Vittorio De Sica. Un maestro chiaro e sincero 8845281388, 9788845281389

"Sono nato a Sora, il 7 luglio 1901, dunque sono ciociaro, anzi cafone." Così si presentava Vittorio De Sica,

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Italian Pages 188 [118] Year 2016

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Vittorio De Sica. Un maestro chiaro e sincero
 8845281388, 9788845281389

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“Sono nato a Sora, il 7 luglio 1901, dunque sono ciociaro, anzi cafone.” Così si presentava Vittorio De Sica, padre del neorealismo e tra i più celebrati registi e interpreti cinematografici in Italia e nel mondo. Dalla giovinezza trascorsa in “una tragica e aristocratica povertà” alla gavetta nei teatri di prosa e all’approdo al mondo del cinema, queste pagine ricche di aneddoti e gustosi retroscena ripercorrono la vita e la carriera di un personaggio straordinario i cui film hanno segnato un’epoca. Figura geniale e contraddittoria, dedita ai vizi quanto agli affetti familiari, la storia di De Sica si intreccia con icone del calibro di Luchino Visconti, Totò, Gina Lollobrigida, Sophia Loren, Alberto Sordi. Ma è dal sodalizio con Cesare Zavattini che nel dopoguerra nascono i capolavori che lo consacrano nel pantheon dei grandi registi: Sciuscià, Ladri di biciclette, Miracolo a Milano, Umberto D. raccontano magistralmente gli albori dell’Italia democratica dal punto di vista dei deboli, di coloro che sono tagliati fuori dal cosiddetto “miracolo economico”. E, finita inesorabilmente la stagione del neorealismo, sa reinventarsi mettendo la sua sensibilità artistica al servizio di grandi interpreti e di produzioni come La ciociara, Ieri, oggi, domani e Matrimonio all’italiana. Dando vita a personaggi che hanno saputo raccontare un’Italia tragica e intensa, costantemente sospesa tra la goliardia e l’amarezza.

GIANCARLO GOVERNI Scrittore, giornalista, autore e conduttore televisivo, ha firmato la serie Ritratti nella quale ha ricostruito la vita e l’opera di numerosi personaggi dello spettacolo italiano. Tra i suoi libri, Il pianeta Totò, Alberto Sordi, l’Italiano, Nannarella, Il grande Airone, il romanzo di Fausto Coppi.

TASCABILI BOMPIANI   542

GIANCARLO GOVERNI VITTORIO DE SICA Un maestro chiaro e sincero

ISBN 978-88-58-77268-3 © Giancarlo Governi © 2016 Bompiani / RCS Libri S.p.A., Milano L’Editore è a disposizione degli eventuali aventi diritto riguardo alla foto di copertina. Prima edizione digitale 2016 In copertina: una scena del film Ladri di biciclette di Vittorio De Sica (1948). Progetto grafico: Polystudio. Copertina: Sara Pallavicini.

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

A mio Padre, il mio Umberto D. e a Manuel De Sica

Introduzione

Quante sono le foto di Vittorio De Sica che sono entrate a far parte del nostro immaginario, della memoria degli italiani? Sono centinaia e centinaia, a partire da quella giovanile, con i grandi occhi ridenti, le guance infossate per l’eccezionale magrezza del volto che fanno risaltare la grandezza del naso, di Gli uomini che mascalzoni… Un film a cui è legato il ricordo sonoro di Parlami d’amore Mariù, una canzone che fece epoca e che fu richiesta a De Sica negli anni futuri, anche quando era oramai vecchio e celebrato regista, fino all’ossessione. Già allora quel giovanotto in bicicletta che corteggiava la ragazza sul tram rappresentava l’Italia dell’inizio degli anni Trenta che il regime fascista, appena consolidato, voleva allegra e scanzonata, ma anche maschia e protesa verso il raggiungimento degli “immarcescibili destini della Patria”. Però quel giovanotto che canta una delle tante canzoni di Cesare Andrea Bixio che faranno epoca (un’altra sarà La canzone dell’amore che inaugurò il cinema sonoro italiano) sembra aderire totalmente alla prima immagine dell’Italia, quella allegra e scanzonata, e non sembra affatto “pensoso dei destini della Patria”. Per questo piacque subito agli italiani di allora, perché somigliava molto ai giovani, quelli veri, che il fascismo voleva in divisa ma che amavano fare quello che fanno i giovani di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Lo vediamo poi, il signor Vittorio De Sica, in smoking, accanto a un pianoforte e a un paio di signore in lungo, che canta How do you do, Mr. Brown. Grande portamento, lo smoking indossato con grande disinvoltura, una voce flebile ma ben modulata in un modo di cantare che rompe con i canoni dell’epoca. E poi, ancora in bicicletta, nelle vesti del giornalaio de Il signor Max che cerca un’improbabile scalata sociale, o nelle vesti di insegnante, medico e così via, in una galleria di tipi e di personaggi presi di peso dalla società anteguerra, quella ottimista che credette nell’Impero, nella “guerra lampo”, nel “Duce che ci conduce”, nei treni popolari e nel dopolavoro e che si ritrovò in mezzo alle bombe e alla distruzione materiale e morale. Nel dopoguerra, sono passati gli anni, la figura del signor Vittorio De Sica si è appesantita, i capelli sono diventati colore dell’argento, il modo di porgere e camminare, un po’ anche per la rigidità della colonna vertebrale imprigionata in un busto, quasi caricaturali, ma i tratti hanno conservato la loro eleganza.

Gli italiani, che avevano assistito alla sua repentina e inaspettata trasformazione in regista di grandi film neorealisti che fanno gridare al miracolo in tutto il mondo, rimasero sorpresi quando lo videro, nei panni dell’avvocatucolo di provincia de Il processo di Frine, invitare i giudici ad assolvere la bella Mariantonia, lanciandole l’epiteto di “maggiorata fisica” con cui in tutti gli anni Cinquanta sarà connotato il canone di bellezza femminile imperante. Ma il personaggio dei personaggi, e quindi l’immagine più forte del De Sica attore, arriva subito dopo nei panni di Maresciallo dei Carabinieri, il simpatico e un po’ “pomicione” protagonista di una commedia paesana di Luigi Comencini, Pane, amore e fantasia. Un film che diventò un “seriale”, perché ne seguirono altri tre con la stessa etichetta, e rilanciò la familiare figura del Maresciallo dei Carabinieri nella considerazione degli italiani. Io penso che, per la sua popolarità, l’Arma debba più al desichiano Maresciallo Carotenuto che al valoroso comportamento che tenne nella battaglia di Pastrengo. Ma lo ricordiamo ancora come falso Generale Della Rovere, con cui dimostrò al pubblico che lo aveva visto sempre in panni “leggeri” di essere anche un grande attore drammatico. Chi non lo ricorda davanti al plotone di esecuzione mentre fa coraggio ai propri compagni di sventura con parole che forse neppure il vero Generale Della Rovere avrebbe trovato? Come pure indimenticabile è accanto a Totò ne I due Marescialli, impegnato in un’impari gara comica, lui che comico non fu mai, da cui uscì imbattuto. E tante altre immagini di personaggi che De Sica interpretò fino a qualche mese prima della morte. Per pagarsi il vizio del gioco, si diceva, e per non sottrarre alla famiglia (anzi, alle famiglie) i suoi guadagni di regista che negli ultimi anni, da quando cioè era diventato un celebrato star director, furono molto cospicui. Ma l’immagine che mi ha colpito di più, e che forse mi ha convinto a studiarlo e a scrivere questo libro, è quella che lo vede fotografato accanto ai due protagonisti del suo film più grande, Ladri di biciclette: l’operaio disoccupato, Lamberto Maggiorani, e il bambino dal grande naso, Enzo Staiola. Il fotografo ha immortalato l’immagine di De Sica mentre spiega una scena ai due attori attraverso una ruota di bicicletta. Sembra una foto voluta con il senno di poi perché sintetizza l’altro De Sica, quello che ci ha regalato immortali opere, che hanno raccontato meglio di tutti gli albori dell’Italia democratica, dal punto di vista dei deboli, di coloro che saranno tagliati fuori dal cosiddetto “miracolo economico” e che rimarranno sempre più indietro quando la forbice del divario fra i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri si allargherà sulla opulenta e insensibile società dei consumi. E si allargherà ancora di più negli anni della crisi. È proprio quella immagine che mi ha convinto di dedicare questo libro a tutti quei personaggi che Vittorio De Sica ci ha raccontato in questi film e che hanno scavalcato mezzo secolo di storia del nostro paese, per ritrovarsi, con la loro

presenza inquietante quanto ignorata, nell’Italia di oggi dove hanno cittadinanza, con altri volti e con altri aspetti, tanti pensionati come Umberto D., tanti operai disoccupati come Ricci, tanti ragazzi di strada, abbandonati a se stessi, come gli sciuscià di allora.

Un Uomo e una Città

Nella vita di Vittorio De Sica ci sono due elementi fondamentali: una Città e un Uomo. La Città è Napoli, l’Uomo è il Padre Umberto. Vittorio non era nato a Napoli, era nato a Sora, in Ciociaria. Lui non lo tenne mai nascosto ma fu considerato sempre napoletano. Questo perché, anche se vi aveva vissuto pochi anni, quelli della fanciullezza, con Napoli fu sempre in osmosi. A Napoli fece alcuni dei suoi film più belli e più amati. Di Napoli amò sempre tutto: la gente che ogni giorno si inventa la vita, il paesaggio, i vicoli, i colori, i suoni. Napoletana era Sophia Loren, l’attrice che plasmò e diresse in film straordinari. Come pure napoletane erano le canzoni che cantava con quel suo filo di voce intonatissima e calda, da fine dicitore. Napoletano era il dialetto con il quale faceva parlare i suoi personaggi popolari, che disegnava con grande maestria, con grande naturalezza che spesso fu scambiata per noncuranza. “Sono nato a Sora, il 7 luglio 1901” raccontava “dunque sono ciociaro, anzi cafone. Mio padre e mia madre, che si chiamavano Umberto De Sica e Teresa Manfredi, erano napoletani. E napoletanissima tutta la famiglia, l’intero albero genealogico.” Invece non era vero, perché napoletano era soltanto suo padre, mentre la mamma, come tutta la famiglia materna, era romana. Lo racconta anche la figlia Emi: “…Mia nonna, invece, era di una famiglia dell’alta borghesia romana, che adorava Roma: così per amor suo mio nonno a un certo punto si impiegò nelle assicurazioni…” E la cosa è confermata più volte dallo stesso Vittorio, quando racconta degli sforzi di suo padre per farsi trasferire a Roma, per mantenere la promessa fatta alla moglie: da Reggio Calabria, a Sora, a Napoli, quindi a Firenze e, finalmente – ma soltanto dopo aver cambiato lavoro –, a Roma. Ma, se andiamo a scavare ancora, scopriamo che neppure il papà di Vittorio era nato a Napoli, bensì a Cagliari, nella città in cui il genitore assolveva le funzioni di direttore delle locali carceri. Quindi, questa famiglia napoletanissima era composta da un padre nato a Cagliari, una madre nata a Roma e un figlio nato a… Sora. E a Sora ci era nato quasi per caso, perché sarebbe dovuto nascere addirittura a Reggio Calabria, da cui la famiglia quasi scappò per fuggire le ire del… brigante Musolino assetato di vendetta. Così Leonida Repaci riferisce un racconto fattogli dallo stesso Vittorio: “… Incinta di otto mesi, sua madre partorirebbe a Reggio se

non la muovesse a trovare un luogo più tranquillo, per mettere al mondo un figlio, lo spavento di una minacciata vendetta da parte del famoso brigante contro una domestica dei De Sica che gli ha fatto la spia. Rifugiato in una casa proprio di faccia a quella dei genitori di Vittorio, il fuorilegge ha cinto d’assedio, con la sua presenza, visibile ed invisibile, la sua nemica. La quale non esce più in strada per paura di essere ammazzata, ed evita anche di mostrarsi alla finestra per non prendersi in pieno petto qualche raffica a lupara… Col terrore che succeda qualche disgrazia a lei e al bambino, mamma De Sica tanto fa che il marito Umberto ottiene il trasferimento da Reggio Calabria a Sora, alla locale succursale della Banca d’Italia.” Ma nonostante tutto, Vittorio De Sica si sente – e quindi è – napoletano. E anche il ricordo degli anni trascorsi in questa città è sempre vivo e struggente. “La finestra della casa che ci ospitava dava in una piazzetta. Là sotto un uomo spazzolava, con una spazzola da panni delle pesche” racconta in un suo scritto su Napoli. “Dalle sue mani le pesche venivano posate sul banco, più gialle, più colorate di prima. Un altro preparava un trionfo di fichi d’India, rossi, gialli, azzurri. Il bisogno di veder bello, colorato. Tutto è simmetrico, ordinato in questo popolo che appare disordinato. “Vedo ancor oggi gli uomini di fatica che trasportano sacchi di farina. Sono stanchi, sudati. Hanno trasportato cento sacchi d’un quintale l’uno. E questi uomini sentono il bisogno di mettere su ogni sacco, la di cui cima somiglia a un cesto bianco, un pomodoro rosso. E cantano. Il loro canto anticamente somigliava al lamento del flamenco spagnolo ma da quando un musicista napoletano ha scoperto la scala napoletana il popolo ha cantato napoletano, ’Ncopp’ ’o capo ’e Pusilleco addiruso, odoroso di mare, di fichi d’India, e di cantilene sopra la fabbrica dell’Ilva dove migliaia di napoletani lavorano anche di notte.” I colori e i suoni di Napoli rimangono indelebili nel ricordo di De Sica. Quei suoni e quei colori che riprodurrà nei suoi film, anche ne L’oro di Napoli, che fu girato in bianco e nero ma in cui si indovinano egualmente i colori di Napoli: nel vestito multicolore del pazzariello Totò, come nelle rosse pizze in cui si perde il prezioso anello della bella Sofia. E poi il ritmare dei tamburi che segnano il passo del pazzariello, o il pernacchio di Eduardo De Filippo che vendeva saggezza, come pure la marcetta degli scugnizzi (tiene ’a panza za za za…) di Ieri, oggi,

domani. La Napoli di De Sica è una città dolente, dentro la quale si indovinano la miseria, la fatica, il dramma che però si presentano con il volto della gioia, della fantasia, in una fantasmagoria di colori e di suoni. Umberto D. fu il suo film più amato, il più contrastato quello che gli attirò le ire del potere clericale, il più sofferto ma anche il più osannato, insieme a Ladri di biciclette. Per un altro film De Sica soffrì tanto come per Umberto D. e fu un film che inseguì per tutta la vita e che non riuscirà mai a fare. Si sarebbe dovuto

intitolare Un cuore semplice, ispirato all’omonimo racconto di Flaubert. Per Umberto D., De Sica resistette persino a un allettante ricatto di Angelo Rizzoli: cento milioni per la regia di Don Camillo e poi si sarebbe parlato di

Umberto D. Era il 1952, quando con cento milioni si poteva fare un intero film. “Sa Dio quanto mi costò rifiutarli”, racconta lo stesso De Sica i cui film del dopoguerra (Sciuscià, Ladri di biciclette e Miracolo a Milano) gli avevano dato la notorietà, gli avevano fatto vincere due Oscar, lo avevano imposto come un caposcuola in tutto il mondo, ma non gli avevano certamente dato il successo commerciale, tanto da essere costretto a tornare a recitare, un mestiere per il quale non si sentiva più tagliato, anche perché si percepiva, a buon diritto, collocato nella schiera degli autori. Un po’ perché pensava di essere, come attore, un sorpassato. Proprio colui che aveva rinnovato così profondamente il cinema, sostituendo gli attori professionisti con gli attori presi dalla strada, poteva tornare a recitare con il suo stile da telefoni bianchi? “Concediti il lusso di fare Umberto D, disse De Sica al famoso editoreproduttore, “così come da editore ti concedi di stampare un classico.” Il classico costò a Rizzoli centoquaranta milioni dell’epoca, andò malissimo in Italia e all’estero ma oggi lo possiamo trovare nelle cineteche di tutto il mondo e molti lo hanno considerato e considerano uno dei film più importanti del cinema mondiale. Racconta De Sica: “Una delle prime sere a Hollywood mi invita a casa sua Merle Oberon. La conoscevo, è una donna colta, straordinariamente gentile. Ha organizzato per me un grande pranzo, invitando l’aristocrazia del cinema, da Sam Goldwyn a Chaplin. E poiché sa che ho portato con me una copia di Umberto D., riesce a convincermi a proiettarlo in casa sua per tutta quella gente. La proiezione si svolge regolarmente. Nessuno fiata. Proprio dietro a me, seduto in una poltrona, è Chaplin. Ogni tanto non resisto alla tentazione e torcendo il collo, furtivamente, lo guardo: è impassibile, col mento fra le mani. La proiezione finisce, sopravviene nella sala un brusio confuso. Guardo Chaplin: tutti si sono alzati, gesticolano, lui è ancora lì, tiene gli occhi chiusi, immobile. Passano due minuti buoni. Mi prende un malessere sottile, una specie di panico. Poi lui allarga le braccia, apre gli occhi; mi accorgo che piange come un vitello. Dice: ‘Grande, De Sica, un grande film’.” Si capisce perché un film come Umberto D. sia tanto piaciuto a Chaplin: è un film sulla solitudine dell’uomo, del vecchio che non riesce a trovare un raggio di sole in un mondo grigio che lo respinge; è un film sulla emarginazione nella metropoli moderna. In fin dei conti il Pensionato di De Sica è come il Vagabondo di Chaplin, ma più indifeso perché non possiede le armi della fantasia e della giovinezza che, invece, possiede il Vagabondo. Per Umberto non ci sono sentieri luminosi, da percorrere verso un avvenire di speranza, magari insieme a una dolce fanciulla. Per lui, l’unica certezza è rappresentata dall’affetto di un cane e

dall’approssimarsi della morte. Il padre di Vittorio De Sica si chiamava Umberto. Nel film il protagonista si chiama Umberto Domenico Ferrari ma abbreviato suona Umberto D. come Umberto De Sica. Non c’è dubbio che De Sica abbia voluto dedicare il suo film più amato e più sentito a suo padre, morto da più di vent’anni, all’uomo a cui doveva molto più della vita. Al quale doveva anche la vocazione artistica e l’iniziazione all’arte dell’attore. Una strada che Vittorio percorse con grande naturalezza e, almeno apparentemente, senza grandi ostacoli. Nella vita di molti grandi artisti del nostro secolo il padre è assente fisicamente e presente con la sua assenza che pesa molto nella vita, nel carattere e nella vocazione. Come non ricordare il padre ubriacone che passa nella vita del piccolo Charlie Chaplin come una meteora, tanto che il grande attore lo menzionerà nelle sue memorie soltanto una volta, di sfuggita, per dare maggiore peso all’eroismo della mamma malata, che continua a lavorare per mantenere i suoi figli, fino a quando non uscirà di senno proprio sul palcoscenico? Come non pensare al giovane Antonio Clemente, in arte Totò, che combatterà per tutta la vita per essere il principe Antonio de Curtis? E il padre cercato, e mai trovato, di Anna Magnani, che portò sempre il cognome di sua madre, che poi finirà per trasmettere anche a suo figlio Luca, come a perpetuare il primato femminile sulla discendenza? E il padre che la piccola Norma Jeane, che poi prenderà il nome d’arte di Marilyn Monroe, ricordando la foto di un uomo con i baffetti che la mamma teneva vicino al letto, identificava con Clark Gable? Il padre di Vittorio De Sica, invece, c’è e lotta per il suo ragazzo, il quale, attraverso una vita dignitosamente stentata, viene prima costretto agli studi di ragioneria e quindi avviato alla carriera di attore. Il signor Umberto De Sica fa l’assicuratore in un’epoca in cui l’assicurazione è una pratica poco diffusa e vive una vita grama fra una città e l’altra. E per di più ha abbandonato un posto più redditizio, quello di impiegato alla Banca d’Italia, per esaudire il desiderio della moglie che voleva ritornare a Roma. Da Reggio Calabria, il signor Umberto riesce a farsi trasferire a Sora, dove nasce il primogenito Vittorio e poco dopo si trasferisce a Napoli, dove Vittorio trascorre gli anni della fanciullezza, poi si licenzia dalla Banca d’Italia e si fa assumere da una Compagnia di Assicurazioni che, dopo una breve parentisi a Firenze, lo trasferisce nella tanto agognata Roma. Racconta Vittorio: “Eravamo quattro fratelli: Maria, Elena, Elmo e io. Nacqui a Sora il 7 luglio 1901, in Ciociaria. Mamma era romana, papà napoletano. Papà, che era un modesto assicuratore, dopo la mia nascita fu trasferito a Napoli, dove ho trascorso l’infanzia. Abitavamo vicino al carcere. Temevo il silenzio di certe sere, rotto solo dal ‘canto a figliola’, un canto che i parenti dei detenuti, presso il carcere di San Francesco, alzavano per comunicare coi reclusi. Un canto triste che aumentava di minuto in minuto, e che si placava solo con l’arrivo dei congiunti di altri reclusi. Come in una nenia

dicevano: ‘Mamma dice che ti devi cercare un lavoro, l’avvocato ti farà ridurre la pena. Ninetta pensa sempre a te’.” Del canto “a figliola” che sentiva nelle notti trascorse nella casa vicino al carcere di S. Francesco, Vittorio si ricorderà quando girerà l’episodio di Ieri, oggi, domani in cui Mastroianni comunica con Adelina, la moglie contrabbandiera, interpretata da Sofia Loren, che è rinchiusa insieme alla sua ultima creatura nel carcere. Anche la bella voce e il modo garbato di cantare – che gli frutterà l’appellativo di “Maurice Chevalier italiano”, che gli peserà moltissimo in futuro quando si sentirà attore completo – gli furono scoperti in famiglia. “Nel 1911, a Napoli, ci fu un’epidemia di colera” racconta De Sica. “Oggi si dà la colpa ai frutti di mare. A quei tempi le autorità avevano proibito, chissà perché, di mangiare i fichi. Mia madre se ne rideva, e continuava a scendere da basso per procurare cassette di fichi a tutti noi. Restavo di vedetta nel vicolo, per poter dare l’allarme. Una volta arrivarono due carabinieri, e io iniziai a cantare Torna a Surriento, mentre alle mie spalle le ceste venivano fatte sparire. I carabinieri mi dissero: ‘Bravo guagliò continua’, mentre il tramestio nel basso non accennava a finire. Per prendere tempo, cantai tutto il repertorio napoletano.” Sembra che proprio con il canto e con la capacità di stare in scena, che è propria di questo popolo che pare vivere su un palcoscenico naturale, il signor Umberto abbia trasmesso al figlio Vittorio la sua napoletanità, il suo modo di affrontare la vita, con filosofia e con fantasia. E l’esperienza deve essere stata profonda se per i pochi anni trascorsi a Napoli, sia pure quelli dell’infanzia, molto importanti per la formazione di un uomo, De Sica rimase napoletano per tutta la vita. Poi il modesto assicuratore fu trasferito a Firenze, dove portò con sé anche i suoi problemi, le sue ristrettezze e i suoi debiti. Il signor Umberto lasciò Napoli, la città tanto amata, per mantenere la promessa fatta alla moglie di portare la residenza della famiglia a Roma. Per questo lasciò la Banca d’Italia e si mise a fare l’assicuratore. In un primo momento a Firenze ma con la promessa di ottenere al più presto la sede di Roma. L’impatto con Firenze fu terribile, oseremmo dire di stampo… napoletano. Ma sentiamo il racconto di Vittorio, riferito da Leonida Repaci: “L’arrivo a Firenze rimane indelebile nella memoria del piccolo Vittorio. Appena sbarcato con la famigliola alla stazione di Santa Maria Novella, ecco Umberto De Sica lasciare il portafogli e, quindi, ogni suo avere, nelle dita svelte di un borseggiatore. I derelitti, ai quali è stato tolto il terreno sotto i piedi, non sanno che fare, dove riparare. Vanno a finire in un bar, dove mamma e figli, aspettando che il capofamiglia si metta in contatto con le Assicurazioni per farsi prestare del denaro, provvedono, intanto, a salare con le lacrime i primi sguardi su Firenze”. Di quell’episodio Vittorio ricorderà anche il commento di suo padre: “E poi dicono che i ladri stanno a Napoli.” Ma il signor Umberto, da buon napoletano, sa affrontare le difficoltà della vita

anche con grande senso dell’umorismo, come si evince da questo episodio raccontato dal figlio Vittorio: “Una mattina di domenica passeggiavo con mio padre in piazza Santa Maria Novella e il tepore del vestito nuovo mi procurava una sensazione di felicità: sentivo rinascere in me l’orgoglio, una sorta di pudore selvaggio. Mio padre andava avanti e indietro irrequieto. A un tratto fui afferrato per il bavero da un sarto che esigeva il denaro che mio padre gli doveva per gli abiti di noi ragazzi. Tolga le mani di dosso, disse mio padre con dignità. Tirò fuori un taccuino e aggiunse: è l’elenco dei miei creditori. Lei è ai primi posti, se continua a scuoterlo, retrocedo il suo nome in fondo alla classifica. Quel giorno ebbi paura di divenire adulto.” Poi a Roma, la capitale anche dello spettacolo, dove Vittorio, da bravo figliolo, si diplomò in ragioneria. Ma è sempre il padre a fargli “assaggiare” le tavole del palcoscenico e a fargli sentire il ronzio della macchina da presa. Esige il diploma, gli parla di un futuro dignitoso con lo stipendio della banca ma lo sogna attore e fa di tutto perché lo diventi, fornendogli le prime occasioni. Durante la prima guerra mondiale (Vittorio ha quattordici anni quando l’Italia entra in guerra e diciassette quando la guerra finisce) lo inserisce in una compagnia di dilettanti che si esibiscono negli ospedali a favore dei soldati ricoverati. Vittorio forse canta quelle canzoni che aveva imparato a Napoli proprio dal padre che lo accompagnava al pianoforte. E poi il debutto cinematografico nel 1917, a sedici anni, nella parte di Clémenceau ragazzo, nel film di Bencivenga Il processo Clémenceau. “E questo è nato proprio dal bisogno di guadagnare un po’ di soldi”, racconta Vittorio, “perché papà era molto povero e non aveva soldi per iscrivermi all’Istituto tecnico Leonardo da Vinci a Roma. Bencivenga, che era il regista, aveva preso simpatia con mio padre e con me, perché io andavo in casa Bencivenga a cantare le canzoni napoletane accompagnato al pianoforte da papà. E allora gli dicemmo: ‘Caro Bencivenga, qui non ci sono i soldi per pagare le tasse a ’sto ragazzo.’ E lui: ‘Gli faccio fare una parte in un mio film, la parte di Clemanceau ragazzo, e così gli danno i soldi per pagare le sue tasse.’ E così mi vestirono da collegiale, io aprivo una porta, tremavo tutto e dicevo ‘mamma!’ diverse volte e mi dettero dodici lire. Per un interesse proprio amministrativo ho cominciato l’arte cinematografica.” Galeotto il signor Umberto con le sue canzoni napoletane e con il suo pianoforte. Il 1923 è l’anno fatidico. Vittorio si è diplomato con qualche anno di ritardo – ma forse in conseguenza dei troppi spostamenti di sede e di scuola – e ha trovato, grazie all’interessamento del padre, che, evidentemente, nel vecchio ufficio ha lasciato qualche amico e un buon ricordo, quell’impiego alla Banca d’Italia che dovrebbe sistemarlo per tutta la vita. Ma è qui che ritorna in ballo quel “tarlo” che gli ha ficcato nella testa il signor Umberto. L’occasione gliela fornisce un amico che gli comunica che la compagnia di Tatiana Pavlova cerca giovani generici. Il giovane Vittorio si informa di tutto, della sicurezza del posto, della paga (è o non

è un ragioniere?) e, da bravo figliolo obbediente e ossequioso, ne parla al padre. Se il signor Umberto avesse detto di no, probabilmente, Vittorio avrebbe obbedito, avrebbe fatto la sua brava carriera in banca e l’arte italiana non avrebbe avuto uno dei suoi più importanti esponenti. Ma il signor Umberto disse di sì, con la scusa che la paga era migliore di quella che passava la banca. In realtà coronava il suo grande sogno: un figlio in arte (“Figlio mio” mi disse testualmente “ero molto triste di vederti entrare in banca… L’arte è la tua strada… Ti benedico…”). Un figlio al quale aveva insegnato a cantare, che aveva accompagnato al pianoforte, che aveva preparato ufficialmente come ragioniere ma nella cui testa aveva inculcato la passione per l’arte. Se il teatro prima e il cinema poi hanno avuto un Vittorio De Sica lo devono a lui, al signor Umberto De Sica, a Umberto D. E Vittorio comprese il ruolo che ebbe il padre nella sua formazione: “Un poeta che concentrava su me la poesia che non avrebbe mai scritta… Posso dire per lui quel che scrisse, un giorno, Vincenzo Cardarelli: ‘Vorrei credere che finché io sono al mondo, ci possa essere speranza per entrambi…’” Io penso che proprio da questo facile inizio, dall’incoraggiamento del padre, sia derivata a Vittorio la sicurezza del suo portamento, la sua recitazione ironica e sicura, la semplicità quasi cartesiana con cui entrava nei personaggi. E penso anche che all’affetto che lo seguì in tutta la sua vita debba la sensibilità e l’umanità che sta alla base della sua opera di regista. De Sica regista, infatti, ama i suoi personaggi, sembra che soffra con loro. È chiaramente dalla parte dell’operaio Ricci a cui è stata rubata la bicicletta, dalla parte del pensionato Umberto, dalla parte degli sciuscià, dei barboni di Miracolo a Milano. Per essere grande De Sica ha bisogno di sentirsi l’umanità addosso, di penetrarla e rappresentarla, di essere uomo tra gli uomini. Chi non conosce le difficoltà degli inizi pensa che la carriera di Vittorio De Sica sia scorsa facile, senza problemi, che il successo sia arrivato al momento giusto e nelle dosi giuste, come cosa naturale dovuta a chi il mestiere dell’attore e del regista affrontava con tanta naturalezza, senza l’ausilio di scuole, di teorie di recitazione, di complicate tecniche, perché per lui recitare significava comunicare con la gente, semplicemente. Nel 1970, quando si trova a Mosca per girare il film I girasoli, in una lettera alla figlia Emi, si lamenta perché per comunicare con gli attori, con la troupe, con la gente della strada ha bisogno dell’interprete. “Abbiamo ancora quattro settimane di lavoro tra Mosca e l’Ucraina e io non vedo l’ora di terminare perché è una fatica doppia non potersi esprimere direttamente con la gente, avendo sempre bisogno di avere accanto un interprete.” Quattro giorni dopo, scriveva, a proposito di un’attrice russa che aveva sul set e che si era formata alla scuola di Stanislavskij: “Come recitazione lascia un po’ a desiderare e non ricorda nessun gesto, nessun movimento, organizzato da me durante le prove… Eppure una recitazione falsa si avverte anche parlando una lingua per noi così difficile, e io ho avvertito questa falsità e gliel’ho detto: ‘Parli,

parli, Galina, e non ripeta a memoria delle parole scritte’… Io credo che vi sia un solo linguaggio tra la gente, quello della sincerità e soprattutto della semplicità. Eppure hanno avuto quella grande scuola di Čechov!” Cosa pensa della recitazione studiata e di scuola, lo dice anche in una lettera del 2 luglio: “Ieri sera andammo a vedere con Mastroianni un documentario su Stanislavskij, il grande direttore. Vi erano dei pezzi di scene recitate dai suoi attori, truccati benissimo ma forse un po’ troppo segnati, e la loro recitazione è sempre tesa, vibrante, caricata. Si nota che sono attori che hanno studiato a fondo i loro personaggi. Niente è affidato all’istinto ma soltanto alla macchina del gesto, della espressione del viso, del movimento. Tutto è calibrato, studiato. Il trionfo del paradosso di Diderot.” Eppure anche lui aveva avuto una scuola, per di più russa, quella della grande attrice Tatiana Pavlova. Ma probabilmente gli deve essere venuto in aiuto il suo fisico, assolutamente al di fuori di tutti i canoni di bellezza dell’epoca, che gli impediva di fare il protagonista, il primo amoroso che doveva sottostare più degli altri ai ferrei canoni di recitazione dell’epoca. Il giovane Vittorio faceva i caratteri, soprattutto i vecchietti che gli venivano particolarmente bene. Giuditta Rissone, che poi diventerà la sua prima moglie e gli darà la figlia Emi, quando lo conobbe era convinta che si trattasse di un attore anziano e navigato, tanto era capace di entrare nei panni dei personaggi vecchi. De Sica giovane era, infatti, magro e allampanato, nel suo viso scavato troneggiava un gran naso. Bastava quindi una parrucca brizzolata, un paio di occhiali, un po’ di borotalco sul viso e il vecchietto era pronto a entrare in scena. Il resto lo faceva la perizia nella recitazione. Piccoli trucchi che imparava osservando i colleghi più anziani e con maggiore esperienza o, più probabilmente, attraverso l’osservazione dei tipi che si incontrano nella strada, nella vita. Faceva, insomma, come il giovane Totò, ’o spione: rubava alla realtà e alla realtà restituiva, quando faceva il teatro, la commedia, caricando il personaggio e, quando si trovò, invece, dall’altra parte della macchina da presa, insegnando agli attori a restituire con aderenza alla verità. Si vantava di essere in grado di far recitare anche i sassi ed era vero, perché nessuno come lui ha reso attori, per una volta soltanto, coloro che attori non erano, quelle stesse persone, quella umanità viva e palpitante che aveva imparato a spiare e che ora conosceva a memoria. La sua predilezione per gli attori non professionisti non è legata soltanto, come si potrebbe pensare, al periodo neorealista ma la possiamo registrare anche in tempi in cui il cinema neorealista è ormai morto e sepolto e trionfa il cinema professionale, quello fatto da professionisti, quando ormai De Sica è diventato uno dei più famosi, apprezzati (e meglio pagati) tra i registi cosiddetti star director. Quando dirige, cioè, attori come Sofia Loren, la prediletta, come Marcello Mastroianni, come Richard Burton: stelle di prima grandezza che De Sica fa recitare con naturalezza, come se li cogliesse in una tranche de vie e che vorrebbe contornati di attori presi dalla strada, scelti sulla base dell’aderenza alla

tipologia che ha in mente, all’idea figurativa che si è fatta del personaggio. Ma spesso non ci riesce, soprattutto perché i tempi di produzione sono stretti e non consentono perdite di tempo con gli attori. Come nel film Ieri, oggi, domani quando per la sequenza del carcere ricorre a carcerate autentiche che si son presentate a lui con tanta spontaneità e verità. Scrive a Emi: “C’è la donna che fa il personaggio di Terremota. Ha ventinove anni, si chiama Gemito Vincenza. Ha nove figli, il primo l’ha avuto a diciassette anni. Suo marito, soprannominato ‘o frato d’o cinese, fa il contrabbando di sigarette all’ingrosso ed è stato due anni e mezzo a Poggioreale per oltraggio alle guardie di finanza. Invece Vincenza è stata 113 volte a Poggioreale e le sue due sorelle una cinquantina di volte. È orgogliosa quando ripete il titolo di un giornale che parlava di ‘Gemita dalle 113 condanne’. Sa tutto del carcere e ci informa su tutti i dettagli. Dice che in carcere, ‘inzomma, nun se sta male’.” Ma non c’è tempo per ricercare la verità, l’aderenza dei personaggi alla realtà. Non c’è tempo per tradurre l’esperienza in finzione, per cui “… La Sorrentina non attaccava mai in tempo la sua battuta. L’ho rimproverata, in quanto abbiamo dovuto ripetere la scena sei volte e Sofia aveva da esprimere commozione e gioia, quindi una forte dose di fiato e di emozione. La Sorrentina si è scusata perché ha suo figlio che nun se sente bene. La Zizzagliona è una ragazza che ha soltanto un seno indecente e ingombrante, ma non ha nulla dentro. Ha detto ‘viemme a truvà’, come se dicesse vogliamo fischiettare insieme? La Terremota, al secolo Vincenza Gemito dalle 113 condanne, invece, diceva la battuta ‘e maritete, sai che piacere i figli!’ e appena detta guardava me come a chiedere se l’aveva detta bene. Ho fatto una ventina di prove e sei ciak.” Per cui, il regista che deve rispettare un rigido piano di produzione, che ha addosso a sé gli occhi dei direttori di produzione, dell’organizzatore generale e che è responsabile davanti al produttore del budget del film, che cosa fa? “Dovrò ricorrere per le scene seguenti ad attrici del teatro napoletano, le più autentiche, che non abbiano ancora assunto la fisionomia di attrici. Le non professioniste sono troppo impacciate e ho sudato sette camicie per le scene eseguite nella cella.” Negli anni del neorealismo con gli attori presi dalla strada le cose vanno meglio, anche perché vengono inseriti in uno schema produttivo che li prevede e di cui sono, in un certo senso, il fondamento. Nascono così, grazie alle grandi capacità di De Sica nel plasmare la materia grezza, di tirare fuori l’attore che è dentro ogni individuo, i grandi attori di un solo film: i Rinaldo Smordoni, lo sciuscià Giuseppe, i Lamberto Maggiorani di Ladri di biciclette, i Carlo Battisti di Umberto D. Tutta gente presa veramente dalla vita e alla vita ritornati, come Carlo Battisti che De Sica conobbe in un’aula universitaria dove insegnava filologia, e che riuscì a far vivere, con la faccia e con la voce, la figura di pensionato nata nell’immaginazione di De Sica e di Cesare Zavattini. Per non parlare, poi, dei bambini, dallo straordinario Luciano De Ambrosis, il Pricò de I

bambini ci guardano, a Enzo Staiola, il Bruno di Ladri di biciclette. Quasi frutto di incontri casuali, spesso all’interno di lunghe e meticolose ricerche infruttuose. Come nel caso dei due protagonisti di Ladri di biciclette: “A un tratto” racconta De Sica “nella fila dei genitori, vidi un operaio che teneva il figlioletto per mano. Gli feci segno di avanzare, lui venne avanti esitante, sospingendo il bambino come in un piatto e sorridendo pieno di malinconica speranza. ‘No’, gli dissi, ‘sei tu che mi interessi, non il bambino.’ Era Lamberto Maggiorani. Gli feci subito il provino: e come si muoveva, come si sedeva, come muoveva le mani piene di calli, mani di operaio, non di attore, tutto in lui era perfetto… Mi feci promettere che dopo il film non avrebbe più pensato al cinema, sarebbe ritornato al suo lavoro. Mantenne la parola con onestà, ma poi ci furono i licenziamenti alla Breda, si trovò disoccupato e al cinema ritornò come all’ultimo rifugio. Intanto però il bambino non si trovava. Disperato decisi di cominciare ugualmente il film. Iniziai con la scena di Maggiorani che va in cerca dell’amico che lo aiuti a ritrovare la bicicletta. Si girava in quella specie di teatrino da dopolavoro. Stavo dicendo qualcosa a Maggiorani, quando mi volto infastidito dai curiosi che mi si affollavano intorno e vedo uno strano bambino con una faccia tonda, e un nasone buffo, e stupendi occhi vivissimi: Enzo Staiola. Questo me l’ha mandato san Gennaro, pensai. Era infatti la prova che tutto andava bene. Ci sono, nella vita dell’uomo, le giornate felici, nelle quali tutto va bene, tutto procede con semplicità, con naturalezza. Ebbene, quella di Ladri di biciclette è stata la mia giornata felice.” Per ottenere i risultati che voleva, De Sica con i suoi attori per un solo film usava, innanzi tutto, il metodo dell’imitazione: entrava lui nei personaggi, li faceva vivere davanti agli attori che dovevano interpretarli ed era lui stesso, di volta in volta, uomo, donna, vecchio, bambino, operaio e borghese, allegro e triste, usando tutte le arti della recitazione, la grande capacità interpretativa che aveva acquisito in tanti anni di teatro, fatto all’antica italiana (come lo definì Sergio Tofano, uno dei maestri di recitazione di Vittorio De Sica) in cui ogni attore interpretava anche trenta ruoli in un anno, i più diversi, i più disparati. Quando poi non riusciva a ottenere le reazioni desiderate, ricorreva a metodi non proprio ortodossi che non sono contemplati in nessun manuale di recitazione. Come ottenne il pianto di Enzo Staiola nel drammatico finale di Ladri di biciclette lo raccontò in occasione di una manifestazione di beneficenza a Roma che Ettore Scola filmò e inserì nel film C’eravamo tanto amati, costruendoci intorno il personaggio interpretato da Stefano Satta Flores: “… Il piccolo Staiola quel giorno non aveva voglia di piangere, allora un macchinista della troupe mi dice: ‘Signor De Sica, je metta in tasca quattro o cinque cicche, poi lo rimproveri e vedrà che piagne.’ Misi le cicche senza farmene avvedere nelle tasche di Enzo e gli dissi: ‘Ma Enzo, perché non piangi, che ci hai in tasca, le cicche? Allora sei un cicarolo!’ Lui pianse e io girai.” Ma questa spiegazione sa tanto di giustificazione postuma a qualche cosa che

lui stesso riteneva disdicevole. Due anni dopo Ladri di biciclette, infatti, De Sica girò insieme a Lamberto Maggiorani e al bambino Enzo Staiola, una ricostruzione della famosa scena del pianto provocato con un sonoro schiaffone. O come fece piangere la giovanissima Eleonora Brown, nel finale de La ciociara. Doveva essere un pianto vero, liberatorio, difficile anche per gli attori più navigati. “Sofia” racconta De Sica “ha eseguito la prima scena (quella in cui dice a Rosetta: ‘Manco più di Michele hai domandato… È morto, Michele!’) meravigliosamente. Sto proseguendo ora con Rosetta. Per agitarla un po’ le abbiamo detto cose atroci: se sua madre, in America, fosse morta, lei come reagirebbe? Se io le dicessi che è una stupida, deficiente, cretina, come lo sopporterebbe? E se io le dessi uno schiaffo, e gliel’ho dato, che faccia farebbe? Rosetta ha avuto un’espressione tragicamente angosciata.” Eleonora Brown, l’episodio (nel programma televisivo Viva De Sica di Manuel De Sica) lo racconta in maniera ancora più cruda: “Il Commendator De Sica mi venne vicino con aria afflitta, mi prese le mani e mi disse: ‘Sii forte, tua madre e tuo padre sono morti in un incidente stradale.’ Io, ovviamente, scoppiai a piangere e lui girò. Poi mi venne ancora vicino e mi disse: ‘Non ti preoccupare, ho inventato tutto per farti piangere. Scusami, ma era l’unico modo’…” Gli aneddoti sui metodi poco ortodossi di De Sica sono innumerevoli e tutti gustosi e sbalorditivi, come quello della vecchina di Teresa Venerdì: “… Nervosismo da parte mia e preoccupazione da parte della vecchia che avrebbe dovuto far capolino dal portone, squadrare il giovanotto che aveva bussato e che ero io, e dire un semplice be’! Che racchiudeva: diffidenza, meraviglia, coscienza di severa custode delle piccole ospiti dell’istituto. La folla rideva al be’! Prettamente romanesco della vecchia, ma a me non bastava. Non era il be’! Che volevo io, girammo la scena una decina di volte. Il sole andava via, l’operatore si rifiutava di girare, la vecchia sbagliava e, a un ennesimo be’! Peggiore degli altri, le detti un leggero scappellotto. Non l’avessi mai fatto! Si ritrasse dal portone e si rifugiò nel cortile. L’operatore chiuse la macchina nella sua custodia e io mi dovetti accontentare di far stampare le due ultime scene girate che sembravano le migliori. Andai nel cortile e là vidi la mia vecchia, arrabbiatissima, circondata dalla sarta, dal truccatore e da tutte le bambine che la rassicuravano circa il regista che ‘non era poi cattivo’, che faceva così ‘perché voleva farle fare una bella figura’. ‘Ah sì?’, faceva la vecchia, lanciandomi sguardi d’odio e di minaccia: ‘famme fa’ ’na bella figura? Come quella che m’ha fatto fa’ davanti a tutta quella gente de fora?… Quell’impunito deve ringrazia’ Dio che qui ’n ce sta mi’ fijo perché sinnò je la faceva vede’ lui, siccome se trattano le donne! Davanti a tutti, quer morammazzato me va a fa’ quelli strilli e me ce dà puro ’no sganassone!’ Poi, rivolgendosi a me e minacciandomi con la mano: ‘Poi famo li conti stasera. Aspetta che l’ho detto a mi’ fijo, te viè a fa’ du’ occhi così!”

Il lungo apprendistato

A fargli il provino fu la Pavlova in persona, che gli disse: “Recitami qualcosa.” “Sì, ma che cosa?” rispose Vittorio che aveva in repertorio soltanto le canzoni napoletane che cantava con suo padre. “Una cosa qualsiasi” replicò la Pavlova “a scuola ci sei stato e quindi una poesia la saprai.” De Sica una se la ricordava, e la recitò: “Cavallina, cavallina storna/ che portavi colui che non ritorna…” La Pavlova non lo lasciò finire, fece un cenno con la testa all’amico di Vittorio e se ne andò. “Che vuol dire?” disse Vittorio. “Vuol dire che ti ha preso.” Debuttò qualche giorno dopo, tanto non aveva bisogno di fare molte prove per mettere il cappello nelle mani del primo attore e dire la sua unica battuta. La paga di ventotto lire al giorno gli sembrò molto più alta dello stipendio di ragioniere alla Banca d’Italia ma non aveva fatto i conti con le spese che avrebbe dovuto sostenere per mantenersi fuori di casa e per farsi il corredo che ogni attore aveva l’obbligo di avere con sé: sei vestiti da mattina e pomeriggio, uno smoking, un tight, cappelli e camicie, ed anche qualche parrucca. Per cui delle 840 lire al mese, 500 se ne andavano via per pagare le rate al sarto che lo aveva rifornito del guardaroba. Con il resto doveva viverci e mettere qualcosa da parte per i periodi in cui non avrebbe lavorato. “Mi restavano in tasca pochi soldini” racconta De Sica “compravo una fetta di castagnaccio e con quella mi sostenevo per tutta la giornata. Una volta svenni sul palcoscenico, per la fame. Era nella Signora delle camelie, la Pavlova mi aveva già promosso secondo brillante. Recitavo Gastone, l’amico di Margherita, cantavo una bergère e mi accompagnavo alla spinetta. Dunque, svenni e caddi dietro la spinetta. Salvò la scena la Pavlova, con naturalezza: ‘Ah, questo Gastone!’ disse come seguendo un copione, ‘sempre ubriaco… Ecco in che stato si riduce!’, e diede una mano agli altri per farmi portar via dalla scena.” Affacciarsi al teatro con Tatiana Pavlova fu per Vittorio De Sica una grande fortuna, perché la famosa attrice russa fu negli anni Venti – insieme a Salvini che introdusse in Italia la figura del regista – colei che iniziò il processo di rinnovamento del teatro italiano, ancora legato a una recitazione di maniera e ruotante intorno alla figura centrale del primo attore e mattatore. Le innovazioni di Salvini e della Pavlova presupponevano la valorizzazione di tutte le figure secondarie, per cui con loro un giovane attore non imparava gli

schemi di un mestiere ma si esercitava a interpretare i personaggi che gli venivano affidati. Racconta la figlia Emi: “Il primo anno faceva poco più che la comparsa. Qualche volta diceva soltanto una battuta ma il padre, il signor Umberto, era lì tutte le sere ad ascoltarlo, comprando il biglietto, qualche volta anche per parenti e amici. Alla fine della recita andava in camerino e con aria da intenditore guardava Vittorio e diceva: ‘Vitto’, ieri sera l’hai detta meglio’.” Dopo un anno e mezzo di esperienza con Tatiana Pavlova, nel ruolo di secondo brillante, di caratterista, De Sica approda alla compagnia di Luigi Almirante – un altro grande innovatore del teatro italiano, il primo interprete dei Sei personaggi pirandelliani – che aveva il coraggio di valorizzare i giovani da cui esigeva rigore e impegno. Perché questo cambiamento? Per migliorare no di certo, perché se Almirante era un grande attore, non aveva le capacità di direzione moderna della Pavlova, e quindi non poteva essere migliore maestro. Pare che al fondo della sua decisione ci fossero problemi di dizione. A quel tempo, gli attori dovevano parlare “da attori”, in una lingua, cioè, che gli uomini comuni non parlavano, e di conseguenza le inflessioni dialettali non erano tollerate. Per cui, qualcuno avrà fatto rilevare al giovane Vittorio che, se fosse rimasto con un’attrice russa che non poteva capire le sfumature della lingua italiana, non avrebbe mai migliorato la sua dizione, contaminata dal dialetto napoletano. Una contaminazione che, per sua e nostra fortuna, non perdette mai del tutto. Leonida Repaci nell’articolo che abbiamo citato scrisse: “Nella Compagnia di Almirante, per anni, si pone il problema della dizione, risolvendolo lentamente con un severo controllo dei suoi mezzi espressivi, correggendo, che so io, léttera con lèttera, sposa con spòsa, e difendendo queste sue conquiste persino in casa dove si parla italo-napoletano, e dove questa fedeltà all’eloquio nativo è da Vittorio tacciata di borghese, ciò che fa dire ironicamente al padre: già, perché lui è militare!” La decisione presa dal giovane Vittorio è molto significativa della concezione che si aveva all’epoca dell’attore di prosa e, di conseguenza, anche dell’attore di cinema perché il cinema italiano, quando divenne sonoro, attinse immediatamente alla prosa dove militavano i cosiddetti attori parlanti. La recitazione sporca, quella non accademica e con connotazioni dialettali, era ammessa soltanto per i comici e questo perché in Italia, come è naturale, i comici hanno attinto a piene mani ai dialetti, che fino a pochi anni fa erano le lingue parlate: vedi Totò, Angelo Musco, Gilberto Govi, Aldo Fabrizi e altri. Alberto Sordi racconta che, da ragazzo, quando decise di diventare attore, si rivolse a una maestra di recitazione che, dopo un provino, sentenziò: “Non potrai mai fare l’attore, perché non sai pronunciare bene le parole…” “Ma io parlo come parla la gente comune” rispose il giovane Alberto. “L’attore non parla come la gente comune!” disse la maestra e Sordi, per nostra fortuna, non dette retta alla maestra. Ma Sordi poté farlo perché nel dopoguerra in Italia si sviluppò un

grande cinema comico, di cui lui diventerà subito, insieme a Totò, il più importante esponente. De Sica, invece, deve accettare il consiglio perché negli anni Venti lo sbocco di un attore può essere soltanto il teatro di prosa. Ma sarà proprio lui, con il cinema neorealista, a dare spazio agli attori che non parlano da attori, ma gente vera che si porta dietro il proprio dialetto e le proprie connotazioni regionali, operando così una vera e propria rivoluzione nella recitazione, non soltanto italiana ma addirittura mondiale. Ma De Sica non è soddisfatto del cambiamento, perché dopo un po’ si accorge che, anche se impara a parlare più correttamente, il suo repertorio scade di qualità e la sua recitazione, formalmente trattenuta nei canoni, perde di spessore. Tanti anni dopo confesserà di essersi pentito amaramente per aver lasciato Tatiana Pavlova, con il suo teatro essenziale e moderno. Fu Almirante a far incontrare Vittorio con la sua prima moglie Giuditta Rissone, che era stata promossa proprio da Almirante al ruolo di prima attrice, accanto a Sergio Tofano. Giuditta apparteneva a una famiglia d’arte di origine piemontese, che lavorava in teatro da molte generazioni. I figli più dotati facevano gli attori, gli altri facevano i mestieri del teatro. Il padre di Giuditta faceva l’attrezzista e dei suoi cinque figli soltanto due, Giuditta e Checco, superarono la prova. Vittorio Rissone lavorava con piccole compagnie, con capocomici ignoranti. Come quello a cui proposero di mettere in scena Il viaggio di Enea: “Sta bene” rispose “a condizione che Enea lo faccia la mia signora.” Ma lavorò anche con Ermete Zacconi, al quale, in qualità di attrezzista della compagnia, doveva fornire anche il bambino che portava in braccio entrando in scena ne La morte civile. Naturalmente il bambino era un figlio di Rissone. Quando il bambino cominciava a pesare troppo, Zacconi, rientrando in quinta, lo depositava e diceva: “Rissone, questo comincia a pesare, me ne faccia un altro.” Così Emi descrive sua madre: “Era piccola ed esile ma in scena sembrava alta due metri. Era molto brava, tanto che insegnò a mio padre a lavorare e lo convinse a uscire dai ruoli di vecchietto in cui si era relegato, perché si sentiva brutto, certamente non tagliato per i ruoli di primo amoroso. Se mio padre diventò primo attore, lo dovette a mia madre, che lo convinse delle sue possibilità. Per più di dieci anni recitarono sempre insieme. Quando nacqui io, la mamma, che diceva di non aver mai sentito dentro di sé il sacro fuoco dell’arte, decise di smettere, appagata dalla maternità. Alcuni anni dopo, nel dopoguerra, ritornò per una breve stagione in teatro soltanto perché a volerla era Ruggero Ruggeri, il mostro sacro del teatro italiano di allora, il quale le affidò la parte femminile principale de Il piccolo santo. Ma non si sentì di continuare quando la compagnia si spostò da Roma per andare in tournée. Disse di no anche a Luchino Visconti che la voleva per le sue Tre sorelle. Non voleva viaggiare. L’ultima apparizione la fece al cinema, in Fellini 8 1/2 dove faceva la parte della mamma di Marcello

Mastroianni. Quando Fellini le disse: ‘Lei deve dare un bacio sulla bocca a Marcello’, lei esclamò: ‘Oh, povera creatura!’ Era molto ironica la mamma, e molto intelligente.” Anche Elsa de’ Giorgi, che debuttò nel cinema giovanissima negli stessi anni di De Sica, così ricorda Giuditta Rissone: “Molte cose abbiamo in comune con De Sica. La prima è di essere stati due attori, sia pure con una differenza di età a mio vantaggio, però, in fondo, scoperti da Camerini. Anche se lui, quando fu scoperto da Camerini, era già quello squisito primo attor giovane di una delle compagnie più incantevoli d’Italia a cui dava vita soprattutto la bravura eccezionale della sua prima moglie, Giuditta Rissone, indubbiamente una delle attrici più straordinarie che abbiamo avuto, una vera maestra. La sua modestia, il suo modo di scomparire, di uscire di scena dopo il suo matrimonio con De Sica e la sua appassionata maternità per la figliola, non fanno che confermare anche le doti morali di Giuditta Rissone.” Ad Almirante, De Sica deve anche l’esordio come primo attor giovane. L’occasione gli venne dalla defezione di un attore che era stato scritturato in quel ruolo, proprio a stagione teatrale inoltrata. Altri attori liberi validi sulla piazza non se ne trovavano, per cui Almirante fu costretto, anche su consiglio della Rissone che, come dice suo fratello Checco “aveva già il cuore morbido per quel generico”. Ma, anche se fu aiutato dalla sorte, De Sica sembrava proprio tagliato per i ruoli principali. Dice ancora Checco Rissone: “Funzionava, quel figlio di buona donna. Funzionava per simpatia, per charme e per bravura. Certo, non poteva affrontare Romeo, ma aveva mestiere e metteva in pratica un grande trucco di Almirante: la dialettalità nei ritmi, nelle cadenze. Almirante era un grande maestro…” In che consisteva il trucco di Almirante? Semplicemente, raccomandava ai suoi attori, quando non sapevano come dire una battuta, di pensarla nel loro dialetto e di tradurla in italiano. Un sistema infallibile perché il dialetto riportava l’attore alla spontaneità, soprattutto in un’epoca in cui i dialetti erano ancora le lingue parlate, non essendoci stato ancora il processo di unificazione linguistica, che nel nostro paese si avrà soltanto grazie alla televisione. L’espediente suggerito da Almirante anziché ingessare la recitazione di De Sica in una lingua fredda e artefatta, la riporta verso l’amata lingua napoletana con cui si era formato. “Il partenopeo De Sica ha sublimato quella lezione” dice Checco Rissone “da lì nasce la sua recitazione cordiale, umana, la sua comunicativa immediata. Da lì, probabilmente, nasce per via indiretta anche il neorealismo.” Osservazione molto acuta, perché la recitazione neorealista è basata sulla spontaneità e sulla verità, due qualità che non si possono raggiungere se non ci si esprime con una lingua che ci appartenga completamente. Nel 1930, Vittorio De Sica, grazie soprattutto a Giuditta Rissone, fa il grande salto: diventa primo attore di una nuova compagnia diretta da Guido Salvini e

formata da attori giovani ed emergenti. Probabilmente, De Sica sarebbe rimasto ancora qualche annetto con Almirante se la compagnia non si fosse sciolta: Almirante da una parte e Sergio Tofano, insieme a Elsa Merlini, dall’altra. De Sica e Giuditta Rissone rimasero disoccupati. Che fare? Trovare un’altra compagnia in cui continuare a fare ancora i primi attor giovani, oppure tentare la fortuna con una compagnia propria? Idea indubbiamente allettante, ma con quali mezzi? La Rissone, spalleggiata dal fratello Checco, ricorse al padre pensionato, che con il suo lavoro in teatro, per godersi la vecchiaia, aveva messo un po’ di soldi da parte, che non esitò a gettare “allegramente in quell’impresa disperata”. L’impresa disperata era la formazione di una compagnia di giovani attori, diretti da Guido Salvini che veniva dalla Germania, dove era stato assistente di Max Reinhardt e da dove era ritornato con idee grandiose, assolutamente sproporzionate ai mezzi della compagnia. “Per la prima commedia che mandammo in scena al vecchio Manzoni” racconta la Rissone “fece fare i bozzetti nientemeno che a Mario Sironi.” Insieme a De Sica e alla Rissone, ci sono Giulio Donadio, Umberto Melnati, Amelia Chellini, Pina Renzi e Checco Rissone. Il repertorio comprende testi moderni come la prima commedia di Ugo Betti, un autore molto congeniale al primo De Sica, due testi di Noël Coward, il primo testo di Cesare Giulio Viola (l’autore di Pricò, il romanzo da cui De Sica trarrà, dieci anni dopo, il suo primo film importante, I bambini ci guardano) e il primo lavoro teatrale di Achille Campanile, il geniale umorista iniziatore e anticipatore di un tipo di comicità surreale e modernissima che soltanto nel dopoguerra sarà accettata dal pubblico e avrà molti illustri continuatori. La compagnia ottiene lusinghieri giudizi dalla critica, che la segue con simpatia e attenzione, ma scarsi risultati di botteghino. I motivi sono da ricercare nel repertorio troppo sofisticato per un pubblico che chiede un teatro di consumo, negli esperimenti di regia incomprensibili in un’epoca in cui tutto ancora ruota intorno al mattatore, e soprattutto nello scarso richiamo esercitato dai nomi degli attori che figurano nel cartellone. La palma… dell’insuccesso spetta, ovviamente, a L’amore fa fare questo e altro di Achille Campanile, rappresentato per la prima volta al teatro Manzoni di Milano nell’ottobre del 1930. Dopo venti minuti, il pubblico, che non capiva le provocazioni di Campanile, le situazioni assurde e le battute senza senso, passò al contrattacco con fischi e urla che non consentivano la continuazione della recita. Gli attori si erano fermati, erano rientrati in quinta dove si meditava di far calare il sipario, quando, inaspettatamente, entrò in scena l’autore, giovane ma già con aria ironicamente autorevole (ignoro se già allora portasse il suo monocolo che credo adottò più per snobismo che per una reale necessità) accentuata da una improbabile barba finta. Chiese un po’ di attenzione e, ottenutala faticosamente, pronunciò questa frase: “Se state buoni, ve ne

facciamo un altro pezzo.” Il pubblico non capì, ovviamente, neppure questa battuta non scritta di Campanile e il sipario fu calato in tutta fretta, sotto il lancio di ortaggi di vario genere. De Sica non abbandonò del tutto Campanile ma cercò di riproporlo alcuni mesi dopo a Roma, illudendosi di trovarvi un pubblico più maturo e più disponibile alle novità. Si sbagliò perché anche a Roma fu costretto a interrompere la rappresentazione e, per non dover restituire i soldi del biglietto, venne a patti con gli spettatori che si accontentarono di qualche canzone e di un paio di sketch di rivista. Umberto Melnati, che faceva parte della compagnia diretta da Salvini e che, per diversi anni, formerà insieme a De Sica e alla Rissone un memorabile trio, così ricorda quelle esperienze di gioventù: “L’unico attore che aveva un certo nome era Giulio Donadio il quale, non essendo pagato, ben presto ci lasciò. Ci avevano dato il teatro Manzoni a Milano, ma non veniva nessuno, nessuno. Io quando entravo in scena contavo i radi spettatori: uno, due, tre… Sono dodici. Spaventoso. Per le altre compagnie il pubblico c’era. Noi non eravamo assolutamente conosciuti, anche se c’erano dei giornali che scrivevano: ‘Andate a sentire questi giovani, voi non li conoscete ma sono bravi.’ Mi ricordo che siamo andati a Ferrara, nel solito teatro vuoto, ma quei pochi che c’erano ci hanno detto: ci siamo divertiti e i giornali domani diranno tanto bene di voi, vedrete che domani sera ci sarà gente. E difatti i giornali hanno scritto: ‘Andate a sentire questi giovani vedrete come sono bravi.’ La sera dopo all’inizio dello spettacolo è esploso un tale temporale che a teatro non sono venuti neanche i pompieri. Sembra una barzelletta ma è vero. Non eravamo conosciuti, questo è il fatto. Noi si cercava di andare avanti pagando gli attori che, altrimenti, se ne sarebbero andati. Mi ricordo che a Modena, al teatro Storchi, una sera c’era, come al solito, poca gente, ma qualche cosa bisognava pur fare. Prima dello spettacolo ci è arrivato un biglietto da due attori: ‘Noi siamo nella tal trattoria, abbiamo mangiato ma non abbiamo da pagare il conto. Se volete che veniamo a teatro mandateci a prendere con i soldi’.” A questo punto della storia, arriva il salvatore, per caso, come sempre avviene. Il salvatore è uno strano personaggio dello spettacolo italiano, un impresario geniale, un autore di successo, un regista prolifico che ha fatto incassare al cinema italiano cifre iperboliche e ha lanciato verso il successo, oltre a De Sica, anche Macario, Fabrizi e Totò. Si chiamava Mario Mattòli, un avvocato di Tolentino (per tutti nel cinema fu sempre l’Avvocato) che aveva abbandonato la professione, attratto dal mondo dello spettacolo, per diventare amministratore di una impresa teatrale. Ma ben presto si era messo in proprio e aveva fondato una ditta per la produzione di spettacoli di rivista che andavano in scena sotto l’etichetta e il titolo di Za-bum. Prima della guerra andarono in scena dieci compagnie Za-bum, tutte numerate in ordine progressivo. Nel dopoguerra l’etichetta fu riesumata per altri spettacoli in cui debuttò un altro grande del teatro e del cinema comico, Alberto Sordi.

Mario Mattòli era un personaggio bizzarro, sicuro di sé e sempre teso alla ricerca del successo. Invidiato e odiato da molti, ha sempre risposto colpo su colpo, spesso con polemiche rabbiose, nel disperato tentativo di non farsi emarginare. Aveva sposato Mitty, sorella di Milly, la famosa cantante e attrice. Le due, prima del matrimonio di Mitty, facevano coppia. Mattòli per tutta la vita si portò dietro questa affinità e la cosa, chissà perché, lo mandava in bestia. Infatti, nella stessa Enciclopedia dello Spettacolo si legge: “MATTÒLI, Mario – Regista cinematografico e teatrale, capocomico e scenarista italiano, n. A Tolentino (Macerata) il 30 novembre 1898. Cognato dell’attrice di varietà, rivista, dramm. E cinem. Milly…” A Francesco Savio che lo intervistava per il suo libro Cinecittà anni Trenta, e gli ricordava, evidentemente per l’ennesima volta, la cognata, rispose con tono acido: “Quanto a Milly, ogni tanto mi dicono che è mia cognata, non capisco se è una colpa o no.” Un bel giorno Mattòli, che girava l’Italia alla ricerca di idee e di facce nuove per le sue Za-bum, capitò in uno dei teatri semivuoti in cui recitava Vittorio De Sica insieme ai suoi compagni e li assunse in blocco per una sua rivista. All’epoca le riviste erano interpretate anche dagli attori di prosa, perché non esisteva una specializzazione per il teatro cosiddetto leggero e una per il teatro drammatico. Tutti facevano tutto, e i medesimi attori che l’anno prima avevano recitato Pirandello o Betti, come lo stesso De Sica, passavano a recitare su altri palcoscenici in cui si cantava, si ballava e si recitavano cose leggere, garbate, o pungenti satire, sketch comici e così via. Melnati parla di questo incontro con Mattòli come se fosse stato la caduta dal cielo della manna: “Poi siamo andati a Milano al teatro Olimpia, solita cosa, niente pubblico. Lì è venuto a teatro Mattòli, capocomico degli Spettacoli Za-bum, ci ha sentiti e gli siamo molto piaciuti. Disse: ‘Ma questi si potrebbero utilizzare, vi faccio fare io qualche cosa’.” Così Mattòli racconta l’incontro con la compagnia di De Sica: “Una sera ero entrato per caso in un teatro di Milano dove c’erano una ventina di persone, e dove De Sica, la Rissone, Melnati e la Chellini, sotto la regia di Guido Salvini, recitavano in un modo meraviglioso, però nel teatro non c’era nessuno! Io che ho fatto? Ho preso l’amministratore e ho detto: ‘Embè?’ Lui: ‘Embè, sciogliamo, non ci sono i soldi neanche per un panino imbottito…’ Io: ‘Vieni da me in ufficio.’ La mattina dopo rifeci la compagnia, ci aggiunsi Besozzi, Coop, tanti elementi, e trasformai questa cosa che commercialmente era un fallimento in una cosa funzionante e di successo.” Il primo lavoro non fu una rivista, bensì una commedia brillante, si intitolava Totò ed era la storia di un cane molto amato dalla sua padrona. E qui Mattòli ebbe la prima idea “commerciale”. Racconta Melnati: “Per far venire un po’ di pubblico ha fatto scrivere sui manifesti: ‘Quelli che si presenteranno al botteghino per acquistare il biglietto e dimostreranno di aver pagato la tassa per il loro cane,

avranno lo sconto del cinquanta per cento’.” Però il successo, quello vero, arrivò con la rivista. Ma cosa era in realtà la rivista a quei tempi? Forse una cosa leggermente diversa da ciò che intendiamo noi con questo termine. Ce lo spiega Luciano Ramo che di Mattòli fu socio e coautore: “Rivista, perché passa in rassegna fatti e persone del giorno, sulla scena presenta questi personaggi naturalmente in caricatura, per le musiche prende a prestito canzoni d’ogni tempo o brani d’opera (libretto e musica) adatti a essere parodiati.” Certo in quegli anni in cui il regime fascista si andava consolidando non deve essere stato facile tenere in piedi un tipo di spettacolo che ha gli scopi e le caratteristiche descritti da Ramo. Quali fatti, quali persone si potevano mettere in caricatura? Certamente non i fatti importanti, o gli uomini del regime. Ci si doveva, per forza di cose, rifugiare nella garbata critica al costume, ai tic della borghesia che poi costituiva la massa dei fruitori degli spettacoli stessi, per cui si poteva colpire soltanto con una certa grazia. Il genere è, infatti, negli anni Trenta destinato a modificarsi, nel senso di rivista di quadri spettacolari, alla maniera dei fratelli viennesi Schwartz, mentre prende sempre più piede un sottogenere di tipo popolare, che è l’avanspettacolo, più corposo e sanguigno e, in un certo senso, anche meno controllato, perché diffuso in maniera capillare in tutto il territorio nazionale, con una miriade di cine-varietà e un grande numero di compagnie.” È nell’avanspettacolo e non nella rivista che si formeranno i grandi comici (come Totò, la Magnani, Fabrizi) e i personaggi più importanti dello spettacolo leggero italiano, anche perché la rivista era un punto di arrivo, e non un punto di partenza per gli artisti. Persino i fratelli De Filippo rappresentarono i loro primi atti unici (come la prima versione di Natale in casa Cupiello) fra un film e l’altro. La Compagnia di De Sica, sotto l’egida di Mattòli, divenne la Za-bum 8. Dopo ce ne saranno soltanto altre due, a riprova della profonda modificazione che subì il teatro leggero in quegli anni. Il primo spettacolo fu Le lucciole della città, scritto da Oreste Biancoli e Dino Falconi, canzoni e musiche del maestro Mascheroni, che nel titolo si rifaceva al capolavoro cinematografico di quell’anno, Luci della città di Chaplin. Fu un grande successo, di quelli che fanno epoca e che influenzano il costume. Vittorio De Sica, che era stato ignorato dal pubblico italiano come attore drammatico, si impone come attore di varietà e si fa notare subito per la macchietta di Ludovico, un tipo di snob di quelli che già all’inizio degli anni Trenta parcheggiavano a Via Veneto, e per la canzone che la accompagnava: “Oh Ludovico, sei dolce come un fico”, che ben presto si diffuse in tutta Italia, insieme alla fama di Vittorio De Sica, ribattezzato il Maurice Chevalier italiano, un’etichetta che detestava – lui che aveva dietro le spalle dieci anni di teatro serio! – e che si tolse di dosso a fatica. Il successo era arrivato, i guadagni pure ma Vittorio e i suoi amici, Giuditta e Umberto, non mostravano di essere felici. Si erano preparati per militare con

impegno nel teatro di prosa e, invece, l’Avvocato di Tolentino li obbligava a fare la rivista. “Tra i pochi spettatori” racconta De Sica “una volta ci fu Mattòli, ideatore degli spettacoli Za-bum, quelli di rivista: ci giudicò buoni e ci arruolò in massa. E noi dolorosamente, piangendo, dovemmo lasciare la nostra arte di attori di prosa, nobile arte, e andare a cantare Giacinto e Ludovico sei dolce come un fico.” Sono giudizi dati a distanza di molti anni, dettati però da un ricordo doloroso, da una cocente delusione patita da un giovane che pensava di essersi avviato su una strada di grande impegno professionale, una strada di arte, che aveva dovuto abbandonare per colpa delle spietate leggi del mercato che a quell’epoca, non essendo il teatro sovvenzionato, erano alla base di ogni attività artistica. Ma sono anche giudizi che non tengono conto, come invece dovrebbero, dei vantaggi che gli arrecò quell’esperienza in un genere più popolare come era indubbiamente a quell’epoca il teatro di rivista che, oltre ad avergli dato notorietà, gli aveva fatto aggiungere, obbligandolo a una recitazione più immediata, altre frecce al suo arco di attore. E io penso che il De Sica attore che conosciamo noi debba molto di più di quanto lui non pensasse, a questi anni passati nella rivista piuttosto che a quelli passati con la nobile arte della prosa. Ma sentiamo come un critico dell’epoca racconta la partecipazione di De Sica alla prima Za-bum: “Nel secondo atto di Lucciole della città, De Sica, tenutosi fin lì in disparte, si fa largo fra i suoi compagni e si impone al pubblico con una canzone sceneggiata su due vecchi nonni che festeggiano il nipotino laureato di fresco: i nonni sono la signora Chellini e Pilotto, il nipotino l’eclettico De Sica. È un quadretto pieno di tenerezza che richiama qualche lagrima agli occhi… Il pubblico l’applaude freneticamente… E serve anche a dimostrare che gli autori, se vogliono, sanno anche far altro…” E poi si passa a Ludovico: “… Il rappresentante della haute: il giovane idiota che non ha nient’altro da fare oltre alla mondanità. De Sica e Melnati fanno una creazione di questa scenetta e Ludovico, il caro e buon amico, di vero stampo antico, ch’è dolce come un fico…È bissato più volte… E tutti se ne vanno a casa contenti, ridendo, fischiettando i motivi graziosi, proponendosi di dirne bene agli amici.” Queste critiche avranno fatto sicuramente piacere a De Sica che finalmente, dopo qualche anno di gavetta e di anonimato, cominciava ad assaporare un po’ di popolarità, la gente lo fermava per la strada, gli faceva firmare autografi e si poteva permettere anche di girare in automobile, perché la sua paga era salita a cento lire al giorno. In aiuto al De Sica rivistaiolo immagino che siano venuti gli insegnamenti del signor Umberto che aveva fatto digerire al figlio mezzo repertorio napoletano e gli aveva insegnato a sfruttare, modulandola con eleganza, una voce flebile ma bene intonata. L’eleganza, ecco il segreto del successo di De Sica attore di cinema negli anni Trenta, e non solo negli anni Trenta. E io aggiungerei anche la misura, una qualità indispensabile per un attore cinematografico ma totalmente

sconosciuta agli albori del cinema sonoro che attinse a piene mani dai palcoscenici di tutta Italia. Mentre Hollywood si arricchisce subito di una nuova e originale leva di attori, quasi sempre nati per il cinema e con il cinema e che, comunque, conoscono e applicano con rigore le regole di recitazione cinematografica, da noi il cinema, divenuto parlante, pensa di rivolgersi agli attori di teatro che avevano sempre parlato, per cui, nei primi anni specialmente, i film che si producevano non erano altro che delle commedie filmate. Il successo di De Sica si arricchì, nei successivi spettacoli della Za-bum, di un altro numero divenuto proverbiale e passato alla storia dello spettacolo, il Dura minga che faceva in coppia con Umberto Melnati: i due, truccati da anziani signori piemontesi degli inizi del secolo (i cari vecchietti con cui il giovane De Sica si era cimentato a lungo gli vennero in aiuto), parlano di una recente invenzione o di una nuova moda, tipo l’automobile, e commentano: “Dura minga, non può durare”, e più la moda e l’invenzione si erano affermate e più gli spettatori, grazie al senno di poi, ne traevano motivo di divertimento. Il Dura minga, insieme alla sua fama di cantante, spalancò a De Sica le porte della radio che, come mezzo di diffusione di massa, fece uscire la sua fama dall’ambito necessariamente più ristretto del pubblico teatrale e gli aprì, in un certo senso, le porte del cinema, a furor di popolo. De Sica non fu grato a Mattòli per avergli spalancato le porte del successo e per averlo reso popolare, forse proprio perché da lui e dall’esperienza della Zabum si sentì fissato in un cliché artistico che considerava minore e da cui non vedeva sbocchi, anche se gli sbocchi c’erano già stati. In una intervista del 1936, quando è già un celebrato divo del cinema, De Sica ritorna sulla storia dello Chevalier italiano: “… Ingiusto battesimo al quale mi ribello per infinite ragioni. Chevalier è un delizioso chansonnier, un uomo che la natura ha dotato di singolarissime qualità fisiche e intellettuali. Chevalier ha fatto di se stesso un tipo teatrale, adottando, come una maschera, quel cappello di paglia che, ormai, più che un cappello è un tic. Né ambisce a rappresentare altri se non se stesso. Io invece sono un attore drammatico, che per proprio diletto, prima che per l’altrui, canta anche canzoni.” E qui scatta l’orgoglio dell’attore di teatro, che si sente superiore e più completo e che ammette di essersi dedicato alla rivista e al cinema soltanto per motivi di cassetta o perché trascinatovi da una popolarità tutto sommato inaspettata e non voluta. E aggiunge: “Altra cosa che mi rattrista è la convinzione di molti che, in me, l’attore di teatro sia una specie di facciata dell’attore di cinema. È invece l’opposto. Io sono sempre stato un attore drammatico che, talvolta, come quasi tutti i fotogenici e i fonogenici del teatro comico, fa anche del cinema. Che poi queste evasioni abbiano un esito insperatamente felice e mi diano notorietà, prestigio e denaro, appassionandomi a esse ogni giorno di più, non vorrei lamentarmene. Il cinema mi piace sul serio, forse perché mi permette di realizzare quel che è impossibile nel teatro.” E ancora: “Quanto al teatro, esso è alla cima dei miei pensieri, in testa a tutti i

miei ideali. Disgraziatamente il teatro diventa ogni giorno più difficile, soprattutto per la scarsità del repertorio. Se il pubblico sapesse quanta fatica ci è costata la commedia che noi gli offriamo! Essa è il risultato di molte, infinite richieste, di assillanti sollecitazioni, di centinaia di telefonate, di migliaia di cartoline illustrate, di colloqui senza fine. E dopo tanto lavoro io preferisco ritirarmi in buon ordine ad aspettare, dal fondo di qualche stabilimento di lavorazione cinematografica, il momento buono per rimettere il capo alla ribalta…” Sono parole pronunciate dall’attore di cinema più pagato del momento, da colui che viene considerato il primo vero attore italiano da macchina da presa del cinema italiano. La cosa poi deve aver fatto saltare i nervi a Mario Mattòli, più della storia della cognata, se, dopo più di quarant’anni, morto De Sica, dichiarava: “Ora io dirò sempre bene di tutti, ma dirò male di De Sica perché mi è stato sempre antipatico. De Sica aveva grandi capacità ma anche il difetto dell’ingratitudine. Era un ingrato, soprattutto. Anche nei miei confronti. Un giorno ha scritto su un giornale che il periodo più brutto della sua vita era quello che aveva passato con me. Però aveva dimenticato che io l’avevo trovato in un teatro dove moriva di fame, e l’avevo portato a guadagnare milioni. Io non avrei avuto nulla da ridire se avesse detto: ‘Nessun punto di contatto tra me, che avevo fin da allora aspirazioni artistiche e credevo che obbligo dell’attore sia di elevare ed elevarsi spiritualmente, e un Mattòli con la sua caratteristica di showman’.” Forse Mattòli non ha tutti i torti, anche se pronunciava queste parole negli ultimi anni della sua vita, quando, uscito per ragioni di età dall’attività, vedeva i suoi pupilli, quelli che lui aveva indubbiamente portato al successo, giustamente celebrati mentre lui si sentiva dimenticato e relegato dalla critica al ruolo di onesto artigiano, una definizione che in Italia suona sempre come un’offesa. Mattòli, infatti, insieme ai suoi tantissimi meriti (non ultimo quello di aver diretto i migliori film di Totò, che non sono – come vuol far credere una critica che ha scoperto il grandissimo comico con molti anni di ritardo e sulla spinta del pubblico e della giovane critica – quelli diretti da Pasolini), aveva anche quello di aver scoperto un altro aspetto della personalità di Vittorio De Sica, quello che lo rese popolare e che gli spalancò le porte del cinema. Un merito che nessuno, tantomeno lo stesso De Sica, gli riconobbe mai. Infatti, dopo tre anni, appena ritiene di essere abbastanza noto da mettersi in proprio, De Sica abbandona Mattòli e la Za-bum e forma una nuova compagnia di prosa con Sergio Tofano e Giuditta Rissone, dalla quale è oramai inseparabile.

Una vita divisa

La figlia Emi non sa quando fra i due nacque l’amore, ma certamente molto prima della celebrazione del matrimonio che avvenne nel 1937, esattamente dopo dieci anni di conoscenza e di lavoro insieme. La notizia delle nozze, avvenute in stretta forma privata, venne data da un giornale specializzato, con un servizio fotografico esclusivo di cui è autore addirittura Lucio Ridenti, noto critico teatrale e direttore di Dramma. Il titolo è: “Fiori d’arancio in Cinelandia: Vittorio De Sica e Giuditta Rissone”, e questo è il testo delle didascalie che commentano le foto: “E così si sono sposati, e vivranno felici e contenti. La notizia, per quanto tenuta nascosta e data soltanto all’ultimo momento, è naturalmente trapelata. Ma gli sposi che avevano deciso davvero di fare un matrimonio il più modesto e segreto possibile (davvero, non come le famigerate coppie americane…) sono riusciti nel loro intento. Alla cerimonia, semplicissima, non assistevano infatti che i due testimoni, Umberto Melnati e Luigi Chiarelli, il primo per la sposa, il secondo per De Sica), e Lucio Ridenti, autore delle fotografie che vi presentiamo e che documentano l’avvenimento. Lo sposalizio è stato celebrato nella chiesa di San Pietro, ad Asti, dal parroco Emilio Cavallotti che ha tenuto gelosamente segreta la data del matrimonio. Era il 10 aprile 1937. Dopo la cerimonia, v’è stata una piccola colazione in casa dei parenti della sposa. E poi subito di ritorno a Torino, al teatro Alfieri, a lavoro per la nuova commedia Una più due di Chiarelli…” L’anno dopo nacque Emi, e Giuditta cominciò a sentire una forte incompatibilità fra l’arte e la maternità, soprattutto per quei continui spostamenti, quel cambiare città e casa così frequentemente. I primi tempi la piccola Emi viene aggregata alla compagnia, com’era già successo a Giuditta e ai suoi fratelli, ma i tempi sono cambiati e le entrate della famiglia De Sica sono ben più sostanziose di quelle della famiglia Rissone. In un articolo del 1939 così viene descritto lo sforzo di Giuditta Rissone per conciliare la maternità con il teatro: “Fra le molte balie che in questi giorni tiepidi di sole si radunano ai giardini pubblici di Milano spingendo dolcemente le carrozzine lungo gli ameni vialetti, ce n’è una di gentile e insieme fiero aspetto. Avrà sì e no vent’anni e se le rivolgete la parola vi risponderà col caldo e arcano accento del dialetto ciociaro. Si chiama Anatolia, ha occhi e capelli nerissimi, e il volto olivastro dai lineamenti regolari, di una certa finezza. La bambina che ella

amorevolmente custodisce ha appena un anno, si chiama Emi ed è la figlia di Giuditta e Vittorio De Sica. Emi ha incominciato presto a viaggiare, insieme al babbo e alla mamma. Da Roma, dove nacque, è andata con loro a Bolzano, poi a Venezia e quindi a Milano. E a Milano, il giorno dieci di febbraio, ha compiuto un anno. De Sica quando si trattò di riprendere a recitare, disse alla moglie: è impossibile portare con noi la bambina. A Bolzano, a Venezia, a Milano troveremo l’inverno. Farà troppo freddo per Emi. Ma Giuditta Rissone si intestò: io non la lascio a Roma. Ebbe ragione lei. La primavera, anche al nord, quest’anno è in anticipo…” Giuditta Rissone recitò fino al giugno del 1942 poi, un po’ per la guerra, un po’ per la figlia, un po’ perché, come diceva, non aveva mai sentito il sacro fuoco dell’arte si ritirò dalle scene. Vittorio De Sica nel 1942, sul set di Un garibaldino al convento, conobbe una giovane attrice spagnola, María Mercader. Ma, anche quando la Mercader gli darà due figli (Manuel e Christian), rimase sempre accanto alla moglie e alla figlia come presenza affettuosa e premurosa. Arrivò al punto di nascondere ai figli, con la complicità delle due donne, la verità, dividendosi tra due case: quando stava con Emi, Manuel e Christian lo credevano in viaggio e viceversa. A Natale faceva due cenoni, a Capodanno, per rispettare la scadenza della mezzanotte non avendo il dono dell’ubiquità, metteva l’orologio due ore avanti nella casa dei due bambini più piccoli e quindi più creduloni, per poi passare a casa di Emi e brindare con lei. Emi conobbe la verità a quindici anni, da una compagna di scuola che le fece leggere un rotocalco che pubblicava un servizio fotografico sulla nuova famiglia di suo padre. Comprò dall’edicola vicino casa tutte le copie per non farle leggere a sua madre, che credeva ignara. Alla fine, si fece coraggio e affrontò suo padre: “Voglio conoscere i miei fratelli”, intimò. De Sica pianse e la ringraziò per la sua bontà d’animo e generosità, ma rimandò con i più banali pretesti l’incontro per anni. “Un giorno mi feci coraggio”, racconta Emi, “e telefonai a María. Quando sentì il mio nome per poco non svenne. Fu lei che mi fece incontrare i miei fratelli. Restammo su una panchina ai Parioli per alcune ore. Ci raccontammo le nostre infanzie e nostro padre, visto dalla mia e dalla loro esperienza. Concludemmo che era un gran pasticcione e che si era complicata la vita soltanto per bontà e per il grande amore che nutriva per noi. Sicuramente, quel giorno, tutti e tre amammo di più nostro padre.” Da quel giorno ebbe due famiglie, ufficialmente, che mantenne molto bene, nonostante il vizio del tavolo verde che è diventato proverbiale. De Sica, infatti, era noto in tutti i casinò italiani e in quelli limitrofi, soprattutto a Montecarlo, che frequentava non appena ne aveva la possibilità. Si dice che talvolta accettasse di partecipare come attore a un film soltanto perché le riprese si tenevano nei pressi di un casinò. Nel gioco si comportava con grande signorilità, e si allontanava dal tavolo, il più delle volte dopo aver perduto cifre consistenti, con molto distacco,

dopo aver baciato la mano alle signore e aver lasciato una lauta mancia agli impiegati. La sua concezione del giocatore-signore la fa esprimere al personaggio del conte Max, nel film omonimo, quando insegna ad Alberto Sordi, un giovane giornalaio con velleità di crescita sociale, come ci si comporta al tavolo da gioco: “Prima di tutto devi ricordarti che il vero signore lo si riconosce per come si comporta al tavolo da gioco, quindi controlla sempre il tuo atteggiamento, i tuoi gesti, l’espressione del tuo viso. Né gioia né dispetto devono trasparire dai tuoi lineamenti, freddo, impassibile, distaccato. Sai perché i croupier dei casinò hanno tutti i requisiti del grande giocatore? Perché, pur trovandosi tra centinaia di migliaia di milioni di franchi che vanno e vengono, non puntano mai un franco per conto proprio. Ecco quindi il segreto del vero signore: stare al tavolo da gioco come se non rischiasse nulla.” Nelle lettere alla figlia Emi (pubblicate nel volume Lettere dal set, a cura del sottoscritto Sugarco editore) parla soltanto due volte del gioco, a distanza di pochi giorni, la prima volta il 7 agosto del 1963 mentre gira a Napoli Ieri, oggi, domani per lamentarne gli effetti deleteri (“… Mi ha telefonato Elmo da Roma per dirmi che De Laurentiis non ha versato l’ultima rata per il film Il boom e che a via della Consulta era arrivata una farfalletta per tre milioni. Debiti di gioco. Mannaggia!”), e soltanto sei giorni dopo per annunciare che: “Farò, forse, una puntatina a Cava dei Tirreni, dove c’è un circolo ospitale. Come il lupo, perdo il pelo ma non il vizio. Ma vado molto prudente perché i denari scarseggiano e le figlie devono divertirsi e rimettersi.” Alla seconda moglie María, De Sica aveva raccontato di essere entrato per la prima volta in un casinò, a Sanremo, nei primi tempi della sua attività teatrale. Era giovanissimo e con la sua aria di neofita fu notato da un anziano giocatore il quale gli regalò una fiche. Vittorio la giocò e vinse. Il signore lo guardò tristemente e disse: “Avrei preferito che avessi perso.” Soltanto molti anni dopo, quando oramai il gioco gli aveva portato via buona parte dei suoi guadagni, capì la battuta dell’anziano giocatore. Perché il vizio del gioco lo accompagnò per tutta la vita. Racconta ancora María Mercader: “Quando girava con la sua compagnia si giocava tutto e mi raccontò che spesso succedeva che dovessero tornare senza una lira in terza classe.” Anche Eugenio Scalfari ha da raccontare un curioso aneddoto sui rapporti di Vittorio De Sica con il gioco: “Conobbi De Sica quando avevo quindici anni, perché mio padre dirigeva il Casinò di Sanremo; De Sica era un giocatore incallito e diventò amico di mio padre. Un giorno venne a trovarci a colazione, cantò Parlami d’amore Mariù accompagnato al piano da mia madre. Era molto elegante e mi colpì il fatto che portasse le ghette bianche. Un giorno mio padre tornò a casa e raccontò che avevano dato il viatico a De Sica, un piccolo contributo che il casinò dava ai clienti più affezionati che non avevano neanche più i soldi per comprare il biglietto del treno che doveva riportarli a casa.”

Anche Alberto Sordi fu testimone di molte débâcle al tavolo verde di De Sica, il quale era capace di stare per molte ore a giocare, perdendo senza battere ciglio cifre notevoli, per il semplice gusto di giocare. “Al tavolo del gioco” racconta Sordi “veniva fuori il gran signore. Gli piaceva perdere. Più perdeva e più si eccitava. Io credo di essere stato uno dei pochi a farlo uscire vincente da un casinò. Giravamo insieme un film a Udine e tutti i giorni lui mi trascinava a Venezia. Arrivavamo verso mezzogiorno, ci facevamo una bella mangiata alla Colomba e poi verso le due ci presentavamo al Lido. Poiché il casinò apriva solo alle due e mezzo, gli inservienti ci facevano entrare, ci davano due poltrone e noi dormivamo una mezz’oretta. Quando arrivavano, i primi giocatori facevano un balzo a vedere Vittorio De Sica e Alberto Sordi stravaccati su due poltrone, che russavano beatamente. Dopo, lui cominciava a giocare. Siccome De Sica aveva sempre, come tutti i giocatori, almeno dieci minuti vincenti, cosa facevo io? Lo prendevo di peso, lo sollevavo dalla sedia e lo portavo via fra lo stupore della gente. De Sica si vergognava un poco di queste mie intemperanze e allora improvvisava un piccolo show, guardava con occhi imploranti il croupier e diceva: ‘Mi porta via… Mi porta via.’ Dopo però era contento di trovarsi qualche soldo di più in tasca.” Emi si ribella di fronte all’immagine di un padre che avrebbe sperperato un grande patrimonio al tavolo verde, facendo soffrire i figli e lasciandoli praticamente in miseria: “Papà ha guadagnato moltissimo. Da La ciociara in poi è diventato uno dei registi più pagati del mondo. E poi, anche negli anni in cui faceva i film d’arte che non incassavano, c’era il De Sica attore che guadagnava per lui (un milione al giorno nei primi anni Cinquanta). È vero, ha perso tanto, anche perché quando era in vincita non sapeva fermarsi mai, ma ha anche guadagnato tanto e ai figli non ha mai fatto mancare niente.”

Arriva Mister Brown

Il teatro di prosa rimarrà per molto ancora il grande amore di De Sica, tanto che lo praticherà ininterrottamente anche nell’immediato dopoguerra, fino a tutto il 1946, ed avrà registi illustri come Alessandro Blasetti (che si era dedicato al teatro, probabilmente perché, essendo considerato un regista del passato regime, stentava a trovare lavoro nel cinema) e Luchino Visconti che si dedicava ai suoi primi esperimenti di regia teatrale. Con Visconti, De Sica mise in scena una memorabile edizione de Il matrimonio di Figaro di Beaumarchais. L’addio al teatro, insomma, coincide con la definitiva affermazione come regista, proprio in concomitanza con l’uscita di Sciuscià, il suo primo capolavoro di stile neorealistico. Il capitolo cinema, anche se ci sono due esperienze precedenti nel cinema muto, si apre per De Sica, praticamente, nel 1932. Ed è un capitolo nutritissimo, che comprende 31 regie e più di 140 interpretazioni. Se non vado errato, soltanto Alberto Sordi attore ha fatto di più. Totò, che alcuni anni prima di morire festeggiò il suo centesimo film, in realtà, in tutto, ne fece soltanto 97. Il cinema era proprio congeniale a Vittorio De Sica, che per molti anni lo praticò quasi come ripiego, amando lui profondamente il teatro, quello drammatico, quello serio. Eppure sembrava che fosse nato per stare davanti a una macchina da presa, perché del cinema conosceva i tempi e la misura. Imparò subito che davanti a una cinepresa l’attore deve essere vero, non deve mai esagerare, non deve amplificare il gesto come invece è costretto a fare in teatro. Dalla prosa apprese, invece, la capacità di entrare nei personaggi, di caratterizzarli e di restituirli con credibilità. Questa qualità gli sarà molto utile quando si troverà dietro la macchina da presa e dovrà insegnare agli attori, professionisti e non, le tecniche di recitazione di cui fu sempre grande e riconosciuto maestro. Eppure il primo impatto con il cinema fu disastroso e gli fruttò un giudizio negativo e un veto a proseguire da parte di Pittaluga, l’uomo più potente del cinema di quegli anni, il proprietario-presidente della Cines, la società cinematografica a cui si deve la parte più rilevante del primo cinema italiano. Così racconta De Sica: “Ne La compagnia dei matti mi rovinai la reputazione di attore bello, diciamo così. Il truccatore mi truccò talmente male, mi mise dei baffi alla cinese e io, con questo nasone, e molto magro, ero talmente brutto come

amante di quella povera Elena Lunda, protagonista del film, che Pittaluga, l’allora padrone assoluto del cinema italiano, decretò che io non sarei mai più entrato in uno studio cinematografico.” Ma a Vittorio di questo veto sembra non importi nulla, perché lui ha sempre in testa il teatro di prosa a cui vorrebbe tornare, lasciando definitivamente il tanto detestato teatro leggero ma, checché ne dica e checché ne pensi, il successo ottenuto con le riviste della Za-bum, rimosse in qualche maniera il veto di Pittaluga il quale fu colpito dalla sua immagine rivistaiola di giovane attore, elegante e charmeur, fine dicitore e cantante alla moda, di Maurice Chevalier dei poveri che, se da una parte lo aveva reso popolare, dall’altra lo sminuiva e, per questo, lo mandava letteralmente in bestia. “Io dovevo assolutamente cantare” ricorda “era una delle condizioni che il produttore poneva, una condizione sine qua non: oltre a interpretare il personaggio, io dovevo cantare una canzone. Tanto è vero che, dopo molti anni, quando ero già diventato un divo, mi rifiutai di cantare, dissi: ‘Sì, accetto questo film, ma non voglio più cantare’.” Lo rivediamo in una foto di scena di uno di quei primi film, Due cuori felici, in un ricco interno borghese, in perfetto stile Novecento creato dallo scenografo Gastone Medin, tipico della moda dei cosiddetti telefoni bianchi, con Rina Franchetti, Umberto Melnati e Mimì Aylmer. Gli uomini sono, ovviamente, in smoking (Melnati con papillon nero e De Sica bianco), le donne in bianco lungo. La Aylmer sta al pianoforte e De Sica canta la canzoncina How do you do, Mr. Brown. Nella vita di Vittorio De Sica ci sono tre grandi svolte e tutte e tre sono legate a un uomo: il primo, come abbiamo visto, fu Mario Mattòli che lo portò alla popolarità, il secondo fu Mario Camerini che lo impose come grande divo cinematografico, il terzo sarà Cesare Zavattini che lo aiuterà a diventare, con l’apporto delle sue idee e della sua fantasia, il grande autore che tutto il mondo ha celebrato. Di Camerini si dice che sia stato un precursore del cinema neorealista. La definizione è certamente esagerata, anche perché l’Italia degli anni Trenta era ben diversa dall’Italia del dopoguerra. Certamente, Camerini fu un innovatore e, per certi versi, un anticonformista. Innanzi tutto non era fascista e si era creata nell’ambiente del cinema una fama di socialista che gli procurò anche qualche guaio con il regime, probabilmente alimentato da qualche collega invidioso, che lui non ripagò con uguale moneta quando, nel dopoguerra, si ritrovò a far parte della commissione per l’epurazione del cinema italiano. Camerini fu indulgente e mise ancora una volta in mostra la sua bontà e la sua finezza d’animo. Comunque, senza voler scomodare l’ideologia socialista e la milizia antifascista, si può tranquillamente affermare che Camerini non ha niente a che fare con il cinema dei telefoni bianchi, perché quello che rappresenta è un mondo marginale, affatto trascurato dal cinema, tutto impegnato a raccontare favole

ambientate in mondi patinati e irreali ricostruiti negli studi. Infatti, mentre il cinema muto, paradossalmente, traeva vantaggio dalla mancanza del sonoro e dei problemi tecnici connessi, e aveva la possibilità di spaziare a piacimento in tutti gli esterni, il sonoro aveva chiuso il cinema negli studi, dove i problemi della registrazione, ancora ai primordi, erano più facilmente risolvibili. Camerini ebbe il merito di riportare il cinema all’esterno, in mezzo alla gente, in un mondo reale popolato da operai, impiegati, commesse di negozio e non più da contesse ungheresi. Il primo film che fece con Vittorio De Sica, Gli uomini che mascalzoni…, del 1932, segna in questo senso una vera e propria svolta, non soltanto per De Sica e per Camerini ma per tutto il cinema italiano. Innanzi tutto perché il protagonista è un autista e poi perché è girato tutto in esterni, a Milano, negli ambienti della neonata Fiera Campionaria. Fu una innovazione molto sorprendente, tanto che il noto critico cinematografico Filippo Sacchi così scriveva sul Corriere della Sera: “È la prima volta che vediamo Milano sullo schermo. Ebbene, chi poteva supporre che fosse tanto fotogenica?… Camerini ha saputo cogliere con una finezza estrema certi inconfondibili momenti del volto e del movimento di Milano ed è riuscito a darcene, senza sforzo, il colore tutto lombardo, l’operosa vitalità.” E poi quelle atmosfere che ricordano, o forse anticipano, certo cinema francese, quelle finezze degne del miglior René Clair, quell’uso disinvolto della recitazione, lasceranno il segno nel cinema italiano di tutto il decennio, anche se non mancheranno i telefoni bianchi, le commedie ambientate in una finta Ungheria, con tanto di conti e di contesse. Sarebbe azzardato e forse assurdo definire antifascista il cinema di Camerini, ma è certo che non piaceva al regime, perché non era in linea con le direttive del partito, come non lo era il regista, il quale non fu mai capace di grandi ribellioni (ma chi lo fu?) ma non si prestò neppure mai a operazioni omogenee al regime, come quando, con un atto di furbizia, disse no a Pavolini che gli chiedeva di girare un film che doveva celebrare i fasti dell’aviazione italiana, l’arma cara al fascismo. “Mi sentii perduto”, racconta, “e dissi: ‘Non lo posso fare.’ Dice Pavolini: ‘Come, lei non lo può fare, lei lo deve fare.’ Ripetei che non potevo farlo e inventai una scusa abbastanza valida, dissi: ‘Guardi, eccellenza, non lo posso fare perché debbo confessarle che ho una tale paura di andare sull’aereo da lasciarci la pelle perché soffro un po’ di cuore’.” Soltanto una volta incappò nei rigori della censura e fu con Il cappello a tre punte che usci profondamente mutilato delle parti di più forte critica sociale, contro le tasse, contro la prepotenza del potere. Si può dire che il cinema di Mario Camerini utilizzò al massimo tutti gli spazi di libertà e di autonomia che il fascismo consentiva in quegli anni a un cineasta. Gli uomini che mascalzoni… nasce proprio dall’esigenza di… prendere aria, di uscire dall’angustia di ambienti e di storie senza senso: “Un giorno io dissi a Solaroli, direttore di produzione della Cines” ricorda Camerini “ma scusa, qui si

fanno tutti i film con i pezzi di strada ricostruiti alla Cines, tutti più in interni che in esterni. C’è la Fiera di Milano, che è stata inaugurata da poco. Io faccio un film tutto quanto alla Fiera di Milano in esterni, in qualche ambiente che troveremo lì… E questo credo che abbia dato il sapore al film. La storia era una storiella semplice di De Benedetti e mia, anche piacevole. Il film diventò popolare anche per la collaborazione di Cesare Andrea Bixio, il quale non conosceva la musica e cercava i motivi con il dito e scrisse il motivo di Parlami d’amore Mariù. Io lo mandai alla Cines e mi risposero che non era accettabile. “C’era una scena che si svolgeva in una di quelle trattorie sul lago Maggiore, c’era un organino. De Sica e la ragazza ballavano insieme, lui canticchiava. A me piaceva il motivo e, contravvenendo agli ordini ricevuti dalla Cines, di notte io e Bixio andammo in uno di quei posti dove si facevano i rulli per i pianini, con le punte. Ce lo fecero per la mattina alle sette, alle otto partimmo, misi questo rullo dentro l’organino e quella musica rimase nel film. Una musica che poi è diventata più celebre del film stesso, tanto che, per molti anni, quando arrivavano gli italiani da qualche parte, invece di suonare Giovinezza, suonavano Parlami d’amore Mariù.” Per avere De Sica, Camerini dovette superare l’ostacolo Pittaluga, il presidente della Cines che lo aveva bandito da tutti i film di sua produzione. C’era la questione del naso, troppo grande, in quel volto magro. Con l’aiuto di Emilio Cecchi, scrittore e direttore artistico della Cines, un intellettuale che contribuì molto alla fondazione del cinema italiano moderno, riuscì a imporlo e ne attenuò l’effetto naso diminuendo la magrezza del volto: “Vittorio era talmente magro che gli usciva fuori soltanto il naso. Allora io ebbi l’idea di mettergli dentro le guance della bambagia e lo gonfiai un poco, e lui parlò per tutto il film con questa bambagia in bocca, poveretto!” Il film ebbe un grande successo, tanto da scalfire in maniera profonda la moda dei film canterini che era nata con il successo del primo film sonoro, La canzone dell’amore, imperniato appunto su un’altra canzone di Bixio, Solo per te Lucia. Il successo fu dovuto anche alla canzone Parlami d’amore Mariù, che diventerà popolarissima e che Bixio aveva scritto quasi clandestinamente per Mario Camerini. Ancora una volta, De Sica era stato costretto a cantare. Cosa che lui detestava fare perché si sentiva ingiustamente associato al personaggio leggero delle sue riviste. Il successo di Gli uomini che mascalzoni…, anche se lo consacrerà definitivamente divo cinematografico, non lo libererà dell’ossessione delle canzoni perché nei film che girerà negli anni successivi sarà ancora costretto a cantare. Canterà in Un cattivo soggetto, un’altra canzone destinata al successo, Sono tre parole. Canterà ne La segretaria per tutti, canterà in Amo te sola. Quattro anni dopo Gli uomini che mascalzoni…, lo faranno cantare ancora, nel film Non ti conosco più, una canzone che porterà al successo insieme a Elsa Merlini, Dammi un bacio e ti dico di sì. Poi cercò di farsi dimenticare come cantante ma non ci riuscì. Sentite che cosa

racconta la sua seconda moglie María Mercader, che lo conobbe nel 1942 ed era venuta dalla Spagna, per cui non conosceva le sue qualità di cantante: “Non conoscevo le sue doti di cantante, all’inizio. Durante una tournée teatrale a Napoli lo costrinsero a cantare a sipario chiuso, l’inevitabile Parlami d’amore Mariù e alcune canzoni napoletane. Vittorio cantò benissimo, con quella sua abilità di misurare e contenere il sentimentalismo dei testi e di esprimere tutta la melodia della canzone. Sentiva la voglia di vita in quel pubblico di sopravvissuti alla guerra, e certo cantò anche per me, che lo sentivo per la prima volta.” Vittorio non riuscì a godersi il suo primo vero successo cinematografico perché, poche settimane prima dell’uscita de Gli uomini che mascalzoni…, suo padre, il signor Umberto – l’uomo a cui doveva tutto, che lo aveva avviato alla carriera artistica, che gli aveva insegnato a cantare, che lo aveva fatto esibire per la prima volta, che lo aveva incoraggiato a lasciare la banca per andare a lavorare in teatro – morì. A Vittorio era venuto a mancare, oltre al genitore amatissimo, anche il suo primo e più grande ammiratore. L’uomo che, nelle prime apparizioni teatrali, comprava ogni sera decine di biglietti per gli amici che andavano ad applaudire il suo Vittorio. Quando apparve finalmente al cinema ne La vecchia signora, dove faceva una piccola parte, il signor Umberto non si perse una sola proiezione al cinema Barberini di Roma, mettendosi in fila, insieme ai ragazzini della prima proiezione della giornata, per andare a vedere il suo ragazzo che cantava una canzone irridente nei confronti di Emma Gramatica (Zaganè… Zaganè…). Racconta Vittorio: “Entrava, assisteva alla mia scenetta, usciva e ritornava al secondo spettacolo, e così fino a mezzanotte. Povero papà. Ecco perché io ho questa ammirazione per quest’uomo. Moriva, e io facevo il mio primo successo, giravo Gli uomini che mascalzoni…, ma lui non ha potuto vederlo. Questo è stato sempre il mio cruccio, il mio dolore.” Mario Mattòli rimproverava a De Sica di non conoscere il sentimento della gratitudine, ma, se ciò era vero, non si verificò certamente nei confronti di Camerini: “Io ho un’adorazione per Mario Camerini” disse “prima di tutto l’uomo e poi l’artista, il poeta, il regista proprio delicatissimo. L’inizio della mia carriera di attore e il mio futuro di regista sono stati influenzati, appunto, dall’arte fine, delicata, di questo grande artista che è Mario Camerini. A lui devo il mio successo, e anche il mio primo ingresso nel buon cinema lo devo a lui, perché si impose contro Pittaluga, contro tanti: per la verità, il solo a essere alleato con lui nel volermi protagonista di Gli uomini che mascalzoni… fu Emilio Cecchi, il quale puntò i piedi. Quindi devo riconoscenza a Camerini per avermi accolto in questo suo meraviglioso film, e sono riconoscente a Camerini per avermi insegnato a essere vero, sincero e, come regista, a curare molto la recitazione, i rapporti fra i personaggi…” E poi concludeva: “Camerini era veramente grande nell’insegnare, perché era sincero nel sentire.” Ecco, la sincerità, che diventerà poi il segreto del successo di De Sica attore,

ma soprattutto di De Sica regista, un ruolo di cui sentiva molto l’aspetto didattico e con il quale ottenne risultati superiori a quelli ottenuti da qualsiasi altro regista al mondo. “Faccio recitare anche i sassi”, si vantava, e aveva ragione, perché i risultati che otteneva erano grandi, tanto con i dilettanti quanto con i divi famosi. Ma il suo capolavoro in questo senso fu Sofia Loren che prese ne La ciociara dopo alcuni anni di cura hollywoodiana che l’aveva resa sofisticata e le aveva tolto quell’autenticità che lo stesso De Sica le aveva messo in risalto ne L’oro di Napoli, e ne fece un’attrice vera, genuina, sofferente e sofferta, ricca di una grande umanità. Un ruolo che le fece guadagnare l’Oscar, l’ambito premio che soltanto un’attrice italiana prima di lei aveva guadagnato: la grande Anna Magnani. Ma dei rapporti fra De Sica e Sofia Loren parleremo più avanti. La collaborazione con Mario Camerini, nonostante il notevole successo di Gli uomini che mascalzoni…, non fu lunga e duratura. De Sica ritornò subito – anzi, più di prima, visto il grande successo ottenuto – a interpretare quelle commediole con i telefoni bianchi e a cantare le sue canzoncine che aspiravano a diventare popolari come Parlami d’amore Mariù. Dovranno passare tre anni prima che De Sica e Camerini si ritrovino su un set, ma l’incontro sarà molto importante perché avverrà su un soggetto di Cesare Zavattini il quale, con Darò un milione, entra per la prima volta nella vita di Vittorio De Sica. Il soggetto, firmato con Giaci Mondaini, un fine e arguto umorista padre di Sandra, è di stile squisitamente zavattiniano: un miliardario, stanco della vita frivola e vuota, si veste da vagabondo e fa sapere alla stampa che regalerà un milione a chi si renderà protagonista di un atto di solidarietà nei suoi confronti. Lo spunto è interessante anche perché dà la possibilità a Camerini di entrare in quegli ambienti popolari la cui descrizione gli è molto congeniale. Ed è singolare il fatto che ci entri attraverso un miliardario che vuole uscire dal mondo rosato della commedia dominante. Seguirà un anno dopo, nel 1936, Ma non è una cosa seria dall’omonima commedia di Luigi Pirandello, Il signor Max nel 1937 e, soltanto due anni dopo, I grandi magazzini, in coppia con Assia Noris. Gli ultimi due film sono sul filone delle trasgressioni tanto caro a Camerini. Il signor Max è una satira, per quell’epoca piuttosto graffiante, della nobiltà sfaccendata che vive fra un bridge e un maneggio di cavalli, un viaggio in Costa Azzurra e uno in Spagna. De Sica interpreta la parte di un giornalaio che non è contento del suo status e vuole inserirsi anche lui nel bel mondo. Dopo un tentativo di censura, il film presentato a Venezia riceve addirittura la Coppa del ministero della cultura popolare per la migliore regia italiana. Il regime aveva fatto buon viso a cattivo gioco o più semplicemente aveva creduto alle giustificazioni di Camerini il quale affermò che il film non satireggiava la nobiltà bensì il giornalaio illuso di poter cambiare il suo stato sociale? Si sa soltanto che Camerini, oltre a essere quel bravissimo regista che era, era molto abile nel

difendere con la dialettica il suo lavoro e le sue idee. I grandi Magazzini fu invece un tentativo riuscito di ritornare al mondo raccontato ne Gli uomini che mascalzoni…, con Vittorio De Sica ancora una volta nei panni di un autista. Il 1940 sarà l’anno della svolta di Vittorio De Sica, l’anno della sua prima regia cinematografica. Dopo dieci anni di cinema visto davanti alla macchina da presa, decide di dirigersi da sé e mettere a profitto l’esperienza fatta come attore. Lo spunto glielo darà involontariamente Carmine Gallone che lo aveva diretto pochi mesi prima in una Manon Lescaut che lo aveva fatto irritare non poco. “La gente domanda sempre” racconta De Sica “in che modo e perché un attore passa alla regia. Ma è difficile rispondere, perché il processo è lento e abbastanza naturale. Penso però che ci sia sempre una spinta esterna, un piccolo urto, qualcosa che ti capita e ti fa decidere. Nel caso mio la spinta venne dalla vanità ferita. Avevo interpretato Manon Lescaut di Carmine Gallone e non ero piaciuto ai critici. Mi bruciava, tanto più che avevano ragione. Ma non era tutta colpa mia. Gli stessi difetti che mi rimproveravano, li avevo previsti durante le riprese e ne avevo parlato a Gallone, senza alcun risultato. Mi dissi: tanto vale fare da soli, prendersi la responsabilità totale del proprio lavoro. Beninteso, c’era una ragione più profonda: l’obiettivo mi interessava ogni giorno di più. Dire oggi che fin da quel momento io pensassi al realismo, sarebbe forse presunzione: ma è verità che io avevo già intuito la possibilità di portare la macchina da presa fuori dagli stabilimenti, all’aria aperta, ovunque fosse la vita degli uomini.” E qui De Sica mi sembra ingiusto con Mario Camerini, con il maestro che già otto anni prima aveva concepito un cinema di questo tipo, tanto più che i primi film del regista De Sica non rispondono affatto a questa logica, bensì si muovono ancora sul filone dei telefoni bianchi. Il primo film, Rose scarlatte, è addirittura la versione cinematografica di una commedia di successo di Aldo De Benedetti, che De Sica aveva interpretato a teatro insieme a Giuditta Rissone. Seguiranno Maddalena zero in condotta, Teresa Venerdì e Un garibaldino al convento. Se il regista è soprattutto colui che dirige gli attori, colui cioè che deve dare vita, attraverso il volto, la voce e la personalità degli attori, ai personaggi di una storia scritta sulla carta, De Sica si può dire che sia nato regista, perché fin da giovanissimo ha avuto l’istinto del maestro. E in questo senso si può dire che sia stato un regista di stampo nuovo, in un epoca in cui tutti i suoi colleghi si preoccupano quasi esclusivamente del fatto tecnico, di dirigere, cioè, le riprese, complicate dall’introduzione del sonoro e, per quanto riguarda la recitazione e la costruzione dei personaggi, si affidano ad attori provenienti dal teatro e, quindi, di provato mestiere. De Sica, invece, è il primo regista attore e maestro di recitazione, che usa il metodo mimetico, recitando lui tutte le parti a beneficio degli attori. E come era stato il primo attore italiano, proveniente dal teatro, capace di adattare la sua recitazione al nuovo mezzo cinematografico, così fu anche il primo attore a diventare regista e a mettere a frutto la sua oramai

ventennale esperienza teatrale. Quando debutta nella regia, De Sica ha quasi quaranta anni, anche se probabilmente flirtava con la macchina da presa da tempo, come racconta una sua collega, Paola Barbara: “Posso dire che De Sica è stato praticamente il mio primo regista. Nel film Questi ragazzi, per la regia di Mario Mattòli, c’era una scena in cui dovevo raccontare una fiaba ai bambini, perché facevo la maestrina, e non riuscivo a cogliere il tono esatto, e lui mi stava a guardare, poi mi chiamò e mi disse: ‘Senti, vieni qua Paolina, adesso te lo dico io, prova con me.’ Ci mettemmo in un angolo e lui proprio in bocca me le mise le parole, in bocca. E quando ricominciammo a girare, Mattòli rimase, capì che era stato lui. E dunque si può dire che lui è stato il mio primo regista, cioè io sono stata la prima attrice che ha diretto, pur non essendo ancora regista. De Sica aveva questa capacità di trasmettere i modi della recitazione. Infatti io ho lavorato con molti attori, però difficilmente ho sentito questa corrispondenza da partner a partner.” Carla Del Poggio, che recitò in Maddalena, zero in condotta e in Un garibaldino al convento, dice, a proposito delle tecniche di direzione di attori usate da De Sica: “Si faceva in quattro. Lui faceva la scena e bisognava copiare esattamente quello che faceva lui. Non c’era che da copiarlo.” Probabilmente, anche quando diventerà un grande autore e anche quando sarà uno straordinario star director, non cesserà mai di essere il partner di tutti i suoi attori, di quelli presi dalla strada, come Lamberto Maggiorani o come il professor Carlo Battisti, ma anche dei più grandi professionisti, come Marcello Mastroianni, o Sofia Loren, o Richard Burton. Quando si tratta di passare alla regia, quando decide di fare il grande salto, De Sica si preoccupa soltanto dell’aspetto tecnico del film perché, anche se ha già lavorato in una trentina di film come attore, non si sente sicuro. Sa come si deve interpretare un film, come si deve raccontare una storia attraverso la recitazione degli attori, ma non sa come si dirigono le riprese. Per cui si rivolge al produttore Peppino Amato, che non disdegnava di fare anche il regista quando gli capitava l’occasione, e gli propone una regia a quattro mani: Amato avrebbe pensato alle riprese e lui si sarebbe occupato degli attori. Quando Amato accettò, De Sica si rivolse ad Aldo De Benedetti che, oltre a essere il commediografo di maggiore successo del momento, era anche uno sceneggiatore di prim’ordine. Il suo teatro era ben integrato nel cinema degli anni Trenta, quello delle commedie rosa, o dei telefoni bianchi, di cui probabilmente fu un importante ispiratore. De Benedetti sceneggiò per il duo De Sica-Amato una sua commedia di grande successo, Due dozzine di rose scarlatte, che consentì ai registi, entrambi debuttanti, ma soprattutto a De Sica che aspira a continuare la sua carriera di regista, un testo tranquillo e collaudato, che poteva attirare con facilità il consenso del pubblico. Insomma, al debutto nella regia, De Sica è molto prudente, sa che deve farsi le ossa, che deve imparare, però sa di non avere la

possibilità di sperimentare e quindi non può permettersi di fallire alla prima prova, che sarebbe rimasta anche l’ultima. Soprattutto perché era la prima volta in Italia che un attore decideva di passare dietro la macchina da presa e probabilmente i registi avevano preso questa sua decisione come un gesto polemico nei confronti della categoria, o comunque come un’invasione di campo. Per questo non può permettersi di fallire e non fallisce. Sentite come un cronista della rivista Cinema, diretta da Vittorio Mussolini, descrive il lavoro di De Sica sul set: “Appena Amato, suggerito da De Sica, ha dato una indicazione agli attori, ha detto all’operatore il movimento che dovrà compiere il carrello, De Sica si solleva leggero dal divano, va nel campo d’azione, si sostituisce agli attori mostrando loro come debbono muoversi e atteggiarsi, mormorando appena le loro battute. Poi ritorna al suo posto e quivi sedendo continua a seguire con la coda dell’occhio i preparativi, pronto a dare una indicazione tecnica… Vittorio De Sica non darà mai l’ordine di battere il ciak; non dirà mai: ‘Pronti, motore, ciak!’ De Sica è e sarà (perché la sua carriera di regista non finirà con Rose scarlatte) il regista dei sottovoce e dei pianissimo; e quando è il regista di se stesso, come in questo film, si guarda bene dallo strafare, dal voler apparire a ogni quadro in primo piano: il regista De Sica, considera l’attore De Sica un elemento del film, disciplinato e attento.” Il cronista di Cinema intuì nella personalità di De Sica, una sorta di pudore per essere regista e interprete nello stesso momento, di sommare su di sé i due ruoli. E infatti, quando si sentì sicuro e passò a regie più mature, da I bambini ci guardano in poi cessò di prestarsi come attore ai film che diresse. Quando capì che il regista De Sica poteva camminare con le sue gambe e non aveva più bisogno dell’attore De Sica. Nei ventisette film che farà, dal 1943 in poi, da I bambini ci guardano, De Sica apparirà soltanto una volta ne L’oro di Napoli, per concedersi una piccola divagazione autoironica con il personaggio del nobile giocatore, interdetto dai famigliari, che si riduce a giocare a scopa con il figlio del portinaio. I rapporti con Amato non devono essere stati certamente idilliaci se i due litigarono su come firmare il film, su chi avesse fatto veramente la regia e se a distanza di molti anni parlando di Rose scarlatte sentiva il bisogno di dichiarare: “Siccome era il mio primo film come regista, Peppino Amato garantì a Rizzoli, che ne era il finanziatore, che, per quello che riguardava i movimenti di macchina, la tecnica di cui io forse non disponevo ecc., ci avrebbe pensato lui. In questo appunto consisté il suo apporto. Ma la recitazione la diressi io.” Amato, che era indubbiamente più forte, in quanto produttore esecutivo, cercò di appropriarsi della qualifica di regista. De Sica ne rimase sconvolto, si batté come un leone, perché sentiva che il suo ruolo nel cinema oramai era quello del regista, e alla fine vinse. Paola Barbara fu testimone di un momento di sconforto di De Sica: “Io l’ho incontrato una sera, quando lui aveva fatto Rose scarlatte in cinema, l’ho

incontrato in via della Mercede col bavero tirato su, con ’sto nasone e io andavo di corsa e mi sento chiamare. Mi sono voltata e l’ho visto. Era triste, triste, piangeva. Gli dissi: ‘Che sei matto, che è successo?’ Rispose: ‘Sai, pensa cosa m’ha fatto Peppino Amato, ha messo regia di Giuseppe Amato.’ Dissi: ‘Tu sei un gran regista, tu sei bravo’…” Il suo scopo, comunque, De Sica lo aveva ottenuto: si era accreditato come regista e dopo l’uscita del film i produttori cominciarono a offrire film a lui, e non ad Amato. Pochi mesi dopo l’uscita di Rose scarlatte, De Sica girò Maddalena, zero in condotta e subito dopo Teresa Venerdì e Un garibaldino al convento. Anche il regista De Sica, come l’attore De Sica, sembrava condannato alla commedia rosa, a filmare quei soggetti sorridenti di stampo ungherese (e Maddalena, zero in condotta fu proprio tratto da una commedia ungherese) che sembrano voler tenere allegri gli italiani che non devono pensare all’angosciante momento che stanno vivendo: l’Italia aveva accettato di entrare in guerra a fianco dell’alleato nazista, molti uomini erano partiti per il fronte, nelle città si cominciavano a sentire periodicamente le sirene dell’allarme antiaereo, i cibi venivano razionati con le tessere annonarie e nelle case cominciavano ad arrivare i primi telegrammi con le condoglianze dello Stato. Ma nei film che venivano prodotti in Italia non c’era nessuna eco di questa realtà che stava diventando sempre più tragica. I primi segni di realismo li ritroviamo in Teresa Venerdì, più che altro grazie all’inserimento di Anna Magnani che, con la sua prepotente capacità di verità, porta il racconto su un altro piano, lo fa uscire dalla storiellina melensa dell’orfanella innamorata del giovane medico. Soltanto per un attimo, perché poi il perbenismo trionferà ancora una volta e i personaggi rientreranno definitivamente negli schemi voluti dalla convenzione. L’incontro con Anna Magnani, di quella che diventerà nel dopoguerra la nostra più grande attrice, è straordinario ma non avrà un seguito, anche quando De Sica diventerà star director e gli capiterà di dirigere grandi attori. Sentite cosa dirà all’indomani della morte di Anna Magnani: “Se avessi avuto la capacità e i mezzi per produrre i miei film, e realizzare quanto mi è balenato per la mente in tutti questi anni, Anna Magnani sarebbe stata attrice fissa nel mio lavoro di artigiano del cinema.” Cercherà di farle interpretare il ruolo di Cesira ne La ciociara, ma Carlo Ponti pretendeva di far interpretare il ruolo della figlia a sua moglie Sofia, che all’epoca aveva venticinque anni e, anche per il suo fisico esuberante, non poteva essere credibile nei panni di un’adolescente. A togliere tutti dall’imbarazzo sarà la stessa Anna Magnani che suggerirà di far interpretare a Sofia il ruolo di Cesira. Ma è in questi filmetti commerciali che De Sica, oltre a consolidare il suo prestigio presso i produttori che gli finanziano i film, affina la sua tecnica di ripresa e la sua sensibilità di autore e impara a tradurre in immagini i suoi

sentimenti e le sue sensazioni, tanto da riuscire a diventare più credibile come regista che come attore. Carla Del Poggio, che debuttò nel cinema giovanissima in Maddalena, zero in condotta e subito dopo girò, ancora con De Sica, Un garibaldino al convento dice che, a quel tempo, De Sica era ritenuto, come attore: “Una macchietta, un pavoncello, un attore comico, ma forse, sotto certi aspetti, di un comico deteriore. Io non l’ho mai visto sotto questo aspetto, io l’ho sempre visto come uno molto impegnato nel suo lavoro, con molto amore per quello che faceva e per niente dalla battuta facile. Nel momento in cui ha diretto Maddalena zero in condotta, De Sica era come attore, votato a un certo personaggio che mi pare facendo la regia abbia a mano a mano un po’ dimenticato, tralasciato. Insomma questa benedetta caricatura di se stesso che lui faceva sempre, col tempo è andata scomparendo e mi pare di averlo conosciuto proprio nel momento in cui abbandonava questo personaggio, che era molto più superficiale di quello verso cui tendeva.” Vorrei tralasciare i giudizi, anzi i pregiudizi, di Carla Del Poggio sulla comicità, un genere che fino a pochi anni fa è stato considerato minore e trattato con sufficienza e disprezzo (se fa ridere, se diverte, si pensava, non può essere considerato… una cosa seria!) e cogliere una osservazione acuta nella sua testimonianza: De Sica imparò a recitare, nel senso che riuscì a entrare in profondità nei suoi personaggi, proprio autodirigendosi, probabilmente perché, come regista, era più esigente, anche con se stesso, di quanto non lo fossero mai stati i suoi colleghi ed è possibile che la sua rinuncia ad autodirigersi sia nata proprio da questa presa di coscienza che gli aveva fatto capire che non è possibile – o, almeno, è troppo rischioso – ricoprire i due ruoli nello stesso film. Ma fa capire, anche che proprio in quegli anni maturò la sua scelta: il suo mestiere sarebbe stato quello del regista, l’attore lo avrebbe fatto al servizio degli altri, e quasi sempre per integrare i magri guadagni, in certi momenti della carriera, soprattutto quando dirige i suoi capolavori neorealisti che non incassano grandi cifre. Questi primi anni Quaranta per De Sica sono anni di svolta in tutti i sensi, non solo nella professione ma anche nella vita privata: sul set di Un garibaldino al convento nasce l’amore con María Mercader, una storia che gli darà tanta gioia, che gli darà un amore che durerà, per più di trent’anni, fino alla sua morte, e frutterà due figli, ma che gli complicherà la vita, perché nell’Italia codina e bigotta di quegli anni la condizione di pubblici concubini è estremamente scomoda, soprattutto per il riconoscimento dei figli. María Mercader quando venne in Italia, nel 1939, a venti anni, aveva già girato diversi film in Spagna. Rimase in Italia perché nel frattempo era scoppiata la guerra e probabilmente perché aveva conosciuto De Sica. Si conobbero in una circostanza curiosa: tutti e due giravano a Cinecittà, in due teatri diversi (De Sica faceva Rose scarlatte), quando scoppiò un incendio. Tutti uscirono fuori all’aperto in attesa che l’incendio venisse domato e De Sica notò subito questa bellissima

ragazza bionda e dai tratti minuti e gentili. Lui attaccò discorso, fece il galante ma lei, che ne conosceva la fama di tombeur de femmes, lo tenne a distanza, anche se le attenzioni di un attore famoso come Vittorio De Sica non potevano non lusingarla. Si persero di vista ma De Sica non la dimenticò e, un anno dopo, la mandò a chiamare per Un garibaldino al convento. Lei in un primo momento rifiutò perché aveva già tante offerte (nel 1941 girò ben undici film: “Allora si lavorava così, se un film durava più di quattro o cinque settimane, era un kolossal…”) e perché non gli piacevano i film ambientati dentro i collegi o dentro i conventi che erano diventati una vera e propria moda. Di De Sica non gliene importava nulla. “Per farmi dire di no” racconta María Mercader “posi condizioni impossibili, come quella di farmi regalare una pelliccia dalla produzione, come premio di ingaggio. Rimasero perplessi, ma dopo qualche giorno accettarono tutte le mie condizioni.” Forse la produzione accettò le pressioni di De Sica che voleva la Mercader a tutti i costi nel suo film. Il primo impatto con il regista De Sica fu tempestoso perché per i primi tre giorni la fecero stare chiusa nel camerino senza essere chiamata a recitare. Al quarto giorno, María scese in teatro come una furia e De Sica si giustificò: “Un set cinematografico è come un teatro, quando incomincia una rappresentazione gli attori devono essere tutti in teatro, anche quelli che entrano soltanto all’ultimo atto.” Dopo qualche giorno, De Sica abbandonò la sua aria professionale e prese a farle una corte serratissima: “L’ho sognata vestita di bianco…, mi diceva” racconta María “e a me veniva anche un po’ da ridere. Per tagliare corto (sapevo che, nonostante fosse sposato, aveva molte donne: una anche sul set di Un garibaldino al convento) gli risposi che non mi piacevano gli attori e che non mi sarei mai innamorata di un attore.” Ma poco dopo, quando la corte divenne più serrata, María capitolò. “Allora mettersi con un uomo sposato era una pura follia” dice María “ma io mi sono innamorata e non ho pensato alle conseguenze.” Lui le disse: “Non so come, ma un giorno ti sposerò.” Mantenne la promessa venticinque anni dopo e, per farlo, prese la cittadinanza francese. Giuditta Rissone, che era abituata alle frequenti trasgressioni del marito, capì che questa volta la storia era seria, soffrì molto ma evitò i drammi e le scene madri. Si preoccupò, in verità d’accordo con il marito, soltanto di preservare la tranquillità della piccola Emi che aveva il diritto di crescere in una vera famiglia, con una madre e con un padre affettuosi.

La realtà nuova

De Sica porterà la macchina da presa nella vita vera degli uomini tre anni dopo, al suo quinto film da regista, I bambini ci guardano, al secondo e definitivo incontro con Cesare Zavattini. O, meglio, quando Cesare Zavattini uscì, con la complicità di De Sica, da quelle che egli stesso definì ammucchiate di sceneggiatori, quando cioè De Sica finalmente capì che il cinema non può essere fatto dalla gente di teatro. “Fra me e Vittorio” dice Zavattini “c’era una precisa intesa che metteva alla prova la nostra collaborazione, e che arrivò quando lui finì di vagare dall’uno all’altro dei suoi amici, che erano più fatti per il teatro che per il cinema, escluso Aldo De Benedetti, che era molto bravo per le commedie cinematografiche.” Con Zavattini si erano conosciuti nel 1931, quando uscì il suo primo libro, Parliamo tanto di me. De Sica lesse il libro e ne fu colpito. Volle conoscere Zavattini e capì di trovarsi di fronte a un personaggio sui generis, molto fuori dalle regole, che dava l’impressione di essere naïf ma all’esame di una conoscenza più approfondita mostrava una cultura molto profonda, una personalità versatile e una curiosità vivissima per tutte le novità. De Sica subì sempre il fascino di quest’uomo, capace di parlare per ore, di accalorarsi sulle cose. Ed ebbe anche la capacità di discernere quanto emergeva, e quanto era realizzabile dal magma delle idee di Zavattini, per tradurle in film di grande valore e, spesso, in opere immortali. Per la prima vera collaborazione che segnerà una grande svolta per tutti e due i cineasti e per l’intero cinema italiano, scelsero la storia di un bambino (l’innocente per eccellenza, come saranno innocenti i barboni di Miracolo a Milano, l’operaio di Ladri di biciclette, il pensionato di Umberto D.) travolto dalla tragedia della sua famiglia. I bambini ci guardano è un film inquietante, l’unico, insieme a Ossessione di Luchino Visconti, che si fa sentire come il prodotto di un paese in guerra. Anche nei primi due film del dopoguerra (che sono tra quelli che hanno iniziato il neorealismo), Sciuscià e Ladri di biciclette, protagonisti sono i bambini. Ma lì la loro tragedia è palese e dichiarata perché conseguente alla crisi in cui versa la realtà sociale in cui sono inseriti, che è crisi di valori ma è soprattutto crisi economica di fronte alla quale i valori crollano travolgendo i più deboli, l’operaio e

il bambino. Pricò, il piccolo protagonista de I bambini ci guardano, è vittima soltanto della crisi dei valori borghesi, mentre la guerra, le cui conseguenze non sono ancora avvertite, rimane sullo sfondo, si sente nell’aria anche se non viene mai esplicitata. Il film è straordinario, soprattutto quando riesce a vedere la realtà attraverso gli occhi del bambino, quando il racconto riesce a mettersi nel suo punto di vista, perché per la prima volta De Sica deve dirigere un bambino, tra l’altro un bambino piccolissimo (Luciano De Ambrosis aveva appena cinque anni), al quale deve insegnare i gesti, le espressioni e le parole che devono rendere credibile il personaggio e potendo fare poco affidamento sulla sua sensibilità. De Ambrosis (che è rimasto nel mondo del cinema divenendo un valoroso direttore di doppiaggio) dice che De Sica aveva dimostrato un grande intuito nella scelta, perché “ero proprio adatto a interpretare il ruolo di Pricò, perché avevo perso la mamma da poco e avevo una triste rassegnazione. Per farmi girare le scene più difficili, era sufficiente che De Sica pronunciasse la parola mamma, oppure ricordo che qualche volta mi colpiva sull’orgoglio, dicendomi ‘tanto non sei capace a fare come ti dico io’. E io immancabilmente abboccavo.” Luisa Alessandri, che fu la segretaria di edizione del film, dice che De Sica con i bambini “era un mago: con loro instaurava un rapporto magico, quasi li ipnotizzava, che gli faceva ottenere tutto quello che voleva. Con il piccolo Pricò, che era veramente troppo piccolo, fu straordinario, soprattutto nella scena finale, quando rinuncia alla mamma.” De Ambrosis nel programma televisivo Parlami d’amore Mariù disse di ricordare che del film furono girati due finali. La dichiarazione di De Ambrosis è, per certi versi, sorprendente perché dei due finali non si trova traccia in scritti o dichiarazioni di De Sica. Evidentemente, il secondo finale, una volta scampati dalla censura che in tempo di guerra era diventata più severa, fu distrutto e dimenticato. Il ricordo di De Ambrosis invece è molto vivo e quindi non possiamo non dargli credito. “Nel primo finale il bambino, combattuto tra il dolore e l’amore per la madre, rinunciava alla madre [è il finale che fu montato nel film, N.d.A.]; nel secondo Pricò, la abbracciava e dimenticava tutto. E questo per accontentare la censura.” Questo secondo finale, se fosse stato montato nel film, avrebbe tranquillizzato la censura ma avrebbe travisato il significato del film e, soprattutto, sarebbe risultato incoerente con lo sviluppo logico del racconto. E con la psicologia del piccolo Pricò che, con quel gesto di rifiuto della mamma e del dolore che gli ha procurato abbandonandolo e inducendo il suo papà al suicidio, rinuncia all’infanzia e si avvia, con la sua divisa da ometto, alla dura disciplina del collegio, dove imparerà a essere adulto. La collaborazione con Cesare Zavattini oramai è divenuta stabile e continuerà ininterrottamente per vent’anni in un sodalizio tra i più lunghi e più prolifici del

nostro cinema. Zavattini e De Sica si integrano a vicenda: il primo porta la sua genialità inventiva e la sua spiccata sensibilità sociale che riesce a tradurre in visioni surreali, spesso di grande valore poetico; il secondo porta la sua sensibilità artistica, la sua grande attitudine a trasferire in immagini filmiche le storie e la realtà, grazie anche alla sua grande capacità di direzione di attori, basata soprattutto su una profonda conoscenza dell’animo umano. Il loro incontro poi avviene al momento giusto, quando i due hanno raggiunto la maturità artistica e personale e in un momento in cui il trauma della guerra impone a tutti una svolta radicale. Zavattini e De Sica seppero cogliere questo momento, seppero capire questa Italia nuova ferita a morte. Gli stracci su cui il nuovo regime clericale li accusò di speculare non furono inventati da loro ma rappresentavano la realtà più evidente del nostro paese. Certamente quei personaggi vinti ma mai rassegnati, quegli uomini che si perdono con le loro solitudini, con le loro tragedie in mezzo alla folla sorda e ignara, non piacquero neppure ai marxisti organizzati, i quali non potevano digerire che l’operaio Ricci di Ladri di biciclette o il pensionato Umberto non cercassero la solidarietà di partito, non prendessero coscienza della loro condizione sociale di sfruttati, e non partecipassero alla lotta di classe, ma rimanessero soli e muti nel loro dolore, il primo stringendo la mano del suo figlioletto che lo ha visto rubare e il secondo soltanto con il calore del suo cagnolino. Qualcuno rimproverò a De Sica e a Zavattini di non aver mandato Ricci a chiedere solidarietà alla sezione comunista della zona dove, certamente, gli avrebbero procurato un’altra bicicletta. In Unione Sovietica hanno fatto di peggio, hanno cambiato addirittura il finale del film: Ricci e il figlioletto si prendono per mano e si avviano… ad ascoltare il comizio di Togliatti. Buttandola in ridicolo. Il fatto è che De Sica raccontava storie di uomini, storie laiche, senza speranza e senza intenti propagandistici. Non suggeriva soluzioni, non parteggiava per nessuno se non per i suoi personaggi che ambiva rappresentare con aderenza umana e con chiarezza. Ecco, la chiarezza, la principale virtù di un regista come Vittorio De Sica, come lo fu per altri tra cui René Clair, che volle chiamarsi Chiaro, programmaticamente. L’apporto di Zavattini fu importante – e De Sica lo riconobbe sempre, per la verità – forse superiore a quello che generalmente danno gli altri autori, anche se qualcuno insinuò che Zavattini fosse la mente e De Sica si limitasse a mettere la sua grande esperienza nella realizzazione delle idee del compagno. Lo fece anche Fellini in un’intervista del 1960 (Il Messaggero del 27 luglio 1960): “… Debbo precisare che per me il neorealismo si identifica soprattutto con Rossellini. L’altro padre del neorealismo, Zavattini, è un poeta, una sonda ricchissima, capace di cogliere trasalimenti, segreti sottili della realtà, in prospettive interamente nuove. Ma credo che la essenza più vera della sua personalità non abbia potuto esprimersi a fondo, semplicemente perché Zavattini non ha mai portato personalmente i propri soggetti sullo schermo. La collaborazione con De

Sica, pur così vibrante di alti risultati, è difficilmente scindibile nelle componenti dei rispettivi apporti, sicché purtroppo, io temo, le qualità più tipiche di Zavattini sono restate nella pagina teorica, negli appunti di poetica.” La dichiarazione di Fellini, come era comprensibile, irritò moltissimo De Sica, il quale in una lettera alla figlia Emi del 29 luglio 1960, scritta durante la lavorazione de La ciociara, così commenta: “… La collaborazione di Flaiano, Pinelli e Fellini è facilmente scindibile nelle componenti dei rispettivi apporti. Le qualità di limpido, sobrio narratore che è Flaiano si notano nei film di Fellini, distintamente. Il dialogo, un po’ teatrale, porta il segno di quell’abile uomo di teatro che è Pinelli e tutto il provincialismo, il manierismo, il simbolismo (mostro marino, Cristo in aria, angelo), lo charlottismo e l’ambiguità ideologica sono propri di Fellini.” Il giorno prima aveva commentato, a caldo: “Evviva il Cinema e Fellini! Hai letto la sua intervista sul Messaggero? Che altra categoria di uomo! Io tutto modestia e generosità, lui tutto presunzione e avarizia di giudizi specialmente sul mio conto. Tutti i meriti sono suoi, di Rossellini e Zavattini. Il tempo però metterà a posto le cose.” E in effetti così avvenne, quando, finita la stagione del neorealismo, Zavattini tentò, esasperando la sua ricerca e la sua poetica, con altri registi perché non riuscirà mai a scrollarsi di dosso la paura per la macchina da presa, la strada del cinema-verità nell’intento di raggiungere una sorta di realismo totale, una identificazione definitiva fra la realtà e la sua rappresentazione. Scrisse e supervisionò la realizzazione de I misteri di Roma e progettò I misteri d’Italia che non vennero mai realizzati. Dopo l’insuccesso de I misteri di Roma (che così aveva commentato il Corriere della Sera: “Il vecchio maestro, a capo di venti sciagurati, ha fatto un miscuglio di documentario, inchiesta, dove i luoghi comuni si succedono con una monotonia sonnolenta”), De Sica scriveva: “Mesi fa, quando osai dire che il film verità, il film inchiesta, aveva fatto il suo tempo e che era bene pensare a dei buoni soggetti umani, veri, sinceri, lo Zavattini, guardandomi con uno sguardo fra il commiserevole e il presuntuoso, sicuro di sé, mi disse: ‘Ma come sei indietro! Stai proprio indietro!’” La risposta a Fellini, come pure il commento al fallimento del film di Zavattini, non fu mai resa pubblica perché De Sica – anche se certi giudizi, certe classificazioni superficiali lo ferivano profondamente – non scendeva mai in polemica. Anche le lettere che scriveva a Emi sarebbero dovute rimanere private, in una sorta di colloquio interiore, e la decisione di pubblicarle fu presa dalla figlia, che ne affidò a me la cura, a molti anni di distanza dalla morte di lui. Effettivamente, l’esplosione di De Sica nel dopoguerra (I bambini ci guardano fu riscoperto dopo l’uscita dei capolavori del neorealismo) sorprese tutti, anche perché, a mio avviso, si stentava a dare credito a questo attore elegante e ironico, che aveva avuto grande successo cantando Ludovico sei dolce come un fico, che aveva incantato le donne con Parlami d’amore Mariù, e che ora aveva invaso un campo altrui, come quello della regia. Finché i risultati furono film come

Maddalena zero in condotta o Rose scarlatte, chiaramente inseriti nel filone commerciale dell’epoca, si era portati a pensare che l’attore De Sica aveva messo la sua notevole esperienza di recitazione e la sua popolarità al servizio del regista e tutto rientrava nella normalità. Ma quando arrivarono opere come Sciuscià o Ladri di biciclette i conti per certi critici, e per certi colleghi, non tornarono più e per questo furono portati a sopravvalutare il ruolo di Zavattini, sminuendo quello di De Sica. Fu così che nacque la favola del grande scrittore, del grande creatore, a cui una sorta di timor panico per la macchina da presa impedisce di realizzare le sue idee geniali, che è costretto ad affidarsi a un bravo artigiano che, per la sua esperienza di attore, sa dirigere molto bene i suoi colleghi. Insomma, il braccio e la mente! Alla formazione di questo giudizio profondamente ingiusto e superficiale contribuì molto la critica comunista dell’epoca che non capì mai De Sica, un personaggio sui generis che sfuggiva a ogni forma di classificazione, mentre considerava Cesare Zavattini un intellettuale organico con il partito. Dopo molti anni, gli studi sul rapporto De Sica-Zavattini sono diventati più sereni. Nella raccolta di saggi su De Sica pubblicata nel 1992 da Marsilio, a cura di Lino Miccichè, Francesco Bolzoni (De Sica e Zavattini sul tandem), liberato dai pregiudizi che avevano obnubilato i critici del passato e anche colleghi come Federico Fellini, ristabilisce la verità, evidenziando, con i documenti (sceneggiature e altri scritti, confrontati con il risultato filmico), l’apporto dei due, anche al momento della scrittura a cui De Sica partecipò sempre, a eccezione di Umberto D. che fu interamente scritto da Cesare Zavattini. Analizzando le carte di questo film, in cui il regista, non avendo per una volta partecipato alla ideazione e alla sceneggiatura, avrebbe dovuto eseguire le idee dello sceneggiatore, Bolzoni scopre che l’intervento di De Sica fu determinante nella costruzione del personaggio principale. In una dichiarazione rilasciata alla rivista Copione, che stranamente, come dice Bolzoni, fu ignorata prima della pubblicazione delle lettere di Zavattini, avvenuta nel 1988, De Sica sostiene di aver trasformato in un piccolo, dignitosissimo piccolo-borghese (sicuramente avrà preso a modello il signor Umberto, l’amatissimo padre a cui tanto doveva), il personaggio disegnato da Zavattini nella sceneggiatura. Dice De Sica: “Il personaggio di Zavattini era piuttosto dimesso e di condizione sociale assai modesta: che so, un usciere, ad esempio, che avesse passato la sua vita di lavoro nell’ambiente impiegatizio, ministeriale, ma in un certo senso ai margini di esso. A me, invece, sembrava opportuno collocare Umberto D. su un piano più elevato facendolo cioè un ex statale nel senso preciso che usualmente si dà a questa parola… La mia ostinazione a volere un volto tipico e quasi signorile piccolo borghese mi aiutava a rendere il dramma di tutta una vasta classe sociale, quella media borghesia italiana che tanti sacrifici è stata chiamata a sopportare dagli ultimi tremendi avvenimenti della nostra storia ma che a una virtù non ha abdicato: la dignità.”

Come si fa non pensare al signor Umberto De Sica, l’amatissimo padre di Vittorio che risponde con dignità e ironia al sarto che esige il pagamento dei debiti? Ciò significa che De Sica, anche quando dovrebbe avere il ruolo di semplice metteur en scène, interviene in profondità nello sviluppo della storia ma anche sul disegno dei personaggi. “La testimonianza di De Sica, finora ignorata da coloro che si sono occupati della sua opera” scrive Bolzoni “provoca il risentimento di Zavattini che, pur non negando quanto divulgato dal regista, si lamenta nel vedere messi in piazza i segreti del loro laboratorio: pensa a staccarsi da lui. Collabora con altri cineasti…” Del resto, la grande stagione del neorealismo era inesorabilmente finita. Per De Sica ci fu ancora un appendice, con Il tetto, un buon film che apparve subito anacronistico, e poi cambiò strada: mise la sua sensibilità artistica, le sue capacità tecniche al servizio del film e diventò un grande star director, al servizio cioè di grandi interpreti e di grandi produzioni. E Zavattini, che era rimasto ancorato alle sue idee di cinema-verità, si accodò malvolentieri ma rimase accanto al suo vecchio amico-collaboratore. De Sica aveva capito che il neorealismo era finito e che il cinema d’autore non trovava più mecenati, per cui si era dedicato con grande impegno a quella che considerava oramai la sua professione, essendosi riservato di darsi come attore per un puro scopo economico: l’ultima sua grande interpretazione risale al 1959, in un film, Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini, pensato e scritto per lui. In questo film De Sica, per l’unica volta accanto all’altro creatore del cinema neorealista, interpreta la figura di un imbroglione, che durante la guerra, finisce in prigione sotto le mentite spoglie di un generale dell’esercito italiano. Alla fine, l’imbroglione riscatterà la sua misera vita andando a morire con grande dignità, come sarebbe morto il vero generale Della Rovere. Non si può dire che il De Sica star director sia inferiore al De Sica autore neorealista se ha lasciato opere importanti come L’oro di Napoli, La ciociara, l’episodio di Adelina di Ieri, oggi, domani, Matrimonio all’italiana, Il giardino dei Finzi Contini, Una breve vacanza e Il viaggio Certo, sono film molto diversi da Sciuscià, Ladri di biciclette ecc., ma sono cambiati anche i tempi, i gusti del pubblico e, di conseguenza, anche il cinema. Negli ultimi tempi disse: “Ho fatto film d’autore e film che hanno incassato molto, non sono mai riuscito a fare le due cose insieme: film d’autore che fossero stati anche di cassetta.” E fu ingiusto con se stesso, anche perché il metro di giudizio con cui valutava un film era ancora quello dei tempi eroici del dopoguerra, quando impegno e commercialità del prodotto dovevano stare rigorosamente separati. E quando ancora si trovavano produttori temerari come Tamburella che si rovinò per Sciuscià o produttori mecenati come Angelo Rizzoli che produsse in pura perdita Umberto D. per il solo gusto di finanziare il capolavoro di un regista geniale con il quale non si facevano soldi ma si passava alla storia.

I rapporti con Zavattini si deteriorarono ancora di più proprio quando De Sica cominciò a mietere grandi successi internazionali, che lasciarono perplesso il vecchio amico e collaboratore, il quale era rimasto fermo, evidentemente, al cinema dei tempi eroici. Quando girava Ieri, oggi, domani, De Sica scrisse: “Tutti ingrati, anche Zavattini, che ora comunica alla stampa che non lavorerà più con me perché, secondo lui, sono diventato molto bravo. C’è tanta presunzione in queste parole. Dà l’impressione che lui sia stato il mio maestro e mi abbia iniziato alla regia e ora, appreso tutto quello che c’è da apprendere, non ho più bisogno del maestro. Io ho portato alle sue trame la mia sensibilità di artista ed ero già bravo prima di iniziare la collaborazione con lui e lui non ha mai assistito, un sol giorno, alla mia fatica e alla mia creazione di tipi, ambienti, movimenti, ritmi, poesia.” Dieci anni prima il tentativo di divisione dei due amici collaboratori, che evidentemente era ricorrente, era stato respinto da De Sica con molta decisione: “Quale minimo fondamento, per esempio, può avere questa accanita volontà di separarci? Forse la nostra collaborazione così naturale, così stretta, ha dato cattivi frutti per il cinema italiano? Ho trovato del livore addirittura in questa insistenza, della cattiveria, poiché si è cercato con molti mezzi di metterci l’uno contro l’altro, e quasi quasi ci riuscivano. Cominciarono con Miracolo a Milano e hanno raggiunto il diapason con Stazione Termini… Vidi nascere il copione di Ladri di biciclette dal tuo talento cocciuto, e fu una nascita davvero impopolare, possiamo dirlo, e io sentivo invece che quello era il mio vero mondo e che avrei saputo esprimerlo come se lo avessi vissuto fin dall’infanzia. Ricordi che qualcuno ci diceva leggendo il copione, ‘questo non è cinema’? Nessuno di costoro amava il tuo cavallo bianco di Sciuscià e non volevano che il racconto finisse così tragicamente e nemmeno volevano che il furto di una povera bicicletta creasse tanto dolore e che gli altri tuoi personaggi, Totò il buono o il vecchio Umberto, disturbassero il quieto vivere di una collettività che aveva già dimenticato la guerra…” Quanto affetto in questa lettera al vecchio amico di tante battaglie e quanta generosità nel riconoscerne i meriti, anche rinunciando un po’ ai propri: “Ma io non ho avuto dubbi e credo che due fratelli non avrebbero potuto durante gli anni della guerra e del dopoguerra essere più di noi uniti e tesi allo stesso scopo. Sapevamo quello che volevamo. Quando cominciavano per me le lunghe fatiche della regia e dovevamo stare separati dei mesi, tornando per riprendere il nostro discorso ti ritrovavo sempre pronto e pieno di quella umana fantasia, di quell’entusiasmo illuminante, di quella coerenza morale che non ti vengono mai meno. Perché allora avremmo dovuto separarci?” Da queste parole, oltre all’affetto fraterno e alla stima che De Sica dimostra di nutrire nei confronti di Cesare Zavattini, forse possiamo intuire anche il senso della collaborazione che ci fu fra i due autori: De Sica attingeva le idee alla fonte dell’amico che ne era inesauribile produttore ma che nutriva una vera

idiosincrasia per i set e la macchina da presa. Si sa che rifiutò più volte, anche in età giovanile, di passare alla regia e che non si recò mai una volta a trovare l’amico De Sica quando filmava le storie che avevano concepito insieme. Zavattini, insomma, era un geniale autore di cinema fino a quando le sue storie rimanevano sulla carta. Oltre la carta non è mai andato. Non sappiamo quali furono i suoi giudizi a caldo, se mai li dette, sui film che poi furono riconosciuti come capolavori. Sospetto però che ne sia rimasto sempre scontento, come di qualcosa che non si era realizzato appieno. In fondo Zavattini rimase sempre un letterato, mentre Vittorio De Sica, quando si liberò definitivamente della sua origine teatrale di cui seppe trattenere il meglio, cioè la capacità di interpretare, divenne un grande animale di cinema. Soltanto così si spiega il fatto che Zavattini fu grande soltanto con De Sica, che fu l’unico evidentemente capace di interpretarne le intuizioni, di ricavare le idee buone e geniali dal fiume creativo che sgorgava dal suo geniale compagno. Soltanto così si spiega il fatto che De Sica talvolta fu grande anche senza Zavattini. In questa lettera aperta di De Sica a Zavattini c’è insomma il senso della loro collaborazione, delle cose che li univano e li rendevano l’uno complementare dell’altro. Dopo un paio d’anni di incomprensioni i due vecchi amici-collaboratori si ritrovarono e fu quando Zavattini, dopo le delusioni de I misteri di Roma, si adattò a questo nuovo tipo di cinema e insieme ebbero ancora molto da dire.

Scimmietta e Capellone

Ma torniamo al nostro racconto. I bambini ci guardano rappresentò un grande momento di creatività, un salto di qualità dal cinema commerciale, sia pure dignitoso e formalmente corretto, al grande cinema d’autore. Ma questo mise in crisi De Sica che sentì che non poteva più tornare indietro. Come regista e anche come attore. Per di più, la guerra, con la conseguente crisi culturale, lo sollecitava a rimettersi in discussione. Soprattutto sentiva, paradossalmente, che fra il cinema e l’attore, inteso come mestiere, come professione, c’era una incompatibilità, perché cominciava a sentire il cinema come verità, come sincerità: due momenti difficilmente raggiungibili se si è viziati dalle sovrastrutture della tecnica e dell’esperienza. Per questo mostra di avere in uggia gli attori, a cominciare da se stesso, e di amare gli attori di un solo momento da plasmare, da far aderire all’idea che l’autore si è fatta del personaggio nel momento stesso in cui l’ha pensato. Non siamo ancora alla teorizzazione dell’attore preso dalla strada, che sarà alla base della sua concezione di quel cinema realista, di quel cinema-verità che sarà chiamato neorealismo, ma ci siamo vicini. Sentite che cosa scriveva De Sica in un articolo del 1942, alcuni mesi prima di iniziare la lavorazione de I bambini ci guardano: “Se mi chiedessero quali sono i miei attori prediletti risponderei, credo senza esitare, con dei nomi e non con dei cognomi. Col nome, ad esempio, di Anna, la figlia di un portiere romano, che avete visto in Teresa Venerdì: piccola, furba e deliziosa ladruncola di mele. O con quello di Luciano, il figlio di un operaio torinese, che sarà il protagonista de I bambini ci guardano, un attore nato, di istinto, con un senso eccezionale delle pause e un fresco, adorabile modo di dire la battuta, senza nessun virtuosismo né lezio da fanciullo prodigio. Ma, a parte queste mie predilezioni nel cinema, a me piacciono soprattutto i volti, a dir così inediti, gli attori che non sono attori, quelli non ancora corrotti dal mestiere e dalla pratica e nei quali tutto è genuino e schietto. Se fosse possibile mi piacerebbe scegliere i miei interpreti nella strada, tra la folla. Vorrei che il mio protagonista fosse quel giovane il quale siede davanti a me nel tranvai o quella ragazza che conduce per mano un bambino e di tanto in tanto lo accarezza con gli occhi bellissimi, o quella vecchia donna scarmigliata che in questo momento sta litigando sull’uscio di quella bottega…”

Se non fosse stato pubblicato nel 1942, questo articolo potrebbe sembrare una sorta di manifesto del neorealismo, invece sono soltanto delle idee a cui De Sica è arrivato dopo aver girato appena quattro film, in un’epoca in cui si ricerca soltanto la correttezza e la gradevolezza del racconto e in cui ogni forma di innovazione è bandita. Forse De Sica ha soltanto capito, ai suoi esordi come regista, che il suo metodo di direzione di attori mal si adatta ai professionisti, agli attori noti con le loro tecniche collaudate, con i loro pregi e i loro difetti. De Sica sente il bisogno di lavorare con attori ingenui, disponibili a farsi guidare e a farsi plasmare e a mettersi, con i loro volti ignoti, a disposizione del film e della storia. Con queste premesse, dopo la guerra, negli anni in cui l’Italia ferita a morte reagisce, anche moralmente, e inizia la ricostruzione, Vittorio De Sica, insieme a Cesare Zavattini con il quale è divenuto inseparabile, dà vita al movimento neorealista. Prima di Sciuscià c’era stato Roma città aperta, il film capostipite del neorealismo. Fra Sciuscià e il capolavoro di Roberto Rossellini le differenze sono profonde, soprattutto nel linguaggio: Roma città aperta racconta una storia vera con grande verità (Rossellini disse che quando giravano le scene con i tedeschi nelle strade di Roma, la gente scappava tanto era vivo il ricordo dell’occupazione nazista, che si era appena trasferita al Nord d’Italia) ma servendosi di attori professionisti, per di più grandi attori come Anna Magnani e Aldo Fabrizi, alla cui arte sublime è affidato il compito di restituirci personaggi veri: la signora Pina di Anna Magnani, la donna che viene barbaramente trucidata mentre insegue il camion dei tedeschi che le porta via il suo uomo è ispirata alla vicenda di una donna romana che si chiamava Teresa Gullace; mentre il prete di Aldo Fabrizi, fucilato dai tedeschi, è ricalcato sulla vicenda umana di don Pietro Pappagallo. Il contorno – soprattutto la maschietteria romana, quel gruppo di ragazzini che, sull’esempio dei grandi, gioca a fare la resistenza – è, come si dirà dopo, preso dalla strada ed è un elemento che conferisce maggiore verità al film e alla storia che racconta. Sciuscià e poi anche Ladri di biciclette utilizzeranno soltanto attori presi dalla strada, come pure l’altro film di Rossellini Paisà, il quale però si attarda ancora sul tema della guerra e della Resistenza, mentre i due film di De Sica raccontano storie che riguardano la gente comune dell’Italia uscita dalla guerra. Sciuscià racconta la storia dei ragazzi di strada che popolavano Roma e le altre città italiane occupate dagli alleati, e che vivevano pulendo le scarpe ai soldati (gli sciuscià, dall’inglese shoe-shine) e prestandosi a tutti i servizi e guadagnando così cifre consistenti. Nella Roma devastata dalla guerra si incontravano decine di bambini con le tasche piene di soldi e con l’infanzia distrutta. Questi bambini colpirono la fantasia di De Sica e capì che potevano dargli lo spunto per un cinema nuovo, che aveva teorizzato quattro anni prima nell’articolo sugli attori veri, e che aveva già preannunziato con quel film profetico che era

stato I bambini ci guardano. Un film che nascesse “dal bisogno di dire la verità e quindi portare la macchina da presa non più nelle vecchie costruzioni di cartapesta di Cinecittà, ma nella vita, nella realtà dove veramente vivono gli uomini.” Anche il neorealismo, come tutti i movimenti creativi nacque per caso, dai fatti e dagli stati d’animo. Subito dopo la fine della guerra, dopo la fine del film La porta del cielo, che fu il film rifugio per tanti cineasti, De Sica è alla ricerca di lavoro, vorrebbe fare del cinema ma nell’Italia devastata dalla guerra non è possibile, perché manca tutto, soprattutto la pellicola che è diventata una merce rarissima. E poi non ci sono i produttori che si accollino i rischi economici del film. Roma città aperta fu girato proprio per scommessa, con l’aiuto di tanti produttori improvvisati: una contessa, un pecoraio ricco, un ufficiale americano che entrò ubriaco sul set credendo di entrare in una casa di tolleranza e che acquistò il film per gli Stati Uniti pagandolo con pellicola. De Sica non ebbe subito la costanza di Rossellini e Amidei e pensava seriamente di lasciar perdere il cinema e ritornare al teatro come attore. Oppure a cambiare addirittura mestiere, tanto è vero che aveva accettato la direzione di una rivista di cinema, Film d’oggi, che però abbandonò dopo i primi numeri perché “faceva della politica e in modo piuttosto violento, chiedendo la fucilazione di questo e di quello…” Per il primo numero gli chiesero un articolo sul tema: quali film vorreste girare? De Sica sapeva molto bene quale film avrebbe voluto girare perché era stato colpito da questi ragazzi sciuscià e l’articolo che scrisse, corredato di fotografie scattate da lui stesso, fu la prima idea del film. “Giuseppe è un ragazzo di circa dodici anni” scrive De Sica. “Ha un amico inseparabile più piccolo di lui, Luigi. Il loro quartier generale è il galoppatoio di Villa Borghese, Via Lombardia, Via Veneto, Piazza San Bernardo, Stazione. “Li ho seguiti qualche volta per sentire cosa dicevano e che progetti hanno per il loro avvenire. Ma poco ho potuto sentire, perché i ragazzi, oggi parlano sottovoce. Tempo fa ne ho ho avvicinati due che i compagni avevano soprannominato ‘Scimmietta’ e ‘Capellone’, e gli ho chiesto se si lasciavano fotografare. ‘Che, è un film?’ ‘Sì, un film.’ ‘Non ci metterai mica sul giornale? Perché, sinnò, niente!’ “Li ho traditi. Ho detto che si trattava di un film e la cosa li seduceva. Non potevo spiegare che si trattava di studiare la possibilità di fare un film su di loro. Ho chiesto a Giuseppe: ‘Fai il ruffiano?’ ‘No.’ ‘Vendi le sigarette?’ ‘No.’ ‘E allora che cosa fai?’ ‘Niente.’ “Luigi, il più piccolo, prima che lo interroghi, taglia corto: ‘Io lavo i piatti in una trattoria di Via Lombardia.’ “Poi tutti e due montano su un cavallo e galoppando mi lasciano lì in asso. Sono sfuggiti al mio noioso interrogatorio.” Furono questi bambini, che avevano subito sulla loro pelle la tragedia del

paese e che avevano perduto per sempre la loro infanzia a convincere De Sica che bisognava raccontare questa nuova tremenda realtà dal loro punto di vista. Il produttore si trovò, si chiamava Paolo William Tamburella, un uomo coraggioso e innamorato del cinema, il quale si mise nell’impresa senza starci troppo a pensare. All’inizio Zavattini, impegnato altrove, non è della partita e De Sica lavora all’idea con un’équipe di sceneggiatori, tra i quali c’era anche quel Sergio Amidei, che aveva sceneggiato Roma città aperta per Roberto Rossellini e che diventerà uno dei più grandi autori del cinema italiano. Ma l’ideazione del film non va avanti e De Sica si scoraggia, tanto da progettare un ritorno al teatro con la moglie Giuditta Rissone. “Io sono un attore non sono un regista” dice a María Mercader che, invece, lo spinge a continuare sulla sua strada. De Sica porta l’idea a Zavattini che gli scrive subito venti pagine in due giorni e il film parte con la ricerca dei ragazzi interpreti del film. “Mi ricordo che era luglio del ’45” racconta Franco Interlenghi, l’unico che continuerà la carriera di attore “giocavo in Via Palestro dove abitavo ed è venuto un signore che ci ha detto ‘cosa state a giocare lì, andate a Via Po che De Sica cerca ragazzi per fare un film’. A Via Po c’era una fila interminabile di ragazzi, perché c’era il desiderio di lavorare. Ho fatto questa immane fila, sono arrivato davanti a De Sica che era bellissimo, con il cappotto di cammello, il cappello… E mi ha detto subito: ‘Sai fare a pugni?’ Io sono rimasto un attimo sconcertato e lui ‘avanti un altro’, praticamente mi ha scartato. Ci sono rimasto malissimo ma non mi sono scoraggiato. Ho rifatto la fila e davanti a De Sica che mi ha ripetuto la stessa domanda, ho risposto: ‘Sì, benissimo, mio fratello fa il pugile dilettante e io vado spesso con lui in palestra.’ ‘Prendete il telefono di questo ragazzo’ disse subito De Sica.” Ma la decisione è sofferta perché, come racconta Interlenghi, “nel secondo gruppo di ragazzi mi hanno di nuovo scartato, ma poi sono stato recuperato da Tamburella, il produttore, al quale piacevo. Però De Sica continuava a non essere convinto della mia faccia. ‘Non ha la faccia di quello che ammazza l’amico’ diceva. Ma io non l’ammazzavo apposta, era una disgrazia. E così ho iniziato il film insieme a un altro ragazzo che faceva la mia stessa parte. Per dieci giorni siamo andati avanti così…” A risolvere la situazione fu Rinaldo Smordoni, l’altro ragazzo che faceva la parte di Giuseppe: “I primi giorni Pasquale lo facevano due ragazzi. Un giorno De Sica mi chiese chi preferivo e io scelsi Interlenghi che mi era più simpatico. E all’altro gli regalarono una bicicletta e lo mandarono via. Tanto è vero che io dissi ‘mandatemi via a me ché la bicicletta la prendo io’.” Le testimonianze di Interlenghi e Smordoni sono molto interessanti perché svelano i segreti delle tecniche di direzione di attori di De Sica. Racconta Interlenghi, che di quell’esperienza conserva un ricordo più vivo, forse perché era più grande e anche perché quel film fu per lui l’inizio di una carriera. “Io non ero

un bambino, avevo tredici anni, e quindi ero abbastanza consapevole. Talvolta De Sica ci dava qualche ceffone per farci piangere, come nella scena della confessione, quando credo che stiano picchiando Giuseppe. Oppure ci diceva frasi tipo ‘siete sporchi, non vi lavate, fate schifo’. Noi lo sapevamo che lo diceva per farci reagire ma, per farlo contento, fingevamo di essere offesissimi, e questa offesa creava quella malinconia, quel senso di disperazione che è alla base del film. E poi eravamo nell’immediato dopoguerra e avere la faccia angosciata, se non altro per la fame che avevamo patito e che molti pativano ancora, non era difficile.” E Smordoni ricorda: “Per farmi piangere ci diceva le cose più brutte, ma alla fine ci abbracciava. Quando era finita la scena era l’uomo più felice del mondo. Ci dava le caramelle e ci portava al bar.” Il film costò appena dieci milioni di lire, anche se la lavorazione durò cinque mesi e si dovette ricostruire in teatro il carcere minorile, ma fu praticamente rifiutato dal pubblico italiano che, quando uscì Sciuscià, si stava letteralmente ubriacando con i film americani, tutti quelli che non erano arrivati in Italia negli anni della guerra e molti vietati dal regime fascista. Era, quello americano, un cinema che appagava pienamente l’immaginario del pubblico che faceva volare sulle ali della fantasia, lontano dalla triste realtà che aveva vissuto e che stava ancora vivendo, mentre film come Sciuscià lo costringevano a riflettere. Racconta De Sica che a Milano, al cinema Odeon dove si proiettava il suo film, vide arrivare una famiglia che guardò i manifesti e se ne andò, commentando “Ah, è italiano!” Piacque molto all’estero, soprattutto negli Stati Uniti, dove conquistò il primo Oscar per il cinema italiano, il primo dei quattro che furono assegnati a De Sica in tutta la sua carriera. Ma per i produttori italiani quello che contava era l’incasso in Italia e De Sica con i suoi film non incassava. Quindi, De Sica come regista non aveva più credito, a meno che non fosse tornato alla commedia, a un cinema più commerciale. Avrebbe potuto trasferirsi all’estero, in Francia o negli Stati Uniti, ma sentiva che una volta sradicato dalla realtà sociale e culturale che lo ispirava, non avrebbe potuto dare niente. E poi a guadagnare quello che gli serviva per vivere ci pensava l’attore De Sica, che aveva ripreso con il teatro e che di tanto in tanto veniva chiamato per parti di contorno, per le solite caratterizzazioni, dal cinema. Ma Vittorio sentiva che il cinema che voleva fare, che valeva la pena fare, era proprio quello che gli italiani rifiutavano e sul quale nessun finanziatore era disposto a rischiare una lira.

Verso un paese dove “Buongiorno” vuol dire veramente “Buongiorno”

Un anno dopo l’uscita di Sciuscià, Cesare Zavattini mandò a De Sica un libro scritto dal pittore Luigi Bartolini, che si intitolava Ladri di biciclette. “C’è da prendere lo spunto della bicicletta rubata e il titolo” disse Zavattini. Incominciarono a lavorare al soggetto e alla sceneggiatura, insieme a Sergio Amidei, il quale non andando d’accordo con Zavattini, si ritirò e fu sostituito da Suso Cecchi D’Amico. Raccontava Sergio Leone – il quale, diciottenne, faceva i primi passi nel cinema come segretario di Vittorio De Sica e appare nel film tra i pretini che si riparano dalla pioggia a Porta Portese – che Zavattini e Amidei litigavano in continuazione, per i motivi più futili e a nulla valeva la paziente mediazione di De Sica che aveva a cuore le sorti del film. “Così dopo lunghe discussioni” racconta Ugo Pirro “un giorno, ad Amidei venne una di quelle ire proverbiali e cacciò tutti di casa. Cosa che gli capitava abbastanza spesso. Però, siccome era un uomo onesto, quando vide il film capì di aver sbagliato nella sua ostinazione, alla fine della proiezione si alzò e disse forte, perché tutti sentissero: ‘sono uno stronzo’.” Però, Ugo Pirro non riferisce quale fu il motivo che scatenò l’ira di Sergio Amidei, il quale militava con molto zelo nelle file del Partito comunista, per cui – fu lui stesso a raccontarlo a Fofi e Faldini ne L’avventurosa storia del cinema italiano – ruppe proprio per un motivo politico: “Non trovavo giusto in quel momento che un compagno, un comunista, un operaio che vive in una borgata, e al quale rubano la bicicletta, non andasse alla sezione del partito e non gli trovassero un’altra bicicletta.” Quando la sceneggiatura fu pronta, fu necessario trovare i finanziamenti. De Sica sapeva che su quel film si sarebbe giocato la sua carriera di regista e andò in giro per il mondo, in Italia ma anche in Francia e in Inghilterra. Raccontava la storia, facendo tutte le parti, persino quella del bambino: piangeva, urlava, rideva, accennava persino il commento musicale. Ma non ci fu niente da fare perché nel film non c’era una storia d’amore, non c’era intreccio e nessuno voleva rischiare del danaro sulla vicenda di un operaio alla ricerca di una bicicletta rubata, che gli è indispensabile per il suo lavoro. La storia piacque a un produttore inglese, Gabriel Pascal, il quale però propose come condizione irrinunciabile che il protagonista fosse Cary Grant. De

Sica rimase in un primo momento sorpreso ma poi contropropose Henry Fonda, che gli sembrava più adatto e più vero. Ma Fonda non aveva lo stesso richiamo al botteghino di Cary Grant e non se ne fece niente. “Gli uomini coraggiosi al punto di finanziare il film” racconta De Sica “li trovai in tre amici: l’avvocato Ercole Graziadei, Sergio Bernardi e il conte Cicogna di Milano. Furono tre soci straordinari. Mi lasciarono fare tutto ciò che volevo e mi dettero tutto il denaro che mi occorreva: trenta milioni.” A proposito del conte Cicogna che fu imbarcato nell’impresa quasi inconsapevolmente, la figlia Marina, che poi diventerà, forse spinta da quell’esperienza paterna, un’importante produttrice, ricorda: “Mio padre non era un produttore, era un uomo di finanza. Non so perché decise di produrre il film, probabilmente perché fu affascinato da De Sica che andava in giro per il mondo con questo copione. Dopo due settimane di girato andarono in proiezione e mio padre, che era un aristocratico conservatore, cadde dalla sedia: il film era una apologia della sinistra. Ci mancavano solo le bandiere rosse… Mio padre disse a De Sica che non gli avrebbe dato più una lira. De Sica gli spiegò che il film non sarebbe stato un’apologia della sinistra e andarono avanti tra litigi continui. Poi, quando vinsero l’Oscar, anche mio padre fu contento”. Anche se oramai i soldi per fare un film non ricco ma professionalmente corretto, erano stati trovati, De Sica non rinunciò alla sua idea di fare un film povero, quasi in presa diretta con la realtà, con gli attori presi dalla strada e una troupe spoglia, senza truccatori, parrucchieri e persino senza i fonici. Infatti, incredibilmente, il film fu girato muto, senza neppure una colonna guida, e tutta la colonna sonora fu ricostruita mirabilmente in sala di doppiaggio. Questa circostanza sembrerebbe inverosimile se molti protagonisti, come l’organizzatore Fortunato Misiano e la segretaria di edizione Luisa Alessandri non l’avessero confermata, perché in Ladri di biciclette tutto è vero. Non soltanto la recitazione degli attori, ma anche i rumori di fondo della città che sembra colta in un suo momento di vita, non soltanto per come appare ma anche per come si fa sentire. Del resto, Ladri di biciclette potrebbe essere definito un film on the road, girato cioè, dal vero, in mezzo alla strada, e su una storia che si sviluppa – dopo il preambolo dell’assegnazione del lavoro, il recupero della bicicletta al Monte di Pietà, l’inizio del lavoro e il furto della bicicletta – nell’arco di una giornata domenicale che l’operaio Ricci, accompagnato dal figlioletto Bruno, dedica alla ricerca della bicicletta. Il campo della loro azione è Roma, in tutta la sua ampiezza e nella sua vita domenicale, dal mercato di Piazza Vittorio a quello di Porta Portese, dal rito festivo della Messa dei poveri, all’immersione finale della folla che lascia lo stadio dopo la partita di calcio. La città, insomma, finisce per essere il teatro inconsapevole e distaccato della piccola grande tragedia dei nostri protagonisti. Piccola, quasi inesistente per la città ma grande, grandissima per loro che su quella bicicletta rubata avevano riposto tutte le loro speranze di lavoro, di sopravvivenza e di dignità.

In Ladri di biciclette, Vittorio De Sica riesce a realizzare appieno la sua poetica e la sua concezione del cinema. Durante la lavorazione del film, così scriveva su La Fiera Letteraria: “… Il mio scopo è di rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane, il meraviglioso della piccola cronaca, anzi della piccolissima cronaca, considerata dai più come materia consunta. Che cos’è, infatti, il furto di una bicicletta, tutt’altro che nuova e fiammante, per giunta? A Roma ne rubano ogni giorno un bel numero e nessuno se ne occupa giacché nel bilancio del dare e avere di una città chi volete che si occupi di una bicicletta? Eppure a molti che non possiedono altro, che ci vanno al lavoro, che la tengono come l’unico sostegno nel vortice della vita cittadina, la perdita della bicicletta è un avvenimento importante, tragico, catastrofico. Perché pescare avventure straordinarie quando ciò che passa sotto i nostri occhi e che succede ai più sprovveduti di noi è così pieno di una reale angoscia?” Quindi, concludeva: “La letteratura ha scoperto da tempo questa dimensione moderna che puntualizza le minime cose, gli stati d’animo considerati troppo comuni. Il cinema ha nella macchina da presa il mezzo più adatto per captarla. La sua sensibilità è di questa natura, e io stesso intendo così il tanto dibattuto realismo. Il quale non può essere, a parer mio, un semplice documento.” In questo scritto De Sica, inconsapevolmente, elabora una specie di contromanifesto del cinema hollywoodiano che invece ricerca il drammatico, il meraviglioso non nel quotidiano, bensì nel fantastico e ha come scopo quello di sovrapporsi, anzi addirittura di porsi in alternativa alla realtà. Il cinema di De Sica considera la realtà come l’humus che alimenta le storie che racconta. Quindi, un cinema che non è semplice documentazione della realtà ma è la realtà stessa, con tutti i suoi personaggi (di qui gli attori presi dalla strada), le sue ambientazioni dal vero e i suoi drammi a divenire storie. Il compito dell’autore è quello di individuare questi personaggi, queste storie e poi farli uscire dall’anonimato, dove immancabilmente ritorneranno. Come ritornarono nell’anonimato da dove erano venuti, tutti i protagonisti, tranne Franco Interlenghi, che entrarono nei film di De Sica. Anche Lamberto Maggiorani che cercò disperatamente di rimanere nel mondo del cinema. Ladri di biciclette uscì proprio nell’anno in cui la controffensiva del mondo cattolico contro le forze della sinistra raggiungeva il suo massimo risultato: la conquista, nelle elezioni politiche del 18 aprile, della maggioranza assoluta. Un film come quello disturbava molto, perché mostrava un volto drammatico e dolente del paese e soprattutto per la solitudine disperata in cui erano avvolti i protagonisti. I cattolici si inalberarono per la sequenza della chiesa in cui viene somministrata la mensa ai poveri e nel quale l’operaio Ricci entra per rintracciare il barbone complice del ragazzo che gli ha rubato la bicicletta. L’Osservatore Romano chiese addirittura che il film venisse sequestrato “per offese alla morale e alla religione”. Esagerazioni tipiche di un’epoca di grandi conflitti, nate in un clima di

restaurazione, che però fanno capire che il film di De Sica con il suo pessimismo finisce per disturbare tutte le forze politiche in campo, non solo i restauratori ma anche la sinistra che lo difende in maniera tiepida, senza impegnarsi, cioè, in una vera battaglia. Forse perché De Sica non è personaggio di partito e anche perché, come abbiamo già visto, non gli si perdonava il suo umanitarismo da cane sciolto. Anche Ladri di biciclette fu rifiutato dal cinema italiano ma a tributarne il successo furono il pubblico e la critica francesi che lo acclamarono come un capolavoro e lo imposero all’attenzione del mondo, tanto da far arrivare a De Sica il suo secondo Oscar. Dopo il trionfo internazionale, arrivano per Vittorio De Sica, e per Cesare Zavattini che si è legato a lui indissolubilmente, anni di crisi. L’Italia sta cambiando, i mali restano ma non sono più così evidenti, il cinema neorealista, per colpa anche dei molti imitatori, rischia di diventare un genere, una formula da applicare all’infinito a ogni situazione, in qualsiasi momento. “Io sentii in quegli anni” disse De Sica, poco prima di morire “dopo i primi film del neorealismo, un certo smarrimento, le idee che non si basavano più su una certezza. Cioè, prima rendevamo sullo schermo il momento che vivevamo, in quei giorni, in quell’anno: la cronaca ci nutriva e ci dava forza, subito dopo la guerra vivevamo passioni umane ben definite, ben chiare. Poi le passioni sono mutate, ci allontanavamo da una certa situazione morale e una specie di angoscia ci stringeva: la minaccia di una nuova guerra, la cattiveria. Eravamo diventati più cattivi, non so, il mondo ci sembrava tutto più cattivo. Dalla mancanza di solidarietà stavamo scivolando nell’odio.” Il neorealismo aveva ancora qualcosa da dare, ma aveva bisogno di essere rinnovato. Sì, ma come? E in quale direzione? “Da qui” De Sica prosegue il suo ragionamento “forse, la spinta interna che ci indirizzò verso la favola come via di evasione. Benché per Miracolo a Milano ci fu anche un altro ragionamento, che stimolò me e Zavattini: avevamo paura che il neorealismo diventasse formula, e allora abbiamo fatto questo tentativo, di applicare il neorealismo a tutte le formule dello spettacolo e così anche alla favola…” Miracolo a Milano spiazza tutti, il pubblico ma soprattutto i critici che si aspettavano da De Sica un altro film sulla linea dei due precedenti. De Sica invece propone una favola che, pur nascondendo un apologo sulla ricchezza, sulla povertà e sull’egoismo, è pur sempre una favola nella storia, ma anche nei personaggi e nell’ambientazione. Nel film prevale la fantasia sulla fredda osservazione del reale, e questo per alcuni autorevoli critici, tra i più impegnati, è una grave colpa. Sono critici probabilmente che non hanno mai amato, e letto nella maniera giusta, i film di De Sica. Ma quando mai nei suoi film, cosiddetti neorealisti, c’è una fredda osservazione del reale? De Sica non osserva il reale, per di più con freddezza, De Sica usa il reale per raccontare una storia che il

reale gli ha ispirato. E la racconta con partecipazione calorosa e umana, stando cioè dalla parte dei suoi personaggi, stando dalla parte degli sciuscià, partecipando al dramma dell’operaio Ricci e di suo figlio Bruno. Nei suoi film non c’è ideologia, i suoi personaggi sono tutti soli e sconfitti e non trovano conforto né in una fede, né in un partito e neppure in una solidarietà umana, ma sembrano avere soltanto la pietà e la solidarietà dell’Autore. In Miracolo a Milano il finale è positivo, anche perché non si è mai vista una favola senza il lieto fine: i barboni, inseguiti dalla polizia arrivano in Piazza Duomo, sottraggono le scope agli scopini (un gesto che irritò un critico marxista ortodosso e, per di più, mancante di senso dell’umorismo, perché i barboni derubavano i proletari degli strumenti di lavoro, e quindi del lavoro stesso) e si librano in volo verso un mondo dove, avverte la didascalia, “buongiorno vuol dire veramente buongiorno”. Neppure questo finale favolistico piacque ai conservatori che mal digerirono la favola dei barboni perseguitati dai ricchi capitalisti. Qualcuno arrivò persino a insinuare che il mondo verso cui volano i barboni, che era semplicemente un mondo emblematico dove regna la verità e l’onestà, fosse il cosiddetto paradiso sovietico. Eppure quel finale era il risultato di un compromesso con il potere politico, perché il vero finale che non fu mai girato era un altro. Così lo raccontò lo stesso De Sica: “I poveri non andavano in cielo ma volando a cavallo delle scope passavano l’Oceano, planavano verso l’Argentina e quando stavano per atterrare leggevano un cartello ‘proprietà privata’. Allora continuavano a girare, andavano in America e anche qui ‘proprietà privata’; e così dappertutto. Era questo il finale vero ma non lo hanno voluto, come non hanno voluto il titolo I poveri disturbano.” De Sica non dice chi “non volle” quel finale ma ce lo possiamo immaginare: non lo vollero i produttori timorosi di vedersi bloccato il film dalla censura. Non lo vollero, soprattutto, coloro che accusavano De Sica di denigrare l’Italia all’estero, in quanto, con i suoi film, portava in giro un’immagine del paese falsa e tendenziosa. Insomma, da coloro che lo accusavano di non lavare i “panni sporchi in famiglia”. La polemica diventerà più rovente all’uscita di Umberto D. con cui De Sica esce dalla favola e dalla metafora e ritorna ai temi forti e diretti, quello della solitudine del vecchio abbandonato a se stesso, considerato inutile e reietto dalla società. Umberto D. viene ispirato a Zavattini dalla cronaca di quegli anni che registra gesti disperati di anziani pensionati i quali intendono mettere fine a una vita di miseria e di solitudine. In realtà, in quei primi anni Cinquanta, sembra che per i cittadini che escono dal ciclo produttivo non ci sia posto nella società e nella vita. Le pensioni, infatti, sono misere e sono riservate soltanto a poche categorie di lavoratori; le pensioni sociali non esistono; l’assistenza sanitaria è ancora un fatto privato per cui molti vecchi finiscono per vivere della carità dei loro famigliari e

per chi è solo, come Umberto D., alla solitudine si aggiunge l’indigenza e la disperazione. La reazione della classe politica al film è violenta, quasi furibonda. De Sica è accusato di essere comunista e di aver fatto ancora una volta un film di propaganda e per uno dei pochi artisti che ha udienza e credito all’estero è ancora più grave, perché la sua opera diventa denigratoria dell’Italia. De Sica, per sgombrare il campo da ogni equivoco e, soprattutto, per difendere uno dei suo capolavori dall’accusa di essere opera di propaganda, non esita a dichiarare di non essere comunista, e a chi gli prospetta la possibilità di essere insignito dal premio Stalin per la pace oppone un rifiuto netto e inequivocabile. De Sica era stato accusato di essere comunista, soltanto perché nei suoi film raccontava i problemi della gente, perché con le storie dei suoi uomini teneva sveglia quell’Italia che si stava addormentando nell’oblio. Ma, indipendentemente da quelle che furono le idee politiche personali dell’uomo De Sica, la sua concezione della realtà, la mancanza di solidarietà umana nelle sue storie senza speranza, il pessimismo sociale, una sorta di sfiducia nei confronti delle istituzioni e in ogni sorta di aggregazione politica, sono tutte cose lontane da una concezione classista della vita. In verità, la critica marxista più accorta, quella che si preoccupava meno degli aspetti propagandistici, non amava troppo De Sica, proprio per questa sua concezione acritica e umanitaria della società, in cui non compare mai la coscienza e la lotta di classe. Il piccolo Pricò, gli sciuscià Giuseppe e Pasquale, l’operaio Ricci e suo figlio Bruno, Totò il Buono, il pensionato Umberto e i giovani sposi, Luisa e Natale, che tentano disperatamente di dare un tetto alla loro unione, ma anche la ciociara Cesira e l’ebrea Micol del Giardino dei Finzi Contini, fino ad Adriana, l’ultimo personaggio di De Sica che conosce l’amore poco prima di morire, sono tutti vinti e rassegnati, che rinunciano a lottare e che si chiudono nella loro tragedia senza mai cercare di associarsi agli altri uomini, in una sorta di sodalizio politico teso al riscatto di tutti gli sfruttati e i vinti. Caso mai, l’ideologia desichiana è più accostabile a quella del socialismo umanitario che pone l’accento soprattutto sul momento della denuncia. Nei primi anni Settanta, De Sica soggiornò per diverse settimane in Unione Sovietica dove girò il film I girasoli. I giudizi che dette del paese del socialismo reale nelle lettere alla figlia Emi sono taglienti e si comprende che vengono da un uomo che ha capito che i bisogni dell’uomo non possono limitarsi a quelli primari ma devono estendersi anche alla libertà, alla dignità, alla partecipazione democratica. “Fu un socialista umanitario” racconta Emi “che si ritrovava in tutte le battaglie per l’uomo.” L’attacco più lucido, ma anche più subdolo, viene da Giulio Andreotti, il democristiano più autorevole, l’unico che mostra di interessarsi anche ai fatti della cultura, che il regime clericale di quegli anni vorrebbe asservita al sistema.

In un articolo pubblicato sul giornale ideologico della Democrazia cristiana Libertas, sostiene che da un artista come De Sica “l’Italia possa attendersi un contributo specifico anche alle grandi battaglie ideali che debbono essere sostenute per rinforzare gli ordinamenti democratici all’interno, dando loro maggior contenuto sociale e per aumentare il nostro prestigio nel mondo.” Che poi era proprio quello che aveva fatto De Sica (Zavattini non viene mai nominato, forse perché comunista dichiarato), denunciando una grave ingiustizia nel nostro sistema sociale, aveva dato un importante contributo al rafforzamento degli ordinamenti democratici. “Nessuno si scandalizzi” aggiunge Andreotti “Non chiediamo davvero a De Sica di ispirare la sua produzione agli scritti di don Sturzo, alle vicende del Partito popolare… domandiamo solo all’uomo di cultura di sentire la sua responsabilità sociale che non può limitarsi a descrivere i vizi e le miserie di un sistema e di una generazione ma deve aiutare a superarli.” E qui siamo al paradossale. Andreotti non sente la responsabilità della classe politica per la mancata soluzione di un problema così grave, ma invita l’Artista ad avere senso di responsabilità e di non occuparsi nelle sue opere dei problemi sociali, se non per aiutare a superarli e “per rendere domani meno freddo l’ambiente che circonda le moltitudini di quanti in silenzio si consumano, soffrono o muoiono”. L’intervento di Andreotti non rimase sul piano della polemica politica e culturale ma si tradusse in un grave danno per il film. Del resto, Andreotti, in quanto sottosegretario alla Presidenza del Consiglio è la massima autorità governativa sul cinema italiano che non ha trovato una fisionomia e ancora soffre la concorrenza del cinema americano. Per cui, racconta De Sica, “la conclusione fu che il produttore Rizzoli e i distributori si spaventarono e il film fu ritirato. E al Festival del Cinema di Cannes venne l’ordine da Roma di non premiare Umberto D. e infatti vinse Due soldi di speranza di Castellani.” Ancora un danno economico per De Sica, ancora più grave perché Umberto D. non avrà all’estero l’esito commerciale dei precedenti tre film. Resta comunque uno dei suoi film migliori, più sinceri, un film in cui da una realtà nera scaturisce la poesia, nel rapporto tra Umberto e la servetta, tra Umberto e il cane, che alla fine rimane l’unico motivo di vita per il povero pensionato. E poi un film di particolare significato per De Sica: “Umberto D. è dedicato a mio padre. Non era la sua storia, ma ci misi tutto l’amore per lui, la sua vita grama, gli stipendi sudati, le privazioni, la dignità e il decoro morale della piccola borghesia. Il borghese povero, ancora più triste dell’operaio povero.”

Un grande “star director”

Se prima della guerra De Sica era un attore richiestissimo e strapagato, nel dopoguerra la sua situazione economica era divenuta precaria, perché i suoi quattro capolavori che segneranno per sempre il cinema mondiale gli avevano dato soltanto gloria, e anche quella scarsa nei confini domestici. Avrebbe potuto supplire, per venire incontro ai bisogni delle famiglie (nel frattempo sono diventate due, perché sono nati da María Mercader, Manuel e Christian) con la sue prestazioni di attore, ma anche quelle avevano cominciato a scarseggiare. Anche per colpa di De Sica che si considerava oramai un regista, e soltanto un regista, e quindi sentiva lontani i tempi in cui si proponeva con il suo personaggio scanzonato e leggero. Gli anni erano passati, la figura si era appesantita e i capelli erano diventati grigi. Soltanto il sorriso era rimasto charmant. Il giudizio che lui dava di se stesso sentiva che era condiviso da tutti: l’attore De Sica apparteneva al cinema sorridente, degli anni Trenta (quello che lui mostrava di prediligere per se stesso attore, se a distanza di molti anni, facendo un bilancio, disse che le sue interpretazioni migliori le aveva fatte in quegli anni) e non poteva trovare più posto nel cinema del dopoguerra. In sette anni, l’attore De Sica, prima del 1952, era stato chiamato soltanto otto volte, quasi sempre (fa eccezione soltanto Cuore di Duilio Coletti, in cui fu protagonista insieme a María Mercader) per parti secondarie, per forti caratterizzazioni nelle quali era maestro. Ora era arrivato il momento di tornare a fare l’attore, anche perché dopo i quattro capolavori neorealisti nessuno era più disposto a finanziare un film di De Sica. Lo farà, nel 1953, il produttore americano David O. Selznick, il quale pensò di adattare il talento di De Sica ai canoni hollywoodiani, imponendogli due attori come Montgomery Clift e Jennifer Jones e la lingua inglese. I risultati del film Stazione Termini non furono esaltanti. Per sette anni il regista De Sica girò soltanto due film, L’oro di Napoli e Il tetto (il primo ebbe, finalmente, un grande successo di cassetta e il secondo fu considerato un tardo prodotto del neorealismo), prima di iniziare, con La ciociara nel 1960, un nuovo ciclo di grandi successi commerciali e anche di critica. De Sica era diventato un star director, si era messo, cioè, al servizio di grandi attori che seppe guidare con la sua straordinaria maestria, in film di qualità e di grande

esito commerciale. Nel 1954, due anni dopo il suo ritorno al successo come attore, De Sica scriveva: “Forse non è credibile ma la verità è che il mio nome di attore non valeva più granché prima che Blasetti mi offrisse quella parte di avvocatuccio napoletano, forse addirittura non valeva più nulla. Non so bene perché, forse mi si giudicava troppo vecchio, forse la campagna scatenata contro di me quale autore di film neorealisti produceva i suoi effetti proprio là, nel terreno della recitazione. D’altronde la cosa non mi stupiva, giacché nella mia vita di attore ci sono state quattro morti e quattro resurrezioni, né mi addolorava eccessivamente, in quanto mi piace recitare sì, ma assai più mi piace fare film miei…” Ci volle una vecchia volpe del cinema italiano come Alessandro Blasetti per capire che Vittorio De Sica poteva essere ancora riproposto al pubblico del dopoguerra, perché conservava ancora intatta la sua popolarità e soprattutto le sue grandi capacità di interpretazione che lo avrebbero potuto rendere sicuramente adatto a parti legate alla sua età attuale. Non fu facile per Blasetti avere De Sica nel suo delizioso film Altri tempi (uno zibaldone della narrativa italiana dei tempi andati), e segnatamente come protagonista insieme a Gina Lollobrigida, dell’episodio intitolato Il processo di Frine. Raccontò Blasetti: “Dovetti lottare duramente per avere De Sica con me in Altri tempi, nel ’52. La Cines, la casa di produzione, infatti non voleva assolutamente sentire parlare di Vittorio De Sica come attore. Lo consideravano finito. Su di lui gravava l’impronta di charmeur, di leggero, di bello che gli avevano dato i film di Camerini. Quel personaggio, dopo tanti successi, era giunto a saturazione. E nessuno credeva che De Sica, come attore, fosse capace di fare dell’altro. Io sì, perché nel ’46 avevo avuto occasione di vedere De Sica in una compagnia teatrale insieme alla Mercader, a Girotti e alla Proclemer. E avevo imparato a conoscere in lui l’attore capace di creare grandi caratteri. Così mi impuntai e alla fine ebbi ragione della Cines ed ebbi De Sica. Subito dopo venne Il processo di Frine, che ebbe un grande successo e confermò che avevo visto giusto. La popolarità di Vittorio ebbe un tale soprassalto che quando lo volli di nuovo per un altro film, sceneggiato da Zavattini, Amore e chiacchiere, successe esattamente il contrario di quanto era accaduto all’epoca di Altri tempi: nessuno voleva mollarlo e, oltre tutto, costava carissimo. Ma lui si ricordò che gli avevo dato una mano in un momento non facile e venne a fare il film a un prezzo nettamente inferiore a quello di mercato.” Lo sketch di Altri tempi interpretato da De Sica diventò addirittura proverbiale. Tratto da un lavoro di Edoardo Scarfoglio, racconta la storia di un avvocatucolo di provincia che si trova a difendere d’ufficio la bella Mariantonia, accusata di aver portato lo scompiglio nelle famiglie con la sua bellezza e la sua esuberanza. Alla fine, l’avvocatucolo fa assolvere la bella Mariantonia citando un processo dell’antica Grecia, in cui un avvocato del tempo fece assolvere la cortigiana Frine

mostrando ai giudici le sue bellezze a cui era impossibile resistere, ed esclamando: “Assolvereste un minorato psichico perché non dovreste assolvere una maggiorata fisica?!” Fu proprio questa battuta ad aprire l’era delle maggiorate fisiche di cui Gina Lollobrigida fu la prima esponente. Dopo Altri tempi, all’attore De Sica si spalancarono di nuovo le porte del cinema. Il nuovo ciclo si aprì con Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini, ancora con Gina Lollobrigida, che diventerà il primo seriale del cinema italiano perché ebbe molti seguiti, tutti con De Sica. Dopo Pane, amore e fantasia la serie continuò, sempre per la regia di Luigi Comencini, con Pane, amore e gelosia. Nel terzo film, Pane, amore e…, Comencini e la Lollobrigida dettero forfait e furono sostituiti da Dino Risi e Sofia Loren. La serie fu chiusa, abbastanza ingloriosamente, da un assurdo Pane, amore e Andalusia in cui figurava soltanto De Sica. Se avessero girato anche il progettato Pane, amore e… così sia, certamente De Sica sarebbe stato della partita. Pane, amore e fantasia, come era successo con Gli uomini che mascalzoni… negli anni Trenta, fu il film che lo rese più popolare, tanto da essere identificato con il personaggio del Maresciallo Carotenuto. “Camminava per strada e la gente lo salutava ’a marescià” racconta María Mercader “lui mi diceva: dimmi tu se dopo aver ricevuto i riconoscimenti internazionali per Ladri di biciclette, devo diventare famoso per il personaggio del Maresciallo Carotenuto… Così diceva ma era compiaciuto per l’affetto che gli dimostrava la gente.” I film a cui partecipò in poco più di vent’anni sono un numero veramente impressionante: ben settantotto, con una media di quattro film l’anno, in cui riuscì a interpretare una miriade di personaggi di ogni genere e di ogni segno, tutti senza prendersi sul serio, e con ironia distaccata ma con grande maestria e rigore professionale, anche in certi film che faceva per mantenersi il vizio del tavolo verde e di cui non sapeva neppure il titolo. “Blasetti mi aprì una carriera” disse “e da allora non cessai più di interpretare, con alterno successo, talvolta bene e talvolta decisamente male (so benissimo quando), film altrui.” Non creò mai problemi ai suoi colleghi, i quali avrebbero potuto sentirsi imbarazzati a dare disposizioni di recitazione a un cotale maestro, perché si affidò loro completamente con rigore e disciplina, convinto che tutti i film e tutti i ruoli possono essere rispettabili. Al collega Vittorio Caprioli che si lamentava per i filmetti in cui era costretto a lavorare, disse: “Bisogna interpretare tutto come se fosse il film della tua vita perché non saprai mai qual è il film che ti darà il successo. E sappi che quando il telefono suona a casa mia, io alzo il ricevitore e dico sì.” Si buttava a capofitto su tutto, non solo per guadagnare ma anche perché pensava che un attore deve essere duttile, deve farsi usare. E poi perché si divertiva, amava il set, amava entrare nei personaggi più disparati, amava entrare in competizione con i suoi colleghi più bravi, come Totò e come Alberto

Sordi, che scoprì alla radio dove interpretava le famose scenette del Compagnuccio della parrocchietta e lanciò nel cinema, in un film da lui prodotto e, nella sostanza anche diretto, anche se firmato da altri, Mamma mia che

impressione! A proposito di questo film, Sordi raccontava un aneddoto che vale la pena ricordare, perché dimostra quanto mestiere metteva De Sica nel suo lavoro. “Andammo a girare in un campetto sportivo di un piccolo oratorio e alla fine delle riprese la produzione diede al prete dieci lire di obolo, e quello si arrabbiò. ‘Dieci lire, dieci milioni mi dovete dare, perché voi del cinema guadagnate miliardi.’ La produzione si schermì dietro al Commendatore, il quale si mise a litigare con il prete: ‘Dieci milioni, ma si vergogni padre!’ E se ne andò. Ce ne andammo anche noi, ma un certo punto qualcuno si ricordò che non avevamo girato una inquadratura fondamentale. Allora De Sica mandò il segretario di produzione dal prete: ‘Digli che ci abbiamo ripensato e che siamo disposti a dargli i dieci milioni.’ Giriamo la scena, poi risaliamo sui mezzi di produzione e al prete che ci correva dietro, De Sica gridò: ‘Ritorneremo, non si preoccupi, per i suoi dieci milioni, stiamo andando in banca a prenderli’.” Con Sordi si divertiva moltissimo, anche perché tra i due c’era una grande intesa e un grande affetto. “E pensare che quando ero ragazzo” diceva Sordi “De Sica era l’attore che ammiravo di più. E il destino ha voluto che quando diventai un attore fosse lui a scoprirmi. Lui seguiva il mio personaggio radiofonico, mi chiamò e volle che il Compagnuccio della parrocchietta diventasse un personaggio cinematografico. Facemmo una sceneggiatura, a cui partecipò pure Zavattini, e costituimmo una società per produrre il film, che lui seguì dall’inizio alla fine.” I due si ritrovarono ancora molte volte e come attori e come attori e registi. Ne Il conte Max De Sica passò persino il testimone a Sordi, il quale interpretò la parte che aveva interpretato vent’anni prima il suo collega più anziano, che quella volta gli fece da “spalla”. De Sica, poi, diresse Sordi due volte (nel Giudizio universale, dove Sordi interpretava un terribile personaggio che esportava bambini napoletani negli Stati Uniti, e nel Boom, un film premonitore, che svelava cosa c’era di tragico dietro al cosiddetto miracolo economico italiano), e poi Sordi ebbe De Sica in uno dei suoi film di regia migliori, Un italiano in America, dove De Sica manda a chiamare negli Stati Uniti un figlio che ha abbandonato in tenera età. Il giovane crede di aver ritrovato un padre ricco ma ben presto scoprirà che è un imbroglione, un giocatore accanito, che lo ha mandato a chiamare per incassare il compenso di una trasmissione televisiva specializzata in casi umani. Nel film è semplicemente eccezionale, per la bravura dei due attori che erano affiatatissimi, la scena dell’incontro fra padre e figlio davanti alle telecamere, interrotto dagli spot pubblicitari. “Fu felice quando andammo negli Stati Uniti a girare Un italiano in America. Parte del film si svolge a Las Vegas. Lui se ne stava tutto il tempo, già truccato e

imbellettato per le riprese, al tavolo da gioco. Quando io avevo bisogno di lui, aspettavo che finisse il sabot e lo prelevavo dal tavolo così com’era. Finita la ripresa tornava a giocare. Nel mio film lui faceva, appunto, la parte di un giocatore che perde tutto e che, alla fine, infila, senza speranza, l’ultimo nichelino in una slot-machine. Era proprio la situazione di De Sica che quel giorno a Las Vegas stava perdendo a rotta di collo. Per fargli vedere come intendevo che fosse girata la scena, tirai fuori dalla tasca una monetina e la infilai senza pretese nella fessura: la macchina mi vomitò addosso centinaia di monete. Allora De Sica alzò le braccia al cielo, mi guardò con due occhi che scintillavano, scoppiò in una gran risata e disse: ‘Alberto, vaffa…’ e se ne tornò a giocare.” Alberto Sordi parlava di De Sica, a quasi vent’anni dalla morte, avvenuta nel 1974, con molto affetto filiale. Si capisce che Vittorio De Sica è una persona che ha amato e ammirato ma è anche una persona con cui ha riso tanto, con la quale ha avuto un rapporto cameratesco di grande complicità quasi goliardica. De Sica era, insomma, per Sordi una persona che metteva allegria e che, per questo, poteva diventare il bersaglio affettuoso dei suoi proverbiali scherzi. “De Sica era un uomo affascinante” ricordava Sordi “un uomo allegro, disponibile, un gran compagno di gioco. Con lui mi sono fatto le più matte risate della mia vita. Insieme ci divertivamo come bambini. Mi ricordo che avevo preso l’abitudine, quando camminavamo fianco a fianco, di dargli sulle spalle delle piccole spinte con la mano, per gioco. E lui rispondeva invariabilmente: ‘e daje Alberto, nun me spigne, è tutta la vita che me spigni.’ Questo semplice scherzo ci faceva ridere per mezz’ora, come degli scolaretti. Una volta per un pelo non la combinammo grossa. Si inaugurava lo stabilimento della De Laurentiis e Fanfani era venuto a mettere la prima pietra. De Sica era piazzato proprio dietro di lui. Allora io non resistetti e gli diedi una spinta, forte. De Sica perse l’equilibrio e il suo gran corpo andò a cadere sopra il piccolo Amintore. Ci fu un momento di gelo. Ma De Sica rialzandosi e aiutando il senatore a rimettersi in piedi, gridò verso di me: ‘è stato lui, è stato lui! Mi sta sempre a spigne. È tutta la vita che me spigne!’” De Sica amava gli attori anche quando era costretto a constatarne i difetti e le vanità. Forse perché era attore anche lui, con i suoi colleghi fu sempre indulgente. Come con Jean-Paul Belmondo, al quale perdonava tutto, anche l’indisciplina: “Belmondo invece è il più insolente attore che io abbia mai conosciuto” scrive nei suoi diari “e ci vuole la mia pazienza e il mio entusiasmo per spingerlo a stare con la testa al lavoro ed eseguire, e l’eseguisce, la scena come si deve. È distratto, sbadiglia, bisogna sempre chiamarlo perché starebbe continuamente in camerino a dormire. Ma è molto simpatico e intelligente e questo compensa il suo menefreghismo.” Fu indulgente anche con Marcello Mastroianni con il quale ebbe un rapporto paterno (Mastroianni gli dette sempre rigorosamente del lei e lo chiamò sempre commendatore) di grande stima reciproca, anche se talvolta nei diari ne rileva i

difetti: “Mastroianni vorrebbe invece andare via. Lavorare, per lui, è un martirio” scrive De Sica durante la lavorazione di Matrimonio all’italiana. Per Sofia Loren ebbe, invece, una vera e propria ammirazione. Si capisce che De Sica considerava Sofia – sempre brava, sempre diligente, sempre attenta – una sua creatura. E a buon diritto, perché fu De Sica a rivelarne l’anima popolare nel personaggio della pizzaiola de L’oro di Napoli e a valorizzarla in film di grande valore fino a farle vincere un Oscar per la migliore interpretazione femminile con La ciociara. De Sica liberò Sofia Loren dalle incrostazioni hollywoodiane, che ne avevano fatto un personaggio immobile, quasi affetto da paralisi progressiva, e dalle idee del marito-produttore Carlo Ponti che le imponeva atteggiamenti divistici, che lo stesso De Sica considerava non coerenti con il personaggio popolare grazie al quale si era affermata, e controproducenti ai fini della popolarità. Finché fu vivo De Sica – al quale Ponti, forse suo malgrado, l’aveva affidata – Sofia produsse film e personaggi straordinari, eccezionali e indimenticabili figure di donne riprodotte dalla realtà italiana (come Filumena Marturano di Matrimonio all’italiana, come Cesira de La ciociara o come Adelina di Ieri, oggi, domani), con interpretazioni che le fecero guadagnare l’ammirazione di tutto il mondo che ne aveva colto la verità. Dopo la morte di De Sica, Sofia Loren – tranne in Una giornata particolare diretto, guarda caso, da Ettore Scola, un allievo e grande ammiratore di De Sica – ritornò a quei suoi personaggi raggelati e stereotipati, privi di calore e di umanità, e come attrice ebbe poco da dire. De Sica amava Sofia Loren anche perché era affascinato dai napoletani. Era nato a Sora ma si sentiva, in un certo senso, napoletano, perché a Napoli aveva passato gli anni della fanciullezza e dell’adolescenza. I diari di Ieri, oggi, domani e Matrimonio all’ italiana, due film girati a Napoli, sono pieni di annotazioni sui napoletani, sulla loro filosofia, sulla loro grande umanità. Probabilmente i napoletani, con il loro teatro permanente, con quella loro mancanza di confini fra la finzione e la realtà, incarnano la concezione che De Sica aveva del cinema come rappresentazione della realtà, come un pezzo di umanità che si trasferisce sulla pellicola. È ammirato dagli espedienti che mettono in atto per campare (come quell’uomo che, dopo essere stato tutto il giorno a guardare le riprese del film, la sera si era avvicinato e aveva chiesto di essere pagato come comparsa: “Ho perso la giornata perché sono stato qui tutto il giorno a guardarvi: mi avete affascinato e ora mi dovete risarcire”), la loro cordialità e l’ammirazione sincera che nutrono per i personaggi che sentono vicini a loro (“Che filmo fato?”, “C’è Sofia stanotte?”, “Signor Di DeSico sempre bello e giovane”, “Vittò… Azione!”, “Uno si è precipitato a baciarmi la mano e con grande segretezza mi ha detto: ‘Sono parente del signor Sarchiapone, fatemi lavorare, so’ senza una lira”), la coralità dei loro gesti e dei loro comportamenti (“Il solito trambusto, il solito gridio dei bambini, la solita gente alle finestre. Con la mia voce suadente attraverso un megafono ho pregato di far silenzio per qualche

minuto, di ritirarsi dalle finestre e chiuderle in quanto la scena si svolge durante la notte di Natale. E così è avvenuto. ‘Grazie’, ho detto io alla fine della scena e un migliaio di persone hanno risposto in coro, all’unisono, ma senza ombra di ridicolo o di sfottò: ‘Prego!’).” Ma ciò che lo affascina di più nei napoletani è questo essere generosi e interessati nello stesso momento, sinceri e menzogneri, senza ombra di doppiezza, come frutto di una natura bizzarra che ha creato degli esseri generosi ma nello stesso tempo ha dato loro l’arma della furbizia per sopravvivere: “Quest’oggi la padrona del basso che mi ospita ha voluto per forza offrirmi un piatto della loro minestra di riso e fagioli. Ero commosso dalla prodigalità di questa povera gente che si toglie un piatto della loro minestra così faticosamente guadagnata. Avevo appena finito di dire ‘Ma è sorprendente la generosità e l’ospitalità del popolo napoletano, che mi commuove nel profondo del mio animo’ quando si è avvicinata la padrona e a un orecchio mi ha sussurrato: ‘Vedite un po’ voi si putite ottenere dall’amministrazione un compenso per tutto ’o disturbo che ci prendiamo’.” Il napoletano descritto da De Sica può essere considerato l’emblema di questa Napoli che vive e recita, che improvvisa e si aiuta con il sogno e la fantasia: “Stanco, stavo per scendere verso la macchina che mi riportava a casa quando si avvicina un tale che mi dice: ‘Signor De Sica, fate la carità, fatemi lavorare, ho due bambini a casa che muoiono di fame.’ E gli occhi gli si riempiono di lacrime. Poi, improvvisamente, smette di singhiozzare e di piangere e mi dice: ‘Nun è overo. Ho fatto finta. È solo per dimostrarvi che sarei un grande attore, ma che volete, ho sbagliato carriera, faccio il sarto’ e mi lascia lì come un imbecille fermo sulla strada scoscesa a guardarlo allontanarsi.” Era religioso ma anticlericale (un altro dato, l’anticlericalismo, che emerge abbondantemente dai suoi scritti privati, mentre in quelli pubblici è più accorto). Quando morì gli fecero pagare caro non solo il suo anticlericalismo ma anche il fatto che avesse combattuto strenuamente per unirsi alla donna con cui visse per più di trent’anni e per dare il suo nome a Manuel e a Christian: gli fecero soltanto un funerale proforma ma senza messa. La messa gliela disse il cappellano dell’aeroporto di Fiumicino, dove la salma sbarcò di ritorno da Parigi dove Vittorio De Sica era andato a morire nel disperato tentativo di curarsi il tumore che lo aveva colpito. Era il 13 novembre del 1974 e aveva appena terminato un film sull’amore e la morte, Il viaggio, un film che fece centellinandosi i giorni che ancora gli rimanevano. Al medico che gli scoprì la malattia aveva infatti domandato: “Quanto tempo mi rimane?” “Un anno”, gli fu risposto. “Mi basta per fare il mio ultimo film.” Lo fece e fu l’ultimo dei suoi capolavori.

Biofilmografia a cura di Anna Maria Bianchi

 

1901 Il 7 luglio Vittorio nasce a Sora da Umberto De Sica e Teresa Manfredi terzo di quattro figli. 1902-1915 Nel periodo 1902-1912 la famiglia De Sica si trasferisce prima a Napoli, poi a Firenze infine a Roma. Durante la Grande Guerra, si esibische negli ospedali in spettacoli per dilettanti e canta canzoni napoletane accompagnato dal padre al pianoforte. Nel 1915 interpreta san Tarcisio in una recita per il teatro parrocchiale di San Camillo. 1917

Il processo Clémenceau Regia: Alfredo De Antoni – soggetto: dal romanzo L’affaire Clemenceau di Alessando Dumas figlio – adattamento: Alfredo De Antoni, Giuseppe Paolo Pacchierotti – interpreti: Francesca Bertini, Gustavo Serena, Vittorio De Sica – produzione: Caesar Film, Roma – origine: Italia, 1917. 1919 Si iscrive all’Istituto superiore di commercio. 1920 Presta il servizio militare nel Primo granatieri, recitando nella filodrammatica

della compagnia. 1922 Canta e recita per beneficenza nella Compagnia Filodrammatica Atellana. 1923 Entra nella Compagnia Tatiana Pavlova (con Renato Cialente, Calisto Bertramo, Maria Raspini, Fernando Solieri, Alberto Capozzi, Umberto Casilini, Letizia Bonini, Gino Sabbatini, Adolfo Geri, Massimo Ungaretti, Tina Lattanzi, Carlo Cecchi) esordendo come generico in Sogno d’amore di Alexander Kosorotov. 1924-25 Diventa secondo brillante nella Compagnia Tatiana Pavlova. Impersona Gastone ne La signora delle camelie di Alexander Dumas figlio. 1925-27 Secondo brillante nella Compagnia Italia Almirante Manzini diretta da Luigi Almirante, con Corrado Racca, Cesare Fantoni, Alfonso Magheri, Vittorina Benvenuti, Guglielmo Barnabò, Piero Cornabuci, Delfina Dolfini, Carlo Delfini, Gino Sabbatini, Tina Lattanzi, Luigi Pavese. 1926 Tournée in Sud America con la Compagnia Italia Almirante Manzini. 1927 Attor giovane nella Compagnia Comica Italiana Luigi Almirante-Giuditta Rissone-Sergio Tofano, con Amelia Chellini, Giuseppe Porelli, Gina Sammarco, Francesco Rissone, Giuseppe Valpreda, Rosetta Tofano, Isora Cardinali, Ebe Adori, Carlo Delfini, Emilio Lederchi, Mauro Giancola, Irma Frigerio, Ginevra Cavaciocchi, Renato Navarrini, Delfina Dolfini. Rimane in compagnia fino al 1929.

La bellezza del mondo Regia: Mario Almirante – soggetto e sceneggiatura: Pier Angelo Mazzolotti – interpreti: Italia Almirante Manzini, Renato Cialente, Luigi Almirante, Vittorio De Sica – produzione: Alba Film, Torino – origine: Italia, 1927. 1928 Interpreta il Barone Partecipato in Qui comincia la sventura del Signor Bonaventura.

La compagnia dei matti Regia: Mario Almirante – soggetto: dalla commedia di Gino Rocca Se no i xe mati no li volemo – produzione e distribuzione: S.A. Pittaluga – origine: Italia, 1928. 1929 Sostiene un provino agli stabilimenti Pittaluga di Torino che non ottiene esito

positivo. 1930-31 Primo attore nella Compagnia Artisti Associati, diretta da Guido Salvini, con Giulio Donadio, Giuditta Rissone, Umberto Melnati, Amelia Chellini, Stefano Sibaldi, Pina Renzi, Checco Rissone, Franco Pucci. 1930 La Compagnia Artisti Associati rappresenta L’amore fa fare questo e altro di Achille Campanile, a Milano. 1931 A Milano, dove rappresenta Week-end la compagnia viene scoperta e rilevata da Mario Mattòli. 1931-33 Primo attore della Compagnia Za-bum n. 8 diretta da Mario Mattòli con Camillo Pilotto, Giuditta Rissone, Umberto Melnati, Nino Besozzi, Ermanno Roveri, Amelia Chellini, Pina Renzi, Rina Franchetti, Franco Coop, Checco Rissone, Ginevra Cavaciocchi, Tino Erler, Adele Carlucci, Marcella Melnati. 1932

La vecchia signora Regia: Amleto Palermi – soggetto e sceneggiatura: Amleto Palermi, Orsino Orsini – interpreti: Emma Gramatica, Arturo Falconi, Vittorio De Sica – produzione: Caesar Film, Roma – origine: Italia, 1932.

Due cuori felici Regia: Baldassarre Negroni – soggetto: Hans H. Zerlett, Max Neufeld, dall’operetta Geschäft mit Amerika (Affari in America) di Paul Franck e Ludwig Hirschfeld – sceneggiatura: Aldo Vergano, Raffaello Matarazzo – interpreti: Rina Franchetti, Vittorio De Sica, Umberto Melnati, Mimì Aylmer – produzione: Cines, Roma – origine: Italia, 1932.

Gli uomini, che mascalzoni… Regia: Mario Camerini – soggetto: Aldo De Benedetti, Mario Camerini – sceneggiatura: Aldo De Benedetti, Mario Camerini, Mario Soldati – musica: Cesare Andrea Bixio – direzione musicale: Armando Fragna – canzone: Parlami d’amore, Mariù di Cesare Andrea Bixio, Ennio Neri – interpreti: Lya Franca, Vittorio De Sica, Cesare Zoppetti – produzione: Emilio Cecchi per Cines, Roma – origine: Italia, 1932. 1933-35 Compagnia Sergio Tofano-Giudita Rissone-Vittorio De Sica, diretta da Sergio Tofano, con Rosetta Tofano, Giuseppe Porelli, Federico Collino, Luigi Pavese, Pina Camera, Checco Rissone, Sarah Ferrati, Renato Navarini, Adolfo Geri, Gastone Schirato, Antonio Busetto, Mario Sandrini, Luciano Mondolfo,

Margherita Donadoni, Massimo Ungaretti, Adele Carlucci. 1933

La segretaria per tutti Regia: Amleto Palermi – soggetto: dalle riviste Le lucciole della città, Le nuove lucciole, Tredes corn, Soldati 1989 di Dino Falconi e Oreste Biancoli – sceneggiatura: Mario Mattòli, Amleto Palermi – interpreti: Armando Falconi, Giuditta Rissone, Vittorio De Sica, Umberto Melnati, Rina Franchetti – produzione: Mario Mattòli per Produzione Za-bum – origine: Italia, 1933.

Un cattivo soggetto Regia: Carlo Ludovico Bragaglia – soggetto: da una commedia di Frederick Lonsdale – sceneggiatura: Carlo Ludovico Bragaglia – interpreti: Vittorio De Sica, Irina Lucacevich, Giuditta Rissone, Laura Nucci – produzione: Mario Mattòli per Produzione Za-bum – origine: Italia 1933.

La canzone del sole Regia: Max Neufeld – soggetto e sceneggiatura: Hans Fritz Köllner – interpreti: Vittorio De Sica, Liliane Deitz, Umberto Melnati – produzione Italfonosap, Angelo Besozzi – origine: Italia, 1933 [Vittorio De Sica ha interpretato anche la versione tedesca del film, Das lied der Sonne].

Il Signore desidera? Regia: Gennaro Righelli – soggetto: Aldo De Benedetti – sceneggiatura: Duilio Coletti – interpreti: Vittorio De Sica, Dria Paola, Ada Dondini – produzione: Ventura Film – origine: Italia, 1933. 1934

Lisetta Regia: Carl Boese – soggetto: dal romanzo Das Blumenmädchen vom GrandHotel (La fioraia del Grand Hotel) di Eberhard Frowein – sceneggiatura: Robert A. Stemmle – interpreti: Elsa Merlini, Vittorio De Sica, Renato Cialente – produzione: Italfonosap – origine: Italia 1934.

Tempo massimo Regia: Mario Mattòli – soggetto e sceneggiatura: Mario Mattòli – interpreti: Vittorio De Sica, Milly, Anna Magnani – produzione: Za-bum, Roma – origine: Italia, 1934. 1935 Conosce Cesare Zavattini e compra il suo soggetto Diamo a tutti un cavallo a dondolo.

Amo te sola Regia: Mario Mattòli – soggetto: dalla commedia Il gatto in cantina di Nando Vitali – sceneggiatura: Mario Mattòli, Giacomo Gentilomo – interpreti: Vittorio De Sica, Milly, Enrico Viarisio, Giuditta Rissone – produzione: Fabio Franchini per Tiberia Film, Roma – origine: Italia, 1935.

Darò un milione

Regia: Mario Camerini – soggetto: da Buoni per un giorno di Giaci Mondaini, Cesare Zavattini – sceneggiatura: Mario Camerini, Ivo Perilli, Cesare Zavattini – interpreti: Vittorio De Sica, Assia Noris, Luigi Almirante – produzione Novella Film – origine: Italia, 1935. 1936-39 Dirige la Compagnia Vittorio De Sica-Giuditta Rissone-Umberto Melnati, con Ninì Gordini Cervi, Tino Erler, Norma Nova, Roberto Moro, Carlo Maresti. Interpreta Due dozzine di rose scarlatte di Aldo De Benedetti, in teatro con la Rissone e Melnati. 1936

Lohengrin Regia: Nunzio Malasomma – soggetto: dalla commedia omonima di Aldo De Benedetti – sceneggiatura: Aldo De Benedetti, Fritz Eckardt, Nunzio Malasomma – interpreti: Vittorio De Sica, Sergio Tofano, Giuditta Rissone, Mimi Aylmer, Luigi Almirante – produzione: Enrico Ventura – origine: Italia, 1936.

Non ti conosco più Regia: Nunzio Malasomma – soggetto: dalla commedia omonima di Aldo De Benedetti – sceneggiatura: Aldo De Bendetti, Fritz Eckardt – interpreti: Vittorio De Sica, Elsa Merlini, Enrico Viarisio – produzione: Amato Film – origine: Italia, 1936.

Ma non è una cosa seria Regia: Mario Camerini – soggetto: dalla commedia omonima di Luigi Pirandello – sceneggiatura: Mario Camerini, Ercole Patti, Mario Soldati – interpreti: Vittorio De Sica, Elisa Cegani, Umberto Melnati, Assia Noris – produzione: Colombo Film – origine: Italia 1936.

L’uomo che sorride Regia: Mario Mattòli – soggetto: dalla commedia omonima di Luigi Bonelli, Aldo De Benedetti– sceneggiatura: Luigi Bonelli, Aldo De Benedetti – Interpreti: Vittorio De Sica, Assia Noris, Umberto Melnati, Enrico Viarisio – produzione: Amato-EIA – origine: Italia, 1936. 1937 Il 10 aprile sposa ad Asti Giuditta Rissone; dopo il matrimonio De Sica e La Rissone corrono alle prove della commedia Una più due di Luigi Chiarelli.

Questi ragazzi Regia: Mario Mattòli – soggetto: dalla commedia “Questi ragazzi!” di Gherardo Gherardi – sceneggiatura: Aldo De Benedetti, Mario Mattòli – interpreti: Vittorio De Sica, Paola Barbara, Giuditta Rissone, Enrico Viarisio – produzione: Luciano Doria per Romulus_Lupa – origine: Italia, 1937.

Il Signor Max Regia: Mario Camerini – soggetto: Amleto Palermi – sceneggiatura; Mario

Camerini, Mario Soldati – interpreti: Vittorio De Sica, Assia Noris, Rubi Dalma – produzione: Astra Film – origine: Italia, 1937. 1938 Nasce la primogenita Emilia, detta Emi.

Napoli d’altri tempi Regia: Amleto Palermi – soggeto: Amleto Palermi, Ernesto Murolo – sceneggiatura: Cesare Giulio Viola, Amleto Palermi, Ernesto Murolo – canzoni: Salvator Rosa, Denza, Tosti, Di Capua, Gambardella, Cicognini, Valente, Persico [le canzoni Serenatella, Napoli mia, Ritratto di Ninetta sono cantate da Vittorio De Sica] – interpreti: Emma Gramatica, Vittorio De Sica, María Denis, Elisa Cegani – produzione: C.O. Barbieri per Astra Film – origine: Italia, 1938.

La mazurka di papà Regia: Oreste Biancoli – soggetto: dalla rivista Dura minga di Oreste Biancoli, Dino Falconi – sceneggiatura: Giacomo Debenedetti, Carlo Borghesio – interpreti: Vittorio De Sica, Umberto Melnati, Elsa De Giorgi – produzione: Angelo Besozzi per Aurora-Fonorama – origine: Italia, 1938.

Hanno rapito un uomo Regia: Gennaro Righelli – soggetto: Gennaro Righelli – sceneggiatura: Aldo De Benedetti, Alessandro De Stefani – interpreti: Vittorio De Sica, Caterina Boratto, María Denis – produzione: Juventus Film – origine: Italia, 1938.

Partire Regia: Amleto Palermi – soggetto: Gherardo Gherardi dalla propria commedia omonima – sceneggiatura: Giacomo De Benedetti, Gherardo Gherardi, Amleto Palermi – interpreti: Vittorio De Sica, María Denis – produzione: C.O. Barbieri per Astra Film – origine: Italia, 1938.

L’orologio a cucù Regia: Camillo Mastrocinque – soggetto: dalla commedia omonima di Alberto Donini – sceneggiatura: Renato Castellani, Mario Soldati – interpreti: Vittorio De Sica, Oretta Fiume, Laura Solari – produzione: Era Film – origine: Italia, 1938.

Le due madri Regia: Amleto Palermi – soggetto: Amleto Palermi – sceneggiatura: Giacomo Debenedetti, Ernesto Murolo – interpreti: Vittorio De Sica, María Denis, Renato Cialente – produzione: C.O. Barbieri per Astra Film – origine: Italia, 1938. 1939

Castelli in aria Regia: Augusto Genina – soggetto: dalla novella Tre giorni in paradiso di Franz Franchy – sceneggiatura: Augusto Genina, Alessandro De Stefani, Franz Tanzler – interpreti: Lilian Harvey, Vittorio De Sica – produzione: Astra, Roma – origine: Italia-Germania, 1939 [del film è stata girata anche una versione tedesca, Ins blaue Leben, anch’essa per la regia di Augusto Genina, con Vittorio De Sica e Lilian Harvey].

Ai vostri ordini, signora! Regia: Mario Mattòli – soggetto: dalla commedia Déjeuner au soleil (Colazione al sole) di André Birabeau – sceneggiatura: Oreste Biancoli, Mario Mattòli – interpreti: Elsa Merlini, Vittorio De Sica, Giuditta Rissone, Enrico Viarisio – produzione: Fono Roma – origine: Italia, 1939.

Grandi magazzini Regia: Mario Camerini – soggetto: Mario Camerini, Ivo Perilli – sceneggiatura: Mario Camerini, Renato Castellani, Mario Pannunzio, Ivo Perilli – interpreti: Vittorio De Sica, Assia Noris – produzione: Era-Amato – origine: Italia, 1939.

Finisce sempre così Regia: Enrique T. Susini – soggetto: Gherardo Gherardi da una novella di Robert Dieudonné – sceneggiatura: Enrique T. Susini, Darol Fischbacher – interpreti: Vittorio De Sica, Nedda Francy, Noëlle Norman, Roberto Rey – produzione: Walter Mocchi per Excelsa Film – origine: Italia, 1939. 1940-42 Compagnia Sergio Tofano-Guditta Rissone-Vittorio De Sica, diretta da Sergio Tofano, con Rosetta Tofano, Nico Pepe, Olga Vittoria Gentilli, Tina Mannozzi, Rita Livesi, Guglielmo Barnabò, Teresa Palazzi, Teresa O. Crivelli, Guido Lazzarini, Mario Pucci, Alfredo Morati, Pier Luigi Peletti, Carlo Maresti, Pierangelo Priaro. 1940

Rose scarlatte Regia: Vittorio De Sica – soggetto dalla commedia Due dozzine di rose scarlatte di Aldo De Benedetti – sceneggiatura: Aldo De Benedetti – fotografia: Tommaso Kemeneffy – scenografia: Gastone Medin – musica: Renzo Rossellini – montaggio: Maria Rosada – collaborazione alla regia: Giuseppe Amato – interpreti e personaggi: Renée Saint-Cyr (Marina), Vittorio De Sica (Alberto), Umberto Melnati (Tommaso), Luisella Beghi (Rosina), Rubi Dalma, Vivi Gioi, Marcello Di Laurino, Aristide Garbini, Livia Minelli, Olga von Kollar, Vasco Lavoratori – direttore di produzione: Giuseppe Amato – produzione: Era-Amato – distribuzione: Minerva Film – origine: Italia, 1940.

Maddalena… zero in condotta Regia: Vittorio De Sica – soggetto: dalla commedia Magdát Kicsapjá (Cacciate via Magda), da cui Lászlo Vajda aveva tratto nel 1936 il film omonimo) di Laszló Kádár – sceneggiatura: Ferruccio Biancini – dialoghi: Vittorio De Sica – fotografia: Mario Albertelli – scenografia: Gastone Medin – musica: Nuccio Fiorda – montaggio: Mario Bonotti – aiuto regia: Maria Stephan – interpreti e personaggi: Vera Bergman (l’insegnante Elisa Malgari), Carla Del Poggio (Maddalena), Vittorio De Sica (Alfredo Hartman figlio, padre e nonno), Roberto Villa (Stefano Armani), Eva Dilian (Eva, la privatista), Amelia Chellini (la direttrice), Paola Veneroni (l’allieva spiona), Armando Migliari (il professore di

chimica), Arturo Bragaglia (il professore di ginnastica), Pina Renzi (una insegnante), Lina Marengo (la professoressa di geografia), Guglielmo Barnabò (il signor Emilio Lenci), Giuseppe Varni (il bidello Amilcare), Dora Bini (l’allieva Caricati), Vera Ruberti, Enza Delbi (due allieve), Livia Minelli, Alda Grimaldi, Titti Speri, Irma Corelli, Gina Moneta Cinquini – direttore di produzione: Giorgio Genesi – produzione e distribuzione: Artisti Associati – origine: Italia, 1940.

Manon Lescaut Regia: Carmine Gallone – soggetto: dal romanzo omonimo di Antoine-François Prévost – sceneggiatura: Guido Cantini – interpreti: Alida Valli, Vittorio De Sica – produzione: Federico Curioni per la Grandi Film Storici – origine: Italia, 1940.

Pazza di gioia Regia: Carlo Ludovico Bragaglia – soggetto: Carlo Ludovico Bragaglia – sceneggiatura: Carlo Ludovico Bragaglia, Aldo De Benedetti, Maria Teresa Ricci – interpreti: Vittorio De Sica, María Denis, Paolo Stoppa, Umberto Melnati – produzione: Giuseppe Gallia per Atlas Film – origine: Italia, 1940.

La peccatrice Regia: Amleto Palermi – soggetto: Amleto Palermi – sceneggiatura: Amleto Palermi, Umberto Barbaro, Luigi Chiarini, Francesco Pasinetti – interpreti: Paola Barbara, Gino Cervi, Vittorio De Sica, Fosco Giachetti – produzione e distribuzione: Manenti Film – origine: Italia, 1940. 1941

Teresa Venerdì Regia: Vittorio De Sica – soggetto: dal romanzo Péntek Rézi (Rosaria Venerdì) di Rudolf Török [da cui László Vajda aveva tratto nel 1938 il film omonimo] – sceneggiatura: Gherardo Gherardi, Franco Riganti, Margherita Maglione, Vittorio De Sica e [non accreditati] Aldo De Benedetti e Cesare Zavattini – fotografia: Vincenzo Seratrice – scenografia: Ottavo Scotti – arredamento: Mario Rappini – musica: Renzo Rossellini – canzoni: Giovanni D’Anzi – montaggio: Mario Bonotti – aiuto regia: Paolo Moffa – interpreti e personaggi: Vittorio De Sica (dott. Pietro Vignali), Adriana Benetti (Teresa Venerdì), Eva Dilián (Lilli Passalacqua), Anna Magnani (Loletta Prima), Clara Auteri Pepe (Giuseppina), Nico Pepe (dott. Pasquale Grosso), Guglielmo Barnabò (Agostino Passalacqua), Olga Vittoria Gentilli (Rosa Passalacqua), Elvira Betrone (la direttrice dell’orfanotrofio), Giuditta Rissone (l’istitutrice Caterina), Zaira La Fratta (Alice), Annibale Betrone (Umberto Vignali), Armando Migliari (l’impiegato postale), Lina Marengo (la maestra Ricci), Virgilio Riento (Antonio), Arturo Bragaglia, Giacomo Almirante, Antonio Garrone (i tre creditori), Vittorina Benvenuti, Federico Collino, Dina Romano, Anna Maestri, Caro Simoneschi, Luciana Campion, Liliana Farkas, Giorgio Rivalico, Franca Leardini – direttore di produzione: Luigi Giacosi – produzione: C.O. Barbieri per A.C.I.-Europa Film – distribuzione: FINCINE – origine: Italia, 1941.

L’avventura del piano di sopra Regia: Raffaello Matarazzo – soggetto: Raffaello Matarazzo – sceneggiatura: Raffaello Matarazzo, Riccardo Freda, Edoardo Anton – interpreti; Vittorio De Sica, Clara Calamai, Giuditta Rissone, Carlo Campanini – produzione: Elica Film-Artisti Associati – origine: Italia, 1941. 1942 Durante la lavorazione del film Un garibaldino al convento, dirige María Mercader, della quale si innamora.

Un garibaldino al convento Regia: Vittorio De Sica – soggetto: Renato Angiolillo – sceneggiatura: Adolfo Franci, Margherita Maglione, Giuseppe Zucca, Vittorio De Sica – fotografia: Alberto Fusi – scenografia, arredamento e costumi: Veniero Colasanti – musica: Renzo Rossellini diretta da Pietro Sassoli – montaggio: Mario Bonotti – aiuto regia: Alberto Vecchietti – interpreti e personaggi: Leonardo Cortese (Franco Amidei), María Mercader (Mariella Dominiani), Carla Del Poggio (Caterinetta Bellelli), Fausto Guerzoni (Tiepolo), Clara Auteri Pepe (Geltrude Corbetti), Olga Vittoria Gentilli (la marchesa Dominiani), Federico Collino (don Giacinto Bellelli), Armando Migliari (Raimondo Bellelli), Lamberto Picasso (Giovanni Bellelli), Elvira Betrone (la madre superiora), Dina Romano (suor Ignazia), Amalia Pellegrini (la suora guardiana), Adele Garavaglia (Nunziata), Carlo Mariotti (Matteo), Miguel Del Castillo (il capitano borbonico), Achille Majeroni (il governatore), Virginia Pasquali (la governante di Caterina), Lina Marengo (la signorina Colombelli), Evelina Paoli (Mariella anziana), Adele Mosso (Geltrude anziana), Tatiana Farnese, Licia D’Alba (le nipotine di Caterina), Luciana Campion, Aldo Lombardi, Giulio Tempesti, Nucci Bagnani, Franca Leardini, Renata Gori, e con la partecipazione di Vittorio De Sica (Nino Bixio) – direttore di produzione: Baldassarre Negroni – produzione: Mario Borghi per Incine-Cristallo – distribuzione: Tirrenia Cinematografica – origine: Italia, 1942.

La guardia del corpo Regia: Carlo Ludovico Bragaglia – soggetto: Luigi Bonelli – sceneggiatura: Luigi Bonelli, Carlo Ludovico Bragaglia, Vittorio De Sica – interpreti: Vittorio De Sica, Clara Calamai, Sergio Tofano, Carlo Campanini, Giuditta Rissone – produzione: INAC – origine: Italia, 1942.

Se io fossi Onesto Regia: Carlo Ludovico Bragaglia – soggetto: Károlyne Aszlányi – sceneggiatura: Vittorio De Sica, Piero Tellini, Carlo Ludovico Bragaglia – interpreti: Vittorio De Sica, María Mercader, Sergio Tofano, Paolo Stoppa – produzione: Nembo Film, Roma – origine: Italia, 1942. 1943 Nel marzo partecipa a Il dilemma del dottore (The Doctor’s Dilemma) di George B. Shaw, messa in scena dalla Compagnia dell’Ente Teatrale Italiano-

Teatro Quirino, diretta da Sergio Tofano, per la regia di Guido Salvini. Nel dicembre prende parte a Goldoni e le sue sedici commedie nuove di Paolo Ferrari, spettacolo messo in scena per la morte di Renato Cialente.

I bambini ci guardano Regia: Vittorio De Sica – soggetto: dal romanzo Pricò di Cesare Giulio Viola – riduzione e sceneggiatura: Cesare Giulio Viola, Margherita Maglione, Cesare Zavattini, Adolfo Franci, Gherardo Gherardi, Vittorio De Sica – fotografia: Giuseppe Caracciolo – scenografia: Vittorio Valentini – musica: Renzo Rossellini – montaggio: Mario Bonotti – assistenti alla regia: Paolo Moffa, Luisa Alessandri, Lida C. Ripandelli – interpreti e personaggi: Luciano De Ambrosis (Pricò), Emilio Cigoli (Andrea, il padre), Isa Pola (Dina, la madre), Adriano Rimoldi (Roberto), Giovanna Cigoli (Agnese), Jone Frigerio (la nonna), Maria Gardena (la signora Uberti), Tecla Scarano (la signora Resta), Dina Perbellini (zia Berelli), Nicoletta Parodi (Giuliana), Zaira La Fratta (Paolina), Olinto Cristina (il rettore), Mario Gallina (il medico), Armando Migliari (il commendatore), Ernesto Calindri (Claudio, lo snob), Agnese Dubbini (la padrona della pensione), Guido Morisi (Gigi Sbarlani), Achille Majeroni (il cavaliere Ponti), Augusto Di Giovanni (il fratello di Andrea), Claudia Marti (Dada), Lina Marengo (la signora sul treno), Riccardo Fellini (Riccardo), Gino Viotti (il professore che gioca a bocce), Luigi Garrone, Vasco Creti, Carlo Ranieri, Rita Livesi, Aristide Garbini, Giulio Alfieri, Giovanna Ralli, il prestigiatore Cesare Gabrielli – direttore di produzione: Franco Magli – produzione e distribuzione: Scalera Film – origine: Italia, 1943.

I nostri sogni Regia: Vittorio Cottafavi – soggetto: dalla commedia omonima di Ugo Betti – sceneggiatura: Vittorio De Sica, Vittorio Cottafavi, Margherita Maglione, Adolfo Franci, Paolo Salviucci, Cesare Zavattini – interpreti: Vittorio De Sica, María Mercader, Paolo Stoppa – produzione: Iris Film – origine: Italia, 1943.

Nessuno torna indietro Regia: Alessandro Blasetti – soggetto: liberamente tratto dal romanzo omonimo di Alba de Cèspedes – sceneggiatura: Alba de Cèspedes, Alessandro Blasetti, Vittorio Nino Novarese – interpreti: Elisa Cegani, Valentina Cortese, María Denis, Doris Duranti, Mariella Lotti, María Mercader, Dina Sassoli, Roldano Lupi, Vittorio De Sica – produzione: Artisti Associati-Quarta Film – origine: Italia, 1943.

L’ippocampo Regia: Giampaolo Rosmino – soggetto: dalla commedia omonima di Sergio Pugliese – sceneggiatura: Vittorio De Sica, Adolfo Franci, Margherita Maglione, Sergio Pugliese, Cesare Zavattini – interpreti: Vittorio De Sica, Lida Baarova, María Mercader, Enrico Viarisio – produzione: Arno Film – origine: Italia, 1943. 1944

Nel febbraio prende parte a Gavino e Sigismondo di Cesare Giulio Viola, rappresentata dalla Compagnia Evi Maltagliati-Luigi Cimara-Carlo Ninchi. Dall’agosto al novembre dirige la Compagnia Drammatica Isa Miranda con Aristide Baghetti, Roldano Lupi, Jone Morino, Loris Gizzi, Gorella Gori, Tullia Baghetti, Clio Olivetti. Nel dicembre la Compagnia Elsa Merlini-Vittorio De Sica-Umberto Melnati, con Elena Giusti, Gianni Agus, Cesare Bettarini, Carlo Mazzarella, Nicoletta Parodi, Harry Feist, mette in scena Ma dov’è questo amore di Clan (Vittorio Metz), per la regia di Ettore Giannini.

La porta del cielo Regia: Vittorio De Sica – soggetto e sceneggiatura: Cesare Zavattini, Diego Fabbri, Vittorio De Sica, Adolfo Franci, Carlo Musso – fotografia: Aldo Tonti – arredamento: Enrico Ciampi – musica: Enzo Masetti (diretta da Franco Ferrara) – cori: diretti da Bonaventura Somma, con i solisti Guido Agosti, Ferruccio Vignanelli – montaggio: Mario Bonotti – assistenti alla regia: Paolo Moffa, Carlo Musso – interpreti e personaggi: Marina Berti (la crocerossina), Elettra Druscovich (Filomena), Giuseppe Forcina (l’ingegnere), Massimo Girotti (il giovane cieco), Giovanni Grasso (il vecchio paralitico numero 28), Roldano Lupi (Giovanni Brandacci), María Mercader (Maria), Carlo Ninchi (il compagno del cieco), Elli Parvo (la signora elegante), Amelia Bissi (la signora Enrichetta), Cristiano Cristiani (Claudio Gorini), Pina Piovani (sua zia), Enrico Ribulsi e Giulio Alfieri (i due ragazzi snob), Giulio Calì (il napoletano curioso), Gildo Bocci – direttore di produzione: Alberto Tronchet – direzione generale: Salvo D’Angelo – collaborazione documentaria: Film Conti di Senigallia – produzione: Orbis – distribuzione: Lux Film – origine: Italia, 1944.

Non sono superstizioso… ma! Regia: Carlo Ludovico Bragaglia – soggetto: Aldo De Benedetti, Lori Tosi Punzo – sceneggiatura: Carlo Ludovico Bragaglia, Vittorio De Sica, Aldo De Benedetti, Franco Riganti, Pietro Tellini – interpreti: Vittorio De Sica, María Mercader – produzione: A.C.I. – origine: Italia, 1944. 1945 Nel marzo, la Compagnia Vittorio De Sica –Vivi Gioi-Poolo Stoppa, diretta da Ettore Giannini, mette in scena Catene (Smilin’ Through) di Allan Langdon Martin. Nell’aprile-maggio la Compagnia del Teatro delle Arti, diretta da Alessandro Blasetti, con Vittorio De Sica, Lia Orlandini, Valentina Cortese, Elisa Cegani, Anna Proclemer, María Mercader, Massimo Girotti, Roldano Lupi, Luciano Mondolfo, Dina Sassoli, Camillo Pilotto, Annibale Betrone mette in scena Il tempo e la famiglia Conway (Time and the Conways) di John Boynton Priestley e riprende Ma non è una cosa seria di Pirandello.

Lo sbaglio di essere vivo Regia: Carlo Ludovico Bragaglia – soggetto: dalla commedia omonima di Aldo

De Benedetti – sceneggiatura: Aldo De Benedetti – interpreti: Vittorio De Sica, Isa Miranda, Gino Cervi – produzione: Fauno Film/Cineconsorzio – origine: Italia, 1945.

Il mondo vuole così Regia: Giorgio Bianchi – soggetto: Cesare Zavattini, Aldo De Benedetti – sceneggiatura: Cesare Zavattini, Aldo De Benedetti – interpreti: Vittorio De Sica, Clara Calamai – produzione: Aurea Film – origine: Italia, 1945. 1946 Co-sceneggiatore di Il marito povero di Gaetano Amata. Nel gennaio-aprile la Compagnia Spettacoli Effe Vittorio De Sica-Vivi Gioi-Nino Besozzi, con Lia Zoppelli, Antonio Pierfederici, Rossano Brazzi, Vittorio Caprioli, Marcello Moretti, Luciano Mondolfo, Gianni Dandolo rappresenta Il matrimonio di Figaro (Le mariage de Figaro) di Pierre Caron de Beaumarchais, per la regia di Luchino Visconti; Le cocu magnifique (Il magnifico cornuto) di Fernand Crommelynck, regia di Mario Chiari; I giorni della vita (The Time of Your Life) di William Saroyan, regia di Adolfo Celi; Ah, ci risiamo, rivista musicale di Oreste Biancoli e Dino Falconi, regia di Dino Falconi.

Sciuscià Regia: Vittorio De Sica – soggetto e sceneggiatura: Sergio Amidei, Adolfo Franci, Cesare Giulio Viola, Cesare Zavattini – fotografia: Anchise Brizzi – scenografia: Ivo Battelli – musica: Alessandro Cicognini – montaggio: Nicolò Lazzari – aiuto regia: Umberto Scarpelli – assistenti alla regia: Armando W. Tamburella, Argi Rovelli, Elmo De Sica – interpreti e personaggi: Rinaldo Smordoni (Giuseppe), Franco Interlenghi (Pasquale), Emilio Cigoli (Staffera), Gino Saltamerenda (il “panza”), Anna Pedoni (Nannarella), Anielo Mele (Raffaele), Bruno Ortensi (Arcangeli), Enrico De Silva (Giorgio), Antonio Lo Nigro (Righetto), Leo Garavaglia (il commissario di P.S.), Maria Campi (la chiromante), Antonio Nicotra (Bartoli, l’assistente sociale), Giuseppe Spadaro (l’avvocato Bonavino), Irene Smordoni (la mamma di Giuseppe), Angelo D’Amico (il siciliano), Antonio Carlino (l’abruzzese), Claudio Ermelli (l’infermiere al commissariato), Francesco De Nicola (Ciriola), Pacifico Astrologo (Vittorio), Guido Gentili (Attilio), Mario Volpicelli (il direttore del carcere), Armando Furlai, Leonardo Bragaglia, Tony Amendola, Edmondo Costa, Gino Marturano, Edmondo Zappacarta, Achille Ponzi, Piero Carini, Mario Del Monte jr., Mario Jafrati – direttore di produzione: Nino Ottavi – produzione: Paolo William Tamburella per Alfa Cinematografica – distribuzione: Enic – origine: Italia, 1946.

Roma città libera Regia: Marcello Pagliero – soggetto: Ennio Flaiano – sceneggiatura: Suso Cecchi D’Amico, Ennio Flaiano, Marcello Marchesi, Filippo Mercati (Luigi Filippo D’Amico), Marcello Pagliero, Cesare Zavattini – interpreti: Andrea

Checchi, Nando Bruno, Valentina Cortese, Vittorio De Sica – produzione: Pao Film – origine: Italia, 1946.

Abbasso la ricchezza Regia: Gennaro Righelli – soggetto: Gennaro Righelli – sceneggiatura: Vittorio Calvino, Vittorio De Sica, Nicola Fausto Neroni, Gennaro Righelli, Fabrizio Sarazani, Pietro Solari – interpreti: Anna Magnani, Vittorio De Sica – produzione: Lux Film-Ora Film – origine: Italia, 1946. 1947 Academy Award (Premio Oscar) a Sciuscià quale miglior film straniero. Nell’agosto partecipa con Sarah Ferrati, Rina Morelli, Paolo Stoppa, Andreina Pagnani, Giulio Stival, Camillo Pilotto, Antonio Crast, Adolfo Celi, Luigi Almirante a L’impresario delle Smirne di Carlo Goldoni, una rappresentazione d’eccezione promossa dalla Biennale di Venezia, nel quadro del Festival internazionale del teatro di prosa. La regia è di Renato Simoni.

Sperduti nel buio Regia: Camillo Mastrocinque – soggetto: dal dramma omonimo di Roberto Bracco – sceneggiatura: Vittorio De Sica, Camillo Mastrocinque, Fulvio Palmieri, Aldo Vergano, Cesare Zavattini – interpreti: Vittorio De Sica, Fiorella Betti – produzione: Fortunato Misiano e Ulisse Siciliani per EDI-Roma Film – origine: Italia, 1947.

Natale al campo 119 Regia: Pietro Francisci – soggetto: Michele Galdieri – sceneggiatura: Giuseppe Amato, Aldo Fabrizi, Vittorio De Sica, Pietro Francisci, Michele Galdieri – supervisione alla regia: Vittorio De Sica – interpreti: Aldo Fabrizi, Vittorio De Sica, Peppino De Filippo, Massimo Girotti, Carlo Campanini, María Mercader – produzione: Giuseppe Amato per la Excelsa Film – origine: Italia, 1947. 1948

Ladri di biciclette Regia: Vittorio De Sica – soggetto: Cesare Zavattini, tratto dall’omonimo romanzo di Luigi Bartolini – sceneggiatura: Oreste Biancoli, Suso Cecchi D’Amico, Vittorio De Sica, Adolfo Franci, Gherardo Gherardi, Gerardo Guerrieri, Cesare Zavattini – fotografia: Carlo Montuori – scenografia: Antonio Traverso – musica: Alessandro Cicognini (diretta da Willy Ferrero) – montaggio: Eraldo Da Roma – assistenti alla regia: Gerardo Guerrieri, Luisa Alessandri – interpreti e personaggi: Lamberto Maggiorani (Antonio Ricci), Enzo Staiola (Bruno, suo figlio), Lianella Carell (Maria Ricci), Gino Saltamerenda (Baiocco), Elena Altieri (la patronessa di beneficenza), Vittorio Antonucci (il ladro), Michele Sakara (il segretario alla beneficenza), Fausto Guerzoni (un filodrammatico), Ida Bracci Donati (la “santona”), Peppino Spadaro (il brigadiere), Massimo Randisi (il bambino borghese alla trattoria), Mario Meniconi (Meniconi lo spazzino), Carlo Jachino (il mendicante), Checco

Rissone (il vigile a piazza Vittorio), Giulio Battiferri (un cittadino che difende il vero ladro), Giulio Chiari (un attacchino), Sergio Leone (un seminarista), Emma Druetti, Giovanni Corporale, Eolo Capritti – direttore di produzione: Umberto Scarpelli – produzione: V. De Sica per P.D.S. – distribuzione: Enic – origine: Italia, 1948.

Lo sconosciuto di San Marino Regia: Michał Waszynski – soggetto: Cesare Zavattini – sceneggiatura: Giulio Morelli, Cesare Zavattini, Vittorio Cottafavi – interpreti: Aurel M. Milloss, Anna Magnani, Vittorio De Sica – produzione: Gamma Film – origine: Italia, 1948.

Cuore Regia: Duilio Coletti – soggetto: dal romanzo omonimo di Edmondo De Amicis – sceneggiatura: Oreste Biancoli, Vittorio De Sica, Adolfo Franci, Gaspare Cataldo – interpreti: Vittorio De Sica, María Mercader, Giorgio De Lullo – produzione: SAFIR – origine: Italia, 1948. 1949 Academy Award (Premio Oscar) a Ladri di biciclette quale miglior film straniero. Nasce Manuel, figlio di De Sica e di María Mercader. Nell’aprile prende parte, con Andreina Pagnani, Gino Cervi, Paolo Stoppa, Aroldo Tieri, Lola Braccini, Maria Michi, Olinto Cristina a Lettere d’amore di Gherardo Gherardi, spettacolo d’eccezione per la morte dell’autore. 1950

Domani è troppo tardi Regia: Léonide Moguy – soggetto e sceneggiatura: Léonide Moguy, Alfred Machard – collaborazione alla sceneggiatura: Paola Ojetti, Oreste Biancoli, Giuseppe Berto – interpreti: Anna Maria Pierangeli, Gino Leurini, Vittorio De Sica – produzione: Rizzoli Film realizzata da Giuseppe Amato – origine: Italia, 1950. 1951 Palma d’oro a Miracolo a Milano Nasce Christian, secondogenito di María Mercander. De Sica co-produce Mamma mia che impressione! Di Roberto Savarese con Alberto Sordi.

Documento mensile n. 2 Episodio Ambiente e personaggi Regia: Vittorio De Sica – soggetto e sceneggiatura: Vittorio De Sica, Cesare Zavattini – fotografia: Carlo Montuori – interpreti: Lamberto Maggiorani, Enzo Staiola, Vittorio De Sica, Carlo Montuori – produzione: Marco Ferreri, Riccardo Ghione – origine: Italia, 1951.

Miracolo a Milano Regia: Vittorio De Sica – soggetto: Cesare Zavattini, tratto dal suo romanzo

Totò il buono – sceneggiatura: Cesare Zavattini e Vittorio De Sica con la collaborazione di Suso Cecchi D’Amico, Mario Chiari, Adolfo Franci – fotografia: G.R. Aldo – scenografia: Guido Fiorini – costumi: Mario Chiari – musica: Alessandro Cicognini – direttore trucchi: Ned Mann – collaboratori ai trucchi: Vaclav Vich, Enzo Barboni, Sid Howell, Dave Mature, Mattia Triznya – montaggio: Eraldo Da Roma – assistenti alla regia: Luisa Alessandri, Umberto Scarpelli – interpreti e personaggi: Emma Gramatica (la vecchia Lolotta), Francesco Golisano (Totò), Brunella Bovo (Edvige), Paolo Stoppa (Rappi, il cattivo), Guglielmo Barnabò (Mobbi, il ricco), Anna Carena (Marta, la donna orgogliosa), Alba Arnova (la statua vivente), Arturo Bragaglia (Alfredo), Flora Cambi (l’innamorata infelice), Virgilio Riento (il sergente), Erminio Spalla (Gaetano), Riccardo Bertazzolo (l’atleta), Angelo Prioli (il comandante in prima), Francesco Rissone (il comandante in seconda), Enzo Furlai (Brambi, il proprietario terriero), Jerome Johnson (l’uomo di colore), Jubel Schembri (l’uomo dalla testa pelata), Walter Scherer (Arturo), Egisto Olivieri (l’avvocato di Mobbi), Giuseppe Berardi (Giuseppe), Renato Navarrini (il balbuziente), Leonfi Triboldi – direttore di produzione: Nino Misiano – produzione: Soc. Prod. De Sica in associazione con l’Enic – distribuzione: Enic – origine: Italia, 1951.

Cameriera bella presenza offresi… Regia: Giorgio Pàstina – soggetto e sceneggiatura: Age e Scarpelli, Aldo De Benedetti, Federico Fellini, Ruggero Maccari, Nicola Manzari, Tullio Pinelli – interpreti: Elsa Merlini, Gino Cervi, Peppino De Filippo, Delia Scala, Titina De Filippo, Giulietta Masina, Vittorio De Sica, Isa Miranda, Milly Vitale, Aroldo Tieri, Alberto Sordi, Arturo Bragaglia, Aldo Fabrizi, Enrico Viarisio, Eduardo De Filippo – produzione: Cines – origine: Italia, 1951. 1952

Umberto D. Regia: Vittorio De Sica – soggetto e sceneggiatura: Cesare Zavattini – fotografia: G.R. Aldo – scenografia: Virgilio Marchi – musica: Alessandro Cicognini – montaggio: Eraldo Da Roma – aiuto alla regia: Luisa Alessandri – assistenti alla regia: Franco Montemurro – interpreti e personaggi: Carlo Battisti (Umberto D., Domenico Ferrari), Maria Pia Casilio (Maria, la servetta), Lina Gennari (Antonia, la padrona della pensione), Alberto Albani Barbieri (Paolo, il “fidanzato” di Antonia), Ileana Simova (la signora ai giardinetti), Elena Rea (la suora all’ospedale), Memmo Carotenuto (l’ammalato all’ospedale) – direttore di produzione: Nino Misiano – produzione: Giuseppe Amato per Rizzoli-De Sica-Amato – distribuzione: Dear Film – origine: Italia, 1952.

Buongiorno, elefante! Regia: Gianni Franciolini – soggetto: Cesare Zavattini – sceneggiatura: Cesare Zavattini, Suso Cecchi D’Amico, Gianni Franciolini – interpreti: Vittorio De Sica,

María Mercander, Sabù – produzione: De Sica-Rizzoli – origine: Italia, 1952.

Altri tempi Regia: Alessandro Blasetti – scelta dei testi e sceneggiatura: Alessandro Blasetti, Suso Cecchi D’Amico – collaborazione alla sceneggiatura dei vari racconti: Oreste Biancoli, Vitaliano Brancati, Gaetano Carancini, Sandro Continenza, Italo Dragosei, Brunello Rondi, Vinicio Marinucci, Augusto Mazzetti, Filippo Mercati [Luigi Filippo D’Amico], Turi Vasile, Giuseppe Zucca – interpreti: [episodio Il processo di Frine, tratto da un racconto di Eduardo Scarfoglio] Vittorio De Sica, Gina Lollobrigida – produzione: Cines – origine: Italia, 1952. 1953 Viaggio in America per il progetto mai realizzato del film The box.

Stazione Termini Regia: Vittorio De Sica – soggetto: Cesare Zavattini – sceneggiatura Cesare Zavattini, Luigi Chiarini, Giorgio Prosperi – dialoghi (inglesi): Truman Capote – fotografia: G.R. Aldo (Aldo Graziati) – scenografia: Virgilio Marchi – costumi: Aleandro Antonelli (gli abiti di J. Jones sono disegnati da Christian Dior) – musica: Alessandro Cicognini (diretto da Franco Ferrara) – montaggio: Eraldo Da Roma – aiuto regia: Luisa Alessandri – interpreti e personaggi: Jennifer Jones (Mary Forbes), Montgomery Clift (Giovanni Doria), Dick [Richard] Beymer (Paul), Gino Cervi (il commissario), Paolo Stoppa (il commesso viaggiatore), Nando Bruno (1° ferroviere), Oscar Blando (2° ferroviere), Enrico Glori (il brigadiere), Clelia Matania (una viaggiatrice con molti bambini), Memmo Carotenuto (il ladro Venturini), Giuseppe Porelli (il viaggiatore galante), Liliana Gerace (la siciliana partoriente), Attilio Torelli (l’emigrante siciliano), Maria Pia Casilio (la sposina abruzzese), Enrico Viarisio (il signore ilare all’ufficio postale), Roberto Rai (il frenatore), Amina Pirani Maggi (la signora del telegramma), Mariolina Bovo (la biondina sul treno), Pasquale De Filippo (il signore derubato), Mimmo Poli (il grassone), Ciro di Castro, i piccoli Claudio Del Pino e Puccio Pintabon, Jean Mollier, Teresa Paliani, Bill Barker, Gino Anglani, Giovanni Corporale, Vincenzo Milazzo, Gino Passarelli, Marcella Genuino – direttore di produzione: Nino Misiano – produzione: De Sica-Girosi/David O. Selznick – distribuzione: Lux Film – origine: Italia-Stati Uniti, 1953.

I gioielli di madame de… (Madame de…) Regia: Max Ophüls – soggetto: dal romanzo omonimo di Louise de Vilmorin – sceneggiatura: Marcel Achard, Max Ophüls, Annette Wademant – interpreti: Danielle Darrieux, Charles Boyer, Vittorio De Sica – produzione: FrancoLondon, Paris/Indus-Film, Rizzoli, Roma – origine: Francia-Italia, 1953.

Pane, amore e fantasia Regia: Luigi Comencini – soggetto: Ettore M. Margadonna – sceneggiatura:

Luigi Comencini, Ettore M. Margadonna – interpreti: Gina Lollobrigida, Vittorio De Sica, Roberto Risso, Marisa Merlini, Tina Pica – produzione e distribuzione: Titanus – origine: Italia, 1953.

Villa Borghese Regia: Gianni Franciolini – soggetto: Sergio Amidei, da racconti di Giorgio Bassani, Ennio Flaiano, Ercole Patti – sceneggiatura: Sergio Amidei, Giorgio Bassani, Armando Curcio, Age e Scarpelli, Liana Ferri, Ennio Flaiano, Mino Guerrini, Rodolfo Sonego, J. Bernard Luc – interpreti: [terzo episodio Incidente a Villa Borghese, tratto dal racconto omonimo di Ercole Patti] Vittorio De Sica, Giovanna Ralli – produzione: Astoria Film-Sigma – origine: Italia-Francia, 1953. 1954 De Sica divorzia in Messico da Giuditta Rissone.

L’oro di Napoli Regia: Vittorio De Sica – soggetto: dal libro omonimo di Giuseppe Marotta – riduzione cinematografica: Cesare Zavattini – sceneggiatura: Cesare Zavattini, Vittorio De Sica, Giuseppe Marotta – fotografia: Carlo Montuori – scenografia: Gastone Medin, Virgilio Marchi – arredamento: Fernando Ruffo – costumi: Pia Marchesi – musica: Alessandro Cicognini – montaggio: Eraldo Da Roma – aiuto regia: Luisa Alessandri, Franco Montemurro – interpreti e personaggi: episodio Il guappo, dal racconto Trent’anni, diconsi trenta: Totò (don Saverio Petrillo), Lianella Carell (Carolina, sua moglie), Pasquale Cennamo (don Carmine Savarone, guappo), Agostino Salvietti (Gennaro Esposito, il salumiere) Nino Vingelli (un guappo); episodio Pizze a credito, dai racconti Gente nel vicolo e La morte a Napoli: Sofia Loren (Sofia), Giacomo Furia (Rosario, suo marito), Alberto Farnese (don Alfredo), Paolo Stoppa (don Peppino, il vedovo), Tecla Scarano (una amica del vedovo), Pasquale Tartaro (Cafiero); episodio Funeralino, da un soggetto di Cesare Zavattini: Teresa De Vita (la madre) e attori non professionisti; episodio I giocatori, dal racconto omonimo: Vittorio De Sica (il conte Prospero B.), Pierino Bilancioni (Gennarino), Mario Passante (Giovanni, il maggiordomo), Irene Montaldo (la contessa), Lars Borgström (Federico, il portiere); episodio Teresa, dal racconto Personaggi in busta chiusa: Silvana Mangano (Teresa), Erno Crisa (don Nicola), Ubaldo Maestri (Ubaldo, l’intermediario); episodio Il professore, dal racconto Don Ersilio Miccio vendeva saggezza: Eduardo De Filippo (don Ersilio), Tina Pica (una cliente), Gianni Crosio (il duca Alfonso), Nino Imparato (Gennaro) – direttore di produzione: Ponti-De Laurentiis – produzione: Paramount – origine: Italia, 1954.

Cento anni d’amore Regia: Lionello De Felice – soggetto: ispirato a racconti di Guido Gozzano, Gabriele D’Annunzio, Gino Rocca, Mario Moretti, Lionello De Felice, Oreste Biancoli – sceneggiatura: Leo Benvenuti, Oreste Biancoli, Franco Brusati, Suso Cecchi D’Amico, Alba De Céspedes, Lionello De Felice, Giuseppe Marotta,

Vittorio Nino Novarese, Giorgio Prosperi, Riccardo Redi, Fabio Rinaudo, Guido Rocca, Fabrizio Sarazani, Vincenzo Talarico, Pietro Paolo Trompeo, Serge Veber, Gino Visentini –interpreti: [secondo episodio Pendolin, tratto dal racconto omonimo di Gabriele D’Annunzio] Vittorio De Sica, Carlo Campanini, Nadia Gray – produzione: Cines – origine: Italia, 1954.

Tempi nostri Regia: Alessandro Blasetti – soggetto: da racconti di Marino Moretti, Alberto Moravia, Achille Campanile, Vasco Pratolini, Ercole Patti, Silvio D’Arzo, Anton Germano Rossi, Giuseppe Marotta e da un soggetto di Age e Scarpelli – interpreti: [primo episodio: Scena all’aperto – soggetto: dal racconto omonimo di Marino Moretti – sceneggiatura: Ennio Flaiano] Vittorio De Sica, Elisa Cegani– produzione: Cines-Lux Film, Roma/Lux Compagnie Cinématographique de France (Paris) – origine: Italia-Francia, 1954.

Pane, amore e gelosia Regia: Luigi Comencini – soggetto: Ettore M. Margadonna, Luigi Comencini, Vincenzo Talarico, con la collaborazione di Eduardo e Titina De Filippo – interpreti: Gina Lollobrigida, Vittorio De Sica, Roberto Risso, Marisa Merlini, Tina Pica – produzione: Marcello Girosi per Titanus – origine: Italia, 1954.

Peccato che sia una canaglia Regia: Alessandro Blasetti – soggetto: dal racconto Il fanatico di Alberto Moravia – sceneggiatura: Suso Cecchi D’Amico, Sandro Continenza, Ennio Flaiano – interpreti: Vittorio De Sica, Sofia Loren, Marcello Mastroianni, Umberto Melnati – produzione: Documento Film – origine: Italia, 1954.

Il matrimonio Regia: Antonio Petrucci – soggetto: liberamente tratto dai tre atti unici di Anton Čechov L’orso, Il pranzo di nozze e Una domanda di matrimonio – sceneggiatura: Sandro Continenza, Filippo Mercati [Luigi Filippo D’Amico], Antonio Petrucci – interpreti: Vittorio De Sica, Silvana Pampanini, Alberto Sordi, Valentina Cortese, Renato Rascel – produzione: Film CostellazioneZebra Film – origine: Italia, 1954.

Gran varietà Regia: Domenico Paolella – soggetto e sceneggiatura: Oreste Biancoli, Dino Falconi, Michele Galdieri, Carlo Infascelli, Vinicio Marinucci, Domenico Paolella, Ettore Scola, Vincenzo Talarico – musica: Carlo Rustichelli [la canzone Balocchi e profumi è cantata da Vittorio De Sica] – interpreti: [terzo episodio Il fine dicitore] Vittorio De Sica, Lea Padovani, Delia Scala – produzione: Excelsa Film-Roma Film – origine: Italia, 1954.

Il letto Regia: Gianni Franciolini – soggetto: Niccolò Theodoli – sceneggiatura e dialoghi: Sergio Amidei, Janet Wolfe – interpreti [quarto episodio Il divorzio] Vittorio De Sica, Dawn Addams – produzione: Niccolò Theodoli per ICS, Roma/Terra Film, Cormoran Film, Paris – origine: Francia-Italia, 1954.

Vergine moderna Regia: Marcello Pagliero – soggetto: Catherin Désage – sceneggiatura: Ennio Flaiano – interpreti: May Britt, Gabriele Ferzetti, Vittorio De Sica – produzione: Sirio Film – origine: Italia, 1954.

L’allegro squadrone Regia: Paolo Moffa – soggetto: dalla farsa militare Les gaietés de l’escadron di Georges Courteline – sceneggiatura: Suso Cecchi D’Amico, Sandro Continenza, Michel Audiard, Marcel Camus, Paolo Moffa – interpreti: Vittorio De Sica, Daniel Gélin, Alberto Sordi, Paolo Stoppa, Charles Vanel, Silvana Pampanini – produzione: Film Costellazione, Roma/Zebra Film-Les Films Fernand Rivers, Paris – origine: Italia-Francia, 1954. 1955

La bella mugnaia Regia: Mario Camerini – soggetto: da Il cappello a tre punte di Pedro De Alarcón – sceneggiatura: Mario Camerini, Ennio De Concini, Sandro Continenza, Augusto Camerini – interpreti: Sofia Loren, Marcello Matroianni, Vittorio De Sica, Yvonne Sanson, Paolo Stoppa – produzione: Carlo Ponti e Dino De Laurentiis per Titanus – origine: Italia, 1955.

Gli ultimi cinque minuti Regia: Giuseppe Amato – soggetto: dalla commedia omonima di Aldo De Benedetti – sceneggiatura: Aldo De Benedetti, Oreste Biancoli – interpreti: Linda Darnell, Vittorio De Sica, Peppino De Filippo, Rossano Brazzi, Nadia Gray – produzione: Amato-Excelsa Film-Omnium International – origine: Francia, 1955.

Il segno di Venere Regia: Dino Risi – soggetto: Edoardo Anton, Luigi Comencini, Franca Valeri – sceneggiatura: Eduardo Anton, Ennio Flaiano, Dino Risi, Franca Valeri con la collaborazione di Cesare Zavattini, Ettore M. Margadonna, Age e Scarpelli – interpreti: Sofia Loren, Franca Valeri, Vittorio De Sica, Raf Vallone, Peppino De Filippo, Alberto Sordi – produzione e distribuzione: Titanus – origine: Italia, 1955.

Pane, amore e… Regia: Dino Risi – soggetto: Ettore M. Margadonna, Marcello Girosi, Dino Risi, Vincenzo Talarico – sceneggiatura: Ettore M. Margadonna, Dino Risi – interpreti: Vittorio De Sica, Sofia Loren, Lea Padovani – produzione: Titanus, Roma/Société Générale de Cinematographie, Paris – origine: Italia-Francia, 1955.

Racconti romani Regia: Gianni Franciolini – soggetto: da Racconti romani di Alberto Moravia, scelti da Sergio Amidei – sceneggiatura: Sergio Amidei, Age e Scarpelli, Francesco Rosi, Alberto Moravia – interpreti: Vittorio De Sica, Totò, Silvana

Pampanini, Franco Fabrizi – produzione: Niccolò Theodoli per ICS – origine: Francia, 1955.

Il bigamo Regia: Luciano Emmer – soggetto: Sergio Amidei – sceneggiatura: Sergio Amidei, Age e Scarpelli, Francesco Rosi, Vincenzo Talarico – interpreti: Marcello Mastroianni, Giovanna Ralli, Franca Valeri, Vittorio De Sica – produzione: Guido Giambartolomei e Carlo Salsano per Royal Film/Filmel Paris Alba Film, Marseille – origine: Italia-Francia, 1955. 1956

Il tetto Regia: Vittorio De Sica – soggetto e sceneggiatura: Cesare Zavattini – fotografia: Carlo Montuori – scenografia: Gastone Medin – arredamento: Fernado Ruffo – costumi: Fabrizio Carafa – musica: Alessandro Cicognini – montaggio: Eraldo Da Roma – aiuto regia: Luisa Alessandri, Franco Montemurro – interpreti e personaggi: Gabriella Pallotta (Luisa), Giorgio Listuzzi (Natale Pilon), Gastone Renzelli (Cesare), Maria Di Fiori (Giovanna, moglie di Cesare), Maria Di Rollo (Gina), Luciano Pigozzi (il borgataro prepotente), Aldo Boi (Luigi), Angelo Bigioni (il maggiore Baj), Luisa Alessandri (la signora Baj), Ferdinando Gerra (Francesco), Carolina Ferri (la moglie di Francesco), Giuseppe Martini (padre di Luisa), Emilia Martini (madre di Luisa), Angelo Visentin (Antonio Pilon, padre di Natale), Maria Sittorio (la madre di Natale) – direttore di produzione: Nino Misiano – produttore associato: Marcello Girosi – produzione: De Sica-Girosi per V. De Sica Produzioni – distribuzione: Titanus – origine: Italia, 1956.

Mio figlio Nerone Regia: Steno – soggetto: Rodolfo Sonego – sceneggiatura: Rodolfo Sonego, Stefano Vanzina, Sandro Continenza, Diego Fabbri, Ugo Guerra – interpreti: Alberto Sordi, Gloria Swanson, Vittorio De Sica, Brigitte Bardot – produzione: Franco Cristaldi per Vides Film, Titanus, Roma/Les Films Marceau, Paris – origine: Italia-Francia, 1956.

Tempo di villeggiatura Regia: Antonio Racioppi – soggetto: Luigi Zampa, Antonio Racioppi, Willie Antuono, Luigi Magni – sceneggiatura: Age e Scarpelli – interpreti: Vittorio de Sica, Marisa Merlini, Giovanna Ralli, Abbe Lane – produzione: Felice D’Ancona per Stella Film – origine: Italia, 1956.

Montecarlo (The Monte-Carlo Story) Regia: Samuel A. Taylor e [per la versione italiana] Giulio Macchi – soggetto: Marcello Girosi, Dino Risi – sceneggiatura: Samuel A. Taylor – interpreti: Vittorio de Sica, Marlene Dietrich – produzione: Marcello Girosi per Titanus, Roma/Tan Films, Usa – origine: Italia-Stati Uniti, 1956.

I giorni più belli

Regia: Mario Mattòli – sceneggiatura: Fede Arnaud, Sandro Continenza, Ruggero Maccari, Mario Mattòli, Ettore Scola – interpreti: Emma Gramatica, Antonella Lualdi, Franco Interlenghi, Valeria Moriconi e con la partecipazione di Vittorio De Sica – produzione: Eredi film, Roma/Franinex, Paris – origine: Italia-Francia, 1956.

Noi siamo le colonne… Regia: Luigi Filippo D’Amico – soggetto e sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Vittorio Metz, Marcello Marchesi, Sandro Continenza, Luigi Filippo D’Amico da un’idea di Giulio Moreno – interpreti: Vittorio De Sica, Antonio Cifariello, Franco Fabrizi – produzione: Silvano Valenti e Domenico Forges Davanzati per Clamer Film – origine: Italia, 1956. 1957

Il medico e lo stregone Regia: Mario Monicelli – soggetto: Age e Scarpelli – sceneggiatura: Age e Scarpelli, Ennio De Concini, Mario Monicelli, Luigi Emmanuele – interpreti: Vittorio De Sica, Marcello Mastroianni, Marisa Merlini – produzione: Guido Giambartolomei per Royal Film, Roma/Francinex, Paris – origine: ItaliaFrancia, 1957.

Totò, Vittorio e la dottoressa Regia: Camillo Mastrocinque – soggetto e sceneggiatura: Vittorio Metz, Marcello Marchesi – interpreti: Abbe Lane, Vittorio De Sica, Totò, Titina De Filippo – produzione: Dario Sabatello per Jolly Film, Roma/Gallus film-Film F. Rivers, Paris/Fènix Film Madrid – origine: Italia-Francia-Spagna, 1957.

Casinò de Paris (Casino de Paris) Regia: André Hunebelle – soggetto: Jean Halain, Hans Wilhelm – sceneggiatura: Jean Halain, Hans Wilhelm, André Hunebelle – interpreti: Caterina Valente, Vittorio De Sica, Gilbert Bécaud – produzione: S.N. Pathé, P.A.C. – Critérion-Elan film, Paris/Rizzoli Films, München – origine: FranciaItalia-Repubblica Federale Tedesca, 1957.

Addio alle armi (A Farewell to Arms) Regia: Charles Vidor – soggetto: dal romanzo omonimo di Ernest Hemingway – sceneggiatura: Ben Hecht – interpreti: Rock Hudson, Jennifer Jones, Vittorio De Sica, Alberto Sordi – produzione: David O. Selznick per la 20th Century Fox – origine: Stati Uniti, 1957.

Padri e figli Regia: Mario Monicelli – soggetto: Age e Scarpelli, Mario Monicelli – sceneggiatura: Age e Scarpelli, Mario Monicelli, Leo Benvenuti con la collaborazione di Luigi Emmanuele – interpreti: Vittorio de Sica, Lorella De Luca, Marcello Mastroianni – produzione: Guido Giambartolomei per Royal Film, Roma/Filmel-Lyrica, Paris – origine: Italia-Francia, 1957.

I colpevoli

Regia: Turi Vasile – soggetto: dalla commedia Sulle strade di notte di Renato Lelli – sceneggiatura: Turi Vasile, Mario Landi, Renato Lelli – interpreti: Isa Miranda, Carlo Ninchi, Sandro Ninchi, Vittorio De Sica – produzione: Colosseum film, Italia Film, Roma/Union Générale Cinématographique, Paris – origine: Italia-Francia, 1957.

La donna che venne dal mare (Danae) Regia: Francesco De Robertis – soggetto: Francesco De Robertis – sceneggiatura: Francesco De Robertis, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Giuseppe Mangione – interpreti: Sandra Milo, Vittorio De Sica – produzione: Film Costellazione, Roma/Tellus Film, Paris/Saitz, Madrid – origine: Italia-Francia-Spagna, 1957.

Souvenir d’Italie Regia: Antonio Pietrangeli – soggetto: Age e Scarpelli da un’idea di Fabio Carpi e Nelo Risi – sceneggiatura: Age e Scarpelli, Dario Fo, Antonio Pietrangeli, Armando Crispino – interpreti: June Laverick, Isabelle Corey, Inge Schöner, Alberto Sordi, Vittorio De Sica – produzione: Ermanno Donati e Luigi Carpentieri per Athena Cinematografica – origine: Italia, 1957.

Vacanze a Ischia Regia: Mario Camerini – soggetto: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi – sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Mario Camerini, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa – interpreti: Vittorio De Sica, Nadia Gray, Peppino de Filippo – produzione: Rizzoli Film, Roma/Francinex, Paris/Bavaria Filmkunst, München – origine: Italia-Francia-Repubblica Federale Tedesca, 1957.

Il conte Max Regia: Giorgio Bianchi – soggetto: Amleto Palermi – sceneggiatura: Giorgio Bianchi, Ruggero Maccari, Alberto Sordi – interpreti: Alberto Sordi, Vittorio De Sica, Anne Vernon, Susana Canales – produzione: Ca-Mo Film, Roma/Balcazar Prod. Barcellona – origine: Italia-Spagna, 1957.

Amore e chiacchere Regia: Alessandro Blasetti – soggetto: Cesare Zavattini – sceneggiatura: Cesare Zavattini, Alessandro Blasetti, Isa Bartolini – interpreti: Vittorio De Sica, Gino Cervi, Elisa Cegani, Isa Pola – produzione: Electra Film, Roma/Ariel Film, Madrid – origine: Italia-Spagna, 1957. 1958

Domenica è sempre domenica Regia: Camillo Mastrocinque – soggetto: Oreste Biancoli, Roberto Gianviti, Vittorio Metz, ispirato alla trasmissione televisiva Il Musichiere di Garinei e Giovannini – sceneggiatura: Oreste Biancoli, Rodolfo Sonego, Vittorio Metz, Dino Verde, Roberto Gianviti, Alberto Sordi – interpreti: Alberto Sordi, Vittorio De Sica, Andreina Pagnani, Dorian Gray – produzione: Ermanno Donati e Luigi

Carpentieri per la Athena Cinematografica – origine: Italia, 1958.

Ballerina e buon Dio Regia: Antonio Leonviola – soggetto e sceneggiatura: Antonio Leonviola – interpreti: Vera Cecova, Marietto Angeletti, Vittorio De Sica – produzione: Ebe Cinematografica – origine: Italia, 1958.

Pezzo, capopezzo e capitano (kanonen-serenade) Regia: Wolfgang Staudte – soggeto: Wolfgang Staudte – sceneggiatura: Ennio De Concini, Duccio Tessari, Wolfgang Staudte – interpreti: Vittorio De Sica, Folco Lulli, Lianella Carell – produzione: Peter Bamberger Film Produktion, München/Ufa, Berlino/Atlantis Film, Roma – origine: Repubblica Federale Tedesca-Italia, 1958.

La ragazza di San Pietro Regia: Piero Costa – soggetto: Piero Costa, Mario Guerra – sceneggiatura: Piero Costa, Sandro Continenza, Mario Guerra – interpreti: Susana Canales, Vittorio De Sica, Walter Chiari – produzione: Theseus Film, Roma/Fénix Film, Madrid – origine: Italia-Spagna, 1958.

Anna di Brooklyn Regia: Reginald Denham e [per la versione italiana] Carlo Lastricati – soggetto: Ettore M. Margadonna, Dino Risi – sceneggiatura: Ettore M. Margadonna, Luciana Corda, Joseph Stephan – musica: Alessandro Cicognini, Vittorio De Sica – supervisione alla regia: Vittorio De Sica – interpreti: Gina Lollobrigida, Vittorio De Sica, Amedeo Nazzari, Peppino De Filippo – produzione: Milko Skofic per Circeo Cinematografica, Roma/Les Films Marceau, Paris/RKO – origine: Italia-Francia-Stati Uniti, 1958.

Gli zitelloni Regia: Giorgio Bianchi – soggetto e sceneggiatura: Silvio Amadio, Antonio Amurri, Mario Guerra e Carlo Romano – interpreti: Walter Chiari, Vittorio De Sica, María Luz Galicia, Rina Morelli – produzione: Emo Bistolfi per Cineproduzione E. Bistolfi, Roma/Union Film, Madrid – origine: Italia-Spagna, 1958.

Meet De Sica Regia: Bika De Reisner – fotografia: Julian Lugrin – montaggio: Stanley Smith – musica: Dorita Y. Pete – interprete: Vittorio De Sica – produzione: Christopher Lee Smith per Santa Lucia – origine: Italia, 1958.

Ritratto d’attore. Vittorio De Sica Programma a cura di: Fernaldo Di Giammatteo – produzione: RaiRadiotelevisione Italiana – origine: Italia, 1958 – prima trasmissione televisiva: 1° marzo 1959. 1959 Primo matrimonio Con María Mercader in Messico.

Nel blu dipinto di blu

Regia: Piero Tellini – soggetto: Piero Tellini – sceneggiatura: Cesare Zavattini, Ettore Scola, Piero Tellini – interpreti: Domenico Modugno, Giovanna Ralli, Vittorio De Sica – produzione: Cineproduzione Astoria/D.D.L. – origine: Italia, 1959.

Pane, amore e Andalusia Regia: Javier Setó – soggetto: Ettore M. Margadonna, Luciana Corda – sceneggiatura: Sandro Continenza, Luciana Corda, Ettore M. Margadonna – musica: Alessandro Cicognini – supervisione alla regia: Vittorio De Sica – interpreti: Vittorio De Sica, Peppino De Filippo, Carmen Sevilla, Lea Padovani – produzione: Vittorio De Sica per Trevi-De Sica, Roma/Benito Perojo per Perojo Producciones, Madrid – origine: Italia-Spagna, 1959.

La prima notte (Les noces vénitiennes) Regia: Alberto Cavalcanti – soggetto: tratto dal romanzo Les noces vénitiennes (Le nozze veneziane) di Abel Hermant – sceneggiatura: Claude-André Puget, Jean Ferry, Luciano Vincenzoni – interpreti: Martine Carol, Vittorio De Sica, Claudia Cardinale – produzione: Giovanni Addessi per Era Cinematografica, Roma/Cinétel, Paris – origine: Italia-Francia, 1959.

Il nemico di mia moglie Regia: Gianni Puccini – soggetto e sceneggiatura: Gianni Puccini, Bruno Baratti, Castellano e Pipolo – interpreti: Marcello Mastroianni, Giovanna Ralli, Vittorio De Sica – produzione: Isidoro Broggi e Renato Libassi per D.D.L., Roma – origine: Italia, 1959.

Policarpo, ufficiale di scrittura Regia: Mario Soldati – soggetto: liberamente tratto dal romanzo La Famiglia De’ Tappetti di Gandolin [Luigi Arnaldo Vassallo] – sceneggiatura: Age e Scarpelli – interpreti: Renato Rscel, Peppino De Filippo, Renato Salvatori, Vittorio De Sica – produzione: Silvio Clementelli per Titanus, Roma/Société Générale de Cinématogrphie, Paris/Hispàmex Film, Madrid – origine: ItaliaFrancia-Spagna, 1959.

Vacanze d’inverno Regia: Camillo Mastrocinque – soggetto: Oreste Biancoli – sceneggiatura: Oreste Biancoli, Rodolfo Sonego, Jacques Sigrud, Camillo Mastrocinque – interpreti: Alberto Sordi, Christine Kaufmann, Vittorio De Sica – produzione: Ermanno Donati, Luigi Carpentieri, Roma/Gallus Film, Paris – origine: ItaliaFrancia, 1959.

Il moralista Regia: Giogio Bianchi – soggetto: Ettore M. Margadonna, Luciana Corda – sceneggiatura: Ettore M. Margadonna, Luciana Corda, Oreste Biancoli, Rodolfo Sonego, Vincenzo Talarico – interpreti: Alberto Sordi, Vittorio De Sica, Franca Valeri – produzione: Vers Film (Napoleon) – origine: Italia, 1959.

Il generale Della Rovere Regia: Roberto Rossellini – soggetto: dal racconto omonimo di Indro Montanelli

– sceneggiatura: Sergio Amidei, Diego Fabbri, Indro Monantelli – interpreti: Vittorio De Sica, Hannes Messemer, Sandra Milo, Giovanna Ralli, Vittorio Caprioli – produzione: Moris Ergas per Zebra Film, Roma/SNE per Gaumont, Paris – origine: Italia-Francia, 1959.

Il mondo dei miracoli Regia: Luigi Capuano – soggetto: Oscar Andriani – sceneggiatura: Alfredo Giannetti, Vinicio Marinucci, Sergio Sollima, Antonio Valeri – interpreti: Jacques Sernas, Virna Lisi, Vittorio De Sica, Marisa Merlini – produzione: Fortunato Misiano per Romana Film – origine: Italia, 1959.

Uomini e nobiluomini Regia: Giorgio Bianchi – soggetto: tratto dalla commedia L’eredità dello zio Nicola di Emo Bistolfi – sceneggiatura: Mario Guerra, Carlo Romano – interpreti: Vittorio De Sica, Antonio Cifariello, Silvia Pinal – produzione: Cineproduzione Bistolfi – origine: Italia, 1959.

Ferdinando I. Re di Napoli Regia: Gianni Franciolini – soggetto e sceneggiatura: Massimo Franciosa, Pasquale Festa Campanile – interpreti: Peppino De Filippo, Titina De Filippo, Eduardo De Filippo, Vittorio De Sica, Aldo Fabrizi, Marcello Mastroianni, Renato Rascel – produzione: Silvio Clementelli per Titanus – origine: Italia, 1959.

“The Four Just Men” Regia: Sidney Cole – sceneggiatura: Jud Kinberg dalla serie omonima di romanzi di Edgar Wallace – interpreti: Dan Dailey, Jack Hawkins, Richard Conte, Vittorio De Sica – produzione: Hannah Weinstein per ITC – origine: Gran Bretagna, 1959 [De Sica ha partecipato a sei telefilm della serie]. “Arti e scienze n. 41” Programma a cura di C. Mozzarella – regia di Raimondo Musu. 1960 Tentativo fallito di prendere la cittadinanza del Liechtenstein per ottenere il divorzio da Giuditta Rissone.

La ciociara Regia: Vittorio De Sica– soggetto: dal romanzo omonimo di Alberto Moravia – riduzione e sceneggiatura: Cesare Zavattini – fotografia: Gábor Pogány – scenografia: Gastone Medin – arredamento e costumi: Elio Costanzi – musica: Armando Trovajoli – canzoni: Ruccione, Valente e Bixio – montaggio: Adriana Novelli – aiuto regia: Luisa Alessandri – interpreti e personaggi: Sofia Loren (Cesira), Eleonora Brown (Rosetta), Jean-Paul Belmondo (Michele), Renato Salvatori (Florindo, il camionista), Carlo Ninchi (Filippo, padre di Michele), Andrea Checchi (un fascista), Emma Baron (Maria, madre di Michele), Pupella Maggio (la contadina), Bruna Cealti (una sfollata), Vincenzo Musolino (Alessandro, figlio della contadina), Luciano Pigozzi (“Scimmiotto”), Franco

Balducci (tedesco nel pagliaio), Ettore G. Mattia (passeggero treno), Mario Frera, Luciana Cortellesi, Tony Caliò, Elsa Mancini, Antonio Gastaldi, Antonella Della Porta, Curt Lowens, Remo Galavotti, Giuseppina Ruggeri, Luigi Terribile – organizzazione generale: Jone Tuzi – produzione: Carlo Ponti per Compagnia Cinematografica Champion Roma/Les Films MarceauCocinor, Société Générale de Cinématographie, Paris – distribuzione: Titanus – origine: Italia-Francia, 1960.

Gastone Regia: Mario Bonnard – soggetto: Ettore M. Margadonna, Luciana Corda, ispirato al personaggio omonimo creato da Ettore Petrolini – sceneggiatura: Oreste Biancoli, Mario Bonnard, Rodolfo Sonego – interpreti: Alberto Sordi, Anna Maria Ferrero, Vittorio De Sica, Paolo Stoppa – produzione: Mario Cecchi Gori per Maxima Film, Variety Film, Spes – origine: Italia, 1960.

Le tre “eccetera” del colonnello Regia: Claude Boissol – soggetto: da una commedia di José María Pemán nell’adattamento di Fiorentino Soria – sceneggiatura: Marc-Gilber Sauvajon, Massimo Franciosa, Pasquale Festa Campanile – interpreti: Vittorio De Sica, Anita Ekberg – produzione: Giancarlo Cappelli, Pierre Couret per Vertix Film, Roma/Talma Film, Paris – origine: Francia-Italia, 1960.

Il vigile Regia: Luigi Zampa – soggetto: Rodolfo Sonego – sceneggiatura: Rodolfo Sonego, Ugo Guerra, Luigi Zampa – interpreti: Alberto Sordi, Marisa Merlini, Vittorio De Sica – produzione: Guido Giambartolomei per Royal Film – origine: Italia, 1960.

Le pillole di Ercole Regia: Luciano Salce – soggetto: tratto dalla commedia omonima di Maurice Hennequin e Paul Bilhaud – sceneggiatura: Ettore Scola, Bruno Baratti, Ruggero Maccari, Vittorio Vighi, Luciano Salce – interpreti: Nino Manfredi, Sylva Koscina, Vittorio De Sica – produzione: Maxima Film – origine: Italia, 1960.

Napoleone ad Austerlitz Regia: Abel Gance – soggetto e sceneggiatura: Abel Gance, Nelly Kaplan, Roger Richebé – interpreti: Pierre Mondy, Martine Carol, Claudia Cardinale, Rossano Brazzi, Vittorio De Sica – produzione: Alexander e Michael Salkind per Compagnie Française de Production Internationale, Soc. Lyre, Paris/Galatea Film, Roma, con la collaborazione di Michael Arthur, Film Prod. Vaduz/Dubrava Film, Zagreb – origine: Francia-Italia-Liechtenstein-Jugoslavia, 1960.

La sposa bella (The Angel Wore Red) Regia: Nunnally Johnson e [per la versione italiana] Mario Russo – soggetto: tratto dal romanzo omonimo di Bruce Marshall – sceneggiatura: Nunnally Johnson, Giorgio Prosperi – interpreti: Dirk Bogarde, Ava Gardner, Joseph

Cotten, Enrico Maria Salerno, Vittorio De Sica – produzione: Silvio Clementelli per Titanus, Roma/Spectator, Metro Goldwin Mayer – origine: Italia-Stati Uniti, 1960.

Un amore a Roma Regia: Dino Risi – soggetto: tratto dal romanzo omonimo di Ercole Patti – sceneggiatura: Ennio Flaiano – interpreti: Mylène Demongeot, Elsa Martinelli, Peter Baldwin, Vittorio De Sica – produzione: Mario Cecchi Gori per Fair FilmCei Incom, Laetizia Film, Roma/Les Films Cocinor, Paris/Alfa Film, Berlin – origine: Italia-Francia-Repubblica Federale Tedesca, 1960.

Arti e scienze n. 54 Programma a cura di Carlo Mazzarella e Valmarana – regia di Raimondo Musu.

Arti e scienze n. 86 Programma a cura di Carlo Mazzarella e Valmarana – regia di Raimondo Musu. Il Musichiere (ospite d’onore) Programma di Garinei e Giovannini con Mario Riva. 1961 Academy Award (Premio Oscar) a Sofia Loren quale migliore attrice ne La

ciociara. Nell’ottobre la compagnia di prosa del Teatro Mediterraneo, organizzata da Lucio Ardenzi e presentata da Vittorio De Sica ed Eduardo De Filippo (con Achille Millo, Umberto Spadaro, Cesarina Gheraldi, Serena Michelotti, Silvia Monelli, Giusi Raspani Dandolo, Adriana Innocenti, Italia Marchesini, Vally Lucchiari Ferri, Alida Cappellini, Viki Morandi, Fabio Marziali, Alceste D’Ambrosio, Claudio Marziali) – rappresenta Liolà di Luigi Pirandello, per la regia di Vittorio De Sica.

Il giudizio universale Regia: Vittorio De Sica – soggetto e sceneggiatura: Cesare Zavattini – fotografia (bianco e nero, Eastmancolor): Gábor Pogány – scenografia: Pasquale Romano – arredamento e costumi: Elio Costanzi, Giulia Mafai – musica: Alessandro Cicognini (diretta da Franco Ferrara) – coreografie: Ugo Dell’Ara – canzone: Na musica di Modugno-Pugliese – montaggio: Adriana Novelli – aiuto regia: Luisa Alessandri, Franco Montemurro, Francesco Rissone – effetti speciali pioggia: Giuseppe Metalli – interpreti e personaggi: Vittorio Gassman (Cimino), Renato Rascel (Coppola), Fernandel (il vedovo), Alberto Sordi (il trafficante di bambini), Ernest Borgnine (il ladro), Melina Mercouri (la signora straniera), Silvana Mangano (la signora Matteoni), Jack Palance (suo marito), Nino Manfredi (Antonio, il cameriere), Vittorio De Sica (l’avvocato difensore), Akim Tamiroff (il regista teatrale), Ellis Davis (la ragazza bionda), Franco Franchi e Ciccio Ingrassia (i due disoccupati), Georges Rivière

(Gianni), Paolo Stoppa (Giorgio), Anouk Aimée (Irene, sua moglie), Maria Pia Casilio (la cameriera), Don Jaime de Mora y Aragón (l’ambasciatore), Lamberto Maggiorani (il povero), Lilly Lembo (l’annunciatrice televisiva), Eleonora Brown (Giovanna), Lino Ventura (padre di Giovanna), Elisa Cegani (madre di Giovanna), Jimmy Durante (l’uomo dal gran naso), Mike Buongiorno (se stesso), Sergio Iossa (Luca), Domenico Modugno (il cantante), Eugenio Cuomo (il bambino del pomodoro), Marisa Merlini (sua madre), Gaddo Traves, Maria Karamann, Andreina Pagnani, Alberto Bonucci (ospiti di casa Matteoni), Giuseppe Janigro (la “personalità), Giuseppe Porelli (il suo accompagnatore), Agostino Salvietti (un cameriere), Nicola Rossi-Lemeni (la “voce”), Paul Demange (l’avaro a Parigi), Mario Abussi, Regina Bianchi, Giacomo Furia, Holmsted Remington, le Peters Sisters, Nando Angelini, Luigi e Vittorio Bonos, Ottavio Bugatti, Ugo D’Alessio, Eugenio Maggi, Teresa De Vita, Pietro De Vico, Enzo Petito, Gigi Reder, Giuseppe Iodice, Mario Passante, Nello Ascoli, Alfredo Melidoni, Vittorio Bottoni, Alberto Castaldi, Pasquale Cennamo, Nino Di Napoli, Alberto Barbieri Albani, Pasquale Cutolo, Eliana De Sabata, Arturo Lattanzio, Antonio Rispoli, Mario Siniscalco, Gennaro Rotondo, Vincenzo De Rosa, Carmine Ferrari, Alfio Vita, Alfredo Patierno, Pilade Collaveri, Carlo Taranto, Hilde Maria Renzi – direttore di produzione: Luigi De Laurentiis – produzione: Dino De Laurentiis Cinematogrfica, Roma/Standard Films, Paris – distribuzione: De Laurentiis Distr. – origine: Italia-Francia, 1961.

La miliardaria (The Millionairess) Regia: Anthony Asquith – soggetto: dalla commedia omonima di George Bernard Shaw – sceneggiatura: Wolf Mankowitz, nell’adattamento di Riccardo Aragno – interpreti: Sofia Loren, Peter Sellers, Vittorio De Sica – produzione: Pierre Rouve per Dimitri de Grunwald Production – origine: Gran Bretagna, 1960.

La baia di Napoli (It Started in Naples) Regia: Melville Shavelson – soggetto: Michael Pertwee, Jack Davies – sceneggiatura: Melville Shavelson, Jack Rose, Suso Cecchi D’Amico – interpreti: Sofia Loren, Clark Gable, Vittorio De Sica – produzione: Jack Rose per Capri-Shavelson Productions – origine: Stati Uniti, 1961.

Gli attendenti Regia: Giorgio Bianchi – soggetto: Marcello Marchesi – sceneggiatura: Luigi Magni, Stefano Strucchi – interpreti: Vittorio De Sica, Renato Rascel, Gino Cervi – produzione: Marco Mariani per Cinex, Incei Film – origine: Italia, 1961.

I due marescialli Regia: Sergio Corbucci – soggetto: Ugo Guerra, Marcello Fondato – sceneggiatura: Sandro Continenza, Sergio Corbucci, Giovanni Grimaldi – interpreti: Totò, Vittorio De Sica – produzione: Gianni Buffardi per Cineriz – origine: Italia, 1961.

Le meraviglie di Aladino

Regia: Henry Levin e [per la versione italiana] Mario Bava – soggetto: Stefano Strucchi, Duccio Tessari – sceneggiatura: Franco Prosperi, Silvano Reina, Pierre Very, Paul Tuckahoe – interpreti: Donald O’Connor, Noëlle Adam, Vittorio De Sica, Aldo Fabrizi – produzione: Lux Film, Roma/Lux C.C.F., Paris – origine: Italia-Francia, 1961.

L’onorata società Regia: Riccardo Pazzaglia – soggetto e sceneggiatura: Riccardo Pazzaglia – interpreti: Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Vittorio De Sica – produzione: Emme Film, Serena Film – origine: Italia, 1961.

I celebri amori di Enrico IV (Vive Henri IV, vive l’amour!) Regia: Claude Autant-Lara – soggetto e sceneggiatura: Jean Aurenche, Henri Jeanson – interpreti: Francis Claude, Nicole Courcel, Vittorio De Sica – produzione: Hoche Productions, Paris/Da.Ma. Cinematografica, Roma – origine: Francia-Italia, 1961.

La Fayette, una spada per due bandiere (La Fayette) Regia: Jean Dréville – soggetto: Suzanne Arduini – sceneggiatura: JeanBernard Luc, Suzanne Arduini, François Ponthier, Jacques Sigurd, Jean Dréville, Maurice Jacquin – interpreti: Michel Le Royer, Pascale Audret e con la partecipazione di Vittorio De Sica – produzione: Maurice Jacquin per Les Films Copernic, Paris/Cosmos Film, Roma – origine: Francia-Italia, 1961.

Vittorio De Sica racconta… Fiabe di tutti i tempi e di tutti i paesi. Programma a cura di Isa Barzizza – regia: Fernanda Turvani – interprete: Vittorio De Sica – produzione: Rai-Radiotelevisione Italiana – origine: Italia, 1960 – prima trasmissione televisiva: dal 25 febbraio al 30 luglio 1961 [in ventidue puntate dedicate ciascuna ad una favola: Il gatto con gli stivali, Pollicino, L’uccellino azzurro, Il gigante egoista, Il pesciolino d’oro, I tre talismani, I vestiti nuovi dell’imperatore, Il principe Ivan, Ciricoccola, La bella addormentata, I quattro musicanti di Brema, Il principe felice, Pierino Pierone, L’anatroccolo, Renzolla, Le due sorelle, Il soldatino di piombo, Alì Babà, Vardiello, Il pifferaio, Belsole, L’oca d’oro]. Chiesa e cinema in un quarto di secolo Programma a cura di Ernesto G. Laura. 1962

Eva Regia: Joseph Losey e [per la versione italiana] Guidarino Guidi – soggetto: tratto dal romanzo omonimo di James Hadley Chase – sceneggiatura: Evan Jones, Hugo Butler – interpreti: Jeanne Moreau, Stanley Baker e con la partecipazione di Vittorio De Sica – produzione: Robert e Raymond Hakim per Paris Film Production, Paris/Interopa Films, Roma – origine: Francia-Italia, 1962.

BOCCACCIO ’70 Episodio “La Riffa”

Regia: Vittorio De Sica – soggetto e sceneggiatura: Cesare Zavattini – fotografia (Technicolor): Otello Martelli – scenografia: Elio Costanzi – musica: Armando Trovajoli – canzoni: Riffa cha cha di Nora Orlandi e Armando Trovajoli, Soldi, soldi, soldi di Garinei, Giovannini e Kramer – montaggio: Adriana Novelli – interpreti e personaggi: Sofia Loren (Zoe), Luigi Giuliani (Geno), Alfio Vita (Cuspèt), Tano Rustichelli (Turàs), Antonio Mantovani (il veterinario), Valentino Macchi (il ragazzo che spara al lunapark), Antonio Ravaglia, Romano Lolli, Luciano Baldrati, Angelo Casadio, Giovanni Minghetti – produzione: Carlo Ponti e Antonio Cervi per Concordia Compagnia Cinematografica, Cineriz, Roma/Francinex, Gray Films, Paris – distribuzione: Cineriz – origine: Italia-Francia, 1962. Il film comprende inoltre gli episodi Renzo e Luciana di Mario Monicelli, Le tentazioni del dottor Antonio di Federico Fellini, Il lavoro di Luchino Visconti.

I sequestrati di Altona Regia: Vittorio De Sica – soggetto: dal dramma Les Sèquestrès d’Altona di Jean-Paul Sartre – sceneggiatura: Abby Mann, Cesare Zavattini – fotografia: Roberto Gerardi – scenografia: Ezio Frigerio – costumi: Pier Luigi Pizzi – disegni. Renato Guttuso – musica: Nino Rota sul tema della Sinfonia n. 11, opus 103 di Dimitri Shostakovich (diretta da Franco Ferrara) – suono: Ennio Sensi – montaggio: Manuel Del Campo, Adriana Novelli – assistenti alla regia: Luisa Alessandri, Giuseppe Menegatti – interpreti e personaggi: Sofia Loren (Johanna), Maximilian Schell (Franz Von Gerlach), Frederic March (Albrecht von Gerlach), Robert Wagner (Werner von Gerlach), Françoise Prévost (Leni von Gerlach), Alfredo Franchi (il guardiano dello stabilimento), Lucia Pelella (la moglie del guardiano), Roberto Massa (l’autista), Antonia Cianci (la governante), Carlo Antonini (l’ufficiale di polizia), Armando Sifo (un poliziotto), Aldo Pecchioli (il cuoco), Ekkehard Schall (l’attore che impersona Arturo Ui), Rolf Tasna, Gabriele Tinti, Piero Leri, Dino Di Luca, Tonino Ciani, Mirella Ricciardi (attori della compagnia brechtiana) – direttore di produzione: Luciano Perugi – produzione: Carlo Ponti per Titanus Roma/Société Générale de Cinématographie, Paris – distribuzione: Titanus – origine: Italia-Francia, 1962.

Arti e scienze n. 148 Programma a cura di Silvano Giannelli. 1963

Il boom Regia: Vittorio De Sica – soggetto e sceneggiatura: Cesare Zavattini – fotografia: Armando Nannuzzi – scenografia: Ezio Frigerio –arredamento: Emilio D’Andria – costumi: Lucilla Mussini [disegnati da Gabriele D’Angelo] – musica: Piero Piccioni – canzone: Wheels eseguita da Billy Vaughn – montaggio: Adriana Novelli – aiuto regia: Luisa Alessandri, Giuseppe Menegatti – interpreti e personaggi: Alberto Sordi (Giovanni Alberti), Gianna Maria

Canale (sua moglie Silvia), Ettore Geri (Carlo Bausetti), Silvio Battistini (Riccardo), Mariolina Bovo (signora Faravalli), Alceo Barnabei (Baratti), Gloria Cervi (Cinzia Baratti), Sandro Merli (Dronazzi), Sandra Verani (signora Dronazzi), Matelda Scotti (moglie di Riccardo), Gino Pasquarelli (direttore della Fides Prestiti), Maria Grazia Buccella (Gaby, segretaria del direttore della Fides Prestiti), Federico Giordano (il padre di Silvia), Ugo Silvestri (Giardinazzi), Felicita Tranchina (madre di Giovanni), Alfredo Zambuto (Piero, il cameriere di casa Bausetti), John Karlsen (oculista), Franco Abbina (assistente oculista), Rosetta Biondi (infermiera dell’oculista), Alfio Vita (l’inquilino di fronte), Mario Cipparone (un cliente della Fides Prestiti), Vittorio Casella (segretario del cantiere Bausetti), Franco Bologna (geometra del cantiere Bausetti) – direttore di produzione: Giorgio Morra – produzione: Dino De Laurentiis – distribuzione: D.D.L. – origine: Italia, 1963.

Ieri, oggi e domani Regia: Vittorio De Sica – fotografia (Techniscope, Techni- color): Giuseppe Rotunno – scenografia: Ezio Frigerio – arredamento: Ezio Alteri – costumi: Piero Tosi [nell’episodio Anna i vestiti indossati da Sofia Loren sono di Christian Dior] – musica: Armando Trovajoli (diretta dall’autore) – montaggio: Adriana Novelli – aiuto regia: Luisa Alessandri – assistente alla regia: Antonio Segurini – Episodio Adelina: soggetto: Eduardo De Filippo – sceneggiatura: Eduardo De Filippo, Isabella Quarantotti – interpreti e personaggi: Sofia Loren (Adelina Sbaratti), Marcello Mastroianni (Carmine Mellino, suo marito), Aldo Giuffrè (Pasquale Nardella), Silvia Monelli (Elvira Nardella), Tecla Scarano (Bianchina Verace), Agostino Salvietti (l’avvocato Domenico Verace), Carlo Croccolo (l’imbonitore), Pasquale Cennamo (il capitano di polizia), Lino Mattera (Amedeo Scapece), Antonio Cianci (il medico) – Episodio Anna: soggetto: dal racconto Troppo ricca di Alberto Moravia – sceneggiatura: Cesare Zavattini, Billa Billa Zanuso – interpreti e personaggi: Sofia Loren (Anna Molteni), Marcello Mastroianni (Renzo, il suo amante), Armando Trovajoli (Giorgio Ferrario) – Episodio Mara: soggetto e sceneggiatura: Cesare Zavattini – coreografie: Jacques Ruet – interpreti e personaggi: Sofia Loren (Mara, ragazza squillo), Marcello Mastroianni (Augusto Rusconi, il bolognese), Giovanni Ridolfi (Umberto, il seminarista), Tina Pica (la nonna di Umberto), Gennaro di Gregorio (il nonno di Umberto) – direttore di produzione: Antonio Altoviti – produzione: Carlo Ponti per Champion Compagnia Cinematografica, Roma/Les Film Concordia, Paris – distribuzione: Interfilm – origine: ItaliaFrancia, 1963. 1964 Academy Award (Premio Oscar) a Ieri, oggi e domani quale miglior film straniero. De Sica, María Mercader e i figli si trasferiscono a Parigi, per ottenere la

cittadinanza francese.

Matrimonio all’italiana Regia: Vittorio De Sica – soggetto: dalla commedia Filumena Marturano di Eduardo De Filippo – sceneggiatura: Eduardo De Filippo, Renato Castellani, Antonio Guerra, Leo Benvenuti, Piero de Bernardi – fotografia: (Eastmancolor): Roberto Gerardi – scenografia: Carlo Egidi – arredamento: Dario Micheli – costumi: Piero Tosi, Vera Marzot – musica: Armando Trovajoli (diretta dall’autore) – montaggio: Adriana Novelli – aiuto regia: Luisa Alessandri. Franco Indovina, Franco Montemurro – interpreti e personaggi: Sofia Loren (Filumena Marturano), Marcello Mastroianni (Domenico Soriano), Aldo Puglisi (Alfredo), Tecla Scarano (Rosalia), Marilù Tolo (Diana), Vito Morriconi (Riccardo), Generoso Cortini (Michele), Gianni Ridolfi (Umberto), Pia Lindström (la cassiera), Raffaello Rossi Bussola (l’avvocato Nocella), Vincenza Di Capua (donna Matilde, la madre), Vincenzo Aita (don Alfonso, il prete), Alfio Vita (un pasticcere), Enza Maggi (Lucia, cameriera), Rita Piccione (Teresina, sarta), Lino Mattera, Anna Santoro, Alberto Gastaldi, Mara Marilli, Antonietta D’Onofrio – direttore di produzione: Jone Tuzi – produzione: Carlo Ponti per Compagnia Cinematografica Champion, roma/Les Films Concordia, Paris – produttore esecutivo: Joseph E. Levine – distribuzione: Interfilm – origine: ItaliaFrancia, 1964.

Vittorio De Sica. Autoritratto Regia: Giulio Macchi – sceneggiatura e adattamento: Gian Luigi Rondi – riprese filmate: Ludovico Pavoni – montaggio: Fausto Flammini – partecipanti: Emma Gramatica, Sergio Tofano, Mario Mattòli, Giuseppe Amato, Leonardo Cortese, Carla Del Poggio, Cesare Zavattini, Franco Interlenghi, Paolo Stoppa, Marcello Girosi, Gina Lollobrigida, Sofia Loren – produzione: Rai – Radiotelevisione Italiana – origine: Italia, 1964 – prima trasmissione televisiva: 13 marzo 1964. 1965

Un mondo nuovo (Un monde nouveau) Regia: Vittorio De Sica – soggetto e sceneggiatura: Cesare Zavattini in collaborazione con Riccardo Aragno – fotografia: Jean Boffety – scenografia: Max Douy – arredamento: Andrè Labussière – costumi: Tanine Autre – musica: Michel Colombier – montaggio: Paul Cayatte – assistenti alla regia: Luisa Alessandri, Yves Boisset – interpreti e personaggi: Christine Delaroche (Anna), Nino Castelnuovo (Carlo), Georges Wilson (il primario medico), Madeleine Robinson (la ricca signora), Pierre Brasseur (un fotografo), Isa Miranda (la “dottoressa”), Tanya Lopert (Maria), Nadelige Ragoo (Judith), Françoise Brion, Franco Bucceri, Jeanne Aubert, Jean-Pierre Darras, Arlette Gilbert, Jacques Masson, Paul Mercey, Charles Millot, Laure Paillette, Alex Serban, Antoine De Rudder – direttore di produzione: Leon Sanz – produzione: Raymond Froment

per Terra Film, Les Productions Artistes Associès, Paris/Sol Produzione, Compagnia Cinematografica Montoro, Roma – distribuzione: Dear Film-United Artists – origine: Francia-Italia, 1965.

Le avventure e gli amori di Moll Flanders (The Amorous Adventures of Moll Flanders) Regia: Terence Young – soggetto: dal romanzo Moll Flanders di Daniel Defoe – sceneggiatura: Dennis Cannan, Roland Kibbee – interpreti: Kim Novak, Richard Johnson, Vittorio De Sica – produzione: Marcel Hellman per Winchester Prod. – origine: Gran Bretagna, 1965. Studio uno (Dodicesima puntata) Regia: Antonello Falqui. 1966

Caccia alla volpe Regia: Vittorio De Sica – soggetto: dalla commedia omonima di Neil Simon – sceneggiatura: Neil Simon in collaborazione con Cesare Zavattini – fotografia: (Technicolor, Panavision) Leonida Barboni – effetti fotografici speciali: Joseph Matanson – scenografia: Mario Garbuglia – costumi: Piero Tosi – musica: Piero Piccioni – direzione musicale: Charles Blackwell – montaggio: Russel Lloyd, Adriana Novelli – aiuto regia: Luisa Alessandri, Franco Cirino – regia seconda unità: Richard Talmadge, Giorgio Stegani – scene aggiunte: dal film Easy living (Il gigante di New York) di Jacques Tourneur, con Victor Mature e Lizabeth Scott – interpreti e personaggi: Peter Sellers (Aldo Vannucci), Victor Mature (Tony Powell), Britt Ekland (Gina Romantica), Paolo Stoppa (Pollo), Akim Tamiroff (Okra), Tino Buazzelli (Siepi), Lydia Brazzi (Teresa Vannucci), Lando Buzzanca (il capo di polizia Rizzuto), Mac Ronay (Carlo), Maurice Denham (il capo dell’Interpol), Martin Balsam (Harry), Tiberio Murgia (primo poliziotto), Francesco De Leone (secondo poliziotto), Pier Luigi Pizzi (il dottore), Enzo Fiermonte (Raymond), Lino Mattera (il cantante), Carlo Croccolo (Salvatore), Marcella Rovena (sua moglie), Daniele Vargas (l’avvocato dell’accusa), Giustino Durano (il critico), Nino Musco (il sindaco di Sevalio), Angelo Spaggiari (Felix Kessler), Timothy Bateson (Michael O’Reilly), Roberto De Simone (Marcel Vignon), Enrico Luzi (il regista a via Veneto), Mimmo Poli (l’attore grasso), Piero Gerlini (il capo carceriere), Franco Sportelli (primo giudice), Carlo Pisacane (secondo giudice), Nino Vingelli (terzo giudice), Ugo Fangareggi (un secondino), David Lodge (un altro poliziotto), Daniela Igliozzi (una ragazza di Sevalio) e con Vittorio De Sica (se stesso) – direttore di produzione: Orazio Tassara – produzione: John Bryan per Compagnia Cinematografica Montoro, Roma/Nancy Enterprises Inc., London – distribuzione: Dear Film-United Artists – origine: Italia-Gran Bretagna, 1966.

Io, io, io… e gli altri Regia: Alessandro Blasetti – soggetto: Alessandro Blasetti, Carlo Romano –

sceneggiatura: Alessandro Blasetti, Carlo Romano in collaborazione con Age e Scarpelli, Adriano Baracco, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Lianella Carell, Suso Cecchi D’Amico, Ennio Flaiano, Giorgio Rossi, Libero Solaroli, Vincenzo Talarico – interpreti: Walter Chiari, Gina Lollobrigida, Vittorio De Sica, Marcello Mastroianni, Silvana Mangano – produzione: Luigi Rovere per Cineluxor, Rizzoli Film – origine: Italia, 1966.

Sprint n. 26 Programma di Raffaele Andreassi. Colonna sonora (Quarta puntata) Regia: Glauco Pellegrini. 1967

Le streghe Episodio: Una sera come le altre Regia: Vittorio De Sica – soggetto: Cesare Zavattini – sceneggiatura: Cesare Zavattini in collaborazione con Enzo Muzii e Fabio Carpi – fotografia (Technicolor): Giuseppe Rotunno – effetti fotografici speciali: Joseph Natanson – scenografia: Piero Poletto – costumi: Piero Tosi – musica: Piero Piccioni – montaggio: Adriana Novelli – aiuto regia: Luisa Alessandri – interpreti e personaggi: Silvana Mangano (Giovanna), Clint Eastwood (Carlo, suo marito), Armando Bottin (Nembo Kid), Corinne Fontaine (signora con gli occhiali), Gianni Gori (Diabolik), Paolo Gozlino (Mandrake), Valentino Macchi (l’uomo dello stadio), Franco Moruzzi (Sadik), Angelo Santi (Gordon), Piero Torrisi (Batman) – direttore di produzione: Giorgio Adriani, Giorgio Morra – produzione: Dino De Laurentiis Cinematografica, Roma/Les Productions Artistes Associés, Paris – distribuzione: Dear-United Artists – origine: Italia-Francia, 1967. Il film comprende inoltre gli episodi: La strega bruciata viva di Luchino Visconti, Senso civico di Mauro Bolognini, La terra vista dalla luna di Pier Paolo Pasolini, La siciliana di Franco Rossi.

Woman Times Seven (Sette volte donna) Regia: Vittorio De Sica – soggetto e sceneggiatura: Cesare Zavattini – fotografia (Eastmancolor): Christian Matras – scenografia: Bernard Evein – arredamento: Gabriel Bèchir – costumi: Marcel Escoffier [Pierre Cardin per Shirley McLaine] – musica: Riz Ortolani – montaggio: Teddy Darvas, Victoria Spiri-Mercanton – assistenti alla regia: Marc Monnet, Marc Brunebaum – interpreti e personaggi: episodio Il corteo funebre (Paulette): Shirley MacLaine (Paulette), Peter Sellers (Jean), Elspeth March (Annette); episodio Amateur Night (Maria Teresa): Shirley MacLaine (Maria Teresa), Rossano Brazzi (Giorgio), Catherine Samie (Jeannine), Laurence Badie (la smilza), Judith Magre (la trentenne), Robert Duranton (il protettore), Zanie Campan (un’altra prostituta); episodio Due contro uno (Linda): Shirley MacLaine (Linda), Vittorio Gassman (Cenci), Clinton Greyn (MacCormack); episodio La super Simone

(Edith): Shirley MacLaine (Edith), Lex Barker (Rik), Robert Morley (il dottor Xavier), Elsa Martinelli (una donna al supermercato), Jessie Robbins (Marianna); episodio Una sera all’opera (Eve). Shirley MacLaine (Eve), Patrick Wymarck (Henri Minou), Adrienne Corri (la signora Lisière), Michael Brennan (il signor Lisière); episodio I suicidi (Marie): Shirley MacLaine (Marie), Alan Arkin (Fred); episodio Neve (Jeanne): Shirley MacLaine (Jeanne), Michael Caine (il giovanotto timido), Anita Ekberg (Claudia, la brunetta), Philippe Noiret (Victor) – direttore di produzione: Jacques Juranville – produttore esecutivo: Joseph E. Levine – produzione: Arthur Cohn per Embazzy Pictures, 20th Century Fox, S.N. Films Cormoran – distribuzione: Dear-Fox – origine: Usa, 1967.

Gli altri, gli altri… e noi Regia: Maurizio Arena – soggetto e sceneggiatura: Maurizio Di Lorenzo [Maurizio Arena] – interpreti: Maurizio Arena, Mariella Zanetti, Vittorio De Sica – produzione: Consuelo Film – origine: Italia, 1967.

Un italiano in America Regia: Alberto Sordi – soggetto: Rodolfo Sonego – sceneggiatura: Rodolfo Sonego, Alberto Sordi – interpreti: Alberto Sordi, Vittorio De Sica – produzione e distribuzione: Euro International Films – origine: Italia, 1967.

Sabato sera Programma presentato da Corrado – regia di Antonello Falqui.

Incontri: Zavattini parliamo tanto di me Regia di Cesare Zavattini. 1968 6 aprile: De Sica e María Mercader, diventati cittadini francesi, celebrano nuovamente le nozze a Fains. Roberto Rossellini è testimone della sposa.

Amanti Regia: Vittorio De Sica – soggetto: tratto dalla commedia omonima di Brunello Rondi – sceneggiatura: Ennio De Concini, Vittorio De Sica, Tonino Guerra, Brunello Rondi, Cesare Zavattini – fotografia (Technicolor): Pasquale De Santis – scenografia: Piero Poletto – costumi: Enrico Sabbatini – vestiti di Faye Dunaway: Theodora Van Runkle – musica: Manuel De Sica (diretta da Zeno Vakelich) – canzone: A Place for Lovers di Norman Gimbel e Manuel De Sica, cantata da Ella Fitzgerald – montaggio: Adriana Novelli – aiuto regia: Luisa Alessandri – interpreti e personaggi: Faye Dunaway (Giulia), Marcello Mastroian- ni (Valerio), Caroline Mortimer (Maggie), Karin Engh (Griselda), Enrico Simonetti (l’organizzatore dei giochi da salotto), Esmeralda Ruspoli (la moglie dell’avvocato), Mirella Panfili (una invitata alla festa) – direzione di produzione: Jone Tuzi – produzione: Carlo Ponti e Arthur Cohn per Compagina Cinematografica Champion, Roma/Les Films Concordia, Paris – distribuzione: Interfilm – origine: Italia-Francia, 1968.

Colpo grosso alla napoletana (The Biggest Bundle of them All) Regia: Ken Annakin – soggetto: Josef Shaftel – sceneggiatura: Sy Salkowitz, Josef Shaftel, Riccardo Aragno – interpreti: Vittorio De Sica, Raquel Welch, Robert Wagner, Edward G. Robinson – produzione: Josef Shaftel, Sy Stewart per Metro Goldwyn Mayer – origine: Stati Uniti, 1968.

Caroline Chérie (Caroline Chérie) Regia: Denys de la Patellière – soggetto: tratto dal romanzo omonimo di Cécil Saint-Laurent – sceneggiatura: Cécil Saint-Laurent – interpreti: France Anglade, François Guérin, Bernard Blier, Vittorio De Sica – produzione: Jacques-Paul Bertrand per Cineurop, Paris/Alvaro Mancori, Roma/Norduetsche Film Prod., Hamburg – origine: Francia-Italia-Repubblica Federale Tedesca, 1968.

L’uomo venuto dal Kremlino (The Shoes of the Fisherman) Regia: Michael Anderson – soggetto: dal romanzo Nei panni di Pietro di Morris L. West – sceneggiatura: John Patrick, James Kennaway – interpreti: Anthony Quinn, Laurence Olivier, Vittorio De Sica – produzione: George Englud per Metro-Goldwyn-Mayer – origine: USA, 1968. Delia Scala Story (Seconda puntata) Programma con Delia Scala. 1969

Se è martedì, deve essere il Belgio (If It’s Tuesday, This Must be Belgium) Regia: Mel Stuart – soggetto e sceneggiatura: David Shaw – interpreti: Suzanne Pleshette, Ian McShane, Vittorio De Sica – produzione: Stan Margulies per David L. Wolper Productions – origine: Stati Uniti, 1969.

Una su 13 (12+1) Regia: Nicolas Gessner, Luciano Lucignani – soggetto: Antonio Altoviti – sceneggiatura: Lucia Drudi Demby, Antonio Altoviti, Nicolas Gessner – interpreti: Vittorio Gassman, Sharon Tate, Vittorio De Sica, Orson Welles – produzione: Compagnia Cinematografica Finanziaria C.E.F., Roma/C.O.F.C.I., Paris – origine: Italia-Francia, 1969.

Il cinema della realtrà Programma di Gianni Amico – produzione di G.V. Baldi.

Stasera Gina Lollobrigida Regia di Antonello Falqui.

Dal romanzo al film TSE Scuola Media Superiore. 1970

I girasoli Regia: Vittorio De Sica – soggetto e sceneggiatura: Cesare Zavattini, Tonino Guerra in collaborazione con Georgij Mdivani – fotografia (Technicolor): Giuseppe Rotunno – scenografia: Piero Poletto, David Vinitsky – costumi: Enrico Sabbatini – musica: Henry Mancini – montaggio: Adriana Novelli – assistenti alla regia: Luisa Alessandri, Paolo Serbandini – interpreti e

personaggi: Sofia Loren (Giovanna), Marcello Mastroianni (Antonio), Ljudmila Savel’yeva (Masha), Galina Andreeva (Valentina), Anna Carena (la madre di Antonio), Nadežda Čeredničenko (la contadina nel campo di girasoli), Germano Longo (Ettore), Glauco Onorato (un reduce), Silvano Tranquilli (un operaio italiano in Unione Sovietica), Pippo Starnazza (impiegato all’ufficio informazioni), Marisa Traversi (una prostituta), Gunnar Cilinskij (ufficiale del ministero sovietico), Carlo Ponti jr. (il figlio di Giovanna), Dino Peretti – direzione di produzione: June Tuzi – produttore esecutivo: Joseph E. Levine – produzione: Carlo Ponti e Arthur Cohn per Compagnia Cinematografica Champion, Roma/Les Films Concordia, Paris in collaborazione con Mosfil’m, Moskva – distribuzione: Euro International Film – origine: Italia-Francia, URSS, 1970.

Il giardino dei Finzi Contini Regia: Vittorio De Sica – soggetto: dal romanzo omonimo di Giorgio Bassani – sceneggiatura: Ugo Pirro, Vittorio Bonicelli, Giorgio Bassani [quest’ultimo ha però ritirato la sua firma] – fotografia (Eastmancolor): Ennio Guarnieri – scenografia e costumi: Giancarlo Bartolini Salimbeni – arredamento: Franco D’Andria – musica: Manuel De Sica (diretta da Carlo Savina) – canzone: Vivere di Cesare A. Bixio cantata da Tito Schipa – montaggio: Adriana Novelli – aiuto regia: Luisa Alessandri – interpreti e personaggi: Lino Capolicchio (Giorgio), Dominique Sanda (Micol), Helmut Berger (Alberto), Fabio Testi (Giampiero Malnate), Romolo Valli (il padre di Giorgio), Barbara Leonardi Pilavin (la madre di Giorgio), Raffaele Curi (Ernesto), Marcella Gentile (Fanny), Camillo Cesarei (il prof. Ermanno Finzi Contini), Katina Morisani (Olga Finzi Contini), Inna Alexeieff (Regina, la nonna Finzi Contini), Ettore Geri (il maggiordomo di casa Finzi Contini), Giamparolo Duregon (Bruno), Michael Berger (lo studente tedesco a Mentone), Edoardo Toniolo (il direttore della biblioteca), Franco Nebbia (un amico di Giorgio), Alessandro D’Alatri (Giorgio bambino), Cinzia Bruno (Micol bambina) – direttore di produzione: Romano Dandi – produzione: Gianni Hecht Lucari e Arthur Cohn per Documento Film, Roma/C.C.C. Filmkunst, Berlin – distribuzione: Titanus – origine: Italia-Repubblica Federale Tedesca, 1970.

Le coppie Episodio Il Leone Regia: Vittorio De Sica – soggetto: Cesare Zavattini – sceneggiatura: Ruggero Maccari, Rodolfo Sonego, Stefano Strucchi – fotografia (Eastmancolor): Ennio Guarnieri – scenografia: Flavio Mogherini – arredamento: Emilio Baldelli – costumi: Bruna Parmesan – musica: Manuel De Sica (diretta da Nando De Luca e Roberto Pregadio) – montaggio: Adriana Novelli – interpreti e personaggi: Alberto Sordi (Antonio), Monica Vitti (Giulia) – direttore di produzione: Renato Jaboni – produzione: Gianni Hecht Lucari per Documento Film – distribuzione: C.I.C. – origine: Italia, 1970.

Il film comprende inoltre gli episodi Il frigorifero di Mario Monicelli, La Camera di Alberto Sordi.

Cose di “Casa nostra” Regia: Steno – soggetto: Roberto Amoroso, Giulio Scarnicci, Stefano Vanzina – sceneggiatura: Roberto Amoroso, Roberto Gianviti, Steno, Aldo Fabrizi – interpreti: Carlo Giuffré, Pamela Tiffin, Jean-Claude Brialy, Vittorio De Sica – produzione: Roberto Amoroso per Ramo Film, Roma/P.A.C. Film, Paris – origine: Italia-Francia, 1970. 1971 Orso d’oro al XXI Festival Internazionale di Berlino a Il giardino dei Finzi Contini e vincitore dell’Academy Award (Premio Oscar) quale miglior film straniero l’anno successivo.

Trastevere Regia: Fausto Tozzi – soggetto e sceneggiatura: Fausto Tozzi – interpreti: Nino Manfredi, Rosanna Schiaffino, Vittorio De Sica, Vittorio Caprioli – produzione: Alberto Grimaldi per Produzioni Europee Associate, Roma – origine: Italia, 1971.

Io non vedo, tu non parli, lui non sente Regia: Mario Camerini – soggetto e sceneggiatura: Castellano e Pipolo, Mario Camerini, dalla sceneggiatura di Giorgio Arlorio, Stefano Strucchi, Frédérique Baron Guarino per Crimen – interpreti: Alighiero Noschese, Enrico Montesano, Gastone Moschin; Isabella Biagini, Vittorio De Sica – produzione: Dino De Laurentiis International – origine: Italia, 1971.

L’odore delle belve (L’odeur des fauves) Regia: Richard Balducci – soggetto: Richard Balducci – sceneggiatura: Richard Balducci, Marcel Martins – interpreti: Maurice Ronet, Raymond Pellegrin, Vittorio De Sica – produzione: Sofracima, Paris/Clodio Cinem. Roma – origine: Francia, 1971.

“Nascita della Repubblica – Il 2 giugno” Regia: Vittorio De Sica – soggetto e sceneggiatura: Vittorio De Sica in collaborazione con Fabrizio Onofri – supervisione storica: Paolo Ungari – interpreti: Giuseppe Addobbati, Nicola Pagano – produzione: RaiRadiotelevisione Italiana – origine: Italia, 1971 – prima trasmissione televisiva: 2 giugno 1971.

“I Cavalieri di Malta” Regia: Vittorio De Sica – soggetto e sceneggiatura: Peter Dragadze – consulenza storica: Denis Calnan – consulenza musicale: Francesco Siciliani – fotografia (colore): Ennio Guarnieri – voce del commento: Arnoldo Foà – produzione: Peter Dragadze per Rai-Radiotelevisione Italiana – origine, Italia 1971 – prima trasmissione televisiva: Rai Due, 31 agosto 1971. 1972

Lo chiameremo Andrea Regia: Vittorio De Sica – soggetto: Cesare Zavattini – sceneggiatura: Cesare Zavattini, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi – fotografia (Panoramica, Eastmancolor): Ennio Guarnieri – scenografia e costumi: Giancarlo Bartolini Salimbeni – arredamento: Emilio D’Andria – musica: Manuel De Sica – cori: voci bianche di Renata Cortiglioni – montaggio: Adriana Novelli – aiuto regia: Luisa Alessandri – interpreti e personaggi: Nino Manfredi (Paolo Antonazzi), Mariangela Melato (Maria Antonazzi), Antonio Faà di Bruno (il preside), Violetta Chiarini (Mafalda Soriani), Guido Cerniglia (Arturo Soriani), Isa Miranda (una insegnante), Maria Pia Casilio (Bruna Barini), Esmeralda Ruspoli (un’altra insegnante), Giulio Baraghini (il prof. Mariani), Pietro Tordi (un insegnante), Anna Maria Aragona (una maestra), Donato Di Sepio (Spadacci), Enzo Monteduro (l’insegnante di religione), Alessandro Iacarella (un altro maestro), Antonio Spaccatini (Nino), Solvejg D’Assunta (la madre di Nino), Kai S. Seefeld (la chiromante), Daniele Patella (l’interprete svizzero), Luigi Antonio Guerra (il bidello), Herbert Tiede (il sessuologo svizzero), Alberto Schiappadori [poi Sandro Dori] (Mario) – direttore di produzione: Michele Marsala – produzione: Marina Cicogna per Verona Produzione in associazione con Arthur Cohn – distribuzione: C.I.C. – origine: Italia, 1972.

Grande slalom per una rapina (Snow Job) Regia George Englund – soggetto: Richard Gallagher – sceneggiatura: Ken Kolb, Jeffrey Bloom – interpreti: Jean-Claude Killy, Danièle Gaubert, Vittorio De Sica – produzione: Edward L. Rissien per Warner Bros – origine: Gran Bretagna, 1972.

Ettore Lo Fusto Regia: Enzo G. Castellari – soggetto: dal romanzo Le roi des Mirmidous (Il re dei Mirmidoni) di Henri M. Viard e Zacharias – sceneggiatura: Sandro Continenza, Enzo G. Castellari, Lucio Fulci, Leonardo Martin – interpreti: Rosanna Schiaffino, Philippe Leroy, Vittorio Caprioli, Vittorio De Sica – produzione: Edmondo Amati per Empire Films, Roma/Labrador Films, Madrid/Star Film, Paris – origine: Italia-Francia-Spagna, 1972.

Siamo tutti in libertà provvisoria Regia: Manlio Scarpelli – soggetto: Fulvio Pazziloro – sceneggiatura: Fulvio Pazziloro, Manlio Scarpelli – interpreti: Riccardo Cucciola, Vittorio De Sica, Macha Méril – produzione: Zafes, Roma/Fildebroc, Paris/Geissler Dieter Film Prod., München – origine: Italia-Francia-Repubblica Federale Tedesca, 1972.

Pinocchio Regia: Luigi Comencini – soggetto: liberamente adattato dal romanzo omonimo di Carlo Collodi – sceneggiatura: Luigi Comencini, Suso Cecchi D’Amico – interpreti: Nino Manfredi, Andrea Balestri, Gina Lollobrigida, Vittorio De Sica – produzione: Rai-Radiotelevisione Italiana, Roma/O.R.T.F., Cinepat – origine: Italia-Francia-Repubblica Federale Tedesca, 1972 – prima trasmissione

televisiva: Rai Uno, in cinque puntate dall’8 aprile al 6 maggio 1972 [un’edizione ridotta è stata distribuita nel circuito cinematografico con il titolo Le avventure di Pinocchio].

Incontri: un’ora con Francesca Bertini Programma a cura di Gastone Favero.

Adesso musica (Partecipazione al programma). 1973

Una breve vacanza Regia: Vittorio De Sica – soggetto: Rodolfo Sonego – sceneggiatura: Cesare Zavattini – fotografia (Panoramica, Eastmancolor): Ennio Guarnieri – scenografia: Luigi Scaccianoce, Adolfo Goppino – musica: Manuel De Sica – canzone: Stay di Manuel De Sica e Gene Lees cantata da Christian De Sica – montaggio: Franco Arcalli – assistente alla regia: Luisa Alessandri – interpreti e personaggi: Florinda Bolkan (Clara Martaro), Renato Salvatori (Franco Martaro), Anna Carena (la madre di Franco), Daniel Quenaud (Luigi, il meccanico), José Maria Prada (il dottor Ciranni), Teresa Gimpera (Gina), Hugo Blanco (il fratello di Franco), Julia Peña (Edvige), Miranda Campa (l’infermiera Guidotti), Angela Cardile (la rossa), Adriana Asti (la Scanziani), Christian De Sica (il giovane in treno), Maria Mizar (l’infermiera Garin), Monica Guerritore (Maria), Alessandro Romanazzi (il figlio di Maria), Enrico Baroni, Edda Conti, Lina Giovanella, Giampaolo Rossi, Mario Garriba – direttore di produzione: Garcia Trueba, Claudio Vinale – produzione: Marina Cicogna per Verona Produzione, Roma/Azor Film, Madrid in associazione con Arthur Cohn – distribuzione: C.I.C. – origine: Italia-Spagna, 1973.

Storia de fratelli e de cortelli Regia: Mario Amendola – soggetto e sceneggiatura: Mario Amendola, Bruno Corbucci – interpreti: Maurizio Arena, Guido Mannari, Tina Aumont, Vittorio De Sica – produzione: F.T. Gay per Gay Spa – origine: Italia, 1973.

Il delitto Matteotti Regia: Florestano Vancini – soggetto e sceneggiatura: Lucio M. Battistrada, Florestano Vancini – interpreti: Riccardo Cucciolla, Mario Adorf, Damiano Damiani, Vittorio De Sica – produzione: Gino Mordini per Claudia Cinematografica – distribuzione: Italnoleggio Cinematografico – origine: Italia, 1973.

Piccoli miracoli (Small Miracle) Regia: Jeanot Szwarc – sceneggiatura: Tom Patrick, Arthur Dales – interpreti: Vittorio De Sica, Raf Vallone – produzione: Dawne C. Bogey per Landsbury Production – origine: Gran Bretagna, 1973 – prima trasmissione televisiva: Tele Montecarlo, 24 giugno 1974. 1974

Il 13 novembre De Sica muore a Parigi all’ospedale di Neully.

Il viaggio Regia: Vittorio De Sica – soggetto: tratto dalla omonima novella di Luigi Pirandello – sceneggiatura: Diego Fabbri, Massimo Franciosa, Luisa Montagnana – fotografia (Eastmancolor): Ennio Guarnieri – scenografia: Luigi Scaccianoce – arredamento: Bruno Cesari – costumi: Marcel Escoffier e Bruno Raffaelli – musica: Manuel De Sica – montaggio: Franco Arcalli – aiuto regia: Franco Cirino, Luisa Alessandri – interpreti e personaggi: Sofia Loren (Adriana De Mauro), Richard Burton (Cesare Braggi), Ian Bannen (Antonio Braggi), Barbara Pilavin (la madre di Adriana), Annabella Incontrera (Simona), Paolo Lena (il piccolo Nandino), Daniele Vargas (il notaio Salierno), Renato Pinciroli (il dottor Mascione), Ettore Geri (Rinaldo), Olga Romanelli (Clementina), Sergio Bruni (Armando Gill), Riccardo Mangano (il radiologo dott. Carlini), Antonio Anelli (Puccini), Isabelle Marchall (la fioraia), Barrie Simmons (il dottor De Paolo), Franco Lauriano (l’impiegato notarile), Luca Bonicalzi, Francesco Leone, Bernardo Lo Cascio – direttore di produzione: Michele Marsala – produzione: Carlo Ponti per Compagnia Cinematografica Champion, Roma/Capac, Paris – distribuzione: Interfilm – origine: Italia-Francia, 1974.

Viaggia ragazza, viaggia, hai la musica nelle vene Regia: Pasquale Squitieri – soggetto e sceneggiatura: Pasquale Squitieri – interpreti: Victoria Zinny, Raymond Pellegrin, Vittorio De Sica – produzione: Laser Film, Roma/Translux Prod., Paris – origine: Italia, Francia, 1974.

Dracula cerca sangue di vergine e… morì di sete!!! (Blod for Dracula) Regia: Paul Morrissey e [per l’edizione italiana] Antony M. Dawson – soggetto e sceneggiatura: Andy Warhol, da un’idea di Paul Morrissey, con la collaborazione di Tonino Guerra – interpreti: Joe Dallesandro, Udo Kier, Vittorio De Sica – produzione: Carlo Ponti e Adrew Braunsberg per Compagnia, Cinematografica Champion, Roma/Jean Yanne e Jean-Pierre Rassam Prod., Paris – origine: Italia-Francia-Stati Uniti, 1974.

Intorno Regia: Manuel De Sica – interpreti: attori non professionisti e Vittorio De Sica [che fa una breve apparizione] – origine: Italia, 1974.

C’eravamo tanto amati Regia: Ettore Scola – soggetto e sceneggiatura: Age e Scarpelli, Ettore Scola – interpreti: Nino Manfredi, Vittorio Gassman, Stefano Satta Flores, Stefania Sandrelli, Giovanna Ralli e con la partecipazione di Vittorio De Sica – produzione: Pio Angeletti, Adriano De Micheli per Dean Cinematografica, Delta – origine: Italia, 1974.

Vittorio De Sica, il regista, l’attore, l’uomo Regia: Peter Dragadze, – soggetto e sceneggiatura: Peter Dragadze, Alfonso Leto – fotografia: Ennio Guarnieri – musica: Manuel De Sica – montaggio: Raimondo Cruciani – produzione: Rai-Radiotelevisione Italiana – origine: Italia,

1974 – prima trasmissione televisiva: Rai Uno, 17 ottobre 1974.

Les pères du néo-réalisme Regia: Michel Random – soggetto e sceneggiatura: Michel Random – voce del commento: Jean Brassat – fotografia (colore): Michel Bonnat – produzione: Antenne 2 – origine: Francia, 1974.

L’eroe Regia: Manuel De Sica – soggetto Manuel De Sica, Luca Verdone – sceneggiatura: Manuel De Sica – interpreti: Salvatore Puntillo, Laura Betti, Vittorio De Sica – produzione: Rai-Radiotelevisione Italiana/Firma Cinematografica – origine: Italia, 1974 – prima trasmissione televisiva: Rete Uno, 19 giugno 1976.

Viva De Sica Regia: Manuel De Sica – collaborazione alla realizzazione: Luisa Alessandri – voce narrante: Gina Lollobrigida – riprese filmate: Sebastiano Rendina, Alessandro Macajone – montaggio: Antonio D’Onofrio – edizione: Lisiano Rosetti – produzione: Studio D per Rai Radiotelevisione Italiana – prima trasmissione televisiva: Rai Uno, dicembre 1983 e febbraio 1984 [le sette puntate sono dedicate a “Gli anni Trenta”, “Pane amore e… gioco”, “I potenti”, “La realtà”, “Le donne”, “I bambini”, “Vittorio e gli altri”].

Parlami d’amore Mariù. La vita e l’opera di Vittorio De Sica. Ideazione del programma: Giancarlo Governi – autori: Christian De Sica, Luca Verdone, Anna Maria Bianchi – regia: Anna Maria Bianchi – cura: Maricla Sellari – montaggio: Nicola Pirrone – produzione: Rai Radiotelevisione Italiana/Rino Maenza, Vittoria Cine – origine: Italia, 1991 – prima trasmissione televisiva: Rai Uno, dal 29 agosto al 10 ottobre 1991 [in sette puntate]. 1977 Muore la prima moglie Giuditta Rissone. 2011 Muore la seconda moglie María Mercader. 2014 Muore il figlio Manuel.

Indice

Introduzione Un Uomo e una Città Il lungo apprendistato Una vita divisa Arriva Mister Brown La realtà nuova Scimmietta e Capellone Verso un paese dove “Buongiorno” vuol dire veramente “Buongiorno” Un grande “star director” Biofilmografia a cura di Anna Maria Bianchi