribuite allo Stagirita (riportate come frr. 651-670 nella raccolta del Rose, esse sono state recentemente riedite da Plezia 1977, pp. 7-33), che perciò non sono utilizzabili per una sicura informazione sulla sua vita. (3) Un’altra fonte è costituita poi da cinque componimenti in versi dello stesso Aristotele, tre dei quali ci sono stati tramandati per intero, mentre degli altri due possediamo soltanto l’inizio. Se in merito all’autenticità di questi scritti non sono mai state avanzate serie riserve, resta però che le notizie che ci offrono sono relativamente significative al fine di reperire dati biografici e hanno valore più di testimonianza morale che per le informazioni che apportano. Uno è l’Inno a Ermia, (tramandato da Diogene Laerzio, V, 7, da Ateneo, XV, 696 a e da Didimo Calcentero, In Demosth. com., 6, 18 ss.), un altro l’Epigramma per Ermia (tramandato da Diogene Laerzio, V, 8 e presente nell’Anthologia palatina, VII, 107), il terzo l’Elegia a Eudemo (tramandata da Olimpiodoro, In Platon. Gorgiam com., 41, 9). L’inizio di altre due poesie, e cioè un inno in esametri a un dio non nominato, e un’elegia ad Artemide, sono riportati da Diogene Laerzio (V, 27), ai nn. 146 e 147 nel catalogo degli scritti di Aristotele. (4) Infine le biografie. La quantità di notizie che forniscono è vasta, ma molte di esse sono inattendibili e comunque tendenziose, in quanto ricavate dalla testimonianza di persone inclini o ad approvare incondizionatamente il filosofo, ed è il caso dei suoi discepoli o degli scrittori favorevoli all’indirizzo neoplatonizzante, o a diverso titolo animate da ostilità nei suoi confronti, come gli scolari di Isocrate, lo storico Timeo di Tauromenio, i filosofi megarici, pitagorici ed epicurei, o come Democare, a lui avverso per motivi politici. La biografia più antica è quella di Diogene Larzio (V, 1-35), che visse nel III sec. d.C., dunque quasi seicento anni dopo Aristotele, ma che utilizzò una vita di Aristotele scritta verso la fine del III sec. a.C., o da Aristone di Ceo, che fu scolarca del Peripato in quel periodo, come alcuni hanno sostenuto, oppure, secondo il parere di altri, da Ermippo, che visse nello stesso tempo e fu bibliotecario ad Alessandria. Comunque, Diogene Laerzio utilizzò la cronologia dello Stagirita indicata nelle Cronache di Apollodoro, da lui espressamente menzionato, uno storico vissuto ad Atene nel II sec. a.C. Altre biografie sono la Vita Aristotelis Marciana (conservata a Venezia nella Biblioteca Marciana e pubblicata da Robbe nel 1861), la Vita Vulgata (pubblicata da Rose nel 1866), entrambe in greco e la Vita Latina

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che sono concordi con quelle delle altre fonti, vengono contraddette da un frammento del cosiddetto Marmor Parium, una cronaca greca di storia politica e culturale, scritta su marmo per usi didattici, donde il nome, che dai primordi della civiltà giunge sino al 264 a.C. In esso si afferma che lo Stagirita morì nel 321 a.C., all’età di cinquant’anni, per cui la data di nascita si colloca nel 371. Quanto al suo ingresso nell’Accademia, essendo avvenuto a diciassett’anni, daterebbe del 354. Di conseguenza, essendosene allontanato alla morte di Platone, ossia nel 348/47, vi sarebbe rimasto non vent’anni, bensì soltanto sette. Ma proprio l’inattendibilità di questa circostanza, che non è accolta da quasi nessuno studioso (il solo che l’abbia condivisa, e con essa la relativa cronologia, è Cadorna 1966, pp. 86-115) e che, oltre a essere incompatibile con le notizie di altre fonti, se fosse vera comporterebbe di ridisegnare i rapporti dello Stagirita con il maestro e il suo ambiente, con l’impossibilità di comprendere la vivezza della sua partecipazione e la vastità, in così poco tempo, dei suoi interventi filosofici e letterari, fa ritenere non plausibile la cronologia del Marmor Parium. Di fatto, essa cozza contro le seguenti risultanze: (1) l’autorevolezza di un frammento dello storico Filocoro, vissuto ad Atene tra il IV e il III sec. a.C. e dunque quasi contemporaneo di Aristotele, riportato nel par. 12 della Vita Marciana, il quale attesta (edita anch’essa da Rose nel 1866), che è la traduzione di una biografia scritta in greco. Tutte e tre datano del V sec. d.C. Alla Vita Marciana si rifà la Vita Lascaris, che secondo alcuni è un estratto della prima, per altri invece ne costituisce una fonte. Si hanno poi due vite in siriaco, esse pure del V sec. d.C., e quattro vite in arabo (redatte da al-Nadim, alMuba-shie, al-Qifti e Usaibia), tutte del IX sec d.C. Esse derivano da una fonte comune, costituita da una vita di Aristotele scritta da un certo Tolomeo, soprannominato el-Garib, ossia «l’ignoto», «lo straniero», che anticamente veniva identificato in Tolomeo di Chenno, del I sec. d.C., ma che oggigiorno si propende a individuare in un neoplatonico della scuola di Giamblico, nel IV sec. d.C., il quale utilizzò, oltre ad altre fonti, anche la biografia di Ermippo.

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esplicitamente la cronologia di Apollodoro. (2) Una lettera di Aristotele a Filippo in cui quegli afferma di essere stato alla scuola di Platone per vent’anni. (3) La candidatura posta da Aristotele allo scolarcato dell’Accademia dopo la morte del primo successore di Platone, ossia del nipote Speusippo, avvenuta nel 338 a.C., come si ricava dal Index Academicorum Herculaniensis (6, 28, p. 37 Mekler = test. 3 Düring), candidatura che sarebbe impensabile, ad appena nove anni dal decesso di Platone medesimo, e in concorrenza col vecchio scolaro Senocrate, da parte di chi fosse stato pochi anni soltanto nella scuola. (4) La difesa ufficiale dell’Accademia assunta da Aristotele nel Protreptico, databile con certezza del 353, sarebbe altrettanto e ancor più impensabile da parte di un allievo che da appena un anno era entrato nella scuola. (5) Le espressioni di amicizia sincera espresse da Aristotele in Eth. nic., I, 4, 1096 a 11-17 e in Metaph., I, 9, 9921 a 11, 25, 27, 28, 31 nei confronti di Platone, le quali lasciano chiaramente intendere una lunga frequentazione tra i due (su di esser cfr. Berti 1977, pp. 18-22). Ad avviso di Jacoby (1904, p. 197) la data indicata dalla fonte sarebbe soltanto un errore di trascrizione. Nessuna biografia indica le ragioni che spinsero Aristotele a recarsi nell’Accademia, ma si può ragionevolmente congetturare che influirono sulla sua scelta la grande fama raggiunta da Platone e la presenza nella scuola di scienziati e filosofi assai rinomati, come Eudosso di Cnido. Un peso non irrilevante dovette avere poi la specifica vocazione dello Stagirita per la speculazione e la ricerca scientifica, cosicché è naturale che egli preferisse la formazione impartita nell’Accademia a quella di carattere retorico e letterario dell’altra grande scuola di Atene, antagonista di quella platonica: la scuola di Isocrate. In effetti, nel tempo in cui lo Stagirita entrò a far parte dell’Accademia, in essa era in atto un processo di profondo rinnovamento che la stava trasfor-

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mando da luogo di formazione etico-politica per i futuri governanti, secondo l’originario progetto per il quale era stata concepita e fondata da Platone, nel 388 a.C., in un centro di ricerca scientifica e di libera discussione filosofica, in qualche modo paragonabile a una moderna università. A questa trasformazione contribuì non poco il fallimento che chiaramente si stava realizzando di tale originario progetto. Un fallimento reso sempre più visibile dai ripetuti insuccessi di Platone nel cercare di dar vita a Siracusa, in Sicilia, presso la corte di Dionigi il vecchio, prima, e poi del figlio, successogli nel regno, a uno stato modellato sugli insegnamenti della Repubblica, ossia retto da un re filosofo. Essi dovettero rendere consapevoli i membri dell’Accademia e innanzitutto Platone dell’irrealizzabilità di quel disegno, ingenerare in loro sfiducia circa la possibilità di un suo effettivo compimento. Tanto che Platone, dopo il terzo, periglioso viaggio, desistette da ogni ulteriore tentativo e si dedicò esclusivamente all’attività speculativa, che assunse un tenore più astratto della precedente nella stessa trattazione di tematiche politiche, come nelle Leggi, e si accentrò sul tentativo di dare una strutturazione di tipo matematico alle Idee, così da poterne reperire i principi. Risale inoltre a questo tempo, ossia dopo il 367 a.C., la composizione dei grandi «Dialoghi dialettici» (Teeteto, Sofista, Politico, Parmenide, Filebo), nonché quella del Timeo e delle Leggi. Nel momento in cui Aristotele fece il suo ingresso nell’Accademia, Platone, assieme ad altri membri della stessa, tra i quali il nipote Speusippo, che gli succederà nella direzione della scuola, e Senocrate, il secondo scolarca, era per la seconda volta in Sicilia, dove rimase fin verso il 364 a.C. Dunque lo Stagirita non lo incontrò subito all’inizio del suo soggiorno nell’Accademia, retta momentaneamente da Eudosso, ai cui insegnamenti si dovette pertanto la primissima formazione di Aristote-

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le. L’importanza di Eudosso nell’educazione del giovane filosofo fu decisiva, giacché ne influenzò il pensiero in maniera indelebile e permanente in campo astronomico: soprattutto per quanto riguarda la spiegazione del moto apparentemente irregolare dei pianeti, che il grande matematico aveva fornito chiamando in causa l’azione del movimento di più sfere su ciascun astro, sfere delle quali determinò il numero, secondo un computo ripreso e parzialmente modificato da Callippo, suo discepolo. Di questa dottrina lo Stagirita si servì in modo del tutto particolare nel cap. 8 di Metaph., XII – il libro teologico –, come base per definire il numero dei motori immobili. Un altro tema, di natura etica, questa volta, nel quale il pensiero di Eudosso esercitò un’influenza notevole su quello di Aristotele fu la sua teoria del piacere, col quale egli faceva coincidere il bene, di contro alla posizione rigoristica e assolutamente antiedonista di Speusippo, che considerava sia il piacere che il dolore come mali e faceva risiedere il bene nell’assenza dell’uno e dell’altro. In Eth. nic., X, 1-5, la concezione eudossiana del piacere non soltanto è ampiamente presente, ma costituisce la traccia sulla quale si sviluppa quella di Aristotele. Questi non seguì mai Eudosso, invece, nel campo della sua speculazione metafisica, vale a dire nell’interpretazione che anch’egli aveva dato della dottrina platonica delle Idee, un’interpretazione che, nell’intento di «salvare i fenomeni», finiva per negare la trascendenza di quelle. Oltre Eudosso e poi Speusippo e Senocrate, Aristotele conobbe nell’Accademia anche Filippo d’Opunte, che fu il quarto scolarca e pubblicò le Leggi, l’ultimo dialogo platonico, Eraclide Pontico, il quale diresse la scuola quando Platone nel 360 a.C. intraprese il terzo viaggio in Sicilia, nonché Corisco ed Erasto, due personaggi ai quali lo Stagirita si legò in modo del tutto particolare (il nome del primo s’incontra nelle sue opere come esempio addotto di frequente) e con i quali

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stringerà rapporti ancor più stretti dopo la sua uscita dall’Accademia, come vedremo, nella piccola scuola fondata con loro ad Asso. Va peraltro ricordato che Erasto e Corisco avevano aperto anche a Scepsi, loro patria, una comunità politica retta da filosofi, come attesta la Lettera VII di Platone. Al figlio di Corisco, inoltre, che fu discepolo di Aristotele nel Liceo e poi del suo successore Teofrasto, questi affidò gli scritti aristotelici di scuola, da lui stesso precedentemente conservati, al tempo della morte, avvenuta nel 287 a.C. È verisimile che nell’Accademia Aristotele abbia seguito il curriculum di formazione culturale descritto nella Repubblica, sicché al ritorno di Platone, nel 364 a.C., dal predetto secondo viaggio in Sicilia, egli aveva già terminato il primo ciclo di studi, di ordine matematico, ed, essendo esonerato dal corso di ginnastica, in quanto straniero, dovette iniziare il previsto decennio di studi dialettici. Della stima che Platone ebbe per Aristotele, come può evincersi dalla tradizione secondo cui lo avrebbe soprannominato «la mente» e, per converso, dal modo non soltanto rispettoso, ma anche emotivamente partecipato col quale Aristotele dichiara in alcune circostanze in cui critica Platone, il proprio dispiacere di doverlo fare, ci si può ragionevolmente convincere che i rapporti tra il maestro e il discepolo dovevano essere ottimi, sia sotto il profilo scientifico che personale. Anzi, sotto questo secondo profilo si può ragionevolmente parlare di autentica devozione del discepolo nei riguardi del maestro, perpetratasi al di là dei dissensi dottrinali e mantenuta viva nel tempo. Persino molti anni dopo la morte di Platone. Lo si evince dell’Elegia a Eudemo, uno scritto in cui, com’è stato dimostrato (Düring), Aristotele narra di se stesso e dal quale traspare che questi, nel momento di entrare nell’Attica, dopo il soggiorno alla corte macedone, eresse un altare in onore di Plato-

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ne e lo qualificò «uomo che ai malvagi non è neppure lecito lodare». In un tale clima di fervide ricerche scientifiche e di accesi dibattiti filosofici Aristotele divenne uno dei membri più in vista dell’Accademia, tenendo egli stesso corsi d’insegnamento e partecipando attivamente alle discussioni e all’elaborazione dottrinale che in essa avevano luogo. Due è qui opportuno richiamarne: una relativa all’esistenza delle Idee, nella quale lo Stagirita diede il suo contributo con il Per‰ ådeán; e un secondo relativo alla cosiddetta dottrina dei principi, ossia, come illustreremo, alla teoria con la quale il tardo Platone, nell’intento di reperire i principi delle Idee, le identificava con i cosiddetti numeri ideali o Idee-numeri, così da individuare nei principi dei numeri quelli stessi delle Idee. Oltre che Platone, anche Senocrate elaborò una dottrina dei principi, con la quale proponeva una diversa sistemazione delle Idee, da lui ammesse, ma ridotte soltanto a quelle degli enti naturali, divisi in «per sé» (kaq’añt¿) e «relativi» (prfi© ti) e identificate anche con i numeri matematici, oltre che con quelli ideali, in un quadro complessivo nel quale la realtà era concepita secondo un sistema di piani degradanti, fatti coincidere ciascuno con una divinità e costituiti rispettivamente dai numeri e dall’anima, dalle grandezze, dal cielo e dalle cose sensibili. Al contrario, Speusippo eliminò le Idee e ammise come uniche realtà soprasensibili i numeri e le grandezze geometriche, deducendo entrambi dall’Uno e dal Molteplice. In tal modo anch’egli concepiva la realtà come un insieme di piani degradanti: i numeri e le grandezze, l’anima del mondo e le cose sensibili, per ciascuno dei quali poneva una coppia di principi opposti, analoghi o simili tra loro – in uno scritto intitolato, per l’appunto, I simili. Quanto a Platone, espose la propria dottrina dei principi solo oralmente (si tratta delle cosiddette «dottrine non scritte» [ôgrafa dfigmata], sulle

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quali si è aperto un dibattito tra gli studiosi, le cui posizioni estreme sono, d’un lato, quella di Cherniss, che ne ha negato l’esistenza, ritenendo che si tratti di un equivoco dovuto ad Aristotele, dall’altro quella della «scuola di Tubinga», per la quale esse sono presenti fin nei primi Dialoghi di Platone), nella famosa lezione sul bene, della quale lo Stagirita ha redatto un resoconto in cui espone gli argomenti addotti dal maestro e li critica. 2. L’attività scientifica e l’insegnamento nell’Accademia Al periodo accademico risalgono i cosiddetti dialoghi.2 Con questo nome una lunga tradizione ha indicato una serie di scritti aristotelici, in numero complessivo di diciannove, e precisamente i primi diciannove scritti riportati nel catalogo di Diogene Laerzio, di uno dei quali però (il Menesseno, riportato al n. 8 di tale catalogo)3 è 2 Cfr. Berti 1977, pp. 45-96. Alle pagine di questo insigne studioso rinvio per un’adeguata documentazione dello stato degli scritti aristotelici. 3 Moraux (1951, pp. 43-44) ha supposto che trattasse dell’amicizia. Per contro, ad avviso di Bernays (1868, p. 89) il dialogo si sviluppava intorno ad argomenti di carattere politico-retorico e non etico. Quanto al titolo, Moraux (Ivi) ha sostenuto che suonasse Men¤xeno© Í per‰ fil›a©, fosse cioè costituito dall’unione delle due espressioni Men¤xeno© e Í per‰ fil›a© che compaiono rispettivamente ai nn. 8 e 24 del catalogo di Diogene Laerzio come indicanti due opere diverse. Cosa che si spiegherebbe, perché il compilatore del catalogo avrebbe citato lo scritto soltanto con la prima parte del titolo, mentre la seconda parte – propriamente il sottotitolo – sarebbe stata aggiunta più tardi in margine e inserita successivamente ancora nel catalogo in una posizione errata. Invece Gigon (1973-1974, p. 197) ha ritenuto che il dialogo avesse derivato il titolo dal nome dell’omonimo eroe al quale già s’intitolava un dialogo platonico, oppure dal nome di uno dei figli di Socrate (cfr. Platone, Apol., 34 d; Phaedo, 116 b), giacché il contenuto dell’opera si collocava ambientativamente ai tempi del Maestro ateniese, al pari di quanto avvenne per altri dialoghi (quali il Fedone di Demetrio Falereo, citato da Diogene Laerzio, V, 81, nonché il Cherecrate e l’Epigene di Stilpone, citati dal medesimo Diogene Laerzio II, 120), noti soltanto per il titolo.

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noto soltanto il nome, caratterizzati da talune prerogative che possono compendiarsi nei termini seguenti: innanzitutto, dall’avere titoli che richiamano assai da vicino opere di Platone, lasciando perciò ragionevolmente intendere che essi furono composti agli inizi dell’attività filosofica dello Stagirita. Inoltre, dall’essere redatti in una forma diversa da quella propria delle opere di scuola, nelle quali campeggia la forma del trattato, del tutto corrispondente allo svolgersi di corsi di lezioni, e dall’utilizzare invece come loro espressione più tipica, anche se non esclusiva, il dialogo. Questa seconda prerogativa si evince in maniera particolarmente netta ed eloquente dalla testimonianza di Cicerone riportata al n. 14. In essa, infatti, l’Arpinate non attesta soltanto l’uso della forma dialogica in alcuni scritti di Aristotele, ma, contrapponendo il modo di questo filosofo di costruire i dialoghi a quello di Eraclide Pontico, il quale faceva intervenire personaggi antichi e persino mitologici, così da non poter avere parte alla conversazione, offre una preziosa indicazione su una prerogativa basilare del dialogo aristotelico, ossia quella, per l’appunto, che vede lo Stagirita stesso non soltanto intervenire attivamente nel discorso, ma reggerne le fila e guidarlo, decidendo persino la direzione che deve assumere quello degli altri interlocutori («sermo ita inducitur ceterorum ut penes ipsum sit principatus»). Cicerone la richiama parlando espressamente di «mos aristoteleus», dando così risalto al fatto che con essa si definisce un modo di condurre la discussione filosofica la cui tipicità e – probabilmente – la cui origine innovativa va ascritta allo Stagirita. Infatti, è ben vero che nei dialoghi platonici, almeno a partire dal Fedone e comunque in quelli della maturità, dietro la figura di Socrate si riconoscono molti tratti dottrinali specifici del pensiero del discepolo, cosicché sotto un certo aspetto, essendo il personaggio Socrate a guidare la discussione, si può an-

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che dire che Platone detiene il principatus. Ma, per l’appunto, è un principatus soltanto indiretto, che peraltro viene per gran parte meno nei dialoghi del tardo Platone, dove la figura di Socrate o scompare del tutto oppure, se è presente, riveste però una parte secondaria e la dottrina platonica si attesta in modalità letterarie che non fanno più perno sulla centralità di un interlocutore. Anche la testimonianza ciceroniana riferita al n. 15 ritorna su questa basilare caratteristica del dialogo aristotelico. Qui l’Arpinate, rimarcando che essa, ove la discussione verte sullo stato, ben s’addice a lui, che ha l’autorevolezza di un consolare, riprende la distinzione dal modo di costruire il dialogo di Eraclide Pontico e, con un chiaro riferimento al Politico, sottolinea come Aristotele abbia affermato in prima persona ciò che scriveva in quest’opera. A tale caratteristica s’affianca quella per la quale gli interlocutori sono personaggi contemporanei all’autore; né potrebbe essere diversamente se questi deve guidare i dialoghi. Siamo così in presenza di un tratto che si lega strutturalmente a quello testè illustrato e che si evince come proprio del mos aristoteleus non soltanto dal contesto e dai personaggi che Cicerone, attribuendo a sé tale mos, fa intervenire nei dialoghi che forniscono le due testimonianze sopra citate, ma, soprattutto, da quelli che spiega perché non fa intervenire nel De republica e nella prima redazione degli Academica.4 2.1 Dialoghi e dialettica Esattamente l’interlocuzione dei personaggi, momento nel quale il dialogo si concreta in modo pregnante e questa forma letteraria prende spicco stricto sensu, quando lo scambio di opinioni si fa vera e propria di4

Sul punto si vedano le note 19 e 20 delle Testimonianze.

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scussione di tesi contrapposte assume le fattezze di un’autentica disputa dialettica. Si comprende allora perché «dialoghi» sia la denominazione complessiva sotto la quale le testimonianze attestano essere state catalogate opere nelle quali il momento dialettico rappresenta un loro tratto caratteristico. «Dialoghi» lato sensu, dunque. Con la quale indicazione s’intendeva fare riferimento a scritti dove la dottrina filosofica veniva esposta in quella forma, per l’appunto dialogico-dialettica, di contrapposizione di opinioni ed esame critico delle stesse, a partire dalla possibilità di vagliarne la consistenza attraverso la capacità di resistere ai tentativi di confutazione, che è per ciò stesso ben diversa dalla forma del trattato, nella quale una dottrina già acquisita ed accertata viene esposta in modo organico e sistematico in sequele di dimostrazioni, in vista del suo insegnamento. Ecco perciò che, ove il trattato, con l’uso del metodo dimostrativo, particolarmente atto all’organizzazione sistematica della materia, quale dev’essere per potersi esporre e insegnare, è la forma tipica degli scritti legati all’insegnamento, la forma dialogico-dialettica si presta invece, in modo precipuo, al momento inventivo ed euristico della ricerca scientifica, ed è particolarmente efficace là dove si voglia dare pubblico risalto a una tesi, mostrandone a tutti l’attendibilità rispetto a quella opposta o la superiorità su altre. Ma in questi rilievi si addensa una serie di puntualizzazioni che è bene esaminare analiticamente, una per una. Conviene innanzitutto rilevare come il carattere dialettico degli scritti in questione sia espressamente dichiarato da molte testimonianze, le quali lo pongono, direttamente o indirettamente, in relazione con il carattere dialogico degli stessi: segno manifesto che, come si diceva, qui dialogo non denota soltanto la forma letteraria di un’opera costruita intorno al colloquiare tra interlocutori, ma può ben qualificare anche scritti che vedo-

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no in causa un solo espositore, il quale però mette a critico confronto e contrappone, per soppesarne e valutarne le ragioni a favore e contro, tesi ed opinioni antitetiche. Insomma, non è necessario che gli interlocutori assumano figurazioni concrete di personaggi in colloquio, anche se è questa la situazione tipica del dialogo come forma letteraria, ma possono qualificarsi come dialogici anche scritti nei quali si attua una contrapposizione di tesi, indipendentemente che esse siano pronunciate da soggetti figurativamente definiti. Il dialogo, insomma, attiene al modo di trattare la materia e non soltanto – o non primariamente – alla forma letteraria dello scritto, anche se nulla impedisce, anzi, tutto concorre a che esso si attui nella forma più marcata ed evidente là dove alla contrapposizione dottrinale soccorre in modalità figurativamente pregnante l’interlocuzione dei soggetti. Sotto questo profilo si può convenire che il dialogo denota un metodo d’analisi e d’esposizione, vale a dire un modo di procedere nella trattazione di una materia, una «via per» raggiungere un certo risultato in un certo ambito, oltre che un genere e una forma letteraria, così come esattamente un metodo è la dialettica.5 Così nella testimonianza n. 28 Elias attesta che nell’ambito delle «opere dialogiche», nelle quali – egli dice – « è chiaro, come se discorresse con soggetti estranei alla filosofia», si individuano «opere dialettiche», in cui «è articolato nelle imitazioni, pieno di Afrodite e colmo di grazie», usa cioè lo stesso bello stile delle opere dialogiche stricto sensu.6 Come si vede, le opere dialettiche non sono che gli stessi dialoghi nei quali – in tutta evidenza – il momento della discussione è particolarmente forte, ovvero quei dialoghi nei quali l’esposizione delle diver5

Cfr. Top., I, 1, 100 a. Per il rapporto tra «opere dialogiche» e «opere dialettiche» cfr. la nota 40 delle Testimonianze. 6

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se tesi assume un andamento marcatamente contrappositivo. E poiché – viene da osservare – in campo filosofico, come filosofici, per l’appunto, sono tutti gli scritti di Aristotele, non è tanto la narrazione dei differenti punti di vista che conta, quanto invece l’esame critico di essi, vale a dire la loro opposizione in funzione dell’accertamento di quale sia da accogliersi e per quali aspetti e quale da rifiutarsi, è facilmente ipotizzabile che a tutti i dialoghi, in misura più o meno accentuata, compete la qualifica di opere dialettiche. La stretta connessione tra dialoghi e opere dialettiche risulta altresì dalla testimonianza di Cicerone raccolta al n. 12, dove l’Arpinate identifica i due tipi di scritti, dicendo d’avere redatto i suoi tre libri Sull’oratore «Aristotelio more», e intendendo con ciò «in disputatione ac dialogo», espressione che costituisce un’endiadi e indica una «discussione dialogica».7 Nella testimonianza di Elias è ancora da sottolineare l’annotazione sul bello stile di tali opere, specificata mercé l’appunto intorno all’eleganza del discorso e al suo disinvolto articolarsi (un appunto direttamente marcato sugli scritti dialettici, ma che, per quanto si è detto, deve ritenersi estendibile a tutti i dialoghi), nonché il rilievo che i dialoghi (da intendersi sia in senso ampio che ristretto, ossia come scritti dialettici) si rivolgevano a soggetti non specificamente addentrati nella filosofia, ossia non ai discepoli della scuola, ma ad uditori anche non così specialistici (o in fase di specializzazione). Mette conto, infine, sottolineare il nesso strutturale tra la prima e questa seconda annotazione: ché, come già implicitamente si accennava, la presentazione di tesi filosofiche a un pubblico più ampio di quello altamente specializzato dei frequentatori della scuola, avvezzi e interessati all’esposizione della scienza in modo sistemati7

Cfr. la nota 23 delle Testimonianze.

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co, scandito dall’enunciazione dei principi e dalla deduzione delle conseguenze, per l’intera ampiezza della scienza medesima, non poteva procedere con questo metodo, pena il risultare noiosa e addirittura incomprensibile, ma doveva valersi di un metodo, per così dire, più vivace, coinvolgente e intrigante, quale è certamente quello – dialettico – della contrapposizione di tesi e del loro esame critico. Lungo quest’ordine di considerazioni si sviluppa il rilevo di Ammonio secondo cui «nelle opere dialogiche, che egli ha scritto per un pubblico vasto, si preoccupa di una certa ampiezza e accuratezza delle espressioni e della metafora, e conforma la specie dell’espressione ai volti di coloro che parlano e, in generale, tutto ciò che sa che abbellisce la forma del discorso» (test. n. 24). Proprio l’eleganza dell’esposizione, la sua ampiezza e la sua fluidità rappresentano un’ulteriore e specifica nota caratteristica dei «dialoghi», di contro allo stile secco, stringato, disadorno, talvolta perfino brachilogico dei trattati di scuola. Caratteristica formale, questa, cui fa riscontro, sul piano concettuale, un maggior rigore argomentativo del secondo tipo di scritti, mentre, per converso, al primo tipo appartiene un’argomentazione meno tecnica e più divulgativa. Tale la testimonianza convergente di più fonti.8 La quale, per poter essere adeguatamente compresa nel suo assunto di fondo, va inquadrata nella classificazione degli scritti di Aristotele. 8 Paradigmatica quella di Ammonio (riportata con il n. 24), secondo la quale Aristotele «nelle opere acroamatiche è, per quanto riguarda i contenuti di pensiero, denso, stringato e problematico, mentre per quanto riguarda l’espressione è essenziale, a motivo della ricerca della verità e della chiarezza, e talora pone egli stesso il vocabolo, quando ve ne sia bisogno. Invece nelle opere dialogiche, che egli ha scritto per un pubblico vasto, si preoccupa di una certa ampiezza e accuratezza delle espressioni e della metafora, e conforma la specie dell’espressione ai volti di coloro che parlano e, in generale, tutto ciò che sa che abbellisce la forma del discorso».

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Fuori di quest’inquadramento, il suo significato rischierebbe, infatti, di andare persino frainteso. Paradigmatico quanto dice lo stesso Ammonio nel passo immediatamente precedente la testimonianza n. 24 testè letta. Dapprima egli divide gli scritti dello Stagirita in particolari (merik¿), intermedi (metax‡) e di carattere generale (kaqfilou); indi, tra questi ultimi distingue quelli redatti in forma di appunti (ñpomnhmatik¿) da quelli redatti in forma di trattati (suntagmatik¿), nei quali comprende i dialoghi, qualificati anche come opere essoteriche, e gli scritti «in prima persona» (aétoprfiswpa), che definisce anche acroamatici.9 Dunque, la distinzione tra opere dialogiche ed opere «in prima persona», vale a dire i trattati di scuola, per questo indicati anche come opere acroamatiche, ossia finalizzate all’ascolto degli allievi, non riguarda la materia, giacché in entrambi i casi sono in campo questioni «generali» di filosofia e si «pongono assieme» (suntagmatik¿) più tesi, ossia si espone in modo unitario e organico la materia, tale essendo, per l’appunto, il «trattato», bensì il modo di esporla: e precisamente in forma dialettica, ossia, come s’è detto, attraverso il confronto delle differenti posizioni, enunciate anche da soggetti figurativamente e letterariamente diversi, nelle opere dialogiche; esponendo invece Aristotele – e lui soltanto – la dottrina, attraverso l’enunciazione dei principi e la deduzione delle conclusioni, e così organizzando sistematicamente, in queste opere «in prima persona», la materia che nei dialoghi trovava sistematica composizione in forma dialettica. E va da sé che in questi secondi l’argomentazione, proprio in quanto dialettica, ha (e non può che avere) un andamento ben differente da quello dei trattati «in prima persona», dove prevale il momento deduttivo. Questo spiega altresì, sul piano della forma espositiva, il differente stile 9

In proposito cfr. la nota 38 delle Testimonianze.

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dei due tipi di «trattazioni», in diretto rapporto, del resto, con il tipo di uditori cui esse erano finalizzate: un pubblico più vasto, costituito, si potrebbe dire con espressione moderna, da amatori ma non da specialisti e, per contro, un consesso di filosofi, che in non pochi casi partecipavano delle stesse ricerche del maestro e tenevano essi stessi lezioni nel Peripato (si pensi, a titolo d’esempio, a Teofrasto). Tutto ciò non significa – ecco il possibile fraintendimento – né che, per quanto attiene ai contenuti, i dialoghi non siano opere di filosofia stricto sensu e a pari titolo delle opere «in prima persona», giacché, come abbiamo visto, entrambi sono «trattati» nei quali si espone la medesima materia; né, per quanto attiene al modo d’argomentare, che la maggiore duttilità dell’esposizione in forma dialogico-dialettica e l’eleganza stilistica dei primi denoti un rigore formale inferiore rispetto allo stile serrato e all’organizzazione in modalità deduttiva della materia, propri dei secondi. In particolare, quanto detto non significa che i dialoghi, o – meglio – i trattati dialogico-dialettici siano opere divulgative (perché destinate a un uditorio più ampio), mentre i trattati «in prima persona» sono opere scientifiche (perché adottano il metodo dimostrativo e non quello dialettico, e la dimostrazione è il metodo proprio della scienza). Un tale giudizio viene formulato sulla base di una palese preminenza data all’analitica rispetto alla dialettica e al conseguente confino di questa seconda a una sorta di logica minoritaria, perché atta ad argomentare in termini di verosimiglianza e non di verità, come fa invece l’analitica, e a partire da opinioni, siano pure notevoli (öndoxa), e non da proposizioni «vere, prime, immediate, più note, anteriori e cause della conclusione» (An. po., 71 b 21-22), quali sono le premesse del sillogismo dimostrativo. Lo stesso Ammonio, nella misura in cui, dicendo che i dialoghi erano opere destinate a «un pubblico più vasto», può dare l’impressione di rite-

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nerli opere divulgative, perché strutturate con metodo dialogico-dialettico, e avallare un tale giudizio. A tal punto che Elias, dopo aver ripreso la distinzione degli scritti aristotelici data da Ammonio («delle opere sintagmatiche, alcune sono in prima persona, quelle che sono dette anche acroamatiche, altre invece sono dialogiche, quelle che sono dette anche essoteriche. E in quanto in prima persona, si oppongono a quelle dialogiche, e in quanto acroamatiche si oppongono a quelle essoteriche. Ché, volendo essere utile a tutti gli uomini, Aristotele scrisse in persona propria anche per coloro che si dedicavano [...]; ma scrisse anche per coloro che non si dedicano alla filosofia: le opere dialogiche»), ha potuto far presente che «nelle opere acroamatiche, poiché discute con uomini che si accingono a filosofare, ha fatto uso di argomentazioni necessitanti, mentre in quelle dialogiche di argomentazioni persuasive», ossia soltanto probabili (test. n. 27), attribuendo altresì ad Alessandro una distinzione che, non presente nella sua testimonianza, è tuttavia significativa del modo in cui è stata letta, ossia della considerazione data alla dialettica e, di conseguenza, agli scritti che l’assumono come metodo loro proprio. Dice infatti Elias che «Alessandro enuncia anche un’altra differenza delle opere acroamatiche rispetto a quelle dialogiche, ossia che nelle opere acroamatiche egli espone le cose che corrispondono alla sua opinione e le cose vere, mentre in quelle dialogiche le cose che corrispondono alle opinioni altrui, ossia le cose false» (Ivi). Non vi è dubbio che il procedimento dialettico, comportando quale sua operazione primaria la confutazione, oltre che l’esame peirastico delle opinioni, debba procedere dall’enunciazione della posizione che s’intende confutare in quanto falsa o soppesare criticamente negli aspetti in cui, essendo falsa, non è accettabile. Parallelamente, anche l’esame diaporematico, che costituisce un’altra basilare operazione

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della dialettica, e più precisamente del suo uso «in rapporto alle scienze filosofiche» (Top., I, 2, 101 a 34), richiede che si esponga la tesi della quale, per il fatto che ne discende una conseguenza contraddittoria, si prova (per via, per l’appunto, diversa da quella scientifica) la falsità. Ma l’esporre – per confutarle, o mostrarne diaporeticamente la falsità, o evidenziarne gli aspetti inaccettabili perché falsi – delle tesi che necessariamente, in quanto false o da falsificare, sono diverse da quelle che Aristotele intende sostenere in proprio, è ben altra cosa dal limitarsi a presentare tali tesi, come sembra doversi leggere nel giudizio limitativo di Elias. E la limitazione dipende, ancora una volta, dal discredito o comunque dalla miniore considerazione data alla dialettica rispetto all’analitica e, in particolare, dalla convinzione che essa non permette di attingere il vero, ma si arresta al semplice verisimile e al probabile. Ond’è che anche gli scritti che l’adattano quale metodo loro proprio sono «inferiori» a quelli «scientifici». Ecco il presupposto della testimonianza di Elias, quel presupposto in base al quale egli legge e presenta quella di Ammonio. Ora, alla luce dei più recenti studi in campo aristotelico e della conseguente rivalutazione della dialettica, prima come logica diversa, certo, ma non per questo «inferiore» all’analitica, indi – nelle ricerche più avanzate e secondo le proposte esegetiche più accurate – come disciplina dotata di valore persino conoscitivo, nella misura in cui anch’essa accerta il vero (ancorché secondo modalità differenti da quelle dell’analitica),10 un tale giudizio e una siffatta considerazione svalutativa e minoritaria della dialettica stessa non sono più condivisibili. In particolare, non è più condivisibile, perché si è rivelato un giudizio storicamente – oltre che teoricamente – infondato, che la dialettica, per il fatto di far uso di argomentazioni 10

In proposito mi permetto di rinviare a Zanatta 1996, I, pp. 73 sgg.

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che procedono da opinioni notevoli, non è, (1) sotto il profilo logico, ossia strettamente formale, così rigorosa come l’analitica (dal momento che i sillogismi dialettici si costruiscono sulla base delle stesse regole, enunciate negli Analitici primi, secondo cui deve procedere ogni sillogismo, e dunque anche i sillogismi dimostrativi), né, (2) sotto il profilo epistemico, meno importante e utile dell’analitica in ordine alle scienze, (a) essendo essa atta, proprio in virtù del suo carattere peirastico, ossia critico e valutativo, a fornire, per via confutativa, quella fondazione dei principi delle scienze che il metodo dimostrativo, proprio della loro esposizione e del loro insegnamento, non è strutturalmente in grado di dare (Top., I, 2, 101 a 36-b 4); (b) ed essendo altresì atta a provare, in virtù del procedimento diaporematico, la verità e la falsità di due opposte proposizioni provviste di ugual forza probante, rispetto alle quali il procedimento dimostrativo si rivela impotente e comporta perciò un arresto della ricerca (Top., I, 2, 101 b 35-36; VI, 3, 145 b 17-19; VIII, 14, 163 b 9-12). Né, inoltre, può essere accettato, perché smentito dalla semplice constatazione delle procedure poste in atto nei trattati di scuola, che in essi il metodo usato è soltanto quello dimostrativo. In realtà, a un esame attento si rivela ben chiaro che a tale metodo si affiancano, e nella maggior parte dei casi, i procedimenti tipici del metodo dialettico, a partire dalla confutazione, dall’argomentazione ad hominem, dalla riduzione all’assurdo e dalla distinzione dei significati di un termine o di un’espressione. Più dettagliatamente ci si avvede che – come si accennava – il metodo dimostrativo è prevalentemente impiegato là dove si tratta di organizzare una materia la cui verità è già stata acquisita, mentre là dove si tratta di accertare la verità delle proposizioni, ossia là dove la scienza si coglie nel suo farsi ed è in una fase euristica, sono i procedimenti dialettici quelli per lo più impiegati: negli stessi trattati di scuola.

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Alla luce di queste considerazioni si può allora concludere che l’uso della forma dialogico-dialettica negli scritti indicati, per l’appunto, come dialoghi, specifica una loro prerogativa peculiare non già nel senso che pone l’accento su un metodo che i trattati di scuola abbandonano, ma nel senso che dà risalto al fatto che tali scritti, non essendo destinati all’insegnamento e dunque non esigendo un’organizzazione sistematico-deduttiva delle scienze, ma presentando, per converso, le scienze stesse nel momento forte della verità dei loro asserti e delle relative prove, ossia le scienze nel loro farsi e non nel loro assestarsi, usavano fondamentalmente i procedimenti – per l’appunto dialogico-dialettici – che nei trattati di scuola sono riservati ai momenti inventivi della costruzione del sapere scientifico. Si ritrova pertanto una solidale unità tra la destinazione non didattica di questi scritti, l’uso in essi di uno stile ampio ed accurato e l’impiego del metodo dialogico-dialettico: manifestandosi, in particolare, la costitutiva consequenzialità del secondo aspetto agli altri due, già apparsi nel loro strutturale legame, nella misura in cui opere rivolte ad uditori non addentrati nella filosofia, ma semplicemente interessati a essa, non soltanto dovevano prediligere il confronto critico delle tesi a quello, più faticoso a seguirsi, della loro derivazione da principi, ma dovevano altresì enunciare tali tesi in una forma attraente, articolata ed elegante, così da captare l’attenzione degli ascoltatori, piuttosto che in una forma stringata e concisa fino quasi ad essere ellittica. Anche un’ultima prerogativa di tali scritti può inquadrarsi nell’ottica della loro destinazione e, di conseguenza, del loro stile e delle loro procedure argomentative: mi riferisco all’uso in essi dei prologhi, i quali, come appare paradigmaticamente nei dialoghi platonici, concorrono alla realizzazione della bellezza formale dell’opera letteraria. Inoltre, come Aristotele stesso indica nella

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Retorica, dove espressamente tratta dei prologhi del discorso giudiziario ed epidittico (III, 14, 1414 b 19 ss.), essi hanno la funzione di indicare il fine del discorso, ed anche in questo contribuiscono alla sua chiarezza, sia sul piano espositivo che su quello argomentativo. 3. Il problema degli âxoteriko‰ lfigoi A questo punto si apre il problema del rapporto tra i dialoghi e gli âxoteroko‰ lfigoi. In effetti, 7 testimonianze (nn. 10, 13, 19, 26, 27, 28, 40) indicano tra le opere dello Stagirita scritti che qualificano come essoterici, tre di esse dichiarando espressamente che si tratta di dialoghi (nn. 19, 27, 28). Lo stesso Aristotele, nel corpus delle cui opere âxwterikfi© compare complessivamente 15 volte e sempre nella precisa valenza di «essere fuori» rispetto a qualcosa,11 in 8 casi (cfr. test. nn. 29, 30, 31, 33, 34, 35, 36, 37) affianca âxoteriko› a lfigoi. Il nucleo del problema che si propone di individuare a che cosa egli abbia fatto 11 In De gen. an., V, 6, 786 a 26 si dice che la lingua «è come una delle parti esterne (œsper ín mfirion âxwterikán)»; in De plant., I, 2, 817 a 1 sgg. si afferma la superiorità dell’animale sulla pianta per il fatto che, «nella sua generazione non ha bisogno di alcun fattore esterno (oé ân tÉ oåke›÷a gen¤sei pr¿gmatfi© tino© âxwterikoÜ)» come per esempio la luce, di cui la pianta ha invece bisogno; in Pol., I, 5, 1254 a 13 ss. si rileva che l’esserci in ogni cosa costituita di parti, non soltanto vivente ma anche inanimata, alcunché che comanda e alcunché che è comandato, è osservazione che «forse è propria di una ricerca piuttosto estranea alla nostra (úsw© âxwterikwt¤ra© âst‰ sk¤yew©)», la quale verte determinatamente intorno al problema se la schiavitù sia per natura; in Pol., II, 10, 1272 b 19 si fa presente che i Cretesi «non hanno parte di un comando esterno (oûte g·r âxwterikÉ© àrcÉ© koinwnoÜsin)» alla loro terra; in Pol., VII, 1, 1323 b 25 si osserva che Dio è felice e beato, «ma per nessuno dei beni esterni (di’ oéq‚n d‚ tán âxwterikán àgaqán)»; parallelamente in Pol., VII, 3, 1325 b 29 si osserva che Dio e l’universo non hanno «attività esterne oltre quelle che sono proprie di loro (âxwterika‰ pr¿xei© par· t·© oåke›a© t·© aétán)»; infine, qualche riga prima, e cioè in Pol., VII, 3, 132 b 22 si fa riferimento ad azioni che sono sì esterne (âxwterika‰ pr¿xei©), ma che tuttavia sono dirette dal pensiero dell’uomo.

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riferimento con quest’espressione, consiste essenzialmenti nel determinare rispetto a che cosa tali logoi sono «esterni». In proposito si possono complessivamente individuare tre ordini di risposte, cui corrispondono altrettante linee esegetiche, all’interno delle quali le posizioni degli studiosi si diversificano, e talora anche radicalmente, non soltanto per il peso dato alle singole testimonianze, ma anche per la determinazione stessa del significato dell’espressone, pur concordando sul termine rispetto al quale essa indica l’estraneità, ossia, in ultima analisi, su ciò che propriamente essa non indica. Così, (1) in una prima linea esegetica possono annoverarsi quelle posizioni accomunate dal fatto di conferire a «essoterici» il significato di «estranei al pensiero di Aristotele», di negare cioè che negli âxoteriko‰ lfigoi debba ravvisarsi una qualsivoglia elaborazione dottrinale o più latamente culturale riferibile allo Stagirita.12 Questa tesi aveva il suo punto di forza in quella che negava la paternità aristotelica dell’Etica Eudemia, attribuita invece a Eudemo; e poiché in essa, a proposito della divisione dei beni in esterni e dell’anima, nonché della superiorità dei secondi sui primi si precisa «come distinguiamo (diairo‡meqa) anche nei discorsi essoterici» (test. n. 33), con il verbo in seconda persona plurale, si poteva perciò 12 Questa linea esegetica trova il suo sostenitore più rappresentativo nel Diels (cfr. 1883, pp. 477-494), ma era già stata in qualche misura precorsa da Fr. Meunier, il quale nove anni prima aveva sostenuto che gli âxwteriko‰ lfigoi denotano «le opinioni estranee alla scuola », ossia «ciò che si dice al di fuori del Liceo» (Meunier 1864, p. 18) e, prima ancora, dal Rose, che così scriveva: «omnino ille (scil. Aristoteles) non de libris scriptis cogitans nisi per accidens, nedum de suis ipsius sed de receptis tunc temporis in philosophia locis [...] et Platonicorum qui dominabantur in volgus latis definitionibus [...]» (Rose 1854, p. 104). Sulla linea del Diels si sono mossi, sia pur, come si accennava, con differenti curvature esegetiche, Susemhil (1884), Jaeger (1912, p. 134), Ross (1966, II, pp. 408-410) e anche Dirlmeier (1969; 1973, pp. 274-275), almeno nella misura in cui anch’egli esclude categoricamente che gli âxwteriko‰ lfigoi possano essere identificati con i dialoghi.

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concludere nel senso sopraddetto. Sennonché, una volta caduta la tesi dell’inautenticità di tale trattato, anche una tale esegesi degli âxwteriko‰ lfigoi perdeva il suo fondamento e veniva perciò a cadere.13 (2) Una seconda linea esegetica è quella che attribuisce, sì, ad Aristotele gli âxwteriko‰ lfigoi, ma ravvisa in essi non delle opere scritte e, in specie, alcuni o tutti i dialoghi, bensì delle discussioni orali tenute dallo Stagirita.14 Ma contro quest’ipotesi esegetica si può far valere, oltre che specifiche e puntuali ragioni di dettaglio, l’obiezione di fondo, in qualche modo analoga a quella mossa da Laurenti al primo tipo di esegesi (cfr. la nota 14), secondo cui sarebbe assai strano che Aristotele, il quale cita gli âxwteriko‰ lfigoi per avallare posizioni sostenute nei trattati, si appoggi a riflessioni svolte solo oralmente e non abbia avvertito la necessità di valersi del sostegno di opere scritte. (3) In una terza linea esegetica si possono poi latamente raccogliere quelle posizioni che, pur diverse tra loro per il fatto di considerare come termine rispetto al quale l’aggettivo âxwteriko› si calibra o i trattati di scuola, o il contesto, o il tipo di considerazioni in cui la citazione degli âxwteriko‰ lfigoi ha luogo, hanno però in comune il fatto di individuare in essi opere scritte di Aristotele e non semplici discussioni orali da lui condotte. (a) Così in questo filone può iscriversi, per un verso, la posizione del Bernays (1868, prima edizione 1863) il quale, ritenendo che i logoi in questione siano stati qua13 E questo, anche a prescindere dell’inverosimiglianza della situazione nella quale lo Stagirita, per «avallare certe sue posizioni» senta il bisogno di citare «discussioni altrui e non di richiamarsi [...] a opere che egli aveva redatto e sulle quali poteva con più ragione fare affidamento» (Laurenti 1987, I, p. 77). 14 Tale, per esempio, la posizione di Geiger (1972) e di Ryle (1966, p. 24), per il quale i dialoghi essoterici corrisponderebbero a quelli recitati a un vasto pubblico, mentre quelli esoterici sarebbero stati proferiti per i discepoli della scuola.

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lificati essoterici rispetto ai trattati di scuola, li ha identificati tout court con i dialoghi. Una posizione che ha trovato il consenso di non pochi studiosi tra i quali lo Heitz (1865) e lo Jaeger (1964, pp. 331 ss.), dopo che, come s’è detto (cfr. la nota 12), negli Studien (1912) questi aveva aderito alle tesi del Diels. Jaeger, in particolare, scorge negli âxwteriko‰ lfigoi le opere letterarie dello Stagirita, nelle quali ravvisa la prima fase dell’«evoluzione spirituale» del filosofo, ed è forse quest’aspetto, legato all’interpretazione genetica, il momento più debole di un’esegesi che ha senz’altro avuto il merito di ribadire con solide prove come in tali logoi debbano scorgersi opere scritte.15 (b) In questo stesso filone esegetico può annoverarsi altresì la tesi, per altro assai minoritaria, stante lo scarso seguito che ha avuto, avanzata da Antonio Jannone in un saggio del 1954-55 e riproposta in un secondo studio del 1959: nella misura in cui anch’essa individua negli âxwteriko‰ lfigoi opere scritte dello Stagirita, ma identificabili non già con i dialoghi, sibbene con le parti degli stessi trattati di scuola anteriori a quelle nelle quali la citazione degli âxwteriko‰ lfigoi è contenuta. In effetti, questi logoi sarebbero detti essoterici, ossia esterni, rispetto al contesto in cui sono menzionati, e consisterebbero propriamente nei ragionamenti preliminari a quello che si sta svolgendo, contenuti in passi precedenti della medesima opera.16 (c) Possono ascriversi, infine, a questa linea esegetica quelle posizioni che individuano negli âxwteriko‰ lfigoi le opere di carattere retorico scritte da Aristotele du15 Hanno sostanzialmente accolto la tesi jaegeriana, tra gli altri, Bignone 1973, II, pp. 34 ss. e passim; Tricot 1953, II, 197, nota 3; Moraux 1957, pp. 16 ss.; Gauthier-Jolif 1970, I, pp. 63-67; Allan 1973, pp. 8-9; Moraux 1962, p. 281, nota 2; Guthrie, VI, pp. 49 ss. 16 Una forte obiezione alla tesi di Jannone, mossa sulla base di Pol., III, 6, 1278 b 6 ss., è stata portata da Laurenti 1987, I, p. 123, nota 135.

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rante gli anni del suo soggiorno nell’Accademia. La loro importanza si esplicherebbe sia sotto il profilo del contenuto che sotto quello del metodo, giacché in esse verrebbero avvalorati quei procedimenti basati sull’opinione e riferibili complessivamente alla dialettica – cui la retorica, come sarà poi teorizzato nell’omonimo trattato, è strettamente connessa (cfr. Rh., I, 1, 1354 a 1: «la retorica è il controcanto [ànt›strofo©] della dialettica») –, di valore non dimostrativo e di tipo non rigoroso, ossia non scientifico, per i quali esse si contrappongono alle opere di filosofia vera e propria.17 La base di una tale esegesi, o comunque il suo principale punto d’appoggio è rappresentato da Eth. eud., I, 8, 1217 b 18-22 (cfr. test. n. 34) e dall’annotazione aristotelica secondo cui il carattere puramente verboso e vuoto degli argomenti intesi a dimostrare l’esistenza delle idee, quella del bene in primis, era già stato fatto presente sia negli scritti essoterici che in quelli filosofici (ka‰ ân toÖ© âxwterikoÖ© lfigoi© ka‰ ân toÖ© kat· filosof›an). Ora, tale esegesi prospetta la contrapposizione tra questi due tipi di logoi come contrapposizione tra opere di filosofia e opere esterne a essa, ossia non filosofiche, quali per l’appunto quelle retoriche. Sennonché, com’è stato contestato da autorevoli interpreti, tra i quali, sulle orme di Stahr (1830, II, 271-279), Berti (1977, pp. 65-67) e Laurenti (1987, pp. 79-80), lfigoi kat· filosof›an è espressione che è preferibile intendere nel solco di quella che compare in Top., I, 2, 101 a 3, ove, trattando degli usi della dialettica, Aristotele dichiara che questa disciplina è utile anche pr© t·© kat· filosof›an âpist‹ma©, in rapporto alle scienze filosofiche, intendendo con ciò le singole scienze, ciascuna delle quali è relativa a un determinato genere di realtà (cfr. Anal. Post., I, 28; Anal. Prior., I, 30, 46 a 17-23; Metaph., 17

Esemplare in proposito l’esegesi di Wieland 1958, p. 86.

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III, 2, 997 a 18-22; 28-30) e nelle sue dimostrazioni muove da principi propri (cfr. Anal. Post., 71 b 23; 72 a 6; De Gen. Anim., II, 8, 747 b 30; 748 a 8; Magna Moralia, I, 1, 1183 b 1), vale a dire da principi validi per quel determinato genere soltanto, assunti in funzione di premessa minore (cfr. Anal. Post., I, 9, 76 a 4-15). Ond’è che i lfigoi che si caratterizzano per non essere di questo tipo, quali per l’appunto i lfigoi âxwteriko›, presentati in antitesi ai lfigoi kat· filosof›an, saranno lfigoi che trattano di questioni filosofiche generali, ossia non limitate a un preciso ambito dell’esistente, e che, di conseguenza, pongono in atto procedimenti idonei a una materia così ampia (giacché una trattazione «quanto più è universale, tanto più è distante dai principi propri» [De Gen. Anim., II, 8, 847 a 28-]), vale a dire procedimenti non-dimostrativi, ma dialettici.18 18 «Il termine filosof›a – ha scritto Berti (1977, p. 67) in riferimento all’espressione oî lfigoi kat· filosof›an – non indica quella che noi chiamiamo filosofia, ossia il complesso delle dottrine autentiche, rigorose, di Aristotele, bensì ha lo stesso significato che nell’espressione kat· filosof›an âpist‹mai di Top., I, 2, 101 a 3, dove si allude, come appare dal seguito, alle scienze particolari, quelle che muovono da principi propri (101 a 37-38) e procedono dimostrativamente, rimanendo, come risulta dagli Analitici Posteriori, sempre all’interno di un unico genere (An. Post., I, 7, 75 b 8-14). Di conseguenza i lfigoi kat· filosof›an sono le opere in cui vengono esposte singole scienze particolari, che vertono su un determinato oggetto o genere, mentre i lfigoi âxwteriko› sono trattazioni esterne rispetto a questo genere di scienze, perché non hanno per oggetto un genere determinato, ma si occupano di questioni più generali». Parallelamente Laurenti, sempre in riferimento a filosof›a che compare nell’espressione aî kat· filosof›an âpist‹mai, che anch’egli mette in rapporto con quella di Eth. eud., I, 8, 1217 b 18 oî kat· filosof›an lfigoi, fa presente che essa «non ha un senso diverso da âpist‹mh, per cui l’espressione significa “le scienze propriamente dette”, cioè le scienze vere e proprie. Ciascuna di esse ha principi propri, oåkeÖai àrca› [...] Quindi i logoi kat· filosof›an saranno i logoi che attengono alla considerazione delle diverse scienze in funzione dei loro propri principi, e cioè dei principi particolari, per cui i logoi che a questi si oppongono saranno al di là, esterni, rispetto ad essi, dal momento che non prendono in esame un genere preciso, ma questioni più generali. È chiaro che ta-

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Per parte nostra, nell’appropriarci di queste basilari osservazioni, vorremmo sottolineare come il carattere dialettico dei lfigoi âxwteriko› non costituisca affatto un segno d’inferiorità delle relative trattazioni rispetto a quelle delle scienze: nella misura in cui non si può dire – e oggigiorno meno che mai, dopo la rivalutazione della dialettica aristotelica e il suo riscatto dal pesante giudizio di logica minoritaria, cui l’aveva relegata una lunga tradizione – che questa disciplina, per il fatto di avere carattere peirastico ed exetastico, ossia in ultima analisi critico, è inferiore all’analitica, che è invece dimostrativa: giacché, (a) sotto il profilo strettamente formale, i sillogismi dialettici non sono meno rigorosi di quelli dimostrativi, gli uni e gli altri strutturandosi nel rispetto delle regole definite dagli Analitici primi, pena il tradursi in paralogismi, e, (b) dal punto di vista epistemologico, il fatto che essi procedano da premesse che sono öndoxa e non proposizioni vere per sé, che siano accordate dall’interlocutore e non evidenti in se stesse e che perciò corrispondano indifferente all’una o all’altra parte della contraddizione e non necessariamente a una o all’altra, nulla influisce sulla certezza che le conclusioni di tali sillogismi producono, essendo gli öndoxa agli occhi dell’uditorio, che idealmente funge da arbitro della discussione, nel cui ambito la dialettica si ambienta come nel suo luogo proprio, altrettanto indubitabili quanto per la scienza sono indefettibili i principi. E ove l’uditorio sia idealmente costituito dalla comunità dei filosofi e la discussione verta intorno alle loro tesi, è chiaro che la dialettica, nell’atto stesso di essere valutativa e critica in merito a queste, ha, in ordine a queste stesse, capacità anche probante: certo, non secondo le procedure della dimostrazione scientifica (la dimostrazione proli scritti potevano avere un carattere meno tecnico, un procedimento non dimostrativo ma dialettico, uno stile da dialogo, non da trattato» (Laurenti 1987, I, pp. 79-80).

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priamente intesa), ma secondo altre procedure che specificano altrettante valenze del dimostrare, giacché anche quest’operazione si dice in più sensi, come esemplarmente appare da Eth. nic., VII, 1, 1145 b 2-7, ove si fa presente che se si risolveranno le difficoltà presentate da una tesi e al tempo stesso si lasceranno sussistere gli öndoxa, di quella tesi si sarà data una sufficiente dimostrazione (dedeigm¤non Èn e¢h îkaná©), e come appare dal fatto che persino gli entimemi, ossia i sillogismi retorici, che, in quanto tali, sono in tutto e per tutto strutturati secondo le modalità dei sillogismi dialettici (in nulla influendo non solo in rapporto all’aspetto logico e formale, ma neppure in rapporto all’aspetto epistemologico il fatto di poter tacere la premessa nota a tutti, giacché si tratta soltanto di non pronunciarla, ossia di darla per scontata e, dunque, di riconoscerne il darsi nella costruzione degli entimemi stessi), sono espressamente detti essere «una sorta di dimostrazione (àpfideixi© ti©)» (Rh., 1355 a 5). Mette conto di porre altresì l’accento sul fatto che gli âxwteriko‰ lfigoi, nella misura in cui trattano di questioni filosofiche di ordine generale e carattere complessivo le quali, come s’è detto, non possono soggiacere al metodo delle dimostrazioni operate dalle singole scienze, e in rapporto a esse pongono in atto quei procedimenti della dialettica che sono gli unici a potersi impiegare a loro riguardo, attuano con ciò stesso, in ordine a tali questioni, il massimo rigore richiesto dalla materia. La concomitanza del metodo dialettico usato negli âxwteriko‰ lfigoi e nei dialoghi è elemento che avvalora quelle testimonianze (nn. 19, 27, 28) che attestano la coincidenza degli scritti indicati con tali denominazioni. La avvalorano nel senso che vi si deve vedere espressa l’informazione, da accogliersi come corretta e pertinente, che non si tratta di due differenti tipi di scritti, anche se ciò non autorizza affatto ad asserire che i dialoghi

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esauriscono gli âxwteriko‰ lfigoi o viceversa, ossia che tra gli scritti così indicati vi è perfetta sovrapposizione. Anzi, gli studiosi più autorevoli e attenti di questa terza linea esegetica hanno specificamente mostrato, sulla base di solide e convincenti prove testuali, che gli âxwteriko‰ lfigoi comprendono un numero di opere aristoteliche maggiore dei dialoghi. Berti (1977, p. 68) ha sottolineato a questo proposito come tra i primi vada senz’altro annoverato anche il Protrettico, uno scritto giovanile nel quale Aristotele tratta di questioni filosofiche generali e che non ha forma dialogica. Dal canto suo, Laurenti (1987, p. 80) ha fissato l’attenzione su Metaph., XIII, 1, 1076 a 26-29, dove si menzionano gli âxwteriko‰ lfigoi con un’allusione che sembra certamente riferibile al De ideis, scritto che non è un dialogo. Così lo studioso ha potuto concludere che «tra gli scritti a cui i logoi essoterici rimandano se ne trovano alcuni che non sono dialoghi», ossia che «logoi essotericoi» ha un’estensione maggiore di dialoghi», in quanto il denotato di quell’espressione è una serie di scritti «che potevano essere dialoghi, ma non erano solo dialoghi», ossia che soltanto «taluni di tali logoi erano dialoghi». Per parte nostra vorremmo osservare che, se è plausibile e corretto assumere «dialoghi» in quella valenza ampia di opere pubblicate dall’andamento dialogico-dialettico che abbiamo cercato di documentare, quella valenza, cioè, per la quale anche uno scritto come il Protrettico deve considerarsi un dialogo, come effettivamente lo ritiene il Ross, che lo annovera tra questo genere di scritti, allora è anche possibile sostenere che tutti i dialoghi sono âxwteriko‰ lfigoi e che, oltre ai dialoghi, negli âxwteriko‰ lfigoi si comprendono pure quegli scritti del periodo accademico dello Stagirita nei quali sono a tema problemi filosofici di portata generale, scritti che Ross, fissando l’attenzione, a proposito di alcuni, sulla specifica pertinenza tematica e, per altri, sul loro marcato impegno fi-

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losofico, ha raggruppato sotto le generali intitolazioni di opere logiche e opere filosofiche. A questa conclusione, con Berti se ne deve aggiungere un’altra. In effetti, âxwteriko‰ lfigoi non può assumersi come sinonimo di opere pubblicate, per designare le quali lo Stagirita aveva a disposizione ed ha effettivamente impiegato altre espressioni, a partire da lfigoi ândedom¤noi che s’incontra nella test. 3. Ciò permette di affermare che tra gli âxwteriko‰ lfigoi rientrano non soltanto tutti gli scritti pubblicati del periodo accademico, ossia i dialoghi e le opere classificate da Ross come logiche e filosofiche, ma anche altri scritti che non furono mai pubblicati ma che, assieme a quelli editi, costituivano «materiale fissato in modo definitivo, al quale si poteva rinviare per la consultazione»; vi rientravano, dunque, «anche gli ñpomn‹mata o annotazioni di vario genere, messe per iscritto per essere ricordate e usate per l’insegnamento» (Berti 1977, p. 69).

AVVERTENZA

La traduzione dei Frammenti è stata condotta sul testo stabilito da W.D. Ross (Aristotelis, Fragmenta selecta, Oxford, Clarendon Press 1955; reprinted lithographically 1958), che si riproduce a fronte. Quanto alle Testimonianze, a quelle dell’edizione del Ross sono state aggiunte altre comprese nell’edizione italiana di R. Laurenti (Aristotele, I frammenti dei dialoghi, Introduzione, traduzione e commento, vol. I, Napoli, Loffredo 1987, pp. 2-21). Esse sono ben distinguibili perché contrassegnate con un asterisco. Delle une e delle altre si è riprodotto a fronte il testo greco. La successione dei dialoghi è quella stessa adottata nell’edizione critica sopraccitata. Le sigle con le quali si indicano (tra parentesi, dopo il numero del frammento) le altre edizioni e la numerazione in esse dei frammenti sono esse stesse quelle usate da Ross, e precisamente: Rose1 = Rose 1863 Rose2 = Rose 1870 Rose3 = Rose 1886 W = Walzer 1963. Nella redazione dei frammenti del Protrettico e del Sulla filosofia si sono costantemente tenute presenti le edizioni di Düring 1961 (unitamente alla traduzione italiana di Berti 2000, condotta su questa edizione) e di Untersteiner 1963. Si è tenuta presente anche l’edizione dei frammenti di Aristotele curata da Gigon 1987, utile

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quanto mai nel documentare la differenza dai criteri redazionali che mi hanno indotto a seguire l’edizione di Ross (su di essa e sulle perplessità che ha suscitato si vedano gli interventi di T. Dorandi, E. Berti e C. Rossitto in La Nuova edizione dei frammenti di Aristotele, «Elenchos» I, 1989, pp. 193-215).

TESTIMONIANZE1 TESTIMONIA

1 Le testimonianze che recano un asterisco non sono comprese nella raccolta del Ross.

2 Il passo, assieme alle righe immediatamente precedenti (Phys., II, 12, 194 a 27-36), è riportato come fr. 28 del Per‰ filosof›a© negli Aristotelis Fragmenta Selecta di Ross (= fr. 30 negli Aristotelis Dialogorun Fragmenta di R.Walzer). Cfr. infra, p. 651. In De an., II, 4, 415 b 2-3 Aristotele precisa che «“ciò in vista di cui” ha due significati: la “cosa in vista della quale” (t m‚n o˘) e la “persona a favore della quale” (t d‚ Ù ÷ )». Parimenti in Ibid. b 20-21: «“ciò in vista di cui” si dice in due sensi: come la “cosa in vista della quale” (tfi te o˘) e come la “persona a favore della quale” (t ٠÷ )». In linea con questi due luoghi, Metaph., XII, 7, 1072 b 2 (secondo la lezione del Christ, accolta da Jaeger e Ross) precisa che «“ciò in vista di cui” è la “cosa a favore della quale” (tin›) e “la cosa in vista della quale” (tinfi©)». 3 Ossia, in modo simile a quanto ha detto Platone in Timeo, 35 a ss.; 37 a 3 ss., dove – come riferisce Aristotele nelle righe immediatamente precedenti – egli «ammette che l’anima è composta degli elementi. , infatti, che il simile si conosce dal simile e che le cose derivano dai principi». 4 Cfr. fr. 11 (Ross).

1. ARIST., Phys., II, 12, 194 a 35-36: in effetti, in un certo modo anche noi siamo un fine. Ché, il ciò in vista di cui è in due sensi, e lo si è detto nello scritto Sulla filosofia.2 2. ARIST., De an., I, 2, 404 b 18-21: in pari modo3 si sono date definizioni anche nello scritto Sulla filosofia,4 ossia che il vivente in sé deriva dalla stessa idea dell’uno e dalla prima lunghezza, larghezza e profondità, e che le altre cose derivano in maniera simile.5 3. ARIST., Poet., 15, 1454 b 15-18: pertanto, si devono osservare con cura queste cose6 e, inoltre, quelle che cozzano con le sensazioni che di necessità s’accompagnano alla poetica. Ché, spesso è possibile errare anche in rap-

5 Il passo vale come «testimonianza» non soltanto in ordine allo scritto Sulla filosofia, ma anche dell’insegnamento orale di Platone. Esso, infatti, sembra costituire la fonte di quest’affermazione (così hanno inteso gli studiosi della cosiddetta Scuola di Tubinga. Cfr. Gaiser 1968, pp. 49 ss.; Gaiser 1994, pp. 485 ss.; Findley 1994, appendice p. 421). 6 Ossia le regole concernenti i caratteri, nella tragedia (per una puntuale trattazione in proposito mi permetto di rinviare al mio La ragione verisimile. Saggio sulla Poetica di Aristotele, Cosenza, Pellegrini Editore 2001, pp. 187 sgg. e alle pp. 473 ss. dell’Introduzione dell’edizione italiana della Poetica da me curata [Aristotele, Retorica e Poetica, Introduzione, traduzione, note e indici analitici, Torino, UTET 2004]).

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7 Il riferimento è, con alta probabilità, al dialogo Sui poeti (cfr. Bernays 1868, pp. 5 ss.; Lucas 1968, Introd., pp. IX ss.; Gallavotti 1974, p. 95; Pesce 1995, p. 109; Zanatta 2003, p. 423). L’opinione di Rose (1854, p. 130), secondo cui l’espressione «ân toÖ© âkdedom¤noi© lfigoi©» indicherebbe «in superioribus», vale a dire nei precedenti capitoli della Poetica, oggigiorno non trova credito tra gli studiosi. 8 Citato da Aristotele, assieme a Trasimaco e Teodoro, in Soph. El., 183 b 31 ss., in un passo ove lo Stagirita richiama gli inizi della retorica e i primi scrittori di Arti retoriche. Sul punto mi permetto di rinviare all’edizione italiana del trattato aristotelico da me curata (Zanatta 1995, pp. 365 ss.) e all’Introduzione dell’edizione italiana della Retorica curata ancora dallo scrivente (Zanatta 2004, pp. 125 s.). 9 Probabile riferimento allo scritto aristotelico Raccolta delle arti (tecnán sunagwg‹).

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porto a esse. Ma di questi temi si è parlato a sufficienza nelle opere pubblicate.7 4. CIC., De inv., II, 2, 6: e Aristotele, dopo aver ripreso taluni antichi autori di trattati di retorica, fino a cominciare dal primo e dall’inventore, quel famoso Tisia,8 li riportò in un unico luogo e, raccolti con grande cura gli insegnamenti di ciascuno, che indicava per nome, con perspicacia li mise per iscritto e li espose con diligenza.9 E nella soavità e nella concisione del dire superò gli stessi inventori a tal punto che nessuno conosce i loro insegnamenti dai loro libri, ma tutti coloro che vogliono comprendere ciò che essi hanno insegnato, si volgono a costui come a un espositore molto più facile. 5. CIC., De orat., I, 11, 49: e per questo motivo, se Democrito, quel famoso studioso della natura, si espresse in maniera ornata, come si tramanda e a me pare, allora quella materia della quale ha parlato è propria dello studioso della natura, mentre l’ornato delle parole, considerato per se stesso, deve ritenersi proprio dell’oratore. E se Platone parlò in modo divino di argomenti lontanissimi dalle controversie civili, cosa che io concedo, e se parimenti Aristotele, Teofrasto, Carneade negli argomenti dei quali avevano discusso furono eloquenti e soavi nel dire ed ornati, allora quegli argomenti sui quali hanno discusso si collocano in certi altri settori dell’applicazione scientifica, mentre il discorso, preso per se stesso, è proprio di questa sola disciplina di cui parliamo e che esaminiamo.10

10 Ossia della retorica. Cicerone accosta lo stile di Democrito e di Platone anche in Orat., 20, 67, dove afferma che il modo d’esprimersi di entrambi, ancorché non in versi, per il fluire impetuoso e adorno di locuzioni bellissime è da ritenersi più poetico di quello dei poeti comici. Qui, come si legge, assieme a loro indica anche Aristo-

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tele, Teofrasto e Carneade come fautori di uno stile eloquente ed ornato. E va rilevato l’accento posto sullo stile, distinto dal contenuto dottrinale dei loro scritti. Democrito, Platone e Aristotele sono invece accostati da Dionigi di Alicarnasso (cfr. De com. verb., 24, 187) quali massimi scrittori nello stile medio o comune, quello stile, cioè, che si colloca tra la forma austera, nella quale eccellono Eschilo, Pindaro e Tucidide, e la forma fiorita, dove primeggiano Saffo, Euripide e Isocrate. 11 Dunque, l’oratore perfetto deve unire l’abilità di Aristotele di saper sviluppare su ogni argomento le ragioni a favore e contro con quella di Arcesilao di saper discutere di qualsiasi tema. Circa la prima abilità occorre osservare come essa nell’intendimento ciceroniamo appartenga al tempo stesso alla dialettica, proprio per la capacità argomentativa che richiede, la quale è caratteristica peculiare di una tale arte, e alla retorica, per il fatto stesso di connotare il perfetto oratore. Ora, in questo l’Arpinate s’allinea perfettamente alla dottrina dello Stagirita, che indica nel saper «argomentare sillogisticamente le cose contrarie (tànant›a sullog›zesqai)» (Rh., 1355a 34) una prerogativa comune alla dialettica e alla retorica, sottolineando come esse siano le sole arti (t¤cnai) in grado di fare questo (Rh., 1355a 34-35). Si tratta di un’abilità che compete a tal punto anche alla retorica da specificare uno dei suoi quattro usi peculiari, e grazie a essa quest’arte, che ha per oggetto il persuadere, pone «in

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6. CIC., De orat., III, 21, 80: se mai un giorno verrà qualcuno che su ogni argomento sia capace di discorrere a favore e contro, secondo l’uso di Aristotele e, appresi i suoi insegnamenti, in ogni causa esplicasse le ragioni contrarie, o che, alla maniera di Arcesilao e di Carneade, discuta qualsiasi argomento che sia stato proposto, ed uno che a quel metodo aggiunga quest’uso e quest’esercizio del dire, costui sia il vero, il perfetto, il solo oratore.11 7. CIC., Brut., XXXI, 120-121: tanto maggiormente approvo il tuo parere, o Bruto, che hai seguito la scuola di quei filosofi 12 nella cui dottrina e nei cui insegnamenti il metodo della discussione si unisce alla soavità e all’abbondanza del dire; benché quella stessa pratica degli Accademici e dei Peripatetici nella disciplina del dire sia tale che né di per se stessa è in grado di formare l’oratore, né senza di essa l’oratore può essere perfetto. Infatti, come il discorso degli Stoici è più stringato e talvolta più conciso di quanto richiedono le orecchie della gente, così il loro è più prolisso e più ampio di quanto permette la pratica dei processi e del grado di persuadere nelle cose contrarie (tànant›a [...] d‡nasqai pe›qein)» (Rh., 1355a 29-30). Risulta invece non poco strana l’attribuzione della seconda abilità, quella cioè di saper argomentare in merito a qualunque tema, al solo Carneade. In realtà, anche su questo terreno Aristotele campeggia come colui che per primo ha posto espressamente l’accento ed ha specificamente fissato l’attenzione su tale aspetto, rilevandone la comune appartenenza sia alla dialettica che alla retorica. Alla prima, come appare fin dalle parole iniziali dell’opera che tratta di quest’arte, qualificata per l’appunto come m¤qodo© «dalla quale saremo in grado di argomentare su ogni problema proposto» (Top., 100 a 19); e alla seconda, espressamente presentata come «facoltà (d‡nami©) di scorgere ciò che è capace di essere persuasivo in merito a ciascun » (Rh., 1355 b 2526) e che non ha per oggetto «un qualche determinato genere particolare» (Rh., 1355 b 32-34). 12 Ossia dei filosofi dell’Accademia antica.

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13 La testimonianza è chiara: l’espressione dei filosofi accademici e peripatetici è fluente, quella dei filosofi stoici stringata. Né l’una né l’altra da sola è sufficiente a formare l’oratore: quella degli Stoici perché non corrisponde al gusto dell’uditore e quella degli Accademici e dei Peripatetici perché non si confà con quanto è richiesto nei processi, dove è importante seguire specifici filoni tematici e farli ben rimarcare, mentre lo stile abbondante e prolisso tende a disperdere la specificità del tema. Quanto ad Aristotele, non pare necessario supporre che il rilievo sul suo stile pieno di nerbo («nervosior») debba indurre a credere che Cicerone faccia riferimento ai trattati di scuola, giacché alle sue opere essoteriche riconosce uno stile ampio ed elegante (così, sia pur con riserve, Laurenti 1987, I, p. 24, n. 14): anche una forma siffatta può ben essere, al tempo stesso, capace di dare vigore alle argomentazioni («nervosior»), senza contraddizione alcuna. 14 Cfr. la prima parte della testimonianza n. 11 e del fr. 20 del Sulla filosofia.

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foro. In effetti, chi è più abbondante di Platone nel dire? I filosofi sostengono che Giove, se parla in greco, parla così. Chi è più efficace di Aristotele, più soave di Teofrasto?13 8. CIC., Acad. Pr., II, 38, 119: [...] dopo che codesto tuo sapiente stoico ti abbia esposto queste punto per punto, giungerà Aristotele, effondendo l’aureo fiume del suo discorso.14 9. CIC., Top., I, 3: ma la loro oscurità ti ha allontanato da quei libri,15 e quel grande oratore ti ha risposto, come credo, di ignorare le opere di Aristotele. Ché, io non mi meraviglio affatto che un oratore non conosca questo filosofo che è ignorato dagli stessi filosofi, tranne molto pochi. Ed essi sono tanto meno da perdonarsi perché non soltanto dovettero essere attratti da quelle cose che egli espose e trovò, ma anche dal suo dire incredibilmente sia abbondante che soave. 10. CIC., De Fin., V, 5, 12: [...] , poiché vi sono due generi di libri, uno scritto in una forma adatta al pubblico, che chiamavano essoterico (âxwterikfin), e un secondo più rifinito che lasciarono nei trattati, sembra che sul sommo bene non dicano sempre le stesse cose.16

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I Topici di Aristotele. Il riferimento, per quanto concerne le opere di Aristotele «in forma adatta al pubblico», pare essere all’Eudemo e al Protrettico, giacché sono gli scritti nei quali il tema del bene è fatto oggetto di particolare attenzione. Se poi il riferimento ai trattati aristotelici è, come pare, all’Etica nicomachea, il giudizio di Cicerone circa la non identità dei contenuti dottrinali in merito al sommo bene sembra sostanzialmente da condividersi (cfr. Jaeger 1964, pp. 69-132; 306 ss.). Di parere opposto invece Moraux 1951, p. 168. 16

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Si tratta di Antioco di Ascalona (cfr. Acad., II, 43, 132 = fr. 52 Luck) Quest’annotazione concerne lo stile dei dialoghi aristotelici, su cui l’Arpinate si è espresso anche in altre circostanze con identica valutazione. Il rilievo di Reid (1885, pp. 316 a-b), ripreso da Untersteiner (1963, p. 225), secondo cui «aureum» non sarebbe detto con riferimento agli ornamenti stilistici del discorso aristotelico, ma significherebbe «pregiato» in quanto «in De nat. deor., III, 17, 43 Cicerone chiama “aureola” un’orazione che poi definisce “vetustior et horridior” nel Brutus, 83» e perché tale è il significato che aureulus assume in «aureolus libellus» di Acad., II, 135, non è accettabile. I contesti in cui l’aggettivo si scandisce nella valenza semantica indicata dai due studiosi non riguarda affatto il discorso dei dialoghi aristotelici, a proposito del quale l’Arpinate indica in più riprese il carattere ampio, fluente ed elegante. Insomma, non perché «aureus» assume, in Cicerone, anche il valore di «pregiato», in riferimento ai dialoghi aristotelici non può significare una connotazione stilistica – in contrasto con identici apprezzamenti che egli fa a riguardo in altri luoghi. 19 L’assunto è certamente polemico nei confronti del Timeo platonico (cfr. Tusc. disp., I, 28, 70: «si haec [scil., il mondo] nata sunt, ut Platoni videtur, vel si per se fuerunt, ut Aristoteli placet»; sul punto cfr. Bignone 1973, I, p. 231), ma non soltanto verso di esso, bensì anche verso le tesi di Eraclito ed Empedocle (cfr. la nota 119 del Sulla filosofia). 20 Mutus mutationemque: «sembra un tentativo di rendere, nella traduzione, i due sensi di k›nhsi©, moto e cambiamento» (Reid 1885, p. 317 a). 21 Cfr. il fr. 19 del Sulla filosofia. 22 Questa testimonianza è riportata anche come fr. 20 del Sulla filosofia. Cfr. anche la test. n. 8. 18

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11. CIC., Lucullus, 38, 119 (Plasberg): in effetti, dopo che codesto tuo sapiente stoico17 ti avrà esposto punto per punto queste , giungerà Aristotele, effondendo l’aureo fiume del suo discorso,18 per dire che quello folleggia. Ché, il mondo non ha mai avuto origine,19 poiché nessun inizio si ebbe di un’opera così massimamente illustre, essendosi fatto innanzi un nuovo disegno, e in ogni parte esso (scil. il mondo) è stato sistemato in modo tale che nessuna forza possa produrre così grandi movimenti e un mutamento,20 nessuna vecchiaia possa sussistere per il trascorrere dei tempi,21 cosicché questo non perisce mai, venendo meno.22 12. CIC., Fam., I, 9, 23: dunque, ho scritto i tre libri Sull’oratore alla maniera di Aristotele, ossia proprio nel modo che desiderai: in una discussione dialogica.23 13. CIC., Ad Att., IV, 16, 2: ma conosci il genere dei miei dialoghi [...] Questa discussione che ho intrapreso Sullo stato, l’ho affidata alla persona di Africano, di Filo, di Lelio e di Manlio [...] E così, dal momento che faccio uso di prologhi, come Aristotele in quelle che chiama essoteriche (âxwteriko‡©), pensavo di fare qualcosa per non nominarlo senza un motivo:24 cosa che comprendo esserti gradita. Voglia il cielo che possa portare a buon fine quello che ho tentato. 23 Mantengo, sulla scorta delle convincenti argomentazioni di Hirzel 1876, vol. I, p. 276, nota 2, la lezione in disputatione ac dialogo. L’espressione costituisce un’endiadi e indica una discussione dialogica: si tratta di quell’abilità dialettica che Cicerone riconosce ad Aristotele d’aver insegnato e nella quale indica uno dei requisiti dell’oratore forense (assieme al secondo requisito dell’ampiezza e della sonorità dell’eloquio). Per contro, se si adotta la lezione in disputationibis ac dialogo, nelle disputationes bisognerebbe vedere indicati i proemi (cfr. Heitz 1865, p. 16). 24 Il soggetto che Cicerone, in questa lettera scritta ad Attico il 1 luglio 54 a.C., dice di voler nominare in uno dei prologhi del De republi-

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ca, è Varrone, il quale, tramite Attico, gli aveva manifestato il desiderio di fungere da interlocutore in qualche suo dialogo. Di fatto però Varrone non compare nei prologhi del De republica. Compare invece nella seconda redazione (in quattro libri) degli Academica, scritti nel 45 a.C., il cui secondo libro non è più intitolato, come nella prima redazione (in due libri) a L. Licinio Lucullo, ma, per l’appunto, a Varrone, su reiterata richiesta di Attico (il quale, a sua volta, sostituisce in questa seconda redazione Q. Lutezio Catulo nella intitolazione del primo libro). La sostituzione di Lucullo con Varrone è motivata da Cicerone stesso in una lettera a Varrone del 3 o 4 luglio 45 a.C.: egli era stato discepolo di Antioco, e nel dialogo gli fa assumere la difesa delle posizioni di questo filosofo, mentre l’Arpinate riserva a sé quella delle posizioni di Filone. 25 La testimonianza di questo passo ciceroniano verte sul modo in cui nelle opere essoteriche di Aristotele è organizzato il dialogo, modo per il quale era lo Stagirita stesso a prendere le redini, guidando anche gli interventi degli altri interlocutori (ecco il principatus nel sermo ceterorum: «questi “ceteri” parlano» ha scritto in proposito Laurenti 1987, I, p. 63, «ma il loro parlare [...] obbedisce a un filo logico che è regolato dall’“ipse”»). Questo, per l’appunto, il mos aristoteleus. L’Arpinate lo contrappone al modo di costruire il dialogo proprio di Eraclide Pontico, il quale faceva discutere tra loro personaggi antichi e addirittura mitologici. Cicerone dichiara d’aver seguito questo modo nel De republica e nel De oratore, nel primo dei quali scritti intervengono come personaggi maggiori Licinio Crasso (140-91 a.C.) e Antonio (143-87 a.C.), e nel secondo i più nobili appartenenti al circolo degli Scipioni: nell’uno e nell’altro caso personaggi di due ed anche tre generazioni a lui anteriori, con i quali, per evidenti ragioni di concordanza cronologica, egli non avrebbe potuto discutere e, men che meno, guidare il dialo-

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14. CIC., Ad Att., XIII, 19, 3-4: se avessi fatto discutere tra loro Cotta e Varrone, come tu mi consigli nell’ultima lettera, sarei un kwfÂn prfiswpon (un personaggio muto); questo è piacevole che capiti in personaggi antichi, come abbiamo fatto sia Eraclide, in molte , sia io, nei sei libri Sullo stato. Mi sono decisamente piaciuti anche i miei tre Sull’oratore: anche in questi vi sono quei personaggi, cosicché avrei dovuto tacere [...] ma qui il discorso è introdotto quand’ero un ragazzo, cosicché non avrei potuto avere alcuna parte. Invece quei che ho scritto in questi tempi, hanno il carattere dell’opera aristotelica, e in essa il discorso degli altri è introdotto in modo che quasi sia lui stesso a guidarlo. Ho composto in questa maniera i cinque libri Sul sommo bene.25 15. CIC., Ad Quint. Fratr., III, 5, 1: quando nel Tusculano mi leggevano questi libri,26 Sallustio, mentre27 ascoltava,

go. Avrebbe altresì taciuto, limitando la sua presenza alla mera comparsa di un «personaggio muto» anche se, come Attico gli aveva chiesto, preoccupato com’era per Varrone (cfr. la nota precedente), nella prima redazione degli Academica avesse presentato come interlocutori Varrone stesso e Cotta. Qui le concordanze cronologiche avrebbero sì permesso una discussione di Cicerone con i due illustri interlocutori, essendo Varrone (nato nel 116 a.C.) morto novantenne nel 27 a.C. e Cotta (nato nel 124 a.C.) morto nel 74 a.C., anno in cui l’Arpinate aveva 32 anni e, dunque, poteva ben intraprendere una discussione filosofica. Ma non l’avrebbe intrapresa secondo il mos aristoteleus, come invece intendeva fare, giacché la sua età giovanile non gli avrebbe permesso di far valere il suo punto di vista di fronte a quegli anziani e illustri interlocutori: sarebbe stata una sconvenienza. Cicerone assume dunque il mos aristoteleus e guida egli stesso la discussione negli Academica e nel De finibus – indicato come per‰ telán, che è titolo comune a più opere stoiche (cfr. Diog. Laert., VII, 175, 202 ecc.), perché la dottrina del t¤lo© riveste primaria importanza nella riflessione etica, e nel De finibus è a tema il sommo bene. 26 Si tratta del De republica. 27 È uno dei più stretti sodali di Cicerone, che nelle sue lettere lo ricorda più volte.

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28 Questa testimonianza compare anche come fr. 1 del Politico. Ritorna ancora il tema della guida del dialogo da parte di Aristotele quale caratteristica peculiare dei suoi scritti essoterici (cfr. la nota 25) e, nel caso di specie, del Politico stesso. Qui, come si vede, Cicerone ascrive anche a sé questa possibilità nel discutere sullo stato, in virtù della sua autorevolezza quale consolare. È infine da notare la contrapposizione, anche qui, come nella precedente testimonianza, tra il modo del dialogo aristotelico e di Eraclide Pontico. 29 Tale propriamente il significato di inventio, nella quale, assieme alla dispositio, all’elocutio, alla memoria e alla pronunciatio ovvero alla actio, Quintiliano indica una delle parti in cui si articola il dire oratorio (omnis orandi ratio) (cfr. Quint., Inst., 3, 3, 1, riportato anche come fr. 1, p. 3, 2-5 M. delle opere di Ermagora. Si veda anche l’edizione italiana da me curata, Ermagora. Testimonianze e frammenti, Milano, Unicopli 2001) e che Cicerone additava come princeps omium partium (De inv., I, 9), ovvero come prima ac maxima pars rhetoricae (Ivi, II, 178). L’autore delle Retorica ad Herennium (I, 2, p. 2 Marx.) così definisce l’inventio: «excogitatio rerum variuarum aut verisimilium, quae causam probabilem reddant». Si tratta, cioè, della capacità di trovare gli argomenti a favore o contro una tesi: veri o verisimili. Tutte le virtù che Quintiliano attribuisce qui allo Stagirita sono relative ai suoi scritti essoterici, e tutte concorrono a scandire la grandezza oratoria di questi scritti agli occhi del maestro latino di eloquenza.

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mi richiamò sul fatto che di quegli argomenti avrei potuto parlare con un’autorevolezza molto maggiore se fossi io stesso a parlare dello stato, soprattutto perché non sono un Eraclide Pontico, ma un consolare, ossia colui che in materia di stato è addentrato nelle questioni supreme. E mi sembrò che le cose che attribuirei a uomini tanto antichi fossero state costruite [....] infine che fu lo stesso Aristotele a proferire le cose che scriveva sullo stato e sull’uomo che lo governa.28 16. QUINT. Inst. Or., X, 1, 83: e che dire di Aristotele? Su di lui sono in dubbio se debba ritenerlo più famoso per la conoscenza delle cose o per l’abbondanza di quello che ha scritto o per la forza e la soavità del dire o per l’acume del trovare gli argomenti29 o per la varietà delle opere. 17. DIO CHR., Or., LIII, 1: in realtà, pure Aristotele stesso, dal quale sostengono che abbiano preso inizio l’arte del valutare e dell’interpretare,30 in molti dialoghi discorre del poeta, per lo più ammirandolo e onorandolo. 18. PLUT., Mor. (De virt. mor.), 447 f – 448 a: giacché per quale motivo nelle ricerche filosofiche non avviene che con dolore si sia guidati da altri e si muti spesso opinione; ed anzi lo stesso Aristotele e Democrito e Crisippo abbandonarono senza frastuono, senz’affanni e con piacere talune delle cose che in precedenza essi approvavano.31 30 Il passo compare anche come testimonianza n. 3 del Sui poeti, al quale scritto pare innanzitutto rivolto il riferimento ai «molti dialoghi». Come ben si evince dal contesto dell’orazione Su Omero di Dione, dalla quale il passo è tratto, la grammatik‹ non è qui l’arte del grammatist‹©, ossia di colui che insegna a leggere e scrivere, ma del grammatikfi©, vale a dire di colui che interpreta ed è affine, dunque, al kritikfi©, colui che valuta l’opera letteraria e poetica. 31 Il passo si inserisce in un contesto dove è a tema il «ragionamento senza passione» (àpaq„© logismfi©), che Plutarco afferma avere funzione di guida e, se ascoltato, condurre alla giustizia, mentre il

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p¿qo© chiama in causa la parte dell’anima che è attenta al piacere e alla sofferenza e, dunque, contrasta con esso. A esempio di coloro che seguirono il primo ragionamento, Plutarco addita, assieme a Democrito e Crisippo, anche Aristotele, del quale testimonia che rifiutò la tripartizione dell’anima in razionale (logikfin), irascibile (qumo‡menon) e concupiscibile (âpiqumoÜn) per assumere una divisione in due parti: una razionale (logikfin) e una concupiscipile (âpiqumoÜn, t âpiqumhtikfin), a quest’ultima ascrivendo anche quella irascibile (qumo‡menon, t qumoeid¤©) «dal momento che la collera, qumfi©, è desiderio di restituire dolore per dolore» (442 b). 32 È interessante il modo in cui Plutarco designa queste diverse opere. Chiamando ñpomn‹mata i trattati, riconosce il loro originario carattere di appunti per le lezioni, mentre – come fa rilevare Laurenti 1987, I, p. 29, nota 36 – usando di¿ e il genitivo a proposito delle opere essoteriche, ossia una costruzione che esprime transito, manifesta di intendere questi scritti come una sorta di «tramite mediante il quale Aristotele raggiunge il suo fine». Jannone 1959, sulla scorta del rilievo di Düring (1957, p. 325) che l’uso di di¿ per citare libri è di epoca ellenistica, nega che il riferimento sia al Sulla filosofia, ma la tesi – e lo stesso rilievo di Düring – sono stati respinti con convincenti ragioni da Untersteiner 1967, p. 139. 33 Il passo è riportato anche come fr. 10/b del Sulla filosofia. È abbastanza ovvio che, agli occhi del platonico Plutarco, la critica di Aristotele della dottrina delle idee sembri dettata più da spirito polemico che da motivazioni scientifiche e perfino, stando alle ultime afferma-

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19. PLUT., Mor. (Adv. Colotem), 1115 b-c: ad alcuni sembrò che Aristotele, stravolgendo da ogni parte le idee, in merito alle quali rimprovera Platone, e introducendo in esse ogni difficoltà, nei trattati di etica, in quelli di fisica, nel corso dei dialoghi essoterici,32 si rapporti a questa dottrina in un modo dettato più da amore per la contesa che da amore per la sapienza, come se si fosse proposto di disdegnare la filosofia di Platone. Così distante era dal seguirla.33 20. DIOG. OEN., fr. 4, coll. 1,7-2,8: in effetti, quando affermano che le cose sono incomprensibili, che cos’altro dicono se non che noi non dobbiamo indagare la natura? Chi, infatti, sceglierà di cercare cose che non troverà mai? Pertanto Aristotele e coloro che entrano nello stesso Peripato di Aristotele affermano che niente può essere oggetto di conoscenza indefettibile, giacché le cose scorrono sempre e a causa della velocità dello scorrimento sfuggono alla nostra comprensione.34 zioni, da rivalsa personale. È comunque da rilevare come nella testimonianza plutarchea tale critica sia indicata percorrere interamente il pensiero dello Stagirita, senza ipotizzare alcun momento di esso nel quale egli avrebbe aderito a tale dottrina. 34 Il passo (che è stato variamente interpretato, in diretto rapporto, con il fatto di condividere o meno il punto di vista genetico) enuncia una critica dell’epicureo Diogene di Enoanda ad Aristotele. Essa intende colpire la distinzione aristotelica tra gli universali e gli individui, e il problema esegetico di fondo è decidere se, come ha sostenuto Bignone (1973, I, pp. 56 ss.), Diogene conoscesse soltanto le posizioni della dossografia, le quali riferivano unicamente le tesi (antiplatoniche) dei trattati aristotelici di scuola, ignorando l’iniziale adesione dello Stagirita alla dottrina platonica delle idee e dell’immortalità dell’anima individuale, oppure se – abbia Aristotele nelle opere essoteriche aderito o no al platonismo – Diogene formulò la sua critica nel quadro delle obiezioni che Aristotele mosse alle idee platoniche nelle stesse opere essoteriche. Nell’esegesi che qui proponiamo, questa seconda posizione sembra permettere una più adeguata ricostruzione storica e una più salda consistenza teorica della critica. La quale dai termini stessi in cui è presentata pare doversi inquadrare nella pole-

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mica antiplatonica dello Stagirita, per cui gli universali sono le idee, delle quali si sottolinea il carattere di stabilità e immutabilità rispetto alla mutevolezza della «natura», ossia della realtà empirica, costituita per l’appunto di cose individuali. La critica rivolge allora contro Aristotele ciò che, criticando Platone, questi aveva affermato, per esempio, nel fr. 2 del Sulle idee, ossia che «le cose individuali mutano e non rimangono mai nello stesso modo, mentre quelle universali sono immutabili ed eterne». Ebbene, dice Diogene, se le cose individuali sono soggette a perenne mutamento, di esse non può esserci sapere incontrovertibile (âpist‹mh). Dunque, la «natura» per Aristotele e coloro che ne condividono le posizioni è inconoscibile. Si rilevi come nel formulare tale critica Diogene riprenda l’argomento che, nella ricostruzione aristotelica, corrisponde alla prova dell’esistenza delle idee derivata dalle scienze, ma usandola, per l’appunto, contro lo Stagirita e, in particolare, contro la sua opposizione alle stesse idee platoniche. 35 Il passo, che si trova in Eusebio, è tramandato da Numenio, per‰ tÉ© tán àkadhmikán pr© Pl¿twna diast¿sew©. Cefisodoro fu il discepolo più brillante di Isocrate, divenuto poi a sua volta maestro di retorica. Dionigi di Alicarnasso (63 b Düring) dice di lui, con ammirazione, che criticò Platone «non ridicolizzandolo per invidia e ostilità, ma cercando il vero». Prese le difese di Isocrate, scrivendo quattro libri contro Aristotele, il quale, facendosi paladino del programma educativo dell’Accademia, basato sulla filosofia, attaccava quello della scuola isocratea, basato invece sulla retorica. Questa circostanza è stata diversamente giudicata dagli studiosi, e il punto di discrimine delle loro esegesi è fondamentalmente l’accettazione o meno del punto di vista genetico. Chi l’accoglie, ritiene che egli conosceva bene le opere dialogiche di Aristotele, contro le quali, e la filosofia ancora platonizzante che esse propugnavano, erano per l’appunto rivolti i quattro li-

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21. EUS., Praep. Evang., XIV, 6, 9-10: del retore Cefisodoro [...] Ebbene, questo Cefisodoro,35 poiché trovò che il suo maestro Isocrate era criticato da Aristotele, e non aveva conosciuto ed era inesperto dello stesso Aristotele, e poiché vedeva che le dottrine di Platone erano famose, ritenendo che Aristotele facesse filosofia nel solco di Platone, polemizzava con Aristotele ma colpiva Platone, e gli muoveva accuse incominciando dalle idee e finendo in altre che egli neppure conosceva, ma supponendo quello che si vociferava di esse in quanto se ne parlava. Tranne che lo stesso Cefisodoro, non combattendo colui con il quale polemizzava, combatteva colui con il quale non voleva polemizzare. 22. THEM., Orat., 319 c: e in realtà, tra gli scritti di Aribri (Jaeger 1964, pp. 47-48). Ma Numenio, che le ignorava, scomparse com’erano ormai ai suoi tempi, e di Aristotele non conosceva che alcuni dei trattati (antiplatonici) di scuola, ritenne che Cefisodoro si fosse sbagliato. Ma erroneamente, e la testimonianza comprova che lo Stagirita aderì alla filosofia di Platone (Bignone 1973, I, pp. 58 ss.). Cefisodoro avrebbe scritto i quattro libri dopo la morte di Isocrate. Chi invece, come Düring 1957, pp. 389-390, è critico verso il punto di vista genetico, annette sostanzialmente attendibilità a questa testimonianza di Numenio: Cefisodoro ebbe una conoscenza approssimativa della filosofia di Aristotele, sulla quale, come attesta la penultima frase del passo (« che neppure conosceva, ma supponendo quello che si vociferava di esse in quanto se ne parlava»), si espresse solo per sentito dire. Isocrate non ritenne opportuno rispondere di persona alle critiche che gli muoveva lo Stagirita e affidò il compito al discepolo. Questi attaccò Aristotele, ma in realtà colpì Platone, credendo erroneamente che fosse un seguace della filosofia platonica e, in particolare, un sostenitore delle idee. Dal canto suo, Laurenti 1987, I, pp. 431 ss. da un lato, con Düring, data l’attacco di Cefisodoro al tempo in cui Isocrate era ancora in vita e in ogni caso anteriormente al 360 a.C., anno della pubblicazione del De ideis, apparso il quale egli non avrebbe potuto più credere che le posizioni dello Stagirita si allineavano a quelle di Platone; dall’altro ritiene che i quattro libri non furono diretti contro Aristotele, ma che Cefisodoro, a partire dall’occasione di rintuzzare «una provocazione, si sentiva autorizzato ad ampliare il problema, inquadrandolo nel complesso della dottrina dell’Accademia».

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36 Nell’orazione n. 26, da cui è tratto questo passo, Temistio traccia un quadro di ciò che di nuovo ogni filosofo ha espresso rispetto ai predecessori. La novità di Aristotele è di aver distinto la materia filosofica in tre grandi ambiti: uno logico, uno fisico-matematico e un terzo etico-politico e di aver organizzato i suoi scritti in rapporto alla loro destinazione: redigendo in uno stile ampio ed elegante quelli rivolti al gran pubblico e in uno stile oscuro e difficile, perché mirante fondamentalmente alla precisione concettuale, quelli composti per gli allievi della scuola. 37 Quest’osservazione di Basilio circa l’immediato venire all’argomento da parte di Aristotele e Teofrasto nei loro dialoghi e il nesso tra quest’aspetto e la mancanza di grazia del loro modo di scrivere, di contro all’eleganza dello stile di Platone, è stata per lo più intesa come se Basilio volesse rilevare che i dialoghi aristotelici e teofrastei mancano del prologo, parte che concorre ad abbellire la forma letteraria dello scritto, mentre essa è presente nei dialoghi platonici. Da qui le riserve su questo giudizio, in netto contrasto con la testimonianza di Cic., Ad Att., IV, 16, 2 (= test. 13) e altre circostanze (prima tra tutte il rilievo di Luciano, De conscr. hist., 23 secondo cui anche certe opere che a tutta prima sembrano non avere un prologo, in realtà lo possiedono) attestanti inequivocabilmente il contrario. Ma, forse, tra le ipotesi che gli studiosi hanno avanzato per cercare di comporre un tale dissidio (cfr. Laurenti 1987, I, pp. 30-31, nota 45) può annoverarsi anche quella per cui con l’annotazione in oggetto Basilio non intese affatto riferirsi alla

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stotele, quelli utili al popolo e preparati per la massa sono pieni di luce e trasparenti, e la loro utilità non è affatto sgraziata e spiacevole, ma vi si sparge sopra Afrodite e fioriscono le grazie.36 23. BASIL., Epist., 135 [a. 373], p. 226 c: e tra i filosofi pagani, quelli che scrissero i dialoghi, ossia Aristotele e Teofrasto, si applicarono subito ai loro temi, giacché erano consapevoli che mancavano loro le grazie di Platone.37 24. AMM., In Arist. Cat. [C.A.G. VII], 6, 25 – 7, 4: e sosteniamo che il filosofo dà chiaramente a vedere di esprimersi in modo diverso: giacché nelle opere acroamatiche è, per quanto riguarda i contenuti di pensiero, denso, stringato e problematico, mentre per quanto riguarda l’espressione è essenziale, a motivo della ricerca della verità e della chiarezza, e talora pone egli stesso il vocabolo, quando ve ne sia bisogno. Invece nelle opere dialogiche, che egli ha scritto per un pubblico vasto, si preoccupa di una certa ampiezza e accuratezza delle espressioni e della metafora, e conforma la specie dell’espresmancanza del prologo, ma, più semplicemente, alla mancanza nei dialoghi di Aristotele e Teofrasto e persino nei loro prologhi di rilievi, annotazioni, interventi che, di per sé non essenziali all’argomento, concorrono però ad ammantare la forma di eleganza letteraria e l’espressione di incisività e pregnanza icastica, come, per esempio, la descrizione dello stuolo di sofisti che ossequiosamente accompagna Gorgia nel suo camminare avanti e indietro nel cortile della casa di Callia, nell’omonimo dialogo platonico. Un’osservazione che, formulata in questi termini, mi pare congruente con i caratteri letterari che la lettera di Basilio da cui è tratta la testimonianza pone in luce, in relazione allo stile dei due libri che Basilio aveva ricevuto in dono da Diodoro, prete di Antiochia, a ringraziamento dei quali scrisse questa lettera stessa. Uno dei libri, infatti, era redatto in una forma essenziale e scarna, consona all’intento cristiano di non esaltare se stessi, l’altro invece in una forma ampia e fluente e con ricchezza di figure, particolarmente adatta al genere dialogico.

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38 Si tenga presente la classificazione complessiva delle opere di Aristotele proposta da Ammonio, entro la quale si colloca la distinzione tra gli scritti acroamatici e i dialoghi. Classificazione che può essere così schematicamente rappresentata: 1. opere particolari (merik¿) 2. opere intermedie (metax‡) 3. opere di carattere generale (kaqfilou) 3.1 in forma di appunti (ñpomnhmatik¿) 3.2 in forma di trattati (suntagmatik¿) 3.2.1 dialoghi = opere essoteriche 3.2.2 opere in prima persona (aétoprfiswpa) = acroamatiche 3.2.2.1 opere teoretiche (qewrhtik¿): teologiche, matematiche e fisiologiche 3.2.2.2 opere pratiche: etiche, politiche ed economiche 3.2.2.3 opere organiche (μrganik¿): l’Organon. Nel passo qui a tema, Ammonio distingue dunque, entro i trattati (t· suntagmatik¿), vale a dire quegli scritti che elaborano la materia in modo da conferirle un carattere organico e sistematico, le opere «in prima persona (aétoprfiswpa)» dette anche acroamatiche, e i dialoghi. Come si vede, la distinzione riguarda sia lo stile – stringato ed essenziale nelle prime, più ampio e accurato nei secondi, fino al punto di conformarsi all’espressione del volto di chi parla – sia l’elaborazione dei contenuti teorici, i quali, pur essendo costituiti dalla medesima materia e concernendo le medesime questioni (così, infatti, sembra doversi dedurre dal passo), sono tuttavia presentati in modo rigoroso e problematico nelle opere acroamatiche, in modo divulgativo nei dialoghi. 39 Si tratta di Alessandro d’Afrodisia.

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sione ai volti di coloro che parlano e, in generale, tutto ciò che sa che abbellisce la forma del discorso.38 25. SIMPL. In Arist. Cat. [C.A.G. VIII], p. 4, 14: tra le opere generali, alcune sono in forma di appunti: tutte quelle che il filosofo ha composto per una memoria personale e un maggiore esame [...] 19-22: tuttavia Alessandro39 sostiene che le opere in forma di appunti e sono costituite di parti messe assieme e non si riferiscono a un unico scopo. Perciò, anche in contrapposizione a queste, le altre opere sono dette sintagmatiche. E tra le opere sintagmatiche, alcune sono dialogiche, altre invece in prima persona.40 26. SIMPL., In Arist. De cael. [C.A.G. VII], pp. 228, 31-289, 2: chiama argomentazioni filosofiche41 destinate al pubblico quelle che propone ai più, ordinatamente a partire 40 Simplicio, il discepolo di Ammonio, presenta la stessa classificazione degli scritti aristotelici operata dal maestro (cfr. la nota 38), e sulla base dei medesimi criteri: stilistici e di organizzazione dei contenuti. Interessante l’annotazione di Alessandro d’Afrodisia secondo cui le opere in forma d’appunti, essendo costituite di «parti messe assieme», ossia di appunti presi in occasioni diverse, promemoria di ricerche operate in tempi diversi, mettono in luce differenti finalità in vista delle quali la materia è stata indagata. Pare doversi dedurre che l’unità di questi scritti è garantita dalla materia trattata, ossia dall’oggetto d’indagine, al quale però sono state poste di volta in volta domande diverse, sicché la trattazione stessa di quella materia evidenzia fini diversi. Non si tratta certamente di un difetto, ma dell’attestazione della ricchezza delle indagini compiute, espressamente caratterizzate dalla pluralità dei punti di partenza dai quali esse sono state condotte. 41 Il fatto che queste argomentazioni siano dette «filosofemi» (filosof‹mata), i quali, com’è specificato in Top., 162 a 12-18, sono sillogismi apodittici, ossia dimostrazioni scientifiche, documenta assai esaurientemente che anche le opere dialogiche o essoteriche trattavano di questioni costituenti l’oggetto di scienza e che, come tali, formavano la materia dei trattati di scuola, differendo da questi, dunque, non già per il contenuto, che era lo stesso, bensì per il modo di trattarlo, vale a dire per il metodo, nonché per la forma espositiva con cui veniva presentato e svolto. Questo rilievo ci permette di co-

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gliere (alla fine del passo) l’esatta valenza semantica di «t· spoudaifitera», espressione che non significa «opere di argomento più impegnativo», bensì «opere in forma più impegnativa». L’identità di contenuto tra i due tipi di scritti è peraltro attestata in modo lampante dalle parole che immediatamente precedono il passo qui a tema. In esse Alessandro fa presente che lo stesso Aristotele sostiene che l’eternità del divino è testimoniata nelle stesse dimostrazioni filosofiche destinate al pubblico («che il divino sia eterno, dice , testimoniano anche le argomentazioni filosofiche destinate al pubblico, le quali in molte occasioni appaiono tra i suoi scritti»). Ora, l’eternità e, in generale, la natura del divino, e specificamente dei motori immobili, è materia dell’ultimo libro della Fisica e del libro XII della Metafisica (in particolare del cap. 7), ossia di opere acroamatiche. Donde, la pertinenza di quanto si è detto. Si veda anche la nota successiva. Quanto alla classificazione degli scritti aristotelici, i criteri e lo schema complessivo sono quelli già richiamati alla nota 38. 42 È da rilevare questa specifica puntualizzazione di Elias: l’opposizione tra i due tipi di scritti sintagmatici riguarda il modo di trattare la materia: in prima persona o in forma dialogica, non il contenuto. 43 Si tratta sempre di Alessandro di Afrodisia. 44 Occorre cogliere l’esatto significato di quest’ultimo rilievo. Con

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dall’inizio, argomentazioni filosofiche che noi siamo soliti chiamare anche essoteriche, come pure chiamiamo acroamatiche e sintagmatiche quelle in forma più impegnativa. 27. ELIAS, In Arist. Cat., 114, 15 (Busse): delle opere sintagmatiche, alcune sono in prima persona, quelle che sono dette anche acroamatiche, altre invece sono dialogiche, quelle che sono dette anche essoteriche. E in quanto in prima persona, si oppongono a quelle dialogiche, e in quanto acroamatiche si oppongono a quelle essoteriche.42 Ché, volendo essere utile a tutti gli uomini, Aristotele scrisse in persona propria anche per coloro che si dedicavano [...] 22: ma scrisse anche per coloro che non si dedicano alla filosofia: le opere dialogiche. E nelle opere acroamatiche, poiché discute con uomini che si accingono a filosofare, ha fatto uso di argomentazioni necessitanti, mentre in quelle dialogiche di argomentazioni persuasive [...] 115, 3-5: Alessandro43 enuncia anche un’altra differenza delle opere acroamatiche rispetto a quelle dialogiche, ossia che nelle opere acroamatiche egli espone le cose che corrispondono alla sua opinione e le cose vere, mentre in quelle dialogiche le cose che corrispondono alle opinioni altrui, ossia le cose false.44

esso Elias non intende dire che nelle opere dialogiche Aristotele esponeva cose che non corrispondevano al suo pensiero e non riteneva vere, affidando invece il suo pensiero e le verità delle sue indagini alle opere acroamatiche, ma che nelle prime, proprio perché redatte in forma dialogica, e soprattutto dialettica, l’argomentazione delle tesi che intendeva sostenere e che, dunque, riteneva vere e per tali faceva risultare, avveniva mediante la presentazione di tesi diverse dalla sua, messe in bocca a qualcuno degli interlocutori, e la relativa confutazione. Si tratta, insomma, di una puntualizzazione concernente lo stile dialogico e il metodo dialettico, non la natura dei contenuti trattati.

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45 Come si ricava da Laurenti 1987, I, p. 31, nota 51, che riprende a sua volta un’annotazione di Wartelle 1982, pp. 102-103, si tratta di quelle opere dialogiche nelle quali il momento della discussione è particolarmente accentuato. Il rilevo è interessante perché permette di comprendere che non tutte le opere dialogiche avevano carattere dialettico stricto sensu, ponevano cioè in atto i metodi più serrati e radicali della dialettica, rintracciabili innanzitutto nella confutazione della tesi avversaria, nella reductio all’assurdo delle sue posizioni e nell’argomentazione diaporematica, ma alcune si limitavano invece a un confronto critico delle posizioni in campo, con toni più retorici, inclini cioè alla persuasione, e dunque più morbidi di quelli delle stroncature della dialettica propriamente intesa.

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28. ELIAS, In Arist. Cat., 124, 3-6: nelle sue opere generali, in quelle dialogiche, ossia in quelle anche essoteriche, è chiaro, come se discorresse con soggetti estranei alla filosofia, come nelle opere dialettiche45 è articolato nelle imitazioni, pieno di Afrodite46 e colmo di grazie. 29. *ARIST., Pol., III, 6, 1278 b 30-32: ma è facile distinguere i modi del comando di cui si parla, giacché negli scritti essoterici47 sovente abbiamo operato delle distinzioni in merito a essi. 30. *ARIST., Pol., VII, 1, 1323 a 21-23: ebbene, pensando che in merito alla vita eccellente molte cose sono dette negli scritti essoterici,48 anche ora facciamo uso di essi. 31. *ARIST., Eth. nic., I, 13, 1102 a 26-28: intorno alla virtù si sono dette alcune cose in modo soddisfacente anche negli scritti essoterici,49 e di esse bisogna servirsi: quella fondamentale è che dell’anima vi è la parte senza ragione e la parte che possiede la ragione. 32. *ARIST. De an., I, 4, 407 b 27-30: Sull’anima è stata tramandata anche un’altra opinione,50 che per molti51

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Ossia di bellezza formale, quella bellezza di cui Afrodite era la

dea. 47

Probabile riferimento all’Alessandro e al Politico. Il riferimento più probabile è al Protrettico e al Sulla filosofia. 49 Riferimento al Protrettico, fr. 6. 50 Riferimento alla teoria psicologica di Filolao (cfr. D.K. 44 A 23). 51 Si tratta assai probabilmente dei Pitagorici (in proposito cfr. D.K. 44 A 11). 48

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52 Ossia, nei discorsi dialettici, la cui funzione è per l’appunto «peirastica» ed «exetastica», vale a dire esaminativa e critica. Altri (Movia 2001, p. 261) scorge invece nell’espressione un riferimento alle discussioni sull’anima che avevano luogo nell’Accademia e nel Peripato. 53 Probabile riferimento al Protrettico. 54 Ossia, che l’idea del bene è il bene assoluto. 55 L’espressione ân toÖ© kat· filosof›an è parallela a quella secondo cui in Top., I, 2, 101 a 3 si dice che la dialettica è utile pr© t·©

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non è meno persuasiva di nessuna di quelle che abbiamo esposto, e che ha dato conto di sé come a esaminatori, e cioè come si farebbe per i discorsi che si conducono in comune.52 Dicono infatti che l’anima sia una certa armonia. 33. *ARIST., Eth. eud., II, 1, 1218 b 32-34: ora, tutti i beni sono o esterni o nell’anima, e tra essi sono preferibili quelli nell’anima, come distinguiamo anche nei discorsi essoterici.53 34. *ARIST., Eth. eud., I, 8, 1217 b 18-22: ora, il condurre un esame su quest’opinione54 è proprio di una ricerca diversa e per molti aspetti più connessa alla logica, necessariamente (in effetti, i discorsi che sono al tempo stesso distruttivi e comuni non procedono secondo nessun’altra scienza); ma se si deve parlare succintamente di questi argomenti, diciamo innanzitutto che l’esserci un’idea non soltanto del bene, ma anche di qualunque altra cosa, è detto in modo puramente verbale e vuoto. Si è indagato in molti modi su ciò sia negli scritti essoterici che in quelli filosofici.55 35. *ARIST., Eth. nic., VI, 4, 1140 a 1-5: ciò che, invece, può essere altrimenti da quello che è,56 è oggetto tanto

kat· filosof›an âpist‹ma©, ossia in rapporto alle scienze filosofiche. Sulla valenza di tale espressione, soprattutto in riferimento all’individuazione dei lfigoi âxwteriko›, cfr. Introduzione, pp. 30-31. 56 Ma si tenga conto che nell’ambito del contingente sono compresi anche i fatti naturali (cfr. Eth. nic., 1140 a 10-16).

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57 Infatti, (a) il fine della produzione è diverso dalla produzione stessa, laddove l’azione morale è autotelica (essa è fine in senso assoluto, êplá©; cfr. Eth. nic., VI, 2, 1139 b 1-3); (b) l’oggetto della produzione è distinto dal produrre, mentre l’oggetto dell’azione è l’azione stessa. 58 Il riferimento è incerto e ha dato luogo a discussioni tra gli studiosi, connesse alla scansione del tragitto evolutivo del pensiero di Aristotele (cfr. a riguardo Gauthier-Jolif 1970, II, 2, pp. 457 ss.). Non è improbabile, secondo l’indicazione di P. Moreaux (1957, p. 46), che il riferimento sia al dialogo Sulla giustizia. 59 Ritengo che Aristotele non intenda richiamare uno specifico contenuto dottrinale, esposto in una determinata opera (contenuto

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della produzione che dell’azione. Ma produzione ed azione sono cose differenti57 (su di esse facciamo affidamento ai trattati essoterici).58 36. *ARIST., Metaph., XIII, 1, 1076 a 26-29: in seguito, dopo questi argomenti, si deve indagare intorno alle stesse idee, considerandole in senso assoluto e quanto richiede l’indagine. Infatti, la maggior parte è stata ripetuta anche dagli scritti essoterici. 37. *ARIST., Phys., IV, 10, 217 b 29-32: essendo in possesso delle che abbiamo esposto, è possibile condurre un esame sul tempo. E innanzitutto è bene sviluppare le difficoltà relative a esso anche mediante i trattati essoterici:59 se faccia parte delle cose che sono o di quelle che non sono. 38. *ARIST., Eth. nic., I, 3, 1095 b 30 – 1096 a 3: ma anche questa [scil. la virtù] risulta troppo poco perfetta.60 Infatti, ad avviso di tutti è anche possibile che una persona che possieda la virtù dorma o resti inattiva nel corso della vita,61 e che oltre a ciò patisca mali e abbia in sorte le sventure più grandi. E chi vive in questo modo nessuno direbbe felice, se non per voler sostenere a tutti i costi la propria tesi. Ma intorno a questi generi di vita62 basti coche, peraltro, su questo particolare tema del tempo non trova un puntuale riscontro nei frammenti rimasti), ma abbia voluto fissare l’attenzione sul carattere dialettico di quegli scritti e precisare così il metodo di ricerca che deve seguire la presente trattazione. 60 Nel senso (che è poi quello etimologico) che non dà compimento, da sola, a una vita perché possa essere felice nel modo più pieno: occorrono, come Aristotele immediatamente appresso precisa, anche altre condizioni. 61 Il semplice possesso (ktÉsi©) della virtù non ne implica l’uso (crÉsi©): ecco una prima dimensione dell’«imperfezione» di cui sopra. 62 Ossia, della vita dedita all’onore e della vita di piacere.

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Riferimento al Protrettico. Ossia, dal primo cielo, la «sostanza dell’estrema orbita del tutto, ovvero il corpo naturale che si trova nell’estrema orbita del tutto» (De caelo, 278 b 11-13), il quale è aåÒn, vale a dire sempre esistente (aåe‰ ün), cioè eterno (Ivi, 279 a 27). 64

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sì: di essi, infatti, si è detto a sufficienza anche nei trattati dati a pubblica conoscenza.63 39. *ARIST., De caelo, I, 9, 279 a 30-33: e da là64 dipendono anche per le altre cose l’essere e il vivere, per le une in modo più preciso, per le altre in modo oscuro. E infatti, come nei filosofemi sulle cose divine destinati al pubblico,65 spesso si mette in chiaro con i ragionamenti che il divino, ossia l’essere primo ed eccelso, è necessario che sia immutabile nella sua totalità. 40. *AULO GELLIO, Noct. Att., XX, 5: si dice che delle sue raccolte e delle arti,66 che il filosofo Aristotele, maestro del re Alessandro, tramandava ai discepoli, vi siano state due specie. Le une erano quelle che denominava essoteriche, le altre quelle che chiamava acroamatiche. Erano dette essoteriche quelle che si riferivano alle analisi retoriche, alla capacità di proferire arguzie e alla conoscenza delle questioni politiche; si chiamavano, invece, acroamatiche quelle nelle quali si trattava una filosofia più profonda e più sottile e che riguardavano lo studio della natura e le discettazioni dialettiche. All’esercizio di questa disciplina acroamatica che ho detto, dedicava nel Liceo il tempo della mattina, e ad esso non ammetteva nessuno a caso, se non coloro dei quali aveva precedentemente accertato l’ingegno, elementi di erudizione nonché la passione e lo sforzo per apprendere. Nel medesimo luogo teneva di sera quelle lezioni essoteriche e quell’esercizio del dire, e le offriva indistintamente ai giovani, senza una selezione. E, questo, lo chiamava corso pomeridiano (deilinÂn per›paton); quell’altro, invece, di cui s’è detto precedentemente, lo chiamava

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Simplicio indica come riferimento il Sulla filosofia. Arti, qui, nel senso generale di discipline.

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Letteralmente, «atti a far ricordare». Riferisco aétoÖ© a ñpomnhmatik¿.

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mattutino (ëwqinfin). Infatti, in entrambi i tempi discorreva camminando. Divise in due gruppi anche i suoi libri, ossia le raccolte di tutti gli argomenti, cosicché gli uni erano detti essoterici, una parte invece acroamatici. Essendo il re Alessandro venuto a sapere che quei libri di genere acroamatico erano stati da lui dati al pubblico, e tenendo in quel tempo quasi tutta l’Asia scossa con le armi e incalzando lo stesso re Dario con battaglie e vittorie, tuttavia pur tra così numerosi impegni inviò una lettera ad Aristotele che non aveva fatto bene ad aver dato al pubblico, con la pubblicazione dei libri al di fuori , quelle discipline acroamatiche con le quali egli stesso era stato da lui erudito. «Infatti – disse – in quale altra cosa potremo essere superiori agli altri se quelle cose che abbiamo appreso direttamente da te diverranno comuni a tutti? Io, in realtà, preferirei essere in testa per la dottrina più che nella ricchezza e nell’opulenza.» Aristotele gli inviò una lettera di risposta con questo pensiero: «Ti lamenti che ho pubblicato i libri acroamatici anziché tenerli nascosti come cose segrete. Sappi che non sono né editi né non editi, giacché potranno essere compresi soltanto da coloro che mi hanno ascoltato». Ti ho sottoposto gli originali di entrambe le lettere che ho derivato dal libro del filosofo Andronico. 41. *AMM., In Arist. Cat., p. 4, 5 ss. (Busse): sono detti «in forma d’appunti»67 le in cui sono trascritti i soli punti principali. Infatti, bisogna sapere che nei tempi antichi, se si aveva l’intenzione di scrivere, si trascrivevano per sommi capi, con quelle annotazioni in forma d’appunti,68 le cose particolari che si erano scoperte, le quali erano utili in rapporto alla dimostrazione della materia proposta, e si assumevano molti pensieri da libri più antichi, al fine di far prevalere ciò che era corret-

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69 Molto opportuno il rilevo di Laurenti 1987, I, p. 31, nota 48: «ovviamente, Ammonio considera la redazione del “trattato” dal punto di vista della composizione materiale, in quanto cioè presuppone note, appunti, osservazioni che vengono poi ordinati, sistemati, sciolti in forma conveniente». In particolare – desidererei sottolineare – l’abbelli-

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to e confutare ciò che non stava così. In seguito, tuttavia, avendo aggiunto a esse un certo ordine e facendole rifulgere per la bellezza dei discorsi e lo splendore della narrazione, si costituirono i trattati. E per questo motivo gli scritti in forma d’appunti si distinguono dai trattati per l’ordine e la bellezza dell’espressione.69 Fra le opere in forma d’appunti, alcune sono monotematiche, quando cioè si compia la ricerca intorno ad alcunché di unico, altre invece sono variegate, quando la si compia intorno a più . E, a loro volta, tra i trattati, alcuni sono dialogici, come tutti quelli che sono ordinati in forma drammatica secondo domanda e risposta di più persone, altri invece sono in prima .

mento attribuito ai trattati concerne la loro forma espositiva non per l’eleganza e l’ampiezza delle espressioni, ma per il fatto di sviluppare in modo lineare e ordinato pensieri, quali quelli degli appunti, tra loro slegati.

GRILLO O SULLA RETORICA GRULLOS H PERI RHTORIKHS

INTRODUZIONE

Il primo documento relativo all’attività filosofica di Aristotele nell’Accademia è il Grillo, un’opera redatta in un unico libro e in forma dialogica, sul chiaro modello dei dialoghi di Platone, la cui esistenza è attestata sia da Diogene Laerzio, che la incluse nell’elenco degli scritti aristotelici (V, 22), che da Quintiliano, ma della quale non sono rimaste che poche testimonianze. Da esse tuttavia è possibile ricostruirne a grandi linee il contenuto. Che trattasse di retorica comprova il titolo stesso: «Grillo o della retorica (Gr‡llo© Í per‰ ®htorikÉ©)». Anche la data della sua composizione è determinabile con sufficiente esattezza e verosimiglianza. Essa fu scritta in occasione della morte di Grillo, il figlio di Senofonte,1 avvenuta nel 362 a.C., mentre combatteva nei reparti di cavalleria in uno scontro che precedette la battaglia di Mantinea. Da qui è logico credere che lo scritto aristotelico dati del periodo immediatamente successivo, os1 Questi, che era stato discepolo di Socrate, fu bandito da Atene per le sue simpatie verso Sparta. Fu al seguito della spedizione di Agesilao, e per ricompensa ottenne un podere a Scillunte, dal quale trasse il sostentamento per poter attendere con agiatezza alla composizione di buona parte delle sue opere. Infine fu richiamato ad Atene, intorno al 367 a.C., con un decreto di Eubulo (sui rapporti tra Eubulo e Senofonte si veda Cawkwell 1963) che data di quell’anno, anche se, come ha mostrato Delebecque (1957, pp. 334 ss.), ripreso da Laurenti (1987, I, p. 444, nota 77), è facile che Senofonte non sia rientrato subito in patria, ma vi fece ritorno nel 365 a.C.

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sia del 361 o 360 a.C. Del resto, per questa morte furono composti molti elogi funebri dagli oratori del tempo, come osservò lo stesso Aristotele secondo un’altra testimonianza di Diogene Laerzio (II, 55 = fr. 1). Ma, com’è stato opportunamente rilevato, il suo intento era diametralmente opposto a quello di allinearsi a essi nella celebrazione di Grillo; egli si proponeva invece di denunciare lo spirito e il carattere servile della loro retorica, intesa con quell’elogio a cattivarsi il favore del padre (cfr. fr. 1: carizfimenoi). Da qui è facile scorgere l’intenzione polemica di Aristotele nei riguardi di questo tipo degenere di retorica, interamente basata sulla mozione degli affetti, quale si esplicava anche nelle commemorazioni di Grillo. Dalla testimonianza di Quintiliano è desumibile che di essa lo Stagirita asserì che non è un’arte (t¤cnh). Come immediatamente salta agli occhi, era questa la posizione sostenuta da Platone nel Gorgia, dove la retorica era definita lusinga e contraffazione (kolake›a) di un’arte, in quanto ne imita il procedimento, ma senza conoscere la natura dell’oggetto e senza mirare a far conseguire un bene, come le autentiche t¤cnai, bensì esclusivamente a procurare piacere. Essa – diceva Platone – contraffà la giustizia, la quale, facendo scontare la pena al colpevole, ne emenda l’anima e dunque ne opera il bene. Al contrario la retorica, insegnando come eludere la condanna, lascia impunita la colpa, che è l’autentico male, e così, senza alcuna cura del vero e del giusto, ma soltanto del piacere, la rovina – al modo in cui, ancora relativamente all’anima, la sofistica è contraffazione della legislazione e, relativamente al corpo, la culinaria lo è della medicina e l’agghindarsi della ginnastica. La posizione di Aristotele doveva con ogni probabilità essere del medesimo tenore, e si rivolgeva contro chi in quel tempo era il retore più illustre, Isocrate, peraltro avversario di Platone nel proporre un programma educativo-culturale, fondato per l’appunto sulla retorica,

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che si poneva in antagonismo a quello, basato sulla filosofia, che si praticava nell’Accademia. Da un’ulteriore testimonianza di Diogene Laerzio (II, 55) risulta che anche Isocrate, che da Quintiliano sappiamo essere stato allievo di Gorgia, anzi il suo allievo più valente, scrisse un elogio funebre di Grillo. È dunque inverisimile che Aristotele, nel muovere un attacco ai retori contemporanei in occasione della morte dell’illustre personaggio, non abbia polemizzato anche e innanzitutto con costui. Che proprio e innanzitutto contro di lui si fosse rivolta la sua critica, risulta confermato anche dal fatto che, come si può ricavare da una notizia di Dionigi di Alicarnasso (De Isocrate, 18 = fr. 140 Rose), egli rinfacciò a Isocrate d’essere stato in precedenza logografo, ossia scrittore di discorsi giudiziari a pagamento, attività che certo non poteva esser considerata onorifica per un maestro di retorica. Questa polemica provocò la reazione dello stesso Isocrate, che rispose nell’Antidosis, e del suo più illustre scolaro Cefisodoro, il quale scrisse il Contro Aristotele e, sull’ultimo, specifico punto, oppose che la maggioranza dei retori aveva svolto attività di logografo.2 Quanto al maestro, i rotoli dei suoi discorsi giudiziari, acquisibili dietro compenso, non erano affatto molti, come tendenziosamente aveva detto Aristotele, ma assai pochi. Da tutto questo è facile arguire che nel Grillo lo Stagirita non intese affatto celebrare l’uomo cui l’opera è intitolata, ma prendere occasione dai suoi elogi funebri per combattere una forma deteriore di retorica, che non usa «argomentazioni» per convincere, ma scatena sentimenti e passioni e dunque fa leva sulla parte irrazionale dell’anima, insomma una retorica opposta alla filosofia. 2 Bass (1862, II, p. 451) ha ritenuto che l’attacco di Cefisodoro ad Aristotele fosse dovuto alla pubblicazione del Grillo e non all’insegnamento orale del filosofo. Düring (1957, p. 389) difende invece la tesi, in realtà più verisimile, secondo cui anche l’insegnamento orale e non soltanto il dialogo scatenò la reazione dell’allievo di Isocrate.

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Ciò non significa che in quest’opera egli rigettasse ogni forma di tale disciplina: posizione che, se fosse vera, darebbe ragione a quanti, scorgendo nel pensiero dello Stagirita uno sviluppo in senso evolutivo, ne hanno sostenuto il successivo abbandono e superamento, stante che nella Retorica egli affermerà che essa è il risvolto (ànt›strofo©) della dialettica e che rientra nella politica. Ma poi anche alla fine delle Confutazioni sofistiche lo Stagirita, nel rivendicare a sé il merito d’aver fondato la dialettica come arte, vale a dire come conoscenza delle cause di certi effetti del discorso, primi tra tutti il confutare e il difendere le proprie tesi, fa presente che in precedenza la retorica – già da questo ben individuabile nel legame che la unisce alla dialettica – era stata praticata soltanto come mnemotecnica di schemi di discorso, senza alcuna conoscenza delle ragioni per cui un dato risultato veniva conseguito. Ma, contrariamente all’ipotesi evolutiva, la retorica alla quale nel Grillo Aristotele si oppone, che rifiuta e contro cui polemizza perché incapace di costituire la base di un programma educativo e di un autentico umanesimo, è quella che non è un’arte, né, di conseguenza, è sensibile e rispettosa del vero. Donde l’implicito avvaloramento anche qui, in piena coerenza con le posizioni del tardo De anima, di una forma diversa di retorica, che persegue il convincimento sulla base della conoscenza sia del soggetto da persuadere: l’anima, che del mezzo con cui persuaderlo: il discorso, e che pertanto ne distingue i diversi tipi e determina l’opportunità di usare l’uno o l’altro in rapporto all’anima da convincere. Una retorica che, inoltre, attenta alla verità, si propone di esporla in modo convincente. Proprio a una tale disciplina, del resto, Platone stesso aveva riconosciuto la qualifica di «arte» nel Fedro (263 b, 265 d – 266 c), un dialogo la cui datazione, determinabile nel 369 a.C., indica la vicinanza anche cronologica

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col Grillo. Essa infatti, dice il filosofo, ha alla base una scienza, identificata nella dialettica, intesa come il saper ricondurre a unità (sunagwg‹) e dividere per specie (dia›resi©).3 Con il Grillo, dunque, Aristotele prese ufficialmente posizione a favore dell’umanesimo scientifico-filosofico proprio del programma culturale dell’Accademia, di cui sostenne apertamente la difesa contro l’umanesimo retorico-letterario propugnato nella scuola di Isocrate. In seguito alla pubblicazione di tale dialogo egli fu incaricato di tenere nell’Accademia un corso di retorica, individuabile forse nella t¤cnh sunagwg‹, un compendio dei trattati di questa disciplina a lui attribuito da Cicerone, Quintiliano e altri autori e che compare nei cataloghi dei suoi scritti (cfr. frr. 136-141 Rose), o anche in una prima redazione della Retorica, e che comunque, secondo una datazione accettata da quasi tutti gli studiosi, si svolse intorno al 355 a.C.4 In esso, secondo una testimonianza del filosofo epicureo Filodemo di Gadara (De rhetorica, Voll. rhet., II, 50, Sudhaus, coll. XLVIII, 36 – LVIII, 45 = test. 131, 299-302 Düring), lo Stagirita avrebbe esordito con l’affermazione che «è turpe tacere e lasciar parlare Isocrate», fatta parafrasando un verso del Filottete di Euripide. Egli riferisce anche che le relative lezioni si sarebbero svolte al pomeriggio.

3 In proposito cfr. le belle pagine di Laurenti 1987, I, pp. 405-407, pp. 414-415 e pp. 418-419. 4 Sul rapporto tra la t¤cnh sunagwg‹ e i corsi aristotelici di retorica cfr. Moraux 1951, p. 97. Che la redazione più antica della Retorica si riferisca al corso in oggetto, fu sostenuto da Diels (1886, pp. 63-70), il quale collegò tale corso anche con la cosiddetta Retorica di Teodette, maestro di questa disciplina e tragediografo morto ad Atene intorno al 340 a.C. (ma la tesi fu confutata da Solmsen 1932). La datazione del corso è dovuta a Blass 1892, pp. 64-65.

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Ossia Senofonte. Sul problema di come la retorica aristotelica possa essere un’arte mi permetto di rinviare all’Introduzione della mia edizione del trattato (Zanatta 2004, pp. 132 ss.). 7 Quintiliano, che per parte sua è decisamente convinto che la retorica sia un’arte (di questo tratta espressamente il cap. 17 del II libro delle Institutiones), ritiene che coloro che lo negano, lo facciano non perché lo credono veramente, ma per esercitarsi in una materia difficile, qual è per l’appunto quella di provare che la retorica non è un’arte: ossia, in ultima analisi, essendo essi stessi convinti del 6

FRAMMENTI

1 (R2 57, R3 68) DIOG. LAERT., II, 6, 55: Aristotele afferma che quanti scrissero encomi e un epitaffio di Grillo sono moltissimi, in parte per compiacere anche al padre.5 2 (R2 58, R3 69) QUINT., Inst. Orat., II, 17, 1: passiamo dunque a quella questione che segue, vale a dire se la retorica sia un’arte.6 Cosa di cui, in verità, nessuno di coloro che hanno tramandato i precetti del dire ha dubitato, [...] ma con essi conviene la maggior arte dei filosofi sia stoici che peripatetici [...] 4: Quanto a coloro che addussero ragioni in senso contrario, io in realtà ritengo che non abbiano tanto creduto a ciò che dicevano quanto abbiano voluto esercitare i loro ingegni con la difficoltà della materia7 [...] 5: Alcuni pretendono che la retorica sia naturale [...] 7: Nessuna cosa che derivi dall’arte esistette prima dell’arte [...] 11: Non è proprio di un’arte ciò che può compiere colui che non l’abbia appreso; ma gli uomini parlano, anche quelli che non l’abbiano appreso8 [...] 14:

carattere tecnico della retorica e muovendosi sempre entro l’ambito di essa. 8 Cfr. Rh., 1354 a 1 ss., dove Aristotele, precisando perché la retorica sia «controcanto (ànt›strofo©)», ossia il risvolto, della dialettica, chiarisce che tutti in un certo senso ne fanno uso, perché a tutti capi-

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ta di doversi difendere o accusare, o dare un consiglio, o elogiare o biasimare, ma a questo ci si può disporre senza preparazione tecnica, come fanno i più, o utilizzando certe regole tecniche perché il discorso risulti persuasivo, come fanno coloro che conoscono l’arte retorica. «Tutti – dice per l’appunto lo Stagirita – in un certo modo partecipano di entrambe, giacché tutti fino a un certo punto intraprendono e a saggiare un discorso e a sostenerlo e a difendersi e ad accusare. Tra i più, dunque, gli uni compiono queste cose senza metodo, gli altri per una consuetudine che deriva da un abito [scil. la scienza e, in particolare, quella specie di essa che è costituita dalle arti o scienze poietiche. In Cat. 8 b 28 Aristotele annovera infatti le scienze, e dunque anche quelle poietiche, tra gli abiti, indicati a loro volta, assieme alle disposizioni (diaq¤sei©), come la prima specie della qualità]. Ma poiché è possibile in ambedue i modi, è chiaro che si potrà compierle anche con una via [scil. con un metodo, significando espressamente il metodo (m¤qodo©) la «via per» (ïd© met¿) qualcosa]. In effetti, è possibile scorgere la causa, ossia ciò per cui realizzano lo scopo sia quelli che in forza di una consuetudine, sia quelli che per caso, e tutti ormai converranno che tale è opera di un’arte». 9 Come ha magistralmente messo in luce Laurenti (1987, I, pp. 405 ss.), quando Quintiliano – che è convinto sostenitore dell’essere la retorica un’arte, problema al quale dedica il cap. 17 del secondo libro dell’Institutio, donde è tratto il frammento – fa presente che Aristotele «escogitò (excogitavit)» alcuni argomenti, si riferisce agli argomenti che nel Grillo lo Stagirita formulò contro la retorica sofistica, quella di Gorgia, innanzitutto, ma anche quella professata da Isocrate, che di Gorgia fu discepolo, al fine di dimostrare che non è un’arte. Questa retorica, non la retorica in generale e in quanto tale; ché, anzi, come già Platone, dopo aver criticato la retorica sofistica nel Gorgia, aveva proposto, nel Fedro, una retorica basata sulla dialettica e attenta al vero, da esporre in modo convincente, così è logico che abbia fatto Aristotele nel nostro dialogo. «Escogitò» indica, dunque, la pars destruens di un più articolato e complesso atteggiamento del filosofo verso la retorica. In questo quadro prendono spicco alcune acute e penetranti annotazioni dell’interprete. Egli mostra, innanzitutto, che, presentando gli argomenti di Aristotele «subtilitatis suae argomenta», Quintiliano intendeva «evidenziare l’atteggiamento proprio di

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Aristotele, come suole, al fine di compiere una ricerca escogitò nel Grillo alcuni argomenti propri della sua sottigliezza; ma egli stesso scrisse anche tre libri sull’arte retorica, e nel primo di essi non soltanto afferma che essa è un’arte,9 ma le attribuisce una piccola parte dell’arte politica come della dialettica.10

Aristotele nel penetrare un problema e rilevarne ogni sfumatura». Così, «rientrava in tale atteggiamento anche il bisogno di sintetizzare o, meglio, di dare una sistemazione logica a non poche obiezioni che il Gorgia e il Fedro presentavano in uno stile ampio e colorito» (p. 404). Parimenti, in «quaerendi causa» l’interprete sottolinea come sia «chiaro che Aristotele non potesse non esaminare l’oggetto da tutti i punti di vista: ciò esige che si raccogliessero gli argomenti contro e quelli a favore» (p. 406). Infine, in ordine all’annotazione di Quintiliano intorno ai tre libri della Retorica scritti da Aristotele a favore di questa disciplina e del suo essere un’arte, dopo che nel Grillo aveva «escogitato» argomenti intesi a mostrare che non lo è affatto, prima Laurenti ribadisce che «la polemica [...] di Aristotele non fu tout court contro la retorica, ma contro una certa concezione della retorica»; indi così puntualizza: «quella che a una lettura superficiale di Quintiliano pare una decisa opposizione di momenti cronologicamente distanti – cronologicamente perché Quintiliano mette l’uno di contro all’altro un dialogo e uno scritto essoterico – è, in effetti, opera del retore spagnolo, tutto teso a evidenziare nel dialogo la “pars destruens” per poi relazionarla alla “pars costruens” del trattato. In realtà, [...] il dialogo non poteva essere distruttivo: Aristotele non poteva rinnegare Platone: anzi, proprio insistendo sui passi di lui riuscì a mettere insieme una concezione della retorica più piena e accettabile» (p. 419). 10 Cfr. Rh., 1356 a 25-27, dove Aristotele afferma che la retorica partecipa della politica e della dialettica. Della prima, in quanto si occupa di õqh e di p¿qh ed ha costitutivamente a che fare con la deliberazione, ossia, complessivamente, in quanto le sue argomentazioni gravitano nell’ambito pratico, di cui la politica è la scienza architettonica. Della seconda, in quanto tali argomentazioni sono entimemi ed esempi, ossia sillogismi e induzioni che hanno la stessa struttura di quelli dialettici, a partire dall’uso di opinioni notevoli, pur con modalità proprie (gli entimemi, in particolare, possono evitare di enunciare la premessa maggiore quando essa sia nota; inoltre le loro premesse possono essere, nell’ambito delle opinioni notevoli, o verisimili o prove).

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11 Questo frammento tratto da Quintilliano, che il Ross attribuisce al nostro dialogo, come già aveva fatto Bernays (1868, p. 157), Rose (1886, p. 110, fr. 139) e Heitz (1869, p. 123, fr. 4) ascrivono invece alla tecnán sunagwg‹. Per questa ipotesi propende anche Laurenti (1987, I, p. 417). 12 Il quale, evidentemente, indicava in Gorgia il maestro di Isocrate. La polemica che nel Grillo lo Stagirita conduceva nei confronti del-

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3 (R2 133, R3 139) QUINT., Inst. Orat., III, 1, 13:11 a costoro succedettero molti, ma il più famoso degli allievi di Gorgia fu Isocrate. Benché tra gli autori non vi sia concordanza circa il suo precettore, noi tuttavia crediamo ad Aristotele.12

la retorica isocratea deve così intendersi come attacco non alla retorica in quanto tale, ma a quel tipo di retorica basata sulla mozione degli affetti e non sull’argomentazione che trovava in Gorgia il più significativo rappresentante: sostenitore com’era che la parola ha sull’anima lo stesso effetto che un farmaco ha sul corpo e che essa genera «inganni» (cfr. Encomio di Elena, parr. 8 e 12).

SIMPOSIO SUMPOSION

INTRODUZIONE

1. Con ogni probabilità il dialogo in oggetto aveva un titolo doppio, secondo un uso non prevalente, ma di certo non inconsueto né in Platone (che scrisse il Gorgia o Della retorica, la Repubblica o Del giusto, le Leggi o Della legislazione) né nello stesso Aristotele (autore del Grillo o Della retorica). Il catalogo di Diogene Laerzio al n. 10 indica uno scritto, in un unico libro, intitolato Simposio (sumpfision). Di esso, con questa intitolazione, non vi è notizia nel catalogo dell’Anonimo, che tuttavia al n. 161 riporta un per‰ sussit›wn Í sumpos›wn, probabilmente da identificarsi con il precedente. Ateneo e Plutarco citano tuttavia, in molte occorrenze, un’opera aristotelica intitolata Sull’ebbrezza (per‰ m¤qh©), la quale non compare in nessuno dei due cataloghi ma che, come si accennava all’inizio, può intendersi come il sottotitolo del Simposio, o l’aggiunta al titolo di questo dialogo. Così ritengono, tra gli altri, Rose (1886, p. 97) e Laurenti (1987, II, pp. 611 s.), i quali accomunano i due scritti sotto l’unico titolo Simposio o sull’ebbrezza (sumpfision Í per‰ m¤qh©),1 e così è logico pensa1 Di parere opposto, tra gli altri, Heitz (1869, pp. 44 e 64), il quale giunge addirittura a ipotizzare che il per‰ m¤qh©, erroneamente attribuito ad Aristotele, sarebbe invece lo scritto di Antistene intitolato per‰ oúnou cr‹sew© Í per‰ m¤qh© Í per‰ k‡klwpo© (cfr. Diog. Laert., VI, 18), e Rose (1863, pp. 116 e 119), che ritiene si tratti di due opere distinte.

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re che sia, giacché i contenuti stessi dell’opera, quale ci appaiono dalle raccolte dei frammenti, pongono in luce come suo tema siano tanto il banchetto quanto l’ebbrezza, il banchetto nel quale il momento del bere rappresenta per così dire il culmine della ritualità simposiale, ond’è che su di esso è credibile che si sia accentuata l’attenzione di Aristotele, fino a richiamarlo nel titolo stesso dell’opera che complessivamente verte sul banchetto. Se si chiedesse perché Aristotele abbia dedicato uno scritto all’esame di questo tema, non sarebbe difficile rispondere richiamando, da un lato, l’importanza del banchetto nella vita sociale delle poleis greche e in particolare di Atene, importanza che si estendeva per un ampio tratto delle loro manifestazioni e vedeva direttamente in causa aspetti di ordine politico, ritualistico-religioso, dottrinario, poetico-letterario, amicale in senso proprio e di esternazione di gioioso tripudio;2 dall’altro – e in stretto legame con queste dimensioni – la larga diffusione di scritti intorno a quel tema, a partire dal Banchetto di Platone, di Senofonte e, qualche tempo dopo, di Epicuro. 2. Molti indizi fanno chiaramente vedere che il tema del banchetto, con la centralità di quello dell’ebbrezza, era trattato da differenti punti di vista, i quali tuttavia, se2 Sul valore ritualistico-religioso dei simposi cfr. Boyancé 1937, pp. 167 ss.; l’aspetto etico-filosofico è messo bene in luce da Rossetti 1976; sulla valenza ludica e al tempo stesso anche normativa del banchetto è significativa la testimonianza di Ateneo, V, 1867 b: «ai grandi filosofi piaceva raccogliere intorno a sé i giovani per spassarsela secondo una determinata legge. E ci furono “leggi conviviali”di Senocrate nell’Accademia e di Aristotele»; altrettanto – dice Ateneo – fece Speusippo (cfr. Speusippo, pp. 232-233). Ancora Ateneo (II, 39 B, frr. 283-284 Kock) fa pronunciare ad Alessi una celebrazione del vino perché «rende tutti coloro che ne bevono in grande quantità amanti delle lettere (filolfigou© p¿nta© poieÖ toÊ© ple›ona p›nonta© aétfin)».Analogamente in Plat., Phaedo, 89 c ss. Lo stesso Ateneo (II, 35 a – 40 d) scrive pagine importanti dalle quali si evince la larga diffusione in Grecia e, in specie, ad Atene del tema del simposio e del vino. In quelle pagine egli ricorda anche il medico ateniese Mnesiteo che usava il vino come farmaco.

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guendo una proficua indicazione del Laurenti, possono raggrupparsi in due ambiti principali, e in essi autenticarsi nel loro specifico risalto dottrinale: uno di carattere storico o, più esattamente, storico-culturale, particolarmente accentuato nei frr. 1-3/a, 4-6, l’altro di carattere prevalentemente teorico, concernente cioè questioni e problemi relativi al simposio, riscontrabili soprattutto nei frr. 3/b, 3/c, 7-12. Le due testimonianze depongono significativamente nella linea che si è or ora detta: quella di Plutarco perché, dichiarando che l’obliare ciò che si racconta nei banchetti non è soltanto far torto a una delle costumanze più proprie della civiltà greca, tale dovendosi qualificare un istituto che campeggia nella sfera delle manifestazioni di solidarietà amicale e le fomenta, ma significa altresì scontrarsi con il pensiero dei massimi filosofi, richiama implicitamente l’importanza del banchetto nella storia civile e nella storia culturale della Grecia. Quella di Macrobio perché pone sul tappeto, richiamandole direttamente, le «quaestiones conviviales», ossia i problemi di carattere teorico inerenti al banchetto, che agitarono la riflessione degli Antichi, Aristotele in primis. Ed è significativo il fatto che apertamente sottolinei che tali problemi non erano affatto avvertiti come argomenti di scarso rilievo. L’implicita motivazione di ciò salda il momento teorico a quello storico: la necessità di esaminare le questioni dottrinali connesse al banchetto e la conseguente rilevanza di un tale compito traggono la loro giustificazione dall’importanza e dalla diffusione di quell’istituto nella vita sociale e nella storia culturale greca, nella pluralità dei suoi aspetti più rimarchevoli. Quelli, per l’appunto, che si sono anzi richiamati. 3.1 Tra i motivi di ordine storico-culturale spicca innanzitutto quello relativo all’esatto significato dei termini concernenti complessivamente il banchetto. Un significato che si ricerca attraverso le etimologie, le quali, a lo-

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ro volta, sono individuate attraverso l’accostamento di nomi ed espressioni nella struttura di un termine, come già avveniva nel Cratilo platonico. Il caso è evidente nel primo dei tre frammenti raccolti sotto il n. 3. Qui Seleuco, un grammatico dell’epoca di Tiberio, che ne è la fonte, richiama espressamente Aristotele per ciò che riguarda la spiegazione soltanto di uno dei tre termini conviviali su cui s’intrattiene, ossia su m¤qh, l’ebbrezza, o – per meglio dare risalto a ciò che intende attestare – sul corrispondente verbo meq‡ein, ubriacarsi, nel quale rinviene la presenza di met· q‡ein, ossia di bere «dopo aver compiuto il sacrificio». Identico rilievo muove anche Plutarco, in 3/b: «... ha derivato la denominazione l’ubriacarsi (t meq‡ein), poiché nei tempi precedenti era costume, dopo aver sacrificato (met· t q‡ein), bere il vino». Chiara l’attestazione della natura sacra dell’atto simposiale, che si palesa essere una sorta di tripudio in onore della divinità.3 E al tempo stesso un tripudio che unisce i partecipanti al sacrificio, cosicché le due dimensioni, religiosa e amicale, in esso si saldano assieme. Sempre Plutarco, nel medesimo frammento, fa presente la possibilità anche di una spiegazione diversa: «alcuni ritengono che l’ubriachezza (t„n m¤qhn) non sia chiamata “così” solo perché ha compimento dopo i sacrifici (met· qus›a©), ma anche perché è causa di rilassamento (meq¤sew©) dell’anima».Anche in questo caso il nesso tra l’atto simposiale e l’atto sacrificale balza subito agli occhi e inalterata ne resta la saldezza, giacché ciò che varia è solamente la valenza della bevuta e dell’ebbrezza in rapporto al sacrificio: momento di solidale tripudio, nella prima spiegazione, o di rilassamento dopo la tensione emotiva connessa al compimento del sacrificio. Benché non sia direttamente detto, è logico ipotizzare che anche la spiegazione degli altri due termini sia ri3

In proposito cfr. Kerényi 1950; Detienne 1982.

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presa da Aristotele o comunque dalla tradizione aristotelica. Così qo›nh, banchetto, è fatto derivare da di· qeoÊ© oånoÜsqai, bere in onore degli dèi, attraverso la connessione della «q» di qeo‡© e «oin» di oånoÜsqai, e q¿lia, festa, da qeán c¿rin êl›zesqai, ossia radunarsi in loro onore, attraverso la connessione della «q» di qeán e «ali» di êl›zesqai. Ancora la ricerca del significato dei termini conviviali entro la cornice del sacrificio campeggia nei frammenti raccolti sotto il n. 5. In questione è innanzitutto il significato di «seconde mense (deut¤rai tr¿pezai)». Com’è noto, con quest’espressione, che ritorna anche presso i Latini («secundae mensae»), si indicava quella fase del banchetto nella quale, terminato il pranzo vero e proprio e tolte le mense, se ne portavano immediatamente delle seconde per consumare cibi meno impegnativi dal sapore dolce. Tale è anche il significato dell’espressione che la fonte attribuisce ad Aristotele, chiamando direttamente in causa il dialogo Sull’ubriachezza e sottolineando come il filosofo, a illustrazione di ciò che si consumava in questa sorta di «secondo pasto» (âpidropismfi©), avesse precisato che si consumavano «leccornie (trag‹mata)» e che con questo nome la cultura del suo tempo indicava quello che gli Antichi chiamavano «pasticcini (trwg¿lia)». Ancora la ricerca etiologica della denominazione degli atti conviviali e il ricorso alla lingua nella sua storia pongono in luce, da un lato, un’impostazione scientifica della ricerca, tale essendo quella che di un fenomeno indaga le cause, dall’altro una rinnovata attestazione di interesse per la tradizione culturale. In questa luce prendono risalto le ulteriori distinzioni di senso tra leccornia (tr¿ghma), nome recente di pasticcino (trwg¿lion), e pasto vero e proprio (bráma, ödesma). A questi due tipi di cibo si legavano due diversi sensi di bere il vino. E infatti, come viene precisato in Probl., XXII, 6, 930 b 12, vi è un bere finalizzato a soddisfare «la sete procurata dai cibi che si consumano durante

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il pasto», mentre alle leccornie s’accompagna un «bere a sufficienza», ossia fino all’ebbrezza, giacché non si beve soltanto nella prima circostanza, «ma anche dopo i cibi». «Chi legga l’Antica medicina del corpus hippocraticum, soprattutto i primi capitoli – sottolinea molto opportunamente Laurenti (1987, II, p. 622) – avvertirà l’importanza dell’alimentazione nella vita dell’uomo e come la conquista di un regime dietetico meno ferino sia un fenomeno di civiltà.» Si comprende perciò – prosegue lo studioso – come per un pensatore della stregua di Aristotele il quale «calava le diverse realizzazioni dell’uomo nel tessuto storico, [...] pure il mangiare, oltre che il bere, poteva essere uno dei temi da affrontare in un’opera sul banchetto». 3.2. In questa luce hanno risalto e manifestano il loro autentico significato anche i frammenti raccolti sotto il n. 4. Essi rappresentano infatti significative testimonianze dell’attenzione di Aristotele per specifici e concreti fatti della vita. Al di là della discrepanza tra il racconto di Ateneo (4a) e quello delle altre fonti circa l’identità dei personaggi chiamati in causa, non vi è dubbio che lo Stagirita riferisce un fatto di cui aveva notizia, e tutto lascia credere si tratti di un fatto realmente accaduto, giacché nessun interesse vi sarebbe stato da parte del filosofo a menzionare un fatto fantastico o leggendario in un’opera dove l’attenzione per la storia e la tradizione si è mostrata essere elemento di prim’ordine. Nel caso di specie, il tema è costituito da soggetti così resistenti alla sete da aver potuto esimersi dal bere nonostante un’alimentazione a base di cibi secchi e l’attraversata di un deserto. Sono episodi che non potevano non suscitare l’interesse dell’autore di un’opera sul bere il vino. 3.3 I frammenti raccolti sotto i numeri 1 e 2 presentano importanti regole che i partecipanti al banchetto dovevano rispettare.

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Nel fr. 1 è a tema quella per la quale i convitati dovevano presentarvisi in ordine nella persona e, in particolare, dopo essersi detersi. Come appare dai riferimenti a Omero e Aristotele, che sembra chiamato in causa in una funzione di commentatore dei luoghi omerici e, in particolare, di quelli richiamati nel frammento, in linea del resto con l’attenzione che il filosofo ebbe per il poeta, ben documentata da suoi scritti in proposito, è questa una regola che attraversa la storia della civiltà greca e si perpetua nelle sue fasi. A prescriverla era senz’altro un corretto galateo e un comportamento educato, incentrato sul rispetto dell’ospitante e degli altri commensali. Ma non deve trascurarsi il motivo igienico, che parimenti concorreva a suggerirla. Qui, come in molti casi, la convenienza del comportamento (àprep¤©, come suo opposto) riguarda ad un tempo il personale decoro (tÂn car›enta) e la norma salutare. Nessuna valenza che leghi il banchetto a un’occasione religiosa e rituale pare invece entrare in campo. Il momento rituale e religioso sta invece alla base delle riflessioni del fr. 2/a, il cui tema è l’ornare di corone nell’azione sacrificale. Un comportamento che nelle parole di Saffo appare come la prescrizione di una regola (paragg¤llei), e tale effettivamente era, cosicché sotto questo profilo il frammento si colloca sulla stessa linea di quello precedente; ma proprio in quanto rispondente a una regola, nelle parole dello Stagirita e di Omero, che ancora torna in campo, tale comportamento è fatto oggetto di una ricerca che mira a sviscerarne il significato, cosicché sotto questo secondo profilo il frammento si iscrive nella linea dei richiami storici e culturali di cui si diceva. Potrebbe a tutta prima sembrare che il motivo del banchetto qui sfugga e che si sia passato a un altro oggetto, ma a ben vedere non è affatto così: giacché, come si sottolineava, il banchetto si connette strutturalmente al sacrificio, in quanto rappresenta una sua fase. In questo quadro si comprendono le osservazioni della poetessa e

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del filosofo, le une complementari alle altre. Il presupposto di entrambe è che l’incoronare (stefanoÜn) è un riempire (st¤fein), nella valenza di completare, portare a compimento. È esattamente questo il significato che il frammento ricerca, ed esso in Saffo e in Aristotele specifica l’azione sacrificale in due momenti simmetrici. Nella prescrizione della prima, infatti, il compimento riguarda chi compie il sacrificio: egli deve incoronarsi per conferire allo stesso maggiore ornamento di modo che, completato di un aspetto più smagliante (eéanq¤steron; letteralmente: più infiorato, più ornato di fiori, giacché di essi erano fatte le corone, sicché l’aggettivo denota anche una qualità materiale), risulti maggiormente gradito (kecarism¤non mÄllon) alla divinità. Nell’osservazione di Aristotele, invece, il completamento dell’atto sacrificale ad opera della corona volge nella direzione della cosa sacrificata, cosicché essa conviene che sia abbellita da quell’ornamento. Interessante il ragionamento che vi soggiace: ciò che si offre in sacrificio dev’essere alcunché di perfetto, ossia di interamente compiuto e completo, perché solo questo è degno della divinità. Ma la corona nel suo significato primario esprime un tale compimento. Dunque, essa deve ammantare la cosa che al dio si sacrifica. Qui, come si vede, la corona assolve senz’altro a una funzione di ornamento, ma prima ancora e innanzitutto riveste un valore di pregnanza simbolica, giacché è espressione dello stato d’integralità e, quindi, dell’eccellenza della cosa che si offre in sacrificio. L’equivalenza coronare = riempire permette di comprendere nella pienezza del loro significato i due citati versi di Omero. Nel primo si sottolinea come alla fine del sacrificio, nella fase del banchetto, i giovani, ossia i servitori, coronino, e cioè riempiano di vino i crateri dei simposianti. La citazione ha esattamente per fine di comprovare il significato di coronare che s’è detto. Nel secondo verso è la divinità a incoronare se stessa: essa infatti – di-

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ce il poeta – «incorona», ossia completa la bellezza della sua figura con la parola, la quale – commenta Ateneo con un’osservazione a chiasmo rispetto al verso –, se ben pronunciata così da risultare convincente, colma l’eventuale bruttezza d’aspetto di chi la proferisce. Saffo, Aristotele, il primo e il secondo verso di Omero illustrano dunque quattro differenti valenze del «completare» quale significato basico del coronare. A riprova del quale, in una quinta sfumatura, la parte finale del frammento richiama la pratica di strappare via dal capo le corone in segno di rispetto del dolore altrui. Infatti, chi soffre avvertirebbe nella pienezza sfolgorante di colui che gli sta di fronte un avvilente e umiliante contrasto con sé e la sua attuale condizione, che la pietà esige di risparmiargli. Il fr. 2/b conferma l’equivalenza coronare = completare, riportando espressamente la questione ai simposi quale fase ultima del sacrificio e chiamando in causa l’abbondanza dei cibi, in una valenza che pare essere duplice: da un lato, infatti, sembra intenzionata la quantità delle offerte alla divinità, dall’altro la sontuosità della mensa. Nell’uno e nell’altro senso, una tale abbondanza «corona», ossia completa il sacrificio e il relativo banchetto. 4.1 Nell’ambito delle questioni di carattere più strettamente teorico sul banchetto, intorno alle quali si svolgeva un’ampia riflessione dello scritto, come attesta il numero dei relativi frammenti e dei problemi in essi affrontati, alcune dovettero riguardare la questione, che diverrà poi un topos dell’etica stoica, ma che già lo Stagirita aveva sollevato, se il sapiente possa ubriacarsi. Filone, che è la fonte del fr. 3/b nel quale l’argomento è esaminato più diffusamente, l’affronta nel par. 142 del De plantatione, nel quadro di una riflessione generale sui rapporti tra l’uomo e Dio dove giunge a trattare l’episodio di Noè che, coltivata la vite, si ubriaca, e da qui quello più generale dell’ebbrezza e del sapiente nei confronti di essa. Una que-

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stione che Filone deriva certamente dallo Stoicismo, ma che non doveva essere estranea ad Aristotele, come traspare dalle soluzioni che se ne propongono, le quali, a dispetto di coloro che le ritengono esse stesse, e in particolar modo la terza, derivate dalla riflessione stoica (così per esempio, in merito alla terza prova, von Arnim 1888, pp. 124 s.), chiamano invece in causa procedimenti volti all’esplicazione dei termini e alla ricerca del loro esatto significato che ripropongono quelli, basati sull’etimologia, dei frr. 3/a e 5, la cui attribuzione al nostro dialogo non è oggetto di particolari problemi e allo stato attuale degli studi può annoverarsi tra i punti più sicuri. In un caso, anzi, quelle soluzioni presentano addirittura la medesima etimologia indicata in uno di questi frammenti: si tratta della derivazione di m¤qh e meq‡ein da met· q‡ein sulla quale ci siamo già soffermati (cfr. ante, p. 96) e che compare identicamente nel frammento qui a tema e in 3/a.4 In un altro caso, poi, la soluzione fa perno su un’etimologia di m¤qh da m¤qesi©, rilassamento dell’anima (anche a riguardo cfr. ante, p. 96) che, come ha messo in chiaro Boyancé (1937, pp. 212 ss.) attraverso un raffronto del nostro frammento con Athen.,VIII, 363 b ss.,5 non ha affatto carattere stoico, anzi ha affinità con il per‰ ëortán di Teofrasto. S’inscrive cioè in una tradizione aristotelica. Posto che ubriacarsi (meq‡ein) ha un duplice significato 4 Lo stesso Von Arnim, il quale, come s’è accennato, nega che la terza prova presentata da Filone possa derivare da Aristotele o comunque da ambiente accademico, riferisce invece allo Stagirita la seconda, proprio sulla base dell’etimologia richiamata nel testo posta a confronto con quella del fr. 3/a e di Athen., V, 192 d. «Fernet wird – scrive per l’appunto lo studioso – niemand zweifeln, dass aus jener Schrift soll, und welcher deutlich peripatetischen Charakter trägt» (Von Arnim 1888, pp. 122 s.). Ulteriori, convincenti prove sono addotte altresì da Laurenti 1987, II, pp. 617 ss. 5 Questo il passo di Ateneo: «radunandosi per le feste e onorando la divinità e dandosi alla gioia e al riposo, chiamarono la bevanda methu (eå© eéfros‡nhn ka‰ ônesin añtoÊ© meqi¤nte©, tÂn m‚n pfiton m¤qu ktl.) e il dio che l’aveva donata Methoummeo e Lieo e Ieio».

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(dittfin), giacché da un lato si usa come sinonimo di bere vino (oånoÜsqai), dall’altro come equivalente a vaneggiare sotto l’effetto del vino (lhreÖn ân oúnˇw) e richiamato che gli Stoici permettevano al saggio di bere, sì, il vino (oånoÜsqai) ma non di vaneggiare in seguito a esso (lhreÖn), gli vietavano cioè di ubriacarsi nel secondo senso, ma gli consentivano di farlo nel primo, mentre i Peripatetici gli vietavano di ubriacarsi in entrambi i sensi, e cioè tanto di bere oltremisura vino puro (àkr¿tˇw ple›oni cr‹sasqai) quanto di vaneggiare (lhreÖn), la prima soluzione del problema consiste nel mostrare che gli uni e gli altri discutono soltanto su termini, ma nella sostanza dicono entrambi la stessa cosa. In effetti, fin dagli Antichi vino puro (ôkrato©) era inteso come sinonimo sia di vino (oÚno©) che di pozione inebriante (m¤qu); di conseguenza, anche bere il vino (oånoÜsqai) e ubriacarsi (meq‡ein), in quanto espressioni derivanti da due significati equivalenti di vino, significano essi stessi la medesima cosa. La seconda soluzione si articola sul motivo che «ubriacarsi» (meq‡ein), secondo l’etimologia sulla quale ci siamo già ampiamente soffermati, deriva la sua denominazione e il suo significato originario dal fatto di bere fino «dopo aver fatto il sacrificio» (met· q‡ein) e che a questa pratica, che è molto antica, attendevano uomini dabbene. Di conseguenza al saggio, che certamente tra questo tipo di uomini deve annoverarsi, è consentito ubriacarsi. L’esplicazione di questo punto è particolarmente interessante, oltre che in se stessa, anche perché presenta una tesi dal sapore tipicamente aristotelico. Il che depone ulteriormente a favore della derivazione, diretta o indiretta, di questa prova dallo Stagirita. Quel modo di bere il vino puro – spiega infatti Filone –, connesso com’è nella sua origine al compimento del sacrificio, s’addice soprattutto al sapiente giacché questi, usando l’intelletto nel modo migliore, si cura della verità, e il sacrificio è accetto alla divinità se chi lo compia ha cura del vero, mentre lo stolto,

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anche se immolasse innumerevoli buoi ogni giorno, compirebbe sacrifici contaminati, in quanto in lui è contaminata «la cosa sacra più necessaria per il sacrificio, ossia l’intelletto». Se si pone a confronto questo passaggio con il frammento del Sulla preghiera nel quale lo Stagirita fa presente che «Dio o è intelletto, o è qualcosa al di là dell’intelletto», si potrebbe credere che nel sacrificio e in quel suo atto finale che è l’ebbrezza, che anche il sapiente può praticare, sia in causa alcunché di razionale, a tal punto da richiedere di essere compiuto da chi ha preoccupazione per l’intelletto e il vero. Ma sarebbe un’impressione errata e forviante. L’intelletto ai cui dettami occorre aver asseverato per compiere il sacrificio in modo puro non è l’intelletto speculativo e la verità che è chiamata in causa non è legata alla conoscenza teoretica. Si tratta invece di dimensioni – sia il buon uso dell’intelletto che la cura del vero – che qualificano lo stato di virtù e di complessiva perfezione morale della persona dabbene, sì che il significato dell’ultima parte del frammento è che soltanto quest’individuo può compiere un sacrificio gradito alla divinità. Lo stolto, colui che non segue i dettami dell’intelletto, esprime emblematicamente, in un’ottica ancora intellettualistica dalla quale neppure Aristotele si è mai del tutto svincolato, il soggetto che vive nel vizio. E l’insegnamento di Aristotele è che costui, anche se sacrificasse innumerevoli buoi, non eseguirebbe mai un’azione degna della divinità. Certo, il sacrificare – che non è un atto teoretico né chiama in causa dimensioni di questo tipo – impegna l’emozione: per esso vale quello che lo Stagirita dice a proposito dell’iniziazione nel fr. 15/a del Sulla filosofia: si tratta di p¿qo©, non di m¿qhma (paqeÖn m„ maqeÖn). L’ebbrezza, che nella sua origine è l’atto conclusivo del sacrificio, comprova e avalla l’assunto. Ma è un’emozione, quella che si dispiega nell’atto sacrificale, che può provare soltanto la persona perbene, la persona cioè che ha prestato ascolto alla retta intelligenza del bene e del male e

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in questo ha avuto cura del vero. Un’intellezione, dunque, che nulla ha di teoretico e che guida unicamente la passione dell’uomo virtuoso negli atti di valore emozionale con i quali si mette in contatto con la divinità. In quest’ottica anche l’ebbrezza riveste, in limine, un valore sacrale. La terza prova fa forza anch’essa su un’etimologia di «ebbrezza (m¤qh)», che non è presentata in alternativa alla precedente, ma in funzione complementare a essa. «Ebbrezza (m¤qh) – dice Filone – non significa soltanto quel bere che si compie “dopo i sacrifici (met· qus›a©)”, ma significa anche quel bere al quale si accede per distendere (meqi¤nai, m¤qesi©) l’anima. E mentre la persona dissennata (ôfrwn) distende l’anima ragionando (logismfi©) su come aumentare i suoi errori (eå© pleifinwn úscusin àmarthm¿twn), la persona assennata (eéfrfinwn) si rilassa nella direzione del piacere del riposo, del buon sentimento e della spensieratezza.» Ora, bere il vino a questo scopo è lecito e in questo senso al sapiente è lecito ubriacarsi. Come si vede, anche qui, come in fondo nella seconda soluzione, il discrimine tra la liceità e l’illiceità dell’ubriachezza è dato dal compimento o meno del male. Sotto questo profilo il sapiente può anche ubriacarsi perché nello stato di ebbrezza non compirà certo il male, ma – dice il frammento nell’ultima parte – si comporterà in modo ancor più piacevole di quando è sobrio. Sulla linea di queste riflessioni si colloca anche il fr. 3/c nel quale Plutarco, che ne è la fonte, distingue un bere il vino (oúnwsi©) che è puro rilassamento (ônesi©), da un bere il vino che è ubriachezza in senso proprio (m¤qh) e ha per effetto di far dire cose insulse (fluar›a). È chiaro che il modo di accostarsi al vino che va rimproverato è questo secondo, ed è infatti questo che i filosofi biasimano, mentre il primo è del tutto lecito. Il fatto che tra il bere il vino e l’ubriacarsi si faccia qui una distinzione che la prima soluzione del fr. 3/b dichia-

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rava essere puramente verbale, fa ragionevolmente credere – a me sembra – che entrambe le posizioni, se, come pare, debbono riportarsi al Simposio aristotelico, rappresentino, in un’opera dal carattere dialogico come questa, l’una il pensiero professato dallo Stagirita, l’altra il pensiero contro il quale egli polemizzava e che soltanto a questo scopo dialettico prendeva in considerazione. E delle due, la posizione che sembra esprimere l’autentico pensiero dello Stagirita è quella enunciata in questo frammento, giacché è dottrina di Aristotele che «delle cose di cui si fa uso possiamo servirci bene o male» (Eth. nic., IV, 1, 1120 a 4-5), e il vino è una delle cose di cui si fa uso (cfr. fr. 3/b, 34, 141: àkr¿tˇw ple›oni cr‹sesqai; 39, 161: ì toÜ oúnou àpfilaus›© te ka‰ crÉsi©). 4.2 Le questioni intorno al banchetto e al bere che si esaminano negli altri frammenti hanno un carattere più strettamente biologico. Interessante, in più di un caso, l’unione di quest’aspetto con quello rituale e religioso. È quanto si riscontra nel fr. 6, dove la questione verte sul motivo per il quale nei banchetti il fico viene servito sia nel corso del pranzo vero e proprio che come leccornia, da consumarsi dunque nel dopo-pasto, secondo quanto abbiamo visto nei frammenti raccolti sotto il n. 5. La spiegazione fa forza sulle qualità del frutto di favorire la digestione, per cui è bene ingerirlo sia come antidoto preventivo dei disturbi causati da un’abbondante assunzione di cibo che successivamente a essa.6 Da rilevare come a queste considerazioni di ordine medico-biologico si affianchino altre di ordine rituale, le quali chiamano in causa la proprietà del fico di rendere, bruciando, odorosi 6 Cfr. anche Hist. anim., VII, 6, 595 a 28 ss., dove si tratta della proprietà nutritiva del fico, sia per gli uomini che per gli animali. In Probl., XXII, 10, 930 b 40 ss. si pone invece la questione «perché i fichi abbrustoliti induriscono?» e in Ivi, 14, 931 a 28 ss. è a tema il motivo per cui essi «offendono i denti».

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gli altari.7 Del resto, già la virtù digestiva di questo frutto veniva presentata come «aiuto sacro (àl¤xhsi© îer¿)», in riferimento al fatto che la relativa pianta era legata al culto di Demetra e ai Misteri Eleusini. Nei due frammenti raccolti sotto il n. 7 si osserva che gli ubriachi per effetto della birra cadono di spalle, mentre gli ubriachi per effetto del vino tendono a cadere in tutte le direzioni ma prevalentemente in avanti (così sembra di dover risolvere l’apparente contrasto tra i due frammenti, il primo dei quali dice che questi ubriachi «cadono in tutte le parti. E infatti sia a sinistra che a destra, sia proni che supini», mentre nel secondo che «si portano nella direzione del volto»). Siamo in presenza di un’osservazione, ma che implicitamente solleva un problema. La cui soluzione, sulla scorta di Laurenti (1987, II, pp. 623 s.), può essere individuata nel fatto che il vino produce un appesantimento della testa (in 7/b esso è detto karhbarikfi©) e questo, come può derivarsi da Hist. Anim., II, 7, 653 a 11 ss.; IV, 8, 533 b 10; 534 a 1-4, ha per effetto il sonno, per cui l’ubriaco di vino «ciondolerà con il capo da ogni parte e si butterà a giacere come che sia, in qualunque posizione». La birra, invece, produce un sopore (cfr. 7/b, dove si precisa che essa è parwtikfi©) che corrisponde a uno stordimento, come si può derivare dal valore semantico dell’aggettivo verbale e del corrispondente verbo, rispettivamente, in Probl., III, 17, 873 b 14 e in Hist.Anim., VIII, 2, 620 b 23; De mir. ausc., 823 a 3 ss. E chi è stordito, al pari che se avesse ricevuto un colpo, stramazza all’indietro. Ancora osservazioni di carattere biologico si rinvengono nel fr. 8. Dapprima si fa presente che il vino, se cotto, attenua la sua capacità inebriante. Il rilievo è perfettamente congruo con la precisazione di Meteror., IV, 2-3 e in particolare 3, 380 b 13 ss., dove si fa presente che la cottura è procedimento nel quale il calore vince le proprietà 7

Sul punto cfr. anche Probl., XX, 18, 924 b 35 ss.

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delle sostanze. Dunque, si deve inferire, anche quella di inebriare, caratteristica del vino. Indi si constata che i vecchi sono più facili a ubriacarsi mentre i giovani lo sono di meno, e se ne dà la seguente spiegazione, basata sul rapporto tra calore interno e assorbimento di quello prodotto dal vino, cosicché non ci si distacca dal piano strettamente biologico: nei vecchi, si precisa, infatti, la facilità di ubriacarsi è dovuta alla scarsità di calore presente nel loro corpo (e parimenti alla scarsità di liquido), e alla conseguente necessità di assorbirlo, sicché, quando bevono vino, lo assorbono rapidamente, giacché produce calore (ed è liquido), con le relative conseguenze in ordine all’inebriamento; nei giovani, invece, la facilità dell’ebbrezza è dovuta alla presenza già nei loro corpi di calore, per cui l’aggiunta di quello prodotto dal vino ha per conseguenza un tale effetto inebriante. Infine, sempre nel fr. 8, si osserva come l’ebbrezza si verifichi anche negli animali e sempre per ragioni legate in ultima analisi al vino. Le osservazioni e le spiegazioni formulate in questo frammento possono sembrare problematiche rispetto a quelle dei frammenti 9 e 12, ma, a ben vedere, un’attenta lettura di questi pone in luce che nessuna discrepanza può ravvisarsi nel tessuto dottrinale di Aristotele. Nel fr. 9 Plutarco, che ne è la fonte, riferisce che Floro, un peripatetico, si meravigliava del fatto che nel nostro dialogo Aristotele avesse dato una precisa spiegazione sul facile ubriacarsi dei vecchi, quella cioè che abbiamo appena richiamato, mentre non ne fornisce nessuna in ordine alla scarsa propensione delle donne verso di essa, limitandosi a enunciare il fatto. Laurenti (1987, II, pp. 626 s.) osserva che la soluzione data al problema da Silla, un altro convitato delle Quaestiones conviviales di Plutarco, ossia che le donne sono poco inclini a ubriacarsi perché il loro corpo è umido, sicché il vino in esso si diluisce e così perde vigore; inoltre esse bevono tutto d’un fiato, per cui il vino non resta nel loro corpo, ma l’attraversa

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soltanto, chiama in causa argomenti che, sulla scorta di Fuhrmann (1872, p. 197), egli mostra che traggono spunto dal Simposio e non da Probl., III, 21 874 a 22-29, come in passato aveva inopportunamente sostenuto Rose (1863, p. 119). Per cui, conclude lo studioso, se nel risolvere il problema formulato da Floro, Silla si rifà a questo dialogo, è logico credere che in esso si trattasse della questione dell’ubriachezza delle donne. A tutta prima potrebbe sembrare che la proprietà del vino di essere un liquido freddo, attestata dal fr. 12, sia in contrasto con quella di sviluppare calore, sulla quale fa forza la spiegazione data nel fr. 8 della facilità dei vecchi e, per converso, della minore propensione dei giovani a ubriacarsi; in generale, contraddica palesemente la proprietà di questa bevanda di essere calda, come si attesta in diversi luoghi e, soprattutto, in Probl., III, 1 (qermoÜ ùnto© toÜ oúnou), 6 (qermoÜ ùnto© toÜ oúnou), 9 (ñp tÉ© qermfithto© toÜ oúnou), 23 (¬ t’ oúno© tán qermán eÚnai t„n f‡sin), 26 (östi d’ ï m‚n oúno© qermfitato©). Ma se si considerano attentamente le cose si trova che non è così. Nel fr. 12 Plutarco, che ne è la fonte, non dice che il vino è freddo, ma soltanto d’essersi imbattuto nella questione della freddezza del vino. E che essa sia stata sollevata nel nostro dialogo è ben logico credere, sia perché alcuni fenomeni concomitanti al bere paiono far riferimento proprio a questo (così, per esempio, in Probl., III), ma, soprattutto, perché dietro tale questione è possibile vedere l’opinione non di Aristotele, ma di coloro contro i quali nel Simposio egli prendeva posizione, secondo un procedimento dialettico che ben s’addice a uno scritto dialogico. Nei frr. 10 e 11, invece, si formulano osservazioni che non concernono più fenomeni e problemi di ordine biologico, ma riguardano alcuni tipi di vino e la qualità di certe tazze, le coppe rodesi, di renderlo più gustoso a sorbirsi perché lo mantengono caldo e gli danno un piacevole aroma.

8 È esattamente questo il tema affrontato nella sezione della Quaestiones conviviales da cui è tratto il frammento. Si discute, in specie, sul detto «odio un compagno di bevuta che ricorda (mis¤w mn¿mona sumpfitan)», detto che ad avviso di alcuni riguarderebbe gli «albergatori, i quali sono di una indelicatezza incredibile quando bevono con gli altri», tanto che «i Dori di Sicilia, come pare, chiamano “albergatore” colui che ha buona memoria (mn¿mona)», per altri, invece, concernerebbe un proverbio inteso a sottolineare la sconvenienza di ricordare quello che s’è detto durante un simposio, cioè sotto l’effetto del vino (cfr. C.P.G., II, p. 533, n. 71 c; p. 761 n. 22). Nelle righe immediatamente precedenti il nostro frammento Plutarco si rivolge a Sossio Senecione, il dedicatario delle Questiones assieme a Euripide, e poiché Sossio condivideva di dover dimenticare le parole proferite in tali circostanze, giacché riteneva «saggia la dimenticanza di ciò che non è bello», e così potevano essere le frasi pronunciate inter pocula, nel tripudio conviviale, ecco che Plutarco gli richiama, con il nostro frammento, che obliare quel che è avvenuto nel banchetto è scontrarsi con l’opinione da tutti condivisa secondo cui in esso si ricerca l’amicizia e, inoltre, con ciò che hanno sostenuto i maggiori filosofi. 9 Cfr. Plutarco, Quaest. Conv., 618 d, 621 c, 660 b ecc., Cato mai., 25, 2. Cfr. anche Platone, Leg., I, 640 c-e, dove si dice che il simposiarca

TESTIMONIANZE

PLUT., Mor. (Quaest. Conv.), I, p. 612 d-e: lo scordarsi totalmente delle cose nel vino,8 non è soltanto scontrarsi con quel creare amicizia, proprio della tavola, di cui tutti parlano,9 ma è anche avere come testimoni contrari i più insigni tra i filosofi: Platone, Senofonte, Aristotele, Speusippo, Pritanide, Ierone, e l’accademico Dione,10 dal momento che ritengono opera degna di una qualche cura aver scritto discorsi originatisi durante la bevuta.

«deve badare alla riunione , giacché egli è il custode dell’amicizia esistente tra i convitati e dovrà cercare che s’accresca proprio in forza di quella riunione». 10 Oltre ai noti Banchetti di Senofonte e Platone, Plutarco fa qui riferimento a scritti di identico argomento, ma assai meno noti, di Speusippo (al quale Diogene Laerzio, III, 2 attribuisce un’opera dal titolo Pl¿tono© per›deipnon. Ma – rileva Laurenti [1987, II, p. 599, nota 3] – si tratta del medesimo Pl¿tono© âgkÒmion menzionato sempre da Diogene Laerzio, IV, 5, «giacché per›deipnon si usa anche nel senso di ânkÒmion e di lfigo© âpit¿fio© [F. Pfister, in PW., XIX, 723]: quindi il per›deipnon non ha niente a che fare col Banchetto ricordato da Plutarco), di Pritanide, tiranno della risorta Megalopoli (in proposito cfr. K. Ziegler, in PW. XXIII, 1158), di Ieronimo, autore di un per‰ m¤qh© (cfr. Wehrli 1967, X, frr. 25-28, pp. 15-16), di Dione di Alessandria (cfr. Von Arnim, in PW., V, 847), del quale Ateneo, I, 34 b racconta lo strano modo di spiegare l’amore degli Egiziani per il vino e per il bere (filo›nou© ka‰ filopfita©): perché la vite era stata trovata nella città egiziana di Plintine.

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11 Al fine di comprendere adeguatamente il frammento si tenga presente che esso è tratto da un contesto dove è descritto un banchetto e sono espressamente a tema le battute scherzose (loidor›a ka‰ skÒmmata) durante i simposi. Le parole qui presentate sono messe in bocca da Macrobio a Eustratio, uno dei partecipanti al banchetto, il quale invita Avieno ad astenersi durante i simposi dal pronunciare battute a doppio senso (skÒmmata), perché potrebbero derivarne le conseguenze più impensate e nocive. 12 Od., VIII, 449. 13 Od., IV, 48. 14 Cfr. D.K. 22 B 13. È ragionevole credere che l’Efesio, esprimendosi in tal senso, si sia richiamato a una norma comune del banchetto, una sorta di regola del galateo di chi si reca a un simposio.

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MACR., Sat., VII, 3, 23: Intendo persuaderti o a proporre nei banchetti [...] delle questioni conviviali o a risolverle tu stesso. Genere, questo, che gli Antichi a tal punto non ritennero ridicolo che sia Aristotele, sia Plutarco, sia il vostro Apuleio scrissero alcune cose sugli stessi argomenti.11

FRAMMENTI

1 (R2 175, R3 100) ATHEN., V, 188 e-f: Omero, poiché era preciso in ogni cosa, anche questo piccolo aspetto non trascurò, e cioè che si deve andare al banchetto dopo aver avuto cura del proprio corpicino ed essersi lavati. E in effetti, nell’episodio di Odisseo prima del banchetto presso i Feaci, disse: «immediatamente, dunque, la governante lo invitò a lavarsi»,12 e in quello dei compagni di Telemaco: «essendo andati ai bagni ben lavorati, si lavarono».13 Infatti, dice Aristotele, sarebbe stato sconveniente recarsi al banchetto con molto sudore e polvere. Ché, la persona aggraziata non deve né essere sporca, né essere coperta di polvere, né gioire del fango, secondo il pensiero di Eraclito.14 2 (R2 108, R3 101) ATHEN., XV, 647 c – 675 a: prescrive che coloro che sacrificano s’incoronino, come se si trattasse di un atto più smagliante e maggiormente gradito agli dèi. Aristotele nel Simposio afferma che agli dèi non portiamo nulla d’incompleto, ma cose perfette e intere; ma ciò che è pieno è perfetto, e l’incoronare significa una certa pienezza.15 Omero: «i giovani riempivano i crateri di be15 Come opportunamente fa rilevare Laurenti (1987, II, p. 605, nota 9), l’affermazione di Saffo, intesa a sottolineare l’opportunità che a incoronarsi siano i sacrificanti, e quella di Aristotele, che sottolinea invece l’opportunità di incoronare le vittime sacrificali, sono, per così di-

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re simmetriche, sulla base del significato di st¤fein, che primariamente vuol dire compiere, completare, riempire (cfr. D. É. L. G., s.v.) e solo secondariamente assume la valenza di incoronare, sul presupposto, per l’appunto, che l’incoronamento sia una sorta di completamento e di riempimento dell’azione che si compie. Un completamento e un riempimento di cui Saffo rileva, dunque, la pertinenza in rapporto al sacrificante e Aristotele alla vittima sacrificale. 16 Il., I, 470. 17 Od., VIII, 170. 18 Si tratta di un’espressione di lutto. 19 Cfr. la nota 16. 20 «Banchetto» (qo›nh) è nome costruito sullo stesso radicale del verbo qásqai, banchettare (cfr. D. É. L. G., s.v., p. 347); «festa» (qal›a) significa propriamente «abondance, bonne chère, hom. ã¿leia [da›©] abondant» (D. É. L. G., s.v., p. 331); in m¤qu, ebbrezza, risuona la radice sanscrita màdhu che indica dolcezza inebriante; da qui m¤qu ha assunto il significato di «bevanda fermentata» e m¤li quello di miele (D. É. L. G., s.v., p. 619). La spiegazione dei tre nomi che qui propone Seleuco, un grammatico alessandrino del tempo di Tiberio, fa leva, invece, su altri nomi o anche sulle locuzioni che in qualche modo contengono le sillabe di cui il nome è composto, secondo un uso invalso presso gli Antichi e

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vanda»,16 e «ma il Dio incorona la sua forma con parole».17 Infatti, egli sostiene, la capacità di convincere del loro dire riempie coloro che alla vista sono privi di bellezza. Questo, dunque, sembra voler compiere la corona. Perciò, quando in causa sono i dolori ci comportiamo in modo contrario: per compassione di colui che ne è vinto recidiamo noi stessi con il taglio dei capelli ed eliminando le corone.18 Schol. in Theocr., 3, 21: «strappami via la corona [...]», facevano uso di corone nei simposi, come afferma Aristotele, alludendo alla ricchezza e all’abbondanza dei cibi. Infatti, incoronare è riempire, come dice Omero: «i giovani riempivano i crateri di bevanda».19 3 (R2 98, R3 102) ATHEN., II, 40 c-d: Seleuco che nei tempi antichi era costume non portare a tavola più del dovuto né vino né altra cosa che desse un senso di dolcezza, a meno che non lo si facesse per gli dèi. Per questo li nominavano banchetti (qo›na©), feste (qal›a©), ebbrezze (m¤qa©):20 i primi, perché supponevano che si dovesse bere vino (oånoÜsqai) in onore degli dèi; le seconde, perché finalizzavano agli dèi il riunirsi (qeán c¿rin ìl›zonto) e lo stare insieme: questo, infatti, è il «banchetto abbondante»;21 quanto all’ubriacarsi (meq‡ein), Aristotele afferma che è fare uso di vino dopo il compimento del sacrificio (met· t q‡ein). sulla linea del Cratilo platonico. Di tali spiegazioni, soltanto quella di m¤qu o, più precisamente, del corrispondente verbo meq‡ein è riportata ad Aristotele, mentre le altre né sono riferite a lui, né, sulla base del testo, sembra possano esserlo (in proposito cfr. Laurenti 1987, II, p. 615). 21 Od., III, 420. Per da›ta q¿leia, banchetto abbondante, cfr. la nota n. 20 e Sc.G.H.O., I, p. 160, ove così si esplica q¿leia: «che fa fiorire e gioire il sacrificante, perché non sacrifica senza scopo, ma per essere aiutato e custodito dal dio al quale sacrifica». Cfr. anche Van der Valk 1971, I, ad loc.

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Si tratta dei Peripatetici.

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PHILO., De Plant., 34, 141: poi, dunque, conosceremo con precisione che cosa il legislatore ha detto dell’ubriachezza; ora invece esamineremo quante opinioni hanno espresso gli altri. Ebbene, presso molti filosofi la ricerca è stata fatta oggetto di una cura smisurata; invece si propone in questi termini: se il sapiente si ubriacherà. Ora, «ubriacarsi» ha due significati: in uno è uguale a bere il vino, nell’altro è uguale a vaneggiare sotto l’effetto del vino. Tra coloro che hanno messo mano alla questione, alcuni hanno sostenuto che il sapiente né fa uso di vino puro in una quantità maggiore, né vaneggia22 [...] 35, 144: altri hanno sostenuto che il bere il vino è cosa che conviene all’uomo dabbene, mentre il vaneggiare gli è sconveniente23 [...] 38, 154: gli Antichi chiamavano il puro, tanto vino quanto pozione ubriacante. Il fatto si è che in molti luoghi della poesia è presentato questo nome qui; di conseguenza, se i termini che hanno significato sinonimico, ossia vino e pozione ubriacante, si dicono di un unico oggetto, anche quelli che derivano da essi, ossia bere il vino e ubriacarsi, non differiranno in nulla, poiché differiscono soltanto per i suoni [...] 38, 155: ma se berrà il vino, si ubriacherà [...] 38, 156: la prima dimostrazione del fatto che il sapiente si ubriacherà è stata esposta; la seconda è di tal fatta [...] 39, 160: ché, anche rispetto al vino puro i contemporanei non si rapportano in modo simile agli Antichi [...] 161: Gli uomini del tempo precedente fecero iniziare ogni bell’azione dai riti sacri, ritenendo che soprattutto così il compimento sarebbe loro giunto propizio, ossia per aver prima pregato e sacrificato; e se le circostanze dell’agire incalzavano molto, si arrestavano totalmente, poiché ritenevano che non sempre ciò che è veloce sia migliore di ciò che è lento. Infatti, una velocità non previamente considerata è dannosa, mentre la lentezza ac23

Riferimento agli Stoici.

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compagnata da buona speranza è vantaggiosa. Avendo dunque visto che il piacere e l’uso del vino hanno bisogno di molta attenzione, non si dedicarono a quello puro né in abbondanza né sempre, ma nella misura e nella circostanza convenienti. Infatti, dopo aver pregato e offerto sacrifici e propiziata la divinità, e dopo aver purificato i corpi e le anime, i primi con bagni, le seconde con le acque scorrenti delle leggi e della retta educazione, si volgevano sereni e lieti a un modo di vita disteso, spesso non facendo ritorno alle loro case, ma terminando il giorno nei templi nei quali avevano sacrificato, perché, sia ricordandosi dei sacrifici, sia avendo rispetto del luogo, conducessero un banchetto veramente molto conveniente al luogo sacro, senza commettere errori né con la parola né con l’opera. Da ciò dicono ha derivato la denominazione l’ubriacarsi (t meq‡ein), poiché nei tempi precedenti era costume, dopo aver sacrificato (met· t q‡ein), bere il vino. Ebbene, a quali individui più che agli uomini sapienti può essere appropriato il modo d’usare il vino puro che abbiamo detto, a loro ai quali si adatta anche l’ufficio che precede l’ebbrezza, ossia il sacrificare? Ché, quasi neppure uno degli sciocchi opera sacralmente in rapporto alla verità, anche se continuamente ogni giorno offrisse innumerevoli buoi. Infatti, la cosa sacra più necessaria per il sacrificio, ossia l’intelletto, è contaminata, e non è lecito che soggetti contaminati s’accostino all’altare. Ebbene, la seconda prova è questa [...] 40, 165-166: la terza è derivata dalla differente attendibilità rispetto all’etimologia. In effetti, alcuni ritengono che l’ubriachezza (t„n m¤qhn) non sia chiamata solo perché ha compimento dopo i sacrifici (met· qus›a©), ma anche perché è causa di rilassamento (meq¤sew©) dell’anima. E il ragionamento dei dissennati si rilassa in direzione di un prendere forza di più errori, mentre quello delle persone assennate si rilassa nella direzione del piacere del riposo, del buon sentimento e

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24 Il soggetto è l’ubriachezza, di cui nelle righe immediatamente precedenti Plutarco ha detto che è causa d’intemperanza e d’incontinenza nelle parole, e a questo fine cita Od., XIV, 464-466: « fa cantare anche l’uomo molto assennato / e lo spinge a ridere fino alle lacrime e a danzare». Subito appresso, però, sottolinea che la cosa più brutta non è questa, ma quella espressa nel nostro frammento, ossia far pronunciare parole che sarebbe meglio non dire. 25 Ossia, Omero. 26 Seguo la lezione adottata da Ross oî prooimiazfimeno› fasin; altri invece leggono oî paroimiazfimeno› fasin, come affermano i proverbi (così Laurenti, che rinvia a Paroem. Gr., I, p. 313; II, pp. 218, 687). 27 Cfr. Xen, Symp., VI, 1-3. 28 I quattro frammenti raccolti sotto il n. 4 presentano due varianti di identici racconti: Ateneo (fr. 4b) parla di taluni che, pur mangiando cibi secchi, vissero senza mai bere e cita tra costoro un non altrimenti noto Arconide di Argo. Inoltre presenta un altrettanto ignoto Magone di Cartagine che per tre volte attraversò il deserto della Libia nutrendosi di cibi secchi e senza bere. Invece Apollonio, Diogene Laerzio e Sesto Empirico riuniscono entrambi gli episodi nella figura, parimenti sconosciuta, di Androne di Argo. Il fatto che tanto Arconiode quanto

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della spensieratezza. Infatti, il sapiente dopo aver bevuto il vino diventa egli stesso più piacevole di quando è sobrio, per cui neppure per questo motivo cadremo in errore dicendo che si ubriacherà [...] PLUT., Mor. (De garrul.), 4, p. 503 f: «e fa emettere una certa parola che sarebbe stato meglio fosse impronunciabile»24 [...] e il poeta,25 sciogliendo forse ciò che presso i filosofi è oggetto di ricerca, espresse la differenza tra bere il vino e ubriachezza: il rilassamento è proprio del bere il vino, mentre il dire cose insulse è proprio dell’ubriachezza. In effetti, ciò che è nel cuore della persona sobria, è sulla lingua di chi beve il vino, come affermano i compositori di poemi26 [...] 504 b: i filosofi anche quando definiscono l’ubriachezza dicono che è vaneggiamento dovuto al vino.27 In tal modo non si rimprovera il bere, se al bere sia unito lo stare in silenzio, ma il parlare a vanvera rende il bere vino ubriachezza. (R2 99, R3 103)28 APOLLON., Mirab., 25 (Keller): Aristotele nell’opera Sull’ubriachezza afferma: «Androne di Argo, che pur mangiava molte salate e secche, raggiunse la fine senza mai aver sete e senza bere, per l’intero corso della vita. Inoltre, essendo andato due volte al santuario di Ammone attraverso il deserto, benché si nutrisse di cibi secchi, non aveva portato con sé dell’acqua».

Androne siano di Argo può far pensare a un’unica fonte primitiva dalla quale i successivi racconti hanno involontariamente alterato il nome del protagonista. In quest’ipotesi mi sembra logico ipotizzare che il suo nome fosse Androne, stante la ricorrenza di questo nome e dei due episodi ascritti al personaggio in Diogene, Sesto Empirico e Apollonio, e la difficoltà di credere che tutte e tre gli autori abbiano attinto, in tempi diversi, al medesimo testimone. È invece più credibile che abbiano derivato l’informazione da testimoni diversi, i quali a loro volta attingevano alla medesima, primitiva fonte. In tal modo mi sem-

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bra di poter concludere che il racconto dei tre citati autori sia quello rispondente all’originario, mentre il racconto di Ateneo provenga da una tradizione che si è distaccata da esso, per la modifica del nome e la duplicazione degli episodi. 29 Le «seconde mense», espressione del cui significato, com’è chiaro dalla fine del frammento, qui si intende fornire la spiegazione, erano costituite da quelle «leccornie» (trag‹mata) che si mangiavano dopo aver consumato il pasto vero e proprio (bráma, ödesma). Gli Antichi, dice Aristotele, le chiamavano «pasticcini» (trwg¿lia), ed erano costituite da cibi di sapore dolce e gradevole, meno impegnativi di quelli del pasto vero e proprio: un vero dopopasto, paragonabile (come indica Laurenti 1987, II, p. 608, nota 22, che così addirittura traduce il termine) con il nostro «dolce» o «dessert». Pindaro (fr. 124c Snell [p. 103]) ne fa menzione in questi termini: «quando il pranzo è finito, dolce è il pasticcino (trwg¿lion), anche se il mangiare è stato abbondante». Una spiegazione molto vicina a quella di Probl., XXII, 6, 930 b 12 dove si spiega che le leccornie (trag‹mata) si devono mangiare «per bere a sufficienza, giacché non si beve soltanto per la sete procurata dai cibi che si consumano durante il pasto, ma anche

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EPIT. ATHEN., II, 44 d: Aristotele nell’opera Sull’ubriachezza afferma che taluni, pur portando alla bocca alimenti secchi, trascorsero il loro tempo senza mai bere. E tra costoro vi era Arconide di Argo. Il cartaginese Magone attraversò per tre volte il deserto nutrendosi con cibi secchi e senza bere. DIOG. LAERT., IX, 11, 81: Androne di Argo, come afferma Aristotele, viaggiò senza bere attraverso il deserto della Libia. SEXT. EMP., Pyrrh. Hypot., I, 84: Androne di Argo non provava sete, a tal punto da viaggiare per il deserto della Libia senza ricercare una bevanda. 5 (R2 101, R3 104) ATHEN., XIV, 641 d-e: Aristotele nell’opera Sull’ubriachezza parla di «seconde mense» in modo simile a noi, con queste espressioni: «bisogna porre mente al fatto che una leccornia differisce interamente dal cibo, quanto un pasto da un pasticcino. 29 Questo, infatti, è l’antico nome per gli Elleni, poiché nelle leccornie sono presentati i cibi. Perciò non sembra che abbia detto male il primo che parlò di seconda mensa. In effetti, il mangiare leccornie è realmente una sorta di mangiare aggiuntivo, e le leccornie pongono innanzi un secondo pranzo».

dopo i cibi». Quanto alla loro consistenza, Cratete nel Filargiro (Edmonds 1957, III A, p. 174, n. 20), dopo aver detto che le leccornie (trag‹mata) erano pasticcini (trwg¿lia) e rappresentavano il dopopasto (âpidorp›smata), informa che erano costituite da uova e sesamo. Difilo nei Teleria (Edmonds 1961, III A, p. 138, n. 79) le fa consistere in «pasticcini, bacche di mirto, ciambelle, mandorle». Platone (Resp., II, 372 c) in fichi, ceci e fave. Polluce (VI, 11, 79) in bacche di mirto, noci, nespole, sorbe, chicchi d’uva, mandorle, pesche, fichi secchi e freschi.

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30 Sulla funzione e sull’uso del fico nei banchetti si veda Suda, IV, p. 454 (ed. Adler). 31 Si fa qui riferimento alla credenza secondo cui il fico costituiva un antidoto sacro (in proposito e, in generale, sulla sacralità del fico cfr. Olck, in PW., VI, 2144-2148), giacché sacra era la sua pianta (così almeno ad Atene), in quanto legata al culto di Demetra e ai Misteri Eleusini (in proposito cfr. Mylonas 1972, pp. 246 ss.). Una tale credenza vigeva nell’ambito complessivo di quella distinzione tra medicina sacra e medicina laica, o scientifica, contro la quale si scaglia Ippocrate nella prima parte del Morbo sacro. 32 La denominazione della birra con i termini p›non e brÜto©, è

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ATHEN., XIV, 641 b: Aristotele nell’opera Sull’ubriachezza afferma che le leccornie erano chiamate dagli Antichi pasticcini, come se, infatti, fossero un mangiare aggiuntivo. Schol. In Aristoph. Pacem, I, 772: «di pasticcini» invece che «di leccornie». Così, infatti, gli Antichi chiamavano le leccornie. 6 (R2 218, R3 105) PS.-JUL., Ep., 391 b-c: il fico non è soltanto dolce alla percezione, ma altresì utile alla digestione.30 È così vantaggioso per gli uomini che Aristotele sostiene che esso è farmaco che soccorre alla rovina di ogni altro farmaco e che non per qualche altro motivo se non per questo nei banchetti viene presentato sia prima dei cibi che mangiato dopo, in guisa di leccornia, come se, in luogo di ogni altro aiuto sacro,31 si cingesse dei guasti dei cibi. E che sia presentato agli dèi anche come cosa che sta sugli altari di ogni sacrificio, e che sia migliore di ogni incenso per la preparazione del profumo, ebbene, questo discorso non è mio proprio, ma chiunque ne abbia imparato l’utilità conosce che è il discorso dell’uomo sapiente e profetico. 7 (R2 101, R3 106) ATHEN., X, 447 a-b: ma, come afferma Aristotele nell’opera Sull’ubriachezza, coloro che hanno bevuto la pozione d’orzo, che chiamano birra,32 cadono di spalle. Così egli dice: «peraltro, in ordine ai grani di orzo, ossia alla cosiddetta birra, avviene qualcosa di particolare. In effetti, coloro che sono stati ubriacati da altre capaci di dare ebbrezza,33 cadono in tutte le parti. E attestata in Athen., X, 447c e Van der Valk 1971, I, pp. 57 ss., III, p. 286. 33 Si tratta del vino (si noti l’endiadi ñp tán loipán te ka‰ mequstikán), di cui Ateneo parla nelle righe immediatamente precedenti

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del frammento, per rassicurare chi ne beve dalla paura di cadere di spalle; effetto che, dice qui l’autore, richiamando per l’appunto Aristotele, capita soltanto ai bevitori di birra. 34 Qui, come si vede, Aristotele non si limita a richiamare dei fatti, ma ne indica le cause. 35 Sulla proprietà inebriante del vino Aristotele ritorna anche in De somn., 456 b 9 ss.; Pol., VII, 17, 133 a 8 ss.; Hist. Anim., VII, 12, 588 a 6 ss. La cottura (su cui cfr. Meteror., IV, 2-3 e in particolare 3, 380 b 13 ss. In proposito si veda Baffioni 1981, pp. 76 ss.) è procedimento nel quale il calore vince le proprietà delle sostanze. Dunque, anche quella di inebriare, caratteristica del vino, che per questo, se cotto, risulta meno capace di dare ubriachezza. 36 Sulla presenza di poco calore nel corpo dei vecchi, che perciò è secco, cfr. Probl., III, 26 ss. Ora, proprio tale secchezza è la causa del loro ubriacarsi in fretta, come si può dedurre da Probl., III, 34 dove Aristotele, trattando del motivo per cui essi, quando sono ubriachi, urinano meno dei giovani e indicandone la ragione nel fatto che i loro corpi, in quanto secchi e aridi, tendono ad assorbire quegli eccessi di liquido che invece i corpi dei giovani, essendo caldi e umidi, non hanno bisogno di assorbire e perciò espellono, lascia chiaramente intendere che, a motivo di tale secchezza e aridità, pure il calore è assorbito maggiormente dal corpo dei vecchi. Altrimenti detto, il loro corpo, per via della secchezza e dell’aridità, è incline ad assorbire il liquido, del quale è poco provvisto, e dunque anche il vino, e parimenti è incline ad assorbire calore, giacché anche di esso ha una quantità ri-

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infatti sia a sinistra che a destra, sia proni che supini. Ma soltanto coloro che si sono ubriacati con la birra cadono indietro e supini». ATHEN., I, 34 b: Aristotele afferma che coloro che si sono ubriacati di vino si portano nella direzione del volto, mentre coloro che hanno bevuto la pozione d’orzo rovesciano indietro la testa. Infatti, il vino è atto a dare mal di testa, la pozione d’orzo a dare sopore.34 8 (R2 102, R3 107) ATHEN., X, 429 c-d: Aristotele nell’opera Sull’ubriachezza afferma: «il vino, se fatto cuocere a misura, nel berlo ubriaca di meno». Infatti, se è stato cotto, la sua forza diviene più debole.35 «E i vecchi – egli dice – si ubriacano assai in fretta, per la pochezza e la debolezza del calore che per natura è in loro.36 Anche coloro che sono completamente giovani si ubriacano alquanto in fretta, per la quantità di calore che è in loro.37 Infatti, sono vinti fadotta, e il vino dà calore. Ecco la ragione della loro tendenza a ubriacarsi più in fretta dei giovani, dovuta, come s’è detto, alla necessità di incamerare liquido e calore, proprietà che il vino possiede. Tale spiegazione, del resto, è identica a quella che offre Silla là dove, trattando dell’ebbrezza dei vecchi, fa presente che «quando bevono, il vino è naturalmente assorbito dal loro corpo, che dalla secchezza è reso spugnoso, e restandovi li provoca in vari modi e li appesantisce» (Plut., Quaest. Conv., 650 c-d). 37 Sulla presenza del calore nel corpo dei giovani cfr. Probl., III, 7. Come si può facilmente notare, la ragione per la quale essi si ubriacano in fretta è diametralmente opposta a quella che causa una celere ebbrezza nei vecchi: in questi secondi, infatti, la facilità di ubriacarsi è dovuta alla scarsità di calore presente nel loro corpo (e parimenti alla scarsità di liquido), e alla conseguente necessità di assorbirlo, sicché, quando bevono vino, lo assorbono rapidamente, giacché produce calore (ed è liquido), con le relative conseguenze in ordine all’inebriamento (cfr. la nota precedente); nei primi, invece, la facilità dell’ebbrezza è dovuta alla presenza già nei loro corpi di calore, per cui l’aggiunta di quello prodotto dal vino ha per conseguenza un tale effetto inebriante.

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Ossia, impastata col vino. Cfr. Ael., Var. Hist., II, 40; Plin., Nat. Hist., XXIV, 17, 102; XXVI, 11, 69. 40 Uno dei Peripatetici, menzionato da Plutarco anche nel fr. 1 de Sull’educazione. Alla relativa nota 1 si rinvia per le notizie biografiche. 41 Forse un vino venduto sul mercato di Samo (per questo leggono anche samagoraÖon in luogo di samagfireion). Ad avviso di Schweighaeuser (1804, V, pp. 401-402) si tratterebbe del vino di Maronea, «Homero celebratum, cuius una pars cun vigenti aquae partibus miscebatur, ut ait poeta Od., IX, 209». Cfr. anche Plin., Nat. Hist., XIV, 4, 6. 42 Il cotile era una misura usata sia per sostanze liquide che per sostanze solide. Corrispondeva all’incirca a 1/4 di litro. 43 Facendo leva sull’uso comune di nominare il contenitore per indicare il contenuto (cfr. Schweighaeuser 1804, VI, pp. 30-32), erano così chiamate delle tazze, legate all’isola di Rodi o per l’uso che lì se ne faceva, o per la provenienza del contenuto stesso, nelle quali erano 39

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cilmente da quello che si produce in aggiunta dal vino. E tra gli animali irrazionali si ubriacano sia i maiali, se si alimentano di grappoli di vinaccia, sia quel genere di corvi e di cani che mangiano l’erba chiamata enutta,38 e poi la scimmia e l’elefante, se bevono vino. Per questo, le cacce delle scimmie e dei corvi si effettuano dopo averli ubriacati, le prime col vino, i secondi con l’enutta.»39 9 (R2 103, R3 108) PLUT., Mor. (Quaest. Conv.), III, 3, p. 650 a: Floro40 si meravigliava che Aristotele, il quale nell’opera Sull’ubriachezza aveva scritto che massimamente i vecchi sono presi dall’ubriachezza, mentre le donne pochissimo, non ne prospettò la causa, pur non essendo uso a trascurare nessuna di tali cose. 10 (R2 104, R3 109) ATHEN., X, 429 f: Aristotele afferma che il vino chiamato samagoreo41 derivato da tre cotili42 mescolati ubriaca più di quaranta uomini. 11 (R2 105-106, R3 110-111) ATHEN., XI, 464 c-d: anche Aristotele nell’opera Sull’ubriachezza dice: «le coppe denominate rodie43 sono proposte per bere fino all’ebbrezza,44 sia per il piacere, sia per il fatto che, riscaldate, fanno sì che il vino ubriachi di meno.45 Infatti, sono bollite gettando nell’acqua smirra,

immesse e mescolate assieme erbe aromatiche aventi per effetto di rendere il vino odoroso e meno inebriante. A proposito del vino così trattato Ateneo (II, 38 f) così scrive: «giustamente Aristone di Chio dice che la bevanda migliore è quella che unisce dolcezza a un odore gradito. Per questo alcuni abitanti dell’Olimpo di Lidia preparano quel che chiamano “nettare”, mescolando vino e miele e i fiori più odorosi». 44 Sull’espressione eå© t·© m¤ãa© cfr. Platone, Leg., III, 682e. 45 Cfr. la nota 35.

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giunco e le altre sostanze di questo genere, ed esse, versate nel vino, fanno ubriacare di meno». E in un’altra parte afferma: «le coppe rodie si producono cocendo assieme smirra, giunco, aneto, zafferano, balsamo, amomo e cinnamomo; e ciò che si produce da queste , versato nel vino, arresta le ubriacature in modo da liberare gli spiriti da afrodisiaci, facendoli smaltire». ATHEN., XI, 496 f: di esse (scil., delle coppe rodie) si ricorda [...] anche Aristotele nell’opera Sull’ubriachezza. 12 PLUT., Mor. (Quaest. Conv.), III, 3, pp. 651 b – 652 a: «quanto al vino, desidero sapere da dove è venuta a noi la supposizione del suo essere freddo.» «Credi infatti – dissi io – che questo discorso sia nostro?» «E di chi altro? – disse.» «Ricordo dunque – dissi io – d’essermi imbattuto in un discorso di Aristotele su questo problema,46 non di recente, ma in un tempo sufficientemente antico.»

46 Sul tema del vino come liquore freddo ritornerà anche Epicuro (cfr. Arrighetti, pp. 181 ss.).

SOFISTA SOFISTHA

INTRODUZIONE

Il Sofista compare al n. 7 del catalogo di Diogene Laerzio (V, 22) e al n. 8 di quello dell’Anonimo. Dei cinque frammenti attribuiti da Ross a questo dialogo (tre raccolti sotto il n. 1, i restanti come fr. 2 e fr. 3), al modo in cui già avevano fatto Rose nell’Aristoteles Pseudoepigraphus e Heitz, soltanto per i tre presentati al n. 1 l’attribuzione è certa. In merito agli altri due gli studiosi hanno pareri discordi, anche se sembra del tutto congruo che a un’opera come quella presente, che ha per oggetto il sofista, appartenga un frammento nel quale sono a tema i discorsi di Protagora (fr. 3); né potrebbe sembrare strano che di essa faccia parte un frammento che tratta di Empedocle, stante che i tre raccolti al n. 1 assumono espressamente a oggetto il filosofo agrigentino. Si tratta fondamentalmente di comprenderne il motivo. A tutta prima, infatti, potrebbe apparire singolare che Empedocle venga assimilato a un sofista, sì da essere il personaggio principale e primario dei frammenti di uno scritto nel quale è ragionevole credere che Aristotele abbia proceduto a definire questo tipo di soggetto – molto probabilmente, come fa rimarcare Laurenti (1987, I, p. 497), in stretta relazione con le definizioni del sofista date da Platone nell’omonimo dialogo. Un’opera alla quale quella aristotelica dovette riferirsi molto più che ai dialoghi giovanili di Platone volti a tratteggiare la figura di questo pseudo-sapiente, il Gor-

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gia e il Protagora in primis, o alla stessa Repubblica, di datazione posteriore a essi, per quanto attiene alla presentazione di Cefalo. Se però si tiene conto del fatto che, tanto nella testimonianza di Diogene Laerzio quanto in quella di Sesto Empirico, il nome di Empedocle è abbinato all’invenzione della retorica, così come quello dell’eleate Zenone lo è all’invenzione della dialettica, subito l’effetto di estraniazione si attenua e finisce per svanire. In effetti, gli storici hanno decisamente sottolineato le ottime capacità scrittorie e oratorie di Empedocle,1 mettendone in luce il fluire dell’espressione prosastica, oltre che quella poetica, e l’uso di regole del discorso che saranno poi teorizzate da Gorgia.2 Parimenti va tenuto presente la sua attività di consigliere politico, molto apprezzato dallo stesso Pericle,3 per la quale la pratica della retorica specifica – secondo la stessa teorizzazione dello Stagirita (cfr. Rhet., I, 3), che evidentemente stabilisce la condizione teorica in rapporto a un fainfimenon costituito nel caso di specie dalla storia della retorica deliberativa – uno degli usi di questa disciplina. Se dunque si pone mente a queste due circostanze, pensate in concorso, ci si avvede che la presenza di Empedocle in un dialogo ove era a tema il sofista non è af1 In proposito cfr. Riposati 1951, p. 659; Martano 1968b, pp. 185 ss., Guthrie 1962-81, II, pp. 134-138. 2 Così, per esempio, Martin 1974, p. 53 scrive che Empedocle «in der l¤xi© neue Wage eingeschlagen und, wie dann später auch Gorgias, die Sprache der Dichter auch für die Prosa verwendet habe». Parimenti Blass 1892, I, p. 16 sottolinea che «es war derselbe nur ein praktischer Redner, der mit Nachdenken und Kunst seine Reden einrichtete». Per parte sua Burnet 1952, p. 236 rileva che i discorsi di Empedocle «étaient marqués de cet euphuisme que Gorgias introduisit plus tard à Athènes et qui donna l’idée d’une prose artistique». Per contro va registrato il giudizio di De Romilly 1975, p. 16 secondo cui Empedocle, al pari di Pitagora, pur dedicandosi alla retorica, non aveva tuttavia interessi specifici in questo settore. 3 In proposito è tuttora fondamentale lo studio di Diels 1976.

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fatto una forzatura. Giacché la sofistica richiama immediatamente la retorica e si connette costitutivamente a questa disciplina, ed Empedocle, come si è sottolineato, eccelleva in campo retorico, tanto che Aristotele prende espressamente a oggetto il suo stile (cfr. Rhet., III, 5, 1407 a 35), sia pur per muovere una critica (egli eccedeva nelle anfibolie): cosa che non avrebbe fatto se si fosse trattato di uno scrittore così mediocre da non meritare attenzione alcuna. Le testimonianze su questo pensatore fornite da Diogene Laerzio in 1a e 1b e da Sesto Empirico in 1c vanno attentamente considerate perché a una lettura non particolarmente attenta potrebbero dare luogo a un giudizio di contraddittorietà in danno di Aristotele o comunque al rilevamento di una pesante incongruenza nelle sue affermazioni. In effetti, Cicerone (De inv., II, 2 = test., 4) riferisce che per lo Stagirita («Aristoteles ait») il primo a usare la retorica, ossia il suo stesso inventore, fu Tisia («a principe illo atque inventore Tisia»). Parimenti in Soph. El., 183 b 31 ss., un passo ove lo Stagirita richiama gli inizi della retorica e i primi scrittori di Arti retoriche, egli nomina tra costoro ancora Tisia, assieme a Trasimaco e Teodoro. Ma nel fr. 1a Diogene Laerzio riferisce che per Aristotele «Empedocle fu il primo a trovare (eñreÖn) la retorica» (fr. 1a); affermazione ripresa e ribadita dal dossografo nel fr. 1b: ad avviso dello Stagirita, come Zenone fu «l’inventore (eñret‹©) della dialettica», così «Empedocle lo fu della retorica». Al che fa eco Sesto Empirico: «Aristotele afferma che Empedocle ha mosso (kekinhk¤nai) per primo la retorica». Un’incongruenza che con ogni probabilità dovette apparire anche a Quintiliano se in Inst. Orat., III, 1, 8, tratteggiando succintamente un quadro della sofistica, avvertì il bisogno di precisare che «primus post eos, quos poetae tradiderunt, movisse aliqua circa rhetoricen Empedocles dicitur». Quintiliano, in realtà, in questa anno-

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tazione ricalca il luogo di Rhet., III, 1, 1404 a 20 ss. dove Aristotele afferma che «i poeti incominciarono a muovere il primo (õrxanto m‚n oÛn kin‹sai t práton [...] oî poihta›)» verso le arti della parola: la rapsodia, le arti dell’attore e le altre (si noti l’uso del verbo «muovere» in Quintiliano, in Sesto Empirico e in Aristotele), cosicché, prosegue lo Stagirita, il primo stile retorico fu di tipo poetico, com’è quello di Gorgia, «dal momento che i poeti, pur narrando cose di poco conto, acquisivano la fama grazie all’elocuzione» e «anche ora la maggior parte delle persone prive di cultura ritiene che coloro che fanno uso di tale elocuzione discutano nel modo migliore» (Ivi, 24-27). Ebbene, in riferimento al su citato passo della Retorica ed entro il quadro delle precisazioni da esso provenienti, è significativo – si diceva – che il retore spagnolo abbia avvertito il bisogno di precisare che Empedocle, ad avviso di Aristotele (dicitur), non fu il primo in senso assoluto a muovere (movisse) la retorica, ma il primo dopo coloro che i poeti hanno tramandato (primos post eos quos poetae tradiderunt). Un’affermazione che, di per se stessa, non cancella affatto la discrepanza sopra segnalata, perché contrasta col fatto che nelle due testimonianze di Diogene Laerzio e in quella di Sesto Empirico «primo» (prÒto©) non ha affatto valore relativo, bensì assoluto (Aristotele fu il primo ad aver inventato e a muovere la retorica), e che, anzi, nella palese volontà di sanare ad ogni modo un’incongruenza, manifesta apertamente di avvertirla, finendo così per renderla più acuta. In riferimento a ciò che Aristotele dice dei poeti spiega la discrepanza Laurenti (1987, I, pp. 501 ss.). I poeti, sulla base del passo stesso di Rhet., III, 1 che abbiamo letto, furono i primi a comprendere l’importanza della retorica perché furono i primi a comprendere il valore dell’espressione, ed Empedocle «studiò con molta attenzione quel linguaggio del quale, come poeta, egli sen-

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tiva pienamente il fascino» (p. 501). Giudizio al quale non può essere attribuita capacità dirimente perché lascia del tutto inesplicato il fatto che nelle suddette testimonianze Empedocle è detto essere stato «il primo» a praticare la retorica. Che abbia avvertito il fascino della parola e si sia reso conto dell’importanza capitale dell’espressione nulla dice in ordine all’essere stato il primo a mettere mano a tale disciplina, a meno che non si intenda sostenere che coloro che Aristotele indica come iniziatori di questa disciplina, Tisia, Corace e gli altri retori siciliani, anteriori a Empedocle, non si resero conto di tale importanza. Le suddette testimonianze, prosegue Laurenti, nell’attestare che per lo Stagirita Empedocle per primo «trovò la retorica», né affermano «che prima di lui non ci fosse stato qualche tentativo, magari inconsapevole, nello stesso campo», né che egli «sistemò la retorica in un corpo di regole» (Ivi), ma dicono soltanto che egli «dette l’avvio alla retorica perché [...] usò con maggiore impegno e consapevolezza la lingua, adattandola a certe figure che più tardi costituiranno la struttura portante del discorso dei retori: quindi contribuì a formare la retorica come arte perché, come modo d’espressione, la retorica esisteva già in Omero». Ma, ancora una volta, ciò comporta che Tisia, Corace e gli altri retori siciliani, per stare a coloro che Aristotele indica nelle testimonianze sopra richiamate, usarono la lingua con impegno e consapevolezza minore, e pertanto non contribuirono a formare la retorica, essendo egli «il primo» a darvi un decisivo apporto. Un giudizio in tutta evidenza inaccettabile. È possibile supporre che le difficoltà incontrate anche da Laurenti nel risolvere i contrasti anzi segnalati dipendano da una lettura poco felice di «primo». Anche l’eminente studioso, come abbiamo visto, annette all’attributo un valore relativo, in modo – a ben vedere – non distante da come lo stesso Quintiliano l’aveva inteso.

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Questi, come abbiamo letto, ne specificava il senso in relazione a coloro che i poeti hanno tramandato. Laurenti nella sua esegesi, o prescinde dal dare ragione dell’aggettivo, oppure, quando ne tiene conto, riprende il riferimento ai poeti e ritiene che il primato che Aristotele attribuisce a Empedocle nell’aver accostato la retorica sia da intendersi in rapporto a essi. L’agrigentino sarebbe stato, perciò, il «primo poeta» ad aver arrecato un contributo alla costituzione della retorica come arte: primo poeta sia in quanto scrisse in versi, sia perché, anche nel comporre in prosa, usò uno stile poetico. Da qui le incongruenze esegetiche anzi rilevate. Ma se si pone mente al fatto che per Aristotele la poesia non è definita dallo scrivere in versi e, implicitamente, neppure dall’uso dello stile «poetico», ove per tale uso debba intendersi una forma espressiva altisonante quale quella che impiega il verso, bensì dall’essere un’imitazione e dal dire «le cose [...] quali sarebbero potute avvenire» (Poet., 9, 1451 b 1-5), si deve affermare che agli occhi dello Stagirita Empedocle non fu un poeta. Di conseguenza, non in rapporto ai poeti è possibile indicare il senso del primato che egli gli attribuisce. Dall’esame dell’intera produzione aristotelica appare invece che lo Stagirita scorse in Empedocle un filosofo.4 Se dunque il primato nel4 Quest’aspetto, che, come si accennava nel testo, traspare da tutta la produzione di Aristotele, è tuttavia particolarmente rimarchevole in due punti, che s’intendono richiamare a titolo esemplificativo. Innanzitutto in Metaph., I, 3, 984 a 7-11, dove lo Stagirita, esaminando le dottrine dei precedenti filosofi circa la definizione delle quattro cause, la quale, com’è noto, specifica uno dei significati di «filosofia prima», richiama espressamente anche Empedocle, ricordando che «pose come principi i quattro corpi semplici», ossia aria, acqua, terra e fuoco. Piace inoltre richiamare i tre riferimenti a Empedocle del primo libro della Fisica: in 4, 187 a 21, dove si richiama la sua dottrina dei contrari che si separano dall’uno; sempre nel medesimo cap. 4, 188 a 17, in ordine alla stessa dottrina; in 6, 189 a 15 dove, nel quadro di un’indagine volta a definire se i principi non possono essere che tre, si menziona ancora Empedocle per aver posto che i principi devono essere di numero finito.

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l’accostarsi alla retorica va inteso in senso relativo, il riferimento dev’essere ai filosofi. Su questo piano i conti sembrano tornare. Certo, in nessuna delle tre testimonianze Aristotele nomina espressamente i filosofi nel pronunciare tale giudizio sull’agrigentino, ed è questo il motivo per cui in esse «primo» assume un valore grammaticalmente assoluto, anche se sul piano storico e su quello concettuale non così si calibra l’aggettivo. Ebbene, in rapporto ai filosofi il giudizio di Aristotele che le testimonianze riferiscono assume piena congruità e veramente può dirsi che Empedocle fu il primo «filosofo» ad aver trovato (eñreÖn) la retorica,5 quella retorica che, per il fatto stesso d’avere egli «trovato», già esisteva, ovvero già era stata introdotta, sia come pratica che come disciplina, e pertanto già aveva avuto degli «inventori»: Tisia, per l’appunto, e Corace e gli altri retori siciliani. Ma essi non erano «filosofi». Empedocle fu invece il primo «filosofo» ad aver trovato la retorica. «Primo» perché anche i Pitagorici in un certo senso se ne occuparono, come traspare da alcune definizioni attestate in D.K. 58 C 2 («così, ad esempio, chiamava il mare “lacrima di Crono”, le Orse “mani di Rea”, la Pleiade “lira delle Muse”, i pianeti “cani di Persefone”, il rumore prodotto dal bronzo battuto “voce di qualche demone accolta nel bronzo”») e come ha sottolineato Rostagni (1955b, I, pp. 14 ss.), ma soltanto per un aspetto parziale e limitato, ben visibile del resto dallo stesso frammento sopra citato, sicché solo impropriamente, o comunque in una valenza diminutiva si può dire che «trovarono» la retorica. Quanto poi a Gorgia e ai Sofisti, essi rivolsero certamente un’attenzione completa a questa disciplina, ma vengono cronologicamente dopo Empedocle. 5 Anche quando nel fr. 1b si dice che Empedocle fu l’«inventore» della retorica, si tenga presente che «inventore» (eñret‹©) è da intendersi nel significato che lo lega al verbo eñreÖn, «trovare», e vale perciò come «colui che s’imbatté in», non come «scopritore» o «iniziatore».

FRAMMENTI

1 (R2 54, R3 65) DIOG. LAERT., VIII, 2, 53 (3): Aristotele nel Sofista afferma che Empedocle fu il primo a trovare la retorica, Zenone la dialettica. DIOG. LAERT., IX, 5, 25 (4): Aristotele afferma nel Sofista che egli (scil. Zenone) fu l’inventore6 della dialettica, come Empedocle lo fu della retorica. SEXT. EMP., Adv. Math., VII (Log.), 6-7: infatti Aristotele afferma che Empedocle ha mosso per primo la retorica [...] Ma sembrerebbe che Parmenide non fosse inesperto di dialettica, se Aristotele ha assunto Zenone, suo discepolo, come iniziatore della dialettica. 2 (R2 55, R3 66) DIOG. LAERT., VIII, 2, 63 (9): anche Aristotele afferma che egli (scil. Empedocle) fu libero e alieno da ogni comando, se davvero, offertogli il regno, lo rifiutò, come dice Xanto nell’opera su di lui, amando di più, evidentemente, la semplicità.

6 Il termine greco è eñret‹©, che riprende il verbo eñreÖn (trovare) del precedente frammento.

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3 (R2 56, R3 67) DIOG. LAERT., IX, 8, 54 (5): tra i suoi discorsi lesse per primo quello sugli dèi [...] e lo lesse in Atene nella casa di Euripide o, come altri , in quella di Megaclide, mentre altri nel Liceo, avendogli il discepolo Arcagora, figlio di Teodoto, prestato la voce. Lo accusò Pitodoro di Polizelo, uno dei Quattrocento. Aristotele sostiene che fu Evatlo.

EUDEMO O DELL’ANIMA EUDHMOS H PERI YUCHS

INTRODUZIONE

L’opera, scritta anch’essa in forma dialogica, nell’elenco di Diogene Laerzio è riportata (al n. 13) col titolo per‰ yucÉ©: in essa infatti Aristotele prese spunto dalla morte di Eudemo, principe di Cipro, per disquisire sull’anima e provarne l’immortalità (cfr. anche Plutarco, Dion, 22, 3 = fr. 1 Ross). In base a una testimonianza di Cicerone (Div. ad Brut., I, 25, 53 = fr. 1 Ross) è possibile stabilire con sufficiente esattezza la data della sua composizione. Eudemo, che fu condiscepolo di Aristotele nell’Accademia e a lui legato da amicizia, morì nel 354 a.C., combattendo presso Siracusa nel corso della spedizione militare condotta da Dione contro Dionigi il Giovane. Risulta perciò altamente plausibile che lo scritto dati dal 353. Dai frammenti rimastici pare che la prova dell’immortalità dell’anima non fosse affidata ad argomentazioni di ordine scientifico quanto piuttosto a motivi di ordine religioso, con i quali Aristotele mirava fondamentalmente a ingenerare la persuasione di essa più che a dimostrarla in senso vero e proprio, in linea del resto con la natura dell’opera, che doveva avere carattere consolatorio. Ciò si evince principalmente dal fr. 1, ricavato da una testimonianza di Elias (In Cat., 114, 32), il quale riferisce che «nelle opere dialogiche [in realtà si tratta dell’Eudemo]» lo Stagirita inferiva l’immortalità dell’anima dal fatto che tutti noi uomini per impulso della natura facciamo libagioni ai morti e giuriamo sul loro nome, mentre a chi non esi-

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ste assolutamente in nessun modo nessuno mai liba o giura nel suo nome.

È tuttavia da rilevare che, al di là dell’aspetto tecnico della prova, il sostrato speculativo dell’immortalità dell’anima, nel quale questa tesi si fonda come nel suo radicamento più significativo e peculiare, è la natura sostanziale e immateriale di essa, come presto vedremo. Comunque, la grossa questione relativa al passo sopra riportato è se lo Stagirita abbia inteso asserire l’immortalità di tutta l’anima, di modo che la posizione qui sostenuta sarebbe stata poi superata nel De anima, dove egli afferma che è immortale soltanto l’intelletto attivo, oppure abbia limitato l’immortalità al solo noÜ©. Temistio (In De an., 106,29 – 107,5 = fr. 2 Ross) ha asserito che questa seconda è la prospettiva di Aristotele, invocando peraltro la corrispondenza con gli argomenti del Fedone, al quale egli si ispira. La sua testimonianza è stata contestata dallo Jaeger (1964, pp. 135 s.), il quale, ravvisando in essa un fraintendimento, ha ritenuto che lo Stagirita abbia qui attribuito l’immortalità a tutta l’anima. Ma quest’esegesi è stata giudicata insostenibile dalla critica più recente, la quale sullo specifico punto ha rivalutato Temistio. Accanto all’immortalità dell’anima, Aristotele nell’Eudemo ha ammesso anche la sua preesistenza alla vita terrena. Secondo una testimonianza di Proclo (In Remp. II, 349, 16-26 = fr. 5 Ross), anzi, egli ha indicato la causa del fatto che «l’anima, venendo qua di lassù si dimentica delle visioni di là (tán âkeÖ qaum¿twn), mentre andando via di qui si ricorda lassù delle esperienze di qui (tán ântaÜqa paqhm¿twn)», col ricorso alla posizione ancora platonica che la vita nel corpo è una malattia per l’anima, la quale invece nella liberazione da esso ritrova il suo stato di salute, e argomentando che il passaggio dalla salute alla malattia fa dimenticare quanto si è appreso, persino leggere e scrivere, mentre quello dalla malattia alla salute non comporta un simile effetto. In questa te-

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stimonianza e nell’espressione «le visioni di lassù» Jaeger (1964, p. 138) ha scorto un riferimento alle Idee, della cui esistenza Aristotele nell’Eudemo sarebbe ancora sostenitore. Ma la tesi è del tutto congetturale, ossia arbitraria, potendosi al contrario riferire detta espressione alle realtà trascendenti, in analogia con quella del De coelo tàkeÖ, che non denota affatto le forme separate. Quanto alla natura dell’anima, da una serie di passi posti a commento di De an., I, 4, 470 b 27, dove Aristotele richiama la dottrina dell’anima-armonia, e costituenti il fr. 7 (Ross), si può ricavare che già nell’Eudemo lo Stagirita respingeva detta dottrina e concepiva l’anima come sostanza e come forma dell’animazione del corpo in cui si trova: una posizione che ne marca la continuità tanto con il Fedone, in cui pure la dottrina predetta viene rigettata, quanto con il De anima, dove le due tesi rappresentano altrettanti capisaldi della teoria psicologica. In quanto poi forma di un corpo vivente, l’anima è inseparabile da esso per tutto il tempo in cui è vivente, come viene ribadito anche dal fr. 11 (Ross): consistendo la sua azione propria nel far vivere né potendo vivere il corpo senza l’anima, nel vivente questo e quella sono costitutivamente congiunti; ma quando il corpo abbia cessato di vivere, l’anima non soltanto ne è separabile, ma, in quanto sostanza, deve continuare a sussistere separatamente. Il tema della sua separabilità ritorna ancora nel predetto fr. 11 (Ross), dove si rappresenta la condizione di un re che, essendo rimasto per molti giorni tra la vita e la morte, poté vedere cose del mondo invisibile e fare perciò profezie grazie a questo stato di separazione della sua anima. Dal fr. 8 (Ross) risulta poi che a essa Aristotele attribuì la capacità di conoscere tutte le forme, essendo così potenzialmente capace di accoglierle tutte in sé e perciò rivelandosi di natura immateriale. E dal fr. 10 (Ross) che essa è capace dell’intellezione (nfihsi©) degli intelligibili, la quale si attua con una sorta di lampeggiamento e consente contemporaneamente di toccarli e di vederli, come avviene nell’iniziazione misterica.

FRAMMENTI

1 (R2 32, R3 37, W 1) CIC., Div. ad Brut., I, 25, 53: E che? Aristotele, uomo d’ingegno singolare e quasi divino, sbaglia egli stesso o vuole che altri sbaglino, quando scrive che Eudemo di Cipro, suo parente, mentre viaggiava alla volta della Macedonia, giunse a Fere, che allora era una città, in Tessalia, assai illustre, e che era retta con dominio crudele dal tiranno Alessandro. Ebbene, in quella città Eudemo era così gravemente malato che tutti i medici avevano perso la speranza. Nel sonno gli sembrò che un giovane con volto sereno gli dicesse che a breve sarebbe stato bene mentre nel giro di pochi giorni il tiranno Alessandro sarebbe morto, e che lo stesso Eudemo di lì a cinque anni sarebbe tornato a casa. E così, per l’appunto, Aristotele scrive che i primi conseguirono immediatamente: ed Eudemo stette bene e il tiranno fu ucciso dai fratelli della moglie. E mentre il quinto anno stava per terminare, quando da quel sonno vi era la speranza che egli dalla Sicilia sarebbe ritornato a Cipro, un combattente lo uccise vicino a Siracusa. E da ciò quel sogno fu interpretato così da sembrare che, quando l’animo di Eudemo uscì dal suo corpo, allora egli ritornò in patria. PLUT., Dion., 22, 3: molti sia fra i politici che fra i filosofi collaboravano con Dione, ed Eudemo di Cipro, per il

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quale, dopo che morì, Aristotele compose il dialogo sull’anima, ed anche Timonide di Leucade. 2 (R3 33, R3 38, W 2) THEM., In Arist. De an., 106, 29 – 107, 5: anche i ragionamenti sull’immortalità dell’anima che sottopose a interrogazione si riportano, almeno sotto qualche aspetto, o nella stragrande maggioranza o i più saldi, all’intelletto, e quello che procede dall’automovimento. Infatti, venne mostrato che solo l’intelletto è capace di muoversi da sé, se pensiamo il movimento in luogo dell’attività. Ed anche quello che assume che le conoscenze sono reminiscenze, e quello che assume la somiglianza col dio. Anche quelli che più degli altri sembrano degni di credibilità si possono facilmente accostare all’intelletto, come del resto pure i più degni di credibilità tra quelli elaborati dallo stesso Aristotele nell’Eudemo. E da essi è chiaro che anche Platone concepisce come immortale solo l’intelletto. 3 (R2 33, R3 39, W 3) ELIAS, In Arist. Cat., 114, 25: istituendo l’immortalità dell’anima, la istituisce sia nelle opere acroamatiche, con capaci di costringere, sia in quelle in forma dialogica, con persuasivi, ossia in modo verisimile. Infatti, nelle opere acroamatiche sull’anima afferma [...] 32: nelle opere in forma dialogica dice così, ossia che l’anima è immortale, dal momento che per nostra natura tutti noi uomini e facciamo libagioni per coloro che sono sepolti, e giuriamo in nome loro, e nessuno fa mai libagioni a chi in alcun modo non esiste o giura sul suo nome. 115, 11-12: Aristotele soprattutto nelle opere in forma dialogica sembra proclamare l’immortalità dell’anima.

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4 (R2 34, R3 40, W 4) PROCL., In Plat. Tim., 338c: congiunse l’anima al corpo senza alcuna mediazione, tagliando via tutti i problemi relativi alla discesa dell’anima [...] 338d: ma in queste non trasmetterà neppure i timori che s’accompagnano alla sua uscita, [...] giacché, dirò io, egli salva ciò che conviene al seguito del dialogo e, della teoria dell’anima, assume quanto in queste ha carattere fisico, trasmettendo la convivenza dell’anima col corpo. Ebbene, anche Aristotele, che è d’accordo con questa nella sua trattazione sull’anima, quando vi mette mano in modo fisico, non fece menzione né della discesa dell’anima, né delle sue sorti, ma nelle opere in forma dialogica trattò separatamente di questi e distrusse il discorso precedentemente condotto. 5 (R2 35, R3 41, W 5) PROCL., In Plat. Remp., 2, 349, 13-26 (Kroll): anche il divino Aristotele enuncia la causa per la quale l’anima, venendo qui da lassù, dimentica le cose che là ha contemplato. E bisogna accoglierlo dal discorso. Anch’egli, infatti, dice che taluni, passando dalla salute alla malattia, hanno dimenticanza anche delle medesime cose che hanno appreso, mentre nessuno che passa dalla malattia alla salute subisce mai questo . La vita senza il corpo, che per le anime è conforme alla natura, assomiglia alla salute, mentre quella nei corpi, come se fosse contro la natura, assomiglia a una malattia. In effetti, esse vivono là in modo conforme alla natura, qui contro la natura. Per cui, verisimilmente avviene che quelle che vengono da lassù si dimentichino delle cose di là, invece quelle che da qui vanno lassù si ricordino delle cose di qua.

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6 (R2 40, R3 44, W 6) PLUT., Mor. (Consol. ad Apoll.), p. 115, b-e: da parte di molti uomini anche sapienti, come dice Crantore, non ora, ma da tempo si piangono le umane, ritenendo essi che la vita sia un castigo e l’inizio, ossia il fatto che l’uomo nasca, sia la sciagura più grande. Questo Aristotele afferma che anche il Sileno, quando venne catturato, manifestò a Mida. Ma è meglio proporre le espressioni stesse del filosofo. Ebbene, nell’opera intitolata Eudemo o Sull’anima afferma questo: «perciò, o più forte e più beato di tutti, in relazione al fatto di ritenere coloro che sono morti beati e felici, non è pio tanto il dire alcunché di falso intorno a loro, quanto l’essere blasfemi, nella convinzione di parlare di soggetti divenuti ormai migliori e più forti. E queste cose raggiungono il compimento dopo essere state oggetto presso di noi di convincimenti così primigeni e antichi che nessuno assolutamente conosce né il loro inizio di tempo, né il primo che le pose, ma si trovano a essere così fatte oggetto di convincimento per il tempo infinito, fino al compimento. Inoltre, vedi che ciò che da molti anni si tramanda raccontandolo, gli uomini l’hanno sulla bocca». «Che è mai questa cosa?» disse. Ed egli, dopo aver riflettuto, disse: «ebbene, poiché non nascere è la cosa migliore di tutte, il morire è meglio del vivere. E a molti così viene testimoniato dalla divinità. Si dice che a quel Mida che una volta, dopo la caccia, chiedeva questo e domandava che cos’è mai l’ottimo per gli uomini, ossia che cos’è ciò che più di tutto è degno d’essere scelto, il Sileno, quando egli lo catturò, dapprima non voleva dire niente, ma taceva incrollabilmente; ma dopo che, avendo messo in atto ogni artificio, a stento lo indusse a dichiarargli qualcosa, egli, così costretto, disse: “voi, effimero seme di un demone carico di fatiche e di una sorte gravosa, perché mi usate violenza a dire cose che per voi è meglio non conoscere? Infatti, se accom-

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1 Propriamente, di cinque «epicheiremi», essendo l’epicheirema un argomento portato per contraddire la tesi avversaria. Aristotele lo distingue, infatti, dal filosofema, che è invece il sillogismo usato per comprovare una tesi scientifica e corrisponde perciò al sillogismo dimostrativo o dimostrazione, il metodo proprio della âpist‹mh (nella sua fase espositiva), laddove l’epicheirema gravita nell’ambito della dialettica e corrisponde, in senso tecnico, alla confutazione, che, notoriamente, è un «sillogismo della contraddizione», ovvero un «sillogismo con contraddizione della conclusione». Qui, tuttavia, l’espresso riferimento agli argomenti del Fedone impedisce di credere che il termine sia usato per indicare dei sillogismi veri e propri, sibbene denota l’argomento confutatorio in senso lato.

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pagnata da ignoranza dei propri mali, la vita è assai priva di dolore. Per gli uomini non è assolutamente possibile che si verifichi la cosa migliore di tutte né partecipare della natura dell’ottimo. Infatti, per tutti gli uomini e per tutte le donne è ottimo non essere nati; tuttavia ciò che viene dopo di questo, ossia la prima delle cose possibili per gli uomini è che, essendo nati, muoiano il più presto possibile. È chiaro, dunque, che così rispose nella convinzione che il trascorrere il tempo nell’essere morti è meglio che trascorrerlo nel vivere”». 7 (R2 41, R3 45, W 7) PHILOP., In Arist. De an., p. 141, 22: Aristotele, rivolgendo un biasimo comune a tutti coloro che hanno parlato dell’anima, che nulla è stato detto del corpo che l’accoglie [...] 30: appropriatamente, in merito all’anima, unisce un’opinione a queste , come che vi tiene dietro. Taluni, infatti, volgendo lo sguardo alla medesima , ossia che il corpo partecipa dell’anima non se è disposto come capita, ma gli necessita una mescolanza di un certo tipo, al modo in cui pure l’armonia si produce non perché le corde si dispongono come capita, ma necessitano di una posizione di un certo tipo, ritennero che anche l’anima è armonia del corpo e che in rapporto alle differenti armonie del corpo si danno le differenti specie delle anime. Questa è dunque l’opinione che espone e confuta. E fin qui espone in queste questa sola opinione, ma poco dopo pone anche i ragionamenti con cui essi (scil. i Platonici) diedero conto di quest’opinione. Già anche in altre parlò contro quest’opinione; intendo dire nel dialogo Eudemo, e prima di lui Platone nel Fedone fa uso di cinque argomenti confutativi1 nell’opporsi contro quest’opinione2 [...] 144, 21: ebbene, i cinque argomenti 2

Cfr. Phaed., 92b sgg., 93b, 93c, 93e, 94b.

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confutativi di Platone sono questi. Anche Aristotele, come ho già detto, nel dialogo Eudemo si è servito di questi due argomenti confutativi; di uno che suona così: «l’armonia – egli dice – ha un contrario, la disarmonia; l’anima invece non ha alcun contrario. Dunque, l’anima non è armonia. Contro quest’, però, si può dire che propriamente l’armonia non ha un contrario, ma piuttosto una privazione indeterminata, e anche l’anima, in quanto è una certa forma, ha qualcosa d’indeterminato che le è opposto; e come nel primo caso affermiamo che quel tipo di disarmonia muta nell’armonia, così quel tipo di privazione muta nell’anima». Il secondo : «contrario all’armonia del corpo – egli dice – è la disarmonia del corpo; ma disarmonia del corpo animato sono la malattia, la debolezza e la deformità, di cui la malattia è asimmetria degli elementi, la debolezza asimmetria delle parti simili e la deformità asimmetria delle costituenti organi. Pertanto, se la disarmonia consiste nella malattia, nella debolezza e nella deformità, l’armonia consiste allora nella salute, nella forza e nella bellezza. Ma l’anima non è nessuna di queste cose: intendo dire, né salute né forza né bellezza. Infatti, aveva l’anima anche Tersite, che era molto deforme. Quindi, l’anima non è armonia». Anche questi in quell’opera; qui (scil. nel De anima) invece fa uso di quattro argomenti confutativi atti a demolire quest’opinione. Il terzo di essi è quello che nell’Eudemo viene esposto per secondo [...] il 147, 6-10: «parlare di armonia è confacente nell’ambito della salute e, in senso complessivo, delle virtù del corpo, piuttosto che in quello dell’anima». Questo il terzo argomento confutativo; ed è il secondo di quelli nell’Eudemo. In quell’opera mostrò che la salute è armonia muovendo dal suo contrario, vale a dire dalla malattia. Più sopra abbiamo esposto il procedere del sillogismo.

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SIMPL., In Arist. De an., p. 53, 1-4: chiama discorsi svolti in pubblico quelli che sono oggetto di domanda in modo ordinato anche per i più, alludendo forse anche a quelli nel Fedone, e intendo dire anche a quelli messi per iscritto da lui nel dialogo Eudemo, intesi a confutare l’armonia.3 THEM., In Arist. De an., p. 24, 13: è tramandata anche un’altra opinione sull’anima, non meno persuasiva di alcuna di quelle che si sono esposte, la quale ha dato conto ed è stata vagliata sia nei discorsi in pubblico che in quelli privati. Infatti, alcuni sostengono che essa è armonia: ché l’armonia è mescolanza e sintesi dei contrari, e il corpo è composto di contrari; dunque, è l’ che spinge questi contrari all’accordo e li rende consonanti: intendo dire che calde e fredde, umide e secche, dure e molli e tutte le altre contrarietà dei corpi primi non sono nient’altro che l’anima, al modo in cui anche l’armonia dei suoni rende consonanti il grave e l’acuto. Ora, discorso possiede una persuasività, ma è stato fatto oggetto di discussione in molti luoghi sia da Aristotele che da Platone. E infatti che l’una cosa è anteriore al corpo, vale a dire l’anima, mentre l’armonia viene dopo. anche che l’una cosa comanda e dà disposizioni al corpo ed è spesso in conflitto , mentre l’armonia non è in conflitto con le cose armonizzate. Ancora, che l’armonia accoglie il più e il meno, mentre l’anima no. Ancora, che l’armonia, quando si conserva, non procede verso la disarmonia, mentre l’anima procede verso il vizio. Ancora, se è vero che la disarmonia del corpo consiste nella malattia o nella deformità o nella debolezza, l’armonia del corpo consisterà nella bellezza, nella salute e nella forza, ma non nell’anima. Tutte que3

S’intende, la tesi pitagorica che l’anima è armonia.

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ste cose sono state dette dai filosofi in altre opere. Quelle, invece, che Aristotele ora sostiene sono di questo tipo [...] 25, 23-25: ebbene, che coloro che sostengono che l’anima è armonia non possano sembrare né troppo vicino alla verità né colpire lontano da essa, è chiaro sia dalle cose che sono state dette adesso che da quelle che sono state dette in altre opere. OLYMP., In Plat. Phaed., p. 173, 20 (Norvin): Aristotele nell’Eudemo argomenta in senso confutativo così: contrario dell’armonia è la disarmonia, invece l’anima non ha alcun contrario, giacché è una sostanza. E la conclusione è chiara. Inoltre, se la disarmonia degli elementi del corpo consiste nella malattia, l’armonia sarà la salute ma non l’anima [...] 30: il terzo argomento è lo stesso del secondo nell’Eudemo. SOPHON., In Arist. De an., p. 25, 4-8: è tramandata anche un’altra opinione sull’anima, persuasiva per molti anche non meno di alcuna di quelle che si sono esposte, ma sorpassa i discorsi come se avesse dato conto, la quale è stata confutata sia con i nostri discorsi per Eudemo, appropriati e svolti in pubblico, sia con quelli di Platone nel Fedone, e anche ora sarà chiamata a dar conto in misura non minore. Infatti, alcuni sostengono che essa (scil. l’anima) è armonia. 8 (R2 42, R3 46, W 8) SIMPL., In Arist. De an., p. 221, 20-23: ebbene, anche in molti casi Platone era solito predicare omonimamente le idee e le cose prodotte dalle idee, in conformità a esse. Invece Aristotele, quando la cosa prodotta dall’idea sia divisibile in parti, si guarda dall’omonimia a motivo della grande distanza tra ciò che è divisibile in parti e l’idea, che è indivisibile; e si guarda dall’anima razionale, sul presupposto che non è soltanto definita, ma è anche

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una definizione.4 Infatti, come è un intermedio tra ciò che è indivisibile e ciò che è divisibile in parti, essendo in qualche modo ambedue, così lo è tra la definizione e il definito, manifestando l’una e l’altro: l’una perché si sviluppa, l’altro a causa del passare sempre lungo le definizioni e del ricondurre ad unità tutte le cose sviluppate, come se diventasse uguale all’intelletto definente. E per questo anche nell’Eudemo, quel dialogo scritto sull’anima, mostra che l’anima è una certa idea, e in quest’opera loda coloro che sostengono che l’anima è capace di accogliere le idee, non tutt’intera ma quella intellettiva, sul presupposto che è capace di conoscere in un secondo tempo le idee nella loro verità. Infatti, le idee nella loro verità sono corrispondenti all’intelletto, che è la migliore dell’anima. 9 (R2 38, R3 43) PLUT., Mor. (Quaest. Conv. VIII, 9, 3), 733 c: Aristotele ha raccontato che la nonna di Timone, in Cilicia, ogni anno cadeva in catalessi per due mesi, per null’ manifestando di vivere tranne che per il solo fatto di respirare. 10 PLUT., Mor. (De Is. et Osir., 77), p. 382 d-e: l’intellezione dell’intelligibile puro e semplice, lampeggiando in una sola volta attraverso l’anima come una folgorazione, talora le offre di toccarlo e guardare verso di esso. Per questo sia Platone che Aristotele chiamano atta a far vedere questa parte della filosofia, nella misura in cui coloro che oltrepassano con il logos queste cose che sono oggetto d’opinione, miste e composite, compiono un salto verso 4 Nel senso di ciò che esprime che cos’è il definiendum, ossia ciò che dice che il definiendum è la tale e tale cosa. Per l’appunto, ciò che esprime la definizione.

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la cosa prima, semplice e immateriale e, toccando la pura verità che la contorna, come in un’iniziazione misterica, pensano di possedere l’apice della filosofia. 11 AL-KINDI, cod. Taimuriyye Falsafa 55. AL-KINDI, cod. Aya Sofia 4832 fol. 34. 12 SERV., In Aen., VI, 448: Ceneo ora è una donna. Ceni era una fanciulla che, a compensazione dello stupro, meritò da Nettuno di mutare sesso. Fu anche invulnerabile. Ed egli, combattendo a favore dei Lapiti contro i Centauri, fu colpito a terra con fitti colpi di bastoni. Tuttavia, dopo la morte ritornò nel suo sesso. Dicendo questo, manifesta quello che dissero Platone o Aristotele, ossia che l’anima mediante la metempsicosi per lo più muta il sesso.

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INTRODUZIONE

1. Sul dialogo che la tradizione ci presenta con il titolo di Nerinto (N‹rinqo©) vige la più assoluta incertezza: non soltanto sul contenuto, ma perfino sul titolo e, di conseguenza, almeno in una certa misura, sulla sua stessa esistenza. Con questo nome (N‹rinqo©) sia il catalogo di Diogene Laerzio che quello dell’Anonimo indicano, entrambi al n. 6, un’opera di Aristotele ma di essa non soltanto non abbiamo nessun frammento, ma nessuna fonte fornisce a riguardo di uno scritto dello Stagirita così intitolato una qualsivoglia notizia. Tuttavia Temistio, un retore del IV sec. d.C., nel passo raccolto dal Ross come unico frammento parla di un contadino di Corinto (ï gerg© ï Kor›nqio©) che, letto il Gorgia platonico, abbandonò il suo podere e la vita agreste per farsi discepolo del grande filosofo nell’Accademia, affidando a lui la sua anima e diffondendo e difendendo i suoi insegnamenti, preso da un sentimento d’interesse per la filosofia, intesa vuoi come studio (spoud‹), vuoi come divertimento (paign›a), e di una fiducia verso Platone pari a quello (taétÂn... p¿qo©) che indusse Axiotea a dimenticare la sua condizione di donna e Zenone di Cizio ad abbandonare l’Arcadia per entrare entrambi nella scuola platonica, spinti, la prima dalla lettura della Repubblica, il secondo da quella dell’Apologia di Socrate; e – conclude Temistio – proprio un tale contadino «è colui che Aristotele onora con il dialogo corinzio (tˇá

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dialfigˇw Korinq›ˇw)». Il primo problema esegetico che si presenta è, pertanto, di decidere a che cosa alluse Temistio con tale «dialogo corinzio» (si tratta del titolo dello scritto aristotelico?, o si fa riferimento al luogo di provenienza del contadino?) e che rapporto intercorre tra questo dialogo e l’opera aristotelica presente nei due cataloghi col titolo di Nerinto. Le risposte degli studiosi sono molto differenti l’una dall’altra. L’opinione oggigiorno prevalente, dopo lo studio di Moraux (1951, p. 32), è che Nerinto (N‹rinqo©) sia il titolo del dialogo, essendo «poco probabile – annota lo studioso – che N‹rinqo© risulti da una corruzione di Kfirinqo© o di Kor›nqio©, titolo che non è citato in alcuna lista di Aristotele». In realtà, che Nerinto (N‹rinqo©) fosse derivato da un altro termine, avevano sostenuto Bernays (1868, pp. 89-91) e, qualche anno prima, Rose (1863, p. 73). Ad avviso del primo studioso, infatti, lo scritto aristotelico si sarebbe intitolato Nhr›tio©, ossia L’uomo di Nerito, la città fondata dai Corinti nel territorio della Leucade, e per lungo tempo tenuta in loro dominio, il cui nome secondo Strabone (X, 2, 8) era, per l’appunto, N‹rito© (ma Tucidide, 3, 7, la indica col nome di N‹riko©). Nei pressi di tale città, infatti, sarebbe stato locato il campo del contadino corinzio cui fa riferimento Aristotele, che avrebbe, dunque, intitolato il dialogo a costui, indicato non con il nome proprio, ma con quello del luogo dove era situato il podere che per amore della filosofia abbandonò. Temistio poi, al fine di rendere il titolo del dialogo più facilmente comprensibile, lo mutò in riferimento alla ben più nota città di Corinto. Per parte sua, Rose lesse in Nerinto (N‹rinqo©) la storpiatura del nome proprio «K‹rinqo©», sulla base dell’annotazione della Suda secondo cui «K‹rinqo©. pfili© ka‰ ùnoma k‡rion» (ancorché – rileva Laurenti 1987, I, p. 482, nota 5 – nell’edizione Adler III, 111 inve-

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ce di K‹rinqo© pfili© si legga K‹riqo©). «Corinzio (Kor›nqio©)» poi, ad avviso del Rose, non indicherebbe il titolo del dialogo ricordato da Temistio, ma la denominazione del luogo dove si svolse il dialogo tra Platone e il contadino – un dialogo al quale Aristotele stesso avrebbe assistito (Ivi: «in quo [scil. dialogo] secundum Themistium Aristoteles philosophus narravisse fingitur ea quae de philosophia Platonem ipsum colloquentem audiverit cum rustico quodam Corinthio»). Posto pertanto che il dialogo avrebbe derivato il titolo dal nome proprio K‹rinqo© storpiato in N‹rinqo©, si tratterebbe di indicare che rapporto sussiste tra questo nome e «corinzio (Kor›nqio©)». Rose non dice nulla in proposito, e con ciò la sua proposta lascia disatteso quello che è uno dei momenti cruciali del problema se non addirittura il suo punto nodale, stante che, se il dialogo tra il contadino e Platone si svolse a Corinto e K‹rinqo©, come tutto lascia credere, era il nome proprio del contadino al quale si intitolava lo scritto aristotelico, è difficile credere che tra «corinzio (Kor›nqio©)» e K‹rinqo© non sussista nessun rapporto. E che si tratti di un punto cruciale nell’esegesi dello scritto appare dal fatto stesso che su tale rapporto si sono scontrate, in particolare, le opinioni degli interpreti, anche se allo stato attuale degli studi l’opinione di gran lunga prevalente è che nel «dialogo corinzio» si debba vedere il Nerinto. In questo senso si è espresso, per esempio, Ross (1967, p. 24). Egli riconosce che «l’identificazione dello scritto [scil., il Nerinto] con il “dialogo corinzio” nominato da Temistio», come del resto quella «di Nerinto con il contadino corinzio» «is purely conjettural», ma tuttavia non la ritiene «unlike to be right». In modo ancor più marcatamente deciso si è espresso Chroust (1973, II, p. 298, nota 96): «l’identificazione di questo dialogo corinzio con il Nerinto è ampiamente accettata (is widely accepted)», e su questa linea si collocano Heitz (1865, pp. 190-

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191), che ammette l’identificazione del Nerinto col «dialogo corinzio» e, recentemente, Laurenti (cfr. 1987, I, p. 468: «Nerinto può essere un nome proprio che dava il titolo allo scritto di Aristotele [...]; è probabile l’identificazione di tale Nerinto col “dialogo corinzio” citato da Temistio»). Per contro va però registrata l’opinione di Gigon (1973-1974, pp. 192-193), per il quale l’identificazione in oggetto non è soltanto congetturale, ma, ove pretende di spiegare il titolo Nerinto, ritenuto corrotto, emendandolo in Corinzio, cade nell’arbitrio. Quanto alla data di composizione, ove si accetti che l’episodio del contadino di Corinto non è la felice invenzione di un racconto paradigmatico volto a illustrare il desiderio della filosofia e la presa che essa ha sugli animi, ma un fatto realmente successo, in linea con la dedizione di sé e dei suoi averi alla causa della filosofia ad opera del re cipriota Temisone, che campeggia nel Protrettico, è decisivo riconoscere che il contadino, come l’espressione induce ragionevolmente a credere, abbia affidato la sua anima a Platone (Pl¿toni ñp¤qhke t„n yuc‹n) ascoltando le sue lezioni nell’Accademia e non semplicemente divenendo allievo di questa scuola. Il che comporta che l’incontro del contadino corinzio con il grande filosofo sia anteriore al 347, data della morte di costui, e in quest’ottica è verisimile credere che anche la rammemorazione dell’episodio da parte dello Stagirita, e dunque la composizione del Nerinto in cui essa avveniva, non debbano collocarsi molto dopo, pena il venir meno dell’effetto fortemente pregnante che la vicinanza del fatto immediatamente richiamato era capace di indurre. Se si accetta quest’ipotesi, anche senza pensare che Aristotele sia stato presente al colloquio tra Platone e il contadino, come vuole Rose (cfr. supra), occorre ammettere che, contrariamente a quanto ha supposto il Rose stesso e in accordo invece con Laurenti (1987, I, p. 467), anche la data di redazione del

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dialogo può collocarsi in un tempo anteriore al 347 a.C., non essendo impensabile che lo Stagirita si fosse servito della figura di Platone mentre questi era ancora in vita. In particolare, «se si colloca l’intervento di Platone sullo sfondo, Aristotele non doveva attendere la morte del Maestro per comporre il suo scritto» (Ivi). Lo studioso, spingendosi oltre, colloca la composizione dello scritto intorno al 361 a.C., anno della pubblicazione dell’Economico di Senofonte, per via della ripresa tematica di questo che si riscontra in quello e della forte influenza esercitata su di esso, come vedremo. Ma, su questi motivi e sulla datazione che lo studioso ne ricava, occorre ritornare. 2. Sugli argomenti del dialogo sono state formulate molte ipotesi, da quella riduttiva del Gigon (1973-1974, pp. 192-193), secondo cui di esso non conosceremmo che lo scenario, a quella oltremodo soverchiante formulata da Chroust (1973, II, pp. 26 ss.), che nel Nerinto rinviene una sorta di «bozzetto autobiografico» dei primi tempi della permanenza di Aristotele nell’Accademia: in un quadro allegorico, il contadino raffigurerebbe lo Stagirita stesso, la lettura del Gorgia la sua presa di distanza da Isocrate, il rifiuto della retorica come l’intendeva costui e la decisione per la filosofia platonica, l’abbandono dei campi l’uscita dalla scuola isocratea e l’ingresso nell’Accademia. In chiave non certamente allegorica, ma coincidente con questo tipo di lettura nel negare all’episodio del contadino la consistenza di un fatto realmente accaduto si presenta poi l’esegesi di Düring (PW., Suppl. XI, 300), per il quale Aristotele avrebbe costruito quell’episodio sul modello di Eth. nic., X, 10, 1179 b 2326. Qui infatti, in un contesto dove è a tema l’importanza dell’educazione nella vita morale, lo Stagirita dapprima rimarca che l’insegnamento teorico può non essere efficace in tutti gli uomini, indi fa presente che «con le

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abitudini bisogna preparare previamente l’animo dell’ascoltatore a rallegrarsi e ad odiare per giusti motivi», e adduce il paragone della «terra che nutrirà il seme». L’episodio del contadino si strutturerebbe pertanto su questo schema concettuale. Uno schema basato su una similitudine che – come rileva pertinentemente Laurenti (1987, I, p. 482) – è molto comune e dalla quale è dunque difficile trarre conclusioni provviste di valore storiografico. A fronte di queste esagerazioni, nell’uno e nell’altro senso, sembra preferibile, perché più equilibrato, evidenziare soltanto quei temi che dagli spunti offerti dal passo di Temistio è ragionevole credere che siano stati trattati nel dialogo, nella consapevolezza che, da un lato, anche l’enucleare alcuni motivi sulla base di un indizio testuale presenta un margine di arbitrarietà, dal momento che tra l’indizio e l’enucleazione del tema intercorre una deduzione, non un accertamento effettuato mercé una constatazione, e la deduzione è opera dell’interprete; dall’altro, che ulteriori motivi oltre quelli che si possono così rintracciare sostanziavano con ogni probabilità le pagine del dialogo, ma nella misura in cui la relativa attestazione eccede dall’indizio, o ne amplia a dismisura l’inferenza, è opportuno non tenerne conto, limitando per questo secondo verso il margine di arbitrarietà nella ricostruzione storica dei contenuti. Se si accetta questo criterio, occorre allora riconoscere che quattro temi si annunciano primariamente come argomenti che è logico e verisimile ipotizzare essere stati oggetto del dialogo. Innanzitutto quello della retorica. Lo suggerisce il richiamo stesso del Gorgia nell’episodio del contadino, episodio che entra nel Nerinto quale momento espressamente ricordato di questo scritto. L’ammirazione, anzi l’entusiasmo del personaggio per l’opera del grande filosofo ateniese inducono ragionevolmente a credere che essi fossero motivati

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dalle critiche che egli, innanzitutto, aveva rivolto alla retorica così come il sofista cui è intitolato il dialogo l’aveva intesa. Sotto questo profilo è congruo ipotizzare che nel Nerinto, mercé quell’episodio, Aristotele abbia probabilmente ripreso, agganciandole a quelle del maestro nei confronti di Gorgia, anche le critiche che egli stesso nel Grillo aveva rivolto alla retorica di Isocrate quale perno della paideia da costui propugnata, in antagonismo a quella, di carattere eminentemente dialettico, propugnata dall’Accademia. Questa probabile vicinanza tematica tra i due scritti, mentre convalida l’ipotesi di una datazione del Nerinto anteriore alla morte di Platone, può contribuire a precisare più determinatamente il tempo della sua redazione riportandolo a un momento non distante da quello della redazione del Grillo. Andare oltre e ipotizzare che nel dialogo lo Stagirita abbia assunto a oggetto della disamina anche la retorica filosofica, quella retorica che Platone aveva teorizzato nel Fedro ed egli, a sua volta, con ogni probabilità, nel Grillo e nelle parti più antiche della Retorica, non sembra essere un azzardo se si tiene conto dell’afflato che anima l’intero episodio del contadino: vi anela un’intensa passione per la filosofia, a tal punto da far abbandonare la vita usuale dei campi e lo stesso podere. Ora, un tale interesse per la filosofia, messo in rapporto con la retorica, non è difficile credere che possa aver partorito nel Nerinto ricche riflessioni sulla retorica filosofica, fondata sulla dialettica, o, come dice lo Stagirita nelle prime parole della Retorica, controcanto essa stessa della dialettica. Qui si delinea, strettamente connesso con quello testé detto, un secondo tema. Ancora l’episodio del contadino che decide di dedicarsi interamente alla filosofia, fino al punto di affidare la sua anima a Platone, quell’anima che platonicamente corrisponde al vero io e all’intima realtà dell’uomo, non indica soltanto l’amore e la

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dedizione per la filosofia, ma – ben più radicalmente – l’assunzione della filosofia come stile di vita o, il che è in fondo lo stesso, la definizione della vita filosofica come vita pienamente e autenticamente umana. E qui ancora sovvengono le pagine del Gorgia e il tema s’intreccia con quello della retorica, nella misura in cui la scelta per la filosofia comporta una netta distanza da quel genere di vita attento al piacere, al successo mondano e all’esercizio del potere a tutti i costi cui dà adito la retorica gorgianamente intesa. Non è da escludere, in quest’ottica, anzi è verisimile ipotizzare che, in stretto collegamento con la disamina del genere di vita filosofica, nel Nerinto si affacciasse anche un’esortazione alla filosofia, in linea con le analisi del Protrettico e in qualche modo in analogia con esse. In qualche modo, giacché in quest’opera Aristotele affronta, sia pur indirettamente, il problema delle idee di cui non è subito agevole, dai pochi spunti a disposizione, ipotizzare una trattazione nel nostro dialogo. È agevole, invece, credere che un terzo, grande tema del Nerinto sia stato l’anima, giacché proprio questa il contadino affidò a Platone, così com’è possibile supporre che anche il tema della giustizia si sia affacciato nello scritto. Proprio quel tema della giustizia che ampia parte occupa nel Gorgia e che così strettamente si connette a quelli testè detti della filosofia, della retorica e dell’anima. Laurenti (1987, I, pp. 483 ss.) ha ipotizzato che nel Nerinto fosse presente anche il tema della vita dei campi, indotta dalla figura del contadino, e, sulla base di un parallelo con l’Economico di Senofonte, che ritiene aver influenzato Aristotele nella composizione del Nerinto, ha altresì ipotizzato che l’analisi di quell’argomento fosse direttamente connessa con quella della giustizia, giacché questo rapporto compare nell’opera senofontea. Su questa base è giunto altresì a ipotizzare che il Nerinto

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sia stato scritto intorno al 361 a.C., anno in cui fu pubblicato l’Economico. Ma, francamente, tutto ciò sembra eccessivo, in quanto il semplice trattarsi di un contadino non implica che il tema del dialogo sia stata anche la vita agreste, e meno ancora una relazione con ciò che di essa dice Senofonte. Sorregge peraltro questo rilievo il fatto che proprio quella vita agreste fu abbandonata dal contadino per abbracciare un altro genere di vita.

1 Il passo dal quale è tratto il frammento è parte dell’orazione di Temistio intitolata Il sofista, nella quale egli si difendeva dall’accusa di essere un sofista nel senso spregiativo in cui il termine era stato usato da Platone. Temistio presenta così i differenti sensi di «sofista» indicati dal filosofo ateniese e tratta altresì delle arti con le quali quegli «caccia e attira» i giovani. Il presente passo si colloca proprio a questo punto. 2 Cfr. Platone, Leg., X, 887 d e Symp., 216 e, dove pa›zein e spoud¿zein connotano due aspetti dell’azione filosofica di Socrate (cfr. Laurenti 1097, I, p. 464, nota 1, che si richiama a Montoneri 1984, pp. 20 ss.) 3 È l’unica donna, assieme a Lastenia di Mantinea, a essere annoverata tra gli allievi di Platone (cfr. Natorp, in PW., II, 2361; Wherli 1967, I, fr. 44). Costei, dunque, non esitò per amore della filosofia a su-

FRAMMENTI

1 (R2 53, R3 64) THEM., Orat., 295 c-d:1 quest’uomo, avendo un poco frequentato il mio studio o il mio divertimento, lo si intenda nell’uno o nell’altro modo,2 persistette per un po’ nel medesimo stato d’animo della filosofa Axiotea,3 di Zenone di Cizio4 e del contadino Corinzio. Infatti Axiotea, dopo aver letto uno dei trattati che Platone ha composto sullo stato, si mise in viaggio andando dall’Arcadia ad Atene, e ascoltò le lezioni di Platone tenendo nascosto totalmente per molto tempo che era donna, come Achille presso Licomede. E il contadino Corinzio, dopo aver intrattenuto rapporti col Gorgia, in realtà non con la persona stessa di Gorgia, ma con il discorso che Platone scrisse a confutazione del sofista, immediatamente, lasciati perdere il campo e le viti, affidò la sua anima a Platone e diffuse e coltivò i suoi . E questi è colui che Aristotele onora con il dialogo corinzio.5 Le vicende concernenti Zenone sono molto note e udite da molti: che, cioè, l’Apologia di Socrate lo spinse dalla Fenicia al Portico. perare l’imbarazzo della sua condizione femminile ed entrare nella scuola del grande filosofo. 4 Di lui Diogene Laerzio (VII, 2) narra che dall’oracolo, che aveva consultato, ebbe come responso di doversi eguagliare ai morti. Compresone il significato, si mise a leggere le opere degli Antichi. 5 In proposito cfr. Introduzione, pp. 176 ss.

EROTICO ERWTIKOS

INTRODUZIONE

1. Benché nel catalogo di Diogene Laerzio, al n. 9, e in quello dell’Anonimo, al n. 12, compaia uno scritto aristotelico intitolato ârwtikfi©,1 nessun frammento è però espressamente attribuito a esso. Si deve perciò condividere l’apprezzamento di Laurenti (1987, II, p. 537) per la cautela usata da Ross nel definire i frammenti dell’Erotico a partire dal criterio di distinguere ârwtikfi© da erotica e scartare quei passi che parlano di ârwtik¿. 2. In rapporto a tali passi è verisimile credere che Aristotele abbia per più di un aspetto continuato, sia pur con orientamento diverso e imprimendo al tema una curvatura del tutto particolare, un’analisi sugli amanti e sull’amore che si riconduce ai motivi peculiari della produzione attica del periodo classico, e innanzitutto l’analisi portata avanti da Platone. Se, come a ragione ritiene Laurenti (1987, II, p. 537), ârwtikfi© (che è aggettivo verbale indicante attitudine) sottintende lfigo©, allora è subito da far presente che il 1 Nel catalogo di Diogene Laerzio, al n. 71, e a quello dell’Anonimo al n. 66, compare altresì uno scritto dal titolo theseis erotikai; al n. 182 il catalogo dell’Anonimo reca inoltre un erotika in sei libri. Va infine ricordato che Athen., XV, 674 b parla di un «secondo libro degli erotika di Aristotele» (’Aristot¤lh© d’ ân tˇá deut¤rˇw ârwtikˇá). Ad avviso di Rose e Heitz si farebbe riferimento all’Erotico, per cui riportano il passo tra i frammenti dello scritto, esattamente come fr. 1.

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lfigo© ârwtikfi© è il discorso che l’amante pronuncia all’amato nell’intento di piegarlo a sé. Così è nel Liside (206 c) e così è nel Fedro (227 c), per restare a Platone, anche se in quest’autore ârwtikfi© assume altre valenze, come già appare da Phaedr., 235 c, dove il filosofo, parlando di coloro che si sono pronunciati sul tema dell’amore, richiama espressamente la «bella Saffo (SapfoÜ© tÉ© kalÉ©)», il «saggio Anacreonte (’Anakr¤onto© toÜ sofoÜ)» e alcuni scrittori di prose (ka‰ suggraf¤wn tinán): così, in generale, è nella tradizione greca, dove l’ârwtikfi© lfigo© ha una lunga storia e si presenta con una struttura che in modo particolarmente evidente si può accertare nell’Erotico di Demostene. Esso appartiene dell’örw© paidikfi©, l’amore per i giovanetti, giacché, come ancora nel Fedro si precisa in modo paradigmatico, si rivolge essenzialmente «ai belli», e tali sono soprattutto i giovani. In Demostene, come si diceva, è particolarmente chiaro come un tale lfigo© si articolasse in due parti, la prima delle quali aveva fondamentalmente l’intento di vincere le resistenze dell’amato e a questo fine usava, in guisa di topos, l’elogio dell’amato stesso, toccando il tema della sua bellezza, delle sue doti morali, della nobiltà della sua stirpe, fino a sottolinearne la parentela con gli dèi. Si trattava di un vero e proprio corteggiamento, strutturato nella modalità di una captatio benevolentiae, come ben traspare dai paragrafi 7-34 dell’Encomio demosteneo e dal Liside platonico. Vi faceva seguito una seconda parte di carattere essenzialmente protrettico. In essa l’amante esortava l’amato ad aspirare al raggiungimento dei grandi valori e della virtù, secondo una perorazione intesa a significargli come il suo interesse per lui fosse primariamente e soprattutto interesse per il suo bene. In Demostene una tale perorazione giungeva perfino a incitare il giovinetto Epicrate, cui il discorso era rivolto, a coltivare la filosofia, in quanto disciplina che più d’ogni altra cura il pen-

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siero e la virtù, e a questi deve tendere l’amato, e a questo deve incitarlo l’amante. Ond’è che, più l’avesse esortato alla filosofia, più sarebbe stato degno di lui. L’amante, infatti, apertamente dichiarava di non disdegnare che anche altri rivolgessero le loro attenzioni al giovane, consapevole che a lui non potevano rivolgersi che soggetti di elevato sentire, ed esortava l’amato a non negare a nessuno la sua benevolenza, ma a dare ascolto a chi tra i suoi amanti avesse mostrato di avere più senno (par. 57). Nel quadro complessivo di una tale struttura, il lfigo© ârwtikfi© assume, com’è naturale, modulazioni e valenze diverse a seconda della sensibilità di ciascun autore. Per ciò che attiene a Platone, esso assume un’intonazione così elevante da essere, al tempo stesso, discorso dell’amante e discorso sull’amore, il più delle volte trapassando nello svolgersi del medesimo discorso da quella a questa determinazione e ponendosi in tal modo come autentica esaltazione di Eros. Nuova dimensione del lfigo© ârwtikfi© che è ben visibile, per esempio, in Symp., 172 b, dove i discorsi che si svolgono nel dialogo, nei quali non può certo dirsi che l’amante e l’amato ricevono un’attenzione preminente rispetto all’amore, sono definiti ârwtiko‰ lfigoi. 3. Le riflessioni aristoteliche dell’Erotico s’inseriscono e si sviluppano in questo quadro culturale. Dai frammenti raccolti nell’edizione adottata balza subito agli occhi, infatti, una ripresa di tematiche proprie di quel genere di lfigo©, a partire dalla ricerca della virtù da parte dell’amante nell’azione in cui intende mostrarsi all’amato (com’è nel caso di Cleomaco, nel fr. 3), nonché dalla sottolineatura del rapporto tra amore, pudore e sguardo dell’amante medesimo, così ricorrente nella letteratura erotica e così corrispondente al comune modo d’intendere da aver dato luogo addirittura a un proverbio, e al

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tempo stesso una marcata caratterizzazione dottrinale in stile proprio dello Stagirita. La quale, oltre che per altre note, che si avrà cura di mettere in luce nell’analisi dei singoli frammenti, si specifica per l’accentuazione della dimensione passionale dell’eros tra i due amanti, unitamente all’espresso desiderio di comunanza di vita (suzÉn) e alla più marcata e consapevole distinzione tra ârwtik¿ ed ârwtik© lfigo©, tra l’analisi delle questioni d’amore e il discorso amoroso. In un quadro complessivo dove ciascuno di questi elementi concorre a connotare una concezione fondamentalmente etica ed educativa dell’eros,2 raggiunta però e sviluppata sulla base di un’analisi nella quale è altrettanto prioritario l’accertamento scientifico condotto fusiká©. Una compresenza, questa tra i due suddetti momenti, che è ben visibile nel fr. 1, dove – già lo si accennava – il sentimento amoroso degli amanti è tematizzato attraverso il motivo classico del pudore. Ateneo, che ne è la fonte, riferisce che per lo Stagirita gli amanti guardano 2 Molto felicemente Laurenti, dopo aver sottolineato che «anche Aristotele con oî ârwtiko‰ lfigoi intende i discorsi su Amore nel senso vasto di esaltazione di Eros» (1987, II, p. 543), così precisa: «forse con Aristotele e con i discepoli di lui si avrà una distinzione più consapevole e puntuale tra ârwtik¿ ed ârwtik© lfigo© [...] non è difficile ricostruire il pensiero di Aristotele sull’eros paidikos. Tale eros, come ogni altro eros, ha inizio dalla brama di qualcosa o di qualcuno assente e per ciò produce perturbamenti e gioie: sprofonda in basso e si leva in alto, a seconda che ascolti il senso o la ragione: cerca soprattutto la comunanza di vita, t suzÉn, che rappresenta il coronamento dell’esistenza, qualora avvenga come si deve [...] Pertanto Aristotele non poté non avvertire l’importanza che sul piano storico – e non solo su questo – aveva avuto e aveva l’eros paidikos, ma evidenziò con forza che, se lo si voleva ritenere, doveva essere amore di caratteri, di costumi, di atteggiamenti spirituali, amore che va da anima ad anima, nella virtù, dalla quale derivano le belle imprese [...]» (Ivi, pp. 544-550). Donde il riscontro che nella riflessione aristotelica sull’öro© paidikfi© vengono primariamente in luce e prendono risalto «la castità della vita degli amanti, il rifiuto dell’unione sessuale, l’indispensabile presenza dell’areté» (Ivi, p. 551).

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gli occhi dell’amato perché «in essi abita il pudore (ân o¯© t„n aåpdÁ katoikeÖn)». Il senso di quest’affermazione è chiaro: gli occhi dell’amato che di fronte allo sguardo appassionato dell’amante si abbassano, rivelano quel suo sentimento di pudore che è segno della sua virtù. E proprio questo segno, ossia quest’attestazione di virtù, l’amante cerca nell’amato e di essa si compiace. Qui, com’è chiaro, sono in causa tutti gli aspetti che caratterizzano l’öro© paidikfi©: (1) innanzitutto la ricerca, nell’amore, di un legame fondato sulla virtù, cosicché l’amato stesso deve essere soggetto virtuoso e manifestare questo suo abito nella relazione amorosa. Va da sé che anche l’amante, poiché proprio questo ricerca nell’amato e tale si compiace che sia, vive la relazione amorosa nella medesima dimensione. (2) Al tempo stesso è chiaro che l’eros che lo spinge all’amato non è privo di passione e si estrinseca nel desiderio di lui, tanto da fargli abbassare gli occhi in segno di riservatezza quando è presente. (3) E qui si rivela che il soggetto amato è un giovinetto, giacché, come Aristotele precisa in Rhet., II, 12, 1389 a 28, i giovani sono «inclini alla vergogna (aåscunthlo›)», e il pudore è quel sentimento di «paura dell’ignominia (ffibo© ti© àdox›a©)» per cui si prova vergogna di agire male (cfr. Eth. nic., IV, 15, 1128 b 11 ss.), un sentimento che – prosegue lo Stagirita – comporta l’arrossire in volto e per questo è proprio dei giovani, i quali, «vivendo secondo passione, commettono molti sbagli e dal pudore ne sono tenuti lontano» (Ivi, 1128 b 17-18). Nel frammento, dunque, il pudore si presenta in veste etica (äqiká©), ma al tempo stesso palesa di essere oggetto di una considerazione svolta anche fusiká©, e lo rivela l’espressione usata per attestarne la presenza, la quale viene collocata «negli occhi». Essa ritorna identicamente nel proverbio che Aristotele richiama in Rhet., II, 6, 1384 a 34 («donde anche il pudore è negli occhi [¬qen ka‰ ì paroim›a t ân μfãalmoÖ© eÚnai aådá]») co-

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me paradigmatica attestazione del fatto che « in misura maggiore delle cose che sono sotto gli occhi (ân μfqalmoÖ©) e di quelle manifeste» (Ivi, 3233). Ora, a ben vedere, ciò che il proverbio è qui chiamato a comprovare non è, propriamente, un fatto (il pudore risiede negli occhi), bensì la spiegazione di un fatto (il motivo di tale collocazione), tant’è che – prosegue lo Stagirita – «per questo si prova maggiormente vergogna dinanzi a coloro che saranno sempre presenti e a coloro che ci stanno appresso: per il fatto che entrambe le situazioni sono “negli occhi (ân μfqalmoÖ©)”» (Ivi, 1384 a 34 – b 1).3 E la spiegazione di tale fatto affonda le sue radici in analisi di natura fisica, nelle quali può altresì scorgersi la base per un’interpretazione fisiognomica del pudore. In Probl., XXXI, 3, 957 b 9 ss. lo Stagirita affronta la questione «perché, quando si ha ira, gli occhi soprattutto 3 Sotto questo profilo non si può non dare ragione a Laurenti quando afferma che «Aristotele nella Retorica orienta il proverbio in modo che risponda alle esigenze da lui avanzate, e cioè che la presenza di persone ragguardevoli, stimate influisce sul nostro atteggiamento» (1987, II, p. 555), anche se la costruzione della frase che, in conseguenza di ciò, egli propone, non sembra necessaria ai fini di una tale esegesi. Egli ritiene, infatti, che l’espressione t ân μfqalmoÖ© eÚnai sia soggetto, laddove nel comune modo d’intendere il soggetto è aådá (Ivi, p. 555), cosicché la traduzione dovrebbe suonare «l’essere negli occhi è pudore». Stranamente, per la verità, egli traduce «vergogna è ciò che sta davanti agli occhi» (Ivi, p. 554), ma, al di là della discordanza con la spiegazione grammaticale, giacché in tal caso t ân μfqalmoÖ© eÚnai non funge da soggetto, ma da nome del predicato, il senso complessivo non cambia. Sennonché, l’esegesi che egli propone non si accorda affatto col comune modo di costruire la frase e di tradurla (quello cioè che abbiamo adottato nel testo, assumendo aådá come soggetto e tÂ... eÚnai come infinitiva epesegetica di paroim›a), dal momento che, già a un livello esegetico minimale, «l’essere il pudore negli occhi» è metafora che esprime proprio quello che Laurenti intende mettere in chiaro e far valere: esso risiede negli occhi perché i soggetti rispetto ai quali soprattutto si prova questo sentimento sono soggetti che ci conoscono e che vedono ciò che facciamo, ossia che ci hanno nei loro occhi. Ma tosto porremo in chiaro che, oltre che in questo senso metaforico, può ben dirsi, per Aristotele, che «il pudore è negli occhi» anche in senso reale.

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tendono ad arrossire, mentre quando si prova vergogna sono le orecchie», e risponde: «perché, quando si ha pudore, gli occhi si raffreddano (giacché negli occhi è il pudore), per cui non riescono a guardare in avanti». E prosegue: «In realtà la timidezza è una forma di raffreddamento di quella parte, e il calore se ne va nella direzione opposta,4 e le orecchie stanno di contro agli occhi. Perciò, quando si ha vergogna soprattutto arrossiscono. In uno stato di eccitazione l’aiuto (scil., la corrente di calore che si ritrae dagli occhi e si porta alle orecchie) va verso la parte più sensitiva ed emotiva, perché si pensa d’avere subito un’ingiustizia; in quelli che hanno paura, è proprio qui (scil., negli occhi) che si produce un mancamento ». Insomma, il pudore, come abbiamo letto nella definizione dell’Etica nicomachea, è «una forma di paura», e precisamente paura dell’ignominia (ffibo© ti© àdox›a©); ora, la paura produce ritrazione della corrente calorica dagli occhi (ossia il dirigersi di essa nella direzione opposta a quella in cui, nella testa, sono collocati questi organi, e cioè verso le orecchie), e un tale ritrarsi ha per effetto che gli occhi, per il mancamento del calore, perdano anche vigore e tendano così a chiudersi, abbassandosi e perciò non riuscendo più a guardare chi è di fronte (mentre le orecchie, per l’affluire del calore, arrossiscono). Sulla base di questa spiegazione, dunque, il pudore risiede non già metaforicamente, ma realmente negli occhi, perché questi, in presenza di una paura perdono calore e vigore e, abbassandosi, tendono a chiudersi, e il pudore è una «forma di paura». Si tratta, com’è immediatamente constatabile, di una spiegazione scientifica, dal carattere fisico, che non cancella, ma si aggiunge alla caratterizzazione etica di questo sentimento e ne arricchisce la sfera connotativa. Del 4 Leggo, con Forster e Flashar, t qermfin in luogo di t ùpisqen dei manoscritti.

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resto, già Eustratio (Od., 1754, 39), nel commento a Od., XIV, 145-146, dove Eumeno dice a Odisseo, presentatosi sotto le spoglie di un mendicante e perciò non riconosciuto dal fedele servitore, «di lui, o straniero, io mi vergogno di proferire pure il nome», richiama espressamente la dottrina di Aristotele, facendo presente che secondo essa «il pudore risiede negli occhi non secondo l’opinione comune (oé gnomiká©, come vuole il proverbio, ma secondo un altro modo d’intendere, fisico e ingegnoso (àll· fusiká© ôllw© ka‰ àste›w©)». Una tale spiegazione fisica – e per questo non conforme alla comune opinione, ma ingegnosa – del pudore, altrove lo stesso Eustratio qualifica come «filosofica» (in Il., 923, 18 egli afferma che «Aristotele nel modo più filosofico [filosofÒtata] ha stabilito che sede del pudore sono gli occhi, e quelli che dopo di lui trasferirono il suo pensiero nel proverbio»), rimarcando anche attraverso questa seconda caratterizzazione la natura scientifica della spiegazione proposta dallo Stagirita della collocazione del pudore negli occhi. Ed è una spiegazione che, in questa stessa valenza, apre il pudore a un’interpretazione anche fisiognomica, come si accennava, in quanto dall’abbassamento degli occhi è possibile inferire la natura pudica del soggetto, pensando in tal modo il pudore non come semplice affezione, ma come una stabile qualità affettiva, secondo una delle specie in cui in Cat., 8 è diviso il genere categoriale della qualità, e l’abbassamento degli occhi come segno dal quale dedurla. Sulla base di quanto s’è potuto accertare, appare dunque che Aristotele, trattando nel nostro frammento dell’öro© paidikfi©, ne abbia individuato una delle note peculiari nel pudore, connotando quest’ultimo in termini sia etici che fisici.5 5 Sotto questo profilo non posso convenire con Laurenti (1987, II, p. 557) là dove, distinguendo differenti livelli esegetici nell’analisi del

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4. Il tema del pudore campeggia, sia pur sullo sfondo, anche nel fr. 2a. Esso, infatti, è tratto da un brano della Vita di Pelopida di Plutarco che costituisce un excursus sul famoso battaglione sacro (îer© lfico©) tebano, un manipolo di 150 coppie di opliti, scelte in base al legame che vincolava i componenti di ognuna, cosicché, in rapporto a questo criterio, una parte decisiva svolgeva il pudore che ciascuno di essi provava nei confronti dell’altro. Cardine, in tempo di pace, di un sodalizio che garantiva ordine all’interno della città, in tempo di guerra questo sentimento rappresentava lo stimolo per atti di valore militare, proprio per l’appunto di tale formazione. La coppia Eracle-Iolao è chiamata in causa da Plutarco quale esempio significativo di quel sentimento, e che su di esso si cementassero la virtù guerriera e l’ardimento della coppia nelle azioni belliche appare determinatamente dal richiamo delle imprese che essa compì assieme, l’amato volendo sempre stare con il suo scudo accanto a quello dell’amante, come risuona nella lettera dell’espressione usata dallo storico. La menzione della loro tomba e dei giuramenti che su di essa facevano gli amanti è un sintomatico elemento atto a convalidare che in gioco era ancora il tema dell’öro© paidikfi©, nonché lo stretto legame che pure in questo contesto testimoniale, direttamente riferito ad Aristotele, che è chiamato in causa come fonte della notizia, lo univa a quello del pudore. La relazione tra Eracle e Iolao è richiamata da Plutarco anche nel fr. 2b, nel quale tuttavia, a differenza frammento, li fa corrispondere a momenti successivi, rilevando che, «nel nostro caso, un proverbio era accettato nel significato primo e immediato, era poi adattato a un’interpretazione più rifinita e astrusa, e, infine, assoggettato a un esame scientifico in modo che acquistasse un fondamento sicuro». In realtà, i livelli esegetici che lo studioso distingue corrispondono a differenti aspetti di analisi di un medesimo fenomeno: il pudore, non a tappe successive di accostamento del proverbio.

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del precedente, non compare il nome dello Stagirita. Non vi è dubbio che anche qui il tema è l’amore dei giovani, come indirettamente comprova pure il fatto che il frammento è tratto dall’Erotico di Plutarco. Talune consonanze riscontrabili tra 2a e 2b ( la menzione in entrambi i passi dai quali sono tratti i frammenti di Pammene, persona esperta d’amore e ideatore, seconto taluni, del battaglione sacro; in entrambi si cita Omero: Il, II, 362 nell’Erotico; Il., II, 362-363 nella Vita di Pelopida; in entrambi si cita l’episodio del soldato che, caduto a terra, prega il nemico di trafiggerlo nel petto e non nella schiena perché così l’amato non provi vergogna di lui) hanno indotto Laurenti (1987, II, pp. 559-560 e p. 577, nota 85) a ipotizzare che per la redazione dei due passi Plutarco si sia servito di una medesima fonte, che lo studioso, escludendo che si tratti dello stesso Erotico di Aristotele, indica in talune epitomi, «le quali gli presentavano varie versioni dei vari temi che egli affrontava». Se quest’ipotesi risultasse plausibile, allora – vorrei aggiungere – sarebbe ulteriormente comprovata non soltanto la paternità in ultima analisi aristotelica del pensiero espresso in 2b, ma anche l’alta probabilità della sua originaria appartenenza al nostro dialogo, dal momento che in ordine allo stesso tema 2a cita espressamente lo Stagirita e Laurenti medesimo (1987, II, p. 559), polemizzando con Heitt, per il quale 2a è da ascriversi a una delle Costituzioni, lo riferisce invece all’Erotico. Insomma, risulterebbe assai probabile che l’epitomatore, pur avendo utilizzato versioni differenti dei temi che presentava, nel caso di specie abbia utilizzato o direttamente quella dell’Erotico aristotelico o versioni che si rifacevano direttamente a questo dialogo. Il tema dell’öro© paidikfi© ritorna, infine, anche nel

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fr. 3, presentato in una sfaccettatura complementare a quella dei frr. 1 e 2a. Ciò che in esso campeggia, infatti, è la ricerca della virtù che anima un tale sentimento d’affetto, giacché a essa l’amante affida la stima e la considerazione che vuole avere dall’amato, com’è chiaro dall’episodio di Cleomaco che vuole apparire carico di gloria militare agli occhi del compagno, fino all’estremo sacrificio. E il valore militare, come abbiamo visto, è tema che s’affaccia anche in 2a, ma coniugato a quello del pudore che domina nel fr. 1. Ond’è che i tre frammenti costituiscono una solidale unità tematica e presentano l’amore giovanile nelle componenti essenziali della concezione che ne ha Aristotele: una passione strutturalmente congiunta a pudore, a ricerca della virtù, efficace elemento di unità politica sia in pace che in guerra.

6 Cfr. Rhet., II, 6, 1384 a 34, dove il risiedere del pudore negli occhi è richiamato come proverbio. La sua origine, dice Aristotele, sta nel fatto che « in misura maggiore delle cose che sono sotto gli occhi e di quelle manifeste». In Eth. nic., IV, 15, 1128 b 11 ss. il pudore è presentato come il sentimento per cui si prova vergogna di agire male, un sentimento che comporta l’arrossire in volto e per questo è proprio dei giovani, i quali, «vivendo secondo passione, commettono molti sbagli e dal pudore ne sono tenuti lontano» (Ivi, 1128 b 17-18). 7 Iolao era un antico eroe tebano che, originariamente disgiunto da Eracle, fu ritenuto il suo compagno soltanto quando la figura di Eracle fu associata a Tebe. Da allora la tradizione lo vuole al suo fianco in

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1 (R2 91, R3 96) ATHEN., XIII, 564 b: anche Aristotele disse che gli amanti non volgono lo sguardo a nessun’altra del corpo degli amati che agli occhi, nei quali abita il pudore.6 2 (R2 92, R3 97) PLUT., Pelop., 18, 14: si dice anche che Iolao,7 che era l’amato di Eracle, partecipasse alle sue fatiche e stesse al suo fianco.8 E Aristotele afferma che anche nel suo tempo gli amati e gli amanti si facevano promesse di fedeltà sulla tomba di Iolao.9 PLUT., Mor. (Amat.), 17, p. 761 d-e: è difficile, dato il loro numero, enunciare gli altri amori di Eracle. Ma, pensan-

molte imprese (in proposito cfr., tra gli altri, K. Kroll, in PW., IX, 18431846; F. Prinz, in PW., Suppl. XIV, 175 ss.), e la fama della coppia si estese anche al di là del mondo ellenico, fino a essere celebrata non soltanto in Sicilia ma anche in Sardegna (cfr. Farnell 1921, p. 139). 8 Parasp›zein: letteralmente, stava con lo scudo accanto al suo scudo (cfr. Thes. Gr. L., s. v.: «a latere status clipeo munitus pugno»). Plutarco (De frat. am., 21, 492 c), magnificando il rapporto tra zio e nipote, nomina la coppia Eracle-Iolao e presenta questo secondo come colui che era comunemente considerato il parast¿th© del primo. 9 Essa si trovava in Tebe. Accanto sorgevano un ginnasio, che traeva per l’appunto il nome da Iolao, e uno stadio, nel quale si celebravano le feste in onore della coppia di eroi (cfr. Paus., IX, 32, 1; Arr., An., 1, 7, 7).

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10 Si tratta della guerra che, intorno al 700 a.C., i Calcidesi di Eubea combatterono contro gli Eretriesi (o Eretrii) per il possesso della piana di Lelanto e dalla quale uscirono vincitori. 11 Trattavasi della colonna funeraria, eretta sia per indicare il luogo del sepolcro che a suo ornamento (cfr. G.A. Mansuelli, in Enciclopedia dell’arte antica, V, pp. 174 ss.) 12 Cfr. anche Athen., XIII, 601 e; Hesych., s.v. calkid›zein. 13 Nelle righe immediatamente successive del passo (che Ross non riporta, ma riporta Laurenti nella sua edizione) Plutarco informa che il poeta Dionigi (si tratta con ogni probabilità di Dionigi di Corinto, posteriore a Callimaco e autore delle ñpoq‹kai, dei metewrologo‡me-

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do che Iolao sia stato suo amato, lo venerano e lo onorano fino al tempo odierno, prendendo sulla sua tomba i giuramenti e le promesse d’amore da parte degli amati.

3 (R2 93, R3 98) PLUT., Mor. (Amat.), 760 e – 761 b: certamente conoscete la causa per la quale Cleomaco di Farsalo morì combattendo [...] Andò dai Calcidesi come loro soccorritore con un esercito di Tessali, quando la guerra contro gli Eretrii era nel momento decisivo.10 E ai Calcidesi sembrava che la fanteria fosse forte, mentre era grande fatica respingere i cavalieri dei nemici. Gli alleati esortavano pertanto Cleomaco, che era un uomo di splendente ardimento, a lanciarsi per primo contro i cavalieri. E quegli chiese all’amato, che era presente, se volesse vedere l’agone. Poiché il giovinetto disse di sì e gli calzò l’elmo con pensieri amorosi, Cleomaco, rallegrandosi, portati intorno a sé i migliori dei Tebani, avanzò gloriosamente e piombò sui nemici, in modo che la cavalleria fu scompaginata e incalzata. Dopo di che, quando anche gli opliti fuggirono, i Calcidesi vinsero di forza. Avvenne tuttavia che Cleomaco morisse, e i Calcidesi mostrano la sua tomba sulla piazza, sulla quale anche oggi si alza una grande colonna.11 E mentre prima ponevano nel biasimo l’amare i fanciulli, allora lo amarono e lo onorarono più di altri .12 Invece Aristotele dice che Cleomaco morì diversamente, mentre prevaleva sugli Eretrii in battaglia, e che colui che era amato dall’amato faceva parte dei Calcidesi di Tracia, mandato come soccorritore ai Calcidesi di Eubea.13 Da qui presso i Calcidesi si canta: «o fanciulna e degli aútia, nonché, in prosa, di un commentario a Esiodo. Cfr. Knaak, in PW., V, 915) nelle Origini afferma che l’amante si chiamava Antone e l’amato Filisteo». Ond’è che Laurenti (1987, II, p. 535, nota

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8) così scrive: «come si chiamasse tale guerriero di contro a Cleomaco, non sappiamo: il fatto che Plutarco riporti a Dionigi il merito di aver dato un nome e a lui e al suo amante fa pensare che la precisazione mancasse in Aristotele».

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li, che avete avuto in sorte grazie e padri valorosi, non rifiutate la frequentazione della giovinezza agli uomini dabbene. Infatti, assieme al coraggio anche l’Amore che si scioglie come miele fiorisce nelle città dei Calcidesi». 4 Al-Dailami, cod. Tübingen Weisweiler 81:14 sta scritto in un libro degli Antichi che un giorno i discepoli si raccolsero intorno ad Aristotele. E Aristotele disse loro: «mentre stavo su una collina, vidi un giovane fermo su una terrazza, che leggeva una poesia. Eccone il senso: “chi muore per la passione d’amore, muoia pure così: non c’è alcun bene in amore senza la morte”. Gli chiese il discepolo Isso: “Maestro, dicci qualcosa sull’essenza dell’amore”. E Aristotele replicò: “Amore è un impulso che nasce nel cuore; una volta nato, s’aggira e cresce: poi diventa maturo. Quand’è diventato maturo, s’accompagna agli stimoli dell’appetito, ogniqualvolta l’amante nella profondità del cuore accresce la sua eccitazione, la sua ostinazione, il suo desidero, le sue aspirazioni, le sue brame. E tutto questo lo porta ad agognare, lo spinge a chiedere, finché lo dà in braccio a un dolore conturbante, a continue insonnie, a passioni disperate, a tristezza e follia”».

14 La traduzione di questo frammento, che Ross nell’edizione oxoniense indica soltanto, ma del quale nell’edizione del 1967, p. 26 dà la versione inglese, è tratta da Laurenti 1987, II, pp. 531-533. Essa volge in italiano la predetta traduzione inglese di Ross, che, proprio per il fatto di essere una versione e non il testo originale del documento, si è ritenuto inutile riproporre a nostra volta.

PROTRETTICO PROTREPTIKOS

INTRODUZIONE

1. Se dal per‰ ådeán e dal per‰ tàgaqoÜ l’intensità della partecipazione del giovane Aristotele alla vita culturale dell’Accademia, di cui egli era ormai diventato uno dei membri più autorevoli e importanti, emerge per l’aspetto di un fervidissimo impegno «all’interno» della scuola, in quella discussione e in quella revisione critica dei capisaldi dottrinali del platonismo che si svolsero nel suo seno, nel Protrettico essa s’attesta invece nella celebrazione «all’esterno» del suo programma filosofico, integralmente fatto proprio dallo Stagirita, che lo propone e lo diffonde. Sotto questo profilo il Protrettico s’allinea al Grillo, dal quale tuttavia si distingue, al di là dell’argomento, per un discorso che solo in alcuni passaggi (soprattutto nella prima parte del fr. 12) s’accende di toni veementi nella polemica e nell’attacco alla scuola rivale, in luogo dei quali pone innanzi, in maniera del tutto prioritaria e prevalente, l’esaltazione della filosofia. Di quest’opera avremmo saputo ben poco se nel 1869 Bywater non avesse dimostrato (e il suo contributo, pur non esente da discussioni tra gli studiosi, non costituisse oggigiorno un’acquisizione certa) che un ampio estratto di essa è contenuto nell’omonimo scritto di Giamblico (capp. V-XII Pistelli), che lo riprodusse.1 A questa sco1

Bywater 1869, pp. 55-69. In precedenza Bernays 1868, pp. 116-118

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perta è dovuta la possibilità di leggere una cospicua parte del Protrettico aristotelico.2 Sull’occasione e sulla data della sua stesura è possibile esprimersi con un ampio margine di attendibilità storica. Dalla notizia dello stoico Zenone (cfr. la nota n. 2) che fu scritto «per Temisone» (pr© Qem›sona), principe di Cipro – o nel senso che fu a lui dedicato o soltanto a lui indirizzato – e dalla circostanza che di quest’isola era anche Eudemo, amico di Aristotele e suo condiscepolo nell’Accademia, come abbiamo visto, si è potuto ipotizzare che grazie a costui lo Stagirita ebbe modo di allacciare rapporti col principe cipriota e che il Protrettico, scritto per esortalo alla filosofia, fu verosimilmente composto nel tempo immediatamente successivo alla morte di Eudemo, avvenuta nel 354 a.C., quando cioè era venuta meno la sua mediazione per sollecitare e tener vivo l’interesse di Temisone per essa. Questa datazione risulta confermata anche muovendo da una diversa ipotesi storiografica, secondo la quale il Protrettico sarebbe nato in quel clima d’intensi rapporti tra i circoli culturali di Atene e Cipro, in atto nel pe-

aveva visto che al Protrettico di Aristotele si era rifatto Cicerone nell’Hortensius, e di conseguenza dai frammenti di questo aveva proposto una ricostruzione di quello. 2 In precedenza tutto ciò che di esso ci era noto consisteva nella sua menzione nei cataloghi delle opere aristoteliche di Diogene Laerzio (ai numeri 12 e 14), che ne attesta la stesura in un unico libro, e di Tolomeo (A 8 Düring), che lo indica in tre libri e con il titolo Protreptik© filosof›a©, confondendolo in tutta evidenza col Per‰ filosof›a©; in una testimonianza di Alessandro d’Afrodisia (In Top., 149, 9-17 = fr. 2 Ross; A 2, B 6 Düring), ripresa poi da molti altri commemtatori, secondo cui Aristotele nel Protrettico avrebbe sostenuto che appartiene alla filosofia, oltre che la ricerca speculativa, anche l’indagare se si debba o no filosofare; e nella notizia di Stobeo (IV, 32, 21 = fr. 1 Ross; A 1, B 1 Düring) che lo stoico Zenone riferì che nel Protrettico Aristotele avrebbe considerato Temisone di Cipro, per il quale aveva scritto l’opera, fornito di tutti i beni che rendono possibile l’applicarsi alla filosofia.

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riodo anteriore alla guerra contro i Persiani che nell’inverno tra il 351 e il 350 a.C. coinvolse le città dell’isola, su una delle quali regnava per l’appunto Temisone; rapporti peraltro attestati dalle tre opere di carattere esortativo che Isocrate scrisse per Evagora e per il figlio Nicole, principi di Salamina, in Cipro, posteriormente al 373 a.C., anno dell’ascesa al trono di quest’ultimo: e cioè A Nicole, Nicole e Evagora. La stesura del Protrettico, con il quale Aristotele avrebbe inteso contrastare l’influenza della scuola isocratea e diffondere quello dell’Accademia, sarebbe pertanto avvenuta intorno al 351-350 a.C. Tema di fondo dello scritto è che la filosofia merita d’essere coltivata, perché è desiderabile di per se stessa, ossia è intrinsecamente un valore, è utile alla vita e rende felici. Anzi, da essa non si può assolutamente prescindere, dal momento che, come si argomenta nel fr. 2 (Ross; A 3-6 Düring), nella versione in cui il ragionamento è stato tramandato dagli antichi commentatori, la sua necessità si attesta tanto se si riconosce che bisogna filosofare quanto se lo si nega, giacché in tal caso si deve mostrare perché non si deve filosofare, e questo è fare filosofia. Essa costituisce una situazione intrascendibile, e come tale si afferma in entrambe le ipotesi, quindi anche sulla sua negazione, che così risulta confutata. Un argomento che fu fatto proprio pure da Cicerone nell’Hortensius (Lact., Inst., III, 16 = Cic., Hort., fr. 12 = Protr., fr. 2 Ross; C 6, 4 Düring), dove se ne servì con il medesimo intendimento. Prima però di provare le tre tesi sopraddette, pare – almeno dalla collocazione che è stata data al passo di Stobeo (III, 3, 25) e del papiro di Ossirinco (IV, 666) che riportano l’argomento, raccolti come fr. 3 (Ross; B 2-5 Düring) – che lo Stagirita, riprendendo il rapporto tra i beni esteriori e la filosofia già presente nella testimoninza di Zenone del fr. 1, abbia sottolineato l’inanità

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di chi abbia avuto in sorte detti beni ma sia sfornito di quell’adeguata educazione che soltanto la filosofia può dare; anzi in questo caso il possesso di molte cose risulta persino dannoso, perché induce falsamente a credere che esse siano più importanti dei beni dell’anima, e tale convinzione rende spregevoli, al modo in cui è spregevole chi sia peggiore dei suoi servi. Chiara allusione al valore strumentale dei beni suddetti rispetto all’anima, che è tema indubbiamente platonico, ma anche dell’Aristotele delle opere tarde. Lo Stagirita ribadisce ulteriormente l’assunto e, dopo aver affermato che «la sovrabbondanza genera prepotenza e l’assenza d’educazione congiunta con molti mezzi genera insania», sottolinea come la forza, la ricchezza, la bellezza e i beni siffatti non siano tali se non sono accompagnati dalla frfinhsi©, la quale «viene dall’imparare e dal cercare le cose di cui la filosofia ci ha fornito le capacità (dum¿mei©)». Donde la conclusione: «bisogna filosofare senza esitazione». Il riferimento al valore strumentale delle cose concernenti il corpo, questa volta, e al danno che da esse pure deriva se mal usate, costituisce la premessa dalla quale – nel passo del cap. VI di Giamblico (37, 2-22) che, anche se non rappresenta l’inizio della parte del Protrettico aristotelico riportata dal dossografo, come pur è stato autorevolmente sostenuto, funge tuttavia da raccordo con essa e per questo è stato raccolto come fr. 4 (Ross; B 8-9 Düring) – si deduce la necessità di acquisire «quella scienza (âpist‹mh) per mezzo della quale disporremo bene di tutte queste cose». Tale scienza, in tutta chiarezza, è la filosofia, che perciò va esercitata «se vogliamo governare rettamente lo stato e condurre vantaggiosamente la nostra vita» e che qui si attesta in una sostanziale equivalenza alla frfinhsi© del precedente frammento. Proprio questa equivalenza della frfinhsi© con una determinazione conoscitiva (la âpist‹mh) che

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per Aristotele riveste indubbiamente un carattere teoretico, per un verso, e il rilievo, per un altro, della sua utilità imprescindibile nelle questioni della vita individuale e politica, sembrano comprovare già da questo frammento la sua valenza sia teoretica che pratica, conformemente a quella che essa aveva in Platone. Nell’Aristotele più tardo, invece, la sua sfera risulterà limitata al solo deliberare, essendo la virtù di quella «parte calcolativa» dell’anima razionale che ha rapporto con la scelta e dunque con la prassi. Infine nel fr. 5 (Ross; 31-40, 53-57 Düring) – ossia nella parte del par. VI di Giamblico che segue immediatamente (37,22 – 41,5) – lo Stagirita mostra dapprima che il filosofare è possibile (con un argomento facente leva sull’istanza che suo oggetto è ciò che è anteriore e ciò che è migliore, e tali realtà sono più conoscibili, rispettivamente, di ciò che è posteriore, in quanto più di questo sono cause, e la causa è più conoscibile dell’effetto, e di ciò che è peggiore, in quanto più definite e ordinate); indi che è vantaggioso, anzi «la più vantaggiosa di tutte le cose» (giacché la frfinhsi©, nel cui esercizio consiste la filosofia, è il bene più grande, specifica cioè il meglio: infatti secondo la frfinhsi© procede la legge, la quale comanda, e il comando spetta a ciò che è migliore); da ultimo che è facile (perché, se si progredisce facilmente nelle arti che si esercitano per soddisfare necessità pratiche, a maggior ragione sarà facile apprendere la filosofia, che non si esercita per derivarne un guadagno; inoltre perché il suo esercizio, anche se prolungato, è piacevole, non comporta fatica e non abbisogna né di speciali strumenti, né di luoghi appositi). A proposito del primo punto, è da rilevare che la critica più recente ha rifiutato la tesi jaegeriana per la quale «le cose anteriori» e «migliori» alluderebbero alle Idee, donde l’adesione di Aristotele alla relativa dottrina. Quest’attribuzione è parsa infatti arbitraria e inutile,

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potendo benissimo ravvisarvi quelle cause e quei principi primi che lo Stagirita ha sempre affermato essere, in quanto anteriori, realtà più note e migliori. 2. Alla comprovazione della prima delle tre grandi tesi, e cioè che la filosofia è desiderabile per se stessa, sono dedicati i parr.VII (frr. 6-7 Ross), VIII (fr. 9 Ross) e IX (frr. 11-12 Ross) dell’estratto di Giamblico. Nel fr. 6, dopo aver posto che l’anima comanda sul corpo, il quale è comandato e «soggiace come uno strumento», e che la parte dell’anima dotata di ragione comanda sulla parte di essa che ne è priva, Aristotele fa presente che la virtù di ogni parte attua il suo bene, quindi che la virtù della parte migliore realizza il bene di tutto l’uomo; e poiché la parte migliore è quella che comanda, dunque quella dotata di ragione, nella sua virtù egli raggiunge il proprio bene. Inoltre, poiché ogni cosa raggiunge il suo bene nel realizzare quello che è il suo compito (örgon) proprio, non per accidente, ma per sé, allora la virtù più alta sarà quella che maggiormente la rende capace di attuare detto compito. Ora si tratta, innanzitutto, di determinare quale sia il compito proprio dell’uomo, indi di provare che la virtù suddetta consiste nella frfinhsi©, vale a dire nell’esercizio della filosofia. Quanto al primo punto, lo Stagirita dimostra che la verità è il compito dell’uomo. Quanto al secondo, argomenta che questi conosce la verità, ossia realizza il suo compito, mediante la scienza (âpist‹mh), che è la virtù della parte migliore dell’anima e coincide con la frfinhsi©. Dunque questa rappresenta l’abito che pone l’uomo in grado di compiere il suo örgon, e pertanto è l’abito migliore e più desiderabile. La dimostrazione sarebbe così conclusa, ma Aristotele prosegue determinando che tipo di scienza sia la frfinhsi©. Sulla base della distinzione tra scienze teore-

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tiche e scienze poietiche o produttive, egli esclude che s’annoveri tra queste seconde: se producesse, produrrebbe o qualche virtù particolare, ma questo è impossibile dal momento che il fine di ogni scienza poietica, ossia il prodotto, è sempre migliore della scienza che l’ha prodotto, mentre la frfinhsi© è migliore di tutte le virtù particolari; oppure produrrebbe la virtù complessiva, ossia la felicità, ma anche questo è impossibile, giacché la felicità coincide con la frfinhsi©, mentre il prodotto di nessuna scienza poietica coincide con questa scienza stessa (per esempio, la casa, che è il prodotto dell’edilizia o scienza del costruire, non coincide con questa). La frfinhsi© è pertanto una scienza teoretica. Il fr. 7 prova che il froneÖn è amato più d’ogni altra cosa dal fatto che il vivere stesso lo è per la possibilità che offre di conoscere (lo si ama infatti perché consente di sentire, che è una forma del conoscere, e, fra le sensazioni, soprattutto per la vista, che è la sensazione migliore e offre dunque una conoscenza più elevata, quasi prossima a quella della scienza), e la frfinhsi© offre la conoscenza più alta (perché maggiormente domina il vero e fa conoscere di più). Il medesimo assunto viene dimostrato nel fr. 9 con tre argomenti: uno, che fa leva sul fatto che la frfinhsi©, essendo il contrario della demenza, che è cosa da fuggire più d’ogni altra, è massimamente da ricercare e da amare; il secondo, strutturato anch’esso sulla regola topica dei contrari, per il quale, se la morte si fugge per l’ignoto e l’oscuro che comporta, allora ciò che è noto, ossia la conoscenza, non può che essere amabile e, tra le conoscenze, lo sarà quella che più rende noto, ossia la frfinhsi©; il terzo nel quale, distinta una frfinhsi© atta al semplice vivere e un’altra che realizza il vivere felicemente, come questo è preferibile a quello, così lo è la relativa frfinhsi©, consistente nella conoscenza della verità.

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Nel fr. 11 l’eccellenza della frfinhsi© viene argomentata sul motivo che essa rappresenta il fine naturale per cui l’uomo è stato generato. Si distinguono all’inizio le tre cause della generazione, dottrina che costituisce uno dei capisaldi di tutta la produzione aristotelica: l’intelligenza e l’arte, la natura e il caso. Si riconosce quindi che, mentre quest’ultimo non ammette alcuna finalità, essa è presente invece nella produzione dell’arte e, dal momento che l’arte imita la natura e le è pertanto inferiore, a maggior ragione è presente nella natura stessa. Ne deriva che gli esseri viventi, o tutti o i più pregevoli, annoverandosi tra le cose generate per natura, sono stati generati per un fine loro proprio. E questo vale massimamente per l’uomo, che degli esseri naturali è il più pregevole. Si tratta allora di determinare quale sia il suo fine. A tale scopo si considera che nelle generazioni naturali il fine è ciò che giunge a compimento per ultimo (il che significa: il fine, essendo la determinazione più perfetta, giacché è quella nella quale si attua il compimento di una cosa, riassume in un certo senso la perfezione di tutto ciò che vi tende, e dunque non può essere all’inizio), per cui, delle due parti che costituiscono l’uomo, il corpo e l’anima, ossia le facoltà psichiche, poiché queste si sviluppano dopo quello, tra esse va scorto il fine dell’uomo. Non soltanto, ma il fine della parte migliore viene dopo la generazione di questa parte stessa. Il che comporta che la frfinhsi©, essendo la facoltà dell’anima che si sviluppa per ultima, costituisce il fine di quella parte dell’uomo, l’anima per l’appunto, in cui è riposto il suo fine. Insomma, il fine dell’uomo è l’anima, e il fine dell’anima è la frfinhsi©. Essa è pertanto «il fine ultimo in vista del quale siamo nati». Infine nel fr. 12 l’intrinseca bontà della filosofia viene argomentata prima sulla base della distinzione tra cose necessarie (tali cioè che senza di esse è impossibile vive-

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re, non sono amate per se stesse, ma per ciò che vi deriva e costituiscono delle concause) e cose buone (le quali si amano per se stesse), e del ridicolo in cui inevitabilmente cade chi voglia ricercare in ogni cosa un’utilità diversa della cosa stessa, faccia cioè dell’utile il metro per valutare tutto: vi sono infatti delle realtà che non soggiacciono a questa misura. Poi riferendosi alla condizione di coloro che vivono nelle mitiche isole dei beati: essi, non avendo bisogno di nulla, si dedicano al pensiero e alla contemplazione, e proprio per questo sono massimamente felici. La prima parte dell’argomento, com’è stato opportunamente rilevato, ha un carattere fortemente polemico nei confronti di Isocrate. Questi nell’Antidosis (258269), rispondendo con ogni verosimiglianza alle accuse del Grillo, aveva condannato il biasimo degli eristi – e nell’eristica egli annoverava tutti i Socratici, pur distinguendo tra essi i Platonici, i quali disprezzano i discorsi utili, anche se ben conoscono il valore della retorica – per l’utilità dei discorsi comuni, proferito al solo fine di esaltare i loro. Dichiarava inoltre il proprio consenso all’accusa d’inutilità mossa dai più a certi discorsi di astronomia, di geometria e di altre analoghe discipline e, soprattutto, disapprovava l’inutilizzabilità dell’educazione impartita nell’Accademia in ordine all’azione. Il rilievo di Aristotele è, a sua volta, la risposta a un tale contrattacco. 3. Alla comprovazione della seconda delle tre tesi suddette, vale a dire che la filosofia è utile per la vita, è dedicato il cap. X dell’estratto di Giamblico, classificato come fr. 13 (Ross). Già l’assunto in se stesso riveste un carattere polemico nei confronti di Isocrate, il quale in Antidosis, 270-274 aveva sostenuto l’impossibilità di una scienza (âpist‹mh) che insegni che cosa si deve e che cosa non si deve fare, e che i valori morali, come la

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temperanza e la giustizia, non sono procurati da alcun’arte (t¤cnh), ma soltanto dal convincimento – generato dalla retorica – a seguire chi di fatto ne è fornito. La risposta di Aristotele a queste tesi, che a loro volta è facile che replicassero a quelle del Grillo, si puntualizza soprattutto nell’ultima parte dell’argomentazione, dove egli rivendica la natura teoretica della filosofia («questa scienza») e assieme la sua capacità di far compiere molte cose conformi a essa, ossia di fornire un orientamento nelle azioni della vita. Comunque l’argomentazione ruota intorno al raffronto tra la condizione di chi pratica un’arte come la medicina o la ginnastica e il politico, nella figura preminente del legislatore: dapprima calibrando il raffronto sull’aspetto per cui le prime concernono il corpo, il secondo ha a che fare con l’anima, che gli è superiore, e facendo così valere che, se già quelle necessitano di conoscere la natura, a maggior ragione ne ha bisogno questo. Tale conoscenza è data dalla filosofia, donde la sua utilità. Indi si fissa l’attenzione sul fatto che, come tali arti derivano da «gli strumenti migliori» dalla natura, così il politico «deve avere talune norme tratte dalla natura in sé (àp tÉ© f‡sew© aétÉ©)» per giudicare che cosa è giusto, che cosa è bello e che cosa è giovevole. La conoscenza di quelle norme e, di conseguenza, della «natura in sé», dalla quale sono ricavate, è, in tutta chiarezza, la filosofia, che anche sotto questo riguardo si rivela della massima utilità per la vita. Quest’argomentazione, con il riferimento alla «natura in sé» e, nel prosieguo, gli asserti che in tutte le altre arti non si raggiunge la conoscenza derivando gli strumenti e i ragionamenti più esatti «dalle stesse realtà prime (àp’ aétán tán prÒtwn), bensì da quelle seconde o terze o più lontane ancora», e che è proprio del filosofo, e di lui soltanto, «l’imitazione a partire dalle stesse realtà esatte (àp’ aétán tán àkribán)»,

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giacché «di esse egli è imitatore, non delle copie», hanno dato modo a Jaeger e a quanti hanno condiviso la sua ipotesi evolutiva di poter sostenere che anche in questa circostanza il Protrettico rivela l’adesione di Aristotele alle Idee, cui alludono le espressioni summenzionate. Sennonché, ad un esame approfondito è parso che in nessuna di esse possono pensarsi intenzionate le Idee. È stato così fatto presente che la «natura in sé» indica «la realtà più vera», ossia «il principio stesso dell’ordine naturale, che è anche ordine morale».3 Parimenti si è mostrato che l’espressione «le stesse realtà prime (aét· t· prÒta)» non può indicare le forme separate, perché aét¿ non ha il significato tecnico che Jaeger vi attribuisce per affermarlo.4 Ma soprattutto è stato fatto valere che il confronto non è tra le arti e la filosofia (le prime imitano copie, la seconda le realtà in sé, ossia le Idee), «ma soltanto tra il grado imperfetto delle arti e la filosofia, che costituisce il grado perfetto della politica, ossia di un’arte». L’argomento prova allora che «tutte le arti nel loro grado perfetto hanno come oggetto d’intenzione la natura nei suoi aspetti più o meno elevati; nel loro grado imperfetto invece hanno tutte come oggetto della loro imitazione copie della natura, ossia realtà prodotte precedentemente dalle arti stesse».5 E così il preteso riferimento alle Idee non soltanto non ha più argomento per sussistere, ma, se si desse, costituirebbe addirittura un elemento di difficoltà nel lineare scandirsi del ragionamento di Aristotele. Nel prosieguo del passo lo Stagirita deriva poi l’uti3

Düring 1960, pp. 38-40 e 43. Kapp 1938; Düring 1960, pp. 44-48; Düring 1969b, pp. 213-214, 217-219; Berti 1962, pp. 526-528. 5 Citato in Berti 1962, p. 528. 4

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lità della filosofia dall’impossibilità di stabilire una buona costituzione per una pfili© imitando quelle di altre pfilei© (per esempio, quelle di Sparta o di Creta), ma unicamente in rapporto alla conoscenza di ciò che è buono e di ciò che è bello. Una conoscenza – ancora una volta – che solamente la filosofia può dare. Va rilevato che lo Stagirita non sostiene affatto che la determinazione di una buona costituzione non abbisogna dell’esame critico e del confronto con le costituzioni di altre città. Il che, oltre a essere smentito dall’operato stesso del filosofo, che compose una raccolta di costituzioni per educare Alessandro al buon governo, testimonierebbe il rifiuto di quel metodo dialettico, chiaramente utilizzato nell’esame predetto, che è invece da lui espressamente propugnato come via che la ricerca politica ha da seguire. Quanto lo Stagirita esclude non è affatto l’importanza di un esame comparato, sibbene la «derivazione» di una costituzione da un’altra già esistente. Merita infine d’essere sottolineato il rilievo, avanzato nel corso nell’argomento testé esposto, che il filosofo vive con gli occhi fissi alla natura e a ciò che è divino:

rilievo col quale si testimonia che la conoscenza del filosofo non ha per oggetto soltanto l’ordine naturale, ma anche il suo principio. 4. La terza, grande tesi, e cioè che la filosofia rende felici, è affrontata nei capp. XI e XII dell’estratto di Giamblico, corrispondenti rispettivamente ai frr. 14 e 15 (Ross). Nel primo di essi la tesi in oggetto viene raggiunta a conclusione di un complesso e articolato argomento, i cui momenti essenziali possono riassumersi come segue:

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a) posto che il vivere si dice sia in potenza che in atto, lo Stagirita stabilisce che il suo senso più proprio è il secondo: sia perché l’atto ha una preminenza nell’indicazione di qualcosa (per esempio, quando si parla del vedere, s’intende innanzitutto e principalmente l’uso della vista, non il suo semplice possesso, ossia la mera capacità di vedere), sia perché è anteriore alla potenza. b) In rapporto a quest’ultima istanza si precisa altresì un senso di «piuttosto», che può esprimere sia superiorità quantitativa, sia, per l’appunto, anteriorità. Gli studiosi hanno discusso se nella tesi sopraddetta sia riscontrabile quella teoria della potenza e dell’atto che, notoriamente, costituisce uno dei capisaldi della filosofia aristotelica. Che essa qui s’affacci, è un dato di fatto. Si tratta però di vedere se sia presente nei medesimi termini in cui in Metaph., IX, 1-3 scandisce uno dei significati dell’essere, ossia nella pienezza teoretica con la quale lo Stagirita parla di queste determinazioni. Al che non sembra che si possa rispondere affermativamente. In effetti, più che alla specificazione di uno dei molti sensi in cui si dice l’essere, la distinzione della potenza e dell’atto si riporta qui alla regola dialettica che prescrive di considerare in quanti modi può dirsi un termine. A questo rilievo si confanno gli esempi del vedere (già esaminato) e del sapere (che significa sia il semplice possesso della scienza che il relativo esercizio). Parimenti si confà alla regola topica sopraddetta la distinzione dei significati di «bene», detto della salute e delle cose salutari. La dottrina della potenza e dell’atto sembra pertanto annunciarsi nel Protrettico, attraverso una presenza in nuce; ma questo soltanto. Ché, nella sua pienezza teoretica non è ancora riscontrabile. c) Se l’atto si connette all’uso, come s’è detto, mentre la potenza al semplice possesso, esso si esplica nel

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modo più pieno, specifica cioè un uso in un senso più proprio, quando l’uso stesso è retto: giacché questo garantisce la presenza dello scopo e della conformità alla natura. d) Se dunque il vivere in senso proprio si dice secondo l’atto e secondo il retto uso, posto che ciò che vivifica è l’anima, la quale nell’uomo ha come sua facoltà più elevata il pensiero, ne consegue che vive nel senso più alto del termine colui che pensa esattamente, e vive in misura maggiore di ogni altro colui che più d’ogni altro è nel vero.

Ma pensare ed essere nel vero sono dimensioni della filosofia, cosicché nel suo esercizio risiede il vivere nel senso più proprio. e) Ma l’attività perfetta e libera ha in se stessa piacere. Pertanto l’attività contemplativa è tra tutte quella massimamente piacevole.

E lo è non nel senso che, mentre viene esercitata, capita che si provi piacere, il quale verrebbe così ad aggiungersi all’esercizio della contemplazione, ovvero alla filosofia, ma nel senso che l’esercizio stesso del conoscere è piacere, in quanto, come s’è detto, è atto perfetto e libero, e questo, come tale, è piacevole. Infine nel fr. 15 la capacità della filosofia di rendere felici viene argomentata a partire dalla considerazione che la felicità può consistere o nella saggezza (frfinhsi©), o nella virtù (àret‹), o nel piacere (t m¿lista ca›rein), o in tutte e tre queste cose, e dimostrando che ognuna di queste possibilità porta al filosofare. Ché, se la felicità consiste nella frfinhsi©, allora appartiene ai filosofi, giacché sono costoro a esercitarla. Se consiste nella virtù, dal momento che questa è la cosa più alta, risiede in ciò che vi è di più elevato, e questo è la

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frfinhsi©; essa appartiene dunque ai filosofi. Se consiste nel piacere, dal momento che la frfinhsi© è la cosa più piacevole, risiederà in essa e di nuovo apparterrà ai filosofi. Se infine consiste in tutte e tre le cose, essa coincide allora col froneÖn e come tale non può che appartenere ai filosofi.

6 In questa testimonianza, riportata da Tribellio Pollione nella Historia augusta, la maggior parte degli studiosi dà credito all’opinione di Bywater (1869, p. 55) secondo cui è indicato il titolo dell’opera aristotelica e non anche il genere letterario, o soltanto esso, come invece crede Rabinowitz (1957, pp. 23-27). 7 Ecco i due motivi dell’attacco di Isocrate al tipo di educazione filosofica impartita nell’Accademia: tale educazione acclama alla saggezza (frfinhsi©) e si fonda su di essa. Ma quest’«eccellenza» – tale il significato di «virtù (àret‹)» –, il suo spessore teorico e la specifica determinazione sono noti ai soli membri di quella scuola; anzi, neppure a loro, dal momento che intorno a essa discutono. Da quest’ultimo rilievo, che testimonia come cosa certa che intorno alla frfinhsi© si sia sviluppato nell’Accademia un dibattito, è ragionevole inferire che esso verteva sul-

TESTIMONIANZE

Hist. Aug., II, 97, 20-22 (Hohl): né ritengo che siano sconosciute le cose che Marco Tullio sostenne nell’Ortensio, che scrisse sull’esempio del Protrettico.6 NONIUS, 394, 26-28 (Lindsay) s.v. «contendere», «intendere»: Marco Tullio nell’Ortensio. Nello spiegare Aristotele, se lo leggi, si deve usare una grande attenzione anche dell’animo. MARZIANO CAPELLA, V, 441: nell’Ortensio si discute se si debba filosofare. ISOCR., Sul contraccambio, 84-85: ma anche se alcuni pretendono di esortare alla moderazione e alla giustizia, apparirà che noi siamo più veridici e più utili. Infatti, mentre essi chiamano a quella virtù e a quella saggezza che è ignorata dagli altri e che è oggetto di disputa da parte di loro stessi,7 io alla su cui vi è la sua portata teoretica e assieme pratica, secondo il modo di concepirla di Platone, o sulla necessità di riconoscerle una valenza più ristretta, limitata in essenza alla sola sfera dell’agire, come sarà espressamente teorizzato da Aristotele in Eth. nic., VI, 5, ma, probabilmente, già nelle discussione accademiche doveva essersi fatta innanzi l’esigenza. In ogni caso, l’analisi dei frammenti mette in luce che nel Protrettico Aristotele le annette – platonicamente – una valenza anche teoretica e, nella sostanza, fa coincidere la filosofia con l’esercizio di essa.

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8 Dal che si è anche ipotizzato che A Demodico costituisse una risposta al Protrettico. 9 Ossia dell’educazione morale, intesa a incidere nel modo di vivere e nei costumi; la qual cosa è ben differente da una formazione volta

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accordo da parte di tutti. E mentre a loro, nel caso che possano introdurre taluni nella loro comunità mercé la fama dei loro nomi, tanto basta, io... PS.-ISOCR., Pro Demodico, 3-4: Ebbene, quanti scrivono discorsi protrettici per i loro amici,8 intraprendono sì un’opera bella, ma non si occupano di ciò che in realtà è l’aspetto principale della filosofia;9 invece quanti spiegano ai più giovani non con quali espedienti eserciteranno la loro abilità nei discorsi, ma come nei costumi dei loro modi sembreranno essere per natura persone dabbene, gioveranno ai loro ascoltatori in misura tanto maggiore di quelli quanto i primi chiamano soltanto al discorso, mentre i secondi correggono il loro modo .

a insegnare come usare astuzie nel parlare. Jaeger (1964, p. 75, nota 2) chiarisce che qui «filosofia» deve essere assunta nel significato di «cultura generale».

10 Il passo compare in SVF I, 273. Il significato di questo frammento è ben spiegato da Düring (1976, p. 454) là ove scrive che «il cinico Cratete voleva dire che un povero calzolaio è meglio disposto alla vita filosofica di un uomo ricco, in una posizione che gli pone degli obblighi». 11 I frammenti raccolti da Ross sotto il n. 2 svolgono quello che è stato chiamato il «logos aureo» del Protrettico, ossia l’argomentazione, di carattere marcatamente dialettico, secondo cui è impossibile

FRAMMENTI

1 (R2 47, R3 50, W 1) STOB., 4, 32, 21: Zenone disse che Cratete, seduto nella bottega di un calzolaio, leggeva il Protrettico di Aristotele, che egli scrisse per Temisone, re dei Cipri, dicendogli che nessuno possedeva beni in maggior numero per filosofare. Infatti, egli aveva un’enorme ricchezza, così da spendere per quest’occupazione, e inoltre possedeva fama. E disse che, mentre quegli leggeva, il calzolaio prestava attenzione cucendo contemporaneamente, e che Cratete affermò: «mi sembra, o Filisco, che scriverò un protrettico per te. Vedo, infatti, che ti appartengono più doti per filosofare che a colui per il quale Aristotele l’ha scritto».10 2 (R2 50, R3 51, W 2)11 ALEX. APHR., In Top., 149, 9-17: vi sono casi in cui, assumendo anche tutto ciò che ci viene indicato, è possibile, in base a tutto questo, distruggere la proposizione posta. Per esempio, se si dicesse che non si deve filosofare, poiché si dice sia il ricercare proprio questo, se cioè si debba filosofare o non si debba, come egli sostenne nel Protrettico, ma anche il coltivare la dottrinon filosofare. Düring (1961, p. 178) ritiene che quello tra essi che più ripropone la struttura originaria dell’argomentazione aristotelica sia il frammento di Alessandro di Afrodisia.

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na filosofica, mostrando che ciascuna di queste due cose è peculiare all’uomo, da tutte e due avremo distrutto l’asserzione posta. Dunque, in questo caso è possibile mostrare ciò che viene proposto secondo ambedue le considerazioni, ma nel caso degli esempi di prima non è possibile da tutte le considerazioni o da una delle due, ma o da una o da alcune. Scol. in An. Pr., cod. Paris. 2064, f. 263 a: (riguardo a tutte le specie di sillogismo)... di questo genere (scil. connesso per dipendenza causale) è il ragionamento di Aristotele nel Protrettico: sia che si debba filosofare, sia che non si debba filosofare, si deve filosofare; ma o si deve filosofare, o non si deve filosofare; dunque, in ogni caso si deve filosofare. OLYMP., In Alc., p. 144 (Creuzer): Aristotele nel Protrettico diceva che, se si deve filosofare, si deve filosofare; se non si deve filosofare, si deve filosofare; in ogni caso si deve filosofare. ELIAS, In Porph., 3, 17-23: o anche come dice Aristotele nello scritto intitolato Protrettico, nel quale esorta i giovani alla filosofia. Così, infatti, sostiene: se si deve filosofare, si deve filosofare, e se non si deve filosofare, si deve filosofare; dunque, in ogni caso si deve filosofare. Se, infatti, si dà, quando si dà troviamo ogni giovamento nel filosofare; se invece non di dà, anche così troviamo giovamento a ricercare in che modo la filosofia non si dà, e ricercando filosofiamo, poiché il ricercare è causa della filosofia. DAVID, Proll., 9, 2-12: anche Aristotele in un suo scritto di carattere protrettico, nel quale esorta i giovani alla filosofia, afferma che se si deve filosofare, si deve filosofare, se non si deve filosofare si deve filosofare, e in ogni caso si

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deve filosofare; ossia che, se si dice che non si dà la filosofia, si usano dimostrazioni con le quali si elimina la filosofia, e si usano dimostrazioni, manifestamente si fa filosofia, giacché la filosofia è la madre delle dimostrazioni. E se si dice che si dà filosofia, di nuovo si filosofa, giacché si usano dimostrazioni con le quali si prova che essa si dà. Dunque, in ogni caso fa filosofia tanto chi la elimina quanto chi non la elimina. Infatti, ciascuno di questi due usa dimostrazioni con le quali rende persuasivo ciò che sostiene, e se usa dimostrazioni, manifestamente fa filosofia, giacché la filosofia è la madre delle dimostrazioni. LACT., Inst., 3, 16: l’Ortensio di Cicerone, disquisendo contro la filosofia, è sopraffatto da un’arguta conclusione: ché, dicendo che non si deve filosofare, per nulla meno sembrava fare filosofia, poiché compito del filosofo è disputare su che cosa nella vita si debba fare o non si debba fare. Ma noi che esaltiamo la filosofia, in quanto è ricerca dell’umano conoscere, che difendiamo la sapienza, in quanto costituisce una tradizione divina e attestiamo che tutti devono apprenderla, siamo immuni e liberi da questa calunnia. CLEM. AL., Strom., 6, 18, 162, 5: e infatti mi pare che questo ragionamento sia, dunque, in qualche modo ben assestato: se si deve filosofare, si deve filosofare; infatti gli deriva come conseguenza la medesima asserzione. Ma anche se non si deve filosofare, giacché non si potrebbe incolpare qualcosa se previamente non la si avesse conosciuta. Dunque, si deve filosofare. 3 (R2 89, R3 57, W 3) Pap. Oxyrrh., 666 = Stob., 3, 3, 25:... scegliendo di fare una delle cose che si devono, si trovi un impedimento. Perciò, osservando la sfortuna di questi soggetti si deve fuggirla e ritenere che la felicità non consiste nel possedere molte

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12 Questo tema della superiorità dell’anima ben educata rispetto ai beni esteriori, e della felicità che riposa nella prima condizione, non nel possesso dei secondi, ricompare in Eth. eud., II, 1, 1218 b 32 ss., mentre in Eth. nic., I, 9, 1099 a 31 ss. si accentua rispetto all’Etica eudemia anche l’aspetto per cui «nondimeno [...] essa [scil. la felicità] abbisogna pure dei beni esteriori», ancorché in funzione di condizioni ausiliarie e strumentali (Ivi, 10, 1099 b).

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cose piuttosto che nell’essere l’anima disposta in un certo modo. E infatti non si può dire che è felice il corpo che si è abbellito con una veste splendente, ma quello che possiede salute e versa in buona condizione, anche se non gli sia presente nessuna delle predette qualità. Allo stesso modo anche l’anima si deve chiamare felice se sia stata educata: l’anima che è tale e l’uomo che è tale, non se sia splendidamente abbellito delle qualità esteriori, mentre in sé non è degno di nulla.12 Né infatti diciamo che un cavallo di questo tipo, se abbia cioè morsi d’oro e bardatura sontuosa, ma sia inetto, è degno di qualche ; piuttosto, è questo che lodiamo, se sia cioè validamente disposto. Indipendentemente dalle condizioni che abbiamo detto, avviene che per quei soggetti che non sono degni di nessun pregio, quando ottengano una coregia, i loro possedimenti siano degni di un pregio maggiore dei beni che si ottengono con l’anima. Il che è la cosa più vergognosa di tutte. Come infatti, se uno fosse peggiore dei suoi servitori, diventerebbe ridicolo, allo stesso modo quei soggetti per i quali, poni caso, la proprietà sia degna di maggiore pregio della loro natura, si devono ritenere infelici. E la situazione sta veramente in questi termini. Come infatti dice il proverbio, la sazietà genera tracotanza, e la mancanza d’educazione unita a dovizia di mezzi genera dissennatezza. Infatti, per coloro che si trovano in una cattiva condizione per ciò che attiene all’anima, né la ricchezza, né la forza, né la bellezza si annoverano tra i beni. Ma, quanto maggiormente queste disposizioni siano in eccesso, tanto maggiormente in grandezza e in numero danneggiano colui che le possiede, se sono sopraggiunte senza la saggezza. Non mettere un coltello in mano a un bambino è identico a non mettere la dovizia di mezzi nelle mani degli stolti, ma tutti saranno d’accordo che la saggezza deriva dall’apprendere e dal ricercare le cose di cui la filosofia ha fornito le capacità, per cui come non si deve filosofare senza esitazione?

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13 Se il corpo è strumento, chi non ne ha una conoscenza esatta e precisa può farne un uso inadeguato; il che è pericoloso. Ecco dunque la necessità di imparare a usarlo in modo opportuno, e questo è possibile se si possiede la conoscenza suprema, vale a dire la filosofia. 14 Si noti come questa considerazione sull’utilità della filosofia in campo etico (essa serve al fine di ben usare quelle cose che ci sono necessarie per vivere, come il corpo, ma che possono essere male adoperate) faccia espresso riferimento alla dimensione politica (cfr. polite‡esqai). È questo un aspetto che lega la teoria del Protrettico alle tesi dei trattati e denota una linea di continuità lungo la quale gli sviluppi scandiscono specifici momenti di approfondimento. In effetti, come Aristotele teorizzerà in Eth. nic., I, 1 (1094 a 27 sgg.), la politica costituisce l’ambito della piena realizzazione del bene morale definito dall’etica, così da segnare una sorta di primato e di centralità. Nel passo sopra citato, infatti, il filosofo, dopo aver identificato il sommo bene pratico con il fine ultimo, quel fine cioè che non si desidera più in vista di altro, ma per se stesso e che dunque, una volta raggiunto, rende pienamente appagati, dichiara che il relativo studio compete alla scienza più «direttiva e architettonica», e questa è la politica. A essa sono infatti finalizzate come al loro scopo ultimo tutte le attività, pratiche e poietiche, che interessano l’uomo, come l’arte di costruire le briglie lo è a quella militare e questa, per l’appunto, alla politica. Afferma a rincalzo che tale scienza è legislatrice di ciò che bisogna fare e di ciò da cui ci si deve astenere, inglobando così in essa anche l’etica, in un rapporto di parte a tutto, e riportando a essa quest’ultima secondo una relazione di mezzo a fine. In linea con queste considerazioni lo Stagirita in Eth. nic., VII, 2 (1152 b 2-3) dichiara che trattare del piacere e del dolore, i quali hanno un’importanza rilevantissima per l’acquisi-

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4 (W 4) IAMBL., Protr., 6 (p. 37, 2-22 Pistelli): così dunque diciamo. Le cose che ci sono presenti per la vita, come il corpo e quelle che concernono il corpo, ci sono presenti come una sorta di strumenti, e il loro uso è pericoloso, e per coloro che non se ne servono come si deve producono un esito differente. Pertanto si deve tendere alla conoscenza, e acquisire quella, e servirsi convenientemente di quella grazie alla quale avremo la giusta visione di tutte queste cose.13 Dunque, dobbiamo filosofare se vogliamo avere correttamente parte della polis14 e trascorrere la nostra vita futura in modo utile. Inoltre, altre sono le scienze che producono ciascuno dei vantaggi della vita, altre quelle che fanno uso di essi;15 ancora, altre sono quelle che servono e differenti quelle che comandano, tra le quali, nella convinzione che siano le più atte a far da guida, si annovera ciò che è bene in senso principale. Pertanto, se solo la scienza che zione di abiti virtuosi o viziosi, compete a chi studia filosoficamente la politica, giacché questi, essendo «architetto del fine», è competente di ciò in rapporto a cui ogni cosa è un bene o un male in senso assoluto. Infine in Eth. nic., I, 1 (1094 b 7 sgg.,) fa presente che il bene, che coincide sempre col fine in vista del quale facciamo qualcosa, è «amabile anche nella dimensione dell’individuo singolo, ma è più bello e più divino quando concerne un popolo e delle città». Per altro verso, però, quell’etica che è parte della politica, rappresenta quella parte di essa che ne esprime il «principio», com’è testualmente detto in Magna Moralia, I, 1 (1181 b 3), dove compare l’espressione «parte e principio della politica (m¤ro© ka‰ àrc„ tÉ© politikÉ©)». Sì che il predetto rapporto di subordinazione cessa di essere e se ne profila invece uno diametralmente rovesciato, nella misura in cui al principio si subordina il resto. Ora, da tutti questi passi si delinea una situazione nella quale la politica «architettonica», quella politica cioè che ha carattere filosofico ed è scienza del fine ultimo, ossia del sommo bene pratico, in rapporto al quale si determina ciò che è bene e ciò che è male, va distinta dalla politica come scienza che studia i modi di vita associata e, primariamente, la polis. 15 Anche questa tesi concernente la differenza tra uso ed esercizio rappresenta una costante del pensiero dello Stagirita (cfr. Eth. nic., I, 6, 1098 a 18).

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16 Come si può ben osservare (sull’indicazione di Berti 2000, p. 71, nota 14), qui la frfinhsi© assume un valore essenzialmente pratico. 17 Il frammento, tratto dal De communi matematica scientia di Giamblico, svolge una strenua difesa delle scienze matematiche attraverso la confutazione delle obiezioni che vi oppongono i detrattori. Rabinowitz (1957, pp. 73-82) ha ritenuto che la fonte di Giamblico non sia il Protrettico di Aristotele e Düring (1961, pp. 224-225) ne propone soltanto una parte assai ridotta, sul presupposto che il resto non sia ascrivibile allo Stagirita. Per contro, lo ritengono interamente attribuibile ad Aristotele, oltre a Ross, Giannantoni (1973, pp. 138-140) e Casaglia (2001, pp. 9-10): probabilmente a ragione, giacché – a ben vedere – nessun tema è così allotrio al pensiero aristotelico da dover far credere che sia interamente di Giamblico. 18 per‰ aét‹n = t„n per‰ taÜta spoud‹n della riga precedente. 19 Ossia matematiche. Con ogni probabilità, infatti, il riferimento è

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possiede la rettitudine del giudicare e fa uso del ragionamento e considera il bene nella sua interezza, ossia quella scienza che è la filosofia, è in grado di servirsi di tutti e di comandare secondo natura, si deve filosofare in ogni modo, nella convinzione che solo la filosofia comprende in sé il retto giudizio e quella saggezza che è atta a comandare senza errore.16 5 (R3 52, W 5) IAMBL., Comm. Math., 26 (p. 79, 1-81 Festa):17 vi sono stati taluni antichi e moderni che sulle matematiche hanno sostenuto l’opinione opposta, disprezzandole come se fossero completamente inutili e non comportassero alcun giovamento per la vita umana. Taluni poi le attaccano in questo modo: se il loro fine è inutile, quel fine per il quale i filosofi sostengono che bisogna impararle, molto prima è necessario che sia vano lo studio che le ha per oggetto. Per ciò che riguarda il loro fine, sono d’accordo pressoché tutti coloro che credono d’aver conseguito la massima accuratezza nel loro studio.18 Gli uni, infatti, sostengono che è la scienza delle cose ingiuste e di quelle giuste, ossia delle cose cattive e di quelle buone, la quale è simile alla geometria e alle altre siffatte;19 altri invece che è la saggezza concernente la natura e la verità siffatta,20 quale introdussero i seguaci di Anassagora e di Parmenide. Ebbene, a chi vuole intraprendere un esame intorno a questi argomenti non deve sfuggire che tutti i beni e tutte le cose che agli uomini sono utili per la vita risiedono nell’usare e nell’agire e non nel conoscere soltanto. Né, in-

alle altre quattro scienze che, assieme alla geometria, costituiscono per Platone il sapere matematico, e cioè l’aritmetica, la stereometria, la musica e l’astronomia. 20 Ossia, naturale, quale cioè si reperisce nella f‡si© ed è espressa dalla f‡si©.

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Analogo ragionamento si ritrova in Eth. eud., I, 5, 1216 b 22-25.

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fatti, abbiamo buona salute per il fatto di conoscere le cose che producono la salute, ma per il fatto di proporle ai corpi, né abbiamo ricchezza per il fatto di conoscere la ricchezza, ma di aver acquisito molta sostanza, né – ed è la cosa più importante di tutte – viviamo bene per il fatto di conoscere alcune delle cose che esistono, ma di agire bene. Ché, l’essere felici in verità è questo.21 Di conseguenza conviene che anche la filosofia, se è utile, sia o compimento dei beni, o cosa utile per questo genere di azioni. Ora, che non sia, né essa stessa, né alcun’altra delle scienze anzi nominate, esecuzione di azioni, è chiaro a tutti. E che neppure sia utile per le azioni, si può apprendere dalle considerazioni seguenti: in effetti, come esempio più grande abbiamo le scienze simili a essa e le opinioni che vi si sottopongono. Vediamo, infatti, che i geometri non sono essi stessi capaci di compiere nessuna di quelle cose che sono capaci di conoscere mediante dimostrazione, ma sono i geodeti a essere in grado, grazie alla loro esperienza, di dividere sia un territorio, sia tutte le altre proprietà delle grandezze e dei luoghi, mentre quelli che si occupano delle cognizioni scientifiche e dei ragionamenti che si fanno su di esse, sanno come si deve agire, ma non sono in grado di agire. E la situazione è simile per ciò che riguarda sia la musica che tutte quelle altre scienze per le quali il momento della conoscenza e il momento dell’esperienza sono distinti, nel senso di una separazione reale. Infatti, coloro che definiscono le dimostrazioni, vale a dire i sillogismi, sugli accordi e sulle altre questioni di questo genere, come quelli che si occupano di filosofia, sono soliti conoscere, e non partecipano di nessuna delle opere, ma se per caso siano capaci di realizzare manualmente qualcuna di esse, quando abbiano imparato le dimostrazioni, il meglio possibile, immediatamente la compiono peggio. Invece coloro che ignorano i ragionamenti, ma si sono esercitati e possiedono opinioni corrette, hanno

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22 Questa frase indica le tesi che lo scritto procederà ora a dimostrare, ossia che la filosofia è possibile, che è utile e che è facile. Per questo suo carattere introduttivo Düring 1961 ritiene che essa non appartenga al Protrettico, ma costituisca un’introduzione di Giamblico alla sezione dello scritto aristotelico ove si trattavano questi argomenti. Ma la tesi, pur non illogica, ha tuttavia un carattere marcatamente congetturale, fondandosi soltanto sulla supposizione che l’indicare i prossimi temi conviene a chi ha ripreso l’opera aristotelica e non ad Aristotele stesso. Ma non si vede perché non possa convenire all’autore dello scritto. Negli stessi trattati di scuola lo Stagirita usa indicare previamente l’argomento che si accinge a esaminare e pertanto non si vede perché non possa averlo fatto anche nel Protrettico. 23 La filosofia è distinta dunque in filosofia pratica, concernente «le cose giuste e utili» e in filosofia teoretica, concernente la natura, nel cui ambito, ancorché non ancora distinta da essa, si affaccia già la distinzione tra fisica e filosofia prima o metafisica, allusa quest’ultima dalle parole «altra verità», ossia una verità differente da quella concernente la natura. «Qui [...] fisica e metafisica – scrive pertinentemente Berti 200, p. 80 – sono ancora unite e formano insieme la filosofia teoretica». Al che lo studioso aggiunge: «interessante è anche il fatto che tanto la natura quanto ciò che la trascende sono detti “verità”,

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in tutto e per tutto molta rilevanza in rapporto all’uso. Nello stesso modo, anche nelle questioni concernenti nozioni sugli astri, come il sole, la luna e gli altri astri, coloro che si sono preoccupati delle cause e dei ragionamenti non conoscono nessuna delle cose utili agli uomini, invece coloro che a partire da queste possiedono le conoscenze scientifiche cosiddette nautiche, sono in grado di predirci le tempeste, i venti e molti dei fenomeni che si verificano. Di conseguenza, rispetto alle azioni le scienze siffatte saranno completamente inutili, e se lasciano da parte le azioni corrette, l’amore per l’apprendere lascia da parte i beni più grandi. Ebbene, a coloro che muovono queste obiezioni, diciamo che le scienze che hanno a oggetto nozioni teoriche si danno, e che esse sono passibili di acquisizione. IAMBL., Protr., 6 (pp. 37, 22 – 41, 5 Pistelli): Inoltre, poiché tutti scegliamo le cose possibili e quelle utili, bisogna mostrare come queste competano entrambe al filosofare, e che la difficoltà della sua acquisizione è inferiore alla grandezza della sua utilità.22 Infatti, quando si tratta di cose alquanto facili, tutti fatichiamo con maggior piacere. Ora, che siamo capaci di comprendere le scienze aventi per oggetto le cose giuste e le cose utili, e inoltre la natura e l’altra verità, è facile mostrare.23 Ché, dove questo termine sta ancora per realtà intelligibile, come per Platone, e non indica una caratteristica del pensiero, come sarà nelle opere conservate di Aristotele». Un’affermazione sulla quale – a me sembra – si potrebbe sollevare quale dubbio soprattutto per ciò che riguarda l’attribuzione a Platone della tesi che la natura è vera. Credo che in termini platonici si dovrebbe dire ciò che qui Aristotele non dice, ossia che sono veri i modelli o gli archetipi della natura, ossia le idee (quelle idee che nel Timeo Platone sostiene costituire ciò guardando a cui la natura è stata fabbricata dall’artefice divino, ma che già nella speculazione anteriore a questo tardo dialogo sono considerate dal filosofo modelli delle realtà naturali, cosicché esse e non la natura sono vere). Certamente platonica appare la tesi aristotelica per l’a-

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spetto per cui, parlando il filosofo di verità della natura, attribuisce la verità alle essenze degli enti naturali o – il che è lo stesso – afferma che gli enti naturali sono veri perché sono vere le loro essenze: le quali sono sì ad essi immanenti, per cui è l’ente naturale avente in sé la sua essenza a essere vero, e sotto questo profilo il distacco dal maestro è già avvenuto, ma sono pur sempre determinazioni intelligibili e ad esse, propriamente, compete la verità – o meglio, la verità compete all’ente naturale in quanto portatore di un’essenza. Sotto questo profilo Aristotele mostra la sua vicinanza a Platone. 24 Cfr. Top., VI, 4, 141 b 5. 25 Cfr. De part. anim., I, 1, 641 b 18 ss. 26 Il passo si articola intorno a due tesi basilari apparentemente distinte, ma che a ben vedere coincidono: la maggiore conoscibilità (1) delle cose anteriori (prfitera) rispetto a quelle posteriori (≈stera) e (2) delle cose migliori per natura (belt›w t„n f‡sin) rispetto a quelle (per natura) peggiori (ceÖra [t„n f‡sin]). Che questa seconda tesi si riporti alla prima, abbia cioè al pari della prima un significato al tempo stesso ontologico e gnoseologico e non etico, appare dal fatto che la «bontà» (belt›w, àgaq¿) delle cose di cui dice, risiede nel loro essere «definite e disposte ordinatamente (órism¤na ka‰ tetagm¤na)», e proprio queste cose, precisa il passo, sono oggetto della scienza (âpist‹mh). Non si tratta dunque di una bontà di carattere morale, ma – per l’appunto – logico-ontologico, né deve trarre in inganno il caso dell’uomo a modo rispetto a quello vizioso, perché è soltanto un esempio, non la specificazione del tipo di denotato della tesi in questione. Tant’è che subito appresso si sottolinea la somiglianza tra la differente conoscibilità dei due soggetti umani in esso addotti e quella delle cose definite e ordinatamente disposte rispetto alle loro contrarie. Occorre pertanto determinare a che cosa allude Aristotele parlando di cose anteriori, che sono anche migliori per natura, e di cose posteriori, per natura peggiori. La precisazione che la soppressione delle prime (âke›nwn ànairoum¤nwn) comporta la soppressione an-

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le cose anteriori sono sempre più note di quelle posteriori24 e quelle migliori per natura di quelle peggiori. Infatti, la scienza ha per oggetto le cose definite e disposte ordinatamente più delle loro contrarie,25 e inoltre le cause più delle conseguenze. Ma le cose buone sono definite e disposte ordinatamente più di quelle cattive, come un uomo a modo lo è più di un uomo vizioso. In effetti, esse hanno necessariamente tra loro la medesima differenza. Le cose anteriori sono cause più di quelle posteriori. Ché, se esse vengono soppresse, vengono soppresse quelle che da esse derivano la loro esistenza: le grandezze se vengono soppressi i numeri, le superfici se vengono soppresse le lunghezze, i solidi se vengono soppresse le superfici, le sillabe se vengono soppresse le lettere.26 Di conseguenza, se l’anima è una realtà miglioche delle seconde è sufficiente per far escludere la possibilità di rintracciare nelle prime le idee e nelle seconde le cose empiriche, giacché riguardo alle idee l’ipotesi di una loro soppressione è impossibile. In effetti, un concetto analogo è espresso, a proposito dei significati di «anteriore» e «posteriore», anche in Metaph., V, 11, 1019 a 1-4, e con esplicito riferimento a Platone, ma non si parla affatto di eliminazione o soppressione dell’anteriore, giacché una tale ipotesi in termini platonici e, in particolare, in riferimento alle idee, sarebbe insensata. Si dice invece, più propriamente, «quelle cose che possono esistere senza altre (¬sa ând¤cetai eÚnai ôneu ôlwn)», precisando che questa è l’anteriorità «secondo la natura e la sostanza (kat· f‡sin ka‰ oés›an)». Cade, di conseguenza, ogni tipo di esegesi che intenda fare leva su questo passaggio per sostenere una presunta adesione del giovane Aristotele alla dottrina di Platone. L’influenza di quest’ultimo è sì visibile, ma si determina in tutt’altra consistenza che nel consenso alle idee (anche nel passo di Metaph., V, 11 anzi richiamato non sembra che le cose prime secondo la natura e la sostanza, ivi definite con espresso riferimento a Platone, siano le idee, come ha argomentato Reale [1995, III, p. 246, nota 12], ma l’allusione pare volgersi nella direzione delle dottrine non scritte. Berti [2000, p. 80, nota n. 46] dal canto suo, dopo aver sottolineato che «ugualmente platonico è l’esempio di anteriorità ontologica qui riportato, cioè la successione numeri-linee-superfici-solidi», ha cura di precisare che tale anteriorità non concerne le idee, ma «le dottrine non scritte attribuite da Aristotele ai primi Accademici [Speusippo, Senocrate]», secondo cui tutte

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le cose si riconducono ai numeri, e per questa dottrina, non per il riferimento alle idee, anche in questo passo il Protrettico si caratterizza come platonizzante); anzi, a ben vedere, l’aspetto stesso che manifesta una tale influenza manifesta al contempo il distacco di Aristotele dal maestro. In effetti, l’influenza platonica s’affaccia nella tesi che le «cose prime e migliori per natura» non sono le realtà empiriche, bensì quelle che ne costituiscono le condizioni d’intelligibilità; ma tali cose, lungi dal coincidere con le idee, lasciano già intravedere i lineamenti teorici di quelli che nell’esposizione della dottrina della scienza operata negli Analitici secondi Aristotele chiamerà i principi. Essi, infatti, dice lo Stagirita, sono anteriori «per sé» o «per natura» e da essi deve procedere la scienza nella sistemazione per via dimostrativa della sua conoscenza (An. Po., I, 2, 71 b 9-13). Ond’è che già in questo passaggio del Protrettco è possibile scorgere un primo abbozzo di detta dottrina. 27 Chiaro riferimento al Gorgia platonico, come ancora a questo dialogo si riporta il rilievo immediatamente successivo secondo cui vi sono una cura dell’anima e un’arte che la pratica. Platone la individuava nella politica intesa in senso complessivo, di cui una parte è la legislazione, la quale cura l’anima sana, un’altra la giustizia, che cura l’anima malata (come la medicina è l’arte che cura il corpo malato e la ginnastica quella che cura il corpo sano). Cfr. Gorgia, 464 b ss. 28 Si tratta del corpo, che Aristotele dice più difficile a conoscersi dell’anima sul presupposto che esso è ontologicamente posteriore e assiologicamente inferiore all’anima, e, come qui si sta dicendo, ciò che per natura è posteriore e peggiore è anche meno conoscibile di ciò che per natura è anteriore e migliore.

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re del corpo (giacché per natura è più originaria), e le arti e le conoscenze sapienziali che hanno per oggetto il corpo sono la medicina e la ginnastica27 (infatti, noi le poniamo come scienze e affermiamo che taluni le hanno acquisite), è chiaro che anche per ciò che riguarda l’anima e le virtù dell’anima vi sono una cura e un’arte, e che siamo capaci di comprenderla, se in realtà vi sono anche di cose cui si unisce un’ignoranza maggiore e più difficili da conoscere.28 Le cose stanno in modo simile anche per ciò che concerne la natura. Infatti, è necessario che la saggezza abbia per oggetto le cause e gli elementi molto prima che le realtà ultime. Ché, queste non fanno parte per natura delle realtà supreme, né da queste derivano i primi , ma da quelle e mediante quelle manifestamente anche le altre si originano e hanno consistenza. Se, infatti, il fuoco, se l’aria,29 se il numero e alcune altre nature30 sono cause di altre e anteriori a esse, è impossibile conoscere qualcuna delle altre se si ignorano quelle. Ché, come potrebbe uno conoscere il discorso ignorando le sillabe, o come potrebbe conoscere queste non conoscendo nessuna delle lettere?31 29 Riferimento ai principi-elementi dei Naturalisti (al fuoco e all’aria occorre sottintendere anche l’acqua e la terra). 30 Riferimento ai principi affermati da Platone, nelle cosiddette dottrine non scritte, e dai platonici Speusippo e Senocrate. «Il discorso tuttavia – precisa Berti (200, p. 81, nota 48) – è applicabile anche a quelli che Aristotele porrà come principi di tutte le cose, cioè le “cause prime”, la prima causa materiale, la prima causa formale, la prima causa motrice e la prima causa finale. Solo che Aristotele, nelle opere più mature, non direbbe mai che questi principi vengono conosciuti molto prima delle cose ad essi posteriori, cioè degli oggetti sensibili.» Affermazione, questa, che si deve condividere ove l’anteriorità s’intenda in senso cronologico, anche se non in questa valenza lo Stagirita l’avrebbe proferita, nelle opere più mature come, probabilmente, neppure nel Protrettico. 31 Il riferimento alle sillabe e, soprattutto, alle lettere (stoicÖa) chiarisce in modo inequivocabile che sono a tema i principi in quanto «ele-

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menti», ossia le realtà nelle quali le cose si dividono e che a loro volta non possono essere ulteriormente divise. In questo senso sono realtà «prime». La saggezza ha dunque per oggetto queste realtà, istituendo in tal modo anche nel campo della scienza fisica quello che abbiamo testé visto valere nell’ambito della scienza dell’anima. Altrimenti detto: la saggezza concerne tale realtà sia in campo teoretico che pratico. 32 La scienza della verità e della virtù dell’anima è la saggezza. Questo primo argomento prova che essa è massimamente utile (e per questo è il bene più grande) lasciando sottinteso un passaggio (perché corrisponde a un’opinione ampiamente condivisa): sua espressione è la legge, la quale tutti riconoscono che deve comandare (giacché è cosa valente e ottima per natura, e a una tale cosa spetta il comando) e che comanda per l’utilità comune. Quest’ultima premessa è per l’appunto lasciata sottintesa. Ancora con Berti (2000, p. 82, nota 52) si deve sottolineare che nell’asserire che la legge è espressione di saggezza Aristotele con ogni probabilità pensa ai «grandi legislatori antichi, Licurgo soprattutto e Solone, i quali erano comunemente considerati modelli di saggezza». Va inoltre rilevato come la concezione che la legge sola comanda ed è sovrana, sia assunto ben consolidato nella cultura e nella mentalità greca. Tra le testimonianze che l’attestano merita di essere richiamato, per la sua datazione assai vicina a quella del Protrettico, un passo del Pro Demodico, 36, nel quale Isocrate così scrive:

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Che dunque vi sia una scienza della verità e della virtù dell’anima, e perché siamo capaci di comprenderle, sono argomenti sui quali si considerino esposte queste osservazioni. Che sia il più grande dei beni e la cosa più utile di tutte le altre, è chiaro da questi rilievi. Tutti infatti siamo d’accordo che deve comandare il soggetto più valente, ossia il migliore per natura, e che solo la legge è soggetto che comanda e sovrana. Ed essa è una sorta di saggezza e di discorso proveniente dalla saggezza.32 Inoltre, quale regola o quale definizione più precisa dei beni abbiamo noi se non la persona saggia?33 In effetti, tutte quelle cose che costei sceglierebbe, poiché le sceglie secondo scienza, sono buone, e cattive quelle contrarie a queste. E poiché tutti scelgono soprattutto le cose che sono conformi ai loro abiti (l’uomo giusto, il vivere giustamente; l’uomo dotato di coraggio, ciò che è conforme al coraggio; similmente, il moderato, l’essere moderato), è chiaro che anche il saggio sceglierà fra tutte le cose soprattutto l’esser saggi, giacché ciò è l’opera propria di questa facoltà. Di conseguenza è chiaro che conformemente al giudizio più autorevole la saggezza è il migliore dei beni.34 Pertanto, non bisogna fuggire la fi«obbedisci alle leggi poste dai re, però considera la legge più valida di tutto il loro modo di vivere». 33 L’assunto, che ricompare anche nelle opere più mature (cfr. Eth. III, 6, 1113 a 32-33; X, 5, 1176 a 17), manifesta un distacco da Platone, per il quale la regola è data dalla conformità all’idea. Per converso, l’affermazione subito seguente secondo cui il saggio sceglie sulla base della scienza del bene è di tenore ancora platonizzante e manifesta – ancora una volta – come lo Stagirita si muova in questo scritto nel solco del pensiero del maestro, rispetto al quale tuttavia prende posizione, e che, anzi, tiene costantemente presente ed erige a termine primario in riferimento al quale svolgere la propria dottrina. 34 Il secondo argomento inteso a provare che la saggezza è vantaggiosa fa forza, dunque, sulla scelta del saggio, eretto a criterio (cfr. la nota precedente) in quanto sceglie sulla base della scienza del bene; e il saggio – si argomenta – sceglie soprattutto la saggezza perché essa è conforme a lui e ciascuno sceglie ciò che gli è consono.

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35 Si noti questa distinzione tra possesso e uso, sulla quale Aristotele ritorna anche nelle opere più tarde (cfr. Eth. nic., I, 6, 1098 a 5 ss.; De an., II, 1, 412 a 22) e alla quale corrisponde la distinzione tra «facoltà (d‡nami©)» e «opera (örgon)», richiamata nel passo immediatamente precedente e presente anch’essa nei trattati di scuola (cfr. Eth. nic., I, 6 1097 b 24 ss.). Come ha convincentemente indicato Berti (1962, p. 487), qui «sapienza (sof›a) non è altro che l’aspetto teoretico della frfinhsi©», la quale esprime la conoscenza filosofica nel più alto grado e si connota sia per una valenza teoretica che per una pratica. 36 Gli Antichi le consideravano l’estremo limite della terra. L’espressione «navigare verso le colonne d’Ercole» è un topos per intendere fare viaggi verso paesi lontani, con i rischi che questo comporta. Si noti il duplice contrasto emergente dall’intero contesto che inizia con questo passo. Da un lato, le fatiche e i pericoli necessari per acquisire beni materiali rispetto all’assenza di fatica fisica e di spese materiali per acquisire la saggezza (è chiaro che «faticare [poneÖn] indica fatiche fisiche e «fare spese [dapaneÖn]» allude a spese materiali, mentre l’acquisizione della saggezza, corrispondendo a un otium, comporta sì fatica e spesa, ma non certamente di questo genere), per cui – si dice – non bisogna viaggiare in terre lontane e correre rischi per acquisire beni materiali, che sono meno importanti della saggezza, e non sopportare fatiche e spese a motivo di questa. Dall’altro, la vita da schiavo, caratterizzata dal solo interesse per il vivere, inteso in senso materiale, e dal seguire le opinioni altrui, e innanzitutto quelle del padrone, che corrispondono a veri e propri ordini, condizioni che denotano, entrambe, l’assenza di saggezza, com’è logico che sia per uno schiavo, a motivo

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losofia, se, come crediamo, la filosofia è possesso e uso della sapienza,35 e la sapienza si annovera tra i beni più grandi. Né bisogna navigare verso le colonne d’Ercole36 e correre rischio di sovente in vista di beni materiali, ma né faticare né fare spese a motivo della saggezza. È certamente proprio di uno schiavo desiderare di vivere e non di vivere bene,37 e seguire noi stessi le opinioni dei più e non ritenere giusto che gli altri seguano le nostre, e ricercare i beni materiali e non darsi affatto, invece, alcuna preoccupazione delle cose belle. E anche sull’utilità e sull’importanza della cosa ritengo che si siano date sufficienti dimostrazioni. Del motivo, poi, per il quale il possesso della saggezza è di gran lunga più facile degli altri beni, ci si può convincere da queste considerazioni. In effetti, la circostanza per cui, pur non provenendo dagli uomini a coloro che si dedicano alla filosofia un compenso grazie al quale si affatichino così intensamente, essi, dopo essersi molto addentrati nelle altre arti, progrediscono tuttavia nel campo delle cose esatte, pur avendo intrapreso la corsa da poco tempo, mi sembra essere un segno della facilità che circonda la filosofia.38 Inoltre, il della sua costitutiva impossibilità ad acquisirla, conseguente alla mancanza della parte razionale dell’anima e, in particolare, di quella che nell’Etica nicomachea Aristotele indicherà come la facoltà scientifica di essa; per converso, la capacità che dà la saggezza di preoccuparsi non soltanto di vivere, ma di «vivere bene», ossia di raggiungere una piena formazione culturale e morale, ed acquisire un proprio pensiero, col quale sottrarsi dal seguire pedissequamente quello altrui, in quanto si è in grado di scorgere da se stessi il bene e il male. 37 Il motivo ricompare in Eth. eud., I, 5, 1215 b 34-35. 38 Il passo è diversamente interpretato dagli studiosi, tra i quali c’è chi vi scorge un’allusione polemica al programma educativo della scuola di Isocrate, dove all’insegnamento della filosofia era dedicato un tempo molto minore che alle altre discipline ed essa – così vorrebbe sottolineare Aristotele – si apprenderebbe molto più lentamente che nell’Accademia. Ma è una linea esegetica che, a parte la tortuosità del pensiero, giacché lascerebbe inespresso e soltanto sottinteso pro-

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prio l’assunto centrale, prospetta una situazione che pare poco acconcia in questa fase dello scritto, intesa a mostrare la facilità con cui si apprende la filosofia, non ad attaccare la scuola avversaria. Più consistente sul piano critico-esegetico appare l’ipotesi di chi vede un riferimento al progetto pedagogico teorizzato da Platone nella Repubblica, e in particolare nel libro VII, dove è a tema l’iter educativo dei custodi. Ma – a me sembra – da cogliersi in questo senso: poiché in quel progetto l’insegnamento delle matematiche (le «cose esatte») seguiva quello di altre discipline e durava per ben dieci anni, prima che si intraprendesse per cinque anni lo studio della dialettica, del quale era dunque preparatorio, Aristotele intenderebbe dar risalto da un lato alla lunga durata del periodo destinato alle scienze matematiche (aritmetica, geometria, stereometria, astronomia e musica), dall’altro al fatto che, appena dedicatisi allo studio di esse, i futuri custodi mostrano di fare in questa materia rapidi progressi, pur essendosi in precedenza occupati di altro. E lo studio delle matematiche, propedeutico a quello della dialettica, immette già, in un certo senso, in quello della filosofia, di cui la dialettica rappresenta l’espressione più alta in quanto concerne direttamente le idee e il loro rapporto col Bene. Il tema del rapido progresso che si compie nel campo delle conoscenze matematiche e filosofiche ritorna anche nel fr. 8. 39 È possibile che in quest’attestazione del piacere di dedicarsi alla

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fatto che tutti amano soggiornare in essa e vogliono trascorrervi il tempo, allontanandosi da tutte quante le altre cose, è una testimonianza non insignificante che la sua cura si sviluppa in unione al piacere. Infatti, nessuno desidera affaticarsi per molto tempo.39 Inoltre, il suo uso differisce moltissimo da quello di tutte le altre , giacché per il suo esercizio non si ha bisogno né di strumenti né di luoghi, ma in ogni parte della terra abitata si ponga il pensiero, vi si aderisce, sul presupposto che in ogni parte la verità è presente in ugual modo. Pertanto, si è dimostrato anche che la filosofia è cosa possibile e perché è il più grande fra i beni e cosa facile ad acquisirsi, cosicché è giusto impossessarsene alacremente per ogni cosa. PROCL., in Eucl., 28, 13-22 (Friedlein): che per coloro che la coltivano, sia passabile di scelta per se stessa – cosa che anche Aristotele sostiene da qualche parte –, mostra il fatto che, pur non dandosi alcun compenso per coloro che la ricercano, tuttavia in poco tempo ottengono un così grande incremento nella conoscenza delle nozioni matematiche; inoltre, il fatto che tutti coloro che a poco a poco si sono accostati all’utilità che ne proviene, amano soggiornare in essa e vogliono trascorrervi il tempo, allontanandosi dalle altre cose. Per cui, coloro che hanno in disprezzo la filosofia e di soggiornare in essa per lungo tempo si debba scorgere un riferimento personale dello Stagirita, che – secondo la cronologia più accreditata – trascorse vent’anni nell’Accademia platonica. «Quando Aristotele – ha scritto Jaeger 1964, p. 125 – parla in tono entusiastico del progresso della filosofia compiutosi in breve tempo sulla via della scienza esatta, ci si sente trasportati direttamente nell’ambito della comunità scientifica dei Platonici». In ogni caso, che la filosofia sia attività massimamente piacevole è tema che ricorre sia in Platone (cfr., per esempio, Eutidemo, 304 e; Gorgia, 484 c) che nello stesso Aristotele (cfr. Eth. nic., X, 6, 1177 a 23 ss.).

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40 Il passo, tratto dal Commento agli Elementi di Euclide di Proclo, ripropone il medesimo rilievo svolto nel passo precedente, e cioè che, pur non assicurando le scienze matematiche alcun vantaggio materiale a chi le pratica, sono state tuttavia così coltivate da conseguire in poco tempo un progresso davvero notevole e produrre a chi vi si dedica grande piacere. 41 Si delinea qui una relazione tra anima e corpo (la prima comanda e il secondo è lo strumento di cui l’anima si serve) che, secondo una felice espressione di Nuyens 1948, può dirsi «strumentalista». L’anima a sua volta, come viene precisato nelle parole immediatamente successive, è bipartita, e una parte ha natura razionale e comanda, mentre l’altra si lascia comandare e ne esegue gli ordini. Si ripercorre così, sul piano dell’anima, la relazione strumentale che questa ha nei confronti del corpo. Una tale bipartizione dell’anima si ritrova anche in Eth. eud., II, 2, 1220 a 2; Eth. nic., V, 15, 1138 b 11; VI, 2 (dove la parte che ubbidisce è il desiderio). Sia nella concezione strumentalista che in quella per la quale la parte non razionale dell’anima è docile alla ragione si può avvertire una presa di posizione nei confronti di Platone: nel primo caso, rispetto alla posizione dualistica espressa nel Gorgia e nel Fedone, dove l’anima è pensata come realtà non soltanto di natura diversa dal corpo, ma addirittura rinchiusa in esso come in un carcere, conformemente alla concezione orfica e pitagorica fatta propria dal

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conoscenza delle nozioni matematiche, si trovano a non essere capaci di gustare i piaceri sussistenti in esse.40 6 (W 6) IAMBL., Protr., 7 (pp. 41, 15 – 43, 25 Pistelli): e inoltre, in noi, una cosa è l’anima, un’altra il corpo, e la prima comanda, il secondo è comandato, e la prima si serve, il secondo soggiace come uno strumento. Ora, l’uso di ciò che è comandato, ossia dello strumento, sempre è collegato con ciò che comanda, ossia con ciò che usa.41 Una parte dell’anima è il logos, ed essa per natura comanda e giudica su noi, un’altra invece segue e per natura è comandata. Ogni cosa si trova in buona condizione in conformità con la virtù che le è propria: infatti, il conseguirla è un bene. Ed è allora che si trova in buona condizione, quando, in realtà, le sue di maggior rilevanza, ossia più importanti e di maggior pregio possiedano la loro virtù.42 Pertanto, la virtù secondo natura di ciò che è migliore, è per natura migliore. Ma è migliore ciò che secondo natura è più adatto a comandare ed è adatto a guidare in misura maggiore, come l’uomo rispetto agli altri animali. Dunque, l’anima è migliore del corpo (giacché è una realtà più adatta a comandare), e, dell’anima, quella parte che possiede il logos e il pensiero, giacché una tale parte è quella che ordina e vieta, ossia dice che si deve o non si deve agire.43 filosofo; nel secondo, rispetto alla posizione espressa in Resp., IV, dove si dice che la parte concupiscibile si oppone alla ragione. 42 Ossia: lo stato di eccellenza (la «virtù») della parte migliore garantisce l’ottima condizione del tutto di cui essa è parte. In quest’assunto occorre riconoscere una chiara testimonianza del carattere teleologico del pensiero aristotelico. 43 Si noti la struttura complessiva dell’argomentazione aristotelica: ciò che comanda è migliore di ciò che è comandato e ne accoglie gli ordini; l’anima, comandando al corpo e servendosene come strumento, è migliore di questo e, nell’anima, la ragione è per lo stesso motivo migliore della parte non razionale; la virtù di una cosa defini-

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sce il raggiungimento del suo stato di eccellenza, in cui consiste il suo bene; in base a quanto s’è detto, poiché l’uomo è costituito di anima e corpo, la virtù della parte razionale dell’anima definisce il suo bene più alto. 44 Ottimamente Berti (2000, p. 91, nota 91) rileva che «con quest’espressione di sapore certamente platonico (cfr. Resp., IV, 443 d; Leggi, XII, 959 a-b)» Aristotele «non intende ridurre l’uomo soltanto a ragione, trascurandone il corpo e le altre parti dell’anima, ma sottolineare che la ragione è la differenza specifica, e dunque l’essenza dell’uomo. La stessa espressione, del resto, ricorre anche in Eth. nic., IX, 8, 1168 b 35; X, 7, 1178 a 7-8». Si veda anche Eth. nic., X, 4, 1166 a 17. 45 Cfr. Eth. nic., I, 6, 1097 b 22 ss. e II, 5, 1106 a 15-17, dove Aristotele precisa che «ogni virtù, per la cosa di cui è virtù, ed ha per effetto che essa sia in buona condizione, e compie bene l’opera di quella cosa». Trattasi di un tema che riprende un assunto platonico svolto in Resp., I, 353 c. 46 È l’ipotesi (platonica e non condivisa da Aristotele) su cui si veda la nota 44. 47 Dunque, tanto nell’ipotesi (platonica) che l’uomo sia una realtà semplice, definita dalla ragione, quanto in quella (condivisa da Aristotele) che sia una realtà composta di molteplici facoltà, di cui la ragione

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Pertanto, qualunque sia la virtù di questa parte, è necessario che, fra tutte, sia in senso assoluto la più passibile di scelta, per tutti e per noi, giacché – credo – anche questo si potrebbe porre, e cioè che siamo o solamente o principalmente questa parte.44 Inoltre, quando quello che per natura è l’opera propria di ciascuna cosa, detta non in senso accidentale, ma per sé, giunga a compimento nel modo migliore, allora anche questo bisogna dire che è bene, e bisogna porre che quella virtù secondo la quale ogni cosa per natura compie proprio quest’opera, è la più importante.45 Ora, di ciò che è composto e divisibile, vi sono più e differenti attività, mentre di ciò che per natura è semplice e non ha un relativo per sua essenza, è necessario che la virtù, assunta in senso proprio come un per sé, sia una. Se dunque l’uomo è un animale semplice e la sua realtà è ordinata secondo il logos e l’intelletto,46 il suo compito non è altro che la verità più accurata ed essa soltanto, ossia dire il vero su ciò che esiste. E se per sua natura è costituito da più facoltà, è chiaro che l’opera migliore di queste è quella dalla quale per natura realizza di più il suo fine, come la salute è l’opera migliore del medico e la salvezza l’opera migliore del timoniere. Ma non possiamo enunciare nessun’opera del pensiero o della parte pensante della nostra anima migliore della verità. Dunque, la verità è l’opera principale di questa parte dell’anima.47 la compie in senso assoluto grazie alla

è quella che più delle altre gli fa raggiungere il suo fine, il suo compito proprio è la verità. Questa conclusione è raggiunta a partire dal presupposto che realizzare in modo non accidentale l’opera che per natura è propria di ciascuna cosa costituisce, per ciascuna cosa, il bene, ossia la condizione di eccellenza, e la virtù, ossia lo stato ottimale, che consente di realizzarlo è la migliore. Ma delle due l’una: o l’uomo è soltanto ragione, e dunque il suo bene, vale a dire la sua condizione d’eccellenza, consiste nel realizzare l’opera propria della ragione, che è la verità; oppure è una realtà composta, e in tal caso la ragione è, tra

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le facoltà che lo costituiscono, quella migliore, per cui il suo bene consiste nella realizzazione del compito proprio di questa facoltà, vale a dire – ancora una volta – nella verità. 48 Va osservato che Aristotele concepisce la contemplazione (qewr›a) sempre come «attività (ân¤rgeia)» (cfr., per esempio, Metaph., XII, 7, 1072 b 24; Phys., VIII, 4, 225 a 33 – b 5). 49 Si noti il rapporto strutturale che intercorre tra verità (àl‹qeia), contemplazione (qewr›a), saggezza (frfinhsi©) e conoscenza (âpist‹mh). Quest’ultima costituisce la virtù, vale a dire lo stato di eccellenza, della saggezza, la quale rappresenta la facoltà (d‡nami©) migliore che è in noi. Ebbene, la verità corrisponde alla realizzazione del compito proprio della saggezza, resa eccellente dalla virtù del conoscere (o – il che è lo stesso – è la realizzazione del compito proprio della saggezza in quel suo stato ottimale espresso dalla conoscenza), e la contemplazione esprime la natura stessa della verità, ossia segna la curvatura che assume la realizzazione di tale compito. 50 Ossia dalle cose che produce, mentre non è affatto distinta da esse (cfr. Eth. eud., I, 6, 1216 b 10-18).

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conoscenza, ma in misura maggiore grazie a quella che è conoscenza in grado maggiore, e per questa la contemplazione costituisce il fine principale.48 Quando, infatti, essendoci due cose, una sia passibile di scelta grazie all’altra, è migliore e maggiormente passibile di scelta quella grazie alla quale anche l’altra è passibile di scelta: per esempio, il piacere più delle cose piacevoli, e la salute più delle cose salutari. Infatti, le seconde si dicono atte a produrre le prime. Pertanto, a dover giudicare un abito rispetto a un abito, non vi è nulla di preferibile della saggezza, che sosteniamo essere la facoltà della parte principale fra quelle che sono in noi. Ché, la parte atta a far conoscere, considerata sia separatamente sia in congiunzione , è la parte migliore di ogni anima, e la conoscenza è la sua virtù.49 Pertanto, nessuna delle virtù dette particolarmente è opera della saggezza, giacché è migliore di tutte, e il fine prodotto è sempre migliore della conoscenza che lo produce. In tal modo, né ogni virtù dell’anima né la felicità sono sua opera. Se infatti sarà capace di produrle, sarà diversa da altre cose,50 al modo in cui l’arte di costruire case è diversa dalla casa, giacché non è una parte della casa, mentre la saggezza è parte della virtù e della felicità. Infatti sosteniamo che la felicità o deriva da questa o è questa. Dunque, anche secondo questo ragionamento è impossibile che la conoscenza sia atta a produrre. Ché, il fine dev’essere migliore di ciò che diviene, nulla invece è migliore della saggezza, tranne qualcuna delle cose dette, ma nessuna di queste è opera diversa da essa. Pertanto bisogna dire che questa conoscenza51 è teoretica, se veramente è impossibile 51 Ossia la contemplazione (qewr›a), così direttamente nominata più sopra. Ond’è che, precisando che essa è «teoretica (qewrhtik‹)», vale a dire contemplativa, non si fa che ribadire attraverso l’aggettivo quello che già è espresso dal sostantivo.

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52 È opportuno scandire il percorso complessivo dell’argomentazione. Dimostrato nella prima parte che la verità rappresenta il compito proprio dell’uomo (cfr. la nota 47) e che la saggezza (frfinhsi©) è la facoltà più elevata che è in lui, nella seconda parte si mostra che la conoscenza, ossia la virtù o stato d’eccellenza della saggezza (cfr. la nota 49) e la felicità non sono sue «produzioni», ossia che la saggezza non è una facoltà (d‡namii©) «produttiva (poihtik‹)». Ciò in quanto, se lo fosse, se cioè la conoscenza e la felicità fossero sue produzioni, dal momento che il fine è migliore di ciò che lo produce, occorrerebbe dire che esse sono migliori della saggezza, che invece – come s’è detto – è la facoltà migliore dell’uomo. Se dunque conoscenza e felicità sono strutturalmente legate alla saggezza (in quanto entrambe si esplicano nella verità e questa rappresenta la realizzazione del compito proprio della ragione, con cui la saggezza s’identifica), ma d’altro canto non sono prodotte da essa, ciò vuol dire che s’identificano con essa o che la saggezza è parte costitutiva di esse. Ora, una tale identità, totale o parziale, tra la facoltà e ciò che rappresenta l’esecuzione della sua attività, scandisce espressamente l’aspetto peculiare della conoscenza teoretica. In essa, infatti, come Aristotele preciserà determinatamente nel De anima sia a proposito dei sensi che dell’intelletto, ma già qui implicitamente viene abbozzato, l’atto del conosciuto e della

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che il fine sia una produzione.52 Dunque, l’essere saggi e il contemplare sono opera della virtù, e quest’opera è per gli uomini quella che più di tutte è passibile di scelta, come io credo che lo sia anche il vedere con gli occhi: cosa che si sceglierebbe di avere anche se tramite esso non dovesse provenire qualche opera oltre la stessa vista.53 7 (W 7) IAMBL., Protr., 7 (p. 43, 25 – 45, 3 Pistelli): inoltre, se amiamo il vedere per se stesso, questo testimonia sufficientemente che tutti amano massimamente l’essere saggi e il conoscere.54 Inoltre, se uno ama questa data cosa per il fatto che a essa ne capita un’altra diversa, è chiaro che egli vorrà maggiormente ciò a cui quest’altra cosa appartiene in misura maggiore: per esempio, se capita che uno scelga di passeggiare perché è salutare, ma per lui fosse più salutare correre e gli fosse possibile attuarlo, sceglierà maggiormente questo, e, conoscendolo, lo sceglierebbe più velocemente. Pertanto, se l’opinione vera è cosa simile alla saggezza, se l’opinare con verità è passibile di scelta per l’aspetto e nella misura in cui è simile alla saggezza per via della verità, se quest’aspetto appartiene maggiormente all’essere saggi, l’essere saggi sarà passibile di scelta in mifacoltà conoscente sono un solo e medesimo atto. Di conseguenza, l’attività della saggezza, in cui consistono conoscenza e felicità, ma senza che queste siano sue produzioni, è un’attività di tipo contemplativo, cioè teoretico. 53 Cfr. Metaph., I, 1, 1098 a 2 ss. Si veda anche Ivi, 980 a 23-27. 54 Cfr. la nota precedente. Dal frammento appare che Aristotele concepisce la conoscenza (l’âpist‹mh o scienza) in modo bipartito: ossia come teoretica e poietica, ascrivendo alla prima non soltanto quelle che nella classificazione tripartita delle opere più tarde (cfr., per esempio, Metaph., VI, 1) sono le scienze teoretiche, ma anche le scienze pratiche, in virtù, probabilmente, del carattere sia teoretico che pratico qui assunto dalla saggezza (frfinhsi©).

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55 Cfr. Platone, Teeteto, 187 b – 201 d, dove si mostra che l’opinione vera è simile alla scienza ma è meno desiderabile di essa. La presente argomentazione ne ripropone un’eco. 56 È questo un tema che sarà approfondito soprattutto nel secondo libro del De anima, dove uno dei criteri che guidano lo studio delle sensazioni e, in particolare, lo studio della differenza tra sensibili propri, sensibili comuni e sensibili per accidente è, per l’appunto, la possibilità della sensazione di essere falsa. Peraltro, il nesso strutturale che vincola il vivere al conoscere e al sentire ricompare in Eth. eud., VII, 2, 1244 b 26 ss. 57 «La verità – commenta ottimamente Berti (2000, p. 94, nota 110), dopo aver sottolineato come l’argomentazione qui svolta sia sostanzialmente la stessa di quella dell’inizio della Metafisica, con la differenza che qui risulta più marcato l’aspetto logico-linguistico – è la caratteristica che rende desiderabile la sensazione in generale; tra le sensazioni, essa rende più desiderabile la vista; nel confronto fra sensazioni e saggezza, essa rende più desiderabile la saggezza, perché questa è “più signora” della verità, cioè più dotata, più ricca di verità. Con

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sura maggiore dell’opinare con verità.55 Ma in realtà il vivere si distingue dal non vivere per il fatto di avere sensazioni, e il vivere si definirà per la presenza e la forza della sensazione e, tolta questa, vivere non è cosa degna di pregio, come se attraverso la sensazione il vivere stesso fosse tolto. E, nell’ambito della sensazione, la facoltà della vista si distingue per il fatto d’essere la più chiara, e per questo la scegliamo anche in via principale. Ma ogni sensazione è una facoltà atta a far acquisire conoscenza mediante il corpo,56 come l’udito fa percepire il suono mediante le orecchie. Pertanto, se il vivere è passibile di scelta per via della sensazione e la sensazione è una forma di conoscenza, e la scegliamo per il fatto che con essa l’anima acquista conoscenza, e prima si è detto che tra due cose è sempre passibile di scelta in misura maggiore quella alla quale la medesima appartiene in misura maggiore, è necessario che, tra le sensazioni, la vista sia passibile di scelta e degna d’onore al massimo grado, e che la saggezza sia passibile di scelta più di questa e di tutte le altre e del vivere, essendo più padrona della verità. Di conseguenza, tutti gli uomini perseguono soprattutto l’essere saggi.57 Ché, amando il vivere, amano l’essere saggi, ossia l’acquisire conoscenza. Infatti, per nessun’altra ragione l’hanno in onore che per la sensazione e, soprattutto, per la vista, giacché è questa la facoltà che in tutta evidenza amano in modo smisurato. Essa, infatti, si rapporta alle altre sensazioni assolutamente come una sorta di conoscenza certa.

ciò [...] Aristotele stabilisce una regola [...] secondo la quale cose diverse possono avere tutte in comune uno stesso carattere, per esempio quello di essere desiderabili, ma lo possiedono in gradi diversi, a seconda che contengano di più o di meno ciò che è causa del carattere in questione, nella fattispecie la verità.»

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58 Cfr. Metaph., I, 1, 981 b 13 ss., dove – in una curvatura sostanzialmente identica a quella espressa qui attraverso la ripresa del mito di una catastrofe cui consegue la rinascita della civiltà – Aristotele fissa l’attenzione sul progressivo sganciarsi della conoscenza dall’essere perseguita per scopi pratici, fino a essere coltivata per se stessa. 59 Su questo tema del celere progresso delle scienze matematiche e della filosofia, nonostante a coloro che le esercitano non venga vantaggio pratico alcuno né alcuna pratica utilità, cfr. anche il passo del Protrettico di Giamblico raccolto sotto il fr. 5. 60 L’espressione «nozioni comuni (koina‰ önnoiai)» è stoica, ma

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8 (R2 1, R3, 53, W 8) CIC., Tusc., III, 28, 29: e così Aristotele, criticando i filosofi antichi perché avevano ritenuto che la filosofia era giunta a perfezione per i loro ingegni, disse che essi erano stati o massimamente stolti o massimamente boriosi; al contrario vedeva che un grande cammino era stato fatto in pochi anni e che chiaramente in breve tempo la filosofia sarebbe stata compiuta. IAMBL., Comm. Math., 26 (p. 83, 6-22 Festa): come tutti riconoscono, la più recente delle occupazioni è il discorso meticoloso intorno alla verità. In effetti, dopo la distruzione e la catastrofe, si trovavano nella necessità di esercitare l’amore per la sapienza (ÆilosoÆeÖn) innanzitutto per ciò che riguardava il nutrimento e il vivere, ma una volta diventati più ricchi di risorse coltivarono le arti finalizzate al piacere, come la musica e quelle di questo tipo, e quando possedettero in abbondanza il necessario, intrapresero così a filosofare.58 E coloro che si applicarono alla geometria, ai ragionamenti e alle altre forme d’educazione, ricercando a partire da circostanze di piccolo conto, in un tempo brevissimo sono progrediti tanto quanto nessun’altra stirpe in nessuna delle arti. Eppure, tutti incoraggiano le altre , onorandole in pubblico e dando le mercedi a coloro che le possiedono, e non soltanto non esortano quelli che praticano le discipline suddette, ma spesso li impediscono anche; ma tuttavia crescono moltissimo, perché per natura sono le più antiche. Infatti, ciò che è ultimo per generazione, viene prima per essenza e perfezione.59 9 (R3 55, W 9) IAMBL., Protr., 8 (p. 45, 4-47 Pistelli): inoltre, non è dappoco richiamare alla memoria l’oggetto proposto a partire dalle nozioni comuni,60 ossia da ciò che risulta con

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con essa Giamblico intende riferirsi a quelle che in termini espressamente aristotelici sono le «opinioni notevoli (öndoxa)», come risulta dal fatto che tra queste – come appare dalla definizione che ne dà lo Stagirita. Trattasi infatti di «opinioni che sembrano a tutti o alla massima parte o ai sapienti e, se a questi, o a tutti o alla stragrande maggioranza o a quelli massimamente noti ed illustri » (Top., I, 1, 100 b 21-23) – sono comprese le opinioni ammesse da tutti, e proprio con questo Giamblico caratterizza nelle parole immediatamente successive tali nozioni. 61 Si osservi che l’argomento, per essere valido, presuppone che tra saggezza e insipienza – l’una essendo il contrario (cfr. ânant›on) dell’altra – non sussista alcun termine intermedio, siano tali, cioè, che o l’una o l’altra appartenga necessariamente a un soggetto, per sua natura o – il che è lo stesso – che un soggetto per sua natura sia necessariamente o saggio o insipiente (cfr. Cat., 10, 12 a 1 ss.). Solo in tal caso, infatti, la negazione dell’una comporta l’affermazione dell’altra, ovvero l’attribuzione di un contrario (essere passibile di fuga) all’una (all’insipienza) comporta eo ipso l’attribuzione dell’altro contrario (essere passibile di scelta) all’altra (alla saggezza). Ché, se tra saggezza e insipienza si dessero termini intermedi, il ragionamento cadrebbe, giacché la negazione dell’una, o l’attribuzione di un contrario a una, non implicherebbe la necessità della negazione dell’altra o dell’attribuzione dell’altro contrario all’altra, potendosi negare o attribuire

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chiarezza a tutti. Ebbene, a ognuno proprio questo è chiaro, che nessuno sceglierebbe di vivere possedendo le sostanze e la potenza più grandi presso gli uomini e tuttavia rinunciando all’essere saggio e diventando folle, neppure se dovesse perseguire, traendone godimento, i piaceri più tipici dei giovani, al modo in cui trascorrono il loro tempo taluni di quelli che sono usciti di mente. Pertanto, come sembra, tutti fuggono soprattutto l’insipienza; ma la saggezza è il contrario dell’insipienza, e se uno dei due contrari è passibile di fuga, l’altro è passibile di scelta. Come dunque l’essere malati è passibile di fuga, così l’essere in buona salute è passibile di scelta.61 Quindi la saggezza, come sembra, anche secondo questo ragionamento appare la cosa che più di tutte è passibile di scelta non in virtù di qualche altra tra quelle che vi capitano, come testimoniano le nozioni comuni. Infatti, se anche si possedessero tutti , ma si fosse corrotti e malati nella parte che possiede la saggezza, la vita non sarebbe passibile di scelta, giacché non vi sarebbe alcuna utilità neppure degli altri beni.62 Di conseguenza, tutti, nella misura in cui percepiscono di essere saggi e possono gustare questa cosa, pensano che le altre non siano niente, e per questa ragione neppure uno di noi continuerebbe nella vita, fino al suo compimento, a essere né ubriaco né fanciullo. Per questo, dunque, anche il dormire è assai piacevole, ma non è passibile di

l’altro contrario anche a uno dei termini intermedi. E che l’autore del presente passo abbia in mente la regola enunciata nelle Categorie appare anche dalla menzione di salute e malattia come contrari tra cui il darsi dell’uno comporta il negarsi dell’altro, e dal fatto che tale è esattamente il caso addotto in Cat., 10 di contrari che non ammettono termini intermedi. 62 Cfr. Pol., VII, 3, 1323 a 31 ss., dove Aristotele afferma che non può conseguire un livello di felicità pieno e totale chi è menomato nelle proprie facoltà. Non diversamente aveva detto Platone in Gorgia, 512 a 2 ss.

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63 Cfr. Metaph., V, 29, 1024 b 23. È un motivo di dissenso rispetto a Platone, che in Resp., IX, 571 d – 572 b aveva sostenuto che in particolari condizioni chi è provvisto di temperanza può «cogliere la verità nel modo più alto» anche durante il sonno – quantunque in Theaet., 157 e il filosofo abbia sostenuto che durante i sogni si producono sensazioni false. 64 L’argomento, come si vede, si struttura sul rapporto tra saggezza e chiarezza del conoscere. In quest’ottica hanno peso i rilievi circa il timore della morte perché è qualcosa di oscuro, l’onore che si deve ai genitori perché, facendoci nascere, ci hanno permesso di vedere il sole e la luce, nonché il rallegrarci nel vedere gli amici, perché ci sono noti. Düring (cfr. Berti 2000, p. 100, nota n. 137) fa presente che sono qui richiamate le tre regole etiche invalse presso i Greci, ossia onorare gli dèi, qui rappresentati dal sole e dalla luna, onorare i genitori e amare gli amici. Berti, a sua volta, richiama «il passo della Repubblica (libro II) in cui Platone paragona i buoni custodi ai cani fedeli, che riconoscono gli amici e in questo modo rivelano di amare ciò che è noto, quindi la conoscenza».

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scelta, anche se supponessimo che a chi dorme sono presenti tutti i piaceri, giacché le rappresentazioni che si hanno nel sonno sono false, mentre quelle che si hanno da svegli sono vere. Infatti, il dormire e l’essere svegli non differiscono per nessuna delle altre se non per il fatto che l’anima quando il soggetto si trova nel secondo stato spesse volte dice il vero, mentre quando egli dorme è in errore.63 Anche il fatto che i più fuggono la morte mostra l’amore dell’anima per l’apprendere. Infatti, si fuggono le cose che non si conoscono, vale a dire ciò che è buio, ossia ciò che non è chiaro, mentre per natura si persegue ciò che è manifesto, ossia ciò che conoscibile. Per questo sosteniamo che quelli che per noi sono le massime cause del vedere il sole e la luce, si devono onorare oltremodo, ossia che si devono venerare il padre e la madre come cause dei beni più grandi. E sono cause, come sembra, del fatto che pensiamo saggiamente qualcosa e che vediamo. Per questa medesima ragione ci rallegriamo altresì di ciò che è consueto, si tratti di cose o di uomini, e sono queste persone che chiamiamo amici, ossia quelle che ci sono note. Dunque, questi mostrano chiaramente che ciò che è conoscibile, ciò che è chiaro, ciò che è manifesto sono amabili; e se lo sono ciò che è conoscibile e ciò che è chiaro, in tutta evidenza è necessario che lo siano, in pari modo, anche il conoscere e l’essere saggi.64 Inoltre, come nel caso delle sostanze non è identico, per gli uomini, il guadagno finalizzato al vivere e al vivere bene, così anche in quello della saggezza credo che non sia della medesima che abbiamo bisogno per vivere soltanto e per vivere in modo eticamente bello.65 Ora, i 65 Sulla distinzione tra «vivere» e «vivere bene», che è un motivo ricorrente in Aristotele, si veda, tra gli altri luoghi Pol., I, 2, 1252 b 29-30.

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66 In questa sezione finale del cap. 8 del Protrettico di Giamblico, riportata dal Ross come frr. 10 e 11 del Protrettico aristotelico, gli studiosi pressoché unanimemente indicano la parte conclusiva dello scritto dello Stagirita (in proposito cfr., tra gli altri, Mansion S., 1984/b). 67 Il termine «skiograf›a» ricompare anche in Metaph., V, 29, 1024 b 23 e in Rh., III, 12, 1414 a 8. Certamente è presente l’eco platonica del mito della caverna, ma – a me sembra – non anche la concezione che si sottende alle platoniche ombre delle anfore proiettate sul muro: giacché in Platone tale immagine intenziona la teoria secondo cui gli oggetti del mondo empirico sono immagini e copie delle Idee, mentre non è questo ciò che intende esprimere Aristotele e non è tale dottrina che egli fa propria, rivestendo invece l’immagine delle cose umane come ombre – nonostante la sua indubbia radice platonica, anzi, proprio in virtù di questa stessa radice, ma destituita di ogni assunzione del corrispondente valore teorico – un significato soltanto metaforico

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più hanno molta indulgenza a fare questo (infatti, pregano di essere felici, ma sono contenti anche se siano soltanto capaci di vivere); chi, invece, ritiene di non dover tollerare di vivere in ogni modo, è ridicolo già che non sopporti ogni fatica e non dedichi ogni cura per guadagnare quella saggezza che farà conoscere la verità. 10 a (R2 49, R3 59, W 10 a) IAMBL., Protr., 8 (p. 47, 5-21 Pistelli):66 la stessa cosa si può conoscere anche da queste , se cioè si esaminerà a fondo la vita umana. Infatti, si troverà che tutte le cose che agli uomini sembrano essere grandi sono un adombramento.67 Dal che si dice giustamente che l’uomo è un niente e che nessuna delle cose umane è sicura. Infatti, la forza, la grandezza e la bellezza sono degne di riso, ossia di niente, e la bellezza sembra essere tale per il fatto che non vediamo nulla di preciso. Se infatti si potesse guardare acutamente come si dice Linceo,68 il quale vedeva attraverso i muri e gli alberi, sembrerebbe forse che qualcuno può sopportare la vista, scorgendo da quali mali è costituito? Gli onori e la reputazione, ossia ciò che più delle altre cose si ricerca con zelo, sono carichi d’inenarrabile follia, giacché per chi guarda a qualcuna delle cose eterne è sciocco prendersi cura per essi. Quale delle cose umane è grande o di lunga durata? Ma per la nostra debolezza, io credo, e per la brevità della vita anche questo risulta molto.69

per esprimere la loro vanità. Trattasi, in altri termini, dell’uso di un’immagine che si definisce sì in riferimento a una nota e basilare dottrina platonica, ma spogliata di questa specifica valenza dottrinale e intesa a significare altro da ciò che essa esprime in Platone. 68 Questo mitico personaggio, indicato come uno degli Argonauti, è passato alla leggenda per l’acutezza della vista, pari a quella di una lince, capace di vedere nel buio (in proposito cfr. Platone, Lettera VII, 344 a). 69 Il tenore del passo richiama le pessimistiche considerazioni del Fedone e ancor più del Gorgia platonico (alle quali, e soprattutto a

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quelle svolte nel primo dei due dialoghi, Düring 1961, p. 261 ritiene ispirate le riflessioni di questa sezione del Protrettico). Ma in realtà la svalutazione dei beni esteriori, quali gli onori e la fama, è funzionale, per contrasto, alla valutazione della filosofia, che si presenta come un pregio duraturo di fronte al carattere effimero dei primi in quanto permette di scorgere, attraverso l’oscurità di questi, le realtà eterne. Cfr. anche Rsp., V, 496 c-d. 70 Queste considerazioni sulla brevità della vita di taluni animali rientrano nel quadro complessivo della riflessione sulla caducità delle cose e, per contro, sull’eternità e sulla saldezza della filosofia. 71 A differenza del frammento precedente, qui la saldezza e la perennità della filosofia, cui anche questo testo tacitamente traguarda, si staglia in contrappunto alla caducità della vita dell’uomo e non di cer-

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BOETH., Consol., 3, 8: Ché se, come dice Aristotele, gli uomini usassero gli occhi di Linceo, così che il loro sguardo penetrasse ciò che sta dinanzi, forse che quel corpo di Alcibiade, bellissimo per l’aspetto, non sembrerebbe assai brutto una volta che se ne guardassero dal didentro le viscere? CIC., Tusc., I, 39, 94: Aristotele afferma che presso il fiume Ipani, il quale sfocia nel Ponto dalla parte dell’Europa, nascono alcuni animaletti che vivono un solo giorno. Di essi, quello che è morto nell’ora ottava, è morto in età già avanzata. Quello poi che è morto al tramontare del sole, è decrepito, tanto più se è morto anche nel giorno del solstizio. Confronta la nostra vita più lunga con l’eternità; ci ritroviamo pressoché nella medesima brevità della quale quegli animaletti.70 SEN., Brev. Vit., I, 2: il dissidio che Aristotele porta avanti con la natura non conviene affatto a un uomo sapiente. Egli afferma che è ingiusto «che sia stata tanto benevola con gli animali da metterli al mondo di cinque o dieci generazioni , per l’uomo, invece, generato per così numerose e importanti, sussiste un termine tanto più breve».71 10 b (R2 36, R3 60, W 10 b) IAMBL., Protr., 8 (p. 47, 21 – 48, 9 Pistelli): chi dunque, volgendo lo sguardo a queste cose, riterrebbe di essere ti animali, fatta, anzi, rimarcare proprio tramite il confronto con la lunghezza della vita di altri animali. Il diretto richiamo di Aristotele dovrebbe fugare ogni ragionevole dubbio circa l’attribuzione a lui del pensiero qui testimoniato, quantunque in esso si debba riconoscere anche un tema caro alla filosofia dello stoicismo romano e, in particolare, di Seneca. È presumibile che questi, attraverso una fonte se non direttamente, abbia letto il Protrettico di Aristotele.

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72 Sono gli ierofanti, ossia coloro che rivelavano a chi si iniziava ai misteri le verità che li avrebbero condotti alla salvezza. I misteri cui qui si fa riferimento sono con ogni probabilità legati all’orfismo, e la pena che l’anima, secondo tale religione, è costretta ad espiare è una sorta di peccato originale non meglio identificabile compiuto da un demone, l’anima stessa, per l’appunto, in seguito al quale essa s’incarna successivamente nel corpo di animali vieppiù superiori o inferiori, trasmigrando nel successivo dopo la morte del precedente, a seconda che nella vita anteriore si sia purificata o meno. Se ne ha un’eco precisa nel Gorgia e nel Fedone, nonché in Cratilo 400 c. 73 Qui, come si può ben notare, anima e corpo appaiono essere due realtà distinte e tali che tra loro non vige quel rapporto strumentale del secondo nei confronti della prima di cui si dice nel fr. n. 6, ma, ben al contrario, vige una relazione di opposizione, pari a quella di un vivo (l’anima) costretto a stare unito a un morto. Così nel riferimento allegorico alle torture inflitte dai pirati etruschi (cfr. la nota successiva) agli stranieri (dove la figura stessa dello straniero manifesta una valenza allusiva dell’estraneità tra loro di anima e corpo) e così nel mito orfico che Socrate nel Gorgia (492 e ss.) richiama attraverso due versi del perduto Polidio di Euripide (fr. 639 Nauck; identico pensiero si trova anche nel Frisso, fr. 833 Nauck) e dice di aver ascoltato anche da antichi sapienti, secondo il quale «noi in realtà siamo morti e che il corpo è per noi una tomba». Per cui, come anche Berti (2000, p. 102, nota 144) ha cura di sottolineare, una tale concezione dell’anima non può essere stata condivisa da Aristotele, neppure durante il suo periodo di permanenza nell’Accademia. Chi l’ha creduto è stato indotto (come Brunschwig 1963)

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felice e beato – noi che, innanzitutto, appena per natura ci siamo costituiti, siamo tutti inviati come a una pena, al modo in cui sostengono coloro che pronunciano i misteri?72 Questo dire, infatti, proferiscono divinamente i più antichi, che l’anima sconta una pena e noi viviamo per punizione di certi peccati grandissimi. Ché, l’unione dell’anima col corpo assomiglia molto a una cosa di questo tipo.73 In effetti, come si dice che gli abitanti della Tirrenia74 spesso torturino coloro che fanno prigionieri, legando faccia a faccia i cadaveri ai viventi, uno di fronte all’altro, adattando ciascuna parte con ciascuna parte, così sembra che l’anima sia disposta e congiunta a tutte le membra sensibili del corpo. AUGUST., Contra Julian. Pelag., IV, 15, 78: quanto, dunque, meglio di te e in modo più vicino alla verità formularono pensieri sulla generazione degli uomini coloro che Cicerone nelle parti finali del dialogo Ortensio riad attribuire il frammento ad un dialogo, quale l’Eudemo, in cui ad avviso di molti studiosi lo Stagirita professava ancora una concezione dualistica; ma erroneamente, come ha ben mostrato Courcelle 1966. Il richiamo di tale concezione riveste invece un effetto retorico, inteso ad amplificare la miseria della condizione del soggetto umano senza la filosofia. Una condizione pari a quella di una punizione, inflitta per espiare una colpa, così delineandosi la mancanza di filosofia. Il passo di Agostino, derivato per esplicita ammissione dell’autore dall’Ortensio ciceroniano, nel quale, com’è noto, l’Arpinate attingeva al Protrettico di Aristotele, conferma e ribadisce questa chiave di lettura. 74 Si tratta degli Etruschi, così chiamati dai Greci. Il riferimento è con ogni probabilità ai pirati etruschi, che saccheggiavano le coste tirreniche della Magna Grecia. Il supplizio che essi infliggevano alle loro vittime, facendole perire legate a un cadavere, simboleggia in un certo senso il destino dell’anima legata al corpo: demone la prima, mortale il secondo. Una situazione che chiaramente si riconnette alla concezione orfica e pitagorica fatta propria da Platone, ma che non significa un’adesione di Aristotele a essa, quanto piuttosto, come ha messo in luce Festugière 1950, p. 86, si connette al tema della precarietà e dell’illusiorietà dell’esistenza umana, che ribadisce e radicalizza.

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75 Trattasi dell’idolatria, la quale avvinghia le anime allo stesso modo in cui, nella testimonianza di Giamblico relativa ai pirati Tirreni, i vivi sono legati ai morti, perché marciscano assieme. 76 La medesima tesi intorno all’immortalità della parte superiore dell’anima, cioè l’intelletto, era espressa nell’Eudemo (in proposito cfr. Rees 1960, pp. 197 ss.) e ritorna in De gen. anim., II, 3, 736 b 28.

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chiama come persone guidate e spinte dalla stessa evidenza delle cose. Infatti, dopo aver esposto molti aspetti della vanità e dell’infelicità degli uomini che vediamo e piangiamo, disse: «e avviene che quegli Antichi – siano essi dei vati o degli interpreti del pensiero divino nel tramandare le cose sacre e gli inizi – che sostennero che noi siamo nati per scontare delle pene a motivo di alcune scelleratezze commesse in una precedente vita, da quegli errori e da quegli affanni della vita umana sembrino aver talvolta scorto qualcosa, e che sia vero ciò che si trova presso Aristotele, ossia che noi patiamo un supplizio simile a quello di coloro che un tempo, essendo caduti nelle mani di predoni Etruschi, erano uccisi con una crudeltà appositamente pensata: i loro corpi, vivi, venivano congiunti con quelli dei morti, facendo corrispondere nella maniera più esatta possibile parti frontali a parti frontali. In questo modo i nostri animi sono stati uniti ai corpi, cosicché da vivi siamo congiunti con i morti. CLEM. AL., Protr., I, 7, 4: la bestia malvagia e seducente,75 atta a strisciare, schiavizza e tormenta tuttora gli uomini, vessandoli in modo barbaro, come mi sembra, e si dice che essi legano i prigionieri a corpi morti, finché anch’essi marciscano assieme a quelli. 10 c (R2 48, R3 61, W 10 c) IAMBL., Protr., 8 (p. 48, 9-21 Pistelli): niente, dunque, di divino o di beato appartiene agli uomini, tranne in realtà ciò che, unico, è degno di cura, ossia quanto d’intelletto e di saggezza è in noi. Ché, questo soltanto sembra essere la parte immortale di noi ed esso soltanto la parte divina.76 E per il fatto di poter partecipare di tale facoltà, pur essendo la vita infelice per natura e difficile, tuttavia si organizza in modo così felice che rispetto agli

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77 Identico pensiero in De part. anim., II, 10, 656 a 8; IV, 10, 686 a 28-29. 78 Citazione da Euripide (fr. 1018 Nauck). 79 È probabile che il riferimento a Ermotimo e Anassagora sia un’aggiunta di Giamblico. Così Bignone 1973, II, p. 215 e Düring 1969/b, p. 98. 80 AåÒn, latino aevum, denota un tempo di lunga durata fino ad abbracciare la totalità dell’esistenza: del cosmo, così da significare l’eternità, o anche dell’uomo, come in questo caso. Su tale variazione di significato del termine si veda De cael., I, 9, 279 a 25-29. 81 Il senso di questo pensiero, nella prima parte, non è certo di invitare alla morte, ma di ribadire che una vita senza filosofia non è

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altri esseri l’uomo sembra un dio.77 Infatti, «il nostro intelletto è dio»:78 lo dicono sia Ermotimo, sia Anassagora;79 e dicono che «l’evo immortale80 possiede una parte di un qualche dio». Pertanto, o si deve filosofare, oppure dipartirsene da qui dicendo addio al vivere, poiché in realtà tutte le altre cose sembrano essere una grande stoltezza e una chiacchiera.81 CIC., De Fin., II, 13, 39-40: il mio pensiero sarà che innanzitutto si debbono lasciar perdere i pareri di Aristippo e di tutti i Cirenaici, i quali non si vergognarono di porre il sommo bene in quel piacere che con la sua dolcezza muove massimamente il senso, disprezzando questa mancanza di dolore.82 Costoro non scorsero che, al modo in cui il cavallo è nato per correre, il bue per arare, il cane per fare il segugio, così l’uomo è nato per due cose, come sostenne Aristotele, ossia per indagare e per agire, quasi come un dio mortale. AUGUST., De Trin., XIV, 19, 26: raccomandando alla fine del dialogo Ortensio quella sapienza contemplativa, Cicerone disse: «e questa per noi che viviamo nella filosofia è la grande speranza: o che ciò con cui pensiamo e conosciamo sia mortale e caduco, e allora per noi il tramonto sarà piacevole e quasi pace della vita; oppure, se, come piacque agli antichi filosofi, ossia a quegli uomini grandissimi e di gran lunga i più famosi, abbiamo animi eterni e divini, allora bisogna pensare in questo modo: quanto più essi si tennero sempre nel loro corso, vale a dire nella ragione e nel desiderio di fare ricerca, e quanto meno si mischiarono e si implicarono nei vizi e negli errori degli uomini, per loro questa ascesa e questo ritordegna di essere vissuta, come già Platone fa dire a Socrate in Apologia, 38 a. 82 Oggetto attuale del discorso, e contrapposta alla ricerca del piacere.

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83 Düring (1961, p. 268) legge artibus (in queste discipline) in luogo di arcibus, ma il successivo riferimento alla «trasmigrazione», con la chiara allusione al mito orfico-pitagorico e al corpo quale carcere dell’anima, mi sembra rendere preferibile la lezione tradizionale. 84 Qui il caso è indicato come t‡ch, il cui ambito, nelle opere più tarde, e specificamente nella Fisica, sarà ristretto alle sole cose umane, di modo che essa indicherà, propriamente, la «sorte», la «fortuna», mentre il caso in senso generale e, in particolare, il caso che opera nell’ambito delle cose naturali (altrimenti detto, il caso in funzione di genere, di cui la t‡ch, ossia la sorte, costituisce una specie) sarà indicato come taétfimaton. 85 Questa dottrina delle cause del venire all’essere è ampiamente esposta nel II libro della Fisica, dove la differenza tra arte e natura è espressamente indicata nell’essere la seconda un principio immanente alla cosa che diviene, mentre l’arte è un principio esterno (Phys., II, 1, 192 b 8-24). Entrambe poi esprimono finalità, pongono cioè in campo un piano razionalmente formulato, e al tempo stesso necessità, che nel caso della natura è di tipo ipotetico, è cioè la necessità, posto il fine, dei mezzi e delle condizioni materiali per realizzarlo (Phys., II, 9). Questa dottrina della finalità della natura e dell’arte è qui ampiamente presente, come si

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no al cielo sarà più facile». Indi, aggiungendo questa stessa conclusione e terminando il discorso con una ripetizione, disse: «per questo motivo, perché a un certo momento il discorso abbia termine, sia che vogliamo morire tranquillamente, dopo essere vissuti in queste prigioni,83 oppure, sia che senza indugio vogliamo trasmigrare da questa casa in un’altra non di poco migliore, noi dobbiamo riporre in questi studi ogni nostra fatica e cura. 11 (W 11) IAMBL., Protr., 9 (p. 49, 3 – 52, 16 Pistelli): delle cose che vengono all’essere, alcune vengono all’essere da un qualche pensiero, cioè dell’arte, come la casa e la nave (di entrambe queste, infatti, è causa una certa arte e un pensiero), altre invece in virtù di nessun’arte, ma della natura. Infatti, la causa degli animali e delle piante è la natura, e per natura vengono all’essere tutte le cose di questo tipo. Ma talune delle cose vengono all’essere anche in virtù del caso.84 Infatti, tutte quelle che non vengono all’essere né in virtù dell’arte, né in virtù della natura, né in virtù della necessità, la maggior parte di queste noi diciamo che viene all’essere in virtù del caso.85 Ora, nessuna delle cose che vengono all’essere dal caso, viene all’essere in vista di qualcosa, né per esse vi è un qualche fine, vale a dire ciò in vista di cui (sempre, infatti, colui che possiede l’arte ti esporrà la ragione per la quale scrisse e la cosa in vista della quale ),86 può accertare anche nelle righe immediatamente successive, mentre solo abbozzata o, comunque, non così nettamente espressa come è nella Fisica appare la scansione della differenza tra arte e natura, che in ogni caso deve considerarsi anch’essa già acquisita, cosicché la questione sembra più di chiarezza espressiva che di sostanza concettuale. 86 Il caso si caratterizza, dunque, per assenza di finalità e, sul piano gnoseologico, poiché l’individuazione del fine è conoscenza di una delle cause, per assenza di spiegazione. Esso esprime pertanto indeterminatezza e imprevedibilità (cfr. Phys., II, 5, 196 b 10 ss. e in particolare 197 a 8).

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87 Sulla distinzione tra cause per sé e cause per accidente cfr. Phys., II, 3, 195 a 3-8. Che l’azione del caso sia assimilabile a quella di una causa accidentale è detto in Phys., II, 5, 197 a 5. 88 Ossia, il costruire la casa e il procurare la salute sono il fine per sé dell’architettura e della medicina, giacché a questi scopi sono ordinate per loro stessa natura. Ma può capitare (ecco l’accidentalità) che nel costruire o nel guarire si demolisca e si procuri un danno fisico. Architettura e medicina sono, pertanto, causa anche dell’abbattimento della casa e della malattia, ma non per sé, bensì per accidente. 89 Proprio perché il raggiungerlo rappresenta la realizzazione di ciò a cui per natura è finalizzato, ossia il compimento della sua stessa natura. 90 In questo si precisa quell’assimilazione del caso alla causa accidentale di cui s’è detto (cfr. la nota 88). 91 Qui si precisano alcuni concetti che stanno a fondamento della dottrina aristotelica della natura e dell’arte. (1) Innanzitutto che la natura è un principio finalistico, interno a un certo genere di enti (gli enti, per l’appunto, naturali [t· f‡sei ùnta]); (2) in secondo luogo, che

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e questo è una realtà migliore di quella che viene all’essere a causa di questo. Intendo tutte quelle cose di cui l’arte è per natura causa per se stessa e non per accidente.87 Infatti si porrà che la medicina è, in senso proprio, causa della salute più che della malattia e che l’arte del costruttore lo è della casa, ma non del demolirla.88 Pertanto, tutto ciò che è per arte viene all’essere in vista di qualcosa, e questo è il suo fine più eccellente,89 mentre ciò che è dovuto al caso non viene all’essere in vista di qualcosa. Infatti, può capitare che anche dal caso provenga qualche bene, ma in realtà non è un bene per la sua casualità e in quanto deriva dal caso, ma ciò che viene all’essere per caso è sempre indeterminato.90 Ma in realtà anche ciò che è per natura viene all’essere in vista di qualcosa, ed è sempre costituito in vista di qualcosa di migliore di come lo è ciò che è causato dall’arte. Infatti, non è la natura a imitare l’arte, ma questa imita la natura, ed esiste per venire in aiuto e riempire le mancanze della natura. Infatti, la natura sembra essere in grado di portare a compimento da se stessa certe cose e non avere per nulla bisogno di aiuto, mentre altre a stento e anche non esserne affatto in grado. Così per esempio nel campo della generazione: tra i semi, alcuni, in qualunque terra cadano, indubbiamente germogliano senza una cura, altri invece hanno bisogno in più dell’arte agraria. Analogamente anche tra gli animali, alcuni, giungono a realizzare da se stessi tutta quanta la loro natura; l’uomo, invece, abbisogna di molte arti per la sua sopravvivenza, sia nel tempo della sua prima generazione che, di nuovo, per il suo successivo sostentamento.91 Se dunque l’arte imita la natura, dove imitare significa ripercorrere gli stessi procedimenti e nella stessa successione; (3) non soltanto, ma che l’arte collabora con la natura venendole in soccorso nel rimuovere gli ostacoli che in certi casi e in alcune circostanze le impediscono di raggiun-

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gere il suo fine. Intorno alla finalità della natura, come già abbiamo segnalato, si svolgono le indagini del secondo libro della Fisica; quanto poi all’imitare l’arte la natura e in sovvenirle, la tesi è espressamente asserita in Phys., 199 a 16. Sull’analogia tra l’operare della natura e dell’arte cfr. anche Metereo., 381 a 9-12; De part. an., 639 b 15-21. (4) Se l’arte imita la natura, ciò significa che la natura è anteriore all’arte. Da qui la tesi secondo cui sia l’arte che la natura operano in vista di un fine, ma il fine della natura è migliore di quello dell’arte. 92 Dunque, il finalismo dell’arte si fonda sul fatto che essa imita la natura, la quale opera finalisticamente. Identico concetto è espresso in Phys., 199 a 17: «se, dunque, le cose secondo arte sono in vista di qualcosa, è chiaro che lo sono pure quelle secondo natura». (Isnardi Parente 1966, pp. 76-96 ha posto particolarmente l’attenzione su quest’aspetto, provandone l’appartenenza al genuino pensiero dello Stagirita, di contro alla tesi di Jaeger 1964, pp. 96-99 secondo cui l’idea che l’arte imiti la natura sarebbe il retaggio in Aristotele di una posizione platonica.) A partire dalla comune finalità di natura e arte Aristotele argomenta, quindi, che la filosofia costituisce il fine naturale dell’uomo. 93 Poiché in ogni operare razionale il fine coincide con il bene (trattasi di un assunto che si ritrova anche nei trattati aristotelici di scuola e ricompare all’inizio dell’Etica nicomachea; cfr. 1094 a 1-3), il fine della natura e – come si mostra nelle righe immediatamente successive –

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l’arte imita la natura, da questa consegue alle arti anche il fatto che ogni loro far venire all’essere avviene in vista di qualcosa.92 Infatti, possiamo porre che tutto ciò che viene all’essere correttamente, viene all’essere in vista di qualcosa. Ora, ciò che viene all’essere bene, viene all’essere correttamente. E tutto ciò che viene ed è venuto all’essere per natura, viene ed è venuto all’essere bene, se veramente ciò che viene all’essere contro natura è malvagio, ed è contrario a ciò che viene all’essere per natura. Dunque, ogni venire all’essere per natura avviene in vista di qualcosa.93 Lo si può vedere anche nel caso di ciascuna delle parti che sono in noi. Per esempio, se esamini la palpebra, puoi vedere che non è venuta all’essere invano, ma per un aiuto agli occhi, ossia per procurare loro riposo e per impedire ciò che assale la vista. Dunque, vi è identità tra ciò in vista di cui qualcosa è venuto all’essere e ciò in vista di cui deve venire all’essere. Per esempio, se una nave doveva venire all’essere per il trasporto in mare, per questa ragione è anche venuta all’essere. Ora, anche gli animali fanno parte delle realtà che sono venute all’essere per natura, o tutti, completamente, o i migliori e i più degni di considerazione.94 Infatti, non fa nessuna differenza se qualcuno pensi che la maggior parte di essi sia venuta all’essere contro natura per una certa corruzione e per un difetto. Ma degli animali attualmente esistenti l’uomo è il più degno di pregio, per cui è chiaro che è venuto all’essere per natura e secondo dell’arte sono un bene. Tuttavia, come s’è già segnalato, poiché la natura precede l’arte, il fine della prima è un bene superiore (cfr. belt›ono© ≤neka) di quello della seconda. 94 I vermi, per esempio, si generano spontaneamente, per l’azione del sole sul fango. Inoltre Aristotele «sembra ammettere che vi possano essere dubbi circa il carattere di alcuni animali, quelli che in generale producono danni e distruzioni, i cosiddetti “nocivi”» (Berti 2000, p. 75, nota 24).

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Ossia, la conoscenza. Che la natura sia divina è anch’esso un tema ricorrente in Aristotele, come risulta, oltre che da altri luoghi, da Eth. nic., VII, 14, 1153 b 32; X, 10, 1179 b 21-22. In De cael., I, 14, 271 a 33 compare altresì la stessa espressione endiadica «la natura e dio». 97 Il greco reca ancora ≤neka e il genitivo (in vista di questo). Così anche alla riga successiva (in vista di che cosa). Le traduzioni «per questo fine» e «per quale fine» sono dovute unicamente a motivi di stile. 98 La stesso aneddoto è richiamato anche in anche Diogene Laerzio, II, 10 = D.K. 46 A 1; Eth. eud., I, 5, 1216 a 11 = D. K. 59 A 30. In Eth. eud., I, 4, 1215 b 6 = D. K., 59 A 30 si racconta altresì che Anassagora, a uno che gli rimproverava di non occuparsi affatto della sua patria, dedito com’era ai soli studi, rispose che della sua patria gli importava moltissimo, indicando nello stesso tempo con la mano il cielo. 99 Identico assunto si rinviene in Pol., VII, 15, 1334 b 12-22. Con questa dottrina Aristotele stabilisce una proporzione inversa tra ciò che si genera per primo e ciò che massimamente ha pregio, e poiché questo è il fine, il quale nella generazione si attua per ultimo, vige che ciò che si genera per primo è ciò che ha meno pregio. 96

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natura. E questa95 è, fra le cose, quella in vista della quale la natura e il dio96 ci hanno generato. Ora, Pitagora, interrogato su che cosa essa fosse, rispose: «il contemplare il cielo», e sostenne di essere egli stesso contemplatore della natura, e che per questo fine97 era venuto alla vita. Si dice che anche Anassagora si pronunciò quando fu interrogato per quale fine uno sceglierebbe di venire all’essere e di vivere; alla domanda rispose «per contemplare il cielo e gli astri intorno a esso e la luna e il sole»,98 come se in realtà tutte le altre cose non fossero degne di alcun pregio. Se, dunque, il fine di ogni cosa è sempre migliore (infatti, tutte le cose che sono venute all’essere, sono venute all’essere in vista del fine, e il ciò in vista di cui è migliore, anzi è la cosa migliore di tutte), e il fine secondo natura è ciò che secondo la generazione è naturale che si compia per ultimo,99 se la generazione si conduce a termine con continuità, allora è innanzitutto ciò che concerne il corpo degli uomini a raggiungere il fine, mentre ciò che concerne l’anima lo raggiunge per ultimo, e, in un certo qual senso, sempre il fine della cosa migliore è successivo al venire all’essere . Ebbene, l’anima viene dopo il corpo,100 e la saggezza è l’ultima delle dell’anima. Infatti, vediamo che questa agli uomini viene per natura all’essere per ultima. Per questo la vecchiaia reclama questo soltanto fra i suoi beni. Pertanto, la saggezza per noi è il fine per natura, e l’essere saggi il fine ultimo per il quale siamo venuti all’essere.

100 Qui «anima» sta per anima razionale o parte razionale dell’anima, le cui funzioni – dice Aristotele – si attuano quando il corpo si è già sviluppato. A sua volta poi, come si dice nelle parole successive, la saggezza è l’ultima facoltà dell’anima razionale ad attuarsi. Cosicché essa, giungendo per ultima nell’ordine del venire all’essere, è ciò che ha maggior valore.

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101 Il passo costituisce una sorta di riepilogo di quanto è stato via via argomentato. Lo si può riassumere secondo questa scansione: (1) I beni esteriori vanno perseguiti in vista di quelli interiori e (2) i beni del corpo in vista di quelli dell’anima, espressi dalle virtù; (3) la saggezza è la più eccelsa delle virtù o beni dell’anima; (4) essa costituisce, dunque, il bene più grande. 102 In proposito cfr. Esiodo, Opere e giorni, 171; Pindaro, Olimpica II, 78 ss.; Platone, Gorgia, 523 b; Resp., VII, 519 b-c; Simposio, 180 b; Aristotele, Pol., VII, 15, 1334 a 31 ss.

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Quindi, se siamo venuti all’essere, è chiaro anche che lo saremo in vista del pensare saggiamente qualcosa e dell’imparare. Bene, dunque, secondo questo ragionamento Pitagora ha affermato che ogni uomo è stato costituito dal dio per conoscere e per contemplare. Ma se questa cosa prima conoscibile sia l’universo o qualche altra natura, bisogna senz’altro esaminare in seguito; per ora quanto ci è sufficiente per iniziare. Infatti, se la saggezza è il fine per natura, la cosa migliore di tutte sarà l’essere saggi. Di conseguenza, si devono compiere le altre cose in vista dei beni che in esso vengono all’essere e, fra questi , quelli che sono nel corpo in vista di quelli che sono nell’anima, e la virtù in vista della saggezza. Questo, infatti, è il bene ultimo.101 12 (R3 58, W 12) AUGUST ., De Trin., XIV, 9, 12: Tullio, discutendo nel dialogo Ortensio, disse: «se, quando saremo usciti da questa vita, ci fosse consentito di trascorrere una vita immortale nelle isole dei beati, come tramandano i racconti mitologici,102 che bisogno ci sarebbe dell’eloquenza, dal momento che non avrebbe luogo alcun giudizio, o che bisogno ci sarebbe anche delle stesse virtù? Né, infatti, avremo bisogno del coraggio, non presentandosi alcun travaglio o pericolo, né della giustizia, non esistendo alcuna cosa altrui che si desidererebbe, né della temperanza, giacché modererebbe quelle brame che sarebbero inesistenti; non avremo bisogno neppure della saggezza, perché non ci si presenterebbe alcuna scelta di cose buone e di cose cattive. Pertanto, saremo beati per la sola conoscenza della natura e per la scienza, per la quale soltanto anche la vita degli dèi va lodata. Dal che si può comprendere che le altre cose rientrano nel dominio della necessità, quest’ultima soltanto rientra in quello della volon-

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103 Il parallelismo tra questo passo e quello successivo di Giamblico offre un’ulteriore prova del fatto che l’Ortensio ciceroniano aveva come modello il Protrettico ed era strutturato su questo scritto. 104 Identico concetto compare in Metaph., V, 5, 1015 a 20-25, come uno dei significati di «necessario». Cfr. anche Top., III, 1, 116 a 29-33. 105 Sull’impossibilità di procedere all’infinito nell’ordine della ricerca delle cause cfr. An. Po., I, 22, 83 b 28-32; Metaph., II, 2, 994 a 5-8; De caelo, III, 6, 340 b 27 ss.

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tà». 103 Così quell’oratore di tanta grandezza, rimeditando, mentre raccomandava la filosofia, quelle cose che aveva appreso dai filosofi, e spiegandole in maniera molto chiara e soave, sostenne che tutte e quattro le virtù sono necessarie solamente in questa vita, che scorgiamo piena di affanni e di errori. IAMBL., Protr., 9 (p. 52, 16 – 54, 5 Pistelli): il ricercare da ogni scienza che vi derivi qualcosa di diverso e che essa debba essere utile, è proprio di una persona che ignora completamente quanto distano fin dall’inizio le cose buone e quelle necessarie. In effetti, differiscono moltissimo. Quelle che, essendo amate per altro, appartengono al novero delle cose senza di cui è impossibile vivere, bisogna dire che sono necessarie e concause;104 invece tutte quelle che sono amate per sé, anche se non capiti nient’altro, sono, in senso proprio, buone. Ché, non vige che questa cosa sia passibile di scelta a motivo di questa cosa, la seconda a motivo di un’altra: andando innanzi, questa procede all’infinito; invece in qualche punto si arresta.105 Pertanto, è ormai del tutto ridicolo il ricercare da ogni cosa un’utilità diversa dalla cosa stessa e domandare «quale utilità abbiamo, dunque?» e «in che cosa ci è utile?». In realtà – ecco ciò che sosteniamo – un uomo che dica così assomiglia a uno che non conosce nulla di valido e non a chi riconosce che cosa sono la causa e la concausa.106 Si potrebbe scorgere che affermiamo queste cose come completamente vere se in qualche modo ci si accompagnasse col pensiero, per esempio, alle isole dei beati.107 Qui, infatti, non vi sarebbe bisogno di nulla, né vi 106 Il riferimento è a Isocrate, contro il quale Aristotele parla a nome dell’Accademia, cui probabilmente fa riferimento con l’espressione «ecco ciò che sosteniamo». 107 Sulle isole dei beati cfr. la nota 102.

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108 Il rapporto tra conoscenza teoretica e libertà è tematicamente attestato in Metaph., I, 2, 982 b 24-29, dove Aristotele, dopo aver affermato che la conoscenza teoretica non si ricerca «per nessun vantaggio che sia estraneo a essa», così scrive: «è evidente che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, così questa sola, tra tutte le altre conoscenze, diciamo libera. Essa sola, infatti, è fine a se stessa». 109 Quest’idea che nell’Ade si ricevono premi o punizioni a seconda di come si è vissuti compare più volte in Platone. Cfr., per esempio, Meno, 81 b: Gorgia, 523 a; Phaed., 70 c. 110 Nell’apoftegma che la tradizione fa risalire a Pitagora (cfr. Giamblico, Vita Pyth., 58; cfr. anche Platone, Resp., IX, 581 c), il filosofo, ossia colui che è amante della vita contemplativa, è figurativamente rappresentato da chi si reca ad Olimpia per il puro piacere di assistere ai giochi, di contro a chi va per gareggiare, espressione della persona che ama la vita attiva, cioè politica (così nel passo platonico anzi citato), e stima l’onore come bene supremo, e a chi va per appro-

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sarebbe utilità di alcuna delle altre cose, ma rimane il solo pensare e conoscere, ossia quella vita che anche ora diciamo essere libera.108 Se queste cose sono vere, come non potrebbe giustamente vergognarsi chiunque di noi, pur essendogli permesso di abitare nelle isole dei beati, ne fosse impossibilitato a causa di se medesimo? Pertanto, non è disprezzabile il compenso della conoscenza per gli uomini, né è piccolo il bene che si origina da essa. In effetti, al modo in cui nell’Ade riceviamo i doni della giustizia, come dicono quelli fra i poeti che sono sapienti,109 così nelle isole dei beati riceviamo i doni della saggezza, a quanto sembra. Non vi è, dunque, nulla di strano se non appare essere utile né giovevole. Infatti, non diciamo che essa è giovevole, ma che è buona, né conviene che sia scelta a causa di altro, ma per se stessa. In effetti, come ci rechiamo a Olimpia per lo spettacolo in se stesso,110 anche se da esso non dovesse venirci niente di più (giacché questo spettacolo è migliore di molti dei beni materiali), e guardiamo le Dionisie non per ricevere qualcosa dagli attori, ma, anzi, pagando, e sceglieremmo molti altri spettacoli invece di molti beni materiali, così bisogna avere in pregio anche lo spettacolo dell’universo più di tutte quelle cose che sembrano essere utili. Ché, non si deve certo fare un cammino con molto zelo verso uomini che imitano donne e schiavi e verso coloro che combattono e corrono,111 per vederli, e non pensare che occorre contemplare, senza compenso, la natura di tutte le cose e la verità.112 fittare della gran folla e fare commerci, figurazione di quanti sono amanti del denaro e dediti al piacere. 111 Riferimento agli spettacoli teatrali (uomini che imitano donne e schiavi) e alle gare olimpiche e dionisiache (uomini che combattono e corrono). 112 Con «natura di tutte le cose» e «verità» Aristotele indica la conoscenza dell’universo nella sua totalità, ossia quella che successivamente chiamerà, secondo una distinzione che qui non compare ancora, ricerca fisica e metafisica.

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113 Il frammento prova l’utilità della filosofia per l’esercizio dell’attività politica, e lo fa attraverso due passaggi: mostrando che, come le arti fabbrili procedono nel loro sapere e trovano i loro strumenti mercé l’osservazione della natura, così debbono fare anche le arti che concernono l’anima, le quali sono superiori a esse; sottolineando quindi che, mentre la natura cui debbono conformarsi le prime è la natura sensibile, quella cui debbono conformarsi le seconde è la «natura in sé», ovvero sono le realtà prime, la cui conoscenza è data dalla filosofia. 114 In questo contesto per «natura» è da intendersi «natura umana», com’è chiaro dal riferimento ai medici e ai maestri di ginnastica. Solo che questi debbono conoscere la natura fisica dell’uomo, mentre i nomoteti dovranno conoscere innanzitutto e soprattutto l’anima. 115 Non necessariamente occorre credere che qui Aristotele echeggi, sia pur alla lontana, l’idea platonica del filosofo re. A parte il fatto che ora non è in causa il re, ma il legislatore, va rilevato che anche nella concezione matura dello Stagirita la politica filosofica, ossia quella politica cui spetta di determinare quale sia e in che cosa consista la felicità in quanto supremo bene pratico, è la politica architettonica (cfr. Eth. nic., I, 1-6; su questa nozione di politica architettonica, distinta dalla politica in quanto scienza che ha per oggetto la polis, mi permetto di rinviare a Zanatta 1997, pp. 267 ss.). Qui non si può certo dire che

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13 (W 13) IAMBL., Protr., 10 (p. 54, 10 – 56, 12 Pistelli): Ma che la saggezza contemplativa ci procuri anche le più grandi utilità, si reperirà facilmente dalle arti.113 Come, infatti, tutti quelli fra i medici che sono raffinati e la stragrande maggioranza di coloro che si occupano di ginnastica convengono che quelli che dovranno essere buoni medici e buoni ginnasti siano esperti della natura, così anche i buoni nomoteti devono essere esperti della natura,114 e per la verità molto più dei primi. I primi, infatti, sono facitori soltanto della virtù del corpo, i secondi invece, avendo a che fare con le virtù dell’anima e presumendo di dare insegnamenti sulla felicità e sull’infelicità dello stato, hanno bisogno della filosofia in misura molto maggiore.115 Come, infatti, nelle altre arti della fabbricazione è dalla natura che si trovano i migliori fra gli strumenti:116 per esempio, nell’arte della costruzione il filo a piombo, il regolo e il compasso, cose facenti parte di quelle che si sono assunte mercé l’acqua, la luce e gli splendori dei raggi , giudicando in riferimento alle quali saggiano ciò che secondo la sensazione è sufficientemente retto e liscio, parimenti anche il politico deve avere alcune regole dalla natura stessa e dalla verità, in relazione alle quali egli giudica

si allude a una tale nozione, la quale presuppone una scansione del rapporto tra filosofia teoretica e filosofia pratica che Aristotele nel Protrettico non ha ancora raggiunto, ma più semplicemente s’intende dire che l’idea che il politico debba conoscere in che cosa consiste la felicità, dei singoli cittadini e dello stato in quanto comunità ove si esplica la loro natura di animali sociali (o politici), è un’idea che, scandita in formulazioni e assetti dottrinali differenti, attraversa tuttavia il pensiero dello Stagirita. Cosicché non c’è bisogno di ricorrere, per intenderla, a surrettizi riferimenti allotri. 116 Il fondamento ultimo di ciò risiede nel fatto che l’arte, come è stato richiamato anche nel fr. 11, imita la natura, ossia segue i suoi procedimenti e l’ordine di successione di essi. La descrizione degli strumenti tecnici delle attività artigianali richiama Phil., 56 b ss.

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117 Dunque, come gli artigiani derivano gli strumenti migliori delle loro arti dalla natura fisica, così il politico deve trarre dalla natura, non fisica, ma psichica dell’uomo le regole per determinare che cosa è bene e utile, al fine di conformare a esse le leggi e le istituzioni della polis. In entrambi i casi il criterio è dunque la conformità alla natura. 118 Ecco la conclusione cui Aristotele intendeva giungere: la filosofia, in quanto conoscenza vera della natura, intesa sia come mondo fisico che come natura psichica, in rapporto alla distinzione tra filosofia teoretica e filosofia pratica che è presente nel Protrettico, è utile, anzi indispensabile sia alle arti che alla politica. 119 Il passo, nel quale Aristotele, dopo aver indicato nel riferimento alla natura il motivo d’affinità e, per così dire, il denominatore comune tra la politica filosoficamente intesa e le arti, ora si accinge a specificarne la differenza, è di difficile comprensione e ha dato adito a differenti esegesi. Soprattutto, nella seconda parte, dove in rapporto al filosofo si dice che egli è conoscitore delle cose stesse e non delle loro imitazioni, i sostenitori dell’interpretazione genetica hanno ravvisato un preciso riferimento alla teoria platonica delle idee e delle realtà empiriche quali loro imitazioni (così tra gli altri Jaeger, 1964, pp. 370 ss.; Bignone, 1973, II, pp. 213 ss.), teoria alla quale Aristotele nel Protrettico avrebbe ancora aderito. Qui se ne troverebbe, per l’appunto, una testimonianza particolarmente significativa. Questa lettura allo stato attuale degli studi non trova più il favore precipuo degli studiosi, i quali (con Düring 1961, p. 246; De Vogel 1970, pp. 300 s.; Stryker 1969/b; Berti 2000, pp. 86 ss., nota 72) hanno opposto con solide prove che le cose prime e vere sono le nozioni di bene, di fine e di felicità messe in chiaro dalla filosofia, mentre le loro «imitazioni» sono in realtà le costituzioni politiche storicamente esistenti, delle quali, peraltro, Aristotele si è espressamente occupato in uno scritto di cui ci è rimasto soltanto lo studio sulla Costituzione degli Ateniesi. Dunque, in

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che cosa è moralmente bello e che cosa è utile. Come, infatti, in quel campo sono le suddette a fare la differenza tra tutti gli strumenti, così anche la legge moralmente più bella è quella posta nella massima conformità con la natura.117 Ma non è possibile fare ciò se non si filosofa e non si conosce la verità.118 E si conoscono all’incirca gli strumenti e i calcoli più precisi delle altre arti assumendoli non dalle stesse cose prime, ma dalle cose seconde e terze e da quelle più remote, e si assumono i ragionamenti dall’esperienza; invece, soltanto per il filosofo, tra gli altri , l’imitazione deriva dalle cose stesse che sono precise, giacché di esse egli è spettatore, non delle imitazioni.119 Come dunque non è questi un buon costruttore di case, ossia colui che non si serve del regolo né di alcuno degli altri strumenti di questo tipo, confrontandosi invece con gli questa seconda parte lo Stagirita intende dire che il politico, dovendo conoscere le nozioni filosofiche concernenti la natura umana onde fondare su di esse la struttura normativa della polis, non deve guardare alle nozioni di felicità, di bene ultimo ecc. che si possono scorgere nelle costituzioni esistenti, ma deve badare ai concetti filosofici che scandiscono tali nozioni. Queste, non le idee platoniche, sono le «cose prime» ed «esatte», e le costituzioni sono le relative «imitazioni». Su questa base, propenderei per intendere la prima parte del passo nel seguente modo: diversamente dal politico, gli artigiani possono derivare le regole delle arti che professano e, in particolare, gli strumenti necessari per esercitarle anche dalle applicazioni già realizzate dei concetti necessari per fabbricare i relativi oggetti. Possono cioè derivare regole tecniche e strumenti, senza che le loro produzioni diventino scadenti, anche dai prodotti che sono già stati costruiti secondo quelle regole e con quegli strumenti, e da quelli che lo sono stati a partire da questi. Il che, invece, non è possibile per il politico, il quale se così facesse, se cioè derivasse le nozioni cui ispirarsi per strutturare lo stato dalle costituzioni esistenti e non dai concetti stessi relativi alla natura dell’uomo, fallirebbe nel suo intento. Si badi: anche le regole e gli strumenti derivati dall’artigiano dai prodotti già esistenti e non dalle relative nozioni hanno nella natura il loro fondamento ultimo, cosicché non viene meno l’assunto che le arti derivano dalla natura le loro regole e i loro strumenti, ma possono derivarli anche indirettamente. Cosa che, invece, non può fare il politico.

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120 Si colga questa precisazione nel suo esatto significato. Si tenga, cioè, distinto il derivare regole e strumenti dal confronto con altri costruttori di case dal derivarli dalle applicazioni già esistenti di essi. Questo secondo procedimento è consentito all’artigiano valente, il primo no, perché esso, in ultima analisi, manca di radicarsi nella natura. 121 Propenderei per intendere il secondo giudizio (non è possibile che la natura di una cosa che non è divina e salda sia immortale e salda) come avente valore esplicativo del primo (non è possibile che l’imitazione di una cosa non bella sia bella): le «cose non belle» sono le costituzioni esistenti, le quali sono tali in quanto «non salde» e dunque non provviste di quel carattere di indefettibilità che compete al divino e lo caratterizza nella sua essenza. Cosicché il significato complessivo della frase mi sembra il seguente: non è possibile che il politico costruisca una polis fondata su leggi salde e per questo «divine», ossia una polis che per queste sue prerogative va considerata «bella», se s’ispira a cose così poco stabili e dunque così poco divine, ossia così poco belle, quali sono le costituzioni esistenti, che si mostrano mutevoli e soggette a ogni sorta di deviazione, come allo Stagirita è chiaro dallo studio, nella Politica, delle costituzioni degeneri. Al contrario, il politico, per costruire una polis fondata su leggi stabili, deve badare a nozioni concernenti la natura umana e, in particolare, l’anima. Esse, infatti, sono salde e, come tali, sono garanzia che l’istituzione politica che su di esse si regge partecipa di questa loro prerogativa. Si osservi che la stabilità quale espressione e sintomo di bontà delle leg-

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altri costruttori di case,120 parimenti, senza dubbio, anche se qualcuno o pone leggi per gli stati, o compie azioni volgendo lo sguardo ad altre azioni o ad altre costituzioni umane: degli Spartani, dei Cretesi, o di alcuni altri siffatti, e facendone l’imitazione, non è un buon nomoteta, né un nomoteta valente. Infatti non è possibile che l’imitazione di una cosa non bella sia bella, né che la natura di una cosa che non è divina e salda sia immortale e salda,121 ma è manifesto che soltanto le leggi di chi fra gli artefici122 è filosofo sono salde e che le azioni sono rette e moralmente belle. Ché solo lui vive volgendo sempre lo sguardo alla natura e al divino123 e, come se fosse un buon nocchiero, muove derivando dalle cose eterne e stabili, alle quali li connette, i principi della vita, e vive in se stesso. Pertanto, questa conoscenza è teoretica, ma ci permette di edificare ogni cosa conformemente a essa.124 Come, infatti, la visione non è poietica e demiurgica di nulla (ché, unico suo compito è il giudicare e il mostrare ciascuna delle cose visibili), ma ci fornisce indicazioni di che cosa fare in forza di essa e ci viene in aiuto per le azioni nell’ambito delle cose della massima importanza (infatti, se essa venisse a mancare saremmo quasi com-

gi è istanza che ricorre anche nella Politica (cfr. in proposito II, 12, 1273 b 32). 122 Mi sembra che tán dhmiourgán non indichi, qui, gli artigiani, ma, in senso complessivo, i facitori di qualcosa. Ond’è che tra essi si comprende anche il politico. Si tenga altresì presente che in Eth. nic., VII, 12, 1152 b 2 Aristotele qualifica espressamente il filosofo che si occupa di politica (architettonica) come «architetto del fine (toÜ t¤lou© àrcit¤ktwn)». Ora l’architetto è un dhmiourgfi©. 123 Sulla concezione della natura come divina, in Aristotele, cfr. la nota 96. 124 Ecco dunque la conclusione cui Aristotele intende pervenire: la filosofia ha natura teoretica, è cioè una conoscenza che mira al puro conoscere, ma nondimeno offre il criterio per agire e per questo è massimamente utile.

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125 L’esempio della vista, la quale, pur non essendo produttrice di nulla, permette tuttavia di agire, compare anche in An. po., II, 19, 99 b 35 – 100 a 1. 126 Il frammento prova che la felicità risiede nell’esercizio della filosofia. Aristotele mostra che il vivere consiste propriamente nell’esercizio dell’anima e non nel semplice possesso di essa, situazioni cui corrispondono le nozioni di atto e di potenza. Ma l’uso, ossia l’attività, più alto dell’anima è il pensare, e chi pensa nella maniera più confacente ed esatta è il saggio, il quale così facendo pensa la verità. E poiché al pensiero della verità consegue l’essere felici, il saggio, vale a dire colui che esercita il pensiero, e cioè il filosofo, raggiunge per ciò stesso la felicità. 127 Con il ricorso a âp›stasqai e gignÒskein Aristotele intende significare che il sapere in ogni sua forma si dice secondo la potenza e l’atto: sia quello certo e indefettibile (âp›stasqai) che il semplice conoscere (gignÒskein).

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pletamente immobili),125 così è chiaro che, pur essendo questa conoscenza teoretica, tuttavia noi compiamo migliaia di cose conformi a essa e, tra le cose, alcune le assumiamo, altre le evitiamo, e in senso complessivo grazie a essa acquisiamo tutti i beni. 14 (W 14) IAMBL., Protr., 11 (p. 56, 13 – 59, 18 Pistelli): Ebbene, che a coloro che scelgono la vita conforme all’intelligenza consegua anche il vivere piacevolmente al massimo grado, può essere chiaro dalle seguenti considerazioni.126 Risulta che «vivere» si dice in due sensi: uno secondo la potenza e l’altro secondo l’atto. Infatti, diciamo che sono vedenti sia tutti quegli esseri che, tra i viventi, hanno la vista e per natura sono capaci di vedere, anche se per caso abbiano gli occhi chiusi, sia quelli che fanno uso della facoltà e aggiungono la vista. Parimenti, anche il conoscere saldamente e sapere:127 uno diciamo che consiste nel fare uso e nel contemplare, l’altro nell’acquisire la facoltà e nel possedere la conoscenza.128 Se, dunque, distinguiamo il vivere e il non vivere in base al sentire, e «sentire» in senso proprio è fare uso delle sensazioni, mentre in un altro senso è esserne capaci (perciò nel parlare diciamo che anche chi dorme sente, come sembra), consegue chiaramente che anche il vivere si dice in due sensi: infatti, chi è sveglio bisogna dire che vive in un senso diverso, ossia in senso principale, mentre chi dorme per il fatto di essere capace di mutare in questo movimento secondo il quale di-

128 È questa la prima formulazione della dottrina della potenza e dell’atto. Aristotele la esemplifica mercé gli esempi del vedere e del conoscere, i quali ricorrono sovente ove si tratta di illustrare questa dottrina. Così, per esempio, i due sensi in cui si dice «conoscenza», come puro possesso e come esercizio, si ritrovano anche in De an., II, 1, 412 a 10-11; 22-23.

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129 Distinta la potenza dall’atto, Aristotele applica questa distinzione al vivere. Esso si caratterizza per il fatto di sentire (aåsq¿nesqai), segno che lo Stagirita non allude al vivere in tutta l’ampiezza della sua estensione, che abbraccia anche le piante, le quali non possiedono la capacità di sentire (l’anima sensitiva, nei termini del De anima) eppure sono viventi, ma ha in mente la vita umana, in relazione a cui questo passaggio entra in gioco nell’argomentazione complessiva intesa a mostrare che a essa la filosofia offre il massimo piacere. La vita umana è qui caratterizzata nel suo aspetto minimale, quello per l’appunto sensitivo, giacché fin da questo primo livello si dice in potenza e in atto, giacché lo stesso sentire si dice in questa dualità di sensi. Ma Aristotele non si limita a effettuare questa distinzione, ma enuncia altresì una tesi di primaria importanza: ciò che può essere in potenza e in atto, si dice propriamente essere ciò che è in riferimento all’essere in atto. Così «vivere» nel significato potenziale di possedere le sensazioni, qual è la situazione di chi dorme, si dice in riferimento a «vivere» nel significato attuale di essere sveglio ed esercitare le sensazioni; ovvero: anche di chi dorme si dice che vive, ma in riferimento al significato primo di «vivere» espresso da chi è desto. 130 Si tenga presente che entrambe le determinazioni esprimono l’essere in atto. 131 Come precisa De Stricker 1968, mÄllon non indica una differenza di grado o di misura, bensì una differenza tra un primo termine e un secondo. Per questo va tradotto con «piuttosto» e non con «di più» o «in misura maggiore». 132 L’intero passo «quando dunque... un bene» è di difficile comprensione e bisogna riflettere attentamente sui termini. Mentre in quello precedente Aristotele ha analizzato il rapporto tra due cose, una portatrice di un significato in potenza e un’altra portatrice del medesi-

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ciamo che è sveglio e sente taluna delle cose: per questo e badando a questo.129 Quando, dunque, essendoci due cose, ciascuna sia detta essere una certa, medesima cosa, e una sia detta per il fatto o di agire o di patire,130 esplicheremo che la determinazione espressa appartiene piuttosto a quella che è detta esserlo in questo senso: per esempio, che conosce colui che fa uso piuttosto di colui che possiede la conoscenza, e che vede colui che rivolge lo sguardo piuttosto di colui che può rivolgerlo. Infatti, delle cose di cui la nozione sia unica, diciamo «piuttosto»131 non soltanto secondo l’eccellenza, ma anche secondo l’essere prima o poi: per esempio, diciamo che la salute è un bene piuttosto che le cose sane, e che ciò che per natura è per se stesso , è passibile di scelta piuttosto di ciò che è atto a produrla. Eppure scorgiamo la nozione in questo modo, non in quanto è predicata di entrambe le cose, ossia perché, nel caso di ciò che è utile e della virtù, ciascuna è un bene.132 Pertanto, bisogna dire che vive colui che è sveglio

mo significato in atto, rispetto a quell’unico significato, ora – facendo oggetto d’indagine, in buona sostanza, la medesima situazione, ma in una prospettiva differente – analizza il rapporto tra un medesimo significato e due cose che ne sono portatrici a diverso titolo e stabilisce che quell’unico significato si dice «piuttosto» (1) di quella che ne è portatrice a maggior titolo e (2) di quella che porta tale significato in senso logicamente anteriore, mentre l’altra lo porta in un senso logicamente posteriore e in un qualche modo derivato da questa. (1) È interessante notare che il significato secondo l’atto (qui precisato come atto sia dell’agire che del patire) è riportato al primo caso, così risultando dagli esempi del conoscere e del vedere («conoscere» si dice piuttosto di chi esercita la conoscenza, non di chi possiede semplicemente la conoscenza e «vedere» si dice piuttosto di chi guarda, non di chi ha semplicemente la possibilità di guardare), in quanto esso è «secondo l’eccellenza (kaq’ éperoc‹n)», ossia secondo la pienezza di ciò che esprime. Tale pienezza non esprime tanto una differenza di grado, quanto piuttosto, come ha ben messo in luce De Stricker 1968, una primalità della cosa in atto nel portare il significato, rispetto alla quale quella in

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potenza lo porta in un senso derivato e in qualche modo dipendente. Ond’è che, come ancora la studiosa ha messo in luce, seguita da Berti (2000, p. 115, nota 114), è possibile trovale qui una prima formulazione della teoria dell’omonimia relativa o in rapporto all’uno, per la quale tra ciò che porta il significato in atto e ciò che lo porta in potenza, il primo ha titolo di portarlo in senso primario, mentre la seconda in quanto si riconduce, ossia è relativa, a essa. Poiché non si vede quale altro significato oltre quello secondo l’atto (dell’agire o del patire) possa mai rientrare nel primo caso, non si vede cioè quale altro possa dirsi «secondo l’eccellenza», nella curvatura semantica testè chiarita, è interessante rilevare che il significato attuale viene qui qualificato in questo modo. (2) L’esempio del bene, detto della salute e delle cose sane, chiarisce il secondo caso. La salute è buona in senso logicamente primario rispetto all’essere buone le cose sane, per esempio il bisturi, o il medico, o una cura, giacché queste seconde sono buone in quanto producono o agevolano o causano la salute, mentre questa è buona in quanto tale. «Buono» (o «bene») si dice, dunque, piuttosto di quest’ultima che delle prime. Un basilare rilievo a riguardo ha svolto Berti 2000, p. 96, nota 115, il quale, dopo aver fatto presente che nel secondo caso «la determinazione del termine comune non è la stessa», come invece era nel primo, «cioè le cose in questione non sono sinonime, bensì – [...] nel linguaggio di Categorie 1 – sono omonime, ma tuttavia non omonime per caso, bensì in modo tale che l’una di esse è prima e le altre ne dipendono, perciò assumono la denominazione comune in virtù di tale dipendenza», così scrive: «sembra proprio di essere in presenza della famosa dottrina dell’omonimia relativa all’uno (pr© ≤n), chiarita in vari passi delle opere conservate (Metaph., IV, 2; Eth. eud., VII, 2. Anche l’esempio della salute in rapporto alle cose sane è lo stesso che Aristotele usa per illustrare questo tipo di omonimia, con la sola differenza che qui il termine comune è “bene”, mentre nelle opere conservate è “sano”)». Da questo studioso e da altri insigni traduttori e interpreti mi discosto, invece, nell’esegesi della frase successiva, nella quale mi sembra che Aristotele intenda dire che, nonostante il medesimo significato appartenga, sia pur a diverso titolo, come immediatamente

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piuttosto di chi dorme, e chi esercita un’attività con l’anima piuttosto di chi la possiede soltanto. Infatti, a causa del primo diciamo che anche il secondo vive, poiché è tale da essere capace di agire o patire nel modo del primo.133 Dunque, il fare uso di una cosa, in ogni campo, è questo: se la capacità riguarda una cosa sola, esso si verifica quando si compia questa cosa stessa; se invece si tratta di più cose per numero, si verifica quando si compia quella che, tra esse, è la migliore:134 per esempio, se si tratta di auli, o quando si faccia semplicemente uso dell’aulo o quando se ne faccia uso nel modo più pieno. Perciò bisogna dire anche che fa uso piuttosto colui che fa uso correttamente. Infatti, a chi fa uso in modo moralmente bello e con precisione appartengono lo scopo per il quale e il modo in cui la cosa è per natura.135

prima s’è precisato, a tutte le cose che ne sono portatrici – ovvero, sul piano della denominazione, sulla quale Berti ha impostato l’intervento, nonostante tale medesima denominazione sia attribuita a tutte le cose alle quali, pur a differente titolo, essa compete –, tuttavia noi lo «scorgiamo (ïrámen)», ossia lo vediamo per quello che è, nella cosa che ne è portatrice in senso logicamente primario e non perché compete anche alle altre cose. Per esempio, «scorgiamo» il significato di «bene», ossia che cosa propriamente «bene» vuol dire, nella sua attribuzione alla virtù, perché a essa compete in senso logicamente primario, e non perché, oltre che della virtù, si dice anche delle cose utili, cui si attribuisce in senso logicamente derivato, giacché in qualche modo concorrono a far sì che la virtù via buona. Di conseguenza, intendo ó© come avente valore avverbiale (così, in questo modo, ossia quello subito prima precisato), e attribuisco alla subordinata introdotta da ¬ti, cui annetto valore causale, un significato epesegetico. 133 Qui la derivazione, ossia il senso logicamente secondario del significato in potenza rispetto a quello in atto (già apparso nel primo dei due casi del periodo precedente) è tematico, testualmente attestato dal fatto che tra questo secondo e il primo sussiste un rapporto di causalità («a causa del primo [di· âkeÖnon]»). 134 Ossia, la si adoperi secondo il suo uso proprio: nell’esempio dell’aulo, per suonare, non per usarlo a mo’ di arma per percuotere, o di bastone cui appoggiarsi nel camminare. Si veda anche Eth. nic., I, 7, 1098 a 17 ss. 135 Si sottolinei la scansione dell’argomento: chi usa alcunché in

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modo moralmente adeguato e con precisione, la usa in modo corretto; ma chi la usa in modo corretto la usa nel modo a essa più proprio, ossia, per quanto s’è detto, nel modo migliore. 136 Vale a dire con il suo stesso essere (cfr. De an., II, 1-4 e, in particolare, II, 4, 415 b 13). Che il vivere costituisca l’essere dei viventi è chiaro dal fatto che un soggetto, quando cessa di vivere, cessa anche di essere ciò che era. Così il cadavere, per Aristotele, non è un uomo, né un occhio dipinto o un occhio di pietra è un occhio (se non in senso omonimo). 137 Dunque, chi coltiva la conoscenza più esatta, ossia la saggezza, coincidente con la filosofia, esercita quelli che sono il compito e la funzione propria dell’anima. Per questo, poiché chi vive in atto, come prima s’è provato, vive di più di chi vive in potenza, e il vivere in atto coincide, per l’appunto, con l’esercitare l’anima nella sua funzione più elevata, ossia nel pensare, questi vive nel modo più pieno e più di chiunque altro, ossia in modo perfetto. Sul punto si veda anche Eth. nic., IX, 9, 1170 a 33; X, 9, 1179 a 22-32.

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Ebbene, è compito dell’anima, o unico o nel senso che tra tutti è il preminente, pensare e calcolare. Questo, dunque, ormai è semplice e a ognuno è facile argomentare che vive piuttosto colui che pensa correttamente e che tra tutti pensa in senso preminente colui che in senso preminente dice la verità, e questi è chi pensa e contempla secondo la conoscenza più esatta. E, in realtà, allora a costoro si deve attribuire il vivere in modo compiuto, ossia a coloro che usano saggezza e sono saggi. Se, dunque, per ogni vivente il vivere coincide con ciò che esso è,136 è chiaro anche che il saggio sarà in senso preminente e nel senso più proprio di tutti, e, lungo tutto il tempo, soprattutto in questi momenti, ossia quando eserciti l’attività e gli capiti di contemplare ciò che tra tutti gli enti è conoscibile al massimo grado.137 Ma l’attività perfetta e non impedita possiede in sé il provare piacere, per cui l’attività contemplativa sarà la più piacevole di tutte.138 Inoltre, è diverso «bere mentre si prova piacere» e «bere con piacere»: infatti, niente impedisce che uno che non ha sete e non si rivolge a una pozione per la quale prova piacere, provi piacere mentre beve: non per il fatto di bere, ma perché contemporaneamente gli capita di vedere o di essere visto mentre è seduto. Pertanto, diremo che costui prova piacere e che beve mentre prova piacere, ma non per il fatto di bere, né diremo che beve con piacere. Così, pertanto, diremo che il camminare e lo stare seduti e l’apprendere e ogni movimento è piacevole o doloroso, ma non perché quando essi sono presenti capita che noi proviamo dolore o piacere, ma perché per la loro presenza tutti e proviamo dolore e proviamo piacere. Parimenti, dunque, diremo anche che è piacevole la vita la cui presenza è piacevole per coloro

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Cfr. Eth. nic., X (soprattutto 6 ss.).

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139 Distinto, dunque, il senso essenziale del provare piacere nel fare qualcosa (lo si prova proprio perché la si esegue) dal relativo senso accidentale (lo si prova mentre la si esegue, ma non per il fatto di eseguirla), Aristotele, sulla base di quanto s’è detto, può concludere che provano propriamente piacere non tutti coloro cui capita accidentalmente di provarlo, ma coloro per i quali il vivere è in se stesso piacevole, ossia coloro che vivono nel modo più pieno, cosicché il piacere è intrinsecamente ed essenzialmente connesso al loro modo di vivere. E tale è il vivere esercitando la saggezza, vale a dire la filosofia. Pare di poter scorgere in questa pagina del Protrettico le avvisaglie di quella che sarà la dottrina del piacere espressa nel decimo libro dell’Etica nicomachea, ossia la dottrina più matura professata da Aristotele a riguardo: che il piacere è un epifenomeno dell’atto, una ridondanza soggettiva della sua perfezione. 140 Si tenga presente la valenza di «piuttosto» (cfr. la nota 131): l’essere desti, in quanto significato in atto di «vivere», è il significato logicamente anteriore, il rapporto al quale esso si dice di chi dorme. Lo stesso rapporto vige, di conseguenza, anche per il provare piacere che

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che la possiedono, e che vivono con piacere non tutti coloro ai quali capita di provare piacere, bensì coloro per i quali il vivere in se stesso è piacevole e che provano quel piacere che deriva dalla vita.139 Pertanto, attribuiremo il vivere a chi è sveglio piuttosto che a colui che dorme, e a chi è saggio piuttosto che a colui che è stolto,140 e diciamo che il piacere che proviene dalla vita è quello che si origina dall’esercizio dell’anima. Giacché questo è vivere in senso vero. E se, in verità, gli usi dell’anima sono molteplici, il più importante di tutti è però quello dell’essere saggi quanto più possibile. È chiaro, dunque, anche che il piacere che si origina dall’essere saggi e dal contemplare è necessario che sia il solo che proviene dalla vita o quello che vi proviene in senso preminente. Pertanto, ai filosofi, o a essi soltanto o a essi in senso preminente, appartiene il vivere con piacere. Infatti, l’attività che ha per oggetto i pensieri più veri e quelli provenienti dalle realtà che massimamente sono,141 appagando e tenendo serbata la perfezione che saldamente è in essa, è, essa tra tutte, anche la più efficace al fine della letizia. Di conseguenza, coloro che hanno mente devono filosofare anche a motivo dello stesso provare piaceri veri e buoni. 15 (W 15) IAMBL., Protr., 12 (p. 59, 19 – 60, 15 Pistelli):142 e se non si deve soltanto argomentare questa a partire dalle

si connette ai due sensi di vivere. Ne discende che, poiché vivere esercitando l’anima è il significato primario di vivere, ma esercitare l’anima si dice in più sensi, di cui quello primario è l’esercitare la saggezza, vale a dire la filosofia, anche il piacere che si prova con quest’esercizio esprime il provare piacere in senso primario. 141 Si tratta dei cieli e dei relativi motori immobili, dottrina che Aristotele elaborò assai pristino. È chiaro che anche i relativi pensieri sono «più veri» di quelli concernenti altre realtà. 142 Il frammento prova che la felicità risiede nell’esercizio della sag-

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gezza, vale a dire nella filosofia, anche se si assume che la felicità consiste nel piacere (e non soltanto che, come s’è fatto nel frammento precedente, essa risiede nella virtù dell’anima, vale a dire nel suo stato di eccellenza, e che questo è espresso dall’esercizio della saggezza, in cui consiste la filosofia). Infatti, la saggezza, in quanto attività che indaga le realtà supreme e i valori più alti, è l’attività più piacevole. 143 Dunque, la felicità è l’intero di cui il piacere, fatto oggetto di riflessione, nel suo rapporto con la saggezza, nelle precedenti considerazioni, costituisce una delle parti o – meglio – una delle componenti. L’altra parte o componente, di carattere necessario, è costituita, come subito si evince dal contesto, dalla virtù. Identica struttura di pensiero nella scansione del concetto di felicità in base a un fattore che funge da condizione necessaria e consiste nella virtù ed altri fattori concomitanti, tra i quali anche il piacere, si trova anche nell’Etica nicomachea, come appare complessivamente dai primi due libri. 144 Ecco pertanto la dimensione della virtù, e per converso quella del vizio, nel rapporto con la felicità. 145 Alcune cose si devono scegliere perché sono finalizzate alla felicità, altre perché sono causa di essa. Ma può trattarsi o di una causa che funge da condizione necessaria, e tale è la virtù, o di una causa in quanto condizione concomitante, quale è il piacere. 146 In quest’espressione può scorgersi una prima distinzione tra saggezza e sapienza, ancorché non certo nella specifica valenza dottrinale che esse rivestono nel pensiero dell’Aristotele maturo.

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parti, ma la si deve anche costruire, a partire dall’alto, muovendo dalla felicità nella sua interezza,143 diciamo con precisione che, come il filosofare si rapporta alla felicità, così esso si dispone anche in rapporto al darsi per noi una cosa conveniente o malvagia.144 Tutti, infatti, devono scegliere tutte queste cose: alcune per questo scopo, altre per questo motivo, e alcune come necessarie tra le cose, altre come cose piacevoli in virtù delle quali siamo felici.145 Pertanto, poniamo che la felicità consiste o nella saggezza e in una sorta di sapienza,146 o nella virtù, o nel provare piacere al massimo grado, o in tutte queste cose.147 Pertanto, se consiste nella saggezza, è chiaro che il vivere in modo felice apparterrà soltanto ai filosofi; se invece consiste nella virtù e nel provare piacere, anche così apparterrà a essi soli o a essi nel modo più pieno di tutti. Infatti, la virtù è la più importante delle cose che sono in noi,148 e la saggezza è la più piacevole di tutte come un’unità in rapporto a un’unità.149 Parimenti, anche se si dicesse che la felicità coincide con tutte queste cose, la si deve definire con l’essere saggi.150 Di conseguenza, tutti quelli che ne sono in grado devono filosofare. Infatti, o in esso consiste il vivere bene in modo completo, o, per proferire una sola espressione, ne è causa per le anime nel senso più forte di tutti. Ma allora, l’apprendere qualcosa e il conoscerlo è difficile per il fatto che forse la nostra stirpe è contro natura, e a sten-

147 Si tratta della nota dottrina dei tre generi di vita (la vita attiva, o politica, per la quale il supremo valore è la virtù, la vita dedita al piacere e la vita contemplativa), su cui si vede anche la nota 110 ed Eth. nic., I, 9. 148 E poiché anche la saggezza è la cosa più importante, essa coincide dunque con la virtù. 149 Come si è provato nel fr. 14. 150 Dunque, la felicità coincide con la saggezza anche se questa non s’identificasse con uno dei fattori in cui la felicità è fatta consistere, ma con essa nella totalità di tali fattori.

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151 È probabile che le osservazioni di quest’ultima parte del frammento corrispondano a riflessioni, dal tenore complessivamente platonico, di Giamblico su quanto ha testè detto Aristotele e non, propriamente, al pensiero di costui. 152 I passi raccolti da Ross sotto il fr. 16 hanno come denominatore comune la contrapposizione tra i valori dell’anima e quelli terreni. Tra essi riveste particolare rilevanza il passo ciceroniano, nel quale l’Arpinate ripropone il commento di Aristotele a proposito dell’epitafio che Sardanapalo, il re assiro divenuto famoso per la sua dissolutezza, volle fosse inciso sul suo busto funerario. Così attesta anche Strabone. 153 Che il passo ciceroniano derivi dal Protrettico hanno mostrato Jaeger (1964, p. 365) e Bignone (1973, II, 132) sulla base della corrispondenza con Eth. eud., I, 5, 1215 b 31 – 1216 a 2, dove si dice: «ma neppure a motivo del solo piacere del nutrimento o di quello delle cose afrodisiache, una volta eliminati gli altri piaceri che agli uomini pro-

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to si possono avere sensazioni per la inettitudine e perché la nostra vita è contro natura. Ma se riuscissimo a essere nuovamente salvati là da dove siamo venuti, sarebbe chiaro che tutti lo realizzeremo più piacevolmente e più facilmente.151 16 (R2 77, R3 90, W 16)152 ATH., 335 f.:... invidiando la vita di Sardanapalo, figlio di Anacindrasse, che Aristotele disse più dissennato di quanto facesse credere la conformità con l’appellativo del padre. CIC., Tusc. disp., V, 35, 101: in che modo, dunque, potrebbe essere piacevole quella vita dalla quale è assente la saggezza, è assente la moderazione? Dal che si può riconoscere l’errore di Sardanapalo, il ricchissimo re della Siria, che ordinò che sul suo busto fosse inciso: queste cose possiedo: quelle che mangiai e quelle che lo sfrenato desiderio, anche quando fu soddisfatto, bramò; invece quelle cose numerose e famosissime giacciono abbandonate.

Che cos’altro – disse Aristotele – potresti scrivere sulla tomba di un bue, non di un re? Disse di possedere da morto quelle cose che neppure da vivo possedeva più a lungo di quanto ne fruiva.153 STRAB., XIV, 5, 9, p. C 672: qui vi è la tomba di Sardanapalo e una statua di pietra che unisce le dita della mano destra come se schioccassero, e vi è un’epigrafe a lettere

cura il conoscere o il vedere o qualcuna delle altre sensazioni, nessuno accorderebbe pregio al vivere, se anche non fosse completamente schiavo. È chiaro, infatti, che per chi faccia questa scelta non vi sarebbe nessuna differenza tra essere bestia o uomo. Ed effettivamente il bue che, in Egitto, onorano come Api, ha potere in una quantità di cose siffatte maggiore di molti monarchi».

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154 Il frammento, la cui appartenenza al Protrettico è stata negata da Bloch 1964, ma provata, per contro, da Bignone (1973, II, pp. 293 ss.) in base al motivo che il riferimento a coloro che assentono a immagini false e traggono piacere da esse attesterebbe la polemica di Aristotele nei confronti dell’edonismo cirenaico, mette in luce alcune analogie con Phys., 247 b 18. 155 I passi ciceroniani raccolti da Ross sotto il r. 18 (dei quali, peral-

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assire. Ne fa menzione anche Carilo. Inoltre sono tramandate queste parole, in questo modo qui: Queste cose possiedo, tutte quelle che mangiai, tutte quelle che mi hanno riempito d’orgoglio, tutte quelle che ho provato assieme alla gioia d’amore. Invece quelle numerose e sontuose sono state lasciate tutte.

CIC., De fin., II, 32, 106: in realtà, se il piacere del corpo allieta anche quando sia passato, non comprendo perché Aristotele abbia deriso così grandemente l’epigramma di Sardanapalo nel quale quel famoso re della Siria si gloriava di aver portato via con sé tutti i piaceri delle sfrenatezze. In effetti, ciò che – egli disse – neppure da vivo aveva potuto provare più a lungo di quanto ne fruiva, in che modo poté continuare a sussistere quando egli era morto? 17 (R3 54) CHALC., In Plat. Tim., 208-209: e in questo anche Aristotele convenne, sostenendo che all’inizio i bambini di età ancora da latte ritengono padri tutti gli uomini e madri tutte le donne, ma col procedere dell’età operano un discernimento, e talvolta sbagliano nella distinzione, spesso anche, presi da immagini false, tendono all’immagine le mani [...] La demenza più grande si ha quando qualcuno non solo ignora, ma non conosce che ignora, e per questo assente a immagini false e presume che quelle che sono vere siano false: cosicché da un lato si ritiene che la malvagità sia giovevole, dall’altro che la virtù sia nociva e arrechi danno [...] Aristotele chiama costoro vecchi bambini, giacché la loro mente non differisce dalla mente di un bambino.154 18 (W 18)155 CIC., Tusc. disp., V, 10. 30: anche la causa dei Peripatetici è stata chiarita, eccezion fatta per Teofrasto e taluni che,

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tro, Düring 1961, p. 276 ha negato l’appartenenza al Protrettico) ripropongono i motivi dell’inizio dello scritto, incentrati sul tema dell’indipendenza della felicità dai beni esteriori. 156 Trattasi del «toro di Falaride», la macchina di tortura, consistente in un toro di bronzo, fatta costruire dal tiranno di Agrigento per tormentare e uccidere i condannati. Il motivo che il saggio sopporta ogni dolore ed è felice anche sul toro di Falaride appartiene anche alla tradizione stoica (cfr. in proposito SVF, III, 586).

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avendolo seguito, con troppa debolezza hanno orrore del dolore e lo temono; agli altri, invece, è lecito fare ciò che all’incirca fanno, ossia esaltare la serietà e la dignità della virtù. E quando l’hanno innalzata al cielo, cosa che gli uomini dotati d’eloquenza sogliono fare ampiamente [...] 31, 87: pertanto, a loro avviso una vita felice seguirà la virtù fino alla tortura e assieme a essa scenderà nel toro,156 come testimoniano Aristotele, Speusippo e Polemone, né l’abbandonerà per minacce o per blandizie. CIC., Tusc. disp., V, 10, 30: pertanto, non concedo facilmente né al mio Bruto né ai comuni maestri né a quegli antichi famosi, ad Aristotele, a Speusippo, a Senocrate, a Polemone, che, dopo aver annoverato tra i mali quelle cose che prima ho enumerato, dicano ugualmente che il sapiente è sempre felice. E se questa qualificazione insigne e moralmente bella, massimamente degna di Pitagora, di Socrate, di Platone, piace loro, che inducano l’animo a disprezzare quelle cose dal cui splendore sono presi, vale a dire le forze, la buona salute, la bellezza, la ricchezza, gli onori, i mezzi materiali, e a non tenere in nessun conto quelle che sono contrarie a esse: allora potranno proferire a gran voce di non essere spaventati né dall’assalto della sorte, né dall’opinione della massa, né dal dolore, né dalla povertà, e che tutti sono stati posti in loro, e che nulla che ritengano annoverarsi tra i beni è al di fuori del loro potere. CIC., Tusc. disp., V, 13, 39: tutti coloro che possiedono la virtù sono felici. E questo mi trova d’accordo con Bruto, ossia con Aristotele, con Senocrate, con Speusippo, con Polemone. Ma essi mi sembrano anche massimamente felici. CIC., De fin., V, 5, 12: ma dal momento che la domanda verte sulla vita felice e questo è l’unico al

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157 La maggior parte degli studiosi concorda nel ritenere che quest’assunto polemico nei confronti della tesi teofrastea che la felicità non può prescindere né dai beni esteriori né da quelli della sorte, Cicerone non l’avrebbe derivato dalla lettura diretta dell’Etica nicomachea, bensì dal Protrettico. Per contro Düring (1961, pp. 166-167) ritiene che Cicerone sarebbe venuto a conoscenza delle dottrine etiche di Aristotele attraverso Antioco di Ascalona, che peraltro è direttamente chiamato in causa nel testo. «È però significativo – rileva Cassaglia 2001, p. 34, nota 94 – che lo stesso Düring ammetta come sia sfuggito agli interpreti un passo del De finibus immediatamente precedente a questo (cap. 11), in cui si allude alla “splendida et illustris oratio”, che egli stesso ritiene trattarsi di un esplicito riferimento al Protrettico». 158 Del «grande anno», del quale parlano anche Eraclito e i Pitagorici, ha detto anche Platone in Timeo, 39 d, dove presenta come espressione del numero perfetto del tempo. Esso coincide, infatti, con il pe-

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quale la filosofia deve volgere lo sguardo e tener dietro, e cioè se essa sia interamente posta nel potere del sapiente o possa essere scossa o portata via dalle avversità, su questo problema sembra che talvolta presentino delle difformità tra loro e abbiano dubbi. Impressione, questa, che dà soprattutto il libro di Teofrasto sulla vita felice, nel quale, per l’appunto, molta parte è attribuita alla sorte.157 Ma se la cosa sta in questo modo, la sapienza non può garantire una vita felice. Questa mi sembra una ragione, per dir così, più delicata e più blanda, di quella che la forza e la serietà della virtù richiedono. Per questo mi tengo saldo ad Aristotele e a suo figlio Nicomaco [...] tuttavia faremo uso di Teofrasto per la maggiore parte dei , purché manteniamo nella virtù più saldezza e forza di quanto egli ne abbia mantenute. Mi sembra poi che il nostro Antioco abbia seguito fino in fondo in modo assai diligente il pensiero degli Antichi, quel pensiero che egli insegna essere stato il medesimo di Aristotele e di Polemone. 19 (R3 25, W 19) CENSOR., De die nat., 18, 11: vi è poi l’anno che Aristotele chiama «massimo»158 piuttosto che «grande», quello che compiono le orbite del sole, della luna e di cinque stelle vaganti, quando ritornino insieme al medesimo segno nel quale un tempo furono insieme.159 CIC., De nat. deor., II, 20, 51-52: in realtà, degni d’ammirazione al massimo grado sono i moti di quelle cinque stelle che in modo inesatto sono chiamate erranti [...] E

riodo nel quale i pianeti, avendo completato la loro rivoluzione, ritornano nella medesima posizione della volta celeste. 159 Il frammento, che Ross, unitamente a Usener e Jaeger, attribuisce al Protrettico, è stato invece assegnato al Sulla filosofia da Rose (1863), Bywater e Bernays.

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Ossia, all’interpretazione dei sogni. È probabile che in questo passo, come ha mostrato Waszink 1947, Tertulliano si riferisca al mito dell’imprigionamento di Crono da parte di Zeus, che lo legò con i lacci del sonno. La fonte sarebbe Plutarco (De facie in orbe lunae, 940 a), che a sua volta avrebbe attinto al 161

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dai loro moti diseguali i matematici hanno chiamato «grande anno» quello che si compie quando la rivoluzione del sole, della luna e dei cinque erranti, dopo che gli spazi di tutti siano stati interamente percorsi, è avvenuta nella medesima posizione in cui è possibile il confronto tra essi. CIC., Hortensius, fr. 35 Müller: vi sono tre generi di anni: l’anno, infatti, o è lunare, di 30 giorni, o solstiziale, di 12 mesi, o grande, secondo Tullio, ed esso comprende 12 954 anni, come dice nell’Ortensio: «di questi anni, che annoveriamo tra quelli fausti, il grande anno ne comprende 12 954». TAC., Dial., XVI, 7: se infatti, come Cicerone scrive nell’Ortensio, grande e vero anno è quello nel quale si verifica di nuovo la medesima posizione del cielo e delle stelle che si ha ora più che mai, e quell’anno comprende 12 954 di quelli che noi chiamiamo anni. 20 TERT., De anima, 46: quanto numerosi sono coloro che hanno commentato e fatto delle affermazioni contrarie a questa materia!160 Artemone, Antifonte, Stratone, Filocoro, Epicarpo, Serapione, Cratippo, Dionisio Rodio, Ermippo: tutta quanta la letteratura del tempo. Solo che io riderò se per caso qualcuno credette che avrebbe persuaso che, fra tutti, Saturno fu il primo a sognare; a meno che, fra tutti, non fu lui il primo a vivere. Aristotele, perdona a chi ride.161

Protrettico. Ad avviso dello studioso, l’appartenenza del frammento allo scritto aristotelico sarebbe provata dal fatto che le medesime leggende orfiche, alle quali lo Stagirita si sarebbe riportato, istituivano un collegamento tra questo mito e quello delle isole dei beati.

SULLA RICCHEZZA PERI PLOUTOU

INTRODUZIONE

1. Lo scritto aristotelico dal titolo per‰ plo‡tou è attestato nel catalogo di Diogene Laerzio al n. 11 e in quello dell’Anonimo al n. 7.1 Nell’edizione del 1863, Rose ne presentava tre frammenti: oltre i due passi di Plutarco e quello di Cicerone presenti pure nell’edizione di Ross rispettivamente come fr. 1 e fr. 2, vi annoverava, come fr. 3, anche un passo del Liber de mensibus (V, 100, ed. Wuensch) di Giovanni Lido2 che, dopo aver riproposto 1 In realtà, un per‰ plo‡tou è presente anche nella seconda parte del catalogo dell’Anonimo, ma tale indicazione corrisponde a un errore. Ad avviso di Moraux (1951, p. 252) bisognerebbe leggere per‰ oéranoÜ, dal momento e in conformità col fatto che quel titolo è preceduto da quelli della Fisica, del De generatione et corruptione e dei Metereologica. Un errore, del resto, che sarebbe reiterato anche alla riga successiva, dove è indicato un per‰ yucÉ©, in tre libri, mentre già Rose (1863, p. 105) aveva segnalato che si tratterebbe di uno scritto, a noi non pervenuto, dal titolo per‰ t‡ch©. Sempre l’Anonimo segnala al n. 195 del catalogo un âgkÒmion plo‡tou, titolo che suona assai strano in riferimento a un’opera di Aristotele, cosicché Heitz (1869, p. 45) ha proposto la correzione in âgkÒmion Pl¿twno©. 2 Su Giovanni Lido, scrittore bizantino del VI sec. d.C., cfr. K. Klotz, in PW., XIII, 2210-2217. Questo il passo in questione: «I Romani chiamano la fortuna da for¿ [...] aiuto divino. Aristotele: se c’è virtù, non c’è sorte: in alto e in basso la sorte si esercita nelle cose umane, nella ricchezza e soprattutto nell’ingiustizia» (citato da Laurenti, II, pp. 651 s.). Tale passo reitera peraltro ciò che Lido ha scritto qualche pagina addietro (IV, 7 Wuensch): «Aristotele e Teofrasto e tutti i loro discepoli ritengono che essa (scil. la sorte) neppure esista, dicendo che, se c’è virtù, non c’è sorte: in alto e in basso la sorte si esercita nelle cose umane, nella ricchezza, nella potenza e soprattutto nell’in-

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nell’edizione del 1870, nella quale aggiungeva anche un passo di Stobeo (3, 3, 25 = fr. 3 Ross; cfr. supra, p. 211 e pp. 232-235), nella definitiva edizione del 1886 non prendeva più in considerazione, riferendo per altro i due passi di Plutarco e quello di Stobeo al Protrettico, mentre attribuiva quello di Cicerone a Sulla giustizia. L’assestamento filologico dello scritto aristotelico che, edizione di Gigon a parte, può considerarsi definitivo, in quanto accolto nelle moderne edizioni dei frammenti dello Stagirita, è stato dato da Heitz (1865, pp. 195-196; 1869, pp. 45-46, frr. 61-63), il quale, mantenendo come fr. 1 i due passi di Plutarco e come fr. 2 quello di Cicerone ed eliminando i passi di Lido e di Stobeo, aggiunge come fr. 3 un passo tratto dall’Oeconomicon dell’epicureo Filodemo di Gadara. Questa sistemazione è accolta – si deve dire – anche da Ross. È vero, infatti, che nei Fragmenta selecta (1955; reprinted lithographically 1958) egli limita i frammenti del Sulla ricchezza ai primi due soltanto, ma nella traduzione del 1953 (reprinted lithographically 1967) manteneva, come fr. 3, anche il passo di Filodemo, e così, oltre che in altre, è anche nelle edizioni di Giannantoni (1973, pp. 169-170) e di Laurenti (1987, II, pp. 544-647). Merito di quest’ultimo è poi di aver rafforzato l’esclusione del passo di Lido dallo scritto aristotelico, e di aver ulteriormente ribadito la scelta di Heitz e Ross di riferire al Protrettico il passo di Stobeo, sulla base dell’esplicitato criterio secondo cui in esso non sono tanto in causa le ricchezze come tali, quanto lo è, invece, «l’atteggiamento dell’anima nei loro confronti» (Ivi, p. 651); ora, l’attenzione al tema dell’anima è propria del Protrettico. Quanto al passo di Lido, suo oggetto è la fortugiustizia». Va osservato che in Phys., II, 4-5 Aristotele sostiene l’esistenza del caso (t aétfimaton), di cui la sorte, o fortuna (t‡ch), rappresenta una specie, in quanto è il caso stesso nella sfera delle cose umane.

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na, non le ricchezze, e come tale solo a prezzo di una forzatura è riferibile allo scritto in oggetto. Forse si potrebbe supporre, nell’ipotesi che al n. 152 del catalogo dell’Anonimo debba vedersi indicato uno scritto aristotelico sulla fortuna,3 che a esso sia da riferirsi questo passo (contrariamente al parere di Laurenti 1987, II, p. 652, secondo cui Lido «attingerebbe a un’epitome di brani peripatetici riguardanti la t‡ch»). 2. Dai due passi di Plutarco raccolti come fr. 1 e da quello ciceroniano costituente il fr. 2 si evince che nello scritto aristotelico il problema della ricchezza era trattato dall’angolo prospettico che nella dottrina delle Etiche (dell’Etica nicomachea in particolare) e della Retorica si specifica in rapporto alla sfera della liberalità (âleuqerifith©) e della magnificenza (magalopr¤peia), mentre non pare che fosse oggetto anche di un’analisi attinente a quella che, nell’ottica delle due opere suddette, è la sfera propria della giustizia (dikaios‡nh). Tale emergenza viene confermata anche dagli altri frammenti. A ben vedere, è logico che sia così, giacché le ricchezze in rapporto alla giustizia sono argomento che più s’addice a quello scritto che già nel titolo enuncia di vertere intorno a questa virtù. Da questo punto di vista non sembra azzardato ipotizzare che il Sulla ricchezza e il Sulla giustizia appartengano allo stesso periodo, se nell’organizzazione di una materia concernente il medesimo oggetto, i beni materiali (cr‹mata), Aristotele aveva deciso di dividerne la trattazione in rapporto ai tipi di comportamento facenti capo a differenti virtù e vizi. A fronte di questa più ampia divisione non sembra tuttavia possibile provare che nel Sulla ricchezza fosse già presente la distinzione tematica della liberalità, con i corrispondenti vizi, dalla magnanimità, con i vizi a essa 3

Cfr. la nota 1.

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relativi. Anzi, tutto induce a credere che questa distinzione, benché nella sostanza già si fosse affacciata e di fatto fosse operante, come tosto vedremo, non costituiva però l’oggetto di una specifica e determinata divisione di abiti virtuosi né corrispondeva a una siffatta, già avvenuta divisione. Chiaramente rintracciabile, invece, la determinazione triadica di uno stato virtuoso e due stati viziosi, uno per eccesso e uno per difetto, che, com’è noto, rappresenta la base teorica della definizione e dell’analisi aristotelica delle virtù etiche. 2.1 Che nel Sulla ricchezza fosse a tema la liberalità e i suoi vizi è chiaro da 1/a. Qui si parla di due modi inadeguati di usare la ricchezza (tÂn plo‡ton), uno corrispondente al non usarla affatto (oé crántai), l’altro all’abusarne (paracrántai), e mentre il primo è attribuito alla mikrolog›a, propriamente un’avarizia dovuta a «pochezza di ragionamento», giacché chi pratica quest’atteggiamento ritiene che la ricchezza sia alcunché che dev’essere acquisito e accumulato, in ogni caso posseduto ma non usato, com’è chiaro dall’esplicito riferimento al continuo trascorrere il tempo tra gli affari, indicato come peculiarità di questo tipo di individui (taÖ© àscol›ai© diateloÜsin), il secondo modo è dovuto ad àswt›a, a prodigalità: esattamente quello stato vizioso che in Eth. nic., IV, 1, 1119 b 28 Aristotele presenta come eccesso rispetto al giusto mezzo rappresentato dalla liberalità (âleuqerifith©), e che indica con il medesimo termine con il quale ne parla anche nel nostro frammento. Non soltanto, ma che presenta come dovuto a una medesima causa. In effetti, nel fr. 1/a del nostro scritto si dice che la prodigalità (àswt›a) è propria di coloro che sono costantemente schiavi dei piaceri (doule‡onte© àe‰ taÖ© ìdonaÖ©), e in Eth. nic., IV, 1, 1119 b 30 ss. si riconosce che essa ha molteplici forme e di essa vengono

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tacciati i soggetti che nei confronti dei beni materiali (cr‹mata) presentano una varietà di atteggiamenti non confacenti, tra i quali gli intemperanti e gli incontinenti (Ivi, 31-32: «infatti chiamiamo prodighi gli intemperanti e coloro che operano distribuzioni per soddisfare la loro incontinenza» [toÊ© g·r àkrateÖ© ka‰ eå© àkolas›an dapanhroÊ© àsÒtou© kaloÜmen]), ossia soggetti che, sia pure in modalità differenti e connotate di un diverso grado di colpevolezza, hanno entrambi un illecito rapporto con i piaceri: non soltanto con quelli concernenti il corpo (piaceri della tavola e del sesso), i quali definiscono l’ambito proprio di queste disposizioni al vizio e rispetto ai quali si è intemperanti in senso assoluto (cfr. Eth. nic., VII, 6, 1147 b 32: êplá© àkrateÖ©), ma anche, per somiglianza con essi, con i piaceri esterni, come, per l’appunto, la ricchezza (cfr. Ivi, 30: plo‡ton). Orbene, quest’identità di nome e di sostanza etica tra i prodighi del nostro scritto e quelli dell’Etica nicomachea è sufficiente per poter affermare che, anche se l’altro vizio del fr. 1/a, pur indicando chiaramente l’avarizia, non è nominato con il medesimo termine (àneleuqer›a) con il quale questa è designata nell’Etica nicomachea (cfr. IV, 1, 1119 b 27), è in ogni caso certo che si tratta del medesimo stato vizioso e che esso, essendo presentato già nel fr. 1 come opposto rispetto alla prodigalità, che nell’Etica nicomachea rappresenta il vizio per eccesso rispetto all’avarizia, la quale è vizio per difetto, costituisce esso stesso un vizio per difetto. Nel fr. 1/a sono dunque tematicamente attestati, con la stessa connotazione di eccesso e difetto con cui sono qualificati nell’Etica nicomachea, uno indicato con il medesimo nome di questo trattato e l’altro con un nome diverso ma indicante il medesimo stato etico, quelli che nell’Etica nicomachea sono i vizi rispetto alla liberalità. Questa medesima doveva specificare, pertanto, uno dei due stati virtuosi in rapporto ai quali lo scritto ari-

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stotelico ragionava sulla ricchezza. E il fatto che nel fr. 1/a, dal quale questa conclusione s’inferisce, non nomini determinatamente questa virtù, pur prendendo in considerazione i relativi vizi, si spiega tenendo presente il contesto dal quale il frammento è tratto. Plutarco presenta Pelopida, e di lui dice che, «avendo ancora giovane ereditato una splendida posizione, si dedicò ad assistere quelli che meritavano aiuto, onde apparire veramente padrone (k‡rio© àlhqá©) delle sue ricchezze, non schiavo (doÜlo©) di esse»,4 come fanno molti, il cui comportamento è per l’appunto descritto nel fr. 1/a, che segue immediatamente quest’annotazione. Ovvio dunque che in esso, trattandosi dell’atteggiamento incongruente dei più nei confronti della ricchezza, non si faccia parola del relativo stato virtuoso. 2.2 Queste conclusioni sono confermate anche dal fr. 1/b. In esso ritorna la medesima contrapposizione tra coloro che non usano (oé crántai) la ricchezza, limitandosi a possederla, e coloro che ne abusano (paracrántai), entrambi esprimenti un atteggiamento qualificato come sconveniente (kaq¿per oédet¤rou pros‹konto©). E parimenti, a ben vedere, ritornano le medesime ragioni di tale condanna già enunciate in 1/a. I primi – si dice in 1/b – si comportano sconvenientemente perché dalla ricchezza che possiedono non traggono vantaggio né ornamento (oék èfeleÖ oéd‚ kosmeÖ). È la stessa situazione che in 1/a veniva descritta come l’essere sempre dediti a occupazioni commerciali. Il denominatore comune di entrambe, infatti, è la preoccupazione per il possesso della ricchezza: per la sua acquisizione e il suo accumulo, ma non per l’uso di essa, quell’uso che porta vantaggi e lustro, se eseguito come si deve, ma che, per converso, è estraneo a chi pensa sol4

Cito da Laurenti 1987, II, p. 653.

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tanto ad acquisirla e ad accumularla, come effettivamente non appartiene a chi, per acquisire e accumulare ricchezza, trascorre tutto il suo tempo tra gli affari. Parimenti, coloro che abusano della ricchezza in 1/b sono detti agire sconvenientemente perché ne traggono danno e vergogna (bl¿ptei ka‰ kataisc‡nei). Ora, i medesimi effetti ottengono coloro che in 1/a sono detti sperperare la loro ricchezza per asservire i piaceri: si tratta, come s’è visto, di soggetti intemperanti e incontinenti; essi, infatti, perdendo i loro averi, ne traggono un danno e i loro atti sono oggetto di vergogna (cfr. Eth. nic., IV, 15, 1128 b 25 ss.). Dunque, pure 1/b descrive il comportamento, rispettivamente, degli avari e dei prodighi, con le medesime connotazioni con cui ne parla 1/a e che, abbiamo visto, sono le stesse per le quali questi due tipi di soggetti si caratterizzano nell’Etica nicomachea. Per cui, anche da 1/b è logico inferire che la relativa virtù della liberalità abbia occupato una parte importate nell’esame della ricchezza nell’omonimo scritto aristotelico. 3. Che poi il Della ricchezza trattasse di questo tema anche in relazione a quegli stati che nell’Etica nicomachea definiscono la virtù della magnificenza (megalopr¤peia) e i relativi vizi, espressi dalla meschinità (mikropr¤peia), che ne costituisce il difetto, e dalla volgarità o mancanza di gusto (banaus›a ka‰ àpeirokal›a), che ne ripresenta l’eccesso, è chiaro dal fr. 2.5 Ciò che caratterizza tali stati è, a parte obiecti, la gran5 Il riferimento alla mancanza di bellezza (oéd‚ kosmeÖ) dell’avaro potrebbe far credere che anche in 1/b sia in qualche modo a tema la magnificenza, giacché il magnifico effettua elargizioni toÜ kaloÜ ≤neka (Eth. nic., IV, 4, 1122 b 6-7). Ma a parte il fatto che la bellezza che caratterizza il comportamento del magnifico è fondamentalmente di tipo morale, mentre l’ornamento che vien meno all’avaro è innanzitutto e primariamente il decoro esteriore, è decisivo il fatto che i vizi della magnificenza non comportano né disonore né vergogna (cfr. Eth. nic., IV, 6, 1123 a 312-33: oé m„n μne›dh [...] m‹te l›an àc‹mone©),

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dezza della spesa e l’importanza della cosa per la quale essa viene effettuata; a parte subiecti, sono invece in causa il modo e il fine con il quale e per il quale la si effettua. Così, in Eth. nic., IV, 4, 1122 a 21 ss. lo Stagirita precisa che l’agire del magnifico attinge a una dimensione di grandezza, giacché le sue elargizioni sono finalizzate alla realizzazione di grandi opere sia in campo religioso, quali le offerte votive agli dèi, la costruzione di templi, la celebrazione di sacrifici, sia in campo civile, come il finanziamento di una coregia, l’allestimento di una trireme o l’imbandire un banchetto pubblico (Eth. nic., IV, 5, 1122 b 19-23); precisa inoltre che esso si qualifica per la convenienza morale che sorregge tali spese, specificata dal gusto con cui le si effettua, dal non avere altro fine che la bellezza morale, dal provare piacere per simili elargizioni e dall’effettuarle senza lesinare nulla e senza nulla risparmiare nella spesa, ma con la sola preoccupazione che l’opera risulti grande e bella (Eth. nic., IV, 4, 1122 a 34 ss.). Per converso, la persona volgare spende sconvenientemente ingenti somme che non lo richiedono («ad esempio, prepara un pasto a quota al modo di un banchetto nuziale e, se organizza il coro di una commedia, lo fa avanzare nella sua prima entrata con la porpora»), al solo fine di dare mostra della sua ricchezza ed elargendo invece piccole somme là dove sarebbe opportuno non lesinare (Eth. nic., IV, 6, 1123 a 19-27). Ebbene, atteggiamenti di questo genere connotano l’agire dei tipi di soggetto di cui Cicerone, con espresso riferimento ad Aristotele, parla nel passo del De officis raccolto come fr. 2; e, per converso, le modalità, i fini e le circostanze che qualificano il comportamento del magnifico sono sullo sfondo di questo frammento, in guisa di orizzonte dal quale si stagliano i lineamenti del volmentre 1/b qualifica l’agire dei prodighi come arrecante vergogna (kataisc‡nei).

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gare e nel quale i giudizi dell’Arpinate assumono pregnanza di senso. Alla figura aristotelica del magnifico Cicerone allude, in tutta evidenza, là dove sottolinea che di fronte agli sprechi della persona volgare «non siamo presi da nessuno stupore per la grandezza del fatto», come invece lo saremmo – si sott’intende – se la grandezza della spesa (questo propriamente «il fatto») fosse finalizzata alla realizzazione di opere di notevole importanza, sì da non configurarsi affatto come «spreco», e fosse sorretta da nobili fini, non da mera ostentazione, e gusto per il bello. Sullo sfondo del magnifico si delinea, invece, in modo tematico la persona volgare. I tratti con cui l’Arpinate la dipinge sono i medesimi che caratterizzano questo soggetto nelle analisi aristoteliche dell’Etica nicomachea sopra richiamate. Egli non agisce per necessità (non spende una mina per un sestario d’acqua perché in preda alla sete e assediato dal nemico); nell’analisi aristotelica s’è visto che egli agisce per puro sfoggio di ricchezza. Ancora: sprecando e sperperando per cose di poco conto, egli non accresce la sua dignità; è l’esatto pendant dell’annotazione aristotelica secondo cui la persona volgare non bada alla convenienza morale delle sue azioni. Di più: il piacere che con tali sperperi procura a chi vi partecipa è di poca durata e ben presto se ne perde anche il ricordo; il rilievo coincide perfettamente con quello aristotelico, citato ad litteram, relativo a un pasto pubblico imbandito ed elargito con la sontuosità di un pasto nuziale, e all’allestimento di un coro di commedia con lo sfarzo di una veste purpurea. Anche in questi casi l’azione del volgare procura piacere alla folla, sia in occasione del banchetto che in quella dello spettacolo teatrale, ma è un piacere non solo sconveniente, ma anche effimero. Da ultimo: il rilievo finale dell’Arpinate (le elargizioni della persona volgare «sono gradite ai bambini, alle donnicciuole, ai servi e alle persone libere assai simili ai servi, ma in nes-

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sun modo possono essere approvate da un uomo serio e che soppesa con sicuro giudizio quei fatti che accadono») delinea l’immagine stessa del tipo d’uomo tratteggiato da Aristotele, perché ne prospetta l’intera gamma di tratti che abbiamo osservato nella descrizione dello Stagirita. Con Laurenti (1987; II, p. 667) si deve osservare che, a fronte dello schema triadico usato da Aristotele per l’analisi delle virtù etiche e, in particolare, della magnificenza, lo schema usato da Cicerone non soltanto in questo passo, nel quale egli pur esplicitamente cita Aristotele, ma nella disamina dei capp. 15 e 16 del De officis, da cui il passo è tratto e che fungono da contesto di esso, è dicotomico. Nel cap. 15 l’Arpinate, presentando la beneficentia, fa presente che può effettursi opera o pecunia, e la prima forma – egli dice – è superiore alla seconda in quanto non va soggetta ai limiti patrimoniali e di spesa che, per quanto grandi possano essere le possibilità del soggetto, condizionano pur sempre la seconda. Nel cap. 16, presentando questa seconda forma di beneficentia, precisa che coloro che la praticano, che egli denomina largi, sono sia i prodigi, ossia quelli che Aristotele qualifica come persone volgari, sia i liberales, coloro cioè che lo Stagirita definiva magnifici. I primi, infatti, dice Cicerone, «in festini, in distribuzioni di carne, in spettacoli gladiatori sprecano denaro per cose di cui lasceranno un ricordo effimero o addirittura nessun ricordo»; i secondi, invece, «con i loro mezzi riscattano chi è stato catturato dai predoni o si accollano i debiti degli amici o li aiutano nel sistemare le figlie o li assistono nell’acquistare e nell’accrescere i lori averi» (II, 16, 35. Citato da Laurenti). In linea con questo quadro, le figure del liberalis, ossia del magnifico, e del prodigus, ossia del volgare, si stagliano nel fr. 2: la prima di sfondo, la seconda nei termini tematici che abbiamo illustrato. Come nella trattazione generale del cap. 16, anche qui non

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è dunque presa in considerazione quella che in Aristotele è la figura del vizioso per difetto, e cioè il meschino. Ciò non significa che anche Aristotele, nel Sulla ricchezza, abbia prospettato la materia secondo uno schema binario, rinunciando a quella scansione mercé il giusto mezzo, definente la virtù, e due vizi, costituiti dall’eccesso e dal difetto, che nel medesimo scritto sorreggeva l’analisi della medesima materia, la ricchezza, in rapporto alla liberalità.6 4. Il motivo basilare che induce a riportare il passo dell’Oeconomicon di Filodemo di Gadara tra i frammenti del Sulla ricchezza è, al tempo stesso, di ordine storico e critico. Filodemo scrisse quell’opera nell’intento di diffondere il pensiero epicureo sui beni materiali.7 A tal fine, come egli stesso dichiara (Philodemi, per‰ oåkonom›a©, col. XII, 25 ss., p. 39), seguì Metrodoro di Lampsaco, uno degli amici più stretti di Epicuro, al quale questi affidò il compito di scrivere un trattato sulla ricchezza (per› plo‡tou), ricordato da Diogene Laerzio, X, 24. La data di morte di Metrodoro, che avvenne nel 277 a.C., sette anni prima di Epicuro, permette di collocare ragionevolmente la composizione e la pubblicazione del trattato a cavallo tra il IV e il III secolo a.C., un tempo, cioè, relativamente ancora vicino a quello di Aristotele, cosicché è difficile credere che Metrodoro 6 È questa la tesi che lo stesso Laurenti sostiene: «la trattazione della megaloprepeia, come quella della eleutheriotes, doveva essere impostata sullo schema triadico [...] Non si vede perché non dovesse comparire a proposito della megaloprepeia (1987, II, p. 670). Con Laurenti (Ivi, p. 671) si deve altresì convenire che lo sfasamento testimoniato dall’uso dello schema binario in luogo di quello triadico delle analisi del Sulla ricchezza fa ragionevolmente credere che l’Arpinate non abbia attinto direttamente allo scritto aristotelico, ma per il tramite di una fonte che, data la massiccia presenza di Panezio nel De officis, non è azzardato indicare in costui. 7 In proposito cfr. Laurenti 1973, pp. 28 s.

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non abbia preso in esame il suo pensiero in materia di economia. Ciò posto, si tratta di esaminare che informazione viene da Filodemo circa l’opera dello Stagirita Sulla ricchezza e la sua attendibilità. L’informazione riguarda la circostanza che nello scritto aristotelico si trattava della crematistica e se ne distingueva una forma buona, praticata dall’uomo virtuoso, e una forma cattiva, praticata dal malvagio. Che nell’opera in esame lo Stagirita abbia dedicato una specifica disamina alla crematistica, appare ben logico e congruente con l’argomento complessivo dell’opera stessa, la ricchezza, per l’appunto. Che ne abbia distinto una forma buona e una cattiva, è istanza che trova un analogo nella distinzione di Pol., I, 9, 1257 a 4-5 tra una crematistica naturale, intesa a procurare e ad amministrare i beni necessari per la sussistenza della famiglia e dello stato, e una crematistica non naturale, ma derivata «piuttosto da una forma di abilità e di arte», volta ad accumulare i beni materiali. Essa è «non naturale» proprio perché sfasa la proporzione tra beni materiali e bisogni, mirando a procacciare i primi in una quantità che va oltre il limite del mantenersi in vita definito dai secondi. Che muovendosi sulle orme del pensiero epicureo, esposto da Metrodoro, Filodemo presenti la crematistica «non naturale» di Aristotele come cattiva, e quella «naturale» come buona, è del tutto comprensibile se si tien conto che nell’ottica epicurea buono è ciò che è conforme a natura e, in particolare, tra i bisogni, sono buoni quelli naturali e necessari, ossia quelli che hanno la loro origine e il loro limite nella natura. Parimenti, in quest’ottica è comprensibile che l’una e l’altra forma di crematistica sia praticata da un soggetto il quale, a seconda che adegui il suo comportamento in materia di beni materiali ai limiti della natura, o meno, è considerato moralmente buono o cattivo. Pur attraverso una sovrapposizione di concetti epicurei a concetti ari-

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stotelici e la fusione altresì delle relative terminologie, nel passo di Filodemo è riscontrabile un’informazione sullo scritto dello Stagirita pienamente compatibile col pensiero dello stesso nel campo dei beni materiali, quale è noto dai trattati di scuola, nonché col tenore complessivo dello scritto cui il frammento è attribuito, quale è fin qui apparso. Si deve tuttavia far presente che Filodemo, che pur condivide le istanze di fondo che sorreggono la tesi aristotelica di una duplice crematistica, da considerarsi buona o cattiva in base al criterio della conformità alla natura, oppone però allo Stagirita di essersi lasciato guidare, nello stabilirla, dal linguaggio e dalle opinioni correnti, e di non aver seguito il sicuro metodo delle prolessi. È quanto afferma nel passo immediatamente precedente il frammento (Philodemi, per‰ oåkonom›a©, col. XXI, 12 ss.; si veda anche Koerte 1890, pp. 545-456), dove si parla di «coloro che asseriscono di filosofare», ma – è facile inferire – in realtà non filosofano, o comunque non lo fanno correttamente, perché, per l’appunto, non appoggiano la loro riflessione su prolessi.

8 La correzione di «Aristoteles», che è la lezione dei manoscritti, in «Aristo Ceus» (Aristone di Ceo, scolarca del Peripato nel II sec. a.C.), proposta da taluni sul presupposto che la citazione di Cicerone non trova riscontro nelle opere conosciute dello Stagirita, allo stato attuale degli studi e, soprattutto, dopo la confutazione di Bernays (1868, II, p. 113), non è più proponibile. Del resto, anche chi, come Heitz (1865, p. 196), non rifiuta del tutto Aristo, ritiene però che si tratti di un’abbreviazione di Aristoteles.

FRAMMENTI

1 (R2 86, R3 56) PLUT., Pelop., III, 1: tra i più, come afferma Aristotele, alcuni non fanno uso della ricchezza a motivo della avarizia, altri ne abusano per la prodigalità: e questi servendo sempre ai piaceri, mentre quelli trascorrono il tempo in occupazioni commerciali. PLUT., Mor. (De cup. div.), 527 a: ma tu, noi diremo, non senti Aristotele che sostiene che gli uni non fanno uso , mentre altri ne abusano, ritenendo che nessuno dei due sia conveniente? Ma la proprietà a quelli non reca vantaggio né dà loro ornamento, questi invece danneggia ed è per loro di vergogna. 2 (R2 87, R3 89) CIC., De off., II, 16, 56-57: con quanta maggiore gravità e verità Aristotele8 ci rimprovera, perché non restiamo stupefatti di fronte a queste elargizioni di denaro che si fanno per adescare la massa. Ma se coloro9 che sono assediati dal nemico sono costretti a comprare un sestario d’acqua per una mina, questo, la prima volta che l’ascoltiamo, ci sembra incredibile e tutti siamo presi da stupo9 «At ii», secondo la lezione della maggior parte dei manoscritti. «Ait, enim», proposto per riferire allo Stagirita il pensiero, è inutile, in quanto detta appartenenza è chiara comunque.

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10 Come lo saremmo, invece, se esse fossero fatte per grandi cose – quelle in vista delle quali il magnifico effettua le sue elargizioni: offerte votive agli dèi, la costruzione di templi, la celebrazione di sacrifici, una coregia, l’allestimento di una trireme, l’imbandire un banchetto pubblico (cfr. Eth. nic., IV, 5, 1122 b 19-23) –, mentre si tratta soltanto di sprechi di ingenti somme per cose che non lo meritano, effettuati al solo fine di far esibizione della propria ricchezza. Sono queste le note che in Eth. nic., IV, 6, 1123 a 20 ss. caratterizzano la figura della persona volgare. Come si può constatare, benché sia a tema la figura del volgare, sullo sfondo appare quella del magnifico, in rapporto al quale la prima stessa si delinea. 11 Con Chroust (1973, II, p. 20), Ross (1967, p. 55) e Giannantoni (1973, p. 170), intendo a levissimo quoque come neutro. Come maschile lo interpreta, invece, Laurenti (1987, II, p. 645). 12 Riportiamo come fr. n. 3 questo passo di Filone di Gadara che

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re, ma, dopo aver riflettuto, ne perdoniamo la necessità. Invece, nel caso di queste spese immani e smisurate non siamo presi da nessuno stupore per la grandezza del fatto,10 soprattutto perché né si sopperisce a una necessità, né si aumenta la dignità; e perché quello stesso piacere della massa si estende per un tempo breve ed esiguo, ed esso si origina da qualsivoglia cosa di scarsa rilevanza,11 nella quale, ad ogni buon conto, assieme alla sazietà viene meno anche il ricordo del piacere. Fa bene ad aggiungere anche che queste cose sono gradite ai bambini, alle donnicciuole, ai servi e alle persone libere assai simili ai servi, ma in nessun modo possono essere approvate da un uomo serio e che soppesa con sicuro giudizio quei fatti che accadono. 312 PHILOD., Oecon., col XXI, 28-35 Jaensen (Pips 1907) (Pap. Herc., 3, p. 41): ciò che capitò ad Aristotele13 nel corso del ragionamento sviluppato nel Sulla ricchezza a proposito dell’essere l’uomo dabbene anche un buon crematista, mentre l’uomo cattivo anche un crematista cattivo, come mostrò Metrodoro.14

Ross non annovera nella raccolta del 1955 (rist. 1958), ma presenta nella traduzione in inglese dei frammenti aristotelici (1967, pp. 56-57). 13 Ossia, di trattare della crematistica senza metodo, ma dando ascolto alle opinioni correnti (cfr. Introduzione, p. 337). 14 Metrodoro di Lampsaco (morto nel 277 a.C.), autore di un Sulla ricchezza (per‰ plo‡tou), ricordato da Diogene Laerzio, X, 24, al quale si rifece Filodemo nel comporre il suo Oeconomicon. Metrodoro, infatti, scrisse quell’opera per incarico di Epicuro, che gli affidò il compito di illustrare il suo pensiero in merito ai beni materiali (cr‹mata), e a diffondere il pensiero epicureo su questo tema è espressamente volto l’Oeconomicon di Filodemo.

SULLA PREGHIERA PERI EUCHS

INTRODUZIONE

1. Lo scritto aristotelico intitolato Sulla preghiera (per‰ eécÉ©) è attestato al n. 14 del catalogo di Diogene Laerzio, che lo indica in un libro, e in quello dell’Anonimo al n. 9. Di fatto, l’esistenza di quest’opera, benché di essa si sappia ben poco, non è mai stata revocata in dubbio, per cui va senz’altro acquisita come un dato certo, ulteriormente confermato dal fatto che una vita latina di Aristotele, datata da Düring (1957, pp. 144 e 151-158) del 1200, presenta, in calce, un’appendice nella quale si legge: «fecit autem Aristotelis librum de oratione unde Simplicius “quod enim intelligat aliquid et super intellectum et super substantiam Aristoteles manifestus est apud finem libri de oratione plane dicens quod deus aut intellectus est aut aliquid ultra intellectum”». «Ciò significa – commenta Laurenti (1987, II, p. 707), da cui ho tratto la citazione – che un’opera sulla preghiera era attribuita nel Medioevo ad Aristotele.» L’indicazione della vita latina traduce, peraltro, ad litteram il testo in cui Simplicio parla dello scritto aristotelico, testo che nella raccolta di Ross (1958), come in quelle di Rose (1886), Walzer (1963) e Laurenti (1987), costituisce l’unico frammento attribuito al Sulla preghiera, mentre nella sua prima edizione Rose (1863) recensiva, oltre al passo di Simplicio, anche quello di Seneca, Quaest. Nat., VII, 30, 1 (così pure Heitz 1869) e nella seconda edizione aggiungeva anche Sinesio, Dion, 10, 271 Krab. Quest’ultimo passo e quello di Seneca nel-

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ARISTOTELE

la raccolta di Ross sono invece ascritti al Sulla filosofia, rispettivamente come fr. 15 e come fr. 14. 2. La scelta, se si tiene conto della maggiore ampiezza con cui quest’opera tratta del divino rispetto al nostro dialogo, del quale già il titolo indica invece in modo eloquente i limiti ben definiti dell’argomento, sembra ben fondata e certamente condivisibile, ma contribuisce, sia pur in maniera del tutto involontaria, a inquadrare l’unico frammento in una prospettiva inautentica. Mi riferisco al fatto che gran parte della critica ha letto il passo di Simplicio come atto a fornire un’informazione sulla concezione teologica di Aristotele,1 una concezione, cioè, tale da avere rilevanza in sede speculativa perché calibrata o in chiave metafisica, sì da doversi innanzitutto confrontare con la nozione dei motori immobili delineata in Metaph., XII, 7, o in chiave cosmologica, in riferimento alla natura divi1 Così Bernays (1868, p. 122 s.) ha indicato nella ricerca dell’essenza di Dio il fulcro dell’opera Sulla preghiera, ed ha creduto che in essa Aristotele avesse sviluppato i presupposti dottrinali di quella concezione di Dio quale «pensiero di pensiero» che si trova enunciata in Metaph., XII, 7, un testo di poco posteriore al nostro scritto. In esso, pertanto, e in rapporto a una siffatta concezione della divinità sarebbe stata condotta la disamina sulla preghiera. Una preghiera che, di conseguenza, non poteva essere implorazione di un intervento di Dio, giacché questo è impossibile per un Dio così concepito. Lungo questa stessa linea esegetica, condivisa anche da Heitz (1865, pp. 201 s.), Cherniss (1944, app. XI, pp. 609 ss.) ha letto nel riferimento a qualcosa che è al di là dell’intelletto (ñp¤kein¿ ti toÜ noÜ) un accenno polemico nei confronti di Platone, espressamente volto a colpire l’istanza di una realtà diversa da Dio che abbia un tale stato, con l’assurda conseguenza di una sua superiorità a Dio stesso e della subordinazione di questo a un ente siffatto. Con quest’interpretazione concordano Jaeger (1964, p. 212), Bignone (1973, II, p. 360, nota 3) e Berti (1962, p. 386). Serie obiezioni, per converso, alla linea esegetica iniziata con Bernays sono state avanzate da Pépin (in Schuhl 1968, pp. 59-61). Dal punto di vista che qui ci interessa, particolare attenzione merita l’osservazione dello studioso secondo cui la forma stessa del frammento indica, al di là di un’apparente continuità d’impianto (alla quale si è limitato Bernays), una strutturale discontinuità tra i suoi elementi, unitamente alla sottolineatura della scarsa rilevanza, in sede esegetica, dell’accostamento del Sulla preghiera a Metaph., XII, 7, attesta l’estraneità dei soggetti a tema.

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na che anche lo Stagirita attribuiva agli astri, mentre qui è in causa una nozione della divinità, o, meglio, degli dèi, strutturalmente legata alla preghiera. Dio è così il soggetto al quale questa viene rivolta, acquisendo in questo rapporto la sua connotazione, e la preghiera non riveste affatto, per Aristotele, una valenza speculativa, com’è chiaro dall’essere esclusa dalla sfera del discorso apofantico, non sopportando perciò quelle determinazioni del vero e del falso2 che scandiscono primariamente il conoscere e, di conseguenza, l’ordine dello speculativo. In questo senso la preghiera, sottratta costitutivamente a un tale ordine, si connota più propriamente di valenze che possono complessivamente convogliarsi nella sfera del pathos, tanto che in Poet., 1456 b 11 Aristotele annovera la necessità di sapere che cosa essa sia tra le cose che deve conoscere l’attore al fine di poter calibrare adeguatamente l’espressione. Ora, proprio al paqeÖn il sopra richiamato fr. 15/a del Sulla filosofa ascrive determinatamente il rapporto con la divinità, ancorché nella specifica e determinata circostanza dell’iniziazione misterica, e proprio dall’apprendere (maqeÖn), ossia dall’atto che definisce la condizione preliminare del conoscere, altrettanto determinatamente esso dissocia tale rapporto. Cosicché, al di là di ogni considerazione circa lo scritto cui è più adeguato attribuire il frammento, la sua distrazione dall’orizzonte esegetico del nostro dialogo rischia di far perdere un essenziale elemento atto a far comprendere la natura della preghiera per Aristotele e, con essa, la possibilità di inquadrare il passo di Simplicio nella sua vera luce. Il rapporto tra questo e il suddetto frammento 15/a sembra richiesto, in particolare, dal fatto che l’invasamento iniziatico avviene in un rapporto rituale con la divinità, e la 2 Cfr. De interpr., 4, 17 a 2-4: «non ogni discorso è enunciativo (àpofantikfi©), bensì quello nel quale sussiste il dire il vero o il dire il falso. E non in tutti quanti i discorsi sussiste: per esempio, la preghiera è sì un discorso, ma non è né vera né falsa».

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preghiera, ove non sia addirittura riconducibile interamente al rito, come si verifica là dove essa è condotta in modo liturgico, è impossibile che prescinda dalla dimensione della ritualità. In effetti, una volta sottratta alla sfera del rapporto conoscitivo con Dio, per i motivi che si sono testé detti, e, con altrettanta nettezza, a quella di un rapporto, per dire così, latamente provvidenziale di Dio stesso nei confronti di chi lo prega, assolutamente impossibile per il fatto che a Dio, in quanto «pensiero di pensiero», è strutturalmente estranea ogni relazione con l’altro da sé, non si vede in che cosa mai possa consistere la preghiera se non in un atto primariamente legato al compimento di un rito. È, con ogni probabilità, a un simile atto, ossia alla preghiera calibrata in questa dimensione che lo Stagirita ha fatto riferimento nell’asserire ciò che Simplicio testimonia. Del resto, a ben vedere, soltanto questo tra i significati che si possono in generale attribuire alla preghiera è adatto al caso di specie. Non certo la preghiera come lode, giacché essa si rivestirebbe di quella dimensione conoscitiva che non le appartiene. Si loda, infatti, ciò che si «conosce» essere eccellente, ma la preghiera – da capo – per Aristotele non fa conoscere niente. E neppure può trattarsi della preghiera come ringraziamento o, in altra valenza, come richiesta di aiuto, entrambi questi aspetti essendo legati alla possibilità di un intervento di Dio che il Dio aristotelico non ha. Tutte e tre queste valenze competono alla preghiera che si rivolge a una divinità connotata di attributi differenti da quelli con i quali lo Stagirita qualifica i motori immobili e che, per converso, appare legata alla sfera degli dèi della tradizione greca, a partire da Omero, nei cui poemi gli dèi sono costantemente coinvolti nelle faccende umane, così come sono costantemente invocati dai personaggi – meglio, dagli eroi – che di volta in volta tengono la scena. E qui si prospetta una seconda possibilità di lettura del frammento, costitutivamente legata a quella anzi ipotizzata, connessa al rito, ma nondimeno definente una diversa prospet-

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tiva: una lettura per la quale Aristotele manifesta il suo pensiero in ordine alla preghiera che si rivolge agli dèi. Questa seconda ipotesi esegetica sembra trovare conferma anche dal passo senechiano (Sulla filosofia, fr. 14 Ross). Che anch’esso sia meglio attribuire a un’opera nella quale il tema del divino è assunto in una prospettiva di dimensioni più vaste di quella del nostro dialogo, circoscritta alla preghiera, non è questione, volto com’è, tale frammento, a sottolineare il rispetto (verecundiores) con il quale si deve trattare «de diis». Ma proprio questo, il fatto cioè che «gli dèi» siano l’oggetto al quale si rivolgono le osservazioni dello Stagirita, ribadito e conformato dall’esplicito riferimento ai templi (si intramus templa compositi) e ai sacrifici (si ad sacrificium accessuri), nonché dall’esplicita dichiarazione che «de natura deorum disputamus», attesta in modo inequivocabile che il divino cui lo Stagirita dedica le sue attenzioni non è sempre e soltanto quello di natura metafisico-teologica, espresso dai Motori Immobili, o di natura cosmologica, individuato nei cieli e negli astri. Queste realtà ne rappresentano certamente le espressioni che più hanno attratto l’interesse di Aristotele, ma non sono le uniche. Accanto a esse, com’è chiaro dal passo qui a tema, si rinviene che altre valenze del divino, ancorate alle divinità della religione tradizionale e ai loro culti, hanno captato, ancorché in tono e in misura assai minore, l’attenzione del filosofo. Né deve trarre in inganno il fatto che il fr. 14 chiami in causa anche gli astri (cum de sideribus, de stellis... disputamus): in essi la tradizione religiosa vedeva identificati gli dèi del culto comune, Zeus, Atena, Febo ecc., e sotto questo specifico profilo Aristotele prende qui in considerazione i corpi celesti. Si tratta dunque, in ultima analisi, di dèi che non sono oggetto di considerazioni di ordine teoretico, ma che meglio si adattano a essere i destinatari di atteggiamenti quali la preghiera. Ma per accertare entrambe le ipotesi sopra formulate, è necessario entrare direttamente nell’analisi del frammento.

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3. Sotto il profilo sintattico il frammento si articola in quattro proposizioni: (1) la dichiarativa iniziale: «che infatti... sostanza»; (2) la principale: «Aristotele... Sulla preghiera»; (3) la temporale: «dicendo chiaramente»; (4) la dichiarativa finale: «che... dell’intelletto». Ora, la (1) ha valore esplicativo della (4): dicendo che Dio o è intelletto o è qualcosa al di là dell’intelletto (âp¤keina), Aristotele – rileva Simplicio – fa riferimento anche (ka›) a qualcosa che sta al di sopra (ñp¤r) dell’intelletto e della sostanza, ammette cioè anche (ka›) qualcosa che ha questa natura. Da ciò si deve dedurre che (a) «l’essere al di sopra (ñp¤r)» esprime lo stesso significato di «essere al di là (âp¤keina)», e in questa identità ciascuna delle due espressioni delimita, nel rapporto con l’altra, l’ampiezza della sua sfera semantica, quale risulta dalla consultazione stessa di un dizionario; (b) l’uso di «o (õ)» nella proposizione (4) indica una disgiunzione con valore esclusivo, non inclusivo, come alcuni interpreti hanno creduto (così, per esempio, Pépin, in Schuhl 1968, p. 68 s. e Laurenti 1987, II, p. 710), giacché non sarebbe possibile dire che qualcosa che è, insieme, coincidente con intelletto e al di là di questo, è sopra l’intelletto. L’affermazione di (4) risulta, invece, sensata nel caso dell’esclusione: Dio è o intelletto o qualcosa al di là dell’intelletto, in senso alternativo e tale che, non potendo egli essere definito che da una di queste due possibilità, il fatto di esserlo dall’una esclude eo ipso che lo sia dall’altra; e se è una realtà che oltrepassa le capacità cognitive dell’intelletto, esso è «sopra» questo; (c) essere «sopra» (ñp¤r), in questo caso, non esprime una condizione di eccellenza, giacché nulla per Aristotele può essere superiore alla razionalità, di cui l’intelletto rappresenta il momento culminante, ma significa una semplice eccedenza, l’appartenere cioè a una dimensione che non è quella dell’intelletto: appunto, un essere «al di là» di

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esso, secondo quell’identità di senso delle due espressioni, già chiara in (a), che la (1), con il suo valore esplicativo rispetto alla (4), determinatamente stabilisce e che ora appare in tutta la profondità della sua implicazione. Ebbene, un Dio la cui esistenza si attinge o, meglio, si vive nella partecipazione ai riti che gli iniziati celebrano in suo onore e nelle esperienze forti nelle quali la religione tradizionale – come innanzitutto e primariamente è in Omero – lo fa intervenire accanto ai soggetti umani, per aiutarli, o per vessarli, o in qualità di destinatario delle loro preghiere e delle loro suppliche, è un Dio che tocca essenzialmente la sfera del pathos e, come tale, è «sopra» la dimensione intellettiva, nel senso di «al di là» di essa. A una tale divinità è dunque logico ipotizzare che Aristotele abbia alluso nel frammento di Simplicio. Il quale può pertanto leggersi in questa valenza: Aristotele, che, parlando di Dio in chiave metafisica e cosmologica, ne ha parlato come di una realtà pensante nel senso più elevato (nfihsi© no‹sew©) e perciò come identica all’intelletto, parlandone in riferimento alla preghiera e intenzionando quelle circostanze rituali, iniziatiche o della religione tradizionale in cui essa si esplica, ne ha parlato come realtà che nulla più ha a che fare con l’intelletto e il pensiero, ma che si definisce al di là di questi. 4. Il contesto nel quale il frammento si colloca conferma la contrapposizione tra la dimensione cosmologica e la dimensione religiosa della divinità, e con questo stesso l’esegesi che abbiamo proposto. Il frammento, infatti, s’inserisce nel commento che Simplicio redige al passo di De cael., 292 b 10-12 in cui Aristotele, dopo aver stabilito una strutturale relazione tra lo stato dell’ente che tende a un bene e il possesso del bene medesimo e dopo aver precisato che, quanto maggiore è la vicinanza dell’ente al suo fine, con tanto maggiore facilità può raggiungerlo, per cui, per converso, alcuni enti distanti dal

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fine lo raggiungono a stento, mentre altri non lo raggiungono neppure, ma possono avvicinarvisi soltanto (292 a 22 ss.), così scrive: «l’uno, dunque, possiede (öcei) il sommo bene e ne partecipa (met¤cei), l’altro vi giunge da presso e mediante poche azioni, un altro ancora tramite molte, un altro, infine, non tenta neppure di arrivarvi, ma gli basta giungere in prossimità del fine ultimo». Il contesto è dunque di natura cosmologica e al tempo stesso teologica, giacché Aristotele mira a mostrare che gli astri «partecipano di attività e di vita» (292 a 20) e queste sono caratteristiche della divinità (cfr. Metaph., XII, 7). Di pari natura il commento di Simplicio: «dice dunque che degli enti né il primo ha bisogno di attività né l’ultimo: l’ultimo perché non raggiunge propriamente il fine, il primo perché non è separato dal bene, ma secondo la sua essenza lo possiede (öcei) e ne partecipa (met¤cei)». Segue una precisazione sull’uso più corretto dei termini che Aristotele avrebbe dovuto fare in rapporto al tipo di enti chiamati in causa, impostata in tutta evidenza su istanze dottrinali neoplatoniche e facente forza sul rilievo che «possedere (öcein)» s’addice all’Uno, mentre in rapporto a quelle realtà che, come gli astri, sono dotate di intelletto è più conveniente parlare di «partecipare (met¤cein)»;3 quindi il frammento. Gli studiosi hanno fissato l’attenzione quasi unicamente sul fatto che in chiave neoplatonica, che registra il tono dottrinale del commento, il riferimento a «sopra (ñp¤r) l’intelletto e la sostanza» del nostro frammento intenziona l’Uno, di modo che in rapporto a esso dovrebbe spiegarsi la preghiera.4 Cadendo, ad avviso di chi scrive, in un 3 Questa la precisazione: «e avrebbe dovuto dire “possedere (öcein)” riguardo alla bontà sovraessenziale e all’uno, “partecipare (met¤cein)” riguardo all’intelletto, strettamente unito al bene e partecipe di esso: ciò che postula qualcosa secondo la propria essenza si dice che possiede, ciò che prende da un altro si dice che partecipa». 4 Così, tra gli altri, Longo (1962, pp. 158-159), Guthrie (1939, p.

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equivoco inestricabile: giacché, da un lato, l’oggetto tematico del commento di Simplicio sono gli astri quali Aristotele concepisce, e a loro riguardo egli menziona l’intelletto; dall’altro, il riferimento a qualcosa che è «sopra (ñp¤r) l’intelletto e la sostanza», in quanto «al di là (âp¤keina) dell’intelletto», se intenzionasse l’Uno, lo farebbe in forza di una dottrina non certo aristotelica, ma neoplatonica, che, in una massima confusione, Simplicio attribuirebbe invece – in modo, in realtà, davvero impensabile – allo Stagirita; infine perché, data anche e non concessa una tale sovrapposizione di schemi dottrinali, in essa il riferimento alla preghiera sarebbe del tutto inspiegabile e incomprensibile, giacché non si vede né come, in chiave neoplatonica, essa abbia a che vedere con il raggiungimento dell’Uno, né, in chiave aristotelica, come possa riferirsi a un’inesistente realtà superiore all’intelletto. Questi inestricabili incongruenze esegetiche vengono meno, invece, se, come sembra opportuno perfino sotto il profilo logico nella scansione del commento di Simplicio, ossia in un ordine di considerazioni che precedono addirittura quello dell’interpretazione, la precisazione terminologica, con tutto il peso del suo impianto dottrinale, viene letta come un inciso, come un’inserzione, cioè, che il platonico Simplicio introduce a mo’ di puntualizzazione in un contesto e nello svolgersi di un ragionamento del tutto allotri a essa e rispetto ai quali essa stessa, apertasi, subito si chiude. Si trova allora che il contesto, di marca chiaramente cosmologica e, per il motivo sopraddetto, al contempo anche teologica lascia trasparire l’opposizione tra la natura divina di certi enti che, come gli astri, hanno realtà intelligibile e la natura anch’essa divina, ma in ben altro senso, di certi fenomeni religiosi connessi a vario titolo alla preghiera. 208), Moraux (1965, p. 83), Tricot (1949, pp. 98-99), Elders (1966, pp. 238-239).

5 Il senso di ñp¤r, che qui significa «sopra» e non «intorno a» (complemento di argomento. Così, per esempio, Giannantoni 1973, p. 171), è stato ben colto da Ross, il quale traduce «above reason and being» (Ross 1958, p. 58). Quanto alla virgola che separa la dichiarativa dalla principale, propenderei per collocarla dopo oés›an.

FRAMMENTI

1 (R2 46, R3 49, W 1) SIMPL., In Arist. De caelo, p. 485, 19-22: che infatti pensi qualcosa anche sopra l’intelletto e la sostanza, Aristotele5 manifesta con le parole finali del libro Sulla preghiera, dicendo chiaramente che il Dio o è intelletto, o è qualcosa al di là dell’intelletto.

SULLA NOBILTÀ PERI EUGENEIAS

INTRODUZIONE

1. Lo scritto Sulla nobiltà è indicato nel catalogo di Diogene Laerzio al n. 15 e in quello dell’Anonimo al n. 11. L’appendice di questo secondo lo riporta anche al n. 183. Inoltre, lo indica anche il catalogo di Tolomeo al n. 5. Tutto questo comprova ampiamente la composizione da parte di Aristotele di un’opera sulla nobiltà, un argomento che, peraltro, non poteva non riscuotere l’interesse dello Stagirita, sia per la notevole rilevanza del tema nella cultura greca e, in particolare, nella letteratura filosofica, come attestano gli interventi a riguardo di Democrito (D.K. 68 B 57), di Gorgia (D.K. 82 B 11), di Crizia (D.K. 88 B 15) e dello stesso Platone, in più occasioni (Menesseno, 237 b ss.; Carmide, 155 a; 157 e; Alcibiade I, 120 a ss.), sia per la sua importanza nella riflessione politica, dove l’argomento della nobiltà si connette in modo saldissimo a quello delle forme di governo ed entra così in modo preponderante nelle relative analisi. Una semplice scorsa dell’indice del Bonitz o di quello – informatico – di Radice e il riscontro delle volte in cui il termine eég¤neia compare nella Politica è sufficiente a comprovare l’assunto. 2. Nel nostro dialogo, dai frammenti che Ross ha raccolto sotto i nn. 1, 2 e 4 è possibile trarre notizia delle posizioni che tenevano il campo quando Aristotele si accinse a trattare del problema. Esse hanno un’origine antica, com’è chiaro dai propugnatori ai quali Aristotele espressamente

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ARISTOTELE

le ascrive e sotto il cui nome ne fa menzione. Ma costoro ne erano soltanto i propugnatori più rappresentativi. Di fatto tali concezioni si estendono ben al di là di essi, sia cronologicamente che per ciò che attiene alla vastità dei consensi, e non c’è dubbio che vigevano anche al tempo di Aristotele, il quale, nel dialogo Sulla nobiltà, sembra averle classificate secondo uno schema di cui egli medesimo è l’autore, ma i cui contenuti dottrinali deriva da posizioni effettivamente in gioco nel dibattito politico e culturale. È difficile dire se esse trovassero sostenitori anche all’interno dell’Accademia, di modo che l’intervento dello Stagirita si configurerebbe, in tal caso, come definizione della propria posizione in una delle questioni dibattute nella scuola, alla stregua di altre di pari e ancor maggiore rilevanza, quali, innanzitutto, l’esistenza e la struttura delle Idee, e la qualificazione etica del piacere, o se con il suo scritto lo Stagirita si sia impegnato nei confronti di un problema di diffusa rilevanza, ma non strettamente attinente all’Accademia. Forse, è ipotizzabile che vigano entrambe le situazioni, e lo fa credere, da un lato, la parte ricoperta dalla nobiltà nel contesto politico e culturale di Atene dopo le guerre del Peloponneso, cosicché il sussistere di una riflessione in merito a essa difficilmente può essere messa in discussione; né, dall’altro, sembra credibile che un tema di tale ampiezza abbia trovato indifferenti e disinteressati i membri dell’Accademia, soprattutto se si pone mente all’incidenza che esso ha nella riflessione politica di Platone. Le posizioni in campo, secondo lo schema che Aristotele sembra aver adottato nel nostro scritto, vedevano, da un lato, 1) i detrattori della nobiltà, il cui pensiero è emblematicamente espresso dalla tesi del sofista Licofrone secondo la quale la nobiltà è «qualcosa di completamente vuoto (kenfin ti p¿mpan)» (fr. 1), ossia una mera questione di nome, ma priva di

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2)

2/a)

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qualsivoglia contenuto che, sul piano della gestione politica dello stato, possa far attribuire ai nobili un ruolo differente e, in termini e sotto il profilo teorico, che conferisca alla nozione una sua specificità connotativa. Insomma, la nobiltà è nulla, sia sul piano della nozione che su quello del ruolo che le va riconosciuto in campo politico. Per converso, ecco i sostenitori del valore culturale e politico della nobiltà, la cui posizione nel fr. 1 Aristotele presenta come termine di una disgiunzione (pfiteron... õ) nella quale quella di Licofrone rappresenta l’opposto, ed esprime nella seguente tesi: « fa parte delle cose degne d’onore e pregevoli (tán tim›wn âst‰ ka‰ spouda›wn)». È la concezione degli aristocratici. In relazione a essa, nel dibattito culturale si affacciavano due concezioni che possono considerarsi (e, comunque, così sembra considerarle lo Stagirita) una sorta di precisazione o, se si preferisce, anche di correzione, nel senso che, nella sostanza, non smentiscono la tesi in oggetto né contraddicono la relativa definizione di nobiltà, ma semplicemente ne precisano la prospettiva, e lo fanno a partire da differenti punti di vista, di modo che, per le concezioni che vede in campo, questa seconda posizione si presenta in modo assai articolato. Una prospettiva secondo cui la posizione (2) viene precisata concerne la qualificazione etica degli antenati: «sono nobili coloro che discendono da genitori dabbene (toÊ© âx àgaqán gon¤wn eégeneÖ©)» (fr. 2). Quale sostenitore di maggior spicco di questa tesi viene citato Socrate, sia per il matrimonio in seconde nozze, o forse in situazione di bigamia, accanto a Santippe, con Mirto, la figlia del valoroso e nobile Aristide che nei frammenti raccolti sotto il n. 3 viene espressamente richiamato,

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sia, a quanto sembra di poter ricavare, per la coloritura in senso fortemente etico e non certamente politico che il maestro ateniese dava a questa situazione. La quale, com’è facile vedere, non contrasta con la concezione indicata al punto 1, ma semplicemente la precisa, e per questo manifesta anch’essa di connotarsi in senso aristocratico. 2/b) La seconda prospettiva volta a precisare la posizione (2) fa leva sul rapporto tra nobiltà e ricchezza. Un rapporto che viene presentato da due differenti punti di vista: 2/b/1) uno, per il quale la ricchezza che entra strutturalmente nella definizione di nobiltà è quella dei progenitori, per cui, secondo un detto di Simonide, espressamente richiamato come rappresentante di questa concezione, sono nobili « coloro che discendono dai ricchi di antica data (toÊ© âk p¿lai plous›wn)» (fr. 2); 2/b/2) l’altro, rispondente a una concezione comune, per il quale la nobiltà è sì onorata, ma le si preferisce la ricchezza attuale. Così, secondo i versi fortemente icastici di Euripide (fr. 395 Nauck), che, assieme a Teognide, viene citato come colui che in modo più rappresentativo ha dato espressione a questo modo di pensare, «i mortali rendono omaggio alla nobiltà, ma maggiormente si uniscono in matrimonio con i ricchi». 3. Di fronte a queste posizioni, che nei relativi livelli si presentano come alternative, Aristotele avanza la sua soluzione. Essa si esplica nella tesi secondo cui la nobiltà consiste nella virtù di una stirpe (àret„ g¤nou©) (fr. 2), 1 intendendosi con ciò la capacità del capostipite di gene1 Il relativo ragionamento è analiticamente esposto ed esaminato nella nota 14 di p. 374 e alla nota 21 di pp. 379 s. del testo.

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rare discendenti dotati delle sue stesse qualità e in grado a loro volta di trasferirle alla prole. Insomma, la virtù di una stirpe, in cui consiste propriamente la nobiltà, si verifica quando in essa sia presente «un soggetto, unico, di tal fatta che molte generazioni possiedono il bene che deriva da lui» (fr. 4).2 Una tesi che, scartata la posizione 2 A questo punto si potrebbe legittimamente chiedere perché una stirpe decade, ossia quali sono le cause per le quali la capacità del progenitore di trasmettere ai discendenti il suo valore a un certo punto della discendenza viene meno, o può venire meno. Una risposta esatta e pertinente, sì, ma di ordine generale può trovarsi nel fatto che la natura è responsabile di dimenticanze e di trascuratezze (e ad esse deve sopperire la t¤cnh, l’arte). Di questi difetti della natura parla espressamente il fr. 11 Ross del Protrettico, e l’idea ritorna in più luoghi, tra i quali vanno ricordati, in particolare, De gen. anim., IV, 3, 767 b 5 ss., Ivi, IV 4, 770 b 3 ss., e Rhet., II, 15, 1390 b 24 ss. In quest’ultimo passo la spiegazione segue direttamente la definizione di nobiltà come «virtù di una stirpe» (1390 b 21-22), la stessa che è data nel nostro frammento (in proposito cfr. infra, p. 379), così da rivestire un interesse del tutto singolare. Aristotele presenta i nobili come soggetti senza merito (1390 b 24: eételeÖ©), e subito precisa: «infatti, nelle stirpi degli uomini si ha un certo raccolto, come nelle cose che nascono di regione in regione, e se talora la stirpe sia buona, per qualche tempo si ingenerano uomini eccezionali, e poi nuovamente regredisce» (1390 b 24-27). Dunque, la regressione dei caratteri di pregio nei soggetti di una stirpe è pari a quella dei raccolti nelle singole regioni: sembra di dover concludere che, come questi ora sono di pregio, ora scadenti a seconda di fattori climatici, così avviene anche per i caratteri delle stirpi. Essi sono condizionati da fattori esterni. Il passo sopra citato di De generatione animalium sembra confermare l’istanza, facendo risiedere nelle condizioni in cui avviene l’accoppiamento la causa che produce l’alterazione dei caratteri di una razza, in particolare quella cui è dovuta la dissomiglianza dei generati dai genitori. Cromey 1979, esaminando il giudizio dato da Aristotele nella Retorica sulla stirpe di Diogene, ha individuato nell’eccesso di calore nell’atto procreativo, dovuto a un uso smodato di vino, la ragione della follia dei suoi discendenti. Il vino, pertanto, specifica, oltre i difetti della natura, una causa determinata di decadimento delle stirpi. Il che trova conferma nel prosieguo del passo di Rhet., II, 15 che abbiamo sopra esaminato. Nel chiudere la sua disamina lo Stagirita dice infatti: «Le stirpi di buona natura (eéfuÄ) degenerano verso caratteri alquanto esaltati (manikÒtera), come i discendenti di Alcibiade e di Dionisio il Vecchio, invece quelle posate (st¿sima) verso la rozzezza e l’indolenza (eå© àbelter›an ka‰ nwqrfithta), come i discendenti di Cimone, di Pericle e di Socrate» (1390 b 27-31).

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(1), la quale non si confà certo alla concezione aristotelica, recupera e valorizza in una sintesi organica tutti gli aspetti positivi della nozione aristocratica di nobiltà, ma al tempo stesso ne supera gli aspetti impropri e settoriali, esattamente quegli aspetti ai quali soprattutto è dovuta, a ben vedere, la loro opposizione. In quest’operazione si può facilmente individuare l’uso di un procedimento di natura dialettica: al fine di comprovare una tesi concernente un certo argomento si prenda in considerazione ciò che in proposito è stato affermato e, lasciati cadere gli aspetti inaccettabili di tali opinioni, si mantengano invece gli altri. Si tratta di un procedimento parallelo a quello che in Eth. nic.,VII, 1, 1145 b 3 ss., preliminarmente alla disamina sull’incontinenza e sull’intemperanza, lo Stagirita specifica rilevando che si devono prendere in considerazione le opinioni notevoli (öndoxa) espresse in proposito, tutte o le più importanti, indi le obiezioni che vi si possono opporre, di modo che, se si superano queste seconde e si lasciano in piedi le prime, si sarà data una sufficiente dimostrazione (dedegm¤non Èn eúh îkaná©). Ebbene, la soluzione proposta avvalora, innanzitutto, la posizione (2), facendo propria l’idea che «la nobiltà fa parte delle cose degne d’onore e pregevoli», implicita in quella che essa esprime la virtù di una stirpe, ma in più ne precisa la ragione, nella misura in cui non soltanto enuncia, ma inferisce questa seconda. Parimenti, avvalora la posizione (2/a), per il riferimento sia agli antenati, sia alla loro condizione di persone dabbene, ma parimenti ne corregge la prospettiva, rilevando che non basta lo stato di eticità del capostipite o di un progenitore perché la stirpe sia nobile, ma occorre che il pregio di chi vi ha dato inizio sia trasmesso ai discendenti e quegli sia capace di trasmetterlo a questi, tale essendo esattamente la virtù, ossia l’eccellenza della stirpe stessa. In pari misura, a ben vedere, accoglie anche gli aspetti po-

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sitivi della posizione (2/b) in quanto, come ha opportunamente fatto notare Laurenti (1987, II, p. 777 e p. 780), il contenuto di eticità che si tramanda nella discendenza e che costituisce la struttura portante della nobiltà, ha bisogno, per attuarsi in concreti atti virtuosi, di ricchezze. «Le ricchezze – ha scritto e ha sottolineato lo studioso – non costituiscono la nobiltà, ma solo la condizione perché il nobile sia tale effettivamente, adempia cioè ai doveri che gli competono» (Ivi, p. 777); ed ancora: Aristotele «non accetta la visione di Simonide, che fa scaturire la nobiltà dalla ricchezza», ma ciò non toglie che «la nobiltà ha bisogno delle ricchezze come condizione indispensabile» (Ivi, p. 780). Con ciò è chiaro che la soluzione aristotelica accoglie non soltanto la posizione (2/b/1), quella di Simonide, la quale offre l’importante spunto del riferimento agli avi e della rilevanza che ai fini della nobiltà riveste la ricchezza fin già in essi, ma accoglie anche lo spunto della tesi (2/b/2) per ciò che essa pone sul tappeto: la rilevanza che il nobile sia attualmente ricco onde possa compiere azioni conformi alla sua condizione; ma, al contempo, supera le dimensioni escludenti dell’una e dell’altra tesi, facendo vedere che la nobiltà non consiste né nella discendenza da un antenato ricco né nella ricchezza presente del nobile. Un tale gioco di assestamento dialettico del peso attribuito ai fattori primari presenti negli öndoxa sulla nobiltà, ossia alla ricchezza e alla discendenza da antenati dabbene, nella relativa definizione fa capire perché negli scritti aristotelici successivi, impegnati intorno al medesimo tema si riscontrino talune variazioni nella definizione di questa nozione. Tali variazioni, a ben vedere, lungi dal rappresentare i termini di un processo evolutivo nel pensiero dello Stagirita, come pur si è creduto di scorgere, soprattutto in riferimento alla Politica,3 costi3

In quest’opera taluni studiosi scorgono, infatti, un blocco, costi-

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tuiscono invece differenti modi di prospettare una medesima nozione a seconda del peso che in un dato contesto Aristotele ha inteso conferire a una sua componente. Questo riscontro permette altresì di accertare la sostanziale continuità delle successive riflessioni di Aristotele sulla nobiltà con la concezione espressa nello scritto in oggetto. Si può così verificare, da un lato, la perfetta corrispondenza della definizione del nostro dialogo sia con quella di Rhet., II, 15, 1390 b 21 s., dove, trattando della distinzione tra «nobile (eégen‹©)» e «di pregio (g¤nnaio©)», Aristotele precisa che il primo termine esprime «conformità alla virtù di una stirpe (kat· t„n g¤nou© àret‹n)» (ma già nelle righe precedenti, ed esattamente in 1390 b 18-19 aveva definito la nobiltà un «essere nell’onore degli antenati [ântimfith© progfinwn]»), sia con quella di Pol., III, 13, 1283 a 36-37, dove identicamente ricompare che «la nobiltà è virtù di una stirpe (eég¤neia g¿r âsti àret„ g¤nou©)», motivata (g¿r) sulla base di un ragionamento che ripropone quello del fr. 2. Nella Politica, infatti, lo Stagirita giustifica quella definizione sulla base del fatto che «gli individui migliori è logico che siano quelli che derivano dai soggetti migliori tuito dai libri II, III, VII e VIII, di datazione anteriore ai libri IV, V e VI, che, rispetto a questi secondi, esprimerebbe, circa gli argomenti trattati, una concezione dello Stagirita meno completa e perfezionata. Tale, paradigmaticamente, il caso della nobiltà. Così Weil 1960, pp. 148-149, dopo aver rilevato che «la définition de la noblesse comme “une vertu de la race” trouve un écho au troisième libre de la Politique, où Aristote la reproduit textuellement», così scrive: «il indique aussi, aux libres IV et V, que la noblesse est un mélange de richesse et de vertu héréditaires, et ainsi, en introduisant dans sa définition cet élément supplémentaire, qu’est la richesse, il se rapproche davantage de l’opinion commine sur la noblesse». Indi conclude: «le troisième livre apparaît donc, comme le veut Jaeger, beaucoup plus voisin de l’époque des dialogues». Ebbene, proprio il caso della nobiltà, se letto nella prospettiva che qui stiamo delineando, sembra mostrare l’infondatezza di una tale ipotesi genetica, qualunque sia – ben inteso – la datazione dei libri della Politica, che non è affatto questione.

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(belt›ou© eåk© toÊ© âk beltifinwn)»; nel fr. 2 del Sulla nobiltà la inferisce dalla nozione di «bene (t eÛ)»: ogni cosa è buona se è conforme alla sua virtù, e così sarà anche per una stirpe, per cui la nobiltà (eég¤neia), in quanto «buona» (eÛ) «stirpe» (g¤no©), è virtù di quella stirpe. Parimenti, in Pol., III, 13 è posta in luce la presenza tematica di quell’aspetto della discendenza che, si diceva, nella corrispondente definizione di nobiltà del fr. 2 viene al tempo stesso avvalorato e rettificato. Per altro verso, si può verificare come le definizioni di nobiltà formulate in Pol., IV, 8, 1284 a 21-22 (essa è «antica ricchezza e virtù [àrcaÖo© plo‡to© ka‰ àret‹]») e in Pol., V, 1, 1301 b 3-4 («sono nobili... coloro ai quali appartengono la virtù dei progenitori e la ricchezza [eégeneÖ©... o¯© ñp¿rcei progfinwn àret‹ ka‰ ploÜto©]») si calibrino da angolature prospettiche nelle quali l’elemento essenziale della virtù, chiaramente presente ed enunciato, ha spicco nel rapporto con quegli aspetti del riferimento agli antenati e alla ricchezza che, abbiamo visto, sono complementari alla nozione di nobiltà come eccellenza della stirpe. Per cui, ancora con Laurenti (1987, II, p. 779) si deve riconoscere che «tale ricorrere a formule diverse significa solo che Aristotele [...] affrontò lo stesso concetto da diversi punti di vista e che ciò che implicitamente era racchiuso nelle prime definizioni egli» ha richiamato «nelle successive». 4. La discendenza da natali illustri in ordine alla complessiva delineazione del concetto di nobiltà giustifica la presenza dei frammenti raccolti sotto il n. 3, nei quali Diogene Laerzio, Plutarco e Ateneo, questi due ultimi facendo espresso riferimento non soltanto ad Aristotele, ma anche ad altri personaggi del Peripato come fonti della notizia, fanno menzione delle nozze di Socrate, oltre che con Santippe, anche con Mirto, la figlia del valoroso e nobile Aristide. Il confronto dei tre racconti e un

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accurato vaglio storico della notizia, posta innanzitutto in relazione a quella che proviene dal Fedone, anche se non esclusivamente con questa, mettono in luce incongruenze e discrepanze tali da far ragionevolmente propendere per la falsità della stessa. Anche a prescindere dallo sfasamento di data che rende non credibile il coniugio del maestro ateniese con Mirto,4 resta in ogni caso non chiaro, stando ai tre racconti, se l’unione di Socrate con costei definisca una condizione di concubinato (come parrebbe suggerire l’uso nel fr. 3/b del verbo sunoikÉsai, che propriamente significa «coabitare») o di doppio e contemporaneo coniugio, come espressamente si dice nel prosieguo dei passi di Diogene Laerzio e di Ateneo (si vedano le note 22 e 25), oppure se, come attesta Panezio, nel seguito del fr. 3/b e 3/c, questa circostanza è priva di fondamento, ma Socrate accedette a seconde nozze in stato di vedovanza e, in questo secondo caso, se le nozze con Mirto precedano quelle con Santippe o siano successive a esse.5 Di fronte a siffatte evidenti discrepanze, sembra adeguato ciò che Laurenti afferma al termine della sua lunga e dettagliata analisi, e cioè che «il senso della notizia» si coglie richiamando4 In proposito cfr. Laurenti 1987, II, pp. 781 ss. Per parte mia, mi limito a rinviare a questa eccellente disamina critica delle fonti, senza intervenire a mia volta, giacché l’argomento delle nozze di Socrate e Mirto non interessa di per se stesso, ma unicamente nella prospettiva della nozione di nobiltà che è data. 5 In merito a tale questione così scrive Zeller (1921, II, 1, p. 56): «die angebliche Bigamie des Sokrates ist daher für eine jeder tatsächlichen Grundlage entbehrende Erfindung zu halten, welche in dieser Gestalt aller Wahrscheinlichkeit nach von Aristoxenos herrührt». Identica nella sostanza la posizione di Humbert (1967, p. 41), di Deman (1942, pp. 39-40), di Giannantoni (1958, p. 69). Dal canto suo Taylor (1911, p. 62), pur manifestando dubbi circa l’autenticità del Sulla nobiltà, ritiene tuttavia che «Socrates may well have in some way charged himself with the protection of a daughter of Lysimachus [...] and it was probably the mischievous genius of Aristoxenus which turned the incident, whatever it was, into a case of bigamy».

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ci «a quanto dice il fr. 2, che cioè, secondo Socrate, la virtù del padre rende nobile il figlio e, dunque, nel nostro caso, la virtù di Aristide rendeva nobile Mirto».6 Si tratta, insomma, come si accennava all’inizio, del ribadimento di una tesi che non esprime l’essenza della nobiltà, ma concorre a porne in risalto una delle componenti.

6 Laurenti 1987, II, p. 794. Nella stessa pagina lo studioso, dopo aver posto in chiaro come Diogene, Plutarco e Ateneo «risalgano tutti e tre ad Aristotele», si sofferma sul fatto per Ateneo lo Stagirita dette soltanto l’ispirazione, lo spunto (ândfisimon... ödwken) agli altri, e da qui deduce che «quindi, logicamente si dovrebbe supporre che Aristotele non avesse parlato tout court dei matrimoni di Socrate; aveva detto solo qualcosa da cui, per illazione, s’era costituita la notizia di quei matrimoni». Nelle pagine precedenti (789 ss.) chiarisce, infatti, come le vite di Socrate nella cerchia peripatetica fossero ricche di pettegolezzi, tra i quali va annoverata anche la notizia delle doppie nozze. Quanto infine al decreto che le avrebbe imposte, Laurenti vi legge «un mezzo per [...] strappare Socrate all’invidia che da tale circostanza (ossia, il doppio matrimonio) gli veniva», insomma un banale «ripiego» (Ivi, p. 793).

7 Difficile dire chi siano gli interlocutori del dialogo aristotelico nei passi del Florilegio di Stobeo (fr. 1 e 2). L’identificazione di uno – quello che in questo frammento è fatto intervenire per secondo –, ancorché non superi il livello della mera ipotesi, è tuttavia più agevole. Atteso che carattere generale dei dialoghi aristotelici è il ruolo di guida del dialogo stesso da parte dello Stagirita e che il personaggio che qui svolge questa parte è il secondo, parrebbe logico riconoscere in esso, per l’appunto, Aristotele. Quanto all’altro interlocutore, è possibile che si tratti di Filone, il discepolo di Aristotele e di Teofrasto, che lo ricorda nel suo testamento (cfr. Diogene Laerzio, V, 57 e K. Von Fritz, in PW., XIX, 2532-2539), noto altresì per aver fatto riammettere i Peripatetici in Atene dopo che nel 307 essi furono espulsi in seguito a una legge fatta votare da Sofocle, figlio di Amficlide. Filone accusò e fece condannare Sofocle, rimettendo così in gioco la legittimità della presenza in città dei filosofi del Peripato, che di fatto furono riammessi. Ora, la possibilità di individuare in costui l’altro interlocutore del dialogo, come opportunamente segnala Laurenti (1987, II, pp. 751 ss.), si attesta sulle seguenti circostanze: lo Ps.-Plutarco, che in Pro nobilitate, cap. 18, riporta i fr. 1 e 2 del nostro dialogo, introduce il primo frammento con queste parole, con le quali cita espressamente Filone (e, si noti, richiama espressamente Licofrone): «Philo autem nobilitati non tam iniquus fuit quam putas, neque vero probavit Lycophronis sententiam tametsi retulerit»». Ebbene, Aristotele ebbe a che fare con due soggetti di nome Filone: uno, il suo schiavo che per testamento lasciò

FRAMMENTI

1 (R2 82, R3 91) STOB., IV, 29 A 24: dal libro di Aristotele Sulla nobiltà. «Complessivamente, riguardo alla nobiltà, sollevo il problema di quali persone si devono chiamare .»7 «In realtà, disse, è logico che tu8 sollevi questo problema, giacché sia presso i più, ma, in misura ancor maggiore, presso i sapienti9 alcuni sono ogget-

in eredità alla figlia, indicandole di affrancarlo assieme agli altri schiavi a lei stessa lasciati, ossia Ticone e Olimpio. Ma sembra assai strano che sia questi a intervenire nel dialogo, anche se già Platone, nel Menone, aveva presentato come personaggio proprio uno schiavo. Più consono credere che il personaggio sia invece l’altro Filone che Aristotele ricorda, ossia il discepolo di cui s’è detto. Testimonia a favore di questa ipotesi, oltre la maggior rispondenza del soggetto alla circostanza, il fatto che il nome di Filone ricorre anche un’altra volta nelle opere di Aristotele, ed esattamente in De int., 16 a 33 ss., come esempio atto a illustrare che le flessioni di un nome (quali, per l’appunto, «a Filone», «di Filone») non sono nomi. Da questa circostanza Laurenti (Ivi) giunge addirittura a ipotizzare che il Sulla nobiltà sia stato composto nello stesso periodo del De interpretatione, ossia tra il 360 e il 355 a.C. Per quanto attiene più direttamente a questo primo frammento, va osservato come l’avverbio «complessivamente (¬lw©)», con cui si apre, lasci intendere che si stia facendo il punto di una situazione concernente il confronto di differenti posizioni in merito alla nobiltà. 8 Con Ross, che sul punto segue Wyttenbach, leggo s‡ in luogo di eû, che è la lezione dei manoscritti («se ben sollevi il problema»). Ne guadagna – mi sembra – la struttura della frase, in cui, così corretta, si accentua la contrapposizione âgÒ-s‡. 9 È da rilevare come l’esplicito richiamo ai più (oî pollo‰) e ai sa-

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pienti (oî sofo›) specifichi due circostanze rilevanti in ordine alla definizione di un’opinione notevole (öndoxon. Cfr. Top., I, 1, 100 b b 2123: sono opinioni notevoli «quelle che sembrano a tutti o alla massima parte o ai sapienti e, se a questi, o a tutti o alla stragrande maggioranza o a quelli massimamente noti ed illustri»). In effetti, il tema della nobiltà doveva essere tema di riflessione e oggetto di dibattito sia presso la massa che presso persone di cultura, sì da giustificare la formazione a suo riguardo di opinioni notevoli. 10 Discepolo di Gorgia, estese a oltranza – a quanto sembra – l’impossibilità di formulare giudizi teorizzata da costui con le ben note seconda e terza negazione (l’essere, se anche esistesse, non sarebbe pensabile; se anche fosse pensabile non sarebbe dicibile) fino a dichiarare aporetica la predicazione in quanto, distinguendo soggetto e predicato, onde poter attribuire questo a quello, o non attribuirlo, frantumerebbe l’unità nella molteplicità. Da qui, sul piano della riflessione politica, la fallacia di ogni distinzione tra nobili e non nobili. In proposito si veda Untersteiner 1949-1962, II, p. 213. 11 Ecco qui la contrapposizione delle due concezioni di base della nobiltà: (1) da un lato, quella che la considera una semplice questione di nome, attribuita paradigmaticamente al sofista Licofrone, (2) dall’altro, la concezione secondo cui la nobiltà fa parte delle cose degne d’onore e pregevoli. Si tratta di una concezione dal carattere chiaramente aristocratico, di cui Aristotele presenta, nel fr. 2, due differenti posizioni, (2/a) una, tra i cui propugnatori richiama Socrate, facente riferimento alla qualificazione morale degli antenati, (2/b) l’altra alla ricchezza e, all’interno di questa seconda, (2/b/1) una concezione che chiama in campo la ricchezza dei progenitori (tra i suoi sostenitori Aristotele ricorda Simonide); (2/b/2) un’altra che considera, sì, la nobiltà cosa da onorarsi e di pregio, ma alla quale si preferisce la ricchezza attuale. È questa una concezione, presentata da Aristotele, mercé

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to di discussione, altri non sono esposti in modo chiaro, come precisamente quelli concernenti la valenza . Intendo dire questo: se faccia parte delle cose degne d’onore e pregevoli o, come scrisse il sofista Licofrone,10 sia qualcosa di completamente vuoto.11 Egli infatti, comparandola con gli altri beni, sostiene che la bellezza della nobiltà non è manifesta e che la sua venerabilità risiede nella parola: sul presupposto che la scelta di essa ha a che fare con l’opinione,12 ma che, secondo verità, le persone non nobili non differiscono in nulla da quelle nobili». 2 (R2 83, R3 92) STOB., IV, 29 A 25: nel medesimo : «come si discute anche di quale individuo sia buona l’altezza, 13 un verso di Euripide e il richiamo del poeta Teognide, che rispecchia il punto di vista dei più. 12 La contrapposizione con il successivo «secondo verità (kat· dΔ àl‹qeian) mi induce, con Ross, Brunschwig e Laurenti, a intendere dfixa nel significato di opinione. Altri invece ritengono che il termine assuma qui il significato di «gloria» (così Untersteiner 1949-1962, II, p. 213: «egli [scil. Licofrone] considera che la propensione a essa mira alla gloria»; Hitz 1869, p. 154: «ita ut ad famam appelletur»). Assai distante dal testo la versione di Gohlke (1960, p. 101): «er meint damit, sie sei ein eingebildeter Wert ecc.». 13 Seguo qui l’interpretazione di Ross (1958, p. 59: «just as is disputed what size is good»), Brunschwig (in Schuhl 1968, p. 104: «de même que l’on dispute sur le point de savoir quelle taille il est bon d’avoir ecc.») e Giannantoni (1973, p. 173: «come si discute intorno alla questione di quale sia l’altezza che è bene avere»). Diversamente ritiene invece Laurenti (1987, II, p. 743 e pp. 735 s.), il quale, supponendo che soggetto sottinteso di toÜ... âsti sia «la nobiltà», traduce, in verità in modo alquanto libero, «come si discute sulla consistenza della nobiltà» (letteralmente: «di chi è un bene così grande». Peraltro lo studioso indica la consonanza della sua versione con quella di Gohlke 1960, p. 103: «wie die Grösse dieses Gutes stringt ist, so ecc.»). Ma dal punto di vista grammaticale si tratta di una forzatura (anche se da un punto di vista concettuale l’esegesi s’adegua al pensiero di Aristotele), che può essere tranquillamente evitata senza minimamente intaccare il contenuto dottrinale dell’espressione.

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14 Ecco la prima articolazione della concezione aristocratica della nobiltà presentata nel fr. 1 (quella che nell’Introduzione e alla nota 11, abbiamo indicato come 2/a): la nobiltà dipende dalla nascita e sono nobili coloro che provengono da genitori dabbene. Essa fa da pendant all’affermazione di Pol., I, 6, 1255 b 1-2 secondo cui «ritengono che, come da uomo nasce uomo e da bestia nasce bestia, così pure da persone dabbene nasce una persona dabbene». È una posizione dal sapore aristocratico, fortemente criticata da Esiodo (cfr. Adkins 1964, pp. 123-126), e che in Socrate, secondo l’attribuzione qui effettuata, è logico credere che avesse valore in rapporto a Mirto, la figlia del valoroso e nobile Aristide che, come si dice nei frammenti raccolti al n. 3, Socrate stesso prese in moglie in seconde nozze, o tenne con sé accanto a Santippe. E, al tempo stesso, è una posizione che in Socrate è altrettanto logico credere che perdesse ogni coloritura politica per calibrarsi invece su di un piano squisitamente etico; non soltanto, ma che, su questo, tendesse a rimarcare, con lo stesso riferimento al provenire da genitori moralmente dabbene, non il possesso dell’eticità da parte del soggetto che vi discende, sibbene una predisposizione a essa. In questa valenza l’attribuzione a lui di questa prima tesi si può ritenere attendibile e, a ben vedere, per nulla affatto in contrasto con la testimonianza di Senofonte (Mem., IV, 1, 2 ss.) dalla quale si evince la forte attenzione di Socrate per l’impegno personale del soggetto umano. «Non giudichiamo buono – riferisce il discepolo in merito al pensiero del maestro – il frumento che proviene da un terreno ottimo, ma quello adatto a nutrirci, né giudichiamo uomo eccellente o amico benigno colui che viene da una stirpe illustre, bensì colui che è superiore per carattere». Né sembra esservi contrasto col fatto che, per Socrate, «uno solo è il bene, la scienza, e uno solo il male, l’ignoranza, mentre ricchezza e nobiltà (ploÜton ka‰ eég¤neian) non conferiscono dignità, ma piuttosto arrecano male». Qui infatti, a quanto sembra, Socrate non si riferisce alla ricchezza e alla nobiltà come tali, ma, al fine di mettere in luce l’idea del male che può derivare da esse, tale essendo la valenza di «arrecano», come possibili fonti di atteggiamenti eticamente inadeguati. Del resto, che la relazione parentale non fosse di per sé sufficiente, per Socrate, a definire una condizione morale del soggetto, ma ciò nondimeno rivestisse un qualche significato e una qualche importanza in ordine alla sua propensione verso i valori, è chiaro dalle parole che gli attribuisce Diogene Laerzio (II,

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così pure quali persone si devono chiamare nobili. Alcuni, infatti, ritengono che sono nobili coloro che discendono da genitori dabbene, come anche Socrate: giacché per il valore di Aristide anche sua figlia era nobile.14 Ma dicono che Simonide, interrogato su quali soggetti sono nobili, abbia affermato che lo sono coloro che discendono dai ricchi di antica data.15

31): «avendo a lui (scil., a Socrate) detto un tale che Antistene era di madre tracia, replicò: “pensavi che un uomo così nobile potesse essere generato da due genitori ateniesi?”». Va infine richiamata la seguente testimonianza di Stobeo (Flor., 86, 20): «interrogato su che cosa fosse la nobiltà (eég¤neia), rispose: “buon contemperarsi di anima e corpo (eékras›a yucÉ© ka‰ sÒmato©)”». Qui, come si vede, non soltanto si rimarca la valenza etica del concetto di nobiltà, ma sembra prendere concreta determinazione quell’idea di propensione a uno stato etico derivante dalla nascita al quale la nozione di nobiltà è parsa far riferimento. La nobiltà, infatti, in quanto da un lato specifica una dimensione di rilevanza etica e, dall’altro, chiama in causa non soltanto l’anima, bensì anche il corpo: più esattamente, il contemperarsi dei due nel senso di una collaborazione per un fine comune, nel quale essa propriamente consiste, è condizione ben atta a mettere in chiaro l’importanza del momento fisico in ordine all’acquisizione stessa della moralità, e su questa linea la discendenza come fatto generazionale assume rilievo. Al fondo di una tale osservazione gioca il fatto che, per Socrate, la moralità non è dimensione metafisica, come sarà per Platone, non attiene cioè all’anima per se stessa considerata e astrattamente assunta dal corpo, ma attiene all’anima nei suoi rapporti con il corpo. Ond’è che anche la nobiltà, nella misura in cui realizza e specifica una dimensione della moralità, giacché in questa valenza si calibra, né si affida interamente alla discendenza, né può prescindere da questa. Dalla discendenza, in particolare, in quanto dimensione legata al sangue e dunque, in ultima analisi, alla fisicità, trae un’inclinazione ereditaria che ha rilevanza per l’acquisizione di uno stato. La nobiltà si attua in tale stato, epperciò né prescinde dalla discendenza, né si specifica interamente in rapporto a questa. 15 Ecco la prima tesi della seconda articolazione della concezione aristocratica della nobiltà espressa nel fr. 1, quella tesi che nell’Introduzione e nella nota 11 abbiamo indicato come 2/b/1: la nobiltà si connette alla ricchezza atavica della famiglia e per questo non consiste nella discendenza da soggetti che si sono arricchiti di recente, ma da antenati ricchi d’antica data. Essa comporta, cioè, una ricchezza che la

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stirpe ha avuto fin dall’inizio, non che abbia acquisito di recente. Com’è facile cogliere, è una posizione che rispecchia una mentalità decisamente aristocratica, a proposito della quale due aspetti devono essere sottolineati. Innanzitutto la connessione di nobiltà e ricchezza quale fattore di prestigio sociale, di supremazia e di onore, giustificata sul presupposto che la nobiltà è segno ed espressione di valore (àret‹) e questo risiede essenzialmente nei suddetti fattori. È la concezione propria della vecchia classe nobiliare, basata sulla proprietà terriera, agli occhi della quale – ecco il secondo aspetto meritevole d’attenzione – la fortuna economica dei nuovi ricchi, dovuta essenzialmente ai commerci e all’introduzione della moneta, rappresenta un vero e proprio sconvolgimento in quanto eleva a una dignità nobiliare dei plebei, scardina l’ordine dei valori e pone al primo posto proprio quell’attitudine alla mobilità e agli spostamenti, necessaria per commerciare, che è l’esatto contrario dell’attaccamento alla terra (in proposito si vedano, tra gli altri, Jaeger 1970, I, pp. 366 ss.; Finley 1970, pp. 134 ss.). Questa seconda posizione è messa in bocca a Simonide di Ceo non certo perché egli la condividesse, ma perché nella sua lunga vita (556-468 a.C.) e nel suo continuo passare da una corte all’altra era certamente venuto a conoscenza di essa, ed è logico credere che l’abbia riferita. Lo stesso Aristotele in Rhet., II, 16, 1391 a 8 ss. riferisce l’aneddoto secondo il quale Simonide, interrogato dalla moglie di Gerione se fosse meglio essere sapienti o ricchi, rispose che era meglio essere ricchi, in quanto vedeva «i sapienti passare il tempo sulle porte dei ricchi». 16 Cioè Euripide 17 Fr. 395 Nauck. I versi (due trimetri giambici) sono tratti dal Tieste. Aristotele, che li cita a memoria, omette il g¿r che compare dopo t„n m¤n. In Stobeo, Flor., 92, 3 gli stessi versi sono preceduti da questo: «quando la ricchezza si dissipa, il matrimonio s’indebolisce». È qui presentata la seconda tesi del secondo modo di articolarsi della concezione aristocratica della nobiltà, quella tesi che nell’Introduzione e alla nota 11 abbiamo indicato con 2/b/2 e che è paradigmaticamente espressa dai versi di Euripide. Essi, infatti, pongono molto bene in chiaro, con il senso fortemente pregnante dell’immagine di coloro che, pur onorando la nobiltà, scelgono però il matrimonio con persone ricche, come i più non manchino certo di stimare la nobiltà, ma le preferiscano la ricchezza attuale. Si tratta di un’opinione comu-

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Eppure secondo questo ragionamento non correttamente esprimono il loro biasimo Teognide né il poeta16 che così ha composto: “i mortali rendono omaggio alla nobiltà, ma maggiormente si uniscono in matrimonio con i ricchi”.17 O forse, per Zeus, la persona che è essa stessa ricca non è preferibile a quella il cui bisnonno o qualcuno dei suoi antenati era ricco, ma essa è povera?». «E come no?», disse.18 «E allora bisognerà

nemente accettata e professata dalla massa. Rispetto a essa, Aristotele non esita a mostrare la superiorità della prima tesi, quella cioè (2/b/1) che lega la nobiltà alla ricchezza degli antenati. In quest’ordine di considerazioni, il senso complessivo della frase «eppure... i ricchi» pare essere il seguente: se si assume come criterio di giudizio la definizione di nobiltà riferita da Simonide (ecco la valenza di «secondo questo ragionamento»), né l’attacco di Teognide né quello di Euripide alla concezione di nobiltà che essa esprime colgono nel segno. Tali attacchi, infatti, prendono le mosse dalla disgiunzione di nobiltà e ricchezza e a partire da questo presupposto o pretendono di far valere (Teognide) che i soggetti di cui parla Simonide erano soltanto ricchi, ma non anche nobili, oppure (Euripide) finiscono per dire che la nobiltà è sì esaltata, ma desiderata è la ricchezza. Il loro vizio di fondo – e comune – è di muovere da una premessa che, disgiungendo nobiltà e ricchezza, non adegua la nozione di nobiltà contro cui si scagliano, così che i loro attacchi risultano inefficaci. Per criticare quella concezione di nobiltà sarebbe invece stato opportuno procedere dallo stesso presupposto su cui essa si costruisce. Differente invece, e per la verità più arzigogolato, il modo di intendere la critica da parte di Laurenti (1987, II, pp. 759 s.). Altri studiosi poi, tra i quali, a quanto pare, anche Ross, Brunschwig e Gohlke, non danno particolare risalto al problema, probabilmente perché interpretano kat· toÜton tÂn lfigon come semplice formula di passaggio e non come criterio in base al quale si costruisce la critica dei due poeti. 18 È la conclusione che si trae dalla critica di Euripide alla seconda concezione della nobiltà. Tale critica, come s’è visto (cfr. la nota precedente), muovendo da una premessa diversa da quella che sta alla base di detta concezione, ossia dalla scissione di nobiltà e ricchezza, giungeva a far valere che la nobiltà si esalta e si ammira, sì, ma poi si preferisce la ricchezza. Se le cose stanno così, è ovvio che si preferisca chi è egli stesso ricco a chi discende da un antenato ricco, ma egli stesso è povero. Nelle righe seguenti si prosegue lungo questa deduzione. E poiché nei versi di Euripide si faceva riferimento al matrimonio, il prosieguo della «deduzione» è che, dunque, bisognerà sposarsi con perso-

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ne ricche anziché con persone che discendono da antenati ricchi e che pertanto, secondo la definizione di Simonide, sono nobili, ma sprovviste di ricchezza. 19 Dopo aver criticato la seconda definizione di nobiltà, l’interlocutore principale del dialogo, ovvero, com’è logico che sia, Aristotele, procede a criticare la prima definizione, e lo fa sulla base del medesimo criterio su cui si costruiva la seconda, ma, ovviamente, mutando i termini. Tale criterio, come abbiamo visto, consisteva nella disgiunzione di nobiltà e ricchezza, giacché la relativa posizione faceva perno sulla coincidenza negli antenati di questi due fattori. Applicato alla prima definizione di nobiltà, la quale si basa sulla virtù degli antenati, il criterio consiste nel disgiungere, per poi opporre, tale virtù a quella del discendente, insomma la virtù passata a quella presente, così da far valere che la nobiltà ha a che fare con quest’ultima più che con la prima, giacché tutti sono d’accordo che vale di più l’eccellenza attuale di quella passata. Così, tutti preferirebbero contrarre matrimonio con un soggetto egli stesso virtuoso più che con un soggetto discendente da un antenato virtuoso, verificandosi pertanto la medesima situazione di quella che si opponeva alla definizione di nobiltà precedentemente esaminata. «Al di là di quel che possa essere la concezione che uno ha della nobiltà (nobile è chi discende da ricchi di antica data, ovvero chi discende da gentiluomini di antica data) – commenta opportunamente Laurenti 1987, II, p. 761 –, il fatto che

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unirsi in matrimonio con i ricchi più che con i nobili? Infatti, i di un tempo sono nobili, ma quelli attuali sono più potenti. Non similmente sarebbe, dunque, se anche si supponesse che i nobili non sono coloro che discendono da quelli che un tempo erano ricchi, ma coloro che discendono dalle persone dabbene di un tempo? Tutti, infatti, saranno dell’opinione che la virtù attuale è più potente di quella antica e che ciascuno partecipa maggiormente del padre che del bisnonno, e che è preferibile che egli sia un individuo dabbene e non il bisnonno o qualcuno degli altri progenitori.» «Parli in modo esatto,» disse. 19 «Pertanto, poiché vediamo che la nobiltà non consiste in nessuna di queste due cose,20 non è forse che si deve ricercare in altro modo quale unico soggetto possiede questa ?». «Bisogna ricercarlo,» disse. «“Bene” indica una delle cose che in un modo o nell’altro sono lodevoli e di pregio, come “buon viso” e “buon occhio”. Ché, secondo questo ragionamento significa alcunché di buono o di bello.» «Certamente,» disse. «Dunque, non è “di buon viso” ciò che possiede la virtù del viso, e “di buon occhio” ciò che possiede la virtù dell’occhio?» «È così,» disse. «Ma, quanto alla stirpe, una è di pregio e un’altra è di bassa levatura ma non di pregio?» «Certamente,» disse. «E diciamo che ogni cosa è di pregio secondo la sua virtù, per cui anche una stirpe è di pregio in questo modo.» «È così,» disse. «Pertanto è chiaro – disse – che la nobiltà è la virtù di una stirpe.»21

quelli di adesso contano di più induce a imparentarsi con costoro. Insomma continua l’evidenziazione del soggetto che vive nel nunc e porta con sé i suoi pregi e i suoi difetti; in rapporto a lui va visto ogni valore, anche quello della nobiltà.» 20 Ossia, né nella prima, né nella seconda definizione. 21 Il ragionamento che porta alla soluzione è il seguente: in «no-

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biltà», eég¤neia, che è nome composto e significa «buona» (eÛ) «stirpe» (g¤no©), «buono», «bene» indicano, come in tutti i casi in cui concorrono a determinare il nome della cosa, che questa è lodevole e di pregio. Così «buon viso», «buon occhio» indicano un viso e un occhio di pregio e, come tali, degni di lode. Ma una cosa è di pregio se è conforme alla sua virtù, vale a dire al suo stato d’eccellenza. Così sarà dunque anche per una stirpe: essa sarà «buona», ossia di pregio e lodevole, se sarà conforme alla sua virtù. E con ciò abbiamo trovato che cosa sia nobiltà (eég¤neia): in quanto «buona» (eÛ) «stirpe» (g¤no©), essa è virtù di una stirpe. Identica nozione di nobiltà Aristotele enuncia anche in Pol., III, 13, 1283 a 36-37 («[...] inoltre, poiché è logico che soggetti migliori derivino da soggetti migliori; infatti, la nobiltà è la virtù di una stirpe [eég¤neia g¿r âstin àret„ g¤nou©]» e in Rhet., II, 15, 1390 b 14 ss., dove, trattando della distinzione tra «nobile (eégen‹©)» e «di pregio (g¤nnaio©)», precisa che il primo termine esprime «conformità alla virtù di una stirpe (kat· t„n g¤nou© àret‹n)». Si osservi come in eég¤neia (nobiltà) venga qui applicata quella stessa condizione che in De int., 2, 16 a 22 s. Aristotele specifica essere la condizione semantica dei nomi composti: in essi, dice lo Stagirita, la parte per se stessa non significa nulla, ma «vuole significare». È quanto esattamente si può accertare nel nome qui in oggetto: in esso, «bene» (eÛ) da solo non significa niente, ma assume significato in unione con «stirpe». «Nobiltà» significa, infatti, una stirpe buona.

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3 (R2 84, R3 93) DIOG. LAERT., II, 5, 26 (10): Aristotele afferma che egli (scil. Socrate) aveva sposato due mogli, la prima Santippe, dalla quale gli era nato Lamprocle, la seconda Mirto, la figlia di Aristide il giusto, che prese pur non avendo dote e dalla quale nacquero Sofronisco e Menesseno.22 PLUT., Aristid., XXVII, 2: Demetrio Falereo, Ieronimo di Paro, Aristosseno il musico e Aristotele, se in verità il libro di Aristotele Sulla nobiltà va collocato tra le opere autentiche, testimoniano che Mirto, figlia di Aristide, aveva sposato Socrate il sapiente, che pure aveva un’altra moglie, ma prese costei che era rimasta vedova, a motivo della sua povertà e del fatto che era bisognosa anche delle cose necessarie.23 ATH., XIII, 555 d – 556 a: dunque, muovendo da queste 24 si possono rimproverare coloro che pongono che Socrate ebbe in matrimonio due mogli:

22 Occorre tuttavia far presente che nelle righe successive Diogene Laerzio riferisce che, secondo altri, Socrate sposò prima Mirto e, secondo altri ancora, tra i quali cita Satiro e Ieronimo di Rodi, «ebbe le due donne insieme», a seguito di una disposizione per la quale «gli Ateniesi, volendo incrementare la popolazione, ordinarono con decreto di sposare una donna di città e di avere figli anche da un’altra». 23 Subito dopo, tuttavia, Plutarco riferisce che Panezio nega questo contemporaneo, doppio coniugio di Socrate. 24 Il riferimento è al modo in cui a Sparta, secondo la testimonianza di Ermippo e Clearco di Soli, venivano scelte le mogli, nonché al fatto che in Atene Cercope fu il primo a spezzare l’usanza di matrimoni comuni e accoppiamenti promiscui, per il che fu detto «di doppia natura (difu‹©)», giacché in precedenza nessuno conosceva il padre. Tali argomenti nel libro XIII di Ateneo, che è interamente dedicato a tessere le lodi delle «mogli legittime», precedono immediatamente il nostro frammento.

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25 Anche per questo frammento occorre far presente ciò che la fonte dice nel seguito: anch’essa richiama la possibilità che il doppio coniugio fosse dovuto a un decreto di Ieronimo di Rodi, emanato al fine di sopperire al forte decremento della popolazione ateniese in seguito alla guerra del Peloponneso; sottolinea come proprio una tale «costrizione» sottrasse quest’aspetto della vita di Socrate dalla berlina dei comici, che pur avevano ripetutamente fatto del maestro ateniese l’oggetto delle loro composizioni; che Panezio, infine, nega l’attendibilità della notizia circa la contemporanea presenza di due mogli. 26 Riferimento alla disamina del fr. 2, dove l’interlocutore principale – come abbiamo visto – ha «sviluppato le difficoltà» sia della seconda definizione (la nobiltà consiste nel discendere da antenati ricchi) che della prima (essa consiste nel discendere da antenati dabbene). Questo richiamo, unitamente al «dunque» (to›noun) immediatamente successivo, attesta in maniera eloquente che il passo costituiva la conclusione del ragionamento. Siamo cioè giunti alla soluzione definitiva del problema, o – più precisamente – al momento definitivo di tale soluzione, la quale, raggiunta già nel fr. 2, ora viene illustrata e spiegata. La scansione di questi due momenti, uno inventivo e l’altro illustrativo, appare, del resto, ben chiara dal cap. 45 del Pro nobilitate dello Ps.Plutarco, ove dapprima si presenta la definizione di nobiltà, indi la si dimostra. Si dice, infatti: «ne me autem circumvenias verbi ambiguitate, nobilitatem eam laudo, eam orno, quae virtus dicitur generis, quae

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Santippe e Mirto, figlia di Aristide: non quello chiamato , giacché i tempi non lo permettono, ma il terzo da quegli. Si tratta di Callistene, di Demetrio Falereo, del peripatetico Satiro, di Aristosseno, ai quali Aristotele dette l’ispirazione, narrando questo nell’opera Sulla nobiltà.25 4 (R2 85, R3 94) STOB., IV, 29 c 52: dal libro di Aristotele Sulla nobiltà. «In merito agli sui quali da lungo tempo sviluppiamo le difficoltà,26 è dunque evidente, dissi io, per quale motivo mai coloro che discendono da ricchi di antica data o coloro che discendono da uomini pregevoli27 di antica data sembrano essere più nobili,28 ossia in misura maggiore, di coloro che hanno acquisito da poco tempo questi beni. In effetti, il soggetto che sia egli stesso pregevole è più vicino di uno cui è capitato un nonno pregevole, per cui l’uomo dabbene sarà nobile. E taluni hanno detto così, proponendosi di muovere obiezioni contro la nobiltà a partire da questo ragionamento, 29 come sostiene anche Euripide,30 il quale afferma che la nobiltà non è proa maioribus veluti per gradus ad nos delata, et avos proavosque nobis in memoriam revocat, et nos, excitato eorum nomine, iis satos, notos illustresque reddit». 27 Traduco qui con «pregevole» l’aggettivo spoudaÖo© che altrove, nei frr. 1, 2 e nel seguito di questo stesso fr. 4, in riferimento a cose e, innanzitutto, alla stirpe traduco con «di pregio». 28 «Sembrano» (dokoÜsin), per il fatto di avvalorare il momento dell’origine che, come vedremo (cfr. infra e la nota finale), è elemento saliente anche dell’autentica nozione di nobiltà, ma in realtà non lo sono, perché l’avvalorano in una prospettiva che, chiamando in causa esclusivamente il possesso di una qualità dell’antenato e non anche la sua capacità di generare soggetti dotati essi medesimi di tale capacità, è incongruente. 29 Sullogismfi© ha qui il significato generico di «ragionamento» e non quello tecnico di cui Aristotele parla in An. Pr., 24 b 18 ss. 30 Fr. 345 Nauck. Il riferimento in queste righe è all’altra nozione

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di nobiltà, a quella cioè che la fa dipendere dal possesso attuale del soggetto di una qualità. Per le ragioni che vedremo (e che illustriamo nella nota 33), anche questa concezione esibisce in ciò un aspetto che l’avvicina alla nozione autentica di nobiltà, dalla quale tuttavia la distanzia la mancata considerazione della discendenza e dell’origine. 31 Cfr. Protrettico, fr. 3 (Ross), dove ritorna l’esempio del cavallo. 32 A questo punto Ross indica una lacuna. Tra le varie proposte di emendamento del passo, particolarmente attraente, per la sua semplicità, risulta quella avanzata da Laurenti (1987, II, p. 765), che suggerisce di colmare con toia‡th: «tale è la virtù della stirpe ecc.». Va segnalato che la lacuna non compare in Ps.-Plutarco, Pro nobilitate, par. 14 («quodsi bonus quispiam sua sponte non habet eam vim naturae, ut sui similes procreare multos queat, non potest ab eo duci principium

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pria di coloro che discendono da uomini pregevoli di antica data, ma è semplicemente chiunque sia un uomo dabbene. Però la faccenda non sta così, ma ricercano in modo corretto coloro che prepongono la virtù antica. Esponemmo le cause di questi che la nobiltà è la virtù della stirpe, e la virtù è propria di cose di pregio. Ed è di pregio la stirpe nella quale per loro natura si sono generati molti uomini pregevoli. Una tale circostanza si verifica quando nella stirpe sia insita un’origine di pregio. Infatti, l’origine possiede una capacità tale da produrre molte cose quali è essa, giacché proprio questo è il compito dell’origine, produrre molte altre cose com’è essa. Ebbene, quando nella stirpe sia insito un soggetto, unico, di tal fatta che molte generazioni possiedono il bene che deriva da lui, è necessario che questa stirpe sia di pregio. Ché, vi saranno molti uomini pregevoli, nel caso in cui la stirpe sia di uomini, e cavalli se sia di cavalli,31 e similmente anche nel caso degli altri viventi. Per cui è logico che non i ricchi né le persone dabbene saranno nobili, ma coloro che discendono dai ricchi di antica data o coloro che discendono da individui dabbene di antica data. Infatti, il discorso ricerca il vero, dal momento che l’origine è a monte di ogni cosa. Ma neppure coloro che sono derivati da progenitori dabbene sono nobili in ogni caso, bensì coloro ai quali capita che tra gli antenati si annoverino capostipiti dabbene. Quando, dunque, il capostipite sia un individuo dabbene, ma non possieda una capacità della natura tale da generare molti soggetti simili , l’origine non possiede in costoro una capacità siffatta».32 [...] «Si ha virtù della

gentis. Igitur his rebus aestimandum est cuiusque gentis principium et ii demum nobiles ecc.»).

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33 Ecco l’esplicazione, analiticamente articolata, della soluzione del problema della nobiltà che già alla fine del fr. n. 2 era stata raggiunta. Tale esplicazione è esaustiva perché nel suo articolarsi non spiega soltanto la ragione della definizione che si è acquisita, ma anche i motivi per i quali ciascuna delle due opposte concezioni della nobiltà risulta in parte vera e in parte errata, offrendo in tal modo un’illustrazione vasta e completa della questione. Ma vediamo con ordine. La definizione di nobiltà che l’analisi ha guadagnato dice che essa consiste nella virtù della stirpe. Ebbene, sulla base di questa definizione ora l’interlocutore principale dimostra che, propriamente, per virtù della stirpe si deve intendere la capacità del capostipite di generare nella sua discendenza individui del suo stesso valore. Il relativo ragionamento fa presente che virtù è cosa di pregio, ed è di pregio ciò che è capace di riprodurre il bene insito nella cosa. Quando dunque è in causa una stirpe, essa è di pregio quando vi «sia insito un soggetto, unico, di tal fatta che molte generazioni possiedono il bene che deriva da lui». In tal modo non basta, perché una stirpe sia nobile e, in generale, per il sussistere della nobiltà, che gli antenati siano stati persone dabbene, o ricche: giacché potrebbe darsi che essi non abbiano avuto la capacità di generare dei discendenti dotati di questi loro pregi, che fossero cioè, a loro volta, persone dabbene e capaci di acquisire e mantenere ricchezza. Per altro verso, però, entrambe queste concezioni della nobiltà, facendola consistere nella discendenza da un avo illustre, o per

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stirpe e gli individui che derivano da questa stirpe sono nobili, non se il padre sia nobile, ma se lo sia il capostipite della stirpe. Infatti, non di per sé il padre genera un individuo dabbene, ma perché, come s’è detto, proviene da una stirpe di questo tipo.»33

virtù o per ricchezza, colgono nel segno e si avvicinano all’autentica nozione di nobiltà per il fatto di riferirsi al momento ancestrale e all’origine. Tuttavia, come s’è detto, l’origine cui esse si appoggiano si qualifica per il possesso di una qualità (la virtù del soggetto o la sua ricchezza), mentre l’origine invocata dalla corretta nozione di nobiltà non presenta soltanto una qualificazione del soggetto, ma richiede anche la capacità in lui di perpetrare tale qualificazione negli individui che vi discendono – così dando effettiva realizzazione alla potenza dell’origine, che è propriamente tale per il fatto di determinare di sé la successione degli originati. Pregio e difetto opposto presentano, per converso, le concezioni della nobiltà per le quali essa consiste nella qualificazione attuale del soggetto: nella virtù e/o nella ricchezza che egli possiede, non in quelle che possedettero i suoi antenati. La bontà di queste concezioni, l’aspetto cioè che le avvicina all’autentica definizione della nobiltà, risiede nella valorizzazione della capacità del soggetto, alla quale anche quella definizione fa appello nella misura in cui indica come pregio e virtù dell’origine la capacità del capostipite di generare discendenti del suo stesso valore. Da essa le distanzia però la mancata considerazione per l’origine e la discendenza. Si tratta, per l’appunto, del loro limite.

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INTRODUZIONE

1. Lo scritto Sul piacere (per‰ ìdonÉ©) è indicato al n. 16 del catalogo di Diogene Laerzio e al n. 15 di quello dell’Anonimo.1 Quali frammenti vadano attribuiti a quest’opera, è un problema, sul quale ha regnato e tuttora continua a regnare il più assoluto dissenso, a tal punto che Zeller (1921, p. 63 nota) ebbe a dire che «non possiamo neppure giudicare se il Sul piacere fosse un dialogo, dal momento che non ci è pervenuto niente». Heitz (1869) ha recensito sotto il per‰ ìdonÉ© due frammenti di base, costituiti da Athen., Epit., I, 6 d e Athen., VIII, 335 f e, in funzione complementare a essi, Cic., Tusc. disp., V, 35, 101 e Cic., De fin., II, 32, 106 (ai 1 In realtà il catalogo di Diogene Laerzio indica un Sul piacere (per‰ ìdonÉ© av) anche al n. 66 – secondo la lezione dei codici Burbonicus graecus III B 29 e Vaticanus graecus 1303, mentre il codice Laurentianus graecus 69, 35 porta Sui piaceri (per‰ ìdonán) –, ma, come ha convincentemente mostrato Moraux (1951, pp. 93-95), la strana presenza di prot¿sei© av entro un blocco di argomenti etici in cui per‰ ìdonÉ© av è collocato (n. 66: per‰ ìdonÉ© av; n. 67: prot¿sei© av; n. 68: per‰ ëkous›ou av; n. 69: per‰ kaloÜ a’), unitamente al fatto che «prot¿sei©» nel vocabolario aristotelico denota le premesse e tali nella trattazione di un argomento sono le opinioni espresse in merito, giacché il loro esame costituisce il punto di partenza dell’analisi, lascia ragionevolmente intendere che non si tratti di titoli di opere, sibbene, anche in questo caso, dell’indicazione di opinioni comuni relative al piacere, al volontario e al moralmente bello. Dunque, nessuna relazione tra il per‰ ìdonÉ© av del n. 67 con lo scritto qui a tema.

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quali Laurenti 1987, II, p. 875, unico tra gli editori, aggiunge Strabo XIV, 5, 9, p. C. 672). Ora, non soltanto questi ultimi due non sono sempre accettati, ma neppure l’appartenenza al Sul piacere dei passi di Ateneo è da tutti ammessa, e non pochi studiosi propendono per attribuire o uno o l’altro di essi, o addirittura entrambi al Protrettico o al Sulla giustizia. Nell’edizione di Ross, sulla quale è condotta questa traduzione italiana dei frammenti di Aristotele, l’unico frammento attribuito al Sul piacere è Athen., Epit., I, 6 d, un passo che non va esente da problemi esegetici. Il punto cruciale è costituito dall’individuazione di Filosseno. Nel frammento questo personaggio è citato due volte: una prima, all’inizio, dallo stesso Ateneo, il quale informa che taluni lo indicavano come «amante dei pesci (filecq‡©)», mentre per Aristotele era semplicemente «amante dei banchetti (filfideipnon)»; e una seconda, entro il frammento di un’opera dello Stagirita (il Sulla giustizia, ad avviso di Ross) che Ateneo produce testualmente e nel quale Filosseno è presentato come autore di uno scritto Sul banchetto ove erano narrate, a uso dei commensali, cose strabilianti e meravigliose, dello stesso genere di quelle che la gente del porto suole non solo udire, ma raccontare essa medesima ai marinai che vi approdano, per farsi bella e darsi importanza ai loro occhi, e per questo inventando anche fatti mirabolanti tratti dalla lettura, persino parziale, del Simposio di Filosseno. Non vi è dubbio che il motivo per cui Aristotele ha potuto ricordare un’opera come quella di Filosseno sono quei piaceri della tavola che nelle Etiche, e nell’Etica nicomachea innanzitutto, costituiscono, assieme ai piaceri afrodisiaci, il dominio dell’incontinenza (àkras›a) e dell’intemperanza (àkolas›a).2 La stessa 2

Intendo anche qui, identicamente che nell’edizione italiana del-

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conclusione si deve trarre anche dalla menzione di Filosseno da parte di Ateneo, giacché tanto come «amante dei pesci», cibo considerato di molta raffinatezza e gusto, quanto come «amante del banchetto», non vi è dubbio che il suo interesse riguardava la sfera dei piaceri che Aristotele ascrive all’ambito dell’intemperanza e dell’incontinenza. Ma proprio questo, mentre per un verso lascia chiaramente intendere che nel nostro dialogo lo Stagirita trattava anche di questa materia, e ciò indipendentemente dal fatto che essa poteva costituire l’oggetto di riflessione pure di altri dialoghi, come il Protrettico e il Sulla giustizia, dove – a quanto sembra – l’esame delle valenze etiche del piacere non era affatto secondario, per un altro verso solleva l’arduo problema dell’identificazione del personaggio e, con esso, dell’esegesi del frammento. In effetti, già Ross (1967, p. 63), dopo aver contestato a Rose di averlo ascritto al Sulla giustizia, opera che «it seems to have no connexion with that subject», fa presente che il Filosseno richiamato da Ateneo nella prima parte del frammento come personaggio al quale Aristotele si riferiva quando diceva che è «amante dei banchetti», è lo stesso Filosseno che lo Stagirita menziona in Eth. eud., 1231 a 5-17 come esempio di amante dei piaceri della tavola e al quale allude in Eth. nic., 1118 a 32 – b 1, cosicché «la descrizione di costui come amante dei banchetti è preferibile credere che sia occorsa nel dialogo Sul piacere». In effetti, in Eth. nic., III, 13, 1118 a 23 – b 1 Aristotele, studiando che tipo di piaceri riguardano la moderazione (swfros‡nh) e l’incontinenza (àkras›a), giunl’Etica nicomachea da me curata (Milano, Rizzoli 1986; X edizione 2004), àkras›a come incontinenza e àkolas›a come intemperanza, pur avendo contezza che altri studiosi – a partire da Gauthier-Joliv 1970 – traducono in modo inverso i due termini greci.

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ge a determinare che si tratta dei piaceri del tatto, ma, propriamente, non i piaceri che derivano dal toccare ogni parte del corpo, bensì alcune parti soltanto: la gola (i piaceri dei cibi e delle bevande) e gli organi sessuali (i piaceri afrodisiaci), per cui, conclude lo Stagirita, «un individuo, che era un ghiottone (μyfifago©),3 si augurava che la gola gli diventasse più lunga di quella di una gru, volendo significare di provare piacere col tatto» (Ivi, 1118 a 31 – b 1). Ora, chi sia un tale individuo nell’Etica nicomachea non è detto, ma Eth. eud., III, 2, 1231 a 16-17 e – aggiungiamo con Laurenti (1987, II, p. 842), a complemento dell’osservazione di Ross – Probl., XXVIII, 7 indicano espressamente in un tale di nome Filosseno. Nella prima opera, infatti, sempre trattando dell’incontinenza, così scrive Aristotele: «perciò i golosi non si augurano di avere la lingua lunga, ma piuttosto il collo di una gru, come Filosseno, figlio di Erisside». E parimenti, nel suddetto passo dei Problemi si legge: «la dolcezza dei piaceri riguardanti il cibo risiede in parte nella lingua e in parte nella gola, e per questo anche Filosseno si augurava di avere la gola di una gru». Al dialogo Sul piacere, dunque, ad avviso di Ross, si riferirebbe Ateneo citando Filosseno e – a parte subiecti – sarebbe questo Filosseno figlio di Erisside di cui parlano l’Etica eudemia, i Problemi e, implicitamente, l’Etica nicomachea quello chiamato in causa nella prima parte del frammento; in particolare, quello al quale in questa prima parte alluderebbe Aristotele, indicandolo come «amante dei banchetti» e così correggendo in senso accrescitivo la nomea di «amante dei pesci» datagli dai più. Ma subito dopo lo studioso così scrive: «in what work of Aristotle the words ac3 Sulla figura di costui (μyfifago©, propriamente colui che mangia il companatico senza pane) cfr. Senofonte, Mem., III, 14, 2-4.

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tually quoted by Athenaeus occurred, it is impossible to say» (Ross 1967, p. 63). Dunque, come il frammento di Aristotele richiamato da Ateneo nella seconda parte del passo non si potrebbe attribuire con certezza a Sul piacere, così il Filosseno autore del Banchetto e menzionato da Aristotele in tale frammento non si potrebbe dire che è lo stesso Filosseno «amante del banchetto» della prima parte. Questa sfasatura che Ross istituisce tra il Filosseno del frammento aristotelico e il Filosseno della prima parte del passo, Laurenti, pur orientandosi verso un’altra prospettiva esegetica e sulla base di differenti argomentazioni, acutizza, tuttavia, e acuisce, dichiarando l’impossibilità di identificare il primo personaggio non soltanto con il secondo, ma altresì con alcuno dei soggetti di nome Filosseno a noi noti attraverso la presentazione sia di Ateneo che di Aristotele. Su questo iato occorre fissare l’attenzione non meno che su quello ipotizzato da Ross, perché costituisce un punto decisivo per l’esegesi dell’unico frammento dello scritto Sul piacere. L’argomentazione di Laurenti è articolata e complessa. Egli esamina innanzitutto le tre figure di Filosseno recensite da Ateneo in I, 5b-7a, e precisamente Filosseno di Leucade (5b-f), un goloso ingordo e vorace, autore di uno scritto intitolato Il banchetto (deÖpnon) e divenuto il bersaglio degli strali ironici di Platone il comico nel Faone,4 Filosseno di Citera (5f4 Lo scolio Ad Aristoph. Plut., 119, informa che il Faone fu rappresentato nel 391 a.C. e che verteva intorno al demone di Afrodite (cfr. F.C.G., I, 186-188; C.A.G., I, p. 645; Edmonds 1957, I, pp. 540546). L’ironia e il sarcasmo nei confronti di Filosseno, stando alla testimonianza dello scoliaste ad Aristoph., Vespe, 82, erano dettate dal fatto che egli era un cinedo. A questo riguardo lo scoliaste richiama anche la battuta sarcastica rivoltagli da Eupoli in un verso della Città: «c’è una femmina amante degli ospiti [ossia Filosseno, il cui significato è esattamente “amante degli ospiti”] proveniente da Dio-

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6b), il ditirambografo presentato anch’egli come un ghiottone (6a) e al quale (IV, 146 f), in modo non poco sorprendente, attribuisce uno scritto identicamente intitolato Il banchetto (deÖpnon) «ove si tratti di colui che ricorda anche il commediografo Platone», ossia se è lo stesso Filosseno di Leucade anzi considerato, e Filosseno di Erisside (66b-d),5 a proposito del quale riporta la testimonianza di Teofilo 6 secondo cui egli si lamentava di non avere la gola come quella delle gru, per concludere in ordine all’impossibilità di far coincidere la figura di quest’ultimo con quella di uno dei due precedenti omonimi; indi, facendo leva sulla tesi che Filosseno di Erisside non scrisse niente, motivata sia in base al fatto che lo si presenta soltanto come un insaziabile e avido mangiatore ma nessuna opera gli viene attribuita, né nel passo in oggetto né in alcun altro in cui se ne fa menzione,7 sia in forza della considerazione che, se «avesse scritto poesie, e per di più poesie riguardanti il banchetto», non sarebbe «mai potuto sfuggire, anche per quest’aspetto, all’attacco dei commediografi», mentre di Filosseno del frammento aristotelico lo Stagirita stesso dichiara che è autore di un banmeia», ossia da un demo di Atene (cfr. Edmonds 1957, I, pp. 394396). Di Filosseno di Leucade Ateneo dice che da lui presero il nome certe focacce, chiamate per l’appunto filossenie (filon¤nioi plakoÜnte©. Ne parla come di cibo assai gustoso anche Poll., VI, 78) e che egli usava mettere in bocca i cibi ancora bollenti che i cuochi preparavano, onde inghiottirne di più, e per questo abituava le mani e la bocca al calore. 5 Discepolo di Anassagora, fu fatto oggetto di critiche dal socratico Eschine il quale, colpendo la sua ghiottoneria, intendeva colpire l’insegnamento del suo maestro (in proposito cfr. Dittmar 1912, p. 191). 6 Ad avviso di Desrousseaux-Astruc (1956, p. 13, nota 2), si tratta dello storico di cui parlano Giuseppe Flavio, c. Apion, I, 23, 216 e Plutarco, Mor., 313 c. 7 Essi sono raccolti da Edmonds 1927, II, pp. 340 ss.

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chetto (deÖpnon), asserisce che quest’ultimo né può essere identificato con Filosseno di Erisside, né con il Filosseno che compare all’inizio del passo di Ateneo, per la medesima ragione, né con alcuno dei altri due Filosseni menzionati da Ateneo. Non con Filosseno di Leucade, giacché la sua città natale era Atene dal momento che, come sembra, proveniva dal demo di Diomeia,8 e non, per l’appunto, Leucade, e poi perché suo padre era Erisside e non Leucadio se, prestando fede alla notizia della Suda (III, 603 Adler: Filfixeno© ï Leukad›ou), in rapporto a Leucade il padre di Filosseno proveniente da questa città avrebbe avuto quel nome. Non, infine, con Filosseno di Citera, sia perché appartenente a una generazione successiva e sia perché le sue vicende biografiche, a partire dal soggiorno a Siracusa, alla corte di Dionigi il vecchio, e dall’incarcerazione nelle Latomie, sono incompatibili con quelle del soggetto in questione.9 Ad avviso di Laurenti (Ivi,

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Cfr. la nota 4. Sulla vita di Filosseno di Citera si vedano Edmonds 1927, III, p. 362 e P. Mass in PW., XX, 192. Poeta lirico e compositore di ditirambi, nacque nel 453 a.C., visse ad Atene e a Siracusa, alla corte di Dionisio il vecchio, che lo fece rinchiudere due volte nelle Latomie, una prima per aver parlato male della sua opera poetica e una seconda per questioni di rivalità in amore; morì nel 380 a.C. Della sua produzione poetica non si sarebbero conosciuti che pochi frammenti se nel 1902 non fosse stato scoperto un papiro che conteneva un ampio passo, di all’incirca 250 versi, di un suo nomo, intitolato I Persiani. Vi si descrive una battaglia navale che pare doversi identificare con quella di Salamina. A essa fanno seguito quattro episodi, tutti incentrati su lamentazioni: in uno, un ricco Persiano, caduto in mezzo ai flutti, lotta tra le onde e rivolge maledizioni contro il mare. In un altro compaiono alcuni naufraghi aggrappati su uno scoglio, i quali maledicono la loro sorte e invocano una divinità del loro paese. In un terzo, un Frigio, trascinato per i capelli da un Greco, invoca pietà, storpiando la lingua ellenica. Nel quarto episodio, il gran re dà l’ordine della ritirata e i Greci esultano per la vittoria. Alla fine il poeta difende la sua nuova arte della lira a undici corde contro le 9

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pp. 851 ss.) la soluzione del problema esegetico si ha riconoscendo che, ironicamente, gli x¤noi (ospiti) che entrano a far parte del nome Filosseno (= f›lo©, amante, x¤nwn, di ospiti), sono i pesci e le vivande del banchetto, ossia che Filosseno è soltanto il soprannome scherzoso dato dagli abitanti del porto a un mangione per via del suo interesse culinario per i pesci, e che Aristotele, continuando nello scherzo, riformulò in riferimento all’intero banchetto, come appare ove si abbia la capacità di vedere l’uguaglianza di Filfixeno©, Filosseno, con Filfideipno©, amante dei banchetti, risultante dalla contrazione tra il salace accostamento delle parole Filfixeno© DeÖpnon posto alla fine del frammento. Di fronte a queste esegesi radicalmente orientate in senso negativo, pare opportuno proporre alcuni spunti di riflessione: 1) Innanzitutto occorre osservare la fragilità del motivo secondo cui si nega l’identificazione del Filosseno citato da Aristotele nel frammento con il Filosseno che compare all’inizio del passo di Ateneo e con Filosseno di Erisside perché di questi secondi non è detto che scrissero qualche opera, mentre Aristotele stesso afferma che il primo scrisse un Banchetto. È evidente, infatti, che non siamo in presenza di un’incompatibilità tra le note che connotano l’identità dei personaggi chiamati in causa. Essa si darebbe se le fonti attestassero che Filosseno di Erisside non scrisse nulla, o che nel passo di Ateneo si affermasse la stessa cosa di Filosseno che compare all’inizio, giacché in questi casi saremmo in presenza di un dato specifico che effettivamente contrasta con quello, altrettanto specificritiche degli Spartani, e manda un saluto alla città della qual si canta il nomo.

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co, della paternità di uno scritto da parte del Filosseno di Aristotele. Ma il silenzio non equivale affatto a una negazione. 2) Questa considerazione di carattere generale si manifesta ancora più acuta in rapporto a Filosseno di Erisside, se si pensa che l’identità con il Filosseno del frammento aristotelico è altresì negata in base al mescolarsi del silenzio con la seguente congettura: i comici avrebbero senz’altro usato come motivo di scherno i suoi componimenti, se ne avesse composti. 3) A fronte di tali arbitri, un dato positivo emerge nella sua innegabile evidenza: Filosseno di Erissede è espressamente nominato da Aristotele nell’Etica eudemia, in rapporto alla medesima situazione, definita dall’incontinenza in materia di piaceri di gola, per la quale un Filosseno è altrettanto espressamente detto essere «amante di pesci» e «amante dei banchetti». 4) Se nessuno mette in discussione (a partire da Ross e da Laurenti, i quali, al contrario, richiamano la circostanza per asseverarla) che Filosseno di Erisside, chiamato in causa nell’Etica eudemia, è lo stesso Filosseno menzionato con il solo nome nei Problemi e lo stesso soggetto neppure nominato nell’Etica nicomachea, ma soltanto presentato come persona che formulava per sé il medesimo augurio (avere il collo lungo come quello di una gru) in quanto identicamente disposta verso i piaceri della tavola, non si vede per quale motivo non si debba riconoscere che Filosseno di Erisside è altresì il medesimo Filosseno dell’inizio del passo di Ateneo: si tratta, infatti, di un soggetto che, al pari di quelli dell’Etica nicomachea e dei Problemi, è connotato dalla medesima voracità e, al pari di quello di quest’ultimo scritto, è espressamente richiamato con il proprio nome. 5) È ben vero che di per sé il frammento aristotelico

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tratta di una materia che lo rende adatto a essere attribuito non soltanto al nostro dialogo, ma anche ad altri, donde la sfasatura tra il Filosseno qui menzionato e Filosseno di Erisside, identificabile all’inizio del passo di Ateneo, ma è altrettanto innegabile, tuttavia, che sarebbe ben strano che in uno stesso passo fossero presentati due soggetti diversi ma aventi lo stesso nome senza che se ne dia il minimo avvertimento. È del tutto più logico e lineare che i personaggi con lo stesso nome siano altresì i medesimi soggetti. E che di quello richiamato da Ateneo all’inizio del passo, ossia di Filosseno di Erisside, non si dica che compose qualche opera, è circostanza che, come abbiamo visto, non osta a che sia identificato con il Filosseno autore di un Banchetto, richiamato da Aristotele nel frammento. Sulla base di queste considerazioni possiamo ipotizzare un senso complessivo dell’unico frammento dell’opera in questione. E da qui, formarci un’idea sul contenuto dottrinale di tale opera. Se in essa, come appare dal titolo stesso, si conduceva una disamina sul piacere, argomento che, notoriamente, fu oggetto di ampi dibattiti nell’Accademia platonica e che vide schierati, da un lato i sostenitori della sua identità con il bene, capeggiati da Eudosso, dall’altro i detrattori di esso, i rigoristi, gli antiedonisti capeggiati da Speusippo e Platone, che nel Filebo prende espressamente posizione in ordine al problema, dal passo di Ateneo possiamo arguire che nel dialogo Sul piacere Aristotele dedicava uno spazio anche alle narrazioni che accompagnano i piaceri della tavola. Narrazioni esagerate e millantanti conoscenze di cose mirabolanti che in realtà né si hanno né esistono, se, come pare, in quel passo si mettono alla berlina le vanterie di coloro che narrano persino a marinai provenienti dalle lontane rive del Mar Nero le meraviglie che hanno tratto dal

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Banchetto di Filosseno, letto neppure per intero: quelle stesse meraviglie che i crapuloni raccontano nei simposi, in preda come sono all’esaltazione del tripudio conviviale, e che lo stesso Filosseno scrisse perché anch’egli era un insaziabile e vorace ghiottone, amante di quei cibi prelibati che sono i pesci, anzi, del banchetto nella totalità delle sue portate.

10 Si tratta con ogni probabilità di Filosseno di Erisside, per la cui identificazione si rinvia alla discussione critica dell’Introduzione. 11 Fiume che bagna una lontana terra del Nord. Aristotele vi accenna in De mirab. ascult., 158, 846 a 28 (intorno alle sue rive cresce una pianta con foglie bianche, che i mariti pongono intorno al letto nuziale per custodire la purezza delle spose) e in Hist. An., III, 21, 522 b 14 (lungo le rive del Fasi pascolano vacche di dimensioni minute, che producono molto latte). 12 L’odierno Dnieper, fiume tributario del Mar Nero. Aristotele ne accenna anche in De divinat., 1, 462 b 25, dove, a proposito delle cause dei sogni, al fine di far valere che, eccettuata quella principale, ossia Dio, nessuna delle altre cause è logica, sottolinea l’impossibilità di dire perché taluni prevedono ciò che succede alle colonne di Ercole o sul Boristene, come luoghi di estrema lontananza. 13 Hadot (in Schuhl 1968, p. 137) traduce ân qa‡masin con «parmi les montreurs de couriosités» e Laurenti (1987, II, p. 827 e p. 830) con «in mezzo ai giocolieri», appoggiandosi ad Ateneo, IV, 129 d, a Plutarco, Lyc., 19, a Senofonte, Symp., II, 1, a Platone, Soph., 224 a e a Quintiliano, Inst. Or., X, 7, 11. «Si tratta – egli scrive – di giocolieri, prestigiatori e altre figure del genere, tipiche di ogni fiera e festa e che attiravano la gente con i loro soliti mezzucci.» Ma tale esegesi, ancorché molto

TESTIMONIANZE

1 (R2 72, R3 83) ATH., Epit., 6d: alcuni affermano che Filosseno10 era amante dei pesci. Aristotele, invece, semplicemente che era amante dei banchetti, ed egli a un certo punto scrive anche questo: «parlando al popolo in mezzo alle masse, trascorrono l’intera giornata tra racconti strabilianti, anche a individui che vengono per mare da Fasi11 o Boristene,12 pur non avendo letto niente tranne il Banchetto di Filosseno, e non tutto».13

ben documentata e argomentata, non sembra condivisibile, in quanto (1) in qa‡mata è impossibile scorgere «personaggi» che compiono atti mirabolanti, ma, semmai, questo genere di atti; (2) il riferimento ad azioni e non a racconti idonei a suscitare meraviglia contrasta con il «parlare al popolo, in mezzo alle masse» e non si vede che nesso intercorra tra il fare questo e l’assistere a spettacoli funambolici. Per converso, il nesso risulta del tutto lineare se si tratta di racconti di meraviglie: parlando alle masse, costoro raccontano simili cose. Seguendo perciò la maggior parte degli studiosi – a cominciare da Ross (1967, p. 63: «they spend the whole day in relating marvels») e da Giannantoni (1973, p. 177: «passano tutta la giornata a raccontare meraviglie»), ritengo che in ân qa‡masin siano da individuarsi narrazioni fantasiose, fatte proprio per suscitare la meraviglia e lo stupore delle persone circostanti. Il senso complessivo della frase di Aristotele è pertanto il seguente: certi individui trascorrono l’intera giornata a raccontare a chi sta loro intorno, e persino a chi proviene da paesi lontani, avendo fatto vela dal Mare Nero, cose mirabolanti del tutto inventate, che essi stessi traggono dal Banchetto di Filosseno e delle quali, peraltro, non hanno piena contezza per non aver letto interamente quest’opera.

SULL’EDUCAZIONE PERI PAIDEIAS

INTRODUZIONE

1. Lo scritto Sull’educazione (per‰ paide›a©) è indicato da Diogene Laerzio due volte: al n. 19 del catalogo e al n. 172 dell’appendice a questo, e compare nel catalogo dell’Anonimo al n. 18 con un doppio titolo: per‰ paide›a© Í paideutikfin a, il quale ad avviso di Moraux (1951, p. 200) sarebbe preferibile al semplice per‰ paide›a© in quanto più completo. Più complessa invece, per i pareri discordanti che si sono registrati in proposito, la questione dei frammenti da attribuirsi allo scritto. Rose, in tutte e tre le edizioni (1863, 1870, 1886) e Ross (1958) recensiscono sotto il per‰ paide›a© un passo di Plutarco (Mor. [Quaest. Conv.], 734 d = fr. 1) e uno di Diogene Laerzio (IX, 8, 53 = fr. 2), seguendo il criterio di non ascrivere al dialogo se non ciò che tratta dell’educazione stricto sensu, tralasciando di conseguenza ciò che, pur nominando il termine pa›deia, ha tuttavia l’aria di essere un adagio o di riferire qualche proverbio o qualche detto corrente, tenuto altresì conto che tanto il tema quanto il termine «educazione (pa›deia)» ricorrono sovente nelle opere dei Peripatetici.1 Questa scelta è condivisa, tra gli altri, anche da Giannantoni (1973, p. 179) e da Laurenti (1987, II, pp. 962-963). Per contro, adottando un criterio più ampio, Heitz (1869, pp. 61-62) attribuisce allo scritto ari1

In proposito cfr. Wehrli 1967, III, pp. 49-51.

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stotelico, oltre i due suddetti passi, anche Stobeo, Flor., III, 3, 25 (che Ross riporta invece al Protrettico, come fr. 3), Append. Flor. ad Ioann. Stob., XVI, 472 e, raccogliendole come fr. 5, una serie di massime note soprattutto grazie a Diogene Laerzio e Stobeo.3 Ma si tratta di una ricostruzione che non ha trovato consensi tra gli studiosi, di modo che è preferibile mantenersi al rigore della raccolta di Ross. 2. È nota l’importanza che l’educazione dei cittadini, distinta in modalità proprie per ciascuna delle tre classi, riveste nel pensiero di Platone. Nella Repubblica il filosofo ne delinea il quadro indicando in modo particolareggiato le discipline che a ogni classe, e soprattutto a quella dei custodi e dei reggitori, è necessario conoscere in funzione dell’adeguato svolgimento del compito affidato a ognuna nella vita complessiva della polis. Il percorso educativo dei cittadini, l’insegnamento delle discipline che va loro impartito, la definizione dei relativi contenuti, in una parola l’idea stessa di educazione o, meglio, di «formazione (pa›deia)», ricevono pertanto, 2 Questo il passo: «dello stesso (scil., Aristotele): ogni natura diventa migliore se riceve l’educazione conveniente, ma molto più quante dall’inizio sono più generose delle altre, perché avviene che quelle diventano migliori con il loro impegno, queste invece hanno una superiorità anche per le altre qualità». 3 Queste le massime: «Aristotele diceva che l’educazione è ornamento nella fortuna, rifugio nella sfortuna» (D. L., V, 9); «Aristotele diceva che l’educazione è il viatico più bello per la vecchiaia» (D. L., V, 21); «Aristotele, interrogato quale fosse la creatura più bella, rispose: “l’uomo, che ha l’animo ben formato dall’educazione”» (Append. ad Ioan. Stob., XVI, 44); «non poco vi giova ascoltare le cose più belle e abituarvi a esse» (Append. ad Ioan. Stob., XVI, 46); «Aristotele, interrogato in che modo differissero gli educati dagli ineducati, rispose: “quanto i vivi dai morti”» (D. L., 19); «i genitori che educano i figli sono molto più venerandi di quelli che li mettono al mondo soltanto, perché questi li fanno vivere, quelli li fanno vivere bene» (Ivi); «interrogato in che modo i ragazzi possono fare progressi, rispose: “se si mettono sulle orme dei primi senza attardarsi con i più lenti”» (D. L., 20).

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tutti, una caratterizzazione in ultima analisi politica e statale, ed è questo l’aspetto caratterizzante che marca in essenza la concezione platonica della paideia. Certo, la lettura dei dialoghi platonici, la Repubblica e le Leggi innanzitutto, non manca di rivelare profondità d’analisi di grandissimo valore culturale, e basti pensare a quella della poesia omerica che nel terzo libro della prima opera viene svolta in rapporto all’educazione dei soldati per rendersene conto. Ma sempre, ove la trattazione dei contenuti dottrinali di una disciplina è condotta con specifico intendimento di determinarne l’apporto nel percorso educativo, è il momento della valutazione politica a definire il criterio, ossia è la valutazione dell’incidenza che tale disciplina e quei determinati contenuti di essa hanno in ordine alla realizzazione del progetto politico e all’utilità della vita della polis a pronunciare la parola definitiva. E se, come si diceva, la lettura dei dialoghi «politici» lo attesta in modo eclatante, una controprova non meno significativa ci viene, in negativo, da quei dialoghi in cui l’analisi di una scienza, per il fatto di non essere operata in rapporto alla costruzione della città, non è interessante dal punto di vista educativo. È il caso emblematico del Menone, dove, com’è noto, la riflessione sul teorema di Pitagora che viene fatto dimostrare al giovane schiavo non rientra in un contesto di considerazioni di ordine politico, e parimenti non è svolta né riveste significato alcuno in chiave educativa, ma per tutt’altro fine: quello, gnoseologico, di dimostrare che la conoscenza è anamnesi. Orbene, dai due frammenti che, unici, conviene attribuire al dialogo aristotelico balza immediatamente agli occhi che l’educazione non soltanto non è esaminata sulla base del criterio di utilità politica, ma non è nemmeno oggetto di considerazioni di carattere politico. E se questo secondo aspetto può ragionevolmente pensarsi limitato all’estrema esiguità dei testi a disposizione, l’ordine

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complessivo dell’analisi che già da questi soli frammenti si delinea è sufficiente per escludere il primo. Per converso, il tema della «formazione» (pa›deia) sembra affrontato in una duplice prospettiva: innanzitutto da una prospettiva oggettiva, ove da un lato si riflette sull’ampiezza e sulla pluralità dei contenuti da apprendere in rapporto alla formazione di un punto di vista critico, nella cui acquisizione sembra consistere il momento decisivo dell’educazione – con il relativo problema esegetico di definire quale esso sia; da un altro, si valuta il sapere o, più esattamente, si valutano le scienze non soltanto da un punto di vista teorico, ma altresì pratico, ossia in funzione dell’utilità che arrecano al vivere umano e al soddisfacimento dei relativi bisogni. È quanto emerge, rispettivamente, dal primo e dal secondo frammento. Dal primo frammento emerge però che anche da un’altra prospettiva era condotto nel dialogo l’esame sull’educazione: da quella, soggettiva, delle qualità che deve possedere chi va formato con l’acquisizione di quel punto di vista critico del sapere cui si accennava. Ma vediamo in dettaglio. 3. Nel primo frammento è a tema il rapporto tra la polymathia, vale a dire l’erudizione, il gran numero di conoscenze acquisite o che si possono o si debbono acquisire, e la formazione (poieÖn) di molti principi, nel senso – come cerchiamo di mostrare – di punti di partenza (poll·© àrc¿©). È questo il tema che immediatamente ha spicco e si rivela come centrale, cosicché sotto questo profilo bene hanno operato coloro che, come Ross, hanno omesso le parole centrali del passo plutarcheo, al fine di evitare che si perdesse la percezione di tale centralità tematica – anche se, come cercheremo di dire, sotto un profilo diverso le parole omesse contengono un elemento essenziale per l’esegesi, del quale, di conseguenza, occorre te-

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nere conto. Proprio l’ultimo termine, ossia àrc¿©, fa problema. A tal punto che esso, che corrisponde alla lezione dei codici, è stato ritenuto inadeguato e corretto in tarac¿© (così Wyttenbach [1797, III, p. 1029], seguito da Goodwin [1874, III, p. 432] e da Ross [1958, p. 61]), in modo da intendere che il gran sapere produce turbamenti; oppure gli è stato aggiunto àporián (così Reiske [1777, p. 142], la cui proposta è condivisa da Heitz [1869, p. 61], Dübner [1877, II, p. 895]. Bernardakis [1892, IV, p. 352] e Hubert [1938, IV, p. 300]), prospettando con ciò il passo in un significato ambiguo, in quanto potrebbe voler dire sia che il gran sapere solleva molti problemi, ma senza indicare di che problemi si tratta, se cioè inducono a riflettere sul senso del sapere stesso o sono di tutt’altro genere (così Dübner: «multam sciendi cupiditatem multa facere principia quaestionum»), sia che una gran quantità di nozioni confonde e ingenera dubbi in chi le ha acquisite (così Goodwin: «much learning raises many doubts»). Questi interventi esegetici hanno in comune l’idea che la polymathia è qui fatta oggetto di giudizio in se stessa, come fattore che autonomamente si offre a una valutazione pedagogica o comunque di ordine educativo, giacché si giudica l’incidenza che essa in se stessa e per se stessa ha in ordine alla formazione. E il giudizio, nonostante l’ambiguità della seconda proposta e la possibilità di una riflessione epistemologica che essa lascia pur aperta, è complessivamente negativo: la polymathia, questa massa enorme d’informazioni e questo continuo cercare di acquisire nozioni confonde il soggetto. Probabilmente l’idea che vi soggiace è che il sapere dovrebbe invece orientare il soggetto e possedere perciò un valore sapienziale e non puramente informativo, ed assolvere a una tale funzione. Il che, se l’ipotesi è corretta, in qualche modo riscatterebbe l’anonimato del giudizio sulla polymathia. Ma in questo modo ci si troverebbe di fron-

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te a un giudizio negativo sul sapere in quanto tale, la cui misura sarebbe non di natura epistemica, e dunque interna a esso medesimo, ma, in ultima analisi, etica. La scienza, cioè, non sarebbe cosa degna di pregio (ôxion) di per se stessa, ma in quanto dotata di capacità sapienziale. Il che, in tutta evidenza, corrisponde ben poco al pensiero dello Stagirita. Per questo sembra di gran lunga più confacente la proposta avanzata da Bertier (1968, p. 152) di mantenere l’àrc¿© dei manoscritti e di aggiungere filosof›a©: il gran numero di cognizioni acquisite, ossia un ampio apprendimento (tale il significato letterale di polymathia) «produce gli inizi della filosofia», sta cioè alla base di essa: intendendosi con ciò che un’ampia base di conoscenze (la polymathia, per l’appunto) è indispensabile per la filosofia, giacché senza quella, questa non ha inizio; ma al tempo stesso che la filosofia non si risolve in una tale vastità di conoscenze, ma da esse prende soltanto l’avvio. La congruità di tale proposta risiede, come si vede, nel fatto che in essa il giudizio sulla polymathia è orientato, viene cioè formulato a partire da un ben preciso punto di riferimento e in un’ottica definita: l’apporto che essa dà alla filosofia. Ancora: poiché il tema di fondo è l’educazione e in rapporto a essa si prende in considerazione la polymathia, il pregio di tale proposta è di prospettare la relazione tra polymathia e paideia entro il quadro della filosofia e di valutarlo in funzione di questa. Il che, contrariamente all’assunto che sta alla base dei precedenti interventi critico-esegetici, è del tutto consono al pensiero dello Stagirita. Ma, a ben vedere, anche questa proposta non è esente dall’andare incontro a un’incongruenza, seppure di piccola entità: un’inutile ridondanza. Ché, nella parte del passo plutarcheo che Ross omette (e sotto questo profilo una tale omissione non appare certo opportuna) si dice che il «riempirsi di molte difficoltà (cfr. pollán àpo-

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rián [...] ñpep›mpleto)» è cosa che «le nature filosofiche sogliono convenientemente avvertire (eåÒqasi p¿scein âpieiká© aî filfisofoi f‡sei©)», citandosi a tal fine l’esempio di Floro, il Peripatetico, amico di Pluraco, il quale fu toccato dalla lettura di un libro aristotelico ricco di molte informazioni in materia di fisica. Ond’è che l’aggiunta di filosof›a© per specificare di che cosa la polymathia produce gli inizi, appare superflua e superata dal riferimento alle «nature filosofiche». Per due motivi e in due sensi: innanzitutto perché il punto di vista dal quale muove il giudizio sul rapporto tra polymathia e paideia è già indicato da quel riferimento; ma poi – e qui si tocca il punto nodale della questione – perché un tale riferimento alle nature filosofiche quale termine nella cui ottica deve effettuarsi il giudizio sull’oggetto suddetto mette in chiaro il senso in cui la polymathia produce gli inizi della filosofia e perciò interessa la formazione del soggetto umano, arrecando in tal modo un contributo di approfondimento e di chiarezza che prima mancava. Tale riferimento mette in chiaro, infatti, che i molti apprendimenti e la vastità delle conoscenze contribuiscono alla genesi della filosofia in quanto le offrono per così dire la materia sulla quale essa deve riflettere, al fine di acquisire un punto di vista universale, che è ciò che qualifica la filosofia in quanto tale. Ond’è che l’educazione, se è diretta a formare delle nature filosofiche, non può prescindere dal momento informativo, che dev’essere il più possibile ampio, ma al tempo stesso non può arrestarsi a esso, alla semplice acquisizione di molte nozioni e ai molti apprendimenti, ma «a partire da» questi deve ricercare ciò che li unifica in una visione universale.4 Ecco in senso in cui la polymathia produce gli inizi della filosofia. 4 Non posso perciò concordare, tra coloro che mantengono la lezione dei manoscritti senz’altra aggiunta, con l’esegesi di Laurenti 1987, II, pp. 983 ss.) per il quale àrc¿© indica soltanto «spunto di di-

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Ma se questo è il senso al quale un’approfondita esegesi del frammento deve pervenire, è chiaro che al testo è sufficiente la presenza di àrc¿©, giacché il precedente riferimento alle nature filosofiche proietta già di per sé ampia luce perché si veda di che cosa la polymathia produce i punti di partenza (àrc¿©), arrecando perciò un contributo necessario, ma non sufficiente alla paideia. Fino qui, dunque, la prospettiva oggettiva. Ma con il riferimento alle nature filosofiche l’indagine prende in esame l’educazione anche dalla prospettiva, soggettiva, delle qualità che si debbono possedere perché la formazione sia efficace. Ond’è che, sotto questo profilo, dal momento che sono chiamate in causa qualità di ordine filosofico, non è azzardato scorgere nel frammento anche un motivo di rivendicazione da parte dello Stagirita della bontà del tipo di paideia propugnato nell’Accademia, della quale quando scriveva il dialogo egli faceva parte, di contro a quella proposta dalla rivale scuola di Isocrate. 4. Nel secondo frammento la disamina sull’educazione prosegue nell’ottica oggettiva, che è poi quella primaria nella quale si compie l’indagine. Essa nel caso di specie mira a mostrare che le scienze, qui rappresentativamente intenzionate mercé la matematica, rivestono anche un significato pratico, tornano cioè utili nel soddisfacimento dei bisogni quotidiani. Ond’è che l’educazione deve badare a fornire insegnamenti anche in questo scussione» – come in effetti lo studioso traduce –, momento d’avvio «di dibattiti su quanto la polymathia offriva»; né posso concordare col l’interpretazione che egli dà delle «nature filosofiche» quali menti perspicaci, di modo che il senso complessivo del frammento sarebbe il seguente: «chi più sa e ha natura sveglia ha più spunti per affrontare il problema filosofico» (p. 985). Né, men che meno, posso concordare con Defourny (1932, pp. 230 s.) per il quale il frammento esprime una protesta «contre le surscharge des programmes dans l’instruction primaire».

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campo e pure sotto questo profilo va perseguito l’apprendimento del sapere.5 Il che è testimoniato dal racconto del sofista Protagora che usa per la prima volta il cercine (t‡lh) per portare della legna. Dal punto di vista critico testuale due considerazioni sono necessarie per un corretto intendimento del passo. Va innanzitutto fatto presente che l’episodio non ha valore biografico in ordine a Protagora, sul cui piano sarebbe anacronistico per ciò che attiene al rapporto con Democrito e incompatibile con l’informazione di Filostrato per ciò che riguarda l’essere stato Protagora un trasportatore di legna. Quanto a questo secondo aspetto Laurenti (1987, II, pp. 974 s.) richiama opportunamente la notizia di Filostrato sui rapporti tra il sofista e i Magi (cfr. Untersteiner 1949-1962, I, pp. 15-16), tale da rendere plausibile che a costoro il padre di Protagora abbia affidato l’educazione del figlio. Con la conseguenza di rendere assurdo il raccordo del suo servizio come portatore di legna. Anacronistico poi perché, se, con Alfieri (1979, pp. 23 ss.), bisogna avvalorare la testimonianza di Apollodoro (F.G.H., 244 f, 36 b) secondo cui Democrito sarebbe nato nel 460 a.C., poiché Protagora nacque intorno al 485 a.C., la non verosimiglianza del racconto che vuole Protagora discepolo di Democrito, il primo maggiore di età del secondo e già fiorente quando questi appena nasceva, balza immediatamente agli occhi.6 Ora, l’inattendibilità di tale raccon5 Discordo perciò da Bernays (1868, p. 133) per il quale Aristotele nel nostro dialogo sarebbe stato interessato e avrebbe preso in esame soltanto la Bildung, ossia l’educazione scientifica, e non l’Erziehung, vale a dire l’educazione in un’accezione ampia. 6 In proposito, oltre a Laurenti (1987, II, p. 978), si vedano Untersteiner 1949-1962, I, pp. 17 s.; Von Fritz in PW., XXIII, 912; Cherniss 1978; Jürss 1976, p. 100. Quanto poi al fatto che il racconto viene riportato a Epicuro, essendo tratto, con ogni probabilità, dalla Lettera sulle occupazioni (per‰ âpithdeum¿twn) di questo filosofo (cfr. la nota 12 del testo), la spiegazione che richiama Laurenti (Ivi) è nel suo com-

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to, oltre a rivestire interesse ai fini della biografia di Protagora, ne riveste altresì – ed è ciò che in questa sede più conta – ai fini di valutare il tenore complessivo del dialogo. Nel quale, come si può ben vedere, chi guidava la discussione, ossia Aristotele stesso (questo infatti si deve dire alla luce di quanto abbiamo messo in chiaro circa la struttura e le prerogative di questo genere di scritti), non desisteva dal far uso anche di apoftegmi e di racconti più o meno attendibili sul piano storico, dato il carattere dialettico dello scritto, pur di mostrare un assunto teorico di fondo, ossia che le scienze – nella fattispecie la matematica – sono utili per la vita. E qui si viene alla seconda precisazione che occorre fare. È inverosimile che Protagora abbia inventato il cercine. Assai più logico e probabile è invece che egli abbia trovato la definizione del rapporto tra questo strumento e i pesi da portare, ossia «che la vera scoperta di Protagora non sia tanto la t‡lh, intesa come sostegno dei pesi (non si doveva scomodare un Protagora per plesso convincente. «In realtà Epicuro – egli scrive – si uniformava nello stabilire la cronologia dei filosofi che l’avevano preceduto a Platone, che distingue “Presocratici” e “Sofisti”, quelli di necessità anteriori, questi posteriori. La stessa cronologia è condivisa da Aristotele nel per‰ paide›a© e, attraverso Aristotele, da Epicuro nel per‰ âpithdeum¿twn». In effetti, ad avviso dello studioso Epicuro attingerebbe la notizia dal Sulla educazione di Aristotele (secondo una tesi che in parte era già stata abbozzata da Bignone e che comunque si muove lungo la linea esegetica da lui indicata di un Epicuro che dello Stagirita conosce soltanto le opere essoteriche) e Diogene Laerzio, a sua volta, da Epicuro. «Nel complesso» ho detto, e non pienamente perché non credo che Aristotele abbia condiviso quella cronologia, ma che l’abbia adottata nel Sulla educazione – e per quest’aspetto la spiegazione di Laurenti mi sembra valida – perché interessato non tanto ai rapporti cronologici tra i due filosofi, quanto invece, innanzitutto e primariamente, ai rapporti di ordine teorico che legano le rispettive dottrine. E una teoria geometrica applicata alla soluzione di un problema fisico, quale quello del trasporto di pesi, segue logicamente alla teoria di una conoscenza geometrica del mondo, quale probabilmente, ad avviso dello Stagirita, è rintracciabile in Democrito.

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questo), quanto la tecnica con cui disporre i pesi al fine di renderli trasportabili» (Laurenti 1987, II, p. 972). Egli, insomma, determinò il baricentro, o centro di gravità, in quanto punto di applicazione delle forze-peso in un solido.7 Una scoperta, dunque, che – dal punto di vista che qui interessa – concorre alla scansione dell’idea complessiva di «educazione» in quanto mette in luce come essa esiga che l’acquisizione delle conoscenze teoriche – la quale, da quanto è risultato dal fr. 1, dev’essere la più vasta possibile – non si arresti a questo livello soltanto, di per sé pur altissimo, ma esse siano apprese anche per le loro capacità applicative.

7 Mette conto di richiamare ancora l’ipotesi di Laurenti (1987, II, p. 975), il quale non si arresta a chiarire che Protagora determinò il baricentro come punto geometrico atto ad appoggiare i pesi – come anche nel testo abbiamo mostrato, citando un passo della sua esegesi –, ma si spinge fin anche a determinare come lo calcolò. Premesso che il «baricentro può essere determinato in una figura geometrica piana o in un solido come punto d’incontro delle verticali passanti per il punto di sospensione», «Protagora per trasportare (o per far trasportare) più agevolmente un peso, ad esempio un fascio di legna, determinava il baricentro considerandolo applicato nel centro della sezione parallela alle basi praticato a metà altezza» (Ivi, p. 975).

8 Rappresentante della scuola peripatetica, Maestro Floro (le cui notizie biografiche possono vedersi in Fluss, in PW., XV, 1292-94; Jones 1971, pp. 48-49; Fuhrmann 1972, pp. 103-104) nacque tra il 20 e il 30 d.C. Visse quasi sempre a Roma, dove rivestì il consolato sotto Nerone e Vespasiano. Plutarco ebbe familiarità con lui, e probabilmente anche per questo lo cita due volte nella sua opera: in Quest. Conv., III, 3 650 a (= fr. 9/a del Simposio) e in Ivi, V, 7, 680 c ss., dove lo fa intervenire sul rapporto tra ricerca della causa e ciò che fa meraviglia, come ospite in un dialogo in cui è a tema il meraviglioso, con queste parole: «quel che succede avvalora in modo straordinario la credenza comune. Tuttavia è per l’ignoranza delle cause che si nega fede a quanto si riporta, e non è giusto, giacché si danno innumerevoli cose la cui esistenza è evidente, mentre ci sfugge la determinazione della causa. Insomma – continuò – chi cerca in ciascuna cosa ciò che è ben logico (t eûlogon), sopprime da tutte l’elemento meraviglioso (t qaumastfin) e dove una spiegazione logica della causa manca, è da qui che comincia il dubitare, cioè il filosofare. Di conseguenza, sopprimono in qualche modo la filosofia quanti rifiutano ciò che fa meraviglia. Bisogna pertanto investigare con la ragione perché una cosa avviene, ma prenderla così com’è riportata». Lo conobbe a Roma e con lui – racconta lo stesso Plutarco (Vita Othonis, 14) – visitò la piana di Bedriaco, presso Cremona, dove ebbe luogo la

FRAMMENTI

1 (R 52, R 62) PLUT., Mor. (Quaest. Conv.), VII, 734 d: egli (scil. Floro)8 [...]9 si riempiva di molte difficoltà e le partecipava ai compagni, chiamando come testimone lo stesso Aristotele, il quale sostiene che l’ampio apprendimento produce molti punti di partenza.10 2 (R 52, R 63) DIOG. LAERT., IX, 8, 53: e trovò per primo il cosiddetto cercine,11 sul quale si portano i pesi, come battaglia decisiva tra gli eserciti di Otone e Vitellio. Lo ebbe poi suo ospite in Beozia, e con lui volle recarsi alle Termopili.A quest’occasione fanno riferimento le parole non riportate da Ross nel frammento, ma da noi citate in nota (cfr. nota successiva), in traduzione italiana. 9 Rivestono una qualche importanza, anche ai fine dell’esegesi del frammento, senz’altro come testimonianza sulla biografia di Floro, le parole di Plutarco che Ross ha ritenuto di omettere. Eccole: «essendosi imbattuto nei Problemi fisici di Aristotele, che aveva portato alle Termopili, come sogliono convenientemente avvertire le nature filosofiche si riempiva ecc.». 10 Mantengo (con Giannantoni e Laurenti) la lezione dei codici àrc¿©, che Rose nella seconda edizione dei frammenti (1870) e terza (1886), dopo che nella prima (1863) aveva recensito ancora àrc¿© e Ross correggono in tarac¿© (turbamenti), seguendo la congettura di Wyttenbach. Reiske mantiene àrc¿©, ma aggiunge àporián (inizi di difficoltà), ma non necessariamente, secondo l’esegesi del frammento che si è proposta (cfr. Introduzione, pp. 412 s.). 11 Ossia quel panno ravvolto in cerchio che si pone sul capo per rendere meno faticoso l’appoggiarvi e il portare pesi.

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12 Si tratta della lettera Sulle occupazioni (per‰ âpithdeum¿twn. Ma alcuni studiosi, al fine di rendere evidente di che genere d’occupazioni si tratta, la indicano anche in modo da non ripropone ad litteram l’espressione greca. Così Gulick 1930, p. 103 traduce per‰ âpithdeum¿twn con «On evocations» e Bignone 1973, II, p. 56 con «Delle occupazioni degne di un filosofo»), com’è espressamente identificabile in Athen., VIII, p. 354 b = Usener, Epicurea, p. 152 (si veda anche Arrighetti 1973, p. 419 e note). Crönert 1906, pp. 16-20 ha sostenuto che tale lettera coincideva con quella che Epicuro scrisse ai filosofi di Mitilene, luogo in cui, notoriamente, Aristotele aveva soggiornato al tempo del distacco dall’Accademia ed era perciò molto viva l’adesione al suo pensiero, al fine di difendersi dalle accuse che i seguaci dello

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afferma Aristotele nell’opera Sull’educazione. Infatti era portatore di legna, come anche Epicuro dice in qualche luogo;12 e in questo modo risultò gradito13 a Democrito, essendo stato visto mentre legava dei legni.

Stagirita gli muovevano. Tale ipotesi è condivisa da molti studiosi, a partire da Bignone (Ivi) e Arrighetti (1960, p. 599). 13 Così, tra gli altri, intendono õrqh Giannantoni (1973, p. 179: «riuscì gradito») e Gigante (1962, p. 126: «riscosse l’ammirazione»). Per contro, Heitz (1869, p. 61) traduce con «Democrito innotuit»; parimnenti Ross (1967, p. 64): «was brought to the notice of Democritus». Hicks (1959, p. 161) traduce invece con «he was taken up by Democritus», e in questo senso interpretano anche Capizzi (1955, p. 156: «Democrito se lo portò via con sé») e Laurenti (1987, II, p. 963: «fu portato via da Democrito»).

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INTRODUZIONE

1. Lo scritto aristotelico Sul regno, in un unico libro, è indicato al n. 18 del catalogo di Diogene Laerzio, dove al numero precedente è registrato l’Alessandro o delle colonie, e al n. 16 del catalogo dell’Anonimo (che distanzia però l’indicazione dell’altra opera al n. 22). Il catalogo di Tolomeo lo presenta in sei libri, ma l’informazione né ha trovato il consenso degli studiosi, né, francamente, sembra credibile in ragione del carattere esortativo dello scritto, di cui subito diremo. Già la vicinanza con cui Diogene Laerzio indica i due scritti può essere significativa al fine di testimoniare anche la vicinanza di contenuti e d’intenti dai quali erano animati. Il che sembra altresì suffragare Ps.Ammonio (In Arist. Cat., Cod. Ven. 1546 f, 9b = test. 3) ove dice che su richiesta di Alessandro lo Stagirita «ha scritto sul regno e su come si devono creare le colonie (per› te basile›a© ka‰ ¬pw© deÖ t·© àpoik›a© poieÖsqai gegr¿fhke)». Certo è in ogni caso che, sul piano esegetico e critico, un tale accostamento non ha certo facilitato il compito degli studiosi, ma semmai lo ha complicato, rendendo più difficile individuare gli specifici contorni di ciascuno dei due scritti e l’appartenenza a esso dei pochi frammenti rimasti. L’affinità è data, innanzitutto, dalla destinazione di entrambe le opere al medesimo soggetto: Alessandro Magno, nonché dal fatto che in entrambe Aristotele gli forniva

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consigli e, in terzo luogo, su argomenti che, certamente distinti, quali effettivamente sono il buon governo e la fondazione di colonie, hanno tuttavia un denominatore comune nell’insistere l’uno e l’altro sul complessivo terreno della politica, con le necessarie implicazioni di carattere etico, oltre che tecnico, che questa materia ha in Aristotele. Questo spiega perché, per altro verso, la difficoltà di definire l’appartenenza dei frammenti si allarga fino a investire anche altri scritti, per così dire, giovanili dello Stagirita ove il momento etico-politico è non meno centrale, il Protrettico in primis. Per quanto poi determinatamente riguarda il Sul regno, accanto a questi problemi un altro si affaccia, ossia quello di sapere se era una lettera di Aristotele al discepolo o un’opera scritta per lui, forse su sua stessa richiesta. Donde, di conseguenza, anche la questione del tempo della sua composizione. 2. Di fronte a uno spettro problematico di così vasta ampiezza e a questioni così ardue da sciogliersi è normale che le posizioni degli studiosi divergano più che su altri scritti. Di fatto, esse abbracciano quasi l’intera gamma delle possibili soluzioni. Possiamo, schematicamente, così delinearle: 1) taluni, come Heitz (1869, pp. 59-60), Rose (1886), Weil (1960, pp. 157-159), Plezia (1961/b, pp. 94 s.) e Laurenti (1887, II, p. 882), ritengono che si tratti di un’epistola o tutt’al più di un discorso («de cohoratoria quaedam epistula sive oratione», scrive espressamente Heitz, aggiungendo subito dopo «qualis Theopompi quoque liber fuit, cum quo a Cicerone coniungitur»), altri, invece – ed è la maggioranza degli studiosi attuali –, che sia un dialogo (così, tra gli atri, Rose 1863, Bernays 1868, pp. 53 ss. e pp. 154-155, Rose 1870, Jaeger 1923 [1964, p. 349] e Moraux 1951, p. 28).

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2) Quanto ai frammenti da attribuirsi allo scritto, un primo nodo problematico – ed è quello per più aspetti decisivo – è costituito dai passi di Plutarco, De Alex fortit., 329 b e Strabone, I, 4, 9, che Heitz nella sua edizione attribuisce al nostro scritto, riscuotendo in ciò l’approvazione di Bernays (Ivi), il quale proprio su questi due passi fonda la sua interpretazione dell’opera, incentrata sulla tesi che in essa Aristotele esaltava ad Alessandro i Greci di contro ai barbari, in perfetta sintonia, del resto, con le posizioni della Politica, e ai Macedoni, invitandolo perciò ad avere un diverso atteggiamento nei riguardi degli uni e degli altri. Altri editori, invece, tra i quali anche Ross (ma già Rose, in tutte e tre le edizioni) escludono i due passi da Sul regno, ravvisando in essi un tipo di considerazioni di ordine differente da quelle svolte negli altri frammenti e, in particolare, nei due passi dello Ps.-Ammonio (Cod. Ven. 1546 f, 9b = test. 1/c; Cod. Ven., 1546 f, 5b = fr. 1/a). In questi ultimi, si sottolinea, l’esigenza che soprattutto emerge è di fornire al principe consigli sul buon governo, in relazione, dunque, a una fase della sua esistenza nella quale egli non ha ancora assunto il regno o è appena succeduto a Filippo, mentre nei passi in oggetto è il tema del divario tra Greci e barbari a tenere il campo, manifestando la sottolineatura di questo tema stesso al sovrano che egli non soltanto era già asceso al trono, ma aveva portato il suo regno a un livello di grandezza e di potenza tali da essere arbitro incontrastato della situazione politica, sì che in riferimento a essa si giustifica, unitamente al diverso ambito problematico, l’invito di Aristotele a una tale considerazione. Tra gli studiosi che fissano l’attenzione su questo divario tra i due blocchi di frammenti, alcuni hanno riferito i passi di Plutarco e

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Strabone o al periodo di Mieza (così Chroust 1973, p. 217) o subito dopo la morte di Filippo (così Düring 1976, p. 19), altri invece li hanno riferiti a un periodo cronologicamente molto posteriore, ossia al tempo della campagna di Persia (così Laurenti, 1987, II, p. 879).1 3) Un secondo nodo problematico è poi costituito dall’individuazione di ciò a cui si riferiva Cicerone là dove nell’epistota Ad Att., XII, 40, 2 parla di un sumbouleutikfi© che, al pari di quello che Aristotele ha indirizzato ad Alessandro, egli intende inviare a Cesare. Si è in presenza di una semplice annotazione erudita con la quale l’Arpinate manifesta il suo intendimento di dare consigli al dittatore così come lo Stagirita ne aveva dati all’insigne discepolo, oppure dietro quell’espressione è da vedersi un riferimento a uno scritto di Aristotele? E in questo caso di quale scritto si tratta? Per la seconda soluzione si è espresso, tra gli altri, Rose, il quale tuttavia nella prima edizione dei frammenti (1863, fr. 593) ha scorto nel sumbouleutikfi© un’opera di Aristotele diversa sia dal Sul regno che dalla lettera, scritta dallo Stagirita ad Alessandro, comunemente indicata come De regimine, mentre nella seconda edizione (1970, frr. 78-79), e così pure nella terza (1886, frr. 646-647), ha ritenuto che riferendosi al sumbouleutikfi© l’Arpinate avesse in mente proprio il Sul regno, così da accogliere il relativo passo ciceroniano, unitamente a quello parallelo della medesima Epistola ad Attico, III, 28, tra le testimonianze dell’opera, la quale – ricordiamolo – nell’e1 Merita una considerazione a parte la posizione di Barker 1959, p. 212, il quale attribuisce il passo di Plutarco al Sul regno, ma fa presente che l’invito di Aristotele ad Alessandro di trattare diversamente i Greci dai barbari si riferiva «in his new empire».

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dizione del 1870 era ancora considerata un dialogo, mentre in quella del 1886 veniva annoverata tra le orationes et epistulae. Ma, a ben vedere, anche la prima ipotesi, quella cioè secondo cui sumbouleutikfi© è soltanto una nota erudita, senza alcuno specifico riferimento a uno scritto aristotelico, ma calibrata semplicemente in rapporto alla distinzione dei tre generi retorici stabilita da Aristotele in Rhet., I, 3, 1358 a 36 ss. e, in specie, al genere deliberativo, si è fatta strada, e pare soprattutto asserita, ancorché in modo indiretto, nelle esegesi di quanti studiosi di proposito non si sono impegnati a ricercare a quale scritto si riferisce l’annotazione ciceroniana. 4) Quanto infine alla data di composizione, il relativo problema si connette strettamente, com’è ovvio, sia a quello dell’appartenenza o meno dei passi di Plutarco e Strabone al Sul regno, sia a quello dell’individuazione in esso di uno scritto o di una lettera (o di un semplice discorso), e anche le opinioni degli studiosi si diversificano in relazione a queste ipotesi. Si è già accennato a quelle avanzate da Chroust e Düring. Qui va fatto presente che, ove si riconosca che i suddetti passi di Plutarco e Strabone non appartengono al Sul regno, il cui contenuto e intendimento sono invece espressi dai due brani dello Ps.Ammonio, corredati dalle due testimonianze di Cicerone e da un passo di Temistio (Or., 107 c-d) ascritto all’opera già da Rose 1863, è pressoché inevitabile assegnare allo scritto una datazione pristina, attribuendolo cioè al tempo in cui Alessandro si accingeva ad assumere il trono, giacché allora egli aveva bisogno dei consigli del filosofo su come ben regnare e, per converso, allora è più che mai logico credere che Aristotele glieli fornisse. In questo quadro, l’alternativa più rimarchevole vede in campo,

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da un lato, la data del 340 a.C., quando cioè Filippo, dovendo muovere contro Bisanzio, affidò la reggenza del regno ad Alessandro appena sedicenne. Tale l’ipotesi avanzata da Plezia (1961, p. 102). Dall’altro, la data del 336 a.C., ossia quando il giovane principe salì al trono. È l’ipotesi, in realtà molto più convincente, formulata da Laurenti (1987, II, p. 882). In quest’orizzonte cronologico di una datazione pristina, riportare il Sul regno già al tempo dell’insegnamento di Aristotele presso la corte macedone, come, tra gli altri, ha supposto Ehrengerg (1938, pp. 85-87), è meno credibile, in quanto una tale ipotesi, pur potendo vantare a suo favore il carattere etico dell’idea di regno espressa nello scritto (che in tal caso non può essere una lettera, ma un’opera di maggior consistenza) e la perfetta sintonia di questa prerogativa con il tipo d’insegnamento impartito dallo Stagirita al giovane allievo anche a proposito del regnare, cozza però, a me sembra in modo insuperabile, con la testimonianza di Cicerone. In essa, infatti, e nel relativo riferimento al sumbouleutikfi©, sia che vi si voglia vedere un rimando al Sul regno, sia che si tratti di un semplice richiamo erudito, è in ogni caso espresso lo specifico motivo del fornire al monarca consigli politici, e così del resto è teorizzato da Aristotele nella determinazione del corrispondente genere retorico (cfr. Rhet., I, 4); ma nell’«insegnare» al giovane principe come dev’essere gestito il regno perché sia eccellente, non è in gioco un consiglio politico, sibbene una dimensione di carattere innanzitutto e primariamente pedagogico. 3. Già dalla rapida e sommaria rassegna delle principali posizioni sostenute dagli studiosi di fronte ai problemi sollevati da Sul regno, alcune tesi sembrano emergere

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con rilevante nettezza e costituire, di conseguenza, altrettanti punti fermi su cui impostare l’esegesi. Tale nettezza deriva sia dall’asseverato consolidamento delle tesi in rapporto allo stato attuale delle ricerche, sia dal maggior consenso riscosso lungo il corso della storia delle esegesi. 3.1 Una di esse sembra proprio l’esclusione dei passi di Plutarco e Strabone dal quadro problematico e teorematico dell’opera in oggetto: per i motivi anzi illustrati, facenti capo alla differente specificità del tema trattato e al diverso atteggiamento di Aristotele di fronte al sovrano, unitamente allo scarso credito ricevuto dall’opposta posizione di Heitz e Bernays, di fatto non seguita in nessuna delle successive edizioni dei frammenti aristotelici. Ma anche perché il tema della necessità di un diverso atteggiamento verso i Greci e i barbari, se da un lato, pur nella sua evidente diversità da quello dell’offerta di consigli sul ben regnare, non appare tuttavia inconciliabile con questo secondo, appare però del tutto stonato rispetto alla temperie entro cui questo secondo stesso si colloca. Una temperie per la quale il dato dottrinale, di natura politica e perciò etico-pedagogica, secondo un’identità al cui significato già abbiamo fatto cenno e sulla quale dovremo ben presto tornare come su uno dei tratti caratterizzanti i contenuti teorici dello scritto, si mescola con il motivo della rivalità tra l’Accademia platonica e la scuola di Isocrate in ordine ad analoghe iniziative e a similari posizioni parimenti assunte da quest’ultima nei confronti di Alessandro Magno. In effetti, nel 346 a.C. Isocrate pubblica il Filippo nel quale, superata ormai, perché ritenuta inutile e inadeguata rispetto ai tempi, l’idea di un discorso a una grande assemblea panellenica, rappresentava, per contro, l’opportunità di

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avere un sostenitore (un prost¿th©) presso la corte macedone. Si trattava in buona sostanza della stessa idea che si rinviene concretamente attuata nella figura del filosofo che dà consigli al principe, paradigmaticamente espressa da Aristotele. Con il Filippo, dunque, Isocrate si offriva di svolgere il medesimo ufficio che sarà invece affidato allo Stagirita. Ché, com’è noto, nel 343 a.C. Filippo lo chiama alla corte macedone come precettore del figlio Alessandro. Dovette essere un duro colpo per Isocrate, che nel 342/341 a.C. scrisse una lettera ad Alessandro (trattasi della V lettera in Mathieu-Brémond 1962, pp. 214215, la quale allo stato attuale può ritenersi autentica, nonostante le molte discussioni in proposito),2 dove duramente polemizzava contro l’insegnamento praticato nell’Accademia. Ebbene, Sul regno, con l’insegnamento proposto al principe su come ben governare, s’inserisce a pieno titolo in quest’intenso dibattito e si confà perfettamente a una tale temperie, in virtù dell’aspetto etico-pedagogico di cui è espressione e del quale è eloquente testimonianza la Vita marciana ove sottolinea il carattere didattico dello scritto (cfr. 1/b: «Aristotele scrive per Alessandro un libro sul regno, insegnandogli (did¿skwn) come bisogna regnare»): proprio quell’aspetto che, mancando invece ad un consiglio di ordine schiettamente politico, espresso in un contesto dove non già il momento educativo, ma quello strategico tiene primariamente il campo, quale per l’appunto si configura essere il suggerimento di trattare diversamente Greci e barbari, ben palesa l’incongruità di questo secondo rispetto a una tale temperie.

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A riguardo si veda pure Merlan 1954, pp. 60-81.

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3.2 Parimenti sembra poco probabile che Sul regno sia stato un lettera o – ancor meno – un semplice discorso, e lo prova il fatto che le fonti lo indicano espressamente come libro. Quale «libro» scritto per Alessandro lo presenta, infatti, la Vita marciana (fr. 1/b: gr¿yei tˇá ’Alex¿ndrˇw bibl›on per‰ basile›a©) e di esso come di opera «in un unico libro» dà notizia Ps.-Ammonio (fr. 1/a: ân ën‰ monobibl›ˇw), una notizia che, al pari di quella resa dall’altra fonte, è in tutta evidenza incompatibile con l’ipotizzato essere il nostro scritto una lettera e che, per converso, al pari della precedente si confà a pieno titolo ove si tratti di un dialogo. E non sembra sostenibile la tesi di Laurenti (1987, II, p. 882) secondo cui, potendo essere stata la lettera di una certa estensione, non era improprio indicarla come libro. Una lettera, per quanto lunga possa essere, non può in ogni caso essere indicata come scritta «in un unico libro», dove – si badi – la stonatura non è soltanto rispetto a «libro», ma ancor più rispetto all’unicità del libro, giacché l’essere redatto in uno o più libri è caratteristica propria di uno scritto articolato in più scansioni, non di una lettera. 3.3 Proprio la corrispondenza del dialogo alla temperie culturale di cui s’è detto, il suo inserirsi nel vivo della polemica tra le due scuole, ed esattamente su quel tema della politica sul quale Platone si era ampiamente e nettamente espresso e Isocrate, dal canto suo, non aveva fatto di meno, entrambi proponendo una concezione della paideia di cui il momento politico è parte integrante, conferma la congruità dell’ipotesi cronologica che colloca la composizione del dialogo nel 336 a.C. Tutto ciò rafforza la sua datazione pristina e al tempo stesso i motivi, già espressi, che inducono a non anticiparne la redazione al tempo dell’ini-

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ziale soggiorno di Aristotele presso la corte macedone e del suo primo insegnamento ad Alessandro, né a posticiparla al 340 a.C. 3.4 Poiché sumbouleutikfi© è termine con il quale in Rhet., I, 3 Aristotele indica determinatamente il genere deliberativo, ossia quel genere di retorica ove il convincimento riguarda la pratica politica, ha per oggetto la guerra e la pace, la difesa del territorio, le importazioni e le esportazioni, la promulgazione delle leggi e per ciascuno di questi argomenti richiede specifiche conoscenze,3 mentre nulla di tutto questo è immaginabile che possa aver costituito l’oggetto di un consiglio dal tono etico-pedagogico rivolto ad Alessandro su come un monarca deve regnare, e tale scissione si acuisce ove si pensi che, come cercheremo di mettere in chiaro, in linea con Laurenti, l’idea del buon governo coincideva nello scritto Sul regno con quella di beneficiare i sudditi, è difficile credere che con quel termine Cicerone, se intese designare quel3 Sempre in Rhet., I, 4 Aristotele precisa che, riguardo alle risorse si devono conoscere (a) le entrate e (b) le spese della propria città, onde intervenire opportunamente se qualcuna delle prime venga meno o qualcuna delle seconde sia superflua. Nella qual cosa si è agevolati se ci si informa di quanto è stato fatto da altri popoli; (2) riguardo alla guerra e alla pace, si devono conoscere (a) la quantità e (b) la natura della potenza che la propria città possiede attualmente, (c) la potenza che essa può ulteriormente acquisire, (d) quali guerre ha combattuto e come, (e) la potenza, attuale e possibile, delle città limitrofe e le guerre che esse hanno combattuto; (3) riguardo alla difesa del territorio, si devono conoscere (a) il modo di attuarla, (b) la natura delle fortificazioni e (c) gli avamposti dei corpi di guardia; (4) riguardo alle importazioni e alle esportazioni, si devono conoscere (a) i generi alimentari di cui la città ha bisogno, (b) quali essa produce e quali invece, e da quali popoli deve importare, (c) quali poi può esportare; (5) in merito ala promulgazione delle leggi, si devono conoscere (a) i tipi di costituzione, (b) che cosa è vantaggioso a ciascuna e da che cosa ciascuna è corrotta, o per rilassamento o per eccessiva tensione.

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l’opera, abbia pensato di denotarne in modo determinato e specifico i contenuti. Se il riferimento è a Sul regno, pare che il richiamo a sumbouleutikfi© sia piuttosto l’annotazione erudita, ma volutamente vaga, con cui indicare un atteggiamento e un impegno. In realtà, quell’atteggiamento e quell’impegno di consigliere morale che Aristotele aveva assunto nei confronti di Alessandro, redigendo per lui un tale scritto, l’Arpinate si proponeva di svolgere nei confronti di Cesare. E che, d’altro canto, tale riferimento non potesse che essere a Sul regno e non agli specifici contenuti che caratterizzano il genere deliberativo della Retorica, quali abbiamo sopra delineato, è lampante dal fatto che non avrebbe avuto senso, per Cicerone, proporsi un compito siffatto nei confronti del dittatore suo avversario, lui che sottopose addirittura la lettera che aveva preparato per Cesare al giudizio degli amici e dei partigiani dell’imperator. Nei confronti di Cesare egli si proponeva il compito, più modesto dal punto di vista della pratica politica, ma molto più nobile e importante dal punto di vista della possibilità della filosofia di incidere sapienzialmente sulla politica stessa, di rivolgergli un suggerimento dal tenore universale e dal carattere etico, e per questo, pur usando il termine proprio della tecnica retorica in materia di consiglio sulla concreta azione politica, il riferimento era tuttavia a Sul regno. In questo senso, si diceva, nell’uso di quel termine può scorgersi un’annotazione erudita: giacché con esso l’Arpinate attingeva dalla Retorica per intenzionare il nostro dialogo. 4. Dalle informazioni ricavabili dai frammenti, quali sembra, dunque, opportuno attribuire al dialogo, alcune tematiche di fondo s’impongono all’attenzione come contenuti filosoficamente salienti dell’opera.

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4.1 Viene, innanzitutto, in luce quale idea sorreggeva e sotto quale specifico contenuto prendeva concreta forma quel modo conveniente di regnare che con il dialogo Sul regno Aristotele intendeva insegnare (cfr. fr. 1/b: did¿skwn) ad Alessandro, che gliel’aveva chiesto (test. 3). La Vita marciana (fr. 1/b) lo enuncia, e lo fa in termini tali da rendere quanto mai evidente, perché sottolineato persino nella forma espressiva, che la specificazione di tale contenuto corrisponde alla realizzazione del suddetto scopo. «Perché anche benefichi tutti gli uomini (îna d‚ ka‰ p¿nta© ànqrfipou© eéerget‹sˇ h ), scrive per Alessandro un libro sul regno, insegnandogli come bisogna regnare.» Dunque, il beneficiare la totalità dei soggetti umani, ossia i sudditi di un impero che mirava a essere universale, rappresenta al tempo stesso l’attuazione del modo in cui un sovrano deve regnare (cfr. fr. 1/a: ¬pw© deÖ basileueÖn), la forma concreta nella quale tale modalità si realizza e lo scopo (¥na) per il quale lo Stagirita, scrivendo Sul regno, forniva il suo insegnamento al sovrano. Nell’idea di beneficiare i sudditi si annodano, per così dire, i fili di tutte le istanze dottrinali dello scritto. (a) Esso, come s’è testè detto, rappresenta lo scopo di un’attività d’insegnamento. (b) Parimenti, poiché beneficiare è un atto di natura etica (e di questo carattere qualifica l’azione politica), l’insegnarlo corrisponde eo ipso a un’attività educativa, a una forma di paideia (fr. 1/a: «ad Alessandro scrisse un’opera in un unico libro anche sul regno, educandolo (paide‡wn) su come si deve regnare») – ond’è che anche l’insegnamento politico, essendo un insegnamento di carattere etico (e non già tecnico, almeno in senso primario), è per ciò stesso un insegnamento sorretto da finalità educative. Tale l’idea che si staglia della politica.

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(c) Nondimeno, nel beneficiare prende concreta forma anche l’azione del consiglio, quel sumboule‡ein, richiamato da sumbouleutikfi©, che per l’intreccio stesso dei concetti in cui appare qui inserito si calibra esso medesimo di una marcata tinta etica e pedagogica – potendosi così ribadire che in sumbouleutikfi© è certamente opportuno scorgere un preciso riferimento al nostro scritto, ma in quanto annotazione erudita che usa un vocabolo coniato per denotare il consiglio politico di natura pratica e fattuale, per indicare cioè il suggerimento educativo che il maestro rivolge all’allievo quando con lui parla di politica. (d) Ancora, nel beneficiare, in quanto contenuto del consiglio politico (suasiones) espresso nelle «opere di uomini eloquenti e dotti (hominum eloquentium et doctorum)» (test. b), è manifestamente indicata un’azione sapiente, tale essendo quella degli individui ricordati nella testimonianza di Cicerone. (e) Va infine messo in chiaro come proprio sul terreno del beneficiare i sudditi Aristotele, quale rappresentante dell’Accademia e propugnatore del suo programma educativo, abbia intrapreso direttamente lo scontro con Isocrate, il quale nel Filippo esortava il sovrano a «beneficiare i Greci (toÊ© m‚n òEllhna© eéergeteÖn), essere re dei Macedoni (Makedfinwn d‚ basileueÖn) e dominare il più gran numero dei barbari (tán d‚ barb¿rwn ó© ple›ston àrceÖn)» (Isocr., Fil., 154), secondo una scansione in cui in rapporto alle tre popolazioni si distingue anche la necessità (deÖ) di differenti azioni da parte del monarca. Se questo suggeriva Isocrate a Filippo nel 346, data dell’omonima opera, circa dieci anni dopo Aristotele, che nel frattempo aveva già sconfitto il rivale sul piano del riconoscimento da parte di Filippo stesso, che a lui aveva affidato l’educazione del figlio, poteva sostanziare la

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sua opera etico-pedagogica d’insegnamento e di consiglio all’illustre allievo, nel momento in cui si accingeva a salire sul trono, riprendendo, sì, la medesima idea del beneficio quale segno della bontà di un governo, ma dilatandone la portata fino a farle abbracciare la totalità dei sudditi, ossia inquadrandola sotto l’egida dell’universalità che segna il livello della riflessione filosofica. E i suggerimenti, gli insegnamenti e l’educazione offerti da Aristotele ad Alessandro si caratterizzavano proprio e innanzitutto per questa dimensione: anche là ove il loro oggetto era la politica. 4.2 Mette conto, infine, fissare l’attenzione sull’importante rilievo formulato da Temistio (fr. 2). La ben nota dottrina platonica dell’identità tra re e filosofo – intorno alla quale già nell’Accademia si svolsero ampie discussioni – non va esente da rischi. L’autore si riferisce, con ogni probabilità, alle aberrazioni conseguenti all’assetto che uno stato ideale fondato su tale identità deve comportare, con la comunanza delle donne e dei beni e lo schiacciamento dell’individuo nell’imponente ingranaggio che finalizza interamente la sua esistenza al servizio dello stato. Per converso, Aristotele – sottolinea Temistio, non senza una punta d’ironia là dove dice che la differenza è piccola («avendo mutato di poco le parole di Platone [mikrÂn t· Pl¿twno© ®‹mata metaqe›©]»). In realtà, è immensa – rifiuta di avvalorare una tale identificazione e sostituisce la figura del filosofo-re con quella, da un lato, del filosofo consigliere del re e, dall’altro, del re quale soggetto così educato alla filosofia da essere in grado di incontrare i suggerimenti del filosofo; e una tale modifica – precisa ancora Temistio – ha dato luogo a un «discorso più vero (tÂn lfigon pepo›hken àlhq¤steron)». Come dunque si può constatare, trattando di politica col grande discepolo,

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lo Stagirita non abbandona il piano etico-pedagogico che caratterizza l’idea platonica dello stato e che, propriamente, conferisce alla riflessione sulla politica l’impronta propria della filosofia, ma conferisce a una tale dottrina una curvatura più adeguata alle esigenze della politica e per questo «più vera».

4 Dopo la vittoria di Munda (nel marzo 45 a.C.). Una tale lettera con la quale dare al vincitore consigli per un buon governo, Cicerone, cedendo alle esortazioni di Attico, redasse il 13 maggio, sia pur con non poca fatica, ma non la inviò. Lo dichiara Cicerone stesso in una lettera ad Attico il giorno dopo (Ad Att., XIII, 26). In essa così dice: «è incredibile quanto scriva, anche durante la notte. Non concedo niente al sonno. Ieri ho terminato la lettera a Cesare che mi hai consigliato. Certo, non è stato male scriverla, se tu la ritenevi necessaria, ma nella stagione attuale non c’è bisogno d’inviarla. E tuttavia fa come ti parrà giusto». Si rammenti che sumbouleutikfi© è il termine con il quale Aristotele in Rhet., I, 3, 1358 a 36 ss. indica uno dei tre generi di quest’arte, quello, per l’appunto, deliberativo, inteso a dar consigli all’uomo politico – accanto al genere epidittico e al genere giudiziario. 5 Probabilmente, oltre al Sul regno, di cui è già da vedersi un riferimento nel precedente sumbouleutikfi©, il Grillo e i primi due libri della Retorica, in quanto trattati, questi secondi, nei quali il tema del consiglio politico riveste una parte centrale, tanto che lo stesso termine sumbouleutikfi© è derivato da essi (cfr. Introduzione, p. 428 e la nota precedente), e in quanto dialogo, il Grillo, avente direttamente per tema la retorica, di cui il consiglio politico è parte costitutiva. 6 Famoso discepolo di Isocrate, del quale Ateneo testimonia che in-

TESTIMONIANZE

CIC., Ad Att., XII, 40, 2: spesso tento di scrivere una lettera atta a dare consigli ,4 ma non trovo niente. Eppure ho sempre con me di Aristotele5 e di Teopompo6 ad Alessandro. Ma che cosa hanno di simile? Essi scrivevano cose che fossero sia decorose per loro stessi, sia gradite ad Alessandro. E che cosa troverai tu di questo genere «nella mia lettera»? CIC., Ad Att., XIII, 28, 2: ma non mi viene in mente niente. Tu vedi, infatti, quali argomenti hanno a oggetto quelle di uomini eloquenti e dotti che sono persuasioni per Alessandro. Esse esortano all’onore un tervenne due volte presso Alessandro: una prima volta (VI, 230 f) lo nomina come autore di uno scritto in cui dava consigli al sovrano (ân taÖ© pr© ’Al¤xandron sumboulaÖ©) e nel quale, tra l’altro, esponeva il caso di un suo concittadino, di nome Teocrito, che, arricchitosi, faceva sfoggio della sua fortuna bevendo in tazze d’oro e d’argento, mentre prima possedeva al più una tazza di terracotta; e una seconda volta (XIII, 595 a ss.), a proposito della lettera che indirizzò ad Alessandro (ân tˇÉ pr© ’Al¤xandron âpistolˇ É) per denunziare l’intemperanza e l’avidità del suo tesoriere Arpalo. Per il tenore e contenuti dei due scritti, è ragionevole credere che il primo sia anteriore al secondo e si collochi al tempo del ritorno di Teopompo in patria dall’esilio, nel 332 a.C. A esso, che, come si può vedere, aveva un carattere più marcatamente etico, fa qui, probabilmente, riferimento Cicerone, mentre il secondo, databile in un tempo successivo, e verosimilmente dopo il rientro di Alessandro in Babilonia, rappresentava una sorta di resoconto informativo, così che meno bene gli si confà il dare suggerimenti.

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7 Queste espressioni nascono dallo sconforto di Cicerone per la risposta che gli amici e i partigiani di Cesare gli danno, tramite Attico, circa la lettera di consigli che egli aveva redatto per il dittatore e sulla quale aveva richiesto il loro parere. La risposta fu per lui dura e pesante: avrebbe dovuto essere ben altrimenti elogiativo nei confronti di Cesare. Cicerone in una lettera ad Attico del 25 maggio (Ad Att., XIII, 27) li ringrazia di non avergli tenuto nascosti i loro pensieri, forse ironicamente, certamente con grande amarezza, e al tempo stesso dichiara che le cose da cambiare nella sua lettera sarebbero talmente numerose da ritenere meglio non mettervi mano. Il giorno successivo, ossia il 26 maggio, scrive sempre ad Attico l’epistola da cui è tratto questo frammento: pieno anch’esso di sconforto e di rassegnazione. Si noti: a Cicerone, dopo la risposta che ebbe, non viene più in mente nulla che possa dire. Resta ammutolito. Indi la riflessione: i

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giovane acceso dal desiderio di vera gloria, desideroso che gli sia dato qualche consiglio che valga per la lode eterna.7 Ps.-AMM., In Arist. Cat., Cod. Ven. 1546 f, 9b: dunque, sono particolari8 tutte quelle che sono scritte privatamente per qualcuno, come le lettere e tutte quelle che ha scritto perché richiesto da Alessandro il Macedone sul regno e su come si devono creare le colonie.9

FRAMMENTI

1 (R 78, R 646) Ps.-AMM., In Arist. Cat., Cod. Ven., 1546 f, 5b: ad Alessandro scrisse un’opera in un unico libro anche sul regno, educandolo su come si deve regnare. Vita Aristotelis Marciana, p. 430, 15-431, 2: perché anche benefichi tutti gli uomini, scrive per Alessandro un libro sul regno, insegnandogli come bisogna regnare. Cosa che operò sull’anima di Alessandro in modo tale che, quando non beneficava qualcuno, diceva: «oggi non regnai; infatti non beneficai nessuno».

consigli dati dai filosofi (Aristotele, innanzitutto: è a costui, con ogni probabilità, che pensa Cicerone parlando di uomini eloquenti e dotti) ad Alessandro erano consigli per un giovane desideroso di gloria eterna, mentre quello che, a questo punto, egli potrebbe dire a Cesare sarebbero solamente vane celebrazioni, perché così richiedono i suoi partigiani. 8 Sulla distinzione di Ammonio tra i diversi tipi di opere aristoteliche e, in specie, sulle opere «particolari (merik¿)», cfr. la testimonianza n. 24 e la relativa nota 38. 9 Riportato anche come fr. 1 dello scritto Alessandro o sulle colonie.

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2 (R 79, R 647) THEM., Orat., 107 c-d: ebbene, Platone, se in tutte le altre cose fu divino e degno di rispetto, propose però in modo assolutamente arrischiato questo discorso, ossia che i mali per gli uomini non cesseranno prima che o regnino i filosofi, o i re filosofino.10 Ma questo discorso col tempo è stato confutato e ha pagato lo scotto.11 Invece Aristotele è degno d’essere venerato perché, avendo mutato di poco le parole di Platone, ha fatto un discorso più veritiero, sostenendo che per il re non solo non è necessario filosofare, ma è anche d’impedimento; invece che incontri con buona disposizione a essere persuaso e ben volentieri coloro che filosofano veramente. Infatti, avrebbe riempito il regno di buone opere e non di parole.

10

Così in Resp., 473 d e in Epist. VII, 326 b. Accenno alle obiezioni che furono portate alla dottrina politica di Platone, probabilmente già all’interno dell’Accademia. 11

ALESSANDRO O SULLE COLONIE ALECANDROS H UPER APOIKIWN*

* UPER APOIKIWN è il titolo che, con la maggior parte degli editori, adotto per questo scritto. L’edizione di Ross reca invece UPER APOIKWN (in proposito si veda Introduzione, pp. 449 ss.).

INTRODUZIONE

1. Già il titolo di questo scritto costituisce un problema. Il catalogo di Diogene Laerzio (V, 21) lo indica infatti, al n. 17, come Alessandro o Sui coloni (’Al¤xandro© Í ñp‚r àpo›kwn), in un libro, mentre il catalogo dell’Anonimo lo riporta, al n. 22, con il titolo di Alessandro o sulle colonie (’Al¤xandro© Í ñp‚r àpoikián), sempre in un libro. Anche in proposito, le opinioni degli editori e degli studiosi sono differenti. Per la maggior parte essi hanno optato a favore della seconda lezione: così, tra gli altri, Bernays (1868, p. 156), Moraux, ancorché con una lieve riserva (1951, p. 37: «ou plus probablement»), Weil (1960, p. 154), Düring (1976, pp. 19-20),1 Giannantoni (1973, p. 183) e Laurenti (1987, II, p. 913), mentre si sono espressi per la prima Rose, in tutte e tre le edizioni (1863, p. 95; 1870, p. 1489 [frr. 80-81]; 1886, p. 409 [fr. 648]), Heitz (1869, p. 61)2 e Ross (1958, p. 62). A favore della seconda lezione sembra deporre anche Ps.-Ammonio Cat. (Cod. Ven. 1546 f. 9 b = fr. 1), dicendo che Aristotele scrisse per Alessandro, che gliel’aveva richiesta, 1 Tuttavia l’edizione tedesca, nella nota 12 di p. 65 reca «über Kolonialisation». 2 Tuttavia in 1865, p. 207, basandosi sul fatto che Athen. (IV, 144 a) attribuisce a Teofrasto uno scritto dal titolo Pr© K¿sandron per‰ basile›a© e che questo scritto nel catalogo di Diogene Laerzio è indicato come per‰ basile›a© a, suppone che anche l’opera di Aristotele si intitolasse originariamente pr© ’Al¤xandron ñp‚r àpo›kwn ka‰ basile›a© (Ad Alessandro sui coloni e sul regno).

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un’opera «su come si devono realizzare le colonie (¬pw© deÖ t·© àpoik›a© poieÖsqai)». L’aspetto nodale della questione, quello cioè che nel giudizio degli studiosi sembra aver condizionato in modo decisivo la scelta tra le due alternative, pare essere il peso che si è ritenuto abbia dato Aristotele alle colonie come semplici realtà «fisiche», ossia come gruppi di cittadini trasferitisi in altro paese, lì avendo fondato una città, intesa a sua volta come agglomerato di edifici, pubblici e privati, e in tal caso è chiaro che la preferenza va a ñp‚r àpoikián, oppure all’aspetto giuridico-normativo e politico delle colonie, quali realtà legate alla madrepatria da rapporti istituzionali e dalle medesime leggi, oltre che dalle stesse tradizioni, ma che avevano anche leggi proprie e che, comunque, la storia indica rivendicare, di volta in volta in modo più o meno pressante, una certa autonomia giuridica, politica ed economica, e allora si è optato per ñp‚r àpo›kwn. Un rilievo che a chi scrive sembra decisivo al fine di dirimere la questione è stato addotto da Laurenti (1987, II, p. 920) là dove, appoggiandosi a due passi della Politica (II, 10, 1217 b 27; IV, 4, 1290 b 14) e a Platone, Leg., 702 c, fa presente che àpoik›a riveste anche un significato «più complesso» di quello indicante le semplici abitazioni, nel quale pur si attesta, per esempio, in Pol., VI, 4, 1319 a 36 (più soggetti di una popolazione pongono le loro dimore lontano dal centro cittadino), ed esprime «non solo le abitazioni, ma soprattutto un ordinamento giuridico». Ora, se si dà importanza a questa valenza, com’è opportuno conferirgliene, è chiaro che Sulle colonie (ñp‚r àpoikián) è di gran lunga preferibile a Sui coloni (ñp‚r àpo›kwn), in quanto comprende ciò che è espresso da tale lezione e, in più, aggiunge una sfera di significati e di valenze fondamentalmente legati a ñp‚r àpo›kwn, per affermare i quali si è optato per questa lezione. Insomma, Sulle colonnie (ñp‚r àpoikián) sembra poter inglobare anche Sui coloni (ñp‚r àpo›kwn), in virtù del suo ampio spettro seman-

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tico, ed essere perciò pienamente adatta a significare anche quelle dimensioni politiche e giuridiche che s’intende porre in luce con l’altra lezione. 2. In effetti – e qui si tocca un secondo nodo problematico dell’Alessandro –, ove si avvalorino le testimonianze di Plutarco (De fortuna Alex., 1, 6, p. 329 = fr. 1/a) e Strabone (I, 4, 9, p. 66 = 2/b) viene in chiaro la valenza istituzionale e persino etico-culturale in cui la realtà delle colonie si affacciava nello scritto aristotelico, e con essa anche lo spessore della questione storica alla quale lo Stagirita con quest’opera dava risposta. Ma, come si accennava, fa problema l’appartenenza di questi due passi all’Alessandro, ed è un problema non meno arduo e dibattuto di quello, già incontrato, della possibilità di attribuirli a Sul regno. In essi, infatti, è attestato il diverso atteggiamento che Aristotele e altri suggerivano ad Alessandro di tenere verso i Greci e i barbari. Nel passo di Strabone si riporta poi la testimonianza di Eratostene secondo cui alcuni gli consigliavano addirittura di trattare i Greci come amici (ó© f›loi© crÉsqai) e i barbari come nemici (ó© polem›oi©). Il che rappresenta un problema nel problema in quanto, non trovando riscontro né queste espressioni né, ciò che più conta, un simile, specifico pensiero in alcuno scritto dello Stagirita, che consigliava invece all’illustre allievo di avere un diverso atteggiamento con i Greci e con i barbari, ma mai parla di atteggiamento amichevole o inimico con gli uni e gli altri, la circostanza è stata invocata per negare l’attribuzione del passo all’Alessandro; o – per meglio dire – per rafforzare una negazione, che già s’impone – ecco il nodo problematico cui si diceva all’inizio – considerando semplicemente la discrepanza tra una considerazione inerente all’opportunità di un atteggiamento diverso con i due tipi di sudditi, rispetto allo specifico tema di «come si devono realizzare le colonie (¬pw© deÖ t·© àpoik›a© poieÖsqwai)» (fr. 1).

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2. 1. Quanto al «problema nel problema», esso, in realtà, per un certo aspetto può anche considerarsi più formale che sostanziale. In effetti, nella testimonianza di Strabone, Eratostene non attribuisce direttamente ad Aristotele il suggerimento di trattare Greci e barbari come amici e nemici, ma l’attribuisce a coloro che in questo modo «dividevano in due (toÊ© d›ca aåro‡nta©) tutta quanta la moltitudine degli uomini» e consigliavano ad Alessandro di farlo a sua volta, dicendo di non approvare questo tipo di suggerimento e opponendovi quello di operare la divisione non in base alla razza, bensì alla virtù e al vizio (àretˇÉ ka‰ kak›ˇa diaireÖn). Ora, non c’è dubbio che anche lo Stagirita è chiamato in causa, seppure in modo indiretto. E se si chiedesse tra gli assertori di quale dei due tipi di divisione Eratostene lo annoverava, credo che bisognerebbe rispondere che lo annovera tra entrambi, ma sotto due diversi profili. Più precisamente, poiché per Aristotele la divisione tra Greci e barbari era fondamentalmente una questione di naturale e costitutiva capacità di acquisire cultura, una capacità posseduta dai primi e assente dai secondi, come comprova la bassa considerazione che nel primo libro della Politica egli mostra di avere per il modo di vivere e di organizzarsi in comunità dei barbari, e la cultura è ciò che contraddistingue in senso complessivo il contenuto della «virtù» (àret‹), intesa nell’accezione più vasta e aristotelicamente più propria di abito che segna il soggetto umano in tutte le sue espressioni, individuali e pubbliche, dal tipo di convivenza politica alla formazione personale secondo i valori dell’eticità e della conoscenza, è evidente che il suggerimento di trattare i Greci come Greci e i barbari come barbari è lo stesso suggerimento ad Alessandro di trattare la massa (t plÉqo©) dei suoi sudditi in base alla loro «virtù». Un suggerimento che il filosofo dovette aver dato al discepolo sia nell’una che nell’altra forma, indifferentemente, perché indifferente

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ne è il contenuto. Il che risulta ancor più chiaro se si considera che, come attesta il fr. 1, la diversità di trattamento tra Greci e barbari che lo Stagirita propugnava al giovane sovrano come opportuna e conveniente si specificava nel suggerimento di porsi nei confronti dei primi come guida (ìgemoniká©) e nei confronti dei secondi come padrone (despotiká©). Ebbene, il comando, che contraddistingue l’atto padronale, spetta a ciò che nell’uomo è l’elemento migliore, ossia alla parte scientifica dell’anima razionale, nel cui esercizio consiste la sua eccellenza, vale a dire la sua «virtù» (àret‹), nel grado più alto. Ma «ciò che per natura comanda, essi (Scil., i barbari) non lo possiedono» e per questo «la loro comunità (scil., la comunità elementare costituita dalla famiglia) è formata da uno schiavo e da una schiava» (Pol., I, 2, 1252 b 5 ss.). Da qui, per l’appunto l’opportunità di trattare con loro come il padrone tratta gli schiavi (despotiká©). Per converso, in più passi del corpus aristotelicum3 viene in luce che la funzione di comando e di guida (ìgemon›a) conviene a chi possiede l’eccellenza (àret‹), ossia, in generale, per usare due felici espressioni di Laurenti (1987, II, p. 934), che «l’ìgemon›a è comando unito a virtù» e che «la presenza dell’àret‹ segna la differenza tra ìgemon›a e despote›a». Sulla base di quanto s’è testè detto, tale distinzione di trattamento rispetto ai Greci e ai barbari non solo non contraddice, ma coincide in tutto e per tutto con quella che vuole divisi gli uomini sulla base della virtù e del vizio, intesi nel modo che s’è detto. E, pertanto, sotto questo profilo è chiaro che alla domanda di sopra si deve rispondere che Eratostene annoverò – ancorché tacitamente e in modo non espresso – Aristotele tra i propugnatori del secondo tipo di divisione. Ma al tempo stesso, poiché lo Stagirita, sia pur con specifico riferimento all’àret‹ del soggetto umano e sulla ba3

Li si trova indicati alla nota 15.

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se di essa, asseriva pur sempre una distinzione tra Greci e barbari, e proprio una tale convinzione rappresentava il denominatore comune e, per così dire, il momento saliente di convergenza di tutte le ideologie che propugnavano la suddetta divisione (toÊ© d›ca aåro‡nta©), ancorché come fondata sulla base di differenti criteri e, di conseguenza, in base a essi suggerita ad Alessandro affinché la praticasse nel governo del suo impero, è facile che Eratostene abbia complessivamente riassunto questo punto focale d’incontro di concezioni pur diverse in quella che, delineando la differenza tra Greci e barbari come comportante l’opportunità di un trattamento in termini di amicizia e inimicizia verso i primi e i secondi, esprimeva quella differenza stessa nel modo più radicale. Un modo che, peraltro, proprio in forza della sua radicalità, meglio si prestava anche sotto il profilo dell’efficacia letteraria e stilistica a segnare il contrasto con la proposta di una differenza fondata sulla «virtù». In questo senso e sotto questo profilo, alla domanda di sopra non è contraddittorio rispondere che Eratostene ha annoverato la posizione di Aristotele anche tra quelle sostenute in base al criterio dell’opportunità di trattare con amicizia e inimicizia. Va peraltro osservato che tale differente atteggiamento rispetto ai Greci e ai barbari che Eratostene, secondo la notizia di Strabone, presenta come fondato sull’opposizione tra il trattare con gli uni come con amici (ó© f›loi©) e con gli altri come con nemici (ó© polim›oi©), è identicamente presentato da Plutarco (fr. 2/a) come fondato sull’opposizione tra l’aver cura dei primi come amici e affini (tán m‚n ó© f›lwn kai oåke›wn âpimelo‡meno©) e il rapportarsi invece ai secondi come ad animali o a piante (toÖ© d‚ ó© zˇÒoi© Í f‡toi© proferfimeno©), ossia, in ultima analisi, come con degli schiavi.4 Ora, l’affinità di cui si parla in questo secondo passo, non sembra essere 4

Sul punto cfr. la nota 14.

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la sola affinità che sussiste tra parenti, ossia tra soggetti di un medesimo ceppo, anzi, solo in senso minoritario sembra denotare una siffatta situazione, ma l’opposizione con gli animali e le piante mostra trattarsi fondamentalmente e soprattutto di un’affinità di doti naturali, ossia di un’affinità di natura: esattamente quell’affinità di natura che sussiste tra i liberi, i quali partecipano tutti dell’areté in quanto tutti sono identicamente dotati della pienezza delle facoltà psichiche che costituisce, come abbiamo detto, la «virtù» o stato di eccellenza dell’uomo, di contro agli schiavi, che per natura sono diversi. Di conseguenza, anche l’amicizia, che Eratostene congiunge (ka›) all’affinità nel denotare la convenienza del modo di trattare i Greci, denota quel rapporto di solidarietà che s’istituisce tra soggetti aventi la stessa natura e la medesima eccellenza nel possesso, pieno e completo, delle facoltà psichiche. Ond’è che il trattamento che il sovrano deve avere con costoro perché li riconosce a sé affini e amici, si manifesta essere il medesimo trattamento che gli viene consigliato sulla base del criterio della «virtù». 2.2 Resta tuttavia il problema dell’inconciliabilità, reale o presunta, tra il tema di «come si devono realizzare le colonie (fr. 1: ¬pw© deÖ t·© àpoik›a© poieÖsqwai)» e quello della differenza tra Greci e barbari. Ma anche questo problema alla luce di una corretta e obiettiva considerazione storica si dilegua. Da più fonti, ma in particolare dal quarto libro dell’Anabasi di Arriano si può evincere che la fondazione di nuove colonie era legata al licenziamento dei veterani dell’esercito di Alessandro Magno, con Parmenione, il figlio Filota, Clito, Callistene alla testa, i quali, fedeli all’antica tradizione macedone, non accettavano di buon grado il programma del sovrano di un impero universale dove tutti i sudditi avessero pari condizione. Un programma che, sotto l’influenza degli usi della monarchia persiana, conosciuti durante la campagna militare e

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assunti in modo vieppiù accentuato, soprattutto dopo la vittoria su Dario, presupponeva la distinzione, da un lato, della massa dei sudditi, tutti eguagliati nello stato di subordinazione e, dall’altro, il sovrano, al quale erano dovuti onori e riconoscimenti, come la proskunesis, tali da rivelarne la natura divina, in aperto contrasto con l’atteggiamento inizialmente assunto da Alessandro nella spedizione contro i Persiani, quando «si comportò con i barbari con alterigia come se fosse fermamente convinto di essere stato generato letteralmente da un dio; verso gli Elleni, invece, assumeva un atteggiamento più moderato e pudico per quanto riguarda la sua natura divina» (Plutarco, Al., 28). In particolare quel contrasto e, di conseguenza, la necessità di costituire nuove colonie si fecero acuti dopo il licenziamento dei Tessali, rinviati a casa con un donativo di duemila talenti oltre la consueta paga e sostituiti con nuove leve più disposte ad accogliere le idee del sovrano (Arriano, III, 19, 5; V, 27, 5; Plut., Al., 42). Appare così significativo il racconto di Plutarco (Al., 47) dell’opposizione di Cratero, uno degli intimi del monarca, al suo intento di realizzare in ogni modo l’uguaglianza tra Greci e barbari favorendo i matrimoni tra loro e la loro presenza nelle medesime colonie, così da assecondare la fusione di differenti popoli e la creazione di un nuovo assetto sociale.5 Tutto ciò consente di dire che il problema delle colonie rientrava nella stessa ottica che dava risalto a quello di come trattare Greci e barbari, in ugual modo o in modo diverso. Un problema, questo delle colonie, che sotto un differente angolo prospettico era peraltro stato affrontato anche dal «rivale» Isocrate, il quale nel Filippo aveva denunziato l’incertezza in cui versavano alcune di esse, come Amfipoli, legata alla madrepatria Atene e minacciata dalla vicinanza di popolazioni capaci di assalirla e distruggerla, e insieme aveva indicato come più adatti a ricevere la 5

In proposito si veda Hamilton 1969, pp. 130-131.

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fondazione di nuove colonie quei luoghi dove vivevano genti abituate a essere governate da altri (Isocrate, Phil., 4 ss.). Non soltanto, ma nello stesso scritto Isocrate suggeriva altresì a Filippo di costituire nuove colonie, ai confini con la Grecia, e di raccogliervi quei soggetti che, girovagando senza fissa dimora, costituivano un costante pericolo per l’Ellade, assegnando loro un compito militare contro le limitrofe popolazioni dei barbari e utilizzandoli in tal modo per la difesa dell’Ellade stessa (Ivi, 120-122). Orbene, sia l’urgenza del problema delle colonie, che Aristotele conosceva non soltanto per suo conto, ma anche attraverso la testimonianza del nipote Callistene, intimo egli medesimo di Alessandro e autore di una sorta di diario delle sue imprese (lo scritto t kat’ ’Al¤xandron o, meglio, pr¿xei© ’Alex¿ndrou) durante la campagna militare contro la Persia, alla quale prese direttamente parte, sia la coincidenza per più aspetti di tale problema con quello dell’atteggiamento di Alessandro nei confronti di Greci e barbari, sul quale lo Stagirita si era sempre professato al discepolo, sia infine l’opportunità di non lasciare che su un siffatto, basilare e atavico problema la corte macedone ascoltasse soltanto la parola di Isocrate, ancorché pronunciata parecchio tempo addietro (il Filippo risale al 346 a.C.), dovettero senz’altro indurre Aristotele a esprimersi a sua volta sulla questione o, più probabilmente, a ribadire ancora una volta all’antico discepolo, ora sovrano di un impero immenso, il suo punto di vista, o per sua propria iniziativa, dettata dall’urgenza della cosa, o dietro richiesta di Alessandro, come vuole il fr. 1. Quale sia stato il suo pensiero, si può cogliere – come s’è detto – dall’intreccio dei due brani raccolti come frammenti n. 2, e può così sintetizzarsi: poiché nel progetto di Alessandro Greci e barbari dovranno convivere nelle medesime colonie, è opportuno che queste siano realizzate (poieÖsqai) in modo che tanto la loro struttura materiale, ma soprattutto la loro organizzazione politica

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preveda differenze tra gli uni e gli altri,6 fondate sulla diversa natura di entrambi e sulla capacità degli uni di realizzare quella eccellenza umana (o àret‹) che agli altri è per natura impedita, cosicché il sovrano, nei suoi rapporti di governo delle colonie, dovrà trattare con gli uni secondo quell’atteggiamento di guida che conviene avere con i soggetti a lui affini e in tal senso amici, mentre con gli altri con quell’atteggiamento padronale che conviene assumere, invece, nei confronti di quegli esseri la cui natura li colloca sul piano degli schiavi e che, in quanto tali, sono «nemici» dell’uomo, considerato nella piena eccellenza della sua natura. Sulla base di quanto s’è detto appare pertanto pienamente giustificata la presenza dei passi di Plutarco e Strabone tra i frammenti dell’Alessandro.7 3. L’intervento di Aristotele su un tale problema è ragionevole che sia avvenuto nel momento in cui esso si affacciò nella sua massima urgenza, soprattutto se si deve dar credito alla notizia del fr. 1 secondo cui l’intervento gli fu richiesto da Alessandro. È pertanto ragionevole supporre con Laurenti (1987, II, p. 933) che lo scritto sia stato redatto tra il 330 a.C., anno della morte di Dario e della definitiva conquista della Persia, e il 327 a.C., anno dell’esecuzione di Callistene, in seguito al suo rifiuto della proskynesis (cfr. Arriano, IV, 14, 3; Plutarco, Al., 55).8 6 Sul punto e, in particolar modo, sull’aspetto etico della necessità per Aristotele di organizzare le colonie, si è soffermato specialmente Gigon 1973-1774, pp. 203 s. 7 È opportuno richiamare che così ritengono, tra gli altri, Rose nella seconda edizione (1970, frr. 80-81), Ross (1958, p. 63), Chroust (1973, II, pp. 25-26), Giannantoni (1973, p. 182) e Laurenti (1987, II, pp. 914 s.). Per converso, Heitz (1869, p. 61), come abbiamo visto, attribuisce i due passaggi a Sul regno, mentre Rose nella prima edizione (1963, pp. 95-95) assegna all’Alessandro soltanto il passo di Plutarco, nella terza (1886, fr. 648) elimina anche questo. 8 In proposito si veda Hamilton 1969, p. 156. Nello stesso cap. 55

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Parimenti, nonostante il parere contrario di taluni studiosi,9 il fatto che Ps.-Ammonio (fr. 1) lo richiami assieme a Sul regno sembra far propendere per l’opinione di coloro che ritengono che, ove quest’ultimo sia un dialogo e non una lettera,10 altrettanto debba dirsi per l’Alessandro.11 Plutarco riferisce di una lettera di Alessandro ad Antipatro, anteriore al 327 a.C., nella quale il sovrano dice che «i suoi (scil. di Callistene) servi furono lapidati dai Macedoni, ma quel sapiente (tÂn sofist‹n) lo punirò io stesso insieme a coloro che me lo hanno mandato e a coloro che ospitano nelle loro città chi cospira ai miei danni». Allusione, qust’ultima, che – precisa Plutarco – era «ad Aristotele, da cui Callistene era stato allevato per ragioni di parentela» (su tale lettera si veda Hamilton 1955 e 1969, p. 155). 9 Tra i quali Rose (1886, fr. 648), Weil (1960, p. 157), Laurenti (1987, II, p. 925) e Plezia (1961/b, p. 23 e p. 29). Merita di essere rischiarata l’ipotesi di quest’ultimo studioso secondo la quale lo scritto che nei cataloghi è menzionato col titolo di Alessandro o per le colonie corrisponderebbe alla lettera, scritta da Aristotele al sovrano nell’autunno del 330 a.C. e generalmente indicata come De regimine, di cui non ci è pervenuto l’originale greco, ma una traduzione araba dell’inizio del XVI sec. contenuta in calce nel cod. Vat. Arab. 408 e della quale sono stati recentemente ritrovati a Istanbul altri cinque manoscritti. Tale ipotesi Plezia ha sostenuto, oltre che nell’edizione del 1977, p. VIII, in due studi (cfr. Plezia 1969-1970 e Plezia 1973) e, soprattutto, nell’ampio commento da lui redatto alla traduzione francese della lettera ad opera di Bielawski (1970). In proposito cfr. Laurenti, 1987, pp. 942 ss. 10 In proposito cfr. ante, p. 426. 11 È questa l’opinione, tra gli altri, di Rose (1863, p. 94), Bernays (1868, pp. 56-57) e Jaeger (1964, pp. 29-30). Sul problema si mostrano incerti, invece, Moraux (1951, p. 37), per il quale lo scritto, poiché il titolo può designare o il protagonista di un dialogo o il destinatario di una parenesi, potrebbe essere esso stesso o l’una o l’altra cosa; e Gigon (1955, pp. 24 s.), che ritiene di non poter ricostruire quale fosse il pensiero di Aristotele di fronte alla nuova realtà politica che si stava delineando con la conquista della Persia. Merita infine di essere menzionata la tesi di Ivanka 1939 il quale, muovendosi lungo l’ipotesi di Von Arnim secondo cui i libri VII-VIII della Politica sarebbero di redazione tarda, ritiene che l’Alessandro, scritto al tempo della spedizione di Alessandro contro i Persiani, sia confluito nei capp. 1-12 di Pol., VII. A riguardo si veda Laurenti 1987, II, pp. 936-942.

12 Sulla distinzione di Ammonio tra i diversi tipi di opere aristoteliche e, in specie, sulle opere «particolari (perik¿)», cfr. la testimonianza n. 24 e la relativa nota 38. 13 Riportato anche come terza testimonianza dello scritto Sul regno. 14 Ossia al modo di schiavi, giacché, com’è apertamente rimarcato in Pol. I, 2, 1252 a 29, sono gli schiavi che Aristotele allinea alle bestie e alle piante. Va altresì fatto presente che nel medesimo passo Aristotele, affermando che la famiglia è costituita dai rapporti marito-moglie e padrone-schiavo, richiama Esiodo, il quale in Op. 405 così dice: «casa nella sua essenza sono la donna e il bove che ara, perché per i poveri il bove rimpiazza lo schiavo». 15 Il prosieguo del passo, ove Plutarco dice che Alessandro realizzò a tutti i costi l’unità tra i popoli che aveva vinto, favorendo sposalizi tra soggetti di nazioni diverse e il superamento di differenti modi di vivere, fino a imporre questo piano con le armi dove non riusciva a convincere con la ragione, quale fosse un dio che funge da arbi-

FRAMMENTI

1 (R2 80, R3 648) PS.-AMM., In Arist. Cat. (Cod. Ven. 1546 f. 9 b): dunque, sono particolari12 tutte quelle che sono scritte privatamente per qualcuno, come le lettere o tutte quelle che ha scritto perché richiesto da Alessandro il Macedone sul regno e su come si devono realizzare le colonie.13 2 (R2 81, R3 658) PLUT., De fortuna Alex., 1, 6, p. 329 b: al modo in cui Aristotele gli consigliò, ossia trattando da guida con i Greci e da padrone con i barbari, e prendendosi cura dei primi come di amici e affini, rapportandosi invece ai secondi come ad animali o a piante,14 non riempì il suo regno di esili, facitori di guerre, e di occulte sedizioni.15 tro nel processo di pacificazione tra tutti, rende improponibile riferire l’oé iniziale a ó© ’Aristot¤lh© sunebo‡leuen aétˇá e leggere «Alessandro riempì il suo regno di esili e sedizioni non come gli consigliò Aristotele» (così, per esempio, Giannantoni 1973, p. 183): giacché fare questo sarebbe in aperto contrasto con la realizzazione dell’unità e della fusione delle genti e dovrebbe perciò riscontrarsi una contraddizione nel testo di Plutarco. Una contraddizione che non sarebbe superata, ove si opti per il suddetto modo d’interpretare, neppure ritenendo che riempire l’impero di esili e sedizioni s’accordi con il successivo far ricorso anche alla forza delle armi pur d’imporre il piano di pace. In realtà, a parte lo stridore anzi

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segnalato degli esili e delle sedizioni con l’idea generale di un’universale fusione dei popoli sotto un unico impero, non si vede neppure perché l’uso delle armi per vincere le opposizioni a un tale progetto dovrebbe comportare esili e sedizioni. Queste, semmai, ove gli avversari fossero superati con le armi, sarebbero del tutto eliminate. Oé va dunque riferito, invece, a ân¤plhse (così tra gli altri Ross 1952, p. 67 e Laurenti, 1987, II, p. 913). In quest’ottica merita di essere sottolineato come la disparità di trattamento tra i Greci e i barbari, consigliata da Aristotele ad Alessandro, sia qui presentata come suggerimento che si conforma perfettamente a tale progetto di unificazione delle genti, tanto che per aver dato retta a esso Alessandro non riempì il suo impero di esili e sedizioni, ma mise mano a quel progetto. Sempre nel prosieguo merita altresì di essere sottolineata l’annotazione di Plutarco secondo cui, nel quadro di un tale progetto, Alessandro non distingueva «il Greco e il barbaro (t d’ ’EllhnikÂn ka‰ barbarikÂn) dalla clamide, dalla pelta, dall’acinace e dal candis, ma il greco era testimoniato dalla virtù e il barbaro dal vizio (t m‚n ’EllhnikÂn àretˇÉ t d‚ barbarikÂn kak›ˇa tekma›resqai)». Ora, proprio il possesso dell’àret‹, intesa come virtù globale che conferisce all’esistenza un senso propriamente umano, sul piano sia individuale che sociale, distingueva, agli occhi di Aristotele, il Greco dal barbaro e proprio sulla base di una tale differenza egli poteva proporre all’insigne discepolo di trattare i primi come guida (ìgemoniká©) e i secondi come padrone (despotiká©). Giacché l’ìgemon›a, come molto opportunamente rimarca Laurenti (1987, II, p. 934), «è comando unito a virtù» e «per questo in vari passi del corpus aristotelicum il termine si trova in contesti che ne mettono in luce la particolare eccellenza». E tra tali passi lo studioso opportunamente richiama De part. anim., III, 5, 667 b 32 («la parte anteriore è più pregevole e atta al comando [timiÒteron ka‰ ìgemonikÒteron] della parte posteriore»), Pol., III, 17, 1288 a 10 («adatto all’aristocrazia è un popolo che può per natura produrre un corpo di individui in grado di essere retti nel modo conveniente agli uomini liberi da comandanti eccellenti in ordine al comando politico [ñp kat’ àret„n ìgemonikán pr© politik„n àrc‹n]»; così pure in Pol., I, 12, 1259 b 2 e in Pol., V, 8, 1308 a 8), Oecon., 5, 1344 a 24 (l’uomo è «di tutti i possessi il migliore e il più adatto al comando [t b¤ltiston ka‰ ìgemonikÒtaton]), Metaph., III, 2, 886 b 10 (la scienza del fine e del bene è «la più adatta a co-

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STRAB., I, 4, 9, p. 66: alla fine del suo commentario ,16 non lodando coloro che dividono in due tutta quanta la moltitudine degli uomini, ossia in Greci e in barbari, ed esortano Alessandro a trattare i Greci come amici e i barbari come nemici,17 disse che è meglio operare queste divisioni sulla base della virtù e del vizio18

mandare e a fare da guida [àrcikwt¿th ka‰ ìgemonikwt¿th]»). Merita, infine, d’essere sottolineato che agli occhi di Plutarco, da cui è tratto questo frammento (più esattamente, dal sesto capitolo del primo dei due trattatelli plutarchei, di carattere epidittico, aventi il medesimo titolo De Alexandri fortuna, nei quali l’autore intende provare che le imprese del grande conquistatore non possono essere ascritte alla sorte. In proposito cfr. Hamilton 1969, p. XXX), Alessandro, dando concreta esecuzione all’unificazione dei popoli che era soltanto vagheggiata da Aristotele e dallo stoico Zenone di Cizio, si sia mostrato autentico filosofo, giacché la filosofia non consiste soltanto di parole, ma esige soprattutto il compimento di opere. Così scrive l’autore: «anche quella costituzione tanto ammirata di Zenone, fondatore della scuola stoica, tende unicamente a questo scopo, a non farci cioè abitare nelle varie città e nei vari demi ciascuno diviso dall’altro, con le proprie leggi, ma a farci ritenere gli uomini tutti demoti e concittadini, perché unica è la vita e unico l’ordine, come quello d’un gregge che è allevato sotto un’unica legge. Questo ha lasciato scritto Zenone, abbozzando in un certo senso un sogno o un’immagine di buon governo o di costituzione filosofica: Alessandro dette consistenza alle parole». Dal fr. 1/b sembra che la fonte di Plutarco sia Eratostene. 16 Questi, come s’è detto (cfr. la nota precedente), con la sua opera I geographica sembra essere la fonte da cui Plutarco deriva le notizie del frammento 1/a. In ogni caso, come annota Plezia (1961/b, p. 104), sia Eratostene che Plutarco che lo stesso Strabone hanno attinto da un medesimo scritto. 17 In realtà, l’invito a trattare i Greci come amici e i barbari come nemici non si trova in alcun’opera di Aristotele, ma ciò non significa, come alcuni hanno pensato (Badian 1966; Andreotti 1956), che Eratostene non si riferisca allo Stagirita, ma ad altri. Come ha mostrato Laurenti (1987, II, p. 917), è probabile che egli, facendo riferimento a più soggetti («coloro che dividono in due [toÊ© d›ca diairo‡nta©]»), riassuma posizioni certamente diverse, ma convergenti nella sostanza, usando forse – aggiungerei io – una di esse, e precisamente la più radicale, come denominatore comune per tutte. 18 Eccellente il rilievo di Laurenti (1987, II, p. 918) secondo cui con

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quest’osservazione «Strabone cerca di recuperare il vero significato della distinzione tra Greci e barbari ammessa da molti e soprattutto da Aristotele, evidenziando come dietro il termine “Greci” si nascon-

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[...] Alessandro, dunque, non avendo trascurato coloro che lo esortavano, ma avendone accolto il parere, faceva ciò che ne conseguiva, non ciò che ne era il contrario, badando al pensiero di coloro che lo avevano indirizzato su quella via.

dano legge, educazione, razionalità, dietro “barbari” arbitrio, ineducazione, illegalità».

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INTRODUZIONE

1. Dei frammenti attribuiti al Politico da Ross, la cui edizione non differisce molto da quella di Rose 1866, nella quale questo studioso mostra di aver riconsiderato le scelte effettuate nelle due precedenti edizioni, soltanto i primi due frammenti, tratti dall’Epistula ad Quintum fratrem di Cicerone e da Siriano, possono dirsi, allo stato attuale degli studi e, soprattutto, dopo l’importante contributo di Laurenti (1987, I, pp. 312-373), ascrivibili con ampio margine di verisimiglianza all’opera in oggetto, mentre non altrettanto può dirsi dei frammenti tratti dal De ira di Seneca. Converrà pertanto trattare subito dei primi e solo successivamente esaminare il problema dell’attribuzione dei secondi, la quale potrà valersi anche degli esiti della prima disamina. Già dalla testimonianza del De finibus di Cicerone (test. 1), sulla quale a buon diritto Laurenti si sofferma ampiamente, appare che il dialogo affrontava due temi che sono fondamentali nel pensiero politico di Aristotele (così, se si accetta l’aggiunta al frammento di «pluribus praeterea conscripsisset qui esset optimus rei publicae status» o, comunque, se si tiene conto del prosieguo della frase riportata da Ross come frammento) e che, non meno basilari nella riflessione platonica, costituivano con ogni probabilità un terreno particolarmente importante sul quale il discepolo si confrontava con la concezione del maestro, prendendo posizione di

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fronte a essa. E poiché, com’è noto, la concezione politica di Platone si regge sulla dottrina delle idee e del bene ideale, che la polis deve avere a modello nella sua costruzione, e implica, coinvolgendole strutturalmente, riflessioni di ordine etico, è altamente verisimile che nell’affrontare i temi indicati nella testimonianza ciceroniana Aristotele si misurasse polemicamente con Platone non soltanto sulle questioni di natura strettamente politica poste innanzi dalla testimonianza stessa, ma anche sulla questione delle idee1 e su problemi implicanti costitutive e basilari conseguenze sul terreno etico. Infatti, come si diceva, rapportarsi alla prima significava affrontare il fondamento stesso della visione platonica della politica e ai secondi i suoi correlati. Ebbene, le due tematiche enunciate nella testimonianza di Cicerone sono le qualità che deve avere chi detiene il comando della polis (qualem in republica principem esse conveniret) e lo stato ottimale di essa (qui esset optimus in republica status). In merito all’una e all’altra Aristotele nel dialogo dava un insegnamento (docuisset), il quale è logico credere che consistesse nell’esposizione della concezione platonica, nel relativo esame critico e nella presentazione del proprio pensiero. È probabile, quanto al secondo argomento, che vi sia una continuità tra la trattazione del Politico e quella dei due ultimi libri della Politica, dove è per l’appunto a tema lo stato ideale. Il fatto che su di esso Cicerone attesti che lo Stagirita è intervenuto in più circostanze (pluribus praeterea conscripsisset) sembra convalidare l’ipotesi, come ha ben colto Laurenti (1987, I, pp. 316 ss.), il quale anche a proposito del primo argomento vede una 1 Ritengono invece che nel Politico Aristotele condividesse la teoria platonica delle idee Bignone (1973, II, pp. 101 ss.), Moraux (1951, p. 31 e pp. 337 s.), Aubonnet (1968, I, pp. XXIV-XXV) e Barker (1961, appendix V).

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continuità di trattazione tra il Politico e la Politica, giungendo persino a supporre che Pol., III, 4, 1276 b 16 – 1278 b 6 sia una sorta di silloge di una più estesa e completa analisi svolta nel Politico e che Pol., I riprenda un discorso già sviluppato nello stesso dialogo. In esso Aristotele sarebbe ritornato su talune tesi fondamentali esposte nel Politico platonico, riesaminandole e riformulandole alla luce dell’idea di f‡si©, giacché a partire da questa, quale fondamento della sua nuova concezione del politico, lo Stagirita costruiva un’analisi strutturale della sua identità dottrinaria. «In ogni caso – conclude lo studioso – le questioni di carattere politico ed etico che s’incontrano nel Politico platonico e delle quali alcune sono riprese e criticate nella Politica aristotelica, erano state [...] studiate anche nel Politico aristotelico» (Ivi, p. 317). Istanza, quest’ultima, sulla quale si deve essere d’accordo, anche a prescindere dalla tesi che Aristotele nel nostro dialogo abbia fatto del concetto di f‡si© la base per costruire, in polemica con Platone, la «nuova» identità del politico, tesi che, non trovando il concetto di f‡si© alcun puntuale riscontro testuale nei frammenti del Politico ed essendo peraltro inferita dal fatto che così, ad avviso dello studioso, avviene nella Politica, presenta un margine non piccolo di congetturalità, almeno sotto il profilo storiografico. Per parte nostra, preme porre in evidenza, da un lato la stretta unità dei due temi – quello cioè dell’ottimo stato della polis e quello del princeps che conviene essa abbia –: il che, ovviamente, non significa che i due temi dovevano trovare nel Politico un’unica trattazione; anzi, è supponibile che lo scritto, nei suoi due libri, disquisisse separatamente e non già congiuntamente di essi, ma in una strutturale implicazione concettuale e dottrinaria.2 Dall’altro, il fatto che la specificità e la pertinen2

Affermando tale peculiarità dei due temi al Politico e la stretta

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za dell’esame aristotelico sui due temi suddetti trovino pieno riscontro e, dunque, salda conferma anche dalla notizia che Cicerone dà nel fr. 1. In effetti, a ben vedere, il vir praestans (fr. 1) del quale – attesta l’Arpinate – Aristotele nel dialogo era lui stesso a parlare (Aristotelem... ipsum loqui) è il princeps (test. 1) che conviene alla polis, così come il discorso che il filosofo svolgeva in proprio de republica (fr. 1) altro non è se non l’esposizione della sua concezione dell’optimus status rei publicae (test. 1).3 L’identità con i temi del pensiero politico di Platone salta subito agli occhi, per cui non pare possano sussistere seri dubbi sul fatto che nell’affrontare questi argomenti Aristotele abbia preso in esame le tesi del maestro, esponendole e criticandole, in sé, nei loro fondamenti e nelle loro implicazioni etico-pedagogiche. Ed è altrettanto indubitabile che lo Stagirita abbia presentato in merito a tali argomenti la propria concezione. Lo conferma la circostanza che a guidare il dialogo era lui stesso, ed è impensabile che ne dirigesse lo svolgersi in modo così «asettico» ed impersonale da trascurare il proprio pensiero. Impossibile stabilire, invece, dalle poche indicazioni dei due passi ciceroniani chi Aristotele indicava come vir praestans, ossia come l’uomo che deve stare a capo dello stato e quali fossero le qualità che deve possedere per attendere a tale ufficio; connessione tra essi non s’intende, in ogni caso, spingere il rilievo fino a sostenere, con Stark (1954, pp. 12 ss.), che questi stessi costituivano i due argomenti trattati nei due libri del dialogo. Una tesi che è stata giustamente criticata da Weil (1960, p. 149), che propende invece per un’affinità dei contenuti del dialogo, il quale a suo avviso daterebbe di un periodo assai pristino dell’attività dello Stagirita, con quelli di Pol., VII e VIII. 3 Per questo non posso accogliere la proposta di Bernays 1968, p. 154 di correggere la lezione tradita viro in cive, in quanto viro, citato in assoluto, esprimerebbe uno iato rispetto a republica. Nell’ottica esegetica che qui proponiamo i due concetti si connettono tra loro in modo strutturale, cosicché la lezione dei manoscritti sembra perfettamente adatta e confacente.

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in particolare, sembra impossibile esprimersi in ordine al problema se già nel Politico egli avesse elaborato quella dottrina delle tre forme di costituzione retta e delle relative degenerazioni che, com’è noto, campeggia nella Politica4 e poi quella concezione dello stato migliore che viene delineata in Pol., VII, VIII così da stabilire, in stretto rapporto con questo punto nodale, se quel vir era l’uomo simile a un dio, di cui lo Stagirita parla in Pol., III, 13, 1284 a 3 ss., o il politico – in quanto singolo soggetto, nei regimi monarchici, o in quanto soggetto-tipo, nel regime aristocratico e nella politia –, che nelle costituzioni or ora richiamate deve assolvere all’ufficio di governare. Né il fatto che Aristotele parli di vir praestans, al singolare, e non di viri praestantes, può offrire un’indicazione sufficientemente sicura per dire che si trattava dell’uomo simile al dio, o solamente del re, lasciando così intendere che egli non aveva ancora elaborato nella sua interezza la più tarda teoria secondo cui non esiste una costituzione eccellente in assoluto, ma la bontà e l’opportunità di ognuna si determinano in rapporto alle circostanze e al tipo di uomini di volta in volta in causa: giacché, come s’è detto, il singolare potrebbe pur sempre indicare il modello dell’uomo politico in un certo regine (il politico della politia, o il politico del regime aristocratico). 2. Quanto al fr. 2, un primo problema esegetico è costituito dal significato di p¿ntwn, potendo scorgersi in esso o un genitivo partitivo (sicché il frammento suonerebbe: «infatti, la misura più esatta di tutte è il bene») o un genitivo di specificazione, e in tal caso il frammento suona come nella traduzione che abbiamo proposto («infatti, la misura più esatta di tutte le cose è il bene». Non comprendo perché Laurenti 1968, I, p. 332, che pur 4

Tale la convinzione di Bernays 1968, pp. 53 e 153-154.

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conviene nell’attribuire questo significato a p¿ntwn e traduce la frase nel medesimo modo, parli però di «genitivo oggettivo». In realtà, «tutte le cose» non sono, propriamente, l’oggetto che il bene misura, ma specificano di che cosa è misura il bene). È chiaro che la prima via sia stata battuta soprattutto dagli studiosi che hanno condiviso l’interpretazione storico-genetica della filosofia di Aristotele, perché in quell’affermazione hanno scorto l’adesione di Aristotele alla concezione d’impronta pitagorica e matematica della dottrina delle idee professata da Platone nell’ultima fase del suo pensiero. Così Jaeger (1964, pp. 113 s.), facendo forza sul fatto che Aristotele parla del bene come misura (m¤tron), rintraccia nel Politico uno degli scritti in cui sarebbe attestata l’adesione dello Stagirita a quella concezione geometrica dell’etica elaborata da Platone sulla base della sua tarda dottrina delle idee (mentre non così era nella Repubblica, dove pur l’idea del bene domina l’intero edificio teorico, fungendo da «fondamento di esistenza e di conoscibilità per tutto il mondo reale»); eppertanto assume la frase qui in oggetto, che egli ritiene doversi ascrivere al secondo libro del dialogo, come significante che «il bene è la misura più esatta di tutte».5 E lungo questa linea esegetica si sono espressi, tra gli altri, e così hanno inteso il passo Bernays 1968, p. 53 e pp. 153 s., Bignone 1973, II, pp. 101 ss., Moraux 1951, p. 31 e pp. 337 s., Chroust 1973, II, pp. 133 s., Aubonner 1968, I, pp. XXIV s. e Guathier-Jolif 1970, I, p. 12, nota 25. Sennonché occorre osservare che la semplice affermazione secondo cui «il bene è la misura più esatta di tutte», quand’anche così dovesse leggersi la frase, non convaliderebbe di per sé l’adesione di Aristotele alla tarda teoria platonica delle idee. Siriano, che ne è la 5

Identicamente in Jaeger 1970, II, 496 ss.

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fonte, la cita nel suo commento a Metaph., 1987 b 33 – 1088 a 14, dove Aristotele critica la concezione dei Platonici dell’Uno come sostanza, opponendo che l’uno non è una realtà in sé, bensì la misura di una molteplicità, e per questo non soltanto non può annoverarsi tra le sostanze, ma neppure tra i numeri, giacché essi non sono misura, ma molteplicità misurata. Il neoplatonico Siriano oppone a sua volta che Aristotele con questi rilievi ha distorto i concetti platonici di uno e di misura, e aggiunge che nel secondo libro del Politico lo Stagirita stesso, affermando determinatamente che p¿ntwn àkrib¤staton m¤tron tàgaqfin âsti, si era ben avveduto che «non è il cavallo a misurare dieci cavalli, ma l’intelletto nostro» e che «le vere misure si chiamano così in quanto definiscono la sostanza e le potenze e i fini delle cose misurate» (Syriani, In Metaph. Comment., p. 168 Kroll). Ma quell’affermazione, che Siriano riporta come attestazione dell’iniziale adesione di Aristotele alla concezione platonica, nulla vieta di credere che Aristotele stesso abbia esibito come espressione non del suo pensiero, ma di quello di coloro che criticava, ossia in una valenza del tutto opposta a quella in cui la presenta Siriano e, in specie, in un contesto teorico complessivo – quello per l’appunto del Politico – nel quale dovrebbe udirsi l’eco della disputa intorno al bene che ebbe luogo nell’Accademia e che vide lo Stagirita prendere decisamente posizione nei confronti della dottrina del maestro, come risulta dal per‰ ådeán e dal per‰ tàgaqoÜ. Non pochi indizi lasciano ragionevolmente supporre che sia proprio quello indicato il significato più probabile dell’asserto aristotelico, dal momento che Siriano aveva tutto l’interesse a presentare Aristotele in contraddizione con se medesimo. Comunque sia, ciò che in questa sede preme focalizzare è che l’affermazione in oggetto è, quanto meno, problematica e non già sintomatica in ordine al comprovare un’a-

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desione nel Politico di Aristotele alla tarda dottrina platonica delle idee. Ma poi non sembra che l’accostamento del concetto di misura (m¤tron) a quello di bene provi che questo secondo sia assunto nella valenza che aveva nell’etica geometrica del tardo Platone per la quale il bene stesso è una misura, anzi la misura, per l’appunto più esatta di tutte: giacché Aristotele, quando parla di m¤tron, non ne parla nell’unico significato di «misura geometrica» o anche, più latamente, «matematica» che l’esegesi in causa attribuisce all’espressione, sul presupposto che proprio la strutturazione matematica delle idee sta alla radice della metafisica del tardo Platone. Che la misura espressa da m¤tron non sia, nell’uso linguistico dello Stagirita, soltanto del tipo suddetto è chiaro da Metaph., 1053 b 23 dove si dice che la aúsqhsi© e l’âpist‹mh sono m¤tra tán ñpokeim¤nwn: in realtà, qui m¤tron assume chiaramente il significato di criterio di valutazione e non già di misura geometrica o matematica, giacché non avrebbe senso dire che tali sono la sensazione e la scienza. Parimenti è opportuno fissare l’attenzione su Top., 140 a 7-8 in cui, con identico significato, Aristotele afferma che «la legge è misura o immagine delle cose giuste per natura (ï nfimo© m¤tron Í eåkÁn tán f‡sei dika›wn)». Qui, in particolare, l’accostamento di m¤tron a immagine (eåkÒn) rafforza l’esclusione di quella possibilità di leggere in m¤tron una misura matematica che già il suo essere appellativo della legge rispetto alle cose giuste per natura palesemente esclude. Anche qui, al contrario, m¤tron assume il significato di criterio, e in questa valenza denota una misura, la quale ha uno spessore ben più ampio e di ben altra natura di quello assunto in sede matematica. Identica affermazione che «la legge è misura o immagine (ï nfimo© m¤tron Í eåkÁn)» compare altre due volte, qualche linea dopo, nello spazio di tre righe, e precisamente in Top., 140 a 12-14. Merita infine d’essere

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considerato che in Metaph., 1016 b 18 ss., a sostegno della tesi per cui «la misura prima è un principio (t g·r práton m¤tron àrc‹)», si afferma che «la cosa prima con la quale conosciamo, questa cosa prima è misura di ciascun genere (ˇ˙ g·r prÒtˇw gnwr›zomen, toÜto práton m¤tron ëk¿stou g¤nou©)». Di conseguenza, argomenta lo Stagirita, in campo matematico l’uno è principio del numero, giacché esso «è principio del conoscibile per ogni genere di cose (àrc‹ toÜ gnwstoÜ per‰ ≤kaston)»; tuttavia, si premura subito di precisare, «l’uno non è lo stesso in tutti i generi: in un caso è il semitono, in un altro è la vocale e la consonante, e altro è l’uno nell’ambito dei pesi e altro ancora nell’ambito dei movimenti». Dunque, misura di ogni genere di cose è la cosa prima con cui le conosciamo: in campo numerico, l’uno, poiché a partire dall’uno conosciamo i numeri, che sono aggregati di unità, nell’ambito del discorso la lettera e la sillaba giacché con esse conosciamo questa quantità discreta (com’è detto essere il discorso in Cat., 6), e così di seguito. Dal che è chiaro che la misura in senso matematico non esaurisce il significato di misura, dal momento che in ogni genere di realtà se ne dà una, ed essa è, per l’appunto, la cosa prima con la quale conosciamo quel genere. Anche qui, dunque, il significato complessivo di m¤tron sembra essere quello di «criterio», e in questa precisa accezione Aristotele può istituire l’equivalenza tra m¤trion e àrc‹ per ogni ambito categoriale dell’esistente. Ebbene, sulla base di queste risultanze la tesi jaegeriana per la quale lo Stagirita, dicendo che il bene (t àgaqfin) è «misura (m¤tron)», lo assume in una concezione geometrica (quella, esattamente, del tardo Platone), perché tale è la valenza di «misura», appare gravata da una inaccettabile forzatura. La diretta conseguenza di questo rilievo è l’improponibilità della lettura di p¿ntwn àkrib¤staton m¤tron tàgaqfin âsti nel senso

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di «il bene è la misura più esatta di tutte», per tutti gli aspetti dottrinali ed esegetici per i quali essa chiama in gioco l’interpretazione in chiave matematica delle idee e dell’idea del bene proposta dal tardo Platone. Una improponibilità che s’impone in termini decisi e marcati ove in quella lettura si voglia scorgere l’adesione da parte di Aristotele a una tale rappresentazione delle idee, ma che, anche se con minore decisione e in un rilievo non così netto, s’impone pure se in quella frase, così intesa, si voglia scorgere non già la proposta di Aristotele del proprio pensiero, bensì l’esposizione di quello che egli non condivide e critica, in seno alla disputa intorno alle idee e al bene, sorta nell’Accademia, alla quale si accennava. Suggerisce di scartare anche quest’ipotesi – che, comunque, rovescia l’esegesi genetica e il significato che in essa assume l’espressione qui in oggetto, in tutte le valenze nelle quali gli studiosi che hanno aderito a un tale metodo d’accostare il pensiero dello Stagirita l’hanno presentata – la circostanza secondo cui il riconoscimento da parte di Aristotele della multivocità di m¤tron è acquisizione che va ascritta già alla sua produzione filosofica più antica, come appare dal passo dei Topici anzi citato, la composizione dei cui libri centrali risale agli anni del soggiorno del filosofo nell’Accademia. Passo nel quale m¤tron, significando «criterio», presenta con ciò stesso una valenza differente da quella di misura matematica che pur gli appartiene. Per cui è difficile credere che Aristotele, conscio di tale multivocità della nozione, l’abbia proferita in riferimento al bene nel significato in cui l’avrebbe pronunciata Platone senza fornire questa decisiva precisazione: «ó© fhs›» è formula ampiamente ricorrente nei suoi scritti. E con ciò si fa strada la verosimiglianza dell’altra lettura della frase, per la quale «di tutte le cose il bene è la misura più esatta». Vi è subito da segnalare che se in essa «misura» (m¤tron) va assunto nel significato di «cri-

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terio», tale significato declina una delle sfumature di «causa» (aútion, aåt›a), essendo questa «la misura» per cui una cosa è quella che è e non un’altra, vale a dire «il criterio» secondo il quale si è determinato il suo essere. Ebbene, in quest’ottica la frase in questione sembra ricondursi all’osservazione di Resp., II, 379 b 15-16 secondo cui, in un contesto nel quale è a tema la bontà di Dio e il suo essere causa soltanto di beni, cosicché va bandita la poesia omerica che attribuisce agli dèi la responsabilità di azioni malvagie, «il bene non è causa di tutte le cose (oék ôra p¿ntwn ge aútion t àgaqfin)», con la successiva precisazione che «lo è soltanto degli effetti positivi, mentre di quelli negativi non è causa (tán m‚n eÛ âcfintwn aútion, tán d‚ kakán àna›tion). Ora, in Resp., VII, 517 b 8 – c 2 Platone rileva che «l’idea del bene (ì toÜ àgaqoÜ åd¤a)», la quale si conosce per ultima e con grande difficoltà (ân tˇá gnwstˇá teleuta›a [...] ka‰ mfigi© ïrÄsqai), «è la causa universale di tutto ciò che è retto e bello (pÄsi p¿ntwn a≈th μrqán te ka‰ kalán aåt›a)». Per cui a essa deve volgere lo sguardo il legislatore e su di essa deve reggersi la polis. Ora, non è illogico ipotizzare che nell’affermare che «di tutte le cose la misura più esatta è il bene» Aristotele si sia polemicamente riferito a queste considerazioni del maestro. Polemicamente, per almeno tre ragioni: innanzitutto perché fa valere che il bene è causa di «tutte le cose (p¿ntwn)», vale a dire tanto di quelle che versano in una condizione positiva quanto di quelle che non hanno raggiunto questa condizione. La natura innanzitutto politica del dialogo, con le implicazioni di carattere etico che per Aristotele sono strutturalmente connesse a questo tipo di riflessione, inducono a credere che p¿ntwn non indichi tutti gli enti, bensì la totalità delle azioni, alla stessa stregua in cui l’aggettivo è presente nel passo iniziale dell’Etica nicomachea, dove lo Stagirita dal rilievo secondo cui «ogni arte e ricer-

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ca, e similmente ogni azione e ogni scelta deliberata tendono a un fine» deduce che «perciò il bene è ciò a cui tendono tutte queste cose (p¿nta)», ossia tutte queste attività.6 In tal modo, dicendo che il bene è la misura, ossia il criterio più esatto di ogni azione, Aristotele innanzitutto trasferiva il bene stesso dal piano dell’idea all’ordine di ciò che è attuabile, facendo di esso il metro assiologico di tutto quello che si compie, non la causa di ciò che di positivo vi è nel reale. Un bene siffatto, misura di ogni azione e definibile esso medesimo sul piano dell’agire etico-politico, ha uno statuto ben differente da quello della causa paradigmatica suprema. In secondo luogo, dunque, perché è facile arguire che nel Politico Aristotele abbia proceduto a definire un tale, differente statuto del bene, in stretta relazione con la critica della corrispondente idea. Le testimonianze in proposito sono così scarse da non poter dire in che termini lo Stagirita lo abbia delineato.7 Ma ciò che sulla base dei precedenti rilievi appare ragionevole ritenere è che la necessità di una nuova definizione dello statuto del bene nel nostro dialogo si sia fatta innanzi. In terzo luogo, la polemica con Platone risulta dal fatto che, delineandosi il bene nei termini sopraddetti, ossia come realtà attuabile essa stessa nell’ordine della prassi, così da essere a questo livello e su questo stesso piano «criterio» delle realtà politiche, ben si comprende perché esso dovette essere qualificato dallo Stagiri6

In proposito cfr. Gauthier-Jolif 1970, II, 1, p. 4; Zanatta 1986, I, p.

412. 7 Laurenti 1987, I, pp. 331 ss. ipotizza che abbia pensato il bene sostanzialmente nei medesimi termini in cui l’ha delineato nell’Etica nicomachea, vale a dire sulla base della primalità della nozione di f‡si©, come raggiunta condizione da parte di ogni cosa di ciò che la sua natura comporta e, ancor più precisamente, come esercizio dell’attività che la raggiunta compiutezza di un tale stato permette. Ma ad avviso di chi scrive si tratta di un’ipotesi acuta, sì, ma non priva di congetturalità, in assenza di specifici documenti con cui suffragarla.

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ta come misura di tutte queste realtà, ossia non soltanto di quelle azioni che nei loro esiti e nei loro fini realizzavano il bene pratico, ma anche di quelle che si orientavano in senso opposto, configurandosi proprio per questo come «criterio» di valutazione di tutto ciò che ha attinenza con il fare etico-politico del soggetto umano, laddove la platonica idea del bene, abbiamo visto, calibrandosi su di un piano squisitamente ontologico come causa paradigmatica della positività dell’esistente, sul piano etico non poteva che fungere da causa dei soli aspetti positivi dell’agire. 3. I frammenti che il Ross attribuisce al Politico e raccoglie sotto il n. 3 hanno tutti per oggetto l’ira. La loro appartenenza al dialogo è incerta, ed è oggetto di discussione tra gli studiosi. Si tratta di cinque passi del De ira di Seneca, uno dell’omonimo scritto di Filodemo e uno tratto dalle Tusculanae di Cicerone. Tra coloro che non li hanno ritenuti ascrivibili al Politico, e in particolare non hanno ritenuto tali i frammenti senechiani, che rappresentano la materia sulla quale si è soprattutto accentuato il dibattito, vi è chi, come il Rose delle prime due edizioni, non li prende neppure in considerazione; altri invece, come Laurenti (1987, I, pp. 337-345), ritengono che nel riferire sulla dottrina aristotelica dell’ira Seneca si riferisca sì ad Aristotele, ma in modo mediato, giacché la sua fonte diretta sarebbe il per‰ àorghs›a© di Ieronimo, che a sua volta si sarebbe servito del per‰ paqán di Aristotele, lo scritto che Diogene Laerzio V, 24 riporta, al n. 37 delle opere dello Stagirita, col titolo per‰ paqán μrgÉ© a e nel catalogo dell’Anonimo compare al n. 30 col titolo per‰ p¿qou© μrgÉ©. Quest’ultimo rappresenterebbe forse una correzione del primo, nel quale, secondo una felice supposizione di Moraux (1951, pp. 76 ss.), condivisa, assieme a non pochi altri studiosi (cfr., per esempio, Düring 1976, pp. 140

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s.), anche da Laurenti, μrgÉ© sarebbe una glossa tendente a mettere in luce l’importanza di questa passione nello scritto Sulle passioni (per‰ paqán) – tale per l’appunto il suo autentico titolo; un’importanza segnata altresì dal fatto che l’ira sarebbe stata la prima passione studiata dallo Stagirita. Nell’ottica esegetica nella quale qui ci muoviamo, l’attribuzione al Politico di un’analisi sull’ira sembra presentare più ragioni per essere accettata di quante non si assommino per comprovare che va respinta. Da un punto di vista generale, sembra del tutto confacente a uno scritto sulla natura dell’uomo di stato e sulle doti che egli deve avere una disamina anche sul modo in cui deve comportarsi rispetto alle passioni e, tra queste, rispetto all’ira. In un’ottica comparativa, poi, la trattazione sulle passioni contenuta nel secondo libro della Retorica, ove si consideri che uno dei generi di questa disciplina è quello deliberativo o politico, sembra confermare la necessità o comunque l’opportunità sopra enunciata. 4. Quanto al fr. 3a, va osservata l’effettiva corrispondenza tra la definizione dell’ira che si può ricavare dal senechiano De ira, I, 3, 2 (ricavare, s’è detto, e non leggere, perché a partire da I, 2, 3 nel passo in cui essa era formulata si registra una lacuna di notevole ampiezza): l’ira è «cupiditas poenae exigendae», e la definizione che in De an., I, 1, 403 a 30-31 Aristotele presenta come quella che fornisce il dialettico, la quale, a differenza della definizione del fisico, intesa a esprimere la forma nella materia, è volta, invece, a enunciare l’essenza. Quest’ultima suona infatti «desiderio di ricambiare il dolore, o qualcosa di simile (ï m‚n g·r ùrexi© àntilup‹sew© õ ti toioÜton)», mentre la caratterizzazione che ne dà il dialettico pone in luce il ribollire del sangue comportato da tale passione (Ivi, 402 a 23 ss.). In modo non dissimile dalla definizione formale sopra

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richiamata, in Top., 156 a 30 s. l’ira è detta essere «desiderio di vendetta per disprezzo eclatante (ùrexi© timwr›a© di· fainom¤nhn μligwr›an», e in Rhet., II, 2, 1378 a 30 essa è definita come «un desiderio di vendetta accompagnato da dolore per un disprezzo eclatante nei riguardi della persona o di qualcuna delle sue cose, quando non sia conveniente disprezzare (ùrexi© met· l‡ph© timwr›a© Æainom¤nh© di· Æainom¤nhn μligwr›an eå© aétÂn õ ti tán aétoÜ, toÜ μligwreÖn m„ pros‹konto©)». Tra i motivi degli altri frammenti raccolti al n. 3 va innanzitutto segnalato quello che più connota la differenza tra la concezione stoica delle passioni, quale Seneca professa, e quella di Aristotele e, a partire da lui, dei Peripatetici. A diverso titolo ma con identica cadenza, 3e e 3f muovendo dall’ira allargano l’orbita di riflessione fino ad attestare che per questi secondi le passioni non sono da estirpare, bensì da moderare. Esse, infatti, nella concezione aristotelica, costituiscono un insostituibile ed essenziale fattore in ordine al costituirsi delle virtù morali, dal momento che queste consistono nel disporsi e nell’agire rispetto alle passioni come la regola (il logos) comanda, null’altro che questo essendo il tenere la via di mezzo tra l’eccesso e il difetto; ond’è che, senza le passioni, tali virtù non sussisterebbero affatto, o comunque non sarebbero così come Aristotele le configura. L’estirpazione delle passioni corrisponde invece alla concezione stoica della virtù e, in generale, dell’etica, e i frammenti sopra richiamati mettono ben in evidenza la voluta contrapposizione tra temperare e tollere (3e), tra l’essere la mediocritas in rapporto a esse optima e, per converso, il doverle estirpare e resecare (3f). Il fr. 3f pone poi in luce come il fondamento della concezione peripatetica sia il carattere naturale delle passioni («naturales», «a natura datae»), per cui l’estirparle sarebbe come un far violenza alla natura umana. Occorre rilevare

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che anche per gli Stoici l’andare contro natura è moralmente vizioso, e che anch’essi, come Aristotele, facevano coincidere la natura dell’uomo con la ragione, ma mentre per lo Stagirita le passioni possono assoggettarsi alla ragione e così moderarsi, esse per gli Soici sono costitutivamente opposte alla ragione, e per questo vanno eliminate. Ebbene, in questo quadro teorico generale prende spicco il giudizio sull’ira (μrg‹). Essa – dice Aristotele – è utile (3e), anzi necessaria (3d). Queste prerogative le competono in quanto essa sollecita gli animi a una giusta reazione di fronte a situazioni che vedono l’individuo ingiustamente fatto oggetto d’offesa, o in quanto richiedono ardimento perché è presente un pericolo. Così, dice 3d, senza l’ira non è possibile compiere nulla di grandioso in guerra, facendo in tal modo dell’ira la condizione necessaria per l’esercizio del coraggio. Si connettono a questo pensiero le condizioni di 3c e 3f, dove rispettivamente si afferma che le «passioni», e dunque anche l’ira, sono come armi, e si fa diretto riferimento alle battaglie. Come si vede, «ira», nella valenza aristotelica qui attestata, è ben altra cosa rispetto all’accezione che il termine assume nell’odierno linguaggio. Non si tratta, infatti, di un eccesso incontrollato di animosità, bensì della qualità morale che spinge il soggetto a non restare indifferente di fronte a oltraggi immeritati, a reagire, ma – ecco l’aspetto che più conta – «misuratamente», ossia nei termini e nei modi che la ragione esige, e innanzitutto in maniera proporzionata alla situazione. Parimenti dicasi per ciò che riguarda i pericoli della guerra. Per questi aspetti l’ira è detta costituire i nervi dell’anima (3g) e, in quanto è espressione di sdegno per l’impunità delle colpe, è lodevole (3f). Caratterizzata in questi termini, ben si comprende, dunque, perché l’ira abbia potuto interessare direttamente il discorso sull’uomo di stato: giacché questi, in

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particolare, ha responsabilità pubblica in ordine a situazioni che richiedono il coraggio di prendere posizione, sia nell’amministrazione della polis in tempo di pace che nell’assunzione di decisioni militari in tempo di guerra. Sono queste, a ben vedere, le ragioni che non soltanto suggeriscono, ma rendono probabile l’appartenenza di questo frammento al Politico.

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Ossia Aristotele e Teofrasto. Il prosieguo della frase, che taluni editori (tra i quali Heitz, Stark e Laurenti) riportano direttamente nella testimonianza, è pluribus praeterea conscripsisset qui esset optimus rei publicae status «e, inoltre, avendo spiegato in molte occasioni quale condizione è la migliore per lo stato». 10 Si tratta dei libri del De republica. 11 Il frammento compare anche come testimonianza n. 15. 9

TESTIMONIANZE

CIC., De fin., V, 4, 11: ... l’uno e l’altro di loro8 avendo insegnato quale principe conveniva che vi fosse in uno stato.9

FRAMMENTI

1 (R2 70, R3 78) CIC., Ad Quint. Fratr., III, 5, 1: quando nel Tusculano mi leggevano questi libri,10 Sallustio, mentre ascoltava, mi richiamò sul fatto che di quegli argomenti avrei potuto parlare con un’autorevolezza molto maggiore se fossi io stesso a parlare dello stato, soprattutto perché non sono un Eraclide Pontico, ma un consolare, ossia colui che in materia di stato è addentrato nelle questioni supreme. E mi sembrò che le cose che attribuirei a uomini tanto antichi fossero state costruite [...] infine che fu lo stesso Aristotele a proferire le cose che scriveva sullo stato e sull’uomo che lo governa.11 2 (R3 79) SYRIAN., In Arist. Metaph., p. 168, 33-35: Il fatto si è che scrive di questi argomenti nel secondo libro del Politico... e dice espressamente così: «infatti la misura più esatta di tutte le cose è il bene».

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12 In Rhet., 1378 a 30-31 Aristotele così definisce l’ira: «un desiderio di vendetta accompagnato da dolore per un disprezzo eclatante nei riguardi della persona o di qualcuna delle sue cose, quando non sia conveniente disprezzare». L’analisi dell’ira, quale eccesso la cui virtù è la mitezza (prafith©), mentre l’eccesso non ha un nome determinato, ma potrebbe dirsi una sorta di mancanza di irascibilità (àorghs›a ti©), è condotta in Eth. nic., IV, 11. 13 Quest’«ira» che è necessaria per poter realizzare qualcosa con successo, non è certamente un vizio, bensì una virtù, e come tale sembra coincidere con quella sorta di giusto sdegno verso le persone e le cose che lo meritano, manifestato nelle circostanze, nel tempo e nella misura che convengono, il quale, in Aristotele, caratterizza espressamente la «virtù» della mitezza. L’uomo mite, dice infatti lo Stagirita, ancorché il comune modo di pensare tenda ad avvicinarlo al portatore del relativo difetto, concependolo come soggetto facilmente incline al perdono, è in realtà «chi monta in collera (ï... μrgizfimeno©) per le cose per le quali si deve e quando si deve e per quanto tempo si deve», e per questo «viene lodato» (Eth. nic., 1125 b 31-33). La stessa annota-

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3 (R2 94-95, R3 80) a) SEN., De ira, I, 3, 3: La definizione di Aristotele non è molto distante dalla nostra. Dice, infatti, che l’ira è il desiderio di ripagare un dolore.12 b) SEN., De ira, I, 9, 2: L’ira – disse Aristotele – è necessaria, e senza di essa non si può vincere nulla, se essa non riempie l’animo e non infiamma lo spirito. Ma bisogna servirsene non come di un comandante, bensì come di un soldato.13 c) SEN., De ira, I, 17, 1: Aristotele dice che alcune passioni tengono il luogo di armi se qualcuno ne fa buon uso.14 d) SEN., De ira, III, 3, 1: Ma, come ho detto nei precedenti libri, Aristotele si pone come difensore dell’ira e ci proibisce di estirparla. Dice che è sprone della virtù; una volta che questa sia stata strappata via, l’animo si fa indifeso, pigro verso i grandi tentativi e inerte [...] 5: pertanto non è opportuno che tu creda che consumo il tempo in oltremodo inutili, e che l’ira è scellerata, come se presso gli uomini fosse di dubbia reputazione, poiché esiste qualcuno, e in realtà tra i filosofi più insigni, che le assegna un compito e proclama che è tanto utile quanto atta a infondere coraggio per le battazione secondo cui dell’ira ci si deve servire come di un soldato, non come di un comandante, sembra richiamare quel concetto di giusta misura e obbedienza alla regola nel montare in collera che caratterizza il mite, il quale – rileva ancora Aristotele – nelle sue esternazioni «non vuole farsi guidare dalla passione, ma adirarsi come la regola (ï lfigo©) comanda e per le cose che essa comanda e per tanto tempo quanto essa comanda» (Ivi, 1125 b 33-1126 a 1). 14 Come si desume dalla parte finale del frammento 3d e dal fr. 3e, l’ira ha funzione di arma con cui offendere ed aggredire, ma – s’intende – per giusti motivi e, come si desume dall’inizio del fr. 3d, dove si parla di un animo che senza ira è «indifeso», ha altresì funzione di arma con cui difendersi.

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Tra i quali, ovviamente, Aristotele. Ossia le passioni, che per Aristotele, e dunque per la sua scuola, rivestono una parte essenziale nella struttura dell’atto morale e, in particolare, delle virtù etiche. Le quali, propriamente, in quanto medietà, consistono nella moderazione delle passioni medesime. Al contrario, esse per gli Stoici sono in se stesse e in quanto tali un male, epperciò occorre estirparle, come si trattasse di un bubbone pestifero. 17 «Noi», ossia gli Stoici, di cui Cicerone difende la dottrina. 18 Stessa definizione dell’ira trovasi in Cic., Acad. Pr., 44, 135 e in Seneca, De ira, I, 7, 1; III, 3, 1. 19 Ossia degli Stoici, le cui argomentazioni dovevano apparire ai Peripatetici di così poco conto (leves) da giustificare il fatto che Cice16

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glie, per il compimento di imprese, verso tutto ciò che bisogna compiere con qualche calore. e) SEN., De ira, I, 7, 1: Forse che... bisogna assumere l’ira poiché spesso è stata utile? Esalta gli animi e li incita, e senza di essa il coraggio in guerra non compie nulla di magnifico, se da qui non è stata accesa una fiamma e questo stimolo non eccita e invia gli audaci verso i pericoli. Perciò taluni15 ritengono che sia ottimo moderare l’ira, non eliminarla e, tolto via ciò che è eccessivo, costringerla a una misura che procura salvezza, ossia a far persistere ciò senza di cui l’azione languirà e la forza e il vigore dell’animo si rilasseranno. f) CIC., Tusc. Disp., IV, 19, 43: e che? Si dà che sempre i Peripatetici sostengano che questi sconvolgimenti16 che noi17 riteniamo doversi estirpare, non sono soltanto naturali, ma anche utilmente dati dalla natura. E la loro teoria è la seguente: innanzitutto lodano l’ira con molte parole, sostengono che è la pietra della fortezza18 e che tanto contro il nemico quanto contro il cittadino disonesto gli slanci di coloro che sono irati sono molto più veementi. invece che i ragionamentini di coloro che pensano così,19 sono di scarso peso: «è corretto che si faccia questo combattimento, è conveniente combattere per le leggi, per la libertà, per la patria». Queste considerazioni non hanno nessuna forza, a meno che con l’ira non si accenda il coraggio. Né in realtà discutono soltanto di persone che combattono: ritengono che nessun comando sia veramente dotato di severità senza l’asprezza dell’ira. Infine, non solo l’oratore che accusa, ma neppure quello che difende essi approvano se non rone, nel presentarle, possa dire, con un diminutivo dal significato fortemente pregnante, atto a esprimere il giudizio di pochezza assegnato loro dai Peripatetici, «ratiunculae».

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20 Sulla mitezza (prafith©) stoica cfr. S.V.F., III, p. 161, 20. Per i Peripatetici, invece, questa, che agli occhi degli Stoici è una virtù, viene intesa come mancanza d’ira, ossia come vizio per difetto. 21 Così m’è parso di dover tradurre «libido», per rendere il quale termine, dal significato fortemente pregnante, non basta qui – ad avviso di chi scrive – il semplice «desiderio», come si trova in alcune edizioni. Un desiderio può ben essere anche tenue e delicato, mentre in libido se ne marca la forte intensità. E parimenti si marca anche il senso di piacere che esso procura, come peraltro appare dal successivo lubeat, costruito sullo stesso radicale di libido. 22 «Cicerone scambia il desiderio naturale di cui parlavano i Peripatetici con la passione irrazionale della brama» (Laurenti 1987, I, p. 311, nota 13). 23 Sulla aegritudo ciceroniana cfr. Tusc. disp., III, 13, 27. 24 Sulla nozione di misericordia cfr. Aristotele, Rhet., II, 9 (1386 b 8 ss.). 25 Sull’aemulatio e sull’obtrectatio, presentate da Cicerone come due forme di aegritudo, cfr. Tusc. disp., IV, 8, 17.

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abbia gli aculei dell’ira. E ritengono che, anche se essa non sia presente, tuttavia bisogna simularla con le parole e con la gesticolazione, cosicché il modo d’agire dell’oratore accenda l’ira dell’ascoltatore. Dicono, infine, che non sembra un uomo colui che è incapace di adirarsi, e quella che noi chiamiamo mitezza,20 essi la designano col nome di quel vizio che è mollezza. Né in realtà lodano soltanto questo piacevole, intenso desiderio21 – ché, l’ira, come l’ho definita più sopra, è un piacevole, intenso desiderio di vendicarsi –, ma sostengono che quello stesso genere vuoi di piacevole, intenso desiderio, vuoi di passione22 è stato dato dalla natura per la massima utilità. Infatti, nessuno può compiere egregiamente qualcosa se non ciò che piace [...] 20, 45: sostengono che la sofferenza23 stessa non senza una grande utilità è stata costituita dalla natura, affinché gli uomini che versano in uno stato delittuoso si dolgano d’essere colpiti da punizioni, rimproveri e ignominie. Infatti, a coloro che sopportano senza dolore l’ignominia e il disonore sembra esser stata data l’impunità delle colpe: è meglio patire i morsi della coscienza [...] 46: sostengono che anche gli altri risvolti della sofferenza sono utili: la misericordia24 per portare aiuto e alleviare le disgrazie degli uomini che ne sono indegni; quello stesso emulare, quello stesso denigrare25 non sono inutili, quando si veda o di non aver conseguito il medesimo di un altro, o che un altro ha conseguito lo stesso di noi; quanto al timore,26 se lo si eliminasse si sarebbe in realtà eliminata ogni attenzione per la vita, attenzione che è massima in coloro che temono le leggi, le magistrature, la povertà, l’ignominia, la morte. Tuttavia essi discutono questi sentimenti in termini tali da dire che si devono moderare; da sostenere invece che estir-

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In proposito cfr. Eth. nic., III, 9 (1115 a 6 ss.).

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parli del tutto, né è possibile, né è necessario, e da ritenere che pressoché in tutte le situazioni la via di mezzo sia ottima. g) PHILOD., De ira, pp. 65, 31 – 66, 2 (Wilke): il fatto si è che alcuni tra i Peripatetici, come in altro luogo anche prima ho richiamato alla memoria con i loro volti, sostengono che recidono i nervi dell’anima coloro che ne eliminano l’ira e l’impulsività. E senza di queste non si danno né punizione né vendetta [...] nelle guerre e nelle situazioni analoghe non è possibile comportarsi senza ira, la quale fa essere coraggiosi, elimina ogni indolenza e vigliaccheria e fa in modo che, in una situazione da cui è eliminata la possibilità d’essere vinti, si resista fino alla morte. In pari modo, essa produce ciò che rende atti a vendicarci dei nemici, che è bello, giusto e utile che appartenga, privatamente e pubblicamente, e che inoltre è piacevole [...] 4 PHILOD., Voll. Rhet., II, p. 175, fr. 15, 1-6: ad avviso di Aristotele, né è possibile che si salvi una lepre che fornisca la sua immagine tra i cani, né può salvarsi tra gli uomini uno che sia ritenuto simile a un cane e stolto. Pap. Herc., 3, 1020 (Hercul. Vol. Coll. Alt. X, 112-77, coll. I n = Ox. Ma.): a questo segue il fatto che i sapienti non possono essere ingannati e non possono cadere in errore, ad avviso di Aristotele (Ma forse queste parole sono una parafrasi di quelle che si trovano in Pol., 1319 a 3: «le persone a modo non possono essere ingannate»).

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INTRODUZIONE

1. Il De poetis è indicato sia nel catalogo di Diogene Laerzio (al n. 2) che in quello dell’Anonimo (al n. 2) in tre libri e, dopo il Sulla giustizia, è il dialogo più vasto in estensione. Che si tratti di un dialogo, è provato da più elementi, a partire dall’esplicita indicazione della test. 2 (ï per‰ poihtán di¿logo©), la quale, benché tratta da una fonte quale la Vita marciana che deve ritenersi attendibile solo in linea di massima, atteso il carattere composito e stratigrafico delle notizie che reca, nel caso di specie conferma una risultanza della tradizione. Circa la data della sua composizione gli studiosi hanno discusso, esprimendo pareri molto diversi. Quelli prevalenti s’attestano intorno a due possibili ipotesi: una, proposta per la prima volta da colui che probabilmente è stato il maggiore studioso del De poetis, ossia Augusto Rostagni, secondo cui l’opera deve essere datata del 334 a.C., in un periodo, cioè, relativamente tardo, corrispondente alla fine del tempo nel quale lo Stagirita fu precettore di Alessandro Magno (342-334 a.C.). Con essa concordano, tra gli altri, Alfonsi (1942), Sbordone (19501951, 1950-1951b), Untersteiner (1955b, pp. 108-109), Hardy (1961, pp. 13-16) e Gauthier-Jolif (1970, I, p. 40). Anche Moraux condivide una datazione relativamente tarda del De poetis, ossia fuori del periodo accademico, ma ne colloca la composizione intorno ai primi anni del soggiorno di Aristotele a Mieza in qualità di precettore

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di Alessamdro Magno, ponendo perciò una distanza cronologica maggiore rispetto alla Poetica (Moraux 1951, p. 340), le cui trattazioni troppo stringate sarebbe azzardato, a suo avviso, ritenere riassunti di più vaste analisi del nostro dialogo, così come sarebbe azzardato attribuire a esso tutti i frammenti che invece gli ascrive Rostagni, e soprattutto alcuni concernenti le passioni comunemente riferiti al Politico (Ivi, p. 29). In realtà, a formulare quell’ipotesi Rostagni era stato indotto dal sostanziale credito accordato alla notizia della test. 2 secondo cui Aristotele avrebbe redatto per il giovane allievo un’edizione dell’Iliade; il che farebbe ragionevolmente credere che in quel periodo egli abbia sviluppato in modo specifico, anche in virtù della sua funzione di precettore, «quegli studi di erudizione letteraria di cui con nessuna verosimiglianza cercheremmo le tracce nella giovinezza» e che soltanto allora introdusse «nel suo ormai formato sistema, come parte integrante dello scibile, come oggetto indispensabile dell’universale ricerca» (Rostagni 1955a, p. 257). Il De poetis s’allineerebbe in tal modo alle indagini minuziose e dotte degli àpor‹mata ïmerik¿, cui si allude in Poet., XXI, nonché delle Puqion›kai, databili del 335-335 a.C., delle ‘Oliumpion›kai, delle quali ad avviso di Rostagni si avrebbe notizia in D.L., VIII, 51-52, delle Didaskal›ai e delle N›kai Dionusiaka›. La datazione tarda del De poetis porrebbe questo scritto direttamente in rapporto con la Poetica, risalente alla prima parte del secondo soggiorno ateniese di Aristotele, ossia intorno al 330 a.C., nel senso che in entrambe le opere si sarebbero agitate le medesime, grandi tematiche dell’estetica aristotelica, con la differenza che, mentre la Poetica è uno studio sull’arte poetica, il De poetis è uno studio sul poeta, prendendo in esame «che cosa i poeti siano, e che funzione abbiano nella vita pratica, e quali ne siano le diverse specie, e con quali mezzi raggiungono la perfezione» (Ivi, p. 260).

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L’altra ipotesi, più tradizionale, seguita in tempi recenti (per citare solo alcuni studiosi) da Else, da Düring, da Laurenti e, in parte, da Jaeger, prevede per il De poetis una datazione più antica, ossia entro il periodo accademico. Else la giustifica ritenendo che il «basic stock» del testo della Poetica «appartenga al periodo di AssoMitilene (347-342 a.C.) o anche al tempo anteriore alla morte di Platone (347 a.C.)» (Else 1967, p. XI), e che il De poetis sia anteriore alla Poetica, «certamente non posteriore», in quanto «attesta l’interesse di Aristotele proprio in quelle questioni in una data relativamente pristina» (Ivi, p. 53). Parallelamente, anche Düring fa risalire il De poetis al periodo accademico: egli ritiene che la stesura originaria della Poetica, sulla quale Aristotele stesso avrebbe aggiunto note a margine e postille, non mai pensando «di presentare il testo in questa forma, in ogni caso senza un’esegesi orale», sia stata composta «abbastanza per tempo, e comunque nel periodo dell’Accademia» (Düring 1967, p. 190); il De poetis «dev’essere stato scritto prima della Poetica perché in questa, 15, 1454 b 18, Aristotele si riferisce a esso» (Ivi, p. 148). In esso l’analisi era indirizzata non all’ars, come nella Poetica, bensì all’artifex¸ al poeta, secondo una distinzione che «si affermò immediatamente e divenne determinante per l’epoca ellenistica, fino a Orazio»: nel senso che, laddove la Poetica mette in campo «un’analisi strettamente teorica», operata da «uno scienziato che vuole trattare un certo argomento per proprio uso e senza inutile zavorra», nel De poetis invece, che si rivolgeva a un vasto pubblico, «Aristotele prendeva i poeti come punto di partenza e poneva dei problemi come: “che cosa caratterizza un poeta, che funzione ricopre nella società, quali specie di poeti si possono distinguere, quali mezzi adoperano?”» (Ivi). Laurenti polemizza con Rostagni ritenendo inammissibile «che solo in Macedonia, quando aveva superato la quarantina, Aristotele “per la pri-

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ma volta” pensò seriamente al problema dell’arte» e rilevando che la notizia della Vita marciana «non autorizza ad ammettere la composizione contemporanea» del De poetis e delle opere erudite di cui sopra (1987, p. 245); all’opposto, sulla base di Poet., 1454 b 15-18 e di un accurato esame comparativo delle questioni trattate nel dialogo e nella Poetica, prima tra tutte quella della mimesi, egli scorge nel De poetis la prima risposta dello Stagirita alla relativa condanna platonica, e «questo rinverdisce l’ipotesi tradizionale secondo la quale il per‰ poihtán va collocato nel primo periodo dell’attività di Aristotele» (Ivi, p. 246). Jaeger, dal canto suo, che pur non stabilisce una datazione precisa per il nostro dialogo, ritiene che esso debba essere anteriore alle opere di carattere erudito (come le Didascalie e I vincitori ai giochi pitici e olimpici), che a suo avviso è ragionevole datare del secondo soggiorno di Aristotele ad Atene (Jaeger 1964, p. 443). 2. L’ampiezza dello scritto, in tre libri, e l’allusione di Poet., 15 (1454 b 15-18) rendono pressoché certa l’anteriorità del De poetis alla Poetica: la seconda circostanza in modo diretto ed esplicito, ove si riconosca, come allo stato attuale degli studi sembra assodato, che in tale luogo Aristotele si riferisca a uno scritto precedente e che questo sia il nostro dialogo; la prima, in quanto è impensabile che un’analisi così dettagliata della tragedia, com’è quella condotta nella Poetica, abbia lasciato spazio per un’ulteriore e ancor più vasta analisi intorno alla stessa materia, quale avrebbe dovuto essere senz’altro quella del De poetis: nel corso dei suoi tre libri, esso non avrebbe potuto ignorare un argomento così importante, senza peraltro che sia facilmente individuabile quale novità avrebbe potuto apportare in proposito rispetto alle indagini della Poetica. Ma se anteriorità non significa ancora datazione pristina del nostro dialogo, potendo

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ben essere che, come ha autorevolmente creduto Rostagni, esso appartenga al medesimo periodo della Poetica, il fatto che, come hanno sottolineato Düring e Laurenti, in esso l’indagine abbia direttamente per oggetto il poeta sembra atto a suffragare, oltre alle valide ragioni addotte dagli studiosi che si sono espressi in proposito, la sua appartenenza al periodo accademico. In effetti, un’indagine così impostata ha chiaramente come termine di confronto l’idea di Platone, sviluppata soprattutto nel terzo libro della Repubblica, sulla funzione dei poeti nella costruzione e nella struttura dello stato: in diretto rapporto con le discussioni che anche su questo importante argomento si svolsero, in seno all’Accademia, tra i suoi membri. E come in Platone l’esame della funzione etico-politico-pedagogica del poeta si apriva di necessità all’indagine, di carattere più teorico e astratto, sulla natura della poesia, testimoniata innanzitutto dalla prima parte del X libro del medesimo dialogo, così era inevitabile che l’esame aristotelico sui poeti si aprisse a questioni teoriche inerenti alla poesia in quanto tale e, prima tra tutte, come vedremo, alla verità di ciò che rappresenta e al suo rapporto con le passioni: temi sui quali si era sviluppato il giudizio negativo di Platone in merito a essa. Aristotele torna a riflettervi come necessaria implicazione, per un verso, e presupposto, per un altro, dell’attività e della funzione dei poeti, in una sorta di strutturale implicazione nella quale un termine chiama direttamente in causa l’altro. Ora, un’indagine così impostata, con così chiari termini di confronto diretto con Platone, in un chiaro dibattito con le teorie di costui, e con le stesse movenze, riporta il De poetis all’ambiente accademico, e a questo periodo va collocata la sua composizione. A questo punto una precisazione metodologica s’impone, a partire dalla considerazione che, se tale è la natura del nostro dialogo, e di così vasta portata dovevano

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ragionevolmente essere le indagini in esso condotte, sviluppate in una trattazione di ben tre libri, non soltanto nulla vieta che parte di esse siano state riprese nella Poetica, ma, anzi, tutto lo implica come cosa ben logica. Ond’è che una tale ripresa è congruo ravvisare soprattutto là dove l’analisi del trattato appare oggettivamente stringata e come riassuntiva di una più ampia indagine, come gli studiosi hanno ben visto: la parallela indagine, per l’appunto, del dialogo Sui poeti. Ma questa considerazione non può significare, sul piano del metodo, la liceità di prospettare la riflessione teorica degli spunti tematici presenti nei pochi frammenti dell’opera a partire e nel quadro di corrispondenti teorie elaborate nella Poetica: sia perché così facendo si presupporrebbe, in modo del tutto arbitrario, che all’identità tematica verosimilmente ipotizzabile tra i due scritti corrisponda anche un’identità dottrinale e, ancor di più, un’identità d’argomentazione, sopprimendo, in modo altrettanto aprioristico e arbitrario, che nessun approfondimento sia intercorso tra l’uno e l’altro e che, quanto all’argomentazione, quella sviluppata in un’opera destinata al pubblico e in un dialogo sia la stessa di quella sviluppata in un’opera di scuola, destinata a offrire spunti sistematici per esplicazioni orali sulla materia. È, probabilmente, questo il limite metodologico di certi tentativi di ricostruzione storica dei contenuti del De poetis, i quali, ricchi di minuziose e dotte analisi, le conducono però percorrendo una via che va dalla Poetica al nostro dialogo: con il rischio dell’ampio margine di congetturalità che s’è detto. Per converso pare preferibile, anzi necessario, sulla base di quanto si è osservato, non estendere la ricostruzione della dottrina rintracciabile in un frammento al di là dei termini espliciti, perché direttamente attestati da un vocabolo o da un’espressione del frammento stesso, in cui essa è positivamente accertabile nel testo, e solo entro questo margine invalicabile servirsi,

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con la dovuta cautela, di corrispondenti teorie elaborate nella Poetica. 3. Il complessivo contesto di discussione delle posizioni platoniche intorno ai poeti e alla poesia si scorge, innanzitutto, in tre grandi tematiche che determinatamente si affacciano nei frammenti del dialogo: la reiezione della poesia stessa, in genere, e della tragedia e commedia, in specie, dal progetto della polis (fr. 5a), la mimesi (fr. 3a, 3b, 4) e la catarsi (fr. 5a, 5b, 5c). Si tratta di tre tematiche in sé ben distinte, come meritevoli di trattazioni separate, e così con ogni verosimiglianza era nel dialogo, ma al tempo stesso unite da un comune filo conduttore: l’essere i momenti forti di un giudizio negativo da parte di Platone e della corrispondente presa di posizione da parte di Aristotele. Nel fr. 5a, che è tratto dal quinto capitolo del commento di Proclo alla Repubblica, si esaminano due accuse ad altrettanti motivi di opposizione espressi da Platone nei riguardi della poesia. Benché soltanto della seconda si dichiari espressamente la paternità di Aristotele e dei suoi seguaci, ritengo sia logico, per il tipo d’opposizione messo in campo, che tale paternità vada estesa anche alla prima. L’accusa è di avere Platone bandito la poesia dal piano etico-pedagogico-politico della polis, e Proclo, che prende le difese di Platone, fa presente che non basta rilevare l’enormità della cosa, ma occorre «sviluppare le difficoltà» (diaporeÖn) che hanno indotto il filosofo a questa decisione, usando in tal modo contro Aristotele, com’è chiaro dallo stesso termine «diaporeÖn», un’operazione dialettica da questi stesso teorizzata, ma assumendola nella più ampia valenza di soppesare gli argomenti a favore e contro. L’esame di tali argomenti chiama direttamente in causa la mimesi, nel duplice accento negativo di discordanza dal vero e di forza seducente. Scrive infatti Proclo:

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dal momento che l’arte dei poeti è tutta un’arte di imitazione, sembra che Platone si sia accorto che nelle loro imitazioni essi commettono due tipi di errori: (a) talvolta imitano le cose che sono oggetto delle loro opere senza esprimere una vera somiglianza; (b) talvolta imitano esprimendo una vera somiglianza (In Plat. Remp., I, 44, 1 ss.).

Il che si verifica quando imitano casi seducenti, di modo che la loro stessa imitazione è tale. Di conseguenza, sono [...] due i motivi che non permettono di accogliere la poesia in un’educazione corretta: (b) nei casi in cui imita con verità, la seduzione dell’imitazione; (a) nei casi in cui imita con menzogna, il fatto che l’imitazione non concorda col vero (In Plat. Remp., I, 47, 14-19).

Qui, come si vede, Proclo non argomenta expressis verbis perché questi motivi rendono plausibile la reiezione della poesia dalla polis e, di conseguenza, infondata l’accusa di Aristotele, ma è evidente che (a) nel primo motivo entra in gioco la falsità del dire poetico in quanto dire imitativo o – il che è lo stesso – la falsità dell’imitazione che essa realizza, e il falso è di per se stesso da rigettarsi; (b) nel secondo, il fatto che l’imitazione, procurando piacere, muove l’anima indipendentemente dalla positività o dalla negatività assiologica di ciò che viene imitato, l’attrae cioè in quanto tale, ossia in modo incontrollato, e questo di seguire il piacere in senso assoluto non può certo essere un criterio etico. Dal che è ragionevole supporre che Aristotele nel nostro dialogo rivendicasse contro Platone (a) la verità dell’imitare e, di conseguenza, di quella forma di imitazione che è la poesia; (b) la strutturale capacità della poesia, e della tragedia e (forse) della commedia in primis, di suscitare nell’anima non ogni sorta di seduzione e di piacere, bensì di attrarla con una seduzione e un piacere che non sono affatto eticamente riprovevoli, giacché non ogni piacere è mo-

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ralmente negativo, come già Platone aveva riconosciuto nel IX libro della Repubblica e nel Filebo. Spingerci oltre, sarebbe un azzardo. Nella Poetica, com’è noto, Aristotele (a) sostiene che l’imitare corrisponde a una tendenza connaturata nell’uomo, in linea con quella ad apprendere, giacché dall’imitazione si traggono i primi insegnamenti (1448 b 6-7). L’imitazione, dunque, corrisponde a una prima forma di apprendimento ed «apprendere è la cosa più piacevole non soltanto per i filosofi, ma, parimenti, è anche per gli altri » (1448 b 13-14; parimenti è anche in Rhet., 1371 b 4-10). (b) Parla altresì di un piacere proprio della tragedia (1453 b 11), precisando che esso proviene «dalla pietà e dal terrore mediante un’imitazione» e che questo tipo di piacere deve produrre il poeta (Ivi, 1453 b 12-14); altrove afferma che la tragedia ha un suo t¤lo© e un örgon proprio.1 Po1 Che il t¤lo© della tragedia coincida con il suo örgon e che in essi sia da identificarsi la catarsi, è stato sostenuto, tra gli altri, da Lucas 1957, pp. 96 e 273, da Golden 1976, p. 443, da Janko 1987, nel commento a Poet., 1449 b 27 e nel Glossary, s.v., da Else 1967, pp. 439-440 e da Belfiore 1994, pp. 258-259. L’argomentazione addotta da questa studiosa è la seguente: per Aristotele il racconto, che costituisce il fine della tragedia, è analogo all’anima di un essere vivente; e poiché l’attività dell’anima «is the ergon and telos of a living thing», così il piacere prodotto dal racconto, ossia il piacere proprio della tragedia, «is the telos and ergon of this kind of imitation». Per cui Aristotele, quando in Poet., 6 scrive che la tragedia porta a compimento la catarsi delle passioni, «is using “katharsis” where he uses “pleasure” elsewhere, to refer the telos and ergon of tragedy». Occorre però osservare, sulla scorta delle fini analisi di Gallavotti (1974, p. 141, nota a rigo 43 della sua edizione), che il t¤lo© che s’identifica col racconto, e che esprime il «fine immanente» della mimesi tragica, è ben altra cosa dal t¤lo© che s’identifica con l’örgon della tragedia e che ne esprime l’«effetto» e lo «scopo finale». Parlando di «telos and ergon» della tragedia e assimilando questo t¤lo© al racconto («the plot, the telos of tragedy»), Belfiore finisce per istituire un’analogia che si basa su una nozione equivoca di «fine» (il racconto è il «fine» della tragedia così come l’anima è «fine» e örgon del vivente). Ed è un’analogia che non sembra necessaria nell’economia del ragionamento, che potrebbe giungere alla medesima conclusione limitandosi a osservare che il piacere proprio della tragedia è il t¤lo© come örgon di questa stessa. E poiché la catarsi si

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trebbe ben essere che analoghi motivi e pari argomenti fossero stati addotti nel De poetis, ma è soltanto un’ipotesi, che non assurge neppure al livello della ragionevole probabilità, essendo, sotto un certo punto di vista, forse più ragionevole supporre che in un’opera destinata al pubblico, non soltanto il modo di argomentare una tesi sia stato diverso, ma lo sia stata la tesi stessa. La seconda accusa è di aver assurdamente estromesso dal piano di costruzione della polis la tragedia e la commedia, le quali, purificando le passioni dai loro aspetti nocivi, permettono, sì, di soddisfarle, ma in modo misurato, svolgendo così una parte importante nell’educazione morale dei cittadini. Qui occorre innanzitutto rilevare l’attribuzione della capacità catartica anche alla commedia: tesi che anche taluni studiosi contemporanei sostengono.2 Parimenti va osservata la piena rispondenza al pensiero aristotelico della tesi secondo cui le passioni non vanno mortificate e come estirpate – tesi tipicamente stoica, ma che ricalca le orme di certi momenti fortemente antiedonistici e persino d’ispirazione ascetica del pensiero di Platone, com’è paradigmaticamente testimoniato nel Gorgia – bensì educate, giacché esse rivestono una parte basilare nella vita umana e, in particolare, nell’esercizio della moralità.3 Per converso, altri connette strutturalmente a tale piacere, essa è t¤lo© e örgon della tragedia. Per parte mia, ho cercato di mostrare che la catarsi è l’örgon della tragedia, ma non anche il suo t¤lo© (cfr. Zanatta 2001, pp. 89 s.). 2 Che la catarsi sia proprietà esclusiva della tragedia corrisponde al parere di gran lunga prevalente tra gli studiosi. Di opinione contraria sono invece Golden (1992, p. 78) e Janko (1987, pp. XIC-XX; si vedano anche Janko 1992 e Janko 1984), i quali ritengono che anche la commedia sia catartica. Una puntuale rassegna delle interpretazioni della catarsi aristotelica si può vedere nel cap. 8 (Katharsis and critical tradition) di Belfiore 1992, pp. 257-290 e nell’appendice 5 (Interpretations of katharsis) di Halliwell 1987, pp. 350-356. 3 Molto opportunamente rileva Laurenti 1987, I, p. 265 (dalla cui interpretazione complessiva del frammento dissento peraltro) che «l’uomo deve vivere secondo ragione, un compito difficile proprio per

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elementi della testimonianza di Proclo pongono chiaramente in evidenza l’attribuzione ad Aristotele di aspetti non propriamente aristotelici e, in particolare, la presentazione della critica dello Stagirita in una curvatura sostanzialmente platonica.4 In quest’ordine di considerazioni va subito rilevato come la capacità della tragedia e della commedia di purificare le passioni non sia espressa da Proclo con il termine, tipicamente aristotelico, k¿qarsi©, bensì con àfos›wsi©, che non compare in Aristotele ma la cui corrispondente voce verbale àfosioÜn ricorre ampiamente in Platone.5 Inoltre, la determinazione stessa della purificazione tragica e comica come moderazione delle passioni non corrisponde alla nozione aristotelica di catarsi: innanzitutto, perché non contempla nessun riferimento alla pietà e al terrore, che entrano invece in modo costitutivo nella specificità del concetto aristotelico di catarsi (cfr. Poet., 6, 1449 b 2729: di’ âl¤ou ka‰ ffibou pera›nousa t„n tán toio‡twn paqhm¿twn k¿qarsin), in qualunque modo poi esso debba essere interpretato: o come purificazione di quela presenza delle passioni che la ostacolano di continuo nel suo compito direttivo. E le passioni hanno consistente spazio nella vita. Ma poiché non ne scorge l’utilità e, insieme, ne teme gli assalti, Platone tenta di soffocarle, loro e tutto quel che da loro esca: in primo luogo la mimesi. Aristotele pensa che un tale “disseccamento” sia un male: dunque, le passioni, i pathe, vanno coltivate, entro certi limiti, ben definiti, in modo che promuovano una corretta vita dell’anima. Per questo il saggio aristotelico non è àpaq‹©, ma metriopaq‹©». 4 Sotto questo profilo concordo con Sheppard 1979 là dove rileva la deformazione platonizzante delle nozioni attribuite da Proclo ad Aristotele, in linea con la generale tendenza del neoplatonismo di conciliare le posizioni di Platone e Aristotele. Tutto questo, ovviamente, non significa che la fonte di Proclo non sia Aristotele stesso e, come hanno dimostrato Gallavotti 1933, p. 27 e Rostagni 1955a, pp. 276 s., seguiti anche da Laurenti 1987, p. 262, il De poetis (Bernays 1880, pp. 47-49 ritiene invece che il passo vada ascritto alla Poetica). 5 E precisamente nelle seguenti nove occorrenze: Eutiph., 4 c 2; Phaedo, 60 e c; 61 b 1; Phileb., 12 b 1; Phaedr., 242 c 3; Leges, 752 d 4; 873 b 7; 874 a 2; Epistulae, 331 b 4.

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ste passioni mediante queste passioni stesse, secondo una lettura omeopatica, o come purificazione mediante pietà e terrore delle altre passioni, secondo una lettura allopatica.6 Inoltre, perché la moderazione delle passioni, nella specifica valenza che le conferisce Proclo, ossia come loro soddisfazione in modo misurato (âmm¤trw©), non costituisce, per Aristotele, l’effetto peculiare e proprio della catarsi, bensì dell’esercizio delle virtù etiche, la quali consistono esattamente nel perseguire la via di mezzo nelle passioni e nelle azioni (cfr. Eth. nic., 1106 b 36 – 1137 a 6), rappresentando tale medietà la giusta misura (μrq© lfigo©) in queste stesse (cfr. Eth. nic., 1138 b 21-25) che non la catarsi, ma la frfinhsi© fa perseguire; per converso – e tocchiamo così un terzo motivo – perché la moderazione delle passioni nei termini che si sono or ora indicati rappresenta una nozione assai vicina all’idea platonica dell’armonia delle parti dell’anima, per la quale la parte concupiscibile e quella irascibile, restando entro i limiti delle loro funzioni, si sottomettono ai dettami della parte razionale. Infine, perché l’effetto «politico» della catarsi tragica e comica, ossia il proiettarsi sul piano della polis di quella moderazione delle passioni che la tragedia e la commedia sono atte a procurare, è idea che, del tutto estranea alla delineazione aristotelica della catarsi, in tutti i luoghi della produzione dello Stagirita in cui il termine e il concetto sono presenti, a partire da quello di Poetica, 6, manifesta invece la valenza platonizzante di un tale modo di leggere l’effetto catartico dei suddetti generi poetici, nella misura in cui, platonicamente, la struttura e l’organizzazione della polis corrispondono alla proiezione della struttura e dell’organizzazione dell’anima nelle sua parti, sì che la 6 In proposito mi permetto di rinviare al mio Recenti interpretazioni della catarsi aristotelica, in corso di stampa negli Atti del convegno su «Aristotele e la tradizione aristotelica», Padova, 11-13 dicembre 2006.

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purificazione di questa, ossia la moderazione della sua parte concupiscibile e irascibile ad opera della parte razionale, ovvero l’armonia che si realizza tra esse, corrisponde alla purificazione della vita stessa della polis, vale a dire all’armonia tra le classi di individui in cui è prevalente questa o quella parte dell’anima, e dunque all’equilibrio della vita politica stessa, atto ad allontanare da sé ogni possibilità di ribellione. Quell’idea di ribellione che corrisponde esattamente al disordine delle parti dell’anima, conseguente all’esercizio smodato delle passioni, che la catarsi tragica e comica tendono a eliminare. Ora, nell’esegesi che qui proponiamo del frammento, nell’ultima parte Proclo prende anche a questo proposito le difese di Platone, rilevando come la tragedia e la commedia tendano piuttosto a scatenare e non a moderare le passioni, a renderle cioè eccedenti la giusta misura, sicché non servono al politico e ai fini educativi. 4. Le osservazioni testè avanzate riguardano direttamente pure quell’altro basilare tema rintracciabile nei frammenti del De poetis consistente nella catarsi. Anche Giamblico, da cui sono tratti i fr. 5b e 5c che, assieme al fr. 5a, interessano direttamente il tema, presenta la catarsi come un processo che riguarda tutte le passioni e il cui effetto è di renderle misurate, sì che in questa condizione il loro esercizio diviene piacevole fonte di utilità per l’agire, laddove il loro esercizio smodato è dannoso. Anche qui, nessun riferimento alla pietà e al terrore ed anche qui la capacità purificatrice delle passioni è ascritta sia alla tragedia che alla commedia. Nel fr. 5b, derivato dal De mysteriis, questi tratti salienti della catarsi poetica sono presentati come termine di paragone col quale si illustrano, perché analoghi se non addirittura identici, gli effetti della catarsi operata dai riti teurgici. Nel fr. 5c, proveniente anch’esso dal De mysteriis, la catarsi (àpok¿qarsi©), purificazione intesa qui nel signifi-

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cato di «evacuazione» e ricondotta perciò nell’ambito dei fenomeni medici, è additata, assieme ad altri due processi di pari natura e origine quali il vomito (àp¤rasi©) e la cura (åatre›a), come ciò da cui deve assolutamente distinguersi quell’eccitarsi di anima e corpo, dovuto a ispirazione divina, nel quale consiste l’entusiasmo. Laurenti (1987, I, p. 270) fa rilevare che «l’effetto che Giamblico sottrae all’entusiasmo divino sembra tanto simile a quello descritto nei due frammenti 5a e 5b che se ne può stabilire con Bernays (1880, pp. 52-57 e nota n. 122) una medesima origine, Aristotele e, più precisamente, il per‰ poihtán». Il che, mentre permette di ribadire che nell’economia del nostro dialogo il tema della catarsi non soltanto trovava ampio spazio, ma con ogni verosimiglianza aveva una parte importantissima in ordine all’analisi dell’opera poetica, non permette però di stabilire se la trattazione di questo basilare tema si apriva fino a considerare la catarsi anche in valenze differenti da quella della mera purificazione delle passioni, in particolare nella valenza di evacuazione o purgazione, quali termini di confronto atti a illustrare, mediante analogie e differenze, la natura della catarsi tragica e comica. Non lo permette perché, se è probabile, per la ragione addotta, che Giamblico abbia assunto dal De poetis di Aristotele la nozione di catarsi, i significati platonici, ossia non aristotelici, che però le annette e quelli certamente aristotelici che non le attribuisce, primo tra tutti il riferimento alla pietà e al terrore, come inequivocabilmente appare dal fr. 5b, non possono non gettare forti e insormontabili dubbi circa la paternità genuinamente aristotelica della nozione di catarsi come evacuazione che egli presenta, lasciando aperta la possibilità che egli abbia derivato altrove questa valenza della catarsi e l’abbia maldestramente assommata a quella aristotelica, già di per se stessa letta in chiave platonica. In conclusione sembra di poter affermare che la pre-

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sentazione della catarsi ad opera di Proclo e Giamblico, mentre attesta la centralità di questo concetto nello studio sui poeti condotto nel nostro dialogo, ne mette in chiaro una nozione dai connotati fortemente platonici, a partire dalla determinazione stessa di essa quale moderazione delle passioni, mescolati a nozioni di indubbio stampo aristotelico, prima tra tutte quella che le passioni non vanno estirpate perché assolvono a una funzione basilare nella vita umana e nell’esercizio della moralità. Ora, se si ammette che tra il De poetis e la Poetica sussiste una linea di sostanziale continuità dottrinaria, a tal punto che ad alcune analisi del primo possono rinviare più succinte trattazioni della seconda, è difficile credere che nel De poetis Aristotele abbia professato egli stesso una nozione «platonizzante» di catarsi, superata poi nella Poetica. Una conclusione, questa, alla quale non sarebbe corretto opporre che della catarsi nella Poetica non si parla che per pochi cenni, giacché già da essi è indiscutibile, perché rispondente a un riscontro testuale, che la catarsi si compie, per Aristotele, tramite pietà e terrore, mentre questo basilare momento non viene neppure menzionato nelle presentazioni di Proclo e Giamblico. Né pare verisimile che Aristotele abbia elaborato una nozione di catarsi dai lineamenti platonizzanti in un’opera, quale il De poetis, in cui, come s’è detto, proprio in forza di questa stessa nozione, unitamente alla riabilitazione della mimesi poetica dal livello di mera apparenza provvista di verità al quale l’aveva relegata Platone, egli conduceva una polemica nei confronti della concezione platonica della poesia e riscattava la funzione e l’opera dei poeti dal basso profilo secondo cui le aveva disegnate il maestro. La commistione di elementi platonici nella nozione di catarsi quale è presentata da Proclo e Giamblico pare perciò dovuta alla loro lettura di questa nozione, all’ottica per l’appunto platonizzante nella quale hanno accostato e assunto il dialogo aristotelico.

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5. Il modo stesso in cui Diogene Laerzio (fr. 3a) e Ateneo (fr. 3b) testimoniano come Aristotele si espresse in merito al rapporto tra Platone e la forma imitativa è sintomatico a rivelare il carattere fortemente polemico che nel De poetis doveva avere la trattazione della mimesi. Polemico verso le posizioni del maestro, la cui condanna della poesia, come già si richiamava, faceva forza sul motivo che essa, al pari della pittura, è falsa immagine (f¿ntasma) della realtà, rappresenta cioè le cose in fattezze diverse da quelle che esse hanno nella pur debole realtà empirica e, a maggior ragione, nei modelli ideali. E poiché l’immagine s’iscrive sotto il genere dell’imitazione (m›mhsi©), ecco pertanto che la poesia (e la pittura) sono imitazioni di secondo grado, ossia false imitazioni di imitazioni. In quest’ordine di considerazioni, in Resp., 598 b 1-4 si rinviene la precisa affermazione che la poesia e la pittura sono imitazioni (mim‹sei©) le quali gravitano sul piano della pura apparenza (f¿ntasma), ossia imitazioni di «ciò che appare così come appare» (t fainfimenon ó© fa›netai), non di «ciò che è così come è» (t În ó© öcei).7 E poiché queste determinazioni sono tra loro opposte e, nell’ordine del conoscere, a «ciò che è così come è» corrisponde la verità (àl‹qeia), ne consegue che le imitazioni suddette sono strutturalmente opposte al vero o – come dice Platone – «lungi da esso» (598 b 6: pfirrw [...] toÜ àlhqoÜ©). 7 Questo il testo: «proprio questo si deve indagare: per quale delle due cose viene eseguita la pittura in ordine a ciascun oggetto? Forse per imitare ciò che è come è, o per ciò che appare come appare, essendo imitazione di apparenza o di verità?» La disgiunzione (õ) ha qui valore chiaramente esclusivo. E poiché la risposta alla domanda è che la pittura è imitazione di apparenza (cfr. 598 b 5: fant¿smato©, öfh), risulta per ciò stesso escluso che possa essere anche imitazione del vero, ossia che possa imitare, oltre a «ciò che appare così come appare», anche «ciò che è così come è». Il giudizio platonico è altresì estendibile alla poesia e alla musica.

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Occorre precisare che non ogni imitazione, per Platone, allontana dalla verità. Vi è infatti un’imitazione che si esprime in immagini le quali mantengono le proporzioni della cosa e che pertanto, se non possono dirsi vere, in quanto, per il fatto stesso di essere imitazioni, implicano una distanza dalla realtà in sé e per sé della cosa, ossia dalla verità, ne recano tuttavia in sé l’impronta (t‡po©). Si tratta di quelle che Platone denomina eåkÒne©, le quali costituiscono una specie di eúdwla di cui i fant¿smata o immagini false rappresentano un’altra, opposta specie. Ebbene, nella caratterizzazione del f¿ntasma è opportuno prendere in considerazione ciò che il filosofo dice nel Sofista. Proprio il rapporto tra apparenza e imitazione campeggia all’inizio della ricerca che conduce alla sesta definizione del sofista. In Soph., 233 c 10-12 questo pseudosapiente è detto possedere «una scienza apparente (doxastik‹n) su ogni cosa ma non la verità (oék àl‹qeian)». A partire da ciò il filosofo dapprima pone in chiaro che l’onniscienza di un tale individuo è pari alla vanteria di chi si gloriasse di saper produrre rapidamente (cfr. 234 a 4-5: t¿cu poi‹sa©) piante e animali e uomini e cielo e terra e dèi, insomma di «esser capace di fare tutto con una sola arte» perché realizza «imitazioni e cose omonime alle realtà (mim‹mata ka‰ ïmÒnuma tán ùntwn) con l’arte pittorica (tˇÉ grafikˇÉ t¤cnˇh)» (233 e 9 – 234 b). Indi qualifica una tale attitudine a imitare (t mimhtikfin) uno scherzo (paid›a; 234 b 1-2). Sottolinea poi che simile a essa è quell’«arte dei discorsi» con la quale si possono «incantare (gohte‡ein) ... coloro che stanno lontano dalla verità delle cose (pfirrw tán pragm¿twn tÉ© àlhqe›a© àfestáta©), mostrando loro intorno a ogni cosa immagini espresse con parole» (eúdwla legfimena) (234 b 2 – c 6) e definisce infine il sofista «uno degli incantatori (tán gohtán ti©)» e «un imitatore delle cose (mimht„© tán ùntwn)» (235 a 1).

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L’analogia della parte iniziale di questa sezione con Resp., X, 596 c 4-9 salta immediatamente agli occhi. Lo stesso riferimento al pittore sul quale si sviluppa il passo della Repubblica, come nel Sofista si parla espressamente di arte pittorica, ruota intorno all’ironico paragone di questo produttore di false immagini a un mirabile operaio «in grado di fare ogni sorta di mobili, ma anche tutti i prodotti della terra» e di creare «tutti gli esseri viventi e per di più se stesso, e poi [...] terra, cielo, dèi e tutto il mondo celeste e sotterraneo dell’Ade». Si tratta infatti di oggetti apparenti (cfr. 597 a 1: [kl›nhn] fainom¤nhn), ossia di pure imitazioni e di mere immagini, al pari di quelle prodotte da chi, ruotando «uno specchio da ogni lato», rapidamente crei «il sole e gli astri celesti e poi se stesso e gli altri esseri viventi, i mobili, le piante e tutti gli oggetti che dicevamo or ora» (596 d 9 – e 3). Anche il rapporto tra il discorso ingannevole del sofista e l’immagine falsa – che nel caso di specie Platone torna a designare col termine eúdwlon, riferendosi al genere di cui il f¿ntasma è una delle due parti, come chiarisce subito appresso – richiama il rapporto tra le parole e le false immagini pittoriche che campeggia nella figurazione fortemente icastica di Resp., X, 601 a 4-6 dove si dice che il poeta compie le sue imitazioni spandendo i nomi e i verbi di ciascun’arte come il pittore spande i colori sulla tela. Sotto questo profilo gli eúdwla legfimena di Soph., 234 c 5-6 riprendono il crÒmata ôtta ëk¿stwn tán tecnán toÖ© μnfimasi ka‰ ®‹masi âpicrwmat›zein del passo della Repubblica. Ebbene, nei frammenti sopra richiamati Diogene Laerzio e Ateneo presentano complessivamente un Aristotele che imputa a Platone due contraddizioni in ordine alla forma imitativa nella quale ha realizzato i suoi dialoghi: (a) egli ha condannato questa forma, e in virtù di una tale condanna è giunto a bandire Omero, il massimo poeta, dal piano della polis, eppure in essa ha com-

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posto le sue opere; (b) inoltre, a lui non può essere neppure riconosciuto il vanto d’essere stato l’inventore di tale forma, giacché prima di Platone ne fece uso Alessameno. Egli, stando alla testimonianza di Diogene, l’ha soltanto raffinata, portandola al punto di massima bellezza artistica. Ma così – si rileva – acuendo la prima e più grave contraddizione. Il fr. 4 determina poi il modo in cui concretamente Platone nei suoi dialoghi ha attuato tale forma imitativa. Essa consisteva in quella prosa ritmica che è un misto di poesia e pura prosa. Con molto acume Laurenti (1987, I, pp. 253 s.) ha colto e ben documentato il rapporto tra l’affermazione aristotelica del De poetis secondo cui gli scritti di Sofrone, di Alessameno e dei Socratici posteriori sono lfigoi ka‰ mim‹sei©, racconti e imitazioni, indipendentemente dall’etichetta di mimi con la quale li si indica (tanto che, prosegue lo studioso, l’espressione potrebbe considerarsi un’endiadi ed essere resa, con Gallavotti, 1974, p. 125, con «imitazioni artistiche fatte per mezzo di discorsi») e il passo di Poet., 1447 a 28 ss. in cui lo Stagirita fa presente che «l’ che si vale soltanto dei nudi discorsi8 e quella che si vale dei metri e, di questi, sia mescolandoli l’un con l’altro, sia usando un qualche genere unico di metri, fino a ora si trovano a essere senza nome. In effetti, non avremmo nessun comune per denominare i mimi di Sofrone e di Senarco9 e i discorsi so8 Qui come in 1448 a 11, dove Aristotele usa soltanto il sostantivo «discorsi» (lfigoi) senza neppure più l’aggettivo, il riferimento è alla prosa. 9 Sofrone e Senarco, entrambi siracusani, vissuti nel V sec. a.C. e legati da relazione di padre e figlio, furono autori di mimi, ossia di dialoghi in prosa che schizzano episodi di vita quotidiana. Da Diogene Laerzio III, 18 sappiamo che Platone fu assiduo lettore e ammiratore di Sofrone, dei cui mimi si sarebbe altresì valso come di un modello per i suoi dialoghi socratici. Di essi non ci restano che pochi frammenti.

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cratici,10 né se si effettuasse l’imitazione con trimetri o con versi elegiaci o con alcuni altri di questo tipo». «I due brani della Poetica e del De poetis – rileva lo studioso (Ivi) – si corrispondono in tutto: in entrambi si afferma che i mimi di Sofrone e di Senarco (ma Senarco non è nominato nel De poetis) come pure i dialoghi socratici sono mimesi, al di là di quel che può suonare l’indicazione comunemente usata di mimi, dialoghi ecc. Tali composizioni convengono nell’essere mimesi. Mimesi è la loro essenza, non il nome comune, koinfin, quel nome che la Poetica cerca e non trova perché non esiste». Anche se nessuna testimonianza lo attesta in modo diretto ed esplicito, è tuttavia ragionevole supporre che nel nostro dialogo Aristotele si impegnasse, e a fondo, a sostenere, contro le posizioni platoniche, la verità della poesia. La lasciano supporre due ragioni: innanzitutto il fatto che, se l’essenza della poesia è la mimesi, e proprio la mancanza di verità di quella forma di mimesi in cui consiste la poesia era stata addotta da Platone a sostegno della non verità della poesia stessa, è logico pensare che Aristotele nel De poetis, polemizzando col maestro, abbia assunto il compito di provare la verità del dire poetico dimostrando la verità della mimesi. Del resto – e tocchiamo così un secondo motivo – se la condanna platonica della poesia non si articolava soltanto sul motivo – gnoseologico – che essa è un’imitazione falsa della realtà, ma anche su quello – etico – che essa medesima scatena le passioni ed eccita smodatamente l’anima, e questa seconda critica, come abbiamo visto, veniva rintuzzata mercé la rivalutazione della catarsi tragica e comica, è logico credere che anche il primo lo sia stato: esattamente attraverso la comprovazione della verità dell’imitare. 10 Vale a dire, opere in cui Socrate discute con interlocutori, quali sono i dialoghi socratici di Platone, di Senofonte, di Eschine e di Alessameno.

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È logico altresì supporre che nel De poetis Aristotele si sia impegnato a mostrare in che cosa consiste la verità del dire poetico, non limitandosi alla sola affermazione di essa. Nella Poetica, com’è noto, la verità di un tale dire è individuata nel verisimile e nella narrazione degli eventi non nell’ordine di come si sono svolti, bensì in quello della loro possibilità, ponendosi in tal modo quel dire su di un piano di universalità che lo rende simile alla filosofia. Spingersi fino a sostenere che identiche posizioni lo Stagirita abbia sviluppato anche nel nostro dialogo, in mancanza di documenti positivi è azzardato. Non lo è, invece, e dunque fino a questo punto è ragionevole l’ipotesi, credere che abbia diffusamente trattato della natura del vero poetico. 6. Gli altri frammenti del De poetis pongono in luce un Aristotele attento a studiare specifiche questioni e particolari circostanze dei poeti, primo tra tutti Omero, ma poi anche Empedocle e altri, di minor spessore. Segno eloquente non soltanto della minuzia delle analisi che nel dialogo egli conduceva, ma anche dell’erudizione di cui esso si ammantava.

11 Le regole concernenti i caratteri, i quali, dice Aristotele nel medesimo cap. 15 della Poetica di cui questo passo costituisce la conclusione, devono rispondere a quattro requisiti: essere di buona qualità, il che si verifica se rendono tale l’azione, cosa possibile per ogni genere di personaggi; essere confacenti al personaggio; la somiglianza e la coerenza. Inoltre, come nella composizione dei fatti, così nella determinazioni dei caratteri il poeta deve ricercare il necessario o il verisimile. 12 Aristotele non si riferisce alle sensazioni del pubblico di fronte al dramma tragico, bensì a quelle che sono strutturalmente connesse alla mimesi poetica, quelle cioè che essa in quanto tale deve suscitare. Certi errori, di carattere tecnico, riguardano proprio l’incapacità di evocare queste sensazioni, donde la prescrizione che il poeta deve badare a non commetterli. 13 Come hanno mostrato gli studiosi (cfr. Gigon 1962, pp. 35 s., Düring 1957, pp. 94 s., 107 e 284 s., Laurenti 1987, I, p. 227, nota 3), questa notizia, come del resto quasi tutte quelle della Vita marciana, la quale deriva dall’intervento di più generazioni di interpreti platonici di Aristotele, è attendibile solo in linea generale e non nello specifico contenuto che attesta, in quanto pare essere l’affastellamento di più circo-

TESTIMONIANZE

ARISTOTELE, Poet., 1454 b 15-18: Pertanto, si devono osservare con cura queste cose11 e, oltre a queste, quelle che cozzano con le sensazioni che di necessità s’accompagnano alla poetica. Ché, spesso è possibile errare anche in rapporto a esse.12 Ma di questi temi si è parlato a sufficienza nelle opere pubblicate. Vita Aristotelis Marciana, p. 427, 3-7 (Rose): ebbene, finché era ancora giovane, si educò secondo la formazione delle arti liberali, come mostrano le ricerche omeriche scritte da lui, l’edizione dell’Iliade che diede ad Alessandro, il dialogo Sui poeti, lo scritto Sulla poetica e le Arti retoriche...13

stanze differenti. Così, che Aristotele si sia occupato di Omero è da ritenersi certo, come peraltro si evince dal fatto che scrisse le Ricerche omeriche (μmerik· zht¤mata), qui richiamato con pertinenza, ed è altamente probabile che egli abbia letto Omero ad Alessandro nel tempo in cui fu suo precettore. Ma che abbia curato un’edizione dell’Iliade, che fu questa, datagli dallo Stagirita, l’edizione che Alessandro lesse, sono notizie in sé e per se stesse inattendibili (nessun catalogo riporta una tale edizione; cfr. in proposito Pleiffer 1968, pp. 71 s.), originatesi con ogni verosimiglianza dalla sovrapposizione dell’interesse di Aristotele per l’opera omerica, dell’altrettanto interesse di Alessandro per essa (che – sappiamo – lesse assieme a Callistene e Anasarca) e dell’insegnamento impartito dal primo al secondo. Parallelamente, che Aristotele si sia formato sulle arti liberali, ossia sulla poetica, sulla retorica e sulla grammatica, è notizia priva di specifico valore storico in

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quanto pare derivata dagli argomenti delle opere che egli compose agli esordi della sua carriera di studi. Sotto questo profilo e nei limiti della precisazione testè fatta essa può tutt’al più essere avvalorata come generica indicazione di un ambito di temi intorno ai quali si espresse Aristotele appena raggiunta la formazione culturale che si riceveva nell’Accademia. In tal caso occorrerebbe innanzitutto scorgere un riferimento al Grillo. Quanto alla notizia che compose il dialogo Sui poeti, confermata anche da altre fonti e dalla presenza del titolo di questo scritto nei cataloghi delle opere aristoteliche, non vi è dubbio che sia attendibile, com’è attendibile quella che scrisse un trattato sulla poetica e uno sulla retorica. A proposito di quest’ultimo occorre tuttavia osservare che, denominandolo Arti retoriche (®htorika‰ t¤cnai), la Vita marciana lo allinea agli scritti, così per l’appunto intitolati, di quei maestri di retorica contro i quali lo Stagirita polemizza perché non si diedero cura di studiare le cause della persuasione, occupandosi innanzitutto dell’entimema, che ne rappresenta il «corpo» (Rhet., I, 1, 1354 a 12 ss.), bensì unicamente di far apprendere ai loro allievi discorsi già confezionati, da applicare di volta in volta al caso di specie. Si tratta di un’altra macroscopica imprecisione. Diversamente ritiene Laurenti 1987, I, p. 227, nota 5, in merito alla cui interpretazione cfr. la nota successiva. 14 La testimonianza ripropone circa la formazione di Aristotele le notizie di quella precedente, con le medesime caratteristiche e i medesimi limiti di attendibilità storica. Per quanto riguarda i riferimenti alle opere, Laurenti (cfr. la nota precedente) ritiene che non siano citati i titoli di scritti aristotelici, ma che si alluda, per argomento, a gruppi di opere ricordate nel catalogo di Diogene Laerzio ai nn. 77-84, come dimostrerebbe anche l’uso dell’articolo, desueto quando si richiamano i titoli. Così aå ®htorika‰ t¤cnai (che ricompare identicamente qui come nella testimonianza precedente) non alluderebbe al titolo delle opere contro cui Aristotele polemizza nel richiamato passo di Rhet., I, 1 (1354 a 12 ss.) e che, a nostro avviso, la Vita marciana mescolerebbe

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Vita Aristotelis vulgo (ante PS.-AMMONIUS, In categ.): ebbene Aristotele, quando era giovane si educò secondo la formazione delle arti liberali, come mostrano i suoi scritti sulle questioni poetiche e rivolti ai poeti, e inoltre i Problemi di Omero e le Arti retoriche.14 DIONE CRISOSTOMO, Orat., 53, 1: in realtà pure lo stesso Aristotele, del quale si dice che presero inizio l’arte del valutare e dell’interpretare, in molti dialoghi discorre del poeta, per lo più ammirandolo e onorandolo.15

FRAMMENTI

1 (R2 59, R3 70) D IOGENE L AERZIO , VIII, 2, 57-58 (3): Aristotele nell’opera Sui poeti afferma che anche Empedocle dimalamente alla Retorica, ma costituirebbe l’espressione complessiva sotto la quale si indicano scritti quali la Raccolta dell’arte di Teodette (t¤cnh© tÉ© Qeod¤ktou sunagog„ a; D.L., 24, n. 83 del catalogo) e la stessa Arte retorica (t¤cnh© ®htorikÉ© ab ecc.; D.L., 24, n. 79 del catalogo). Parimenti, t· ‘Om‹rou probl‹mata «alluderà probabilmente agli àporhm¿twn ‘Omerikán a o ai poihtikán a (D.L., 119)» (Ivi). Secondo questa chiave di lettura, «per‰ poihtikán ka‰ pr© poiht¿© indicherà un gruppo di opere sulle cose poetiche e i poeti, tra le quali senza dubbio il nostro per› poihtán» (Ivi). Sennonché, mentre a proposito di queste ultime indicazioni la tesi di Laurenti (ossia che il riferimento è sempre a scritti di un certo argomento e non già a titoli) appare assai congrua e attendibile, dal momento che espressamente si chiamano in causa «gli scritti dello Stagirita concernenti cose poetiche e rivolti ai poeti (t· gegramm¤na aétˇá [scil., di Aristotele] per‰ poihtikán ka‰ pr© poiht¿©)», non altrettanto sembra doversi dire a proposito dei t· ‘Om‹rou probl‹mata, stante che al n. 119 del catalogo di Diogene Laerzio compare lo scritto aristotelico Problemi omerici, in sei libri, e non è logico supporre che la corrispondenza pressoché letterale delle due espressioni, a proposito di un medesimo soggetto, dissimuli una differenza di riferimento. Se le cose stanno così, il rilievo deve ragionevolmente estendersi anche ad aå ®htorika‰ t¤cnai, sia in questa che nella precedente testimonianza. 15 Il passo è riportato anche al n. 17 delle Testimonianze.

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16 Ossia, l’arte del poetare. «Formidabile nell’espressione (dein© per‰ t„n fr¿sin)» non può essere inteso come avente valore epesegetico di «omerico», giacché Omero, per Aristotele, non fu soltanto campione nello stile, ma, come risulta da Poet., 1448 b 34 ss., fu campione anche nella determinazione delle regole del poema tragico, epico e comico, e questa materia oltrepassa il mero piano dell’espressione. A Empedocle, dunque, Aristotele riconobbe l’eccellenza sia nel padroneggiare le regole per la composizione di poemi, sia nell’espressione, per la quale si valse della metafora e degli altri espedienti formali. Va osservato che in Poet., 1447 b 18-19, nell’illustrare il concetto che ciò che definisce la poesia non è l’essere in versi, bensì la mimesi, Aristotele osserva che «nulla vi è di comune a Omero e a Empedocle tranne il metro, perciò è giusto chiamare il primo “poeta”, il secondo “fisiologo” piuttosto che “poeta”». 17 Gli studiosi hanno discusso se questo poema empedocleo avesse carattere storico (come afferma, per esempio, Bignone 1963, p.

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venne omerico e formidabile nell’espressione, poiché era metaforico e faceva uso degli altri espedienti che concernono la poetica. 16 poi anche che, avendo egli scritto, tra gli altri poemi, anche il Passaggio di Serse17 e un proemio per Apollo, in seguito una sua sorella li bruciò – o una figlia, come sostiene Ieronimo –: il proemio involontariamente, il poema sui Persiani con piena volontà, poiché era incompiuto. In generale afferma che egli scrisse anche tragedie e opere politiche. 2 (R2 60, R3 71) DIOGENE LAERZIO, VIII, 2, 51-52 (1): Empedocle, come sostiene Ippoboto, 18 era figlio di Metone, figlio dell’agrigentino Empedocle... Anche Eratostene nei Vincitori olimpici sostiene che il padre Metone vinse la settantunesima olimpiade, servendosi di Aristotele come testimone. E il grammatico Apollodoro nella Cronaca afferma che «era figlio di Metone e Glauco dice che andò a Turi, fondata del tutto di recente». 19 Indi, poco dopo: «coloro che raccontano che, fuggito dalla patria alla volta di Siracusa, combatteva con loro contro gli Ateniesi, ... mi sembra che ignorino completamente. Ché, o non esisteva più, o era del tutto invec-

106) o religioso (come sostengono Cleve 1969, II, pp. 338 s. e Chroust 1973, II, p. 427), celebrando in questo caso la circostanza secondo cui Serse intraprese la spedizione contro la Grecia per incitamento del dio Ahura-Mazda, che, tramite il padre, lo aveva spinto a conquistare il mondo. 18 Vissuto nel II sec. a.C., fu autore del per‰ aår¤sewn e di una ànagraf„ tán filosfifwn. 19 La fondazione di Turi, colonia panellenica, risale secondo la narrazione di Glauco al 444-443 a.C., e se si considera che Diogene Laerzio (VIII, 74) colloca l’acme di Empedocle al tempo della 84a Olimpiade, ossia intorno al 444-440 a.C., tale data appare abbastanza certa.

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20 In effetti, se Empedocle, come informano Aristotele ed Eraclide, visse 60 anni e fu all’acme del suo tempo intorno al 444-440 a.C. (cfr. la nota precedente), occorre allora collocarne la nascita intorno al 484 a.C. e la morte intorno al 424 a.C. Per cui non potette prendere parte alla spedizione degli Ateniesi contro i Siracusani, che data del 415 a.C. 21 Mantengo, con Ross (e nonostante il parere contrario di Laurenti 1987, I, p. 230, nota 16), la correzione, proposta da Sturz e seguita da Jacoby, 1923, II, p. 1029 (= fr. 244F 32), da Hicks 1959, II, p. 368 e da Wehrli 1967, VII, fr. 86, in ‘Hrakle›dh© della lezione ‘Hr¿kleiton dei codici. Eraclide, autore del libro Sulle malattie richiamato più volte da Diogene Laerzio per tutti i paragrafi in cui è a tema la vita di Empedocle, aveva trattato del filosofo agrigentino valendosi, con ogni probabilità, d’informazioni tratte da Aristotele (cfr. Wehrli 1967, VII, p. 87, fr. 76). Per cui, come ammette lo stesso Laurenti (Ivi), «tale correzione ha una sua ragione da un punto di vista logico, in quanto presenta insieme e accomuna i due filosofi che erano stati concordi nello stabilire la durata della vita di Empedocle e che, inoltre, dipendevano l’uno dall’altro» e, «dal punto di vista metrico, ‘Hrakle›dh© vale poi ‘Hr¿kleiton, poiché, stando il termine alla fine del verso, l’ultima sillaba è ancipite: la lunga vale quanto la breve». 22 Assieme alla parentela, s’intende. 23 Ma si veda la testimonianza successiva, nella quale Ateneo riferisce un passo dove Aristotele afferma che Alessameno fu nativo di Teo,

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chiato, il che non risulta».20 Aristotele infatti, e in più Eraclide,21 afferma che egli morì a sessant’anni. Colui che vinse la settantunesima Olimpiade «col carro era suo nonno, che aveva lo stesso nome». Tanto che da Apollodoro viene indicato assieme22 anche il tempo. DIOGENE LAERZIO, VIII, 2, 74 (11): sugli anni Aristotele differisce. Sostiene infatti che egli morì a sessant’anni. 3 (R2 61, R3 72) DIOGENE LAERZIO, III, 48 (32): dicono pertanto che per primo scrisse dialoghi l’eleate Zenone. Ma Aristotele nel primo libro Sui poeti sostiene che fu Alessameno di Stira o di Teo,23 come pure Favorino24 nelle Memorie. Però mi sembra che Platone, che rese accurata questa forma , abbia conseguito giustamente il primo posto come della bellezza, così anche della invenzione.

eliminando l’incertezza qui manifestata. La quale, in ogni caso, persiste, non potendo questa seconda circostanza risolverla, ma tutt’al più essa può indurre a ritenere più probabile collocare la nascita del personaggio a Teo. Di lui oltre questo che dice Aristotele, non si sa niente. Gigon (1947, p. 203) ipotizza che lo Stagirita abbia effettivamente avuto tra le mani un libro di Alessameno, ma che esso era un falso: in realtà sarebbe stato scritto da un avversario dei Socratici, che lo attribuì ad Alessameno per togliere loro il merito d’essere stati i primi a praticare il dialogo. Ma è una congettura che non ha trovato seguito tra gli studiosi. 24 Nacque ad Arelate, nell’odierna Francia meridionale, intorno al 100 d.C. e fu discepolo di Dione di Prusa a Roma. A lui, che si propose di volgarizzare la cultura trasformando i trattati in libri di amena lettura, si deve la nascita dello scrivere colorito. I suoi ñpomnhmone‡mena, ossia Memorie, sono tra i primi scritti miscellanei, e gli procurarono grande fama. Per questo i suoi concittadini gli concessero un’alta carica sacerdotale, ed entrò a far parte della classe dei cavalieri. (Notizie su questo scrittore possono trovarsi in Schmidt, in P.W., VI, 2078 ss.; sulle Memorie si vedano FHR, III, 15, p. 579 e Mensching 1963, fr. 17, p. 91). Cfr. anche la nota 14 di pp. 574 s.

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25 Ossia, di Menone, in rapporto al quale e alla delineazione della sua figura Ateneo, nel capitolo da cui è tratto questo brano, confronta Platone e Senofonte. Ed è un confronto che suona a tutto vantaggio del secondo: giacché di quel Menone di cui Senofonte – che ben lo conosceva perché accompagnò, assieme a diecimila Elleni, Ciro nella spedizione contro i Persiani alla quale Menone stesso prese parte – racconta il tradimento e che lo presenta come soggetto duro e spietato (ó© calep© ó© àselg‹©), e come «responsabile della rovina di Clearco e dei suoi da parte di Tissaferne», di questo personaggio di così basso profilo «il bel Platone dice “non è vero questo discorso”» (citazione tratta da Laurenti 1987, I, p. 231, nota 22), componendo invece in suo onore, lui che in generale sparla di tutti, encomi sempre negati a Omero, quel sommo poeta che egli nel terzo libro della Repubblica ha bandito dalla formazione dei guerrieri, così come ha bandito la poesia imitativa della quale Omero fu maestro, pur avendo egli scritto in forma imitativa i suoi dialoghi. Qui, come si vede, i motivi della denigrazione di Platone sono quattro, e benché essi s’intreccino tra loro, è bene coglierli nella loro determinatezza in modo separato: (a) la celebrazione del tessalo Menone che, come mostra Senofonte, è figura spregevole; (b) gli encomi per un tale soggetto da parte di Platone che generalmente parla male di tutti; (c) per un tale figuro ma non per Omero, massimo poeta che, ben al contrario, è bandito dal progetto politico della Repubblica; (d) la forma imitativa sulla quale si costruisce la poesia omerica, che Platone respinge, come s’è or ora detto, ma che Platone stesso utilizza poi nella composizione dei dialoghi. È appena il caso di dire che i riferimenti platonici alla figura di Menone sono all’omonimo dialogo. Occorre infine osservare che l’espressione «ï toÊ© ôllou© êpaxaplá© kakolog‹sa© (quegli che in generale parlò male degli altri)» richiama da vicino il kaká© l¤gein di Menone 93 e 3 (moi dokeÖ© kaká© l¤gein ànqrÒpou©) e di Menone 95 a 5 (o˘to© m‚n â¿n pote gnˇá o¯fin âstin t kaká© l¤gein). 26 Ossia Platone. 27 Di Nicia, abbiamo notizie da Ateneo (oltre questo passo, in VI, 273 d; X, 437 e; XI, 506 c; XII, 591 f), il quale informa che fu nativo di Nicea e autore di un libro dal titolo Successioni dei filosofi, che egli cita più volte. «Con tutta probabilità visse nel I sec. a.C., e nello scrivere la sua opera utilizzò analoghe composizioni precedenti. A giudicare

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ATENEO, 505 b-c: compie encomi di lui25 quegli che in generale parlò male degli altri,26 avendo estromesso, nella Repubblica, Omero e la poesia imitativa ma avendo egli stesso scritto in modo imitativo i dialoghi, della cui forma neppure egli stesso è inventore. Infatti, prima di lui inventò questa forma dei discorsi Alessameno di Teo, come raccontano Nicia di Nicea27 e Sozione.28 E

dai frammenti che ci rimangono, conservati appunto da Ateneo, in essa Nicia si atteneva rigorosamente allo schema della biografia e della successione; [...] nessun indizio che egli avesse introdotto, nella sua esposizione, anche motivi di un’esposizione delle dottrine, secondo lo schema dossografico» (Dal Pra 1950, p. 194). 28 Visse nel II sec. a.C. e fu autore della Diadoc„ tán filosfifwn, che gli studiosi concordano nel ritenere il primo scritto sulla successione dei filosofi. Di essa redasse un compendio Eraclide Lembo. Fu anche peripatetico, ma in un tempo in cui la scuola di Aristotele era ormai volta all’eclettismo e all’erudizione. Le Successioni comprendevano 13 libri: nel I si parlava di Talete, dei Sette Sapienti e dei Fisici; nel II di Socrate e Aristippo; nel III dei Socratici; nel IV di Platone; nel V degli Accademici; nel VI di Aristotele e dei suoi discepoli; nel VII dei Cinici; nell’VIII degli Stoici; nel IX di Pitagora; nel X degli Eleati e di Democrito; nell’XI dei Pirroniani; nel XII di Epicuro; nel XIII dei barbari. In effetti, Sozione riteneva che la filosofia in un primo tempo fu praticata dai «barbari», ossia dalle popolazioni non greche, e che solo in un secondo momento fu portata in Grecia. Il che spiega la ragione per la quale egli ebbe cura di mettere in rilievo il rapporto tra alcuni pensatori greci, primi tra tutti Democrito e Pitagora, con il pensiero orientale. Lo schema storiografico da lui usato è costituito dai rapporti di scuola e si specifica innanzitutto e fondamentalmente nel rapporto tra il maestro e i discepoli, con un inevitabile margine di arbitrarietà e di schematica rigidità. «Con Sozione – scrive a questo riguardo Dal Pra (1950, pp. 151 s.) – si introduce nella tradizione erudita un nuovo equivalente della storicità del pensiero, destinato a successive interminabili riprese ed utilizzazioni. Tale storicità si fissa nel motivo della tradizione, unica garanzia dell’unità del pensiero; ma la stessa tradizione viene ridotta all’esteriorità del legame maestro-discepolo; perciò immettersi nella tradizione significherà immettersi nella sequela delle successioni: la successione come tale viene assunta ad elemento risolutore e dell’unità e della storicità, appunto in mancanza dell’energia speculativa capace di dare al problema una soluzione meno immediata e dogmatica. Dall’opera di Sozione si dovrebbe, in sostanza, ricavare la conclusione che la filosofia trova il suo

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valore ed il suo fondamento in una sorta di continuità gerarchica ed organizzativa di coloro che la coltivano». 29 Poeta siracusano vissuto introno al 430 a.C., esercitò notevole influenza sui poeti posteriori. Eronda nei suoi mimiambi si servì spesso delle medesime scene e situazioni presentate da Sofrone. Gli idilli di Teocrito sono in parte mimiambi. Platone subì talmente gli influssi di Sofrone che la forma del suo dialogo si sviluppò conformemente ai modelli di questo poeta. 30 Cfr, la nota 23. 31 Seguo la lezione prfiteron proposta da Bake e adottata da Ross e Kaibel a correzione di prfitou© dei manoscritti («che furono i primi dei dialoghi socratici a essere scritti»), accettata invece da Gallavotti, Mensching, Burton Gulick e Laurenti. Meineke e Rose correggono in prot¤rou©, conferendo così alla frase un senso del tutto identico a quello che essa assume con la correzione di Bake («che furono scritti anteriormente ai dialoghi socratici»). Se, infatti, come pertinentemente rileva Laurenti (1987, I, p. 251), con prfiteron l’affermazione assu-

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Aristotele nell’opera Sui poeti così scrive: «dunque, i cosiddetti mimi di Sofrone,29 benché neppure siano in metri, non diciamo che sono narrazioni e imitazioni, o quelli di Alessameno di Teo,30 scritti prima dei dialoghi socratici?»,31 asserendo direttamente il dottissimo Aristotele che prima di Platone scrisse dialoghi Alessameno. 4 (R2 62, R3 73) DIOGENE LAERZIO III, 37 (25): Aristotele afferma che la forma dei dialoghi di costui32 è a mezzo tra il poema e il discorso in prosa. 5 (R2 63, R3 81) PROCLO, in Remp., I, p. 42, 2 (Kroll): in primo luogo bisogna dire e svolgere le difficoltà intorno alla causa per la quale Platone non accoglie la poesia...33 p. 42, 10: in secondo luogo perché mai non accoglie soprattutto la tragedia e la comica, benché queste concorrano alla purificazione delle passioni, che né è possibile piegare completamente, né è prudente riempire di nuovo, avendo bisogno di una certa agitazione a tempo opportuno, la quale, se viene soddisfatta nell’ascolto di queste , ci rende imperturbabili da esse nel tempo restante... p. 49, 13: ecco il secondo : esso, come s’è detto, consiste nell’assurdità di estromettere la tragedia me una dimensione temporale, in quanto enuncia la precedenza cronologica di Alessameno rispetto a Platone, allora occorre riconoscere che esattamente questa valenza rende la frase pienamente concordante col precedente rilievo secondo il quale Alessameno inventò il genere imitativo «pr aétoÜ», prima di lui (scil. di Platone)». Con quest’annotazione Aristotele «voleva fissare la verità, non biasimare Platone» (Laurenti 1987, I, p. 250), facendo rimarcare che non lui era stato il primo a usare la forma dialogica. 32 Ossia, di Platone. 33 Il riferimento è a Resp., III e all’inizio di Resp., X.

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34 Festugière 1970, I, p. 67 e Laurenti 1987, I, p. 219 e p. 264 intendono ëpfimenoi «in accordo con» la dottrina precedentemente detta; per contro, Gallavotti 1933, pp. 26-27, nota 1 e Ross 1967, p. 74 ritengono che il participio significhi «continuando», «in continuazione con» ciò che si è precedentemente detto, ed è questa – a me pare – l’interpretazione più convincente, non ravvisandosi uno specifico e puntuale riscontro testuale, nelle pagine precedenti del commentario Proclo, della tesi qui in oggetto, o che funga da premessa da cui dedurre questa tesi. Entrambe le esegesi concordano tuttavia nello scorgere in toÖ© ömprosqen un riferimento a ciò che precede. In senso totalmente diverso ha inteso invece l’espressione Rostagni 1955, pp. 278 ss., il quale, appoggiandosi a Proclo, p. 43 (àll’ oéc ü© tine© ˇè‹qhsan tán ömprosqen), vi ravvisa un’allusione agli àgwnista›, intesi a loro volta nel modo che si chiarisce nella nota successiva. 35 L’espressione «toÖ© ñp‚r tán poi‹sewn to‡twn àgwnistaÖ© tán pr© Pl¿tona lfigwn» è stata diversamente interpretata. Rostagni 1955, pp. 287 s. attribuisce ad àgwnista› il significato di «attori», ossia di personaggi del dialogo («detto in senso proprio lfigoi = sermones)», sul presupposto che il De poetis sia, per l’appunto, un dialogo in senso letterale. Proclo alluderebbe perciò a quei «personaggi del dialogo, [...] a cui Aristotele aveva affidato la parte di contendere contro Platone». Ross 1967, p. 74 intende àgwnista› nel senso di «difensori», ossia di «soggetti che combattono per questo genere di opere poetiche» (traduce infatti: «this objection, which gave to Aristotle a great handle for criticism, and to the defenders of these forms of poetry a start-

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e la commedia, se tramite esse è possibile soddisfare le passioni in modo misurato e, avendole soddisfatte, averle operanti in vista dell’educazione, dopo averne curato l’aspetto che arreca travaglio. Ebbene, seguitando ciò che abbiamo precedentemente detto,34 noi risolveremo così, in qualche modo, questo problema che ha offerto sia ad Aristotele che a coloro che lottano a favore di queste opere poetiche, quella grande base d’accusa che formulano gli argomenti contro Platone...35 p. 50, 17-26: anche noi sosterremo che il politico deve ingegnarsi di fornire alcuni sbocchi di queste passioni, ma non così da intensificare le propensioni a loro riguardo, ma, al contrario, da frenarle e ricondurre a un modo misurato il loro agitarsi. Pertanto, quelle opere poetiche che, oltre alla scaltrezza, possiedono mancanza di misura nel provocare queste passioni, sono molto lontane dall’essere utili alla purificazione. Ché le purificazioni non hanno luogo in eccessi, ma in attività moderate, le quali hanno una piccola somiglianza con quelle di cui sono purificazioni.36 point for their arguments against Plato»). Così nella sostanza (anche se con una differente costruzione della frase) pure Laurenti 1987, I, p. 219 («e a quanti difendono tali generi di poesia contro gli scritti di Platone»), il quale precisa che gli «àgwnista› sono da una parte Platone, dall’altra Aristotele e i suoi compagni dell’Accademia» (Ivi, p. 262), ossia quegli «studiosi dell’Accademia che, oltre Aristotele, interessati al problema estetico, avanzavano opinioni differenti da quelle del Maestro» (Ivi, p. 263). Per parte mia, seguendo questa seconda linea interpretativa (per i motivi che reputo validissimi, formulati da Laurenti, 1987, I, pp. 263 s.), ritengo tuttavia che tán pr© Pl¿tona lfigwn sia genitivo soggettivo di poll„n... àform‹n (quella grande base d’accusa che formulano gli argomenti contro Platone). 36 Il frammento è tratto dal quinto capitolo del commento di Proclo alla Repubblica, ove sono a tema le teorie di Platone sulla poesia, sulla migliore armonia e sul ritmo. In esso, che si articola in dieci punti, Proclo espone ed esamina altrettante obiezioni rivolte dal filosofo alla poesia e le accuse che, a guisa di risposta, vengono mosse a tali obiezioni, in ordine alle quali Proclo formula conclusivamente una valutazione, ossia – nell’interpretazione che qui si propone – un giudizio

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inteso a rivalutare la posizione platonica, difendendola dalle accuse stesse. Qui vengono riportate quelle che chiamano primariamente in causa Aristotele e i suoi seguaci. Ebbene, un primo motivo d’accusa che essi possono portare alla concezione platonica della poesia riguarda l’esclusione di questa dal progetto pedagogico-politico della città. Proclo, che prende le difese di Platone, sottolinea che bisogna discutere le ragioni di tale estromissione e non condannarla tout court. Il termine che egli usa è diaporÉsai, che propriamente significa «sviluppare le difficoltà». Si tratta in tutta chiarezza di un’operazione dialettica, qual è per l’appunto quella di valutare le ragioni a favore e contro; ed effettivamente in Aristotele il diaporÉsai specifica una delle operazioni peculiari di quest’arte, ma in una valenza dottrinale ben precisa, per la quale, quando ci si trova di fronte a due proposizioni contrarie di uguale forza probante e tali, dunque, che per via dimostrativa non è possibile stabilire quale sia vera e quale falsa, a quest’esito si giunge deducendo le conseguenze dell’una e dell’altra proposizione e accertando se una delle conseguenze confligge con la proposizione da cui discende, la quale, in tal caso, è per ciò stesso falsa. Qui invece Proclo, che deriva il verbo da Aristotele per designare un’operazione dialettica, lo usa però nell’accezione ampia che abbiamo detto (valutare le ragioni a favore e contro). A riguardo si veda l’Introduzione, pp. 505 s. Un secondo motivo d’accusa verte determinatamente sull’assurdità di estromettere da tale progetto la tragedia e la commedia, stante che esse purificano le passioni. Sul presupposto che queste né è bene che siano mortificate, né che siano saziate in modo smodato, Proclo ne individua la purificazione nel soddisfarle misuratamente, nel consentire cioè che esse, quando è opportuno, si agitino (tale il significato di k›nhsi©), ma mantenendo il loro moto entro certi limiti, ed esattamente a questo concorrono i generi poetici suddetti. Va subito osservata l’attribuzione della facoltà catartica anche alla commedia e non soltanto alla tragedia, ma se si considera che alcuni studi contemporanei, come ad esempio quello di Janko (1992, pp. 341-358), sostengono espressamente questa posizione ritenendo che così abbia pensato Aristotele, non si può dire o, per lo meno, è problematico dire che il rilievo di Proclo su questo specifico punto aggiunga qualcosa alla tesi dello Stagirita. Vi si riscontra invece la chiara marca di una lettura platonizzante della catarsi aristotelica, innanzitutto, là dove egli presenta questa nozione come moderazione delle passioni. Se è certamente vero che esse per lo Stagirita non vanno represse e, per così dire, estirpate, come se

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GIAMBLICO, De myst., I, 11 (Parthey): le potenze delle passioni umane che sono in noi, se trattenute in ogni modo insorgono più violente, mentre, se guidate a un’attività di breve durata e fino a una giusta misura, allietano misuratamente e vengono soddisfatte, e da qui

in se medesime fossero cattive (al pari di quello che riterranno invece gli Stoici), ma riportate alla giusta misura, non in questo consiste però la catarsi tragica (e, forse, comica) delle passioni, la quale è concetto ben più complesso e problematico (in proposito si vedano, tra gli altri, Halliwell 1987 e Belfiore 1994; mi permetto altresì di rinviare a Zanatta 2001, pp. 154 ss. e all’Introduzione della mia edizione della Poetica aristotelica in Zanatta 2004, pp. 428 ss.). Ma Proclo, nel farla coincidere con la moderazione delle passioni stesse, la legge nell’ottica della platonica dottrina dell’armonia delle parti dell’anima, per la quale la parte concupiscibile così come quella irascibile, riconoscendo di dover obbedire alla parte razionale, si mantengono entro i propri limiti. In fondo, a ben vedere, forse non è un caso che egli non parli di «k¿qarsi©» delle passioni, pur facendo riferimento allo teoria aristotelica della tragedia e della commedia, bensì di «àfos›wsi©» di esse. Va così osservato, in secondo luogo, come una tale lettura platonizzante si accentui là dove Proclo, riprendendo l’idea espressa in Gorgia, 494 b anche mediante l’immagine fortemente icastica del caradrio, che mangia ed evacua, del carattere animalesco di una ricerca continuata del piacere, faccia coincidere la smoderatezza del soddisfare le passioni non con l’intensità dello sfogo concesso loro, dunque con una valenza essenzialmente qualitativa del loro esercizio, tale essendo a ben vedere l’idea della misura e del limite che si superano, bensì con la reiterata e persistente ricerca del loro soddisfacimento, ossia con una valenza quantitativa della soddisfazione, di questo tipo essendo la continuità temporale, che si prolunga fino ad abbracciare l’intero arco della vita. Un terzo elemento che rivela la marca platonica della lettura di Proclo della catarsi si rinviene là dove egli attribuisce alla moderazione delle passioni, in cui essa a suo vedere consiste, un valore anche politico, sì da asserire che l’uomo di stato nel dirigere la sua opera a finalità essenzialmente educative deve preoccuparsi di fare in modo che i cittadini esercitino le passioni, ma in modo misurato e contenuto. Dunque, alla catarsi, intesa nel modo che s’è detto, deve mirare il politico. Un concetto che non trova alcun riscontro in Aristotele, ma che, in tutta evidenza, assomma all’idea platonica di moderazione delle passioni, presentata come effetto della catarsi tragica e comica, quella non di meno platonica di un uso e di una finalità politica di tale moderazione. Anche la risposta di Proclo all’ipotizzata obiezione di Aristotele e dei suoi seguaci rivela uno sfondo concettuale platonico. Ché, nella

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considerazione secondo cui la poesia e, in specie, la tragedia e la commedia non sono in grado di moderare le passioni, anzi ne scatenano di intense e violente, e come tali non hanno alcun effetto purificatore, risuona la condanna platonica della poesia la quale, consistendo in un’immagine falsa della cosa che imita, e dunque mancando di verità, si rivolge alla parte peggiore dell’anima e corrompe i buoni (Resp., 605 a - 606 a), e in modo del tutto particolare li corrompono la tragedia e la commedia (Ivi, 606 a-e). 37 Il passo è tratto dal De mysteriis, l’opera che Giamblico scrisse in risposta alle obiezioni che Porfirio, nella lettera ad Anebo l’egizio (in proposito cfr. Sodano 1958; Des Places 1966, pp. 8 ss. Poco probabile l’opinione di Zeller, che sembra condivisa anche da Martano 1968, pp. 59-60, secondo cui l’autore del De mysteriis non sarebbe Giamblico, ma un suo discepolo), sollevava intorno alla nozione degli dèi, nonché ai sacrifici e a i riti teurgici, sollecitando al tempo stesso un chiarimento dei rapporti tra filosofia e teurgia. L’obiezione che ci riguarda è la seguente: «com’è possibile che la teurgia operi sui demoni (da›mona©) se essi non sono soggetti alle passioni (âmpaqeÖ©)?» (De myst., I, 1; Des Places 1966, p. 60). Giamblico risponde che tale obiezione è dovuta all’ignoranza della vera teurgia, tra le cui opere si annoverano alcune che «preparano qualcosa che sia utile per noi o in qualche modo purificano e liberano le nostre passioni umane (kaqa›rei pw© ka‰ àpol‡ei t· ìm¤tera tán ànqrÒpwn p¿qh), o allontanano un pericolo che ci minaccia» (Ivi). Ebbene, le purificazioni operate su di noi dai riti teurgici – prosegue Giamblico – sono pari a quelle prodotte da una rappresentazione: lo spettatore di una commedia o di una tragedia, contemplando le passioni altrui, purifica le sue, che divengono così moderate ed equilibrate, e in questa condizione divengono piacevoli a soddisfarsi (cfr. Laurenti 1987, I, p. 269). Posto dunque, anche qui, che la purificazione delle passioni coincide col renderne misurato l’esprimersi, si annette non soltanto alla tragedia ma anche alla commedia capacità catartica in quanto – così sembra di dover intendere – esse mostrano con-

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le si può persuadere a purificarsi e non cessano a violenza. Per questo, sia nella commedia che nella tragedia, osservando le passioni altrui ci tratteniamo rispetto alle nostre passioni e le rendiamo più misurate e le purifichiamo.37 GIAMBLICO, De myst., III, 9 (Parthey): in nessun modo si deve dire che questo fenomeno38 è vomito, evacuazione e cura. Infatti, non s’ingenera né per una certa malattia, o per un eccesso o per un residuo che prima era in noi, ma divina...

6 (R2 64, R3 74) MACROBIO, 5, 18, 16: in verità, che gli Etoli avessero per

cretamente negli altri quegli eccessi di esse che vanno evitati. Nelle righe immediatamente seguenti del passo («e nelle circostanze di singolare veemenza mercé talune visioni e ascolti di turpitudini ci liberiamo del danno che da esse piomba sulle nostre opere») si precisa che gli eccessi sono nocivi in quanto rovinano il nostro operare (Oreste, viene da pensare, preso da desiderio smodato di vendicare la morte del padre, rovina la sua opera di vindice sgozzando la madre). Come si vede, nessun accenno alla pietà e al terrore, che nel testo della Poetica e verisimilmente nel De poetis costituiscono il mezzo tramite cui (Poet., 1449 b 28: di’ âl¤ou ka‰ ffibou) per Aristotele si compie la catarsi. 38 Si tratta dell’eccitarsi e dell’acquietarsi (t ànerge›resqai ka‰ t àpopa‡esqai) di anima e corpo (ëk¿teron) (cfr. Des Places 1966, p. 109; Laurenti 1987, I, p. 233, nota 34. Ma vi è anche chi, come Croissant 1932, p. 128, ritiene che l’eccitarsi e l’acquietarsi siano assunti qui in senso assoluto. Il significato in ogni caso, per le considerazioni che ci interessano, resta il medesimo), che Giamblico dice esser dovuti alla disposizione degli dèi (kat· t„n tán qeán t¿xin). Da qui l’esclusione che abbiano una radice medica, consistendo in un vomito (àp¤rasi©) o in un’evacuazione (àpok¿qarsi©) o in una cura (åatre›a), termini di cui soltanto gli ultimi due hanno riscontro in Aristotele, mentre il primo non vi compare affatto. E la ragione addotta è che questi processi richiedono che precedentemente nel soggetto vi siano stati o malattia o un residuo o eccesso di qualcosa, mentre l’eccitarsi e il calmarsi non comportano nulla di tutto questo, sibbene hanno natura divina («ma ogni sua origine e fondamento, provenienti dall’alto, si istituiscono come divini [qeÖa d’ aétoÜ sun›statai ì pÄsa ônwqen àrc„ ka‰ katabol‹]»).

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39 Riferimento a TGF, fr. 530 (conservato in una forma più ampia in Macrobio, Sat., 5, 18, 17). 40 Re di Aleurone e padre di Linceo e Ida, che presero parte alla caccia del cinghiale calcedonio. In proposito cfr. Ov., Metam., 8, 304, 446. 41 Il piede che guida è il destro, mentre quello che sta fermo è il sinistro (cfr. Rostagni 1955, p. 299). La spiegazione di ciò è data in De incessu anim., 706 a 11 ss.: «la destra è la stessa in tutti . La nella quale si trova il principio del movimento, infatti, è la stessa e per natura ha la medesima posizione in tutti gli animali, giacché a destra si trova il principio del movimento» (cfr. anche Ivi, 713 a 6 ss e De caelo, II, 285 b 16). 42 Ossia, con Socrate. 43 Così, con Apelt (1921, I, p. 83) e Untersteiner (1955a, p. 27), intendo âfilone›kei, che altri (come per esempio Gigante 1962, p. 78; Hicks, 1959, I, p., 175; Laurenti 1987, I, p. 223), fissando l’attenzione piuttosto su neÖko©, traducono con «criticare», o «diffamare» (Lanza 1966, p. 35).

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costume di andare in guerra con un solo piede calzato, mostra Euripide, il famosissimo scrittore tragico, nella cui tragedia che s’intitola Melagro è introdotto un messaggero che descrive con che abito sia stato ciascuno dei principi che erano convenuti per catturare il cinghiale...39 19: E in questa faccenda... non taceremo una cosa nota a pochissimi, ossia che Euripide fu rimproverato da Aristotele, il quale oppone che questa circostanza fu un’ignoranza di Euripide, giacché gli Etoli non hanno il piede sinistro scalzo, bensì il destro. E per non affermare questa circostanza più che provarla, porrò le stesse parole di Aristotele dal secondo libro che scrisse Sui poeti. In esso, parlando di Euripide, così dice: «Euripide afferma che i figli di Testio40 andavano con il piede sinistro scalzo. In effetti dice che “nell’orma sinistra del piede erano scalzi; l’altra nei calzari, come se avessero un ginocchio leggero”. Ora, in queste cose il costume degli Etoli è tutto il contrario: infatti, calzano il sinistro e lasciano scalzo il destro. Infatti, credo che convenga avere leggero quello che guida e non quello che sta fermo».41 7 (R2 65, R3 75) DIOGENE LAERZIO, II, 5, 46 (25): con costui,42 secondo quanto dice Aristotele nel terzo libro sulla poetica, gareggiavano43 un certo Antiloco di Lemno44 e Antifonte l’indovino,45 come con Pitagora Cilone di Crotone46 e

44

Cfr. D.L. VIII, 49. Si tratterebbe, secondo Bignone 1974, pp. 9-20; Untersteiner 19491962, II, pp. 80-82; Del Corno 1969, pp. 129 ss.; Decleva Caizzi 1969, pp. 71-83, del sofista Antifonte. In tal caso vedasi Xen., Mem., I, 6. 46 Cfr. a riguardo le diverse interpretazioni di Porph., Vita Pythag., 54 e Iambl., Vita Pythag., 74. Gigante (1962, p. 78) ripristina la lezione dei codici ’On¿to© in luogo di Kritwni¿th©: in questo caso si tratterebbe di Onatos di Crotone, autore di un per‰ qeoÜ ka‰ qe›ou (ma la proposta ha trovato scarsa accoglienza). 45

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47 Poeta epico, primo cantore, secondo una certa tradizione, della guerra di Troia. Cfr. Aelian., Varia hist., XIV, 21 ed. Herscher., vol. II, p. 164 (che tuttavia non legge s‡agro©, ma oúagro©). 48 Cfr. D.L., IX, 18: « scrisse un’opera in esametri ed elegie e giambi contro Esiodo ed Omero, per colpire le loro asserzioni sugli dèi». 49 Poeta orfico, forse autore dei carmi orfici. Cfr. Cic., De nat. deor., I, 107. 50 Non si hanno notizie su questo personaggio. 51 Assieme a Talete, fu uno dei sette sapienti. 52 Anche di questo personaggio non si hanno notizie. 53 Cfr. PLG, III, nn. 169-170, pp. 505-506 (per Simonide); n. 10, p. 541 (per Timocreonte). 54 Isola delle Calcidi. Di essa parla Strabone, X, 484.

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Siagro47 con Omero vivente, con lui morto Senofane di Colofone,48 e Cercope49 con Esiodo vivente, con lui morto il predetto Senofane; e con Pindaro, Anfimene di Coo;50 con Ferecide, Talete; con Biante,51 Salaro di Priene; con Pittaco, Antimenide e Alceo; con Anassagora, Sosibio52 e con Simonide Timocreonte.53 8 (R2 66, R3 76) PS.-PLUTARCO, Vita Homeri, 3-4: Aristotele nel terzo libro sulla poetica afferma che nell’isola di Ios,54 nel tempo in cui Neleo, figlio di Codro,55 guidava la colonizzazione della Ionia, una tale fanciulla degli abitanti di quella terra, divenuta gravida a opera di uno dei demoni che danzavano con le Muse,56 essendosi vergognata di ciò che era capitato per la massa del ventre, andò in un luogo chiamato Egina. Ma dei pirati che erano accorsi in quel luogo fecero schiava la predetta e, condottala a Smirne, che allora era sotto i Lidi, la concedettero con compiacenza al re dei Lidi che era loro amico, di nome Meone. E costui, innamoratosi della fanciulla a causa della sua bellezza, la sposò. E avvenne che costei, che trascorreva la vita presso il Melete e fu presa dalle doglie, partorisse Omero sulle rive del fiume. Omero che Meone, dopo aver accolto, allevò come se fosse proprio, dal momento che Criteide57 era morta subito dopo il parto. Ma quando i Lidi furono sottomessi dagli Eoli e giudicarono bene abbandonare Smirne, poiché annunziarono che chi voleva seguire i capi uscisse dalla città, 55 Leggendario re di Atene che nel 1070 a.C. si sacrificò per salvare la sua patria in lotta con Sparta, seguendo quanto aveva predetto un oracolo, e fu onorato come un eroe. Dopo di lui gli Ateniesi soppressero la monarchia, nella convinzione di non potere più avere un sovrano giusto come lui. 56 Trattasi probabilmente di Apollo. 57 Lo stesso nome della fanciulla così come la nascita di Omero a Smirne reca anche la Vita Herodoti, cc. 2-3; ed. Allen, V, pp. 193-194.

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Cfr. Vita Herodoti, cc. 24-25; ed. Allen, pp. 215-216.

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Omero (≠Omhro©), che era ancora bambino, disse che anch’egli voleva essere ostaggio (ïmhreÖn). Da qui, invece di Melesigene, fu chiamato Omero. E quando fu nel fiore dell’età ed ebbe già acquisito rinomanza in campo poetico, chiese al dio da quali genitori provenisse e da dove. E quegli rispose così: patria della madre è l’isola di Ios, la quale te, dopo che sarai morto, accoglierà. Ma sta in guardia dall’enigma di uomini di navi.

Dopo non molto tempo, navigando alla volta di Tebe per le Cronie (presso quella popolazione si tiene questa gara poetica), qui, sedutosi su uno scoglio, guardò i pescatori che navigavano verso e chiese loro se avessero qualcosa. Ed essi, per il fatto di non aver pescato nulla, ma di essere tormentati dalle pulci, per la scarsità della pesca così risposero: quanto prendemmo lasciamo, quanto non prendemmo portiamo,

dicendo enigmaticamente che, pertanto, quelle delle pulci che presero, dopo averle uccise le lasciarono, mentre quelle che non presero le portavano nella veste.58 Fatto che, non essendo stato in grado di comprendere, Omero per lo scoraggiamento morì. E gli abitanti di Ios, dopo averlo sepolto con gran pompa, scrissero questo sulla sua tomba: qui la terra nasconde la testa sacra, il divino Omero, ordinatore di uomini eroici.

GELLIO, 3, 11, 17: Aristotele tramandò che era originario dell’isola di Io.

SULLA FILOSOFIA PERI FILOSOFIAS

INTRODUZIONE

1. L’opera essoterica probabilmente più impegnata dal punto di vista dottrinale è il Per‰ filosof›a©, uno scritto in forma dialogica riportato da tutti i cataloghi delle opere aristoteliche, che lo indicano in tre libri, e citato almeno due volte dallo stesso Stagirita (De an., I, 2, 404 b 19; Phys., II, 2, 194 a 36). Sulla sua datazione è impossibile essere precisi. Con la maggior parte degli studiosi è possibile però collocarlo nel tempo finale del soggiorno di Aristotele nell’Accademia, a motivo della maturità dottrinale che esso testimonia, con i conti già fatti rispetto alla dottrina platonica delle Idee e dei principi, anzi, come si vedrà nel corso dell’esame, riprendendo le critiche già elaborate nel Per‰ ådeán e nel Per‰ tàgaqoÜ, e con un pieno possesso del metodo dialettico, impiegato nelle disanime di tutti e tre i libri. Il termine ante quem può essere fissato nel 357 a.C., anno in cui con ogni verosimiglianza fu composto il Per‰ ådeán, nel tempo cioè immediatamente successivo al ritorno di Platone dal disastroso terzo viaggio in Sicilia e alla composizione del Timeo, avvenuta in corrispondenza di questa circostanza e databile intorno al 360: un dialogo la cui dottrina teologica è ampiamente presente nel terzo libro del nostro scritto. Il termine post quem è invece l’uscita di Aristotele dall’Accademia, ossia il 347. 2. Nel primo libro Aristotele conduce una disamina sul concetto di sapienza (sof›a Ross). Come attesta il fr. 6

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del Protrettico, questa, nell’accezione datale dagli Accademici e fatta propria dallo Stagirita, si connette alla filosofia secondo il seguente rapporto: la filosofia è «acquisto e uso della sapienza». È chiaro pertanto che, determinando in che cosa consiste quest’ultima, Aristotele determina qual è l’oggetto della prima. Si delinea così il piano dell’opera: poiché, come ci accingiamo a vedere, la sapienza è conoscenza dei principi primi, il compito della filosofia consiste innanzitutto nel raggiungerne l’acquisizione, ossia nel definire quali sono. L’indagine sulla sapienza non arriva infatti a quest’esito, sibbene a quello, più generale, che essa ha a che fare con ciò che è primo. A questo risultato Aristotele perviene esaminando a chi è stata attribuita la qualifica di sapiente (soffi©), e perché, ossia per aver parlato di che cosa, gli è stata attribuita. Che certi personaggi siano «sapienti» corrisponde pertanto a un’opinione autorevolmente attestata, vale a dire a quello che nelle parole iniziali dei Topici è detto essere un öndoxon, e che, in quanto tale, non viene messa in discussione, ma se ne prende atto come dato di partenza per esaminare, per l’appunto, «perché» si sono ritenuti «sapienti» certi uomini. Già da questi rilievi risulta chiaro che l’indagine ha un andamento dialettico, giacché muove da «opinioni notevoli» e argomenta a partire da esse. Come vedremo, l’impiego del metodo dialettico prosegue anche negli altri libri, quando cioè, appurato che la sapienza concerne ciò che è primo, vale a dire i principi, Aristotele procede a determinare quali essi siano: lo farà discutendo la dottrina dei principi professata da Platone, e poi confrontandosi col suo pensiero su quello che è l’attributo fondamentale del principio, ossia l’essere divino: indagando innanzitutto in quanti sensi si dice la divinità, ovvero quali enti sono divini e quali differenze competono loro pur nel possesso di questa determinazione. Sono esattamente queste le indagini condotte nel secondo e nel terzo libro.

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Quanto poi all’«uso» di ciò che è primo, dal momento che anche quest’aspetto appartiene, come abbiamo visto, all’indagine filosofica, si tratterà di esaminare la funzione che spetta ai principi e al divino nella spiegazione del reale. E anche quest’esame viene condotto con metodo dialettico: giacché detta funzione verrà innanzitutto e fondamentalmente discussa all’interno della filosofia – quella platonica – che attinge la nozione fatta oggetto d’esame. Nel primo libro, dunque, Aristotele procede all’accertamento di chi è stato considerato sapiente, al fine di definirne la ragione e dunque di determinare l’oggetto della sapienza. Dalle testimonianze si evince che la disamina doveva estendersi dal pensiero tradizionalmente qualificato come anteriore alla genesi della filosofia, a quello dei cosiddetti Presocratici e dello stesso Socrate, o almeno delle occasioni che, come si sa, stimolarono la riflessione di costui. Risulta infatti che egli prese in considerazione le iscrizioni di Delfi e, in particolare, quella – famosissima – che suona «conosci te stesso» (frr. 1, 3 Ross). Risulta inoltre che dovette appuntare l’indagine sui sette sapienti, da lui chiamati «sofisti» (fr. 5 Ross), sulle riflessioni sapienziali dei Magi, dei Caldei e degli Egizi (frr. 5, 6 Ross), su proverbi del tipo «nulla di troppo» o «dà garanzia, ed ecco: la sciagura è pronta» (fr. 4 Ross), sui versi orfici, considerati depositari della sapienza dai Pitagorici (fr. 7 Ross), sul pensiero di Senofane circa l’unicità del divino, individuato nell’unità del cosmo (fr. 8a Ross), su quello di Parmenide e di Melisso, qualificati «immobilizzatori della natura» e, quindi, «afisici» (fr. 9 Ross). Le conclusioni di tale disamina è credibile che siano consegnate in una testimonianza di Giovanni Filopono (In Nocom. isag., 1, 1 = fr. 2 Ross) e in una seconda di Asclepio (In Arist. Metaph., 3, 21-23 = fr. 3 Ross). Nella prima si dice innanzitutto che sapienza (sof›a) indica

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una certa chiarezza (saf¤©), da cui essa ha derivato anche il nome, in quanto è in se stessa alcunché di luminoso, che, come tale, porta luce sulle cose nascoste. Queste sono le realtà «intelligibili e divine», le quali, pur essendo in se medesime le più chiare, a noi sembrano le più oscure per l’annebbiamento che ci produce il corpo. Istanza platonica, che riprende un pensiero di Fedone, 79 c-d sul quale ritorneremo nell’esposizione della dottrina del secondo libro. Il che non significa che l’allusione sia alle Idee, come nel corrispondente passo del Fedone: ché, anzi, vedremo che la critica di Aristotele in questo stesso scritto si rivolge anche a esse, giungendo a ribadirne il rifiuto che era già stato espresso nel Per‰ ådeán; ma unicamente che il tenore complessivo dell’istanza è di stampo platonico. Un’istanza, peraltro, che ritorna anche nelle opere tarde dello Stagirita e che costituisce uno dei capisaldi del suo pensiero, il quale rivela in ciò di appropriarsi di un motivo platonico, assunto nella sua essenza speculativa, ossia al di là dello specifico contenuto dottrinale in cui si determinava in Platone. La testimonianza prosegue rilevando che, poiché le realtà sulle quali la sapienza porta luce e delle quali è scienza, sono state via via individuate in cose diverse, «i nomi di “sapienza” e di “sapiente” sono omonimi», giacché con essi gli Antichi indicarono cinque cose diverse. La nozione di omonimia è un’acquisizione raggiunta da Aristotele attraverso la revisione della dialettica del tardo Platone e puntualizzata sia nel primo libro dei Topici che all’inizio delle Categorie; ed è una nozione che, una volta raggiunta, il filosofo utilizzò nella critica stessa delle Idee separate. Ond’è che lo stesso riferimento a essa in questo scritto testimonia eloquentemente e ribadisce la sua posteriorità al predetto esame critico delle forme separate, tematicamente operato per la prima volta nel Per‰ ådeán. Non soltanto, ma dal momento che i diversi sensi con cui le nozioni di «sapienza» e di

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«sapiente» sono state attribuite, ammettono un riferimento unitario, espresso dal «rendere chiaro», e questa determinazione non costituisce il genere del quale quei diversi sensi siano articolazioni specifiche, giacché essi si riferiscono a cose genericamente diverse, è evidente allora che la loro unità è un’unità di riferimento o di relazione, e la loro omonimia si delinea secondo i tratti di quella struttura che Aristotele chiama «omonimia pr© ≤n». Poiché questa è la struttura secondo cui si predica l’essere, è evidente allora che la nozione di sapienza si articola in modo identico a esso. Il commentatore procede infine a indicare quali sono i predetti cinque sensi della sapienza, secondo una scansione che presenta indiscutibili affinità con l’analisi del primo libro della Metafisica, anch’esso antico. L’assunto che sottostà a entrambe le disamine è infatti lo stesso: man mano che gli uomini si sono liberati dalle necessità della vita, e a misura di questa liberazione, hanno elaborato conoscenze, ossia hanno «fatto luce», su cose vieppiù elevate. A ogni livello, tuttavia, si dice nel nostro dialogo, le cose più importanti in esso raggiunte sono state considerate divine e la relativa messa in chiaro fu indicata col nome di sapienza. Dapprima essa designò la «capacità di escogitare» e di «scoprire ciò che giova alle necessità della vita»; indi le arti, «costruite non per le sole necessità della vita», ma per «pervenire a ciò che è bello e civile»; poi tutto quanto aveva attinenza col vivere nella comunità politica, in particolare l’istituzione delle leggi e di ciò che tiene unite le città; successivamente l’indagine della natura; per ultima la conoscenza delle «realtà divine, soprammondane e immutabili per se stesse». Queste costituiscono dunque, allo stato attuale, l’oggetto della sapienza. Nella seconda testimonianza, il commentatore della Metafisica, dalla cui analisi essa è tratta, applicando un’istanza dottrinale propria del pensiero di Aristotele, ri-

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porta alle sue categorie concettuali il tema che nella prima era platonicamente presentato come obnubilamento dovuto ai legami col corporeo di quelle cose che per se stesse sono le più chiare, e fa pertanto presente che ciò che per natura è più perfetto, dunque anteriore, non può essere fatto immediatamente oggetto della nostra analisi, a motivo della nostra debolezza, ma va indagato per ultimo, successivamente cioè all’indagine di ciò che per natura è posteriore e meno perfetto, ossia le realtà sensibili, ma che a noi è più noto. Su questa base egli può quindi introdurre il commento alla Metafisica dicendo che dapprima, nella Fisica, si sono indagate le realtà imperfette, ossia quelle che per sé sono meno note, ma che sono più note a noi, in quanto cadono immediatamente sotto i sensi; ora invece si procede a indagare le «realtà divine», a far luce cioè su quelle cose che di per sé sono chiare e assolutamente evidenti, e per questo divine, ma che per noi sono ultime, e un tale far luce «s’intitola sapienza e filosofia e filosofia prima e anche metafisica». È chiaro allora che la sapienza – qui identificata tout court con la filosofia, intesa come filosofia prima o metafisica –, riguardando tali realtà «divine», che sono anteriori, ha di conseguenza per oggetto ciò che per sé è primo. E tali sono per l’appunto i principi. Questi costituiscono pertanto il dominio proprio della sapienza. 3. Nel secondo libro del Per‰ filosof›a© Aristotele tratta della dottrina accademica delle Idee-Numeri. È questa la dottrina, elaborata dal tardo Platone e poi ripresa da Senocrate, che identificava le Idee – sulla cui esistenza, data la loro separazione dalle cose, Platone stesso aveva sollevato una serie di difficoltà nel Parmenide, senza tuttavia giungere a negarle – con i primi dieci numeri. Non si tratta però di numeri «matematici», cioè di natura quantitativa, in quanto risultanti dalla somma di

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unità, sibbene di numeri di natura ideale, vale a dire qualitativa – donde la loro denominazione anche di «IdeeNumeri» –, esprimenti la forma o essenza delle quantità espresse dai numeri matematici. Così, per esempio, il tre ideale corrisponde alla «ternità» e rappresenta la forma di ogni somma di tre unità, ossia di tutti i tre matematici. Dalle testimonianze dello stesso Aristotele, che ne dà conto, oltre che nel Per‰ filosof›a©, anche nel Per‰ tàgaqoÜ e nei libri I, XIII e XIV della Metafisica, e di altri pare che l’identificazione delle Idee con questi numeri assumesse in Platone il carattere di una sorta di «riconduzione» (sunagwg‹) di quelle a questi, secondo un procedimento in qualche modo analogo a quello con il quale nel Fedro (266 b), dove compare espressamente il termine sunagwg‹, Socrate indicava l’esser capaci di «abbracciare l’unità che per natura è insita nei molti», attribuendo poi tale capacità ai dialettici. Per cui, se l’analogia ha motivo di essere, si ha qui un ulteriore, significativo riscontro del fatto che la riconduzione delle Idee ai numeri ideali prosegue nel solco della dialettica ed è essa stessa un’operazione dialettica. Stante detta riconduzione, è ovvio allora che Platone ricercasse nei principi dei numeri i principi delle Idee, dando così definitivo compimento a quel processo di matematizzazione della filosofia, coincidente con la dialettica, di cui è testimonianza eloquente il Filebo, l’ultimo dei dialoghi «dialettici», senz’altro posteriore al Parmenide e al Sofista. In esso infatti si sostiene che ogni Idea risulta da due principi opposti, individuati nel «limite» (p¤ra©) e nell’«illimitato» (ôpeiron), sulla scorta della dottrina pitagorica del numero, che il filosofo ebbe modo di conoscere direttamente durante i suoi viaggi in Sicilia. La «dottrina dei principi», che fu esposta solo oralmente da Platone e corrisponde al contenuto delle cosiddette «dottrine non scritte» (ôgrafa dfigmata) – sulla cui esistenza, negata dal Cherniss, la stragrande maggioranza degli studiosi è

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d’accordo e sulla cui presenza in tutti i Dialoghi platonici, fin da quelli iniziali, secondo la tesi della cosiddetta «scuola di Tubinga», è lecito avanzare seri dubbi –, rappresenta un ulteriore e definitivo approfondimento della ricerca del Filebo. Essa fu esposta da Platone nella famosa «lezione sul bene», ed è ricostruibile attraverso la testimonianza dello stesso Aristotele che, come s’è detto, nel Per‰ tàgaqoÜ e negli altri luoghi sopra indicati ne dà notizia. Secondo tale dottrina, principi delle Idee, ricondotte per l’appunto ai numeri ideali, sono l’Uno e la Diade di grande e piccolo o Diade indefinita, corrispondenti rispettivamente al principio formale, ossia di determinazione, e al principio materiale, ossia di molteplicità, dunque d’indeterminatezza e per questo pensata come nonessere. Appartiene altresì a questa dottrina la posizione di una realtà intermedia tra le Idee-Numeri e il mondo sensibile, costituita dai numeri matematici, derivanti da quelli ideali e fatti coincidere con l’anima del mondo, principio vivificatore, com’è detto nel Timeo, del «vivente in sé», ossia del modello ideale del cosmo, e locata nel cielo. Ebbene è altamente probabile, allo stato attuale degli studi, che nel secondo libro del Per‰ filosof›a© Aristotele abbia esposto e criticato questa dottrina platonica delle Idee-Numeri, sulla linea di quanto aveva già fatto nel Per‰ tàgaqoÜ. Altamente probabile, s’è detto, giacché ognuno dei momenti dell’affermazione è stato oggetto di ampie discussioni tra gli studiosi, con esiti anche contrastanti. Per cui, senza entrare nel dettaglio degli argomenti addotti (cosa che ci porterebbe ben al di là degli intendimenti di questo lavoro), è però necessario giustificare storiograficamente la ricostruzione che si indica. Innanzitutto non pare possano sussistere seri dubbi sul fatto che nel De anima (I, 2, 404 b 16-24 = fr. 3 Ross) Aristotele si sia riferito proprio al Per‰ filosof›a©

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quando dice che, come nel Timeo, così anche «ân toÖ© per‰ filosof›a© legom¤noi©» (letteralmente: nelle cose dette sulla filosofia) il «vivente in sé risulta dall’idea stessa dell’uno, della lunghezza, larghezza e profondità prime; e allo stesso modo tutte le altre cose», e dove ancora riferisce dell’identificazione della mente (noÜ©) con l’uno, della scienza col due ideale (giacché essa procede da un medesimo punto di partenza a un’unica conclusione), numero nel quale altrove è riferito che veniva fatta consistere la linea, dell’opinione col numero ideale della superficie, ossia il tre, e della sensazione col quattro ideale, numero che esprime il solido; e dove, infine, afferma che «i numeri venivano indicati con le Idee stesse e i principi, mentre essi risultano da elementi». Come infatti è stato dimostrato,1 quell’espressione «ân toÖ© per‰ filosof›a© legom¤noi©», nella quale alcuni studiosi hanno visto un riferimento dello Stagirita alle dottrine non scritte e non una citazione del Per‰ filosof›a©, è invece la formula che si ritrova ogni qualvolta egli richiama quest’opera. Per cui non vi è dubbio che nel De anima Aristotele citi le tesi accademiche da lui stesso esposte nel Per‰ filosof›a©, dove per l’appunto dava conto della dottrina delle Idee-Numeri. Attraverso un minuzioso esame comparativo della testimonianza del De anima con due passi paralleli della Metafisica (VII, 11, 1036 b 13-17 e XIV, 3, 1090 b 20-27), nonché l’esame della tradizione dei commentatori antichi (Giamblico, Temistio, Simplicio e Giovanni Filopono) è stato inoltre dimostrato che nel Per‰ filosof›a© lo Stagirita esponeva la dottrina «platonica» delle IdeeNumeri, con la relativa derivazione da esse delle grandezze ideali, non quella di Senocrate; che, parimenti, anche la teoria, richiamata nel De anima e riferita nel Per‰ filosof›a©, della derivazione del vivente in sé dai nu1

Saffrey 1975, pp. 7-11.

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meri ideali è «platonica»;2 infine che nel Per‰ filosof›a© Aristotele aveva ripreso la dottrina nelle IdeeNumeri e dei principi già esposta nel Per‰ tàgaqoÜ, che pertanto gli è anteriore, e che con ogni probabilità il Per‰ filosof›a©, scritto in forma di dialogo, presentava tra i suoi personaggi proprio Platone, riproponendo in tal modo anche in forma letteraria il dibattito che sappiamo essere avvenuto nell’Accademia.3 Queste precisazioni ci permettono d’inquadrare in modo storicamente più preciso i contenuti dottrinali che emergono dai frammenti. Quanto all’identificazione dei primi tre numeri ideali (il due, il tre e il quattro) rispettivamente con la lunghezza, la larghezza e la profondità ideali, di cui si dice nel passo del De anima, si tratta di un momento della derivazione delle grandezze ideali dal principio materiale e formale, espressi rispettivamente dall’Uno e dalla Diade di grande e piccolo. Dalle testimonianze di Alessandro di Afrodisia (in Metaph., 117, 23 – 118, 1 = fr. 11 Ross), dove, con espresso riferimento al Per‰ filosof›a©, si dice che principio materiale della lunghezza sono il lungo e corto, i quali sono specificazioni del grande e del piccolo, come lo stretto e il largo, che rappresentano il principio materiale della superficie, e da quella dello pseudo-Alessandro (In Metaph., 777, 16-21 = fr. 11 Ross), dove si parla del principio formale e, riferendosi anche qui al Per‰ filosof›a©, si attesta che i numeri ideali venivano inseriti nelle grandezze, ed esattamente il due nella linea, la triade nella superficie e la tetrade nel solido, è possibile inferire con ampio margine di verosimiglianza che l’Uno, come principio formale, determina sul grande e sul piccolo (principio materiale) i numeri ideali, e in particolare il due, il tre e il quattro. Il due poi, agendo a sua volta come prin2 3

Ivi, pp. 24-46. Ivi, pp. 11-23.

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cipio formale sul grande e il piccolo, che è principio d’indeterminazione, lo determina come lungo-corto, e agendo poi, sempre come principio formale, su questa specificazione del principio materiale, ossia sul lungo e sul corto, determina la linea. Parimenti il tre ideale determina la Diade di grande e piccolo come largo-stretto e poi, agendo su questa specificazione del principio materiale, genera la superficie. E così pure il quattro ideale determina sulla Diade di grande e piccolo l’alto e il basso (non menzionati nel passo di Alessandro d’Afrodisia, ma ricavabili da altre testimonianze) e poi, su questi, il solido. In questo modo attraverso le testimonianze relative al Per‰ filosof›a© è possibile comprendere come tutta quanta la realtà venisse da Platone dedotta dai supremi principi dell’Uno e della Diade, con un processo al contempo metafisico e matematico che opportunamente può qualificarsi come mathesis universalis. Ma nel Per‰ filosof›a© Aristotele non si limitava soltanto a esporre la dottrina delle Idee-Numeri e, di conseguenza, dei principi, ma vi muoveva anche una critica. Da una testimonianza di Siriano (In Arist. Metaph., 159, 33 – 160, 5 = fr. 11 Ross) – un commentatore neoplatonico il quale, nell’intento di dissolvere ogni divergenza di dottrina tra Platone e Aristotele, al fine di asserire la fondamentale convergenza del loro pensiero, cita un passo dello Stagirita, espressamente attribuito al secondo libro del Per‰ filosof›a©, dove si critica la dottrina dei numeri ideali, additandola ad esempio della sua incomprensione della teoria delle Idee – risulta infatti che egli muoveva all’identificazione delle Idee con i numeri ideali l’obiezione d’essere inintelligibile, dal momento che non è possibile pensare altri numeri che quelli matematici. Sotto questo profilo il Per‰ filosof›a© arreca un contributo basilare, giacché, se l’esposizione della dottrina in oggetto è identica a quella del Per‰ tàgaqoÜ, dal quale, come si diceva, viene ripresa,

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manca però una esplicita testimonianza della critica che anche in questo scritto è assai probabile che Aristotele vi abbia mosso, critica che invece è documentata nelle testimonianze sul Per‰ filosof›a©. Va da ultimo fatto presente che, oltre alla dottrina dei principi e delle Idee-Numeri, nel secondo libro del Per‰ filosof›a© Aristotele prendeva posizione anche contro le Idee. Questa tesi, per la verità, è stata anche negata, a favore di un’esegesi per la quale lo Stagirita nel Per‰ filosof›a© avrebbe criticato soltanto la dottrina platonica dei numeri ideali e continuato ad aderire a quella delle Idee, contro cui solo più tardi, e cioè nel Per‰ ådeán e nel libro I della Metafisica, avrebbe mosso obiezioni.4 Ma gli studi più recenti e agguerriti hanno mostrato l’assurdità di questa cronologia, avvalorando con ciò stesso la convenienza di ritenere la critica del Per‰ filosof›a© estesa anche alle Idee.5 Ciò risulta del resto da due testimonianze, entrambe raccolte come frammenti del nostro dialogo. Una è un passo dell’«Esame delle obiezioni di Aristotele contro il Timeo di Platone» del neoplatonico Proclo, riferita da Giovanni Filopono (De aetern. mundi, 31, 7 – 32, 8 = fr. 10 Ross), dove si dice che «nulla Aristotele ha respinto delle dottrine di Platone come la teoria delle Idee», e si fa riferimento, oltre che ai trattati di logica, di etica, di fisica e alla Metafisica, anche ai dialoghi. L’altra è di Plutarco (Adv. Colot., XIV = fr. 10 Ross), esponente del medioplatonismo, il quale, citando egli pure i dialoghi, accusa lo Stagirita d’aver stravolto la teoria platonica delle Idee, introducendo in essa ogni sorta d’aporia. Anche a questo proposito validi argomenti inducono a credere che le obiezioni mosse alle Idee nel Per‰ filosof›a© sono le stesse proposte nel Per‰ ådeán, ed anzi che sono 4 5

Così Wilpert 1955; 1957. Berti 1962, pp. 140-141.

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state riprese da questo scritto, il quale risulta pertanto anteriore. In esso tuttavia lo Stagirita non criticava anche le Idee-Numeri. Donde l’aspetto di novità del Per‰ filosof›a©. Nel contesto di quest’opera la critica della dottrina dei principi, connessa a quella delle Idee-Numeri, si attesta per la sua intrinseca importanza di presa di posizione di fronte ai capisaldi della filosofia platonica, rispetto alla quale si chiarisce l’intendimento del dialogo di far luce su che cosa si debba intendere per filosofia e si puntualizza l’impossibilità, una volta ammesso che la filosofia consiste essenzialmente in una ricerca sui principi, di pensare questi principi stessi come separati. Si tratta di un’istanza che ripropone il motivo centrale e dominante del rifiuto di Aristotele delle Idee. Al tempo stesso detta critica spiana il terreno all’analisi teologica del terzo libro, il cui tema, il dio cosmico, risulta come introdotto, quanto alla sua possibile fondazione, dall’accertamento della insostenibilità di una mathesis universalis che deduca dai primi principi anche il mondo vivente. Nell’ottica della successiva ricerca dello Stagirita essa apre la strada alla determinazione dei principi, quale sarà effettuata nel I libro della Fisica, assai antico. Tanto che l’analisi che intorno a essi si conduce nei capp. 8-9 di questo libro è stata interpretata come una ripresa e quasi un riassunto di questa parte del Per‰ filosof›a©.6 4. L’argomento di gran lunga eminente del terzo libro, sia per il rilievo dottrinale che – a giudicare dal numero delle testimonianze tramandate – per l’estensione verisimilmente assunta dalla relativa trattazione, è il divino. Il rapporto tra esso e il resto dell’opera è strutturale: se il suo intendimento era di chiarire che cos’è la filosofia, 6

Così Untersteiner 1959.

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intesa come acquisto e uso della sof›a, ovvero della conoscenza dei principi, allora è chiaro che il divino, in quanto attributo fondamentale del principio ed esso stesso principio, secondo una strutturazione concettuale che andremo vedendo, appartiene di diritto al tema dello scritto. Come i due precedenti, anche quest’argomento viene affrontato da Aristotele in diretto confronto col pensiero di Platone. Il che vale innanzitutto per quanto attiene alla natura divina del mondo, che Platone nel Timeo aveva riconosciuto nonostante la sua creazione, ad opera del Demiurgo, e che Aristotele riconferma, ma su una differente base dottrinale, conseguente al rifiuto delle Idee – che è tema ripreso, come abbiamo visto, nel secondo libro. Da una testimonianza di Sesto Empirico (Adv. math., IX, 20-23 = fr. 12a Ross) risulta che per Aristotele una prima fonte della nozione degli dèi negli uomini sono l’ispirazione e il potere profetico dell’anima. Non è certo da escludere che, com’è stato autorevolmente sostenuto, lo Stagirita possa anche riferirsi alla genesi dell’idea del divino nella storia dell’umanità (Untersteiner), o alluda anche a un’opinione popolare (Berti), ma il tenore e l’ampiezza del discorso lasciano sufficientemente intendere che egli stesso accordò valore all’istanza, cosicché non sembra plausibile revocare in dubbio la sua personale adesione a essa (Gomperz). Detto potere – vien precisato – si manifesta quando l’anima «si raccoglie in se medesima», così da «assumere la sua vera e propria natura». Il che avviene fondamentalmente in due circostanze: o nel sonno, o nella morte; come conferma anche una notizia parallela di Cicerone (Div. ad Brut., I, 30, 63 = fr. 12 b Ross). Si capisce perciò il consenso dello Stagirita con Omero circa l’episodio dell’Iliade in cui Patroclo, ferito a morte da Ettore, ne presagì la prossima fine. La caratteristica peculiare di entrambe le circostanze è la separazione dell’anima dal corpo,

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quella separazione che, attestandosi in senso forte nel decesso, ma presente anche nel sonno, quando si verifica un rilassamento e una sorta di sospensione dei vincoli con la vita fisica, risulta assai propizia a produrre il suddetto raccoglimento dell’anima. Proprio nel «restare dell’anima in sé sola e per sé sola», sottratta al legame col corpo, che la fa errare tra cose sempre mutevoli, Platone aveva posto, nel Fedone (79 c-d), la condizione perché essa attinga all’invisibile, il quale, nella sua immutabilità e perenne uguaglianza a se medesimo, è vero. Il carattere platonico dell’argomento aristotelico traspare chiaramente, mi sembra, da questa corrispondenza, che tuttavia non è e non può essere una ripresa totale dell’istanza del Fedone, per il rifiuto dello Stagirita delle Idee (il mondo dell’invisibile), e dunque di quell’affinità dell’anima a esse intorno alla quale il discorso di Platone ruota come sul suo asse portante. Ciò che Aristotele deriva dal «maestro» è essenzialmente la capacità dell’anima di raggiungere nozioni vere in una condizione di (parziale o totale) svincolo dal corporeo (il che di per se stesso non prova ancora che anima e corpo siano concepite dualisticamente, secondo la nota tesi del Nuyens, ma unicamente la capacità dell’anima di liberarsi in qualche momento dalla trama col vitale fisico). Ond’è che, divinizzando essa in tale condizione sugli dèi, la loro nozione è autentica e la relativa esistenza risulta comprovata. Si chiarisce pertanto che la veridicità della divinazione non dipende affatto dall’influsso della divinità sull’anima, ossia dal suo essere invasata, così da esser chiamate in causa la parte irrazionale di essa e certe potenze che non hanno nulla a che fare con il conoscere, ma – in senso diametralmente contrario – proprio dalla capacità conoscitiva dell’anima, attuata nella condizione che più le è propizia per sapere. In questo risiede il «platonismo» della prova divinatoria degli dèi, proposta da Aristotele. Un «platonismo» che, nei limiti or

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ora precisati, si manterrà anche nelle opere posteriori, e in particolare nel De divinatione per somnium (I, 462 b 20), dove si dice che i sogni veritieri, la cui esistenza Aristotele continua ad ammettere, non sono tali perché inviati dalla divinità. Ed è ben vero che Platone nel Timeo (71 a-e) ascrive la capacità di divinare nel sonno alla parte irrazionale dell’anima. Ma dal momento che gliel’attribuisce proprio per garantire anche a questa parte una certa possibilità di raggiungere il vero al di fuori di un atto propriamente conoscitivo, perché non affidato né ai sensi né alla ragione, le uniche fonti della conoscenza, mentre su un atto esclusivamente conoscitivo si fonda nel Per‰ filosof›a© la veridicità della divinazione, non è questo il luogo platonico al quale va in prima istanza ricondotta la tesi del nostro scritto, bensì, come s’è detto, quello del Fedone. Per cui chi (come Jaeger 1964, pp. 211-216 e Nuyens 1948, pp. 95-97) ha accostato la posizione del Per‰ filosof›a© al passo del Timeo, ha sì avuto buon gioco per asserire che il carattere ancora platonico dello scritto aristotelico, basato sull’accettazione della natura irrazionale della divinazione, risulta poi «evolutivamente» superato nel De divinatione per somnium, ma articola la prova su un punto di partenza storiograficamente inaccettabile. L’altra fonte della conoscenza del divino è invece l’ordine del mondo (fr. 12 a Ross). Qui la nozione del divino s’attesta su di una pluralità di livelli e abbraccia una molteplicità di enti, tali da lasciar chiaramente vedere la sua polivocità. Divino in un senso è il mondo nella sua totalità: «divino» innanzitutto per la perfezione, l’armonia e la regolarità con cui sono disposte le sue parti: «il cielo che ruota e che tutto abbraccia in se stesso, i pianeti e le stelle fisse, che si muovono in modo uniforme e identico, con proporzione e armonia e con giovamento per tutto l’universo»; e poi ancora «la terra, che ha avuto in sorte il luogo perfettamente al centro, e

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le correnti d’acqua e d’aria diposte tra il cielo e la terra, e gli esseri viventi mortali e immortali, e le differenti specie di piante e di frutti» (Filone, Leg. alleg., III, 32, 97-99 = fr. 13 Ross). Ma «divino» anche perché, proprio a motivo di quest’ordine e di tale perfezione, rivela d’essere opera di una divinità. Questa definisce un differente senso del divino e, per l’aspetto per cui essa si attesta come causa delle predette prerogative del mondo, viene inferita (cioè dimostrata) con un argomento di tipo cosmologico. Così Cicerone (De nat. deor., II, 37, 95-96 = fr. 13 Ross) riferisce l’argomento di Aristotele che degli uomini che avessero vissuto prima sotto la terra (chiara assonanza col mito platonico della caverna) ma poi, usciti fuori, avessero contemplato l’ordine del mondo, si sarebbero convinti «che gli dèi esistono e che tanta grandezza è tutta opera loro». E parimenti Filone nella predetta testimonianza, paragonando l’universo a una grande casa perfetta, ascrive la facitura del mondo a «un’arte perfetta» e conclude che esso attesta dunque l’esistenza di un «Dio artefice del tutto», potendosi così comprendere «la divinità dalla sua ombra», ossia «intuendo l’artefice dalle sue opere». Per un verso proprio questo carattere di «ombra», ovvero di vestigia di Dio, per il quale anche al mondo viene conferita natura divina, riafferma dunque il diverso livello di senso con cui nel Per‰ filosof›a© quest’attributo vien detto dell’artefice e della sua opera. Ma per altro verso pone in luce che il significato con cui lo si attribuisce al mondo non è meno pieno del precedente, quasi che il mondo stesso, essendo «dio» in una valenza diversa da quella del suo artefice, lo sia in un senso ridotto. Lo testimoniano eloquentemente il senso di sacralità che, stando a una testimonianza di Plutarco (De tranq. an., 20, p. 477 c = fr. 14 Ross), riferita dagli editori al Per‰ filosof›a©, in questo scritto Aristotele doveva riconoscere al mondo, «il tempio più santo e più conveniente alla

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divinità», nonché la serenità e la gioia con le quali, sempre secondo la stessa testimonianza, pare che egli abbia dichiarato che ci si deve accostare a esso, paragonando tale accostamento a una iniziazione misterica. Questo mondo-dio per Aristotele è anch’esso ingenerato e incoruttibile, cioè eterno, come il suo artefice; il che rappresenta una novità dottrinale assai notevole rispetto alla concezione del Timeo, per la quale invece il mondo ha avuto un’origine. Sul carattere ingenerato del mondo riferisce innanzitutto Filone (De aet. mundi, 3, 10-11 = fr. 17 Ross), il quale qualifica questa tesi aristotelica come «devota» e «pia», evidentemente in rapporto alla natura divina del mondo, che si esprime nella sua ingenerabilità. Egli riferisce inoltre che lo Stagirita tacciava di ateismo coloro che sostenevano il contrario, sottolineando come il mondo stesso, questo «dio visibile» e pantheon di dèi (il riferimento è agli astri), non possa pensarsi alla stregua di un qualsiasi manufatto. Un’annotazione, questa, che reca implicito il rilievo che l’azione causale dell’artefice non è di natura efficiente, come quella di ogni artigiano umano rispetto al relativo prodotto, ma di un tipo diverso, che si chiarirà essere teleologico. Donde, unitamente al ribadimento della differenza dall’azione del Demiurgo nella generazione del mondo, anche il carattere non del tutto proprio della denominazione di «artefice» data al Dioprincipio. Come solo parzialmente propria, solo cioè in quanto rivela la presenza di una mente e di un pensiero, è la qualifica di «arte» conferita alla sua azione stessa. Della dottrina aristotelica dell’ingenerabilità del mondo dà testimonianza anche Cicerone (Lucullus, 38, 119 = fr. 20 Ross), che la contrappone a quella stoica delle cicliche generazioni di esso e ne indica il fondamento nell’assurdo di pensare non-eterno il disegno di un’opera così perfetta, ma sorto soltanto in un certo momento nella mente del Dio-principio.

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Quanto poi all’indistruttibilità del mondo, Filone riferisce tre argomenti con i quali essa veniva provata. Il primo (De aet. mundi, 5, 20-24 = fr. 19 a Ross) fa leva sull’istanza che il mondo, se fosse distrutto, dovrebbe esserlo o da una potenza esterna, o da una interna. Ma entrambe le alternative sono inammissibili: la seconda, perché non vi è nulla al di fuori di esso, se non il vuoto o una natura impassibile; la prima, sia perché in tal caso una parte del mondo, quella contenente la potenza distruttiva, sarebbe più potente del tutto, e questo non può essere, sia perché ciò che può distruggersi dall’interno può distruggersi anche dall’esterno, e questo nel caso del mondo è già risultato assurdo. Il secondo argomento (De aet. mundi, 6, 28 – 7, 34 = fr. 19 b Ross) muove dalla tesi che la distruzione di un composto, quale è il mondo, costituito com’è dai quattro elementi (aria, acqua, terra e fuoco), ha luogo quando ciascuna delle parti, costretta a stare in un luogo contrario a quello a essa naturale, ritorna a questo. Ma tale situazione non pertiene al mondo, il quale, essendo ordinatamente disposto, è fatto in modo tale che ciascuno dei predetti elementi occupi il suo luogo naturale (in basso la terra, sopra l’acqua, sopra ancora l’aria, e infine il fuoco). Per cui vien meno la condizione della sua distruttibilità. Il terzo si declina come segue: l’artefice che ha fatto il mondo, potrebbe distruggerlo o per non generarne più alcuno, o per generarne un altro. Ma – anche qui – l’una e l’altra alternativa è assurda: la prima, perché, essendo il mondo sommamente ordinato, non ha senso credere che l’artefice voglia far trapassare l’ordine in disordine; inoltre manifesterebbe pentimento, che è sentimento che non gli conviene. La seconda, perché il nuovo mondo potrebbe essere o peggiore o migliore, ma entrambi i casi rivelerebbero un’inammissibile imperfezione dell’artefice, nella facitura o del secondo o del primo mon-

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do; se poi fosse del tutto uguale al precedente, si assisterebbe a un’altrettanto inammissibile inutilità dell’opera dell’artefice. Ovviamente l’indistruttibilità del mondo non significa che esso non ammette mutamento, ma unicamente che il mutamento, che gli è insito, in virtù della perfezione con cui esso è ordinato, non ne comporta l’annientamento, né che invecchi, ossia deperisca, per lo scorrere continuo del tempo, connesso al mutamento. È esattamente quanto attesta Cicerone, nel predetto fr. 20. Va sottolineato come tale mantenersi sempre nell’essere del mondo non sia dovuto all’azione del suo «artefice», il Dio-principio, come del resto è ovvio dal fatto che questo non esercita alcuna azione efficiente sul mondo stesso, ma questo si conserva da sé, in forza della sua struttura ordinata. Quanto al Dio-principio, s’è detto che la sua azione causante non è di tipo efficiente, a motivo dell’eternità del mondo medesimo. Da un passo del commento di Simplicio al De caelo (288, 28 – 289, 15 = fr. 16 Ross) si ricava che essa è una causazione finale, e che la nozione di questa divinità nel Per‰ filosof›a© collima perfettamente con quella dei motori immobili – meglio, del primo fra i motori immobili – elaborata nel dodicesimo libro della Metafisica e nell’ottavo della Fisica. Simplicio riferisce che per Aristotele tale Dio è immutabile, e di conseguenza eterno, e, con espresso riferimento al nostro scritto, fa presente che in quelle cose in cui è dato riscontrare che una è migliore dell’altra, in queste stesse cose è dato anche riscontrare che ve n’è una ottima fra tutte. E giacché dunque tra le realtà ve ne sono alcune migliori di altre, vi è allora anche una realtà che è ottima, e questa sarebbe la divinità.

Il passo, com’è facile avvedersene, configura una vera e propria dimostrazione dell’esistenza di Dio, costruita su

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un argomento che in seguito sarà chiamato e gradibus, vale a dire sui diversi e crescenti livelli di perfezione del reale e sulla necessità che vi sia un grado massimo di perfezione. Poiché la perfezione si manifesta nell’ordine, e l’ordine implica finalità, l’affermazione che Dio è l’ottimo corrisponde in tutto e per tutto a quella che è fine ultimo. Ond’è che il suo essere «artefice» del mondo, vale a dire causa di esso, si specifica in questa nozione di causa finale. Si tratta allora di vedere come viene concepita tale causazione finalistica. Sempre dal medesimo passo di Simplicio risulta che essa non comporta alcun mutamento del causante, il quale è e resta esente da mutamento. Anzi, il commentatore riferisce l’argomento con cui Aristotele ne provava l’immutabilità. Esso procede dall’alternativa che ciò che muta, muta o per causa di altro, o per causa di sé; prosegue con la duplice specificazione che, se muta a causa di altro, questo sarà (1) o migliore (2) o peggiore; se invece muta a causa di sé, muterà (3) o verso qualcosa di peggiore (4) o verso qualcosa di migliore; mostra infine che nessuna di queste condizioni s’addice al Dio-principio: (1) non che sia mutato da qualcosa di migliore, giacché non vi è nulla migliore di esso; (2) non che lo sia da qualcosa di peggiore, giacché è assurdo che il migliore subisca l’azione del peggiore, accogliendo così in se stesso alcunché di brutto; (3) non che muti se medesimo verso qualcosa di migliore, giacché nella sua condizione non manca di nessuna perfezione; (4) non infine che muti se stesso verso qualcosa di peggiore, se neppure l’uomo (che gli è inferiore per perfezione) fa volontariamente questo. Inoltre risulta che lo Stagirita abbia concepito l’unicità del Dio-principio, dimostrandola nel seguente modo: di principi o ce n’è uno solo o ce ne sono molti. E se uno solo, abbiamo quel che cerchiamo; se molti, questi saranno o ordinati o disordinati. Ma se sono disordinati, ancora più

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disordinate saranno le cose che ne derivano e non sarà kfismo© il cosmo, bensì mancanza di ordine; e ci sarà il contro natura, non essendoci il secondo natura. Se invece sono ordinati, o si ordineranno da se stessi o per una causa esteriore. Ma anche se si ordinarono da sé hanno qualcosa di comune che li connette, e questo è il principio (fr. 17 Ross).

Da tutto quanto s’è detto si evince che la divinità del mondo non contrasta con quella del Dio-principio, né che si giustappone a questa in modo da configurare due nozioni del divino slegate tra loro. Non vi contrasta perché altro è il modo in cui è divino il mondo, altro quello in cui lo è il Dio-principio (il primo è eterno, ingenerato e incorruttibile nel senso che non viene meno nel corso del mutamento, il secondo nel senso che non ammette mutamento; il primo è perfezione in quanto ordine, il secondo in quanto fine dell’ordine). Non si giustappone in quanto nel Dio-principio il mondo ha la sua causa finale. Poiché poi il Dio-principio non coincide con nessuna parte del mondo, bisogna riconoscere che gli è separato, ossia che lo trascende. Infine risulta che la nozione del divino elaborata nel Per‰ filosof›a© accentua il tratto metafisico su quello cosmologico, in linea del resto con l’intonazione religiosa che traspare da alcune testimonianze. Nell’ambito della divinità del mondo si colloca quella degli astri. Lo Stagirita li concepisce come animati e costituiti di etere, un quinto elemento oltre i quattri predetti, che s’affaccia per la prima volta all’orizzonte del pensiero aristotelico e della filosofia occidentale proprio qui nel Per‰ filosof›a©. Si tratta di una novità teorica rispetto alla cosmologia di Platone, che nel Timeo (40 a) aveva indicato nel fuoco la sostanza degli astri. Per entrambe le determinazioni suddette è fondamentale una testimonianza di Cicerone (De nat. deor., II, 15, 46 – 16, 44 = fr. 21 Ross), dalla quale risulta che nell’etere si giustifica tanto la loro animazione quanto

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la loro divinità, conseguenza dell’eminente grado della loro intelligenza, attestata a sua volta dalla regolarità che essi sempre mantengono nel movimento, di natura, per l’appunto, circolare. La loro animazione dipende dall’etere perché, a motivo della massima sottigliezza di quest’elemento, della sua perenne mobilità e della capacità di conservare la sua forza vitale, è la zona del mondo più idonea a essere abitata da viventi; per cui, se ne esistono in tutte le altre, è logico che ve ne siano anche in essa. Cicerone per la verità nomina la terra, l’acqua e l’aria, tralasciando il fuoco come luogo di presenza di viventi, ma da un passo della Historia animalium (V, 19, 552 b 10 =fr. 22 b Ross) risulta che lo Stagirita ne riconosceva l’esistenza anche in esso. E vi dipende l’intelligenza, perché essa è tanto più acuta quanto più è sottile l’aria che si respira, e l’etere è il corpo più sottile. Inoltre, anche «la qualità dei cibi influisce sull’acutezza della mente», e gli astri, abitando «nella regione eterea, ove si nutrono dei vapori della terra e del mare, purificati nel lungo viaggio per arrivare fino al cielo», sono forniti dell’intelligenza più viva. Poiché l’etere si muove di moto circolare (Nemesio, De nat. hom., 69, 16-21 = fr. 21 Ross), e gli astri si trovano nell’etere e si muovono anch’essi di questo moto, tutto lascerebbe supporre che l’etere sia la causa di siffatto movimento degli astri. Ed è infatti questa la posizione che Aristotele sostiene nel De caelo (I, 2-3). Ma nel Per‰ filosof›a© non è così, e lo Stagirita afferma che causa di questo tipo di movimento (si badi, non del fatto che gli astri si muovono, ma della circolarità del loro moto) è la volontà, ossia l’anima degli astri stessi: si tratta perciò di un movimento non per natura, bensì volontario. La ragione che viene addotta nella citata testimonianza di Cicerone è che il moto circolare, a motivo della sua regolarità presuppone una causa intelligente, e questa non può essere la natura, ossia l’etere, che è un corpo, ma l’anima.

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Quanto poi alla causa del moto astrale, benché nessun frammento lo attesti esplicitamente, è tuttavia plausibile ritenere che sia l’azione finalistica del Dio-principio. In tal caso, com’è stato opportunamente fatto rilevare, l’azione del fine determina la volontà degli astri in modo tale che essi scelgano como loro movimento quello che maggiormente s’avvicina all’immobilità del Dio-principio (Berti). Quello per l’appunto circolare. Da alcune testimonianze risulta poi che nel terzo libro del Per‰ filosof›a© Aristotele abbia trattato anche dell’anima. In una serie di passi, raccolti come fr. 27 (Ross), Cicerone riferisce che Aristotele, avendo visto che le facoltà psichiche non possono pensarsi insite in nessuno dei quattro elementi, ritenne che l’anima fosse costituita di una quinta natura, priva di nome, per cui chiamò l’anima stessa ândel¤ceia, per significare il carattere perenne e continuo del suo essere in movimento. Di tale, anonima quinta natura sarebbero costituite le anime sia degli uomini che degli astri. Con questa dottrina lo Stagirita intendeva probabilmente far valere l’alterità dell’anima dal corporeo, ossia la sua spiritualità, in linea del resto con le posizioni dell’Eudemo. Ma il fatto che come quinta natura egli abbia altrove indicato l’etere, ha ingenerato il sospetto che la sostanza stessa dell’anima – di ogni anima, sia umana che astrale – fosse quest’elemento. E poiché esso è di natura materiale (si tratta infatti di un corpo), è sorta la grande questione di come conciliare – se mai sia conciliabile – la spiritualità dell’anima, con la materialità dell’etere. Una possibile soluzione (proposta da Reinhardt e accettata anche da Berti) è che questa dottrina riferita da Cicerone non sia genuinamente aristotelica. In particolare, essa pare contaminata dalla teoria stoica che l’anima è fuoco, nel quale i filosofi del Portico risolvevano l’etere. In tal modo Cicerone avrebbe mescolato assieme due cespiti dottrinali differenti.

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Ben più sicura risulta invece una testimonianza di Psello (Schol. ad Joh. Climachum, 6, 171 = fr. 15 Ross), ascritta al Per‰ filosof›a©, nella quale si attesta che l’immortalità dell’anima viene attinta o con una prova «didattica», ossia con un’argomentazione esposta e dunque udita (il riferimento è con ogni probabilità alle lezioni tenute nell’Accademia, durante le quali gli allievi udivano l’argomento che il maestro esponeva loro in forma sistematica, perché meglio e più facilmente potessero apprenderlo, ossia didatticamente), o con una prova «iniziatica», vale a dire tramite l’illuminazione cui perviene l’iniziato ai misteri. Ma se anche così ci si persuade che l’anima è immortale, questa persuasione non corriponde affatto a un apprendimento, giacché proprio degli iniziati è non l’apprendere (maqeÖn), bensì il patire (paqeÖn) (fr. 15 Ross).

7 Con la maggior parte degli editori (Heitz, Rose 1868, Bywater 1877, Untersteiner) mi discosto dalla lezione dei manoscritti (et de caeli generatione et corruptione), condivisa da Ross, e leggo de caelo generatione et corruptione. La ragione è evidente: l’accordo con i titoli delle opere aristoteliche. Come fa rilevare Untersteiner 1963, p. 71, riprendendo un’annotazione di Filopono (In Arist. de gen. et corr., pp. 1-2), da qui si può evincere come la Fisica, il De caelo, il De generatione et corruptione e le Meteore costituiscano un blocco unitario. 8 Il titolo non è esatto giacché per Aristotele il mondo è unico. Vi è, perciò, chi corregge in De mundo, altri invece ritengono che si tratti

TESTIMONIANZE

PHILOD., De piet., 7b, 4-8: in Aristotele, nel terzo libro del Sulla filosofia. PRISC. LYD., Salut., 41, 16 – 42, 3: sono state desunte e messe insieme dal Timeo platonico [...] e dalle trattazioni di Aristotele sulla Fisica, Sul cielo, Sulla generazione e sulla corruzione7 e Sulle meteore; e parimenti sia anche da quelle che vertono Sul sonno e Sui sogni, sia da quelle Sulla filosofia e Sui mondi,8 le quali furono scritte quasi in forma di dialogo. SIMPL., In Arist. De caelo, p. 288, 31 – 289, 2 cfr. supra, Testimonianze, n. 26, pp. 61 e 63. ASCL., In Arist. Metaph., p, 112, 16-19: in realtà, di questi principi9 – egli [scil. Aristotele] dice – abbiamo parlato anche in precedenza, nella Fisica;10 inoltre, annuncia di parlare nuovamente di essi nel libro alpha piccolo,11 e di esporre le difficoltà intorno a essi e risolverle nello scritto Sulla filosofia.

dello scritto per‰ kfismou gen¤sew© di cui vi è notizia al n. 185 del catalogo di Esichio. 9 Si tratta dei quattro generi di causa. 10 Cfr. Phys., II, 3. 11 Della Metafisica.

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12 Intendo ka› in funzione esplicativa, sul presupposto che per Socrate ricercare è sollevare difficoltà, problematizzando ciò che si crede di sapere, ma in realtà non si conosce. Significative a questo riguardo le figure delle statue di Dedalo e della torpedine con le quali Platone, nell’Apologia di Socrate e nel Menone, ha magistralmente espresso lo stordimento che il Maestro ateniese procurava agli interlocutori con il suo modo incessante di porre domande. In esso prendeva concreta forma il suo modo di ricercare, che è dunque un tutto problematizzare. 13 Hetz (1869, p. 32 [fr. 6]) ha revocato in dubbio l’assegnazione di questo frammento al Sulla filosofia, ipotizzandone l’attribuzione al Sul bene, sul presupposto che a questo scritto alludono «quae a Plutarco vocantur Platwnik¿». Ma, come ha ben spiegato Jaeger (1964, pp. 170-171), dicendo ân toÖ© PlatonikoÖ© Plutarco fa riferimento non già al contenuto, bensì alla forma della scritto aristotelico, il quale, essendo un dialogo, assume pertanto la forma delle opere di Platone. L’espressione indica, insomma, «nei dialoghi platonici di Aristotele». In questo senso si sono espressi anche Deman (1942, p. 45) e Ross (1967, p. 78, nota 2). Bignone (1973, II, p. 104 e p. 528) ritiene che con quest’espressione Plutarco abbia «fatto di Aristotele un platonico» e Gigon (1959/a, pp. 45-46) che essa denoti soltanto «rappresentazione o discussione delle dottrine di Platone». Dal canto suo Untersteiner (1963, p. 75) ricorda che Aristotele fece epitomi delle Leggi e della Repubblica (D. L., V, 22 = Düring 1957, p. 42) e che Düring stesso (Ivi, p. 68) le identifica con i Platwnik¿.

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FRAMMENTI

1 (R2 4, R3 1, W 1) PLUTARCO, Moralia (Adv. Colotem), 1118 c: e tra le iscrizioni di Delfi la più divina sembrava il «conosci te stesso», che in realtà fornì anche a Socrate l’avvio al sollevare difficoltà, ossia12 alla ricerca, come ha detto Aristotele nelle sue opere platoniche.13 2 (R2 3, R3 2, W 2) DIOG. LAERT., II, 5, 23 (7): e Aristotele afferma che andò a Pito; ma anche all’Istmo, come dice Favorino nel primo libro delle Memorie.14 3 (R2 5, R3 3, W 3) PORPH. presso Stob., III, 21, 26: che cosa mai era, e di chi il precetto divino, a Pito,15 il quale a coloro che hanno bisogno del Dio comanda: «conosci te stesso»? [...] Ma sia che fosse Femonoe16 [...], sia Fanotea17 [...], sia che fosse un dono votivo di Biante o di Talete o di Chilone,18 [...] sia che debba attribuirsi piuttosto a Clearco,19 il qua14 Si tratta di uno scritto in cinque libri che dà notizie sui filosofi del VI-IV sec. a.C., per lo più aneddotiche e senza un ordine cronologico (cfr. W. Schmid, in PW. VI, 2081-2082). Cfr. anche la nota 24 di p. 527. 15 Ossia a Delfi. 16 La tradizione la presenta come figlia di Apollo o di Delphos, la quale, essendo Pizia a Delfi, per cantare in onore del dio avrebbe inventato l’esametro (cfr. Voigt, in PW., XIX, 2, 1957; Hopfner, in PW. s.v. Traumdeuterung, VI, A, 2, 2236-2237). 17 Fu moglie di Icaro e, assieme a Themis, venne indicata anche lei come inventrice dell’esametro (cfr. Clem., Strom., I, 16, 80; Herter, in PW., XIX, 2, 1788). 18 Biante di Priene (città ionica situata lungo la costa orientale della Caria), vissuto nel VI sec. a.C., Talete di Mileto, anch’egli vissuto, probabilmente, nella prima metà del VI sec. a.C. e Chilone di Sparta, fanno parte, assieme a Pittaco di Mitilene, Solone, Cleobulo di Lindo e Misone di Chene, dei Sette Sapienti (Cfr. Platone, Protagora, 343 a = D. K. 10 A 2), a proposito dei quali cfr. Reale 2004, II, pp. 27-31. 19 Discepolo di Aristotele, nativo di Soli, nell’isola di Cirpo, fu autore

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di una raccolta di proverbi (Weherli 1967, III, frr. 63-83) nella quale, pur proseguendo in un genere avviato dal Maestro (che scrisse un libro di Proverbi, indicato al n. 26 del catalogo di Diogene Laerzio), viene però soprattutto accentuato l’aspetto stupefacente e divertente del detto, in unione a una voluta informazione di notizie eziologiche e storiche (Wehrli 1967, III, p. 68). Sul personaggio cfr. Reale 2004, IV, pp. 324 s. 20 Ossia il secondo (cfr. la nota successiva). 21 Ossia il terzo. Aristotele sembra qui seguire la versione di Pausania secondo cui i templi furono quattro. Dopo il primo, costruito con rami d’alloro portati dalla valle di Tempe (cfr. Paus., X, 5, 9), il secondo – racconta Plutarco (De Pyth. Or., 17, 402 d), richiamando un antico verso – era costruito di ali d’api unite con la cera (cfr. anche Pind., Pyth., IV, 106, dove la Pizia è chiamata «ape»). Il terzo era di bronzo (Paus., X, 5, 11) e il quarto, quello di cui qui si dice, sul quale era iscritto il comando del dio, di pietra. Lo costruirono Trifonio e Agamede (Paus., X, 5, 13). Strabone (IX, 421) parla invece di due templi soltanto: quello d’ali e quello edificato dai due personaggi or ora detti. 22 Dunque, Aristotele sostiene l’antichità dell’iscrizione delfica, che dice scolpita nella pietra del quarto tempio e pertanto anteriore alla stessa possibilità, ipotizzata da Clearco, che il detto sia stato rivelato a Chilone. Il motivo che lo porta ad aderire a tale credenza appare chiaro ove, connettendo questo frammento con il fr. 1, come hanno opportunamente indicato Rose (1863, p. 36), Jaeger (1964, pp. 170 s.), Weil (1960, pp. 161 s.) e Untersteiner (1963, p. 79), sia pure per esegesi differenti, se ne scorga il legame con l’assunto, lì espresso, secondo cui il comando del dio fornì a Socrate l’avvio alla ricerca filosofica: una simile

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le afferma che il comando era del Dio pitico e che fu vaticinato a Chilone, che gli chiedeva ciò che per gli uomini è la cosa migliore da imparare, sia che, anche prima di Chilone, fosse già inscritto nel tempio che fu costruito dopo quello alato20 e quello di bronzo,21 come ha detto Aristotele nello scritto Sulla filosofia...22 CLEM. AL., Strom., I, XIV, 60, 3: alcuni hanno supposto che «conosci te stesso» fosse di Chilone, Camaleone23 nel primo libro Sugli dèi che fosse di Talete,Aristotele della Pizia. 4 (R2 6, R3 4, W 4) CLEM. AL., Strom., I, XIV, 61, 1: di nuovo, poi, riferiscono allo spartano Chilone il detto «nulla di troppo».24 Invece Stratone,25 [...] e Didimo26 [...]. Cleomene27 nell’opera su Esiodo il detto «presta malleveria e ricerca – vuole per l’appunto far valere lo Stagirita – è antica e palesa per ciò stesso il suo solido radicamento e il suo valore, che attraversa i secoli. Diversamente intende, invece, Jaeger (Ivi), ripreso da Untersteiner (Ivi), che lo cita: Aristotele affermerebbe la «dottrina dell’infinito ripetersi di tutte le opinioni filosofiche nel corso della storia». 23 Nativo di Eraclea pontica e membro del Peripato al tempo della reggenza di Teofrasto, di cui probabilmente era pressoché coetaneo, fu autore di opere filosofiche, delle quali si ricordano quattro titoli: Protrettico, Sull’ubriachezza, Sul piacere, Sugli dèi, e di scritti sul dramma satiresco, sulla commedia e su antichi poeti, citati da Ateneo. Notizie più dettagliate su questo filosofo possono vedersi in Wendling, in PW., III, 2104, 39 ss. 24 Fr. 147 Wehrli (1967, VII, p. 113). 25 Nativo di Lampsaco, fu membro del Peripato e successore di Teofrasto nello scolarcato al tempo della 123a Olimpiade (ossia nel 288/284 a.C.; cfr. Diog. Laer., V, 58). In precedenza visse in Egitto, ad Alessandria, dove fu precettore di Tolomeo (su di lui si veda Reale 2004, IV, pp. 326-330). Dei suoi scritti, concernenti principalmente la psicologia, dà notizia Diog. Laer., V, 59 s.; quello cui si fa riferimento nel passo che Ross omette e nel quale si dice che riferiva il detto a Sodano di Tegea (fr. 147 Wehrli 1967, V), è il Sulle scoperte. 26 Notizie su costui possono vedersi in Cohn, in PW., V, 467-468. Nel passo omesso, con riferimento, probabilmente, alla sua opera Sui proverbi, si dice che attribuiva il detto a Solone, uno dei Sette Sapienti. 27 Su Cleomene studioso di Esiodo cfr. Iacoby 1930, p. 135.

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28 Il significato del detto è ben spiegato da Untersteiner (1963, pp. 80 s.): «in un regime, nel quale la prigione non era applicata come oggi, un uomo libero, passibile di una sanzione in denaro, doveva cercare fra gli amici un uomo disposto a farsi suo garante, in attesa che egli avesse potuto liberarsi del debito. Ma dando cauzione a un colpevole, ci si esponeva a soddisfare, al suo posto, le esigenze della giustizia; dunque, a subire le medesime sanzioni destinate a lui, nel caso in cui l’impegno non fosse stato adempiuto». 29 Così chiamandoli, Aristotele faceva probabilmente riferimento, se addirittura non l’assumeva in proprio, al modo con cui i Sofisti si rapportavano ai Sette Sapienti, che elogiavano (cfr. Platone, Ippia Maggiore, 281 e 282 a) e con i quali, per così dire, volevano assimilarsi e comunque in qualche modo associarsi, al fine di applicare anche a sé quella fama e quella denominazione di «sapienti (sofo›)» di cui la tradizione li ammantava. Una denominazione, questa di sapienti, che sembra potersi far risalire a Erodoto, dal momento che (I, 29) annovera espressamente Solone tra i «sapienti» e che si ritrova identica anche in Giambl., V. P., 83 e in Plut., De el., 385e. È verosimile che alla radice dell’intendimento dei Sofisti di assimilarsi ai Sette Sapienti stesse il fatto che tale nomea fu data loro anche in virtù del fatto che quasi tutti furono legislatori ed esercitarono un’importante attività politica, ponendo le loro conoscenze al servizio di questa, e proprio al successo nella vita politica, in senso complessivo, ossia nei tribunali e nelle pubbliche assemblee, mirava fondamentalmente l’insegnamento dei Sofisti. 30 È probabile che Aristotele, marcando nella dottrina dei Magi la

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la disgrazia è addosso»,28 [...] mentre i discepoli di Aristotele lo nominano come di Chilone; Didimo sostiene invece che l’esortazione è di Talete. 5 (R2 7, R3 5, W 5) Etym. Magn., p. 722, 16-17 Sylburg, s.v. sofista: propriamente è colui che è sapiente; Aristotele chiama sofisti i sette sapienti.29 6 (R2 8, R3 6, W 6) DIOG. LAERT., I, 8: Aristotele nel primo libro dell’opera Sulla filosofia afferma che sono più antichi degli Egizi; e che per loro vi erano due principi: il demone buono e il demone cattivo, e che il primo ha nome Zeus e Oromasde, il secondo Ade e Arimane.30 separazione tra il principio buono e il principio cattivo, accentui in senso dualistico, ossia in chiave platonica, una dottrina riconducibile a quella che, stando a Plutarco, De Iside, 45-47, fu del mazdeismo ortodosso, secondo cui lo spirito del male è diverso dallo spirito del bene, ma alla quale lo stesso Plutarco contrappone la dottrina di altri Magi, secondo cui il bene e il male sono entrambi dèi e perciò, in questo, identici. Vi è comunque da far presente come nel Sulla filosofia Aristotele sembri allargare quella visione storica sull’origine della sapienza che nel primo libro della Metafisica, pur redatto pressoché nel medesimo periodo, nonostante il riferimento ai sacerdoti egiziani è invece fondamentalmente circoscritto all’ambito greco. In questo lo Stagirita pare allinearsi alle tendenze orientalizzanti presenti nell’Accademia già al tempo del provvisorio scolarcato di Eudosso, per l’assenza di Platone, impegnato alla corte siracusana di Dionigi, a testimonianza delle quali può richiamarsi il fatto che Filippo d’Opunte, in appendice alle Leggi (986 e; 987 b; 987 d – 988 a), indichi nella teologia astrale la suprema sophia e che «la cattiva anima del mondo [...] che nelle Leggi si presenta come oppositrice dell’anima buona, costituisce un tributo a Zaratustra» (Untersteiner 1963, p. 83). Circostanze alle quali corrisponde, ab altera parte, quella di cui si dà notizia nei Prolegomeni della filosofia di Platone, 6, 20-22 (p. 15 Westerink), richiamata anche da Boyancé 1937, p. 253, nota 6: «tramite Platone, i Magi vennero ad Atene, attratti dall’idea di aver parte della sua filosofia». Ancora con Untersteiner (Ivi, p. 81 s.) va osservato che la dottrina qui esposta corrisponde a quella accolta da Eudemo da Rodi, citato da Diogene Laer-

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zio nel passo (I, 9) immediatamente successivo a quello dal quale è tratto il presente frammento a proposito della dottrina magica della resurrezione dei morti e dell’immortalità dell’anima (cfr. fr. 150 Wehrli 1967, VIII, pp. 70, 27-32). 31 Il frammento è servito a Jaeger (1963, pp. 177-179) per proporre la datazione del Sulla filosofia subito dopo la morte di Platone. Egli, riconosciuto che Plinio non attinse direttamente la notizia né da Eudosso né da Aristotele, ma da Ermippo, fa presente come la datazione della nascita di Zoroastro seimila anni prima di Platone sia, da un lato, difficilmente ascrivibile alla Descrizione della terra di Eudosso, morto molto prima di Platone, ma, per converso, molto compatibile con l’intendimento di Aristotele di esaltare il Maestro, con il paragone con Zoroastro, in segno di una profonda venerazione verso di lui che ben s’addice post mortem. Con ciò lo studioso corroborava la sua tesi che nel Sulla filosofia Aristotele condivideva il dualismo di Platone, quel dualismo che si incontrava in Zoroastro e del quale, mercé il suddetto paragone, intendeva celebrare il ritorno nelle dottrine platoniche. Ma proprio questa tesi, per affermare la quale Jaeger sembra soprattutto indotto a proporre la datazione suddetta, è stata da più parti respinta, essendo stato mostrato, contro di essa, come difficilmente si possa riconoscere nel Sulla filosofia un’adesione di Aristotele alla platonica dottrina delle idee (sul punto cfr. Introduzione, p. 558). Ciò non significa, ad avviso di chi scrive, che debba rifiutarsi anche la data di composizione dell’opera proposta dallo studioso, essendo essa, a ben vedere, non soltanto per niente affatto decisiva in ordine all’ammissione o meno di una posizione dualistica da parte di Aristotele, ma totalmente consona con un’esegesi dello scritto intesa a mostrare l’assunzione da parte dello Stagirita di posizioni critiche nei confronti delle teorie del maestro. 32 In effetti, come attesta Diodoro, II, 31, per i Caldei gli «astri avevano il più grande influsso sulla nascita dell’uomo, per ciò che riguarda l’essere la sua vita felice o infelice [...] S’interrogavano i pianeti alle nascite».

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PLINIO, Nat., Hist., 30, 3: Eudosso, il quale volle che, tra le scuole della sapienza, quella dei Magi fosse intesa come la più famosa e la più utile, tramandò che questo Zoroastro visse sei mila anni prima della morte di Platone. Così dice anche Aristotele.31 PLUT., Mor. (De Is. et Osir.), 48, p. 370, c: ad avviso dei Caldei, tra i pianeti, che essi chiamano dèi della nascita,32 due sono facitori di bene e due facitori di male, mentre ne rappresentano tre come intermedi e partecipi di entrambe le nature33 [...] Aristotele parla invece di forma e di privazione.34 33 Circa il numero dei pianeti, i Caldei, ossia gli Assiri e i Babilonesi, non professavano una dottrina definita, ma talora ne ammettevano cinque (cfr. Diodoro, II, 30, 7), talora sette, «dottrina quest’ultima più diffusa, tenuto conto dell’importanza del numero 7» (Untersteiner 1963, p. 90). 34 Mentre i Caldei – così sembra di dover intendere la testimonianza di Plutarco – ammettono tre pianeti di cui ciascuno, potendo influenzare sia in senso buono che in senso cattivo la vita dei nascituri, ha una duplice natura, per Aristotele questo non è possibile ma, ricorrendo alla dottrina della forma e della privazione come uno dei quattro modi in cui una cosa può opporsi a un’altra (cfr. Cat., 10, 11 b 1719), assimila la determinazione buona alla presenza della forma e quella cattiva alla sua privazione. E poiché la privazione è privazione della forma e questa, ove si dà, ne esclude eo ipso la privazione, ecco dunque che l’essere un pianeta principio di bene e di male per un essere umano può essere letto non già come avente quel pianeta due nature, ma come avente una natura la quale, a seconda che sia buona o cattiva, ossia tale da influenzare positivamente o negativamente la vita di un uomo, se lo influenza, ossia se gli è presente come sua connotazione formale, ne determina l’esistenza in modo buono o cattivo, se invece non lo influenza, ossia se non entra a far parte della sfera delle sue connotazioni formali, lo influenza in maniera opposta. Pertanto, l’influenza che l’astro esercita in senso positivo o negativo sulla vita di un uomo può ben spiegarsi, rispettivamente, come caratterizzazione formale di costui da parte dell’astro medesimo o come privazione di tale caratterizzazione. Altrimenti detto: l’influenza che l’astro esercita sulla vita di un uomo al momento della nascita costituisce, in ordine alla caratterizzazione della sua vita, una determinazione formale, ossia una forma. Per cui, a seconda che la sua vita possieda tale forma,

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vale a dire siffatta caratterizzazione, o ne sia priva, si orienta in un senso o in quello opposto. Viene così applicato al caso dell’astro ciò che lo Stagirita in Phys., 190 b 23-27 dice a proposito del sostrato, e cioè che esso è «(a) uno per numero, ma (b) due per la forma», ossia: (b/1) materia (tale la sua determinazione formale) e, di conseguenza, (b/2) negazione della forma (tale essendo la materia). 35 Ossia di Orfeo. 36 Poeta vissuto al tempo dei Pisistrati, ai quali si unì quando andarono in esilio (cfr. Erodoto, VII, 6). In realtà sembra che egli stesso fu condannato all’esilio per avere scritto versi con il nome di Epimenide di Creta ed essere stato scoperto da Laso d’Ermione (cfr. Jaeger 1982, p. 50). 37 L’interesse di Aristotele per Orfeo – come anche Berti (1962, p. 331) ha segnalato – s’allinea a quello per i Magi (cfr. i passi raccolti sotto il fr. 6) ed entrambi si spiegano alla luce di una ricerca delle prime e più illustri espressioni della sapienza (sof›a). Il confronto della testimonianza plutarchea con quella ciceroniana ha sollevato non poche difficoltà esegetiche, alcune delle quali – o, per meglio dire, alcuni dei cui aspetti – forse possono ascriversi a un’eccessiva acribia degl’interpreti. Nella sostanza, i punti nodali si riconducono a due: posto che da entrambe le testimonianze si evince che lo Stagirita non mette in discussione la dottrina orfica, ma la figura di Orfeo o – per meglio dire – la dottrina orfica e il poema che l’espone in rapporto a Orfeo quale suo enunciatore, (1) una prima questione è se Aristotele abbia ammesso l’esistenza di Orfeo, ma negato che sia l’autore del poema, oppure se abbia negato l’esistenza stessa di Orfeo; (2) inoltre – e tocchiamo così un secondo nodo problematico – se nell’individuare in altri soggetti, diversi peraltro tra loro, gli autori del poema, le due testimonianze riferiscano il pensiero di Aristotele, e in tal caso come spiegare tale macroscopica discrepanza, o esprimano un pensiero della fonte. Ora, poiché esula dalle finalità di queste note l’intendimento di usare il testo di Aristotele come occasione per una storia della storiografia aristotelica e limitandoci di conseguenza ai soli riferimenti necessari per

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7 (R2 9, R3 7, W 7) PHILOP., In Aristotelis De Anima, p. 186, 21-26: dice «cosiddetti» perché non gli sembra che i versi siano di Orfeo, come egli stesso afferma nello scritto Sulla filosofia. In effetti, le dottrine sono di costui,35 ma si dice che Onomacrito36 le mise in versi. CIC., De nat. deor., I, 38, 107: Aristotele insegna che il poeta Orfeo non esistette mai, e i Pitagorici tramandano che questo poema orfico fu di un certo Cercope.37 l’esegesi dei due frammenti, (1) quanto alla prima questione pare di poter dire che un’attenta analisi del testo ciceroniano non dovrebbe consentire di concludere che, secondo questa fonte, lo Stagirita negò l’esistenza storica di Orfeo, contraddicendo in tal modo la testimonianza di Filopono secondo cui egli negò soltanto che i versi orfici furono scritti da Orfeo, ma ciò che essa dice «non essere mai esistito» è «il poeta Orfeo», ossia Orfeo come autore dei versi orfici (cfr. Rose 1963, p. 38: «Aristoteles [...] non Orpheum negavit, sed Orpheum poetam»). Essa nega, cioè, la paternità di Orfeo di tali versi, collimando così, sul punto, con la testimonianza di Filopono. In tal senso non serve ipotizzare, com’è stato fatto, che Cicerone interpretò male il pensiero dello Stagirita. (2) Quanto alla seconda questione, nonostante il parere contrario di Untersteiner (1963, p. 118), mi sembra pienamente condivisibile il rilievo di coloro, come Zeller (1921, I, 2, p. 64, nota 1) e Kroll (in PW, s.v. Kercops, XI, 314), che, sia pur a diverso titolo e in prospettive esegetiche differenti, concordano nel ritenere che la stessa diversità delle indicazioni (Onomacrito, Cercope) rivela che nessuna di esse era in Aristotele, ma che entrambe corrispondono ad aggiunte della fonte. A sostegno di quest’interpretazione depone il fatto che tanto Filopono quanto Cicerone non l’attribuiscono allo Stagirita, ma a una tradizione: l’Arpinate dice, infatti, che «i Pitagorici tramandano (Pythagorei ferunt)» che il poema fu di un certo Cercope e, quanto al passo di Filopono, va condivisa e avvalorata la decisione della stragrande maggioranza degli editori e degli studiosi (tra cui Hayduck, Kern, DielsKranz, Ross, Guthrie 1935, p. 59) di optare per la lezione fasi (si dice) dei manoscritti, di contro alla proposta di Trincavellus [Venezia 1535] di correggere in fhsi (dice), così da attribuire la notizia ad Aristotele. Ora, solo interpretando questa tradizione come indirettamente risalente ad Aristotele, e dunque attraverso una serie di passaggi lungo i quali è difficile credere che essa non sia andata, parzialmente se non addirittura interamente, distorta, si può attribuire la notizia allo Stagirita. Ma proprio quest’ipotesi che la tradizione attinga ad Aristotele

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non solo non è provata né alcun elemento sembra provare, ma è pura congettura. Occorre invece registrare l’opinione di Kroll (Ivi), condivisa tra gli altri anche da Eisler (1910, p. 709, nota 4), secondo cui Cicerone derivò il nome di Cercope da Epigene, un Alessandrino autore di un’opera nella quale spiegava le poesie orfiche e ne indicava l’autore (in proposito cfr. Cohn, s.v. Epigenes, in PW., VI, 65). 38 Si tratta di manifestazioni sapienziali – detti, proverbi, sentenze lapidarie e così via – nelle quali lo Stagirita rintraccia altrettante espressioni di un primo modo di filosofare. È interessante notare come qui, identicamente che nel libro primo della Metafisica, appartenente al medesimo arco cronologico, la filosofia sia implicitamente fatta coincidere con la sapienza. In effetti, in Metaph., I Aristotele non nomina direttamente la filosofia e, in particolare, la filosofia prima, ma tratta ex professo della sapienza (sof›a); eppure non c’è dubbio che parlando di questa egli alluda alla filosofia prima, identificata come ricerca delle cause e dei principi primi (in proposito cfr. Reale 1963, p. 85). Parimenti, ma in modo opposto, in questo frammento è direttamente nominata l’«antica filosofia», ma non v’è dubbio che si tratti di quella sapienza di cui lo Stagirita va alla ricerca delle prime espressioni, rintracciate, come abbiamo visto, nei Magi e in Orfeo (cfr. frr. 6 e 7). Troviamo allora una conferma del fatto che Aristotele intende la sapienza come filosofia, ovvero dell’identità di entrambe, attestandosi in tal modo un assunto dottrinale che, formatosi al tempo della redazione del primo trattato della Metafisica e del Sulla filosofia, si manterrà saldo anche quando lo Stagirita avrà accresciuto la sua concezione della filosofia prima mercé l’acquisizione di altre dottrine, come uno dei significati in cui la stessa filosofia prima si dice, complementare con altri significati e altre valenze di essa. In particolare, quest’identità di filosofia (prima) e sapienza di cui qui abbiamo una singolare attestazione, unitamente alla conferma della sua origine antica, si mantiene salda anche quando lo Stagirita, in Eth. nic., VII, 3, trattando degli stati di eccellenza della parte razionale dell’anima, individua uno degli abiti della parte teoretica di essa esattamente nella sapienza. La quale, poiché lo Stagirita dichiara consistere nella scienza,

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8 (R2 2, R3 13, W 8) SYNES., Calvit. Enc., 22, p. 85 c [...] se anche il proverbio è cosa sapiente. E come non sono cosa sapiente quelle 38 delle quali Aristotele dice che sono tracce di un’antica filosofia39 andata persa nelle grandissime disgrazie degli uomini,40 tracce che si sono salvate grazie alla loro concisione e alla loro acutezza. PHILOP., In Nicom. Isag., 1, 1: ebbene, fu chiamata sapienza come se fosse un sorta di chiarezza, sul presupposto che rende chiara ogni cosa.41 E questo chiarore è ossia nel sapere causale, coronata dalla conoscenza dei sommi principi, che è l’opera propria dell’intelletto, appare per ciò stesso coincidere con la stessa filosofia in un momento assai avanzato e maturo della relativa concezione. Con questa, dunque, la primigenia teoria dell’identità di filosofia e sapienza, qui testimoniata, s’accorda, scandendo uno dei modi in cui Aristotele la concepisce. 39 Merita d’essere sottolineato come in questo «tracce di un’antica filosofia» assuma concreta espressione e specifico risalto l’idea di Aristotele che le prime manifestazioni sapienziali (cfr. l’inizio della nota precedente) rappresentano le forme primigenie della filosofia. È agevole scorgere come proprio quest’idea giochi al fondo dell’identità di filosofia e sapienza (su cui rinviamo ancora alla nota precedente), testimoniandosi con ciò stesso che una tale concezione della filosofia trae origine dalla riflessione di Aristotele sulla storia della sapienza e sul ritrovamento nelle sue prime espressioni di certi caratteri che ne attestano la natura filosofica. Ovviamente, la presenza di tali caratteri in quelle espressioni sapienziali è frutto dell’interpretazione dello Stagirita, che anche in questo manifesta di rivolgersi alla storia in atteggiamento e con interesse teoretico, al fine cioè di trarne un insegnamento e non con lo scopo di accertare dei fatti di pensiero. 40 Sulle sciagure che a intervalli regolari affliggono l’umanità si era già espresso Platone in Crizia, 109 d-110 a; Timeo, 22 c s..; Leggi, III, 677 a. Opportunamente Untersteiner (1963, p. 120) fa rilevare la differenza tra questa concezione e quella stoica della «conflagrazione universale», giacché quest’ultima comporta una distruzione totale e completa, mentre le distruzioni di cui parlano Platone e Aristotele (sulla relativa dottrina si veda Weil 1960, pp. 328 ss.) sono distruzioni parziali e temporanee, come risulta da questo stesso passaggio di Sinesio. 41 Cfr. anche il fr. 9 Ross del Protrettico, dove Aristotele ricorre alla luce per mostrare il valore della filosofia e della frfinhsi©. Bignone (1973, II, p. 548) fa rilevare che l’uso delle etimologie «è proprio del pri-

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mo Aristotele». Tralasciando in questa sede la questione del «primo Aristotele», mette conto, invece, rilevare, con Untersteiner (1963, p. 123), come questa prerogativa concorra, assieme ad altre, a provare l’appartenenza del frammento al Sulla filosofia, come del resto informa Filopono. Un’appartenenza che era stata negata da Rose 1886 e da Jaeger 1973 (p. 179, nota 2), per il quale si sarebbe in presenza di elementi dottrinali propri dello stoicismo e in particolare di Posidonio. Sennonché, come gli stessi Bignone e Untersteiner hanno osservato, anche Posidonio professava la teoria di una totale distruzione ciclica del mondo (cfr. Diog. Laert., VII, 142; Aet., II, 9, 3, p. 338, 18 Diels), mentre in questo frammento si parla di una distruzione parziale dell’umanità e delle arti, che poi a poco a poco vengono ritrovate. Trattasi di un’incongruenza che non soltanto non si sana, ma, al contrario, si acuisce nell’ipotesi (formulata da Bywater 1877, p. 65 ss.) che Posidonio abbia parafrasato il De philosophia di Aristocle di Messene e che questi dipenda da Aristotele, sia pur attraverso una fonte intermedia (Ivi, p. 74). 42 Si noti lo splendido gioco tra t f¿o© (luminosità), fá© (luce) e fa¤© ti (alcunché di luminoso). 43 Si noti, al tempo stesso, la pregnanza dell’espressione «caligine

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stato così chiamato in quanto, a causa della luminosità e della luce, è alcunché di luminoso,42 per il fatto di portare alla luce le cose che sono nascoste. Poiché, dunque, come dice Aristotele, le cose intelligibili e divine, anche se secondo la loro essenza sono le più manifeste, ci sembrano buie e oscure a causa della caligine del corpo che sta addosso,43 hanno logicamente denominato sapienza la conoscenza che ce le porta alla luce. E poiché parliamo di sapienza e di sapiente in senso generale, bisogna sapere che il nome di sapienza e di sapiente è omonimo. Infatti sono stati assunti dagli Antichi in cinque modi, che anche Aristocle enuncia nei dieci libri dello scritto Sulla filosofia. Ché, è necessario sapere che gli uomini periscono in modo differente: ed effettivamente, per opera di pestilenze, di carestie, di terremoti, di guerre, di malattie d’ogni genere, e di altre cause, ma soprattutto per opera di cataclismi troppo forti, quale si dice che fosse quello verificatosi al tempo di Deucalione: grande, sì, ma senza aver prevalso su ogni cosa.44 Infatti, i pastori e quanti hanno sulle montagne o alle falde dei monti le loro occupazioni, si salvano, mentre le pianure e coloro che abitano in esse sono travolti dai cataclismi. In realtà, dicono che in questo modo Dardano fu salvato dal cataclisma, nuotando da Samotracia a quella che in seguito fu chiamata Troia. Per paura coloro che furono salvati dall’acqua abitarono le falde dei monti, come manifesta anche il poeta, dicendo così: del corpo (t„n toÜ sÒmato© àcl‡n)» e l’enallage: è il corpo che ci sta addosso, ma Filopono trasferisce questa determinazione alla caligine (la caligine che ci sta addosso del corpo [t„n âpikeim¤nhn toÜ sÒmato© àcl‡n]). Che il corpo sia d’ostacolo alla conoscenza, costituisce uno dei pilastri dottrinali del Fedone (cfr. in particolare 67 c-d), che su questa tesi fonda quella che il filosofo deve liberare l’anima da esso, raccogliendola il più possibile in se stessa, mentre è in vita, e desiderando quella sua separazione definitiva dal corpo che è la morte. 44 Cfr. Meteor., I, 14, 351 a 19-353 a 27; in particolare 352 a ss., dove si parla di catastrofi limitate a una regione particolare della terra.

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Il., XX, 215-218. Cfr. Pol., 1329 b 25 e, soprattutto, Metaph., 1074 b 3-5. 47 Di nuovo (p¿lin), perché, evidentemente, esse erano state inventate anche prima del cataclisma, ma in seguito a esso andarono perdute. 48 Letteralmente, «non erano istituite fino alla sola necessità per la vita». 49 Il., XXIII, 712. 50 Il., XV, 412; Od., XVI, 233. 46

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Zeus adunatore dei nembi per primo generò Dardano, e fondò Dardania. Poiché la sacra Ilio non ancora nella piana era stata fondata, città di uomini mortali, ma essi abitavano ancora le falde del monte Ida, dalle molte sorgenti.45

«Ancora» indica il fatto che non avevano ancora il coraggio di avere le loro occupazioni nelle pianure. Ora, questi superstiti, non avendo da dove trarre il nutrimento, erano costretti dalla necessità a escogitare ciò che era finalizzato al loro bisogno:46 sia il macinare il grano con le mole, sia il seminare, sia qualunque altra di questo genere, e chiamarono sapienza un tale escogitare, che faceva reperire ciò che è utile per le necessità della vita, e sapiente chi l’aveva escogitato. Di nuovo47 escogitarono le arti, come afferma il poeta, con le ispirazioni di Atena, arti che nel loro istituirsi non si arrestavano alla sola necessità per la vita,48 ma procedevano anche fino a ciò che è bello e concernente la città. E questo, di nuovo, chiamavano sapienza, e sapiente chi faceva ritrovamenti, come i versi «un sapiente costruendo ha messo assieme»,49 «ben conoscendo per le ispirazioni della sapiente Atena».50 Ché, a motivo dell’eccellenza delle invenzioni riferivano al Dio il loro escogitare. In seguito volsero lo sguardo alle cose politiche e reperirono le leggi e tutto ciò che compone le città. E, di nuovo, chiamarono sapienza il risultato di questo escogitare. Tali individui erano, infatti, i Sette Sapienti, i quali avevano scoperto alcune virtù politiche. Procedendo quindi nella strada, penetrarono anche negli stessi corpi e nella natura fattrice di essi, e chiamarono naturale questa indagine assai specifica, e noi diciamo sapienti gli uomini di questo tipo relativamente alle cose che concernono la natura. Quindi, in quinto luogo, dopo queste meditarono le cose divine, ossia ultramondane e completamente immutabili, e denominarono sapienza la conoscenza più importante, che ha per oggetto queste cose.

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Così anche in Platone, Thaeth., 181 a (= D.K. 28 A 26). Cfr. Phys., 192 b 21-22; 253 b 5-6. 53 È probabile che parlando della dottrina platonica delle idee come «ipotesi» abbia in mente il Fedone, ossia il dialogo nel quale il filosofo espone la loro scoperta (cfr. 99 a sgg.). Qui, infatti, le presenta come «ipotesi» (197 a: ñpoq¤sei©) che occorre postulare come autentica causa delle realtà empiriche. In proposito cfr. Reale 2004, III, pp. 56 ss. In questo passo, nonostante l’inizio del fr. 11, si attesta che la critica di Aristotele riguardava la teoria delle idee. E poiché nel prosieguo del fr. 11 si asserisce che essa aveva ad oggetto la teoria delle idee-numeri o numeri ideali, può ragionevolmente ipotizzarsi che nel Sulla filosofia Aristotele colpiva l’una e l’altra dottrina (di parere opposto Bignone 1973, II, p. 104, nota 2, per il quale in questo dialogo era avversata soltanto la dottrina delle idee-numeri. Ma già Zeller [1921, II, 2, p. 60, nota 1] e successivamente Jaeger [1973, p. 164], Zürcher [1952, p. 25], Krämer [1959, Einleitung] e Berti [1962, p. 340] pensano che la critica dello Stagirita riguardi complessivamente l’intero impianto delle idee platoniche). E lo faceva secondo un disegno unitario e, probabilmente, in una scansione nella quale la critica delle idee implicava di per se stessa anche la critica dei loro principi metafisici e, per converso, la reiezione di questi aveva per conseguenza anche la reiezione delle idee. In proposito cfr. Gentile 1930, p. 157, nota 12 bis. 54 Letteralmente: avendo proclamato (kekragÒ©). Pohlenz (1913, p. 401, nota 1) ha così parlato di «scoppio passionale» (appoggiandovi l’i52

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9 (W 9) SEXT. EMP., Adv. Math., X, 45: taluni sostengono che il movimento esiste, altri che non esiste [...] 46: che non esiste i seguaci di Parmenide e di Melisso, che Aristotele ha chiamato stabilizzatori51 della natura e afisici: stabilizzatori, da stasi; afisici, perché la natura è principio di movimento, ed essi, dicendo che nulla si muove, la sopprimono.52 10 (R2 10, R3 8, W 10) PROCL. presso Philop., De aetern. mundi, p. 31, 17 (Rabe): e vi è il pericolo che quell’uomo (scil. Aristotele) non abbia disapprovato nulla delle di Platone così come l’ipotesi delle idee,53 non soltanto nei suoi trattati di logica [...] 20: ma anche in quelli di etica [...] 21: e di fisica, 32, 1: e molto di più nella Metafisica, [...] 5-8: pure nei dialoghi avendo sostenuto54 in modo assai chiaro di non poter condividere questa dottrina, anche se si può ritenere che egli vi abbia mosso obiezioni per amore di contesa. potesi di una datazione pristina dello scritto, sul presupposto che così lascia credere tanta partecipazione. Su questa linea Nuyens 1948, p. 106 ha altresì ritenuto che esso sia stato scritto quando Platone era ancora in vita e non già, come aveva sostenuto Jaeger, nel periodo «di transizione», al tempo cioè in cui Aristotele abbandonò l’Accademia). Un tale «scoppio» va altresì messo in rapporto con la difesa dello Stagirita dall’accusa d’aver criticato il maestro che alcuni, come Jaeger (1973, pp. 165-166) e Untersteiner (1963, p. 137), hanno scorto nelle ultime parole del frammento «anche se... amore di contesa». Una difesa che, non essendo nuova nello Stagirita (se ne trova una anche in Eth. nic., 1096 a 11-16 – dove parla dei sostenitori delle idee, che critica, come «amici» [f›loi], per cui Gigon ha creduto che il passo appartenesse originariamente al Sulla filosofia), è da ritenersi assai probabile. Ma che, in ogni caso, non sembra deporre a favore della datazione dello scritto al «periodo di transizione» più di quanto non deponga a favore di una sua datazione antica, giacché in tale collocazione cronologica, quando cioè lo Stagirita era ancora membro dell’Accademia e probabilmente Platone viveva ancora, è verisimile credere che provasse un certo disagio a distaccarsi da lui. Infatti, a fronte di un simile disagio psicologico e non già di un’accusa di apostasia è più congruo credere che Aristote-

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le abbia proferito parole di difesa della sua posizione, dal momento che quell’accusa, se vi fu, fu dovuta al fraintendimento di un passo di Aristosseno di Taranto, uno scolaro dello stesso Aristotele (cfr. fr. 64 Wehrli = fr. 58 d Düring 1957, pp. 373 s.), come Jaeger (1973, pp. 135137) segnala aver dimostrato Aristocle (Eus. P.E., XV, 2, 3 = Frg. II, p. 32, 20 ss. Heiland = fr. 58 a-b Düring 1957). 55 Il passo è riportato anche al n. 19 delle Testimonianze. A esso si rimanda per le note di commento. 56 «Anch’egli (ka‰ aétfi©)»: il che proverebbe, come ha indicato Jaeger (1973, p. 37, nota 1; p. 164), che Aristotele era uno dei personaggi del dialogo. 57 Ossia le idee, anche qui indicate, appropriatamente, come «ipotesi» perché così le ha caratterizzate Platone nell’atto stesso di scoprirle (cfr. la nota 53). Siriano attesta che lo stesso Aristotele nel Sulla filosofia riconosce di non aver attaccato la dottrina platonica delle idee, ma soltanto quella delle idee-numeri. Il che sembra poco probabile (cfr. la medesima nota 53). Può ben essere, invece, che egli, facendo discendere la critica delle idee da quella dei numeri ideali, abbia così indotto a credere di occuparsi soltanto di questa. In un tale abbaglio può essere caduto Siriano, il quale nel commentare Aristotele era «magis in Aristotelem refutando, ut Platonem tueatur, occupatus» (Trendelenburg 1826, p. 27). 58 Ecco la critica di Aristotele alla teoria platonica dei numeri ideali o idee-numeri. Essa sottolinea come, da un lato, queste entità, se sono numeri, non possono pensarsi in modo diverso dal numero propriamente inteso, ossia dal numero quale concepiscono i matematici: somma di unità, addizionabile e posto in una serie infinita, mentre – com’è noto – i numeri ideali, esprimendo un’essenza (per esempio, la

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PLUT., Mor. (Adv. Colotem), 1115 b-c: ad alcuni sembrò che Aristotele, nello stravolgere da ogni parte le idee, in merito alle quali rimprovera Platone, e introducendo in esse ogni difficoltà nei trattati di etica, nella Metafisica, negli scritti di fisica, nel corso dei dialoghi essoterici, si rapporti a questa dottrina in un modo dettato più da amore per la contesa che da amore per la sapienza, come se si fosse proposto di disdegnare la filosofia di Platone. Così distante era dal seguirla.55 11 (R3 11, R3 9, W 11) SYRIAN., In Arist. Metaph., p. 159, 33 – 160, 5: ché, le contenute nel secondo dei libri Sulla filosofia testimoniano che anch’egli (scil., Aristotele)56 è d’accordo di non aver detto nulla contro le ipotesi57 dei Platonici e in generale di non aver seguito dei numeri ideali, se davvero sono diversi da quelli matematici, in questo modo: «di conseguenza, se le idee sono un numero diverso, ma non matematico, di esso non possiamo avere nessuna comprensione. In effetti, chi in realtà della stragrande maggioranza di noi comprende un numero diverso?».58 Cosicché anche ora59 effettua le confutazioni come contro la massa, che non conosce altro numero che quello monadico,60 ma non ha colto neppure l’inizio del pensiero di quegli uomini divini.61 ternità esprime l’essenza dei tre), sono, ciascuno, un’unica e indivisibile unità, non sono addizionabili e sono limitati alla decade; dall’altro, se debbono pensarsi così ontologicamente strutturate, non si vede che cosa abbiano in comune con i numeri e come possano dirsi ancora numeri. Insomma, i platonici numeri ideali, concepiti come numeri e insieme come dotati di qualità che li differenziano dai numeri, non sono comprensibili, non potendosi comprendere, quando si parla di numero, altro che ciò che si definisce in matematica. In proposito cfr. Robin 1908, p. 432 e nota 339. 59 Ossia nel passo della Metafisica che Siriano sta commentando. 60 Ossia, costituito dalla somma di unità (o monadi). 61 La critica di Aristotele – afferma dunque Siriano – vale soltanto

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se si confondono i Platonici con la massa (il testo dice «contro la massa [pr© toÊ© pollo‡©]»: ossia contro i Platonici come se fossero la massa. È chiaro che nel muovere questo rilievo Siriano non intende dire che lo Stagirita ha realmente confuso quei filosofi con la massa, ma che li ha trattati come se a formulare la dottrina dei numeri ideali fosse la massa), la quale non sa pensare il numero in altro modo se non in modo matematico, cosicché – daccapo – parlare di «numeri», ma «ideali», è proferire qualcosa d’incomprensibile (cfr. Nuyens 1948, pp. 101 s.). Egli, in realtà, non seppe cogliere il vero pensiero di quegli uomini divini, che furono, per l’appunto, Platone e i Platonici. Si noti la contrapposizione tra toÊ© pollo‡© e tán qe›wn àndrán. Si veda il commento di Trendelenburg (1826, p. 75, nota a), che mette ben in chiaro il senso complessivo del passo anche se – a nostro avviso – il rilievo di non comprendere il vero significato del numero ideale non pare rivolto alla massa, bensì ad Aristotele, come si evince dall’uso di un tempo finito e dal singolare âf‹yato, mentre a proposito di toÊ© polloÊ© Siriano usa il participio plurale eådfita©: «hoc loco cavendum est, ne quod Syriano accidit [nel nostro passo], cognitae numerorum notitiae mesceantur. Hic enim àriqmÂn às‡mblhton cum numero monodico existimarent». 62 Ossia, i Platonici. 63 Ossia le idee, le quali, in quanto puro essere, sono per ciò stesso oés›ai, inteso qui nel significato platonico e non nella valenza dottrinale che il termine assume in Aristotele. 64 Dunque il Breve e il Lungo, lo Stretto e il Largo si riconducono al principio metafisico della diade indefinita di Grande e Piccolo.

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ALEX. APHR., In Arist. Metaph., p. 117, 23 – 118, 1: espone la che essi62 sostennero, teoria che egli ha enunciato anche nello scritto Sulla filosofia. Volendo infatti che gli enti (giacché sempre afferma che le cose che sono,63 sono tipicità della sostanza) – ebbene, volendo ricondurre questi enti ai principi che essi ipotizzarono (per loro, principi delle cose che sono erano il Grande e il Piccolo, che chiamavano Diade indefinita), ossia volendo ricondurre alla sostanza tutte le cose, affermavano che principi della lunghezza sono il Breve e il Lungo, sul presupposto che la lunghezza si costituisce da un determinato lungo e da un determinato breve, i quali sono Grande e Piccolo, oppure sul presupposto che ogni linea consiste in uno di questi due, e che della superficie sono lo Stretto e il Largo, che sono anch’essi Grande e Piccolo.64 ARIST., De an., 404b 16-24: Allo stesso modo anche Platone nel Timeo ammette che l’anima è composta dagli elementi.65 infatti che il simile si conosce dal simile66 e che le cose derivano dai principi.67 In pari modo si sono date definizioni anche nello scritto Sulla filosofia,68 ossia che il vivente in sé deriva dal65 Trattasi dei «principi metafisici dell’Essere: indivisibile nel caso di e¯do©, divisibile nel caso di aåsqhtfin, medesimo e altro nei due casi» (Festugière 1950, p. 119, seguendo Taylor 1928, p. 110). Si consideri altresì che in tutto il passo di De an., 404 b 8 – 405 a 2 «elemento (stoicÖon)» e «principio (àrc‹)» sono usati come sinonimi. 66 Per Platone quest’assunto vige soprattutto a proposito delle realtà invisibili (intelligibili e ideali): così, per esempio, in Phaed., 79 c – 80 b, dove in base a esso si mostra che l’anima appartiene all’ordine delle realtà invisibili. 67 Cfr. Timeo, 35 a s.; 37 a 3 ss.; forse anche 41 d. 68 ll testo greco, che dice «ân toÖ© per‰ filosof›a© legom¤noi©,» è stato diversamente interpretato. Propenderei per cogliere nell’espressione una testimonianza del fatto che il Sulla filosofia era un dialogo. Da escludere, in ogni caso, che il riferimento sia a lezioni orali di Platone sulla filosofia, come alcuni studiosi hanno creduto (così, per esem-

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pio, Hicks 1907, p. 222). È possibile, invece, come ha fatto valere Cherniss (1944, p. 109), che Aristotele, riferendosi al Sulla filosofia, che peraltro cita anche in Phys., 194 a 36 = fr. 28, alluda all’esposizione che in questo dialogo egli fa delle dottrine oralmente esposte da Platone. 69 Cfr. Platone, Timeo, 39 e – 40 a. Che Aristotele si sia riferito a questo luogo del Timeo comprova Filopono, In Arist. De an., 77, 5-6. Cfr. anche Hicks 1907, p. 222; Robin 1908, p. 197; Ross 1989, p. 256. Si noti che la prima grandezza, larghezza e profondità sono l’idea di grandezza, larghezza e profondità (cfr. Hicks 1907, pp. 222-223; Ross 1961, p. 179; Ross 1989, p. 232). 70 Non si tratta semplicemente dei «corpi materiali», ma di tutte le realtà, che l’anima conosce sia nel loro aspetto materiale che nella loro essenza (Festugière 1950, p. 119). 71 Il passo «in pari modo... simile» compare anche come testimonianza del Sul bene. 72 Ossia: la dottrina platonica, or ora esposta, fu presentata anche in altro modo (cfr. Taylor 1928, p. 111; Untersteiner 1963, p. 159). 73 Si noti come con il riferimento all’intelletto, alla scienza e all’opinione Aristotele richiami quelli che per Platone sono i gradi della conoscenza teoretica (cfr. Untersteiner 1963, p. 159). Sull’accostamento in Platone di opinione ed esperienza cfr. Thaet., 151 e ss., Parm., 155 d, Tim., 28 b, 37 b. Circa la dottrina platonica che indicava nel 2, 3 e 4 i principi formali, rispettivamente, della linea, della superficie e del solido, cfr. Metaph., 1090 b 20-24 (in proposito si vedano Robin 1908, p. 296, nota 272 III; Ross 1989, pp. 208-212).

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la stessa idea dell’uno e dalla prima grandezza, larghezza e profondità,69 e che le altre cose70 derivano in maniera simile;71 e inoltre, anche in altro modo,72 che l’intelletto è l’uno, la scienza il due (infatti tende a una sola cosa in un solo modo), l’opinione il numero della superficie, la sensazione quello del solido.73 E infatti i numeri74 erano detti essere le idee stesse e i principi, e derivano dagli elementi. SIMPL., In Arist. De an., p. 28, 7-9: ora chiama Sulla filosofia il trattato Sul bene, da lui trascritto dalla conversazione di Platone, trattato nel quale racconta le opinioni dei Pitagorici e dei Platonici sugli enti.75 PHILOP., In Arist., De an., p. 75, 34-76: chiama ciò che ha trascritto Sul bene, Sulla filosofia. In quest’opera Aristotele racconta le conversazioni di Platone non messe per iscritto. Il suo libro è autentico. In esso, dunque, racconta l’opinione di Platone e dei Pitagorici sugli enti e sui loro principi.76 PS.-ALEX., In Arist. Metaph., p. 777, 16-21: non tutti – egli (scil., Aristotele) dice – introducevano in modo simile il principio concernente l’Uno, ma taluni sostenevano che

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Si tratta dei primi quattro numeri, in quanto principi di tutte le

cose. 75

Il frammento compare anche come testimonianza su Sul bene. Il frammento compare anche come testimonianza su Sul bene. Su questa confusione sono state avanzate diverse interpretazioni. Per parte mia propenderei per credere che, se il Sul bene costituisce un riassunto delle lezioni orali (±grafa dfigmata) di Platone (cfr. Robin 1908, p. 307), allora non è illogico supporre che tanto Simplicio quanto Filopono, non conoscendo direttamente il Sulla filosofia, abbiano potuto pensare che questo scritto, trattando della dottrina platonica esposta in quelle lezioni, coincidesse in realtà con il Sul bene, e che Aristotele indicasse la medesima opera talvolta con questo nome, talvolta con il nome di Sulla filosofia. 76

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S’intende, numeri ideali. Cioè dei Platonici. 79 Dunque, secondo Ps.-Alessandro, per Aristotele alcuni «Platonici» hanno indicato nei numeri ideali i principi formali delle grandezze, hanno cioè sostenuto che, per esempio, il due numero ideale, poiché non consiste nella somma di due unità (ciò che è prerogativa del due numero matematico), ma esprime l’essenza o idea del due, fissa la nozione stessa di linea, ossia ne stabilisce e ne determina l’essenza. In tal senso il due ideale costituisce il principio formale della linea, giacché, com’è detto nel passo, riporta l’idea, vale a dire, l’essenza del due a quella grandezza che è la linea. Altri «Platonici», invece, indicavano come principio formale delle grandezze l’Uno. È probabile che Ps.Alessandro, il quale mostra di non conoscere direttamente il Della filosofia, come appare dall’espressine per‰ Pl¿twno©, «che è un’inesattezza» (Untersteiner 1963, p, 164), riferisca a gruppi diversi di «Platonici» ciò che Aristotele, in quello scritto, indicava semplicemente come due modi diversi di far derivare da parte di Platone le grandezze 78

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gli stessi numeri77 riportano le idee alle grandezze: per esempio, la diade alla linea, la triade alla superficie, la tetrade al solido (tali , infatti, racconta in merito a Platone nello scritto Sulla filosofia, con il quale anche qui espone brevemente e per sommi capi il loro78 pensiero); altri invece completavano l’idea delle grandezze con la partecipazione dell’uno.79 12 a (R2 12, R3 10, W 12a) SEX. EMP., Adv. Math., III, 20-23:80 Aristotele sosteneva che la nozione degli dèi si è generata negli uomini da due principi, ossia dagli eventi relativi all’anima e dalle meteore. Orbene, dagli eventi relativi all’anima: tramite le sue ispirazioni, che si verificano nei sogni,81 e le divinazioni. Quando infatti – egli (scil., Aristotele) dice – nel sonno l’anima è per se stessa, allora, poiché assume la sua natura propria, vaticina e preconizza il futuro. Ed è tale anche nel separarsi dai corpi nel momento della morte. Per questo approva anche il poeta Omero come se avesse osservato attentamente questo fatto. In effetti, rappresentò poeticamente Patroclo che, nell’atto di essere ucciso, preconizzava sull’uccisione di Ettore,82 ed Ettore sulla fine di Achille.83 Ora, da queste circostanze – egli dice – gli uomini hanno congetturato che esistesse qualcosa di divino, che in sé assomiglia all’anima e più di tutte le cose è conoscibile in modo sicuro. Ma anche dalle meteore: vedendo, infatti,

geometriche, con ciò rilevando un’aporia nel pensiero stesso del maestro (così Wilpert 1949/b, p. 385). 80 Con questo frammento gli studiosi concordano nel ritenere che iniziasse il terzo libro del Sulla filosofia, dedicato all’analisi del divino. 81 Ma si tenga presente che nel De divinatione per somnium, 462 b 20 Aristotele nega che vi siano sogni veritieri. 82 Cfr. Il., XV, 851 ss. 83 Cfr. Il., XXI, 358 ss.

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Cfr. la nota precedente. Il., IV, 297. L’esempio del mondo come un esercito che si muove ordinatamente e di Dio come il generale che ne dispone si trova anche in Metaph., XII, 10, 1075 a 12-19. 86 Il., II, 504. 85

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durante il giorno il sole che compiva il suo corso e di notte il movimento ben ordinato degli altri astri, pensarono che qualche Dio fosse la causa di un tale movimento e di un tale ordine perfetto. Di tal genere è anche Aristotele. CIC., Div. ad Brut., I, 30, 63: dunque l’animo, quando nel sonno è chiamato a se stesso dall’unione e dal contagio col corpo, allora ricorda le cose passate, scorge quelle presenti, prevede quelle future. Infatti, il corpo di chi dorme giace come se fosse quello di un morto, mentre l’animo è vegeto e vivo [...] e così, con l’avvicinarsi della morte è molto più capace di divinare [...] 64: Che i soggetti in punto di morte facciano divinazioni, conferma anche Posidonio con quell’esempio famoso che adduce [...] E da esso anche quello [...] dell’Ettore omerico, il quale sul punto di morte annuncia ad Achille la prossima morte.84 12 b (R2 13, R3 11, W 12b) SEXT. EMP., Adv. Math., IX, 26-27: taluni, rivolgendo la loro attenzione al movimento non trasgredibile e ben ordinato dei corpi celesti, sostengono che le nozioni degli dèi hanno avuto da questo movimento, in prima istanza, il loro principio. In effetti, è come se uno che è seduto sul troiano Ida vede l’esercito degli Elleni muoversi nella pianura con molto ornamento e ordine, «in prima fila i cavalieri con cavalli e carri, dietro i fanti»:85 ebbene, un tale individuo giunge assolutamente alla nozione del fatto che esiste qualcuno che dispone un tale ordine e incita i soldati ordinati sotto di lui, come Nestore o qualcun altro degli eroi che sapevano «ordinare i cavalli e gli uomini armati di scudo».86 E al modo in cui chi è esperto di navi, mentre da lontano vede una nave procedere con vento favorevole e avanzare bene con le vele, comprende che vi è qualcuno che la governa e la guida verso i porti

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Cfr. Platone, Tim., 40 d-e; Epin., 982 e. È questo un termine platonico (cfr. Soph., 265 a; Tim., 29 a; 41 a). 89 «Opere» (opera) non nel senso – del tutto estraneo al pensiero ciceroniano – di creature, bensì di costruzioni ottenute plasmando e ordinando una materia informe. Tale, per l’appunto, la formazione del mondo da parte degli dèi. Trattasi di una tesi fondamentalmente platonica, che Aristotele riprende e della quale troviamo una traccia in 88

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prestabiliti, così coloro che innanzitutto hanno alzato lo sguardo al cielo e hanno visto il sole compiere le sue corse dal «levarsi fino al tramonto», e le danze benordinate degli astri,87 ricerca il facitore88 di quest’ordinamento bellissimo, congetturando che esso non giunge per opera del caso, ma di una qualche natura migliore e incorruttibile, che, come diciamo, è Dio. 13 (R2 14, R3 12, W 13) CIC., De nat. deor., II, 37, 95-96: molto chiaramente, dunque, Aristotele disse che, se esistessero persone che avessero abitato sempre sotto terra, in dimore buone e luminose, le quali fossero state ornate di quadri e dipinti, e fornite di tutte quelle cose di cui abbondano coloro che sono ritenuti felici, e tuttavia non fossero mai usciti sulla terra, e per diceria e per averlo ascoltato avessero appreso che esiste qualche nume e la potenza degli dèi, e poi, in qualche modo, apertesi delle voragini della terra, avessero potuto evadere e uscire da quelle postazioni nascoste, in quei luoghi che noi abitiamo, avendo visto repentinamente la terra, i mari e il cielo, e avessero conosciuto l’ampiezza delle nubi e la forza dei venti, e guardato il sole, e preso conoscenza sia della sua grandezza e bellezza che della sua azione efficace, giacché è questo che, diffondendo la luce nel cielo in tutta la sua totalità, fa essere il giorno, e quando la notte ha oscurato le terre, allora scorgessero tutto il cielo abbellito e ornato di astri e la varietà delle luci della luna, ora crescente, ora calante, e il levarsi e il tramontare di essi tutti, e i loro corsi stabiliti per tutta l’eternità e immutabili, ebbene, se avessero visto queste cose, certamente penserebbero sia che gli dèi esistono, sia che queste opere così grandi sono proprie degli dèi.89 Anche questo, in realtà, egli disse. De caelo, 2711 a 33 dove si dice che «dio e la natura non fanno nulla invano (qe© ka‰ f‡si© oéd‚n m¿thn poio‡sin)».

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Cfr. Metaph., 982 b 11-12. Cfr. fr. 22. 92 Cfr. Cic., De nat. deor., II, 5, 15 «ut si quis in domum aliquam aut in gymnasium aut in forum venerit, cum videat omnium rerum rationem, modum, disciplinam, non possit ea sine causa fieri indicare, sed esse aliquem intellegat qui praesit et cui pareatur, multo magis in tantis motionibus tantisque vicissitudinibus, tam multarum rerum atque tantarum ordinibus, in quibus nihil unquam immensa et infinita vetustas mentita sit, statuat necesse est ab aliqua mente tantos naturae motus gubernari». 93 Il termine riferito a Dio (poiht‹©) si trova già in Platone, Resp., 597 d; Tim., 28 c. 91

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PHILO, Leg. Alleg., III, 32, 97-99 i primi 90 ricercarono come abbiamo la nozione del divino. In seguito, coloro che sembra filosofino in modo eccellente dissero che dal cosmo, dalle sue parti e dalle potenze che sussistono in esse se ne è prodotta la comprensione della causa. Infatti, come se qualcuno vedesse una casa costruita con cura, ossia con propilei, portici, padiglioni per le donne e padiglioni per gli uomini e con altre costruzioni, avrà assunto la nozione dell’artefice (pensa, infatti, che senz’arte e senza costruttore la casa non fu portata a compimento, e nel medesimo modo avviene anche nel caso di una città, di una nave e di ogni costruzione, alquanto grande o piccola che sia), così, dunque, anche qualcuno che va come verso quella grandissima casa o quella grandissima città che è questo mondo, e vede il cielo ruotare in circolo e comprendere dentro ogni cosa, e i pianeti e le stelle fisse muoversi accuratamente, armonicamente e in maniera utile a ogni essere secondo le medesime e nello stesso modo, e la terra avere in sorte la regione più centrale, e i corsi dell’acqua e dell’aria ordinati nello spazio intermedio, e, inoltre, gli esseri viventi, sia mortali che immortali,91 e le varietà di piante e di frutti, ebbene, in qualche modo pensa che queste cose non sono state costruite senza un artefice perfetto, ma che Dio ed era ed è l’artefice di questo tutto.92 Ebbene, coloro che ragionano in questo modo congetturano Dio tramite le sue ombre, intuendo l’artefice mediante le sue opere. PHILO, De praem. et poen., VII, 41-43: e se taluni anche grazie a conoscenza sicura furono in grado di rendere oggetto di rappresentazione il facitore93 e la guida di questo tutto, ebbene procedettero, come si suole dire, dal basso all’alto. In effetti, dopo essere entrati in questo mondo come in una città retta da buone leggi e aver visto la terra stare salda, ricca di montagne e di pianure

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94 Con questa splendida metafora militare Filone intende gli astri, i quali costituiscono come l’esercito del cielo disposto in ordini, vale a dire in schiere. Campeggia l’idea dell’ordine, determinatamente richiamata nelle parole successive. 95 Con quest’espressione Filone indica l’ordine del mondo (cfr. Untersteiner 1963, p. 184, che riprende un rilievo di Festugière 1954, II, p. 231), il quale ruota nel mondo in quanto ne governa il movimento. 96 Non soltanto l’idea di un artigiano del mondo, ma anche questa della provvidenza è platonica (cfr. in proposito Tim., 30 b-c; 44 c). 97 L’espressione «legge di natura (nfimo© f‡sew©)» si rintraccia in Platone, Gorgia, 483 e; Tim., 83 e. 98 L’immagine della scala per salire in cielo si rinviene in Pindaro, frr. 19, 9 e 178 Turyn; Pyth., X, 27.

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e colma di messi, di alberi, di frutti e, ancora, di animali di ogni specie, e, diffusi su di essa, mari, laghi, fiumi sia con acqua perenne che a carattere torrentizio, e le temperie dell’aria e dei venti, e gli armonici mutamenti delle stagioni dell’anno, e, sopra ogni cosa, il sole, la luna, i pianeti, le stelle fisse e tutto quanto il cielo armonicamente composto in ordini assieme al suo esercito,94 mondo vero95 che ruota nel mondo, presi da meraviglia e da stupore pervennero a una nozione che era la conseguenza delle cose che si manifestavano, ossia che bellezze in così gran numero e così eccellenti per il loro ordine non nacquero come risultato del caso, ma ad opera di un qualche artigiano facitore del mondo, e che necessariamente esiste la provvidenza.96 Infatti, è legge di natura97 che ciò che ha fatto abbia cura di ciò che è venuto all’essere. Ma questi individui eccezionali e che si sono distinti dagli altri, come ho detto, procedettero dal basso verso l’alto come per il tramite di una qualche scala celeste,98 congetturando con un ragionamento verisimile l’artigiano dalle sue opere.99 PHILO, De Spec. Leg., III, 34, 185-194. 14 (R2 44, R3 14, W 14) SEN., Nat. Quaest., VII, 30: egregiamente Aristotele sostenne che noi non dobbiamo mai essere più reverenti di quando si discute sugli dèi. In effetti, se entriamo composti nei templi, se nell’accedere a un sacrificio ab-

99 Ecco dunque il senso di procedere dal basso verso l’alto e del far uso come di una scala per ascendere: quegli uomini eccezionali tra cui va annoverato Aristotele risalirono all’esistenza di un Dio facitore e ordinatore del mondo dall’osservazione dell’ordine che regna nel mondo. La scala che li ha fatti ascendere è, metaforicamente, il ragionamento che, se c’è un ordine, dev’esserci un ordinatore.

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100 Questo rilievo ha chiaramente la marca di un’aggiunta di Seneca, riferibile com’è al solo mondo romano (cfr. Festugière 1954, p. 236, nota 2; Untersteiner 1963, p. 187). 101 In effetti, come nei templi sono presenti le statue delle divinità, che sono segni di esse, così nel mondo è presente quella disposizione ordinata e armonica degli astri che, al pari delle statue, rinvia a Dio, in quanto suo facitore. Per questo il mondo, contenendo le vestigia di Dio al pari di un tempio, è sacro. 102 Si tratta per l’appunto degli astri. 103 Tim., 82 b 104 Dunque, gli astri, in generale il mondo nel suo complesso, sono «imitazioni sensibili» (cfr. aåsqht· mim‹mata) di altrettante realtà intelligibili (i parade›gmata di cui parla Platone in Tim., 48 e), alle quali si è rivolto l’«intelletto divino (noÜ© qeÖo©)», ossia il divino artefice con la sua intellezione (nfihsi©) delle idee per la costruzione del mondo stesso. 105 Erano celebrate in onore di Kronos e di Rea, e vedevano seduti

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bassiamo il volto, se avvolgiamo la toga,100 se per ogni argomento facciamo uso di modestia, quanto più dobbiamo fare questo quando discutiamo dei corpi celesti, delle stelle, della natura degli dèi, o per non fare qualche affermazione in modo incauto, se ignoriamo, o non mentire, se sappiamo. PLUT., Mor. (De tranquill.), p. 477 c: il mondo è un tempio santissimo e assai adatto a Dio.101 L’uomo vi fa ingresso con la sua generazione, spettatore di statue non costruite dalle sue mani né immobili,102 ma – dice Platone103 – quali fece un intelletto divino, imitazioni sensibili di realtà intelligibili, aventi in sé connaturato il principio della vita e del movimento: il sole, la luna, gli astri, i fiumi che fanno fluire acqua sempre nuova, la terra che arreca alimenti sia alle piante che agli animali.104 E la vita, che di queste cose è mistero e iniziazione perfetta, dev’essere piena di buon animo e di letizia [...] d-e: qui poi sediamo benedicenti con decoro. Ché, nessuno proferisce espressioni di dolore quando partecipa ai misteri, né emette lamenti quando guarda i giochi Pitici o quando beve nelle feste Cronie.105 Ma quelle feste che il Dio organizza per noi106 e alle quali c’inizia come ai misteri, rendono vergognose, trascorrendo per lo più la vita tra manifestazioni di dolore, stati d’animo pesante e debilitanti affanni. 15 (R2 45, R3 15, W 15) SYNES., Dio, X, 48 a: come ritiene Aristotele, gli iniziati

assieme a tavola, dopo il raccolto, padroni e schiavi (cfr. Macrob., Saturn., I, 10, 22 = FGH, 328 F 97). 106 Ossia, lo spettacolo del mondo. Da rimarcare la testimonianza del senso di gioia di fronte a esso, quel senso di gioia che coloro che trascorrono la vita con animo gravoso e senso di tristezza deturpano, come rovinando tale festa.

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107 Si tenga presente che Sinesio cita Aristotele in un passo nel quale, contrapponendo l’attività razionale alla contemplazione neoplatonica, rileva che quest’ultima non è «un cammino che faccia progredire grado per grado, né un primo momento, né un secondo, né un ordine (kat· bracÊ prfiodo©, mhd‚ práton kai de‡teron mhd‚ t¿xi©)», ed è irrazionale, dal momento che «il loro (scil. di coloro che la praticano) modo di comportarsi assomiglia a un’esaltazione bacchica, a un saltare da folle e da invasato (bahce›ˇa ka‰ ±lmati manikˇá)», tale essendo il «loro arrivare al termine estremo senza correre», ossia il loro giungere allo stadio supremo della contemplazione senza passare attraverso quelli intermedi, e il «loro pervenire al di là della ragione, senza aver operato con la ragione». A questo punto viene richiamato ciò che Aristotele dice degli iniziati, per i quali la visione della divinità e, in senso complessivo, l’esperienza che vivono, della quale quella visione rappresenta il momento culminante, non sono frutto d’apprendimento né chiamano in causa questo, ma sono soltanto pathos e disporsi in uno stato d’animo (diateqÉnai). Il quale – rileva pertinentemente Boyancé (1937, p. 55) – non indica «un’ascesa, nel senso mistico di questa parola», ma «si tratta senz’altro di emozioni molto vive, che raggiungono abbastanza profondamente l’essere, per lasciargli un indimenticabile ricordo». Poiché quest’affermazione di Aristotele viene riferita al Sulla filosofia, è facile che in questo scritto lo Stagirita abbia così qualificato – come pathos, per l’appunto, e non come mathema – non la «prova» dell’esistenza della divinità a partire dal mondo e dal suo ordine, giacché questa è una dimostrazione a tutti gli effetti, e come tale fornisce un mathema e gra-

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non devono imparare alcunché, ma provare sentimenti e porsi in uno stato d’animo, essendone evidentemente adatti.107 MICH. PSELLUS, Scol. Ad Joh. Climacun (Cat. Des Man. Alch. Grecs, ed. Bidez, 1928), VI, 171: ho annunciato che v’insegno ciò che ho imparato, ma non ciò che ho emotivamente avvertito [...] il modo didattico e il modo telestico: il primo perviene agli uomini grazie all’udito,108 il secondo perché l’intelletto stesso subisce un’illuminazione.109 Pertanto Aristotele lo denomina anche «di forma misterica» e simile alle cerimonie Eleusine110 (in esse, infatti, colui che è iniziato alle visioni subisce un’impronta, ma non gli viene impartito un insegnamento). 16 (R2 15. R3 16, W 16) SIMPL., In Arist. De cael., pp. 288, 28 – 289, 15: che ciò che è divino sia eterno, egli (scil., Aristotele) dice, testimovita su questo piano, bensì l’esperienza di tipo mistico-religioso di coloro che, del tutto al di fuori di una dimensione razionale, percepiscono la presenza del divino nel mondo, al modo di un’iniziazione misterica. Concordo perciò con Boyancé (Ivi, p. 142) nel ritenere che nelle ultime parole lo Stagirita non intende la disposizione degli iniziati ad avere certi pathe, bensì la loro disposizione ad accogliere l’epifania del dio – la quale, dice a rincalzo lo studioso, «non ha nulla a che fare col logos». In questo si può cogliere un motivo di critica di Aristotele verso Platone, che in Symp., 210 a aveva presentato il procedere filosofico fino a raggiungere gli ultimi gradi della conoscenza come in qualche modo analogo alla rivelazione finale nelle iniziazioni misteriche. Ebbene, Aristotele «annientò completamente quest’analogia» (Dörrie 1956, p. 335). 108 Vale a dire, all’ascolto del maestro che sistematicamente espone la scienza. 109 Evidentemente, si tratta di un’illuminazione ben diversa da quella che l’intelletto passivo subisce ad opera dell’intelletto attivo, la cui azione è paragonata dallo Stagirita a quella della luce (cfr. De an., III, 5, 430 a 15 ss.; cfr. anche Top., 108 a 11). 110 Cfr. Platone, Phaedr., 249 b 8: tel¤ou© àe‰ telet·© telo‡meno©.

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Cfr. fr. 8 e fr. 24. Sul significato dell’espressione âgk‡klio©, peraltro già incontrata, e sulla sostanziale equivalenza t· âgk‡klia filosof‹mata ed âxwteriko‰ lfigoi cfr. Zeller 1821, II, 2, p. 101, nota 1 e p. 114, nota 3; Bignone 1973, I, p. 152 e II, pp. 360, nota 1; Moraux 1951, pp. 119-120; Ross 1966, II, pp. 408 s. 113 Jaeger (1964, p. 209) parla di quest’argomento del Sulla filosofia come del primo degli «argomenti di forma sillogistica» con i quali, in una «formulazione spiccatamente apodittica», «i filosofi religiosi» hanno provato l’esistenza di Dio. In altre parole, come la prima dimostrazione autenticamente filosofica a riguardo, sia per il contenuto che per l’impianto formale. 114 Sull’immutabilità dell’ente divino cfr. la fine del fr. 8 (ond’è che – come rileva Bignone 1973, II, p. 515, ripreso da Untersteiner 1963 p. 204 – la dottrina là esposta da Aristocle trova un’ulteriore conferma di essere autenticamente aristotelica). 112

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niano anche le cose che spesso111 vengono messe in luce in quei discorsi che sono ragionamenti filosofici destinati al pubblico,112 ossia che ciò che è divino, vale a dire tutto ciò che è primo e supremo, è necessariamente immutabile. Se infatti è immutabile, è anche eterno. Egli chiama «ragionamenti filosofici destinati al pubblico» quelli proposti ai più in modo ordinato a partire dall’inizio, argomenti che siamo soliti chiamare anche essoterici, come pure siamo soliti chiamare acroamatici e sintagmatici quelli più seri. Di questo egli parla anche nell’opera Sulla filosofia.113 Ché, in generale, nelle realtà in cui vi è qualcosa di migliore, in esse vi è qualcosa anche di ottimo. Ebbene, poiché tra gli enti uno è migliore di un altro, ve n’è qualcuno anche ottimo, e questo sarà ciò che è divino. Se dunque ciò che muta,114 muta o per opera di un altro o da se stesso, e se per opera di un altro, quest’altro è o migliore o peggiore, se invece muta da se stesso, muta o come verso qualcosa di peggiore o come se tendesse a qualcosa di più bello, ebbene, ciò che è divino non ha qualcosa migliore di sé dal quale sarà fatto mutare (giacché quella cosa sarebbe più divina), né è lecito che ciò che è migliore patisca ad opera di ciò che è peggiore; e se mutasse per opera di ciò che è peggiore assumerebbe qualcosa di cattivo, mentre nulla in esso è cattivo. Ma neppure muta da se stesso come se tendesse verso qualcosa di più bello, giacché neppure ha bisogno di alcuna di quelle cose belle che sono proprie di esso. E neppure verso ciò che è peggiore, giacché nemmeno un uomo rende se stesso peggiore di sua volontà, né possiede nulla di cattivo. Cosa che assumerebbe dal mutamento verso ciò che è peggiore. Anche questa dimostrazione Aristotele ha tratto dal secondo libro della Repubblica di Platone.

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115 Bignone (1940/c, p. 177) ritiene che con quest’ipotesi della molteplicità dei principi Aristotele alluda alla dottrina atomistica, di Leucippo e Democrito; Untersteiner (1963, p. 209) crede invece che sia «più esatto pensare che il bersaglio immediato» sia Speusippo. Ma lo stesso tenore dilemmatico dell’argomentazione (cfr. la nota successiva) lascia ragionevolmente supporre che si tratti soltanto di una delle due possibilità logiche su cui per esclusione si costruisce la prova, senza riferimento ad alcuna posizione dottrinale storicamente definita. 116 Il che è manifestamente falso, giacché il mondo appare come un insieme ordinato e armonico di enti. Perciò questo corno del dilemma va scartato e va presa in considerazione l’ipotesi (espressa dall’altro corno) che i molti principi sono ordinati. Si noti la struttura dell’argomentazione, nella quale dalla falsità del conseguente (il mondo non è un cosmo, bensì un caos) s’inferisce la falsità dell’antecedente (i molti principi sono privi di ordine). 117 Cfr. il fr. 12/b e la parallela rappresentazione del mondo come un esercito ordinato; cfr. anche Metaph., XIV, 3, 1090 b 19-20. 118 Ecco dunque dimostrata l’unità del principio. Il che equivale ad aver dimostrato la sua esistenza. Come infatti scrive Berti (1962, pp. 356-357), «mostrare che il principio è uno [...] significa dimostrare l’esistenza del principio, poiché [...] principi molteplici non sono propriamente principi, il quanto il loro ordine suppone a sua volta un principio [...] È evidente che l’unità richiesta dall’ordine è quella del fine: di conseguenza il principio, di cui risulta dimostrata l’esistenza, è la causa finale». 119 «A magistro suo Platone dissentiens» (Cic., De nat. deor., I, 13,

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17 (R2 16, R3 17, W 17) Scol. In Proverb. Salomonis, cod. Paris. Gr. 174, f. 46 a: ecco che cosa dice Aristotele: il principio o è uno o sono molti. E se è uno, abbiamo ciò che si cercava; se invece sono molti,115 o sono ordinati o privi di un ordine. Ma se sono privi di un ordine, maggiormente prive di un ordine sono le cose che vi derivano, e il mondo non è un cosmo, ma assenza di ordine,116 e si dà ciò che è contro natura, non esistendo ciò che è conforme a natura. Se invece sono ordinati, o si sono ordinati117 da se stessi o lo sono stati da qualche causa eterna. Ma se si sono ordinati da se stessi, hanno qualcosa in comune, ossia ciò che li connette, e questo è il principio.118 18 (R2 17, R3 18, W 18) P HILO, De aetern. mundi, III, 10-11: Aristotele – non mai, piamente e santamente, sollevando obiezioni – sostenne che il mondo è ingenerato119 e incorruttibile, e 33 = fr. 26), per il quale il mondo è stato generato dal divino artefice. Come dunque appare anche dalle righe immediatamente successive, ove si dice che Aristotele rifiutava la concezione del mondo come di un manufatto, lo Stagirita non condivide l’idea creazionistica espressa da Platone nel Timeo, avverso la quale è credibile che egli nel Sulla filosofia abbia opposto di applicare al mondo una visione fabbrile (cfr. ceirokm‹twn, un termine che ricompare anche in Meteor., 363 b 25; Phys., 192 b 30; De cael., 287 b 16) che non gli compete. Ma assieme alla concezione creazionista, di chiara marca platonica, è presumibile che in questo dialogo Aristotele abbia dissentito anche dalla concezione naturalistica della generazione del mondo, per la quale essa non è dovuta all’intervento di un dio che plasma e ordina una materia informe, ma all’azione di forze cosmiche. È questa la prerogativa saliente sotto la quale si unificano le concezioni così differenti di quei pensatori, come Eraclito ed Empedocle, secondo i quali in ogni fase dell’eterno tempo si genera un unico mondo. Che Aristotele alluda anche a queste concezioni e non soltanto a quella creazionista, si inferisce dal fatto che qui si testimonia che egli rifiutò l’idea di un mondo che, come si è generato, così si distrugge, e per questo secondo aspetto il riferimento sembra essere proprio a quei «fisici» o «fisiologi» che, come quelli suddetti, pur secondo modalità concettuali differenti, si

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accomunano nel ritenere che l’unico mondo sussistente in ogni fase dell’evo è soggetto a corruzione perché poi ciclicamente un altro si generi (cfr. Bernays 1868, p. 101; Untersteiner 1963, p. 213). Cosicché, anche l’idea della generazione, presentata in unità con quella di corruzione, si allarga nel suo denotato fino ad abbracciare il corrispondente concetto naturalistico. La tesi platonica viene così mescolata con la tesi presocratica, per cui alla polemica di Aristotele occorre dare un respiro e un’ampiezza dottrinale ben più ampi di quelli che le interpretazioni genetiche tendono a delineare. 120 Cfr. il fr. 19/b, dove si dice che supporre che il mondo subisca corruzione «non è pio (oék eéag¤©)». Si rammenti che già Platone in Phil., 78 d aveva espressamente tacciato di «mancanza di santità» (oéd’ ¬sion) l’idea secondo cui il tutto è retto da una potenza irrazionale e casuale. E aveva contrapposto che, invece, di fronte alla visione del mondo e dell’ordine con cui si muovono il sole e la luna e gli astri è giusto (ôxion) affermate che «un intelletto ordina tutte queste cose (noÜn diakosmeÖn p¿nta aét¿)».

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accusò di terribile ateismo120 coloro che ritenevano giuste le tesi contrarie, i quali pensavano che un tale Dio visibile121 non differiva in nulla dai manufatti: il sole, la luna e quell’altro dai pianeti e dalle stelle fisse che veramente li abbraccia come realtà totalmente divina. E celiando diceva, com’è possibile sentire affermare, che anticamente temeva per la sua casa, che fosse distrutta da venti violenti o da tempeste impetuose o dal tempo o da mancanza di quella cura che armonizza , ora invece usava una paura maggiore nei riguardi di coloro che col ragionamento sopprimono tutto quanto il mondo. 19 a (R3 19, W 19 a) PHILO, De aetern. mundi, V, 20-24: per il rispetto verso il Dio visibile, 122 avendo assunto un principio proprio, per primi bisogna porre i discorsi che stabiliscono che è incorruttibile. Per tutti gli enti che ammettono corruzione si presentano due cause della distruzione:123 una interna e l’altra esterna. E infatti troverai che il ferro, il bronzo e le sostanze di questa natura scompaiono da sé quando la ruggine, invadendole, le divori al modo di una malattia simile a un esantema corrosivo; invece per cause esterne quando siano dissolte per l’impeto del fuoco se, bruciando la casa o la città, vengano prese assieme dalle fiamme. In pari modo anche per i viventi la fine sopraggiunge da se stessa per malattie; invece da cause 121 Ossia il mondo nella sua totalità e nei suoi singoli componenti, subito appresso richiamati: il sole, la luna e il primo cielo, che abbraccia e contiene tutte le cose (in proposito cfr. anche il fr. 19/a). Che il mondo nella sua totalità sia dio risulta pure dai frr. 19. Si veda anche Aezio, V, 20, 1 = Dox., p. 432. 122 Cfr. la nota precedente. 123 In proposito cfr. Phys., II, 6, 197 b 32-36; Metaph., XII, 4, 1070 b 22-24.

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Cfr. Platone, Tim., 33 a; fr. 13.

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esterne se sono sgozzati o lapidati o bruciati o sottoposti a una morte impura per impiccagione. Se anche il mondo si corrompe, necessariamente si corromperà o per opera di una delle potenze esterne, o per una delle potenze interne a esso. Ma ciascuna delle due cose è impossibile. Infatti, fuori del mondo non esiste niente, giacché tutti gli enti sono raccolti per il suo riempimento. Così, infatti, il mondo sarà uno, tutto intero, esente da vecchiaia: uno, per il fatto che, se alcuni enti fossero lasciati fuori, ne nascerebbe un altro simile a quello che esiste ora; tutto intero, per il fatto che tutta quanta la sostanza è stata catturata in esso; esente da vecchiaia e da malattia,124 perché gli enti che possono essere presi da malattia e da vecchiaia sono violentemente stravolti dal di fuori da caldi, da freddi e da altre contrarietà che vi si abbattono sopra; ma nessuna potenza fra queste, operando dal di fuori, circonda e gli si oppone, giacché tutte intere sono state comprese dentro , non essendosi allontanata alcuna parte. Pertanto, se esistesse qualcosa al di fuori , si tratterebbe senz’altro del vuoto o di una natura incapace di subire, la quale è impossibile che subisca o compia qualcosa. Ma non sarà dissolto neppure da qualche causa tra quelle interne a esso, innanzitutto perché la parte sarà più grande e più potente dell’intero; il che è assurdo. Infatti il mondo, servendosi di una forza insuperabile, guida tute le parti senza essere guidato da nessuna di esse. Inoltre perché, essendo due le cause della corruzione, una interna e l’altra esterna, quelle cose che sono tali da sottostare all’una, sono senz’altro atte ad accogliere anche l’altra. Eccone un indizio: il bue, il cavallo, l’uomo e gli animali consimili, poiché per loro natura sono uccisi dal ferro, muoiono anche per una malattia. È difficile, infatti, o, piuttosto, è impossibile trovare ciò che, sottostando per sua natura alla causa esterna della corruzione, sarà totalmente esente dall’accogliere la causa interna. Poi-

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125 Si veda la critica alla teoria empedoclea in De gen. et corr., 315 a 19-25. 126 Cfr. De gen. et corr., 334 b 31 ss. 127 Cfr. De caelo, 310 b 14-19; 312 a 16-18.

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ché dunque si è dimostrato che il mondo non sarà distrutto da nessuna delle cause esterne, per il fatto che assolutamente nulla è stato lasciato fuori , non lo sarà neppure per una di quelle interne a esso, in forza della dimostrazione che prima abbiamo esposto, secondo la quale ciò che non può essere catturato da uno dei due tipi di cause, per sua natura non accoglie neanche l’altro. 19 b (R3 20, W19 b) PHILO, De aetern. mundi, VI, 28 – VII, 34: altrimenti è possibile anche quest’argomento. Quanti degli enti composti si corrompono, tutti si dissolvono in quelli dai quali sono composti. Dunque, il dissolvimento, come s’è detto, non è nient’ se non un ritorno verso i componenti naturali di ciascun tipo di enti. Di conseguenza, dove, al contrario, vi è composizione, gli enti che si uniscono sono costretti a una condizione contro natura.125 E certamente sembra, in modo assolutamente privo di errore, che le cose stiano così. Infatti, noi uomini siamo costituiti dalla mescolanza dei quattro elementi che, tutti, sono propri di tutto il cielo, ossia la terra, , l’aria e il fuoco, avendo preso in prestito brevi parti .126 Gli enti risultanti da una mescolanza sono privati della loro posizione naturale,127 giacché il calore, che si pone in alto, è costretto verso il basso, mentre la sostanza terrosa e dotata di peso viene alleggerita e tiene il luogo superiore che occupa la parte più terrosa di quelle che sono in noi, ossia la testa. Ma il più privo di valore fra i vincoli è quello che ha stretto una violenza: violento e di breve durata, giacché viene spezzato più velocemente dagli enti uniti da legami, dal momento che sono riluttanti per il desiderio del movimento naturale, al quale tendono faticosamente. In effetti, secondo il poeta tragico, «le cose nate dalla terra ritornano alla terra e quelle germogliate da un seme etereo

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Cfr., fr. 839 Nauck. Cfr. i frr. 12/b e 17. 130 Cfr. il fr. 18 e la nota 120. 131 «Altri» è detto in riferimento al mondo, che è anch’esso un vivente. 129

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vanno di nuovo verso la volta celeste: nessuna delle cose che nascono muore, ma una distinguendosi rispetto a un’altra, mostrano la loro forma propria».128 Questa legge e questo precetto sono stati stabiliti per tutti quanti gli enti che si corrompono: quando gli enti che, aggregatisi nella mescolanza, sono diventati stabili, invece del ordine naturale assumono in cambio assenza di ordine e sono trasferiti nei luoghi contrari, cosicché in un certo modo sembrano abitare un paese straniero; quando invece si sono dissolti, ritornano verso la porzione propria assegnata dalla natura. E il mondo non è partecipe dell’assenza di ordine che si verifica negli enti che ho detto.129 E poi, suvvia, guardiamo! Corrompendosi , in questa ipotesi le parti è necessario che si ordinino, ciascuna, in una regione contraria alla loro natura. Ma supporre questo non è pio.130 Ché, tutte le parti del mondo hanno avuto in sorte la posizione migliore e l’ordine più confacente, così che ciascuna, avendo amore per la proprio regione come per una patria, non cerchi un mutamento verso una migliore. Per questo alla terra è stato assegnato il luogo più centrale, verso il quale si portano tutti gli enti terrosi, se siano gettati in alto. Ecco l’indizio che questa è la loro regione naturale: in effetti, nel luogo in cui un qualsivoglia ente sia stato portato non a violenza, si arresta e rimane in quiete, ossia ha in sorte il suo luogo proprio. Ma l’acqua in un secondo tempo si è versata sulla terra, l’aria e il fuoco dal centro si sono portati verso l’alto, l’aria avendo ottenuto in sorte il luogo intermedio tra l’acqua e il fuoco, il fuoco quello più in alto. Per questo, anche se, avendo acceso una fiaccola, la portassi verso terra, per nulla di meno la fiamma farà forza in senso contrario e, divenuta leggera, corre in alto in direzione del movimento naturale del fuoco. Ora, se la posizione contro natura costituisce la causa della corruzione degli altri131 viventi, ma nel mondo ciascuna delle parti è stata ordi-

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132 Poiché l’ordine è espressione di razionalità e il disordine dell’opposto, ogni operazione di Dio deve mirare all’ordine e realizzare alcunché di ordinato. Ora, il mondo, in quanto cosmo, è un insieme ordinato di corpi; di conseguenza la sua distruzione, in quanto rovina di un ordine, realizza un’assenza di ordine. Pertanto, se Dio distruggesse l’universo e non ne costruisse più alcuno, finirebbe per mutare soltanto l’ordine in assenza di ordine. Il che non gli si addice, mentre sarebbe conveniente che facesse il contrario, ossia che mutasse in ordine l’assenza di ordine. 133 Se Dio distruggesse il mondo senza costruirne un altro, poiché il mondo è opera sua e dunque corrisponde a un suo progetto, vale a dire a un suo pensiero, in lui si verificherebbe mutamento di pensiero. Non soltanto, ma un tale mutamento sarebbe espressione di pentimento, il quale denunzia un malessere dell’animo. Tutte determinazioni, queste, che non si addicono a Dio.

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nata secondo natura, avendo ottenuto in sorte la regione propria, a giusta ragione si dirà che il mondo è incorruttibile. 19 c (R3 21, W 19 c) PHILO, De aetern. mundi, VIII, 39-43: ma anche questo discorso è quanto mai adatto a dimostrare l’assunto del quale so che un’infinità di soggetti è fiera, ritenendo che è rigoroso e del tutto esente dal poter essere confutato. In effetti, domandano a che fine il Dio distruggerà il mondo: ché, o per non costruire più un mondo, o per costruirne un altro. Ebbene, la prima è estranea a Dio, giacché occorrerebbe che l’assenza di ordine mutasse in ordine, non che l’ordine mutasse in assenza di ordine.132 Inoltre, perché accoglierà anche mutamento di pensiero, affezione e malattia dell’anima.133 Infatti, bisognerebbe che non costruisse affatto un mondo, o che si rallegrasse di quello che è stato posto in essere, ritenendo che l’opera è a lui conveniente.134 La seconda è degna di una ricerca non breve. Se, infatti, al posto di quello che esiste ora costruirà un mondo diverso, quello che viene a essere sarà portato a compimento assolutamente o come peggiore, o come simile, o come migliore, circostanze di cui ciascuna può essere biasimata. Se infatti il mondo sarà peggiore, sarà peggiore anche il suo artefice. Ma le di Dio sono prive della possibilità di essere fatte oggetto di rimprovero e di critica, e di essere imperfette, sul presupposto che sono state costruite con un’arte e una scienza massimamente perfette. «Né infatti – si dice – una donna manca tanto d’intelletto da

134 E dunque che la costruzione del mondo precedente gli era sconveniente. Donde il mutamento di pensiero e il pentimento di cui sopra.

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135 Dio mostrerebbe, dunque, di avere meno intelletto di una donna, ossia di un soggetto che nella cultura e nella tradizione greca è ritenuta intellettivamente meno dotata dell’uomo e che Aristotele stesso ritiene essere sì capace di moralità ma non di attività teoretica, se pur potendo attuare il meglio preferisse il peggio. Il proverbio citato si trova anche in Filodemo, Rhet., II, p. 60, col. LV, 7 s.; p. 61, col. LVI. 136 Questo frammento è riportato anche al n. 11 e, parzialmente, al n. 8 delle Testimonianze.

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preferire le cose peggiori, pur essendo presenti le migliori».135 Ma è conveniente a Dio dare forma alle cose amorfe e porre meravigliose bellezze su quelle assai brutte. Ma se fosse simile, l’artefice avrebbe faticato inutilmente, non differendo in nulla dai bambini nella loro assenza di senno, i quali sovente, quando giocano, innalzano sulle spiagge mucchi di sabbia e poi, togliendoli con le loro mani, di nuovo li abbattono. Infatti, invece di costruirne uno simile, sarebbe molto meglio lasciare nella sua regione il mondo che all’inizio è stato posto in essere una sola volta, non eliminando niente, né aggiungendo niente, né operando un mutamento verso il meglio o il peggio. E se costruirà un mondo migliore, allora anche l’artigiano diventerà migliore, cosicché, quando costruiva quello precedente, egli era assai imperfetto nell’arte e nel pensiero; cosa che non è lecito neppure supporre. Infatti, il Dio è in se stesso uguale e simile a se stesso, non accogliendo né un decadimento verso il peggio, né un innalzamento verso il meglio.

20 (R2 18, R3 22, W 20) CIC., Lucullus, 38, 119 (Plasberg): In effetti, dopo che codesto tuo sapiente stoico ti avrà esposto punto per punto queste tesi, giungerà Aristotele, effondendo l’aureo fiume del suo discorso, il quale dirà che quello folleggia. Ché, il mondo non ha mai avuto origine, poiché nessun inizio si ebbe di un’opera così massimamente illustre, essendosi fatto innanzi un nuovo disegno, e in ogni parte esso (scil. il mondo) è stato sistemato in modo tale che nessuna forza possa produrre così grandi movimenti e un mutamento, nessuna vecchiaia possa sussistere per il trascorrere dei tempi, cosicché questo non perisce mai, venendo meno.136

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137 Il passo di Lattanzio, la cui fonte, come ha dimostrato Usener (Epicurea, LXXV, nota 2), è il Tubero, de origine humana di Varrone, che in esso trattava dell’origine del mondo e che conosceva certamente le opere perdute di Aristotele, ruota ancora sulla mutua implicazione tra l’avere avuto il mondo un’origine e l’avere una fine. Sul presupposto – questo è, infatti, l’assunto teorico che si coglie al fondo di tutta l’argomentazione – che l’una e l’altra circostanza sono espressione di finitezza temporale, e ciò che è temporalmente finito ha un inizio e una fine. Nell’ambito complessivo di un tale assunto, nel passo si scandiscono due momenti. Platone sostiene che il mondo ha avuto origine (ad opera del divino artefice) e che non ha una fine; Aristotele che non ha né inizio né fine, ma è eterno; per Epicuro, invece, i mondi hanno inizio e fine. Ebbene, in una prima battuta si fa presente che Platone ed Epicuro possono costringere Aristotele ad ammettere che il mondo ha avuto un inizio. L’argomento che lo costringerebbe a quest’ammissione è che esso si corrompe nelle parti, e quindi è necessario che si corrompa anche nella sua totalità, ossia abbia fine; ma per quanto s’è detto, se finisce vuol dire che ha avuto un inizio. Nella seconda battuta è in causa Epicuro, il quale costringe Platone e Aristotele a riconoscere che, avendo il mondo un inizio – per Aristotele perché costretto dal precedente ragionamento, per Platone perché questo ha professato nel Timeo –, allora ha una fine, contrariamente a quanto hanno creduto. Questo gioco di battute assume uno spicco anche maggiore sia sul piano letterario che su quello dottrinale se si tiene conto del fatto che il Sulla filosofia era un dialogo e che in esso intervenivano più personag-

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LACT., Inst. Orat., 2, 10: ché, se può perire interamente, perché perisce nelle sue parti, sarà chiaro che un tempo ha avuto origine, e la sua fragilità ne proclama, come l’inizio, così anche la fine. Ma se queste cose sono vere, Aristotele non avrebbe potuto impedire che anche il mondo stesso abbia avuto un inizio. Ma se Platone ed Epicuro avessero estorto ad Aristotele quest’, sia a Platone che ad Aristotele, i quali ritennero che il mondo esisterà sempre, per quanto siano eloquenti, Epicuro strapperà tuttavia, benché essi non lo gradirebbero, la medesima , perché segue che abbia una fine.137 21 (R2 19-20, R3 23-24, W 21) CIC., De nat. deor., II, 15, 42: poiché dunque la nascita di alcuni esseri viventi ha luogo sulla terra, di altri nell’acqua, di altri ancora nell’aria, ad Aristotele sembra che sia assurdo pensare che in quella parte della terra che è assai atta a generare esseri viventi, nessun essere vivente si generi.138 Ma le stelle occupano un posto nell’etere.

gi ad esporre e difendere le loro tesi: quella platonica, presentata, secondo l’ipotesi esegetica di Bignone (1973, II, pp. 526-531), da Platone stesso e quella di Aristotele. Richiamando ancora l’opinione di Bignone, Untersteiner (1963, p. 228) ritiene a sua volta che Epicuro doveva premettere la polemica tra i due filosofi rappresentata nel nostro dialogo all’esposizione della sua dottrina dell’origine dei mondi. 138 Nel Sulla filosofia Aristotele riconosce cinque regioni del mondo: quelle, rispettivamente, della terra, dell’aria, dell’acqua, del fuoco e dell’etere. Considerato che nessun essere vivente può abitare nella regione del fuoco, perché sarebbe subito distrutto, in questa prima parte del frammento si dimostra la necessità che alcuni abitino la regione dell’etere. La dimostrazione è la seguente: esseri viventi abitano nell’acqua (gli animali marini), nell’aria (i volatili) e sulla terra (gli animali terrestri). Per cui, per conformità con le altre regioni dell’universo, richiesta dall’ordine che lo regge, espressione della razionalità del suo artefice, dovranno esserci dei viventi che abitano la regione eterea. La disparità tra il numero delle regioni dell’universo e quello delle specie di viventi ha indotto taluni insigni studiosi a ritenere che qui Cicerone

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abbia adattato alla dottrina aristotelica quella stoica, che prevede soltanto quattro elementi e non ammette l’etere (così, tra gli altri, Heitz 1865, p. 185; Jaeger 1964, pp. 189-192; Cherniss 1944, I, pp. 596-597; Untersteiner 1963, pp. 229 s., per il quale «la fonte stoica di Cicerone ha conservato fedelmente soltanto una cosa, e cioè il carattere formale della dimostrazione analogica»), e taluni hanno ritenuto che l’Arpinate abbia desunto il pensiero di Aristotele da Posidonio (così Pohlenz 1950, p. 284 e Pohlenz 1967, II, p. 107; in precedenza Reinhardt 1926, pp. 62-86 aveva sostenuto che l’argomentazione così com’è presentata nel passo ciceroniano non riprodurrebbe il modo in cui venne formulata dallo Stagirita, ma quello nel quale fu trasformata da Posidonio, che la strutturò sulla base del criterio dell’analogia. Egli, in particolare, «come desunse dai Presocratici, non da Aristotele, la dottrina del nutrimento delle stelle, così fece anche per il collegamento tra la forma degli elementi e la zoogonia». Si veda anche Reinhardt 1921, II, p. 660). Per contro, già Heinemann 1928, II, p. 180 aveva riconosciuto che, se la dottrina che corpi celesti sono dotati di anima è platonica, è però aristotelico il modo con cui qui si dimostra che quest’anima vive nell’etere. Con l’assunzione di una posizione più netta hanno considerato il passo a tutti gli effetti aristotelico Zeller 1921, II, 2, p. 553; Bernays 1868, p. 102; Festugière 1954, II, p. 392 e p. 411. La considerazione che il fattore che è alla radice dei rilievi critici intesi a negare l’autenticità aristotelica del passo è la discrepanza suddetta, e che essa può essere facilmente spiegata considerando che il fuoco non è regione abitabile da alcun essere vivente, induce ad accordare il consenso alle tesi di questi ultimi studiosi. In verità Jaeger 1964, pp. 189-192, al fine di comprovare la tesi dell’adattamento da parte di Cicerone della dottrina aristotelica con quella stoica, ha sostenuto che nell’argomento originariamente formulato dallo Stagirita si sarebbero previsti anche viventi che abitano la regione del fuoco e che la relativa eliminazione sarebbe stata opera dell’intermediario stoico cui attinge Cicerone. Tanto asseriva sulla base del fatto che in Hist. Anim., 552 b 10 lo Stagirita afferma che gli insetti possono attraversare il fuoco senza subire danno e, so-

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E poiché questo è molto rado, sempre in movimento e dotato di vita, è necessario che quell’essere vivente che venga generato in esso, sia di senso acutissimo139 e di mobilità rapidissima. Per questo, poiché le stelle sono generate nell’etere, è logico che in esse siano presenti sensazione e intelligenza. Dal che deriva che le stelle si devono pensare nel novero degli dèi.140 CIC., De nat. deor., II, 16, 44: E in verità Aristotele deve essere lodato per aver pensato che tutte le cose che sono in movimento, o sono mosse dalla natura, o da una costrizione, o dalla volontà.141 Ma il sole, la luna e tutti gli prattutto, del fatto che Apuleio (De deo Socr., VIII, 137, p. 15, 12) indica espressamente come aristotelica la tesi di «animali nati nel fuoco (zˇáa pur›gona)». Ma nessuna delle due citazioni portate a sostegno dallo studioso sembra suffragare l’assunto. Quanto al passo della Historia animalium, altro è dire che alcuni insetti possono attraversare il fuoco (operazione limitata nel tempo ed eseguita al fine di trarsi fuori da esso, per non perire bruciati), altro che essi vivono nel fuoco. Una tale affermazione non trova alcun riscontro nei testi dello Stagirita, come del resto è ben logico, giacché nessun’esperienza avrebbe mai attestato il contrario. Quanto all’attribuzione di Apuleio, quanto si è or ora osservato consente di affermare con sufficiente sicurezza che si tratta di un’invenzione dell’autore. 139 Cfr. Epimon., 984 d dove si dice che gli dèi visibili, ossia gli astri «vedono in modo acutissimo (μx‡taton ïrfinta©)». 140 Posta nella prima parte del frammento la necessità che alcuni esseri viventi abitino la regione eterea, in questa seconda parte si dimostra che essi sono dèi, secondo la scansione seguente: gli esseri che abitano tale regione sono gli astri, come mostra l’esperienza, e per le precedenti considerazioni essi devono essere dei viventi (si badi, l’esperienza – lo sguardo al cielo – attesta che gli astri abitano l’etere; ma che siano esseri viventi non lo dice l’esperienza, ma la dimostrazione precedente). Ma poiché l’etere è una realtà sempre in movimento, rada e dotata di vita, anche gli esseri che abitano tale regione dovranno possedere queste qualità. E poiché si tratta di qualità che specificano acutezza di senso e d’intelligenza (infatti, tanto più un essere è intelligente, tanto più è rapido nel cogliere le cose; e tanto più è costituito di parti sottili e mobili, tanto più è percettivo), e tanta acutezza compete all’essere divino, ecco dunque che quei viventi che sono gli astri, sono dèi. 141 Cfr. Phys., III, 5, 205 b 5 s. dove si afferma che «qualcosa può es-

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sere in un certo luogo per violenza e non per natura ». Ma già Platone in Leg., X, 888 e distingueva i movimenti in naturali, fortuiti e dovuti all’arte. 142 Qui, come si vede, il carattere divino degli astri è inferito dalla volontarietà del loro movimento. Il quale, a sua volta, si spiega in virtù del fatto che gli astri sono esseri viventi, senzienti e intelligenti (cfr. Guthrie 1939, p. XXX; Mansion 1945, p. 98, nota 1). La proposta esegetica di Bernays (1868, p. 104) secondo cui la volontarietà di tale movimento non sarebbe che un errore di Cicerone o di qualcun altro che malamente trascrisse in âf’ ëautoÖ© (volontari) l’espressione âf’ ëaután (da se stessi) con la quale s’indicava il carattere particolare del moto degli astri, è francamente assai poco convincente e di fatto non ha trovato consenso tra gli studiosi. 143 «Che nel Sulla filosofia l’etere fosse chiamato “quinto corpo” o

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astri sono mossi. Ora, quelle cose che fossero mosse dalla natura, o per il peso si porterebbero in basso, o per la leggerezza si porterebbero in alto, ma nessuno di questi due riguarderebbe le stelle, giacché il loro moto è un movimento lungo l’orbe , ossia circolare. Né in verità si può dire che sono trasportate da una qualche forza maggiore, cosicché gli astri si muovono contrariamente alla loro natura. Infatti, quale potrebbe essere maggiore? Non resta, dunque, che il moto degli astri sia volontario. E colui che scorgesse queste cose agirebbe in modo non solo ignorante, ma anche empio se dicesse che non sono dèi.142 NEMES., De nat. hom., p. 69, 16-21 (Burkhard): Aristotele introduce poi anche un quinto corpo, ossia l’etere,143 vale a dire che trasla in circolo, non sopportando che il cielo sia stato fatto dai quattro elementi, ma chiama quinto corpo quello che trasla in circolo, poiché trasla in circolo intorno al medesimo . 22 (W 22) STOB., I, 43 (37), 1 = Plut., Mor. (De plac. Phil.), p. 98 f = PS.-GALEN., Phil. Hist., cap. 35: Platone e Aristotele che vi siano quattro generi di esseri animati: terrestri, acquatici, volatili e celesti. Infatti, anche gli astri sono detti esseri animati, e il mondo stesso divino, in quanto si tratta di un essere animato razionale e immortale. OLYMP., In Phaed., 180, 22-23 (Norvin): per questo Aristotele conferisce agli esseri animati del cielo l’intera creazione. “quinta sostanza” risulta dalla generale diffusione di quest’appellativo presso i dossografi, i quali attingono sempre a quello scritto. I trattati usano invece l’espressione “corpo primo”» (Jaeger 1964, p. 190, nota 2; si veda anche Mansion 1945, p. 98, nota 11).

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144 La migliore esegesi dei due brani di Olimpiodoro è fornita da Festugière (1954, II, p. 250), in un passo che per la precisione dei riferimenti e il carattere particolareggiato delle descrizioni mette conto riportare ad litteram per intero: «questi due scoli identici riguardano il passo del Fedone 111 b, dove Platone descrive il genere di vita degli abitanti della superficie superiore della terra, di questa terra completamente pura che si trova collocata nella parte pura del mondo, dove sono gli astri e che la folla dei dotti, che tratta di questioni (fisiche), chiama etere (Phaed., 109 b 6-c 2). Questi uomini respirano l’etere come noi l’aria, quindi essi sono esenti da malattie e vivono molto a lungo. Per i sensi (sono nominati solo la vista e l’udito) e l’intelligenza c’è tanta differenza fra questi uomini e noi, quanta fra il loro etere e la nostra aria. Hanno continuamente rapporto con gli dèi, faccia a faccia. Vedono il sole, la luna e gli astri tali quali sono in realtà. Donde risulta per loro una felicità indicibile (111 b-c). Non possiamo trattenerci dal riconoscere in questa sezione come il modello di ciò che sarà, in Aristotele, la descrizione degli dèi astrali. Certi paralleli sono sorprendenti: il senso della vista e dell’udito soli ricordati nel Fedone 111 b 4, soli assegnati agli astri (fr. 24); gli uomini della regione alta respirano l’etere (Phaed., 109 b, 111 b) e si nu-

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23 (R2 37, R3 42, W 23) OLYMP., In Phaed., 200, 3-6 (Norvin): che debba esserci anche una qualche stirpe intera di uomini che si nutrono in questo modo, testimonia pure colui che su questa terra si nutre dei soli raggi del sole: un soggetto di cui ha raccontato Aristotele, avendolo egli stesso visto. OLYMP., In Phaed., 239, 19-21 (Norvin): se Aristotele ha narrato che qui un uomo che non dorme e si nutre di sola aria di specie solare, che cosa si deve pensare degli esseri di lassù?144 24 (R2 39, R3 48, W 24) OLYMP., In Phaed., 26, 22-27 (Norvin): anche Proclo145 vuole che gli esseri celesti possiedano soltanto vista e udito, come pure Aristotele. Ché, possiedono quelle sole, tra le sensazioni, che concorrono al vivere bene, non quelle finalizzate al vivere,146 mentre le altre sensazioni concorrono al esistere. Lo testimonia anche il poeta, esprimendosi con queste : sole, che tutte le cose vedi e tutte ascolti,147

come se quegli esseri avessero soltanto vista e udito. anche che soprattutto queste sensazioni fanno conoscere più nell’agire che nel patire, e che esse so-

trono di raggi solari (fr. 23); gli astri vivono nell’etere, donde sono usciti (fr. 27) e si nutrono di vapori sottili (Cic., De nat. deor., II, 16, 43 = Walzer, fr. 21, p. 84)». 145 In Plat. Crat., p. 57, 6-10; In Plat. Tim., II, p. 82, 3-13; In Plat. Remp., I, p. 232, 20-22. 146 La distinzione tra «vivere» e «vivere bene» è una costante del pensiero di Aristotele. La si trova sia qui che in un testo tardo quale De an., II, 8, 420 b 17-21. 147 Il., III, 277; Od., XII, 323.

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148 Cfr. fr. 8, in cui si dice che le essenze astrali sono «immutabili (àmet¿blhta)» e De caelo, 279 a 20, 30. 149 Per la traduzione e le note di questo frammento, la cui materia richiede una specifica competenza in campo musicale, mi sono ampiamente valso della traduzione e delle note di Untersteiner 1963, il quale, come espressamente segnala nell’Introduzione (p. X), ha riprodotto versione e note redatte da Maria Timpanaro Cardini («La parola del passato» 85, 1962, pp. 300-312). 150 Ossia tutte quelle che non riproponessero il tono dorico (cfr. Resp., 339 a-c). 151 Dello stato ideale. 152 Da assumersi qui in senso ampio, comprendente sia la musica in senso proprio, vale a dire i suoni espressi «dalla gamma limitata all’estensione dell’ottava» (Festugière 1954, II, p. 251, nota 1) e, in specie, quelli prodotti dal movimento degli astri, giacché «le otto sfere celesti formano pur esse un’ottava» (Ivi), sia «l’insieme dei rapporti numerici che sta alla base della struttura delle anime astrali e dei loro movimenti» (Berti 1962, p. 375). A ben vedere, i primi sono un’espressione di questi secondi, e dunque si potrebbe anche specificare il significato di «armonia» con questi soltanto, come per l’appunto fa Berti. Ma forse non è male lasciare espressa la valenza semantica del termine nell’esplicazione della sua intera ampiezza. 153 Riferimento ai quattro suoni fondamentali della gamma: hapate,

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no più adatte a quegli esseri in quanto non sono passibili di alterazione.148 Damascio, invece, vuole che essi possiedano anche le altre sensazioni. 25 (R2 43, R3 47, W 25)149 PLUT., Mor. (De musica), p. 1138 c: dopo aver dimostrato che Platone non biasimò le altre 150 né per ignoranza né per inesperienza, ma perché – così riteneva – non convenivano a una tale costituzione,151 mostreremo di seguito che era esperto di armonia.152 Il fatto si è che nella generazione dell’anima che ha luogo nel Timeo [...] 1139b – 1140b: che l’armonia sia venerabile e qualcosa di divino e di grande, Aristotele, discepolo di Platone, afferma in questi termini: «l’armonia è celeste perché possiede una natura divina, bella e demonica. Essendo per sua natura quadripartita nella sua potenza,153 possiede due medie: l’aritmetica e l’armonica, e le sue parti,154 le sue grandezze, e i suoi intervalli si manifestano secondo il numero e l’uguale misura.155 Ché, le melodie si modulano in due tetracordi».156 Queste le sue parole. E diceva che il suo corpo è costituito di parti dissimili,157 che tuttavia collaborano tra loro. Ma anche le sue medie sono consonanti

mese, paramese e nete. «Potenza (d‡nami©)» ha qui significato matematico e denota il quadrato di un numero. Infatti, «i quattro termini della proporzione armonica dell’ottava 6, 8, 9, 12, moltiplicati fra loro, danno il numero quadrato 5184, la cui radice è 72. E poiché 72 è anche il prodotto degli estremi (6 × 12) e quello dei medi (8 × 9), così l’ottava è potenzialmente (nel senso matematico) distribuita in quattro termini, cioè è una potenza quadripartita» (Timpanaro Cardini in Untersteiner 1963, p. 249). 154 Le quattro note. 155 I due tetracordi, di cui si dice più avanti. 156 Ogni tetracordo è costituito da due toni e un semitono minore. 157 «Qui l’armonia è considerata nel suo complesso, sáma e perciò le sue parti sono 2:1» (Timpanaro Cardini in Untersteiner 1963, p. 250).

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158 Il testo sul punto è corrotto. Sulla linea della congettura del Ross, ma sostituendo tÉ© m¤sh© con tÉ© param¤sh© leggo: ì d‚ ne¿th ñper¤cei tÉ© param¤sh© kat’ àriqmhtikÂn lfigon úsˇw m¤rei ka‰ ì param¤sh tÉ© ñp¿th©, ossia: 12-9 = 9-6.

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secondo un rapporto aritmetico. Infatti, la nota più alta, armonizzandosi con la nota più bassa in un rapporto doppio (2: 1), realizza la consonanza di ottava: infatti, come prima abbiamo detto, la nota più alta ha dodici unità, la nota più bassa sei, la seconda nota, la quale si armonizza con quella più bassa secondo un rapporto emiolo (3: 2), nove unità, e abbiamo detto che otto unità sono della nota di mezzo. Avviene che gli intervalli basilari della musica si costituiscano mediante questi : quello di quarta, che corrisponde al rapporto epitrio (4: 3), quello di quinta, che corrisponde al rapporto emiolo (3: 2), quello di ottava, che corrisponde al rapporto doppio (2: 1). Ma si salva anche il rapporto epogdo (9: 8), che corrisponde al rapporto del tono. Avviene che con le medesime eccedenze le parti dell’armonia superano e sono superate dalle parti dell’armonia, e le medie dalle medie, sia secondo l’eccedenza vigente tra i numeri che secondo la capacità geometrica. Ebbene, Aristotele mostra che le eccedenze hanno le capacità del genere seguente: la nota più alta (12) supera quella di mezzo (8) della terza parte di se stessa (4); la nota più bassa (6) è superata da quella di mezzo (8) di una pari misura (2), cosicché si verificano eccedenze delle relazioni: in effetti, superano e sono superate dalle medesime parti. Ebbene, tale è l’eccedenza armonica. Secondo il rapporto aritmetico, invece, la nota più alta (12) supera la seconda nota (9) di una parte pari a quella con cui la seconda nota (9) supera la nota più bassa (6).158 Pertanto, i suoni più alti superano la nota di mezzo e ne sono superati con gli stessi rapporti: con l’epitrio (4: 3) e con l’emiolo (3: 2). Infatti, la seconda nota (9) supera quella di mezzo (8) secondo il rapporto epogdo (9: 8); a loro volta, la nota più alta (12) è doppia di quella più bassa (6), la seconda nota (9) ha con quella più bassa (6) un rapporto emiolo (9: 6 = 3: 2) e la nota di mezzo (8) si armonizza rispetto a quella più

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159 Ecco come Timpanaro Cardini (in Untersteiner 1963, pp. 251 s.) interpreta l’intero passo: «Per l’interpretazione tecnica di tutto il frammento sono partita da queste considerazioni. Il periodo iniziale, con le parole testuali di Aristotele, contiene i seguenti punti: 1. l’armonia è una potenza quadripartita; 2. contiene due medie, aritmetica e armonica; 3. le parti, nelle loro grandezze e intervalli, sono regolate secondo rapporti di numero e di equivalenza ritmica nei due tetracordi. Il secondo capoverso, da sunest¿nai fino a toniaÖon lfigon, svolge il punto 1, con la determinazione dei valori numerici delle quattro parti, e degli intervalli musicali che ne derivano. La terza parte, la più accidentata, svolge il secondo punto, cioè rende ragione dei rapporti che uniscono gli estremi rispettivamente alle due medie, aritmetica e armonica (nella dimostrazione l’armonica passa al primo posto). E precisamente: da taÖ© aétaÖ© ñperocaÖ© fino a d‡namin sumba›nei è annunciato il principio generale del rapporto tra estremi e medi. Dalle parole t„n d‚ ne¿thn fino a ì êrmonik‹ è spiegato il rapporto degli estremi n‹th e ñp¿th con la m¤sh, che è medio armonico (12-8: 8-6: 12-6). Ecco dunque la necessità di correggere param¤sh© in m¤sh©, perché il termine di riferimento dev’essere uno, e propriamente il medio armonico (8). Il periodo corrotto contiene la prosecuzione logica della dimostrazione; si deve ora spiegare il rapporto che unisce gli estremi al medio aritmetico, per cui in modo analogo va corretto m¤sh© in param¤sh©, perché anche qui il termine di riferimento

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bassa (6) di un rapporto epitrio (8: 6 = 4: 3). Per le parti e per i numeri l’armonica, secondo Aristotele, sta in questo modo. E si è costituita, sia essa che tutte le sue parti, nel modo più aderente alla natura, vale a dire dalla natura pari, da quella dispari e da quella parimpari. Essa, infatti, nella sua totalità è pari, essendo divisa in quattro termini, mentre le sue parti e i loro rapporti sono pari, dispari e parimpari. Infatti, ha la nota più alta pari, essendo di dodici unità; la seconda nota dispari, essendo di nove unità; la nota di mezzo pari, essendo di otto unità; la nota più bassa parimpari, essendo di sei unità. Essendo, dunque, per sua natura così sia essa che le sue parti, le une rispetto alle altre, nelle eccedenze e nei rapporti, essa nella sua interezza si accorda tanto con la sua interezza che con le sue parti.159 Ma anche le sensazioni che s’ingenerano nei corpi mediante l’armonia, quelle che sono celesti e divine, le quali tramite Dio forniscono la percezione agli uomini, vale a dire la vista e l’udito, manifestano l’armonia tramite il suono e la luce. E le altre che s’accompagnano a queste si costituiscono, in quanto sensazioni, secondo armonia, giacché anche queste non realizzano tutte le loro senza armonia e, pur essendo inferiori dev’essere il medesimo, che è, in questo caso, il medio aritmetico (9). Infatti, 12-9 = 3; 9-6 = 3 o anche 12-9: 9-6 = 3:3. Terminate le due spiegazioni parziali riguardanti i rapporti delle singole medie, con le parole toÖ© goÜn aétoÖ© lfigoi© fino alla fine del cap. l’autore riassume tutto il già detto, specialmente dal punto di vista degli intervalli musicali e così svolge il terzo punto della proposizione iniziale. Vorrei aggiungere un chiarimento sempre a proposito della medietà armonica, che è la più difficile a comprendersi; è da notare cioè il valore di ïmo›w©, il quale termine precisa che della stessa quota parte di sé, per cui la nete supera la mese (12 supera 8 di una sua propria terza parte, cioè 4), la hapate è superata dalla mese (6 è superato da 8 di una sua propria terza parte, cioè 2). Questa è la proporzione detta armonica, in cui le due differenze non sono uguali aritmeticamente (4 non è uguale a 2), ma sono uguali prfi© ti, cioè sono tutte e due 1/3, il 4 rispetto al 12 e il 2 rispetto al 6».

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160 Dunque, le stesse sensazioni si costituiscono secondo armonia e ne danno testimonianza. La vista e l’udito in quanto manifestano la luce e il suono, che sono fenomeni strutturati su rapporti armonici tra numeri. Si tratta di sensi che è una costante del pensiero aristotelico considerare superiori. Lo attesta, per ciò che riguarda la vista, l’inizio del primo libro della Metafisica (980 a 1 ss.), dove, notoriamente, in un contesto ove a testimonianza del fatto che il desiderio di conoscere è connaturato in tutti gli uomini Aristotele richiama l’amore che tutti hanno delle sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità, si dice che fra tutte si ricerca soprattutto la vista. «Infatti, non soltanto ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire noi preferiamo il vedere, in un certo senso, a tutte le altre sensazioni» (Ivi, 980 a 17-19). Ancora in De an., III, 3, 429 a 3 lo Stagirita afferma che «la vista è senso al massimo grado». Sempre in De an., III, 12, 434 b 24 Aristotele fa presente che, mentre il tatto e il gusto «sono necessari per l’animale, ed è chiaro che l’animale non può esistere senza tatto, gli altri sono in vista di un bene». La vista e l’udito, dunque, non sono necessari al fine puramente biologico di mantenersi in vita, ma per una migliore organizzazione della vita stessa, e non soltanto sul piano strettamente biologico, ma, in senso proprio, su quello culturale. Anche le altre sensazioni, pur non derivando dalla vista e dall’udito, hanno però una struttura armonica. 161 Cfr. Protrettico, fr. 10 Ross e Metaph., XII, 7, 1074 b 34. Cfr. anche Sulla preghiera, fr. 1. 162 Cfr. i frr. 18 e 19/a di questo stesso scritto; inoltre De caelo, 284 a 2-8; 286 a 9-12. 163 A che cosa alluda Cicerone con queste espressioni, è controver-

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alle prime, non derivano da esse. Le prime, infatti, sorgendo assieme nei corpi per la presenza di Dio secondo un rapporto numerico, possiedono una natura forte e bella.160 Da queste è chiaro, dunque, che agli antichi Greci stava ben logicamente a cuore di coltivare, tra tutte , principalmente la musica. 26 (R2 21, R3 26, W 26) CIC., De nat. deor., I, 13, 33: e Aristotele nel terzo libro della sua opera Sulla filosofia nel dissentire dal suo maestro Platone mescola assieme molte cose. Talvolta, infatti, attribuisce ogni divinità a una mente,161 talvolta afferma che il mondo stesso è Dio,162 talvolta pone a capo del mondo qualche altro essere e gli assegna quegli uffici, così che governi e protegga il movimento del mondo con un certo moto all’indietro,163 talvolta sostie-

so. Ciò che soprattutto fa problema è il significato da attribuire a «moto all’indietro (replicatio)». Cherniss (1944, pp. 591-592), ripreso da Untersteiner (1963, pp. 257-260), indica fondamentalmente tre interpretazioni: (1) «moto all’indietro» corrisponde al mitico «rivolgimento contrario (àne›lixi©)» di cui parla Platone in Politico, 270 d; 286 b. È l’esegesi di Bignone (1973, II, pp. II, pp. 377-380), nel contesto della quale l’«altro essere» al quale Dio assegna l’ufficio di dirigere il moto del mondo sembra coincidere con il corso stesso dell’universo nel periodo in cui Dio abbandona la direzione del mondo (Pol., 270 b), giacché in seguito a tale abbandono – dice Platone – l’universo che prima ruotava in un senso, ruota nel senso contrario. (2) Ad avviso di Moraux J. (1939, p. 118), la cui tesi è condivisa anche da Bidez (1943b, p. 39) e da Festugière (1954, II, pp. 245-246), il «moto all’indietro» è «il movimento diurno nel quale la sfera delle stelle fisse, identificandosi col “dio supremo”, trascina nel proprio movimento i pianeti e così controlla il movimento del mondo con una “rivoluzione in senso inverso”». (3) A partire da Zeller (1921, II, 2, pp. 373-374 e nota 4; pp. 455 ss.), nel «moto all’indietro» è stato individuato quel «moto retrogrado di tutti i pianeti, compreso quello del sole e della luna» che «è attribuito al dominio spettante a un solo e medesimo Dio». Il che corrisponde alla dottrina di Metaph., XII, 8 secondo cui ogni traslazione (for¿) e non soltanto quella del primo cielo richiede uno specifico

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motore immobile. Cosicché, come rileva Von Arnim (1931, pp. 4-5), qui è chiamato in causa un dio diverso dal primo motore immobile, quello cioè che muove il cielo delle stelle fisse, un dio che per ogni cielo è causa della sua traslazione e della sua replicatio. 164 Ossia l’etere (cfr. Cic., De nat. deor., I, 14, 37: «ardorem qui aether nominetur»). 165 Il «dio visibile» del fr. 18. 166 Questa critica colpisce la concezione di Dio come causa del «moto all’indietro, non quella del Dio come mens (cfr. Untersteiner 1963, p. 261). 167 Qui la critica è rivolta alla concezione di Dio come etere (caeli ardor), il quale contrasterebbe con la divinità attribuita agli astri (cfr. Alfonsi 1951, pp. 3-4). 168 Riferimento alla nozione di Dio come mens. 169 «Questo dilemma – commenta Festugière (1954, II, p. 244) – apparentemente deve confutare la nozione del Dio incorporeo (mens) e quella del Dio corporeo (cielo, mundus, astri)». La serie delle contrad-

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ne che il calore del cielo164 è Dio, non comprendendo che il cielo è una parte del mondo che in un altro luogo egli stesso ha designato come Dio.165 Ma in che modo quel senso divino del cielo può conservarsi in sì grande velocità?166 Dove stanno, poi, quei tanti dèi se consideriamo Dio anche il cielo?167 E quando egli vuole che Dio sia senza corpo,168 lo priva di ogni senso, anche della sapienza. Inoltre, in che modo il mondo può muoversi se manca di un corpo, o in che modo può essere in quiete e felice se muove sempre se stesso?169 27 (W 27) CIC., Acad., I, 7, 26: e così l’aria – infatti, facciamo uso di questo termine anche in latino – il fuoco, l’acqua e la terra costituiscono le prime dalle quali si sono originate le specie degli esseri viventi e di quelle cose che si generano dalla terra.170 Pertanto quelle sono dette principi e, per tradurre dal greco, elementi. E, tra esse, l’aria e il fuoco hanno capacità di muovere e di effettuare, mentre le altre parti hanno quella di ricevere e, per così dire, di essere passive, intendo l’acqua e la terra. Il quinto genere, dal quale sono derivati gli astri e gli intelletti, Aristotele ritiene che sia alcunché di particolare e di diverso da quelle che ho sopra menzionato. CIC., Tusc. disp., I, 10, 22: Aristotele, di gran lunga il più dizioni circa la dottrina degli dèi che Cicerone imputa ad Aristotele, l’Arpinate la deriva – come gli studiosi concordano nel mettere in luce (cfr. Jaeger 1964, p. 172; Bignone 1973, II, p. 365; Untersteiner 1963, p. 255) – da una fonte epicurea utilizzata anche da Filodemo in De piet., 7 b 4-8 (Dox., p. 539, 8-10). Cherniss (1944, p. 592) fa presente che tali contraddizioni si riconducono a quattro modi di presentare Dio, alla base dei quali gioca una sostanziale assimilazione da parte della fonte epicurea (o comunque una mancata distinzione) tra ciò che lo Stagirita chiama qefi© e ciò che qualifica come qeÖon. 170 Ossia le piante.

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171 Ossia acqua, aria, terra e fuoco. Essi sono «principi» sia in quanto, come subito appresso si dice, costituiscono ciò da cui tutti gli enti (sublunari) si originano, sia nel senso di «elementi», ossia come ciò che non può ulteriormente dividersi e che pertanto costituisce il fattore primo. 172 Il termine, che fa parte del comune vocabolario greco e significa «persistenza, continuità» (cfr. L. Rocci, Vocabolario greco-italiano, Milano 1962, s.v.), non trova riscontro nei trattati aristotelici (come anche risulta dal non essere registrato né nell’Index del Bonitz, né nel Lexicon informatico di Radice). Non sembra che abbia in alcun modo a che vedere con la parola ântel¤ceia, che propriamente significa «essere nel compimento (ân t¤lei öcein)» e denota completezza, ossia attuazione. 173 Come sosteneva Senocrate, per il quale l’animo è un «numero che muove se stesso» (cfr. De an., 404 b 27 = fr. 60 Heinze = fr. 195 Isnardi Parente; An. po., 91a 37 sgg.; Top., 120b 3).

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valido di tutti – faccio sempre eccezione per Platone – per ingegno e accuratezza, dopo aver abbracciato quei quattro generi noti di principi dai quali si originano tutte le cose,171 crede che esista una certa quinta natura, dalla quale deriva l’intelletto. Infatti, egli ritiene che il pensare, l’essere provvidenti, l’apprendere, l’insegnare, il fare qualche scoperta e altre attività di numero così elevato, ossia il ricordare, l’amare, l’odiare, il desiderare, il temere, l’angosciarsi, l’allietarsi, queste e altre simili a esse non sussistono in nessuno dei quattro generi. Aggiunge un quinto genere che manca di nome, e così con un nuovo nome chiama l’animo ândel¤ceia,172 come se si trattasse di un certo moto continuo e perenne. CIC., Tusc. disp., I, 17, 41: in verità, tanto se l’animo consiste in un certo numero,173 il che viene sostenuto con sottigliezza più che con lucidità,174 o in quella quinta natura non nominata più che non capita, si tratta di realtà anche molto più integre e pure, cosicché si discostano di gran lunga assai dalla terra. CIC., Tusc. disp., I, 26, 65 – 27, 66: se poi esiste una certa quinta natura, introdotta per la prima volta da Aristotele, essa è propria degli dèi e degli animi. Noi che seguiamo questa dottrina l’abbiamo sostenuto nella Consolazione175 con queste stesse parole: «sulla terra non si può trovare alcuna origine degli animi. Ché, negli animi non vi è niente di mescolato o di frammisto, o che sembri esser stato originato e composto a partire dalla terra,176 niente neppure di umido o di aereo o di igneo. Infatti, in

174 Cfr. De an., 408 b 32-33: «Ma la di gran lunga più illogica tra quelle che abbiamo esposto è il dire che l’anima è un numero che muove se stesso». 175 Fr. 10 Müller. 176 Cfr. il fr. 21.

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Cfr. fr. 26 alla fine. Cfr. Phys., 194 a 18; Themist., Phys., 42, 20-22. 179 Cfr. Simpl., Phys., 302, 18-20; Themist., Phys., 42, 22-26. 180 Il verso, composto da un poeta sconosciuto, è riportato come fr. 447 nei C. A.F., III, p. 493. Filopono (Phys., p. 236, 7) ne identifica l’autore in Euripide, ma tale ipotesi è stata confutata da Bonitz sul presupposto che la risoluzione della quinta arsi fa pensare a un poeta comico (cfr. Ross 1936, p. 509). Il denotato del verso è, in tutta evidenza, la morte. 181 Ecco dunque un secondo aspetto del carattere scherzoso del verso: «il fine non è solo il termine di un movimento; è inoltre il bene» (Hamelin 1931, p. 75). 178

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queste nature non è insito niente che possegga la forza della memoria, della mente, del pensiero, che trattenga le cose passate, preveda quelle future e possa abbracciare le presenti. Cose che, esse sole, sono divine, né mai si troverà donde possano provenire all’uomo se non da Dio. Si tratta, dunque, di una qualche natura singolare e di una potenza dell’animo disgiunta da queste nature usitate e ben note. Così, qualunque sia quella realtà che sente, che ha sapienza, che vive, che ha vigore, essa è necessariamente celeste e divina, e per questo motivo eterna. Né in verità il Dio stesso che è compreso da noi può essere compreso in altro modo che come una certa mente svincolata e libera, separata da ogni commistione soggetta a morte, che tutto conosce e muove e fornita essa stessa di moto sempiterno». Da questo genere e da questa medesima natura proviene la mente dell’uomo. CLEM. ROM., Recogn., 8, 15: Aristotele ha introdotto anche il quinto elemento, che ha chiamato àkatonfimaston, ossia «non passibile d’avere un nome», indicando senza dubbio colui che, congiungendo in unità i quattro elementi, ha creato il mondo. 28 (W 30) ARIST., Phys., II, 1, 194 a 27-36: Inoltre, sono propri della stessa il ciò in vista di cui177 e il fine,178 e quanto è in vista di questi. E la natura è fine e ciò in vista di cui. Infatti, delle cose del cui movimento, essendo continuo, vi è un qualche fine, questo è il ultimo e il ciò in vista di cui.179 Perciò il poeta fu sospinto a dire scherzosamente: ha la fine in vista della quale è nato.180

In effetti, non ogni ultimo vuol essere un fine, ma il migliore.181 Poiché anche le arti costruiscono la materia:

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182 Cfr. Themist., Phys., 43, 4.5: «l’arte del costruire fa assolutamente la sua materia quando fabbrica delle tegole; quella del modellatore fa la cera maneggevole, la adatta alle sue necessità». 183 Cfr. Ross 1936, p. 509: «per confermare il fatto che lo studio della materia procede con lo studio della forma, Aristotele rileva che le arti non solo studiano la materia in cui è incorporata la forma che è il loro fine, ma anche la lavorano, sia con un sostanziale cambiamento da qualche cosa di differente o col renderla più plasmabile, come quando la cera è sciolta o il ferro è fuso; e, inoltre, Aristotele rileva che le arti trattano la materia quale mezzo per i fini umani». Cfr. anche Themist., Phys., 304, 8-10. 184 Cfr. il fr. 26.

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le une in senso assoluto, le altre come cosa facile a lavorarsi,182 pure facciamo uso come se tutte le cose esistessero in vista di noi .183 (in effetti, in un certo modo anche noi siamo un fine. Ché, il ciò in vista di cui è in due sensi,184 e lo si è detto nello scritto Sulla Filosofia).185

185 Le ultime righe sono riportate anche al n. 1 delle Testimonianze. I due sensi in cui si dice «ciò in vista di cui» sono indicati in De an., 415 b 2-3 («il “ciò in vista di cui” e duplice: da un lato è il “ciò di cui [t o˘]”, dall’altro il “ciò a vantaggio di cui [t ˇ˙]”, ossia, da un lato lo scopo, dall’altro il soggetto al quale una certa cosa è finalizzata. Per esempio, il “ciò di cui” dell’arte medica nel primo senso è la salute, perché essa costituisce lo scopo che quest’arte vuole realizzare, nel secondo senso è il malato, in quanto colui a vantaggio del quale la medicina opera) e in Metaph., 1072 b 2-3 («il “ciò in vista di cui” è, da un lato, “a vantaggio di qualcuno” [tin›], dall’altro “di qualcosa” [tinfi©]»).

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INTRODUZIONE

1. Lo scritto Sulla giustizia (per‰ dikaios‡nh©), in quattro libri, è indicato all’inizio del catalogo di Diogene Laerzio. Nell’edizione del 1863 Rose ne recensiva sette frammenti, ossia (1) Demetrio, De elocuzione, 28; (2) Athen., Epist., I, 6 d; (3) Suda, s.v. Euribatos e Greg. Com, Ad Herm., 19; (4) Plut., De stoic. rep., 13; (5) Porphyr., In Arist. De interpr., presso Boet., In de interpr.; (6) Athen., VIII, 335 f; Cic., Tusc. Disp., 5, 35; De fin., 2, 32, 106; (7) Procl., Schol. in Hes. Op., 359 e tutti, ad eccezione dell’ultimo, compaiono anche nell’edizione del 1870 (pp. 1487-1489), nella quale lo studioso aggiunse anche Lact., Inst. Div., V, 14 e Epit., 55. Nella terza edizione (1886, pp. 86-91, frr. 82-90) Rose aggiungeva Svet., Per‰ blasfhmián, p. 416 al frammento riguardante Euribato; inoltre ampliava la raccolta con due frammenti che nella prima edizione aveva attribuito al Sulla ricchezza, e cioè Them., Or., 2, p. 31 (= fr. 88) e Cic., De off., II, 16 (= fr. 89). Per parte sua Heitz (1869, pp. 19-23) riconosceva come appartenenti al nostro scritto i passi della Suda, di Demetrio, di Boezio, di Plutarco e di Proclo, ai quali cinque frammenti aggiungeva, ma non senza qualche incertezza, Stob., Flor., XX, 47; 55; 65. La sistemazione data da Ross è quella assunta nella presente edizione. 2. Il punto di riferimento obbligato nella storia delle esegesi novecentesche del Sulla giustizia è la tesi del Mo-

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raux, avanzata in una serie di studi di cui quelli più significativi sono il volume del 1957 e un saggio del 1960, secondo la quale l’opera è posteriore al Protrettico. Lo studioso la motivava con la vicinanza delle tematiche trattate nei due scritti, cui però corrisponde una maggiore complessità e una più matura presa di posizione critica del primo nei confronti del platonismo. Egli ha mostrato come il Sulla giustizia, in quattro libri, a partire dall’esame di questa virtù o, più precisamente, per sviscerarne la nozione in tutti i suoi risvolti si apriva a una pluralità di argomenti a essa strutturalmente connessi quali l’anima e i suoi rapporti col corpo, lo stato e le forme di governo, e poi le differenti specie di giustizia, in una visione complessiva ove è rilevabile un costante riferimento alle corrispondenti tesi platoniche, e innanzitutto a quelle svolte nella Repubblica, ma con un’accentuazione meno marcata della valenza intellettualistica dell’etica, rilevabile già dall’importanza data alle virtù della parte irrazionale dell’anima, di contro all’esclusiva attenzione per la phronesis mostrata nel Protrettico. Segnalava poi l’abbandono della concezione radicalmente dualistica di anima e corpo presente nell’Eudemo a favore di quella per la quale il corpo è strumento dell’anima. Nuyens 1948 aveva chiamato, per l’appunto, tale concezione «strumentale» e l’aveva indicata come intermedia, nel processo evolutivo della psicologia aristotelica, tra quella dualista e quella ilemorfica professata nel De anima. Per l’ampiezza delle tematiche trattate, Moraux aveva individuato nel Sulla giustizia l’opera nella quale dovevano essere svolte in forma vasta trattazioni riprese poi, ma in modo più succinto, nella Politica. In particolare, l’analisi dettagliata dei differenti tipi di autorità cui Pol., III, 6 accenna soltanto e la critica, svolta in Pol., I, 1, 1252 a 9-19 in una forma che allude a una trattazione più ampia, della concezione ancora platonica secondo cui tra l’uomo di stato, il re, l’amministratore e il padro-

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ne non sussiste alcuna differenza di tipo qualitativo, ma esiste soltanto una differenza quantitativa. Questa ricostruzione, se per un verso ha segnato una pietra miliare nello stabilire la necessità di un rapporto tra il Sulla giustizia e il Protrettico, non ha però mancato di suscitare varie critiche in ordine alla ricostruzione complessiva dell’opera e alla sua datazione. In particolare, le è stato opposto di essere non poco arbitraria nell’identificare tout court nel nostro dialogo lo scritto al quale si riferirebbero i lfigoi âxwteriko› là dove trattano dei temi di cui sopra, con la conseguenza di ricostruire da questi i contenuti di quello. In tal senso si sono espressi, tra gli altri, Verbeke 1958, Weil 1962, Morrow 1958 e Düring 1976, per il quale il tentativo di ricostruzione del Moraux «è molto allettante, ma deve rimanere un’ipotesi» (p. 538). Dal canto suo, Berti (1962, pp. 437 s.) ha negato sia che il Sulla giustizia manifesti una concezione più matura di quella del Protrettico nei confronti delle posizioni platoniche e in particolare della dottrina delle idee, che entrambi gli scritti e non soltanto il primo rifiuterebbero, sia, di conseguenza, la posteriorità del Della giustizia al Protrettico, entrambi gli scritti appartenendo a suo avviso alla medesima fase di sviluppo dottrinale. A favore di una datazione relativamente antica del Sulla giustizia, argomentata sulla base dei rapporti tra questo scritto e la Repubblica, si erano invece pronunciati, nell’Ottocento, Zeller (1921, II, 2, pp. 5759) e Hirzel (1963, I, pp. 287 ss.), e questa collocazione cronologica nel secolo successivo fu ripresa e difesa con particolare forza da Robin (1944, pp. 15 ss.). Altri studiosi, invece, pur sottolineando determinatamente, come vedremo, il rapporto tematico tra il nostro dialogo e la Repubblica, non hanno avallato su questa base anche la convinzione di una composizione pristina dello scritto aristotelico. Quanto alla non adesione dello Stagirita, nel Sulla giustizia, alla platonica teoria delle idee, già

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Gigon 1973-1974 si era espresso in questo senso, e non perché nel dialogo mancherebbero indizi tali da far credere il contrario, ma perché in esso si potrebbe ravvisare la presenza di una critica di Aristotele alla dottrina in oggetto. Anche coloro che, come De Strycker 1958 ed Évrard 1970 si sono espressi in modo molto più favorevole verso il Moraux, manifestando in buona sostanza il loro consenso verso i capisaldi del suo lavoro di ricostruzione storica e il senso complessivo della sua esegesi, hanno tuttavia giudicato eccessiva la pretesa dello studioso di specificare in modo minuzioso i contenuti dell’opera. Così, Gauthier-Jolif, che nel loro monumentale commentario dell’Etica nicomachea si valgono dello studio del Moraux e fanno proprie le tesi di fondo della sua ricostruzione del Sulla giustizia, non mancano però di avvertire «même si elle appelle dans le détail des précisions et des nuances» (Gauthier-Jolif 1970, I, p. 21).1 Un caso eccezionale può considerarsi lo studio di Chroust 1966, il quale accoglie le tesi del Moraux e ne fa la base per proporre a sua volta cinquantun punti quali espressioni del contenuto dottrinale del Sulla giustizia, precisando tuttavia che «certamente non sono citazioni», ossia che non si tratta di «frammenti nel senso tradizionale del termine», ma che in essi si dovrebbe scorgere «as a kind of tentative (and disorderly and probably incomplete) table of likely contents» (Chroust, 1966, p. 62; cfr. anche Chroust 1973, p. 80). Tutto ciò sembra indicare che, anche se non nei termini in cui ne parla Moroux e con la valenza dottrinale che le attribuisce lo studioso, occorre però riconoscere che nell’opera Aristotele discuteva del piacere, dell’anima e delle forme di autorità quali temi definenti lo spe1 Una ricostruzione minuziosa delle tesi del Moraux, ma esente da valutazioni in merito a esse, così come di dichiarazioni di consenso o dissenso, è invece quella di Cadiou 1960.

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cifico orizzonte speculativo – dopo Platone e sulla scorta di quanto è possibile accertare nei trattati aristotelici di etica e nella Politica – della giustizia. Su questa linea si è mosso Laurenti, il quale, pur formulando nei confronti di Moraux rilievi critici di carattere innanzitutto metodologico, è convinto che nel Sulla giustizia questa virtù era trattata in tutte le determinazioni in cui ne parla Eth. nic., V, a partire dalla basilare distinzione tra giustizia totale, comprendente l’intero complesso delle virtù, e giustizia particolare, nelle sue forme di giustizia distributiva, correttiva e commutativa: istanze che Eth. nic., V avrebbe ripreso dal Sulla giustizia, così come alcune analisi di questo scritto sarebbero state riproposte nel terzo libro della Politica. Sul rapporto tra Eth. nic., V e il Sulla giustizia aveva già posto determinatamente l’accento Gigon (1973-1974, pp. 193-194),2 traendo da ciò argomento per sottolineare la concretezza della trattazione del nostro scritto in ordine all’analisi di questa basilare virtù, una volta sottrattole ogni riferimento al piano dell’idea, che, come abbiamo accennato, egli ritiene essere stato espressamente criticato e rifiutato da Aristotele nel Sulla giustizia. Anche Flashar (1983, III, p. 283) aveva sostenuto la tesi che l’Etica nicomachea e la Politica presuppongono il Sulla giustizia, facendo di quest’assunto la base dalla quale muovere per ricostruire i contenuti dell’opera aristotelica. In precedenza, Bernays (1963, pp. 48 s.) aveva sostenuto che lo scritto si articolava in tre sezioni, la prima della quale, testimoniata dal fr. 1, ove si avvertirebbe lo scoraggiamento che invase Atene alla fine della guerra del Peloponneso, sarebbe stata dedicata alla trattazione di tematiche politiche; la seconda, di cui sarebbe testi2 A linee più generali, lo studioso aveva tuttavia già espresso la sua posizione in merito al Sulla giustizia nell’edizione tedesca dell’Etica nicomachea da lui curata (cfr. Gigon 1951, pp. 29-30).

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monianza il fr. 4, all’analisi di tematiche etiche e, in particolare, del piacere, a proposito del quale Aristotele avrebbe preso posizione contro l’edonismo di Aristippo, rilevando che l’assunzione del piacere come fine rovina la giustizia e, con essa, ogni altra virtù; e una terza sezione, testimoniata dal fr. 5, dedicata alla trattazione di argomenti logici, prima dei quali la distinzione tra contenuti sensibili (aåsq‹mata) e contenuti intelligibili (no‹mata). Ad avviso del Bernays, l’ambito complessivo delle riflessioni svolte nell’opera sarebbe costituito dalle grandi tesi della Repubblica, donde la supposizione che anche nel Sulla giustizia Aristotele avrebbe ampiamente preso in esame la dottrina platonica delle Idee, verso la quale pure in questo scritto avrebbe assunto un atteggiamento critico. Anche Rose (1863, p. 89) aveva riferito il Sulla giustizia all’ambiente accademico, ritenendo però – in linea con la sua tesi generale dell’inautenticità dei dialoghi – che fosse l’opera di un convinto sostenitore delle teorie di Platone, come si evincerebbe dalla netta condanna dell’edonismo. Il piacere, per l’appunto, avrebbe rappresentato uno dei due termini in riferimento ai quali questo platonico analizzava la giustizia (ragione per la quale Rose ascrive al Sulla giustizia il passo di Athen., Epist. I, 6 [= fr. 83 Rose 1886] che tratta del piacere), l’altro termine essendo costituito dalle altre virtù. Quanto alla data di composizione, Rose la colloca al tempo della dominazione macedone su Atene. Le posizioni esegetiche sia di Bernays che di Rose furono fortemente criticate da Heitz (1865, pp. 169 s.), il quale al primo contestò l’inattendibilità della divisione dello scritto in tre parti, proposta sulla base di un troppo debole supporto testuale, al secondo l’idea complessiva dell’inautenticità di quelle che la tradizione considera opere giovanili di Aristotele, idea che, nel caso del Sulla giustizia, se dovesse accettarsi comporterebbe il

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rifiuto anche del fr. 4, la cui attribuzione ad Aristotele pare, per contro, difficilmente contestabile, per il fatto di attestare la polemica di Crisippo contro lo Stagirita in ordine alla valutazione del piacere. In ogni caso anche Heitz individua nella Repubblica platonica il termine di riferimento del Sulla giustizia, sia nei consensi che nei dissensi. Il rapporto tra il Sulla giustizia e la Repubblica costituisce altresì la base delle esegesi genetiche del nostro dialogo proposte da Jaeger (1964) e Bignone (1973), il primo dei quali ne ha stabilito il carattere platonizzante in virtù del fatto che Cicerone nel De republica si valse tanto di esso quanto dell’opera platonica; il secondo, dal canto suo, ha fissato particolarmente l’attenzione sull’antiedonismo che trasparirebbe dal Sulla giustizia e sulla vicinanza di questa posizione con quella attestata nella Repubblica. Per questo egli riferisce al nostro dialogo anche altri passi, tra i quali Eliano, Della natura degli animali, VI, 49 e Stobeo, Eclog., II, 13. 3. In linea con l’esegesi di Moraux e Laurenti, nel fr. 4 è possibile scorgere i termini sufficienti a comprovare che la giustizia esaminata nello scritto era, per un verso, quella che Eth. nic., V, 3 indica come giustizia universale o legale. Tale, com’è noto, il trattato di etica dichiara essere quella giustizia in cui si raccolgono tutte le virtù, giacché conformemente a essa debbono considerarsi giuste le azioni che il legislatore definisce legali (nfimima) (cfr. Eth. nic., V, 3, 1129 b 12-13), e le azioni prescritte dalla legge adeguano il contenuto di tutte le virtù, giacché essa «comanda anche di compiere le opere proprie dell’uomo coraggioso, come non lasciare il proprio posto né fuggire né gettare via le armi, e le opere proprie dell’uomo moderato, come non commettere adulterio né essere tracotante, e quelle dell’uomo mite, come non

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colpire né offendere, e similmente anche per le altre virtù e gli altri vizi, prescrivendo alcune cose e vietandone altre, in modo retto, se è stata rettamente posta» (Ivi, 1129 b 19-25). Per questo, precisa ancora lo Stagirita, questo tipo di giustizia «è una virtù perfetta (àret„... tele›a» (Ivi, 1129 b 26), vale a dire completa, ossia comprendente in sé ogni virtù, ed ha questo carattere «non in sé, ma in relazione agli altri» (Ivi, 26-27); anzi, in modo ancor più preciso, «è una virtù perfetta al più alto grado (tele›a m¿lista) perché è l’uso della virtù perfetta (tÉ© tele›a© àretÉ© crÉsi©)» (Ivi, 30-31). Infatti, «è perfetta perché chi la possiede è in grado di usare la virtù anche verso gli altri e non soltanto verso se stesso» (Ivi, 31-31-34); il che è ancora più difficile, se si pensa che «molti nelle proprie cose sono capaci di usare la virtù, ma in quelle che riguardano gli altri non sono capaci» (Ivi, 1129 b 34-1130 a 1). Ebbene, il fr. 4, presentando un assunto dello stoico Crisippo polemico nei confronti della tesi aristotelica, espressa nel Sulla giustizia, secondo cui fare del piacere il fine della vita etica rovina la giustizia e «assieme alla giustizia anche ciascuna delle altre virtù», testimonia come nello scritto aristotelico la giustizia fosse concepita secondo quel nesso strutturale con la totalità delle virtù che specifica la nozione di giustizia legale. Di questa forma di giustizia, dunque, si discuteva nello scritto aristotelico. E, stando sempre a quanto suggerisce il frammento, se ne discuteva in un quadro complessivo dal quale era bandito l’edonismo. Tale, per l’appunto, la tesi che identifica il bene con il piacere. Nel frammento, in realtà, non si parla espressamente del bene, ma del fine (t¤lo©), ma tra le due nozioni non sussiste alcuna differenza. Come infatti è chiarito subito all’inizio dell’Etica nicomachea, il bene coincide con il fine per il quale si opera (I, 1, 1094 a 1-2). Peraltro, proprio il rilievo polemico di Crisippo nei confronti di una tale posizione

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avalla ulteriormente e rafforza l’appartenenza del frammento ora in esame al Sulla giustizia. In effetti, né la disamina di Eth. nic., VII, 12-15, nel corso della quale lo Stagirita prima confuta gli argomenti addotti da chi ritiene che nessun piacere sia un bene (VII, 13), indi nel cap. 14 dimostra «in positivo» che il piacere è un bene e che la tesi di Speusippo secondo cui il bene è contrario tanto al dolore quanto al piacere, così come il maggiore lo è tanto al minore quanto all’uguale, non regge, né, a fortiori, la disamina di Eth. nic., X, 1-5, nella quale Aristotele propende per l’identificazione, almeno sotto un certo profilo, di bene a piacere, sembrano adeguate a ospitare una posizione così marcatamente contraria all’edonismo quale quella qui in oggetto (ancorché si debba poi esaminare se essa possa anche qualificarsi come antiedonistica). Essa, per converso, ove si attribuisca al nostro dialogo, risulta pienamente confacente con la linea dello scritto, anche perché congrua con la concezione emergente dal Protrettico, databile dello stesso periodo in cui fu scritto il Sulla giustizia. Ora, se il Sulla giustizia trattava la giustizia nella specifica partizione della sua dimensione legale, parrebbe logico supporre – pure in assenza di prove dirette offerte dai frammenti, molto meno valendo gli eventuali indizi che, non senza un certo margine di arbitrarietà, in qualche modo possono proporsi e di fatto sono stati proposti a tale riguardo – che anche la nozione di quella che nell’Etica nicomachea viene presentata come giustizia particolare non fosse sconosciuta allo Stagirita. Così induce a credere la logica stessa che porta a individuare nella giustizia legale uno specifico tema di riflessione dello scritto. Ma, per contro, ove si riconosca che in esso Aristotele istituiva un confronto diretto con le tesi della Repubblica e si consideri che nel dialogo platonico la giustizia assume le fattezze della virtù cardinale per eccellenza e per più aspetti abbraccia in sé

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ogni altra virtù, è anche possibile credere che la disamina aristotelica della giustizia nella sua valenza di virtù totale – quella valenza che nell’Etica nicomachea le è riconosciuta in quanto giustizia legale – abbia prescisso da questa più tarda classificazione, e con ciò cadrebbe anche la giustificazione logica della trattazione nel Sulla giustizia della giustizia particolare. 4. Certo è, in ogni caso, che la disamina sulla giustizia sviscerava in lungo e in largo questo tema non soltanto nei rapporti che essa istituisce con altre determinazioni dottrinali, come subito appresso avremo modo di documentare, ma anche e innanzitutto in se stessa. I passi raccolti sotto il fr. 2 pongono in luce come anche l’aneddotica entrava in questo piano. La figura del ribaldo Euribato, a proposito della quale già Hirzel (1963, I, p. 287) e successivamente Bignone (1973, I, pp. 222-223) e Moraux (1957, p. 59) hanno sostenuto l’opportunità di istituire un raffronto con quella del platonico Gige e che Laurenti (1987, I, pp. 176 ss.) ha visto accomunata a quest’ultima per ciò che entrambe «dovettero avere una funzione più o meno simile» nel manifestare «lo scontro tra utile e giusto», ne rappresenta una prima, eloquente prova. Dalle tre testimonianze in proposito emerge, in particolare, il problema della possibilità di sfuggire alla pena (nel caso di specie, l’incarcerazione). Un problema che certamente interessava la giustizia e il modo sicuro di applicarla. Dai passi raccolti sotto il fr. 3 e in particolare da quello di Lattanzio appare chiaro che Aristotele si impegnava altresì a ricercare la definizione formale di giustizia, e sarà una definizione che sarà accettata anche dai pensatori successivi che si occuperanno di essa, e sarà fatta propria da Cicerone e Ulpiano. Degna d’interesse, inoltre, la sottolineatura della sua funzione sociale e della visibilità pubblica dei suoi effetti. Il che la distingue dal-

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le altre virtù o comunque, ove si facesse valere che per lo Stagirita tutte le virtù hanno un risvolto anche pubblico, giacché il luogo principe del loro esercizio è la polis, la rende emergente rispetto a esse. 5. Dal medesimo fr. 4 e dalla relativa testimonianza su quello che taluni studiosi non hanno esitato a indicare come l’antiedonismo allora professato dallo Stagirita è possibile inferire che, a partire dal problema della giustizia, lo scritto si apriva a trattare altre basilari tematiche, a essa collegate a diverso titolo e comunque implicate nella vasta sfera delle riflessioni sulla giustizia. Il che giustifica, del resto, l’ampiezza dell’opera, scritta in ben quattro libri. La disamina sul piacere rappresenta uno di tali ampliamenti tematici. Più oltre vedremo che non era l’unico. Occorre calibrare la valenza dell’antiedonismo qui attribuito ad Aristotele; anzi, verificare innanzitutto se sia possibile parlare di antiedonismo. A tal fine occorre considerare che il passo di De Stoic. rep., XV s’inserisce in un contesto argomentativo nel quale Plutarco, polemizzando con Crisippo in merito alla dottrina stoica del rapporto tra bene e indifferenti (una dottrina che egli denuncia essere gravata da contraddizione, come del resto tutte le teorie di questo filosofo e di questa scuola), fissa direttamente l’attenzione sul fatto che, a suo avviso, Crisippo talvolta disgiunge il piacere e in generale gli indifferenti dal bene, così da poter dire che soltanto in questo modo si salvaguarda il contenuto etico della giustizia e, complessivamente, di tutte le altre virtù, che ad essa sono connesse, talvolta invece ritiene che questa distinzione non sia richiesta per il sussistere della giustizia, ma che essa sia ugualmente preservata anche ponendo che il piacere è un bene; basta non porlo come il bene supremo, ossia come il fine ultimo. E in quest’ordine di considerazioni, a documentazione della seconda tesi, cita il giudizio di Crisippo su Aristotele, oggetto del frammen-

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to.3 Questo il passo: «Di nuovo, nell’opera Sulla giustizia, dopo aver suggerito che è possibile che coloro che pongono il piacere come bene ma non come fine salvino anche la giustizia, ciò posto ha testualmente affermato: “Forse, infatti, se si lascia il piacere come bene ma non come fine, dal momento che fra le cose che sono di per se stesse degne d’essere scelte vi è anche ciò che è moralmente bello, potremmo salvare la giustizia, giacché lasceremmo la bellezza morale e il giusto come un bene maggiore del piacere”. Queste parole, dunque, egli sul piacere in questo libro; ma in quello scritto contro Platone,4 accusandolo perché ritiene giusto lasciare come bene la salute,5 afferma che non soltanto la giustizia, ma anche la magnanimità e la moderazione e tutte quante le altre virtù vengono soppresse qualora lasciamo come bene o il piacere o la salute o qualcuna delle altre cose che non sia moralmente bella.6 Ora, ciò che si deve dire in difesa di Platone, in altre opere è stato scritto contro costui; qui però la contraddizione è evidente, giacché talora sostiene che, se assieme a ciò che è moralmente bello si ponga che anche il piacere è un bene, viene salvata la giustizia, talora per contro accusa quelli che lasciano non soltanto ciò che è moralmente bello, di sopprimere tutte quante le virtù. E per non lasciare neppure una possibilità di difesa alle contraddizioni, scrivendo polemicamente contro Aristotele sulla giustizia afferma che ecc.» (Plutarco, De Stoic. rep., XV, 1040 c-e). 3

In proposito cfr. Zanatta 2000, pp. 83, 243 ss. Pare dunque che, oltre al Sulla giustizia, Crisippo abbia scritto anche un altro libro su questa virtù, polemico nei confronti della relativa dottrina platonica. 5 Cfr. Platone, Liside, 218 e-219 a; Gorgia, 452 a-b; 500 c; Resp., 357 c: Leggi, 631 c; 661 a-d. 6 Si rammenti che per Crisippo e gli Stoici piacere, salute ecc. sono indifferenti e, al massimo, indifferenti preferiti. 4

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Ai fini della presente analisi non interessa riflettere sul modo in cui Plutarco imputa a Crisippo di essersi contraddetto e, in specie, sul grado di comprensione delle dottrine crisippee, in realtà piuttosto superficiale e limitato, che mostra di aver raggiunto – anche nell’ipotesi, oggigiorno di gran lunga prevalente tra gli studiosi, di non aver attinto i passi crisippei che contrappone l’uno all’altro da qualche silloge a uso scolastico, ma di aver direttamente accostato le opere del filosofo stoico. Interessa invece porre l’accento sulla circostanza che la teoria aristotelica contro la quale egli testimonia l’obiezione di Crisippo non afferma che il piacere rappresenta il bene supremo, ma che esso è un bene. Per Aristotele, dunque, il piacere è un bene, ma non il bene supremo. Cosicché anche di per se stessa una tale posizione non può qualificarsi come «antiedonistica». Antiedonista è, infatti, chi nega che il piacere sia un bene, al modo in cui lo negava Platone nel Gorgia (ma non così nel X libro della Repubblica e nel Filebo), non chi nega che esso sia il bene supremo. Ma – su un piano più strettamente storico – non è difficile scorgere che la tesi secondo cui il piacere è un bene, ma non quello supremo ricalca nella sostanza quella sostenuta da Platone nel sopraccitato Filebo, e s’inquadra in quella polemica intorno al piacere che – com’è noto – sorse nell’Accademia quando Platone era ancora vivente, dividendo i suoi membri tra coloro che, sulle orme di Speusippo, furono propositori di un autentico e ferreo antiedonismo e coloro che, sulla scia di Eudosso, si espressero a favore di posizioni edonistiche. Ebbene, dalla testimonianza plutarchea pare di dover dedurre che nel Sulla giustizia lo Stagirita, spingendosi ad analizzare il rapporto tra questa virtù e il piacere, come del resto aveva fatto il maestro nel Gorgia, assunse una posizione in qualche modo intermedia tra quella dei due gruppi di filosofi, in linea, come s’è detto, con le tesi pla-

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toniche del Filebo. E se è possibile cogliere tra le righe della stessa testimonianza plutarchea una leggera prevalenza della distinzione tra bene e piacere che più tardi sarà meno accentuata, non è però possibile parlare di antiedonismo e sostenere che, a differenza che nell’Etica nicomachea, nello scritto in oggetto Aristotele batté una via antiedonistica. 6. Un’ulteriore affinità del nostro scritto con il Gorgia platonico e al tempo stesso un ulteriore ampliamento tematico nell’analisi della giustizia traspaiono dal fr. 1. Si tratta del rapporto tra giustizia e retorica. Nel Gorgia questo rapporto costituiva l’asse portante dell’intera discussione e, come ha annotato Reale (1966, p. XIII), esso «fornisce la chiave che dischiude molti segreti del dialogo». In effetti, nelle mani dei Sofisti, non soltanto di Polo e di Callicle, dove la cosa è palese, ma anche in quelle di Gorgia, nella cui dottrina risiedono le radici delle posizioni estremistiche degli altri due interlocutori, la retorica, nella sua pretesa di essere un’arte e di poter convincere su ogni argomento, diviene un formidabile strumento di conquista e di mantenimento del potere, e sono questi, ad avviso dei tre sofisti, ancorché sia espresso soltanto da Callicle, il suo vanto e la sua grandezza. La politica, infatti, è qui concepita come esercizio di un’arte che permette di prevalere là dove è in gioco il potere: nelle pubbliche assemblee, innanzitutto, e nei tribunali, ove si sia tratti in giudizio per rispondere di malefatte poste in essere per conquistarlo. Ed è chiaro che in tali contesti la retorica riveste un peso determinante, giacché, insegnando come si convince, permette di uscire vincitore tanto dalla pubblica assemblea che dal processo. Donde l’opposizione di Platone, il quale rivendica che la politica deve avere, invece, funzione educatrice in rapporto ai valori tra i quali campeggia quello della giustizia, e che a questo fine, per il conse-

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guimento cioè della giustizia, la retorica non soltanto non serve, ma è dannosa. Al contrario, è indispensabile la filosofia, tanto che verso la fine del dialogo Socrate può affermare di «essere tra quei pochi Ateniesi, per non dire il solo, che tenti la vera arte politica, e il solo che l’eserciti» (Gorgia, 521 d).7 Ebbene, dal fr. 1, ove si prescrive una regola sull’efficacia del dire mediante l’uso di omoteleuti, una regola, dunque, di natura squisitamente retorica, appare che an7 La centralità nel Gorgia dell’asse retorica-giustizia nel complessivo contesto della politica è stata messa in chiaro, tra gli altri, da Hildebrandt e da Jaeger, in due giudizi che mette conto riportare. «Il tema segreto del Gorgia – ha scritto il primo studioso (Hildebrandt 1947, p. 159) – [...] riguarda il modo in cui dobbiamo dominare. La massima fondamentale di Platone, che o i filosofi debbono regnare, o i governanti debbono diventare filosofi, era già da lungo tempo ben definita, quando egli compose il Gorgia. [...] anche allora l’epoca degli uomini politici geniali era passata, e la dura necessità esigeva un rinnovatore del popolo. Si fraintende il senso del Gorgia quando ci si accontenta di scorgervi il fronte della filosofia e dell’etica contro la pratica arte dello Stato e dell’oratoria. Vengono respinti il sofista irresponsabile, l’oratore senza legge e l’empirico uomo di stato, e di fronte a loro si leva la forza universale dell’uomo di Stato filosofico. La cui parola e la cui azione sono radicate armonicamente nella filosofia. Ciò non significa per nulla un abbandono del mondo e della realtà, poiché Socrate pretende qui, con atteggiamento non socratico ma molto platonico, di essere potenzialmente questo vero uomo di Stato». Parole alle quali fanno riscontro quelle di Jaeger (1970, II, p. 260): «al fondo del Gorgia [...] sta già il nuovo pensiero, il pensiero della repubblica dei filosofi. La critica, in tutto negativa, che è svolta nel dialogo di fronte allo Stato quale era dato dalla realtà storica non mira a una rivoluzione violenta, e non è neppure il frutto di un cupo fatalismo, di un senso di rovina totale. Il che, del resto, sarebbe pur comprensibile dopo il crollo materiale e spirituale di Atene nel quale finì la guerra peloponnesiaca. Il senso di quella dura negazione della realtà è ben diverso. Con esso Platone si apre la via all’edificazione di quell’“ottimo stato”, a cui mira, e di cui si prepara ad abbozzare le linee, senza preoccuparsi della possibilità di realizzarlo ora o più tardi. Il primo passo in questo cammino che ora s’inizia, è l’esposizione, contenuta nel Gorgia, della paideia socratica e del suo fine, e ciò indica chiaramente che anche idealmente essa è per lui l’unico punto da cui possa prendere l’avvio la sua volontà di costruzione politica, l’unico punto fermo e stabile in un mondo sociale in rovina».

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che la trattazione di questo genere tematico trovava spazio nello scritto aristotelico. Ond’è che – come si diceva – la disamina sulla giustizia si ampliava fino ad abbracciare il rapporto tra questa e la retorica. Tuttavia, se il tema del rapporto giustizia-retorica non era nuovo rispetto a Platone, era tuttavia nuovo il modo di affrontarlo e di svolgerlo. Da quanto è dato intravedere dal succitato frammento, infatti, Aristotele ne trattava sotto un profilo squisitamente tecnico e il suo interesse era indirizzato a individuare quale uso del linguaggio e quali accorgimenti espressivi sono adatti a rendere il dire efficace là dove si tratta di tenere un pubblico discorso. Sotto questo profilo, il rapporto giustizia-retorica si dilatava, inevitabilmente, come in Platone, fino a confluire in quello, più vasto, tra retorica e politica. Ma anche in questo più vasto contesto è l’interesse tecnico dell’espressione in ordine alla sua capacità di convincimento ciò che occupa i pensieri di Aristotele. Ben diversamente, Platone nel Gorgia si preoccupava ben poco di quest’aspetto, per l’appunto tecnico, ma la sua riflessione, anche là dove volgeva ad esaminare la possibilità della retorica (gorgiana) di essere un’arte, vale a dire una competenza finalizzata alla realizzazione del bene (discorso Socrate-Gorgia), traguardava già a porre in luce l’aberrazione della retorica stessa in ordine alla realizzazione della giustizia e, complessivamente, al perseguimento dei valori morali cui la politica deve mirare. Un piano di svolgimento e un ordine di considerazioni del rapporto retorica-giustizia, retorica-politica del tutto differenti da quelli dello scritto aristotelico.8

8 Sotto questo profilo concordo con Laurenti (1987, I, p. 187) quando rileva che «la maggior parte dei problemi [trattati nel Sulla giustizia] risaliva a Platone e alla scuola, ma la sistemazione che Aristotele ne dava mostrava uno spirito diverso, più attento al concreto, più sensibile al divenire della realtà, più consapevole dell’esigenza del singolo».

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Nel quale, l’analisi dell’efficacia dell’espressione che usa omoteleuti in un discorso di compianto per il dolore di Atene – un tema che, ad avviso di Laurenti (1987, I, p. 185), «era stato probabilmente già trattato nel Grillo» e che per più aspetti riporta alle analisi di Rhet., III, 7, 1408 a 16-19, dove si sottolinea la necessità di una stretta convenienza tra l’espressione (la l¤xi©) e la passione che vien presentata9 – sembra indicare che il genere di retorica in questione sia quello che nella Retorica Aristotele indicherà come genere deliberativo o politico, comunque si debba intendere il compianto medesimo.10 Se già nel Sulla giustizia fosse presente in modo tematico la distinzione di questo genere retorico da quello giudiziario e da quello epidittico, è impossibile dire. Ciò che il frammento permette di constatare è che l’ordine della riflessione in esso svolta tocca il piano della retorica politica, la quale, in modo tematico o per una semplice attestazione de facto, era in ogni caso ben presente nello scritto. 7. S’è detto che, esaminata nella forma che nell’Etica nicomachea corrisponde alla giustizia legale, nel nostro scritto la giustizia si estendeva a comprendere in sé tutte le virtù, cosicché anche l’analisi di essa doveva seguirla per quest’ampiezza e toccare una pluralità di àreta›. È quanto conferma il fr. 6, dove è espressamente a tema la magnanimità (megaloyuc›a) nella sua distinzione dalla vanità (caunfith©). L’appartenenza di questo frammento al Sulla giustizia non è sicura. Oltre a Ross, lo ascrive al nostro dialogo, come abbiamo visto, Rose, in 9 Questo il passo: «È capace di suscitare sentimenti un’elocuzione propria di una persona adirata, se vi sia tracotanza, propria di una persona sdegnata e che si guarda anche dal parlare, se vi siano cose empie e turpi, in tono di ammirazione, se vi siano cose lodevoli, in tono dimesso, se vi siano cose compassionevoli, e similmente anche negli altri casi». 10 In proposito cfr. la nota 13 di questo scritto.

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tutte le edizioni dei frammenti, mentre Chroust (1973, II, p. 291) lo attribuisce, sia pur dubitativamente, al Sulla ricchezza («may possibly be a fragment of the Aristotelian On Wealth»). Dal canto suo, Laurenti (1987, I, pp. 142-143) lo colloca tra i «frammenti di sede incerta». Esso è tratto dalla risposta di Temistio alla lettera a lui indirizzata dall’imperatore Costanzo nel 355: un’epistola scritta in latino e poi tradotta in greco, e in questa forma entrata tra le opere di Temistio, ancorché non sia stato costui a volgerla in tale lingua. In essa Temistio, facendo perno sull’idea che vero filosofo non è colui che a parole acconsente ai principi enunciati dai sapienti, ma colui che a fatti li attua, afferma che il saggio non si esime dall’interessarsi degli onori, ma lo fa con moderazione e ragionevolezza. E a questo riguardo chiama in causa la distinzione tra la magnanimità e la vanità. In Eth. nic., II, 7, 1107 b 21 ss. e V, 7, 1123 a 34 ss. la magnanimità è opposta, come via di mezzo, sia alla vanità, che ne costituisce l’eccesso, che alla piccineria d’animo, la quale ne rappresenta il difetto. Ond’è che non è mancato chi, come Dindorf (1961, p. 508) e Downey (in Downey-Norman 1974, I, p. 32), abbia ritenuto che la fonte di Temistio fosse il trattato di etica; ma un raffronto con Eth. eud., III, 5, 1232 a 29 ss. sembra decisamente smentirlo. 8. Altro grande tema che il Sulla giustizia dovette trattate era l’anima. Né poteva essere diversamente, atteso che essa costituisce come il denominatore comune che si sottende a tutti gli argomenti dello scritto via via emersi. La giustizia, le virtù, il piacere, la retorica sia come disciplina in se stessa che nei suoi rapporti con la giustizia e la politica sono, infatti, temi che si connettono in ultima analisi all’anima. Donde il logico e necessario aprirsi delle analisi del nostro scritto anche a essa. E il fr. 5 ne è una lampante attestazione. Boezio, nel commento al capitolo iniziale del De interpretatione, ascrive

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al Sulla giustizia la distinzione naturale (f‡sei diˇÉrhtai) tra «prodotti del pensiero (t· no‹mata)» e «prodotti della sensazione (t· aåsq‹mata)», ossia, detto nel linguaggio della latinità, tra intelletto (intellectus) e sensi (sensus). Impossibile dire se la riflessione sopra riferita concernesse una disamina di ordine logico-gnoseologico, così come la presenta Boezio, o se, come ha preteso Rose (1863, p. 92) sulla base di un confronto con Eth. nic., X. 5, si riferisse alla distinzione tra due diversi tipi di piaceri. Comunque sia, è certo che a monte di tale riflessione il Sulla giustizia sviluppava una dottrina dell’anima, ed è probabile che la svolgesse sia sul piano logico-conoscitivo che su quello etico. Parimenti, nulla del frammento autorizza a dire in modo sicuro se nello scritto Aristotele abbia adottato una concezione bipartita dell’anima o tripartita, ancorché questa seconda alternativa agli studiosi sia sembrata più probabile (in proposito cfr. Laurenti 1987, I, pp. 172 ss.).

11 Ossia, come Demetrio li definisce nelle righe immediatamente precedenti, quei termini che «finiscono in simili (eå© ùmoia katal‹gonta)» (Redarmacher 1967, p. 10, par. 26), si tratti di lettere costituenti una sillaba o un nome. 12 Cfr. Redarmacher 1967, p. 10, par. 27: «a chi parla concitatamente gli omoteleuti non s’addicono: la cura e la ricerca che essi comportano spezzano la concitazione. E ce lo dimostra Teopompo: nel suo attacco contro gli amici di Filippo dice: “essendo per natura omicidi (àndroffinoi), erano di costumi dissoluti (àndrfipornoi): si chiamavano amici (ëtaÖroi) ed erano amiche (ëtaÖrai)”. L’uguaglianza della clausola e l’antitesi spezzano la concitazione con un brutto artificio. La collera non ha bisogno d’arte, quel che si dice in tali attacchi dev’essere in un certo modo naturale e semplice» (citato da Laurenti 1987, I, p. 144, nota 4). 13 Gli studiosi hanno avanzato ipotesi assai differenti circa l’individuazione di chi abbia pronunciato questi compianti. Per Rose (1863, p. 89), Aristotele avrebbe derivato il primo discorso da quello di un retore che lo pronunciò in riferimento alla conquista di Atene da parte di Antipatro; Bernays (1968, p. 49) condivide che al retore vada ascritto il primo discorso, ma ritiene che egli faceva riferimento all’esito di-

TESTIMONIANZE

CIC., Resp., III, 8, 12: l’altro (scil. Aristotele) sulla giustizia in se stessa riempì quattro libri veramente grandi.

FRAMMENTI

1 (R 71, R 82) DEMETR., De elocut., 28: ebbene, tali (scil. l’uso di omoteleuti)11 non sono utili né in una situazione terribile, come ho mostrato,12 né nei sentimenti e nei costumi. Infatti, il sentimento vuole essere semplice e non artefatto, e similmente il carattere. Ed effettivamente, nell’opera Sulla giustizia di Aristotele, se colui che prova dolore per la città degli Ateniesi13 dicesse così, ossia

sastroso di Atene nella guerra del Peloponneso; per contro, Heitz (1869, p. 20) attribuisce all’oratore non il primo, bensì il secondo discorso. Schütrumpf (1980) è invece dell’avviso che Aristotele avrebbe adattato un passo di Lisia, Adv. Erath., par. 38, dove l’oratore, parlando contro Eratostene, uno dei Trenta Tiranni, dopo aver richiamato le sue azioni nefande invita i giudici a chiedergli se in guerra abbia agito in modo da riparare quanto ha commesso in pace: «invitatelo a dirvi dove hanno ucciso tanti nemici quanti cittadini, o dove hanno preso tante navi quante ne hanno consegnate o quale città che valesse la vostra, da essi resa schiava, aggiunsero al vostro impero» (trad. Albini). Laurenti (1987, I, pp. 184 s.) pensa che si tratti più semplicemente di un esempio inventato da Aristotele: uno dei molti, giacché nel Sulla giustizia egli avrebbe addotto, per pren-

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derli in esame, diversi modi di esprimere un compianto, e Demetrio avrebbe accolto i due «più pesantemente in contrasto tra loro». 14 «L’accenno al proverbio – annota opportunamente Laurenti 1987, I, p. 145, nota 9 – si spiega in un retore come Demetrio, studioso del pensiero peripatetico. Aristotele, come si sa, aveva curato una raccolta di proverbi (Muaraux 1951, pp. 128-129) e cita i proverbi non di rado nelle sue opere». 15 È opportuno considerare anche ciò che immediatamente segue nel testo: «Ma talora sono utili, come dice Aristotele: “io da Atene a Stagira sono andato, causa il monarca grande (di· tÂn basil¤a tÂn m¤gan), poi da Stagira ad Atene, causa l’inverno grande (di· tÂn ceimána tÂn m¤gan)”. Se sopprimi il secondo “grande”, sopprimerai anche la grazia del discorso. Clausole di tale natura concor-

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«quale città dei nemici presero che fosse tale quale la propria città, che essi distrussero?», parlerebbe con espressioni di sentimento e di dolore; ma se farà questa somiglianza di suoni: «invasero (àp¤labon) una città dei nemici tale quale la propria città, da cui evasero (àp¤balon)», per Zeus, non muoverà né sentimento né pietà, ma il cosiddetto riso misto a pianto. Infatti, l’usare tali cattivi accorgimenti tecnici nei sentimenti è, secondo il proverbio,14 giocare tra persone che soffrono.15 2 (R 73, R 84) SUET., De blasph., p. 416 Miller, s.v. Euribato: anche lo stesso Euribato,16 il facitore di misfatti [...] Aristotele nel primo libro dell’opera Sulla giustizia afferma che egli era un ladro: catturato e incatenato, e invitato dai guardiani a mostrare come si introducesse nelle case passando attraversi i muri, «dopo esser stato slegato, messe ai piedi punte di ferro per scalare i muri e prese le spugne,17 evase assai facilmente e, andandosene dal tetto, prese la fuga». GREG. COR., Ad Hermog., c. 19: azione di Euribato. Costui, Euribato, è stato un uomo incostante. Aristotele che egli era un ladro e che, colto in flagrante, era stato messo in catene e sorvegliato pubblicamente, e che in seguito i guardiani, desiderando vedere come entrava nelle case passando attraverso i muri, avendolo slegato lo invitarono a mostrarglielo; e quegli, messe ai piedi punte di ferro per scalare i muri e prese le spugne, evase assai facilmente e se ne andò dal tetto della casa. Indi,

rono all’eleganza della frase, come le molte antitesi di Gorgia e di Isocrate». 16 Sugli aneddoti concernenti il ladro Euribato cfr. Eforo, in FGH, 70 fr. 58 (II A, pp. 57-58). 17 Delle quali si servavano i ladri per non far rumore.

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18 Cfr. Schneider 1856, fr. 112 (p. 132); Gow-Schofield 1979, pp. 166167. Poeta, figlio di Damèo, Nicandro fu nativo di Claro presso Colofone, nella Ionia d’Asia, luogo celebre per il culto di Apollo e per un famoso santuario del dio (sembra attendibile la notizia secondo cui Nicandro fu appunto sacerdote di Apollo Clario). Già le fonti antiche mostrano una certa confusione nei dati biografici: alcuni, infatti, lo vollero coetaneo di Teocrito (310-260 a.C.), altri lo ascrissero alla generazione successiva, altri ancora lo ritennero contemporaneo di Attalo II di Pergamo (138-133 a.C.). Proprio un carme dedicato a quest’ultimo inviterebbe a considerarlo attivo verso la metà del II sec. a.C. Tale incertezza sembra essere stata ingenerata dalla confusione con un altro Nicandro, figlio di Anassagora, colofonio pure lui e forse suo antenato, il cui acme si colloca verso la metà del III secolo a.C. e che l’iscrizione delfica n. 452 della raccolta di Dittenberger ricorda come poeta epico. La confusione ha avuto forti ripercussioni anche sull’attribuzione delle tante opere assegnate nell’antichità a Nicandro e per noi perdute. Al Nicandro più giovane, il figlio di Damèo, si attribuiscono (1) due poemi didascalici, intitolati Rimedi contro i veleni animali (Qhriak¿ Theriaká), in 958 esametri, e Antidoti (AlexiÆ¿rmaka Alexiphármaka), in 630 esametri; (2) le Georgiche (Gewrgik¿ Gheorghiká), in due libri, di cui si conservano più numerosi i frammenti grazie al retore Ateneo di Naucrati, vissuto al tempo di Commodo. Secondo Quinti-

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mentre i guardiani giravano da un’altra parte per prenderlo quando scendeva, se ne andò fuggendo. SUIDAS, s.v. Eér›bato©: malvagio [...] Nicandro18 che Euribato di Egina, del quale fa menzione anche Aristotele nel primo libro dell’opera Sulla giustizia, era un gran malfattore [...] Si dice che Euribato, che era un ladro, rinchiuso e custodito, poiché i guardiani, mentre bevevano con lui, lo slegarono e gli chiesero di mostrar loro l’arrampicata sui muri, dapprima rifiutò, ma poiché essi lo pregavano, come se non volesse, dopo che a fatica lo convinsero, postosi intorno le spugne e i ferri per la scalata, salì sui muri. E mentre quelli lo guardavano e ammiravano le sue arti, egli raggiunse il tetto e, oltrepassandolo, prima che quelli gli andassero attorno in circolo, saltò giù dal tetto. 3 (R 74, R 85) LACTANT., Div. inst., V, 15: Carneade, per confutare Aristotele e Platone, difensori della giustizia, in quella prima disputa19 raccolse tutte le cose che si dicevano a fa-

liano (10.1.56) l’opera avrebbe fornito molti spunti all’omonimo poema di Publio Virgilio Marone, ma non è possibile evincerlo dai versi supersiti, che trattano della coltivazione delle rose e di altre piante da fiore; (3) le Metamorfosi (JEteroio‡mena Heteroiúmena), in cinque libri, su miti di eroi ed eroine trasformati dagli dèi in piante o animali. Troppo pochi sarebbero i versi sopravvissuti per dare un’idea dell’argomento, se non avessimo i riassunti dei miti contenuti in un’opera di Partenio di Nicea e in un compendio di Antonino Liberale, forse liberto di Antonino il Pio. Anche in questo caso è ancora sub iudice la questione del rapporto con l’omonima opera di Ovidio; (4) infine, si attribuiscono al Nicandro figlio di Dameo anche altre opere di carattere terapeutico nonché, data la prassi di versificare opere scientifiche in prosa, una parafrasi in versi dei Prognostica di Ippocrate di Kos (su questo poeta si vedano, tra gli altri, Schneider 1962; White 1987; W. Kroll, Nikandros in PW., 17.1, coll. 250-265). 19 Nel 155 a.C. Carneade fece parte della celebre ambasceria inviata a Roma dagli Ateniesi, multati per aver saccheggiato Oropo; qui ri-

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scosse successo argomentando, in due giorni successivi, a favore e contro l’esistenza di una legge naturale universalmente valida. Nel passo si fa riferimento al primo discorso. Le sue argomentazioni scettiche sulla giustizia scandalizzarono e sconvolsero gli ambienti della cultura conservatrice di Roma: egli affermava che se i Romani volevano essere giusti avrebbero dovuto restituire i loro possessi agli altri e andarsene, ma in tal caso sarebbero stati stolti. In questo modo arrivò alla conclusione che saggezza e giustizia non vanno d’accordo. 20 Cfr. SVF, III, 24. Se, come pare, questo è il titolo dell’opera

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vore della giustizia, per poterla demolire, come effettivamente fece. LACTANT., Epit., 55: moltissimi filosofi, ma soprattutto Platone e Aristotele, dissero molte cose sulla giustizia, difendendo ed esaltando quella virtù con la lode più grande, perché attribuisce a ciascuno il suo, perché mantiene l’equità in ogni circostanza; e mentre le altre virtù sono come silenziose e chiuse dentro , la giustizia è la sola che non è né rivolta soltanto a se stessa né nascosta, ma si protende tutta all’esterno ed è incline a fare il bene, per essere utile a quanti più possibile. 4 (R 75, R 86) PLUT., Mor. (De stoic. rep.), 1040 e: Crisippo nel terzo libro dell’opera Sulla giustizia20 [...], scrivendo contro Aristotele sulla giustizia, afferma che egli non rettamente sostiene che, se il piacere è il fine, si sopprime la giustizia, e con la giustizia anche ciascuna delle altre virtù. 5 (R 76, R 87) PORPH., presso Boeth., In De int., II, 1, 1, p. 27 (Meiser): Aristotele [...] nell’opera Sulla giustizia [...] dicendo così: «per natura sono giustamente distinti, come ho detto, i prodotti del pensiero dai prodotti della sensazione»; il che si potrebbe tradurre in latino in questo modo: per natura l’intelletto e il senso sono realtà distinte.

composta da Crisippo sul modello dell’omonimo scritto aristotelico, è logico pensare che il passo dello Stagirita qui citato appartenga al Sulla giustizia (contrariamente all’opinione di Bernays 1968, p. 153 e nota 32).

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6 (R 88) THEM., Orat., 26d - 27b: invidiandomi per la lode [...] ma Zenone, il fondatore della Stoa, che pur nelle altre cose era maestoso e sottile nel parlare, tuttavia, gioiva ed era splendente poiché gli Ateniesi avevano fatto di lui, che era straniero e fenicio, un cittadino della loro città per i suoi discorsi. Io invece sono così ignobile e sordo verso Aristotele, che pur ho ordinato al primo posto nella vita e nella sapienza, da ritenere che ogni onore, da chiunque provenga e per qualunque cosa, è sgradito all’uomo dabbene e ritenuto proprio di una persona da nulla? E non mi ricordo forse dei discorsi con i quali distingue la vanità dalla magnanimità? Facendo questa distinzione egli dice in qualche luogo anche in merito ai grandi onori, come pure in merito agli altri beni di cui ha parlato, che gli uomini hanno uno zelo smisurato, ma anche uno misurato e accompagnato da ragione. Ebbene, colui che si esalta per gli strepiti e gli applausi del popolo e inarca il sopracciglio perché per essi ha sborsato molto denaro in spettacoli teatrali o corse di cavalli, è vuoto e si connette a quel vizio al quale egli ha posto questo nome di vanità, mentre colui che disprezza questi strepiti e che ritiene che essi differiscono poco dal rumore delle onde che si scontrano con le arene, reputando invece che più di tutto valga il voto privo di adulazione degli uomini dabbene per la virtù, questi è in realtà magnanimo e pensante grandi cose.

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INDICE DEI NOMI DI PERSONA CITATI NEI FRAMMENTI1

Achille: 185, 599, 601 Africano: 49 Alceo: 541 Alcibiade: 273 Alessameno: 527, 529, 531 Alessandro (tiranno di Fere, in Tessalia): 153 Alessandro d’Afrodisia: 61 Alessandro Magno: 71, 73, 441, 443, 461, 463, 465, 521 Ammone: 121 Anacindrasse: 313 Anassagora: 239, 279, 541 Androne: 121, 123 Andronico: 73 Anfimene: 541 Antifonte: 321, 539 Antiloco: 539 Antimenide: 541 Antioco: 319 Apollodoro: 525, 527

Apuleio: 113 Arcagora: 145 Arcesilao: 45 Arconide: 123 Aristide: 375, 381, 383 Aristippo: 279 Aristocle: 587 Aristosseno: 381, 383 Aristotele: passim Artemone: 321 Axiotea: 185 Biante: 541, 575 Bruto: 45, 317 Callistene: 383 Camaleone: 577 Cantore: 159 Carilo: 315 Carneade: 43, 45, 679 Cefisodoro: 57

1 I riferimenti sono alle pagine della traduzione italiana. Anche per questo motivo si è ritenuto confacente non indicare il nome greco o latino del personaggio citato. Un motivo che s’aggiunge a quello dell’inutilità di una tale indicazione, potendosi facilmente reperire il nome greco o latino dal testo a fronte. L’indice annota soltanto i nomi di persona. Ne sono perciò esclusi i nomi degli dèi, oltre quelli geografici.

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INDICE DEI NOMI

Ceneo: 171 Cercope: 541, 583 Cesare: 441 Chilone: 575, 577, 579 Cicerone: 225, 233, 289, 321 Cilone: 539 Clearco: 575 Cleomaco: 203 Cleomene: 577 Codro: 541 Cotta: 51 Cratete: 229 Cratippo: 321 Creteide: 541 Crisippo: 53, 681 Damascio: 637 Dardano: 587, 589 Dario: 73 Demetrio Falereo: 381, 383 Democrito: 43, 53,421 Demodico: 226, Deucalione: 587 Didimo: 577, 579 Dione: 111, 153 Dionisio Rodio: 321 Empedocle: 143, 523, 525 Epicarpo: 321 Epicuro: 421, 629 Eracle/Ercole: 201, 251 Eraclide Pontico: 51, 53, 487, 527 Eraclito: 113 Eratostene: 463, 525 Ermippo: 321 Ermotimo: 279

Esiodo: 541 Ettore: 599, 601 Eudemo (di Cipro): 153 Eudosso: 581 Euribato: 677, 679 Euripide/il poeta: 145, 377, 383, 539 Evantlo: 145 Fanotea: 565 Favorino: 527, 575 Femonoe: 575 Ferecide: 541 Filisco: 229 Filo: 49 Filocoro: 321 Filosseno: 403 Floro: 129, 419 Glauco: 525 Gorgia: 89, 185 Grillo: 85 Ierone: 111 Ieronimo: 381, 525 Iolao: 201 Ippoboto: 525 Isocrate: 57, 89 Isso: 205 Lamprocle: 381 Lelio: 49 Licofrone: 373 Licomede: 185 Magone: 123 Manlio: 49 Marco Tullio: vedi Cicerone

INDICE DEI NOMI

Megaclide: 145 Meleagro: 539 Melegisene: 543 Melisso: 591 Menesseno: 381 Meone: 541 Metone: 525 Metrodoro: 341 Mida: 159 Mirto: 381 Neleo: 541 Nestore: 601 Nettuno: 171 Nicandro: 679 Nicia: 529 Nicomaco: 319 Odisseo: 113 Omero/il poeta: 113, 115, 523, 529, 541, 543, 587, 599 Onomacrito: 583 Orfeo: 583 Parmenide: 143, 239, 591 Patroclo: 599 Pindaro: 541 Pitagora: 287, 289, 317, 539 Pitodoro: 145 Pittaco: 541 Platone: 43, 47, 55, 57, 111, 155, 157, 161, 163, 165,167, 169, 171, 185, 317, 445, 527, 531, 533, 581, 593, 595, 597, 599, 609, 613, 629, 633, 637, 643, 647, 679 Plutarco: 113

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Polemone: 317, 319 Pritanide: 111 Posidonio: 601 Proclo: 635 Protagora: 145, 419 Saffo: 113 Salaro: 541 Sallustio: 51, 487 Santippe: 381, 383 Sardanapalo: 313, 315 Satiro: 383 Seleuco: 115 Senocrate: 317 Senofane: 541 Senofonte: 111 Serapione: 321 Serse: 525 Siagro: 541 Simonide: 375, 541 Socrate: 317, 375, 381, 575 Sofrone: 531 Sofronisco: 361 Sosibio: 541 Sozione: 529. Speusippo: 111, 317 Stratone: 321, 577 Talete: 541, 575, 577, 579 Telemaco: 113 Temisone: 229 Teodoto: 145 Teofrasto: 43, 47, 49, 315, 319 Teognide: 377 Teopompo: 441 Tersite: 163

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INDICE DEI NOMI

Testio: 539 Timocreonte: 541 Timone: 169 Timonide (di Leucade): 155 Tisia: 43 Tullio: vedi Cicerone.

Varrone: 51 Xanto: 143 Zenone: 143, 185, 229, 527, 683 Zoroastro: 58

INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI1

Acroamatico (àkroamatikfi©): le opere a. sono dense e concettuose nel contenuto, essenziali e stringate nella forma: p. 59; questa è impegnativa e necessitante: p. 63. Si oppongono alle opere essoteriche o dialogiche: p. 63. Aristotele vi esponeva opinioni proprie e verità: p. 63; una filosofia più profonda, lo studio della natura e discettazioni dialettiche: p. 71. I contenuti delle opere a. erano insegnati al mattino e ai soli allievi del Liceo: p. 71. Dario rimprovera Aristotele di aver reso pubbliche le opere a.: p. 73. L’immortalità dell’anima nelle opere a. è dimostrata con ragionamenti stringenti: p. 155. Vedi anche opere scritte in prima persona. Adombramento (skiagraf›a): tutte le cose che agli uomini sembrano grandi sono un a.: p. 271. Afisico (àfusikfi©): Parmenide e Melisso sono a. e stabilizzatori della natura: p. 591. Amabile (àgaphtfi©): è a. ciò che è chiaro e conoscibile: p. 269. Amante (ârast‹©): gli a. guardano gli occhi dell’amato: p. 201. A. e amati si facevano promesse di fedeltà sulla tomba di Iolao: pp. 201, 203. Amico (f›lo©): scrivere discorsi protrettici per gli a.: p. 227. Amore (örw©): i molti a. di Eracle: p. 201. L’a. di Cleomaco per il suo compagno: pp. 203 s. Definizione dell’a.: p. 205. Anima (yuc‹, animus): una parte dell’a. è senza ragione, un’altra la possiede: p. 65. A. armonia: p. 67. I beni dell’a. 1 I riferimenti sono relativi alle pagine della traduzione italiana dei dialoghi. Per ragioni di semplicità si è preferito evitare rinvii anche alle note.

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INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI

sono preferibili a quelli esterni: p. 67. Staccandosi dal corpo, l’a. ritorna in patria: p. 153. Immortalità dell’a. nelle opere acroamatiche e in quelle dialogiche: p. 155. Platone congiunge l’a. col corpo senza alcuna mediazione: p. 157. Nelle opere in forma dialogica Aristotele trattò della discesa dell’a. nel corpo e delle sue sorti: p. 157. L’a., venendo da lassù, dimentica ciò che ha contemplato: p. 157. La vita senza corpo è conforme alla natura dell’a. mentre nel corpo l’a. è come malata: p. 157. Separandosi dal corpo al momento della morte e nei sogni, l’a. raggiunge la natura propria e vaticina: p. 599; ricorda le cose passate, scorge quelle presenti e prevede quelle future: p. 601; la sua unione col corpo assomiglia all’unione di un vivo con un morto: pp. 275, 277. L’a. è una realtà migliore del corpo: pp. 245 s., 255 e la parte razionale dell’a. è la parte migliore: p. 255; la sua virtù è la più passibile di scelta: p. 257. L’a. comanda mentre il corpo è comandato: p. 255. I beni del corpo sono finalizzati a quelli dell’a.: p. 289. Il corpo come armonia dell’a.: pp. 161, 165; relativa confutazione: pp. 165 s.; gli argomenti con cui la tesi viene confutata nel Fedone e nell’Eudemo: pp. 161 s., 167. Il corpo come strumento dell’a.: p. 255. La definizione platonica dell’a. razionale: pp. 167 s. L’a. come intermedio tra ciò che è indivisibile e ciò che è divisibile in parti: p. 169. L’a. è una certa idea e l’a. intellettiva è capace di accogliere le idee: p. 169. L’intelletto è la parte migliore dell’a.: p. 169. Mediante l’intellezione l’a. tocca l’intelligibile: pp. 169 s. Mediante la metempsicosi l’a. muta il sesso: p. 171. Il contadino Corinzio affida la sua a. a Platone: p. 185. La felicità non consiste nel possedere molte cose, ma in una certa disposizione dell’a.: pp. 233 s. È felice l’a. che sia stata educata: p. 235. La cosa più vergognosa è ritenere che i beni esteriori siano più degni di pregio di quelli dell’a.: p. 235. Chi ha l’a. ben disposta non ritiene che siano beni la ricchezza, la forza e la bellezza: p. 235. Vi sono anche arti concernenti l’a.: p. 247. L’opera propria della parte razionale dell’a. è la verità: p. 257 e il suo fine è la contemplazione: p. 259. Animi eterni e divini: p. 279. Ciò che riguarda l’a. raggiunge il suo compimento per ultimo: p. 287. Compito dell’a. è pensare e

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calcolare: 307. Gli insegnamenti di Aristotele su come bisogna regnare incisero sull’a. di Alessandro: p. 443. Estirpata l’ira, l’a. resta indifesa, pigra e inerte: p. 489; sono recisi i nervi dell’a: p. 495. L’a. come composta di elementi nel Timeo: p. 595; la sua generazione: p. 637. La nozione degli dèi si è originata da considerazioni sui fenomeni dell’a.: pp. 599 s. Gli animi sono fatti di etere: pp. 647 s. Anno (annus): tre generi di anno: p. 321. Vedi anche grande anno, anno massimo. Anno massimo (annus maximus): coincide con le orbite del sole, della luna e delle cinque stelle vaganti: p. 319. Vedi anche anno, grande anno. Apprendere (manq¿nein): gli iniziati non apprendono, ma hanno passioni: pp. 609 s. Il modo telestico dell’a. è un’illuminazione dell’intelletto: p. 611. Apprendimento (polum¿qeia): un ampio a. offre alla ricerca molti punti di partenza: p. 419. Armonia (êrmon›a): è qualcosa di venerabile, divino e grande: pp. 637 s. Il corpo come a. dell’anima: pp. 161, 165; relativa confutazione: pp. 165 s.; gli argomenti con cui la tesi viene confutata nel Fedone e nell’Eudemo: pp. 161 s., 167. Arte (t¤cnh): se la retorica sia un’a.: pp. 85 s. Nessuna cosa che derivi dall’a. esiste prima dell’a.: p. 85. La medicina e la ginnastica sono a. concernenti il corpo: p. 247. Vi sono anche a. concernenti l’anima: p. 247. Alcune cose vengono all’essere per opera dell’a.: p. 281. Ciò che è per arte, come ciò che è per natura, ha un fine: p. 283. L’a. imita la natura e la soccorre ove trova ostacoli nel compiere la sua opera: p. 283. L’a. del fabbricare reperisce i migliori strumenti dalla natura: p. 295. Educarsi secondo le a. liberali: pp. 521, 523. Senz’a. e senza costruttore non si verifica nessuna produzione: p. 605. Le a. costruiscono la loro materia: pp. 649 s. Astri/corpi celesti/meteore/stelle (sidera, t· oér¿nia, t· met¤wra, astra): le cinque stelle vaganti: p. 319. La nozione degli dèi si è generata dall’osservazione del movimento ordinato dei corpi celesti o meteore: pp. 599 ss. Le stelle, essendo dotate di sensazione e intelligenza, sono dèi: pp. 629 s. Il moto degli astri è volontario: pp. 631 s. Gli astri come

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esseri animati (= viventi): p. 633. Possiedono solo vista e udito: p. 635. Ateismo (àqefith©): Accusa di a. per coloro che non ritengono il mondo ingenerato e incorruttibile: p. 617. Avarizia (mikrolog›a): i più non usano la ricchezza a causa della loro a.: p. 339. Azione (pr¿xi©): ha per oggetto ciò che può essere altrimenti da come è: p. 67. Diversità dell’a. dalla produzione: p. 69. La filosofia non è esecuzione di a.: p. 241; né è utile per le a.: pp. 241 s. Banchetto (deÖpnon): occorre recarsi ai b. curati nella persona: p. 113. Gli Antichi chiudevano la giornata banchettando nei templi, dove avevano sacrificato: p. 119. Banchetto abbondante (da›ta q¿leia): vedi festa. Barbaro (b¿rbaro©): trattare i b. da padrone: p. 461; come nemici: p. 463; come fossero piante e animali: p. 461. Beato (m¿kario©): i morti sono b. e felici: p. 159. Nelle isole dei b. non ci sarebbe bisogno dell’eloquenza né delle virtù: p. 289, ma la sola attività sarebbe il pensare: p. 293. Bene (àgaqfin, eÛ): I b. dell’anima sono preferibili a quelli esterni: p. 67. L’idea del b. corrisponde a un’affermazione vuota: p. 67. La cosa più vergognosa è ritenere che i b. esteriori siano più degni di pregio di quelli dell’anima: p. 235. Chi ha l’anima ben disposta non ritiene che siano b. la ricchezza, la forza e la bellezza: p. 235. La filosofia come scienza del ben giudicare: p. 239; essa permette di servirsi convenientemente di tutti i b.: p. 239. I b. utili per la vita risiedono nell’usare e non nel conoscere soltanto: pp. 239 s. Il saggio è criterio dei b.: p. 249 e la saggezza è il b. maggiore: p. 249, ossia il b. ultimo: p. 289. Il b. non coincide col piacere: p. 279. La misura più esatta di tutte le cose è il b.: p. 487. Due pianeti sono facitori di b. e due di male: p. 581. Beneficare (eéergeteÖn): dev’essere uno dei fini del sovrano: p. 443. Bere (p›nein): b. con piacere e b. mentre si prova piacere: p. 307. Bere vino (oånoÜsqai): b.v. in onore degli dèi: p. 115. È uno dei due significati di ubriacarsi: p. 117; differenza tra b.v. e

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ubriacarsi: il primo ha per effetto il rilassarsi, il secondo il far dire cose insulse: p. 121. Nei tempi antichi era costume b.v. dopo aver sacrificato: p. 119. Il sapiente dopo aver b.v. diventa più piacevole: p. 121. Caligine (àcl‡©): il corpo come c., che oscura le cose intelligibili e divine: p. 587. Caso/sorte (t‡ch, fortuna): alcune cose vengono all’essere per opera del c.: p. 281; esse non sono in vista di qualcosa, ossia non hanno un fine: pp. 281, 283. L’assalto della s.: p. 317. Teofrasto attribuisce grande importanza alla s.: p. 319. Cataclisma (kataklismfi©): il c. che distrusse l’umanità al tempo di Deucalione: pp. 587 s. Causa (aútion): le cose anteriori sono c. più di quelle posteriori: p. 245. La saggezza ha per oggetto le c. e gli elementi più che le realtà ultime: p. 247. Arte, natura e caso come c. del venire all’essere: pp. 281 ss. Ricercare l’utile in ogni scienza è proprio di chi non distingue la c. dalla concausa: p. 291. Dio/gli dèi come c. dell’ordine del cielo: pp. 601, 603. La comprensione della c. del mondo dette origine alla nozione del divino: p. 605. C. interne e c. esterne della corruzione degli enti: pp. 617 s. Il mondo non può corrompersi né per una c. esterna né per una c. interna: pp. 619 s. Cercine (t‡lh): fu scoperto da Protagora: p. 419. Ciò in vista di cui (t o˘ ≤neka): si dice in due sensi: pp. 41, 651. Identità tra ciò in vista di cui qualcosa viene all’essere e ciò in vista di cui deve venire all’essere: p. 285. Il ciò in vista di cui e il fine sono propri della stessa scienza: p. 649. Vedi anche fine. Comico (kwmikfi©): Platone rigetta la tragedia e la poesia c., che pur purificano le passioni: p. 531. Commedia (kwmˇwd›a): vedi poesia. Conoscere (âp›stasqai): come possesso e come uso della conoscenza: p. 301; ma conosce soprattutto chi usa la conoscenza: p. 303. Contemplativo/teoretico: vedi teoretico. Contemplazione (qewr›a): è il fine della parte razionale dell’anima: p. 259, il fine per il quale l’uomo è stato generato: p. 287. Corpi celesti (t· oér¿nia): vedi astri.

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Corpo (sáma, corpus): come armonia dell’anima: p. 161. È felice il c. che ha salute ed è in buona condizione: p. 235. Funzione strumentale del c. e delle cose che lo concernono: p. 237; il corpo come strumento dell’a.: p. 255. L’anima è una realtà migliore del c.: pp. 245 s., 255. La vita senza c. è conforme alla natura dell’anima, mentre nel c. l’anima è come malata: p. 157; separandosi dal c. al momento della morte e nei sogni l’anima raggiunge la natura propria e vaticina: p. 599; ricorda le cose passate, scorge quelle presenti e prevede quelle future: p. 601. L’anima comanda mentre il c. è comandato: pp. 251, 255. I beni del c. sono finalizzati a quelli dell’anima: p. 289. Ogni sensazione fa acquisire conoscenza mediante il c.: p. 262. L’unione dell’anima col c. assomiglia all’unione di un vivo con un morto: pp. 275, 277. Il c. come caligine, che oscura le cose intelligibili e divine: p. 587. L’etere come quinto c.: p. 633. Corruzione (fqor¿): negli enti composti si ha c. quando i componenti, che uniti si trovano in un luogo contro natura, si portano nei loro luoghi naturali: pp. 621 s. Crematista (crhmatist‹©): l’uomo dabbene è un buon c. mentre l’uomo cattivo è un c. cattivo: p. 341. Dabbene (spoudaÖo©): sembrare persone d. nei costumi: p. 227. L’uomo d. è un buon crematista: p. 341. Demenza (dementia): la d. più grande consiste nell’ignorare di ignorare: p. 315. Demone (da›mwn): il d. buono e il d. cattivo: p. 579. Diade indefinita (àfiristo© du¿©): vedi Grande e Piccolo Dialettica: alcuni dialoghi trattano di d.: p. 71. La d., assieme alla politica, è attribuita alla retorica: p. 87. L’inventore della d. fu Zenone: p. 143. Dialogo (di¿logo©, dialogus): Cicerone scrive d.: p. 49. In Aristotele i d. coincidono con le opere essoteriche: p. 65. Aristotele in molti d. discorre del poeta: p. 53. Nei d. essoterici Aristotele muove obiezioni a Platone: p. 55 e discorre dei poeti: p. 523. I d. di Aristotele furono scritti per un pubblico vasto: pp. 59, 61; la loro forma è chiara: p. 65, ampia, fluente e accurata: p. 59; hanno carattere persuasivo: p. 63; mancano di annotazioni che rendano la forma pregnante e icasti-

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ca come in Platone: p. 59; fanno parte, assieme alle opere scritte in prima persona o acroamatiche, dei trattati o opere sintagmatiche: pp. 61, 63, 75. Anche i d. furono scritti per coloro che si dedicano alla filosofia: p. 63. Aristotele vi espone le opinioni altrui e cose false: p. 63. L’immortalità dell’anima nei d. è dimostrata con ragionamenti persuasivi: p. 155. Nei d. Aristotele tratta della discesa dell’anima nel corpo e delle sue sorti: p. 157. Zenone primo scrittore di d.: p. 527; ma fu Platone a rendere splendido questo genere: p. 527. Platone scrittore di d.: p. 529; la cui forma è a mezzo tra il poema e il discorso: p. 531. Alessameno di Teo inventore dei d.: p. 529. D. socratici: p. 531. Anche nei d. viene disapprovata l’ipotesi delle idee, ma per amore di contesa: p. 591. Vedi anche discussione dialogica; discutere a favore e contro; essoterico. Dio (qefi©): agli dèi è gradito che si sacrifichi abbelliti di una corona: p. 113. Bere il vino in onore degli dèi: p. 115. Finalizzare agli dèi il riunirsi e lo stare insieme: p. 115. Il discorso sugli dèi di Protagora: p. 145. Vivendo secondo l’intelletto l’uomo sembra un d.: p. 279, giacché l’intelletto è d.: p. 279; d. è intelletto o qualcosa al di là dell’intelletto: p. 355. L’uomo è un d. mortale: p. 279. Omero chiese al dio chi fossero i suoi genitori: p. 543. I pianeti come dèi della nascita: p. 581. La nozione degli dèi è sorta da riflessioni sull’anima e sulle meteore: pp. 599 ss. L’esistenza di d. è provata dall’ordine e dalla bellezza del mondo: pp. 603 ss. Il mondo come ombra di d.: p. 605. D. artefice o facitore e guida del mondo: pp. 605 s. Discutere sugli dèi richiede reverenza: pp. 607 s. Il mondo è un tempio santissimo di d.: p. 609. D. non può distruggere questo mondo per non crearne un altro, o, se ne crea un altro, per crearne uno peggiore o uguale o migliore dell’attuale: pp. 625 s. Le stelle, dovendo pensarsi dotate di sensazione e intelligenza, sono dèi: pp. 629 s. Ambiguità di Aristotele circa d. e il divino: pp. 643 s. Discorrere a favore e contro (in utramque partem dicere): lo usa Aristotele: p. 45. Vedi anche discussione dialogica; dialogo; essoterico. Discorso (lfigo©, oratio): gli Stoici praticano un d. stringato:

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p. 45; invece Platone e gli Accademici usano un d. prolisso e fluente: pp. 45 s. Aureo fiume del d. di Aristotele: pp. 47, 49, 627; soavità e al tempo stesso forza del suo d.: p. 53. Aristotele guida egli stesso il d.: p. 51; fu lui a proferire ciò che scrisse sullo stato e il governante: pp. 53, 487. D. originatisi durante i simposi: p. 111. Il d. sugli dèi di Protagora: 145. Il d. del Sileno a Mida: pp. 159 s. Nei d. svolti in pubblico Aristotele pone domande in modo ordinato: p. 165. Scrivere d. protrettici per gli amici: p. 227. La forma dei dialoghi platonici è a mezzo tra poesia e d.: p. 531. Gli Ateniesi concedettero a Zenone la cittadinanza per i suoi d.: p. 683. Discorso meticoloso (àkribolog›a): il d.m. sulla verità è l’occupazione sorta per ultima: p. 265. Discussione dialogica (disputatio ac dialogus): Cicerone ha scritto i tre libri Sull’oratore nella forma di una d.d.: p. 49. Vedi anche discutere a favore e contro, dialogo. Dissennatezza (ônoia): la mancanza d’educazione unita a dovizia di mezzi genera d.: p. 235. Divino (qeÖo©): l’essere d. è l’essere primo ed eccelso, ed è necessariamente immutabile nella sua totalità: p. 71. Animi eterni e d.: p. 279. Il nomoteta deve stabilire la costituzione guardando alla natura e al d.: p. 299. L’iscrizione delfica «conosci te stesso» è la più d.: p. 575. Le cose intelligibili e d. sono le più manifeste: p. 587. Platone e i Platonici come uomini d.: p. 593. La comprensione della causa del mondo dette origine alla nozione del d.: p. 605. Ciò che è d. è eterno e immutabile: pp. 611 s. La vista e l’udito sono sensazioni d.: p. 641. Ambiguità di Aristotele circa Dio e il d.: pp. 643 s. Dolore (dolor): essere spaventati dal d.: p. 317. Coloro che sopportano senza d. l’ignominia e il disonore sembrano avere l’impunità dalle colpe: p. 493. Vedi anche sofferenza. Donna (gun‹): le d. sono lente a ubriacarsi: p. 129. Una d. non manca così tanto d’intelletto da preferire le cose peggiori pur potendo avere quelle migliori: pp. 625 s. Eloquente/dotato d’eloquenza (eloquens): gli uomini d.d.e. esaltano le virtù: p. 317. Scritti di uomini e. che furono persuasioni per Alessandro: p. 441.

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Eloquenza (eloquentia): nelle isole dei beati non avremmo bisogno dell’e.: p. 289. Essoterico (âxwterikfi©): libri e., adatti al pubblico: pp. 47, 59. Opere e. di Aristotele: p. 49; coincidono con i dialoghi: p. 65; sono redatte in uno stile aggraziato e piacevole: p. 59; e destinate a un vasto pubblico: pp. 63, 71. Nei dialoghi e. Aristotele mosse obiezioni a Platone: p. 55. Le opere e. (o dialoghi) si oppongono a quelle acroamatiche: p. 63. Negli scritti e. si parla della vita eccellente, della virtù e dell’anima: p. 65; si analizzano la retorica e la capacità di proferire arguzie: p. 71; si trattano questioni politiche: p. 71. Un’analisi sulle idee è stata condotta anche negli scritti e.: p. 69. Aristotele insegnava le discipline esposte nelle opere e. il pomeriggio: p. 71. Vedi anche dialogo; discutere a favore e contro; discussione dialogica. Etere (aether): quinto corpo o natura, che trasla circolarmente: pp. 633 ss. Vi derivano l’intelletto e le attività connesse: p. 647. Di e. sono fatti gli dèi e gli animi: pp. 647 s. Felice (eéda›mwn, beatus): nessuno direbbe f. la persona virtuosa carica di disgrazie: p. 69. I morti sono beati e f.: p. 159. Sono f. il corpo che abbia salute e sia in buona condizione, e l’anima che sia stata educata: p. 325. L’essere f. consiste nell’usare: p. 241. Rivolgendoci a ciò di cui parla la filosofia si è f.: pp. 273 s. Ritornando al cielo le anime sono f.: pp. 279 s.. Critica della tesi che il sapiente è sempre f.: p. 317. Chi possiede la virtù è f.: p. 317. Compito della filosofia è stabilire se la vita f. sia interamente in potere del sapiente o possa essere rovinata dalle circostanze esteriori: pp. 317 s. Se si attribuisce molta importanza alla sorte, la sapienza non può garantire una vita f.: p. 319. Felicità (eédaimon›a): la f. non consiste nel possedere molte cose, ma in una certa disposizione dell’anima: pp. 233 s.; consiste nella saggezza e nell’essere saggi: p. 311. Festa (q¿lia): così chiamata perché finalizzava agli dèi il riunirsi e lo stare insieme: p. 115. Era un banchetto abbondante: p. 115. Fico (sÜkon): proprietà digestive e gustative del f.: p. 125. Filosofare (philosophari, filosofeÖn): nell’Ortensio si discute

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se si debba f.: p. 225. Temisone e Filisco possiedono tutti i beni necessari per poter f.: p. 229. Non si può non f.: pp. 229, 231. Si deve f. per partecipare correttamente alla vita della polis: p. 237. Occorre o filosofare o dipartirsi da questa vita: p. 279. Si deve f. anche per provare i piaceri più alti: p. 309. Nel f. risiede il vivere bene in modo completo: p. 311. Per Platone i mali dello stato cesseranno se regneranno i filosofi o i re filosoferanno: p. 445. Coloro che filosofarono in modo eccellente indicarono nella comprensione della causa del mondo l’origine della nozione del divino: p. 605. Filosofia (filosof›a): nel Protrettico Aristotele esorta i giovani alla f.: pp. 231, 233. Si fa f. anche sostenendo che non si deve fare f.: p. 233. La saggezza consiste nell’apprendere le cose di cui la f. fornisce la capacità: p. 235. La f. come scienza del ben giudicare: p. 239; essa permette di servirsi convenientemente di tutti i beni: p. 239. La f. non è esecuzione di azioni: p. 241; né è utile per le azioni: pp. 241 s. La f. è possibile: pp. 243-249; è utile: pp. 249-251; è facile: pp. 251-253. La f. è possesso e uso della sapienza: p. 251. Compito della f. è stabilire se la vita felice sia interamente in potere del sapiente o possa essere rovinata dalle circostanze esteriori: pp. 317 s. Tracce di un’antica f.: p. 585. Filosofo (filfisofo©): egli soltanto imita le cose stesse, perché a queste si rivolge: p. 297. Per Platone i mali dello stato cesseranno se regneranno i f. o i re filosoferanno: p. 445; per Aristotele invece occorre che chi regna ascolti i consigli del f.: p. 445. I primi f. ricercarono la nozione del divino: p. 605. Ragionamenti filosofici destinati ai più: p. 613. Fine (t¤lo©): è migliore di ciò che è in vista di esso: p. 259, ed è la parte migliore: p. 287. Il f. secondo natura è ciò che si compie per ultimo: p. 287; per l’uomo esso è la saggezza: pp. 287, 289. Il ciò in vista di cui e il f. sono propri della stessa scienza: p. 649. Vedi anche ciò in vista di cui. Giustizia (iustitia): Aristotele e Platone difensori della g.: pp. 679 s. Prerogative della g.: p. 681. G. e piacere: p. 681. Grande anno (magnus annus): pp. 319 s. Vedi anche anno, anno massimo. Grande e Piccolo (t m¤ga ka‰ t mikrfin): sono principi delle

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idee: p. 595. Al G.P. si riportano anche il Breve e il Lungo, principi delle linee, nonché lo Stretto e il Largo, principi delle superfici: p. 595. Grandezza (m¤geqo©): per alcuni le g. si riportano ai numeri ideali, per altri partecipano dell’uno: pp. 597 s. Greci (≠Ellhne©): trattare con i G. come guida: p. 461; trattarli come amici e affini: pp. 461, 463. Idea (åd¤a): un’analisi sulle i. è stata condotta anche negli scritti essoterici: p. 69. Per Platone, le i. e le cose si predicano omonimamente: p. 167. L’anima è una certa i. e l’anima intellettiva è capace di accogliere le i.: p. 169. Aristotele ha disapprovato l’ipotesi platonica delle i., ma per amore di contesa: pp. 591, 593. Principi delle i. sono il Grande e il Piccolo o diade indefinita: p. 595. Imitazione (m›mhma): le cose del mondo come i. sensibili di realtà intelligibili: p. 609. Immortale (àq¿nato©): l’intelletto è la parte i. in noi: pp. 155, 277. Incoronare (st¤fein): è espressione di una certa pienezza e compiutezza: pp. 113, 115. Per questo agli dèi è gradito che si sacrifichi incoronati: p. 113. Nelle manifestazioni di dolore si evita di i.: p. 115. Nei simposi si usava incoronarsi: p. 115. Infelice (ôqlio©): si devono ritenere i. quei soggetti che ritengono le loro proprietà di maggior pregio della loro natura: p. 235 Iniziato (telo‡meno©): gli i. non ricevono apprendimenti, ma provano passioni: pp. 609 s. Insipienza (àfros‡nh): tutti fuggono l’i.: p. 267. Intelletto/intelligenza (noÜ©): è la cosa sacra più necessaria per i sacrifici: p. 119. Solo l’i. è capace di muoversi da sé: p. 155. Immortalità dell’i.: p. 155. È la parte migliore dell’anima: p. 169. Niente tranne l’i. e la saggezza è divino nell’uomo: p. 277; vivendo secondo l’i. l’uomo sembra un dio: p. 279, giacché l’i. è dio: p. 279; Dio è intelletto o qualcosa al di là dell’intelletto: p. 355. È la parte immortale nell’uomo: p. 277. La vita conforme all’intelligenza è massimamente piacevole: pp. 301 ss. L’i. come uno: p. 597. L’i. divino artefice delle cose del mondo: p. 609. Il modo telestico dell’apprendere è

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un’illuminazione dell’i.: p. 611. Una donna non manca così tanto d’i. da preferire le cose peggiori pur potendo avere quelle migliori: pp. 625 s. L’i. deriva dall’etere: p. 647. I. e senso sono per natura realtà distinte: p. 681. Intellezione (nfihsi©): è come una folgorazione e permette all’anima di toccare l’intelligibile: p. 169. Intelligibile (nohtfi©): è raggiunto dall’anima mediante l’intellezione: p. 169. Le cose del mondo come imitazioni sensibili di realtà i.: p. 609. Le cose i. e divine sono le più manifeste: p. 587; sono oscurate dalla caligine del corpo e portate alla luce dalla sapienza: p. 587. Ira (ira): è il desiderio di ricambiare un dolore: p. 489, un piacevole, intenso desiderio di vendicarsi: p. 493; è necessaria: p. 489; non va estirpata perché è sprone per la virtù: p. 489; è utile: pp. 489, 491; infonde coraggio per le battaglie e le imprese importanti: pp. 489, 491, 495; è la pietra della fortezza, sia contro il nemico che contro il cittadino disonesto: p. 491; elimina l’indolenza e la vigliaccheria: p. 495; induce alla vendetta dei nemici: p. 495. Moderare l’i., non eliminarla: p. 491; estirpata l’i., l’anima resta indifesa, pigra e inerte: p. 489; sono recisi i nervi dell’anima: p. 495. L’oratore, sia che accusi sia che difenda, deve usare gli aculei dell’i.: pp. 491 s. Non è uomo chi non prova i.: p. 493. Leccornie (trag‹mata): vedi seconde mense. Legge (nfimo©): solo la l. comanda ed è sovrana: p. 249. È corretto combattere per le l., per la libertà, per la patria: p. 491. Matematica (m¿qhma): Inutilità delle m.: p. 239. Le scienze m. sono passibili di scelta per se stesse: p. 253. Melodia (m¤lo©): teoria delle m.: pp. 637 ss. Metempsicosi (metemy‡cwsi©): mediante la m.: l’anima muta sesso: p. 171. Meteore (t· met¤wra): vedi astri. Metodo della discussione (disserendi ratio): praticata dagli Accademici: p. 45. Mitezza (lenitas): per i Peripatetici è mollezza: p. 493. Mondo (mundus): non ha mai avuto origine né può invecchiare e perire: pp. 49, 627. L’ordine e la bellezza del m. come prova dell’esistenza degli dèi e di Dio: pp. 603 ss. Il m. come

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ombra di Dio: p. 605. La comprensione della causa del m. è l’origine della nozione del divino: p. 605. Dio artefice o facitore e guida del m.: pp. 605 s. Il m. è un tempio santissimo di Dio: p. 609. Le cose del m. come imitazioni sensibili di realtà intelligibili: p. 609. Il m. è ingenerato e incorruttibile: pp. 615 ss.; è un dio visibile: p. 617. Il m. non può corrompersi né per una causa esterna, né per una causa interna: pp. 619 s. Incorruttibilità del m. desunta dall’assurdo che le sue parti, che nel mondo occupano il loro luogo naturale, disgregandosi si portino in luoghi contro natura: pp. 621 ss.; nonché dall’assurdo che Dio o non ne crei un altro, o, se ne crea un altro, lo crei o peggiore o uguale o migliore di quello attuale: pp. 625 s. Epicuro, con Platone, può costringere Aristotele ad ammettere che il m. ha avuto un’origine e poi può costringere sia Platone che Aristotele ad ammettere che, se ha avuto un’origine, finisce: p. 629. Morire (qn¤skein, teleutÄn): m. è meglio che vivere: p. 159; poiché si è nati, è bene morire il più in fretta possibile: p. 161. I morti sono beati e felici: p. 159. L’unione dell’anima col corpo è simile all’unione di un vivo con un morto: pp. 275, 277. Se dopo morti vivessimo nelle isole dei beati, non ci sarebbe bisogno dell’eloquenza: p. 289. Morte (q¿nato©): il fuggire la morte come segno dell’amore per l’apprendere: p. 269. M. come un uscire da prigione o come un trasmigrare da una casa in un’altra migliore: p. 281. Preconizzazioni e divinazioni al momento della m.: pp. 599 s. Movimento (k›nhsi©): per Parmenide e Melisso non esiste: p. 591; per questo Aristotele li chiama stabilizzatori della natura e afisici: p. 591. La nozione degli dèi si è generata dall’osservazione del m. ordinato dei corpi celesti: pp. 601 s. Il mondo ha connaturato il principio della vita e del m.: p. 609. Muoversi/essere in movimento (moveri): tutto ciò che è in movimento, è mosso o dalla natura o per costrizione o dalla volontà: p. 631. Nascere (gen¤sqai): è la sciagura più grande: p. 159; non n. è la cosa migliore: pp. 159 s. Poiché si è nati, è bene morire il più in fretta possibile: p. 161. L’uomo è nato per scontare la pe-

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na di scelleratezze commesse nella vita precedente: p. 277. Siamo nati per esercitare la saggezza e imparare: p. 289. Natura (f‡si©): Democrito studioso della n.: p. 43. Non indagare la n., che è incomprensibile nel suo continuo mutare: p. 55. Alcune cose vengono all’essere per opera della n.: p. 281. Tali cose, come quelle dovute all’arte, nascono in vista di un fine: pp. 283, 285. L’arte imita la n. e le viene in soccorso ove trova ostacoli nel portare a termine la sua opera: p. 283. Chi si occupa di medicina e di ginnastica dev’essere esperto della n.: p. 295. Dalla n. si ricavano i migliori strumenti dell’arte del fabbricare: p. 295. Il politico deve trarre alcune regole dalla n.: p. 295. La legge morale è conforme alla n.: p. 297. Il nomoteta deve stabilire la costituzione guardando alla n. e al divino: p. 299. La nostra vita è contro n.: pp. 311 s. La n. non ha creato la sofferenza senza un’utilità: p. 493. La n. è fine e ciò in vista di cui: p. 649. Nobile (eégen‹©): quali persone si debbono dire n.: pp. 371 s. Se siano n. coloro che discendono da genitori dabbene o da antenati ricchi: p. 375; o da antenati dabbene: p. 379. Coloro che discendono da antenati ricchi o da antenati dabbene sembrano essere più n. di coloro che hanno acquisito da poco tali beni: pp. 383, 385. È n. chiunque sia un uomo dabbene: p. 385. Se sposarsi con i ricchi o con i n.: p. 379. Vedi anche nobiltà, stirpe. Nobiltà (eég¤neia): se la n. sia degna d’onore e pregevole o completamente vuota: p. 373. È la virtù di una stirpe: pp. 379, 385. Vedi anche nobile, stirpe. Nomoteta (nomoq¤th©): deve stabilire la costituzione guardando non agli altri stati e alle altre costituzioni, ma alla natura e al divino: p. 299. Numeri ideali (eådhtiko‰ àriqmo›): se i n.i. sono diversi da quelli matematici, sono incomprensibili: p. 593. Riportano le idee alle grandezze: p. 599. Ombra (ski¿): il mondo come o. di Dio: p. 605. Opere in forma d’appunti (t· ñpomnematik¿): sono opere generali scritte per una memoria personale: p. 61. Vi erano trascritti soltanto i punti principali e le annotazioni per

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sommi capi: p. 73. Si distinguono dai trattati per ordine e splendore della narrazione: p. 75. Opere particolari (t· merik¿): opere scritte privatamente per qualcuno: pp. 443, 461. Opere scritte in prima persona (t· aétoprfiswpa): coincidono con le opere acroamatiche e fanno parte, assieme ai dialoghi, dei trattati o opere sintagmatiche: pp. 61, 63, 75. Vedi anche acroamatico. Opere sintagmatiche (t· suntagmatik¿): vedi trattati. Opinione (dfixa, opinio): l’o. vera è simile alla saggezza: p. 261. L’o. della massa: p. 317. L’o. come numero della superficie: p. 597. Nel Sul bene e nel Sulla filosofia Aristotele espone le o. di Platone e dei Pitagorici sugli enti e i loro principi: p. 597. Oratore, retore (®‹twr, orator): deve conoscere il metodo della discussione: p. 45. Un o. può ignorare Aristotele: p. 47. Il r. Cefisodoro polemizzò con Aristotele, ma in realtà volle colpire Platone: p. 57. L’o., sia che accusi sia che difenda, deve usare gli aculei dell’ira: pp. 491 s. Ornato (ornatus): è uno stile dell’oratore: p. 43. Passione/sentimento (p¿qo©): la tragedia e la poesia comica purificano le p.: pp. 531, 537; permettono di soddisfarle in modo misurato: p. 533. Il politico deve permettere l’esprimersi delle p., ma in modo frenato e misurato: p. 533. Opere poetiche che provocano smisuratamente le p.: p. 533. Le passioni, se trattenute, insorgono violentemente, se moderatamente soddisfatte allietano: p. 535 e possono essere purificate: p. 537. Il sentimento vuole essere semplice, non artefatto: p. 675. Pasticcini (trwg¿lia): vedi seconde mense. Patria (domus): staccandosi dal corpo, l’anima ritorna nella propria p.: p. 153. È corretto combattere per le leggi, per la libertà, per la p.: p. 491. Pescatore (êlie‡©): Omero e i p.: p. 543. Piacere (ìdon‹, delectatio): il bene non coincide col p.: p. 279. Bere con p. e bere mentre si prova p.: p. 307. Il p. si origina dall’essere saggi: p. 309. Si deve filosofare anche per provare p. veri e buoni: p. 309. Inanità del p. della massa: p. 341. P. e giustizia: p. 681. I p. di Sardanapalo: pp. 313 ss.

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Piacevole/con piacere (ìd‡©): le cose facili si apprendono con maggior p.: p. 243. Il bene non coincide col p.: p. 279. La vita conforme all’intelligenza è massimamente p.: pp. 301 ss. L’attività contemplativa è la più p.: p. 307. La vita senza saggezza non può essere p.: 313. È p. la vita la cui presenza è tale per coloro che la possiedono: pp. 307 s. Pianeti (planhta›): sono dèi della nascita: p. 581. Due p. sono facitori di bene, due facitori di male, tre intermedi: p. 581. Piede calzato (pedes calceatus): gli Etoli vanno in guerra con un solo p.c.: pp. 537 s. Poesia (po›hsi©, poihtik‹): la forma dei dialoghi platonici è a mezzo tra p. e discorso: p. 531. Platone rigetta la tragedia e la p. comica: p. 531. Tragedia e p. comica purificano le passioni: pp. 531, 537; permettono di soddisfarle in modo misurato: p. 533. Opere poetiche che provocano smisuratamente le passioni: p. 533. Politica (politik‹): è attribuita alla retorica, assieme alla dialettica: p. 87. Politico (politikfi©): il p. deve trarre alcune regole dalla natura e dalla verità: p. 295. Deve permettere l’esprimersi delle passioni, ma in modo frenato e misurato: p. 533. Povertà (paupertas): essere spaventati dalla p.: p. 317. Principio (àrc‹): Grande e Piccolo, o diade indefinita, come p.: p. 595. Breve e Lungo, Stretto e Largo come p. delle linee e delle superfici: p. 595. Il mondo ha connaturato il p. della vita e del movimento: p. 609. L’unità del p.: p. 615. I quattro elementi (acqua, aria, terra e fuoco) sono p.: pp. 645 ss. Prodigalità (àswt›a): alcuni abusano della ricchezza per la loro p.: p. 339. Produzione (poi‹si©): ha per oggetto ciò che può essere altrimenti da come è: p. 67. Diversità della p. dall’azione: p. 69. Prologo (prohoemium): Aristotele scrisse p.: p. 49. Proprietà (t oåkeÖon): non dà vantaggio agli avari e danneggia i prodighi: p. 339. Protrettico (protreptikfi©): scrivere discorsi p. per gli amici: p. 227. Aristotele in uno scritto di carattere p. esorta i giovani a filosofare: p. 231.

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Provare passioni (p¿scein): gli iniziati non apprendono, ma provano passioni: pp. 609 s. Provare piacere (ca›rein): l’attività perfetta e non impedita comporta il p.p.: p. 307. Bere con piacere e bere provando piacere: p. 307. Proverbio (paroim›a): i p. sono sapienti perché sono tracce di un’antica filosofia: p. 585. Purificazione (àfos›wsi©): la tragedia e la poesia comica operano la p. delle passioni: p. 531. Le p. si attuano in attività moderate: p. 533. Questioni conviviali (quaestiones conviviales): genere caro agli Antichi: p. 113. Regnare (basile‡ein): Aristotele insegna ad Alessandro come bisogna r.: 443. Per Platone i mali dello stato cesseranno se regneranno i filosofi o i re filosoferanno: p. 445. Retore (®‹twr): vedi oratore. Retorica (®htorik‹): antichi autori di trattati di r.: p. 43. Se la r. sia un’arte: pp. 85 s. Aristotele scrisse tre libri sulla r.: p. 87. L’inventore della r. fu Empedocle: p. 143. Reverente (verecundus): nel discutere sugli dèi bisogna essere r.: pp. 607 s. Ricchezza (ploÜto©): i più non usano la r. a causa della loro avarizia, altri ne abusano per la loro prodigalità: p. 339. Ricordare (meminisse): l’anima, separata dal corpo nei sogni, ricorda le cose passate: p. 601. Sacrificare (ã‡ein): bere vino dopo aver sacrificato: p. 115. Agli dèi è gradito che si sacrifichi incoronati: p. 113. Saggezza (frfinhsi©): ricchezza, forza, bellezza danneggiano se non siano accompagnate dalla s.: p. 235. La s. consiste nell’apprendere le cose di cui la filosofia fornisce la capacità: p. 235. Ha per oggetto le cause e gli elementi più che le realtà ultime: p. 247. È il maggiore dei beni: p. 249. Opera propria della s. è la contemplazione ed essa ha natura teoretica: p. 259. L’opinione vera è simile alla s.: p. 261. È ciò che più di tutto merita d’essere scelto: p. 267. Chi non tollera di vivere in ogni modo, non esita a sopportare ogni fatica pur di acquisire la s., che è condizione per vivere bene: p. 271. Niente tranne l’intelletto e la s. è divino nell’uomo: p.

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277. La s. si sviluppa per ultima: p. 287. È la cosa migliore, il bene ultimo, il fine per natura: p. 289; il fine per il quale siamo nati: pp. 287 s. Nelle isole dei beati riceveremo i doni della s.: 293. La s. contemplativa procura le massime utilità: pp. 295 ss. Chi esercita la s. vive nel senso più pieno: p. 307. La felicità risiede nella s. e nell’essere saggi: p. 311. La vita senza s. non può essere piacevole: p. 313. Saggio (frfinimo©): il s. come criterio dei beni: p. 249. Tutti gli uomini perseguono soprattutto l’essere s.: p. 263, ossia l’acquisire conoscenza: p. 263. Nessuno sceglierebbe di vivere possedendo sostanze e potenza ma senza essere s.: p. 267. L’essere s. è la cosa migliore: p. 289. Il saggio (soprattutto quando esercita la saggezza e non la possiede soltanto) esiste nel senso più pieno: pp. 307, 309. Il piacere si origina dall’essere s.: p. 309. La felicità risiede nella saggezza e nell’essere s.: p. 311. Sapiente (soffi©, sapiens): se il s. si ubriachi: p. 117. Ai s. s’addice più che a chiunque altro il far sacrifici: p. 119; nonché il bere il vino: p. 119. Il s. dopo aver bevuto vino diventa più piacevole: p. 121. I poeti s. dicono che nell’Ade riceveremo i doni della giustizia: p. 293. Contestazione della tesi che il s. è sempre felice: 317. Compito della filosofia è stabilire se la vita felice sia interamente in potere del s. o possa essere rovinata dalle circostanze esteriori: pp. 317 s. I s. non possono essere ingannati né cadere in errore: p. 495. Sofista è colui che è s.: p. 579. I proverbi sono s. perché sono tracce di un’antica filosofia: p. 585. I cinque significati di sapienza e s.: pp. 587 s. I sette s.: p. 589. Sapienza (sof›a, sapientia, sophia): difendere la s. perché è una tradizione divina: p. 233. La filosofia è possesso e uso della s.: p. 251. Se si attribuisce molta importanza alla sorte, la s. non può garantire una vita felice: p. 319. Tra le scuole della s. quella dei Magi fu la più famosa e la più utile: p. 581. La s. fu così chiamata come fosse una sorta di chiarezza: p. 585; porta alla luce le cose intelligibili e divine traendole dall’oscuramento dovuto al corpo: p. 587. I cinque significati di s. e sapiente: pp. 587 s. Scienza (âpist‹mh): s. che producono vantaggi per la vita e s.

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che se ne servono: p. 237; s. che servono e s. che comandano: p. 237. La filosofia come s. del ben giudicare permette di servirsi conveniente di tutti i beni: p. 239. Inutilità delle s. teoretiche per le azioni: pp. 241 s. Tutti possono comprendere le s., sia quelle etico-politiche, sia quelle fisiche e metafisiche: p. 243. Pretendere che da ogni s. derivino cose utili è proprio di chi ignora la differenza tra il bene e il necessario: p. 291. La s. è espressa dal numero due: p. 597. Il ciò in vista di cui e il fine sono propri della stessa s.: p. 649. Seconde mense (deut¤rai tr¿pezai): erano così chiamate le leccornie o i pasticcini che si mangiavano dopo il pasto vero e proprio: pp. 123 s. Una sorta di mangiare aggiuntivo: pp. 123 s. Sensazione (aúsqhsi©): s. che s’accompagnano alla poetica: pp. 4, 521. Il vivere si distingue dal non vivere per il fatto di avere s.: p. 263. Ogni s. fa acquisire conoscenza mediante il corpo: p. 263. La s. come numero del solido: p. 597. Vista e udito sono s. celesti e divine, s’ingenerano nei corpi mediante l’armonia e manifestano l’armonia mediante la luce e il suono: p. 641. Prodotti del pensiero e prodotti della s.: p. 681. Sensibile (aåsqhtfi©): le cose del mondo come imitazioni s. di realtà intelligibili: p. 609. Sentimento (p¿qo©): vedi passione. Sentire (aåsq¿nesqai): distingue il vivere dal non vivere: p. 301. Sofferenza (aegritudo): la natura ha creato la s. non senza utilità: p. 493. Vedi anche dolore. Sogno (somnium): il sogno di Eudemo: p. 153. Spesa (sumptus): le s. immani e smisurate non stupiscono per la grandezza del fatto: p. 341. Stabilizzatore della natura (stasuÒth© tÉ© f‡sew©): Aristotele così qualifica, unitamente ad afisici, Parmenide e Melisso: p. 591. Stelle (astra): vedi astri. Stirpe (g¤no©): la nobiltà è virtù di una s.: pp. 379, 385. Una s. è di pregio se il capostipite è persona di pregio e possiede la capacità di generare discendenti delle sue stesse qualità: p. 385.

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Telestico (telestikfi©): modo didattico e modo t. di apprendere: p. 611. Teoretico/contemplativo (qewrhtikfi©): inutilità delle scienze t. per le azioni: pp. 241 s. La saggezza ha natura t.: p. 259. La saggezza contemplativa procura le massime utilità: pp. 295 ss. Carattere c. della conoscenza della natura e del divino: p. 301. L’attività c. è la più piacevole: p. 307. Tracotanza (≈bri©): la sazietà genera t.: p. 325. Tragedia (tragˇwd›a): Platone rigetta la t. e la poesia comica: p. 531. T. e poesia comica purificano le passioni: pp. 531, 537; permettono di soddisfarle in modo misurato: p. 533. Trattati o opere sintagmatiche (t· suntagmatik¿, commentaria): sono t. le opere più rifinite di Aristotele e Teofrasto: p. 47. Contrapposti alle opere in forma d’appunti: p. 61. Comprendono sia i dialoghi che le opere in prima persona o acroamatiche: pp. 61, 63, 75. Sono scritti in una forma più impegnativa: p. 63. Ubriacarsi (meq‡ein): è bere vino dopo aver sacrificato, donde il nome: pp. 115, 119. Significa sia bere il vino che vaneggiare: p. 117. Differenza tra bere il vino e u.: il primo fa rilassarsi, il secondo fa dire cose insulse: p. 121. Differenti effetti dell’u. con il vino e con la birra: pp. 125 s. Il vino, se fatto cuocere, ubriaca di meno: p. 127. I vecchi si ubriacano in fretta: pp. 127 s. Il vino samagoreo derivato da tre cotili ubriaca più di quaranta uomini: p. 129; quello bevuto nelle coppe rodie ubriaca di meno: pp. 129 s. Vedi anche ubriachezza; vino. Ubriachezza (m¤qh): ha luogo dopo i sacrifici: p. 119; ed è causa di rilassamento dell’anima: p. 119. È vaneggiamento dovuto al vino: p. 121. Vedi anche ubriacarsi, vino. Universo (t pÄn): lo spettacolo dell’u.: p. 293. Uno (t ≤n): la partecipazione all’u. dell’idea delle grandezze: p. 599. Usare/fare uso (crÉsqai): i beni utili per la vita risiedono nell’u. e non nel conoscere soltanto: pp. 239 s. L’essere felici consiste nell’u.: p. 241. Distinto dal possedere: pp. 301 s. Consiste nel realizzare la cosa, se questa è una sola, o nel compiere la cosa migliore, se vi siano più cose: p. 305. I più

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non usano la ricchezza a causa della loro avarizia, altri ne abusano per la loro prodigalità: p. 339. Uso (crÉsi©): la filosofia è possesso e u. della sapienza: p. 251. Vecchio (geraifi©): i v. si ubriacano in fretta: pp. 127 s. Vedere (ïrÄn): si ama per se stesso: p. 261 ed è la sensazione che più è passibile di essere scelta: p. 263. È la sensazione più certa: p. 263 e la più chiara: p. 263. V. come possedere e come esercitare la vista: p. 301. Vergognoso (aåscrfi©): la cosa più v. è ritenere che i beni esteriori siano più degni di pregio di quelli dell’anima: p. 235. Via di mezzo (mediocritas): è ottima in ogni situazione: p. 495. Vino (oÚno©): differenza tra bere il v. e ubriacarsi: il primo fa rilassare, il secondo fa dire cose insulse: p. 121. Differenti effetti dell’ubriacarsi con il v. e con la birra: pp. 125 s. Il v., se fatto cuocere, ubriaca di meno: p. 127. Il v. samagoreo derivato da tre cotili ubriaca più di quaranta uomini: p. 129; quello bevuto nelle coppe rodie ubriaca di meno: pp. 129 s. Causa del suo essere freddo: p. 131. Vedi anche ubriacarsi, ubriachezza. Virtù (àret‹): se ne tratta negli scritti essoterici: p. 65. Distinzione del possesso della v. dal suo esercizio: p. 69. Nessuno direbbe felice la persona dotata di v. ma carica di disgrazie: p. 69. Ogni cosa si trova in buona condizione in conformità con la v. che le è propria: p. 255. La v. di ciò che per natura è migliore, è essa stessa migliore: p. 255, dunque la v. della parte razionale dell’anima è la v. più degna d’essere scelta: p. 257. La v. secondo cui ogni cosa compie l’opera propria è la più importante: p. 257. Nelle isole dei beati non ci sarebbe bisogno delle v.: p. 289; esse sono necessarie soltanto in questa vita: p. 291. Chi possiede la v. è felice: p. 317. La v. attuale è più potente di quella antica: p. 379. La v. della stirpe: pp. 385 s. Distinguere Greci e barbari sulla base della v. e del vizio: p. 463. Vita (b›o©, zwÉ, vita): è un castigo: p. 159. È l’opera propria della parte razionale dell’anima: p. 257. La v. senza saggezza non è degna d’essere scelta: p. 267. Brevità della v.: p. 273. La v. conforme all’intelligenza è massimamente piacevole: pp. 301 ss. È piacevole la v. la cui presenza è piacevole per

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coloro che la possiedono: pp. 307 s. La nostra v. è contro natura: pp. 311 s. Eliminata la paura, sarebbe eliminata ogni attenzione per la v.: p. 493. Il mondo ha connaturato il principio della v. e del movimento: p. 609; l’uomo vi partecipa come per iniziazione a un mistero: p. 609. Vivente in sé (aut t zˇán): deriva dall’idea di uno e dalla prima lunghezza, larghezza e profondità: pp. 41, 595 s. Vivere (vivere, zÉn): morire è meglio che v.: p. 159. È proprio di uno schiavo desiderare di v. e non di v. bene: p. 251. Chi non tollera di v. in ogni modo, non esita a sopportare qualunque fatica pur di acquisire la saggezza, che è condizione per v. bene: p. 271. Sulle rive dell’Ipani vi sono degli animaletti che vivono un solo giorno: p. 127. Il v. si dice secondo la potenza e secondo l’atto: p. 301; tuttavia vive chi è sveglio piuttosto di chi dorme: pp. 303 s. Vive nel senso più pieno chi esercita la saggezza: pp. 307, 309; il v. bene in modo completo coincide con l’essere saggi o è causato da questo: p. 311. Il v. si distingue dal non v. per il fatto di sentire: p. 301. Quattro generi di esseri animati (= viventi): p. 633. Vomito, evacuazione e cura (àp¤rasi©, àpok¿qarsi© ka‰ åatre›a): l’eccitarsi e il calmarsi non s’identificano con questi fenomeni medici: p. 537. Zelo (spoud‹): z. smisurato e z. misurato: p. 683.