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English Pages 492 [494] Year 1992
Nuovocinema
DE SICA Autore, regista, attore a cura di Lino Micciché
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Mostra Internazionale del Nuovo
PDPSIGA Autore, regista, attore a cura di Lino Micciché
Marsilio Editori
Cinema
© 1992 BY MARSILIO EDITORI S.P.A. IN VENEZIA
Il presente volume è edito in occasione del 6° Evento Speciale «Vittorio De Sica» dell'Ente Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Pesaro, 10-18 giugno 1992.
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ISBN 88-317-5700-8
Prima edizione: giugno 1992
INDICE
VII
La «questione» De Sica di Lino Micciché
NOTE E SAGGI Servitore di due padroni dî Tullio Kezich Gli esordi: avanti adagio, con prudenza di Callisto Cosulich Bon voyage di Sergio Grmek Germani «La più pura espressione del neorealismo» 4 Bruzo Torri De Sica «metteur en scène» dî Miro Argentieri L’ultimo decennio & Ernesto G. Laura Il gioco del doppio di Orio Caldiron Il signor Vittorio di A/berto Farassino Il sembiante e la maschera di Maurizio Grande De Sica e Zavattini sul tandem & Francesco Bolzoni La «letteratura» di De Sica di Pietro Pintus
Appunti su cinema e letteratura negli anni di De Sica di Goffredo Fofi i Sica regista e la critica italiana del suo tempo 4 Lorenzo Pellizzari l De Sica, il neorealismo e la critica francese d Giorgio De Vincenti
‘ANALISI TESTUALI I bambini ci guardano di Angela Prudenzi Sciuscià di David Bruni Ladri di biciclette 4 Guglielmo Monetti Miracolo a Milano di Stefania Parigi Umberto D. d Franco Vigni
APPENDICE a cura di Orio Caldiron
A 355 415 431 435
Il teatro Il cinema: le intepretazioni Il cinema: le regie La televisione Bibliografia
VI
LINO MICCICHÉ
LA «QUESTIONE» DE SICA
Viene da chiedersi perché la bibliografia internazionale, e forse soprattutto nazionale, su Vittorio De Sica sia così relativamente avara di stu-
di approfonditi, meditate monografie, analisi filologicamente accurate dei
31 testi cinematografici desichiani (1). Perché, insomma, se in Francia sia-
mo fermi a due libri (uno del 1955 e uno del 1966!), se gli studi anglofoni (USA, Gran Bretagna, Canadà, Australia, India) non sono complessivamente né più numerosi né più recenti, e se, aggiungendovi le monografie in lingua spagnola (inclusa l’ America Latina), portoghese (incluso il Brasile) e tedesca, nonché quelle edite in Europa Orientale (inclusa l’ex URSS, dove peraltro il cinema di De Sica fu particolarmente amato) e in Asia (dove, in qualche caso, il cinema desichiano fu addirittura assunto a modello), non
arriviamo neppure a dieci titoli, fra cui nessuno recente; perché, si diceva, se così poco è stato pubblicato all’estero, anche in Italia — dove pure il De Sica dell’età aurea fu autorevolmente definito il maggiore narratore italiano dell’epoca — non si va oltre un saggio di 21 paginette di Bazin (in un libretto del 1953, che con note, biografia, filmografia e bibliografie non arriva a 80 pagine), un pregevole numero di «Bianco e Nero» del 1975 con 100 pagine di saggi e 250 di «materiali» e «strumenti» ( curato da O. Caldiron), un «castoro» del 1980 (opera di F. Pecori), e la trentina di pagine (in un volume di 142 ,inclusi «materiali» e illustrazioni) del saggio di F. Bolzoni su «Quando De Sica era Mister Brown» (1984); mentre è soltanto annun-
ciata, ma lungi dall’essere imminente, la prima, corposa «biografia critica» su De Sica autore e attore, scritta a quattro mani da C. Cosulich e T. Kezich? (2) E questo mentre, per limitarci a qualche esempio, è quasi stermi-
nata la bibliografia (internazionale e italiana) su Fellini e Rossellini, sono ricchissime quelle su Visconti e Antonioni, abbastanza ricca quella su Paso-
lini cineasta, abbondante quella su B. Bertolucci, in crescendo quella su
Olmi e su Moretti, e quasi ogni autore «medio alto» e «medio» del cinema italiano può contare su studi monografici recenti o recentissimi? VII
LINO MICCICHÉ
Porsi siffatte domande è già, prima ancora di tentare una sintetica
risposta, trovarsi nel cuore della «questione De Sica». Significa, cioè, co-
glierne, nell’atto dell’enunciarla, gli aspetti assai particolari, che la rendo-
no dissimile da ogni altra; vuol dire sottolineare che gli stessi suoi confini
sono allocati altrove, e altrimenti, rispetto a quelli che delimitano e defini-
scono stato e natura delle molte altre «questioni» storico-esegetiche che ha di fronte lo studioso del cinema italiano: su autori, grandi e piccoli; su di-
namiche, principali e secondarie; su tendenze, generali e parziali; su nodi e snodi di un trentennio di «muto» e un sessantennio di «sonoro», i problemi, insomma, che deve porsi, e inevitabilmente si pone, chi voglia indagare sulla nostra cinematografia da Filoteo Alberini a Marco Risi. La particolarità del caso è vistosamente attestata dalla evidenza con cui ogni possibile risposta a quel «perché» è lungi dall’essere risolutiva: non soltanto non «giustifica», lasciando dunque scoperta l’«ingiustizia» del fatto; ma neppure «spiega», confermandone anzi la «inesplicabilità».
Forse, l’avara attenzione critica verso il cinema desichiano nasce dal
fatto che non tutti i 31 cinetesti firmati da De Sica hanno la forte impronta «autoriale»; e l’alto livello estetico di Ladri di biciclette o di Umberto D. e che, dopo l’allarmante sintomatologia offerta da Stazione Termini, e l’ul-
timo grande canto neorealistico de L'oro di Napoli (film che ha episodi e momenti da grande «classico» — rivedere per credere — ma offre anche evidenti segni di un imminente cedimento, rispetto alla tensione etico- estetica della tetralogia postbellica e di quel suo stupendo preludio che è I 4a772bini ci guardano), la personalità di De Sica si esplica più nel mestiere del «director» che nel gesto dell’autore; e che — a parte il tentativo, generoso e sbagliato, de I/ tetto — i 18 titoli susseguenti della filmografia desichiana sono apprezzabili solo parzialmente, o antologicamente, o niente affatto.
Forse. Ma non è una spiegazione sufficiente. Anche se è vero che,
fra Sciuscià, poniamo, e Lo chiameremo Andrea, tanto per fare un titolo del tardo De Sica, sembra esservi un incolmabile abisso, neppure i 150 film di Ford o i 90 di Mizoguchi sono altrettanti capi d'opera, mentre non tutte le filmografie di pur riconosciuti maestri possono vantare quattro titoli d'avvio di brillante, godibilissima freschezza, come l'iniziale tetralogia «leggera» desichiana (Rose scarlatte, Maddalena... zero in condotta, Teresa Venerdì,
Un garibaldino al convento: 1940-1942), e sette film variamente memorabili, tra cui alcuni veri e propri capolavori, come i successivi del periodo
1943-1954 (il sempre più bello, a rivederlo, I damzbini ci guardano, il sor-
prendente, a vederlo, poiché è quasi inedito, La porta del cielo, gli ormai classici, e ad ogni visione più ricchi, Sciuscià, Ladri di biciclette, Miracolo
a Miano, Umberto D.). Anche se fosse vero, come noi crediamo, che di VII
LA «QUESTIONE» DE SICA
quanto viene dopo poco si salva, fatta eccezione per il capolavoro dell’erotismo desichiano La riffà (uno straordinario episodio di cinema fenomenologico, dove la m.d.p. viene usata, con magnifico artificio, quale strumento di registrazione fa/samzente oggettiva di un profilmico in cui apparente-
mente si concentra tutto il virtuosismo di «mise en scène», ma anche di «mise
en situation» e di «mise en jeu», di De Sica), per un paio di alte confezioni (La ciociara, Il giardino dei Finzi Contini), per due film imperfetti ma ricchissimi di stimoli (I/ giudizio universale, Il boom) e per una ideale antologia — peraltro molto più ricca di quanto si pensi — di brani eccezionalmente intensi della filmografia successiva a L'oro di Napoli (qualche esempio: la costruzione notturna della casa ne // tetto, l'agguato dei marocchini in La ciociara, gli esterni di Amburgo ne J sequestrati di Altona, Filumena Marturano/Loren che passeggia per strada e getta il cappello nella spazzatura in Matrimonio all'italiana, alcune immagini dell’inquietudine di Micòl e della razzia degli ebrei ferraresi ne I/ giardino dei Finzi Contini); anche se tutto questo fosse vero, si diceva, una filmografia di undici titoli — fra cui almeno un paio di vertici assoluti del cinema italiano e planetario (che, come Ladri di Biciclette
e Umberto D., hanno determinato, a tacer
d'altro, suggestioni ispirative confesse in altri «grandi» come S. Ray o A. Kurosawa) — dovrebbe pur bastare per sollecitare quell’attenzione critica, non sporadica e distratta, finora mancata.
Forse, la (relativa) esiguità, e l’inapprezzabile modernità, della bibliografia desichiana nasce dal fatto che — caso quasi unico nella storia del cinema sonoro (quello di Chaplin o di Tati, attori dei propri film, è diverso) e, per dimensione quantitativa, differente anche dai pochi altri sommariamente analoghi per tipologia, e non troppo distanti per numero di prestazioni (quelli, ad esempio, di Welles e Von Stroheim) —, De Sica regista e attore presenta una filmografia complessiva non molto lontana dai 200 titoli; che, se si dovessero aggiungere (come si dovrebbe, in un discorso, necessariamente unitario, su De Sica uomo dispettacolo) i certamente
più di 180 titoli di spettacoli teatrali di cui De Sica fu attore e/o regista, e/o talora capo-compagnia, porterebbe ad ‘un repertorio di 380 (minimo)
- 400 (forse) titoli di «spettacoli» in cui Vittorio De Sica fu coinvolto. ;
Insomma, anche a prescindere momentaneamente dalla eventualità (in qualche caso inoppugnabilmente acclarata) che, in non pochi degli «spettacoli» (cinematografici e teatrali) in cui pure De Sica figurò soltanto come interprete, egli abbia anche indossato panni registici, per lo meno parteci-
pando attivamente alla direzione degli attori, certamente dirigendo in buona
sostanza se stesso (e dunque il proprio «personaggio»), è evidente che un’analisi critica della personalità desichiana non potrebbe non porsi il probleIX
LINO MICCICHÉ
ma di quale sia stato lo scambio fra l’«autore» e l’«attore». Poiché scambio vi fu, non c'è dubbio, e non soltanto sul terreno più evidente, quello della «commedia» (per primi i quattro titoli iniziali delle regie cinematografiche), e nei risvolti più distensivi dei film «drammatici»; ma, soprattutto, nella assoluta padronanza che De Sica seppe avere del cast dei propri film registici, e nella straordinarietà di una direzione del gioco attoriale che fu sempre magistrale: nel guidare attori improvvisati come gli splendidi giovani interpreti di Sciwscià o lo straordinario Enzo Stajola di Ladri di biciclette, nel trasformare la «diva» Loren nella risentita Cesira de La ciociara
o nella esplosiva Zoe de La r;/fa, nel mutare l'ancora acerba e glacialmente bressoniana Sanda nella inquieta e incandescente Micòl de I/ giardino dei Finzi Contini, nel calibrare il già collaudatissimo Mastroianni nell’intenso Domenico Soriano di Matrizzonio all'italiana. E, comunque, pur momentaneamente accantonato — come prima, per pura retorica discorsiva, si diceva — non potrebbe non ripresentarsi allo studioso il problema di come, metodologicamente, sia individuabile (ed esteticamente valutabile, questo
è il punto) — in un interprete che fu, è bene ricordarlo, tra i massimi del nostro cinema sonoro Trenta-Sessanta — il confine fra il sicuro apporto attoriale e il più indefinibile, e quasi sempre indocumentabile, apporto (co)autoriale agli spettacoli che interpretò da protagonista, totale ( come nel terzetto Pane, amore e fantasia/ Pane amore e... gelosia/ Pane amore e...,
dove, assieme allo sceneggiatore E. M. Margadonna, è l’unico motivo unitario nel variare delle regie e delle protagoniste femminili; per non dire del più tardo Pare, azzore e Andalusia, pasticcio italo-iberico di cui firmò
anche la supervisione, essendo ancora, assieme a Margadonna, il maggiore elemento di continuità) o parziale (come in una delle sue più famose apparizioni, quella in A/tr: terzpi di A. Blasetti, limitatamente all'episodio //
processo a Fine). Forse. Ma neppure questa è una spiegazione sufficiente dell’avarizia
critica. Certo, visto così (come si dovrebbe), nella sua multiforme poliedricità, il profilo «artistico» di Vittorio De Sica appare composito e complesso, sì da non permettere semplificazioni unidirezionali, filologie parziali, esegesi settoriali. Ma, per non fare che due esempi, non sono certamente meno complesse altre due figure chiave del cinema italiano dell’ultimo mezzo secolo, come Pier Paolo Pasolini (romanziere, poeta, saggista, autore teatrale, corsivista politico, scrittore di costume, e cirzeastz) e Luchino Visconti (grande regista teatrale, grande regista lirico, e cire45t2): eppure questa pur indubbia complessità non ha impedito una fiorescenza di studi, monografie, miscellanee, magari parziali, ma spesso apprezzabilissime, sul cinema dell’uno o dell’altro dei due autori. X
LA «QUESTIONE» DE SICA
Forse, l'esiguità della biblioteca desichiana deriva dalla difficoltà di dare a Cesare quel che è di Cesare e a Vittorio quel che è di Vittorio: ovvero dall’apparente imperscrutabilità, e comunque dalla difficoltosa analisi, del rapporto fra lo «sceneggiatore» Cesare Zavattini e il «regista» Vittorio De Sica. E certamente un fatto che la firma (in 10 casi unica) di ZA sceneggiatore, appare in 23 dei 31 film diretti da De Sica: vale a dire tutti, meno
i primi quattro, e — successivamente a I bazzbini ci guardano, primo apporto zavattiniano al regista — meno Jeri oggi domani, Matrimonio all'italiana, Il giardino dei Finzi Contini, Il viaggio). Si tratta, dunque, di uno dei più costanti sodalizi sceneggiatore-regista della storia del cinema d’autore; che ha investito oltre un terzo delle opere desichiane, è durato più di un trentennio ed è dietro tutti i maggiori film di De Sica, nessuno escluso, in più di un caso enunciato come il solo e unico apporto al regista: in Ladri di biciclette, Zavattini viene presentato come il solo autore del soggetto (scenegg. in collaborazione); lo stesso accade in Miracolo a Milano, dove si precisa che il soggetto è tratto dal romanzo zavattiniano «Totò il buono» (scenegg. in coll.); in Urzderto D., Z. è l’unico firmatario di soggetto e sceneggiatura; in Stzzzone Termini,il soggetto risulta ancora del solo Z. (scenegg. in coll.); ne // tetto, appare Z. l’unico soggettista e sceneggiatore; Z. è il solo sceneggiatore de La ciocszra; sono solo di Z. soggetto e sceneggiatura de I/ giudizio universale, La riffa, II boom; sono attribuiti
unicamente a Z. il soggetto dell’episodio de Le streghe, come il soggetto e la sceneggiatura dei sette episodi di Sezze volte donna e il soggetto dell’episodio de Le coppie; sono soltanto di Z. il soggetto di Lo chiazzeremo Andrea e la sceneggiatura di Una breve vacanza. Ma, anche al di là di queste esplicite indicazioni, si sa (attraverso prove ora testimoniali, ora documentali) che, pure nei casi in cui non è esplicita-
to nei titoli di testa come z7zic0, l'apporto zavattiniano ai copioni dei film desichiani è stato quasi sempre preminente sulle altre collaborazioni: in particolar modo, e in successivo crescendo, da I bambini ci guardano, dove, nel 1943, Z. firma una sceneggiatura, che risente già molto della temperie
morale zavattiniana, assieme ad altri cinque cosceneggiatori (C.G. Viola, M. Maglione, A. Franci, Gh. Gherardi e lo stesso De Sica); a La porta del cielo, la cui sceneggiatura, pur già piena di «zavattinismi», risulta a dieci mani ( con Z. la firmano, in uno con il soggetto, D. Fabbri, V. De Sica, A. Franci, C. Musso); a Sci4sci4, pet il cui essenziale apporto di Z. vi è la testimonianza dello stesso regista ( soggetto e sceneggiatura con S. Ami-
dei, A. Franci, V. De Sica, C. G. Viola); a Ladri di biciclette dove il soggettista Z. viene presentato come semplice membro diuna vera e propria pat-
tuglia di 7 sceneggiatori (O. Biancoli, $. Cecchi D'Amico, V. De Sica, A. XI
LINO MICCICHÉ
Franci, Gh. Gherardi, G. Guerrieri, ultimo nell’ordine alfabetico CZ:
ma dove l’apporto zavattiniano è documentato e documentabile come preminente nonché rinforzato dalla personale partecipazione al montaggio; e, infine, a Miracolo a Milano, in cui, a parte il soggetto tutto zavattiniano, la sceneggiatura ha molte firme (assieme a Z., il cui nome, però, viene questa volta per primo, V. De Sica, S. Cecchi D'Amico, M. Chiari, A. Franci), ma una nettissima, indiscutibile impronta di Z.; e a Urzberto D. dove, co-
me già ricordato, il copione appare, ed è, soltanto di uno Z. che (assieme al regista) fu, d’altronde, ancora una volta, accanto al montatore Eraldo
da Roma. Ciò equivale a dire, in altri termini, che Cesare Zavattini fu il maggiore ispiratore del grande cinema desichiano 1943-1954 (ma la sceneggiatura de L'oro di Napoli, film del 1954, appunto, è giustamente firmata Zavattini/Marotta/De Sica, a sei mani: anche se viene ribadito, nel-
l’ordine non alfabetico, il primato di Z., appare indiscutibile l’apporto quanto meno tematico/ispirativo dei racconti marottiani e del loro «mondo poetico», e sembra incontestabile la sottolineatura del peso, non solo registico,
di De Sica, in un film dove la costruzione dei personaggi ovvero la scelta dei tipi, delle gag ovvero della recitazione, e dell'ambiente ovvero dei luoghi delle riprese è inscindibile dal controllo e dalla direzione, non soltanto registica, del set) e che in almeno tre casi è lecito, e forse anche doveroso,
parlare di una autorialità nettamente duplice e paritaria: quasi certamente pet Ladri di biciclette, certamente per Miracolo a Milano, certissimamente
per Umberto D. Senza con ciò nulla levare a quanto spetti a Cesare, si diceva, e non è certo poco, nei cinque titoli maggiori della filmografia di Vittorio (e a quanto continui a spettargli anche dopo, nel bene e nel male, negli altri 16 film desichiani, firmati da solo o in compagnia). Il rapporto De Sica/Zavattini è insomma complesso, profondo, strettissimo, non sempre chiaro e definibile nelle sue articolazioni: è dunque possibile che la conseguente incertezza nell’attribuzione di una perentoria titolarità autoriale abbia servito da disincentivo allo studio del cinema desichiano. Forse. Ma nemmeno questa, che pure, fra le molte possibili (e, comunque, fra le tre finora adombrate), appare in qualche modo la più fondata, risulta una motivazione sufficiente a spiegare l’esiguità della biblioteca desichiana. A parte il fatto che sulla poliedrica personalità di Cesare Zavattini (per non parlare dello scrittore e del pittore) cineasta — grande sceneggiatore di alcuni grandi film, massimo «teorico» italiano del cinema (nel duplice senso di elaboratore di «teorie» e di «poetiche»), impareggiabile nume tutelare di due o tre generazioni di cineasti, «sperimentalista» fra i maggiori della nostra cinematografia (basti ricordare: Azzore in città, I XII
LA «QUESTIONE» DE SICA
misteri di Roma, Le italiane e l'amore, i Cinegiornali Liberi, La veritàaaa)
— ci sono ancora meno studi che sul regista di Ladri di biciclette, il caso di De Sica, e del suo rapporto, privilegiato e forte, con uno sceneggiatore, non è, tutto sommato,
unico. Abbiamo in Italia, nell’ambito della com-
media, l'apporto quasi costante di Age e Scarpelli con Monicelli, e, nel-
l’ambito del film drammatico, quello di F. Solinas con Pontecorvo; e, al-
l'estero, per fare due esempi parimenti «esotici», quello di Yoshikata Yoda con Kenji Mizoguchi (23 film sui 31 successivi al 1936) e di Kogo Noda con Yasujiro Ozu (26 film su 52, gli altri essendo in maggioranza firmati dallo sceneggiatore Tado Ikeda): eppure nessuno ha mai considerato impossibile lo studio del cinema di Monicelli e di Pontecorvo, mentre esisto-
no decine di monografie su Mizoguchi e su Ozu. D'altronde, il fatto che le pur grandi virtù sceneggiatorie di Zavattini (il cui apprezzabile apporto è riscontrabile in decine di film italiani) abbiano raggiunto soltanto con De Sica il vertice del capolavoro; e, per converso, che la decadenza del cinema desichiano, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, sia
stata irreversibile e appaia indubbia, nonostante la continuità e la costanza
dell’apporto zavattiniano (non diversamente da quando, eccezionalmente, quell’apporto non vi fu: come accadde 4 volte, successivamente al 1963), attesta due cose. La prima è che quello storico sodalizio raggiunse la perfezione e il vertice in una stagione particolare; e che dunque esso fu il risultato di una consonanza epocale, ad un tempo «poetica», «etica» ed «estetica», determinata indubbiamente dalla specificità dell'incontro fra i due cineasti, ma altrettanto indubbiamente dalla specificità di quella stagione: quanto basta per ipotizzare che, senza l’uno o senza l’altro dei due fattori, quella perfezione e quel vertice non si sarebbero raggiunti. Tanto è vero che, quando la stagione sfumò, pur restando fermo (anzi, sotto certi aspetti, rafforzan-
dosi) il sodalizio, quei risultati non si ebbero più, neppure alla lontana. La seconda è che, dopo e oltre quello straordinario periodo creativo, De Sica seppe raggiungere risultati di buon decoro estetico e di bella quali-
tà spettacolare nonostante l’assenza di Zavattini, ne // giardino dei Finzi
Contini (a parte l'Oscar per il miglior film straniero dell’anno el Orso d’oro alla XXI Berlinale, è il migliore fra gli ultimi 13 titoli desichiani), e che,
d’altro canto, non evitò disastri come Una breve vacanza, malgrado la presenza di Zavattini, sceneggiatore solitario del film (su soggetto di R. Sonego). Appare dunque abbastanza chiaro che — oltre alla stagione, sotto molti aspetti magica, delle consonanze — fu, fondamentalmente, la «autoriali-
tà» di De Sica l'elemento conclusivo, e decisivo, che determinò illivello
qualitativo, estetico e spettacolare, dei singoli film, mai memorabili in quel XII
LINO MICCICHÉ
finale ventennio desichiano, ma «buoni» o «non buoni», per dirla con una limitativa aggettivazione giornalistica, con o senza Zavattini. Conferma, que-
sta, che, lo studioso del cinema desichiano, se vuole (e salvo 22 parte —
soprattutto, per quei tre film a duplice autorialità — la stagione del pieno neorealismo) può individuare la «autorialità» da studiare.
Tuttavia, se nessuna delle tre ragioni ipotizzate spiega in modo convincente perché, in Italia e all’estero, si è scritto (relativamente) poco sull’autore di alcuni capolavori della storia del cinema (come d'altronde, già lo si è rilevato, poco si è scritto sul coautore secondo, e in due casi certamente paritario, di tali film, Cesare Zavattini), è invece forse possibile che
sia stata la concomitanza di quelle tre ragioni l'elemento disincentivante: studiare un cineasta, il quale è molto più che un regista cinematografico e presenta un'imponente filmografia d’attore e una vasta teaotrografia; un cineasta il quale, nei propri capolavori (e anche oltre i capolavori) si giova sistematicamente dell’apporto di un grande sceneggiatore (che, a sua volta, lungi dall’essere uno screezwriter, è un autore dalla personalità marcata e dal mondo poetico autonomo e definito); un cineasta il quale ha una grande e crescente stagione iniziale di circa un quindicennio e poi una stagione della decadenza che, pur fra gli alti e i bassi di un professionismo ineccepibile, dura un ventennio; ebbene, studiare questo cineasta non è certamen-
te impresa breve, né semplice, né priva di rischi. Soprattutto per una cultura, come quella cinematografica, afflitta da pluriennali (e tuttora sopravviventi malgrado il «nuovo») assuefazioni alla pigrizia; preferenzialmente avvezza a ripercorrere i percorsi che ad aprirne dei nuovi, legata (per tradizione editoriale, ma anche per vocazione personale) alle mode correnti, per le quali — in questa fine secolo afasica, smemotrata, frettolosa — l’umane-
simo vibrante e sdegnato di De Sica (e di Zavattini), e il loro impegno di poeti testimoni di una stagione di grandi speranze e di grandi mortificazioni, non possono non apparire obsoleti. Potrebbe anzi essere proprio qui, o nei paraggi, attorno a quest’ultimo tema, voglio dire, la chiave, sotto molti aspetti misteriosa, del quasi ventennale tipiegamento dell’ultimo De Sica, dopo la rampante ascesa degli inizi e l’aurea stagione breve in cui Pavese lo poté giustamente indicare come il nostro maggiore narratore, vale a dire colui che più e meglio aveva saputo affabulare e rappresentare quel nostro problematico riaffacciarci al-
la vita, dopo la morte della guerra fascista. La spiegazione potrebbe forse essere individuata nella consapevolezza di De Sica (e del suo grande sce-
neggiatore/coautore) che la stagione dello sdegno e della speranza, delle XIV
LA «QUESTIONE» DE SICA
denunce e delle lotte, della dignità umana ritrovata in un gesto di solidarietà o di furore o di ironia, e di una «etica dell’estetica» che imponeva di non ingannare ma di disvelare, di non consolare ma di sollecitare, di non colpire gli occhi e lo stomaco ma gli occhi e la coscienza, quella stagione era irreversibilmente finita. Occorrevano nuove estetiche per nuove etiche, nuovi convincimenti morali che vivificassero nuove poetiche. Rossellini, an‘ ch'egli in crisi in quei secondi anni Cinquanta, seppe trovare gli uni e le altre nell’attività televisiva, dopo un fruttuoso esilio indiano e un qualche
sporadico ritorno successivo al cinema, forse ancora più «alimentare» di quello desichiano. De Sica non seppe, o non seppe allo stesso modo. Ma immagino che, sul set de // generale della Rovere, in quell’inizio 1959 così pieno
di annunciati «miracoli» alle porte, Vittorio De Sica, eccelso interprete di quel film non eccelso, e Roberto Rossellini, il maestro di Germania anno zero e di Viaggio in Italia, alla prima delle sue grandi astuzie per la sopravvivenza, si scambiassero muti sguardi d’intesa: se le strade erano, e furono,
diverse, il giudizio su quella conclusione dei dieci inverni era probabilmente lo stesso. C'è un vuoto nella filmografia desichiana degli anni Cinquanta, un vero e proprio buco, che sollecita ipotesi e indagini, che chiede spiegazioni. Fra I/ fetto, pronto ai primi del 1956, e La ciociara, che è finito nel pri-
mo semestre del 1960, Vittorio De Sica non realizza nessun film (anche se ne tenta molti): è il più lungo periodo di inattività registica della sua vita. In compenso, fra il 1956 e il 1959 ne interpreta più di 30, in un parossismo attoriale anch'esso senza pari riscontro, in buona parte (non tutto)
impiegato — sia pure con magnifica professionalità — in commedie brillanti e ridanciane, e non tutte di grande qualità. Forse non è solo fantasia
supporre che, in quei quasi 4 anni di bavaglio registico, De Sica abbia previsto il suo e il nostro futuro. E si sia detto che, non potendo più narrare agli uomini che il mondo è modificabile in quanto è conoscibile, valeva la pena di buttarla in ridere sulla sua inconoscibilità, cioè sulla sua immo-
dificabilità, prestando la propria maschera alle altrui favole, messe in circo-
lazione per consolare il dolore.
In altre parole, il regista De Sica, da dietro la m.d.p., passavail«te-
stimone» all’attore De Sica, davanti alla m.d.p.: in ruoli, funzioni e so-
prattutto, responsabilità diverse da prima. Con il 1960, è vero, volle ripro-
vatci, ma quelle che azzeccò erano storie sul passato o astratte allegorie del
presente. Non poteva più commuovere, poeticamente, di una realtà che
non commuoveva più, se non a scrostarne abbondantemente la superficie. XV
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TULLIO KEZICH
SERVITORE DI DUE PADRONI
Amava esprimersi con la parola, la mimica, il canto: da buon istintivo, non
gli piaceva teorizzare. E quanto a prendere la penna in mano, lo faceva con difficoltà, solo se costretto. Non sappiamo perciò se si può veramente attribuire a Vittorio De Sica l'articolo da lui firmato sulla rivista «Scenario» (luglio 1939) e intitolato In bilico fra teatro e cinematografo: ... Tra i miei amici, ve n’è qualcuno la cui conversazione, desidero ed evito nello stesso tempo. La desidero perché nulla mi è più gradito dello scambio di idee con le persone che stimo, la evito perché, nove volte su dieci, mi si pone il quesito: «Cinematografo o teatro?». Ma si: io so bene che si tratta di due forme d’arte tanto diverse, so bene che un uomo dovrebbe decidersi, per dare tutto se stesso all’una o all'altra, allo scopo di raggiungere, se è possibile, l'eccellenza, nell’una o nell’altra; ma è proprio necessario che io mi decida subito, in questo momento? Non è più giusto che le risoluzioni definitive (che poi non sono di così poco momento, come . si potrebbe credere) siano lentamente maturate, col maturare della mia personalità? lo credo che verrà un giorno, che io mi deciderò, così, all’im-
provviso, con una forza che io stesso mi meraviglierò di possedere. E quel giorno la mia decisione sarà irrevocabile. Per adesso debbo confessare che il problema massimo: cinematografo o teatro, non è ancora risolto nella mia coscienza e dunque non può essere risolto nella pratica della mia vita d’attore. Una cosa posso dire su questo argomento ed è che ci penso spesso e a lungo, con una disperazione e una intensità, da farmi talvolta sof-
frire. Attendo nel silenzio della notte i richiami del destino e tendo l’orecchio, ma non odo nulla. O meglio, odo delle voci imperiose che gridano: «Di qua, di qua... Di lì, di là...». E io fermo.
Forse queste frasi amletiche gliele buttò giù qualcun altro (potrebbe essere stato il comediografo Gherardo Gherardi, che di «Scenario» era col-
laboratore) ma spunti e sentimenti erano suoi; e suo soprattutto era quel sentire con rimorso e fastidio la dolente dicotomia fra cinema e teatro. Due ambienti, due modi di esprimersi, due carriere che fino a un certo punto
Vittorio aveva conciliato con gli estri di un Arlecchino servo di due padro-
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ni; e che andando avanti si integravano sempre meno. Anche sul piano logistico ed economico, perfino su quello degli affetti. Verso la fine degli anni Trenta il teatro già rappresentava per De Sica il passato, il cinema l’avvenire. Il teatro erano stati la gavetta massacrante, gli esiti incerti, i quattrini relativamente pochi e una notorietà paradossalmente strappata con le canzonette. Il cinema erano l'automobile sotto casa, la popolarità garantita, la vacca da mungere per mandare avanti la baracca e appena possibile scappare al casinò. Il teatro era Titta Rissone, la famiglia numero uno. Il cine-
ma era Maria Mercader, la costituenda famiglia numero due. Nel suo scritto il nostro non fa che rispecchiare gli umori dell’epoca e anticipare tutta una tendenza della critica desichiana del dopoguerra neorealistico: quando tanto ci disturbava l’antica immagine dell’«uomo che sorride», gagà del boulevard autarchico, che preferivamo fingere non fosse mai esistito. Ci piaceva pensare che De Sica come persona da prendere in considerazione fosse nato nel 1943 con il regista di I barzbini ci guardano. E intanto il «poeta dei panni sporchi», emarginato dall’ostilità dei ministeriali e dall’indifferenza del pubblico pagante, era tutto preso a riprender fiato sul versante della frivolezza. Scopro nel mio archivio una lontana invettiva, Dove va De Sica?, tratta da «Sipario» (ottobre 1955). Gli ultimi cinque minuti, prodotto e diretto da Giuseppe Amato, potrebbe essere un film del 1935. Precisiamo: non si tratta di un film «alla maniera» del 1935, in cui un certo costume d’altri tempi è visto con occhio critico, ma di un’opera che un regista mussoliniano avrebbe potuto realizzare, tale e quale, vent'anni fa. La stessa comicità da «pochade» invecchiata, gli stessi ambienti lucidi e irreali, gli stessi «ruoli» eternamente ricorrenti: il maturo ganimede, l’amico un po’ buffo che gli fa da spalla, la bella annoiata e tutte le macchiette di contorno. Uno strazio: e non lo diciamo per la commedia di Aldo De Benedetti che sta dietro al film, un copione
che ne vale un altro dello stesso genere ed è anzi scritto con discreto garbo. Il guaio grosso sta proprio nella realizzazione, nell'atmosfera che le immagini del film ci riportano intatta come se niente fosse accaduto: la negazione di vent'anni di storia, respinti come un bagaglio di esperienze superflue. Non varrebbe la pena di occuparsi di un tale film, sia pure tipico di una certa infelice vena del cinema italiano attuale, se nella malefatta
non fosse coinvolto Vittorio De Sica. Leggermente ingrassato, con l’occhio un po’ torbido e i panni del gaudente da operetta, De Sica si abban-
dona in questo film a una recitazione senza nerbo, banale e manierata.
Quello che gli interessa è l’effetto comico più prevedibile, la risata del pubblico; infatti, c'è chi lo trova irresistibile e preferisce questo De Sica, tanto più piacevole e inoffensivo, al regista pensoso di Ladri di biciclette. Forse lacolpa è stata anche della critica, che accolse il «revival» dell’attore con incondizionato plauso. L'avvocato di A/tr7 fezzpi, il «trombo-
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ne» di Cameriera bella presenza offresi, il maestro elementare di Buongiorno elefante, il maresciallo di Pane, amore e fantasia erano figurine ritagliate fra il patetico e il grottesco, quasi sempre con buon gusto e originalità. Si fece allora un gran parlare di «Za Bum», di G% wozzini che mascalzoni, delle ultime apparizioni di De Sica sulla scena in I giorni della vita e Il matrimonio di Figaro: ci si affannava a cercare dei precedenti al grande interprete che tutti credevano di avere scoperto. Poi De Sica cambiò: i suoi mezzi, anziché raffinarsi, si fecero più grossolani; dalla com-
media di carattere, egli sembrò passare alla farsa dai colori accesi. Ma sempre senza vera partecipazione, puntando alla quantità anziché alla qualità: in Gli ultimi cinque minuti, almeno così ci sembra, il cerchio si chiude.
De Sica 1955 si può rispecchiare nell’attore un po’ fatuo di vent'anni prima, con tutte le aggravanti del caso e senza alcun riferimento ai personaggi popolari dei vecchi film di Camerini. De Sica è troppo intelligente per non rendersi conto di quanto gli sta accadendo: avrà la buona volontà e il coraggio di reagire? Come direttore, egli è un perfezionista: non accetta compromessi. Perché deve farlo, e in una misura così drastica, soltanto quando recita?
A quell’epoca, insomma, il discorso della contrapposizone fra cine-
ma e teatro si era in qualche modo rovesciato: il cinema (naturalmente quello firmato, impegnato, neorealistico) era divenuto la scelta positiva, il teatro (pur presentandosi ormai sotto specie cinematografica come nel caso di Gli ultimi cinque minuti) era una specie di richiamo della foresta, una ricaduta nelle scempiaggini di Za Bum. E si badi al fatto significativo che negli scritti sparsi di Zavattini non c'è un accenno al suo collega in sceneggiature De Benedetti che non sia sdegnoso o aggressivo: quasi che il profeta del nuovo cinema, recuperato il famoso divo alla buona causa, ne volesse tute-
lare l’illibatezza di fronte alle facili tentazioni. Che tuttavia, ragioni di mercato premendo, erano all’ordine del giorno. ai L’abitudine di spaccare De Sica in due (chi è senza colpa, fra i critici della mia generazione, scagli la prima pietra) si tirò dietro molti anni più tardi (e addirittura dopo la scomparsa dell’interessato) una conseguenza sconcertante. Accadde cioè che da un certo momento in poi i critici della nuova ondata, accesi revivalisti dei «telefoni bianchi» oltre che del popolaresco e del seriale, presero a snobbare il De Sica maggiore, quello di Miracolo 4
Milano, e a rivalutare con immenso divertimento ilDe Sica minore e mini-
mo, quello delle partecipazioni distratte e venali a decine di film di cui a volte non sapeva neppure il titolo.
Di tali moti pendolari sull’altalena del gusto non c’è troppo da me-
ravigliarsi e neppure da lamentarsi: anche perché, francamente, il De Sica mercenario che tanto ci indisponeva nelle sue incarnazioni corrive, oggi riac-
chiappato a tarda sera sull’uno o l’altro dei canali TV (dove con i suoi quasi
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150 film contende il primato della presenza a Totò) si conferma un cesella-
tore di caratteri ameni, un umorista di straordinaria autoironia, un virtuo-
so dei tempi comici. Insomma, a onta delle occasioni spesso modeste, un grande attore. De Sica grande attore? Non la pensavano così parecchi suoi colleghi negli anni Venti e anche qualche critico nelle stagioni successive. Suo cognato Checco Rissone, l'eccellente caratterista che gli fu vicino per tanti anni anche in qualità di collaboratore, mi assicurava che per molta gente della professione «De Sica era cane». Sembra un’eresia, un pettegolezzo di palcoscenico, la vendetta degli invidiosi: ma bisogna rifletterci su. Affermare che De Sica era cane voleva semplicemente dire che era diverso dagli altri attori del suo momento, che recitava in un modo particolare. Ma che tipo
di interprete era De Sica? Da quale scuola veniva quando nel 1923 entrò in arte nella compagnia di Tatiana Pavlova? Dove aveva imparato il mestiere? In tutta la sua adolescenza Vittorio non mise mai il piede in una scuola di recitazione, non conobbe insegnanti, non studiò un bel niente: né dizione, né portamento, né canto. In realtà può considerarsi un attore fatto
in casa perché il suo unico maestro, ma così per ridere, fu suo padre Umberto (il nome che Vittorio affettuosamente scelse per il pensionato di Ur7berto D.): un personaggio di cui si è parlato poco, determinante nella formazione artistica del figlio. Se la professione di Umberto (nato nel 1868 in Sardegna solo perché il padre, Domenico, era stato nominato direttore del carcere di Cagliari) era quella di funzionario bancario e assicurativo, il temperamento scapigliato ne faceva un tipo a sé. Le rare fotografie lo mostrano con la paglietta e il bastone da passeggio, un dandy postborbonico (la famiglia era originaria di Salerno) molto simile a certe tarde e caricatu-
rali incarnazioni del figlio sullo schermo: il che spiega la connotazione familiare, addirittura calorosa che non manca mai in queste macchiette. Appassionato di faccende artistiche, Umberto aveva condiviso disordinatamente la vocazione musicale del frattello Ottavio, compositore di discreta notorietà, e suonava il pianoforte a orecchio: qualcuno lo ricorda come «tapeur» occasionale, forse più per divertimento che per arrotondare il bilancio, sotto gli schermi romani del cinema Mephisto. Vantava parecchie amicizie nell’ambiente degli attori, fra cui la celebre coppia Tina Di Lorenzo e Armando Falconi; e volentieri cantava le canzoni napoletane, che insegnò presto a Vittorio. L'approdo della famiglia De Sica a Roma avvenne nel 1914, alla vigilia della prima guerra mondiale, dopo anni di vagabondaggi qua e là per
l’Italia dovuti a trasferimenti di lavoro; e nel corso dei quali Vittorio aveva visto la luce a Sora il 7 luglio 1901. Vale la pena di annotare in margine
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che due altri grandi personaggi della commedia italiana sono nati in Ciociaria a pochi chilometri di distanza: Nino Manfredi a Castro dei Volsci (nel 1921) e Marcello Mastroianni a Isola del Liri (nel 1924). Con le peregrinazioni della famiglia si spiega la strana sfumatura zingaresca della personalità essenzialmente borghese di De Sica, un’altra delle sue contraddizioni.
Al giro di amicizie del padre risale anche il precoce esordio del ragazzino sullo schermo: il cinematografaro Edoardo Bencivenga, che frequentava casa De Sica, scelse Vittorio per la parte di Pierre Clemenceau giovane nel film Il processo Clemenceau, prodotto nel 1917 dalla Caesar e diretto da Alfredo De Antoni, protagonista Francesca Bertini. Vittorio se la cavò con onore, ma per girare un altro film avrebbe dovuto pazientare una decina di anni. La possibilità di una carriera in teatro gli si schiude invece per caso,
quando è già impiegato avventizio alla Banca d’Italia. L'evento è anticipato da una specie di preistoria: sembra accertato che durante la guerra De Sica adolescente fa il giro degli ospedali cantando per i feriti, anche alla presenza della Regina Madre. Sicuramente nel 1922 partecipa a una serata dilettantesca a beneficio del fondo per un gagliardetto alla Milizia Nazionale, ospite d’onore il nuovo capo del governo Benito Mussolini. Probabilmente ricordando queste e altre esibizioni l’amico Gino Sabbatini, che ha appena lasciato la facoltà di legge per scritturarsi con Tatiana Pavlova, lo consiglia di seguire il suo esempio. A casa il buon Umberto si conferma un genitore anticonformista: gli va benissimo che il figlio, anziché seguire le sue orme nella carriera banca-
ria, intraprenda un tentativo di entrare in arte; ed è curioso, anzi, di avere notizie di prima mano sulla giovane attrice ucraina di cui tanto si parla, appena arrivata in Italia come esule politica dall'Unione Sovietica. In quel momento
la Pavlova ha 27 anni, una personalità grintosa e un fisico at-
traente presto destinato a diventare opimo. Alle spalle può vantare una discreta carriera in un teatro come quello russo, completamente diverso dal nostro, impregnato delle teorie di Stanislavski e legato a un uso sapiente
della scenografia pittorica che la Pavlova cercherà di introdurre in Italia. Se è vero che i simili si cercano, c’è qualcosa di fatale nell'incontro fra De Sica e la sua prima capocomica. Di cui Vittorio si divertirà per tutta la vita a imitare l’incancellabile accento slavo, quello che fece scrivere il critico Marco Praga: «La pronuncia della signora Pavlova va piacevolmente sempre più peggiorando... Ora è in aperto dissidio con le esse e con le effe.
Chissà perché? Cosa le avranno fatto di male quelle due povere lettere del-
l'alfabeto?» Ma al di là di questa bizzarra connotazione fonetica, il nuovo scritturato diventa subito un devoto seguace di Tatiana. Ne ama la smania
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di perfezione, il rigore con cui affronta la difficile disciplina del teatro, il
modo ordinatissimo di organizzarsi la giornata di lavoro. «Semel abbas, semper abbas»: il destino di Vittorio De Sica è segnato.
L’esordiente rimane con la Pavlova un anno e mezzo, dall'autunno 1923 alla primavera 1925: e fin dal debutto al Valle di Roma in Sogzo d'4-
more di Ivan Kossorotov riesce ad attrarre l’attenzione del pubblico recitando impeccabilmente la risolutiva entrata di un cameriere nell'ultima scena della commedia. È un modo per verificare l'assioma stanislavskiano: «Non esistono piccole parti, solo piccoli attori». Uno di quei comandamenti da portarsi dietro per tutta la vita. Il mondo del teatro al quale si affaccia il giovanotto De Sica, che riconosciamo su «Commedia» posare disinvolto e anonimo per il fotografo in mezzo ai compagni d’arte, è molto diverso rispetto a oggi: è fondato sulla compagnia a ruoli fissi, composta da venti persone che s’impegnano
in un repertorio di oltre una dozzina di testi ogni stagione, con frequenti alternanze di programma. In provincia, lontano dalle grandi città, si cambia spettacolo ogni sera. E anche a Roma e a Milano le commedie «cadono», come si dice in gergo, cioè a volte vengono sepolte tra i fischi la sera della prima; e altrettanto avviene, anche senza fischi, se l'incasso è scarso.
E un teatro dove gli attori provano sempre, hanno sempre una parte nuova da imparare, scrivono e riscrivono le loro battute su quaderni di scuola che si portano dietro anche a letto. Le paghe sono basse e le «cinquine» (il salario corrisposto ogni cinque giorni) non arrivano puntuali. Nelle tournées spesso capita di dormire in alloggi di fortuna e di cenare con un caffellatte. Allo sfarzo di cui si circondano i grandi capocomici corrispondono le ristrettezze degli scritturati. Questo è l’ambiente nel quale Vittorio fa le sue università di commediante, passando da un copione all’altro, da un personaggio all’altro.
Nella compagnia della Pavlova conosce le servitù e le grandezze della vita teatrale, le pratiche basse e le idealità supreme. Impara anche a non dare soverchia importanza alla dizione, a non preoccuparsi se ogni tanto nel pronunciare le battute gli sfugge un’inflessione meridionale: rigorosa su tutto, Tatiana evidentemente non può esserlo su quel terreno ortofonico in cui è la prima a rivelarsi carente. Ignoriamo le circostanze in cui De Sica lascia la Pavlova nella primavera 1925, ma una notiziola di «Il Dramma» di poco posteriore (1° aprile 1926) fa ipotizzare che la signora manifestasse con la compagnia un temperamento difficile: «Col nuovo anno comico ben 15 fra attrici e attori hanno preso il largo». In ogni modo Vittorio è già passato sotto le ali di Luigi Almirante, accanto al quale lavorerà fino alla fine del 1929, quattro anni e
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mezzo che rappresentano il periodo decisivo della sua maturazione artistica. Soffermiamoci un momento su Gigetto Almirante, anche se esula dal nostro discorso tracciare una dettagliata cronistoria dell’attività teatrale di De Sica cheè stata finora delineata solo da uno storico del cinema, Ernesto G. Laura, nell’eccellente sintesi critica De Sica attore: la maledizione del successo (in «Bianco e Nero», 9/12, dicembre 1975). Ma Almiranteè il personaggio fondamentale per la definizione dello stile desichiano e vedremo perché. Discendenti di una famiglia le cui tradizioni comiche risalgono al Settecento, gli Almirante erano quattro fratelli: Ernesto, che avendo sempre svolto il ruolo di amministratore di compagnia si conquistò vasta popolarità come vecchietto stizzoso nei film italiani del dopoguerra; Giacomo, buon caratterista rimasto in ombra; Luigi e Mario, che come regista diresse fra l’altro il secondo e il terzo film di De Sica, La bellezza del mondo (1927) e La compagnia dei matti (1928). Nato a Tunisi nel 1866 (morì nel 1963), Luigi fu l’attore più celebre della famiglia e uno dei grandi nomi del teatro italiano, oscurato solo da un lungo e non sereno tramonto. Precocissimo, ci mise parecchi anni a trovare il suo stile in palcoscenico; ed ebbe il riconoscimento definitivo creando il personaggio del Padre nella prima messinscena di Sez personaggi in cerca d'autore, firmata da Virgilio Talli. Come scrive Alberto Cecchi in La parete di cristallo, Luigi è «di un’avvenenza assai relativa ma, in giusto com-
penso, piena di carattere: con un viso acuto, arguto, sottile, che sembra continuamente offerto di profilo, tutto fatto di spigoli; con un naso perfettamente angolare, geometrico, pinocchiesco, eccessivo, schiaccianoci; corredato di un paio di occhi simili a quelli del coccodrillo, maliziosi e friccarielli... Fra l'apparenza e la sostanza di questo attore comico l'accordo è perfetto». Il critico insiste sulle qualità di autoironia della recitazione di Almirante: «Potremo stimarlo addirittura un attore che si vergogna di essere uomo, ossia un non attore. A buon conto, egli è un grammofono che suona un disco sincopato, e la melodia e il canto della sua recitazione vanno cercati nelle pause e nei silenzi». Il ritratto è perfetto: «Figlio d’arte, non è, se Dio vuole, guitto. Intinto di intellettualità, non ha tuttavia pose né pretese. È elegante e modesto, monotono e diverso. Sa quello che vuole. Quando non ci arriva, non ci tira certo il cappello». In un teatro che sta fra il naturalismo debordante di Ermete Zacconi e l’insinuante flautato di Ruggero Ruggeri. Almirante è uno che recita come si parla. Dei suoi scritturati non cerca di smussare gli accenti regionali, anzi se ne compiace e li incoraggia sulla strada della spontaneità. È un promiscuo promosso primattore sul campo per il suo magnetismo scenico,
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la sua bizzatria, il suo approccio grottesco a una sconcertante verità. Un
po’ come si rivelerà, negli spettacoli viscontiani del secondo dopoguerra,
Paolo Stoppa. In un articolo su «Il Dramma intitolato Perché faccio l’attor comico (15 settembre 1929) Almirante scrive di se: «Come brillante, facevo piangere; come amoroso, facevo ridere! Allora pensai a un nuovo sistema di recitazione... Capovolsi i valori, recitai l’amoroso con intonazioni comiche
e il brillante con intonazioni serie. Mi riuscì di far sorridere...». Non c'è in questa formula qualcosa che finirà per attagliarsi anche alla personalità di De Sica? Certo il giovane attore fa tesoro degli insegnamenti del veterano. Sulla scena se lo beve con gli occhi, lo ascolta reverente e accetta ogni osservazione del capocomico. È un lungo apprendistato di cui rimane traccia ora sì e ora no nelle recensioni; in «Comoedia» troviamo il nostro citato, a proposito di uno spettacolo, fra gli attori che hanno schizzato «macchiette piene
di buon gusto». La notazione sul buon gusto è ricorrente nelle cronache della compagnia Almirante, che dalla quaresima 1927 (data d’inizio dell’anno comico secondo il costume di allora) diventa Almirante-RissoneTofano. Del bravissimo Gigetto scrive Nardo Leonelli su «Il Dramma» (15 giugno 1929): «Oggi, a capo di una giovane Compagnia, egli si è dimostrato uno dei pochi grandi direttori che ancora vanti la nostra scena di prosa. Coadiuvato da un altro intelligentissimo attore, Sergio Tofano, è riusci-
to a formare un complesso elegante omogeneo perfetto al servizio dei canoni inderogabili dell’ Arte; complesso che assomma tutte le squisitezze armoniose di una raffinata modernità a tutte le salde virtù del passato...». Sotto l’occhiello «Outsider», un bel disegno in bianco e nero di Ro-
setta Tofano, moglie di Sergio: cappello nero, cappotto nero a tre quarti, pantaloni bianchi e scarpe nere a punta, De Sica sorride già al lettore come nella sua immagine degli anni Trenta. La rubrica di «Il Dramma» (15 feb-
braio 1928) si intitola Passaporto per la celebrità. Sono poche righe: — Ventotto anni. — Non è «figlio d’Arte». — Recita da quattro anni ed è stato in tre Compagnie: Pavlova, AlmiranteManzini, Almirante-Tofano.
—
Molte volte gli capita di fare parti di bel giovane: ma preferisce quelle
comiche, anche se non gliele fanno fare.
— Simoni, Bertuetti, D’Amico — gli unici tre critici veri che abbiamo in Italia — si sono occupati benevolmente di lui. È un primato che po-
chissimi hanno. — Quando sarà celebre non avrà mai una Compagnia propria, ma sarà 10
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il primo delle Compagnie degli altri. Ciò dimostra chiaramente la sua intelligenza.
De Sica rispose mandando un telegramma iin cui precisava: «Non ho che ventisei anni, gli altri due non sono miei...» (per l'esattezza ne avrebbe compiuti ventisette il 7 luglio). Al momento della conclusione del rapporto artistico con Almirante (ma si porterà dietro l'anziano maestro, quando avrà successo nel cinema, in numerosi film tra i quali lo zavattiniano Darò 47 milione dove Gigetto assumerà il ruolo destinato a Buster Keaton), De Sicaè già un attore fatto e finito. Sul «Corriere della Sera» (22 aprile 1927), Renato Simoni gli ha dedicato parole bellissime: «Il giovane attore De Sica si meritò, nel terzo atto, un applauso a scena aperta. Egli sa sempre imprimere un segno di speciale umorismo nei personaggi che interpreta, anche se sono secondari». In queste stagioni, proprio mentre attraversa il suo momento di maggiore prestanza fisica, Vittorio ètanto preso dal gioco del teatro che gareggia con il suo nuovo collega Sergio Tofano nell’impersonare i caratteri, i vecchi, le macchiette. Se la gode a nascondersi dietro barbe, baffi e occhiali, a spe-
rimentare i rischi della trasformazione. Al punto che non di rado per chi sfoglia le pubblicazioni d’epoca il nostro risulta difficilmente riconoscibile. Di tre lustri più anziano di De Sica, il romano Tofano è stato un anticipatore di quella nuova schiera d’interpreti che non provengono dalla tradizione ma arrivano in palcoscenico dalla borghesia: portando, nel suo caso, il contributo di una cultura raffinata in un ambiente dove la scolarizzazione di attori anche noti è stata spesso precaria. Il «bon ton» di Sto, come firma le storie del suo Bonaventura sul «Corriere dei Piccoli», rappre-
senta per De Sica una specie di corso superiore di perfezionamento, la possibilità di specchiarsi in ogni momento nella vigile e amicale coscienza critica di un compagno che lo affiancherà, sia pure a DI IERIAA ZO, per molti
anni a venire. Se Tatiana Pavlova gli ha trasfuso la mistica del teatro d’arte, alla quale l’innnamorato e infedele Vittorio farà continue trasgressioni; se Almirante lo ha addestrato a recitare come nella vita (e come il futuro regista del neorealismo farà recitare i suoi interpreti presi appunto dalla vita); se Tofano gli ha insegnato la misura, l’ironia, il tratto fulminante del grande vignet-
tista, l’arte di De Sica deve qualcosa anche a Giuditta Rissone, alla quale si è legato professionalmente e sentimentalmente e che sposerà nel 1938. Nata nel 1895, cresciuta fin da piccola fra le quinte, attrice già validamente affermata, la Rissone è una lezione di saper vivere nel teatro: ac-
canto a lei Vittorio si abitua a considerare il camerino come la propria casa, il palcoscenico come l’habitat naturale di ogni essere umano. Non afferma 11
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forse Shakespeare che tutti gli uomini sono attori? A questo punto, dopo aver assimilato ciò che attiene alla tecnica e alla psicologia del suo mestiere,
De Sica ha imparato nel duetto con Titta a respirare sulla scena, a rilassarsi,
a effondersi con quella sincerità (vera o finta, non importa) che arriva al cuore. La coppia fa la copertina di «Il Dramma» (15 gennaio 1931) mentre la didascalia recita: «Sono i due più completi giovani attori, intonati al gusto del pubblico moderno». Ma il pubblico gli volta le spalle. Entrati nel complesso denominato Artisti Associati, sotto la regia sofisticata di Guido Salvini che si è formato con Pirandello, Titta e Vittorio danno vita con i compagni Umberto Melnati, Giulio Donadio, Amelia Chellini e altri ad alcuni spettacoli di eccellente livello. Eppure la platea è vuota. Si smaltiscono le conseguenze della crisi economica del ’29, girano pochi soldi, la concorrenza del cinema sonoro come spettacolo ultrapopolare infligge duri colpi al teatro (proprio come vent'anni dopo farà la televisione col cinema). A mali estremi, estremi rimedi: e al capezzale degli Artisti Associati si presentano i dioscuri di ZaBum, sigla onomatopeica di un'impresa di spettacoli commerciali a grande successo: Mario Mattoli, futuro prolifico regista di cinecommedie, e Luciano Ramo. Si improvvisa, parafrasando il titolo del recente film di Chaplin Le luci della città, una rivista: Le lucciole della città di Falconi e Biancoli.
L’ipotesi che gli spettatori, finora indifferenti di fronte ai bravi attori della compagnia, si mobilitino all’idea di vederli ballare e cantare. Ed è un trionfo immediato soprattutto per Vittorio. La svolta che l’evento segna nella sua cartiera è sintetizzata nella fotografia che pubblica «Comoedia» (15 maggio 1931), dove c’è una novità: fra i tredici attori schierati alla ribalta (sul siparietto di fondo campeggia una banconota da mille lire) De Sica per la
prima volta è al centro. Si è conquistato quel posto, dopo otto anni di fatiche, e non lo abbandonerà più. A voler sottolineare le continue contraddizioni del personaggio, questo è il suo tipico modo di aggirare un certo tipo di problema. Nessuno nega che De Sica sia ormai dominato dall’irresistibile spinta a dare il meglio, una pulsione che non lo abbandonerà più. «Al fondo di questo mio travaglio — scriverà nel citato articolo di «Scenario» — è una volontà ben precisa: crescere, migliorare, portare la mia personalità al maggiore sviluppo possibile... E dunque tempo che io dimostri a me stesso e al pubblico, che tanta fede ha avuto in me, se sono o non sono capace di sforzi maggiori...». Parole bellissime, ma più spesso tradotte in tormentone che in una vera capacità diresistere alle tentazioni. Bisogna pur vivere: e in assenza di grandi prospettive o nei momenti grami o quando qualcuno ti offre un’occazione tipo prendi i soldi e scappa, perché non tener presente che lo spettacolo 12
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è soprattutto un gioco? E che, in fin dei conti, può esserlo anche la vita? Sicché il primo vero successo di De Sica in teatro non è da attore,
ma da cantante. O quasi: tenorino dotato di una voce non certo potente, passabilmente intonato, musicalissimo, memore degli insegnamenti paterni nelle serate in famiglia. Cesellatore di versi facili, fine dicitore come si
diceva un tempo o cantante confidenziale come si dirà più tardi: sul filo del rasoio fra il coinvolgimento e la derisione, il sentimentalismo e il sogghigno. Le riviste si moltiplicano, il pubblico non vuole altro. Si aprono le porte del mercato discografico, come si desume da un annuncio pubblicitario su «Comoedia» (15 settembre 1933): «Vittorio De Sica, il giovane
e valoroso attore della scena italiana, l’emulo di Chevalier, il più popolare divo dello schermo, incide esclusivamente per i dischi Columbia». Intanto (settembre 1932) G4 wozzini, che mascalzoni ha trionfato alla prima Mostra di Venezia e tutta l’Italia canta dietro a De Sica «Parlami d’amore, Ma-
riù»; resterà la sua croce, gliela chiederanno sempre fino agli ultimi mesi di vita. Sull’onda della facilità, non sempre gli esiti sono banali: dietro al successo della canzone di C.A. Bixio, De Sica ne infilerà tutta una serie
e nel dopoguerra gli capiterà di tenere a battesimo un’altra melodia storica, «Munasterio ’e Santa Chiara». Lo si riveda, del resto, nell’evocazione
del repertorio di Luciano Molinari che esibisce nel film Gra7 varietà (1954) di Domenico Paolella, un miracolo di filologia ironica. Il successo cinematografico dell’attore negli anni Trenta riduce, ma non cancella, l’attività teatrale: certo in alcuni anni (come il 1936, con quattro film; o il 1938, con sei film addirittura) di tempo ne resta poco, ma in questo periodo il nostro sente il teatro come un dovere. E non solo verso Titta,
che con il cinema ha un rapporto sporadico e difficile, o verso compagni
preziosi come Tofano o Umberto Melnati; non solo verso il pubblico, che lo segue fedelmente: ma nello sforzo di mantenere dignità alla propria immagine artistica. Come molti teatranti, finché non passerà alla regia, De Sica continua a pensare che solo quello del palcoscenico sia un vero lavoro, con le sue fatiche, i suoi rischi, la logorante routine delle trasferte e delle repliche. A confronto il cinema è uno scherzo, sia pure strapagato.
E invece fra teatro e cinema il travaso è continuo in quegli anni di perdurante crisi della scena e andrebbe attentamente studiato. Vittorio contribuisce all’osmosi in molti modi, ma soprattutto favorendo il trasferimento
sullo schermo dei suoi successi come certe commedie di Gherardi (Quest ragazzi, Partire) o De Benedetti (Lobengrin, Non ti conosco più, L’uomo
che sorride). Non a caso della compagnia De Sica-Rissone-Melnati, Due 40zzine di rosse scarlatte (marzo 1936) sarà il veicolo della prima regia cinema13
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tografica: Rose scarlatte (1940), in mezzadria con Giuseppe Amato e con l’attrice francese Renée Saint-Cyr nel ruolo tenuto sulla scena da Titta. Oltre ai nomi dei commediografi citati, le scelte delle compagnie di
De Sica si orientano ancora sulle riviste di Biancoli e Falconi, sui testi casarecci di Guido Cantini, Guglielmo Zorzi, Gaspare Cataldo, Nicola Manza-
ri. Nel citato articolo del 1939 l’attore scrive: «Disgraziatamente il teatro diventa ogni giorno più difficile, soprattutto per la scarsità del repertorio... Questo del repertorio è un vero tormento, per un attore che abbia coscienza delle proprie possibilità e dei propri doveri... Ardo dal desiderio di ritrovarmi in opere di mole più importante, in parti più consistenti e artisticamente più vaste...». Questa tensione si manifesta nel repertorio, sensibilmente più ambizioso, della rinnovata compagnia con Tofano negli anni della guerra, dove accanto a Kurt Goetz, G.B. Shaw, Noel Coward e altri,
De Sica riprende due testi di Pirandello (Ma ror è una cosa seria e Liold) e dì fiducia a un autore nuovo dalla sicura vena poetica, Ugo Betti, I z0s#77 sogni (trasferito immediatamente in un bel film, esordio di Vittorio Cottafavi) e I/ paese delle vacanze. Tali scelte, sul traguardo dei quarant'anni, sono in sintonia con la trasformazione del De Sica personaggio cinematografico, che scavalcata la figura del bel giovanotto dalla canzonetta facile punta a caratterizzazioni più complesse. La compagnia che De Sica forma con Isa Miranda nel 1944 ha la provvisorietà e prolificità del suo momento (lui ne è, per la prima volta, anche direttore artistico, non osando in teatro definirsi regista); la sua partecipazione a due spettacoli del Teatro delle Arti (I/ terzpo e la famiglia Conway di Briestley e di nuovo Ma ron è una cosa seria) segna nel 1945 un interessante incontro con la regia di Alessandro Blasetti. E ancora agli ordini di un grande collega, Luchino Visconti, accorre De Sica per uno spettacolo memorabile e contestatissimo del 1946, I/ m2atrimzonio di Figaro di Beaumatrchais. Seguiranno altre poche apparizioni fra le quali I giorni della vita di Saroyan, diretto dal giovane Adolfo Celi, e una partecipazione anche cantata, nel ruolo del tenore Cruscariello, nel goldoniano L’imzpresario delle Smirne messo in scena da Simoni nei Giardini della Biennale a Venezia,
agosto 1947. Se si stralciano le esibizioni dilettantesche da giovanotto, tra la fine
della prima guerra e l'avvento del fascismo, e il tardivo esordio nella regia (Liolà di Pirandello, 1961), il teatro impegna professionalmente Vittorio
De Sica per ben 26 anni della sua esistenza: dall'autunno 1923, in cui si
scritturò con la Pavlova, alle due recite straordinarie della commedia Lettere d'amore (aprile 1949) di Gherardi, un omaggio al commediografo appena scomparso. E l’ultima occasione in cui De Sica, ormai diventato un mae14
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stro del cinema mondiale e un divo di grande successo, compare su un palcoscenico. Nel tempo il teatro prese sempre più a configurarsi per lui come un’evasione impossibile, il sogno di una rigenerazione, il sancta sanctorum dell’artisticità da contrapporre al purgatorio (talvolta ameno, più spesso stressante) del cinema quotidiano. In questa chiave mi pare utile ripescare dall'archivio la recensione che dedicai sul finire del 1961 alla prima e unica regia teatrale del nostro. Dove emerge un tema interessante, quello dell’incontro sempre rimandato (tranne che per qualche episodio secondario) fra il più grande attore e il più grande commediografo del moderno spettacolo italiano; e balena la speranza di molti di noi che De Sica, pur avvilito
dalla condizione di prigioniero del successo, potesse ancora dar vita a qualche evento teatrale e cinematografico di grande rilievo. Cito, anzi, autocito, da «Settimo Giorno»: Vittorio De Sica ha dovuto aspettare di compiere i sessant'anni per firmare la sua prima regia teatrale. Questa semplice considerazione direbbe abbastanza del teatro italiano anche a un Urone di passaggio per le nostre contrade. Kazan negli Stati Uniti ha fatto indifferentemente teatro e cinema da quando si occupa di spettacolo; Bergman in Svezia dedica l’inverno al palcoscenico e l’estate a un film; Olivier in Inghilterra continua
a dividersi fra le due attività; in Francia esiste da sempre un continuo scambio fra la scena e lo schermo. Da noi (nonostante il caso Visconti e anche se negli ultimi anni qualcosa sta mutando) la strada fra Cinecittà e l’Eliseo è più lunga di un giro del mondo: i cinematografari ignorano il teatro, i teatranti delusi sono costretti a dire nelle interviste che per niente
al mondo rinuncerebbero alla loro porzione serale di applausi. E quelli che sono nati in teatro e cresciuti al cinema, come appunto De Sica (ma potremmo fare anche i nomi di Gassman, di Mastroianni, di Salerno, di Ferzetti, di Valli) si sono formati una mentalità schizofrenica, ragionano
come se dovessero difendere le esigenze di due persone distinte. Non è il caso di addentrarsi a cercare le ragioni di questa spaccatura, tanto più che in una analisi del genere è facile scambiare gli effetti con le cause. Basterà per il momento osservare che l’unità dello spettacolo, ormai co-
munemente accettata al di là delle diverse tecniche, rende sempre più anacronistici tutti i diaframmi. Nel caso di De Sica, in particolare, Li0/4 ci conferma che il nostro
teatro ha perso qualcosa privandosi per tanti anni dell’opera di un artista che è, prima di ogni altra cosa, uno straordinario «metteur en scène». Come autore cinematografico, tutti lo sanno a cominciare dagli interessati, De Sica è la metà di una mela che si chiama De Sica-Zavattini. Ora niente è più difficile che discernere le componenti di una collaborazione tanto felice (ricordiamo l’immagine zavattiniana del caffelatte) ma in linea di massima ci sembra evidente che la parte di De Sica riguarda soprattutto 15,
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la realizzazione pratica del film. Il gusto con cui compone le inquadratu-
re, la forza con cui risolve talune situazioni, la sua bravura nel dirigere
gli attori sono riconoscibili da Un garibaldino al convento a La ciociara. Ora queste qualità si riportano al De Sica attore e animatore con Giuditta Rissone e Sergio Tofano di un’ottima compagnia drammatica che ebbe vita intermittente negli anni Trenta. Da Tofano, allievo di Virgilio Talli, il nostro regista prese probabilmente il gusto della recitazione chiara, della soluzione semplice ed efficace, che ritroviamo anche in Li0/2. Più che giudicare uno spettacolo, come ha fatto la maggior parte dei critici talvolta con una severità dispettosa e fuori luogo, nel caso di Lio/à bisogna salutare. con l’affettuoso rispetto che merita l'esordio di De Sica e augurarsi che non rimanga isolato. La stagione degli autori cinematografici è breve, quella dei registi può durare tutta la vita. Proprio in questo momento, quando i temi del suo neorealismo hanno assunto nuove for-
me nelle mani dei giovani, De Sica può continuare a esserci maestro, dalla scena e dallo schermo, con gli argomenti sempre validi del talento e dell'esperienza. Possiamo semmai dolerci che uno spettacolo come Li0/? arrivi in un certo senso con troppo ritardo, come un frutto rimasto troppo a lungo sul ramo. De Sica stesso impersonò Lz0/# vent'anni or sono, indulgendo a qualche venatura romantica secondo il giudizio di Simoni. Ad Achille Millo,
esecutore brillante, il regista ha invece suggerito un personaggio tutto terrestre, pagano, mediterraneo. Lo spilungone sentimentale dei film di Camerini è decisamente scomparso dietro l’uomo maturo che ha saputo raccontare il dolore di una madre come La ciociara: ed è proprio da questa prospettiva che nasce l'impostazione naturale, logica, scevra di giustificazioni moralistiche, del nuovo Lz0/#. Al quale si potrebbero rimproverare, semmai, una certa confusione di dialetti e un curioso eccesso di pudore. De Sica è artista troppo raffinato per cadere nell’equivoco del finto vaso greco o delle fiancate di carretto: la Sicilia delle scene di Ezio Frigerio sposa il bianco contro il folklore, ma è un bianco sporco, di derivazione cino-
brechtiana. Il colpo d’occho è suggestivo; rimane il sospetto che il regista, per aver temuto troppo l'equivoco coloristico, sia scivolato nel difetto opposto, dalla grossolanità all’intellettualismo. Sicché il cromatismo di Liolà ci pare di ritrovarlo solo nel piacevole siparietto dipinto da Renato Guttuso: e non a caso De Sica raggiunge i momenti più intensi nel secondo atto, dove sa dare le luci del tramonto e della notte con eccezionale mae-
stria; dove il colore cacciato dalla porta rientra dalla finestra. ._ Tn parte, però, il testo stesso (almeno nella versione italiana) lascia oggi lo spettatore critico con il desiderio di qualcosa, come alle soglie di una scoperta che poi non si compie. In una dimensione più completa Lio-
la potrebbe allargarsi alle forme del «musical», affidando a canto e ballo la consacrazione della sagra paesana, cioè la definitiva cornice del mito greco in uno spettacolo d’intonazione rituale... ., Ultima osservazione: De Sica ha scelto senza esitazioni Pirandello per il suo esordio. Sappiamo che vorrebbe fare i Sei personaggi, recitando 16
SERVITORE DI DUE PADRONI la parte del padre; e lo ricordiamo, un paio d’anni fa, alle prese con un copione cinematografico tratto da Tutto per bene, affascinato dal personaggio che piaceva tanto a Ruggeri. Quest’incontro di De Sica con Pirandello potrebbe rivelarsi assai fecondo ed è forse, a parte il risultato di Lio‘è, il germe più promettente dell’anno celebrativo.
Nell'articolo più volte menzionato di «Scenario» De Sica dichiarava: «Quanto al teatro, esso è alla cima dei miei pensieri, in testa a tutti i miei
ideali». Ventidue anni dopo, accingendosi a esordire come regista teatrale, continuava a pensarla allo stesso modo. Ricorda il produttore Lucio Ardenzi che gli impegni cinematografici del maestro imposero orari di prova del tutto insoliti, con gli attori tirati giù dal letto e completamente frastornati, dalle nove e mezzo del mattino alle due del pomeriggio, cioè il momento in cui arrivava la macchina per portare il regista sulla lavorazione del film. Più tardi la compagnia raggiunse De Sica a Lugo di Romagna, dove stava girando La riffa ed era disponibile per provare il tardo pomeriggio e la sera. Quando Achille Millo e altri colleghi gli fecero una visita sul set, Vittorio prese il megafono e a gran voce raccomandò alla troupe: «Signori, state attenti. Non fatemi fare delle brutte figure. Qui ci sono degli attori di teatro».
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CON PRUDENZA
La gente domanda sempre in che modo e perché un attore passa alla regia. Ma è difficile rispondere perché il processo è lento e abbastanza naturale. Penso però che ci sia sempre una spinta esterna, un piccolo urto, qualcosa che ti capita e che ti fa decidere. Nel caso mio la spinta venne dalla vanità ferita. Avevo interpretato Maz0r Lescaut di Gallone e non ero piaciuto ai critici. Mi bruciava; tanto più che essi avevano ragione. Ma non era tutta colpa mia. Gli stessi difetti di recitazione che mi rimproveravano, li avevo previsti durante le riprese e ne avevo parlato con Gallone, senz’alcun risultato. Mi dissi: tanto vale fare da soli, prendersi la responsabilità totale del proprio lavoro.
Così De Sica raccontava la decisione di passare dietro la cinepresa nella prima puntata delle sue brevi memorie, apparse durante il dicembre del 1954 sul settimanale «Tempo», diretto da Arturo Tofanelli. La spiegazione
conteneva una grande verità, una piccola inesattezza e una omissione. Ri-
spondeva al vero che si sentisse superiore al 99% dei registi italiani allora in servizio permanente effettivo. De Sica sotto tale aspetto era in sintonia con l’attrice Elsa Merlini, che li avrebbe definiti dei «cani», tali da procu-
rarle un’ulcera dopo avere interpretato una delle loro «schifezze»: «marchette» che si sacrificava a fare, per procurare soldi alla sua compagnia di giro. Tuttavia la goccia che fece traboccare il vaso, non avrebbe potuto essere Ma7207
Lescaut, per il semplice fatto che il film di Gallone uscì tra gennaio e febbraio del 1940, solo due mesi prima di Rose scarlatte. (E Manon Lescaut, a leggere le critiche dell’epoca, non fu nemmeno accolto male dalla critica,
come avrebbe affermato tanto tempo dopo De Sica). Va detto piuttosto che De Sica nelle sue memorie ometteva di sottolineare un altro motivo,
forse quello decisivo: la oscura sensazione che la sua fortuna cinematografica sarebbe rapidamente declinata, se al mestiere dell’attore non avesse aggiunto quello del regista. De Sica era probabilmente il migliore attore di cui allora disponesse il cinema italiano: il solo, forse, capace di una recita-
zione moderna, priva di quell’enfasi che contraddistingueva i mattatori coevi î
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del teatro italiano. Ma la popolarità non è sempre direttamente proporzionale al talento. Non lo era più per De Sica, il quale, dopo essere stato il beniamo del pubblico, specie femminile, si era visto soppiantare da Amedeo Nazzari e Fosco Giachetti, divenuti durante la seconda metà degli anni Trenta, gli «anni del consenso», i tipici «divi del regime». Nazzari, per giunta, gli rubava terreno anche nel campo della commedia cinematografica, che in precedenza era stato pascolo quasi esclusivo di De Sica: Assenza ingiustificata di Max Neufeld, in virtù del suo straordinario successo di pubblico, aveva dato inizio alla moda dei «telefoni bianchi». Dunque il passaggio di De Sica alla regia non è stato il frutto, né di una improvvisa folgorazione, né dei giudizi negativi che i critici avrebbero riservato alla sua interpretazione in Mazon Lescaut. Vero è, invece, che fu il punto di arrivo di un progetto a lungo maturato. La prima notizia di questa intenzione appare infatti sul numero del 18 giugno 1939 di «Film», il settimanale diretto da Mino Doletti. Lo si saluta con estrema simpatia,
tenuto anche conto dell’ambizione della scelta, caduta su Luzzzie di Sicilia,
la novella di Luigi Pirandello, trasformata poi in atto unico dallo stesso scrittore. (Suggestivo questo intendimento, specie alla luce dell’arco successivo della carriera registica di De Sica, conclusasi nel 1974 con // viaggio, un’altra novella dell’autore siciliano). C'è poi un progetto antecedente allo stesso Luzzze di Sicilia, relativo
a un soggetto di Cesare Zavattini, Diazz0 a tutti un cavallo a dondolo, un progetto che non andò mai in porto, nemmeno quando, scartata l’ipotesi della regia di De Sica, si pensò di affidarlo a Mario Camerini. Quel soggetto sembra la prima stesura di Totò #/ Buomno, il racconto che servirà da base
a Miracolo a Milano. E con un finale ben più amaro: nessuno parte per il paese «dove buon giorno vuol dire veramente buon giorno», il mezzo fata-
to non fa alcun miracolo e non salva nessuno; il protagonista viene licenziato dal padrone, che probabilmente — cacciandolo — gli dà pure un calcio nel sedere. Zavattini invia il soggetto a De Sica con una lettera di accompagnamento, dettata il primo maggio del 1939; lettera che ha un tono
addirittura profetico, quando dice di sentire che «per la prima volta nasce una collaborazione assolutamente eccezionale». Come i due potessero sperare di poter filmare nel 1939 un testo così apertamente classista, resta un mistero. Il 27 gennaio 1940 «Film» esce con la notizia dell'inizio di Rose scarlatte. Segue un commento, dove non si esclude che un attore dietro alla cinepresa possa dar luogo a un buon film, in base ad altri confortanti esempi vantati dal cinema europeo. Il pensiero va all’attore viennese Wilhelm Frohs, in arte Willi Forst, che, grazie al favore critico guadagnatosi con M420
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skerade (Mascherata) e Allotria (Allegria), è stato definito il «René Clair austriaco». Ma lo stesso commento riserva un po’ di veleno in coda, poiché si rimprovera al produttore Peppino Amato di non avere dato credito a «uno di quei giovani che da mesi, se non da anni, aspettano di essere promossi alla regia». Come dire che, ricorrendo a De Sica, è stato fin troppo prudente. Amato potrebbe ribattere che la prudenza non è mai troppa in questi casi, tant'è vero che non ha voluto lasciare all’autorevole debuttante l’inte-
ra responsabilità della regia. Il film, infatti, porta la doppia firma: di De Sica e sua. Oltretutto un modo per assicurare il finanziatore, Angelo Rizzoli. Rose scarlatte diviene così, non solo il primo film di De Sica regista,
ma anche il primo di una serie in cui è stato arduo, se non impossibile, quantificare il suo intervento nella cabina di comando: film, codesti, dove
il nome di De Sica regista non appare nei titoli di testa, sebbene si sappia — o si dica — che ha partecipato alla loro realizzazione. A chi attribuire, quindi, Rose scar/atte? Meglio, in qual modo dividere il rispettivo contributo, tra Amato e De Sica? De Sica dirà che si erano
divisi salomonicamente i compiti: Amato avrebbe accudito agli obblighi marcatamente tecnici (movimenti della cinepresa, suggerimenti al direttore delle luci, ecc.), mentre De Sica si sarebbe occupato della recitazione. L’attrice Luisella Beghi, che v’interpretava una particina, assicura invece che non c’era tra i due una precisa divisione di compiti. Luisa Alessandri, che allora lavorava con Amato e che, da / bambini ci guardano in poi, sarebbe divenuta l’inamovibile aiuto-regista di De Sica, assicura che costui fin d’allora appariva padrone del mestiere, in grado di svolgere a tutto campo i suoi compiti. D'altra parte, non si può non tener conto che De Sica, per il suo debutto, aveva scelto un film di genere e i film di genere nascondono, più che rivelare, la personalità del regista: tendono intenzionalmente ad apparire anonimi, «opere di bottega». Va pure considerato che De Sica, in questa sua prima prova, si muove su binari quanto mai sicuri: il genere comicosentimentale, che in quel momento costituisce, nel bene e nel male, la spina dorsale del cinema italiano; una commedia di successo, scritta da Aldo
De Benedetti, Due dozzine di rose scarlatte, che lui stesso, nel 1936, aveva tenuto a battesimo con la compagnia formata insieme a Giuditta Rissone,
la sua prima moglie, e Umberto Melnati; la riduzione della commedia per lo schermo curata dallo stesso De Benedetti, allora lo sceneggiatore/ jolly del nostro cinema, il più richiesto dai produttori, insieme ad Alessandro
De Stefani. i Rispetto agli attori che avevano portato la commedia sulla scena, il film presenta una unica, sostanziale variante: il ruolo della protagonista, 21
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tenuto a teatro dalla Rissone, è affidato a un’attrice francese, Renée SaintCyr, nome d’arte di Marie-Louise Lautner, madre nel regista Georges Laut-
ner, noto per alcuni po/er dotati di un certo humour. Dopo avere interpretato una sessantina di parti nel cinema e una quarantina in teatro, dopo avere scritto cinque libri, nonché pilotato aerei e vetture da corsa, la Saint-
Cyr scriverà nel 1990 un libro di ricordi autobiografici, Ex toute mauvaise foi, con alcune pagine sul suo soggiorno romano. Ma non offrirà nuovi lumi sulla entità e la qualità del lavoro di De Sica regista: preferirà dilungarsi sulle passeggiate che i due facevano insieme, finita la giornata lavorativa, nei rioni della vecchia Roma, durante le quali il regista si sarebbe lamentato delle pastoie in cui era costretto a muoversi. Ma sembrano ricordi viziati dal senno di poi: De Sica indica i ragazzetti straccioni che popolano i vicoli; confessa che sarebbero quelli i personaggi che vorrebbe portare sullo schermo. Troppo presto perché egli abbia già in mente qualcosa di simile a Sciusc4. In definitiva, le impressioni più attendibili su De Sica, colte durante il suo primo lavoro dietro alla cinepresa, rimangono quelle offerte dall’anonimo cronista che nel quindicinale «Cinema» del 10 febbraio 1940 pubblica un servizio sulla lavorazione del film. «Sarà finito» — scrive — «senza che una volta abbia alzato la voce... De Sica si solleva leggero dal divano, va nel campo d’azione, si sostituisce agli attori mostrando loro come deb-
bono muoversi e atteggiarsi, mormorando appena la loro battuta...». Amato retrocesso al ruolo di factotum; De Sica già pronto a dare indicazioni tecniche; il suo caratteristico metodo di condurre gli attori,
metodo che egli seguirà per il resto della vita. «Un regista in sordina», lo definisce il servizio. Evidentemente De Sica, fin dal primo passo, non si lascia trascinare dal desiderio; avanza adagio, per farsi le ossa e attendere
tempi migliori.
La prudenza è pure il distintivo dei tre film successivi, girati fra il 1940 e il 1941, sempre col timore di fare il passo più lungo della gamba, attento a non uscire dal seminato dei generi, ma lavorando all’interno dei codici in vigore. Il suo obiettivo pare quello di migliorare i risultati raggiunti dai registi più anziani ed esperti di lui: i Bragaglia, i Mattoli, lo stesso Camerini che passa per suo tutore e maestro. Nell’ordine: Ma44glena zero in condotta, Teresa Venerdì, Un garibaldino al convento; tre film ap-
partenenti al filone delle «fanciulle in fiore», assemblate in un 457/272 di
volta in volta diverso (un ginnasio femminile in Maddalena zero in condot-
ta; un orfanotrofio in Teresa Venerdì, il collegio retto da un ordine religio-
so in Un garibaldino al convento); un filone che si vuole nato nel 1934 con Seconda B di Goffredo Alessandrini e che proprio con Maddalena zero in condotta ttova motivo per il proprio rilancio. 22
GLI ESORDI: AVANTI ADAGIO, CON PRUDENZA
Il cinema italiano del 1940 ha una struttura simile a quella delle matréski,
i bambolotti russi fatti a scatola, in modo da stare uno dentro
l’altro. Il filone delle «fanciulle in fiore» sta dentro il genere comicosentimentale, che a sua volta rappresenta il volto d'epoca della commedia italiana, megagenere o, se vogliamo, muro portante dell’edificio della nostra cinematografia dagli anni Trenta agli Ottanta, con una unica soluzio-
ne di continuità nella seconda metà degli anni Quaranta, durante i quali
nel consumo popolare prevale il melodramma in tutte le sue forme, anche in quella di opera lirica filmata. Il genere comico-sentimentale, com’è noto, è passato alla storia sotto la sineddoche dei «telefoni bianchi». L’usare
come sineddoche un apparecchio domestico, trasformato in oggetto di arredamento d’un certo lusso, era una trovata felice per indicare contemporaneamente le due caratteristiche salienti della produzione media: un cinema segnato più dagli ambienti che dai personaggi, ambienti invivibili che parevano portati di peso sul set dalla vetrina di una esposizione fieristica. Il tutto determinava un tale senso d’irrealtà da rendere necessario attutirlo,
immaginando vicende che si svolgevano all’estero, preferibilmente in Ungheria, se non addirittura in paesi immaginari. Altri due elementi contribuivano a fare uscire i «telefoni bianchi» dai nostri confini: la frivolezza dei personaggi e delle loro vicende, una frivolezza poco consona all’austerità del tempo di guerra, e l'origine mitteleuropea di questo cinema d’intrattenimento, quasi un genere d'importazione. Motivi di censura, quindi, che trovavano una scappatoia d’ordine per così dire storico. E che l’estero, l’«altrove», coincidesse in prevalenza con l'Ungheria, dipendeva dal fatto
che quasi sempre quei film erano ispirati alla letteratura amena e al teatro
leggero magiari, se non addirittura a pellicole preesistenti, realizzate a Budapest da registi locali. De Sica s'inserisce nella corrente, procedendo in punta di piedi, senza dare troppo nell’occhio. Quasi nessuno nota, infatti, che il nuovo artrivato, al contrario dei suoi compagni di cordata, ambienta in Italia le «commedie all’ungherese» da lui dirette. Non solo: reintroduce pure le inflessioni dialettali nei dialoghi; in alcuni casi il dialetto vero e proprio, sebbe-
ne il fascismo lo avesse bandito per offrire dell’Italia una immagine più omogenea. Era invalsa la consuetudine un po” piratesca di celare nei titoli l'origine dei testi cui le «commedie all’ungherese» si ispiravano. Anche i primi film di De Sica non si sottraggono a questo malcostume. I titoli di
Maddalena zero in condotta non includono neppure la voce «sceneggiatura». Parlano solo di «riduzione cinematografica» di tal Ferruccio Biancini. Ma si guardano bene dallo specificare quale sia il testo ridotto per lo schermo. Dietro al film, si verrà a sapere parecchio tempo dopo, sta una com23
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media dallo stesso titolo, Magd4t Kicsapyék, dello scrittore ungherese L4-
szl6 Kadar. E ci sta pure un film del 1935, realizzato negli studi di Budapest da Laszl6 Vajda, figlio di un altro L4sz16 Vajda, scrittore che si era tra-
sferito in Germania dopo la caduta della Repubblica dei Consigli, divenendo lo sceneggiatore di fiducia di Georg Wilhelm Pabst. Dunque Maddalena zero in condotta sarebbe da considerarsi a rigore un remake. Ma il film cela furbescamente la sua origine magiara. De Sica non ha problemi ad ambientare in Italia la vicenda. Al contrario, accentua
la italianità dei personaggi, impiegando uno stuolo di debuttanti dalle voci non educate all’esperanto della recitazione «leggera» e, fatto inaudito in un'epoca nella quale la presa diretta è di rigore, doppiando l'attore Giuseppe Varni, che interpreta il ruolo del bidello, nientemeno con Aldo Fabrizi, in modo da introdurre un po’ di romanesco verace. Il «migliorismo»
di De Sica si ferma però di fronte agli ambienti: la scuola sembra un collegio di lusso, sebbene vi si insegni scrittura commerciale, come se alle facol-
tose allieve fosse riservato un futuro di contabile. Il metaforico «telefono bianco» perciò sopravvive, ma resta confinato nello sfondo e nel meccanismo della storia. I personaggi, invece, cercano per quanto è loro possibile di uscire dalle convenzioni del genere. La convenzione prima risiede nella commedia degli equivoci, piccoli o grandi a seconda di come li si giudica: un equivoco tira l’altro, come le ciliegie; è il topos che il «cinema bianco» si trascina dietro dalla sua nascita e che De Sica si guarda bene dall’eliminare. La vicenda è quella che è e non offre molti margini al regista per dispiegare il proprio nascente talento. Perciò si concentra soprattutto sugli attori, cioè sul terreno che gli è più familiare. Ed è proprio su questo terreno che egli riesce subito a distinguersi dagli altri registi impegnati nel genere comico-sentimentale. A cominciare dalla loro scelta. Un Max Neufeld, per esempio, non ci avrebbe pensato su due volte a riproporre per intero il cast del fortunatissimo Assenza ingiustificata, dove avevano consolidato la loro popolarità Nazzari e la Valli, mentre si era messa per la prima volta in luce Lilia Silvi. De Sica, invece, inaugura qui la pratica che sarà poi la sua prediletta: la ricerca di volti nuovi, senza precedenti professionali, ma-
terie da modellare secondo le proprie concezioni del mestiere. Nella fattispecie fa debuttare due allieve del Centro Sperimentale di Cinematografia (Carla Del Poggio e Paola Veneroni), che avevano appena varcato la soglia dell'istituto di via Tuscolana; la figlia di un diplomatico polacco (Irasema
Warszalowska, che prenderà il nome d’arte di Eva Dilian, per divenire nei film successivi Irasema Dilian); la figlia, Vera, di Karl Bergman, ex amba-
sciatore tedesco a Parigi. Forse stiamo spendendo troppe parole per un film certamente mino24
GLI ESORDI: AVANTI
ADAGIO, CON PRUDENZA
re, nei confronti del quale, oltretutto, il tempo non è stato galantuomo.
Nei primi anni Quaranta, però, Maddalena zero in condotta ebbe una importanza suo malgrado, al di sopra dei suoi eventuali meriti. Rilanciò un filone, condizionandone nel bene e nel male le future espressioni. Fu un vivaio di nuovi talenti, sebbene si muovesse su convenzioni ormai logore. In ogni caso, la prudenza di De Sica aveva pagato: i produttori non potevano ignorare il suo successo popolate; il suo potere contrattuale appariva di conseguenza notevolmente accresciuto. Difatti, non deve attendere a lungo per dare il primo colpo di manovella al film successivo, Teresa Venerdî. Tra i vari debutti tenuti a battesi-
mo da De Sica nel corso della sue prime regie, il più rimarchevole resta probabilmente quello di Adriana Benetti, ragazza della provincia di Ferrara, giunta a Roma per frequentare anche lei il Centro sperimentale, prelevata dal regista dopo avere frequentato il primo dei due anni di corso. De Sica la prende dopo due provini, cosa che con le precedenti debuttanti si era rifiutato di fare. Non che si sia convertito al rito: non lo farà mai, così
come si rifiuterà fin che potrà di scegliere attraverso concorsi nazionali, che soprattutto allora andavano molto di moda. I registi che cercano il volto giusto, la figura giusta, per il personaggio che hanno in mente, vedi Amelio, sanno che attraverso questi procedimenti ottengono perlopiù delle risposte falsate: sanno che quel personaggio esiste in qualche luogo nella realtà; si tratta di trovarlo. Lo strappo alla regola per Adriana Benetti dipende dal fatto che i produttori non comprendono per quale ragione De Sica non intenda riutilizzare una delle ragazze così felicemente lanciate in Maddalena zero in condotta. Per tacitarli, offre loro il provino, pur avendo già deciso che sarà lei, Adriana Benetti, la protagonista di Teresa Venerdì. La Benet-
ti, fra tutte le «signorinette» fiorite in quegli anni, è quella che fa meno «telefoni bianchi». Ha un’aria casereccia che prelude al neorealismo prossimo venturo. L’anno trascorso al Centro non ne ha educato sufficientemente la pronuncia, che mantiene forti inflessioni emiliane. De Sica, anziché sforzarsi di toglierle, gliele accentua. E la prima trovata di genio della sua esperienza di regia, trovata che si rivela appieno nella soffitta dell’orfanotrofio, dove si svolge buona parte della vicenda, quando la protagonista, per dimostrare a una sua compagna di essere «figlia d’arte», s'aggrappa a una trave del soffitto e improvvisa uno «spettacolo d’impudicizia», come lo definiranno le rigide e incolte istitutrici. Vale a dire che si esibisce nella recitazione di testi classici o presunti tali, tra i quali delle «scene d'amore
di un certo Romeo» (sempre secondo la versione accusatrice delle istitutrici). Shakespeare in salsa emiliana, insomma, ma rappresentato con un equilibrio esemplare, senza scivolare nel macchiettismo, trasformando in pregi 25
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i difetti della debuttante. Nella sagra degli equivoci, cui partecipa a pieno
titolo anche Teresa Venerdì, De Sica inserisce una somma di elementi estra-
nei, preludio ai suoi futuri interessi: l’orfanotrofio, il cui composto squallore si distacca dall’irrealismo ambientale dei film consimili; Adriana Benetti; Anna Magnani. La futura eroina di Rozz4 città aperta, infatti, trova in Teresa Venerdì, nella folgorante caratterizzazione di Loletta Prima, vol-
gare soubrette, impegnata in un pidocchioso spettacolo di varietà, la prima occasione per esibire la propria identità di attrice. Sono i momenti, quelli della Magnani, così come quelli delia goffa recita «scespiriana» della Benetti, in cui i meccanismi del genere comicosentimentale vengono trascesi. Per il resto, invece, siamo tuttora ancorati
a quei meccanismi. Non cambia molto se in questo caso, anziché da una commedia ungherese, la vicenda è tratta da un romanzo, pur esso ungherese, di Rezsò Tér6k, romanzo che porta lo stesso titolo del film. Sebbene un romanzo, almeno in teoria, lasci maggiore libertà ai riduttori che non
un lavoro teatrale, la sceneggiatura, curata dallo stesso De Sica, insieme a Gherardo Gherardi, a Franco Riganti, alla olandese Margherita Daxhofer (che si firma Maglione), ad Aldo De Benedetti (costretto all’anonimato, perché ebreo) e a Zavattini (che gli dì una mano sottobanco), non ne approfitta per eliminare i luoghi comuni che infestano il genere. La pigrizia degli sceneggiatori si spiega pure col fatto che, invece di affaticarsi a inventare, hanno preferito tradurre per filo e per segno, adducendo pochissime varianti, il copione di Pentek Rezi, ossia della versione cinematografica del
romanzo di Tòròk, curata tre anni prima in Ungheria dal solito L4zsl6 Vajda e presentata alla Mostra di Venezia del 1938. Se il remake di Penzek
Rézi è migliore dell’originale, ciò va ascritto a merito della regia, non della seneggiatura. Il primo novembre del 1941 esce su «Film» un reportage di Mino Caudana (pseudonimo scelto dal giornalista Anselmo Jona per nascondere la sua origine israelita) sulla lavorazione in estenri a Frascati di Un garibaldi no al convento. De Sica ha stretto ancor più i tempi: Teresa Venersì non è ancora uscito sugli schermi. Quando, alla fine dello stesso mese, sarà fi-
nalmente programmato, troverà pochi recensori disposti ad apprezzarne le novità. Curiosamente, i più favorevoli si dimostrano alcuni di quei giovani critici che all’epoca usano tuonare contro i «telefoni bianchi». Sono i giovani che costituiscono il «gruppo di ‘‘Cinema’’», che iniziano a compiere il loro «lungo viaggio» dal fascismo all’antifascismo. De Sica non ne farà mai parte. Ma è da quel gruppo che gli verranno le maggiori soddisfazioni. Ci tiene di conseguenza a coltivarne l'amicizia; un'amicizia che non sarà de-
lusa da Un garibaldino al convento, sebbene il nuovo film sembri coniuga26
GLI ESORDI: AVANTI ADAGIO, CON PRUDENZA
re proprio i due filoni maggiormente aborriti dai critici suoi amici: quello delle «fanciulle in fiote» e quello definito formalista 0, in senso di spregio, «calligrafico».
In realtà, c’è qui un elemento che fa la differenza coi film preceden-
ti: il tema dell’45y/z77 non è più centrale, ma to di una vicenda più ampia, che si sviluppa garibaldina contro il Regno delle Due Sicilie. ziona, togliendone la patina di retorica che prattutto quando si affrontavano argomenti
si limita a essere il controcansullo sfondo della spedizione Si cala nella storia e la condiallora pareva inevitabile, sorisorgimentali.
Ciò rende diverso Un garibaldino al convento, non solo dai precedenti film di De Sica, ma dagli altri film italiani sin lì realizzati. Tant'è
vero che i riferimenti citati a suo proposito dalla critica più attenta riguardano film e autori stranieri: René Clair soprattutto, che allora godeva di altissima considerazione, eppoi La kermesse héroigue di Jacques Feyder, per la proprietà dei riferimenti pittorici. Inedita anche, per il suo tempo, è la costruzione narrativa. Il film si presenta come un lungo flashback, usa cioè uno strumento molto frequente nel cinema muto, quando non era difficile liberarsi dalla coniugazione del presente, ma raramente adoperato nella prima decade del sonoro, quasi mai in Italia (l’unico esempio che viene alla mente e che precede quello del film di De Sica, lo troviamo in La peccatrice di Amleto Palermi). Una vecchia signora porta le sue due nipoti a visitare un’amica che si fa attendere. Giunge su un’automobile primitiva, il che fa situare l’azione ai primi anni del secolo. Siamo in un’assolata cittadina meridionale. Il palazzo dove abita l'amica ha un’aria antica e sembra poco frequentato da altre visite. La stessa signora apre gli scuri, per dare luce al salone in cui ella e le due nipoti sono state introdotte. Una delle nipoti si avvicina a un quadro appeso alla parete e nota la bellezza della giovane ivi ritratta, l'amica della nonna. «Eravate molto amiche?», domanda, al che
la nonna risponde: «Amiche? Non ci potevamo soffrire!». Rapporti di classe: la famiglia della nonna, Caterina, apparteneva alla ricca borghesia meridionale; quella di Mariella, l’amica, alla nobiltà del luogo. La nonna por-
ta le due nipoti sulla terrazza: indica la casa di fronte, ora adibita a municipio, un tempo la loro. È qui che inizia il flashback. Il passato prossimo per gli spettatori degli anni Quaranta diviene passato remoto: il tempo della spedizione dei Mille. Il ritmo grave e lento delle prime battute si fa mosso,
quasi allegro, ritmato dal corno di caccia usato da Renzo Rossellini, l’autore delle musiche. La «commedia all’ungherese», già impallidita in Teresa
Venerdì, scompare del tutto. Il film ci racconta come la futura nonna Caterina, trasformata nella giovane, incontenibile Caterinetta (nel ruolo ritroviamo Carla Del Poggio, la Maddalena di Maddalena zero in condotta), 27
CALLISTO COSULICH
dopo una ennesima discolata che mette a repentaglio un pranzo ufficiale,
viene mandata nel collegio annesso al convento di Santa Rossana, dove strin-
gerà rapporti, prima conflittuali, poi d'amicizia sempre più feconda con Mariella (impersonata da Maria Mercader, l’attrice spagnola da poco residente in Italia, che diverrà la seconda moglie del regista), fino all’inopinato ingresso del garibaldino (Leonardo Cortese), inseguito dalle truppe borboniche. Mentre nella prima parte De Sica si attarda in pennellate descrittive su suore e collegiali, dal momento in cui entra in scena il garibaldino e il film dovrebbe sterzare verso toni avventurosi e, secondo logica, drammatici, la vicenda opera invece un capovolgimento in senso comico, che diviene satirico all'ingresso nel convento delle truppe borboniche in concomitanza con una recita offerta al governatore della regione. Passa in seconda linea l'avventura del garibaldino (tanto è scontato che si salverà); la stessa passione che insorge tra il fuggiasco e Mariella è raccontata in modo sommario (le storie d'amore non saranno mai l'argomento forte di De Sica); emerge invece — e in modo assai originale — lo sguardo sardonico, quasi sfrontato tenuto conto dell’epoca, che De Sica getta sulla ufficialità del convento, sugli accompagnatori del governatore, sul governatore stesso, che distribuisce con aria tronfia e sussiegosa elogi a dritta e a manca. La liberazione dell’Italia Meridionale è trasformata in un incredibile balletto di opportunisti, nel quale i garibaldini fungono da semplice tela di fondo. È anche qui che Ur garibaldino al convento si appaia a La kermesse héroigue, un film che tesse l’apologia della resa (e per questo sarà perseguito come invito alla diserzione e all’intesa col nemico, non appena esploderà il secondo conflitto mondiale). Giuseppe De Santis, recensendo il film sulle pagine di «Cinema», sottolineerà la sua «coralità». Tale «coralità» sottintende un concerto assai affiatato, risultato al cui raggiungimento non deve essere stata estranea la pretesa del regista di tenere sul set tutti gli attori, anche quando le battute non ne reclamavano la presenza. Inoltre, il metodo praticato da De Sica fin da Rose scarlatte di mimare personalmente tutte le parti, risulta evidente soprattutto con Achille Majeroni, attore teatrale, al quale il regista ha affidato il ruolo del governatore. Rivisto il film oggi, si ha la sensazione, invero allucinante, che il ruolo sia interpretato dallo stesso De Sica: il De
Sica degli anni Cinquanta e Sessanta, l’impagabile Seneca di Mio figlio Ne-
rone, ilmaître d’hotel di Vacazze d'inverno, il presidente dell'Ufficio internazionale della moralità di I/ 7z0ralista, soprattutto il sindaco di I/ vigi-
le, forse la parte che più si avvicina a quella del governatore. Su «Film» del 23 maggio 1942 Giuseppe Marotta, cui Ur garibaldi
no al convento non è piaciuto affatto, invita De Sica a «uscite una buona 28
GLI ESORDI: AVANTI ADAGIO, CON PRUDENZA
volta dal sillabario delle passioni», offrendo un «film di adulti». De Sica
gli risponde indirettamente sulle pagine di un opuscolo dedicato al cinema italiano, uscito poco dopo per le Edizioni di Documento. Altro che adulti, scrive De Sica: nel suo prossimo film i protagonisti non saranno delle giovani non ancora ventenni; sarà addirittura un bambino di cinque o sei anni. Sembra una provocazione: il passaggio dai collegi, dalle scuole, dalle sottane, ai pantaloni corti. Tuttavia egli si affretta ad aggiungere che la scelta non è dovuta solo a un particolare sentimento che lo spinge verso l'infanzia e la giovinezza, ma anche a un fatto puramente estetico, perché i volti prediletti sono quelli «senza cognomi»; come Anna, la figlia del portiere romano, che si è vista in Teresa Venerdì, «piccola, furba e deliziosa ladruncola di mela»; come Luciano, il figlio dell’operaio torinese, che è stato scelto
a protagonista di I darzbini ci guardano, «attore nato, d’istinto, con un senso eccezionale delle pause e un fresco, adorabile modo di dire la battu-
ta, senza nessun virtuosismo né lezio da fanciullo prodigio». «Se fosse possibile», conclude con accenti che sembrano già quelli del Zavattini degli anni Cinquanta, «mi piacerebbe scegliere i miei interpreti nella strada, tra la folla; vorrei che il mio protagonista fosse quel giovane il quale siede davanti a me nel tranvai o quella ragazza che conduce per mano un bambino e di tanto in tanto lo accarezza con gli occhi bellissimi, e quella vecchia donna scarmigliata che in questo momento sta leticando sull’uscio di quella bottega...». Di I dambini ci guardano si parla poco in quei mesi, sebbene il film sia prodotto dalla potente Scalera Film, la più forte società di produzione e distribuzione che operi in quel momento nel nostro paese, insieme alla Lux Film di Riccardo Gualino. Esattamente il contrario di quanto accade nello stesso periodo con Ossessiore, il film coevo di Luchino Visconti, evi-
dentemente sostenuto da un formidabile ufficio stampa. Dopo Ur garibaldino al convento, partito da un soggetto originale di Renato Angiolillo, futuro direttore di «Il Tempo» e acerrimo nemico del De Sica neorealista,
si torna a pescare in un’opera letteraria preesistente: il romanzo Precò di Cesare Giulio Viola, edito negli anni Venti dai Fratelli Treves. Alla riduzione del testo lavorano lo stesso Viola, Adolfo Franci che lo ha suggerito al regista, i soliti Gherardo Gherardi e Margherita Maglione. Memore del contributo decisivo, datogli clandestinamente in occasione di Teresa Venerdî, De Sica chiama anche Zavattini, costringendolo a uscire allo scoperto. L'’ammucchiata degli sceneggiatori non regge alla prova: troppo diversi sono i punti di vista dei vari collaboratori. De Sica, anziché mediare, sce-
glie. Con grande intuito affida a Zavattini la responsabilità della stesura
definitiva. Zavattini inventa anche il titolo, I ba72birt ci guardano, che di29
CALLISTO COSULICH
verrà poi il sottotitolo del romanzo, ripubblicato nel 1943 da Mondadori, in vista della uscita del film. La Scalera che, come la Lux Film, ha una succursale a Parigi, darà
alla versione francese del film il titolo La fante d'une mere. Pare trattarsi di un melodramma popolare. In verità, esponendo nuda e cruda la vicenda, sembra davvero di essere davanti a un fezi/leton 0 a qualcosa di simile:
la storia di un bambino intelligente e sveglio, tanto vero che lo chiamano
Pricò, vezzeggiativo di «precoce», il quale assiste impotente allo sgretolamento della propria famiglia, minata dalla relazione adulterina della madre. Con un finale quanto mai tragico: il padre suicida; Pricò accolto in un istituto religioso; la madre che vorrebbe riprenderlo, ma non ci riesce,
poiché il bambino ha capito tutto, la ritiene responsabile del suicidio paterno, preferisce rimanere nel collegio dei preti. «Eppoi s'incontrano uomini che a vent'anni pare ne abbiano cento», conclude moralisticamente il
romanzo. Eppure, vedendo il film, non c’è una scena che sappia di 7240. Il romanzo è rispettato alla lettera. L'origine bottegaia, piccolo borghese, della famiglia di Pricò è la stessa immaginata dal Viola. Il copione non scarta neppure l’unica scena onirica del romanzo: nel treno che riporta a Roma Pricò febbricitante, dopo il soggiorno in campagna dalla nonna paterna. C’è però una ferocia inusitata nella descrizione dei rapporti interpersonali: una ferocia tranquilla, assolutamente inedita per l'epoca, ma rara a trovarsi
anche negli anni a venire del cinema italiano. È costume indicare in I 2472bini ci guardano, così come in Ossessione, la premonizione della fine di un'epoca. In realtà, il film di De Sica, girato nell’estate del 1942, quando
Mussolini sperava ancora di entrare in Alessandria in groppa a un cavallo bianco, quando Hitler era convinto che la caduta di Stalingrado fosse questione di giorni, quando Galeazzo Ciano annotava nel suo diario come Roma si vuotasse per Ferragosto, la gente volesse divertirsi e dimenticare la guerra che, del resto, si svolgeva lontanissima dai confini patri; I Sarzbini ci guardano, dicevamo, non s’interessava, né direttamente, né trasversal-
mente del momento storico vissuto dall'Italia. Se vogliamo individuare un modello, lo dobbiamo cercare in un vecchio film di Camerini, uscito nel
1933 (e rifatto piuttosto male nel 1943): T'azzerò sezzpre con Elsa De Giorgi, Nino Besozzi e Mino Doro; un dramma borghese con descrizione altrettanto impietosa dei personaggi. Ugualmente improbabile è l’asserzione, secondo la quale, nel descri-
vere la crisi dei genitori di Pricò, De Sica non avrebbe fatto che riflettere
la sua propria crisi coniugale, particolarmente acuta in quei mesi. De Sica è stato sempre un narratore oggettivo: attento agli altri, al punto di dimen30
GLI ESORDI: AVANTI. ADAGIO, CON PRUDENZA
ticare se stesso. Qui la visione soggettiva, quando c’è, è quella del bambi-
no: una visione che gli adulti vorrebbero proibire. Pricò oltrepassa spesso e volentieri i limiti che gli adulti sono disposti a consentirgli. Quando sta per scoprire i segreti del mondo adulto, viene rimproverato e allontanato dai genitori, dalle zie, dalla nonna, persino dal prestidigitatore di Alassio che gli ordina, sibilando, di «smammare»,
perché gli si è avvicinato trop-
po, mentre sta svolgendo il numero delle colombe. Frutto di meriti intrinseci, che non debbono nulla a nessuno, sono le prime note realistiche, o neorealistiche che dir si voglia, introdotte nel contesto: la riunione del condominio; la canzone «Maramao perché sei morto, pane e vin non ti mancava...», trasmessa da una invisibile radio, mentre il papà di Pricò provvede a togliersi la vita. 9 ottobre 1943: Roma vive i mesi dell’occupazione tedesca. La produzione è ferma. Gli occupanti hanno razziato Cinecittà, spedendone le
attrezzature tecniche in Germania. I fascisti repubblicani non hanno ancora aperto la succursale di via Tuscolana a Venezia, il cosiddetto «Cinevillag-
gio». In questa situazione esce su «Film» il seguente trafiletto: «Una notizia
pet i pessimisti: il 20 ottobre avranno inizio le riprese del film La casa dell'angelo sotto gli auspici del Centro Cattolico Cinematografico e per l’iniziativa di un coraggioso industriale marchigiano, Corrado Conti. La casa
dell'angelo è tratto da una vicenda di Pietro Bargellini, e verrà realizzato sullo sfondo del grande santuario di Loreto». Seguono quattro domande a Bargellini con le relative risposte. Sotto, le foto dei quattro interpreti: Roldano Lupi, Carlo Ninchi, Marina Berti e Maria Mercader. Nessun cenno al nome del regista. Maria Mercader racconta che, a dirigere il film, era stato invitato Esodo Pratelli, funzionario della Direzione generale dello spettacolo addetto alla censura e regista part #177ze. La Mercader s’impunta: vuole De Sica, altrimenti si ritira dal cast. La produzione cede alle insistenze dell'attrice. De Sica dal suo canto accetta, ma vuole fare il film a modo suo.
Per prima cosa chiama a sceneggiarlo il suo solito staff, con in testa Zavattini, pescato a Boville, località sita a cento chilometri da Roma, dove lo scrit-
tore è sfollato. Nessuno ricorda esattamente l’iter preciso di questo film che, strada facendo, cambia titolo e diviene La porta del cielo. Certo è che, prima di firmare la bozza definitiva del contratto, De Sica viene convocato da Fer-
nando Mezzasoma, ministro della Cultura popolare nella Repubblica di Salò, che gli chiede formalmente di trasferirsi a Venezia e prendere in mano le
redini della cinematografia che sta nascendo in laguna. La necessità di evitare questa jattura, accelera i tempi dell’inizio di lavorazione di La porta
del cielo: col Vaticano alle spalle, nessuno pretenderà che egli si trasferisca 31
CALLISTO COSULICH
a Venezia. Difatti Mezzasoma abbozza e il film può iniziare. Ora non c'è più bisogno di tempi stretti. Anzi, più le riprese durano, meglio è. La lavorazione si protrae per mesi, sino al giugno del 1944, alla cacciata dei tedeschi da Roma. Nel frattempo La porta del cielo è divenuto un d// actors film. Vi partecipano i più bei nomi del cinema italiano per evitare così il rischio di un trasferimento al Nord. Oltre agli attori nominati da «Film», vi troviamo Massimo Girotti, Giovanni Grasso ed Elli Parvo. E la prima volta che De Sica si trova a dover dirigere attori di tale carisma. Non per questo, però, egli rinuncia a scoprire nuovi volti. Invece di trovare la ennesima «fanciulla in fiore», questa volta sceglie una vecchina, Elettra Druscovich, cui affida uno dei ruoli principali. Una particina di sfondo viene assegnata al suo ex aiuto Vittorio Cottafavi, che aveva già diretto, si dice facendo tesoro
dei consigli del maestro, il sorprendente I z20str7 sogni dalla commedia di Ugo Betti. C'è anche un bambino, anonimo stavolta, anche perché Lucia-
no De Ambrosis, il Pricò di I bambini ci guardano, è finito a Venezia.
La porta del cielo è girato per intero nella Basilica di San Paolo, ridotta per l'occasione a un bivacco. Alcune immagini di Loreto vengono inviate dalle Marche: materiale di repertorio della Film Conti di Senigallia, la società di quell’industriale che «Film» aveva definito «coraggioso». Il film è stato preso in mano dall'architetto Salvo D’ Angelo, il futuro produttore
di Fabiola e di La terra trema. La presenza di un bambino anonimo e della vecchia Druscovich sta a dimostrare che anche in questo film «di convenienza», come lo ha definito Zavattini, De Sica non ha rinunciato al suo metodo. Almeno fin dove
ha potuto. Oltretutto i vecchi, da Teresz Vererdì in poi, hanno fatto spesso da controcanto alle adolescenti e ai bambini. Si pensi alla curiosa Suor Ciabatta, guardiana del convento dove si svolge la vicenda del Garzba/dino... Ma non è solo questo particolare che rende importante La porta del cielo, a dispetto delle condizioni di emergenza in cui è stato realizzato. Il nuovo film si presenta come il ponte che lega I bamzbini ci guardano a Sciuscià, il vecchio al nuovo corso, la prima alla seconda stagione di De Sica: quella del neorealismo. La vicenda è incentrata su un pellegrinaggio a Loreto. Il luogo dell’azione è per buona parte del film il treno che porta i malati al santuario marchigiano nella speranza di un miracolo che li guarisca: un «treno del dolore», popolato da una umanità sofferente, ma descritta senza pietismo.
Anche la funzione finale, nella basilica loretana, è resa con grande discrezione. Il miracolo è ipotizzato; ma è un miracolo che agisce sulle anime anziché sui corpi, sulla rassegnazione anziché sulla guarigione. Inoltre, ci 32
GLI ESORDI: AVANTI ADAGIO, CON PRUDENZA
sono almeno due sequenze che appartengono già a pieno titolo alla stagione futura. La prima è la descrizione del suburbio dove vive il giovane handicappato che Maria Mercader porterà a Loreto. Scene simili non si erano mai viste in precedenza nel cinema italiano: siamo già nel clima dell’im-
mediato dopoguerra, quando le cineprese cominceranno a rifrugare tra le macerie morali e materiali delle nostre città. La seconda è un breve sketch, di una violenza senza pari, tra l’altro avulso dall’insieme delle storie personali sulle quali la vicenda si sofferma. Il treno per Loreto si arresta a una delle stazioni intermedie e viene affiancato da un altro convoglio. Nel primo c'è un malato disteso in barella; nel secondo un signore grasso, che sembra
uscito dalla penna di Grosz, colto nell’atto di abboffarsi in vagone ristorante. I due si guardano da dietro i rispettivi finestrini. Il signore grasso fa un gesto ipocrita, di circostanza: scuote il capo come per fare intendere al suo dirimpettaio che è dolorosamente partecipe della sventura in cui è incorso. Poi, visto che il malato non smette di fissarlo e che lo sguardo turba la consumazione del suo lauto pasto, abbassa la tendina. Scenetta acutissima, dove c’è già tutto il migliore De Sica degli anni a venire. Va segnalata pure la conduzione degli attori celebri, diretti tutti con sicurezza, talvolta ricercando espressioni inedite, mai viste nelle precedenti
rispettive interpretazioni. Resta impressa specialmente la interpretazione di Massimo Girotti, operaio accecato da un compagno di lavoro (Carlo Ninchi) che ha provocato un «incidente bianco» per motivi di gelosia. Poi il compagno infido si è pentito e lo ha voluto portare a Loreto nella speranza che la Madonna gli ridia la vista. Girotti, sotto la guida di De Sica, riesce a evitare tutti i c/ec4é degli attori che si atteggiano a ciechi: nasconde il suo tormento sotto un eterno sorriso che rimane impresso come una 1724ge de marque. Quando gli alleati entrano in Roma, il 5 giugno 1944, De Sica è ancora nella Basilica di San Paolo a girare o a far finta di girare. Lascia la chiesa ridotta in condizioni pietose e monta il materiale ripreso nel giro di pochi giorni. Ma il film stenterà a uscire, così come I bambini ci guardano,
travolto dalla nuova situazione, che vede il mercato italiano sommerso da pellicole nordamericane, nuove e vecchie, talvolta neppure inedite, poiché i nostri spettatori vogliono non solo recuperare gli anni perduti, ma anche rinverdire i loro migliori ricordi. Non è più tempo di «telefoni bianchi» ma non è neppure quello del prodotto italiano, o europeo, di qualità. I bambini ci guardano e La porta del cielo restano perciò travolti e penalizzati dalla catastrofe generale. Con un destino ancor più triste dei
Veprecedenti. Poiché Rose scarlatte, Maddalena zero in condotta, Teresa nerdì e Un garibaldino al convento bene o male hanno beneficiato di un 33
CALLISTO COSULICH
quarto d’ora di popolarità, mentre lo stesso non è accaduto coi due film successivi: due film essenziali in una evoluzione che, assenti loro, sarebbe
parsa troppo brusca, non in sintonia con la prudente ascesa dell’autore.
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«Durante la prigionia di Roma, lottando contro difficoltà di ogni genere, uomini del cinematografo italiano realizzarono questo film sospinti dal desiderio di servire, con l’arte, la fede cristiana».
«L'‘‘’Osservatore Romano”’»? «No, il ‘‘Corriere dei Piccoli’’». Mettiamo subito a confronto queste parole, la didascalia che compare all’inizio di La porta del cielo e lo scambio di battute tra il giornalaio e uno dei pellegrini sul treno in viaggio verso Loreto. Non ci vuole molto ad accorgersi che l'operazione Porta del cielo, come era stata concertata tra il Vaticano e la produzione Orbis di Salvo D’ Angelo, ha trovato «uomini del cinematografo italiano» sospinti da desideri abbastanza contraddittori. Si potrebbe attribuire questa resistenza laica alla presenza di sceneggiatore di Zavattini, o più in generale al clima dell’epoca, che riteneva di poter giocare liberamente dei tiri ai nuovi committenti, così come in pieno fascismo Camerini e Soldati accettarono di fare I/ grande appello per poter rompere il disco di «Giovinezza». Più propriamente il laicismo appare un carattere fortemente legato, sin dagli inizi, alla regia desichiana, e il momento di maggior fascino e insieme di maggior comicità quasi surreale è la lunga inquadratura di Ur g4ribaldino al convento in cui i tre resistenti cantano l’Inno di Mameli accanto alla statua muta della Madonna. Ma, oltre le inquadrature o le sequenze svelatrici, è lo stesso ingresso nella mise-en-scène dell’attore De Sica a realizzare un capovolgimento immanente rispetto agli impulsi trascendenti delle regie anni Trenta-Quaranta. Già dentro il cinema cameriniano la presenza corporea di De Sica, nel suo porsi come oggetto privilegiato di sguardo per lo stesso Camerini, trattiene il suo cinema in un campo (certo affascinante) da cui successivamente Camerini seguirà altri percorsi, senza perdere in forza
di convinzione (a differenza di quanto io stesso fui portato a pensare occupandomi un quindicennio fa di Camerini). Il rapporto più distante tra la regia cameriniana e le nuove presenze di Cervi, Nazzari ecc. (come già fu 53
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il caso per Besozzi) apre la sua filmografia a film che oggi ci appaiono di splendida verità, da I promessi sposi a La figlia del capitano a Ulisse. I Ciò avviene in un’epoca del cinema italiano in cui anche altri autori, Rossellini, Genina, Blasetti, coniugano il proprio cinema con interessi reli-
giosi che, all’epoca, furono visti come manifestazioni di una volontà di pre-
senza cattolica dentro il culturalmente vincente stile neorealista. Al punto che potrebbe apparire una manifestazione di questo gioco di schieramenti
la proliferazione, nei film De Sica-Zavattini, di ironie verso le presenze re-
ligiose: le gag coi pretini e l’inseguimento alternato alla cerimonia in Ladr: di biciclette, altri buffi preti e monache in Stazione Termini, lo stesso di-
stornamento di concetti religiosi nei titoli di Miracolo a Milano e Il giudizio universale. La cosa, come si vede, prosegue negli anni, e anche in Zerz
oggi domani troveremo un mezzo tiro blasfemo giocato con un finto prete,
per non dire del sacramento trasformato in Mazrizzonio all'italiana. Si potrebbe legare questa intensificazione a quella della collaborazione zavattiniana, che indubbiamente avrà agito, come provano anche le sue sceneggiature per altri registi: per tornare a Camerini valga il titolo di L'angelo e il diavolo e l’accentuazione in chiave laicista di Suor Letizia, in questo caso anche ad opera della Magnani. Sarebbe però superficiale spiegare (anche in questo) De Sica con Zavattini, o con una volontà di schieramento che De Sica sembrava anzi portato ad attenuare, nella sua stessa partecipazione a progetti minori (fino alla dispersa presenza in Piccoli mzîracoli, il brutto remake americano di Peppiro e Violetta, che è paradossalmente il film preferito da John Ford a tutti i prodotti neorealisti). In realtà nel cinema di De Sica agisce un forte impulso della fisicità immanente: che dovrebbe costituirsi centro di un’inquadratura, o di un film, anche senza farsi pienamente corpo, e fa parte della cultura d’attore di De Sica, e non può non legarsi, nelle vicende della vita e del cinema,
all’invecchiamento che si sente avanzare. Questo può agire fortemente anche in altre filmografie, e nuovamente evocheremo quella di Camerini. Ma, nel caso di De Sica, l’invecchiamento è innanzitutto ciò che agisce, con cie-
ca determinazione, s2/ suo cinema, a cui resteranno col tempo sprazzi di grande maestria, improvvise padronanze e impulsi rivolti al singolo film, o a certe presenze (la coppia Loren-Mastroianni), o abbandoni di tenerezza (Lo chiameremo Andrea), ma in una generale vacuità di visione (dunque di passione) così lontana da chi aveva realizzato un film dal titolo J dazzdini ci guardano. Questa filmografia si concluderà con un film che, pur intitolandosi Il viaggio, nulla fa avvenire, muovere, vivere, se non l’accettazione di un senso di morte esorcizzato in universale simulazione. Certamente,
quando Camerini aveva giocato sulle simulazioni e gli sdoppiamenti di De 36
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Sica (fino alla tarda apparizione in quel film pur triste che è Jo nor vedo tu non parli lui non sente — e chissà perché i titoli, chiunque li abbia decisi, finiscono sempre col dire qualcosa) non poteva pensare a un destino così
tiranno, e non a caso il suo ultimo film, pur da vecchio, è di tutt'altro sen-
so. Questo «viaggio» desichiano svela invece lo scheletro di quella zona «neorealista» della sua filmografia in cui, realizzando capolavori o comunque
film molto vitali, si affermava con crescente decisione una realtà claustrofo-
bicamente negata alle fughe: anche metaforicamente in Scizscià, con sublime contraddizione nel percorso immobilizzato di Ladri di biciclette, con purtroppo accentuata metaforicità in Mirzcolo a Milano, con totale consapevolezza immanentistica in Urzderto D., con una grande capacità di in-
trecciare questa raggiunta consapevolezza d’autore con le simulazioni di St4zione Termini e di L'oro di Napoli. Pensando all’esito ultimo della filmografia, si sarebbe portati a dar ragione a quanti non aderirono all’entusiasmo e ad approvare la presa di distanza dell’epoca classica dei «Cahiers» rispetto all’adesione baziniana. Tuttavia non s'ingannava Orson Welles nel richiamare alla consapevolezza della grandezza desichiana, non casualmente spinta dalla medesima coazione a racchiudere nello spazio dell’inquadratura tutto l’esistente. E ad essa che si intreccia l’analiticità che Bazin vide nel procedimento della re-
gia desichiana, senza abbandonarsi al generico umanitarismo su cui la critica cattolica francese basava l’entusiasmo per il maestro «medio» del neorealismo. Ad una odierna, migliore, conoscenza della filmografia desichiana
quell’aureo periodo neorealista non può più apparire come un centro preceduto e seguito da periodi ugualmente minori. Se negli anni posteriori è un indebolimento a farsi sentire, nel periodo iniziale (di cui purtroppo personalmente non conosco l’esordio registico con Rose scarlatte) non assistiamo soltanto a variazioni cameriniane seguite da un «capolavoro preneorealista» e da un film commissionato (e poi occultato) dal Vaticano, come
schematicamente si è ricostruito molte volte. Quel periodo iniziale percorre invece con la massima vitalità, avendo alla base la fisicità d’attore desichiana rovesciatasi in sguardo, tutte le pulsioni di mise-en-scène che si racchiuderanno nell’immanenza claustrofobica dell’epoca neorealista. I viaggi partono già da luoghi chiusi, oppure in essi irrompono delle presenze (prima delle lettere, poi l'apparizione dello stesso De Sica in Maddalena
zero in condotta: in quest'epoca di «apparizioni» si confronti quella di Nazzati
nel film omonimo di De Limur). Ma questi luoghi chiusi e queste negazio-
ni di fuga vengono assunti da una grande tensione, mai chiusa, di mise-en-
scène. Si potrebbe essere tentati di riportare lo splendore stilistico di La porta 57
SERGIO GRMEK GERMANI
del cielo alle perfomance fotografiche di Aldo Tonti, oppure attribuire al solo Alberto Fusi il raddoppiamento tra interni ed esterni nel viaggio in carrozza del Garibaldino, che è uno dei grandissimi momenti di cinema in assoluto, degno (nella distanza) dell’uso dei trasparenti in Hitchcock. Queste ipotesi possono rendere giustizia a quel «secondo autore» che è spesso fondamentale nel cinema italiano ed è il direttore della fotografia: Tonti è senz'altro un grande tra questi «secondi autori», (è dal terreno della fotografia nascerà uno dei grandi registi del cinema italiano, Mario Bava). Tuttavia nella filmografia di De Sica assistiamo ad un accentuato ricambio nei direttori di fotografia, e prima della zona G.R. Aldo, che coincide con la
chiusura claustrofobica che va da Miracolo a Milano via Umberto D. a Stazione Termini, ogni film ha un diverso operatore. Sicché questo libertino accoppiarsi ad un secondo sguardo da parte di De Sica appare sintomatico. Il cosiddetto apprendistato registico di De Sica ci appare dunque oggi come il momento di massima esaltazione delle sue pulsioni di mise-enscène. Non è questione di épafer qualcuno sostenendo l’inferiorità dei capolavori neorealistici, che capolavori, invece, sono veramente, ma di co-
gliere nei film che li precedono quella maggior apertura (in senso letterale) che conduce a quello che è probabilmente il miglior film di De Sica regista, quella Porta del cielo rimasta a lungo quasi preclusa alla visione, per cui il destino del film si intrecciava a quello del suo set sospeso dentro gli eventi storici e all’azzardata operazione produttiva su cui si basava. La Orbis di Salvo D’Angelo è la fase preistorica della Universalia, come la realizzazione di questo film si situa nella preistoria dell’epoca neorealistica, in quel periodo ignorato del cinema italiano in cui si intravede una grande vitalità, sospesa tra l'estinzione e i prolungamenti della dispersione di Salò e le prime prove cinematografiche, ribelli alle codificazioni, dell’Italia liberata. Un’epoca in cui nascono film dalla bizzarria spesso emozionante, dal cupo Longanesi recuperato in Vivere ancora al solare Gallone di I/ canto della vita. Film spesso destinati a non essere finiti, o a non essere proiettati, o a andare perduti, o ritrovati molto precariamente (e purtroppo anche distrattamente) a distanza di anni.
Come tutte le zone di cinema che sentono l’incertezza del proprio offrirsi alla visione (ne è esemplare il grande cinema sovietico scongelato) anche questi film, e anche La porta del cielo, recano la traccia di una visibile, anche se spesso non vista, sofferenza. Il film di De Sica sente di non poter dominare né gli eventi della storia né quelli del proprio set, e per
molti anni ne sarebbe rimasto soltanto il racconto, da parte di De Sica o 38
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di Tonti, di questo impossibile controllo. Ed ecco il racconto delle vicende di tutti i colori che capitavano dentro i confessionali e dietro le tende della
Basilica di San Paolo in cui si girava di giorno, o quello delle ore di cOprifuoco durante le quali negli scantinati della Chiesa di San Bellarmino si ricostruivano dei vagoni ferroviari. O, ancora la scelta, di chi girava, che
fu, secondo De Sica, quella di prolungare le riprese il più possibile, per conservare la protezione del Vaticano di fronte alla minaccia della guerra che imperversava «fuori». E le folle di profughi, promosse a comparse, che si rifugiavano sul set. Gli stessi attori professionisti del film vi entrano evidenziando la propria vulnerabilità, e le vicende a cui la fiction li sottopone, quali pellegrini in cerca di guarigioni e grazie a Loreto, incide sui loro corpi una finzione raramente così vicina alla realtà che incombe dietro la porta del set. Sono parecchi degli attori rimasti alle soglie di ogni divismo di quel periodo tra gli anni della guerra e i primi anni del neorealismo. Sono molte, come si vede, e particolari, le porte che il film fa sentire:
né aperture certe verso la guarigione e men che meno la resurrezione, né «cancelli del cielo» ostinati nella chiusura. E il cielo non finge mai di aprirsi sul fiabesco codificato che sarà di un Miracolo a Milano: è puro orizzonte non visto verso cui nessuna delle molte panoramiche del film accenna ad alzarsi. I movimenti di macchina seguono i percorsi di un set impaludato (da vagone a vagone, da compartimento a compartimento, tra due treni, da un compartimento con un filo che «dall'esterno» ne raggiunge un altro); oppure i percorsi possibili di quei corpi feriti, con qualche «De Sica touch» veramente emozionante, come Roldano Lupi che compare aprendo lo sportello con una mano sola per salire sul treno già in movimento (comportamento sospetto che poi si scopre legato alla sua lesione). Un tocco che altrove è anche comico, come quando Girotti (cieco) che compare tirando
una mela da una mano all’altra e facendosela cadere (e durante il tempo che il compagno Ninchi impiega a raccoglierla entra in campo un altro cieco con uno storpio); un gioco che, nel flashback (in un’inquadratura dalla naturalezza quasi nascosta) scopriamo essere un’abitudine quando vediamo lo stesso Gironi passarsi un oggetto da una mano all’altra prima del precipitarsi della storia a tre con Elli Parvo (da cui deriverà il suo accecamento).
La maggior formalizzazione il film la espone in relazione al perso-
naggio del ragazzo storpio con la sua sedia a rotelle (ed è un altra traccia del cété hitchcockiano di De Sica); la macchina da presa non occulta né la distanza dal corpo ferito né la volontà di seguirne i necessari percorsi, sia nella sequenza della sua salita sul treno, sia nella sequenza con la ragaz99
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GERMANI
za alla finestra di fronte, sia in quella della sua «analitica» discesa al piano di sotto (dalla sedia a rotelle, alle grucce, al reggimano delle scale a un altro paio di grucce e a un’altra sedia a rotelle), sia infine in quel grande finale corale del film, in cui l’unica miracolata (ma potrebbe essere un''isterica o una simulatrice) è una casuale comparsa sulla sedia a rotelle. In que-
sto finale, tutti imovimenti, della macchina e degli attori, s'ingolfano in
una preghiera che comunica la casualità e l'ingiustizia di una singola guarigione su cui gli altri corpi non potrebbero proiettare la propria attesa. Indubbiamente, qui, De Sica raggiunge una situazione opposta a quella del miracolo cinematografico: e non perché questo miracolo avvenga o meno, ma perché qui la proiezione dello sguardo che assiste al miracolo non può negare la singolarità e la pluralità dei corpi in gioco, scontando l’impossibilità di investire la fede nella visione. In questa sequenza il generico laicismo desichiano diventa qualcosa di molto più radicale, che potrebbe anche
paradossalmente coniugarsi con un senso religioso.
Ma tutta la struttura del film, con la dispersione dei personaggi e dei flashback, è remotissima dal tanto cinema italiano che nella costruzione per episodi moltiplicherà una dittatura della sceneggiatura. Ne La porta del cielo le invenzioni della sceneggiatura, salvo forse qualche trasparente riflessione zavattiniana sull’assenza della bontà, sono in primo luogo legate a quella
volontaria sospensione di un set, e in secondo luogo si appaiano alla dispersione dei personaggi, compresi imomenti di pura comicità (i due buffi coi gelatini, o i sordomuti che giocano a indovinare in che mano l’altro nasconde un oggetto). Alla base di questi giochi di sceneggiatura c'è anche un'azione d’invenzione scenografica, quella di Salvo D'Angelo, che ricopre appunto anche questo ruolo, confermando la vitalissima unicità di questo episodio produttivo del cinema italiano.
In un film così intensamente visivo si accentua inoltre, precocemente, il consolidarsi del doppio sonoro del nostro cinema che trionferà nell’epoca d’oro del doppiato italiano. Anche se purtroppo è attualmente visibile (e udibile) una copia del film dal sonoro pessimo, ne possiamo cogliere tutta la ricchezza, su cui la messinscena moltiplica le proprie dispersioni. Prima di un cinema, quello neorealista, in cui la voce off tenderà troppo
spesso a guidare unidirezionalmente il film, qui le voci off sono quelle singolari e molteplici che esprimono una volontà di guarigione, e una di que-
ste appartiene al personaggio di un muto che desidera di poter parlare e
gridare. Mi rendo conto che, nella scrittura stessa, ho oscillato, più di quanto sia portato a fare, tra il dar credito alla finzione dei personaggi che gli atto40
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ri assumono sui propri corpi, e la consapevolezza della sua impossibile realizzazione. Gli sdoppiamenti dell’attore De Sica hanno reso trasparente e «accettabile» questo gioco. Lo sdoppiamento di De Sica a regista ha di nuovo sfiorato la sua insostenibilità.
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«LA PIÙ PURA ESPRESSIONE DEL NEOREALISMO»
Poche filmografie sono così sconcertanti come quella di Vittorio De Sica. Non vi mancano autentici capolavori; ma anche modesti film commerciali sono lì a caratterizzarla negativamente. La disparità dei risultati dell’attivi-
tà cinematografica di De Sica è così marcata da far ritenere quasi impossibile rintracciare nella sua filmografia un filo conduttore, un denominatore comune in tutte le sue opere. Si può forse azzardare che il cinema di De Sica manifesta una costante nel sicuro, affinato mestiere: il che, però, non dice molto, essendo il mestiere, inteso nella sua accezione meno riduttiva,
quindi come capacità di miscelare bene i diversi ingredienti del linguaggio filmico e come gusto coltivato per lo spettacolo cinematografico, una qualità di cui nessun autore importante può essere privo. Semmai, e particolarmente nel caso di De Sica, si può distinguere, come tendenza, tra un mestiere che viene esibito (per meglio incontrare le attese del pubblico) e un mestiere che, invece, viene tenuto nascosto, o più precisamente, che viene completamente assorbito nello stile personale dell'autore. In momenti diversi, e con accentuazioni diverse, nel cinema di De Sica, entrambi questi modi di utilizzare il mestiere sono ravvisabili. Ma mentre il primo, acquisito e consolidato nel suo tirocinio di attore oltre che di regista, ha contrassegnato i suoi film esteticamente meno validi, il secondo è insito, proprio per la sua forma di presenza-assenza, nei suoi film artisticamente più riu-
sciti e maturi, cioè quelli del periodo neorealistico. E infatti si tratta di quattro film dove non viene pagato alcun tributo allo spettacolo cinematografico, ma dove la regia appare spesso magistrale, ad esempio nella direzione degli attori non professionisti. Conoscendo le origini del cinema di De Sica,e il suo prosieguo dopo la fase neorealistica, si può subito affermare che la sua rinuncia all’istintiva inclinazione per lo spettacolo sia stata una libera scelta dettata,non solo e non tanto da motivazioni estetiche, quanto da una spinta etica. Si può aggiungere che la successiva ripresa dei dettami spettacolari sia stata, almeno in un primo tempo, più subita che voluta, 43
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come rivelano anche certe dichiarazioni dello stesso regista con le quali confessa rimpianti e rimorsi per l'abbandono della via neorealistica, o comunque della tensione artistica. E d’altronde, a ben vedere, ciò che aldilà delle
marcate differenze apparenta i maggiori autori neorealisti — Rossellini e Visconti, oltre lo stesso De Sica — è proprio un’opzione etica prima ancora che estetica; un’opzione dettata dalla volontà di prendere partito, di partecipare con il proprio cinema alla vita sociale schierandosi con una parte, quella delle vittime, degli oppressi, degli sfruttati, contro la parte opposta (il fascismo, gli oppressori, gli sfruttatori). Di ciò si ha una conferma osservando che De Sica, ancora come Rossellini e Visconti, è stato anche un pre-
cursore del neorealismo con un film — I bambini ci guardano (1943) — in cui sono già individuabili e l’attenzione per le istanze morali e la depurazione degli effetti più spettacolarmente avvertibili, assieme a diversi elementi tematici ed espressivi che diventeranno parti costitutive della tetralogia neorealistica. Infatti, in questo film del 1943, che seguendo una doppia, convergente ottica, quella oggettiva del regista e quella soggettiva del piccolo protagonista, descrive l’orrore quotidiano del mondo (della famiglia) piccolo borghese e l'iniziazione di un bambino all’infelicità, si scorge già l'attitudine ad alludere più che a ostentare, lo slancio solidaristico verso i deboli e gli umili, la cura per i dettagli che ne amplifica i significati, la resistenza muta di fronte al male e al dolore, il giudizio morale più suggerito che dichiarato, cui corrisponde, meglio di una condanna o di un per-
dono, quella «sospensione di senso» ravvisabile nel De Sica neorealista, e specialmente in Ladri di biciclette e Umberto D. Ma più in generale, I bar2bini ci guardano, anche se volto a raccontare una sofferenza interiore, può essere considerato uno dei pochi film che precorre il neorealismo in quanto, da un lato, è del tutto estraneo, per le sue ragioni etiche ed estetiche, al coevo cinema di regime e, dall’altro lato, anticipa per molti versi un modo di rappresentare la realtà, privo di conformismo e di retorica, che si dispiegherà compiutamente quando una diversa congiuntura storica, cioè la fine del fascismo e della guerra assieme al prevalere degli ideali resistenziali, diventerà un contesto favorevole, ovvero,
una sollecitazione operativa e, insieme, una fonte ispirativa. Se i film precedenti il neorealismo e che, per così dire, già lo preannunciano — e in questo senso, per citare il titolo più emblematico di tutti, basta ricordare Ossessione — caratterizzano la loro apertura al nuovo con il loro implicito rifiuto del vecchio, le opere neorealistiche sono tali proprio perché, in sintonia con il nuovo germinato nella società e nella coscienza collettiva, lo svelano artisticamente e lo alimentano moralmente. Da qui la legittimità concettuale e terminologica della nozione unificante di neorealismo cine44
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matografico e la fondatezza del riconoscimento ai registi neorealisti, pur provenienti da esperienze diverse e giunti a esiti creativi diversi, di una comune poetica, se questo termine viene assunto, un po’ arbitrariamente, in
una accezione molto larga. Certamente, l’«occhio» cinematografico di Rossellini, i suoi film epifanici in cui si avverte perfettamente depositata nella finzione narrativa la derivazione documentaristica, la spontanea capacità di vedere (di constatare) la realtà nella sua nuda essenza, costituiscono qualcosa di molto differente rispetto al cinema di Visconti, sempre ricco di riferimenti e imprestiti culturali, ai suoi film costruiti con il sapiente impiego di materiali artistici eterogenei, che richiamano, al di là dei valori formali,
il linguaggio realistico di certa letteratura, di certi romanzi di critica sociale. E molto differente da Rossellini e Visconti è a sua volta De Sica. Come differenti sono anche le loro singole poetiche, intese ora nel loro significato più stretto, cioè come elaborata consapevolezza del proprio fare artistico, come premessa delle soluzioni stilistiche ritenute più adeguate a esprimere la propria visione del mondo. Eppure, assieme a queste differenze, sicuramente fondamentali in quanto connaturate alle personali pratiche significanti degli autori, appare evidente, e altrettanto qualificante, una componente che avvicina questi registi — ed altri ancora — e le loro opere, autorizzando a parlare di una «poetica del neorealismo» nel senso estensivo sopra indicato, o meglio ancora, di un movimento artistico-culturale in cui si concentrano posizioni morali e idelogiche motivate principalmente dall’impegno a confrontarsi con la realtà e a farla conoscere. Proprio in questo
atteggiamento di ricerca e di responsabilità è ravvisabile quella componente che accomuna i film più autenticamente neorealistici, facendoli sentire,
tutti, dettati dalla fedeltà al vero e dall’intento di schierarsi per l’emancipazione umana e sociale. Detto altrimenti e in estrema sintesi: il neorealismo evidenzia sin dagli inizi, e conferma durante il suo percorso, un'etica tendenzialmente unitaria e un’estetica molto composita. Ma occorre aggiun-
gere che nei più avanzati film neorealistici l’etica e l'estetica, non soltanto sono compresenti, ma finiscono per influenzarsi reciprocamente, tanto da sembrare inscindibili: e in ciò è forse da vedere il carattere più peculiare e più distintivo del neorealismo. All’affermarsi dell’etica e dell’estetica neorealistiche, e alla loro com-
penetrazione, De Sica (1) dà subito un contributo rilevantissimo con Sciu-
scià (1946), un film interamente calato nel clima del dopoguerra e che di questo clima restituisce, in modi originali e persuasivi, la forte drammaticità. Diversamente da altri film neorealistici, anche dello stesso De Sica,
in Sciuscià sono del tutto assenti l'ottimismo e la speranza. Si direbbe che De Sica, in apparente contrasto con la propria naturale fiducia nell'uomo 45
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e con gli entusiasmi di quel momento, dovuti al recupero della libertà e della prospettiva di un futuro migliore, abbia voluto raffigurare soltanto in chiave negativa una realtà ritenuta affatto ostile, proprio per meglio lasciar capire l'urgenza di un «dover essere», di altre condizioni umane e sociali. Il dramma, appunto umano e sociale, raccontato in Sc:4scz2 si risolve in tragedia, senza possibilità di riscatto, senza residui consolatori. Il tono e l'articolazione narrativa sono, insieme, dolentemente pessimistici, non
solo e non tanto perché la morte accidentale di uno dei due piccoli protagonisti conclude la vicenda lasciando l’altro, che l’ha involontariamente pro-
vocata, nella disperazione assoluta; ma, soprattutto, perché già prima di questa fine, che avrebbe potuto anche essere diversa senza alterare il senso profondo del film, il peggio era accaduto con la distruzione dell'amicizia degli stessi protagonisti, determinata dal mondo degli adulti e dalle istituzioni (il riformatorio, la polizia, il tribunale) che lo rappresentano. Nei protagonisti, due ragazzi poco più che bambini costretti per sopravvivere a lavorare come lustrascarpe e a imitare i grandi in una impari lotta per la vita che li porta, incolpevoli, in un carcere minorile, dove ancor più rischiano di venire traviati, De Sica raffigura due vittime della miseria, dell’egoismo
e dell’ingiustizia. Doppiamente vittime, in quanto devono rinunciare alla loro innocenza e alle gioie della loro età, cui pure tendono con tutta la pro-
pria carica vitale, e in quanto non possono evitare le vessazioni, e la corruzione, di un ambiente per loro tanto estraneo quanto avverso. A questo proposito, De Sica non tralascia di mostrare, sia pure solo per accenni, come anche nel dopoguerra continuino a pesare negativamente residui fascisti: questo traspare particolarmente dal comportamento del direttore del riformatorio, interpretabile come un segno di ciò che verrà poi definita «la continuità delle istituzioni», e che sottintende anche una burocratica disu-
manità.
A Sciuscià si può addebitare qualche indugio bozzettistico, qualche sottolineatura melodrammatica, forse anche qualche squilibrio narrativo; e tuttavia resta un’opera di intensa resa espressiva, soprattutto per l’acuta osservazione ambientale e per la finezza dell’introspezione psicologica. Le riprese in esterno, con la «macchina» che sembra cogliere la realtà nel suo
immediato manifestarsi, e gli attori presi dalla strada, canoni neorealistici per eccellenza, diventano nell’elaborazione formale, oltre il loro statuto di procedure tecniche, elementi essenziali della riuscita artistica. Frutto di un sincero risentimento morale, il film vale anche come testimonianza probante di un particolare momento storico, con le sue immagini di rovine e di caos che fanno da contrappunto esteriore alle devastazioni prodotte 46
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negli animi degli «sciuscià» dalle avversità sociali e dalla mancanza di solidarietà. Un'altra vittima degli scompensi sociali è anche il protagonista del successivo Ladri di biciclette (1948), un disoccupato costretto, come i ragazzi abbandonati di Scivscià, a patire l'indifferenza degli altri, l’emarginazione e la sconfitta. In Ladri di biciclette il dramma della disoccupazione è anche il dramma dell’impotenza individuale: l’insicurezza della condizione sociale e il vuoto della condizione umana finiscono per interagire, accrescendo lo sgomento e la frustrazione. Ancora una volta l’individuo di grado sociale inferiore è condannato a scontrarsi con l'ostilità del mondo circostante, e a restarne ferito. Proseguendo nel confronto tra Sciuscid e Ladri di biciclette, verrebbero alla luce altre assonanze, e non solo di ordine
tematico e contenutistico come quelle ora accennate. Ma le diversità tra i due film sono ancor più rilevanti, più decisive, poiché riguardano l’ambito
e l’impiego del linguaggio cinematografico. Sotto questo profilo, Ladri di biciclette è più avanzato di Sciuscià, e può essere considerata l’opera migliore in assoluto di De Sica. Anche perché la sua perfezione formale non rappresenta soltanto un esempio convincente di compiutezza estetica, ma pure un nuovo modo di utilizzare «linguisticamente» il cinema, e quindi di ampliare il dicibile cinematografico. Su questo punto Bazin ha scritto pagine memorabili, definitive, che conviene citare ampiamente. A cominciare da un approccio ermeneutico implicante plurimi sviluppi interpretativi: È inutile dire che pochi film sono stati composti più minuziosamente, più meditati, più scrupolosamente elaborati, ma tutto il lavoro di De Sica tende a dare l'illusione del caso, a fare sì che la necessità drammatica abbia i caratteri della contingenza. Meglio, egli è arrivato a fare della contingenza la materia stessa del dramma. In Ladri di biciclette non accade nulla
che non possa accadere...
Con queste affermazioni, Bazin aiuta a svelare il segreto della tecnica e dello stile di De Sica e, al contempo, suggerisce dove vadano ricercati i diversi significati del film. Circa la tecnica e lo stile, è illuminante un altro
giudizio di Bazin relativo all’uso di attori non professionisti fatto da De Sica in Ladri di biciclette: Cinema senza attori? Non c'è dubbio! Ma il senso primo della formula è superato, è di un cinema senza interpretazione che bisognerebbe parlare, di un cinema in cui non è più neppure questione che una comparsa reciti più o meno bene, tanto l’uomo si identifica con il personaggio. 47
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Quanto ai significati del film, Bazin, coerentemente con l’esegesi testuale prima esposta, ne indica, tra gli altri, uno, del tutto condivisibile,
che finisce per confermare anche l'orientamento ideologico-politico del neorealismo che in precedenza si è cercato di indicare. Dice Bazin: Ladri di biciclette è certamente da dieci anni ad oggi il solo film comunista valido, appunto perché conserva un senso anche se si astrae dal suo significato sociale. Il suo messaggio sociale non viene esposto, resta immanente all’avvenimento, meno ricusarlo poiché non cata è di una meravigliosa sto operaio, i poveri, per
ma è chiaro che nessuno può ignorarlo e ancor è mai esplicito come messaggio. La tesi implie atroce semplicità: nel mondo in cui vive que-
sussistere, devono derubarsi fra di loro.
Ora, com'è noto, De Sica non era comunista, e neppure dichiarata-
mente «di sinistra», e tuttavia si capisce come la sua opera migliore, in virtù
della «superiore onestà dell’artista» e del «trionfo del realismo», per dirla con due categorie lucacciane, finisca per rivelare la verità nascosta nella realtà sociale, e quindi per essere letta, correttamente, in una chiave politica pro-
gressista, come d'altronde può avvenire anche con gli altri film neorealistici artisticamente realizzati e, in quanto tali, portatori anch'essi di verità,
umana e sociale. E la prova, 4 contrario, della «scelta di campo» progressista, insomma dell’opposizione ideologico-politica del neorealismo, si evince dalle reazioni (e dalle repressioni), anch'esse ideologiche e politiche, che ha suscitato nel campo opposto, ovvero, nel potere dominante nell’Italia di quegli anni. Tra i fattori compositivi di Ladri di biciclette c'è il particolare dimensionamento del tempo e dello spazio, anzi, del rapporto tempo-spazio, che conferisce al film una portata cronachistica — vale a dire una qualità informativa — nell’accezione meno limitativa e più pregnante del termine. Ladri di biciclette, infatti, è anche la cronaca dei due giorni passati da un attacchino a cercare, assieme al figlioletto, in alcuni quartieri di Roma, la bicicletta, senza la quale non può lavorare, rubatagli il primo giorno di lavoro, dopo due anni di disoccupazione. Il tempo cinematografico è naturalmente diverso dal tempo reale, eppure il film dà l'impressione che quest'ultimo sia lo stesso che vediamo trascorrere sullo schermo, sia cioè il tempo necessario al protagonista per attraversate alcuni spazi e per fermarsi in alcuni luoghi. Il film, per come è strutturato, fa avvertire la «materialità» del tempo quotidiano: la sua datità e la sua durata. Forse è anche per questa sensazione che, vedendo Ladri di biciclette, così scandito narrativamente,
e con gli accadimenti casuali e contingenti di cui parla Bazin, non si ha più la percezione del «fuori campo». Lo spettatore viene posto in un angolo visuale (percettivo) che lo fa sentire partecipe, non solo emotivamente e 48
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razionalmente, di quello che riceve dallo schermo. E questo è tanto più sorprendente in quanto il film è privo, oltre che di richiami spettacolari, di una storia: è unicamente il frammento della vitadi un disoccupato resa del tutto credibile dal cozze delle «riprese»; e in questo cozze gioca una fun-
zione importante il tipo di (non) recitazione, con Maggiorani che non interpreta l’attacchino, ma è l’attacchino. Per lo spettatore, la partecipazione allo svolgimento temporale e spaziale del film non deriva soltanto da una visione esteriore, meramente fotografica, della realtà. Al contrario, in Ladri di biciclette è attiva, è produttiva di senso, anche la visualizzazione del-
la dialettica tra l’interno e l’esterno. Le parti semanticamente ed esteticamente più ricche del film sono appunto quelle che esteriorizzano l’interiorità dei personaggi. L’attenta analisi psicologica, l'espressività dei volti, degli sguardi, dei gesti, i «duetti» tra il padre e il figlio (in particolare quello della sequenza nella trattoria), insomma le doti registiche di De Sica, evidenziano le mutazioni, anche repentine, degli stati d'animo e le motiva-
zioni comportamentali, comunicano in modo esatto e sfumato sentimenti ed emozioni facendo emergere dalla figura sociale il carattere individuale: proprio ciò che più stimola De Sica, che più tocca il suo umanesimo nuttrito di sensibilità e libero da apriorismi ideologici. Nel suo libro // pozzo di Babele Marthe Robert cita un certo John Morley il quale affermava che «un uomo che non trova lavoro è figura infinitamente più tragica di qualsivoglia Amleto o Edipo», aggiungendo da parte sua: «Non so se questo Morley abbia realizzato qualcosa da ricordare: ma ha meritato di passare ai posteri, se non altro per la comprensione profonda dell’unico dramma umano che, pur essendo antico quanto la civiltà, non è mai pervenuto alle altezze della
tragedia». Ladri di biciclette arriva ad esprimere la tragicità di questo «dramma antico quanto la civiltà», anche se tende al grado zero dell’azione e non contiene le convenzioni della tragedia, concludendosi con il protagonista
piangente che si allontana tra la folla tenendo per mano il figlio, senza sapere — e lo spettatore con lui — quanto durerà la sua pena. La bellezza e il peso di Ladri di biciclette non bastano a dare all’auto-
re la possibilità di fare subito un altro film. Di scarso interesse produttivo, perché di regola non procura vantaggi economici, e boicottato politicamente per le idee di cui è tramite, il neorealismo fatica a proseguire lungo la propria strada, e anche i suoi maggiori esponenti incontrano molte difficoltà a lavorare. De Sica riesce a girare un altro film, Miracolo a Milano, soltanto nel 1951, quando già il movimento neorealistico ha iniziato la parabola di-
scendente causata, oltre che dagli ostacoli esterni conseguenti all’involu-
zione della politica italiana ora egemonizzata dal «centrismo», da cause interne al movimento stesso, prima tra tutte l’insufficiente apertura verso nuove 49
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esperienze culturali e verso muovi territori semantici.
Tratto dal romanzo breve Totò #/ Suono che Zavattini aveva scritto nel 1943, Miracolo a Milano è una favola sociale, e insieme un apologo morale, sostanzialmente fedele al testo letterario, specialmente per la sua vena umoristico-paradossale e per i suoi bersagli polemici; ma è anche legato all’attualità. Centrato sulla contrapposizione tra ricchi e poveri che, con voluto manicheismo, denota i primi come «cattivi» e i secondi come «buoni» (ma con qualche eccezione che conferma la regola), il film può essere definito, da un lato, una satira, estremamente schematizzata, del capitalismo, del suo spirito predatorio, e, dall’altro, un’apologia di alcuni valori — la bontà, la sincerità, l'onestà — che renderebbero la vita felice se tutti li pra-
ticassero liberamente. L'impianto narrativo, piuttosto fragile, è tuttavia sostenuto da un seguito ininterrotto di trovate fantastiche, spunti ironici, gag surreali, squarci lirici, che assicura al film una tenuta espressiva e uno spessore discorsivo. Generosamente populista, un po’ approssimativo ideologicamente, anche perché i personaggi appaiono disegnati più con i tratti del loro destino caratteriale che con quelli della loro connotazione classista, pervaso da una forte carica di simpatia umana, Miracolo a Milano mantiene le ragioni di fondo del neorealismo, diventandone una variante; ma confessa anche, con la sua devianza «linguistica», l’accettazione di stimoli più
intimamente reconditi, e più giocosi. E in tale direzione che vanno ricerca-
ti gli esiti poetici più genuini, e più dotati di significato. In quest'opera, forse minore, certo sentita e accurata, ciò che più colpisce è il risarcimento dell’immaginazione. Questa inalienabile facoltà umana, che nessun potere può corrompere e nessuna somma di denaro può comprare, ma che trop-
po spesso si tralascia di attivare, è l’arma pacifica, e forse invincibile, di cui dispone il protagonista, cui manca qualsiasi altra «proprietà privata». Totò il buono, che ha conservato il candore di un fanciullo e che, allevato
soltanto dall'amore, è soltanto capace di amare, con quest'arma sfida allegramente il mondo padroneggiato dai ricchi, i quali vogliono diventare sempre più ricchi, facendo diventare i poveri sempre più poveri. Totò, guidato spontaneamente dalla sua immaginazione e dal suo amore, si salva, e salva quelli che lo seguono, volando verso l'utopia, e diventando così il simbolo di come l'umanità dovrebbe essere: appunto guidata dall’immaginazione
e dall'amore e capace di andare verso l'utopia. La morale della favola, che nel film è del tutto visualizzata, ma in modo così ravvicinato che si rischia di non vederla, consiste propriamente e semplicemente in questo: che l’immaginazione ha ragione, che l’amore ricompensa, che l’utopia esiste e bisogna cercarla. Un tempo, qualcosa di analogo si chiamava