Desmos, syndesmos, vinculum, nexus. Forme e crisi del legame tra antico e moderno 9788877231659, 9788877231666


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Italian Pages [265] Year 2023

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Desmos, syndesmos, vinculum, nexus. Forme e crisi del legame tra antico e moderno
 9788877231659, 9788877231666

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istituto italiano per gli studi filosofici Mnemosyne 7

Troverai a sinistra delle case di Ade una fonte, e accanto ad essa eretto un bianco cipresso: a questa fonte non avvicinarti neppure. Ma ne troverai un’altra, la fredda acqua che scorre dal lago di Mnemosyne: vi stanno innanzi custodi. Di’: «Son figlia della Terra e del Cielo stellato: urania è la mia stirpe, e ciò sapete anche voi. Di sete son arsa e vengo meno: ma datemi presto la fredda acqua che scorre dal lago di Mnemosyne». Ed essi ti daranno da bere dalla fonte divina; e dopo d’allora con gli altri eroi sarai sovrana. [Laminetta d’oro “orfica”, da Petelia, IV sec. a.C. trad. di G. Pugliese Carratelli]

Desmos, syndesmos, vinculum, nexus Forme e crisi del legame tra antico e moderno

A cura di Giulio Gisondi

Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Press

© 2023 Istituto Italiano per gli Studi Filosofici www.iisf.it Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Press Via Monte di Dio, 14 80132 Napoli www.scuoladipitagora.it/iisf [email protected] Il marchio editoriale Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Press è coordinato e diretto dalla Scuola di Pitagora s.r.l. isbn 978-88-7723-165-9 (versione cartacea) isbn 978-88-7723-166-6 (versione elettronica nel formato PDF) Printed in Italy – Stampato in Italia

Indice

introduzione  di Giulio Gisondi

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sezione i desmos, syndesmos

catena, congiunzione, legame Francesco Fronterotta Desmos. Le “catene” dell’essere e il “vincolo” della conoscenza fra Parmenide e Platone

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Marco Donato Proclo e i desmoi dell’Universo, tra il Timeo e il Cratilo di Platone

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Elenio Cicchini Il potere che lega. Il paradigma teologico e grammatico del legame 71 sezione ii vinculum, nexus

legami dell’essere e vincoli magici Guido Giglioni Tra cosmologia e teurgia. Marsilio Ficino e la teoria unificata dei vincoli nel De mysteriis di Giamblico 93

Pietro Secchi La genesi del vincolo in Giovanni Pico della Mirandola: gli anni 1479-1485 123 Giulio Gisondi I volti dell’essere. Philautia e vinculum amoris in Giordano Bruno

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sezione iii vincoli della religio, della conoscenza, della legge Giuseppe Cammisa Religio, vincolo e comunità politica in Giusto Lipsio

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Iacopo Chiaravalli I lacci di Proteo: tecnologia, progresso e natura in Francis Bacon

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Fabrizio Lomonaco La religione come vincolo nel Diritto universale di Vico

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Indice dei nomi

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Introduzione

1. La nozione di legame porta con sé una forma di ambivalenza costitutiva. Il suo essere etimologicamente “catena”, “carcere”, “prigione”, e insieme “nodo”, “vincolo”, “giuntura”, esprime una sua neutralità implicita, presente sia nel mondo greco, nei termini desmos e syndesmos, sia in quello latino, negli equivalenti vinculum e nexus. Essa non incarna qualcosa di aprioristicamente positivo o negativo, come avviene, invece, con altre forme e categorie della storia della concettualità occidentale, quali ad esempio quella di vero, di bene, di giusto, o ancora di bello. La nozione di legame è caratterizzata per il suo essere o incarnare non un concetto, un’idea, quanto piuttosto una funzione legante, congiungente due termini, due elementi, la cui unione dà forma a una relazione che può esprimere tanto una positività quanto una negatività. Lo statuto di un legame non dipende cioè da un’aggettivazione originaria, come avviene con ciò che definiamo vero, buono, giusto o bello. La sua connotazione qualitativa dipende, invece, dai suoi scopi, dai suoi effetti e dalla sua efficacia, variando a seconda dei tempi, delle situazioni, dei contesti e delle circostanze contingenti. È una storia profonda e stratificata quella del legame, le cui radici si ramificano e si moltiplicano, disperdendosi, più si cerca di affondare nel passato alla ricerca delle

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sue origini. E lo stesso avviene anche laddove si cerchi di seguire e ricostruire, in senso opposto, le evoluzioni e le trasformazioni degli usi e dei significati che essa ha assunto dall’antichità alla modernità, fino ai nostri giorni. Proprio a partire dalla sua originaria ambivalenza e dalle sue molteplici stratificazioni, questo volume rintraccia e interroga alcune delle diverse e principali significazioni che la nozione di legame ha assunto nella storia delle idee e del pensiero filosofico, giuridico, politico e teologico, antico e moderno. Esso è il frutto di un seminario svoltosi a Napoli nell’ottobre del 2020 presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, che ha visto confrontarsi ricercatori, borsisti, ex borsisti dell’Istituto, e studiosi riconosciuti nei rispettivi campi di ricerca, nel comune tentativo di apportare una riflessione specifica al proprio campo d’indagine e, al tempo stesso, un tassello di una parziale ma più ampia storia di una nozione tanto centrale nel pensiero antico e moderno, quanto solo in parte presente nella storiografia, quale quella di desmos e syndesmos, vinculum e nexus o legame. Il metodo con cui si è proceduto nei contributi qui raccolti è quello di una ricostruzione che è insieme terminologica e concettuale: non esclusiva ricerca di occorrenze, né tantomeno teoresi scissa dallo studio dei lessici e dei contesti, ma indagine storico-filosofica, che si serve cioè della filologia e dell’analisi dei lessici quale indispensabile strumento necessario a una ricostruzione, comprensione e interpretazione della nozione attraverso gli autori, i dibattiti e i problemi trattati. 2. Molteplici, diverse e variegate sono le declinazioni della nozione di legame che, a partire dal mondo greco, hanno trovato larga diffusione prima in ambito romano, per poi essere inglobate e riformulate dalla patristica cristiana, e nuovamente ridefinite e risignificate tra medioevo, Rinascimento ed età moderna. Tra queste, una

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prima apparizione del termine e della nozione è quella poetica che ritroviamo nell’esametro omerico del racconto dell’immobilità di Odisseo, il quale per sua volontà e su consiglio di Circe, ordina ai compagni di essere legato all’albero della nave con un nodo (δεσμῷ) difficile o doloroso, affinché possa egli solo ascoltare il canto delle Sirene rimanendo lì piantato, saldo, e di legarlo con dei nodi (δεσμοῖσι) ancor più numerosi e stretti, qualora comandi di essere slegato1. Un’altra significazione metafisico-teologica è quella che intravede nel corpo il carcere (δεσμωτήριον)2 in cui l’uomo è costretto a patire, incatenato a una dimensione mortale. Si tratta di una lunga tradizione di pensiero che dall’orfismo giunge sino a Platone, Plotino, Origene, spingendosi nel mondo latino attraverso Cicerone, Virgilio, Seneca, sino ad Agostino, per essere inglobata a sua volta dalla tradizione ermetica. Ma, allo stesso tempo, il desmos rappresenta anche, in una prospettiva metafisico-cosmologica, il vincolo che lega sensibile e soprasensibile, mondo superiore e inferiore, cielo e terra, umano e divino, finito e infinito, l’anello di congiunzione che tiene unito il cosmo e garantisce la comunicazione tra piani diversi dell’essere. È secondo questo schema che Platone descrive nel Timeo3 il desmos con cui il Demiurgo tiene legati a sé gli dèi, i pianeti e il cosmo, impedendone la dissoluzione, nonostante siano dissolubili, e garantendone così l’unità e l’eternità. A queste prime significazioni della nozione altre se ne possono aggiungere di non minore rilevanza. In una prospettiva logica, linguistica e retorica, il desmos si riflette nel legein, incarna cioè il legame e la congiunzione tra le lettere e le parole, tra le parti della frase e del discorso. Hom. Od. XII 160. Cfr. Plat. Crat. 400c7; Gorg. 486a9; Lg. X 909c1. 3 Cfr. Id., Tim. 31b-43a, 81d-e.

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Allo stesso modo, esso è la concatenazione tra le sensazioni, le immagini e i pensieri, secondo il ritmo e la capacità della memoria, intesa non come una scatola vuota in cui accumulare ricordi, ma capacità continua di creazione di legami e connessioni di esperienze corporee e psichiche. Una via questa che, ancora una volta, da Platone si spinge ai trattati di retorica e di arte della memoria medievali e rinascimentali, fino a giungere alla contemporaneità, a toccare il problema psicanalitico della connessione tra immagini e pensieri consci e inconsci. Come nel mondo greco, così anche in quello latino, la nozione di legame proviene da lontano, a partire dalle cosiddette pandette, le XII tavole della legge arcaica, in cui il nexum esprime il vincolo di fede e di parola tra creditore e debitore4. È questa la prima forma di obbligazione non contrattuale fondata sul rituale detto per aes et libram, con cui il creditore, tenendo nelle proprie mani una certa quantità di bronzo e pronunciando di fronte a cinque testimoni una damnatio, dichiarava l’entrata in vigore del nexum5, vincolando il debitore a lavorare al suo servizio fino all’estinzione del debito. Nonostante gli effetti concreti e le conseguenze materiali della mancata restituzione del debito, il nexum costituisce un vincolo esclusivamente orale e rituale, fondato non su di una necessità contrattuale, ma astratta, metafisica o magica6. Vi è magia nel nexum nella misura in cui vi è un potere 4 P.F. Girard, Textes de droit romain, vol. II., Les lois des Romains, Jovene, Napoli 1977, p. 23: «cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto». 5 Cfr. H. Lévy-Bruhl, L’act «per aes et libram», in Id., Nouvelles études sur le très ancien droit romain, Sirey, Paris 1947, p. 97. 6 Cfr. Id., Nexum et mancipation, in Id., Quelque problème du très ancien droit romain. Essais de solutions sociologiques, Domat-Chrestien, Paris 1994, p. 138; cfr. G. Gurvitch, La magie et le droit, F. Terré (éd.), Dalloz, Paris 2004; cfr. P. Huvelin, Le tablettes magiques et le droit romain, in H. Lévi-Bruhl (éd.), Études d’histoire du droit commercial romain, Sirey, Paris 1929.

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non contrattuale, quello della damnatio pronunciata dal creditore7, che eccede il soggetto stesso e a cui quest’ultimo non può sottrarsi. È la ritualità magica del nexum a configurarsi quale condizione richiesta per l’istituzione e la garanzia di un vincolo di diritto, in un tempo in cui la contrattazione non implica ancora un’obbligazione. Soltanto nel VI secolo d.C. la nozione di legame troverà una piena definizione nel Corpus iuris civilis giustinianeo come iuris vinculum8. Queste formulazioni latine della nozione di legame non sono estranee a un’analisi delle sue formulazioni successive. I concetti e il lessico del diritto romano non sono elementi confinati a un remoto passato, ma costituiscono una viva e, a volte, inconscia eredità terminologica e concettuale, rielaborata non solo nella letteratura giuridica, ma nel patrimonio teologico, politico e filosofico tardo antico, medievale e rinascimentale. Un caso particolarmente rilevante d’acquisizione e trasposizione dei lessici relativi alla nozione di legame è ravvisabile proprio nell’applicazione nella patristica cristiana di lingua latina della terminologia giuridica romana, così come assistiamo, allo stesso modo, alla trasposizione del desmos dall’ambito filosofico a quello teologico nella patristica greca. L’operazione compiuta dai padri della Chiesa si caratterizza cioè per il recupero del patrimonio linguistico della cultura classica, tanto greca, quanto romana, riformulato ai fini della creazione di un apparato terminologico e concettuale propriamente cristiano. In questo fenomeno, ritroviamo quanto già osservava Machiavelli nella lezione dei Discorsi, dove rilevava come, 7 P. Huvelin, La magie et le droit individuel, «L’année sociologique», 1905, p. 35. 8 Cfr. Iustiniani Institutiones, I, 3, 13; cfr. J. Gaudemet, Naissance d’une notion juridique. Les débuts de l’«obligation» dans le droit de la Rome antique, «Archive de philosophie du droit», 44 (2000), pp. 19-32.

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quando sorge una nuova setta o religione, il suo primo obbiettivo sia quello di cancellare la memoria della cultura e della civiltà precedente, in modo da potersi imporre con maggior facilità. E ciò è particolarmente semplice da attuare qualora i capi della nuova religione siano di lingua diversa, il che è riscontrabile per opposizione «considerando e’ modi che ha tenuti la setta Cristiana contro alla Gentile». I cristiani hanno «cancellati tutti gli ordini, tutte le cerimonie di quella, e spenta ogni memoria di quella antica teologia», senza, tuttavia, poter cancellare del tutto la memoria della civiltà romana, «per avere […] mantenuta la lingua latina; il che feciono forzatamente, avendo a scrivere questa legge nuova con essa». L’aver conservato la lingua latina, traspondendo il lessico giuridico romano a quello teologico, ha fatto sì che i cristiani non potessero cancellare completamente la memoria della precedente civiltà pagana. Se, invece, si fossero serviti di una nuova lingua, anziché della latina, «non ci sarebbe ricordo alcuno delle cose passate»9. L’appropriazione e la trasposizione del lessico latino del diritto romano, risignificato dal Cristianesimo ai fini della costruzione di un nuovo apparato linguistico e concettuale, è visibile anche per quanto riguarda l’utilizzo della nozione di legame e, in particolare, della coppia terminologica vinculum/nexus, nonché della significazione che questa assume nella patristica latina e, successivamente, nella teologia scolastica. La nozione di legame è trasposta nella Vulgata di Girolamo e nelle Epistolae di Paolo di Tarso, in Colossesi 3, 14, a indicare l’amore e la carità come il «vinculum perfectionis» (σύνδεσμος τῆς τελειότητος)10. Allo stesso modo, in Efesini 4, 2-3, l’ApoN. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in Id., Tutte le opere. Secondo l’edizione di Mario Martelli (1971), introduzione di M. Ciliberto, a cura di P.D. Accendere, Bompiani, Milano 2013, pp. 478-479. 10 Paul. Col. 3, 14. 9

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stolo invita la comunità cristiana a conservare lo spirito dell’unità raccogliendosi, come in un solo corpo, «in vinculo paci» (τῷ συνδέσμῳ τῆς εἰρήνης)11. Quella di vinculum pacis rappresenta una formula largamente utilizzata nella tradizione teologica successiva, da Agostino a Tommaso d’Aquino e oltre, sia per definire lo Spirito Santo come legame che unisce il Padre al Figlio, sia per esprimere l’unione della comunità cristiana. Come lo Spirito Santo unisce il Padre e il Figlio in una sola sostanza, allo stesso modo, esso è vincolo di pace, in quanto raccoglie tra loro tutti i cristiani in una sola e unica Chiesa. La formulazione del vinculum e del desmos come caritas o amor è particolarmente significativa e preminente nella letteratura teologica medioevale, mediata probabilmente attraverso la ricezione del De divinibus nominis dello Pseudo Dionigi Areopagita. Ritroviamo una prima esplicita e compiuta accezione latina di questa formulazione nella conclusione del libro I del Periphyseon di Giovanni Scoto Eriugena, per il quale l’amore è quella «connexio ac vinculum»12 che lega tutte le realtà dell’universo e ogni cosa in un rapporto di amicizia universale e in un’unità indissolubile, secondo un modello interpretativo che, mediante il richiamo esplicito allo Pseudo Dionigi, recupera un patrimonio terminologico e concettuale più prossimo all’accezione greca e platonica del desmos come unità del molteplice, coincidenza di ogni manifestazione dell’essere. L’amore è il moto naturale di tutte le cose, il fine, la quiete al di là della quale non procede nessuna cosa. Amore è Dio, luogo di tutti i luoghi, coincidentia di tutte le cose. Queste occorrenze e significazioni della nozione sono variamente rielaborate e attraversano tutto il medioevo, Id., Ef. 4, 2-3. G. Scoto Eriugena, Periphyseon, lib. I, 518c-519b, in Id., Divisione della natura, a cura di N. Gorlani, Bompiani, Milano 2013, p. 386. 11 12

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giungendo sino alla riformulazione operata da Tommaso d’Aquino dello Spirito Santo, nella rappresentazione teologica trinitaria, quale «vinculum vel nexus»13, amore e forza unitiva che lega il Padre al Figlio in una stessa e unica sostanza. Un uso della nozione, questo teologico trinitario, che ritroviamo anche nella definizione fornita da Niccolò Cusano nel De possest della terza persona come «nexus spiritalis patris et filii»14, il quale recupera, al tempo stesso, anche la formulazione eriugeniana della coincidentia e della connexio rerum. E ancora, l’uso teologico trinitario della nozione di legame compare, nonostante le differenze di fondo, anche in ambito riformato. Giovanni Calvino, ad esempio, ricorre nell’Institutio christianae religionis alla relazione intrapersonale tra Padre e Figlio sia per descrivere il rapporto tra la comunità dei fedeli e Dio per mezzo di Cristo, sia il legame tra i fedeli e Cristo attraverso lo Spirito Santo quale «vinculum» che «nos sibi efficaciter devincit Christus»15. Il ricorso alla coppia terminologica vinculum/nexus nella definizione del rapporto intratrinitario e, al tempo stesso, della relazione tra Dio e la comunità dei fedeli per mezzo di Cristo e dello Spirito Santo, rappresenta un elemento comune tanto alla prospettiva cattolica, quanto a quella riformata. Quella di legame, desmos e syndesmos, vinculum e nexus, con le sue molteplici significazioni e usi, si configura come una nozione centrale e necessaria in tutta la tradizione cristiana, pur nelle sue differenti forme, recuperata e trasposta 13 Tommaso d’Aquino, Commento alle sentenze di Pietro Lombardo, introduzione di I. Biffi, trad. it. P.R. Coggi, con testo integrale di P. Lombardo, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1999, Libro I, Distinzioni 22-48, vol. II, d. 32, q. 1, a, 1, pp. 396-398. 14 N. Cusano, De possest, in Id., Opere filosofiche, teologiche e matematiche, a cura di E. Peroli, Bompiani, Milano, 2017, rr. 48-49, p. 1408. 15 I. Calvini, Institutio christianae religionis, in Id., Opera quae supersunt omnia, ediderunt J.-W. Baum, E. Cunitz, E. Wilhelm, E. Reuss, Berlin 1864, vol. II, lib. III, cap. 1, p. 394.

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sia attraverso il patrimonio poetico e filosofico greco, che mediante quello giuridico latino. Tuttavia, questa non rappresenta l’ultima trasposizione della nozione da un sapere all’altro. La riformulazione teologica del legame subisce essa stessa, tra il Rinascimento e l’età moderna, un’ulteriore trasposizione. Se la nozione è già impiegata dalla tradizione ermetica e, altresì, nella letteratura di carattere magico e teurgico, ad esempio con Marsilio Ficino e Cornelio Agrippa, essa assume anche una significazione filosofico naturalistica e ontologica. Con Giordano Bruno, ad esempio, il legame non costituisce più, in un senso teologico trinitario, l’amore tra Padre e Figlio per mezzo dello Spirito Santo, ma diviene il nexus, il vinculum amoris che lega la materia e la forma universali, la potenza e l’atto, nell’unità originaria dell’essere, secondo una significazione che invera i motivi latenti delle fonti platoniche, neoplatoniche e patristiche a cui il Nolano giunge indirettamente. Ma ancora, tanto dall’ambito teologico, quanto da quello filosofico-naturalistico e politico, la nozione di legame subisce un’ulteriore trasposizione, andando a costituire un necessario strumento concettuale teologico-politico. Proprio quest’ultima e non meno significativa accezione teologico-politica della nozione, rende possibile pensare il legame come vincolo civile e comunitario, rimandando alle diverse forme attraverso cui esso può essere istituito, agli strumenti di costruzione, d’unità, di disciplinamento o di pacificazione del corpo sociale, religioso, politico, di membri differenti di una stessa comunità. La religione e la legge, con l’insieme dei riti e delle cerimonie, laiche e non, si configurano come quegli strumenti che hanno la potenza di legare, come delle pratiche di vincolamento degli individui in uno stesso corpo civile. Si tratta di una questione che attraversa tutti i momenti della riflessione filosofico-politica, dal mondo greco e romano, a quello

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cristiano tardo antico e medievale, alla rottura dell’unità politico-religiosa tra Riforma e Controriforma con le guerre di religione, sino alla crisi contemporanea delle forme novecentesche e post-belliche del legame civile così come declinato dalle costituzioni europee. Sono queste soltanto alcune delle significazioni che la nozione di legame ha assunto nei diversi momenti della storia del pensiero, trapassando, stratificandosi e moltiplicandosi, in maniera pressoché implicita da un sapere all’altro, da una declinazione all’altra. Lo scopo di questo volume vuol esser proprio quello di esplicitare come i termini, gli strumenti e le categorie concettuali relativi alla nozione di legame si siano stratificati, trapassando da un sapere all’altro, da un lessico all’altro, osservandone gli usi, le trasformazioni, le trasposizioni e le crisi, nel corso dei diversi momenti del pensiero filosofico, giuridico, politico e teologico, antico e moderno. 3. Gli studi che compongono il volume sono raccolti in tre sezioni. I saggi contenuti nella prima sezione Desmos, syndesmos: catena, congiunzione, legame, gravitano attorno alle formulazioni della nozione di legame nel pensiero classico greco, tardo antico e patristico. Il saggio di Francesco Fronterotta, Desmos. Le “catene” dell’essere e il “vincolo” della conoscenza fra Parmenide e Platone, analizza due occorrenze significative del termine desmos nei frammenti di Parmenide e nel Menone di Platone. Quella parmenidea è una delle prime accezioni della nozione di legame. Parmenide pensa l’essere come stretto da potenti “catene”, regolate da una rigida necessità che lo trattengono immobile e immutabile, permanentemente identico a sé stesso, perseverando questa sua condizione per l’eternità, essendo state scacciate da esso nascita e morte, in modo che mai possa mutare divenendo altro da ciò che è. Un essere che, come una sfera, è rinchiuso dalla Necessità infallibile e potente in grado d’incatenarlo

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nei legami del limite, affinché non sia senza compimento, né manchevole di nulla. Nel caso di Platone, invece, Fronterotta analizza come la nozione di legame venga applicata per esprimere la differenza epistemica che sussiste fra la semplice opinione e la conoscenza, determinata precisamente dalla presenza, nell’ambito della scienza, di un “vincolo” che stabilisce e garantisce il carattere della verità rispetto alla mutevolezza e alla relatività dell’opinione. Il saggio esamina alcune delle principali implicazioni, tanto sul piano logico, quanto sul piano ontologico, di queste nozioni, osservandone la comparsa e la loro problematizzazione alle origini del pensiero greco. Anche il saggio di Marco Donato, Proclo e i desmoi dell’Universo, tra il Timeo e il Cratilo di Platone, ricostruisce e analizza alcune delle principali accezioni platoniche della nozione di legame e la loro successiva ricezione, a partire dal problema della dissolubilità o dell’indissolubilità del mondo. La nozione di legame è centrale nel commento del neoplatonico Proclo al Timeo di Platone, in particolare per quanto riguarda la costituzione del “corpo del mondo” secondo il legame della proporzione. Ma nel Commento al Cratilo, esaminando l’etimologia di Zeus, Proclo propone una nuova riflessione sulle pagine del Timeo. L’accostamento poggia sull’identificazione, canonica nella lettura neoplatonica, di Zeus con il Demiurgo, ma nel commento al Cratilo trova uno sviluppo originale tramite l’etimologia del nome della divinità. Se da Zeus proviene il triplice desmos garante dell’unità dell’universo, il fondamento del legame è nella posizione stessa del Dio, di cui Proclo ritrova un’allusione nella duplice etimologia già proposta nelle pagine del Cratilo di Platone. Mettendo in parallelo le sezioni dei commenti al Timeo e al Cratilo in cui Proclo tratta dei desmoi dell’attività demiurgica, il saggio di Donato consente di ripercorrere l’evolversi e il complicarsi della declinazione neoplatonica della nozione di legame, nonché di osservare le origini

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di un problema che sarà centrale fino alla prima età moderna, quale quello della dissolubilità o dell’indissolubilità del mondo. Il saggio di Elenio Cicchini, che chiude la prima sezione, Il potere che lega. Il paradigma teologico e grammatico del legame, recupera e invera sul piano teologico e linguistico-letterario alcuni di quei motivi metafisici e cosmologici platonici già osservati in precedenza, reinterpretati e risignificati dalla patristica greca per leggere l’opera della creazione del Dio ebraico-cristiano. Il pensiero del legame incontra sul terreno della teologia quello del governo divino del mondo. Con Filone di Alessandria l’opera di Dio si scinde in creazione e coesione, separazione e legame. Dopo aver separato le forme dalla materia indistinta, Dio non abbandona affatto la sua opera, ma vi persiste tenendola saldamente al laccio. E così, attraverso la mediazione di Filone, il problema trova una sua riformulazione in Gregorio di Nissa, per il quale gli elementi del creato sono conservati nel loro essere per mezzo di un legame, syndeei stoicheia, che ne impedisce la dissoluzione, assegnando, però, al Cristo quella funzione che nella teologia giudaica alessandrina spettava al logos: egli è il desmos che tiene coeso l’intero universo. Il saggio di Cicchini mostra così in che modo il cristianesimo greco delle origini erediti, riformuli e teologizzi, tanto il pensiero ebraico alessandrino, quanto quello platonico della dissolubilità del mondo e del legame che lo mantiene stretto al suo facitore, impedendone la dissoluzione. I saggi raccolti nella seconda sezione, Vinculum, nexus: legami dell’essere e vincoli magici, ricostruiscono e problematizzano i recuperi della nozione di legame attraverso le differenti tradizioni filosofiche, teologiche e magiche, esplicitando le trasformazioni, le trasposizioni e le nuove significazioni che la nozione di legame assume nel Rinascimento. Il saggio di Guido Giglioni, Tra cosmologia e teurgia:

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Marsilio Ficino e la teoria unificata dei vincoli nel De mysteriis di Giamblico, esamina la natura del vincolo teurgico, cioè di quel particolare legame che unisce gli esseri umani in virtù di complesse pratiche rituali capaci di attivare significati simbolici e mitologici. Pubblicata negli anni del fallito esperimento teocratico savonaroliano a Firenze, e prima che con Lutero le ansie di riforma religiosa si allargassero a vero e proprio movimento europeo, la traduzione/parafrasi ficiniana del De mysteriis evidenzia i legami tra religione, metafisica e magia. Attraverso questo percorso, il saggio di Giglioni ricostruisce ed evidenzia proprio quel carattere di originaria neutralità dei vincoli, che possono essere sia delle catene che vincolano a una realtà oppressiva, sia delle possibilità di liberazione dopo la caduta corporea. Il saggio di Pietro Secchi, La genesi del vincolo in Giovanni Pico della Mirandola: gli anni 1479-1485, fa luce sulle riflessioni che costituiscono le fondamenta a partire dalle quali Pico elaborerà negli anni successivi la sua teorizzazione della nozione di vincolo. Il contributo sottolinea come il vincolo, in questi primi anni dell’attività di Pico, non sia ancora l’individuazione necessaria della presenza dell’Uno nei molti, che fonda tanto la verità, quanto la parzialità di ogni dottrina, ma un habitus nello studio e nella concordia fra le diverse e molteplici fonti, a cui corrisponde un rifiuto della gerarchia fra le auctoritates. Se è soltanto a partire dal 1485, nella De genere dicendi philosophorum, che il vincolo diviene per Pico la convinzione esplicita dell’unità di filosofia e letteratura, ripercorrendo tanto l’opera quanto la biografia intellettuale del filosofo, Secchi rintraccia le origini della nozione già negli anni della sua formazione ferrarese e negli incontri fiorentini che incideranno profondamente sulla sua vita. Il saggio di Giulio Gisondi, I volti dell’essere. Philautia e vinculum amoris in Giordano Bruno, che chiude la seconda sezione, mostra come la nozione di legame costituisca

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un elemento apparentemente ultimo della filosofia di Giordano Bruno, sul piano del lessico e, al tempo stesso, originario nella sua dimensione concettuale. Muovendo dal problema delle attrazioni fisiche e dalla ripresa e riformulazione in senso infinitista del problema platonico della dissolubilità o indissolubilità dei mondi, dai dialoghi italiani agli ultimi manoscritti magici, passando per le opere latine, il saggio mostra come Bruno cali la specifica riflessione sui vincula dell’ultima fase della sua produzione, nella prospettiva fisico-cosmologica, psicologico-politica e ontologica, già elaborata in precedenza. Il saggio si articola lungo queste tre linee di ricerca, ricostruendo le riformulazioni e trasposizioni a cui Bruno sottopone la nozione di legame, osservando come egli ponga un’analogia strutturale tra le dinamiche di attrazione sul piano fisico, su quello psicologico-politico e, infine, ontologico. La terza sezione, Vincoli della religio, della conoscenza, della legge ricostruisce ed esamina alcune delle principali significazioni e usi della nozione di legame tra filosofia, scienza, politica e diritto in età moderna. Il saggio di Giuseppe Cammisa, Religio, vincolo e comunità politica in Giusto Lipsio, indaga l’elemento religioso inteso contemporaneamente come fattore di coesione e di scissione del corpo politico. Il contributo coglie la sintesi prodotta da Giusto Lipsio tra le nozioni di unità del corpo politico, tolleranza religiosa e uniformità confessionale. Avendo come punto di riferimento la teoria lipsiana dell’essenza, delle cause e delle possibili modalità di risoluzione della guerra civile, il saggio di Cammisa esamina la definizione di religione e culto divino esposta da Lipsio nel libro I della Politica, per procedere poi a un’analisi sistematica dei passaggi del libro IV, in cui Lipsio rileva l’opportunità politica insita in un modello che includa tanto l’uniformità confessionale quanto la tolleranza religiosa. Il saggio di Iacopo Chiaravalli, I lacci di Proteo: tecnolo-

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gia, progresso e natura in Francis Bacon, muove dall’osservazione di come l’impiego del termine vincula Naturae nella Preparazione alla storia naturale e sperimentale di Bacon vada a ricoprire il ruolo di indicatore dell’attività della tecnologia nei confronti della natura. Compito delle arti e della tecnologia è, per Bacon, quello di applicarsi all’indagine naturale non per imitare la natura, ma per porla in una condizione impropria, costringendola cioè a rivelare le sue strutture più profonde. Proprio come Proteo, la natura si ribellerà per tornare al suo stato normale, rivelando così le sue strutture primarie. Il concetto baconiano di vincula Naturae non indica un’arte che pone l’essere umano nella condizione di scoprire le strutture che regolano il corso quotidiano della natura, bensì una nuova logica e una pratica di sperimentazione e induzione che consente l’interpretatio Naturae. Il saggio di Chiaravalli mostra come il vincolo sia metafora della totalità della filosofia baconiana nell’azione sulla natura. Chiude la terza sezione il saggio di Fabrizio Lomonaco, La religione come vincolo nel Diritto universale di Vico, che si sviluppa lungo la traiettoria articolatissima degli interessi vichiani per la metafisica e il diritto all’altezza degli anni Venti del Settecento. Dopo la stampa del primo e unico libro (Liber Metaphysicus) del De antiquissima italorum sapientia nel 1710, l’urgenza metafisica vichiana si rinnova, sia rispetto a modelli classici, come Aristotele, sia a quelli contemporanei, come Descartes e il cartesianesimo, per rispondere allo scetticismo e a quella sua particolare curvatura, il pirronismo storico, arginato nel suo tempo dall’erudizione giuridica, che Vico frequenta come pochi da filosofo. In questa fase della produzione vichiana non osserviamo più all’opera la relazione verum-factum, ma quella di verum-certum, di ratio auctoritas, che esprime la teorizzazione della connessione tra diritto, natura, religione e l’origine stessa di quest’ultima: «non a religando», come si legge nel capitolo CXLIX del De

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uno, «sed a relegendo, accurate legendo» le sacre sedi dei culti. Sono queste sacre sedi dei culti a tramandare i primi costumi dell’umanità e, in particolare, la memoria dei processi che in origine legano l’uomo alla terra, attraverso i quali il diritto viene realizzandosi, passando via via alla sfera del certo della “lingua eroica”. Qui si introduce la teoria del fas, di quel diritto di pace e di guerra, diventato lingua comune delle genti, una lingua “certa” e universale, maturata lentamente nella storia e, perciò, ben diversa da quella che Grozio attribuiva a una scoperta dei “filosofi”. Il saggio di Lomonaco mette in luce in che modo la definizione del nuovo sapere storico vichiano, che integra filosofia, diritto e filologia, consenta di ricomprendere origini e sviluppi delle forme delle concettualità storiche e collettive. Diversi e molteplici sono, dunque, i contesti di discussione, i saperi e gli autori attraverso i quali questo volume interroga e ricostruisce la nozione di legame dall’antichità all’epoca moderna, cercando di seguirne il suo dispersivo percorso, di rintracciare le stratificazioni e le moltiplicazioni delle sue significazioni e usi, osservandone le origini presunte e mai pienamente rilevabili, le trasposizioni e le sue riformulazioni o i ritorni, sotto nuove spoglie, in epoche e momenti differenti della storia delle idee. Tuttavia, se dall’antichità al Rinascimento l’uso della nozione di legame nelle sue molteplici accezioni conserva una relazione pressoché implicita, seppur spesso inconscia, con le sue origini ontologiche, giuridiche e teologiche, dall’età moderna in poi questo riferimento si disperde e, al tempo stesso, si complica e si moltiplica ulteriormente attraverso nuovi saperi e significazioni. La secolarizzazione delle categorie teologiche agisce, in questo senso, come un fattore di dispersione dell’origine di concetti antecedenti alla storia cristiana e soggetti a una riformulazione che precede quella operata nell’età moderna. La trasposizione della nozione di legame, da un lato, a partire dal lessico

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poetico e filosofico greco, dall’altro, da quello giuridico romano, entrambi trasposti nel vocabolario teologico cristiano, e da questo verso quello della filosofia naturale, della teologia politica, del pensiero scientifico moderno e della nuova scienza storica, costituisce un caso di studi paradigmatico. Laddove ripercorso, esso ci consente di mostrare i processi di trasformazione e di risignificazione interni e impliciti alla storia delle idee, inverando e riportando alla luce le tracce, seppur inevitabilmente parziali e monche, delle molteplici e variegate forme della nostra concettualità. Parigi, ottobre 2022 Giulio Gisondi

I. DESMOS, SYNDESMOS CATENA, CONGIUNZIONE, LEGAME

Francesco Fronterotta

Desmos. Le “catene” dell’essere e il “vincolo” della conoscenza tra Parmenide e Platone

Il termine desmos (insieme con il composto syndesmos e con i verbi correlati deo e syndeo) indica, in greco antico, una forma di legame concreto (catena, nodo, vincolo, laccio) o astratto (nesso, collegamento, connessione, sequenza), fino a estendersi dai contesti semantici e concettuali più intuitivamente immediati ad altri più ampi e diversi: può esprimere infatti l’idea dell’obbligo morale individuale e collettivo o dell’unità politica e giuridica dello stato, denotare la congiunzione grammaticale o la combinazione dei movimenti degli astri, giungendo perfino a richiamare la funzione connettiva dei tendini e dei legamenti, negli scritti medici e biologici, o ancora le allacciature degli abiti e le cerniere dei gioielli1. Molto celebri, e giustamente evocativi, nella letteratura epica e tragica, i casi di Odisseo, legato dai compagni all’albero maestro della nave «con vincolo robusto» (δεσμῷ… ἀργαλέῳ), che lo costringa all’immobilità (ἔμπεδον αὐτόθι) per resistere alle lusinghe del canto delle sirene, nel ben noto episodio dell’Odissea (XII 158-164); e naturalmente di Prometeo, nel Prometeo incatenato di Eschilo (6, 155 e passim), fatto imprigionare da Zeus con «ferree catene» (ἀδαμαντίνων Cfr. H.G. Liddell, R. Scott, H.S. Jones (with the assistance of R. McKenzie and with the cooperation of many scholars), A Greek-English Lexicon, Clarendon Press, Oxford 1996 (with a revised supplement), s.v. 1

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δεσμῶν), per avergli sottratto il fuoco di cui ha fatto dono ai mortali. In questo breve contributo, tralasciando il vasto panorama appena delineato, mi limiterò a prendere in considerazione due gruppi di occorrenze del termine desmos e dei suoi correlati che compaiono in altrettanti contesti filosofici, e che ricadono dunque in un ambito relativamente ristretto della sua sfera semantica, rispettivamente nei frammenti pervenutici di Parmenide e nel Menone di Platone. 1. Le “catene” dell’essere secondo Parmenide (fr. 8.26-33 DK) Il punto di partenza dell’esposizione della dea che, nel poema di Parmenide, si rivolge a un giovane apprendista da istruire sia nell’ambito della verità sia sul terreno delle fallaci opinioni degli uomini (fr. 1.28-30 DK), consiste, nel fr. 2 DK, nella formulazione delle opzioni di una scelta, il cui carattere fondamentale è quello dell’esclusività e dell’esaustività: «l’una, che è e che non è possibile non essere» (ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, 2.3) oppure «l’altra, che non è e che è necessario non essere» (ἡ δ᾽ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι, 2.5), con lo sviluppo della prima (“non è possibile non essere”) che nega l’enunciato della seconda (“non è”) e lo sviluppo della seconda (“è necessario non essere”) che nega l’enunciato della prima (“è”). Si tratta delle sole due opzioni concepibili (μοῦναι… εἴσι νοῆσαι, 2.2) ed è dunque fra esse che occorre compiere necessariamente una scelta, giacché sono fra loro rigorosamente alternative, cioè reciprocamente esclusive, sicché non possono essere in nessun modo congiunte, e non ammettono opzioni terze, in quanto esauriscono il campo delle possibilità disponibili. Non si può insomma non compiere una scelta fra esse (“né è né non è”), né compiere una scelta che in qualche

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modo le congiunga (“è e non è”): l’unica scelta possibile e legittima è pertanto quella che, preso atto della loro disgiunzione, si indirizzi all’una oppure all’altra (“è o non è”), come è del resto solennemente ribadito più avanti (ἡ δὲ κρίσις περὶ τούτων ἐν τῷδ᾽ἐστίν· / ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, fr. 8.15-16 DK). Così stando le cose, e immediatamente constatata l’impraticabilità della seconda opzione, «da cui nulla si apprende» (παναπευθέα, 2.6), in ragione dell’inaccessibilità di ciò che non è (τό γε μὴ ἐὸν… οὐ ἀνυστόν, 2.7) per cui esso risulta inconoscibile e indicibile (οὔτε ἂν γνοίης… οὔτε φράσαις, 2.7-8), non rimane in piedi che la prima opzione, che verrà infatti pienamente svolta dalla dea nel seguito della sua esposizione. Verosimilmente, e nonostante l’ampissimo e controverso dibattito critico su questo aspetto, proprio l’inconsapevolezza e l’ignoranza che gli uomini manifestano del carattere esclusivo ed esaustivo della scelta prospettata dalla dea svelano la causa del loro errore, che è fonte delle opinioni incerte e mutevoli che essi professano, e ne spiegano la diagnosi2. La dea prosegue quindi, mostrata la necessità della prima opzione, proprio sviluppando, in opposizione a tali opinioni, un argomento confutatorio che suscita molte controversie (πολύδηριν ἔλεγχον, fr. 7.5 DK) fra gli uomini, sviati dalla loro erronea e contraddittoria attitudine 2 Non è possibile, né fa parte dei miei scopi qui, discutere o anche soltanto presentare per sommi capi lineamenti e svolgimento di questo dibattito, che chiama in causa alcuni dei principali problemi interpretativi della riflessione di Parmenide. Rinvio perciò alla dettagliata e penetrante ricostruzione di D. O’Brien, Le Poème de Parménide, texte, traduction, essai critique par D. O’Brien, en collaboration avec J. Frère pour la traduction française, in P. Aubenque (éd.), Études sur Parménide, Tome I: Le poème de Parménide, Vrin, Paris 1987, pp. 139-151, che rimane esemplare per rigore e chiarezza. Si veda inoltre, per una ricognizione più generale, F. Fronterotta, Parmenide e gli eleati, in M. Bonazzi (a cura di), Storia della filosofia antica, direzione scientifica di M. Vegetti e F. Trabattoni, vol. I., Dalle origini a Socrate, Carocci, Roma 2016, pp. 119-138, 122-129.

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conoscitiva basata su un’acritica fiducia nelle percezioni sensibili3, e che deve pertanto essere sottoposto al vaglio del ragionamento (κρῖναι δὲ λόγῳ, fr. 7.5 DK) dal quale esce vittorioso, evidentemente perché fondato sulla necessità – e sulla simmetrica esclusione di ciò che è impossibile – nella scelta di partenza e, come subito si vedrà, nel suo svolgimento, il che ne sancisce incontrovertibilmente la verità (frr. 2.4; 8.17-18, 28, 50-51 DK). Infatti, una volta assunta come premessa l’affermazione «che è e che non è possibile non essere», la sequenza argomentativa della dea procede in accordo con essa, nei frammenti seguenti, a tratteggiare dimostrativamente una progressiva caratterizzazione di “essere”, dapprima illustrando prerogative e implicazioni del suo impiego verbale (“è”), successivamente esplorando connotazioni e riferimento del suo uso sostantivato o nominale (“ciò che è”, “l’essere”, l’“ente”), giungendo così a individuare in ultimo il soggetto da attribuire all’“è”, che era rimasto inizialmente indeterminato o assente. È precisamente in questa ottica che, nel fr. 8 DK, la dea presenta e articola i semata dell’essere, ossia gli assai numerosi «segni» disseminati lungo il percorso della sua dimostrazione (ταύτῃ δ᾽ἐπὶ σήματ᾽ἔασι / πολλὰ μάλα, 8.23), che, rivelatori dell’“essere” (del verbo “essere”), permettono di stabilire, appunto in base alla loro appartenenza a qualcosa, “ciò che è” (quale “soggetto” o “ente”), 3 Cfr. rispettivamente i frr. 6.5-9 e 7.3-5 DK: «… nel loro petto l’incapacità domina una mente caotica: si lasciano trascinare, insieme sordi e ciechi, ebeti, specie incapace di scegliere, dai quali essere e non essere sono giudicati un’identica cosa e una diversa; quello di tutti loro è un sentiero a ritroso…» e «… che un’abitudine molto praticata non ti spinga a forza per questa via, a muovere un occhio senza scopo e un orecchio e una lingua che rimbombano…». Sia lecito rinviare in proposito a F. Fronterotta, Per una critica della conoscenza sensibile. “Vista” e “udito” fra Eraclito e Parmenide, «Antiquorum Philosophia», 14 (2020), pp. 11-21, 18-21.

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dunque di “cosa” si possa pensare e dire che “è”, svelando infine la fallacia delle opinioni degli uomini4. Tali semata consistono, in estrema sintesi, nel riconoscimento del fatto che “essere” appare incompatibile con ogni forma di generazione e corruzione, perché “ciò che è” non può “essere stato” (e “non essere più”) né “essere in futuro” (e “non essere ancora”), ma anche con ogni genere di molteplicità e di pluralità, perché nulla può sussistere oltre e accanto a “ciò che è” (in quanto si tratterebbe di qualcosa di “altro dall’essere”) né al suo interno, come esito di una sua divisione in parti (in quanto si tratterebbe di parti reciprocamente “altre” e perciò “altre dall’essere”), sicché l’esclusione in premessa di “non è” e del “non essere” comporta che “essere” implichi e significhi, per “ciò che è”, ingenerabilità e incorruttibilità, unicità e interezza, continuità e completezza (ἀγένητον… ἀνώλεθρον… μοῦνον… οὐλομελές… συνεχές… τετελεσμένον πάντοθεν, 8.3-25, 42-49). Il ragionamento della dea, che si svolge appunto illustrando la sequenza dei semata dell’essere fissati via via nella loro concatenazione, manifesta perciò, come anticipato poco sopra, i tratti della necessità (8.11-13, 1618, 44-45). Siamo giunti così al contesto di nostro interesse, che vale la pena riprodurre integralmente (8.26-33): αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν / ἔστιν ἄναρχον, ἄπαυστον, ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος / τῆλε μάλ᾽ἐπλάγχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής. / ταὐτόν τ᾽ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ᾽ἑαυτό τε κεῖται / χοὔτος ἔμπεδον αὖθι μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη / πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει, / οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· / ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδευές· ἐὸν δ᾽ἂν παντὸς ἐδεῖτο. Inoltre, immobile nei vincoli di enormi catene, è senza principio né fine, giacché generazione e corruzione 4

Cfr. ancora Id., Parmenide e gli eleati, cit., pp. 129-130.

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sono state respinte lontano e la vera convinzione le ha escluse. Restando lo stesso e nello stesso luogo, giace in se stesso e rimane così fermo dov’è. Una potente Necessità lo trattiene infatti nelle catene di un vincolo che lo rinchiude da ogni parte, sicché è legge che ciò che è non sia incompiuto. Non manca infatti di nulla, altrimenti mancherebbe di tutto.

Prigioniero di «enormi catene» (μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν) che lo pongono in uno stato di immobilità nello spazio (ἀκίνητον), l’essere risulta anche immutabile nel tempo in quanto privo di principio e di fine (ἄναρχον, ἄπαυστον), dal momento che se ne è dimostrata, sulla base di una «vera convinzione» (πίστις ἀληθής), l’estraneità alla generazione e alla corruzione. Esso rimane perciò identico a se stesso e in un identico luogo, pienamente coincidente con se stesso e saldo nella propria collocazione, e ciò nella misura in cui, come viene ribadito, una «potente Necessità» (κρατερὴ Ἀνάγκη) custodisce le catene (δεσμοῖσιν) che lo serrano e lo circondano senza lasciargli vie di fuga, così soddisfacendo alla «legge» (θέμις) che ne prescrive l’assoluta compiutezza e compattezza. Le “catene” dell’essere esprimono dunque in una dimensione concreta il dominio di un’invincibile “necessità”, che ha valore “normativo” o “prescrittivo”, retto da “vera convinzione”, sicché il nesso fra la “necessità”, la “legge” che ne tutela l’esecuzione e le “catene” che ne impediscono la trasgressione confluisce nell’assunto conclusivo: l’essere non è affetto da mancanza o squilibrio, perché, se così fosse, ciò di cui mancasse sarebbe sottratto all’essere, reintroducendo in tal modo surrettiziamente il non essere e, di conseguenza, sopprimendo l’essere che con il non essere è, come sappiamo, incompatibile. Per effetto delle catene impostegli, l’essere si trova insomma ridotto all’immobilità nello stesso luogo e all’immutabilità nella stessa condizione (ταὐτόν τ᾽ἐν ταὐτῷ… ἔμπεδον αὖθι). Del resto, analogo concetto

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era stato dalla dea anticipato poco prima: «perciò la Giustizia non gli ha concesso né di generarsi né di corrompersi rilasciandolo dalle catene, ma lo trattiene» (τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι / οὔτ᾽ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, / ἀλλ᾽ἔχει, 8.13-15); e viene ripetuto poco dopo: «niente altro, infatti, è o sarà al di là di ciò che è, giacché la Moira lo ha incatenato in modo che fosse intero e immobile» (οὐδὲν γὰρ ἔστιν ἢ ἔσται / ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε Μοῖρ᾽ἐπέδησεν / οὖλον ἀκίνητον τ᾽ἔμεναι, 8.36-38). E non è certamente casuale che la prigionia e lo stato di costrizione cui i desmoi obbligano l’essere richiamino, anche letteralmente, gli illustri precedenti del Prometeo eschileo e soprattutto dell’Odisseo omerico, anch’egli, come ricordato all’inizio, ἔμπεδον αὐτόθι5. Se ne può concludere che i semata dell’essere, la cui sequenza necessaria è stata ricostruita nel ragionamento della dea, a sua volta fondato sulla “vera convinzione”, si presentano infine qui nella forma di catene che fissano con forza di legge la condizione che, altrettanto necessariamente e immutabilmente, appartiene all’essere, nel duplice senso dell’“è” che si dice di qualcosa (e che può essere detto soltanto in accordo con i semata dell’essere ed entro i vincoli delle sue catene) e del “qualcosa” di cui si pone che è (e che può essere posto soltanto in accordo con i semata dell’essere ed entro i vincoli delle sue catene). I desmoi dell’essere si configurano dunque come 5 B. Cassin, Le chant des sirènes dans le Poème de Parménide. Quelques remarques sur le fr. VIII, 26-33 DK, in P. Aubenque (éd.), Études sur Parménide, Tome II: Problèmes d’interprétation, Vrin, Paris 1987, pp. 163-169, ha sottolineato con particolare vigore l’affinità fra i versi parmenidei discussi qui e il precedente omerico, che non costituirebbe soltanto una fonte letteraria per Parmenide, perché questi, secondo Cassin, tenterebbe di rappresentare nel suo poema una vera e propria allegoria filosofica del viaggio di Odisseo, con l’“essere” come protagonista in cerca della propria identità esattamente come Odisseo persegue e costruisce la sua attraverso le avventure che ne costellano il ritorno in patria.

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“catene” o “vincoli” oggettivi e concreti – potremmo dire ontologici – che tuttavia rinviano, figurativamente, a una funzione normativa che si riflette nella necessità logica di un “nesso” argomentativo e di ragionamento, esplicitamente richiamato dal riferimento alla pistis aletes. Il “nesso” argomentativo e razionale necessario che emerge nella dimostrazione della dea dipende in ultima analisi dalle indistruttibili “catene” di una ferrea necessità ontologica; ma quest’ultima è identificata appunto in virtù del ragionamento che ne coglie argomentativamente l’assoluta necessità. In altre parole, il piano logico del “nesso” argomentativo e il piano ontologico del “vincolo” oggettivo, entrambi riassunti nell’immagine del desmos e presenti nella sfera dei suoi significati, pur fra loro distinti, si corrispondono e si implicano reciprocamente, in modo che le “catene” che determinano e preservano originariamente la condizione dell’essere si traducono nella sequenza necessaria del ragionamento che le riconosce come tali nella loro inviolabilità e ineluttabilità. 2. “Vincolo” razionale e “nesso” causale nel Menone platonico (97d-98a) Nel Menone si trova sottoposta a indagine la natura della virtù o, più esattamente, una sua caratteristica, se sia cioè insegnabile e in che modo: questo l’interrogativo che Menone solleva in apertura del dialogo (70a), al quale Socrate obietta che, non sapendo neanche cosa sia la virtù e quale la sua essenza specifica, sarà impossibile determinare l’insieme o anche una sola delle sue proprietà, giacché soltanto dopo aver chiarito efficacemente il primo aspetto diverrà plausibile e ragionevole esprimersi sul secondo6. 6 Per quanto riguarda l’argomento del Menone e il suo complesso svolgimento, rinvio all’Introduzione di F. Ferrari in Platone, Menone, a

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In seguito a uno scambio argomentativo assai serrato, nel corso del quale Socrate respinge i successivi tentativi di definizione della virtù proposti da Menone, quest’ultimo, ridotto all’impotenza, formula il famoso paradosso della ricerca (80d): è impossibile cercare ciò che non si conosce, perché non si saprebbe neanche dove cercarlo, né ha senso cercare ciò che si conosce, appunto in quanto lo si conosce già. Ogni indagine pare dunque impraticabile e, con essa, la possibilità stessa dell’acquisizione di nuove conoscenze. Socrate reagisce introducendo la tesi della reminiscenza (81b-d), presentata inizialmente nella forma di un antico racconto di sacerdoti e poeti, secondo il quale l’anima, essendo immortale, dispone di un’esistenza senza fine e quindi sopravvive dopo la morte del corpo mortale per rinascere nuovamente in un altro corpo. A commento di questa tesi, Socrate prosegue osservando che, poiché l’anima si è incarnata più volte, deve aver conosciuto sia le cose di questo mondo (nel corso delle successive vite nel corpo) sia le cose nell’Ade (verosimilmente nelle fasi intermedie fra un’incarnazione e l’altra), sicché non vi è nulla che non abbia appreso e che non possa di conseguenza ricordare, a partire dalla virtù. Infatti, poiché sussiste un’affinità o congenericità (συγγένεια) nell’ambito dell’intera natura e l’anima ha potuto, come detto, apprendere ogni cosa, è lecito sostenere che il ricordo di un’unica conoscenza realizzata conduca al recupero di tutte le altre, purché non si desista dalla ricerca. Di ciò Socrate fornisce un’illustrazione subito oltre (82a-86c), interrogando uno schiavo privo di istruzione matematica su alcuni problemi geometrici: adeguatamente guidato lo schiavo giunge a rispondere correttamente, il che mostra, secondo Socrate, che egli è cura di F. Ferrari, BUR, Milano 2016, e particolarmente, rispetto al passo sul quale mi soffermo qui, pp. 78-86, che contengono inoltre ampi riferimenti bibliografici.

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giunto a “ricordare” alcune opinioni intorno ai problemi che gli sono stati posti, opinioni che, se adeguatamente verificate e perfezionate, potranno condurlo alla conoscenza vera e propria. Menone torna tuttavia a riproporre il tema dell’insegnabilità della virtù, che Socrate suggerisce a questo punto di esaminare per via ipotetica, ossia stabilendo per ipotesi l’identità di virtù e conoscenza ed esplorando le conseguenze che derivano da una simile premessa. D’altra parte, se la virtù coincidesse con una forma di conoscenza, dovrebbe effettivamente risultare insegnabile, ma questa conclusione si scontra con l’evidenza, che Socrate argomenta lungamente, che non esistono autentici maestri di virtù (86c-96d). Viene allora proposta un’ipotesi subordinata: se la virtù non si lascia identificare con una forma di conoscenza, essa consiste forse nell’opinione corretta o vera che, rispetto all’agire, appare dotata di altrettanta efficacia e utilità (96e-97c), ma questa possibilità solleva l’ulteriore esigenza di precisare in cosa la conoscenza e l’opinione corretta o vera si distinguano fra loro e perché l’una sia generalmente considerata di assai maggior valore e pregio dell’altra; ed è proprio su tale aspetto che dobbiamo soffermarci. MEN. Mi sembra necessario, tanto che mi meraviglio, Socrate, che, stando così le cose, la conoscenza sia di valore molto maggiore della corretta opinione e del perché sono tra loro diverse (θαυμάζω… ὅτι δή ποτε πολὺ τιμιωτέρα ἡ ἐπιστήμη τῆς ὀρθῆς δόξης, καὶ δι’ ὅτι τὸ μὲν ἕτερον, τὸ δὲ ἕτερόν ἐστιν αὐτῶν). SOCR. Sai perché ti meravigli o te lo devo dire io? MEN. Dillo tu. SOCR. Perché non hai prestato attenzione alle statue di Dedalo. Ma forse da voi non ce ne sono. MEN. A che scopo lo dici? SOCR. Perché anch’esse, se non sono legate, se la svignano e scappano, se invece sono legate, restano (ἐὰν μὲν μὴ δεδεμένα ᾖ, ἀποδιδράσκει καὶ δραπετεύει, ἐὰν δὲ δεδεμένα, παραμένει). MEN. E allora? SOCR. Possedere

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una di queste opere sciolte non è cosa di grande valore (τῶν ἐκείνου ποιημάτων λελυμένον μὲν ἐκτῆσθαι οὐ πολλῆς τινος ἄξιόν ἐστι τιμῆς), come avere uno schiavo che scappa – infatti non resta ferma (οὐ γὰρ παραμένει) –, possederla legata è invece cosa di notevole valore (δεδεμένον δὲ πολλοῦ ἄξιον), perché si tratta di opere veramente belle. A che scopo dico ciò? In riferimento alle opinioni vere. Infatti anche le opinioni vere, per il tempo in cui restano ferme, rappresentano un bel possesso e producono ogni bene (αἱ δόξαι αἱ ἀληθεῖς, ὅσον μὲν ἂν χρόνον παραμένωσιν, καλὸν τὸ χρῆμα καὶ πάντ’ἀγαθὰ ἐργάζονται); tuttavia non sono solite stare ferme per molto tempo ma sfuggono dall’anima dell’uomo (πολὺν δὲ χρόνον οὐκ ἐθέλουσι παραμένειν, ἀλλὰ δραπετεύουσιν ἐκ τῆς ψυχῆς τοῦ ἀνθρώπου), cosicché non sono di grande valore, finché qualcuno non le leghi per mezzo di un ragionamento causale (ἕως ἄν τις αὐτὰς δήσῃ αἰτίας λογισμῷ). Si tratta, caro Menone, della reminiscenza, come si è convenuto in precedenza (τοῦτο δ’ ἐστίν… ἀνάμνησις, ὡς ἐν τοῖς πρόσθεν ἡμῖν ὡμολόγηται). Nel momento in cui sono legate, diventano subito conoscenze e dunque conoscenze stabili (ἐπειδὰν δὲ δεθῶσιν, πρῶτον μὲν ἐπιστῆμαι γίγνονται, ἔπειτα μόνιμοι). E per questa ragione la conoscenza è cosa di maggior valore della retta opinione, e da essa differisce in virtù del vincolo (καὶ διὰ ταῦτα δὴ τιμιώτερον ἐπιστήμη ὀρθῆς δόξης ἐστίν, καὶ διαφέρει δεσμῷ ἐπιστήμη ὀρθῆς δόξης). MEN. Per Zeus, Socrate, sembra proprio che differisca per una tale ragione7.

Questo passo, autentico snodo teorico fondamentale nell’economia del dialogo, suscita numerosi problemi interpretativi, alcuni dei quali, fra l’altro, cruciali per la

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Ivi, 97d-98a, con traduzione lievemente modificata.

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comprensione dell’intera riflessione di Platone8. Tuttavia, per i miei scopi attuali, è sufficiente concentrare l’attenzione su un unico punto, vale a dire appunto sulla differenza fra l’opinione vera e la conoscenza o scienza, su cui i due interlocutori manifestano un pieno accordo e che Socrate ribadisce del resto, con assoluta convinzione e perciò piuttosto sorprendentemente (sorprendentemente, data la sua abituale professione di ignoranza)9, nelle linee immediatamente seguenti: «… che l’opinione corretta e la conoscenza siano qualcosa di diverso, questo non mi sembra davvero di immaginarlo, ma, se c’è qualche cosa che potrei dire di sapere – e potrei dire di saperne davvero poche – questa è proprio una di quelle che potrei collocare tra quelle che so»10. Ora, in cosa precisamente consiste tale differenza? Per fornirne un’illustrazione viene innanzitutto introdotta un’immagine, quella delle statue scolpite dal leggendario scultore Dedalo (al quale Platone fa riferimento anche in Eutifrone 11b-c, Ippia maggiore 282a e Ione 533ab), la cui straordinaria fattura portava a confonderle con 8 Cfr. ancora, per un’eccellente rassegna di questi problemi, corredata da un opportuno ed equilibrato bilancio critico, le note ad loc. di F. Ferrari in Platone, Menone, cit., pp. 282-289. 9 Sul significato dell’attribuzione a Socrate, che sempre dichiara di non sapere alcunché, di questa fondamentale tesi epistemologica, si vedano soprattutto R.W. Sharples, Plat. Meno, edited with translation and notes by R.W. Sharples, Aris & Phillips, Warminster 1985, p. 185, e F. Ferrari, L’interpretazione del Teeteto e la natura dell’epistemologia platonica. Alcune osservazioni, «Elenchos», 34 (2013), pp. 399-422, 412-414. Le implicazioni di questa tesi rispetto alla concezione platonica della conoscenza sono state ben messe in luce da A. Nehamas, Episteme and Logos in Plato’s Later Thought, in J.P. Anton, A. Preus (eds), Essays in Ancient Greek Philosophy, vol. 3: Plato, SUNY Press, Albany 1989, pp. 267292, 274-281, e più di recente da D. El Murr, Desmos et logos: de l’opinion vrai à la connaissance (Ménon, 97E-98A et Théétète, 201C-210B), in D. El Murr (éd.), La mesure du savoir. Études sur le Théétète de Platon, Vrin, Paris 2013, pp. 151-171, 166-171. 10 Plat. Meno 98b.

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figure viventi e perfino mobili, donde l’ironica osservazione che, se prive di lacci o catene (ἐὰν μὲν μὴ δεδεμένα ᾖ… λελυμένον), simili statue fuggono via (ἀποδιδράσκει καὶ δραπετεύει) e, di conseguenza, non sono di nessun valore per chi le possieda dal momento che sfuggono ai loro possessori, come avverrebbe a chi fosse padrone di uno schiavo che scappa via e che appare quindi del tutto inutile; mentre solo a condizione di legarle o incatenarle (ἐὰν δὲ δεδεμένα), rimangono ferme (παραμένει), in modo che, evidentemente, se ne possa godere la vista e apprezzare la qualità (δεδεμένον δὲ πολλοῦ ἄξιον). Ebbene, questa valutazione di ordine estetico e strumentale, relativa al pregio e all’uso delle statue di Dedalo, si applica per analogia al caso delle opinioni vere, perché esse pure si rivelano belle e fruttuose, verosimilmente al pari della conoscenza vera e propria, ma soltanto finché «rimangono ferme» (παραμένωσιν), il che, tuttavia, non corrisponde alla loro condizione standard (πολὺν δὲ χρόνον οὐκ ἐθέλουσι παραμένειν), che è invece quella dell’instabilità e della mutevolezza perenni che le rende costitutivamente “fugaci”, cioè sempre in fuga dall’anima umana (δραπετεύουσιν ἐκ τῆς ψυχῆς τοῦ ἀνθρώπου). Anche nel caso delle opinioni vere, dunque, valore e pregio sono misurabili esclusivamente in termini di “immobilità”, quando esse vengano costrette e incatenate alla maniera delle statue di Dedalo, ossia, fuor di metafora, quando si riesca a legarle (ἕως ἄν τις αὐτὰς δήσῃ) o “connetterle” in una sequenza stabile e, in quanto questa ne impedisce il movimento e il mutamento, “necessaria”. Ma il “legame” che immobilizza e stabilizza le opinioni vere, diversamente dai ben concreti “lacci” o “catene” imposti alle statue di Dedalo, è da intendere come un “vincolo” razionale e argomentativo che si coglie tramite il ragionamento (logismo) e, in qualche modo correlato all’individuazione di una causa (aitias), trasforma le opinioni vere, ormai causalmente “legate”, in conoscenze

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“stabili” (αἱ δόξαι αἱ ἀληθεῖς… ἐπειδὰν δὲ δεθῶσιν, πρῶτον μὲν ἐπιστῆμαι γίγνονται, ἔπειτα μόνιμοι). Proprio questa risulta essere la spiegazione della superiorità della conoscenza sull’opinione vera (διὰ ταῦτα δὴ τιμιώτερον ἐπιστήμη ὀρθῆς δόξης ἐστίν) e, a un tempo, la differenza fra l’una e l’altra di cui si andava in cerca: si tratta del “vincolo” razionale e argomentativo di cui la conoscenza dispone e di cui l’opinione vera è invece priva (καὶ διαφέρει δεσμῷ ἐπιστήμη ὀρθῆς δόξης); proprio questa, simmetricamente, la via o il metodo che consentono di transitare dall’opinione vera alla scienza, ovviando alla loro strutturale discontinuità epistemica attraverso il riconoscimento di un “nesso” causale capace di oltrepassare o “saltare” (ma non di colmare restituendone la continuità) il gap che sussiste fra di esse11. Si comprendono pertanto la difficoltà e la delicatezza del problema dell’esatta traduzione e comprensione del sintagma aitias logismo, cui spetta di esprimere lo strumento e la natura di tale “vincolo” razionale e argomentativo12. Il suo significato d’insieme appare tuttavia sostanzialmente chiaro, giacché rimanda senza dubbio a una forma di ragionamento (logismos) che svela la causa (aitia) e produce perciò una spiegazione fondata e stabile, ossia un ragionamento che è esplicativo 11 La questione è stata egregiamente esaminata da F. Ferrari in alcuni articoli recenti cui non posso qui che rinviare: F. Ferrari, La transizione epistemica, in M. Erler, L. Brisson (eds), Gorgias – Menon. Selected Papers from the Seventh Symposium Platonicum, Academia Verlag, Sankt Augustin 2007, pp. 290-296, e più in generale, anche al di fuori del contesto del Menone, Id., Dalla verità alla certezza. La fondazione dialettica del sapere nella Repubblica di Platone, «Giornale Critico della Filosofia Italiana», 91 (2010), pp. 599-619. 12 Un’ampissima ricostruzione delle diverse ipotesi di traduzione e di interpretazione del sintagma si trova in Y. Lafrance, La théorie platonicienne de la Doxa, Les Belles Lettres, Paris 20152, pp. 110-115; per una sintesi, schematica ma efficace, cfr. F.M. Petrucci, Opinione corretta, conoscenza, virtù. Su Menone 96d1-98b9, «Elenchos», 32 (2011), pp. 229-261, 247259; infine, F. Ferrari in Platone, Menone, cit., pp. 286-287, nota 233.

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in quanto individua la causa che sta alla base della spiegazione che fornisce. In tale forma di ragionamento causale emerge dunque la causa che illustra la connessione reale e oggettiva fra le cose cui si riferisce e rende perciò stabile, e non più soggetta, come l’opinione vera, a movimento e mutamento, la conoscenza che riflette ed esprime tale connessione, portandone così alla luce il “perché” che rimaneva precluso all’opinione vera. La “causa” (aitia), con la sua identificazione tramite il ragionamento, rimanda di conseguenza al “vincolo” o “nesso” (desmos) razionale e argomentativo che caratterizza la conoscenza rispetto all’opinione vera, dal che segue che ciò che sul piano della conoscenza si pone come “vincolo” o “nesso” (desmos) razionale e argomentativo corrisponde sul piano degli oggetti cui la conoscenza si riferisce alla “causa” (aitia) per cui tali oggetti sono necessariamente connessi (dedemena), vale a dire, ancora una volta, al desmos oggettivo che li “lega” (autas dese) stabilmente. Sarebbe impossibile affrontare in questa sede la questione ulteriore della precisa identificazione della “causa” o del “vincolo causale” introdotto nel passo del Menone, questione che è del resto in parte indipendente dallo specifico tema del mio contributo, come pure è impossibile anche soltanto richiamare l’ampissimo dibattito critico cui essa ha dato luogo13. Si può tuttavia sottolineare almeno un elemento che, nella pagina del dialogo da me riprodotta e commentata, ho tralasciato fin qui di considerare: Socrate dichiara infatti lapidariamente (98a4-5) che l’individuazione tramite il ragionamento del “vincolo causale” che trasforma l’opinione vera in conoscenza consiste nella reminiscenza di cui ha discusso in precedenza (τοῦτο δ’ἐστίν… ἀνάμνησις, ὡς ἐν τοῖς πρόσθεν ἡμῖν ὡμολόγηται). Ora, appare abbastanza plausibile ritenere 13 Rinvio ancora una volta, per una rassegna ragionata delle diverse interpretazioni, a F. Ferrari in Platone, Menone, cit., pp. 82-86.

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che, se la dottrina della reminiscenza implica che la conoscenza non sia altro che il ricordo, da parte dell’anima immortale nelle sue successive incarnazioni, di ciò che ha appreso prima di discendere nel corpo (81c-d), e se tale apprendimento riguarda le idee intellegibili – benché questo esito rimanga implicito nel Menone e sia reso esplicito soltanto nel Fedone (74a-76d) – ne consegue allora con ogni verosimiglianza che il “vincolo causale” individuato tramite il ragionamento, a sua volta identificato con il processo della reminiscenza, non possa che rinviare all’idea intellegibile14. Potrebbe sembrare che sussista così una certa asimmetria fra l’aitias logismos, inteso come ragionamento che svela la causa in quanto “vincolo” o “nesso” razionale e argomentativo, e l’idea intellegibile come suo contenuto propriamente ontologico, ma si tratta di un’asimmetria solo apparente se si ammette che tale ragionamento, nella misura in cui consiste nella reminiscenza, rimanda all’idea intellegibile in quanto “vincolo” o “nesso” ontologico che, “incatenando” in una sequenza causale gli oggetti della conoscenza, e di conseguenza “legando” quest’ultima in una sequenza razionale e argomentativa, è appunto causa ultima, cioè ontologica, della sua stabilizzazione logica. Il desmos può quindi essere indicato da Socrate senza ambiguità come caratteristico della conoscenza rispetto all’opinione vera, perché si manifesta innanzitutto come “vincolo” o “nesso” causal-esplicativo (sul piano logico ed epistemico); ma si manifesta come tale perché è fondato su, e dipende da, un primario e originario “vincolo” o “nesso” causal-ontologico (sul piano dell’essere e delle cose che sono). 14 Questa conclusione è efficacemente argomentata, fra gli altri, da A. Brancacci, La determinazione dell’eidos nel Menone, «Wiener Studien», 115 (2002), pp. 59-78, e nuovamente da F. Ferrari, Dalla verità alla certezza. La fondazione dialettica del sapere nella Repubblica di Platone, cit., pp. 614-617, e da F.M. Petrucci, Opinione corretta, conoscenza, virtù. Su Menone 96d1-98b9, cit., p. 256.

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Possiamo giungere a questo punto ad alcune conclusioni relative all’impiego del termine desmos e del suo corrispettivo verbale deo, e alla determinazione della loro sfera semantica, nei due contesti esaminati. Che si proceda dagli inviolabili desmoi dell’essere alla verità del ragionamento che li individua e li assume come proprio criterio necessario, come accade alla dea del poema di Parmenide, oppure dal desmos della conoscenza vera all’idea intellegibile che ne è la necessaria causa ontologica, come avviene nel passo platonico del Menone, resta che il “vincolo” o “nesso” razionale e argomentativo che “lega” la conoscenza rinvia necessariamente, dipendendone, al “vincolo” o “nesso” causale che “lega” le cose che sono, il piano logico della conoscenza e il piano ontologico dell’essere risultando inscindibilmente connessi, con il primo che si rivela subordinato al secondo. In ogni caso, per entrambi i pensatori, il desmos introduce e fissa la stabilità e l’immobilità delle cose che sono, esprimendone così l’assoluta e immutabile necessità che a sua volta si riflette nell’altrettanto assoluta e immutabile verità della conoscenza che a esse si rivolge, sicché, in ultima analisi, le “catene” dell’essere impongono e reggono, invariabilmente e per l’eternità, i “vincoli” della verità della conoscenza nella loro inflessibile necessità normativa.

Marco Donato

Proclo e i desmoi dell’universo. Tra il Timeo e il Cratilo di Platone

1. Il legame nel Timeo Platone introduce a più riprese nel Timeo, nel racconto sulle origini dell’universo, il concetto di “legame” o desmos1, al fine di mostrare la stretta coerenza che il mon1 Le occorrenze di desmos e syndesmos in Platone sono numerose, ma l’impiego dell’immagine in senso cosmologico compare soltanto nel Timeo. L’idea di un desmos che tiene insieme la struttura del mondo reale è introdotta nel Sofista (253a4-6), per il piano più alto dell’intelligibile, dove l’immagine delle vocali è evocata in analogia con i generi sommi, sviluppando la considerazione che, se la combinazione delle lettere non è sempre possibile, esistono lettere – le vocali, appunto – che «passano come un legame attraverso tutte» (οἷον δεσμὸς διὰ πάντων κεχώρηκεν): per il passo si veda A.A. Oberhammer, Buchstaben als Paradeigma in Platons Spätdialogen. Dialektik und Modell im Theaitetos, Sophistes, Politikos und Philebos, De Gruyter, Berlin-Boston 2016, pp. 145-181. In senso figurato, desmos ricorre anche altrove, ma con valore diverso: nel Cratilo, il desiderio è considerato il più tenace dei legami, per spiegare insieme l’etimologia e la natura di Ade (403c-d), con un gioco che sovrappone, come di consueto, oltretomba e mondo intelligibile: cfr. già Plat. Phaedo 80d5-81a2, ma anche il mito del Menone 81c5-7, con il commento di L. Brisson, La réminiscence dans le Ménon, in M. Erler, L. Brisson (eds), Gorgias – Menon. Selected Papers from the Seventh Symposium Platonicum, Academia Verlag, Sankt Augustin 2007, pp. 199-203. Nello Stato retto dall’arte regia (basilike techne), è un desmos che lega le anime dei cittadini alla verità a garantire la tenuta della buona costituzione: è la dottrina del Politico (309-310); la comunità politica delle Leggi conosce un desmos

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do presenta come organismo dotato di corpo e anima. La prima occorrenza del termine nel dialogo compare nella rappresentazione della composizione del corpo del mondo da parte del demiurgo, a partire dagli elementi. Fuoco e terra, che permettono al mondo di essere rispettivamente visibile e tangibile, non possono offrire, da soli, armonia nel composto: non è possibile che due termini si congiungano senza l’intervento di un terzo, che offre, appunto, un legame, garantito dalla proporzione2. Se il cosmo deve avere la forma di un solido, come insegna la geometria3, i termini intermedi dovranno essere due: è questo il ruolo ricoperto nell’opera dell’artigiano cosmico da aria e acqua, secondo il racconto di Timeo. Leggiamo le parole di Platone: σωματοειδὲς δὲ δὴ καὶ ὁρατὸν ἁπτόν τε δεῖ τὸ γενόμενον εἶναι, χωρισθὲν δὲ πυρὸς οὐδὲν ἄν ποτε ὁρατὸν γένοιτο, οὐδὲ ἁπτὸν ἄνευ τινὸς στερεοῦ, στερεὸν δὲ οὐκ ἄνευ γῆς· nell’assimilazione delle leggi nel costume, un legame che della sopravvivenza stessa delle leggi si fa garante: per l’uso politico del concetto di desmos, cfr. ora L. Mouze, Desmos et philia chez Platon, «Astérion», 22 (2020), doi.org/10.4000/asterion.4706. 2 Sui diversi sensi del termine in Platone si rinvia a F. Fronterotta, ἀναλογία in Platone: occorrenze e significati, «Archivio di Filosofia», 84 (2016), 3, pp. 49-64. 3 Per un approfondimento dell’argomento geometrico impiegato da Platone nel passo, che esula dai fini del presente studio, si rinvia alle analisi di F.M. Cornford, Plato’s Cosmology. The Timaeus of Plato, Translated with a Running Commentary, Routledge, London 1937, pp. 45-52; L. Brisson, Le même et l’autre dans la structure ontologique du Timée de Platon. Un commentaire systématique du Timée de Platon, Academia Verlag, Sankt Augustin 1998, pp. 358-388; B. Vitrac, Les mathématiques dans le Timée de Platon: le point de vue d’un historien des sciences, «Études platoniciennes», 2 (2006), pp. 11-78, 39-58; S. Glenn, Proportion and Mathematics in Plato’s Timaeus, «Hermathena», 190 (2011), pp. 11-27; F. Fronterotta, ἀναλογία, cit., pp. 53-54, si veda ora anche la nota tecnica di F.M. Petrucci in Platone, Timeo, introduzione di F. Ferrari, testo, traduzione e commento a cura di F.M. Petrucci, Mondadori, Milano 2022, pp. 459-461.

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ὅθεν ἐκ πυρὸς καὶ γῆς τὸ τοῦ παντὸς ἀρχόμενος συνιστάναι σῶμα ὁ θεὸς ἐποίει. δύο δὲ μόνω καλῶς συνίστασθαι τρίτου χωρὶς οὐ δυνατόν· δεσμὸν γὰρ ἐν μέσῳ δεῖ τινα ἀμφοῖν συναγωγὸν γίγνεσθαι. δεσμῶν δὲ κάλλιστος ὃς ἂν αὑτὸν καὶ τὰ συνδούμενα ὅτι μάλιστα ἓν ποιῇ, τοῦτο δὲ πέφυκεν ἀναλογία κάλλιστα ἀποτελεῖν. Ciò che è generato deve essere certo di natura corporea, e perciò visibile e tangibile, ma nulla potrebbe mai diventare visibile se fosse separato dal fuoco, né tangibile senza qualche elemento solido, né solido senza la terra; ed è la ragione per cui il dio, quando cominciò a costituire il corpo dell’universo, lo fece di fuoco e di terra. Ma non è possibile che due elementi soltanto, senza un terzo, costituiscano una bella composizione: occorre infatti che vi sia un legame intermedio che li unisca entrambi. E il legame più bello è quello che riduce quanto più possibile all’unità se stesso e le cose che lega e questo è ciò che, per sua natura, compie nel modo più perfetto la proporzione4.

Il legame che tiene insieme il corpo dell’universo, offerto dalla proporzione garantita dall’inserimento dei due intermedi, dice Platone, con la voce di Timeo, è ineludibile: καὶ διὰ ταῦτα ἔκ τε δὴ τούτων τοιούτων καὶ τὸν ἀριθμὸν τεττάρων τὸ τοῦ κόσμου σῶμα ἐγεννήθη δι’ ἀναλογίας ὁμολογῆσαν, φιλίαν τε ἔσχεν ἐκ τούτων, ὥστε εἰς ταὐτὸν αὑτῷ συνελθὸν ἄλυτον ὑπό του ἄλλου πλὴν ὑπὸ τοῦ συνδήσαντος γενέσθαι.

Cfr. Plat. Tim. 31b4-c4. Per i passi del Timeo, la traduzione è tratta da Platone, Timeo, a cura di F. Fronterotta, Rizzoli, Milano 2014, con occasionali lievi modifiche. 4

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Ecco come a partire da tali elementi che sono quattro di numero fu generato il corpo del mondo, che è in accordo con se stesso in base alla proporzione, e da queste cose ricevette l’amicizia, sicché, condotto all’identità con sé, non può essere dissolto da nessun altro se non da chi l’ha composto in unità5.

Solo l’artigiano stesso sarebbe in grado di sciogliere il legame che tiene insieme il cosmo, legame di philia6, frutto dell’homologia, legame di per sé insolubile. L’immagine del legame offerto dalla proporzione torna per la costruzione dell’anima del mondo, poche pagine oltre: nelle due componenti di anima e corpo il cosmo, organismo armonioso, costituisce il vivente che contiene tutti i viventi, sul modello del vivente eterno7. Nel segno del legame, quindi, procede la composizione dell’universo, nel suo corpo e nella sua anima, e il legame ritorna nella creazione degli dèi inferiori, nel discorso rivolto a essi dal loro demiurgo e padre, il primo discorso pronunciato nel cosmo: θεοὶ θεῶν, ὧν ἐγὼ δημιουργὸς πατήρ τε ἔργων, δι’ ἐμοῦ γενόμενα ἄλυτα ἐμοῦ γε μὴ ἐθέλοντος. τὸ μὲν οὖν δὴ δεθὲν πᾶν λυτόν, τό γε μὴν καλῶς ἁρμοσθὲν καὶ ἔχον εὖ λύειν ἐθέλειν κακοῦ· δι’ ἃ καὶ ἐπείπερ γεγένησθε, ἀθάνατοι μὲν οὐκ ἐστὲ οὐδ’ ἄλυτοι τὸ πάμπαν, οὔτι μὲν δὴ λυθήσεσθέ γε οὐδὲ τεύξεσθε θανάτου μοίρας, τῆς ἐμῆς βουλήσεως μείζονος ἔτι Ivi, 32b8-c4. Come mostra già F.M. Cornford, Plato’s Cosmology, cit., pp. 44-45, nota 4, l’introduzione della philia è spia del fatto che Platone si sta cimentando in un gioco di riscrittura e riappropriazione della cosmologia di Empedocle; si vedano Platone, Timeo, a cura di F. Fronterotta, cit., pp. 192-193, nota 97; e Platon, Timée-Critias, traduction, introduction et notes par L. Brisson, Flammarion, Paris 2017, p. 232, nota 137, si vedano anche le note di F.M. Petrucci, in Platone, Timeo, cit., p. 272. 7 Plat. Tim. 37a4. 5 6

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δεσμοῦ καὶ κυριωτέρου λαχόντες ἐκείνων οἷς ὅτ’ ἐγίγνεσθε συνεδεῖσθε. Dèi nati da dèi, le opere di cui sono demiurgo e padre, poiché sono io che le ho generate, sono indissolubili, a meno che io non voglia. Ora, tutto ciò che è composto è dissolubile, ma sarebbe proprio di un essere malvagio voler dissolvere ciò che è ben armonizzato e ben fatto; perciò, dal momento che siete stati generati, non siete né immortali né totalmente indissolubili, ma non sarete mai dissolti né avrete in sorte la morte, perché avete con voi la mia volontà, che è un legame ancora maggiore e più potente di quelli con cui foste legati alla nascita8.

Garanzia della vita perenne degli dèi è l’impossibile dissoluzione dei legami che li costituiscono, impossibile grazie alla volontà del demiurgo – l’unico che potrebbe scioglierli – di non farlo. Tale volontà, quindi, costituisce un legame ancora più forte di essi. Essa si fonda a sua volta sulla considerazione che «sarebbe proprio di un essere malvagio voler dissolvere ciò che è ben armonizzato e ben fatto». Sulla bontà dell’artefice Timeo insiste fin dalla sua prima introduzione nel racconto (29a2-3, 29d7-e4)9. 2. Proclo e il Timeo: il più bello dei legami Nel quinto secolo dell’era volgare, il filosofo Proclo, guida della scuola platonica di Atene, tra i grandi protagonisti della fase più matura della corrente che la storiografia moderna chiama neoplatonismo, dedica al Timeo un monumentale commento, giuntoci sia pur in forma Ivi, 41a7-b6. Cfr. già per esempio ivi, p. 227, nota 151, e Platon, Timée-Critias, traduction, introduction et notes par L. Brisson, cit., pp. 232-233, nota 138. 8 9

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parziale attraverso la tradizione bizantina. Il commento, per noi, si conclude all’altezza di Timeo 44c, con la descrizione dell’anima umana incarnata. Per rendersi conto dell’estensione dello sforzo esegetico di Proclo, sarà sufficiente notare che anche solo in questo stato il testo occupa tre fitti tomi nell’edizione critica pubblicata da Ernst Diehl, per un totale di circa 1130 pagine, più di dieci volte il testo del dialogo intero di Platone10. Un’attenzione speciale al Timeo, per Proclo, non sorprende: il dialogo era collocato alla sommità del percorso di lettura e di iniziazione alla filosofia di Platone, tra i dialoghi cosiddetti “perfetti” (teleioi), insieme al ParmeniProclus, In Platonis Timaeum commentaria, E. Diehl (ed.), I-III, Teubner, Leipzig, 1903-1906 (d’ora in poi Proclus In Tim.). Non si è potuto tenere conto della nuova edizione, Proclus Diadochus, In Platonis Timaeum commentaria, ed. by G. Van Riel, I-V, Oxford University Press, Oxford 2022. Per alcuni dettagli sulla nuova ricostruzione della tradizione manoscritta cfr., oltre alla praefatio della nuova edizione, G. Van Riel, Le ms. Coislin. 322 (C) du Commentaire sur le Timée de Proclus: copie d’une recension byzantine, «Revue de philologie, de littérature et d’histoire anciennes», 90 (2016), 1, pp. 191-223; Id., ‘Tel Glaucos de la mer, couvert de coquillages, d’algues et de pierre’. Sur le correcteur anonyme du texte de l’In Timaeum de Proclus dans le MS Chis. R VIII 58, in L. Ferroni (éd.), Tempus quaerendi. Nouvelles expériences philologiques dans le domaine de la pensée de l’Antiquité tardive, Les Belles Lettres, Paris 2019, pp. 275-307. Ai codici noti si aggiunge l’importante testimonianza del rotolo di Patmos (XI sec.), che conserva parti cospicue dei libri III e IV; per un quadro della trasmissione del Commento al Timeo si vedano gli studi di M. Menchelli, Il rotolo di Patmos e i manufatti più antichi del commento di Proclo al Timeo platonico, dalla ‘collezione filosofica’ all’età dei paleologi. Studi preliminari sulla trasmissione di un testo filosofico a Bisanzio, Deputazione di Storia Patria per le Province Parmensi, Parma 2016; Ead., Proclo commentatore del Timeo: esegesi procliana, esegesi a Proclo, e vettori materiali (Patmos Eileton 897), «AION. Sezione di filologia e letteratura classica», 40 (2008), 1, pp. 109-137; Ead., Le rouleau de Patmos (Eileton 897) et les divergences dans l’histoire de la tradition entre le Ier et le IIIe livre du commentaire de Proclus sur le Timée de Platon: le Chisianus R VIII 58 et le Parisinus Suppl. Gr. 666, in L. Ferroni (ed.), Tempus quaerendi. Nouvelles expériences philologiques dans le domaine de la pensée de l’Antiquité tardive, cit., pp. 253-274. 10

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de, seguendo un canone che si fa risalire al quarto secolo con l’iniziativa sistematrice di Giamblico11. Il biografo di Proclo, nonché suo successore alla guida della scuola neoplatonica di Atene, Marino di Neapolis, ci dice che tra tutti i suoi scritti, il filosofo collocava in prima posizione proprio il commento al Timeo12 e riporta, a suggello dell’intera vita, un motto del suo maestro: al fine di evitare l’errore degli uomini, avrebbe volentieri risparmiato, di tutta la letteratura greca, soltanto il Timeo di Platone e gli Oracoli caldaici13. Al tema del desmos che lega l’universo, l’esegesi di Proclo dedica una lunga sezione del terzo libro del commento, che si estende per ben 43 pagine dell’edizione di Diehl14: proprio il desmos che tiene insieme il mondo costituisce il secondo dei dieci doni offerti al cosmo dal L’ordine di lettura ci è noto dai Prolegomena anonimi alla filosofia di Platone: cfr. L.G. Westerink (éd.), Prolégomènes à la philosophie de Platon, trad. fr. J. Trouillard, avec la collaboration de A.-Ph. Segonds, Les Belles Lettres, Paris 1990, §26, rr. 21-44. Sulla questione si vedano D. O’Meara, Pythagoras Revived. Mathematics and Philosophy in Late Antiquity, Clarendon, Oxford 1989, pp. 97-99; L.G. Westerink, Introduction, in L.G. Westerink (éd.), Prolégomènes à la philosophie de Platon, cit., pp. LXVIII-LXXIV; Proclo, Commento alla Repubblica di Platone, a cura di M. Abbate, Bompiani, Milano 2004, pp. XVII-XXIII. Sulla collocazione del Timeo nel canone di Giamblico e, in generale, sulla fortuna del Timeo nell’esegesi neoplatonica, in continuità con le correnti del platonismo di età imperiale, cfr. Ph. Hoffmann, La place du Timée dans l’enseignement philosophique néoplatonicien: ordre de lecture et harmonisation avec le De caelo d’Aristote. Étude de quelques problèmes exégétiques, in F. Celia, A. Ulacco (a cura di), Il Timeo. Esegesi greche, arabe, latine, Pisa University Press, Pisa 2012, pp. 134-180. 12 Marinus, Proclus, ou sur le bonheur, H.-D. Saffrey, A.-Ph. Segonds, C. Luna (éds), Les Belles Lettres, Paris, 2001, p. 30, rr. 12-14. 13 Ivi, rr. 15-20. Sull’interpretazione di questo aneddoto, si vedano le pagine dedicate da Dodds nell’introduzione a Proclus. The Elements of Theology, E.R. Dodds (ed.), Clarendon, Oxford 1963, pp. XII-XIII, e le note in Marinus, Proclus, cit., p. 44, nota 4, e p. 181, nota 5. 14 Proclus In Tim. II, p. 13, r. 15-p. 56, r. 11. 11

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demiurgo nell’interpretazione di Proclo15. Il testo del Commento al Timeo è ricco e denso, come d’abitudine, e non è questa la sede per soffermarsi in un’analisi minuta, soprattutto per quanto concerne i complessi argomenti matematici, geometrici e fisici impiegati per illustrare il senso del dettato di Platone16. Mi propongo, tuttavia, di osservare da vicino la prima parte della trattazione del desmos in cui il concetto di «legame» è analizzato su un piano più generale17. La necessità di un legame è formulata da Proclo in senso assoluto, rispondendo innanzitutto ad alcune obiezioni mosse contro il dettato platonico, volte a esporre casi di unità tra due oggetti disomogenei in assenza di un intermedio18: sono percorsi i casi del rapporto tra cerchio e semicerchi, esempio non corretto, dato che in questo caso l’unità precede la distinzione delle sue parti, del rapporto tra uno e diade, esempio non corretto, in quanto uno e diade non sono costitutivi di un composto comune, del rapporto tra due elementi, quali vino e miele, la cui unione conduce alla distruzione di entrambi, esempio 15 Ai dieci doni del demiurgo sono dedicati per intero il libro III e il libro IV del commento di Proclo; i doni sono introdotti ed enumerati dal filosofo all’inizio della trattazione (ivi, II, p. 5, rr. 17-31). Per una sintesi del contenuto dei dieci doni, si vedano tra gli altri Proclus, Commentaire sur le Timée, Tome troisième. Livre III, ed. par A.-J. Festugière, Vrin, Paris 1967, pp. 7-8, e A. Lernould, Physique et théologie. Lecture du Timée de Platon par Proclus, Presses Universitaires du Septentrion, Lille 2001, pp. 87-91. 16 Per una presentazione più dettagliata della sezione, rinvio a Proclus, Commentary on Plato’s Timaeus. Volume III. Book 3, Part 1: Proclus on the World’s Body, D. Baltzly (ed.), Cambridge University Press, Cambridge 2007, pp. 6-21; M. Martijn, Proclus on Nature. Philosophy of Nature and Its Methods in Proclus’ Commentary on Plato’s Timaeus, Brill, Leiden-Boston 2010, pp. 173-192; E. Kutash, The Ten Gifts of the Demiurge. Proclus’ Commentary on Plato’s Timaeus, Bristol Classical Press, London-New York 2011, pp. 62-91. 17 Proclus In Tim. II, p. 13, r. 19-p. 17, r. 7. 18 Ivi, II, p. 14, r. 5-p. 15, r. 12.

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non corretto, in quanto l’unità realizzata per distruzione non è accettabile quale modello della generazione del cosmo, del rapporto tra uomo e donna, la cui unione è comportata dal legame invisibile dell’amore, del rapporto tra i metalli in una lega, la cui unione è conseguente a una riduzione di ambo gli elementi al liquido, ossia a un’unica sostanza. Il problema del legame riguarda un tipo di unione che sia composto armonioso, senza presupporre cambiamento o distruzione in alcuno dei due componenti. In questi casi, il terzo termine è necessario, come correttamente indica Platone: ἡμεῖς δὲ αὖ λέγομεν ἑπόμενοι τοῖς εἰρημένοις, ὅτι δεῖ τὰ δύο ταῦτα πρῶτον μὲν πρὸς τὴν σύστασιν ἑνὸς παραλαμβάνεσθαι πράγματος, ἔπειτα μὴ συμφθείρεσθαι πρὸς τὴν σύνοδον – οὐ γὰρ ἂν ἔτι δεδεμένα εἴη, ἀλλὰ μηκέτι ὄντα – καὶ τρίτον ὄντως εἶναι στοιχεῖα τοῦ ἐξ αὐτῶν οὕτω γὰρ ἔχοντα πάντως δεήσεται τρίτου τινὸς εἰς τὸν σύνδεσμον. Noi, per contro, diciamo, in accordo a ciò che è stato detto [scil. da Platone], che in primo luogo bisogna che questi due termini siano assunti per la costituzione di una sola cosa, e che in seguito, perché vi sia una combinazione, essi non incorrano nella distruzione reciproca – in questo caso non sarebbero legati, ma anzi non sarebbero più – e, in terzo luogo, che siano veramente elementi di ciò che si realizza da essi, e se le cose stanno così, ci sarà in tutto e per tutto bisogno di un terzo termine per la loro congiunzione [σύνδεσμος]19.

Una volta individuata la necessità di un desmos per la congiunzione dei due termini primi della diade di fuoco e terra, visibile e tangibile, Proclo continua a considerare, in generale, la nozione di legame, distinguendo tre tipi di 19

Ivi, II, p. 15, rr. 1-6. Traduzione mia.

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desmos, a partire dalla considerazione per cui «legame si dice in tre modi»20. La distinzione è mossa dall’intento di giustificare una precisazione di Platone: il legame scelto dal demiurgo è «il più bello dei legami»21, e sarà presto questione di classificarlo all’interno di questa tripartizione semantica. Sarà utile leggere per intero il passo in cui Proclo distingue i tre sensi possibili di desmos: ἄλλος μὲν γὰρ δεσμὸς ἐν τῇ αἰτίᾳ τῶν συνελθόντων προϋπάρχων, ἄλλος δὲ ὁ ἐν αὐτοῖς τοῖς δεδεμένοις ἐνυπάρχων ὁμόστοιχος αὐτοῖς καὶ συμφυής, τρίτος δὲ ἄλλος ἐν μέσῳ τούτων, προϊὼν μὲν ἀπὸ τῆς αἰτίας, ἐν δὲ τοῖς συνδεομένοις ἐμφαινόμενος. Altro è il legame preesistente nella causa dei termini che si congiungono, altro è quello insito nei termini legati stessi, che si pone allo stesso livello ed è congenito ad essi, altro ancora, e terzo, quello intermedio tra i due, che procede sì dalla causa, ma si manifesta nei termini una volta che sono legati insieme22.

Come il primo legame precede il composto e il secondo si trova insito al composto, il terzo mantiene una posizione mediana. Per spiegare questa tripartizione, Proclo propone l’esempio dell’organismo vivente in relazione alle sue parti23: legame del primo genere è il principio creatore insito nella causa del vivente, al secondo genere corrisponde il legame organico e corporeo delle parti (tendini, muscoli), mentre del terzo tipo è il principio fisico unitario che proviene dalla causa e che si serve dei legami organici per la composizione del vivente. Questo Ivi, II, p. 15, rr. 12-13. Cfr. Plat. Tim. 31c2: δεσμῶν δὲ κάλλιστος. 22 Proclus In Tim. II, p. 15, rr. 13-17. Traduzione mia. 23 Ivi, II, p. 15, rr. 17-25. 20 21

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terzo desmos non è separato dai termini legati, né dalla causa, dal momento che costituisce la conditio sine qua non del vivente24. A quale di questi tre generi appartiene, quindi, il desmos che il demiurgo introduce nel cosmo? Proclo non ha dubbi: bisogna escludere categoricamente tanto il primo senso – dal momento che questo tipo di desmos si identifica con la causa, che è completamente separata dai suoi effetti (e quindi dal composto) – quanto il secondo, ossia quello organico, che ha fra i tre il rango inferiore. Si dovrà quindi identificare il legame con il terzo, che, pur essendo differente e di rango superiore rispetto ai termini legati, è nondimeno immanente nel loro composto: il desmos offerto dalla proporzione è di questo genere, dal momento che la proporzione è di per sé distinta da fuoco e terra, preesistente al loro composto e insieme non separata dalla causa in quanto condizione, e al tempo stesso, insita in esso una volta che si sia realizzato25. Si noterà che il legame di terzo tipo, situandosi quale intermediario tra il primo legame, ossia la causa, e il secondo, quello organico, si configura implicitamente come un “legame dei legami”, che garantisce la continuità dell’opera di composizione facendo da ponte ideale tra i due livelli. Questa triplicità del termine “legame” è ribadita, negli stessi termini, poco lontano26: nella continuità del desmos che, partendo dalle cause e attraverso la proporzione, giunge nel corpo del mondo, è letto il significato profondo del verso orfico in cui Notte invita Zeus a stendere su tutti gli esseri un «possente legame» (desmos krateros), sospeso all’etere tramite una catena d’oro27. Per un’interpretazione diversa, che connette la conditio sine qua non al legame organico, sulla base del parallelo con il Fedone (98c2-99b4), cfr. M. Martijn, Proclus on Nature, cit., pp. 174-175 e nota 45. 25 Proclus In Tim. II, p. 15, r. 25-p. 16, r. 7. 26 Ivi, II, p. 24, rr. 20-29. 27 Si tratta del frammento 237 nella raccolta di A. Bernabé (ed.), Poetae epici Graeci. Testimonia et fragmenta. Pars II. Orphicorum et Orphicis 24

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Il seguito del passo, prima dell’esposizione delle spiegazioni matematico-geometriche e fisiche della proporzione tra gli elementi, indaga le origini del legame che si dispiega nella proporzione, e che fa sì che tale legame, per una questione di analogia intesa stavolta in senso ontologico-metafisico, costituisca un symbolon di legami più elevati. Al fine di comprendere meglio l’argomento di Proclo, è necessario prendere una certa confidenza con il sistema di gerarchie divine che, a partire dalle pagine di Platone e in particolare dalla seconda parte del Parmenide, l’interpretazione neoplatonica del suo tempo ricosimilium testimonia et fragmenta. Fasc. I (frr. 1-378), Teubner, Leipzig-Mün­ chen 2004. I versi sono citati da Proclo già nella presentazione generale della demiurgia (Proclus In Tim. I, p. 314, rr. 13 e 17); il primo dei due tornerà poco oltre nel terzo libro (Proclus In Tim. II, p. 53, rr. 21-24) e sarà ripreso anche nel Commento al Cratilo, come vedremo più sotto. Un’altra autorità per l’interpretazione del desmos demiurgico si trova negli Oracoli caldaici con il «legame pieno del fuoco dell’Amore»: è il frammento 39 nella raccolta di É. Des Places (éd.), Oracles chaldaïques, Les Belles Lettres, Paris 1996; per il testo cfr. Proclus, Commentaire sur le Timée, Tome troisième. Livre III, A.-J. Festugière (éd.), cit, pp. 84-85, n. 2. Il commentario a questo punto devia leggermente dal suo cammino, e torna a parlare della volontà del demiurgo, identificata già da A.-J. Festugière, ivi, p. 39, nota. 1, con il legame della causa. Questa menzione è singolare e sembra fuori posto: subito dopo Proclo torna a parlare del desmos di tipo intermedio, ribadendo l’identificazione della proporzione – principio né creatore, né organico – con questo legame (cfr. Proclus In Tim. II, p. 16, rr. 11-13). Vi è anche un piccolo problema sintattico. Il testo greco (p. 16, rr. 5-8) presenta: ἔστιν οὖν καὶ οὗτος δεσμὸς ἀχώριστος τῶν συνδεθέντων, καὶ ἡ ἀναλογία δεσμός, ἄλλη μὲν οὖσα τῶν δεδεμένων πάντων, ἐν αὐτοῖς δὲ ὑφεστηκυῖα, καὶ ἡ βούλησις ἡ δημιουργικὴ δεσμὸς ἐξῃρημένος τῶν δεδεμένων. Il terzo membro del periodo, che costituisce il riferimento alla volontà del demiurgo, è legato a ciò che precede attraverso un semplice καί, che però non è coordinato con il καί di καὶ οὗτος, che si riferisce al legame dell’ἀναλογία. Se il testo è da conservare, sarebbe forse il caso di modificare l’interpunzione, indicando dopo ὑφεστηκυῖα il segno di una pausa più forte, magari un punto in alto, o un punto fermo, come suggerito da A.-J. Festugière in Proclus, Commentaire sur le Timée, Tome troisième. Livre III, cit., p. 39, nota 1.

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struisce: un sistema che sviluppa e integra in chiave metafisico-teologica la dottrina già plotiniana delle tre ipostasi (Uno – Intelletto – Anima)28. Esso fa da sfondo all’intera produzione di Proclo e si trova per noi descritto nella maniera più sistematica nei libri della Teologia platonica. Sarà utile offrire uno schema di tale gerarchia, almeno nei suoi gradi superiori, che riguardano i piani ipostatici corrispondenti all’Uno e all’Intelletto plotiniani29: Uno limite

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Piano delle Enadi30 Intelletto Dèi intelligibili (= piano dell’essere) 28 Per un resoconto esaustivo e limpido del sistema di Proclo e della sua formazione a partire dalle aporie riconosciute dai neoplatonici successivi nello schema plotiniano, si vedano W. Beierwaltes, Proclo, trad. it. N. Scotti, introduzione di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1988, pp. 96-204; R. Chlup, Proclus. An Introduction, Cambridge University Press, Cambridge 2012, pp. 47-111; utile sintesi in Proclo, Commento al Cratilo di Platone, a cura di M. Abbate, Bompiani, Milano 2017, pp. 32-38. 29 Uno schema più dettagliato e disteso si può trovare in J. Opsomer, Proclus on Demiurgy and Procession. A Neoplatonic Reading of the Timaeus, in M.R. Wright (ed.), Reason and Necessity. Essays on Plato’s Timaeus, Bloomsbury, London-New York 2000, pp. 113-143; Proclo. Teologia platonica, a cura di M. Abbate, Bompiani, Milano 2019, pp. XLV-LIX. 30 Lo statuto e la posizione delle enadi costituiscono, com’è noto, elementi fortemente problematici del sistema: cfr. tra gli altri G. Van Riel, Do Proclus’s Henads Consist of Limits and Unlimitedness?, «Revue des sciences philosophiques et théologiques», 85 (2001), 3, pp. 417-432; S. Gersh, Interpreting Proclus From Antiquity to the Renaissance, Cambridge University Press, Cambridge 2014, pp. 92-97. Appare comunque sufficientemente chiaro che il livello delle enadi non comporta un vero e proprio piano ipostatico distinto, cfr. J. Opsomer, Proclus on Demiurgy and Proce, cit., pp. 131-132.

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Tre triadi. Si differenziano per l’elemento preminente per ogni triade Dèi intelligibili-intellettivi (= piano della vita) Tre triadi Si differenziano per l’elemento preminente per ogni triade Dèi intellettivi (= piano dell’intelletto) Livello più basso della trascendenza Momento di piena definizione dei componenti. Non più tre triadi, ma sette divinità (ebdomade), strutturate in due triadi e una monade che fa da limite nei confronti della classe degli dèi inferiori (ipercosmici, ipercosmici-encosmici, encosmici), garantendo la trascendenza dell’ordine intellettivo

Con il demiurgo, ci troviamo nella prima triade degli dèi intellettivi31: avremo modo di vedere che, come in parte possiamo già trarre dalla citazione delle parole di Notte nel verso orfico, tale posizione corrisponde, nell’assorbimento metafisico del pantheon tradizionale greco, a quella di Zeus padre di dèi e uomini. Il desmos che entra a far parte del composto all’origine del corpo del mondo, attraverso il legame della causa, che si identifica apparentemente con la volontà del demiurgo, si fa portatore negli strati più bassi della realtà di una causalità che rimonta 31 Cfr. Proclus, Théologie platonicienne, H.-D. Saffrey, L.G. Westerink (éd.), Tome V: livre V, capp. 12-13, pp. 40-44. Sull’interpretazione del demiurgo nel neoplatonismo tardo, cfr. I. Hadot, Le problème du néoplatonisme alexandrin. Hiéroclès et Simplicius, Institut d’Études Augustiniennes, Paris 1978, pp. 110-116; più specialmente su Proclo si vedano J.M. Dillon, The Role of the Demiurge in the Platonic Theology, in A.-Ph. Segonds, C.G. Steel (éds), Proclus et la Théologie platonicienne. Actes du Colloque International de Louvain (13-16 mai 1998) en l’honneur de H.-D. Saffrey et L.G. Westerink, Leuven University Press-Les Belles Lettres, Leuven-Paris 2000, pp. 339349; J. Opsomer, Proclus on Demiurgy and Procession , cit., pp. 115-119.

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fino ai principi primi: emana, infatti, dalla Causa unica dell’universo, da cui deriva ogni principio unificatore, ma giunge attraverso l’Uno-che-è, primo tra gli enti, che contiene e unifica le cause di ogni cosa, e ancora procede dal Vivente-in-sé (o Vivente completo), modello dell’azione del demiurgo; è attraverso questa processione che il legame arriva al piano demiurgico32. Nella descrizione dettagliata che Proclo offre, si trova distesa la considerazione anticipata in apertura alla sezione che abbiamo analizzato. Il desmos di cui parla Platone va inteso in due sensi: da un lato come immagine dell’unificazione divina, dall’altro nel senso della comunione delle potenze in virtù delle quali le cause intellettive realizzano la loro produzione33. Il legame si rivolge in due direzioni, da una parte verso l’unificazione che rimonta nella scala teologica sviluppata da Proclo alle cause prime e più elevate della sussistenza del cosmo, dall’altra verso la distribuzione e la comunicazione delle potenze (dynameis), che giungono a un livello più basso della catena, dove si trovano le entità più direttamente coinvolte nella costituzione del mondo. 3. Proclo sul Cratilo: il legame di Zeus Lasciamo per il momento il Commento al Timeo e avviciniamoci all’esegesi che Proclo dedica a un altro dialogo di Platone, il Cratilo. Il cosiddetto Commento al Cratilo, nella forma in cui ci è stato trasmesso, è costituito da una serie di scholia, che seguono con buona continuità il testo del dialogo fino all’etimologia offerta da Socrate per il nome di Atena34 (406d-407a): è a questo punto Proclus In Tim. II, p. 16, r. 14-p. 17, r. 1. Ivi, II, p. 13, rr. 19-22. 34 Plat. Crat. 406d-407a. 32 33

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che i nostri manoscritti si interrompono bruscamente, nel mezzo di una frase. Gli interpreti considerano che il testo in nostro possesso possa costituire alternativamente o un riassunto a partire da un commento continuo35 o una raccolta di note trascritte dalla “voce del maestro” (apo phones), ossia redatte a partire dagli appunti delle lezioni di Proclo su questo dialogo36. Il problema non è centrale per la nostra indagine37. Il testo, edito nel 1908 da un giovanissimo Giorgio Pasquali38 dopo la difettosa editio princeps di Boissonade39, ha visto un recente ritorno d’interesse nella storia degli studi40. È l’opinione di F. Romano, Proclo lettore del Cratilo, in J. Pépin, H.D. Saffrey (éds), Proclus lecteur et interprète des anciens: actes du colloque international du CNRS (Paris 2-4 octobre 1985), Éditions du CNRS, Paris 1987, pp. 113-136; Id., Proclo. Lezioni sul “Cratilo” di Platone, L’Erma di Bretschneider, Roma 1989, pp. XVII-XVIII; C. Luna, A.-Ph. Segonds, Proclus de Lycie, in R. Goulet (éd.), Dictionnaire des Philosophes Antiques. V b, de Plotina à Rutilius Rufus, Éditions du CNRS, Paris 2012, pp. 15461657, 1571. Verso questa direzione spinge la cura formale degli excerpta conservati, che riflette il controllo costante di un autore e non la semplice raccolta di appunti d’insegnamento, pur al netto delle peculiarità grammaticali e stilistiche osservate da Pasquali nella praefatio alla sua edizione (cfr. G. Pasquali [a cura di], Procli diadochi in Platonis Cratylum commentaria, Teubner, Leipzig 1908, pp. V-VII). 36 Su questa pratica, cfr. M. Richard, ἀπὸ φωνῆς, «Byzantion», 20 (1950), pp. 191-222; a questa interpretazione aderiscono Proclus, Commentary on Plato’s Cratylus, B. Duvick (ed.), Cornell University Press, Ithaca (NY) 2007, pp. 2-3; R.M. Van den Berg, Proclus’ Commentary on the Cratylus in Context, Brill, Leiden-Boston 2008, p. 94. 37 La questione è lasciata in sospeso anche da M. Abbate in Proclo, Commento al Cratilo, cit., pp. 50-52. 38 Proclus, In Platonis Cratylum commentaria, a cura di G. Pasquali, Teubner, Leipzig, 1908 (d’ora in poi Proclus In Crat.). 39 J.F. Boissonade (ed.), Ex Procli scholiis in Cratylum Platonis excerpta, Luchtmans, Leipzig-Leiden 1820. 40 Cfr. M. Abbate, Dall’etimologia alla teologia: Proclo interprete del Cratilo, Piemme, Casale Monferrato 2001; Proclus, Commentary on Plato’s Cratylus, ed. by B. Duvick, cit.; R.M. Van den Berg, Proclus, cit.; Proclo, Commento al Cratilo, a cura di M. Abbate, cit. 35

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Centro dell’attenzione di Proclo nella lettura del Cratilo è la sezione dedicata ai nomi degli dèi: nel dialogo di Platone, la prima analisi etimologica dedicata a un dio si trova in una sezione che precede la rassegna sistematica delle etimologie legate al pantheon greco. Si tratta della ricerca sul nome di Zeus, raggiunto percorrendo l’ascendenza di Agamennone, tramite Atreo, Pelope e Tantalo (395e5-396b3). Prima di affrontare la sezione, Proclo illustra il metodo scelto da Socrate per l’analisi dei nomi divini: si tratta dell’analisi, che, scomponendo il nome nelle sue parti, permette di rimontare verso l’illustrazione delle sue potenze e attività, che sole si manifestano nel nome, mentre l’essenza degli dèi è irraggiungibile attraverso il linguaggio41. L’analisi del nome di Zeus, nel Cratilo, presenta una perfetta coerenza con l’analisi del commento, che si appoggia alle due forme alternative dell’accusativo del nome Zeus in greco, Dia e Zena42. Ma se nel Cratilo queste due forme servono a distendere il logos nascosto nel nome di Zeus, ossia a mostrare che è colui «attraverso cui [di’hon] il vivere [zen] sempre deriva agli esseri viventi»43 (396b1-2), per Proclo i due termini (dia e zen) sono complementari ma riflettono due aspetti diversi dello stesso dio, ossia il suo ruolo di causa e il suo potere di creare la vita. Il nome di Zeus indica, lui stesso, la corrispondenza Proclus, In Crat. § 96, p. 47, rr. 12-19. L’analisi si configura come un percorso di semplificazione ascendente, opposto al metodo definitorio: cfr. Proclus In Tim. I, p. 276, rr. 10-14 (l’analisi «risale a partire dalle cose in divenire alle loro cause, tanto demiurgiche quanto paradigmatiche», ἀπὸ γὰρ τῶν γιγνομένων ἐπὶ τὰς αἰτίας αὐτῶν τάς τε δημιουργικὰς καὶ παραδειγματικὰς ἀνέδραμε); sul rapporto tra le etimologie divine nel Cratilo e la ricostruzione delle gerarchie divine nella Teologia platonica, si vedano R.M. Van den Berg, Proclus, cit., pp. 174-175; Proclo, Commento al Cratilo, a cura di M. Abbate, cit., pp. 25-38. 42 Plat. Crat. 396a4. 43 Ivi, 396b1-2. La traduzione è tratta da Platone, Cratilo, traduzione e introduzione di F. Aronadio, Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 35. 41

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del dio con il demiurgo universale del cosmo, il demiurgo del Timeo: il principio vivificatore è ricondotto alla «capacità di generare esseri viventi» (zoogonia)44. L’identificazione del demiurgo del Timeo con Zeus, e più precisamente con il dio Zeus che per Proclo si colloca come terzo nella prima triade degli dèi intellettivi45, spinge il filosofo a una digressione sul Timeo, e sul potere demiurgico della divinità il cui nome è oggetto di analisi. Importante, nell’esame di Proclo, è l’azione del demiurgo nell’introduzione del desmos, anche nel commento al Cratilo legato alla philia: «E certamente questi è anche colui che dà ordine a tutti i corpi con le figure ed anche con i numeri, e che inserisce al loro interno un’unica unità, un’amicizia ed un legame indissolubili»46. Testimone dell’importanza del desmos nella demiurgia del cosmo è per Proclo anche qui la tradizione orfica, evocata ancora nel consiglio di Notte a Zeus, con il «possente legame»47. Che Proclo faccia riferimento al passo del Timeo che abbiamo osservato in apertura è chiaro da ciò che segue. Infatti, anche nel Commento al Cratilo il fi44 L’etimologia, non a caso, è ripresa nel Commento al Timeo, in una formulazione che più fedelmente riprende l’analisi di Platone: cfr. Proclus In Tim. I, p. 315, rr. 5-8. Si veda anche Proclus, Théologie platonicienne. Livre V, cit., § 22, p. 80, rr. 5-6. Sull’esegesi del nome duplice di Zeus nel Cratilo si veda già R.M. Van den Berg, Proclus, cit., pp. 180-184. 45 L’identificazione è argomentata a lungo, sulla base di diversi dialoghi di Platone (oltre al Timeo e al Cratilo, il Crizia, il Filebo, il Protagora, il Politico e le Leggi), nei capitoli 21-26 del libro V della Teologia Platonica, per cui si veda anche Proclus, Théologie platonicienne. Livre V, cit., pp. 76-99. Ma essa è accolta già nel secondo libro del Commento al Timeo (Proclus In Tim. I, p. 312, r. 16-p. 319, r. 21). 46 Proclus In Crat. § 99, p. 50, rr. 21-23: καὶ μὴν καὶ ὁ τὰ σώματα πάντα τοῖς τε σχήμασι καὶ τοῖς ἀριθμοῖς διακοσμῶν καὶ μίαν ἕνωσιν καὶ φιλίαν αὐτοῖς ἄλυτον καὶ δεσμὸν ἐντιθεὶς οὗτός ἐστιν. Le traduzioni del Commento al Cratilo di Proclo sono tratte da Proclo, Commento al Cratilo, a cura di M. Abbate, cit., p. 393 con lievi modifiche. 47 Cfr. supra, e nota 27.

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losofo propone la sua riflessione sui diversi tipi di legame che entrano in gioco nella creazione del cosmo: δεσμὸς δὲ τῶν ἐγκοσμίων, προσεχὴς μὲν ὁ διὰ τῆς ἀναλογίας, τελειότερος δ’ ὁ παρὰ τοῦ νοῦ καὶ τῆς ψυχῆς·υδιὸ καὶ ὁ Τίμαιος τήν τε διὰ τῆς ἀναλογίας κοινωνίαν τῶν στοιχείων δεσμὸν προσείρηκεν καὶ τὴν ἀπὸ τῆς ζωῆς ἀδιάλυτον ἕνωσιν· , φησίν. τούτων δ’ ἔτι σεμνότερος δεσμὸς ἀπὸ τῆς δημιουργικῆς ὑπάρχει βουλήσεως· , φησί, . ταύτης τοίνυν τῆς ἐννοίας περὶ τοῦ μεγίστου Διὸς ὥσπερ . E come legame tra gli esseri encosmici, prossimo è quello che sussiste per via della corrispondenza analogica, invece più perfetto è quello che deriva dall’intelletto e dall’anima: per questo motivo Timeo ha chiamato “legame” tra gli elementi sia la comunanza determinata attraverso la corrispondenza analogica sia l’unificazione indissolubile derivante dalla vita: «infatti legati con legami animati, gli esseri viventi sono stati generati», egli dice. Ma ancora più venerabile di questi è il legame derivante dalla volontà demiurgica: «avendo avuto in sorte la mia volontà – dice – che è un legame ancora più grande e più forte di quelli»48.

Il testo del Commento al Cratilo sembra a prima vista riproporre, in maniera più sintetica, la tripartizione del concetto di desmos che abbiamo osservato nel Commento al Timeo. Ma in verità, se si legge con attenzione, ci si accorge che non si tratta di una sintesi, ma di una formulazione Proclus In Crat. § 99, p. 50, r. 27, p. 51, r. 8. La traduzione si fonda su quella presente in Proclo, Commento al Cratilo, cit., p. 393, con lievi modifiche. 48

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triadica differente. Al suo interno, il legame della proporzione, è detto “prossimo” (proseches) rispetto alle realtà mondane: gli altri due tipi di legame sono ambo situati su un piano superiore. Di che si tratta? Qualche difficoltà crea l’espressione “quello che deriva dall’intelletto e dall’anima”: si sarebbe a una prima lettura portati a individuare in questa espressione l’indicazione di un solo legame, ma dal parallelo con la frase che segue, dopo la particella dio, che indica l’approssimarsi di una spiegazione a partire dal testo, diviene chiaro che il legame che giunge dall’anima e quello che giunge dall’intelletto sono diversi. Sempre seguendo il quadro delle ipostasi procliane, si può essere ragionevolmente portati a individuare nel “legame che proviene dall’anima” i “legami animati” che vengono citati nella seconda parte del testo, e nel legame dell’intelletto la causa intellettiva costituita dalla volontà del demiurgo. Si può ridurre quindi il confronto tra il passo del Commento al Cratilo e quello del Commento al Timeo al seguente schema: Commento al Timeo legame che deriva dalla causa  (= volontà del demiurgo)

Commento al Cratilo legame che deriva dalla causa (= volontà del demiurgo)

– – «legami animati» (ἔμψυχοι δεσμοί) legame della proporzione, legame della proporzione («intermedio»)(«prossimo») legame interno agli organismi 

– –

Come giustificare questa divergenza? La situazione descritta nel Commento al Cratilo propone una diversa

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gerarchia tra i tipi di legame che entrano in gioco nella demiurgia dell’universo. Peraltro, i «legami animati» (empsychoi desmoi) sono tratti proprio dal Timeo di Platone, citato pressoché verbatim nell’espressione «legati con legami animati, gli esseri viventi sono stati generati»49. Qualche luce può essere portata da un altro testo parallelo, che propone una diversa classificazione dei legami che tengono insieme il cosmo. Si tratta di un passo tratto dall’opera di Proclo che abbiamo l’abitudine di citare con il titolo Commento alla Repubblica. La Repubblica di Platone non faceva parte dell’ordine di lettura canonico nella scuola tardoantica: è probabilmente per questo che non possediamo un vero e proprio commento sistematico su questo dialogo, ma ci troviamo piuttosto di fronte a una serie di trattati particolari, dissertazioni portanti su temi connessi all’interpretazione di problemi e passaggi del dialogo, ma tendenzialmente slegate l’una dall’altra50. L’edizione di riferimento è ancora quella di Kroll, pubblicata in due tomi, usciti rispettivamente nel 1899 e nel 190151. Il testo che ci interessa in questa occasione proviene dalla dissertazione 13, che affronta il problema della degenerazione della città ideale. Proclo individua proprio nella molteplicità dei legami un punto di contatto tra la Kallipolis e l’universo: καὶ γὰρ ὡς ὁ κόσμος ἐκ πολλῶν ἐστιν δεσμῶν, οἷον τῶν Plat. Tim. 38e5. Il testo del Timeo aggiunge, tra ἐμψύχοις e δεθέντα, la parola σώματα, «corpi»: nel contesto del Timeo si parla dei pianeti. L’omissione di Proclo ricorre anche nelle tre citazioni della frase contenute nel Commento al Timeo (Proclus In Tim. I, p. 314, r. 16; II, p. 60, r. 21; II, p. 71, r. 3); cfr. Proclus, Commentary on Plato’s Timaeus. Volume V. Book 4: Proclus on Time and the Stars, D. Baltzly (ed.), Cambridge University Press, Cambridge 2013, pp. 140-141, nota 278. 50 Cfr. Proclo, Commento alla Repubblica, a cura di M. Abbate, cit., pp. XLIII-LVII. 51 Proclus, In Platonis Rempublicam commentarii, W. Kroll (ed.), I-II, Teubner, Leipzig, 1899-1901 (d’ora in poi Proclus In Remp.). 49

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στοιχείων, τῆς ἀναλογίας, τῶν ψυχικῶν μεσοτήτων, τῆς ἐμψυχίας, καὶ πρὸ τούτων τῆς δημιουργικῆς βουλήσεως, οὕτω καὶ ἥδε ἡ πολιτεία παντοίους ἔσχεν δεσμούς· κοινὰ τὰ ἐπιτηδεύματα, κοινοὶ οἱ παῖδες, κοιναὶ αἱ κτήσεις. E infatti, come il cosmo è costituito da numerosi legami – gli elementi, l’analogia, le medietà psichiche, l’animazione, e prima di tutti questi la volontà demiurgica – così anche questo stato comporta legami di ogni genere: comuni sono in effetti le occupazioni, comuni i figli, comuni i possessi52.

Non vi è in questa lista una preoccupazione strettamente gerarchica, ma appare evidente una certa progressione verso l’alto: a partire dagli elementi in essi stessi, ossia dai legami organici, si giunge fino alla volontà del demiurgo, passando anche qui per il livello dell’anima. Credo sia il caso di trarre alcuni spunti di sintesi: appare evidente che per Proclo i legami che entrano in gioco nella demiurgia sono molteplici e variegati, dato che l’universo costituisce un tutto estremamente articolato, tenuto insieme da numerose forze che possono ricondursi, in ultima analisi, alla spinta primigenia che giunge tramite l’intelletto demiurgico a partire dai principi primissimi e per emanazione dall’Uno stesso. Gli elementi a disposizione di Proclo, per cucire la sua narrazione cosmologica, sono quindi numerosi: le divergenze tra i passi possono spiegarsi alla luce della funzione specifica nel commento a un dato passo platonico. Nel caso del passo del Commento al Timeo con il quale abbiamo inaugurato il nostro percorso procliano, la prospettiva è diversa da quella che troviamo nel Commento al Cratilo, per due ragioni: innanzitutto nel Commento al Timeo, per quanto Proclo non sia mai avaro di anticipazioni e digressioni, è questione del corpo del mondo, il che spiega l’assenza di una menzione in tale luogo dei legami psichici, 52

Proclus In Remp. II, p. 9, rr. 3-7. Traduzione mia.

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dal momento che l’anima mundi verrà trattata dal filosofo, seguendo l’ordine del Timeo, soltanto nella seconda parte del libro terzo. Ma, soprattutto, nel Commento al Timeo fulcro dell’interesse di Proclo è il mondo stesso, appunto nella sua conformazione fisica, il che lo spinge a declinare il legame in tre tipologie a suo avviso coerenti con il discorso di Platone, che si concentra sulla formazione del mondo a partire dagli elementi. Nel Commento al Cratilo, fulcro della spiegazione di Proclo è la dynamis e l’energeia del demiurgo, identificato a Zeus: la diversa selezione dei materiali disponibili si spiega in quest’orizzonte, dal momento che ciò che interessa al filosofo è di sottolineare come, se è pur vero che tutti i legami derivano, direttamente o indirettamente, dall’atto demiurgico, il più venerabile di tutti è costituito dalla volontà del demiurgo stesso, che fa da tramite per la costruzione dell’universo. 4. Legami e catene: il desmos nella processione A guisa di conclusione, è il caso di tornare sulla concezione di “tramite”, che si manifesta nell’accusativo del nome Zeus, scelto “in modo appropriato” da Platone per la sua indagine etimologica, giustamente perché il caso “accusativo” o, meglio, assecondando la terminologia antica, “causativo” (aitiaitike ptosis), è quello che più si adatta a Zeus, «in assoluto causa di tutte le cose»53. La volontà del demiurgo è il legame più venerabile, identificato con la causa. Tale stato risalta nel discorso solenne del demiurgo agli «dèi di dèi»54, un discorso che Proclo evoca nel Commento al Cratilo e che è oggetto, nel Commento al Timeo, di una lunga spiegazione, che occupa per intero quaranta Proclus In Crat. § 103, p. 53, rr. 7-8, con la traduzione di Proclo, Commento al Cratilo, cit., p. 399. 54 Proclus In Tim. III, pp. 202-242. In particolare per la lettura di 53

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pagine del terzo tomo dell’edizione di Diehl55. In esse, il tema del desmos ritorna a più riprese, per chiosare lo stato “intermedio” degli dèi encosmici, per cui il legame dell’esistenza è al tempo stesso dissolubile e indissolubile: κατεσκεύασε δὲ τὸ μὲν μήτε ἀθάνατον αὐτῶν μήτε ἄλυτον ἐκ τοῦ γενητοὺς εἶναι (τοῦτο γὰρ δηλοῖ τὸ · πᾶν γὰρ γενητὸν ἔχει καὶ δεσμὸν ἀλλαχόθεν ἐνδεδομένον, ἑαυτὸ συνέχειν ἢ ζωοποιεῖν οὐ δυνάμενον), τὸ δὲ μήτε λυτοὺς αὖ μήτε θνητοὺς ἐκ τῶν δεσμῶν, ὧν τε κατ’ οὐσίαν μετέχουσι καὶ ὧν ἐκ τῆς δημιουργικῆς βουλήσεως. ἀλλὰ τούτους μὲν δι’ ἑνώσεως ἐδήλωσεν, ἐκείνους δὲ διὰ πλήθους, ἐπείπερ ἡ πατρικὴ ἕνωσις δεσμῶν ἐστι δεσμὸς καὶ τῶν μετεχομένων ἑνώσεων μονάς. La loro non immortalità né indissolubilità l’ha stabilita a partire dal loro essere generati (questo infatti è il significato di poiché siete nati: tutto ciò che è nato ha una immortalità ristabilita e un legame che è stato inserito al suo interno da altrove, non potendo da solo mantenersi insieme o darsi la vita), mentre la loro non dissolubilità e non mortalità dai legami, quelli di cui partecipano secondo l’essenza e quelli che derivano della volontà demiurgica. Ma questi li ha indicati al singolare, quelli al plurale, poiché l’unità paterna è legame dei legami e monade delle unificazioni partecipate56.

Il riferimento all’uso di singolare e plurale deriva dalla lettura del testo di Platone, in cui la volontà del demiurgo è introdotta come «legame ancora maggiore e più potenquesto sintagma e i problemi comportati dalla sua interpretazione nell’antichità, si veda ivi, III, p. 202, r. 19-p. 204, r. 32. 55 L’interpretazione è analizzata in dettaglio da J. Opsomer, Proclus on Demiurgy and Procession, cit., pp. 126-130; Id., La démiurgie des jeunes dieux selon Proclus, «Les Études Classiques», 71 (2003), pp. 5-49, 30-35. 56 Proclus In Tim. III, p. 219, r. 30-p. 220, r. 8. Traduzione mia.

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te»57 di quelli con cui gli esseri encosmici sono legati al momento della loro nascita. In questo tipo di legame si dispiega appieno la dipendenza degli enti encosmici dal demiurgo, che li classifica tra le opere (erga) che derivano dalla sua attività (di’emou genomena). In quest’ultimo nesso, letteralmente «le cose che sono generate attraverso me» (ha di’emou genomena), è stata di recente riconosciuta un’allusione al proemio degli Erga di Esiodo, in cui il gioco tra Dia, accusativo di Zeus, e dia, per la prima volta compare: in erga di’emou Platone cerca un’etimologia per il suo demiourgos 58. L’allusione poteva essere agevolmente ricondotta, in antichità, all’etimologia del Cratilo, che certo nel passo di Esiodo trova uno spunto importante di riflessione sul nome di Zeus, e costituire quindi un puntello ulteriore per l’identificazione tra il demiurgo e lo Zeus intellettivo: il concetto di tramite è cuore, come abbiamo visto, dell’interpretazione di Proclo. Ma nella lettura di questo concetto in chiave neoplatonica, ciò che attraverso il demiurgo giunge come legame sommo per l’universo si origina a un livello superiore della catena teologica. Infatti, la causa che si dispiega nella volontà del demiurgo, come abbiamo già visto nel Commento al Timeo, parte da più lontano. Proclo ce lo spiega, ancora nel commento al Cratilo, nella sezione che precede l’indagine dei legami di cui ci siamo occupati, in cui abbiamo a che fare con il principio della «causalità paterna» connessa all’epiclesi di Zeus, «padre degli uomini e degli dèi»59: Plat. Tim. 41b4-6. Cfr. M. Regali, Hesiod in the Timaeus. The Demiurge Addresses the Gods, in G. Boys-Stones, J. Haubold (eds), Plato and Hesiod, Oxford University Press, Oxford 2010, pp. 259-275 e Id., Il poeta e il demiurgo. Teoria e prassi della produzione letteraria nel Timeo e nel Crizia di Platone, Academia Verlag, Sankt Augustin 2012, pp. 167-175. 59 Il sintagma è già omerico e ricorre numerose volte tanto nell’Iliade (ad esempio I 540, VIII 49, ecc.) che nell’Odissea (ad esempio I 28, XII 445, ecc.); cfr. Proclo, Commento al Cratilo, cit., p. 616, n. 484. 57 58

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ὅτι τὸ πατρικὸν αἴτιον ἄρχεται μὲν ἄνωθεν ἀπὸ τῶν νοητῶν καὶ κρυφίων θεῶν (ἐκεῖ γὰρ οἱ πρώτιστοι τῶν ὅλων πατέρες), πρόεισι δὲ διὰ πάντων τῶν νοερῶν θεῶν εἰς τὴν δημιουργικὴν τάξιν. La causalità paterna si origina dall’alto a partire dagli dèi intelligibili e occulti (lassù infatti si trovano i primissimi Padri della totalità delle cose) per poi procedere attraverso tutti gli dèi intellettivi fino al livello demiurgico60.

Sembra sufficientemente chiaro, a questo punto, che la stessa posizione di Zeus, che si fa tramite per la trasmissione della causa paterna al cosmo, costituisce, a suo modo un “legame” tra le potenze dispiegate già al livello intelligibile e trasmesse fino al livello dell’attività demiurgica: il concetto di legame, ricondotto alla gerarchia degli enti divini che abbiamo osservato, si ristruttura in questo caso associandosi, come nel frammento orfico, a quello della “catena d’oro”, divenuta nella riflessione neoplatonica immagine per la catena delle successioni divine che costituisce l’impalcatura teologica e metafisica dell’universo61.

60 Proclus In Crat. § 98, p. 48, rr. 1-4, con la traduzione di Proclo, Commento al Cratilo, cit., p. 385. 61 Sull’interpretazione neoplatonica della “catena aurea” delle rapsodie orfiche, si vedano già R.M. Van den Berg, Proclus, cit., pp. 175-179, e D.A. Mesner, Orphic Tradition and the Birth of the Gods, Oxford University Press, Oxford-New York 2018, pp. 225-236.

Elenio Cicchini

Il potere che lega. Il paradigma teologico e grammatico del legame

Introduzione. Il popolo delle cose Se è vero, come è stato detto, che ogni discorso ha nel suo prologo il proprio momento essenziale, allora il prologo a un seminario sul concetto di legame è stato già compilato nelle forme di una poesia – scritta nella lingua italiana – raccolta all’interno di un poema pubblicato nel 1999 per i tipi di Jaca Book. Il poema in questione si chiama Il popolo delle cose, e il poeta – cui è stato recentemente assegnato il Premio Napoli per la poesia – è Nanni Cagnone: Quel che vogliono i legami – immedesimare – è l’importanza del tempo, il suo favore – o c’è altra luce intorno? Venerato nascosto, prezioso sigillo, e gettato sulla via chi deve andare, con una cosa nuova per la bocca, prima che a raggiungerla s’impari, prima che

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il nodo senza nomi sia disfatto, e acquisito il suo tormento: una sola corona, nella fedele disposizione delle cose non presenti né assenti – delle cose che dietro respirano ondeggiano avanti1.

La poesia di Cagnone riferisce che, al di là dei popoli degli uomini, esiste qualcosa come un “popolo delle cose”. Pur essendo “nuove per la bocca”, queste cose, che il poeta compone insieme in un popolo, sono “non presenti/ né assenti”. Il popolo delle cose non è presente, e tuttavia, esso non è neanche del tutto assente. È, questo, un popolo tenuto insieme da “legami”. I legami vogliono – precisa fin da subito il poeta, nel suo consueto stile, all’interno di un inciso – “immedesimare”. Ciò significa che i legami non stabiliscono solamente una relazione fra cose distinte, ma che essi tendono, nel loro punto estremo, a rendere le cose medesime, ovvero a superare la stessa relazione fino a costruire una sola cosa. Rendere le cose fra loro medesime è la volontà del legame: le cose di cui parla il poeta sono tenute insieme – e tendono, nel loro insieme o “popolo”, a essere immedesimate – in virtù di un qualche legame. Ma questo legame “gettato sulla via” è disponibile solamente a quel parlante che si appresti a pronunciare le cose (“chi deve andare,/ con una cosa nuova/ per la bocca”) attraverso ciò che il poeta chiama “nodo senza nomi” “prima che […] sia disfatto”. Cagnone offre così un nuovo elemento per pensare il legame: il legame ha la forma di un nodo, e questo nodo 1

N. Cagnone, Il popolo delle cose, Jaca Book, Milano 1999, p. 94.

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è un nodo “senza nomi”, che presto sarà “disfatto”, cioè slegato. Il popolo delle cose sarà d’un tratto dissolto. Che cos’è il “legame” di cui sta parlando il poeta? Tale, cioè, da essere disfatto non appena si pronunci un nome? Qual è il principio che lega in un popolo le cose e che cosa sono queste “cose”? Il poeta sta parlando del linguaggio, ed è questo a nascondere nel proprio cuore un legame. Il linguaggio può, cioè, essere tale finché c’è legame, ma il nodo che esso stringe è, misteriosamente, l’assenza del nome. Andare con la cosa del linguaggio in bocca, favorire i suoi legami, prima che il nodo venga disfatto dai nomi. Restare fedeli alla “disposizione” – termine molto importante questo – “delle cose non presenti né assenti”. Questo è il modo, molto raffinato, introdotto da una serie di attributi (“venerato”, “nascosto”, “gettato”), mediante cui Cagnone ci introduce al problema dell’essenza del legame. Il legame, testimonia il poeta, ha a che fare col linguaggio, ha a che fare con la poesia, ha a che fare con un qualche non-presente e non-assente popolo delle cose. 1. Condizioni di impossibilità Il momento decisivo in cui il pensiero del legame irrompe nella concettualità filosofica dell’Occidente risale a un’epoca densa di tensioni qual è il I secolo della nostra era. Il concetto greco di desmos (legame) si offre allora come chiave, o nodo, di passaggio fra due civiltà e tradizioni differenti: quella filosofica greca classica ed ellenistica e quella teologica ebraica alessandrina. Due sfere intrinsecamente minate dal rapporto non pacificato fra il platonismo di Antioco e lo stoicismo di Posidonio da un lato, e la tensione fra messianismo zelota, legalismo farisaico e pietismo monastico dall’altro.

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La figura che deve interessarci è Filone di Alessandria, vissuto fra il 30 a.C. e il 50 d.C. Filone è un autore ebreo di lingua greca, che ha il merito di confrontare per la prima volta le filosofie ellenistiche con la tradizione giudaica. Nel nome di Filone, che ricopre anche incarichi politici ed è ambasciatore a Roma presso Caligola, è in gioco la relazione, destinata a cambiare le sorti dei secoli a venire, fra nozioni filosofiche e interpretazione del testo sacro2. Nel complesso gioco di forze fra le direttrici in campo è come se la nozione di legame fosse il punto in cui quelle possono incontrarsi. È in questo senso che è possibile interpretare la nozione di “legame” non tanto come concetto, ma, seguendo il suggerimento espresso da Reiner Schürmann in un seminario tenuto presso la sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli nel febbraio del 1985, piuttosto come una «strategia»3. Una “strategia” implica per Schürmann un’analisi condotta in negativo circa le motivazioni che portano ad assumere un determinato concetto in un determinato orizzonte di pensiero. Così, domandarsi quale sia la strategia che guida Filone Alessandrino nel recupero della nozione platonica di desmos, significa innanzitutto chiedersi non che cosa la nozione possa affermare, bensì, piuttosto, che cosa questa possa negare. Non che cosa costruisca, ma che cosa distrugga; non che cosa renda possibile, ma che cosa renda impossibile. 2 Cfr. J. Daniélou, Filone d’Alessandria (1957), Edizioni Archeosofica, Roma 1991, pp. 47-85. Per i testi di Filone le edizioni consultate sono: Filone di Alessandria, Tutti i trattati del Commentario allegorico alla Bibbia, a cura di R. Radice, Bompiani, Milano 2005; Id., De Decalogo, a cura di F. Calabi, Edizioni ETS, Pisa 2005. Salvo indicazioni, tutte le traduzioni dal greco sono mie. 3 R. Schürmann, Il problema della trasgressione in filosofia da Kant a Heidegger (8 febbraio 1985), «Pinakes. Ritratti dall’archivio storico», www.iisf.it/index.php/pinakes-ritratti/reiner-schuermann/reiner-schuermann-il-problema-della-trasgressione-in-filosofia-da-kant-a-heidegger-1868.html

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È questo cambio di paradigma metodologico verso un “trascendentale negativo” che qui si tratta di mettere alla prova. Il legame appare, in questo senso, come la condizione esemplare dell’impossibilità di qualcosa – qualcosa che gli interpreti e i testi che esamineremo dovevano scongiurare: doppiamente esemplare, poiché nel suo segno si gioca, oltre a un’impossibilità concettuale – l’impossibilità di pensare un dio immanente al mondo –; un’impossibilità anzitutto filosofica, e cioè l’impossibilità di continuare a pensare, come era nel mondo greco, l’essere divino come una parte – la parte certamente essenziale – della riflessione filosofica stessa. 2. La parola di Dio È nel contesto della teoria del logos che il concetto di legame dev’essere strategicamente situato. Si tratta non solamente del punto focale dell’esegesi biblica di Filone, ma del nucleo sorgivo dello stesso metodo allegorico, nonché della «preistoria» – nel senso in cui ne parla Friedländer in un testo sull’apologetica ebraica – della dottrina trinitaria del logos come «figlio»4. Se è vero, come scriveva Emile Bréhier in Les Idées philosophiques et religieuses de Philon d’Alexandrie, che «studiare la teoria del logos significa studiare il filonismo in tutto e per tutto»5, è possibile senz’altro capovolgere l’affermazione: studiare il filonismo significa aprire una breccia nella teoria del logos in tutto e per tutto. Occorre penetrare in quello che, come nota lo studioso francese, si è soliti considerare un «ammasso senza ordine di tutte le idee M. Friedländer, Geschichte der jüdischen Apologetik als Vorgeschichte des Christenthums, Caesar Schmidt, Zürich 1903, pp. 68 sgg. 5 E. Bréhier, Les Idées philosophiques et religieuses de Philon d’Alexandrie, Librairie Alphonse Picard & fils, Paris 1908, p. 83. 4

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greche ed ebraiche» del tempo6. Partendo da un punto essenziale, e tenendo fisso sullo sfondo il metodo trascendentale negativo poc’anzi esposto. Che cos’è, dunque, il logos? Che cos’è, nel regno del logos filoniano, un legame? E che cosa, dal punto di vista strategico, logos e desmos rendono impossibile? Il logos occorre in Filone innanzitutto come soggetto del divino: esso è theios logos, «linguaggio divino»7. E lo è nel senso derivato del termine. Il logos non è esso stesso il divino – come nella dottrina della Stoa – ma è Dio stesso a essere «Parlante» (legon)8, ad avere linguaggio. Il linguaggio – d’ora in avanti ci serviremo di questo termine, altrettanto generico come lo è quello impiegato da Filone – è “divino” poiché proviene direttamene dalla Sua bocca, poiché è un linguaggio parlato da Dio. Ma in che modo, più precisamente, il linguaggio può appartenere a Dio? Qual è il suo luogo? Scrive Shlomo Pines: Una delle funzioni principali del logos, così come concepito da Filone, è quella di essere un intermediario tra il Dio trascendente e inconoscibile e il mondo, un’idea probabilmente in stretta connessione con quella degli ebrei a lui contemporanei riguardante la parola (logos) divina, per mezzo della quale Dio porta a compimento i propri disegni. È significativo che Filone consideri il logos divino come il luogo del mondo delle idee: questo mondo viene chiamato anche “mondo intelligibile” (kosmos noetos). L’idea alla quale si fa qui riferimento è chiaramente quella platonica, concepita come “pensata” da Dio9. Ivi, p. 84. Phil. Alex. De fuga et inventione 94. 8 Id., De sacrificiis 65. 9 S. Pines, La filosofia ebraica, a cura di P. Lucca, Morcelliana, Brescia 2008, p. 17. 6 7

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È significativo che il luogo ove il linguaggio sembra essere a contatto con Dio sia definito da Filone «casa» (oikos)10, o anche semplicemente «luogo» (topos)11. Il linguaggio è allora – commenta Filone, in termini che ricordano la definizione di «essere» data da Heidegger – la vera «casa del padre»12. Dio ha il suo luogo nel linguaggio poiché in esso dimora il suo intelletto (τὸν τῶν ὁλῶν νοῦν)13. Se il linguaggio, dunque, non è Dio stesso, ma più propriamente la sua «casa», decisivo è che questa casa sia stata creata: il linguaggio è in questo senso «il primogenito»14, la prima creatura di Dio. 3. L’opera di Dio In che modo parla e che cosa dice il Dio? In un passo importante del De fuga et inventione, Filone enuclea quelle che chiama le «potenze del parlante» (dynameis tou legontos)15. La prima forma di cui Dio è in potere è anche quella che ne costituisce l’essenza. Essa viene definita come «la costruttiva», o poetica (he poietike), in virtù della quale, scrive Filone, «colui che costruisce ha fabbricato col linguaggio il mondo» (ὁ ποιῶν λόγῳ τὸν κόσμον ἐδημιούργησε)»16. Se Dio parla è perché la sua opera è un poema in cui viene pronunciato il mondo. Creato e creatura sono opere del linguaggio, opere di un legein. «Poiché egli parlò, e Phil. Alex. De migratione Abrahami 3-4. Cfr. Id., De somniis I 62; Id., De opificio mudi 20 (cfr. trad. it. in Filone di Alessandria, Tutti i trattati del Commentario allegorico alla Bibbia, cit., p. 19). 12 Id., De migratione Abrahami, 3. 13 Ivi 5. 14 Id., De confusione linguarum 146. 15 Id., De fuga et inventione 95. 16 Ibidem. 10 11

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la cosa fu»: così il Salmista riferisce dell’immediata corrispondenza tra parola e creazione17. In un testo talmudico si legge: «il Santo, sia benedetto, ha creato il mondo con la sua parola»18. La “parola” (ebr. ma’amar) è spesso personificata e a volte parla con lo stesso Dio. «Quando ha costruito il mondo» – scrive Filone – [Dio] ha utilizzato il linguaggio come uno strumento (ὄργανον) per plasmarlo (ἐκοσμοπλάστει)»19. L’intelletto di Dio ha luogo nel linguaggio, e il linguaggio è l’organo mediante cui il “Parlante” costruisce il mondo – compone il suo poema – anzitutto intelligibilmente. È in questo modo che Filone ricorre alla figura del demiurgo platonico del Timeo per leggere l’opera della creazione del Dio ebraico. Il mondo è creato in una duplice veste. Dio pensa, attraverso il suo linguaggio, anzitutto un mondo intelligibile, costruito cioè con l’elemento incorporeo del linguaggio. Egli è allora appellato ktistes (istitutore)20. Nel produrre il mondo sensibile, invece, che del primo è solamente un’immagine simile (eikon), Dio è chiamato semplicemente demiurgos, fabbro, e il suo lavoro consiste nel plasmare la materia – una materia unica e indistinta (τὴν δι᾽ὅλων ὕλην)21. 4. Strategia del legame È nel contesto dell’opera di Dio come opera del linguaggio che trova il proprio luogo il concetto di desmos, ovvero “legame”. Si tratta per Filone di concepire il creato come un’opeSal. 33, 9 (versione Nuova Riveduta). Mek. Beshallah 10, in K. Kohler, Memra, The Jewish Encyclopedia, Funk and Wagnalls, New York 1904, vol. VIII, p. 464. 19 Phil. Alex. De migratione Abrahami 6. 20 Id., De somniis I 76. 21 Id., De plantatione 5. 17 18

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ra unica che contenga al suo interno delle parti distinte: le singole creature. In modo tale che – questa la strategia cui risponde il legame – le singole parti non possano disperdersi. Qual è la relazione fra il linguaggio del creato e le sue creature (segmenti di linguaggio)? Come garantire il mutamento della materia, rendendone tuttavia immutabile l’ordine (systema)22? Come scongiurare la corruttibilità dell’intera opera di linguaggio? Se il legame dunque si offre come nozione centrale, ciò è perché essa consente di pensare la relazione fra unità (monas) e parte (meros), immutabilità e mutamento, senza correre il rischio che la tensione fra i due poli si spezzi per sempre vanificando l’opera della creazione. “Il logos divino”, si legge altrove, “ha distinto e diviso tutte le cose”. Così anche il nostro logos, «in analogia col padre […] divide all’infinito, in infinite parti (ἀπειράκις ἄπειρα διαιρεῖ μέρη), e non cessa mai di tagliare (καὶ τέμνων οὐδέποτε), tutte le cose e i corpi che coglie con l’intelletto»23. Il linguaggio è «la spada di fuoco»24, come un coltello che Dio utilizza per dividere gli enti fin nelle loro più piccole parti: «il Dio indimostrabile taglia (τέμνοντα), uno dopo l’altro, tutti gli abiti dei corpi e delle cose […] col suo linguaggio che ogni cosa divide (τομεῖ τῶν συμπάντων), affilato con un taglio della massima acutezza, non cessa mai di dividere (διαιρῶν οὑδέποτε)»25. Ma se il logos è anzitutto taglio, divisione, costruzione di «parti» di linguaggio, esso deve altresì «rendere simili le parti e tenerle strettamente unite»26: costituirle, cioè, parti di un’unica opera di linguaggio. Esso è, a un tempo, Id., De aeternitate mundi 2. Id., Quis divinarum heres sit 235. 24 Id., De cherubim 28. 25 Id., Quis divinarum heres sit 130 (trad. it. R. Radice modificata, in Filone di Alessandria, Tutti i trattati del Commentario allegorico alla Bibbia, cit., pp. 1265 sgg.). 26 Id., De plantatione 9. 22 23

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logos tomeus e logos koinos: linguaggio che, insieme, divide e unisce, taglia e rammenda. Ecco allora posta la necessità strategica del legame: ὅ τε γὰρ τοῦ ὄντος λόγος δεσμὸς ὢν τῶν ἁπάντων […] συνέχει τὰ μέρη πάντα καὶ σφίγγει κωλύων αὐτὰ διαλύεσθαι καὶ διαρτάσθαι27. Il linguaggio di Colui che è, in quanto legame del tutto […] tiene insieme tutte le parti e le salda impedendo loro di dissolversi e disgregarsi.

La cifra essenziale del linguaggio divino è definita nei termini di “legame del tutto”. È in virtù di tale legame che tutte le parti possono contenersi (synechei) e saldarsi (sphriggei), ostacolando la distruzione dell’opera. Allo stesso modo, anche l’anima non consente a nessuna parte di «essere distaccata e tagliata [ἀποσχίζεσθαι καὶ ἀποτέμνεσθαι]» e avvia ognuna di esse, «essendo tutt’intera (πάντα ὁλόκληρα ὄντα), a un’armonia e unione reciproca indissolubile (ἁρμονίαν καὶ ἕνωσιν ἀδιαλύτον τὴν πρὸς ἄλληλα)»28. Parimenti il saggio, a sua volta, «mantiene le virtù immuni da fratture e da lesioni (ἀρρήκτους καὶ ἀπήμονας διαφυλάττει), avviando a una benevolenza più salda la loro naturale parentela e comunità (συγγένειάν τε καὶ κοινωνίαν)»29. Il legame, ha osservato Bréhier, è «la ragione comune di tutte le parti dell’universo»30. Da un lato, nel senso positivo, esso salda tutte le parti in una qualche «interezza» (holoklera) – termine, questo, di chiara ascendenza platoId., De fuga et inventione 112. Ibidem (trad. it. C.K. Reggiani, in Filone di Alessandria, Tutti i trattati del Commentario allegorico alla Bibbia, cit., p. 1471, modificata). 29 Ibidem (trad. it. C.K. Reggiani, in Filone di Alessandria, Tutti i trattati del Commentario allegorico alla Bibbia, cit., p. 1471, modificata). 30 E. Bréhier, Les Idées philosophiques et religieuses de Philon d’Alexandrie, cit., p. 83. 27

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nica31 – e le avvia a una reciproca unione, una naturale parentela. Dall’altro, però, nel senso «strategico» di cui sopra, impedisce loro di dissolversi, disgregarsi, essere spezzate o lesionate. Pertanto, il legame designa, nella nostra prospettiva, non tanto la cifra della costruzione dell’opera, quanto piuttosto la condizione d’impossibilità della sua distruzione32. 5. Il potere che lega Se Dio lasciasse il laccio con cui tiene legata la Sua opera, Egli smarrirebbe di colpo il linguaggio – la propria “casa” – e con esso l’opera. Il creato si dissolverebbe. È in questo senso che fra gli attributi con cui è lecito apostrofare Dio si ritrova, accanto a Theos (che Filone fa derivare da tithemi, porre) e Kyrios (derivato da kuro, confermare, ratificare), anche l’appellativo Despotes, che Filone ricava proprio da desmos. Dio è allora non solo “Colui che pone” e “Colui che sancisce”, ma anche, e innanzitutto, “Colui che lega”, cioè il “Despota”. Desmos – specifica Filone in una paretimologia – discende da deos, paura: «il despota è infatti un signore, ma è anche, per così dire, un signore che incute paura»33. Cfr. Plat. Tim. 44c; Id., Phaedr. 250c. Così, ancora per Gregorio di Nissa, tanto gli elementi del primo creato (cielo e terra, acqua e aria), quanto gli elementi del corpo umano, sono conservati nel loro essere (ἐν τῷ εἶναι συνέχειν) per mezzo di un legame che ne impedisce la dissoluzione (cfr. Gregorius Nyssenus, Dialogus de anima et resurrectione, 17C, in Patrologiae Graecae, vol. XLVI, J.P Migne, Parigi 1863, p. 24). La funzione che nella teologia giudaica alessandrina spettava al logos viene ora assegnata al Cristo: egli è il desmos che tiene coeso l’intero universo (cfr. Gregorius Nyssenus, De tridui spatio, 301, 17 sgg., ed. E. Gebhardt, Leiden 1967 [Gregorii Nysseni Opera IX/1]). 33 Phil. Alex. Quis divinarum heres sit 23 (trad. it. R. Radice modificata, in Filone di Alessandria, Tutti i trattati del Commentario allegorico alla Bibbia, cit., p. 1239). 31 32

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Si tratta dell’elaborazione di un vocabolario teologico che, nella sua forma secolarizzata, avrà largo impiego nella teoria politica moderna. Al potere che pone – dynamis poietike – si accosta il potere che regge – dynamis basilike. Col primo, Dio «plasma il mondo mediante linguaggio». Col secondo, invece, «comanda su ciò che ha costruito [ἄρχει τοῦ γενομένου]»34. I due poteri sono raffigurati dai cherubini che serrano le porte di Eden. Ma la loro spada di fuoco, ciò attraverso cui Dio può sia porre che reggere il mondo – la cifra ultima dell’opera di creazione – è infine il legame. È in virtù del legame, infatti, che ciò che si pone si dispone in un ordine, e ciò che è retto si mantiene in vista della conservazione dell’ordine. Ma ciò significa allora che l’apostrofe Despotes costituisce un riferimento non tanto all’opera, come gli altri attributi di Dio, bensì al fatto stesso che tale opera sia costituita da legami. Dio è, in questo senso, accanto a Theos e Kyrios, anche e soprattutto il “Parlante” e il “Despota”, colui che ha linguaggio e, in quanto avente linguaggio, legame. 6. Il paradigma grammatico del legame La parentela col concetto di legame, o congiunzione, elaborata dai grammatici si offre immediata. Apollonio Discolo riporta per bocca di Posidonio – filosofo di scuola stoica del I secolo a.C. – la definizione che Aristotele aveva dato del syndesmos, «collegamento» o «congiunzione»: le congiunzioni non indicano alcun che (οὐ δηλοῦσι μέν

34 Id., De fuga et inventione 95 (cfr. trad. it. in Filone di Alessandria, Tutti i trattati del Commentario allegorico alla Bibbia, cit., p. 1467).

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τι), congiungono, invece, solo l’enunciato (μόνον τὴν φράσιν συνδέουσι)35.

Posidonio si riferisce con ogni probabilità alla definizione fornita da Aristotele nella Poetica, ove il filosofo introduce i syndesmoi fra le parti del linguaggio, e tuttavia nega loro il potere di significare. Il «collegamento» è, precisa il filosofo, una «voce insignificante (φωνὴ ἄσημος)», la quale si colloca «sia agli estremi, che nel mezzo», senza tuttavia «né ostacolare, né produrre con più voci un’unica voce significante (φωνὴν μίαν σημαντικὴν ἐκ πλειόνων φωνῶν)»36. Aristotele si sta riferendo alle particelle men e de, le quali, dice, «indicano» semplicemente «inizio, fine o pausa»37. Di tutt’altro avviso i grammatici Posidonio e Apollonio Discolo, i quali equiparano le congiunzioni alle preposizioni, rendendole così degli elementi significanti. Qual è dunque il posto occupato dai legami all’interno della teoria antica della lingua? Le parole di Antonino Pagliaro sono esemplari: il syndesmos assume una posizione mediana, che è quella del significare, ma non però cose o processi; rispetto a questi esso è asemos, ma, poiché sta a sé ed è destinato ad unirsi con altri elementi, in rapporto con questi non determina un significato reale, se in essi questo già non ci sia; epperò se c’è, il syndesmos non si pone né fuori né contro tale significare38.

Le congiunzioni (o, nei termini della linguistica mo35 Apollonius Dyscolus de con. 214, 5, cit. in G. Belli, Aristotele e Posidonio sul significato del «syndesmos», «Aevum», 61 (1987), p. 105. 36 Aristot. Poet. 19.1456b38-20.1457a2. 37 Ivi 20.1457a7. 38 A. Pagliaro, Il capitolo linguistico della Poetica di Aristotele, «Ricerche Linguistiche», 3 (1954), p. 10.

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derna, i «connettivi») – “e”, “o”, “ma”, “però”, “quindi” – sono delle particelle invariabili che non significano propriamente nessuna “cosa”, nessun ti. E tuttavia, non solamente non ostacolano il significato, ma sembrano fornirne l’orientamento, indicando la funzione logica dell’enunciato (la coordinazione, l’opposizione, la consecuzione). Ora, sappiamo che nell’interpretare il Genesi Filone aveva davanti agli occhi proprio il commentario al Timeo di Posidonio. È possibile, pertanto, avanzare più che un’ipotesi sulla sua conoscenza del trattato di Posidonio Sulle congiunzioni. Ciò che deve interessarci è la «posizione mediana», rappresentata dai legami linguistici, fra voce e frase – posizione che appartiene anche al desmos di Filone. Da un lato, infatti, il logos filoniano sembra indicare un’unica voce significante, proferita senza legami dall’inizio alla fine: «Dio costruì e parlò allo stesso tempo, senza mediazioni fra le due cose (μηδὲν μεταξύ)»39, il suo proferimento è una «inondazione di parole (ἡ τοῦ λόγου πλήμμυρα)», paragonata alle «correnti perenni che sgorgano dalle sorgenti»40. Dall’altro, invece, il logos di Dio come legame fra parti distinte e connesse sembra alludere alla presenza di un vero e proprio enunciato. Filone dirà altrove che Dio «proferisce unità (λαλεῖ μονάδας)»41. Cioè che il suo modo di parlare è un lalein, verbo che designa il parlare dell’infante: il lallare o balbettare. Il verbo è utilizzato nella Septuaginta anche per Esodo 20, 22, dove Dio chiede se il popolo ha visto che dall’alto dei cieli Egli ha «lallato (λελάληκα)». Sembra allora che Dio non dica il creato, cioè non lo esprima nelle forme di un enunciato, ma che piuttosto lo lalli, lo profePhil. Alex. De sacrificiis 65. Ivi, 66, (trad. it. C. Mazzarelli modificata, in Filone di Alessandria, Tutti i trattati del Commentario allegorico alla Bibbia, cit., p. 413). 41 Id., De confusione linguarum 81. 39

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risca in un mero accostamento di parole slegate, come in un’unica entità di linguaggio lessicalizzata. Ma è nel contesto della rivelazione sul Sinai che Dio mostra al suo popolo in che modo parli. Nel de decalogo, un’opera che interpreta i comandamenti, Filone commenta il passo di Esodo, dove è detto: «Tutto il popolo vedeva la voce (ἑώρα τὴν φωνὴν) e i lampi e la voce del corno (καὶ τὴν φωνὴν τῆς σάλπιγγος) e il monte fumante. Il popolo preso da tremore si tenne lontano»42 chiedendosi: «forse che Egli emise una figura della voce (φωνῆς τρόπον προέμενος)»43? Discutere più profondamente il senso della voce nel giudaico ci porterebbe lontano. Per ciò che deve interessarci, la risposta viene formulata nel de migratione Abrahami: Mosè definisce udibile la voce che si divide in nomi e verbi e, in generale, nelle parti del discorso (τὰ τοῦ λόγου μέρη) […] ma qui si introduce la voce di Dio (θεοῦ φονήν), che non si compone di verbi e nomi (μὴ ῥημάτων μηδ᾽οναμάτων), e pertanto, con esattezza, essa è detta visibile, in quanto è colta dall’occhio dell’anima44.

Dio parla, o si rende visibile, nella voce – non dice un enunciato. Eppure, ciò che proferisce in un flusso è nondimeno diviso e legato in parti, come se l’opera, infine, dovesse consistere in un enunciato. Come sciogliere la contraddizione? 7. I legami vogliono immedesimare Proviamo a slegare i lacci del testo e rammentare in Es. 20, 18 (trad. mia Septuaginta). Phil. Alex. De decalogo 32. 44 Id., De migratione Abrahami 48.

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epilogo la poesia di Nanni Cagnone da cui, come prologo, era sorto il nostro discorso: Quel che vogliono i legami – immedesimare – è l’importanza del tempo, il suo favore — o c’è altra luce intorno? Venerato nascosto, prezioso sigillo, e gettato sulla via chi deve andare, con una cosa nuova per la bocca, prima che a raggiungerla s’impari, prima che il nodo senza nomi sia disfatto, e acquisito il suo tormento: una sola corona, nella fedele disposizione delle cose non presenti né assenti – delle cose che dietro respirano ondeggiano avanti.

In un passaggio tratto dal de legum allegoriae – che prefigura la terminologia impiegata da Giordano Bruno – si legge: il linguaggio è l’ombra di Dio […] Questa ombra, che è eikon, è archetipo delle altre cose. Come Dio è il paradigma dell’eikon, che egli chiama ombra, così l’eikon diviene il paradigma delle altre cose45. 45

Id., De legum allegoriae III 96.

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È opportuno riflettere sul rapporto fra paradigma, eikon e analogia. Dio, scrive Filone, è paradigma del linguaggio, e il linguaggio, a sua volta, è paradigma delle cose. Fra Dio e linguaggio vige un rapporto analogico. Che cosa può voler dire? La nozione centrale è quella di «paradigma», che vuol dire “esempio”: Dio è paradigma del linguaggio – allo stesso modo, il cacciatore è, nel Sofista platonico, il paradigma del sofista46. Ciò significa che Dio è in qualche modo come il linguaggio; il cacciatore è come il sofista. È in questo senso che il linguaggio è eikon di Dio; così come il sofista lo è del cacciatore. Eikon non significa meramente “immagine”, ma, in un senso forte, “immagine simile” (Cicerone traduce non a caso l’eikotas logous del Timeo platonico in similitudem veri47). Ora, rispetto all’esempio, o paradigma, l’analogia è ciò che ne esplica il nesso: il nesso fra un esempio e ciò di cui l’esempio è esempio. L’esempio è, cioè, sempre esempio di qualcos’altro, oltre che di se stesso. Nel contesto della filosofia di Filone, fra Dio e linguaggio, come fra linguaggio e mondo, può istituirsi una relazione paradigmatica dal momento che Dio e linguaggio sono analoghi. Se Dio è l’esempio del linguaggio, il linguaggio è, allora, similitudine del suo Esempio. Che cosa significa ciò? Torniamo all’esempio, certamente più semplice, della relazione fra cacciatore e sofista. Il sofista sta al cacciatore come l’azione dell’uno sta all’azione dell’altro. Paragonando l’agire dell’uno – il cacciare – all’agire dell’altro (che è obiettivo di Platone comprendere), in gioco è l’intellezione di questo agire. Non sappiamo che cosa faccia un sofista, ma, dal momento in cui il cacciatore ne Cfr. Plat. Soph. 218e. Cicerone, Timeo, in M. Tulli Ciceronis Paradoxa stoicorum, Academicorum reliquiae cum Lucullo, Timaeus, De natura deorum, De divinatione, De fato, O. Plasberg (ed.), B.G. Teubner, Leipzig 1908, p. 161. 46 47

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diventa esempio, è chiaro a tutti in che modo possa comportarsi un sofista. L’esempio è illuminante e produce intelligibilità. Si è detto che nella prospettiva di Filone Dio è l’esempio del linguaggio, come il linguaggio, a sua volta, lo è del mondo. Che cosa hanno in comune Dio e linguaggio? Su cosa può fondarsi la loro analogia? Ciò che lega analogicamente Dio e linguaggio è l’intelligibilità stessa. Dio ha intelligibilità del linguaggio, e cioè intelligibilità dell’intelligibile, così come il linguaggio – suo eikon – ha intelligibilità delle cose che dice. È in questo senso che Dio può essere definito esempio del linguaggio, ovvero il veicolo per comprendere l’intelligibilità che nel linguaggio è in gioco. “Quel che i legami vogliono – immedesimare –”, scrive Cagnone, e non è un caso che lo scriva in un inciso: un sintagma, cioè, che recide le dipendenze sintattiche. Il legame viene precisato dal poeta, dopo alcuni versi, nei termini di un «sigillo»: non può non correre alla mente lo sphragis di Filone: il «sigillo», mediante cui, dacché Dio, poietes, proferisce parola, «ogni essere risulta segnato»48. In ultimo, il legame, già divenuto sigillo, è chiamato dal poeta “nodo” – un nodo “senza nomi”. È come se il nome fissasse nel tempo le cose. Quando invece si va con “una cosa nuova per la bocca”, si ha allora con essa un legame più alto – un “nodo” –, un legame che non passa più per i nomi. Nella prospettiva fin qui tracciata, il “nodo” che, essenza ultima del legame, intende “immedesimare”, cioè rendere la cosa proferita essa stessa (met-ipsimus) colui che la proferisce, è l’eikon – la relazione (se ancora così si può chiamare) di similitudine analogica fra un esempio e qualcosa di esemplificato. Il linguaggio è l’esempio del creato: creato e linguaggio sono immedesimati in un legame più alto. Cagnone arrischia un quarto e ultimo termine: «[una sola] co48

Phil. Alex. De fuga et inventione 12.

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rona». Quasi legame di legame, il – come Platone definisce l’analogia – «più bello dei legami che riduce quanto più possibile all’unità se stesso e le cose che lega»49. Il legame, sosteneva Aristotele, «non rivela alcun che». Il legame non significa alcuna cosa. Il legame sospende la cosalità del linguaggio e riconduce quest’ultimo a una sfera – che i linguisti moderni chiameranno “espressione del parlante” – che Filone designava col nome di diakosmesis50, qualcosa che precede l’opera e, tuttavia, ne prepara la costruzione – col poeta: la «disposizione/ delle cose non presenti/ né assenti».

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Cfr. Plat. Tim. 31c. Cfr. Phil. Alex. De aeternitate mundi 2.

II. VINCULUM, NEXUS LEGAMI DELL’ESSERE E VINCOLI MAGICI

Guido Giglioni

Tra cosmologia e teurgia. Marsilio Ficino e la teoria unificata dei vincoli nel De mysteriis di Giamblico

1. Introduzione Teurgia significa, alla lettera, operare divino (theion ergon), dove l’aggettivo “divino” può riferirsi all’operatore umano (interpretazione porfiriana) tanto quanto a quello non-umano (interpretazione giamblichea). Più specificamente, per teurgia si intende una pratica rituale volta a stabilire un contatto con il divino. Nello sviluppo della tradizione platonica, la teurgia acquistò una crescente rilevanza come dispositivo rituale e performativo capace di conciliare le sfere altrimenti difficilmente conciliabili della materia e dell’intelletto, della molteplicità e dell’unità, del politeismo religioso e dell’assoluta trascendenza metafisica dell’Uno. Nel caso di pensatori come Porfirio, Giamblico e Proclo, potremmo parlare di un vero e proprio momento teurgico all’interno dell’evoluzione del pensiero platonico1. Significativamente, questo momenSulla teurgia e la sua importanza nella tradizione platonica post-plotiniana, si veda E.R. Dodds, Theurgy and Its Relationship to Neoplatonism, «The Journal of Roman Studies», 37 (1947), 1-2, pp. 55-69; C.G. Steel, The Changing Self: A Study on the Soul in Later Neoplatonism: Iamblichus, Damascius and Priscianus, Paleis der Academiën, Bruxelles 1978; M.L. Morgan, Platonic Piety: Philosophy and Ritual in Fourth-Century Athens, Yale University Press, New Haven 1990; G. Shaw, Theurgy and the Soul: The Neoplatonism of Iamblichus, Angelico Press, Kettering Ohio 2014 1

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to teurgico può essere osservato anche nello sviluppo del pensiero ficiniano tra gli anni Ottanta e Novanta del XV secolo. Ficino divenne infatti sempre più interessato al tema della ritualità teurgica mentre lavorava alla traduzione ed esegesi di alcuni testi di Porfirio, Giamblico e Proclo2. Questo saggio prende ad esame la natura del vincolo teurgico, inteso come quel particolare legame che unisce gli esseri umani in virtù di complesse pratiche rituali capaci di attivare significati simbolici e mitologici. Un tale vincolo, di carattere squisitamente culturale e sociale, affonda però le sue radici ontologiche, sia in Giamblico sia in Ficino, nella sfera dell’intelletto. Unisce gli umani perché prima ancora unisce l’intelletto con la natura, il cielo con la terra. In quanto tale, il vincolo teurgico affonda le sue radici nella cosmologia dell’universo animato e nel principio che l’animazione derivi dalla costruzione demiurgica del cosmo come descritto da Platone nel Timeo3. Per questa ragione, il vincolo teurgico ha un carattere strutturalmente ibrido – naturale e culturale – proprio [1995]; E.C. Clarke, Iamblichus’ De Mysteriis: A Manifesto of the Miraculous, Routledge, London 2001; H. Marx-Wolf, Spiritual Taxonomies and Ritual Authority: Platonists, Priests, and Gnostics in the Third Century C.E., University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2016; P. Bouretz, La raison ou les dieux, Gallimard, Paris 2020. 2 Sul momento teurgico nel pensiero di Ficino, si veda G. Giglioni, Theory and Theurgy; or, How Ficino Wished to Dispatch the Averroist Intellect through Platonic Good Works, in A. Corrias, E. Del Soldato (eds), Harmony and Contrast: Plato and Aristotle in the Early Modern Period, Oxford University Press, Oxford 2022, pp. 56-74; Id., Healing Rituals and Their Philosophical Significance in Marsilio Ficino’s Philosophy, in V. Rees et al. (eds), Platonism: Ficino to Foucault, Brill, Leiden 2020, pp. 55-77; Id., Theurgy and Philosophy in Marsilio Ficino’s Paraphrase of Iamblichus “De Mysteriis Aegyptiorum”, «Rinascimento», 52 (2014 [2012]), pp. 3-36. 3 Sul nesso tra cosmologia e teurgia, si veda ora H.D. Rutkin and D.J.-J. Robichaud (eds), Marsilio Ficino’s Cosmology: Sources and Reception, «Bruniana & Campanelliana», 26 (2020), 2, pp. 371-466.

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perché è articolato in senso demiurgico: la natura, ovvero la vita universale del cosmo, è il risultato di un atto di progettazione e costruzione che implica una forma tanto quanto una materia, un telos ideale tanto quanto un materiale preesistente. Come Giamblico obietta a Porfirio nell’opera che andiamo ad esaminare in questo saggio, non è possibile vedere «in qual modo le cose di questa terra siano create e ricevano una forma, se nessuna attività creatrice divina (θεία δημιουργία) e nessuna partecipazione alle forme divine (τῶν ϑείων εἰδῶν μετουσία) si protende per tutto il mondo»4. Il potenziale intelligibile della forma si adatta per questo ai condizionamenti della necessità materiale, mentre il condizionamento dei corpi (sia esso l’accidente, il molteplice, il temporale, ciò che è reso visibile in immagini e ciò che è raccontato a parole) non può essere escluso dal campo energetico dell’emanazione intellegibile. Il vincolo teurgico è naturale in quanto connette la vita del mondo sublunare a quella del mondo celeste (di qui la centralità del concetto di anima del mondo e le sue implicazioni astrobiologiche). È culturale – e quindi sociale – in quanto condensa in oggetti e istituzioni il flusso vitale dei significati ideali. La forza del Jamblique, Réponse à Porphyre (De mysteriis), I, 8, texte établit, traduit et annoté par H.D. Saffrey et A-Ph. Segonds, avec la collaboration de A. Lecerf, Les Belles Lettres, Paris 2013, p. 21: «Οὐχ ὁρῶ δὲ ἔγωγε καὶ τίνα τρόπον δημιουργεῖται τὰ τῇδε καὶ εἰδοποιεῖται, εἴ γε μηδεμία θεία δημιουργία καὶ τῶν θείων εἰδῶν μετουσία διατείνει διὰ παντὸς τοῦ κόσμου»; cfr. Giamblico, I misteri degli Egiziani, introduzione, traduzione e note di C. Moreschini, Rizzoli, Milano 2003, p. 89; cfr. Iamblichus, On the Mysteries, introduction, translation and notes by E.C. Clarke, J.M. Dillon, J.P. Hershbell, Society of Biblical Literature, Atlanta 2003, p. 34. In questo saggio, il testo greco di Giamblico è citato dall’edizione di Henri Dominique Saffrey e Alain-Philippe Segonds (d’ora in poi Réponse). La traduzione italiana è quella di Claudio Moreschini (d’ora in poi I misteri). Aggiungo anche i riferimenti alla traduzione inglese di Emma C. Clarke, John M. Dillon e Jackson P. Hershbell (d’ora in poi Mysteries) perché il testo rimane un’importante opera di riferimento. 4

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vincolo teurgico risiede proprio nella sua capacità di mediare tra i domini della natura e della cultura. Le imagines – centrali nella metafisica ficiniana – non sono solo delle strutture agenti e significanti dell’intelletto cosmico e della mente umana, ma anche delle formazioni storiche, sedimentatesi nel corso di millenni in una successione di miti, riti, istituzioni e costumi. Ficino usa una sola volta nella sua opera la parola theurgia, direttamente traslitterata dal greco θεουργία. La troviamo nella sua traduzione/parafrasi del testo di Giamblico noto come la Lettera di Abammone (il titolo completo è Risposta del maestro Abammone alla lettera di Porfirio ad Anebo), opera a cui Ficino diede il titolo molto fortunato di De mysteriis Aegyptiorum, Chaldaeorum, Assyriorum5. La definizione che Ficino fornisce del termine theurgia è «deifica et sacerdotia facultas»6. L’originale di Giamblico è, più semplicemente, θεουργική τέχνη, ovvero un “saper fare” nel campo dell’operatività sacra7. Per Ficino questa techne è più propriamente una facultas, una dynamis, una potenza divinizzante (deifica) e ieratica (sacerdotia). I due elementi – il filosofico e il divino – vengono in questo modo uniti nella definizione ficiniana del teurgo come prete filosofico. La facultas deifica et sacerdotia è una particolare disposizione in virtù della quale l’operatore teurgico si 5 Per una discussione del tipo particolare di traduzione (parte versione letterale, parte parafrasi, parte commento) messo in opera da Ficino nel De mysteriis, si rimanda a G. Giglioni, Theurgy and Philosophy in Marsilio Ficino’s Paraphrase of Iamblichus “De mysteriis Aegyptiorum”, cit. 6 Jamblichus, De mysteriis Aegyptiorum, II, 10, in Index eorum, quae hoc in libro habentur, Marsilio Ficino interprete, Aldo Manuzio, Venezia 1497 (d’ora in poi Ficino 1497), rist. anast. a cura e con introduzione di S. Toussaint, Société Marsile Ficin, San Marco Litotipo, Lucca 2010, sig. b3r; Iamblichus, De mysteriis, in Marsili Ficini Florentini, Opera (d’ora in poi Ficino 1576), 2 voll., Henricus Petrus, Basilea 1576, vol. II, p. 1881. 7 Id., Réponse, cit., II, 10, pp. 68-69; Id., I misteri, cit., p. 174; Id., Mysteries, cit., p. 109.

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pone in contatto con Dio, giungendo a esso attraverso, da una parte, la visione intellettuale in cui culmina l’esercizio dell’introspezione filosofica, e, dall’altra, tramite un rituale di iniziazione sacerdotale. Si potrebbe dire che il teurgo giunge a Dio in modo sia immediato che mediato. Lo fa seguendo un processo di auto-divinizzazione che riguarda la mente individuale e, allo stesso tempo, seguendo le tracce e gli exempla di cui è cosparso il mondo. Procedendo per questa seconda via, il teurgo diviene una figura che è istituzionalmente inserita in un preciso contesto sociale ed è in grado di coinvolgere una determinata comunità nel suo insieme sollecitando la memoria storica di originari processi di costituzione del senso. Come sacerdote filosofico, il teurgo gode intimamente della conoscenza divina e condivide questa conoscenza con gli altri membri della comunità attraverso una liturgia che è fatta di tradizioni, simbologie e narrazioni esemplari. Non a caso, l’opera di Giamblico si apre con un’invocazione al dio Hermes, il quale, in quanto «signore dei discorsi» (ὁ τῶν λόγων ἡγεμών), protettore dei sacerdoti, depositario della vera conoscenza degli dèi (ὁ δὲ τῆς περὶ θεῶν ἀληθινῆς ἐπιστήμης προεστηκὼς) e inventore della scrittura, è la divinità che media tra la realtà sensibile, il mondo degli umani e l’universo delle sostanze intelligibili (queste ultime non sempre e non del tutto comprensibili a parole) servendosi di immagini o interpretando segni materiali8. L’enfasi posta sul potere dei linguaggi e degli strumenti di comunicazione rivela l’importanza che Id., De mysteriis Aegyptiorum, Ficino 1497, cit., I, 1, sig. a2r; Id., De mysteriis, Ficino 1576, cit., p. 1873; cfr. Id., Réponse, cit., pp. 1-2; Id., I misteri, cit., p. 55; Mysteries, cit., p. 4. Ficino traduce ὁ τῶν λόγων ἡγεμών come «Mercurius praeest eloquio», Saffrey e Segonds «prince de l’éloquence», Moreschini «il dio che sovrintende alla parola», Clarke, Dillon e Hershbell «the god who presides over rational discourse». Nell’invocare Hermes all’inizio dell’opera, Giamblico ribadisce che il logos teurgico richiede competenze filosofiche, retoriche ed ermeneutiche. 8

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Giamblico attribuisce alle condizioni che assicurano il contatto (precario, ma continuo) del mondo degli umani con quelli della natura e degli dèi. Il progetto culturale del teurgo come sacerdote filosofo, delineato da Ficino nell’ultima parte della sua vicenda intellettuale, è però più complesso. L’uso della ritualità teurgica permette a Ficino di presentarsi come prete che intende essere non solo filosofo (cosa di per sé non particolarmente originale), ma anche medico e astrologo. Si potrebbe dire che anche in questo caso, il fatto che il clero si attribuisca competenze astrologiche e terapeutiche non è del tutto senza precedenti, come ci insegnano molti episodi di storia della medicina e della devozione religiosa. Si pensi infatti a figure di parroci che, sulle orme del Cristo guaritore di corpi e anime, nel corso del Medioevo e della prima età moderna rivaleggiavano con la figura istituzionale del medico. Da questo punto di vista, il campo delle pratiche della guarigione è un territorio notoriamente turbolento e anarchicheggiante. Lo è oggi come lo era nel passato dell’umanità. Per Ficino, però, l’unione delle competenze filosofiche, ermeneutiche, mediche, astrologiche e divinatorie si presenta come un progetto deliberatamente filosofico e multidisciplinare. È appunto nel modello teurgico post-plotiniano che egli vede la chiave per precisare il senso della sua idea di cura pastorale delle anime attraverso l’apporto di contributi fondamentali da parte della filosofia, medicina e astrologia. La teurgia diventa allora per Ficino un tipo di spiritualità culturalmente stratificata che possiede la chiave per mediare tra l’universo non-umano della pura intelligibilità e l’universo umano della materialità immaginata, attivando tutte quelle forme embrionali di significati intelligibili di cui è costellato l’universo materiale e che vengono considerate parti integranti della vita della natura. Quella di Ficino è dunque una filosofia che vuole calarsi nell’universo delle forme sensibili e che, oltre a istruire e

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consigliare le menti, intende predire e preservare la salute dei corpi. Nelle intenzioni originarie di Giamblico, il momento teurgico era parte integrante di una metafisica in cui giocava un ruolo importante l’anima caduta nel mondo delle ombre materiali, che attraverso il lato materiale ed esperienziale delle pratiche cultuali e culturali (preghiere, invocazioni, cerimonie, divinazioni) poteva ritrovare il modo di ricongiungersi all’Uno. Per Ficino, la teurgia è altrettanto centrale. A essa va anche aggiunta una più accentuata difesa delle immagini e dell’immaginario e del ruolo operativo dell’essere umano. La teurgia ficiniana si colora così di toni che caratterizzerei come distintamente anti-iconoclastici proprio perché Ficino considera l’anima umana come copula mundi, come il grande connettore universale che media tra il nous e la physis. In questo contesto specifico, l’immaginazione (come imaginatio tanto quanto come phantasia) è la facoltà che consente – su vari piani – di saldare la natura corporea all’intelletto9. Se vi è un senso nello studiare il pensiero di Ficino in relazione all’arte a lui contemporanea, non è tanto rincorrendo un’estetica del bello trascendentale che forse nemmeno esiste nella sua opera, ma in relazione a un mondo di imagines concrete che caratterizzavano la vita quotidiana in Firenze, imagines che vanno dalle madonne miracolose ai talismani astrali10. In questo senso, le tante ekphraseis 9 Ho esaminato la varietà dei significati ficiniani di imaginatio e phantasia in G. Giglioni, Coping with Inner and Outer Demons: Marsilio Ficino’s Theory of the Imagination, in Y. Haskell (ed.), Diseases of the Imagination and Imaginary Disease in the Early Modern Period, Brepols, Turnhout 2011, pp. 19-51; Id., The Matter of the Imagination: The Renaissance Debate over Icastic and Fantastic Imitation, «Camenae», 8 (2010), pp. 1-21 (lettres. sorbonne-universite.fr/camenae-ndeg-8-decembre-2010-0). 10 Sul rapporto tra teurgia, arte e filosofia nel pensiero di Ficino si veda A. Debenedetti, Dans l’antre des nymphes. Études sur les rapports entre la pensée magique de Marsile Ficin et les premières théories de l’art à Florence au

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mitologiche e astrali di cui è costellata l’opera di Ficino possono essere interpretate a tutti gli effetti come esempi di ars retorico-letteraria (enargeia) e di ars astrologica (energeia). Anche in questo caso viene in luce il fatto che la teurgia in quanto mediazione materiale che illumina il potere dei vincoli in ambito sociale si basa su una visione demiurgica del fare. Per Ficino come per Giamblico, è la demiurgia il fondamento filosofico e teologico che giustifica la possibilità per l’anima umana di ritornare alla sua origine primordiale, l’intelletto e forse l’Uno. Il fare come operare teurgico è techne/ars che media tra intelligibile universale e innumerevoli applicazioni individuali. 2. I vincoli dell’essere La Lettera di Abammone è un’opera che, in quanto concepita nei termini di una rigorosa fondazione metafisica della pratica sottesa ai rituali religiosi, può essere letta come una riflessione filosofica d’ampio respiro sul concetto di legame, di desmos e syndesmos, termini chiave che non a caso ricorrono più di una volta nel testo in questione. Nella visione cosmologica di Giamblico, l’essere XV e siècle, Thèse de doctorat, École Pratique des Hautes Études, Paris 2015. Sui talismani, l’opera di riferimento è N. Weill-Parot, Les “images astrologiques” au Moyen Âge et à la Renaissance: Spéculations intellectuelles et pratiques magiques (XIIe-XV e siècle), Honoré Champion, Paris 2002. Sul nesso tra devozione religiosa e produzione artistica nella Firenze rinascimentale, si veda M. Holmes, The Miraculous Image in Renaissance Florence, Yale University Press, New Haven 2013. Come ben messo in luce da Peter Brown, nella sua recensione a C. Hahn, H.A. Klein (eds), Saints and Sacred Matter: The Cult of Relics in Byzantium and Beyond, Dumbarton Oaks Research Library and Collection, Washington, DC 2015, la nozione di “materia sacra”, diffusa nel pensiero religioso della tarda antichità, evidenzia un intreccio quanto mai fecondo di arte, devozione e filosofia (P. Brown, The Glow of Byzantium, «The New York Review of Books», 63 [2016], 7, pp. 37-39).

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è strutturato gerarchicamente secondo precise divisioni di genere e specie. Gli esseri superiori (τὰ κρείττονα γένη) – dei, arcangeli, angeli, demoni, eroi, arconti e anime – ordinano il sistema del cosmo in base alle loro differenze. Nell’architettura del composito edificio dell’universo giamblicheo troviamo allora disegnato un complesso sistema di vincoli11. Nella minuziosa analisi che Giamblico fornisce dei generi superiori dell’essere, per legame si intende più di un concetto: il nodo che connette tutte le parti dell’universo tra loro; il nesso che unisce gli umani agli dèi; il vincolo che consolida l’associazione tra i membri di una comunità; perfino il rapporto liminare tra sfere opposte dell’essere. In quest’ultimo caso, l’idea di soglia riconcilia in qualche modo il divino dell’anima con gli aspetti più oscuri e inquietanti della materia in continua trasformazione – ambito, quest’ultimo, che Giamblico descrive come il dominio della generazione (genesis), ovvero del determinismo della crescita e riproduzione naturale, della pressione esercitata sull’anima umana da tendenze vitali, desideri e passioni, del groviglio di istinti e rappresentazioni, di apparizioni e fantasmi (phasmata) che costituiscono la vita e insieme la maledizione del mondo fenomenico. Secondo Giamblico/Abammone – che nella sua Lettera parla da filosofo tanto quanto da teurgo – tutti i legami che tengono unito l’universo vanno conosciuti e governati di conseguenza. Di alcuni, come di quelli che pervadono il mondo della genesis, bisogna imparare a liberarsi, o per lo meno alleviarGli arconti sono a loro volta divisi in κοσμικά e ὑλικά, che Ficino traduce rispettivamente come principatus e principes. Cfr. Jamblichus, De mysteriis Aegyptiorum, II, 4, Ficino 1497, cit., sig. b1r; Id., De mysteriis, Ficino 1576, cit., p. 1879; Id., Réponse, cit., p. 58; Id., I misteri, cit., p. 157; Mysteries, cit., p. 92. Sulla distinzione tra arconti cosmici e arconti materiali, si veda J.F. Finamore, Iamblichus, in A. Marmodoro, S. Cartwright (eds), A History of Mind and Body in Late Antiquity, Cambridge University Press, Cambridge 2018, pp. 97-110. 11

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ne l’impatto. Di altri, occorre seguire la complessa trama in modo da poter ritornare all’unità perduta di cui una volta si era partecipi. Vi sono dunque legami che imprigionano l’anima, rendendola schiava di istinti e illusioni, e legami che la emancipano indicando la via del ritorno all’Uno; legami che fungono da vere e proprie nervature vitali del cosmo e legami che erodono il potere dell’anima impigliandola nella rete delle pulsioni materiali. Potendo poggiare su di una visione unitaria e gerarchica del cosmo, l’esame dei vincoli condotto da Giamblico è accurato ed esauriente. Si va dai legami più deboli, espressione di tendenze materiali all’unione, come mescolanze e temperamenti corporei (krasis), fino ai legami più forti, veicolati dalle forze strutturali dell’universo, su cui fa leva la stessa eterna permanenza dell’essere (synaphe). I legami possono essere divini (e il legame primordiale è quello tra il Bene e l’Uno), cosmologici (come quelli che connettono gli dei ai corpi celesti), vitali (tra anime e corpi), intelligibili (tra archetipi e apparenze) e teurgici (tra dèi e sacerdoti e tra sacerdoti e comunità umane). Le anime, nella loro vicenda di alienazione e ritorno al principio dell’essere, si trovano così inserite in un intreccio di rimandi e relazioni che, come si è detto, possono a volte essere tra loro conflittuali. Le anime sono delle creature del mondo intelligibile, ma nell’innestarsi in corpi umani, abitano l’universo materiale della potenza naturale e generativa. Il legame originario, quello che fonda l’essere e la vita dello stesso universo, è il legame tra l’Uno e gli esseri superiori. Nel sistema dei generi dell’essere, eroi e demoni connettono le anime agli dei in virtù di un’omogeneità e affinità vitale (διὰ τὴν τῆς ζωῆς ὁμοειδῆ συγγένειαν)12. Gli dèi, collegandosi a loro volta alle anime, possono anche 12 Jamblichus, De mysteriis Aegyptiorum, I, 5, Ficino 1497, cit., sig. a3r; Id., De mysteriis, Ficino 1576, cit., p. 1874: «cum anima nostra et vita

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raggiungere gli umani. Naturalmente, il nesso che unisce gli dèi alle anime è di un valore diverso rispetto a quello tra dèi e umani. È essenziale, come vedremo, che il teurgo sappia tener conto di questo fatto. Il legame tra dio e anima precede infatti quello tra dio ed essere umano. Inoltre, il vincolo che unisce gli umani agli dèi necessariamente passa attraverso il legame che nell’essere umano unisce l’anima alla natura corporea e generativa. Da questo punto di vista, il teurgo non può non tener conto della forza delle passioni. È attraverso l’intreccio di questi vari vincoli che l’anima può aspirare a riunificarsi con l’intelligibile e che gli esseri umani possono riconquistare l’armonia perduta: Sicuramente, dunque, questi generi intermedi costituiscono il legame comune degli dei con le anime (ὁ κοινὸς σύνδεσμος θεῶν τε καὶ ψυχῶν) ed effettuano un intreccio indissolubile (ἀδιάλυτος ἡ συμπλοκὴ) tra di loro; tengono legata un’unica connessione (μία τε συνέχεια) che va dall’alto fino alla fine e fanno sì che la comunione di tutte le cose (τῶν ὅλων ἡ κοινωνία) tra loro sia indivisibile; posseggono una perfetta fusione (κρᾶσις ἀρίστη) e un’unione proporzionata agli universi delle cose (σύμμιξις τοῖς ὅλοις σύμμετρος); in certo qual modo fanno avanzare la processione dagli esseri migliori verso quelli inferiori e, analogamente, una risalita da quelli più deboli verso i primi; collocano l’ordine e la misura (τάξις τε καὶ μέτρα) nella partecipazione ai beni che discende dalle realtà migliori e nella recezione (ὑποδοχή) che ne hanno le realtà più imperfette, e fanno sì che tutte le cose corrispondano e si adattino a tutte, ricevendo dall’alto, cioè dagli dei, le cause di tutti questi esseri13. eius multum congruunt»; Id., Réponse, cit., p. 12; I misteri, cit., p. 74; Id., Mysteries, cit., p. 20. 13 Id., De mysteriis Aegyptiorum, Ficino 1497, cit., I, 5; Id., I misteri, cit., pp. 75-77; Mysteries, cit., p. 22; Id., Réponse, cit., pp. 12-13: «Ταῦτα δὴ οὖν

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I vincoli comuni e universali preservano l’unità del tutto (τῶν ὅλων ἡ κοινωνία). Il koinos syndesmos che connette gli dèi alle anime è cruciale in quanto media tra le realtà superiori e quelle inferiori. Un altro koinos syndesmos è quello che connette i flussi di energia intellettuale (αἱ νοεραί ἐνεργείαι) agli archetipi eterni, gli intelletti e i corpi celesti: anche negli atti intellettuali è indivisibile il loro legame comune (ὁ κοινὸς σύνδεσμος), come è indivisibile nelle partecipazioni comuni alle forme (ἡ τῶν εἰδῶν κοινὰ μετουσία), poiché niente le separa e non vi è niente in mezzo a loro. E non solo: la stessa essenza immateriale e incorporea, che non è divisa né dai luoghi né dai soggetti né dai limiti individuali delle parti, immediatamente si riunisce e confluisce nell’identità (εἰς ταὐτότητα), mentre la processione che parte dall’Uno e il ritorno della totalità all’Uno e il dominio universale dell’Uno conducono alla comunione (κοινωνία) degli dei che sono nel mondo con quegli dei che preesistono nel mondo intelligibile14. τὰ γένη μέσα συμπληροῦνται τὸν κοινὸν σύνδεσμον θεῶν τε καὶ ψυχῶν ἀδιάλυτον αὐτῶν τὴν συμπλοκὴν ἀπεργάζεται, μίαν τε συνέχειαν ἄνωθεν μέχρι τοῦ τελοῦς συνδεῖ καὶ ποιεῖ τῶν ὅλων τὴν κοινωνίαν εἶναι ἀδιαίρετον, κρᾶσίν τε ἀρίστην καὶ σύμμιξιν τοῖς ὅλοις ἔχει σύμμετρον, πρόοδόν τε ἀπὸ τῶν βελτιόνων ἐπὶ τὰ ἐλάττονα καὶ ἀναγωγὴν ἀπὸ τῶν ὑποδεεστέρων ἐπὶ τὰ πρότερα διαβιβάζει πως ἐξ ἴσου, τάξιν τε καὶ μέτρα τῆς ποιεῖ πάντα πᾶσι προσήγορα καὶ συναρμόζοντα, ἄνωθεν τὰς τούτων ὅλων αἰτίας ἀπὸ τῶν θεῶν παραδεχόμενα». Questo passaggio centrale è omesso nella traduzione/parafrasi latina di Ficino. 14 Id., I misteri, cit., I, 5, pp. 131-133 (con leggeri cambiamenti alla traduzione); Id., Mysteries, cit., p. 72; Id., Réponse, cit., p. 44: «Ἔστι μὲν οὖν καὶ κατὰ τὰς νοερὰς ἐνεργείας ὁ κοινὸς σύνδεσμος αὐτῶν ἀδιαίρετος, ἔστι δὲ καὶ κατὰ τὰς τῶν εἰδῶν κοινὰς μετουσίας, ἐπεὶ οὐδὲν διείργει ταύτας, οὐδ’ ἔστι τι αὐτῶν μεταξύ· οὐ μὴν ἀλλὰ καὶ αὐτὴ ἡ ἄϋλος οὐσία καὶ ἀσώματος, οὔτε τόποις οὔτε ὑποκειμένοις διϊσταμένη οὔτε μερῶν μερισταῖς διωρισμένη περιγραφαῖς, εὐθὺς συνέρχεται καὶ συμφύεται εἰς ταὐτότητα, ἥ τε ἀφ’ ἑνὸς

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I legami comuni universali costituiscono l’ossatura del cosmo. A partire da questi, la metafisica giamblichea dei vincoli copre tutto lo spettro dei possibili legami, dal polo dell’identità a quello dell’alterità: unione, comunione, partecipazione e mescolanza, per poi passare al livello che riguarda le somiglianze, i rapporti di proporzionalità e le differenze degli enti considerati nel loro essere apparenze fenomeniche. I nessi di assoluta identità, come il legame ontologico (synaphe) che fonda l’unità del divino con la realtà, sono così intimi che per Giamblico porsi la domanda se gli dei esistono non ha in fondo alcun senso: la conoscenza degli dei sussiste innata insieme con la nostra stessa sostanza, ed è superiore ad ogni nostro giudizio e a ogni nostra scelta, anteriore a ogni ragionamento e ogni dimostrazione, ed è unita fin dal principio alla sua causa propria ed insieme con l’aspirazione essenziale dell’anima al bene. Ma se si deve dire la verità, il contatto con la divinità non è nemmeno conoscenza (οὐδὲ γνῶσίς ἐστιν ἡ πρὸς τὸ θεῖον συναφή). La conoscenza, infatti, è separata, in un certo senso, dal suo oggetto ad opera dell’alterità. Ma prima di quella conoscenza che conosce l’altro perché è essa stessa altro, c’è, innata [...] la connessione intima che ci tiene uniti agli dei. Pertanto non è ammissibile che si possa accettare o non accettare πρόοδος καὶ εἰς ἓν τῶν ὅλων ἀναγωγὴ καὶ τοῦ ἑνὸς πάντῃ ἐπικράτεια συνάγει τὴν κοινωνίαν τῶν ἐν τῷ κόσμῳ θεῶν πρὸς τοὺς ἐν τῷ νοητῷ προϋπάρχοντας». Qui Ficino traduce piuttosto liberamente. Cfr. De mysteriis Aegyptiorum, Ficino 1497, cit., sig. a7v; Id., De mysteriis, Ficino 1576, p. 1878: «Dii mundani, qui et intellectuales species nominantur, inter se uniti sunt, tum quia cuncti idem exemplar in quo sunt species intelligibiles contuentur, tum quia exemplar illud in quolibet deo immundano viget ubique totum. Non spatium, non subiecta diversa prohibent quin quaelibet essentiae incorporeae ubique sibi invicem insint. Dii mundani in se invicem sunt suisque ideis, tum quia sunt ab uno et referuntur ad unum, tum quia divina unitas ubique praevalens unit eos, tum quia procedunt inter se et convertuntur mutuoque accipiunt».

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questa connessione, né considerarla incerta, ché essa è stata fissata in atto da sempre in modo conforme all’Uno, né dobbiamo esaminarla come se fossimo capaci di giudicarla o di respingerla: noi, infatti, siamo circondati dalla presenza di dio, se mai, e ne siamo riempiti, e quello che siamo lo abbiamo perché conosciamo gli dei15.

A questo proposito è interessante notare come, nell’universo giamblicheo, ci si muova tra due idee molto diverse di “contatto” (synaphe), che rappresentano gli opposti estremi dell’universale vincolatività del cosmo. Un tipo di synaphe – «ἡ πρὸς τὸ θεῖον συναφή: il contatto con la divinità» (che Ficino rende in latino come «tactus quidam divinitatis» e «contactus quidam essentialis et simplex»)16 – è inteso come compenetrazione originaria di anima e Id., I misteri (I, 3), cit., p. 63; Id., Mysteries, cit., pp. 10-12; Id., Réponse, cit., pp. 5-6: «Συνυπάρχει γὰρ ἡμῶν αὐτῇ τῇ οὐσίᾳ ἡ περὶ θεῶν ἔμφυτος γνῶσις, κρίσεώς τε πάσης ἐστὶ κρείττων καὶ προαιρέσεως, λόγου τε καὶ ἀποδείξεως προϋπάρχει· συνήνωταί τε ἐξ ἀρχῆς πρὸς τὴν οἰκείαν αἰτίαν, καὶ τῇ πρὸς τἀγαθὸν οὐσιώδει τῆς ψυχῆς ἐφέσει συνυφέστηκεν. Εἰ δὲ δεῖ τἀληθὲς εἰπεῖν, οὐδὲ γνῶσίς ἐστιν ἡ πρὸς τὸ θεῖον συναφή. Διείργεται γὰρ αὕτη πως ἑτερότητι. Πρὸ δὲ τῆς ὡς ἑτέρας ἕτερον γιγνωσκούσης αὐτοφυής ἐστιν ... ἡ τῶν θεῶν ἐξηρτημένη μονοειδὴς συμπλοκή. Οὐκ ἄρα συγχωρεῖν χρὴ ὡς δυναμένους αὐτὴν καὶ διδόναι καὶ μὴ διδόναι, οὐδ’ ὡς ἀμφίβολον τίθεσθαι (ἕστηκε γὰρ ἀεὶ κατ’ ἐνέργειαν ἑνοειδῶς), οὐδ’ ὡς κυρίους ὄντας τοῦ κρίνειν τε καὶ ἀποκρίνειν οὕτως αὐτὴν δοκιμάζειν ἄξιον· περιεχόμεθα γὰρ ἐν αὐτῇ μᾶλλον ἡμεῖς καὶ πληρούμεθα ὑπ’ αὐτῆς, καὶ αὐτὸ ὅπερ ἐσμὲν ἐν τῷ τοὺς θεοὺς εἰδέναι ἔχομεν». Sul concetto di synaphe divina, si veda anche M. Motia, Imitations of Infinity: Gregory of Nyssa and the Transformation of Mimesis, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2022, pp. 63-64. 16 Jamblichus, De mysteriis Aegyptiorum, I, 3, Ficino 1497, cit., sig. a2r; Id., De mysteriis, Ficino 1576, cit., p. 1874: «Ante omnem rationis usum inest naturaliter insita deorum notio, immo tactus quidam divinitatis melior quam notitia, ex quo incitatur naturalis appetitus boni et ratiocinatio atque iudicium. Essentialis cognitio divinorum, quae anima est perpetua ac re vera non est cognitio haec, qua deo fruimur – in cognitione enim est alteritas –, sed contactus quidam essentialis et simplex. Nam non possumus attingere unitatem ipsam, nisi unitissimo quodam et unitate mentis, quae super animae mentisque proprietatem extat». 15

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principio divino (un contatto intelligibile, per così dire), mentre l’altro tipo di synaphe sta per la giustapposizione sensibile di corpi e parti di corpi (il cui esempio primario in natura è dato dalla sensibilità tattile, l’aphe, che paradossalmente è il senso al contempo più esterno e più intimo). Il principio divino di tutte le cose e la tendenza universale al bene permeano di sé il cosmo e con esso anche il nostro essere, ovvero l’anima. È un nesso originario che non si manifesta in forma di conoscenza, ma come contatto primordiale, dove non vi è divisione e differenza tra la parti17. Il contatto divino (he pros to theion synaphe) fa allora sì che l’universo nella sua totalità sia pervaso interiormente dal senso dell’Uno come esternamente lo è dalla luce del sole. Altri rapporti, posti a un livello di maggior esteriorizzazione e alterità rispetto al nucleo originario fanno invece leva sull’analogia. Questo è il fondamento su cui si basano la consonanza (synecheia) e l’accordo (omologia) del tutto e di ogni parte con il tutto18. Nell’ordinamento gerarchico del cosmo giamblicheo, gli dèi sono le cause prime che comprendono in sé tutti gli enti dell’universo. Sono gli dèi che irradiano la forza unitaria della synaphe divina in ogni parte dell’universo. Essi fanno questo materializzandosi in forma di corpi celesti, descritti da Giamblico come viluppi di energia divina19. In questo senso, il mondo può essere caratterizzato come l’immagine visibile degli dei (τὸ δὴ τῶν θεῶν ἐμφανές

17 Id., I misteri, I, 3, cit., p. 63; Id., Mysteries, cit., p. 14; Id., Réponse, cit., p. 7: «ἦν ἐξ ἀιδίου μονοειδὴς ἐπὶ τῇ ψυχῇ συνυπάρχουσα». Cfr. Id., De mysteriis Aegyptiorum, Ficino 1497, cit., sig. a2rv; Id., De mysteriis, Ficino 1576, cit., p. 1874: «Cognitio divinorum fuit semper in anima per simplicem intuitum vel contactum». 18 Id., I misteri, I, 9, cit., p. 94; Id., Mysteries, cit., pp. 38-40; Id., Réponse, cit., p. 24. 19 Id., I misteri, I, 15; 17, cit., pp. 63, 121; Id., Mysteries, cit., pp. 58, 64; Id., Réponse, cit., pp. 35, 38.

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τις ἄγαλμα)20. Il nesso (synaphe) tra gli dèi intelligibili e quelli visibili garantisce l’universale coesione e vita del cosmo21. Se nella loro tensione continua a unirsi all’Uno (ἡ πρὸς τὸ ἓν τῶν θεῶν ἀναγωγή)22 gli dèi tengono in vita e strutturano l’universo, le cose di questa terra sono disposte in modo da essere sempre pronte a ricevere i poteri divini (ἐπιτήδεια πρὸς τὴν θείαν μετοχὴν)23. Questi processi complementari di irradiazione e recettività a livello cosmico permettono l’instaurarsi di rapporti specifici tra le cause divine e gli effetti naturali. Vere e proprie relazioni di parentela (syngeneia, oikeiotes) legano suoni, movimenti e proprietà dei corpi celesti24. Nella sua traduzione/parafrasi, Ficino parla di congruentia e similitudo25. Fondamentale tra i vincoli che tengono unito il cosmo è il legame tra l’anima e il corpo. Vi è infatti un tipo di koinos syndesmos che connette le anime ai corpi e sui cui possono influire i demoni26. Essendo di natura ibrida, l’anima è al contempo legata all’universo intelligibile tramite le relazioni che intrattiene con tutte le nature demoniche (dagli arcangeli agli arconti), e alla natura attraverso 20

Id., I misteri, I, 9, cit., p. 95; Id., Mysteries, p. 40; Id., Réponse, cit.,

p. 24. Id., I misteri, I, 19, cit., pp. 130, 134; Id., Mysteries, cit., pp. 71, 74; Id., Réponse, cit., pp. 43, 46. 22 Id., I misteri, I, 17, cit., p. 121; Id., Mysteries, cit., p. 64; Id., Réponse, cit., p. 39. 23 Id., I misteri, I, 8, cit., p. 90; Id., Mysteries, cit., p. 36; Id., Réponse, cit., p. 20. 24 Id., I misteri, III, 9, cit., p. 212; Id., Mysteries, cit., p. 140; Id., Réponse, cit., p. 90. 25 Id., De mysteriis Aegyptiorum (III, 9), Ficino 1497, cit., sig. b7r; Id., De mysteriis, Ficino 1576, cit., p. 1885. Sui rapporti tra συγγένεια e culti religiosi in ambito diplomatico e giuridico, si veda R. Sammartano, Magnesia sul Meandro e la “diplomazia della parentela”, «ὅρμος: Ricerche di Storia Antica», 1 (2008/2009), pp. 111-139. 26 Sul συνδέσμος τῶν ψυχῶν εἰς τὰ σώματα, cfr. Giamblico, I misteri, II, 1, cit., p. 145; Id., Mysteries, cit., p. 82; Id., Réponse, cit., p. 50. 21

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il corpo: «sembra che l’anima mostri in se stessa ogni tipo di essenze e di attività, ogni tipo di ragionamenti e tutte le forme. Ma se si deve dire la verità, essa rimane definita sempre secondo un solo genere, ma associando se stessa (kroinonusa) ora a questa, ora a quella causa superiore; ora si dispone in relazione (syntattetai) con alcune, ora con altre»27. La luce particolare dell’anima – una luce che è sempre riflessa in uno stato di penombra (skiodes/umbrosa) – risulta dalla mescolanza «delle tante nature che abbracciano il mondo»28. Ficino riassume l’argomentazione giamblichea e spiega che, data la sua natura connettiva, l’anima è implicata in tutta una serie di connessioni e rimandi all’interno dell’universo: gli dei purificano le anime nel modo più adeguato, gli arcangeli le richiamano in alto, gli angeli le liberano dai vincoli della materia, i demoni le spingono verso la natura, gli eroi le inducono ad interessarsi degli enti sensibili, i principati [gli arconti cosmici] mostrano il governo degli affari mondani, i governatori [gli arconti materiali] istillano l’amore per i beni materiali29.

Uno dei modi in cui, secondo Giamblico, si può ordinare il sistema – taxis/regula – dell’universo è secondo 27 Id., I misteri, II, 2, cit., pp. 147-149; Id., Mysteries, cit., p. 84; Id., Réponse, p. 52. 28 Id., I misteri, II, 4, cit., pp. 157-159; Id., Mysteries, cit., pp. 92-94; Id., Réponse, pp. 58-59. Più semplicemente Ficino riassume: «ex multis mundi naturis admixtus», cfr. Id., De mysteriis Aegyptiorum, Ficino 1497, cit., sig. b1v e Id., De mysteriis, Ficino 1576, cit., p. 1880. 29 Id., De mysteriis Aegyptiorum, II, 4, Ficino 1497, cit., sig. b1v; Id., De mysteriis, Ficino 1576, cit., p. 1880: «Diis animas perfectissime purgant, archangeli sursum revocant, angeli tantum solvunt a materiae vinculis, daemones ad naturam trahunt, heroes ad curam sensibilium operum deducunt, principatus quidem praesidentiam mundanarum, principes vero materialium studium exhibent. Animae cum apparent contendunt trahuntque in generationem».

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il principio della symmixis/mixtio, il quale rivela come i supremi generi dell’essere organizzano e strutturano la materia. Ficino parafrasa in questo modo: I demoni hanno mescolati in sé i vapori dell’universo e si muovono in modo instabile o seguendo il movimento dell’universo. Le composizioni risultanti dal modo in cui si generano gli spiriti, si mescolano agli eroi, e anche questi reagiscono a queste composizioni. I principati permangono nello stesso modo. I governatori, rivelando quella parte di universo su cui dominano, sono pieni di fluidi materiali. Le anime sono ricoperte di macchie superflue e spiriti estranei, con i quali, ogni volta che appaiono, ognuno di questi generi si manifesta30.

Gli scontri, le mescolanze e le resistenze tra i vari generi dell’essere nel loro approssimarsi alla materia si manifestano in una grande varietà di azioni e reazioni tra vapori, fluidi e spiriti. Se le anime impure ci si rivelano imbrattate di materia, il sistema dei vincoli sovrannaturali, naturali e morali può allora fungere da vera e propria medicina giamblichea dell’anima volta alla purificazione dalle contaminazioni della materia e alla liberazione dai legami che asserviscono la mente umana al mondo della natura vivente (genesis)31. È importante per Giamblico e Id., De mysteriis Aegyptiorum, II, 5, Ficino 1497, cit., sig. b1v; Id., De mysteriis, Ficino 1576, cit., p. 1880: «Daemones mixtos in se habent mundi vapores ferunturque instabiliter praeter vel iuxta mundi motum, heroibus generativae spirituum compositiones admiscentur, circa quas et ipsi commoventur. Principatus eodem modo permanent, mundanum quod habent ostendentes principes materialibus liquoribus pleni sunt, animae superfluis maculis et alienis spiritibus sunt repletae, quibus cum quoties apparent unumquodque horum generum se ostendit». Cfr. Id., I misteri, cit., p. 161; Id., Mysteriis, cit., p. 96; Id., Réponse, cit., p. 60. 31 Id., De mysteriis Aegyptiorum, II, 5, Ficino 1497, cit., sig. b2r; Id., De mysteriis, Ficino 1576, cit., p. 1880: «impurae [animae] vero materia involutas se nobis ostendunt». 30

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Ficino discutere con precisione i modi in cui la dimensione materiale si relaziona ontologicamente, cosmologicamente e teurgicamente all’anima. Proprio perché il sistema dei vincoli rispecchia il complesso intreccio di rimandi che unisce l’universo nella sua interezza, nei suoi aspetti sia mentali sia materiali, Giamblico e Ficino ci ricordano che per le anime vi possono anche essere ulika e chthonia erga/materialia terrenaque bona32. Il modo in cui l’anima può servirsi al meglio di questi beni è attraverso la teurgia. Non a caso, tra i vari legami che si instaurano nel cosmo tra tutte le cose in virtù dell’irradiarsi dell’originaria synaphe divina, Giamblico assegna particolare importanza al vincolo specifico tra umani e dei da lui chiamato “teurgico”, ovvero “la comunione degli dèi con gli uomini” (ἡ θεουργική κοινωνία θεῶν πρὸς ἀνθρώπους). Rivolgendosi a Porfirio, che nega la possibilità di una tale comunione divina istitutrice di comunità umane, Giamblico riafferma il valore della teurgia: Insomma, siffatta tua opinione non è altro che la distruzione del culto sacro e della comunione degli dei con gli umani sulla base della teurgia, perché espelle dalla terra la presenza degli esseri migliori. Afferma infatti che le realtà divine sono state collocate lontane dalle cose che stanno intorno alla terra e che non hanno rapporto con gli umani e che questo luogo in terra è deserto di esse, e che, secondo questo ragionamento, nemmeno noi, che siamo i sacerdoti, abbiamo appreso alcunché dagli dei33. Id., De mysteriis Aegyptiorum, II, 6, Ficino 1497, cit., sig. b2r; Id., De mysteriis, Ficino 1576, cit., p. 1880; Id., I misteri, cit., p. 164; Id., Mysteries, cit., p. 98; Id., Réponse, cit., p. 62. 33 Id., I misteri, I, 8, cit., p. 91 (con leggeri cambiamenti alla traduzione); Id., Mysteries, cit., pp. 34-36; Id., Réponse, cit., pp. 21-22: «Ὅλως δὲ τῆς ἱερᾶς ἁγιστείας καὶ τῆς θεουργικῆς κοινωνίας θεῶν πρὸς ἀνθρώπους ἀναίρεσίς ἐστιν αὕτη ἡ δόξα, τὴν τῶν κρειττόνων παρουσίαν ἔξω τῆς γῆς ἐξορίζουσα. Οὐδὲν γὰρ ἄλλο λέγει ἢ ὅτι ἀπῴκισται τῶν περὶ γῆν τὰ θεῖα 32

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Gli scambi di rapporti teurgici che gli dèi esercitano con gli esseri umani – ἡ θεουργική κοινωνία θεῶν πρὸς ἀνθρώπους – sono di tre tipi principali, a seconda della profondità e intensità del nesso: partecipazione (metusia/ praesentia), comunione (koinonia/communio) e unione (enosis/unio)34. Tra i molteplici usi che Giamblico e Ficino attribuiscono ai legami teurgici, quello della ritualità sociale e culturale gioca un ruolo fondamentale nel riconciliare il piano della vitalità primordiale e istintiva della natura con quello dell’anima anagogicamente ritornata alla sua fonte primordiale di vita e conoscenza. L’operatività divina dei rituali sacri (theurgia) in qualche modo incanala e corregge l’operatività naturale (genesiurgia), che è soggetta al determinismo della causalità materiale e al disordine degli appetiti. Sia la theurgia sia la genesiurgia sono forme dell’operare inconscio, sottratto quindi ai pensamenti e ripensamenti della dianoia riflessiva, con la differenza che l’inconscio della produttività naturale è l’irriflessività della pura immediatezza vitale, mentre l’inconscio teurgico è il manifestarsi a livello cosmologico e sociale dell’originaria synaphe dell’Uno. E così, mentre il theurgos mette in atto le procedure che una tradizione millenaria ha dimostrato condurre alla liberazione dell’anima dai ceppi della materia, il genesiurgos soggiace ai richiami di una natura che si è demonicamente ribellata arrendendosi al flusso incontrollato della vita materiale.

καὶ ὅτι ἀνθρώποις οὐ συμμίγνυται καὶ ὡς ἔρημος αὐτῶν ἐστιν ὁ τῇδε τόπος· οὐδ’ἡμεῖς οὖν οἱ ἱερεῖς οὐδὲν παρὰ τῶν θεῶν μεμαθήκαμεν κατὰ τοῦτον τὸν λόγον». 34 Id., De mysteriis Aegyptiorum, III, 5, Ficino 1497, cit., sig. b5v; Id., De mysteriis, Ficino 1576, cit., p. 1884; Id., I misteri, cit., p. 202; Id., Mysteries, cit., p. 130; Id., Réponse, cit., pp. 83-84.

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3. Esercizi pratici di teurgia medico-politico-astrale Nella visione ficiniana della teurgia come operatività (techne) sacra e divina, capace di promuovere e sviluppare i vincoli che contribuiscono alla coesione sociale e culturale di una determinata civiltà, oltre che alla traduzione/ parafrasi della Lettera di Giamblico, un testo chiave è il De vita libri tres, che Ficino pubblicò nel 148935. È soprattutto nel terzo libro, dedicato al «modo di trarre vita dal cielo», composto dall’autore «mentre lavorava al commento a Plotino», che troviamo un esame accurato di una possibile gestione teurgica del cosmo36. Il titolo del primo capitolo ci fornisce ulteriori dettagli assai importanti: In cosa consiste secondo Plotino la forza che attrae il favore dal cielo. Essa risiede nel fatto che le forme dei corpi debitamente predisposte (formae corporum accommodatae) attraggono facilmente a sé l’anima del mondo, le anime delle stelle e dei demoni37.

Le parole formae corporum accommodatae sono decisive. Qui la forma è teurgicamente ambigua: è essenza ideale, ma è anche configurazione che presuppone un’estensione dello spazio in senso quantitativo. Le formae accommodatae sono delle strutture archetipiche e insieme plastiche, che demiurgicamente si adattano, da un lato, alla neces35 M. Ficino, De vita libri tres, Antonio di Bartolomeo Miscomini, Firenze 1489; Id., Three Books on Life, A Critical Edition and Translation with Introduction and Notes by C.V. Kaske and J.R. Clark, Center for Medieval and Early Renaissance Studies, Binghamton, NY 1989 (cito dal testo latino di questa edizione; la traduzione è la mia). 36 Id., Three Books on Life, cit., p. 242: «Liber de vita coelitus comparanda compositus ab eo inter commentaria eiusdem in Plotinum». 37 Ibidem: «In quo consistat secundum Plotinum virtus favorem coelitus attrahens, scilicet in eo quod anima mundi et stellarum daemonumque animae facile alliciuntur corporum formis accommodatis».

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sità materiale dei corpi, e dall’altro, alla logica ancor più cogente delle forme incorporee. Soprattutto, esse sono gli elementi costitutivi dell’astrologia teurgica di Ficino38. Connettono la vita sublunare delle forme seminali con le intelligenze planetarie, la spiegazione scientifica delle costituzioni anatomiche dei corpi umani con il racconto mitologico delle influenze astrali, la costruzione materiale dei talismani con una complessa dottrina delle corrispondenze che sussistono tra imagines cosmiche, imagines mentali e imagines materiali. Gli stessi talismani sono di per sé degli enti assai compositi in cui nella materialità dell’oggetto si fondono le forme progettate, i metalli lavorati in una particolare maniera e le gemme incastonate in modo da attrarre le dovute forze cosmiche. Il coelum di Ficino è essenzialmente istoriato, come lo è la sua astrologia teurgica incentrata su immagini che riproducono la storia dell’universo e la storia delle anime. Così facendo esse indicano la via per ritornare all’Uno, principio di tutte le cose. In questo contesto, è interessante notare come i tre libri del De vita siano stati pensati da Ficino come una sorta di manuale di saggezza pratica. Ficino li descrive infatti come la sua officina, uno spazio concreto della mente in cui vengono elaborate strategie di lavoro mentale, che però mettono a punto anche una medicina quaedam, un particolare tipo di terapia che agevoli e rafforzi la comunicazione tra il corpo e l’anima39. Va notato come, ogniqualvolta capiti di affrontare degli aspetti importanti della filosofia di Ficino, sembra non si possa fare a meno di tornare al De vita, non solo per il suo indubbio fascino e le mille suggestioni che deriva38 Sul nesso profondo tra astrologia e teurgia in Ficino, si veda H.D. Rutkin, Dancing with the Stars: A Preliminary Exploration as to Whether the Astrology in Marsilio Ficino’s “De Vita” is Theurgical, «Bruniana & Campanelliana», 26 (2020), 2, pp. 403-419. 39 M. Ficino, Three Books on Life, cit., p. 238.

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no da quella che chiamerei la sensibilità medico-teologica di Ficino (e da questo punto di vista l’opera esercitò una profonda influenza sul pensiero medico e filosofico europeo della prima modernità), ma anche perché il testo rappresenta uno snodo fondamentale nel pensiero ficiniano40. Segna appunto l’emergere del momento teurgico come il nucleo più riposto della sua riflessione metafisica e teologica. Tra le tante ragioni che spiegano l’importanza di questo testo, va ricordato che il De vita è il documento in cui lo studio ficiniano dell’universo plotiniano (più specificamente Enneadi, IV, III, 11) interseca la questione teurgica. Ficino aveva cominciato a lavorare alla traduzione e commento di Plotino nel corso degli anni Ottanta del Quattrocento, più precisamente aveva tradotto le Enneadi tra 1484 e 1486. Il successivo Commento alle Enneadi, cominciato nel 1486, uscì insieme al testo tradotto nel 149241. Nel frattempo, mentre lavorava a Plotino, Ficino aveva anche tradotto Giamblico, Sinesio, Porfirio e Proclo. Alcune di queste traduzioni erano già state completate prima del 1490. Il volume che riassume e in qualche modo porta a compimento l’esperienza teurgica di Ficino è l’incunabolo del 1497, uscito a Venezia per i tipi di Aldo Manuzio. Sia che l’impianto del libro sia dovuto a Manuzio, sia che sia stato lo stesso Ficino a deciderne lo schema, gli studiosi concordano che l’accento è fortemente divinatorio-demonologico. Se per teurgico intendiamo un modo 40 Sul ruolo del De vita libri tres di Ficino all’interno della sua filosofia, ma, più in generale, rispetto allo sviluppo della iatrofilosofia europea, rimando a G. Giglioni, Symphorien Champier on Medicine, Theology, and Politics, in S. Gersh (ed.), Plotinus’ Legacy: The Transformation of Platonism from the Renaissance to the Modern Era, Cambridge University Press, Cambridge 2019, pp. 96-124. 41 Sul rapporto tra Ficino e Plotino, si veda ora A. Corrias, The Renaissance of Plotinus. The Soul and Human Nature in Marsilio Ficino’s Commentary on the “Enneads”, Routledge, New York 2020.

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dell’intelligibile che si è incarnato nella natura e storicizzato in una tradizione, propenderei a vedere nella pratica dei rituali teurgici l’elemento che accomuna le varie parti di questa raccolta solo apparentemente composita e miscellanea. L’organicità è data proprio dal tipo di ricerche – speculative e filologiche – che Ficino ha condotto nei due decenni finali della sua vita, in cui il platonismo plotiniano che funge da baricentro interpretativo per gran parte del lavoro ermeneutico e di traduzione svolto da Ficino, anche e soprattutto in relazione allo stesso Platone, si orienta sempre più in direzione teurgica via via che Ficino si inoltra nello studio dei domini dell’alterità demonica, dell’alterità della materialità storica e naturale e infine dell’alterità trascendentale dell’Unum. In altre parole, l’impressione che si ha dopo aver letto il volume è che Ficino al di là di una raccolta sia invece giunto a una sorta di conclusione nella sua riflessione. Se in questa evoluzione i tre libri sulla vita rappresentano quindi uno snodo essenziale, l’Apologia, composta da Ficino per difendersi dalle accuse che lo scritto aveva sollevato, è un documento molto significativo, soprattutto perché in esso Ficino discute la svolta teurgica in particolare dettaglio. Ficino comincia rivolgendo a se stesso due domande in modo retorico (e direi ironico): «Ma Marsilio non è un prete?». E ancora: «Che cos’ha da spartire un cristiano con la magia o i talismani?»42. La risposta – che è un’autodifesa preventiva – è strutturata in tre parti principali, elegantemente associate a figure mitologiche (Minerva, Ercole, Giove) e a vari amici, prima di tutto i tre Pieri: Piero Del Nero, Piero Guicciardini e Piero Soderini; e poi, in supporto a ognuno di loro, rispettivamente M. Ficino, Apologia quaedam, in qua de medicina, astrologia, vita mundi; item de Magis qui Christum statim natum salutaverunt, in Id., Three Books on Life, cit., p. 394: «Nonne Marsilius est sacerdos?»; «Quid Christiano cum magia vel imaginibus?». 42

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Cristoforo Landino, Angelo Poliziano e Giovanni Pico. La teurgia ficiniana intesa come facultas deifica et sacerdotia non rifugge dall’apparato emblematico e mitologico dell’antichità pagana. È in fondo un’ulteriore forma di mediazione, in questo caso tra cultura cristiana e cultura greco-romana. Il progetto ficiniano di teurgia è fortemente sincretico, caratteristica che poi conferma la carica culturale e antropologica dell’operazione ficiniana. Ai tre Pieri, Ficino assegna un communis labor difensivo, che però va distribuito in base a tre obiettivi principali. Innanzitutto, la teurgia è medicina su base astrologica, e non pratica incantatoria: «primos antiquissimos sacerdotes fuisse medicos pariter et astronomos»43. In secondo luogo, la teurgia è magia naturale, e non demonologia necromantica. Infine, la teurgia è demiurgia vitale, e non culto idolatrico e panteistico della natura. Qui la tesi dell’animazione universale del cosmo è una perfetta sintesi di demiurgia divina e teurgia vitale: «è lo stesso Dio, costruttore di questo universo, a insufflare con benevolenza la vita in questa sua opera da lui portata a compimento in modo così riuscito, dal momento che Egli non è ingeneroso nei confronti di ognuno degli esseri più infimi, e ogni giorno attraverso il cielo dona vita con la massima munificenza al maggior numero possibile di enti che sono in esso»44. In questa affermazione i già ricordati momenti della theurgia, genesiurgia e demiurgia convergono in una sintesi chiara e coerente. In tutti e tre i casi – astrobiologia, magia naturale e cosmologia demiurgica – Ficino insiste che quanto da lui è stato esposto nei tre libri sulla vita è basato su documenti Ivi, p. 396. Ivi, p. 400: «Quam [vitam] Deus ipse, mundi faber, huic operi suo tam feliciter absoluto clementer inspiret, quandoquidem erga vilissima quaeque viventia non est avarus, et quotidie per coelum quam plurimis quae sunt in eo largissime praestat vitam». 43 44

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storici e non è frutto di illazioni o illusioni: la medicina teurgica è testimoniata (testificantur) dalle historiae, ovvero dalle indagini scientifiche condotte da «Caldei, Persiani e Egiziani»45. Le procedure della magia benefica vengono semplicemente riportate, non necessariamente approvate da Ficino mentre cerca di capire il senso di importanti loci plotiniani46. Infine, la magia vitale risultante dalla demiurgia divina trova conferma anche nel testo biblico47. Queste precisazioni da parte di Ficino non fanno che sottolineare l’importante nesso di teurgia e demiurgia: ars imaginum, medicina, astrologia e agricoltura, tutte le discipline pratiche enumerate da Ficino in questo contesto sono aree della conoscenza e dell’agire umano in cui il contenuto ideale del sapere si incarna nella materialità dell’applicazione concreta e individuale. Non a caso, proprio in relazione alla medicina, Ficino cita il noto proverbio latino mens sana in corpore sano per convalidare la sua proposta di una medicina teurgica. Chiama il magus teurgico mundicola – il coltivatore del mondo – in analogia con agricola. Il vincolo più potente e duraturo è quello tra natura e cultura perché è proprio nell’intersezione tra intelletto e materia che si evidenzia il potere del vincolo teurgico. Ficino è assolutamente consapevole che sta anche assolvendo a un compito civico di primaria importanza quando si dedica a questo particolare aspetto della riflessione filosofica ed esegesi platonica. Anzi, questi esercizi di teurgia medico-astrologica vengono presentati come un contributo al benessere della comunità: vitae prosperiIvi, p. 396. Ibidem: «magiam vel imagines non probari quidem a Marsilio, sed narrari, Plotinum ipsum interpretante». 47 Ivi, p. 398: «Memini Lucam evangelistam, memini Paulum apostolum his verbis libenter uti, in quibus mundi vitam sapientes illi non horrent». Cfr. Atti degli Apostoli, 17, 28: «In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo». 45 46

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tatique publicae48. Secondo Ficino, il sapere deve contribuire al miglioramento della vita degli esseri umani, prima di tutto da un punto di vista morale, considerando un concetto ampio di salute che non si limiti al benessere fisico e spirituale degli individui, come farebbe pensare l’impostazione fortemente plotiniana della noetica ficiniana, ma che riguarda anche e in modo decisivo la dimensione pubblica, proprio perché il prete astrologo, in quanto concilia teurgicamente la realtà tramite simboli e riti, connette la vita degli individui alla storia di una comunità49. La distinzione ficiniana di livelli tra benessere privato e benessere pubblico trova conferma in campo astrologico: «l’esercizio dell’ingegno che sia pubblico e nobile pertiene al Sole, quello invece privato, legato ad una professione, spetta piuttosto a Mercurio»50. Oltre a essere un cittadino insieme ad altri cittadini, il prete astrologo, medico e filosofo è cittadino del cosmo vivente e suo coltivatore: phyturgos e agricola, ma soprattutto mundicola. 4. Conclusione: teurgia e immaginazione In questo saggio ho voluto mostrare come la Lettera di Giamblico contenga una sofisticata teoria dei vincoli (divini, naturali e sociali), che, essendo innestata su una visione unificata dell’essere, gode di una indubbia coerenza e sistematicità. Ne è derivato un articolato lessico dei vincoli, che Ficino non poteva non considerare e utilizzare come una risorsa concettuale ed esegetica Ivi, p. 394. Ivi, p. 236: «hominem frustra sapere qui non sibi saperet». 50 Ivi, p. 254: «exercitationem ingenii magis publicam atque amplam ad Solem spectare, privatam vero et artificio mancipatam potius ad Mercurium». 48 49

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quando, nell’ultima parte della sua carriera filosofica e teologica, si veniva interrogando sui nessi più intimi che legavano l’immaginazione alle dimensioni della vita religiosa e politica, anche in risposta alla drammatica situazione venutasi a creare a Firenze in seguito alla protesta di Savonarola51. È in questo contesto che acquista un grande valore l’incunabolo aldino del 1497, in cui Ficino pubblica alcuni dei suoi esercizi teurgici di esegesi e traduzione52. L’indice ci rivela la ricchezza dei temi di cui si compone il bel volume: la divinazione, il ruolo dei demoni nel trasferire energia e conoscenza tra le varie parti del cosmo, il rapporto dell’anima con l’aldilà, il sogno come via d’accesso immediata alla dimensione intelligibile, perfino la questione del piacere come tramite fisico e spirituale tra i sensi e la mente, che per Ficino è sempre centrale (si pensi al denso Commento al Filebo platonico), ma che qui viene affrontata riproponendo un trattato della prima giovinezza (scritto nel 1457, all’età di 24 anni)53. Tutti questi elementi possono essere letti e usati come vincoli 51 Su questo punto, si veda ora V. Rees, Philosophy on the Defensive: Marsilio Ficino’s Response in a Time of Religious Turmoil, in V. Rees et al. (eds), Platonism: Ficino to Foucault, cit., pp. 16-31. 52 Stéphane Toussaint ha scritto che in questa raccolta «un oeil philologiquement moins prévenu découvre dans cet incunable le reflet intellectuel d’une époque troublée». Cfr. S. Toussaint, Introduction, in Jamblichus, De mysteriis Aegyptiorum, Ficino 1497, cit., p. II. 53 Questo è l’indice del libro come appare nel frontespizio: «Index eorum quae hoc in libro habentur: Iamblichus De mysteriis Aegyptiorum, Chaldaeorum, Assyriorum. Proclus in Platonicum Alcibiadem De anima atque daemone. Proclus De sacrificio et magia. Porphyrius De divinis atque daemonibus. Synesius Platonicus De somniis. Psellus De daemonibus. Expositio Prisciani et Marsilii in Theophrastuum De sensu, phantasia et intellectu. Alcinoi Platonici philosophi liber De doctrina Platonis. Speusippi Platonis discipuli liber De Platonis difinitionibus. Pythagorae philosophi Aurea verba. Symbola Pithagorae philosophi. Xenocratis philosophi Platonici liber De morte. Marsilii Ficini liber De voluptate».

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e tramiti teurgici che saldano il legame tra apparenza e realtà, legame che in quegli anni Ficino percepisce come divenuto particolarmente tenue, prossimo a sfaldarsi tragicamente. Si veda, ad esempio, la lettera a Manuzio del luglio del 1497, in cui Ficino aggiunge al contagio della peste, che in quegli anni imperversava a Firenze, anche la pestis della dissimulazione, capace di spargere contagi altrettanto perniciosi54. Per risolvere il problema di questo rapporto fattosi sempre più precario tra apparenza e realtà, Ficino, che si vuol far carico della vita et prosperitas publica, propone il vincolo teurgico tra il mondo dei riti che definiscono una particolare comunità e il mondo dei generi intelligibili, che di quella comunità garantisce la sopravvivenza e l’armonia essendone l’archetipo di riferimento. Alla base di questa impostazione, com’era già nel caso di Giamblico nella Lettera di Abammone, si presuppone una comunanza originaria degli uomini con gli dei o Dio. Questo rapporto primordiale con il divino viene rintracciato da Ficino, che traduce Giamblico, in un tactus quidam divinitatis che precede la notitia stessa di dio. I legami sono originari in quanto derivano dalla intrinseca natura divina del cosmo. In questo senso, i vincoli teur­gici istituiscono e preservano le comunità, a livello tanto materiale che ideale. È proprio considerando gli aspetti politici e sociali del vincolare teurgico che Ficino presenta la teurgia come una vera e propria retorica del cosmo, attraverso cui si instaura un legame di persuasione tra le sue parti e il principio divino. Il prete filosofo, medico e astrologo, precisamente in virtù della sua missione teurgica, è anche retore. Questo è tanto più comprensibile in Ficino, per il quale l’impegno astrologico non può mettere a repentaglio il libero arbitrio degli Marsilio Ficino ad Aldo Manuzio, 1 luglio 1497, in Jamblichus, De mysteriis Aegyptiorum, Ficino 1497, cit., p. XVIII: «una cum ceteris mortalium dissimulationibus dissimulata pestis». 54

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esseri umani a tutto favore di un presunto determinismo astrale. Ciò comporterebbe infatti una completa riduzione della theurgia alla genesurgia e una trasformazione dei legami vitali in catene di morte. Ed è proprio su questo punto che si gioca la partita più importante tra la pratica teurgica e la forza dell’immaginazione. Come si è avuto modo di notare più di una volta in questo saggio, nel caso specifico dell’anima decaduta dal mondo intelligibile, i legami dell’universo possono essere tanto delle catene che vincolano gli esseri umani alla realtà oppressiva delle loro pulsioni corporee quanto delle opportunità che permettono loro di riconquistare la libertà perduta dopo la caduta. In entrambi i casi, le circostanze materiali della vita dell’anima – i corpi, i luoghi, gli oggetti, i segni, i phasmata – sono essenziali per far sì che l’immaginazione medi tra genesis e nous. Riunendo insieme tutti questi temi, la traduzione/parafrasi ficiniana del De mysteriis evidenzia i legami tra religione, metafisica e magia. In questo tipo di discussione, la figura del theurgos emerge come il mediatore per eccellenza essendo egli iereus, magos, iatros e philosophos, in grado di comprendere il confine assai elusivo che separa un rito religioso da un rito magico, ma anche da tutta una varietà di riti che caratterizzano il contesto sociale e politico di una particolare comunità. Da un punto di vista più strettamente teologico, il filosofo teurgo è anche in grado di valutare correttamente il peso e la rilevanza che possono avere le opere – gli erga, appunto – in questa impresa collettiva mirante alla salvezza delle anime.

Pietro Secchi

La genesi del vincolo in Giovanni Pico della Mirandola. Gli anni 1479-1485

1. L’emergere del vincolo fra due nodi cruciali Quasi come il cerchio di luce che Gianfrancesco Pico narra apparire e sparire d’un tratto alla nascita dello zio Giovanni1, quasi un lampo pascoliano che mostra il volto livido di una casa durante un temporale, il progetto di pax philosophica, del quale la concordia è il necessario presupposto, è stato studiato pressoché esclusivamente in relazione alla famosa trilogia del 1486-1487, composta dall’Oratio, dalle Conclusiones Nogentae e dall’Apologia. Benché non manchino, certo, ricerche sugli esordi letterari di Pico, in particolare sui sonetti, sul Commento sopra una canzona d’amore, sulla De genere dicendi philosophorum, né sull’Heptaplus o sul De ente et uno, l’intuizione che, per dirla con il Bruno degli Eroici furori, non lascia scorgere nec simile nec par, viene davvero troppo spesso legata a una visione straordinaria e folgorante, accesa dalle precocissime letture del Conte. Non è un caso che il sintagma annus mirabilis sia divenuto ormai consueto nella storiografia. Poco si sono indagati, invece, e si tratta in questo caso di una semplice constatazione, tanto la genesi della concordia, quanto i suoi sviluppi, seppur larvati o trasformati. Ne è risultata dunque la delineazione, o se si vuole anche la 1 Cfr. J. Jacobelli, Quei due Pico della Mirandola, prefazione di E. Garin, Laterza, Bari 1993, p. 21.

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cronaca, date le numerose traversie che l’hanno accompagnata, dall’incidente di Arezzo alla fuga in Francia, di un’esperienza straordinaria. Un’esperienza incastonata, però, fra un Pico letterato ancora imberbe e incerto, e un Pico ormai compito e sobrio, se non addirittura savonaroliano. Ci si è soffermati altrove sul ruolo propedeutico del Commento e sugli anni che vanno dal 1488 al 14942. Obiettivo di queste pagine è pertanto far luce sulle riflessioni che maturano fra il 1479 e il 1485, che sarebbe improprio definire embrionali, e che costituiscono le fondamenta a partire dalla quali Pico elaborerà negli anni successivi la sua teorizzazione della nozione di vincolo: una nozione che, a prescindere dalle non numerose evidenze testuali, si ritiene qui utile approfondire, essendo stata finora disconosciuta. Resterebbe deluso chi si aspettasse un lavoro di mera storia o esegesi della lingua. Chi sia il filologo e quale sia la sua funzione peculiare, del resto, è proprio uno degli interrogativi ai quali ci si prefigge di rispondere in modo nuovo. A essere in questione fin dall’inizio è la relazione fra letteratura (che la si declini come poesia o come retorica non è secondario) e filosofia, vale a dire, non appena la si pensi con la radicalità che contraddistingue il nostro autore, fra linguaggio ed essere. È solo a partire da questa prima fase del pensiero pichiano, già estremamente lucida e consapevole, seppur non ancora supportata da un’ontologia, nella quale il vincolo fa comunque la sua comparsa, che le idee del 1486 potranno essere enunciate e soprattutto corroborate. Proprio il vincolo, infatti, se non è ancora l’assunto teoretico della ricezione del principio secondo la disposizione del ricevente3, quale presupposto e fondamento Cfr. P. Secchi, Il commento sopra una canzona d’amore di Giovanni Pico della Mirandola: una lettura, «Bruniana & Campanelliana», 27 (2021), 1-2, pp. 349-361. 3 Cfr. infra, p. 6. 2

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dell’epistemologia, agisce come un entusiasmo, come un interesse vorace e scevro di pregiudizi per un patrimonio culturale immenso, per un mondo intero che torna a disposizione4, e fa sì che si acquisiscano le conoscenze per costruire la visione successiva. Per fare chiarezza e non rimanere su di un piano puramente assertivo è opportuno riferirsi ai dati materiali e rivolgersi agli esordi della biografia intellettuale di Pico. Se l’incontro del 1472 a Mantova con Leon Battista Alberti e Angelo Poliziano può rivelare difficilmente una significatività diversa da una semplice notizia, escludendo una certa suggestione derivata dai personaggi, e se il biennio trascorso a Bologna come studente di teologia dal 1477 al 1479 mette subito in luce doti non comuni – nella Vita si riferisce della stesura di un compendio delle Decretales estremamente preciso – è, in realtà, il 1479 il primo, decisivo anno della vita di Pico. Libero dall’incombenza di una carriera ecclesiastica (a dispetto della titolarità della carica di protonotaro apostolico ottenuta grazie agli uffici del cardinal Gonzaga già nel 1473) a causa della morte della madre Giulia Boiardo, sua mentore in questo senso, egli si reca a Ferrara e vi respira la prima aria di libertà dello spirito. Non si tratta di una città come le altre. Prima sotto la signoria di Niccolò III, poi sotto quelle di Lionello e di Borso d’Este, il marchesato-ducato (il passaggio dall’una all’altra forma avviene nel 14715) ospita una delle più grandi corti d’Italia, non inferiore alla corte di Milano per numero di uomini. Vi operano o vi hanno operato, in perfetta sinergia con lo Studium, pensatori che segnano un’epoca, Guarino da Verona su tutti, dal 1429 al 1460. Pico ha l’occasione, durante una 4

Cfr. E. Garin, Il ritorno dei filosofi antichi, Bibliopolis, Napoli 1983,

p. 6. 5 Cfr. V. Reinhardt, Il Rinascimento in Italia, trad. it. P. Rubini, il Mulino, Bologna 2004, p. 19.

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breve visita a Firenze, di conoscere le persone che costituiranno i suoi affetti più cari, Girolamo Savonarola, Marsilio Ficino e Girolamo Benivieni, e di ritrovare Poliziano. Si dedica, altresì, al latino e al greco con Battista Guarini, figlio del sopra citato Guarino Veronese e autore di un canone pedagogico-letterario, il De ordine docendi ac studendi che, unitamente alla Politia litteraria di Angelo Decembrio, rappresenterà la bibliografia ragionata della nuova cultura umanistica. Ma v’è di più, ed è noto grazie a Eugenio Garin e a Giovanni Fioravanti6: i primi contatti con l’astrologia e con l’aristotelismo, anche attraverso le opere di Averroè, Giovanni di Jandun e Paolo Veneto. Deve essere stato un contatto niente affatto superficiale, se si fa pubblicamente onore, proprio in qualità di protonotaro, nella disputa con il teologo Leonardo Nogarola. Quel che è determinante, tuttavia, è lo strettissimo sodalizio che si salda con Poliziano. È un rapporto indissolubile, che si nutre di affetto e di continuo e reciproco stimolo culturale, che neppure la morte prematura o, per meglio dire, l’omicidio dei due riuscirà a interrompere, se è vero che sono sepolti vicini (insieme a Benivieni). Grazie ad Angelo, nonché a Battista Guarino ovviamente, Pico si interessa di letteratura, per essere più precisi di teoria della letteratura, in una maniera che sorprendentemente, se si eccettuano le ricerche di Francesco Bausi, è stata ignorata. Non è, ed è fin troppo noto, una disciplina marginale – e si può usare il termine in senso tecnico giacché sovente va a integrare i curricula universitari tradizionali basati sul trivio e sul quadrivio – nell’intero panorama del XV secolo, né è plausibile pensare alla controversia con 6 Cfr. E. Garin, Giovanni Pico della Mirandola. Vita e dottrina, Storia e Letteratura, Roma, Firenze 2011, p. 8; G. Fioravanti, Pico e l’ambiente ferrarese, in Giovanni Pico della Mirandola, convegno internazionale di studi nel cinquecentesimo anniversario della morte (1494-1994), 2 voll., a cura di G.C. Garfagnini, Olschki, Firenze 1997, vol. I, pp. 157-172.

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Ermolao Barbaro come a una sorta di hapax legomenon, dovuto alla contingenza. Due sono i nodi cruciali, più intricati e, di conseguenza, più dibattuti: 1) la scelta delle auctoritates, e se una scelta stessa possa essere considerata legittima; 2) lo statuto e la funzione della letteratura in quanto tale, se sia uno strumento o non sia piuttosto una forma ancora nascosta di rivelazione (di qui la riflessione sull’identità del filologo cui si accennava). Il primo tema concerne, naturalmente, la grande discussione relativa all’imitazione, innescata dall’improvvisa disponibilità di testi prima sconosciuti o, comunque, non fruibili: l’Institutio oratoria di Quintiliano, riscoperta da Poggio Bracciolini nel 1416, ne è testimonianza la lettera inviata da Costanza proprio a Guarino Veronese, il 15 dicembre; le orazioni di Cicerone, ora interamente accessibili (un ruolo particolare riveste la Pro Archia, come si vedrà); le traduzioni di Demostene ed Eschine a opera di Leonardo Bruni, datate 1415; i testi greci sempre di Demostene, Eschine ed Isocrate, riportati a seguito del secondo viaggio a Costantinopoli di Giovanni Aurispa, compiuto fra il 1421 e il 1423. E fin qui, per limitarci alle opzioni più illustri relative alla retorica. Se si passa alla poesia, naturalmente, non si può non riportare in primo piano Poggio, con il ritrovamento del De rerum natura di Lucrezio, né si può tacere di una vera e propria rinascita omerica, che avviene in tre fasi: il recupero dei codici dell’Iliade e dell’Odissea per mano del già citato Aurispa; le versioni latine di Bruni, Pier Candido Decembrio, Carlo Marsuppini, Poliziano; l’editio princeps, in caratteri originali, del 1488, curata da Demetrio Calcondila, professore di greco a Firenze, dopo Giovanni Argiropulo e Andronico Callisto. Sono da tenere presenti inoltre, almeno, Apollonio Rodio e Callimaco, anch’essi inclusi nel preziosissimo carico di 238 manoscritti acquistato da Aurispa. Il secondo tema, che scaturisce dall’analisi della relazione fra forma e contenuto, è quanto mai insidioso e

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di difficile decifrazione, in quanto non può non implicare uno dei problemi che risiedono al cuore dell’intera filosofia occidentale, vale a dire l’esistenza di un nesso o, dovremmo dire, di un vincolo, tra ontologia ed epistemologia. Sarà dirimente chiarire, vista la precedente allusione, in che senso e fino a che punto si possa parlare di ontologia prima dell’Oratio. È, comunque, soltanto asserendo o negando, tertium non datur, tale esistenza che la letteratura può svelare, in ultima istanza il suo volto. È d’uopo, dunque, volgersi alla posizione di Pico. 2. La scelta fra le diverse auctoritates A disposizione degli studiosi vi sono le epistole con i suoi corrispondenti più stretti, alcune delle quali raccolte prima da Garin, nel volume La cultura filosofica del Rinascimento italiano7, poi da Francesco Borghesi, nella recente e completa edizione per i tipi di Olschki8. Vi compaiono i nomi di Ficino, che tiene informato dei suoi studi e al quale chiede di leggere la Theologia platonica e poi le opere di Giamblico, di Niccolò Leoniceno, medico presso la corte ferrarese dal 1472 al 1476 e famoso per le sue traduzioni di Diodoro Siculo, di Arriano, di Procopio di Cesarea e di Dione Cassio, di Girolamo Donato, autore di Carmina che accoglie con gioia il suo arrivo a Padova, di Tommaso Medio, che gli invia una sua commedia, la Fabella Epirota. Un’indagine più approfondita meritano, per quel che interessa in questa sede, e non potrebbe essere altrimenti, le relazioni con Filippo Beroaldo il Vecchio, Angelo Poliziano ed Ermolao Barbaro. Quel che traspare, a ogni modo, è un Pico poliedrico, innamorato e curioso Cfr. E. Garin, La cultura filosofica del Rinascimento italiano. Ricerche e documenti, Bompiani, Milano 1994, pp. 254-276. 8 Cfr. G. Pico della Mirandola, Lettere, a cura di F. Borghesi, Olschki, Firenze 2018. 7

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dei più svariati generi letterari, che si interessa di Platone e Giamblico dopo essersi esercitato nella filosofia peripatetica, che nomina pertanto in termini elogiativi Temistio e Apuleio, e non disdegna né i versi né il teatro, né la storiografia, né la dossografia. Un profilo, come confessa dopo il giudizio affettuosamente bonario di Poliziano sui suoi Amores, ancora tutto da definire. Eppure, proprio la corrispondenza citata dice già molto. Il Conte ha fatto suo, fin dall’inizio, il motivo cardine dell’umanesimo: la lettura come pratica o come etica, capace di unire e rigenerare gli uomini al di là del tempo. È tanto avido quanto inclusivo, la pluralità, e quindi il pluralismo delle auctoritates non ha alternativa possibile (è il senso originario del vincolo, si è detto nel primo paragrafo). Decisivo, a riguardo, è innanzitutto, Filippo Beroaldo che, proprio grazie a lui, entra in contatto con Poliziano. Si tratta di un autore onnivoro, estremamente sottovalutato secondo Garin, che si occupa di Lucano e di Seneca, di Plinio il Vecchio, di Solino e di Apollonio di Tiana, ma che non si fa scrupoli a citare Lucrezio ed Epicuro. È anche ospite di Pico, a Firenze, nel 1486, e per Pico ha una vera e propria venerazione, che deve essere ricambiata, se questi gli invia tanto l’epistola De genere dicendi philosophorum, quanto l’epistola sulla poesia di Lorenzo. Ma che posizione ha Beroaldo? E come si integra con quella di Poliziano? È la prima triade che deve essere esaminata. Beroaldo non è un filosofo di mestiere, le sottigliezze gnoseologiche, in via antiqua o in via moderna che siano, gli sfuggono. Sono, in fondo, capziose. Il suo modello è Socrate, più in particolare il Socrate di Cicerone, colui che ha portato la filosofia dal cielo sulla terra e l’ha resa un fatto umano: «quae supra nos, nihil ad nos»9. Nel quinto libro delle Tusculanae disputationes, si legge: 9 E. Garin, Note sull’insegnamento di Filippo Beroaldo il Vecchio, in Id., La cultura filosofica del Rinascimento italiano, cit., pp. 364-387, 369.

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Socrates autem primus philosophus devocavit e coelo et in urbibus conlocavit et in domus etiam introduxit et coëgit de vita et moribus rebusque bonis et malis quaerere. Cuius multiplex ratio disputandi rerumque varietas et ingeni magnitudo Platonis memoria et litteris consecrata plura genera effecit dissentientium philosophorum, e quibus nos id potissimus consecuti sumus quo Socratem usum arbitrabamur, ut nostram ipsi sententiam tegeremus, errore alios levaremos et in omni disputatione quid esset simillimum veri quaereremus10.

È la scelta per l’antropine sophia dell’Apologia, per una tensione volta al progresso e all’auto-correzione continua, piuttosto che all’inconfutabile determinazione dei principi (si presti particolare attenzione al riferimento alla varietas). Ed è la via seguita da Carneade, contro i sostenitori della rappresentazione catalettica, e da Filone di Larissa. Così, il ciceroniano Beroaldo attacca la sicumera umanistica che si palesa tanto nell’esaltazione di paradigmi inviolabili, quanto nelle pretese filosofiche. La purezza e la limpidezza dello stile non si scindono, per lui, dalla verità che si ha il dovere di esprimere, di qui l’ammirazione per Pico come alter Apuleius11, ma si tratta, appunto, innanzitutto, di una questione di onestà intellettuale. Nella Declamatio philosophi, medici et oratoris, scrive: «Tam in philosophia studium sapientiae est quam opinatio»12. E, nell’Oratio proverbialis: «Ex mutis magistris, hoc est libris, id coram vobis expromerem, non ut ostentatur, sed veritatis vestigator; sic enim Socrates verum inveniri posse arbitrabatur, dum quid sit probabile ex utraque parte Cic. Tusc. V 4, 10-11. A riguardo, si vedano: D. Fassina, Appunti sul carteggio Poliziano-Beroaldo: la mediazione pichiana e gli esordi della corrispondenza fra i due umanisti, «Lettere Italiane», 62 (2010), 3, pp. 423-449, 427. 12 E. Garin, Note sull’insegnamento di Filippo Beroaldo il Vecchio, cit., p. 381. 10 11

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disseritur»13. Agli intellettuali non resta, allora, che un percorso esistenziale, fatto di comunicazione, scrittura, condivisione, lettura. Questa soltanto salva dalla brevitas vitae, descritta negli Adagia con parole che ricordano il famoso Rythmus alter di Alano di Lilla: «Omnis caro foenum, et omnis gloria quas flos foeni»14. L’amicizia è l’unico orizzonte possibile, certamente il più simile al vero. Senza l’amicizia, letteraria e politica in senso più ampio, più rapido e più triste, senza nulla che lo trattiene, sarebbe il nostro sfiorire. Rivolgendosi a Venceslao di Boemia, Beroaldo fa dell’amicizia ciò che il Pico dell’Oratio farà dell’intelletto e della filosofia, l’auto-poiesi della natura umana: «Si amicitia tollatur ex hominum commertio, iam non nomine esse videbimur, sed ferae, et si quid est feris truculentius; amicitia vero inter absentes hoc potissimum glutino literario coalescit et feruminatur»15. È, anche per lui, un vincolo, un gluten (spesso nel Rinascimento, si pensi a Bruno, i termini appaiono come sinonimi) che non può non tradursi nel consorzio umano, come insegna anche il Protagora platonico: «Lex vinculum est civitatis, fons aequitatis, tutela rerum publicarum»16. Una scelta, nel senso dell’esclusione o della gerarchia, fra le auctoritates, è impossibile, oltre che perniciosa. E sono sempre Socrate e Cicerone a tenere saldissima questa unità. Nel De oratore, si afferma: Illa Platonis vera vox, omnem doctrinam harum ingenuarum et humanarum artium uno quodam societatis vinculo contineri»17. E, nella Pro Archia, cui si accennava: «Etenim omnes artesquae ad humanitatem pertinent

Ivi, p. 385. Ivi, p. 370. 15 Ivi, p. 375. 16 Ivi, p. 380. 17 Cic. De Orat. III 6, 21. 13 14

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habent quoddam commune vinculum et quasi cognationem inter se continentur18.

Eppure, senza questa attitudine, nessuna metafisica avrebbe mai potuto (e voluto) essere costruita. E la posizione di Poliziano a riguardo? Orbene, essa appare perfettamente allineata a quella di Beroaldo, con il quale Damiano Fassina, citato poc’anzi in nota, non a caso, ha dimostrato essere in stretto rapporto. Angelo ama il particolare, il frammento, la minuzia e non solo intese come il recupero di autori solitamente ritenuti minori, quali quelli dell’età argentea della cultura latina (Quintiliano e Stazio), bensì come sfida ai suoi contemporanei attraverso la proposizione di un metodo rivoluzionario. Si tratta della cosiddetta filologia totale che suggerisce l’abbandono della tradizione dei commentari per passare direttamente alla collazione di tutti i manoscritti e all’individuazione di tutte le varianti19. Ma questo non basta, perché non è il feticismo per il testo (ci si perdoni la parafrasi marxiana) che può risolvere i problemi. Comprendere un testo significa far rivivere una civiltà e tutta la sua storia, con una maniacalità archeologica che Garin definisce significativamente moderna e galileiana: «Alessandro di Afrodisia, Plinio, Dioscoride, Ippocrate e Galeno, e i medici tutti, e poi Aristotele: Poliziano ci svela una notevole curiosità “scientifica”, “fisica” che può anche spiegare la scarsa simpatia, e la sua noia giovanile, di fronte al

Id. Arch. I 2. Cfr. A. Poliziano, Praelectiones 2, a cura di G. Zollino, Olschki, Firenze 2016, p. 165: «Libuit mihi aliquando excutere scrupolosius commentaria in Aristotelem nonnulla, quae isti inter prima adamant, ipsis etiam Getis barbari ora: Deus bone, quae monstra in illis, quae portenta deprehendi!». Si veda anche, a riguardo, V. Branca, M. Pastore Stocchi, Introduzione, in A. Poliziano , Miscellaneorum centuria secunda, a cura di V. Branca, M. Pastore Stocchi, Olschki, Firenze 1978, p. 47. 18

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“gran”Ficino»20. Si spiega in questa maniera il fatto che le prose di Poliziano siano sempre brevi e disorganiche, siano praelectiones, miscellanea, epistolae21. Il tassello solo è portatore di luce e di frutti, il resto è appannaggio e illusione dei Lamia, streghe che succhiano il sangue, invidiano e criticano nell’oscurità: i colleghi che tengono i corsi di filosofia nello Studium e i dotti fiorentini in generale, come ha messo in luce con estrema acutezza Igor Candido22. Pluralità degli elementi, quindi, e pluralismo, nel senso della necessità di tenerli insieme in quanto di pari dignità, sono lo scheletro altresì del pensiero polizianesco (egli si compiace di ricorrere, tra gli altri, a Demostene e a Eschine, appositamente nominati, nonché a Lucrezio, sebbene mai, lo stesso vale per Beroaldo, nelle vesti di atomista). Che anch’egli si occupi, quantunque in anni successivi a quelli che si stanno indagando (il 1492 e il 1493), delle Tusculanae disputationes non può essere un accidente e il ricorrere, nel Panepistemon, del termine varietas, volto a sottolineare una inevitabile caratteristica dei linguaggi, rappresenta più di un indizio23. Il fondamento inconcusso per porre un oggetto di ricerca o un autore come unico o anche solo come prioritario, non esiste e chi lo afferma ha dimenticato la lezione di Socrate, che ora rivive nella traduzione di Epitteto24. Nell’Orazione su Quintiliano e sulle Selve di Stazio, una praelectio ai primi corsi universitari del 1480-1481, si difende dalle critiche per le E. Garin, L’ambiente del Poliziano, in Id., La cultura filosofica del Rinascimento italiano, cit., pp. 335-363, 346. 21 Cfr. Id. (a cura di), Prosatori latini del Quattrocento, Ricciardi, Milano-Napoli 1952, p. 867. 22 Cfr. I. Candido, The Role of Philosopher in Late Quattrocento Florence: Poliziano’s Lamia and the Legacy of the Pico-Barbaro Epistolary Controversy, in C.S. Celenza (ed.), Angelo Poliziano’s Lamia in Context. Text, Translation, and Introductory Studies, Brill, Leiden-Boston, 2010, pp. 95-129, 100. 23 In proposito, cfr. A. Saveri, Valla e Poliziano: due filologie, due approcci etici, «Annali d’Italianistica», 26 (2008), pp. 111-130, 124. 24 Cfr. E. Garin, L’ambiente del Poliziano, in Id., La cultura filosofica del Rinascimento italiano. Ricerche e documenti, cit., pp. 335-363, 345. 20

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sue opzioni arbitrarie, se non intenzionalmente eccentriche, e proclama, novello Callimaco, di battere nuove vie fino a quel momento percorse da nessuno («novas tamen quasique intactas vias ingrediamur»25). Scrive, a riguardo, Paolo Viti: Appare chiarissima, allora, l’innovazione essenziale del metodo di Poliziano: l’uso in connessione del patrimonio letterario greco e latino – basti pensare alle tante opere utilizzate da Poliziano per la prima volta e sconosciute ai suoi colleghi – consente di arrivare ad una compiutezza di conoscenze, di cognizioni, di interpretazione e di fruizione dei testi che nessuno aveva tentato, né a Firenze né altrove26.

Compiutezza, si badi bene, non vuol dire monoliticità, né sistematicità. Che si preferisca Aristotele, con la sua modalità di indagine differenziata benché accuratissima nelle descrizioni, si pensi soltanto alle opere biologiche, alla clavis universalis offerta dal Fedro platonico è, di nuovo, estremamente indicativo e illumina la polemica con Ficino. Ne segue che, nella stessa prolusione, si può affermare, analogamente al Socrate-Cicerone di Beroaldo, e quasi prefigurando alcuni accenti dell’Oratio de pace: «Nam cum nihil in natura homium sit ab omni parte beatum, plurimum bona ante oculos ponenda, ut aliud ex alio haereat et quod cuique conveniat aptandum est»27. A. Poliziano, Praelectiones 2, cit., p. 19. Cfr. P. Viti, Poliziano professore a Firenze. Su alcune novità del suo insegnamento, in S.U. Baldassarri, S. Ricciardelli, E. Spagnesi (a cura di), Umanesimo e università in Toscana (1300-1600), Atti del Convegno Internazionale di Studi (Fiesole-Firenze, 25-26 maggio 2011), Le Lettere, Firenze 2012, pp. 349-362, 353. 27 A. Poliziano, Praelectiones 2, cit., p. 25. A riguardo, si veda anche D. Mengelkoch, The Mutability of Poetics: Poliziano, Statius, and the Silvae, «Mod Lang Notes», 125 (2010), 1, pp. 84-116, 87. 25

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Non si può concludere questa parte del discorso, senza citare la lettera a Paolo Cortesi, esattamente sulla polemica relativa all’imitazione, del 1491. I toni, questa volta, sono violenti. La boria di Angelo, del resto, è testimoniata per lo meno da una missiva di Francesco Pucci, peraltro suo allievo, a Bernardo Michelozzi, risalente probabilmente al 148628. Gli imitatori sono scimmie che, anche se assomigliano di più all’uomo, sono assai peggiori dei leoni e dei tori. Solo un ingegno infelice imita sempre, senza nulla trarre da sé29. E come non pensare, ancora, ai toni accorati con cui Pico rivendica le Conclusiones secundum opinionem propriam («Profecto ingenerosum est, ut ait Seneca, sapere solum ex commentario et, quasi maiorum inventa nostrae industriae viam praecluserint, quasi in nobis effaeta sit vis naturae»30)? Ecco, in attesa del confronto con Barbaro, il concetto di vincolo in questi primi anni dell’attività di Pico non è, e non può essere ancora, l’individuazione necessaria della presenza dell’Uno nei molti, che fonda tanto la verità, quanto la parzialità di ogni dottrina (si è detto, in apertura, della ricezione secondo la disposizione del ricevente). Il Cratilo, il Filebo e il Sofista, per non parlare dell’Elementatio theologica di Proclo, non sono ancora stati scandagliati a fondo, verosimilmente neppure letti in modo esaustivo. Ciò che unisce le auctoritates e che impedisce una bruta-

28 Cfr. F. Bausi, Le prolusioni accademiche di Angelo Poliziano, in S.U. Baldassarri, S. Ricciardelli, E. Spagnesi (a cura di), Umanesimo e università in Toscana (1300-1600), cit., pp. 275-304, 275: «Est quidem in eo ingenium non vulgare, sed ambitio tanta, ut eum ferre iam nemo possit; persuasit enim unum se esse in omni Italia qui poetarum sensa et mentem non inerudite interpretetur». 29 Cfr. E. Garin (a cura di), Prosatori latini del Quattrocento, cit., pp. 903-905. 30 G. Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo, a cura di F. Bausi, Guanda, Parma 2003, p. 94.

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le selezione, come nota, per esempio, Andrea Saveri31, è, per il momento un’attitudine, una prassi, figlia dell’entusiasmo e della solidarietà, attinta dal dialogo con i contemporanei e dalle fonti antiche e, forse, indirettamente sostenuta, in particolare, dal probabilismo di Cicerone. Riguardo alle fonti antiche si possono qui suggerire Seneca, di cui si è già scritto in altra sede32, Epitteto, che si è menzionato e sul quale ci si ripropone di indugiare più a lungo, nonché Terenzio, di cui Pico possiede le commedie33. 3. Lo statuto e la funzione della letteratura (retorica o poesia?) Il secondo tema o nodo cruciale, ineludibile nella presente ricerca, conduce direttamente al testo teoreticamente più denso, la replica indirizzata da Pico a Ermolao Barbaro il 3 giugno 1485. Questi aveva scritto a Pico, il 5 aprile dello stesso anno, accusandolo di aver sprecato il suo tempo, segnatamente i suoi anni a Padova e a Pavia, affaticandosi su personaggi (Tommaso d’Aquino, Giovanni Duns Scoto, Alberto Magno e Averroè!) ritenuti «sordidos, rudes, incultos»34 e instituendo di fatto un nesso indissolubile fra la raffinatezza dello stile e l’etica di chi lo padroneggia, il quale solo, ricco di un tesoro nuovo e latore performativo di una nuova pratica linguistica (si tenga a mente il progetto di ritradurre tutte le opere di Cfr. A. Saveri, Valla e Poliziano: due filologie, due approcci etici, cit., pp. 120, 122. 32 Cfr. P. Secchi, Pico e Seneca: un contributo, «Historia Philosophica», 18 (2020), pp. 45-56. 33 Cfr. P. Kibre, The Library of Pico della Mirandola, Columbia University Press, New York 1936, p. 231. 34 Cfr. E. Barbaro, G. Pico della Mirandola, Filosofia o eloquenza?, a cura di F. Bausi, Liguori, Napoli 1998, p. 38. 31

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Aristotele, che si è poi limitato alla Retorica e a Temistio), può ambire a porsi come artefice della renovatio. Preziose sono, in proposito, le considerazioni di Marco Pellegrini, che vede l’anelito umanistico estraneo ai binari della filosofia, della teologia o della pietas tradizionale e teso a servirsi di una «struttura discorsiva e mitografica»35. Non vi sono, in effetti, nella produzione di Barbaro richiami strutturali alla metafisica, né ad altre branche del pensiero intese in senso tecnico (Aristotele è fonte principe di un mondo che si intende riportare alla luce). Vi è, più precisamente, l’auspicio di un modus vivendi che, in un’accezione soltanto vagamente platonica, secondo cui il bello non può che essere vero e buono, può riportare «la bella stagione dopo la cattiva»36. La letteratura, di conseguenza, si giustifica di per sé, il livello di sublimità che ha raggiunto e può raggiungere non richiede supporti né ausili, che sarebbero piuttosto uno svilimento se non fossero in grado di toccare il livello suddetto, come sottolinea Cicerone nel primo libro delle Tusculanae37. Prova ne è il fatto che il Conte, si legge nella contro-replica, nell’intento di sostenere i suoi cari filosofi, li ha in realtà distrutti, ritenendoli incapaci di difendersi, quasi fossero «mancipia, foemina, bruta»38. Ma, attenzione ancora, non sono uomini coloro che non possiedono l’eloquenza o coloro che non possiedono la filosofia? E, soprattutto, fra l’eloquenza e la filosofia, come si colloca la letteratura? Barbaro non ha dubbi e lascia trapelare tutto il suo nervosismo nei confronti dell’amico, che rasenta persino il risentimento, tanto è vero che i due torneranno a scriversi ben più tardi, a causa delle dolorose vicende seguite 35 Cfr. M. Pellegrini, Religione e umanesimo nel primo Rinascimento, Le Lettere, Firenze 2012, p. 16. 36 Ivi, p. 17. 37 Cfr. Cic. Tusc. I 3, 5-6. 38 E. Barbaro, G. Pico della Mirandola, Filosofia o eloquenza?, cit., p. 68.

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alle Conclusiones. Se Pico fa leva su tutta l’eloquenza di cui è capace – lo si ricorderà a breve – è perché riconosce i suoi nuovi amici colpevoli nei confronti dell’eloquenza e dunque li condanna. È, del resto, ciò che egli stesso dichiara alla fine della sua lettera, nella quale confessa di aver agito in modo scherzoso per spingere l’interlocutore a cimentarsi proprio in un elogio dell’eloquenza. La polemica, della quale è informato in tempo reale anche Poliziano39, è stata studiata a lungo dalla critica, specialmente da Bausi nella sua monografia Nec rhetor neque philosophus. Fonti lingua e stile nelle prime opere latine di Giovanni Pico della Mirandola (1484-87). Questi riconosce, innanzitutto, il «collaudato artificio retorico, che consiste nel sostenere una tesi non perché la si condivida, ma solo per invogliare uno dei presenti a sostenere la tesi opposta, che si ritiene quella valida»40. Ne rintraccia, poi, le fonti più celebri nella Repubblica di Platone, nel De oratore di Cicerone, nei Dialogi ad Petrum et Paulum Histrum di Bruni, nelle Disputationes Camaldulenses di Cristoforo Landino. Vaglia, infine, più che mai opportunamente, le interpretazioni più note. Se una prima lettura, ascrivibile a Garin, coglie un profondo e radicale dissidio, che sembra riprodurre una disputa tipica del mondo antico, come avviene sovente sul terreno esegetico del platonismo, successivamente, si legge, si è invece preferito smascherare il carattere totalmente fittizio e quasi divertito dell’intero scambio epistolare fra i due intellettuali, che invero concorderebbero perfettamente sulla necessaria corrispondenza fra eloquenza e filosofia. Non tutto è così semplice, però, a parere di Bausi. Al di là dell’innegabile anfibologia che contraddistingue 39 Cfr. ivi, pp. 36-38: «Legimus saepe ego et noster Politianus quascumque habemus tuas aut ad alios, aut ad nos epistolas». 40 F. Bausi, Nec rhetor neque philosophus. Fonti lingua e stile nelle prime opere latine di Giovanni Pico della Mirandola (1484-87), Olschki, Firenze 1996, p. 19.

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la scrittura pichiana, e che si è avuto modo di riconoscere anche nel Commento sopra una canzona d’amore, una terza via è preferibile: vi sono bensì componenti «ironiche, ludiche, parodiche» – si evidenzia nell’introduzione a Filosofia o eloquenza? – ma anche «precisi, reali e non trascurabili motivi di dissenso»41. Si ritiene la posizione di Bausi del tutto esaustiva. Quel che si intende proporre, pertanto, sono alcune riflessioni e, se ci si consente, approfondimenti a margine, che possano aiutare a chiarire l’elaborazione pichiana del concetto di vincolo. Ci perdoni il lettore se si ripercorre, brevemente, l’andamento della lettera del 3 maggio, che si compone di tre parti, delle quali la parte centrale è la più corposa. In apertura, Pico riecheggia chiaramente l’ironia socratica ed elogia Barbaro per la sua capacità psicagogica. Tanto è stato ammaliante lo stile, che il Nostro non può che consentire con le sue affermazioni. Bausi segnala un passo del Fedro, 261a, a cui chi scrive si permette di aggiungere anche un passo del Gorgia, il 452e, nel quale si identifica la retorica con la capacità di persuasione. Checché ne sia delle fonti, Pico afferma di pentirsi di aver profuso tanti sforzi in un’attività di così poca importanza. Subito dopo, però, immagina che uno dei vituperati filosofi possa avere l’occasione di parlare, di contrapporre il suo pensiero. Non può non sovvenire, è fin troppo ovvio, la famigerata apologia di Protagora nel Teeteto, nella quale il filosofo di Abdera nega di ritenere che non esistano sapienti e restituisce una valenza che ritiene indebitamente scalfita alla sua concezione dell’uomo-misura. Il filosofo barbaro, da parte sua, a Bausi non è sfuggita l’antifrasi, reagisce separando totalmente eloquenza, ma adesso si può dire, in senso più forte, letteratura e filosofia. Ciò che conta davvero, ciò che rende gli uomini tali, e siamo al cospetto del rovesciamento averroistico (appa41

E. Barbaro, G. Pico della Mirandola, Filosofia o eloquenza?, cit., p. 2.

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rente o meno è ancora da valutare) della posizione di Ermolao, sono la vita e il coraggio dell’intelletto. Gli uomini supereranno le barriere del tempo e saranno ricordati non per le loro storie e i loro miti, nelle quali si crogiola, ad esempio, Aulo Gellio, bensì per la scientia humanarum divinarumque rerum. L’apologia del filosofo è costruita su autori e testi cardine, ossia, in primo luogo, Platone e Cicerone. Non è possibile ricostruire qui l’atteggiamento di entrambi nei confronti della letteratura, della poesia e della retorica, in tutta la loro complessità, plurivocità e stratificazione. Ci si limiterà a ciò che è d’ausilio per comprendere la posizione pichiana. I veri filosofi, si dice, hanno Mercurio (la raffinatezza) non sulla lingua, bensì nel cuore. Il fatto che essi non abbiano congiunto dottrina ed eloquenza va soltanto a loro merito, perché quest’ultima non avrebbe costituito altro che uno sviamento, da cui sarebbe derivata confusione, e un impedimento. Tanto grande, si aggiunge poi, è il contrasto tra il compito dell’oratore e il compito del filosofo che non potrebbero essere più contrapposti. Tra letteratura e filosofia, dunque, vi è uno iato così colorato di assiologia che l’idea di un’identificazione è semplicemente inconcepibile. Ma di quale letteratura si tratta, di retorica o di poesia? Distinguere, infatti, per Pico si rivelerà essenziale. Per il momento, sotto la scure dello scolastico, paiono cadere entrambi i generi. È uno scolastico, tuttavia, lo si è accennato, che, nel momento stesso in cui pone il primato assoluto dei contenuti, tocca vette di perfezione formale e stilistica somme e si serve di un’incredibile messe di fonti letterarie. Pico si sta prendendo gioco di Barbaro? L’anfibologia qui è tale, che pretendere di sciogliere l’ambiguità sarebbe una forzatura ermeneutica. Occorre proseguire nel ragionamento. Il poeta, asserisce Platone, nello Ione, ma anche nella Repubblica e nel Fedro, a prescindere dai suadenti e spesso ironici epiteti con i quali è rivestito, non è padrone di se stesso, né sa ciò che canta. I suoi versi

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derivano da una mania e da un entusiasmo, che nessuno può prevedere né quando né perché giungano. E se per la riconosciuta necessità dei logoi e della seconda navigazione (una visione piena delle idee, finché si è legati al corpo, è impossibile) si è costretti, nel Fedro stesso e nelle Leggi, a recuperarla a livello pedagogico, il suo contenuto veritativo rimane pressoché nullo. Chi pretenda di essere poeta in forza della sua sola abilità, sarà sempre un poeta incompiuto. La poesia del poeta savio, che in realtà non esiste, nel sarcasmo di Platone, sarà sempre offuscata dal poeta in delirio. Ancora peggiore è il giudizio sulla retorica. Il filosofo immaginato dal Conte ha buon gioco nel servirsi del Gorgia: «Nam quod aliud rhetoris officium, quam mentiri, decipere, circonvenire, praestigiari?»42. Incapace di determinare l’oggetto della propria arte, il retore è costretto ad ammettere di avere a che fare con il plausibile e non con il vero. Ma, lungi dall’essere, questa, una antropine sophia socratico-ciceroniana (è d’obbligo citare anche l’Adversus Colotem di Plutarco), che giova a non cadere nell’errore, è un’attività che non può evitare, vergognosamente, il peritrope: colui che non conosce il vero, non può conoscere neppure il plausibile e non può fare a meno di cadere nel tranello che prepara per gli altri. Ciò significa, ed è ciò che conta di più, che una letteratura, sia essa una poesia, o una retorica, senza una filosofia che sappia vedere (nel senso del theorein) almeno la necessità, se non l’essenza dei principi, è come se non esistesse. Analoga, a dispetto dell’opinione che ci si potrebbe fare con una rapida analisi, è la posizione di Cicerone. La contesa, all’interno della quale Quintiliano rappresenterebbe l’alternativa, non riguarda la relazione e l’eventuale gerarchia fra retorica e filosofia. Il De oratore, infatti, non sostiene affatto che il retore è superiore al filosofo, poiché, mentre il retore ha 42

Ivi, p. 40.

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bisogno della filosofia, il filosofo non ha bisogno della retorica. Quel che occorre discutere, proprio sulla scia di Platone, e, si vedrà, anche di Isocrate, è se possa darsi un retore (un vir bonus dicendi peritus) privo di una profonda cultura filosofica. E il fatto che una profonda cultura filosofica – ripercorsa e costruita attraverso gli Academica, le Tusculanae disputationes e il De natura deorum, solo per menzionare alcuni testi chiave – conduca al criterio del pithanon, piuttosto che ad affermazioni dogmatiche, non modifica il quadro concettuale. Anzi, soltanto in virtù di questo vero e proprio itinerarium mentis, l’azione del retore sarà più efficace e più onesta. L’attacco, dunque, è a un sapere vuoto, per il filosofo di Pico, e Cicerone è dalla sua parte: «Non desiderat Tullius eloquentiam in philosopho, sed ut rebus et doctrina satisfaciat»43. E ancora: «Vide quid agas; indisertam mavult Cicero prudentiam quam stultam loquacitatem»44. Nella medesima direzione viene in soccorso, come si diceva, anche Isocrate, che Mario Marzi annovera fra i paradigmi di Cicerone45. Nel trattato Contro i sofisti, nel quale l’oratore ateniese espone il programma della sua scuola di retorica, fondata nel 392 a.C., ci si scaglia contro i retori che non fanno filosofia seriamente e mentono. Altrimenti, se dicessero la verità, ovvero che la verità assoluta è inconoscibile46, si adopererebbero per insegnare un sapere pratico (Isocrate si accontenta di distinguere e preferire fra le doxai, è palese nell’Antidosi47) che fornirebbe la guida più sicura per la vita pubblica e privata. Non si può pretendeIvi, p. 50. Ivi, p. 58. 45 Cfr. M. Marzi, Introduzione, in Isocrate, Opere, 2 voll., a cura di M. Marzi, Utet, Torino 1996, vol. I, pp. 9-22, 22. 46 Cfr. Isocrate, Contro i sofisti, in Id., Opere, cit., pp. 155-167, 156. 47 Cfr. M.L.W. Laistner (ed.), The Loeb Isocrates. Isocrates, with an English Translation by G. Norlin, 3 voll., Heineman, Putnam’s Sons, London-New York 1929, vol. II, Antidosis, pp. 181-367, 291: «I say “the43 44

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re, nondimeno, di giungere a una tale consapevolezza, cui seguirebbe un alto senso di responsabilità etica e politica (per Platone, secondo Trabattoni, è comunque la posizione intellettuale migliore del suo tempo48), senza aver praticato le discipline scientifiche e la dialettica49. I sofisti, invece, pensando esclusivamente al linguaggio e a prevalere nelle dispute verbali, rinunciano alla filosofia e così alla retorica, da intendersi nell’accezione più autentica e nobile, che è la forma più alta di filosofia accessibile all’uomo. Non è, a pensar bene, quel che fa Barbaro, quando reputa provocatoriamente indegni coloro che hanno anteposto l’indagine sui contenuti alla cura della forma? Si giunge, finalmente, all’ultima parte. È un’agnizione plautina? Si legge: Sed exercui me libenter in hac materia tamquam infami, ut qui quartanam laudant, cum ut ingenium periclitarer, tum hoc consilio: ut, veluti Glauco ille apud Platonem iniustitiam laudat non ex iudicio, sed ut ad laudes iustitiae Socratem extimulet, ita ego, ut concitatius eloquentiae causam a te agi audiam, in eam licentius – repugnante paulisper sensu atque natura – invectus sum50.

Pico, per dirla con Descartes, continua a larvatus prodire e a ragione Bausi rileva che non è tutto qui e che i motivi di dissenso sono estremamente seri. È ciò che si desidera approfondire. Il Conte rivela il suo rispetto, la sua devozione per la retorica e per l’eloquenza che sono ories” for no system of knowledge can possibly cover these occasions, since in all cases they elude our science». 48 Cfr. F. Trabattoni, Platone, Carocci, Roma 2009, p. 44. 49 Cfr. M.L.W. Laistner (ed.), The Loeb Isocrates. Isocrates, cit., p. 333: «We gain the power, after being exercised and sharpened on these disciplines, of grasping and learning more easily and more quickly those subjects which are of more importance and of greater value». 50 E. Barbaro, G. Pico della Mirandola, Filosofia o eloquenza?, cit., p. 62.

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imprescindibili per la filosofia. Se così non fosse, sarebbe forse passato «ad Graecas litteras»51 e a Temistio, amato anche da Barbaro? Di più, egli accetta di allinearsi sulla posizione del suo interlocutore, per la quale i veri filosofi sono soltanto coloro che venerano lo stile52: «Verum enim vero iam te loco meliore statuo: do tibi eloquentiam et sapientiam mutuo nexu invicem conspirasse»53. Il termine nexus, tradotto da Bausi con «vincolo»54, è perfettamente assimilabile al termine gluten che si è rilevato in Beroaldo. Dov’è allora il dissenso? Pico non riesce a celarlo e il discorso del filosofo non è una mera finzione. È ben vero quanto ha appena affermato, ma è altrettanto vero che un primato c’è ed è quello indicato da Platone, da Isocrate e da Cicerone, se interpretato correttamente. Se chi non pratica l’eloquenza non è raffinato uomo di cultura, non è affatto uomo, lo si è già detto (il barbaro Averroè insegna e il rovesciamento di cui si è parlato non è apparente), chi non pratica la filosofia. Questa consapevolezza fa sì che a cadere sotto gli strali del Nostro non sia tutta la letteratura, bensì la letteratura che non coincida con la filosofia, vale a dire, per lui, la letteratura che non dica il vero e magari si pasca della propria vanità: «Quamvis (dicam libere quod sentio) movent mihi stomachum grammatistae quidam, qui cum duas tenuerint vocabulorum origines, ita se ostentant, ita venditant, ita circumferunt iactabundi, ut prae seipsis pro nihilo habendods philosophos arbitrentur»55. Ibidem. Bausi segnala a riguardo il seguente passo della prefazione alla traduzione di Temistio dedicata a Sisto IV, a opera di Ermolao Barbaro: «Cum dico litteras, philosophiam intelligo quae coniucta cum elo­ quaentia sit» (E. Barbaro, G. Pico della Mirandola, Filosofia o eloquenza?, cit., p. 102, nota 18). 53 Ivi, p. 58. 54 Ivi, p. 59. 55 Ivi, p. 62. 51

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Si spiega ora, auspicabilmente, il titolo che si è dato al terzo paragrafo: retorica o poesia? La prima è una letteratura non soltanto inutile e turpe, ma inesistente, si potrebbe dire, perché inconcepibile è il linguaggio senza l’essere (si vedrà da dove derivi questa concezione nel 1485); la seconda, al contrario, è talmente vera da identificarsi con la verità stessa e non con la sua mera espressione verbale. Ecco, chiarissimo, il dissenso. Non basta il culto della lingua, non basta un modus vivendi, non ogni lingua è performativa, non ogni lingua è ontologia e perciò fondamento dell’epistemologia. Barbaro si illude e cede al vezzo dei tempi. Parla, al limite, di un vincolo fra filosofia ed eloquenza, ma è sempre la seconda a conferire la dignità. Ancora, oltre alla dignità, il vincolo conferisce veridicità? C’è differenza fra retorica e poesia? Tutto questo rimane profondamente oscuro, almeno in quanto si dice espressamente, e questa oscurità è una colpa. L’attacco del filosofo, perciò, è quanto mai determinante, perché permette di procedere oltre il gusto generico e compiaciuto del discorrere (Barbaro non dichiara quale tipo di letteratura o eloquenza esalti) colpisce i vizi, anche grotteschi, della retorica, e fonda lo statuto della letteratura come poesia. In silenzio, o sottotraccia, grazie a un’invettiva per molti versi sempre da chiarire, Pico costruisce l’idea della sua theologia poetica: una dottrina dei principi rivelati, scritti e riconosciuti in versi. È la custodia preziosa di un’ontologia, il fondamento ancora implicito di un’epistemologia dell’onnipresenza del vero e dell’identificazione del falso come non-essere, da cui germinerà il suo ideale della pax philosophica. Ma da dove deriva questa concezione della poesia, cui inizialmente non si riserva che una fugace allusione? Che derivi dal Platone dei dialoghi che si sono chiamati in causa in questo paragrafo, ossia dallo Ione, dalla Repubblica e dal Fedro, non è pensabile. Il giudizio, in tali

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opere, è senza appello. Si è fatto riferimento, successivamente, al Cratilo, al Filebo, al Sofista. L’assurdità logica di una totale alterità fra essere e linguaggio (e dunque fra filosofia/epistemologia e letteratura), delineata nel Cratilo, la presenza strutturale dell’Uno nei molti o del limite nell’illimite, affermata nel Filebo, l’auto-contraddittorietà (il peritrope, di nuovo, se si vuole) del falso che per essere pronunciato deve pur “essere” qualcosa, scoperta nel Sofista prima del parricidio e della formulazione dei cinque generi sommi, potrebbero essere dei fondamenti solidissimi. Del falso come non-essere si è appena detto. Resta il fatto storico, tuttavia, che fino al 1486, non v’è traccia in Pico, né terminologica, né concettuale, del cuore di queste argomentazioni. Lo stesso dicasi per Proclo e Porfirio, i maestri della theologia poetica per eccellenza. Il Nostro, certo, potrebbe averli letti, con quanta acribia di grecista non è dato sapere, con Battista Guarini a Pavia. Più verosimilmente, attraverso la Theologia platonica di Ficino, nel 1484. Non è abbastanza, agli occhi di scrive: se la lettura fosse stata completa e fondativa, il vincolo fra filosofia e letteratura, fra linguaggio poetico ed essere sarebbe stato dimostrato ontologicamente. Vi è, invece, soltanto un’affermazione che lascia intendere e nient’altro. Il vincolo appare ancora debole ed è, in fondo, un’arma ancora inefficace contro Barbaro, che infatti non coglie le sottigliezze della lettera di Pico, dato che ribatte in modo piuttosto breve e stizzito. Il lavoro meticoloso sui testi suddetti risale, quindi, al 1486, per la precisione a dopo l’incidente di Arezzo. L’ipotesi che si intende proporre, in chiusura di questo studio, è che la fonte sia Poliziano, che già dal 1480, di fatto, si occupa di teoria della letteratura, e con il quale il contatto è continuo. Decisivi per suggerire e, nel parere del lettore, eventualmente per avallare una tale ipotesi, sono due studi di Denis Robichaud e di Guido

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Giglioni56. Entrambi integrano e ripensano radicalmente il ritratto gariniano e, in parte, quello di Palo Viti. Al Poliziano scienziato, osservatore e descrittore affiancano un potentissimo filosofo e teorico del linguaggio, senza dubbio alcuno iper-realista, esattamente come Pico. La figura del poeta, quella del filologo e quella del filosofo coincidono57. Il poeta, è quanto le Muse hanno rivelato a Esiodo, è colui che sa distinguere il vero dal falso, osserva Giglioni. Fin troppo evidente è il rovesciamento del giudizio platonico sulla poesia, che diviene il grado più alto mai raggiunto dalla conoscenza umana. Nella Prefatio in Caium Svetonium, si legge: «Scimus falsa quidem narrare simillima veris: / Scimus item, quoties libitum est, et vera profari»58. Conscio di sé e dell’oggetto che di volta in volta si propone di conoscere, il poeta (sarebbe interessante approfondire a riguardo il nesso con la magia) può inventare storie, può costituirle come reali, può diventare, incredibile dictu, legislatore (legumlator) della città, a patto di servirsi della historia, intesa come narrazione, quale sti-

56 Cfr. D. Robichaud, Angelo Poliziano’s Lamia: Neoplatonic Commenta­ ries and the Plotinian Dichotomy between the Philologist and the Philosopher, in C.S. Celenza (ed.), Angelo Poliziano’s Lamia, cit., pp. 131-189; G. Giglioni, Poliziano as a Philosopher, or the Craft of Thinking between Fiction and History, «Análisis. Revista de investigación filosófica», 4 (2017), 2, pp. 215-241. 57 Cfr. D. Puccini, Introduzione, in A. Poliziano, Stanze – Orfeo – Rime, introduzione, note e indici, di Id., Garzanti, Milano 2000, p. XXVI: «L’opera polizianea è dunque, da un punto di vista epistemologico (il termine è legittimato dall’ampiezza del suo campo d’indagine) profondamente unitaria». 58 A. Poliziano, Praelectiones 2, cit., p. 63. Si vedano anche: G. Giglioni, Poliziano as a Philosopher, cit., p. 234; A. Edelheit, Poliziano and Philosophy: the Birth of the Modern Notion of the Humanities?, «Traditio», 70 (2015), pp. 369-405, 400: «In this context it means that the only trustworthy way of doing philosophy is through philological and historical methods, thanks to which we create a bridge to the ancient wisdom, the only authentic wisdom that ever existed».

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molo per la virtù59. Sulla stessa linea, il filologo – sulla valutazione del quale si ingaggia una battaglia pluriennale con Ficino, che accusa una simile figura di dire molte cose superflue in pochissimo tempo – è, in realtà, non il grammatista, esecrato da Pico, bensì il grammaticus, che è «rather an omnivorous reader and a creator of canons», fa notare Robichaud60. Il poeta, il filologo e il filosofo conoscono, esprimono e creano. Anche Garin, che non vede ontologia in Poliziano, fa notare come all’Adamo pichiano corrisponda l’Orfeo polizianesco. Il vincolo (juncture) tra poesia, (filologia) e filosofia è precario e tuttavia saldo, conclude Giglioni, con un ossimoro appropriato alla mente e al pensiero tanto difficili da circoscrivere di Angelo: esso non indica, appunto, che nelle opere dei poeti siano contenute dottrine filosofiche, bensì che fare poesia significhi dire e fare il vero. Omero è pertanto il primo priscus theologus, si rileva nella Silva Ambra, e il filosofo per eccellenza, colui che, quasi come un demiurgo, con la parola, dice e costruisce la realtà. Nell’Oratio in expositione Homeri, che è esattamente del 1485, infatti, si afferma: Quo effectum est, ut in Homeri poesi virtutum omnium vitiorumque exempla, omnium semina disciplinarum, omnium rerum humanarum simulacra effgiesque intueamur, ipsaque illa nobis expressa expromptaque ante 59 Cfr. G. Giglioni, Poliziano as a Philosopher, cit., p. 234. È, evidente, a riguardo, l’influenza della Poetica, alla quale Pico è richiamato, già nel 1479, da Ermolao Barbaro. Cfr., ad esempio, Aristot. Poet. 1452b 34-1453a 12. Sul rapporto complesso, fra poesia e storia che implica anche la lettura di Polibio e Luciano, si veda A. Poliziano, Praelectiones 2, cit., p. 144. 60 D. Robichaud, Angelo Poliziano’s Lamia, cit., p. 140. Sulla distinzione fra le due figure, si vedano anche: A. Bettinzoli, Daedaleum iter. Studi sulla poesia e sulla poetica di Angelo Poliziano, Olschki, Firenze 1995, p. 138; A. Edelheit, Poliziano and Philosophy, cit., pp. 369-405, 397.

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oculos constituerit, quae ipsemet profecto nunquam suis oculis usurpaverat61.

Se fino al 1485, si è detto, il concetto di vincolo è per Pico un habitus, di fatto praticato attraverso la lettura indefessa, i rapporti epistolari – fratelli si sentono, al di là delle più aspre querelles, gli umanisti, ci ricorda Francisco Rico62 – e soprattutto il rifiuto della gerarchia fra le auctoritates e dell’imitazione, con un ruolo probabilmente non trascurabile della gnoseologia ciceroniana e un ruolo decisivo del legame con Beroaldo e Poliziano, nel 1485, e più precisamente nella De genere dicendi philosophorum, esso diventa la convinzione esplicita dell’unità di filosofia e letteratura, meglio intesa come poesia o come theologia poetica e non come retorica, e dunque di essere e linguaggio63. È, per il momento, un’intuizione, una visione chiara, eppure puntiforme, nella genesi della quale Poliziano, visto sotto una prospettiva differente, è ancor di più decisivo. È pensata, non è scovata, né dedotta dalla radice dall’essere. Perché il vincolo sia la condizione senza la quale nulla possa essere pensato e conosciuto, e, al tempo stesso, nulla, nessuna dottrina, possa mai essere ingenuamente ritenuta errata, come se il linguaggio potesse non essere, si dovrà attendere il 1486 e il 1488, 61 A. Poliziano, Praelectiones 2, cit., p. 88. A riguardo, si veda anche F. Bausi, Due schede su Poliziano professore, in L. Bertolini, D. Coppini, C. Marisco (a cura di), Nel cantiere degli umanisti. Per Mariangela Regoliosi, Polistampa, Firenze 2014, pp. 91-111, 98. Sulla genesi della concezione di Omero come teologo e sull’influenza del Commento alla Repubblica di Proclo, che Poliziano può aver letto prima di Pico, è, infine, essenziale, R. Lamberton, Homer the Theologian Neoplatonist. Allegorical Reading and the Growth of the Epic Tradition, University of California Press, Los Angeles 1986; in particolare, pp. 181-191. 62 F. Rico, Il sogno dell’umanesimo. Da Petrarca a Erasmo, Einaudi, Torino 1998, p. IX. 63 Ci si riferisce, in particolare, alla conclusione della lettera. cfr. E. Barbaro, G. Pico della Mirandola, Filosofia o eloquenza?, cit., pp. 62-64.

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l’Oratio e l’Heptaplus64. Senza le riflessioni e le discussioni che si è cercato di ripercorrere in queste pagine, tuttavia, il Pico che la storia ricorda, il principe della concordia, non sarebbe mai esistito.

Cfr. G. Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo, cit., p. 151; Id., De hominis dignitate, Heptaplus, De ente et uno, e scritti vari, 3 voll., a cura di E. Garin, Vallecchi, Firenze 1942, vol. I, pp. 188 e 190192. Molto efficaci, sono a questo riguardo, le considerazioni di Edgar Wind sul vincolo inscindibile, nella cultura rinascimentale, fra Pan e Proteo. Cfr. E. Wind, Misteri pagani nel Rinascimento, trad. it. P. Bertolucci, Adelphi, Milano 1985, pp. 235-266. 64

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I volti dell’essere. Philautia e vinculum amoris in Giordano Bruno

La nozione di vincolo o legame costituisce un oggetto ambiguo della filosofia di Giordano Bruno, apparentemente ultima sul piano del lessico e, al tempo stesso, originaria nella sua dimensione concettuale. Da una prima lettura, essa appare presente nei testi bruniani prevalentemente attraverso l’uso del lemma vinculum negli ultimi manoscritti cosiddetti magici, redatti tra il 1588 e il 1592, e in particolare nel De magia mathematica, nel De magia naturali, nelle Theses de magia e nell’incompiuto De vinculis in genere. Nel secondo di questi scritti, prim’ancora che nel De vinculis, Bruno fornisce una prima e autonoma trattazione sia delle diverse specie di vincula, derivanti dal gusto, dall’udito, dalla vista, dall’immaginazione e dalla facoltà cogitativa; sia dei principi generali e delle cause universali del vincire: la conoscenza dei principi attivi e passivi, quella degli elementi naturali, dei tempi, dei luoghi e dei soggetti su cui si opera, nonché dei requisiti necessari a ogni forma di vincolo1. L’uso del termine e della nozione di vincolo o legame appare perciò, almeno a prima vista, radicato nella riflessione sulla magia elaborata in questi scritti ultimi, proprio a partire dal De magia. Cfr. G. Bruno, De magia naturali (d’ora in poi De magia), in Id., Opere magiche, direzione scientifica di M. Ciliberto, a cura di S. Bassi, E. Scapparone, N. Tirinnanzi, Adelphi, Milano 2000, pp. 243-285. 1

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Tuttavia da una più approfondita lettura emerge come in questo scritto e nel successivo De vinculis, Bruno cali la riflessione sui vincula e prim’ancora sui fenomeni di attrazione naturali nella prospettiva fisico-cosmologica, psicologico-politica e ontologica, già elaborata nei dialoghi italiani e nelle opere di Francoforte. È lungo queste tre linee di ricerca che muoveremo qui la nostra ricostruzione, osservando in che modo egli ponga un’analogia strutturale tra le dinamiche di attrazione sul piano fisico, su quello psicologico-politico e ontologico. 1. «Ogni cosa va a trovar il simile, e fugge il contrario». Una teoria fisica vincoli Nella Cena de le ceneri, pubblicata a Londra nel 1584 e primo dei cosiddetti dialoghi italiani, Bruno elabora e pone un principio che sorregge l’impalcatura teorica sia della sua fisica degli elementi e dell’infinitamente piccolo, sia della sua cosmologia e dell’infinitamente grande. Ragionando sul moto dei pianeti intorno al sole, nel dialogo terzo dell’opera, egli osserva come la sua causa non sia da ricercare in un moto «violento fuor de la natura del mobile», poiché in questo caso il motore sarebbe «imperfetto [...] et altri molti inconvenienti s’aggiongerebbeno»2. Al contrario, «la terra e tanti altri corpi che son chiamati astri, membri principali de l’universo, come danno nutrimento alle cose, che da quelli toglieno la materia e a’ medesimi la restituiscono, cossi e molto maggiormente hanno la vita in sé»3. In virtù di un principio fisico di omogeneità e di uni-

Id., La cena de le ceneri, in Id., Dialoghi filosofici italiani, a cura di M. Ciliberto, note di N. Tirinnanzi, Mondadori, Milano 2000, p. 80. 3 Ibidem. 2

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formità dell’universo4, non soltanto i corpi celesti, ma tutti gli elementi e i corpi, «con una ordinata e natural volontà, da intrinseco principio se muoveno alle cose e per gli spacii convenienti ad essi»5. Nel tentativo di decostruzione della fisica e della cosmologia aristotelica, Bruno rileva come ogni cosa si muova non per una causa a essa esterna, ma in virtù di un principio vitale intrinseco, ricercando ciò che la accresce e la mantiene in vita. Secondo una serie di esempi ricorrenti nelle sue opere, «il maschio se muove alla femina, e la femina al maschio, ogni erba et animale si muove al suo principio vitale, come al sole et altri astri; la calamita se muove al ferro, la paglia all’ambra» in modo che «ogni cosa va a trovar il simile, e fugge il contrario»6. L’argomentazione qui espressa costituisce una prima formulazione del principio fisico dell’attrazione: l’attrazione più forte e più potente risiede in quella fonte di vita maggiormente conveniente a ogni elemento e corpo naturale. Come i pianeti ruotano intorno al sole, da questo attratti in quanto loro fonte e principio vitale, ognuno secondo un certo grado e una certa distanza, così ogni corpo ricerca il simile e rifugge il contrario, nel tentativo di conservare la propria forma attuale, di permanere in questa e, al tempo stesso, di accrescere la propria esistenza. Si tratta di un principio di autoconservazione, di amore di sé, di una forza o una tensione interna ai corpi e agli elementi, non più aristotelicamente rivolta a una ragione o a una causa esterna. Così si muove ogni cosa, così «muovensi […] la terra e gli astri secondo le proprie differenze locali dal principio intrinseco»7. 4 Cfr. M.Á. Granada, Bruno, Digges, Palingenio: omogeneità ed eterogeneità nella concezione dell’universo infinito, «Rivista di storia della filosofia», 47, (1992), 1, pp. 47-73. 5 G. Bruno, Cena, cit., p. 80. 6 Ivi, pp. 80-81. 7 Ivi, p. 81.

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Dagli atomi agli elementi, dai corpi semplici ai composti, «tutto avviene dal sufficiente principio interiore per il quale naturalmente viene ad esagitarse, e non da principio esteriore come veggiamo sempre accadere a quelle cose che son mosse o contra o extra la propria natura»8. I corpi e gli elementi sono tutti «in continua alterazione e moto» e tutti «hanno un certo flusso e reflusso, dentro accogliendo sempre qualche cosa dell’estrinseco, et mandando fuori sempre qualche cosa da l’intrinseco»9: è per questa ragione che, osserva Bruno «s’allungano l’unghie; se nutriscono i peli, le lane et i capelli; se rinsaldano le pelle, s’induriscono i cuoii»10. Allo stesso modo, «la terra riceve l’efflusso et influsso delle parti, per quali molti animali (a noi manifesti per tali)», ovvero i pianeti, «ne fan vedere espressamente la lor vita»11. Questa continua e omogenea dinamica di attrazione si manifesta tramite l’influsso e l’efflusso di particole, o atomi, da un corpo all’altro, garantendo così la perpetuità della vita, intesa non come la persistenza di un singolo e accidentale composto o aggregato, ma di un principio vitale universale. In virtù di esso, Bruno osserva come sia «più che verisimile (essendo che ogni cosa partecipa de vita)» che «molti et innumerabili individui vivano non solamente in noi, ma in tutte le cose composte»12. Allo stesso modo, egli rifiuta l’idea della morte, laddove questa non è altro che una disgregazione formale di un particolare legame, cioè di un composto accidentale, una trasmutazione, un passaggio di stato della materia permanente e indivisibile che lo compone: quando osserviamo qualcosa «che se dice morire, non doviamo credere quella morire, Ibidem. Ivi, pp. 81-82. 10 Ibidem 11 Ivi, p. 82. 12 Ibidem. 8 9

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quanto che la si muta, e cessa quella accidentale composizione e concordia, rimanendono le cose che quella incorreno, sempre immortali»13. La materia ultima, vale a dire gli atomi che compongono ogni corpo ed elemento, sono indivisibili ed eterni. Nel De l’infinito universo et mondi, terzo dei dialoghi italiani, recuperando e approfondendo gli argomenti già parzialmente esposti nella Cena, Bruno descrive le modalità fisiche attraverso le quali si verificano l’attrazione degli atomi, la formazione, la crescita, la trasformazione e la disgregazione degli elementi e dei corpi. Come osserva nel secondo dialogo dell’opera, non è «cosa assorda et inconveniente, anzi convenientissima e naturale»14 che in ogni corpo si «verifichino trasmutazioni finite»15, grazie all’influsso e all’efflusso degli atomi che lo compongono, così come avviene con quelli che formano la terra, i quali percorrono «l’eterea regione […] per l’inmenso spacio», legandosi «ora ad un corpo ora ad un altro»16. Allo stesso modo, osserviamo quelle «medesime particole cangiarsi di luogo, di disposizione e di forma, essendono ancora appresso di noi»17. Tutti i corpi e gli elementi naturali sono omogeneamente e uniformemente sottoposti a questo fenomeno d’influsso ed efflusso delle particole o atomi, a questa perpetua dinamica di attrazione, in virtù del principio vitale intrinseco che li muove. La sola differenza attiene il numero delle trasmutazioni possibili, che se nei corpi composti è finito, nei corpi semplici, cioè quelli celesti, è potenzialmente infinito. La ragione dell’eternità e della perpetuità degli astri e dei pianeti, non consiste, secondo Ivi, p. 82 Id., De l’infinito universo et mondi, in Id., Dialoghi filosofici italiani, cit., p. 359. 15 Ibidem. 16 Ibidem. 17 Ibidem. 13

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Bruno, in una differenza qualitativa, formale o materiale, rispetto ai corpi composti, terrestri o sublunari, come volevano la fisica e la cosmologia aristotelico-tolemaica. Onde questa terra, se è eterna et è perpetua, non è tale per la consistenza di sue medesime parti e di medesimi suoi individui, ma per la vicissitudine de altri che diffonde et altri che gli succedeno in luogo di quelli; in modo che, di medesima anima et intelligenza, il corpo sempre si va a parte a parte cangiando e rinovando18.

La continua alternanza di atomi nei corpi celesti non è differente da quanto accade nei corpi composti, animali o vegetali, «li quali non si continuano altrimenti se non con gli nutrimenti che ricevono, et escrementi che sempre mandano»19. Nei corpi celesti vige, però, una forma di equilibrio costante nell’attrazione e dispersione degli atomi che li compongono, grazie alla «vicissitudine de le parti», la quale garantisce che essi si rinnovino continuamente senza essere soggetti a invecchiamento. Al contrario, nei corpi composti non osserviamo questo stesso equilibrio, né il continuo rinnovamento degli atomi che li compongono, ma, all’attrazione di nuovi atomi, che corrisponde con la giovinezza e la crescita di quei corpi, si susseguono la loro dispersione e l’invecchiamento del corpo stesso: onde chi ben considera saprà che giovani non abbiamo la medesima carne che avevamo fanciulli, e vecchi non abbiamo quella medesima che quando eravamo giovani: perché siamo in continua transmutazione, la qual porta seco che in noi continuamente influiscano nuovi atomi, e da noi se dipartano li già altre volte accolti20. Ibidem. Ibidem. 20 Ivi, pp. 359-360. 18 19

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Se, dunque, attraverso il riconoscimento dei fenomeni di attrazione, dei moti d’influsso e di efflusso degli atomi, Bruno può rifiutare l’idea propria alla fisica e alla cosmologia aristotelico-tolemaica, di una disomogeneità materiale e formale, di una differenza qualitativa e ontologica tra corpi semplici e composti, tuttavia egli lascia ancora intatta una differenza di grado e di durata della loro esistenza, determinata dal numero delle trasmutazioni a cui possono essere soggetti. Egli distingue due ragioni a fondamento della permanenza dei mondi: una capacità intrinseca ai pianeti, basata sulla regolazione a essi interna dell’efflusso e dell’influsso di atomi da altri corpi e verso di essi, che consente loro di salvaguardare un costante equilibrio; e una possibilità estrinseca, dalla quale non possono sciogliersi, legati cioè alla volontà divina dell’«estrinseco mantenitore e providente»21. Anche nel De l’infinito, come già nella Cena, l’attrazione tra i corpi attraverso i moti d’influsso e di efflusso degli atomi costituisce il principio fisico che consente alla natura di dispiegare, nello spazio e nel tempo, tutto ciò che essa può essere, garantendo il rinnovamento permanente della vita secondo il ritmo della vicissitudine universale. Ogni corpo si viene a formare e cresce per aggregazione, «giongendosi atomi ad atomi»22, vale a dire «quando l’influsso de gli atomi è maggior che l’efflusso»23; allo stesso modo, ogni corpo è in una «certa consistenza»24, ovvero in equilibrio, «quando l’efflusso è equale a l’influsso»25; infine, ogni corpo invecchia e si dissolve «essendo l’efflusso maggior che l’influsso»26, cioè per la disgregazione degli atomi che lo compongono. Per quanto attiene quest’ulId., De l’infinito, cit., p. 398. Ivi, p. 360. 23 Ibidem. 24 Ibidem. 25 Ibidem. 26 Ibidem. 21 22

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timo caso, Bruno specifica come non si tratti de «l’efflusso et influsso assolutamente»27, ma soltanto dell’efflusso «del conveniente e natio»28 e dell’influsso «del peregrino e sconveniente»29. L’influsso di atomi dannosi al corpo non può «esser vinto dal debilitato principio per l’efflusso, il quale è pur continuo del vitale come del non vitale)»30. La garanzia della permanenza della vita, non sul piano individuale, particolare e accidentale, bensì su quello universale, è data proprio dall’infinità delle trasmutazioni, dai moti attrattivi d’influsso e di efflusso degli atomi da un corpo all’altro che si dispiegano nello spazio e nel tempo: «Per venir dumque al punto, dico che per cotal vicissitudine non è inconveniente, ma raggionevolissimo dire che le parti et atomi abbiano corso e moto infinito per le infinite vicissitudini e transmutazioni, tanto di forme quanto di luoghi»31. Occorre sottolineare che, in questa descrizione fisica e cosmologica dei moti di influsso e di efflusso degli atomi, Bruno ricorre esplicitamente alla terminologia legata alla nozione di vincolo, laddove sottolinea come un corpo non possa essere «vinto», avvinto, vincolato, dal «debilitato principio», cioè quando l’influsso o la contaminazione di ciò che gli è «peregrino e sconveniente» è maggiore dell’efflusso o della perdita di quanto gli è «conveniente e natio»32. Non è un caso che, fra i rari usi di questo termine prima degli scritti magici, esso sia impiegato in questo passaggio del De l’infinito. Proprio il riconoscimento degli infiniti moti attrattivi naturali d’influsso e di efflusso degli atomi da un corpo all’altro costituisce, nello sviluppo della riflessione bruniana, il presupposto teorico che conIbidem. Ibidem. 29 Ibidem. 30 Ibidem. 31 Ibidem. 32 Ibidem. 27 28

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sente di pensare i processi e le dinamiche di vincolamento come insite in ogni livello della realtà, da quella fisica e cosmologica dell’infintamente piccolo e dell’infinitamente grande, a quella psicologica e politica prettamente umana, fino quella ontologica che investe il vinculum amoris originario e universale tra la materia e la forma universali. In altre parole, le attrazioni rappresentano il paradigma attraverso il quale riconoscere una dinamica universale presente a ogni livello materiale e formale della realtà, e che consente di ripensare in termini fisici un fenomeno fino ad allora collocato, anche dalle stesse fonti bruniane, nella dimensione del magico e dell’occulto33. 2. Dei «tenacissimis vinculis» dei mondi Come nei dialoghi, così anche nel De immenso et innumerabilis, pubblicato Francoforte nel 1592, insieme al De monade e al De minimo, ritroviamo applicati gli stessi principi fisici nella comprensione dei fenomeni di attrazione. La trattazione dei moti d’influsso e di efflusso degli atomi, nel capitolo quinto del libro II, si innesta in una riformulazione dei passaggi del Timeo platonico dedicati al problema della dissolubilità o indissolubilità del mondo, dei desmoi o vincula che legano il mondo al Demiurgo, facendo sì che, pur se dissolubile, il mondo non si dissolva34. Il problema platonico della dissolubilità del mondo, dei vincoli che legano i corpi celesti al padre generatore pena il loro annichilimento, ritorna a più riprese nella Cfr. S. Bassi, Le parole della magia, «Physis», 28 (2001), 1-2, pp. 99-109, 102-105; mi sia consentito, inoltre, rimandare a G. Gisondi, «Profonda magia». Vincolo, natura e politica in Giordano Bruno, IISF Press, Napoli 2020, pp. 77-125. 34 Su questo tema si vedano i contributi qui raccolti di F. Fronterotta, Desmos. Le “catene” dell’essere e il “vincolo” della conoscenza fra Parmenide e Platone, pp. 27-44, e di M. Donato, Proclo e i desmoi dell’universo. Tra il Timeo e il Cratilo di Platone, pp. 45-70. 33

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riflessione ontologica e cosmologica di Bruno, attraversando tutta la sua produzione, dai dialoghi35 fino al De immenso. Come ha osservato Miguel Ángel Granada, è Ficino a costituire il canale di mediazione attraverso il quale Bruno recupera e riformula la fonte platonica36, laddove nella traduzione del Timeo, il desmos con cui il Demiurgo lega gli astri/dei, diviene il «vinculum ad vite custodiam quam nexus illi»37. Tuttavia, se con il termine mondo Ficino intendeva l’intero cosmo38, secondo il paradigma platonico, questo stesso termine assume per Bruno il significato di astro o pianeta all’interno di un universo infinito. Nella lunga Digressio quaedam, quod si veluti dissolubiles, ex natura compositionis, sunt mundi, dissolvantur, partibus a toto corpore diffluentibus, non inconvenit universali agitatione atomos (seu quomodcunque appelles prima corpora) infinite vagari39, egli inserisce il tema platonico in una prospettiva atomistica, in cui l’influsso e l’efflusso di atomi da un corpo celeste all’altro può determinare l’alterazione, l’invecchiamento e la possibilità della loro dissoluzione. Il movimento d’efflusso e d’influsso degli atomi influisce 35 Cfr. G. Bruno, Cena, cit., pp. 118-119; Id., De la causa, principio et Uno, in Id., Dialoghi filosofici italiani, cit., p. 208; Id., De l’infinito universo et mondi, cit., pp. 398, 408; Id., Eroici furori, in Id., Dialoghi filosofici italiani, cit., p. 837. 36 M.Á. Granada, «Voi siete dissolubili ma non vi dissolverete». Il problema della dissoluzione dei mondi in Giordano Bruno, «Paradigmi», 18 (2000), 53, pp. 261-289, 263; cfr. Id., Libro I. La relazione Dio/mondo e la necessità dell’universo infinito, in M.Á. Granada, D. Tessicini (a cura di), Giordano Bruno, De immenso. Letture critiche, Fabrizio Serra Editore, Pisa-Roma 2020, pp. 47-69. 37 Platone, Timeo, 41a-b, in Omnia divini Platonis Opera, translatione Marsilii Ficini, Basileae in Officina Frobeniana, 1546, p. 710. 38 Cfr. M. Ficini, In Plotinum commentarium, in M. Ficini, Opera, Basilea 1576, vol. II, p. 1593; cfr. Id., In Tim. Commentarium, in ivi, p. 1444. 39 G. Bruno, De immenso et innumerabilis, in Jordani Bruni Nolani Opera latine conscripta, publicis sumptibus recensebat F. Fiorentino, Neapoli-Florentiae, vol. I, t.1, pp. 272-274.

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sulla stabilità e sulla permanenza di tutti gli elementi e i corpi naturali, dai più piccoli fino ai pianeti, dai minimi ai massimi, secondo una sostanziale omogeneità. Dai moti attrattivi di influsso e di efflusso dipende la vita o la dissoluzione di ogni elemento e corpo naturale. I mondi e tutti i corpi celesti potrebbero permanere in eterno soltanto qualora non si verificasse né l’influsso né l’efflusso di atomi da un corpo a un altro. Tuttavia, non è possibile per l’essere umano osservare se i mondi si dissolveranno a causa della separazione degli atomi di cui sono composti. Bruno riconosce sia la dissolubilità dei mondi, sia l’incapacità di conoscere pienamente questo fenomeno, poiché si verificherebbe in tempi che trascendono l’esistenza umana, tanto del singolo quanto della specie. Egli afferma l’impossibilità che i mondi possano perpetuarsi grazie a un principio intrinseco: i movimenti d’influsso e di efflusso degli atomi comportano la dissolubilità di tutti i corpi naturali, compresi i mondi. Ma al tempo stesso, in quanto opera di una potenza divina infinita e legati a essa da «tenacissimis vinculis»40, come scrive nel Camoeracensis Acrotisimus con un’espressione che rimanda alla traduzione ficiniana di Timeo 41a-b, i mondi pur se dissolubili non si dissolveranno. Ciò può avvenire in virtù del principio estrinseco divino che tende a conservare eternamente i mondi assicurando la loro permanenza attraverso il tempo. Con la co-affermazione della dissolubilità dei mondi e, al tempo stesso, del loro essere eternamente e tenacemente legati alla causa e principio primo, Bruno pone una forma di materialismo platonico che sintetizza, concilia e cala la prospettiva fisica atomistica, che individua nel principio vitale intrinseco ai corpi e nei moti di attrazione d’influsso e di efflusso degli atomi la causa del mutamento, all’interno di uno sfondo metafisico platonico per il 40 Cfr. Id., Camoeracensis Acrotismus seu rationes articulorum adversus Peripatheticos, in ivi, p. 176.

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quale l’alternanza e la garanzia della vita universale legata alla permanenza dei mondi non può mai venir meno. L’analisi del problema della dissolubilità o dell’indissolubilità dei mondi dai dialoghi italiani alle opere latine ci consente di rilevare come la riflessione sulle attrazioni e sui vincoli attraversi tutta la produzione bruniana, ancor prima della specifica teorizzazione degli scritti magici. Anche nel De vinculis, l’utilizzo della nozione di vincolo è strettamente connesso e non separabile da questa precedente riflessione fisica, cosmologica e ontologica sulla dissolubilità o l’indissolubilità dei mondi, nonché sulla sussistenza e sulle trasmutazioni degli elementi e dei corpi naturali. Recuperando in questo scritto tanto la prospettiva atomistica e la riflessione sui moti d’influsso e di efflusso degli atomi, quanto l’impianto metafisico platonico, Bruno riafferma quella differenza di grado rispetto ai corpi composti, rilevabile nella forza e durata delle attrazioni o vincoli che legano i corpi celesti alla causa e principio primo. Nell’articolo XV («Vincibilium materiae diversitatis») della seconda sezione dello scritto, egli osserva come le attrazioni terrene siano assolutamente instabili rispetto ai vincoli che legano i pianeti, i quali non sono mai toccati dalla stanchezza ma, sempre costanti e in equilibrio nell’influsso e nell’efflusso degli atomi, sono avvinti alla prima causa e principio primo in un’assoluta beatitudine, non venendo mai meno la loro attrazione e il loro amore: Ma se esistessero delle realtà nelle quali i princìpi non vengono mai meno, del tipo, forse, degli astri e dei grandi animali del mondo o numi, che non sono toccati dalla stanchezza, e nei quali il ritmo di afflusso ed efflusso della sostanza è sempre costante e in equilibrio, allora esse resterebbero avvinte in se stesse in assoluta beatitudine41. 41 Id., De vinculis in genere, in Id., Opere magiche, cit., pp. 471-473: «Si quae vero essent, in quibus principia nunquam deficiunt, cuiusmodi

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3. La physica magica del De magia naturali La fisica che sottende la teoria bruniana delle attrazioni si fonda sul riconoscimento del principio d’omogeneità e di uniformità riconoscibile nella dinamica universale che spinge ogni elemento e corpo a muoversi, a partire dalla sua struttura atomica, verso ciò che lo accresce e lo conserva, rifuggendo ciò che lo indebolisce e lo dissolve. Questo principio costituisce la prospettiva fisica in cui Bruno riprende, riformula e colloca, nel De magia la possibilità di legare, in virtù della permanente attrazione osservabile tra gli atomi, gli elementi e i corpi. Con la redazione di questo scritto egli finalizza un processo di naturalizzazione e de-occultamento della riflessione sui vincoli e sul vincolare42, già implicitamente radicato nella filosofia naturale elaborata nei dialoghi italiani e nelle opere latine. La nozione di vincolo è qui spogliata degli elementi derivanti dalla letteratura magica e occultistica collazionata in quella sorta di officina che è il De magia mathematica, e fatta rientrare nella prospettiva fisica e cosmologica già tracciata nella Cena, nel De l’infinito e nel De immenso, nonché nell’ontologia delineata in quell’«isagogia»43 o propedeutica alla nolana filosofia che è il De la causa, secondo dei dialoghi italiani pubblicati a Londra. Dallo studio comparativo degli scritti magici, e da questi alle precedenti opere volgari e latine, è possibile constatare come da una considerazione magico-occultistica del vincolo che caratterizza le fonti magiche collazionate fortasse sunt astra et magna mundi animalia seu numina, quibus defatigatio accidit, et in quibus eflluxio et influxio substantiae aequalis est et eadem, felicissime ipsa sibi in seipsis sunt devincta» (pp. 470-472). 42 Cfr. S. Bassi, Le parole della magia, cit., pp. 99-109; cfr. N. Tirinnanzi, I libri physicorum Aristotelis e la riflessione magica di Bruno, in D. Goldoni, L. Ruggiu (a cura di), Giordano Bruno. Destino e verità, Marsilio, Venezia 2002, pp. 53-76. 43 G. Bruno, De la causa, cit., p. 174.

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nel De magia mathematica, Bruno proceda in direzione non soltanto di una naturalizzazione dei vincoli e dei principi generali del vincolare, bensì di una loro considerazione fisica, includendoli cioè nei fenomeni di attrazione tra gli atomi, gli elementi e i corpi. Dal De magia mathematica al De vinculis, passando per il De magia e le Theses, egli elabora una spiegazione di tutte le forme di vincula nei termini di ciò che, nel citare il secondo degli scritti magici nel De minimo, definisce come una «physica magica»44. Questo processo di naturalizzazione e de-occultamento della riflessione sui vincoli è particolarmente visibile nella trasposizione dell’analisi del problema del moto nel De magia, nel solco della fisica e della cosmologia già delineate nei dialoghi italiani e nelle opere di Francoforte. Il recupero della teoria del moto nell’ambito di una specifica riflessione sulla magia, è funzionale alla comprensione fisica e non più occulta del problema dell’attrazione quale fondamento e presupposto universale del vincire a ogni livello della realtà. L’approccio bruniano si pone nei termini di una traduzione del linguaggio dalla prospettiva magica e occulta delle sue fonti, a quella propria alla sua filosofia naturale, o meglio, a quella che si delinea come una vera e propria fisica delle attrazioni e dei vincoli. Nel paragrafo dedicato al De motu rerum duplici et attractione del De magia, Bruno recupera la descrizione dei fenomeni di attrazione naturali, legandoli a tre tipologie di moti d’influsso e di efflusso degli atomi da un corpo all’altro. Egli pone una distinzione tra un moto «naturalis»45, che avviene per un principio intrinseco e conveniente alla natura della cosa, e un moto «praeter-

Cfr. Id., De triplici minimo et mensura, in Jordani Bruni Nolani, Opera latine conscripta, recensebat F. Tocco, H. Vitelli, cit., vol. I, pars III, 1889, p. 210. 45 Id., De magia naturali, in Id., Opere magiche, cit., p. 206. 44

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naturalis»46, che avviene o in modo violento e non conveniente, oppure ordinato, vale a dire che non ripugna alla natura della cosa47. Nella prima forma di movimento naturalis, Bruno distingue tra un moto circolare delle «rerum naturaliter constitutarum»48, e un moto retto di quelle cose naturali «non naturaliter constitutarum»49. In linea retta «contrarium fugit a contrario»50, come l’acqua fugge il fuoco sotto forma di fumo e vapore; sempre in linea retta «simile tendit ad simile et conveniens sibi»51, come la paglia si muove verso l’ambra o il ferro verso il magnete, secondo quegli stessi esempi già formulati nella Cena. Il moto rettilineo è la forma di movimento corrispondente ai corpi naturali non naturalmente costituiti: in linea retta si allontanano da ciò che è loro contrario e che condiziona, trasforma e muta la loro esistenza, oppure si congiungono, si stringono, sono attratti e vincolati da ciò che è loro simile e conveniente, «per trovare meglio, e in forma più soddisfacente, quiete comune oppure movimento»52. Approfondendo quanto già espresso nel De l’infinito, Bruno individua, oltre alle prime due specie di moto, una terza, detta «sphericus»53, che avviene per l’influsso e l’efflusso delle particelle o atomi di un corpo verso un altro. L’influsso e l’efflusso non si verificano soltanto da un centro verso un altro seguendo una sola linea retta, oppure attorno a un centro, ma attraverso infinite linee e direzioni «velut ad eodem centrum»54. Tutti i corpi emaIbidem. Ibidem. 48 Ibidem. 49 Ibidem. 50 Ibidem. 51 Ibidem. 52 Ivi, p. 207. 53 Ivi, p. 208. 54 Ivi, p. 206. 46 47

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nano ed emettono parti dalla loro superficie o dal perimetro e, allo stesso tempo, ricevono e immettono in sé particelle provenienti da altri corpi. Questo movimento si configura come una relazione di attrazione permanente tra tutti i corpi naturali, un processo in cui essi crescono e si rafforzano «quando l’influsso del conveniente supera l’efflusso»55, e si indeboliscono, invece, «quando l’influsso dell’estraneo e del naturale è maggiore dell’efflusso del naturale»56. È questo moto sferico di attrazione e repulsione a determinare la formazione, la crescita, la corruzione, l’alterazione e la dissoluzione di tutte le specie di corpi. Esso non attiene esclusivamente le «sensibiles qualitates seu virtutes»57, bensì anche le virtù e qualità più spirituali e meno sensibili che emanano e si trasmettono da un corpo all’altro: queste ultime agiscono non solo sul corpo e sul senso, ma anche sullo spirito che pervade ogni composto, fino a raggiungere le «profundiores animae facultas [...], incutiendo certos affectus et passiones»58. Si tratta di un processo particolarmente evidente «in fascinationi­bus»59, in quelle attrazioni che avvengono «per oculi iactus»60, sia in senso attivo, sia passivo. Anche queste passioni che impressionano l’anima prima che il corpo, rientrano, nel De magia, in una considerazione fisica delle attrazioni, anticipando la riflessione del De vinculis. Nella distinzione posta nel De magia dei moti naturalis e praeternaturalis, Bruno recupera alcune delle principali acquisizioni fisiche già esposte nella Cena, nel De l’infinito e nel De immenso. Ciò non è d’altronde casuale se si considera il brevissimo lasso di tempo in cui si concentra la produzione bruniana, dal 1582 al 1592, dalle prime opeIvi, p. 209. Ibidem. 57 Ivi, p. 210. 58 Ibidem. 59 Ibidem. 60 Ibidem. 55 56

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re latine a quelle italiane, dai poemi francofortesi fino agli ultimi scritti magici, passando per le opere fisiche e matematiche. Egli procede sistematicamente secondo un metodo di riprese di problemi già tracciati in precedenza, progressivamente approfonditi e fatti rientrare in una struttura metafisica e ontologica, fisica e cosmologica, che di volta in volta si ricompone assorbendo elementi e interessi nuovi o nuovamente rielaborati. I continui rimandi tra un’opera e l’altra, le riprese tematiche o testuali, gli approfondimenti e gli ulteriori sviluppi, lasciano intravedere un’unitarietà e circolarità della sua riflessione, sia in rapporto a problemi teorici e a elementi tematici, sia ad aspetti stilistico-formali legati alla scelta dei generi letterari. L’esigenza di naturalizzare la riflessione sulle dinamiche di attrazione è particolarmente visibile nel paragrafo del De magia immediatamente successivo all’analisi delle diverse forme di moto, intitolato Quomodo magnes trahat ferrum, corallium, sanguinem etc. Bruno osserva come l’attrazione sia duplice: una avviene per «consensu»61, attraverso il moto sferico delle parti verso ciò che è a loro simile, «come quando le parti si muovono verso il loro tutto, le cose che hanno un luogo verso il proprio luogo, le cose simili vengono trascinate dalle simili e le concordi dalle concordi»62; una seconda, invece, «sine consensu»63, ossia per la forza esercitata su di un corpo da un elemento a questo contrario e a cui non può sfuggire, «come quando il contrario viene attratto dal contrario per la vittoria di quest’ultimo, perché non può sfuggirgli»64. Nella dimostrazione di questi fenomeni, egli recupera gli stessi esempi già utilizzati nella Cena e nel De l’infinito, vale a dire le Ibidem. Ivi, p. 211. 63 Ivi, p. 210. 64 Ivi, p. 211. 61 62

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attrazioni tra il ferro e il magnete o tra l’ambra e la paglia. Queste attrazioni avvengono per l’«efflusso di particelle o atomi da tutti i corpi»65. Quando gli atomi di un determinato genere si approssimano ad atomi di specie simile o affine, questi accendono un «appetitus et appulsus»66 di un corpo verso l’altro, attraendolo. È questo il caso degli atomi del ferro attratti da quelli del magnete e di quelli della paglia attratti dall’ambra. Se strofinati, infatti, sia il magnete che l’ambra attraggono con maggior forza il ferro e la paglia, poiché il calore generato dallo strofinio provoca un maggior efflusso di atomi, una dilatazione dei pori e, di conseguenza, una più forte potenza attrattiva67. Nell’illustrare questi esempi, Bruno osserva come in corpi quali il magnete o simili «la capacità e l’efficacia attrattiva non derivino da una qualità passiva o attiva, secondo la modalità comune dell’azione o della passione che è dato riscontrare nelle quattro forme elementari»68, quanto dall’efflusso e dall’influsso degli atomi. L’attività e la passività non sono qualità elementari, assolute e permanenti degli elementi e dei corpi, ma relative e instabili. Ogni corpo può essere attivo in un dato momento rispetto a un altro simile o contrario ed esercitare una forza attrattiva e, al tempo stesso, passivo in un secondo momento nella relazione con lo stesso o con un altro corpo e subire una forza attrattiva. Non a caso, osserva Bruno, una volta attratti dal magnete e dall’ambra, sia il ferro che la paglia esercitano la stessa forza attrattiva degli elementi da cui sono stati attratti e a cui si sono legati, divenendo essi stessi attivi e non più soltanto passivi. Fenomeno, questo, che non si verificherebbe, se dipendesse esclusivamente da una qualità attiva o passiva elementare. Ivi, p. 213. Ibidem. 67 Ivi, p. 214. 68 Ivi, pp. 215-217. 65 66

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La relatività dell’attività e passività degli elementi e dei corpi, così come della materia e della forma, costituisce un punto nodale della riflessione di Bruno sui vincoli. La causa di queste attrazioni non è più da ricercare nelle qualità e proprietà attive e passive, ma nei movimenti di efflusso e d’influsso degli atomi che dal magnete pervadono il ferro, attirandolo e vincolandolo: «perciò, è necessario ricondurre il fenomeno all’efflusso di quelle particelle che emanando dal magnete si sono introdotte nel ferro»69. In altre parole, l’attività e la passività non sono qualità assolute degli atomi, degli elementi e dei corpi, ma dipendono dalla condizione fisica contingente, dallo stato e dalla disposizione in un dato momento, nonché dalle relazioni di interdipendenza che instaurano tra loro. La scelta d’inserire nel De magia la trattazione, già svolta nei dialoghi e nei poemi, del problema fisico dei moti, del magnetismo e di forme di attrazione generalmente considerate occulte, è coerente con la necessità di proporre una naturalizzazione della riflessione sulle attrazioni e sui vincoli. In questo processo di riforma del linguaggio della magia naturale, le spiegazioni di quanti hanno definito i moti di attrazione in termini occulti, come fenomeni che oltrepassano l’ordine e la dimensione fisica non sono che «chymeras et somnia»70. Bruno recupera probabilmente attraverso Origine la spiegazione in termini fisici e non più occulti di queste particolari forme di attrazione naturale71. Nell’esaminare il problema della fides quale elemento indispensabile persino al Cristo nel compiere prodigi, Origene ricorreva, infatti, proprio all’esempio delle attrazioni tra il ferro e il magnete o tra Ivi, p. 217. Ibidem. 71 Cfr. F. Meroi, Sull’idea di «fides» in Giordano Bruno, in F. Meroi, E. Scapparone (a cura di), La magia nell’Europa moderna. Fra antica sapienza e filosofia naturale, Atti del Convegno (Firenze 2-4 ottobre 2003), Olschki, Firenze 2007, pp. 445-466. 69 70

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la nafta e il fuoco72, includendo questi fenomeni nella stessa dimensione fisica nella quale comprendeva anche le azioni prodigiose o miracolose. Sulla base di questo assunto teorico e recuperando la stessa interpretazione origeniana della capacità o meno del Cristo di operare virtutes, anche Bruno pensa i prodigi, i miracoli e i vincula umani, fisici o psicologici, nel novero delle attrazioni naturali73. Tutte le forme di attrazione, siano esse materiali e corporee o spirituali e immaginarie, riposano sui principi delle dinamiche di attrazione fisica, sul modello dei moti d’influsso e di efflusso degli atomi. 4. Philautia e vinculum amoris. Dalla fisica all’ontologia nel De vinculis in genere Nel passaggio dal De magia al De vinculis attraverso le Theses, Bruno giunge a dare una piena definizione a quel principio di autoconservazione, già descritto nei dialoghi e nelle opere di Francoforte, insito in ogni cosa e in virtù del quale si verificano le attrazioni, tanto nella dimensione fisica, quanto in quella psicologica e politico-civile. Nell’articolo XII della seconda sezione del De vinculis, egli definisce questo principio col termine di filautia, amore di sé: La prima ragione per la quale ogni realtà è suscettibile di vincolo deriva in parte dal fatto che essa desidera conservarsi nella condizione che possiede al presente, e in parte dal fatto che essa desidera essere condotta a perOrigene, Commentaria in Evangelium secundum Matthaeum, in Id., Opera omnia, Patrologia greca, opera et studio D.D. Caroli et C.V. Delarue, accurante J.-P. Migne, Thurnolti 2002, t. XIII, p. 883: «forsitam quemadmodum in corporibus inest quibusdam ad quaedam naturalis attractio, quemadmodum lapidi magnesio ad ferrum, et ei quod naphta appellatur ad ignem». 73 Cfr. G. Bruno, De magia, cit., p. 282. 72

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fezione secondo tale condizione e all’interno di essa. In questo consiste, in senso generale, la filautia, ovvero l’amore di sé. Quindi, se qualcuno riuscisse ad estinguere la filautia in un soggetto, acquisterebbe il potere di vincolare e sciogliere in qualsiasi modo. Al contrario, accesa la filautia, tutte le cose si lasciano stringere e ridurre più facilmente nei generi di vincoli che sono loro naturali74.

La filautia è la ragione per la quale ogni cosa si muove per permanere, per fuggire ciò che le è contrario e sconveniente, o ancora per legarsi a quanto le è «conveniente e natio». L’amore è una forza di conservazione ed espansione, di generazione e rigenerazione, individuale e universale. Essa affetta tanto il singolo quanto l’intero universo, riconducendo la vita di un individuo, di un elemento e di un corpo, alla vita universale. L’amore è la struttura intima a ogni essere vivente e, insieme, quel principio vitale universale che assorbe ogni cosa nell’eterna vicissitudine. La filautia è desiderio di conservarsi per sempre nella condizione presente, che si scontra, però, con l’azione della natura come universale vinculum amoris, la quale attraverso la vicissitudine fa sì che ogni cosa si trasformi incessantemente, perdendo la propria forma particolare per soddisfare il desiderio perenne della materia di abbracciare la totalità delle forme possibili75. Tutte le specie di legami, vincoli e attrazioni si riferiscono e sono possibili in virtù dell’originario vinculum amoris universale da cui queste dipendono e in cui consistono. Id., De vinculis, cit., p. 469: «Ratio prima, qua unumquodque vincibile est, partim est ex eo quod in eo esse, quod est sibi praesens, appetit servari, partim quod secundum ipsum et in ipso maxime perfici. Hoc est philautia in genere. Ergo si quis philautiam posset in subiecto extinguere, maximopere potens ad quomodolibet vinciendum et exolvendum redderetur. Philautia item accensa, facilius naturalium sibi vinculorum generibus astringuntur omnia» (p. 468). 75 Ivi, pp. 512-514. 74

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Come Bruno osserva nell’introduzione della terza sezione dello scritto, dedicata alla trattazione del vinculum Cupidinis, riferendosi al precedente De magia, Abbiamo spiegato nel nostro trattato sulla magia naturale come tutti i vincoli si riconducano al vincolo d’amore, ne dipendano, riposino in esso. A chi tenti di gettare i suoi vincoli attraverso le trenta specie di nodi sarà facilmente manifesto come l’amore costituisca il fondamento di tutti gli affetti: chi non ama niente, infatti, non ha di che temere, sperare, gloriarsi, insuperbirsi, osare, disprezzare, accusare, scusare, umiliarsi, emulare, adirarsi e aprire la porta ad altri sentimenti del genere76.

Il riconoscimento del vinculum amoris in virtù del quale è possibile operare tra e sugli esseri umani, funge da exemplum. L’amore è il fondamento di tutti gli affetti, principio vitale permanente che si riflette in ogni cosa sotto forma di filautia: chi non ama sarà pertanto meno vulnerabile o del tutto indifferente alle molteplici specie di attrazioni in grado di legare l’anima e il corpo77. L’amore è la passione e la forza dominante ogni altro sentimento, non riconducibile ad altro principio. Si tratta di un assunto non più soltanto fisico e cosmologico, ma intimamente strutturale all’ontologia bruniana, già in parte espressa nel De magia. Già qui, innestando il riconoscimento dell’amore nella riflessione sulle dinamiche fisiche di attrazione e repulsione, Bruno osserva: Ivi, p. 493: «Diximus in his quae de naturali magia quemadmodum vincula omnia tum ad amoris vinculum referantur, tum ab amoris vinculo pendeant, tum in amoris vinculo consistant. Per triginta quippe nodi species inducenti facile manifestum erit, ut amor omnium affectuum extet fundamentum. Qui enim nihil amat, non est cur timeat, speret, glorietur, superbiat, audeat, contemnat, accuset, excuset, humilietur, aemuletur, irascatur et aliis eiusce generis modis afficiatur» (p. 492). 77 Ibidem. 76

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E ciò significa alterazione, mutamento, passione e infine corruzione, cioè separazione di alcune parti da certe altre e ricomposizione con altre parti; infatti la morte non è altro che dissoluzione di legami. Ma nessuno spirito e nessun corpo perisce: vi è solo un continuo mutare di complessioni e combinazioni. E perciò, in conformità alle diverse combinazioni che si originano a partire dalle diverse modalità di composizione, diversi sono gli amori e diversi gli odi: dal momento che tutte le cose, come si è detto, desiderano mantenersi nel loro essere presente, perché non comprendono o rimangono dubbiose di fronte all’essere di una diversa e nuova condizione; così vi è una sorta di generale vincolo d’amore, reciprocamente dell’anima rispetto al proprio corpo e – a suo modo – del proprio corpo rispetto all’anima78.

Il principio qui espresso rappresenta il riconoscimento del vincolo d’amore quale struttura intima della natura, tanto da una prospettiva fisica quanto metafisica, come ciò che muove al legarsi e al legare, a vivere e alla vita. Allo stesso modo, nell’ultima delle Theses, Bruno riafferma come la possibilità di vincolare sia da ricercare nella relazione amore/odio quale principio che determina le alterazioni e le attrazioni tra gli elementi e i corpi, ovvero nell’amore, data la capacità di ricondurre il secondo al Id., De magia, cit., pp. 231-233: «et hoc est alteratio, mutatio, passio et tandem corruptio, nempe partium certarum et a certis partibus segregatio et cum certis compositio; nam mors aliud non est praeterquam dissolutio. Atqui neque spiritus ullus nec corpus ullum interit, sed complexionum tantum et actuum mutatio est continua. Iuxta autem varios actus, qui a compositione varia proficiscuntur, varia sunt amores et odia, quandoquidem universa, sicut dictum est, in praesenti esse consistere cupiunt, quandoquidem alius status et novi esse aut nihil intelligunt aut ambigunt; ideo generale quoddam vinculum est amoris, reciproce animae ad proprium corpus et modo suo proprii corporis ad animam» (pp. 230-232). 78

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primo: «tutte le passioni e i vincoli della volontà si riducono e si riferiscono a due, vale a dire all’irascibilità e alla concupiscenza, cioè all’odio e all’amore; ma l’odio si riduce infine all’amore, e così l’unico vincolo della volontà è l’amore»79. La priorità attribuita al vinculum amoris nell’ultima sezione del De vinculis, non possiede un semplice valore strumentale, ma corrisponde alla rappresentazione tanto fisica e cosmologica elaborata nella Cena, nel De l’infinito e nel De immenso, quanto a quella ontologica del De la causa. L’amore non è soltanto un mezzo, uno strumento o un sentimento fra tanti altri attraverso cui stabilire legami nella dimensione umana, attraendo e avvincendo l’animo di uno o più soggetti su cui si vuol agire. L’amore è la ragione ontologica strutturale e profonda insita nell’universo, il legame originario tra la materia e la forma, il principio per cui tutti gli elementi, i corpi e gli organismi naturali si legano fra loro e vivono secondo il ritmo della vita universale. Se «la morte non è altro che dissoluzione di legami», ciò vuol dire che la vita non è altro che legame. L’istituzione di particolari e singolari rapporti d’attrazione nella molteplicità e nella contrarietà del mondo finito equivale per Bruno a operare nella dimensione umana secondo il modello costituito dalla natura quale principio d’unità, vale a dire attraverso il più potente ed efficace dei vincoli possibili. Non è un caso se la terza sezione del De vinculis sia dedicata proprio alla trattazione del vinculum Cupidinis, del vincolo d’amore che lega tra loro la materia universale di cui è composto l’universo e l’anima mundi o forma universale che lo vivifica dall’interno. Id., Theses de magia, in Id., Opere magiche, cit., p. 399: «Omnes affectus et vincula voluntatis reducuntur ad duo, ipsaque referunt, nempe ad irascibilem et concupiscibilem, seu odium et amorem; odium tandem ad amorem reducitur; itaque vinculum unum voluntatis est amor». 79

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Ogni corpo, ogni elemento naturale, in quanto espressione particolare e finita di quel vinculum amoris originario che lega materia e forma, porta iscritto l’amor di sé o filautia quale principio universale e naturale comune a tutto il vivente. Questo sentimento o istinto agisce in ogni cosa come una resistenza, un desiderio di conservarsi nello stato presente e, al tempo stesso, come volontà di perfezionamento e accrescimento di sé. Chi è in grado di estinguere la filautia in un soggetto, potrà vincolarlo e liberarlo in ogni modo. Se, invece, quest’amore di sé permane nel soggetto su cui si vuol agire, questi difficilmente si lascerà avvincere da una forza esterna, legandosi invece a ciò che gli è più conveniente. Il vinciens, colui che vincola, deve allora saper estinguere, suscitare, eccitare e controllare la filautia del vincibile, il soggetto su cui opera, così da ridurne il potere di autocontrollo e indirizzarne il desiderio, allontanandolo dall’inclinazione naturale per modificarlo e manipolarlo attraverso la tecnica e l’artificio80. L’amore di sé si esplica in tutte le tipologie di legame come una resistenza all’attrazione da parte del vincibile sul vinciens. Ogni individuo, come ogni corpo ed elemento è spinto all’attrazione, ad associarsi, a vincolare e a lasciarsi vincolare, a fuggire il contrario e a ricercare il simile proprio in virtù della filautia. Ma al tempo stesso, ogni legame costituisce un momento unico e irripetibile che si perde nella continua mutazione. È questa la ragione per la quale ognuno è attratto da un oggetto differente che, pur identico, può non attrarre più l’attimo dopo, così come ciò che turba e lega le masse non vincola i pochi81.

80 81

Cfr. Id., De vinculis, cit., pp. 468-470. Cfr. ivi, p. 433.

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5. I volti dell’essere Nel De vinculis ritroviamo teorizzati quegli stessi principi fisici e ontologici già espressi nei dialoghi e nelle opere di Francoforte che sorreggono la riflessione del De magia, ora applicati, però, alla specifica dimensione antropologica82. La conoscenza fisica dei principi generali, dei tempi e dei modi con cui si verificano le attrazioni in natura, della filautia insita in ogni cosa, nonché il riconoscimento del vinculum amoris universale, costituiscono l’architettura teorica che consente a Bruno di elaborare una teoria dei vincoli prettamente umana. L’intima correlazione tra la physica magica del De magia e la riflessione antropologica e psicologico-politica del De vinculis è particolarmente rilevabile nella relativizzazione dei rapporti di attività e passività tra vinciens e vincibile. Come nel secondo degli scritti magici Bruno decostruisce l’idea di una passività o attività assolute insite negli elementi e nei corpi, stabilendo una relatività e una reciprocità della capacità attrattiva, secondo i movimenti di influsso e di efflusso degli atomi, così ritroviamo questo stesso principio applicato ai vincula umani, tanto corporei quanto psicologici. Come gli atomi del ferro eccitati da quelli del magnete esercitano a loro volto una forza attrattiva, allo stesso modo, il soggetto preda di un vincolo esercita egli stesso una forza attrattiva sul soggetto che vincola. 82 Cfr. F. Papi, L’antropologia naturalistica del «De vinculis in genere» di Giordano Bruno, «Acme. Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Statale di Milano», 15 (1962), 3, pp. 151-176. Dello stesso autore, inoltre, cfr. Id., Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno, La Nuova Italia, Firenze 1968. Per una lettura del vincolo in Bruno e in particolare del vinculum amoris che ecceda l’esclusiva indagine storico-filosofica, e per i suoi risvolti in ambito fenomenologico, psicologico e psicanalitico, cfr. S. Finzi, L’amore che precede, Moretti & Vitali, Bergamo 2021; Id., La scienza dei vincoli. Opus reticolatum: reti e vincoli in psicanalisi, Moretti & Vitali, Bergamo 2000.

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Nell’articolo XXIX («Vincibilium reciprocatio»)83 della seconda sezione del De vinculis, Bruno rileva come non sia possibile vincire se il vinciens non subisce reciprocamente il legame. I lacci non annodano e non penetrano il paziente se l’agente non è a sua volta legato: non vi è, cioè, attrazione senza concatenazione. Chi vincola possiede, tuttavia, un vantaggio rispetto al proprio paziente: in quanto artefice e padrone del vincolo, egli non lo subisce con la stessa intensità. Dato che il vinciens può esercitare un dominio sul vincibile senza mai sottoporsi al legame con la stessa intensità, se non per sua volontà, vi è sempre uno squilibrio a vantaggio del primo, ragione per la quale egli domina l’altro nonostante la reciprocità del vincolo. Affinché un vincolo risulti efficace il vinciens deve agire non in modo disinteressato, ma stimolando il desiderio del vincibile, essendo cioè egli stesso attratto e in una certa misura passivo rispetto all’oggetto del suo stesso vincolo84. Un esempio concreto di questa dinamica di reciprocità del vincolo è Bruno stesso a fornirlo nel De la causa. Anticipando l’uso del lessico che sarà proprio del De magia e del De vinculis, egli mostra qui come la nozione di vincolo sia non soltanto implicitamente presente nel lessico filosofico dei dialoghi, ma anche come questa si rifletta nell’ambito psicologico e politico. Nelle prime righe della Proemiale epistola, rivolgendosi al dedicatario dell’opera, l’ambasciatore francese Michel de Castelnau, egli ricorre alla terminologia del vincolo nell’indicare come sia stato «vinto, ubligato e stretto»85 dal suo ospite e mecenate in terra inglese, laddove è, invece, egli stesso a tentare di vincolarlo, alla ricerca di protezione, dopo le polemiche suscitate dalla pubblicazione della Cena. G. Bruno, De vinculis, cit., p. 486. Ivi, p. 450. 85 Id., De la causa, cit., p. 163. 83 84

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La relazione di attrazione e di vincolamento non si dà, dunque, semplicemente attraverso l’azione di un soggetto attivo su di un passivo, ma di un agente che è, al tempo stesso, anche passivo e un di un soggetto paziente che è anche attivo. Come nel De magia, così anche nel De vinculis l’attività e la passività non costituiscono qualità assolute, ma dipendono da condizioni contingenti, dallo stato e dalla disposizione del soggetto agente e paziente in un dato momento. Tuttavia, il modello fisico o naturale elaborato nel De magia e riadattato nel De vinculis alla dimensione umana, non rappresenta il modello analogico ultimo che consente a Bruno di pensare le attrazioni e i vincoli in una logica di permanente reciprocità e di relatività dell’attivo e del passivo, del soggetto agente e del paziente. Questa ridefinizione delle relazioni umane, come anche di quelle fisiche, ripercorre e si adatta a un modello analogico antecedente, vale a dire al modello ontologico con cui egli definisce nel De la causa la relazione tra materia e forma. Quella tra materia e forma, causa e principio, potenza e atto, costituisce la prima e originaria unione, il vinculum amoris che lega ogni aggregato materico-formale all’essere o alla vita universale. Non è un caso che nell’articolo XV (Vinculi generalitas seu universitas) della terza sezione del De vinculis, Bruno faccia esplicito riferimento al De la causa, insieme al De l’infinito, nonché a quelle rare fonti già citate nel dialogo londinese come David de Dinant e Avicebron, recuperando le questioni ontologiche relative alla distinzione tra potentia Dei absoluta e potentia Dei ordinata86, alla relazione tra la materia e la forma e all’identità di Dio e materia lì trattate:

Cfr. M.Á. Granada, Il rifiuto della distinzione tra «potentia absoluta» e «potentia ordinata» di Dio e l’affermazione dell’universo infinito in Giordano Bruno, «Rivista di storia della filosofia», 94, (1994), 3, pp. 495-532. 86

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Una sola è la potenza assoluta e semplicemente presa (quale che sia poi la potenza in particolare, e quella dei composti, e quella accidentale, che ha ammaliato i sensi e le menti dei peripatetici con alcuni dei loro seguaci cucullati), come abbiamo argomentato con ampiezza nelle pagine del De l’infinito e l’universo, e con maggior rigore nei dialoghi Del principio e l’uno, concludendo che non è stolta l’affermazione di David de Dinant e di Avicebron nel libro Fonte di vita: affermazione mutuata dagli Arabi, che non esitarono a conferire alla materia perfino l’appellativo di «Dio»87.

Le ragioni di questa ripresa nel De vinculis sono rintracciabili nella necessità di innestare la specifica riflessione sulle molteplici forme di vincula umani nel solco della prospettiva non soltanto fisica e cosmologica, ma prim’ancora ontologica, già tracciata nei dialoghi italiani. Già nel De la causa Bruno riconosce nell’amore, inteso come il legame tra la materia e la forma universali, la «causa, principio et uno sempiterno, onde l’esser, la vita, il moto pende»88, come scrive in uno dei quattro sonetti che aprono l’opera, intitolato proprio De l’amore. In quest’opera, isagogica alla sua filosofia, egli pone le fondamenta teoriche per l’affermazione del legame di materia e forma. La forma, causa e principio di distinzione e figurazione degli enti, la quale è «potestà di fare»89, non 87 G. Bruno, De vinculis, cit., pp. 519-521: «Atque una potentia absoluta atque simpliciter (quicquid / sit de potentia in particulari et compositorum et accidentaria, quae sensus et mentes Peripatheticorum fascinavit cum asseclis quibusdam cucullatis), quemadmodum pluribus in his quae De infinito et universo diximus et in dialogis De principio et uno exactius, non stultam concludentes Davidis de Dinantho et Avicebronis in libro Fontis vitae sententiam ab Arabibus citatam, qui ausi sunt materiam etiam Deum appellare» (pp. 518-520). 88 Id., De la causa, p. 179. 89 Ivi, p. 247.

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è svincolabile dalla materia, «potestà di esser fatto»90, sostrato infinito in cui, e non su cui, agisce la forma. La forma non è predicabile senza la materia, come l’atto non lo è senza la potenza: «non è cosa di cui si può dir l’essere, della quale non si dica il posser essere. E questa sì fattamente risponde alla potenza attiva, che l’una non è senza l’altra in modo alcuno»91. La materia non è un principio di passività, ma forza plastica e infinita che si dispone alla generazione di forme sempre differenti. In quanto potenza, essa non è il semplice ricettacolo delle forme, ma soggetto attivo nel portare a compimento l’atto, così come la potenza passiva non è sinonimo di una debolezza o di una privazione assoluta, ma è immagine dell’infinità informata della materia: «la qual potenza, perché non dice imbecillità in quello di cui si dice, ma più tosto confirma la virtù et efficacia, anzi al fine si trova che è tutt’uno et a fatto la medesma cosa con la potenza attiva»92. Materia e forma costituiscono due principi naturali constanti e consustanziali, «lo universo, che è il grande simulacro, la grande imagine e l’unigenita natura»93, vale a dire il prodotto dell’unione della causa e principio primo. Il rifiuto bruniano della Trinità e dell’incarnazione sul piano teologico è strettamente legato al modo di concepire il problema dell’infinito e della relazione tra il principio e i principiati, tra Dio e la sua generazione. Se l’incarnazione di Cristo e la distinzione trinitaria delle persone divine non sono legittime sul piano teologico, lo divengono, invece, in una prospettiva ontologica e cosmologica in cui, all’immagine di Cristo generato e non creato, della stessa sostanza del Padre, vi è l’universo

Ibidem. Ibidem. 92 Ibidem. 93 Ivi, p. 248. 90 91

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quale manifestazione divina94. La materia e la forma sono causa e principio posti in relazione l’uno all’altro e mai slegati o considerabili l’uno senza l’altro, se non da un punto di vista logico. Come la forma è Uno e tutto, al pari lo è la materia, e ciascuna delle due è espressione del tutto solo nel complementare rinvio all’altra: «onde se sempre è stata la potestà di fare, di produrre, di creare, sempre è stata la potenza di esser fatto, produto e creato; perché l’una potenza implica l’altra: voglio dir con esser posta, lei pone necessariamente l’altra»95. È nel riconoscimento di questa interdipendenza ontologica di materia e forma, di potenza e atto o potestà di fare e potestà d’esser fatto, frutto di un rifiuto della relazione teologica trinitaria e di una sua trasposizione sul piano naturale, che si colloca nel De vinculis il richiamo del De la causa. Recuperando l’affermazione del legame di materia e forma, Bruno sottolinea come «la materia è un qualcosa di divino, così come un qualcosa di divino è giudicata la forma, la quale o non è nulla, o è parte della materia. Nulla si dà al di fuori della materia e senza la materia»96. La 94 Cfr. A. Del Prete, La relation entre dieu et l’univers chez Giordano Bruno, in A. Del Prete, T. Berns (éds), Giordano Bruno. Une philosophie des liens et de la relation, Editions de l’Université de Bruxelles, Bruxelles 2016, pp. 19-34; E. Fantechi, La posizione sulla Trinità e la riflessione metafisica di Bruno, in O. Catanorchi, D. Pirillo (a cura di), Favole metafore e storie. Seminario su Giordano Bruno, introduzione di M. Ciliberto, Edizioni della Normale, Pisa 2007 pp. 387-406. Mi sia consentito su questi temi rimandare anche a G. Gisondi, Entre magie et théologie. Giordano Bruno et la notion de vinculum du De vinculis in genere au De la cause, principe et un, «Les études philosophiques», 135, (2020), 4, pp. 103-120 e a Id., «Profonda magia». Vincolo, natura e politica in Giordano Bruno, cit., pp. 33-76, 209-213. 95 G. Bruno, De la causa, cit., p. 247. 96 Id., De vinculis, cit., p. 519: «Et divinum ergo quoddam est materia, sicut et divinum quoddam existimatur esse forma, quae aut nihil est, aut materiae quiddam est. Extra et sine materia nihil, sicut posse facere et posse fieri tandem unum et idem sunt, et individuo uno consistunt

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materia senza la forma è nulla, così come la forma senza la materia è nulla. Il «posse facere»97 e il «posse fieri»98, la materia e la forma sono «unum et idem»99 e «riposano su un solo indivisibile fondamento, poiché insieme si dà e si toglie ciò che può far tutto con ciò che può diventare tutto»100. Come la materia spinta dall’amore universale desidera e appetisce infinitamente nuove forme, perché tutto ciò che può essere lo vorrebbe in atto, così gli elementi e tutte le specie di corpi, composti di quella stessa materia e vivificati dalla stessa forma universale, tendono verso tutte le cose e desiderano legarsi a ogni cosa, a farsi ogni cosa per colmare la loro mancanza d’essere finiti. In questa dinamica, l’amore costituisce la realizzazione sensibile ed esperibile del sentimento attraverso il quale gli elementi e i corpi si muovono, garantendo la vicissitudine e la trasformazione permanente di ogni cosa in ogni altra, l’attualizzarsi dell’infinita potenza della materia nel tempo e nello spazio. L’amore è, dunque, espressione tanto del principio interno che muove ogni cosa alla mutazione quanto del principio della vita universale. Il vnciens e il vincibile, l’agente e il paziente, legati dal vincolo d’amore, sono portati a conoscere e a desiderare, a mutare e a trasformarsi, secondo il ritmo della vicissitudine. Nella relazione d’amore, amante e amato s’inseriscono nella processualità dell’essere, nel giogo di una ragione fisico-metafisica permanente e indifferente a ogni particolarità o accidente che passa, nel divenire, attraverso l’amore come principio trascendente la molteplicità. L’amore è la ragione sensibile che spinge ogni fundamento, quia simul datur et tollitur potens facere omnia cum potente fieri omnia» (p. 518). 97 Ibidem. 98 Ibidem. 99 Ibidem. 100 Ivi, p. 520: «et individuo uno consistunt fundamento, quia simul datur et tollitur potens facere omnia cum potente fieri omnia» (p. 520).

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cosa all’ex-sistere, all’uscir fuori da sé per essere assorbita nell’infinità della vita. Ogni relazione d’amore determinata, spaziale e temporanea è parte della più generale vicenda naturale. Tutto l’universo è organizzato per rendere possibile «come per un continuo fluire, il passaggio da tutte a tutte»101 le cose. In altre parole, il vinculum amoris universale lega in maniera coordinata tutte le cose come in un continuo fluire, garantendo l’unità, la concatenazione dell’essere e la vicissitudine. Se, come Bruno scrive nell’articolo XIII (Vinculi principalis effectus) della terza sezione, «amor unus, vinculum unum facit omnia unum»102, quest’amore, questo vincolo universale che fa di tutte le cose una cosa sola, non è altro che l’essere, inteso come permanente principio vitale, legame di materia e forma, che si esplica nello spazio e nel tempo attraverso le infinite e inesauribili forme di legame tra gli atomi, gli elementi e i corpi. È questo un essere che non ha volto, che non ha forma, ma che è legame e possibilità di generare legami, che partorisce dal suo interno infiniti legami, attrazioni e vincoli che danno a loro volta forma ai suoi infiniti volti.

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Ivi, p. 509. Ivi, p. 510.

III. VINCOLI DELLA RELIGIO, DELLA CONOSCENZA, DELLA LEGGE

Giuseppe Cammisa

Religio, vincolo e comunità politica in Giusto Lipsio

1. Lipsio e la natura del vincolo religioso L’espressione che meglio riassume l’atteggiamento teorico e pratico assunto da Giusto Lipsio rispetto alla funzione politico-sociale della religione e alle due opzioni antitetiche dell’uniformità confessionale e del pluralismo religioso è quella di crisi del legame. L’opposizione tra pluralismo religioso e uniformità confessionale, e la ben nota scelta di Lipsio in favore di quest’ultima, possono infatti essere adeguatamente interpretate solo rinviando a una duplice consapevolezza che si andò progressivamente diffondendo nei più avveduti circoli politici e intellettuali del ‘500 europeo: da un lato, quella di non poter fare a meno della religione in quanto indispensabile vincolo sociale; dall’altro, quella dell’attuale incapacità della religione a farsi carico proprio di questa funzione. Nel II capitolo del IV libro della Politica ritroviamo asserzioni che chiariscono sin da subito in che modo l’umanista brabantino declini la funzione politico-sociale esercitata dalla religio e l’orizzonte concettuale entro il quale si muove la sua strategia argomentativa. Innanzitutto, è altamente significativo che l’analisi della religione si collochi nel quadro più ampio di una complessa articolazione interna della prudenza: dopo aver esaminato nel

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III libro della Politica i caratteri della cosiddetta prudenza altrui, il IV libro si apre con la chiara intenzione di procedere con la scomposizione della prudenza propria del principe nei suoi elementi costitutivi. Se la prima divisione concerne la separazione della «prudenza civile» dalla «prudenza militare» – con la prima che «interviene nel governo quotidiano e nei periodi di pace»1, mentre alla seconda «si ricorre in guerra e nei disordini»2 –, a propria volta la prudenza civile è suddivisa da Lipsio in «prudenza umana» e «prudenza divina», espressione, quest’ultima, che designa quel genere di prudenza che «tratta e regola le cose sacre e la religione, nei limiti però delle mansioni del principe»3. È, dunque, all’interno di un discorso prudenziale relativo all’arte di governo del sovrano che Lipsio esplicita la funzione politico-sociale svolta dalla religione, la cui importanza è rimarcata tanto dall’affermazione con cui Lipsio apre l’esame particolareggiato della prudenza divina, e cioè che «senza dubbio in ogni Stato prima per importanza è la cura della religione»4; quanto dalla sentenza che chiude il II capitolo del libro IV, che «non c’è nulla di più importante nelle cose umane della religione, la quale va difesa con ogni forza possibile»5. Una funzione decisiva e ineludibile, giacché consiste nella produzione del vincolo sociale originario senza il quale viene a mancare il presupposto stesso dell’unità e della coesione della comunità politica: sostiene, infatti, Lipsio con decisione che «la religione e il

G. Lipsio, La Politica, IV, 2, in Id., Opere Politiche, 2 voll., a cura di T. Provvidera, vol. I, t. I, Nino Aragno editore, Torino 2019, p. 271. Si è qui scelto di conservare l’uso dei caratteri maiuscoli e dei corsivi così come compaiono nell’opera di Lipsio. 2 Ibidem. 3 Ibidem. 4 Ibidem. 5 Ivi, p. 277. 1

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timor di Dio soltanto mantengono il consorzio umano»6, e che eliminato questo vincolo «la vita umana si riempirà di stoltezza, di scelleratezze e di crudeltà»7. Si tratta di un passaggio decisivo dell’argomentazione del brabantino, poiché è dalla lucida coscienza dell’indispensabilità8 del vincolo sociale prodotto dal sentimento religioso e della sua condivisione che discendono il rifiuto del pluralismo religioso e la difesa della prospettiva dell’uniformità confessionale: il dilagare di stoltezza, scelleratezze e crudeltà, infatti, non è determinato esclusivamente dal radicale venir meno del legame religioso, bensì anche da quella particolare forma di incuria della religio, e delle sue ricadute politico-sociali, consistente nella mescolanza di culti differenti all’interno della medesima comunità. Al riguardo, Lipsio non può essere più lapidario: «la religione, se è una, è fautrice di unità, ma dal mettere insieme più religioni nasceranno sempre disordini»9. Posizione che rende ragione anche del conservatorismo lipsiano in materia di organizzazione e controllo degli aspetti rituali del culto: un sovrano realmente saggio, infatti, non deve limitarsi a «stabilire che si osservi una sola religione e si adori un solo Dio»10, ma deve altresì assicurarsi che questa venga «osservata secondo le consuetudini patrie»11, dal momento che «presso tutte le Ivi, p. 273. Ivi, p. 275. 8 La considerazione nutrita da Lipsio nei confronti della funzione politico-sociale della religione è talmente alta da estendersi alla religione pagana. Nel De una religione liber leggiamo, infatti, quanto segue: «Il che [il riferimento è all’asserzione secondo cui «la religione e il timor di Dio soltanto mantengono il consorzio umano»] vale anche per la falsa religione, e ovunque mai uno Stato si è mantenuto saldo senza una qualunque forma di religione. Quanto grande dunque è la forza della vera religione, il cui simulacro sostiene questo peso?» (G. Lipsio, Libro dell’unica religione contro il polemista, in Id., Opere Politiche, cit., vol. II, 2020, p. 261). 9 G. Lipsio, La Politica in Id., Opere Politiche, cit., vol. I, t. II, p. 275. 10 Ivi, p. 277. 11 Ibidem. 6 7

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genti è considerata cosa nefasta il trasgredire o il profanare i riti patri»12. È forse superfluo ricordare come tali concezioni non rappresentassero affatto un unicum nel contesto della riflessione politica della prima età moderna: l’eminente funzione politico-sociale della religio era stata abbondantemente tematizzata dal pensiero politico classico greco e romano, per essere poi riattualizzata e rinnovata già nella riflessione di pensatori del calibro di Machiavelli e Bodin. In ogni caso la trattazione lipsiana del tema non pecca certo di originalità, come testimonia, ad esempio, l’attenzione dedicata dal brabantino alla distanza che separa i benefici prodotti dalla religio (intesa come culto pubblico) dagli effetti perniciosissimi e antisociali prodotti dalla superstitio. Tuttavia, intendiamo in questa sede evidenziare come l’importanza assegnata da Lipsio al vincolo sociale prodotto dal legame religioso dipenda, in ultima istanza, dal riconoscimento del positivo ruolo pedagogico e formativo esercitato dalla religione sull’animo umano. Se è vero, infatti, che «grande è l’imperio della religione sul nostro animo, perché la vita si fonda sulla religione»13, tale imperio si fonda a sua volta sull’insopprimibile pungolo disciplinante esercitato dalla coscienza14, definita non a caso da Lipsio «residua scintilla di retta ragione nell’uomo, giudice e indice delle buone e delle cattive azioni»15: essa, dunque, fungendo al contempo da Ibidem. Id., La Politica, I, 3, in Id., Opere Politiche, cit., vol. I, t. I, p. 81. 14 In questo senso, riteniamo che il valore politico-sociale della religio vada individuato nell’influenza positiva da essa esercitata sul sano sviluppo delle coscienze degli individui che compongono il corpo sociale. Secondo Lipsio, infatti, la coscienza «è figlia della devozione, e trae chiaramente la sua origine dalla radice del culto divino», nel senso che «laddove non vi è scrupolo religioso o timore di Dio, il seme della coscienza non abbonda nell’animo umano» (Ivi, I, 5, p. 99). 15 Ibidem. 12 13

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freno del peccato e da fonte di tormento interiore successivo al peccato, si pone quale «correttrice degli affetti e pedagoga dell’anima»16. 2. La Politica Religio lipsiana nella storia della confessionalizzazione e della secolarizzazione Guardare alla crisi del legame politico-sociale esercitato dalla religione nella prima età moderna attraverso la lente dell’opera di Lipsio, pone l’annoso e forse non pienamente risolvibile problema di vagliare il rapporto tra la personale vicenda religiosa lipsiana, dai contorni a prima vista contraddittori, e le differenti definizioni della religio rinvenibili in punti diversi della sua produzione intellettuale. Le ben note peripezie confessionali che caratterizzarono il suo percorso esistenziale spiegano perché egli si fosse trovato già in vita nella difficile posizione di essere inviso contemporaneamente alle fazioni protestanti più rigorose, ai cattolici più intransigenti e ai fautori più radicali della libertà di culto, rendendo ragione della rapida diffusione già tra i contemporanei dell’immagine di un Lipsio religiosamente opportunista, se non addirittura di un nicodemita agnostico. La questione della vera natura della religiosità lipsiana non ha smesso di interrogare la storiografia filosofica moderna e contemporanea che più si è interessata alla sua opera, e le proposte che hanno cercato di interpretarne unitariamente la condotta di vita e l’elaborazione teorica non sono certo mancate. Un simile interesse non deve sorprendere se si considerano non solo la centralità della religio nella riflessione etico-politica lipsiana, ma anche l’opportunità di meglio inquadrarla nel contesto di quei più ampi fenomeni sto16

Ivi, p. 101.

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rico-sociali e culturali che attraversarono il continente europeo nella prima età moderna, quali i processi di confessionalizzazione, secolarizzazione e di diffusione dell’idea di tolleranza in ambito politico e religioso. A tal proposito, è nostra impressione che la prospettiva di ricerca aperta da Santo Burgio metta in luce l’elemento fondativo dell’intero progetto pedagogico-politico di Lipsio: la scelta, cioè, di fare della riconfigurazione della soggettività – fondata sul binomio constantia/prudentia e sull’opposizione di opinio e ratio – il punto di partenza imprescindibile per una riforma degli ordines esteriori e, in senso più generale, della natura stessa del rapporto tra rinnovata soggettività e mondo esterno. Secondo Burgio, l’opposizione tra ecclesia visibilis ed ecclesia invisibilis «costituiva il motivo di fondo che legittimava la pratica della dissimulazione religiosa, a fronte della sostanziale indifferenza fra gli ordinamenti ecclesiali cattolici e riformati, collocati dal punto di vista spiritualista entro una comune dimensione adiaforica in quanto ordini esterni e istituzionali»17. All’adiaforismo politico stoico e all’adiaforismo istituzionale spiritualista, Lipsio avrebbe, invece, opposto «un più duttile atteggiamento filosofico-politico, attraverso un riuso plurimo e creativo dei materiali stoici»18, e attingendo con forza ai modelli etici e istituzionali della romanità classica. Da qui, soggiunge ancora Burgio, la quintuplice declinazione lipsiana della nozione di religione: […] una vera religio dal significato strettamente spiritualistico; una religione esteriore, adiaforica in senso generale; una religione esteriore preferibile, vera linea di demarcazione fra ratio e spiritus, fondata sul grado di allusività alla vera S. Burgio, Introduzione, in Id., In publicis malis. Saggi sulla constantia in Giusto Lipsio, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, pp. 5-30, 28. 18 Ivi, p. 29. 17

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religio che gli apparati rituali erano in grado di produrre a beneficio del popolo […]; una politica religio, nel senso machiavelliano e poi ‘tecnico’ formulato dalla ragion di stato; come religio politica, capace di legare insieme fato, libero arbitrio e attivismo della constantia19.

È all’interno di questa cornice spirituale e teorica che sarebbe emerso l’interesse di Lipsio nei confronti del sé quale decisiva istanza negoziale, ovvero di un io che acquisisce centralità in qualità di spazio negoziale votato alla composizione di quelle diverse rationes e dei diversi ordines costitutivi della prima età moderna. Tuttavia, questo tentativo di riforma e di rinnovato coordinamento gerarchico degli ordines esteriori sembra coesistere, nella riflessione di Lipsio, con tendenze a una loro polarizzazione e reciproca autonomizzazione. L’attribuzione alla rinnovata soggettività fondata sulla constantia del ruolo di decisiva istanza negoziale – definita altrove da Burgio anche come «mediazione continua fra appartenenza in tensione reciproca»20 – sembra, infatti, implicitamente presupporre un riconoscimento da parte di Lipsio della potenziale alterità e irriducibilità reciproca delle leggi soggiacenti alle rationes e agli ordines esteriori. In questo senso, è legittimo chiedersi se la circolarità, istituita da Lipsio, tra la costruzione e la cura di una soggettività incentrata sulla costanza e sul passaggio dal dominio dell’opinio a quello della ratio e la fondazione di un nuovo ordine politico pacificato, non conducano, in ultima istanza, alla contemporanea fondazione e polarizzazione di spazi interni ed esterni, privati e pubblici, attraverso i quali neutralizzare, o perlomeno ricomporre, quelle spinte conflittuali, di chiara origine passionale, Ivi, p. 30. Id., Giusto Lipsio: appartenenza e natura, in Id., In publicis malis. Saggi sulla constantia in Giusto Lipsio, cit., pp. 31-53, 47. 19 20

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laceranti tanto l’unità dell’io quanto l’unità della collettività. Se così fosse, non sarebbe peregrina la proposta di leggere il programma etico, pedagogico e politico di Lipsio attraverso le coordinate interpretative di quel filone della ricerca sociologica che lega insieme i processi di autonomizzazione delle sfere della vita e lo sviluppo storico delle forme di soggettività moderna nella direzione di una sempre più netta compartimentazione psicologica del sé. Sulla scorta di queste considerazioni, nelle pagine che seguono esamineremo gli aspetti salienti della religio politica lipsiana, soffermandoci in particolare sullo stretto legame tra la declinazione primo-moderna della religio quale imprescindibile instrumentum regni e lo sviluppo dei primi fenomeni di confessionalizzazione e di secolarizzazione. Riteniamo non sia mera provocazione sostenere che, assegnando alla religio la funzione di decisivo vincolo sociale, i pensatori della prima età moderna – si pensi non solo a Lipsio, ma anche a Machiavelli, Botero, Alberico Gentili, ai politiques francesi eccetera – non offrirono in prima battuta alcun “contributo originale”, bensì ebbero il merito di riattualizzare un topos caratteristico non solo della filosofia classica e della storiografia greca e latina, ma anche della mentalità cristiana medievale. Sulla declinazione politica della religione nel pensiero antico, è esemplificativo il famoso passo del VI libro delle Storie di Polibio relativo alla superiorità della costituzione romana anche in materia religiosa, che forse non è inopportuno riportare integralmente: I Romani hanno inoltre concezioni di gran lunga preferibili nel campo religioso. Quella superstizione religiosa che presso gli altri uomini è oggetto di biasimo, serve in Roma a mantenere unito lo Stato: la religione è più profondamente radicata e le cerimonie pubbliche e private sono celebrate con maggior pompa che presso ogni al-

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tro popolo. Ciò potrebbe suscitare la meraviglia di molti; a me sembra che i Romani abbiano istituito questi usi pensando alla natura del volgo. In una nazione formata da soli sapienti, sarebbe infatti inutile ricorrere a mezzi come questi, ma poiché la moltitudine è per sua natura volubile e soggiace a passioni di ogni genere, a sfrenata avidità, ad ira violenta, non c’è che trattenerla con siffatti apparati e con misteriosi timori. Sono per questo del parere che gli antichi non abbiano introdotto senza ragione presso le moltitudini la fede religiosa e le superstizioni sull’Ade, ma che piuttosto siano stolti coloro che cercano di eliminarle ai nostri giorni (Plb. VI, 56)21.

Per quanto concerne il primo medioevo, la nozione di Respublica Christiana testimonia quanto fosse aliena alla prima cristianità l’idea di una netta separazione tra la dimensione religiosa e la dimensione politica. L’espressione Respublica Christiana si riferisce, infatti, a un mondo politico-religioso profondamente, se non proprio indissolubilmente, unitario. Come ha scritto magistralmente al riguardo Ernst Bockenforde, «la ragione dell’unità politico-religiosa della Respublica Christiana deve essere individuata nel suo essere un ordinamento integralmente sacro, il che rendeva quasi inconcepibile la distinzione di secolare e spirituale». In questo universo concettuale «dove anche l’Impero si prefiggeva di realizzare il regnum Dei in terra e di respingere gli assalti del male»22, è chiaro come e quanto l’autorità del potere politico risultasse religiosamente (o, per meglio dire, cristianamente) fondata. Di conseguenza – soggiunge ancora Bockenforde – L’Imperatore e il Papa non erano rappresentanti l’uno Polibio, Storie, a cura di C. Schick, Mondadori, Milano 1970, vol. II, pp. 133-134. 22 E. Bockenforde, La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, a cura di M. Nicoletti, Morcelliana, Brescia 2006, pp. 36-37. 21

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dell’ordine spirituale, l’altro di quello temporale, entrambi piuttosto erano, all’interno dell’unica ecclesia, titolari di uffici (ordines) distinti; e l’Imperatore, in quanto tutore e patrono della cristianità, era una persona altrettanto benedetta e consacrata quanto il Papa: in entrambi la respublica christiana viveva come un’unità politico-religiosa23.

Dunque, un primo vero elemento di innovazione del pensiero politico di Lipsio può essere individuato nell’aver riconosciuto nel fenomeno religioso sia il vincolo fondamentale della vita associata, sia, contemporaneamente, uno dei più pericolosi fattori di disgregazione della comunità politica. A partire dalla crisi del ruolo politico-sociale della religio, infatti, Lipsio procede a una ridefinizione dei caratteri della religione, della politica e della natura delle loro reciproche relazioni. Questa opera di ridefinizione conduce Lipsio al rifiuto del pluralismo religioso e alla conseguente adesione alla prospettiva dell’uniformità confessionale. Tuttavia, piuttosto che sugli esiti, riteniamo possa essere ben più importante soffermarsi sulle premesse dell’operazione effettuata da Lipsio. Ne individuiamo tre: in primo luogo, il riconoscimento del valore politico-sociale della religione non implicò affatto per Lipsio il ritorno all’universo concettuale medievale dove politica e religione costituivano un’unità indistinguibile. Restava cioè intatta la coscienza, questa sì pienamente moderna, dell’esistenza di uno iato che in qualche modo separa l’azione religiosamente motivata dall’azione politicamente motivata, rendendo le due dimensioni non del tutto sovrapponibili. In secondo luogo, una volta riconosciuta la frattura che separava la dimensione politica e la sfera religiosa, Lipsio ripensò la natura della loro relazione non tanto in termini di gerarchia, ma in termini di polarizzazione, ovvero di 23

Ivi, p. 37.

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una reciproca (anche se certamente ancora parziale) autonomizzazione. Infine, la presa di distanza dal principio gerarchico e la conseguente polarizzazione del politico e del religioso presupponevano, a loro volta, l’individuazione di quelli che potremmo definire i rispettivi “campi di esistenza”, ovvero quegli spazi ben delimitati in cui il politico e il religioso avrebbero esercitato con relativa autonomia e indipendenza la funzione di ordinatori: da un lato, lo spazio pubblico e politico della collettività, dall’altro, quello privato e interiore della coscienza individuale. Allo stesso tempo, tutti questi processi poggiavano su di un radicale ripensamento del senso della fede e dell’esperienza religiosa, che condusse Lipsio a promuovere forme di devozione caratterizzate da un alto grado di interiorizzazione e introflessione, le quali avevano non pochi punti di contatto con le manifestazioni di religiosità privata tipiche della modernità più avanzata. In definitiva, l’ipotesi alla base del presente lavoro è che, nel contesto del grave cortocircuito politico-religioso della prima età moderna, rappresentato dalla duplice frattura della comunità religiosa, prodottasi con la Riforma, e della comunità politica, causata dallo “scandalo” del dilagare delle guerre civili di religione, la riflessione di Lipsio contenga in forma embrionale elementi del ben più radicale processo di separazione del politico e del religioso, che va sotto il nome di secolarizzazione. Questa ipotesi non sottintende, però, né una totale adesione di Lipsio all’indifferentismo religioso, né tantomeno intende attribuirgli l’intenzione di procedere a una radicale espulsione del sacro e del religioso dalla sfera politica e civile. Non è dunque affatto messa in discussione l’influenza della fede sulla riflessione etico-politica lipisiana. Ma è chiaro, allora, che se si intende collocare Lipsio nel solco della storia teorica e ideologica della secolarizzazione, è necessario prendere nettamente le distanze dalla concezione semplicistica e riduttiva del fenomeno, che la

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interpreta come una dinamica di progressiva e lineare riduzione dell’influenza delle religioni sulla vita sociale legata ai moderni fenomeni di razionalizzazione. Così inteso, infatti, il concetto di secolarizzazione finisce non solo per offuscare l’elevata complessità della dinamica storica, politica, sociale e intellettuale della prima età moderna, ma risulta in definitiva inapplicabile nei confronti della nostra stessa contemporaneità. L’inadeguatezza della nozione tradizionale di secolarizzazione è ormai ampiamente riconosciuta, come dimostra la tendenza a parlare di secolarizzazioni al plurale, e a indicare sotto questo nome fenomeni diversi e non necessariamente compatibili. Tenendo conto della natura simbiotica dei concetti di modernità e secolarizzazione, diventa estremamente interessante, soprattutto da un punto di vista metodologico, intendere, come fa Mauro Pesce, la modernità – e dunque i fenomeni di secolarizzazione quali sue manifestazioni particolari – come un lungo e tortuoso passaggio dal tradizionale sistema simbolico cristiano a un sistema simbolico fondato su basi epistemologiche e su certezze culturali radicalmente nuove24. Questa necessità di “complicare” il concetto di secolarizzazione, al fine di non inficiarne la forza ermeneutica, è stata opportunamente sottolineata anche da Paolo Prodi, il quale ha osservato come nella prima età moderna, di fronte alla necessità di ripensare il rapporto tra sacro e potere, emersero soluzioni sì diverse, ma destinate per lungo tempo a combinarsi, intrecciarsi e confondersi. Le soluzioni individuate si riducono sostanzialmente a quattro: la «religione civica-repubblicana»; la via del «recu24 M. Pesce, Il cristianesimo, Gesù e la modernità. Una relazione complessa, Carocci, Roma 2018, pp. 19-45; Id., Quali paradigmi per comprendere la ridefinizione del cristianesimo in età moderna?, in M. Priarolo, E. Scribano (a cura di), Le ragioni degli altri. Dissidenza religiosa e filosofia nell’età moderna, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia 2017, pp. 13-45.

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pero della sacralità monarchica»; la strada delle «Chiese territoriali»; e la «soluzione cattolico-romana»25. Lo “schema” proposto da Prodi è particolarmente appropriato per l’oggetto del nostro studio, poiché ci sembra che nella declinazione lipsiana dei rapporti tra politica e religione siano condensate almeno tre di queste quattro soluzioni. In primo luogo, una sorta di legittimazione delle Chiese territoriali e del loro ancoraggio al potere politico locale rappresenta l’implicita conseguenza della preferenza di Lipsio per l’uniformità confessionale, e della sua scelta di fare della prudenza il cardine dell’azione politica del principe in materia di fede. In secondo luogo, riscontriamo un’indubbia affinità tra l’esaltazione che Lipsio fa dell’interiorità quale spazio d’elezione della fede e della pura devozione religiosa, e l’attenzione posta dalla Chiesa post-tridentina alla potestas indirecta da esercitare universalmente proprio sul piano delle coscienze dei singoli soggetti. Infine, se è vero che Lipsio non aderì mai apertamente alle teorie del diritto divino dei re, è in ogni caso possibile individuare dei punti di contatto con le soluzioni votate al ripristino della sacralità regale. Un primo segno di questa contiguità può essere rintracciato nella scelta di Lipsio di affidare al principe il controllo delle forme esteriori e rituali del culto ufficiale, nella quale si può riconoscere l’intento di «costruire la figura del sovrano come rappresentante e punto di riferimento temporale e spirituale dei sudditi»26. Ma ciò che con ogni probabilità accomuna Lipsio ai fautori della nuova sacralità regale è l’identica declinazione del potere e della politica come instructio, ovvero come «pretesa di modellare l’uomo dalla nascita alla morte nella sua formazione e nei suoi comportamenti»27. P. Prodi, Storia moderna o genesi della modernità?, il Mulino, Bologna 2012, pp. 120-130. 26 Ivi, p. 122. 27 Ivi, p. 123. 25

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3. Uniformità confessionale e tolleranza religiosa nella polemica tra Lipsio e Coornhert Fatte queste imprescindibili precisazioni di natura teoretica e metodologica, ci accingiamo ora ad addentrarci nelle pieghe della politica religio lipsiana, e nel farlo intendiamo soffermarci innanzitutto sulla disputa intercorsa tra Lipsio e Dirck Volkertszoon Coornhert intorno alla questione della tolleranza religiosa. Le riflessioni di entrambi sul tema della tolleranza religiosa maturarono nel quadro della rivolta delle Province Unite. Conflitto, quest’ultimo, nel quale allo scontro tra indipendentisti e partito filospagnolo si sovrappose la lotta tra la confessione cattolica e le chiese riformate. Se Lipsio e Coornhert erano accomunati da affini esperienze di vita, e anche da un affine retroterra religioso e filosofico (il pensiero erasmiano e il cristianesimo spiritualista), molto diverso era lo status dei due protagonisti della disputa, e antitetiche furono le conclusioni cui essi pervennero. Coornhert si formò prevalentemente da autodidatta, prese parte alla rivolta contro l’impero spagnolo come segretario del sindaco di Harlem e sostenitore di Guglielmo d’Orange, distinguendosi poi come traduttore e pensatore versatile, e soprattutto come tenace polemista votato alla strenua difesa della libertà di religione28. L’attività pubblica di Lipsio si svolse, invece, prevalentemente nell’ambito dell’insegnamento universitario: dal 1572 al 1574 insegnò nell’università luterana di Jena; dal 1578 al 1591 fu invece professore di Storia e Diritto nell’università calvinista di Leida, per poi assumere dal 1592 la cattedra di latino a Lovanio dopo essersi riconciliato con la Chiesa cattolica. Inoltre, prima di esseS. Visentin, La disputa tra Dirck Coornhert e Justus Lipsius, ovvero l’emergenza di un’antropologia machiavelliana nell’umanesimo olandese, «Storia del pensiero politico», 2 (2015), pp. 203-225, 205. 28

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re riconosciuto quale fondatore della corrente filosofica neostoica, egli si era affermato quale insigne classicista e filologo, in particolare con le sue edizioni e i suoi commentari all’opera di Tacito, alle tragedie e alle opere filosofiche di Seneca. Uno dei primi contatti tra Lipsio e Coornhert risale al 1584, contestualmente alla pubblicazione del De constantia. In questo primo scambio epistolare Coornhert manifestò il desiderio di tradurre l’opera in olandese, dichiarando però di non poter accettare quanto Lipsio aveva scritto circa il rapporto tra fato, provvidenza e libero arbitrio. Con l’obiettivo di prendere le distanze dalla tradizionale subordinazione stoica di Dio stesso al fato, Lipsio intendeva sostenere che l’umanità pecca necessariamente, dal momento che Dio prevede ogni cosa. L’armonia tra la necessità del peccato e la sua volontarietà era garantita dall’assunto di Langio, interlocutore di Lipsio nel dialogo, secondo cui l’uomo «per necessità pecca liberamente». Volendo evitare a tutti i costi un confronto diretto e pubblico, Lipsio suggerì a Coornhert di rimuovere dalla sua traduzione i passi che non gli fossero chiari o graditi. Coornhert non accettò questo compromesso, la corrispondenza tra i due si interruppe e la traduzione in olandese del De constantia fu affidata a Jean Moretus, genero dell’editore Plantin29. La corrispondenza tra i due riprese nel 1589, in concomitanza con la pubblicazione della prima edizione dei Politicorum Libri Sex di Lipsio. Nelle sue lettere dal tono aspramente polemico, Coornhert criticò ferocemente quei passaggi del libro IV in cui Lipsio, a suo parere, prendeva posizione a favore dell’uniformità confessionale, attribuendo al sovrano un potere coercitivo illimitato G. Voogt, Primacy of Individual Conscience or Primacy of the State? The Clash between Dirck Volckertz. Coornhert and Justus Lipsius, «The Sixteenth Century Journal», 28 (1997), 4, pp. 1231-1249, 1233. 29

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persino sulla fede individuale. Dopo aver atteso invano una risposta alla sua ultima lettera, Coornhert decise di pubblicare il Processo all’uccisione degli eretici e alla costrizione delle coscienze30, in cui, tra l’altro, egli allegò le lettere inviate al suo interlocutore, senza però pubblicare le relative risposte, scelta che adirò non poco Lipsio. Come suggerisce Stefano Visentin, dalla lettura del Processo emerge con chiarezza come i principali obiettivi polemici di Coornhert fossero, da un lato, le teorie politiche propugnanti la superiorità della dimensione secolare sulla sfera spirituale, dall’altro, il presunto indifferentismo di Lipsio nei confronti della ricerca della vera fede, la quale sarebbe stata sacrificata in nome della salvaguardia dell’unità politica dello Stato31. A partire da queste premesse, Lipsio nel Processo è più volte accusato di cripto-machiavellismo, addirittura di essere un segreto sostenitore della politica tirannica spagnola portata avanti in terra olandese dal Duca d’Alba32, e di mirare all’istituzione di una nuova Inquisizione. Fu probabilmente la gravità di queste insinuazioni che lo spinse a difendersi pubblicamente con la pubblicazione dell’Adversus dialogistam liber de una religione. Un saggio “violento” che, come ha giustamente rimarcato Tiziana Provvidera, «per linguaggio e contenuti mal si accorda con l’atteggiamento di impassibilità e sopportazione tipico del saggio stoico»33. Qui, in ogni caso, Lipsio si limita a ribadire e a precisare quanto da lui già sostenuto con convinzione nei capitoli II, III e IV del libro IV della Politica. D.V. Coornhert, Proces Vant Ketterdoden ende Dwang der Conscientien, Gaspar Tournay, Gouda 1590. 31 S. Visentin, La disputa tra Dirck Coornhert e Justus Lipsius, ovvero l’emergenza di un’antropologia machiavelliana nell’umanesimo olandese, cit., pp. 211-212. 32 Ivi, p. 211. 33 T. Provvidera, Introduzione, in G. Lipsio, Opere Politiche, cit., vol. II, pp. IX-XLIX, XXXVII. 30

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Molti interpreti si sono soffermati sulla disputa tra Coornhert e Lipsio, indagandone il senso filosofico da differenti prospettive interpretative. Franco Buzzi, ad esempio, ha ricondotto la polemica nel quadro più ampio della riconfigurazione dei rapporti di teologia, politica e diritto verificatasi tra il XVI e il XVII secolo34. Stefano Visentin l’ha letta, invece, come l’esito della contrapposizione tra l’ottimismo antropologico di Coornhert e il pessimismo antropologico machiavelliano fatto proprio da Lipsio35. Vanhassel ha visto nei ragionamenti di Coornhert i prodromi della futura affermazione dei diritti naturali individuali, ragion per cui lo ha inteso come “più moderno” – in una prospettiva di lungo periodo – rispetto a un Lipsio concentrato sulla ricostruzione dell’ordine politico fondata sul disciplinamento dei sudditi, del sovrano e del nascente apparato burocratico-amministrativo36. Gerrit Voogt, invece, ha insistito sul fraintendimento intercorso tra i due protagonisti della disputa, i quali avrebbero entrambi inteso difendere il principio della F. Buzzi, La tolleranza religiosa come problema politico in Giusto Lipsio, in Id., Teologia, politica e diritto tra XVI e XVII secolo, Marietti 1820, Genova-Milano 2005, pp. 185-215. 35 S. Visentin, La disputa tra Dirck Coornhert e Justus Lipsius, ovvero l’emergenza di un’antropologia machiavelliana nell’umanesimo olandese, cit., pp. 220-225. Secondo Visentin, l’uniformità confessionale e il connesso disciplinamento religioso erano imposti dalla constatazione degli effetti nefasti esercitati dalla superstitio non solo sui singoli individui, ma soprattutto sull’unità e sull’integrità del corpo politico e sociale. A sua volta, la facile presa della superstitio sugli individui rinvierebbe a una concezione dell’uomo quale essere mediamente succube del suo sostrato passionale e, dunque, perlopiù incapace di condursi razionalmente, ragion per cui Lipsio non avrebbe potuto fondare la sua filosofia politica esclusivamente sulla naturale (e razionale) socialità degli individui. 36 A. Vanhassel, La liberté de conscience selon Juste Lipse et Dirck Coornhert, in D. Letocha (éd.), Aequitas, Aequalitas, Auctoritas: Raison théorique et légitimation de l’autorité dans le XVIe siècle européen, Vrin, Paris 1992, pp. 78-90. 34

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tolleranza religiosa, sebbene da prospettive e con esisti del tutto differenti37. Benché l’ipotesi del fraintendimento sia condivisa quasi universalmente dalla critica, riteniamo che tale incomprensione dipese dalla sostanziale inconciliabilità di fondo dei presupposti teorici a partire dai quali i due protagonisti della disputa presero posizione in merito al problema della tolleranza religiosa, e più in generale intorno alla relazione tra religio e ratio status, tra libertà individuale e obbligo politico. A conferma di ciò ci pare sufficiente il riferimento a un passaggio della lettera che chiude il confronto epistolare tra i due, nella quale Coornhert afferma quanto segue: «Io considero la salvezza eterna degli uomini più importante della loro prosperità materiale o di quella dello stato; perché è lo stato che esiste per il bene del popolo, e non il popolo per il bene dello stato»38. Una più attenta considerazione di questo passo può dimostrare come Coornhert continuasse a ragionare nel solco dei quadri simbolici del cristianesimo medievale e quanto ancora egli dipendesse dalle categorie teologico-politiche medievali affermatesi nel contesto della lotta per le investiture39. La nostra ipotesi poggia sulla convinzione secondo cui il sistema concettuale teologico-politico affermatosi in seguito alla lotta per le investiture risolvesse la questione della separazione/relazione tra dimensione G. Voogt, Primacy of Individual Conscience or Primacy of the State? The Clash between Dirck Volckertz. Coornhert and Justus Lipsius, cit. 38 Lettera di Dirck Coornhert a Justus Lipsius del 7 aprile, 1590, citata in S. Visentin, La disputa tra Dirck Coornhert e Justus Lipsius, ovvero l’emergenza di un’antropologia machiavelliana nell’umanesimo olandese, cit., p. 210. 39 Se ciò fosse dimostrato avremmo un’ulteriore conferma a favore della tesi della coesistenza, se non addirittura della sovrapposizione, nella prima età moderna di sistemi simbolici alternativi, il che costituirebbe altresì una confutazione definitiva dell’immagine semplicistica della modernità quale cesura subitanea e radicale rispetto agli orizzonti simbolici e concettuali del passato. 37

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secolare e dimensione spirituale attraverso un’immeditata subordinazione della prima alle logiche della seconda. Detto altrimenti, il politico veniva sì distinto dal religioso, ma continuava a trovare in esso il fondamento ultimo della sua legittimità. Le affermazioni di Coornhert sopra riportate dimostrano come questa subordinazione del secolare allo spirituale fosse ancora pienamente operativa nella sua concezione del politico quale ordine in tutto e per tutto religiosamente fondato e religiosamente orientato. Se, dunque, Coornhert fraintese il senso ultimo della politica religio lipsiana, è necessario, da parte nostra, evitare di intendere l’operazione intellettuale di Lipsio alla stregua di un semplice ribaltamento della logica gerarchica sottesa alle considerazioni di Coornhert, per leggervi piuttosto il passaggio a una logica altra: quella fondata sulla polarizzazione di mondo esterno e mondo interno, e su di una perlomeno implicita autonomizzazione della sfera politica e della sfera religiosa. Per confermare questa tesi è opportuno esaminare più nel dettaglio gli elementi maggiormente innovativi della politica religio lipsiana. Una prima conferma della già citata propensione di Lipsio a dissociare sempre più nettamente lo spazio del mondo interiore da quello del mondo esterno può essere rintracciata nel III capitolo del libro I della Politica: qui Lipsio distingue tra «culto interiore», ovvero quella «forma di culto che nel proprio cuore e dal proprio cuore genera preghiere ed effonde lodi e gratitudine per il vero Dio»40, e «culto esteriore» che «manifesta le stesse cose per mezzo di elementi rituali e gestuali»41. È possibile constatare come le due forme di culto rispondano a logiche differenti: se il culto interiore attiene all’ambito della pura fede, e deve a ciò la sua superiorità sul piano prettamente devozionale, 40 41

G. Lipsio, La Politica, I, 3, in Id., Opere Politiche, cit., vol. I, t. I, p. 79. Ibidem.

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nel culto esteriore «vi è molto che attiene piuttosto alle usanze che non alla religione»42, ragion per cui il saggio dovrà rispettarlo non tanto per ragioni religiose quanto, piuttosto, per la sua valenza politico-sociale43. Nelle pagine appena menzionate Lipsio offre una prima chiara declinazione della religiosità esteriore quale indispensabile vincolo sociale, attraverso un continuo richiamo ad autorevoli considerazioni di pensatori antichi e moderni, quali Polibio, Seneca e Machiavelli. Tema opportunamente approfondito dall’umanista fiammingo nei capitoli II, III e IV del libro IV della Politica, nei quali emerge con forza la dipendenza del principio dell’uniformità confessionale dall’idea della religio come unica forza capace di tenere assieme il consorzio umano: qui Lipsio, avendo riconosciuto alla religione la funzione di decisivo vincolo sociale, assegna al sovrano un ampio potere di controllo della forma esteriore del culto, finalizzato al riconoscimento di un’unica confessione statale e alla tutela dei suoi principali elementi rituali, che può estendersi fino all’applicazione di misure apertamente repressive44. Tuttavia, egli pone importanti limitazioni a questo potere: non attribuisce al sovrano alcuna competenza e autorità in merito alla verità, alla bontà e ai contenuti specifici della religione in quanto tale45, e prescrive di distinguere coloro che «violano la religione pubblicamente e quelli che la violano nel privato»46, al fine di circoscrivere l’esercizio dell’azione repressiva esclusivamente alla prima tipologia di peccatori, detti “turbones”, concepita come causa principale dell’insorgere di atteggiamenti sediziosi e disordini sociali. Ivi, p. 83. Ivi, p. 85. 44 Id., La Politica, in Id., Opere Politiche, cit., vol. I, t. II, pp. 269-285. 45 Ivi, IV, 3, pp. 281-283. 46 Ivi, p. 279. 42 43

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L’esame della posizione assunta da Lipsio rispetto ai due poli dell’uniformità confessionale e della tolleranza religiosa conferma, dunque, la tendenza a polarizzare mondo esterno e mondo interno, e la loro subordinazione a logiche e a finalità differenti: da un lato, la logica dell’obbedienza, necessaria alla salvaguardia dello Stato quale comunità politica unitaria; dall’altro, la logica dell’assoluta libertà della coscienza individuale nella sua relazione diretta e immediata con la divinità. È proprio alla luce dell’introduzione di due logiche autonome ed equipollenti, che non si può a rigore parlare né di un primato assoluto della coscienza individuale, né di una priorità assoluta delle logiche politiche sottese alla salvaguardia e alla conservazione dello Stato.

4. Le radici antropologiche della crisi religiosa: passioni “religiose” e prudenza politica Alla luce di quanto abbiamo esaminato, si può constatare come la politica religiosa lipsiana, pur partendo da presupposti largamente condivisi da buona parte dei fautori della tolleranza religiosa, sia approdata su posizioni antitetiche rispetto al pluralismo propugnato tendenzialmente da questi ultimi. Tale dissonanza può forse essere spiegata riprendendo una considerazione svolta nella parte iniziale di questo lavoro, cioè riconoscendo a Lipsio il merito di aver visto nel fenomeno religioso non solo il vincolo fondamentale della vita associata, ma anche uno dei più pericolosi fattori di disgregazione della comunità politica: e ciò in virtù del riconoscimento, al fondo della comune esperienza religiosa, di una dinamica pulsionale/passionale foriera di conseguenze radicalmente antisociali. Ciò traspare con evidenza nel De una religione, dove Lipsio sostiene di voler controbattere «punto

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per punto» a quel «politico saggio»47 che, per dimostrare la praticabilità politico-sociale del pluralismo religioso, aveva addotto gli esempi della condizione confessionale della Polonia, della Transilvania, dell’Egitto, dell’Impero Turco e del Giappone. Innanzitutto, la condizione sociale e confessionale di Polonia e Transilvania non sconfessa in alcun modo le argomentazioni avanzate nella Politica, giacché tali luoghi godrebbero di una tranquillità sociale meramente di facciata: secondo Lipsio, infatti, non solo si può facilmente osservare «quanto in ogni occasione, come le diete per eleggere i re, quei popoli siano divisi tra loro, anzi si armino l’uno contro l’altro»48, ma è altresì possibile constatare «il grande e sommo danno che anche lì ora si è generato dalla diversità dei culti»49, dal momento che «a poco a poco gli uomini a causa di questa libertà eccessiva si abituano non più al dissenso ma alla negazione della nostra religione»50. La pluralità confessionale caratteristica del territorio egizio è, invece, definita da Lipsio «inopportuna, ma non foriera di disordini»51, e ciò per tre ordini di ragioni: in primo luogo, perché la «loro divisione in sette» non prevede «finora alcun pregiudizio sull’onestà di ognuna»52; in secondo luogo, perché quelle eterogenee popolazioni «vivono sotto un signore potente, il timore del quale e nel contempo le cui punizioni sono in grado di reprimerli severamente qualora inizino a macchiarsi di qualche crimine»53; ma, soprattutto, per via della scarsa incidenza sulla vita pubblica delle diffe47 Ci sono molti indizi che avvalorano l’ipotesi che identifica nel «politico saggio» evocato da Lipsio la figura di Alberico Gentili, giurista italiano esule in Inghilterra. 48 G. Lipsio, Dell’unica religione, in Id., Opere Politiche, cit., vol. II, p. 279. 49 Ibidem. 50 Ibidem. 51 Ivi, p. 275. 52 Ibidem. 53 Ivi, p. 277.

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renti realtà confessionali, come testimonia il fatto che «non vi sono pubblici discorsi né afflati o incitamenti delle masse al disordine»54. Appare poi improprio agli occhi Lipsio descrivere la realtà sociale e religiosa dell’Impero Turco utilizzando la categoria di pluralità confessionale, giacché nella prospettiva turca «vi è una sola religione, e guai a colui che possa turbarla con parole o con fatti»55, ragion per cui la tanto decantata libertas religionis vigente nell’Impero Turco si limita a consentire […] soltanto le religioni straniere e che non sono una degenerazione della propria, ma ad essa totalmente opposte, in modo tale che è scarso il desiderio o il motivo di condivisione o di discussione. Più che contendere tra di loro, infatti, si disprezzano. Metti nel bel mezzo dell’Europa giudei, turchi, cinesi – purché non siano in numero gigantesco – e per nulla turberai la pace religiosa o della Chiesa56.

In tale descrizione della peculiare conformazione confessionale dell’Impero Turco si può scorgere un’implicita, ma lucidissima, diagnosi delle ragioni che determinavano, per converso, la virulenza della conflittualità religiosa intraeuropea. Nella prospettiva lipsiana, la relativa pace sociale dell’Impero Turco non dimostra affatto la praticabilità di un regime di pluralità confessionale, poiché essa è in realtà resa possibile da molteplici fattori politico-sociali, tra i quali spicca paradossalmente la radicale alterità delle confessioni praticate all’interno del territorio ottomano. Alterità che, neutralizzando «il desiderio o il motivo di condivisione o di discussione», impedisce che tra le diverse realtà confessionali si instauri quel violento Ibidem. Ibidem. 56 Ibidem. 54 55

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spirito competitivo che ne turberebbe a tal punto l’equilibrio sociale da minacciare la stabilità dell’ordine politico vigente. Di natura del tutto differente è, invece, la pluralità confessionale affermatasi de facto in Europa perlomeno a partire dalla Riforma luterana: secondo Lipsio, essa rappresenta il portato di molteplici fratture ereticali, ragion per cui a coesistere nello spazio europeo non sono, come nel caso turco, visioni religiose radicalmente differenti, bensì differenti interpretazioni di un comune patrimonio religioso originario. Se, dunque, per il brabantino la pluralità confessionale costituisce di per sé una potenziale minaccia all’unità e alla coesione del corpo politico-sociale, un simile giudizio si rivela ancor più fondato guardando alla peculiare conformazione confessionale della realtà europea: uno spazio segnato dalla compresenza di prospettive religiose che, proprio perché affini, si sarebbero inevitabilmente trovate in rapporto di competizione reciproca per il monopolio della vera interpretazione delle Sacre Scritture. Di estremo interesse è, infine, il giudizio espresso da Lipsio in merito al contesto religioso giapponese: se è vero che egli afferma di aver ricavato da noti resoconti di missionari gesuiti la notizia della coesistenza di «nove varietà di religioni, e che ciascuno è libero di seguire a suo piacimento quella che vuole»57, non è però corretto prendere a modello il pluralismo religioso nipponico: questo perché le medesime fonti riportano che frequentemente «[…] dei tumulti li mettono l’un contro l’altro in agitazione, anzi si combattono con le armi mentre ciascuno tenta di anteporre la propria religione alle altre»58. È un passaggio decisivo del ragionamento lipsiano, poiché il riferimento alla particoIvi, p. 275. Come riportato da Provvidera, la fonte cui Lipsio fa riferimento sono le Epistolae iapanicae de multorum gentilium in variis insulis ad Christi fidem per Societas Iesu theologos conversione (ibidem, in nota 121). 58 Ivi, p. 277. 57

religio,

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lare realtà nipponica gli consente di pervenire all’individuazione della ragione principale degli esiti conflittuali e antisociali posti in essere della pluralità confessionale, ossia la tendenza all’esclusività, e di conseguenza alla sopraffazione, intimamente connaturata alle più disparate esperienze religiose. Detto in altri termini, la conflittualità finalizzata ad «anteporre la propria religione alle altre» non appare affatto confinata alla sola realtà giapponese, bensì rappresenta un esito sociale inevitabile alla luce di un aspetto fondamentale della comune esperienza religiosa, ovverosia del fatto che «la religione, se priva di ardore, non è religione»59. Il fondamento ultimo del rifiuto lipsiano della prospettiva della pluralità confessionale può così essere scorto nella riconduzione della conflittualità interconfessionale a ragioni di ordine pulsionale/passionale, a quei fattori pulsionali che generalmente definiscono la natura del rapporto che i singoli individui e le collettività instaurano con la dimensione religiosa: nel caso specifico preso in esame da Lipsio, l’ardore religioso. Naturalmente, riconducendo la crisi della funzione di vincolo sociale della religio agli effetti antisociali determinati dai fattori passionali che intervengono nella comune esperienza religiosa, Lipsio non mirava affatto a sminuire radicalmente il valore del sentimento religioso, né tantomeno a relegare l’intera dinamica religiosa, individuale e collettiva, nel dominio dell’irrazionalità. Egli si proponeva, invece, per ragioni di natura fondamentalmente operativa e pragmatica, di descrivere la realtà effettuale della conflittualità confessionale intraeuropea, individuandone le ragioni antropologiche costitutive e strutturali. La coscienza di questa strutturale contraddittorietà del fenomeno religioso, da un lato, gli impedì di propugnare la via del pluralismo religioso, la quale avrebbe non solo implicato un contraddittorio disconoscimento della 59

Ibidem.

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funzione politico-sociale della religio, ma sarebbe entrata in contraddizione con quel “pessimismo antropologico” di matrice machiavelliana che Lipsio aveva fatto proprio; dall’altro, tale consapevolezza lo oppose a coloro che affrontavano la questione della tolleranza da una prospettiva esclusivamente religiosa, e non politica. È ciò che accadde con Coornhert, il cui obiettivo non era certo la conservazione dell’unità politica dello Stato, ma la definizione collettiva dei contenuti della vera religio. Processo, quest’ultimo, che a suo parere solo il pacifico confronto tra diverse realtà confessionali avrebbe potuto stimolare. La via scelta da Lipsio fu, invece, quella della polarizzazione tra lo spazio pubblico e politico della collettività e lo spazio privato e interiore della coscienza individuale. Pare evidente, infatti, come l’attenzione da egli posta al valore sociopolitico degli elementi rituali del culto vada di pari passo con un’opera di neutralizzazione delle dinamiche passionali soggiacenti alla comune esperienza religiosa che erano alla base dei conflitti identitari di religione del suo secolo. Neutralizzazione che Lipsio cercò di conseguire anche attraverso la dislocazione dei contenuti veritativi della religio dalla dimensione pubblica della comunità politica a quella privata della libera coscienza individuale.

Iacopo Chiaravalli

I lacci di Proteo. Tecnologia, progresso, e natura in Francis Bacon

1. La tecnologia come vincolo della natura1 Per quanto forse non fra i più noti2, il concetto di vinculum gioca un ruolo centrale nella filosofia di Francis Bacon. Possiamo constatarlo nel momento in cui Bacon, nella Preparazione alla storia naturale e sperimentale, distingue fra tre diversi ambiti dell’indagine naturale: La storia naturale è […] triplice: tratta infatti della libertà della natura, degli errori della natura, dei vincoli della natura [vincula naturae]. Non inopportunamente la possiamo quindi suddividere in storia delle generazioni, 1 Le opere di Bacon sono citate secondo l’edizione di riferimento The Works of Francis Bacon, Baron of Verulam, Viscount St. Alban and Lord High Chancellor of England, collected and edited by J. Spedding, R.L. Ellis and D.D. Heath, London 1858 [reprint edition Friedrich Frommann Verlag Günther Holzboog, Stuttgart Bad Cannstatt 1963], voll. 14. Il riferimento a tale opera sarà indicato dall’abbreviazione “Sp.” seguita dal numero del volume e dal numero di pagina. La traduzione utilizzata è invece: F. Bacone, Scritti filosofici, a cura di P. Rossi, UTET, Torino 2009, d’ora in poi abbreviata in “SF”, seguito dal numero di pagina. Dove non sia presente il riferimento all’edizione italiana suddetta la traduzione è di chi scrive. 2 È stato però ben notato in R. Bassi, Orpheus and “Second Nature” in Francis Bacon, «Proceedings of the XXIII World Congress of Philosophy», 34 (2018), pp. 5-9.

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delle generazioni irregolari e delle arti. Chiamiamo la storia delle arti anche storia meccanica o sperimentale3.

Esamineremo più avanti i motivi di questa tripartizione. Per il momento soffermiamoci a constatare come il termine vincula vada a ricoprire il ruolo di indicatore dell’attività della tecnologia nei confronti della natura. Se ciò risulta chiaro, più complesso è capire come questo sia possibile. Il carattere vincolante della produzione tecnologica non è infatti esso stesso autoevidente e il suo ruolo va illustrato con attenzione, per non incorrere nel pericolo di dare a questa metafora un significato alla fin fine estraneo al senso dell’argomentazione in cui è inserita. Ci viene in aiuto il medesimo testo, in cui viene precisato che: Fra tutte le parti della storia ora elencate, la più utile è la storia delle arti […]: essa strappa la maschera e il velo dalle cose naturali che sono spesso occultate o oscurate sotto la molteplicità delle figure e delle apparenze esterne. Le vessazioni dell’arte sono infine, in un certo modo, simili ai legami e alle manette di Proteo [tanquam vincula et manicae Protei], perché rivelano gli sforzi e i conati originari della materia. I corpi infatti rifiutano la distruzione o l’annullamento, di fronte ai quali assumono forme differenti4.

Compito delle arti e dei prodotti artificiali è quello di applicarsi all’indagine naturale. Tale studio però, lungi dall’essere un semplice rispecchiamento dell’andamento quotidiano della fenomenalità naturale, deve invece puntare a porre la natura in una condizione che non è la sua propria, mettendola sotto pressione e costringendola così a rivelare le sue strutture più profonde. In questo modo – 3 4

F. Bacon, Parasceve, Sp. vol. I, p. 395 / SF, p. 802. Ivi, vol. II, pp. 398-399 / SF, p. 807.

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proprio come Proteo – l’andamento naturale si ribellerà e, per tornare al suo stato normale, sarà costretto a rivelare le sue strutture primarie. Non è questa la prima volta che l’analogia fra Proteo e la natura viene utilizzata. A un’interpretazione del mito di Proteo Bacon aveva infatti dedicato il capitolo XIII del De sapientia veterum. In quello che è uno dei maggiori sforzi baconiani di reinterpretare la cultura antica, l’esegesi della figura di Proteo ha un ruolo chiave. Lo possiede soprattutto perché fornisce a Bacon l’occasione per una duplice opera ermeneutica. Da un lato, il testo baconiano, si pone come revisione del significato di alcuni celebri passaggi dell’Odissea – quindi di uno dei testi inaugurali di quella cultura antica contro la quale Bacon stava conducendo una polemica feroce5. Dall’altro, però, la premessa ermeneutica baconiana lo porta inevitabilmente a doversi confrontare con un altro mito. Proprio perché «il senso della favola sembra riguardare i misteri della natura e le condizioni della materia»6, ciò implica necessariamente confrontarsi con la struttura più profonda del mondo naturale e, soprattutto, con il suo venire in essere. Il mito di Proteo e la sua capacità di rispecchiare il rapporto fra natura, specie organiche, inorganiche ed essere umano permettono così a Bacon di fornire la sua versione del racconto della creazione contenuto nel Genesi. Non è certo l’unico caso di confronto e reinterpretazione della Bibbia da parte di uno dei protagonisti della rivoluzione culturale del XVII secolo7. Anzi, l’avvio dell’ePer un’analisi generale dei presupposti della critica di Bacon alla cultura antica cfr. R. Kennington, Bacon’s Critique of Ancient Philosophy in New Organon I, in Id., On Modern Origins. Essays in Early Modern Philosophy, P. Krauss, F. Hunt (eds), Lexington Books, Lanham 2004, pp. 17-33. 6 F. Bacon, De sapientia veterum, Sp. vol. VI, p. 651 / SF, p. 473. 7 Per uno studio approfondito del rapporto di Bacon con il Testo Sacro cfr. P. Rossi, Bacone e la Bibbia, in Id., Aspetti della rivoluzione scientifica, Morano, Napoli 1971, pp. 51-82. 5

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segesi scritturale e il confronto con questioni teologiche da parte di figure che non provenivano dal mondo ecclesiastico8, producendo così una profonda varietà ermeneutica9, sono caratteristiche tipiche della cultura del Seicento. L’interpretazione baconiana della favola di Proteo si inserisce a pieno titolo in questo contesto dal momento che «la materia […] è, dopo Dio, la più antica di tutte le cose»10. Nulla ci viene detto, però, sulla creazione della materialità da parte di Dio. O meglio, Bacon fornisce un’interpretazione della dottrina della creazione divina, ma questa non riguarda tanto il venire in essere della materia, bensì la proliferazione delle diverse specie naturali: […] per virtù del Verbo divino Producat, la materia ubbidì al comando del creatore (immediatamente, non per tergiversazioni) e condusse a compimento l’opera sua e generò le specie11.

Al comando di Dio, la materia generò le diverse specie degli enti naturali, assumendo quella forma specifica che ha ancora oggi. Sembra quasi che la divinità baconiana somigli più al dio artigiano del Timeo platonico che al Dio creatore della tradizione cristiana12. La natura originatasi dal fiat divino è costituita dalle: specie ordinarie degli animali, delle piante, dei metalli, nelle quali cose la materia si diffonde e pare quasi consu8 Cfr. A. Funkenstein, Teologia e immaginazione scientifica dal Medioevo al Seicento, a cura di A. Serafini, Einaudi, Torino 1996. 9 Per una discussione ampia sul rapporto fra Testo Sacro e scienza naturale si veda J.-R. Armogathe, La nature du monde. Science nouvelle et éxègese au XVII siècle, PUF, Paris 2007. 10 F. Bacon, De sapientia veterum, Sp. vol. VI, p. 651 / SF, p. 473. 11 Ibidem. 12 Avanza questa ipotesi anche R. Kennington nel suo Bacon’s Ontology, in Id., On Modern Origins, cit., pp. 33-56.

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marsi, sì che, dopo aver generato e posto in libertà queste specie […], par quasi addormentarsi e riposarsi, senza più tentare, apprestare o generare ulteriormente specie13.

Questo acquietarsi della materia e della natura tutta in una forma determinata, questa sorta di pigrizia o latenza del materiale di cui è costituito il mondo crea esattamente quel velo di cui ci parlava la Preparazione alla storia naturale e sperimentale. Si rende così necessario inventare e scoprire tecnologie epistemiche e pratiche che consentano di ridestare la materia dal suo sonno. Nel linguaggio violento e maschilista di Bacon: «Nondimeno se un qualche esperto ministro della natura violenta la materia vessandola e pressandola con questo deliberato proposito di ridurla al nulla iniziale, allora la materia […] posta in tale necessità, si commuta in varie guise ed in ammirevoli trasformazioni»14. Possiamo a questo punto fare un passo in più a livello interpretativo. Infatti, come i passaggi della Preparazione e del De sapientia veterum ci confermano, nel momento in cui nomina i vincula Protei, Bacon non sta genericamente trattando della tecnologia. Non si tratta infatti dell’artificialità in generale. Certo, proprio perché consente di mutare lo svolgersi della concatenazione fra le cose naturali, qualsiasi entità tecnologica modifica, trasforma e costringe la natura a modificare il suo decorso. Però, a ben vedere, con il concetto di vincula Naturae Bacon sta cercando di indicare qualcosa di più specifico, cioè un’arte o costrutto artificiale che possa metterci nella F. Bacon, De sapientia veterum, Sp. vol. VI, p. 651 / SF, p. 473. Per un’approfondita analisi del concetto di materia in Bacon cfr. G. Giglioni, Francesco Bacone, Carocci, Roma 2011. Per il rapporto fra teoria della materia e indagine naturale cfr. S. Gaukroger, Francis Bacon and the Transformation of Early-Modern Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 2010. 14 F. Bacon, De sapientia veterum, Sp. vol. VI, p. 652 / SF, p. 474. 13

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condizione di scoprire le strutture che regolano il corso quotidiano della natura. In altri termini, in questo caso, con il termine vincula viene indicata la sua nuova logica, cioè quella pratica di sperimentazione e induzione che consente l’interpretatio Naturae. Capiamo così che la metaforica del vincolo mobilita la totalità della filosofia baconiana identificandosi con la sua stessa azione nei confronti della natura15. Per riuscire a formarcene un’idea il più possibile chiara dobbiamo quindi affrontare il rapporto fra artificio e natura in Bacon nelle sue sfaccettate diversificazioni, per quelli che sono i limiti a nostra disposizione in questa sede. Nel farlo, non dobbiamo cedere alla tentazione di pensare che il vincolo sia soltanto unidirezionale e che sia quindi una prerogativa dell’arte. Nonostante una simile concezione si troverebbe a proprio agio con la diffusa immagine prometeica della filosofia baconiana, ciò nondimeno sarebbe errata. Infatti, non sono soltanto le opere umane e la tecnologia a poter porre dei vincoli alla natura. Anzi, la loro stessa produzione e applicazione presuppone la sottomissione a un vincolo superiore e inscalfibile: quello imposto loro dalla legalità naturale. Non a caso la concezione baconiana del legame è espressa nel modo più chiaro dalla formulazione paradossale secondo cui: «La natura […] non si vince se non ubbidendole»16. 2. La storia e il progresso Cominciamo facendo giustizia di uno dei pregiudizi più radicati nei confronti della concezione baconiana 15 Per una trattazione approfondita del ruolo della metafora nel rapporto fra scienza moderna e natura si veda l’analisi del rapporto fra metafore meccaniche e metafore organiche in H. Blumenberg, Paradigmi per una metaforologia, a cura di R.V. Serra Hansberg, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009. 16 F. Bacon, NO I, 129, Sp. I, pp. 221-222 / SF, p. 635.

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del sapere e della tecnica, analizzando il tipo di concezione della temporalità storica che la creazione e la pratica dell’interpretatio naturae sottende. Che sia attribuibile alla tecnologia la capacità di trasformare e mutare radicalmente lo stato stesso dell’esistenza umana su questa terra è fuor di dubbio. È nel maggiore o minore utilizzo di artifici e opere tecnologiche che Bacon identifica l’origine delle differenziazioni fra i popoli, in una visione ben lontana dalla razzializzazione su base etnica che sarà inaugurata dal pensiero illuminista francese e scozzese del XVIII secolo17: Si consideri anche la differenza che passa tra la vita degli uomini in una regione europea altamente civilizzata e quella che si conduce in un qualche territorio barbaro e selvaggio della Nuova India. La differenza appare così grande che si può dire con ragione che un uomo può apparire a un altro uomo come un dio, non solo per gli aiuti e i benefici che può dare all’altro uomo, ma anche per il confronto fra le condizioni di vita. Tale differenza non deriva dal terreno, né dal clima, né dalla costituzione fisica, ma dalle arti18.

La dispersa moltitudine di diversi modi di vita, così come le tipologie antropologiche che da esse si originaSu questo cfr. S. Landucci, I filosofi e i selvaggi, Einaudi, Torino 2014. Per un’analisi del pensiero politico baconiano in relazione soprattutto alla Nuova Atlantide cfr. H.B. White, Peace Among the Willows: The Political Philosophy of Francis Bacon, Martinus Nijhoff, Den Haag 1968. Sulla differenza fra Bacon e il pensiero dei philosophes concernente il progresso si veda soprattutto D.R. Lachterman, The Conquest of Nature and the Ambivalence of Man in French Enlightenment: Reflections on Condorcet’s Fragment Sur l’Atlantide, in D.C. Mell, T.E.D. Braun, L.M. Palmer (eds), Man, God and Nature in the Enlightenment, Colleagues Press, East Leasing MI 1998, pp. 37-47. 18 F. Bacon, NO I, 129, Sp. vol. I, pp. 221-222 / SF, p. 635. Un passaggio simile anche in Id., Cogitata et visa, Sp. vol. III, p. 611-2 / SF, p. 390. 17

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no sono il prodotto delle diverse mediazioni che l’essere umano ha escogitato per rapportarsi con il suo mondo ambiente. Ciò significa che la differenza fra avanzamento e arretratezza non si fonda sulla maggiore o minore propensione di una popolazione allo svolgimento di determinate pratiche epistemiche o comportamentali, bensì sulla produzione di strumenti (materiali o cognitivi) che determinano una specifica situazione sociale per i soggetti che ne fanno uso. La progressività non è un dato assoluto, fondato su una precisa gradazione storica, ma è dissolto in un’apparenza relazionale. Nonostante il largo uso di una concettualità di matrice teologica, la tecnologia in Bacon non assicura di per sé un ruolo privilegiato dell’uomo all’interno della creazione. Essa produce in altri esseri umani l’illusione che la soggettività che se ne serve sia simile a una divinità, perché crea le condizioni affinché una delle parti possa agire in modo benefico e salvifico nei confronti dell’altra19. L’hoL’idea che alla tecnologia possa e debba essere associato un atteggiamento di aiuto nei confronti di chi non ne è dotato, così come di tutta la comunità a cui appartiene chi ne viene in possesso deriva in Bacon da due fonti principali. Da un lato troviamo la caritas di paolina memoria e, dall’altro, si pone la tradizione del civismo umanistico italiano del Quattrocento che determina la forma politica in cui l’idea di caritas viene declinata nel pensiero baconiano. Su Bacon e Paolo di Tarso cfr. R. Kennington, Blumenberg and the Legitimacy of Modern Age, in W.A. Rusher (ed.), The Ambiguous Legacy of Entlightenment, University Press of America, Lahnam 1995, pp. 22-37. Su Bacon e la tradizione umanista cfr. B. Vickers, Bacon’s so called ‘Utilitarianism’: Sources and Influeces, in M. Fattori (a cura di), Francis Bacon: terminologia e fortuna nel XVII secolo, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1984, pp. 281-313. Sul rapporto specifico fra Bacon e Machiavelli cfr. M.G. Moretti, Francesco Bacone e Machiavelli. L’accesso alla modernità, Edizioni Studium, Roma 2011 e R. Kennington, Bacon’s Humanitarian Revision of Machiavelli, in Id., On Modern Origins, cit., pp. 57-77. Per un inquadramento minimo della tradizione politica dell’Umanesimo e del Rinascimento, cfr. E. Garin, Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, Laterza, Roma-Bari 1965, Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, a cura di M. Viroli, il Mulino, Bologna 1989, F. 19

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mo homini deus – che dopo Bacon diverrà la cifra del grande Leviatano di Hobbes20 – è per l’appunto un’apparenza di alterità creata da una distanza fittizia e annullabile nella misura in cui il sapere tecnologico è trasmissibile e riproducibile21. Un dio che è tale soltanto perché capace di utilizzare degli strumenti ha ben poco di divino22. La critica nei confronti di un’innata superiorità di alcuni individui sugli altri è feroce in Bacon. A essa si lega a doppio filo un pervasivo pessimismo nei confronti di quelle che sono le condizioni più diffuse di utilizzo delle Gilbert, Machiavelli e Guicciardini. Pensiero politico e storiografia a Firenze nel Cinquecento, a cura di G. Pedullà, Einaudi, Torino 2012 e G. Sacerdoti, Sacrifico e sovranità. Teologia e politica nell’età di Shakespeare e Bruno, Quodlibet, Macerata 2012. 20 Cfr. T. Hobbes, Leviathan or Metter, Form and Power of a Commonwealth Ecclesiastical or Civil, in Id., The English Works of Thomas Hobbes, first collected and edited by Sir W. Molesworth, 1893 [reprint edition Scientia Aalen, 1962], vol. III, p. 158; ed. it. Leviatano, o la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile, a cura di A. Pacchi, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 143: «È questa la generazione di quel grande LEVIATANO, o piuttosto (per parlare con maggior rispetto) di quel dio mortale, al quale dobbiamo, sotto il Dio Immortale, la nostra pace e la nostra difesa». Più esplicita ancora è la lettera dedicatoria del De cive, cfr. Elementorum philosophiae sectio tertia, DE CIVE, in Thomae Hobbes opera philosophica quae latine scripsit omnia, studio et labore Guglielmi Molesworth, 1839-1845 [reprint edition Scientia Aalen, 1961], vol. II, pp. 135-136; ed. it. Elementi filosofici sul cittadino, in Id., Opere politiche, a cura di N. Bobbio, UTET, Torino 1971, p. 58: «Certamente è altrettanto vero che l’uomo è per il suo simile un dio, quanto che esso è per il suo simile un lupo: quello, se poniamo a confronto i singoli cittadini; questo, se guardiamo agli stati». 21 Si veda anche in Bacon l’utilizzo della doppia formula homo homini deus e homo homini lupus in F. Bacon, De augmentis scientiarum, Sp. vol. I, p. 696: «Justitiae debetur, quod homo homini sit Deus, non lupus». Su questo cfr. U. Pagallo, Bacon, Hobbes and the homo omini deus Formula, «Hobbes-Studies», 11 (1998), pp. 61-69. 22 Sulla mancata legittimazione teologica dell’azione umana in Bacon, cfr. R. Kennington, Bacon’s Reform of Nature, in Id., On Modern Origins, cit., pp. 1-16.

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capacità umane23. Suo primo sintomo è una visione del divenire storico che vede il suo evento fondamentale – cioè la separazione del mondo moderno da quello antico – come basata sul semplice verificarsi di alcune circostanze fortuite. Bacon identifica in tre invenzioni fondamentali la causa dell’avvenuta frattura storica. Com’è noto, esse sono la stampa, la bussola e la polvere da sparo: «Queste tre invenzioni hanno cambiato la faccia del mondo e le condizioni di vita sulla terra»24. Tuttavia, mancando una metodologia specifica e capace di dare una direzione univoca ai processi cognitivi, la loro scoperta è il semplice frutto del caso, dove con tale termine Bacon intende «la pura e semplice esperienza» che «si presenta da sé»25. Il caso è quindi quel tipo di rapporto con il mondo che, pur magari permettendoci di scoprire qualcosa di esso, non è sottoposto a procedimen23 Nel Temporis partus masculus Bacon parla esplicitamente di «universale follia» dell’essere umano, cfr. Sp. vol. III, p. 529 / SF, p. 106. Nei Cogitata et visa invece ci viene detto che (Sp. vol. III, p. 600 / SF, pp. 375-376): «[…] nell’animo umano la natura ha posto un’inclinazione, che viene poi rafforzata dall’opinione comune e da qualche tipo di insegnamento, che ostacola e rallenta il progresso della filosofia naturale, particolarmente nella sua parte attiva e operativa. Quest’orgogliosa e pericolosa opinione asserisce che la maestà della mente umana viene sminuita se si rivolge a lungo e con assiduità agli esperimenti e alle cose particolari soggette ai sensi e materialmente determinate; […]». 24 F. Bacon, NO I, 129, Sp. vol. I, p. 222 / SF, p. 635. Sull’effettiva storia di queste tre invenzioni e il loro impatto sulla società europea cfr. F.C. Lane, The Economic Meaning of the Invention of the Compass, «The American Historical Review», 68 (1963), 3, pp. 605-617, L. Fevbre, H.J. Martin, La nascita del libro, a cura di A. Petrucci, Laterza, Roma-Bari 2011 e G. Parker, La rivoluzione militare. Le innovazioni militari e il sorgere dell’Occidente, a cura di P. Bairati, il Mulino, Bologna 2005. Per una sintesi complessiva della cultura materiale su cui le innovazioni tecnologiche del XVII andarono a incidere si veda F. Braudel, Civiltà materiale, economia, capitalismo. Le strutture del quotidiano, a cura di C. Vivanti, Einaudi, Torino 1982. 25 F. Bacon, NO I, 82, Sp. vol. I, p. 189 / SF, p. 593.

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ti che consentono di imbrigliarne il pieno potenziale. «Questo tipo di esperienza – esemplifica pittorescamente Bacon – non è altro che una scopa sfasciata e un mero andare a tentoni»26. Ciò non toglie che l’avvento della frattura epocale dovuta all’introduzione di stampa, bussola e polvere da sparo abbia creato le condizioni per un rivolgimento complessivo del sapere27. In altri termini, se nel passato quel flebile progresso che si è manifestato nella storia deve essere attribuito alla casualità, con l’età moderna esso deve diventare la forma stabile del divenire temporale. Il progresso infatti non è per Bacon un dato o una condizione ontologica caratterizzante il flusso degli eventi in cui l’essere umano si trova. Esso è una possibilità che può essere attuata come risultato della lotta con il sapere tradizionale, con i pregiudizi dovuti alla nostra struttura sociale e al comportamento spontaneo delle nostre prestazioni cognitive quotidiane28. A tal fine è necessario riorganizzare l’intero globus intellectualis, assumendo e radicalizzando la metodologia delle discipline tecnologiche e meccaniche. Infatti, proprio perché la temporalità storica non è un dato di fatto essa dipende dai diversi modi in cui gli esseri umani decidono di interagire fra loro. È il tipo di organizzazione che assumono le nostre pratiche collettive a determinare l’andamento della storia. Bacon può confermare una simile concezione mostrando come all’interno delle diverse discipline possano venire ritrovate due forme specifiche di temporalità:

Ibidem. Sull’idea baconiana di revisione totale del sapere cfr. A. Milanese, Bacon et le gouvernement du savoir. Critique, invention, système: la pensée moderne comme éprouve de l’histoire, Garnier, Paris 2016. 28 Sul rapporto di Bacon con il sapere tradizionale è ancora imprescindibile P. Rossi, Francesco Bacone. Dalla magia alla scienza, il Mulino, Bologna 2004. 26 27

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[…] mentre nelle arti meccaniche il primo inventore fa il meno, e il tempo accresce e perfeziona il suo operato, nelle scienze il primo autore fa il più, e il tempo diminuisce e corrompe. Così vediamo che l’artiglieria, la navigazione, la stampa e simili furono dapprima grossolanamente foggiate e poi col tempo adattate e perfezionate, mentre la filosofia e la scienza di Aristotele, Platone, Democrito, Ippocrate, Euclide, Archimede, ebbero maggior vigore dapprima, e poi col tempo degenerarono e si svilirono. E la ragione di ciò non è se non il fatto che nel caso delle prime molti ingegni e molto lavoro contribuirono allo stesso fine […]29.

Vediamo come quelle che la tradizione indicava come scientiae purae o scientiae primae siano caratterizzate da una temporalità discendente e decadente, dominata dal principio di auctoritas30. Nelle arti invece vale l’opposto. Chi ne scopre i principi, pur ponendo le basi, fa il meno. Sono poi l’opera del tempo e il lavoro sociale delle comunità a trarne i veri frutti. È a tale esempio che la filosofia deve guardare. L’affermazione di un mondo nuovo in cui la concreta importanza storica della tecnologia è emersa in tutta la sua rilevanza ha avuto due risultati principali. Da un lato, ha reso del tutto inapplicabili le dottrine tradizionali. Dall’altro, ha fornito l’occasione da cogliere perché un simile rivolgimento avvenisse anche nel campo filosofico e quindi sul piano generale della totalità del sapere31. Infatti, lo stesso metodo che le opere baconiane dispiegano e la 29

F. Bacon, De augmentis scientiarum, Sp. vol. I, p. 457 / SF, pp. 161-

162. 30 Sull’organizzazione e classificazione dei saperi nell’antichità e nel medioevo si veda S.J. Livesey, Metabasis: The Interrelationship of Sciences in Antiquity and in the Middle Ages, PhD Dissertation, UCLA, 1982. 31 Sul rapporto fra filosofia e tecnologia cfr. P. Rossi, I filosofi e le macchine: 1400-1700, Feltrinelli, Milano 1976.

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cui efficacia non cessano di difendere, non è, come già avvenuto per la stampa, la bussola e la polvere da sparo, se non un semplice frutto del caso. È quanto ci viene detto quando Bacon definisce la propria filosofia come un «parto del tempo»32, cioè non come una produzione individuale, ma dettata dalle circostanze di una storia che non si è ancora indirizzata sui binari del progresso, creandone però al contempo la possibilità. La active science baconiana, proprio perché non è essa stessa un suo prodotto, deve soggiacere alle condizioni di produzione del sapere precedenti la sua entrata nella storia. La mente baconiana non costituisce un’alterità radicale rispetto al mondo naturale che la circonda. Essa vive quindi in un’osmosi costante con il suo contesto33. In quanto tale, la sua base di legittimazione sono le condizioni storiche in cui emerge la possibilità di generalizzare e stabilizzare delle regole a partire da prassi cognitive già in uso. L’inizio dell’età nuova e delle nuove possibilità che essa fornisce all’essere umano non possono essere, per Bacon, il frutto di un’autoriflessione dell’individuo sulle proprie capacità. Il progresso e il metodo come sua precondizione sono generati da coincidenze fortuite e dal lavoro del tempo, di cui la verità o, meglio, la sua possibilità è figlia. Estremizzando il ragionamento baconiano, potremmo dire che, se la scienza è il motore del progresso, allora il progresso non è altro che un colpo di fortuna. A quanto appena detto vanno aggiunte due considerazioni. La prima è il riconoscimento da parte di Bacon F. Bacon, Cogitata et visa, Sp. vol. III, p. 610 / SF, pp. 388-389. Cfr. ivi, p. 607 / SF, p. 384: «Parlando in generale, la mente umana è senza dubbio simile a uno specchio ineguale che accoglie e riflette i raggi delle cose non in una superficie piana, ma secondo gli angoli della sua sezione; a causa della sua educazione, dei suoi studi e della sua costituzione, ogni uomo è inoltre turbato da un potere di seduzione, quasi un demone familiare, che inganna la mente con spettri vari e illusioni». 32 33

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che progresso tecnico e progresso morale non vanno in alcun modo di pari passo. Se infatti la tecnologia libera e potenzia le capacità naturali dell’essere umano, dall’altro non assicura che queste nuove possibilità siano applicate nella maniera più consona. È quanto Bacon sottolinea interpretando la figura di Dedalo nel De sapientia veterum: [la] favola fa esplicito riferimento all’uso delle arti meccaniche: ad esse molto deve la vita umana avendo tratto dai loro tesori molte cose per il servizio della religione, e per l’ornamento della vita civile, per il miglioramento dell’intera esistenza. Tuttavia, da quella stessa fonte, derivano strumenti di vizio e di morte. Tralasciata l’arte dei lenoni, i più potenti tossici, le macchine belliche e pesti di tal fatta (che son dovute alle invenzioni della meccanica) ben sappiamo quanto abbiano superato per crudeltà e pericolosità lo stesso Minotauro. Stupenda è poi l’allegoria del Labirinto nella quale è adombrata la natura in generale della meccanica. Tutte le invenzioni meccaniche che sono accurate e ingegnose possono essere considerate simili a un labirinto: e per la sottigliezza e varia complicazione e per l’ovvia somiglianza derivante dal fatto che possono essere sorrette e distinte non da un giudizio, ma solo dal filo dell’esperienza. Non meno giustamente si aggiunge che colui il quale ideò i meandri del labirinto, ha mostrato anche la necessità di un filo. Le arti meccaniche sono infatti di uso ambiguo e possono produrre nel contempo il male e offrire rimedio, la loro virtù scioglie e scopre se medesima34.

Il progresso non è mai, quindi, un’acquisizione stabile, ma qualcosa che l’essere umano deve sempre garantire attraverso un’applicazione benefica dei suoi ritrovati e delle sue pratiche. L’emancipazione del proprio pieno poten34

Id., De sapientia veterum, Sp. vol. VI, p. 660 / SF, p. 483.

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ziale e delle possibilità latenti nel Proteo materiale non esimono da un pieno utilizzo della tecnologia a favore della comunità, bensì lo rendono necessario. Pena, altrimenti, la distruzione della società attraverso quei medesimi strumenti che essa aveva creato per realizzarsi pienamente35. Alla doppiezza e ambiguità intrinseca ai frutti delle scoperte tecnologiche si aggiunge quello che è, dal punto di vista baconiano, lo strato più profondo della temporalità progressiva instaurabile grazie all’affermazione e diffusione della nuova interpretatio naturae. Se l’analisi delle possibilità negative interne alle opere frutto della conoscenza ci dice che il progresso non è qualcosa di assicurato dalle possibilità tecniche né di raggiungibile una volta per tutte, dobbiamo constatare come la stessa temporalità progressiva viva di una sua dialettica interna. Se, infatti, l’essere umano che osserva i mutamenti materiali e sociali legati alla tecnologia non può che intenderli come un avanzamento rispetto e alla propria condizione passata e alle popolazioni non in possesso dello stesso grado tecnologico, dall’altro lato il nuovo interprete della natura non deve farsi ingannare: […] non è il piacere della curiosità, né la pace della decisione, né la crescita dello spirito, né la vittoria dell’intelligenza, né la capacità oratoria, né il guadagno professionale, né l’ambizione di onore o fama, né l’abilità negli affari a essere il vero fine della conoscenza. Nonostante alcuni di questi siano più meritevoli di altri, tutti sono inferiori e degenerati. Il vero fine della conoscenza è una restituzione e una nuova investitura (in gran parte) per l’uomo del potere e della sovranità (grazie a cui Cfr. Id., Valerius terminus, Sp. vol. III, pp. 221-222, dove si dice che la conoscenza «deve essere utilizzata per ciò a cui Dio la ha destinata; che è il beneficio e il benessere dello stato e della società umana; altrimenti ogni conoscenza diviene maligna e serpentina […]». 35

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un giorno sarà in grado di chiamare le creature con il loro vero nome che sarà lui a imporre loro di nuovo) che ebbe nella sua prima condizione creaturale. E per dirla in modo chiaro e semplice, si tratta della scoperta di tutte le opere e di tutte le possibilità di opere dall’immortalità (dove possibile) sino alla più semplice pratica meccanica36.

In questo passo del Valerius terminus emerge la potente carica teologica della filosofia della storia di Bacon. Il progresso tecnologico e l’accumularsi di possibilità tecniche che mediano e potenziano le possibilità di azione umana, non sono a ben vedere un avanzamento, un allontanarsi dallo stato originario. Essi sono invece il modo tramite cui riguadagnare la condizione edenica in cui l’essere umano si ritrovava prima della caduta. Se, quindi, la temporalità della scienza di Scuola proseguiva e approfondiva le conseguenze della scelta di conoscere il bene e il male, la nuova active science rappresenta la via attraverso cui riottenere l’integralità della natura umana, emancipandola dalla corruzione a cui è incorsa in questi millenni di storia e riottenendo un rapporto di chiarezza e trasparenza con il mondo naturale. Progresso tecnologico e ritorno alla pienezza naturale non sono mai, in Bacon, l’uno senza l’altro. 3. Active science e natura Quanto detto potrebbe portarci a credere che le arti siano come tali caratterizzate dalla temporalità progressiva. La questione invece è diversa e riporta in primo piano la centralità del vincolo naturale:

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Ivi, p. 222.

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[…] le cose che sono fondate sulla natura crescono; quelle fondate sull’opinione variano ma non progrediscono. Pertanto se queste dottrine [le filosofie dei Greci] non fossero in tutto simili a una pianta strappata dalle radici, ma aderissero al ventre della natura e traessero di qui il loro alimento, non sarebbe accaduto ciò che vediamo accadere da duemila anni: che cioè le scienze restino all’incirca sempre nelle stesse condizioni senza nessun progresso degno di nota: anzi raggiungono il massimo splendore nel loro primo autore e successivamente declinano. Invece nelle arti meccaniche, che sono fondate sulla natura e sulla luce dell’esperienza, vediamo accadere il contrario: esse (finché godono favore), come animate da uno spirito vitale, di continuo crescono e si sviluppano: dapprima sono rozze, poi utili, poi perfezionate e continuamente progrediscono37.

La tecnologia non rappresenta un ambito altro e separato rispetto alla natura. Anzi, essa è in realtà una delle possibili forme di esistenza della natura. Se, infatti, riprendiamo a questo punto i passaggi della Preparazione alla storia naturale e sperimentale citati in precedenza possiamo notare come la tripartizione fra storia delle generazioni, storia delle generazioni irregolari e storia delle arti sia a sua volta fondata su una tripartizione intrinseca alle forme di esistenza che la natura può assumere: La natura esiste in tre stati differenti ed è soggetta, per così dire, a tre differenti specie di governi. Essa infatti o è libera, e allora segue il suo corso ordinario; oppure è forzata fuori dal suo stato dalle perversità e dalle stranezze della materia e dalla violenza degli impedimenti; oppure è costretta e plasmata dall’arte e dal ministero degli uomini. Il primo stato si riferisce alle specie naturali; il secondo 37

Id., NO I, 74, Sp. vol. I, pp. 183-184 / SF, p. 586.

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ai mostri; il terzo alle cose artificiali. In queste ultime, infatti, la natura è soggiogata al dominio dell’uomo poiché, senza l’uomo, tali cose non sarebbero mai esistite38.

La natura può seguire il suo corso ordinario, venire impedita nel farlo da fattori non dettati dall’uomo oppure essere imbrigliata dalla tecnologia e forzata a uscire dal suo procedere spontaneo. È vero – come Bacon sottolinea – che senza la tecnologia determinate entità non esisterebbero. Esse fuoriescono dalla struttura comune e stabile che la natura ha assunto dopo il Producat divino. Tuttavia, è la natura stessa a esistere in quanto arte. Non c’è opposizione fra tecnica e natura nell’opera baconiana perché la prima è un modo di manifestazione della seconda. Se approfondiamo ulteriormente le implicazioni di quanto appena sostenuto, ci troviamo di fronte alla necessità di distinguere immediatamente due diverse forme dell’azione tecnologica. In primo luogo, troviamo la semplice produzione di opere, cioè di strumenti, che consentono all’essere umano di deviare il corso naturale ordinario. Oltrepassare la morfologia che la natura ha assunto non significa però contraddirne i comportamenti originari. L’applicazione e l’utilizzo di strumenti non fanno altro che velocizzare o rallentare i processi naturali. Si tratta quindi di imitare e riprodurre gli effetti che un certo processo naturale avrebbe se si svolgesse in un determinato modo invece che in un altro. La tecnologia baconiana si attesta quindi su di un livello imitativo che se, da un lato, non è volto a rispecchiare il modo in cui la natura si presenta quotidianamente davanti all’essere umano, dall’altro, ha come proprio compito quello di riprodurne gli effetti39. Id., Parasceve, Sp. vol. I, p. 394 / SF, p. 802. Sull’idea della tecnologia come imitazione della natura si veda H. Blumenberg, “Mimesi della natura”. Sulla preistoria dell’idea di uomo 38

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Da ciò si evince che fermarsi all’opposizione fra dimensione naturale e dimensione artificiale, nell’ottica baconiana, significherebbe arrestarsi al rapporto più superficiale fra la dimensione tecnologica e quella della naturalità. Infatti: […] la nostra via e il nostro metodo non consistono […] nel ricavare opere da opere (come fanno gli empirici), ma nel ricavare dalle opere e dagli esperimenti le cause e gli assiomi, e di nuovo, dagli assiomi e dalle cause, ancora nuove opere e nuovi esperimenti (come fanno i legittimi interpreti della natura)40.

La scienza baconiana è activa non solo nel senso di essere produttiva di oggetti e strumenti o, più in generale, di generi di conforto che sollevino gli esseri umani dalla fatica e dal dolore. Certo, anche questo è uno dei suoi compiti fondamentali. Essa però deve produrre soprattutto pratiche di comportamento sperimentale che ci consentano di oltrepassare il corso ordinario della natura, per poi approdare, solo in secondo luogo, alla creazione di opere. Solo in questa peculiare accezione della sua attività la produzione baconiana di esperienze può pretendere di identificarsi con quei vincula che costringono il Proteo della materia a rivelarsi. È da questa impostazione che si origina la necessità di una nuova articolazione del rapporto fra fisica e metafisica: […] come l’indagine delle forme, che sono di principio e per la loro propria legge eterne e immutabili, costituisce la metafisica, così l’indagine sulla causa efficiente, creativo, in Id., Realtà in cui viviamo, a cura di M. Cometa, Feltrinelli, Milano 1987, pp. 50-84. 40 Id., NO I, 117, Sp. vol. I, p. 212 / SF, p. 622.

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sulla materia, sul processo latente e sullo schematismo latente (che tutte riguardano il comune ed ordinario corso della natura e non le leggi fondamentali ed eterne) costituisce la fisica41.

La pratica scientifica baconiana si modella quindi sulla presenza di due livelli della natura. Da un lato, abbiamo il corso ordinario della natura, inteso in senso ampio, che comprende in sé la tripartizione operata nella Preparazione alla storia naturale e sperimentale. Le generazioni, così come i monstra e gli strumenti tecnologici sono forme di esistenza della natura che dipendono da un suo livello più profondo rappresentato dalle forme, ovvero dalle leggi che governano l’intrinseca forza, il movimento, ma soprattutto la reciproca compatibilità o incompatibilità delle componenti materiali che strutturano i singoli enti naturali. Al fine di attingere alla conoscenza di questo livello profondo risponde la creazione del nuovo percorso sperimentale baconiano capace di mettere sotto pressione le cose della natura fino al punto da far loro rivelare la specifica rispondenza a una forma più generale, cioè la sussunzione sotto una legge di comportamento e interazione che comprende un numero maggiore di casi rispetto a quanto non avviene nella modalità in cui tali cose si comportano ordinariamente. La metodologia sperimentale baconiana non consiste nel verificare l’accordo fra una struttura astratta, composta da rapporti fra proprietà quantitative, e la presenza percettiva dei loro portatori, quanto nel portare a emergere le formae dalle cui combinazioni derivano i diversi enti sensibili così come le loro proprietà, autonome e reciproche. In tal modo, l’induzione vera e legittima, cioè la chiave per l’autentica interpretatio naturae, può pretendersi come metodo d’indagine definitivo. A differenza 41

Id., NO II, 9, Sp. vol. I, p. 235 / SF, p. 649.

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di quella che sarà poi l’induzione completa newtoniana – che consiste in una raccolta delle osservazioni percettive che corrispondono effettivamente o potenzialmente a una determinata struttura quantitativa42 –, l’induzione baconiana rappresenta invece il tentativo di far collaborare sensibilità e intelletto al fine di individuare una struttura legale che non è riducibile né a semplice oggetto percettivo né a mera escogitazione intellettiva43. 4. L’inesistenza della natura Alla radicale alterità di Bacon al paradigma meccanicista prima e newtoniano poi è presupposta una concezione della natura completamente diversa da quella che consentirà, nel corso del XVII secolo, una piena omogeneizzazione delle macchine e delle entità naturali. Bacon infatti partecipa in modo eccentrico al generale mutamento complessivo che investe in quegli anni il concetto di natura. Fra Cinquecento e Seicento vediamo in atto una tendenza generale a trasformare la natura da principio ontologico individuale degli enti in un concetto astratto privo di un effettivo corrispondete reale44. Come ci dice lo stesso Bacon: «In natura non esist[ono] 42 Sulla pratica scientifica newtoniana si veda A. Pala, Isaac Newton. Scienza e filosofia, Einaudi, Torino 1969. Per un’ottima analisi delle differenze fra l’induzione baconiana e quella proposta da Newton nei Principia cfr. G. Mori, Le tracce della verità. Metodo scientifico e retorica digressiva nell’età di Francis Bacon, il Mulino, Bologna 2017. 43 Per una storia del concetto di induzione, cfr. J.R. Milton, Induction Before Hume, «The British Journal for the Philosophy of Science», 38 (1987), 1, pp. 49-74. 44 Mi è impossibile argomentare ulteriormente quanto appena detto in questa sede. Si vedano però E. Sergio, Verità matematiche e forme della natura da Galilei a Newton, Aracne, Palermo 2006 e F. Zanin, La scomparsa della filosofia naturale. Alle origini della fisica matematica, CLEUP, Padova 2011.

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veramente se non corpi individuali producenti atti puri individuali secondo una legge»45. La physis antica viene sostituita da una materialità multiforme animata da una sua legalità necessitante e produttiva delle diverse entità individue46. Nessun oggetto singolo può sperare di esemplificare in maniera archetipica l’essenza della natura, creando così l’impressione che, a ben vedere, la natura come tale non esista. Sarà Robert Boyle a trarre più esplicitamente le conseguenze di tale situazione, ponendosi l’interrogativo se essa sia «un ente realmente esistente o un’entità concettuale». La sua esemplare risposta viene formulata come segue: la definizione della natura universale che offrirei è più o meno questa: la natura è l’aggregato dei corpi che formano il mondo, strutturato così com’è, considerato come principio in virtù del quale essi agiscono e subiscono in base alle leggi del movimento prescritte dall’Autore delle cose. Tale descrizione potrebbe essere parafrasata nel modo seguente: che natura in generale è il risultato della materia universale, o sostanza corporea dell’universo, intesa per come è costretta nell’attuale struttura o costituzione del mondo, grazie a cui tutti i corpi che la compongono sono in grado di agire l’uno sull’altro o capaci di subire l’uno dall’altro in base alle leggi del movimento stabilite. […] Questo consente l’altro (subordinato) concetto di natura che deriva dalla precedente descrizione, perché la natura particolare di un corpo individuale consiste della natura universale applicata a una porzione particolare dell’universo47.

Id., NO II, 2, Sp. vol. I, p. 228 / SF, p. 641. Sulla teoria della materia come problema fondamentale della scienza inglese del XVII secolo cfr. R.H. Kargon, Atomism in England from Harriot to Newton, Clarendon Press, Oxford 1966. 47 R. Boyle, On nature, in Id., Selected Philosophical Papers, M.H. Stewart (ed.), St. Martins Press 1979, pp. 187-188. 45

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Ciò però non significa che in questo processo di metamorfosi la posizione baconiana possa essere semplicemente assunta come omogenea a quelle, ad esempio, di Galilei e Descartes. Il rifiuto di fondare sulla matematica l’indagine naturale è sintomo di una piena irriducibilità della natura alle produzioni umane. Proprio perché l’arte è uno dei modi di esistenza della natura e non può quindi esaurirne il significato, Bacon non potrebbe in alcun modo accettare il piano di completa omogeneità fra il funzionamento di uno strumento tecnico e la strutturazione del livello profondo della natura, come avviene invece nei Principia philosophiae o nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Quella che per lo scienziato pisano e il filosofo francese è la distinzione semiotica fra sensazioni dettate dall’interazione del corpo con gli oggetti e proprietà che invece appartengono realmente a questi ultimi, per Bacon va inserita in un contesto differente e più ampio. Come la distinzione fra metafisica e fisica ci ha mostrato, il livello della causa efficiente (e della sua relativa indagine) si limita a illustrare e descrivere il corso ordinario della natura. In quanto tale, questa struttura orizzontale di decorso presuppone una verticalità dove si celano nascoste le infinite potenzialità naturali. Il legame di causa ed effetto si fonda, a sua volta, su quelle che sono le compatibilità fra le diverse forme, la tensione propria dei corpuscoli materiali a unirsi con gli uni piuttosto che con gli altri. È quindi l’indagine delle forme a determinare l’effettiva natura delle cose, dei processi quotidiani in cui sono inserite e dei processi potenziali in cui potrebbero rientrare. Quindi, per quanto, ad esempio, sia baconiano Descartes nel proclamare che la sua nuova Philosophie Pratique fa degli esseri umani i «signori e padroni della natura»48, dal 48 R. Descartes, Discours de la méthode, in Id., Œuvres de Descartes, publiées par C. Adam et P. Tannery, nouvelle présentation, en coédition

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punto di vista di Bacon la sua scienza meccanica fallirebbe nel suo proposito. Perché «il potere dell’uomo non può emanciparsi e liberarsi dal corpo ordinario della natura per espandersi ed innalzarsi a nuove attività e a nuovi modi di operare, se non con la rivelazione e la scoperta di tali forme»49. Tuttavia, entrambe queste concezioni, quella che verrà poi chiamata meccanicista e quella baconiana, trovano il loro comune punto di convergenze nella consapevolezza di non poter, usando una celebre espressione galileiana, «inganna[re], in un certo modo, con le […] machine la natura»50. D’altronde, come potrebbe la natura ingannare sé stessa?

avec le centre national de la recherche scientifique, Vrin, Paris 1965, vol. VI, p. 62, l. 7-8. 49 F. Bacon, NO II, 17, Sp. vol. I, p. 258 / SF, p. 678. 50 G. Galilei, Le mecaniche, in Id., Le opere di Galileo Galilei, Edizione Nazionale sotto l’auspicio di Sua Maestà il Re d’Italia, tipografia di G. Barbera, Firenze 1891, vol. II, p. 155. Per quanto concerne il rapporto fra mente, natura e tecnologia in Cartesio mi sia consentito rimandare a I. Chiaravalli, L’oggetto puro. Matematica e scienza in Descartes, Edizioni ETS, Pisa 2020.

Fabrizio Lomonaco

La religione come vincolo nel Diritto universale di Vico

Non è certo irrilevante l’espressione vincolo che, nella sua plurale consistenza lessicale, è presente nel Diritto universale (1720-1722), in quel gran «laboratorio»1 di idee e di fatti che precede la “fabbrica” delle Scienze Nuove. Attento a non ripetere formule consunte il libro I De universi juris uno principio, et fine uno (1720) invita a riconoscere nelle origini delle parole i caratteri del tempo oscuro della storia umana in cui la prima lingua fu quella sensibile alle esperienze di vita naturale e religiosa dell’uomo primitivo. Perciò le leggi in origine non furono disposizioni artificiali o normative astratte quanto manifestazione spontanea e non convenzionale di concrete consuetudini. Da qui la profonda connessione tra diritto, natura, religione come pietas e l’origine stessa di quest’ultima «non a religando, – come si legge nel capitolo CXLIX dell’opera, correggendo, nel margine laterale destro del testo, l’originaria espressione a stampa [relegando] – sed a relegendo, accurate legendo» le sacre sedi dei culti: E qui mi occorre il dubbio se da queste discorse cose non possa esser provenuta eziandio la prima religione delle Così N. Badaloni, Laici credenti all’alba del moderno. La linea Herbert-Vico, Le Monnier, Firenze 2005, parte II, cap. II «Nel laboratorio del diritto universale», pp. 144 e sgg. 1

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fabrizio lomonaco

fonti, e se la parola religio non derivi da relegendo (scegliere accuratamente), piuttosto che da religando, la qual conghiettura vien confermata da quell’assai elegante ricordo: Relegentem esse, non religiosum oportet, il quale vuol dire esser d’uopo esercitarsi alla pietà, e non abbandonarsi a vana superstizione. Le dee delle fonti erano nominate Lymphae o Nymphae, e da ciò è provenuto il nome di lymphati dato a coloro, che avevan avuto l’ardimento di fissare lo sguardo nelle fonti sacre, come lo dimostra la favola di Atteone2.

L’intenzione divina costituisce un vincolo per la natura umana in quanto creata e riconosciuta con le figure della mitologia, con le naturae fictae che polarizzano conoscenza e azione, riscattando l’umano dalla condizione ferina. Gli antichi culti e le favole tramandano i primi costumi dell’umanità e, in particolare, la memoria dei processi che in origine legano l’uomo alla terra e alle sue fonti attraverso i quali il diritto viene realizzandosi, passando progressivamente alla sfera del certo della «lingua eroica». La ricostruzione attira i contenuti di un’antropologia aperta dal senso del religioso che è un capire e un agire nel mondo G. Vico, De universi juris uno principio, et fine uno (1720; d’ora in poi con De uno), in Id., Opere giuridiche, a cura di P. Cristofolini, introduzione di N. Badaloni, Sansoni, Firenze 1974, pp. 188, 189 (d’ora in avanti con OG); si veda l’edizione anastatica con postille autografe (ms. XIII B 62, a cura di F. Lomonaco, presentazione di F. Tessitore, Liguori editore, Napoli 2007, p. 99, rigo 9): il colore più intenso dell’inchiostro nella postilla e il fatto che essa sia preceduta da «em.» lasciano pensare che l’intervento sia successivo a una prima fase di correzione e a quella confluita nelle Emendationes (interne allo stesso ms. napoletano) in cui manca il riferimento alla pagina qui esaminata. Sul tema e per l’aggiornata letteratura critica di queste pagine sia consentito rinviare al mio volume, I sentieri di Astrea. Studi intorno al Diritto universale di Giambattista Vico, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2018, spec. capp. IV e V e Appendici I, II, III. Una parziale traduzione in lingua portoghese è in Id., Estudos sopra o Diritto universale de Vico, trad. pr. S. De Amorim e Silva Neto, Editor PHI, Campinas 2018. 2

la religione come vincolo nel diritto universale di vico

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tra contrastanti legami e dolorose esperienze vincolanti gli individui nella loro esistenza. Ogni periodo della vita umana costruisce le sue formule di riconoscimento attraverso il sacro in relazione alle necessità del vivere, al bisogno di protezione e di rassicurazione sociale. Nell’epoca del diritto delle «genti maggiori» la relazione sociale riceve senso da “pratiche” in cui la religione viene a costituire il centro dinamico della vita umana, sia pure in forme primitive di espressione, riflesse nello ius violentiate. Al «carattere divino del diritto» si richiamano le prime ricostruzioni del vincolo del “giuramento” che segna la vita sociale e politica dei “primi governi, quelli delle famiglie”. Vico non esita a riconoscerlo, considerando come e quanto «la forza stessa delle guerre» insegni alle «sovrane potestà che sono soggette a Dio»3. Lo documentano emblematicamente le varie «formule» adottate per attestare la «forza della religione del giuramento» verso Giove, Giunone e Quirino, «per la quale si credevano obbligate le civili podestà all’osservanza degli accordi pattuiti, e (ci) attestano altresì l’esistenza di un gius naturale sviluppatosi tra le genti, siccome lo comportavano l’indole delle nazioni, e le comuni usanze di quelle civili Società»4. C’è, allora, un’origine non razionale dei patti che cambiano la «natura delle politiche società» e dei «contratti» e che risultano essere confermati solo dal «giuramento» come attestano le «leggi sagrate»5. G. Vico, De uno, p. 208. Ibidem. In proposito Enrico Nuzzo ha svolto lucide osservazioni di metodo e di contento (Prima della “prudenza moderna”. Giuramento sacro e fondamento metapolitico del potere in Vico [1997], poi in Id., Tra religione e prudenza. La “filosofia pratica” di Giambattista Vico, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2007, pp. 184 e sgg., 197 e sgg.), dedicando attenzione specifica al disegno sistematico dei libri del Diritto universale e giungendo ad osservare felicemente che il sacro che interessa a Vico è «solo il “sacro civile”» dentro una storia profondamente religiosa perché umana fuori dalla storia sacra (ivi, p. 157). 5 G. Vico, De uno, p. 214. 3

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Quello che il vincolo dell’antico giuramento invita ad abbandonare è il modello classico della naturale continuità di sviluppo della socialità, contraddetto dalla positiva funzione dialettica del conflitto che porta con sé l’istanza utilitaristica, liberando quest’ultima, però, dal significato di smascheramento di una presunta insocievolezza6. Fin dal suo sorgere come ius privatae violentiate il diritto non lascia il rapporto sociale all’arbitrio del più violento. Anche nel mondo arcaico è sempre presente un orientamento alla ragione e all’umanità, perché tutti i tipi di violenza si svelano ancorati a forme sia pure latenti di «buone disposizioni dell’animo», favorite – per divina provvidenza – dalla «forza istessa delle cose» e «spontanee naturali tendenze»7. Del primo e più oscuro momento di vita umana Vico si preoccupa, infatti, di mettere in rilievo la misteriosa “collaborazione” del divino con cui il diritto antico nasce e diventa fattore di civiltà. Questa convinzione ha retto tutta la filosofia del diritto universale vichiano, costituendo il più emblematico luogo di incontro tra livello metafisico e impegno storico. Il conflitto appartiene al corso storico che vede la “compiuta umanità” anche nella costitutiva apertura alle possibilità

6 Cfr. F. Botturi, La sapienza della storia. Giambattista Vico e la filosofia pratica, Vita e Pensiero, Milano 1991, p. 363. 7 G. Vico, De uno, p. 128: «Dispose la divina provvidenza che condotti dalla forza istessa delle cose, e sollecitati da spontanee naturali tendenze, emergessero gli ottimi, e, per contrastare ai violenti, fondassero le clientele; che appresso, tra loro ristrettisi, constituissero un ordine per meglio opporsi alle sedizioni delle plebi, ed in quella lor collettiva possanza confidatisi, stabilissero le leggi […]. Ed in tal guisa per la religione degli dei vennero le leggi ad essere più saldamente raffermate. Da siffatte buone disposizioni dell’animo nacquero tutti gli esercizi più acconci a procurare i comodi e le utilità della vita umana, onde gli uomini aiutandosi a vicenda, fossero l’uno inver l’altro come tanti iddii».

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della crisi e della decadenza8. Ricostruirne la storia significa riconoscerne il fondamento metafisico, quell’ordine eterno, sintesi di intelligenza, volontà e potere nell’unità della mente divina, prodotta nell’uomo per «conformatio cum rerum ordine» dalla «vis ordinis» di Dio, cartesianamente autore delle «verità eterne»9. Così matura un’idea comune di ordo, ancorata all’unità e all’unicità del principium iuris in una cornice accademica a tendenza spiritualistica (con Malebranche e l’interpretazione dualistica degli esiti della metafisica cartesiana), utile a declinare dal punto di vista della pratica, il dualismo corpo-mente e riferendo a quest’ultima «alcune comuni nozioni di eterna verità»10. Diversamente dal «buon senso» di Descartes, innata capacità cognitiva di ragionare e di conoscere con chiarezza e distinzione, il «senso comune» di Vico è criterio di certezza in continua ricerca di avveramento, è una verità da accertare. L’umano fare è lontano da ogni forma di contemplazione ed è insieme la negazione della prassi insensata dell’agire per l’agire, non fosse altro che nell’azione è la libertà dell’uomo a rifarsi ogni volta 8 Sul tema, dopo i noti studi di Pasini e Botturi, cfr. R. Caporali, Heroes gentium. Sapienza e politica in Vico, il Mulino, Bologna 1992, parte III, pp. 147 e sgg. 9 G. Vico, De uno, p. 42 ma anche Id., Sinopsi del Diritto universale (1720), in OG, pp. 5-6. Dopo le ricerche di Billi, Carillo e Ingegno, si veda G. Gasparri, Le grand paradoxe de M. Descartes. La teoria cartesiana delle verità eterne nell’Europa del XVII secolo, Olschki, Firenze 2007. 10 G. Vico, De uno, p. 40: «L’uomo è composto di corpo e di mente. Il corpo e le cose che al corpo pertengono, come i sensi, che sono cose finite, dividono l’uomo da ogni altr’uomo, e perciò circa le cose sensibili, tanti sono gli uomini, quante le opinioni. Ma la mente lo fa posseditore di alcune comuni nozioni di eterna verità, nelle quali egli cogli altri uomini partecipando, viene con essi a congiungersi». Sulla presenza di Malebranche si veda E. Nuzzo, Ai limiti dell’ortodossia cristiana.“Principio di semplicità” e ordine naturale e storico in Malebranche e Vico. Atti del Convegno su “Malebranche e i suoi contemporanei” (Napoli, 15-16 dicembre 2015), a cura di R. Carbone, «Laboratorio dell’Ispf (on-line)», 14 (2017), pp. 1-77, in particolare le pp. 41-43.

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all’interiore vis veri di cui il senso comune è cifra umana e storica. Ma questa vis agisce dall’interno dell’uomo, perché è forza spirituale, non ancora in grado di intervenire nell’esperienza vissuta, nel campo d’azione della teorizzata unità del sapere divino e umano. Lo ius può vincere lo scetticismo, perché attribuisce nuovo significato alla condizione umana delle origini, alle antichissime esperienze della religione e alle relative espressioni fantastico-poetiche. La metafisica non smentisce se stessa se riconosce l’esigenza di unità della mente col fare del certum, aperta al verum della vita che è verità del mondo umano. Del resto proprio come «critica del vero»11 ha bisogno della storicità per non esasperare la tentazione di separarsi dalla sfera mondana e rendere evanescenti le esperienze esistenziali, rischiando di assecondare le pretese teocratiche di identificare, snaturandoli, i principi trascendenti in assoluti socialmente istituzionalizzati. L’importanza del diritto sta nel rappresentare una difesa per la storia e nella storia di tutto il mondo spirituale. La sua storicità deriva dal graduale svilupparsi nel tempo dei semi eterni di vero introdotti dalla Provvidenza nell’uomo, in coerenza con i principi della religione e della giurisprudenza cristiane: Così disponendo le cose degli imperi, la providenza divina a’ suoi eterni disegni, che, quando Costantino dasse la pace alla Chiesa, tutto il mondo fosse governato da un imperio, il quale si regolasse da un dritto già compatibile con la religion cristiana, e la giurisprudenza prendesse da quella il principio De summa Trinitate et fide catholica, il quale è principio e fine della giurisprudenza e della religione. E da una scienza, nella quale costi tutta l’erudizione divina ed umana, dimostrata sui princìpi della

11

G. Vico, De uno, p. 30.

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cristiana giurisprudenza, si fermi nel giurisconsulto la costanza di operar giustamente12.

La confluenza dell’ordine metafisico e di quello storico conduce la vita sociale al più alto grado di universalità-unificazione, quando si accerta che le esperienze nella storia fanno capo a Dio, riconoscono in lui il senso etico di tutto il faticoso e complesso divenire del reale. Il vero obiettivo non è di considerare parallelamente le ragioni eterne e immutabili del diritto e l’evoluzione storica dei fatti, ma quello di rintracciare in Dio l’origine stessa, il fondamento e il fine ultimo del diritto universale. Così, l’ideale e l’eterno si manifestano nel concreto, al punto che Vico può, con intimo senso religioso, raggiungere la «dimostrazione del circolo della divina ed umana erudizione»13. Il ritorno all’uno non è una palingenesi né un’ascesi mistica dell’anima a Dio, ma un ritorno al nesso tra verità e giustizia che Vico coglie nel Corpus iuris. Nel De uno l’“essere” dello ius è realtà complessa, unità inscindibile di giustizia e utilità, di verum e certum, di momento ideale 12 Id., Sinopsi del Diritto universale, cit., p. 16. È discutibile (nel senso ovviamente anche di essere degno di discussione) in proposito il giudizio del Badaloni per il quale «nonostante il tentativo […] di giustificare il rapporto trinitario, […] la linea maestra (deve) essere individuata in una filosofia della provvidenza, che resta il punto fermo acquisito del suo pensiero, e che salda la tematica teologica con l’interesse per la questione del peccato filosofico in una direzione non molto distante dall’unitarismo inglese ed olandese» (N. Badaloni, Vico prima della Scienza Nuova, in AA.VV., Campanella e Vico, Atti del Convegno internazionale sul tema “Campanella e Vico” [Roma, 12-15 maggio 1968], Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1969, pp. 354-355). 13 G. Vico, De uno, cap. ultimo («Dimostrazione del circolo della divina e umana erudizione»), p. 342. In proposito sia consentito rinviare al mio contributo, Between Law and Religion. A Contribution to Textual Criticism of De uno, in G. Cacciatore, M. Kaufmann, F. Lomonaco (Hrsg.), Zwische Sprache und Geschichte. Vicos Methode beim Umgang mit Recht and Naturrecht, P. Lang, Bern 2020, pp. 169-186.

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e reale; è ricerca del verum, insomma, nell’orizzonte finito dell’uomo che imita l’assoluto dal punto di vista dell’utile virtuoso. E lo fa non senza forzature, manifestando tutto il suo affascinante tormento per l’originale coesistenza di un platonismo tradizionale e di un’intuizione che reclama l’azione come centro di vita. Se a essa non basta più la mera utilità come criterio di orientamento, resta problematico tenere insieme l’«idea» del diritto come giustizia e la certezza del suo svolgimento, lo ius come ordine vero ed esperienza. Proponendo più che una conclusione un’esigenza senza soluzione, Vico non risolve l’ossimoro di un’eternità storica, di un eterno, cioè, che intende garantire idealità alla vita morale dell’uomo e virtuosa soddisfazione sociale alle utilità, premessa di ogni civile communicatio14. Nel De constantia iurisprudentis l’esame del diritto primitivo supera i limiti ristretti del De uno e conosce uno sviluppo di grande respiro che qui interessa sottolineare soprattutto per quel collegamento sempre mantenuto tra l’indagine sull’origine del «dominio» e il senso del sacro, un nucleo tematico, questo, destinato a risultare centrale anche nelle Scienze nuove. Dalla ricerca dell’uno e dalla conformatio al verum l’attenzione di Vico si estende alla ricognizione del religioso quale legame necessario alla vita degli uomini. Contrassegno della «prima epoca del tempo oscuro» è il «dominio monastico e paterno» che fonda il «regime teocratico» e le sue pratiche, in particolare le «profferte» e i «voti» che richiamano l’attenzione di Vico e dei suoi lettori sulla «religione dei giuramenti» che nel «regime dello stato di natura […] ebbe un posto eminente», assimilando gli «dèi dei giuramenti» ai «giudici dei

Questo è un motivo fondamentale nella magistrale lettura di G. Capograssi, Dominio, libertà e tutela nel «De Uno» (1925), poi in Id., Opere, vol. IV, Giuffrè, Milano 1959, pp. 3-4 e sgg. 14

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voti»15. Ma il rilievo è tanto significativo per la definizione dei vincoli tra ius e religio che una nota al De constantia interviene, formulando non irrilevanti annotazioni etimologiche: Questo sentimento religioso fu così importante presso i primi uomini, che Omero di quando in quando si serviva del giuramento, come di un espediente, al fine di sciogliere i nodi delle favole che non potevano essere sciolti per via naturale, come quando Circe giura a Ulisse che non lo avrebbe mutato in un porco, così che, dove veniva interposto il giuramento, credevano che qui fosse presente Giove. Di questo sentimento religioso conservò tra i Romani una bellissima traccia proprio la parola iusiurandum, con quel significato, per cui ius di genere neutro sostituì il pronome hoc, di cui altrove ci parla il poeta: Guarda questo che cade dall’alto e che tutti chiamano Giove; donde dopo Ious Iovis divenne Iupiter, e ious iouris divenne ius16.

Al di là della fondatezza di tale ricostruzione contano le ragioni di questa lettura interessata a riconoscere i conG. Vico, De constantia iurisprudentis (1721), in OG, pp. 514, 548 (d’ora in poi con la sigla DC), con postille autografe, (in ms. XIII B 62, a cura e con introduzione di F. Lomonaco, Liguori editore, Napoli 2013). Enrico Nuzzo (Prima della “prudenza moderna”. Giuramento sacro e fondamento metapolitico del potere in Vico, cit.) ha osservato che nel Diritto universale l’attenta e dettagliata ricostruzione di tutto il «tempo oscuro» dell’umanità è attraversata dalla «sacralizzazione» dei vincoli sociali, giuridici e politici attraverso il giuramento sullo sfondo del metus dei quale «fondamento metapolitico del poter subordinato all’esperienza fondante del “pudore”» (pp. 151, 180 e sgg.). 16 Id., Notae in duos libros alterum De uno universi juris principio […] (1722) in OG, p. 788 (d’ora in avanti si cita con Notae) con postille autografe, (in ms. XIII B 62, a cura e con introduzione di F. Lomonaco, presentazione di F. Tessitore, Liguori editore, Napoli 2013 [d’ora in poi con Notae in duos libros]). 15

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trassegni del «diritto rigoroso delle prime genti» in cui i «giuramenti venivano accettati tra gli stessi dèi», come attestano gli esempi di Giunone, Giove ed Euristeo, tratti dalla poesia omerica e utili a stabilire che, «essendosi stipulati trattati tra le genti con giuramenti, venne così ad essere stabilito in modo rigoroso il diritto naturale delle prime nazioni, come dicemmo nella Storia del tempo oscuro»17. La vera costanza del diritto si manifesta nel vasto orizzonte di una sapienza sintesi di filosofia e filologia in cui i fatti si accertano per essere compresi in base a nuove esigenze sollecitate da una conoscenza filosofica che è operativa e non più contemplativa. Vico può innovare l’antropologia moderna e contestare il naturalismo libertino, l’utilitarismo ateo e l’ottimismo fideistico del suo tempo, perché la constantia jurisprudentis è vissuta quale unità di conoscere e pensare, di esistenza e azione. Alla crisi della coscienza europea di Sei-Settecento il filosofo del «diritto universale» risponde con un’originale proposta di costanza e di coerenza che impegna nella ricercata unità di res divinae e res humanae, espressa già dalla prima proposta di titolo per il Liber alter del Diritto universale (De divinarum humanarumque rerum constantia), come documenta il frontespizio di un esemplare dell’opera con il rinvio, nel margine destro, al volume di Notae18. Il diritto universale è intreccio di elemento dinamico e regolativo, dato dalla «universalior ratio», cosicchè lo «ius universum» si storicizza e tutta la vicenda storica è caratterizzata dal progressivo ampliamento dell’universalità giuridica: dal suum o auctoritas originaria del singolo al patrimonio del paterfamilias, includente i diritti su figli e clienti fino alla universalità massima della società politica come tale («respublica omnium [rerum civilium] amplissima»)19. È Id., Notae, p. 790. Id., Notae in duos libros, p. 11. 19 Id., DC, p. 376. 17 18

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matura la convinzione che non vi è processo di universalizzazione che non trovi la sua condizione di possibilità nell’unità dello «scibile» umano e divino attraverso la composizione di ragione e autorità. L’universale non si dà in universalismo comune generalizzato per astrazione e purezza sovramondana ma per individuazione di una dinamica storica senza uniformità. Vico vede il vero incarnarsi nella storia, presentandone le forme certe alla filosofia con un’aspirazione a un universale concreto, agli ideali che sono le «umane idee» costitutive della storia eticamente vissuta nell’esperienza della religione. Il novum nel De constantia è, allora, l’interesse per la natura spirituale del diritto che incontra la filosofia (platonica) e la religione cristiana, quella basata sul dogma del verbum incarnato e coerente la moderna «comunità universale che abbiamo indicato in un certo modo metafisico, ossia coll’idea migliore possibile, sia attraverso le svariate prove dei vantaggi e delle necessità umane, sia attraverso occasioni dimenticate di avvenimenti stessi che erano spontanei; questa descrizione noi faremo attraverso le testimonianze della filologia sottoposte all’esame della filosofia»20. Con il fatto dell’Incarnazione la religione del Verbo divino che si è fatto uomo ha introdotto nella vita i valori di verità e libertà. Il moderno è naturaliter cristiano, perché il cristianesimo ha proposto il divino come unità vivente. L’idea di una volontà di Dio, che decide liberamente e provvidamente le proprie azioni, è prova inconfutabile della caduta dell’antico fato e, insieme, dell’importanza del vincolo religioso che consente di unirsi in società e di far scaturire linguaggi e leggi, promuovendo il «senso dell’umanità», quell’unità delle conoscenze umane e divine, garanzia di civile convivenza. Il nodo teorico vichiano si stringe intorno all’esigenza dell’unità della religione che dà origine al mondo; non è 20

Id., Notae, p. 742.

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il mito della verità rivelata alla mente ma l’unità certa di quell’esistere che è effettivo riportarsi del corpo alla mente e della mente al corpo. Superato il concetto cartesiano di «verità eterne» create dal Dio dei filosofi, si fa strada il tema della Provvidenza, agente nella storia per disegni sconosciuti all’uomo con la complicazione di una filosofia che non rinuncia mai alla sua radice cristiana. Pur avvalendosi dei rischiosi materiali dell’ateismo moderno, la «dimostrazione» della Provvidenza resta inconciliabile con ogni intervento fondato sulla naturalizzazione della grazia. Viene considerata e rielaborata la nozione di potestas ordinata, condivisa con Malebranche ed esposta agli attacchi di Arnauld circa l’ordinario intervento divino che avrebbe reso vana la sua azione provvidenziale21. La complessa “verità” della «metafisica cristiana» è necessaria a bandire lo scetticismo dalla morale per essere associata a quella dei platonici, fondata sull’assunzione di un’antropologia che prevede una «duplice vita dell’uomo: divina in Dio «in base al vero e alla ragione», bruta nel corpo «in base alla cupidigia e alla falsità dei sensi»22. Da qui il distacco dalle prove ontologiche medievali e moderne (Cartesio) dell’esistenza di Dio, perché il discorso si trasferisce e si tiene sul piano dell’effettualità della vita nel tempo storico. Qui il sacro è colto nei legami e nei vincoli che gli uomini costruiscono liberi di volere e di fare nel disegno provvidenziale. La religione cristiana è chiamata a formare spiritualmente l’umano nel suo tempo storico, a intervenire in un mondo senza regole e violento in tutte le sue esperienze di vita. Solo una religione impressa dal timore ha potuto orientare alla coesistenza socievole. Eppure, nello stato di abbrutimento in cui gli uomini si sono ridotti per il peccato non ci può più essere solo il metus Numinis e 21 22

Cfr. E. Nuzzo, Ai limiti dell’ortodossia cristiana, cit., pp. 51-70. G. Vico, DC, parte I, p. 354.

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Vico si chiede quale altro genere di paura possa aver agito sugli eslege, costringendoli a considerare oscena la loro naturale condizione. Con implicita citazione del Genesi Vico ricorda che «i primi genitori riconobbero la propria nudità improvvisamente dopo la caduta»; percepirono la divaricazione tra corpo e spirito, provando vergogna. Questa ha generato pudore, che ha educato il «genere umano […] a nascondere le turpitudini e le oscenità della vita»23. Ha espresso segni di moralità, tingendo di rosso il volto dei primi uomini che, ammoniti dall’«aspetto del cielo», vollero «spose certe per tutta la vita», mentre la terra si aprì ad accogliere i corpi defunti e i campi, occupati con intenzione di residenza stabile, cominciano a essere coltivati24. Distinguendosi dal timore, il pudore diventa primo fattore autonomo di fuoriuscita dallo stato ferino eslege dell’umanità, assumendo la funzione di «excitator virtutis»: «Dal pudore procedono la frugalità e la probità […] la fedeltà alle promesse, la sincerità, l’astenersi da ciò che appartiene ad altri, tutte arti dell’animo buono»25. L’esperienza religiosa è quella tutta umana del soggetto che non ha a che fare con sublimi idee metafisiche e che ritrova consapevolezza del suo essere finito nella relazione con l’altro da sé. La fine di un’umanità disgregata ed egoista, il superamento del profilo bestiale dell’esistenza nascono dal potenziamento della vista. Gli uomini percepiscono la propria nudità e, quindi, ne provano vergogna Ivi, p. 404. Ivi, p. 406. 25 Ivi, p. 404. Sul tema ha insistito l’interessante ricerca di O. Sacchi, («Pudor in melius mutet» [Ta. Ann. 3.54]. Il valore etico-giuridico di pudor nel pensiero di G. Vico e in diritto romano, in G. Limone (a cura di), Il pudore delle cose, la responsabilità delle azioni, FrancoAngeli, Milano 2019, pp. 89-127), partendo dalle fonti antiche e dalle riflessioni di Capograssi sull’«individuo empírico» (ivi, pp. 89-104) fino alle definizioni vichiane di conato e di pudore come «“colore” della verità» e «pudore naturale» (ivi, pp. 106-121) ma con esclusivo riferimento alla Scienza nuova del 1744. 23 24

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solo per lo sguardo degli altri. L’estraneo rende visibile la divaricazione tra il corpo e lo spirito, li mette in opposizione nel momento in cui il corpo nella sua nudità appare un’alterità irriducibile. Tuttavia, non si tratta solo di confini ma anche di legami: l’umana vergogna che impone distanza all’altro, la percepisce e, insieme, la interiorizza, provocando un vincolo, premessa e promessa di fondazione della humanitas. La vergogna sottrae agli altri ogni dominio arbitrario su di me e mi salva, per conservare al tempo stesso gli altri e me stesso. Il pudore esibisce, quindi, la verità nella forma di un’attrazione, spiegando come sia stato possibile il passaggio dallo stato di decadenza originaria dell’uomo al processo storico di costituzione del mondo civile. Così il naturale è temporalizzato, è una modalità dell’essere nel tempo senza che nulla possa risultare immutabile tranne questa assunzione; essa è alle origini e perdura nella vita degli uomini, includendo eternità e contingenza, universale e particolare, essere e divenire. Contro il razionalismo astratto dei giusnaturalisti moderni la “teologia” di Vico è civile ed è ragionata perché la Provvidenza di Dio implica un ordine nel tempo, creato dalla libera e responsabile azione dei soggetti. Il pudore rende possibili relazioni tra gli uomini, introducendo lo stimolo a cercare il vero con la curiositas che, causa del peccato umano, diventa generatrice di prudenza con la quale si impara ad agire26. Lungi dall’essere una manifestazione istintiva dell’uomo primitivo, il pudor, risposta a un imprescindibile disegno provvidenziale, assolve alla funzione di «religionis inventor»27. La storia umana testimonia il disegno buono di Dio anche nel momento in cui viene punito il peccato. Il pudore, infatti, è sia pena che strumento di Dio, procurato per impedire il prevaricare 26 27

G. Vico, DC, pp. 407, 409. Ivi, p. 404.

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del male introdotto dal disordine; è la «conservazione della relazione al vero eterno nella condizione postlapsaria»28, il luogo antropologico in cui il peccato originale è assunto nell’ordine del verum, l’espressione della latenza di una natura una volta integra ma mai del tutto disorientata anche quando corrotta, perché all’uomo è stata lasciata una vis veri: una forza del vero la cui reazione nasce dalla consapevolezza dell’ignoranza del verum (veri ignorati pudor)29. La storia dell’uomo decaduto, corrotto dal peccato, è sorretta e guidata da una vera e propria urgenza del vero che esercita una costante pressione sino a trasformarsi in azione maieutica che consente il passaggio al verum. Il pudore ha la sua radice di senso nella sproporzione che percepiamo tra ciò che siamo e ciò che dobbiamo essere. La parte costruttiva del discorso risponde a tale sproporzione per ricostruire e restituire all’umanità decaduta la relazione con il divino che non è soltanto al di sopra dell’individuo ma è al centro della «vita umana sulla terra come una milizia», della virtù come «la legge della mente in lotta contro la legge delle membra»30. Il 28 Così F. Botturi, Caduta e storia: note sul “peccato originale” in G.B. Vico, Memorandum, nota 5, pp. 18-35; www.fafich.ufmg.br/memorandum/ artigoso5/botturi01.htm, p. 10. 29 G. Vico, DC, p. 405. Su questo punto si vedano le magistrali osservazioni di N. Badaloni, Introduzione a G.B. Vico, Feltrinelli, Milano 1961, pp. 360 e sgg. 30 Id., DC, p. 368. A indiretto sostegno di tale tesi nel 1980 è intervenuto Pier Paolo Portinaro, presentando l’autore del De uno come l’unico grande esponente della tradizione filosofica del pensiero giuridico moderno che abbia dato un contributo significativo alla teoria del diritto come nomos. Nell’illustrare questa osservazione preliminare Portinaro considera l’analisi vichiana del passaggio dallo stato ferino allo stato delle famiglie, provocato principalmente dal senso religioso che non si può definire tanto un elemento di avvio del fenomeno giuridico, quanto piuttosto il «tessuto connettivo di quell’universo giuridico primordiale di cui fanno parte, appunto, i matrimoni, le sepolture, la divisione dei campi e la costituzione degli asili». Per tale aspetto, un interesse particolare si concentra sul De constantia philologiae (XIII, 22),

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pudore prova l’unità della mente e del corpo, perché se per un verso, condanna con l’«infamia» il male compiuto dagli imprudenti, rei del misconoscimento del vero che esso incarna; per altro verso è un «senso comune» che, se colto, è in grado di tenere a freno «malvagità, impudenza, arroganza, dalla quale nascono tutte le scellerataggini»31. Conseguenza del pudore è, infatti, «la reverenza del senso comune» che determina il commune iudicium su cosa sia riprovevole e sul «mal fatto»32. Nel comune che oltrepassa il particolare è l’accostarsi della mente alla vita, il farsi unità e vita della mente: è l’unità vera e oggettiva della mente e a un tempo l’unità certa ed esistenziale del soggetto. Dall’implicazione di conatus e libertas al pudor è assegnata una dimensione intrinsecamente virtuosa e veritativa, in quanto «fonte dell’intero diritto naturale»33 e «unico naturale e semplicissimo mezzo», per ritrovare le regole dei comportamenti sociali e celebrare l’umanità del vero ossia quella prudentia della scientia da cui soltanto può discendere «ogni buona arte, sostenendo e conservando con esse gli uomini naturalmente consociatisi»34. Vico è pensatore modernissimo nel tentativo di affermare un rapporto tra la prassi e la verità, ricercandone le condizioni di unità vivente. Nella regola giuridica vi laddove si teorizza un nesso originario tra i concetti di nomos, lex e Carmen. Proprio nei nomoi e nei carmina che tramandano le consuetudini dell’umanità è da supporre, infatti, che si sia conservata memoria anche dei «processi sociali» attraverso i quali l’uomo è legato alla terra e il diritto viene realizzandosi passando dalla sfera del verum a quella del certum (P.P. Portinaro, Vico e il diritto come Nomos, «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 57 [1980], pp. 459, 474, 475). 31 G. Vico, DC, p. 404. 32 Ibidem. 33 Ivi, pp. 403, 404, 405. Cfr. anche G. Vico, De uno, cap. LI, p. 67. 34 Id., DC, pp. 409, 407, 408. F. Botturi (La sapienza della storia. Giambattista Vico e la filosofia pratica, cit.) definisce il pudor quale «cardine dell’antropologia vichiana», sostenendone il primato logico anche nelle tre Scienze Nuove (ivi, p. 335 ma anche le pp. 331-336).

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è un rapporto di vita in cui il diritto è azione umana disciplinata e in essa la stessa regola vive realmente solo se oggettivata in quel rapporto. Senza la religione, senza quell’oscura vocazione quasi sepolta nella materialità degli impulsi, non sarebbe sorta alcuna società umana né i costumi che hanno reso l’uomo civile. Per tutto ciò la teoria di un diritto universale si qualifica per l’impiego dello ius in funzione di un’universalizzazione del religioso piuttosto che di una sua esclusione. Giudicata da Machiavelli come il più artificiale degli strumenti per l’impostura sacerdotale e l’esercizio del potere, la religione, fondata sul pudore, diventa, in Vico, elemento di naturale coesione che incrementa la spontanea necessità della vita sociale, radicandosi nelle istituzioni fondative della civitas, «tres fontes seu tria capita universi romani iuris»: patria potestas, connubium e nexum, ognuno «pervaso di religione»35. Quando il fare assistito dalla religio diventa ordine giuridico-sociale, riunisce gli uomini in rapporti stabilmente fissati nei quali essi ritrovano le idealità superiori inscritte nella humanitas, in quel «bisogno umano» della religio civile opposta alla teologia tradizionale in quanto moderna «fenomenologia dell’esperienza religiosa»36. Questa appartiene alla vita morale nella societas che, irriducibile a una struttura razionale e metafisica statica e astratta, propone un’intonazione drammatica per lo sforzo di riconciliare verità e debolezza umana. Una tale impostazione non segue più il modello di una teologia della storia ma un nuovo rapporto con l’assoluto che serve a comprendere il fondamento vero e il dinamismo del «diritto naturale delle genti», a conquistare la prospettiva per comprendere il mondo del certo nella sua realtà giuridica e storica. Id., DC, p. 696. Così P. Piovani, Pensiero e società in Vico (1971), in Id., La filosofia nuova di Vico, a cura di F. Tessitore, Morano, Napoli 1990, p. 169. 35 36

INDICE DEI NOMI

Abammone 96, 100-101, 121 Abbate, M. 51, 57, 60-62, 65 Adam, C. 235 Agamennone 61 Agostino d’Ippona 9,13 Agrippa Von Nettesheim, Heinrich Cornelius 15 Alano di Lilla 131 Alberti, Leon Battista 125 Alberto Magno 136 Alcibiade 120 Alcinoo 120 Alessandro di Afrodisia 132 Álvarez de Toledo, Fernando (Duca d’Alba) 202 Andronico Callisto 127 Anebo, 96 Antioco di Ascalona 73 Anton, J.P. 38 Apollonio di Tiana 129 Apollonio Discolo 82-83 Apollonio Rodio 127 Apuleio 129 Aragno, N. 188 Archimede 224 Argiropulo, Giovanni 127

Aristotele 21, 82-83, 89, 132, 134, 137, 224 Armogathe, J.-R. 216 Aronadio, F. 61 Arriano 128 Atena 59 Atreo 61 Aubenque, P. 29, 33 Aulo Gellio 140 Aurispa, Giovanni 127 Averroè 126, 136, 144 Avicebron (Ibn-Gabirol) 178179 Bacon, F. 21, 213-226, 228, 230, 233, 235-236 Badaloni, N. 237-238, 243, 251 Bairati, P. 222 Baldassarri, S.U. 134-135 Baltzly, D. 52, 65 Barbaro, Ermolao 127-128, 133, 135-137, 139-140, 143-146, 148-149, 219 Barbera, G. 236 Bassi, R. 213 Bassi, S. 151, 159, 163

256 Baum, J.-W. 14 Bausi, F. 126, 135-136, 138-139, 143-144, 149 Beierwaltes, W. 57 Benivieni, Giovanni 126 Bernabé, A. 55 Beroaldo il Vecchio, Filippo 128-134, 144, 149 Berns, T. 181 Bertolini, L. 149 Bertolucci, P. 150 Bettinzoli, A. 148 Biffi, I. 14 Billi, B. 241 Blumenberg, H. 218, 220, 230 Bobbio, N. 221 Bockenforde, E. 195 Bodin, Jean 190 Boiardo, Giulia 125 Boissonade, J.F. 60, Bonazzi, M. 29 Borghesi, F. 128 Borso d’Este 125 Botero, Giovanni 194 Botturi, F. 240-241, 251-252 Bouretz, P. 94 Boyle, R. 234 Boys-Stones, G. 69 Bracciolini, Poggio 127 Branca, V. 42, 132 Brancacci, A. 42 Braudel, F.222 Braun, T.E.D. 219 Bréhier, E.75, 80 Brisson, L. 40, 45-46, 48-49 Brown, P. 100 Bruni, Leonardo 127, 138 Bruno, Giordano 15, 19-20, 86, 123, 131, 151-170, 172-

indice dei nomi

174, 176-179, 181, 183, 221 Burgio, S. 192-193 Buzzi, F. 203 Cacciatore, G. 243 Cagnone, N. 71-73, 86, 88 Calabi, F. 74 Calcondila, Demetrio 127 Caligola 74 Callimaco 127, 134 Calvino, Giovanni 14 Cammisa, G. 20, 187 Candido, I. 133 Capograssi, G. 244, 249 Caporali, R. 241 Carbone, R. 241 Carillo, G. 241 Carneade 130 Caroli, D.D. 170 Cartwright, S. 101 Cassin, B. 33 Catanorchi, O. 181 Celenza, C.S. 133, 147 Celia, F. 51 Chiaravalli, I. 20-21, 213, 236 Chlup, R. 57 Cicchini, E. 18, 71 Cicerone 9, 87, 127, 129, 131, 134, 136-138, 140-142, 144 Ciliberto, M. 12, 151-152, 181 Circe 9, 245 Clark, J.R. 113 Clarke, E.C. 94-95, 97 Coggi, P.R. 14 Cometa, M. 231 Coppini, D. 149 Cornford, F.M. 46, 48 Corrias, A. 94, 115 Cortesi, P 135

indice dei nomi

Cortina, R. 218 Cristofolini, P. 238 Cunitz, E. 14 Cupido 172, 174 Cusano, Niccolò 14 Damascio 93 Daniélou, J. 74 David de Dinant 178-179 Debenedetti, A. 99 Decembrio, Angelo 126 Decembrio, Pier Candido 127 Dedalo 36, 38-39, 226 Del Nero, P. 116 Del Prete, A. 181 Del Soldato, E. 94 Delarue, C.V. 170 Della Rovere, Francesco (Sisto IV papa) 144 Democrito 224 Demostene 127, 133 Des Places, É. 56 Descartes, René 21, 143, 235236, 241, 248 Diehl, E. 50-51, 68 Digges, T. 153 Dillon, J.M. 58, 95, 97 Diodoro Siculo 128 Dione Cassio128 Dionigi Areopagita 13 Dioscoride 132 Dodds, E.R. 51, 93 Donà (Donati, Donato), Girolamo 128 Donato, M. 17, 45, 159 Duvick, B. 60 Edelheit, A. 147-148 El Murr, D. 38

257 Ellis, R.L. 202 Epicuro 129 Ercole 116 Erler, M. 40, 45 Eschilo 27 Eschine 127, 133 Euclide 224 Euristeo 246 Fassina, D. 130, 132 Fattori, M. 220 Ferrari, F. 34-35, 38, 40-42, 46 Festugière, A.-J. 52, 56 Fevbre, L. 222 Ficino, Marsilio 15, 19, 93, 94, 96-121, 126, 128, 133-134, 146, 148, 160 Filone di Alessandria 18, 7482, 84-85, 87-89 Filone di Larissa 130 Finamore, J.F. 101 Finzi, S. 176 Fioravanti, G. 126 Fiorentino, F. 160 Foucault, M. 94, 120 Frère, J. 29 Friedländer, M. 75 Frommann, F. 213 Fronterotta, F. 16-17, 27, 2930, 46-48, 159 Funkenstein, A. 216 Galeno 132 Galilei, Galileo 233, 235-236 Garfagnini, C.G. 126 Garin, E. 123, 125-126, 128130, 132-133, 135, 138,148, 150, 220 Gasparri, G. 241

258 Gaudemet, J. 11 Gaukroger, S. 217 Gebhardt, E. 81 Gentili, Alberico 194, 208 Gersh, S. 57, 115 Gesù Cristo 14, 18, 81, 98, 169-170, 180, 198 Giamblico 19, 51, 93-102, 105, 107-113, 115, 119-121, 128129 Giglioni, G. 18-19, 93-94, 96, 99, 115, 147-148, 217 Gilbert, F. 221 Giovanni di Jandun 126 Giovanni Duns Scoto 136 Giovanni Scoto Eriugena 13 Giove 116, 239, 245-246 Girard, P.F. 10 Girolamo di Stridone 12 Gisondi, G. 19, 23, 151, 159, 181 Giunone 239, 246 Giustiniano 11 Glenn, S. 46 Goldoni, D. 163 Gonzaga, Francesco (Cardinale) 125 Goulet, R. 60 Granada, M.Á. 153, 160, 178 Gregorio di Nissa 18, 81 Grozio, Ugo 22 Guarini, Battista 126, 146 Guarino Veronese 125-127 Guglielmo I d’Orange 200 Guglielmo Molesworth 221 Guicciardini, Francesco 221 Guicciardini, Piero 116 Gurvitch, G. 10

indice dei nomi

Hadot, I. 58 Hahn, C. 100 Haskell, Y. 99 Haubold, J. 69 Heath, D.D. 213 Heidegger, M. 74, 77 Herbert, E. (Barone di Cherbury) 237 Hermes 97 Hershbell, J.P. 95, 97 Hobbes, Thomas 221 Hoffmann, Ph. 51 Holmes, M. 100 Holzboog, G. 213 Hume, D. 233 Hunt, F. 215 Huvelin, P. 10-11 Ingegno, A. 241 Ippocrate 132, 224 Isocrate 127, 142, 144 Jacobelli, J. 123 Jones, H.S. 27 Kant, E. 74 Kargon, R.H. 234 Kaske, C.V. 113 Kaufmann, M. 243 Kennington, R. 215-216, 220221 Kibre, P. 136 Klein, H.A. 100 Kohler, K. 78 Krauss, P. 215 Kroll, W. 65 Kutash, E. 52 Lachterman, D.R. 219

indice dei nomi

Lafrance, Y. 40 Laistner, M.L.W. 142-143 Lamberton, R. 149 Landino, Cristoforo 117, 138 Landucci, S. 219 Lane, F.C. 222 Lecerf, A. 95 Leoniceno, Niccolò 128 Lernould, A. 52 Lévy-Bruhl, H. 10 Liddell, H.G. 27 Limone, G. 249 Lionello d’Este 125 Lipsio, Giusto 20, 187-197, 199-203, 205-212 Livesey, S.J. 224 Lombardo, Pietro 14 Lomonaco, F. 21-22, 237-238, 243, 245 Lorenzo de’ Medici 129 Lucano 129 Lucca, P. 76 Luciano 148 Lucrezio 127, 129, 133 Luna, C. 51, 60 Lutero, Martin 19 Machiavelli, Niccolò 11-12, 190, 194, 206, 220-221, 253 Malebranche, Nicolas 241, 248 Manuzio, Aldo 96, 115, 121 Marino di Neapolis 51 Marisco, C. 149 Marmodoro, A. 101 Marsuppini, Carlo 127 Martijn, M. 52, 55 Martin, H.-J. 222 Marx-Wolf, H. 94

259 Marzi, M. 142 Mazzarelli, C. 84 McKenzie, R. 27 Mell, D.C. 219 Menchelli, M. 50 Mengelkoch, D. 134 Mercurio 97, 119, 140 Meroi, F. 169 Mesner, D.A. 70 Mezzo (Medio), Tommaso 128 Michel de Castelnau (Signore di Mauvissière) 177 Michelozzi, Bernardo 135 Migne, J.P. 81, 170 Milanese, A. 223 Milton, J.R. 233 Minerva 116 Miscomini, Antonio di Bartolomeo 113 Moira 33 Molesworth, W. 221 Moreschini, C. 95, 97 Moretti, M.G. 176, 220 Moretus, J. 201 Morgan, M.L. 93 Mori, G. 233 Motia, M. 106 Mouze, L. 46 Nehamas, A. 38 Newton, Isac 233-234 Niccolò III d’Este 125 Nicoletti, M. 195 Nijhoff, M. 219 Nogarola, L. 126 Norlin, G. 142 Nuzzo, E. 239, 241, 245, 248 O’Brien, D. 29

260 O’Meara, D. 51 Oberhammer, A.A. 45 Odisseo 9, 27, 33 Omero 148-149, 245 Opsomer, J. 57-58, 68 Orfeo 147 Origene 9, 169-170 Pacchi, A. 221 Pagallo, U. 221 Pagliaro, A. 83 Palingenio Stellato, Marcello 153 Palmer, L.M. 219 Pan 150 Paolo di Tarso 12, 220 Paolo (Nicoletti) Veneto 126 Papi, F. 176 Parker, G. 222 Parmenide 16, 27-31, 33, 43 Pasini, D. 241 Pasquali, G. 60 Pastore Stocchi, M. 132 Pedullà, G. 221 Pellegrini, M. 137 Pelope 61 Pépin, J. 60 Peroli, E. 14 Pesce, M. 198 Petrucci, A. 222 Petrucci, F.M. 40, 42, 46, 48 Petrus, Henrucus 96 Pico della Mirandola, Giovanni 19, 117, 123-126, 128131, 133, 135-140, 142-150 Pico della Mirandola, Giovanni Francesco II, 123 Pines, S. 76 Piovani, P. 253

indice dei nomi

Pirillo, D. 181 Pitagora, 120 Plantin, C. 201 Plasberg, O. 87 Platone 9-10, 16-17, 27-28, 34, 38, 40-42, 45-48, 50-51, 5354, 56-57, 59-62, 65, 67-69, 87, 89, 94, 116, 129, 138, 140-145, 159-160, 224 Plinio il Vecchio 129, 132 Plotino 9, 113, 115 Polibio 148, 194-195, 206 Poliziano, Angelo 117, 125130, 132-136, 138, 146-149 Porfirio 93-96, 111, 115, 146 Portinaro, P.P. 251-252 Posidonio di Apamea 73, 8284 Preus, A. 38 Priarolo, M. 198 Prisciano di Cesarea 93, 120 Proclo 17, 45, 49-63, 65-70, 9394, 115, 120, 135, 146 Procopio di Cesarea 128 Prodi, P. 198-199 Prometeo 27, 33 Protagora 62, 131, 139 Proteo 20-21, 150, 213-216, 227, 231 Provvidera, T. 188, 202, 210 Psello Michele 120 Pucci, F. 135 Puccini, D. 147 Quintiliano 127, 132-133, 141 Quirino 239 Radice, R. 74, 79, 81 Reale, G. 57

indice dei nomi

Rees, V. 94, 120 Regali, M. 69 Reggiani, C.K. 80 Regoliosi, M. 149 Reinhardt, V. 125 Reuss, E. 14 Ricciardelli, S. 134-135 Richard, M. 60 Rico, F. 149 Robichaud, D.J.-J. 94, 146-148, 249 Romano, F. 60 Rossi, P. 213, 215, 223-224 Rubini, P. 125 Ruggiu, L. 163 Rusher, W.A. 220 Rutilio Rufo, P. 60 Rutkin, H.D. 94, 114 Sacchi, O. 249 Sacerdoti, G. 221 Saffrey, H.-D. 51, 58, 60, 62, 95, 97 Sammartano, R. 108 Saveri, A. 133, 136 Savonarola, Girolamo 120, 126 Scapparone, E. 151, 169 Schick, C. 195 Schürmann, R. 74 Scott, R. 27, 57 Scotti, N. 57 Scribano, E. 198 Secchi, P. 19, 123-124, 136 Segonds, A.-Ph. 51, 58, 60, 95, 97 Seneca 9, 129, 135-136, 201, 206 Senocrate 120 Serafini, A. 216

261 Sergio, E. 233 Serra Hansberg, R.V. 218 Serra, F. 160 Shakespeare, William 221 Sharples, R.W. 38 Shaw, G. 93 Sinesio 115, 120 Skinner, Q. 220 Socrate 29, 34-38, 41-42, 59, 61, 129-131, 133-134, 143 Soderini, Piero di Tommaso 116 Solino 129 Spagnesi, E. 134-135 Spedding, J. 213 Speusippo 120 Stazio 132-133 Steel, C.G. 58, 93 Stewart, M.H. 234 Tacito 201 Tannery, P. 235 Tantalo 61 Temistio 129, 137, 144 Terenzio 136 Terré, F. 10 Tessicini, D. 160 Tessitore, F. 238, 245, 253 Teubner, B.G. 50, 56, 60, 65, 87 Timeo di Locri 46-47, 49, 63 Tirinnanzi, N. 151-152, 163 Tocco, F. 164 Tommaso d’Aquino 13-14, 136 Tournay, G. 202 Toussaint, S. 96, 120 Trabattoni, F. 29, 143 Trouillard, J. 51

262 Ulacco, A. 51 Ulisse 245 Valla, Lorenzo 133, 136 Van den Berg, R.M. 60-62, 70 Van Riel, G. 50, 57 Vanhassel, A. 203 Vegetti, M. 29 Venceslao di Boemia 131 Vickers, B. 220 Vico, Giambattista 21, 237-253 Virgilio 9 Viroli, M. 220 Visentin, S. 200, 202-204 Vitelli, G. 164 Viti, P. 134, 147 Vitrac, V. 46

indice dei nomi

Vivanti, C. 222 Volkertszoon Coornhert, Dirck 200-205, 212 Voogt, G. 201, 203-204 Weill-Parot, N. 100 Westerink, L.G. 51, 58 White, H.B. 219 Wilhelm, E. 14 Wind, E. 150 Wright, M.R. 57 Zanin, F. 233 Zeus 17, 27, 37, 55, 58-59, 6162, 67, 69-70 Zollino, G. 132

Collana Mnemosyne

1. Paul Oskar Kristeller, Studi sulla Scuola medica salernitana 2. Vittorio Hösle, Lo Stato in Hegel 3. Ernst Nolte, I diversi volti dell’Europa 4. Le confutazioni di Han Fei 5. AA.VV., Lo straniero e le voci della città 6. AA.VV., Descartes alla prova di Pascal. Uomo, Mondo, Dio

Finito di stampare nel mese di novembre 2023 presso Universal book s.r.l. - Rende (CS)